ANDY McNAB FUOCO DI COPERTURA (Firewall, 2000) 1 Helsinki, Finlandia Lunedì 6 dicembre 1999 Giocatori che facevano sul s...
54 downloads
821 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ANDY McNAB FUOCO DI COPERTURA (Firewall, 2000) 1 Helsinki, Finlandia Lunedì 6 dicembre 1999 Giocatori che facevano sul serio, i russi. Ci fossero stati intoppi sulla tabella di marcia, mi avvertì Sergej, potevo considerarmi fortunato se mi facevano fuori nell'atrio dell'albergo. Se mi avessero fatto prigioniero, mi avrebbero portato da qualche parte a casa del diavolo, mi avrebbero squarciato lo stomaco e strappato le budella, lasciandomi lì a guardarle dimenarsi sul mio torace come tante belle anguille appena pescate, per i trenta minuti che avrei impiegato a morire. Cose che succedono, mi aveva spiegato, quando si ha a che fare con i grossi calibri del crimine organizzato russo. Ma non avevo scelta; avevo un disperato bisogno di soldi. «Come hai detto che si chiama, Sergej?» mimai lo sventramento. Fece un breve sospiro con gli occhi fissi in avanti, poi un sorriso lugubre e un borbottio: «La vendetta del vichingo». Mancava poco alle sette di sera e da tre ore e mezzo era già buio. La temperatura era rimasta ben al di sotto dello zero per tutta la giornata; da un po' aveva smesso di nevicare, ma ammassata ai lati delle strade c'era ancora molta neve. Noi due eravamo rimasti seduti, totalmente immobili, per quasi un'ora. Prima di quelle mie parole, l'unico segno di vita che davamo erano i nostri respiri. Eravamo parcheggiati a due isolati dall'hotel Intercontinental, e sfruttavamo la zona d'ombra fra un lampione e l'altro per nascondere la nostra presenza all'interno della Nissan 4x4 nero opaco. I sedili posteriori erano abbattuti, in modo da riuscire a infilare in auto il bersaglio più agevolmente e consentire a me di avvinghiarmici addosso per immobilizzarlo. La 4x4 era sterile, nessuna impronta, e completamente vuota se si eccettuava il kit anti-trauma infilato sotto i sedili abbassati. Il nostro uomo doveva essere consegnato vivo oltre il confine, e un paio di litri di soluzione Ringer potevano tornare utili se fosse scoppiato qualche casino. E a quanto mi sembrava di capire, i presupposti perché ne scoppiasse qualcuno c'erano tutti. Mi ritrovai a sperare di non essere io quello che poteva averne
bisogno. Era da un po' che non provavo la necessità di piantarmi un ago in vena per velocizzare il ripristino dei fluidi che si perdono con una ferita d'arma da fuoco, ma quel giorno ne avevo sentito l'esigenza. Mi ero portato dall'Inghilterra un catetere che si trovava già in vena nell'avambraccio sinistro, fissato con nastro adesivo e protetto da Tubigrip. Nell'ago e nella cavità del catetere avevo messo l'anticoagulante, per impedire al sangue che lo riempiva di raggrumarsi. Per reintegrare le perdite di sangue, la soluzione Ringer non è efficace come il plasma - in pratica non è altro che una soluzione salina - ma a base di plasma non volevo niente. Parlare di controllo qualità russo era una contraddizione in termini, e a me interessava rientrare in Inghilterra con i soldi, non con l'HIV. Il tempo che avevo passato in Africa evitando di occuparmi delle ferite d'arma da fuoco di chiunque per non correre il rischio di un'infezione mi era bastato, e non avevo nessuna intenzione d'infettarmi ora. Eravamo seduti rivolti verso Mannerheimintie, duecento metri più in basso della nostra postazione lungo la collina. Il vialone costituiva l'arteria principale in direzione della città, non più di quindici minuti a piedi verso destra. Il traffico era costante, lento e disciplinato, da entrambi i lati delle rotaie del tram. Ma lassù era un mondo completamente diverso. La strada era tranquilla e costeggiata sui due lati da piccoli condomini dove, quasi a ogni finestra, lampeggiava una V rovesciata di bianche lucine natalizie. I passanti transitavano curvi sotto il peso degli acquisti stipati in giganteschi sacchetti colorati. Diretti verso casa, nei loro eleganti appartamenti, a noi non facevano caso, troppo impegnati a non scivolare sul ghiaccio, la testa china per ripararsi dal vento che sferzava fischiando la 4x4. Da quando eravamo lì, il motore era sempre rimasto spento, e pareva di starsene seduti dentro un frigo. Aspettavamo, e il nostro fiato fluttuava come una nuvola bassa. Continuavo a visualizzare dove, come e quando avrei agito e, cosa più importante, quello che avrei fatto se fosse andato tutto in merda. Una volta individuato il bersaglio, la sequenza base di un rapimento è quasi sempre identica. Primo, il riconoscimento; secondo, il prelievo; terzo, la detenzione; quarto, la trattativa; quinto, il pagamento del riscatto e, ultimo, il rilascio, sebbene non sempre si verifichi. Il mio lavoro consisteva nel progettare e organizzare le prime tre fasi; il resto non era compito mio. Tre membri della tribù cravatta-sgargiante-e-bretelle di una banca privata mi avevano avvicinato a Londra. Il mio nome lo avevano avuto da un ex
compagno del Reggimento che ora lavorava per un'importante società di sorveglianza e che, nel rifiutare quel particolare incarico, era stato così carino da raccomandare me. «Il Regno Unito», mi avevano detto, seduti a un tavolo all'ultimo piano dell'Hilton, vicino alla finestra del bar che dava sui giardini di Buckingham Palace, «si trova a dover fronteggiare l'esplosione della mafia russa. Per il riciclaggio dei soldi sporchi Londra è un paradiso. Attraverso la City, il crimine organizzato russo movimenta venti miliardi di sterline all'anno, e i suoi giocatori che vivono a Londra o che ci vengono con regolarità sono più di duecento.» I funzionari, così mi riferirono, avevano scoperto che, nell'arco degli ultimi tre anni, attraverso i conti di Valentin Lebed erano stati incanalati presso le loro banche svariati milioni di sterline. Il che a loro non piaceva, né gli sorrideva l'idea che i ragazzi con le luci blu intermittenti andassero a far visita a Valentin e trovassero il loro nome su tutte le ricevute di versamento. La soluzione che prospettavano era di prelevare Val e portarlo a San Pietroburgo, dove, da quanto mi parve di capire, si sentivano in grado di persuaderlo ad appoggiare i conti su un'altra banca o, in alternativa, a incrementare i flussi, in modo che il gioco valesse la candela. Qualunque fosse la soluzione, a me fregava soltanto di essere pagato. Osservai Sergej. Guardava il traffico sotto di noi con gli occhi brillanti e vidi il suo pomo d'Adamo che si muoveva mentre deglutiva. Non restava altro da dire; avevamo parlato abbastanza nella fase preparatoria. Adesso era tempo di agire. Di lì a due giorni avrebbe avuto inizio la conferenza di Helsinki dei membri del Consiglio Europeo. Ai bordi delle strade principali sventolavano le bandiere blu dell'Unione Europea, e per la città circolavano, con tanto di scorta di motociclisti, neri convogli di eurocrati che si spostavano da un pre-meeting all'altro. Per controllare il traffico attraverso la città, la polizia aveva predisposto deviazioni e ovunque spuntavano coni arancioni rifrangenti. Per quel motivo ero già stato costretto a cambiare due volte itinerario di fuga. Come tutti gli alberghi a cinque stelle, l'Intercontinental dava asilo all'esodo da Bruxelles. Tutte le delegazioni erano in città dalla settimana precedente, intente a intrallazzare in vario modo affinché, al loro arrivo, ai boss non rimanesse altro da fare che rifiutare educatamente l'invito di Tony Blair a mangiare manzo britannico a una qualche cena per i media, e poi ripartirsene.
Niente da dire, ma dal mio punto di vista la sicurezza che avevamo intorno era più stretta del buco del culo di un'anatra, tutto, dai tombini sigillati per prevenire la collocazione di bombe fino alla massiccia presenza di polizia lungo le strade. Era più che certo che avessero predisposto piani di emergenza per far fronte a ogni imprevisto, in special modo agli attacchi armati. Sotto i piedi, Sergej teneva un AK-47 con il calcio pieghevole, un fucile d'assalto 7,62mm di fabbricazione sovietica. Sergej aveva capelli castani raccolti e nascosti sotto un cappello di lana blu scura, e il vecchio giubbotto antiproiettile sovietico che indossava sotto il piumino lo faceva assomigliare all'omino della Michelin. Se a Hollywood avessero avuto bisogno di un russo testa di legno, Sergej avrebbe avuto la parte senza problemi. Quarant'anni abbondanti, mascella quadrata, zigomi alti e occhi blu che non si limitavano a penetrarti, ti tagliavano direttamente a pezzi piccolissimi. L'unico motivo per cui non faceva carriera era la pelle, parecchio butterata. O in giovinezza si era tenuto lontano dal Clearasil oppure gli avevano dato fuoco; non avrei saputo rispondere e non osavo chiedere. Era un duro, uno su cui fare affidamento, uno con cui capivi che lavorare insieme era okay. Ma non l'avrei inserito nella lista dei biglietti d'auguri da mandare a Natale. Su Sergej Lisenkov, e sulle sue attività da libero professionista, avevo letto parecchio nei rapporti dell'Intelligence. Aveva fatto parte dell'Alfa Group degli Spetnaz, l'élite delle forze speciali all'interno del KGB, schierate ogni qual volta il potere di Mosca veniva minacciato o nel caso di guerre di espansione. Quando aveva organizzato il colpo di Stato del 1991 a Mosca, l'ala dura del KGB aveva dato ordine all'Alfa Group di uccidere Eltsin che resisteva alla Casa Bianca russa. Ma Sergej e compagni avevano deciso che quando era troppo era troppo, e che i politicanti non erano migliori degli altri. Si erano rifiutati di eseguire l'ordine, il colpo di Stato era fallito, e quando Eltsin era venuto a sapere che cosa sarebbe potuto succedere, li aveva voluti alle sue dirette dipendenze, invertendo il senso della loro specializzazione e ingaggiandoli come guardie del corpo personali. Sergej aveva deciso di cambiare aria e di mettere a disposizione del miglior offerente la sua esperienza e le sue competenze. In quel momento il migliore offerente ero io. Stabilire il contatto era stato relativamente facile: ero andato a Mosca e avevo chiesto ad alcune ditte di sicurezza dove potevo trovarlo. Avevo bisogno di sapere come pensano e come si comportano i russi.
Ragion per cui nella squadra avevo bisogno di russi. E quando ero venuto a sapere che Valentin Lebed si sarebbe trovato in ricognizione a Helsinki per ventiquattr'ore, lontano dalla sua fortezza di San Pietroburgo, avevo capito che Sergej era l'unico in grado di procurare i mezzi, le armi e di comprare le guardie di confine nel poco tempo disponibile. Chi mi aveva trasmesso le istruzioni sul lavoro, aveva svolto bene i compiti a casa. Valentin Lebed, mi era stato detto, aveva mantenuto un comportamento impeccabile durante il crollo del comunismo. Non come certi suoi colleghi sinistrorsi capaci di lasciare le etichette degli stilisti sulle maniche dei vestiti nuovi per farne capire il costo. La sua ascesa era stata fulminea e violenta; nel giro di due anni era diventato uno della dozzina di capi di quella «mafiocrazia» che aveva elevato il crimine organizzato al ruolo di potenza mondiale. La ditta di Lebed utilizzava solo ex agenti del KGB d'oltremare e sfruttava il loro talento e la loro esperienza per gestire il crimine internazionale come un'operazione militare. Cresciuto nella povertà più nera, figlio di un contadino ceceno, aveva combattuto contro i russi nella guerra a metà degli anni '90. Era diventato famoso per il modo di incitare i suoi uomini: mentre i russi li bombardavano, giorno dopo giorno, lui li obbligava a guardare e riguardare Braveheart. Era arrivato anche a dipingersi di blu la mezza faccia nel momento dell'attacco. Dopo la guerra si era fatto venire altre idee, che avevano tutte alla base il dollaro, e aveva stabilito il suo quartier generale a San Pietroburgo. Quasi tutti i suoi soldi provenivano da traffico di armi, estorsioni e da una catena di night club, a Mosca e in altre località, che servivano anche come copertura di racket della prostituzione. Alcune attività nel campo dei gioielli «acquisite» in Europa orientale venivano usate come copertura per la ricettazione di icone rubate in chiese e musei. Aveva basi negli Stati Uniti e si diceva che avesse fatto da mediatore in un affare riguardante centinaia di tonnellate di rifiuti tossici americani scaricati in patria. Si era addirittura comprato una compagnia aerea in Estremo Oriente per poter condurre il traffico di eroina senza scocciature amministrative. Nel giro di pochi anni, secondo i miei informatori, il complesso di quelle attività gli aveva fruttato oltre duecento milioni di dollari. Sul lato opposto rispetto all'albergo, a tre isolati di distanza, all'interno di un'auto che sarebbe stata abbandonata non appena avesse avuto inizio l'azione, si trovavano altri due uomini di una squadra composta da sei elementi. Falegname e Incubo, sotto i cappotti, erano equipaggiati con mini-
Uzi 9mm, una versione ridotta degli Uzi 9mm, le stesse che imbracciavano i BG (bodyguards, «guardie del corpo») che stavamo per affrontare. Erano armi buone e affidabili, anche se pesanti per il loro formato. Ironia della sorte, Sergej si era procurato le nostre armi, gli Uzi e le vecchie semiautomatiche calibro 7 spagnole, fuori commercio, dagli uomini di Valentin. Naturalmente Falegname e Incubo non erano i veri nomi; Sergej, l'unico che parlava inglese, mi aveva spiegato che era la traduzione dal russo, e lui li chiamava così; tanto meglio, non sarei mai riuscito a pronunciare i loro nomi in russo. Incubo era all'altezza del suo nome. Non era sicuramente lo strumento migliore fra quelli a disposizione di Sergej. Ogni cosa gli andava ripetuta venti o trenta volte prima che cominciasse a capire. Aveva una certa piattezza nei lineamenti che, unita al perenne movimento degli occhi e al fatto che non sembrava particolarmente abile nel tenere il cibo in bocca, lo rendeva un tantino inquietante. Falegname faceva uso di eroina, ma Sergej mi aveva assicurato che ciò non avrebbe influito sulla sua prestazione, anche se nella fase di preparazione aveva avuto il suo peso. Non riusciva a tener ferme le labbra, come se avesse inghiottito qualcosa e cercasse di ritrovarne il gusto. Sergej lo aveva avvertito: se avesse combinato casini lo avrebbe ucciso personalmente. Incubo sembrava il fratello maggiore di Falegname; ne prendeva le difese quando Sergej lo redarguiva pesantemente per i suoi errori, ma a mio parere Incubo senza di lui si sarebbe sentito perso. Avevano bisogno l'uno dell'altro. Sergej mi aveva detto che erano amici dai tempi dell'adolescenza. La famiglia di Incubo si era presa cura di Falegname quando sua madre era stata condannata all'ergastolo per aver ucciso il marito. L'aveva beccato a violentare la figlia di diciassette anni. E, come se non bastasse, Sergej era suo zio, il fratello di suo padre. Era lo stile dei russi, e l'unica cosa che mi piaceva di tutto ciò era che al confronto la mia famiglia sembrava perfettamente normale. Falegname e Incubo sarebbero entrati con me all'interno dell'albergo per il prelievo; forse, avendoli vicini, potevo tenerli sotto controllo. I gemelli Kray, così li avevo ribattezzati, erano gli ultimi due della squadra, e si trovavano su una Toyota 4x4 verde. Loro non destavano preoccupazioni; a differenza degli altri due, capivano al volo quello che dovevano fare. Il loro compito era tenere sotto tiro le tre Mercedes nere del nostro bersaglio che si trovavano a circa due chilometri dall'albergo. Anche loro
avevano in dotazione AK con calcio pieghevole e proiettili AP, a elevato potere di penetrazione, nei caricatori e, come Sergej, indossavano corpetti metallici che avrebbero fatto stramazzare un cavallo. Il bersaglio era ben protetto all'interno dell'albergo e i suoi automezzi si trovavano al sicuro in un parcheggio sotterraneo, in modo che nessun congegno - esplosivo da parte dei nemici, di intercettazione o di controllo da parte delle forze dell'ordine - vi potesse essere piazzato. Nel momento in cui si fossero mossi per andarlo a prendere all'albergo insieme con gli altri BG, i Kray li avrebbero seguiti. Falegname e Incubo avrebbero guadagnato le loro postazioni all'interno dell'albergo, così come avrei fatto io. Sergej, Reggie e Ronnie avrebbero guidato i nostri mezzi. Anche i Kray erano ex Alfa Group, ma, a differenza di Sergej, erano troppo belli per essere «giusti». Stavano insieme da quando erano giovani reclute in Afghanistan, e se ne erano andati dopo la prima guerra in Cecenia a metà degli anni '90, delusi dai capi che li avevano portati alla sconfitta contro i ribelli. Entrambi oltre i trent'anni, avevano capelli biondi ossigenati, erano sbarbati con molta cura e ben vestiti. Se mai avessero provato il desiderio di cambiare lavoro, sarebbero potuti diventare indossatori. Durante la loro carriera militare non si erano mai separati. Per quanto potevo capirne io, desideravano solo far fuori i ribelli ceceni e ricevere in cambio occhiate di ammirazione. Sapevo di potermi fidare di Sergej, ma continuavo a nutrire qualche dubbio sui suoi sistemi di selezione. Era ovvio che aveva intenzione di tenere per sé il grosso dei soldi che gli avevo promesso e per questo aveva scelto di non mettere in campo la prima squadra. Era l'incarico meno professionale che avessi mai svolto, e dire che avevo partecipato a molte azioni. Le cose erano andate così male che avevo preso l'abitudine di dormire con la porta sbarrata e la pistola pronta. La squadra continuava a lamentarsi di come organizzavo il piano, mi aveva detto Sergej, e, se non di quello, di quanto avrebbero preso e di come avrebbero potuto essere fregati il giorno di paga. Falegname era così omofobico che, a confronto suo, Hitler era un tiepido liberale, e tenere separate le due coppie era stato faticoso quanto preparare l'azione. Io facevo del mio meglio per tenermi alla larga, concentrandomi solo su Sergej. Era lui quello che dovevo tenere allegro, perché era l'unico che potesse aiutarmi a trasportare il nostro obiettivo in Russia. Ma mi avevano fatto girare le palle; qualcuno quel giorno sarebbe morto, e non volevo essere io. Avevo una squadra di merda, contro un bersaglio di merda, e tutti i
leader dell'Europa occidentale in arrivo in città con un seguito di sicurezza lungo da lì alla Cina. Non sarebbe stata una passeggiata ma, 'fanculo, la disperazione fa compiere azioni disperate. Soffiai un'altra nuvola di fiato. Il display digitale sul cruscotto mi segnalò che erano passati altri venti minuti. Era tempo di un ulteriore controllo radio. Infilai la mano nella tasca interna della giacca e trovai il pulsante invio del mio Motorola giallo squillante, del tipo che i genitori usano per sorvegliare i figli sulle piste da sci o nei centri commerciali. Tutti e sei ne avevamo uno, collegato con un auricolare fissato al suo posto. Erano in molti, ormai, a usare aggeggi simili per avere le mani libere, e non ci saremmo fatti notare. Premetti due volte, sentii il rumore frusciarmi nell'orecchio, feci un controllo con Sergej. Lui confermò con un cenno affermativo: stavo trasmettendo. Reggie e Ronnie risposero con due suoni, quindi anche Falegname e Incubo, con tre. Se avessi premuto invio senza ricevere risposta dai Kray, dopo trenta secondi di attesa Falegname e Incubo avrebbero risposto comunque. A quel punto non avremmo avuto altra possibilità se non convergere sul bersaglio e attendere l'arrivo delle Mercedes. E non era bene, perché ci avrebbe reso visibili all'interno dell'albergo e avrebbe scardinato la nostra organizzazione. Il silenzio radio aveva due motivazioni. Uno, io non parlavo la lingua, due, la sicurezza UE sarebbe stata in ascolto. Con un po' di fortuna qualche clic qui e là non avrebbe destato sospetti. Ci sarebbero stati altri modi per comunicare, telefoni portatili per esempio, ma tutto doveva essere molto semplice per Incubo e Falegname. Avessero dovuto memorizzare qualcos'altro, sarebbero esplosi. La vecchia regola - vai sul semplice, stupido - sembrava azzeccata una volta di più. Se Sergej aveva optato per il look omino Michelin, per me avevo scelto quello dell'uomo d'affari. Completo a un petto, giacca di una taglia più grande, cappotto grigio scuro, sciarpa nera di lana e sottili guanti di pelle. E stress per completare il tutto. Incubo e Falegname erano vestiti all'incirca come me. Tutti e tre eravamo accuratamente sbarbati, avevamo i capelli puliti e l'aria distinta. I dettagli sono importanti; dovevamo muoverci all'interno dell'albergo senza che nessuno sentisse il bisogno di guardarci due volte, dovevamo avere l'aria di far parte della compagnia spese-tuttepagate, stipendi da capogiro, del treno della cuccagna di Bruxelles. Con me avevo persino l'ultima edizione dell'Herald Tribune. Il cappotto nascondeva alla perfezione il giubbotto antiproiettile che portavo sotto la camicia. Quello di Sergej era spesso come un lastrone della
piazza davanti al Cremlino, il mio invece era di Kevlar, spessore pari a dodici fogli di carta velina, insufficiente per respingere i proiettili AP di Sergej, ma efficace per tenere a distanza i colpi dei mini-Uzi che nel giro di poco avrebbero potuto piovermi addosso. Il giubbotto aveva una tasca interna in cui si poteva inserire una placca ceramica per proteggere meglio la zona del torace, ma, contrariamente a Sergej, non riuscivo a indossarla: troppo ingombrante. Falegname si era rifiutato di indossarne uno perché faceva poco macho e Incubo gli era andato dietro. Coglioni; avessi potuto, mi sarei ricoperto dalla testa ai piedi con quella roba. Avevo i piedi in condizioni pietose, coperti solo da calze sottili e scarpe con i lacci, freddi come un sacchetto di piselli surgelati. Sotto la caviglia avevo perso qualsiasi sensibilità, e avevo rinunciato a muovere i piedi nel tentativo di scaldarli. La mia dotazione consisteva di una Z88 di fabbricazione sudafricana, che assomigliava a una Beretta 92 calibro 9, la pistola che usa Mel Gibson in Arma letale. Quando il mondo, in epoca di apartheid, decise di bloccare l'esportazione di armi verso il Sudafrica, quei bravi ragazzi avevano cominciato a fabbricarsi le armi in proprio e ormai esportavano più armi da assalto ed elicotteri della Gran Bretagna. Avevo tre caricatori da venti colpi, che spuntavano di cinque centimetri dall'impugnatura della pistola e davano l'impressione che fosse mezza scassata. I due di riserva erano alloggiati nella tasca sinistra del cappotto. Se tutto fosse andato come previsto, non ne avrei avuto bisogno. Il prelievo sarebbe avvenuto, doveva avvenire, nel più assoluto silenzio e sarebbe durato meno di un minuto. Il giubbotto antiproiettile era il più leggero che avessi osato indossare, eppure rendeva impossibile stirarsi o sedersi con la pistola posizionata nel posto cui ero abituato: davanti, centrale, infilata nei jeans o nei pantaloni dentro una fondina interna. La nuova posizione della pistola non mi faceva sentire a mio agio. Ero obbligato a tenerla a destra, fissata alla cintura dei pantaloni. Le ultime due settimane le avevo trascorse a fare pratica e a ripetermi che la posizione era cambiata, altrimenti poteva capitarmi di dover incrociare le armi con qualcuno e magari ritrovarmi con la mano avvinghiata al Kevlar invece che al calcio. Sempre che fossi riuscito a superare tutti gli strati di vestiti. Per riuscire a spostarli all'indietro con un unico movimento, avevo appesantito le tasche di destra del cappotto e della giacca, infilandoci alcuni ferri della macchina legati insieme. Cosa che contribuiva ad aumentare il disagio. L'unica consolazione era il pensiero che
l'indomani alla stessa ora, sarebbe stato tutto finito: avrei ritirato i miei soldi e non avrei avuto più niente a che fare con quei pazzi. Ci fu un fruscio quando Sergej aprì una barretta di cioccolata e se la cacciò giù per il gozzo senza offrirmene neanche una briciola. Non che ne volessi, non avevo fame, ero solo preoccupato. Rimasi in attesa, con l'accompagnamento dei denti di Sergej che masticava e lo schiocco delle mascelle, mentre fuori dall'auto il vento ululava. Mentre Sergej si succhiava i denti per pulirli provai a concentrarmi. Fino a quel punto, Valentin aveva eluso le autorità, in particolar modo perché aveva capito molto per tempo che avere amici nei posti di potere e funzionari a libro paga non era un male. Testimoni chiave venivano regolarmente fatti fuori prima che potessero deporre contro di lui. Solo pochi mesi prima, aveva raccontato Sergej, un giornalista americano che aveva scavato un po' troppo in profondità negli affari di Val era stato costretto a uscire dal giro, dopo l'intercettazione di una telefonata in cui Val metteva una taglia di centomila dollari non solo sulla vita del reporter, ma anche su quella di moglie e figlio. Il trattamento peggiore era tuttavia riservato a quanti tradivano la sua fiducia. Due senior manager che controllavano il racket della prostituzione erano stati beccati a fare un po' di cresta sui bordelli di Mosca. Avevano combattuto al suo fianco nei giorni di Braveheart e da allora erano sempre stati luogotenenti fedelissimi, eppure Val li aveva fatti impacchettare e portare in un luogo isolato, non lontano dalla Piazza Rossa. Lì, aveva loro aperto la pancia, estraendone le interiora, e aveva atteso con pazienza che morissero. La vendetta vichinga aveva compiuto la magia: da quel momento, neanche un rublo era più andato perso in nessuno dei suoi registratori di cassa. Udii sei suoni veloci nell'auricolare. Le tre Mercedes si muovevano verso l'albergo. Risposi con due suoni e ricevetti i tre di Falegname e Incubo, che a quel punto lasciarono l'automobile per dirigersi verso l'albergo. Tutti e sei sapevamo che era giunto il momento di dare inizio alla rappresentazione. Sergej non disse una parola, limitandosi ad annuire. Sapeva l'inglese, ma le parole bisognava tirargliele fuori con le tenaglie. Annuii a mia volta, controllando la posizione della pistola. Uscii dalla 4x4 e lasciai Sergej a fissare la discesa. Sollevai il bavero del cappotto per proteggermi dal vento e puntai nella direzione opposta, allontanandomi dalla strada principale. Quando ebbi percorso trenta metri lungo
la collina, voltai a destra e mi diressi verso l'incrocio successivo. Quindi mi ritrovai nella via adiacente all'albergo e nuovamente nell'arteria principale. Di fronte a me, poco spostato sulla sinistra, vedevo l'imponente albergo di cemento grigio. Appena più oltre c'era un cantiere stradale riparato da pareti di lamiera. L'acciottolato era stato rimosso per interventi di manutenzione sulle tubature. Non provai invidia per i poveri disgraziati costretti a lavorare con quel tempo. Mentre percorrevo in discesa la strada principale, il rumore del traffico cresceva. I gemelli Kray dovevano trovarsi già là, al seguito delle Mercedes. Incubo e Falegname si stavano dirigendo verso l'albergo dalla direzione opposta e Sergej si stava mettendo in posizione per inserirsi fra le Mercedes davanti all'albergo. Attraversai la strada, oltrepassando l'entrata di servizio e quella del parcheggio dell'albergo. Sull'asfalto dipinto di rosso erano parcheggiati due furgoncini bianchi Hilux addetti alle consegne. Oltre le piazzole per lo scarico c'era una porta di vetro di accesso all'hotel, ma per entrare occorreva citofonare alla reception e io non intendevo farmi notare più del dovuto. Entrambe le porte per le consegne erano chiuse; faceva troppo freddo. Continuai a camminare, finché l'albergo non fu oscurato da una fila di alte conifere. Il momento di maggiore vulnerabilità di Valentin Lebed si sarebbe verificato quella stessa sera, in Finlandia, ed esattamente in quell'albergo, prima che uscisse per andare a teatro. Avrebbe visto Romeo e Giulietta. Il teatro si trovava dall'altra parte della strada, poche centinaia di metri sulla sinistra, ma faceva freddo, e lui rappresentava pur sempre un bersaglio per possibili attacchi, incredibilmente ricco com'era. Che motivo c'era di andare a piedi? Raggiunsi il vialetto che portava all'entrata dell'Intercontinental, a circa trenta metri dalla strada principale. Tracciava un semicerchio ed era a senso unico. Svoltai a sinistra; davanti a me, al centro della facciata di vetro e cemento, si apriva un'ampia tenda blu che proteggeva dalle condizioni atmosferiche gli ospiti che scendevano o salivano dall'auto. Le pareti a pianterreno erano di vetro, attraverso il quale si poteva scorgere un ambiente caldo e accogliente. Il vialetto era fiancheggiato da piccoli alberi che, al posto delle foglie cadute, erano ricoperti di bianche luci natalizie. La neve creava l'impressione che fossero stati spruzzati di glassa. Avanzai, superando la renna illuminata al centro del prato tra il vialetto e la strada prin-
cipale, una trentina di metri oltre una piccola collinetta. Il piano era semplice. Incubo e Falegname avrebbero steso i BG che proteggevano più da vicino il bersaglio non appena questi fosse uscito dall'ascensore, poi mi avrebbero coperto mentre trasportavo il bersaglio verso la porta principale. Nel frattempo, i gemelli Kray con la 4x4 avrebbero bloccato le Mercedes sul retro, Sergej sul davanti con la Nissan e tutti e tre avrebbero tenuto sotto il tiro degli AK gli altri BG e gli autisti. Una volta fuori, mi sarei fiondato nel bagagliaio della Nissan, trascinandomi dietro il bersaglio. Entrambi saremmo rimasti sdraiati sotto una coperta, la mia pistola conficcata nella sua bocca. Sergej avrebbe guidato fino al punto di abbandono auto, dove il bersaglio sarebbe stato trasferito nel portabagagli di un'altra auto diretta al confine. Nel frattempo, Ronnie e Reggie avrebbero trasmesso alla zona la buona novella con il gas CS, prima di darsi alla fuga sulla Toyota insieme con gli altri due verso il loro punto di abbandono auto e il cambio di mezzo. RV (punto di incontro) per tutti vicino al confine, dove ci saremmo infilati in un camion a compartimenti nascosti che Sergej avrebbe guidato fino alla santa madre Russia. A quel punto, solo poche ore da San Pietroburgo e dal giorno di paga. Un lavoretto semplice, se riusciva. Transitai sotto la tenda e attraversai la prima serie di porte automatiche in vetro colorato effetto ottone. Oltrepassato il secondo set di porte, mi ritrovai all'interno, il volto arrossato dal getto d'aria calda che proveniva da sopra la porta. Conoscevo bene la zona del foyer. Aveva l'atmosfera di un club, esclusivo e confortevole. Non avevo visto le stanze, ma dovevano essere sensazionali. Davanti a me, a circa trenta metri, nascosto da un gruppo di turisti giapponesi assiepati attorno a una montagna di valigie coordinate, si trovava il banco della reception. All'estrema destra un corridoio che portava al ristorante, ai bagni e agli ascensori principali. Incubo e Falegname dovevano essere già in posizione all'ingresso del ristorante. Da quella postazione tenevano sotto tiro le porte dei tre ascensori. Immediatamente alla mia destra, dietro una parete pannellata di legno scuro, si trovava il Bar Baltic. Alla mia sinistra, fattorini dall'aria efficiente ronzavano intorno a un gruppo di divani, poltrone e tavolini. L'illuminazione era soffusa. Provai il desiderio di essere lì solo per un drink. Mi diressi a uno dei divani e sedetti in modo da lasciarmi sulla destra la muraglia di giapponesi alla reception. Alla loro destra il corridoio, con le
porte effetto ottone degli ascensori bene in vista. Anche Falegname e Incubo, come avevo fatto io, si erano piazzati fuori dalla portata delle telecamere che inquadravano il banco della reception. Mi accomodai e aprii il giornale sul tavolino, sbottonai il cappotto e attesi l'arrivo della carovana di Mercedes. A quel punto era inutile preoccuparsi. Si potevano pianificare le cose solo fino a un certo punto. Un tempo, quando provavo questa sensazione, mi preoccupavo, ma ormai avevo capito. In poche parole: accettavo di essere sul punto di morire, e tutto quello che arrivava in più lo consideravo un bonus. 2 I giapponesi non erano affatto contenti, e non gliene fregava un cazzo di farlo sapere a tutti. Erano all'incirca una ventina, tutti con videocamera appesa al collo. Tre minuti più tardi, i fari delle Mercedes illuminarono le vetrate del pianoterra. Reggie e Ronnie dovevano essere in posizione all'inizio del vialetto semicircolare, dove sarebbero rimasti in attesa. Sergej pronto a bloccare l'uscita. Attesi a testa bassa, concentrato sul giornale, che si aprisse il secondo set di porte scorrevoli, quelle interne. I BG fecero il loro ingresso. Due paia di scarpe italiane lucide e costose, cappotti di cachemire nero su pantaloni neri. Occorre sempre evitare il contatto diretto degli occhi perché è quello che cercano. Se gli sguardi si incrociano, sei fregato; ci metteranno un secondo a capire che non ti trovi lì per discutere della messa al bando della carne di manzo. Osservai le due paia di talloni avanzare verso l'estrema destra del foyer. Si fermarono davanti alle porte dell'ascensore. Di tanto in tanto venivano schermate dai giapponesi che continuavano a tormentare un impiegato dell'albergo dall'aria decisamente seccata. Le porte dell'ascensore di mezzo si aprirono con un ping. Le scarpe entrarono e ad altre due paia fu impedito di entrare. Le porte si richiusero e le luci sopra la porta indicarono che si era fermato alla Suite Ambassador. Andavano incontro agli altri due BG già insieme con Valentin, il loro capo, il mio bersaglio. I miei soldi. Mi alzai, infilai il giornale nella tasca del cappotto e mi diressi verso la
porta principale. Oltrepassandola, diretto verso il Bar Baltic, legno scuro e séparé in pelle, vidi tre Mercedes nere tirate a lucido dall'altra parte del vetro, il fumo dello scappamento che si condensava nell'aria gelida, gli autisti immobili al volante in paziente attesa. Al bar c'era abbastanza gente, ma, considerato il numero di sigarette accese che avevo notato, non troppo fumo. C'erano diversi computer portatili aperti e un brusio diffuso di portaborse che parlavano di lavoro davanti a una birra o al cellulare. Camminando, sbottonai la giacca del vestito, ma tenni indosso il cappotto per nascondere il giubbotto antiproiettile. Mi feci strada attraverso tavolini e divani in pelle, diretto verso la porta più lontana. Mi sedetti in modo da inquadrare il corridoio e le tre porte degli ascensori leggermente arretrate sulla parete di destra. Al di là delle porte, quasi fuori vista, si trovavano la reception e il foyer. Dall'altro lato del corridoio, Falegname e Incubo dovevano essere al loro posto nella zona caffè del ristorante, con un'ottima visuale del percorso che portava al foyer. Sotto il tavolo, liberai l'indice destro dal guanto che avevo tagliato. Trascorsero cinque eterni minuti durante i quali gli ascensori salivano e scendevano, ma di Val neppure l'ombra. Due coppie di mezza età emersero dall'ascensore di centro, pellicce e smoking indicavano che erano dirette anche loro a teatro. A quel punto iniziai a preoccuparmi. La calma era finita e il temporale stava per scoppiare. Il cuore mi batteva a mille. La mia armatura era fradicia di sudore e il colletto della camicia assorbiva quello che colava dalla nuca. Mi aspettavo che da un momento all'altro qualcuno si avvicinasse per chiedermi se stavo male, anzi ne avevo la certezza. A livello mentale nulla era cambiato, ma il mio corpo esprimeva un'altra opinione. Circa venti secondi dopo, udii un altro ping. Le due paia di costose scarpe italiane emersero dall'ascensore di destra e si fermarono nel corridoio per pochi secondi, ogni paio rivolto in direzione opposta. Il cappotto del BG girato verso di me si aprì mentre si voltava, poi entrambi si mossero contemporaneamente in direzione del foyer, sparendo dalla vista veloci come erano apparsi. Sapevo che giacche e cappotti, come i miei, erano aperti per accedere alle armi. Spostai la mano nella tasca interna della giacca e premetti sei volte il tasto invio del Motorola, riascoltando il suono in cuffia a ogni impulso. Val sarebbe sceso a momenti. Adesso Sergej, Reggie e Ronnie erano informati che bersaglio e BG si
stavano dirigendo verso di loro. Le due paia di scarpe controllavano il foyer, probabilmente vicino alla porta principale. Non mancava molto all'inizio di tutto e allora sì che i giapponesi avrebbero avuto qualcosa di cui lamentarsi. Qualsiasi cosa avessero fatto i due BG, eravamo pronti al contrattacco. Se fossero rimasti all'interno, se ne sarebbero occupati Falegname e Incubo, dopo essersi liberati dei BG più vicini a Val. Fuori, il compito passava agli altri tre. Eravamo tutti in attesa, e io sudavo mentre le persone accanto a me ridevano, pestavano sulle tastiere dei telefonini, o parlavano tra un sorso d'alcol e l'altro. Ci fu un ping dall'ascensore di destra. Altre due paia di scarpe di vero cuoio, completi accessoriati con sciarpe di seta e cappotti neri. Fecero un passo in avanti ai lati di un cappotto in cachemire grigio chiaro con pantaloni elegantissimi, seguiti da un paio di lunghissime gambe snelle e ben fatte coperte da calze nere e un visone da favola. La donna di Val, colei che lo scaldava in quelle lunghe notti lontano dalla famiglia. Dovevo stare attento. Durante la ricognizione esiste sempre la possibilità di trascurare qualcuno, tipo un cognato o una segretaria, che al momento di colpire il bersaglio può costituire un pericolo. Lei non era di quel tipo; lei, con assoluta certezza, non faceva parte della squadra dei BG. Usciti dall'ascensore avevano svoltato a destra con decisione. Mi alzai con calma, in attesa della mia battuta d'entrata. Incrociai lo sguardo mobile di Falegname che, insieme con Incubo, attraversava la soglia spostandosi da destra a sinistra, seguendo le grandi falcate dei BG. Avevamo messo in scena tante volte quello che sarebbe successo dopo. Doveva funzionare, non potevamo più fermarci. Superata la soglia, voltai a sinistra, trovandomi dietro di loro nel momento in cui estraevano le armi nascoste. Le schiene e le spalle, decisamente ampie, dei BG che fiancheggiavano Val e la sua puttana e che si dirigevano verso la siepe di giapponesi nel foyer, erano cinque metri davanti a noi. Dovevamo avvicinarci in fretta, finché si trovavano ancora nel corridoio. Arrivati nel foyer, gli altri uomini della squadra di Val avrebbero potuto accorgersi di quello che stava succedendo prima che le 4x4 si trovassero in posizione. Ancora tre metri per arrivargli addosso. Udii un altro ping, seguito dall'accendersi della luce interna dell'ascensore, le porte si aprirono e una
coppia di mezza età si frappose tra noi e il bersaglio. Scattai in avanti per spingerla alle nostre spalle. Era un'emergenza che avevamo provato molte volte. Nel momento del mio scatto, Falegname sollevò il braccio destro. Passando, senza distogliere lo sguardo da Val, esplose sulla coppia tre o quattro colpi silenziati. Sentii il rumore del caricatore scorrere avanti e indietro vicinissimo al mio volto e il suono sordo dei colpi che uscivano dalla canna. Merda. Le urla della donna infransero il silenzio, prima ancora che avessimo neutralizzato i BG. La coppia ricadde all'interno dell'ascensore. Solo la donna era stata colpita, la camicetta bianca era rossa di sangue. Grandissima testa di cazzo. Eliminare i giocatori era un conto, ma far fuori un civile era un grosso casino. I due BG si voltarono, pronti a estrarre le pistole, ma Falegname e Incubo ormai erano vicini e li sistemarono entrambi con due colpi in testa da una distanza di meno di trenta centimetri. Crollarono senza un suono. Nessuno si era ancora accorto di niente, erano troppo occupati a badare ai fatti loro, ma ben presto sarebbe successo. Dopo il crollo dei BG, invece di proseguire, Falegname continuò a sparare sui corpi. I BG erano morti. Stava sprecando tempo. Alle mie spalle, l'uomo nell'ascensore gridava, cullando la moglie in fin di vita. Vidi lo sguardo opaco di Falegname. Era decisamente fatto, di qualsiasi cosa si facesse per sopravvivere a quei lunghi inverni. Sergej avrebbe avuto il suo da fare quella sera, se fossimo sopravvissuti e se avesse mantenuto la promessa. Vaffanculo, lo avrei steso io stesso, prima che la situazione finisse fuori controllo. Con gli occhi fissi sulla testa di Falegname intento a sparare l'ennesimo colpo sui cadaveri, infilai la mano destra tra giacca e camicia, verso la mia 88, il palmo sinistro alzato rivolto verso di lui, il braccio piegato e pronto a ricevere l'arma che di lì a un attimo avrei impugnato. Le urla dall'ascensore si erano fatte più soffocate. Avevo perso la consapevolezza di tutto il resto, concentrato com'ero su Falegname e sulla sua testa. Lui si spostò, continuando a sparare. Le mie dita sfiorarono il giubbotto. Mi sporsi leggermente in avanti e buttai con energia all'indietro le falde del cappotto e della giacca. Il peso dei ferri nelle tasche mi aiutò a esporre l'arma nel momento esatto in cui ne avevo bisogno. Spinsi con fermezza il palmo della mano destra verso l'impugnatura dell'88, richiudendo saldamente sul calcio le ultime tre dita e il
pollice. Estrassi l'arma, inserii l'indice senza guanto nella sicura, accertandomi di avvertire il metallo del grilletto contro la prima falange. Prima che Falegname esplodesse un altro colpo, feci in tempo a togliere la sicura. Vi fu un bagliore d'ottone quando le parti in movimento delle pistole espulsero i bossoli vuoti ai nostri piedi. Stava ancora tentando di sparare quando vidi il carrello della pistola trattenuto dalla leva di blocco. Aveva finito i colpi. Strinsi l'88, mi spostai in avanti e sollevai l'arma, il mirino centrato sulla sua testa. Attesi la frazione di secondo necessaria per mettere a fuoco e inquadrare la situazione. La vita reale mi scoppiò nuovamente nelle orecchie. Era Incubo, che urlava nel Motorola, incitava le 4x4 ad avvicinarsi alle Mercedes mentre afferrava per un braccio Falegname, trascinandolo verso il foyer. Adesso si trovava a meno di due passi da Val, ancora intento a fissare i corpi sul pavimento e a cercare di spiegarsi quanto aveva visto nel giro degli ultimi dieci secondi. Si sintonizzò sul canale sopravvivenza, ruotò su se stesso e guardò verso il ristorante in cerca di una via di fuga. I nostri sguardi s'incrociarono. Sapeva che ero lì per lui, e sapeva che era troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Mi concentrai esclusivamente sul suo collo e tutto iniziò a muoversi al rallentatore. Non aveva senso pensare ad altro. Non sarei potuto intervenire in nessun modo. Ormai ero a un passo da lui. Era convinto che lo avrei ucciso e rimase fermo in attesa, inerte. Non poteva farci niente. Sapeva che un giorno sarebbe potuto accadere. Gli agganciai il collo con il braccio sinistro piegato e continuai ad avanzare, aumentando la pressione sulla gola. Lo costrinsi a tenere sollevata la faccia e barcollò all'indietro. Sentii che stava per soffocare. Era alto poco più di un metro e settanta, e questo mi facilitava la presa. Si fosse trattato della sua compagna, probabilmente avrei dovuto alzarmi sulla punta dei piedi. La sgualdrina con il visone non ebbe la minima reazione. Immaginavo che si sarebbe messa a strillare, e invece se ne rimase appoggiata alla parete, leggermente in disparte, limitandosi a osservare. Con la pistola nella destra e continuando ad avanzare, gli premetti il braccio destro contro la nuca, bloccandogli completamente la testa: una mossa da lottatore che mira a ottenere il massimo dell'efficacia dalla presa sull'avversario. Iniziò da subito a essere in debito di ossigeno. Non avevo dubbi, sarebbe venuto con me. Non era necessario controllare se fosse ar-
mato. Quella sera non ne aveva bisogno. Quella sera era un uomo d'affari che stava andando a teatro. Proseguii in direzione del foyer. Val non apprezzava quello che gli stavo facendo, così inarcò la schiena nel tentativo di alleggerire la pressione sul collo. Per trascinare il suo peso avevo assunto una posizione semipiegata. Mi accorsi che il gilè che indossava era in realtà un giubbotto antiproiettile camuffato. Mi concentrai sul nostro luogo di destinazione, verso i russi che urlavano al centro del foyer, verso i giapponesi d'un colpo ammutoliti. Non m'importava nient'altro. Erano passati altri quattro o cinque secondi e le persone all'interno dell'albergo ormai erano in grado non solo di vedere quello che era successo, ma anche di comprenderne il significato. Ci vuole un po' prima che un cervello non allenato riesca a elaborare questo genere di situazioni e a dirsi: ehi, pare proprio che ci siano due uomini morti sul pavimento e altri armati di mitragliette che urlano e corrono nel foyer. A quel punto è sufficiente che una sola persona perda il controllo perché la situazione precipiti. Svoltai nel foyer, puntando l'uscita. Inquadrai Incubo vicino alle porte principali che si occupava di uno dei BG. Urlava e strillava in russo e si sbracciava come un indemoniato. Ero a una ventina di metri da loro. I giapponesi seguirono l'esempio di tutti gli altri, correndo a cercare un riparo dietro i divani e trascinando con sé i propri cari. Ottimo: più si agitavano e meno avrebbero visto. Una sirena bitonale coprì le urla e io mi mossi alla massima rapidità possibile. Incubo mi copriva le spalle, tenendo a bada i BG. Strinsi forte e trascinai Val. Sbuffò come un cavallo, lottando per respirare. Attraverso le vetrate, la luce dei fari delle Mercedes illuminò la 4x4 di Sergej, con il portellone posteriore aperto in attesa di me e di Val. Al di sopra dei tettucci delle Mercedes, vidi Reggie e Ronnie, gli AK imbracciati con il calcio aperto e rivolti verso il basso. I tre autisti di Val erano già stati trascinati fuori dalle auto e si trovavano faccia a terra sull'asfalto. Falegname operava sulla sinistra del convoglio. Anche lui con l'arma puntata verso il basso. Evidentemente si stava occupando dell'altro BG. Tutti e tre sbuffavano vapore come bollitori. Sergej doveva essere nell'auto, in attesa che io riemergessi da quel manicomio.
Mancavano dieci metri quando scoppiò la terza guerra mondiale. Sentii una serie di colpi secchi e ravvicinati provenire da una calibro 9; sbriciolarono le vetrate come lampadine. Era Falegname, intento a scaricare su un BG la maggior parte del caricatore. Poi i colpi vennero sommersi dalle grida nel foyer. Era come trovarsi sul Titanic nel momento dell'affondamento. Non riuscivo a crederci. Altri colpi di mitraglietta illuminarono l'oscurità all'esterno, le forti detonazioni dei 7,62 di Reggie e Ronnie riecheggiarono contro i muri dell'edificio. Gli autisti dovevano aver cercato di impugnare le armi, convinti che a quel punto sarebbe toccata a loro. Incubo sembrava essersi impietrito sul posto, tremava di paura tenendo l'ultimo BG sotto tiro. Mi fissava in attesa di istruzioni. Lanciai un'occhiata al BG. Aveva lo sguardo all'erta, in attesa di una possibilità di tirarsi fuori da quel brutto casino. Non potevo essere di nessun aiuto per Incubo, sempre più agitato. Doveva decidere da solo. Con quella sparatoria in corso, soprattutto perché non ne conoscevo l'esito, non potevo tentare l'uscita dalla porta principale. Ripercorsi il corridoio all'indietro trascinando Val il più in fretta possibile, rischiando di rovinare sopra il portiere e un fattorino, sdraiati sul pavimento, allo scoperto, troppo paralizzati dalla paura per potersi muovere. Ritornai sull'angolo del corridoio. Nell'ascensore l'uomo stava ancora singhiozzando sulla moglie. Le gambe di lei, avvolte in calze color carne con scarpe eleganti ai piedi, sporgevano nel corridoio. Le porte dell'ascensore continuavano ad aprirsi e chiudersi contro di loro. La sgualdrina era rimasta nella stessa posizione, i nervi saldi. Stava in piedi, osservava, senza neppure preoccuparsi di pulirsi il viso dal sangue e dai brandelli di carne del BG ucciso. Quando alcuni colpi incrinarono i vetri di sicurezza laterali della porta, il livello di panico ebbe un'ulteriore impennata. Era evidente che il BG aveva colto al volo l'occasione che gli si era presentata. Si era rialzato e aveva fatto fuoco, provando a mettersi in salvo. Incubo era stato colpito al torace, privo di protezione, e si era accasciato su due turisti giapponesi che erano rimasti immobili, terrorizzati. Il BG scattò nella mia direzione, il mini-Uzi nella mano destra, la cinghia sulla spalla. Cosa voleva fare? Non poteva sparare perché rischiava di colpire il suo capo. Voltai Val in modo che si trovasse di fronte al suo BG e sollevai la mia
88. Non sarebbe stata efficace contro il suo giubbetto, sebbene fossi in grado di colpire un bersaglio in movimento a quindici metri di distanza, anche con una mano sola. Dovevo aspettare che si avvicinasse. Gli sparai da circa dieci metri, e continuai a farlo, mirando al basso ventre. Non c'era motivo di puntare alla testa da quella distanza. Svuotai quasi la metà di un caricatore da venti, senza sapere se l'avevo colpito, poi lo sentii urlare e lui crollò, le gambe piegate. Non m'importava dove l'avevo beccato, m'importava solo di esserci riuscito. Continuando a trascinare Val, oltrepassai la reception, tentai di evitare le telecamere e feci rotta verso il contratto. Avrei proseguito per conto mio, lasciando che quelli che avevo ingaggiato se la cavassero da soli. Fra le braccia stringevo un Mucchio di Soldi, e non avevo nessuna intenzione di lasciar perdere tutto. Svoltai in un ampio corridoio, diretto alla porta posteriore che dava sul parcheggio. Conoscevo la direzione; il tempo passato in ricognizione raramente va sprecato. Oltrepassai la sala conferenze e il centro congressi, trascinando Val sulla moquette morbida. Respiravamo entrambi a fatica. Io per la paura e lo sforzo fisico, lui perché lo stavo strangolando. Evitai di voltarmi per controllare la situazione alle mie spalle. Che senso aveva? Se ci fossero stati problemi non ci avrei messo molto a saperlo: mi avrebbero sparato. Le persone al nostro passaggio si rimpicciolivano fino a sparire. E ciò giocava a mio favore. Arrivato in fondo al corridoio, salii quattro gradini, poi svoltai a sinistra e ne feci altri dieci. La prima porta interna del parcheggio era tenuta aperta da un estintore. Spinsi il maniglione della seconda e mi ritrovai sopra l'asfalto rosso sul retro dell'edificio. Il freddo mi tolse il fiato. Ci furono urla inattese da parte di uno o due abitanti della zona, pazzi al punto da uscire dai loro appartamenti per vedere che cosa stava succedendo. Il mio respiro sembrava quello di un cavallo da corsa durante il galoppo, d'inverno. Sentivo Val lamentarsi. Le sue narici stavano facendo lo straordinario. Da lì alla strada principale c'era soltanto una ventina di metri. Ero circondato da vapori che uscivano da tubi e sfiatatoi dell'impianto di ventilazione, e i generatori borbottavano come motori di una nave. Se fossi riuscito a prendere uno dei mezzi di servizio, avrei svoltato a sinistra, verso la via principale, da dove proveniva il rumore del traffico.
A una decina di metri c'erano il parcheggio e le piazzole di carico. L'unico mezzo in vista era un furgoncino Hilux. 'Fanculo, sarebbe andato bene anche quello. Le luci di sicurezza mi lasciavano esposto agli sguardi degli spettatori dietro le finestre degli appartamenti dall'altro lato della strada. Provai la portiera. Chiusa a chiave. Per colpa dei lavori più in su sulla strada non c'era nessun veicolo in movimento da rubare. Non avevo alternative, se non trascinare Val per le scale di cemento fino a quello che sembrava l'ufficio di smistamento dei minicab. Una scrivania, un telefono e mucchi di scartoffie. Una donna fra i venti e i trent'anni, in piedi, parlava in modo isterico al telefono in finlandese, la mano destra che gesticolava come se dovesse scacciare uno sciame di vespe. Sulle prime non si rese conto di quello che aveva di fronte. Poi, però, le puntai contro l'88 urlando. «Le chiavi! Dammi le chiavi del furgone. Subito!» Sapeva quello che volevo. Lasciò cadere il telefono mentre dall'altra parte continuavano a parlare, e si diresse alla scrivania. Afferrai le chiavi e correndo per le scale raggiunsi il mezzo. Val stringeva i denti per il dolore al collo. Decisi di nuovo che non valeva la pena guardarmi intorno. Sapevo di essere osservato e preoccuparmene non avrebbe cambiato niente. E in ogni caso la donna dell'ufficio aveva già diffuso la notizia al mondo intero. Strappai con violenza il cartone che proteggeva il parabrezza dal gelo e con la mano sinistra aprii la portiera del passeggero. La destra era sulla pistola, e dovevo stare attento a non lasciare impronte con il dito scoperto dal guanto, quello che tenevo sul grilletto. Sapevo di dover agire in fretta, ma senza lasciare impronte in giro. «Dentro, dentro!» Forse non parlava inglese, ma con la pistola sul collo, Val capì cosa intendevo. Lo infilai dentro a calci, poi mi arrampicai sopra di lui, tenendogli la canna della pistola premuta sul collo mentre mi sistemavo al posto di guida e infilavo la chiavetta dell'accensione. Accesi il motore e inserii la marcia. I pneumatici schizzarono pesanti sull'acciottolato. Puntai giù dalla collina, verso la strada principale, il dispositivo antiappannamento al massimo. Davanti a me vedevo i lampioni della strada e il traffico che scorreva in entrambe le direzioni. Transitai all'altezza del vialetto dell'albergo. La Nissan non c'era. Forse Sergej se n'era andato. Tutti gli altri veicoli erano an-
cora lì. Le illuminazioni natalizie erano crollate sull'asfalto, in mezzo a un tappeto di bossoli. Per terra, qua e là, alcuni corpi umani. Ero troppo lontano per capire chi fossero, uno era sicuramente Reggie o Ronnie perché l'intera area era coperta da una leggera coltre di nebbia: una delle bombole di CS che avevano con sé doveva essere stata colpita e continuava a vomitare al vento il suo contenuto. Un autista era quasi riuscito a scappare. Il suo corpo era steso davanti all'ingresso, sommerso da uno degli alberelli decorativi. Dal sangue che sgorgava dalle ferite si levava una piccola nube di vapore. Pensai che neanche i loro giubbotti erano stati progettati per resistere ai colpi AP. Proseguii. Improvvisamente pensai alla coppia nell'ascensore. Poi, fermo all'incrocio con la strada principale, mi concentrai sul da farsi. Svoltai a destra e m'infilai nel traffico. 3 Mi diressi verso il centro. Dei lampeggianti blu mi vennero incontro e sfrecciandomi accanto quasi mi accecarono. Al secondo incrocio svoltai a destra, lungo la strada dov'ero rimasto posteggiato con Sergej all'interno della Nissan. Tenevo l'88 nella destra, sempre conficcata nel collo di Val, quindi ero costretto a cambiare marcia con la sinistra, controllando il volante con le ginocchia. Il bersaglio era estremamente collaborativo; può darsi che mi sbagliassi, ma il suo linguaggio del corpo comunicava: «Nessuna reazione, meglio aspettare e vedere che succede». Il punto di abbandono auto era a dieci minuti di distanza e avrebbe segnato la fine della Fase uno e l'inizio della Fase due: cambio dei veicoli e spostamento alla stazione di servizio dei camion, dove dovevamo incontrarci tutti prima di dirigerci verso il confine e di lì in Russia. Era scattato il piano B. Se scoppiavano casini, ognuno di noi aveva un percorso prestabilito per raggiungere la casa sul lago in cui avevamo fatto base nelle ultime due settimane e rimanere in attesa per ventiquattr'ore. Senza Sergej mi sentivo vulnerabile e scoperto. Mucchio di Soldi era nel vano davanti al sedile, ma non c'era modo di attraversare il confine senza aiuto. Sergej era l'unico in grado di gestire i rapporti con le guardie di confine più corrotte del mondo, ed era stato ben attento a non far sapere a nessuno come si era organizzato. Da parte mia sapevo solamente che ci sa-
remmo infilati in un camion modificato, tutti nascosti nel doppio fondo come immigranti clandestini, e che alla guida del camion ci sarebbe stato Sergej. Era la sua polizza di assicurazione, per questo gli avevo riservato il ruolo meno pericoloso di tutta l'operazione. La strada cominciò a piegare a destra, allontanandosi dalla città. Avevo effettuato il percorso fino al punto di abbandono auto decine di volte, sia fisicamente sia mentalmente. Attraversai zone residenziali dove la neve era ordinatamente ammucchiata ai lati della carreggiata e dove le luci della strada e delle decorazioni natalizie si riflettevano sui ciottoli lucidi. Il suono delle sirene che mi circondavano da tutte le parti mi catapultò fuori dai miei stupidi pensieri sulla Russia. All'incrocio davanti a me sfrecciarono dei lampeggianti blu. Svoltai a destra; qualsiasi cosa pur di togliermi dalla strada e nascondermi. Avevo imboccato un viottolo che portava sul retro di un condominio. Nessuno mi stava seguendo. Puntai verso il lato più lontano e mi fermai sotto un parcheggio coperto. Lasciai il motore acceso, la pistola sempre conficcata nel collo di Val e le sirene che continuavano a urlare da ogni parte. E adesso? Proseguire a piedi era impensabile. Se mi avessero beccato avrei dovuto abbandonarlo per poter fuggire. E questa non era un'alternativa: Mucchio di Soldi restava con me. Che cazzo, non avevo scelta: dovevo rischiare. Più tempo stavo lì, più le volanti della polizia a caccia del furgone sarebbero aumentate. E, peggio ancora, avrebbero avuto il tempo di organizzare posti di blocco per impedirmi di uscire dalla città. Dovevo raggiungere in fretta il punto di abbandono auto e tirarmi fuori dal casino intorno all'albergo. Tornato in strada schiacciai a fondo il pedale dell'acceleratore. Rischioso, ma a volte è meglio non stare troppo a pensare. Quattro minuti dopo avevo raggiunto il reticolato metallico del parcheggio. In alto, sulla destra in direzione dell'albergo, un elicottero che volava a bassa quota squarciava il cielo con il suo riflettore. Il fascio di luce perlustrava il parco e il lago ghiacciato dal lato della strada principale opposto all'Intercontinental. Il loro tempo di reazione era stato eccellente, e questo mi incasinava non poco. Se non fossero stati tutti allertati per la conferenza dell'Unione Europea, avrebbero impiegato molto di più per coordinarsi. Proseguii verso l'ingresso del parcheggio. I lampioni stradali ne illuminavano il perimetro e, attraverso il reticolato, riuscii a scrutare nella penombra retrostante, in cerca di qualsiasi cosa d'insolito. I parcheggi sono il
posto migliore per perdere un'auto; il problema è che spesso vengono controllati da videocamere ed esistono forti possibilità di trovare qualcuno al cancello che ti chieda di pagare il biglietto. Questo era libero: nessuna videocamera, nessun guardiano, nessuna illuminazione. Ed era per questo che Sergej e io avevamo deciso di usarlo. Gli altri quattro si sarebbero serviti di un altro parcheggio, a sette minuti di distanza. In quel momento, comunque, anche il più piccolo segnale sospetto, tipo auto con motore acceso e luci spente, sarebbe stato sufficiente a farmi andare via. Continuai fino all'incrocio, svoltai a sinistra, attraversai le rotaie del tram e procedetti verso l'ingresso. Sui lati della strada si erano fermati parecchi pedoni, i commercianti erano usciti sulla porta dei negozi, e tutti guardavano in alto, in direzione dell'elicottero, verso il suo rombo e le sue luci, discutendo animatamente. Non distolsi lo sguardo dall'ingresso del parcheggio. I clienti lo usavano solo di giorno, le macchine rimaste probabilmente non si sarebbero mosse. Misi la freccia a sinistra, liberai Val dall'88 perché avevo bisogno di entrambe le mani per manovrare il furgone attraverso la strada e posteggiare. Mentre aspettavo un varco tra il flusso del traffico, mi sentivo allo scoperto, ma respinsi la tentazione di buttarmi, rischiando di tamponare qualche auto in direzione contraria. Dopo un po' si aprì un buco. Riuscii a infilarmi sotto la sbarra di controllo dell'altezza ed entrai in un altro mondo, buio e sicuro. Dopo un giro di controllo fermai l'Hilux con il lato del passeggero rivolto verso la fila di auto fra cui era parcheggiata la Volvo berlina. Valentin sembrava quasi scomparso nell'oscurità del vano per i piedi davanti al sedile. L'elicottero pattugliava il cielo notturno setacciando il terreno con il riflettore. La Volvo blu scuro era posteggiata con il muso in avanti e il bagagliaio verso l'esterno. Mi arrestai a T davanti a esso. Gli unici rumori erano il motore del furgone che perdeva colpi e la ventola del riscaldamento al massimo. Val cambiò posizione con uno sfregare di scarpe sul tappetino di gomma. Dopo un attimo di pace, le sirene esplosero di nuovo. Lontano, all'estremità opposta del parcheggio, si accese una luce di cortesia. Qualcuno era salito in macchina, ma senza mettere in moto; probabilmente il guidatore se ne stava seduto a guardare l'elicottero. Aspettai. Le mie orecchie si stavano abituando al nuovo ambiente, decisamente più tranquillizzante. Udii un tram che sferragliava diretto verso il centro.
Le sirene guaivano in lontananza e l'elicottero continuava a sorvolare il parco e il lago. Poi le sirene si avvicinarono. Rimasi seduto; aspettavo e osservavo, cercando di individuarne la posizione. Tre o quattro auto della polizia seguivano le rotaie del tram lungo il reticolato. I lampeggianti spandevano macchie di colore sui tetti dei veicoli in sosta. Pochi secondi dopo, ne apparvero altre due. Abbassai gli occhi su Val. La luminescenza del cruscotto mi permetteva di guardarlo in viso. Non c'era paura nei suoi occhi. Era furbo abbastanza da rendersi conto che, in caso di reazione, sarebbe stato ucciso o, forse peggio, ferito gravemente. E non voleva correre un rischio del genere. Dal momento in cui si era reso conto che non sarebbe stato ucciso e che la cattura era inevitabile, non si era mai fatto prendere dal panico. Sapeva che avevo i nervi a fior di pelle e che ogni movimento anomalo poteva farmi scattare in modo per lui evidentemente poco gradevole. Meno resistenza uguale meno maltrattamenti, e più tempo a disposizione per guardarsi intorno in attesa di un'eventuale possibilità di fuga. Con il pollice destro premetti il dispositivo di sgancio sul calcio della pistola e raccolsi con la sinistra il caricatore che scivolava dall'impugnatura. Lo sostituii con un caricatore pieno da venti colpi, sentii il clic che indicava il corretto inserimento e forzai l'estremità per accertarmi che non si sarebbe staccato. Infilai il caricatore mezzo vuoto nella tasca destra, insieme con i ferri. Meglio evitare il rischio di inserire un caricatore mezzo vuoto in una situazione di emergenza e doverlo immediatamente sostituire. Davanti all'ingresso transitarono altre tre o quattro auto della polizia, lampeggianti in azione e sirene spiegate. Il riflettore perlustrava tutt'intorno a scatti veloci. Sull'elicottero dovettero decidere che del parcheggio avevano visto abbastanza perché cominciarono a spostarsi verso la strada principale. Tolsi le chiavi dal cruscotto e l'avvisatore acustico mi segnalò che avevo i fari accesi. Guardai Val. «Giù.» Come parlare a un cane. Uscii dal furgone e avvertii in lontananza il tud tud tud delle pale dell'elicottero. Continuavano a rimanere concentrati sulle immediate vicinanze dell'albergo, ma sapevo che quella situazione non sarebbe durata ancora per molto. Mi spostai verso il cofano del furgone e l'aria fredda mi sferzò il volto. Passai davanti ai fari con gli occhi fissi sulla cabina, l'arma abbassata sul fianco.
Ancora lampeggianti e sirene che puntavano alla strada principale. Alcune macchine della squadra iniziarono a separarsi. Una s'infilò per la strada che avevo percorso poco prima, e al passaggio, le brillanti luci blu rimbalzarono per qualche secondo sopra di me e le auto parcheggiate. Mi concentrai sull'ingresso principale. La prossima sarebbe entrata? Sapevo che non potevo fare niente se non attendere e restare in guardia, il che non impedì al mio cuore, che correva già forte, di aumentare velocità di un paio di marce. Qualche secondo dopo era di nuovo buio. Rimasero solo le sirene, ma il suono sfumava in lontananza. Tornò a portata d'orecchio il rumore dell'elicottero. Tastai sotto il parafango della ruota posteriore destra e staccai la scatoletta magnetica che conteneva le chiavi, premetti il pulsante e sentii il rassicurante uoop delle serrature che scattavano. Inserii la chiave nella serratura del bagagliaio e lo aprii. Reggie e Ronnie avevano rivestito di gomma spessa tutta l'intelaiatura interna del vano bagagli, in primo luogo perché il bersaglio non si ferisse, ma anche per ammortizzare i rumori se avesse deciso di mettersi a tirare calci o urlare durante la marcia. Come ulteriore precauzione avevano sigillato il vano interno delle luci di posizione posteriori. L'ultima cosa di cui avevamo bisogno era che Val ne sfondasse uno e, magari fermi a un semaforo, vi infilasse un braccio e facesse ciao ciao con la manina a qualche famigliola in viaggio verso la casa dei nonni con i regali di Natale. Per non farlo morire di freddo avevano preparato sul pianale due spessi piumini quattro stagioni l'uno sopra l'altro. Al centro una pallina di plastica arancione grande quanto un uovo, un rotolo di nastro adesivo nero e diverse paia di manette di plastica. Aprii la portiera e Val guardò in successione me, il bagagliaio e il suo contenuto. Non avevo idea di che cosa potesse succedergli una volta arrivati a San Pietroburgo, e non me ne fregava niente. M'importava solo dei cinquecentomila dollari, o anche di quello che ne sarebbe rimasto una volta che Sergej avesse incassato i duecentomila che spettavano a lui. Dopo aver ancora una volta passato in rassegna la zona con lo sguardo, sollevai la mia 88, angolai il polso a novanta gradi e gli infilai con forza l'arma sotto il gilè antiproiettile, quindi la girai in posizione normale in modo che la bocca dell'arma si trovasse avvolta nella camicia. Non fu necessario abbassargli la testa a forza: visto che avevo appoggiato l'indice sul grilletto voleva vedere che cosa stava per succedere. Spostai l'arma verso
l'alto in modo che l'impugnatura risultasse vicina alla faccia e mi accertai che mi vedesse rimuovere la sicura con il pollice e sentisse lo scatto. Non dovevo insegnargli come si sta al mondo. In fondo non era arrivato dov'era aiutando le vecchiette ad attraversare la strada. Per quanto lo riguardava quello era soltanto un altro giorno in paradiso. Non avrebbe fatto casino. Infilai la mano libera sotto il corpetto. «Fuori, fuori.» Non fu necessario discutere. Le ginocchia spuntarono dal vano davanti al sedile e lui planò barcollando sull'asfalto. Lo voltai in modo che si ritrovasse con il retro delle cosce all'altezza del bagagliaio della Volvo e mi piegai su di lui mentre in lontananza si udivano gli ululati di altre sirene e l'elicottero che lottava con il vento per mantenere la posizione. Lui comprese e si infilò dentro, gli occhi fissi nei miei. Ancora nessuna traccia di paura, ma lo sguardo si era fatto più analitico, come se stesse effettuando una valutazione del carattere, cercando di capire che tipo ero. Aveva il pieno controllo di se stesso. Non era la reazione che ci si poteva aspettare dalla vittima di un rapimento, il che mi fece innervosire. Si sdraiò sulla schiena, le ginocchia in alto e le mani sullo stomaco. Cambiai mano all'88, afferrai la pallina di plastica arancione e gliela infilai con forza in bocca. Ancora una volta nessuna resistenza, solo un grugnito nasale mentre mandavo in buca la palla. Reggie e Ronnie avevano ripiegato il bordo estremo del nastro adesivo e questo mi consentì di eseguire l'operazione successiva con una mano sola. Gli passai il nastro intorno alla bocca e al mento, poi sulle orecchie e sugli occhi, lasciandogli libero solo il naso. Altre luci e sirene, questa volta nella strada laterale, quella che avevo percorso io. Nel giro di poco avrebbero cominciato a controllare i parcheggi. Sentii il motore dell'elicottero cambiare tono. Riprese a muoversi, il riflettore adesso era a quarantacinque gradi e illuminava a giorno il tragitto che percorreva nella mia direzione. Sbattei il cofano sopra Val e mi scaraventai dentro l'Hilux mentre il frastuono aumentava e il fascio di luce si faceva più intenso. Quando t'inquadrano fari del genere, non c'è modo di nascondersi. Lo avessero fatto, avrei cambiato idea a proposito del mezzo milione di dollari e sarei scappato a piedi. Il percorso di fuga era già studiato: dritto fino al reticolato e poi dentro il labirinto dei condomini, dalla parte opposta.
Rimasi seduto e attesi; non potevo fare altro. Automobile e furgone furono investiti in pieno dalla luce. Sembrava una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Un paio di secondi dopo il rombo del motore cambiò tono e l'elicottero rollò in direzione della strada principale fuori città. Quando si fu allontanato, ricomparvero le ombre. Infilai il furgone in un posteggio vuoto, uscii e andai a controllare Val. Respirava a fatica. Lo guardai e attesi. Poteva avere problemi di sinusite, il naso tappato, un raffreddore. Non volevo che morisse; mi avrebbero pagato solo se consegnavo carne ancora viva. Si liberò il naso con un potente grugnito. Un paio di fari svoltò dalla mia parte. Non avevo sentito sbattere portiere e quindi non era qualcuno all'interno del parcheggio. Mi chinai sopra Val fingendo di sistemare i bagagli. Avevamo i volti vicinissimi e avvertii il suo respiro sul collo. Era la prima volta che sentivo il suo odore. Dopo la parentesi con Falegname e Incubo, mi aspettavo un misto di sigarette forti, liquore fatto in casa e puzza di ascelle. Invece, nastro adesivo e un accenno di colonia. Problema passato. Il veicolo aveva trovato parcheggio o se n'era andato, per saperlo non avrei pagato una merda. Mi raddrizzai lentamente e mi guardai intorno, poi premetti la pistola contro il collo di Val. Con la mano libera lo afferrai per le spalle e cominciai a spingere. Capi. Lo volevo a faccia in giù. La macchina ondeggiò sotto i suoi sforzi. Poco male, a guardare non c'era nessuno. Quando fu a pancia sotto, presi un paio di manette, gliele agganciai ai polsi e le chiusi strette. Gli sistemai intorno il secondo piumino, lasciandogli lo spazio per respirare. La Volvo partì al primo colpo. Puntai a sinistra, sulla strada principale, nella direzione opposta all'albergo. Sperai soltanto che Sergej stesse facendo la stessa cosa. Fuori da Helsinki, mi diressi a est, verso l'autostrada. L'RV era a Vaalimaa, a circa duecento chilometri. Premetti il pulsante ricerca della radio e alzai il volume per superare il rumore del riscaldamento. Guidavo, pensavo a tutto e non pensavo a niente. Per due volte vidi le luci intermittenti di un elicottero. Alla fine oltrepassai l'area di servizio di Vaalimaa. In pratica il paradiso dei camionisti, l'ultima fermata prima della Russia. La usavano come pun-
to di incontro e da lì ripartivano in convoglio. Le rapine erano frequenti nella Santa Madre Russia. Fra di essi, da qualche parte, con i doppi fondi per farci giocare agli immigrati clandestini, si trovava il nostro veicolo. Vaalimaa si trovava a pochi chilometri dal punto d'incontro stabilito da Sergej. Dieci chilometri a nord della città sorgeva la casa sul lago. Spensi la radio ed estrassi dal cruscotto lo scanner digitale che Sergej aveva sintonizzato sul canale della polizia. Era poco più grande di un telefono portatile. Secondo i programmi avremmo dovuto usarlo una volta usciti da Helsinki. Sergej mi serviva anche per questo: parlava finlandese. Cercai di dare un senso al gracchiante traffico radio, ma non avevo idea di quello che stavo ascoltando. L'unica speranza che avevo era di non sentire: «Volvo, Volvo, Volvo» perché a quel punto sarebbe stato chiaro che avevo in mano un biglietto di sola andata per l'inferno. Controllai ogni piazzola e ogni vialetto di ghiaia alla ricerca di qualsiasi traccia di attività. Tutto tranquillo. I miei fari inquadrarono il segnale che stavo cercando, cassetta postale 183, contenitore rosso su paletto bianco. Svoltai a destra in un sentiero dai solchi profondi che s'inoltrava nella foresta. Erano passate poche ore da quando l'avevo percorso l'ultima volta. Dopo circa dieci metri il viottolo veniva interrotto da una catena bianca sospesa a due paletti. Attaccato alla catena un segnale in legno con la scritta in finlandese FUORI DAI COGLIONI, PROPRIETÀ PRIVATA. Lasciai il motore acceso e scesi per controllare alla luce dei fari i segni di un recente passaggio di un'altra auto. Il ghiaccio duro nascondeva gli eventuali indizi. Osservai con attenzione il punto in cui l'ultimo anello s'infilava in un gancio avvitato al paletto di destra, ma non riuscii a vedere molto alla luce fioca dei fari della Volvo. Sollevai la catena in modo che l'ultimo anello, allentata la tensione, potesse scivolare facilmente. Avvertii la pressione del filo di cotone che lo manteneva legato al gancio, poi il filo si ruppe e l'anello scivolò fuori. Nessuno che non fosse autorizzato era passato di lì. Transitai con la Volvo sopra la catena, poi saltai fuori e la rimisi a posto. Trovai il rocchetto di filo dove l'avevo lasciato, sotto un piccolo cumulo di pietre. Con il filo assicurai nuovamente l'anello al gancio, sistemai il rocchetto sotto le pietre e rientrai in macchina. Gli alberi di pino erano così alti e addossati al sentiero che si aveva l'impressione di guidare in un tunnel. Dopo duecentocinquanta metri gli alberi si ritiravano, aprendosi di fronte a un appezzamento di terreno grande qua-
si quanto quattro campi da calcio. Dentro casa avevo visto delle fotografie incorniciate per cui avevo la prova che in estate lì intorno era tutto erba e tronchi di alberi tagliati, ma adesso ogni cosa era ricoperta da uno strato di neve alto un metro. Il sentiero era in lieve discesa e i fari illuminarono la casa a due piani. All'interno nessuna luce, nessuna auto all'esterno. Il sentiero portava a una costruzione coperta da un tetto in legno dove c'era posto per tre automobili. Entrambi gli edifici erano costruiti con tavole di legno e dipinti di rosso, i telai delle finestre erano bianchi, e non sarebbero stati fuori posto nello Yukon ai tempi della corsa all'oro. Andai con l'auto fin sotto la tettoia. Una gigantesca catasta di legna da ardere copriva tutta la parete di fondo. Una porta sull'estrema sinistra conduceva all'altro lato della casa e al lago. Spensi il motore e, dopo tanto tempo, scese per la prima volta un silenzio assoluto. Niente spari, sirene, elicotteri o motorini di riscaldamento delle auto, solo il sibilo in bassa frequenza della polizia finlandese che comunicava roba da polizia finlandese attraverso lo scanner. Non avevo nessuna voglia di muovermi. Alla fine del frontone del corpo principale si trovava l'ingresso, e la chiave era nascosta con grande originalità sotto la catasta di legna. Entrai e venni investito da un piacevole calduccio. Il riscaldamento era elettrico e l'avevamo lasciato in funzione. L'impegnativo riscaldamento a legna era riservato ai vacanzieri; e poi il fumo del camino avrebbe segnalato la nostra presenza. Accesi la luce e tornai alla macchina a prendere Valentin. 4 Il piumino gli aveva salvato la vita. Dopo due ore nel baule dell'auto tremava come una foglia. «Fuori adesso, presto.» Gli spostai le gambe oltre il bordo e lo feci uscire tirandolo per il giubbotto antiproiettile. Con le mani legate dietro la schiena non poteva fare molto, concentrato com'era a impedire che la pallina gli finisse in gola. Grande strumento, ottima scelta. Mentre le gambe riacquistavano sensibilità, lo pilotai all'interno e lo misi a sedere sul divano di velluto verde di fianco al calorifero. La casa era semplice, legno sul pavimento e legno alle pareti, e un'unica grande stanza che occupava tutto il pianterreno. Di fronte alla porta un caminetto in pietra e tre colonne di legno di circa trenta centimetri di diametro, a distanza
regolare una dall'altra, che sostenevano il piano superiore. L'arredamento, esclusi i divani, era di legno grezzo e la stanza odorava come un deposito di legname. Strappai con energia il nastro adesivo dal viso di Val. Quando l'adesivo si portò dietro i peli del collo e le sopracciglia ebbe un sussulto. Aveva la pelle fredda, del colore di un baccalà. Espulse la pallina, tossendo e sputacchiando. Mi comportai come il tipico inglese all'estero: nel dubbio, parla la tua lingua e urla. «Sta' lì!» Indicai il radiatore... non che potesse andare chissà dove, ammanettato com'era. «Ti scalderai in un attimo.» Sollevò lo sguardo e annuì. Sotto il cornicione sibilò una raffica di vento. Mi aspettavo che da un momento all'altro entrasse Vincent Price. Tornai alla macchina, recuperai lo scanner e lo appoggiai sul tavolo della cucina. Più o meno ogni quindici secondi si avvertivano delle voci, ma prive del tono di urgenza che avrebbero avuto se fossero state sul punto di mandare gli elicotteri. Non si sentivano neppure sussurri voluti, per cui, a essere fortunati, non stavano neppure cercando di stanarmi. Ma non potevo esserne certo. La cosa più importante da fare adesso era buttare giù qualcosa di caldo. Il piano di lavoro della cucina si allungava sulla parete alle mie spalle. Mi avvicinai e controllai l'acqua nel bollitore. In attesa che bollisse, osservai Val. Stava ancora tremando ed era seduto così vicino al radiatore da sembrarne una protuberanza. A giudicare dalle rughe del viso doveva aver avuto una vita dura. Ma manteneva i tratti gradevoli degli slavi: zigomi larghi, occhi verdi e capelli castano scuro. Le tempie brizzolate gli davano un'aria importante. Tanto di cappello comunque, il ragazzo sapeva vivere: Mercedes, BG, alberghi di lusso, il meglio delle puttane. Ero invidioso: il mio futuro sarebbe stato identico al mio passato. L'acqua cominciò a bollire mentre aprivo un pacchetto di gallette che avevo trovato sul bancone. Ne addentai una e versai l'acqua nella brocca che conteneva il caffè solubile. Val teneva le ginocchia sollevate e stava cercando di coprirsi interamente con il cappotto. Recuperava colore e con gli occhi seguiva ogni mio movimento. L'equipaggiamento della squadra era contenuto in alcune sacche ammucchiate a sinistra della porta principale. Il piano prevedeva che Sergej e io tornassimo lì una volta consegnato Mucchio di Soldi a San Pietroburgo;
io per proseguire in macchina fino in Svezia e poi in treno verso la Germania; lui per mettere in ordine la casa. Sollevai una sacca di stoffa grezza e la buttai sul tavolo. Infilai la pistola nella fondina ed estrassi una serie di manette di plastica, quindi ne agganciai tre insieme in modo da ottenerne una sola piuttosto lunga. Girai intorno al tavolo e afferrai Val per le spalle, lo trascinai verso il pilastro di centro, e lo spinsi a terra con la schiena contro la colonna. Ammanettai il braccio destro al supporto, poi, con il Leatherman, tagliai le altre manette in modo che il braccio sinistro gli rimanesse libero. A meno che non si trasformasse in Sansone e trascinasse la colonna con sé, non sarebbe andato da nessuna parte. Tornai al tavolo, abbassai lo stantuffo della caffettiera e riempii due grandi tazze di caffè fumante. Gettai una manciata di zollette di zucchero in ciascuna e mescolai con il coltello. Non sapevo come gli piacesse il caffè, ma avevo la certezza che non si sarebbe lamentato. Normalmente lo prendo amaro, ma quella volta avrei fatto un'eccezione. Mi avvicinai a lui e appoggiai la tazza sul pavimento. Fece un brusco cenno di ringraziamento. A lui non potevo dirlo, ma sapevo perfettamente come si sta quando si ha a che fare con i tre pargoli del signor e della signora Morte - bagnato, freddo e fame - e non lo avrei augurato a nessuno. E comunque, il mio compito era tenerlo in vita e non aggravare il suo disagio. Lo scanner continuava a ronzare e andai a sedermi al tavolo di fronte a Val. Dopo un paio di sorsate decisi che era arrivato il momento di cambiarmi. Non mi sentivo a mio agio, e se avessi dovuto entrare in azione non avrei voluto farlo vestito com'ero, con la giacca e le scarpe con le stringhe. Trascinai la sacca sul tavolo e tirai fuori jeans, stivali Timberland, T-shirt, maglia di cotone e una felpa verde Helly Hansen. Mentre mi cambiavo, il ceceno beveva caffè e non perdeva una mia mossa. Avevo la sensazione che si divertisse un mondo nel vedere che non capivo una parola di quanto blaterava lo scanner. Infilai la pistola sul davanti dei jeans e mi sentii molto meglio. Tornai al caffè. Valentin aveva finito il suo e la tazza accanto a lui era vuota. Mi avvicinai con la brocca e le gallette, e Val annuì quando versai altro caffè per entrambi. Sedetti al tavolo e mangiai l'unica banana che Reggie e Ronnie avevano lasciato. Lo scanner continuava a gracchiare e, nel silenzio fra una gracchiata e l'altra, l'unico rumore avvertibile era Val che masticava. Continuavo a pensare a Sergej. Cosa avrei fatto se non fosse venuto?
Non ci avevo ancora pensato. A dire la verità, non avrei voluto che fosse presente al momento del rapimento. La cosa migliore era che restasse con il camion; avevamo tutti un RV con lui per passare il confine, ma lui aveva insistito per essere sul posto nel caso qualcosa fosse andato storto. Probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Ma adesso? Mi colpì un altro pensiero. E se uno dei ragazzi di Sergej fosse rimasto in vita? La polizia non ci avrebbe messo molto a farlo parlare. Smisi di masticare e spostai la tazza. Dovevo andarmene da lì. Mi alzai, afferrai le sacche di Falegname e Incubo e, dalla mia, tirai fuori una giacca a vento rossa e un paio di pantaloni. Misi l'88 e i caricatori nella tasca esterna e lanciai a Val l'attrezzatura anti-freddo di Falegname. Falegname era piuttosto grosso, nessun problema di taglia. Lo lasciai intento a cercare il sistema per infilarsi addosso quella roba con un braccio ammanettato e salii a prendere due piumini doppi. Quando ridiscesi tirai fuori la pistola, lo liberai e feci un passo indietro. «Vestiti!» Urlai, mimando il gesto di infilarsi una giacca. Capì e cominciò a togliersi il cappotto e la giacca dello smoking. Non lo persi d'occhio, pronto a reagire a qualsiasi movimento sospetto. Tutto quello che indossava puzzava di soldi. Le scarpe erano così eleganti che guardai la marca. Inglesi, Patrick Cox. Qualche paia di quelle e avrei pagato le riparazioni del tetto. Gli lasciai il portafoglio; l'avevo controllato e dentro c'erano solo foto ingiallite di bambini vestiti con pagliaccetti. Anche se non mi ero mai fatto irretire da roba di quel tipo, capivo che per la gente erano cose importanti. Dopo poco Val indossava una salopette gialla, una giacca a vento verde, un cappello con grossi pon pon penzolanti, guanti, sciarpa e un paio di stivali pesanti. Tutto di almeno tre taglie più grandi della sua. Era pronto per un ingaggio come animatore infantile. Con la pistola indicai il pilastro. Vi andò sùbito, obbediente. Gli feci capire che volevo che lo abbracciasse, un braccio per parte. Poi fu solo questione di preparare un'altra manetta extra-lunga, una specie di lazo che gli avvolsi intorno ai polsi e tirai forte. Lo lasciai a sistemarsi, presi la torcia e mi diressi nella rimessa in cerca di un paio di pale, una grossa e profonda, di quelle che si usano per spalare la neve dai vialetti, l'altra del tipo normale da costruzione. Le scaricai sul tavolo e infilai la torcia in una tasca della giacca a vento. Val cercava di capire cosa stavo combinando. Mi guardava come mi aveva guardato la sua puttana in albergo. Come se non ci fosse pericolo e
non potesse succedergli nulla di male. Come se si ritenesse estraneo alla situazione. Presi a rovistare negli armadietti alla ricerca di thermos e roba da mangiare. Non era giornata. Sembrava proprio che la tazza di caffè e le gallette sarebbero state le ultime cose che avremmo mangiato per un po'. Sollevai la tazza e finii il caffè rimasto, muovendomi verso di lui. Gli misi in mano la sua tazza e feci segno di bere. Per qualche minuto fu occupato a cercare di bere abbracciato al pilastro, mentre io raccoglievo candele e fiammiferi dall'armadietto sotto il lavandino e li gettavo in una delle sacche. Vi infilai anche i piumini e chiusi la lampo, poi liberai Val con il coltello, facendogli cenno di caricarsi una sacca sulla schiena. Capì quello che intendevo e usò le due maniglie come se fossero le cinghie di uno zaino. Infilai il berretto di lana nero e i guanti da sci, presi le due pale dalla tavola e con quelle gli feci cenno di uscire dalla porta. Lo seguii e spensi la luce lasciando lo scanner sul tavolo. Portarlo con noi ci avrebbe reso rintracciabili. Trattenni Val per prendere le chiavi dalla Volvo. Era l'unico mezzo di trasporto che avevo nei paraggi e volevo avere la certezza che rimanesse dov'era. Oltrepassata la soglia della porta della rimessa, ci avviammo lungo il sentiero che portava al lago, ben tracciato in mezzo alla neve. Era buio pesto là fuori, e faceva un freddo terribile. Il vento era aumentato e la neve ci sferzava le guance. Con un vento del genere gli elicotteri non si sarebbero alzati. 5 A circa trenta metri, lungo la riva ghiacciata del lago, si trovava un piccolo capanno che ospitava una sauna con fuoco a legna. Davanti al capanno, un pontile di legno alto circa un metro si estendeva sul ghiaccio. Il ceceno continuava a camminarmi davanti, chinato e mezzo di traverso per proteggere il viso dalle sferzate della neve. Giunto alla sauna si fermò, forse in attesa che gli facessi segno di entrare. Invece lo feci girare a destra. Obbedì e avanzò per circa un metro sopra il pontile. «Okay. Fermo lì», urlai. «Stop, stop, stop.» Si voltò e con la pistola indicai la superficie ghiacciata del lago. Mi guardò, perplesso. «Giù. Sul ghiaccio, sul ghiaccio.»
Molto lentamente si abbassò e si sedette nella neve, poi scivolò in avanti tastando il ghiaccio per accertarsi che avrebbe retto il peso. Ero certo che avrebbe retto. Nelle ultime due settimane avevo trafficato parecchio su quel lago. Quando si rialzò gli feci cenno di allontanarsi a distanza di sicurezza mentre scendevo a mia volta, caso mai avesse deciso che di quel gioco si era stufato e volesse giocare a «rubo la macchina e me ne torno a casa». Lo pungolavo con le pale per farlo avanzare e procedemmo paralleli alla costa. In quel modo non avremmo lasciato impronte intorno alla casa, anche se eravamo allo scoperto per quanto riguardava il vento. Si trattava di rimanere abbassati e coprire i centocinquanta metri che ci separavano dagli alberi. Una volta all'altezza degli alberi, proseguimmo ancora per qualche metro e poi lo fermai con un urlo. Si voltò in attesa di istruzioni, la testa piegata contro le raffiche di vento che spazzavano il lago. Respirava affannosamente e riuscii a stento a distinguere i contorni del viso mentre indicavo gli alberi sulla nostra destra. Si voltò e iniziò a camminare. Adesso il vento ci investiva alle spalle. Sulle prime, la neve non rappresentò un problema, non era alta più di sessanta centimetri, ma presto ci arrivò all'altezza dei fianchi. La fatica di aprire il solco era tutta sua; io mi limitavo a seguire le impronte dei suoi scarponi che affondavano scricchiolando fino a incontrare la superficie compatta, poi si sollevavano e ripetevano l'operazione dall'inizio. Avanzammo per altri cinquanta metri, a una decina dall'inizio degli alberi, una distanza sufficiente. Da lì la casa si vedeva perfettamente. Avevo trascorso l'infanzia in condomini alla periferia sud di Londra, e per me la campagna significava un posto verde pieno di animali che ancora non erano stati congelati o cotti. Tutte quelle storie su trappole e roba del genere che ci avevano propinato nel Reggimento non m'interessavano più di tanto. E infatti avevo dimenticato quasi tutto. Non avevo mai sentito il bisogno di andarmene in giro con un cappello fatto con la pelliccia di un coniglio appena scuoiato. Ma l'arte di costruire rifugi era qualcosa che mi era rimasto da qualche parte nella testa. Avevo un vago ricordo del fatto che doveva esserci uno spazio fra i rami bassi delle conifere e il livello della neve. Individuai quello che sembrava l'albero più grande della foresta e infilai con forza la pala più grossa nella neve, vicino al punto in cui i rami più bassi scomparivano. Arretrai in modo che non potesse colpirmi e feci segno a Val di togliersi la sacca. Non si lamentò. Gli allungai l'altra pala.
Non ebbe bisogno di ulteriori incoraggiamenti. Il vento soffiava forte e mi schiacciava la giacca contro il corpo. Se volevamo restare vivi là fuori, dovevamo fare in fretta. La temperatura era già molto bassa, ma l'effetto del vento gelido la portava ben al di sotto del punto di congelamento. È vero, fino a poco prima indossava un vestito da sera e stava per andare a teatro, ma era chiaro che sapeva cosa fosse la fatica fisica. Lo capisci subito quando qualcuno sa come si maneggia una pala. Lavorava con metodo, senza fretta, probabilmente sapeva che era meglio non sudare troppo perché il sudore gli si sarebbe congelato addosso. Dopo un po' smise di scavare, s'inginocchiò e iniziò a togliere la neve con le mani coperte dai guanti; poi scomparve nella caverna. Ricomparve pochi minuti dopo. Fui quasi certo di scorgere un accenno di fierezza nel suo sorriso sotto il cappello. Gli indicai di rientrare e gettai dentro le sacche. Prima di raggiungerlo tirai indietro l'indice del guanto destro e liberai il dito del grilletto. Anche questo paio aveva ricevuto lo stesso trattamento di quelli usati durante l'azione. Lo seguii entrando di testa, l'88 in posizione, e quando fui al coperto accesi la torcia. All'interno c'era posto per tre persone accucciate; una volta dentro rotolai fino a sedermi, la pistola sempre puntata. Mi misi la torcia in bocca. Era di nuovo tempo di manette. Ne tirai fuori un paio, infilai la pistola nel collo di Val e questa volta l'affondai direttamente nella pelle. Ammanettai la mano sinistra al ramo che aveva sopra la testa. Mentre tiravo per agganciare la plastica ci cadde addosso un po' di neve. Entrambi scuotemmo il capo per scrollarla via. Con il braccio allungato sopra la testa, seduto contro l'albero, Val sembrava uno scimpanzé. Tirai fuori candela e fiammiferi. La candela risultò molto più luminosa del normale grazie alle pareti candide che ne riflettevano il bagliore. Strisciai verso il buco di entrata, portai dentro le pale e ne usai una per ammassare neve sull'ingresso. Avrebbe tenuto il vento all'esterno. Era ora di pensare al resto. Svuotai le sacche e allargai i piumini sul terreno. Il contatto diretto con la neve avrebbe fatto scendere la temperatura dei nostri corpi venti volte più velocemente. Secondo, con la mano guantata lisciai le pareti del nostro buco in modo che, quando il caldo fosse salito, la neve sciogliendosi non avrebbe preso a sgocciolarci addosso come pioggia. Quindi scavai un piccolo canale intorno al bordo in modo che, se qualcosa avesse cominciato a sciogliersi, sa-
rebbe scivolata lungo il canale, ricongelandosi. In situazioni simili, il cinque per cento di sforzo extra si traduce nel cinquanta per cento di comfort in più. Il vento non costituiva più il rumore dominante. Il fruscio degli indumenti di nylon, il tirar su con il naso e i colpi di tosse avevano preso il suo posto. La caverna stava assumendo l'aspetto di un bagno turco e il nostro fiato restava sospeso come una nuvola nello spazio ristretto. Usando il manico di una pala, scavai un piccolo tunnel. Avevo bisogno di poter guardare verso la casa, così come avevamo bisogno di ventilazione. La luce della candela non poteva essere vista direttamente dalla casa perché era molto in basso e all'interno dell'alcova; dovevo solo sperare che neppure il bagliore dell'ambiente potesse essere scorto, perché non avrei potuto farne a meno. Anche il piccolo calore prodotto dalla fiamma della candela avrebbe contribuito a mantenere la temperatura al di sopra del punto di congelamento. M'inginocchiai e guardai in direzione della casa; be', da qualche parte nel buio doveva esserci di sicuro. Anche se ero ben coperto e sotto di me c'era un minimo di isolamento, il mio corpo quasi immobile continuava a essere freddo. Cambiai posizione in modo da mettermi più comodo e riuscire ugualmente a guardare all'esterno. Val continuava a studiarmi. Come minimo erano passate un paio d'ore, fredde e noiose; io ascoltavo il vento, Val continuava a muoversi per non perdere sensibilità nel braccio. Improvvisamente disse: «I Maliskia devono averti offerto un bel po' di soldi per tenermi in vita. Evidentemente per loro costituisco una minaccia maggiore di quanto pensassi». Mi girai, stupefatto. Aveva una voce chiara e tranquilla. Sorrideva. La mia reazione lo aveva soddisfatto. «Adesso che sei rimasto da solo, immagino che ti sarà piuttosto difficile portarmi fuori dal Paese, ovunque i Maliskia ti abbiano detto di portarmi.» Fece una pausa. «San Pietroburgo?» Rimasi in silenzio. Aveva perfettamente ragione: ero nella merda fino al collo. «Suppongo che tu abbia un nome.» Mi strinsi nelle spalle. «Mi chiamo Nick.» «Ah, Nicholas. Inglese?» «Esatto.» Tornai a guardare fuori. «Dimmi, Nicholas, quanto ti hanno offerto i Maliskia? Un milione di
dollari? Lascia che te lo dica, per loro io valgo molto di più. Che cos'è un milione? A Londra non ci compri neppure un appartamento decente. Lo so io, che ne ho tre.» Continuai a guardare nel buco. «Non ho idea di chi siano questi Maliskia; dal nome direi russi, ma io sono stato ingaggiato a Londra.» Si mise a ridere. «Londra, New York, che cosa importa? Sono stati loro... Desiderano moltissimo incontrarsi con me.» «Chi sono?» «Quello che sono io, ma decisamente molto più pericolosi, te lo garantisco.» Si sollevò sulle ginocchia e una piccola pioggia di ghiaccio cadde dal ramo che aveva appena smosso. Non riuscivo a immaginare niente di più pericoloso. Il crimine organizzato russo stava allargando il suo potere su tutto il mondo, a un ritmo di crescita molto più veloce di qualsiasi altra organizzazione criminale nella storia del genere umano. Prostituzione, estorsioni, bombe negli alberghi, acquisto di sottomarini della marina russa per il contrabbando di droga. Tutte le diverse bande e fazioni s'infiltravano ovunque a suon di miliardi di dollari. Quella gente stava facendo tanti soldi che Bill Gates e Richard Branson al confronto sembravano pronti per il sussidio di disoccupazione. Tanti soldi e tanto potere. Ovvio che fra i diversi gruppi non ci fosse pieno accordo. Per un po' restammo in silenzio, mentre io continuavo a controllare la casa. Poi Val parlò di nuovo. «Nick, ho da farti una proposta che potrebbe interessarti.» 6 Non risposi. Continuai a guardare la casa. «È una proposta molto semplice: tu mi lasci andare e io ti ricompenserò in modo generoso. Non so che progetti tu abbia adesso. Conosco però i miei, che sono di restare vivo e in libertà. E sono disposto a pagarti per questo.» Mi voltai a guardarlo. «E come? Nel portafoglio hai solo delle fotografie.» Ebbe un gesto di rimprovero come un padre che si rivolge a un figlio disobbediente. «Nick, correggimi se sbaglio, ma adesso che il colpo è fallito, penso che tu voglia andartene da questo Paese il più presto possibile. Liberami, torna a Londra e lì avrai i tuoi soldi. Uno dei miei appartamenti è a
nome di P.P. Smith.» Sorrise come se trovasse buffo il nome. «L'indirizzo è Palace Gardens, numero 3a, Kensington. Vuoi che lo ripeta?» «Non ce n'è bisogno.» Conoscevo la zona e non mi sorpresi. Era piena di russi e arabi, gente che navigava nell'oro. Possedevano appartamenti che valevano milioni e li usavano una volta ogni morte di papa. «Diciamo che fra un paio di giorni e per l'intera settimana successiva, da mezzogiorno alle quattro di pomeriggio, a quell'indirizzo ci sarà qualcuno. Vacci e riceverai centomila dollari americani.» Una goccia di ghiaccio sciolto mi colpì su una guancia. Raccolsi una manata di neve e la passai sopra il punto di gocciolamento. Il mio umore era nero come la notte che stavo fissando. Cosa cazzo stavo facendo lì a congelare in quel buco di neve? Avevo mezzo milione di dollari seduto insieme con me, per aver fatto qualcosa che la Ditta mi avrebbe pagato al massimo un paio di centoni al giorno. Ma non potevo raccoglierli. L'unica speranza che avevo di entrarne in possesso era riposta in Sergej. Ma chissà dove cazzo era. Val sapeva quando parlare e quando tacere perché uno avesse il tempo di riflettere. Mi voltai e fissai la casa per un'altra ora circa. Mi sentii ancora più congelato e depresso. Mi stavo lentamente convincendo che se Sergej non fosse saltato fuori, avrei dovuto accettare la proposta di Val. In fondo perché no? Non avevo niente da perdere, e avevo un disperato bisogno di soldi. All'inizio sentii soltanto l'eco lontana di un motore. Era nascosto fra gli alberi, da qualche parte sul sentiero, e si faticava ad avvertirlo a causa del vento. Poi fra gli alberi comparvero dei fari che si dirigevano verso la casa. Via via che l'auto avanzava lungo la strada sterrata, il rumore cresceva d'intensità. Era una 4x4, con il motore al minimo. Sergej? Impossibile da quella distanza capire se fosse la Nissan. Anche Val aveva sentito e restava immobile per non fare rumore con la giacca e disturbare l'ascolto. Vidi i fari illuminare per un attimo la casa prima di svoltare nella rimessa e spegnersi. Sentii sbattere una sola portiera. Spostai lo sguardo alle finestre ma non vidi niente. Scivolai verso Val che si lasciò controllare le manette. Andava tutto bene e, a meno che non avesse una lima nascosta da qualche parte, non se ne
sarebbe andato. Comunque, mi pentii di non aver portato il nastro adesivo per tappargli la bocca in caso gli fosse venuto in mente di chiamare aiuto. Attese che spegnessi la candela, così che non potesse usarla per bruciare le manette di plastica, e che cominciassi a incunearmi verso l'uscita attraverso la neve, poi sparò: «Nick?» Mi fermai, senza voltarmi. «Cosa?» «Mentre vai dai tuoi amici pensa a quello che ti ho detto. La mia offerta non solo è più conveniente, ma anche, se me lo consenti, più sicura.» «Vedremo.» Mi issai nel vento e cominciai a pensarci davvero, grato comunque che Val non si fosse messo a urlare e a sbraitare. Sapeva quello che stava per succedere. Se alla casa c'era Sergej, Val poteva tenersi la sua offerta. Il mattino successivo saremmo stati a San Pietroburgo, io avrei avuto i miei soldi e imboccato poi la via di Londra. Adesso il vento mi sferzava la faccia, facendomi lacrimare gli occhi. Sentivo le lacrime diventare ghiaccio. Gli alberi scricchiolavano nella tormenta. Mentre tentavo di non perdere di vista la casa e il terreno circostante, la neve, mulinando come impazzita, mi aggrediva la pelle scoperta del collo e del viso. Avanzai a fatica per altri venti metri e controllai nuovamente la casa. Le luci al secondo piano erano accese, ma all'interno continuavo a non vedere movimenti. Mi avvicinai ancora, cercando di resistere all'idea che fosse Sergej, anche se la prospettiva che quel lavoro stesse per finire rendeva il vento meno forte. Arrivato all'altezza della sauna, sul lago, liberai dal guanto il dito del grilletto ed estrassi l'88. Era decisamente troppo buio per distinguere qualcosa a occhio nudo, così controllai la cassa con il dito libero e mi accertai che il caricatore fosse ben agganciato. Poi risalii l'argine e avanzai in posizione semicurva fino alla porta della rimessa. Ero ansioso di entrare in contatto con Sergej, ma dovevo procedere con calma. Mi sarei sentito al sicuro solo quando l'avessi visto con i miei occhi. Rimasi in ascolto dietro la porta. Nessun rumore, se non quello del vento che premeva con forza contro la porta chiusa. Mantenendomi alla destra dello stipite, girai la maniglia metallica e il vento fece il resto. Per mia fortuna la base sfregò sul terreno, che le impedì di andare a sbattere contro la catasta di legna. Mi misi carponi nella neve e infilai la testa all'interno. La Nissan era parcheggiata a fianco della Volvo, la luce del pianterreno
si rifletteva sul tetto. Le cose sembravano andare per il meglio, ma non era ancora il caso di mettermi a saltare dalla gioia. Ispezionai la rimessa e controllai che nella Nissan non ci fosse nessuno. Poi spinsi la porta. Al riparo dalle raffiche del vento, il freddo era meno intenso. Il portone della casa era chiuso, ma il bagliore di luce che proveniva dalla finestra mi avrebbe reso visibile se qualcuno fosse uscito. Mi spostai a destra dello stipite e appoggiai l'orecchio alla porta. Non sentii alcun rumore. Aggirai la Nissan e guardai attraverso la finestra. Non c'era bisogno di avvicinarsi al vetro per vedere all'interno; è sempre meglio restare indietro e servirsi di ogni riparo disponibile. Mi sentii mancare. Falegname. Ancora con il vestito di scena, ma senza cravatta e senza cappotto. Stava prendendo alcune pasticche da un tubetto di metallo e le ingoiava scrollando energicamente la testa per inghiottirle. Il mini-Uzi era in vista, appeso sopra la giacca e dondolava sotto il braccio destro; sulla schiena le cinghie dell'imbracatura formavano delle pieghe nella stoffa. Si muoveva nella stanza apparentemente senza scopo e a volte finiva fuori campo. Poi lo vidi stringere nella mano enorme la pallina e il nastro adesivo che avevo usato per Val. Li avvicinò al viso per un attimo, e, non appena ebbe capito a che cosa erano serviti, li scaraventò a terra. Afferrò le sedie e le sbatté contro il muro, prendendo a calci i nostri cappotti in giro per la stanza. Un bambino di due anni che faceva i capricci. Non era difficile interpretare quello che gli stava passando per la testa. Probabilmente pensava che me ne fossi andato con Val verso il confine, mollandolo nei casini. Avrei pensato la stessa cosa. Quindi nessuna meraviglia se gettava i suoi giocattoli dal passeggino. Dopo le sedie toccò al tavolo, mentre la miscela di narcotici e rabbia gli mandava in vacca il cervello. Non c'era più motivo di considerare le alternative che avevo. Aveva deciso lui per me. Mi diressi verso la porta esterna e lo lasciai solo. Attraversai il lago ghiacciato voltandomi ogni dieci metri per controllare e dopo parecchi minuti vidi i fari nell'oscurità che si allontanavano dalla casa e si dirigevano verso gli alberi. Cosa cazzo stava facendo Falegname? Probabilmente non lo sapeva neppure lui. Con le gambe allargate e leggermente piegato per contrastare le raffiche di vento, mi fermai a guardare finché i fari non scomparvero nella notte. La tentazione di tornare in casa e aspettare era forte, ma Falegname poteva
decidere di tornare e incasinare la situazione, e comunque c'era sempre la polizia di cui preoccuparsi. Continuai ad avanzare verso il buco di neve mantenendomi parallelo alla riva. Raggiunti gli alberi, riuscivo a vedere un intero lato della casa. Falegname aveva lasciato le luci accese, ma alle finestre del pianterreno c'era qualcosa che non andava. Impiegai un secondo o due a capire cos'era. Senza preoccuparmi delle tracce che lasciavo mi misi a correre in linea retta verso la casa più velocemente possibile, di tanto in tanto sprofondando nella neve fino al torace. Ci mettevo tanta energia che avevo l'impressione di non riuscire ad andare avanti. Come nei sogni ricorrenti di quando ero ragazzo: correvo e correvo per raggiungere qualcuno, ma non correvo mai abbastanza veloce. Quando fui vicino vidi la vampa delle fiamme e il fumo che si riversava all'esterno attraverso un vetro rotto. Uno strato denso si stava raccogliendo contro il soffitto in cerca di altre via di fuga. Me ne fottevo della casa, era la Volvo che m'interessava. Raggiunsi la rimessa quando già si sentivano gli scoppi del legno mal stagionato e le sirene di merda dell'impianto antincendio. La porta verso la casa era aperta e il fumo fuoriusciva dalla parte alta della cornice. Falegname era stato abbastanza furbo da pensare che il fuoco si alimentava con l'ossigeno. O forse non aveva pensato a un cazzo. Non importava. Importava solo che avesse preso maledettamente bene. Raggiunsi la macchina. Il calore mi strinava la schiena nonostante la giacca a vento. La casa all'interno era una fornace. Nel momento in cui infilai la chiave nella serratura ci fu una raffica di scoppi come di mitragliatrice. Bombolette di chissà cosa che il calore faceva scoppiare. Uscii con calma dalla rimessa. Non avrebbe avuto senso sgommare come un pazzo per ritrovarmi impantanato nella neve. Volevo solo allontanarmi di quel tanto perché la Volvo non prendesse fuoco. Dopo tre manovre avanzai per circa cinquanta metri sulla strada sterrata e spensi il motore. Saltai fuori con le chiavi e corsi come un pazzo verso il rifugio in mezzo agli alberi. Di nuovo la sensazione di essere dentro quel sogno. Mentre raggiungevo il nascondiglio distinguevo con chiarezza il riflesso della mia ombra sulla neve. Le fiamme stavano avendo la meglio sul fumo. Scivolai dentro il buco nella neve, tirai fuori il Leatherman, trovai le manette e iniziai a liberare Val, poi lasciai che continuasse da solo e uscii. Mi seguì quasi subito e insieme restammo a osservare l'edificio in fiamme.
