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GENERAL SS di SVEN HASSEL T R A D U Z I O N E DI GIOVANNA ROSSELLI
All'alba, la grande palude emanava fetore, Pupill...
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GENERAL SS di SVEN HASSEL T R A D U Z I O N E DI GIOVANNA ROSSELLI
All'alba, la grande palude emanava fetore, Pupille morte e imputridite ci guardavano fisse Una tristezza senza nome si diffondeva dai crani [dalle orbite vuote Ma l'erba dei prati era ugualmente splendente.
Dedico questo libro a mio figlio Michel, e ai giovani della sua età, nella speranza che la coscienza acquisita renda la loro esistenza capace di salvare l'umanità e non di distruggerla, come invece è accaduto alla nostra generazione e a me medesimo.
2 La Germania ha avuto questa grande fortuna: trovare un capo che ha saputo riunire tutte le forze del paese a profitto della collettività. Daily Mail Londra, 10-7-1933
Sabato 30 giugno 1934 fu uno dei giorni più afosi che Berlino ricordi. E la Storia ne ha fatto anche uno dei più sanguinosi. Già molto prima dell'alba la città venne circondata da un cordone fittissimo e invalicabile di truppe; tutte le vie d'accesso al centro erano bloccate dagli uomini del generale Goering e del Reichsführer delle SS Himmler. Alle cinque del mattino, una lunga Mercedes nera, che aveva sul parabrezza la sigla « SA Brigadenstandarte », venne bloccata sulla strada che va da Lubecca a Berlino. Ne fu brutalmente fatto scendere il generale di brigata seduto all'interno, che fu costretto a salire su un'auto della polizia; quanto all'autista, l'SA Truppenführer Horst Ackermann, venne invitato a sparire nel minor tempo possibile. Il pover'uomo tornò a rotta di collo a Lubecca, dove fece immediatamente rapporto al capo della polizia locale. Quest'ultimo al momento rifiutò di credere alle sue parole concitate; poi con la fronte imperlata di sudore, si diede a misurare a grandi passi l'ufficio, e fece chiamare d'urgenza al telefono il suo vecchio amico, il capo della polizia criminale. Ambedue avevano fatto parte del corpo delle SA, vecchia guardia delle truppe d'assalto nazionalsocialiste, ma l'anno precedente, come tutti gli ufficiali della polizia del ÜI Reich, erano stati trasferiti nelle SS. « Grünert! Ma non pensi anche tu che si tratta di un enorme equivoco? Per nessuna ragione si può mettere le mani sopra uno dei più celebri ufficiali SA! » « Davvero lo credi? » sghignazzò il capo della polizia criminale. « Si può fare anche molto di più, te lo dico io!
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Se vuoi un consiglio, tieniti il più lontano possibile dal telefono, e fai sorvegliare tutta la strada e l'ingresso qui sotto le tue finestre. Ti sei fatto fare la chiave dell'ingresso secondario sul retro? Se no, provvedi immediatamente. Mi auguro che ancora nessuno sia al corrente della cosa. Personalmente, io già da tempo avevo previsto che saremmo arrivati a questo, e ho preso le mie precauzioni. Eicke si dà molto da fare in questo momento e il campo di Borgemoor è stato evacuato, ma non è detto che debba rimanere a lungo vuoto. Sono le SS di Eicke che l'hanno catturato, te lo dico io, i suoi assassini sono già pronti! » Il generale di brigata Paul Hatzke, venne introdotto in una cella della vecchia scuola dei Cadetti di Gross Lichterfeld, divenuta caserma delle guardie del corpo di Adolfo Hitler. Fumava relativamente tranquillo, seduto su un cumulo di mattoni, le lunghe gambe da cavallerizzo calzate di stivali neri stese in avanti. Non vi era alcuna ragione di temere per il generale di brigata Paul Hatzke, comandante in capo della polizia, capo di oltre cinquantamila SA, ed ex capitano delle guardie di sua Maestà l'Imperatore. Non sospettava proprio di nulla, assolutamente. Tutto quello che si sentiva era un gran frastuono, intorno, quello sì. Le porte sbattevano di continuo; ogni tanto un grido. Le SS che l'avevano condotto in cella, bisbigliavano la parola « insurrezione ». Che idioti! « Delle SA che si ribellavano! Ma l'avrei saputo! » aveva gridato il generale. « È un errore mostruoso. » « Ma certo », approvavano le SS. « Certo, è sempre un errore. » Il generale alzò gli occhi verso la finestra grigliata, e aprì il suo quarto pacchetto di sigarette, sempre assorto nei suoi pensieri. « Un'insurrezione! » Era assolutamente ridicolo solo pensarlo; le SA non avevano nemmeno le armi per organizzare una cosa di questo genere, e su questo punto, egli era perfetta-
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mente ben informato. Che le SA non avessero a suo tempo approvato la rivoluzione del '33, questo sì. Non era stata mantenuta nessuna delle promesse fatte ai due milioni di SA, nemmeno quella di procurare loro un lavoro, e questo era tutto quello che il novanta per cento di essi chiedevano. Dopo qualche tempo erano stati convertiti in ausiliari della polizia con uno stipendio da fame, inferiore all'indennità di disoccupazione dei tempi della Repubbblica di Weimar. Quasi tutti erano completamente a terra, ora. Malcontenti, sì, ma ribelli al Führer, mai! Se le SA avessero voluto, alzare la testa, sarebbe stato semmai contro la vecchia armata del Reich, nemica dei lavoratori. Tese l'orecchio. Non vi era stata una scarica di arma da fuoco? Il motore di un camion rombava al massimo del volume, il tubo di scappamento crepitava. Strano! Eppure gli sembrava proprio di aver udito uno sparo. Ma come poteva accadere, nel centro di Berlino, in questo splendido sabato di prima estate? I soldati stavano uscendo in libera uscita. Le sue mani divennero madide di sudore. Ancora due colpi di fucile... Per Odin e Tor! Sì, non vi era dubbio, erano colpi di arma da fuoco. Il motore del camion rombava sempre, in modo costante. Cominciò a tremare. Ma allora, cosa stava facendo la banda di Himmler? Non era possibile fucilare degli individui solo per un semplice sospetto! Forse ancora tra i selvaggi dell'America del Sud, ma nemmeno in Russia queste cose potevano più avvenire! Gli avevano lasciato un'ottima impressione questi Russi, pensò cercando di distrarsi, a Mosca durante un suo tirocinio come ufficiale di riserva dal 1925 al 1928. Gli ufficiali sovietici erano veramente tutti ottimi, e così i loro istruttori; erano eccellenti nella strategia degli scontri su strada, e i Tedeschi avevano imparato molto da loro. Ancora una scarica! Si trattava di un'esercitazione, o vi era forse qualche cosa di vero in quello che gli avevano detto? Degli SA in rivolta, non potevano essere che dei pazzi.
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D'altra parte erano diventati troppo numerosi, ne avevano arruolati molti ancora, comunisti e altra gente losca, implicati con la Banda dei Caschi d'Acciaio, con il loro principe in testa. Cosa volevano farne ora di questa genia dì nobili? Il motore del camion ruggiva sempre più forte. Terrorizzato, si rese conto che non si trattava assolutamente di una semplice esercitazione, ma di qualche cosa di molto più serio. Un plotone sparava da diverse ore. Chi diavolo c'era dietro questa orda di SS? L'odioso piccolo bibliotecario di Monaco ad esempio, era un uomo terribilmente pericoloso, vanitoso e bilioso, e in più se ne parlava come di un omosessuale. Cosa se ne faceva il Führer di quell'Himmler, quell'omuncolo malaticcio e morboso? Un pesante rumore di stivali si fermò davanti alla sua cella. La serratura sferragliò. Nel vano della porta apparvero un SS Untersturmführer e quattro soldati, sempre delle SS; gli elmetti di acciaio luccicavano nella penombra; appartenevano tutti alla divisione di Eicke, sola divisione dì SS che non indossasse la divisa nera, né le iniziali SS ricamate sul colletto, bensì una marrone. « Oh, finalmente! » urlò Paul Hatzke, furioso. « Non la passerete liscia! Aspettate solo che ne parli al generale Rohm! E allora avrete a pentirvene! » Non ebbe alcuna risposta, venne invece brutalmente spinto fuori dalla cella, scortato da quattro uomini e affiancato all'Untersturmführer. Questi doveva avere appena vent'anni, i suoi lineamenti erano ancora infantili ma duri come il granito, ì capelli biondi e gli occhi azzurri come il miosotis si intravedevano da sotto il casco. Un volto d'angelo col sottogola dell'elmetto così serrato che doveva fargli male. Ma erano proprio così tutti quelli delle SS. Dei robot che applicavano automaticamente il regolamento. Il sole inondava gli edifici sudici delle caserme, mentre essi marciavano sul selciato sconnesso, questo selciato che
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aveva visto tanti ragazzini di otto anni fare gli esercizi di ginnastica. Proprio questa caserma, per molti anni, si era preparata della carne da cannone per le armate dell'Impero, della carne da cannone che portava i nomi più prestigiosi di tutta la Germania, dei ragazzi nati per una condizione di vita solo militare. In tutte le case del Reich si vedevano delle fotografie sbiadite di ragazzi di sedici anni, con l'elmetto luccicante, la bella uniforme, che marciavano al passo di parata verso i campi dell'Alsazia contro i « settantacinque » francesi, nel 1914. Avevano imparato a morire come è di regola nelle buone famiglie prussiane, e forse anche la morte aveva rappresentato per loro, in un certo senso, il paradiso, dopo otto anni di esercitazioni inumane sui selciati del Gross Lichterfeld. Passarono davanti alle scuderie che brulicavano di soldati armati fino ai denti, appartenenti sia alla guardia del corpo delle SS, che alla famosa divisione della morte. Ora si udiva distintamente il rumore del grosso motore. Il generale si arrestò. « Cosa avete intenzione di fare? Dove mi state conducendo? » chiese estremamente teso. « Ho l'ordine di condurvi dallo Standartenführer Eicke », sghignazzò il sottufficiale. « Non fate storie, non serve a niente, lo sapete. » Il generale sorrise, più sollevato. Evidentemente non avvenivano fucilazioni senza processo, queste cose non accadevano più in Germania. Qui regnava l'ordine, il buon ordine prussiano, e d'altra parte era proprio grazie a questo ordine che questi stessi avevano preso il potere. Il Führer, personalmente, l'aveva dichiarato ai vecchi combattenti: « Ora basta con le prevaricazioni e il disordine democratico. In Germania finalmente regna l'ordine e coloro che oseranno sabotarlo saranno tutti implacabilmente eliminati ». Passarono oltre le scuderie ed entrarono in una piccola
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corte completamente chiusa da muri molto alti. Era stata a suo tempo la Corte dei Cadetti messi agli arresti. Il camion era là: un grosso Diesel Krupp. Al volante stava un SS in uniforme marrone che fumava con annoiata indifferenza guardando arrivare il nuovo venuto. Un gruppo di ufficiali in uniforme marrone e nera era al centro della corte. A una delle estremità, era allineato un plotone di dodici uomini, la prima fila in ginocchio, il fucile posto in verticale, la fila dietro in piedi, con le armi al piede. Sull'altro lato delle scuderie, due altri plotoni aspettavano, pronti a prendere il cambio. Venti esecuzioni, poi il cambio. Oh certo! Il generale Paul Hatzke conosceva tutto il regolamento a memoria! Per terra giaceva un uomo vestito dell'uniforme bruno rossiccia delle SA, il viso contro la sabbia rossa di sangue. Sulle spalline luccicava la mostrina dorata di un Obergruppenführer, e si intravedeva uno dei risvolti rossi con il grado di generale. Paul Hatzke sentì un sudore gelido colargli lungo la schiena; diventò livido e si mise a tremare nonostante il calore della giornata. Un SS Hauptsturmführer, con un fascio di carte in mano guardò il piccolo gruppo dei nuovi venuti. « Nome? » gridò. « SA Brigadenführer Paul Egon Hatzke. » L'uomo annuì col capo e cancellò con un rigo qualcosa sulle sue carte. Due SS intanto buttarono sul camion il corpo steso a terra. « Venite avanti! » grugnì l'Hauptsturmführer; « mettetevi contro il muro, là; e sbrigatevi! » « Ma io voglio parlare con lo Standartenführer Eicke! » gridò il generale smarrito. Qualcuno gli cacciò la canna della pistola nelle reni. « Basta con queste storie! Non servono a niente. Obbedite agli ordini. » Il generale buttò uno sguardo disperato tutt'intorno. Dei
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volti di pietra, implacabili sotto gli elmetti di acciaio, marcati con le sigle delle SS. In fondo, il muro grondava ancora dì sangue, e un filo sottile colava verso la bocchetta di scolo vicino alle scuderie. « Un po' di buona volontà, cane di un traditore! » gridò l'Hauptsturmführer agitando il suo fascio di carte. « Altrimenti vi fuciliamo sul posto! » Il generale sentì dì essere stato colpito violentemente al viso. Una profonda scalfittura gli rigò la guancia e il sangue gli colò sulle spalline d'oro. Comprese che era la fine, la fine del sogno di uno stato socialista e giusto. Comprese che le SS Heydrich e Goering avevano preso il potere e con le braccia incrociate, ora perfettamente calmo, si drizzò davanti al muro insanguinato. Il rombo del motore aumentò di volume. Il generale fissava le bocche dei fucili SS, senza ormai paura né odio. Era un martire, un eroe dell'ideale socialista che aveva sognato. Paul Hatzke sorrise davanti alla morte, e gridò con tutte le sue forze: « Viva la Germania! Viva Adolfo Hitler! » E crollò sulla sabbia. Il successivo ufficiale delle SA era già pronto per il suo turno. La carneficina proseguì tutto il giorno e parte della notte. « Ammazzateli appena li avete identificati! » aveva urlato Eicke quando gli era stato riferito che uno dei suoi vecchi camerati aveva chiesto di potergli parlare. Questa follia omicida infuriò in Germania per una settimana, e i massacri del 30 giugno furono utili per l'ascesa al potere di Himmler, di Eicke e di Heydrich: Himmler, già oscuro burocrate, Eicke, oste alsaziano, e Heydrich, ufficiale di marina degradato. Quindici giorni più tardi, i soldati appartenenti ai plotoni di esecuzione e tutti gli ufficiali, salvo quattro, vennero espulsi dalle SS. In tutto seimila uomini. Ne vennero giustiziati tremilacinquecento sotto pretesti vari prima della
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fine dello stesso anno. I sopravvissuti finirono nel campo di Borgemoor, dove quasi tutti morirono. Questa era stata un'idea di Eicke che aveva fatto sorridere di ammirazione Goebbels, Ministro della Propaganda, il quale annunciò che tutti quegli uomini erano caduti, combattendo contro la rivolta delle SA, e Rudolf Hess li celebrò come martiri. « È così che si scrive la Storia », commentò allegramente Eicke, brindando con Goering al quartier generale di quest'ultimo, in piazza Leipzig. Il piano di questo eccidio era stato predisposto e deciso già dal 24 giugno con il generale d'armata Walter von Reichenau, appartenente al comando superiore dell'esercito. Goering e Eicke in effetti, avevano fatto molta pressione perché l'esercito ufficialmente vi partecipasse, e i generali dell'esercito vennero a far parte delle SS. Quanto a Hitler, che era perfettamente al corrente della cosa, prese parte quello stesso giorno a un banchetto nuziale a Essen, presso il Gauleiter Terboven. L'ora del massacro suonò proprio nel pieno della festa.
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IL PARTIGIANO DAVANTI a noi cominciano a profilarsi da lontano i contorni della città di Stalingrado, e usciamo tutti dal carro armato, per vedere meglio questa densa e immensa nuvola di fumo ferma al disopra della città. Stava bruciando, così si diceva, dal mese di agosto, dopo le prime bombe degli aerei tedeschi. Ma per la verità non riusciamo a vedere che il Volga, un lungo nastro d'argento che riflette il sole d'autunno. Siamo reduci da una marcia estenuante e da combattimenti furiosi... Da quattro mesi vivevamo all'interno del carro... Vi si mangiava e si dormiva là dentro. Sole soste forzate il rifornimento di benzina e di munizioni, quando i camion blindati arrivavano fino a noi. I nervi erano a pezzi, si litigava e si veniva alle mani per delle sciocchezze. Un giorno Fratellino vuole spaccare la testa a Heide per una questione assolutamente insignificante di razioni di pane, e dal momento che tutti noi prendiamo le sue parti, Heide è costretto, per cento chilometri, a restare appeso al portello posteriore esterno. Solo quando, saturo di carbonio, cade a terra svenuto, lo issiamo nell'interno. Per tutta la giornata il carro avanza lentamente in direzione del Volga. Al tramonto, vediamo un altro carro immobile al limite di un bosco; il suo comandante fuma, seduto sul bordo della torretta, e tutto è così incredibilmente calmo che parrebbe di essere alle grandi manovre. « Finalmente! » dice il Vecchio, « ecco la compagnia. Avevo proprio paura di essermi perduto, queste mappe russe sono veramente una cosa impossibile ». Porta si ferma a qualche metro dal carro armato, apria-
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mo il portello per sentire un po' d'aria fresca d'autunno e ci asciughiamo come possiamo i visi coperti di sudore e di polvere. « Come va? » grida il Vecchio; « ancora un po' e non ci saremmo trovati. Dov'è il comandante di compagnia? » Ma nello stesso istante in cui sta per saltare a terra, il comandante dell'altro carro viene succhiato dentro come in una trappola e chiude di schianto lo sportellone della torretta. « È Ivan! Santo Cielo! » grida il Vecchio; « pronti al combattimento! » Prima che il carro sovietico sia riuscito a puntare il suo cannone, una nostra granata « S » superesplosiva fa scoppiare la torretta che esplode in un mare di fiamme. Ripartiamo immediatamente e facciamo una deviazione molto ampia ma, improvvisamente, a pochi metri da noi ecco altri T34 fermi, con i cannoni puntati esattamente sul tratto di strada dove siamo venuti a trovarci... impossibile fare marcia indietro, è troppo tardi! Ma i Russi non ci hanno riconosciuti e stanno godendo anche loro della tranquillità della serata. Porta involontariamente ha frenato nel vedere i grossi mostri nel suo periscopio, ma il Vecchio rimane impassibile. Sporge la testa fuori dalla torretta e da lontano e nella semioscurità il suo elmetto può indurre in errore, non è poi così differente da quello russo. « Avanti, e a tutta velocità! » bisbiglia nel microtelefono collegato con l'interno. « La sola possibilità di cavarcela è superarli come se niente fosse! » Porta cambia marcia. Qualsiasi imbecille si accorgerebbe della differenza dei motori, ma i Russi non sembrano per nulla diffidenti e sospettosi. Ci fanno grandi cenni di saluto, cui il Vecchio risponde cordialmente. Passiamo, e un'ora dopo vediamo apparire delle case disseminate
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lungo i due lati della strada. Un piccolo paese. Un treno merci, con la locomotiva già in moto, è fermo nella stazione; una lunghissima teoria di carri che formicolano di soldati, ma la semioscurità ci protegge e nessuno ci chiede nulla. Proseguiamo ancora: ora passiamo davanti a un quartier generale in piena attività. Un gendarme ci fa pressione perché sia lasciata la precedenza a un veicolo blindato di un generale. « Dawaj! (presto!) » grida agitando il bastone. Per un tratto di strada seguiamo sempre i carri sovietici. A un crocevia ingombro di cannoni anticarro, ci viene fatto cenno di proseguire in direzione di Stalingrado e passiamo davanti a una lunga colonna di T34 fermi lungo la carreggiata. Gli equipaggi evidentemente stanno dormendo all'interno dei carri. Il Vecchio ordina di aprire gli sportelloni, per non dare nell'occhio; nessun carro armato circola infatti a sportelloni chiusi, se non in combattimento. Un battaglione di fanteria occupa tutta la strada e ci piovono addosso un sacco di improperi mentre li superiamo. Tentiamo una nuova deviazione. Evitando il bosco rientriamo finalmente nelle linee tedesche. Tre giorni dopo arriviamo sulle rive del Volga, venticinque chilometri a nord di Stalingrado, e tutti ci precipitiamo sulle rive del fiume per riempire le borracce di acqua fresca. E poi, naturalmente, ognuno di noi vuole essere il primo a bere l'acqua del Volga! Un fiume immenso, dell'ampiezza di cinque chilometri, sul quale sta passando in questo momento un rimorchiatore che traina un convoglio di piccole scialuppe. Improvvisamente una batteria entra in azione: dei geyser d'acqua sprizzano da tutte le parti e il povero rimorchiatore procede a zig zag, nel tentativo di passare indenne in mezzo alle rose
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di tiro. Fatica sprecata! Una granata a poppa, poi una a prua, due nel mezzo, il rimorchiatore viene sventrato e cola a picco. Ora è la volta delle scialuppe che oscillano sulla corrente. Dieci minuti più tardi, non si vede più nulla sulla superficie dell'acqua. Stalingrado brucia. L'odore soffocante dell'incendio arriva fino a noi e provoca un fortissimo senso di nausea. L'aria è piena di fuliggine e di cenere. Questo odore spaventoso si attacca alla pelle, ai vestiti, a tutto... un odore repellente che ci rimarrà addosso per molti mesi anche dopo la battaglia. Abbiamo visto bruciare molte città, ma niente è mai stato simile a questo; nessun combattente di Stalingrado potrà mai dimenticare per tutta la vita l'odore di questa città morente che, cosa inaudita, attraeva e repelleva insieme. La compagnia si era piazzata di fronte alle colline di Mamajev, dove un intero stato maggiore russo si era trincerato all'interno di alcune grotte. Durante la notte, i nostri lanciamine seminano di bombe la collina, ma quando i tiri russi sono troppo corti, lo scoppio di queste bombe atroci quasi ci proietta fuori dalle nostre trincee. Essere interrati dentro le buche durante bombardamenti di questo tipo è una sensazione spaventosa. I carri armati avevano già attaccato, ma senza successo. Poi i bombardamenti avevano ripreso forza, terrificanti; a questo punto ci viene dato ordine di attaccare con la 14ª divisione panzer, e ci introduciamo nelle grotte prima con i lanciafiamme poi all'arma bianca. Che spaventoso lago di sangue! Un commissario politico con le stellette di comandante viene fucilato dal « commando » che riunisce i prigionieri e uguale liquidazione in massa viene eseguita nei confronti di tutta una sezione di truppe del Komsomol (organizzazione giovanile co-
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munista). È doveroso dichiarare che in questo massacro di prigionieri, nemmeno le SS hanno agito in piena convinzione. Era stato impartito un ordine dal quartier generale già dal 1942, una delle tante, delle innumerevoli idiozie che portarono come conseguenza la volontà cieca ed estrema da parte dei russi di combattere fino alla morte. L'estate era al suo termine, pioveva di continuo, la melma e il fango si incollavano agli stivali. Tre settimane di pioggia senza sosta. Tutto odorava di muffa, le uniformi, il cuoio e la nostra stessa pelle, malgrado una certa polvere distribuita dall'infermeria e che comunque non serviva a nulla. Si era giunti a rimpiangere la polvere soffocante dell'estate. Dopo la pioggia arriva il freddo, con le prime gelate, ma era ancora proibito mettere il pastrano, e d'altra parte molti non lo possedevano nemmeno. L'avevamo buttato da qualche parte nella steppa, quando la temperatura era di quaranta gradi all'ombra. Dei rifornimenti di uniformi invernali stavano per arrivare, così si diceva, ma per il momento la sola cosa che continuava ad arrivare erano delle nuove unità. Dei lunghi convogli di riservisti o di reclute quasi imberbi, che con un'incoscienza atrocemente eroica, si buttavano davanti alle mitragliatrici nemiche. Una vera carnefìcina, e così terribilmente inutile! La maggior parte rimaneva attaccata ai fili spinati dopo il primo attacco, e noi eravamo costretti a sentirli morire, impotenti. Venivano spediti direttamente dalle loro caserme a Stalingrado, senza alcuna esperienza di guerra, solo imbottiti di parole e di menzogne della propaganda. Il primo attacco di artiglieria aveva stroncato la loro anima, e marciavano con gli occhi stralunati contro le armi automatiche russe. La nebbia che saliva dal Volga
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avvolgeva questi moribondi in un sudario ghiacciato. Questi ragazzi di diciassette anni non si lamentavano nemmeno, questi poveri ragazzi che erano stati costretti loro malgrado a diventare dei volontari. Un soldato tedesco non piange, sarebbe vile. Molti di loro, con il petto squarciato, morivano lentamente asfissiati. Riuscivamo a raccoglierne qualcuno, ma era estremamente difficile e rischioso. Si scivolava sui brandelli di carne umana e sui cadaveri coperti di fango, e se il nemico ci individuava, quale facile bersaglio eravamo! L'altro giorno sette dei nostri sono stati uccisi proprio in questo modo. Ci era stato promesso un giorno di permesso ogni venti reclute salvate, ed era molto allettante, ma siamo stati costretti a desistere da questi salvataggi che costavano troppo cari a noi combattenti di lunga esperienza. L'anello si stringeva intorno a Stalingrado, dove tre armate russe dovevano essere chiuse in una morsa. « La più grande vittoria dopo molti secoli », proclamava la propaganda, ma di vittorie noi eravamo saturi. Basta con le vittorie! Che finisse la guerra, questo sì! Solo il sottufficiale Heide, un vero fanatico, è contento. « Un bel colpo, non c'è niente da dire! Ora prendiamo questo tratto di fiume e poi via di filato fino a Mosca! » Ci esaspera. Il Comando della 8a Armata italiana chiede all'Alto Comando Tedesco l'onore di poter entrare per primo a Stalingrado. La bandiera italiana doveva sventolare sopra Ottobre Rosso, la grande acciaieria. Ma poi gli Italiani entrano in contrasto con i Rumeni che vogliono anche loro la stessa cosa. « Cosa vuoi che ci freghi di chi prende per primo que-
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sta puttana di città! » sghignazza Porta, « la sola cosa che mi interessa è di trovarmi dietro qualcuno! Ma quello che mi stupisce è che gli spaghetti siano diventati improvvisamente così coraggiosi! Di solito non piace affatto a loro, essere un po' troppo vicini a dove si spara! » La zona comincia a formicolare di italiani e di rumeni. Dalle nostre trincee stiamo a guardare le loro lunghe colonne che marciano cantando, soprattutto i bersaglieri con la loro comica andatura. Fratellino si mette a correre di fianco a loro per qualche metro, ma non gli riesce e smette. Ci vogliono anni di esercitazioni per riuscire a stare al loro passo. I Rumeni hanno i polpacci nudi e camminano con gli stivali legati sulla schiena; pare che detestino qualsiasi calzatura. Una mattina, in attesa della caduta di Stalingrado, ci viene dato ordine di compiere una missione, dietro le linee russe. Si tratta di far saltare un ponte così ben mimetizzato che gli aviatori non sono mai riusciti a individuarlo, un ponte molto importante strategicamente, che serviva giorno e notte agli approvvigionamenti russi al fronte. Ma per giungervi, ci avvertono che dobbiamo attraversare un'immensa palude. Una palude è, di per se stessa, una cosa orribile. In più ciascun uomo, oltre al proprio equipaggiamento, porta appeso al torace un carico di almeno trenta chili di dinamite che lo appesantisce enormemente e lo soffoca. Durante il giorno ci si nasconde nella macchia più folta e nei cespugli, la notte si cammina. Al secondo giorno appare la grande palude nella quale si affonda fino alle ginocchia. Non vi è niente di più traditrice di queste paludi russe; dappertutto la morte vi spia sotto il tappeto d'erba umida, delle rane enormi gracidano di continuo. Improvvisamente, una di queste ci salta pro-
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prio davanti e ci fissa con i suoi occhi giganteschi; è uno spettacolo talmente ripugnante che i nervi di Gregor cedono; butta sul rospo una granata il cui scoppio rimbomba in tutto il bosco. Immediatamente dopo, un grido, un motore avviato, dei cingoli che stridono... Terrorizzati ci appiattiamo il più possibile nell'erba. « Ivan ci ha beccati », bisbiglia Porta. « Filiamo! » dice Gregor. Ma dove filare? Tutto intorno a noi la palude senza fine e traditrice, davanti a noi i Russi le cui grida diventano sempre più distinte. Il muso verde oliva di un T34 appare, sinistro, tra gli alberi. Il cannone ruota e brandeggia lentamente, passa davanti a noi e punta verso la palude. Tre granate... i cingoli stridono, il carro si arrampica pesantemente sull'argine... ma improvvisamente lo vediamo affondare nelle sabbie mobili, viene avviluppato dal fango, slitta, e improvvisamente si rovescia... nel ribollimento del limo il pesante carro a poco a poco sparisce nella palude insondabile. Subito arrivano di corsa dei granatieri sbigottiti. Per quale ragione il carro era sparito, e come? La mitragliatrice di Barcelona si muove lentamente e punta le sagome scure. Silenzio angoscioso. Cosa fare? Bisogna scappare prima che i russi si riprendano dallo stupore. Eccone là uno! Un sergente maggiore che appare sul crinale e prudentemente si guarda intorno. Altri lo seguono; gli elmetti verdi si moltiplicano. Pioggia di granate. L'acqua e il fango schizzano da tutte le parti. « Dawaj! Dawaj! » grida il sergente maggiore, un ometto dalle gambe arcuate con degli stivali troppo grandi per lui. « Dawaj! » « Fuoco! » ordina il Vecchio. Il primo a cadere è proprio il sergente dalle gambe
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arcuate; gli altri sprofondano lentamente nella melma e un grande silenzio di nuovo copre tutta la palude. Un silenzio assoluto. Per un'ora ancora aspettiamo immobili, appiattiti, ma improvvisamente un nuovo rumore ben noto di cingoli... un carro armato sta salendo il pendio dell'argine, procede lentamente, si vede già la parte superiore della torretta. Questa ruota silenziosamente, il grosso tubo lanciafiamme si abbassa, una sottile lingua rossa ne scaturisce e si espande tra gli arbusti della palude. Il calore è quasi intollerabile. Pensano evidentemente che siamo sempre nella medesima posizione che ora si è trasformata in un mare di fiamme. La torretta ruota lentamente, il fuoco inonda la palude. Tutto brucia. Per la terza volta l'inferno scaturisce da questo tubo. Ci immergiamo il più possibile nel fango; se il lanciafiamme punta verso di noi siamo spacciati. Ma un elmetto marrone di cuoio emerge dal portello della torretta, un viso annerito esamina attentamente la zona. Porta alza lentamente il suo lanciafiamme... Siamo col fiato sospeso. Che Dio abbia pietà di noi, se sbaglia la mira anche di poco! Sui suoi lineamenti tesi, non vi è più l'ombra del suo solito sorriso. Prende la mira con estrema cura... Tre getti successivi e il liquido rovente è proiettato con assoluta precisione all'interno della torretta aperta! Un'esplosione spaventosa squarcia l'aria proiettando tutt'intorno pezzi di lamiera e membra umane... Per questa volta ancora è finita. Proseguiamo dandoci il cambio e Porta è capofila sul sentiero semisommerso: dei tronchi d'albero legati assieme a cinquanta centimetri uno dall'altro sulla superficie fangosa permettono a un uomo di passare, ma è estremamente pericoloso! Se si scivola, non vi è nessuna speranza di uscirne, la palude non abbandona mai la
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sua preda. E sappiamo per esperienza che una pista di questo tipo è seminata di insidie, le insidie più ingegnose. Spingete un ramo da un lato, e il suolo sprofonda sotto i vostri piedi, ne sollevate un altro e vi trovate infilzati in un fascio di baionette. Da un ramo pende una liana innocente, la si sfiora soltanto e una serie di proiettili uccide un'intera colonna. Porta avanza lentamente, il lanciafiamme puntato. Si ferma ad ogni passo... spia... il passo successivo può rappresentare la morte per lui. Cerchiamo di non sfiorare nemmeno un ramoscello al nostro passaggio; a un certo punto siamo costretti anche a fare dell'equilibrismo sopra un lungo tronco per evitare delle baionette piantate nel legname marcito; una semplice scalfittura ed è il tetano. Perfino un piccolo innocuo riccio ci fa morir di paura. Si dice che questi animali sono legati a delle trappole. Fratellino cammina dietro Porta, la pistola con la canna puntata verso l'alto, contro eventuali tiratori nascosti sugli alberi. Se si ha appena il sospetto della presenza di un tiratore isolato, è questione di secondi, bisogna cercare di sparare per primi, ed è molto difficile scoprirli. Nessuno riesce a superare i Russi in fatto di mimetizzazione. Ventiquattro ore sulla cima di un albero senza assolutamente muoversi, un siberiano vi resiste, l'abbiamo visto. Gli uccelli sono indotti in errore. L'uomo viene letteralmente a far parte dell'albero ed essi vanno ad appollaiarsi su di lui. Bruscamente, senza avvertirci e senza un'apparente ragione, Porta si immerge completamente nell'acqua. Solo la testa sporge dal filo dell'acqua. Ci fa un cenno, ci infiliamo in bocca le cannucce respiratorie e procediamo nuotando: i nostri elmetti mimetizzati ci rendono quasi invisibili sulla superficie dell'acqua. Passano
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dieci minuti. Nulla. Allora, lentamente, alziamo la testa. Un uccellino verde e giallo è posato su un tronco fradicio e semisommerso. Strano uccellino. Agita la coda verde, china la testa, fischia, fa l'occhiolino. Quest'uccellino così bello è molto pericoloso, può fare da richiamo. Il nostro istinto di animali da preda ci ha messo in allarme: il nemico deve essere là. Porta avanza in ginocchio; solo un lievissimo movimento dell'acqua denuncia la sua presenza. Salvo il canto dell'uccellino il silenzio è assoluto, ma questi ruota il capo da una parte e dall'altra come se intuisse che Porta si sta avvicinando sott'acqua. Il piccolo legionario si infila il coltello tra i denti; Porta emerge dall'acqua, butta un'occhiata intorno, e con un gesto lento ed esitante tende la mano verso l'uccellino. Due ombre si gettano su di lui, ma una pistola mitragliatrice spara in tempo, mentre il legionario pianta il suo coltello nella schiena di una delle due grosse sagome verdi. Per una volta ancora, ce l'abbiamo fatta. L'uccellino vola via pigolando, scompare in mezzo a un cespuglio, e per qualche minuto stiamo ad ascoltare il suo grido così strano. « Dio, che tensione! » bisbiglia il Vecchio, che per poco non inciampa in un tronco d'albero. « Attenzione, disgraziato! » urla il legionario. Dei fili sottilissimi passano attraverso un ramo e collegano il tronco marcito a una carica esplosiva nascosta sotto il sentiero. Il Vecchio diventa livido. « L'hai scampata bella! » sghignazza il legionario, « ma per Allah, che vita! » Ora è Barcelona che incespica e dà un grido: il braccio del Vecchio lo afferra e lo riporta sulle assi che oscillano a tradimento. Tutta la palude sembra immobile
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ad ascoltare, persino le rane tacciono. Ma per Dio, che vita! Qualche ora dopo. Camminiamo sempre cauti e arriviamo a una capanna di frasche. Vi sono seduti tre uomini e una donna, vestiti da partigiani della palude. La visiera verde è alta sopra le loro teste, la vodka circola, sono talmente ubriachi che non ci hanno nemmeno sentiti avvicinare. Senza il minimo rumore, piombiamo loro addosso, e strangolatili con i nostri lacci di acciaio, li buttiamo poi nella palude. Ma la capanna contiene anche molte sorprese. Munizioni, armi, ma soprattutto della vodka e del pesce affumicato e salato. Uno splendido banchetto a base di pesce affumicato russo! La notte trascorre nella capanna, una notte di riposo e di vodka. E il giorno seguente arriviamo finalmente al ponte. Era un ponte colossale, più grande e più alto del più gigantesco dei ponti che avessimo mai visto! Nel centro, all'interno della garitta, una sentinella vigila fumando, la pistola automatica posata sul parapetto. Delle grandi reti mimetiche ricoprono tutta la struttura. Proprio in questo momento una lunga colonna di camion procede lentamente sul ponte, seguita da una compagnia di T34. La sentinella, rigida sull'attenti durante il passaggio delle formazioni, riprende il suo atteggiamento pigro e annoiato appena queste sono fuori vista. Come tutti noi, anche quest'uomo deve essere assolutamente indifferente allo svolgimento e alla condotta di questa guerra: probabilmente stava sognando il suo vil-, laggio. Da lontano ci arriva il fortissimo e acre odore del suo Machorka, il tabacco russo di poco prezzo. Era un uomo non giovane, con dei baffi tristi dalla punta rivolta ali'ingiù secondo la foggia cinese; sul lato della
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bocca una sigaretta male arrotolata, sulle spalle un camiciotto verde estivo a collo aperto e in testa un berretto di pelo. Che comica uniforme! « Mi sa che anche loro manchino di uniformi invernali! » commenta Fratellino, « proprio come da noi. Se si riceve in dotazione un berretto di pelo, bisogna poi accontentarsi di una camicia estiva, e se si riceve un pastrano, trovalo poi il berretto giusto! » Dobbiamo strisciare sotto il ponte per piazzare le cariche esplosive. Il legionario si arrampica come una scimmia lungo i piloni di cemento, Gregor e Heide si devono occupare dei cavi. Fratellino e Porta litigano per il collocamento della miccia. Nuova colonna di camion che procede sul ponte, ma questa è preceduta da una jeep con la bandiera rossa... Munizioni. « Se solo fossimo pronti! » bisbiglia Porta. « Pensa che fuoco d'artificio! » « Non dire cretinerie! » lo riprende il Vecchio. « Lo spostamento d'aria ci spedirebbe all'inferno con loro. » All'alba tutto è pronto, quando vediamo comparire un'ennesima colonna. « La faccio saltare quando è proprio nel mezzo », sghignazza Fratellino, fregandosi le mani. « Poche storie, ragazzi. Ci pagano per far saltare un ponte e nient'altro, intesi... Pronti? » comanda il Vecchio, non appena la colonna è scomparsa... « Fuoco! » Tutti corriamo ad appiattirci dietro le rocce. Quelli che hanno tardato qualche secondo vengono buttati a terra dallo spaventoso spostamento d'aria. Ma cosa... Ma cosa... ci stropicciamo gli occhi. I piloni sono scomparsi, naturalmente; e la struttura metallica si è volatilizzata, ma l'intero piano stradale in cemento armato pur cedendo si è
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afflosciato quasi intatto sotto la superficie dell'acqua. Pieno di fenditure e di crepe, ma sempre in grado di lasciar passare dei veicoli! Abbiamo nostro malgrado costruito il ponte più solido del mondo... nessun aviatore può più individuarlo! Questa volta è una risata generale. Attraversiamo il fiume correndo sul ponte, e nel centro l'acqua ci arriva solo alle ginocchia. « Non si può nemmeno nuotare », scoppia a ridere Gregor. « Basta! » tronca il Vecchio. « Adesso filiamo. Tra cinque minuti, finita la festa, intesi? » Eccoci di nuovo nella foresta. Sentieri, torrenti, ma sempre la foresta. Non c'è dubbio, dobbiamo esserci perduti. A un tratto, vediamo un boscaiolo. Un vecchio che taglia la legna davanti alla sua capanna. « Buongiorno, Tovaritch! » gli dice Porta gentile. Il boscaiolo, sorpreso, solleva il capo. È vecchio, così vecchio. I suoi occhi di un azzurro straordinario, sono coperti da sopracciglia foltissime. Lascia cadere la sua ascia, ci guarda curiosamente, poi si rivolge a Porta con l'aria più naturale del mondo. « Ah, sei tu? Dove diavolo eri andato a finire per così tanto tempo? » « Sono stato in guerra », risponde Porta, sullo stesso tono. « I tedeschi sono ritornati, non lo sai? » « Davvero? Allora bisogna ributtarli fuori », risponde il vecchio, spaccando con violenza un pezzo di legno. « E come sta tua madre? » chiede guardando Porta. « La vecchia sta bene, grazie. » « Bene. E tu, ne hai ammazzati tanti di tedeschi? » « Qualcheduno, probabilmente », risponde Porta tendendo del tabacco al vecchio. « Tabacco militare », sentenzia il boscaiolo, e riprende
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il suo lavoro senza più occuparsi di noi. Ci affrettiamo a scomparire tra i pini, e per molto tempo ancora sentiamo i colpi d'ascia. Dobbiamo aver girato in tondo, e con incredibile esattezza per di più dal momento che ci troviamo di nuovo davanti al famoso ponte! Qui il Vecchio, nonostante il rischio di cadere sulle truppe russe, decide di seguire il corso del fiume. Ed ha ragione. Due giorni dopo infatti siamo di ritorno nelle linee tedesche e il Vecchio presentatosi al comando, dichiara: « Missione compiuta », senza aggiungere altro. Fa sempre più freddo; ormai sta cominciando l'inverno. Una notte viene anche la prima tormenta di neve, e non avendo cappotti pesanti, ci foderiamo le uniformi con della carta. Nessuno crede ormai più alla « grande vittoria di Stalingrado ». I convogli di truppe non arrivano più, gli approvvigionamenti vengono paracadutati, delle strane voci corrono tra i soldati; si dice che i Russi sono già alle nostre spalle; le razioni diminuiscono e ci viene dato ordine di non sprecare munizioni. Che freddo, Dio che freddo! Si parla già di membra congelate... alcune anche causate volontariamente. Due della nostra compagnia, che avevano tenuto addosso durante la notte i loro stivali umidi, vengono fucilati nella vicina foresta di Tatare.
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L'SS Standartenführer, con un gesto di soddisfazione volutamente palese, buttò sul tavolo dell'SS Sturmbann-führer Lippert, il telegramma « Segretissimo », appena arrivato. «L'ora è suonata, Michel. Ordine di finirla con questi traditori. Finalmente si liquidano tutti dal primo all'ultimo questi maiali dell'Armata! » La grande Porsche, che batteva la bandiera personale di Eicke, lasciò Dachau per dirigersi velocemente verso Monaco, con Eicke e Lippert seduti nei sedili posteriori. Durante il percorso, prelevarono l'Hauptsturmführer Schmausser. I tre ufficiali arrivarono alle tre del pomeriggio nell'ufficio di Koch, direttore della prigione centrale della città, e gli ordinarono di consegnare loro immediatamente il prigioniero Rohm, capo dello stato maggiore. Koch rifiutò recisamente, pregando i tre SS, peraltro quasi ubriachi, di scomparire dalla sua vista sotto pena di essere a loro volta arrestati. Il suo pugno sul piano della scrivania fece sobbalzare il calamaio, dopo di che egli afferrò il ricevitore del telefono e chiamò personalmente il Ministro della Giustizia. Questi rifiutò a sua volta di consegnare il capo di stato maggiore, e proibì categoricamente di permettere a Eicke e a tutta la sua banda di entrare nella prigione. A questo punto si vide Eicke strappare il telefono di mano al direttore della prigione, che rimase senza fiato per l'ansia e l'indignazione. « Sono qui per ordine diretto del Führer », urlò nell'apparecchio, « e ho molta fretta. Non ho tempo da perdere per delle questioni di regolamento, e se non obbedite immediatamente, vi avverto che ci sono ancora molti posti liberi per tutti voi, a Dachau! » Il direttore della prigione, livido, ascoltava la risposta affannosa del Ministro della Giustizia. Con la mano che gli tremava, rimise il ricevitore sull'apparecchio, chiamò la prigione e diede ordine che lasciassero entrare Eicke e i
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suoi accoliti. Cella 474. Su un bancone di legno era seduto il prigioniero, l'SA Stabschef Ernst Rohm, a torso nudo e madido di sudore. Eicke gli sorrise affabile, e strinse la mano del capo di stato maggiore con voluta e gioviale amicizia. « Come stai, Ernst? » « Male », rispose Rohm con un sorriso stanco e assente. Eicke si sedette vicino a lui, e indicò col dito la piccola finestra dalla quale si intravedeva il cielo azzurro di luglio. Il caldo era soffocante. « Bel tempo, Ernst. Le ragazzine vanno a spasso senza le mutandine sotto la gonna, e quando scendono le scale della cave di Ole, si può vedere tutto fino al settimo cielo! Ha alzato i prezzi infatti, lui. Cosa ne diresti di una mezz'oretta sdraiato in una bella poltrona sotto le scale della cave di Ole? Come spettacolo sarebbe splendido, te lo garantisco io. » Rohm scosse la testa e si asciugò la fronte con un fazzoletto sporco. « Sei venuto a trovarmi, Theo? Ti confesso che non riesco proprio a capire perché mi trovo in prigione! Il Führer avrebbe dovuto già essere al corrente, di questo equivoco assurdo. Le guardie qui dentro parlano di rivoluzione, ma di cosa si tratta, in sostanza? Proprio non capisco. È possibile che l'Armata abbia fatto delle gravi sciocchezze? » Eicke scrollò le spalle. Si tolse il berretto marrone con la testa di morto, ne asciugò l'interno con un fazzoletto e se lo cacciò di nuovo in testa, il più indietro possibile. La testa di morto ora guardava il soffitto della cella. « Ernst, vecchio mio, tutto questo è una vera merda, lo riconosco. Ma io, in questo momento vengo da parte del Führer stesso, e ti porto una cosa da parte sua. » Tolse di tasca una rivoltella, che depose sul bancone, in mezzo fra loro due. « Il Führer è sempre molto comprensivo, tu mi capisci vero, quando le cose si mettono male per un suo vec-
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chio camerata. Vuole darti questa chance particolare, Ernst, dopo di che sarà finita con questa storia. Ci passeremo sopra un colpo di spugna. » Rohm fissava il revolver con aria incredula, questo revolver nero e luccicante di olio: un pezzo di acciaio senza pietà. « Ma è una follia, Theo! Tu mi conosci bene! Tu sai che io sono un fedele tra i fedeli... ho messo il Partito al di sopra di ogni cosa, ho sacrificato la mia famiglia, i miei figli... Non ho forse salvato il Führer due volte quando la rivoluzione era sul punto di travolgere anche noi? Ti ricordi la notte di Stoccarda? È stata una questione di secondi... Wollweber e i suoi comunisti stavano per avere la meglio, e sono stato io che ho salvato il Führer! Tu, anche tu eri scappato via di furia, con tutti gli altri capi di sezione! » « Ascolta, Ernst. Tutto questo appartiene al passato. Può anche darsi che la ragione ti abbia abbandonato un istante quel giorno, quando hai aderito all'Armata, ma è tutto qui, non c'è nient'altro. Purtroppo, invece, sei stato radiato dal Partito, e questo mi duole molto, vecchio mio! » Si alzò e sì rimise in sesto il cinturone. « Io aspetto fuori. Cerca di non rendere le cose ancora più difficili a un vecchio camerata e sbrigati a farla finita. D'altra parte non hai che da leggere qui! », Tolse di tasca un numero del Vòlkischer Beobachter e lo tese a Rohm. Vi si leggeva a caratteri cubitali in prima pagina: « Il capo di stato maggiore Rohm arrestato. Purga totale nelle SA, in base agli ordini del Führer. Tutti i traditori devono essere eliminati ». « Ma infine! » mormorò Rohm divenuto pallidissimo, « siete diventati tutti pazzi? Questo è un assassinio! » « Tutta la politica è menzogna, Ernst, e tu non hai avuto fortuna, ecco tutto. Chi sa? Domani potrebbe essere il mio turno. » Eicke girò sui tacchi e uscì nel corridoio per raggiungere
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i due SS che stavano parlando delle meravigliose visioni che la cave di Ole offriva. Passò un quarto d'ora senza che si sentisse alcun rumore dalla cella 474. Eicke perse la pazienza, tolse dalla fondina la pistola e aprì la porta della cella con un calcio. Rohm non si era mosso, era sempre seduto sul bancone immobile, con a fianco la pistola dove Eicke l'aveva posata. « Stabschef Ernst Rohm! In piedi e sull'attenti! » Come stordito, Rohm si alzò lentamente e andò sotto la finestra, la schiena contro il muro. Eicke alzò il braccio e mirò con inaudito sangue freddo la sua vittima. « Mio Führer! Mio Führer! » mormorò Rohm prima di crollare a terra. Non era morto ancora e si torceva negli spasimi sul pavimento ruvido della cella. Uno degli uomini più potenti della Germania solo tre mesi prima, ed ora un cadavere coperto di sangue disteso in una sordida prigione di Monaco. Eicke, il volto rigido come una maschera di pietra, gli diede brutalmente un calcio col piede. Che cosa provava nel suo intimo, guardando per l'ennesima volta un suo camerata morente? Nulla, assolutamente nulla. Il colpo di grazia colpì e spezzò il capo del prigioniero. Lo Stabschef Ernst Rohm, il migliore amico di Adolfo Hitler, il rivale più potente dell'Armata, fu assassinato così nella prigione centrale di Monaco, esattamente alle ore 18 del primo luglio 1934. Lo stesso giorno, si stavano completando gli ultimi preparativi per un grande banchetto a Potsdam, al quale Hitler aveva invitato tutta l'alta società germanica. Una festa come non se n'erano più viste dal regno di Guglielmo I. Tutti gli invitati intervennero, naturalmente, e si compiacquero del ritorno dell'ordine nell'intera Germania, e della conclusa repressione della Rivoluzione.
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LE SLITTE MOTORIZZATE DA qualche giorno la nostra vita nelle retrovie era diventata quasi sopportabile. Tutte le notti, due ore di lavoro in trincea, ma le vecchie volpi di prima linea sorridono di questo. Per i nuovi arrivati, invece, non si può negare che fosse realmente una prova durissima. Per noi la cosa era diversa, noi sapevamo dove e come nasconderci quando tutto il terreno intorno era sotto il tiro intenso delle mitragliatrici russe. I lanciagranate stessi non ci impressionavano più, eravamo in grado di percepire una granata già dalla sua partenza, e Porta era arrivato perfino a prevedere il punto esatto dove questa sarebbe scoppiata. È inaudito come la guerra riesca a renderci così accorti! Tutta la notte si giocava a carte, a 17-4 e Porta vinceva nove volte su dieci. Tutto questo avveniva in una stalla dove Porta e Fratellino stavano scontando tre giorni di arresto di rigore, ma era facile abbastanza entrarvi, strisciando attraverso il pertugio dei polli. Tutti e due erano stati incatenati alla mangiatoia, provvedimento del resto perfettamente inutile; perché infatti avrebbero dovuto pensare a fuggire? Era una tale meraviglia stare in prigione! Esenti dal servizio, completo riposo tutta la giornata, e la sera gli amici a giocare a carte. Si poteva sperare qualcosa di meglio in una vita da cani come la nostra? Ma era da poco che ci trattavano così bene; prima si veniva legati a un albero, le mani dietro la schiena. Attaccati così per dodici ore di seguito, poi tre ore di libertà, e tutto questo per almeno otto giorni filati. Anche Fratellino arrivava a svenire, quasi! I due erano stati messi agli arresti perché avevano
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conciato molto male un ufficiale addetto alla posta, ma la punizione finiva l'indomani, purtroppo, cosa che affliggeva enormemente Fratellino. « Avremmo dovuto conciarlo ancora peggio, allora sarebbero stati tre bei mesi di fortezza; che fregatura! » Dei passi all'esterno. Il Vecchio dà un'occhiata attraverso lo stallo polveroso. « Cambio della guardia », riferisce. « Accidenti, state a vedere che adesso le cose si mettono male! » Quando il Vecchio dice che le cose si mettono male, non si sbaglia mai. Queste cose lui le fiuta da lontano. Approfittando della disattenzione momentanea Fratellino bara, Heide si accorge e lo investe di improperi, il gigante allora minaccia di accopparlo di botte, ma, fuori di sé, non si ricorda della catena che gli tiene legate le caviglie, e cade per terra faccia in giù; tutti scoppiano in una risata, volano le carte dappertutto, si fa sparire il denaro nei nascondigli della stalla semibuia e la bagarre finisce in un rotolio di catene. Purtroppo sono il più giovane del gruppo, e sono io che devo andare a prendere il caffè alla cucina del campo. Che seccatura, tutte le corvées toccano a me. Anche se sono già allievo ufficiale, galoppo come una recluta fino alla mensa; qui il cuciniere che detesta gli allievi ufficiali mi investe di improperi, e io maledico mentalmente i miei due nastrini d'argento sulle spalline. Alla fine mi danno il caffè, ma non è finita! Tornando indietro, inciampo su una bomba disinnescata e casco per terra rovesciando quasi tutto il contenuto della borraccia. Che almeno gli altri non se ne accorgano! Speranza del tutto vana. Heide mi accusa di averlo bevuto per strada, e tutti furiosi, mi rispediscono alla cucina da dove vengo buttato fuori. Devo scongiurare il sottocuoco per farmene dare almeno un altro bricco
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pieno. L'indomani, finito il riposo forzato. Ordine di preparare il convoglio di slitte motorizzate; il nuovo contingente deve essere trasportato in prima linea. Prima della partenza viene distribuita la posta, ma non c'è che una lettera per il Vecchio; a turno, la leggiamo tutti: è di sua moglie, che lavora come manovratrice di un tram della linea 12 a Berlino. « Caro Willie, perché mi scrivi così poco? Non abbiamo nessuna notizia tua già da otto settimane, e siamo tutti così angosciati! Tutti i giorni veniamo a sapere della morte di qualcuno che conosciamo; ci sono già cinque pagine intere di annunci mortuari sui giornali, così abbiamo i nervi a pezzi, e la settimana scorsa ho avuto un incidente... Vedrò se riesco a farmi sostituire e prendere il posto di bigliettario, è veramente troppo faticoso guidare, soprattutto adesso che dobbiamo fare dei turni di dodici ore dato che la mano d'opera maschile manca in tutti i settori. Non si vedono quasi più uomini, infatti; quelli che sono restati a casa hanno certamente degli appoggi per cui evitano di fare qualsiasi cosa. Hans Hilmert è caduto a Kharkov. Due uomini del Partito sono venuti ad annunciarlo ad Anna che è svenuta e adesso è all'ospedale. I bambini sono all'Istituto per l'Infanzia, anche se molti di noi del quartiere si sarebbero volentieri presi questo incarico, ma il capoblocco si è opposto perché è il Partito che decide tutto. Socke, il nostro vicino di casa, è stato ferito molto gravemente in Grecia. Hanno detto a Trude che, appena starà meglio, lo rimanderanno a Berlino. Jochem studia bene; è stato mandato in un'altra scuola, dato che la sua è stata bombardata la settimana scorsa, e molti ragazzi sono rimasti uccisi; abbiamo lavorato anche noi tutta la notte per sgombrare le macerie, ero folle di paura, ma
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grazie a Dio, il nostro ragazzo era sano e salvo, e ora tutti vanno a scuola a Grünewald. Solo che devo alzarmi un'ora prima per accompagnarli, e Gerda, Use e io ci diamo il cambio; devono cambiare treno alla stazione di Schlesigher e potrebbero sbagliarsi; e poi ne succedono tante in questi momenti che io non mi fido. La ragazzina che è scomparsa in settembre è stata ritrovata a Tiergarten, ma del suo assassino neanche una traccia. Abbiamo fatto fare un ingrandimento a colori della tua fotografia, così ci sembra di averti con noi. Avrai presto un permesso? È più di un anno che non torni a casa in licenza! Dove sei? Si parla molto di Stalingrado, mi auguro che tu non sia proprio lì, dicono che è una cosa spaventosa! Hohne, del primo piano, era appena tornato a casa in permesso, ma dopo solo due giorni è stato richiamato con un telegramma al reggimento. Stava per partire quando due gendarmi son venuti a prenderlo e ora sua moglie è quasi impazzita dalla paura, e teme che magari sia implicato in qualche brutta storia. Nessuno ha voluto dirle di cosa si trattava, nemmeno alla Kommandantur dove lei è stata un giorno intero ad aspettare. Mio Dio! Come è crudele questa guerra! Hanno diminuito ancora le razioni; la settimana scorsa sembrava che avrebbero messo in vendita della carne di cavallo appena macellata senza buoni della tessera nella Tauenzienstrasse, ma sono arrivata troppo tardi; domani proverò alla Moritz Plazt; i bambini avrebbero così bisogno di carne fresca, e con questa risparmierei anche dei buoni. Willie, mio caro, ti supplico abbi cura di te! Cosa sarà di noi se tu non torni? Ecco le sirene... un allarme! Sono gli Inglesi, vengono sempre tra le cinque e le otto, ma per fortuna, abbiamo appena avuto tre giorni di pace. Scrivi, mio caro, noi ti abbracciamo tutti.
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Liselotte P.S. non temere per noi, ce la caviamo. » Era ancora quasi buio, al momento della partenza. Un vento gelido sollevava nuvole di neve e il cielo comprimeva la terra come un'immensa mano grigia. Il cannone tuonava a Jersowska; stavano sempre bombardando Stalingrado. Si diceva che una divisione russa era stata accerchiata a Rynok e che l'industria dei trattori dell'isola di Barricady era stata distrutta; si diceva anche che la 100a divisione di fanteria cacciatori e la la carristi rumena erano state annientate, ma cosa non si diceva ancora! La 2a divisione di fanteria rumena invece, è passata in blocco dalla parte dei Russi l'altro giorno, ma i più sono stati fucilati alla schiena dalle truppe tedesche mentre si precipitavano verso le rive del Volga. I cadaveri sono stati lasciati sul posto per servire da monito agli altri e il loro comandante è stato impiccato a testa in giù, davanti alla fabbrica Spartakos. È là anche ora e oscilla al vento. Mezzo congelati, cupi e astiosi, montiamo sulle slitte motorizzate. Dobbiamo essere al fronte con il nuovo contingente prima delle undici, vale a dire prima che l'artiglieria nemica inizi il cannoneggiamento. Questi maledetti sono così precisi, che si potrebbe regolare il proprio orologio tutti i giorni, e anche a una velocità molto sostenuta, il percorso è lungo dovendo attraversare Selwanoff e Serafimowic. Alla minima disattenzione si cade in pieno nelle linee nemiche. È già successo che una slitta che filava a centoventi chilometri all'ora, pur frenando al massimo non sia riuscita a evitare di attraversare le linee tedesche senza potersi fermare ed è piombata nelle linee russe. « Muovetevi, sacchi di patate! » grida il Vecchio alle
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reclute mezzo congelate e sfinite che si arrampicano sulle slitte blindate. Trentacinque uomini per slitta. Il tenente Wenck prende posto in quella delle munizioni. È uno dei nostri, quello lì, un vero ufficiale del fronte. La sua slitta è la terza della colonna, posto di una certa sicurezza essendo meno esposto alle mine dei partigiani che colpirebbero le prime. È Porta in testa alla colonna. Ha un intuito da cobra nel fiutare la presenza di queste mine semisotterrate sulla pista. Fratellino è seduto di fianco a lui sul sedile anteriore, la mitragliatrice puntata fissata al parabrezza, una carica di granate già decapsulate a portata di mano. Barcelona e io ci issiamo dietro a Porta, la MG puntata in verticale, perché succede spesso che durante un trasporto su strada si viene bombardati. « In marcia! » comanda il tenente Wenck. « E tenete la distanza regolare fra una slitta e l'altra. » La colonna si avvia, facendo vibrare tutte le case del villaggio. I pattini cigolano sul terreno sconnesso, gli uomini si tengono aggrappati alle sbarre laterali del veicolo. Porta guida come un folle. La slitta che pesa tre tonnellate si arrampica sulla collina come un bolide, decolla sulla vetta, e ricade pesantemente sulla pista. Siamo già a metà della seconda collina, e ci teniamo ben saldi in previsione dell'urto che subiremo oltre la sommità. « Tenetevi bene, imbecilli! » sghignazza Porta, aggrappandosi anche lui al volante per non essere sbalzato fuori. La slitta fa un salto in aria, e ne fa un secondo prima che Porta riesca a riprendere il controllo del veicolo. « È l'ultima volta che monto sulla tua slitta, cretino! » urla Heide terrorizzato.
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« Tanto meglio! » gli risponde Porta sputando una sorsata di vodka che il vento gli ributta tutta in faccia. Ci avevano distribuito delle razioni supplementari di vodka, mezzo litro ognuno, ma Porta, naturalmente, era riuscito a farsene dare una tripla razione. Ne sa talmente tante che tutti lo temono come la peste, ed è sempre la nostra sezione che ne trae vantaggio. « Dove stiamo andando adesso? » chiede ansioso un sottufficiale molto giovane, uscito fresco fresco dalla caserma. « In guerra, mio piccolo amico », lo schernisce bonariamente il legionario. « Stiamo andando a prendere una bella croce di ferro o magari una di legno. » « Lo so », replica il sottufficiale seccato. « Ma dove? » « Lo saprai anche troppo presto. Aspetta di esserci arrivato e il tuo culo belerà di paura. » « Non ho nessuna paura, di questi vigliacchi di comunisti! Sono un soldato nazionalsocialista, io! » « Bene, bene. Ma aspetta di vedere coi tuoi occhi, carino. Ivan non è affatto come ve lo descrivono nelle caserme. » Anche senza incidenti, occorrono ben quattro ore per raggiungere la prima linea. La temperatura è a meno trentotto e noi battiamo i denti nei nostri cappotti leggeri. Porta si è imbottito di carta tutto il corpo, e questa protegge molto bene dal freddo, ma non se ne trova facilmente, e ci vuole un uomo pieno di risorse come lui per riuscire a scovarne! Non vi è neve fresca sulla strada, è una vera pista per pattinaggio e luccica come un vetro. Le slitte pattinano, si arrampicano, e quindi scendono verso il villaggio di Dobrinka. A mezza quota c'è una svolta... se la manovra non è più che perfetta, atterriamo a centoventi all'ora sui tetti delle capanne, ma già cadaveri. « Tenetevi be-
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ne! » grida Porta allegramente. « Il diavolo ci aspetta in fondo al pendio! » Frena con violenza, i ganci dei freni affondano stridendo nel ghiaccio, e molti ne saltano via, la slitta vira quasi a novanta gradi. A un'andatura folle continua derapando di lato; una recluta viene scaraventata fuori e la slitta che segue lo sfracella. Ma chi se ne cura? La Morte vi porta via con sé ad ogni minuto: Il soldato è sdraiato nella fossa comune La donna nel letto di un altro... canticchia Porta con indifferenza, premendo sul freno sempre più forte. Altri ganci saltano via, e passiamo a velocità folle davanti alle prime capanne; piombiamo come un bolide su una curva, pregando Iddio che non vi siano state posate delle mine, altrimenti è finita per noi. I partigiani ne sotterrano molto spesso proprio in prossimità delle curve e i numerosi veicoli schiantati e bruciati sono proprio là come esempio. La slitta di tre tonnellate beccheggia, come una nave in piena burrasca. Porta sterza, molla il freno un istante poi lo blocca a fondo. Occorre possedere una straordinaria abilità per non perdere il controllo del veicolo così carico. Sessanta ganci fanno presa contemporaneamente sul ghiaccio. Se anche questi saltano noi abbordiamo la terza curva alla velocità di una granata di trentadue centimetri, ma arriviamo in poltiglia. Tutti si rannicchiano, la testa tra le gambe, come dei passeggeri di un aereo durante una manovra di atterraggio forzato. Solo Fratellino sta dritto dietro la sua mitragliatrice in posizione di tiro, sa che la fine della curva è uno dei posti preferiti dai partigiani. Proprio così! Una figura mimetizzata di bianco attraversa la pista correndo. La mitragliatrice immediata-
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mente crepita... un attimo dopo la sagoma bianca tende un braccio davanti a sé, ma i cingoli dei freni la afferrano. Un moncone di gamba con ancora il grosso stivale, vola in aria... una granata in direzione della capanna di destra, poi Porta molla completamente il freno. La velocità aumenta, la slitta fa dei grossi balzi e riparte in piano. Ah! È andata bene anche questa volta. Ma che freddo, Dio che freddo! Siamo congelati. « Chi è che ha inventato queste specie di bare che slittano? » chiede una voce. « Un colonnello tedesco », risponde Heide, sempre ben informato. Fratellino furioso, impreca e sostiene che si dovrebbe costringerlo a montarvi sopra a sedere nudo. « Mina! » urla improvvisamente Porta. Una stretta tremenda ci prende alla gola. Proprio là, al centro della pista, questo piccolo oggetto concavo bianco e apparentemente innocente che assomiglia a una pentola rovesciata. Porta frena al massimo, la slitta vira e fa un testa-coda... riprende l'equilibrio, rallenta, e per un secondo si può quasi sperare che il pericolo sia passato. Ma sentiamo ora uno scricchiolio strano, molti ganci sono saltati via con la frenata, e a una velocità folle scivoliamo impotenti verso la morte. « Dio mio! » geme il Vecchio, con le mani contratte sulle sbarre laterali. Dietro di noi, le reclute non hanno capito cosa succede. I partigiani, le mine, cosa ne sanno loro? Noi invece ci prepariamo a saltar fuori dalla slitta; meglio spaccarsi gambe e braccia che essere ridotti in poltiglia da questi congegni diabolici. « Fuori tutti! » urla Porta. Le reclute non osano, la slitta corre troppo veloce. Non sanno, loro, che urtare contro una mina significa
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una morte certa, questo tipo di meccanismo è in grado di distruggere totalmente un Tigre di sessanta tonnellate. Durante la notte i partigiani, vestiti da contadini, praticano un foro nel ghiaccio del sentiero, vi depositano la mina e vi fanno colare dell'acqua che gela immediatamente. Solo una vecchia volpe come Porta è capace di prevenire questo genere di insidia. « Salta fuori! » urla di nuovo Porta, dando uno spintone alla recluta che gli sta più vicina. Heide salta e scompare in un cumulo di neve. Fratellino ne butta fuori due dal parapetto prima di saltare lui stesso. Porta cerca di innestare la marcia indietro... Frastuono assordante. « Aerei! » grida il Vecchio. Questa parola finalmente, le reclute la capiscono, glie-l'hanno insegnata in caserma e in un baleno sono tutti sulla neve. Io casco con la testa a due centimetri da un palo telegrafico. Un soffio e si sarebbe schiantata contro il legno. In un caso come questo, l'elmetto di acciaio sarebbe stato prezioso, ma da molto non li portiamo più, perché sono incredibilmente pericolosi sotto un altro aspetto. Impediscono di sentire bene e diminuiscono la visibilità, cosa assolutamente essenziale al fronte. La slitta continua la sua corsa verso la mina, ma ecco che all'ultimo momento una virata insensata di Porta la evita. « Mina! » urliamo a Barcelona che sta arrivando sulla seconda slitta. Troppo tardi! La slitta fa un giro su se stessa, e scivola di lato sulla mina. Un geyser di fiamme!... la neve stessa sembra stia bruciando... corpi dappertutto! Ma sta arrivando la terza slitta, quella delle munizioni. I suoi ganci di frenaggio si piantano nella neve, fa una virata totale,
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slitta, derapa sotto un cumulo di neve, si capovolge di nuovo, poi esplode. Il tenente Wenck è proiettato in aria come una torcia vivente; ci precipitiamo verso di lui, ma non è ormai che una mummia carbonizzata. La nuvola provocata dall'esplosione si dissipa lentamente; dappertutto brandelli umani mischiati ad acciaio contorto e annerito. Barcelona giace un po' più lontano nel campo, il petto straziato da una granata, l'uniforme Strappata. Lo fasciamo come meglio possiamo e lo portiamo a braccia sulla pista, dove l'infermiere si sta dando da fare per medicare tutti i feriti. Ma laggiù, preso negli ingranaggi della slitta, dilaniato, il capo artificiere respira ancora, guardarlo è terribile... « Signore! » prega il Vecchio, « fatelo morire! » Sbigottiti, fissiamo quello che fino a qualche istante prima era il volto di un giovane di venticinque anni: naso e orecchie sono scomparse, la bocca è un foro scuro, la lingua strappata dalla gola, un occhio pende attaccato a un lembo di pelle davanti ai denti scoperti. Sconvolto, Gregor afferra la pistola, ma il Vecchio lo ferma scuotendo la testa, « Eppure bisognerebbe farlo », balbetta Gregor. « Non potrà più avere un volto umano. » A questo punto il Vecchio fissa le reclute terrorizzate che si assiepano intorno al giovane così spaventosamente ferito. « Guardate bene! » dice a denti stretti. « Eccola qui la vita del soldato che vi hanno tanto vantato. Se per caso ne uscirete vivi, raccontate ai vostri figli cosa essa sia in realtà, prima che scoppi un'altra guerra. » « Una fortuna se se la cava senza rimanere cieco », dice l'infermiere, facendo un'iniezione al poveretto che è svenuto. « Potrà sopravvivere? » chiede Gregor rabbrividendo.