Inaspettatamente iniziò a cercare di consolarmi. «È tutto a posto, sapevo che non mi avresti abbandonato. Valgo troppo, giusto? E adesso ancora di più. Suggerirei di andarcene di qui, e anche di farlo in fretta. Non ho nessuna intenzione di incontrare le autorità, esattamente come te. Sarebbe davvero sgradevole.» Ma che razza di uomo era? Il suo cuore superava mai i dieci battiti al minuto? Aveva capito che qualsiasi cosa fosse successa là fuori, ogni mio impulso a mettermi in contatto con i membri della squadra si era dissolto; non aveva più bisogno di convincermi a lasciarlo libero. Sapeva che non avevo scelta. La Volvo era bene in vista alla luce del fuoco. Le fiamme non avevano ancora intaccato le pareti. Per il momento si limitavano a lambirle attraverso i vetri, come affamate. Vicino alla macchina lo feci fermare, gli passai il Leatherman e andai ad aprire il baule, urlandogli di tagliare il cordoncino della giacca. Anche a quella distanza il calore del fuoco mi bruciava la faccia. Si tastò, trovò il cordino di nylon con cui potevo legargli i polsi e prese a tagliare. Quando le fiamme iniziarono a intaccare la struttura della casa ci furono dei boati. Val guardava le fiamme e, al rumore del bagagliaio che si apriva, disse: «Per favore Nick, questa volta in macchina, fa molto freddo lì dentro». Era una richiesta, non un ordine. «E poi, ti assicuro che preferisco la tua compagnia a quella della ruota di scorta.» Feci un cenno di assenso e si sistemò per terra davanti ai sedili posteriori, mi restituì il coltello e mi porse le mani. Le legai con il cordino alla base del freno a mano, in modo che rimanessero bene in vista. Ce ne andammo, lasciando che il fuoco compisse il suo corso. Forse non era una cosa del tutto negativa; per lo meno non sarebbero rimaste prove della mia permanenza in quel posto. Non c'era traccia di Falegname, né di nessun altro, sulla strada tutta buche che portava alla catenella. La lasciai a terra come la trovai, come avvertimento per Sergej. C'era ancora una possibilità che fosse riuscito a scappare. Nel parcheggio dell'albergo gli Hilux erano due; forse aveva preso l'altro. Era troppo tardi per pensare che potesse ancora portarci fuori dal confine, ma mi ritrovai a sperare che non lo avessero preso. Era un tipo in gamba, ma 'fanculo, adesso stavo giocando una partita nuova, una partita che non aveva niente a che fare con nessuno di loro. Avevo perso, dovevo farmene una ragione. Adesso mi toccava vederme-
la con Val. «Ti lascio a una stazione ferroviaria», dissi mentre ci dirigevamo verso Vaalimaa. «Ti arrangerai da solo.» «Nessun problema. I miei uomini mi tireranno fuori in fretta.» Nella sua voce non c'era traccia di emozione. Sembrava la versione russa di Jeeves. «Posso darti un consiglio?» «Perché no?» Tenevo gli occhi fissi alla strada, diretto all'autostrada oltre la città. Non vedevo niente se non la neve ammucchiata ai bordi della strada. Il vento soffiava così forte che dovevo continuare a raddrizzare il volante. Era come se una raffica artica attraversasse la carreggiata. «È chiaro che devi lasciare in fretta il Paese, Nick. Posso suggerirti l'Estonia? Da lì puoi prendere facilmente un volo per l'Europa, oppure un traghetto per la Germania. Dopo quanto è successo all'albergo, solo un pazzo potrebbe pensare di prendere un volo da Helsinki, o passare per la Svezia.» Non risposi. Continuai a fissare la neve illuminata dai fari. Dopo poco più di due ore arrivammo a Puistola, uno dei sobborghi di Helsinki. Non che si vedesse molto: mancavano quattro ore all'alba. Di lì a poco la gente si sarebbe svegliata e al tavolo della colazione avrebbe sentito i notiziari parlare della sparatoria all'OK Corrai. Cercai dei cartelli che indicassero la stazione. L'ora dei pendolari, se mai ce n'era una, sarebbe cominciata dopo un paio d'ore. Posteggiai e lo liberai dal freno a mano. Sapeva di dover stare fermo e aspettare il mio ordine per muoversi. Era vicino alla libertà, perché compromettere tutto? Uscii dall'auto e mi spostai di qualche passo, la pistola nella tasca del piumino. Si trascinò fuori e restammo tutti e due in piedi, nel buio, fra le macchine dai tetti ghiacciati, mentre lui cercava di rendersi presentabile sistemandosi i vestiti e passandosi una mano fra i capelli. Continuava ad avere un'aria ridicola con la salopette di Falegname e la giacca a vento. Batté le mani per far riprendere la circolazione, e dopo un po' ne allungò una verso di me. Lo salutai con un cenno della testa, lui comprese e annuì. «Grazie, Nick. Mi hai liberato e avrai i tuoi soldi. P.P. Smith. Ti ricordi il resto?» Certo che lo ricordavo. Tenevo gli occhi fissi nei suoi. Stavo per aggiungere che se mi avesse tirato una fregatura lo avrei scovato e lo avrei ucciso. Poi mi resi conto che sarebbe stato come dire a Gengis Khan di sta-
re in guardia. Sorrise. Ancora una volta stava leggendo nei miei pensieri. «Non preoccuparti, vedrai che sono un uomo di parola.» Si voltò e si avviò verso la stazione. Lo osservai. I suoi passi scricchiolavano nella neve, il fiato lo seguiva. Dopo una dozzina di passi, si fermò e si voltò. «Nick, una richiesta. Non portare cellulari o cercapersone quando vai a Kensington, nessun congegno elettronico. Non lavoriamo così. E ancora grazie. Ti assicuro che non rimpiangerai niente di quello che è successo.» Mi accertai che non fosse più in vista, poi tornai in macchina. 7 Norfolk, Inghilterra Venerdì 10 dicembre 1999 La suoneria della sveglia vicino al letto scattò alle sette in punto, con un suono che scambiai per un allarme antifurto. Rotolai in avanti, ma mi ci vollero tre tentativi per fermarla con la mano ancora dentro il sacco a pelo. Nel momento esatto in cui misi fuori la testa mi resi conto che la caldaia era di nuovo rotta. Casa mia era un po' più calda del buco nella neve in Finlandia, ma non poi tanto. Un'altra cosa da risolvere, insieme con coperte, lenzuola e una parvenza di struttura di letto da mettere sotto il materasso su cui ero sdraiato. Dormivo con un paio di pantaloni Ron Hill e una maglietta di cotone. Non era la prima volta che la caldaia andava in blocco. Mi avvolsi nel sacco a pelo aperto e infilai i piedi nelle scarpe da jogging schiacciando i talloni. Andai di sotto, trascinando il sacco a pelo sul pavimento. Il mio lavoro mi aveva portato a trascorrere gran parte della vita bagnato, congelato e affamato, e odiavo provare le stesse sensazioni nel tempo libero. Quello era il primo posto che possedevo, e le mattine d'inverno assomigliavano troppo ai risvegli dentro una siepe nel distretto sud di Armagh. Non era così che doveva andare. La casa era nelle stesse condizioni in cui l'avevo lasciata due settimane prima per presentarmi all'RV con Sergej nella casa sul lago, tranne per il telo di plastica volato via dal buco sul tetto e per il cartello VENDESI abbattuto dal vento. Del resto, se fosse restato in piedi ancora un po', avrebbe
messo le radici. Ma quel giorno non avevo tempo per pensare a niente di tutto ciò. Nel giro di poche ore mi attendevano a Londra tre incontri di vitale importanza. Tre incontri che non potevano aspettare l'arrivo dell'idraulico. Il ritorno in Inghilterra era durato tre giorni. Avevo deciso di fare di testa mia piuttosto che seguire il consiglio di Val e uscire dalla Finlandia passando dall'Estonia. Visto che non eravamo così intimi da scambiarci lo spazzolino da denti, non me la sentivo di dar credito a ogni sua parola. Ero andato in macchina fino a Kristiansand, in Norvegia, da dove avevo preso un traghetto per Newcastle pieno di studenti norvegesi. Mentre loro si ubriacavano avevo guardato il telegiornale. C'era un servizio sull'Intercontinental, con la polizia che effettuava rilevamenti alla ricerca di indizi. Poi erano apparse le fotografie dei morti. C'era anche quella di Sergej. Una portavoce del governo finlandese stava rilasciando dichiarazioni alla stampa. Sosteneva che si era trattato del peggiore incidente cui si fosse mai assistito nel Paese dal 1950, ma si rifiutò di confermare che nella sparatoria fosse coinvolto il crimine organizzato russo, preoccupandosi invece di sottolineare che non esistevano collegamenti con la conferenza europea né pericoli per il suo svolgimento. Per quanto li riguardava, la conferenza non c'entrava assolutamente. Scesi le scale in legno grezzo, badando che il sacco a pelo non si impigliasse nei chiodi delle assi rimasti scoperti da quando avevo tolto la moquette. La casa era un'area disastrata dal fai da te. Da sempre, vale a dire dal momento in cui l'avevo comprata, nel 1997, quando, di ritorno dagli Stati Uniti, avevo portato Kelly con me. In teoria era una meraviglia, sulla costa del Norfolk, completamente isolata. C'era una piccola cooperativa e tre pescherecci che lavoravano appena fuori dal porticciolo. Il momento culminante della giornata si aveva quando i pensionati della zona salivano sulla navetta gratuita che li portava a un supermercato a una decina di chilometri, dove facevano la spesa grossa. L'agente immobiliare doveva essersi fregato le mani quando mi aveva visto arrivare. Unifamiliare del 1930, tre camere da letto, intonaco rovinato, a duecento metri da una spiaggia ventosa, era disabitata da diversi anni, da quando il proprietario precedente era morto, probabilente di freddo. L'annuncio diceva: NECESSITA DI ALCUNE RISTRUTTURAZIONI, POTENZIALMENTE MAGNIFICA. In altre parole, completamente da rifare. Il mio progetto era di sventrarla e ricostruirla. La fase di smantella-
mento era stata completata, in effetti mi ero anche divertito. Ma, dopo essermi rotto le scatole di una processione di impresari che avevano sputato avidi preventivi e aver deciso che avrei fatto da solo, avevo perso ogni entusiasmo. Così, adesso, la casa era tutta tavole grezze, chiodi e budella di fili elettrici di cui non capivo il senso che pendevano dalle pareti. Adesso che ero responsabile di Kelly, mi era sembrato il momento giusto per appagare il sogno di possedere una casa vera. Ma, non appena firmato il contratto, cominciai a sentirmi in prigione. Quando ero arrivato, la sera precedente, avevo chiamato il posto a Hampstead dove si occupavano di lei. Mi avevano detto che dall'ultima volta che l'avevo vista non c'erano cambiamenti. Fui felice di sapere che stava dormendo; così non dovevo parlarle. Ne avevo voglia, ma non sapevo mai cosa diavolo dirle. Ero stato a trovarla il giorno prima di partire per la Finlandia. Mi era sembrato che stesse bene, non urlava o cose del genere, era calma e stranamente indifesa. La cucina era più o meno nelle stesse pessime condizioni del resto della casa. C'era ancora il vecchio arredamento di formica gialla, annata 1962. Doveva andare ancora per un po'. Misi il bollitore sul fornello, sistemai meglio il sacco a pelo sulle spalle e uscii nel portico per vedere se c'era posta. Non l'avevo trovata impilata sul mobile di cucina come mi aspettavo. Mi chiesi anche come mai durante la mia assenza l'incerata non fosse stata sostituita. Non possedevo ancora una cassetta per la posta, ma per il momento un contenitore blu con apertura a pedale poteva bastare. Molto finlandese, pensai. C'erano quattro buste, tre fatture e un biglietto. Riconobbi la calligrafia, e ancor prima di leggere capii che ero sul punto di essere scaricato. Caroline aveva preso a venire di tanto in tanto per controllare la situazione, ritirava la posta e controllava che le pareti non fossero crollate durante le assenze dovute al mio lavoro di rappresentante. Era sulla trentina e viveva al villaggio. Il marito non viveva più con lei, a quanto pareva metteva troppo whisky nella soda. Le cose fra noi non potevano andare meglio; lei era gentile e attraente, e ogni volta che ero in zona stavamo insieme un pomeriggio o due. Ma da un paio di mesi aveva cominciato a chiedere una relazione più seria di quanto non fossi disponibile a offrirle. Aprii il biglietto. Indovinato: visite e servizio posta erano finiti. Peccato, lei mi piaceva, ma forse era meglio così. La faccenda si stava facendo troppo complicata. Una ferita d'arma da fuoco allo stomaco, un lobo dell'orecchio ricostruito, una cicatrice da morso di cane sull'avambraccio sono
difficili da spiegare, qualsiasi storia ti inventi. Con un intruglio grumoso di acqua calda e latte in polvere, salii al piano di sopra verso la stanza di Kelly. Mi fermai prima di aprire la porta, e non certo per il buco sul tetto. Là dentro c'erano alcune cose che avevo fatto per lei, non tante quante avrei desiderato, ma avevano il vizio di farmi pensare a come avrebbero potuto essere le nostre vite. Girai la maniglia. Durante la mia assenza doveva esserci stato più vento che pioggia, perché la macchia sul soffitto non era umida. La tenda blu per due persone era ancora al suo posto in mezzo alla stanza. Per fissarla, al posto dei picchetti, avevo piantato dei chiodi nelle assi del pavimento. Ormai si erano arrugginiti, ma non mi decidevo a toglierla. Sulla mensola del camino c'erano due fotografie, con cornici di legno da poco prezzo, che avevo promesso di portarle alla visita successiva. Una di lei con tutta la sua famiglia - Kev, Marsha e la sorella Aida - sorridenti davanti a un barbecue fumante. Era stata scattata circa un mese prima che li trovassi uccisi da una mitragliata in casa loro nella primavera del '97. Certo che le mancava quella foto, era l'unica decente che possedeva. L'altra era di Josh con i figli. Era recente, sul volto Josh aveva una cicatrice di cui un neo-nazi sarebbe andato molto orgoglioso. Ritraeva la famiglia all'esterno della Sezione addestramento operazioni speciali del Servizio segreto americano a Laurel, nel Maryland. La cicatrice rosa scuro partiva dal lato destro della guancia e arrivava fino all'orecchio, come il sorriso di un clown. Non avevo più avuto nessun contatto con lui da quando, nel giugno del '98, il suo volto aveva cambiato i connotati per colpa della mia stupidità. Lui e io continuavamo ad amministrare quanto restava del fondo fiduciario di Kelly, ma essendo io il tutore legale, me ne addossavo sempre di più il carico finanziario. Josh era a conoscenza del problema, ma ormai comunicavamo solo per lettera. Era l'ultimo vero amico che avevo, e speravo che un giorno sarebbe riuscito a perdonarmi di aver quasi provocato la morte sua e quella dei suoi figli. Era ancora troppo presto per andare a scusarsi, per lo meno era quello che dicevo a me stesso. Ma più di una volta mi ero svegliato a notte fonda ammettendo il vero motivo: non riuscivo ad affrontare tutto quel dolore e tutti quei sensi di colpa in una volta sola. Avrei voluto, ma non ne ero capace. Mentre prendevo le foto per Kelly, capii perché io non ne possedevo. Mi avrebbero fatto pensare alle persone che ritraevano. Ci misi una pietra sopra, promettendo a me stesso che ristabilire i contat-
ti con Josh sarebbe stata la prima cosa che avrei portato a termine nell'anno nuovo. Entrai in bagno e aprii l'acqua nella vasca color ranuncolo. Avevo un piccolo debole per le piastrelle di polistirolo, adesso marroncino chiaro per via degli anni, che rivestivano il soffitto. Ricordavo il mio patrigno che le metteva quando ero bambino. «Queste faranno rimanere il caldo all'interno», aveva detto, poi la mano gli era scivolata e il pollice aveva lasciato un'ammaccatura. Ogni domenica sera, quando facevo il bagno, gettavo il sapone verso il soffitto per dare il mio personale contributo. Tornai in camera e appoggiai le foto di Kelly sul materasso per essere sicuro di non dimenticarle. Finii di bere, poi cercai in uno dei cartoni i pantaloni in pelle da motociclista. Controllai l'acqua e decisi che era giunto il momento di entrarci, ma non prima di aver acceso la radiolina, sempre sintonizzata su Radio 4. La sparatoria rimaneva ancora fra i titoli di testa. Un «esperto» del crimine organizzato russo dichiarò agli ascoltatori del programma Today che c'erano tutte le caratteristiche di un regolamento di conti fra clan rivali. Proseguì dicendo che era certo che sarebbe successo e che, naturalmente, sapeva chi erano i responsabili. Tuttavia non poteva fare i nomi. Godeva della loro fiducia. Sue Mac Gregor non sembrò particolarmente colpita. Io neppure. In acqua guardai il Baby G. Ancora dieci minuti, poi dovevo muovermi. L'ordine del giorno era il seguente: ore 11.30, primo incontro con la dottoressa nel suo studio per parlare dei progressi di Kelly, e successive menzogne all'ufficio contabilità della clinica circa i motivi che m'impedivano di pagare la retta. Non credo che avrebbero capito se avessi detto loro che sarebbe andato tutto a posto se un matto di russo, di nome Falegname, non avesse mandato a farsi fottere il mio conto corrente. L'incontro successivo era in Ditta, con il colonnello Lynn. Non morivo dalla voglia di affrontare quella conversazione. Detestavo dover implorare. La terza fermata in programma era all'appartamento 3a di Palace Gardens a Kensington. All'inferno, ero disperato. E non mi sembrava che i Maliskia volessero risolvere i miei problemi finanziari. Quella breve incursione nel mercato dei liberi professionisti aveva finito per rafforzare la mia recalcitrante dipendenza dalla Ditta. La quale mi teneva a stecchetto dai tempi dei casini di Washington con Josh, diciotto mesi prima. Lynn aveva ragione, naturalmente, quando affermava che dovevo ritenermi fortunato che non mi avessero sbattuto in qualche prigione americana. Per quanto riguardava gli inglesi, a mio parere erano ancora in-
decisi su cosa fare di me: darmi un cavalierato o farmi sparire. Per lo meno, finché rimanevano a grattarsi la testa, mi passavano una paghetta di duemila sterline mensili. Quanto bastava a coprire le spese terapeutiche di Kelly per settantadue ore circa. Lynn aveva detto molto chiaramente che l'onorario non modificava in nessun modo la mia qualifica; non aveva usato una tale quantità di parole, ma dal suo sguardo avevo capito che rimanevo al primo livello, un K, uno di cui si potevano disconoscere le azioni, uno che faceva i lavori di merda, quelli che non voleva nessuno. Non c'era niente che potesse cambiare la situazione, a meno che Lynn non inserisse il mio nome nella lista di quelli da promuovere a quadro, e il tempo che rimaneva non era molto. Una volta scaduto il suo mandato, a febbraio, se ne sarebbe andato in prepensionamento nella sua azienda per la coltivazione di funghi nel Galles. Non avevo idea di chi lo avrebbe sostituito. La notte precedente avevo contattato il servizio messaggi ed ero stato informato che Lynn voleva vedermi alle 13.30. Se fossi rientrato a far parte del club dei bravi ragazzi, la paga sarebbe aumentata a duecentonovanta sterline al giorno durante le azioni, e centonovanta in addestramento, ma nel frattempo ero nella merda. Le possibilità di vendere la casa erano pari a zero. Era in condizioni peggiori di quando l'avevo comprata. L'avevo pagata in contanti, ma non potevo ottenere un prestito mettendoci sopra un'ipoteca perché non ero in grado di dimostrare come mi guadagnavo da vivere. Da quando avevo lasciato l'esercito, avevo sempre ricevuto contanti in una busta, mai una busta paga. Uscii dal bagno caldo e mi ritrovai nel gelo della stanza. Mi asciugai velocemente e infilai i pantaloni di pelle. Dalla pannellatura che rivestiva il serbatoio dello sciacquone tirai fuori la mia HK USP, una semiautomatica tozza e squadrata da 9mm, e due caricatori da quindici colpi. La fondina era quella che usavo sempre, che poteva stare davanti nei jeans o nei pantaloni di pelle. Seduto sul coperchio del water, aprii con un morso la busta di plastica che la conteneva e caricai i proiettili sciolti. Lasciavo sempre le molle del caricatore a riposo quando non usavo la pistola. Gli inceppi si verificavano per un'errata ricarica del caricatore, perché il caricatore non era perfettamente bloccato all'interno dell'impugnatura o perché la molla era rimasta troppo a lungo in tensione e non lavorava nel modo giusto quando era sollecitata a farlo. Spari il primo colpo e la molla può non riuscire a spingere nella culatta il successivo.
Caricai l'arma, inserii il caricatore nell'impugnatura e mi accertai che si agganciasse correttamente. Tirai all'indietro il carrello con l'indice e il pollice e lasciai andare. Le parti mobili si spostarono, spingendo il primo colpo dal caricatore nella camera di scoppio. In casa avevo tre USP, due nascoste al pianterreno e una sotto il letto, un piccolo trucco che mi aveva insegnato il padre di Kelly molti anni prima. Controllai la canna tirando leggermente indietro il carrello e infilai pistola e caricatori in tasca. Misi la sacca sulle spalle e chiusi casa. Fuori mi aspettava la moto dei miei sogni, una Ducati 966 rossa che mi ero regalato contemporaneamente alla casa. Viveva nel garage, un'ulteriore scrostata meraviglia dell'architettura anni '30. C'erano momenti in cui avevo la sensazione che il rombo del suo motore che tornava in vita fosse l'unica cosa in grado di tenermi lontano dalla disperazione assoluta. 8 Il traffico di Londra era caotico. Mancavano ancora molti giorni a Natale, anche se a giudicare dal numero di automobili in circolazione non si sarebbe detto. Sulla strada dal Norfolk faceva freddo, il cielo era coperto e uggioso, ma almeno era secco. A paragone con la Finlandia, era quasi tropicale. Avevo raggiunto Marble Arch in meno di tre ore, ma da lì in avanti i progressi sarebbero stati estremamente lenti. Zigzagai fra i veicoli fermi in direzione di Oxford Street, dove sfavillavano le decorazioni natalizie. Dovunque era sbocciata la stagione della bontà, tranne dietro i volanti delle auto bloccate nell'ingorgo e dentro la mia testa. Avevo paura. Nella casa di Hampstead che avevo chiamato al telefono la sera prima c'erano due infermiere, le quali, sotto la supervisione della psichiatra, accudivano Kelly ventiquattr'ore su ventiquattro. Diverse volte alla settimana la portavano in una clinica di Chelsea, dove la dottoressa Hughes effettuava le visite. L'assistenza mi costava poco più di quattro testoni alla settimana. Gran parte delle trecentomila sterline che avevo sottratto al cartello della droga nel '97, oltre al fondo fiduciario di Kelly, se n'era andata per la sua istruzione, la casa e adesso le spese mediche. Non era rimasto nulla. Tutto era cominciato nove mesi prima. Da quando era arrivata in Inghilterra, i suoi voti non erano stati granché; era una ragazzina intelligente, ma ricordava un secchio bucherellato: le cose entravano e contemporaneamen-
te uscivano. A parte questo aspetto, non erano venuti alla luce altri effetti post-traumatici. In presenza degli adulti diventava un po' nervosa, ma con i coetanei era normale. Poi, in collegio, aveva cominciato ad accusare dei dolori, ma non riusciva a essere più specifica né a spiegare con precisione dove le facesse male. Dopo alcuni falsi allarmi, come quello lanciato dall'infermiera scolastica, convinta che stessero per arrivarle le prime mestruazioni, gli insegnanti conclusero che fosse solo in cerca di attenzioni. Il peggioramento fu graduale. A poco a poco si allontanò dai suoi amici, dagli insegnanti, dai nonni e da me. Non giocava, non parlava; guardava la televisione, se ne stava seduta, con il broncio o a singhiozzare. All'inizio non ci feci troppo caso; a preoccuparmi era il futuro e dovevo stare attento a non farmi sbattere fuori, dato che, in attesa di una decisione di Lynn, non lavoravo dall'estate precedente. Alle sue crisi di pianto rispondevo comprandole del gelato. Sapevo che non era la risposta giusta, ma quale fosse quella giusta non lo sapevo. Arrivai al punto di arrabbiarmi con lei perché non apprezzava i miei sforzi. Adesso mi sentivo un pezzo di merda. Circa cinque mesi prima eravamo stati insieme nel Norfolk per il weekend. Era distante e svogliata, come se niente di quello che facevo riuscisse a interessarla. Mi sentivo come un ragazzino che ai giardinetti sta intorno a due che se le danno senza sapere bene cosa fare, buttarsi nella mischia, cercare di fermarli o scappare. Provai a giocare al campeggio, e le montai la tenda in camera. Quella notte si svegliò in preda agli incubi. Le urla durarono tutta la notte. Cercai di calmarla ma lei tentò di aggredirmi; era in piena crisi. La mattina successiva avevo fatto diverse telefonate e scoperto che per una visita psichiatrica la lista d'attesa era di sei mesi, e chissà se sarebbe servita a qualcosa. Feci altre telefonate e quello stesso giorno la portai dalla dottoressa Hughes, una psichiatra di Londra specializzata in traumi infantili che accettava pazienti privati. Kelly venne subito ricoverata per accertamenti, e dovetti lasciarla lì, per la prima ricognizione a San Pietroburgo e il reclutamento di Sergej. Cercavo di convincermi che tutto si sarebbe sistemato in fretta, ma dentro di me sapevo perfettamente che non sarebbe andata così. I miei peggiori timori trovarono conferma quando la dottoressa mi comunicò che, oltre al regolare trattamento in clinica come paziente esterna, aveva bisogno del tipo di cura costante che solo la casa di Hampstead poteva fornire. Ero andato a trovarla a Hampstead quattro volte. Di solito guardavamo insieme la televisione per tutto il pomeriggio. Mi sarebbe piaciuto farle
delle coccole, ma non sapevo da che parte cominciare. Tutti i miei tentativi di dimostrarle affetto sembravano goffi, poco spontanei, e finivo per stare peggio di lei. Svoltai a destra in Hyde Park. Alcuni Blues and Royals stavano facendo fare esercizio ai cavalli prima di restarci appollaiati sopra per ore fuori da qualche palazzo a beneficio dei turisti. Oltrepassai la lapide dedicata a quelli di loro che l'ala dura dell'IRA aveva fatto saltare nel 1982, mentre stavano facendo la stessa cosa. Un'idea sulle condizioni di Kelly l'avevo, anche se piuttosto vaga. Avevo conosciuto alcuni uomini che soffrivano di disturbo post-traumatico da stress, ma si trattava di adulti che erano stati in guerra. Volevo sapere di più sugli effetti che aveva sui bambini. La Hughes mi aveva detto che per un bambino era naturale attraversare l'elaborazione del lutto dopo aver subito una perdita; ma a volte, dopo un evento improvviso e traumatico, le emozioni venivano alla luce dopo settimane, mesi, a volte anni. Questa reazione ritardata era un disturbo post-traumatico da stress, e i sintomi erano simili a quelli normalmente legati alla depressione e all'ansia: insensibilità emotiva, senso di impotenza, disperazione, l'esperienza traumatica liberata attraverso gli incubi. Corrispondeva tutto alla perfezione. Non ricordavo l'ultima volta che avevo visto Kelly sorridere, per non parlare di ridere. «I sintomi variano di intensità da caso a caso», aveva spiegato la Hughes, «ma possono durare anni se non vengono curati. E di sicuro non scompaiono da soli.» Avevo provato un dolore fisico quando mi ero reso conto che, se avessi agito prima, Kelly sarebbe già potuta essere sulla via della guarigione. Era così che dovevano sentirsi i padri veri, e forse era la prima volta che provavo sentimenti di quel tipo in tutta la mia vita. Il viale che attraversava il parco finì e fui costretto a rientrare sulla strada principale. Il traffico era praticamente bloccato. I camioncini delle consegne si fermavano dove volevano con le quattro frecce accese. I corrieri in moto si infilavano in varchi impossibili, rischiando più di quanto io non fossi disposto a fare. Io procedevo a zigzag, piano piano, direzione Chelsea. Sui marciapiedi le cose non andavano meglio. Schiere di consumatori carichi di sacchetti entravano in rotta di collisione reciproca, provocando ingorghi inestricabili all'entrata dei negozi. E come se le mie disgrazie non fossero sufficienti, non avevo la minima idea di cosa comprare a Kelly per Natale. Superai un negozio di telefoni e pensai di comprarle un cellulare,
ma cazzo, non riuscivo a parlarle neppure quando la guardavo in faccia. Davanti a un negozio di abbigliamento pensai di prenderle un paio di vestiti nuovi, ma avrebbe pensato che non la ritenevo capace di scegliere da sola. Dopo un po' lasciai perdere. Qualsiasi cosa avesse desiderato, poteva averlo. Se la clinica mi avesse lasciato abbastanza soldi. Finalmente arrivai a destinazione e parcheggiai. Moorings era un grande edificio in una piazza alberata, con mattoni a vista, rifinito di recente con grande dispendio di vernice fresca. Tutto parlava di un posto specializzato in malattie dei ricchi. La signorina della reception mi indicò la sala d'attesa, un locale che ormai conoscevo abbastanza, e mi accomodai prendendo una rivista sulle case di campagna, belle come la mia non sarebbe mai stata. Leggevo i pro e i contro sul riscaldamento convenzionale messo a confronto con quello a pannelli, e pensavo che non doveva essere male possederne uno qualsiasi. Poi l'impiegata mi venne a chiamare e mi fece strada verso lo studio. La dottoressa Hughes come al solito riuscì a sorprendermi. Era più vicina ai sessanta che ai cinquanta, e dava l'impressione che sia lei sia il suo studio potessero essere pubblicati sulla rivista OK! Aveva i capelli grigi con una messa in piega gonfia che la faceva sembrare più una conduttrice di telegiornale che una strizzacervelli. Ma la sensazione più forte che avevo era che si piacesse sempre molto, in special modo quando mi spiegava, al di sopra della montatura dorata dei suoi occhiali da lettura, che no, spiacente signor Stone, era impossibile essere più precisi sulla tabella di marcia. Rifiutai il caffè che mi offrì. Si perdeva troppo tempo a cazzeggiare in attesa del suo arrivo, e lì dentro il tempo era più che mai denaro. Seduto sulla sedia di fronte alla scrivania, appoggiai la sacca sul pavimento. «Non è peggiorata, vero?» La dottoressa fece segno di no con quella testa incredibilmente grande, ma non rispose subito. «Se è per i soldi, io...» Sollevò una mano e mi rivolse un'occhiata paziente e indulgente. «Non è di mia competenza, signor Stone, sono certa che le persone al pianoterra abbiano la situazione sotto controllo.» Non avevo dubbi. Il mio problema era che forse le top-model e certi calciatori di serie A potevano permettersi di spendere quattro zucche a settimana, ma che presto io non ci sarei più riuscito. La dottoressa mi guardò da sopra le mezzelune. «Ho voluto incontrarla,
signor Stone, perché ho bisogno di discutere con lei a proposito della prognosi di Kelly. Continua ad avere problemi e, rispetto alla sua guarigione, non registriamo successi particolari. Ricorda quando le ho accennato a uno spettro comportamentale che va dall'inerzia assoluta all'attività maniacale?» «Ha detto che gli estremi dello spettro sono ugualmente negativi, perché in entrambi i casi le persone risultano irraggiungibili. Che il terreno favorevole si trova in un punto qualsiasi a metà strada.» La dottoressa si produsse in un fugace sorriso, compiaciuta e forse anche sorpresa nel constatare che nelle settimane precedenti ero stato così attento, «Era il nostro obiettivo, come sicuramente ricorderà. Ottenere per lo meno un piccolo disancoraggio dalla fase di inerzia totale. La nostra speranza era riuscire a portarla al centro dello spettro, non troppo in alto né troppo in basso, in modo che tornasse in grado di interagire e creare rapporti, adattarsi e cambiare.» Prese una penna e scarabocchiò un appunto per se stessa su un post-it giallo. «Tuttavia temo di dover ammettere che Kelly si presenti ancora significativamente passiva e ripiegata su se stessa. Bloccata, se preferisce, chiusa in un bozzolo, incapace o priva del desiderio di relazionarsi.» Mi guardò di nuovo al di sopra degli occhiali, come se volesse conferire autorevolezza alle cose che andava dicendo. «I bambini rimangono profondamente turbati quando sono testimoni di atti violenti, signor Stone, in particolare quando le vittime della violenza fanno parte della loro famiglia. La nonna di Kelly mi ha descritto l'energia e l'allegria di cui era dotata prima.» «Mi divertivo tanto con lei», dissi. «Adesso ai miei scherzi non ride più.» Feci una pausa. «Forse non sono più così divertenti.» La dottoressa parve lievemente infastidita dalle mie parole. «Temo che il comportamento attuale di Kelly sia in grave contrasto rispetto a prima e questo mi dice che la strada della guarigione potrebbe rivelarsi ancora più lunga del previsto.» Il che significava ancora più costosa. Mi vergognai di questo pensiero, ma non riuscivo a non pensarci. «Può essere più precisa?» Strinse le labbra e scosse lentamente la testa. «Mi è ancora impossibile rispondere a questa domanda, signor Stone. Quello che stiamo cercando di riparare non è qualcosa di semplice come un arto fratturato. Mi rendo conto che lei vorrebbe da me un'indicazione sui tempi, ma non sono in grado di dargliela. L'andamento dei disturbi è molto variabile. Con un trattamen-
to adeguato, circa un terzo dei soggetti affetti da disturbo post-traumatico da stress si ristabiliscono in pochi mesi. Alcuni di essi non hanno ulteriori problemi. Parecchi impiegano più tempo, a volte un anno o più. Altri, nonostante le cure, continuano a manifestare sintomi da lievi a moderati per un periodo ancor più lungo. Temo che si dovrà preparare a un lungo percorso.» «C'è niente che io possa fare?» Per la seconda volta la dottoressa Hughes ebbe un breve sorriso. Più trionfante che caloroso, e provai la sensazione di essere caduto in qualche trappola. «Bene», disse, «le ho chiesto di venire qui, oggi, per un motivo ben preciso. Kelly è qui, in uno studio.» Feci per alzarmi. «Posso vederla?» Anche lei si alzò. «Sì, naturalmente. È qui per questo. Ma devo dirle, signor Stone, che preferirei se Kelly non la vedesse.» «Prego? Io...» La dottoressa m'interruppe. «C'è qualcosa che vorrei farle vedere prima.» Aprì un cassetto, tirò fuori diversi fogli di carta e li spinse attraverso la scrivania. Non ero pronto per lo shock che mi procurarono. I disegni che Kelly aveva fatto dei morti della sua famiglia erano molto diversi dalle persone sorridenti e felici della foto che avevo nella sacca. Il disegno della madre la ritraeva inginocchiata davanti al letto, con la parte superiore del corpo riversa sul materasso, il copriletto colorato di rosso. In un altro, Aida, la sorellina di cinque anni, era stesa sul pavimento fra la vasca e il water, con la testa quasi staccata dalle spalle. Il grazioso vestitino azzurro che indossava quel giorno era chiazzato in modo disordinato da segni di matita rossa. Kev, suo padre e mio migliore amico, giaceva su un fianco sul pavimento del salone, la testa spappolata dalla mazza da baseball accanto a lui. Guardai la dottoressa. «Sono nell'esatta posizione in cui li ho trovati quel giorno... esattamente... non mi ero reso conto...» L'avevo trovata dentro il suo nascondiglio, dove Kev voleva che le bambine si rifugiassero in caso di pericolo. Non mi aveva mai detto una sola parola di questo, non avevo mai pensato che potesse aver assistito alla carneficina. Era come se avesse registrato nella memoria gli avvenimenti con la chiarezza di una videocamera. La Hughes mi guardò da sopra gli occhiali. «Kelly si è perfino ricordata
il colore del copriletto, e quello che davano alla radio mentre aiutava a preparare la tavola in cucina. Mi ha raccontato di come il sole filtrava dalla finestra e faceva risplendere le posate. Ricorda che Aida poco prima dell'arrivo degli uomini aveva perso un nastro per i capelli. Sta rivivendo i momenti immediatamente precedenti la strage, nello sforzo, a mio parere, di raggiungere un altro risultato.» Il fatto che i suoi ricordi si fermassero a quel punto mi sollevò, ma se la terapia funzionava, avrebbe di certo ricordato gli avvenimenti successivi. E quando fosse accaduto, avrei dovuto coinvolgere la Ditta per spiegare ogni «implicazione di sicurezza» che potesse insorgere. Ma per il momento, non c'era bisogno che sapessero che era malata. La psichiatra interruppe i miei pensieri. «Venga con me, la prego, signor Stone. Vorrei che la vedesse, per poi spiegarle meglio quello che speriamo di ottenere.» Mi accompagnò poco più avanti nel corridoio. Non riuscivo a capire. Perché non permettevano a Kelly di vedermi? Girammo a sinistra e dopo pochi passi ci fermammo davanti a una porta con una tendina su un rettangolo di vetro. La spostò con un dito di pochi centimetri e guardò all'interno, poi fece un passo indietro e mi fece cenno di avvicinarmi e osservare. Guardai attraverso il vetro e desiderai non averlo fatto. Le immagini di Kelly che conservavo nella memoria erano frammenti molto selezionati di quando non era ancora malata, di una ragazzina tutta strilli di gioia alla sua festa di compleanno nel vedere il modellino del Golden Hinde, o pervasa da brividi d'eccitazione quando finalmente mantenni la promessa e l'accompagnai a visitare la Torre di Londra e a vedere i gioielli della Corona. La Kelly reale, invece, era seduta su una sedia accanto a un'infermiera. L'infermiera chiacchierava sorridendo. Kelly non rispondeva e non si muoveva. Con le mani incrociate in grembo, fissava la finestra che aveva di fronte, la testa appena piegata da un lato, come se cercasse di risolvere un problema. C'era qualcosa di agghiacciante nella sua immobilità. Non che l'infermiera si muovesse molto di più, ma nella quiete di Kelly c'era qualcosa di innaturale. Era come guardare un'immagine congelata, un dipinto a olio di una bambina seduta su una poltrona, vicino al filmato di un'infermiera che adesso era ferma, ma che da un momento all'altro si sarebbe mossa. Avevo già visto quella scena. Era stato quattro anni prima, ma era come se fossero passati quattro minuti.
Ero carponi nel garage di casa sua, parlavo in tono dolce mentre spostavo scatole e m'infilavo nella piccola apertura, avanzando lentamente verso la parete in fondo e cercando di respingere dietro la porta alle mie spalle le immagini della carneficina. E lei era là, di fronte a me, gli occhi sgranati per il terrore, rannicchiata in posizione fetale, che dondolava il corpo avanti e indietro, le mani sopra le orecchie. «Ciao Kelly», avevo detto dolcemente. Doveva avermi riconosciuto, mi conosceva da anni, ma non arrivò nessuna risposta. Continuava a dondolare, fissandomi con gli occhi grandi e spaventati. Avanzai strisciando un altro po' all'interno del buco, fino a trovarmi raggomitolato al suo fianco. Aveva gli occhi gonfi e arrossati. Aveva pianto, e qualche ciocca di capelli castano chiaro le si era appiccicata al viso. Cercai di spostargliele dalla bocca. Le sollevai la mano irrigidita e la condussi con delicatezza verso il garage. Poi la presi in braccio e me la tenni stretta mentre la portavo in cucina. Tremava tanto che non riuscivo a capire se il movimento della testa era dovuto al tremito o se mi stava dando la sua approvazione. Pochi minuti più tardi, mentre ci allontanavamo in macchina da casa, era completamente paralizzata per lo shock. Ed eccola lì, quella di adesso era la stessa rigidità di allora. La bocca della dottoressa mi si avvicinò all'orecchio. «Kelly è stata costretta a imparare molto presto la lezione della perdita e della morte, signor Stone. Come può una bambina di sette anni, quanti ne aveva allora, comprendere l'omicidio? Un bambino testimone di una violenza ha una visione del mondo come di un posto pericoloso e incontrollabile. Mi ha detto di non credere che si sentirà mai più al sicuro là fuori. Non è colpa di nessuno, ma la sua esperienza la porta a credere che gli adulti nella sua vita non siano in grado di proteggerla. È convinta di dover assumere questo compito da sola, e questa prospettiva le provoca grande ansia.» Guardai ancora una volta la ragazzina impietrita. «C'è niente che io possa fare?» La dottoressa annuì lentamente mentre rimetteva a posto la tendina, poi si voltò per ripercorrere il corridoio. Mentre camminavamo disse: «A poco a poco dovremo aiutarla con dolcezza a esaminare e analizzare gli eventi traumatici che le sono accaduti, e a dominare le sue ansie. La terapia adatta forse implicherà quella che viene definita come 'terapia della parola', da sola o in gruppo, ma ancora non è pronta. Devo continuare con antidepres-
sivi e leggeri tranquillanti ancora per un po', in modo da allentare i sintomi più dolorosi. «L'obiettivo finale sarà aiutarla a ricordare gli eventi traumatici senza dolore, indirizzare la sua vita familiare, considerare con attenzione le sue amicizie e i risultati scolastici. In particolare dobbiamo aiutarla a gestire tutte le emozioni cui al momento non riesce a dare un senso: dolore, colpa, rabbia, depressione, ansia. Avrà notato, signor Stone, che sto parlando al plurale». Avevamo raggiunto il suo studio e rientrammo. Mi sedetti di nuovo e lei andò dall'altro lato della scrivania. «I genitori di solito sono i più importanti difensori emotivi per i loro figli, signor Stone. Possono svolgere un lavoro di gran lunga migliore in termini di rassicurazione psicologica di quanto riescano a fare i professionisti. Sono in grado di aiutarli a parlare delle loro paure, e di rassicurarli che papà e mamma faranno tutto quanto in loro potere per proteggerli, e stare loro vicino. È molto triste, ma questo per Kelly non è evidentemente possibile, anche se ciò non toglie che abbia bisogno di un adulto responsabile su cui fare affidamento.» Iniziavo a capire. «La nonna?» Potrei giurare di averla vista rabbrividire. «Non è esattamente quello che avevo in mente. Cerchi di capire, un fattore importante per la guarigione di ogni bambino affetto da disturbo posttraumatico da stress è che la figura di riferimento deve comunicare la volontà di parlare della violenza e rappresentare un ascoltatore che non giudica. I bambini hanno bisogno di sapere che si può parlare della violenza. Mi creda, Kelly ha bisogno del permesso di parlare di quanto le è successo. A volte le persone più vicine possono demotivare, per qualsiasi ragione e senza rendersene conto, i bambini dal parlare della violenza, e questo, a mio avviso, è il caso dei nonni di Kelly. Penso che la nonna si senta ferita e scoraggiata dal fatto che Kelly abbia perso interesse nelle attività familiari e sia così irritabile e distaccata. Ascoltare i dettagli la sconvolge molto, forse perché è convinta che Kelly sarebbe meno turbata se non ne parlasse. Al contrario, i bambini si sentono spesso sollevati e liberati dal peso se riescono a condividere l'informazione con adulti di cui si fidano. Può essere utile, dal punto di vista terapeutico, che i bambini rileggano gli eventi e liberino le loro paure ripetendo il racconto. Con questo non voglio dire che dobbiamo obbligare Kelly a parlare di quanto è successo, ma se lo fa spontaneamente, un atteggiamento rassicurante e di convalida sarebbe molto u-
tile per la sua guarigione.» Cominciavo a non seguirla più, con tutto quel Suo psico-blabla. Non riuscivo a capire cosa c'entravo io con tutto quello. Come se mi avesse letto nella mente, la dottoressa Hughes strinse le labbra e fece il suo giochetto con gli occhiali a mezzaluna. «Per riassumere, signor Stone, durante il processo di guarigione Kelly avrà bisogno di un adulto di cui si fida al suo fianco, e secondo me la persona giusta per svolgere questo ruolo è lei.» Fece una pausa perché le implicazioni di quanto aveva appena detto venissero assimilate. «Vede, di lei si fida; parla di lei con grandissimo affetto, e vede in lei la cosa più simile a un padre. Quello di cui ha bisogno, al di là dell'attenzione e della terapia che noi professionisti possiamo offrirle, è che lei accetti questo fatto e s'impegni a mantenerlo.» Poi aggiunse solennemente: «Avrebbe problemi a tal proposito, signor Stone?» «I miei datori di lavoro potrebbero averne. Ho bisogno...» Sollevò una mano. «Ha visto il bozzolo in cui Kelly si è rinchiusa. Non c'è nessuna formula che garantisca di fare breccia quando una persona è fuori portata. Ma quale che sia la causa, nella soluzione dev'essere presente una forma di amore. Kelly ha bisogno di un principe con un bianco destriero che arrivi a liberarla dal dragone. È mia convinzione che abbia deciso di non uscire dal guscio finché lei, signor Stone, non diventerà di nuovo parte integrante della sua vita. Mi spiace caricarla di questa responsabilità, ma Kelly è una mia paziente ed è il suo interesse che deve starmi a cuore. Per questo motivo non ho voluto che la vedesse oggi; non volevo che si costruisse delle speranze per poi vederle crollare. La prego, ci pensi sopra, ma mi creda, prima sarà disponibile a impegnarsi, prima le condizioni di Kelly cominceranno a migliorare. Fino a quel momento, ogni tipo di terapia rimarrà a un punto morto.» Raccolsi la sacca e tirai fuori le fotografie incorniciate. Era l'unica cosa cui riuscivo a pensare. «Ho portato queste. Sono foto della sua famiglia. Forse potranno aiutarla in qualche modo.» La dottoressa le prese, sempre in attesa di una risposta. Quando vide che non ne avrebbe avute, annuì quietamente fra sé e mi guidò con gentilezza, ma con decisione, verso la porta. «Vedrò Kelly nel pomeriggio. Più tardi le telefonerò; ho il numero. E ora, credo che abbia un appuntamento con gli impiegati del primo piano, non è così?»
9 Mentre dirigevo a est lungo la riva nord del Tamigi, verso il centro città, mi sentivo piuttosto depresso. Kelly non c'entrava, ero io. Mi costrinsi ad ammetterlo: detestavo le responsabilità. Eppure dovevo mantenere le promesse fatte a Kevin. Avevo già abbastanza problemi a badare a me stesso, senza dottori che mi dicessero quello che dovevo fare per gli altri. Avere la responsabilità di altre persone durante un'azione mi andava bene. In confronto a questo, subire il ferimento di un uomo durante un contratto era una passeggiata. Arrivavo, lo toglievo dalla merda e ricucivo i buchi. A volte sopravviveva, a volte no. Non era quello cui dovevo pensare. L'uomo ferito sapeva che qualcuno sarebbe andato a riprenderlo; e questo lo aiutava a rimanere in vita. In questo caso era diverso. Kelly era il mio uomo ferito, ma non si trattava di ricucire dei buchi; e lei non sapeva neppure se gli aiuti sarebbero arrivati o no. Neanch'io lo sapevo. Sapevo, però, che una cosa la potevo fare: fare del grano per pagare le cure. Per lei ci sarei stato, ma più avanti. Adesso dovevo lavorare e sfornare denaro. C'era sempre un «più avanti» a proposito di Kelly, si trattasse di una telefonata o di una festa di compleanno. Ma doveva cambiare. Dovevo cambiare. Aprendomi un varco nel traffico, arrivai infine alla strada che portava a Vauxhall Bridge. Lo attraversai in direzione della riva destra e alzai lo sguardo verso Vauxhall Cross, la sede dei servizi segreti. Una piramide beige e nera con la cima mozza, fiancheggiata su entrambi i lati da enormi torri. Con qualche ricciolo di neon in più non avrebbe sfigurato a Las Vegas. Di fronte a Vauxhall Cross, sopra la strada e un centinaio di metri più avanti, c'era un tratto sopraelevato di metropolitana che portava alla stazione di Waterloo. Gran parte degli spazi sottostanti alle arcate erano stati trasformati in negozi o magazzini. Superato l'edificio dei servizi segreti, oltrepassai il raccordo stradale a cinque corsie e salii sul marciapiedi, parcheggiando fra due arcate abbattute per far posto a un grande salone per moto, quello dove avevo comprato il Ducati. Quel giorno non dovevo entrarci, rappresentava soltanto un comodo parcheggio. Controllai che la sella fosse chiusa bene in modo che nessuno potesse fregarmi l'USP, infilai il casco nella sacca, attraversai un paio di strade secondarie e percorsi il passaggio pedonale in ferro sopra il raccordo, arrivando all'edificio in cui en-
trai attraverso una porta metallica che m'incanalò verso la reception. All'interno la Ditta sembrava uguale a qualsiasi altro ufficio, pulito, elegante, pervaso da un'atmosfera di efficienza aziendale, pieno di gente che passava il tesserino identificativo nei lettori elettronici per entrare. Puntai al bancone principale della reception, dove, sedute dietro a un vetro antiproiettile, si trovavano due impiegate. «Ho un appuntamento con il signor Lynn.» «Le spiace compilare questo?» La più anziana delle due mi passò un registro attraverso la fessura sotto il vetro. Firmai in due caselle, poi lei sollevò un telefono. «Chi devo dire?» «Mi chiamo Nick.» Non mi avevano dato altri documenti di copertura dopo il casino di Washington, mi rimaneva solo la mia e mi auguravo che non ne venissero mai a conoscenza. Me l'ero preparata nel caso fosse arrivato il momento di scomparire, sensazione che provavo all'incirca una volta al mese. Il registro era a sezioni fustellate. Una metà, strappata e infilata in una bustina di plastica trasparente, era quella che avrei dovuto appuntarmi addosso. La mia era di colore azzurro con la scritta DA SCORTARE OVUNQUE stampata sopra. La donna finì la telefonata e indicò una fila di poltroncine imbottite. «Qualcuno la raggiungerà al più presto.» Mi misi ad aspettare seduto con indosso la mia graziosa badge, osservando uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur che transitavano avanti e indietro. L'uso della tenuta casual il venerdì non era ancora arrivato fin lì. E gente come me non si vedeva tanto spesso da quelle parti; per me l'ultima volta era stato nel '98. E anche allora mi era pesato enormemente doverlo fare. Riescono a farti capire che in quanto K non sei esattamente il benvenuto e ti vedono come una minaccia per l'elegante immagine pubblica dell'ambiente. Trascorsi circa dieci minuti con la sensazione di essere in attesa fuori dall'ufficio del preside, poi un asiatico non giovane in elegante completo blu gessato superò la barriera e mi venne incontro. «Nick?» Mi alzai in piedi accennando di sì con la testa. Fece un mezzo sorriso. «Se vuole seguirmi.» Passò la tessera che aveva appesa al collo davanti al lettore e tornò al di là della barriera; io dovetti passare attraverso il metal detector prima di incontrarlo dall'altra parte e insieme andammo agli ascensori.
«Saliamo al quinto piano.» Annuii e quando entrammo nell'ascensore lasciai che calasse nuovamente il silenzio. Non volevo che sapesse che lo sapevo. Mi metteva al riparo da parole inutili. Scendemmo al quinto e lo seguii. Dagli uffici lungo il corridoio provenivano pochi rumori, solo il ronzio dell'aria condizionata e il fruscio dei miei pantaloni di pelle. Arrivati in fondo girammo a sinistra, passando davanti al vecchio ufficio di Lynn. Adesso lo occupava qualcuno di nome Turnball. Due porte dopo vidi sulla targa il nome di Lynn. La mia scorta bussò e ne seguì automaticamente il solito schioccante: «Avanti!» Mi fece entrare e udii la porta richiudersi alle mie spalle. Mi ritrovai così di fronte alla pelata di Lynn, intento a scrivere. Per quanto l'ufficio fosse nuovo, risultava piuttosto evidente che Lynn era un abitudinario. L'interno era identico al precedente; stesso arredamento, stessa ambientazione semplice, funzionale, anonima. L'unica cosa da cui si potesse intuire che non si trattava di un manichino messo lì a scopo decorativo, era la fotografia incorniciata di un gruppo familiare, che immaginai composto da moglie molto più giovane e due figli, seduti su un prato con il labrador di casa. Due rotoli di carta natalizia appoggiati al muro alle sue spalle erano la prova che aveva una vita propria. Sopra di me, verso destra, appoggiata su una mensola, c'era una TV e, sullo schermo, stavano scorrendo i titoli del televideo. L'unica cosa che non riuscivo a scorgere era la racchetta da squash d'ordinanza dei funzionari e un cappotto invernale appeso. Probabilmente si trovavano alle mie spalle. Rimasi in piedi in attesa che finisse. Di norma mi sarei seduto e mi sarei messo comodo, ma quel giorno era diverso. Nell'aria si avvertiva quella che le persone come lui avrebbero definito un'«atmosfera», e non volevo infastidirlo oltre il dovuto. All'epoca del nostro ultimo incontro non ci eravamo lasciati benissimo. Dal rumore che emetteva strisciando sulla carta, la penna stilografica sembrava troppo pesante. Spostai lo sguardo alla finestra e mi concentrai sul nuovo edificio che era stato ultimato di fronte, oltre il ponte sul Tamigi. «Siediti. Sono da te fra un attimo.» Mi sedetti, sulla stessa sedia di legno su cui mi ero seduto tre anni prima. Mentre mi sedevo e appoggiavo la sacca per terra, i miei pantaloni copri-
rono il fruscio della penna. Era sempre più evidente che sarebbe stato un incontro breve, uno di quelli senza caffè, altrimenti l'asiatico, prima di ritirarsi, mi avrebbe chiesto se volevo latte o panna. Non vedevo Lynn dal rapporto post-Washington del '98. Come l'arredamento, non era cambiato. E non erano cambiati neppure i suoi vestiti: stesso color senape per i pantaloni di velluto a coste, giacca sportiva con toppe di pelle consumate sui gomiti e camicia di flanella. La sua pelata lucente continuava a starmi di fronte e potei notare che non aveva perso altri capelli, cosa che la signora Lynn apprezzava sicuramente moltissimo. Lynn non aveva le orecchie adatte per una calvizie completa. Terminò di scrivere e mise da parte quello che adesso ero in grado di vedere: un foglio A4 battuto a macchina che aveva l'aspetto di un compito corretto da un insegnante. Osservò con un mezzo sorriso il mio abbigliamento, unì le mani, congiunse i pollici e le posò sul piano della scrivania. Dopo Washington, si era comportato come se fosse un direttore di banca e io uno che chiede un aumento di scoperto: apparentemente gentile, ma allo stesso tempo con gli occhi pieni di disprezzo. Non m'importava molto, anche perché non si aspettava che lo guardassi con riverenza. «Che posso fare per te, Nick?» Prendeva in giro il mio accento, ma con sarcasmo, senza giovialità. Non gli ero mai piaciuto. E il mio fallimento di Washington aveva messo il sigillo sull'opinione che aveva di me. Mi morsi la lingua. Dovevo essere gentile con lui. Era il mio biglietto per arrivare ai soldi di cui Kelly aveva bisogno, e anche se avevo la spiacevole sensazione che il mio voto di gentilezza non sarebbe servito, dovevo dare il massimo. «Mi piacerebbe sapere se arriverò mai a essere PC», dissi. Si sistemò all'indietro sulla poltrona girevole in pelle e mi espose l'altra metà del sorriso. «Nick, tu sei un uomo libero e sai di essere già fortunato così. Ci sono molte cose per cui devi dire grazie, e non dimenticare che la tua libertà non è ancora per niente garantita.» Aveva ragione, naturalmente. Dovevo alla Ditta se non ero stato sbattuto in qualche penitenziario americano con un compagno di cella di nome Grande Cazzone voglioso di diventare il mio amichetto particolare. Anche se, più che per proteggere me, lo avevano fatto per salvare se stessi da situazioni altamente imbarazzanti. «Lo so perfettamente, e vi sono davvero molto grato per quello che avete fatto per me, signor Lynn. Ma ho veramente bisogno di sapere.» Si sporse in avanti e considerò con attenzione l'espressione del mio viso.
Doveva essere stato quel «signor Lynn» ad averlo insospettito. Annusava la mia disperazione. «Dopo la totale mancanza di giudizio che hai dimostrato, credi veramente di poter mai essere preso in considerazione per diventare PC, quadro permanente?» Diventò rosso. Era incazzato. «Considerati fortunato se hai ancora una paga. Ma credi davvero che ti possano prendere in considerazione per un impiego dopo che tu» - il suo dito indice iniziò a sottolineare i fatti mentre me lo puntava addosso e alzava la voce -, «uno, disobbedisci ai miei ordini diretti di uccidere quella donna del cazzo; due, credi seriamente alla sua storia insensata e collabori attivamente al suo tentativo di strage alla Casa Bianca. Cristo, hai agito con il senno di uno studentello innamorato. Credevi veramente che una donna di quel calibro potesse interessarsi a te?» Non riusciva a smettere. Come se avessi toccato un nervo scoperto. «E, come ciliegina sulla torta, per entrare hai usato un membro del servizio segreto americano... che poi rimane anche colpito! Hai idea del caos che hai scatenato, non solo negli Stati Uniti ma anche qui? A causa tua sono state rovinate delle carriere. La risposta è no. No adesso, no sempre.» A quel punto capii. Non si trattava solo di me, e non c'entrava il prepensionamento al termine del suo mandato nell'anno nuovo per dedicarsi ai suoi funghi; gli avevano dato il benservito. Era lui a capo dei K all'epoca del disastro con Sarah, e qualcuno doveva pagare. Persone come Lynn possono essere sostituite; più difficile è sbarazzarsi di gente come me, se non altro per motivi economici. Il governo aveva investito parecchi milioni nel mio addestramento come membro del SAS. Con me volevano rifarsi dei loro soldi. Doveva averlo fatto morire sapere che ero io quello che aveva combinato il casino, ma che era lui a doversene assumere la responsabilità, probabilmente come parte dell'accordo per ammansire gli americani. Si era appoggiato alla sedia, rendendosi conto di aver perso il controllo. «Se non PC, quando avrò un lavoro?» Riacquistò un po' di compostezza. «Non si muoverà niente finché il nuovo capo dipartimento non si sarà insediato. Deciderà lui cosa fare di te.» Era giunto il momento di mettere l'orgoglio sotto i piedi. «Ascolti, signor Lynn, ho bisogno di soldi. Mi va bene qualsiasi lavoro di merda. Mi mandi dove vuole. Qualsiasi cosa.» «La bambina di cui ti occupi. È sempre in cura?»
Cazzo, detestavo che fossero a conoscenza di queste cose. Era inutile mentire; probabile che sapesse di quanto avevo bisogno, fino all'ultima sterlina. Annuii. «La clinica costa. E dovrà restarci a lungo.» Guardai la foto di famiglia, poi di nuovo lui. Aveva dei figli, avrebbe dovuto capire. Non fece neppure una pausa. «No. Adesso vai. Ricorda che sei ancora in pagamento e che devi comportarti di conseguenza.» Premette l'interfono e l'asiatico venne a prendermi così in fretta che probabilmente era rimasto in ascolto al buco della serratura. Se non altro, uscendo ebbi l'occasione di vedere la racchetta da squash. Appoggiata al muro, di fianco alla porta. Feci un respiro, e per un pelo non mi voltai a dirgli di ficcarsi le sue parole piene di odio su per il culo. Non avevo niente da perdere, cosa avrebbe potuto farmi? Poi pensai che fosse meglio se la bocca non avesse seguito i pensieri. Quella era l'ultima volta che lo vedevo, ed ero certo che era l'ultima volta che lui voleva vedere me. Quando se ne fosse andato ci sarebbe stato un nuovo capo dipartimento e forse una nuova occasione. Perché bruciare i ponti? Sarebbe venuto il momento di vendicarmi e calpestargli i funghi. 10 A proposito dell'appuntamento al numero 3 a continuavo a provare un certo distacco. Se Val mi aveva rifilato un bidone di merda, bene, ero servito, almeno mi trovavo sul mio territorio e non sul suo. Meglio che restasse così. Prima di andarmene dal posteggio del negozio di moto infilai la USP nei pantaloni; non era da escludere che potesse servirmi. Ma sapevo anche che sarei stato fregato sino in fondo se nell'appartamento non ci fosse stato qualcuno con qualcosa per me. A patto che fosse qualcosa di incartato in una busta grande e non una bella pallottola di metallo. Presto l'avrei saputo. A Kensington il traffico era bloccato. A un semaforo la moto rimase incastrata tra un taxi nero e una Mercedes guidata da una donna dai capelli molto biondi e molto tinti che indossava occhiali da sole Chanel, anche se eravamo in pieno inverno. Tentava di darsi un'aria disinvolta parlando al telefonino. L'autista del taxi mi guardò e non riuscì a trattenere una risata. Palace Gardens si estendeva su tutta la lunghezza del lato ovest di Hyde
Park, da Kensington, a sud, fino a Notting Hill Gate, a nord. Raggiunsi le cancellate in ferro e la guardiola di legno nel mezzo. Seduto all'interno c'era un uomo calvo sulla cinquantina, camicia bianca, cravatta nera e giubbotto di nylon blu. Alle sue spalle si apriva un viale a tre corsie con marciapiedi in ghiaia marroncina. I grandi palazzi erano quasi interamente occupati da ambasciate e abitazioni dei loro funzionari. Le bandiere sventolavano e le targhe d'ottone luccicavano. Il prezzo di vendita di uno solo degli appartamenti dello staff probabilmente avrebbe saldato i miei debiti con la clinica, pagato gli studi a Kelly fino alla laurea e ne sarebbe avanzato abbastanza per rifare il tetto a quasi tutto il Norfolk. L'uomo al cancello mi squadrò dalla testa ai piedi come se fossi stato una di quelle cose attorcigliate che gli aristocratici cani dell'ambasciata lasciavano sull'erba. Non si alzò, si limitò a sporgere la testa fuori dal vetro. «Sì?» «Numero 3a, capo. Devo ritirare.» Indicai la sacca vuota che avevo sulla schiena. In realtà non avevo intenzione di fare il fattorino quel giorno, ma mi era sembrata la cosa più semplice da dire. Avevo la tenuta adatta, i pantaloni di cuoio e l'accento londinese aumentato di un paio di livelli. Fece un cenno verso il fondo della strada. «Cento metri a sinistra. Non parcheggiare di fronte al palazzo. Lascia il mezzo laggiù.» E indicò il lato opposto della strada. Inserii la marcia e attesi che i pilastri di metallo che impedivano il passaggio scomparissero sotto il livello della strada. Sulla mia sinistra incombeva l'ambasciata di Israele. Una guardia in borghese con la pelle scura era in piedi sul marciapiede. Doveva avere abbastanza freddo, dato che teneva abbottonati cappotto e giacca. Se qualcuno avesse tentato un'azione doveva essere in grado di estrarre la pistola e farlo fuori prima che il poliziotto inglese dal lato opposto della strada avesse la possibilità di farsi avanti e procedere a un semplice fermo. Circa settanta metri dopo di loro parcheggiai fra le macchine allineate davanti all'edificio. Attraversai la strada diretto agli imponenti cancelli, togliendomi i guanti e il casco, quindi schiacciai il campanello e spiegai a una voce dove volevo andare. Il cancello laterale si aprì con un ronzio e un clic e imboccai il vialetto. L'edificio era più grande di quelli che lo circondavano e lievemente arretrato rispetto alla strada. Era di mattoni rossi e cemento e di qualche decennio più giovane dei suoi vicini, con giardini ben curati da entrambi i lati
di una discesa che portava a una piazzola con una fontana nel centro. Sfilai il passamontagna che mi riparava il viso dal freddo, varcai il portone principale ed entrai nell'atrio tutto marmo nero e specchi. Il portiere, un altro re in trono, mi guardò come il suo socio per strada. «Consegna?» Nessuno ti chiama «signore» quando porti pantaloni di pelle. Di nuovo in scena il fattorino. «Naa, presa. P.P. Smith, capo.» Sollevò il telefono interno e fece un numero. Non appena ebbe risposta, la sua voce si trasformò in quella del Signor Bravo Ragazzo. «Salve, qui è la reception, c'è un corriere per una presa. Devo farlo salire? Certo. Arrivederci.» Abbassò la cornetta e, indicandomi l'ascensore, tornò sgarbato. «Terzo piano, quarta porta a sinistra.» Le ante dell'ascensore si chiusero, controllai rapidamente che non ci fossero telecamere interne ed estrassi la USP. Controllai la canna e premetti il pulsante del terzo piano. Mai capito perché la controllavo così spesso. Forse aumentava la mia sicurezza. Mentre l'ascensore si avviava con un leggero sobbalzo, avvolsi il passamontagna intorno alla USP e la infilai insieme con la mano dentro il casco. Se ci fossero stati problemi, sarebbe bastato lasciar cadere il casco. L'ascensore rallentò. Appoggiai il dito sul grilletto. Ero pronto. La porta scorrevole si aprì con un ding, ma rimasi fermo per qualche secondo, in ascolto, il casco ancora nella mano sinistra per poter tirare con la destra. La temperatura cambiò non appena feci un passo nel corridoio e le porte si chiusero alle mie spalle. Faceva caldo, ma l'ambiente era gelido: pareti bianche, tappeto crema, luce intensa. Seguii il tappeto, cercando la quarta porta a sinistra. Il silenzio era totale e l'unico rumore che sentivo camminando era il fruscio dei miei pantaloni. La porta era priva di campanello, batacchio e numero. Battei le nocche contro il legno pesante, quindi mi feci da parte, la mano destra nuovamente sul calcio della pistola, il pollice che toglieva la sicura. Odiavo quella parte. Non che mi aspettassi dei casini; difficile che avessero luogo lì, con tutta quella sorveglianza. Ma in ogni caso non mi piaceva bussare a una porta senza sapere chi e che cosa ci fosse al di là. Su un pavimento privo di moquette risuonarono dei passi, poi vennero fatte scattare le serrature. La porta si aprì, ma la bloccò una catena. Un volto, o meglio mezzo volto, si mosse nello spazio di circa sette od otto centimetri. Mi fu sufficiente per riconoscere subito chi era. Una piacevole sor-
presa. Avere a che fare con lei piuttosto che con qualche testa quadrata, sarebbe stato decisamente più semplice. Aveva un'aria quasi innocente. Era la donna che accompagnava Val a Helsinki e in quel momento mi stava mostrando un occhio azzurro chiaro e qualche ciocca di capelli biondo scuro. Probabilmente d'estate, quando il sole cominciava a lavorarci sopra, si schiarivano. L'unico dettaglio che riuscivo a vedere attraverso la fessura era il maglione di lana blu scuro a collo alto che indossava. Mi guardò senza espressione, in attesa che parlassi. «Mi chiamo Nick. Hai qualcosa per me.» «Sì, ti stavo aspettando.» Non batté ciglio. «Hai un cellulare o un cercapersone?» Annuii. «Sì, ho un telefono.» 'Fanculo quello che aveva detto Val. Mi serviva, aspettavo la telefonata dalla clinica. «Posso chiederti di spegnerlo, per piacere?» «È già spento.» Non aveva senso lasciar scaricare la batteria mentre ero in moto. Inclinai leggermente il casco per non far cadere la pistola, raggiunsi la tasca destra, tirai fuori il telefono e le mostrai il display. Se ne uscì con un compitissimo «grazie», quindi la porta venne chiusa e sentii scorrere la catenella. La porta si spalancò, ma invece di rimanere ferma e farmi entrare, la donna si voltò e se ne andò. «Chiudi tu la porta, per favore, Nick?» Feci un passo oltre la soglia e sentii odore di cera da pavimento. La seguii nel corridoio, memorizzando la disposizione delle stanze. Un paio di porte da entrambi i lati e una in fondo, semiaperta. Il pavimento era di semplice legno chiaro, le pareti e le porte bianco brillante. Non c'erano mobili né quadri, neppure un attaccapanni. Concentrai l'attenzione sulla donna di Val. In Finlandia avevo pensato che sembrasse così alta per via dei tacchi, adesso potevo rendermi conto che le gambe facevano tutto da sole. Era circa uno e ottanta anche con gli stivaletti da cowboy, che emettevano un suono secco e ritmato al contatto dei tacchi con il pavimento. Camminava come un'indossatrice sulla passerella. Le gambe erano fasciate in un paio di jeans Armani. L'etichetta sulla tasca posteriore seguiva il movimento in su e giù dei passi. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. Feci scivolare la pistola nella tasca destra, spostai il telefono in quella di sinistra, convinto che Armani dovesse pagarla per un'esibizione del genere.
Ero tentato di comprarne un paio anche per me. Sulla destra c'era una porta socchiusa e sbirciai dentro. La cucina era asettica come il corridoio: al bancone per la colazione isolati sgabelli bianchi, nessun bollitore, nessuna bolletta in vista. Lì non viveva nessuno. Entrai nel soggiorno dove lei mi aspettava, un locale ampio e bianco con al centro tre sedie una diversa dall'altra. Alle finestre, tende di mussola rendevano la luce opaca e soffusa. Gli unici altri oggetti presenti nella stanza erano quattro grandi sacchetti di Harvey Nichols che sembravano sul punto di scoppiare, e una sacca nera Waterstone. All'interno della tasca laterale si riconoscevano sagome di libri. Mi diressi nell'angolo più lontano e mi appoggiai alla parete. Attraverso le finestre con i doppi vetri si udiva il debole mormorio del traffico. Si chinò sopra uno dei sacchetti e ne estrasse una busta imbottita formato A2. «Mi chiamo Liv. Valentin ti manda i suoi saluti», disse, porgendomi la busta. «E naturalmente la sua riconoscenza. Questa è per te. Centomila dollari americani.» Magnifico. Mi riportavano in pari con la clinica e garantivano altri quattro mesi di trattamento. Allungò una mano perfettamente curata. La pelle del viso, chiara e trasparente, non aveva bisogno di trucco. Calcolai che avesse da poco passato la trentina. I capelli le arrivavano alle spalle, con la riga a sinistra e portati dietro l'orecchio. Se quel giorno portava lo smalto per le unghie doveva essere di un colore chiaro. Non aveva anelli, né braccialetti, orecchini o collane. L'unico gioiello visibile era un semplice orologio d'oro con cinturino di pelle nera. In effetti aveva bisogno di gioielli tanto quanto la Venere di Milo di un drappo di velluto e un diadema di brillanti. Cominciavo a capire perché Val preferisse la Finlandia alla Russia. Non avevo intenzione di aprire subito la busta. Non volevo dare l'impressione di essere alla disperazione o malfidente. Ero entrambe le cose, ma non volevo che lei se ne accorgesse. Fino a quel momento non avevo ancora avuto il tempo di osservarla bene. La prima volta in cui mi ero imbattuto nella sua esistenza era stato all'arrivo di Val in Finlandia, tre giorni prima del rapimento. Ma le ricognizioni si fanno per pianificare e non per ammirare le bellezze locali. E io lo sapevo. Non avevo mai visto una donna dai lineamenti altrettanto regolari,
mento forte, labbra carnose e occhi che davano l'impressione di capire tutto senza far trapelare niente. Il suo corpo statuario era frutto di canoa e scalate piuttosto che di saltelli in palestra a ritmo di musica. La mazzetta di banconote che si avvertiva attraverso l'imbottitura della busta mi riportò al mondo reale. Poggiai il casco per terra, abbassai la cerniera del giubbotto e infilai la busta all'interno. Si voltò e andò a sedersi su una sedia vicino ai suoi acquisti. Io mantenni la postazione contro il muro. Con un cenno della mano mi invitò a sedermi, ma rifiutai. Restare in piedi mi consentiva velocità di reazione nel caso fosse spuntato qualche amico testa quadrata e l'incontro si fosse rivelato poco amichevole. Provai una fitta di invidia nei confronti di Val. Soldi e potere attraggono sempre donne bellissime. Il mio bidone a pedale sempre pieno di solleciti non suscitava esattamente lo stesso effetto. Liv mi guardava con la stessa espressione del signor Spock sul ponte dell'Enterprise, cosciente dell'illogicità delle cose. Lo stesso tipo di occhiata che mi aveva lanciato nella hall dell'albergo, penetrante e indagatrice, come se ti guardasse direttamente dentro la testa, eppure riuscendo chissà come a non farlo capire. Mi metteva a disagio, così mi chinai, raccolsi il casco e feci per andarmene. Si mise comoda e accavallò le lunghe gambe. «Ho una proposta da farti da parte di Valentin, Nick.» Lasciai il casco al suo posto, ma non dissi niente. Avevo imparato sulla mia pelle che è sempre bene ricordare che possediamo due orecchie e una bocca sola. Il suo sguardo rimase freddo. «Ti interessa?» Certo che sì. «Be', sì, in linea di massima.» Non mi andava di passare tutta la giornata a menare il can per l'aia, né lei sembrava il tipo che l'avrebbe fatto. Quindi meglio andare avanti. «Cosa vuole da me?» «È un compito facile, ma da affrontare con molta delicatezza. Ha bisogno di qualcuno - e vuole che questo qualcuno sia tu - che faccia da assistente a un'altra persona per penetrare in una casa in Finlandia. L'altra persona è un crittografo, o per meglio dire un hacker altamente specializzato. All'interno della casa ci sono dei computer e questa persona userà il suo talento per entrarci dentro, scaricare il contenuto su un portatile e portarlo via. Prima che tu lo chieda, nei computer ci sono informazioni che a Valentin interessano particolarmente.» Si allungò sulla sedia e aprì uno dei sacchetti.
«Stiamo parlando di spionaggio industriale?» «Non esattamente, Nick. Più commerciale che industriale. Valentin ti chiede di collaborare all'acquisizione di questi dati, ma senza che i proprietari della casa si accorgano che lo hai fatto. Desideriamo che mantengano la convinzione di essere i soli a possedere quelle informazioni.» «È tutto qui?» «Esiste qualche piccola complicazione, di minore importanza, di cui parleremo se sei interessato.» Lo ero, ma non esistono piccole complicazioni. Finiscono sempre per rivelarsi grandi. «Quanto?» Per la risposta dovetti attendere che in un fruscio di carta velina pescasse da uno dei sacchetti Harvey Nichols un cardigan di cachemire color crema. Se lo appoggiò sulle cosce, spostò all'indietro i capelli e mi guardò negli occhi. «Valentin ti offre un milione e settecentomila dollari. Se l'operazione va a buon fine, naturalmente.» Sollevò una mano. «Non trattabili. La sua offerta è questa, più di un milione di sterline. Desidera che tu possa visualizzare una cifra tonda nella tua valuta. Sei un uomo fortunato, Nick; gli piaci.» Fino a quel punto sembrava un sogno che diventava realtà. Quanto bastava a insospettirmi. Ma in fondo, cazzo, per il momento se ne stava solo parlando. «Valentin ha abbastanza potere per prendersi quello che vuole con la forza. Perché viene a cercare proprio me?» Con dita esperte staccò i cartellini dal cardigan e li lasciò ricadere nel sacchetto. «Per questo lavoro ci vuole astuzia, non muscoli. Te l'ho detto, nessuno deve sapere che Val possiede quel materiale. E in ogni caso, preferirebbe tenersi al di fuori dei soliti canali. È una questione delicata, e a Helsinki si è reso evidente che hai una discreta competenza in questo campo.» Tutto molto bello, ma era giunto il momento di fare qualche domanda. «Esattamente su cosa dovrei mettere le mani?» S'infilò il cardigan, senza staccarmi gli occhi di dosso. Mi stava ancora soppesando, ne ero certo. «Questo non ti riguarda, Nick. L'unica cosa che conta è che arriviamo prima dei Maliskia.» La interruppi. «Vuoi dire che dobbiamo rubare ai Maliskia?» Sorrise. «Noi non 'rubiamo', copiamo. Scarichiamo. Il tuo compito è accompagnare il nostro uomo dentro e fuori senza che loro si accorgano che è successo. Queste sono le condizioni, se vuoi che continui.»
«Ho capito», dissi. «Maliskia dev'essere il modo russo per dire 'piccole complicazioni'.» Sorrise ancora, dischiudendo le labbra e lasciando intravedere denti bianchi e perfetti. «In Occidente ci chiamano 'mafia russa', come se fossimo un unico grande gruppo. Non è così. Siamo in tanti gruppi. I Maliskia rappresentano una fazione, e gli unici veri competitori di Valentin. Non so che idea ti sei fatto di lui, ma Val è uno che vede lontano. I Maliskia no; sono solo delinquenti. È molto importante che non vengano mai a conoscenza di questa informazione. Sarebbe un disastro per noi tutti, Oriente e Occidente. Questo è quanto posso dirti sulla questione. Allora, vuoi che continui?» Certo che lo volevo. È sempre utile sapere qualcosa dei tuoi avversari. Non che mi avesse rivelato cose che Val mi aveva taciuto. Ascoltai con attenzione mentre mi spiegava che il bersaglio era una stazione in via di allestimento per l'elaborazione delle informazioni «concorrenziali» che Val voleva ottenere. Per altri sei o sette giorni non sarebbe entrata in collegamento e solo a quel punto avrei potuto introdurre il loro uomo per scaricare quanto cercavano. Il problema era che nel momento in cui il collegamento fosse stato approntato, i Maliskia avrebbero fatto in fretta a individuarla. «La partita è questa, Nick. Lo ripeto, dobbiamo avere quella roba per primi e nessuno deve sapere che ce l'abbiamo.» Non ci vedevo nulla di strano. Avevo passato anni a fare questo tipo di cose per molto meno di un milione e settecentomila dollari. Forse era arrivata l'occasione per risolvere la mia vita, e quella di Kelly, una volta per sempre. Un bel dito medio alzato a tutti, in particolare a Lynri. L'incontro con Lynn mi aveva fatto profondamente girare le palle. Sapeva bene che se io ero stato risparmiato e lui no era perché, come operatore sul campo, io ero più utile alla Ditta di un qualsiasi funzionario come lui. Dopo Washington, la Ditta sapeva di tenermi per i coglioni. E io odiavo quando mi si teneva per i coglioni. «Mi preoccupa un po' tornare in Finlandia», dissi. «Non credo di essere molto benvoluto da quelle parti.» Sorrise, paziente. «Non ti stanno cercando, Nick. Per quanto riguarda la polizia finlandese, si è trattato di una faccenda fra russi. Valentin ha già rilasciato una dichiarazione in questo senso alle autorità. Non ti preoccupare, non è un problema. Se lo fosse, Valentin non avrebbe corso il rischio di offrirti questo incarico.»
Mi diede il tempo di pensare a quanto aveva detto e iniziò a togliere pelucchi al cardigan. «Quelli non erano tuoi amici, vero?» Sollevò lo sguardo. «La scelta della squadra non dev'essere stata fra le tue prestazioni migliori.» Sorrisi e mi strinsi nelle spalle. Ero indifendibile. «Sono convinta di no.» Lasciò cadere un pelucco sul pavimento. Nei cinque minuti successivi continuai a fare domande e lei non riuscì a darmi risposte adeguate. L'obiettivo, aveva detto, era piuttosto semplice, ma a me non sembrava a basso rischio. Restavano troppe domande senza risposta. Quante persone si trovavano nella casa? Che tipo di sorveglianza avevano? Dove cazzo era? Non mi era neppure concesso sapere chi era il tizio che dovevo portare dentro. Lo avrei saputo se avessi apposto la firma sulla linea tratteggiata. D'altra parte, un milione e settecentomila dollari contro duecentonovanta sterline al giorno non erano il tipo di differenza con cui si possa facilmente convivere. Mi porse un foglio piegato. Feci cinque passi e lo presi. «Qui ci sono i riferimenti per metterti in contatto con la persona che devi portare dentro, sempre che tu riesca a persuaderla. Se ci riesci, il compenso sale a due milioni di dollari, per coprire la sua parte. Ora, un'altra piccola complicazione: né Valentin né io possiamo correre il rischio di venire associati a questo lavoro, per cui sarai tu il punto di contatto. Sei tu che devi convincerlo.» Tornai al mio casco leggendo un indirizzo e un numero di telefono di Notting Hill. Liv disse: «Si chiama Tom Mancini. Credo che tu lo conosca». Mi voltai a guardarla. Il nome mi diceva qualcosa, ma non era questo il problema. Mi dava fastidio che lei sapesse di me, che conoscesse cose del mio passato. Il mio fastidio dovette essere evidente. Lei sorrise di nuovo e scosse appena la testa. «Naturalmente Valentin si è dato da fare per sapere tutto di te in questi ultimi giorni. Pensi davvero che avrebbe affidato questo lavoro a qualcuno senza farlo?» «Che cosa sa?» «Quanto basta, ne sono certa. E quanto basta anche di Tom. Valentin è sicuro che voi due siate le persone giuste. Ora, Nick, come sicuramente hai capito, abbiamo poco tempo. Entro domenica devi trovarti in Finlandia. Hai bisogno soltanto dei particolari del viaggio. Di tutto il resto ci occuperemo noi.»
Mi diede i dettagli per il contatto. Erano elementari, forse appena eccessivi, ma facili da capire, il che andava bene perché avevo un milione e settecentomila altre cose che mi giravano contemporaneamente per la testa. Si alzò. Facile da capire, il nostro incontro era finito. «Grazie per essere venuto, Nick.» Le strinsi la mano, calda ed energica. La guardai negli occhi, forse per una frazione di secondo troppo a lungo, poi mi chinai a raccogliere il casco. Mi seguì fino alla porta. Mentre giravo la maniglia disse: «Un'ultima cosa, Nick». Mi voltai a guardarla, era così vicina che sentivo il suo profumo. «Vorrei che tu non accendessi il cellulare finché non sarai lontano da qui. Arrivederci, Nick.» Annuii e la porta si richiuse. Sentii scattare le serrature e la catena che veniva agganciata. In ascensore ricacciai indietro l'impulso di mettermi a ballare una giga o saltare in alto battendo i talloni. Non ero mai stato il tipo che prende le occasioni al volo - non che avessi mai avuto molto da prendere al volo, in verità -, ma la proposta di Valentin sembrava buona, e i pochi dubbi che avevo erano stati fugati dalla busta che avevo nella giacca, sempre che non esplodesse sulla via del ritorno. L'ascensore rallentò e le porte si aprirono al pianterreno. Il portiere mi guardò accigliato, chiedendosi come mai mi ero fermato così a lungo. Tirai fuori dal casco il passamontagna e gli feci un cenno. «È stata magnifica», dissi. Quando le porte scorrevoli si aprirono e mi trovai di fronte alle videocamere della sicurezza, la maschera mi copriva di nuovo la faccia. 11 Nel vialetto cominciai a tirar fuori, con il pollice e l'indice, le cinghie del casco. Avevo appena oltrepassato il cancello ed ero sul marciapiede quando sentii il rumore di una macchina che si avvicinava. Giocherellando con le cinghie alzai lo sguardo verso sinistra per controllare di poter attraversare. Una Peugeot 206 sgommava verso di me alla velocità del suono. Era marrone scuro, e sporca a causa della fanghiglia e del sale sparso per le strade nelle ultime due settimane. Sul volante, le nocche bianche di una donna sui trenta con un ciuffo che le arrivava al mento. Mi fermai per la-
sciarla passare, ma quando fu a dieci metri di distanza rallentò visibilmente. Guardai a destra. L'uomo della sicurezza di Israele, circa settanta metri più avanti, non sembrava in allarme, e neppure l'agente in borghese dall'aria annoiata e infreddolita dall'altra parte della strada. La osservai arrivare alla barriera, mettere la freccia a sinistra e infilarsi nel traffico. Fissai la targa. R, la macchina era del 1998, ma c'era qualcosa di molto più interessante: nessun adesivo sul lunotto posteriore che mi raccontasse quanto erano bravi quelli che gliel'avevano venduta. D'un tratto mi resi conto di sapere quello che stava facendo. Ma altrettanto rapidamente scacciai quel pensiero dalla testa. Merda, sui possibili pedinamenti stavo diventando paranoico come Val e Liv a proposito dei cellulari. Indossai il casco e inserii le chiavi nel Ducati. Stavo per infilarmi i guanti quando mi fissai su un altro veicolo a circa quaranta-cinquanta metri di distanza, una Golf GT blu notte parcheggiata insieme con altre; due persone all'interno, entrambe appoggiate agli schienali. Non parlavano e non si muovevano. I finestrini laterali erano appannati, ma dal parabrezza si aveva una perfetta visuale del cancello che portava agli appartamenti. Annotai mentalmente la targa. Non che fosse importante. Be', per lo meno è quello che cercavo di ripetermi. P116 qualcosa, era tutto quello che serviva. Decisi che se non la smettevo con queste paranoie sarei finito in clinica insieme con Kelly e iniziai a darmi delle sberle virtuali. Poi ricordai: era la paranoia a tenere in vita i tipi come me. Guardai ancora una volta in giro, il casco in testa, come se stessi controllando la moto. Non vidi niente che mi facesse sentire a disagio, così inforcai la moto e scesi dal cavalletto. Avviai il motore, con il piede sinistro spinsi verso il basso la leva del cambio, ingranai la prima, aumentai appena i giri del motore, voltai a sinistra e raggiunsi i cancelli principali. Se la Golf era lì per me, la squadra che avrebbe avuto l'incarico di seguirmi stava ricevendo via radio una descrizione puntuale, passo dopo passo, di ogni mio movimento. Avevano bisogno di un quadro esatto di com'ero fatto, com'era la moto, il numero di targa e quello che facevo. «Mette il casco, mette i guanti... non se ne è accorto... ora è completo (sulla moto). Girato la chiavetta, motore acceso, fermo, fermo. Si dirige verso l'uscita di Kensington... la raggiunge. Senza direzione (non ha frecce che dicano dove è diretto)...» Tutti dovevano sapere esattamente quello che stavo facendo e dove mi trovavo in un raggio di dieci metri in modo da garantire copertura di sor-
veglianza totale su di me. Non è come in Miami Vice, dove i bravi ragazzi se ne stanno seduti con microfoni attaccati alla bocca e una gigantesca antenna sul tetto. Nei veicoli E4 le antenne sono interne e i microfoni non si vedono. Tutto quello che si deve fare è schiacciare un bottone, un interruttore messo dove si vuole. Il posto che preferivo era fissato all'interno del cambio. Così potevi limitarti a parlare, o a fare finta di divertirti o di litigare. Non è molto importante, l'essenziale è fornire dettagli. Cosa che, se mi erano addosso, quei due stavano facendo in quel momento. Ciò che mi rendeva nervoso era che le due macchine erano perfette per la sorveglianza in città. Entrambe piuttosto comuni, di colore indefinito e scuro e poi erano compatte, potevano agilmente scivolare dentro e fuori dal traffico, facili da posteggiare o abbandonare, se il bersaglio proseguiva a piedi. Non tutte le auto hanno l'adesivo del concessionario sul vetro posteriore; ma quelle usate per i pedinamenti tendono comunque a non averne perché costituiscono segni di identificazione. Se si trattava di una squadra di sorveglianza dovevano essere E4, il gruppo di sorveglianza del governo che controllava tutti, dai terroristi agli sfuggenti politici inglesi. Nessun altro avrebbe potuto tenere sotto sorveglianza quella zona. C'erano più agenti di sicurezza che a Wormood Scrubs. Ma perché io? Non aveva senso. Non avevo fatto altro che entrare in un palazzo. Arrivai alla barriera e il guardiano mise la testa fuori dal suo gabbiotto, nel freddo, cercando di ricordare se ero quel tipo che una mezz'ora prima aveva detto di essere un corriere. Voltai a destra e mi immisi nel traffico, ancora da incubo. Mi avviai nella direzione opposta rispetto alla Peugeot, e cercai di comportarmi nel modo più normale possibile. Non sarei schizzato via come un gatto scottato facendo vedere che sapevo. Volevo controllare se nel mirino c'ero proprio io. Stava diventando buio e controllai nello specchietto, in attesa che da un momento all'altro una moto di sorveglianza mi si attaccasse al culo. O l'autista della Peugeot era fuori di testa e non riusciva a tenere sotto controllo la situazione, oppure era un membro nuovo dell'E4, nuovo e inutile. Era possibilissimo che avessero un dossier su Val, come su molti altri residenti in quella zona. Io potevo essere semplicemente un volto nuovo che aveva bisogno di una foto per la logistica e per la normale raccolta di informazioni sull'edificio. Se avevo ragione, la donna stava cercando di farmi una foto o una ripre-
sa video e aveva cannato il tempo. In effetti non era una cosa semplicissima, perché avevi un'unica possibilità e la tensione era sempre alta, ma quella era una vera incompetente. L'auto poteva essere equipaggiata con entrambe, cinepresa e macchina fotografica, nascoste dietro la griglia del radiatore o parte dei fari, o in una zona posteriore da cui fossero stati asportati frammenti di carrozzeria perché agli obiettivi arrivasse luce sufficiente. Venivano azionate elettronicamente da chi era al volante nel momento in cui passava davanti al bersaglio. Le riprese venivano impresse sul rullino o sulla pellicola a una velocità molto elevata. Ecco perché la tempistica era fondamentale: schiacciando il bottone troppo in anticipo, la pellicola può finire prima di raggiungere il bersaglio; oppure il bersaglio si sposta dietro una macchina parcheggiata mentre partono le riprese e il risultato dei tuoi sforzi consisterà in una graziosa fotografia di una Ford Fiesta, oltre che in qualche problema da parte dei capi al momento del rapporto. La videocamera era più affidabile, ma in grado di registrare solo pochi secondi del soggetto in movimento. Per come stavano le cose, tutto quello che avevano era la visione di un motociclista con un passamontagna. Questo pensiero mi fece sentire meglio. Non avevo idea di dove potessero andare a finire quelle foto, ma sapevo che Lynn non sarebbe stato contento di vederle se fossero arrivate fino a lui. Guardai nello specchietto. Con perfetto sincronismo apparve il riflesso del faro di una moto. Non era detto che fosse un operatore della sorveglianza, ma avevo modo di scoprirlo. Stavo guidando come uno di quei tristi individui sui quaranta e passa. I ragazzi sono cresciuti, la casa praticamente è pagata e finalmente possono comprarsi la moto che mammina non gli ha mai permesso di avere. Novanta su cento sarà la moto più gigantesca che la loro American Express di platino possa sopportare, e tutto per andare avanti e indietro dal lavoro senza neppure lontanamente sfiorare il limite di velocità. La differenza stava nel fatto che io non ero terrorizzato all'idea di dare gas a manetta. M'interessava solo verificare se lo avrebbe fatto il motociclista dietro di me. Lo fece. Mi superò sfrecciando in sella a una Honda 500 di otto anni con bauletto in plastica blu, molto malandato e tenuto insieme da un paio di elastici. Indossava dei pantaloni in pelle piuttosto lisi e un paio di stivali di gomma. Accostandomi si girò a guardarmi attraverso la visiera, tutto barba e disgu-
sto. Comprendevo i suoi sentimenti. Avevo altre moto dietro di me, che facevano lo slalom nel traffico. Mi spostai al centro della strada e aumentai la velocità per superare un paio di auto, poi rientrai nel flusso allineandomi dietro un furgone Transit arrugginito che avanzava lentissimamente. Lasciai che altre moto e motorini mi superassero, anche una bicicletta, e dopo un paio di semafori fu chiaro che alle mie spalle, due macchine indietro, c'era un altro motociclista della domenica. All'incrocio successivo svoltai a sinistra e lui mi seguì. Alla ricerca di un posto dove fosse naturale fermarmi, fui attratto da un giornalaio. Appoggiai la moto sul cavalletto, ripetei la pantomima di sfilarmi casco e guanti, mentre una Yamaha VFR, del 1995, passava oltre, con tutta probabilità comunicando via radio dove mi trovavo. «Stop! Stop! Stop! Charlie uno (la moto) ferma a sinistra. Davanti al giornalaio, Bravo uno (io) ancora completo (sulla moto).» Tolsi il casco ma tenni il passamontagna. Quando si fu allontanato, scesi dalla moto ed entrai nel negozio. Non potevo andarmene all'istante, era come ammettere che sapevo. La ragazza dietro il banco sembrò spaventarsi perché non avevo tolto la maschera. C'era un cartello che pregava di farlo. Se me lo avesse chiesto le avrei risposto di no - nel mio migliore accento cockney muovi-il-culofuori-di-qui - e che andasse a cagare, perché io avevo freddo. Non volevo che la squadra dei miei pedinatori entrasse a requisire il nastro della camera a circuito chiuso con su il muso del vostro fedelissimo. Ma non mi avrebbe creato problemi, che cosa poteva importarle se ero lì per rubare l'incasso? Poteva risultare pericoloso per lei. Tornai alla moto tenendo in mano una copia dell'Evening Standard. Se ero nel giusto, a quell'ora c'era probabilmente una moto a entrambe le imboccature della strada. Le comunicazioni dovevano essere nel caos a causa delle auto che strombazzavano a quelle teste di cazzo che improvvisamente si erano messe a fare inversione di marcia nel bel mezzo del traffico, tutto senza che io me ne rendessi conto, nel tentativo di riprendere le posizioni. Un bersaglio temporaneamente statico risulta sempre pericoloso per una squadra di sorveglianza. Tutti devono trovarsi in posizione in modo che, quando torna mobile, tutte le alternative siano coperte. Funziona così: è il bersaglio che va verso la squadra e non la squadra che chiude sul bersaglio. Ma dov'erano? Non potevo preoccuparmi di guardare; l'avrei scoperto
fin troppo presto. Ingranai la prima e continuai nella medesima direzione, verso la stazione della metropolitana di South Kensington, circa mezzo chilometro più avanti. Parcheggiai nel settore moto, entrai nella stazione affollata, armeggiando come per togliermi il casco, ma senza farlo. Invece tirai dritto e attraversai la strada con il casco addosso. Il lato sud della stazione era vicino a un ampio incrocio affollato con un'isola triangolare al centro che ospitava un mercato di fiori. Le stufette al propano oltre al calore producevano una rassicurante luce di un rosso brillante nell'oscurità che stava calando. Mi spostai, confuso in mezzo agli altri pedoni, nel punto più lontano dell'incrocio, al di là di una fila di negozi lungo Old Brompton Road. Circa cinquanta metri più avanti, entrai nel pub d'angolo, mi tolsi il casco e il passamontagna, e mi sistemai su uno sgabello di poco arretrato rispetto alla vetrina. Il pub era pieno di gente reduce dagli acquisti natalizi che voleva togliersi dal freddo e di impiegati che bevevano qualcosa con gli amici. Dopo pochi minuti vidi la Golf, ma senza il passeggero. Il quale, o la quale, probabilmente stava ispezionando a piedi la stazione della metro alla mia ricerca. Poi vidi la VFR e il pilota vestito di cuoio nero. Avrebbero trovato la Ducati, e l'intera squadra, probabilmente quattro auto e due moto, si sarebbe sparpagliata in giro, in lotta con il traffico, ripassando nei posti che avevano già coperto in modo che il loro controllo potesse indirizzarli da qualche altra parte secondo uno schema coerente. Quasi mi dispiaceva per loro. Avevano perso il loro obiettivo ed erano nella merda. A me era successo migliaia di volte. 12 Rimasi seduto a guardare l'uomo dai capelli scuri al volante della Golf. Fece un giro completo del circuito di sensi unici e ritornò rallentando per far salire una bruna non tanto alta. Ripartirono prima che lei avesse chiuso la portiera. Avevano fatto tutto quello che potevano; a quel punto l'unica era aspettare che il loro uomo tornasse alla moto. Quando avevano temporaneamente perso le mie tracce se l'erano vista brutta. Succedeva spesso, ma per intervalli brevi. E il fatto che fosse accaduto a una stazione di metropolitana ingigantiva il loro problema. Se non fossero riusciti a riprendere il contatto con me, l'unica alternativa che ave-
vano era di tener sotto controllo la moto. Alcuni di loro avrebbero effettuato delle verifiche sui luoghi sicuramente riconducibili al bersaglio. Erano soltanto due: il complesso residenziale dove, poco ma sicuro, sarebbero andati a parlare con il portiere per sapere di quale appartamento avevo chiesto, e l'indirizzo sul certificato di proprietà della moto, un fermo posta che si trovava un paio di negozi più in là rispetto a dove era posteggiata la Ducati. Corrispondeva a un negozio di materiale per uffici e invece di un semplice numero avevo richiesto il numero di una suite per dare l'impressione di un condominio agiato. Nessun dubbio, la donna stava effettuando esattamente quel controllo. L'intestatario della moto si chiamava Nick Davidson e Suite 26 era il suo ipotetico indirizzo. Il vero Davidson, se mai fosse tornato dall'Australia, si sarebbe incazzato come una iena scoprendo come mi ero impossessato della sua esistenza inglese. Dopo quanto era successo, non appena messo piede fuori dall'aereo avrebbe passato momenti piuttosto fastidiosi a partire da dogana, ufficio immigrazione e servizi di sicurezza vari. Sarebbe stato schedato. Tutto ciò significava anche che la mia identità di copertura, quella da usare in casi d'emergenza, ormai era passata alla storia, il che mi faceva girare non poco le palle. Ottenere una posizione alla previdenza sociale, un passaporto, un conto corrente bancario, mi era costato mesi di fatica. Avevo dato vita a un personaggio vivo e vegeto, e adesso dovevo gettarlo nella spazzatura. E, peggio ancora, insieme con l'identità dovevo buttare anche la moto. L'avrebbero tenuta nel mirino per le prossime ore, a seconda di quanto ero importante per loro. Oppure avrebbero applicato sulla moto un dispositivo elettronico. L'unica cosa divertente era il pensiero di quello che sarebbe successo al malcapitato che vedendola abbandonata da qualche giorno avesse deciso di rubarla. Quando la squadra E4 fosse entrata in azione, non avrebbe nemmeno fatto in tempo a capire che cosa lo avrebbe colpito. Mi coccolai una Coca senza smettere di controllare la situazione attraverso le grandi vetrate vittoriane. Avevo il bicchiere quasi vuoto e per non sembrare stonato dovevo fare rifornimento. Mi feci largo fra la gente, raggiunsi il bancone, ordinai un bicchierone di limonata e mi andai a sedere in un angolo. Non era necessario continuare a guardare fuori. Sapevo di avere addosso una squadra. Era sufficiente che me ne restassi seduto e all'erta, gli occhi fissi sulle porte nel caso avessero deciso di dare un'occhiata anche nei pub. Entro un'ora la giornata lavorativa avrebbe avuto fine. Avrei
aspettato fino a quel momento e poi mi sarei perso nel buio e nel traffico dei pendolari. Sorseggiai il mio beverone pensando a Tom Mancini. Il suo nome mi diceva parecchio. Uno dei miei primi incarichi come K, nel '93, era stato portarlo dal nord dello Yorkshire, dove lavorava, a una base della marina militare vicino a Gosport, nell'Hampshire. Mi era stato ordinato di trattarlo così male da fargli desiderare di essere consegnato alla gente della Ditta, dove dovevo portarlo. Non ci era voluto molto, un paio di sberle, una faccia truce e la comunicazione che se mi avesse fatto incazzare l'unica cosa del suo corpo che avrebbe continuato a muoversi sarebbe stato l'orologio. Lo portammo in uno dei «fortini» lungo la costa, dove non gli venne dato neppure il tempo di rimettersi un po' in sesto che la squadra interrogatori della Ditta gli aveva già spiegato come girava la vita. Operava in qualità di tecnico nella stazione d'ascolto di Menwith Hill, e lo avevano beccato mentre cercava di ottenere informazioni segrete. Non fui ammesso all'interrogatorio, ma seppi che gli venne comunicato che il giorno dopo la Divisione speciale lo avrebbe arrestato per azioni contrarie alla legge sui segreti di Stato. Loro non potevano farci niente. E comunque, se non avesse fatto il bravo ragazzo, quello sarebbe stato solo l'inizio dei suoi problemi. In tribunale, a proposito di quanto aveva in effetti intercettato, doveva tacere. Qualsiasi cosa fosse, l'impressione era che la Ditta non voleva che qualcuno ne venisse a conoscenza, neanche la Divisione speciale. Così facendo l'imputazione sarebbe stata per un reato minore. Doveva dire soltanto per conto di chi lavorava e, naturalmente, dimenticare che quella «riunione» ci fosse mai stata. Doveva limitarsi a rilasciare un'unica breve dichiarazione. Se gli fosse sfuggita una sola parola con chiunque, qualcuno come me sarebbe andato a fargli visita. Tom aveva voluto giocare con ragazzi troppo più grandi di lui. Sapevo che la base aerea di Menwith Hill, nelle lande desolate che circondano Harrogate, nello Yorkshire, era una delle più grandi centrali di raccolta informazioni esistenti sulla faccia della terra. I suoi imponenti radomes a forma di pallina da golf monitoravano le onde aeree dell'Europa e della Russia. Ufficialmente era una base inglese, ma in realtà si trattava di un piccolo pezzo degli Stati Uniti in suolo inglese gestito dall'onnipotente Agenzia per la sicurezza nazionale, l'NSA. Ci lavoravano circa millequattrocento americani fra ingegneri, fisici, matematici, linguisti ed esperti informatici. Trecento inglesi completavano lo staff, il che voleva dire che a
Menwith Hill era impiegato lo stesso numero di persone che lavoravano per la Ditta. Menwith Hill operava in stretta collaborazione con il Quartier generale governativo delle comunicazioni - detto GCHQ -, di Cheltenham, raccogliendo informazioni elettroniche fino alla Russia orientale. Ma il GCHQ non aveva automaticamente accesso alle informazioni raccolte a Menwith Hill. Tutte le informazioni convergevano direttamente all'NSA di Fort Meade, Maryland. Da lì, la documentazione sul terrorismo che poteva in qualche modo essere messa in relazione con la Gran Bretagna, veniva ridistribuita al servizio di sicurezza, alla Divisione speciale o a Scotland Yard. Il contratto tra Gran Bretagna e Stati Uniti prevede che noi possiamo comprare le armi nucleari americane a condizione che basi come Menwith possano operare sul suolo inglese e gli Stati Uniti abbiano accesso a tutte le operazioni del controspionaggio inglese. Triste ma vero: loro sono il Grande Fratello. La Gran Bretagna è solo uno dei tanti fratellini più piccoli. Da quello che ricordavo, Tom era uno sbruffone. Si presentava come il re dei piazzisti cockney, il che era abbastanza strano, perché proveniva da Milton Keynes ed era noioso almeno quanto il suo codice postale. Eppure, al termine del trasferimento in macchina verso sud, sembrava un bambino piccolo, tutto rannicchiato nel sedile posteriore. Mi preoccupava il fatto che Val sapesse che avevo conosciuto Tom, e che fosse a conoscenza di dettagli relativi a un periodo di ventiquattr'ore della mia vita che avevo completamente dimenticato. Ma io ero lì per i soldi, nient'altro, e così smisi di pensarci. Niente poteva farmi cambiare idea. Vuotai il bicchiere, raccolsi il casco e andai alla toilette. Piazzai il casco sulla vaschetta dell'acqua, mi sedetti sul coperchio, aprii la cerniera del mio giubbotto e tirai fuori la busta. Dopo un pomeriggio intero di gente che sbaglia mira o se lo scrolla in giro come i cani, l'orinatoio puzzava. Ispezionai la busta imbottita. La appoggiai sulle ginocchia e vi premetti sopra i palmi delle mani, tastando con i polpastrelli la sagoma del contenuto. La voltai e controllai l'altro lato. Non avvertii nessun filo elettrico, né qualcosa di più solido di quello che mi auguravo fosse il contorno delle banconote, ma neanche questo significava qualcosa. Per far esplodere una lettera-bomba sarebbe stata sufficiente la potenza di una batteria da polaroid sottile come un'ostia infilata fra le banconote. Poteva essere il modo tutto particolare di Val per dire grazie.
La sollevai e la avvicinai al naso. Se c'era un meccanismo e avevano usato dell'esplosivo, esotico o vecchio stile, forse si riusciva a sentirne l'odore. A volte marzapane, a volte olio di semi di lino. Mi sarei aspettato qualcosa di più sofisticato, ma è bene non escludere niente. L'unico odore che avvertivo era quello del pisciatoio. Il rumore del bar andava e veniva ogni volta che la porta esterna veniva aperta. Proseguii l'ispezione della busta. Decisi di aprirla. Sembravano soldi, pesavano come soldi. Se mi sbagliavo, l'intero pub l'avrebbe saputo assai presto e una sfigata compagnia di assicurazione avrebbe dovuto liquidare i danni. Estrassi la lama del Leatherman e incisi con cautela il centro della busta, controllando praticamente ogni centimetro dell'interno alla ricerca di fili o roba del genere. L'aspetto prometteva bene. Cominciai a intravedere il verde delle banconote americane. Ogni mazzetta di banconote usate da cento dollari che tirai fuori era avvolta da una fascetta. La fascetta m'informava che si trattava di diecimila dollari e le mazzette erano dieci. Ero felice come un orsacchiotto. Val aveva mantenuto la parola. A quel punto non solo godeva del mio rispetto, ma mi piaceva proprio. Non abbastanza da presentargli già mia sorella, ma tanto una sorella non ce l'avevo. Qualcuno provò ad aprire la porta del mio cubicolo. Grugnii come se ne stessi scaricando uno grosso. Entrò in quello accanto, sentii il fruscio dei jeans che si abbassavano e lui che cominciava a darsi da fare. Mi infilai i soldi nei pantaloni sorridendo piuttosto soddisfatto di me stesso, mentre il tizio della porta accanto si scoreggiava l'Inghilterra. Rimasi nel pub un'altra mezz'ora, a bere limonata e a leggere per la terza volta l'Evening Standard. Mi domandai se la squadra se ne fosse andata. Nove su dieci era solo questione di soldi. Probabilmente occupandosi di me speravano di guadagnarsi un piccolo extra natalizio. Gli operatori dell'E4 venivano trattati peggio delle infermiere; si facevano un culo così e ci si aspettava sempre che tirassero avanti senza battere ciglio. A quell'ora sapevano sicuramente che l'indirizzo era soltanto un fermo posta, e questo doveva averli messi in allarme. Di sicuro avevano già in mente di presentarsi all'ufficio recapiti il giorno successivo e aprire la casella per vedere cosa c'era dentro. Mi avrebbero anche inserito nei loro elenchi speciali, e ciò avrebbe fatto sì che il regio servizio di smistamento posta trattenesse per un po' ogni busta indirizzata alla Suite 26, per consentire a occhi curiosi di dare un'occhiata. Avrebbero trovato solo la fattura del canone di noleggio. Quella di Davidson. Forse l'avrebbero anche pa-
gata. Io certamente non me ne sarei più interessato. L'indomani, se avessero deciso di approfondire, avrebbero scoperto che il signor Davidson era stato in Norvegia da poco, rientrando per la stessa via che aveva usato all'andata svariate settimane prima. E cosa se ne sarebbero fatti di un'informazione del genere? Dubitavo che la loro conclusione sarebbe stata che Davidson era andato a sciare, dopo averlo visto uscire da un complesso residenziale tenuto sotto controllo, in cui uno dei proprietari era un russo colpito pochi giorni prima in un Paese distante solo un giorno di viaggio dal punto di sbarco di Davidson. Che andassero a farsi fottere. Era troppo tardi per preoccuparsene. Finché non avevano una mia foto, ero tranquillo. Rimasi seduto con un'altra Coca e un pacchetto di patatine. Trentacinque minuti dopo decisi che era arrivato il momento di schiodare. Il traffico delle ore di punta si muoveva alla velocità di un metro al minuto su tutti i lati del triangolo di strade: un inferno di fari e gas di scarico. Una macchina su quattro aveva la freccia, nella convinzione che la corsia accanto scorresse di più. Il traffico pedonale era altrettanto caotico, e procedeva più veloce delle auto. Tutti erano imbacuccati per difendersi dal freddo e tutti desideravano arrivare a casa il più presto possibile. Lasciai il casco sotto il tavolo, e uscii da una porta che dava su un'altra strada. Il casco era un segno di identificazione. Lo erano anche i miei pantaloni da motociclista, ma farne a meno non sarebbe stato facile. Dovevo eliminare le cose che potevano farmi individuare. Priorità assoluta era trovare un albergo per la notte, e la mattina dopo mettermi in contatto con Tom. Avevo anche bisogno di vestiti. Senza la moto non aveva nessun senso che me ne andassi in giro come il giudice Dredd. Se si ha bisogno di negozi aperti fino a tardi, bisogna andare nel West End. Presi un taxi per Piccadilly Circus, e cambiai mille dollari a duecento alla volta in vari botteghini di cambio. Per darmi allo shopping feci un altro breve tragitto in taxi e arrivai fino da Selfridges, dove comprai vestiti, il necessario per lavarmi e sbarbarmi e un contenitore appropriato per la mia nuova ricchezza. Poi mi prenotai al Selfridges Hotel utilizzando la carta di credito a nome Nick Stone. Usare quella di Davidson sarebbe stato un invito a venirmi a bussare alla porta nel giro di poche ore. Dopo un bagno e un cambio di vestiti - fantasia, pochina: jeans, stivali
Timberland, felpa azzurra e bomber blu scuro - ordinai al servizio in camera un club sandwich e del caffè. 13 Sabato 11 dicembre 1999 Mi svegliai e guardai il Baby G. Erano le otto passate da poco e avevo giusto il tempo per un paio di passaggi in bagno prima di vestirmi. Con indosso i vestiti nuovi come un bambino il giorno di Natale, lasciai la giacca e i pantaloni di pelle sul letto e scesi a fare colazione, portando con me la borsa dei soldi. Dopo che una clinica molto riconoscente aveva incassato quello che dovevo e un acconto sul futuro, mi erano rimasti venticinquemila dollari. Curioso come i direttori finanziari siano disponibili a incassare anche di sera e per giunta ti preparino il caffè e te lo versino pure. I quotidiani erano pieni di brutte notizie, e mentre ingurgitavo una colazione completa all'inglese ascoltando americani e israeliani discutere delle cose che avrebbero comprato prima di partire, provavo una sensazione di benessere per aver mantenuto i miei impegni nei confronti di Kelly, anche se ero consapevole che avrei dovuto fare molto di più che non semplicemente tirar fuori dei soldi. Tornai in camera, mi sedetti sul letto e chiamai il numero che mi aveva dato Liv. Rispose una donna giovane. Il suo «pronto» era cordiale come se la mia fosse la quarta di una serie di telefonate sbagliate. «Salve, c'è Tom?» «No, non c'è», disse brusca. «Sarà da Coins. Chi parla?» Ebbi l'impressione che ci fosse qualcosa che non funzionava in casa Mancini. «Un amico. Ha detto Coins?» «Sì.» «Che cos'è, un negozio oppure...» «È la caffetteria vicino a Ledbury Road.» Stupido io che non lo sapevo. «Molte gr...» Sbatté giù il telefono. Le pagine gialle vocali m'informarono che Coins si trovava in Talbot Road, a Notting Hill. Indossai il mio nuovo piumino frusciante, presi la
borsa con il malloppo e saltai in un taxi per andare a bere qualcosa con Tom. Mi feci prestare dal tassista il suo Londra dall'A alla Z, per vedere con esattezza dove abitava. Anche se il cielo era pieno di nuvoloni neri, io mi sentivo felice lo stesso. Non sapevo quasi nulla di Notting Hill, se non che ogni anno vi si svolgeva il carnevale, e che c'era stata un po' di eccitazione quando sembrava che Julia Roberts volesse andarci ad abitare. Durante il lancio pubblicitario del film avevo letto parecchio sui giornali di quella famosa atmosfera di paese e di come fosse stupendo abitare lì. Non riuscivo a scorgere tracce di paese, solo costosi negozi di abbigliamento, quelli con un unico paio di scarpe in vetrina circondato da faretti, alcuni negozi di antiquariato e una bottega Oxfam per la raccolta di fondi contro la povertà e le ingiustizie nel mondo. Svoltammo parecchie volte e passammo davanti a costruzioni decorate a stucchi, quasi tutte riconvertite ad appartamentini e molto rovinate, con brandelli di gesso che penzolavano dalle facciate. Il taxi si fermò a un incrocio e il vetro divisorio si aprì. «È senso unico, capo. La lascio qui, se per lei va bene. Coins è poco più in là, sulla sinistra.» Vedevo un gran tendone sporgere sopra il marciapiede, con pannelli di plastica scorrevoli per proteggere dal freddo i coraggiosi che sedevano fuori a bersi il cappuccino. Pagai e proseguii a piedi. Quando fui più vicino mi resi conto che Coins aveva un doppio ingresso e qualche tavolino vuoto all'esterno. Le ampie vetrine ai lati della porta erano appannate dal vapore della cucina e della gente. Una volta dentro mi accorsi, dal pavimento in legno grezzo e dagli elementi in modesto laminato, che il caffè ambiva a sembrare essenziale e funzionale. La cucina era a vista e i profumi molto invitanti, nonostante il mezzo chilo di bacon e uova che non avevo ancora smaltito. Di Tom nessuna traccia, per cui mi sedetti nell'angolo più distante. Su tutti i tavoli c'erano riviste, foto artistiche alle pareti e locandine per una scoraggiante quantità di eventi artistici. Il menù consisteva in un foglio di carta A4 infilato in una busta di plastica. C'era di tutto, dal colesterolo puro alle salsicce vegetariane e alle insalate. I prezzi non s'intonavano all'arredo; c'era qualcuno che stava accumulando un'essenziale e funzionale ricchezza. L'età media dei clienti variava tra i venticinque e i trentacinque, e tutti erano così impegnati nella costruzione di uno stile personale che alla fine
sembravano dei cloni. Tutti portavano pantaloni sformati e piumini senza maniche e dovevano aver passato dei secoli ad aggiustarsi i capelli in modo da dare l'impressione di essersi appena alzati dal letto. Un buon numero portava occhiali dalla montatura spessa e rettangolare, più per farsi vedere che per vedere. «Ciao, dolcezza, cosa posso servirti?» una voce femminile dall'accento americano mi fluttuò alle orecchie mentre studiavo il menù. Sollevai lo sguardo e ordinai un latté, latte caldo macchiato, e un toast. «Perfetto, dolcezza.» Si voltò e mi presentò il vicecampione mondiale dei didietro, fasciato in pantaloni di nylon neri a zampa d'elefante. Non potei resistere alla tentazione di fissarlo mentre si allontanava ondeggiando e fui lieto di notare che non ero l'unico a farlo. Doveva essere l'attrazione per un buon numero di clienti; chiaro perché Tom ci veniva. Non mi restava che mettermi in ascolto delle conversazioni altrui. Sembrava che tutti fossero sul punto di fare un film o sul punto di avere una parte a teatro, solo che non era ancora successo, ma tutti avevano un copione fantastico che al momento era in lettura da un uomo meraviglioso che una volta divideva l'appartamento con Anthony Minghella. L'unico momento in cui tacevano era quando gli squillava il cellulare, ma solo per riprendere a voce ancora più alta. «Jambo, cicciobello! Come ti butta?» Tornò in scena Didietro dell'Anno. «Ecco qui, dolcezza.» Mi porse il mio bicchiere di latté e mi scottai le dita mentre la guardavo tornare in cucina. Presi una copia del Guardian, che una ragazza seduta al tavolo vicino al mio mi passò andandosene. Ci scambiammo un sorriso, sicuri di pensare la stessa cosa della nostra amica americana. Abbassai lo sguardo sulla prima pagina, in attesa del toast e di Tom. Una mezz'ora più tardi il toast era finito e stavo bevendo il secondo latté. I cloni andavano e venivano, baciando l'aria quando si incontravano e dandosi molta importanza uno con l'altro. Poi, alla fine, entrò Tom. Per lo meno immaginai che fosse Tom. Aveva i capelli unti e raccolti in un codino lungo fino alle spalle che gli conferiva un'aria da componente di una garage band di Los Angeles. Non ricordavo che avesse le guance da criceto; forse il fatto di essere ingrassato gli aveva cambiato anche i lineamenti del volto. I vestiti sembravano usciti dallo stesso negozio che riforniva tutti gli altri: look militare, pantaloni con tasconi, felpa verde sbiadito e maglietta in origine bianca che doveva aver fatto dei giri con qualcosa di blu. Doveva
avere un freddo cane. Appoggiò il grosso posteriore sopra un alto sgabello al banco delle colazioni e aprì la rivista mensile che teneva sotto il braccio, una di quelle tutta giochi e computer palmari. Se non altro aveva l'aspetto di quello che voleva sembrare. Una piccola portoricana raccolse la sua ordinazione. Decisi di aspettare che avesse finito di mangiare, prima di esibirmi nel mio pezzo «ciao, Tom, ma guarda tu, che combinazione incontrarti qui», ma i miei piani andarono all'aria perché lui si alzò di scatto e si diresse verso la porta. Rimasi a guardarlo in compagnia di una cameriera apertamente incazzata, mentre, attraversata la strada, imboccava una stradina laterale. Poi lo persi di vista a causa dei vetri appannati e della tenda esterna. Doveva avermi visto. Mi alzai e pagai il conto a Didietro dell'Anno, ottenendo un «ci vediamo, dolcezza» particolarmente intenso e cordiale alla vista della generosa mancia sul piattino. Tom era scappato verso casa, così mi avviai in direzione di All Saints Road, oltrepassando negozi di musica reggae e botteghe da stagnino. Al suo indirizzo corrispondeva un edificio dipinto di giallo, con la facciata a stucco, appena oltre All Saints. Scorrendo la fila di interruttori a fianco del portone, vidi che c'erano otto appartamenti, il che voleva dire che ogni appartamento era grande quanto un armadio per le scope. Quasi tutti gli edifici nella strada erano stati convertiti ad appartamenti ed erano dipinti di nero, verde o giallo, con tristi finestre dalle tendine vecchie e sporche afflosciate nel centro. Avrei scommesso che quella via nel film non si vedeva. Mi avvicinai per premere il campanello corrispondente al suo appartamento, il numero quattro, ma i fili elettrici che pendevano dalla pulsantiera erano arrugginiti e consunti. Alcuni nomi erano scritti su pezzi di carta strappati e infilati nelle fessure, e circa la metà, come l'appartamento quattro, non aveva neanche quello. Come suonai, avvertii il lieve ronzio della corrente elettrica. C'era qualche possibilità che l'aggeggio funzionasse. Rimasi in attesa battendo i piedi con le mani sprofondate in tasca, ma non ottenni risposta. Non che me ne aspettassi una dal citofono, ma pensavo che qualcuno avrebbe potuto urlare o affacciarsi alla finestra. Dopo qualche istante, al terzo piano si mosse una tendina. Suonai ancora. Niente.