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« A Baden Baden c'è un ospedale specializzato... qualche chilometro fuori dalla città. Vi si fabbricano dei volti nuovi ma mai, mai essi sembreranno degli uomini. Un ospedale segretissimo protetto da muri molto alti. Nessuno può vedere questi mostri e loro non hanno il permesso di uscire. Provocherebbe dei traumi nel morale della popolazione. » I feriti vengono caricati sulle slitte e noi ci avviamo verso le prime linee. È necessario giungervi prima che l'artiglieria russa apra il fuoco. Per quanto riguarda i morti, avvertiremo i seppellitori, non è mansione nostra questa. Barcelona che ha ripreso conoscenza geme in maniera atroce. La fasciatura è già tutta inzuppata di sangue. Dopo il cambio della guardia anche la fanteria arriva con i suoi feriti e li carica sulle slitte; alcuni di loro non arriveranno vivi all'ospedale, ma non è possibile rifiutare di portarli finché c'è posto sulla slitta. Appena usciti dal villaggio l'artiglieria nemica comincia a tuonare. Il legionario guarda l'orologio. « Le undici esatte, come sempre. » Accompagniamo Barcelona all'ospedale del campo, e scongiuriamo un dottore perché si occupi in modo speciale di lui. L'indomani torniamo a vedere il nostro compagno. Ha un drenaggio nel petto ed è pallidissimo. Vicino al suo letto il suo rancio che non ha nemmeno assaggiato: della salsiccia, un uovo, un'arancia... che meraviglia! Fratellino divora con gli occhi il piatto. « Senti, Barcelona, se tu veramente non hai fame, a me certo mi farebbe un gran comodo! » Barcelona con lo sguardo spento annuisce, ma il gigante adocchia anche il giaccone. « Senti, e se tu me lo prestassi, almeno finché sei all'ospedale? » Questa volta il rifiuto è netto, e il ferito ha uno sguar-
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do così implorante che il Vecchio dà un calcio a Fratellino. Lasciamo a Barcelona tutte le nostre sigarette oppiate e due litri di vodka. Se si desidera sopravvivere in questo inferno è molto importante avere qualche cosa che ti piace; gli promettiamo di tornare il giorno dopo e usciamo. Fratellino non riesce a nascondere uno sguardo nostalgico e deluso al giaccone perduto. Per la verità, bisogna anche capirlo! Non ha che la tuta mimetizzata sopra l'uniforme di carrista e sa benissimo che se Barcelona morisse, un infermiere la rivenderebbe subito facendo un affare d'oro. Succede sempre così. Al nostro ritorno, l'indomani, veniamo a sapere che Barcelona è stato trasferito in un ospedale di Stalingrado. « Hanno tagliato la corda tutti e due! » si lamenta Fratellino. « Lui e il suo giaccone! Due bei farabutti! »
42 Tutto quello in cui abbiamo creduto, tutto quello cui abbiamo dedicato i nostri sforzi, è diventato una realtà. Abbiamo il Führer e una patria in cui l'ordine è stato ristabilito, e questo Führer, Adolfo Hitler, noi lo seguiremo fino in fondo. Pasteur Steinemann 5 agosto 1933
L'SS Reichsführer Heinrich Himmler, seduto dietro la scrivania, guardava con aria assorta lo Standartenführer Eicke, sdraiato indolentemente in una grande poltrona. Si alzò e attraversò l'ufficio col suo passo pesante. Fuori, la Prinz Albrecht Strasse era bianca della prima neve dell'anno. Poi si voltò di scatto e si rivolse a Theodor Eicke. « Voglio sperare per voi, mio caro amico, che quello che mi state dicendo corrisponda alla verità. » « Reichsführer! » rispose Eicke con un sorriso asciutto e ostile. « Vi ripeto che questo merdoso spaccone è per metà ebreo. È già molto tempo che ero a conoscenza della cosa, ma solo ora ne ho avuto la conferma inequivocabile. Si vede a occhio nudo d'altra parte, non vi pare? » Himmler annuì col capo e chiuse gli occhi un istante. Il linguaggio da caserma di Eicke lo infastidiva sempre moltissimo. Sorrise freddo. « Grazie. Nient'altro da segnalare? Allora, Heil Hitler! » concluse freddamente Himmler, augurandosi di non rivedere Eicke mai più in tutta la sua vita. Una volta solo, prese il ricevitore e chiamò il segretario. « Fate venire immediatamente l'Obergruppenführer Heydrich », ordinò, tamburellando sui documenti che Eicke gli aveva appena consegnato. Dopo qualche istante Heydrich entrò, senza alcun rumore: Heydrich, questa specie di belva con le zampe si-
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lenziose di un gatto. Himmler lo guardò solo un istante tra gli occhi semichiusi, ma Heydrich gli restituì tranquillamente lo stesso sguardo inquisitore, avendo perfettamente intuito il pericolo. « Accomodatevi Obergruppenführer », disse Himmler indicandogli la poltrona ancora tiepida del corpo pesante di Eicke. Heydrich sì sedette. Un viso statico, degli occhi azzurri freddi come il ghiaccio, un'uniforme grigio chiaro che emanava un sottile odore di cuoio. Tutte le mattine infatti, dalle cinque alle sette, egli faceva una passeggiata a cavallo in compagnia del suo nemico più mortale, l'ammiraglio Canaris. 1 Heydrich è un ufficiale elegante, molto sicuro di sé. Himmler si tolse il monocolo, lo tenne in mano un istante, poi se lo rimise. I due uomini si guardarono negli occhi, ma poi Himmler abbassò gli occhi per primo. Sfogliò i documenti con aria assorta, poi cominciò a parlare sempre senza alzare gli occhi. « Cosa è scritto sulla pietra tombale di vostra nonna, Obergruppenführer? » Le labbra sottili si aprirono appena in un sorriso freddo, Heydrich si irrigidì, ma gli implacabili occhi azzurri erano ugualmente luminosi e molto pericolosi. « Si chiama Sarah, Reichsführer. » « Si dice che avete fatto scomparire questa pietra tombale, è esatto? » chiese freddamente Himmler fissando questa volta dritto negli occhi il suo interlocutore. « Sparire? Come si può affermare una cosa simile? Era anche costata molto cara.» « Tranquillizzatevi, è tornata al suo posto ma come per caso il nome di Sarah è scomparso. Strano, vero? » « Questo nome di Sarah non ha mai figurato sulla pietra 1
Vedi il volume Canaris di Roger Manvell e Heinrich Fraenkel, Longanesi & C, « Il Cammeo » pagg. 408.
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tombale della mia nonna, Reichsführer. » Himmler guardò in silenzio il suo miglior generale e si rese conto che era un uomo estremamente pericoloso. « Bene, Heydrich, dimentichiamo la cosa. » Heydrich ebbe un sorriso di trionfo. Anche lui si era reso conto di avere delle grosse carte in mano, ma era forse più opportuno aspettare un'altra occasione.
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LA PRIMA COLAZIONE DI PORTA « SVEGLIA e di corsa, anche! » abbaia il sottufficiale Lut-ze aprendo la porta della baracca con un calcio. « A rapporto dal comandante, subito! Servizio speciale », aggiunge con un sorriso malefico. « Cristo, come rompe sempre le balle, quello! » grugnisce Porta cacciandosi sotto le coperte. « Prendo nota, rifiuto di obbedienza agli ordini », grida Lutze. « Di' un po', ti prude il buco del culo, per caso? Non vedi anche tu che stiamo dormendo? » dice Fratellino di rimando. Porta fa un peto molto sonoro. « Prendi e portalo al comandante », gli dice ridendo. Di pessimo umore mi alzo dalla branda ugualmente, perché un rifiuto di obbedienza può portare delle conseguenze spiacevoli. Mi vesto imprecando. Tutti si alzano sbadigliando; Porta riesce a prendere una pulce nel suo magro petto da uccello. « Io non riesco a combinare niente se prima non ho fatto la mia prima colazione, è inutile! » grugnisce. « In piena notte come adesso non puoi avere niente, lo sai benissimo. » « Questo è da vedersi », dichiara Porta, dirigendosi verso la cucina del campo. Corre e piomba nella baracca, ma il cuciniere svegliato di soprassalto si mette a strepitare e il personale di cucina è tutto in piedi. La porta ci viene richiusa violentemente in faccia. « E poi si parla di cameratismo del fronte! Neanche una goccia di caffè ti danno questi fottuti! A me va storta tutta la giornata, senza il caffè della mattina. Ecco quello che hanno regalato civiltà e cultura a noialtri te-
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deschi. Dicono che Adolfo non prende mai il caffè la mattina; male, molto male, segno di decadenza, è proprio vero che è un austriaco! Bene, e adesso andiamo a vedere alla terza compagnia. Lì il cuoco mi deve dei soldi. » Pieni di speranza stiamo avviandoci, quando il tenente Welz ci raggiunge di corsa. « Allora, eccoli qui, era ora, santo cielo! » « Calma, Ulrich », risponde Porta; « mica perché hai un berretto con dei filetti d'argento devi rompere le balle a dei vecchi camerati in questa maniera. Non siamo mica sull'espresso. » « Caporale Porta, in base all'articolo centosessantacinque... » « Me ne fotto anche del paragrafo centosessantacinque », dice Porta tranquillamente. « Dunque tu non stare a prendertela. Ti sei già dimenticato di quel giorno che ti ho tirato fuori da quella buca? Allora, se non mi fossi comportato come un bravo camerata, tu saresti ancora lì, con il culo per aria a dimenarti, e a servire da cesso ai passeri. » « Ti ho anche pagato bene per quel servizio, se non mi sbaglio », risponde il tenente, ritornato comunque perfettamente calmo. « Vuoi dire che mi hai dato una mancia, per caso? Lo sai che il regolamento punisce chi corrompe i soldati sotto le armi? Guarda Ulrich, nonostante tutti i tuoi filetti d'argento, non sarai mai nient'altro che un fesso, non c'è niente da fare. » Scambiandosi queste cortesie si avviano verso la cucina da campo della terza compagnia. Porta tira giù dal letto il cuoco Eichert, che senza fiatare ci prepara un caffè facendolo bollire sopra una lampada a petrolio. Il tenente, dimenticandosi momentaneamente delle circo-
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stanze, divora un panino col prosciutto, mentre il cuoco ottiene da Porta un altro prestito a un interesse pazzesco. « Finalmente vi degnate di arrivare! » grugnisce il colonnello Hinka un'ora dopo, vedendoci schierati sull'attenti davanti a lui. « Ce ne avete messo del tempo! Beh, lasciamo perdere. » Distende una grande mappa sul tavolo. « Missione speciale per voi tre. Bisogna che io sappia cosa stanno combinando i Russi in questa zona. Sappiamo di sicuro che vi è un'unità di carristi in postazione vicino a X. Dovete esplorare tutte le linee nemiche tra X e Jersowka. » « Meno male che il caffè mi ha dato un po' di tono », mormora Porta. « Ho già dato tutte le disposizioni in merito alla fanteria. Voi passerete il bosco esattamente qui », continua il colonnello senza sottolineare l'osservazione non proprio regolamentare di Porta, e indicando un punto sulla carta. « Regolate i vostri orologi. Sono le ventitré e quarantacinque. Entro sei ore dovete essere di ritorno e presentarvi al comando. Se ritardate di una sola mezz'ora, è il consiglio di guerra. Avete dunque tutto il tempo necessario. Qualcosa da chiedere? » « Signor colonnello, vorrei solo sapere quale è effettivamente la lunghezza delle linee nemiche. Il Führer sostiene che si stendono dalla banchisa polare al Mar Nero. Non possiamo fare una andata e ritorno fino al Polo in sei ore per potervi raccontare il numero di petardi che possiede Ivan. Siamo giusti. » « Basta, Porta! » risponde Hinka, ridendo suo malgrado. « Il fronte che dovete esplorare è solo di cinque chilometri. » « Cinque chilometri! Dunque solo 1666,67 metri per ciascuno. Signor colonnello, affare fatto. »
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La notte è buia come l'inchiostro e comincia a nevicare. Siamo tutti e tre d'accordo che un po' di riposo non fa male a nessuno e una piccola macchia è un posto ideale per fermarci a fare un giro di cognac francese. L'avevo preso una volta al quartier generale di Paulus. Si casca sempre bene in quei posti! « Mica poi tanto speciale come andazzo », sentenzia Porta. « Mi hanno raccontato che molti anni fa, una guerra di Boxer 1 era scoppiata in Cina e che tutti i paesi del mondo vi avevano mandato le loro truppe. Nel deserto cinese, naturalmente non si mangiava mai di grasso, ma una mattina i gendarmi scoprirono un colonnello di marina seduto davanti a una tavola così succulenta che rimasero di stucco. Fatta un'inchiesta si venne a sapere che quello che era stato messo in tavola era una bella ragazzina cinese. Questa faccenda è costata la testa al colonnello, naturalmente. Ben fatto, porca miseria! Dove andremmo a finire se ogni graduato avesse un bell'attendente in brodo tutti i giorni? » « Ma che cosa diavolo vai a raccontare », grugnisce Fratellino. « Non mi piace affatto la gita di questa notte. Perché non ha chiesto dei volontari, Hinka? C'è una tale quantità di cretini che non fanno altro che correre dietro a una croce di ferro! » « Basta, va', ne verremo fuori, vedrai. » « Sì. E io intanto ho una pelle d'oca alta così, e non certo per il freddo. Ti rendi conto che abbiamo un mucchio di bei siberiani davanti? Ti piacerebbe molto, vero, essere inchiodato sopra un albero come è successo alla Guerra dei Boxers: interpretazione di frase cinese che significa « i pugni patriottici », cioè dei rivoluzionari cinesi che nel 1900 suscitarono in Cina una rivolta xenofoba, contro la quale le potenze europee organizzarono una spedizione che rioccupò Pechino (1901) e impose una forte indennità alla Cina.
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pattuglia del secondo carristi? » « E piantala una buona volta, per la miseria, di tirar fuori sempre delle cose sgradevoli, figlio di puttana! Che ora è? » « Mezzanotte e un quarto. » « Allora è meglio muoversi, anche se per mio gusto preferirei starmene qui seduto sotto questo cespuglio e inventare un bel rapporto interessantissimo. Che destino fottuto dipendere dai militari! » Porta sbadiglia e si stira. Ci avviamo senza far rumore e arriviamo alla terra di nessuno. Fratellino e io costeggiamo il lato di una siepe mentre Porta ci precede di qualche passo. Nel buio si distingue solo molto vagamente la sua sagoma sottile. Improvvisamente sentiamo un lievissimo rumore metallico, come se la custodia di una maschera antigas urtasse contro un fucile. Scivolo dietro Porta che è immobile dietro un cespuglio. « Hai sentito anche tu? » « Certo. Coricatevi nella neve », risponde, mentre carica e mette in posizione di tiro la sua mitragliatrice. « Non vorrai mica sparare! » gli chiedo terrorizzato. « Solo se veniamo scoperti. » Come delle ombre, cinque Russi escono dal sottobosco. Sono dei giganti della taglia di Fratellino, troppo corpulenti per essere dei Siberiani. Ci passano così vicino che quasi non osiamo respirare. Per un istante si fermano, stanno in ascolto... No, proseguono. Porta si lascia scappare una scorreggia così forte che sembra lo scoppio di una granata. « Maiale! » bisbiglia Fratellino, « svegli tutta l'Armata Rossa, adesso! » « Non posso farci niente. Quando ho paura, perdo il
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controllo del mio buco del culo, e i peti escono come quelli delle capre in calore. Sono fatto così, è inutile! » « Molto piacevole per gli altri », grugnisce il gigante. « Potresti farti un tappo, almeno! » Passano dieci minuti prima di riuscire a rilassare i nervi, poi proseguiamo verso il fiume strisciando davanti alle posizioni russe. Laggiù vi è sicuramente un nido di mitragliatrici. Porta rimane impigliato in un filo spinato e una nuova serie di scorregge rimbomba nel buio, mentre noi ci fermiamo come paralizzati dalla paura. In direzione sud-ovest vediamo una batteria nemica in avamposto. La sentinella grida per chiedere la parola d'ordine. In mancanza di meglio, Porta risponde con una parola oscena, la sentinella replica con una parola non meno oscena e torna dentro la sua garitta. Accucciati in una buca profonda segniamo sulla mappa tutto quello che abbiamo individuato. Missione compiuta, ma ora bisogna rientrare nelle nostre linee senza lasciarci la pelle. Dividiamo in tre una sigaretta oppiata e avvolti e ben mascherati nei nostri mantelli di neve, fumiamo in silenzio. Sentiamo molto lontano il tuono costante di un cannone. Senza questo il silenzio sarebbe assoluto. Seguiamo la traiettoria dei proiettili della difesa aerea nel cielo color piombo, ma deve essere così lontana che non ne sentiamo i colpi. Questa calma è così profonda e rilassante che dimentichiamo momentaneamente dove ci troviamo; ma ogni passo, invece, può buttarci nelle braccia di una pattuglia russa in ricognizione e possiamo finire da un momento all'altro con un nagan nella nuca. Proseguiamo ancora, ma a un certo punto il sentiero si biforca; breve discussione e prendiamo il sentiero di destra, ma ci rendiamo quasi subito conto che qualcosa non va. « Calma, ragazzi », dice Porta, « tutti i sentieri portano
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al cimitero. » « Avanti tutto diritto e siamo a casa », conclude poi, ma improvvisamente si ferma e rimane con la bocca aperta. « Ma da dove salta fuori questo bosco? » « Quale bosco? » « Imbecille! Ma anche un cieco vedrebbe che lì c'è un bosco, no? Io qui però non ci capisco più niente; in questo punto non dovrebbe esserci, eppure eccolo lì il maledetto bosco! » « Forse siamo stati troppo sulla destra », dice consultando la mappa. « Se avessimo preso a sinistra, adesso ci troveremmo davanti a questo piccolo corso d'acqua e non c'era che da seguirlo per cascare sul nostro centootto fucilieri. Adesso sa il diavolo dove ci troviamo! » « Non ci resta che chiederlo a Ivan », risponde Fratellino « ma in tenuta da combattimento, però, perché quelli come aprono la bocca, mentono! » Seduti in cerchio ci chiediamo cosa è meglio fare. Fratellino suggerisce di entrare nel bosco, prima di tutto perché è più facile nascondersi in caso di attacco, poi perché non è difficile trovarvi qualche cosa di interessante. « Ma sì! » sghignazza Porta, « se entriamo in questo bosco e ci troviamo qualche cosa che i nostri capi ignorano, poi ci fanno una bella carezza sulla guancia. Poi il bosco veramente ci può proteggere più di quanto non si creda. » « Hai ragione, Tovaritch Creutzfeld. Sotto gli alberi siamo al riparo, e non è obbligatorio dover riferire tutto a Hinka. Quando si fa il militare, meno si parla meglio è. Allunga la vita, ve lo dico io! » « Ivan! » mormora Porta, « Sven a destra, Fratellino a sinistra. Trovatevi qui tutti e due, tra un quarto d'ora al massimo. Bisogna vedere se si tratta di una buca o di un bunker. Certo che si sentono ben al sicuro se accendono
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addirittura la luce. » Una rapida ricognizione e Porta arriva tutto eccitato. « Facilissimo. Stanno dormendo come fossero in tempo di pace. Un po' più in là c'è un carro a quattro ruote motrici, che mi sembrerebbe un impianto di stazione radar. Ce lo prendiamo e torniamo a casa giusto per la seconda razione di caffè. » « Non sarai mica tocco, per caso? Se è proprio quello che dici tu, sono sicuro che ci devono essere almeno sei uomini di equipaggio, e se è un veicolo-radio, significa che uno stato maggiore si trova nelle immediate vicinanze, e dove si trova uno stato maggiore, ci sono le sentinelle, va bene? » « E poi, quando l'abbiamo preso, che direzione prendiamo? » « E tu credi che ci lasceranno passare come se niente fosse, solo perché arriviamo dentro un loro carro armato? » « Cretini, che siete! Neanche un commissario russo sospetterà che dentro a un carro di Ivan ci siano tre begli ufficiali prussiani! Buttiamo prima un bel pomodoro nel buco prima di picchiare alla loro porta, in ogni caso. » Nuova ricognizione silenziosa e ci troviamo ancora tutti e tre. « Allora? » « Assolutamente niente. Nemmeno il SPW (Schutzenpanzerwagen: semicingolati dei cacciatori corazzati) di cui ti sogni », afferma Fratellino, con sicurezza. « Ma tu l'hai fatto tutto il giro? » chiede Porta diffidente. « Per chi mi prendi? » « Per il più grosso mascalzone del reggimento. È un bel po' che ti conosco, sai! »
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« Io », intervengo, « per poco non sono cascato addosso a quattro tipi che dormivano vicino a un veicolo radio di trentasette millimetri. All'infuori di questo, neanche un'anima. » « Là in fondo in una buca ci sono tre che ruminano un bel pezzo di maiale », aggiunge Porta, « e altri due che russano sotto una tenda nel bosco ». « In tutto nove uomini, che faranno parte di una squadra di radiotelegrafisti. Dunque ci deve essere per forza un battaglione da qualche parte qui intorno. Se ci mettiamo a buttare delle granate, tanti saluti a tutti, cari miei! » « E non fatevela nelle braghe, per Dio! Questo SPW è un vero dono di Dio. Fratellino, tu incaricati dei due sotto la tenda, tu Sven di quelli nella buca, ma per l'amor di Dio, stai attento al maiale! Guarda che mi invito a pranzo già da adesso. » « A me tutta questa faccenda non mi piace per niente. Lo sento, io, che si mette male! » « Idiozie. Fa' quello che ti dico. » Forse ci hanno sentiti? Un ufficiale subalterno esce a metà della buca, grida un ordine gutturale all'equipaggio del carro. Un'antenna si alza ronzando... gli avvenimenti precipitano. Porta lancia una carica di granate in direzione dei quattro russi del carro, che crollano a terra in un bagliore di fuoco. Dall'interno del bosco crepita una mitragliatrice; lancio le mie granate in quella direzione. Delle grida, poi torna il silenzio, mentre Fratellino si occupa dei due sotto la tenda. Lancio una granata lievemente a lato della buca e due uomini in cappotto di pelo ne escono con le mani sopra il capo. Li perquisisco rapidamente; sono disarmati, cosa abbastanza naturale da parte loro e in un attimo li ammanettiamo. Vedo la testa di Porta emergere trionfante dal carro.
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« Ehi, ragazzi, cosa vi avevo detto? Facile come bere un bicchier d'acqua. Abbiamo un taxi e anche dei prigionieri. » Nel medesimo momento Fratellino si butta a terra e lancia una grossa carica di granate in direzione del rifugio. Poi come invasato vi corre dentro. « Vi si sente anche un profumo delizioso di vodka. Stavano facendo una bella festa in piena guerra, cosa ne direbbe Stalin? » fa Porta. I resti del maiale sono sulla tavola di legno. Mangiamo e beviamo. Ma Porta a un certo punto mette le mani per caso, sopra un grosso plico pieno di documenti e sostiene che sono uno scambio di corrispondenza tra generali. « Ecco per esempio una lettera di un grosso generale a un piccolo generale », spiega. « Cosa ne sai tu? » « Io so sempre tutto. Senti qua: « ' Caro Steicker, provvedi, garantendone l'incolumità, che un ufficiale di stato maggiore esca da questo inferno e spieghi personalmente a Hitler la catastrofe totale nella quale si trova tutta l'armata, dopo lo sfondamento del fronte a Kaltsch da parte dei Russi. Devotamente Schmidt '. « Mica molto difficile da capire. Un feldmaresciallo può permettersi di scrivere ' caro ' a un generale e chiudere la lettera con un ' devotamente '. Il generale di divisione può essere lusingato, magari, ma te la vedi tu, l'incazzatura del feldmaresciallo in caso contrario! E guardate qui, ragazzi, un'altra lettera ancora più interessante, ma certo che si sente un po' di freddino tra i due corrispondenti. Lo si nota immediatamente.
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« ' SEGRETISSIMO Golumbiskaya, il 16/11/42 Recapitato a mezzo di un ufficiale per il generale Seydlitz. LI. AK (51° corpo d'armata). Riorganizzazione delle seguenti unità: 16a e 24a Panzer. 3" divisione di fanteria. 100" cacciatori. 76a, 113a e 384a fanteria. Usare i metodi più severi. Heil Hitler! O.B. ' « E chi non si accorgerebbe che i due capi qui non sono amici intimi! » « Cosa sta blaterando della 16a? » Chiede Fratellino insospettito. « Ve lo ricordate o no che è la nostra divisione? » « Santa Maddalena di Omsk! Ma hai ragione! Come diavolo tutta questa corrispondenza tra generali tedeschi si trova in mano a Ivan? » Porta si mette a rovistare tra i fogli. « Questi maledetti devono aver beccato un sacco postale dei nostri! » « E se interrogassimo i prigionieri? Ho l'impressione che confesserebbero volentieri tutto quello che è successo negli ultimi cinquant'anni! » « Assolutamente no. Adesso dobbiamo muoverci per rientrare », dice spingendo i prigionieri a salire sul carro. Con gli sportelli ben chiusi, il grosso veicolo percorre il tragitto finalmente giusto che avremmo dovuto seguire per il nostro ritorno. Nessun russo tenta di fermarci, in compenso i tedeschi ci sparano contro mentre passiamo le linee. « Gli diamo una bella innaffiata? » chiede Fratellino furioso manovrando già il suo cannone. « Non fare il cretino! » tronca Porta, che con una elegante sterzata guida il carro proprio davanti alla porta
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del PC. Rapido, salta fuori dal carro, e si mette sull'attenti in maniera perfettamente regolamentare, davanti al colonnello Hinka. « Caporale Joseph Porta, agli ordini. Missione compiuta. Novità N.N. » « Da dove salta fuori questo carro? » chiede il colonnello stupefatto, indicando la stella rossa sulla torretta. « Ah, già, questo », risponde Porta con voluta indifferenza, « l'abbiamo preso a Ivan perché eravamo un po' in ritardo. » « Basta, Porta, con le pagliacciate », grida il colonnello. « Desidero un rapporto preciso. » « Riferisco al signor colonnello: è stato veramente un puro caso. La colpa è di questi maledetti boschi bolscevichi; improvvisamente ci siamo trovati davanti questa specie di macchina di quelle che vanno a scintilla e siamo stati costretti a spaccare la testa a qualche individuo per prenderla. Nel viaggio di ritorno, poi, abbiamo preso anche due prigionieri, dei ladri di corrispondenza. » « Mi state prendendo in giro, caporale? » « Riferisco al signor colonnello, che non mi verrebbe mai in mente di non prendere la guerra nel modo più serio possibile. Fratellino, tira fuori i due prigionieri e portali qui. Digli che saranno fucilati. » I prigionieri vengono brutalmente scaricati dal gigante, ma un tenente si affretta a sciogliere i lacci che li tengono ammanettati. « Ma sto sognando? » dice il colonnello guardando i due russi. « Garantisco che sono proprio due russi », assicura Porta, facendo un gesto significativo con la mano. « Intendete dire che ignorate il grado dei vostri prigionieri? »
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« Riferisco al signor colonnello: questi due Ivan, devono passare per il consiglio di guerra, per furto di corrispondenza. È molto grave, signor colonnello; quando eravamo a Torgau... » « Basta con le sciocchezze! Uno dei due è un tenente colonnello, l'altro è un generale. » Porta per qualche secondo rimane sbigottito, poi non esita più: si mette sull'attenti davanti ai due prigionieri. « Dio, cosa può arrivare a succedere in questa benedetta guerra! » mormora Fratellino. « E dire che ho appena dato due calci nel culo di due generali! Che il signor tenente colonnello e il signor generale mi perdonino, giuro che non si ripeterà più. » E si mette sull'attenti come Porta.
58 Noi prestiamo giuramento, Adolfo Hitler, di rimanerti per sempre fedeli. Augusto Wilhelm, principe di Prussia 1933
La SS Obergruppenführer e capo della RSHA (Comitato di Sicurezza dello Stato) Reinhard Heydrich attraversò furibondo gli uffici del numero 8 Prinz Albrecht Strasse, imprecando violentemente contro quelli che venivano a trovarsi sul suo passaggio. Con un calcio aprì la porta del suo ufficio privato, prima che il suo attendentemaresciallo avesse il tempo di precipitarsi a precederlo, e afferrò il telefono. « Schellenberg! » urlò, « venite immediatamente da me. » Senza aspettare la risposta, riappese il ricevitore, premette un bottone, aspettò qualche secondo, premette di nuovo con impazienza e si drizzò con un moto stizzoso sulla punta dei piedi a gambe divaricate. Nell'altoparlante si sentì una voce strascicante e volgare: « Gruppenführer Müller Gestapo ». « State dormendo, Müller? » urlò Heydrich. « Vi aspetto qui, e immediatamente. » Si lasciò cadere in una poltrona e aspettò con nervosismo crescente i suoi due capisezione. Un ufficiale di ordinanza aprì la porta dell'ufficio, si mise sull'attenti, e annunciò: « L'SS Gruppenführer Müller della Gestapo, e l'SS Brigadenführer Schellenberg del SD (Servizio di Sicurezza) ». « Fateli entrare! » grugnì Heydrich. Walter Schellenberg apparve per primo. Era come sempre in abito civile, completo grigio fumo molto discreto e in perfetto ordine. Il Gestapo Müller entrò dietro di lui in
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una tenuta abbastanza trasandata, invece. L'ex contadino di Monaco non era mai riuscito a diventare un vero ufficiale impeccabile. Schellenberg salutò sorridendo tranquillamente. Müller rubicondo e sempre esitante e imbarazzato, non sapeva mai quale contegno tenere. « Buongiorno, signori », gridò Heydrich. « Mi auguro che abbiate almeno dormito bene. » Fissò per un istante i due capi SS, quindi puntò il regolo verso Müller. « Voi! Mentre russavate tranquillamente nel vostro letto, il Führer mi ha chiamato direttamente al telefono. Inutile dire che tutto questo è stato estremamente seccante e la mia passeggiata a cavallo è stata ritardata di mezz'ora. Il Führer ha rimproverato, voi capite Mailer, il Führer ha rimproverato ME! E la colpa è esclusivamente vostra perché voi dormivate invece di fare il vostro dovere. A che ora arrivate in ufficio, la mattina? » « Alle otto e mezzo, Obergruppenführer. » « Credete sempre di essere all'ufficio postale del vostro paese, forse? E rimpiangete per caso la vostra vita tranquilla di contadino? Allora non avete che da dirlo! Non c'è niente di più facile al mondo che rimpiazzare una persona come voi, Müller! » Müller arrossì violentemente, e in quel momento sognò di essere affetto da tutte le possibili infermità, perché realmente rimpiangeva la sua vita di contadino. « 7/ Servizio Segreto dell'esercito ha intercettato un telegramma che l'ambasciata del Belgio a Roma ha inviato al suo Ministero degli Affari Esteri. Gli riferiva molto semplicemente ' tutto ' il nostro piano di aggressione contro il Belgio e l'Olanda. Cosa ne dite? » « Sono perfettamente a conoscenza del telegramma », rispose sorridendo Schellenberg, « e sono altrettanto sicuro di averlo fatto recapitare proprio il giorno in cui le nostre truppe varcavano la frontiera olandese ».