In realtà la cosa più che preoccuparmi mi divertiva. Era chiaro che Tom non aveva la stoffa per questo genere di cose. Se si vuole scappare non si va direttamente a casa. L'E4 non avrebbe avuto problemi a beccarlo. Mi ritrovai a sorridere mentre pensavo a lui, lassù, che sperava che me ne andassi e che non succedesse niente. Guardai ancora verso la finestra sporca per essere sicuro che, chiunque mi stesse osservando, distinguesse il rumore dei miei passi pesanti che scendevano i gradini. Ce la misi tutta perché pensassero che avevo deciso di mollare l'osso. Percorsi la strada a ritroso e mi fermai all'incrocio con All Saints, sapendo che prima o poi sarebbe uscito. Era la cosa sbagliata da fare e quindi era molto probabile che la facesse. Poteva essere un ottimo hacker e riuscire a scaricare qualsiasi cosa ci fosse in quella casa in Finlandia, ma quanto a senso pratico, fosse stato da solo avrebbe avuto seri problemi a inserire il dischetto. Mi trovavo nel vano d'ingresso di un negozio abbandonato e di fronte avevo un murale pop art che ricopriva il muro di un intero edificio. Una musica reggae a tutto volume schizzò fuori da un negozio quando due ragazzini uscirono per strada ballando e scambiandosi una sigaretta. Anche il mio respiro produceva una buona imitazione del fumo nell'aria fredda. Se Tom avesse deciso di tagliare la corda dal retro della casa, non ero sicuro di riuscire a vederlo, ma stava al terzo piano e gli sarebbe risultato piuttosto difficile. Da quello che avevo visto di lui, avrebbe avuto seri problemi anche a pianterreno. Ai due ragazzini dovevo essere sembrato lo scemo del quartiere mentre me la ridevo al pensiero di Tom che cercava di scavalcare un muro di due metri. Non lo avrei scelto per farmi coprire le spalle. Come previsto, venti freddi e noiosi minuti dopo, eccolo arrivare. Ancora senza giacca, con le mani infilate sotto le ascelle, non proprio di corsa, ma veloce nei movimenti. Non dovevo neppure fare la fatica di seguirlo. Veniva verso di me, forse con l'intenzione di fregarsi definitivamente con le sue mani e rientrare nella caffetteria. Mi parai davanti a lui. Il suo sguardo atterrito diceva tutto. «Salve, Tom.» Lì per lì non si mosse, rimase immobile, come inchiodato sul posto, poi fece un mezzo movimento e girò la faccia con gli occhi bassi sul marciapiede, come un cane in attesa di essere picchiato. «Ti prego, non farmi del male. Non ho detto niente a nessuno. Sulla mia vita. Giuro.»
«Non c'è problema, Tom», dissi io. «Non ho niente a che fare con quella gente. Non è per quello che sono qui.» 14 «Senti cosa facciamo», dissi, «torniamo nel tuo appartamento, beviamo qualcosa e scambiamo due parole.» Cercavo di fare il simpatico, ma sapeva benissimo che non aveva scelta. Gli misi un braccio sulle spalle e lui s'irrigidì. «Dai, su, vecchio mio, beviamo qualcosa di caldo e ti racconto di cosa si tratta. Fa troppo freddo qua fuori.» Era alto meno di un metro e settanta, quindi era facile mettergli un braccio sulle spalle. Sentii la mollezza del suo corpo. Non si sbarbava da un paio di giorni e il risultato non era un pelo ruvido, ma quella specie di peluria con cui si riempiono i piumini. Iniziai a chiacchierare per farlo sentire più a suo agio. E anche perché quell'incontro doveva sembrare un po' più normale, per eventuali terze persone che stessero curiosando dalla finestra. «Da quanto tempo abiti da queste parti, Tom?» Mantenne la testa bassa, come se studiasse i lastroni del marciapiede. All'altezza delle case colorate sentii che stava tremando. «Più o meno un anno, direi.» «Senti, prima ho chiamato casa tua e mi ha risposto una donna. È la tua ragazza?» «Janice? Sì.» Ci fu una pausa di un secondo o due, poi smise di camminare e mi guardò. «Ascolta, amico, io non ho mai detto niente a nessuno di quella faccenda. Non una parola, lo giuro su mia madre. Non l'ho detto neppure a Ja...» «Tom, io voglio soltanto parlarti. Ho una proposta da farti. Ci sediamo, beviamo e parliamo.» Annuì e feci in modo che riprendessimo a camminare. «Penso che quello che ho da dirti ti piacerà. Dai, comincia a mettere il bollitore sul fuoco.» Arrivammo a casa e salimmo i quattro o cinque gradini di pietra fino alla porta. Tom cercò la chiave, legata con un pezzetto di filo di nylon. Mentre cercava d'infilarla nella toppa, mi accorsi che gli tremavano le mani. Era sempre convinto che lo avrei pestato. Decisi di lasciarglielo credere; forse si sarebbe risollevato un po' quando finalmente si fosse reso conto che non
ero lì per spedirlo all'ospedale. Nel portone faceva freddo come fuori. La moquette rovinata e sporca era in perfetta sintonia con le pareti umide e scrostate. Un passeggino vecchio tipo ostacolava l'ingresso, e si sentiva quello che doveva essere il suo passeggero urlare nell'appartamento di sinistra, nel tentativo di sovrastare il rumore del programma televisivo con cui divideva la stanza. Mentre tiravo indietro la pancia per riuscire a infilarmi, mi sentivo quasi allegro. Persino casa mia aveva un odore migliore di quello. Il calore tende a salire, ma non là dentro. Il numero quattro aveva il suo micropianerottolo, con la pittura scrostata sulla porta e sulla ringhiera. Riuscì a mettere la chiave nella serratura e la porta si aprì in quello che doveva essere il soggiorno. Tendine grigio sporco alle finestre rendevano ancor più deprimente la luce altrettanto grigio sporco che entrava. Il reparto appartamenti squallidi di qualche mobiliere aveva fatto un buon lavoro con Tom. Ovunque nella piccola stanza luccicava legno di pino tirato a cera; anche il divano a due posti aveva i braccioli in legno. Il resto del locale era in cattive condizioni: altri muri umidi, moquette rovinata e freddo. Il caminetto era stato chiuso con alcune tavole e al suo posto era incastrata una stufa a gas, pronta per essere accesa. Continuavo a vedere il mio respiro. In un angolo, su un ripiano di pino lucidato, c'era una TV, vecchia di dieci anni, di legno impiallacciato. Sotto, un videoregistratore, i cui LED lampeggiavano tutti sullo zero, con una dozzina di cassette impilate a fianco sul pavimento. A destra c'era una PlayStation, con un mucchio di giochi sparpagliati intorno, e il PC più vecchio del mondo. La plastica color camoscio era scura e sporca e le ventole sul retro così nere da farlo sembrare un diesel. La tastiera era quasi consunta e i simboli sui tasti si vedevano a stento. Non quello che si dice il meglio dell'equipaggiamento per un genio dell'informatica, ma per me ottime notizie. Se fosse stato ricco e avesse abitato in un attico sarebbe stato più difficile convincerlo ad accompagnarmi. Il bisogno di soldi fa fare alle persone cose che normalmente non si sognano neppure. Ero abbastanza esperto a questo proposito. Restammo in piedi e avvertii il suo disagio. Ruppi il silenzio. «Metti l'acqua a bollire, amico, e io accendo la stufa, va bene?» Entrò nel cucinino adiacente alla stanza principale e lo udii inserire alcune monete nel contatore e girare la manopola per dare gas. Sentii che riempiva il bollitore e, gettati i miei soldi sul divano, cercai di accendere la stufa. Premetti il pulsante di accensione diverse volte prima che il gas si
accendesse con un uoomp. Dall'altro lato c'era una porta socchiusa di una decina di centimetri. Il mobiliere non era arrivato alla stanza da letto. C'erano un materasso sul pavimento e il piumino da una parte, pericolosamente vicino a una stufetta. L'unico altro arredo era una sveglia digitale appoggiata sul pavimento. Mi sentivo a casa. Del bagno non c'era traccia, ma decisi che doveva essere dalle parti della cucina; forse, in effetti, faceva parte della cucina. Rimasi accucciato vicino alla stufa per scaldarmi un po'. «Come ti guadagni la vita adesso, Tom? Sempre nei computer?» Finalmente colsi una scintilla di vita. Non lo avevo picchiato, e mi stavo interessando alle sue cose. Sporse la grossa testa dentro la sala; avevo dimenticato che la muoveva avanti e indietro come un galletto quando si gonfia. «Sì, c'è qualcosa che mi bolle in pentola, hai presente? Giochi, è lì che ci sono i soldi, amico. Ho dei venditori e battitori del giro che smaniano per le mie idee. Smaniano, hai presente?» Ero ancora accucciato, sfregandomi le mani vicino alla fiamma. «Mi fa proprio piacere, Tom.» «Già, le cose vanno bene. Qui è solo provvisorio, finché non decido a chi vendere le mie idee. Poi sarà una pacchia. Cercherò una casa da comprare, in contanti naturalmente, e darò il via al mio show personale. Hai presente?» Feci cenno di sì, avevo perfettamente presente. Era senza un soldo, non aveva un lavoro e nella testa gli giravano un sacco di stronzate. Gli sarebbe piaciuto quello che stavo per dire. La testa scomparve di nuovo nella cucina, e lo sentii lavare qualcosa. Mi alzai per dirigermi verso il divano e vidi una pila di cartoncini bianchi sulla mensola del caminetto. I primi due avevano impressi baci di rossetto e un messaggio scritto a mano: «Spero che le mie mutandine sporche ti piacciano. Con amore, Juicy Lucy». Hmm... «Lucy la piccante.» Ne presi uno. Il rossetto era vero. Alzai la voce, mentre mi spostavo verso il divano. «Da quanto stai con Janice?» «Si è trasferita qui, diciamo così, un paio di mesi fa.» «Che cosa fa?» «È part-time in un Tesco; cose così, hai presente.» Sporse di nuovo la testa. «Zucchero?»
«No, solo un po' di latte.» Entrò con due tazze e le posò sulla moquette non proprio nuova. Si mise seduto sul pavimento a fianco del fuoco e di fronte al divano dov'ero io, e mi passò una tazza. Notai che la sua non aveva latte. Vidi che controllava la porta della camera da letto preoccupandosi che avessi visto l'interno. Sollevammo in contemporanea la tazza di tè. «Non ti preoccupare, amico. Ho passato la mia infanzia in posti come questo. Forse posso aiutarti a trovare qualcosa di meglio finché quella roba dei giochi non decolla.» Cercò di sorseggiare il tè lanciando occhiate veloci verso la sveglia a forma di Topolino sopra la mensola. Era giunto il momento di passare agli affari. «Da quello che vedo in giro non mi pare che le cose ti vadano troppo bene. Prendi il sussidio?» Riapparve il ghigno del piazzista. «Certo che sì, e chi non lo prende oggigiorno? Sono soldi gratis. È da scemi non prenderli. Ho ragione o cosa?» Tornò a concentrarsi sul tè. «Tom, penso di poterti aiutare. Mi è stato offerto un lavoro che ti farebbe guadagnare abbastanza da comprarti un appartamento e pagare i debiti tutti in una volta.» Non si fidava di me: aveva ragione, per lui non ero certo il Signor Bravo Ragazzo. Di tanto in tanto controllava Topolino. «Quanto?» Cercò di buttarla lì con tono casuale, ma non gli riuscì bene. Cercai di non bruciarmi le labbra e bevvi un sorso. Era orrendo. In una bottiglia di profumo sarebbe stato meglio che dentro una tazza. «Non lo so ancora con esattezza, ma calcolo che la tua parte dovrebbe essere di circa centotrentamila sterline in contanti. Questo è il minimo. Tutto quello che serve è una settimana del tuo tempo, massimo due.» Non avevo la minima idea di quanto potesse durare il lavoro, ma una volta in Finlandia, che cosa avrebbe potuto fare se il lavoro durava di più? In questa fase portarlo lassù era la priorità assoluta. «È legale? Non voglio correre rischi, amico. Non voglio altri casini. Non voglio farmelo mettere nel culo un'altra volta, hai presente?» Il mio tè tornò sul tappeto. Era una vera schifezza. «Senti, prima cosa mi chiamo Nick. E poi, no, non è niente di illegale, neanch'io ho voglia di andare in carcere. È solo che mi è stata offerta questa opportunità e ho bisogno di qualcuno che ci sa fare con i computer. Ho pensato a te. Perché no? Preferisco che i soldi li abbia tu piuttosto che un altro. E ci guadagni anche una gita in Finlandia.»
«Finlandia?» Ecco di nuovo il piazzista, la testa in fuori. «Ehi, sono tutti in rete lassù. Colpa del freddo, hai presente com'è, Nick, troppo freddo. Nient'altro da fare.» Rise. Mi unii alla sua risata, mentre lui lanciava l'ennesima occhiata verso l'orologio. «Tom, dovresti essere da qualche altra parte?» «No, però hai ragione, Janice tornerà fra poco e il fatto è che, be', lei non sa nulla, hai presente, del mio vecchio lavoro, del pestaggio, e di tutta quella roba. Non sono ancora riuscito a parlargliene. Sono preoccupato, se entra e tu stai dicendo qualcosa...» «Nessun problema. Non sono scemo. Facciamo così, quando entra dirò soltanto che ho una piccola ditta di computer e che ti sto offrendo un paio di settimane di lavoro in Scozia, per collaudare dei sistemi. Che te ne pare?» «Buona questa, ma a cos'è che stai dietro, hai presente, cos'è che cerchi in Finlandia?» «È molto semplice. Tutto quello che dobbiamo fare è entrare in un sistema e scaricare della roba. Finché non arriviamo sul posto non saprò cosa, come e quando.» Di colpo sembrò preoccuparsi. Dovevo intervenire subito. Ci voleva qualche bugia. «Non è come pensi. È tutto legale. Quello che dobbiamo fare è scoprire nuove tecnologie per fotocopiatrici. E dobbiamo lavorare alla luce del sole, se no quelli che pagano non ne vorranno sapere.» Non riuscivo a pensare a niente di più noioso e meno minaccioso di una fotocopiatrice e mi aspettavo che dalla finestra un fulmine mi colpisse. Dio doveva essersi addormentato o forse si era dimenticato di scongelare i fulmini. Continuai, prima che Tom avesse il tempo di riflettere e fare altre domande. «Io posso farci arrivare sul posto», proseguii, «ma ho bisogno di qualcuno che capisca al volo cosa cazzo cercano, non appena ci troviamo di fronte a quegli arnesi.» Indicai un ammasso di schifezze nell'angolo che cercava di assomigliare a un computer. Non disse niente, si limitò a fissare lo schermo bisunto del suo monitor, forse stava pensando a un giovanegradevole-colorato Power Mac e al coordinato portatile iMac che poteva comprarsi con la sua fetta. «Quando saremo là tutto sarà organizzato, Tom. Loro sanno dove si trova il posto. Quello che devi fare è accedere e scaricare. Non rubare, attenzione, ma copiare. Soldi facili.» Mi irrigidii, nel caso Dio, svegliandosi, avesse sentito l'ultimo pezzo.
Tom continuava ad agitarsi sulla moquette, così cercai di finire prima che Dio si svegliasse del tutto o Janice tornasse a casa. «Ora ne sai quanto me, amico. Io prendo l'altra metà dei soldi. Centotrenta zucche, forse di più, se riusciamo a fare un lavoretto veloce. Uno schifosissimo pacco di soldi, Tom.» Feci una pausa in modo che visualizzasse una carriola piena di biglietti da dieci. Quindici secondi erano sufficienti. «L'occasione di una vita, Tom.» Sembravo un venditore di doppi vetri. «Se non la cogli tu, lo farà qualcun altro.» Mi appoggiai all'indietro per fargli intendere che il pistolotto era finito. Il passo successivo sarebbe stato sommergerlo di intimidazioni se il sistema saponetta avesse fallito. «Sei assolutamente sicuro che non ci sia pericolo, Nick? Intendo casini. Non voglio più passarci. Le cose sono normali adesso, e fra poco guadagnerò dei bei soldi.» Per fargli capire che sapevo che stava raccontando un sacco di cazzate doveva attendere finché non avessi dovuto leggergli l'oroscopo. «Senti, amico, anche se non fosse del tutto legale, non si arriva certo alla prigione quando si tratta di questo tipo di lavori. Pensaci, se scoprono che abbiamo trovato la loro dannata fotocopiatrice, pensi davvero che andrebbero alla polizia? Sono loro che ce l'hanno nel culo. Pensa agli azionisti, pensa alla pessima pubblicità. Non funziona così, amico. Fidati. Quello che ti è capitato è diverso. Quella era roba del governo.» Non riuscii a tenere a freno la curiosità. «A proposito, cosa stavi facendo a Menwith Hill quando ti hanno beccato?» Cominciò a innervosirsi. «No, amico. Non dirò niente, ho scontato la mia pena e non dico niente a nessuno. Non voglio tornarci.» Sembrava un disco incantato. Era in condizioni pietose. Sapevo che dei soldi aveva bisogno come l'aria, ma non sapeva che pesci prendere. Tempo di una nuova bordata. «Sai cosa, potresti venire con me comunque, dare un'occhiata e, se non ti piace, tornare indietro. Non ho intenzione di fregarti la vita, amico. Sto solo cercando di fare un favore a tutti e due.» Ondeggiava da una chiappa all'altra. «Non so. A Janice non piacerebbe.» Mi spostai in avanti, ancora una volta con il culo sul bordo del divano, e assunsi un'aria da cospiratore. «Non c'è bisogno che Janice sappia. Le dici che andiamo in Scozia. È facile.» Il sibilo della stufa a gas era molto più alto del mio sussurro. Decisi di dargli un incentivo in più. «Dov'è il bagno, Tom?»
«Oltre la cucina, la porta che vedi.» Mi alzai e presi con me la borsa. «Niente di personale», dissi. «Roba di lavoro, tu mi capisci.» Lui fece cenno di sì, e io non capii se aveva afferrato o no perché neppure io lo avevo fatto. Andai nel bagno. Avevo indovinato, faceva parte della cucina, separato da una parete di cartongesso così il padrone di casa poteva dichiarare un numero superiore di vani e far pagare al Dipartimento sanità e previdenza sociale un sacco di soldi per la gente che ci abitava. Sedetti sulla tazza e contai seimila dollari. Stavo per infilarli in tasca quando decisi di darmi una calmata e ne rimisi due nella sacca. Tirai la catena e uscii parlando. «Tutto quello che so è che è un lavoro facile. Ma ho bisogno di te, Tom, e se sei sincero hai bisogno di soldi almeno quanto me. Ecco, questo è quanto voglio fare per te.» Infilai la mano in tasca, tirai fuori i quattro testoni, arrotolandoli con l'altra mano in modo da farli sembrare e suonare ancora più attraenti. Si sforzò di non guardarli. Anche una somma del genere poteva cambiargli la vita. «È così che vengo pagato, in dollari americani. Qui ce ne sono quattromila. Prendili; è un regalo. Pagaci le bollette, facci quello che vuoi. Che altro posso dirti? Io vado e faccio il lavoro comunque. Se però vieni con me ho bisogno di saperlo entro stasera. Non posso restare qui a menarmelo.» Se non mi avesse risposto di sì entro quella sera, sarei passato a leggergli l'oroscopo. Sarebbe stato pagato lo stesso; solo che non avrebbe trovato divertente farlo. Palpò i soldi e dovette dividerli in due per riuscire a infilarli nelle tasche dei pantaloni. Cercò di mettere su un'espressione seria e professionale. Non gli venne molto bene. «Fantastico. Grazie, Nick, grazie davvero.» Qualsiasi cosa avesse fatto, avrebbe potuto tenersi i soldi. Mi faceva stare bene, e con tutto quello che andava in vacca nella mia vita, ne avevo proprio bisogno. Ma avevo anche bisogno che non mi combinasse dei casini con i soldi, in modo che si potesse risalire a me. «Non andare alla banca per cambiarli e non fare depositi, penserebbero che sei uno che traffica con la droga. Specialmente abitando da queste parti.» Sorrise apertamente. «Vai da cambiavalute diversi. Il cambio farà schifo, ma così è. Passa una buona giornata. Prendi un taxi; puoi permettertelo. Solo, non cambiare più di trecento dollari per volta. E poi, cazzo, comprati un bel cappotto caldo.»
Sollevò lo sguardo e il ghigno diventò una risata mentre si esibiva nel movimento del galletto. Si bloccò quasi subito al rumore di una chiave che girava nella toppa. «Merda, è Janice. Ti prego, non dire un cazzo. Promettilo, Nick.» Si alzò in piedi e si accertò che la felpa coprisse i due malloppi nelle tasche. Mi misi vicino a lui davanti al caminetto. Sembravamo due che aspettano la visita della regina. Janice aprì la porta, sentì che faceva caldo e si rivolse a Tom, ignorandomi completamente. «Hai ritirato dalla lavanderia?» Andò dritta verso la cucina e si tolse il pesante cappotto marrone. Tom fece una smorfia di scusa verso di me e rispose, «No, non era ancora pronta, gli essiccatori erano rotti. Ci vado fra poco. Lui è Nick. Quello che ha telefonato stamattina.» Gettò il cappotto sul bracciolo del divano e mi guardò. Io sorrisi e dissi: «Salve, sono contento di conoscerti». «Salve», grugnì, «sei riuscito a trovarlo alla fine?» e sparì in cucina. Janice avrà avuto un venticinque anni, né bella né brutta, una comune. I capelli erano raccolti in una coda di cavallo, appena più lunga di quella di Tom. Non si potevano definire unti, ma avevano quell'aspetto oggi-non-liho-lavati. Aveva anche esagerato con il fondotinta e tutt'intorno al mento si vedeva la linea del contorno. Tornai a sedermi, ma Tom rimase in piedi vicino alla stufa, non sapendo cosa dirmi di quella schifezza di ragazza. In cucina si sentivano sbattere sportelli, il suo modo di farsi notare. Janice tornò in salotto con una tavoletta di Fruit & Nut e una lattina di Coca. Lasciò cadere il cappotto per terra e si sedette di fianco a me, tolse la carta alla cioccolata, aprì la lattina e passò all'attacco di entrambe. Il rumore che faceva bevendo avrebbe reso orgoglioso un muratore assetato. Tra un boccone e un sorso fece un gesto verso la mensola del camino. «Tom, passami i biglietti.» Lui eseguì. La guardammo entrambi tirare fuori il rossetto da una tasca del cappotto e passarselo sulle labbra. Poi, sempre masticando e bevendo, cominciò a baciare i cartoncini bianchi. Sollevò lo sguardo e mi fissò per qualche secondo, poi si rivolse a Tom. «Passami gli altri.» Lui sollevò una busta formato A4 vicino alla stufa e gliela porse, rosso per l'imbarazzo. Janice sparpagliò i biglietti bianchi sul pavimento, si passò di nuovo il rossetto sulle labbra e iniziò a stampare bocche. La firma veniva eviden-
temente aggiunta in seguito, in un momento di calma maggiore. Non avremmo più potuto parlare di niente. Era>ora di levarsi dai piedi. «Grazie del tè, Tom, devo andare. Un piacere conoscerti, Janice.» Tom guardò nervosamente prima me e poi la testa di Janice. Mentre mi alzavo e prendevo la borsa, sbottò: «Vengo con te, devo andare in lavanderia». Scendemmo le scale senza parlare. Avrei saputo cosa dire, ma a che scopo? Se uno chiama la tua ragazza «cane schifoso» non ti fa venire la voglia di andartene con lui. Mentre tornavamo verso All Saints Road, balbettò: «Non è lei, sai, Juicy Lucy. Le danno dieci sterline ogni duecento. Questa settimana è Lucy, la prossima sarà di nuovo Gina, credo. Io le do una mano». Si sfregò il mento. «E mi devo anche fare la barba se no lascio i segni sul rossetto. Abbiamo mucchi di mutande sporche in camera da letto. Un tizio le porta il martedì.» Non riuscii a trattenere una risata immaginando la scena di lui che baciava biglietti e impacchettava mutande per gli sniffatori di slip di tutto il Paese. Spostò la testa all'indietro con il solito movimento del galletto. «Sì, come ti ho detto, finché non arrivano i soldi. Sono veramente interessati, Activision, quelli di Tomb Raider, pezzi grossi, sto per fare il colpo della vita, hai presente?» «Sì, Tom.» Avevo presente. Feci un ultimo tentativo quando svoltammo in All Saints, dove Janice sporgendosi non avrebbe potuto vedere. Mi fermai e mi piazzai di fronte a lui davanti a una vetrina piena di rubinetti, tubazioni di scarico e aggeggi da idraulico assortiti. «Tom, pensaci seriamente. Io non farei mai qualcosa di equivoco. Sono troppo vecchio per cose di questo tipo. Voglio solo fare un po' di soldi, esattamente come te. Ho bisogno che tu venga con me e ho bisogno di sapere entro stasera se ci stai.» Lui fissava il marciapiede, spalle abbassate. «Sì. Ma sai...» Il freddo si faceva sentire. Non capivo se non aveva un cappotto perché non aveva stampato bocche su un numero sufficiente di biglietti o perché era così stupido da dimenticare di metterlo. Arrivammo a Westbourne Park Road, una strada principale. Mi fermai sull'angolo, in attesa di un taxi. Lui mi stava vicino, spostando il peso da un piede all'altro. Gli appoggiai una mano sulla spalla. «Dammi retta, ami-
co, cambia un po' di soldi e pensaci su, ci vediamo stasera, d'accordo?» Iniziai a cercare un taxi con gli occhi. Lui fissò di nuovo il marciapiede, annuendo. «Ti chiamo intorno alle sette e ci beviamo qualcosa. Okay?» Vidi una luce gialla apparire e misi fuori il braccio. Il taxi si fermò e il motore diesel continuò a girare, anche se non alla velocità del tassametro. Tom era ancora piegato in avanti, le mani sprofondate in fondo alle tasche. Stava tremando. Mi rivolsi alla sommità della sua testa. «Tom, è l'occasione di una vita. Pensaci bene.» Fece un movimento con il cocuzzolo che interpretai come un cenno di assenso. Non sopportavo più i suoi brividi e mi sfilai il giubbotto. «Cazzo, mettiti questo!» Dopo una debole protesta mi restituì il sorriso e tenne il giubbotto. Per lo meno avrei potuto guardarlo in faccia. «Capita una volta sola, amico.» Entrai nel taxi, dissi Marble Arch all'autista, mi voltai, chiusi la portiera e abbassai il finestrino. Tom aveva appena finito di tirare su la lampo del giubbotto. «Ehi, Nick, 'fanculo, perché no? Ci sto.» Era tornato il galletto. Non volevo dar troppo a vedere quanto ero contento. «Bene, ti chiamo stasera per le istruzioni. Si parte domani. Problemi? Il passaporto ce l'hai?» «Nessun problema.» «Fantastico. Ricorda», indicai i pantaloni, «da dove vengono quelli ce ne sono molti di più. Una settimana, forse due, chissà?» Misi il pollice nell'orecchio e il mignolo alla bocca mimando il gesto di telefonare. «Stasera alle sette.» Ripeté il gesto. «Perfetto.» «Tom, un'ultima cosa. Hai una carta di credito?» «Sì, perché?» «Io sono senza. Forse ti toccherà pagare i biglietti, ma non preoccuparti, te li rendo in contanti prima di partire.» Non gli lasciai troppo tempo per pensarci su. Mentre il taxi si muoveva mi sentivo piuttosto soddisfatto di me stesso. Avevo il vago sospetto che Tom non avrebbe diviso la nuova ricchezza con Janice. Sapevo che al suo posto io non lo avrei fatto. Dopo aver dato all'autista del taxi un'altra destinazione, comprai un giubbotto da sci azzurro in Oxford Street, poi entrai in un emporio a comprare un po' di roba che mi serviva per la DLB (Dead Letter Box, consegna
messaggi senza contatto) per passare a Liv le nostre coordinate. Prima che l'E4 avesse suonato al campanello dell'appartamento, avevo considerato l'idea di Liv di usare una DLB solo per i dettagli di volo come lievemente paranoica. Adesso sapevo che era vitale. Se l'E4 la teneva d'occhio, non volevo incontrarla più in Inghilterra. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era che Lynn ricevesse una mia istantanea con lei. A quel punto la merda sarebbe salita così in alto che non sarei più riuscito a venirne fuori. Prenotai i voli da una cabina telefonica. Avrebbero registrato la prenotazione a nome di Tom. Avrei fatto in modo che li pagasse con la sua carta di credito il giorno dopo all'aeroporto; adesso che Davidson era passato alla storia, non avevo scelta. Non c'era nessun bisogno di far sapere che Nick Stone stava per lasciare il Paese. Mi domandai se continuavano a tenere sotto controllo Tom, adesso che era schedato come sovversivo, ma decisi che era un rischio che dovevo correre. Non avevo tempo per altre soluzioni. Al caldo nel nuovo giubbotto, decisi di andare a piedi fino alla DLB che mi aveva indicato Liv. Non era distante. Aprendomi a spintoni dei varchi nella frenesia consumistica del sabato, riuscii a percorrere i duecento metri, più o meno, che mi separavano da Oxford Circus. Sulla mia destra avevo di fronte gli studi della BBC di Portland Place. Rimasi sul marciapiede opposto e mi diressi verso il Langham Hilton. A circa cinquanta metri dall'albergo passai sotto delle impalcature dove si trovavano due cabine telefoniche rosse vecchio tipo. Sui vetri delle pareti, una ventina di biglietti da visita, trattenuti da pezzetti di nastro adesivo. Qualche inviato comunale sarebbe passato in giornata a toglierli tutti, ma un'ora dopo sarebbero tornati al loro posto. Entrai in quella di sinistra e vidi il biglietto di Susie Gee più o meno a metà altezza sul lato verso Oxford Circus. Aveva un'aria molto sensuale, tutta pelliccia e baci al vento. Staccai il biglietto e contemporaneamente con un grosso pennarello nero tracciai una linea sul vetro. Piegai Susie e me la misi in tasca, poi mi diressi verso l'albergo. Forse era un po' prematuro lasciare il segno nero di DLB piena, ma non vedevo problemi all'orizzonte. Con la borsa in mano varcai le porte girevoli dell'albergo, avviate per me da un ragazzo con una tunica verde che aveva in testa un incrocio fra un turbante e un berretto. Sembrava un vero idiota. L'interno dell'albergo era molto raffinato, molto pieno di uomini d'affari
e turisti molto ricchi. L'ambientazione era indiana, il Chukka Bar alla mia sinistra e la zona reception in marmo. Le istruzioni di Liv erano perfette. A destra, saliti pochi gradini, c'era il bancone della reception, di fronte il ristorante-sala-da-tè. Io dovevo andare al piano inferiore. Dove tutto era elegante, come sopra. Aria condizionata, moquette soffice, sala delle conferenze e centro congressi. All'esterno della Sala George, alcune lettere di plastica bianche sopra un pannello nero poggiato su un cavalletto annunciavano: MANAGEMENT 2000 PORGE IL BENVENUTO AI PARTECIPANTI. Oltrepassai il pannello e due telefoni a muro, ai quali sarei tornato presto, e puntai verso le toilette. Di fronte alle porte delle toilette c'erano altri telefoni, una sala guardaroba e un tavolo apparecchiato con tè, caffè e biscotti. Seduti ma pronti a servire, c'erano un uomo di colore e una donna bianca che parlavano con quel tipico tono di voce che viene usato quando si sparla della direzione. Non appena mi videro fecero il sorriso di ordinanza; ricambiai il sorriso e m'infilai nella porta degli uomini. Seduto in uno dei cubicoli, tirai fuori dal sacchetto dei miei acquisti da Boots una piccola scatola di plastica, come quelle usate per portare con sé la dose giornaliera di vitamine, e un pacchetto di quadratini di velcro adesivi. Applicai alla scatola un quadrato del tipo morbido e uno di quello ruvido, nel caso avesse incasinato le istruzioni. Non sarebbe stato piacevole se non si fosse attaccata. Dentro la scatola infilai un pezzetto di carta con il messaggio: «Arrivo 15.15 il 12». Era quanto aveva bisogno di sapere. Rimisi il sacchetto di Boots in tasca, controllai che i quadrati di velcro avessero aderito bene, e uscii dalla toilette, sorrisi di nuovo ai due del guardaroba, voltai a destra e tornai ai primi telefoni che avevo oltrepassato. Erano piuttosto bassi, per agevolare chi non poteva sollevarsi dalla sedia a rotelle. Piazzai la borsa fra le gambe e trascinai una sedia più vicina al telefono. Liv aveva scelto bene, non troppo affollato, senza videocamere in giro e un motivo per essere lì. Mi sedetti, tirai fuori una moneta da una sterlina e il biglietto di Susie, sollevai la cornetta e feci il numero, mentre mi chiedevo se Janice e Tom avessero prodotto recentemente dei biglietti da visita anche per lei. Volevo che il display mostrasse che i soldi venivano usati, altrimenti qualcuno passando poteva insospettirsi per il fatto che sebbene fossi lì da alcuni minuti stavo solo facendo finta di parlare. Un dettaglio, ma di quelli che con-
tano. In attesa di Susie, tenevo il microfono con la mano destra e con la sinistra tastavo sotto la mensola di truciolato su cui poggiava il telefono. Nell'angolo, doveva esserci un grande pezzo di velcro che ci aveva messo Liv. Mentre tastavo, le porte della Sala George si aprirono e ne sgorgò un torrente di partecipanti al convegno Management 2000. Il telefono dava libero. Osservai il gregge dirigersi verso il pascolo nella sala ristoro. Una giovane donna sulla ventina sedette sulla sedia accanto alla mia e infilò una moneta. Mi rispose una donna cinese piuttosto aggressiva. «Hello?» Sentii la mia compagna di telefonata che componeva il numero, e risposi. «Susie?» «No, attenda in linea.» Aspettai. La donna accanto a me iniziò a parlare di sua figlia, che bisognava andare a prendere all'asilo nido perché lei avrebbe fatto tardi. La persona dall'altra parte era evidentemente seccata. «Non è giusto, mamma, non è sempre la stessa scusa... e sì che si ricorda com'è fatta la sua mamma. Kirk torna a casa presto stasera. Viene lui a prenderla.» Arrivò un uomo e le posò la mano sulla spalla. Lei si voltò a baciargliela. Sul cartellino di Management 2000 aveva scritto DAVID. Non sarebbe stato il convegno a farla tardare quella sera. Il livello del rumore raddoppiò quando, sorseggiando il caffè, cominciarono a parlare di lavoro. Trovai quello che stavo cercando, mentre dall'altra parte sentii dei passi che si avvicinavano: era la parte femmina del velcro, quella morbida, come aveva detto Liv. Una voce roca, di mezza età, si presentò all'apparecchio. «Ciao, posso aiutarti, amore mio? Vuoi la lista delle mie prestazioni?» Feci una serie di umm e aahh mentre la donna parlava di tariffe per trascorrere un'ora in Francia, in Grecia e in svariate altre nazioni del mondo insieme con Susie. Per prolungare la conversazione le chiesi dove avesse base Susie, e poi spiegazioni per raggiungere il posto a Paddington. «Fantastico», dissi. «Ci penserò.» Misi giù il telefono, sollevai la borsa, spostai indietro la sedia, mi alzai e ritornai per dove ero venuto. La ragazza stava giurando a sua madre che era l'ultima volta che le chiedeva un favore simile. Prima di varcare le porte mi girai a controllare che da quel punto di os-
servazione la scatola non si vedesse, e salii al piano superiore. Gunga Din fece il suo trucchetto con le porte girevoli e mi ritrovai in strada. Voltai a destra e ritornai sui miei passi. L'ultima luce era vicina; alle quattro e mezzo sarebbe stato buio. Mi restava solo da chiamare Tom alle sette e comunicargli l'orario del volo della mattina dopo. Quindi gettare i pantaloni di cuoio in un bidone e la pistola nella più grande armeria di Londra, il Tamigi. 15 Domenica 12 dicembre 1999 Tom stava facendo un'altra coda per il controllo immigrazione. Gli avevo detto, nel modo più gentile possibile, che dovevamo restare separati fino alla sala arrivi, sicurezza e tutto il resto. Parlava troppo e a voce troppo alta per potergli stare seduto vicino in aereo. Anche il check-in lo avevamo fatto separatamente. Si era detto d'accordo con il solito: «Nessun problema, socio. Capito». Mentre eravamo in metropolitana, diretti a Heathrow, mi aveva detto che anche a Janice stava bene che stesse via un po'. «Le ho detto che avevo del lavoro da fare con il mio vecchio amico Nick, in Scozia», mi disse. «Le ho parlato in modo normale.» Si, normale quanto era normale Elton John. Probabilmente Janice era incazzata nera di dover rimanere a casa a baciare biglietti per Lucy mentre lui si divertiva al nord per due settimane. Mi chiesi se le aveva detto qualcosa dei soldi, ma non feci domande. Non volevo che rimettesse su il disco dei suoi progetti di dominio mondiale nel campo dell'infotaiment. Per lo meno durante il viaggio non si era affogato nei liquori gratuiti. A quanto sembrava non beveva, forse un effetto collaterale del periodo trascorso in prigione. Meglio, perché fino al nostro rientro in Inghilterra non ne avrebbe più avuto occasione. Aveva fatto uno sforzo e si era messo un po' in ordine per il viaggio, il che era positivo. Volevo che assomigliasse a un cittadino medio, e non a cibo per la dogana da far aspettare per ulteriori accertamenti. Indossava ancora il mio giaccone, ma aveva cambiato i jeans a zampa d'elefante con un paio nuovo di tipo normale, e portava anche una nuova felpa rossa. Comunque, anche se si era lavato e pettinato i capelli, aveva mantenuto l'aria trasandata e non si era fatto la barba.
Lo osservai mentre si tastava il giubbotto come se stesse facendo un qualche tipo di danza. Era la terza volta, da quando avevamo lasciato Londra, che lo vedevo comportarsi come se non trovasse più il passaporto. Superammo i controlli immigrazione e dogana e non ci fu bisogno di aspettare le valigie. Gli avevo detto che le uniche cose che doveva portare erano lo spazzolino da denti e un pezzo di sapone, e che la biancheria poteva lavarla la notte. Le porte scorrevoli si aprirono ed entrammo separatamente nella sala arrivi. Tom non lo sapeva, ma ad aspettarci non ci sarebbe stato nessuno. Non avevamo preso l'aereo in arrivo alle 15.15, come avevo comunicato a Liv; eravamo atterrati alle 13.45. Ho sempre preferito arrivare in anticipo per controllare chi mi sta aspettando. Andare incontro, all'arrivo, a qualcuno che non conosco mi dà la stessa sensazione di bussare a una porta sospetta senza sapere chi o cosa ci sia dall'altra parte. C'incontrammo nella hall. Tom quel giorno aveva l'aria da ragazzino e lanciava occhiate a tutte le donne che transitavano nel terminal. «E adesso che si fa, amico? Dove andiamo?» «Siamo un po' in anticipo per l'appuntamento. Andiamo a bere qualcosa.» Seguimmo le indicazioni per il bar. L'edificio in vetro e acciaio del terminal non era affollato, ma per essere domenica c'erano parecchie persone, più per turismo che per lavoro. Attraverso le pareti di vetro si vedeva un cielo grigio e spento, la neve ammucchiata ai lati della strada e il ghiaccio che pendeva dalle auto parcheggiate. Andando verso il bar, Tom mi saltellava a fianco come un fratellino minore molto vivace. Passammo accanto a due bellissime ragazze bionde in una cabina telefonica. «Socio, guarda che razza di roba laggiù. Amo queste passere nordiche.» Le due donne compresero quello che aveva detto e guardandoci ridacchiarono fra loro. Continuai a camminare, a disagio. Se lo sarebbero mangiato per colazione. Sembrava che Tom non si fosse accorto di nulla. «Ehi, Nick, lo sai che c'è più gente qui che si collega a Internet e che ha il cellulare che in qualsiasi altra parte del mondo? Pro capite, intendo.» «Molto interessante, Tom.» Per una volta aveva detto qualcosa di davvero interessante. Fu contento. «È così, socio. Dev'essere per tutto il buio che hanno qui. Non sanno che cazzo d'altro fare, credo.»
Lo guardai e sorrisi, anche se la battuta gli era venuta meglio la prima volta. S'illuminò e le sue guanciotte da criceto quasi gli coprirono gli occhi. «Questa è gente all'avanguardia, hai presente?» Fece il passo che ci separava e mi sussurrò nell'orecchio, tendendo la testa in avanti. «Per questo la tecnologia delle fotocopie è qui. Ho ragione, vero?» La conversazione mi annoiava, ma riuscii a rispondere. «Forse sono le lunghe ore di buio, niente da fare se non fotocopiare. Caffè, Tom?» «No, tè. Alle erbe o alla frutta, se lo hanno.» Poco dopo eravamo seduti a un tavolo, io con il caffè e lui con una teiera d'acqua calda e una bustina di tè alla mela. Di fronte c'era un bancone con alcuni monitor, evidentemente postazioni Internet. Questione di poco e anche Tom se ne sarebbe accorto e allora sarei rimasto da solo, il che non sarebbe stato male. Gli si accesero gli occhi e si alzò automaticamente. «Devo andare a vedere, vieni con me?» Lui andò portandosi dietro il tè. Io no. Tornò quasi subito, prima che avessi bevuto un solo sorso di caffè. «Hai degli spiccioli? Ne hai, socio? Non ho soldi, soldi finlandesi intendo. Solo dollari, hai presente?» Tirai fuori il resto delle consumazioni mentre lui sghignazzava alla battuta che aveva fatto. Decisi di dare un'occhiata in giro per individuare eventuali minacce. Mi ero scrollato di dosso l'E4, ma Val aveva di certo molti nemici e, dal momento che lavoravo per lui, erano nemici anche miei. Portavo sempre addosso i documenti, ma adesso, prima di andare a fare un giro, avevo bisogno di qualcos'altro che tenevo nella sacca. Tirai fuori il nuovo portatutto, mollai le due sacche ai piedi di Tom e mi diressi alla sala partenze al piano superiore. Non c'era nulla fuori dall'ordinario, nessuno che parlasse con il bavero del cappotto o tenesse sotto controllo la folla fingendo di leggere il giornale. Feci un giro all'esterno, non molto lungo, il freddo mi mordeva le mani e la faccia. Non avevo visto niente di pericoloso o che mi riguardava. Rientrato agli arrivi, e al caldo, vidi un paio di ragazzi in giacca e cravatta con fogli A4 infilati in bustine di plastica trasparenti con su scritto il nome delle persone che erano andati a prendere. Tom era ancora nel paradiso di Internet. «Guarda questo, Nick, cazzo che figata! Guarda, Helsinki virtuale.» Stavo guardando uno schermo che mostrava tutto quello che si doveva
sapere su Helsinki, da piantine stradali a immagini di alberghi e servizi di prenotazione per viaggi o biglietti di teatro. C'era anche un itinerario in cui camminavi per strada come se fossi stato in un videogioco. Continuai a lasciare le sacche con lui e andai a prendere un altro caffè; mi sedetti allo stesso tavolo osservando e aspettando, pensando a come ero stato fortunato a non avere un fratello minore da portare in giro quando ero adolescente. Quindici minuti dopo era di ritorno con le sacche. Doveva aver finito i soldi. «Ho appena mandato un'e-mail a Janice e le ho detto che non potrò mettermi in contatto per un po'... perso nella brughiera a fare controlli e robe del genere.» Rimisi l'organizer nella sacca e finii di bere. «Potremmo anche darci una mossa, dovrebbero essere qui ormai.» La persona incaricata di venirci a prendere era facile da identificare, elegante, vestito grigio, cappotto, capelli irsuti castano chiaro, rosso in faccia, si presentava alle persone in arrivo che spingevano il loro carrello, con in mano un cartello su cui era scritto: NICK E UN ALTRO. Ci avvicinammo e ci presentammo. Mentre ci scambiavamo strette di mano, virtualmente lui era sull'attenti e sbatteva i tacchi, poi si offrì di portare le nostre sacche. Tom rifiutò seguendo il mio esempio. Il parcheggio per soste brevi era di fronte agli Arrivi. Un aereo rombò sopra le nostre teste mentre ci avvicinavamo a una Mercedes argento metallizzato. Tom ne fu colpito. «Cazzo, che macchina.» Mettemmo le sacche nel bagagliaio e sedemmo dietro. Spike avviò il motore e la radio si accese. Immaginai che i due speaker blaterassero in finlandese, ma Tom mi si rivolse dicendo: «Stanno parlando in latino. A loro piace molto, socio. Non so perché, ma è così». Spike spense. Io domandai: «Come fai a sapere tutte queste cose sulla Finlandia?» La Mercedes partì. «Ho navigato un po' ieri notte e ho dato un'occhiata, cosa credi?» «Hai intenzione di rompere le scatole per tutta la settimana?» Mi guardò, non riuscendo a capire se lo avevo insultato, poi prese una decisione e sorrise. «No, socio, pensavo solo che ti interessasse.» Si appoggiò allo schienale. Sbagliato, non stavo scherzando. Stavamo seguendo i segnali stradali. Erano in svedese e in finlandese, perché lì, nel passato, gli svedesi avevano dominato, alla pari dei russi. L'asfalto dell'autostrada era sgombro di neve e ghiaccio. L'aeroporto era molto vicino a Helsinki e arrivammo presto alla circon-
vallazione. Da entrambi i lati c'erano basse costruzioni industriali e grandi mucchi di neve. Mi venne da sorridere al pensiero dell'Inghilterra, dove un paio di fiocchi di neve paralizza l'intera nazione; qui avevano neve per mesi e il Paese non perdeva un colpo. Vidi un cartello che diceva: SAN PIETROBURGO 381 KM. In tre o quattro ore si poteva essere fuori da uno dei Paesi più ricchi e più avanzati del mondo per entrare nel regno del caos e nell'anarchia. Ma non avevo motivo di preoccuparmi; prendemmo una deviazione e procedemmo su un'altra autostrada, la E75, abbandonando l'area costruita. La piccola bussola basculante nel cruscotto mi disse che stavamo andando verso nord. In autostrada tutte le auto avevano i fari accesi, secondo la legge. Viaggiammo a velocità di crociera sull'autostrada, oltrepassando foreste di pini, neve e impressionanti tagli nelle imponenti rocce di granito. Guardai Tom, con la testa appoggiata all'indietro, gli occhi chiusi e le cuffie del walkman nelle orecchie. Decisi di seguire il suo esempio e di rilassarmi, senza mai perdere di vista i cartelli stradali. Lahti e Mikkeli sembravano essere le possibili mete, e dopo un'ora circa fu chiaro dove eravamo diretti: prendemmo l'uscita per Lahti. La città era dominata da due strutture molto alte a forma di torre Eiffel, dipinte di rosso e bianco. Il vertice era coperto dalle nuvole e i fari di segnalazione per il traffico aereo lampeggiavano in ogni direzione. Il posto brulicava di traffico e di persone. Era una stazione di sport invernali. Un trampolino per gli sci torreggiava sopra le case e, quando iniziammo a percorrere rumorosamente la strada principale, vidi che anche i pensionati adoperavano bastoncini da fondo al posto del bastone. Gli abitanti di Lahti erano evidentemente innamorati di cemento e acciaio. Al posto delle tradizionali abitazioni fatte di legno, magari con due renne parcheggiate fuori, preferivano l'ultimo modello della Saab, le 4x4 e uno sfavillio di decorazioni natalizie. Voltammo a sinistra nella piazza e oltrepassammo un mercato vivacemente illuminato, con il vapore che saliva dalla massa di tendoni e coperture in nylon dei banchi. I commercianti, attrezzati per restare al freddo tutto il giorno, assomigliavano molto ad astronauti. Quasi subito rallentammo di fronte a un cartello che ci informava che eravamo all'Hotel Alexi. Tagliando a sinistra, attraverso il marciapiede, ci fermammo di fronte al cancello di un garage che iniziò istantaneamente ad aprirsi. Un gruppo di madri con passeggini aggirò la Mercedes per poi ri-
tornare sul marciapiede. Scendemmo lentamente per una ripida discesa di cemento all'interno di un ampio parcheggio sotterraneo male illuminato. Pozzanghere d'acqua coprivano il pavimento dove la neve e il ghiaccio si erano sciolti dalle macchine già posteggiate, e quasi tutte le automobili avevano gli sci legati sui portasci. Continuammo ad andare alla ricerca di un posto. Adesso Tom era seduto dritto, senza cuffie e con gli occhi bene aperti. «È come in uno di quei film di spionaggio, Nick, hai presente?» Il suo tono cambiò quando si rese conto di quello che aveva appena detto. «È tutto a posto, vero? Tu sai cosa sta succedendo, no?» Annuii, ma non mi sentivo del tutto sicuro. Dopo aver parcheggiato di muso in uno spazio libero, Spike spense il motore e ruotò sul sedile. «Prego, i vostri telefoni, cercapersone e attrezzatura e-mail», disse in un inglese dall'accento molto marcato. «Dovete lasciarli qui. Non preoccupatevi, li prenderete al ritorno.» Sorrise, mettendo in mostra una dentatura non proprio perfetta. Spiegai che, come da istruzioni ricevute, nessuno di noi due li aveva portati. Sorrise ancora. «Bene. Grazie, grazie.» Spike tirò la leva accanto al sedile e il bagagliaio si aprì con un clic. Uscii dall'auto, e Tom seguì proprio nel momento in cui una Mercedes nera 4x4, di quelle squadrate, vecchio tipo, prese ad avanzare lentamente verso di noi. Il riflesso dei fari m'impediva di vedere all'interno. Guardai Spike che non sembrava per nulla preoccupato. La 4x4 si fermò, motore acceso. Aveva i vetri posteriori oscurati e l'unico occupante che riuscivo a vedere era il guidatore. Era molto diversa dall'ultima volta che l'avevo vista. Allora, sembrava un'italiana nel tempo libero; adesso invece indossava un pesante maglione grigio alla norvegese con il collo alto che arrivava fino al mento, decorato con strani disegni fantastici. Un cappello tibetano con paraorecchie le copriva il resto del viso, ma riuscii a intravedere qualche ciocca bionda. Il finestrino davanti si abbassò e mi venne concesso un sorriso molto piacevole, anche se formale. «Salite dietro veloci, prego.» Aggiunse qualcosa in finlandese per Spike, e lui rispose scuotendo la testa mentre noi salivamo con le sacche nei sedili posteriori. All'interno faceva freddo; doveva averci aspettato a motore e riscaldamento spento. «State seduti bassi e tenetevi lontano dai finestrini.»
Tom mi guardò per avere spiegazioni. Mi strinsi nelle spalle. «Più tardi, amico.» Mi voltai e vidi che Liv mi stava guardando nello specchietto retrovisore. Sorrise. «Benvenuto in Finlandia.» Poi voltò leggermente la testa per guardare Tom. «Mi chiamo Liv. Sono molto contenta di conoscerti.» Tom fece un cenno, come intimidito. Era evidente che gli faceva la stessa impressione che aveva fatto a me. Si voltò per specchiarsi nei vetri oscurati, probabilmente desiderando di essersi dato una pettinata. Ritornammo sulla strada, e svoltammo a sinistra. Al mercato le luci erano ancora più abbaglianti. Stava diventando piuttosto buio. «Non abbiamo molto tempo», disse Liv. «Le cose sono precipitate dopo la nostra conversazione. Il lavoro va fatto questo martedì.» Un'altra delle loro piccole complicazioni. Non le credevo; ero pronto a scommettere che era la data che Val aveva in mente fin dall'inizio, ma invece di dirmelo, per paura che avrei rinunciato, mi aveva mentito. «Devo vedere il posto», dissi. «Due notti non sono molte per i preparativi. Dovrai dirmi tutto quello che sai stanotte, e domani andrò a fare una ricognizione all'obiettivo.» «Sì, naturalmente. Sono anche preoccupata che Tom abbia il tempo necessario per aprirsi un varco attraverso il firewall per poter accedere al sistema.» Tom si mise a sedere dritto, come un bambino bene educato che cerca di compiacere un adulto. «Non ci saranno problemi. Mi basta che tu mi faccia vedere quello che hai.» «Lo farò, Tom. Molto presto.» Ci fu una lunga pausa e Tom si appoggiò nuovamente allo schienale. Guardai la strada. «Dove stiamo andando?» «Non lontano, vicino ai laghi.» Non mi diceva molto. Di laghi era pieno l'intero Paese. Il cartello nero con la silhouette in giallo fosforescente di una città attraversato da una striscia rossa m'informò che eravamo usciti da Lahti. Imboccammo una strada a corsia unica in buone condizioni, fiancheggiata all'inizio da case, con le loro decorazioni natalizie che brillavano nell'oscurità, poi alberi e ancora rocce di granito tagliate. Un altro cartello mi comunicò che Mikkeli si trovava a centosessanta chilometri. Continuavamo ad andare verso nord. Tenni gli occhi fissi sul contachilometri, mentre superavamo una serie di
cassonetti per i rifiuti in plastica e cassette della posta su pali, gli unici segnali che da qualche parte, nella foresta, c'era un'abitazione. Le nuvole e la compattezza degli alberi fecero calare su di noi la totale oscurità. L'intensità dei fari era aumentata dal riverbero bianco della neve. La Mercedes 4x4 si scaldò rapidamente. Tom aveva messo gli auricolari e teneva gli occhi chiusi. Mi ritrovai a pensare a quello che potevo dire a Liv, ma evidentemente la conversazione non rientrava nei suoi programmi. Continuava a guardare nello specchietto retrovisore molto più di quanto non fosse necessario alla guida. Stava controllando che non fossimo seguiti. Per questo motivo ci eravamo incontrati nel garage ed eravamo partiti prima che potesse essere stabilito un qualsiasi tipo di collegamento fra i due veicoli. Se qualcuno ci avesse seguito dall'aeroporto, avrebbe trovato naturale che andassimo in albergo. Mi sporsi in avanti e scorsi il suo viso illuminato dal cruscotto. «Liv, perché questa attenzione esagerata per i cellulari e i cercapersone? Perché la DLB?» «I vecchi sistemi sono sempre i migliori.» Sorrise. «Una volta un siciliano mi ha detto che per avere la certezza che ci sia un futuro, occorre imparare la lezione dal passato. Per secoli la sua organizzazione ha usato corrieri che si scambiavano informazioni da persona a persona. In quel modo si aveva il controllo su tutto ciò che era significativo. Poi iniziarono a operare in America e s'impigrirono. Alla fine degli anni '50 cominciarono a usare il telefono, e fu l'inizio del crollo. Se l'informazione è importante e vuoi tenerla al sicuro, devi comunicarla di persona. Solo così riesci a mantenere il controllo.» Iniziai a vedere i cartelli per la E75 e Mikkeli, poi la fila degli alberi scomparve e l'autostrada si materializzò a circa mezzo chilometro sotto di noi, sulla destra. File di fari si muovevano in entrambe le direzioni, ma noi restammo nella vecchia strada e gli alberi tornarono a impedirci la visuale. Sarebbe stato più facile accorgersi se qualcuno ci stava seguendo. Liv continuò. «Per quanto riguarda il resto della domanda, noi prendiamo tutte le precauzioni. Non solo per le informazioni, ma anche con le nostre persone. Per questo motivo, da adesso in poi, ogni contatto lo avrete esclusivamente con me.» Decisi di non raccontarle quanto era successo all'uscita dall'appartamento. Lei e Val sapevano abbastanza sul mio conto. I lampioni ai bordi della strada e un cartello mi fecero sapere che eravamo vicini a un posto chiamato Heinola.
Tom schizzò su, togliendosi gli auricolari. Una lieve musica metallica si diffuse nell'aria. «Siamo arrivati?» Liv mi venne in aiuto. «Ancora una mezz'ora, Tom.» Tornò a trasformarsi in uno scolaretto timido. «Oh... grazie.» Liv abbassò appena il riscaldamento e si tolse il cappello. I capelli le fluirono sulle spalle. Tom guardava oltre il finestrino verso la città e sognava a occhi aperti. Estrasse un fazzoletto di carta e si soffiò il naso, quindi esaminò attentamente la sua produzione alla luce dei lampioni, come se potesse ricavarne qualche profezia. Terminammo la circumnavigazione della città, ulteriore manovra antisorveglianza, e imboccammo una strada molto più stretta. Le case e le luci diminuirono e subito dopo subentrarono l'oscurità e gli alberi. Di tanto in tanto si scorgeva un viottolo che portava nel bosco. Liv continuava a controllare che non fossimo seguiti, e Tom, dopo aver individuato il senso della vita nel suo kleenex, riprese ad ascoltare la musica. Dopo un po' svoltammo in una strada sterrata, contornata da alberi e pulita dalla neve, poi continuammo per altri due o tre chilometri lungo una collinetta finché gli alberi non lasciarono il posto a una casa che venne di colpo illuminata da luci a terra, che si accendevano all'avvicinarsi di un veicolo. Dovevamo aver superato un sensore. Il posto ricordava qualcosa uscito da un film di James Bond. Probabilmente Blofeld ci stava guardando dalla finestra, accarezzando il gatto. L'edificio era lungo sessanta o settanta metri e dava l'impressione che qualcuno avesse tagliato una fetta da un palazzo di appartamenti e l'avesse posata a sei metri di altezza su due massicci pilastri di cemento. Val certamente faceva le cose con stile. Il viottolo ci portò sotto casa, dove pannelli in vetro sigillavano la zona fra i pilastri creando un garage interno. Le due ampie ante del cancello si aprirono automaticamente al nostro arrivo e si richiusero alle nostre spalle. Quando uscii dalla macchina faceva molto caldo. La luce che penetrava dalle finestre e il riflesso della neve mi provocarono una smorfia. Poi gli occhi si adattarono. Liv premette un congegno e una porta marrone si aprì nel pilastro di sinistra. Tom e io afferrammo le sacche e la seguimmo su per scale afose. Notai che un paio di stivali da passeggio marrone chiaro aveva sostituito quelli tipo cowboy.
Entrammo in un ambiente aperto, vasto e alto di soffitto, forse trenta metri di lunghezza e venti di larghezza, che, come l'appartamento di Londra, era bianco come una clinica e scarsamente arredato. Subito alla mia destra si apriva una porta che andava in cucina, attraverso la quale notai armadietti bianchi e un piano di lavoro metallico. La zona giorno, dove ci trovavamo, sembrava quella di una rivista. Due divani in pelle uno di fronte all'altro e in mezzo un tavolino basso di vetro e metallo, e questo era tutto. Niente televisione, niente impianto stereo, nessuna rivista, fiori, quadri alle pareti, niente. Dal soffitto al pavimento, dove pensavo dovessero trovarsi le finestre, si allungavano delle tende bianche. L'illuminazione era bassa e prodotta da lampade a muro, naturalmente bianche. Niente al soffitto. Tom e io rimanemmo con le sacche in mano, tutti presi a osservare. «Vi mostro le vostre camere.» Liv si stava già dirigendo verso la porta in fondo sulla destra. Mi chiesi se le capitasse mai di aspettare qualcuno o se Armani le imponesse di camminare sempre davanti. La seguimmo nel corridoio. Le nostre scarpe cigolavano sul pavimento di legno tirato a cera. La prima porta a sinistra era quella della mia camera. Ovviamente un altro universo bianco, letto basso tipo giapponese, bagno adiacente, piastrellato di bianco, e pile di asciugamani bianchi nuovi di zecca. Non c'erano armadi, solo sacchi in stoffa appesi a una struttura di metallo cromato. Incomprensibilmente, dal momento che doveva esserci una vista fantastica, non c'erano finestre. Liv disse: «Non ce n'è bisogno. È sempre troppo buio». Posai la sacca sul pavimento; non c'era altro posto dove metterla. Lei se ne andò. «Tom, camera tua è qui accanto.» Scomparvero, ma mentre mi toglievo il giaccone sentii il mormorio delle loro voci attraverso la parete e avvertii il ronzio costante del condizionatore. I suoi stivali dalla suola in gomma tornarono subito indietro e si fermarono sulla soglia. «Un caffè, Nick, o qualcosa da mangiare? Poi dobbiamo metterci al lavoro. Non abbiamo molto tempo.» «Sì, grazie.» Fece un cenno di assenso e ritornò verso il soggiorno. Spostai la sacca in un angolo della stanza, sembrava fuori posto ovunque, e Tom infilò dentro la testa. «Grande fica, socio. Vale dei bei soldi o che cosa? Vieni di là a bere qualcosa?» Un paio di minuti più tardi, Tom e io eravamo seduti uno di fronte all'al-
tro sui divani dalla pelle bianca che a ogni nostro spostamento scricchiolavano. Dalla cucina proveniva il tintinnio delle stoviglie di porcellana. A quanto sembrava non sarei riuscito a cavare niente da lui mentre lei era in giro, il che forse era anche un bene. Per lo meno stava zitto. Rimanemmo seduti e in silenzio, solo il soffocato ronzio del condizionatore ci teneva compagnia. Ricomparve con un vassoio su cui stavano un bricco pieno di caffè, latte e tazze e un piatto di gallette e formaggio tagliato a fette. Posò il vassoio sul tavolino di vetro e si sedette accanto a Tom. Non avrei saputo dire se era agitato per l'eccitazione o per l'imbarazzo. «Lasciate che vi spieghi l'organizzazione», disse. «Io mi fermerò qui con voi. La mia stanza è dall'altra parte.» Indicò la porta. «La stanza di fronte alle vostre è quella dove si trova il portatile, che ti servirà, Tom, per attaccare il firewall. Ti dirò di più fra poco.» Si voltò verso di me. «Nick, sempre nella stessa stanza ci sono alcune piantine della casa in cui dovete entrare.» Iniziò a versare. «Per mercoledì mattina dovrete aver scoperto la sequenza dell'accesso, essere entrati nella casa e aver copiato i file. Se non sarà così, le mie istruzioni sono che il contratto è morto.» Rimasi seduto in ascolto, sapevo che anche se avessi dovuto fare un patto con il diavolo, tutto sarebbe stato fatto in tempo. Volevo quei soldi, avevo bisogno di quei soldi. Liv e io prendemmo un sorso di caffè nero. Tom non toccò il suo. Per non disturbare, aveva evitato di chiedere qualcosa alle erbe. Scivolammo in un silenzio forzato. Lei osservava il nostro sconforto, quasi divertita. Avevo la sensazione che sapesse di me e Tom ben più di quanto noi sapessimo di lei. Dopo un po' dissi: «Ce la faremo». Tom annuì. «Nessun problema.» «Ne sono certa. Discuteremo più tardi i dettagli sui soldi, lo scambio delle informazioni e altro.» Si alzò. «Andiamo, portate le tazze con voi. Si comincia a lavorare.» La seguimmo nel corridoio. La stanza sulla destra era bianca come tutte le altre, ampia e rettangolare. C'erano due scrivanie di pino e alcune sedie. Su una c'era un portadocumenti d'alluminio, sull'altra un piccolo portatile IBM nero di forma allungata, appena più piccolo di un foglio A4. Accanto al portatile, la scatola che lo aveva contenuto, cavi di riserva e una borsa nera di nylon con la tracolla per il trasporto. Liv indicò la valigetta. «Tom,
quel ThinkPad è per te. Nick, vieni.» Proseguì verso l'altra scrivania. Mentre lei e Tom iniziarono a parlare del firewall, cioè del sistema di sicurezza di controllo delle informazioni da cui avremmo dovuto scaricarle, aprii il portadocumenti e sollevai la fascetta. Trovai diverse cartine, tutte di scale diverse. Sembrava che la nostra meta fosse Lappeenranta, una città circa centoventi chilometri a est, vicino al confine con la Russia. La mappa in scala più grande mostrava che l'intera zona era un'imponente rete di laghi, forse più di cento chilometri quadrati, con centinaia di isole e insenature punteggiate di villaggi e cittadine. L'obiettivo era venti chilometri a nord di Lappeenranta, lungo una strada che univa diverse isole a una zona chiamata Kuhala. La casa non era sul lago, ma arretrata di circa un chilometro rispetto alla riva e circondata dalla foresta. Liv ci lasciò soli e la guardai andare via. Aveva un sangue freddo incredibile. Mi resi conto che cominciava a piacermi parecchio. «Ehi, Tom.» Mi voltai a guardarlo. Era piegato sul piccolo schermo e mi dava le spalle. Si voltò nella sedia e sollevò lo sguardo. «Che c'è, socio?» «Penso che sarebbe meglio se tu non parlassi di soldi con Liv. Probabilmente lei prende meno di noi, e la cosa la farebbe piuttosto incazzare. Se ti chiede, rispondi che non lo sai, okay?» «Allora questa non è casa sua?» «Ne dubito. Partecipa al lavoro, come noi. Penso che sarebbe meglio tenere le carte coperte, d'accordo?» Si voltò di nuovo. «Se lo dici tu, amico. Come vuoi.» I tasti iniziarono a ticchettare sotto le sue dita saltellanti. «Per me va bene.» Tornai al materiale spiegato davanti a me. Le cartine sono utili, ma arrivano fino a un certo punto. Avevo bisogno di spostare il culo sul posto, e fare una ricognizione approfondita. Mentre memorizzavo le cartine ascoltavo Tom che lavorava. Il modo migliore che avevo imparato consisteva nel visualizzare la strada che avrei fatto. Era molto più facile che cercare di ricordare nomi di posti e numeri di strade. Stavo seduto lì, a fissare il muro bianco, elaborando il mio percorso da Heinola alla casa bersaglio, quando notai un pezzo di gesso mancante intorno a una presa elettrica. M'inginocchiai per dare un'occhiata, tirai all'indietro l'angolo della piastrina rivelando un filo coperto da un rivestimento isolante di plastica trasparente. Guardai di nuovo Tom. Continuava a pestare la tastiera come un indemoniato.
Rimisi la piastrina al suo posto e feci un giro per la stanza, alla ricerca di altri buchi. A quel punto mi resi conto che non c'era neppure una presa per il telefono. Anche per una casa moderna mi sembrava un eccesso di minimalismo. Serviva per impedire che si potesse comunicare elettronicamente con quest'edificio? Se era così, Val prendeva molto sul serio il suo lavoro, e questo m'innervosiva un po'. Non mi piaceva scoprire cose che avrei dovuto conoscere. Mi avvicinai alla scrivania di Tom e rimasi dietro di lui a guardare lo schermo pieno di numeri e lettere. Alcune delle linee verticali cambiavano ogni volta che premeva un tasto. «Ci capisci qualcosa?» «Nessun problema; si tratta di algoritmi e protocolli, proxi, cose così. In poche parole devo trovare la sequenza di accesso tra circa un milione di differenti serie di caratteri. Questo è il firewall tra me e il resto del sistema.» Indicò lo schermo, senza distrarsi. «È una criptatura molto sofisticata, con un programma che individua ogni intervento insolito, come il mio tentativo di penetrarla, e lo interpreta come un attacco. Se avessi dovuto farlo sul posto, non credo che sarei riuscito a farlo in tempo. Ma quest'organizzazione è perfetta: ho tempo per giocare.» Mi eliminò dalla sua zona d'attenzione e si sporse leggermente in avanti per concentrarsi sullo schermo. Rimase in silenzio per alcuni secondi, poi si mise a borbottare fra sé cose insondabili, quindi tornò sul pianeta Terra. «Comunque, una volta che riesco a entrare qui dentro, quello che mi resta da fare è configurare il ThinkPad, portarlo con me e a quel punto posso scaricarle tutti i file che vuole. Molto facile.» Lo osservai trafficare sul suo nuovo giocattolo. Era ridiventato il dominatore del suo mondo, le mani scivolavano sui tasti, veloci e sicure. Anche il tono di voce era cambiato mentre mi spiegava quello che stava facendo. «Tom, riuscirai a superare questa cosa?» Lo schermo pieno di numeri, lettere e simboli che si muovevano rappresentava per me un casino totale. «Nessun problema, socio. Nessun problema.» Guardai verso la placca rotta. «Ancora una domanda.» Con gli occhi sempre fissi allo schermo. «Cosa c'è?» Cambiai idea. «Vado a bere qualcosa. Vieni?» «No, socio, resto qui. Ho da fare. Hai presente, no?» Lo lasciai. Volevo sapere perché quel cavo si trovava lì, e forse lui poteva essere di aiuto, ma perché rischiare di allarmarlo? Meno sapeva, meglio era.
16 Entrai in soggiorno dopo avere cercato, senza fortuna, una presa del telefono in camera mia. La luce era ancora accesa, ma nella stanza non c'era nessuno e il vassoio con il caffè e il resto era stato portato via. Sul tavolino c'era soltanto un grosso libro in brossura. Gironzolai per la stanza, sempre alla ricerca di prese del telefono, ma non ce n'erano. E neppure in cucina. Non riuscivo a individuare nessun intervallo nel rivestimento dei muri che mi permettesse di controllare l'impianto, così decisi di procedere in un altro modo. Mi avvicinai agli scuri, che andavano dal soffitto al pavimento, e ne urtai uno. Non solo non si mosse, ma era molto duro e pesante. Sulla parete accanto c'era un interruttore, e non era necessario essere un genio per capire a cosa servisse. Lo feci scattare e sentii il ronzio di un motore sul soffitto. Rimasi a guardare mentre gli scuri si aprivano a partire dal centro. Fuori era buio, ma le luci dell'interno mi permisero di vedere un balcone lungo e stretto oltre le porte scorrevoli con tripli vetri. Era ricoperto in tutta la lunghezza da un metro di neve intonsa che premeva contro i vetri. Poco più in là si vedevano le cime coperte di neve di alcuni alberi di pino, ma oltre era buio come inchiostro. Il suono di piedi nudi che mi si avvicinavano mi fece voltare. Liv era a cinque o sei passi di distanza, indossava una vestaglia di seta azzurra che le arrivava appena sopra le ginocchia, e che a ogni movimento faceva intravedere prima una coscia e poi l'altra. Ancora un paio di passi e mi superò, andando a premere l'interruttore. Aveva il profumo di chi è appena uscito dalla doccia. Il motore ronzò e gli scuri iniziarono a richiudersi. Si allontanò. «Nick, quando Tom lavora al computer le tende devono sempre restare chiuse.» Con la mano fece un gesto verso i divani. «Ci sediamo?» Attraversò la stanza e io la seguii. Vide l'occhiata che gettavo verso le tende e indovinò quello che stavo pensando. «Sì, Nick, prima che tu lo chieda, sono alimentate con cavi schermati. Tutta la casa lo è. A Valentin non piace che i suoi antagonisti sappiano quello che sta facendo. Si spendono milioni di dollari per accedere alle informazioni dei rivali in affari. Lui vuole la certezza che quelli usati per spiare lui siano soldi sprecati. Valentin conosce il vero valore delle informazioni: non i soldi, ma il potere.» «Per questo non ci sono telefoni?» Gli scuri adesso erano chiusi ed eravamo seduti uno di fronte all'altra.
Aveva ripiegato le gambe sotto di sé e la seta seguiva le forme del suo corpo. «Nick, vuoi parlarne tu con Tom? Regole della casa.» «Nessun problema. Ma vorrei un favore in cambio. Sarebbe tutto più facile per noi se tu non parlassi a Tom dei Maliskia, o del nostro accordo. È un tipo che si preoccupa e io vorrei che si concentrasse solo sul suo lavoro.» L'ultima cosa di cui avevo bisogno era che lei gli dicesse quanti soldi c'erano in ballo. «Naturalmente», sorrise. «Non ho mai problemi a ridurre al minimo le informazioni. D'altra parte, preferisco sempre dire la verità sulle cose importanti. Forse Tom starebbe meglio se sapesse dei Maliskia, e dei soldi, piuttosto che venirne a conoscenza in seguito, non credi? Le bugie possono creare confusione ed essere controproducenti; ma non hai certo bisogno che sia io a dirti queste cose, vero?» Non ero del tutto sicuro che si trattasse di una domanda retorica e comunque fosse non avevo intenzione di risponderle. Mi strinsi nelle spalle. Si sporse in avanti e prese il libro sul tavolino, e mentre si sistemava, la vestaglia di seta si aprì scoprendo entrambe le gambe. Cercai di non guardare, ma non riuscii a trattenermi. Liv era la donna più bella e intelligente che avessi mai visto. Il guaio era che avevo gusti da champagne e finanze da limonata. Non avrei mai avuto quello che ci voleva per attrarre persone come lei e, purtroppo, non mi sembrava il tipo che distribuiva caritatevoli scopate ai poveri. Quando vide il mio sguardo, chiuse la vestaglia. «Ti dà fastidio? Voi inglesi siete così strani, così repressi.» «Perché voi, invece?» grugnii. «Date l'impressione di essere riservati con chi non conoscete, eppure non vi fate problemi a stare insieme nudi nelle saune a parlare del tempo, per poi precipitarvi fuori e rotolare nella neve, frustandovi con rami di betulla. Allora, chi è lo strano?» Sorrise. «Siamo tutti prigionieri del nostro passato, e forse i finlandesi lo sono più degli altri.» Quest'ultima frase mi fece aggrottare le sopracciglia. Era un po' troppo profonda per me. «Non mi aspetto che tu capisca, Nick, ma i miti nordici sono radicati nella psiche di noi finlandesi più che in ogni altra cultura scandinava. Probabilmente un retaggio di tutti i secoli di dominazioni svedese e russa.» Tamburellò sul libro. «Una raccolta di leggende finlandesi. Capisci, ne siamo sedotti.»
«Anch'io sono un po' un tipo alla Harry Potter», dissi. Non avevo idea di cosa cazzo stesse parlando. Adesso toccava a lei essere disorientata. Forse pensò che fosse uno scrittore di spionaggio o di stronzate che poteva leggere uno come me. «Nick, vorrei definire le consegne, i dettagli delle DLB, per il passaggio di messaggi e denaro. Domani mattina andremo tutti a Helsinki, anche se Tom non fosse ancora riuscito ad attaccare il firewall. È importante che non sia tenuto all'oscuro.» Aprii la bocca per parlare, ma lei aveva penetrato il mio personale firewall. Non avevo idea se dovevo essere lusingato o in allarme per il fatto che sapesse sempre esattamente quello cui stavo pensando. «Nick, ti ho già detto che non c'è da preoccuparsi. Lì nessuno ti sta cercando. Altrimenti che senso avrebbe andarci, non ti pare? Tutti noi vogliamo che tu riesca, non sarebbe logico correre rischi inutili.» Il ragionamento filava, ma era passata meno di una settimana da quando Falegname aveva trasformato Helsinki in Dodge City, e non avevo nessuna intenzione di trovarmi vicino a qualcuno che mi avesse scambiato per uno dei suoi amici più intimi. «Dopo che Tom e tu ve ne sarete andati, domani notte, non devi più tornare qui, qualsiasi cosa succeda. È il solo modo perché questo posto resti sicuro. Comunque non ci sarà nessuno, perché io me ne andrò subito dopo di voi. Prenderò tutto quello che lascerete, e ve lo porterò quando faremo lo scambio. Dovrai arrivare alla DLB mercoledì mattina per lasciare i dettagli per un solo incontro fra noi due. Le condizioni devi stabilirle tu. Valentin desidera darti il controllo dell'organizzazione, come gesto di fiducia e perché tu sia tranquillo che niente di spiacevole possa accadere durante lo scambio. Affinché tu ne sia certo, sarai sempre in contatto esclusivamente con me.» Mi concesse il privilegio dei suoi bellissimi occhi. «Non ti preoccupare, Nick, quest'affare è gestito in modo da non mettere a repentaglio nessuno di noi.» Cercai di non ridere. Forse non si era accorta di come Val trattava gli affari. Se non riusciva ad avere il controllo su un edificio, lo faceva semplicemente saltare, senza preoccuparsi se dentro c'era qualcuno. Non mi sentivo ancora pronto a dichiararlo il mio amico del cuore. Nel frattempo avrei scelto io dove e quando, e loro dovevano adeguarsi. Logico. Annuii. «Che cosa succede se non arrivo alla DLB?» «Se non ci riesci tu, ci riuscirà Tom. Per questo abbiamo bisogno che venga con noi domani. Se non ci sono messaggi entro mercoledì sera, capi-
rò che ci sono problemi seri, e il contratto andrà in fumo. A volte si vince, altre...» Si strinse nelle spalle. Per un paio di minuti ci fu silenzio. «Come hai conosciuto Valentin?» «Come è successo a te, mi ha chiesto di lavorare per lui.» Sorrise e accavallò le gambe. «No, Nick, non sono la sua donna.» Mi aveva letto nella mente di nuovo. Trecento anni prima sarebbe stata bruciata sul rogo. «L'unica cosa che voleva da me era la mia laurea in politica russa. Vedi, Nick, i soldi sono qui... al momento. E il fatto è che a me piacciono i soldi. Lavoro forte e sono ben retribuita.» Si appoggiò all'indietro, e quando riprese a parlare lo fece a voce bassa. «I miei genitori erano svedesi. Sono morti entrambi. Sono nata qui, in Finlandia. Sono finlandese. Questo è quanto hai bisogno di sapere di me. E tu, Nick? Cosa ti ha fatto diventare un rapitore? Non lavoravi per il governo inglese?» Diedi un colpo di tosse, nel tentativo non molto riuscito, di nascondere il mio imbarazzo. Era logico che volesse sapere: se sapeva dei miei rapporti con Tom, sapeva di sicuro molto di più. E che ero un agente di secondo grado, le cui azioni potevano essere ricusate. Di colpo non trovavo più così divertente la conversazione. «Soldi», risposi. «Come te. Forse siamo uguali.» Mi scoccò una delle sue imperscrutabili occhiate tipo signor Spock. «Naturalmente. È per questo che sei qui.» Si aprì in un sorriso. «Sei sposato?» «Divorziato.» «Come mai, Nick? Non le piaceva vivere tra bugie e mezze verità?» «Credo che semplicemente non le piacesse vivere con me.» Feci una pausa. «Ero militare e...» «Sì, Valentin è al corrente del tuo passato militare. Questo è uno dei motivi per cui sei qui.» Che altro sapeva? A me non andava che nemmeno il postino sapesse com'ero fatto, figurarsi il capo di una delle più grandi organizzazioni criminali del mondo. Mi faceva sentire molto a disagio. Chiesi: «E tu? Sei sposata?» «Non credo che sarebbe una buona idea. Avere un figlio? Non credo che m'interessi. Tu hai dei figli?» «No.» Chiarii. «Riesco a malapena a badare a me stesso. Troppa responsabilità. Che cosa farei se si ammalassero?»
Mi guardò con franchezza. «Penso che entrambi abbiamo fatto la scelta giusta, Nick, non credi?» Cercai di decifrare la sua espressione, ma ancora una volta non ci riuscii. Per un po' non risposi, poi quando lo feci fu con un'altra domanda. «Resterai con noi tutto il tempo?» «Sì e no. In sostanza io ci sono dentro solo perché tutto fili liscio.» Cambiò posizione. E riuscii a sbirciarle un'altra volta le gambe mentre lei tamburellava sul libro che aveva vicino. «C'è una storia qui dentro che parla di Väinämöinen, il Creatore dell'universo. Un giorno s'imbatte in Joukahainen, un dio molto più giovane. S'incontrano in un sentiero stretto e nessuno dei due vuole cedere il passo. Joukahainen sfida Väinämöinen, con tutta la ferocia e la sconfinata fiducia in se stessi che hanno i giovani. La battaglia si svolge a colpi di canti magici, e finisce che Joukahainen si ritrova in una palude. Capisci, Nick, semplicemente non sapeva con chi aveva a che fare.» Compresi il senso. Sapere con chi si ha a che fare è sempre stato di vitale importanza per me. Il messaggio era chiaro. Loro sapevano e io no. «A che ora partiamo domattina?» «Alle otto. Lo dici tu a Tom?» Sbadigliò. «È ora di dormire, per me. Buona notte, Nick.» La guardai varcare la soglia. «'Notte, Liv.» Sparì nell'altra metà della casa. Non riuscii a trattenere un sorriso di rimpianto quando mi resi conto che l'unico momento di vicinanza che avremmo mai avuto era stato quello vicino all'interruttore. Volere degli dei e compagnia bella. 17 Lunedì 13 dicembre 1999 Puntammo verso sud lungo l'autostrada in direzione Helsinki, tutti vestiti come il giorno prima. Tom si era diretto subito verso i sedili posteriori, il che mi lasciava l'alternativa di sedermi vicino a lui o davanti insieme con Liv. Sapevo bene quello che avevo voglia di fare, ma sentii che dovevo concederle un po' di spazio. Erano quasi le nove meno un quarto, e dopo mezz'ora passata a fissare i fari, spuntò la luce del giorno. Sarebbe stata una bella giornata; in cielo non c'era una nuvola e lo sconfinato panorama di pini e neve luccicante
sembrava tolto da un catalogo di località sciistiche. Guardai Tom, auricolari e occhi chiusi. Il panorama per lui era sprecato. Si era addormentato subito e la testa ciondolava al ritmo degli spostamenti della 4x4. Aveva tirato tardi al computer. Anche per questa gita di ricognizione gli avevo fatto portare tutti i documenti. Gli avevo detto che era necessario, se avessimo dovuto fuggire in fretta. «Tenerci pronti, Tom, mi capisci?» Non aveva molta voglia di venire perché avendo passato quasi tutta la notte a lavorare era vicino alla soluzione. Ma io ero d'accordo con Liv; doveva conoscere le regole del gioco. Agivamo entrambi per nostre egoistiche ragioni. Se ci fossero stati problemi sul lavoro e Tom fosse stato l'unico a uscirne, lei doveva sapere che c'era ancora una possibilità di ottenere i dati da consegnare a Val. E io volevo che venisse perché, se mi fossi rotto una gamba, o non fossi stato in grado di andare alla DLB per prendere i soldi per qualsiasi altra ragione, Tom doveva essere in grado di farlo al posto mio. Altri quaranta minuti e saremmo arrivati alla periferia della città. Quando fummo in città Liv mi fece da guida, indicandomi alcuni punti caratteristici e raccontandomi con orgoglio come la sua piccola nazione avesse sconfitto l'Armata Rossa nella guerra dell'inverno 1939-'40. La testa di Tom non smetteva di dondolare al mio fianco. Era abbastanza strano vedere quei posti di giorno. Nelle ricognizioni per il rapimento di Val non ero mai venuto prima del tramonto, non c'era motivo di esporre me e la squadra alla CCTV e all'intero servizio di sicurezza per la conferenza europea. Non importavano i dintorni, era sempre meglio perlustrare al buio, e in questo Paese il buio non mancava di certo. La città aveva un aspetto più vecchio di quanto avessi immaginato; l'aeroporto e l'Intercontinental erano costruzioni moderne, e tutto il farneticare di Tom su quanto lì fossero all'avanguardia mi aveva indotto a pensare a una città piena di edifici sullo stile di Vauxhall Cross. In direzione del centro l'intenso traffico cittadino s'insinuava con abilità fra i tram nel tentativo di guadagnare qualche metro, ma di norma era molto disciplinato. «Penso che sia arrivato il momento che anche Tom presti attenzione, Nick.» Lo scrollai. «Cosa? Che succede?» Aprì gli occhi e si stirò come se stesse riemergendo dall'ibernazione.
M'indicai la bocca per fargli capire che doveva darsi un'asciugata alle bave sul mento. «Grazie, socio.» Guardò il traffico. «Questa è Helsinki, vero? È identica al giro virtuale.» Liv sorrise. «Penso che troverai quella vera molto più fredda.» Svoltammo un angolo, oltrepassando un'insegna che c'informò che il grande magazzino si chiamava Stockmann. Mentre procedevamo, lei indicò le grandi vetrine. «L'appuntamento è al bar del sesto piano. La stazione è a un paio di minuti a piedi.» Continuammo per due isolati prima di fermarci. Quando uscii, per la prima volta in quel giorno avvertii il freddo pungente. Il garage era chiuso da pannelli, climatizzato come parte integrante della casa, non avevamo ancora avuto possibilità di contatto con l'aria esterna. Si voltò a guardarmi attraverso le porte posteriori mentre mi stavo infilando guanti e cappello. «Ci vediamo da Stockmann fra due ore. Ti servirà una mezz'ora per controllare la stazione.» Annuii e mi rivolsi a Tom. «Useremo il resto del tempo per acquistare l'equipaggiamento.» Chiusi la portiera e la 4x4 si allontanò. I nostri respiri rimanevano davanti a noi sotto forma di nuvole, ogni centimetro di pelle pizzicava per il freddo. A Tom non piaceva neppure un po'. «Siamo all'Artico o cosa, Nick? Ma che cazzo aspettiamo a entrare?» La stazione era di fronte a noi. Aveva l'aspetto di una prigione della Germania dell'Est, molto quadrata, molto imponente, la facciata di cemento marrone sporco, o così sembrava. Avrebbe potuto essere usata come ambientazione per 1984. Controllai l'orologio della torre con il mio Baby G e si trovarono d'accordo al minuto: 10.22. Mentre ci univamo agli altri pedoni in obbediente attesa dell'omino verde del semaforo, Tom corrugò la fronte e disse: «Nick?» «Che c'è?» Ero tutto preso nella ricerca di un varco fra i tram per balzare via. Non avevo intenzione di congelare a morte, in attesa che l'omino verde si facesse vedere. «Ti fidi di lei... cioè di Liv? Sei sicuro che andrà tutto bene?» Il consiglio di Liv di essere sincero mi attraversò per un attimo la mente, per fortuna non con la forza sufficiente a farmelo seguire. Tendevo a non fidarmi mai di nessuno, soprattutto dopo quanto era successo a Washington, e certamente non l'avrei fatto in quest'occasione. Di sicuro il tempo era poco per portare avanti un lavoro ben fatto, e avevo un disperato biso-
gno di soldi, ma quel giorno non avrei fatto nulla prima di aver creato un rete di sicurezza per me e per Tom. Il semaforo scattò e iniziammo a camminare. «Non ti preoccupare, socio, va tutto bene. Avere un punto d'incontro di questo genere è una di quelle cose che mi fa sentire decisamente meglio riguardo a lei. Vuol dire che questa è gente sveglia e vuole che il lavoro sia fatto senza casini. Non ti preoccupare.» Si strinse nelle spalle. «Sarà, ma cosa ti garantisce che non ci appenderanno a un gancio come... hai presente le aringhe affumicate? E tu farai quello che dice lei? Cioè, tornare qui, consegnarle il ThinkPad con i file scaricati e ritirare i soldi? O chiederai di più? Scommetto che vale una tombola.» Anche se il pensiero mi aveva attraversato la mente, non l'avrei certo ammesso con lui. «No, socio, voglio fare le cose in modo corretto. Solo scambiare la tua piccola macchina con i soldi e tornarcene a casa. In questo modo tutto sarà facile e sicuro. Comunque tu li consideri, sono bei soldi.» Per tutto il tempo avevo mantenuto un'espressione sorridente. Mi sentivo come se stessi cercando di convincere un bambino piccolo a mangiare il cavolo. Mi aspettavo altre domande, ma di nuovo alzò le spalle. «Era solo per chiedere. Se va bene a te, va bene anche a me. Sai una cosa? È proprio attraente, vero?». Feci una smorfia. «Sì, è molto bella. Fuori dalla nostra portata, figliolo.» Non so perché, ma non riuscivo a immaginare Liv che stampava bocche sui biglietti di Juicy Lucy a Notting Hill, o che passava la giornata ad aggiustare il mio riscaldamento. Il portone principale della stazione era di legno pesante con finestrelle protette da griglie metalliche. Lo spingemmo e ci trovammo di fronte a Babbo Natale che agitava il campanello e chiedeva offerte. Sgusciammo via. L'interno aveva più l'aspetto di un museo ben tenuto che di una stazione: pavimenti in pietra puliti, imponenti pilastri di granito e soffitti incredibilmente alti. Piccoli pupazzi di neve erano appesi ai lampadari a bracci, e l'ambiente risuonava di annunci pubblici, gente che parlava, cellulari che squillavano ovunque e, in un angolo, un cantante di strada che arrischiava la versione finlandese di Good King Wenceslas sulla fisarmonica. L'odore del fumo delle sigarette e di fast food era forte e dappertutto. Un gruppo di persone con berrettino da Babbo Natale e sci sulle spalle
cercò di infilarsi fra uomini d'affari stressati nei loro cappotti, cappelli di pelliccia da cosacchi e telefonini incollati alle orecchie. La cosa strana è che non si vedeva né si sentiva un treno. Una stazione da grandi freddi con i binari all'esterno. Tom si sfregò le mani. Questo posto gli piaceva. «Cristo, adesso mi sento quasi un essere umano. E ora che facciamo, Nick?» Babbo Natale continuava a fare le sue cose mentre noi in piedi cercavamo di recuperare un certo contegno, e io pensai che «quasi» fosse il livello massimo che Tom potesse raggiungere. La DLB di Liv era facile da individuare, come quella al Langham Hilton. Ci trovavamo con le spalle alla porta principale. Di fronte avevamo un grande scalone e delle scale mobili che scendevano alla metropolitana. I tre lati dello scalone erano circondati da un quadrato aperto di panche di legno. La DLB si trovava sulla sinistra vicino a un cestino per la spazzatura. Tom mi seguì fra la DLB e l'ampia sala biglietteria alla nostra sinistra, mentre mi dirigevo verso un chiosco di giornali. Una ragazzina stava seduta e leggeva una rivista, le orecchie piene di walkman e la bocca piena di cicca. Indossava una salopette imbottita blu scuro sotto una giacca in tinta che teneva aperta per non morire di caldo. Mentre le passavamo davanti feci un cenno a Tom. «Ci siamo, socio. Vedi la ragazza vestita di blu?» Lui annuì e procedemmo. «Bene, se metti la mano sotto la panca, esattamente dove adesso è seduta lei, sentirai una busta di plastica attaccata con il velcro. Si tratta soltanto di controllare che nessuno ti stia guardando e di tirarla via. Ti allontani, scrivi un biglietto in cui dici dove possono trovarti, e loro verranno.» «Tutto questo mi sa un po' troppo di James Bond. Non mi piace.» «È molto semplice, invece. Devi sapere che cosa devi fare, se si mette male. Se mi rompo una gamba e non ce la faccio ad arrivare fin qui. In quel caso toccherà a te consegnare la merce e ritirare i soldi.» «A patto di non dover fare dei raggiri strani, tipo tirarle una fregatura o cose del genere. Questo no, socio. Io voglio solo i soldi.» Ci fermammo alla parete del chiosco di giornali. «Tom, tutto procederà con la regolarità del meccanismo di un orologio. Devi solo sapere come stanno le cose nel caso io venga ferito, questo è quanto. Tu sei la mia polizza di assicurazione, e io sarò la tua.» Questo gli fece piacere. La ragazza si alzò e venne nella nostra direzio-
ne, muovendo la testa al ritmo della musica. «Vai, e vedi se c'è già qualcosa.» «Cosa, adesso?» Era in piena crisi di panico. «Con tutta questa gente?» «Vuoto non sarà mai, Tom. È una stazione, cazzo! Devi fare solo una passeggiatina fin là, sederti, mettere la mano sotto la panca e tastare se c'è qualcosa. Intanto io vado a cambiare dei soldi per te, d'accordo?» Non attesi la risposta. Volevo che compisse i gesti. Se avesse dovuto andare da solo, avrebbe saputo cosa fare. Mi addentrai ulteriormente all'interno della stazione. Dei cartelli davanti a me segnalavano i binari e il deposito bagagli. Ci sarei tornato presto. Fra gente con l'aria affaccendata che attraversava l'ampio portone di legno vidi dei vagoni coperti di neve fermi ai binari. Alla mia destra c'erano alcuni negozi e le toilette, e, circa cinquanta metri più in là, l'uscita verso il capolinea degli autobus. A sinistra, ancora negozi e gli armadietti per il deposito bagagli veloce; più in là, alla stessa distanza, un altro ingresso che portava ai taxi. Alle mie spalle, le scale per scendere alla metropolitana e un Tom in pieno stato d'angoscia. Girai a sinistra verso il cambiavalute, cambiai cinquecento dollari e tornai indietro. Mi avvicinai alla DLB e lo vidi seduto sulla panca con un'aria pienamente soddisfatta di se stesso. Mi sedetti vicino stringendomi nel piccolo spazio fra lui e una donna piuttosto larga che stava sbucciando un'arancia. «Una cazzata, socio. Trovata al primo colpo, guarda.» Fece per chinarsi. «No, non adesso, Tom. Lasciala dov'è e ti faccio vedere come comunicare a Liv che hai lasciato un messaggio.» Mi alzai e lui mi seguì. La donna era molto contenta e si allargò ancora un po'. Andammo verso le porte che conducevano ai binari e svoltai a destra, oltrepassando le toilette. «Tom, entra lì dentro e scrivi il messaggio, okay?» Annuì, gli occhi fissi sull'edizione inglese di una rivista di computer mentre oltrepassavamo un'altra edicola, sempre circondati da persone che lottavano con i bagagli e gli sci. Gli spiegai dove lasciare il segno che indicava DLB piena. «Esattamente dopo questo bar, sulla destra, c'è una fila di telefoni. Quando è il momento procurati un pennarello, in uno di questi negozi, e traccia una linea nell'ultima cabina sulla destra, capito?» Non aveva capito. «Perché?»
«Così Liv non deve starsene seduta qui a tastare sotto la panca ogni minuto. Se il segnale, la linea con il pennarello, non c'è, lei sa che non c'è neanche il messaggio. Altrimenti potrebbe dare nell'occhio, mercoledì, non ti pare? Seduta allo stesso posto, un'ora dopo l'altra.» Annuì pensieroso. «Sai una cosa? Accanto a me potrebbe anche starci un'ora dopo l'altra, hai presente?» Sorrisi. Se le due donne all'aeroporto se lo sarebbero mangiato a colazione, Liv molto probabilmente lo avrebbe masticato e sputato senza sollevare lo sguardo dal giornale che stava leggendo. Ci stavamo avvicinando alle porte che davano verso il terminal degli autobus quando si aprirono tutte in una volta e l'intero carico di un autobus tracimò verso di noi, tirandosi dietro sci e bagagli. A dieci metri dalle porte c'era una fila di quattro cabine telefoniche fissate al muro, separate da scomparti di legno. Rimanemmo in piedi accanto a quella più vicina, per lasciar passare il gruppo del pullman con il suo rimbombo di ruote di valigie e voci eccitate. «Vedi qui?» dissi. «Sì, vuoi che faccia un segno...» Iniziò ad agitare un dito. «Vedi, Tom, nella terra delle spie nessuno indica.» Gli abbassai la mano cercando di non ridere. «Ma sì, è giusto, un segno. Una linea, una bella linea spessa. Fingi di telefonare e fai in modo che loro...» feci un cenno in direzione del negozio di fiori dall'altra parte, «non se ne accorgano.» Tom seguì il mio sguardo. «Ho capito, ma mi dirai tu cosa devo scrivere?» «Naturalmente, ma adesso andiamo a prenderci un po' di freddo.» Attraversammo la stazione dei bus, una grande piazza al coperto piena di fermate. Quando arrivammo al marciapiede tagliammo a destra verso Stockmann. Allungai a Tom duemila marchi finlandesi del gruzzolo che avevo cambiato. Circa sei marchi per dollaro. Lui pensò di essere ricco; gli brillarono gli occhi, o forse cominciavano a lacrimare per il freddo mentre percorrevamo l'acciottolato della strada. Il rumore di pneumatici e lo sferragliare metallico dei tram ci costringeva ad alzare il tono della voce. «Tom, vorrei che tu mi dessi in custodia passaporto e portafoglio. Ho un'idea per una piccola assicurazione extra, ma ascolta, questo deve restare fra te e me. Non è che non mi fidi di lei, ma sempre meglio essere salvi che dispiaciuti, che ne dici?» «Mi piace, Nick. Mi fa sentire meglio.»
Me li passò senza fare domande. Mi fece sentire ancora più responsabile di lui. «E poi, domani notte meno abbiamo meglio è.» Si capiva subito che Stockmann era il negozio per i finlandesi bene, se non altro dalla fila di auto di grossa cilindrata nere o blu scuro che si trovava all'esterno, con i motori accesi, in attesa che i VIP uscissero e salissero a bordo con i loro acquisti natalizi. Quando arrivammo più vicini fu chiaro a chi appartenevano le auto. Robusti uomini senza collo e con la testa quadrata erano in attesa a fianco delle auto. L'impressione era che i coniugi Mafia fossero un po' in allarme dopo il rapimento di Val la settimana prima. Quando ci avvicinammo alla porta principale, uscì un gruppo di pezzi grossi che circondava una bionda molto giovane con indosso più pelliccia di un grizzly. Per un momento pensai che fosse Liv. La porta di una limousine le si aprì di fronte, e un convoglio di tre auto schizzò via. Tom e io entrammo attraverso le ampie doppie porte nel reparto profumeria. Un poco più in là, nel reparto bagagli, presi da una rastrelliera due sacche da weekend, una verde scuro e una nera, e due coperte pesanti. Tom aveva il suo piccolo tesoro stretto fra le mani e un'aria felice. Era tempo di saluti. «Ho da fare delle cose, Tom. Assicurazione.» Mi toccai la punta del naso e strizzai l'occhio. Le sue guance paffute da criceto sorrisero. «Ci vediamo al bar fra tre quarti d'ora. Comprati qualcosa di caldo, le cose che ti ho consigliato, capito?» «Sì, nessun problema. Ehi, Nick, quando il gioco si fa duro i duri fanno acquisti.» Sfregò insieme pollice e indice. Gli diedi una pacca sulla spalla. «Mi raccomando, comprati un cappotto decente e degli stivali. A proposito, se Liv arriva prima di me, dille solo che anch'io sto facendo acquisti.» Capii che non gliene fregava niente, voleva solo andare a spendere. «Tranquillo. Ci vediamo.» Di nuovo al freddo, presi le sacche e le riempii con le copèrte. Attraversai la stazione dei bus. Oltrepassai i telefoni ed entrai in una delle toilette più care d'Europa. Mi costò quasi una sterlina sedermi in uno dei gabinetti dove tirai fuori il borsello con quello che restava dei venticinquemila dollari in banconote da cento che avevo portato con me. Ne tolsi quattromila, poi misi il borsello, più i miei documenti e quelli di Davidson, nella sacca
verde scuro. Può sempre capitare l'occasione che una ID bruciata possa tornare utile. I documenti di Tom, più tremila dollari, finirono nella sacca nera. Mi misi in tasca i rimanenti mille. Poi le portai al deposito bagagli e cominciai a cercare un posto decente dove nascondere le contromarche - la nostra piccola DLB privata - che Tom potesse ricordare con facilità. Entrai in uno dei negozi e presi una rivista di computer che aveva una busta di plastica con un CD omaggio. Ero in coda alla cassa quando la vidi. Liv era vicino alle porte che portavano ai treni. L'uomo molto elegante che era con lei indossava un lungo cappotto di cammello, camicia e cravatta. Anche lei sembrava messa su bene con un cappotto nero che prima non aveva. Doveva essere nel bagagliaio della Mercedes 4x4. Mi spostai dalla coda come se avessi cambiato idea sulla rivista, e tornai a curiosare fra gli scaffali, continuando a osservare Liv e il suo uomo con l'angolo dell'occhio. Erano abbracciati, i loro volti vicinissimi, e parlavano. Stavano facendo del loro meglio per sembrare due innamorati che si salutavano, ma non funzionava. In alcuni momenti si scambiavano coccole, eppure non stavano parlando fra loro, parlavano uno all'altro. L'avevo fatto diverse volte, e sapevo di cosa si trattava. Si tennero abbracciati e parlarono un po' troppo, poi lui si staccò appena da lei. Era sulla trentina, capelli castani e corti, l'aspetto di un giovane uomo d'affari molto alla moda. Lei si voltò, diretta alla stazione degli autobus. Non c'era stato bacio finale, né ultimo abbraccio, né carezza sui capelli. Attesi che lei passasse, poi mi spostai velocemente ai binari e beccai l'uomo al binario 6 mentre controllava il biglietto e cercava la carrozza. Era giunto il momento di correre a controllare che cosa stesse facendo Liv. Mi precipitai attraverso le porte che davano verso la stazione degli autobus e guardai nella piazza. Si stava allontanando verso l'attraversamento pedonale, infilandosi il cappello tibetano. La 4x4 era parcheggiata sul lato opposto insieme con altre in zona tassametro. Mi voltai e tornai alla stazione. Il pannello delle partenze mi comunicò che dal binario 6 di lì a due minuti era in partenza il treno per San Pietroburgo. Tornai in fretta al negozio e comprai la rivista e un rotolino di nastro adesivo. Tolsi la busta di plastica, la feci in due pezzi e in ciascuno avvolsi le contromarche. Adesso mi restava solo da trovare un posto dove nasconderli che Tom potesse ricordare con facilità. Non era difficile. Le lunghe file di armadietti del deposito bagagli vicino all'uscita verso i taxi erano
sollevati di circa dieci centimetri dal pavimento. Mi chinai facendo finta di pulirmi le scarpe dal fango e attaccai con il nastro adesivo la contromarca di Tom sotto il numero 10 e la mia sotto il numero 11. Se qualcosa fosse andato storto, avevamo tutti e due un biglietto per uscire dalla Finlandia. Tornai verso Stockmann continuando a rimuginare sull'incontro di Liv con l'uomo dal cappotto di cammello. Presi l'ascensore fino al sesto piano. Attraversai il reparto abbigliamento d'inverno e un cartello m'informò che al piano superiore avrei trovato CELLE FRIGORIFERE PER LE PELLICCE. Oltrepassai un ristorante, un bar, e trovai Tom al Café Avec, che si affacciava sui clienti del quinto piano. Sul tavolo di fronte a lui c'era una tazza mezza vuota di un qualche intruglio alle erbe che aveva un'aria tristemente fredda. L'arredamento in legno leggero era sicuramente uscito da qualche magazzino IKEA e il posto pullulava di gente che mangiucchiava una zuppa o un piattino di pesce. Il rumore era assordante: tutti parlavano e i cellulari squillavano con più di un milione di suoni diversi. «Guarda qui, socio.» Era tutto un sorriso; indicava i suoi sacchetti e ne aprì uno. Fui felice di vedere che si era comprato un paio di stivali decenti, e il giaccone pesante di lana a scacchi blu scuro era esattamente quello che gli avevo detto di comprare. «Bravo, Tom. Adesso ascolta.» Gli spiegai dov'era nascosto il suo biglietto. Li avremmo presi mercoledì, ma se la merda ci fosse arrivata addosso l'indomani notte, lui doveva andare dritto alla stazione, acchiappare la sacca e prendere il primo volo per casa. Gli ritornò un'aria più allegra. «Io desidero solo che questo lavoro venga fatto e poi tornarmene a Londra con un po' di soldi. Non è che mi piaccia stare qui. So che dovrei esser contento, ma non ci riesco. Dev'essere il freddo. Perciò ho comprato questi per domani.» Si chinò e tirò fuori gambali e maglietta di seta. Cercai di non ridere. Era quel genere di cose che si possono comprare per la prima gita sulla neve, ma che non si mettono mai. Era piuttosto orgoglioso del suo acquisto. «Che ne pensi? Mi terranno caldo o cosa? Dovresti prenderli anche tu, Nick. La commessa mi ha detto che sono fantastici.» Ci avrei giurato; molto probabilmente costavano tre volte più di quelli termici, che erano più adatti. «Li ho già», mentii. «Però, c'è ancora una cosa.»
Li rimise con orgoglio dentro il sacchetto. «E sarebbe?» «So che hai detto di esserci vicino, ma riuscirai a penetrare il firewall entro domani?» Mi guardò come se fossi scemo. «Nessun problema. Ma tu sarai con me, vero? Hai presente, quando saremo dentro...» Percepivo che la sua aria da gradasso svaniva leggermente all'avvicinarsi dell'ora X. Sorrisi, annuii, poi vidi che guardava con ansia oltre le mie spalle. «Liv è arrivata.» Mi girai sulla sedia e vidi che ci stava cercando, aveva il cappello in mano e ancora il cappotto nero. Vide la mia mano alzata e si avvicinò con decisione. Si sedette. «Tutto bene alla stazione?» Feci cenno di sì. «Bene. Queste sono le chiavi della tua macchina, Nick.» Mi allungò due chiavi in un portachiavi Saab. «Nel cassetto del cruscotto troverai alcune cartine per arrivare sul posto e una mappa dettagliata della zona. Nessuna delle carte ha dei segni. Impiegherai più di tre ore.» «Probabilmente avrò bisogno di un certo numero di cose, dopo aver visto la casa.» «Nessun problema, se non si tratta di cose esotiche», disse controllando il suo orologio Carrier. Afferrai il suggerimento e mi alzai. «Penso che sia ora di andare. Voglio passare più tempo possibile sul posto.» Lei si alzò. «Ti faccio vedere dov'è la macchina, poi torno a casa con Tom.» Uscendo da Stockmann, Tom indossò la giacca a scacchi appena comprata, sopra quella che aveva. Sembrava un perfetto turista. Tornammo verso la stazione e vidi la Mercedes 4x4 ancora parcheggiata allo stesso posto. Accanto c'era una Saab blu nuova fiammante. Salutai. Tom salì davanti e andarono via. 18 Il viaggio per arrivare al bersaglio mi sembrò più lungo di quanto avesse detto lei. Forse avevo questa sensazione perché non c'era niente da vedere, se non migliaia di alberi e altrettanti blocchi di granito. Dovevo alzare la soglia della noia.
Erano da poco passate le tre e già imbruniva. I riflessi dei fari della Saab illuminavano i cumuli di neve ai bordi della strada mentre seguivo scrupolosamente il flusso del traffico che procedeva entro i limiti di velocità. Premetti il tasto ricerca della radio un paio di volte, ma non c'era molto da ascoltare. Odiavo la musica pop e non avevo la minima idea di quello che blateravano sulle altre stazioni. Impiegai il tempo concentrandomi sull'RV di Liv, ma non riuscii a darmi delle risposte. Decisi di pensare ad altro. Semplice: fare il lavoro, gestire lo scambio con Liv e poi riportare Tom e me stesso a casa, lasciando che Val facesse il cavolo che gli pareva della roba. Dopo la notte dell'indomani, una volta sul mio territorio, avrei ripreso il controllo sul mio destino. Imboccai l'uscita per Lappeenranta e cominciarono a vedersi indicazioni per Kuhala. Accostai per consultare la cartina a scala più bassa, la più dettagliata. Avevo da percorrere ancora dodici chilometri sulla strada a due corsie, per poi deviare su una secondaria e individuare il viale privato che portava alla casa-bersaglio. Ripartii, percorrendo una foresta così fitta che la strada assomigliava a una pista tagliafuoco. L'altezza degli alberi smorzava la luce dei fari tanto che sembrava di viaggiare all'interno di un tunnel. Di colpo ne fui fuori, e mi ritrovai su un ponte di legno che attraversava un lago ghiacciato. Venti secondi dopo, di nuovo nel tunnel, con qualche sporadica cassetta della posta a testimoniare che non ero l'unica persona in quella parte del mondo. Un triangolo giallo con la sagoma di un alce m'informò che avevo abbandonato la zona abitata. Mi fermai a un incrocio e controllai bussola e mappa. Otto chilometri ancora, poi la terza sulla destra. Mi rimisi in marcia tenendo d'occhio i chilometri e oltrepassando altri due ponti e qualche ulteriore sparuta cassetta per la posta. Quindi arrivai al viottolo che stavo cercando. Quando entrai sullo sterrato il rumore di pneumatici cambiò. Anche questa stradina, come quella che portava alla casa di Liv, era ancora ghiacciata, ma era passato lo spazzaneve ed era stata cosparsa di sabbia. Mancava ancora qualche chilometro, ma volevo essere certo di individuare il sentiero che portava alla casa-bersaglio al primo colpo. Non sarebbe stata una buona idea perlustrare la zona a fari accesi, spostandosi avanti e indietro con il motore su di giri. La cartina mostrava poche case disseminate in giro, e le cassette della posta si erano ridotte a una ogni mezzo chilometro circa. Ingranai la prima e cominciai a controllare sulla cartina ogni sentiero che si addentrava nel bosco senza riuscire a scorgere
alcuna luce. Trovai quello che cercavo, ma proseguii, alla ricerca di un punto dove lasciare la Saab in modo che sembrasse regolarmente posteggiata e non abbandonata. Trecento metri dopo trovai una piccola radura nella strada del bosco. Posteggiai e spensi il motore. Era di nuovo ora di tornare al freddo. Indossai i guanti imbottiti e il cappello che avevo comprato da Stockmann, uscii e schiacciai il pulsante sulla chiave. I quattro indicatori di direzione presero a lampeggiare quando la chiusura centralizzata bloccò le porte, ma non potevo fare niente per evitarlo. M'incamminai per il vialetto, sistemando il cappello in modo che non mi coprisse le orecchie: stavo lavorando e mi serviva che funzionassero bene, inutile doversi sforzare di sentire attraverso il pelo di mezzo agnello. Dopo il confortevole tepore della Saab, il freddo era molto pungente; non si udiva nessun rumore, né si vedeva nessuna luce. Sentivo solo il mio respiro e la neve che scricchiolava e sprofondava di un paio di centimetri a ogni mio passo prima di compattarsi con il ghiaccio sottostante. Alberi, neve, orecchie e naso congelati, tutto il mio mondo era quello. Arrivato al sentiero, mi fermai, in ascolto. Niente. I miei occhi avrebbero avuto bisogno ancora di un quarto d'ora prima di riuscire a adattarsi all'oscurità. Allora, con un po' di fortuna, sarei riuscito a vedere qualcosa in più del muro nero che adesso avevo di fronte. Svoltai sul sentiero e iniziai una lenta discesa. Era evidente che parecchi veicoli erano passati nelle due direzioni: nei due solchi a lato della montagnola centrale non c'era neve, solo ghiaccio compatto. Gli alberi si reggevano a fatica ai bordi del sentiero. La visibilità era limitata a un metro, dopo di che era buio fitto, ma sapevo che, a poco a poco, quando i miei occhi avessero assunto l'assetto notturno, le cose sarebbero andate decisamente meglio. Mi muovevo come un funambolo lungo il solco, per ridurre al minimo le orme sul terreno. L'ultima cosa che mi auguravo era di scivolare e cadere sulla neve laterale, lasciando impronte che sarebbe stato in grado d'individuare anche un bambino di cinque anni. Dopo alcuni minuti iniziai a scorgere davanti a me, in direzione del bersaglio, deboli luci intermittenti. I fasci di luce a volte illuminavano il cielo, a volte direttamente me, scomparivano per un po' e poi tornavano a illuminarmi. Sapevo perfettamente di cosa si trattava: fari di veicolo, e stavano procedendo nella mia direzione.
Non riuscivo ancora a sentire il suono del motore, perciò era impossibile che mi vedessero. I fari continuavano a lampeggiare contro gli alberi. Per non lasciare tracce non potevo far altro che tuffarmi fuori strada. Mi giunse il rombo del motore e i fasci di luce che frugavano la zona si fecero più intensi. Mi voltai verso il cumulo di fianco al sentiero, sperando di beccare uno spazio fra due alberi, mi bilanciai all'indietro nel tentativo di recuperare un po' di velocità e spiccai un salto in avanti. Riuscii a superare il primo tratto di neve, incurvandomi in volo come un saltatore in alto, e poi ricaddi come un sacco di merda. La neve poggiava su granito puro e la botta mi strappò il fiato dai polmoni. Iniziai a strisciare come un animale, cercando di costruirmi una tana sotto i rami. Il veicolo si avvicinava. Con lo sguardo sempre volto alla strada, mi trincerai dentro la neve gelida e attesi con le orecchie allungate. La trasmissione era in ridotta, il che faceva pensare a una 4x4. Alla fine arrivò alla mia altezza. Le ruote non riuscirono a mantenere la rotta e sbriciolarono la neve fresca a lato del sentiero. Senza rallentare, proseguì. Mi rialzai a fatica sulle ginocchia, tenendo l'occhio destro chiuso: in quel modo avrei conservato almeno il cinquanta per cento della visione notturna ormai conquistata. La puzza di gasolio rimase sospesa nell'aria. Il sentiero era a circa cinque o sei metri da me per cui non riuscii a distinguere la marca della 4x4 né il numero di persone a bordo. Tutto quello che riuscii a vedere fu una palla di luce bianca davanti e una rossa dietro, che si muovevano piano lungo il tunnel di alberi, seguite da una nuvola di gas di scarico. Rimasi in ascolto finché la luce non svanì. Dovevano essere arrivati alla fine del sentiero, perché sentii il motore salire di giri e il cambio di marcia. Poi il rumore svanì del tutto. Strisciando carponi nel tentativo di evitare i rami, riuscii a tornare al punto dove ero atterrato. Mi alzai in piedi e spiccai di nuovo un salto. Lo stinco destro andò dolorosamente a impattare contro la montagnola centrale, e la combinazione di pietre e ghiaccio mi causò un dolore lancinante. Sdraiato sulla schiena mi tenevo la gamba, mi dimenavo nel tentativo di assorbire il dolore e pensavo ai soldi. Passai un minuto intero a commiserarmi, poi mi alzai e controllai che non fossero rimaste orme sulla neve. Il mio tuffo era di livello olimpionico e il dolore non era da meno. Come uno sciatore maldestro ero coperto di
neve dalla testa ai piedi. Cercai di scuotermene di dosso il più possibile, mi risistemai il cappello e ripresi a scendere per il sentiero come un funambolo azzoppato. Dopo un centinaio di metri la mia capacità di visione notturna era ripristinata. Contemporaneamente iniziai a distinguere il mormorio sordo e continuo di quello che sembrava un generatore. Avevo un pensiero fisso. Quante baionette? Quanti in grado di battersi, se avessi avuto problemi e non fossi riuscito a fuggire? Se nella casa ci fossero state, poniamo, quattro persone, due di loro potevano essere tipo Tom, gente che gioca a Quake da anni ma che non ha mai preso un'arma in mano, ma gli altri due potevano essere gangster che le armi le maneggiavano bene, pronti ad attaccare. Le baionette erano questi ultimi, uomini o donne che fossero. Il termine risaliva alla prima guerra mondiale, quando da temere non era il battaglione di milleduecento uomini ma gli ottocento nemici in grado di combattere. I rimanenti quattrocento erano cuochi, lavapiatti, tuttofare e non erano influenti. Non avevo idea di quanti avrei dovuto combatterne, e Liv non era in grado di dirmelo. Era abbastanza preoccupante. Non l'avrei classificata fra le buone giornate di lavoro, se fossi entrato in casa e avessi scoperto che nella prima stanza era in corso un raduno di gangster russi. Il sentiero scendeva dolcemente e mi avvicinai al rumore. Adesso si sentiva nettamente. Del resto, se i macchinari da alimentare erano parecchi, avevano bisogno di una quantità di energia maggiore rispetto a quella che poteva fornire la centrale elettrica locale. Per controllare se erano collegati alla rete cercai d'individuare linee elettriche aeree, ma era troppo buio per vedere qualcosa. Il sentiero piegava. Percorsi la lieve flessione verso destra finché il sentiero andò allargandosi su entrambi i lati. Gli alberi non erano più così vicini al sentiero. A un centinaio di metri di distanza scorsi due luci soffuse. Adesso che mi trovavo in linea con la casa, il rombo del generatore era ancora più forte, incanalato verso di me dagli alberi. Posai la mano a coppa intorno al polso e premetti la lucina del Baby G. Erano le 16.45. Mi mossi piano in avanti, continuando a seguire il solco e cercando con lo sguardo un posto dove tuffarmi se l'auto fosse tornata o fosse sorto qualsiasi altro tipo di problema, tipo imbattermi nei Maliskia che facevano una scampagnata nel bosco. Che ci fosse un'unica strada per avvicinarmi al bersaglio mi faceva girare molto le palle, ma tutte le altre avrebbero lasciato delle tracce.
Ogni cinque o sei passi mi fermavo, guardavo e ascoltavo. La linea degli alberi s'interrompeva a circa cinque metri da una recinzione che adesso potevo vedere distintamente, creando così una zona scoperta, sia a destra sia a sinistra del sentiero, con neve alta circa un metro. Direttamente di fronte c'era un ampio cancello a due battenti. Mi mantenni nel solco e mi avvicinai. Il cancello era dello stesso materiale della recinzione: acciaio da mezzo centimetro, intrecciato a losanga; uguale a quello che utilizzano alle finestre i negozi che vendono liquori, o i chioschi che rimangono aperti ventiquattr'ore. Una spessa catena teneva insieme i due battenti, chiusa con un lucchetto ad alta sicurezza, una rottura di coglioni da decodificare e richiudere; non era del tipo che tornava a posto automaticamente. Mi sdraiai nel solco e sentii il ghiaccio duro sotto di me, pienamente consapevole che l'attacco del freddo sarebbe arrivato prima di quello dei Maliskia. Per il momento non mi preoccupavano né loro né i giocatori all'interno della casa. Di loro dovevo sbattermene, con così poco tempo a disposizione non avevo altro modo di studiare il posto. La recinzione era alta circa quindici metri. Probabilmente era suddivisa in tre sezioni di griglia di ferro e sorretta da pali di circa trenta centimetri di diametro a distanza regolare. La casa si trovava a circa quaranta metri dal recinto. Nessuna decorazione natalizia, solo le due luci. Una proveniva da un vetro colorato che doveva essere l'estremità superiore di una porta, arretrata rispetto alla veranda. L'altra proveniva da una finestra molto spostata a sinistra. Non riuscivo a vedere bene, ma la casa doveva essere abbastanza vecchia e grande. All'estrema destra c'era una torre, tipo vecchio castello, con una cupola a forma di cipolla, che riuscivo a malapena a intravedere stagliata contro il cielo della notte. Mi venne in mente quello che aveva detto Liv durante il viaggio verso Helsinki a proposito della dominazione russa sulla Finlandia, terminata solo quando Lenin aveva concesso l'indipendenza nel 1920. Il vecchio cozzava violentemente con il nuovo: sulla sinistra della casa, ancorate al terreno, c'erano cinque parabole satellitari di una certa imponenza, almeno tre metri di diametro, simili a quelle che gli americani tenevano in giardino all'inizio degli anni '80, che prendevano cinquecento canali e ti dicevano che tempo faceva in Mongolia, ma non erano in grado di fornirti le notizie locali. Sembrava un quartier generale Microsoft in miniatura. Vedevo bene i dischi a rete fitta e scura rivolti verso l'alto, a differenti
livelli e puntati in diverse direzioni, e a tutti era stata tolta la neve dalla superficie e dalla base di appoggio. Sdraiato con il mento appoggiato sulle braccia, mentre cercavo d'impossessarmi del maggior numero possibile di informazioni sul bersaglio, capii la ragione della mancanza di neve intorno alle basi: improvvisamente vi fu un sibilo che spazzò via il rumore del generatore e uno dei dischi prese a girare su se stesso. Stavano cercando di prendere la versione giapponese di Friends, o erano già al lavoro? In un ambiente simile quell'attrezzatura faceva uno strano effetto. O quella gente era altrettanto illegale di Val? Cominciai a farmi delle domande, ma mi ripresi subito. E chi se ne frega? Io ero lì per Kelly, per portare a termine quel lavoro ed essere pagato prima che il dollaro facesse un altro scivolone. Rientrato nel mondo reale, decisi che la loro arma migliore consisteva nel fatto di essere nascosti. La recinzione a maglia metallica era sofisticata quanto il loro servizio di sicurezza, per il quale bastava la zona completamente priva di vegetazione tra casa e alberi che non solo impediva a chiunque di salire su un albero e scendere all'interno dall'altra parte, ma permetteva anche, con un semplice sguardo dalla finestra al mattino lavandosi i denti, di accorgersi all'istante se qualcuno si era aggirato da quelle parti. Sdraiato nel solco meditavo, basandomi sulle poche informazioni che avevo, sul modo per entrare. Un freddo che mi stordiva penetrava attraverso il tessuto dei vestiti e la neve che mi era entrata nel collo dopo il tuffo iniziava a farsi sentire lungo la schiena. Avevo le dita dei piedi congelate e il naso che colava. Non potevo pulirlo soffiandolo perché avrei fatto rumore, così dovetti accontentarmi di strofinarlo con i guanti gelidi. Sentii un rumore alle spalle. Sollevai la testa in modo che l'orecchio destro fosse orientato verso il sentiero. La macchina era di ritorno. Zero tempo per riflettere, scattai in piedi e tornai di corsa al più vicino dei miei trampolini di lancio. Per superare la montagnola di neve e arrivare ai rami degli alberi, appena più in là rispetto al sentiero, dovevo fare un salto in alto di circa un metro e uno in lungo di circa un metro e mezzo, il tutto prima che i fari dell'auto svoltassero. Ci provai, ma non riuscii a coprire il metro e mezzo in lunghezza e andai di nuovo a sbattere sulla roccia. Forse mi feci male, ma me ne sarei accorto solo più tardi; adesso l'adrenalina stava facendo bene il suo lavoro e non sentivo il dolore. Scavando nella neve cercai di ritornare ancora una volta al riparo degli
alberi, sempre in ascolto del mezzo in arrivo. Il rumore del motore crebbe quando l'auto girò la curva. Mi puntai su mani e piedi e ruotai in modo da raggiungere una posizione da cui vedere il sentiero. Rinunciai a togliermi la neve dalla faccia, non volevo che il movimento mi tradisse. Un momento dopo la 4x4 mi passò davanti. I fari illuminarono il cancello e le luci posteriori colorarono di un rosso brillante la neve intorno. La faccia mi pungeva, ma non avevo tempo di occuparmene. Dovevo ricavare il più possibile dai movimenti che gli occupanti dell'auto avrebbero fatto e approfittare delle luci anteriori e posteriori dell'auto per identificare i dintorni. 'Fanculo la visione notturna, adesso. Il mezzo si fermò vicino al cancello e le luci di posizione divennero ancora più rosse quando furono azionati i freni. Il motore era al minimo. Spostai dei rami e vidi aprirsi la portiera di destra, quella del passeggero, e accendersi la luce interna. Erano in due persone a bordo, e un corpo particolarmente imbottito scese e si diresse verso il cancello. Per un attimo lo sferragliare della catena fu più forte del rumore del motore. Rimase penzoloni e le due ante vennero spinte, con fruscii e cigolii, verso l'interno, quel tanto che bastava a far passare l'auto. Il mezzo avanzò lentamente e i fari mi rivelarono che la neve al di là del cancello, all'interno del bersaglio, era piena di segni, orme di piedi e pneumatici. Altrettanto degno di nota il fatto che nessun sistema di allarme o cose del genere era stato disinserito al momento dell'ingresso. I fari si stamparono sulla casa, che senza lo schermo della recinzione potevo distinguere meglio. Era rivestita di pannelli di legno dipinti di un rosso sbiadito o di marrone. Tutte le finestre avevano le imposte chiuse. La luce soffusa che avevo scorto sulla sinistra proveniva da un paio di assicelle mancanti a una delle persiane. La catena risuonò di nuovo, ma avevo perso interesse per quello che chiudeva il cancello. L'importante era osservare il più possibile quanto era illuminato, guardare e non pensare: il cervello avrebbe assorbito tutte le informazioni e le avrebbe rielaborate in seguito. Non persi di vista i fari della 4x4 che girarono verso destra. Una tettoia correva lungo tutta la metà di destra della casa. L'uomo che aveva chiuso il cancello riapparve non appena la 4x4 si fermò parallela alla ringhiera della veranda. Udii il fruscio di una giacca di nylon e il cigolio degli stivali da neve, poi le luci degli stop si spensero seguite dai fari e dal motore. Sentii una voce maschile, quella del passegge-
ro, che urlava qualcosa che non riuscii a capire al guidatore che stava aprendo la portiera. Il naso pizzicava e gocciolava, ma non potevo correre il rischio di perdere qualcosa, dato che la luce interna si accese e il guidatore abbaiò una risposta. L'uomo del cancello passò oltre la 4x4 in direzione della veranda e il guidatore si piegò sotto il sedile accanto al suo e ne riemerse tenendo in mano delle scatole piatte e un piccolo sacchetto. I due adesso erano affiancati e battevano i piedi sulle assi di legno della veranda nel tentativo di scrollare quanta più neve possibile. L'autista aprì la porta di casa con una chiave. Riuscii a intravedere un ingresso che aveva un'aria accogliente e calda, poi scomparvero all'interno. Rimasi fermo, pulendomi il muco del naso sui guanti che poi sfregavo contro i rami, cercando di visualizzare la scena della mia entrata. Primo arrivare alla casa, poi entrare. A quel punto sarei dovuto andare a orecchio. Non sapevo neppure in quale stanza si trovassero i computer. Come se fosse una novità. Avevo passato la vita a infiltrarmi in palazzi, uffici, case private, rubando, piazzando cimici e materiale compromettente per incriminare qualcuno, e sempre con pochissime informazioni, nessuna protezione se il lavoro andava male, nessun riconoscimento per i lavori ben fatti. Se andava bene mi accoglievano con un: «Perché ci hai messo tanto?» Tutto faceva supporre che i cinque metri di zona franca, fra gli alberi e la recinzione, seguissero l'intero perimetro della casa; avrei potuto avanzare fra gli alberi e occultare le tracce ma non avevo abbastanza tempo per un controllo del genere. Merda, oltretutto faceva un freddo boia. Ritornai sul trampolino, mi tuffai di nuovo e questa volta caddi sulle ginocchia. Rimasi nel solco e mi voltai sulla schiena, quel tanto che bastò per risvegliare il dolore alle spalle e farmi ricordare che avevo sbattuto anche lì. Ecco la prova che l'adrenalina non è sufficiente a calmare il dolore. Ripresi fiato, rotolai su un fianco e mi alzai, inquadrando il bersaglio per l'ultima volta. Avevo un'altra cosa da fare. Mi riavvicinai al cancello, mi tolsi il guanto e toccai rapidamente la griglia, poi mi sporsi sulla sinistra e ripetei l'operazione con la recinzione. Solo allora mi voltai e zoppicando ripercorsi il sentiero, in attesa che le ginocchia si scaldassero e potessi riprendere un'andatura meno da vecchietto. Superata la curva mi fermai, premetti la narice di sinistra e svuotai quella di destra, poi cambiai lato. Mi sentii subito molto meglio.
Venti minuti dopo stavo grattando il ghiaccio dal parabrezza della Saab. Pochi secondi più tardi ero di nuovo in marcia verso Helsinki. Il riscaldamento era al massimo, sul punto di esplodere. Il sentiero che portava alla casa schermata apparve dopo circa quattro ore e mezzo. Nel tragitto mi ero fermato a una stazione di rifornimento solo self-service, due pompe e una macchina per pagare. Era in mezzo al nulla e l'intensa luce bianca che si spandeva dalla tettoia le conferiva l'aspetto di un UFO in fase di atterraggio. Infilavi i contanti o la carta di credito, selezionavi il tipo di carburante e te ne andavi. Mi domandai quanto avrebbe resistito in Inghilterra una cosa simile prima di essere scassinata o distrutta. Proseguii lentamente, ripassando il piano e compilando una lista mentale dell'attrezzatura di cui avevo bisogno per l'azione. Mi fermai davanti alle ampie paratie di vetro scorrevoli e già pregustavo una bevanda calda e qualcosa da mangiare, quando mi resi conto che non avevo la chiave. Non potevo fare altro che suonare il clacson. Pochi secondi dopo si accese una luce e comparve Liv. La porta dell'hangar venne aperta e m'infilai dentro. Prima ancora che avessi spento il motore lei stava già mimando il gesto di una bevuta. Feci cenno di sì con la testa e sollevai il pollice in segno di approvazione. Lei tornò di sopra. Quando arrivai era in cucina dove si sentiva già odore di caffè. «Che dici, Nick», urlò mentre chiudevo la porta delle scale, «riuscirai a entrare?» «Nessun problema. Dov'è Tom?» «Sta lavorando.» Uscì dalla cucina e indicò l'altro lato della casa con un cenno della testa. «È riuscito a penetrare nel firewall, come speravo.» Lo disse senza la minima traccia di eccitazione, e notò il mio stupore. «Devi ancora riuscire a portare Tom dentro la casa, Nick. Siediti che ti porto il caffè.» Obbedii, mi tolsi la giacca e guardai l'ora. Mancava poco a mezzanotte. Avrei visto Tom più tardi; prima c'erano cose più importanti da fare. Le dissi ad alta voce: «Porta carta e penna». Tornò con il vassoio del caffè e il necessario per scrivere. Era sempre vestita con i jeans e il maglione. Si sedette sul divano di fronte al mio e riempì due tazze. Ne presi una. Sarebbe andato benissimo senza zucchero né latte; quello di cui avevo immediato bisogno era un risveglio rapido dopo le ore di riscaldamento in macchina. «Ora facciamo una lista dell'equipaggiamento di
cui ho bisogno», dissi fra un sorso e l'altro. «Ho bisogno di parecchie cose.» Prese la penna e il blocco e iniziò a scrivere quello che dettavo. Si sorprese alla mia richiesta di chiodi lunghi quindici centimetri, oltre una tavola di legno lunga un metro, larga dieci centimetri e spessa cinque. «E questa a cosa serve, Nick? Non sono meglio punte meccaniche e aggeggi elettronici?» «Puoi procurarmeli?» Sorrise scuotendo la testa. «Per questo ho bisogno di uno spazzolino da denti elettrico. Non ti preoccupare, domani ti farò vedere a cosa servono. A proposito, ho bisogno anche delle previsioni del tempo per ventiquattr'ore, a partire dalle nove di mattina.» Mi dava un sottile piacere non dire a cosa serviva l'armamentario che avevo richiesto. Stava sconfinando nel mio mondo, nelle cose che conoscevo io. C'era un'ultima cosa. «Vorrei un'arma, una pistola, se possibile con silenziatore o silenziata.» Parve davvero sorpresa. «Perché?» Pensai che fosse evidente. «Meglio averla e non averne bisogno che viceversa.» «Hai un'idea delle leggi sulle armi in questo Paese?» Le ricordai cosa avevamo fatto i miei amici russi e io ai suoi amici russi solo una settimana prima all'Intercontinental. Non funzionò. «Mi spiace, Nick, non te ne procurerei una neanche se ne avessi la possibilità. Non voglio avere niente a che fare con quel tipo di cose. E Valentin ti ha assunto perché voleva leggerezza.» L'ultima volta che avevo fatto un lavoro senza un'arma, mi avevano sparato. Dopo di che avevo promesso a me stesso che ne avrei sempre portata una con me, anche se non ce ne fosse stato bisogno. Avevo voglia di dirle che non era stata solo la leggerezza a far finire Val nel baule della Volvo, ma compresi dal suo sguardo che sarebbe stato inutile. Strano, il crimine organizzato russo aveva probabilmente più armi dell'esercito inglese. Pensai di chiederle se il suo amico di San Pietroburgo poteva procurarmene una, poi decisi di non farlo. Conviene sempre tenersi un paio d'assi nella manica. Si alzò. «Adesso vado a dormire, Nick. Mangia quello che vuoi. Domani sarò di ritorno verso le dieci e mezzo, con la tua spesa.» Cominciavo ad aver fame e mi diressi verso la cucina. Dentro un pensile
scovai scatolette di tonno e mais. Le vuotai in una scodella e andai in cerca di Tom, mescolando con una forchetta e ingollando. Era seduto davanti al ThinkPad, la testa fra le mani. Quando entrai non sollevò lo sguardo. «Tutto bene?» «Sì, tutto bene.» Avvertii uno strano tono nasale nella risposta. Non tutto andava bene in zona Tom. «Sul serio, tutto okay?» Volevo comunicare l'impressione di sorpresa nel trovarlo così giù, ma ne intuivo la ragione. L'ora X era vicina, la realtà lo afferrava alla gola. «Sono molto preoccupato, Nick. Hai presente, io... io...» prese un grande respiro, e capii che stava cercando di tirar fuori quello che aveva da dire. «Voglio tornare a casa, Nick. Non me la sento più, socio. Io non torno dentro per nulla al mondo...» Non voleva tornare a casa; voleva solo essere rassicurato che tutto sarebbe andato bene. Era una situazione che avevo vissuto parecchie volte, uomini che durante un lavoro chiedono una cosa, ma che in realtà hanno bisogno di altro: succede spesso quando si ha paura. Non è un dramma; la paura è naturale, e il segreto sta nel comprendere che è normale. Solo a quel punto sei pronto per fare cose anormali. «Tom, ascolta, non ti succederà nulla. Non potrei mai fare cose che mi possano portare nel raggio di mille chilometri da una prigione. Eppure ne ho fatte diverse, e tu lo sai.» Sollevò lo sguardo, i suoi occhi erano gonfi di lacrime. «Non voglio tornare dentro, Nick. C'era della gente dura là dentro, mi capisci?» Gli tremavano le labbra. «Non riuscirei a cavarmela, socio.» Capii perché stava piangendo. Tom era bravo a fare il piazzista, ma dietro le sbarre era diventato un giocattolo nelle mani dei detenuti di lungo corso. Ripensai al tempo passato al riformatorio e a quanto l'avevo odiato. I protettori, se non facevano a botte fra di loro, mantenevano un saldo dominio sui loro piccoli imperi, generalmente mandando in merda la vita di quelli che avevano a portata di mano. L'unico modo che escogitai per sopravvivere, essendo io, come Tom, uno dei più giovani, fu di comportarmi da matto. In quel modo i più vecchi, rinchiusi da anni e un po' in confusione sulla propria identità sessuale, pensarono che ero uno strano e mi lasciarono al mio destino. Perché, chissà, avrei anche potuto tentare di farli fuori se mi avessero toccato.
Non credevo proprio che Tom fosse in grado di fare il matto per riuscire a evitare di diventare l'amichetto particolare di qualcuno. Annuii e provai pena per lui. «Non ti preoccupare, socio. Non succederà più, te lo garantisco, Tom.» Si soffiò e asciugò il naso, imbarazzato per quella manifestazione di debolezza. «La cosa migliore è darsi una lavata e andare a dormire. Ci aspetta una serata pesante domani.» Gli diedi qualche pacca scherzosa sulle spalle, lasciando che se la cavasse da solo. Non c'era bisogno che restassi lì mettendolo ulteriormente in imbarazzo. E comunque, domani sarebbe venuto con me, lo volesse o no. Quando fui nella mia stanza pensai che oltre ai chiodi e all'asse 10x15, Liv avrebbe fatto meglio a prendere per Tom delle pillole che dessero coraggio o follia, secondo il punto di vista. Iniziai a svestirmi e sentii i passi di Tom che, superata la mia porta, si recava verso la zona giorno, probabilmente alla ricerca di un bicchiere d'acqua per ripristinare i liquidi che gli erano colati dagli occhi. Sotto la doccia controllai il ginocchio, lo stinco e i lividi sulla schiena che mi ero fatto saltando sulla neve. Poi m'infilai a letto. Ero esausto, ma pensare al lavoro mi teneva sveglio. Ripassai più volte la sequenza: arrivare, entrare. E le azioni da fare se fosse andato tutto in merda. Dopo un'ora passata ad ascoltare il ronzio del climatizzatore, sentii i passi di Tom dirigersi nuovamente verso la zona giorno. Probabilmente avrebbe continuato così tutta la notte. Se la mattina lo avessi trovato ancora tentennante, gli avrei ricordato quanti soldi gli sarebbero entrati nelle tasche a breve. Più che sufficienti per lasciare quello schifo di appartamento e Janice. Avevo deciso che gli avrei dato tutti i trecentomila dollari. Perché no? Non sarei arrivato fino a quel punto senza di lui. Un'altra mezz'ora ronzò via. Stavo ancora pensando alla notte dell'indomani, controllando mentalmente che la lista consegnata a Liv fosse completa, quando mi resi conto che Tom non era tornato indietro. Sbadigliando m'infilai jeans e maglietta e uscii sbandando per andare a bere qualcosa di caldo con lui e magari a parlare ancora un po'. Le luci nel soggiorno erano ancora accese, ma Tom non c'era. Non era neanche in cucina. Forse era tornato indietro e non lo avevo sentito. Stavo per voltarmi quando mi accorsi che la porta che dava sulla zona della casa riservata a Liv era aperta, e io ricordavo che lei l'aveva chiusa.
Attraversai il salone e iniziai a gironzolare per il corridoio. La disposizione era speculare alla nostra, quindi lei doveva essere in una delle due camere da letto. Non fu difficile stabilire quale. Dalla prima porta sulla sinistra provenivano dei rumori. Non sapevo chi stesse facendo cosa e con chi. Ma i gemiti e i mugolii erano inconfondibilmente i loro. Tornai indietro, lasciandoli in pace e rendendomi conto, ancora una volta, che delle donne non capivo assolutamente nulla. 19 Martedì 14 dicembre 1999 Quando mi alzai Tom aveva già fatto la doccia e si era vestito e, con i capelli ancora bagnati, beveva del latte seduto sul divano. Era chiaro che era abbastanza allegro. «'Giorno, Nick. Il caffè è pronto. Liv è andata a prendere la tua roba. Ha detto che sarebbe tornata verso le dieci.» Andai in cucina, mi versai il caffè e cercai qualcosa da mangiare. Morivo dalla voglia di chiedergli della notte precedente, ma decisi di aspettare a vedere se ne parlava lui per primo. Non volevo fare il testa di cazzo e le cose stavano prendendo una strana piega. Prima Liv e il suo amico alla stazione, e adesso questo. Mi domandai se non avesse una relazione con Tom da anni, ma scartai subito l'idea. Se uno assaggia una come Liv, poi non si può certo mettere con Janice e, soprattutto, perché chiedere a me di contattarlo? Riempii un vassoio con gallette, formaggio e marmellata di ciliegie, e mi andai a sedere sul divano di fronte a lui. Assunsi un'espressione preoccupata e chiesi: «Come ti senti stamattina? Stessa voglia di mollare?» Mi concentrai sulla marmellata che stavo spalmando. «Mi spiace per ieri sera, Nick. Ero solo preoccupato, hai presente com'è.» Annuii. «Prima o poi succede a tutti. Comunque stamattina hai l'aria di stare molto meglio.» Feci una smorfia. «Niente è meglio di una buona notte di sonno.» Evitò l'argomento. «Andrà tutto bene, vero, Nick?» «Puoi starne certo. Ieri notte ho fatto un sopralluogo con i fiocchi. È una vecchia casa grande e signorile in mezzo al bosco che cerca di assomigliare a un quartier generale della Microsoft. Una cazzata. Subito dopo la banca, pronta a riceverci con tutti gli onori. E lì sta il bello.»
Tornai al mio pane, sollevato dal fatto di non dover fare un altro stronzissimo discorsetto d'incoraggiamento. Ammiccò a sua volta. «Mi piace, Nick. Tanto.» Aveva ripreso a fare con la testa i movimenti del galletto. Trangugiai un'abbondante sorsata di caffè. «Già, abbiamo fatto bene a farci una bella dormita. Domattina saremo sicuramente stanchi morti.» Sorseggiò il latte, cercando di nascondere il viso dentro la tazza. Non riuscii a resistere. «Vi ho sentito.» Diventò tutto rosso. «Cosa? Ma di che cosa parli?» «Senti, buona fortuna, amico, ma la prossima volta cerca di fare meno rumore, se non ti dispiace. Non tutti noi scopatori di vecchia data riusciamo a reggere un tale stato d'eccitazione.» Fece una risatina nervosa, imbarazzata, ma allo stesso tempo molto fiera. Non potevo dargli torto. «Qual è il segreto, Tom? Non voglio mancare di rispetto a Miss Mito Nordico, ma calda e sensuale non mi sembra proprio. Vi eravate già incontrati in un'altra vita?» Si mosse a disagio, ormai completamente preda dell'imbarazzo. «No, socio, non l'avevo mai vista prima. Ma hai presente come vanno queste cose, io ero qui che mi bevevo qualcosa quando lei è entrata. Ha visto che ero angosciato e abbiamo iniziato a parlare e poi... be', poi lo sai.» No, non lo sapevo e questo era il problema. Un minuto prima mi domanda se mi fido di lei e quello fa tremare la terra sotto di lei. Be', forse il contrario. Mi schiaffeggiai mentalmente. Cazzo, non m'importava quello che stava accadendo. Mi resi conto, con stupore, che ero geloso. Dovevo uscire da questa merda, concentrarmi solo sui soldi e sbattermene di tutto il resto. Mi alzai e, sporgendomi in avanti, gli diedi un colpetto sulla spalla. «Mi raccomando, ricordati di portare le tue pezze stanotte.» «Pezze?» «Scarpe di tela con suola di gomma, o come le chiami tu. Devono essere asciutte e pulite. Non tenerle su oggi, usa gli stivali nuovi, chiaro?» Detto questo, presi la tazza e lasciai la stanza. Fresco di doccia, mi sdraiai sul letto e visualizzai ancora una volta il momento dell'irruzione. Non avevo mai avuto problemi a far scorrere la pellicola nella testa, i miei occhi diventavano le lenti della cinepresa e le orecchie il registratore dei suoni. Sentii il rumore che avrebbe fatto la neve
sulla veranda, il cigolio del tavolato di legno, chiedendomi come lo avrei gestito. Poi forzare la serratura della porta e tirarmi dietro Tom in giro per casa finché non avessimo trovato quello che cercavamo. Riavviai il filmato tre o quattro volte, da quando lasciavamo l'auto a quando tornavamo indietro; poi iniziai a immaginare diverse ipotesi. Cosa sarebbe successo se quando Tom e io eravamo nella veranda la porta si fosse aperta? Cosa sarebbe successo se c'erano dei cani? Cosa sarebbe successo se avessimo avuto dei casini dentro la casa? Proiettai le diverse versioni soffermandomi sui punti di crisi, chiedendomi come avrei reagito. Poi, premendo il tasto replay, cercai di darmi delle risposte. Non sarebbe andato tutto come da copione, non succedeva mai. Durante l'azione tutto sarebbe stato diverso. Ma il film era un buon punto di partenza; significava che avevo un piano. Da lì, se mi fossi trovato nella merda, avrei solo dovuto sfruttare il paio di secondi disponibili per reagire a ogni eventualità invece di restare fermo a compatirmi. Ero in camera da un paio d'ore quando qualcuno bussò alla porta. «Nick?» Tom infilò dentro la testa. «Liv è tornata. Non le dirai niente, vero? È solo che... be', lo sai.» Mi alzai dal letto e uscii con lui, mentre con indice e pollice mimavo il gesto di chiudere le labbra con una cerniera lampo. Lei era in salotto, stava appoggiando il cappello e il cappotto di pelle nera sul divano. Non si guardarono negli occhi, e ogni suo gesto lasciava capire che non era il momento di perdersi in chiacchiere inutili. «Buon giorno», disse brusca. «È confermato, sono collegati.» Doveva aver incontrato anche il suo amico di San Pietroburgo, quella mattina. «Potete darmi una mano? Ci sono diversi pacchi.» La seguimmo al piano di sotto e la prima cosa che mi allungò fu un foglio con le previsioni del tempo, in finlandese. «Dicono che domattina presto nevicherà. È buono per te, vero?» Tom era impegnato ad aprire la portiera posteriore della Mercedes. «Cosa vuol dire mattina presto?» Alzò le spalle. «Ho fatto la stessa domanda. Ma non ho ottenuto risposte certe. Sembra tra le due e le dieci.» Le restituii il foglio e andai sul retro della 4x4 cercando di non far intuire a Tom la mia preoccupazione. Non era per niente buono. La neve aiuta a nascondere le impronte, ma è pessima per non lasciarne. Dovevamo agire
molto in fretta, altrimenti le uniche impronte sulla neve fresca sarebbero state le nostre, non mescolate a quelle che avevo visto la notte precedente. A meno che la nevicata non avesse continuato fino a coprire anche le nostre, una volta partiti. Non andava per niente bene; non si dovrebbe correre questo tipo di rischio se un lavoro deve restare nascosto. Ma una scadenza improrogabile va sempre rispettata, non avevo altra scelta che andare avanti sbattendomene. Ero agitato e mi auguravo che Dio non mi avesse sentito quando ero nell'appartamento di Tom, e non fosse lì in attesa di rivincita, smettendo di far nevicare proprio mentre eravamo all'interno della casa. Tom prese un paio di cesoie, lunghe mezzo metro, dal sedile posteriore e le sollevò con sguardo enigmatico. Avevo alzato il portellone e avevo mani e braccia ingombre di scatole e sacchetti. «Un po' di attrezzatura di scorta di cui possiamo aver bisogno stanotte, socio. Su, dai, diamole una mano.» Tom mi seguì per le scale, con le cesoie sotto il braccio e i pugni pieni di maniglie di sacchetti. Li rovesciò sul pavimento di legno davanti alla cucina, accanto a quelli che avevo portato io, e immediatamente dopo cominciò a frugare in tutti i sacchetti come un bambino che cerca le caramelle. Arrivò anche Liv. Era giunto il momento d'inserire di nuovo il programma «lavoro» nel mio disco fisso. «Non c'è motivo che restiate qui», dissi. «Datemi un paio d'ore per sistemare le mie cose, e dopo vi spiegherò a cosa serve tutta questa roba. Assicurati che le pezze siano asciutte, Tom. Niente fango che possa sfaldarsi, né sabbia nelle suole, capito?» Annuì. Liv lo guardò perplessa. «Pezze?» «Le scarpe di tela che portavo prima.» Si era già messo gli stivali nuovi. Lei fece cenno di aver capito, ripetendo a fior di labbra la nuova parola mentre le trovava un posto nella sua banca dati, e se ne andò in direzione delle sue stanze. «Ci vediamo più tardi.» Tom stava fissando me mentre lei spariva nel corridoio e la porta si chiudeva. Sapevo cosa gli girava per la testa. «Non preoccuparti, socio, non ho detto una parola.» Sorrise sollevato. «Grazie, perché... be', lo sai.» Mi fece un cenno di saluto mentre andava verso la nostra ala della casa. «Tom, c'è niente che io possa fare per te?» «No, grazie, socio», disse ammiccando. «Ha già fatto tutto Liv.»
Si fermò, si voltò e picchiettò la fronte con l'indice. «A parte gli scherzi, tutto quello di cui ho bisogno è qui dentro. Vuoi che te lo spieghi?» «Non c'è motivo. Io mi limito a concentrarmi sul nostro ingresso e poi sulla nostra uscita. Ma cosa cerchiamo, lo sai?» Fece una smorfia. «Finché non lo vedo non lo saprò.» Scomparve e io vuotai il contenuto dei sacchetti e delle scatole sul pavimento. Iniziai con l'abbigliamento. Era la cosa più facile da controllare. I nostri piumini lucidi non erano adatti a occasioni di questo tipo. La roba che avevo chiesto a Liv era di lana o di cotone spesso. Dovevamo avere vestiti che non frusciassero a ogni movimento, dovevano essere di colore scuro e non riflettenti, nessun bottone luccicante o nastro di sicurezza. Con il Leatherman tagliai ogni pezzetto di velcro e ogni risvolto: il velcro quando si apre fa molto rumore e non potevo permettere che accadesse durante l'azione. Eliminai anche tutto quello che pendeva, tipo il cordino per stringere. Una volta nella casa, non potevo rischiare che qualcosa restasse impigliato e cadesse sul pavimento. Potevano sembrare precauzioni eccessive, ma erano morti in parecchi per molto meno. Avevo imparato dagli errori altrui e non avrei mai dimenticato un mio compagno agganciato in cima a una recinzione in Angola, per colpa di un cordino di nylon del giubbotto da combattimento. Non aveva niente per liberarsi e gli toccò osservare le guardie che arrivavano, si fermavano, prendevano la mira, e gli scaricavano addosso come minimo cinquanta colpi. Liv aveva comprato dei guanti pesanti di ottima lana e dei guanti di cotone sottile da usare a contatto con le mani, così avrei potuto armeggiare con la serratura o altro senza congelarmi le dita contro il metallo. Aveva preso anche un paio di scarpe da ginnastica per me dalle quali tolsi subito il pezzetto rifrangente dai talloni. Non le avevo chieste per Tom perché lui aveva le sue pezze. Le avremmo indossate subito prima di entrare nella casa. Gli stivali con la suola grossa facevano rumore e potevano trascinare dentro della neve, lasciando tracce. Il mondo esterno doveva restare fuori. Trovai il sacchetto con i chiodi lunghi quindici centimetri, alcuni metri di cinghia e una manciata di rondelle di metallo. La lunghezza del legno era esattamente quella specificata. Non potevo trattenermi dal sorridere al pensiero di Liv in un centro «fai da te». Forse prima di allora ignorava che esistessero posti così. Su un cartoncino con copertura di plastica c'era un seghetto di precisione. Lo liberai dalla confezione e lo usai per tagliare una mezza dozzina di pezzi di legno di quindici centimetri.
Liv aveva svolto bene il suo compito; i distanziatori erano della misura giusta, entravano nei chiodi e restavano bloccati dalla testa del chiodo stesso. Ne misi due per ogni chiodo perché la tensione sarebbe stata forte. Quindici minuti dopo, sei pezzi di legno della grandezza di un pugno, ognuno con un chiodo conficcato dentro a martellate, erano pronti. Con le pinze avevo piegato circa metà del chiodo ad angolo acuto e tutto l'insieme aveva l'aspetto di un gancio da scaricatore. Il metallo in vista, a parte la punta e mezzo centimetro dall'altra parte, era stato coperto con elastici per attutire il rumore al momento dell'uso. Tom e io avremmo usato un uncino per ogni mano, e ne avremmo portato uno di scorta. La cinghia era verde scuro, larga cinque centimetri, del tipo usato per legare gli sci al portapacchi. Ne tagliai quattro pezzi di circa due metri ciascuno e, con un nodo all'estremità, ottenni quattro lacci ad anello. Misi i lacci da una parte insieme con gli uncini, lontani dal caos che mi circondava. L'attrezzatura per la scalata era pronta. Liv aveva ragione: i vecchi sistemi spesso sono i migliori, e questo sistema era stato molto usato. Era una piccola gemma che veniva dagli archivi dell'MI9 creata durante la seconda guerra mondiale quando le venne richiesto di escogitare nuove idee e progettare attrezzatura che potesse servire ai prigionieri di guerra per fuggire dai campi e muoversi nell'Europa occupata verso la salvezza. L'MI9 inventò mappe fatte di seta, da infilare fra i mazzi di carte e che venivano inviati con i pacchi della Croce Rossa. Cambiò le uniformi della RAF per rendere più facile la trasformazione in vestiti civili. Questo aggeggio uncino-e-corda era facile da costruire e facile da usare, era uno dei molti espedienti che avevano inventato perché i prigionieri di guerra potessero scalare le recinzioni dei campi. Aveva funzionato per loro; mi auguravo che funzionasse anche per noi. Aprii la confezione della Polaroid e dei quattro rullini. Misi un rullino e mi scattai una foto di prova al piede. La macchina fotografica funzionava benissimo. Tolsi dai loro imballi gli altri tre rullini. Ogni cartuccia di negativo aveva la sua batteria, ma sapevo che la batteria tendeva a perdere energia con il freddo, e non potevo permettere che accadesse. Per tenerle al caldo le avrei messe vicino al corpo. Una volta indossate le scarpe di tela ed entrati, avrei fotografato tutto l'ambiente interessato, rumore della macchina fotografica e flash permettendo. In un'operazione che deve restare nascosta, tutto deve essere lasciato esattamente come lo trovi. La gente si accorge subito quando qualcosa non è al suo posto preciso. Può trattarsi di qualcosa di evidente, tipo l'an-
golo piegato di un tappeto che improvvisamente non lo è più, ma più spesso è qualcosa di quasi indefinibile che compromette un lavoro; si sente per istinto che qualcosa non va. Forse è la penna che non è dove la lasciano sempre, anche solo di un centimetro; o la luce del mattino che non filtra attraverso le tende come al solito, illuminando mezza scrivania; o la polvere che non è come al solito. Non sono cose che si notano a livello conscio, ma attraverso l'inconscio; l'inconscio assorbe ogni dettaglio e tenta di comunicarcelo. Spesso non siamo in grado di capire cosa, ma sentiamo che qualcosa non va. Un bersaglio sveglio si rende conto che anche un fermacarte spostato può indicare una tragedia e intraprendere ogni azione che ritiene necessaria. Il fatto che in questa azione ci sarebbero state delle persone aumentava le possibilità di problemi, ma non avrei permesso che pregiudicasse quello che dovevo fare, e volevo farlo esattamente come l'avevo programmato. In passato avevo avuto successo in lavori simili, perché questo avrebbe dovuto essere diverso? Riflettere sull'irruzione mi ricordò di mettere sotto carica lo spazzolino da denti elettrico. Andai nel mio bagno e infilai la spina nella presa per il rasoio. Tornato in salotto, presi il set di chiavi a brugola tenute insieme da un anello di metallo, circa una ventina in ordine di grandezza. Scelsi la più piccola e la liberai dall'anello. La stanza sembrava l'officina di Babbo Natale, con segatura, pezzi di carta, sacchetti di plastica, etichette di vestiti, e io seduto nel mezzo. La chiave a brugola presenta un angolo retto a circa un centimetro dalla fine. Con pinze e martello la raddrizzai fino a portare l'angolo da novanta a quarantacinque gradi, facendo molta attenzione a non spezzare il metallo. Poi, tolta la lima da ferro dal suo involucro, iniziai ad arrotondare la punta del lato più corto. Impiegai dieci minuti. Scesi al piano di sotto e provai a infilarla nel portone, la feci scivolare dentro il cilindro della serratura per controllare se era giusta. Entrava a perfezione. Tornato nella mia officina, aprii il pacco di Isopon e mescolai resina e indurente in parti uguali su un pezzo di cartone. Portai cartone e brugola in bagno. Non molti minuti dopo la brugola era fissata solidamente alla parte sporgente dell'apparecchio per lavare i denti, quella in cui normalmente s'infila la testa dello spazzolino. Durante la ricognizione avevo visto chiudere la porta della casa con un calcio, non era stata girata nessuna chiave, e il fatto che fosse stata solo sbattuta faceva pensare che si trattasse di una
serratura a cilindro del tipo Yale. Lo strumento che avevo appena costruito avrebbe funzionato. Tornai dal bagno con due asciugamani bianchi, mi sedetti per terra e iniziai a limare un'altra chiave a brugola come avevo fatto con la prima. Quello che avevo costruito, con l'apparecchio per lavare i denti e la prima brugola, era una pistola Yale improvvisata, un attrezzo che simula una chiave e manipola i perni all'interno del tamburo. L'oscillazione della parte sporgente fa muovere la punta della brugola con forza contro i perni. Vi sono molte probabilità che riesca a spostare i perni fino al punto di far scattare la serratura. Se non riesce, si torna ai vecchi sistemi. Sempre con la chiave a brugola innestata nell'apparecchio per lavare i denti, ma questa volta senza oscillazione, avrei dovuto spingere verso l'alto un perno alla volta, poi tenerlo fermo sul posto e procedere a spostarne un altro. Per questo mi serviva modificare un'altra brugola, ed era quello che stavo facendo. Una volta sistemato il secondo perno, si trattava soltanto di spostare la prima in modo che bloccasse entrambi i perni, poi continuare finché, in teoria, non fossi riuscito ad aprire la serratura, sempre che non l'avessero sprangata dall'interno, naturalmente. Cosa che era molto probabile se avevano anche una sola cellula del cervello sintonizzata sulla difesa. Mi ci volle un'altra mezz'ora per finire di preparare e sistemare l'equipaggiamento in uno zaino blu scuro di media grandezza. Avvolsi tutto con gli asciugamani bianchi in modo che non facesse rumore, o venisse rovinato dalle cesoie, i cui manici sporgevano ai lati dallo zaino come una V di una squadra di massima divisione. Tom non avrebbe avuto bisogno di uno zaino. L'unica attrezzatura che avrebbe dovuto avere con sé era il suo portatile e i cavi di collegamento, nella loro borsa. Liv spuntò dal corridoio. Si era tolta il maglione, e indossava i jeans aderenti e una maglietta bianca. Non portava reggiseno. Questo avrebbe potuto essere molto interessante un paio di notti prima, ma al momento ero troppo concentrato sul lavoro. Le circostanze erano cambiate. Guardò il casino che avevo combinato con l'abituale freddezza. «Ti diverti?» Annuii. «Mi chiami Tom, così gli faccio vedere i giocattoli che ho costruito per lui?» Mi oltrepassò e andò verso la stanza dei bottoni. Mi alzai in piedi. Stavo ancora togliendomi la segatura quando tornarono. Tom rise. «Sai una cosa, socio. Il Lego sarebbe stato più facile!»
Mi esibii nel sorriso già-molto-divertente. «Tom, adesso ti faccio vedere come si usa tutta questa roba.» Indicai gli uncini e le corde sul divano. «D'accordo, ma devo farti una domanda.» Aveva un'espressione piuttosto seria. «Non vedo contenitori per uova o bottiglie di detersivo vuote da nessuna parte...» Ci guardò per vedere se avevamo capito lo scherzo. Non avevo idea di cosa stesse parlando, e nemmeno Liv. «Blue Peter. Ricordi, contenitori per uova, rotoli di carta igienica, plastica adesiva...» Era troppo tardi per scoppiare a ridere. «Ah, giusto, Blue Peter.» Da bambino non l'avevo mai visto. Liv continuava a non capire, ma era chiaro che non le importava niente. Tom la guardò andare in cucina. «Avevo anche una spillina, una volta.» «Okay, questi sono i tuoi vestiti, socio. Dovrai coprirti un po' di più rispetto a quanto hai comprato ieri.» Prese i guanti di contatto e li provò. «Nick, metterò i guanti di seta sotto questi e così sarò un po' eccentrico, che ne dici?» Sorrisi. Per come la vedevo io, i guanti termici in seta avevano la stessa utilità di un giubbotto antiproiettile di carta. Per me ci voleva la roba di Helly Hansen. Indicò gli uncini e le corde. «Continua, questi a cosa servono?» Quando lo ebbi spiegato, sembrò sorpreso. «Dobbiamo fare l'Uomo Ragno, o cosa?» La testa andava avanti e indietro, ma con un movimento un po' più incerto. «Sei sicuro che non avrai problemi, Tom? Ti è già capitato di arrampicarti?» «Ma certo.» Ci pensò su per un secondo. «Posso fare pratica?» «Temo di no, socio. Non c'è modo.» Sollevò uno degli uncini e tirò l'elastico. «Non c'è altro modo, Nick? Voglio dire...» «Ascolta, questa è l'unica cosa che devi fare da solo. Tutto il resto sarò io a farlo per te.» Abbassai il tono della voce fino a renderla un sussurro, come se facessimo parte di una cospirazione da cui Liv era esclusa. «Ricorda, lo facciamo per un sacco di soldi.» S'illuminò per un attimo e mi sentii molto fiero del mio discorsetto. Arrivò il caffè, a dire la verità solo per me e Liv. Il filo di una bustina di tè alle erbe di recente acquisto pendeva dal bordo della terza tazza. Ci sedemmo, Tom accanto a me. «Okay», dissi, «adesso voglio spiegare a Tom, nel dettaglio, come fare-
mo a entrare e a uscire dal posto in questione con l'aiuto» - osservai Liv che raccoglieva le gambe sotto di sé sul divano -, «di questi congegni.» Non c'era nessun bisogno di elencare le varie fasi, come si fa in ambiente militare con i gruppi che devono ricevere ordini, sezionando tutte le singole successioni di ogni fase. Sarebbe stato controproducente: non volevo che Tom avesse troppa roba che gli girava per la testa e che alla fine rischiava di confonderlo. E la confusione poteva spaventarlo ancora di più. Non doveva conoscere il perché, ma solo il come. Aprii la cartina e indicai il punto chiave con una penna. «In questo punto posteggeremo la macchina. Poi, a piedi, arriveremo fino a qui.» Feci scorrere la penna lungo il percorso segnato mentre lui beveva il tè a piccoli sorsi. «Quando arriviamo vicino alla casa, ci arrampichiamo sulla recinzione usando gli uncini e le corde. Poi io farò in modo che entriamo dentro la casa e tu farai quello che devi fare. Finito tutto, usciremo nello stesso modo. Io ti dirò esattamente cosa devi fare e quando farlo. Se tu senti o vedi qualcosa di sospetto, o se ci sono problemi, smetti immediatamente di fare quello che stai facendo e resta immobile dove sei. Io sarò con te e ti dirò cosa fare. Okay?» «Okay!» «Voglio andarmene alle nove precise, e tu devi essere pronto un quarto d'ora prima. Se il tempo è buono saremo di ritorno a Helsinki prima dell'alba. Poi organizzerò lo scambio.» Questa volta fecero un cenno affermativo entrambi. «Okay, ora mangerò qualcosa e poi metterò giù la testa per qualche ora, e ti suggerisco di fare lo stesso.» Mi sarei limitato a dirgli soltanto quello che aveva bisogno di sapere e, se scoppiava qualche casino, tutto quello che avrebbe dovuto fare era restare fermo; io mi sarei fatto carico di tutta l'azione e gli avrei detto cosa fare. Meno sanno le persone che scorti e meglio è. Mi alzai, feci un cenno di «ci vediamo più tardi» a tutti e due e andai in cucina a prendere formaggio e altro dal frigo. Tom andò in camera sua. Non dire troppo a Tom lo avrebbe preservato dal cadere in confusione, non volevo neanche spaventarlo facendogli intuire qualcosa circa i possibili problemi, neanche da nominare quelli che avremmo avuto con la neve. Se la gente comincia ad avere pensieri negativi, la sua immaginazione diventa iperattiva e inizia a perdere il controllo. Ogni rumore, ogni ombra diventano un problema gigantesco, cosa che rallenta il lavoro e al tempo stesso aumenta le possibilità di rischio. Tom sapeva già cosa fare se fossi-
mo stati divisi, anche se quasi non se ne rendeva conto: andare alla stazione di Helsinki. Nella sacca aveva abbastanza soldi da poter noleggiare un jet privato per tornare a casa. Iniziai a svuotare il frigo, gettando tutto quanto trovavo in un piatto. Mi sarebbe piaciuto molto poter partire subito e arrivare prima che nevicasse, ma che senso avrebbe avuto, non saremmo potuti entrare finché non fossero andati a dormire. Sapevo che era meglio smettere di preoccuparsi per il lavoro; si finisce per restare bloccati, troppo ansiosi di proseguire, così si rischia di colpire il bersaglio prima che sia il momento giusto e prenderselo nel culo. Andai verso la mia stanza con il cibo, mangiucchiando lungo il tragitto. Liv se n'era andata. Una volta a letto, iniziai a visualizzare di nuovo in dettaglio quello che avrei fatto, ipotizzando qualche altro imprevisto. Adesso nel mio film aveva cominciato a nevicare. Bussarono alla porta. Guardai il Baby G. Dovevo aver dormito tre ore. La porta si aprì e apparve Tom, i capelli sciolti che gli ciondolavano sulle spalle. «Hai un minuto, socio?» «Certo, entra.» Come se potessi avere altri impegni. Entrò e si sedette sul letto. Teneva lo sguardo basso e si morsicava il labbro inferiore. «Sono preoccupato per questa cosa degli uncini. Senti, ti dico la verità, non ho mai fatto una cosa del genere prima, sai cosa voglio dire? Che succede se non ci riesco? Capisci... se faccio tutto sbagliato?» Mi misi seduto. Teneva le spalle curve e i capelli gli coprivano il viso. «Tom, è una cazzata. Non preoccuparti; è solo una questione di gambe.» Mi alzai. «Guarda com'è facile.» Con le mani sopra la testa, piegai le ginocchia e mi abbassai lentamente fino a portare il culo a livello del pavimento. Poi mi rialzai. «Non è difficile, vero? Pensi di riuscire a farlo?» Annuì. «Credo di sì.» «Dai, fammi vedere, allora.» Si abbassò verso il pavimento, le ginocchia tutto uno scricchiolio, l'aria molto incerta, ma ci riuscì. Feci un sorriso d'incoraggiamento. «Non devi fare altro. Se le tue gambe riescono a farlo siamo sani e salvi. Ma ricorda, piccoli movimenti. Non più di un piede alla volta, d'accordo?» «Piccoli movimenti. Capito.» Non sembrava convinto del tutto. «Fa' quello che faccio io. Te l'ho detto, è una cazzata.» «Sicuro?»
«Tranquillo.» Si morsicò di nuovo il labbro. «Non voglio fare casini... sai, farmi fermare o altro. Sai, quello di cui parlavamo ieri sera.» «Non succederà. Ma che cazzo, i bambini lo fanno per giocare. Lo facevo anch'io da piccolo per scappare da scuola.» La scuola cui mi riferivo era il riformatorio, e non so cosa avrei dato per conoscere questo trucco allora. Sarei uscito da quel buco di merda veloce come il vento. «Tom, rilassati. Fatti un bagno, fa' quello che vuoi. Provati i vestiti. Ma smetti di preoccuparti. L'unico momento in cui devi preoccuparti è quando io sono preoccupato, okay?» Sulla soglia esitò. Attesi che parlasse ma cambiò idea e si voltò per andarsene. «Tom...» Il corpo rimase fermo e voltò solo la testa. «Sì?» «Non mangiare niente quando ti alzi, socio. Dopo ti spiego.» Annuì e se ne andò con una risatina nervosa chiudendo la porta dietro di sé. Mi stiracchiai sul letto e ricominciai a visualizzare ogni fase del lavoro. Non mi faceva piacere la faccenda della neve. Non mi faceva piacere non avere un'arma. Il coltello da verdura, che avevo usato per tagliare il formaggio, non era un degno sostituto. 20 Mi alzai, intontito, appena dopo le otto e feci una doccia. Non avevo dormito, ma dal momento che ci avevo provato così a lungo, adesso sarei stato pronto per farlo. Mi trascinai in cucina per bere un caffè. Liv e Tom erano in salotto, ancora vestiti da notte e con una tazza in mano. Sembravano entrambi stanchi almeno quanto lo ero io, e ci scambiammo solo un borbottio di saluto. Avevo ancora una cosa da fare con l'attrezzatura prima di eseguire l'ultimo controllo, per cui tornai in camera a vestirmi, portandomi dietro la tazza. Prima delle nove avevo già caricato la macchina. Tom era pronto per l'ispezione, lavato e vestito. Liv non ci seguì al piano di sotto; avrebbe passato la notte a svuotare la casa e forse aveva già cominciato a eliminare le tracce. Avrebbe portato le nostre sacche con sé, e ce le avrebbe restituite con i soldi dentro. Tom e io eravamo uno di fronte all'altro. Lo ispezionai. Prima di tutto le
tasche, per essere certo che contenessero solo l'equipaggiamento necessario: scarpe di tela, uncino di scorta, anello di nylon e soldi. Non aveva bisogno di cento marchi in monetine che gli tintinnassero nelle tasche, solo banconote in una busta di plastica infilata nello stivale per pagarsi cibo e trasporto se si fosse trovato nella merda. La cosa più importante erano il ThinkPad e i cavi, incastrati nella sacca di nylon che portava appesa alla spalla, ma sotto il giaccone. Non volevo che la batteria si raffreddasse troppo e fosse lenta quando saremmo stati sul posto. Lo feci saltare in su e in giù. Nessun rumore, e tutto stava a posto nel suo giaccone blu a scacchi ampio e imbottito. Per ultimo mi accertai che avesse i guanti e il berretto. «Tutto a posto, socio?» «Nessun problema.» Il tono era convincente. Mi misi lo zaino sulle spalle. Sembravamo Bibì e Bibò. «Adesso tocca a me.» «Perché?» «Perché non vorrei aver fatto cazzate. Procedi.» Mi controllò prima davanti, poi mi voltai in modo che potesse controllare che lo zaino fosse ben chiuso. Era tutto a posto finché non feci qualche saltello. Dalla tasca dove c'era l'uncino di scorta proveniva un rumore. Tom sembrò a disagio mentre infilava una mano e tirava fuori i due chiodi colpevoli. «Succede», dissi. «Per questo tutti devono fare l'ultimo controllo. Grazie, socio.» Era molto compiaciuto di se stesso. È stupefacente quanto un paio di chiodi messi al posto giusto possa fare per aumentare la fiducia in se stessi e dare la sensazione di essere membri utili di una squadra. Tom e io salimmo in macchina e le ruote si mossero appena dopo le nove. Liv non si era vista, neppure per i saluti. Rimase calmo per i primi venti minuti, più o meno. Dal posto di guida gli feci un ripasso delle varie fasi, da quando avremmo fermato la macchina, una volta arrivati sul posto, a come saremmo entrati e avremmo trovato quello che stavamo cercando, finché non avrei girato nuovamente la chiavetta di accensione, una volta che il ThinkPad fosse stato saldamente al sicuro. Feci ogni sforzo per essere inesorabilmente positivo, senza neppure sfiorare l'eventualità che qualcosa potesse andare storto. Arrivammo nelle vicinanze del bersaglio dopo tre ore e mezzo di guida. Ogni volta che dovevo usare i tergicristallo per pulire il parabrezza dalla merda che le macchine davanti facevano schizzare, mi sentivo gelare per-
ché pensavo che avesse già cominciato a nevicare. Una volta nella radura spensi le luci, lasciai il motore al minimo e mi voltai verso il mio passeggero. «Va tutto bene, Tom?» Quando eravamo passati davanti al sentiero che portava alla casa, un paio di minuti prima, gli avevo indicato il percorso che avremmo seguito. Fece un profondo respiro. «Pronti a muovere, socio. Pronti a ballare.» Percepivo la sua tensione. «Bene, allora andiamo, si parte.» Uscii dall'auto, chiusi piano la porta fino al primo scatto, in modo che la luce interna si spegnesse. Poi mi abbassai la cerniera dei pantaloni. Tom era dall'altro lato dell'auto e stava facendo la stessa cosa, come gli avevo detto. Mi uscì solo qualche goccia, mentre controllavo il cielo alla ricerca della minima traccia di neve. Il buio non mi fece vedere nulla, naturalmente, ma in qualche modo mi faceva sentire meglio. Tirai fuori lo zaino e il giaccone dall'auto e li appoggiai di fianco a un pneumatico. Faceva un freddo boia e stava cominciando ad alzarsi il vento. Ogni raffica era un morso nella carne della faccia. Se non altro, una volta sul sentiero, la foresta ci avrebbe protetto e il fruscio delle cime degli alberi avrebbe aiutato a coprire i nostri rumori. La cattiva notizia era che lo stesso vento avrebbe portato la neve. Infilai il giaccone, poi, mentre mi mettevo lo zaino in spalla, guardai Tom fare la stessa cosa. Fin lì tutto bene. Si era perfino ricordato di chiudere piano la portiera per ridurre al minimo il rumore. Chiusi del tutto la mia e premetti il pulsante sulla chiave. Le luci lampeggiarono mentre mi portavo dal lato di Tom. Verificando che stesse seguendo il mio gesto, posai la chiave davanti alla ruota anteriore e la coprii con la neve. Mi rialzai, mi avvicinai al suo orecchio e sussurrai: «Ricorda, non ti agitare». Avevo voluto che anche lui tenesse le orecchie scoperte, quattro sono meglio di due, e volevo che continuasse a pensare che avevo bisogno del suo aiuto, anche se non era così indispensabile. Annuì mentre le nuvolette dei nostri respiri fluttuavano unite davanti a noi. «Ora dobbiamo fare pianissimo.» Mi toccava fare uno sforzo per tenere la bocca contro il suo orecchio. Il ragazzo avrebbe dovuto fare qualcosa per il cerume delle orecchie. «Ricorda, se hai bisogno di me, non chiamarmi, limitati a toccarmi, poi sussurrami nelle orecchie. È chiaro?» «Chiaro.» «Ricordi cosa devi fare se arriva una macchina?»
«Sì, sì, fare come Superman.» Sollevò le spalle in su e in giù e tentò di reprimere una risata nervosa. «Okay, socio, pronto?» Lui fece cenno di sì e io gli diedi un colpetto sulla spalla. «Andiamo, allora.» Mi sentivo come un veterano della prima guerra mondiale che cerca di persuadere una giovane baionetta a uscire dalla trincea. Partii lentamente, le orecchie aperte alla notte, Tom un paio di passi dietro di me. A circa cinque metri dall'inizio del vialetto, controllai il Baby G. Mancava un quarto all'una; era sperabile che quella sera Friends fosse una cagata e se ne fossero andati a letto. Stavamo scendendo il lieve dislivello avvicinandoci alla curva che ci avrebbe portato direttamente in vista della casa, quando mi fermai. Tom fece lo stesso, come da istruzioni. Se io mi fermavo, lui si fermava; se mi sdraiavo a terra, lo stesso doveva fare anche lui. Andandogli vicino accostai la bocca al suo orecchio. «Senti questo rumore?» Spostai la testa in modo che anche lui potesse sentire. Fece cenno di sì. «Generatore. Siamo quasi arrivati, socio. Ancora pipì?» Scosse la testa e io gli diedi una pacchetta tipo ma-che-divertimentoessere-qui sulla nuca e ripresi a camminare. Sempre nel solco di sinistra, con la neve solidamente compatta sotto i nostri piedi, svoltammo la curva. Sentivo solo il vento sopra le nostre teste che sferzava le cime dei pini, il suono di Tom che si muoveva dietro di me, e il generatore che batteva sempre più forte via via che ci avvicinavamo. Guardai il cielo. Merda, la neve non aveva più importanza; ero interamente concentrato sull'azione. Anche il naso e le orecchie mi sembravano meno congelate della notte precedente. Contro le condizioni atmosferiche non potevo fare nulla e nulla riguardo alle condizioni del contratto: era stanotte o mai più, e io avevo un disperato bisogno di soldi. Quando ci trovammo virtualmente in linea retta con la casa, mi fermai di nuovo, tesi le orecchie, guardai in giro, poi ripresi a camminare per altri otto o nove passi. La visione notturna ormai era perfetta. Avevo spiegato a Tom come si fa a guardare le cose al buio - appena sopra o appena sotto di esse per riuscire a metterle a fuoco - e anche come proteggere la capacità visiva notturna. Era uno spreco di tempo spiegargli perché doveva fare così, era sufficiente che sapesse come fare. Da quanto riuscivo a vedere da quella distanza, sembrava che in casa non ci fossero luci accese, né altri segnali che qualcuno fosse sveglio e in
giro. Questo, però, non voleva dire che mi sarei precipitato fino al cancello. Ogni pochi passi mi fermavo, mi voltavo e guardavo Tom, sollevando il pollice e ricevendo un cenno di assenso. Lo facevo più per lui che per me; volevo solo farlo sentire un po' meglio, sapendo che c'era qualcuno che si preoccupava per lui. A pochi metri dallo spazio vuoto fra gli alberi e la recinzione, mi fermai di nuovo, in ascolto. Tom mi imitò, un passo dietro di me. Se avessero avuto i dispositivi per la visione notturna e fossero stati di vedetta, lo avremmo scoperto molto presto. Non potevo farci nulla, questa era l'unica via di avvicinamento. Voltai la testa in modo da avere l'orecchio puntato verso la casa, per cercare di sentire più a fondo, oltre il rumore del vento, e allo stesso tempo spostai gli occhi all'interno delle orbite, in modo da continuare a guardare la casa con la coda dell'occhio. Tom doveva avere l'idea che fossi un mimo. C'era un debole barlume di luce che proveniva dalla persiana di sinistra del pianoterra; molto più debole della notte precedente. Riuscivo a malapena a percepirla. Voleva dire che tutti erano a letto, o che erano tutti davanti alla televisione? Gli misi una mano davanti alla faccia e gli feci cenno di aspettare dove si trovava. Poi con le dita mimai il gesto di camminare. Annuì, mentre io avanzavo nell'oscurità, sempre nel solco, in direzione del cancello. Finiti gli alberi mi trovai completamente esposto al vento. Era forte abbastanza da premere sul mio giaccone, ma non così forte da compromettere la camminata. Dall'altra parte della recinzione non era cambiato granché. Anche la 4x4 era parcheggiata nello stesso posto. Durante la ricognizione non c'era corrente elettrica sulla recinzione; me ne sarei accorto quando l'avevo toccata. Se c'era quella notte stavo per scoprirlo. Mi tolsi con i denti il guanto esterno destro, spostai il guanto di contatto e senza neanche un respiro d'incoraggiamento toccai con calma il cancello. Cazzo, andava fatto e basta. L'esitazione non avrebbe modificato lo shock, se ci fosse stata corrente. Rimisi i guanti e controllai il lucchetto. Non lo avevano lasciato aperto, non che ci sperassi. Sarebbe stata troppa manna. Non potevo tagliare la catena o la recinzione, avrei compromesso il lavoro. Le grosse cesoie, che pesavano una tonnellata dentro lo zaino, erano da usare solo per farci uscire dal posto se avessimo avuto problemi. Senza, avremmo fatto la fine del topo che gira in tondo dentro un barile. Uscire da
un luogo è sempre stato importante per me, molto più che entrarci. 21 Tornai verso Tom, al riparo dal vento. Non si era mosso di un centimetro da quando l'avevo lasciato; testa bassa, braccia lungo il corpo, una nuvola di vapore che si sollevava sopra di lui. Mi sfilai con calma lo zaino, mi accucciai nel solco delle ruote e lo tirai per la manica. Si abbassò accanto a me. Lo zaino si vuota un pezzo alla volta. Per questo è importante, quando si prepara, fare attenzione a mettere per ultime le cose che serviranno per prime. Gli feci capire che doveva aiutarmi a tenere lo zaino dritto afferrando i manici delle cesoie che spuntavano. Sganciai le fibbie e sollevai la parte superiore. Poi, spostati gli asciugamani che impedivano al tutto di far rumore, tirai fuori il primo anello di corda e il primo uncino. Diedi due giri di corda intorno al chiodo, dal lato in cui sporgeva dal legno, e passai a Tom l'attrezzo, adesso equipaggiato di un anello di corda lungo circa un metro. Afferrò il legno con la mano destra, come gli avevo mostrato, con l'uncino rivolto verso il basso e la parte sporgente fra indice e medio. Fissai la corda a un altro gancio, esattamente come avevo fatto con il primo, e lo passai a Tom che lo prese con la sinistra. Preparai gli altri due nello stesso modo, richiusi lo zaino, me lo misi sulle spalle e ne presi uno per mano. Guardai la casa e il cielo. Non c'erano cambiamenti visibili. Sperai che restasse così. Feci un passo verso Tom e gli bisbigliai nell'orecchio: «Pronto?» Ottenni in risposta un cenno e qualche breve sospiro. Percorsi i pochi metri che mi separavano dal cancello. Tenevo gli occhi fissi sulla casa, ma con la mente stavo già superando la recinzione: era il punto di massima vulnerabilità. Se le cose fossero andate storte all'interno della casa avrei potuto reagire. Ma là, sulla recinzione, saremmo stati completamente allo scoperto, come il mio amico appeso al cordino del giaccone, rimasto impotente a guardare che gli sparavano. Mi fermai, il naso a quindici centimetri dal cancello, e mi voltai. Tom era due passi dietro di me, la testa piegata a sinistra nel tentativo di proteggere la faccia dal vento. Mi voltai di nuovo verso il cancello, sollevai la mano destra, con l'uncino rivolto verso la griglia a losanga, e inserii con cautela il chiodo in uno
dei buchi. Avevo messo gli elastici intorno al chiodo per ridurre il rumore ma, di proposito, avevo lasciato scoperta la parte ricurva: il suono del metallo contro il metallo mi avrebbe dato la certezza che fosse bene inserito. Se non è così, quando l'uncino è sottoposto a trazione corre il rischio di raddrizzarsi. Per questo entrambi ne avevamo uno di scorta. Se ci fosse stato un problema, e uno di questi congegni avesse iniziato a raddrizzarsi mentre stavamo arrampicando, avremmo potuto sostituire quello rovinato sostenendoci all'altro. La parte ricurva del chiodo s'infilò nella griglia con un minimo rumore. L'anello della corda era adesso a trenta centimetri dal solco nel terreno. Inserii l'uncino di sinistra una quindicina di centimetri più in alto, a una distanza di circa trenta centimetri. A questo punto non aveva senso preoccuparsi di essere allo scoperto. Potevamo solo continuare, nella speranza che non ci vedessero. Non c'era altro modo. Se la notte precedente avessi provato a cercare un posto dove scavalcare, di fianco o dietro l'edificio, avrei lasciato ovunque impronte che potevano essere facilmente notate la mattina dopo, e le impronte dei miei stivali non avevano per niente l'aria di zoccoli di renna. E anche se avessi trovato il modo di fare una ricognizione completa all'esterno, il problema di non lasciare tracce all'interno sarebbe rimasto. Per lo meno davanti alla casa era tutto un intreccio di orme di piedi e pneumatici. Afferrai i due pezzi di legno in modo che gli uncini potessero reggere il mio peso e infilai il piede destro nell'anello di destra. Tendendo i muscoli della gamba destra per spingere il corpo verso l'alto mi tirai su con mani e braccia e mi sollevai lentamente da terra. Quando la corda fu sotto tensione sentii lo scricchiolio di assestamento del nylon che si allungava di un paio di millimetri fino a stabilizzarsi. Il cancello e le catene fecero molto rumore mentre la struttura ondeggiava sotto il mio peso. Lo avevo previsto, ma non così forte. Mi paralizzai per qualche secondo e osservai la casa. Soddisfatto che l'anello di destra reggesse bene il mio peso, alzai il sinistro di una quindicina di centimetri più in alto e lo infilai. A questo punto ero a circa trenta centimetri da terra. Mancava solo un'altra cinquantina di movimenti identici. Non mi preoccupai di guardare di nuovo Tom. D'ora in poi mi sarei concentrato su quello che stavo facendo io, consapevole che lui mi stava osservando attentamente e che quindi avrebbe capito cosa doveva fare. Spostai ancora una volta il peso fino a che il carico non fosse su piede e mano sinistra; toccava a questa corda protestare per allungarsi di un paio di
millimetri fino a stabilizzarsi. Sollevando verso l'alto l'uncino di destra, mantenendo però il piede dentro l'anello, mi allungai e lo infilai nella rete a circa quindici centimetri sopra quello di sinistra, un po' allargato. Tom aveva ragione, era come essere l'Uomo Ragno quando si arrampica su un muro, solo che al posto delle ventose avevo uncini nelle mani e anelli di corda sotto i piedi. Ripetei l'operazione altre due volte, cercando di tenere sotto controllo il respiro usando il naso, perché il corpo aveva bisogno di ossigeno per nutrire i muscoli. Abbassai lo sguardo. Tom stava guardando in su, la testa obliqua contro il vento. Volevo prima arrivare in alto e superare il mucchietto di neve nel vuoto, poi traversare a sinistra e continuare ad arrampicarmi vicino al palo di supporto. Non intendevo arrampicarmi in linea retta sopra il solco delle ruote, non solo perché qualcuno poteva materializzarsi presso il cancello, ma anche perché più in alto salivamo, più rumore avrebbe fatto la recinzione mossa dal nostro peso. Puntavo al primo dei pali di acciaio ai quali era fissato il reticolato. Se fossimo saliti con gli uncini uno da una parte e uno dall'altra, si sarebbe ridotta l'oscillazione della recinzione e il rumore sarebbe stato inferiore. Mi muovevo adesso in verticale spostandomi di quindici centimetri a sinistra per volta. Dopo tre movimenti ero fuori dal cancello e sulla vera cinta, a metà strada della prima delle tre sezioni che la rendevano così alta. La neve soffice, intonsa, adesso era un paio di metri sotto di me. Mancava ancora quasi un metro al supporto, ma non volevo allontanarmi troppo da Tom. Mi fermai, lo guardai e feci un cenno. Toccava a lui adesso giocare e seguire il mio percorso. Ci mise un po', ci fu un grugnito quando caricò il peso sulla gamba destra. Sperai che ricordasse quanto gli avevo detto, che tutto stava nella forza delle gambe, anche se era una palla. Ci voleva anche un po' di forza nella parte alta del corpo, ma non stava certo a me dirglielo. Non volevo smontarlo prima ancora che cominciasse. Il cancello si mosse e le catene produssero un rumore troppo forte per poter stare tranquilli. Grazie al cielo il vento soffiava da sinistra verso destra, portando lontano dalla casa i rumori che stavamo facendo. Tom non aveva afferrato bene come fare per mantenere l'equilibrio. Quando tentò d'infilare il piede sinistro nella corda, cominciò a oscillare verso destra e, cercando di ritornare verso sinistra, si ritrovò schiacciato contro la recinzione. La musica dei pagliacci mi risuonava già nella testa.
Continuavo a osservarlo da sotto l'ascella destra, ripensando a tutte le volte che mi era capitato di dover superare degli ostacoli, o camminare sui tetti con persone tipo Tom, esperti nel loro campo ma semplicemente non abituati a fare qualsiasi cosa che richiedesse una coordinazione del corpo superiore a quella necessaria a salire su un autobus o alzarsi da una sedia. Quasi sempre finiva in un casino generale. Aveva un'aria così ridicola che non riuscii a fare a meno di sorridere, anche se l'ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era la sua goffaggine. Per un momento pensai che sarei dovuto tornare indietro, ma poi, non so come, riuscì a mettere il piede sinistro nell'anello e fece il primo movimento completo. Sfortunatamente era così nervoso che oscillò verso sinistra non appena sfilò l'uncino destro dalla griglia. Tom ce la mise tutta, soffiando e grugnendo sotto lo sforzo, poi, stranamente, trovò che andare in obliquo gli risultava un po' più facile. Dava ancora l'impressione di essere un sacco di merda, ma stava facendo progressi. Continuai a fissare la casa, mentre lui saliva verso di me. Salii in alto e di sbieco ancora qualche volta, e presto i miei uncini giunsero ai lati del primo supporto. Era di acciaio e aveva un diametro di una trentina di centimetri. Attesi Tom, che adesso, andando verso la parte più rigida, faceva meno rumore. Mentre cercavo di guardarmi intorno, il vento mi schiaffeggiò la pelle esposta. Il muco dal naso si stava congelando sul labbro superiore. Secoli dopo, la testa di Tom giunse a meno di un metro di distanza dai miei stivali. Sotto di noi c'era un profondo strato di neve che si estendeva per cinque metri fino agli alberi. Adesso che entrambi avevamo un uncino ai lati del supporto, salire era più facile e sicuro. Spostando un uncino alla volta, controllai i chiodi. Continuavano a resistere alle sollecitazioni. Tom stava affrontando la salita come se fosse l'Everest. Grandi nuvole di vapore gli danzavano intorno. Per respirare ansimava e la testa si muoveva avanti e indietro nello sforzo d'inalare più ossigeno. Per la pressione e l'immenso, inutile, dispendio di energie, sotto i vestiti doveva essere madido di sudore. Mi spostai ancora di quindici centimetri, poi altri quindici, raggiungendo a poco a poco la meta. Desideravo solo che andassimo un po' più veloci. A circa due terzi, mi voltai a guardare Tom. Da quando l'avevo guardato l'ultima volta, non si era mosso di un centimetro. Il suo corpo era appiattito
contro la recinzione, appeso con la forza della disperazione. Non riuscii a capire cosa fosse successo e non c'era un modo silenzioso per attirare la sua attenzione. Desiderai che guardasse in su verso di me. Era completamente paralizzato; capita spesso quando si fa un'ascensione o una discesa a corda doppia per la prima volta. Certamente non dipendeva dalla mancanza di forza fisica - anche un bambino aveva i muscoli per arrampicare - ma le gambe gli venivano meno. È un problema mentale; hanno la forza e conoscono la tecnica, ma manca la fiducia. Alla fine alzò lo sguardo. Non riuscii a decifrare la sua espressione, ma la testa dondolava da parte a parte. Da quella distanza non avevo la possibilità di farlo ragionare né di offrirgli rassicurazioni. Merda, dovevo andare da lui. Liberai l'uncino di destra e iniziai a scendere in diagonale verso sinistra. Stava diventando uno spettacolo da circo. Arrivato al suo livello, mi sporsi fino ad avvicinargli la bocca all'orecchio. Il vento si era alzato e dovetti bisbigliare più forte di quanto avrei voluto. «Che ti succede, socio?» Girai la testa in modo da offrirgli un orecchio per la risposta, osservando la casa mentre aspettavo. «Non ce la faccio, Nick. Sono fregato.» Se ne uscì in un mugolio singhiozzante. «Non sopporto l'altezza. Avrei dovuto dirtelo. Stavo per farlo, ma... sai com'è.» Non aveva senso fargli vedere quanto ero incazzato. Ci sono persone fatte così; non serve scuoterle o dire loro di fare uno forzo. Se avesse voluto, ci sarebbe riuscito. Sapevo che voleva superare la recinzione almeno quanto lo volevo io. «Non è un problema.» Allontanò la testa dalla mia e mi guardò pieno di gratitudine e con la speranza che decidessi di desistere. Avvicinai la bocca al suo orecchio. «Ti starò sempre vicino, come adesso. Guarda quello che faccio io e ripeti i miei gesti, va bene?» Mentre osservavo la casa lo sentii tirare su con il naso. Mi voltai; non era solo muco. Piangeva. Mettergli fretta non aveva senso; non dovevamo solo farcela adesso, una volta finito il lavoro avremmo dovuto farlo di nuovo. Mancava solo che cominciasse a nevicare e lo spettacolo del circo notturno sarebbe stato perfetto. Avevo i piedi in posizione sbagliata; il suo destro era in basso, mentre il mio era in alto. Mi spostai per rettificare e decisi di assumere un modo di fare rassicurante. «Faremo tutto con molta calma. In tanti soffrono di ver-
tigini. Io invece ho paura dei ragni. Per questo mi piace stare qui al Nord, quei rompicoglioni da queste parti non ci sono. Troppo freddo, capisci?» Fece una risatina nervosa. «Limitati a guardare la cima della recinzione, Tom, e andrà tutto bene.» Annuì e prese un profondo respiro. «Allora, comincio io. Un passo, poi tu segui, va bene?» Lentamente misi il peso nella cinghia di sinistra, mi sollevai e lo aspettai. Si sollevò tremando al mio livello. Ripetemmo l'operazione. Mi sporsi verso il suo orecchio. «Cosa ti avevo detto, una cazzata.» Mentre gli ero vicino controllai rapidamente i suoi uncini. Erano a posto. Decisi di lasciarlo riposare un attimo, in modo che potesse bearsi nella sua gloria e acquisire fiducia. «Ci fermiamo un momento, va bene?» Il vento soffiava intorno a noi, sollevando la neve per terra. Tom teneva lo sguardo fisso in avanti contro la recinzione a pochi centimetri dal suo viso. Io guardavo la casa. Tutti e due tiravamo su con il naso. Quando il suo respiro prese un ritmo regolare gli feci un cenno; lui rispose affermativo e ripresi ad arrampicare. Tom mantenne il ritmo, passo dopo passo. Raggiungemmo la seconda delle tre sezioni. Tom stava andando bene; ancora una dozzina di spinte e saremmo arrivati in cima. Mi sporsi. «Vado avanti io e poi aiuto te a salire, okay?» Dovevo continuare in obliquo, volevo scavalcare la recinzione lontano dal palo per non toccare la neve che si era raccolta sulla sommità. Alla luce del giorno sarebbe stato troppo facile da individuare. Tom era di nuovo in agitazione e iniziò a darmi dei colpi alla gamba. All'inizio lo ignorai, poi mi afferrò i pantaloni. Guardai in basso. Era in pieno delirio, la mano libera che gesticolava in direzione del sentiero. Il suo corpo oscillava da parte a parte. Guardai in basso. Un corpo vestito di bianco stava avanzando a fatica nella neve alta fino ai fianchi, dall'altra parte del sentiero. Dietro di lui ce n'erano altri, e altri ancora stavano emergendo dalla foresta e si dirigevano con decisione verso il sentiero. Erano come minimo una dozzina. Dalla posizione e dal movimento delle braccia capii che erano armati. Merda, Maliskia. «Nick! Cosa facciamo?» Gli avevo già detto poche ore prima cosa fare se avessimo avuto un problema: fare quello che facevo io.
«Salta. Cazzo... salta!» 22 Afferrai saldamente i pezzi di legno e mi sollevai con la forza delle braccia in modo che gli uncini sostenessero il peso del corpo, poi liberai con un calcio i piedi dagli anelli e lasciai andare le mani. Mi augurai solo che la neve fosse abbastanza alta per ammortizzare una caduta da dieci metri. Precipitai oltrepassando Tom, ancora attaccato alla recinzione, e mi preparai a eseguire il comando dell'istruttore di salto quando il vento è troppo forte e la zona di atterraggio non è un piacevole spazio aperto, ma è diventata all'improvviso zona M1: assecondare l'atterraggio. Sprofondai nella neve con i piedi e iniziai subito a rotolare sulla destra, ma mi piegai quando le costole scontrarono con violenza la radice di un albero e subito dopo i manici delle cesoie mi affibbiarono un colpo proprio in mezzo alla nuca. Fu un'esplosione di stelle negli occhi e nel cervello. Il dolore si allargava dal torace, la neve che mi avvolgeva soffocò il mio urlo involontario. Sapevo che dovevo alzarmi e correre, ma non potevo farci niente: le gambe non rispondevano. Gli occhi mi bruciavano per la neve, mi lamentavo fra me mentre lottavo con il dolore e cercavo di capire quanto ero sepolto. Tom aveva trovato il coraggio di saltare. Lo sentii rimanere senza fiato mentre atterrava alla mia sinistra, sulla schiena. Ancora non riuscivo a vedere niente da sotto la neve. Si riprese, ansimando forte. «Nick, Nick!» La cosa successiva che ricordo è che era sopra di me, e mi toglieva la neve dal viso. «Nick. Dai, su, socio, dai!» Mi girava ancora la testa, la mia coordinazione vacillava. Non potevo essergli di nessun aiuto. Sapevo che era questione di pochi secondi e poi li avremmo avuti addosso. «La stazione, Tom! Vai, vai!» Fece un tentativo di sollevarmi prendendomi per le braccia e trascinarmi, ma non era possibile che ci riuscisse. Sarebbe stato abbastanza difficile per lui in condizioni normali, figurarsi se poteva riuscirci mentre ero sprofondato nella neve. «Tom, la stazione. Vai, fuori dalle palle!» Ansimò, tentando ancora una volta di trascinarmi con sé. Quando mi tirava le braccia il dolore al torace aumentava, e mi sentii sollevato quando
mi lasciò andare. Finalmente aveva capito il messaggio. Aprii gli occhi in tempo per vedere che estraeva dal giaccone l'uncino di scorta. Per una frazione di secondo non riuscii a capire perché, poi sentii un grugnito alle mie spalle. I Maliskia ci avevano raggiunto. Tom si lanciò addosso a me. Ci fu un rumore sordo, e un urlo che aveva un tono troppo basso per essere di Tom. La cosa successiva di cui mi resi conto era Tom che cadeva accanto a me piagnucolando. Non c'era tempo per quelle cazzate, doveva andare. Lo allontanai con le mani. Senza guardarsi indietro, scappò via, inciampandomi addosso. Avrei voluto seguirlo ma non potevo. Rotolai sullo stomaco, feci forza su mani e ginocchia e provai a uscire dal buco. Quando arrivai al bordo vidi la vittima di Tom. Era a soli tre metri e cercava di mettersi in piedi. Teneva l'arma alta. Dalla coscia della tuta bianca e tutt'intorno all'uncino che ci era incastrato dentro colava sangue. Mi rituffai nella neve, sentii l'inconfondibile, attutito clic-tud, clic-tud, clic-tud di una SD, versione silenziata dell'Heckler & Koch MP5. Il clic era il suono del carrello di scorrimento che sputava fuori le cartucce usate e si muoveva in avanti per prendere un altro colpo dal caricatore. Il tud era il rumore del gas che usciva mentre il proiettile subsonico lasciava la canna. Sentii ancora clic-tud, clic-tud quando vennero sparati altri due colpi. Non ero io il bersaglio, ma decisi di non muovermi per non correre il rischio di essere colpito. Non ero neanche del tutto sicuro che sapessero che ero lì. La sparatoria terminò e sentii i brevi respiri ansimanti del corpo con l'uncino che cercava di resistere al dolore. Poi ne arrivarono altri e sentii un urlo. «Okay, amico, va tutto bene.» Il mio dolore sparì di colpo e venne sostituito da un immenso senso di orrore. Merda. Erano americani. Cosa cazzo stava succedendo? L'uomo con l'uncino rispose fra rantoli di sofferenza. «Aiutami a raggiungere il sentiero. Ah, mio Dio...» Perlustravano tutt'intorno a me, e sapevo che non ci sarebbe voluto molto prima che mi beccassero. Voltai la testa, aprii gli occhi e guardai in su. Due figure coperte di bianco con passamontagna neri sotto i cappucci erano quasi sopra di me, le nuvole dei loro respiri sospese nell'aria fredda della notte. Sporgendosi su di me, uno dei due mi puntò silenziosamente l'ar-
ma alla testa. Calma, amico, non vado da nessuna parte. L'altro si avvicinò, la neve scricchiolò sotto i suoi stivali, tenendosi fuori dalla traiettoria dell'arma del compagno. Dalla sua bocca usciva solo vapore. Non c'era nessuna comunicazione fra i due. Sentii rantoli e respiri affannosi, mentre la vittima di Tom veniva aiutata a raggiungere il sentiero. Era conciata molto male, ma sarebbe sopravvissuta. Altri corpi passarono a fatica nella neve che arrivava ai fianchi, puntando nella stessa direzione in cui era andato Tom. Anche solo pensare a una fuga o a rendergli le cose un po' più difficili era ridicolo. Mi raggomitolai in attesa dell'inevitabile resa, chiusi gli occhi e serrai i denti per proteggere la lingua e la mandibola. Il loro respiro adesso era direttamente sopra la mia testa e potevo sentire i loro stivali che spostavano la neve intorno a me. Rimasi in attesa del primo calcio che aprisse un varco per stanarmi. Non arrivò. Invece, un guanto freddo e coperto di neve mi spostò le mani dalla faccia e riuscii a intravedere una bomboletta. Non sapevo se si trattasse di gas CS o CR oppure di pepe, e francamente non m'importava. Qualsiasi cosa fosse, e anche se avessi chiuso gli occhi, mi avrebbe fregato alla grande. Nell'esatto momento in cui il gas freddo come il ghiaccio entrò in contatto con la faccia, i miei occhi furono in fiamme. Il naso si riempì ancor più di muco, e mi sembrò di soffocare. Le fiamme si allargarono a tutta la faccia. Sapevo esattamente cosa stava succedendo, ma ero totalmente incapace di reagire. Non potevo far altro che lasciare le cose al loro corso. Mentre soffocavo e vomitavo, una mano mi spinse con forza il viso dentro la neve. Non mi vennero impartiti ordini e non ci fu nessun dialogo. Sbuffando e ansando come un maiale che soffoca, lottai per l'ossigeno. Cercai di spostare la testa contro la mano che la teneva ancora bloccata, nel disperato tentativo di spostare la neve che non mi lasciava respirare, ma lui me lo impediva. Un calcio diretto allo stomaco s'infilò fra le braccia con cui mi proteggevo. Tossii e vomitai il muco che si era formato tra la bocca e il naso. Rotolai in preda al dolore. L'uomo della bomboletta mi girò sulla schiena, incurvata a causa dello zaino. Il collo si allungò quando la testa mi cadde all'indietro. Stavo soffocando e il muco mi scendeva negli occhi. Un pugno, coperto da un guanto, mi colpì in mezzo alla testa e la lampo
del giaccone venne aperta. Delle mani percorsero il mio corpo e le tasche del giaccone vennero vuotate. Trovarono l'uncino di scorta, il coltello, la pistola forzaserrature che avevo costruito. Mi tolsero tutto, anche i rullini della Polaroid. Uno di loro mi premette un ginocchio sullo stomaco e il vomito mi sgorgò dalla bocca. Il gusto e l'odore del tè forte che avevo preso durante il viaggio riempì l'aria intorno a me mentre sputavo nella neve. Cercai di sollevare la testa per tossire e far uscire gli ultimi rimasugli che avevo in gola, ma venni risbattuto giù. Non potevo fare nulla, l'unica era cercare di continuare a respirare. Il tizio che mi premeva il ginocchio sullo stomaco venne raggiunto da quello con l'arma, alla mia destra, e la gelida, tozza canna mi torturò la faccia, penetrando nella pelle. I due rimasero così, accucciati, in attesa. Gli unici rumori erano i loro respiri pesanti e i miei grugniti da maiale. Sapevano che ero fottuto e si limitavano a mantenermi in quella posizione. Da quello che riuscivo a capire attraverso gli occhi pieni di lacrime e di dolore, sembravano molto più preoccupati di quello che stava succedendo al cancello. Sapevo che prima di pensare a qualcosa per uscire da quella merda dovevo attendere di riprendermi dall'impatto della caduta e dallo spray. Accettavo di non avere più nessun controllo sul mio corpo, però lo avevo ancora sul mio cervello. Dovevo studiare le possibilità di fuga, e più velocemente lo facevo, migliori probabilità di successo avrei avuto. C'è sempre confusione nelle situazioni a caldo, l'organizzazione si consolida in un secondo tempo. Analizzai quanto avevo visto. Erano tutti in mimetica bianca, da guerra invernale, avevano tutti lo stesso tipo di arma ed erano molto organizzati. Almeno due di loro parlavano inglese con accento americano. Questi non erano Maliskia. E quello non era controspionaggio industriale. Cominciai a sentirmi ancora peggio riguardo alle mie prospettive future ed ero incazzato alla grande con Liv e Val, che, guarda caso, non mi avevano detto niente. Sperai solo di riuscire a cavarmela. Pensai a Tom, e mi augurai che fosse vivo e riuscisse a tornare nel mondo reale più veloce che poteva. Aveva cercato di salvarmi. Aver centrato il bersaglio con l'uncino era dovuto più a fortuna che ad abilità, ma aveva avuto i coglioni per farlo. Vincere una battaglia non è importante, ma lo è avere il fegato di provarci. Mi ero sbagliato sul suo conto. Mentre giacevo inerme, con il viso rivolto verso il cielo, sentii qualcosa di umido e freddo che mi si scioglieva sulle labbra: i primi grandi fiocchi
di una nevicata. I pochi secondi di silenzio vennero interrotti dal fruscio della neve che proveniva dalla parte verso cui era fuggito Tom. Dovevano essere quelli che lo avevano inseguito o che ne avevano recuperato il corpo. Cercai di guardare, ma avevo la vista ancora troppo offuscata per poterci riuscire. Me ne stavo lì nel mio buco e non mi passarono abbastanza vicini da vedere se lo avevano preso. Se l'avevano fatto, doveva essere morto; non riuscivo a sentire la sua voce, e immaginavo che se fosse stato ferito si sarebbe lamentato, oppure, se fosse stato catturato, avrebbe pianto rumorosamente al pensiero di tornare in prigione. Ci fu il rumore della catena quando il cancello venne forzato, ma ancora nessun suono dai due che erano con me. Il loro silenzio rendeva la situazione ancora più agghiacciante, se mai fosse stato possibile. Tom e io, molto probabilmente, eravamo un imprevisto che non si aspettavano. Dovevano essersi premuti le mani sulla bocca per impedirsi di scoppiare a ridere, osservando i nostri tentativi di scalare la recinzione, in attesa del momento giusto, quando saremmo stati al massimo della vulnerabilità. Qualsiasi cosa fosse quello che eravamo venuti a prendere, loro erano lì per la stessa cosa. Il che mi spaventava molto. A quanto sembrava la corsa non era soltanto contro i Maliskia. Nella casa stava succedendo qualcosa. Il portone era stato abbattuto. Udii delle urla tagliare il vento, voci maschili che non potevano essere di quelli della squadra, troppo stridule e troppo agitate. I miei due nuovi amici continuavano a guardarsi intorno, e qualsiasi cosa stessero aspettando arrivò. Arma picchiò sulla spalla di Spray ed entrambi si alzarono in piedi. Era chiaro che era giunto il momento di andare. Non appena la pressione sullo stomaco fu allentata, venni buttato a faccia in giù nella neve, e la cinghia sinistra del mio zaino venne tagliata, con l'accompagnamento del loro respiro affannoso. Mi girarono il braccio destro sulla schiena come se fosse stato staccato dal corpo. Stringendo i denti, sopportai il dolore al torace che il movimento mi provocò. Poi con un calcio mi fecero tornare sulla schiena. D'istinto sollevai le ginocchia nel tentativo di proteggermi. Non volevo che i nostri sguardi s'incrociassero, non che fosse facile con quel buio, ma non volevo che traessero deduzioni da un mio sguardo che avrebbe potuto sembrare di sfida e farli scatenare, o semplicemente segnalare che non ero ferito come fingevo di essere. Con la coda degli occhi socchiusi ne potevo vedere uno solo, che fece
oscillare l'arma sul torace sino a farla passare sulla schiena. Rumori da incubo continuavano a provenire dalla casa, mentre s'inginocchiava e, afferrandomi alla gola con una mano fredda, umida e coperta da un guanto e mettendo l'altra sotto la testa, mi tirava in piedi. A questo punto non avevo nessuna intenzione di opporre resistenza e compromettere ogni possibilità di fuga. Mentre il mio corpo emergeva dal buco nella neve, il vento prese a sferzarmi le lacrime e il muco sulla faccia. Il muco sembrava gelatina congelata. Mi fecero avanzare a spintoni, con le mani ancora strette intorno alla gola, seguendo le tracce appena impresse nella neve. Evitare di lasciare impronte non sembrava una priorità per questi ragazzi. Passammo attraverso il cancello, che ormai era aperto. Sentivo il vento spingere con forza la neve sulla faccia e udivo il rumore dei passi della mia scorta. Guardai la casa e mi sembrò di risalire alla superficie dopo un tuffo in piscina: le forme tremolanti divenivano lentamente più nitide e i suoni più distinti. Riuscii a distinguere altre quattro sagome bianche attraverso la neve che cadeva, contro le luci che risplendevano su entrambi i terreni. C'erano rumori di saccheggio, mobili che venivano gettati di qua e di là e vetri rotti, ma le urla si erano fermate. Ancora nessun rumore dalla squadra. L'unico motivo per cui il tizio ferito e quello che lo aveva aiutato avevano parlato era che non sapevano dove fossi atterrato. Venni trascinato oltre la 4x4 e sbattuto sul pavimento di legno della veranda. I miei stinchi picchiarono dolorosamente contro i gradini. Altri lividi si sarebbero aggiunti a quelli che mi ero fatto la sera prima. Continuarono a trascinarmi per la veranda, il suono dei loro passi rimbombava sulle tavole. Un ariete era stato abbandonato sulla soglia, un lungo palo di ferro con due maniglie rettangolari per parte. Il cardine superiore era stato divelto mentre quello in basso teneva ancora in piedi la porta con un angolo di quarantacinque gradi verso l'interno. Il vetro della finestra era in schegge sul pavimento. Questi ragazzi non si erano preoccupati di usare spazzolini elettrici. Con uno scricchiolio oltrepassammo i vetri rotti ed entrammo nella casa. Il caldo mi avvolse, ma non ebbi tempo di rallegrarmene. A pochi passi dall'entrata mi stesero a pancia in giù sul pavimento dell'ingresso. Alla mia destra c'erano altre tre persone, legate e faccia a terra. Due indossavano solo i boxer e una maglietta. Forse per questo non parlavano tra loro.
Non volevano che questi tre capissero chi erano. I tre prigionieri erano più o meno coetanei di Tom, e avevano lunghi capelli biondi. Uno di loro li aveva legati a coda di cavallo, un altro stava piangendo e i capelli gli si appiccicavano alle guance. Merda, e io che mi ero preoccupato di quante baionette ci sarebbero state all'interno. Mi guardavano avendo negli occhi la stessa domanda che io avevo in testa: tu chi cazzo sei? Distolsi lo sguardo. Non erano importanti per me. Trovare il modo di allontanarmi dagli americani, questo era importante. Mentre voltavo la testa uno stivale mi colpì su un lato della faccia e mi fece capire di guardare in basso. Poggiai il mento sul pavimento e le mani vennero spostate a forza, bene in vista. Non era la prima volta che avevano a che fare con un prigioniero. Calcolai un paio di secondi, poi sollevai gli occhi e cercai di guardarmi in giro, tentando di raccogliere più informazioni utili che potevo per riuscire a fuggire. Non vidi scene di panico; tutti sapevano bene quello che dovevano fare. Gli uomini vestiti di bianco avevano movimenti molto efficienti, alcuni avevano i cappucci abbassati, e i passamontagna neri bene in vista. Ci sono sempre diverse ragioni che portano a indossare una divisa, ma, in situazioni di questo tipo, è soprattutto per potersi riconoscere. L'atmosfera sembrava quella di un ufficio open space, molto efficiente. Erano tutti armati, tutti avevano lo stesso tipo di arma, tutte con il silenziatore. La pistola che ognuno di loro portava era abbastanza insolita. Era da tanto che non vedevo una P7, ma se ricordavo bene sparava colpi calibro 7,62. Aveva sette canne, ognuna lunga circa quindici centimetri, racchiuse in una sorta di affusto in bachelite usa e getta. L'insieme era sigillato, a prova d'acqua, e s'inseriva su un calcio da pistola. I colpi venivano sparati in modo convenzionale, tirando il grilletto, ma invece di azionare un percussore, ogni volta che si tirava il grilletto veniva inviata a una delle canne una scarica elettrica, attraverso contatti che venivano chiusi quando si univano le canne all'impugnatura. La fonte di energia era in una batteria all'interno del calcio. Quando erano stati sparati tutti i sette colpi, si trattava semplicemente di togliere il gruppo delle canne e sostituirlo con uno nuovo. La P7 era stata progettata per sparare ai sommozzatori a distanza ravvicinata e sott'acqua, per penetrate le mute e, naturalmente, i corpi. Non conoscevo la loro efficacia a lunga distanza; sapevo solo che erano silenziose e molto potenti. A causa delle loro dimensioni, quei ragazzi le portavano con fondine a spalla sopra le tute bianche, insieme con cinturoni neri in
nylon che contenevano i caricatori delle HK. Non riuscivo a ricordare chi fosse l'inventore delle P7, e neppure se questo fosse il vero nome dell'arma. Non che m'importasse molto in quel momento. Ciò che era veramente importante era che quegli uomini erano in uniforme ed efficienti, e non erano stati mandati lì perché i computer non erano a norma Y2K. Dovevano appartenere a un'organizzazione di sicurezza, forse la CIA, oppure l'NSA, non importava quale. Per loro un'azione di quel tipo sul territorio di una nazione amica era abbastanza insolita. Questo tipo di cose di solito veniva lasciato ai testa di cazzo come me, così se le cose si mettevano male, tutto poteva essere negato. L'unico motivo che poteva averli portati a scendere in campo era che volevano disperatamente indietro qualcosa che gli apparteneva, e qualunque cosa fosse, doveva essere così delicata che non volevano, o non si fidavano, che qualcun altro la prendesse per loro. Avevo tentato di rubare segreti agli americani? Mi augurai di no. Quello era spiare, e senza l'aiuto del governo inglese sarei stato fortunato a uscire di prigione in tempo per vedere i nipotini di Kelly. Compresi che cosa provocava l'opaco chiarore a sinistra della casa. Attraverso una porta aperta potei vedere che non era luce quella che usciva dalla persiana rotta, ma il bagliore proveniente da una fila di televisori. Individuai CNN, CNBC, Bloomberg e qualche programma in giapponese, tutti con giornalisti, uomini e donne, che parlavano d'affari. Didascalie in movimento fornivano informazioni finanziarie, nella parte inferiore degli schermi. Allora non guardavano Friends. Mi sentii ancora più depresso. Proprio come il tempo, tutto peggiorava di minuto in minuto. In mezzo ai televisori si trovavano anche monitor di computer, molti erano spenti, ma in alcuni scorrevano numeri in verticale, identici a quelli con i quali avevo visto giocare Tom. I computer e i monitor vennero staccati, mentre altri uomini in bianco armeggiavano per la stanza con altri apparecchi e tastiere. Vidi una mano uscire dalla tuta bianca e premere qualche tasto. Era perfettamente curata, femminile e portava la fede. Tutte le superfici orizzontali erano in un casino di merda, coperte da carte di caramelle, scatole da pizza, lattine, e grandi bottiglie di plastica di Coca-Cola mezze vuote. Sembrava l'appartamento di un gruppo di studenti nel quale fosse stato rovesciato il contenuto di un paio di camion di tecnologia avanzatissima. Capii cosa stava trasportando la 4x4 la notte precedente: doveva essere la serata della pizza. La mia piccola ricognizione fu interrotta alla vista di un paio di stivali neri che veniva verso di me, con ancora un po' di neve nei ganci e nei lac-
ci. Erano stivali Danner, una marca americana. Li conoscevo bene, ne avevo un paio anch'io, del tipo alto, cuoio all'esterno e GoreTex all'interno. Anche i militari americani li usavano. I cloni di Tom sul pavimento si stavano muovendo o venivano spostati. Quello che piangeva emise un suono soffocato, come se stesse resistendo a qualche cosa. Corsi il rischio di girare la testa per vedere cosa stava accadendo, ma era troppo tardi. Mi venne calato sulla testa un cappuccio che mi spalmò il muco su labbro superiore, bocca e mento. Non aveva senso opporre resistenza e lasciai che agissero il più veloce possibile. Avevo imparato che la migliore cosa da fare, in casi come quello, era concentrarsi sul respiro e far funzionare le orecchie. I lacci di chiusura vennero tirati verso il basso e mi ritrovai in un mondo completamente buio. Non penetrava il minimo barlume di luce. Il viso prese rapidamente a sudare e il cappuccio si spostò contro la mia bocca e poi di nuovo verso l'esterno mentre respiravo cercando di rimettermi del tutto dall'effetto dello spray. Sentii stivali da entrambi i lati della testa, seguiti da respiri pesanti mentre mi spostavano le mani in avanti e mi mettevano le manette di plastica. Il breve secco suono dell'aggancio venne accompagnato dal dolore della plastica che stringeva i polsi. Ci fu ancora del movimento vicino a me e un rumore di vestiti. I tipi della pizza si stavano vestendo. Buon segno; significava che li volevano vivi. Sperai che volessero vivo anche me. Tra suoni di singhiozzi soffocati e di cerniere che venivano chiuse, udii: «Danke... kiitos... spassiiba... grazie». Era chiaro che non conoscevano la nazionalità degli uomini vestiti di bianco e facevano vari tentativi. Sembravano interpreti di Bruxelles. Le assi del pavimento s'incurvarono sotto il peso dei corpi che passavano in direzione della porta. Fili e prese penzolanti strisciavano rumorosamente sul pavimento, molto vicino alla mia testa. Alcune prese urtarono il metallo della soglia della porta con un tintinnio sordo. Immaginai che portassero via i computer. Dai suoni che sentivo stavano trasferendo tutto sulla veranda. Il rumore di motori mi riempì il cappuccio mentre i veicoli si spostavano nel cortile. La temperatura all'interno della casa si stava raffreddando, perché il vento entrava attraverso la porta. Alla mia sinistra, riuscivo a malapena a percepire il mormorio di voci che si scambiavano brevi frasi spezzate sulla veranda, via via che i mezzi si avvicinavano. Si fermarono e sentii tirare i freni a mano. I motori rimasero in moto,
come si fa con gli elicotteri durante un'azione: non si spengono mai i motori per non correre il rischio di non riuscire a ripartire. Sentii aprire e chiudere diverse porte e un turbinio di passi di stivali nella veranda. Riuscii a cogliere lo scricchiolio e l'eco di quella che mi sembrò la portiera di un furgone vuoto; ne ebbi la conferma quando sentii una porta scorrevole che veniva aperta. Il cortile stava riempiendosi dei suoni di una piazzola di carico di un ipermercato. Provai a muovere le braccia, come se volessi mettermi più comodo, ma in realtà per capire se ero tenuto sotto controllo. La risposta arrivò molto presto: uno stivale entrò in contatto con le mie costole, dallo stesso lato dove ero caduto. Smisi di muovermi e mi concentrai sull'interno del cappuccio, per assorbire il dolore. Rimasi immobile in attesa che il dolore si calmasse. Il piagnucolio e gli sbuffi con il naso a fianco a me aumentarono. Perché stesse zitto, il colpevole aveva ricevuto lo stesso sistema di persuasione dello stivale, ma le cose erano peggiorate. L'uomo era molto agitato, e mi fece pensare a Tom. Non avevo perso la speranza che fosse ancora vivo, e fosse riuscito a fuggire, oppure anche lui, come questo ragazzo, stava iperventilando all'interno di un cappuccio, dentro uno di quei veicoli? Di nuovo le tavole del pavimento cedettero e le schegge scricchiolarono mentre andavano verso la veranda. Altri stavano caricando i furgoni; distinguevo il rumore degli stivali sul fondo metallico. Le tavole si piegarono ancora di più quando i tre che mi giacevano a fianco vennero sollevati in piedi, fra un miscuglio di lamenti soffocati e urla. Quello che mi piagnucolava accanto venne trascinato via e portato fuori; gli altri a seguire. Quando anche l'ultimo dei tre corpi venne portato via, sentii l'urlo del primo echeggiare all'interno di un furgone. Cercai di convincermi che non si sarebbero presi tutta quella briga se non avessero avuto l'intenzione di lasciarci in vita. Mentre ascoltavo il secondo che veniva spostato dopo il suo amico, gli stivali arrivarono anche per me. Il cigolio del cuoio si fermò a pochi millimetri dal mio viso. Due paia di mani grosse e potenti mi afferrarono sotto le ascelle e le braccia, tirandomi in piedi. Lasciai che i miei stivali strisciassero sul pavimento. Volevo dare l'impressione di essere debole, di non costituire una minaccia, di essere uno di cui non ci si doveva preoccupare, uno qualunque che stava male. I due tipi sbuffavano per la fatica mentre oltrepassavamo la soglia per andare nella veranda, la punta dei piedi urtò il metallo della porta e poi di
nuovo il tavolato. Contemporaneamente mani e collo vennero aggrediti dal freddo polare, che poi si spostò verso il viso quando il cappuccio, reso umido dalla condensa del mio respiro, iniziò a raffreddarsi. Inciampando fra quelli che mi scortavano sui gradini per lasciare la veranda, venni trascinato in avanti, poi tutto d'un colpo si fermarono al battito di mani guantate e voltarono a destra, facendomi girare insieme con loro. Mi avrebbero tenuto separato dagli altri? Sarebbe stato un bene o un male? Bastarono pochi secondi per capire che sarei andato effettivamente in un mezzo diverso. Non era una scatola di freddo metallo; sembrava la zona dei sedili posteriori di una 4x4. Dovetti arrampicarmi per salire, era rivestita di moquette e molto calda. Per un attimo fui felice. La porta opposta venne aperta e mi afferrarono per il giaccone per farmi entrare, sbuffando per lo sforzo. Urtai con gli stinchi contro il bordo della porta e alla fine fui spinto nel vano davanti ai sedili. Avevo uno dei ventilatori del riscaldamento proprio sul collo, che buttava fuori aria calda da sotto il sedile; meraviglioso. Anche attraverso il cappuccio potevo sentire l'odore di nuovo dell'interno, e non so perché, ma mi sentii più ottimista circa la mia situazione. Il veicolo ondeggiò quando qualcuno saltò a bordo sul sedile posteriore, sopra di me. I loro calcagni sprofondarono nel mio corpo, uno dopo l'altro, seguiti dalla canna di un'arma che mi si conficcò in una guancia e allargò il muco verso l'orecchio. Nessuno disse niente, ma compresi il messaggio: stai calmo. Non avrei avuto l'energia per fare nulla in ogni modo, per cui la cosa migliore era restarsene sdraiato e approfittare del caldo. Le porte posteriori del nostro mezzo erano ancora aperte e le attività di carico stavano continuando. A pochi metri di distanza sentii il crac del fermo della porta del furgone che veniva sganciato, poi la porta venne sbattuta. Due colpi sul lato del veicolo comunicarono al guidatore che tutto era a posto, ma nessuno si mosse. Forse bisognava aspettare di partire tutti insieme. Pochi secondi dopo un'altra portiera venne chiusa e ci fu silenzio. Da quella gente non usciva una parola. O comunicavano a cenni delle mani o sapevano esattamente quello che dovevano fare. Quando altri salirono, le sospensioni del mezzo andarono sotto sforzo. Tutte le porte vennero chiuse. Secondo i miei calcoli sul sedile posteriore c'erano come minimo tre persone. Gli stivali erano dappertutto e un paio premeva sul mio corpo per farmi stare giù. Un altro mi allontanò con un calcio le gambe per poter appoggiare i piedi sul pavimento. Non avevo in-
tenzione di protestare. A quanto capii eravamo il primo veicolo a muoversi nel cortile, a marcia ridotta per riuscire a far fronte ai solchi delle ruote e al ghiaccio. I tergicristallo sbattevano da una parte all'altra lottando con la neve. Uno degli uomini davanti premette alcuni interruttori sul cruscotto. Ci fu uno scoppio di musica, dell'orribile Europop. Spensero, e li sentii ridere sommessamente. Non importava chi fossero e da quale parte stessero, alla fine della giornata avevano fatto un lavoro che fino a quel punto aveva avuto successo. Stavano allentando un po' la tensione. Non riuscii a capire se avevamo già raggiunto la curva, perché era una curva lunga e a una velocità così bassa non si riusciva a percepire. Ma era chiaro che stavamo salendo; entro non molto avremmo incrociato la strada principale. Ero affondato nella merda fino al collo, e non c'era una sola cosa che avrei potuto fare. 23 Procedemmo ancora qualche minuto prima di fermarci. Si udì il rumore del cambio di marcia e poi ripartimmo sterzando secco verso sinistra. Dovevamo essere sulla strada sterrata, e il fatto che avessimo svoltato a sinistra voleva dire che non saremmo passati davanti alla Saab: si trovava più in alto, sulla destra, verso la fine della strada. Sapevano già dov'era parcheggiata? Erano già sul posto la notte precedente e mi avevano visto effettuare la ricognizione per poi seguirmi? Questo pensiero mi fece preoccupare, ancora una volta, per Tom. Era possibile che non si fossero presi il disturbo di dargli una caccia serrata perché sapevano dov'era diretto. Non mi preoccupava tanto che fosse vivo o morto, mi preoccupava il fatto di non saperlo. Adesso procedevamo un po' più veloci. Lo schienale del sedile del passeggero davanti si mosse e cigolò sotto quello che sembrava un corpo molto pesante premendomi sulla faccia. Molto probabilmente stava cercando una posizione più comoda, con la cintura di sicurezza allacciata. La neve sugli indumenti dei tre seduti dietro si stava sciogliendo e l'acqua mi gocciolava nel collo. Non era il peggio che mi fosse capitato quella notte, ma era comunque perfettamente in linea con l'andamento della fortuna. Al momento non avevo modo di farci nulla, se non prepararmi all'azione allentando le tensioni e cercando di rilassarmi quel tanto che mi concedevano le tre paia di stivali Danner.