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« Me ne ricordo », rispose Heydrich, in tono asciutto, « e non ne sono certo molto soddisfatto, anche se qualcuno può crederlo; ma signor Schellenberg, che io, io che sono al corrente di una questione come questa o che invece lo sia... il Führer, vi è una certa lieve differenza, mi capite, vero Brigadenführer? » « Lo capisco perfettamente », rispose Schellenberg sempre sorridendo, e non potendo non ammettere con se stesso che questo Heydrich era veramente un diavolo d'uomo. « Ma cosa veramente avviene nell'entourage del Ftihrer? » « Come il solito. Sempre ' Segretissimo '. Che cosa credete? Lui ha i suoi piani come noi abbiamo i nostri. » Qui Heidrych si rivolse bruscamente a Müller. « E voi, Sherlock Holmes? Cosa sapete delle nostre possibili spie? L'ammiraglio Canaris, l'ambasciatore Ulrich von Hassel, l'Oberbürgermeister Goedler, il generale Oster, e quel piccolo ipocrita del generale Beck? » « Obergruppenführer », cominciò Müller, sempre più inquieto, oscillando da un piede all'altro per darsi un contegno. « State fermo, per Dio! » urlò Heydrich, fuori di sé. Müller si irrigidì ma cominciò a balbettare. « Tutte queste possibili spie sono pedinate giorno e notte.» « E di queste cose avete informato qualcun'altro oltre a me? » « No, Obergruppenführer, tutti i rapporti vi vengono inviati sigillati. » « E cosa ne è dello Sturmbannführer Axter della vostra sezione 111/2? Avete fatto pedinare anche lui giorno e notte? » « Tutti sono pedinati. » « Allora », chiese Heydrich con il suo sorriso perfido, « avete notizie sue dopo il pomeriggio di ieri? »
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Müller rifletté qualche secondo poi rispose negativamente, ripromettendosi in cuor suo di farla pagare molto cara ad Axter, appena gli veniva un'occasione. « Ebbene, non ne avete più, mio caro! Axter è stato ammazzato questa notte nella Morellenschlucht, e il suo cadavere se lo sono ingoiato i forni di Oranienburg. Ma vi sbagliate di grosso se credete che io vada avanti a fare il vostro gioco! Avreste potuto ben indovinarlo da solo che un uomo che ha sempre servito presso il quartier generale del Führer e che improvvisamente arriva qui da voi era una spia, non vi pare? E ora ve la sbrigate voi ad annunciare la sua scomparsa al Führer, sono affari vostri, io me ne lavo le mani, intesi Müller? » « Sì, Obergruppenführer. » « E nel frattempo cosa sta succedendo anche a Roma, Müller? Dovreste saperne più del diavolo voi, come capo della Gestapo! » Il Gestapo trangugiò penosamente la saliva. « Sappiamo che i Belgi hanno inviato un rapporto sul nostro piano d'attacco e conosciamo anche il nome dell'agente che lo ha fatto pervenire loro. » « Veramente? » ironizzò Heydrich, chinandosi sul tavolo. « Oh, ma voi avete una seconda vista, caro Müller! » « Sì, Obergruppenführer. L'uomo in ogni caso è già morto. Incidente stradale, ucciso da un camion lungo la via Veneto. » « Ma tutto questo è avvenuto lievemente troppo tardi, se non erro! » « Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto. Non vedo... » « Voglio proprio credervi, Müller, ma voglio anche che sia ben chiaro che siamo tutti d'accordo sul ruolo giocato in questo affare dall'ammiraglio Canaris. Tenetevi per detta una sola cosa, signori; fino ad oggi l'ammiraglio è ancora assolutamente tabü. » Ebbe un sorriso gelido gioche-
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rellando con il suo regolo. « Il Führer questa mattina ha parlato di una volpe per proteggere i suoi polli. Ha dato ordine a Canaris di scoprire le spie. » Schellenberg e Müller non riuscirono a reprimere uno scoppio di risa. Heydrich si limitò a sorridere. « Schellenberg, voi siete in ottimi rapporti con l'ammiraglio, vedete di diventare ancora più intimo con lui, e lasciatevi sfuggire qualche informazione che egli possa riferire al Führer. Inoltre fornitegli degli ausiliari che appartengano ai nostri servizi, questo non può mai nuocere. Abbiamo nel personale la moglie di un ufficiale, se non erro, in funzione di segretaria al IV/2/B. Trasferitela alla segreteria dell'ammiraglio. Oltre a tutto ha un fratello in Inghilterra, cosa molto utile. Bisogna pur aiutare in qualche modo questo caro uomo a scoprire i traditori. Non me lo vedo mentre arresta se stesso e il generale Oster. Avete della gente sicura a Roma, mi auguro. » « Sì, Obergruppenführer, la nostra rete laggiù è molto compatta. » « Bene », grugnì Heydrich. « Potremmo anche suggerire all'ammiraglio di affidarsi a loro. Per quanto riguarda le relative dichiarazioni e confessioni, ve ne occuperete voi stesso personalmente, e se fate delle sciocchezze, farete ritorno a Monaco con il vostro sacco in spalla, sia ben chiaro. Sono io, che ve lo dico, Müller. »
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LA BATTAGLIA DI «OTTOBRE ROSSO» QUALCHE giorno più tardi arriviamo a nord-est di Stalingrado, davanti alla grande acciaieria chiamata Ottobre Rosso. In questa zona, da molti mesi avvenivano degli scontri furiosi; due reggimenti russi erano accerchiati all'interno dei cantieri marittimi. Tutto intorno non si vedeva che una spaventosa accozzaglia di acciaio contorto; l'artiglieria aveva prodotto degli enormi sventramenti nelle pareti molto spesse dell'immenso edifìcio. Un odore fortissimo e ripugnante di carne bruciata vi penetrava fino alle ossa, e delle orde di topi correvano sulla neve; topi così grossi come non ne avevamo mai visti finora, grossi come dei gatti e con un pelo quasi liscio. Heide sosteneva che queste bestie avevano la peste pilifera, cosa che ci spaventava enormemente. Lanciavamo loro addosso delle granate, e quasi avevamo più paura di questi orribili animali che non dei Russi. Un giorno il Vecchio viene chiamato dal comandante di compagnia, il capitano Schwan, e tornato nella trincea convoca immediatamente Heide. « Julius », dice, « ordine di attaccare quel grosso bunker che fa da sbarramento davanti alle acciaierie. Devi andarci con il tuo gruppo. Noi, vi copriremo alle spalle con le mitragliatrici. Quando vi troverete ai piedi del bunker dovrete buttare delle cariche di granate attraverso le feritoie e, in seguito, entrarvi. Porterete con voi cinque cariche magnetiche per sfondare le pareti e aprire i varchi ». « Non sarai mica diventato matto, per caso? Credi che si possano buttare delle granate come se fossero uova in quelle feritoie, piazzate così in alto? Ma è una follia! Avrei bisogno almeno di una sezione guastatori, in ap-
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poggio. » « Devi far saltare il bunker, questo è l'ordine », risponde secco il Vecchio. « In che modo, questo riguarda te. » Heide impreca furioso, ma sa che il Vecchio deve aver già protestato vivamente presso il comandante riguardo a questa folle impresa. Non rimane dunque che obbedire. « Dodicesimo gruppo dietro a me », ordina buttandosi il fucile sulla spalla. Ci incamminiamo lungo una strada, cioè quello che era stato a suo tempo una strada. In questo momento è l'immagine di una gigantesca pentola contenente un enorme numero di case mescolate insieme con un cucchiaio da ciclope. In un secchio sul ciglio della strada, la testa mozzata di un bambino guarda il cielo, stupefatta. Una granata o un satiro? Dappertutto dei cadaveri orribilmente mutilati, quasi tutti civili. Ci arrampichiamo attraverso le rovine. Porta trova una grossa buca davanti a un cumulo di rottami e vi si butta dentro. « Io resto qui », dice piazzando con decisione la sua mitragliatrice. « È una posizione ideale per coprirvi alle spalle. » « Poche storie », grida Heide. « Tu vai immediatamente laggiù. Sono io il capo del gruppo e ti ordino di cambiare postazione. » « Vuoi un pugno sul tuo maledetto grugno? » Una salva nemica fa precipitare Heide vicino a Porta. « Farò rapporto al reggimento, puoi esserne certo. » « Tutto quello che vuoi, ma allora vedi di tornare vivo. » Il capitano Schwan arriva correndo lungo la strada. « Agli ordini, signor capitano », taglia corto Porta. « Le mitragliatrici sono già in posizione secondo gli ordi-
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ni ricevuti, pronte per coprirvi le spalle. » « Avanti, sottufficiale », grida il capitano a Heide, che la sfacciataggine di Porta aveva reso muto di furore. « Questo maledetto me la pagherà », grugnisce Heide, buttandosi in avanti in direzione del bunker, senza minimamente preoccuparsi dei proiettili che gli piovono tutt'intorno, tanto la sua anima di soldato è esulcerata. Io corro a piccoli brevi salti, seguito a pochi metri da Gregor e dal fuciliere di marina Ponz, nuovo arrivato alla compagnia e unico sopravvissuto della flottiglia del Don. Le mitragliatrici russe crepitano già, cominciano con dei lanci di granate sparsi, si tratta dunque di arrivare ai piedi del bunker prima che i Russi abbiano aggiustato il tiro. Una fitta al fianco mi impedisce di respirare, il cuore batte quasi a spaccarsi, mordo la neve dallo sgomento. « Basta storie », dice aspro Heide spingendomi avanti. « Salta per primo, cretino! » « Non posso, il mio cuore, qui... » « Salta ti dico! » La mitragliatrice di Porta crepita e i proiettili si incastrano nella parete del grande bunker. Dietro la sua mitragliatrice Porta è un vero asso. Mi preparo a saltare, ma ho una paura atroce. Il fuoco è così vicino... salto... nell'attimo in cui mi appiattisco gli altri sono ai miei fianchi; il marinaio porta il sacco con le cariche di esplosivo, ma è lui ora che non ce la fa. « Potete pure cagarmi sulla schiena », geme. « Io sono un povero marinaio e finisco la guerra in questo buco, pisciando sul Führer, sulla patria e su tutto il Reich. » « Idiota! » ruggisce Heide. « Non sperare, a cose finite, di tornare nella mia sezione. Mi domando proprio perché il Führer ci immerda con questa marina! »
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I lanciagranate sprizzano scintille tutto intorno a noi, le mitragliatrici crepitano... i Russi ci guardano dalle vetrate alte della grande acciaieria, e sanno perfettamente cosa succederà loro se il bunker soccombe. Sarà la caduta di Ottobre Rosso, orgoglio di Stalingrado. Ma il peggio resta ancora da fare. Una scarpata lunga da superare, presi di mira da tutti i lati dai loro fuochi... Heide balza per primo... corre sulla neve, salta sopra un cespuglio e sparisce sotto la base del bunker. Grido al marinaio: « Resti qui o vieni? » « Farabutto! » è la sua sola risposta e si caccia dentro la buca. Con un grosso salto piombo vicino a Heide, proprio sotto il muraglione del bunker, che ci domina con la sua altezza colossale, così colossale che non ci sarà mai possibile conquistarlo! Mi metto al riparo dietro un blocco di cemento, dove mi sembra di essere più protetto. « Hai paura eh, coglione! » sghignazza Heide. « Porta qui le cariche di granate. » « È il marinaio che le ha. » Heide mi guarda sbigottito. « Non vorrai farmi credere che sei qui senza granate! » « Era il marinaio che le portava, ti ripeto, e secondo i tuoi ordini, anche io non sono lanciatore di granate, lo sai! » « Sei il migliore della compagnia. Torna indietro immediatamente e vai a prenderle. » « Ma tu sei pazzo! Io non ci arrivo nemmeno, là! » « Torna indietro, ti dico. È un ordine. » « No! » grido. « Sei pazzo! Ordina al marinaio di portarle qui. Lo so che rischio il consiglio di guerra, ma preferisco quello alla morte sicura come l'oro. »
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« Stai a vedere. Quel mascalzone deve cominciare a capire chi sono io! » Si alza e guarda il marinaio sempre appiattito nella buca. « Vieni qui immediatamente con le granate! » urla, sparando una raffica proprio a pochi centimetri dal marinaio terrorizzato che arriva con un grosso salto ma senza il sacco con le granate. « Il sacco! Il sacco! » urla Heide, ributtando fuori dalla scarpata il marinaio livido di terrore. « È così che vanno trattati i fifoni! » « Mi hai quasi sparato addosso! » geme il marinaio per terra. « Avresti potuto uccidermi! » « Era proprio quello che volevo! » Ma arrivano il legionario e Gregor col sacco di esplosivo. Prepariamo febbrilmente le cariche; quattro granate intorno a una bottiglia di benzina. « A te Sven! » ordina Heide, indicando la feritoia più vicina. « Io sparo per proteggerti, e tu salta e buttale dentro. » « Ma io non sarò capace di fare una cosa simile! » « Obbedisci sì o no? » Mi arrampico dietro di lui, sotto la feritoia dalla quale spara senza sosta il cannone del bunker. Impossibile raggiungere la fessura che dista almeno quattro metri dal suolo. Retrocedo qualche metro per prendere la rincorsa e lo slancio... una mitragliatrice della acciaieria mi tiene sotto tiro; l'aria ronza intorno a me come uno sciame di vespe infuriate... butto il braccio indietro, prendo il fiato... ma non do abbastanza forza al lancio. Il cocktail Molotov piomba sul muro e ricade ai piedi del bunker. Pietrificato lo guardo rotolare, e non mi accorgo nemmeno di Heide che si precipita vicino a me per mettermi al riparo. Esplosione mostruosa. Una scheggia mi ferisce al braccio. « Cretino! E adesso ci hanno individuato, anche! »
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Sono fermo e ansante, il braccio mi brucia... « Quando ti do il via », sibila implacabile Heide, « tu corri come un pazzo sotto la feritoia, salti sulle mie spalle e butti la carica attraverso l'apertura, hai capito bene? » Nonostante il fuoco molto ben diretto di Porta, il cannone russo tuona sempre senza sosta. Heide è proprio un pazzo! Come minimo mi partirà una mano nel tentare una cosa simile! Con un lanciagranate la cosa sarebbe forse più fattibile, ma non ne abbiamo; protesto, il braccio mi fa sempre più male. « Bugiardo! » dice, colpendomi proprio sulla ferita. « Hai solo una fifa bestiale, ecco cos'hai! e sei anche un vigliacco. » Mi prende per le spalle, mi scuote, mi colpisce al viso col dorso della mano. « Salta sulla mia spalla ti dico! » È molto più forte di me, e se tento di resistergli finirà per ammazzarmi; mi ammazzerà per sabotaggio agli ordini, e tutti gli daranno ragione. Come in un incubo, metto il piede sulle sue mani incrociate e gli salto sulla spalla. Tolgo coi denti la sicura alla carica e la spingo dentro la feritoia, ma il calcio di un fucile dall'interno la respinge violentemente. Perdo l'equilibrio, cerco di riprenderlo, ma trascino con me Heide nella caduta, e in una nuvola di neve, rotoliamo fino alla fine della scarpata, davanti alla buca dove è piazzata la mitragliatrice di Porta. « Figlio di un cane! L'hai fatto apposta! » ruggisce Heide fuori di sé. « Ma me la pagherai, e cara anche! » Totalmente impazzito, toglie di tasca il suo coltello da trincea, e con la bava alla bocca si butta su di me. Terrorizzato, mi divincolo, mi arrampico sulla scarpata sentendo sulla nuca il respiro caldo di quel frenetico, e con un salto molto lungo atterro tra il legionario e Gre-
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gor. Heide mi lancia il coltello addosso e alza un pugno minaccioso verso il bunker che sprizza scintille di fuoco tutt'intorno. « Ve lo faccio vedere io, selvaggi mongoli! » grida con voce rauca. Con nella mano una mina T, corre verso il muragliene, si abbarbica a un rilievo che esce appena dalla parete, si solleva con una forza inaudita, ma perde la presa e ricade. In un attimo è di nuovo in piedi, e riparte come un folle verso la parete di cemento. Si arrampica di nuovo... ma come fa? La mina agganciata a una correggia di cuoio gli pende dal collo. Se nella sua furia da folle strappa inavvertitamente la sicura, non rimarrà più niente di lui. « Un pazzo furioso », mormora Gregor, seguendo con lo sguardo questo fanatico nazi. « Sì, ma anche un ottimo soldato », ammette il legionario con ammirazione. « Si merita una croce di ferro, per lo meno. » Heide è riuscito ad arrivare alla feritoia. Si aggrappa al fusto del cannone che ne esce, oscilla come una scimmia, libera la pesante carica della sicura e la spinge freddamente nella feritoia; poi abbandona la presa, si lascia cadere, e nonostante l'altezza del salto, in un attimo è in piedi. « Presto! Tutti dall'altra parte! » grida correndo alle spalle del bunker. Il legionario, Gregor e io, abbiamo appena aggirato il bunker, che la pesante porta si apre davanti a una figura coperta di sangue. Il legionario con una velocità fulminea gli sfonda il cranio con il calcio del fucile, lo butta da parte ed entra correndo all'interno del bunker. Ci mettiamo al riparo dietro alcune casse di munizioni; sopra le nostre teste il cannone continua a tuonare.
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« Marinaio, fila da Heide adesso, e digli che siamo già dentro questa specie di bara », ordina Gregor. « Muoviti! Altrimenti quello ci appioppa un'altra carica. È abbastanza pazzo per farlo. Fila, idiota! » urla al marinaio recalcitrante che esce e si imbatte proprio in Heide che arriva correndo. « Che cosa state facendo qui, merdosi? Cosa aspettate a correre là sopra da Ivan? » mi colpisce con la canna della pistola. « Tu, Sven, fila a quella scala. Vuoi diventare ufficiale? E allora fai vedere quello che sei capace di fare, mucchio di letame! » Senza dire una parola mi arrampico sulla stretta scala di ferro che porta al piano superiore, apro con precauzione la botola e butto uno sguardo intorno. Dappertutto soldati russi distesi a terra... il cannone tuona senza interruzione. Il terrore mi prende alla gola. Sui loro berretti brillano le lettere NKVD. Ansante, ridiscendo ma mi trovo davanti Heide. « Allora cosa diavolo ti prende? Non hai buttato le granate? » « Là... di sopra... » balbetto, « ci sono almeno mille NKVD. » « Buon Dio! » ruggisce Heide; prende una carica di granate, sale la scala come una scimmia, apre la botola, lancia l'esplosivo e si ributta giù ventre a terra. Uno scoppio lacerante. « Andiamo, seguitemi! » Questa volta il legionario è in testa. Con un gesto brusco apre la botola e spara a caso tutt'intorno. Un colpo di pistola e un proiettile sfiora il mio elmetto; un tenente russo mi prende di mira col suo lungo nagan, in un lampo gli scarico tutto il caricatore addosso. Un sergente NKVD, decorato dell'ordine di Lenin, fa per lanciare una granata ma è preceduto dalla baionetta del legionario. Bisogna liquidare i feriti, impossibile pur-
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troppo fare altrimenti. Un siberiano lotta fino alla morte; ne abbiamo già visto un altro, ferito, farsi saltare il cervello mentre un infermiere si chinava su di lui per soccorrerlo. Nessuno è ormai più vivo qui, ma c'è un altro piano, un'altra scala. Tocca a me ora, salire al piano di sopra ma ancora prima di essere arrivato in cima alla scala vedo apparire, nel riquadro della botola, un mongolo rubicondo. Come ipnotizzato, fisso la medaglia di smalto rosso sul suo berretto di pelo, gli caccio due dita nelle narici, e lo attiro verso di me. Heide lo liquida mentre cade a terra e io lancio la mia carica Molotov. Lo spostamento d'aria mi ricaccia indietro, tutto balla davanti ai miei occhi e cado a terra. Sopra di me crepitano i fucili mitragliatori, esplodono le granate, delle urla, dei gemiti... poi il silenzio scende sul bunker ormai ridotto all'impotenza. Svuotati di forze, ci abbandoniamo per terra, bevendo l'acqua destinata al raffreddamento delle mitragliatrici russe. Ma, immagine assurda in mezzo a questo caos, vediamo Heide che si lava in un secchio. Sempre senza . una parola, si ripettina, si spazzola con la mano l'uniforme, rimette a posto tutto il suo equipaggiamento, ed eccolo ritornato il prussiano gelido e inamidato che non pensa che ai regolamenti e al suo dovere di soldato. La terza compagnia ci dà il cambio e si deve procedere all'occupazione totale del bunker. In tempo di pace questo blocco doveva essere un posto di guardia delle acciaierie, dove lavoravano dei forzati; ne troviamo infatti molte centinaia in un sotterraneo, uccisi con un colpo alla nuca. I politici avevano un cerchio verde sul petto e sulla schiena, i criminali un cerchio nero. Con molta cautela ci facciamo strada di vano in vano nell'interno del bunker, cercando di prevenire e evitare delle
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insidie diaboliche. Se si apre una porta senza prima esaminarla attentamente o se si cammina su un tavolato mal fissato al piancito, si può saltare in aria in un'esplosione spaventosa. I Siberiani dell'NKVD, sono di un fanatismo incredibile; non danno mai quartiere, e guai a chi cade nelle loro mani. La tortura minore che questi piccoli uomini dagli occhi stretti e sottili inventano, è appendere il loro prigioniero completamente nudo alla finestra, sospeso ad un filo metallico stretto intorno alla caviglia... Occorrono circa sei ore per morire in questo modo. Ma ora è il momento dell'attacco all'acciaieria vera e propria. Un reggimento DO (lanciarazzi) piazza i suoi congegni infernali. Se ventiquattro razzi di questo tipo partono ed esplodono contemporaneamente, è esattamente la fine del mondo. Attacchiamo all'arma bianca, alla baionetta, si uccide, si cammina nel sangue, ma i Siberiani non si arrendono. Mentre veniamo avanti li sentiamo trasmettere i bollettini al loro stato maggiore. Il nono giorno, segnalano: « Qui punto d'appoggio Kransnij Okjabre. I viveri sono esauriti. Abbiamo fame, chiediamo di poterci arrendere ». La risposta è immediata: « Proibito nel modo più assoluto. Battetevi come dei veri soldati sovietici e dimenticherete la fame ». Dopo altri cinque giorni di scontri disperati, i Siberiani, accerchiati da tutte le parti, segnalano nuovamente: « Qui Kransnij Okjabre. Non c'è più nemmeno da bere. Muoriamo di sete. Molti si sono suicidati. Attendiamo ordini ». Risposta altrettanto immediata, simile alla recitazione di un qualsiasi regolamento militare: « Soldati, è giunto il momento di dimostrare che siete veramente degni di servire nell'Armata Rossa. Vivete della vostra fede. Lo sguardo
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del maresciallo Stalin non vi abbandona ». Gli eroici soldati siberiani combattono ancora per tre giorni con un fanatismo sempre crescente, poi, per la terza volta, segnalano: « Munizioni esaurite. Chiediamo di poter capitolare ». Risposta immediata: « Compagni, l'Unione Sovietica vi ringrazia, sarete insigniti dell'ordine dell'Armata. Resa rifiutata, un soldato sovietico non si arrende mai. I lavoratori e i contadini vi salutano. Fronte Rosso! » Verso mezzanotte escono tutti allo scoperto con la baionetta in canna, lanciando delle grida rauche. A ondate successive si buttano sotto il fuoco delle nostre mitragliatrici e i pochi superstiti che arrivano fino a noi, lottano ancora in un corpo a corpo disperato. Noi ci battiamo con la sola immagine dei nostri cadaveri appesi alle vetrate, e questo ci fa resistere. Ormai l'alternativa è solo « uccidere per non essere uccisi ». E anch'essi lo sanno come noi. Pianto la baionetta nel ventre di un tenente decorato con due stellette d'oro, e nel mio furore gli sfondo il cranio. Non è più giovane di me, ma mi avrebbe appeso alle vetrate legato alla caviglia, se ci fossimo arresi quel giorno nei sotterranei dell'acciaieria. Noi siamo riusciti a sfuggire, ma la terza compagnia è stata meno fortunata di noi... Ecco tutto. Un'ora dopo tutti i nostri compagni oscillavano al vento. Penetriamo finalmente nell'atrio della grande acciaieria e ci dirigiamo tutti in direzione degli elevatori; sotto i grandi macchinari giacciono morti o ancora moribondi, molti soldati dagli occhi stretti e sottili; aspettano in silenzio la morte, sanno già che non daremo quartiere. Ci si pigia nelle carrucole degli elevatori; alcuni Siberiani asserragliati sulle strutture metalliche abbandonano la presa e si lasciano cadere al suolo urlando. Altri
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sono presi da follia e si buttano dalle vetrate verso l'esterno. Al tramonto l'immensa fabbrica Ottobre Rosso è finalmente conquistata; durante tutto il corso della guerra e fino alla sua conclusione, quando una sezione delle nostre si troverà in pericolo, si dirà soltanto: « Pensa a Ottobre Rosso ». Porta, seduto su un banco di tornitore, si riposa leggendo il giornale dell'Armata. « Allora, cosa c'è di nuovo? » chiede Fratellino. « Neanche un disastro? » « No, figurati. Tutto va bene. La nostra marina ha affondato un sacco di unità, l'Inghilterra è quasi battuta ormai. » « Io proprio non capisco », dice Gregor. « Dopo la Polonia, ci vengono a dire che anche l'Inghilterra è battuta, e allora come mai questi culi non si arrendono? Non hanno più navi, tutti i loro porti sono in fiamme, i loro aerei sono di vecchia fabbricazione, ancora quelli dell'altra guerra, non hanno più niente da mangiare e da mettere addosso, eppure bombardano le nostre città tutte le sante sere. Come diavolo è questa storia? » « Tutto è segretissimo in tempo di guerra », dichiara solennemente Porta. « Toh! Guarda, ecco qualche cosa di proprio interessante! State a sentire: ' A Stalingrado i nostri soldati si battono come dei veri eroi dell'Armata tedesca. Gli uomini della sesta armata passeranno alla storia come i più prodi dei prodi. Dio è con noi. Gli eroi di Stalingrado combattono Bibbia alla mano '. » « Basta! » urla Gregor. « Non ne posso più di queste frasi! Solo cagare mi fanno! » « Capisezione, da questa parte! » grida il capitano Schwan dall'altro lato della sala macchine. Ordine immediato di garantire la sicurezza del sinistro edificio
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della GPU, dove ora il generale in capo Paulus e il suo stato maggiore fanno la guerra su una grande mappa, nel sotterraneo. Medita, il generale, anche solo per un istante, alle sofferenze che si patiscono quando si è costretti come noi ad affrontare personalmente lo sbaraglio? Lui e il suo stato maggiore sanno qualche cosa della fame, del freddo, delle torture? Fanno la guerra esattamente come gliela hanno insegnata alla Scuola di Guerra, e basta. Per loro la battaglia di Stalingrado è solo un serio Kriegspiel. 1 Prendiamo la via della Rivoluzione, dove le case in parte sono ancora in piedi. Qui non sono cadute che delle granate perdute. Una lunga colonna di civili che lasciano la città ci supera, trasportando feriti su dei materassi; ragazzini escono correndo dalle rovine di una casa, e vengono a mendicare del pane. Un ragazzetto con un elmetto della fanteria tedesca in testa e una lunga sciabola russa in mano, tende la mano a Fratellino. « Gospodin soldato! Non vorreste essere mio padre? » « Certo, amico », risponde Fratellino sorridendo e issando il ragazzino sulle spalle. « Quanti anni hai? » « Non lo so, ma sono vecchio. » Stringe il collo di Fratellino con il suo braccio esile. « Gospodin soldato, non vorresti essere il padre anche della mia sorellina? » « Certo che voglio », risponde il gigante emozionato, posando a terra il ragazzo. « Vado a prenderla e torno subito! » fa il ragazzo e corre via. Sibila una granata... tutti ci buttiamo per terra. Dopo l'esplosione, ci alziamo e proseguiamo, ma nel mezzo della strada è rimasto un berretto della fanteria tedesca 1
Gioco di guerra (N.d.T.)
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e una sciabola russa contorta. Due giorni di guardia all'ufficio ex GPU, poi ci danno il cambio per inviarci alla caserma di fanteria dove Porta viene nominato caporale capo. « Ma non è possibile! Tu caporale capo! » grida il sottufficiale Franz Krupka, indicando la manica di Porta. « Questa, vecchio mio, è la via diretta per diventare maresciallo; ma i galloni nuovi andrebbero innaffiati con una bella bevuta, però! » « Non chiedo di meglio », risponde Porta in tono acido. « E sapresti magari anche dirmi come? Qui mi sembra che non ci sia che la neve dei sovietici da bere... » I due compagni si conoscono da anni, sono della stessa classe, e abitavano nello stesso quartiere di Berlino. Krupka valuta Porta con un'occhiata poi si asciuga il naso che era stato operato dopo un congelamento. Non era mai stato un bell'uomo, ma adesso poi era un mostro. « Senti! Io veramente saprei dove trovare quello che ci vuole per battezzare i gradi, ma se tu non tieni la cosa per te, ne viene fuori un casino. » « Sputa, vecchia vacca, ti giuro che sto abbottonato. » « Dunque Wilke, lo conosci vero, quel maiale, ha nascosto ben quattro casse di vodka di Crimea, che ha scippato nella cantina di una villa. » « Dio Santissimo, ma con queste si può vincere addirittura una guerra! Filo subito da lui. Vediamo intanto chi dobbiamo invitare », dice sedendosi su una granata da quarantadue decapsulata. Tutto concentrato, succhia la punta di una matita. « Prima di tutti io. E naturalmente te, è logico. Poi il Vecchio e Gregor. Fratellino siamo costretti, anche se guida come un turco al cesso, dopo una sbronza. Heide preferirei di no, sciupa
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tutta l'atmosfera della tavolata, ma non c'è modo di evitarlo. Vuol dire che verseremo della birra nella sua vodka e ce ne libereremo in cinque minuti. Poi Sven e il legionario. Nessun altro. To', questo mi fa venire in mente che quel mezzo francese mi deve un pacchetto dì sigarette oppiate; è così spilorcio che anche i peti li fa solo a metà. Mai avere a che fare con gente di questo tipo. Puoi essere sicuro che il giorno che gli Ebrei si batteranno, ce ne sarà sempre uno! » « Hai ragione. Non più tardi di ieri sono stato alla settima compagnia per incassare tre pacchetti di grifas. 1 Il feldwebel Pinsky, quel maiale, me le doveva, e quel mascalzone sai che cosa mi ha combinato? Si è fatto fucilare per non restituirmele! In questo momento lui se ne fotte di me nella sua bella fossa. Ho cercato di farmele pagare dalla sua sezione, almeno, ma mi hanno mandato a farmi benedire, me e la mia riconoscenza! D'ora in avanti non presto più nemmeno un marco, neanche al cento per cento di interesse. » « Ci sarebbe davvero della gente che offre il cento per cento? » chiede Porta subito molto interessato. « Non lo so, ma sarebbe giusto, dato il rischio che si corre. Vedi per esempio, avevo un credito da un ufficiale, uno che veniva dalla fanteria. Solo questo dettaglio avrebbe dovuto mettermi la pulce nell'orecchio. Ma cosa vuoi, finisci col dare fiducia a quei bei signori. Stai fresco! Questo graduato non è andato a ficcarsi sotto un T34 per guadagnarsi la croce di ferro? Guarda un po' anche tu che idiota! Naturalmente il carro l'ha appiattito come un foglio di carta. Ma questo mi servirà di lezione, te lo garantisco! » « Sono tempi molto duri per gli uomini d'affari! » ge1
Sigarette narcotizzate distribuite ai soldati del fronte.
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me Porta. « Beh, io filo. A questa sera Franz. Alle otto, sala numero ventitré. » Cantando a squarciagola, attraversa tutta la caserma e pensando sempre alla sua vodka, si mette sull'attenti davanti a un maggiore. Poi saluta con uguale correttezza un albero a un ramo del quale sta appeso impiccato un tenente; poi trova Wilke intento a preparare il rancio. « Allora, Wilke, la sai la novità? » fa Porta, aprendo il suo portasigarette d'oro massiccio, eredità di un generale morto in prima linea. « Oh, basta con le novità! cialtrone! lo di novità ne ho piene le balle. Preferisco pensare all'albergo che farò costruire alla fine della guerra. » « Un albergo? Ma tu, tu sogni? Arrivo adesso dall'aver buttato un'occhiata su un messaggio Segretissimo. ' Combattete fino all'ultimo uomo e all'ultima cartuccia ', questi sono gli ordini del Führer. Andrai a fartela nelle braghe in una miniera di piombo a Kolima, sognando il tuo albergo! » sghignazza Porta divorando una salsiccia arraffata con mano esperta. « Ascolta, Wilke, siamo seri. Cosa ne diresti di filartene dalla tua innamorata con l'aereo? » aggiunge serio subito dopo. « Non dire castronerie! » grugnisce il cuciniere. « Senti », dice Porta abbassando la voce, « sono stato ieri dal comandante in capo e lì mi hanno spifferato un'informazione molto interessante. Noialtri caporali capi, abbiamo molte conoscenze un po' da tutte le parti, ti dirò. Beh, al primo momento non ci ho fatto molto caso, per la verità, poi mi sono venuti in mente i cucinieri, ma quelli amici miei, intendo; questo comunicato interno veramente concerneva tutti quelli di Stalingrado ». « Ma cosa stai raccontando? » « Non credermi, se preferisci. Era un ordine dell'In-
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tendenza Generale sulla nomina di un cuciniere molto esperto e qualificato per l'addestramento degli allievi alla Scuola Militare di Cucina di Stettino. » Porta dà un'occhiata al grosso Wilke la cui attenzione si fa sempre più tesa. « Ho pensato subito a te, mi capisci vero, siamo dei vecchi compagni. Non ti sarai mica dimenticato di quella volta che veramente mi sono comportato nei tuoi riguardi come un vero amico: quella volta che dovevo fare il controllo delle razioni individuali a Pa-derborn, e avevo scoperto che erano tutte esattamente la metà del peso dovuto! Se avessi fatto il mio dovere, e non avessi pensato al valore dell'amicizia, tu saresti a Torgau a quest'ora, a farti strangolare lentamente dall'amico Gustav! » « Non farmici pensare, Dio Buono! Come se tu poi non ti fossi fatto pagare salato, per stare zitto! Uno sporco usuraio e un ricattatore, ecco quello che sei! » « Bene, bene. A questo mondo tutto si paga, caro. Ma per tornare ai nostri affari, cosa ne diresti di tagliare la corda e andare a far il professore a Stettino? » Il sottufficiale si passa la mano sulla fronte e guarda Porta con diffidenza. Porta, per la verità, l'aveva imbrogliato un paio di volte, ma dopotutto, questa non poteva essere magari l'occasione della sua vita? La grande occasione che finalmente gli si presentava? « Ascoltami bene », comincia cauto, « lo sai, vero, che sono sposato e ho due bambini... questa storia della Scuola è vera o no? » « Mi dispiace proprio di non essere cuciniere », dichiara solennemente Porta aprendo di nuovo il portasigarette d'oro del povero generale deceduto. « Quando ho visto la richiesta dell'Intendenza Generale della sesta armata, ho pensato subito a te, e ho buttato là una parola a un amico che comanda un po' tutto nei reparti
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del personale. Una parola da uno del mio grado, caporale capo, capirai! Hai avuto una di quelle fortune! » « Gratis? » fa il cuciniere sempre diffidente. « Vecchio mio, cosa c'è ormai di gratuito a questo mondo? Il mio amico del personale chiede una cassa di vodka e basta; ma io, dal momento che sono amico tuo, non chiedo niente. Lo sai come sono fatto! » Il cuciniere riflette un po' meno diffidente. Sentiva già il ronzio del JU52. « Solo, dobbiamo mettere le cose bene in chiaro, prima », spiega Porta, sedendosi sul coperchio caldo di una pentola. « Deve essere ultrasegreto, intesi? Se ti lasci scappare una sola parola io sono nei guai. Il morale è molto, molto basso in tutto l'esercito, e Adolfo si è reso improvvisamente conto che i cuochi sono molto più preziosi e utili di quanto non si creda. Ora, il problema è di trovare dei cuochi qualificati che insegnino a quelli che sono ancora degli asini. » « Ma allora perché non vanno a cercarne addirittura a Stettino? » replica con il massimo del buon senso, lo scettico Wilke. « Là sanno tutto sulla cucina, scusa! » « Senti, caro! Io ho molto da fare e non ho tempo da perdere. Volevo solo farti un piacere. Se ti interessa dillo subito, prima che io passi l'informazione al cuoco del settantaseiesimo, stai tranquillo! » « Pagare! Ma se mi avevi appena detto che era un servizio da amico! Facciamo a buon rendere, allora! » « Per quel che riguarda me va sempre bene, ma per il mio amico dell'Intendenza Generale, puoi infilartelo nel culo il tuo buon rendere e fartelo uscire con un peto! Sai cosa mi ha detto anche? Date le perdite che abbiamo subito qui, tutto il personale non assolutamente indispensabile, verrà spedito in prima linea. Vi state avviando verso dei momenti grami e molto critici qui nel
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campo delle cucine. Se fossi in te preferirei farmi scaldare il culo in un bel JU52. » Il grosso cuciniere si passò la mano sul cranio calvo. Si diceva che aveva perso tutti i capelli, studiando come diminuire le razioni, e tutti sapevano che era il più grosso ladro nel raggio di venti chilometri. « Preferisco dirti tutto », conclude implacabile Porta. « Tutti i cuochi di tutte le compagnie dovranno essere trasferiti, e le compagnie stesse si occuperanno direttamente del rancio. Ma per te sarà probabilmente peggio, perché sei sottufficiale, così ti nomineranno capo gruppo dei mitragliatori, per esempio. Bene, Herbert, io ho molta fretta; il dovere mi chiama; come vedi sono stato nominato caporale capo e questo comporta dei nuovi doveri di fronte al Grande Reich. Decidi, sì o no. Stettino, ti interessa? » « Certo che mi interessa! Altrimenti sarei proprio un bel cretino! » « Allora vado subito a riferirlo al mio amico, ma tu intanto pensa alla cassa di vodka. Hai capito Herbert, le cose vanno fatte come si deve. » « E tu come sai che ho della vodka? Scroccone, ladro! » « Non eccitarti in questa maniera, caro. C'è tanta gente che si morderebbe le dita per avermi insultato, ma a te non ne faccio una colpa, va'! Scusa il disturbo e tanti saluti! » Si alza lentamente e si dirige verso la caserma. Una palla arriva volando È per me o per te? canticchia senza rallentare il passo, ma sentendo benissimo che qualcuno lo rincorre.
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« Aspetta un momento, santo Cielo! » grida Wilke, « non capisci nemmeno quando si sta scherzando! » « Basta chiacchierare. Risposta breve e seria. Sei interessato alla cosa sì o no? » « E come! » risponde furioso il sottufficiale. « Vieni che ti do la vodka. » Da una grossa botte Wilke tira fuori una cassa molto ben nascosta sotto un telone catramato. Il controllo delle bottiglie è esatto e nella foga dell'entusiasmo il cuoco regala a Porta una bottiglia in più. « E il resto della scorta sarà tuo, nell'istante stesso in cui il mio culo sarà sistemato sull'aereo. » Abbraccio del cuciniere. La cassa è caricata sulle spalle di Porta e l'altra bottiglia spunta dalla tasca. Arrivo trionfante alla terza compagnia. Franz Krupka non crede ai suoi occhi. « Non l'avrai minacciato con la MPI, spero! Sono due mesi che cerco di mettere le mani su questa maledetta vodkal » « Idiota! Forse che si adopera la pistola per rapinare una banca? La guerra psicologica, mio caro; è una pura questione di intelligenza! » La sera stessa, Porta si presenta vestito con la marsina e la cravatta bianca di un barone rumeno, perfino con il monocolo. Ubriacatura indimenticabile! Krupka rotola per primo sotto la tavola, poi è la volta di Gre-gor. Fratellino, in piedi sulla tavola, insiste nel voler dimostrare la sua abilità nel soccorso in mare, e si è già tolto gli stivali. « Voi gridate aiuto », ordina perentorio, « e io arrivo a volo planato dall'alto di un ponte per soccorrervi! Capito? » « Aiuto! » gridiamo tutti insieme. « Arrivo, camerati! » salta e piomba con il fracasso di
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un cinque tonnellate che si schianta. « Perché non mi avete detto che l'acqua era ghiacciata? Non sono un rompighiaccio, io! » Il Vecchio brandisce un'ascia sopra la testa di Heide, che urla stridulo dal terrore. Porta, sdraiato sulla tavola si tiene la pancia dal ridere pensando allo scherzo giocato al grosso Wilke e cerca di scolare dalla canna del suo fucile un miscuglio di olio, polvere e vodka, e qualcos'altro ancora trovato in fondo a una gavetta, e si fa un punto d'onore nel resistere a non vomitare quella mistura orrenda. Il legionario lo nomina caporale per grazia di Dio. Porta singhiozza violentemente di gratitudine. « Tu sei un vero amico, il mio unico vero amico », mormora Heide abbracciando con affetto la gamba del tavolo. Il Vecchio vuole uscire, ha bisogno d'aria fresca e appena uscito si crede in cielo. Quanto al legionario, chiede a un fantomatico generale sdraiato dentro la stufa di essere inviato in missione a Sidi-Bel-Abbès, e si mette in ginocchio a pregare Allah. Stalin, il gatto di Porta che non è affatto ubriaco, è seduto sul sedere del suo padrone e ci guarda tutti con un sovrano disprezzo.
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L'Obergruppenführer Heydrich entrò nell'ufficio di Himmler che con un gesto della mano, gli indicò la poltrona davanti a lui. « Obergruppenführer », entrò subito in argomento Himmler. « Mi hanno riferito che avete delle schede concernenti tutte le persone appartenenti al Partito, alle SS, e all'esercito. Si dice anche che considerate questo vostro schedario una cosa esplosiva. È esatto? » « Sì, Reichsführer. In quanto responsabile della sicurezza interna ed esterna dello Stato, è mio preciso dovere sapere tutto su tutti. » « Interessante », commenta Himmler con un sorriso freddo. « Avete per caso una scheda che concerne anche me stesso, nella vostra cassaforte esplosiva? » « È possibile, Reichsführer, ma non ho avuto ancora il tempo di esaminare personalmente ogni scheda. Non lo faccio se non quando si rende necessario. È d'altra parte il mio corrispondente di Mosca che mi ha suggerito quest'idea.» « Un'idea veramente ottima », conferma Himmler sempre in tono asciutto. « Beh, parliamo d'altro. Quali novità dal Vaticano, Obergruppenführer? » « Il Reichsführer è certamente molto più informato di me in questo preciso settore », replicò Heydrich con un sorriso estremamente amabile. « Cosa intendete dire? Non vi capisco. » « Il generale Bocchini non è un vostro caro amico? Intendo il capo della polizia in persona? » « Siete molto ben informato, come sempre », grugnì Himmler, molto seccato, perché non desiderava nel modo più assoluto rendere ufficiali i suoi rapporti personali con il generale Bocchini. « Tre settimane fa avete inviato al generale un pezzo di legno antico. » Himmler si lasciò sfuggire un gesto di rabbia e le sue
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labbra si fecero più sottili. « Mi sembra che andiate un po' troppo lontano, Obergruppenführer! Questo ' vecchio pezzo di legno ', come voi dite, era un cimelio autentico delle catene di Wotan. I miei esperti l'hanno rintracciato dopo molte ricerche e ho mandato questo pezzo d'antiquariato al generale Bocchini a testimonianza della nostra amicizia. » « Capisco perfettamente, Reichsführer, ma sfortunatamente Sua Eccellenza ha frainteso il significato del dono e ha buttato nel caminetto della sua casa di Roma questo cimelio consacrato », rispose Heydrich sorridendo sempre amabile. « Mi hanno anche riferito che il capo della Polizia Italiana ha creduto che il Reichsführer avesse voluto fargli un bellissimo scherzo. E così uno di questi giorni riceverete un pezzo del letto di Romolo, dono di Sua Eccellenza. » Himmler diventò livido, e le sue mani erano contratte dal furore represso. « Che imbecille quell'italiano! » grugnì, « un cimelio di catena di Wotan buttato ad ardere nel camino come un pezzo di legno! » Si risedette pesantemente. « Obergruppenführer, avete una scheda anche di questo pagliaccio? » « Le ripeto che ne ho di tutti. » « Bene, Heydrich. Fate in modo che queste vostre informazioni riservate pervengano al Duce, ma che non si venga a sapere che questo colpo parte da noi, beninteso! » « Ho capito perfettamente », rispose Heydrich con un sorriso complice molto pericoloso.
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IL TENENTE NOVELLINO PORTA e io eravamo addetti alla mitragliatrice. Avevamo avuto quasi due giorni interi di relativa tranquillità; anche i tiratori scelti non lavoravano che il mattino e tutti sognavamo una cosa sola: che questa atmosfera insolita si prolungasse il più a lungo possibile. « Mi sto chiedendo cosa sta macchinando Ivan », mormora il Vecchio, buttandosi dentro la buca vicino a noi. « C'è qualche cosa che si muove in maniera strana, laggiù. Quante cartucce avete? » « Cinquemila e anche un buon numero di pallottole traccianti, abbastanza da far fuori un reggimento. » « Sempre che arrivino in tempo da tirarci fuori di qui », commenta il Vecchio guardando con sospetto le linee russe. « E chi dovrebbe venire a prenderci, illusi! » replica Porta, « siamo solo noi che lo speriamo perché ci fa comodo, ma tutto finisce qui. A dire la verità, personalmente io non credo affatto che lo faranno, altrimenti sarebbero già venuti da tempo. Non avete notato che arrivano sempre meno aerei da trasporto? » « Ma tu sei pazzo! » grida Gregor, « lasciar accerchiare un'intera armata! La Germania non potrebbe nemmeno permetterselo! Un milione di uomini sono sempre qualche cosa, mi pare, Adolfo sarebbe un pazzo. » « E chi ti dice che non lo sia? » riprende Porta con aria indifferente. « Ti rendi conto che ormai siamo ridotti a qualche centinaio di migliaia di uomini, e per la maggior parte soldati che valgono poco, o niente del tutto? Adolfo queste cose le sa benissimo. La Sesta Armata non vale una cicca, e il generale Paulus è sempre stato un disfattista. Non si rischia poi molto a farne un bel
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regalo a Ivan. Io è già un bel po' che l'ho capita, cari! Ci hanno fatto diventare tutti eroi di Wagner, qui a Stalingrado, e fra cinquant'anni sarà anche scritto sui libri di storia. Un'intera armata si sacrifica per il Führer, te lo immagini. Dei bellissimi libri con taglio in oro, naturalmente, e con delle splendide illustrazioni. Mica tanti capi di Stato possono vantarsi di una cosa simile. » « Vai a farti fottere », bisbiglia il Vecchio, guardando sempre fisso oltre la scarpata della trincea. « Da Ivan sta succedendo qualcosa, ve lo dico io. » « È il cambio della guardia », fa tranquillamente Porta. « Niente di buono, invece », insiste il Vecchio. « Il mio naso non si sbaglia mai. Ivan ci sta preparando una fregatura, e bella anche. » Inquieto, si accende una sigaretta all'oppio, ne aspira una boccata profonda. « Non ; si fa mica tutto questo casino per un cambio di guar-! dia. Gregor, vai dal comandante di compagnia, bisogna che lo sappia anche lui. » « Calma! » dice Porta, « aspetta ancora un momento. Sono quasi le dieci e mezza. Ivan non arriva mai così presto. » Alle tredici esatte, la terra comincia a tremare sotto il fuoco di almeno mille batterie piazzate dietro le linee russe. « Questa volta la cosa mi sembra seria », grida Gregor buttandosi dentro un bunker, preso dal panico. i Porta e io rimaniamo nel fondo della trincea vicino alla mitragliatrice: si è ugualmente al sicuro come dentro un bunker, ma è importante riuscire a mantenere il controllo dei nervi, e non essere presi dalla cosiddetta febbre della trincea, questa strana psicosi che è costata la vita a molti soldati. Porta sorride per tranquillizzarmi.
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Il gatto si incolla a lui, intuisce l'avvicinarsi dell'attacco e ha la stessa paura che abbiamo noi. La prima grossa granata Haubitz cade davanti alla trincea e ci copre di terriccio e di frammenti di ferro, l'aria rimbomba come uno strumento di bronzo, la successiva è già partita. Il comandante di compagnia si attacca al telefono e trasmette con un timbro di voce altissimo: « Qui comandante di compagnia, capitano Schwan, quinta compagnia. Tiro di sbarramento sulle nostre posizioni. Delle cinquantadue esplodono davanti al mio bunker, prevedo un attacco massiccio, chiedo un rinforzo di artiglieria ». Il colonnello Hinka risponde con la sua calma abituale. « Mi sembra un po' esagerato, mio caro Schwan, non perdete la testa per un po' di artiglieria. Le cose si accomoderanno, vedrete. In caso contrario, vi invierò una batteria di cannoni automotori. » Schwan butta il ricevitore imprecando, toglie il revolver dalla fondina, infila il coltello da trincea negli stivali, e si mette a correre lungo tutto il cunicolo di collegamento. Nel bunker gli uomini sono in attesa... Quando arriveranno, « loro »? Nessuno apre bocca, tutti fissano attraverso le feritoie, le armi puntate. Aspettare... Aspettare... È la cosa più atroce prima di un bombardamento intenso e la volontà può venire a mancare anche ai più forti... Fratellino suona l'armonica, come fa sempre in questi casi. Il suo grosso piede batte il tempo, ma nessuno di noi riesce a seguire quello che sta suonando. Il Vecchio sta appoggiato alla parete e fuma la sua vecchia pipa a coperchio. Il legionario rosicchia un fiammifero. Ecco un'esplosione da spaccare i timpani! Il bunker tutto ne vibra. È un tiro sicuramente andato a segno.
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Dei compagni perdono il controllo di sé e picchiano la testa contro il muro. Improvvisamente il bombardamento intenso cessa... In maniera brusca e innaturale. E in questo momento il silenzio è proprio insostenibile, è quasi un dolore fisico. Il Vecchio si scuote, afferra delle bombe a mano, prende il fucile mitragliatore; cerca di far tornare in sé quelli che ancora sono inebetiti da questo cannoneggiamento che li ha stravolti. « Seconda sezione, tutti dietro a me! » grida. In un batter d'occhio eccoci tutti tesi e pronti nella trincea, che è ridotta a un ammasso sconnesso simile a un paesaggio lunare. Il suolo intorno non è che un cratere. Eccoli! Arrivano, a gruppi serrati, le lunghe baionette tenute orizzontalmente. Un muro di soldati scuri, urlanti dietro una siepe di acciaio. Per noi appiattiti e immobili nelle trincee è uno spettacolo infernale e quasi astratto. Fischio del capitano Schwan. Tutte le mitragliatrici crepitano simultaneamente, i siberiani cadono a terra come stormi di quaglie, ma senza pietà, i successivi passano sui loro corpi che si contorcono sulla neve. Anzi, buttano i cadaveri sui fili spinati e se ne servono come ponte; un vapore di zolfo avvolge tutto : e brucia i polmoni. Le maschere, le maschere! Con la regolarità di una macchina automatica, Porta maneggia la sua mitragliatrice; questa va da destra a sinistra, da sinistra a destra, all'altezza del ventre. Una bomba a mano sta arrivando sopra le nostre teste; l'afferro ancora in aria e la rilancio davanti a me. Ma la mitragliatrice ha delle difficoltà, un proiettile blocca il caricatore. Porta ritira il calcio, strappa il proiettile con la baionetta, perché non ha più l'attrezzo speciale, è stato vendu-; to, come tante altre cose. La SMG riprende il tiro regolare,
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e io non mi accorgo nemmeno che è rovente. « Attenzione, Porta, non rimangono che millecinquecento colpi. » Ci piazziamo davanti a un certo numero di granate, ma i siberiani sono già penetrati nella trincea e stanno facendo piazza pulita arrivando da destra. Porta mi ordina di caricarmi sulle spalle il treppiede e non è certo molto divertente avere la propria testa esattamente al di sotto della canna di una mitragliatrice. Mi infilo e corro lungo la trincea, mentre Porta falcia tutto quello che vede davanti a sé. Di nuovo l'arma si è inceppata; la butto per terra e infilo la baionetta in canna; ho un fucile russo da corpo a corpo incredibilmente più efficiente del nostro novantotto ormai antiquato. Porta con la vanghetta di fanteria come unica arma, abbatte un russo che gli era comparso improvvisamente . davanti. Fratellino si batte come una belva, prende due siberiani per il collo e picchia le loro teste una contro l'altra fino a spaccarle. È una carneficina senza eguale, sangue dappertutto, gemiti, grida insensate, singhiozzi, tutto l'orrore e la violenza di un corpo a corpo in una trincea strettissima. Dopo un certo numero di ore, l'attacco cede di forza, perché? Non si può dirlo. I Siberiani ritornano alle loro linee. Torna la calma anche da noi, ma la « terra di nessuno » fuma ancora, e lamenti e invocazioni di aiuto fanno eco dovunque. Ci strappiamo le maschere, ingoiamo la neve per attutire la sete bruciante e ci buttiamo esausti nel fondo della trincea, che non è più una trincea ormai, in mezzo ai cadaveri, ai feriti, ai moribondi che gridano. Giacciono dappertutto, ma cosa importa a noi ormai! In guerra non si pensa che a se stessi. Porta mi tende una
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borraccia di acqua e due sigarette grifas. Dio sia benedetto, che fortuna avere ancora delle sigarette oppiate, non sarebbe possibile resistere, altrimenti! Ecco arrivare Gregor e il legionario che è inondato di sangue. « Chi ti ha conciato in quella maniera? » chiede Porta. « Hai fatto un bagno dal macellaio, per caso? » « È stato un capitano che si è infilzato proprio addosso a me, che merda! » Il nostro gruppo è salvo, ma il capitano Schwan è scomparso. Qualche ora dopo lo ritroviamo con il ventre squarciato, in un fosso, gli intestini allo scoperto, orribile! Ritroviamo anche l'amico di Porta, Franz Krupka, che ha il cranio spaccato da un colpo di vanga. Bisogna seppellire tutti, russi e tedeschi insieme, e sulla fossa ricoperta di terra piantiamo dei fucili con gli elmetti infilati alla baionetta. Il reggimento è rilevato per essere ricomposto; la nostra sola compagnia ha perduto sessantotto uomini. Ma passando davanti alle cucine, vediamo un nuovo cuoco, e Porta lo guarda stupefatto. « Ehi, amico! Dov'è il sottufficiale Wilke? » « Partito stamattina in aereo, con il generale Hube. » Porta spalanca la bocca e lascia cadere la sigaretta. « Ma non è possibile! » « È proprio come ti dico, invece. E tu non sei per caso Porta? Ho un pacco per te e i saluti di Wilke. Mi ha detto che tu sei stato per lui il miglior amico del mondo! » Per la prima volta in vita mia, vedo Porta rimanere senza parola. Noi rientriamo nelle baracche per cercare di prendere sonno, ma lui è talmente sbalordito dalla notizia che torna alle cucine del campo per vederci chiaro, ma anche per farsi consegnare il regalo di colui che era realmente convinto di dovergli la vita. Il nuovo
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cuoco non ne sa gran che. Sembrava che Wilke si fosse incamminato verso l'aeroporto di Gumrak dietro un ordine del reggimento, e Porta fa ritorno alla baracca scuotendo la testa perplesso, ma col suo prezioso carico di vodka sulle spalle. Durante il tragitto si imbatte in un giovanissimo tenente, che era appena arrivato nel nostro inferno con un battaglione di reclute. Per un secondo i due uomini si squadrano in un silenzio ostile. Il tenente visibilmente aspetta una reazione da parte del subalterno, ma negli occhi blu di Porta non appare che un'ironica condiscendenza. « Ehi, caporale capo! Non conoscete gli ordini del Führer? » Porta si dà un minimo di contegno, volutamente. « Faccio presente al signor tenente che il nostro comandante di compagnia non ci ha trasmesso ancora nessun ordine dopo che Ivan ci ha quasi annientati ieri sera. L'abbiamo sotterrato dopo l'attacco. » « Siete pazzo, caporale? Insultate il Führer, per caso? » « Il signor tenente mi permetta di dire che non sarei mai capace di insultare nessuno. Avevo capito che il signor tenente si riferisse al mio comandante di compagnia. È solo lui che dà gli ordini e nessun altro. » Il giovane tenente diventa paonazzo. « Qual è la vostra mansione nella compagnia, caporale? » « Un po' di tutto. Per il momento sono capo del terzo gruppo. » « Che Dio protegga la Germania! Chi è quel pazzo che ha voluto nominarvi capogruppo? » « Signor tenente, questo avanzamento non mi ha fatto nessun piacere, ma un ordine è un órdine. D'altra
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parte si dice che occorre più cervello per fare il caporale capo, che per fare il maresciallo, e a furia di fare la guerra, comincio a crederci anch'io. Noi caporali siamo la colonna vertebrale dell'esercito, e i graduati il complemento. » « Come osate, pezzo di cretino? » urla il tenente. « Il nostro Führer, Adolfo Hitler ha detto... mettetevi sull'attenti quando parlo del Führer! » « Chiedo il permesso di segnalare al signor tenente che io cerco di indossare la divisa meglio che posso. » Il tenente era talmente furibondo che non sentiva le risposte di Porta, ma cercava di ricordare quello che egli stesso gridava ai giovani hitleriani durante le esercitazioni. « Soldati! Il sangue deve fremere di orgoglio nelle vostre vene! È il dovere di tutti i cittadini, uomini e donne. Lo capite, pezzi di cretini? Ma badate, sono io che prendo il comando della vostra compagnia e adesso andate tutti a pulire le stalle! Esigo disciplina e ordine. Ognuno di voi deve essere temprato come l'acciaio Krupp! E ora sparite! » Il giovane tenente se ne va, meditando di vendicarsi della sfacciataggine del caporale alla prima occasione, ma era destino che quel giorno fosse nefasto per lui. Con i nervi a fior di pelle, si scontra per sua sfortuna con Fratellino che sta trasportando dei secchi d'acqua per le cucine del campo e nel trambusto che ne segue un po' d'acqua inzacchera gli stivali perfettamente lucidi del tenente. Fratellino che neanche se ne è accorto impreca, e sta proseguendo per la sua strada, quando sente urlare alle sue spalle: « Ehi, selvaggio, non salutate un ufficiale? » « Eccone un altro che arriva fresco dalle retrovie, che crede ancora che si vinca la guerra facendo il saluto! »
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dice fra sé il gigante con commiserazione. « Beh, dopotutto, questo non mi riguarda. Per sopravvivere, come dice Porta, bisogna sempre dire di sì a tutte le loro imbecillità. » E prosegue verso la cucina. « È a voi che sto parlando, gorilla con il secchio in mano! » urla il tenente furioso. « Ma dove sono capitato io? » « Signor tenente », fa eco Fratellino, « siete al ventisettesimo, quinta compagnia, a Stalingrado. » « E non si salutano gli ufficiali della Grande Germania? » risponde il tenente sempre più paonazzo di rabbia. « Il vostro nome, orangutan? » « Soldato di prima classe Creutzfeld », risponde impeccabilmente il gigante, « ma per gli amici Fratellino, senza dubbio perché sono così grande e grosso. » « E perché non salutate gli ufficiali? » « Signor tenente, non posso fare due cose in una volta. Portare l'acqua in cucina perché i signori ufficiali possano mangiare come si deve, anche se la truppa manca di acqua a Stalingrado, beninteso, e contemporaneamente salutare tutti! » « Tutti! Questa parola è molto, molto imprudente! Soldato! » dice il tenente, cercando di incutere un certo timore in quegli ingenui occhi azzurri. « Vi presenterete alle tredici esatte da me, in tenuta di marcia e vi insegnerò io come ci si comporta in presenza di un ufficiale. Intesi? » « Faccio presente al signor tenente che non è proprio possibile. Il signor colonnello ha dato ordine che io mi presenti da lui alle dodici e trenta. Non so se il signor tenente conosce il colonnello Hinka, ma lui è proprio l'ultima persona cui vorrei dispiacere. E un colonnello è superiore a un tenente, è nel regolamento. » « Molto bene. Allora vi presenterete alle ore otto da
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me, e vi farò passare per sempre la voglia di prendermi in giro. » « Buongiorno, tenente Pirch! » Una voce molto calma si fa sentire alle spalle del tenente. Dopo essere stato per quattro anni istruttore nelle retrovie, il giovane aveva chiesto di vedere da vicino quello che erano in realtà questi miserabili sovietici, e l'avevano spedito seduta stante a Stalingrado. « Sono lieto che stiate già facendo conoscenza della quinta compagnia. » Il tenente trasale. Aveva davanti a sé un colonnello, cui la manica sinistra dell'uniforme pendeva vuota, il comandante del ventisettesimo carristi, il colonnello Hinka. « Heil Hitler, signor colonnello! » « Va bene, va bene », replica il colonnello sorridendo. « Tu Creutzfeld, fila, manca certo dell'acqua alle cucine. » Fratellino batte i tacchi rumorosamente. « Agli ordini signor colonnello. Ne mancano ancora dieci secchi. Filo. » « Così state occupandovi della quinta compagnia, tenente Pirch? » chiede il colonnello fissando il giovane con uno sguardo freddo. « Vi metto subito In guardia. Non infastidite questa compagnia. Perché voi lo sappiate, il fronte non è come la caserma. Qui non si tiene il palmo della mano sulla cucitura dei pantaloni ma sul grilletto del fucile. Spero di essermi espresso abbastanza chiaramente, vero signor tenente? » E se ne andò senza aspettare la risposta. « Che banda! » pensò il tenente Pirch che già malediceva quel momento di coraggio che l'aveva spinto a chiedere di essere inviato al fronte.
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L'Associazione dell'Aristocrazia tedesca dichiara, per mezzo del suo Presidente e Maresciallo della Nobiltà, Principe di Bent-heim Tecklenburg, di essere in pieno accordo con il Nazional Socialismo, e chiede una rigorosa attestazione dì arianesimo per la nobiltà e i suoi antenati a partire dal 1750. 19 gennaio 1935 Una Mercedes cabriolet nera procedeva lentamente, costeggiando le ville di Berlino Dalhem. L'automobile si fermò, l'autista SS uscì rapido dal posto di guida e aprì la portiera anteriore davanti a//'Obergruppenführer Reinhard Heydrich, che ne discese e prese il sentiero molto ben curato che conduceva all'abitazione. Era una villa bianca a due piani, lievemente arretrata rispetto alle altre. Fiorì e alberi da frutto spandevano intorno, un profumo molto fresco. Heydrich ricompose con un gesto l'uniforme e premette il campanello. Il proprietario della casa, ammiraglio Canaris,1 Capo del Servizio Informazioni, era disteso su una poltrona a sdraio al centro del prato, e discorreva con sua moglie, una bella donna bruna dallo sguardo sensibile e intelligente. « Cosa vuole, mio Dio? » mormorò l'ammiraglio molto sorpreso e inquieto, vedendo la persona che veniva avanti attraverso il giardino. « Hai delle noie con Heydrich? » « Con lui si hanno sempre delle noie. » La signora Canaris si fece avanti per ricevere questo personaggio così temibile che le baciò educatamente le mani. L'ammiraglio, preso da una forte tensione, si era alzato lui pure. « Buongiorno, Obergruppenführer », disse la signora Canaris, indicandogli una poltrona. « Posso offrirle un cognac? » « Grazie », rispose Heydrich prendendo il bicchiere che
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gli veniva teso. Seguì un lungo silenzio. Il calore della giornata era soffocante, il calore che preannuncia la tempesta. « Questa temperatura torrida deve sfibrare anche voi », mormorò la signora Canaris. « Non ho nemmeno il tempo di accorgermene, ho troppe cose da fare e anche troppe noie. » L'uomo guardò l'ammiraglio negli occhi. « Abbiamo avuto una _ storia a Dusseldorf, una storia maledettamente spiacevole. » Attese qualche istante, ma il volto dell'ammiraglio Canaris restò impassibile. « I miei uomini dovevano arrestare un certo conte Osterburg... » La signora ebbe un gesto involontario di scatto e diede un'occhiata al marito che con gli occhi abbassati, giocherellava con il bicchiere che aveva in mano. Un forte senso di disagio era nell'aria. Heydrich non era certo venuto per una semplice visita di cortesia. « E i vostri uomini non sono riusciti a trovare il conte? » ella chiese sorridendo. « Come lo sapete? » replicò brusco Heydrich. « Lo immagino », rispose la signora con un sorriso inquieto. « Ci avete appena parlato di una storia così spiacevole. » « Effettivamente, è quello che ho detto. » Si volse verso l'ammiraglio. « Ma quello che mi sorprende di più è che questo conte è riapparso invece a Roma. Lo si vede tutti i giorni in compagnia di un certo Angelo Ritano, e questo Ritano, se non erro, fa parte dei vostri servizi, ammiraglio, non è così? » « È possibile », rispose l'ammiraglio senza alzare gli occhi. « Farò fare un'indagine, se lo desiderate. » « Posso farla fare io stesso. » « È così urgente? » « Tutto è sempre urgente per me. Vogliate scusare questa visita così breve, ho un appuntamento cui tengo molto
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con il capo della Gestapo. » E scomparve silenziosamente come era venuto.
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L'EVACUAZIONE DEL COLONNELLO HINKA UN mattino, con un freddo terribile, reso ancora peggiore da una tempesta di neve, Porta e io riceviamo l'ordine di trasportare e scortare il colonnello Hinka, ferito molto gravemente, all'aeroporto di Gumrak. Era stato il solo a riuscire a saltar fuori in tempo dal suo carro armato in fiamme. Sul campo d'aviazione, centinaia di feriti aspettavano di essere evacuati dall'inferno di Stalingrado. Tre grossi aerei, con il motore acceso, erano in attesa dell'ordine di partenza. Un medico capo si affannava e si dava un gran da fare in mezzo alle barelle coperte di neve distribuendo permessi di imbarco, che un istante dopo annullava. Accadde la stessa cosa anche per il nostro colonnello ferito, ma Porta non era certo disposto a rassegnarsi e rinunciare. « Qui bisogna prendere in mano la situazione, vado a darmi da fare. Questi coglioni non conoscono ancora Joseph Porta. Ho visto qui intorno un amico che deve avere dei contatti con i pezzi grossi dell'aeroporto. Tu aspettami qui. » Un quarto d'ora più tardi lo vedo ritornare in compagnia di un Oberfeldwebel in tenuta da pilota. « Guarda che i documenti che ti ho dato, nemmeno un graduato con dieci stellette oserebbe sfiorarli », dichiarava l'uomo. « Ma che Dio abbia pietà di te se mi tradisci! Fino al Polo verrei a cercarti e ti giuro che ti troverei! Tieni bene a mente che ti faccio un grosso favore. » « Non lo dimentico, amico, ma piantala per favore con le minacce, mi danno incredibilmente fastidio. Noi due, ho l'impressione che è molto meglio se rimaniamo amici, perché se mi mettessi a chiacchierare comince-
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resti a sudare freddo, per cui vedi di stare quieto e calmo. Riceverai il grano un'ora dopo che il nostro colonnello sarà in salvo sull'aereo. Ma non dimenticartelo il giorno che sarai diventato ufficiale! » Caccia delle carte misteriose sotto le coperte che avvolgono il colonnello Hinka e cambia il numero della nostra divisione con un altro che gli attacca al polso. Il medico capo arriva camminando a grandi passi seguito da un gruppo di infermieri. « Vi ho detto di filare! Sparite con questa maledetta barella e portatela nella sala medicazione! » « Signor medico capo », dice Porta sull'attenti. « Il nostro colonnello ferito deve essere evacuato per ordine dell'Armata. » « Qui sono io che do gli ordini e basta », esplode il medico. « Il Führer in persona non può metterci il becco. » « Agli ordini del signor medico capo », risponde tranquillamente Porta, togliendosi di tasca un taccuino. « Che ore sono? » chiede. « Le dieci e trentadue. » « Che cosa state facendo? » grida il medico furioso. « Quando torno al comando con il mio colonnello ferito, devo essere in grado di dichiarare a che ora un ordine dell'Armata è stato sabotato e da chi. » « Fatemi vedere subito quest'ordine! » Il medico si impadronisce dei documenti e istantaneamente si calma. « Allora caricate immediatamente la barella nell'aereo e sparite. Ma guai a voi se mi avete imbrogliato. Io non perdono mai, sappiatelo. » Caricato il colonnello, che sorride grato, domando con una certa inquietudine: « E tu cosa fai adesso, se quello si informa e salta fuori il trucco? Guarda che puoi rimetterci la testa! »
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« Non salterà fuori niente, imbecille! » risponde Porta tranquillissimo, « e tanto meno se scoprono qualche cosa. Una volta ho raccontato che Heydrich era uno zio di mia madre. Dovevi vedere come saltavano tutti! Ho avuto della benzina sufficiente per tutto il reggimento. Non hai ancora capito che da noi si ha più paura dei propri capi che dei siberiani? » In quel momento vediamo arrivare di corsa un tenente colonnello che agita un documento. « Un posto nell'aereo! » grida. « Ecco qui l'ordine. È firmato dal quartier generale del Führer. » « Desolato, signor colonnello », risponde sorridendo il pilota, accartoccia il presunto ordine di partenza e lo butta nella neve. « Questi documenti sono annullati da tre giorni per impedire diserzioni dalla zona di combattimento. » « Disertore, io! Vi rendete conto che state insultando un ufficiale tedesco? » Porta si china e raccoglie il documento nella neve. « È vero, Gustav », dice. « Non si tratta così un colonnello. Nella mia funzione di caporale capo in servizio ho il dovere di avvisare la polizia militare e subito anche. » « Buona idea », risponde il pilota, con un largo sorriso. « Vai un po' a cercare i cani da guardia e falli venire qui. Sono proprio curioso di sentire quello che diranno di un ordine emanato dal Führer. » Il tenente colonnello appare subito molto inquieto. Si avvicina a Porta, poi bisbiglia al pilota che offre ventimila marchi tedeschi per un posto sull'apparecchio. « Fila via, merdoso! » grugnisce il pilota. « Puzzi! » Porta afferra il colonnello per il bavero e gli dà un calcio che lo fa rotolare nella neve. Nello stesso istante arrivano due gendarmi.
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« Soldato! La vostra insubordinazione è molto grave! Aggredire un ufficiale! » « Se si tratta di un disertore, la cosa è diversa, immagino! Ha appena offerto ventimila marchi al pilota per mettere il suo culo sul taxi! » Il tenente colonnello si era rialzato e si spolverava il lungo pastrano sporco di neve. « Arrestate quest'uomo! » grida indicando Porta. « Ha aggredito un ufficiale tedesco. » « Libretti di matricola, militari! » ordina uno dei due gendarmi. « E mettetevi sull'attenti quando un ufficiale vi parla. » Imperturbabile, Porta apre il documento tutto spiegazzato e bagnato di neve e lo tende al Feldgendarm. « Arrestate prima di tutto questo vigliacco in divisa da ufficiale. Ha la sfacciataggine di sostenere che questa carta perimetrata viene direttamente dal quartier generale del Führer. » Interdetto, il Feldgendarm esamina attentamente il foglio. « Signor colonnello », dichiara alla fine, « sono molto dolente di dovervi tenere guardato a vista, perché sospettato di diserzione, e vi avverto che al minimo tentativo di fuga, farò uso della mia arma. » Il tenente colonnello, pallido come un morto e protestando ancora con veemenza, si allontana tra i due gendarmi. « Ecco fatto! » fa Porta, sfregandosi le mani soddisfatto. Il pilota ci aiuta a caricare sull'apparecchio la barella di Hinka che noi avevamo avvolto il meglio possibile con tutte le coperte che eravamo riusciti a procurare. Il freddo era intensissimo anche nell'interno dell'aereo. « Dio, avere un posto qui dentro! » Sospirò. « Non
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usciremo vivi da Stalingrado. » « Vedi, bisogna imparare a prendere le cose come vengono », replica Porta alzando le spalle. « Con un po' di fortuna e un po' di cervello, ne verremo fuori magari lo stesso. » Una folla di feriti, zoppicando e trascinandosi nella neve, aveva circondato gli aerei da trasporto. I gendarmi della polizia militare, insensibili alle suppliche e alle grida, allontanano quei poveretti a colpi di canna di fucile. Un posto sull'aereo significa avere salva la vita. Da ogni parte si fanno avanti delle sagome sparute; una Corte dei Miracoli in mezzo alla neve; si attaccano alle portiere, alla fusoliera, ai piloti stessi, ma è inutile. Gli aerei sono già sovraccarichi, anche i depositi sono zeppi di soldati feriti e ancora sanguinanti. Vengono scaricate ancora delle casse di munizioni, di medicinali, e di materiale radio, per imbarcare tre feriti gravi, tra questi un giovane tenente che, al posto dei piedi, ha due monconi violacei. L'aereo che trasporta Hinka corre già sulla pista e l'amico di Porta ci fa dei segnali molto vistosi; si vedono perfettamente i suoi guantoni bianchi. L'apparecchio vira, i tre motori rombano sempre più forte. « Speriamo che riesca a decollare! È carico due volte di più del consentito! » Il pilota dà un colpo di acceleratore, i motori sono al massimo, l'aereo decolla pesantemente in una nuvola di neve e le sue ruote quasi sfiorano il tetto dell'hangar; ma riesce a prendere quota, vira sull'ala, ci sorvola, poi il pesante JU52 scompare nelle nuvole. « Non ha né radio né altro, ce la farà a cavarsela? » « Non fare sempre il menagramo », risponde Porta. « Gustav sa il suo mestiere, arriverà in porto, sono sicuro. »
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Il JU52 successivo decolla qualche minuto dopo. Arriva appena a sollevarsi ma poi cabra e ricade sul campo. Un'esplosione spaventosa e tutto si schianta in un mare di fiamme. Il terzo parte subito dopo a velocità molto sostenuta. Esce dalla pista, fa un testa coda e prosegue la sua corsa in direzione dei reticolati. Siamo tutti tesi temendo un'altra catastrofe, quando proprio davanti all'ostacolo si impenna, vira verso ovest e finalmente scompare. La vettura anfibia che ci aveva portati qui ci aspetta per tornare al reggimento, ma scorgiamo vicino un piccolo cumulo di stoffa grigia sulla neve che sta diventando rossa tutt'intorno. È il tenente colonnello dei ventimila marchi... « Merda! » commenta Porta. « È sbrigativo, qui a Stalingrado il consiglio di guerra! Questo qui è uscito dall'inferno, ma non come avrebbe voluto! Deve essere molto facile fare l'ufficiale in tempo di pace, evidentemente, ma in guerra, come rottura di balle, te lo raccomando! » « Chissà quanti ne hanno fucilati qui nella zona di combattimento? » « Molti, di sicuro. Un feldwebel della compagnia cacciatori mi ha detto che solo nel suo reggimento ne avevano fucilati ottocentocinquanta. Quanti poi i consigli di guerra ne abbiamo liquidati, non lo si verrà mai a sapere esattamente, è segretissimo! » Percorriamo la via Litvinov, per prendere una strada laterale che porta alla Piazza Rossa, dove in un sotterraneo avevano sistemato un ospedale provvisorio. Ci avevano dato ordine di portare al reggimento una cassa di pronto soccorso. Un fortissimo odore di sangue, di escrementi e di putrefazione ci prende alla gola. I feriti si intravedono a malapena in una penombra appena ri-
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schiarata da debolissime luci a petrolio. Incespico in un cadavere e cado addosso a un ferito che grida di dolore. « Non lo vedi che non c'è posto », urla un feldwebel ferito. « Andate subito fuori dai piedi tutti e due! » « Siete feriti? » chiede un medico da sotto la maschera chirurgica. « No, veniamo a ritirare dei medicinali, ecco l'ordine del reggimento. » « Quarta porta a destra, ma non dimenticatevi di mettervi sull'attenti. Non si fanno tanti complimenti qui. » Il Sanitàtshauptfeldwebel legge il nostro ordine di re-quisizione, poi ci guarda stralunato. « Del materiale per medicazione? Posso darvi dei giornali, se volete, è quello che adoperiamo anche noi da quindici giorni. E vorreste anche della morfina? E perché non una perfetta attrezzatura chirurgica, con l'apparecchio per l'anestesia e tutto l'insieme? » continua alzando sempre più la voce. « Dove credete di essere, pezzi di cretini? Non lo sapete ancora che vi trovate a Stalingrado? Ma guarda un po' questi due idioti! Vengono a rompermi le balle con tutto il daffare che ho! Un ordine di requisizione! Mi prendono per Babbo Natale, forse? » Con furore strappa l'ordine e ce ne restituisce metà per ognuno. « Mangiatevelo se volete, e tenetevelo per detto: qui a Stalingrado non abbiamo più niente e non riceveremo più niente. Siamo cancellati dall'armata, poi non e-sistiamo più, va bene? E adesso andate a pulirvi il culo con il vostro ordine! » Buttati fuori dall'ospedale, riprendiamo la strada, ma veniamo fermati appena fuori dalla città da un maggiore, con un cappotto di pelliccia bianco, fucile di traverso sul petto. « Dove state andando? » grida un tenente con la faccia da bulldog.