Il passeggero davanti sobbalzò improvvisamente sul sedile con un grido: «Che cazzo succede?» L'accento era inequivocabilmente americano. «Cristo! I russi!» Una frazione di secondo dopo il guidatore inchiodò. Alle nostre spalle si udì un fragore di metallo e vetri infranti e rimbombò un'arma automatica di grosso calibro. Il chiarissimo accento del New England e la raffica di colpi mi preoccuparono molto. Quando il nostro veicolo rallentò in derapata e si fermò dopo un testacoda sulla neve mi preoccupai ancora di più. Le portiere si aprirono di colpo. «Copriteli, copriteli!» Tutti si tuffarono fuori usandomi come trampolino e le sospensioni del mezzo sobbalzarono con violenza. D'un tratto mi sentii estremamente vulnerabile, incappucciato e ammanettato com'ero alla base dei sedili. Un veicolo è un bersaglio naturale per le armi da fuoco. Ma di quello che stava succedendo e di chi voleva che cosa e da chi, non m'importava niente. Era tempo di levarsi di mezzo. Il vento fischiava attraverso le porte aperte e il motore era ancora acceso. La sparatoria fra automatiche era a soli cinquanta metri di distanza. Una serie prolungata e fuori controllo riecheggiò dagli alberi. Era la mia occasione. Sollevai le mani ammanettate per cercare di togliermi il cappuccio, ma il laccio s'incastrò contro il mento. Stavo armeggiando con le dita quando dal fondo della strada sentii delle urla isteriche. L'unico vantaggio di aver lavorato con Sergej e la sua banda era che avevo imparato a riconoscere un po' di russo. Non distinsi le parole, ma capii da chi provenivano. Dovevano essere Maliskia. Se fossi riuscito a togliermi il cappuccio, il mio piano prevedeva di strisciare fin sotto al volante e partire a razzo. Stavo ancora lottando con la corda quando ricevetti un breve promemoria di tenere la testa abbassata. Il vetro di sicurezza fu sbriciolato da una raffica che attraversò il lunotto posteriore e colpì tutto quello che si trovava al di sopra della mia testa. Più o meno nello stesso momento due proiettili della stessa arma colpirono le lastre di granito al lato della strada producendo un rumore stridulo. Ancora urla, questa volta voci americane. «Ora!» «Avanti, andiamo, andiamo!» La mia 4x4 non sarebbe andata da nessuna parte, ma gli altri motori sali-
rono di giri, le portiere sbatterono e le ruote vorticarono nella neve. Riuscii a togliermi il cappuccio. Mi sollevai senza provare alcun dolore e cominciai a muovermi verso i sedili anteriori quando mi resi conto che non sarei andato lontano. A circa cinque metri di distanza, di fianco a una montagnola di granito, una figura in bianco stava puntando la sua SD al centro del mio bersaglio grosso. Ne ero sicuro perché vedevo l'impronta rossa del mirino laser sul mio giaccone. La testa coperta di nero mi urlò al di sopra dell'incubo che si stava svolgendo più in basso: «Immobile! Fermo! Fermo! Giù, giù, giù!» Cambiamento di piano. Con il laser sopra di me, l'unico problema che non avrebbe avuto era mancarmi. Ci furono ancora urla e grida frammiste al pesante fuoco dei russi. Mi appiattii più che potevo; fossi stato in grado di strisciare sotto il tappetino, l'avrei fatto. Adesso che avevo visto quello che stava succedendo alle mie spalle, mi sentii ancor più allo scoperto. Da ogni parte s'incrociavano fasci di luce, illuminando la neve che cadeva e gli americani che cercavano una via di fuga aggirando il furgone dietro la nostra 4x4. Era fuori dal sentiero, con la fiancata sinistra addossata a un albero; il guidatore doveva essere ancora seduto al volante, dato che riuscivo a sentire, e a vedere, la ruota anteriore che girava nel frenetico tentativo di far presa sul selciato. Le ombre dei corpi che si muovevano fra gli alberi aumentavano la confusione. Vidi i lampi del fuoco dei russi, che adesso giungevano da molto più indietro rispetto al convoglio. Si stavano ritirando. Il mio controllore dovette sentire un rumore fra gli alberi vicini. Sollevò l'arma e cominciò a sparare, esplodendo una serie di raffiche da tre colpi, rapide e secche. Rispetto ai grossi calibri dall'altra parte, l'effetto era patetico; armi di quel genere perdevano ogni efficacia sulla distanza. Per una SD anche venti metri erano troppi. «Non ti muovere!» Il ragazzo doveva cambiare caricatore. Lo osservai mentre si sfilava il guanto con i denti, tenendomi sempre gli occhi puntati addosso. Nel momento in cui si tolse il guanto, riuscii a distinguere, alla luce dei fari, il bianco della seta del guanto di contatto. Il caricatore vuoto finì a terra, davanti alla tuta bianca. Ne prese un altro dal cinturone e lo inserì. Quindi azionò la levetta di sgancio, cosa dalla quale dedussi che usavano il modello di SD più recente, ulteriore indicazione che facevano parte di una formazione regolare. Tutto troppo efficiente. Almeno per il momento non sarei riuscito a scappare. Aveva una P7 nella fondina e la sua abilità con le armi
era fuori discussione. Anche se si trovava sotto tiro, non mi concedeva nessuna possibilità d'azione. Abbassai la testa e rimasi immobile. Le ruote dei furgoni stridevano slittandoci accanto, l'innamorato dell'albero per primo, vetri infranti e buchi ovunque nella carrozzeria, imballando un po' troppo il motore nel tentativo di acquistare velocità. Il gruppo del nostro furgone forniva fuoco di copertura consentendo agli altri di allontanarsi dalla zona di pericolo. La voce del New England fu di nuovo a portata d'orecchio. «Muoversi, muoversi. Via, andiamo, andiamo, andiamo!» Il mio controllore avanzò, sempre tenendomi sotto tiro. Saltò sul furgone e mi piantò i talloni nella schiena e la pistola nel collo. La canna era calda e sentii odore di cordite e quello oleoso del WD40. Probabilmente aveva ingrassato l'arma per proteggerla dalle intemperie e adesso quella roba si era surriscaldata. L'ultima cosa che riuscii a vedere era lui che prendeva il cappuccio e me lo ricacciava sulla testa. Saltarono dentro anche tutti gli altri e il veicolo prese a ondeggiare come una barca. Sentii ingranare la marcia e quindi iniziammo a muoverci più veloci del dovuto, tanto che le ruote slittarono nel tentativo di riprendere la strada. Vennero sbattute le porte e subito dopo fui investito da una corrente d'aria proveniente dall'alto. Si stava aprendo il tettuccio elettrico e un momento dopo sentii il clic-tud, clic-tud, clic-tud e un urlo: «Beccatevi questo! E questo! E questo!» La voce del New England accompagnava gli spari attraverso l'apertura. Non mi giunse all'orecchio nessuna risposta da parte dei russi. Un altro si voltò e aprì il fuoco attraverso il lunotto posteriore, aggiungendo buchi al vetro di sicurezza. Clic-tud, clic-tud, clic-tud. I bossoli volavano contro il finestrino laterale con un ping-ping-ping metallico e ricadevano rimbalzandomi sulla testa. Dal tetto entravano spire d'aria ghiacciata. Poi ronzò un motore e il flusso d'aria s'interruppe. «Qualcuno è stato colpito?» «Io non ne ho visti.» La frase proveniva dal retro. «Se ce ne sono, sono sui mezzi. Fuori non è rimasto nessuno.» Ricevetti un colpo sulla testa. «'Fanculo i russi! E tu chi ti credi di essere, eh?»
Il passeggero davanti era, senza ombra di dubbio, il comandante. A giudicare dall'accento si sarebbe trovato meglio sul palco arancione di un comizio elettorale dei democratici del New Hampshire piuttosto che in mezzo a quel brutto casino in Finlandia, ma per fortuna sembrava cavarsela piuttosto bene. E io ero ancora vivo. Ci fu una pausa, forse mentre riordinava le idee e poi: «Bravo, Alfa». Doveva essere in rete, gli auricolari inseriti. «Situazione?» Gli altri tacquero. Operatori bene addestrati sanno che è preferibile non parlare quando qualcuno è in collegamento. Il Democratico si lasciò sfuggire un'imprecazione. «Merda, hanno beccato il mezzo di Bravo.» Rientrò in rete: «Roger, avete distrutto tutto?» Dopo cinque secondi di silenzio replicò in tono depresso: «Roger, Bravo». Si rivolse alla squadra all'interno della macchina. «Quei figli di puttana hanno parte dell'hardware. Merda!» La squadra non rispose e il Democratico riprese il controllo prima di collegarsi di nuovo. «Charlie, Alfa... situazione?» Chiamò tutti i segnali. Erano quattro: Bravo, Charlie, Delta ed Eco. Quante persone corrispondevano a ogni segnale non lo sapevo, ma alla casa mi erano sembrati un esercito. A quanto sembrava, l'operazione era stata un macello per tutti. Io catturato, Tom disperso; gli americani e i Maliskia in possesso solo di una parte degli apparecchi che volevano; per non parlare dei tre cloni di Tom nella casa. Loro ce l'avevano nel culo più di tutti noi messi insieme. Lo scambio radio non era avvenuto in codice, il che significava che utilizzavano collegamenti sicuri, probabilmente satellitari, non come i miei Motorola all'Intercontinental. Mentre trasmettevano, radio del genere saltavano attraverso dozzine di frequenze diverse, in una sequenza che solo radio dotate dello stesso patrimonio di codici che oscillavano alla stessa velocità e frequenza erano in grado di riconoscere. Tutti gli altri si riempivano le orecchie di poltiglia. Doveva aver ricevuto un messaggio da Eco. «Okay, roger, Eco. Roger.» Si voltò verso i tipi in nero. «Hanno beccato Bobby a una gamba. Ma va tutto bene, è tutto sotto controllo.» Da dietro si alzò un sospiro di sollievo. Si voltò e sentii la stoffa premere sulla faccia. «E questo buco di culo respira ancora?» Il mio controllore rispose: «Oh, sì». Mi riservò un altro trattamento con il tacco aggiungendovi un insulto con accento texano.
Mi esibii in un lamento di conferma molto russo. Il culo del comandante ruotò di nuovo e la mia testa si mosse di conseguenza. Tornò in rete. «A tutte le stazioni, qui Alfa. Proseguire come stabilito. Il mio gruppo trasporta passeggeri extra. Ricevuto.» Immaginai che fosse in ascolto degli altri segnali, in cuffia. «Bravo.» «Charlie, roger.» «Delta, roger.» «Eco, roger.» «Passeggeri extra» dovevo essere io. Tutto quello che mi sarebbe successo da quel momento in poi dipendeva dal Democratico. Procedemmo in silenzio per altri venti minuti, sempre sulla strada asfaltata. Da una mia stima non ci eravamo allontanati molto; non potevamo essere andati troppo veloci a causa della forte nevicata. Il Democratico tornò in rete. «Papa Uno, Alfa.» Ci fu una pausa mentre lui ascoltava. «Nessuna notizia da Super Sei?» Di nuovo silenzio, poi: «Roger, aspetterò». «Papa Uno» e «Super Sei» non sembravano nomi di segnali. Di solito sono brevi e incisivi, per diminuire la possibilità di equivoci quando la merda è alta e le comunicazioni non sono buone, eventi che normalmente vanno a braccetto. Dieci minuti dopo il Democratico era di nuovo in rete. «Alfa.» Rispondeva a qualcuno. Ci fu silenzio, poi: «Roger, i segnali di Super Sei non rispondono». Dopo una pausa di un paio di secondi, annunciò: «A tutte le stazioni, a tutte le stazioni. Okay, procedere secondo il piano strada; i passeggeri extra proseguono con me. Ricevuto». Mentre registrava le conferme di ricevuto dagli altri segnali, non aggiunse altro. Per lo meno anche questa gente si stava sciroppando la giusta dose di merda quotidiana. Il segnale Super Sei doveva essere di elicotteri o aerei che non potevano alzarsi con quel tempo. Con un tempo migliore ci avrebbero portato via in volo, con aerei pilotati da dipendenti della loro Ditta. Nove su dieci sono piloti civili con lavoro di facciata come piloti commerciali, in modo da avere solide storie di copertura. Avrebbero volato con i dispositivi per la visione notturna, e magari ci avrebbero tirato su tutti, o per lo meno attrezzatura, feriti e prigionieri, e sarebbero schizzati via fino a una base americana. Oppure, in caso di elicotteri, sarebbero atterrati su
una nave militare americana nel Baltico, dove computer e operatori sarebbero stati separati e consegnati a chiunque fosse tanto ansioso di riceverli. Se non fossi riuscito a togliermi in fretta dalla merda e a fuggire sarei atterrato insieme con loro in un «centro di accoglienza» americano. In passato ne avevo visto qualcuno; il livello delle stanze andava dalla cella umida e gelida di un metro per tre fino all'appartamento virtualmente indipendente, a seconda di quello che veniva ritenuto il modo migliore per ottenere informazioni da «passeggeri» come me. Non importa che idea ne avevi, erano centri per interrogatori, ed era a discrezione dagli inquirenti -CIA, NSA, chiunque fossero - processarti con le buone o con le cattive. Che si fottessero, i ragazzi della pizza, quello che gli era successo non m'importava un accidenti. Ma adesso ero un Maliskia e sarei finito direttamente nell'angolo di una cella uno per tre. Per il momento non c'era niente che potessi fare. Potevo solo sperare che mi si presentasse una possibilità di fuga prima che scoprissero chi ero. 24 Procedemmo lentamente per altri venti minuti. Dal punto di vista fisico restare rannicchiato sul pavimento del furgone era doloroso, ma non era niente rispetto alla depressione che mi prendeva al pensiero di quello che mi riservava il futuro. «Papa Uno, Alfa in blu uno.» Il Democratico era di nuovo in rete. Papa Uno doveva essere la base operativa. Il Democratico gli stava comunicando le tappe di avvicinamento, in modo che Papa Uno conoscesse l'esatta posizione del gruppo. Dopo circa un minuto curvammo bruscamente a destra. «Papa Uno, Alfa in blu due.» Sentivo il fruscio della manica del guidatore che armeggiava con il volante, e il rumore delle ruote mi confermava un misto di asfalto e neve. Un'altra secca svolta a destra e la mia testa andò a stamparsi contro la portiera. Quindi passammo sobbalzando su quello che sembrava un difensore di hockey sdraiato, e procedemmo per altri trenta metri, più o meno, prima di fermarci del tutto. Il Democratico uscì lasciando la portiera aperta. Altri veicoli ci oltrepassarono e si fermarono intorno a noi. Lo stridere delle ruote su una superficie asciutta mi disse che ci trovavamo al coperto e, a giudicare dal rimbombo dei motori, in un ambiente ampio e cavernoso.
I tre sopra di me iniziarono a uscire. Ovunque motori ancora accesi e aprirsi di portiere. Uscivano e si muovevano in giro, ma senza parlare. Poi si aggiunse lo sferragliare di una saracinesca metallica abbassata a mano. Di qualsiasi tipo di edificio si trattasse, non sprecavano soldi nel riscaldamento. Forse era un hangar, cosa che avrebbe avuto senso se dovevamo essere trasportati da un aereo a elica o da un elicottero. O forse si trattava soltanto di un vecchio deposito. Attraverso il cappuccio non vedevo luci di sorta. I gas di scarico stavano rendendo l'aria irrespirabile. Dopo che le tre paia di stivali mi ebbero usato come trampolino di lancio per uscire dal veicolo, un paio di mani mi afferrò le caviglie e iniziò a trascinarmi fuori, i piedi in avanti. Superai la soglia della portiera e dovetti slanciare le mani in avanti per proteggermi nella caduta libera da circa mezzo metro d'altezza. La superficie di atterraggio era cemento asciutto. Intorno a me ci furono molti movimenti e gli stessi rumori che avevo sentito nella casa, come quello dei cavi elettrici trascinati. Stavano scaricando l'attrezzatura. Udii il suono riconoscibilissimo del metallo contro il metallo: erano i carrelli delle armi che scorrevano e i colpi espulsi che rientravano nei caricatori. Mi ruotarono sulla schiena e lasciarono andare i piedi che ricaddero pesantemente sul pavimento. Emisi un gemito molto russo. Due paia di stivali mi girarono intorno alla testa. Venni sollevato per le ascelle e trascinato in avanti. I miei piedi strisciavano sul terreno, urtando le asperità e le buche per terra e di tanto in tanto pezzi di mattoni e altri detriti solidi. Probabile che ai due che avevo di fianco dessi l'impressione di essere completamente privo di forze, ma a livello di cellule cerebrali ero concentrato a immagazzinare ogni informazione sensoriale su quello che mi scorreva intorno. Superai un furgone e anche attraverso il cappuccio riuscii a percepire l'aroma di caffè: evidentemente avevano aperto i thermos preparati per la fine missione. Passammo davanti a gemiti di dolore trattenuti, accompagnati da respiri brevi e accelerati. Sembrava una donna. Intorno a lei c'erano degli uomini. «Okay, facciamogliene ancora un po'.» A quanto pareva, il Bobby del segnale radio di Eco era una donna. Le stavano iniettando dei fluidi e le medicavano la ferita da arma da fuoco. Continuammo ad avanzare. I miei piedi trascinavano pezzi di legno, lattine, giornali; i loro, di tanto in tanto, schiacciavano bicchieri di plastica. Riconobbi il rumore del velcro. Fui spostato di fianco per passare una por-
ta. Quando la porta si richiuse, mi fecero girare a destra. I ragazzi della pizza erano già arrivati e i loro gemiti e grugniti riempivano una stanza che sembrava molto più piccola di quella precedente. I lamenti che si accavallavano uno sull'altro la rendevano simile a una camera delle torture medievale e, nonostante il freddo, il locale puzzava di marcio e abbandono. Ancora un paio di passi e ci fermammo; mi resi conto che gli altri ospiti venivano presi a calci ed era per questo che si lamentavano. Sentii gli stivali entrare in contatto con i corpi accompagnati dai grugniti dei calciatori. Venni sbattuto per terra e incassai la mia dose di calci. I lamenti e i singhiozzi provenivano dalla mia destra e adesso sembravano zittirsi uno alla volta. Non eravamo tutti nella stessa stanza; immaginai che fossimo chiusi dentro armadi o sgabuzzini. Nel momento in cui andai a sbattere la testa contro la tazza del water, compresi dove mi trovavo: in un cesso. Quando i ragazzi vennero costretti, non certo con le buone, a entrare nei nuovi alloggi, ci furono altre urla e altri grugniti. Non avrei saputo dire cosa fosse peggio, le urla di chi i calci li riceveva o l'assoluto silenzio di chi li sferrava, sfruttando al meglio i lamenti per spargere merda su tutti. Guidato dai calci, m'infilai strisciando nell'angolo all'estrema destra dello stanzino, finché non approdai a un cumulo di detriti che sembravano vecchi di anni. Sentii della carta, secca e friabile come frammenti sottili di pane azzimo. Con un altro paio di calci mi ritrovai con la schiena contro un muro di mattoni e lo stomaco contro la tazza del cesso. Tenevo la testa bassa e le ginocchia sollevate per proteggermi, stringevo i denti in attesa del peggio. Invece mi afferrarono le mani e le sollevarono in aria; la plastica stringeva sempre di più perché i polsi si stavano gonfiando. Sentii che le manette venivano tagliate con un coltello. Il braccio sinistro venne ammanettato al tubo di scarico dietro il water, poi afferrarono l'altro braccio e lo fecero passare sotto; adesso avevo una mano per parte. Non aveva senso opporre resistenza, avevano il controllo totale su di me. Non potevo fare niente, se non risparmiare energie. Mi unirono i polsi. Tesi i muscoli dell'avambraccio, cercando d'ingrossarli più che potevo. Comparvero le manette. Sentii scorrere gli ingranaggi e la pressione quando vennero bloccate. Al momento giusto emisi un lamento. Volevo dare l'impressione di essere terrorizzato e sconvolto come i ragazzi della pizza. Se ne andarono sbattendo la porta. Provai a posare la testa sul tubo ma era di un freddo insopportabile. Se
dentro c'era ancora dell'acqua doveva essere ghiacciata. Stavo lì, fra detriti e spazzatura, alla ricerca di una posizione più comoda, ma il freddo del pavimento continuava ad attraversarmi i vestiti. Quando la pesante porta che portava all'hangar venne richiusa, ci fu un cigolio lungo e prolungato. Poi calò il silenzio, anche da parte dei ragazzi della pizza. L'acqua nei tubi non scorreva, era troppo freddo, non sentivo neppure il rumore di veicoli. Niente, tranne il silenzio nero come la notte. Un paio di secondi dopo, come se tutti avessero trattenuto il respiro in attesa che gli uomini dei cessi se ne fossero andati, i lamenti e i singhiozzi da sotto i cappucci ricominciarono all'unisono; poi i ragazzi presero a balbettare qualche parola in finlandese, cercando di farsi coraggio l'un l'altro. Sembravano molto spaventati. Cambiai posizione nel tentativo di allentare la pressione sui polsi, provando a scoprire se quel paio di millimetri guadagnati indurendo i muscoli mi consentiva di muovere i polsi nelle manette. Allungai le gambe e urtai contro quella che sembrava una lattina vuota. Il rumore che fece sfregando contro il cemento mi accese una lampadina nella testa. Dimenando il capo la feci passare oltre il tubo di scarico. Adesso poggiava sulle mani. Tastando con i denti attraverso il cappuccio, riuscii ad afferrare il guanto destro. Lo sfilai con una certa facilità e lo feci cadere a terra, lasciando però il guanto di contatto. Spostai la testa in avanti in modo da portare le dita alla base del cappuccio e iniziai a trafficare. Ormai sapevo che il cappuccio era chiuso da un laccio che stringeva alla base. Non ci volle molto e anche quello scivolò a terra. Fatica sprecata. Lo stanzino era completamente buio e, privo del cappuccio, avevo freddo alla testa. Il naso iniziò a colarmi quasi subito. Mi allungai in avanti il più possibile per poter usare le mani e cominciai a tastare il terreno. Con le dita iniziai un esame scrupoloso fra bicchieri di carta e vari tipi di rifiuti finché non trovai quello che cercavo. Risistemai il corpo intorno alla tazza del water in modo da mettermi comodo, poi, con i denti, sfilai l'altro guanto esterno. Avevo ancora indosso i guanti di contatto e con pollici e indici premetti il metallo della lattina finché i lati non s'incontrarono nel centro. Poi cominciai a piegare avanti e indietro le due parti. Dopo cinque o sei volte il metallo si ruppe e le due metà si separarono. Individuai quella con la linguetta e lasciai cadere l'altra vicino ai guanti e al cappuccio.
Tastando con attenzione il bordo spezzato, cercai un appiglio da cui cominciare a sbucciare la superficie verso il basso, come se fosse un'arancia. Avevo le dita gonfie e quasi prive di sensibilità, ma i guanti di contatto trattennero l'alluminio e trovai quello che cercavo. Cominciai a tirare e strappare. Le dita scivolarono un paio di volte e mi tagliai sul bordo del metallo, ma non c'era tempo per preoccuparsene. Del resto non sentivo quasi dolore e comunque era nulla rispetto a quello che avrei sentito se non fossi riuscito a fuggire. Quando ebbi tagliato il metallo in verticale fino a due centimetri dal bordo della lattina, dal lato dell'anello di strappo, cercai di allargare al massimo i polsi. Non ottenni molto perché le manette di plastica sono progettate per non allungarsi, ma avevo comunque abbastanza gioco da poter fare quello che volevo. Con la mano destra strinsi a coppa la lattina, tenendo il bordo tagliente rivolto in alto. Quindi la piegai verso il polso, cercando di raggiungere la plastica. Se avessi lasciato sporgere di più la lattina avrei guadagnato centimetri, ma sotto la pressione il bordo si sarebbe facilmente piegato. Anche per questo motivo avevo scelto il lato dell'anello: il bordo più spesso conferiva maggiore robustezza alla superficie d'incisione. Sapevo che riuscire a tagliare le manette avrebbe richiesto un tempo lunghissimo, ma se fossi riuscito a intaccare la plastica potevo farcela. Ci volle un paio di minuti perché la lattina frastagliata riuscisse a fare presa; poi, quando ero a circa tre quarti del lavoro, sentii il cigolio della porta che veniva aperta. Attraverso la fessura di circa cinque centimetri sotto la porta del cubicolo filtrarono luce e rumore di motori. Sentii degli stivali che passavano sulla spazzatura diretti verso di me. La luce si fece più forte e iniziai ad agitarmi. Lasciai cadere la lattina e frugai alla ricerca del cappuccio. Quando fu di nuovo al suo posto, cercai i guanti. Non ci riuscii, ma proprio mentre cominciavo a contrarre la mascella per prepararmi all'inevitabile, i passi proseguirono oltre. Udii le porte accanto aprirsi a calci e i ragazzi venire trascinati fuori e malmenati nonostante la loro litania di implorazioni in inglese. Durante il contatto dovevano aver sentito parlare gli americani, perché avevano smesso di implorare in tutte le lingue del mondo. Furono sbattute delle porte e subito dopo riconobbi i piedi che venivano trascinati per terra oltre il mio cubicolo. Dopo pochi momenti la porta si richiuse e di nuovo calò il silenzio. Tastai alla ricerca della lattina, senza preoccuparmi di togliere il cappuc-
cio. Tanto non avrei visto niente lo stesso. Ripresi a lavorare con maggiore energia; era prevedibile che di lì a poco sarebbero tornati per me. Dopo due o tre minuti passati a segare in modo frenetico, la plastica cedette. Tolsi il cappuccio, cercai i guanti e li infilai in tasca, lasciando solo i guanti da contatto. Poi localizzai l'altra parte della lattina. Mi alzai lentamente in piedi provando la gioia di essere di nuovo in verticale. Tastai lo stanzino. Trovai la maniglia della porta, la aprii e camminai con estrema cautela in quello che scoprii essere uno stretto corridoio con pareti in mattone. A circa tre metri, sulla sinistra, da sotto la porta proveniva un debole barlume. Sollevando e abbassando i piedi con infinita attenzione e appoggiandomi al muro con la mano sinistra, arrivai sino alla fonte di luce. Mentre mi avvicinavo, riuscii a sentire un motore che accelerava e poi iniziava a muoversi. Arrivai alla porta ma non trovai una toppa attraverso cui guardare, così, scostando i detriti sul pavimento, m'inginocchiai. Quando la saracinesca venne alzata ci fu un rumore di catene. Mi domandai se i ragazzi della pizza non stessero partendo per un giro fuori città. Sdraiato a terra sul fianco destro, riuscii a mettere un occhio alla base della porta. Dalla tasca presi la parte di fondo della lattina che non avevo ancora modificato. Utilizzando la luce per cercare un punto dal quale cominciare a staccare il metallo, iniziai a lavorare e a guardare attraverso lo spiraglio. Avevo visto giusto: era un hangar o un magazzino. Era molto buio, illuminato solo in qualche punto con lampade fluorescenti lunghe circa trenta centimetri, quelle che usano i campeggiatori. Alcune erano appoggiate sui cofani dei furgoni e altre venivano portate in giro. Le chiazze di luce bluastra e le ombre rendevano l'ambiente simile al set di Ai confini della realtà. Sull'estrema sinistra, a circa quaranta metri di distanza, era parcheggiata una fila di mezzi, berline, familiari, monovolume e fuoristrada alcuni dei quali con i portasci carichi. Il pollice scivolò sul bordo della lattina affilata. Ancora non riuscivo a provare dolore, ma almeno mi stava tornando un po' di sensibilità nelle mani. Aghi e spilli avevano cominciato a farsi strada nelle dita, mentre continuavo a sbucciare all'indietro il metallo. Guardai dritto davanti a me verso l'uscita, la mia unica via di scampo. Poi controllai le persone che avrebbero provato a fermarmi. Si trovavano
quasi tutti intorno ai due furgoni parcheggiati al centro dell'hangar. Un gruppetto di cinque o sei stava scaricando le armi e togliendo le tute bianche che venivano gettate in casse tipo Lacon, container di alluminio per spedizioni via aerea. Avevano fretta, ma non erano agitati. Nessuno parlava, tutti sembravano sapere quello che dovevano fare. Quando uno di loro compì un mezzo giro su se stesso, mettendosi di profilo, mi resi conto che Bobby non era l'unica donna dell'azione. Mentre continuavano a disfarsi dell'equipaggiamento, capii da dove proveniva il rumore di velcro: la donna stava slacciando le cinghie laterali di un giubbotto antiproiettile prima di ammucchiarlo nelle casse insieme con il resto. In un altro gruppo, circa otto persone avevano già tolto la tuta bianca e stavano tirando fuori dalle sacche gli abiti civili. Altri si stavano pettinando davanti agli specchietti laterali, nel tentativo di darsi l'aspetto da normali cittadini. Riuscii a vedere un pezzetto della 4x4 su cui avevo viaggiato, il vetro posteriore bucherellato dai fori dei proiettili. Oltre al mio, scorsi le sagome degli altri mezzi usati durante il lavoro, che con ogni probabilità sarebbero stati abbandonati. I segni provocati dalle automatiche non erano la migliore personalizzazione da esibire ai semafori. Non riuscivo a vedere traccia dei computer. Ne dedussi che li avevano già spostati con i ragazzi della pizza e molto probabilmente insieme con Bobby e il tipo con l'uncino nella gamba che avevano bisogno di cure appropriate. Le condizioni atmosferiche dovevano aver bloccato l'emorragia e la destinazione successiva sarebbe stata un posto tranquillo all'interno dell'ambasciata americana. Da lì, l'attrezzatura sarebbe stata inviata con borsa diplomatica negli Stati Uniti. Le borse diplomatiche sono di solito sacchi di posta o contenitori cui, per reciproci accordi, gli altri governi non hanno accesso. Questo significa che possono contenere qualsiasi cosa, da documenti delicati ad armi, munizioni, cadaveri. Mi avevano raccontato la storia di un servizio segreto che aveva trasportato con questo mezzo l'intera torretta di un nuovo modello di carro armato russo, evidentemente in un contenitore gigantesco. I ragazzi della pizza sarebbero stati condotti all'ambasciata o in un altra casa sicura finché, il giorno dopo, un elicottero non li avrebbe trasportati fuori del Paese. A meno che in porto non ci fosse una nave da guerra. Se non prendevo in mano la situazione, presto li avrei seguiti. Ormai erano tutti senza tuta, con indosso jeans, piumini e berretti. La
donna si stava ancora occupando del carico dei Lacon. Quando le casse vennero sistemate all'interno dei furgoni, un forte clangore scosse l'hangar. Il direttore delle operazioni era un uomo di cui non riuscivo a distinguere la faccia da quella distanza, ma era il più alto del gruppo, circa un metro e novanta, di una testa sopra gli altri. Richiamò tutti intorno a sé e impartì gli ordini. Distinsi molti cenni di assenso, ma la voce non era abbastanza alta da poter afferrare che cosa stava dicendo. Finito il rapporto, si udirono le portiere dei due furgoni sbattere, ed entrambi i motori salire di giri. Quindi si avviarono. I fari illuminarono il gruppo che si voltava verso la saracinesca. Nel momento in cui le catene vennero azionate, tastai il bordo della mezza lattina che tenevo in mano. Non stavo facendo un gran lavoro perché non mi stavo concentrando abbastanza. Guardai la squadra del Democratico che si dirigeva verso i mezzi muovendosi come gli equipaggi ai loro caccia, le lampade che gli dondolavano nelle mani. Probabilmente si sarebbero divisi e avrebbero fatto quello che dovevano, forse nell'identico modo che avevano usato per entrare nel Paese. A quel punto si erano completamente sterilizzati da ogni implicazione nell'azione. Avevano documenti e perfette storie di copertura e, con certezza, non erano più armati. Dovevano limitarsi a tornare agli chalet o agli alberghi come se avessero passato la notte fuori a divertirsi, cosa che non era poi così lontana dal vero. Non avevano avuto morti. Altri motori avviati, porte sbattute e fari accesi. Vedevo i gas dei tubi di scappamento. Sembrava la griglia di partenza di un Gran Premio. Dei veicoli abbandonati si sarebbero presi cura quelli dell'ambasciata. La loro priorità era andarsene da lì adesso che l'attrezzatura e i ragazzi della pizza erano al sicuro, in viaggio. Il loro unico problema era un piccolo extra: io. Ebbi l'impressione che fossero il Democratico e un'altra donna ad assumersi questa responsabilità. Le vetture si stavano allontanando, ma loro erano ancora a terra. La donna si spostava trascinando sul pavimento una coppia di cavi da batteria, ormai perfettamente calata nella parte della vacanziera. Nulla veniva lasciato al caso. Una volta all'esterno, le auto si fermarono ad aspettare sulla sinistra, le luci rosse degli stop perfettamente allineate. Nevicava ancora. Adesso, grazie ai fari delle auto che squarciavano il buio, avevo un'ottima visibilità. Ben presto rimase ferma una macchina, motore e fari accesi. Il Demo-
cratico era seduto di traverso al posto di guida, i piedi che poggiavano per terra. Il bagliore della sua sigaretta diventava più intenso quando aspirava. La luce interna era accesa e riuscii a distinguere una testa dai capelli ricci. Dopo aver gettato i cavi per la batteria sul sedile posteriore, la donna scomparve nel buio. Finii di preparare la lattina. Il sangue sulle dita era freddo e impregnava i guanti di contatto. Buon segno. Nelle mani era tornata la sensibilità. Per qualche momento tutto fu tranquillo, solo il fruscio del motore, poi, quando la saracinesca si richiuse, sferragliarono le catene. La donna riemerse dal buio e si piegò verso la sigaretta accesa. I capelli che le coprivano la faccia m'impedirono di distinguere i lineamenti. Parlarono per qualche momento, poi lui si voltò all'interno dell'auto per spegnere la sigaretta nel portacenere. Era troppo professionale per lasciare sul pavimento elementi per l'analisi del DNA. Nel frattempo lei si era spostata sul retro e stava aprendo il bagagliaio. Il Democratico iniziò a camminare nella mia direzione. Le sue lunghe gambe si stagliarono contro i fari. Con un guizzo di luce bianca, la lampada a fluorescenza che reggeva nella mano sinistra si accese. Riuscii a vedere che aveva indossato nuovamente il passamontagna. Osservai la mano destra che s'infilava sotto il cappotto e ne usciva con una P7 che venne riposta in tasca. Il mio corpo si paralizzò. Stava venendo a uccidermi. Cercai di recuperare il controllo. Impossibile, non volevano uccidermi. Altrimenti perché si sarebbero presi la briga di portarmi fin lì? E che bisogno avrebbe avuto di nascondere l'identità con il passamontagna? Si stava solo cautelando nel caso fossi riuscito a togliermi il cappuccio. L'auto si stava muovendo lentamente in avanti, sempre con il bagagliaio aperto. Il Democratico si trovava a circa dieci metri dalla porta. La luce che teneva con la sinistra continuava a ondeggiare. Dovevo mettermi in movimento, altrimenti avrei ricevuto lo stesso trattamento che avevo somministrato a Val la settimana prima. Mi alzai in piedi e mi spostai a destra della porta, lontano dai cessi, agitato all'idea di attaccare un individuo di quelle dimensioni. Tutte quelle storie, più sono grossi e più rumore fanno quando cadono, sono miti, anzi stronzate. Più sono grossi e più forte ti picchiano. Non avevo idea di quanto fosse lungo il corridoio, ma lo scoprii in fretta. Feci quattro passi e sbattei sul muro di fondo. Mi voltai, girato verso la porta, tolsi dalla tasca l'altra metà della lattina, e cominciai a inspirare pro-
fondamente per riempirmi di ossigeno. La porta si aprì con un colpo che fece scricchiolare i cardini. Per un attimo la zona fu inondata di luce bianca e brillante. Sentii il rumore dell'auto che si muoveva in retromarcia. Il Democratico aveva girato verso sinistra. Mentre muoveva i primi passi verso il cesso dove mi trovavo prima, vidi la sua schiena imponente. La porta si richiuse e io mi spostai velocemente; non proprio di corsa, perché non volevo inciampare, ma a passi lunghi e rapidi, per acquisire slancio, il braccio destro alzato. Con la porta chiusa e il motore acceso, la donna non avrebbe sentito nulla. Ma sentì lui, e quando ero ancora a un paio di metri, si voltò. Spiccai il salto concentrandomi sulla sagoma della testa. Atterrai con il piede sinistro in avanti, torcendo a sinistra l'intero corpo, il braccio destro piegato e il palmo aperto. A volte una sberla a mano aperta impressa con forza sulla faccia è più efficace di un pugno, e se nella mano si ha una lattina spezzata e affilata come un rasoio, l'effetto è garantito. Colpii alla testa con forza. Non m'importava dove colpivo, m'importava solo colpire. Ci fu un urlo fortissimo. Non sentii la lattina sprofondare, solo la pressione del braccio bloccato a metà movimento mentre il resto del mio corpo continuava a ruotare. La lampada cadde per terra e la luce cominciò a danzare. Cadde anche il Democratico. Mi voltai verso destra con il braccio sinistro appena piegato, sempre mirando alla testa. Colpii nel segno; sotto la lattina di sinistra riconobbi la morbidezza della guancia. Poi la sentii raschiare intorno al contorno della mascella. Urlò ancora, questa volta più forte e a causa di un dolore più forte. Era in ginocchio. Con la destra lo colpii sulla testa dall'alto in basso. Gli spigoli metallici scavarono in profondità fino a raggiungere l'osso, strappando indietro la pelle mentre lui cadeva. Intagliai un solco profondo nello scalpo; la lattina tenne per altri cinque centimetri e poi si spezzò. Crollò a terra, annaspando con le mani nel tentativo di proteggersi la testa. Per qualche altro frenetico secondo continuai a sfregiare mani e cranio, poi le mani gli ricaddero da parte e lui rimase immobile. Non stava fingendo: non avrebbe rischiato di far cadere le mani esponendosi ad altri attacchi. Era in stato di shock, ma respirava ancora. Non era morto. Non avrebbe mai fatto il modello per la Gillette, ma sarebbe rimasto in vita. Non avevo avuto altra via d'uscita. Se devi fermare qualcuno, devi farlo con il massimo della velocità e della violenza che ti è possibile.
Dal pavimento la luce fluorescente rovesciò una pozza di luce sul passamontagna. La lana sembrava incredibilmente intatta, come quando un maglione si strappa e lo strappo sembra che si unisca da solo, se non guardi da vicino. Attraverso la lana il sangue sgocciolava. Lasciai cadere la lattina, lo girai sulla schiena, gli affondai un ginocchio sulla faccia, peggiorando la sua situazione. Tirai fuori la P7 e trovai un telefono. Il telefono finì in tasca. Adesso il mio respiro era molto veloce e poco profondo, appena più forte del fruscio del motore vicino alla porta. Sotto lo spiraglio della porta vidi le luci rosse posteriori e il naso mi si riempì di gas di scarico. Mi alzai, afferrai il passamontagna per la cima, lo tirai via e fui in grado di verificare l'entità dei danni che avevo provocato. Dove la lattina aveva attraversato la guancia i solchi erano piuttosto ampi e sopra la bocca pendevano lembi di pelle ripiegata. Attraverso l'impasto di capelli e sangue che gli ricopriva il cranio s'intravedeva l'osso. Mi calai il passamontagna sul volto, nel tentativo di diminuire le possibilità di essere riconosciuto in futuro. Era umido e caldo. Tra i suoi deboli lamenti lo perquisii alla ricerca di una radio. Non trovai niente; il piano prevedeva di non conservare prove, e lui aveva fatto come tutti gli altri. Aveva tenuto la P7 solo per occuparsi di me. Mi voltai verso la porta. Adesso toccava alla donna. Spinsi la porta e mi trovai nel mezzo di una nuvola di fumo arrossato dalle luci degli stop. Il mezzo si trovava a non più di un metro, il motore al minimo, il bagagliaio aperto che mi aspettava. Mi diressi sul lato sinistro. La porta si chiuse sbattendo alle mie spalle. Sollevai la pistola e la puntai al volto della donna, la canna a trenta centimetri dal finestrino. Se avesse aperto la portiera, non sarebbe riuscita ad allontanare la pistola con la velocità necessaria per poter intervenire; se avesse tentato di spostarsi in avanti con l'auto, sarebbe morta al primo colpo. Fissò la canna con gli occhi spalancati sotto il cappello da sci multicolore. Al chiarore del cruscotto vidi che cercava di dare un senso a quello che i suoi occhi le comunicavano. Non ci avrebbe messo molto; i miei guanti di contatto impregnati di sangue e la maschera del Democratico le avrebbero fornito gli indizi necessari. Con la mano sinistra le feci cenno di uscire. Si supponeva che fossi un russo e non avrei aperto bocca se non fosse stato indispensabile. Continuava a fissarmi, paralizzata. Fingeva: alla prima opportunità mi avrebbe steso.
La portiera si aprì piano e mi spostai un altro po' all'indietro. Decisi di usare un accento slavo. O per lo meno quello che io ritenevo tale. «Pistola, pistola!» Mi fissò con gli occhi spaventati e con voce da bambina disse: «Ti prego non farmi del male. Non farmi del male». Quindi divaricò le gambe per mostrarmi la P7 nascosta fra le cosce coperte dai jeans. Era chiaro che volevano viaggiare puliti, altrimenti in quella fase avrebbero avuto pistole convenzionali. Le feci capire di lasciarla cadere a terra. Spostò la mano con molta lentezza. Non appena l'ebbe fatta cadere, mi spostai, la afferrai per i capelli castano scuro, lunghi fino alle spalle, la costrinsi a uscire dall'auto e a mettersi carponi. Con la P7 premuta sul collo, cercai un cellulare. Sembrava che l'unico fosse in mio possesso. Feci tre passi indietro, indicai il muro in fondo, dove poco prima era posteggiata la macchina, lei si alzò e vi si diresse. Adesso che era disarmata, non m'importava quello che faceva. Le radio erano state tutte nascoste, il cellulare lo avevo io e non c'era nessuno cui chiedere aiuto. Entrai nel caldo dell'auto, una Ford, ingranai la prima e schizzai verso la saracinesca chiusa. Probabilmente si trovava già nel corridoio alla scoperta di quello che era successo al suo amico Democratico. Mi fermai di fianco ai quattro furgoni e alla 4x4 bucherellata. Uscii con una P7 in mano e passai sulle pozzanghere create dalla neve che si era sciolta dai mezzi, pronto a sparare alle ruote. Non si deve sparare direttamente alla gomma; la possibilità che i proiettili rimbalzino è alta. Occorre proteggersi dietro il blocco motore, sporgersi da un lato e a quel punto sparare. Il tud caratteristico della P7 era nulla al confronto del dinggg che riecheggiò nell'hangar quando il proiettile colpì il metallo. Poi fu la volta del sibilo dell'aria che usciva dal pneumatico. Mi guardai alle spalle. Dal corridoio ancora nulla. Quando tutti i veicoli ebbero ricevuto il trattamento, saltai al posto di guida e puntai alla saracinesca, però questa volta in retromarcia, in modo che i fari illuminassero la porta del corridoio. Se usciva, volevo essere in grado di vedere. Frenai, misi il cambio in folle e saltai giù. Le catene, fredde come il ghiaccio, mi bruciarono le mani anche attraverso i guanti di contatto. Le tirai energicamente verso il basso per aprire la saracinesca. La sollevai quel
tanto che bastava per lasciar passare l'auto. Risalii e feci inversione nella neve, avviandomi nella stessa direzione che avevano preso tutti gli altri. Mi lasciai l'hangar alle spalle chiedendomi se dovevo sentirmi dispiaciuto per il Democratico, felice di essere ancora vivo, o incazzato con Val e Liv. Controllai il livello del carburante, il serbatoio era quasi pieno, come avevo immaginato. Il cellulare volò dal finestrino e si seppellì nella neve. Di sicuro un congegno utilissimo per farsi rintracciare non sarebbe rimasto con me. Nevicava forte. Non avevo idea di dove mi trovassi, ma non era poi così importante dal momento che ero riuscito a fuggire. Sollevai la maschera e nel farlo sentii il sangue del Democratico che m'imbrattava la faccia. Finalmente venne via, e la gettai sul pavimento, insieme con la P7. Accesi la luce interna e mi guardai nello specchietto. Avevo tanta roba rossa in faccia che sembravo una barbabietola. Conciato in questo modo non avrei mai potuto guidare alla prima luce dell'alba, o in un centro abitato. Anche il volante era sporco del sangue dei guanti di contatto. Dovevo fare qualcosa. Circa un'ora dopo accostai a lato della strada, e mi lavai nella neve gelata. Poi, con corpo e macchina ripuliti, e gli oggetti sporchi di sangue sepolti nella neve, proseguii cercando un cartello che mi guidasse verso Helsinki. Più ci pensavo, più mi giravano i coglioni. Liv e Val sapevano che gli americani avevano intenzione di unirsi alla festa? Non ne ero certo, ma avevo intenzione di scoprirlo. 25 Mercoledì 15 dicembre 1999 Ero seduto sul pavimento accanto a un calorifero in un angolo della stazione, di fronte alla fila delle cabine telefoniche che aveva in bella vista il segno di DLB piena. Il segno nero che attraversava la facciata laterale della cabina sull'estrema destra era perfettamente riconoscibile dagli ingressi che portavano alla stazione degli autobus, anch'essi sulla mia destra. Avevo una copia dell'International Telegraph, una tazza da caffè vuota e, nella tasca destra, una P7 con le sette canne cariche. Nella tasca di sinistra, l'altra unità, con solo tre colpi. Quella mattina, all'apertura dei negozi, avevo comprato un intero cambio
di vestiti per sostituire quelli umidi e freddi che indossavo. Adesso portavo una giacca a vento beige scuro, guanti e un cappellino a punta di lana blu. Non m'importava di sembrare un po' scemo; mi copriva la testa e quasi tutta la faccia. Il colletto della giacca tirato su faceva il resto. Ogni volta che cambiavo posizione, fitte di dolore mi attraversavano la spalla sinistra. I lividi dovevano essere orribili. L'unica cosa che potevo fare era lamentarmi fra me e rallegrarmi di non essere caduto su qualcosa di appuntito. Avevo abbandonato l'auto in periferia, fuori da una stazione della metropolitana, poco dopo le otto, quella mattina stessa, e avevo raggiunto la città in treno. Continuava a nevicare e a quell'ora l'auto sarebbe stata coperta e le targhe illeggibili. A Helsinki avevo recuperato la contromarca sotto l'armadietto numero 11 e avevo ritirato sacca, contanti, passaporti e carte di credito. Avevo anche tastato sotto il numero 10. La contromarca di Tom era ancora nella busta di plastica attaccata sotto l'armadietto. Avevo pensato molto a lui. Se non l'avevano ucciso gli americani o i Maliskia la notte precedente, lo avrebbe fatto il freddo. Tom aveva molte capacità, ma giocare all'orso grizzly non era fra queste. Ero parecchio incazzato, ma non ero certo se esserlo per me o per lui. Fu a quel punto che lo cancellai. È un momento che arriva sempre: la mente in questo modo resta libera e concentrata sulle cose importanti. E queste non mi mancavano. Lasciai la contromarca della sua sacca dove si trovava. Se quello che stavo per fare fosse andato alla cazzo di cane, poteva rappresentare una scorta di emergenza: soldi e un nuovo passaporto, da modificare appena. Nonostante i miei sforzi, mentre me ne stavo là a osservare il flusso costante di viaggiatori che entrava e usciva dalle porte scoprii di non poter fare a meno di sentirmi dispiaciuto per Tom. Erano state le mie bugie e le mie promesse che lo avevano portato dove si trovava adesso, a faccia in giù nella neve o impacchettato chissà dove in un sacco da cadaveri americano. La cosa che mi faceva sentire ancora più colpevole era che sapevo di essere incazzato perché non avevo fatto del grano almeno quanto lo ero per la sua morte. Smisi di pensarci, affondai le mani nelle tasche chiudendole sui caricatori. Ero ancora più scocciato perché mi ero liberato della sacca e della coperta che adesso avrebbero potuto tenermi il culo al caldo, e perché sapevo che la morte di Tom era destinata a diventare un altro di quei piccoli rovelli che mi si sarebbero affacciati alla mente nelle ore che precedevano l'al-
ba, mentre cercavo invano di prendere sonno. La stazione era molto affollata. Babbo Natale aveva già fatto due giri completi, chiedendo soldi per le renne abbandonate o roba del genere. La gente trascinava con le scarpe la neve all'interno della stazione e i grandi radiatori in stile vittoriano la riducevano vicino alle porte in pozzanghere che poi si allargavano in tutta la stazione. Guardai il Baby G. Erano le 14.17, io ero lì da almeno quattro ore e avrei dato qualsiasi cosa per un altro caffè. Ma dovevo tener d'occhio le porte. Inoltre, se avessi bevuto, prima o poi avrei avuto bisogno di andare al bagno, e non potevo permettermi di perdere Liv, se fosse arrivata. Sarebbe stato un giorno lungo, senza cibo e senza caffè. E forse sarebbe stata lunga anche la notte. Per un osservatore esterno, la stazione non è poi un luogo così malvagio dove passare diverse ore. Ma può durare molto a lungo. Sistemai il mio povero culo intorpidito e freddo e decisi di non perdermi in elucubrazioni sul casino successo a casa Microsoft. I fatti erano che non avevo i soldi, che Tom era morto e che probabilmente mi trovavo in un mare di merda con gli americani e in un oceano di merda con la Ditta. Se il mio coinvolgimento fosse stato scoperto, sarei finito a fare il sostegno di una sopraelevata, dentro un pilastro di cemento, da qualche parte lungo l'Eurotunnel per l'alta velocità. Morire non mi aveva mai preoccupato, ma essere fatto fuori dalla mia gente sarebbe stato troppo deprimente. Più pensavo a quanto era successo la notte prima, più schiumavo di rabbia nei confronti di Liv e Val. Dovevo trovare un piano che mi procurasse quello di cui avevo bisogno, senza sprecare tempo ed energie nel tentativo di trovare un modo per pareggiare i conti. A parte ogni altra considerazione, ciò non avrebbe coperto i conti della clinica. Nella mia testa stava prendendo forma il piano B. I soldi dei Maliskia avrebbero pagato le cure di Kelly se avessi rapito Val e lo avessi consegnato a loro in cambio di liquido. Avevo dedicato la vita ai rapimenti per tanti anni, e per molti soldi di meno. Non avevo ancora idea di come avrei fatto: avrei improvvisato al momento. Ma la prima fase era far credere a Liv che avevo il ThinkPad con le informazioni scaricate e che, visto il casino che era scoppiato la notte prima, da adesso in poi avrei trattato solo con Val, e solo in Finlandia. Chissà mai. Se Val avesse portato i soldi, li avrei presi e mi sarei risparmiato la fatica. Ma non era questo il messaggio che avevo lasciato nella busta di plastica
nella DLB. Era vuota, l'avevo messa solo perché ci fosse qualcosa da prendere quando fosse venuta, altrimenti poteva insospettirsi. Tutto doveva essere come avrebbe dovuto essere. Non appena fuori dalla stazione l'avrei bloccata e le avrei parlato chiaro, in modo che non ci fossero equivoci su quello che volevo. Erano passati altri venti minuti quando un numeroso gruppo di studenti in gita tentò di passare in blocco attraverso la porta che portava ai bus, e fu un turbinio di borse, sci e Big Mac mentre loro tentavano di camminare, parlare e ascoltare i walkman, tutto contemporaneamente. Meno di trenta secondi dopo vidi Liv entrare e superare di fretta il segno di cassetta piena senza voltare la testa. Ma sapevo che l'aveva visto. Il suo cappotto lungo, il cappello tibetano e gli stivali di cuoio chiaro erano facili da individuare mentre si spostava all'interno del salone, si toglieva la neve da una spalla con una mano e con l'altra trasportava due sacchetti di carta di Stockmann. Passò davanti ai chioschi e alle toilette, aggirando la scolaresca che adesso si era fermata in attesa che l'insegnante capisse qualcosa a proposito dei biglietti. Continuai a tenere d'occhio la punta del cappello di Liv. Controllai con cura che non fosse seguita, nel caso si fosse portata dietro qualche protezione, o peggio, nel caso che il Democratico avesse spedito qualche fedelissimo sulle sue tracce. Quando svoltò a sinistra verso la biglietteria e l'ingresso della metropolitana il cappello scomparve. Nessuna fretta, sapevo dove stava andando. Mi alzai, oltrepassai la gita scolastica e la rividi. Stava per sedersi sopra la DLB, vicino ad altri bambini. Il suonatore di strada era sempre al suo posto, e strimpellava sulla fisarmonica qualche vecchia melodia finlandese. Il suono si mescolava gradevolmente con la cagnara di un gruppo di ubriachi dall'altro lato della panca. Stavano discutendo con Babbo Natale, con grande divertimento dei passanti. Liv si sedette mentre Babbo Natale colpiva il torace di uno degli ubriachi. Il personale di servizio si fece avanti per separarli. Osservai Liv piegarsi fingendo di armeggiare con i sacchetti. La mano si mosse per prendere la busta. Il contenitore vuoto venne staccato dal velcro e lasciato cadere in uno dei sacchetti; non lo avrebbe letto lì. Attesi che si allontanasse. Mi trovavo in una buona postazione. Dal mio angolo potevo controllare qualsiasi porta avesse scelto. Dopo alcuni minuti si alzò, lo sguardo rivolto verso la biglietteria e un largo sorriso. Quando l'uomo di San Pietroburgo emerse, sorridente, fra la folla, Liv gli tese le
braccia. Si abbracciarono e baciarono, poi si sedettero vicini, parlando in quel modo particolare, sorridenti, mano nella mano, felici di vedersi, i nasi che si sfioravano. L'uomo indossava lo stesso lungo cappotto di cammello, questa volta con sotto una maglia a collo alto marrone scuro. Quel giorno portava una ventiquattrore di pelle chiara. In modo da non farmi vedere dall'ingresso che conduceva ai binari, controllai il tabellone partenze-arrivi a parete. Il treno per San Pietroburgo, che arrivava fino a Mosca, partiva dal marciapiede 8 alle 15.34: poco più di mezz'ora di tempo. Parlarono per altri dieci minuti, poi si alzarono. Il contatto di Liv prese i sacchetti di lei con una mano, e la sua valigetta con l'altra, e insieme si avviarono verso la porta dei binari. Cominciarono a risuonarmi nella testa dei campanelli di allarme. Perché aveva preso i sacchetti di lei? Il cuore iniziò a battere più veloce quando varcarono le porte e si ritrovarono entrambi sulle piattaforme coperte di neve. Merda, sarebbe andata con lui? Il corriere poteva averle appena comunicato quello che era successo al quartier generale Microsoft e Liv stava cercando di mettersi in salvo fin che poteva. Contai fino a dieci e mi lanciai nel freddo. Andando verso il deposito bagagli, il binario 8 era sulla mia destra. Nevicava piano e non c'era un alito di vento. Mi muovevo a testa bassa, le mani sprofondate nelle tasche. Guardai con la coda dell'occhio verso i binari e vidi che erano diretti verso i vagoni di centro. Camminai lentamente fino al deposito bagagli, continuando a osservarli finché non salirono sul treno. Poi, guardai l'orologio e, come se mi fossi appena ricordato di qualcosa, feci dietrofront. Prima che partissero per San Pietroburgo c'erano ancora diciassette minuti, e tutto faceva supporre che sarei andato con loro. Oltrepassai due addetti ai treni russi, in piedi al posto di guardia in fondo al treno. Stavano bevendo qualcosa da una bottiglia con l'aria malinconica e i cappelli con la visiera alta stile ufficiale nazista spinti indietro sulla testa. Salii a bordo ed entrai in un vagone pulito, anche se molto vecchio, il cui corridoio dava sul marciapiede e la linea degli scompartimenti sulla destra. Avanzai nel corridoio riscaldato e mi sedetti sopra uno dei duri sedili coperti di stoffa del primo scompartimento libero. C'era un odore forte, quasi aromatico, di sigarette che molto probabilmente non abbandonava mai quei treni. E adesso? Avevo i soldi ma niente visto. Come avrei fatto a entrare in
Russia? Nascondersi nella toilette funziona solo nei film di Agatha Christie. Forse una bustarella. Potevo recitare il ruolo del turista testa di cazzo che non aveva idea che fosse necessario un passaporto, per non parlare di un visto, e offrirmi di pagare bene, e in dollari, per la gentilezza di farmi entrare o per qualsiasi cosa potessero fare per me. Dopo tutto solo un matto poteva desiderare di entrare in Russia illegalmente. Rimasi seduto a osservare i cappelli nazi coperti di neve che camminavano lungo il binario sotto i finestrini. Le vene del collo mi pulsavano e provai una fitta di dolore al torace quando sentii i fischi e lo sbattere delle pesanti porte dei vagoni. Controllai il Baby G: tre minuti alla partenza. Ma non era la prospettiva di avere a che fare con le guardie e i funzionari dell'immigrazione che mi turbava; era la possibilità di perdere Liv, il mio unico contatto diretto con Val. La porta del mio scompartimento si aprì ed entrò una donna con una pelliccia lunga e una piccola valigia. Borbottò qualcosa e io risposi con un grugnito. Sollevando lo sguardo intravidi un bagliore di cuoio nero che si muoveva sul marciapiede. Che cosa succedeva? Stava passando Liv con i suoi sacchetti, la testa bassa contro la neve. Provai un immenso sollievo. Balzai in piedi e mi precipitai nel corridoio, ma non potevo uscire immediatamente: nel caso il corriere la stesse guardando si sarebbe chiesto come mai qualcun altro avesse deciso di scendere dal treno. Scomparve all'interno della stazione e io, senza controllare se lui stesse guardando, balzai sulla piattaforma e puntai dritto verso le porte che lei aveva appena oltrepassato. Fra la folla individuai il cappello che si dirigeva all'uscita degli autobus. A questo punto lei sapeva che nella cassetta non c'erano messaggi. Mi mantenni indietro, in attesa di un'occasione. Ero a circa venti passi di distanza quando lei aprì le porte dell'uscita degli autobus. Quando le ebbi oltrepassate anch'io, guardai nella tormenta di neve. Quello che riuscii a vedere furono autobus e code di persone in attesa di salire; Liv doveva aver svoltato appena sul marciapiede. Stavo per scendere i gradini quando sentii chiamare alle mie spalle. «Nick! Nick!» Mi fermai, mi voltai e guardai in direzione delle porte. «Liv! Che piacere vederti.» Era vicino a una colonna, a sinistra del varco, sorridente, le braccia protese in avanti, pronta a salutare un altro amico che non vedeva da tempo.
Mi sintonizzai sulla parte, le andai incontro, e lasciai che mi baciasse su entrambe le guance. Aveva un profumo meraviglioso, ma da quel poco che riuscii a vedere dei suoi capelli sotto il berretto, non erano pettinati come al solito, e le punte erano piene di nodi. «Ho pensato che dovevo aspettarti. Sapevo che ti saresti fatto vivo, altrimenti perché lasciare la busta vuota?» Ancora abbracciati, la guardai con il sorriso ma-che-piacere-vederti stampato sul volto. «Tom è morto», dissi. L'espressione del suo viso mi fece capire che sapeva come mi sentivo. Si tirò indietro e sorrise. «Vieni, camminiamo. Hai il diritto di essere arrabbiato, ma non è tutto perduto, Nick.» M'invitò, con la mano guantata, a portare i suoi sacchetti. Mentre mi chinavo vidi la valigetta in cuoio chiaro del suo amico. Continuando a sorriderle, le afferrai il braccio e quasi la obbligai a fare le scale. Arrivati sul marciapiede voltai a destra verso l'ingresso principale della stazione e il centro della città. «Che cazzo sta succedendo? L'altra notte siamo stati aggrediti da una squadra di americani. Mi hanno catturato. Poi hanno colpito anche quei bastardi dei russi.» Annuiva con la testa mentre io tuonavo al suo indirizzo. Il solito trucco: so tutto e non lascio trapelare nulla. Dissi: «Lo sai già, vero?» «Naturale. Valentin viene sempre a sapere tutto.» «Tu e Val mi avete fregato. Ora basta. Domani lo voglio qui, con i soldi. Gli darò quello che cerca. Ho il ThinkPad, e contiene quello che volevate.» Desiderai aver accettato l'offerta di Tom di spiegarmi quello che stava facendo, quando eravamo nella casa schermata. Non mi aveva neanche ascoltato. «Sei sicuro che Tom sia morto?» «Se è fuori in questa merda...» e sporsi la mano. Aveva la stessa espressione che aveva avuto all'albergo, calma e perfettamente padrona di sé, come se si trovasse da qualche altra parte e io non stessi parlando con lei. Aumentai la pressione sul braccio e la guidai lungo la strada. Di quello che pensavano i passanti non mi fregava niente. «Ascoltami, ho il materiale scaricato. Ma d'ora in poi tratto solo con Val, non con te. Non mi fregate più.» «Sì, Nick, lo hai già detto. Adesso dimmi, è molto importante. Valentin non fa mai una cosa se non ha tutti i dettagli. Gli americani hanno portato via tutte le macchine?»
«Sì.» «Gli americani hanno preso delle persone?» «Sì, io ne ho visti tre.» «I Maliskia sono riusciti a prendere agli americani delle macchine o delle persone?» Sembrava un dottore che elenca una lista di sintomi con un paziente. «Nessuno degli occupanti. Hanno preso uno dei furgoni con le macchine, ne sono certo.» Annuì lentamente. Raggiungemmo una piccola folla in attesa del verde per attraversare, anche se non passava una macchina. Le bisbigliai in un orecchio. «Sono tutte palle, Liv. Voglio Val qui, con i soldi, allora gli darò tutto, porterò via i coglioni e ve la vedrete voi.» Il mio bel discorsetto non ebbe alcun effetto su di lei. Attraversammo la strada principale al suono del segnale acustico, diretti alla zona commerciale. «Questo, Nick, non accadrà. Val non verrà per la semplice ragione che tu non hai nulla da offrirgli, vero?» Parlava in modo molto tranquillo. «Ora ti prego, rispondi alle mie domande. È molto importante. Per tutti, incluso te.» Che andasse a farsi fottere, non volevo altre domande. E poi ancora una volta aveva ragione lei. «Perché gli americani hanno attaccato la casa? Qualsiasi cosa siamo andati a cercare appartiene a loro, è così? Non si tratta di materiale commerciale, ma di Stato.» Mi scoccò una delle sue migliori occhiate tipo signor Spock. Continuai a trascinarla. «Gira a destra.» Svoltai l'angolo. Eravamo in una via di negozi. Tram, macchine e camion schizzavano nella fanghiglia. «Gli americani erano dell'NSA, Nick.» Oh, merda. Alla conferma dei miei sospetti mi mancò il cuore e mi tornò la fitta al petto. Volevo i soldi, ma non fino a quel punto. Quello era un lavoro da grandi. Quella gente era il vero governo del paese. «Sei sicura?» Annuì. «Hanno attaccato anche casa mia l'altra sera, due ore dopo che ve ne siete andati.» «Come hai fatto a fuggire?» Si diede un colpetto sui capelli. «Passando una notte molto fredda e lunga sul lago.» «Come sono arrivati fino a te?» «Devono essere stati guidati fino alla casa, ma non so come. Ora ti pre-
go, stai solo sprecando tempo e non ne abbiamo molto.» Non mi accorsi neppure del furgone che passando aveva firmato con il fango i miei jeans e il suo cappotto. Adesso ero troppo occupato a sentirmi molto più depresso che incazzato. NSA. Ero veramente nella merda. Mi diede altre istruzioni. «Attraversa qui.» Aspettammo di nuovo come pecore che l'omino verde ci dicesse di attraversare. Attraversare la strada fuori dalle zone consentite doveva essere punito con la pena di morte in quel Paese. Venne il verde e potemmo riprendere a parlare. «Ascolta, tu o Tom avete usato e-mail, telefono, fax o cose del genere mentre eravate nella casa?» «Naturalmente no.» Poi ricordai quello che era successo all'aeroporto. «Un attimo. Lo ha fatto Tom. Tom...» Si voltò di scatto. «Cosa? Cos'ha fatto Tom?» «Ha usato l'e-mail. Ha mandato un'e-mail a qualcuno in Inghilterra.» L'espressione calma e controllata le sparì dal volto. Si fermò di colpo e mi allontanò da sé. La gente prese a girare alla larga da quella che sembrava una lite domestica sul punto di esplodere. «Avevo detto a tutti e due di non farlo.» La tirai di nuovo verso di me, come se avessi io il comando della situazione, e ripresi a guidarla. Riacquistò il controllo, e dopo un po', con molta calma, disse: «Così è stato Tom a guidare fin qui gli americani». Indicò a destra, verso un'altra strada lastricata. «Valentin vuole che ti mostri una cosa, poi devo farti un'offerta che le tue tasche e la tua coscienza non potranno rifiutare. Vieni. Da questa parte.» Svoltammo e io decisi di non aggiungere parola sul fatto che non era necessariamente colpa di Tom. Gli E4 potevano avermi seguito da quando avevo lasciato il suo appartamento di Londra, o aver seguito le nostre tracce tenendo d'occhio i movimenti della carta di credito di Tom. Ma adesso non potevo farci niente. Eravamo arrivati al porto. Lungo il molo c'era un mercato di pesce e verdura. Da sotto i teli di plastica che proteggevano i bottegai e le loro merci dalla neve uscivano sbuffi di vapore. «Di là, Nick.» I miei occhi seguirono i suoi, fermandosi su quella che sembrava la più grande serra vittoriana del mondo, un paio di centinaio di metri oltre il mercato.
«Entriamo e togliamoci dal freddo, Nick. Penso che sia arrivato il momento che tu sappia che cosa sta succedendo veramente.» 26 La sala da tè era calda e piena dell'aroma di caffè e sigarette. Portammo cibo e bevande dal bancone fino a un tavolo d'angolo. Appoggiammo i cappotti su una sedia libera, senza il cappello risultava evidente che Liv aveva trascorso una pessima nottata. Entrambi dovevamo avere un'aria piuttosto dimessa a paragone dei turisti americani che stavano iniziando a riempire il locale, appena scesi dalla nave da crociera che vedevo ormeggiata in porto. Il forte sibilo della macchina per il cappuccino accompagnava la loro conversazione, la quale si svolgeva a un volume più elevato di quella degli altri. I finlandesi parlavano sempre molto piano. Il nostro tavolo era vicino a un pianoforte a coda e parzialmente nascosto da piante di palma. Più passavamo inosservati e meglio era. Liv si sporse in avanti e sorseggiò il suo tè. Io trangugiai un tramezzino al salmone. Mi fissò per un po' poi chiese: «Nick, quanto sai dell'accordo fra Stati Uniti e Gran Bretagna?» Il flash di una macchina fotografica rimbalzò da una parte all'altra mentre i turisti si mettevano in posa con i bicchieri di tè e grandi fette di torta al cioccolato. Presi una sorsata di tè. Conoscevo i punti fondamentali. Venne sancito tra Gran Bretagna e America verso la fine degli anni '40 e dopo qualche tempo si iscrissero al club anche Canada, Australia e Nuova Zelanda. Alla base dell'accordo c'era la condivisione del controspionaggio nei confronti dei nemici comuni. Al di là dell'accordo, comunque, i Paesi membri usavano le proprie risorse per spiarsi l'uno con l'altro: in particolare, la Gran Bretagna spiava i cittadini americani negli Stati Uniti, e gli americani spiavano i cittadini inglesi in Gran Bretagna, e poi facevano scambio di informazioni. Tecnicamente non era illegale. Un sistema molto astuto per aggirare la legge sui diritti civili. Liv stava seguendo con gli occhi tre anziani americani vestiti con giacche imbottite multicolori che si spostavano a fatica oltre il nostro tavolo, carichi di vassoi con il tè e di eleganti sacchetti di carta rigonfi di artigianato finlandese. Sembravano molto indecisi su dove mettersi a sedere. Liv tornò a guardare me. «Nick, i tre uomini nella casa, la scorsa notte, erano finlandesi. Erano impegnati ad accedere a una tecnologia chiamata Echelon, che rappresenta il cuore dell'accordo.»
«Vuoi dire che quello che volevate da Tom e da me era che accedessimo a segreti di Stato per conto della mafia russa?» Guardò con calma verso gli altri tavoli e prese un altro sorso di tè. Scosse la testa. «Non è affatto così, Nick. Non ti ho spiegato tutto prima per ragioni che, sono certa, comprendi bene, ma Valentin desidera informazioni commerciali, questo è tutto. Credimi, Nick, non stavate rubando segreti, né di Stato né militari. Al contrario: stavate impedendo che altri lo facessero.» «Allora com'è che è stata coinvolta l'NSA?» «Rivoleva indietro il suo giocattolo, tutto qui. Ti garantisco che Valentin non ha nessun interesse sui segreti militari dell'Occidente. Li può ottenere quando vuole; non è troppo difficile, come ti dimostrerò fra poco.» Controllò gli americani per assicurarsi che non stessero ascoltando, poi si rivolse nuovamente verso di me. «Cosa ne sai di Echelon?» Sapevo che era un sistema per intercettazioni di comunicazioni controllato dal GCHQ. Intercettava le trasmissioni e le vagliava a seconda dei contenuti, un po' come un motore di ricerca di Internet. Mi strinsi nelle spalle come se non ne sapessi niente: ero molto interessato a scoprire quanto ne sapeva lei. Fu come se Liv leggesse il dépliant di Echelon. «Si tratta di una rete globale di computer, gestita dalle cinque nazioni che fanno parte dell'accordo Gran Bretagna/Stati Uniti. Ogni secondo di ogni giorno, Echelon vaglia in modo automatico milioni di fax, e-mail e telefonate da cellulari, alla ricerca di parole e numeri chiave preprogrammati. Come precauzione di sicurezza, nella nostra organizzazione, avevamo l'abitudine, al telefono, di sillabare certe parole, ma ormai anche questo è stato superato da un sistema di riconoscimento vocale. Il fatto è, Nick, che ogni messaggio inviato elettronicamente, in qualsiasi punto del mondo, è sistematicamente intercettato e analizzato da Echelon. I processori in rete sono noti come dizionari di Echelon. Una stazione Echelon, e ce ne sono con certezza come minimo una dozzina, contiene non solo il dizionario della nazione di appartenenza, ma anche liste di ognuno degli altri quattro Paesi del sistema Gran Bretagna/Stati Uniti. Quello che Echelon fa è mettere in connessione tutti questi dizionari e permettere a ogni stazione in ascolto di funzionare come un sistema integrato. Per anni Echelon ha aiutato l'Occidente a adattare i trattati e le trattative internazionali a loro favore, a conoscere ogni particolare dello stato di salute di Boris Eltsin e della posizione finanziaria dei partner commerciali. Sono informazioni serie di cui impossessarsi, Nick. Perché credi che stiamo così attenti a non usare nessuna forma di
comunicazione elettronica? Sappiamo di essere sempre controllati da Echelon. E chi non lo è? La principessa Diana lo era per la sua campagna contro le mine antiuomo. Associazioni umanitarie come Amnesty International o Christian Aid vengono ascoltate perché hanno accesso a dettagli su regimi controversi. Dal momento in cui Tom cominciò a lavorare a Menwith Hill, ogni fax e ogni e-mail che mandava, e anche le telefonate, venivano intercettate e controllate. Quei finlandesi hanno progettato un sistema per entrare dentro Echelon e usarlo. Il firewall che Tom ha attaccato era la protezione intorno a quel sistema, per evitare di essere individuati e rintracciati. La scorsa notte erano in linea per la prima volta.» «Cercando di fare che cosa? Penetrare nel quartier generale dell'NSA o che?» Scosse la testa lentamente, come se trovasse incredibile la loro ingenuità. «Sapevamo, dalle nostre fonti, che il loro unico scopo era entrare in possesso di informazioni importanti relative al mercato in modo da trarne profitto. Quello che volevano era semplicemente fare qualche milione di dollari qui e là; non si rendevano conto del vero potenziale di ciò che avevano creato.» «Ma tutto questo cos'ha a che fare con me?» domandai. «Qual è la proposta di Val?» Si avvicinò ancora, come se ci stessimo scambiando parole d'amore. E potevano esserlo, data la passione con cui lei le pronunciava. «Nick, è molto importante per me che tu comprenda le motivazioni di Valentin. Naturalmente vuole guadagnarci, ma più di questo vuole che dal punto di vista commerciale l'oriente diventi un'area allo stesso livello dell'Occidente, e questo non accadrà mai se uomini ambiziosi come lui non riusciranno ad avere accesso alle informazioni che solo Echelon può fornire.» «Ambizioso?» sorrisi. «Mi vengono in mente un milione di altre parole, prima di questa, per descrivere il crimine organizzato russo.» Lei scosse la testa. «Pensa all'America di centocinquant'anni fa e hai la Russia di oggi. Uomini come Vanderbilt non hanno sempre seguito la legge per raggiungere i loro scopi. Ma hanno creato ricchezza, una borghesia potente, e quella borghesia, con il tempo, ha creato stabilità politica. Così devi vederla: Valentin non è Dillinger, è Rockefeller.» «Okay, Val è l'uomo dell'anno. Perché non si è limitato a trovare un accordo con i finlandesi?» «Lui non lavora così. Se l'avesse fatto li avrebbe messi sull'avviso circa
il valore di quello che avevano per le mani e loro avrebbero venduto al migliore offerente. Valentin non voleva correre questo rischio. Era felice che fossero riusciti a entrare e anche che provassero a saggiare i mercati, mentre lui cercava dov'erano, e arrivava a loro prima dei Maliskia.» «E gli americani?» «Se foste riusciti a scaricare il programma, Valentin avrebbe detto agli americani dov'era la casa, loro sarebbero entrati e l'avrebbero chiusa senza sapere che anche lui aveva accesso a Echelon. Ricorda quanto ti ho detto a Londra, nessuno deve sapere...» Molto furbo, pensai. Val avrebbe continuato a entrare in Echelon, e l'Occidente avrebbe dormito sonni tranquilli. «Però gli americani sapevano.» «Già, ma il nostro sistema di sicurezza è impenetrabile. L'unico modo che avevano di scoprirlo era tramite Tom.» Prima che venissimo deviati nelle congetture su chi fosse da incolpare, c'erano molte altre domande alle quali volevo delle risposte. «Liv, perché la Finlandia?» Rispose con evidente orgoglio. «Siamo una delle nazioni tecnologicamente più avanzate del mondo. Molto probabilmente già dalla prossima generazione questo Paese abolirà il denaro, tutto avverrà in modo elettronico. Il governo sta pensando di eliminare i passaporti e di registrare i dati identificativi sulla scheda SIM del cellulare di ciascun cittadino. Siamo l'avanguardia di tutto quello che è possibile, e questi giovani l'hanno dimostrato. Hanno avuto l'abilità di penetrare in Echelon, anche se gli è mancato il senso pratico per capire che cosa potevano veramente farci.» Attese che bevessi un sorso di tè. I sandwich erano finiti da un po'. «Altre domande?» Scossi la testa. Ne avevo molte, ma potevano aspettare. Se era pronta a spiegarmi la nuova proposta, io ero pronto ad ascoltarla. «Nick, sono stata autorizzata da Valentin a dirti che l'offerta in denaro è ancora valida, ma che il lavoro che devi fare è cambiato.» «Questo è ovvio. Tom è morto e l'NSA si è ripresa il suo Echelon.» Mi guardò fisso negli occhi mentre scuoteva la testa. «Sbagliato, Nick. Non volevo passarti questa informazione prima che fosse confermata, ma le nostre fonti ritengono che i Maliskia abbiano Tom. E sfortunatamente ritengono che anche il ThinkPad sia in mano loro. Questo è molto seccante perché contiene ancora la sequenza di accesso al firewall che...» Mantenni il controllo a fatica. «Tom è vivo? Porca puttana, Liv. Mi hai
lasciato qui a pensare che fosse morto.» La sua espressione da figlia del signor Spock non subì cambiamenti. «I Maliskia pensano che stia con i finlandesi. Hanno pensato...» Fece un cenno con la mano attraverso il tavolo. «Ricordati, anche loro vogliono accedere a Echelon.» «Quello che vuoi da me è che io riporti indietro Tom.» «Prima che io ti dica l'obiettivo, Nick, devo spiegarti una complicazione.» Un'altra? Non era già abbastanza complicato così? Si piegò, prese la valigetta del suo amico e la posò sul tavolo. Fuori ormai era buio e le luci natalizie brillavano nella piazza del mercato. Liv aprì la valigetta. Dentro c'era un portatile, lo accese. La guardai estrarre dal cappotto un dischetto blu scuro protetto da una plastica trasparente. Lo inserì e sentii la sigla di Microsoft. «Ecco, leggi qui. Devi essere completamente a conoscenza della situazione, in modo da poter comprendere la gravità del lavoro che devi svolgere. Avrei potuto dirtelo a voce, ma penso che tu voglia avere delle conferme.» Mi porse la valigetta. Il disco stava ancora girando mentre il portatile si attivava per visualizzarlo sullo schermo. L'icona del disco apparve e io feci un doppio clic. Orientai lo schermo in modo da vederlo bene e solo io, e iniziai a leggere. Intanto il gruppo di turisti all'esterno entrò a salutare gli amici e, senza perdere tempo, cominciò a mostrare gli acquisti fatti, colbacchi di pelliccia e salamini di carne di renna. Sul disco c'erano due file. Uno era senza titolo, l'altro diceva: «Da leggere per primo». Lo aprii. Apparve una pagina di Internet del Sunday Times di Londra, un articolo con questo titolo: «Hacker russi rubano segreti militari USA». Liv si alzò. «Ancora tè? Qualcosa da mangiare?» Feci cenno di sì e tornai allo schermo mentre lei si dirigeva verso il bancone. Adesso il gruppo di turisti era formato da sei persone che facevano rumore per dodici. «Ufficiali americani ritengono che la Russia possa avere trafugato alcuni dei più importanti segreti militari», così cominciava l'articolo, «inclusi sistemi di controllo di armi e codici di controspionaggio navale, in un'offensiva che gli investigatori hanno denominato operazione Moonlight Maze.» Il furto era così sofisticato e ben coordinato che gli esperti della sicurez-
za ritenevano che l'America stesse perdendo la prima «cyberguerra» mondiale. Gli attacchi contro il sistema informatico americano erano riusciti anche a superare il sistema di protezione che in teoria doveva difendere il Pentagono da attacchi informatici. Durante un'infiltrazione illegale, un tecnico che aveva individuato un computer estraneo aveva verificato che un documento segreto era stato violato e mandato a un server Internet di Mosca. Gli esperti parlavano di una «Pearl Harbor digitale». Un Paese nemico aveva sfruttato la fiducia dell'Occidente nella tecnologia informatica per rubare segreti o per diffondere il caos con efficacia pari a un attacco condotto con missili e bombe. Usando pochi tasti di un computer portatile, chiunque era in grado di fregare una nazione così avanzata. Gas, acqua ed energia elettrica potevano essere bloccati manomettendo i loro computer di controllo. I sistemi di telecomunicazioni civili e militari potevano subire danni. La polizia poteva essere paralizzata e il caos dei civili prendere il sopravvento. Chi cazzo aveva bisogno di eserciti di questi tempi? Erano entrati anche nelle installazioni militari top secret la cui specialità era la sicurezza delle informazioni. Allo SPAWAR (Space and Naval Warfare System Command, Sistema di controllo dei sistemi di guerra navale e spaziale), sede di San Diego, California, specializzato nella salvaguardia dei codici dell'intelligence navale, un tecnico era stato messo in allarme quando il processo di stampa di un computer era durato più a lungo del solito. I sistemi di controllo avevano evidenziato ch il file era stato spostato dalla coda di stampa e trasmesso a un Internet provider a Mosca, prima di essere rispedito a San Diego. Non era chiaro con esattezza quali informazioni fossero contenute nel documento rubato, ma oltre al suo ruolo nell'intelligence navale, SPAWAR era responsabile della fornitura di sistemi di sicurezza elettronica ai corpi della marina e alle agenzie federali. Il sospetto era che avessero avuto luogo molte altre intrusioni senza che fossero state scoperte. L'articolo proseguiva dicendo che il presidente Clinton aveva avanzato richiesta di altri seicento milioni di dollari per combattere l'offensiva di Moonlight Maze. Un importo che poteva non essere sufficiente, visto che Cina, Libia e Iraq stavano sviluppando capacità analoghe su informazioni militari e, secondo uno degli ufficiali della Casa Bianca, altrettanto stavano facendo gruppi di terroristi organizzati. Non ci voleva molta fantasia per immaginare i danni che Osama bin Laden e i suoi compari avrebbero potuto fare se ci mettevano le mani sopra. Per quanto riguarda le imponenti ri-
cerche dei russi, poteva trattarsi dei Maliskia. Feci un doppio clic sull'altro file. Quanto apparve sullo schermo confermava che la storia dell'attacco contro lo Spawar di San Diego aveva molte probabilità di essere vera. Il Sunday Times poteva non sapere che cosa c'era nel file, ma io adesso lo sapevo. Lo stemma del Naval Intelligence davanti a me fungeva da intestazione a una lista di una cinquantina di parole in codice che corrispondevano a frequenze radio. Liv sedette con altro tè e altri tramezzini. «Li hai letti tutti e due?» Annuii e, mentre chiudevo il file e facevo uscire il dischetto, Liv si sporse in avanti e allungò la mano. «Nick, tu puoi fare in modo che questo non accada, se vuoi.» Le resi il dischetto e chiusi il portatile. La sentii dire: «Il governo russo non è l'unico che può comprare queste informazioni dai Maliskia. Può farlo chiunque abbia un libretto d'assegni abbastanza grosso». Era evidente che quello di Val lo era, altrimenti non avrei avuto modo di leggere l'elenco dei codici. «Nick, pensa alle conseguenze nel caso entrino in possesso delle capacità di Echelon e inizino a sfruttarle, anche se dovessero evitare di vendere ad altri le informazioni. Con le operazioni di Moonlight Maze sono sul punto di acquisire le capacità di isolare Gran Bretagna e Stati Uniti; con Echelon avrebbero completo e illimitato accesso a qualsiasi informazione in tutto il mondo: informazioni governative, militari e commerciali... Tu puoi fermare tutto questo, Nick, se vuoi.» Fece una pausa e mi guardò negli occhi. Le passai la valigetta attraverso il tavolo. Aveva ragione. Se questa era la verità, si trattava di un'offerta che la mia coscienza mi avrebbe impedito di rifiutare. Il pensiero che queste macchine potessero sentire tutto quello che dicevamo e facevamo suonava molto Grande Fratello, ma che cazzo, preferivo che a poterlo fare fossero le nazioni dell'accordo e non qualsiasi individuo con abbastanza denaro. La falla nelle informazioni militari doveva essere bloccata. Non me ne fregava un cazzo che scoprissero i dettagli tecnici del più recente missile terra-aria, o altro. Era della vita delle persone, inclusa la mia, che m'importava. Avevo partecipato a più di un'azione finita in merda, in cui degli amici erano morti a causa di informazioni non sicure. Se potevo fermare tutto questo e andarmene con una valigia piena di soldi, mi sembrava che fosse bene per tutti. «Cosa vuoi da me esattamente?»
Percepì il consenso nella mia voce. «Devi distruggere le risorse Moonlight Maze dei Maliskia e ogni progresso che possono aver compiuto con Echelon. Questo vuol dire distruggere l'installazione completa... computer, software, tutto. E questa volta, sei totalmente solo. Valentin non può essere collegato con l'attacco ai Maliskia. Ogni conflitto porterebbe disarmonia e lo distoglierebbe dal suo scopo. Così, se avrai dei problemi, temo che né lui né io saremo in grado di aiutarti.» Potevo essere l'uomo più cinico di tutta la Gran Bretagna, ma non ero un traditore. E se tutto quello che stava dicendo quella donna era vero, ero certo che Val sarebbe stato felice di aprire ancora un po' il libretto degli assegni, specie se dovevo fare tutto da solo. Mi misi comodo sullo schienale e alzai tre dita. Il suo volto non mosse un muscolo. «Dollari?» Aveva fatto la domanda e la risposta era scontata. «Sterline. Per lo scambio tutto come avevamo concordato.» Annuì. «Tre milioni. Sarai pagato.» Il fatto che avesse accettato con tanta facilità mi mise un po' a disagio. «Garanzie?» «Nessuna. E neanche anticipi. Ma Valentin conosce gli sforzi che hai fatto per rintracciarlo la prima volta, e non ha dubbi che lo rifaresti.» «Giusto.» Non c'era bisogno di spiegare che non serviva fare minacce che non si potevano mantenere. Lei lo sapeva. «Come ti ho già detto più di una volta, Nick, gli piaci. Avrai i tuoi soldi.» «Dove si trova la base?» Indicò un punto alle mie spalle, oltre il porto, sul mare. «In quella direzione, in Estonia.» Aggrottai la fronte. L'unica cosa che sapevo dell'Estonia era che faceva parte della vecchia Unione Sovietica e che adesso voleva entrare a far parte della NATO, dell'Unione Europea, di tutto, di qualsiasi cosa pur di staccarsi per sempre dalla Russia. «La popolazione è ancora per il trenta per cento russa. I Maliskia trovano più facile operare da là.» Portò la tazza alle labbra e fece una smorfia: Il tè era freddo. C'era ancora un punto che aveva trascurato. «Se i Maliskia hanno Tom», dissi, «e a quanto mi sembra di capire si trova in questa base, dopo averlo preso devo riportarlo qui, o devo limitarmi a riportarlo a Londra?» Mi fissò come se fossi scemo. «Nick, pensavo che avessi capito, Tom
dev'essere considerato parte delle loro risorse.» Continuò a fissarmi a lungo in attesa che capissi. Alla fine ci arrivai. Me lo lesse in faccia. «Non voglio precisare ciò che è evidente, Nick, ma per quale altro motivo Val dovrebbe pagarti tre milioni di sterline? Tom deve morire.» Quasi non riuscivo a parlare. «Ma perché? Non basta semplicemente portarlo fuori?» «Non c'è scelta, Nick. Tom verrebbe costretto con la forza ad aiutarli con Echelon. Come entrambi sappiamo, lui è in grado di attaccare il firewall. Sappiamo anche che hanno almeno una parte del software. Sappiamo che hanno Tom, e probabilmente anche il ThinkPad. Non appena metteranno insieme quello che ha in testa, quello che ha in tasca e quello che c'era nel furgone...» si strinse nelle spalle. «Se i Maliskia hanno accesso a Echelon e lo aggiungono alle informazioni ottenute con Moonlight Maze, avranno tutti gli ingredienti per una catastrofe. Questo non solo pregiudicherebbe i progetti di Valentin per l'Oriente, ma metterebbe in ginocchio l'Occidente. Ascolta, Nick. Tom ha il ThinkPad. Ha la capacità di usarlo. Il rischio è troppo grande. E cosa accadrebbe se tu venissi ucciso o catturato prima di finire il lavoro? Anche se tu lo salvassi, lui rimarrebbe nel Paese, e Valentin non vuole correre il rischio che lo catturino di nuovo. Per lui è meglio sacrificare Tom e l'opportunità di avere Echelon per sé piuttosto che rischiare che Echelon lo abbiano i Maliskia.» Non riuscivo ad accettarlo. «Perché non dirlo agli americani? Val gli avrebbe detto tutto della casa dei finlandesi.» «Impensabile. Cosa accadrebbe se prendessero Tom e lui spiegasse esattamente quello che stava facendo? Nick, non credo che lo vorresti neppure tu, vero? Tom finirebbe in prigione a vita e tu saresti nella cella a fianco.» Si chinò e depose la valigetta nel sacchetto di carta. Sembrò che si piegasse in due. «Mi dispiace, Nick, ma ho molte cose da fare, come puoi capire. C'incontreremo domani da Stockmann, alle undici, al bar. Prima non sarei in grado di darti informazioni aggiornate. Se i Maliskia sono riusciti a far collaborare Tom, ogni ora è importante.» La fissai e annuii. «Le nuove informazioni arriveranno con il treno delle 6.30 da San Pietroburgo?» Non batté ciglio. «Sì, naturalmente. Nick, volevo scusarmi ancora una volta per quanto è successo. È solo che se tu avessi saputo esattamente come stavano le cose...» «Non avrei mai accettato il lavoro?»
«Esatto. Devo andare, adesso.» Si alzò e si abbottonò il cappotto. «Dammi circa un quarto d'ora.» Annuii. Avrei bevuto ancora qualcosa in attesa che si allontanasse dalla zona, poi sarei andato a scoprire dove cazzo si trovava l'Estonia e come cazzo si faceva ad arrivarci. 27 Giovedì 16 dicembre 1999 Dieci minuti prima che arrivasse, mi sistemai in un posto d'angolo al Café Avec da Stockmann. Andando all'appuntamento mi ero fermato in un bar con Internet per controllare la storia del Moonlight Maze sul sito web del Sunday Times. Era tutto vero. La parola «avec» stava a significare che potevi avere il caffè corretto con un goccio di quello che volevi dal bar, dal Jack Daniels al liquore d'erbe locali. Gli abitanti del posto ci davano dentro come se non esistesse un domani. Posai due caffè e due paste danesi sul tavolo e coprii con un piattino la tazza di Liv per non farla raffreddare. Il bar era pieno di gente, come quando ci ero stato con Tom. Avevo passato buona parte della notte a pensare a lui, sdraiato nella camera di un albergo poco costoso e soprattutto anonimo. L'aspetto più triste era che impedire ai Maliskia di mettere insieme Echelon con l'operazione Moonlight Maze, ed essere pagato per farlo, erano più importanti della vita di Tom. Lo rividi nell'istante in cui cercava di aiutarmi dopo il volo dalla recinzione. Ucciderlo non sarebbe stato facile. Avevo preso in considerazione anche una visita al consolato per contattare Lynn su una linea sicura, ma mi ero reso subito conto che stavo perdendo di vista il vero scopo, e cioè i soldi. Se Lynn fosse stato messo al corrente, non ci avrei guadagnato un cazzo. Nel migliore dei casi mi avrebbe fatto pat pat sulla testa. Viceversa mi sarei messo in tasca tre milioni di sterline, e avrei fatto un buon servizio alla democrazia. Palle, ovviamente. E non potevo nemmeno far finta che non lo fossero. Dopo la pausa tè con Liv del giorno precedente, ero andato direttamente al porto per controllare l'orario dei traghetti per l'Estonia. La capitale, Tallinn, sembrava la meta di un'infinità di navi traghetto con servizio auto a bordo, catamarani ad alta velocità e aliscafi. Il mezzo più veloce percorre-
va la distanza, ottanta chilometri, in un'ora e mezzo, ma la ragazza della biglietteria mi aveva informato che sul Baltico c'era troppo vento e troppo ghiaccio in superficie e per qualche giorno non ci sarebbero state corse. Gli unici mezzi in grado di affrontare le condizioni atmosferiche erano i traghetti vecchio tipo che normalmente impiegavano circa quattro ore, ma che a causa del mare grosso avrebbero impiegato molto di più. La storia della mia vita. Un sorso di caffè e un'occhiata alle parole lunghissime che formavano i titoli del quotidiano finlandese, senza mai perdere di vista le scale mobili. Per entrare in Estonia avrei usato il passaporto di Davidson, ma il biglietto del traghetto lo avevo prenotato a nome Davies. Una piccola modifica nel nome aumenta il margine di possibile confusione. E se mi avessero fermato, avrei avuto buon gioco a sostenere che era stato un errore dell'addetto alla biglietteria. In fondo l'inglese non era la loro prima lingua e il mio accento era piuttosto difficile da capire, se m'impegnavo. Non era un metodo garantito, ma poteva contribuire a confondere le acque. Avevo la certezza che la Ditta stesse ancora cercando Davidson, adesso che esisteva un legame con Liv e Tom. Non m'importava di quanto fossero riusciti a capire, finché non avevano una mia foto da abbinare. E per fortuna quella sul passaporto di Davidson non mi assomigliava troppo. I baffi, gli occhiali rettangolari, un po' di trucco per ingrossare il naso e il mento avevano fatto un buon lavoro. Me lo avessero chiesto, avrei potuto dire che usavo le lenti a contatto e che mi piaceva molto il mio nuovo look senza baffi. Avevo imparato a truccarmi alla BBC. Truccarsi non vuol dire soltanto mettersi dei nasi di plastica e delle sopracciglia finte. Inzuppai la pasta nel caffè e mi ritrovai a sorridere al ricordo delle quattro ore passate a truccarmi da donna per l'esame finale delle due settimane di corso. Avevo deciso che la tonalità di rossetto che avevo scelto mi donava molto. Era stato molto buffo passare la giornata a far compere con la mia «amica» Peter, l'insegnante, che indossava un seducente abito azzurro, in modo particolare quando eravamo andati nel bagno delle donne. Però non mi era piaciuto molto dovermi depilare e fare la ceretta su mani e gambe. Mi avevano pizzicato per settimane. Da qualche parte alla mia sinistra mi arrivò il suono insistito dell'ouverture del Guglielmo Tell, seguito da un breve momento di silenzio e poi dalla voce di un'anziana signora finlandese. In quel Paese avevano tutti il cellulare - avevo visto bambini piccolissimi, per mano ai genitori, che parlavano in microfoni a cuffia -, ma nessuno aveva una suoneria normale. Im-
possibile passare cinque minuti a Helsinki senza orecchiare Il volo del calabrone, brani di Sibelius o colonne sonore dei film di James Bond. Me ne stavo seduto, inzuppavo e aspettavo. Il passaporto, infilato nello stivale destro, mi dava fastidio. In quello sinistro c'erano millecinquecento dollari in banconote da cento, venti e dieci. Il resto, invece, se ne stava tranquillo e beato nella sacca alla stazione. La P7 e i caricatori di riserva li avevo ancora addosso e sarebbero finiti nella sacca all'ultimo minuto. Di portare l'arma con me in Estonia non se ne parlava neppure. Non avevo idea di come fossero le norme di sicurezza a bordo dei traghetti. Dalla scala mobile comparve la testa di Liv. Si guardava intorno con fare distratto, come se non stesse cercandomi. Quando apparve il resto del corpo, vidi che indossava il tre quarti di pelle nera con cintura sopra i soliti jeans e gli stivali Timberland. Aveva una grande borsa di pelle nera a tracolla e una rivista nella mano destra. M'individuò e si diresse verso il tavolo. Mi baciò su entrambe le guance. I capelli erano tornati in ottima forma e aveva addosso un profumo di limone. Una copia di Vogue edizione inglese planò sul tavolo fra di noi e, mentre si metteva a sedere, ci esibimmo nel solito giochetto del ciaocome-stai e sorrisini vari. Le spinsi davanti la tazza e sollevai il piattino. La portò alle labbra. O il caffè si era ormai raffreddato troppo o faceva schifo, in ogni caso riatterrò subito sul tavolo. «I Maliskia si trovano vicino a Narva.» Le risposi con un sorriso, come se avesse detto qualcosa di particolarmente divertente. «Narva?» Poteva essere sulla luna, per quel che ne sapevo. «Ti serve una cartina Regio in scala uno a duecentomila.» «Paese?» Sorrise. «Estonia, nord-est.» Posò una mano su Vogue. «Avrai anche bisogno di quello che c'è qui dentro.» Annuii. La mano era ancora posata sulla rivista. «È da lì che hanno gestito Moonlight Maze; e adesso che hanno Tom e il ThinkPad, è da lì che tenteranno di accedere a Echelon. Ogni poche settimane si spostano per evitare di essere individuati, e dopo quello che è successo si sposteranno molto presto. Devi muoverti in fretta.» Feci cenno di aver capito e lei unì le mani sul tavolo sporgendosi in a-
vanti. «Qui dentro troverai anche un indirizzo. Si tratta di persone disposte a darti una mano per procurarti esplosivo e qualsiasi altra cosa di cui tu abbia bisogno. Il modo migliore per raggiungere Narva è in treno. Noleggiare un'auto può crearti più problemi che vantaggi. E, Nick...» mi fissò negli occhi «... non ti fidare di questa gente di Narva. Sono totalmente inaffidabili, il modo con cui gestiscono il traffico di droga rappresenta un danno per noi. Ma è quanto di meglio Valentin possa offrirti per darti una mano sul posto.» Le sorrisi facendole capire che stava spiegando al nonno come si succhiano le uova. «Ricorda anche di non fare mai il nome di Val, quando tratti con loro. Non deve esserci collegamento fra lui e tutto questo. Niente, di nessun genere. Se fanno il collegamento, il lavoro salta. Semplicemente perché ti fanno fuori.» Riunì di nuovo le mani. «Qui dentro c'è anche un...» esitò cercando la parola giusta, ma non riuscì a trovarne una che la soddisfacesse. Alla fine si strinse nelle spalle: «... una lettera di un amico, lo stesso che ha i contatti a Narva. Ti garantirà di avere da quella gente ciò di cui hai bisogno, ma usala solo se necessario, Nick. È costata parecchio e non devi abusarne». Feci la domanda ovvia. «Che cos'è?» «Considerala una polizza d'assicurazione.» Sorrise debolmente. «La polizza d'assicurazione di un ceceno. Te l'ho detto, gli piaci molto.» Non c'era bisogno di chiedere altro. Lo avrei scoperto in futuro. Adesso c'erano cose più importanti. Come al solito avevo bisogno di conoscere il numero delle baionette. «Dentro quante persone ci sono?» Scosse la testa. «È un'informazione che non abbiamo, ma saranno più dell'ultima volta. È la loro postazione più importante, per questo si trova in Estonia: la posizione geografica è il miglior sistema di difesa.» Avevo bisogno di altre risposte. «Come farai a sapere se tutto è andato bene?» «Ti preoccupi che Valentin non ti paghi senza prove? Sbagli. Saprà tutto nel giro di poche ore... come, non è cosa che ti riguardi. Avrai i tuoi soldi, Nick.» Mi sporsi più vicino. «Come fai a conoscere Tom?» «Io non lo conosco, Val sì. Quando Tom venne preso in consegna a Menwith Hill, stava lavorando per Valentin. Voi inglesi non lo avete mai scoperto perché le vostre minacce erano niente in confronto a quelle di Valentin.»
«Tipo?» La sua espressione m'invitava a usare la fantasia. Con gli occhi della mente vidi Tom, piegato in due nel bagagliaio di una macchina dopo che la squadra dell'interrogatorio gli aveva spiegato i fatti della vita. «A Menwith Hill, Tom stava cercando di accedere a Echelon per conto di Valentin?» Annuì. «Quando venne catturato, disse ai servizi segreti inglesi solo quello che riteneva volessero sapere e ai giudici disse quello che loro gli dissero di dire. È stato tutto molto semplice, in verità. O meglio, lo è stato per tutti tranne che per Tom.» «E come sapevi del mio collegamento con Tom?» «Valentin ha accesso a molti segreti. Dopo il vostro incontro di Helsinki, ha voluto maggiori informazioni sul tuo conto. È stato abbastanza facile ottenere notizie dai Maliskia, grazie a Moonlight Maze. Un incentivo in più per andare da quelle parti e far saltare tutto all'aria, non ti pare?» Cazzo, troppo vero. Non mi piaceva neppure il suono di tutto questo. Liv tamburellò sulla rivista. «Leggilo e saprai tutto quello che sappiamo noi. Devo andare adesso. Ho tante altre cose da fare.» Avrei scommesso che una di quelle cose era fare rapporto a Val sul nostro incontro e dirgli che ero in viaggio verso Narva. Liv e io ci sorridemmo come due amici che si separano, ci baciammo sulle guance e facemmo tutti i gesti che si fanno quando ci si saluta, poi lei mise la borsa a tracolla. «Andrò alla stazione tutti i giorni, Nick, a partire da domenica.» Le toccai una manica. «Un'ultima domanda.» Si voltò a guardarmi. «Non mi sembri troppo preoccupata per Tom. Sai quello che voglio dire. Ho avuto l'impressione che foste molto intimi.» Lentamente tornò a sedersi. Per un paio di secondi giocherellò con la tazza, poi mi guardò. «Stai parlando del fatto che ho fatto sesso con lui?» Sorrise. «Tom non è uno con il quale avrei una storia. Ho fatto sesso con lui perché sbandava ed era pieno di dubbi su quello che volevamo da lui. Dormire con lui è stato... è stato», cercò le parole giuste, poi alzò le spalle, «una garanzia. Dovevo tenerlo legato agli impegni presi. Era l'unico che potesse riuscirci. Nel suo campo è un genio. Doveva venire con te. Anche per questo motivo devi agire più in fretta che puoi. Le sue capacità non devono rimanere a disposizione dei Maliskia.»
Si alzò e si voltò con un piccolo cenno di saluto della mano, e io mi lasciai andare sulla sedia. Mi sarebbe piaciuto ricevere quell'informazione qualche giorno prima. La seguii con lo sguardo mentre raggiungeva la scala mobile e quindi spariva a poco a poco. Dalla rivista che Liv aveva lasciato estrassi una piccola busta bianca. Aveva l'aspetto di un comune biglietto di auguri, non sembrava che dentro ci fosse molto. Rimasi per un po' a riflettere senza toccarla, mentre finivo il caffè tiepido di Liv. Dopo circa dieci minuti raccolsi tazze, piattini e il resto sul vassoio. Passando davanti alla scala mobile, attraversai il reparto abbigliamento e m'infilai nelle toilette. Una volta al sicuro dentro un cesso, aprii la busta. All'interno c'erano tre pezzi di carta di varie misure e di diversa consistenza. Il primo era un post-it, su cui c'era un indirizzo di Narva - leggendolo compresi che avrei dovuto cercare un tizio di nome Konstantin - oltre a delle coordinate di longitudine e latitudine. Il post-it era attaccato su un foglio di carta da poco, molto sottile e formato A4 strappato a metà, con una decina di righe in cirillico scritte con penna biro. La polizza di assicurazione cecena doveva essere quella, perché il terzo pezzo era un foglio di carta oleata su cui erano tracciati a matita una croce e, verso il fondo, nell'angolo a sinistra, un piccolo cerchio. Dovevo allinearlo alla longitudine e alla latitudine sulla cartina giusta e, tombola!, il cerchietto sarebbe andato a indicare il posto dove dovevano trovarsi Tom e i Maliskia. Ascoltai il fruscio di piedi all'esterno, lo scorrere dell'acqua nei lavandini, il ronzio degli asciugamani ad aria, ogni genere di grugniti e scoregge, e iniziai a ridere da solo mentre piegavo i pezzetti di carta e li infilavo nelle calze, ben nascosti. Mi sentivo come Harry Palmer in uno di quei film di Michael Caine degli anni '60. Ridicolo. Avevo più cose sotto i piedi che nelle tasche. Tirai la catena e aprii la porta. Un grasso turista giapponese era in paziente attesa, pieno di sacche per macchine fotografiche e cinepresa. Lo lasciai all'impresa di farsi strada all'interno del cesso e mi diressi al distributore di preservativi vicino agli orinatoi. Era giunto il momento di prendere delle decisioni. Infilai qualche moneta, presi in considerazione quelli alla fragola o alla banana e quelli a forma di mazza medievale, ma alla fine scelsi il tipo standard trasparente. Molto da missionario. Poi, con il pacchetto da tre pezzi in tasca, uscii da Stockmann. Se andava bene, per sempre.