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« Stiamo rientrando al reggimento, signor tenente, dopo aver trasportato all'aeroporto di Gumrak il nostro colonnello ferito. » « Documenti! » ordina. « Bene. Per il momento voi due rimanete qui. Cacciate la vostra macchina sotto quegli alberi. Adesso vi diamo delle bombe a mano e voi vi mettete qui sulla strada insieme a noi. » Ci raggruppano in una sezione, sotto gli ordini di un feldwebel della polizia militare. « Cosa si fa qui, adesso? » chiedo sottovoce a un artigliere. « Sei cieco? Non vedi che siamo un ' commando ' di consiglio di guerra? Dai un'occhiata a quel fosso dietro a te, è solo il lavoro di questa mattina. Io in questa unità ci sono solo da due giorni. Volete un consiglio? Tagliate la corda appena potete. » Un battaglione cacciatori sta arrivando lungo la strada principale. Perfettamente equipaggiato, non manca di nulla. Perfino due grossi camion cisterna. « Dove andate? » chiede il maggiore dal cappotto di pelo. « Ordine di raggruppamento nell'ansa del Don », risponde il tenente, con aria di sufficienza. « Ordine annullato. Vi mettete in posizione qui. Vi indicheremo il piazzamento. » « Desolato, caro camerata », risponde il tenente guardando con palese spregio l'ufficiale della polizia militare. « Gli ordini che ho ricevuto sono di riformare la mia sezione nell'ansa del Don e devo ubbidire agli ordini. » Il maggiore toglie dalla fondina la pistola e la punta sul tenente. « Voi prenderete posizione qui, in caso contrario vi faccio fucilare come disertore. Rappresento l'OB (Comando Supremo) a Stalingrado. »
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Il tenente impallidisce, scende dal suo cingolato. « Helmer, mostrate al tenente la posizione che deve occupare », ordina il maggiore asciutto. « Camerata », balbetta il tenente, « lei deve capire... » « Capisco perfettamente. Cacciatevi in quella buca prima di farvi sfondare il cranio da un T34. L'ansa del Don non conduce da nessuna parte. » Per sei ore, rimaniamo sul posto, fermando una fiumana di fuggiaschi di tutte le armi. Ognuno di loro non aveva che un solo pensiero dominante: abbandonare quest'inferno di Stalingrado, andare il più lontano possibile dagli attacchi della fanteria siberiana e dai T34. Alcuni infieriscono e minacciano sanzioni gravi, altri gridano « Missione speciale », altri supplicano, ma la polizia militare è senza pietà. Qualsiasi ordine, qualsiasi documento non ha più alcun valore e se qualcuno fa troppe storie, c'è pronto il plotone di esecuzione. Dopo un certo numero di ore Porta e io riusciamo a scappare dalle grinfie del maggiore, non certo per una grazia particolare, ma per la incredibile previdenza di Porta che gli aveva suggerito di tenere sempre con sé degli ordini timbrati OB. Impossibile sapere come se li era procurati, naturalmente, ma questo timbro aveva il potere di ammansire anche il più aggressivo dei cani da guardia. Tranquillo come sempre, Porta fischietta mentre la nostra auto anfibia rotola allegramente sulla strada che porta a Kuperossnoje. Fa un freddo incredibile. Sto sonnecchiando con il cappotto sopra la testa quando siamo investiti da una bufera di neve. Per due volte la macchina sprofonda, le ruote girano a vuoto e i pneumatici non fanno presa. Siamo costretti a muoverla a forza di braccia. Sulla strada, neanche un'anima, e a tratti, probabilmente a causa delle raffiche di vento, i
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cumuli di neve sono talmente alti che superano l'altezza dei pali telegrafici. Ancora notevolmente lontani da Kuperrossnoje incrociamo delle colonne di cavalleria, i cui cavalli resi inquieti dallo sforzo di tenersi in piedi sulla superficie ghiacciata, nitriscono di continuo. « Da dove arrivano questi ronzini? » fa Porta stupito. « Che fame atroce vedere tante belle bistecche viventi; io adoro la carne di cavallo. » I cavalli emanano nuvole di vapore e un forte odore di cuoio umido. Improvvisamente due di loro si impennano sbarrando la strada e un ufficiale arriva al trotto gridando delle imprecazioni incomprensibili. Dopo la cavalleria arrivano gli obici, con i loro cannoni a canna corta puntati verso le nuvole di neve che si stanno diradando; poi delle colonne di guastatori con i bulldozers e pale meccaniche. Tutti procedono nella direzione inversa alla nostra. « Che strano! Dici che ci mandano dei rinforzi? » esclama Porta. « Hai visto tutto questo materiale? Nuovo fiammante. Sembrerebbero dei Rumeni. » Per due ore siamo costretti a procedere lentamente lungo queste colonne interminabili; calcoliamo sia almeno una intera divisione e Porta fa dei cordialissimi cenni di saluto a dei cacciatori di una sezione sciatori, i cui mezzi sono irti di sci. A un tratto frena in modo così brusco che l'anfibia fa un testa coda derapando sulla strada ghiacciata. « Dio santissimo, sono Russi! » urla Porta. « Stoi! Stoi! » si sente gridare alle nostre spalle, poi partono dei colpi d'arma da fuoco. Porta guida a una velocità pazzesca, facendo degli slalom fra gli alberi di una strada laterale in cui siamo riusciti a deviare. Alla fine si ferma, toglie dalla cassetta degli attrezzi due berretti rus-
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si di pelo e dice, ansante: « È meglio far sparire la parrucca di Hitler. Che fortuna che per caso ho riconosciuto quell'ufficiale russo altrimenti questo, caro mio, sarebbe il nostro ultimo peto! » « Filiamo! » dico guardando con terrore dietro le mie spalle. Ci mettiamo a tracolla le MPI russe, i baveri della divisa rialzati, i berretti di pelo con la stella rossa; sembriamo proprio dei soldati russi, ma per prudenza teniamo a portata di mano delle granate. Proseguiamo e ci ritroviamo sulla strada sempre ingombra di colonne in marcia. Porta svolta in un sentiero secondario, ma fatti pochi metri improvvisamente il motore comincia a tossire e si ferma solo a qualche metro dalla strada principale. Porta scende con l'aria più tranquilla e naturale del mondo. Una divisione cosacca sta passando in questo momento cantando a squarciagola. Sarebbe incredibilmente piacevole guardare lo spettacolo di questi uomini che marciano cantando e di questi cavalli focosi che nitriscono. Ma in questo momento è una scena che ci agghiaccia di terrore. La mano sulla pistola guardo Porta che asciuga le candele, esamina il carburatore e l'accensione, ma alla fine la tensione è tale che strappo la testa di morto dal bavero della mia uniforme e la calpesto. Questi maledetti pezzetti di metallo sono stati la causa della morte di molti carristi. Inoltre ci prendono sempre per degli sbirri della divisione di Eicke (divisione della morte). « Hai paura di Ivan? » mi fa Porta con aria maliziosa. « Non serve a niente, sai, strapparsi quelle cosette, se ci beccano ci fanno iuori in ogni caso per via dei nostri berretti e delle nostre MPI russe. E se non mi sbaglio la
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tua baionetta è un po' troppo affilata. Hanno fucilato dei soldati per una faccenda di questo tipo, durante la guerra mondiale. Sarà soltanto con un po' d'astuzia che ne verremo fuori, e poi non saremo mica più cretini di questi selvaggi con gli occhi alla cinese. » Un brigadiere di artiglieria esce dal sottobosco e si avvicina. « Sdrastje. » (Buongiorno.) « Sdrastje! » rispondiamo tutti insieme. Con aria molto interessata gira intorno al nostro veicolo esaminandolo attentamente. « Macchina di Hitler », fa e dà un calcio a una ruota. « Da. » (Sì.) « Kharoschyj? » « Da. » Il brigadiere scoppia in una grossa risata dando una manata sulle spalle di Porta, e si china sul motore. Porta con una chiave inglese gli dà un colpetto sulla mano per impedirgli di guastare lo spinterogeno. « Jalofka », dice il russo, strofinandosi le dita unte di olio sul lungo pastrano di artigliere. È un gran chiacchierone e noi rispondiamo « da » o « niet » a caso. Porta gli offre una grifas e lui l'accetta felice. Dove siamo riusciti a procurarcele? « Jennisseisk », risponde Porta senza riflettere dove poi si trovi la città in questione. « Io sono di Chita », spiega il brigadiere, « e detesto i Moscoviti. Parlano il russo come dei maiali. Voialtri di Jennisseisk, siete anche voi abbastanza difficili da capire, ma almeno siete delle brave persone, non così presuntuosi come loro. Avremmo dovuto ammazzarli tutti durante la Rivoluzione! » Porta riesce alla fine a rimettere la vettura in strada, ma non abbiamo fatto che pochi metri che questa va a
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sprofondare in un cumulo di neve. « Si viaggia meglio a cavallo, con delle nevicate come queste », sghignazza il brigadiere. Tutti e tre piegati in due e spingendo di spalle cerchiamo di disincagliare la macchina, ma la strada è scivolosa, non si riesce a far presa. « Aspettate! » grida il russo e scompare dietro gli alberi. « Cosa vuole ancora quello lì? » dico al colmo del nervosismo. « Deve essere andato a cercare dei compagni per darci una mano », risponde Porta ironico. « Non lo sai che i Russi sono molto famosi per la loro squisita cortesia. » « Piantiamo qui la macchina e filiamo via! » « Un po' di calma ragazzo, e di ottimismo! Tu tieni la mitragliatrice pronta e carica e se fanno dei brutti scherzi, gli dai una bella innaffiata. Non tornerà mica indietro insieme a tutta l'armata russa! » « Hai capito quello che ti ha detto prima? » « Nemmeno una parola, naturalmente! Neanche lui non deve aver capito molto, ma cosa c'è di tanto strano? La Russia è immensa. Ci sono una quantità di dialetti e queste piccole repubbliche si detestano tra loro. Fortuna che non ho detto che venivamo anche noi da Chita! Pensa che stavo proprio per dirlo. » « Dov'è Jennisseisk? » « Non ne ho la minima idea, ma il commissario che abbiamo ammazzato l'altro giorno era di lì, dunque deve essere in Russia. » Il brigadiere sta tornando insieme a tre altri. « Dawaj! Dawaj! » grida tutto eccitato. In un baleno la macchina è fuori dalla macchia di neve.
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« Dassvidanja (Arrivederci) », gridano in coro mentre noi tagliamo la corda. Ancora una colonna di fanteria russa, poi ci viene fatto segno di metterci da parte per lasciar passare un veicolo dello stato maggiore. Proseguiamo. A un incrocio, un tenente generale passa in rivista le truppe che sfilano. « Piantiamo qui la macchina e proseguiamo a piedi », propongo molto inquieto. « Così non diamo nell'occhio. Altrimenti ho paura che verrà fuori un bel casino. » « Non dire imbecillità! Chi vuoi che possa immaginare che due eroi tedeschi sono così pazzi da passeggiare in Volkswagen, proprio in mezzo alle linee nemiche? Se mai ci prenderanno per dei Russi che hanno fregato un veicolo a Hitler. » Scendiamo lungo la gola di Bolijov, cerchiamo di uscire dalla strada prendendo una stretta strada traversa, ma dei gendarmi ci rimandano sulla via principale con dei gesti furiosi. « Non c'è niente da fare, dobbiamo proprio andare avanti così. » Sulla riva del Volga vediamo, passando, delle grosse chiatte semidistrutte. Finalmente riusciamo a deviare in una strada secondaria, seguiti dalle, grida rauche di alcuni soldati. « Cosa diavolo stanno dicendoci, quelli? » chiedo terrorizzato. « Probabilmente di fare attenzione. Questa strada porta dai Tedeschi, figurati un po'. » Con sollievo Porta si toglie il berretto russo e lo butta in fondo alla macchina. « Sarà meglio cambiare il coperchio, adesso! » Veniamo fermati da uno sbarramento tedesco; i cannonieri stupefatti ci chiedono da dove arriviamo, e sono
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così poco convinti delle nostre risposte, che ci portano dal comandante di compagnia. Due ore filate di interrogatorio per ottenere il permesso di raggiungere il nostro reggimento. Ma arrivati finalmente alle baracche, ci accorgiamo subito che il panico regna dappertutto. Circolano le voci più allarmistiche e terribili. Pare che i Russi abbiano rotto l'accerchiamento in più punti del fronte.
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...Dobbiamo impadronirci del potere, e non lo restituiremo mai, qualsiasi siano i mezzi necessari per conservarlo... Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda in una lettera a Ernst Thaelmann 3 gennaio 1932 Due cavalieri trottavano velocemente in un viale del Tiergarten che a quell'ora era deserto. Non erano infatti ancora suonate le sei del mattino. I due erano Z'Obergruppenführer Heydrich e l'ammiraglio Canaris, Capo della Abwehr. « L'idea di infilare a qualche prigioniero un'uniforme polacca e di organizzare un attentato contro la stazione radio di Gleiwitz è eccellente », disse compiaciuto Heydrich. « Questo ci darà un ottimo pretesto per attaccare la Polonia. » « Sì, ho sentito parlare di questa faccenda », rispose Canaris, il volto fermo e l'espressione chiusa. « Ma non sono del vostro avviso se veramente giudicate l'idea eccellente e non penso si possa mantenere segreto un sotterfugio così disonorante. » « Oh! Non abbiate timore! Nessuno dei prigionieri che saranno protagonisti sopravviverà all'operazione! » sghignazzò Heydrich. « Abbiamo tuttavia garantito l'incolumità e la libertà a coloro che riusciranno a uscirne vivi, dal momento che sono tutti dei volontari. » « Può essere, ma è una promessa impossibile a mantenersi. D'altra parte voi ne siete più al corrente di me, ammiraglio. Secondo quello che mi ha riferito uno dei vostri più stretti collaboratori dell'Ufficio numero due, l'idea è partita pro-
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prio dai vostri servizi. Sarete voi dunque che dovrete fatalmente occuparvi di questa faccenda così spiacevole », replicò guardando con aria trionfante il piccolo ammiraglio dal volto cupo. Questi mise il suo cavallo al passo, gli accarezzò il collo, poi si rivolse lentamente verso il temibile capo del RSHA. « No, Obergruppenführer, i miei Servizi non si occuperanno di questa storia. » Heydrich fece dietrofront. Si udiva un picchio che batteva col becco sul tronco di un albero. Il nazi colpì lievemente col frustino gli stivali e fissò il suo compagno con lo sguardo acuto di un uccello da preda. « E si può sapere il perché? Il Führer ha approvato questa idea. » « Esatto. Perché non parte da me », rispose secco l'ammiraglio. « È stata messa a punto a mia insaputa in uno dei miei uffici, lo sapete. » « La responsabilità ricadrà ugualmente su di voi », rispose ironico Heydrich. « Voi siete responsabile personalmente di quello che organizzano i vostri subordinati. Ne ho parlato ieri stesso con il Reichsführer e il Reichsmarschall, ed erano ambedue d'accordo con me. Questa faccenda non può dipendere che da voi stesso. » Canaris accese lentamente una sigaretta, guardando il cinico Capo del Servizio di Sicurezza del Reich. « Sono molto dolente per voi, signor Heydrich. Potete facilmente capire che già da molto tempo temevo che mi affibbiassero sulle spalle questa faccenda. Immaginerete anche, credo, che io ne sono al corrente altrettanto bene di voi. Ho pertanto avuto, e molto recentemente, una conversazione a cuore aperto con il Führer a questo proposito, ed egli è stato perfettamente d'accordo con me. Questi metodi estremamente... spiacevoli non sono di pertinenza del controspionaggio, e d'altra parte screditerebbero l'intera armata. Il Führer la pensa esattamente come me. Questa responsa-
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bilità incombe al RSHA, vale a dire a voi, Obergruppenführer. » Trottarono in silenzio per un certo tempo, poi Heydrich si chinò verso l'ammiraglio e disse: « Ammiraglio Canaris, siete una vecchia volpe. Parola d'onore, vi ammiro! Ma non siate troppo sicuro di voi stesso. Succede a volte che anche le volpi vengano prese in trappola. » E si allontanò a piccolo galoppo verso la Mercedes nera che lo aspettava in un viale.
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UN CONSIGLIO DI GUERRA VOLANTE UNA notte, un HE111 atterra nel campo di aviazione di Stalingrado, e nessuno dell'intera Sesta Armata conosce l'identità del passeggero che è in arrivo. L'atterraggio avviene in modo altrettanto segreto. Vi assistono solo pochi graduati del reggimento paracadutisti MATUK; l'apparecchio immediatamente mimetizzato è pressoché invisibile sul campo, e i paracadutisti hanno ricevuto l'ordine di sparare su tutti quelli che si avvicinano. Il primo passeggero che ne discende è un uomo alto e sottile, Theodor Eicke, capo supremo dei campi di concentramento, comandante della terza divisione panzer, altrimenti detta Divisione del Teschio. La sfrontatezza e la brutalità di questo individuo infastidivano perfino il Führer stesso, tanto che la Divisione del Teschio era stata privata ben presto di qualsiasi licenza per tutta la durata del periodo bellico. Dietro Eicke appare un'intera sezione di SS, specialisti nelle liquidazioni in massa. Eicke e i suoi sbirri salgono su un mezzo motorizzato del reggimento paracadutisti, il cui autista abituale viene costretto a cedere il posto all’Oberscharführer, « Il sicario », come veniva chiamato a Dachau. In una nuvola di neve, il veicolo e i suoi sinistri passeggeri si avviano verso Stalingrado per recarsi allo stato maggiore dell'Armata nel sotterraneo a suo tempo occupato dalla NKVD. Avevano sostituito le lettere WL (Armata dell'Aviazione) con le sigle SS. Eicke non faceva mai le cose a metà. I detenuti di Dachau avrebbero potuto ben testimoniarlo, purtroppo, dal cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg che aveva occu-
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pato il bunker degli « Speciali », fino all'ultimo degli ebrei che erano stati deportati dai quartieri miserabili di Berlino. L'arrivo inatteso di Eicke allo stato maggiore della Sesta Armata semina il panico. Tuttavia il generale Paulus, suo diretto capo, che occupava l'ufficio di una ex guardia ciurma delle NKVD si alza e tende educatamente la mano a Eicke, che si era fermato con le gambe divaricate nel vano dell'ingresso dell'ufficio. Eicke ignora la mano tesa e guarda con alterigia il generale in capo che portava due cappotti uno sopra l'altro aperti e senza cinturone. Ü nazi era vestito molto correttamente con un impermeabile di cuoio nero su un cappotto grigio perla di ottimo taglio. « Chi diavolo siete? » chiese Eicke con voluto distacco, accendendosi lentamente un sigaro. « Generale d'Armata Paulus. Con chi ho l'onore di parlare? » « L'onore? Bella questa », sghignazza Eicke. « Generale, sono l'Obergruppenführer Theodor Eicke e vengo quale rappresentante del Führer per vedere quello che state combinando. State facendo la guerra o le vostre vacanze invernali, per caso? » Il generale Paulus, con le sue mani sottili da chirurgo e le sue maniere impeccabili, era incredulo. « Guardandovi, generale, mi sembrate proprio un prigioniero sovietico che ripara le sue vecchie ossa in un vecchio pastrano tedesco. Non sembrate certo un soldato del Grande Reich! Cosa ne fate della disciplina da queste parti? Sarei veramente desolato di dover riferire al Führer che avete rinunciato a vincere. » « Non ammetto questo tono! » risponde asciutto Paulus con le mani che gli tremano. Egli tuttavia non era un uomo combattivo; ma il ge-
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nerale Schmidt capo di stato maggiore della Sesta Armata era un uomo duro e sicuro di sé, di carattere totalmente opposto a quello di Paulus. « SS Obergruppenführer, siete voi che mancate di senso di disciplina! Farò le mie rimostranze! » « Tutti hanno diritto di fare le proprie rimostranze, per carità », sghignazza Eicke. « Ma a chi? Se è al Führer, presentate il vostro rapporto direttamente a me, io lo rappresento qui a Stalingrado. » Toglie dalla tasca un documento che butta sul tavolo con un sorriso violento e crudo. Era un « Pieno Potere » firmato da Adolfo Hitler che concedeva a Theodor Eicke facoltà assoluta di tenere consigli di guerra nella zona di Stalingrado. « Cosa desidera sapere il Führer? » chiede Paulus, nel cui tono di voce si intuiva una forte ansietà. « Riceve regolarmente i miei rapporti telegrafici giornalieri su tutto quello che succede qui. Gli ho proposto uno sfondamento del fronte con tutti i mezzi di cui disponiamo nel settore. Il generale Schmidt ha un piano eccellente; siamo in attesa di una conferma da parte del Führer per poter ancora salvare almeno la metà della Sesta Armata. » Eicke, che detesta l'esercito e tutto il corpo degli ufficiali, gioisce del terrore molto evidente che la sua presenza incute. « Il Führer desidera che voi arriviate alla vittoria, questo è tutto. Ve ne abbiamo lasciato il tempo, parola mia! Non si tratta di sfondamento o penetrazione; questi sono termini che mascherano una disfatta. Non si fugge davanti ai sovietici, li si annienta. Il Führer desidera che voi liquidiate queste orde esattamente qui, sulle rive del Volga. In che modo? Questo riguarda voi, è per questa ragione che vi hanno nominato generale
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d'armata. Se la mia divisione fosse stata qui, tutta questa storia sarebbe stata chiusa da tempo. » « Avete una proposta da fare? » interviene Schmidt guardando con disprezzo palese il sordido individuo. « Certo », grida Eicke. « Buttare i Bolscevichi fuori dall'Europa. La sesta Armata si compone di venticinque divisioni attive, seicentomila uomini e ottocento carri armati, cosa diavolo volete ancora? Con una potenza militare come questa si possono vincere cinque guerre mondiali! Se lo si vuole, beninteso! » Il generale Huber, grande mutilato di guerra, si alza in piedi di scatto. « Non ammetto la vostra insolenza! Voi in questo momento non siete in uno dei vostri campi di concentramento, ma di fronte a dei generali! » L'SS sorride dall'alto dei suoi due metri di altezza. Con lentezza voluta soffia il fumo del sigaro sul viso del generale di fanteria, privo di un braccio, grande mutilato. « Non siete voi per caso il generale Huber? Ecco, ho qui una disposizione per voi da parte del generale Burghof. » 1 Il generale impallidisce. Eicke gli tende l'ordine di presentarsi al quartier generale del Führer, nel suo rifugio nella Prussia Orientale. Che cosa poteva significare questo ordine? Veniva privato del comando della sedicesima Panzer. Questa era la sua condanna, la distruzione della sua famiglia o forse un avanzamento? Incerto, guarda l'SS trionfante, e si lascia cadere pesantemente nella poltrona senza più prender parte alla discussione. Per quale ragione ormai avrebbe dovuto appoggiare e difendere i suoi generali? La Sesta Arma1
Capo del personale dell'Armata.
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ta non ha che dei generali morti anche se respirano ancora. La verità appartiene tutta a questo nazi dai risvolti dell'uniforme candidi, giunto lì con i pieni poteri del Führer nelle tasche. Il generale Paulus tace, era un uomo che non desiderava che una cosa: vivere in buona armonia con tutti; adorava i suoi libri, i suoi autori classici, Schopenhauer, Kant, e più ancora il suo cane. Eicke non ha così nessuna difficoltà a ottenere di recarsi nella zona di Zanitza, alla settantunesima divisione Panzer, il cui comandante, generale Hartmann, era già stato avvisato della sua visita. Eicke e quest'ultimo si conoscevano già dalla prima guerra mondiale. Von Hartmann era allora comandante di compagnia e Eike contabile. Era stato proprio Hartmann a scoprire la sua prima frode e per punizione lo aveva fatto inviare a Champagne a svolgere opera di sminamento, cosa che Eicke non aveva mai dimenticato. « Ebbene, eroe stanco », grida l'SS entrando rumorosamente nel bunker dello stato maggiore. « Questa vittoria è proprio così difficile da conquistare? » Hartmann senza battere ciglio saluta militarmente e si presenta. « Oh, ma noi ci conosciamo da lunga data », fa amabilmente Eicke. « Non ho mai dimenticato il destino che avete voluto personalmente riservarmi, tempo fa. » Infila bruscamente sotto il braccio il bastone di comando con la grossa impugnatura a teschio in oro massiccio, dono personale del Führer, e apre l'impermeabile di cuoio coperto di decorazioni. « Il Führer mi ha mandato qui per vedere quello che state combinando. Questi sottosviluppati di sovietici, non mi pare il caso di farne questa grossa montatura, in ogni caso. Desidero ispezionare la vostra divisione, generale Von Har-
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tmann. » Felice di sbarazzarsi di quell'individuo, il generale lo manda alla centonovantunesima, che operava sotto gli ordini del capitano Weinkopf. Eicke chiede di circolare con un mezzo motorizzato, ma l'ufficiale di ordinanza, un tenente di fanteria, lo sconsiglia vivamente. « Avreste paura, forse, tenente? » ironizza il nazi saltando sul veicolo. Il tenente alza le spalle. Se Eicke ne aveva abbastanza della vita, questo riguardava soltanto lui. Quanto a lui stesso, era già molto tempo che aveva rinunciato a sperare di uscire vivo da quell'inferno. Che fosse oggi o domani, che importanza poteva avere? Tutta la sua famiglia era seppellita sotto le rovine di Colonia, non possedeva che il suo equipaggiamento e anche quello, in fondo non apparteneva nemmeno a lui, ma a Hitler. Il veicolo ha fatto solo pochi metri quando una quantità di piccoli frammenti di neve cominciano a schizzare a destra e a sinistra. « Granate russe », commenta il tenente sorridendo. « Ora cominceranno a sparare con l'artiglieria da campagna. » Il vento comincia a sibilare e a ululare. Eicke rabbrividisce, abbottona il cappotto, come se i risvolti bianchi della sua uniforme attirassero i proiettili dell'artiglieria. « Che freddo! » dice per darsi un contegno un po' plausibile. « Oggi non molto », risponde il tenente. « Questa mattina si sentivano perfino gli usignoli, di solito non vengono che quando la temperatura è molto più mite. Vedete quella gola laggiù, in mezzo alle colline », continua, « ebbene tutte le volte che se ne esce, vi avverto, Ivan ha l'abitudine di salutarci con i lanciarazzi multipli
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di Stalin. » « Proseguite pure », risponde Eicke che suda freddo. Appena usciti dalla gola, il cielo sembra sprofondare sulle loro teste. Dieci lanciarazzi multipli tuonano simultaneamente. Eicke salta dal veicolo e si butta a terra, il tenente scende dopo di lui e contempla in silenzio l'SS steso sulla neve. « Tirano sempre così? » chiede Eicke con un sorriso molto teso. « Oh, oggi va ancora bene! L'altro giorno sembravano proprio pazzi; hanno annientato tutto un battaglione in due minuti. È stato il giorno in cui il capitano ha preso in forza tutto il quattordicesimo reggimento. » « Un capitano comandante di un reggimento! » « Era l'ufficiale più anziano », risponde tranquillamente il tenente. « I lanciarazzi avevano fatto fuori tutti gli altri. » Proseguono a piedi senza dire una parola. Trovano il capitano che gioca a carte con un gruppo di soldati, al riparo di tre pastrani abbottonati insieme e seduti sui fucili russi. Dei fusti di benzina fanno da tavolo. « Vengo a ispezionare il vostro reggimento, quale rappresentante del Führer », dice brusco Eicke, dopo aver atteso invano un saluto da parte del capitano. « Fate attenzione, vi prego », risponde l'ufficiale. « Gli uomini laggiù nelle trincee sono con i nervi a fior di pelle, signor Obergruppenführer. Sparano su qualsiasi cosa si muova. » « Infilatevi pure il vostro ' signore ' dove volete! » grida Eicke. « Questa espressione borghese l'abbiamo soppressa da tempo nelle SS, ricordatevene! » « È possibile », risponde il capitano con indifferenza. « Non ne so niente delle SS. Appartengo all'esercito. » « Bene, e qui con la vittoria in mano si gioca alle car-
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te, vero? E tu », si rivolge a un soldato, « quale mansione hai, tu, nel reggimento? » « Distruttore di carri », risponde il soldato, senza nemmeno riferire che la notte precedente aveva distrutto con delle bombe a mano e delle mine, ben dodici T34. Ha appena diciannove anni ma è già un esperto in fatto di attacco a carri armati. Non gli è stato insegnato che questo, e non troverà facilmente un lavoro in tempo di pace. « Vi ripeto ancora una volta, fate bene attenzione ai tiratori scelti, Gruppenführer », grida aspro il capitano vedendo Eicke allontanarsi seguito dai suoi sbirri. « Ammazzano chiunque si faccia appena vedere. Ieri è successo a un maggiore. » A quattro zampe, carponi, Eicke striscia verso le buche più vicine. Le scariche di fucileria avevano ripreso. L'Oberscharführer Willmer ha tutto il volto staccato dal busto per lo scoppio di una bomba; il Scharführer Dwinger cade a terra con un colpo in piena fronte, proprio sotto la visiera dell'elmetto. Un soldato guarda attonito la sua gamba stroncata, e non capisce perché non gli fa nemmeno male! Il sangue esce a fiotti dal moncone squarciato. « Gesù! » grida involontariamente Eicke. Questo carnefice degli ebrei di Dachau invoca aiuto da un ebreo dunque, istintivamente, tuttavia scavalca il morente senza nemmeno guardarlo. A che cosa può servire ormai un soldato che non ha che una sola gamba? La tempesta di Kasakstan gli servirà da sudario. Eicke si butta vicino a un gruppo che serve una SMG. Il tiratore è un sottufficiale di carriera del quarantunesimo reggimento di fanteria che guarda con una certa inquietudine i risvolti bianchi dell'SS.
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« Fate attenzione, ieri abbiamo ucciso un generale che era andato un po' troppo oltre. » Eicke sempre più teso raggiunge la buca dove è piazzato un giovane tenente con l'aspetto e l'espressione di un vecchio. « Gruppenführer, sono otto giorni che non ci viene distribuito niente di caldo da mangiare. L'intendenza ci sabota. » « Niente di caldo da otto giorni? Dove sono dislocate le vostre cucine da campo? » « Cucine da campo? » il tenente ha una risata amara. « Alla compagnia uccidiamo ogni tanto un animale, è così che riusciamo a sopravvivere! » « Gratwohl! » grida Eicke a uno dei suoi, « date immediatamente ordine che l'intendente della divisione venga impiccato! Voglio proprio mettere un po' d'ordine nelle cucine, anche! » « Signor tenente, attenzione! » grida un sottufficiale. « Ivan attacca in massa! » Il tenente si calca l'elmetto, impugna il fucile mitragliatore e salta fuori dalla buca e sempre correndo decapsula delle granate e le butta davanti a sé. Vanno a segno; l'attacco, violentissimo, è contenuto, ma Eicke ne rimane sbigottito. Non aveva mai visto la guerra sotto questo aspetto reale. Il giovane tenente si accuccia più che può dentro la sua trincea e studia la mappa distesa per terra. « Riuscirete a mantenere la posizione, tenente? » « Non lo so, Obergruppenführer. La guerra è perduta, ma non deporrò le mie armi fino a quando non ne riceverò l'ordine. » « Posso farti fucilare per disfattismo! » ruggisce Eicke. « La guerra non è perduta, tienilo bene a mente, tenente! »
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« Oh! » dice il tenente con stanchezza. « Il Führer ha detto che dovevamo fare la guerra contro dei sottosviluppati, ma finora non ho visto che degli avversari molto temibili ed estremamente esperti! Il Führer ha sottovalutato i Russi e ripeto che la guerra è perduta. » Tre colpi d'arma da fuoco e il giovane si affloscia ai piedi di Eicke. Il nazi continua la sua ispezione al nono reggimento carristi. « Dove sono le cucine da campo? » chiede. Il sergente capo gli spiega che organizzavano dei « commandos » per potersi rifornire di viveri. Questi attaccavano le colonne dell'intendenza, ne uccidevano i cavalli, e facevano dei ragü di carne. « Anche il fegato amano mangiamo qualche volta. Non è cattivo. » L'Obergruppenführer rimane senza fiato, e non parla più di cucine. I soldati di Stalingrado erano così diventati dei cannibali. « Perché non attaccate? » urla a un vecchio maggiore, comandante di battaglione, che era evidentemente al limite della tensione nervosa. « Attaccare dove? » grida il maggiore. « I Russi sono dappertutto. Io comando questo battaglione i cui effettivi equivalgono appena a quelli di una compagnia. » « Sabotatori dell'Armata », grida Eicke furioso. Il maggiore viene legato a un albero e immediatamente fucilato. Un comandante del genio che aveva fatto saltare tutto il suo parco guastatori senza averne ricevuto l'ordine, perché aveva visto i siberiani avvicinarsi alle chiatte, viene fucilato per sabotaggio. E la caccia continua. Il colonnello Jenck ha abbandonato la sua postazione senza ordini. Viene impiccato alle pale di un mulino. Nel sotterraneo di un ospedale di fortuna vengono strappate d'autorità le bende di duecento feriti. Di
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questi centonovan-tasette sono perfettamente sani, e sono per lo più ufficiali dell'intendenza. Liquidati immediatamente sul posto. E la caccia continua. Vengono fucilati medici e ufficiali. I razziatori, tra i quali alcune donne scoperte mentre rubavano viveri, vengono impiccati, e così i criminali. Il reggimento di élite italiano « Savoia » è una grossa preda insperata: sessantotto ufficiali ricevono una palla nella nuca per aver saccheggiato dei depositi tedeschi; vi erano stati costretti per evitare che i loro soldati morissero di fame, dal momento che i tedeschi avevano rifiutato qualsiasi aiuto. Il vento dell'inferno scuote la fossa di Stalingrado. Il maggior generale Blome dei cacciatori, confessa di aver fatto mettere da parte della benzina per la sua auto personale; lo innaffiano di benzina e brucia come una torcia. Alla stazione di Zaritza, dei bambini rumeni mendicano del pane; ordine immediato di ucciderli a colpi di calcio di fucile, e devono incaricarsene personalmente i soldati rumeni. Ma essi sono tanto crudeli con i deboli come sono remissivi e servili con i potenti. Noi tutti li detestiamo. Un comandante di squadrone rumeno saluta servilmente Eicke, ma questo non gli impedisce di essere appeso a un albero appena qualche minuto dopo. « Che branco di banditi! » grida Eicke. « Tutti! Tutti quanti sono! Per fortuna che siamo venuti. » Il monaco Roske della quarantaquattresima divisione aveva fatto qualche giorno prima una predica su Gesü di Nazareth. Gesü, un ebreo! Nazareth, un punto d'appoggio israelita! Denunciato, il povero prete viene appeso per i piedi e sgozzato come un agnello... Per cinque giorni oscilla al vento con la sua croce appesa ad un cordone violetto; ci si serviva come di un punto indica-
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tore: « quando arrivi là dove penzola il prete, giri a destra poi è tutto diritto. » Dappertutto si paventava l'arrivo di Eicke: la Morte arrivava con lui. Un maggiore di fanteria si è addossato la responsabilità del suo battaglione per salvare il resto degli uomini, e lui stesso ha le gambe amputate; era stato in seguito trasportato alle retrovie in aereo. Dietro ordine telegrafico di Eicke il maggiore viene inviato a Torgau e fucilato disteso sulla barella. Hitler approvò completamente il rapporto del suo rappresentante e discusse del destino della Sesta Armata bevendo un bicchiere di latte. Detestava gli alcolici e la sua vita era spartana. Molto lontano da lui, a Stalingrado, un'intera armata era sul punto di essere annientata.
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Dio ha inviato Adolfo Hitler, affinché egli possa aiutare il popolo tedesco a ristabilire l'ordine in Germania. Augusto Wilhelm, principe di Prussia, a un banchetto dell'Associazione Ufficiali. 16 giugno 1936 Il 20 dicembre, durante una terribile bufera di neve, il soldato Blatt e il fante Wenck vennero inviati a Gum-rak per provvedere al ritiro di approvvigionamenti per il loro battaglione. Le razioni giornaliere erano state ridotte verso la metà di dicembre a dieci grammi di pane, dieci grammi di marmellata, un quarto di litro di una zuppa molto acquosa fatta con ossa di cavallo per ogni soldato. Il fante Paul Wenck, di diciotto anni, aveva sempre un enorme appetito e non riusciva mai a soddisfarlo del tutto. Finora era sempre riuscito a scambiare la sua razione di sigarette con il pane, ma da qualche giorno gli era diventato impossibile. Nessuno vendeva il proprio pane e, del resto, non erano state più distribuite sigarette. Dopo un'ora di attesa, i due soldati presero finalmente in carico duecentoventicinque pagnotte per il battaglione. « Duecentoventicinque », disse Blatt a Wenck, consegnando il prezioso carico. « Il conto è esatto; fa attenzione, mi raccomando. » Impiegarono otto ore per tornare al battaglione; i cavalli, resi nervosi dalla fame, inciampavano di continuo lungo la strada; finalmente verso l'alba arrivarono a Zaritza. Il furiere del battaglione ricevette il carico e si fece subito premura di controllare il numero dei grossi pani; ne trovò duecentoventiquattro invece di duecentoventicinque. I due giovani soldati negarono ostinatamente di aver sottratto l'unico che mancava e perquisiti, non fu trovato loro addosso nulla; alla fine il pane mancante fu trovato, avvolto nella tuta mimetica del soldato Wenck, nascosto nel fon-
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do di una cassetta di arnesi del carro. E Wenck solo ne possedeva la chiave. Il consiglio di guerra era riunito in un sotterraneo; disperato il povero ragazzo comparve davanti ai giudici pallido e magro. L'accusa era passibile di condanna a morte, in base alle istruzioni del generale Paulus, emanate il 9 dicembre 1942. « Perché avete rubato quel pane? » chiese il presidente, evitando di proposito di guardare il ragazzo che nuotava nella sua uniforme. « Avevo fame. Non avevo mangiato niente da tre giorni e avevo una fame proprio terribile. » « Tutti abbiamo fame a Stalingrado, ma non rubiamo il pane per questo. » I giudici si ritirarono per deliberare. L'infrazione del fante Wenck rientrava nei postulati dell'articolo del 9 dicembre che dichiarava espressamente: « I ladri e i razziatori dovranno essere immediatamente fucilati ». Ma il fante Wenck non era un ladro, era solo un soldato di diciotto anni, scarno e affamato tra due gendarmi ben nutriti, e nella sua ingenuità non aveva certo pensato che sarebbe stato costretto a pagare un pane con la cosa più preziosa che possedeva: la sua vita. Un pane di trentacinque scellini. I giudici rientrarono... « In nome del popolo tedesco, il fante Paul Wenck è condannato a morte per aver sottratto i viveri dell'esercito. » Per qualche secondo un silenzio di morte regnò nella sala, poi il povero ragazzo si mise a urlare, a supplicare, a piangere. Un colpo violento della canna di un fucile lo fece tacere. L'indomani, 4 dicembre, fu trascinato nella fossa e fucilato. Nel plotone di esecuzione si trovava il soldato Blatt. Dato che il terreno era duro come il marmo, Wenck non venne nemmeno sepolto, ma ricoperto semplicemente di neve; e per non sprecare inutilmente munizioni venne ordinato che, a partire dal venticinque dicem-
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bre, i condannati non sarebbero stati più fucilati bensì impiccati.
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UNA PASSEGGIATA COL MARESCIALLO STIAMO giocando a carte, con le carte del Vecchio, sporche ma non truccate, perché il Vecchio non bara mai, tutti lo sanno. Porta e il legionario, una volta tanto perdono e Fratellino vince quattro mani di seguito mentre la trincea vibra tutta sotto il fuoco dell'artiglieria pesante. I lanciarazzi multipli di Stalin avevano tuonato tutto il giorno. « Che casino! » grugnisce Fratellino. « Se solo quei culi smettessero un minuto quella musica! È inutile, non si riesce a concentrarsi e giocare come si deve. » « Volete sapere la novità? » dice all'improvviso Heide. « Ieri hanno fucilato un maggior generale che voleva tagliare la corda con tutta la sua compagnia. Naturalmente è andato a cascare in un posto di blocco, il cretino. È stato il più bel plotone di esecuzione che abbia mai visto in vita mia! Bibbia, tamburi, un Oberleutnant con la sciabola sul fianco che comandava il plotone. Non c'è niente da dire, era proprio un bello spettacolo! » « Oh, io dei generali me ne fotto e non mi fanno nessun effetto », dice Gregor. « Ne ho visti una quantità. Sono stato autista del generale von Kluge. Lui era un brav'uomo, ma non mi piaceva per niente la gente che c'era intorno a lui. Bisognava vedere quanti complotti. Attentati contro Hitler e cose del genere. Si scambiavano gli incarichi ai ministeri che era un divertimento stare a sentirli; a me non me ne fregava niente, beninteso, bastava solo che non ne offrissero uno a me, però! » « E tu li hai denunciati al SD? » chiede Heide, corrugando le sopracciglia. « E avresti voluto anche che li denunciassi? Non sono
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mica matto, io! Se poi non mi avessero creduto, loro? Il presidente del consiglio di guerra era un generale anche lui, sai! » « Hai fatto benissimo a stare abbottonato, ci avresti rimesso la testa », sentenzia Porta. « Anch'io ne so qualche cosa di alti tradimenti, ma preferisco la mia paga e basta. Quando il povero cristo si impiccia di cose che non lo riguardano, è sempre lui che rimane fregato. » « Siete tutti dei gran coglioni », commenta Heide, con disgusto. « E te ne accorgi adesso? » sghignazza Porta. « A me sono bastati solo due giorni di marcia sotto le bandiere di Adolfo, piene di onore e di gloria, per capire che il pezzo di catena di Wotan suonava male! » « E dopo? » chiede il Vecchio con impazienza, « cosa ti è successo da Kluge? » « Dunque, complottavano tutti contro Adolfo e la sua banda, dall'assassinio fatto con la pistola fino alla bomba infilata nel culo. C'era anche un mezzo svitato, un certo von Boselager, tenente colonnello di cavalleria, che aveva proposto di buttarsi con la sciabola sguainata addosso ad Adolfo alla testa del suo reggimento. La difficoltà era solo il trasferimento di ottomila motori che andavano ad avena, naturalmente, dalla Romania fino alla sua tana nella Prussia Orientale. Una bazzecola! Anche se esperti in mimetizzazione, ottomila ronzini sotto il naso della polizia migliore del mondo, ce li vedete? Il generale a me, mi disse la sola cosa sensata. Che non voleva saperne per nessuna ragione. Preferiva rimanere fedele a Hitler pur mantenendo il segreto, e che quei signori non dovevano contare su di lui. Aveva così dato la sua parola che avrebbe taciuto, ma qualche giorno dopo si trovò incastrato in un maledetto pastic-
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cio con i congiurati, e io non ne sapevo niente di quello che gli passava per la testa. Se avessi sospettato qualche cosa, mi sarei dato malato. Dunque, quel giorno il mio generale e io filavamo sull'autostrada di Kiev, uno dei tanti fiaschi di Stalin. Non lo sanno mica ancora i Russi, sapete, come si fanno le autostrade un po' come si deve. La conoscete quella lì? Davanti al paese che si chiama Djubendjev c'è una curva bestiale. La svolta suicidio, come la chiamano in paese. Tutti si divertono un mondo a questa curva: la domenica basta sedersi nel fosso vicino e aspettare. Non si è mai delusi, mai. Un mucchio di commissari si sono già spaccati la testa, lì, molto prima di noi turisti tedeschi. « Il mio Generalfeldmarschall era intrattabile come non l'avevo mai visto, quel giorno. Di continuo picchiava col bastone contro il vetro di separazione interno, perché dessi più gas al motore. Non pensavo che andasse proprio in cerca di un bell'incidente dopo che gli avevano estorto il suo consenso al complotto, ma che questo poi costasse la vita anche a me, lui se ne fotteva! Così, a centosessanta, abbordiamo la curva famosa. Voi magari non mi credete, ma vi giuro che rideva quel porco! Un secondo dopo la nostra sedici cilindri era ridotta a un ferrovecchio... mi sono svegliato all'ospedale, ingessato dalla testa ai piedi, e curato da una splendida infermiera, non vi dico altro. Due mesi dopo uscivo dall'ospedale e mi presentavo allo stato maggiore, ma lì mi dicono di sparire nel giro di dieci secondi. Il mio generale doveva essere ancora nella sua ingessatura, almeno lo spero per lui. Allora sono stato preso in carico dal Generaloberst Lindemann, specialista in esecuzioni. Andavo in giro in uniforme da paracadutista con un bell'emblema sul petto. Un sergente che aveva conosciuto Lindemann molto bene, mi raccontò questa storia: nel 1936 c'era stata la
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grande parata della nuova armata tedesca. Quando il suo battaglione gli sfilò davanti, ci credete che lui si mise a piangere pensando a tutti i morti di Verdun e della Somme! Si era messo in testa che erano cadaveri in uniforme che facevano la parata! Dio santissimo, come sono strambi i graduati! Mica facile capirli! » « Anch'io sono stato al quartier generale », afferma Fratellino fra lo stupore di tutti. « E magari eri capo di stato maggiore? » chiede Porta scoppiando in una risata. « Vuoi un pugno sul muso, cretino? Se dico che ci sono stato, vuol dire che è vero. Come attendente del generale di cavalleria Knochenhauer. Adesso è morto, si è suicidato. Ma coraggioso, questo bisogna dirlo; mi ha anche salvato la pelle. In quel momento ero nella quindicesima divisione Panzer, a Sagan; e un giorno mi succede che cado dal carro ma rimango incastrato nei cingoli. Il mio stivale è letteralmente diviso in due. Il giorno dopo vado dal dottore e gli dico che non ho più un piede. Quel maledetto dottore non poteva soffrire i soldati ammalati. Dicevano che aveva addirittura lasciato crepare due tipi. Uno aveva dichiarato di avere la difterite, ma avrebbe dovuto inventare qualche cosa di meglio per fregare quel macellaio! Nel giro di tre giorni il dottore riesce a scassarlo sul serio, somministrandogli olio di ricino per enteroclismo. Il povero cristo si dà guarito, ma crepa durante le esercitazioni del mattino. L'altro era un cretino che si dà malato il lunedì mattina. Sarebbe come far credere che uno che ha quaranta di febbre può farsi cuocere due uova tenendole sotto il culo! Tutti si danno malati il lunedì mattina, anche Rockefeller, vi pare? Dunque, questo soldato aveva scelto l'appendicite. Quel becchino gli schiaffa addosso tre termometri, uno sotto il braccio, uno in bocca, uno nel buco del culo, ma con
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enorme delusione del dottore, il ragazzo aveva sul serio lo febbre. ' Confessa quanto zucchero con la benzina hai mangiato! ' Il soldato continua a urlare che stava proprio malissimo. Allora il dottore si incazza e lo minaccia di consiglio di guerra. Ma il povero simulatore aveva fatto le cose così bene che qualche cosa veramente gli scoppia nella pancia e lui muore in faccia a tutti. Be', per tornare alla mia storia, il sanitario dell'infermeria mi sconsiglia di andare da quel fornitore del crematorio con la mia gamba; mi propone di metterci sopra dello iodio e di darmi tre giorni di servizio interno e il diritto di aggiungerne altri due, ma la gamba mi faceva così male e aveva preso un colore così strano che mi decido e vado da quel macellaio. Ah, se avessi potuto prevedere quello che sarebbe successo non ci sarei mai andato! La sera stessa sono agli arresti per simulazione, ma per fortuna le due sentinelle sono dei miei vecchi amici, e mi danno un po' del loro rancio. Dopo qualche giorno ho anche la fortuna di essere addetto alla corvée delle patate. Gesù, ma in una situazione così uno riesce a scampare anche a tre guerre mondiali! Purtroppo la mia gamba comincia a guarire e questa è una bella seccatura, perché il giorno che vengo chiamato al consiglio di guerra, non c'era più assolutamente niente da vedere, era tutto guarito, porca miseria! La condanna non tarda molto. Mi schiaffano a Torgau e mi assegnano all'ala blu da ' Gustav di Ferro '. Il giorno in cui secondo i miei calcoli devono fucilarmi, Gustav viene nella mia cella e mi dice di impacchettare le mie cose personali. Mi portano dal generale Knochenhauer, che se ne sta seduto pacificamente dietro la sua scrivania. Mi guarda a lungo, cosa che mi mette molto a disagio. « ' Così, sei tu quel tipo che crede che si possano fare dei giochetti di questo tipo nell'esercito, vero? Sostieni
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sempre di aver avuto male alla gamba o confessi che era un trucco? ' « Gli ripeto che la mia gamba me l'ero quasi spaccata in due pezzi. « ' Hai la testa più dura che abbia mai visto, ma dato che vuoi fare il furbo, ti mando a fare una radiografia. Unicamente per convincerti che non hai avuto niente. Dopodiché, sarai fucilato. ' « Così vado dal radiologo, che era un uomo molto gentile e anche medico capo, dopodiché mi ricacciano in cella, ma una settimana dopo un compagno arriva di corsa. ' Sei libero ', dice, ' devi presentarti entro un'ora dal comandante dell'armata in tenuta di campagna. ' Vado alla compagnia di stato maggiore dove l'attendente esamina tutta la mia uniforme addirittura fino alle asole, poi mi presento al battaglione, poi al reggimento, poi alla brigata, poi alla divisione, dove il capo di stato maggiore, colonnello Badensky mi spulcia dalla testa ai piedi. Improvvisamente si accorge che non ho il nastrino di tiratore scelto, e in compenso ho delle calze delle SS con due righe bianche in alto. Quelle dell'esercito ne hanno tre. Di corsa mi rimandano al deposito dove mi trovano un paio di calze con tre righe. Dal comando di divisione corro al corpo d'armata, dove il generale Lubke anche lui mi ispeziona dalla testa ai piedi, criticando tutto quello che hanno fatto gli altri. Ma ormai non c'è più tempo per rimediare. Finalmente mi presento davanti al generale Knochen-hauer, e batto i tacchi così bene che l'eco si sente attraverso tutto il decimo corpo d'armata. E chi credete che si fa vedere nel vano della porta? Il gentile medico capo con tutte le radiografie. Dichiara che avevo un osso rotto e non ero un simulatore. Il maggiore che mi aveva spedito al consiglio di guerra era già in strada per il fronte con una nota di bia-
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simo. Il generale Knochenhauer mi prende come guardia del corpo, e mi assegna addirittura due schiavi per i lavori più pesanti. Devo proprio riconoscere che mi ha salvato la vita! » « Non avete notato che un ufficiale », dice Porta, « cambia dal bianco al nero, quando supera la svolta e diventa maggiore? Parla tutto stretto e compassato, proprio come un paio di mutande del trentasei per un culo del quarantasei, e drizza le orecchie puntute come un cavallo. Poi quando passa da colonnello a generale di brigata e riceve le sue brave fasce rosse, cambia ancora di più. Nemmeno sua madre lo riconoscerebbe! I suoi occhi non sono più occhi ma raggi X e condanna a morte con la stessa facilità con cui dice buongiorno. È un cesso come prima... » In quel momento un grido rauco nella postazione: « All'erta, all'erta! Arriva Ivan! »
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L'amore per la libertà non è ancora germogliato in Germania. M.me De Staèl 1810 L'8 novembre 1942, una voce rauca e metallica riprodotta attraverso milioni di altoparlanti si ripercosse in tutta Europa. Era Adolfo Hitler che parlava nella Bur-gerbraukeller, a Monaco. « Se Stalin ha creduto che io lo attaccassi al centro del fronte, ebbene, ora deve sentirsi molto deluso. Io non ho mai pensato di attaccarlo in quel punto, bensì volevo arrivare al Volga e ci sono arrivato. Era un luogo preciso che, per singolare caso, portava anche il nome di Stalin... » Gli altoparlanti quasi esplosero dal fragore dei furiosi « Sieg Heil, Sieg Heil! » dell'auditorio. « Pensavo dunque a una città sulle rive del Volga. Questa città è ora in nostre mani. Non ci rimangono ancora che pochi quartieri da conquistare. » Nuovi applausi scroscianti. L'inno « Deutschland über alles » scaturì da tutte le gole. Dieci giorni più tardi, il comandante della Sesta Armata ricevette dal Gran Quartiere Generale il telegramma seguente: « Ordine alla Sesta Armata di abbandonare Stalingrado e di piazzarsi in quella che da ora in avanti verrà chiamata la Fortezza di Stalingrado. Ordino che vi si lotti fino all'ultimo uomo e all'ultima cartuccia. Nessuna possibilità di resa è consentita. Coloro che si arrenderanno o abbandoneranno la fortezza arbitrariamente, saranno considerati dei traditori. Credo fermamente che la Sesta Armata e i suoi capi combatteranno come eroi wagneriani. Adolfo Hitler »
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I TRADITORI UNA splendida mattina di gennaio, il cielo azzurro quasi senza nuvole sopra Stalingrado, questa città sconvolgente, mezza orientale, mezza europea. Migliaia di Tedeschi, Ungheresi, Italiani, Rumeni, Slovacchi, affollavano le strade passeggiando sottobraccio a delle giovani donne. L'atmosfera era così calma che si sarebbe potuto pensare di essere in una città di guarnigione. I combattimenti infierivano violentissimi più a nord, all'interno della città mentre ne arrivava l'eco. In una casa situata di fronte alle isole Sarpinski, alcuni ufficiali stanno tenendo una riunione segreta, tutti ufficiali austriaci della divisione Vienna. « Maledetto il giorno in cui i soldati tedeschi hanno invaso l'Austria! Si sente realmente la nostalgia del vecchio impero austro-ungarico. Non mi sono mai piaciuti i Prussiani », dice il maggior generale Lenz in dialetto viennese, vuotando il suo decimo bicchiere di champagne. Lui e i suoi compagni hanno evidentemente dimenticato l'entusiasmo con il quale, nel 1939, avevano cambiato le loro uniformi grigiochiare austriache per la tenuta grigioverde tedesca. Hanno anche dimenticato che sognavano un nuovo stato austriaco nella Grande Germania. Non pensano neanche lontanamente inoltre, di ricordarsi come si erano divertiti a suo tempo nel redigere le famose liste delle persone la cui razza non era perfettamente pura, o che apparivano politicamente sospette. Ma naturalmente tutto questo era stato loro impostoì Come si sarebbe potuto fare altrimenti, d'altra parte? Tutto il mondo in quel momento era volato nelle braccia del vincitore, anche i Russi che cantavano:
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Oggi è la Germania che ci appartiene domani tutto il mondo... Il generale Taurog pone sulla tavola un documento di stato maggiore: « Signori, la situazione a Stalingrado è disperata. L'armata di Hoth inviataci in appoggio è stata sconfitta a Kotelnikowo; le voci trapelate di un presunto arrivo di un'armata SS si sono rivelate una pura e semplice fantasia. Dobbiamo aspettarci inoltre che tra poco ci impongano il razionamento da combattimento e questo significa la fame. La nostra unica speranza ora sta dunque solo nei Russi ». Comincia a sfogliare delle mappe contenute in due borse piene di documenti. « Ho qui tutti i piani della nostra posizione di difesa. Se i Russi riescono a metterci le mani sopra, sarà per loro estremamente facile sfondare le linee tedesche, grazie alla nostra collaborazione. Possiamo prevedere anche che il nostro gesto ci varrà un trattamento decoroso e penso altresì che commetterei un grave errore se valutassi che i Russi non hanno bisogno di personalità del nostro livello per combattere e annientare la peste hitleriana. » I sentimenti antinazisti di Taurog non gli impediscono tuttavia di firmare nel contempo quattro ordini di esecuzione nei riguardi di soldati semplici denunciati come disertori. « È necessario che questi documenti giungano personalmente e al più presto al generale Rokossovski », dichiara il generale Lenz. « Non possiamo più continuare in questa situazione e rimanere in questo manicomio criminale, diretto da quel caporale di Boemia che voi conoscete bene. Come mia iniziativa personale, ho aggiunto a questi documenti un elenco degli ufficiali di cui conosco i sentimenti dichiaratamente antibolscevichi, mentre garantisco a Rokossovski la nostra totale
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collaborazione. » Anche il generale Lenz dunque ha temporaneamente dimenticato che aveva personalmente dato ordine di rastrellare ben ottomila donne russe a Sebastopoli, per inviarle nei campi di concentramento tedeschi. Finge ugualmente di ignorare che il generale Taurog aveva trentacinque « schiavi » polacchi nella sua tenuta della Bassa Austria, ognuno dei quali era stato comperato per cinquanta marchi. Il prezzo di mercato veramente era di trentacinque marchi per ogni russo in stato di salute sufficientemente buona, ma a questi bisognava aggiungere una mancia supplementare destinata al guardiano del campo. E infine si tace del tutto sul fatto trascurabile che il colonnello Kurz, della divisione viennese, aveva recentemente dato ordine di fucilare quattrocentosettan-tasei prigionieri russi del campo di Karpovka per furto di patate. Tuttavia questi signori si considerano troppo al di sopra delle cose materiali per fare loro stessi questo sporco mestiere di traditori, che sarebbe costato la vita a migliaia di soldati. Lo affidano dunque a un feldwebel della polizia militare. Questo Giuda di Stalingrado parte in una Mercedes nera perfettamente nuova ed è munito di un salvacondotto che gli avrebbe aperto tutti gli eventuali posti di blocco. In effetti nessuno si sarebbe insospettito davanti a un'auto dello stato maggiore, ma tre chilometri a nord di Katschlinskaja si imbattono in una pattuglia di ricognizione russa che, nonostante la bandiera bianca, si affretta a sequestrare tutto quello che può. Arriva di corsa finalmente un tenente che conosce il tedesco e che ordina di scortare i due traditori fino alla divisione russa di Losnoj dove vengono interrogati da quattro ufficiali di stato maggiore.
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Nonostante i documenti che sono evidentemente della massima importanza, i Russi pensano ad un'insidia. Un affare di questo genere, dichiarano, sarebbe costato ai tedeschi migliaia di vite umane. « È necessario che qualcuno paghi perché gli altri possano sopravvivere », dice l'austriaco con un sorriso così cinico, che gli ufficiali russi stessi ne sono colpiti e disgustati. Tuttavia proprio questo sorriso li rassicura. Di persone simili a questo feldwebel Bram, essi ne contano nei loro stessi ranghi, e di qui ne valutano l'autenticità. Solo dopo un attento esame dei documenti, e dopo un confronto meticoloso con le loro stesse informazioni, spediscono i due traditori al generale Rokossovski, ad Alexandrovna, dove casualmente si trova anche il maresciallo Jeremenko. Qui venne convenuta poco dopo la segnaletica d'ac cordo definitivo. Se i Russi accettavano il mercato, delle bombe traccianti verdi sarebbero state lanciate da un aereo. Gli ufficiali austriaci avrebbero risposto con dei razzi rossi e gialli. Muniti di questa dichiarazione Bram e il collega rientrano nelle linee tedesche, dove vengono ricevuti immediatamente dal generale Taurog come fossero redivivi. L'indomani, " alle cinque del pomeriggio, un Iljushin lancia il segnale convenuto sopra Stalingrado e due giorni dopo i Russi tentano uno sfondamento esattamente sulla quota della terza divisione MOT per attaccarla sul fianco e aggirare così la ventiquattresima divisione blindata e insieme la sessantesima divisione MOT. Nel settore di Dubovka il generale Vasilevski aveva raggruppato tremila carri armati pronti per l'attacco che dovevano essere seguiti da sessantamila cosacchi, la fanteria essendo giudicata troppo lenta nei movimenti. Al-
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cune divisioni motorizzate della terza armata del corpo di guardia poi dovevano bloccare le divisioni tedesche lungo il Volga. Sei divisioni di fanteria e una divisione blindata: in tutto centomila uomini. In questo intervallo di tempo i traditori danno l'ultimo tocco al loro piano. Taurog raduna tutti i suoi gendarmi, il personale delle prigioni militari, il personale sanitario, i guastatori e ordina a questi che si preparino a sparare nella schiena delle truppe tedesche contemporaneamente all'attacco da parte dei Russi. Ma il destino vuole che tutto si svolga in maniera totalmente diversa. Il tenente colonnello Hinze, della centesima divisione cacciatori, colto all'improvviso da un inspiegabile rimorso di coscienza corre a confessarsi dal suo cappellano militare. Questi, sbigottito, non ascoltando che il suo sentimento di onore militare, si precipita dal comandante della quattordicesima divisione Panzer, generale Lattmann, che dopo il colloquio ordina che il tenente colonnello stesso venga immediatamente arrestato. Già nel corso del primo interrogatorio Hinze confessa tutti i nomi dei suoi complici. Il generale Taroug e il generale Lenz vengono impiccati alla basilica Alexandra; tutti gli altri vengono fucilati in piena strada e su tutti i cadaveri viene attaccato un cartello ammonitore. SONO UN TRADITORE CHE COSPIRA A FAVORE DEI RUSSI. L'indomani, l'offensiva russa inizia con un tiro di sbarramento di artiglieria tale, come non ne avevamo mai visti. Il cielo, la terra, il fiume, tutto brucia. La terza divisione MOT viene annientata nel giro di un'ora. Un reggimento di fanteria, con tutte le sue batterie, viene ugualmente distrutto. Gli uomini, proiettati fuori dalle loro postazioni e dalle trincee, vengono spazzati di-
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sordinatamente sulla neve come fossero foglie durante una tremenda bufera. Alcuni di questi, impazziti, urlano e singhiozzano. L'acciaio e il fumo sembra letteralmente che sorgano dalla terra dilaniata. Un bombardamento così spaventoso che sembrava veramente impossibile uscirne vivi, e tuttavia noi lo siamo ancora, quando cominciano ad avanzare i carri armati seguiti da un'orda di cosacchi che urlano e brandiscono migliaia di sciabole. La sedicesima divisione riesce miracolosamente a contenere il fortissimo cuneo di penetrazione russo in Stalingrado. Porta, Fratellino e io siamo accucciati in una buca insieme a centinaia di cadaveri insanguinati che i soldati stanno seppellendo quando improvvisamente scoppia il nuovo attacco. Tutta la notte rimaniamo appiattiti e immobili sentendo tutto intorno a noi scricchiolare i cingoli dei carri e galoppare migliaia di cavalli. E non è difficile essere scambiati per dei cadaveri tanto i morti ci hanno bagnato con il loro sangue. Solo il giorno dopo nel pomeriggio, quando torna il silenzio, riprendiamo la strada per Stalingrado. Un prigioniero russo che si era finto morto come noi, si rifiuta di lasciarci andare; gli consigliamo di filare in direzione delle sue linee ma ancora si rifiuta di obbedire nel modo più assoluto. « Se rientro nelle linee mi fucilano! È proibito essere fatti prigionieri, ha ordinato il Tovaritch Stalin! ». « Stalin è un culo », dichiara Porta, deciso. Il russo non lo contraddice. A perdita d'occhio cadaveri congelati, automezzi sfasciati, cannoni rovesciati, materiale bellico bruciato, uniformi, armi! In una baracca di servizio evidentemente abbandonata in fretta e furia, troviamo una quantità di macchine da scrivere, tante da equipaggiare l'intero per-
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sonale di un'industria. C'è di tutto! Veramente di tutto! Delle uniformi invernali, delle pellicce nuove fiammanti, delle soprascarpe di feltro, della benzina, delle armi... non crediamo ai nostri occhi! Era tanto tempo che mancavamo anche dello stretto necessario; bisognava quasi chiedere il permesso di sparare un colpo di fucile e qui il materiale rigurgitava... per imbecillità e disonestà. Porta, come sempre molto pratico, scambia immediatamente i suoi indumenti pieni di pulci, con un'uniforme nuova e una pelliccia bianca. Ne offriamo anche al prigioniero russo, ma il suo morale è così a terra, che rifiuta e continua a piangere affermando che sarà fucilato dai suoi e che spera solo che la fortezza di Stalingrado resista ancora cento anni! Impossibile poterglielo promettere, purtroppo. Al tramonto filiamo via tutti e quattro, e Porta riesce a infilarci dentro un ospedale da campo talmente gremito e caotico che anche un reggimento della Gestapo non sarebbe stato in grado di raccapezzarsi. Ma il terzo giorno tutto comincia ad andar male. Porta viene scoperto in flagrante delitto di saccheggio e chiuso in uno scantinato sorvegliato da un vecchio infermiere in attesa del consiglio di guerra. La notte stessa Fratellino strangola quell'imbecille di infermiere che, chissà perché, voleva opporsi alla fuga di Porta, e ci buttiamo nel bosco più vicino. Un prete comprensivo ci carica sulla sua autoanfibia, ma qualche chilometro dopo, tre aerei da caccia scendono in picchiata sopra di noi, e il prete che non è abbastanza veloce nello scendere e correre lontano, rimane ucciso. Un istante dopo una pattuglia di gendarmi motorizzati ci arresta come disertori. Le cose vanno proprio di male in peggio. Siamo chiusi in un granaio insieme a una cinquantina di prigionieri e ci comunicano che siamo in
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mano di uno dei più celebri consigli di guerra volanti. Nel giro di due minuti, condanna a morte, e non perdono certo tempo. Un feldwebel della gendarmeria fissa sulle nostre uniformi una targhetta rossa. La maggior parte dei prigionieri nel granaio porta la medesima targhetta, salvo due che ne portano una verde. Questi faranno solo un po' di prigione. Regolarmente ogni minuto la porta si apre e due gendarmi vengono a prelevare uno dei prigionieri per l'esecuzione, e ogni volta buttano un'occhiata intorno, con un sorriso che ci paralizza. « Tu, là in fondo, hai l'aria stanca, vieni con noi! » Portano via in questo modo un ufficiale solo perché aveva un'espressione assorta. Ogni volta che si chiude la porta possiamo contare fino a cinquantatré prima di sentire la salva. Un oberfeldwebel mentre viene trascinato lungo la scala, si butta sopra le due guardie; ne uccide una, rimane ferito gravemente e subito fucilato mentre era steso a terra. Il nostro turno non può tardare molto. Improvvisamente risuonano brevi e secchi colpi di mitragliatrice pesante e un rumore ben noto di cingoli. Una mitragliatrice crepita, poi si fa silenzio. Fratellino si arrampica sulla travatura e sposta due tegole del tetto; tutto il villaggio vicino sta bruciando, non si vedono che cadaveri sulla strada ghiacciata e cosacchi che galoppano. Un ufficiale senza berretto né cappotto, che evidentemente tenta di scappare, viene abbattuto da una sciabolata. « Filiamo! » dice Porta. « Qui c'è Ivan che sta facendo piazza pulita. Se tardiamo anche un solo minuto siamo fregati. » Allora Fratellino e un grosso feldwebel di artiglieria sfondano la porta del granaio, sede provvisoria del con-
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siglio di guerra, e trovano in fondo alla scala un gendarme ucciso da un proiettile nella nuca. Fratellino afferra il suo fucile mitragliatore e ci buttiamo tutti fuori, ma il feldwebel ci grida: « Fermatevi, imbecilli! Non andrete molto lontano messi come siete. Non avete documenti, e andate a spasso con la vostra targhetta di condannati a morte sulla pancia! Ma si può essere più idioti? Il primo ' commando ' che incontrerete vi incollerà al muro ». Per la verità, quello che ci dice è una cosa ben sensata. Senza documento si è sempre nei guai, in guerra. « Venite da questa parte! » ordina bruscamente sfondando con un calcio una porta. Una sventagliata del fucile mitragliatore e due gendarmi sprofondano a terra. In un armadio, ecco i nostri libretti militari e le nostre targhette di identità. Il feldwebel ci ordina di inondare tutto il locale di benzina, poi buttiamo una bomba a mano e tutto in un istante prende fuoco. « Siamo salvi, nessuna testimonianza contro di noi se ci beccano! » « Vieni con noi? » chiede Porta. « Apparteniamo a una buona compagnia, sai. » « Oh no, sono vecchio, un vecchio SA, e ne ho abbastanza della guerra e di tutto. Io vado dai Russi. Preferisco finire in un campo di concentramento per prigionieri. Non può essere molto peggio di qui. » « Ti fucileranno, vecchio mio, oppure ti faranno trascinare da un cavallo in corsa. L'ho già visto fare. » « Bisogna avere un po' di pazienza finché l'atmosfera non si calma. La vita del prigioniero è sempre un periodo abbastanza gradevole durante una guerra. » « Sono affari tuoi », dice Porta con aria assorta; « anch'io sto aspettando un'occasione per filare all'ovest del
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Don. » « Allora, credi a me, non ci arriverai mai. Prima che siano passate ventiquattro ore sarai congelato in mezzo alla steppa, sempre che i lupi non escano dalle loro tane. Questi animali arrivano fino ai villaggi per attaccare l'uomo e gli animali e hanno già cominciato quest'anno, purtroppo, nonostante l'inverno non sia ancora così duro. Ma aspetta che geli a meno cinquanta, e allora potrai parlare di freddo! Allora ti metterai a piagnucolare vicino a un campo di prigionieri, te lo dico io! » Una compagnia di rumeni sta arrivando per completare il quadro di questo incredibile caos. Dopo molte discussioni decidono di andare anche loro con il jeldwebel verso le linee russe. Non rimaniamo che una ventina a rifiutare di seguirli e li vediamo sparire lentamente dietro la collina. Non sapremo mai cosa ne è stato di loro. Mescolati a una massa di soldati in fuga, armati e senza armi, feriti e ammalati, ritorniamo a Rotokina e rivediamo finalmente dei volti noti. La nostra compagnia è accampata là, e solo un'ora dopo dobbiamo contenere un attacco russo all'arma bianca. L'attacco è respinto, ma inizia un tiro di sbarramento violentissimo ci viene dato ordine di abbandonare la posizione presa per ripiegare a sud di Kotluban.
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Un governo deve far sì che il popolo non distrugga se stesso nell'ebbrezza dell'egoismo. Adolfo Hitler, Mein Kampf Il comandante di fanteria della settantunesima divisione, il generale von Hartmann, aveva dato ordine perché fosse costruito un villaggio sotterraneo nei dintorni di Zaritza. L'opera fu portata a termine dal cinquecentosettantottesimo battaglione del genio. Duemila civili russi, per la maggior parte donne e bambini, fatti prigionieri dalla polizia militare furono costretti a eseguire la parte più pesante dei lavori e il settantacinque per cento di questi morirono di fatica e di fame. Il villaggio venne chiamato Hartmannsdorf. In tutta la Sesta Armata circolavano le voci più impensate a proposito di questo villaggio di lusso. Il bunker privato per il generale, così almeno si diceva, era composto di quattro vani molto ampi ed era, così sempre si sosteneva, ammobiliato con tappeti preziosi, lampadari e quadri provenienti dai musei di Stalingrado. La settantunesima divisione di fanteria era entrata infatti per prima nella città, e aveva avuto tutto il tempo di razziare e saccheggiare quello che voleva. In questo villaggio sotterraneo vi era altresì un mulino con due silos di grano, una azienda agricola di seimila polli, una stalla con milleduecentotrentacinque mucche, una latteria e un panificio. E infine una scuderia con centotrentotto purosangue russi. Il generale e il suo stato maggiore, montavano a cavallo tutte le mattine nei dintorni di Zaritza. Quando i soldati feriti gravemente, mezzi morti di tifo e di fame, arrivavano trascinandosi penosamente e sostenendosi l'un l'altro nella città, non credevano ai propri occhi.