Controllai se ero seguito effettuando un giro completo del negozio e compiendo un certo numero di svolte, nel senso che ritornai sui miei passi un paio di volte. Mi sentii piuttosto tranquillo e feci rotta per lo stesso negozio di libri in cui avevo comprato la guida dell'Estonia. Trovai subito la cartina che mi aveva indicato Liv. Tornato in albergo, mi misi a studiarla in dettaglio. Tallinn, la capitale, si trovava a ovest, sulla costa del Baltico. Era di fronte alla Finlandia, che distava ottanta chilometri di mare. Narva era decisamente lontana, in direzione nordest, vicino alla Russia, quindici chilometri all'interno. C'era una strada principale che andava da Tallinn a Narva, e lungo il percorso collegava molte altre piccole città nei duecentodieci chilometri che le separavano. Individuai anche la linea nera della ferrovia che Liv mi aveva consigliato di usare; correva più o meno parallela alla strada, a volte molto vicina ma quasi sempre alcuni chilometri più a sud. Narva era tagliata in due da un fiume, e il confine con la Russia era una linea immaginaria che correva esattamente nel mezzo. C'erano due punti di congiunzione, un ponte ferroviario e uno stradale. Dalla parte russa, la strada principale e la linea ferroviaria proseguivano verso est, e in un angolo della cartina compariva la scritta: «Peterburi 138 km». In altre parole, Narva era più vicina a San Pietroburgo di quanto non fosse a Tallinn. Tirai fuori il foglio di carta oleata e piazzai la croce sopra la latitudine e la longitudine corrispondenti, poi osservai il cerchio. Era intorno a un piccolo gruppo di edifici, un paio di chilometri a sud di una piccola città di nome Tudu, trentacinque chilometri a sud-est di Narva. In pratica, il bersaglio era in mezzo al nulla. Un posto perfetto come base delle operazioni, per i Maliskia. Quei finlandesi avrebbero dovuto andare lì a lavorare; ma forse si erano rifiutati perché non si trovavano posti dove ordinare la pizza. Avevo ancora qualche ora prima del traghetto delle 17.30, così recuperai la guida e lessi la parte relativa alla zona a nord-est dell'Estonia. L'impressione era che fosse un incubo. Ai tempi della cortina di ferro, Narva era stata una delle città più inquinate d'Europa. Due imponenti centrali elettriche producevano chilowatt sufficienti perché gli imponenti ingranaggi della base industriale sovietica continuassero a funzionare, pompando nell'atmosfera una quantità incalcolabile di tonnellate di anidride solforosa, di magnesio non so che e di alluminio non so che altro. Vicino c'era un grande lago e presi un appunto mentale di ricordarmi di non mangiare pesce una volta sul posto. Secondo la guida, il novanta per cento della popolazione della zona par-
lava russo e, agli occhi del governo estone, erano cittadini russi. L'ottica nella quale si muovevano era che se uno non parlava l'estone, non aveva diritto alla cittadinanza in Estonia. Il risultato era che una grande quantità di russi in possesso di vecchi passaporti russi, vicini al confine con la Russia, erano costretti a restare in Estonia, un Paese che non voleva riconoscerli. Da Tallinn diretti a est partivano cinque treni al giorno. Alcuni andavano direttamente a San Pietroburgo e Mosca e alcuni si fermavano a Narva, dopo circa cinque ore di viaggio. Nessun problema; avrei preso il traghetto quella notte, sarei andato in un albergo, avrei fatto le mie cose e poi avrei preso il treno del mattino. Questa era la parte facile. Avevo memorizzato il nome e l'indirizzo del contatto di Narva, ripetendoli per un'ora dopo averli letti. Strappai la parte con la croce dalla carta oleata, la arrotolai insieme con il post-it e li mangiai. In quel lavoro tutto era come nei film di spionaggio, dunque perché non andare sino in fondo? Tenni la cartina e la guida perché volevo sembrare un turista. Se me lo avessero chiesto, ero interessato a scoprire le immense ricchezze culturali della zona. Per lo meno questo è quello che diceva la guida. Non vedevo l'ora. Come ultimo preparativo per il viaggio, andai in bagno e riempii il lavandino d'acqua calda. Poi, aperta la saponetta dell'albergo, feci quello che non mi piaceva mai dover fare. 28 Seguii la massa fuori dalla sala d'attesa del terminal e su per la rampa d'accesso di un gigantesco traghetto che non sarebbe sembrato fuori posto alle banchine di Dover. Quando mi resi conto che tutti dovevamo passare attraverso il metal detector, mi sentii sollevato per aver lasciato la P7, con il resto del bagaglio, al deposito della stazione. Stavo utilizzando il passaporto di Nick Davidson. La donna che me lo aveva preso al controllo passaporti era uno dei pochi ufficiali dell'immigrazione che avesse mai controllato una fotografia. Dei miei compagni appiedati pochi sembravano ricchi come i finlandesi che mi ero abituato a vedere. Immaginai che fossero estoni. Portavano tutti colbacchi di pelo sintetico e cappotti di PVC effetto cuoio. Qualcuno indossava quelle lunghe palandrane imbottite da allenatore di calcio, ma decisamente vecchie e malandate. Si trascinavano dietro a fatica enormi sac-
chetti di plastica, tipo quelli che si usano nei mercati per il trasporto delle derrate, stracolmi di roba varia, dalle coperte ai pacchi di riso. Bambini, mogli, nonne, famiglie numerose e al completo, tutti pronti per la gran traversata, parlottavano fitto, tutti insieme e tutti in estone. Il mio progetto era mantenermi fuori dalla mischia, mettermi a sedere in un posto tranquillo e appoggiare la testa. Ma, una volta a bordo, mi resi conto che sarebbe stato impossibile. L'aria risuonava di trilli e rimbombi di videogiochi e slot machine, di urla di bambini che correvano avanti e indietro per i corridoi, inseguiti dai genitori che tentavano di acchiapparli. Mi spostai di lato nel tentativo di evitare bambini, trascinatori di sacchetti e qualsiasi altro essere umano che procedesse in senso inverso al mio e riuscii a capire dove erano diretti tutti: verso il bar e il buffet. Se non potevo dormire, tanto valeva mangiare. Dove il corridoio si allargava in un'ampia zona bar, la folla si assottigliava. Corridoi e pareti erano coperti di una formica effetto mogano, cupa e deprimente, che ricordava le vecchie ferrovie inglesi. L'area sembrava riservata ai finlandesi, tutti ben vestiti, saliti a bordo con l'auto prima di noi. Ridevano e scherzavano rumorosamente, ingollando liquidi come condannati a morte. Mi davano l'idea di essere pendolari dell'alcol, sulla tratta di Tallinn per far scorta al duty free. Nessun sacchetto della spesa e l'unico odore percepibile era quello dei soldi. I giacconi da sci erano delle marche più alla moda e i pesanti cappotti di ottima lana, forse di cachemire. Sotto, esibivano tutti caldi maglioni a girocollo o a collo alto. L'unica cosa che avevano in comune con gli estoni era l'amore per tabacco: uno strato di fumo galleggiava contro il soffitto, in attesa di farsi risucchiare da un condizionatore costretto agli straordinari. Sul lato opposto del bar c'era il cambio. Mi misi in coda e cambiai cento dollari in qualsiasi cosa fosse la valuta locale. Evitai di controllare il tasso di cambio. Anche se mi avessero fregato, cos'avrei potuto fare, andarmene altrove? Alla fine, sgomitando fino al buffet, raccattai un vassoio e mi misi in coda. Dover attendere non mi dava troppo fastidio; il viaggio era lungo e non morivo dalla voglia di tornare nel bar, in mezzo al casino degli ubriaconi. Venti minuti dopo ero seduto con una famigliola a un tavolo di plastica fissato al pavimento. Il padre, che dimostrava cinquantacinque anni ma probabilmente ne aveva meno di quaranta, non si era ancora tolto il berretto di lana. La moglie, di anni, ne dimostrava una decina di più. I quattro
bambini stavano affrontando i rispettivi piattoni di patate fritte pallide e poco cotte. Le mie avevano lo stesso aspetto ed erano accompagnate da una coppia di salsicce rosse dall'aria terrificante. Nel bar gli echi delle risate si mescolavano a canzoni in sottofondo che riproducevano cover casalinghe di Michael Jackson e George Michael. Grazie a Dio partirono le istruzioni sulla sicurezza che si ripeterono all'infinito in almeno cinque lingue e interruppero quasi subito l'esecuzione dell'aspirante George. Mentre affrontavo le patate, il marito estrasse un pacchetto di sigarette e lui e la moglie se ne accesero una. Mi fumavano in faccia soddisfatti, buttando la cenere nei piatti vuoti. Alla fine spensero le cicche nel ketchup, che sfrigolò. Decisi che era tempo di fare un giro. Il mio cibo potevano finirlo i bambini. Eravamo ormai in mare aperto e il battello rollava e beccheggiava. I bambini si divertivano molto a farsi sbatacchiare nel corridoio da una parte all'altra, e i genitori li sgridavano con molta meno convinzione di prima. Parecchi cominciavano a essere più pallidi delle patate che avevo lasciato nel piatto. Passai davanti alla rivendita di giornali. L'unica cosa in inglese era un'altra guida dell'Estonia; decisi di tornare al bar e leggere la mia. I finlandesi, per nulla scoraggiati dal mare grosso, tracannavano birra Koff, o per lo meno ci provavano. L'ondata che m'investì significava che sul pavimento sciabordava la stessa quantità di liquido che trovava la via delle gole. L'unico posto libero era in fondo a un séparé semicircolare, dove sei finlandesi sulla trentina avanzata, tre uomini e tre donne, tutti con vestiti costosi, fumavano Camel e scolavano vodka. Li gratificai del mio sorriso non-rompetemi-le-palle, mi misi a sedere sulla plastica rossa effetto pelle e aprii la guida. L'Estonia, appresi, era stretta tra la Lituania e la Russia, aveva circa le dimensioni della Svizzera e distava non più di due o tre ore di macchina da San Pietroburgo. Aveva una popolazione di un milione e mezzo di abitanti, quanti ne aveva Varsavia, e se questo era il meglio che avevano trovato da dire, doveva essere un posto paralizzacervelli. L'Estonia sembrava aver sofferto tutti i disagi tipici di un'esistenza come ex repubblica sovietica. Razionamento del cibo, code per il pane, penuria di carburante e inflazione più alta della Nat West Tower. Doveva essere un posto decisamente lugubre, un po' come la gigantesca versione slava di un
quartiere periferico a sud di Londra. Le foto del centro storico di Tallinn mostravano mura medievali, torrette e torri merlate. Non vedevo l'ora di ammirare i «tetti a due spioventi» magnificati dalla guida. Proseguendo nella lettura, scoprii che quasi tutti gli investimenti erano stati fatti nei dintorni di Tallinn, e che in tutte le altre zone, da quando all'inizio degli anni '90 i russi se n'erano andati, non c'erano né gas né energia elettrica. Del resto, i turisti non si sarebbero mai spinti troppo lontano dalla città, giusto? Rimasi seduto a occhi chiusi, profondamente annoiato. Con i finlandesi non sarei mai riuscito a socializzare. All'arrivo avevo un lavoro da svolgere e, da quanto avevo visto, dubitavo di poter reggere il confronto alcolico, soprattutto con le donne. Per cercare di evitare il fumo delle sigarette che ormai mi circondava come una nebbia fitta, sprofondai nel divanetto. Il traghetto sbandava alla grande, e di tanto in tanto le eliche ululavano come se fossero uscite dall'acqua, accompagnate da un coro di urla da parte della gente nel bar. Dai finestrini non si vedeva altro che buio, ma sapevo che da qualche parte là fuori c'era ghiaccio in quantità. Incrociai le braccia sul petto, chinai il capo e provai a dormire. Non ci sarei riuscito, ma ogni volta che c'è un momento di calma conviene approfittarne per ricaricare le pile. Un annuncio dell'altoparlante mi risvegliò, anche se non ero poi così sicuro di stare dormendo. Immaginai che ci stesse magnificando gli affari che si potevano fare al duty free del traghetto, ma poi riconobbi la parola Tallinn. La voce proseguì in tutte le lingue, e alla fine giunse all'inglese. Mancavano una trentina di minuti all'arrivo. Infilai il libro nella sacca, insieme con il berretto di lana e gli oggetti da toilette, e mi avventurai nel corridoio. Il rollio ci faceva camminare tutti come ubriachi e di tanto in tanto dovetti appoggiarmi anch'io al muro per non cadere. Seguii le indicazioni per i bagni, scivolai di fianco a una porta di formica marrone e scesi una rampa di scale. Nel bagno degli uomini c'erano un paio di tizi che chiacchieravano. Si allontanarono tirandosi su le cerniere e accendendosi le sigarette. Sul pavimento, la stessa quantità di alcol che c'era per terra nel bar; l'unica differenza era che questa era transitata per i reni delle persone. La stanza era torrida, il che rendeva la puzza insopportabile. Mi avvicinai barcollando agli orinatoi. In tutti galleggiava una pozza
giallo scuro che fluiva lentamente attraverso il muro di cicche che ostruiva lo scarico. Ne trovai uno che non era pieno al punto da schizzarmi, posai la mano sinistra sulla paratia per non cadere e tirai giù la cerniera, rimanendo in ascolto dell'implacabile ronzio dei motori. La porta si aprì e fece il suo ingresso un'altra coppia di individui. Dalle giacche in GoreTex decisi che dovevano essere finlandesi. Mi stavo sistemando, cercando di tirarmi su la lampo con una mano e continuando a reggermi con l'altra alla paratia. Quello vestito di nero entrò in un cesso libero alle mie spalle. L'altro rimase a dormicchiare accanto alla fila di lavandini sulla mia sinistra. Sul tubo di acciaio inox che portava l'acqua dalla cassetta sopra la mia testa all'orinatoio, si rifletteva il verde della sua giacca. Non avrei saputo dire con esattezza cosa stesse facendo perché il tubo distorceva l'immagine come gli specchi del luna park, ma qualsiasi cosa fosse, c'era qualcosa che non andava. Contemporaneamente sentii il fruscio del GoreTex e nel riflesso si aggiunse qualcosa di nero. Mi voltai in tempo per vedere un braccio alzato e pronto a colpirmi alla schiena con qualcosa che assomigliava a un coltello. Mai lasciarli avvicinare. Nella speranza di disorientarlo lanciai un urlo e mi buttai in avanti, concentrato sul suo braccio. Dell'altro per il momento non mi preoccupai. La minaccia maggiore era questo. Afferrai con la mano destra il suo polso alzato e continuai ad avanzare. Lo feci ruotare verso sinistra, aiutato dal suo slancio. Con la sinistra gli feci completare il giro. Adesso aveva la schiena rivolta verso di me. Lo spinsi verso i cessi. Finimmo dentro un cubicolo. Mentre lottavamo corpo a corpo, le pareti di truciolato si piegarono rumorosamente. Cadde sulle ginocchia accanto alla tazza. L'asse non c'era, probabilmente divelta anni prima e portata a casa. Continuando a stringergli il polso destro, mi piegai sopra la sua schiena e gli premetti con forza entrambe le ginocchia contro la nuca. Non c'era tempo da perdere: ne avevo due da sistemare. Sentii delle ossa sbriciolarsi sulla ceramica. Prima lo scricchiolio dei denti e poi la mascella che si spezzava sotto il mio peso, insieme con un lamento soffocato, quasi infantile. Vidi che mollava il coltello. Con la destra tastai il pavimento e lo afferrai. Non era un coltello, era un autojet, del tipo americano. Sapevo cos'era e ne conoscevo gli effetti. Impugnai la siringa automatica, quattro dita intorno al cilindro del dia-
metro di un pennarello e il pollice sul pulsante di iniezione, pronto all'attacco dei piedi che mi sciacquettavano dietro e al GoreTex verde che mi frusciava alle spalle. Troppo tardi. Il ragazzo mi era già sopra. Impugnava anche lui una siringa. Sentii l'ago penetrarmi nella carne e il liquido entrarmi nel culo; era come se sotto la pelle mi stesse crescendo una pallina da golf. Mi slanciai all'indietro, schiantandomi con tutta la forza che avevo contro il suo corpo e spingendolo verso gli orinatoi. Il rollio del traghetto ci fece sbandare. Andammo a sbattere contro la ceramica e iniziò a tempestarmi di pugni sulla faccia. Io continuavo a schiacciarlo. Mi morsicò sulla testa, ma non sentii nulla. L'iniezione stava facendo effetto: battito del cuore accelerato, bocca secca, vista che cominciava a offuscarsi. Scopolamina con una parte di morfina, ne ero quasi certo. Quando viene iniettata, ha un effetto sedativo, noto con il nome «sonno del crepuscolo»; un mix di droghe che un tempo si usava in ostetricia e che adesso è considerato troppo pericoloso, eccetto quando, come nel caso dei servizi segreti americani e inglesi, non ci si preoccupa troppo della carta dei diritti del malato. L'avevo usato anch'io su alcuni bersagli, e mi aveva facilitato non poco il loro trasporto. Mai avrei immaginato di ricevere lo stesso trattamento. Per lo meno adesso potevo affermare di aver testato il prodotto. Tutto si muoveva al rallentatore. Anche le sue urla nelle orecchie erano indistinte. Si piegava e si dimenava, cercando di divincolarsi tra me e l'orinatoio. Infilai la siringa nella gamba che stava scalciando alla mia destra e premetti il pulsante. Automaticamente l'ago uscì all'esterno, bucò i jeans e la pelle e dispensò il suo liquido. Adesso eravamo pari; si trattava soltanto di vedere chi sarebbe crollato per primo. «Vaffanculo!» Nessun dubbio, era americano. Non mi rimaneva altra energia se non quella che serviva a mantenerlo in quella posizione, puntando le gambe e premendogliele contro. Lasciò cadere l'autojet, ma continuai a schiacciarlo contro l'orinatoio. I piedi mi scivolavano sul pavimento bagnato e la nave non smetteva di beccheggiare. Se avesse ceduto per primo, avrei potuto cercare di allontanarmi. Ormai aveva il culo dentro l'orinatoio e il liquame che c'era dentro ci traboccava addosso. Insisteva a prendermi a pugni in faccia, e per quanto ne sapevo poteva anche avermi ferito gravemente. Le droghe stavano facendo il loro dovere,
inibendo il sistema nervoso centrale. Abbassai la testa per evitare i colpi e lui ebbe un sussulto, come in preda a una fitta. Davanti a me, nel cesso, una sfocata figura in nero era crollata sul pavimento. La porta dei bagni si era aperta. Non che avessi sentito, mi giunsero solo delle urla incomprensibili. Le gambe stavano perdendo la forza di sostenermi nel rollio. Feci un respiro profondo, come quello degli ubriachi, mentre cercavo di distinguere quelli che entravano. «Fuori dai coglioni, via di qui, levatevi dal cazzo!» Anche l'americano si unì: «'Fanculooo!» Le loro sagome sfocate scomparvero. Le gambe dell'americano, adesso, erano deboli almeno quanto le mie. Continuavo a tenere la testa abbassata sul torace mentre lui cercava selvaggiamente di afferrarmi la faccia. Puntava agli occhi. Non urlava più. Emetteva strascicati lamenti, come se non fosse in grado di pronunciare parole, e si aggrappava a orecchie e capelli con la forza che gli rimaneva. Lo sentivo respirare forte sopra di me. Allungai le mani in direzione di quei suoni. Mollò la presa sulla testa per allontanarle. Le mie gambe non avevano più la forza di reggerlo e caddi, prima sulle ginocchia, poi a faccia in giù nel liquido che sciacquettava sul pavimento. Me lo sentii gorgogliare in bocca e capii che stavo andando. Ma quando l'americano mi cadde accanto in ginocchio, schizzandomi altro liquido sulla faccia e grugnendo come un facocero, seppi che non ero il solo. Sedette sui talloni, appoggiato all'orinatoio, armeggiando per aprire la cerniera della giacca. Non potevo permettere che ci riuscisse, poteva avere un'arma, perciò presi un gran respiro, che mi fece ingurgitare altra schifezza dal pavimento, e provai a strisciare sopra di lui. Tentò di respingermi con le mani continuando a grugnire. Per lo meno aveva smesso di cercare di arrivare alle tasche. Adesso il suo obiettivo era la mia faccia. Riuscii a passargli le mani intorno alla gola e a scuotergli la testa da una parte all'altra. Gli uscì un lamento simile a quello di un bambino di due anni che rifiuta il cibo. Se solo fossi riuscito a premergli un pollice alla base della gola, nel punto in cui le due clavicole s'incontrano, esattamente sotto il pomo di Adamo, potevo stenderlo, sempre che il suo corpo fosse in grado di capire quello che stava succedendo. Lasciai scendere la mano al collo del giaccone, frugai con il pollice fin-
ché non trovai l'osso e il punto molle e premetti con tutta la forza che avevo. Si riversò all'istante all'indietro e insieme sprofondammo lentamente a terra. Non gli era piaciuto per niente. Un colpo forte e deciso con due dita dritte o una chiave in quel punto molle è in grado di mettere a terra chiunque, come se a colpirlo fosse una scarica elettrica. Atterrò sul pavimento, le gambe ripiegate sotto il corpo. Nel tentativo di liberarsi si arcuò come un insetto impazzito. Gli rimasi sopra. Stava per soffocare. Naso e bocca emettevano ansimi gutturali. Cercai di mettere a fuoco e di mantenere un minimo di coordinazione. Passai una mano sopra le tasche del giaccone. Niente. Cercai di abbassare la cerniera, ma le dita non riuscivano ad afferrare la linguetta. A cavalcioni sopra di lui osservai i suoi capelli impregnarsi del liquido che tracimava dagli orinatoi. Lo tastai in vita, in cerca di un'arma. Ma le mani non riuscirono a dirmi niente, si rifiutavano di mandare al cervello messaggi di qualsiasi tipo. Rimasi lì, sapendo di dovermene andare, consapevole che anche lui stava pensando la stessa cosa. Alle mie spalle, l'altro tizio nel cesso iniziò a lamentarsi e a tossire. Nel tentativo di muoversi, gli stivali annaspavano sul pavimento. Molto probabilmente lo preoccupava più il conto del dentista degli anni a venire che qualsiasi altra cosa. Mi sollevai in piedi a fatica, barcollai sul posto sopra l'americano, poi le ginocchia cedettero e gli crollai sulla testa. Dal suo naso sgorgò sangue e mi risollevai aggrappandomi a un orinatoio. Si rannicchiò sul pavimento fradicio, cercando ancora di afferrarmi una gamba. Dovevo uscire da lì, rimanere nascosto per i successivi venti minuti e poi lasciare il traghetto. Non avrei perso i sensi: non volevano un peso morto da trasportare. La droga doveva semplicemente rendermi simile ai finlandesi nel bar, cosa che avrebbe reso più facile trasportarmi alla macchina. Salii le scale inciampando e scivolando a ogni gradino. Dopo sei tentativi di aprire la porta mi ritrovai nel corridoio. L'odore di fumo, le urla dei bambini e i suoni delle macchinette mi rimbombavano nella testa che girava intontita. Mentre io facevo zig, il resto del mondo faceva zag. Dovevo trovarmi un posticino dove stare seduto senza essere d'intralcio a nessuno. Non era facile; avevo lottato rotolandomi nel piscio e dovevo avere un aspetto orribile. Forse potevo fingermi sconvolto dal mal di mare.
Barcollando mi diressi verso una zona dove c'era posto a sedere. Riuscii a raggiungere un angolo e a scivolare contro lo schienale di un sedile prima di ricaderci sopra. L'estone fu lesto a spostare il sacchettone di plastica per evitare che ci finissi sopra e scosse la testa in un cenno d'intesa, come se quel genere di cose capitasse continuamente. Con un colpetto fece cadere la cenere della sigaretta sul pavimento e continuò a chiacchierare con il suo vicino. Poco dopo entrambi si spostarono appena più in là. Evidentemente puzzavo di piscio. Cercai di canticchiare, qualsiasi cosa pur di avere l'aria di un ubriaco che soffre il mare. Decisi di togliermi lo zaino dalle spalle. Dovevo sembrare un vero idiota là seduto con quell'affare sulle spalle. Scivolai in avanti e con la coordinazione di una gelatina provocai un gran casino. Dopo una strenua lotta con le cinghie, lo buttai da una parte e crollai all'indietro. L'altoparlante gracchiò degli annunci. La mia testa stava nuotando. Parlavano di me? Facevano un appello in cerca di testimoni? L'uomo accanto a me si alzò in piedi, subito seguito dal suo amico. Iniziarono a raccogliere tutte le loro cose. Dovevamo essere arrivati. Vi fu una migrazione improvvisa, tutti si diressero nella stessa direzione. Dovevo solo riuscire a rimanere cosciente per capire quello che stava succedendo. Li seguii inciampando tra la folla. Avevo l'impressione che tutti mi stessero alla larga. Non sapevo dove stavo andando, né m'importava, volevo solo uscire dal traghetto. La mente era lucida, ma il corpo non riusciva a obbedire agli ordini. Inciampai in un finlandese e mi scusai in un inglese strascicato. Guardò i miei vestiti bagnati e mi fissò aggressivo. Ero concentrato unicamente sul fatto di restare insieme con il gregge e reggere lo zaino sulle spalle. Volevo uscire dal traghetto e trovare un posto qualsiasi dove nascondermi finché tutta la merda che avevo in corpo non avesse finito di fare quello che doveva fare e mi avesse lasciato in pace. Seguii la gente con i passeggini e i sacchetti, barcollai sotto un passaggio coperto e mi unii alla coda per l'immigrazione. La donna che controllò il mio passaporto non disse parola. Vacillai e sorrisi, mentre lei mi osservava, probabilmente disgustata. Poi timbrò una delle pagine. Riuscii ad afferrarlo al secondo tentativo e mi avviai sbandando attraverso la sala arrivi, concentrandomi intensamente per avere la certezza di essere riuscito a infilarlo nella tasca interna della giacca. All'esterno, mentre barcollavo attraverso un parcheggio coperto di neve, il vento freddo mi sferzava il giaccone. L'intera zona era illuminata a gior-
no. Quasi tutte le auto erano coperte da uno strato di neve, e alcune erano state ripulite dal ghiaccio. Immense borse di plastica venivano infilate a forza all'interno e i gas di scarico riempivano l'aria. Riuscivo a intravedere la parte superiore del traghetto alle mie spalle, oltre il terminal, e sentivo il rombo delle auto e dei camion che lasciavano la nave. Di fronte a me era tutto buio. E lontano, molto lontano, scorgevo delle luci confuse. Dovevo andare là. Dovevo trovare un albergo. Rimbalzando contro una fila di macchine, raggiunsi il termine del parcheggio e mi ritrovai nel buio di un'area abbandonata e coperta di neve. Nella direzione delle luci in lontananza c'era un certo numero di percorsi molto battuti. Un po' più in là, sulla destra, un convoglio di fari che uscivano dal traghetto si dirigeva verso lo stesso punto. Iniziai a percorrere uno dei sentieri, ma crollai subito a terra, senza in realtà provare assolutamente nulla. Attinsi a tutte le mie risorse e mi ritrovai a camminare fra gli alberi nell'oscurità. Alla mia sinistra c'era un grande capannone ridotto in pessime condizioni. Mi appoggiai a un albero per riprendere fiato e cercai di guardare verso le luci. In lontananza sentivo il debole rumore di auto e musica. Stavo migliorando. Mi staccai dal tronco dell'albero e barcollai in avanti. Non vidi nemmeno da che parte arrivarono. Sentii solo due paia di braccia che mi afferravano e mi trasportavano verso l'edificio in rovina. Nel buio non riuscii a distinguere le facce, solo l'incandescenza di una sigaretta che uno stringeva fra le labbra. I miei piedi strisciavano sul terreno mentre i miei assalitori avanzavano pesantemente nella neve. Cercai di opporre resistenza, in realtà con la forza di un bambino di cinque anni. Merda, la prossima fermata era una cella uno per tre. Mi scagliarono contro il vano di una porta murata con blocchi di calcestruzzo. Riuscii a voltarmi in modo da colpirla con la schiena, rimasi senza fiato e scivolai con il culo a terra. Iniziarono a piovere calci. Non potevo far altro che rannicchiarmi e incassare. Se non altro ero abbastanza cosciente da capire che ero troppo rallentato per tentare la fuga o una reazione. Dovevo aspettare che finissero la fase di ammorbidimento, poi avrei deciso cosa fare. Se solo potevo evitarlo, non avrei permesso in nessun modo che questi coglioni mi portassero via. Proteggevo la testa con le mani e il torace con le ginocchia ripiegate. A ogni calcio tutto il mio corpo sussultava. Essere sotto l'effetto della droga
rappresentava un vantaggio perché non avvertivo nessun dolore, per lo meno in quel momento. L'indomani avrei sofferto come un cane. Potevo impossessarmi di una delle loro armi? A quel punto, anche nelle mie condizioni, non potevo perdere un'occasione del genere, anche perché avrei potuto farne buon uso, se ci fossi riuscito. Finché non provi non lo sai e io preferivo provare e non riuscire, piuttosto che non provare affatto. L'attacco terminò all'improvviso, così com'era cominciato. La cosa successiva che sentii fu che mi veniva sfilato lo zaino dalla schiena, e anche se avessi voluto, le mie braccia, tirate all'indietro per farlo passare, non erano in grado di opporre resistenza. Mi spinsero in avanti. Adesso ero supino e uno di loro si sporse sopra di me e iniziò ad abbassare la lampo del giaccone. La sua era aperta. Era giunto il momento di reagire. Con un rapido movimento in avanti, gli infilai le mani in profondità sotto il giaccone. Ma non c'erano armi, né in mano ne aveva una. Mani, gomiti, non so cosa fossero, presero a martellarmi, mi sbatterono di nuovo contro il muro, e non c'era niente che potessi fare per evitarlo. Ero tornato al punto di partenza. Si misero a ridere tutti e due. Poi ci furono altri calci e alcune imprecazioni in russo o in estone che cessarono subito quando riuscirono a bloccarmi le braccia e ad aprirmi il giaccone. Ero sdraiato nella fanghiglia e sentivo il bagnato gelido che m'impregnava i jeans. Come se il piscio non fosse sufficiente. Il giaccone si aprì e sentii le loro mani che entravano, sollevavano la felpa e il maglione, mi tastavano lo stomaco, frugavano nelle tasche. Strani posti per cercare un'arma. Ci misi un po' a capire. Non stavano cercando armi, mi stavano semplicemente rapinando. Da quel momento mi rilassai. 'Fanculo, lasciamoli continuare. Avrei opposto la minor resistenza possibile. Non c'era bisogno di piantare casini con gente del genere. Avevo cose più importanti da fare che mettermi a fare la lotta con dei ladruncoli. Del resto, nello stato in cui mi trovavo, avrei perso. Per essere ladri di strada erano piuttosto abili. Cercavano la cintura con dentro i soldi che portano i turisti, bisbigliavano in fretta nella loro lingua, qualsiasi essa fosse, mentre lavoravano. La sigaretta continuava a bruciarmi davanti alla faccia mentre ondeggiavano sopra di me. Alla fine mi strapparono il Baby G dal polso e se ne andarono con un rumore di neve schiacciata.
Rimasi fermo diversi minuti, sollevato dal fatto che non fossero americani. Dall'altro lato dell'edificio si fermò un camion, il motore al minimo. Udii il forte sibilo dei freni a pressione e i giri del motore che aumentavano quando ripartì. Nel silenzio avvertii di nuovo della musica. Poi me ne rimasi semplicemente sdraiato, del tutto andato, con l'unico desiderio di trovarmi dentro quel bar o qualsiasi fosse il posto da cui proveniva la musica. Adesso la cosa più importante era riuscire a non addormentarmi. Se mi fossi addormentato, avrei finito per congelarmi, esattamente come gli ubriachi o i tossici quando crollano per strada. Cercai di alzarmi, ma non riuscii a spostarmi. Poi capii che scivolavo nell'incoscienza. Il bisogno di dormire era troppo forte. 29 Venerdì 17 dicembre 1999 Ripresi conoscenza molto lentamente. Avvertii il vento che soffiava oltre la soglia e sentii degli spifferi farsi strada fino alla mia faccia. Vedevo ancora in modo annebbiato e mi sentivo intontito. Come dopo una sbornia, solo infinitamente peggio. E come se la testa non si fosse ancora riattaccata al corpo. Raggomitolato fra lattine di birra e detriti ero intorpidito dal freddo e tremavo, ma era un buon segno. Voleva dire che me ne rendevo conto, che iniziavo a recuperare. Tossii e sputai cercando di darmi una sistemata e provando, con le mani tremanti, a tirare su la lampo della giacca per catturare un po' di calore. In lontananza sentivo il motore imballato di un veicolo in marcia. Non avrei saputo dire a che distanza, però non sembrava lontano. Cercai di captare la musica, ma non ce n'era traccia. Quando il veicolo si fu allontanato non udii altri rumori, a eccezione del vento e dei miei colpi di tosse per sputare la merda che mi sentivo in gola. Con la lampo ero arrivato a metà perché le dita insensibili continuavano a perdere la presa sulla linguetta. Lasciai perdere e mi limitai a tenere uniti i lembi della parte superiore. Nello sforzo di riportare la mente al mondo reale, controllai l'interno della giacca. Sapevo che non aveva senso: avevano portato via tutto, il passaporto intestato a Davidson e i soldi che avevo cambiato. Non valeva la pena di preoccuparsi per quella perdita; tanto al loro posto non sarebbero tor-
nati. Era molto più importante sapere che non avevano toccato il contenuto delle calze. Con le dita intorpidite premetti all'interno degli stivali e sentii i dollari. Il fatto di avere ancora il Leatherman attaccato alla cintura mi sorprese ancora di più. Forse non erano in gamba come avevo pensato, o forse senza la custodia originale era difficile da riciclare. Riuscii a mettermi carponi e poi ad alzarmi a poco a poco in piedi, reggendomi ai blocchi di calcestruzzo. Volevo muovermi, trovare un albergo e scaldarmi. Forse ce la potevo ancora fare per quel treno del mattino. O forse era già mattino. Non ne avevo idea. Ebbi un attacco di brividi. Sui jeans, nei punti in cui si era congelato il piscio, si erano formate chiazze di ghiaccio. Tastare le tasche del giaccone alla ricerca dei guanti fu un'idea stupida: si erano portati via anche quelli. Per generare un po' di calore non mi restava che muovermi. Uscii e l'aria gelida mi schiaffeggiò la faccia. Il vento soffiava forte, direttamente dal Baltico. Era buio. Nel tentativo di svegliarmi feci qualche saltello sul posto, le mani nelle tasche, ma persi l'equilibrio. Inspirai profondamente e l'aria sotto zero mi artigliò la gola e il naso. Ritornai all'aerobica, ma più che saltelli i miei sembravano i contorcimenti di uno sciancato. La perdita di cappello e guanti mi obbligava a seppellire la testa nel collo del giaccone e sprofondare le mani nelle tasche. Mi avviai tra piccoli cumuli di neve e nel giro di poco scoprii che si erano formati intorno a pezzi di cemento e ferri ritorti. Proseguii adagio, l'ultima cosa che desideravo era slogarmi una caviglia. E visto come si stava comportando la fortuna con me, l'eventualità non era remota. Finalmente ripresi sensibilità nelle mani e riuscii a chiudere la lampo. Con la giacca completamente chiusa, iniziai a sentire qualche beneficio. Sulla strada, circa sessanta-settanta metri alla mia sinistra, procedeva a fatica un'auto. Davanti a me, più o meno a trecento metri, il bagliore appannato del bianco e del blu di una stazione di servizio. Mi piegai, prendendomi il tempo necessario per non perdere l'equilibrio, mi tolsi lo stivale e ne tirai fuori una banconota da venti dollari. Dopo aver controllato che il resto dei soldi fosse al suo posto, mi diressi, fra scivolate e sbandamenti, verso il bagliore blu di là dagli alberi. Le mie condizioni andavano migliorando, ma ero consapevole che dovevo sembrare un ubriacone. In pratica corrispondeva a come mi sentivo: come quel tale convinto di essere in sé che in realtà biascica, senza rendersi conto che il fiammifero che sta sfregando è già acceso. Non che quello che avrebbero
pensato di me alla stazione di servizio m'importasse granché. Avevo un'unica speranza: che servissero cibo e bevande calde, e che qualcuno mi sapesse indicare un albergo. Continuai ad avanzare incespicando, scivolando e slittando sul ghiaccio, con gli occhi ben aperti per tenere sotto controllo i miei nuovi amici o chiunque altro avesse intenzione di seguire un forestiero male in arnese per spillargli un altro po' di dollari. Appoggiai una mano contro un albero e mi riposai un po'. Mi era venuto il dubbio che non sarebbe stato facilissimo, per non dire impossibile, trovare un albergo e prendere alloggio. In posti come quello insistono per verificare passaporto e visto. I russi se n'erano andati, ma la burocrazia era rimasta. Ovvio, potevo dire di aver lasciato il passaporto in macchina. Ma quale macchina? E non era tutto: avrei saputo solo troppo tardi se la polizia effettuava controlli saltuari negli alberghi o se gli albergatori erano obbligati a fare rapporto su qualsiasi circostanza sospetta, tipo un tizio coperto di urina, privo di passaporto e che insisteva per pagare in dollari. Era tutto molto frustrante, ma non potevo correre il rischio. Ripresi a sbandare verso la stazione di servizio e mi avvicinai alla strada. Da nessuna parte c'erano traffico o rumori, solo, in lontananza, ogni tanto un paio di fari e il rumore di pneumatici sopra quello che sembrava un acciottolato fangoso Le luci intermittenti della strada illuminavano la neve che mulinava dal suolo e restava come sospesa sul posto. Prima di approdare alla strada di fianco alle pompe di benzina avevo da superare una trentina di metri di neve ghiacciata; una volta dentro non sapevo cos'avrei trovato, ma l'aspetto non era troppo diverso da un mediocre spaccio occidentale. In effetti aveva un'aria che sapeva troppo di nuovo per trovarsi nel bel mezzo di quell'area disastrata. Attraversai la strada. Era fatta di ciottoli, ma diversi da quelli finlandesi. Erano vecchi, sbrecciati o mancavano proprio, e ogni pochi metri c'erano buche colme di ghiaccio. Sotto la tenda blu illuminata a giorno sbattei gli stivali per scrollare la neve e cercai di rendermi presentabile. Con i gesti di chi ha perso gli occhiali, controllai di avere effettivamente in mano una banconota da venti dollari. Non volevo rischiarne cinquanta o cento: se qualcuno avesse visto una cifra del genere, mi avrebbe di nuovo aggredito. Il vento colpiva le pompe di benzina con un verso acuto e lamentoso. Varcai la porta ed entrai in un mondo nuovo: caldo e pulito, pieno di merce esposta esattamente come sarebbe stata esposta in un qualsiasi emporio
del genere in qualsiasi parte d'Europa. Mi chiesi se non fosse un'allucinazione. Vendevano di tutto, dall'olio lubrificante ai biscotti e al pane, ma soprattutto file infinite di birre e ceste con bottiglie da un litro di qualcosa che assomigliava a un liquore. L'unica cosa che mancava era ciò che desideravo di più, l'odore di caffè. Nessuna traccia di bevande calde. Due individui intorno ai vent'anni mi lanciarono un'occhiata da dietro il bancone e tornarono a sfogliare le riviste. Forse si sentivano ridicoli con i gilè e i cappellini a strisce bianche e rosse. Quella mattina non sembravano particolarmente in forma, fumavano e si scaccolavano il naso. Del resto io non ero certo la controfigura di Tom Cruise. Gironzolai tra gli scaffali, presi una manciata di tavolette di cioccolata e della carne fredda sottovuoto dal banco frigo. Non sarò stato del tutto in me, ma sapevo che era importante mandar giù qualcosa di solido. Appoggiai la merce sul banco e mi resi conto che mi stavano fissando. Impiegai un po' ad accorgermi che stavo ondeggiando. Posai due dita sul bancone per ancorarmi e mi esibii in un gran sorriso. «Parlate inglese?» Quello con i foruncoli vide i venti dollari. «Americano?» «No, no. Australiano.» Dicevo sempre che venivo dall'Australia, dalla Nuova Zelanda o dall'Irlanda; sono Paesi neutrali, non hanno problemi con nessuno e sono noti per essere posti di gran viaggiatori. Provate a dire che siete inglesi o americani, e immediatamente qualcuno vi guarderà storto per via dell'ultima nazione, qualunque essa sia stata, che avete appena finito di bombardare. Mi guardò sforzandosi di capire. «Crocodile Dundee?» Mimai lo strangolamento di un coccodrillo. «Tutto bene, capo?» Sorrise e annuì. Gli porsi la banconota e indicai la mia roba. «Posso pagare con questi?» Consultò un pieghevole, probabilmente i tassi di cambio. Alle sue spalle, ben sistemate intorno a un orologio Camel in offerta, stecche di sigarette Camel. Cercai di mettere a fuoco le lancette e riuscii a scoprire che erano appena passate le tre e mezzo. Per quello avevo così freddo; dovevo aver passato delle ore là per terra. Per lo meno lì dentro il naso iniziava a scaldarsi. Sentivo che cominciava a pizzicare, buon segno: gli effetti della droga stavano svanendo. Cambiò la banconota senza pensarci su troppo. La moneta forte l'apprezzano tutti. Armeggiai con le dita congelate intorno alla grande quantità di banconote e monete che mi aveva dato di resto. Alla fine misi una mano
a coppa e con l'altra ci versai i soldi dentro. Mentre mi passava il sacchetto, chiesi: «Dov'è la stazione?» «Eh?» Era giunto il momento di giocare al capostazione. Tirai la maniglia del fischio a vapore. «Tu tu tuuuu! Ciuf ciuf!» L'esibizione fu molto apprezzata e iniziarono a farfugliare in quello che stabilii fosse estone. Quello con i foruncoli fece un gesto indicando a destra del cortile davanti, dove la strada piegava a sinistra prima di scomparire. Alzai la mano in un ampio gesto di ringraziamento molto australiano, uscii e girai a destra come mi avevano detto. Il vento gelido mi aggredì. Naso e polmoni reagirono come se stessi inalando schegge di vetro. Il marciapiede che portava verso la curva era coperto di ghiaccio color fango. Era tutto molto diverso dalla Finlandia, dove i marciapiedi venivano tenuti scrupolosamente puliti. Lì la neve era stata calpestata, si era trasformata in fanghiglia e infine si era congelata. Lattine vuote e mucchietti di spazzatura di vario genere sparpagliati in giro mi costringevano a procedere sollevando bene i piedi per non correre il rischio di scivolarci sopra. Camminando divorai grossi pezzi di cioccolata molto dura; dovevo avere l'aria di uno che torna a casa mangiando kebab dopo aver trascorso una seratina allegra. Dopo quindici minuti passati a barcollare lungo una strada deserta e buia, m'imbattei nelle rotaie del treno e presi a seguirle. Tempo un altro quarto d'ora superai le spesse porte a vetri e feci il mio ingresso nella stazione male illuminata. Puzzava di fritto e di vomito e, come ogni stazione del mondo, offriva un vasto campionario di ubriachi, drogati e senzatetto. L'interno era in cemento con pavimento a lastroni di pietra. Il progetto, epoca presumibile della costruzione inizio anni 70, doveva essere stato piuttosto bello, ma adesso, completo di manifesti sbiaditi e muri scrostati, il complesso era poco illuminato, trascurato e cadente. Per lo meno faceva caldo. Attraversai l'atrio principale alla ricerca di un posto dove accucciarmi e nascondermi. Provai la sensazione che fosse l'unica cosa che avevo cercato di fare da quando ero sceso dal traghetto. I posti migliori erano già stati prenotati, ma alla fine scovai una nicchia e mi lasciai cadere per terra seduto sul culo. La puzza di urina e di cavolo marcio era intollerabile. Era evidente che lì qualcuno gestiva un commercio specializzato in verdure rancide e ogni sera, prima di andare a casa, pisciava contro il muro. Tolsi il cibo dalla tasca. In realtà non avevo più fame, ma mi costrinsi a
mangiare le ultime due barrette di cioccolata e la carne. Poi rotolai sul fianco destro e portai le ginocchia in posizione fetale, con il viso appoggiato sulle mani, fra lo sporco di tutta una vita e i bisogni dei cani. Non avevo nessuna intenzione di badarci; volevo soltanto dormire. Una coppia di avvinazzati iniziò subito a sistemare il mondo con voci forti e impastate. Aprii un occhio per dare una controllata, proprio nel momento in cui una stracciona dal passo malfermo si avvicinava per partecipare al dibattito. Avevano tutti e tre il volto truce, coperto di tagli e lividi dovuti alle botte ricevute da altri o a cadute per l'eccessiva ubriachezza. Adesso erano sdraiati sul pavimento, circondati da un bastione di sacchetti di plastica rigonfi legati insieme con lo spago. Tutti reggevano una lattina che, senza alcun dubbio, conteneva l'equivalente locale della Special Brew. Un altro ubriaco si trascinò a fatica verso la mia nicchia, forse attratto dall'orgia di cibo che avevo consumato poco prima. Iniziò a saltare sul posto grugnendo e agitando le braccia. Il modo migliore per affrontare situazioni del genere consiste nel comportarsi come se si fosse ubriachi e matti almeno quanto chi si ha di fronte, anzi di più. Presi una lattina e cominciai a urlargli contro anch'io, poi gliela tirai addosso, grugnendo come un animale ferito. Si trascinò via, borbottando una litania di lamentele. Era l'unico insegnamento utile che avessi ricavato dal riformatorio, oltre al fatto che non ci sarei mai voluto tornare. Mi sdraiai di nuovo e caddi in uno stato di semintontimento che mi sembrò durare non più di qualche minuto alla volta. A ogni rumore o movimento mi svegliavo. L'idea di farmi rapinare una seconda volta non mi sorrideva affatto. Un calcione nelle costole mi fece svegliare di soprassalto. La testa mi doleva ancora molto, ma gli occhi mettevano a fuoco decisamente meglio. Distinsi una moltitudine di uomini vestiti di nero, tipo poliziotti americani SWAT, con i pantaloni neri da combattimento infilati negli stivali, cappelli da baseball neri e bomber di nylon coperti di distintivi ed etichette. Nel cinturone portavano bombolette certamente piene di gas lacrimogeno. Strepitavano come pazzi e bastonavano i senzatetto con aste nere lunghe un metro. Per i poveri di Tallinn, era la sveglia abituale. Del tutto simile a certi risvegli nei campi di addestramento che avevo frequentato. Seguii i loro suggerimenti, e mi tirai in piedi. Mi doleva ogni parte del corpo. Quando uscii dalla stazione strascicando i piedi insieme con tutti gli altri dovevo avere l'aria di un novantenne. Mi augurai che i muscoli non
impiegassero troppo a scaldarsi in modo che il dolore che mi provocavano si attenuasse un po'. L'aria fredda del mattino mi aggredì volto e polmoni. Era ancora buio pesto, ma rispetto a quando ero arrivato sentivo molto più movimento. Sulla mia destra c'era la strada principale, dal traffico intermittente. Un unico lampione illuminato emetteva una luce così fioca che se non ci fosse stato non sarebbe cambiato niente. Parcheggiate sulla stessa fila c'erano cinque 4x4, molto nere, molto pulite e molto grosse, probabilmente Land Cruiser. Su ciascun veicolo era esposto un contrassegno triangolare bianco, identico al più grande di quelli che i tizi avevano sui bomber. Sentii altre urla e discussioni e poi vidi i miei tre amici del dibattito che venivano violentemente sbattuti dentro uno dei mezzi. Forse era così che si procuravano i tagli e i lividi sul viso. Mi allontanai dal luogo dell'azione e girai sull'altro lato della stazione, dove c'era una certa vita. Quando ero arrivato non me n'ero accorto, ma l'edificio evidentemente serviva anche da stazione degli autobus. C'era un'ampia zona scoperta con tettoie per la fila e flotte di autobus male in arnese, coperti di fango. Dal retro di alcuni di essi si alzavano già pennacchi di gas di scarico. Quelli in fondo alla coda urlavano verso chi gli stava davanti, probabilmente perché si dessero una mossa a salire, prima che finissero tutti congelati. Nelle rastrelliere venivano stipati bagagli, cassette di legno e cartoni legati con lo spago. La maggior parte dei passeggeri erano donne anziane con cappotti pesanti, berretti di lana lavorati ai ferri e colossali stivali foderati con la cerniera sul davanti. L'unica luce degna del nome proveniva dalla stazione ferroviaria e dai fari degli autobus che si riflettevano sul terreno ghiacciato. Da chissà dove apparve un tram che attraversò il piazzale. Alcuni dei locali sopra le piattaforme erano privi di finestre e la stazione era ricoperta da decenni di sporcizia e degrado. Tutto comunicava un'aria di abbandono, non solo quell'edificio. La strada principale era piena di buche e dovunque l'asfalto si sollevava in banchi di ghiaccio che creavano dislivelli con cui i veicoli dovevano fare i conti. Gli uomini in nero avevano finito il loro lavoro. Alcuni dei senzatetto attraversarono in gruppo la strada, forse diretti a un altro luogo di rifugio, altri cominciarono a elemosinare intorno agli autobus. Visti accanto ai passeggeri, era difficile stabilire chi se la passasse peggio. Tutti trasportavano sacchi e sacchetti, non solo i senzatetto, anche quanti salivano a bordo. Nessuno rideva né sorrideva. Provai pena per loro: liberati dal comunismo,
ma non dalla povertà. Attesi che lo squadrone in nero risalisse sui propri mezzi e se ne andasse, quindi tornai alla stazione. Adesso che era stata ripulita, l'odore non era migliorato, ma per lo meno era riscaldata. Pensai che fosse l'ora di darmi una lavata. Alla fine trovai i bagni, anche se non riuscii a capire se erano per uomini o donne. Una fila di cessi e un paio di lavandini. Dal soffitto pendeva una lampadina solitaria e nell'aria galleggiava un'incredibile puzza di urina, merda e vomito. Quando fui vicino ai lavandini compresi da dove provenivano tutte le puzze. Decisi di non lavarmi e mi limitai a ispezionarmi allo specchio. Sul volto non avevo tagli né lividi, ma i capelli erano un groviglio di ciocche arruffate. Mi bagnai le mani sotto il rubinetto, le passai fra i capelli e uscii prima di rigettare. Girovagai per la stazione alla ricerca di un orario dei treni. I cartelli abbondavano di informazioni, ma tutte in estone o in russo. La biglietteria era chiusa, però un avviso scritto a mano su un pezzo di cartone attaccato con lo scotch all'interno del vetro spiegava che alle 7.00 sarebbe successo qualcosa. Decisi che si trattava dell'orario di apertura. Non riuscii a vedere se all'interno dell'ufficio ci fosse un orologio perché il vetro era oscurato da una tendina di un giallo sbiadito. Pezzi di carta appiccicati al vetro indicavano nomi di diverse destinazioni, in caratteri che mi erano familiari e in cirillico. Riconobbi Narva e il numero 707. A quanto sembrava, dall'apertura della biglietteria alla partenza del treno avrei avuto solo sette minuti. La priorità successiva era bere qualcosa di caldo e scoprire che ore fossero. Alla stazione non c'era niente di aperto, ma probabilmente fuori, al capolinea degli autobus, avrei trovato qualcosa. Dove c'è gente c'è commercio. In effetti trovai una fila di chioschi di alluminio, non ben identificabili quanto a tipologia di vendita; tutti vendevano di tutto, dal caffè ai nastri per capelli, ma più che altro sigarette e alcolici. Non ricordavo quale fosse la valuta, avevo ancora un po' di confusione in testa, ma con una monetina che poteva essere l'equivalente di due penny riuscii a farmi dare un bicchiere di carta pieno di caffè. Allo stesso chiosco comprai anche un orologio, un aggeggio di un arancione squillante con il muso ruggente del Re Leone che s'illuminava ogni volta che premevo il pulsante. Le fauci si aprivano su un display digitale che l'anziana bottegaia posizionò sulle 6.15.
Rimasi in piedi fra due chioschi con il mio caffè e osservai i mezzi da cui salivano e scendevano i passeggeri. Tolte le grida di quelli che urlavano l'uno con l'altro nelle code, nessuno parlava molto. Quelle persone erano depresse, e l'atmosfera del posto non faceva che riflettere il loro stato d'animo. Anche il caffè era schifoso. Dopo un po' mi accorsi che la gente si raccoglieva in piccoli gruppi, all'interno dei quali circolava una bottiglia. Un capannello di ragazzotti sotto una pensilina, tutti con vecchi cappotti sopra fiammanti pantaloni giallo canarino, si passava fumando una bottiglia da mezzo litro di birra. Non so perché, ma quel posto mi ricordava in qualche modo l'Africa; tutto, anche i giocattoli di plastica e i pettini nelle vetrinette dei chioschi, era sbiadito, sformato. Come se l'Occidente avesse inondato quella gente dei propri rifiuti. Esattamente come in Africa, le cose le avevano, autobus, treni, televisori, anche le lattine di Coca, ma non funzionava niente. L'impressione di base era che tutto il Paese fosse made in Ciad. Quando ci lavoravo, era il modo per indicare le cose che sembravano a posto ma che dieci minuti dopo si disintegravano. Ripensai all'aggressione sul traghetto. I tipi dei cessi dovevano essere dell'NSA e potevano avermi individuato solo mettendosi sulle tracce del tizio di nome Davies attraverso il controllo dei biglietti. Quando mi avevano ritirato il passaporto, avevano capito: a bordo stava salendo il signor Davidson. I due che mi avevano aggredito erano fuori uso, ma ne avevo altri alle costole? Per scaldarmi dentro presi un altro caffè e un'altra tavoletta di cioccolata oltre a una confezione da ventiquattro aspirine per snebbiarmi la testa e farmi passare i dolori in tutto il corpo. Poi me ne andai in giro fra i chioschi alla ricerca di cartine, e ingollai le prime quattro pasticche con quello schifo di caffè. Scovai una cartina di Narva, ma non una della zona nordest del Paese. Guardai il Re Leone e decisi che era l'ora di muoversi. Dirigendomi verso la biglietteria mi sforzai di rimuovere il grosso della sporcizia dai jeans. Il calore del mio corpo li stava lentamente asciugando e mi augurai che non puzzassero troppo. Per quello che ne sapevo poteva esserci una legge che proibiva di vendere biglietti ai vagabondi. Ero il primo di una fila di tre. La tendina lercia si scostò e apparve, dietro un vetro spesso, una griglia metallica, con alla base una piccola cavità di legno dove venivano scambiati soldi e biglietti. Da dietro la fortificazione una donna sulla cinquantina mi guardò in cagnesco. Indossava un cardigan e, naturalmente, un berretto di lana. Probabilmente appoggiava i
piedi su un sacchetto di plastica stracolmo. Sorrisi. «Narva, Narva?» «Narva.» «Sì. Quanto?» Sfregai insieme le dita. Tirò fuori un piccolo libro di ricevute e scrisse «Narva» e «707». Sembrava che costasse 707 pirilli, o come diavolo si chiamava la loro moneta, non che partisse alle 7.07. Le porsi una banconota da mille. Venti dollari duravano un casino. Si spostò dal vetro, armeggiò un po', poi si riavvicinò e mi passò il resto attraverso il piccolo cunicolo. Insieme c'era una strisciolina di carta sottile come un velo. Lo presi e stabilii che era una ricevuta. «Narva... biglietto?» Mi sputacchiò qualcosa in risposta con aria scocciata. Fatica sprecata, non avevo idea di quello che stava dicendo. Non chiesi il binario. Lo avrei trovato. La stazione di Tallinn sembrava il punto d'arrivo e di partenza di tutte le linee. E tuttavia non era St. Pancras né Victoria; l'asfalto dei marciapiedi oltre l'atrio era completamente sollevato e dove l'acqua si era raccolta si era formato il ghiaccio. In molti punti il cemento a vista si era sgretolato e l'intelaiatura arrugginita sporgeva all'esterno. I treni erano vecchi mostri russi con un unico faro da ciclope; sembravano tutti blu, ma era difficile esserne certi, considerate la sporcizia e le incrostazioni. Davanti a ogni locomotiva era appeso un cartello di legno che indicava la destinazione, il massimo dell'assistenza che si poteva ottenere. Continuai a camminare, alla ricerca della parola «Narva», superando altri viaggiatori. Trovai il treno, ma avevo bisogno di una conferma da uno dei miei amici con la sporta. «Narva, Narva?» Il vecchio mi guardò come se fossi un alieno, borbottando qualcosa senza togliersi la sigaretta dalla bocca. Il bagliore rosso della punta si spostò in su e in giù. Poi si allontanò. Un cenno di assenso però lo avevo avuto. Proseguii lungo il binario alla ricerca di un vagone vuoto, accompagnato da un coro di colpi di tosse mattutina e catarrosa. Molti si schiacciavano una narice e soffiavano il muco per terra. Poi si rimettevano in bocca il mozzicone di sigaretta. Non c'era una carrozza completamente libera, così salii e occupai la prima fila libera che riuscii a trovare. Il pavimento del vagone era costituito da una serie di lastre metalliche saldate insieme, e anche i sedili erano fatti
di metallo, con due sottili strisce di plastica applicate sopra, una per la schiena e una per il sedere. Al soffitto c'erano un paio di lampadine da quaranta watt, e questo era tutto. Tutto molto semplice, molto funzionale, e sorprendentemente pulito, se paragonato al caos della stazione. E faceva anche caldo. 30 Le ruote sferragliavano ritmicamente sulle rotaie. Io guardavo fuori, nel buio. Non vedevo alcun paesaggio, solo le luci di quelle che immaginavo fossero fabbriche, e file continue di finestre di condomini simili a prigioni. Ero seduto accanto alla porta scorrevole, vicino a un finestrino e con una bocchetta del riscaldamento che, grazie al cielo, sbucava esattamente sotto il mio sedile. Secondo la mia guida sarei rimasto lì per le prossime cinque ore. Una buona notizia per i miei jeans. Nel vagone c'era una dozzina di altri passeggeri, tutti maschi, alcuni con grandi sporte, sprofondati nei loro pensieri o intenti a imitare i cagnolini che dondolano la testa. La porta si aprì fragorosamente ed entrò una donna sui quaranta abbondanti. Indossava un cappotto grigio da uomo decisamente troppo grande per lei. Sul braccio teneva appoggiata una dozzina di copie di un quotidiano. Iniziò a farfugliare e capii che mi stava chiedendo qualcosa. Scossi la mano in modo educato per rifiutare, ma lei cominciò ad agitarsi. Ripetei il cenno di diniego con la mano, scuotendo la testa con un cordiale sorriso australiano. Lei si mise una mano in tasca e ne estrasse un blocco di ricevute identico a quello usato dalla Signora Incazzosi in biglietteria. A quel punto capii: era il controllore e gestiva la concessione dei giornali come attività secondaria. Una collega. Anche lei prendeva i soldi dove poteva. Tirai fuori il mio pezzetto di carta. Lo controllò, grugnì, me lo rese e si lasciò trasportare dall'inerzia del treno verso il passeggero successivo. Ero perfettamente consapevole che gli avrebbe comunicato che a bordo viaggiava lo scemo del paese. Visto quello che stavo per fare, non si poteva darle torto. Cominciammo a rallentare, poi ci fermammo. Nel buio intravidi una fabbrica con un gran numero di enormi ciminiere. La stazione non aveva marciapiede; gli operai scendevano direttamente sulla strada. Fuori, la gente era dappertutto, anche tra un vagone e l'altro. Il treno ripartì, fermandosi circa ogni dieci minuti per vomitare altri gruppi di operai. Dopo ogni fermata il vecchio motore diesel ansimava per
recuperare velocità, sputando un fumo che andava rapidamente a raggiungere la schifezza pompata dalle ciminiere delle fabbriche. Al confronto le ferrovie inglesi erano fantascientifiche, ma queste almeno erano in orario, calde, pulite e poco costose. Pensai che non mi sarebbe dispiaciuto invitare qualche dirigente delle ferrovie estoni in Inghilterra per insegnare ai nostri come si faceva. Il treno attraversò la zona industriale in un trionfo di scossoni e rollii. Dopo una mezz'ora le luci cominciarono a estinguersi e ripresi a guardare nel buio. Decisi di seguire l'esempio dell'unico passeggero rimasto nel vagone e cercai di dormire. Le nove e mezzo erano passate da poco e aveva appena smesso di albeggiare. Il cielo, come tutto il resto, era di un grigio cupo. Attraverso la sporcizia del finestrino vidi alberi pesantemente ricoperti di neve che fiancheggiavano la strada su entrambi i lati, una specie di barriera antibufera. Oltre agli alberi, vasti appezzamenti di terreno perfettamente piatto e ricoperto di neve vergine o foreste di cui non si vedeva la fine. I fili elettrici e del telefono, come gli alberi, si piegavano sotto il peso della neve e qua e là pendevano gigantesche stalattiti di ghiaccio. Il treno, fra una stazione e l'altra, procedeva con grande lentezza, forse a causa delle condizioni atmosferiche o forse perché aveva bisogno di manutenzione. Un'ora dopo, passate altre due fermate, la cioccolata e la carne cominciarono a fare effetto. Non avevo visto cartelli che indicassero la ritirata e non ero sicuro che ce ne fosse una. Se non c'era, avrei dovuto produrmi in una veloce scarica in corridoio e poi spiegare che si trattava di un'antica usanza australiana. Attraversai due vagoni, sbattendo da parte a parte, e alla fine ne trovai una. Era come il resto del treno: spartana ma pulita, calda e funzionante. Strappai della carta dal rotolo e la gettai nella tazza fino a bloccare lo scarico. Mi tolsi i jeans ormai asciutti e mi sedetti sulla nuda ceramica. Diedi un'annusata ai jeans. Non erano poi così male, tutto considerato. Potevo sempre incolpare qualche gatto randagio. Avevo dei lividi su entrambe le cosce che presto sarebbero diventati neri, come quelli preesistenti. La cioccolata e la carne cominciavano a farsi strada a forza. Cercai di controllare lo stimolo perché volevo riuscire a recuperare la polizza di assicurazione che, avvolta in due preservativi, mi ero infilato su per il culo con l'aiuto di un po' di sapone dell'albergo di Helsinki.
Altra cosa che avevo imparato in riformatorio: il modo migliore per essere sicuro che la paghetta settimanale di quindici penny non mi venisse rubata. Anche se la pellicola da cucina non funzionava come i preservativi. Il recupero era un'operazione piuttosto ingrata, ma una volta sciolto il nodo del primo preservativo, tirato fuori il secondo e lavate le mani - in quella toilette c'erano perfino acqua e sapone - tutto tornava pulito e profumato. Ero sempre più entusiasta delle ferrovie estoni, quando tutto a un tratto fu come ritrovarsi sul Kings Lynn della linea per Londra: lo sciacquone non funzionava. Rimasi a lavarmi per un po'. Tornato al mio posto decisi di studiare la cartina di Narva, individuando il posto esatto dove avrei trovato Konstantin. Secondo il Re Leone mancava un'ora all'arrivo. Ero soddisfatto che la cioccolata avesse funzionato perché non avrei dovuto sprecare tempo a Narva in attesa dello stimolo naturale. Inghiottii senz'acqua altre quattro aspirine e guardai dal finestrino. Nessuna meraviglia che fossero già scesi tutti. Quello doveva essere l'inizio della grande zona industriale di nord-est creata dai sovietici durante il regime. Niente più alberi né natura aperta e incontaminata; adesso il panorama era costituito da colline di scorie, imponenti nastri trasportatori e fabbriche che da ogni dove producevano enormi quantità di fumo. Ci muovevamo pesantemente fra minacciosi condomini, con antenne TV che pendevano da ogni finestra e, di tanto in tanto, colossali, antiquati dischi di antenne satellitari. Nessun giardino o spazio giochi, solo due o tre auto su piattaforme di cemento. Anche la neve era grigia. Le stazioni si fecero più ravvicinate ma lo scenario non subì variazioni, tranne per il fatto che adesso ogni centimetro quadrato di terreno lungo la strada ospitava piccoli orti. Anche nello spazio che circondava i piloni dell'elettricità erano state improvvisate, con una serie di pareti di plastica, delle specie di serre. Proprio quando cominciavo a pensare che non potesse esserci niente di più deprimente, il treno passò accanto a tre auto parcheggiate in fila indiana a lato della strada. Erano bruciate e crivellate di fori di proiettili. La carrozzeria era senza neve o ghiaccio e tutt'intorno era pieno di schegge di vetro. Sembrava che fossero state mitragliate e poi bruciate. Per quanto ne sapevo, all'interno potevano esserci ancora dei corpi. Un paio di bambini che passavano non le degnò di un'occhiata. Il treno si fermò con un sussulto e un prolungato stridio di freni. Avrei detto che eravamo in un deposito ferroviario. Sul lato opposto, cisterne di carburante e vagoni merci, tutti coperti di scritte in russo e incrostati di
grasso ghiacciato. Ero di nuovo in una scena di un film di Harry Palmer, solo che Michael Caine avrebbe indossato un vestito e un impermeabile e non dei jeans sporchi di piscio. Il treno, arrivato allo scalo, si era fermato, e questo era tutto. A giudicare dal numero di porte che si aprivano, era arrivato il momento di uscire. Benvenuti a Narva. Guardai dal finestrino e vidi gente che saltava dal treno sulla strada tirandosi dietro borse e sacchetti. Anche l'unico passeggero rimasto nella mia carrozza si stava avviando. Lo seguii, incamminandomi nella neve attraverso una grande piazzola di scambio e seguendo gli altri in direzione di una vecchia costruzione in pietra. Decisi che non poteva risalire a prima del 1944, perché avevo letto che quando i russi avevano «liberato» l'Estonia dai tedeschi, avevano raso al suolo l'intera città per poi ricostruirla da zero. Attraversai delle porte metalliche pitturate di grigio ed entrai nella biglietteria. Il locale era al massimo sei metri per nove, con qualche vecchia sedia di plastica di quelle che si usano a scuola addossata alle pareti. I muri erano coperti della stessa pittura grigia e lucida delle porte, superficie eccellente per accogliere eleganti graffiti. Pensai che il pavimento fosse di semplice cemento picchiettato finché non scorsi le due piastrelle superstiti che si rifiutavano di cedere. La biglietteria era chiusa. Sul muro, accanto ad alcune vetrine, c'era un grande pannello di legno con alcune strisce di plastica su cui, in cirillico, erano indicati i nomi di varie destinazioni. Cercai qualcosa che assomigliasse a Tallinn. A quanto sembrava il primo treno per la capitale era alle 8.22, ma anche se avessero parlato inglese, non c'era anima viva cui chiedere conferma. Aggirai un'immancabile pozza di vomito e uscii dalla porta principale. Un po' più avanti, sulla mia sinistra, c'era qualcosa che ricordava una fermata d'autobus. Gli autobus risalivano agli anni '60 o '70, tutti consunti e qualcuno ridipinto a mano. Per salire la gente faceva a botte, esattamente come nella capitale; l'autista urlava a loro e loro urlavano uno con l'altro. Anche la neve era identica a quella di Tallinn: sporca, schiacciata e pericolosamente gelata. Sprofondai le mani nelle tasche e attraversai la strada piena di buchi, seguendo l'itinerario che avevo memorizzato lungo Puskini, che secondo i miei calcoli era la strada principale. La casa di Konstantin non era lontana. La strada era fiancheggiata su entrambi i lati da alti edifici. Sulla sinistra, dietro i palazzoni, appariva in lontananza quella che sembrava una
centrale elettrica e, cosa piuttosto bizzarra, lungo la strada e sopra i marciapiedi erano sistemati i piloni dell'elettricità, il che obbligava i pedoni a camminarci intorno. Evidentemente i russi avevano piazzato gli impianti industriali il più vicino possibile alle centrali energetiche che li alimentavano. Dove rimaneva un po' di spazio, li avevano addossati alle abitazioni degli operai, e chi se ne fotte di quelli che dovevano viverci dentro. Avevo visto abbastanza per convincermi che mi trovavo in un posto degradato e miserabile. Le costruzioni più recenti risalivano agli anni '70 e anche quelle andavano in pezzi. Imboccai la strada tenendo la destra. Fatta eccezione per qualche occasionale trattore e un paio di camion con la targa russa che emergevano dal passato, la via era sgombra. Strade e marciapiedi erano di un nero lucido di unto e sporcizia, con una spessa copertura di fango su cui sguazzavano i veicoli in transito. A Narva il Natale non era ancora arrivato. Mi domandai se lo avrebbe mai fatto. Per strada nessuna decorazione, né luci né qualsiasi altra cosa che avesse un'aria vagamente festiva, neppure nelle vetrine. Oltrepassai negozi sporchi che pubblicizzavano merce di ogni tipo, dalle lavatrici di seconda mano ai video di Arnold Schwarzenegger. Poco più avanti incontrai un piccolo minimarket. Era un vecchio edificio, ma con l'illuminazione più abbagliante del mondo che si rovesciava sul marciapiede ghiacciato. Non riuscii a resistere, anche perché non avevo mangiato più niente dopo l'abbuffata di cioccolata e carni miste dalla quale mi ero separato già da un po'. Su un lato dell'entrata principale, riparato dalla tenda del negozio e sdraiato sopra un cartone, c'era un vecchio, la testa avvolta negli stracci e le mani coperte da brandelli di stoffa. La pelle del viso era scura e incrostata di sporco e nella barba avrebbe potuto avviare una coltivazione di ortaggi. Vicino a lui una cassetta di pomodori rovesciata su cui erano posati un vecchio cacciavite e un paio di pinze evidentemente in vendita. Il mio passaggio non lo preoccupò minimamente. Dovevo avere il tipico aspetto del cliente interessato ad attrezzi arrugginiti. Il negozio era organizzato secondo lo stesso schema di quelli analoghi in Inghilterra. Teneva addirittura le stesse marche - dentifricio Colgate, noccioline KP, schiuma da barba Gillette - ma non molto di più, se si eccettuano casse di birra e un grande banco frigo in cui non c'era altro che file di salsicce di diversi tipi, comprese quelle minacciosamente rosse che avevo evitato sul traghetto, allineate per benino in modo da conferire all'espo-
sizione un'aria più invitante. Presi un sacchetto di patate fritte formato famiglia, due pacchetti di formaggio a fette e quattro panini morbidi. Non mi preoccupai di comprare da bere perché speravo di ottenere qualcosa di caldo da Konstantin. Del resto la scelta non era granché, solo birra e bottiglie da mezzo litro di vodka. Decisi di non perdere tempo a comprare il necessario per lavarmi o uno spazzolino da denti per sostituire quanto mi era stato rubato. Se ne avessi avuto bisogno avrei potuto procurarmeli in seguito, ma nei miei piani non prevedevo di fermarmi troppo a lungo; e comunque tutte le persone che avevo visto fino ad allora non sembravano particolarmente preoccupate dell'igiene personale. Pagai la merce e presi due sacchetti. In uno misi una confezione di formaggio e un paio di panini, nell'altro tutto il resto. Uscii, passai vicino al vecchio e gli posai accanto il sacchetto più piccolo. Non gli avevo comprato le patatine perché non ero certo che le sue gengive riuscissero a masticarle. Sapevo come ci si sente a passare delle ore fuori al freddo. Proseguii per la mia strada con le mani sprofondate nelle tasche e il sacchetto che mi dondolava ritmicamente sul fianco. Aggirai un pilone per metà in strada e per l'altra metà addossato al muro di una piccola fabbrica, e mi apparvero altre file di deprimenti condomini, identici a quelli che avevo intravisto dal treno. Sugli edifici nessun nome, solo numeri. Se non altro avevo scoperto qualcosa che il mio vecchio quartiere popolare aveva in più rispetto a quello: da me ogni edificio aveva un nome tratto dai posti citati nei Racconti di Canterbury di Chaucer. Il resto invece era più o meno uguale, cornici di finestre che cadevano a pezzi, vetri rotti tenuti insieme con il nastro adesivo da pacco. Mi ricordai perché a nove anni mi ero ripromesso di uscire da quel tipo di buco di culo il più presto possibile. Era solo l'una e mezzo del pomeriggio, ma ci sarebbe già stato bisogno di accendere i lampioni. Sfortunatamente non ce n'erano molti in grado di servire allo scopo. Dopo un altro centinaio di metri la situazione si animò lievemente. Arrivai in un gigantesco parcheggio, pieno di autobus e macchine. Tutti trasportavano qualcosa, sacchetti per la spesa o valigie, tutti urlavano uno all'altro nel tentativo di farsi sentire sopra lo stridio dei freni e il rombo dei motori. Mi sembrava di essere all'interno di un servizio del telegiornale che riprendeva un punto di raccolta profughi. Più mi avvicinavo e più mi pareva di trovarmi in un luogo dove l'Han Solo di Guerre stellari sarebbe andato in cerca di pezzi di ricambio per il Millennium Falcon. Intorno, per-
sonaggi dall'aria equivoca. Mi resi conto di essere nel punto di attraversamento del confine da e per la Russia. Harry Palmer si sarebbe sentito a casa. Il parcheggio era pieno zeppo di Audi nuove, vecchie BMW e Lada di ogni genere e specie. Solo le Ford Sierra sembravano fuori posto. E ce n'erano molte. Adesso mi era chiaro dove andavano a finire tutte quelle smesse dagli autisti dei minicab. I cambiavalute svolgevano la loro attività agli angoli del parcheggio, e nei chioschi si vendeva ogni tipo di accessorio, realizzato in base ai ritmi di produzione del Ciad. Mi diressi verso un capanno dipinto di verde con una piccola finestra scorrevole, schivando i camion artici che passavano alla velocità del suono dopo aver superato i controlli doganali. Se non facevi in fretta a toglierti di mezzo, cazzi tuoi. Attaccate al vetro con il nastro adesivo, insieme con accendini di tutti i tipi, Camel, Marlboro e un milione di marche russe. Un vecchio, con aspetto un po' da zingaro, pelle scura e spessi capelli grigi e ricci, mi mostrò il suo listino di cambio. Compresi che per un dollaro avrei avuto dodici EEK, qualsiasi cosa fossero. Non sapevo se era buono o no, sapevo solo che le pile Duraceli erano prezzate a un paio di EEK. Delle due una, o era l'affare del secolo o era un bidone. Non volevo far vedere che avevo dei soldi, così andai a sedermi vicino a un cestino per la spazzatura dietro il chiosco, presi una banconota da cento dollari bella calda dalla calza e mi rimisi velocemente lo stivale. Dopo che l'ebbe controllata in cinque modi diversi, arrivando perfino ad annusarla, per accertarsi che non fosse falsa, il vecchio parve molto contento della sua valuta forte e io dei miei nuovi EEK. Lasciai il campo profughi e proseguii per Puškini, in direzione di un incrocio circolare che, secondo la mappa mentale, doveva portarmi alla strada che stavo cercando. Gli unici edifici, dall'aria tutt'altro che invitante, si trovavano nelle vicinanze dell'incrocio. Insegne al neon lampeggianti m'informarono che si trattava di komfort baar. Da alcuni altoparlanti appesi all'esterno usciva della musica. In origine doveva trattarsi di normali bar e negozi, ma adesso le vetrine erano ricoperte di disegni. Non era necessario essere dei geni per capire che cosa si potesse trovare al di là dei dipinti, ma a beneficio di chi avesse avuto ancora delle perplessità, espliciti disegni di donne e oscure scritte in cirillico chiarivano senza ombra di dubbio che cosa s'intendesse con la parola «komfort». L'opera più bella campeggiava su una vetrina azzurra e rappresentava la Statua della Libertà con il viso di Marilyn Monroe
che sollevava la gonna per mostrare l'asso di picche che aveva fra le gambe. Sotto, in inglese, c'era scritto: AMERICA. FOTTILA QUI. Non ero del tutto sicuro del significato, ma i russi che avevano parcheggiato i pesanti camion lungo la strada evidentemente non avevano problemi a leggere il menu. Mi fermai vicino all'incrocio per controllare la strada da prendere, quando due Suzuki Vitara bianche con file di luci lampeggianti rosse e blu inchiodarono davanti a Marilyn. Da ciascuna uscirono tre individui, vestiti esattamente come la squadra SWAT della stazione di Tallinn, ma con dei logo diversi. Questi li avevano cuciti anche sulla schiena dei bomber. A distanza non riuscii a decifrare le parole, vidi solo che erano in rosso e avevano i caratteri che di solito vengono usati sull'abbigliamento da surf. Tirarono fuori i manganelli, più piccoli rispetto a quelli della stazione, e fecero irruzione nel bar. M'infilai in un portone a guardare e tirai fuori un panino dal sacchetto. Lo aprii a metà e lo farcii con qualche fetta di formaggio e una manata di patatine. Una decrepita macchina della polizia, una Lada, andò a posteggiare dietro le Vitara. I due tizi con berretti di pelliccia che erano all'interno non uscirono. Io battevo i piedi per tenerli caldi. Le Vitara erano nuove smaglianti e le fiancate erano decorate con il logo, un numero di telefono e qualcosa che assomigliava alle lettere DTTS. La macchina della polizia cadeva a pezzi e la scritta sulla portiera sembrava dipinta a mano. Per qualche minuto non accadde niente. Un flusso ininterrotto di veicoli attraversava l'incrocio. Io mangiai il mio panino e qualche altra patatina. Alcune delle macchine erano abbastanza nuove - Audi, Volkswagen e qualche Mercedes -, ma non molte. La gara della popolarità era una faccenda privata fra Sierra e Lada malconce. Stavo dando gli ultimi ritocchi al mio secondo panino al formaggio, quando lo squadrone nero uscì dal bar trascinando con sé tre clienti. Tutti e tre indossavano giacca e cravatta e il sangue che gli colava dalla faccia si allargava sul bianco delle camicie. Le scarpe eleganti scivolavano sul ghiaccio. Furono scaraventati nelle Vitara e presi a manganellate. Le portiere si chiusero e uno della squadra, rivolto ai poliziotti in macchina, fece cenno che se ne andassero. Nessuno dei passanti si prese il disturbo di guardare quello che accadeva; difficile stabilire se per lo spavento o semplicemente perché se ne sbattevano l'anima. Si accesero i lampeggianti e la macchina della polizia si allontanò
smarmittando verso il parcheggio vicino al confine. Anche le Vitara, con gli equipaggi al completo, se ne andarono e io finii il panino attraversando l'incrocio. Poi girai a destra verso il fiume. L'indirizzo che mi aveva dato Liv si trovava in quella strada, conosciuta soltanto come Viru. Affrontai l'ultimo panino e quello che restava di patatine e formaggio continuando a chiedermi quale offesa avessero recato a Marilyn i tre damerini. Come se non avessi abbastanza cazzi miei di cui preoccuparmi. 31 Viru non era molto meglio del resto della città, solo grigi, miserabili condomini, neve nera e strade abbandonate. Poco più avanti, una visione bizzarra: una vettura da autoscontro bruciata, la struttura di metallo e la lunga asta carbonizzate e contorte. Dio solo sa com'era arrivata fin lì. L'unico movimento era dato da un gruppo di cinque o sei cani. Si aggiravano furtivi, annusando il terreno e poi pisciandoci sopra. Intorno ai loro corpi, una nube di vapore. Non provai nessun imbarazzo a lasciar cadere per terra il sacchetto di plastica con gli involucri delle patatine e del formaggio. Paese che vai... Ogni tanto una Sierra sgangherata sferragliava sull'acciottolato, e gli occupanti mi guardavano come se fossi matto ad andarmene a passeggio in quella zona. Difficile dargli torto, a giudicare dai fumi di zolfo che stavo inalando. Era evidente che nei dintorni sorgeva un'altra simpatica fabbrica. Sprofondai ancora di più le mani nelle tasche e la testa nel collo del giaccone, cercando di adottare lo stesso linguaggio del corpo che usavano tutti gli altri. Ripensai a quanto avevo visto al komfort baar, e decisi che se appena mi fosse stato possibile, sarei rimasto alla larga dal servizio di sicurezza privata. La polizia di Stato sembrava rappresentare una variante più morbida. Viru piegò sulla destra e, dritto di fronte, a circa cinque o seicento metri, c'era il fiume ghiacciato. E la Russia. Avvicinandomi alla curva riuscii a vedere la gola. Circa duecento metri più in basso scorreva il fiume Narva. Il ponte distava più o meno quattrocento metri. Nella corsia di uscita dall'Estonia c'erano file di auto, e in entrambe le direzioni, carichi di valigie e sacchetti di ogni tipo, transitavano i pedoni. Al punto di controllo, sul lato russo, c'erano barriere che bloccavano il transito e guardie che controllavano i documenti.
Se la numerazione sulla cartina era attendibile, il numero 87 di Viru doveva essere subito alla mia destra, appena superata la curva e di fronte al fiume. Non era un condominio come mi ero aspettato, ma un vecchio edificio piuttosto grande trasformato in un baar. O per lo meno questo era quanto diceva l'insegna, bianche lettere al neon spente, sopra il portone di legno cadente. Dalla facciata mancavano vaste porzioni d'intonaco che lasciavano scoperti i mattoni di argilla rossa sottostanti. La costruzione di tre piani era del tutto fuori posto fra gli anonimi edifici di cemento che la circondavano sui tre lati. Quasi tutte le finestre ai piani superiori erano chiuse da scuri interni; non si vedevano tende. C'era un'altra insegna al neon, anche questa non illuminata, che raffigurava un uomo chinato su un biliardo, sigaretta in bocca e boccale di birra a lato. Secondo il cartello 8-22 lì accanto, doveva essere aperto. Girai la maniglia, e scoprii che non lo era. Davanti erano parcheggiate quattro macchine. Una lucidissima Audi nuova di pacca, due jeep Cherokee che avevano visto giorni migliori, entrambe blu e con targhe russe. La quarta era quella peggio conciata che avessi visto da quando ero in Estonia, se si esclude l'autoscontro. Una Lada rossa ridipinta a mano che non poteva che appartenere a un ragazzino. Al ripiano posteriore era agganciata una coppia di altoparlanti caserecci, da cui partivano fasci di cavi come spaghetti. Molto figo, specie la pila di giornali vecchi sul sedile di dietro. Guardai attraverso le vetrine sporche del pianoterra. Né luci né suoni. Mi spostai sull'altro lato, quello verso il fiume, e riuscii a vedere una luce al terzo piano, una semplice lampadina. Come trovare segni di vita su Marte. Tornai al portone di legno e premetti il pulsante sotto l'insegna. L'edificio poteva essere in condizioni di merda, come quello di Tom, ma il citofono aveva un aspetto migliore. Non si riusciva a capire se funzionasse o no, così provai ancora, questa volta più a lungo. Ci fu una scarica statica, uno scoppiettio e poi una voce maschile arrochita, tra l'aggressivo e l'annoiato, cominciò a fare delle domande. Non avevo idea di che cazzo stesse dicendo. «Konstantin.. Voglio vedere Konstantin», dissi io. Udii l'equivalente russo o estone di «Cosa?» poi ancora blaterare e delle voci che urlavano in sottofondo. Quando tornò a me fu con qualcosa che molto probabilmente poteva essere tradotto in «Fuori dalle palle, spaccacazzi». La scarica statica ebbe fine; ero stato congedato. Suonai di nuovo, basandomi sulla teoria che se gli fossero girati abbastanza i coglioni sarebbe sceso alla porta per picchiarmi. A quel punto a-
vrei avuto per lo meno l'opportunità di fare qualche progresso. Ci furono altre grida, che non compresi; capivo il succo, ma continuai imperterrito, senza curarmene. «Konstantin? Konstantin?» L'aggeggio tacque di nuovo. Non ero sicuro se a quel punto ci sarebbe stata qualche reazione, così rimasi dove mi trovavo. Dopo un paio di minuti udii un rumore di serrature che venivano aperte dall'interno. Mi spostai e la porta si aprì. Oltre la porta c'era una griglia di ferro, ancora chiusa, e dietro questa un ragazzo di diciassette o diciotto anni. Era come se la fata dello stile lo avesse toccato con la sua bacchetta magica «banda di strada di Los Angeles». Avrei scommesso che era il proprietario della Lada. «Parli inglese?» «Sì. Vuoi Konstantin?» «Sì, Konstantin. C'è?» Fece un grande sorriso. «Sì che c'è, Konstantin sono io, amico. Ehi, tu sei il tipo dell'Inghilterra, giusto?» Annuii e sorrisi, trattenendo una risata al suo tentativo di accordare il modo di parlare con l'abbigliamento. Non funzionava proprio, soprattutto con l'accento russo. Mi squadrò dalla testa ai piedi e poi s'illuminò. «D'accordo, mister eleganza, entra.» Aveva ragione, non avevo esattamente l'aspetto di uno appena uscito da una lavanderia a secco. O forse si aspettava qualcuno con la bombetta. La griglia era bloccata dall'interno con due serrature. Non appena fui dentro, la porta e la griglia vennero richiuse alle mie spalle e le chiavi sfilate. Sollevò le mani. «Ehi, chiamami Vosjem'.» Agitò in aria le dita, o per lo meno quelle che gli restavano. «Mi chiamano tutti così. In russo significa otto.» Mi fissò di nuovo e tutti e due sorridemmo allo scherzo che doveva aver ripetuto migliaia di volte. «Vieni con me, Inghilterra.» Seguii Otto per strette scale di legno fino al primo piano. La ringhiera e il corrimano erano di legno, e i gradini erano piegati sotto il peso dell'età. Nessuna luce, se non quella poca che filtrava dalle finestre del pianoterra. A malapena vedevo dove mettevo i piedi. Era una vecchia casa, che un tempo era stata maestosa. Non riuscivo a scorgere tracce del suo presente di bar, ma per lo meno era calda e asciutta,
fin troppo asciutta. C'era quell'odore di polvere che prendono i posti dove non vengono mai aperte le finestre e il riscaldamento rimane sempre in funzione. I nostri passi echeggiavano nella tromba delle scale. Otto era circa tre gradini avanti a me, portava un paio di Nike gialle e porpora, le più abbaglianti che avessi mai visto, sotto un paio di jeans azzurri sformati, trattati con la pomice e quindi orribilmente striati di bianco, e un bomber nero in PVC effetto pelle, con il logo dei Los Angeles Raiders cucito sulla schiena. Arrivammo a un pianerottolo e continuammo per la rampa successiva. Dalle stecche delle persiane filtrava una debole luce. Tutte le porte erano rivestite e sui pomoli di ceramica s'intuivano ancora sbiaditi fiorellini dipinti; appena costruito doveva essere stato un posto meraviglioso. Superammo il secondo piano e continuammo verso il terzo, poi attraversammo un ampio ballatoio. Aprì una delle porte che davano dalla parte del fiume. «Il tuo nome è Nick, giusto?» «Giusto.» Oltrepassai la porta senza guardarlo negli occhi. Ero troppo occupato a controllare il locale nel quale stavo entrando. Un'unica lampadina nel centro della stanza emanava la squallida luce giallina che avevo visto da fuori. L'ambiente era molto grande, semibuio e terribilmente caldo. La lampadina riusciva solo a illuminare lo strato di fumo di sigarette che impregnava l'alto soffitto. Un televisore sulla mia sinistra, acceso a volume molto basso, emetteva un fioco bagliore. Davanti alla televisione, una sagoma umana. Direttamente di fronte a me, a una quindicina di metri, una finestra ad anta unica, con le persiane aperte nella speranza che filtrasse un po' di luce naturale. Le persiane laterali erano chiuse. Non c'erano tappeti e alle pareti non era appeso niente. Solo vuoto. Alla mia destra, vicino a un grande camino in marmo, c'erano tre uomini seduti su altrettante sedie, una diversa dall'altra, a un tavolo dalle gambe intarsiate che sembrava antico. Giocavano a carte e fumavano. Al di là dei giocatori, a destra del caminetto, un'altra porta. Le tre teste al tavolo si voltarono e mi fissarono, senza smettere di tirare dalle sigarette. Feci un cenno di saluto senza ottenere alcuna reazione. Poi uno di loro disse qualcosa e gli altri due sghignazzarono per un po' prima di rimettersi a giocare. La porta si chiuse alle mie spalle. Guardai Otto che saltellava per l'eccitazione. «Perfetto, amico», le braccia si muovevano come quelle di un rapper, «tu resta qui, Vosjem' non ci metterà molto. Cose da fare.» Detto
questo, posò le chiavi sul tavolo e sparì dalla porta vicino al caminetto. Guardai in direzione del tizio davanti al televisore. Il colore del video era un po' opaco, forse perché poggiava su una sedia e per antenna aveva un attaccapanni. L'uomo sedeva su una sedia con il naso quasi attaccato allo schermo, troppo assorto per interessarsi a me. La TV illuminava la stanza più della lampadina al soffitto. Come facessero gli altri a vedere le carte era un mistero. Nessuno mi disse di sedermi, così andai alla finestra per guardar fuori. Le tavole del pavimento scricchiolavano a ogni passo. Gli studiosi delle carte, che adesso avevo alle spalle, si limitarono a borbottare fra loro continuando a giocare. Non era difficile capire quello che si faceva in quel posto. Sotto il tavolo a un'estremità della stanza c'erano due bilance elettroniche da farmacia. Accanto alle bilance, una dozzina di contenitori Tupperware formato famiglia. Alcuni contenevano della roba bianca che non era sicuramente farina, in altri c'erano pillole di colore scuro, che altrettanto sicuramente non erano Smarties. La finestra dava direttamente su Vira. Ghiaccio e neve sporca ricoprivano bidoni della spazzatura stracolmi. All'angolo dell'edificio tre gatti rognosi perfettamente immobili sulla neve si erano raccolti intorno a un tombino, in attesa che la loro cena nera e pelosa venisse a servirsi da sola. Ai bordi della gola il fiume era ghiacciato ma al centro, sballottandoli da destra a sinistra, trasportava pigramente verso il Baltico, che distava circa dodici chilometri, blocchi di ghiaccio e cumuli di spazzatura. Più oltre, sul lato a monte, il ponte era ancora congestionato di automobili e persone. Mi voltai verso l'interno della stanza. Poteva fare anche un caldo opprimente, ma non so cos'avrei dato per un caffè. L'unica cosa da bere che si vedeva era una bottiglia di Johnny Walker sul tavolo e i giocatori la stavano svuotando. Avevano tutti un giaccone di pelle appeso allo schienale della sedia. Era chiaro che avevano visto troppi film di gangster, perché erano tutti vestiti di nero, con tanto di maglione a girocollo nero. Ai polsi e alle dita avevano oro sufficiente a pagare il debito pubblico dell'Estonia. Sembrava una scena di Quei bravi ragazzi. Di fronte alla postazione di ciascuno, pacchetti di Camel e Marlboro, ognuno con l'accendino d'oro accuratamente posato sopra. Feci in modo che non vedessero il mio orologio con il Re Leone. Non volevo che iniziassero a prendermi per il culo, perché poteva arrivare il momento in cui avrebbero dovuto prendermi sul serio. Un allegro personaggio di Disney al polso non mi avrebbe aiutato.
Mi voltai verso l'uomo della televisione. Lo vidi armeggiare con l'accendino e accendersi la sigaretta che teneva fra pollice e indice, quindi sporgersi in avanti, i gomiti sulle ginocchia e il naso incollato a una telenovela americana di serie C. La cosa decisamente strana era che il dialogo fosse in inglese; solo una volta che la coppia di attori aveva finito le battute, partiva il doppiaggio. Nella traduzione scompariva ogni traccia d'emozione; una donna con più trucco di Eddie Izzard piagnucolava: «Ma Fortman, io ti amo», quindi una voce traduceva la frase in russo come se stesse comunicando che andava a comprare un chilo di cavoli. D'un tratto mi fu chiaro da dove Otto avesse preso inglese e modo di vestire. La porta si aprì e lui entrò. «Eccomi, Nikolai!» Si era tolto il bomber e adesso portava una felpa con Bart Simpson vestito da karate che sferrava calci a un tizio con i pugni pieni di dollari. La scritta sotto diceva ECCOTI SERVITO. Dal collo gli dondolava una pesante catena d'oro di cui ogni rapper sarebbe andato orgoglioso. Mi venne vicino e mi rimase accanto. «Nick, mi hanno detto di darti una mano. Perché, indovina un po', pazzo che non sei altro, sono l'unico qui che parla inglese.» Saltellava da un piede all'altro battendo ritmicamente le mani. I Bravi Ragazzi lo guardarono come se fosse stato un demente, e tornarono a giocare. «Vosjem', ho bisogno di una macchina.» «Macchina? Uau, questo sì che potrebbe essere un problema, amico.» Rimasi in attesa di sentire il cattivo doppiaggio russo. Si voltò verso i Bravi Ragazzi, disse qualcosa a velocità supersonica e aggiunse una piccola dose di piagnucolii. Il più vecchio, probabilmente sulla cinquantina, senza alzare lo sguardo dalle carte rispose in modo decisamente aggressivo. Forse quello che stava bevendo era qualcosa di molto più schifoso del Johnny Walker. Capii comunque il senso: «Di' all'inglese che vada affankuloski». Mi domandai se fosse il momento di produrre la polizza di assicurazione, ma decisi di no. Meglio aspettare di averne veramente bisogno. Un altro del gruppo parve avere un'idea brillante. Indicò prima Otto, poi me, e fece il gesto di picchiare qualcosa con un martello. Agli altri due l'idea piacque molto. Anche l'addetto alla televisione si unì alla risata collettiva. Era la risata di Merlino: re Artù si deprimeva molto quando prendeva una decisione degna di un re e il suo mago cominciava a ridere, perché Merlino prevedeva il futuro, e il re no. Percepii che stava accadendo la stessa cosa. Liv aveva ragione: di questa gente non ci si poteva fidare. Otto scrollò le spalle. Tornò da me. «Mi tocca darti la mia.»
«È una di quelle posteggiate qui fuori?» l'avevo già capito, ma speravo che non fosse vero. «Sì. Però ascolta, amico, ne ho bisogno, per le puttane. Me la riporti presto? Per quanto ti serve? Un paio d'ore?» Mi strinsi nelle spalle. «Magari un paio di giorni.» Prima che potesse reagire, aggiunsi: «E più tardi, stasera, voglio vederti. Ti trovo qui?» «Chiaro che sì, io ci sono sempre. Io vivo qui, amico.» Indicò la soffitta. Meglio lui di me. «Okay, torno più tardi. Ci saranno anche i tuoi amici?» «Certo, Nikolai, si fermano un po'. Cose da fare, gente da vedere.» Unii pollice e indice e mossi la mano. «Chiavi?» «Chiavi? Ah già, certo, certo. Devo venire con te, amico. Farti vedere qualcosa di troppo giusto.» Si precipitò nell'altra stanza. Durante l'attesa i Bravi Ragazzi m'ignorarono completamente, tutti presi a ingollare altro liquido schifoso. Otto riapparve, tirandosi su la cerniera del bomber. Poi prese le chiavi dal tavolo, scendemmo le scale e uscimmo al freddo. Dopo aver chiuso la griglia e la porta alle nostre spalle, scoprii la cosa «troppo giusta» che doveva farmi vedere. Per avviare il motore bisognava prima colpire lo starter con un martello. Disse che era molto soddisfatto di questo sistema di accensione perché così nessuno la poteva rubare. Era tutto impegnato a spiegarmi come dovevo fare e capii che non avrebbe avuto senso parlare di patente o altro in caso mi avessero fermato. Volevo solo andarmene da lì e fare il mio lavoro. Non avevo tempo per cazzeggiare. I Maliskia sapevano che quelli dell'NSA erano ovunque e da un giorno all'altro si sarebbero spostati. Ma Otto volle prima togliere le casse e la musica. Guardai le cassette mentre lui le impilava sul sedile del passeggero. Un assortimento di gruppi rap americani mai sentiti nominare, ma comunque tutti seguaci di Otto nella categoria catene d'oro, e qualche artista russo di grido con l'aria di andare a una riunione del Jason King fan club. Lo smoking bianco era il tocco di classe. Aspettavo che finisse di scollegare le casse quando una BMW serie 5, con tracce d'argento sotto lo sporco, percorse a velocità moderata la stessa strada che avevo fatto a piedi. Per prima cosa notai la targa inglese, la macchina era del 1997, e la guida a destra. Poi guardai il guidatore. L'inconscio non dimentica, specie quando si tratta di guai. Falegname. Incredibile. Come se non mi avesse massacrato la vita a suf-
ficienza nelle ultime due settimane. All'arrivo di un furgone nella direzione opposta rallentò, ma non per farlo passare; stava puntando verso di noi, e se mi avesse visto avrei avuto poche probabilità di ascoltare l'equivalente russo di: «Ciao, come ti butta? Mi fa piacere vederti». Mi tuffai nel sedile posteriore vicino a Otto e finsi di aiutarlo a togliere le casse, spiegazzandogli malamente i giornali con le ginocchia. La BMW parcheggiò. Man mano che si avvicinava, il rumore delle ruote che schiacciavano il ghiaccio diveniva sempre più forte. Di colpo trovai gli altoparlanti estremamente interessanti e mi girai in modo da mettere il culo in faccia alla BMW. Una posizione in cui mi sentivo vulnerabile, meno però che se mi avesse visto. Il motore si spense e la portiera si richiuse. Allo sbattere della portiera, Otto guardò oltre la mia spalla. Poi tornò alle sue amate casse. Sentii la porta di legno che si richiudeva, continuai a trafficare ancora un po' con i cavi e poi chiesi: «L'inglese chi è?» «Ma sei scemo? Quello non è inglese», disse con tono di rimprovero. «Allora perché ha una macchina inglese?» Evidentemente avevo detto qualcosa di molto divertente. «Perché può permetterselo, amico! Un inglese non va fino a San Pietroburgo solo per riprendersi la macchina; sarebbe da scemi farlo.» «Capisco.» Evidentemente in questa parte del mondo non era un problema andarsene in giro sotto gli occhi di tutti con targhe scottanti. In fondo, se uno aveva i soldi per ordinare una BMW rubata, perché non farne sfoggio? L'adesivo sul lunotto posteriore del concessionario che l'aveva venduta era di una ditta tedesca di Hannover, il che probabilmente stava a significare che un povero cristo aveva risparmiato qualche secolo per comprarsi il giocattolino detassato, per poi vederselo rubare in modo che potesse andarsene in giro in mezzo alla neve di Narva. La prima cassa venne via. Non avevo idea di come avrebbe fatto a ricollegarla; mi sembrava di essere in una centralina telefonica. La catena che aveva intorno al collo emise uno sordo rumore di latta. Probabilmente quelle dei gruppi rap erano vere, ma le sue puttane non coglievano di sicuro la differenza. «E allora chi è?» «Oh, uno del gruppo. Roba di lavoro, sai com'è.»
Non dovevano essere pochi gli affari che faceva da quelle parti per avere diritto a un mazzo di chiavi della casa. «Non parlare di me con nessuno, Vosjem'», dissi. «In particolar modo con tipi come quello. Non voglio che si sappia in giro che sono qui, chiaro?» «Certo, amico.» Lo disse in modo un po' troppo indifferente per i miei gusti, ma non volevo insistere troppo sull'argomento. Una volta liberate completamente le casse, gli ficcai in braccio le cassette. Me ne volevo andare prima del ritorno di Falegname. Il cofano era ancora aperto e ne approfittai per colpire lo starter con il martello. Otto era accanto alla portiera con una bracciata di cassette, le casse sul gradino di casa. «Mi raccomando, tratta bene questa vecchia troia, Nikolai.» Prima ancora che si voltasse per aprire la porta, avevo già abbassato il cofano, inserito la marcia e mi stavo allontanando per la strada da cui ero venuto. Continuavo a pensare a Falegname. Cos'avrei fatto se fosse stato ancora lì al mio ritorno da Otto, dopo la ricognizione? O se fosse arrivato mentre c'ero io? Con la mia voglia di portare via i coglioni il più presto possibile avevo incasinato tutto. Avrei dovuto dire a Otto che ci saremmo visti da qualche altra parte. M'imposi di tenere sotto controllo la rabbia che montava al pensiero di come Falegname aveva mandato a puttane il lavoro di quella notte. Non solo mi era costato una cifra, ma per poco non ci avevo lasciato la pelle. Dovevo tornare a parlare con Otto? Non avevo scelta: per procurarmi l'esplosivo o quello che mi sarebbe servito avrei avuto bisogno di aiuto. Oltrepassai i komfort baar pensando a quello che avrei dovuto fare per comportarmi da professionista e a quello che avrei voluto veramente fargli, che non era esattamente da professionista. Tanculo, mi fermai al parcheggio del confine. La serratura era rotta e impiegai quasi un minuto per chiudere la Lada. Con il persuasore dell'avviamento in tasca, mi voltai e tornai a piedi verso la casa. Come dice giustamente il proverbio, non c'è cosa che non si possa risolvere con un martello da un chilo. 32 Mi ci voleva un colpo di fortuna per beccarlo all'uscita di casa. Decisi di
aspettare fino alle due del mattino seguente. Per la ricognizione avevo bisogno di tempo, e prendere Falegname e tenerlo legato da qualche parte sino a lavoro finito non era possibile. Mancanza di tempo. Ormai conoscevo abbastanza quella parte della città, quindi tagliai fra due condomini e vidi condizioni ancora peggiori, capanni bruciati come le auto e edifici crollati probabilmente da anni. Rimaneva un'ora e mezzo prima che, intorno alle tre e mezzo, svanisse l'ultima luce, ma il cielo coperto rendeva tutto più buio di quanto non doveva essere. Seguii i sentieri nella neve, svoltai angoli e aggirai relitti d'auto e carrozzine arrugginite finché non arrivai in vista della casa. La BMW di Falegname era a non più di trenta metri. Gli altri tre veicoli erano ancora lì, tutti con un sottile strato di ghiaccio sui finestrini e sulle superfici orizzontali. Un paio di persone passeggiavano intorno all'isolato, accompagnate da piccoli cani con cappottini lavorati ai ferri. Era abbastanza buio e abbastanza freddo perché non mi vedessero appoggiato contro il muro di ciò che era rimasto di un capanno, con la testa bassa e le mani nelle tasche, la destra stretta sul martello. Non ero preoccupato, non provavo nessuna emozione per quanto stava per succedere. Alcuni uccidono perché hanno un buon motivo. Altri, tipo Falegname, semplicemente perché ci provano gusto. Io lo facevo solo quando non potevo farne a meno. Mossi le dita dei piedi dentro gli stivali per far circolare il sangue. Cercai di pensare a soluzioni alternative, ma non me ne venne in mente nessuna. In ballo c'erano cose più importanti della vita di questo maniaco; ripensai ai singhiozzi dell'uomo nell'ascensore a Helsinki, mentre sorreggeva la moglie in fin di vita. Falegname avrebbe potuto mandare tutto in merda se avesse scoperto che ero lì. Ero ancora incazzato con me stesso per non aver pensato subito di dire a Otto che ci saremmo visti in un altro posto; per colpa di quella cazzata mi ero infilato in una posizione nella quale, se avessi sbagliato mossa, avrei potuto lasciarci le penne anch'io. Negli appartamenti si accesero un paio di luci giallastre. Il rumore di una televisione fu coperto per un attimo da una macchina che sferragliava lungo la strada. Poi sentii le grida di un bambino. Continuai a tenere d'occhio la porta. Di tanto in tanto, da dietro le tende sporche e i vetri delle cucine appannati dal vapore, sentivo sbattere pentole e piatti. Da qualche parte nel vicinato cani abbaiavano l'uno all'altro, forse solo per noia. Dalla casa non proveniva alcun segno di movimento né si vedevano luci. Il Re Leone mi comunicò che erano le 15.12.
Guardavo e aspettavo. Il freddo mi mangiava le orecchie e il naso, facendomi rimpiangere di non aver fatto lo sforzo di comprare cappello e guanti di ricambio. Presi altre quattro aspirine, perché il mio corpo continuava a ricordarmi che la sera prima aveva preso una buona dose di calci. Impiegai parecchi minuti per ottenere saliva sufficiente per poterle ingoiare. Controllai di nuovo il Re Leone: le 15.58. Non ero lì neppure da un'ora e avevo l'impressione che ne fossero passate sei. Ho sempre odiato le attese. Altri trenta minuti strisciarono via, poi alla porta ci fu un movimento e vicino alla grata s'intravide una smorta luce giallognola. Lentamente tirai fuori le mani dalle tasche. Serrai con forza la testa del martello nella destra e allineai il manico lungo l'avambraccio, all'esterno della giacca. Due uomini in piedi fumavano, aspettando che la grata venisse aperta. Alla luce delle sigarette e dell'atrio, i loro respiri si confondevano con il fumo che saliva sopra le loro teste. Non riuscii a distinguere se uno dei due fosse Falegname. Mi augurai di no. Affrontarne due con un martello non sarebbe stato un buon inizio di serata, e molto probabilmente Falegname era armato. Continuarono a parlare, poi la grata si aprì cigolando e uno dei due uscì sul ghiaccio. La grata si richiuse, e rimasero uno da una parte e uno dall'altra. Forse sarebbe andato tutto bene. Quello che andava via, chiunque fosse, scambiò una risata con l'amico, che adesso aveva l'aspetto di un prigioniero dietro le sbarre. Prima di allontanarsi, chiuse la porta di legno e si sfregò le mani per il freddo. Dal mio punto di osservazione non riuscii a sentire le serrature che si richiudevano. Aveva l'aspetto di un veterinario dello Yorkshire; mentre si dirigeva verso i veicoli potei distinguere la sagoma di un cappello piatto. Ancora non riuscivo a capire se era Falegname. L'uomo si spostò verso la serie 5 parcheggiata di lato rispetto a me, di fronte alla casa. Poi ci fu un tintinnare di chiavi. Non riuscii a identificarlo. Dovevo andare più vicino. Stava scrostando il ghiaccio dal parabrezza. Dopo un'attesa così lunga in piedi mi si stavano intorpidendo le gambe. Mi stirai e uscii dall'oscurità, cercando di far circolare il sangue. Ci separavano solo venti metri, ma non ero ancora sicuro che fosse lui. La portiera si aprì e la luce interna si accese illuminandogli la schiena mentre si piegava per inserire la chiavetta d'accensione. Il fumo dello
scappamento riempì l'aria quando infilò una gamba all'interno e premette il pedale dell'acceleratore. Poi accese i fari. Illuminarono una zona lontana, ma mi diedero la possibilità di vederlo di profilo. Era Falegname. Mi guardai ancora una volta intorno per essere sicuro che in giro non ci fosse nessuno. Da quel momento in avanti mi sarei concentrato solo sul bersaglio, che adesso era a soli dieci metri. Sperai che il rumore del motore coprisse i miei movimenti. Era concentrato sul parabrezza. Continuava a togliere il ghiaccio e mi dava le spalle, I miei occhi non si spostarono mai dalla testa che si muoveva avanti e indietro in una nuvola di fiato. Doveva avermi sentito, e fece per voltarsi. Ero a non più di cinque metri, ma troppo lontano per reagire in tempi brevissimi. L'unica cosa che potevo fare era continuare a camminare, piegando appena verso sinistra, come se fossi diretto verso la strada. Mi avvicinai al retro della macchina senza guardarlo. Tenevo la testa bassa, le mani sotto le ascelle per nascondere l'arma. Dovevo ritenere che volesse solo controllare chi era l'imbecille che pensava di potersene andare in giro con quel tempo senza cappello e senza guanti. Il centro di tutto il mio mondo era quest'uomo. Attesi di sentire di nuovo il rumore del raschietto. Stavo per oltrepassarlo, all'altezza del baule della BMW, quando finalmente riprese a raschiare. Scric scric scric. Era giunto il momento di alzare lo sguardo e rimettere nel mirino la testa che si muoveva avanti e indietro, a tempo con il rumore. Scric scric scric. Afferrai la testa del martello con la sinistra mentre la destra scivolava sul manico e gli si stringeva saldamente intorno. In quel momento sollevò lo sguardo, verso la strada. Lo feci anch'io e vidi quattro Vitara DTTS che inchiodavano davanti a un condominio dall'altro lato della strada. Non avevo scelta, se non continuare a camminare e superarlo, mentre dei corpi vestiti di nero saltavano fuori dai veicoli ed entravano di corsa nell'edificio, lasciando gli autisti fuori ad aspettare, manganelli in mano. Arrivai alla strada e svoltai a sinistra verso l'incrocio, senza voltarmi. Udii delle urla e il rumore di vetri rotti mentre la squadra dei DTTS faceva quel cavolo che era venuta a fare nell'edificio in pieno pomeriggio. Imprecavo fra me, ma allo stesso tempo mi rallegrai che non fossero ar-
rivati pochi secondi dopo. Quello che adesso mi preoccupava era trovarlo in casa quando sarei tornato per procurarmi le cose che mi sarebbero servite. Non appena mi fu possibile girai ancora a sinistra, allontanandomi dalla strada e infilandomi fra i condomini mentre la BMW sfrecciava verso l'incrocio. Guidai fuori città, diretto a ovest, seguendo i cartelli lungo la strada di Tallinn fino a una località chiamata Kohtla-Järve, a circa trentacinque chilometri. La strada non era una sorpresa. La macchina non smetteva di sobbalzare, slittando sui diversi livelli della strada sotto il ghiaccio e la fanghiglia. Non potevo lamentarmi; mi bastava essere riuscito a far ripartire quell'affare. Attraversai un paio di cittadine, cercando di evitare autisti d'autobus e di camion che cercavano di coinvolgermi nelle loro gare. Quella sulla quale mi trovavo, in teoria, era una strada a due carreggiate, ma a esserne consapevoli erano in pochi; viaggiavano tutti nel centro della strada, dove c'era meno ghiaccio e più asfalto. Vidi i cartelli per Voka, e presi mentalmente nota di quanto ci avevo messo da Narva: al ritorno avrei avuto di nuovo bisogno di quella strada. I tergicristallo non avevano nessuna efficacia contro la merda schizzata dai camion sui veicoli più piccoli. Ero obbligato a fermarmi di continuo per pulire i vetri con i giornali che prendevo dal sedile posteriore. A un certo punto fui costretto a pisciare sul parabrezza per pulirlo dalla schifezza ghiacciata, cercando allo stesso tempo di evitare gli spruzzi provocati dai tergicristallo che avevo messo in funzione prima che gelasse di nuovo. Kohtla-Järve era, o almeno così sembrava, la casa del gigante fatta di mucchi di detriti e lunghi nastri trasportatori che avevo visto dal treno. Mentre duellavo con i miei amici camionisti, dall'altro lato della strada scintillavano le luci bianche e brillanti delle fabbriche. Appena superato l'impianto industriale le luci diminuirono, e poco dopo fu buio pesto. Le uniche fonti d'illuminazione erano i camion kamikaze e gli abbaglianti degli autobus, mescolati alle auto con un solo faro, che cercavano di superarci tutti. Proseguii sulla strada verso ovest per altri venti chilometri, quindi svoltai a sinistra, verso sud, diretto a un posto che si chiamava Pussi. Non ero in vena di scherzi, altrimenti avrei passato il tempo a chiedermi con chi poteva essere gemellata.
Alla luce dei fari la strada appariva poco più di un sentiero, che non veniva usato né pulito da parecchio tempo. Si vedevano solo due solchi di pneumatici molto confusi nella neve. Sarebbe stato come guidare su rotaie. Mancava un'altra ventina di chilometri verso sud prima di arrivare alla casa-bersaglio. Per percorrerla doveva esserci una strada più diretta di quella ad angolo retto che stavo facendo io, prima a ovest poi a sud, ma non sapevo quanto precise fossero le cartine. E poi volevo rimanere il più a lungo possibile nei pressi della strada principale: se facevo così, qualche speranza di arrivare ce l'avevo. Ero abbastanza orgoglioso di me, considerato che non avevo una cartina; probabile che uno dei ladruncoli di Tallinn in quel preciso momento ci si stesse pulendo il culo. I fari illuminavano dai cinque ai dieci metri, rendendo visibili banchi di neve e qualche albero carico di ghiaccio che aspettava la primavera per mettere i germogli. Attraversai Pussi, che aveva l'aria di una piccola comunità di fattorie. Le costruzioni erano baracche cadenti di legno grezzo, circondate da relitti di auto. I tetti erano ricurvi, per l'età o perché mal costruiti. Lungo quasi tutte le pareti si vedevano due tavole unite fra loro da assicelle orizzontali che formavano una specie di scala permanente, in modo da poter arrivare sul tetto e spazzare la neve. A giudicare dallo stato del legno, si aveva l'impressione che senza quelle tavole le baracche sarebbero crollate. Decisi che Otto si sarebbe trovato benissimo lì. Una Lada ridipinta a mano da quelle parti sarebbe stata all'ultima moda. Avevano l'energia elettrica, perché di tanto in tanto, attraverso piccole finestrelle, vedevo brillare una luce e i granai erano fiocamente illuminati da una lampadina. Ma era evidente che non c'era acqua corrente perché vedevo spessissimo delle pompe a mano come quelle che usa Clint Eastwood per sfregarci sopra i fiammiferi e accendersi il sigaro. Le pompe erano rivestite di tela incerata e stracci per non farle gelare. I comignoli fumavano alla grande. In quel posto dovevano passare l'estate a tagliare ciocchi di legno. Nessun cartello mi avvertì che stavo per attraversare i binari della linea che portava a Tallinn, e passata questa non vidi più nessun segno di attività umana. La strada peggiorava continuamente. La Lada non faceva che slittare e non mi divertii neanche un po' con tutte quelle buche, adesso che i miei binari privati di neve erano finiti. Controllai il contachilometri. Facendo un conto alla rovescia, secondo i miei calcoli la deviazione che cercavo era a due chilometri da lì.
Arrivato all'incrocio, ricevetti finalmente un aiuto: un piccolo cartello m'informò che ero sulla strada giusta per Tudu. Svoltai a sinistra. Adesso sapevo che il mio bersaglio era la prima costruzione sulla sinistra a due chilometri da lì. Percorsi i due chilometri i fari illuminarono sulla sinistra un muro di cemento molto alto, arretrato rispetto alla strada di circa dieci metri. Proseguii lentamente per altri dieci metri e mi trovai in presenza di due cancelli alti quanto il muro. Li superai e il muro riprese per altri quaranta metri prima di girare ad angolo retto nel buio. Il secondo edificio, poco più avanti, misurava circa trenta metri di lunghezza e sembrava un grande hangar. Era leggermente più vicino alla strada e non aveva muri o recinzioni. Attesi di essere fisicamente fuori dalla vista del bersaglio, poi infilai la Lada in un viottolo sulla sinistra, fermandomi dopo un metro di scivolata. Probabilmente era la via d'accesso a un campo o qualcosa del genere, ma per qualche mese nessuno sarebbe passato per andare a coltivarlo. Chiusi piano il primo scatto della portiera, poi il secondo. Sollevai i tergicristallo e fissai al parabrezza un foglio di giornale. Cercai di muovermi il più veloce possibile per scaldarmi, camminando sempre sul ghiaccio per ridurre al minimo le impronte. Non avevo la più pallida idea di quello che avrei fatto. 33 Dopo due ore passate a sforzare gli occhi per guardare attraverso un vetro imbrattato, la mia visione notturna ci mise un po' a entrare in azione. Si udì un grido di uccello in lontananza, ma non c'erano altri suoni se non il mio respiro e lo scricchiolio degli stivali sul ghiaccio. Dovevo muovermi con cautela, ma abbastanza velocemente da generare caldo. Una volta raggiunto il bersaglio, i bastoncelli della retina si erano rassegnati al fatto che mancava la luce ambientale e che toccava a loro darsi da fare. Del resto, non vedere il primo edificio, appena oltre la strada alla mia destra, era impossibile. Lo spazio di circa cinque metri fra strada e costruzione era coperto da uno strato di neve ad altezza ginocchio, che ricopriva i detriti rovinati all'esterno. Doveva essere stato un edificio imponente, sebbene buona parte della costruzione fosse crollata lasciando scoperto lo scheletro metallico interno, attraverso il quale, dall'altra parte, intravedevo un campo. L'edificio era a un piano, meno alto del muro di cinta più
avanti, ma ampio, e con un tetto quasi piatto coperto da uno strato di neve. Un gruppo di camini che ricordava i fumaioli di una nave svettava dal lato destro del tetto e spariva nel buio. Proseguii in direzione del muro di cemento e attraversai i dieci metri che separavano l'hangar dal mio bersaglio. Avvicinandomi riuscii a distinguere nel muro la forma scura di una porta di dimensioni normali. Mi sarebbe piaciuto molto andare a controllarla, ma non potevo correre il rischio di lasciare impronte nella neve alta. Camminai verso il cancello principale con il muro che torreggiava sopra di me. Dalle case non proveniva nessuna luce, nessun suono. Cercai d'individuare videocamere a circuito chiuso o congegni anti-intrusione, ma era troppo buio e il muro era troppo alto e lontano. Se c'erano, lo avrei scoperto di lì a poco. Venni assalito da un pensiero deprimente: che avessero già traslocato. Avanzai per gli ultimi quaranta metri e raggiunsi il punto in cui il vialetto che portava al bersaglio incrociava la strada. Svoltai a destra, e proseguii verso i cancelli. Non c'era motivo di perdere tempo, dovevo procedere. Il senso di sconforto non diminuì perché, pur avvicinandomi, non riuscii a distinguere luci attraverso i cancelli. Quando fui più vicino, tenendomi sul solco di destra, vidi che il muro era composto di enormi blocchi di cemento, di circa venticinque metri di lunghezza e cinque di altezza. Dovevano essere estremamente solidi per poter poggiare così, l'uno sopra l'altro. Sembravano costruiti per essere messi in orizzontale, l'uno accanto all'altro, come a formare una pista d'atterraggio. Ancora nulla che avesse l'aspetto di un impianto TV a circuito chiuso o di un allarme. I due ampi cancelli erano alti quanto il muro. Adesso ero molto vicino e ancora non riuscivo a captare nessun rumore dall'altra parte. I cancelli erano di lastre d'acciaio ricoperte da uno spesso strato di vernice scura antiossidante, liscia al tatto, senza traccia di bolle o scrostature. Riconobbi anche segni di gesso, quelli che si fanno per guidare la saldatura. Spinsi delicatamente, ma non si mossero. A tenerli chiusi non c'erano serrature né catene in vista. Erano stati costruiti da poco, a differenza del muro, per lo meno a giudicare dai rinforzi in ferro che sporgevano dal cemento sbrecciato. Nell'anta di destra era ricavato un piccolo varco per le persone. Sulla porta, due serrature, l'una a un terzo dal basso, l'altra a un terzo dall'alto. Provai con cautela la maniglia, che ovviamente non girò. La distanza fra il cancello e il terreno era di una quindicina di centimetri. Mi sdraiai su un fianco utilizzando il solco delle ruote per non lasciare
tracce, e avvicinai un occhio alla fessura. Sotto il corpo il terreno era gelato, ma ormai non aveva più importanza: dall'altra parte c'era luce. Contemporaneamente cominciai ad avvertire un debole ronzio di macchinari. Non potevo averne la certezza, ma con ogni probabilità si trattava di un generatore. Riuscii a distinguere le sagome di due edifici a circa sessanta metri di distanza. Il più piccolo, quello sulla sinistra, aveva due finestre illuminate a pianoterra. Si vedeva il profilo delle tende tirate, ma la luce filtrava ugualmente e si rifletteva sulla neve davanti all'edificio. Il rumore doveva essere in effetti quello di un generatore: nel villaggio non c'era abbastanza potenza perché la luce attraversasse le tende. L'edificio era troppo lontano per poter distinguere altri particolari. Solo una massa scura contro un fondale scuro. Mi dedicai all'altro edificio, quello sulla destra, il più grande. Davanti s'intravedeva un settore più buio, la cui forma rettangolare, chiusa in alto da un semicerchio, faceva pensare a un ampio ingresso. Forse era dove tenevano gli automezzi. Ma i dischi satellitari dov'erano? Sul retro? O forse quella che stavo ispezionando era la fabbrica locale di barbabietole cotte? E Tom dove lo avevano sbattuto? Mi domandai come proseguire. Il problema che mi si presentava era identico a quello di casa Microsoft: troppa neve vergine e troppo poco tempo. L'ideale sarebbe stato effettuare un giro completo di questo posto, ma non potevo. Pensai di arrampicarmi sulla ciminiera dell'hangar per avere una panoramica migliore, ma anche se fosse stata provvista di una scala in ferro, molto probabilmente avrei lasciato delle tracce sul tetto o sui pioli, e comunque cos'avrei visto da quella distanza? Rimasi sdraiato ricordando a me stesso che quando si hanno poco tempo e poche informazioni, l'unica risposta è T come Tanto. Tanto esplosivo. Ipotizzai come avere la meglio sul muro e come entrare nel bersaglio, annotando su un post-it mentale una serie di cose che mi sarebbero servite. Alcune avrebbe dovuto procurarmele Otto, perché a me sarebbe stato impossibile, visto il poco tempo a disposizione. Se Otto non fosse stato in grado, il piano B prevedeva che mi fasciassi la fronte con una bandana da kamikaze e mi scagliassi a tutta velocità contro i cancelli, ululando terrificanti minacce. Era davvero l'unica possibilità, perché ogni azione diversa dal piano T come Tanto esplosivo, sarebbe risultata inutile. Il resto dell'equipaggiamento me lo sarei procurato da solo, in modo da avere la garanzia che fosse esattamente quello che volevo. Detestavo dipendere da altre
persone, ma quando si è nel Ciad... Il freddo stava avendo la meglio e ormai cominciavo a congelare. Per quella notte avevo visto quanto bastava. Mi alzai prestando molta attenzione a non uscire dal solco delle ruote, e controllai che non mi fosse caduto niente. Era solo un'abitudine, ma molto utile. Quindi ispezionai meticolosamente la neve da entrambi i lati del solco, pronto a intervenire. Ci fosse stato qualche segno da coprire, avrei dovuto raccogliere della neve intorno alla macchina e portarla lì. Raccoglierla sul posto, con il risultato di aggiungere impronte a impronte, non avrebbe avuto senso. Quando arrivai alla Lada mi ero un po' riscaldato. Purtroppo la prima cosa che dovetti fare una volta sollevato il cofano fu togliermi la giacca e avvolgerla intorno al motorino d'avviamento. Non volevo che i nuovi amici di Tom mi sentissero prendere a martellate il motore. Tolsi i fogli di giornale dai tergicristallo sul parabrezza e m'infilai al posto di guida molto più in fretta della prima volta, ormai sapevo maneggiare la serratura. Il motore si accese al terzo tentativo. Con il motore al minimo mi avviai, questa volta senza passare davanti al bersaglio. Per tornare alla strada principale per Narva feci una serie di svolte e cambiai spesso rotta. Un paio di volte mi persi, ma alla fine la trovai e potei rientrare nel girone della morte. 34 Parcheggiai nuovamente nel piazzale vicino al confine. Secondo il Re Leone erano le 21.24. Andare direttamente a casa di Otto sarebbe stato un'imprudenza. Dovevo prima controllare che Falegname non fosse in zona. Altrimenti avrei dovuto passare la notte in attesa che se ne andasse. Chiusi la macchina e puntai in direzione del baar, mani nelle tasche, testa bassa. Quando raggiunsi il capanno mezzo bruciato vidi che la BMW non c'era, e che erano rimaste parcheggiate soltanto due delle auto, coperte da una spessa coltre di ghiaccio. Mancava uno dei Cherokee. Cosa voleva dire? Merda, non potevo permettermi il lusso di perdere tempo. Quale sarebbe stato il momento migliore per entrare nella casa? Si trattava di sfidare la sorte e tentare. L'importante era mettere insieme l'attrezzatura e ricevere i soldi nel più breve tempo possibile. Schiacciai il pulsante e rimasi in attesa. Nessuna risposta. Schiacciai ancora. Rispose una gracchiante voce maschile, non la stessa di prima, ma al-
trettanto rauca. Ormai conoscevo il sistema e anche un po' di russo. «Vosjem'. Vosjem'.» La scarica statica s'interruppe. Sapevo che dovevo aspettare, e anche che dovevo spostarmi per far aprire il portone. Sentii quasi subito le serrature scattare dall'interno. La porta si aprì e vidi Otto, sempre con la sua felpa rossa. Mentre apriva la grata, scrutò la zona parcheggio. «Le mie ruote?» Entrai e attesi che richiudesse. Continuava a ispezionare nervosamente con gli occhi il lato parcheggio. «La macchina sta bene. Il tizio della BMW è tornato?» Si strinse nelle spalle e iniziai a salire le scale dietro di lui. «Ci servono carta e penna, Otto.» «Ma che ne è della mia macchina?» Entrammo nella stanza al terzo piano e ancora non gli avevo risposto. Senza luce naturale la stanza della TV era ancora più buia, ma con lo stesso odore, impregnata com'era di fumo di sigaretta. Non c'era nessuno. Non era cambiato niente, tranne che, accanto al mazzo di carte sul tavolo, c'era una lampada che spandeva una luce fioca sulla bottiglia di Johnny Walker quasi vuota. Tre portacenere erano ricolmi di cicche di sigaretta che strabordavano sul tavolo un tempo molto lucido. La TV era ancora accesa, e diffondeva qualche barlume di luce nell'altro lato della stanza. Attraverso una cortina di neve scorsi Kirk Douglas che faceva il cowboy. L'audio era molto basso; il dialogo si percepiva a malapena. «Lì, Nick. Sul tavolo.» Indicò un mucchietto di biro da quattro soldi e dei fogli di carta rigata in formato A4, sparpagliati in mezzo al casino. Alcuni avevano dei numeri scritti sopra. Mi sedetti e buttai giù una lista, chiedendomi se quei numeri si riferissero ai punteggi del gioco o alle registrazioni degli affari conclusi in giornata. Otto mi mise una sedia di fronte. «Dai, su, non scherziamo, dov'è la macchina, amico?» «Un po' più giù.» Scrutò la mia espressione. «Tutto a posto?» «Sì, sì. Lasciami finire.» Volevo fare la lista e portare via i coglioni il più in fretta possibile. «Dove sono gli altri?» Agitò le mani come un ballerino di break dance in avanzamento rapido.
«Affari, amico, affari.» Terminai di scrivere e spinsi il foglio nella sua direzione. Non cambiò espressione. Mi aspettavo che emettesse qualche suono attraverso i denti, ma l'unica domanda che fece fu: «Otto chili?» «Sì, otto chili.» Di certo non erano gli stessi chili della roba cui era abituato. «Otto chili di cosa, Nikolai?» Abbassò le spalle e il viso gli si rabbuiò. Era evidente che non aveva capito una parola di quanto avevo scritto tranne 8 kg. Aveva imparato a parlare inglese dalla TV, ma non sapeva leggerlo. Forse avrebbe dovuto passare più tempo a guardare Sesame Street e un po' meno NYPDBlue. «Facciamo che io dico quello che mi serve e tu lo scrivi, va bene?» Non volevo metterlo in imbarazzo, e poi qualsiasi cosa pur di fare in fretta. Adesso che avevamo trovato una via di uscita, sorrise. «Molto figo, tu parli io scrivo.» A metà dettatura dovetti fermarmi per spiegare che cos'era un detonatore. Pochi minuti dopo si fermò. Impugnava la penna come i bambini piccoli, e quando la lingua fu rientrata in bocca, assunse un'aria molto soddisfatta di sé. «Okay. Molto figo.» Si alzò contemplando la sua opera d'arte. Si sentiva molto importante. «Aspetta qui, Nikolai, amico.» Sparì attraverso la porta vicino al caminetto. Qualche secondo dopo mi giunse una voce molto più vecchia che scoppiava a ridere. Non sapevo se fosse un buon segno. Evitai di guardare chi c'era; se a prendere la decisione era la voce più vecchia, spiarlo non sarebbe servito a nulla, se non a fargli girare le palle e rendere la mia vita ancora più incasinata di quanto già non fosse. Sentii un rumore di passi sulle scale, accompagnato da sprazzi di conversazione secca e aggressiva che cresceva di tono man mano che salivano. Dissi a me stesso di non preoccuparmi, anche se il mio cuore prese a battere più forte mentre cercavo di capire se nel gruppo c'era Falegname. Anche quando le voci si fecero distinte non riuscii a capire se erano incazzati o se quello era semplicemente il loro modo di parlare. La porta si spalancò e guardai i Bravi Ragazzi entrare uno alla volta, pronti ad afferrare la bottiglia di Johnny Walker e sbatterla sulla testa di qualcuno. Falegname non c'era. Erano gli stessi giocatori della mattina. Si tolsero i giacconi di pelle e i berretti. Il più vecchio, che aveva un sacchetto, tenne
in testa il suo affare cosacco di pelliccia. Rimasi dove mi trovavo. Il cuore mi batteva ancora più in fretta per il sollievo. Appallottolai la prima lista e me la infilai in tasca. Attraversarono la stanza senza il minimo cenno di saluto. Solo il più vecchio, quello con il colbacco di pelliccia, sbraitò qualcosa e con la mano mi fece capire di allontanarmi dal tavolo e portare via il culo dalla sua sedia. Mi alzai e mi spostai. Non me ne fregava un cazzo, ero lì per altre cose, non per fare il duro. Dalla finestra osservai il traffico in coda alla frontiera. Adesso che i fari accesi distribuivano nella zona un chiarore biancastro, sembrava sempre di più la scena di un film. Non avrei potuto dire la stessa cosa sull'illuminazione del lato del fiume dove mi trovavo io. Adesso tutti e quattro erano seduti al tavolo. Si scolarono quello che restava del whisky e cominciarono a calmarsi. Continuarono a parlare, coprendo la sparatoria a basso volume che Kirk stava vincendo dall'altro lato della stanza. Il più vecchio tirò fuori dal sacchetto pacchi di salsicce e pane di segale e li buttò sul tavolo. Gli altri cominciarono ad aprire le confezioni di salsicce e a strappare pezzi di pane. Li osservai. Mi venne fame ma immaginai di non essere nell'elenco degli invitati. Dato che le teste facevano dei cenni e lanciavano rapide occhiate nella mia direzione, fu chiaro che l'argomento della conversazione ero io. Uno dei ragazzi disse qualcosa e mi guardarono tutti. Dopo quella che doveva essere una battuta ci furono delle risatine. Poi l'atmosfera tornò seria e tutti ripresero a mangiare. Continuai a far finta di guardare dalla finestra e di non essermi accorto di quello che avveniva alle mie spalle. Sentii il rumore di una sedia che veniva spostata sul pavimento di legno, poi il rimbombo di passi di uno di loro che si avvicinava. Mi voltai e sorrisi al vecchio con il colbacco, guardandolo alla luce della TV che lo illuminò quando passò davanti allo schermo. Mi era di fronte, ma continuava a parlare agli altri, e aveva un'espressione estremamente seria. Non era un altro scherzo. Sollevò l'indice e avvicinandosi me lo puntò contro, come per dare più forza a qualsiasi cosa stesse farfugliando. Guardai a terra in segno di sottomissione e mi voltai leggermente verso la finestra. Quando fu a meno di una trentina di centimetri cominciò a colpirmi la schiena e a urlarmi nelle orecchie. Mi voltai e lo guardai, confuso e spaventato, poi abbassai lo sguardo, come avrebbe fatto Tom. Puzzava di a-
glio e alcol e continuava a spingere e a parlare sputacchiando. Alcuni pezzetti di salsiccia mi colpirono il volto. La sua faccia, una maschera di rughe con la barba di un giorno, adesso si trovava a pochi centimetri dalla mia, e la pelliccia del berretto mi sfiorava la fronte. Mi urlò di nuovo rabbiosamente contro. Decisi di non reagire. Non mi spostai né mi pulii dalla schifezza che avevo in faccia per non alimentare l'ostilità. Mi limitai a rimanere fermo, lasciando che continuasse, come facevo a scuola quando gli insegnanti diventavano violenti. Non era una situazione che mi facesse paura; sapevo che nel giro di poco si sarebbero stancati e avrebbero lasciato perdere, per cui lasciamoli divertirsi, così poi ce ne possiamo andare a casa. Uno degli atteggiamenti che mi avevano incasinato la vita. Spostai la mano sinistra verso la finestra per mantenere l'equilibrio. Adesso mi stavano arrivando colpi a quattro dita. Dopo ogni stoccata il mio corpo si piegava all'indietro. Guardai di traverso, riuscii a vedere gli altri tre al tavolo, le sigarette che brillavano nella penombra. Lo spettacolo di cabaret era di loro gradimento. Le urla e il fiato puzzolente proseguirono. Cercai di mostrarmi molto spaventato e balbettai: «Sono qui per Otto...V-v-v-osjem'». Mi fece il verso: «V-v-v-osjem'». Si voltò verso il tavolo, mimò il gesto d'iniettarsi qualcosa nel braccio e scoppiò a ridere insieme con gli altri tre. Si rigirò e mi diede l'ultima spinta verso la finestra. La incassai e recuperai l'equilibrio mentre lui tornava alle sue salsicce all'aglio. Mentre fingeva di sniffare una dose dal dito indice, con l'accompagnamento di altre risate, era evidente che parlava di me. Lasciamoglielo credere. L'esibizione era finita. Ma Otto dove cazzo era andato? Ripresi a guardare fuori dalla finestra, pulendomi con molta calma la faccia dalla porcheria che si era appiccicata sopra. Le tavole del pavimento ricominciarono a risuonare di passi che venivano verso di me. Stava tornando per il bis. Mi si avvicinò di nuovo e mi diede una spinta con entrambe le mani. Mi stava prendendo per il culo. Si divertiva un casino. Forse si stava liberando di qualche frustrazione. Gli altri ridevano mentre indietreggiavo sotto i colpi, cercando di sostenermi alla cornice della finestra, sempre senza opporre resistenza, guardando con aria da scemo il pavimento, per avere un aspetto ancor meno minaccioso. A ogni colpo si faceva più cattivo e a quel punto cominciai a incazzarmi.
Dopo un colpo particolarmente forte barcollai verso la TV. Mi seguì, i colpi adesso inframmezzati da sberle sulla nuca. Continuavo a tenere la testa bassa, non volevo che mi leggesse negli occhi quello che stavo realmente pensando. Continuava a ripetere la stessa parola, senza sosta, poi iniziò a indicare i miei stivali. Voleva i miei soldi e i miei Timberland? I soldi potevo capirlo, ma gli stivali? La situazione stava andando fuori controllo. Se avevo capito bene e se mi avesse tolto gli stivali, avrebbe avuto molto più di quanto poteva immaginare. Non potevo permettere che accadesse. Alzai le mani in segno di resa. «Stop! Stop! Stop!» Si fermò, in attesa del contante. Infilai lentamente una mano nella tasca interna della giacca e tirai fuori la mia polizza di assicurazione, ancora dentro la sua protezione. Guardò il preservativo e poi me, strizzando gli occhi. Sciolsi il nodo e infilai due dita all'interno. Mi abbaiò contro una domanda, poi, urlando qualcosa rivolto agli altri, afferrò il preservativo ed estrasse con violenza il contenuto. Srotolò il sottile pezzo di carta, quasi strappandolo, si voltò verso il tavolo e lo sventolò come se fosse stata la sorpresa di un cotillon natalizio. Si piegò per ricevere luce da Kirk in groppa al suo cavallo e spinse il biglietto davanti allo schermo. Come cominciò a leggere, la risata andò affievolendosi. Poi cessò del tutto. Qualsiasi cosa dicesse il biglietto, stava facendo il suo effetto. Si avvicinò agli altri, borbottando con aria sconvolta: «Ignaty. Ignaty». Non avevo idea di quello che voleva dire, ma francamente me ne sbattevo. Tutti lo lessero e su tutti sembrò avere l'identico effetto. Voltarono lentamente la testa e mi fissarono. Unii le mani di fronte a me, per non avere un'aria minacciosa. Che la polizza avesse funzionato era buono, ma forse adesso avrei dovuto fare i conti per avergli fatto perdere la faccia. C'è gente che quando accadono cose del genere ha questo cazzo di problema e continua a colpire per ritorsione, senza curarsi delle possibili conseguenze, solo perché il suo orgoglio è stato ferito. Non potevo permettermi di buttare benzina sul fuoco assumendo un'aria strafottente, non ero ancora fuori dai guai. Mi avvicinai al tavolo, con aria rispettosa, tesi la mano sinistra, facendo attenzione che non spuntasse il Re Leone. Non avrebbe aiutato a migliorare la mia reputazione. Indicai il pezzo di carta. «Prego.» Forse non conosceva la parola, ma comprese perfettamente quello che volevo. Me lo porse, detestando ogni secondo che impiegava a compiere
quel gesto. Io lo piegai con cura e lo rimisi in tasca. Non era il momento di infilarlo nel preservativo. «Grazie.» Chinai appena la testa e, con il cuore che andava a mille come se stessi infilando a forza petrolio greggio nelle arterie, mi voltai e tornai verso la TV. Mi sedetti nel modo più disinvolto che mi riuscì sulla sedia davanti allo schermo e guardai Kirk che domava il selvaggio West, sporgendomi in avanti per riuscire ad ascoltare quello che accadeva nel deserto. Il miei battiti cardiaci erano più forti della TV. Una volta che fossi stato lontano avrebbero ripreso a urlare, ma per il momento alle mie spalle si udivano solo mormorii indistinti. Dove cazzo era Otto? Non volevo voltarmi né guardare in direzioni diverse dallo schermo. Sedevo come un bambino che, all'ora di andare a letto, pensa di non essere visto se rimane immobile e concentrato. Continuarono a borbottare, mentre il collo della bottiglia batteva sui bicchieri per aiutarli a inghiottire la rabbia. Tenevo gli occhi sullo schermo e le orecchie su di loro. Cinque minuti dopo, esattamente quando Kirk si trovava sul punto di salvare la ragazza, Otto rientrò nella stanza lottando per chiudere la lampo del giaccone di finta pelle. Non capii quello che stava dicendo ma capii che ce ne stavamo andando. Bisbigliai una preghiera silenziosa di ringraziamento, mi alzai e cercai di non mostrare troppo il mio sollievo. Otto andò verso la porta e io, passando vicino al tavolo, gratificai i quattro di un inchino rispettoso prima di seguirlo per le scale alla velocità del suono. 35 Quando scorse la sua adorata Lada nel parcheggio pieno di traffico, Otto diventò un orsacchiotto felice. «Adesso dove si va, Vosjem'?» «Un isolato.» Aveva già aperto il cofano della Lada. «Un isolato?» «Sì, cioè, un appartamento.» Al motorino d'avviamento venne ricordato il suo ruolo con un paio di colpi metallici. Alla fine la Lada si mise in moto e Otto uscì dal parcheggio. Svoltò a destra, verso l'incrocio a rotonda. Davanti alle porte dei komfort baar, sotto i neon, stazionavano tizi giganteschi che controllavano il commercio not-
turno. Sulla rotonda girò a sinistra, in direzione opposta al fiume, e passammo davanti ad altri locali e camion parcheggiati. Le luci dei bar andarono scemando e il buio ebbe il sopravvento. Adesso la strada era fiancheggiata da condomini e piccole fabbriche, inframmezzate da piloni e carcasse cadenti di edifici in muratura. Dopo un'aspra lotta con due camion che cercavano di superarsi inondandoci di ghiaccio e neve, svoltammo a sinistra senza mettere la freccia, e poi ancora in una strada stretta con abitazioni sulla sinistra e un alto muro sulla destra. Otto accostò bruscamente la Lada e saltò fuori. «Aspettami qui, amico.» Schivò l'immancabile gamba di un pilone e puntò all'ingresso principale di uno degli edifici. Si fermò, controllò il numero e sollevò il pollice, poi tornò per chiudere a chiave la Lada. Uscii e aspettai. M'infilai in un corridoio freddo, male illuminato e così stretto che sarebbe bastato allargare le braccia per toccare contemporaneamente i due muri opposti. Al di là della parete si sentiva un rumore di macchinari forte e continuo. La puzza di cavolo bollito era fortissima. I muri erano dipinti di blu, tranne nei punti in cui si erano staccati grossi pezzi d'intonaco. Nessuno si era preso la briga di pulire. Le porte degli appartamenti, un'unica lastra metallica con tre serrature e uno spioncino, erano così piccole che per entrare ci si doveva abbassare. Aspettammo l'ascensore accanto a file di cassette della posta in legno. Molti sportelli erano stati scardinati, altri erano semplicemente aperti. Mi sarei sentito più tranquillo a passeggiare in una prigione sudamericana. Il muro accanto all'ascensore era ricoperto da una quantità di avvisi e cartelli scritti a mano in russo. Per lo meno, mentre in sottofondo si udiva il gemito della cabina all'interno del condotto, avevo qualcosa da guardare. Il marchingegno si fermò con un sussulto e le porte si aprirono. Entrammo in una scatola di alluminio. In ogni possibile punto di contatto con stivali e scarponi, il rivestimento era ammaccato. A quella di cavolo si sostituì la puzza di urina. Otto premette il tasto del quarto piano e partimmo ondeggiando verso l'alto. Ogni mezzo metro l'ascensore si bloccava, come se non si ricordasse la destinazione, e poi ripartiva. Non so come, raggiungemmo il quarto piano e le porte si aprirono su un buio quasi totale. Lo lasciai uscire per primo. Voltò a sinistra, inciampò, e quando lo raggiunsi capii il motivo: sul pavimento stava rannicchiato un ragazzino. Le porte si richiusero fragorosamente e la poca luce diminuì ulteriormente. Mi accucciai per esaminare il piccolo corpo infagottato da due o tre
maglioni malamente lavorati ai ferri. Vicino alla testa c'erano due sacchetti di patatine vuoti, e tra le narici e le labbra pendeva uno spesso strato di muco secco. Respirava e non sembrava ferito, ma anche alla luce incerta della lampadina al soffitto era evidente che stava di merda. La pelle intorno alla bocca era coperta da una selva di foruncoli e dalle labbra colava un filo di saliva. Doveva avere la stessa età di Kelly. Me la ricordai di colpo e fui investito da un'ondata di emozione. Finché c'ero io non le sarebbe successo niente del genere. Finché c'ero io... mi sembrò di vedere l'espressione della dottoressa Hughes. Otto osservò il ragazzo con assoluto disinteresse. Diede un calcio ai sacchetti vuoti, si voltò e riprese a camminare. Spostai il piccolo lontano dall'uscita dell'ascensore e lo seguii. Svoltammo a sinistra in un lungo corridoio. Otto tirò fuori dal giubbotto un mazzo di chiavi canticchiando un motivo rap. Giungemmo alla porta in fondo e dopo qualche tentativo di scoprire quale fosse la chiave giusta riuscì ad aprire. Poi cercò a tastoni l'interruttore della luce. L'ambiente nel quale entrammo non era, senza possibilità di errore, quello da cui proveniva la puzza di cavolo. Si avvertiva l'odore forte di casse di legno e di olio per armi, un odore che avrei riconosciuto ovunque. Se l'aroma di madeleine appena sfornate riportava l'infanzia alla mente di Proust, questo riportava me al primo giorno nell'esercito, anno 1976, quando ero un ragazzo-soldato. Meglio le madeleine. L'immancabile monolampadina illuminava un minuscolo ingresso, non più di due metri quadrati, sul quale davano due porte. Otto prese quella di sinistra e io gli andai dietro, dopo essermi richiuso la porta di entrata alle spalle e aver girato tutti i chiavistelli. Dal soffitto pendeva un lampadario che avrebbe rappresentato l'orgoglio di ogni famiglia degli anni '60. Delle quattro lampadine che conteneva ne funzionava una sola. La piccola stanza era piena di casse di legno, scatole di cartone cerato e materiale esplosivo sciolto, il tutto con scritte in cirillico. L'aspetto generale era molto Ciad, un Ciad con data di scadenza pericolosamente passata da un pezzo. Vicino a me c'era una pila di casse di legno con maniglie di corda. Sollevai un coperchio e riconobbi immediatamente gli oggetti a forma di padella color verde spento. Con un ghigno che gli andava da un orecchio all'altro, Otto fece il rumore di un'esplosione agitando le mani nell'aria. Sapeva anche lui che si trattava di mine terrestri. «Visto, amico, ti ho procurato quello che volevi. Soddisfatto o rimborsato, giusto?»
Mi limitai ad annuire continuando a guardarmi intorno. Per terra c'era una gran quantità di altra attrezzatura avvolta in carta oleata militare. In giro c'erano cartoni impilati uno sull'altro che l'umidità aveva fatto crollare rovesciando il contenuto sul pavimento. In un angolo era ammonticchiata una mezza dozzina di detonatori elettrici, tubi di alluminio della grandezza di una sigaretta fumata per un quarto con due fili d'argento lunghi una trentina di centimetri che uscivano dal fondo. I due cavetti d'argento erano sciolti, non attorcigliati insieme, il che era piuttosto pericoloso: significava che erano pronti a funzionare come antenne in presenza di una qualsiasi forma di elettricità - onde radio, ad esempio, o energia di un telefono portatile - e quindi a esplodere, probabilmente insieme con il resto della merda lì intorno. Quel posto era un incubo. Come se ai russi non importasse un cazzo di dove fosse finita tutta quella roba all'inizio degli anni '90. Sollevai i detonatori, uno per volta, e avvolsi insieme i cavetti per chiudere il circuito. Quindi feci un giro fra il resto della roba, e aprii altri cartoni. Otto mi imitò, forse per farmi capire che anche lui sapeva il fatto suo o forse solo per curiosità. Lo presi per un braccio e scossi la testa. Non volevo che giocasse con queste cose. Non mi sarebbe dispiaciuto uscire di lì con tutti i miei pezzi in ordine e senza che lui ci lasciasse qualche altro dito. Ci rimase male, così una volta finito di sistemare i detonatori e dopo averli messi in un cartone per munizioni vuoto, tirai fuori la polizza per dargli qualcosa da fare. «Che cosa dice Vosjem'?» Immaginavo che la sua lingua sapesse leggerla. Mentre si spostava sotto la luce, individuai della miccia verde scuro. Non era nelle solite bobine da duecento metri come avrei preferito; sembravano essercene due metri qua e altri dieci metri là e alla fine scovai una bobina usata solo in parte che conteneva ancora ottanta o novanta metri di miccia. Potevano bastare. Trasportai la bobina da una parte e cominciai a controllare le altre stanze. Fu piuttosto semplice perché avevano tutte più o meno la dimensione di uno sgabuzzino per le scope; c'era un cucinino-bagnetto-piccolo-cesso e una camera da letto ancora più piccola. Cercavo esplosivo al plastico, ma non ce n'era. L'unico esplosivo al plastico era contenuto nelle mine anticarro, e di quelle ce n'erano abbastanza da garantirmi il T come Tanto. Tornai alla stanza principale e da un cartone aperto ne sollevai una. Erano del tipo TM40 o 46, mai che riuscissi a ricordare come si chiamava una e come si chiamava l'altra; però sapevo che una era fatta di metallo e l'altra
di plastica. Queste erano del tipo in metallo, con un diametro di circa trenta centimetri e un peso di una decina di chili, di cui oltre la metà era esplosivo al plastico. Avevano la forma dei vecchi scaldini da letto in ottone, come quelli che si trovano appesi alle pietre del camino accanto ai finimenti per i cavalli, nei pub di campagna. Al posto del manico di scopa, avevano una maniglia di metallo staccabile, simile a quelle laterali delle gavette. Sarebbe stata una bella rottura di coglioni far uscire l'esplosivo al plastico da questi aggeggi, ma cos'altro potevo aspettarmi? Appoggiai le mine sul pavimento e provai a svitare il tappo, al centro della parte superiore. Prima di posizionarla l'unica cosa che si doveva fare era sostituire il tappo con un congegno per la detonazione, di solito costituito da spoletta e detonatore, poi allontanarsi di parecchio e aspettare un carro armato. Quando finalmente riuscii a smuoverla, scrostando anni di sporcizia che avevano formato una specie di sigillo, mi resi subito conto che si trattava di materiale d'ordinanza molto vecchio. L'odore di marzapane mi colpì le narici. L'esplosivo verdastro era andato fuori moda di recente. Funzionava ancora, il suo mestiere sapeva ancora farlo, e tuttavia la nitroglicerina faceva saltare non soltanto i carri armati ma anche la testa e la pelle di chiunque la manipolasse. A trattarla in un luogo chiuso ti garantivi un mal di testa fortissimo e un dolore intollerabile se ti finiva per sbaglio su una ferita. Stavo già prendendo abbastanza aspirine per non doverci aggiungere anche questo. Otto era molto eccitato. «Ehi, Nikolai, questo foglio è davvero figo.» «Che cosa dice?» «Prima di tutto, lui si chiama Ignaty. Poi dice che tu sei un suo uomo. Che tutto quello di cui hai bisogno deve esserti dato. Ti protegge, amico.» Mi guardò. «Poi va giù più pesante. Dice: 'Se non aiuti il mio amico, ti uccido la moglie; e dopo che avrai pianto per due settimane, ti ucciderò i figli. Due settimane più tardi, ucciderò te'. Questa è merda bella spessa, amico.» «E chi è Ignaty?» N Scrollò le spalle. «È il tuo uomo, dico bene?» No, non lo era, era l'uomo di Val. I giocatori di carte avevano riconosciuto con certezza il nome, su questo non c'era il minimo dubbio. Ripresi la polizza dalle mani di Otto e la infilai nella tasca della giacca. Adesso capii a cosa si riferiva Liv quando aveva detto che quelle subite da Tom
rendevano le minacce degli inglesi roba da scolaretti. Nessuna meraviglia, quindi, che avesse tenuto la bocca chiusa e avesse fatto quello che doveva. Portammo insieme diverse casse fino alla macchina, oltrepassando il bambino che giaceva sempre dove l'avevo spostato io. Dopo l'ultimo viaggio Otto richiuse la porta dell'appartamento e ci fermammo accanto alla Lada con il ronzio della fabbrica in sottofondo. Lui sarebbe andato a piedi perché voleva passare a trovare un amico. Lo salutai, e dentro di me provai pena per lui. Come tutto il resto in quel Paese, anche lui ce l'aveva nel culo. «Grazie tante, amico, un paio di giorni e ti riporto la macchina.» Gli strinsi la mano gelida e afferrai la maniglia della portiera mentre lui si allontanava. Poi mi urlò dietro. «Ehi, Nikolai», il tono della voce aveva perso un po' di baldanza. «Potrei... posso venire in Inghilterra con te?» Non mi voltai, volevo solo andarmene per la mia strada. «Perché?» «Potrei lavorare per te. Il mio inglese è forte.» Sentii che si stava avvicinando. «Lasciami venire con te, amico. Sarà molto figo. Voglio venire in Inghilterra e da lì andare in America.» «Sai una cosa? Ne riparliamo non appena torno, d'accordo?» «Quando?» «Te l'ho detto, tra due giorni.» Mi strinse di nuovo la mano con tutte le dita che gli restavano. «Figo, ci vediamo presto, Nikolai. Sarà molto figo. Venderò la macchina, e... e mi comprerò dei vestiti nuovi.» Mentre mi salutava era come se ballasse lungo la strada, tutto preso a immaginare la sua nuova vita. Io nel frattempo prendevo a martellate il motorino d'avviamento. Poi feci una mezza inversione e tornai alla strada principale, oltrepassando Otto. Avevo fatto un centinaio di metri quando fermai l'auto e inserii la retromarcia. Cazzo, non potevo farlo. Indietreggiai abbassando il finestrino. Otto si sbracciò con un gran sorriso. «Che succede, amico?» «Mi dispiace, Vosjem', non posso portarti, mi corressi, anzi non voglio portarti in Inghilterra.» Il viso e le spalle crollarono. «Perché no, amico? Perché no? Amico, hai appena detto...» Mi sentii un pezzo di merda. «Non ti farebbero entrare. Sei russo. Hai bisogno del visto e tutto il resto. E anche se ti facessero passare, non puoi
stare con me. Non ho una casa e non ho un lavoro da offrirti. Mi dispiace, ma non posso e non voglio farlo. Questo è quanto, amico. Ti porterò la macchina tra due giorni.» Era tutto. Tirai su il finestrino e puntai di nuovo verso il centro della città. Da lì avrei saputo dov'ero e mi sarebbe stato più facile imboccare la Narva-Tallinn. Potevo mentirgli, ma ricordavo bene tutte le gite che i miei genitori mi avevano promesso da bambino, e tutti i regali che dovevo ricevere, le magnifiche vacanze che avrei dovuto fare e tutto il merdosissimo resto che non era mai arrivato. Lo dicevano solo per farmi star buono. Non avrei mai potuto permettere che Otto andasse su di giri, che bruciasse i ponti dietro di sé, e tutto per niente. Aveva ragione Liv: a volte è meglio sbattere in faccia alle persone la cruda verità. In paese ritrovai i miei punti di riferimento e puntai verso ovest. La mia destinazione era una camera d'albergo in cui dedicarmi alla preparazione del materiale che avero nel baule. Continuava a dispiacermi per Otto; non tanto per averlo scaricato, era la cosa giusta da fare, ne ero convinto, ma per il futuro che lo aspettava. Merda totale. Apparve una stazione di servizio, identica a quella di Tallinn, molto blu e molto pulita, splendente e fuori posto come una navicella spaziale. Mi fermai e feci il pieno. Parcheggiai a lato dell'edificio, e andai a pagare. I due benzinai erano convinti di essere in presenza del primo contrabbandiere della serata. Ero l'unico cliente. Nel negozio un piccolo settore era dedicato agli accessori per auto; il resto era occupato da birre, cioccolata e carne. Presi cinque cavi da rimorchio, tutti quelli che c'erano, gli otto rotoli di nastro isolante nero in esposizione, e un attrezzo multiuso che probabilmente si sarebbe rotto la seconda volta che lo usavo. Per ultimo, presi una torcia con due set di pile e due di quelle piccole rettangolari con i contatti in cima. Non riuscii a pensare ad altro che potesse servirmi, se non ancora cioccolata, carne e un paio di lattine di aranciata frizzante. Il ragazzo cui pagai il conto aveva più foruncoli all'esterno del cranio che cellule cerebrali all'interno. Era tutto intento a calcolare il resto, anche se il registratore di cassa lo riportava scritto. Alla fine mi porse i sacchetti; feci capire che ne volevo ancora. «Ancora? Ancora?» Furono necessari alcuni secondi di mimo e l'aggiunta di un paio di mo-
nete, ma alla fine uscii con una mezza dozzina di sacchetti. Era l'ora di cioccolata e carne. Sedetti in macchina con il motore acceso e mi riempii la bocca guardando la strada. Sul lato opposto, da un cartellone pubblicitario che occupava tutta la parete di un edificio, Mr Bean mi sorrideva con un'espressione da mormone e mi magnificava le meraviglie delle pellicole Fuji mentre i camion mi sfrecciavano davanti. Non riuscivo a prendermela, anch'io avevo fretta di lasciare la città. Mangiai tutto quello che avevo comprato, e con un po' di nausea mi ricongiunsi al caos della strada. Ero diretto a Voka, una città della costa settentrionale tra Narva e Kohtla-Järve, dove avrei preparato l'occorrente per l'attacco dell'indomani pomeriggio. Avevo scelto Voka solo perché mi piaceva il nome, e anche perché, dal momento che si trovava sulla costa, pensavo ci fossero maggiori possibilità di trovare una stanza. 36 Voka si rivelò esattamente come mi aspettavo, una piccola stazione climatica attraversata da un'unica strada principale. Durante il periodo sovietico doveva essere stata una località alla moda, ma da quello che potevo vedere alla luce dei fari e dei pochi lampioni funzionanti, adesso aveva un aspetto stanco e decaduto, l'equivalente estone di una di quelle località marittime d'epoca vittoriana che avevano raggiunto la data di scadenza negli anni 70, quando tutti presero a volare a Benidorm, in Spagna. All'epoca in cui i russi avevano fatto fagotto, qualche anno prima, anche Voka era scaduta e il suo tempo era finito. In giro non c'era nessuno. Probabilmente se ne stavano tutti incollati davanti alla televisione, a guardare un altro film di Kirk Douglas. Percorsi a bassa andatura la costa, con il Baltico sulla sinistra e la macchina che sbandava per il vento che veniva dal mare. Le finestre illuminate nei palazzi alla mia destra non erano molte, solo l'occasionale bagliore di qualche TV. Alla fine trovai un hotelli vista mare. A una prima occhiata, più che un alberghetto mi era sembrato un condominio di quattro piani. Poi avevo visto la piccola insegna intermittente sulla sinistra della porta a doppi vetri. Chiusi la Lada mentre le onde s'infrangevano sulla spiaggia alle mie spalle, di qualsisai tipo fosse, e il vento m'investiva il giaccone e i capelli. L'illuminazione della hall rischiò di accecarmi. Era come entrare in uno studio televisivo, e faceva quasi altrettanto caldo. Da qualche parte un te-
levisore blaterava in russo. Ormai riuscivo a cogliere abbastanza bene le intonazioni. Il suono proveniva da un punto davanti a me. Percorsi il corridoio finché non ne individuai la fonte. Alla base di una rampa di scale, incastonata nel muro all'altezza del petto, c'era una finestra scorrevole. Dietro la finestra sedeva una donna anziana, incollata allo schermo di un vecchio apparecchio in bianco e nero. Prima di riuscire ad attirare la sua attenzione ebbi tutto il tempo di studiarla. Indossava pantofole e pesanti calzettoni di lana, un grosso cardigan nero, uno sgargiante vestito a fiori e un cappello di lana fatto all'uncinetto. Guardava la TV e prendeva cucchiaiate di minestra grumosa da una scodella che aveva l'aspetto di una grossa insalatiera. La televisione aveva per antenna una gruccia per abiti, cosa che da queste parti sembrava la regola. Mi fece venire in mente quando ero costretto a ballare intorno alla stanza con un'antenna in mano in modo che il mio patrigno potesse guardare le corse dei cavalli. Forse è per questo che non avevo mai seguito Blue Peter. Alla fine si accorse di me, ma non si preoccupò di salutare e neppure di chiedermi cosa volevo. Sorrisi e indicai educatamente un pezzo di carta appeso al vetro che doveva essere il listino prezzi. «Posso avere una stanza per piacere?» Chiesi con il mio miglior accento australiano. Mi stavo affezionando all'imitazione di Crocodile Dundee. Ma con lei era sprecata. Dalla scala in legno provenne uno scalpiccio seguito dall'apparizione di una coppia. Entrambi portavano lunghi cappottoni. Lui era un tipo piccolo e magro intorno alla cinquantina, con un principio di calvizie sul cocuzzolo e il resto dei capelli neri lisciato all'indietro con la brillantina, secondo l'acconciatura che gli europei dell'Est, vai a capire perché, considerano il massimo, e un paio di baffoni spioventi. Mi oltrepassarono senza degnare né me né la vecchia di una seconda occhiata. Notai che la donna era come minimo di vent'anni più giovane di Crapa Pelata, e puzzava meno. L'odore di lui nessun deodorante avrebbe mai potuto sconfiggerlo. La vecchia mi porse un asciugamano della grandezza di un tovagliolino da tè e un paio di lenzuola che un giorno erano state bianche. Borbottò qualcosa, sollevò in aria prima un dito e poi due. Forse mi stava chiedendo quante notti. Alzai un dito solo. Annuì e scrisse dei numeri che immaginai fossero il prezzo. Centocinquanta EEK per notte, circa dieci dollari. Un affare. Non stavo nella pelle all'idea di vedere la stanza. Le allungai i soldi e lei posò la chiave, attacca-
ta a una tavoletta di circa dieci centimetri, larga otto e spessa quattro, sopra le banconote e tornò alla sua minestra e alla sua TV. Non sarebbe stata lei a insegnarmi come si dice «buona giornata» in estone. Salii le scale e trovai la stanza numero 4. Era più grande di quanto non avessi immaginato, ma decisamente dozzinale. C'erano un armadio in truciolato coperto di formica scura, tre coperte pelose appoggiate sul materasso macchiato, due vecchi cuscini sporchi di saliva. Fui sorpreso di trovare nell'angolo un piccolo frigo. Mi accorsi che non era in funzione, ma evidentemente bastava per guadagnare una stelletta in più da parte del Centro turistico estone. Accanto, appoggiata sopra un tavolino di formica, una TV stile anni '70, anch'essa scollegata. La moquette, di quella molto resistente, da uffici, era bicolore, marrone scuro ed ex panna. La carta da parati era piena di bolle e macchie di umido che facevano cornice al disegno. Ma il pezzo forte era un divanetto d'angolo con un tavolino basso fornito di un largo portacenere triangolare di vetro spesso, che sarebbe stato l'orgoglio di ogni pub. La copertura del divano era molto macchiata e il tavolo aveva bruciature di sigaretta su tutto il bordo. La stanza era fredda ed era evidente che riscaldarla era a discrezione del cliente. A destra della porta c'era il bagno. Lo avrei controllato dopo. Per prima cosa mi piegai su uno dei due caloriferi elettrici. Era un affare piccolo e quadrato a tre elementi, accanto al letto. Inserii la spina, feci scattare l'interruttore e gli elementi iniziarono a scaldarsi, riempiendo l'aria dell'odore acre della polvere che brucia. Il secondo calorifero, più vicino alla finestra, era un modello più elaborato e decorativo, con due elementi allungati e, sopra di essi, un finto ciocco di plastica nero su sfondo rosso. Non ne vedevo uno da quando avevo sette anni, in casa di mia zia. Attaccai anche questo e rimasi incantato a guardare le lampadine rosse che si accendevano dietro la plastica e il disco del fondale che ruotava per completare l'effetto fiamma. Quasi meglio della televisione. Andai in bagno. Alle pareti e sul pavimento, piastrelle in maggioranza marroni, ma anche alcune rosse e blu, che avevano sostituito quelle rotte ai tempi in cui quelle rotte si sostituivano ancora. Evidentemente negli ultimi anni la politica della direzione era cambiata. Sul muro sopra la vasca c'era un'altra stufetta elettrica a due elementi, oltre che un vetusto scaldabagno a gas di forma ovale con la fiamma d'accensione bene in vista, da cui partiva un lungo rubinetto girevole d'acciaio con il quale si poteva riempire sia la vasca sia il lavandino. Mi aspettavo il
peggio, ma quando girai la manopola la fiammella si trasformò in una fiammata, accompagnata dal giusto sonoro. Provai invidia. Ne volevo uno anche a casa mia. L'acqua diventò immediatamente bollente e questa era una buona notizia: presto me ne sarebbe servita molta. Chiusi il rubinetto e tornai in camera, dove le stufe stavano cominciando a produrre il loro effetto. Spostai le tende e guardai in direzione del mare. Non vidi niente, solo neve che volteggiava alla luce della finestra. Richiusi le tende e andai a scaricare la macchina. Per prima cosa presi una scatola di cartone con due mine e gli acquisti fatti alla stazione di servizio. Mentre andavo avanti e indietro, la vecchia non sollevò mai lo sguardo: o sapeva bene che era meglio non impicciarsi degli affari dei clienti o era davvero molto presa dal telefilm di Batman, una serie degli anni '60 doppiata in russo. Di ritorno in camera, aprii l'acqua nella vasca, riducendo il flusso a un filo. Con l'aiuto di un cacciavite dell'attrezzo multiuso, lavorai sui tappi delle due mine. Tolto il primo, l'odore dell'esplosivo al plastico verde mi assalì all'istante. Tenni ciascuna mina sotto il flusso finché non furono piene d'acqua bollente, poi le deposi sul fondo della vasca in modo che l'acqua le ricoprisse interamente. Tornai alla macchina e ne presi altre due. Erano pesanti e non volevo che me ne cadesse una, con il casino che sarebbe seguito. Per portare tutto al piano di sopra mi ci vollero tre viaggi. All'ultimo giro, presi un altro giornale dal sedile posteriore e lo usai per coprire il parabrezza. Continuai a togliere i tappi alle mine finché tutte e sei non furono nella vasca, in due strati sovrapposti. In tutto erano trentadue chili di esplosivo. L'esplosivo sciolto veniva iniettato dentro le custodie verde militare in fase di fabbricazione e lasciato indurire fino ad assumere un aspetto di plastica quasi solida; prima di riuscire a estrarlo avrei dovuto attendere che l'acqua calda lo ammorbidisse un po'. Tornai in camera e accesi la televisione in tempo per vedere Batman e Robin legati insieme in una gigantesca tazza da caffè. Una voce mi comunicò in americano che avrei dovuto attendere una settimana per vedere l'episodio successivo, quindi una voce russa aggiunse che non gliene fotteva un cazzo di niente di quello che succedeva. Sollevai la bobina della miccia che assomigliava in tutto e per tutto alla corda per stendere i panni. Solo che, sotto il rivestimento di plastica, non c'era corda ma esplosivo. Con questo avrei fatto entrare in azione le due cariche che avevo intenzione di costruire con l'esplosivo al plastico, una
volta che lo avessi estratto dalle mine. Con il Leatherman eliminai i primi trenta centimetri dov'era probabile che le condizioni climatiche e/o l'età avessero intaccato l'esplosivo interno. La contaminazione comunque non sarebbe dovuta arrivare oltre i primi quindici centimetri. Appoggiai la bobina accanto al letto dalla parte della finestra; da adesso in avanti avrei messo lì solo le cose pronte. Più tardi mi avrebbe preso la stanchezza e in questo modo avrei limitato la possibilità di confusione. Senza essere annunciato, apparve sullo schermo Charlie's Angels. Mi augurai che fosse la serie con Cheryl Ladd. Farrah Fawcett non era mai stata il mio tipo, quando ero bambino. Partì la monocorde traduzione in russo e tornai nel bagno. Il livello dell'acqua era ancora basso e il filo d'acqua bollente continuava a uscire. Era il momento di controllare le batterie. Normali pile rettangolari con gli attacchi per i poli negativo e positivo sulla sommità, quelle che normalmente vengono usate per i giocattoli o le radioline portatili. Una di quelle si sarebbe trasformata nel congegno di accensione, erogando la carica elettrica che avrebbe attraversato il cavo, una volta che me lo fossi procurato. Il cavo avrebbe innescato il detonatore, il detonatore avrebbe acceso la miccia e la miccia avrebbe fatto esplodere le cariche. Tutto questo se la potenza della pila fosse stata sufficiente per superare la resistenza del cavo e del detonatore. Si attacca il cavo alla lampadina di una torcia: se si accende quando fai passare corrente nel cavo, vuol dire che hai la potenza necessaria per l'esplosione. Ormai faceva abbastanza caldo per togliermi il giaccone. Presi dalla tasca interna la polizza di assicurazione; aveva l'aria un po' malconcia, così la piegai bene, cercai il preservativo, la misi dentro e la infilai nel taschino degli spiccioli sul davanti dei jeans. A quel punto tolsi la spina alla lampada vicino al letto e tagliai il cavo vicino alla base. Mi ritrovai con un metro e mezzo di filo elettrico, non abbastanza. Avevo bisogno di trovarmi vicino all'esplosione, ma un metro e mezzo era una distanza da suicidio. Il filo del frigorifero mi regalò un ulteriore metro e mezzo. La vasca doveva essere piena. Andai a controllare nel preciso momento in cui le Charlie's Angels, vestite come vecchiette, ma ugualmente piene di fascino e senza un capello fuori posto, stavano per infiltrarsi in un ospizio per una qualche missione segreta. Tutte le mine erano ricoperte d'acqua calda, per cui chiusi il rubinetto. Non riuscii a trovare uno spazzolino da cesso, però c'era uno sturalavandi-
ni. Usai il manico per saggiare la consistenza dell'esplosivo al plastico. Era ancora duro. Dei passi nel corridoio mi segnalarono che l'albergo aveva nuovi ospiti. Qualche risolino femminile e alcune parole lascive in russo provenienti da una voce maschile, poi udii sbattere la porta della stanza accanto alla mia. Allungato sul letto a guardare le Charlie's Angels che liberavano il mondo dal male, unii i due pezzi di cavo con il nastro isolante. Tre metri di cavo elettrico non erano ancora sufficienti. Il problema era che non avrei saputo quanto me ne serviva finché non fossi stato sul posto, e se dovevo sbagliare, meglio sbagliare in eccesso. Mi sarebbe piaciuto averne almeno un centinaio di metri, ma dove andarlo a trovare a quell'ora? L'indomani sarebbe stato troppo tardi, non avrei avuto abbastanza tempo per cazzeggiare in cerca di un negozio che lo vendesse. Dovevo arrangiarmi con quello che avevo, per cui era arrivato il momento di salutare Cheryl. Le prese erano abbastanza lontane e il cavo della TV piuttosto lungo, e alla fine, in totale, potei contare su cinque metri e mezzo di cavo. Spenta la televisione, cominciai a seguire la storia d'amore trasmessa nell'altra stanza. Ci fu un'abbondanza di «ooh» e di «aah», qualche risatina e un po' di sberle sulla pelle nuda. Del doppiaggio non avevo bisogno. Unii l'ultimo pezzo di filo usando il sistema a coda di maiale della Western Union. Gli operai cinesi lo usavano per riparare le linee del telegrafo abbattute nel Far West; si tratta fondamentalmente di un nodo piano, con le code all'estremità rivoltate insieme. Non solo garantisce la conduzione, ma rende anche altamente improbabile che la giuntura si stacchi. I tre tronconi di cavo elettrico erano tutti di grandezza e di metalli differenti, ma l'unica cosa che m'importava era che conducessero energia. Avvolsi i fili di rame di un'estremità alla base della lampadina della torcia e li fissai con il nastro isolante. Ormai si trattava solo di chiudere il circuito fissando i fili di acciaio dell'altra estremità del cavo ai contatti della pila... e voilà, la lampadina si accese. Ripetei la sequenza con l'altra pila e funzionò anche quella, almeno per il momento. Se sul posto dell'azione non avessero funzionato né l'una né l'altra e quindi non avessi ottenuto la detonazione, sarei passato al piano B. Avrei tirato fuori la bandana. Staccai i fili dalla lampadina, collegai i due fili di rame, poi quelli d'acciaio dall'altra parte e li misi a terra contro il retro del frigorifero. Avrebbe scaricato i cavi da eventuale energia residua; l'ultima cosa che volevo era collegarli al detonatore e ottenere un'esplosione immediata. Non sarebbe
stata una gran giornata di lavoro. La matassa di cavo elettrico andò a raggiungere la bobina della miccia sul lato del letto verso la finestra e sistemai le pile sopra il televisore. Mai tenere i dispositivi d'innesco vicino ai detonatori o al resto dell'equipaggiamento: l'elemento imprevisto che può fregarti è sempre in agguato, e io non volevo correre nessun rischio. L'unico momento in cui tutti i pezzi devono stare vicini è quando sei sul punto di far brillare le cariche. Lezione che un paio di ragazzi dell'ala dura dell'IRA all'inizio degli anni '80 avevano imparato nel modo più violento. Nella stanza accanto l'avanspettacolo era finito e adesso ci stavano dando dentro come si deve. I casi erano due: o la ragazza provava davvero piacere oppure puntava all'Oscar. Intanto il letto cercava in tutti i modi di entrare nel mio bagno. Quando controllai le mine, l'acqua della vasca era increspata per le vibrazioni che provenivano dal muro. Prima di tirare fuori l'esplosivo al plastico dovevo aspettare ancora e per usare il tempo al meglio presi un pezzetto di carta igienica, m'infilai il giaccone e uscii nel corridoio. La scopata raggiunse il suo acme mentre posizionavo una strisciolina di carta igienica sul cardine basso, richiudendoci poi la porta sopra e controllando che spuntasse quel tanto da poter essere vista. Nell'altra stanza era sceso il silenzio. Lasciai i miei vicini alle loro sigarette e a Charlie's Angels e andai verso le scale. La vecchia era sempre incollata alla TV. Tolsi il giornale dal parabrezza della Lada e l'aria fredda mi artigliò i polmoni. Il motore rispose controvoglia alle mie martellate, ma alla fine si accese. Sapevo come si sentiva. 37 Perlustrai lentamente la città alla ricerca di quello che mi serviva per costruire le cariche esplosive. Nel frattempo inghiottii altre quattro aspirine per combattere il mal di testa che mi era venuto a giocare con le mine. Individuai una fila di cassonetti della spazzatura dietro una piccola schiera di negozi, mi fermai e setacciai vecchi pezzi di cartone da imballaggio, lattine e stracci. Non c'era nulla che mi potesse essere utile, tranne un pallet mezzo rotto appoggiato al muro. Tre assi, di circa un metro, finirono nel baule della macchina, mentre un cane chiuso in un negozio abbaiava tutta la sua frustrazione per il fatto di non potermi saltare addosso. Un pezzo mi sarebbe stato utile a scavalcare il muro, gli altri due a puntel-
lare le cariche sul bersaglio. Quando lasciai la zona in cerca di altro materiale, le luci erano spente e le tende tirate. Mi spostai in mezzo alla nebbia che saliva dal mare. Dopo dieci minuti passati a perlustrare la città fantasma, scorsi un edificio che valeva la pena vedere da vicino. All'esterno era ammucchiata della spazzatura, ma era la struttura in sé che m'incuriosiva. Risultò essere un rifugio antiaereo, costruito ai tempi in cui si aspettavano che arrivassero da un momento all'altro i tremendi bombardieri B-52 dello Zio Sam a riempirli di confetti. Una scala di cemento scendeva sotto il pianterreno fino a una porta metallica chiusa con un lucchetto. La scala era piena di spazzatura portata dal vento e di oggetti più pesanti che erano stati scaricati dall'alto, e fu là in mezzo che trovai degli imballaggi in polistirolo. Scelsi due pezzi, di circa un metro quadrato l'uno. Gli angoli erano sollevati rispetto alla parte centrale, sagomata secondo la forma di quello che doveva proteggere; qua e là c'erano degli avvallamenti, fatti per risparmiare sul materiale e rendere più solida la struttura. Adesso avevo le basi per le cariche. Mi venne in mente quando avevo dovuto costruirmi delle mine antiuomo usando confezioni per il gelato prima di partire per l'Iraq, durante la guerra del Golfo. L'ultima cosa che mi serviva era un mattone e in un posto del genere non sarei dovuto andare lontano per trovarne uno. Tornai in albergo. La vecchia aveva disertato dalla sua postazione e in TV stava passando una specie di talk show russo, con il conduttore e i suoi ospiti che parlavano fra loro, l'aria molto triste. L'impressione era che fossero lì per decidere chi doveva suicidarsi per primo. Salii le scale con il bottino sottobraccio, contento di aver trovato tutto quello che mi serviva per l'attacco. Non dovevo procurarmi altro. La vecchia era appena uscita dalla camera a fianco alla mia e stava percorrendo il corridoio dalla parte opposta, tenendo fra le braccia delle lenzuola sgualcite. Probabilmente la stanza era affittata a ore e la stava riordinando dopo l'ultimo evento. Con il flebile mormorio del talk show in lontananza, controllai il segnale che avevo piazzato. Era al suo posto. Aprii la porta e aspettai che il caldo mi avvolgesse. Feci un passo dentro la stanza e capii immediatamente che qualcosa non quadrava. Le fiamme finte non danzavano sul muro. Quando ero uscito sì. Lasciai cadere la roba che stavo trasportando. Il mattone sbatté sulla
moquette e cercai di arretrare nel corridoio. Per qualche tempo fu l'ultimo movimento che feci, se si eccettua il fatto che provai a spostarmi strisciando sul pavimento. Ma beccai un colpo nelle reni che mi ricacciò a terra. Era il classico momento da stringi-i-denti-e-stattene-rannicchiato. Non c'era il tempo per respirare. Fui girato malamente e la canna di un'arma mi si schiacciò sulla faccia. Sentii il giaccone che si sollevava e una mano che mi perquisiva. Riuscii nuovamente a raggomitolarmi, fingendo di essere mezzo morto. Poi rischiai e aprii gli occhi. Sopra di me torreggiava il più vecchio dei Bravi Ragazzi, con il suo berretto di pelliccia argentea e il cappotto di pelle nera. Vidi anche un secondo paio di gambe, di qualcuno altrettanto vestito di nero. Adesso i due uomini mi stavano ai lati, bisbigliando animatamente e indicando la testa di cazzo stesa sul pavimento. Li lasciai alla loro discussione e cercai di sfruttare al meglio il momento, provando a fare dei respiri profondi. Scoprii di non riuscirci. Troppo doloroso. Dovevo accontentarmi di brevi respiri ansanti, per ridurre al minimo il dolore allo stomaco. Poi alzai lo sguardo e vidi Falegname. I nostri occhi s'incrociarono e lui mi sputò addosso. Non ero spaventato, ero solo depresso perché tutto questo stava succedendo proprio a me. Depresso a un punto tale che non avevo neanche voglia di togliermi lo sputo dalla faccia. Me ne stavo lì, e quasi non m'importava. Come aveva fatto Falegname a scoprire dov'ero? 'Fanculo, non me ne fregava un cazzo. Due individui decisamente stronzi mi avevano sbattuto per terra e non avevo idea se sarei mai stato in grado di uscire vivo da quella stanza. Mi tirarono per le ascelle, uno per parte, e mi appoggiarono alla sponda del letto. Incrociai le braccia e mi piegai in modo da avvicinare la testa alle gambe. Volevo sembrare un uomo fuori uso, quello che non costituisce una minaccia per nessuno. Le cose andarono diversamente. Beccai un colpo sulla parte destra della faccia che mi rovesciò sul letto. Non dovevo più fingere, mi aveva fatto male davvero. Mi raggomitolai su un fianco, pronto a riceverne ancora. Il dolore mi straziava il corpo e un fuoco d'artificio di stelline fece del suo meglio per farmi perdere i sensi. Stavo per svenire, ma non potevo permettermelo. Compii ogni sforzo per tenere gli occhi aperti. Stavo di merda, ma sapevo che dovevo reagire o sarei morto.
Da qualche parte, sullo sfondo, i due uomini continuavano a parlare, a litigare forse, non ero in grado di stabilirlo. Rimasi immobile, respirando a scatti. Avevo gli occhi aperti e tossivo sangue sulla coperta pelosa. La mascella scricchiolava. Controllai con la lingua e scoprii che uno dei molari si muoveva senza provocare dolore. Sul lato destro della faccia si stava diffondendo una sensazione di gonfiore anestetizzato. Come se fossi appena uscito da una seduta con un dentista psicopatico. Avevo la testa sul letto, allo stesso livello e in linea retta con il tavolino basso. La mia vista annebbiata si bloccò sull'enorme portacenere di vetro. Spostai la mia attenzione su Falegname e sul vecchio. Non avevano smesso di questionare neanche quando una coppia era passata davanti alla porta aperta, diretta in fondo al corridoio. Il vecchio aveva la pistola in mano, Falegname nella fondina a tracolla, che vidi quando appoggiò le mani sui fianchi e il giaccone aperto gli si spostò di lato. M'indicavano tutti e due. Probabilmente Falegname stava spiegando chi ero, o per lo meno che cosa avevo fatto. Riuscii a capire come mi aveva colpito il vecchio. Avrebbe potuto benissimo farlo con le mani, a giudicare dalla loro grandezza, ma aveva optato per un oggetto cilindrico di pelle che aveva la forma di un grande pene finto, e che probabilmente era pieno di cuscinetti a sfera. I due distavano un paio di metri da me, il portacenere un metro soltanto. Sembravano sempre più interessati alla loro discussione che a me. Ma non c'era dubbio: nel giro di poco avrebbero raggiunto la decisione su come uccidermi. Se Falegname aveva voce in capitolo, probabilmente con grande lentezza. Dovevo agire, ma sapevo di aver bisogno ancora di un paio di secondi per recuperare. Ero ancora fuori fase. Dovevo suddividere l'azione in fasi, altrimenti avrei fatto casino e mi avrebbero ucciso. Guardai di soppiatto il grosso pezzo di vetro che avrebbe potuto salvarmi la vita. Inspirai profondamente e scattai dal letto. Caricai a testa bassa le due figure in nero che avevo davanti. Mi sarebbe bastato far perdere loro l'equilibrio per un paio di secondi. Proiettai le braccia in avanti e mi avventai come un bulldozer contro i due pezzi di pelle nera. Poi, senza curarmi degli effetti ottenuti, girai la testa verso il portacenere. Un rantolo provenne alle mie spalle. Li sentii sbattere entrambi contro il muro. Con gli occhi fissi sul pezzo di vetro sul tavolo, feci perno sulle gambe e mi slanciai in avanti. Udii delle grida soffocate. Non erano importanti come il portacenere. Se loro recuperavano troppo in fretta, o se la mia azione
fosse stata troppo lenta, non lo avrei mai saputo. Abbassai con violenza il palmo della mano come se volessi schiacciare una mosca e afferrai il portacenere. Avevo ancora il corpo voltato verso il tavolo, e i due si trovavano alle mie spalle. Ruotai il volto e mi concentrai sulla testa del vecchio, adesso senza cappello. Il mio corpo si voltò e feci tre grandi passi verso di lui, impugnando il vetro in aria come un coltello. Mi accostai, ignorando Falegname che mi si avvicinava da destra. Quello che volevo era il vecchio, era lui che aveva la pistola in mano. Sul suo volto non c'erano né sorpresa né paura, solo rabbia. Si scostò dal muro e sollevò l'arma. Non gli staccai gli occhi dalla faccia. Feci ruotare il portacenere verso il basso e lo colpii appena sotto lo zigomo. La pelle gli si accartocciò sotto l'occhio, poi si strappò. Cadde con un urlo. Mentre cadeva, il suo corpo mi colpì le gambe. La Fase tre era terminata. Più che vederla, sentii che l'ombra nera sulla mia destra mi era quasi addosso. Non c'era una Fase quattro. Da adesso in avanti s'improvvisava. Senza preoccuparmi di guardarlo, attaccai selvaggiamente Falegname. Il vetro gli martellò contro il cranio due volte, entrambe con una forza tale che al momento del contatto il braccio mi rimbalzò all'indietro. Gli montai sul torace e continuai a picchiarlo sulla testa. Una specie di retropensiero mi disse che stavo perdendo la ragione, ma non riuscii a fermarmi. Continuavo a pensare a come aveva continuato a sparare alla donna nell'ascensore e a quei bastardi che avevano distrutto la vita di Kelly sterminando la sua famiglia a Washington. Per tre volte udii il suono di qualcosa che si sbriciolava, che andava in pezzi. Il suo cranio si aprì. Sollevai la mano, pronto a colpire ancora, ma mi fermai. Era abbastanza. Dalle ferite sulla testa sgorgava un sangue marrone e spesso. Aveva perso l'uso degli occhi, che adesso erano fissi, le pupille dilatate. Il sangue fluiva sulla moquette che s'inzuppava come carta assorbente. Ero ancora seduto a cavalcioni sopra di lui e gli posai le mani sul torace. Non ero contento di aver perso il controllo. Per sopravvivere a volte occorre eccedere. Ma perdere completamente il controllo non mi piaceva affatto. Mi voltai a controllare l'altro. Il cazzo finto e la pistola erano sul pavimento. Anche lui era accovacciato per terra e si teneva il berretto premuto contro la guancia come se fosse una medicazione, lamentandosi fra sé. Le gambe si agitavano per inerzia sulla moquette.
Mi alzai lentamente e diedi un calcio alle armi. La pistola sembrava una 38 special a canna corta, del tipo usato dai gangster americani negli anni '30. Gli abbassai il cappotto fino a metà braccia e lo trascinai nel bagno, passando sul corpo di Falegname. Il cappello impregnato di sangue rimase dov'era. Adesso sapevo perché lo portava sempre: soltanto qualche ciuffetto di peli gli copriva la testa. Continuava a lamentarsi e con ogni probabilità si sentiva molto depresso, ma era vivo e questo costituiva una minaccia. Sotto lo sforzo per trascinarlo mossi la mascella e provai una fitta dolorosa, ma per lo meno il battito del mio cuore si stava stabilizzando. Non c'erano alternative, doveva morire. Non ne ero contento, ma non potevo lasciarlo lì, e in vita, quando l'indomani sarei partito per l'attacco alla base dei Maliskia. Avrebbe potuto mandare a puttane tutto quello che ero venuto a fare. Lo lasciai andare e lui sbatté sulle piastrelle del pavimento del bagno. Aprii il rubinetto dell'acqua calda e lo scaldabagno entrò in funzione. Adesso ero in grado di valutare bene l'entità della ferita. Un solco di due centimetri gli scavava la guancia, abbastanza largo da poterci infilare due dita dentro. Al di sotto della poltiglia di carne e sangue s'intravedeva il bianco dell'osso dello zigomo. Fra un gemito e l'altro gli controllai il portafoglio: conteneva le solite cose. Di interessante c'erano solo i soldi, russi ed estoni; li infilai in tasca e tornai in camera. Scavalcai ancora Falegname e afferrai la 38 e una coperta. Alzai il cane e armai la pistola. Quando fosse giunto il momento di premere il grilletto, non volevo che il cane dovesse rientrare completamente prima di scattare in avanti ed esplodere il colpo; avrebbe potuto incagliarsi nella coperta. Tornai in bagno e, evitando di guardarlo in faccia, infilai senza tante cerimonie la canna nella coperta e gliela appoggiai sulla testa, poi avvolsi l'arma con la pelliccia sintetica e sparai. Ci fu un colpo sordo e poi un crac quando il proiettile, dopo avergli perforato la testa, sbriciolò la piastrella sottostante. Lasciai andare la coperta che ricadde a coprirgli la faccia e rimasi in ascolto. Dall'esterno nessuna reazione alla detonazione; quello era il tipo di posto dove non si pongono troppe domande, anche se ci fosse stata una sparatoria nella porta a fianco. Le uniche cose che i miei sensi registrarono furono il rumore dello scaldabagno e la puzza di nylon bruciato. Chiusi il rubinetto e lo scaldabagno si
fermò, poi tornai in camera. Scovai il portafoglio di Falegname e m'infilai nei jeans anche i suoi soldi. La pistola era ancora nella fondina, ma non del tutto. Mi resi conto di come ero stato fortunato. Ancora una frazione di secondo e sarebbe stata tutta un'altra storia. La pistola era una Makarov, la copia russa della Walther PPK usata da James Bond, efficace solo a distanza ravvicinata, per protezione personale, perfetta se qualcuno cercava di farti il culo in un komfort baar. A distanza maggiore sarebbe stato più efficace tirargliela addosso. Per questo, in certi ambienti, la chiamano «pistola da discoteca». Decisi di tenere quella. L'impugnatura della versione russa era un po' tozza, ed era difficile mantenere una presa salda per chi, come me, aveva le mani piccole, ma era più utile della 38 special. Il sangue di Falegname stava inzuppando la moquette. Tolsi un'altra coperta dal letto e gliela schiacciai sulla testa nel tentativo di attenuare il flusso, in modo che non filtrasse di sotto. Alla fine avvolsi la testa nella coperta. Aprii la porta che dava sul corridoio, guardai a destra e a sinistra, poi controllai il segnale rivelatore ancora al suo posto. Perché non aveva funzionato? Perché non aveva cambiato posizione? Ebbi subito la risposta: era incollato al braghettone della porta. La striscia di gommapiuma antispiffero dovevano avercela messa ancor prima d'inventarla; gli anni l'avevano resa marrone e appiccicosa. Ne avevo imparata un'altra. I segnali rivelatori non vanno d'accordo con la gommapiuma antispiffero. Accesi la stufa, mi rimboccai le maniche e iniziai a lavorare. 38 Per non bruciarmi le mani usai di nuovo il manico dello sturalavandini. Lo infilai nell'apertura di una mina per farla uscir fuori, poi la voltai a testa in giù e lasciai scorrere l'acqua. La trasportai così fino in camera calpestando, nel percorso, il cappello del vecchio. A differenza della moquette e della coperta, non si era molto imbevuto di sangue, il che voleva dire che probabilmente la pelliccia era vera e impermeabile. Posai la mina sul tavolino basso, poi attraversai la stanza per aprire la finestra; l'aria salmastra e fredda entrò all'istante. Sentii il rumore delle onde che s'infrangevano dall'altro lato della strada. L'esplosivo, in precedenza più o meno della consistenza della plastica, era diventato sufficientemente morbido da poter essere estratto e manipola-
to. Iniziai a raccoglierlo. Prima di cominciare, avevo infilato un sacchetto di plastica su ciascuna mano per proteggerle dal contatto con la nitro, che avrebbe potuto entrare in circolazione nel sangue attraverso qualche taglio o per assorbimento diretto. Non mi avrebbe ucciso - negli ospedali usano la nitroglicerina sui soggetti colpiti da infarto -, ma mi avrebbe fatto venire uno stramaledetto mal di testa. Quando ebbi finito la stanza puzzava di marzapane, e sul tavolo di fronte a me c'erano quattro chili di una roba simile a blocchi di plastilina verde. Raffreddandosi, l'esplosivo si era un po' indurito, ma sapevo che lavorandolo con le mani sarebbe tornato morbido. All'interno della mina ne era rimasto ancora quasi un chilo, ma così indurito e incrostato alle pareti che decisi di finirla lì. Lo lavorai come per impastare del pane. I sacchetti che mi coprivano le mani frusciavano; tenevo la testa di lato, così che i fumi non mi arrivassero in modo troppo diretto. Ma anche così avevo vertigini e nausea, forse però era conseguenza del modo in cui Falegname e il vecchio mi avevano accolto al mio rientro. Arrivai a farne tre palle, più o meno della stessa grandezza, levigate e malleabili. A quel punto tolsi la gomma dallo sturalavandini e usai il manico come un mattarello per spianare l'impasto. L'odore del marzapane mi ricordava il Natale, quando da bambino buttavo la glassa esterna e mi tuffavo nella roba gialla di sotto. Mentre io giocavo alla mamma, la stanza a fianco stava per trasformarsi di nuovo in un nido d'amore. Ci fu un rumore di chiavi, la porta venne aperta e richiusa, poi sentii delle voci, ma questi non erano futili preliminari erotici, questa era roba seria, pesante. Continuai con il mattarello mentre la puttana dispiegava tutto il suo repertorio di gemiti e sospiri. Nessuna risatina, sembrava più un'opera lirica. L'uomo grugniva e i colpi ritmati iniziarono quasi subito. Povera ragazza, non le aveva dato neppure il tempo di appoggiare il sacchetto di patatine che stava sgranocchiando. Quando la pasta raggiunse un'altezza di circa mezzo centimetro e la larghezza di una pizza media, usai il raschietto del ghiaccio per tagliarla a strisce larghe cinque centimetri. Da ogni base ne ottenni sei. Poi scavalcai di nuovo la testa avvolta nella coperta impregnata di sangue, tornai in bagno e aprii il rubinetto per aggiungere acqua calda nella vasca. Gli occhi del vecchio erano fissi, l'espressione sbalordita. Lo ignorai e provai l'acqua come quando si deve fare il bagno a un bambino. Avrei vo-
luto potermi fermare lì, dove il rumore dello scaldabagno copriva il duetto della stanza a fianco, ma dovevo occuparmi delle cinque mine restanti. Lasciai scorrere l'acqua e tornai in camera con un altro pezzo di equipaggiamento militare sovietico che sgocciolava appeso al solito manico. Avevo freddo, e cominciò a colarmi il naso. Mi asciugai con cautela sulla manica della giacca avendo cura che il marzapane non entrasse in contatto diretto con la pelle nuda. Tornai a sedermi con il plastico-in-scatola e iniziai a cavarlo fuori. Quando viene fatto detonare, l'esplosivo al plastico si decompone quasi all'istante. Fino a quel momento i suoi componenti sono innocui e impermeabili. Ci sono tipi di esplosivo al plastico cui si può anche dar fuoco senza che esplodano; l'unico effetto che hanno è di far bollire più in fretta il caffè. Ma quando viene fatto detonare, sprigiona un colpo conosciuto come brisance, capace di frantumare anche materiali forti come l'acciaio. Avevo ancora quattro mine da svuotare, e morivo di sete, ma dubitavo che ci fosse il servizio in camera, non del tipo che desideravo io, comunque. Continuai il lavoro, estrarre, impastare, spianare, tagliare a strisce di cinque centimetri, con l'accompagnamento dell'orso della porta accanto, ormai sul punto di raggiungere il grugnito finale. Mi augurai che seguisse un periodo di letargo. Dopo circa un'ora, quando il plastico era tutto ridotto a strisce, aprii la lama del Leatherman e l'appoggiai sulla barra bollente dello scaldabagno. Quindi posai il primo pezzo di polistirolo sul letto, la base verso il basso. Falegname rompeva i coglioni. Mi ero stufato di doverlo continuamente scavalcare, così lo presi per i piedi e lo trascinai più vicino alla porta. Nello spostamento la testa scivolò fuori dalla coperta e sbatté sulla moquette con un tonfo sordo. Risistemai la coperta fradicia intorno al cranio e mi pulii le mani sul suo maglione nero a collo alto. Usando l'asciugamano come un guanto da forno, presi il Leatherman incandescente dal fuoco ed eliminai dalla parte superiore del pannello i piccoli blocchi, le protuberanze e gli angoli sagomati. Ne rimase un riquadro di circa un metro, da una parte piatto e dall'altro lato reso abbastanza uniforme. Poi, con la lama calda, tracciai un canale, di circa cinque centimetri di larghezza, lungo tutto il perimetro del quadrato a circa otto centimetri dal bordo. L'odore del polistirolo fuso era ancora più acuto del marzapane. Con la lama del coltello inclinata iniziai a scolpire all'interno del canale delle V rovesciate. Alla fine avevo creato una specie di trincea tutt'intorno al quadrato e, all'interno di questa, quattro barre di Toblerone con le punte
rivolte verso l'alto. Le strisce di esplosivo sarebbero state posizionate lungo tutte le barre del Toblerone, e una volta completata la carica a forma di cornice, a contatto con il bersaglio sarebbe andata la parte piatta. Per far crollare un ponte non basta appenderci grandi candelotti di dinamite. Per ottenere l'abbattimento di qualsiasi cosa s'intenda distruggere, cemento, mattoni o acciaio, con il minimo di esplosivo al plastico e il massimo dell'effetto, bisogna incanalare la brisance, sfruttando l'effetto Munroe. L'angolo di trenta gradi sulla punta del Toblerone rivolta verso il bersaglio garantisce che il grosso della forza di detonazione affluisca verso la base della cioccolata immaginaria e prosegua. Se il Toblerone fosse stato di rame, la forza di penetrazione sarebbe stata ancora maggiore e avrebbe potuto ridurre in briciole diversi centimetri di acciaio. La detonazione avrebbe liquefatto anche il rame e il metallo fuso sarebbe stato scagliato in avanti, aumentando l'impatto contro il bersaglio. Non avevo rame, ma polistirolo, e tuttavia c'era abbastanza esplosivo al plastico per ottenere comunque l'effetto desiderato. Il mal di testa alla nitro divenne veramente intollerabile. Buttai giù altre quattro aspirine. Me ne rimanevano solo quattro. Tornai alle mie incisioni. Attraverso il corridoio mi arrivò il rumore di un litigio fra due uomini. Alle loro voci si unì quasi subito quella di una donna che tentava di calmarli. La porta di fronte alla mia venne aperta e richiusa e poi calò il silenzio. Attesi che partissero i soliti rumori, ma tutto quello che mi arrivò furono altri litigi. Adesso anche la donna portava il suo piccolo contributo. Quando finii d'intagliare il Toblerone tutt'intorno al polistirolo, la base dei triangoli si trovava a un paio di centimetri da quella del pannello. Quello era il punto di resistenza che avrebbe fornito all'effetto Munroe lo spazio per convogliare la forza sufficiente ad abbattere il muro del bersaglio. A quel punto mi rimaneva soltanto da posare l'esplosivo per tutta la lunghezza ai lati del Toblerone e sopra le cuspidi e assicurarmi che le strisce fossero ben amalgamate insieme, senza interruzioni, in modo da formare un'unica grande carica. Infilai di nuovo i sacchetti di plastica per proteggermi le mani e iniziai a schiacciare, modellare, chiudere, come se stessi plasmando della pasta. Nella stanza di fronte la discussione a tre voci continuava. Meglio così: era piacevole avere dei vicini che parlavano, invece di grugnire e sbatacchiare il letto da ogni parte. Quando il Toblerone fu coperto da due strati di esplosivo al plastico, presi un tratto di corda per detonazione e lo tagliai in due pezzi, uno di cir-
ca un metro di lunghezza e l'altro di un metro e mezzo. A una delle estremità di ciascun pezzo feci due nodi e li conficcai nell'esplosivo al plastico sopra il Toblerone, ai due lati opposti del quadrato. Per mantenerli in posizione, schiacciai altri due pezzetti di esplosivo sopra i nodi, in modo che questi risultassero completamente immersi nella carica. Avevo posizionato la miccia in due punti diversi perché volevo far sì che la detonazione si sprigionasse simultaneamente in due direzioni, moltiplicando la potenza della carica. Per esserne più sicuro, legai strettamente con il nastro adesivo, a una distanza di circa quindici centimetri, le due corde di detonazione, in modo che dalla legatura alla carica la lunghezza fosse la stessa. Dalla legatura pendeva il mezzo metro extra della sezione più lunga che prendeva il nome di corda di detonazione. L'onda d'urto partiva dalla corda di detonazione e, una volta raggiunta la congiunzione, avrebbe fatto detonare anche la seconda sezione, quella più corta, della corda di detonazione. Le due onde d'urto a quel punto avrebbero viaggiato dirette verso la carica alla stessa velocità e per un percorso identico, e avrebbero raggiunto il Toblerone nel medesimo istante. L'effetto Munroe avrebbe orientato la forza di detonazione verso la base del Toblerone, raccogliendo energia durante l'attraversamento del polistirolo, prima di andare a cozzare contro il bersaglio. Se tutto andava bene, mi sarei ritrovato con un buco di un metro quadrato nel muro della casa-bersaglio. Stavo ancora lavorando con il nastro adesivo per fissare il Toblerone al polistirolo quando due voci maschili, ubriache e sghignazzanti, salirono le scale, oltrepassarono la mia porta ed entrarono nella stanza dall'altro lato del bagno. Dovevo ancora preparare la seconda carica, così appoggiai di nuovo il coltello sulla fiamma, mentre i miei nuovi vicini ridevano, scherzavano e guardavano la TV a volume molto alto. Se non altro copriva le voci degli altri tre che continuavano a discutere nella stanza opposta. Impiegai trenta minuti per terminare la seconda carica, fatta con l'accompagnamento di una commedia americana, naturalmente doppiata. Preferivo le battute in russo. Per trasportarle più facilmente misi le due cariche l'una contro l'altra con le punte del Toblerone a contatto, e la corda di detonazione infilata in mezzo. Legai i due pezzi insieme utilizzando una delle corde da traino e poi feci scivolare sotto la fune due delle assi del pallet che avevo preso dietro il negozio. Fissai anche la bobina della miccia che non avevo ancora usato, passando la fune nel foro centrale e assicurandola bene. Tutto quello
che mi sarebbe servito sul luogo dell'azione era ormai allestito, e aveva l'aspetto di uno zaino da boy-scout molto mal fatto. Avevo ancora un paio di lavoretti da fare prima di essere pronto a uscire di lì. Presi le due funi da traino che restavano e le annodai insieme, ottenendo un'unica fune di circa trenta metri di lunghezza. Poi feci altri nodi, in modo da averne uno ogni metro. Quindi ne legai un capo alla corda che teneva unite le cariche. Infine presi la terza asse di legno. Era di nuovo il momento di utilizzare le tecniche dell'MI9: tutt'intorno a un'estremità, a circa sette centimetri dalla sommità, incisi una scanalatura intorno alla quale assicurai il capo libero della corda che passava intorno alle cariche. Tenendo il mattone contro la parte dell'asse su cui non c'era la corda, in modo che il lato più lungo fosse parallelo alla tavola, li avvolsi entrambi con l'asciugamano e li fermai con chilometri di nastro adesivo. Adesso l'attrezzatura era pronta. Il Re Leone m'informò che erano le 3.28. In teoria ancora troppo presto per andare, ma non sapevo chi altri fosse a conoscenza del fatto che Falegname e il vecchio erano venuti a trovarmi. I tre ripresero a litigare, adesso probabilmente sul pagamento. Presi le cariche, avvolte in una coperta, e andai alla macchina. 39 Sabato 18 dicembre 1999 Mi diressi verso Tallinn percorrendo la strada principale nella più totale oscurità pomeridiana; svoltai a destra in direzione di Pussi, attraversai un'altra volta i binari e puntai al bersaglio, oltrepassando le tristi baracche dove la gente era rintanata per l'inverno. Nelle dodici ore trascorse da quando avevo lasciato l'albergo avevo fatto dei lunghi giri, fermandomi solo un paio di volte per fare il pieno di benzina. Qualsiasi cosa pur di far andare il riscaldamento. Uscendo avevo pagato alla vecchia un altro paio di notti, così, molto probabilmente, non sarebbe andata a controllare la stanza. Lungo la strada erano allineati banchetti coperti da tende che avevano l'aspetto di stazioni di servizio in miniatura. Il vapore che fuoriusciva dagli sfiatatoi li rendeva simili alle cucine dei campi profughi. Quando mi fermai a comprare caffè e brioche, mi fu molto d'aiuto avere la bocca gonfia e lividi ben visibili, perché potevo farmi capire solo borbottando e facendo
dei gesti. Il problema venne quando provai a mangiare e a bere; il dente mi stava uccidendo e da quelle parti non vendevano Brufen. Le mie ultime quattro aspirine erano finite ore prima. Avevo addosso l'arma di Falegname e la 38 special era nel cassetto del cruscotto. Nessuna delle due aveva colpi di riserva. Scivolai lentamente lungo la stradina e i fari illuminarono sulla mia sinistra il muro di cemento del bersaglio. Nulla sembrava cambiato; ancora niente luci né movimenti; i cancelli erano ancora chiusi. Parcheggiai nello stesso viottolo della volta prima, spensi il motore e rimasi seduto per qualche minuto mentre l'auto si raffreddava in fretta. Ripassai il piano un'ultima volta. Non ci misi molto, perché non era davvero un gran piano. Mi costrinsi a uscire al freddo. Questa volta indossavo i guanti e il berretto di pelliccia sporco di sangue del vecchio. Coprii con un giornale il parabrezza dal lato del guidatore e tirai fuori dal baule le cariche di esplosivo. Le due funi che le legavano erano molto pratiche per portare l'attrezzatura sulle spalle. Per ultimo nascosi le chiavi della macchina sotto la ruota posteriore destra. Se i Maliskia mi avessero catturato, in caso di fuga avrei almeno avuto le chiavi. E avrei potuto dirlo a Tom, se fossi riuscito a mettermi in contatto con lui. Avrebbe avuto anche lui una possibilità di fuga, se non fossi riuscito ad arrivare alla macchina. Non lo avrei ucciso. Glielo dovevo, per quello che aveva fatto in Finlandia, vicino alla recinzione. E poi non volevo avere sulla coscienza la sua morte, come non volevo avere sulla coscienza la malattia di Kelly. All'inizio avevo attribuito il mio cambiamento d'idea al fatto che ci tenevo a salvare la mia pelle più di quella di Tom. Lui era l'unico in grado di riferire come era andata a Lynn, se tutta la faccenda si fosse conclusa alla cazzo di cane. E perché mai avrebbe dovuto andare bene? Fino a quel momento era andato tutto in vacca. Poi, però, ero stato costretto ad ammettere con me stesso che avevo cominciato ad affezionarmi a quel bastardo con il muso da criceto. Forse non era il tipo di persona con cui di solito facevo amicizia, e certamente non saremmo mai usciti a bere un caffè insieme la mattina, ma era a posto, e aveva bisogno di uno stacco almeno quanto ne avevo bisogno io. Avevo giocherellato con quell'idea fin da quando mi trovavo nella stanza d'albergo a Helsinki. Per questo avevo portato con me il suo passaporto, per essere libero di decidere. Faceva il solito freddo, ma camminando sollevai i paraorecchie del mio nuovo berretto per poter sentire meglio. Arrivai all'altezza dell'hangar con la ciminiera. Ancora non sentivo nessun rumore dai due edifici dietro il
muro. Raggiunsi il vialetto che portava all'enorme cancellata metallica, svoltai e feci qualche passo nella sua direzione. Poi mi fermai in ascolto. Sapevo che un rumore c'era e avvertii in lontananza quello del generatore. Oltre a questo, nient'altro. Provai a spingere, ma i cancelli non erano aperti. Provai la porticina che si trovava nell'anta di destra, ma anche questa era chiusa. Non che avessi sperato che fosse così facile, ma mi sarei sentito un emerito deficiente se avessi fatto la fatica di arrampicarmi sopra il muro quando avrei potuto entrare dalla porta principale. Mi sdraiai nel solco delle ruote di destra, le cariche dietro di me, e appoggiai l'occhio alla fessura. Da questo lato del cancello nulla era cambiato. Nessuna luce a pianoterra, e l'edificio più grande, quello sulla destra, sempre tutto buio. Non riuscivo a stabilire se fosse un fatto positivo o negativo; non che importasse molto: comunque sarei piombato là in mezzo e avrei distrutto ogni cosa e, se tutto andava bene, avrei trovato Tom. Di nuovo in piedi, con lo zaino da boy-scout di nuovo in spalla, tornai in direzione della macchina, ma a poco meno di cento metri oltre l'hangar svoltai a sinistra, fuori dalla strada e nella neve alta. La mia intenzione era di camminare nei campi, voltare a sinistra e raggiungere l'hangar dal retro. Non potevo fare a meno di lasciare una traccia nella neve, ma per lo meno potevo tentare di lasciarla fuori della vista dalla strada. La neve aveva un sottile strato di ghiaccio e una profondità che variava dall'altezza del polpaccio a quella della coscia. Posavo il piede e, dopo una resistenza iniziale, il peso del corpo mi faceva sprofondare. Nei punti più profondi mi sentivo come un rompighiaccio del Baltico. Avanzai a fatica, i jeans ormai fradici e le gambe quasi congelate. Per fortuna non c'erano molte nuvole e la mia visione notturna si stava adattando alla luce delle stelle. Il retro dell'hangar mi apparve indistinto di fronte e m'infilai all'interno. Il pavimento era in cemento e la struttura d'acciaio faceva da sostegno a quello che sembrava essere fibrocemento ondulato. Mi spostai lentamente, prestando la massima attenzione al muro del bersaglio, e dopo circa venti passi cominciai a distinguere la sagoma di una porta. Quando raggiunsi la parete di fondo dell'hangar, mi fermai in ascolto. Nessun suono, solo il lieve gemito del vento. Attraversai i cinque o sei metri di neve tra i due edifici e non appena raggiunta la porta mi resi conto che non sarei stato contento. Il metallo era più vecchio di quello dei cancelli frontali, e si sfogliava per la ruggine. Ma
la porta in sé era solida, senza cardini o serrature in vista. Provai a spingere, ma non ottenni il minimo movimento. Mi diressi verso destra costeggiando il muro, allontanandomi di altri quindici metri dalla strada. Con un po' di fortuna, adesso dovevo trovarmi in corrispondenza della parte frontale dell'edificio più grande, al di là del muro. Posai le cariche a terra e sciolsi la fune legata alla tavola con il mattone dall'altro capo. Cominciai a far roteare un metro di corda come un lanciatore di martello, poi, nel momento di massima spinta verso l'alto, la lasciai andare, in modo che la tavola superasse il muro. Non mi avrebbero mai ammesso ai Giochi delle Highlands. Ricadde tutto ai miei piedi. Mentre stavo sbrogliando la corda per un altro lancio, dei fari illuminarono il muro del bersaglio. Mi lasciai cadere sulle ginocchia, pronto a seppellirmi nella neve. Poi mi resi conto che in ginocchio ero già sepolto nella neve. Le luci aumentarono d'intensità, poi scomparvero per mezzo secondo, quando l'auto finì in un avvallamento della strada illuminando il cielo prima di tornare a livello. Avvicinandosi, l'auto illuminava l'interno dell'hangar e i battenti d'acciaio proiettavano delle ombre in movimento. Il possente borbottio di un grosso diesel m'informò che a muoversi nella mia direzione era un trattore. Tirai un sospiro di sollievo: se i Maliskia fossero venuti per me, dubito che avrebbero usato un Massey Ferguson. Il rumore s'intensificò e la luce dei fari si fece ancora più intensa, finché il trattore di colpo non si materializzò nello spazio fra il muro del bersaglio e l'hangar. Sembrava il residuato di un collettivo sovietico e a bordo si scorgevano le sagome di molte più persone di quante ne potesse trasportare. Forse la squadra locale di sperimentazione dei pub faceva un salto al Falce e Martello per un paio di pinte di vodka. La luce e il rumore diminuirono gradualmente e io ripresi il mio lavoro. Mi ci vollero altri due tentativi, ma alla fine riuscii a far volare la tavola oltre il muro. Stringevo saldamente fra le mani la parte zavorrata. Quando la tavola terminò il suo volo, la fune si tese. Probabilmente stava dondolando a circa un metro, un metro e mezzo da terra. Con delicatezza iniziai a tirare all'indietro, in attesa del momento di resistenza dal quale avrei capito che la tavola aveva agganciato il bordo della sommità del muro. Il funzionamento del dispositivo era semplice: il contrappeso del mattone ancorava la parte superiore della tavola a un muro angolato. Motivo per cui il perimetro delle prigioni è di forma ovale e la sommità delle pareti è di metallo arrotondato: per non fornire alcun possibile aggancio. L'MI9 aveva colpito
ancora. Mantenni la fune in tensione, quasi in attesa che da un momento all'altro la tavola mi rimbalzasse di nuovo sopra la testa. Poi a poco a poco lasciai che sostenesse il peso di tutto il corpo. La corda di nylon si allungò protestando, ma tenne bene. Con i piedi contro la parete, utilizzando come puntelli per i piedi i fori nel muro e i nodi che avevo fatto, iniziai ad arrampicare. La cima non era distante, e mi issai a sedere sulla sommità del muro, spesso circa un metro. L'edificio più grande impediva la visuale dell'edificio-bersaglio alle sue spalle; vedevo soltanto le luci delle finestre che illuminavano la neve davanti. Il ronzio del generatore in sottofondo era costante. Mi girai sullo stomaco verso il lato dal quale ero salito. Dalla parete si staccarono neve e ghiaccio. Con le gambe a penzoloni dal lato del bersaglio cominciai a sollevare con grande cautela le cariche lungo il muro. Non era il rumore a preoccuparmi, volevo soltanto che non si danneggiassero. Quando le ebbi recuperate, mi girai nuovamente su me stesso e cominciai a lasciarle scivolare dalla parte del bersaglio. A quel punto mi rimaneva solo da spostare la tavola dalla parte opposta in modo da invertire il procedimento di salita. Tenni la corda in tensione, e mi lasciai lentamente calare, avvolgendo la corda al piede destro, finché non ebbi i fianchi sul bordo del muro. Poi mi affidai alla corda e scesi il più veloce possibile. Appesantii le cariche coprendole di neve in modo che il peso della tavola non le facesse rimbalzare dall'altra parte. Era importante che la fune rimanesse in posizione mentre mi dedicavo a una veloce ricognizione; era la mia unica via di fuga. Adesso che ero a terra il ronzio del generatore era più forte, più che sufficiente a coprire lo scricchiolio dei miei passi sulla neve vergine e sul ghiaccio. Mi spostai verso la porta arrugginita. Estrassi la torcia dalla tasca e la accesi. Un fascio di luce non più grande di un pungiglione: avevo coperto la superficie riflettente con il nastro adesivo. Avevo del lavoro da sbrigare sulla porta. Penetrare in un bersaglio è importante, ma lo è altrettanto essere in grado di uscirne. Fossero girate male le cose, per non trovarmi nella merda fino al collo dovevo organizzare una via di fuga migliore dell'arrampicata alla fune. Lavoravo con la torcia in bocca: la porta era chiusa da un grosso catenaccio, lungo sessanta centimetri, posizionato al centro, coperto di ruggine e con l'aria di non essere stato
aperto da anni. Iniziai a fare pressione sulla leva con entrambe le mani, spostandolo su e giù e contemporaneamente tirandolo all'indietro. Facevo piccoli progressi e alla fine cedette. Tirai il cancello verso di me di qualche centimetro per avere la conferma che si sarebbe aperto, poi lo richiusi. Fatto, mi fermai in ascolto: nessun rumore tranne il generatore. Adesso che avevo una via di fuga alternativa, non c'era nessun motivo per rischiare che la corda venisse scoperta, così la slegai e la lasciai ricadere. Misi le cariche in spalla e avanzai scricchiolando sulla neve lungo il fronte dell'edificio più grande, cercando di tenermi il più possibile accostato per ridurre al minimo le impronte. Adesso potevo vedere che era fatto di mattoni coperti di gesso colorato piuttosto vecchi. Se la casa-bersaglio era costruita con lo stesso materiale, non sarebbe stato difficile riuscire a fare breccia. Raggiunsi l'ampia apertura e il rumore del generatore aumentò. Vidi una grande quantità di tracce di pneumatici che andavano tutte nella stessa direzione. Entrai e mi spostai subito sulla destra, in modo che la mia sagoma non si proiettasse nell'entrata. M'immobilizzai nel buio, in ascolto del generatore in fondo a sinistra. Lì faceva più caldo, ma sapevo che era solo più riparato. Tolsi la torcia di tasca e strappai il nastro adesivo, continuando però a tenere due dita sopra la lente per avere un controllo sulla luce. Un veloce flash all'interno mi mostrò tre veicoli: un furgone Mercedes, con il muso in avanti, e due giardinette posteggiate con differenti angolazioni e con il muso verso l'interno. Il pavimento era in cemento, coperto da anni di forniture di fango ghiacciato, pezzi di legno e vecchie casse. La luce della torcia era troppo debole per illuminare il generatore, ma con trenta passi lo raggiunsi. Il macchinario aveva un piedistallo di circa mezzo metro di cemento nuovo che lo sollevava dalla merda. Al di là di questo c'era il serbatoio del carburante, un grande cilindro di plastica pesante posato su blocchi di calcestruzzo. Vederlo mi diede un'idea che avrei utilizzato in seguito. Dal generatore sporgeva un cavo elettrico del diametro di sei centimetri buoni. Il cavo attraversava il muro in un punto dal quale erano stati tolti due o tre mattoni e proseguiva verso la casa-bersaglio. Posai l'attrezzatura dietro il generatore, spensi la torcia, tornai verso la porta e uscii. Seguii le numerose impronte lasciate fra quell'edificio e il bersaglio e mi
diressi verso il portone principale, a circa quindici metri di distanza. Direttamente di fronte a me vidi il triangolo d'ombra che partiva da sotto il davanzale della finestra del pianterreno e si allungava per un metro nella neve, dove la luce colpiva terra. Controllai che la pistola fosse al suo posto nella tasca del giaccone. Se ne avessi avuto bisogno avrei potuto togliermi il guanto con i denti e sparare senza problemi. Prima di superare il paio di metri che separavano i due edifici, cercai il punto in cui il cavo che usciva dal granaio entrava nella casa-bersaglio. Vidi moltissime impronte che dal sentiero dove mi trovavo si diramavano in direzione dei due edifici e anche verso il retro della casa-bersaglio. Era evidente che andavano avanti e indietro in continuazione. Mi abbassai e camminando radente al muro raggiunsi la prima finestra. Il vetro sopra di me era protetto da sbarre di ferro. Una televisione era accesa. L'audio era in inglese e non impiegai molto a riconoscere il canale, era MTV. Di minuto in minuto tutto si faceva più bizzarro. Con la schiena contro il muro, guardai e ascoltai. La luce sopra di me filtrava attraverso tendine gialle a fiori, ma la stoffa era troppo spessa per vedere attraverso. Non riuscii a sentire persone parlare, solo Ricky Martin che cantava. Appoggiai l'orecchio alla parete e ascoltai ancora. Non dovetti sforzarmi molto. Una voce dal pesante accento slavo si unì improvvisamente al coro nell'intento di offrire il suo contributo al vecchio Ricky. 40 La casa-bersaglio era fatta di una struttura di cemento inframmezzata di mattoni rossi forati e con i fianchi dentellati, o così mi parve. Chiunque l'avesse costruita non aveva mai sentito parlare di filo a piombo, e troppi inverni rigidi avevano lasciato il segno sui mattoni; avevano un aspetto friabile, proprio come quello che avevo legato alla tavola di legno. Mentre Ricky Martin si avvicinava al finale, salii i due gradini di cemento che conducevano al portone. Aveva lo stesso tipo di chiusura del baar di Narva, solo alla rovescia, la griglia di metallo all'esterno e la porta di legno arretrata di circa quindici centimetri. Dovevo scoprire se era chiusa a chiave. Non era il punto di entrata che avevo scelto, ma nel caso le cariche non avessero funzionato, avrei avuto un'ulteriore possibilità. E, cosa ancora più importante, se all'interno avessi avuto dei problemi, mi sarebbe rimasta una via di fuga alternativa.
La griglia non era chiusa a chiave. La spostai piano all'indietro di un paio di centimetri e non fece nessun rumore, allora la tirai verso di me di circa cinque centimetri, spinsi indietro di un paio e tirai un altro po', continuando a controllare il cigolio e ad aprirla gradualmente. Poco dopo la griglia era aperta quel tanto che mi consentiva d'infilare il braccio e provare la maniglia. Nessun rumore, se non il generatore e MTV. Spinsi la maniglia verso il basso e provai a spingere. Chiusa a chiave. Rimasi fermo in ascolto, con la speranza di sentire la voce di Tom. Stavano friggendo qualcosa e l'odore s'insinuava sotto la porta. Dal piano di sopra, confuso con il suono della televisione, provenne un grido, ma non si trattava della voce di Tom. Poi mi resi conto che non era un grido, ma qualcuno che cercava di cantare. Il mio amico imitatore di Ricky Martin stava scendendo le scale. Mi spostai dalla soglia, mi tolsi il guanto con i denti e afferrai la pistola. Se fosse uscito, avrei scavalcato il suo cadavere e avrei fatto irruzione all'interno a una tale velocità e con tanta improvvisa ferocia da far paura a me stesso. La voce raggiunse il pianterreno e aumentò d'intensità. Un coro di altre voci echeggiò dal retro, forse in russo. Non c'era ombra di dubbio: gli stavano dicendo di chiudere quella fogna. Ormai era nel corridoio, molto vicino alla porta, e urlava di rimando alle altre voci, come minimo due, nella stanza della TV. Scherzavano, tutto lì. Il cantante rientrò nella stanza e il programma di MTV scese a un livello di sonoro più basso, perché la porta venne chiusa. Mi riavvicinai alla porta e tesi l'orecchio. Nessun rumore, se non la musica. Misi via la pistola, e chiusi lentamente la griglia seguendo la stessa procedura con cui l'avevo aperta. Scesi i gradini e seguii il tracciato per allontanarmi dalla facciata passando sotto il triangolo di oscurità della finestra di sinistra. Anche con l'orecchio appoggiato sul muro freddo e umido non riuscivo a sentire nessun suono all'interno. Dietro le sbarre il vapore appannava i vetri. Forse la cucina. Raggiunsi l'angolo e girai. Su quel lato nessuna finestra, ma innumerevoli impronte nella neve che portavano al retro. Quello che si vedeva distintamente, anche con questa luce, era il grande disco di un'antenna satellitare, lievemente verso sinistra dell'edificio e orientato verso l'alto a circa quarantacinque gradi. Mi sembrò di vivere un flashback del quartier generale Microsoft e pregai che l'NSA non arrivasse a completare la storia. In
fondo non mi dispiacque averlo visto. Quel disco era l'unica conferma che avevo di essere davvero accanto al bersaglio. Avanzai contando i passi per prepararmi alla posa delle cariche. Diciassette passi di circa un metro mi portarono sul retro. Una volta sull'angolo il generatore aumentò di un paio di decibel. A entrambe le finestre del secondo piano era accesa la luce, appena sufficiente a gettare un bagliore sopra i due amichetti dell'antenna satellitare. I tre dischi avevano tutti più o meno la stessa dimensione di quelli del quartier generale Microsoft, ma erano fatti di solida plastica e non a rete. Erano orientati verso il cielo con differenti direzioni. Non erano dischi statici piantati nel terreno, ma montati su aste, con sacchetti di sabbia coperti di neve appoggiati contro i sostegni per mantenerli in posizione. Come quelli finlandesi, anche questi erano privi di neve e di ghiaccio, e la zona che avevano intorno era stata molto calpestata. Oltre, forse quaranta metri più avanti, c'era il muro di recinzione. Svoltai l'angolo e mi resi conto che a pianterreno, nascoste nel cono d'ombra prodotto dalle finestre superiori, c'erano altre due finestre non illuminate. Tutte e quattro riprendevano la simmetria della facciata anteriore. Per arrivare alla prima finestra mi ci vollero cinque passi, il che portava a ventidue il totale fino a quel momento. Mi accucciai accanto a tre grossi cavi di alimentazione delle antenne satellitari, che uscivano dalla neve e scomparivano in un buco nel muro direttamente sotto la prima finestra del pianoterra. Il solco intorno ai cavi era chiuso, in modo approssimativo, con del cemento. Anche le finestre del pianterreno da questo lato erano munite di sbarre. Adesso riuscivo a vedere uno spiraglio di luce intorno alla cornice mentre ci stavo accucciato sotto. Sollevai gli occhi fino al davanzale e vidi che il vetro era oscurato con delle assi dall'interno. Sentii un rumore continuo che proveniva dall'altra parte delle tavole, un suono acuto ed elettrico, diverso da quello del diesel che pulsava nell'altro edificio. Nessuna voce umana, ma sapevo che da qualche parte dovevano essere. Non avrei mai pensato che mi sarei trovato nella situazione di desiderare ardentemente di sentire la voce di Tom che chiedeva una tazza di tè alle erbe - «Il mio corpo è un tempio, hai presente, Nick?» - ma non avvenne. Oltrepassati i cavi, per arrivare alla finestra successiva, mi ci vollero altri nove passi, lenti e prudenti, da aggiungere agli altri ventidue. Presto avrei
saputo quanti metri di miccia dovevo tagliare dalla bobina. Anche quella finestra era oscurata, ma da lì filtrava un po' più di luce. Due assi di compensato di circa mezzo centimetro che dovevano essere a contatto con il vetro lasciavano un fessura nell'angolo di destra. Mi trasformai in Houdini e sistemai la testa in modo da avere una buona visuale, il berretto che fungeva da isolante per la testa premuta contro le sbarre. Riuscii a scorgere un bagliore molto forte, al di sotto del quale vidi un banco con cinque o sei schermi di PC in plastica grigia di cui vedevo la parte posteriore e le griglie di raffreddamento nere di polvere. A giudicare da quello che riuscivo a vedere, la parte posteriore dell'edificio era composta da un'unica grande stanza. Spostai la testa nel tentativo di avere una visuale migliore e tutto all'interno si fece buio. Un corpo mi oscurava la vista. Lo vidi chinarsi in avanti sulle braccia e muovere lateralmente la testa, intento a controllare i vari schermi che aveva di fronte, a non più di mezzo metro da me. Doveva essere sui trentacinque anni, capelli biondi e corti su una testa quadrata, e indossava un maglione a collo alto con un disegno di cui ogni madre sarebbe andata fiera. Sorrise, poi annuì a se stesso mentre si voltava verso la fessura. Adesso si trovava a non più di trenta centimetri da me e stava rispondendo a una voce rapida e aggressiva che parlava russo. Guardò in basso. Qualsiasi cosa stesse guardando sembrava renderlo felice. Forse era arrivato Tom con dei regali per loro e avevano Echelon. Se le cose stavano così, non sarebbe stato per molto. Sollevò un foglio stampato A4 e lo sventolò verso chi si trovava dietro di lui, chiunque fosse, poi si spostò più indietro, fuori dal mio campo visivo. Probabilmente era il menù del pranzo di Natale del Comando spaziale e navale dei sistemi di guerra a San Diego. Davano l'impressione di conoscere tutto quello che succedeva da quelle parti. Adesso sapevo dove si trovava la roba da distruggere, mi restava soltanto da trovare Tom. Per quindici minuti attesi altri movimenti, con l'occhio fisso nel buco, ma non accadde niente. Cominciavo ad avere molto freddo e le dita dei piedi erano intorpidite. Il Re Leone mi disse che erano solo le 17.49; avrebbe fatto molto più freddo. Mi spostai all'altro angolo del bersaglio, in direzione del generatore. Altri cinque passi, il che portava a un totale di trentasei. Felicità: la miccia che avevo bastava. Voltai a destra e mi avviai verso il corridoio fra i due edifici, scavalcando i cavi del generatore immersi nella neve. Come per i cavi dei satelliti,
era stato praticato un buco attraverso il muro della casa-bersaglio per farli passare, e il buco era stato coperto con qualche manciata di cemento. Rientrato nell'edificio del generatore, iniziai a preparare l'attrezzatura. La prima cosa che controllai era se avevo ancora le pile nella tasca interna: in addestramento l'errore più grave era perdere il controllo del congegno d'innesco, primo a pari merito con la pistola appoggiata a una distanza superiore a quella del braccio. Le avevo tenute accanto al corpo, perché il freddo non le scaricasse; dovevano funzionare senza problemi. Non avevo bisogno di luce per srotolare la corda di detonazione perché sapevo quello che stavo facendo, ma il rumore del generatore avrebbe coperto eventuali movimenti di persone in entrata, per cui dovevo lavorare senza smettere di guardare l'ingresso. Bloccai la bobina fra i piedi, afferrai la parte sciolta nella mano destra e sporsi il braccio in fuori; con la sinistra infilai la miccia sotto l'ascella. Ripetei il gesto per trentasei volte, più cinque che mi sarebbero servite per fare quello che dovevo sul muro dal lato opposto del bersaglio. Ne aggiunsi un altro paio per mettermi al vento, poi tagliai con il Leatherman scurito. La posai per terra, vicino alle cariche. L'avrei definita la linea principale, e sarebbe stata usata per propagare l'onda esplosiva a tutte le cariche allo stesso tempo per mezzo delle rispettive corde di detonazione. Il passo successivo da compiere era il piccolo lampo di genio che mi era venuto vedendo il serbatoio del carburante. Avevo in mente la più spettacolare esplosione mai verificatasi fuori da Hollywood. Lo scoppio del serbatoio non sarebbe stato l'esplosione più produttiva del mondo, ma l'effetto sarebbe stato fenomenale. Salii i gradini del serbatoio con la corda di detonazione in mano, srotolandola lentamente dalla bobina. Sollevai il coperchio e la luce della torcia illuminò la superficie brillante del liquido che riempiva tre quarti del bidone cilindrico. Feci un doppio nodo all'estremità della corda e tirai fuori dalla giacca uno dei sacchetti di plastica della stazione di servizio. Dentro c'era l'esplosivo al plastico avanzato, due chili circa, che ogni uomo d'azione con un po' di sale in zucca si porta sempre appresso per riempire buchi o riparare le cariche. Ne staccai una metà e cominciai a lavorarla per ammorbidirla. All'aperto l'odore non era così terribile. Quando fu sufficientemente ammorbidita, la premetti intorno al doppio nodo, assicurandomi che penetrasse bene negli spazi fra le connessioni, e in ultimo avvolsi tutto con il nastro adesivo per fermare il plastico. Calai la boccia di esplosivo al plastico dentro il serbatoio reggendola per
la corda di detonazione e fermandomi quando arrivò a dondolare a cinque o sei centimetri sopra la superficie del carburante. Basta un nanosecondo perché il carburante si vaporizzi dopo un'esplosione, ma quando esplode, l'effetto è vesuviano. Se avessi fallito nel lavoro, avrei comunque dato l'impressione di essermi prodotto in una grande prestazione. Val non avrebbe potuto dubitare della mia parola dal momento che quella palla di fuoco sarebbe stata visibile, molto probabilmente, anche da Mosca. Fissai con il nastro adesivo la miccia a un lato del serbatoio, quindi ridiscesi la scaletta e srotolai con attenzione il resto della corda, spostandomi verso il buco nel muro. Volevo tagliare un pezzo abbastanza lungo da raggiungere, una volta posato, la casa-bersaglio. Nove bracciate mi avrebbero messo al riparo. Tagliai, quindi iniziai a far scorrere l'estremità della miccia attraverso il buco nel muro. In quel momento la luce di una torcia lampeggiò nel corridoio fra i due edifici. Il generatore m'impediva di sentire. Tirai rapidamente indietro il cavo e m'immobilizzai. L'unica cosa che muovevo erano gli occhi, in tragitto continuo tra il buco nella parete e l'ingresso, in attesa di cogliere un movimento da una delle due direzioni. Il fascio di luce che controllava il cavo del generatore illuminò un paio di stivali di gomma lucida e un paio di stivali normali. Quello che mi preoccupava era l'AK che pendeva sul fianco dell'uomo dagli stivali di gomma, il cui ampio mirino all'estremità della canna si trovava a livello delle ginocchia. Continuarono in direzione del retro e non li vidi più. Non parlavano, o se parlavano non riuscii a sentire a causa del generatore. Non sentii neppure i passi nella neve. Dovevano aver fatto qualcosa con le antenne satellitari. Aspettai, non potevo fare altro. Non sarei uscito finché non avessi avuto la certezza che erano rientrati in casa. Rimasi sdraiato nel fango ghiacciato e attesi il loro ritorno, gli occhi che si muovevano in continuazione tra le fessure nel muro. Il freddo fece presto a penetrarmi dentro i vestiti, anestetizzandomi la pelle. I sei o sette minuti che ci vollero prima di vedere la torcia tornare tremolando sulla neve non passarono per niente veloci. Allungai il collo per vedere meglio e osservai le sagome svanire dietro l'angolo. Rischiai il congelamento ma restai in attesa per qualche altro minuto, nel caso avessero dimenticato qualcosa o avessero combinato qualche casino e fossero tornati per rimediare.
Durante l'attesa ebbi un altro colpo di genio. Quando alla fine mi alzai di nuovo in piedi, mi avvicinai alle auto e sgonfiai tutti i pneumatici. La palla di fuoco avrebbe dovuto provvedere anche ai veicoli e garantirmi che fossero inutilizzabili per un inseguimento, ma giocare sul sicuro non guastava. Mentre l'aria usciva sibilando e i bordi dei cerchioni sprofondavano nel fango congelato, sorrisi fra me e me come uno scemo. Osservai il buco nel muro per controllare la luce della torcia. Avevo di nuovo otto anni, ed ero accucciato accanto alla macchina del mio patrigno. Tornai all'attrezzatura e ricominciai a far scorrere la corda di detonazione. Poi tagliai parecchie strisce di nastro adesivo lunghe venti centimetri e me le attaccai su entrambi gli avambracci. Per ultimo mi misi sulle spalle il pacco con le cariche, afferrai la linea principale, la arrotolai nella mano sinistra e tornai al freddo. 41 Mi diressi verso il corridoio tra gli edifici. Davanti a me la fioca luce che proveniva dalla casa si spandeva ancora sulla neve. Percorso lo spazio divisorio, mi spostai verso il retro. Scavalcai il cavo del generatore e controllai che la miccia detonante fosse ancora nel buco, al suo posto per quando più tardi sarei tornato, poi proseguii verso l'angolo. La posizione dei dischi era mutata in modo evidente. Volevo dare un'ultima occhiata fra le tavole per vedere se riuscivo a beccare Tom. Forse sarei stato fortunato; per tutto c'è una prima volta. Angolai molto la testa e sbirciai all'interno senza riuscire a vedere nessun movimento. Superai i cavi delle antenne satellitari e puntai verso l'altro angolo, poi mi voltai e contai tre passi in direzione della facciata del bersaglio. A quel punto mi accucciai e appoggiai le cariche e la miccia nella neve. La stanza dei computer era esattamente dietro quel muro. I venti minuti successivi li avrei passati a mettermi e togliermi i guanti per posizionare le cariche. Sciolsi il nodo della corda che teneva unite le cariche, e piazzai uno dei quadrati contro il muro, la base del Toblerone di fronte al bersaglio e la corda di detonazione verso di me. Quindi conficcai l'estremità di una delle tavole di legno dentro la neve, molto angolata, in modo che mantenesse il quadrato di polistirolo in posizione contro il muro. Controllai la carica con la torcia e mi accorsi che in un piccolo punto l'e-
splosivo al plastico si era staccato. Con ogni probabilità l'esplosivo al plastico sarebbe brillato ugualmente, dato che la fessura era meno di un millimetro e mezzo, ma perché rischiare? Manipolai con i guanti un pezzetto di esplosivo al plastico finché non si ammorbidì, poi ne strappai un po' e lo premetti dove dovevo. Dopo un ultimo controllo, spensi la torcia e mi spostai verso il disco più vicino, dove presi uno dei pesanti sacchetti di sabbia ricoperto di ghiaccio e lo piazzai a metà del muro, sopra l'estremità libera della miccia. Poi iniziai a sistemare quest'ultima lungo tutta la lunghezza necessaria a raggiungere la carica. Il peso del sacchetto consentiva di tirare leggermente la miccia detonante in modo che non si formassero nodi o attorcigliamenti. L'onda esplosiva avrebbe avuto via libera verso la corda di detonazione. Raggiunsi la carica puntellata al muro e mi tolsi i guanti. Strappai una delle strisce di nastro adesivo dal braccio, e iniziai a unire insieme la corda di detonazione con la linea principale, il più stretto possibile. Feci tutto come da manuale, fissando la linea principale dopo trenta centimetri di corda di detonazione in caso che parte dell'esplosivo fosse caduta dall'estremità esposta. La legatura aveva una larghezza di dieci centimetri, per assicurare che il contatto fra le due garantisse all'onda esplosiva di spostarsi lungo la linea principale fino alla coda di detonazione. Per poi proseguire naturalmente il viaggio verso la carica. Da una finestra al piano di sopra, oltre l'angolo, ci fu uno scoppio improvviso di musica che si fermò di colpo, com'era iniziata. Istintivamente mi accucciai e attraverso la finestra sul retro sentii delle voci che urlavano. Come minimo vi erano altre tre voci che urlavano e ridevano. Mi riportò alla realtà. L'operazione tecnica di piazzare una carica ti estranea sempre dalla realtà. Forse perché ha bisogno di notevole concentrazione, dato che non c'è una seconda opportunità. Ecco perché di solito si fa in modo che chi deve fare operazioni del genere possa lavorare in pace e concentrarsi. Ma non era un lusso di cui godevo quella sera. Presi in prestito un altro sacchetto di sabbia dalla base delle antenne paraboliche e lo piazzai sopra la linea principale, dal lato della corda di detonazione. Non volevo tirare troppo e rovinare il lavoro di collegamento appena fatto, mentre sollevavo la seconda carica. Iniziai a srotolare la linea principale sopra i cavi dei satellitari verso il corridoio fra gli edifici. Qualcuno stava rompendo i coglioni sparando a tutto volume la colonna sonora di Armageddon degli Aerosmith, che a un tratto smise di colpo sopra la mia testa provocando ancora più urla dalla stanza dei computer.
Quando arrivai all'angolo successivo, le pesanti voci con accento slavo del piano di sopra ringhiarono ancora e la musica riecheggiò a tutto volume. M'inginocchiai nel passaggio e sistemai la seconda carica sull'altro lato della casa-bersaglio, in modo che le due cariche si trovassero l'una di fronte all'altra. Quando l'ebbi puntellata e controllata, iniziai a collegare la corda di detonazione alla linea principale. La musica risalì a palla per un paio di secondi, poi si calmò. Dal pianoterra provennero altre urla. Quelli della stanza dei computer cominciavano a incazzarsi sul serio. Calcolai che all'interno della casa ci fosse un minimo di cinque persone. Controllai un'ultima volta la carica; sembrava tutto a posto. Demolire può apparire un'arte oscura, ma in realtà l'unica cosa da capire è come funziona l'esplosivo e successivamente imparare il centinaio di norme che ne regolano l'uso. Quel giorno ne avevo infrante parecchie, ma che cazzo, non avevo scelta. Mi spostai vicino al buco del cavo del generatore e con cautela tirai fuori la miccia che andava al serbatoio del carburante e la collegai alla linea principale con il nastro adesivo, come avevo fatto con gli altri due. Gli Aerosmith continuavano a fare del loro meglio per dare fastidio a quelli della stanza dei computer. Era un ottimo gioco, e sperai che li tenesse occupati ancora per un paio di minuti. Pensai a Tom e mi augurai che non si trovasse troppo vicino a uno dei due muri. Rimisi i guanti e tirai la linea principale, per i pochi metri che restavano, verso la facciata. Non mi restava che applicare il detonatore elettrico, già collegato alla miccia, quindi portare il cavo dietro l'angolo e infine accucciarmi sotto la finestra prima che la merda e tutto il resto nell'edificio saltassero per aria. Ero un po' preoccupato per la quantità di elettricità presente nel luogo e per i suoi possibili effetti sul cavo del detonatore. Stavo per allentare le due parti del filo che dovevo collegare alla pila, e che, una volta sciolti, sarebbero diventati potenziali antenne, come i detonatori nell'appartamento di Narva. I manuali dicevano che quest'operazione andava fatta a un chilometro di distanza, o almeno molto ben protetti. Non credo che starmene nascosto dietro l'angolo al riparo di qualche mattone fosse quanto intendevano i manuali. La linea principale si fermava a circa sei o sette passi dall'angolo della casa. Bene, almeno il cavo elettrico sarebbe stato lungo abbastanza da permettermi di restare ben sotto la finestra. Tirai con calma la borchia a pressione che teneva bloccato il ferretto del-
la cerniera della giacca per estrarre il cavo elettrico. Il volume della musica cambiò ancora. Veniva verso l'esterno. Poi sentii il rumore della griglia che qualcuno stava aprendo e il portone che sbatteva. Non avevo tempo per pensare, potevo solo agire. Mi tolsi i guanti con i denti, infilai la mano nella giacca ed estrassi la Makarov. Con il pollice destro tolsi la sicura e mi spostai verso l'angolo, respirando a fondo. Non lo sentivo, non li sentivo ancora, ma chiunque fossero, dovevo essere pronto alla lotta. Ancora tre passi all'angolo. Davanti c'era una torcia. Mi fermai, e spostai il pollice sulla sicura per assicurarmi che fosse aperta correttamente. Un secondo dopo apparve un corpo, diretto verso di me. Stava guardando verso il basso, la luce della torcia faceva brillare la neve. Illuminò la canna dell'arma. Non potevo dargli il tempo di pensare. Gli saltai addosso e lo afferrai al collo con il braccio sinistro, premendogli nel contempo la Makarov sullo stomaco, con molta violenza. Lo afferrai per la vita con le gambe, e mentre cadevamo insieme premetti il grilletto, augurandomi che i due corpi che coprivano l'arma ne avrebbero attutito il rumore. Non fu esattamente così. Ne venne fuori un lavoro rumoroso. Saltai in piedi e mi precipitai sul davanti della casa, mettendo a fuoco solo l'angolo successivo, diretto all'altro capo della linea principale, abbandonando un russo che si contorceva nella neve. Spostai all'indietro il carrello per espellere quello che era rimasto all'interno e inserire un altro colpo in canna, nell'eventualità che essendo stati così vicini quando avevo fatto fuoco il carrello non avesse potuto scorrere bene e non si fosse ricaricato. Provai le stesse sensazioni che avevo sempre da bambino quando scappavo spaventato. Mi avvicinai all'entrata principale e mi frugai freneticamente con la sinistra nelle tasche per prendere il cavo elettrico e il detonatore. La porta si aprì, MTV urlava ancora, e un corpo, troppo minuto per essere Tom, apparve. La griglia era già aperta. «Gory? Gory?» Sollevai l'arma e feci fuoco in movimento. Non potevo mancarlo. Ci fu un urlo e un proiettile colpì la griglia con un rumore stridulo. Proseguii veloce, svoltai l'angolo e mi tuffai testa in avanti verso il sacchetto di sabbia. Lasciai cadere la pistola e tastai alla ricerca della linea
principale sotto il sacchetto di sabbia. Non guardai se arrivava qualcuno. Non avevo tempo. Le urla dell'uomo ferito echeggiavano in tutto il complesso. Cercai di calmarmi e rallentai i miei frenetici movimenti. Misi il detonatore sulla linea principale e li collegai entrambi con il nastro adesivo, non stretto come avrei voluto, ma vaffanculo. Tirai fuori la batteria e aprii con i denti le due parti del cavo elettrico. Poi mi lasciai crollare al suolo, aprii la bocca e seppellii la testa nella neve mentre spingevo i due capi nei contatti. Meno di un battito cardiaco dopo, il detonatore scoppiò e innescò la linea principale. L'onda esplosiva si propagò per tutta la lunghezza, incontrò la prima corda di detonazione e poi quella che portava al serbatoio del carburante. Poi arrivò anche alla seconda corda di detonazione. Le due cariche brillarono virtualmente insieme e le onde esplosive che ne risultarono s'incontrarono al centro della stanza a una velocità combinata di sedicimila metri al secondo. 42 Tutto il mio mondo sussultò, vibrò, tremò. Era come trovarsi all'interno di una gigantesca campana alla quale era stato impresso un colpo potentissimo. L'aria mi venne risucchiata dai polmoni e una vampata d'aria calda mi sommerse. Tutt'intorno al complesso neve e ghiaccio schizzarono verso l'alto per un buon mezzo metro. Le orecchie mi rimbombarono. Polvere di mattoni, neve e schegge di vetro rotto mi piovvero addosso. Poi l'onda dell'esplosione rimbalzò contro lo spesso muro perimetrale e tornò indietro. Strisciai in avanti all'angolo della casa-bersaglio, e osservai, come ipnotizzato, un'enorme palla di fuoco che sfrecciava sibilando dall'ingresso dell'edificio del generatore e si alzava alta nel cielo. Un fumo denso e nero mescolato con brillanti lingue di fuoco arancione che bruciavano come la fiamma di un pozzo petrolifero. L'intera zona era inondata di luce e il calore rischiava di ustionarmi la faccia. Pezzi di mattone, vetro e qualsiasi altro tipo di materiale scagliati verso il cielo iniziarono a ricadere con un fragore assordante. Mi misi in ginocchio e mi protessi la testa con le braccia. In teoria si dovrebbe guardare avanti per prepararsi a qualsiasi evenienza, ma che cazzo, preferivo pensare a me e restare attaccato al muro. Tanto non sarei riuscito comunque a ve-
dere niente. La tormenta di sabbia e mattoni rossi era arrivata, e ricopriva tutto; si trattava solo di restare fermi e aspettare che il fall out smettesse di pioverti addosso. Cominciai a tossire come un fumatore accanito. Liberai a turno le narici, poi tentai di equalizzare la pressione nelle orecchie. Una fitta acuta e pungente mi attraversò le chiappe. L'onda d'urto che mi era passata sopra doveva avermi investito il culo. Per lo meno non aveva colpito faccia e coglioni. Controllai se c'era del sangue, ma le dita erano bagnate solo dall'acqua dei jeans fradici di neve. Era tempo di alzarsi e tornare a cercare la pistola che avevo abbandonato da qualche parte nella neve. Tastai in giro con le mani, il culo in agonia, come se mi avessero impalato. Trovai la Makarov vicino al sacco di sabbia e controllai la camera di scoppio. Circondato dal rumore infernale del carburante che bruciava, mi avviai con passo malfermo verso il portone principale. Nei locali del generatore ci fu una seconda esplosione, forse il serbatoio di una delle auto che si era trovato sulla linea del fuoco. Per qualche secondo le fiamme lampeggiarono, ancora più intense e ancora più alte. L'uomo nel corridoio non urlava più, ma era ancora vivo. Si teneva lo stomaco, completamente raggomitolato su se stesso. Mi avvicinai a quel corpo attraversato dai fremiti, presi il suo AK e lo scagliai verso il cancello, fuori dalla sua portata. All'interno della casa non ne avrei avuto bisogno. Quando le due onde d'urto si erano incontrate nella stanza dei computer, avevano sicuramente spazzato via tutto. La forza si sarebbe incanalata verso le linee di minore resistenza per fuggire dai varchi dell'edificio: finestre e porte. Sprigionandosi lungo il corridoio, doveva aver travolto qualsiasi cosa lungo il suo percorso. L'amico di MTV non aveva un bell'aspetto. Alcuni brandelli del suo corpo erano stesi sulla griglia come strisce di carne appese in una sala da affumicazione. Il resto era sparso nella neve. Quando un corpo umano brucia ha lo stesso odore del maiale rosolato, ma, quando scoppia in quel modo, è come entrare in una macelleria dopo una settimana senza corrente elettrica. La torcia non serviva granché nel corridoio; rifletteva solamente il muro di polvere, un po' come i fari nella nebbia fitta. Avanzai incerto, inciampando su mattoni e macerie alla ricerca di un passaggio sulla destra che mi portasse nella stanza della TV. Trovai la porta, o per meglio dire trovai dov'era stata la porta. Entrai, i piedi si scontrarono contro pezzi di mobili, poi contro quello che restava
della televisione e giganteschi mucchi di mattoni. Continuavo a tossire merda, ed ero l'unico a farlo. Non sentivo nessun movimento, nessun lamento angosciato. Inciampai sopra un grosso fagotto sul pavimento, accesi la torcia e mi chinai per guardare. Il corpo giaceva su un fianco, bruciacchiato, con il viso rivolto dalla parte opposta alla mia. Lo voltai verso di me e illuminai il viso coperto di polvere. Non era Tom. Chiunque fosse stato quell'uomo sulla ventina, adesso non lo era più. La pelle era staccata dalla testa come un'arancia sbucciata a metà e il sangue che aveva perso si era mescolato alla polvere e sembrava stucco fresco e rosso. Avanzai ancora per la stanza, inciampando e muovendomi come un cieco alla ricerca di altri corpi. Ne trovai altri due, ma nessuno dei due era Tom. Non potevo certo mettermi a gridare, qualcuno avrebbe potuto rispondermi con qualcosa di diverso dalla voce. Cercai di entrare nella stanza di fronte, la cucina, ma la porta era bloccata. Decisi di controllare prima i posti più facili e quindi salii di sopra. Non mi preoccupai della stanza del computer: anche se lì ci fossero stati dei corpi, non sarebbero stati riconoscibili. In altre circostanze mi sarei preso qualche secondo per contemplare con calma la mia opera; in molti campi ero una povera merda, ma per quanto riguardava le demolizioni potevano darmi una laurea. Andai dritto verso le scale. Tenevo la mano sinistra appoggiata al muro, e provavo ogni gradino prima di caricarci sopra tutto il peso. Ancora una volta mi pulii le narici e sputai la polvere che avevo in gola compensando di nuovo la pressione per attenuare il ronzio nelle orecchie. Non appena raggiunsi l'ultimo gradino sentii per un attimo un debole lamento; non avrei saputo dire da dove provenisse. Andai subito verso sinistra, la parte che avevo più vicino. Trovai a tastoni una porta e la spinsi. Non si mosse più di qualche centimetro. Spinsi più forte, riuscii a infilare dentro un piede e sentii che dall'altra parte c'era un corpo che ne impediva l'apertura. Sgusciai dentro e controllai. Un altro povero cristo sui vent'anni che chiamava la mamma. Inciampai in una sedia, la spostai e sentii qualcun altro lamentarsi accanto ai miei piedi. M'inginocchiai, gli puntai contro la luce della torcia e lo girai. Era Tom. Aveva la faccia e la testa coperte di polvere di mattoni, e dal naso gli colava una poltiglia rossa. Ma era vivo. Subito pensai che ci fosse di che brindare, ma poi non ne fui più così sicuro. Non aveva un bell'aspet-
to. Stava piagnucolando in un mondo tutto suo, e mi fece venire in mente i ragazzini di Narva che sniffavano colla. Lo controllai attentamente per assicurarmi che non gli mancassero dei pezzi. «Tutto a posto, socio», dissi. «Ci sei tutto.» Non aveva idea di cosa gli stessi dicendo né di chi stesse parlando, ma mi fece sentire meglio. Gli pulii dalla faccia un po' di schifezza in modo che potesse aprire gli occhi, magari più avanti, lo afferrai per le ascelle e lo trascinai sul pianerottolo, fermandomi due volte per buttar fuori muco dal naso. Lo afferrai più strettamente e cominciai a scendere le scale all'indietro. I piedi gli rimbalzavano da un gradino all'altro. Era assente, completamente perso in un mondo di dolore e confusione tutto suo, consapevole che qualcuno lo stava muovendo ma non abbastanza da essere d'aiuto. Varcammo la cortina di polvere e ci ritrovammo all'aria aperta. Lo lasciai ricadere sul terreno, mi pulii ancora una volta il naso, feci un breve respiro e inalai aria pulita. «Tom. Svegliati, socio. Tom, Tom...» Presi una manciata di neve e gliela strofinai sulla faccia. Iniziò a riprendersi, tossì e sputò, ma ancora non riusciva a parlare. Le fiamme che uscivano dall'edificio del generatore lambivano la porta del granaio e c'illuminavano abbastanza bene. Tom portava la stessa felpa dell'ultima volta che l'avevo visto, ma era senza scarpe e senza cappotto. «Aspettami qui, socio. Non muoverti, d'accordo?» Come se avesse potuto. Tornai nella sala piena di polvere. Adesso le urla dal piano di sopra erano più forti. Volevo andarmene da lì prima che recuperassero lucidità e arrivasse la polizia o i DTTS. Ritrovai il primo corpo, stava ancora bruciando. Non aveva una giacca, ma io volevo le sue scarpe. Non erano proprio stivali da passeggio, sembravano più scarpe da pallacanestro, ma sarebbero andate bene. Scalciai e armeggiai fra i mobili distrutti fino a trovare un AK e un giaccone. Tom era sdraiato sulla schiena a braccia e gambe allargate, esattamente come lo avevo lasciato. Scrollai la polvere da quello che risultò essere un giaccone imbottito con pelliccia, e glielo infilai. Le scarpe bianche da ginnastica erano di almeno due numeri troppo grandi, ma che cazzo, doveva arrivare solo fino alla macchina. Iniziai a mettergliele e finalmente emise un suono. Sollevò una mano per pulirsi la faccia e mi vide.
«Tom, sono Nick...» Gli feci muovere la testa. L'esplosione doveva averlo assordato e non avrei saputo dire se era in grado di sentirmi. «Sono io... Nick, alzati Tom. Dobbiamo andare.» «Nick? Merda. Cosa cazzo ci fai qui? Cosa cazzo è successo?» Finii di allacciargli le scarpe e gli diedi un colpetto ai piedi. «Alzati ora, dai.» «Cosa? Cosa?» Lo aiutai a sollevarsi e gli infilai il parka. Era come vestire un bambino stanchissimo. «Tom...» Non riusciva ancora a sentirmi. «Tom... Tom...» «Eh...?» Cercava d'infilare un braccio nella manica. «Torno fra un attimo, d'accordo?» Non attesi che rispondesse. Lo lasciai ad arrangiarsi da solo, e andai alla ricerca dei miei guanti. Li trovai a mezzo metro dall'uomo cui avevo sparato per primo, che a questo punto era decisamente morto. Tom era seduto nella neve. Lo sollevai in piedi, gli chiusi la lampo del giaccone e lo aiutai a camminare lentamente fino alla piccola porta che portava all'hangar mezzo distrutto. «Dobbiamo sbrigarci, Tom. Dai, andiamo. C'è una macchina dietro l'angolo.» Arrivato alla strada svoltai a sinistra, controllando che non ci fossero luci di automezzi. Allungai il passo abbracciando Tom come se fossimo una coppia che passeggiava allacciata nella notte. Cercando di non scivolare sul ghiaccio, provai a spingerlo. Mi guardai alle spalle. Il bagliore che veniva dall'edificio del generatore era ancora visibile, ma il cielo non era più pieno di fiamme. Alla poca luce ambientale riuscii a vedere il viso di Tom. Era conciato male; aveva i capelli appiccicati ovunque ed era ancora coperto di polvere e sangue. Sembrava la vittima di un'esplosione in un cartone animato. «Tom?» Lo guardai negli occhi per cercare di capire se era cosciente. «Stiamo andando alla macchina. Non è lontana. Cerca di stare al passo con me, d'accordo?» Non fui certo della risposta. Qualcosa tra «forse» e «cosa?» Quando arrivammo al punto in cui avevo parcheggiato la macchina aveva recuperato un po' di udito, ma ancora non sapeva che giorno fosse. Crollai su mani e ginocchia, inghiottendo aria gelida. 'Fanculo ai denti, il culo mi faceva ancora più male. Ma quello che faceva malissimo era che la
macchina era sparita. Mi girava la testa. Avevo sbagliato posto? No, c'erano le tracce delle ruote. Ma c'erano anche le tracce di altre ruote; e oltre alle impronte dei miei piedi ce n'erano molte altre. Le nuove tracce erano molto più larghe e profonde della macchina di Otto, forse quelle di un trattore. Bastardi; la squadra che andava al pub doveva essersi portata via la macchina e le due pistole di scorta. «Merda, hanno rubato la macchina.» Non sapevo se stavo informando Tom o se stavo cercando di convincermene io stesso. Tom era confuso. «Ma, hai detto...» «Lo so cosa ho detto, ma la macchina è andata.» Feci una pausa. «Non ti preoccupare, non è una tragedia.» Lo era. Molto probabilmente non si erano neanche presi il disturbo di aprirla, si erano limitati ad agganciarla e a trascinarla via con le ruote bloccate, sopra il ghiaccio. Il signor e la signora Sfiga non mi avevano mai abbandonato da quando avevo fatto il primo passo nell'albergo Intercontinental. Per un attimo desiderai non aver sgonfiato i pneumatici ai tre veicoli nell'edificio del generatore, poi, riflettendoci meglio, pensai che a quell'ora erano sicuramente bruciati. La cosa migliore cui potevo aspirare da quelle parti era un trattore, ma se ne avessi prelevato uno avrei fatto sapere a tutti che eravamo in zona. In ogni caso, non avevamo tempo per cercare. Al momento avevamo solo una possibilità, ed era camminare. Mi sollevai da terra. «Tom, cambiamento di piano.» A dire la verità, ci sarebbe stato un piano quando ne avessi elaborato uno. Ma prima dovevamo allontanarci da lì, e in fretta. Le stelle erano ormai lucenti ed era più facile riuscire a vedere, ed essere visti. Ritornando lentamente in sé, se ne stava lì in piedi, le braccia incrociate e le mani sotto le ascelle, tossiva polvere di mattoni e aspettava una mia decisione. «Seguimi.» Iniziai a muovermi, mettendo distanza tra noi e il bersaglio. Tom seguiva lentamente nella mia scia. Avevamo fatto circa quattrocento metri quando mi venne in mente un piano. Mi fermai e cercai la Stella polare, la stella che indica il nord. Tom sembrava più lucido adesso che muovendosi si era riscaldato un po'. Mentre fissavo il cielo mi venne vicino. «Là dentro è stato un maledetto incubo», borbottò, «ma sapevo che Liv ti avrebbe fatto arrivare...»
Lo interruppi, con la speranza di zittirlo. «Giusto, Tom. Liv è la tua fata protettrice.» Preferii non dirgli che cosa aveva in mente di fare a mezzanotte la sua fatina. Non aveva messo il cappuccio e adesso che aveva cominciato a sudare gli si sollevava del vapore dai capelli induriti dalla polvere dei calcinacci. Gli alzai il cappuccio perché il calore generato non si disperdesse. Poi ripresi a guardare la Stella polare. «Nick, cos'è successo a... mi capisci...? Un maledetto incubo o cosa?» «Cioè?» Avevo anch'io una montagna di domande da fargli, ma non era né il momento né il posto. «Lo sai, la recinzione, la casa. Cos'è successo?» In quel momento non aveva importanza. «Tom.» Continuai a guardare verso il cielo, anche se non ne avevo più bisogno. «Cosa?» Feci la faccia cattiva. «Chiudi quella cazzo di bocca.» «Oh.» La risposta che volevo. Prima di metterlo in pratica, ricontrollai il piano nella testa. Saremmo andati verso nord per la campagna fino a incontrare i binari della ferrovia. Se avessimo svoltato a sinistra, ci saremmo ritrovati ad andare verso ovest, direzione Tallinn. A quel punto dovevamo seguire i binari fino a una stazione e da lì avremmo preso un treno, forse il primo in partenza da Narva. Non ero sicuro, ma pensavo che partisse intorno alle otto di mattina, per cui dovevamo trovarci in stazione più o meno un'ora dopo. Avrei cominciato a preoccuparmi di come uscire dal Paese solo una volta raggiunta Tallinn. Secondo il Re Leone, avevamo quattordici ore buone per coprire una ventina di chilometri. Se ci fossimo mossi subito, non era un problema. Tom mi era sempre di fronte e stava ancora cercando di capire perché stessi fissando il cielo. Risposi prima che facesse la domanda. «Dobbiamo tornare a Tallinn in treno.» «E perché? Non andiamo a Helsinki?» Lo guardai ma non riuscii a vederlo in faccia, aveva tirato il cordino del cappuccio e la pelliccia del bordo gli copriva la faccia. Assomigliava a Liam Gallagher dopo una nottata grandiosa. «Sì che ci andiamo», dissi, «ma prima bisogna andare a Tallinn.» Da dietro la pelliccia mi giunse un soffocato: «E perché?»
«È il modo più semplice. Dobbiamo raggiungere la ferrovia, prendere un treno per Tallinn, e da lì un traghetto per Helsinki.» Non sapevo nemmeno se aveva un'idea di dove fosse. Mi avvicinai, in modo che potesse vedermi sorridere. Non volevo che si preoccupasse troppo. Era evidente che stava pensando ad altro. La sua voce mi giunse dal buio. «Sono morti tutti? Voglio dire, quelli là dentro.» «Credo di sì. Per lo meno quasi tutti.» «Cazzo, li hai uccisi tu? Non finiremo nei guai? Voglio dire, la legge...» Non avevo voglia di dargli troppe spiegazioni, e mi limitai a stringermi nelle spalle. «Era l'unico modo per tirarti fuori da quella merda.» Le sue spalle iniziarono a sobbalzare e improvvisamente mi resi conto che stava ridendo. «E come facevi a sapere quando far scoppiare la bomba? Cioè, se non ero al piano di sopra avresti ucciso anche me.» Era una risata isterica. Tornai a guardare in alto, di nuovo alla ricerca della Stella polare, in modo che non potesse vedermi in faccia. «Non hai idea dei guai che ho passato, socio. Comunque ne parliamo dopo. Adesso dobbiamo andare.» «Quanto lontano, secondo te?» Guardava il cielo anche il cappuccio del suo parka, ma lui non aveva idea di cosa cercare. Iniziò a tremare. «Non troppo, Tom. Diciamo un paio d'ore. Se giochiamo bene le nostre carte, nel giro di poco ci troveremo in un comodo e caldo scompartimento di treno.» Perché dirgli la verità adesso? Fino a quel momento non lo avevo fatto. «Pronto?» Continuava a tossire polvere come un tubercoloso. «Sì, credo di sì.» Iniziai a camminare e lui mi seguì. Dopo un paio di centinaia di metri arrivammo al limitare di un bosco, a circa quindici metri dalla strada sulla nostra sinistra. Proseguii in quella direzione, lasciandomi alle spalle un numero assurdo di impronte nella neve che arrivava alle ginocchia se non ai fianchi. Decisi di non preoccuparmene. Non ha senso preoccuparsi di ciò che non si può cambiare. Attesi che Tom mi raggiungesse. Non era un'andatura da record. Bisogna muoversi alla velocità del più lento, se si vuole rimanere uniti. Mi chiesi se non fosse il caso di costruire delle racchette da neve, legando in qualche modo dei rami alle scarpe, ma decisi in fretta di no; sono cose
molto belle in teoria, ma farle al buio è un lavoro di merda, e comunque si perde parecchio tempo. Guardai in alto. Banchi di nubi iniziavano a coprire le stelle. Tom mi raggiunse e decisi di concedergli un minuto di riposo prima di riprendere. Volevo arrivare ai campi aperti prima d'iniziare ad attraversare la campagna seguendo la Stella polare. In quel modo, saremmo stati alla larga dalle case bersaglio, anche se, andando verso nord, saremmo tornati nella loro direzione. Quando finì il boschetto, la visibilità alla luce delle stelle era di circa cinquanta o sessanta metri. Il candore del paesaggio diminuiva fino a perdersi nel nero più fondo. A mezza distanza, sulla sinistra, si vedeva il tenue bagliore della zona-bersaglio. Guardai ancora una volta il cielo e sentii la morsa del freddo sulla faccia. Tom mi arrancò accanto, la neve gli arrivava alle ginocchia. Mi stava così vicino che il suo fiato si mescolò al mio, perdendosi nel vento. Il cappuccio era di nuovo abbassato, nel tentativo di mitigare il caldo. Glielo rimisi a posto con un buffetto sulla testa. «Non farlo più, perderai tutto il calore che riesci ad accumulare.» Tirò di nuovo la pelliccia vicino al viso. Cercai di trovare un punto di riferimento sul terreno, verso nord, ma era troppo buio. L'altra cosa che potevo fare era scegliere una stella all'orizzonte, sotto la Stella polare, e puntare quella: più comodo che continuare a guardare per aria. Ne trovai una, non molto brillante, ma abbastanza buona. «Pronto?» Il cappuccio si mosse e la stoffa frusciò. Doveva aver fatto cenno di sì. Proseguimmo verso nord. L'unica cosa positiva che riuscivo a pensare era che il dolore al culo era scomparso. Oppure faceva più freddo di quanto non mi rendessi conto. 43 Il terreno sotto la neve era arato, e noi continuavamo a scivolare nei solchi inclinati e gelati. Il modo migliore di procedere sembrava trascinare i piedi nella neve senza sollevarli. Mi trasformai in rompighiaccio e Tom seguiva nella mia scia. Qualsiasi cosa pur di farlo andare più veloce. Le nuvole attraversavano il cielo con maggiore frequenza, coprendo di tanto in tanto la mia guida all'orizzonte. Anche la Stella polare entrava e
usciva dalle nubi. Tom era indietro di circa dieci metri, le mani nelle tasche, la testa bassa. Non c'era altro da fare che continuare a spingersi verso nord. Le nuvole si muovevano più veloci e il loro volume aumentava. Dopo circa un'ora si alzò di nuovo il vento, che mi colpì il viso e strattonò il giaccone. Era arrivato il momento di abbassare i paraorecchie di pelliccia. Ogni volta che perdevamo l'orientamento, mi sembrava di continuare ad avanzare in linea retta, salvo scoprire, quando le nuvole si diradavano, di aver deviato sensibilmente. Mi sentivo come un pilota che vola senza strumentazione. La nostra traccia nella neve doveva essere un lunghissimo zigzag. La mia preoccupazione maggiore era che le nuvole e il vento portassero neve. Nel qual caso, avremmo perso l'unico strumento di rotta e arrivare in tempo per il treno sarebbe stato un vero casino. Avevo la pessima sensazione che stavamo per sprofondare in un lago di merda bella spessa. Quando trovai un avvallamento naturale mi fermai e con la schiena scavai un solco nella neve in cui proteggerci dal vento. Prima che la Stella polare scomparisse di nuovo tracciai un segno sul bordo in corrispondenza del nord. Tom mi raggiunse mentre stavo scavando. Mi aspettavo che seguisse il mio esempio, ma quando mi voltai vidi che stava facendo pipì. Il vapore e il liquido scomparivano all'istante nel vento. Avrebbe dovuto trattenere i liquidi caldi a ogni costo, ma me n'ero accorto troppo tardi. Tornai alla costruzione del nostro improvvisato rifugio. Il freddo libera gli ormoni della tensione e la vescica si riempie molto più velocemente. Per questo ci sembra di urinare di più quando fa freddo. Il problema è che si perde calore corporeo e viene una gran sete. A meno che non s'ingurgiti del liquido caldo, a quel punto prende il via un circolo vizioso: la disidratazione fa scendere la temperatura corporea interna e se questa scende sotto i 28,8 gradi centigradi si muore. Tom aveva finito. S'infilò di nuovo le mani nelle tasche, si voltò e si lasciò crollare a sedere nel solco. Il vento colpiva il bordo, producendo lo stesso rumore che fanno gli spettatori del loggione quando soffiano nel collo di una bottiglia. La neve picchiava contro schiena e spalle. Mentre gli scivolavo accanto, la pelliccia di Tom si voltò verso di me. Sapevo cosa stava per chiedermi.
«Non manca molto, socio», lo anticipai. «È un po' più lontano di quanto credevo, ma adesso ci riposiamo un po'. Quando cominci a sentire freddo avvertimi, e ripartiamo subito, okay?» Il cappuccio si mosse, e lo interpretai come un sì. Avvicinò le ginocchia al torace e ci abbassò sopra la testa. Mi tolsi i guanti con i denti e li tenni in bocca armeggiando per annodare i paraorecchie sotto il mento, poi abbassai appena la lampo del suo parka perché potesse ossigenarsi un po' senza perdere calore corporeo. Alla fine mi alzai in piedi nel vento, mi slacciai i jeans bagnati e pesanti e li abbassai verso gli stivali. Non fu un'operazione semplice, visto il freddo e i vestiti umidi e aderenti, ma ne valeva la pena. Avrei perso un bel po' di calore, ma una bella cagata mi faceva sempre sentire meglio. Stavo per tornare al riparo quando vidi una mano di Tom spuntare dalla manica e portare una manciata di neve alla bocca. Interruppi l'operazione. «Non è nel menù, socio.» Non avevo intenzione di sprecare energie a spiegargli il perché. La neve, sciogliendosi in bocca, consuma completamente il calore corporeo vitale e in più raffredda il corpo dall'interno, gelando organi vitali. E tuttavia l'acqua sarebbe presto divenuta un problema. Mi rimisi i guanti, raccolsi una manata di neve e gliela passai solo dopo averla fatta diventare una palla ben compressa. «Succhiala. Ma non mangiarla, okay?» Guardai il cielo. Ormai era quasi interamente coperto di nuvole. Tom perse presto interesse per la palla di neve e si richiuse nuovamente in posizione fetale, le ginocchia strette al torace. Il suo corpo cominciò a tremare, e mi trovai d'accordo con lui: c'erano stati giorni migliori. Avevamo superato la zona di pericolo immediato e stavamo riposandoci un po': era il momento giusto per fargli qualche domanda. Vista la condizione di merda in cui ci trovavamo mi augurai che servissero a distrarlo un po'. E poi mi serviva qualche risposta. «Perché non mi hai detto che conoscevi Valentin? So che a Menwith hai tentato di accedere a Echelon per lui.» Non potevo vedere la reazione, ma all'interno del cappuccio ci fu un movimento. «Mi dispiace, socio», borbottò. «Lei mi teneva per le palle. Mi dispiace, avrei voluto farlo, davvero, solo che... lo capisci anche tu...» Il cappuccio si afflosciò come se i muscoli del collo avessero perso il controllo. «Vuoi dire minacce? Minacce a te o alla tua famiglia?» Le sue spalle ebbero un sussulto. Stava lottando per trattenere i singhiozzi.
«Mamma... papà... una sorella con dei bambini, hai presente? Volevo dirtelo, Nick, giuro che volevo, ma... be', lo capisci da solo. Ascoltami, non è stato Valentin a mettere in piedi tutto questo casino. È stata lei. Lavora da sola. Lui non sa nulla. Lei ha usato il suo nome, e ci ha fatto credere di lavorare per lui.» Non c'era bisogno che aggiungesse altro. Adesso molte cose avevano più senso di quanto non ne avessero avuto negli ultimi tempi. Per questo aveva potuto accettare subito la mia richiesta di tre milioni di sterline. Per questo aveva insistito tanto che non avessi contatto con nessuno se non con lei. E si spiegava anche perché non aveva voluto che portassi un'arma: probabilmente aveva pensato che se avessi scoperto quello che stava succedendo l'avrei usata contro di lei. «Come hai fatto a finirci dentro di nuovo?» Attesi che riprendesse il controllo. «Liv. Be', no, all'inizio non lei, ma quel tizio, quell'Ignaty. Venne da me a Londra. Il giorno prima di te.» Dove avevo già sentito quel nome? Certo. Era quello che aveva firmato; il nome sul documento di Narva era il suo. Dunque Liv non era l'unica a lavorare in proprio fra la gente di Val. Tom cominciò a borbottare che era importante non fargli domande per cui dovesse accorgersi di parlare troppo. Così mi limitai a chiedergli: «Poi cos'è successo, socio?» «Disse che Liv aveva un lavoro per me e che sarei andato in Finlandia. Che sarebbe venuto qualcuno a convincermi e tutto il resto. Quando scoprii che si trattava di nuovo di Echelon, me la feci addosso, ma non avevo scelta, socio. Mia sorella... Nick, devi aiutarmi. Ti prego, ucciderà tutti se non finiamo questa storia del cazzo. Ti prego, aiutami. Ti prego.» Cominciò a piangere dentro il cappuccio. «Tom...» Non mi sentì. I singhiozzi erano troppo forti e coprivano la mia voce. «Tom. Lei ti vuole morto. Se glielo dico io crederà che sei morto.» Il cappuccio si sollevò. «E dovresti uccidermi? Oh, cazzo, Nick. Non farlo... ti prego, non farlo.» «Non ti ucciderò.» Non mi ascoltava. «Mi dispiace, Nick. Mi ha costretto lei a chiederti quelle cose. Hai presente, quando eravamo alla stazione. Voleva sapere se avevi intenzione di fregarla o cosa. Ho dovuto farlo. Lei sa l'indirizzo di tutti, e tutto il resto. Quell'uomo mi ha fatto vedere la foto dei figli di mia
sorella. Davvero, Nick, avrei voluto dirti come stavano le cose ma...» Il cappuccio si abbassò di nuovo. Era di nuovo in preda agli spasmi. Mi sentivo come un prete nel confessionale. «Ascolta, Tom. Non ho intenzione di ucciderti, davvero. Sono stato io a tirarti fuori, ricordi?» All'interno del cappuccio ci fu un piccolo cenno di assenso. «Mi assicurerò che tu e la tua famiglia siate sotto protezione, Tom, ma prima dobbiamo tornare in Inghilterra. Dovrai parlare con della gente e dire esattamente quello che è successo, a Menwith Hill e qui, d'accordo?» Percepivo la possibilità che tutto potesse funzionare a prescindere da come andava a finire lì. Non sapevo esattamente come, ma doveva esserci un modo perché Tom cominciasse una nuova vita e io potessi entrare in possesso dei miei soldi. E se i soldi non fossero arrivati, avrei sempre potuto lavorare per la Ditta. Potevo mettere insieme tante palle da far credere di aver sempre saputo quello che stava succedendo, ma che non avevo potuto dirlo a nessuno: troppi rischi per la sicurezza, qualcuno poteva diffondere le informazioni che avevo raccolto in Russia. Non c'era bisogno che Liv sapesse che Tom era vivo. Io potevo ancora ritirare i miei soldi e poi andarmene da Lynn. Era un inizio, sapevo perfettamente quanto fosse fragile, visti i programmi che avevano fatto, ma era pur sempre un inizio. A meno che non fosse lei a fottere me. Adesso la cosa più importante era uscire dall'Estonia. Dopo di che mi sarei messo a sedere con Tom, mi sarei fatto raccontare tutta la storia e avrei preso le mie decisioni. «Ma perché non si è limitata a dirmi che saresti venuto con me, invece di chiedermi di cercare di convincerti? Tu saresti venuto comunque, no?» Quello che aveva farfugliato prima non era stato chiarissimo. «Chi cazzo lo sa. Devi chiederlo a lei. Per questo mi sono cagato sotto, quando ti ho visto. Credevo che i tuoi avessero già saputo. Lei è strana, socio. Ti ha fatto credere che fosse tutta un'idea di Valentin?» «Naturalmente.» «Non era così, è solo roba sua. Sono piani suoi, socio, te lo dico io. Se Valentin sapesse la taglierebbe in due, mi capisci?» Be', proprio a metà, no, ma scommetto che l'avrebbe lasciata a guardarsi le budella che si contorcevano come anguille prima di farla finita con lei. Nonostante tutto, una parte di me la ammirava per quello che aveva cercato di fare. L'uomo di San Pietroburgo era la sua fonte all'interno della squadra di Val, quello che le passava le informazioni necessarie all'organizzazione? Perché lo faceva? Che cosa sperava di ottenere? Se Tom aveva
ragione, lei aveva detto tutto? Domande su domande mi ballarono nella testa, ma i fiocchi di neve che mi colpivano il viso mi fecero ricordare che c'erano cose più importanti da fare. Non avevamo un rifugio, nessuna possibilità di scaldarci e a quel punto nessuna rotta. Adesso che ero stato fermo per un po', il freddo mi aggredì e il sudore mi si gelò sulla schiena. Tom, seduto accanto a me nella neve, era scosso da un tremito incontrollato. Entrambi avevamo ricevuto in eredità uno strato di neve. Dovevamo muoverci, ma in quale direzione? La traccia nella neve mi sarebbe servita per poche centinaia di metri; poi, senza la Stella polare, avremmo perso l'orientamento e girato in tondo per tutta la notte. Guardai Tom e lo sentii tremare in modo selvaggio. Forse il suo cervello gli stava dicendo di muoversi, ma tutto il suo corpo lo implorava di lasciarlo dov'era, a riposare. Spostai vari strati di vestiti e raggiunsi il Re Leone. Meno di dodici ore per arrivare in tempo al treno. Anche se avessi saputo in che direzione andare, cercare di coprire una distanza simile in quelle condizioni era una follia. La visibilità era peggiorata; ormai era ridotta a circa cinque metri. In qualsiasi altra circostanza avrei preparato un riparo per la notte, ma il tempo era un lusso che non potevamo permetterci. Al di là del treno, non avevo idea del tipo di inseguimento che avrebbero messo in atto i Maliskia, e non avevo voglia di scoprirlo. Cercai di pensare positivo, e alla fine scovai una cosa buona: per lo meno la neve avrebbe coperto le nostre impronte. Tom borbottò dentro il cappuccio. «Ho molto freddo, Nick.» «Ci muoviamo fra un minuto, socio.» Continuavo a cercare dentro il cervello un sistema per ottenere una qualche forma d'aiuto per la rotta. Da quando avevo fatto ricorso a tecniche di sopravvivenza, era passata un'eternità. Sfogliai le pagine del casino che avevo in testa, cercai con tutte le forze di riportare alla memoria quello che avevo imparato tanti anni prima. Non ero mai stato un appassionato dei cento e uno modi per sopravvivere con un laccio da scarpe. Mi ero limitato a fare le solite cose, il buco nella neve o il coniglio in trappola, quando proprio non potevo farne a meno. Gli passai un braccio intorno alle spalle. Non era troppo sicuro di quello che stava per succedere e sentii il suo corpo che s'irrigidiva. «È solo una questione di neve», gli dissi. «Dobbiamo scaldarci.» Si appoggiò contro di me, tremando come una foglia. «Nick, mi dispiace tanto, socio. Se ti avessi detto la verità non ci trove-
remmo in questa merda, hai presente?» Annuii, sentendomi un po' a disagio. Non era solo colpa sua. A essere sinceri, per una mezza possibilità scarsa di mettermi in tasca un milione e settecentomila dollari avrei fatto salire su quella recinzione anche sua nonna. «Ti dico quello che possiamo fare per sopportare questo freddo», dissi, cercando di apparire perfettamente rilassato. Da sotto il cappuccio mi arrivò un soffocato: «Che cosa?» «Sognare, socio. Convinciti che tutto questo presto sarà finito. Domani a quest'ora sarai in un bagno caldo con un'enorme tazza di caffè e una ciambella dolce piena di burro e tutta appiccicosa. Domani a quest'ora starai ridendo di tutto questo casino.» Batté i talloni contro la neve. «Solo se queste maledette scarpe resisteranno.» «Non ti lamentare», dissi. «Sempre meglio degli stupidi stracci che usi di solito.» Iniziò a ridere, ma poi cominciò a tossire. Alzai gli occhi e non vidi altro che una cortina bianca che ci cadeva addosso dall'oscurità. Se in quel momento avessi potuto contattare il genio della lampada, l'unica cosa che avrei chiesto era una bussola. Cristo, una bussola. Una bussola si può fare con qualsiasi minerale ferroso. Era così semplice, eppure ci avevo messo secoli per arrivarci. Tom aveva la faccia circondata di roba simile nell'orlo del cappuccio del parka. Avrei potuto usarlo? E se sì, come? Era come cercare di ricordare gli ingredienti di una torta particolarmente complicata che avevo visto preparare vent'anni prima. Cercai con forza di visualizzare il procedimento, chiudendo gli occhi e provando a ripensare a tutte quelle volte che mi ero annoiato a costruire rifugi, trappole, tagliole con pezzi di spago e cavo elettrico. Tom aveva altre idee. «Andiamo, Nick, ho freddo. Dai, su, hai detto...» Mi stava attaccato come una scimmietta alla schiena della madre. Era giusto così, avevo bisogno che mi riscaldasse almeno quanto lui aveva bisogno che io lo rincuorassi. «Fra un minuto, socio, fra un minuto.» Doveva esserci qualcosa nel mio archivio mentale. Non si dimentica mai niente; tutto può tornare in superficie, basta solo premere il bottone giusto. Lo schiacciai. L'aggancio fu ricordare una volta che mi era stata data una mappa di fuga in seta con un ago infilato dentro.
«Tom, hai sempre addosso gli indumenti termici di seta?» Fece cenno di no. Mi crollò il cuore. «No, solo il sopra. Vorrei molto avere il pezzo di sotto, sto congelando. Andiamo adesso? Mi hai detto di dirtelo, Nick, e te lo sto dicendo.» «Aspetta ancora un attimo, mi è appena venuta una grande idea.» Gli tolsi il braccio dalle spalle. Come mi spostai fui costretto a ricordarmi dell'orribile disagio dei vestiti bagnati. I jeans mi si appiccicavano alle gambe e la maglietta era fredda e viscida. Mi tolsi un guanto e lo tenni in bocca tirando fuori il Leatherman. Estrassi le pinze e rimisi il guanto prima che la pelle della mano rimanesse esposta troppo a lungo. «Per favore, guardami per un secondo, socio.» Il cappuccio si sollevò e la neve che si era raccolta sopra gli ricadde sulle spalle. Tastai l'anello gelato di pelliccia con la mano coperta dal guanto, localizzai il filo metallico, lo serrai nei becchi delle pinze e strinsi fino a che non cedette. Poi scostai la stoffa vicino al taglio, scoprii il metallo, afferrai con le pinze un capo del filo di ferro, lo tirai fuori e lo tenni stretto in mano. Lo tagliai in due pezzi e ne misi per sicurezza dentro il guanto un pezzo da cinque centimetri. Pensavo che Tom avrebbe dimostrato un qualche interesse, invece era concentrato al cento per cento sul fatto che aveva freddo ed era depresso. Mi chinai ancora un po' e scrutai nell'oscurità del cappuccio. «Ho bisogno di un po' di quella seta, Tom.» Si strinse nelle spalle. «Non dovrò mica togliermela, vero?» «No, apri solo un po' la lampo in modo che possa infilarci una mano. Ci metterò un attimo.» Lentamente tolse le mani dalle tasche e armeggiò con la lampo. Per aiutarlo mi tolsi con i denti tutti e due i guanti; poi, dopo aver combattuto a dita congelate per aprire la lama del Leatherman, tastai sotto la sua felpa. Mentre armeggiavo con i suoi vestiti se ne stava seduto come il manichino di un sarto. Non avevo abbastanza sensibilità nelle dita per farlo in modo gentile, e quando le mie dita congelate si strinsero intorno alla seta entrando in contatto con la sua pelle lui fece un balzo all'indietro. Il naso prese a colarmi. Afferrai la canottiera così forte che quasi lo sollevai da terra. Volevo avere la certezza che la stoffa si lacerasse, in modo che ci fossero dei fili pendenti. Al momento del taglio finale il coltello mi sfuggì. Quando la punta della
lama gli colpì il torace, Tom guaì. Rimase seduto, premendosi un dito scoperto sul piccolo taglio. La neve gli si fermava sulla mano. Dissi: «Maledizione, Tom, non prendere freddo». Richiuse i vestiti, infilò le mani nelle tasche, e lasciò cadere la testa. «Mi dispiace.» «Ti spiego cosa facciamo», dissi finendo di alzargli la lampo. «Per un paio di minuti avrò da fare. Perché non fai un po' di ginnastica, così ti scaldi?» «Sto bene. Quanto pensi che manchi al treno, Nick?» Evitai la domanda. «Dai, su, muoviti, ti scalderai.» Iniziò a muoversi come se si stesse stiracchiando sotto un piumino. L'unica cosa che lo copriva, però, era la neve. «No, Tom, devi alzarti e muovere tutto il corpo. Forza, non manca molto, ma se resti bloccato non ce la faremo mai.» Lo scrollai. «Tom, alzati.» Si sollevò con riluttanza mentre gli toglievo la neve dalle spalle. Il bordo di pelliccia era un anello di neve che gli incorniciava il viso. «Avanti, insieme.» Mani nelle tasche, iniziammo a fare aerobica. Tom aveva il vento nella schiena. Giù, accucciati, poi di nuovo in piedi, i gomiti in fuori. Sbattevamo le ali come polli impazziti. Per proteggermi dal vento tenevo la testa bassa e lo costringevo a seguire il mio tempo. «Bravo, Tom, bene, ora continua così, non ci metterò molto.» M'inginocchiai di nuovo, al riparo. Mi tolsi i guanti e li posai sulla neve. Mi accucciai di più per proteggermi dalla tormenta; avevo le mani così intorpidite che dovetti tirare i fili di seta con i denti. Quando riuscii a strapparne uno di una lunghezza decente - circa dieci centimetri -, me lo infilai fra le labbra e tirai fuori il pezzetto di filo di ferro lungo quanto un ago. Tremando, legai un capo del filo di seta intorno alla metà del pezzetto di metallo. Al quarto tentativo riuscii a fare un nodo. Il Grande Espiratore vicino a me si lamentava e sbuffava, ma mi sembrava un pochino più contento. «Funziona, Nick. Mi è venuto caldo, socio!» Sorrise soffiando il muco dal naso. Borbottai qualche incoraggiamento a denti stretti reggendo filo e cavetto. Intanto scrollai la neve dai guanti e li infilai velocemente. Le mani erano così bagnate che s'incollarono alla parte interna. Tentai di far circolare il sangue sbattendole insieme, poi tolsi di nuovo i guanti. Con il filo di seta fra i denti, mi sembrò di metterci un secolo per
stringere il metallo che dondolava in una mano e il quadrato di seta nell'altra. Alla fine riuscii a strofinare il pezzetto di metallo sulla seta, ripetendo l'operazione più volte, sempre nella stessa direzione. Dopo circa venti passaggi mi fermai per accertarmi che nel filo non ci fossero nodi che pregiudicassero l'equilibrio del metallo quando l'avessi lasciato andare. Tirai la torcia fuori dalla tasca, la accesi e me la infilai in bocca. Rimasi accucciato perché il vento non facesse muovere il filo e l'ago, quindi lo lasciai andare e lo guardai muoversi. Il piccolo pezzetto di ferro alla fine si stabilizzò, muovendosi appena da una parte all'altra. Conoscevo in quale direzione era la Stella polare, per il segno che avevo fatto nella neve che stava ormai scomparendo sotto la bufera, per cui si trattava d'individuare quale lato del ferretto, magnetizzato dalla seta, indicasse il nord. Distinguevo le due estremità per il modo in cui il coltello le aveva tagliate. Gli sbuffi e le inspirazioni alle mie spalle continuavano mentre io tremavo e pensavo a come proseguire. Avanzare con quel tempo sarebbe stato un incubo, ma dovevamo assolutamente raggiungere le rotaie entro la mattina. La teoria diceva che attraversare la campagna in quelle condizioni atmosferiche non andava fatto per nessuna ragione, ma vaffanculo le regole, faceva troppo freddo per rispettarle. Non m'importava di lasciare tracce, avevo bisogno di strade per andare più veloce. E poi, se Tom o io, non importa chi, avessimo cominciato a congelare, vicino a una strada avremmo avuto più possibilità di trovare una qualche forma di riparo. Il mio nuovo piano era andare verso ovest fino a incontrarne una, poi tenere la destra e puntare verso nord alla ricerca delle rotaie. Una delle poche cose che sapevo di quel Paese era che la strada principale e la ferrovia andavano da est verso ovest, fra Tallinn e San Pietroburgo. Molto probabilmente tutte le altre strade portavano a quelle, come i ruscelli a un fiume. Con quel tempo nessuno avrebbe visto la torcia, così la accesi e controllai di nuovo il mio «filo e ferro» per vedere se funzionava. L'ago della bussola si orientò e mi resi conto che anche il vento offriva la sua collaborazione. La direzione prevalente era da ovest, così se me lo fossi sentito sulla faccia sarei stato nella direzione giusta. Ero pronto a muovere, mi ero rimesso i guanti, la seta in tasca, il filo della bussola arrotolato a un dito. Mi voltai verso Tom, che continuava a piegarsi vigorosamente, agitando le braccia. «Okay, socio, ci siamo.» «Non manca molto, vero, Nick?» «No, non molto. Al massimo un paio d'ore.»
44 La tempesta di vento era diventata una bufera di neve. Sembrava di essere al polo. Ogni dieci passi dovevo fermarmi a strofinare l'ago di metallo nella seta per magnetizzarlo prima di avere una nuova rotta. Con quella visibilità non avevo alcuna possibilità di avanzare in linea retta. Procedevamo a zigzag, vagamente verso ovest, sempre nella speranza d'incrociare una strada. Stavamo camminando da circa quaranta minuti. Il vento era sempre frontale e il freddo pungente mi faceva lacrimare gli occhi. Non avevo niente per proteggermi la faccia; l'unica cosa che potevo fare era seppellire la testa dentro il giaccone per avere qualche momento di tregua. Fiocchi gelidi s'insinuavano in ogni fessura dei vestiti. Andavo sempre avanti io, facendo da apripista, poi mi fermavo, anche se ormai non mi voltavo più, per aspettare che Tom mi raggiungesse. Quando lo sentivo alle mie spalle procedevo per qualche altro passo. Questa volta mi fermai, mi misi contro vento, e riuscii a malapena a distinguerlo avanzare verso di me nella tormenta. Ero stato così preso dalla direzione che non mi ero accorto di quanto avesse rallentato. Mentre aspettavo, mi accucciai per proteggere la seta e magnetizzare il metallo. Dopo un po' mi arrivò accanto. Con la bussola che mi pendeva dalla bocca, tentavo d'impedire che il vento la orientasse. Tom teneva le mani nelle tasche e la testa bassa. Lo afferrai per il parka e lo tirai verso di me, in modo che mi aiutasse a proteggere la bussola. Misi via la bussola, ma questa volta non mi alzai in piedi. Rimasi dov'ero a tremare insieme con Tom, entrambi piegati in avanti. La neve si era stratificata e l'esterno del suo cappuccio era congelato. Molto probabilmente il mio cappello aveva lo stesso aspetto, e anche la parte davanti dei giacconi. «Tutto bene, socio?» Era una domanda stupida, ma non riuscii a pensare ad altro. Lui tossì e tremò. «Sì, ma ho le gambe completamente gelate, Nick. Non mi sento più i piedi. Non ci succederà niente, vero? Tu conosci questa zona, la conosci?» Annuii. «È una cazzata, Tom, ma tieni duro, socio. Non ci ucciderà.» Stavo mentendo. «Ricordi quello che ti ho detto? Sogna, devi fare solo questo. Sogna, che domani a quest'ora... il resto lo sai, vero?» La pelliccia
di ghiaccio si mosse in quello che decisi fosse un sì e aggiunsi: «Presto saremo su una strada, e allora sarà tutto più facile». «E una volta sulla strada prenderemo una macchina?» Non risposi. Una bella auto calda sarebbe stato il paradiso, ma chi era così pazzo da andarsene in giro in una notte come quella? Avanzai nella neve e lui con riluttanza mi seguì. Circa venti minuti dopo successe qualcosa. Non riuscivo a vedere l'asfalto, ma intravedevo segni di ruote sotto la neve appena caduta, e d'un tratto la neve era meno profonda. Si trattava soltanto di una strada a una carreggiata, ma poteva bastare a salvarci la vita. Iniziai a saltellare sul posto per accertarmi di avere ragione. Tom ci mise parecchio a raggiungermi, e quando finalmente arrivò, mi accorsi che le sue condizioni erano molto peggiorate. «Devi darti una sistemata, ora, Tom. Inizia una nuova fase, saltella, rimetti il corpo in movimento.» Cercavo di metterla come se fosse un gioco e lui si unì, poco convinto. Era un po' che non piagnucolava. Adesso era sarcastico. «Non manca molto, suppongo?» «No, molto poco.» Guadagnammo terreno, abbracciandoci agli incroci per coprire la bussola. Bastava che una strada andasse verso nord-est, nord-ovest o anche ovest, e la seguivamo. Qualsiasi cosa pur di spostarci grosso modo in direzione di Tallinn e della ferrovia. Dopo circa tre ore Tom aveva rallentato moltissimo. Dovevo fermarmi sempre più spesso per aspettare che mi raggiungesse. Lottare contro la neve e il freddo glaciale lo aveva stremato e non riusciva a smettere di tremare. Si lamentava. «Non ce la faccio più, Nick. Mi gira tutto, socio. Ti prego, fermiamoci.» Il vento sferzava la neve contro i nostri volti. «Tom, dobbiamo continuare. Lo capisci? Se non lo facciamo ce l'abbiamo nel culo.» L'unica sua reazione fu un lamento. Gli aprii il cappuccio in modo che potesse vedermi. «Tom, guardami!» Gli sollevai il mento. «Dobbiamo continuare. Devi aiutarmi a proseguire. D'accordo?» Gli alzai il mento ancora di più, cer-
cando di fare in modo che i nostri occhi s'incontrassero. Ma era troppo buio, e ogni volta che il vento mi colpiva gli occhi cominciavano a lacrimare. Cercare di farlo ragionare non serviva a niente. Stavamo sprecando tempo e stando fermi perdevamo quel poco calore che riuscivamo a produrre. Al momento non potevo fare nulla per lui. La cosa migliore che potesse succederci era incontrare la ferrovia e poi fare lo sforzo finale sino alla stazione. Non avevo ben chiaro quanti chilometri dovevamo ancora fare, ma la cosa più importante era arrivare. Quando fosse giunto allo stremo lo avrei capito. A quel punto sarebbe venuto il momento di fermarci e prendere le contromisure. Lo afferrai per un braccio e lo tirai. «Devi darci dentro, Tom.» Avanzammo. Io tenevo la testa bassa, Tom non faceva più caso a niente. Non era un buon segno. Quando il corpo inizia ad andare in ipotermia, il termostato centrale risponde ordinando che il calore venga incanalato dagli arti periferici verso la parte centrale. È a questo punto che le mani e i piedi cominciano a irrigidirsi. Quando la temperatura interna precipita, il corpo inizia a prendere calore anche dalla testa, la circolazione rallenta e al cervello non arrivano l'ossigeno e gli zuccheri necessari. Il vero pericolo deriva dal fatto che non ci si rende conto che questo accade; uno dei primi effetti dell'ipotermia è che toglie la voglia di reagire. Si smette di tremare e di preoccuparsi. In realtà, si sta per morire e non ce ne frega niente. Il battito diventa irregolare, la sonnolenza diventa semincoscienza, poi si perdono i sensi. L'unica speranza è riuscire ad aumentare il calore dall'esterno, un fuoco, bere qualcosa di caldo o un altro corpo. Passò un'altra ora. Molto presto fui costretto a spingere Tom da dietro. Fece qualche passo in avanti, si fermò e iniziò a lamentarsi. Lo afferrai per un braccio e lo trascinai. Per lo meno lo sforzo mi riscaldò un po'. Anch'io subivo le conseguenze del freddo. Continuammo, con una lentezza dolorosa. Quando mi fermai per controllare la direzione, Tom non era più in grado di aiutarmi. Rimase lì fermo, barcollando, mentre io mi mettevo contro vento, cercando di dare riparo alla bussola. «Tutto bene, socio?» urlai all'indietro. «Non manca molto adesso.» Non ci fu risposta; quando ebbi finito e mi voltai verso di lui, Tom crollò nella neve. Lo alzai in piedi e lo trascinai avanti. Non aveva più energie, ma dovevamo resistere. Non poteva mancare molto. O no?
Mentre lo tiravo borbottava fra sé. Di colpo smise di opporre resistenza e scattò in avanti con uno scoppio di energia delirante. «Tom, piano.» Rallentò, ma solo per barcollare ancora qualche metro e poi crollare a terra. Non riuscivo a correre verso di lui; le mie gambe non rispondevano con tanta velocità. Quando lo raggiunsi vidi che non aveva più la scarpa destra. Aveva i piedi così intorpiditi che non se n'era accorto. Merda, era successo tre minuti prima. Mentre lo trascinavo e mi proteggevo la faccia dal vento, le sue scarpe erano l'unica cosa che vedevo. Mi voltai e cominciai a seguire le sue tracce che stavano rapidamente scomparendo. Trovai la scarpa e ritornai a fatica sino a lui, ma riuscire a rimettergliela al piede era quasi impossibile, le mie dita intorpidite cercavano di legare dei lacci diventati pezzetti di ghiaccio. Unii il mignolo al pollice per fare il vecchio segnale indiano che vuol dire «sto bene». Se non riesci a farlo, sei nella merda. «Devi alzarti, Tom. Dai, su, non è lontano.» Non aveva idea di quello che stavo dicendo. Lo aiutai ad alzarsi e lo trascinai avanti. Ogni tanto si metteva a urlare e recuperava un altro scoppio di energia, Dio solo sa da dove. Non durava molto, rallentava e cadeva nella neve, spossato e disperato. La sua voce era diventata un lamento e m'implorava di lasciarlo dov'era, piagnucolava di lasciarlo dormire. Era agli ultimi stadi dell'assideramento. Dovevo fare qualcosa. Ma cosa, e dove? Mi misi a spingerlo. «Tom, ricorda, socio, SOGNA!» Dubitavo che capisse una parola di quello che stavo dicendo. Mi dispiaceva per lui, ma adesso non potevamo arrestarci. Se ci fossimo fermati anche solo per pochi minuti, non saremmo più ripartiti. Quindici minuti più tardi c'imbattemmo nella linea ferroviaria e me ne accorsi per puro caso. Eravamo arrivati a un passaggio a livello e incespicai su uno dei binari. Tom non era il solo ad aver subito l'abbassamento della temperatura corporea e a sprofondare nel vortice dell'assideramento. Cercai di scovare da qualche parte l'energia per festeggiare, ma senza successo. Mi limitai a scuotere Tom. «Siamo arrivati, Tom. Ci siamo.» Nessuna reazione, di nessun tipo. Era evidente che quanto avevo detto non faceva per lui nessuna differenza. Ma anche se avesse mostrato di capire, c'era davvero da essere tanto contenti? Eravamo ancora nella merda:
bagnati, congelati, senza riparo, e non sapevo come e dove saremmo riusciti a salire su un treno, anche se ne fosse passato uno. Crollò al passaggio a livello, accanto a me. Mi chinai, lo presi per le ascelle e ancora una volta lo sollevai. Nel farlo, quasi crollai anch'io. Non riusciva più a controllare né la bocca né i denti e iniziò a emettere strani grugniti. «Dobbiamo andare un po' più avanti», gli urlai nelle orecchie. «Dobbiamo trovare una stazione.» Non sapevo se stavo parlando a lui o soltanto a me stesso. Voltai a sinistra, in direzione di Tallinn. Procedemmo verso ovest, sul terreno solido a lato dei binari. Gli alberi che li fiancheggiavano quanto meno ci proteggevano dalle folate di vento. Quanto tempo era passato, mezz'ora, un'ora, da quando avevamo raggiunto la ferrovia? Non lo sapevo. Era da molto tempo che avevo smesso di guardare l'orologio. Tom iniziò a dar fuori di testa. Urlava agli alberi, gridava, poi chiedeva scusa, e ricadeva a terra rannicchiandosi nella neve. Ogni volta dovevo farlo alzare e spingerlo avanti e ogni volta era un po' più difficile. Arrivammo a una fila di piccoli capanni, visibili solo perché la neve era piatta sui tetti angolati. Non si vedeva oltre i cinque metri e non li avevo notati finché non ci eravamo finiti davanti. Frugai eccitato alla ricerca della torcia, lasciando Tom, in ginocchio, a urlare contro gli alberi che venivano a prenderlo. Ebbi l'impressione di metterci un secolo a spingere il pulsante. Molto presto le mie dita non sarebbero più state in grado di compiere un gesto semplice come quello. Illuminai intorno e vidi che i capanni erano fatti di legno, costruiti uno accanto all'altro. Le porte davano tutte verso i binari. Erano tutte chiuse con vecchi lucchetti arrugginiti, tranne una. Spazzai la neve a calci e l'aprii, poi tornai da Tom. Era accucciato nella neve in mezzo ai binari e implorava che lo lasciassero dormire. Se lo avesse fatto non si sarebbe più svegliato. Mentre lo prendevo in braccio si agitò con le ultime energie in preda alle convulsioni. Era inutile lottare con lui; e poi non ne avrei avuto la forza. Lo lasciai ricadere a terra, afferrai il cappuccio con entrambe le mani e lo tirai come se fosse stato una slitta. Poi caddi all'indietro per la fatica. Avevo smesso anche di parlargli; non ne avevo la forza.
La porta era molto bassa, tanto che per entrare dovetti piegarmi, e il tetto non era molto più alto, ma nell'esatto momento in cui fui al riparo dal vento iniziai a sentire più caldo. Il capanno era circa otto metri quadrati, e il fondo era ingombro di pezzi di legno e macerie, vecchi utensili e una pala arrugginita con il manico mezzo rotto, rottami di anni che giacevano su un pavimento di fango congelato. Tom rimase dove lo avevo lasciato. Abbassai la torcia verso il suolo e lo vidi arrotolato a palla, le mani scoperte, i polsi piegati come per una forma artritica particolarmente grave. I suoi respiri brevi e affannosi uniti ai miei formavano vapore alla luce della pila. Nel giro di pochissimo sarebbe passato al mondo dei più, a meno che non mi fossi dato una mossa e avessi fatto qualcosa per lui. Se solo quello fosse stato un rifugio per cacciatori e non un capanno dei lavoratori della ferrovia. È abitudine, nei climi molto rigidi, lasciare nei rifugi legna da ardere così che chiunque si trovi in difficoltà possa scaldarsi in fretta. Ed esiste anche l'usanza di lasciare una scatola di fiammiferi con l'estremità che spunta, in modo che anche chi ha le dita intorpidite o congelate riesca a estrarli. Mi tolsi i guanti e iniziai a fantasticare di un treno caldo e di tazze piene di caffè bollente. Mi trascinai fino a un pezzo di legno che aveva l'aria di aver fatto parte delle pareti. Poi, con le mani che tremavano, armeggiai con il Leatherman nel tentativo di tirare fuori la lama. Rimisi i guanti fradici e iniziai a grattare il legno. Volevo raggiungere la parte asciutta. Tom riempiva la stanza di urla e lamenti. Come se parlasse in estone. Gli urlai contro altrettanto forte: «Chiudi quel cesso di bocca!» Ma, ovunque si trovasse, era in un posto dove non riusciva a sentirmi. Quando riuscii a eliminare la parte bagnata e arrivai alla parte asciutta, iniziai a sfogliarne dei trucioli che finirono sulla pala. Sarebbe stato la base per il fuoco. Le mani mi dolevano nello sforzo di mantenere una presa salda sul coltello. Nell'angolo del capanno, il corpo di Tom aveva iniziato a sobbalzare. Entrambi avevamo bisogno di un fuoco acceso al più presto, ma non potevo muovermi più in fretta perché avrei compromesso quello che stavo facendo. Il passo successivo era tagliare ciocchi un po' più grossi, da adagiare sopra la base, in modo che i pezzi grossi potessero poi essere poggiati sulla fiamma e avere una qualche possibilità di prendere fuoco. Raccolsi ogni pezzo di legno che riuscii a trovare, anche dal soffitto, e lo tagliai a strisce.
Avrebbe bruciato bene perché in parte era ricoperto di catrame. Poi, con il resto della minutaglia, realizzai dei bastoncini nei quali ricavai delle striscioline sottili finché ogni pezzo non sembrò aver messo le piume. Tom aveva smesso di fare il matto fra le schifezze per terra. Borbottando fra sé cose senza senso, scalciava come se respingesse un assalitore immaginario. Parlare con lui era inutile. Dovevo concentrarmi sul fuoco. L'addestramento alle tecniche di sopravvivenza poteva non essere la mia materia preferita, ma di fuoco ne sapevo abbastanza. Accenderne uno nella stanza principale ogni mattina, prima che il mio patrigno si alzasse dal letto, era stato il mio lavoro, altrimenti erano botte. Anche se per le sberle ogni momento era buono. Una volta preparati cinque bastoncini per il fuoco, li appoggiai intorno alla base a forma di tenda pellerossa. Poi presi la pistola, estrassi il caricatore e tirai indietro il carrello per far uscire il colpo in canna. Con le pinze del Leatherman, riuscii dopo parecchi sforzi a togliere la testa dei tre proiettili e versai la polvere nera del propellente sulla base per il fuoco. Con le mani tremanti cercai di farla cadere sul legno e non sul fango. Lasciai mezzo pieno il terzo proiettile. I movimenti a scatti di Tom avevano fatto spostare il cappuccio. Posai a terra il proiettile con tutte le cautele, in modo che il contenuto non si rovesciasse. Poi mi alzai e mi trascinai fino a lui. I muscoli, dopo la sosta, protestarono. Mentre mi spostavo i vestiti bagnati e freddi mi si appiccicavano addosso. Riuscii ad agguantare il cappuccio e cercai di rimetterlo a posto. Agitava le braccia con grida incomprensibili e le mani mi colpirono convulsamente il berretto fino a togliermelo. Gli crollai addosso, cercando di tenerlo fermo mentre rimettevo a lui il cappuccio e a me il berretto fradicio. «Va tutto bene, socio», mormorai. «Non manca molto adesso. Ricordati di sognare. Non fare altro, sogna.» Ma a questo punto stavo solo sprecando tempo. Aveva bisogno di caldo, non di cazzate. Strisciai fino alla pala, frugai all'interno del guanto in cerca del filo di seta della bussola, lo tenni fra i denti e ne tagliai un pezzo con le forbici del Leatherman. Poi, con il cacciavite, infilai con forza il filo di seta nel bossolo semivuoto come ovatta sopra il propellente. Caricai il colpo nella pistola, puntai a terra e sparai. Il rumore fu un sordo oomp. Tom non reagì. M'inginocchiai a raccogliere il pezzo di seta incandescente e fumante. Quando lo ebbi in mano lo feci ondeggiare lentamente
per alimentare l'incandescenza, poi lo posai sulla base del fuoco. Il propellente s'incendiò, illuminando l'intero capanno. Dovevo avere l'aria di una strega che fa i suoi incantesimi. Il fuoco attecchì e iniziai ad aggiungere piccoli pezzi di legno alla fiamma. Ancora non emanava molto calore; non sarebbe successo fino a che non fosse stato abbastanza alto da far prendere la legna. Mi avvicinai e soffiai piano. I bastoncini iniziarono a crepitare e a fischiare e rilasciarono umido e fumo. C'era odore di legna bruciata. Camminando a quattro zampe mi davo da fare intorno al fuoco, piazzando con ogni cura altra legna, in modo da ottenere i migliori risultati. Intanto il capanno si riempiva di fumo e gli occhi cominciarono a lacrimare. Le fiamme adesso erano più alte e proiettavano ombre danzanti sulle pareti. Sentivo il calore sul viso. Prima che il mio capolavoro si spegnesse dovevo procurarmi altra legna. Mi guardai intorno e raccolsi tutto quello che riuscii a trovare a portata di mano. Stabilizzai il fuoco, e adesso potevo avventurarmi nel vento per procurarne dell'altra. Con un calcio socchiusi la porta per far uscire il fumo. Ciò permise al vento e alla neve di entrare, ma dovevo farlo. Avrei dovuto richiudere al più presto. Tom sembrava molto più calmo. Mi trascinai fino a lui, tossendo per il fumo. Volevo vedere se sotto di lui o nell'angolo c'era ancora legna. Solo qualche pezzetto, ma tutto fa. Non potevo fare un fuoco grande perché il capanno era troppo piccolo, e poi non ne avevamo bisogno; le pareti erano così vicine che il calore ci sarebbe comunque rimbalzato addosso. Controllai le fiamme e cominciai ad aggiungere legna. «Non manca molto, socio. Ci dovremo spogliare, perché ci verrà molto caldo.» La priorità successiva era qualcosa di caldo da far bere a Tom per riscaldarlo dall'interno. Misi il resto della legna vicino al fuoco per farla asciugare, mi voltai e lo guardai in faccia. «Tom, vado a vedere se trovo qualcosa dove far sciogliere la neve per...» Era troppo fermo. Nel modo in cui teneva piegate le gambe sul torace c'era qualcosa di strano. «Tom?» Strisciai di nuovo fino a lui, lo sollevai e gli tolsi il cappuccio. Al chiarore dalle fiamme mi disse tutto quello che dovevo sapere. Spostai lievemente la testa verso il fuoco e gli sollevai le palpebre. Nessuna reazione alla
luce. Le pupille rimasero dilatate come quelle di un pesce morto. Non mancava molto prima che si velassero. Sentivo i legnetti cadere uno sull'altro, insieme con i tizzoni e le fiamme. Bello a vedersi, ma, cazzo, era troppo tardi. Cercai di sentire i battiti della carotide. Niente. Ma forse erano solo le mie dita intorpidite. Ascoltai il respiro, poi il cuore. Niente. Aveva ancora la bocca aperta per l'ultimo respiro che aveva fatto, o tentato di fare. Gli chiusi delicatamente la mascella. Era giunto il momento di pensare a me. Mi tolsi i vestiti bagnati e li strizzai uno per uno prima di rimetterli. Rimasi seduto ad alimentare il fuoco sapendo che avrei dovuto fare dell'altro per lui. Potevo tentare di rianimarlo, di riscaldarlo finché non fossi stato così stanco da non riuscire a continuare, per quella possibilità su un milione che potesse riprendersi. Ma a quale scopo? Sapevo che era morto. Forse, se ci fossimo costruiti un rifugio per la notte quando il tempo era peggiorato, sarebbe stato ancora vivo. La mattina dopo saremmo stati in condizioni terribili, ma forse sarebbe sopravvissuto. Forse se non avessi insistito tanto per farlo arrivare fin lì, o se mi fossi accorto di quanto stava male e ci fossimo fermati prima. Un'infinità di dubbi, e una certezza: che l'avevo ucciso io. Era colpa mia. Guardai il suo corpo flaccido, la bocca di nuovo aperta, i capelli lunghi bagnati attaccati alle guance, i cristalli di ghiaccio della pelliccia che gli si scioglievano sulla faccia. Cercai di ricordare il Tom goffo e felice, ma sapevo che l'immagine che sarebbe rimasta con me per sempre era quella. Dritta al primo posto nella lista dei miei incubi da risveglio all'alba, sudato e pieno di sensi di colpa. Quando mi avevano inserito nei programmi di terapia che ogni tanto la Ditta organizza per gli operatori, avevo detto agli strizzacervelli che non ne avevo. Palle, ovviamente. Forse era un bene che cominciassi a far parte della terapia per Kelly. Iniziavo a rendermi conto che ne avevo bisogno, almeno quanto lei. Lo trascinai fino alla porta, e lo misi a sedere davanti all'ingresso, lasciando circa un metro sopra di lui per far uscire il fumo. Gli coprii il viso con il parka. Le estremità stavano riprendendo sensibilità e così seppi che sarei stato bene. L'ultima cosa che mi restava da fare era trovare una stazione. Mi voltai di nuovo verso le fiamme e osservai il vapore che si sollevava dai miei vestiti bagnati. Quella notte non avrei dormito. Dovevo continuare ad alimentare il fuoco.
45 Londra Mercoledì 5 gennaio 2000 Mi stavo cullando un bicchierone di caffè caldo e schiumoso nel vano del portone di una chiesa di fronte al Langham Hilton, l'unico posto da cui riuscissi a vedere l'albergo e contemporaneamente ripararmi dalla sottile pioggerellina. Era tempo di prima colazione e i marciapiedi erano pieni di schiavi salariati e ben incappottati che trangugiavano caffè e paste danesi, oltre che di persone uscite presto per approfittare dei saldi. A giudicare dalla frenesia, era chiaro che il millennium bug, alla resa dei conti, non aveva messo il mondo in ginocchio. Per quanto mi riguardava, era l'ultima cosa cui avevo pensato dato che avevo visto l'inizio del nuovo secolo a bordo di un peschereccio estone, insieme con altri ventisei clandestini, congelati e con il mal di mare, che venivano dalla Somalia. Ce l'eravamo svignata da un villaggio sul mare coperti dall'oscurità, avevamo lottato con il mare grosso sul Baltico, diretti a una penisola a est di Helsinki. Il Re Leone mi aveva segnalato che era mezzanotte quando ci stavamo avvicinando alla costa finlandese, dove fummo immediatamente accolti da uno spettacolo di fuochi d'artificio, il più bello che avessi mai visto. Tutt'intorno sembrò accendersi quando ogni villaggio celebrò il nuovo millennio. Mi chiesi se ci sarebbe stato un nuovo inizio anche per me. Cristo santo, lo speravo proprio. Erano passati diciotto giorni da quando avevo lasciato il capanno e mi ero avventurato nella bufera di neve. Tom si era fermato là, la giacca a vento a coprirgli la faccia, il corpo ripulito da ogni segno che potesse identificarlo. Probabilmente non lo avrebbero trovato fino a primavera. Mi augurai che gli dessero una degna sepoltura. Se le cose a Londra fossero andate bene, forse sarei tornato io stesso a occuparmi di lui. Quando cade un uomo... con tutto quello che segue. Alla prima luce, e senza Tom, avevo potuto procedere alla mia andatura, anche nella neve sferzante, e ci avevo messo solo un paio d'ore per arrivare alla stazione che era a circa sei o sette chilometri. Arrivò un treno diretto a ovest, verso Tallinn, ma lo lasciai passare. Quello successivo andava a est, verso la Russia, e ci salii sopra. Senza
passaporto potevo metterci delle settimane a uscire da solo dall'Estonia, ma con l'aiuto di Otto tutto poteva essere più rapido. Per questo ero sceso a Narva, e per questo ero finito su una barca di pescatori con i miei nuovi amici somali. Mi era costato tutti i dollari che avevo nello stivale ed ero stato costretto a passare diverse notti e diversi giorni nello scomodo appartamento pieno di mine antiuomo mentre Otto organizzava le cose. Ma ne era valsa la pena. Otto non era molto contento del fatto che la sua auto fosse passata alla storia, ma sembrava comunque molto eccitato al pensiero di potermi aiutare, anche se sapeva di sicuro quello che era successo nell'albergo di Voka a Falegname e al vecchio, e aveva fatto due più due. Mi chiesi se gliene fregasse qualcosa. Otto non mi aveva più chiesto di aiutarlo a fuggire in Inghilterra, ma mentre ero fermo sul pontile in attesa di salire a bordo del peschereccio, mi ero voltato verso di lui e gli avevo allungato il passaporto di Tom. Dall'espressione del suo viso e dalle lacrime che gli spuntarono agli occhi, si sarebbe potuto pensare che gli avessi consegnato tre milioni di sterline. Sapevo di correre un rischio, ma sentivo di dovergli qualcosa. Mi augurai soltanto che facesse un buon lavoro di modifica alla foto di Tom, o che il giorno che avesse deciso di usarlo, gli addetti all'immigrazione non avessero guardato i loro schermi con troppa attenzione. In caso contrario il povero Otto si sarebbe trovato circondato da una squadra di quelli tosti e trasportato in una cella prima di avere il tempo di dire: «Porca puttana». Mi ero detto che il passaporto era parte di quello che gli dovevo per il suo aiuto, insieme con una nuova auto. Ma adesso, a Londra, con un caffè caldo in mano e il tempo per riflettere, mi resi conto che si era trattato di un modo per superare i sensi di colpa che avevo nei confronti di Tom. Lo avevo spinto oltre i suoi limiti, obbligandolo a fare cose in condizioni estreme e lo avevo ucciso. Dare a Otto la possibilità di una nuova vita rappresentava un tentativo di far quadrare la mia coscienza con un atto giusto: ormai era fatta, nessun ripensamento. All'inizio avevo pensato che avrebbe funzionato. Ma non fu così, né per Tom, né per Kelly. Lei era sempre uguale; il nuovo anno era arrivato anche per lei. Avevo telefonato alla clinica un paio di volte da quando ero tornato, due giorni prima. Tutt'e due le volte avevo mentito dicendo che ero ancora all'estero e che sarei tornato presto. Avevo una voglia disperata di vederla, ma non trovavo il coraggio. Sapevo che non sarei stato capace di guardarla negli occhi. La seconda volta che avevo telefonato mi aveva par-
lato la dottoressa Hughes dicendomi che i suoi progetti a proposito della terapia da usare con Kelly, la terapia che prevedeva la mia presenza, erano sospesi finché non fossi tornato. Mi sentivo ancora confuso a questo proposito. Sapevo che andava fatto, e volevo farlo, ma... In aggiunta alla confusione, avevo ricevuto una telefonata da Lynn. Voleva vedermi nel pomeriggio. Forse dal nostro ultimo incontro avevano cambiato opinione. Mi aveva detto che aveva un mese di lavoro per me. Mi era venuta la tentazione di dirgli dove poteva ficcarsi le duecentonovanta sterline al giorno, perché se tutto fosse andato bene con Liv quella mattina, non avrei mai più avuto bisogno della Ditta. Ma non avevo nessuna garanzia che lei avrebbe fatto la sua comparsa, e per quanto un mese di paga non fosse molto, almeno invece di pensare avrei lavorato. Lo scambio doveva essere semplice. Non appena rientrato in Inghilterra, avevo aperto telefonicamente un conto bancario in Lussemburgo. Il messaggio che avevo lasciato a Liv nella DLB di Helsinki diceva che avrebbe dovuto trasferire i soldi per via elettronica, usando i canali federali, perché avrebbe garantito il trasferimento entro poche ore. Di lì a poco, quando ci saremmo incontrati in albergo, avrebbe chiamato la sua banca, fornendo le istruzioni per il trasferimento che le avrei trasmesso, e poi saremmo rimasti ad aspettare, finché non fosse stato eseguito. Avrei chiamato il Lussemburgo ogni ora comunicando la mia password e sarei stato informato non appena i soldi fossero stati versati. Nella mente avevo formulato come tempo limite le quattro. Se non fosse comparsa per quell'ora, avrei dovuto presumere che non sarebbe mai arrivata. Allora avrei dovuto prendere delle decisioni nei suoi confronti, e sul modo di contattare Val per spiegargli che cos'aveva combinato quella fanciullina innocente. Come colpo di scena finale, una volta sicuro che i soldi fossero stati accreditati, avevo accarezzato l'idea di rivelarle che avevo salvato la vita a Tom e che lui mi aveva raccontato ogni cosa, solo per la soddisfazione di farle sapere che non mi aveva fatto fesso. Dopo tutto non avevo intenzione di avere mai più a che fare con il crimine organizzato russo. Volevo soltanto i soldi, dopo di che, per quanto me ne importava, potevano continuare a far saltare edifici e a sbudellare persone senza il mio aiuto. Ma in fondo sapevo bene che dicendoglielo mi sarei messo solo nei casini. Non era arrivata dov'era senza far fuori nessuno, ed essere il prossimo sulla lista non mi avrebbe fatto particolarmente piacere. Venti minuti prima dell'RV, un taxi si fermò davanti all'entrata principa-
le dell'albergo. Guardai Gunga Din fare un passo in avanti e aprire la porta del taxi, poi vidi la nuca di Liv che usciva dall'auto ed entrava in albergo. Eravamo separati dal taxi, ma riuscii a vedere che quel giorno aveva optato per i jeans e il cappotto di pelle, il colletto sollevato per il freddo. La guardai entrare e controllai che non ci fosse sorveglianza né un altro veicolo che si fermava subito dietro. Nessuna delle due. Rimasi in attesa. Ero euforico. Era venuta. Non sarebbe arrivata fino a Londra solo per comunicarmi che mi aveva fregato. I tre milioni erano ormai così vicini che potevo sentirne l'odore. Quei soldi me li ero guadagnati. No, dopo una vita passata a rivoltare merda per due noccioline, me li meritavo proprio. Ce l'avevo messa tutta per mantenere il controllo, ma adesso decisi che non mi avrebbe fatto nessun male lasciarmi andare all'entusiasmo. Ripassai ancora una volta il piano d'azione. Non appena il trasferimento fosse stato confermato e io e Liv ci fossimo salutati, avrei chiamato la clinica e comunicato che la nuova terapia di Kelly poteva cominciare subito. Mi preoccupava ancora un po', ma sapevo di doverlo fare. Chissà, forse poteva far bene anche a me. La Hughes aveva detto che era impossibile prevedere la durata della terapia, per cui avevo pensato che poteva essere un buon investimento comprare un appartamentino lì nei dintorni per poi rivenderlo più avanti. Contemporaneamente avrei potuto far lavorare qualche muratore nella casa del Norfolk, in modo che fosse pronta per il ritorno a casa di Kelly. Mancavano meno di dieci minuti, ormai. Doveva ancora ritirare la posta dalla DLB sotto il telefono che conteneva la chiave della suite prenotata da me. Avevo anche lasciato le istruzioni di mettere il cartello NON DISTURBARE alla maniglia della porta dopo essere entrata. Attendevo e controllavo. Non c'era niente da vedere, tranne una donna che veniva schizzata da un autobus che passava. Li contavo mentalmente e li sentivo fra le dita. Tre milioni di sterline. Per un nanosecondo pensai di devolvere la parte di Tom a qualche ente di beneficenza. Per un nanosecondo. Perché poi vidi rividi Kelly, seduta in clinica, come una statua di ghiaccio che guarda nel vuoto. Merda, era lei che aveva bisogno di tutta la beneficenza possibile. Solo due minuti. Schivai il traffico e mi avvicinai all'albergo. Gunga Din non venne ad aiutarmi mentre spingevo la porta girevole ed entravo nel caldo del foyer. La reception in marmo pullulava di uomini d'affari e turisti. Passai loro accanto, superai il Chukka Bar e il banco dell'accettazione,
e salii, usando le scale. Arrivai al terzo piano, aprii la giacca di pelle e controllai che la USP fosse a posto, infilata al centro dei jeans. La sera precedente ero andato nel Norfolk apposta per prendere un'arma, e mi ero ritrovato ad asciugare l'allagamento provocato dal buco sul tetto. Tra poco quell'inutile incerata sarebbe stata sostituita da solide tegole gallesi. All'esterno della porta 316 mi fermai, rimanendo in ascolto. Niente. Infilai la mia tessera magnetica nella serratura e aprii. Lei era nell'angolo più lontano della stanza, mi dava le spalle, e guardava fuori dalla finestra di fronte all'entrata. La porta si richiuse piano con un clic. «Ciao, Liv, mi fa molto piacere...» Aprii di scatto la giacca per fare fuoco ma sapevo che era inutile. Il tipo con il cappotto che spuntò da dietro l'armadio dove c'erano la televisione e il minibar aveva già la pistola puntata contro di me. Dal bagno sulla mia sinistra, a meno di un metro, ne spuntò un altro che mi appoggiò la pistola alla testa. Lasciai andare la giacca e feci ricadere le mani lungo i fianchi. Poteva sempre esserci una possibilità di tirare. Liv si voltò verso di me. Solo che non era Liv. Parlò con un accento morbido che non riuscii a identificare. «Fai un passo in avanti e tieni le mani bene in alto, prego.» Feci quanto mi veniva richiesto. L'uomo del bagno si avvicinò e iniziò a passarmi le mani su schiena e gambe. Inutile tentare di fregarli. Quando estrasse la USP non potevo certo dire che ero lì per il servizio in camera. Lei non disse nulla quando venni spinto da dietro verso il divano. Quello dell'armadio rimase dov'era, alla mia destra. L'altro chissà dove, alle mie spalle. La donna avanzò e andò verso la porta sul corridoio. I capelli biondi erano ossigenati; aveva le sopracciglia brune. Aprì e vidi che all'esterno c'era un altro uomo incappottato. Lei si spostò per farlo entrare. Era rimasto lì per bloccare l'uscita se qualcosa fosse andato storto. Non gli sarebbe stato difficile riuscire a fermarmi. Aveva più o meno le stesse dimensioni della porta. Nessuno parlò. Io rimasi seduto in attesa. Ma di cosa? Ricordai il viso di Sergej nella 4x4 mentre mi raccontava della vendetta vichinga. Il cuore mi batteva all'impazzata. Dove cazzo era Liv? Catturata anche lei? E quelli lì erano Maliskia? I tre
dalla testa quadrata non parlavano né si muovevano. Mi assalì un senso di terrore. Erano forse dell'NSA? Mi ero infilato nella merda dei Ragazzi Grandi? I battiti della vena sul collo acceleravano e li sentivo premere contro il colletto. Non era la prima volta in questo lavoro. La porta umana, ancora vicino a quella vera, doveva aver notato e riconosciuto la sensazione, perché mi fece un sorrisetto d'intesa. Feci del mio meglio per sorridere. Che andassero a farsi fottere. Non avrei lasciato che si accorgessero di quanto ero agitato. Passarono lunghi minuti che mi sembrarono un'eternità, poi qualcuno bussò. La porta umana guardò attraverso lo spioncino, aprì immediatamente facendosi da parte con deferenza. «Ciao, Nick», disse Val entrando. Con lui c'era il contatto di Liv alla stazione. Entrambi indossavano abiti grigio scuro. «Posso presentarti Ignaty?» Ignaty sorrise e chinò lievemente la testa nella mia direzione. «Salve, Nick, non sono mai riuscito a incontrarti di persona alla stazione, ma so tante cose di te che mi sembri un vecchio amico.» Annuii a mia volta. Non volevo ancora parlare perché il mio cervello era troppo occupato a cercare di capire che cosa cazzo stava succedendo. Ero spaventato, confuso, e cominciavo a rendermi conto di essere in un guaio serio. La cosa migliore che potevo fare era stare zitto e fare la parte dello scemo. Non era difficile. Val si sedette sul divano di fronte mentre Ignaty rimase in piedi, più indietro. Il ceceno mi guardò negli occhi un po' troppo a lungo per i miei gusti, poi posò una grande busta bianca sul tavolino che era tra noi. «Questa», la indicò, «è per te.» Mi allungai per prenderla, più confuso che mai, e l'aprii. Si mise comodo nel divano e si sistemò i pantaloni del vestito prima di accavallare le gambe. Dentro c'era un fascio di documenti scritti in cirillico. Li fissai a lungo senza capire che cosa cazzo fossero. «Sono gli atti di proprietà di due condomini a San Pietroburgo», disse. «Insieme valgono più di tre milioni di sterline. Ho pensato che avresti preferito e apprezzato degli immobili invece dei contanti.» La mia calcolatrice mentale stava facendo gli straordinari. Ero ancora in credito verso la clinica di qualche settimana, ma molto presto le fatture avrebbero ripreso ad accumularsi. Le tre settimane di assenza mi erano già costate dodicimila sterline, e molto presto sarei rimasto a secco. Un mese
con la Ditta a duecentonovanta sterline al giorno mi avrebbe fatto guadagnare esattamente ottomilasettecento sterline. Era il caso di sfidare la fortuna. «Preferirei i contanti. L'accordo era questo.» Fece lentamente cenno di no con la testa, come se stesse per dire a un bambino che la gita a Disneyland era stata annullata. «Nick, non c'era nessun accordo. Liv ci ha ingannato entrambi, inseguendo soltanto la sua avidità.» I suoi occhi di colpo divennero di venti gradi più freddi, dimostrando con un'unica occhiata che lui era l'unico capo di cui si dovesse aver terrore nel suo ramo di attività. «Grazie al cielo non tutti sono sleali.» Fece un gesto all'indietro. Ignaty sembrava estremamente soddisfatto. Li fissai, come se non avessi idea di che cosa stessero parlando. «È abbastanza complicato, Nick, e non è indispensabile che tu conosca tutti i dettagli. Ti basti sapere che non solo ha tradito la fiducia che avevo in lei, ma mi ha anche reso impossibile accedere ai dizionari di Echelon per un tempo molto lungo. L'unico motivo per cui tu sei ancora vivo è perché eri convinto di agire su mie istruzioni.» Tornò il sorriso. «Vieni in Russia, lavora per me, e potrai goderti i vantaggi delle tue proprietà. Gli affitti sono molto alti in quella zona della città. È una splendida opportunità per te, Nick. E forse avremo il tempo di stare un po' insieme e ti racconterò tutta questa triste storia per intero.» Feci cenno di no. «Ci sono delle cose che mi trattengono qui.» Esitai. «Preferirei avere i soldi, invece.» Indicò la busta che tenevo in mano come se non avessi parlato. «Dentro ci sono i riferimenti di una persona, qui in Inghilterra, per quando vorrai venire in Russia.» Si alzò, e tutti si mossero insieme con lui. Dovevo fare una domanda. «Come hai fatto a sapere che sarei stato qui?» Val si fermò nel momento in cui la porta umana stava per aprire quella vera. «Me lo ha detto Liv, naturalmente. Mi ha detto tutto.» Fece una pausa. «Prima che Ignaty...» Si strinse nelle spalle. Continuava a sorridere. Aspettava la mia reazione. Bluffai e presi un'aria disorientata, ma con l'occhio della mente vidi la pancia aperta di Liv e le anguille che ci si dimenavano sopra. «Scioccato?» Feci cenno di no.
«Lo immaginavo. Vedi, non posso permettermi una simile mancanza di giudizio sulle persone che mi circondano. Devo mostrare forza. Mi potrai aiutare a fare questo, quando verrai in Russia, Nick. Pensaci sopra, lo farai?» Annuii, volevo solo che se ne andasse. «Mi ha fatto le tue scuse per la morte dei miei nipoti.» «Sì, mi dispiace.» «Non è il caso. Non mi è mai importato molto della famiglia di mia sorella. Spero di vederti presto a San Pietroburgo, Nick.» Mentre si voltava per andarsene, dissi: «Posso chiedere ancora una cosa?» Si fermò. «C'è un cadavere. Il mio amico. È ancora in Estonia e...» «Naturalmente, naturalmente. Non siamo barbari.» Val fece un cenno con la mano in direzione della busta. «Il contatto, dagli tutti i dettagli.» Per i successivi quindici minuti rimasi sul divano, cercando, con molta fatica, di non pensare a quanto ci aveva messo Liv a morire. Certo mi toglieva un po' di entusiasmo per il mercato immobiliare di San Pietroburgo. Avevo bisogno dei soldi, ma adesso non ero più sicuro di niente, tranne del fatto che l'incontro con Lynn non sarebbe stato il momento migliore per mandare a farsi fottere la Ditta. Concessi a Val e ai suoi ragazzi ancora cinque minuti prima di scendere e lasciare l'albergo. Entrai in una delle cabine sotto le impalcature, infilai una manciata di monetine e sollevai la cornetta. «Buon giorno, East Anglian Properties. Posso esserle utile?» «James Main?» «Sono io.» «Parla Nick Stone. Piccolo cambiamento di piani, James. Voglio che lei venda la casa più veloce che può, a qualsiasi prezzo. Subito.» «Ma tutte le offerte che abbiamo ricevuto finora sono molto inferiori al prezzo di acquisto. Farebbe meglio a sistemare il tetto e finire i lavori dentro, e poi metterla in vendita a primavera. Sarebbe un...» «Subito, James.» «Ma passavo lì davanti un paio di giorni fa e c'è ancora l'incerata sopra il tetto. Davvero nessuno la pagherebbe...» «James?» «Sì?»
«Quale sillaba della parola subito non capisce, per la miseria?» Per la seconda telefonata dovevo infilare solo una moneta da due penny. Era un numero di Londra. «Sono ancora all'estero, mi dispiace», dissi quando finalmente mi misero in contatto con la dottoressa Hughes. «Dovrò stare via ancora un mese. Che conseguenze avrà su Kelly?» «Non peggiorerà, mettiamola così. Resterà esattamente nelle condizioni di adesso finché non inizierò la terapia con lei.» Esattamente nelle condizioni di adesso. Chiusi gli occhi e mi sforzai di rivederla mentre mi sorrideva, ma l'unica immagine che mi venne fu lei, seduta su quella sedia, con la testa piegata in modo strano, seduta rigida come se avesse smesso di respirare, o fosse morta congelata in un'invisibile tormenta. Dovevo far passare diverse ore prima dell'incontro con Lynn e mi ritrovai ad andare a piedi fino a Vauxhall Cross. Mentre camminavo pensavo alle altre due telefonate che avrei dovuto fare al più presto. Una era ai nonni di Kelly, per dar loro la bella notizia che molto probabilmente anche loro avrebbero dovuto vendere la casa, sebbene le probabilità che lo facessero erano come quelle di essere colpiti da un fulmine. Fino a quel momento avevano approvato tutto e concordavano sul fatto che Kelly stesse a Chelsea, nel posto migliore per lei, ma avrei scommesso che avrebbero di colpo scoperto quanto era meglio il servizio sanitario nazionale se avessi detto loro che dovevano accollarsi parte dei costi. L'altra l'avrei fatta all'amico che mi aveva trovato l'ingaggio contro Val. Gli avrei chiesto altro lavoro, ma questa volta in un posto caldo. Magari alle Bahamas. Il solito asiatico mi scortò fino all'ufficio di Lynn. Niente era cambiato, tranne il fatto che Lynn indossava una camicia diversa e che questa volta non stava scrivendo. Rimasi in piedi di fronte alla scrivania. Ancora una volta non mi venne offerto del caffè, per cui seppi subito che sarebbe stato un incontro breve. «È la mia ultima settimana di lavoro, e detto molto francamente l'ultima persona che avrei voglia di vedere sei tu.» Si mise comodo e mi fissò, con un'espressione che diceva che ero responsabile al cento per cento del suo prepensionamento. Mi dispiacque per i funghi.
Sapevo di dover rimanere zitto e ascoltare. «Moonlight Maze», disse. «Ne sai niente?» «No.» Risentii la fitta al torace. Sapeva quello che avevo fatto. Lo sapeva e stava lasciando che sprofondassi da solo nella merda. Dovevo stare al gioco. «Be', non molto. Solo quello che ho letto sui giornali un paio di settimane fa.» «Le cose stanno per cambiare. Il tuo lavoro è assistere un ufficiale dell'NSA e la sua squadra mentre sono da noi. Resteranno qui per circa un mese, e cercheranno di fermare l'infiltrazione del crimine organizzato russo all'interno di Menwith Hill.» Annuii, come se dessi per scontato che sarebbe stato un noioso lavoro da BG, con annessa scorta e guida turistica, come sono normalmente gli incarichi di questo tipo. Ma avevo ancora la sensazione che mi stesse prendendo in giro. «Perché proprio io, signor Lynn? Prima di Natale ha detto che.„» «È stato stabilito che visto il costo del tuo addestramento e la tua paga sei sotto utilizzato. E ora fuori.» Non so come riuscì a farlo, ma la porta alle mie spalle venne aperta dall'asiatico in quell'esatto momento. «La prego di seguirmi, signore.» Lo feci e salii due piani in ascensore fino alla zona rapporti e a un ufficio poco arredato e deserto. Non c'erano finestre e l'unico rumore era il condizionatore d'aria. «Se vuole attendere qui, signore, l'ufficiale la raggiungerà subito.» La porta si richiuse. Mi misi seduto al tavolo, in preda all'agitazione. Mi avevano fregato. La porta si aprì, mi alzai in piedi e mi voltai verso la persona che stava entrando. La fitta al cuore tornò, come una vendetta. Ero proprio in un grosso casino. «Nick Stone, giusto?» Il Democratico mi sorrideva tendendomi la mano. Sembrava che avesse passato la testa in un'impastatrice. Le cicatrici rosso vivo che aveva lungo tutta la faccia e su alcune zone del cranio dove gli avevano rasato i capelli prima di medicargli le ferite erano tenute insieme da punti di sutura neri. Anche le mani erano in uno stato pietoso, ma le cicatrici stavano tutte guarendo bene. «Non abbiamo molto tempo, Nick. Io e la mia squadra avremo bisogno di molto aiuto.» Vide che fissavo le cicatrici e il sorriso sparì. «Ehi, lo so. Non è un bello spettacolo. Ma se trovo il figlio di puttana
che mi ha ridotto così, strappo la linguetta di una gigantesca lattina bella robusta e...» FINE