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Questo stato di cose durò fino alla metà di dicembre del 1943, mentre nel contempo la divisione stessa del generale, la settantunesima di fanteria, si era andata logorando e poi annientando e fu proprio in questo preciso momento che von Hartmann ordinò di attaccare le posizioni russe. Non è d'altra parte a lui che si può addossare la responsabilità totale di un così spaventoso numero di morti, ma agli ordini che aveva ricevuto dall'alto. « Un generale di divisione », soleva dire, « non è che una pedina in un gioco ben più grande di lui. »
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IL SUICIDIO DEI GENERALI IL capitano Glaser fa loro cenno di avvicinarsi, anche se gli ordini sono di sparare immediatamente sui parlamentari nemici. Il maggiore russo, che ha al suo fianco due sottufficiali è un uomo alto due metri, i galloni dei gradi gli attraversano il petto e brillano nel tiepido sole invernale; il suo volto sembra temprato nell'acciaio e i suoi occhi azzurri sono altrettanto implacabili dell'inverno russo. Uno dei sottufficiali di scorta ci butta un sacco di tela pieno di viveri. « Un dono della terza divisione blindata della guardia sovietica. Ho l'ordine di proporvi la capitolazione. Questa proposta è valida per la durata delle prossime diciotto ore; se viene rifiutata, un attacco massiccio appoggiato da carri armati avrà inizio verso mezzanotte. Voi capite, capitano, cosa questo significhi. » Non solo il capitano era in grado di capire perfettamente il significato di queste parole, ma tutti noi. Era abbastanza palese, del resto. « A partire da mezzanotte non prenderemo più prigionieri, e nessuno potrà più arrendersi », aggiunge il capitano sorridendo lievemente. Il capitano annuisce col capo; questo significa la fine della fortezza di Stalingrado, in ogni caso. « Se l'offerta di capitolazione verrà accettata », continua il maggiore, « ogni soldato riceverà le razioni di viveri pari a quelle delle divisioni combattenti russe. Gli ammalati e i feriti saranno assistiti. Siamo a conoscenza che mancate di tutto. » Abbiamo fatto circolo intorno ai parlamentari e Porta ha già avviato un commercio personale tutto suo: delle
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grifas contro dell'oppio. E alcune fotografie pornografiche cambiano proprietario, fotografie assolutamente riservate e garantite, naturalmente. « Noi disponiamo di tutto », fa ancora il russo. « Accettate e sarete trattatr come dei soldati. Non è poi così male, credete. » « Questa proposta deve essere trasmessa al più alto grado della divisione. » « Noi ci auguriamo che il vostro generale von Hartmann si mostrerà ragionevole. » I Russi si ritirano e il capitano si presenta al comando di divisione, dislocato verso la stazione ferroviaria, davanti a Orlovka. Intorno a una lunga tavola di travi lisciate, siede un gruppo di generali: il generale Pfeffer, il generale von Hartmann comandante della settantunesima divisione di fanteria, l'impulsivo generale Stempel comandante della centosettantaseiesi-ma divisione di fanteria, il colonnello Crome e il capo di stato maggiore del Quarto Corpo d'Armata. « A mio parere », dichiara il generale von Hartmann, « noi ufficiali tedeschi, non possiamo che agire in un solo modo: resistere fino all'estremo limite, quindi suicidarci. E questa sarebbe anche una splendida fine, degna di noi. » « E tutti i soldati di cui siamo personalmente responsabili? » interviene il colonnello Crome, che a soli diciotto anni si era guadagnato le stellette di tenente davanti ad Arras, alla testa di un gruppo d'assalto. Porta intorno al collo il nastrino « Al Merito » e quattro sbarrette di decorazioni ornano il suo petto. « E i nostri soldati? » chiede di nuovo con ostinazione. Se i generali presenti avessero potuto sospettare il suo intimo pensiero, sarebbe stato fucilato sul posto.
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« Crome », replica il generale Pfeffer, « noi comandanti in capo non abbiamo il diritto di pensare ai soldati, tuttavia io sono contrario al suicidio. Non fraintendetemi, non è per paura della morte. Propongo invece di attaccare baionetta in canna alla testa della fanteria. Questo gesto sarà degno dell'ammirazione dei nostri futuri generali. La Germania non possiede nemmeno un monumento alla gloria dei generali che caricano con la baionetta in canna, saremo noi i primi, e questo monumento sarà eretto alla nostra gloriosa memoria ». « Sono d'accordo con voi », dichiara il generale Stempel. « È così che noi dobbiamo morire e io stesso ora darò gli ordini in questo senso. Avanzeremo con la sciabola sguainata dietro i tamburi e le trombe. Signori, propongo che noi tutti si indossi la nostra uniforme di parata, quella stessa che abbiamo portato con noi per la vittoria. Queste uniformi saranno i nostri gloriosi sudari. » In questo preciso istante arriva il capitano Glaser. Un feldwebel butta sulla tavola il sacco di viveri offerto dai Russi. « Il generale Woronow, della terza divisione blindata della guardia, offre la capitolazione con gli onori di guerra », dice. « I Russi desiderano anch'essi evitare un inutile spargimento di sangue. Per questa ragione offrono la capitolazione: gli ufficiali conserveranno le loro armi, i feriti e gli ammalati saranno assistiti, secondo le regole del servizio di sanità russo. » « Cosa contiene questo sacco? » chiede con palese disprezzo il generale Stempel. « Delle salsicce e del pane. Il parlamentare russo mi ha pregato inoltre di riferire ai capi dell'armata che le condizioni di resa rimarranno in vigore per la durata di
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diciotto ore. Verso mezzanotte quindi, se l'offerta sarà rifiutata, dovremo subire un attacco massiccio e i Russi non daranno più quartiere. » Un silenzio di morte invade il bunker. Poi il generale Pfeffer colpisce violentemente il tavolo con la sua frusta e urla a squarciagola: « Come osate presentarci una tale proposta? Una capitolazione! Il Quarto Corpo d'Armata ha ricevuto l'ordine di mantenere il settore sud-ovest, e noi lo manterremo finché saremo in vita. Combatteremo fino all'ultimo uomo e all'ultima cartuccia! » urla con gli occhi iniettati di sangue. Von Hartmann fissa il capitano Glaser con uno sguardo cupo e ostile. « Capitolazione! » sibila tra i denti. « E voi osate proporla! Una capitolazione davanti a dei sottosviluppati russi. » « Non se ne discute nemmeno », dice, fiero, Stempel. « Siamo degli ufficiali prussiani, anche se per il momento è un caporale di Boemia che ci comanda. Non ci arrendiamo, preferiamo piuttosto morire. » Colpisce col frustino il petto di Glaser. « E voi, inoltre, come avete avuto l'audacia di accogliere dei parlamentari russi? Non conoscete gli ordini dell'OB? Sparare su tutti i parlamentari nemici? » « Sì, signor generale, è vero », balbetta il capitano, « ma credevo... » « Voi credevate? Il vostro dovere di ufficiale è di obbedire, capito? Avete invece trasgredito e sabotato gli ordini. Voi avete ricevuto dei parlamentari nemici, e non avete aperto il fuoco su di loro, come avreste dovuto in base agli ordini emanati. » Il generale Pfeffer si china in avanti sulla tavola e guarda cupo negli occhi il capitano Glaser.
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« Bene capitano, voi sapete, vero, cosa significhi questo? Sull'attenti! » e dichiara: « In nome del Führer e del popolo tedesco, voi siete condannato a essere fucilato per sabotaggio agli ordini, non avendo aperto il fuoco sui parlamentari nemici ». I generali salutano militarmente. E di regola. Disciplina di ferro, nessuna falsa pietà. Vecchia tradizione prussiana nello spirito di Federico il Grande. Passa qualche minuto... una salva crepita. Nella neve sporca cade un corpo crivellato di colpi, sul quale veglia un soldato pallido e attonito. Un plotone di soldati rientra stanco e affamato, sguazzando nella neve, indifferente. Sono troppo stanchi per preoccuparsi della morte. Si uccide per non essere uccisi. « È necessario in ogni caso decidere una linea di condotta », dice il colonnello Crome, tamburellando nervosamente con le dita sul tavolo. « Avete ragione. È assolutamente necessario prendere una decisione. » Il generale Stempel afferra il ricevitore del telefono e dà alla divisione l'ordine immediato di attaccare le posizioni russe. « Attaccare i Russi, costi quello che costi », grida nel ricevitore. « Se vuoi attaccare Ivan, fallo da solo, pezzo di culo! » risponde una voce aspra, poi la comunicazione viene interrotta. Stempel non si era ancora reso conto che la sua divisione era composta al momento di soli sessanta uomini sotto il comando di un tenente. La voce al telefono è quella di un sergente di carriera che l'anno seguente diventerà maggiore nell'esercito russo. Stempel diventa livido e barcollando esce dal bunker. I suoi attendenti lo aiutano a indossare l'uniforme di parata; pantaloni
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grigio perla, fascia rosso sangue, tunica verde gallonata d'oro. Si lascia cadere sul divano del suo ufficio personale, e chiama i suoi due ufficiali di ordinanza cui detta le sue ultime volontà. « La mia divisione mi ha tradito, così scelgo la morte. Non vi è altra soluzione. Viva il Führer, viva la Grande Germania. So che non saremo morti invano qui a Stalingrado. La Storia ci renderà giustizia. » Si mette la canna della pistola in bocca e spara. Gli ufficiali di ordinanza si mettono sull'attenti, con le lacrime agli occhi. Due ore dopo, un gruppo di generali viene avanti sulla steppa coperta di neve. Le passamanerie d'oro luccicano, le larghe fasce rosse spiccano violentemente sull'immensa distesa candida. « Ma guarda un po' che adesso la riserva va in prima linea », dice Porta guardando arrivare il gruppo. « Se Ivan si accorge che questi imbecilli con i loro galloni attaccano, prenderemo una bella innaffiata! » « Non mi piace niente questa faccenda », mormora il Vecchio. « Non si sa mai dove si va a finire con questi pezzi grossi! » Il tenente Keit, uscito fresco fresco dalla Scuola di Guerra, si mette sull'attenti davanti al generale von Hartmann: « Agli ordini, signor generale. La settantunesima divisione di fanteria: tre ufficiali, diciotto sottufficiali, duecentonove uomini ». « Grazie, amico mio, grazie », lo interrompe il generale. « E ora voi e i vostri uomini dovete cadere sul campo come dei veri eroi tedeschi. La Storia lo esige da voi. » « Ai vostri ordini, signor generale », risponde il tenente eretto fieramente davanti a lui. I generali avanzano lentamente nella terra di nes-
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suno, impassibili, senza minimamente preoccuparsi del pericolo. « Sono proprio tocchi nel cervello! » mormora Porta. « Ma non lo sanno che quella zona brulica di tiratori scelti? Dovrebbero almeno averlo imparato per sentito dire! Anche se stavano sempre chiusi dentro le loro tane! » Il generale von Hartmann porta il fucile sulla spalla come un cacciatore, con la canna rivolta verso l'alto. Dal suo volto rude non traspare il minimo turbamento. Tutto intorno si vedono dei soldati che con molta cautela si alzano dalle loro buche e guardano incuriositi; bisogna riconoscere che lo spettacolo è abbastanza stupefacente. Dei generali in prima linea! « Interratevi tutti! » ordina il generale. « Siamo noi che ci battiamo. » Carica il suo fucile e spara. Un soldato russo, colpito, salta in aria. Nel giro di cinque minuti, il generale von Hartmann fa centro cinque volte con un fucile ordinario. « Cristo, che bravo! » commenta Porta, da esperto. « Mica lo sapevo che i graduati tirassero così bene con delle armi della bassa forza! » Il generale Pfeffer cammina a lato del generale von Hartmann, quindi viene il generale Wultz, comandante di artiglieria. Sparano su qualsiasi cosa si mostri anche un solo istante. Vediamo Wultz scoppiare addirittura in una risata, abbattendo un soldato russo. Ma tutto intorno a loro la neve comincia a schizzare lontano sotto l'effetto dei tiri dell'artiglieria nemica; solo loro sembra non si accorgano di nulla, discutono dei colpi altrettanto tranquillamente come se si trattasse di una questione di caccia. Von Hartmann conta già ventisei vittime sul suo quadro, Wultz nove, Pfeffer è in testa
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con trentuno. Da più di un mese la radio tedesca proclamava che i generali si battevano a fianco dei soldati. Dio, come ne avevamo riso! Ed ecco qui che era proprio vero... che sensazione nuova! Il generale von Hartmann cade per primo con un gemito; si mette in piedi con estrema fatica, appoggia il fucile sulla coscia e spara un'ultima volta. Riesce così a fare la sua ultima vittima, ma una granata esplode proprio davanti a lui e lo butta all'indietro come un mucchietto grigio che rotola sulla neve. Il generale Pfeffer cade in avanti perfettamente rigido, con la testa reclinata sul margine di una trincea; il suo berretto rotola molto lontano da lui e un russo riesce ad agganciarlo con la punta della sua baionetta. Non è una cosa di tutti i giorni riuscire a impossessarsi del berretto di un generale. Siamo costretti ad andare a raccogliere il generale Wultz, ferito a morte, e questo gesto costa al soldato Borch una pallottola nell'anca. Il tenente Keit chiede due volontari per raccogliere i corpi degli altri generali, ma nessuno si fa avanti. Perché rischiare la propria vita per un alto papavero, morto per giunta? È molto tempo ormai che un gesto di questo tipo non affascina più nessuno. Il tenente va allora lui stesso con un sergente. Un colpo abbatte il sergente e la notte andiamo noi a recuperare i morti. Il mattino seguente inizia l'attacco che i parlamentari ci avevano preannunciato. I T34 arrivano in formazione serrata e polverizzano le nostre postazioni. Dietro i carri armati, c'è un muro di fantaccini con la baionetta in canna e i fucili mitragliatori. Della sedicesima divisione Panzer, unica superstite del Quarto Corpo d'Armata, non restano che le bricio-
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le. E nuove e continue unità russe, non cessano un istante di varcare la linea della ferrovia. I pochi sopravvissuti, tra i quali noi stessi, saltano di buca in buca, inondati di sudore, stremati dalla fatica sotto il peso delle armi. Le granate sembra pesino una tonnellata, le corregge- scalfiscono le spalle. Disperato mi butto per terra; ho perduto l'elmetto di acciaio spaccato sotto i cingoli di un carro, e sprofondo col viso nella neve. « Andiamo, in piedi! » mi scuote Gregor. « Sei stufo di stare al mondo, per caso? In piedi, ti ho detto! » Si carica la mia mitragliatrice sulle spalle e la porta per un tratto di strada; le nostre gambe fanno un passo dopo l'altro come portate da un movimento automatico. Ci piazziamo dietro un cumulo di neve; il rinculo dell'arma ci comprime la schiena, ma sembra che i siberiani esitino un istante. « È il momento di filare, vieni! » mi grida Gregor, spingendomi fuori. Dietro a noi rombano i T34, con i cannoni che tuonano senza interruzione; sotto le esplosioni delle granate volano intorno membra sparse. Ci buttiamo nella prima buca che vediamo, ma uno di questi mostri bianchi si avvicina a tutta velocità... si ferma, il cannone brandeggia, il colpo parte, ne subiamo il contraccolpo... ma il mostro continua la sua corsa verso di noi... sto piangendo? Sto gridando? Non so più nulla, il terrore mi paralizza. I pesanti cingoli fanno volare la neve, la terra ghiacciata vibra sotto le ventisei tonnellate di acciaio che si avvicinano. Dovremmo saltar fuori dalla buca, ma siamo talmente terrorizzati e pietrificati dal terrore, che fissiamo stravolti il mostro che ci ridurrà in poltiglia. Gregor quasi mi stritola una mano e ci stringiamo l'uno contro l'altro come dei bambini inermi e impotenti.
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Questa volta è la fine... Il carro non è che a pochi passi ormai, e in questo istante il sole tramonta nel crepuscolo invernale. Mi mordo le labbra a sangue, guardando l'enorme ventre del carro. Delle grida atroci arrivano a noi dalla buca vicina... lentamente l'enorme ventre si dirige verso di noi... in una frazione di secondo strappo la mina magnetica dal mio cinturone, e Gregor la butta sotto il ventre del mostro, proprio in corrispondenza del sedile dell'autista del carro. Ci raggomitoliamo nel fondo della buca, premendo le mani sulle orecchie e pregando Iddio che la mina esploda. I cingoli affondano sempre più e improvvisamente, una esplosione spaventosa, un mare di fiamme! Ventisei tonnellate di acciaio vengono proiettate in aria e ricadono in una pioggia di rottami. Un secondo T34... per fortuna ci supera senza averci individuato, ma così da vicino che possiamo quasi sfiorarlo con la mano. Vediamo delle gambe con dei grossi stivali marroni, è la fanteria russa; un paio di grosse gambe si ferma vicino a noi, ricevo un calcio nel ventre, ma rimango immobile e abbandonato, come se fossi un cadavere. Una suola chiodata cammina sulla nuca di Gregor, la cui testa sprofonda sempre di più nella neve ghiacciata. « Tschort wosmy! » impreca il soldato russo che poi si allontana correndo. Ma che effetto ci fanno ormai i più sguaiati insulti! Per un istante perdo il controllo dei nervi e Gregor mi riscuote prendendomi a pugni. A Stalingrado le crisi di nervi non si devono avere. Dappertutto intorno a noi delle figure insolite, tarchiate, dai volti larghi e gli occhi sottili e stretti; sono siberiani. Quando uno dei nostri alza le braccia, la mitragliatrice crepita immediatamente; è stato detto: « Non faremo più prigionieri ».
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I generali che avrebbero potuto salvarci sono morti, ma loro non ne sanno in ogni caso nulla della fame, del freddo, del cingolo di un T34 che passa sopra le nostre teste, dell'aria dura come l'acciaio che brucia i polmoni, dei dolori atroci di una gamba congelata, che la cancrena corrode e consuma. Sono proprio questi uomini della Siberia che corrono verso di noi e li vediamo così bene; uniformi imbottite, grossi berretti di pelo marrone sui loro volti paonazzi di freddo. Corrono con pesantezza, e sembrano dei contadini che seminano durante l'autunno, ma non è un tascapane che essi tengono nella mano, ma un fucile mitragliatore la cui canna brilla minacciosa. Nelle loro orecchie c'è ancora l'eco del grido di Ilja Ehrenburg: « Uccidete, Guardie Rosse! Nessun tedesco è innocente, né i vivi, né quelli che devono ancora nascere. Sterminatela per sempre questa razza "fanatica. Uccidete, Guardie Rosse, all'assalto! » Come un folle, piazzo la mitragliatrice, sparo, sparo... il lungo nastro è presto esaurito... E questi piccoli uomini si fermano improvvisamente, gli occhi tondi dallo stupore. Non pensavano certo di morire in piena vittoria.
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Anche il peggior nemico di Hitler non ha facoltà di potergli contestare i privilegi, già acquisiti, di una civiltà completamente rinnovata. The Times Londra, 24 luglio 1933 Come un ubriaco, il tenente colonnello veniva avanti, i radi capelli grigi sparpagliati a ciocche sulla fronte, e da una ferita al volto gli colava del sangue; una delle spalline dorate dell'uniforme era stata strappata e le sue mani erano legate dietro la schiena con del filo di ferro dei reticolati. Dietro a lui veniva un tenente, un maggiore, un tesoriere-pagatore, le cui mani erano pure legate dietro la schiena. Un gruppo di SS, con il fucile sotto il braccio, malmenava brutalmente i condannati, e sui loro berretti grigio perla il chiarore della luna illuminava il sinistro emblema a testa di morto. Nel centro della piazza era stato eretto un palco alla cui base erano state sistemate quattro seggiole; alcuni soldati sonnolenti, costretti d'urgenza a uscire dalle loro baracche durante la notte, formavano una doppia fda, tutto intorno al palco. Una SS si rivolse ai quattro ufficiali condannati a morte: « Vigliacchi! Se avete qualche cosa da dire fatelo presto, abbiamo fretta ». Il tenente colonnello tremava tutto, come un ramo nel pieno di una bufera. « Sono innocente, credetemi! Io non ho fatto che il mio dovere, e non ho mai desiderato che questo: farlo nel modo più onesto. » « Certo », sghignazza l'SS. « Onestamente dal tuo punto
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di vista, ma non dal punto di vista del Ftihrer. E tu, guerriero da salotto », disse rivolgendosi al maggiore che lo guardava con odio freddo e palese nei suoi occhi azzurri. « Anche tu votevi fare solo il tuo dovere? » « Mostri! » sibilò il maggiore. « Siete voi, banditi, i veri nemici della Germania, banda di assassini! » « Pronti? » urlò l'SS, divenuto livido. I condannati a morte vennero spinti brutalmente verso le seggiole, delle mani rapide ed esperte fecero scivolare un nodo scorsoio intorno al loro collo, quindi le corde vennero tese a fondo, simultaneamente. Un Ober-scharführer alto due metri rovesciò le sedie con un calcio, arretrò di un passo, e contemplò la sua opera con molta soddisfazione. Questo Gustav Kleinkamp era un boia molto noto, che si vantava di aver ottenuto il record mondiale delle impiccagioni. Era il migliore dei cosiddetti « Speciali » del commando KZ delle SS del Gruppenführer Theodor Eicke, un vero genio in materia di esecuzioni. Aveva fatto dipingere sui veicoli della sua divisione la scritta: « Noi non vogliamo dei prigionieri ma dei cadaveri », frase che aveva affascinato Eicke, ma non certo il generale Model, comandante in capo, che aveva ordinato, non appena ne era venuto a conoscenza, che la scritta fosse immediatamente cancellata. Model era il solo generale di cui Eicke avesse un vero terrore. Correva voce in tutta la Terza Armata blindata che un giorno Eicke si era presentato al quar-tier generale di Model, chiamato d'urgenza. Cinque minuti di conversazione con il piccolo generale dal grosso monocolo avevano avuto ragione di una presunta occlusione intestinale, che lui aveva dichiarato di avere e che nessun medico riusciva ad individuare. « Ecco qui il vostro comandante e tutto il suo stato maggiore impiccati come dei traditori! » gridò lo Sturmbannführer ai fanti sonnolenti. « Questo sarà il destino di tutti coloro che non disputeranno al nemico ogni centimetro
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quadrato di terreno da noi conquistato. Questi sono gli ordini del Führer, capito? » All'interno del grosso camion, fermo nella piazza dell'esecuzione, si intravedeva la figura di Theodor Eicke, del secondo corpo blindato delle SS. Già il ventisei maggio 1940, egli aveva commesso il suo primo crimine di guerra, facendo fucilare cento prigionieri inglesi in una fattoria in Belgio. Il Generalfeldmarschall Busch gli aveva fatto una terribile scenata, per questa gravissima colpa commessa contro i Diritti dell'Uomo, e l'aveva deferito davanti al Consiglio di Guerra. Ma Himmler si era interposto. Anche se non nutriva nessuna simpatia personale nei riguardi del comandante della sua guardia, non desiderava vi fosse una sola macchia sul sacro onore delle SS. « Santo cielo! » aveva esclamato in quell'occasione. « Quante storie per questi inglesi! D'altra parte cosa facevano poi al fronte? Non avevano che da rimanere nella loro isola! »
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UN 25 DICEMBRE DA cinque giorni una tempesta di neve imperversava terribile sul Volga. Era la terribile tempesta di Kasakstan. Veniva da molto lontano, dalla punta estrema dell'Asia, e il vento prendeva via via una velocità sempre più forte sulla steppa. Questo vento lavorava in favore dei Russi, e la tempesta di Kasakstan portava solo la morte. Noi eravamo tappati dentro un bunker sulle rive del fiume, e ascoltavamo il costante ululato della bufera: dei volti grigi e sfibrati, sotto gli elmetti di acciaio dipinti di bianco. Avevamo fame, e già da molti giorni, ormai. Il maresciallo Goering aveva garantito a Hitler che degli aerei sarebbero arrivati nella zona del fronte con degli approvvigionamenti per la Sesta Armata, ma naturalmente si riferiva a degli apparecchi che già da molto tempo non esistevano più. Sperava nell'aiuto degli angeli, forse? Erano i soli sui quali si potesse ancora sperare, ma per il momento Dio sembrava essere dalla parte dei Russi, e contemporaneamente il feroce anticomunista di Londra Winston Churchill, simpatizzava con gli uomini del Cremlino, perché questi togliessero le castagne dal fuoco al posto dei suoi compatrioti. STALINGRADO FOSSA COMUNE, OGNI MINUTO MUORE UN SOLDATO TEDESCO, urlavano con gioia e rabbia lungo tutto il fronte gli altoparlanti sovietici. Si moriva certo, ma non in combattimento. Si moriva in modo miserabile di fame e di freddo, ci si trascinava lungo la strada per poi, dopo qualche metro, stramazzare a terra e morirvi; ci si nascondeva in una buca sperduta nella steppa, mormorando delle parole senza senso e poi si moriva; ci si aggrappava al fusto ghiacciato del cannone di un carro abbandonato senza benzina e si moriva; ci si
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lasciava scivolare in fondo a una trincea al riparo dalla bufera e si moriva. Il comandante di compagnia, reclinato sul parapetto della trincea, dava gli ultimi ordini e moriva. STALINGRADO FOSSA COMUNE, OGNI MINUTO MUORE UN SOLDATO TEDESCO. La lancetta dei secondi corre veloce. È vero. Stalingrado fossa comune, ogni minuto muore un soldato tedesco. Quando il nostro gruppo, ormai al limite, è già sul punto di cedere, Porta fa un cenno a Fratellino, si butta sulle spalle un fucile russo a baionetta, raccatta un vecchio sacco di juta, e noi li vediamo scomparire silenziosi nella terra di nessuno. Abbastanza furbi per sfuggire ai gendarmi della polizia militare, sempre pronti a sorprendere qualcuno da fucilare, ritornano ogni volta con qualche cosa nel sacco. Spesso delle ossa di cavallo già un po' imputridite, ma se si è capaci di manipolare con intelligenza anche questo genere di cose, si può ricavare una zuppa con la quale sopravvivere ancora qualche giorno. Una notte rientrano con trentasette scatole di cibi in scatola e mezza anitra scippata ai Russi. Naturalmente essi non avevano intenzione di andare a rifornirsi da Ivan, ma il caso li aveva guidati verso una casa di Spartakov; e questo pasto troppo abbondante ci costa due vite umane: questa volta morte per indigestione. « Che strana la vita! » filosofeggia Porta. « O si muore perché non si ha niente da mettere sotto i denti, o si muore perché ce n'è troppo tutto in una volta. » Il nostro bunker vibra tutto sotto il tiro massiccio dell'artiglieria russa. La morte arriva in tutte le postazioni tedesche, arriva e distrugge tutto lungo il fronte del Volga. La quota 102, trasformata in un cratere, si volatilizza tra fiamme e fumo e quelli che si trovano allo
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scoperto, vengono proiettati in aria come fossero foglie portate dal vento. La maggior parte dei soldati muore asfissiata per la spaventosa pressione dell'aria; altri si alzano in piedi, come per aiutarsi a prender fiato, delirano e cadono come ubriachi; altri sono presi da improvvisa follia e, sotto la pioggia delle granate, corrono nei loro lunghi cappotti svolazzanti e ridono come dementi. Non siamo più un reggimento, ma a malapena una compagnia, l'ultimo residuo del fronte, un miscuglio indescrivibile di tutte le armi. Da qualche giorno si è unito a noi un SS Unterscharführer che insediatosi nella nostra baracca si butta sul letto, cosa che rende Porta furioso. Questo famoso letto era una sua proprietà personale, l'aveva trovato una volta in una villa abbandonata, e lo portavamo con noi dappertutto. Porta lo affittava a ore. « Questo è il mio letto, amico, e non mi sembra di avertelo affittato! Toglilo di lì », dice a Fratellino, che solleva l’SS come una piuma e lo lascia cadere pesantemente per terra. L'Unterscharführer lo guarda astioso, si raggomitola per terra e si riaddormenta immediatamente con la rivoltella in mano. Improvvisamente la porta viene aperta con un calcio. Nel vano appare un generale SS, con il cappotto lungo e il fucile mitragliatore sotto il braccio. Il volto paonazzo sotto il berretto di pelo, si piazza nel centro della baracca con le gambe divaricate e fissa ciascuno di noi, a turno. « Allora, buoni a niente! Non immaginerete per caso di poter vivere in eterno, spero. Chi è il più anziano qui dentro? » « Brigadenführer, agli ordini. Oberfeldwebel Beier, ven-
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tisettesimo reggimento Panzer », risponde il Vecchio. « Presenti: un Oberfeldwebel, sette sottufficiali, quarantatre uomini. Armamento: un lanciagranate, due SMG, sei LMG, un lanciafiamme. Munizioni, un certo numero. » « Come? Non sapete che il numero esatto delle munizioni deve essere noto in qualsiasi momento? » Senza aspettare la risposta, continua l'interrogatorio. « E come vi trovate qui? Dov'è il vostro reggimento? » « Il reggimento non esiste più, Brigadenführer », risponde il Vecchio. « È stato completamente distrutto. Quelli che non sono morti sono stati fatti prigionieri. » « Da dove arriva questo Unterscharführer? » chiede il generale indicando l'SS. « Brigadenführer, l’Unterscharführer Krahl agli ordini; vengo dal reggimento speciale dei guastatori. » « Allora ritornate al vostro battaglione, non avete niente da fare qui. » « Non posso, Brigadenführer », sghignazza l'SS, facendo un gesto molto significativo alla gola. « La nostra compagnia di eroi si è lasciata accerchiare a Rynok, e ci è voluta solo una mezz'oretta ai compagni qui di faccia, per liquidarci tutti. Io ho fatto il morto e sono l'unico che se l'è cavata. » « Alzatevi in piedi, Unterscharführer, quando parlate con un ufficiale! In quale modo voi abbiate abbandonato la vostra sezione, il consiglio di guerra ne discuterà e deciderà in merito. Per il momento voi resterete ai miei ordini, voi e questo branco di porci con i quali vi siete associato. Premetto che il primo che farà lo scansafatiche, qui, sarà impiccato al primo ramo che verrà a tiro. Documenti e libretto militare! » ordina togliendo di tasca un lungo sigaro nero. Julius Heide si precipita servilmente con l'accendisigari.
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« In quale punto del fronte avete abbandonato la vostra posizione? » chiede il generale, spiando il viso del Vecchio e insieme svolgendo una grande mappa del fronte sul letto di Porta. « Nella zona di Kotluban, Brigadenführer. » « Kotluban! » mormora il generale. « Cinquantatré chilometri! » Segna alcuni punti sulla mappa. « Oberfeldwebel, ecco qui Kotluban ed ecco qui il reggimento della guardia sovietica. Il vostro reggimento si trovava vicino al bosco di Tatars, alle spalle del Volga, non è così? » « Sì, signor generale. Appartenevamo alla sedicesima divisione Panzer, la cui postazione terminava nel cuneo nord di Kotluban. » « Infatti », replica l'SS scettico, « allora se è così, vogliate spiegarmi, come avete potuto attraversare le postazioni del reggimento della guardia, dato che non penso voi possediate dei passaporti speciali, firmati da un generale sovietico? Non è più esatto concludere che voi e i vostri uomini avete tagliato la corda? » « Brigadenführer », risponde il Vecchio, stringendo le labbra, « nessuno taglia la corda sotto di me. Non è mai successo. Lasciamo questo onore ai signori ufficiali. Il nostro capo sezione, tenente Reininger della settantanovesima divisione di fanteria, che aveva rilevato il comando del nostro reggimento, è il solo che abbia tagliato la corda. Ma andando dai Russi, però, e rivelando la nostra posizione al commissario russo del settecentotrentaseiesimo siberiani, e sappiamo che... » « Tacete! » urla il generale schiaffeggiando il Vecchio con il guanto. L'SS Unterscharführer, preso da un'ira violenta, si butta in avanti con la baionetta, contro il suo generale. Con una mossa rapidissima di judo, il generale lo atterra, toglie dalla fondina la rivoltella, e lo uccide con
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due colpi. « Ce ne sono altri qui che ne hanno abbastanza della vita? Che si facciano avanti! » I nostri occhi luccicano di odio omicida, un odio che ci soffoca, ma siamo da troppo tempo degli schiavi prussiani per reagire. È un generale, un Dio, può fare di noi tutto quello che vuole. « Prendete le vostre armi, presto! Incolonnati dietro di me, in fila per uno. » Prendiamo posizione lungo la strada ferrata Stalingrado-Pitomnok. Qui il generale, d'autorità, prende in forza la batteria di ottantotto, i cui tre soli sopravvissuti vengono immediatamente incorporati al nostro gruppo. Poi comincia l'attesa... l'attesa sfibrante... Il freddo è atroce, ma il generale implacabile ci ingiuria, ci strapazza, e ci assilla con ordini tassativi; è avvolto fino alle orecchie nel suo grande collo di visone. Al tramonto, eccoli... Scalano la massicciata come delle grosse cimici bianche, poi oltrepassano la strada ferrata senza incontrare nessuna apparente resistenza. I nostri fanti, vedendoli arrivare, saltano fuori dalle buche e scappano, sembrano dei piccolissimi punti grigi sulla neve immacolata, ma queste enormi cimici cingolate li afferrano, li schiacciano, i grandi cannoni brandeggiano e sembrano delle grosse dita, attaccate alle torrette basse, che sembrano a loro volta dei grossi pugni chiusi. Le catene cigolano, e avvolti in una nuvola di neve procedono in formazione serrata. Accucciati dietro le nostre batterie da ottantotto mimetizzate, noi aspettiamo... i primi carri sono a ottocento metri ormai, e procedono zigzagando, per schiacciare sotto il loro ventre qualche povero fante sperduto. L'attesa prima di un attacco di carri armati è una sensazione veramente terribile e angosciosa. Occorre avere
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dei nervi d'acciaio per resistere dietro una batteria anticarro. Se si sbaglia il tiro, è la morte senza alcuna possibilità di scampo. Si avvicinano lentamente, poi all'improvviso prendono velocità. Dallo sportello aperto della torretta del carro in testa, vediamo apparire la testa del capocarro 1 , che evidentemente non si aspetta nessuna resistenza. « Fuoco! » comanda urlando con rabbia il Vecchio. Quattro cannoni sparano simultaneamente. I primi T34 saltano in aria con un fragore di tuono, e istantaneamente la paura, questa atroce paura, è misteriosamente scomparsa. Non sentiamo più nemmeno il freddo. I gesti, ripetuti migliaia di volte, diventano automatici; i cannoni tuonano, i carri si fermano, poi lentamente arretrano, delle lunghe fiamme escono dalle torrette, i metalli in fusione sfrigolano e come palle di fuoco gli uomini vengono proiettati verso il cielo, trasformati in mummie nere. È questa la morte del soldato del carro. Diciannove T34 vengono così distrutti dalle fiamme, e un immenso fungo nero come inchiostro sale verso il cielo grigio. Un istante di sosta. Poi si fa avanti una nuova ondata di T34, questa volta proprio in direzione della nostra batteria. I cannoni sparano con la forza della disperazione, o loro o noi, è la sola alternativa. Ma le nostre munizioni sono quasi esaurite. Inoltre i Russi hanno individuato la batteria e vengono avanti lentamente in una pioggia di granate. Il duello mortale raggiunge il parossismo. Un artigliere di diciassette anni si torce nella neve, la colonna vertebrale spezzata, e le sue grida disperate, di un giovane che si ribella alla morte, superano quasi il fragore del can1
Comandante dell'equipaggio.
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none. Ma nessuno viene più in aiuto di nessuno, ormai! Non c'è più tempo neanche per queste cose! Delle lingue di fuoco luminose ci segnalano che uno dei colossi è ancora in grado di nuocere, e altri mostri ancora oltrepassano la massicciata. I nostri fanti scappano, si nascondono dietro la batteria, dove pensano di essere più al sicuro. Disgraziati! Fuggono da un inferno per trovarne uno ancora peggiore. Qui le granate cadono con una precisione meticolosa. Il duello mortale aumenta di furore. Non siamo più degli uomini, ma delle macchine che automaticamente eseguono il loro compito diabolico. Le urla dei feriti si aggiungono agli ululati rauchi dell'ottantotto. Il grosso Paul, di Colonia, cade a terra con il petto squarciato; il caporale Duval, di Sauerland cade svenuto, e il suo braccio sinistro è letteralmente strappato via da una granata; il sottufficiale Scheibe, di Wuppertal, ha le due gambe stroncate all'altezza del ginocchio; una granata trasforma il cacciatore Weiss, di Breslavia in un magma irriconoscibile. E i carri continuano a venire avanti... Un tiro molto preciso colpisce il cannone di Gregor, che si spezza; l'intero cilindro salta via decapitando il servente al pezzo, il cui corpo rimane per qualche istante ancora in piedi, il sangue che gli esce come un getto d'acqua. Gregor ha una crisi di nervi! Ride, ride come un folle, asciugandosi il viso inondato di sangue, poi cade in ginocchio e tutto il suo corpo è scosso dai singhiozzi. Improvvisamente i carri virano verso sud, il fragore dei loro motori si allontana, non crediamo ai nostri occhi. Perché? Perché se ne vanno? La battaglia si era quasi conclusa in loro favore, e noi restiamo qui, come inebetiti, ammutoliti, e tuttavia ancora vivi! In mezzo ai
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cadaveri che già cominciano a congelarsi in questo freddo atroce. Tutto mi gira davanti agli occhi, barcollo, cado, il vapore di salnitro mi brucia i polmoni, e guardo senza muovere un dito il fuciliere di marina che fascia come può il legionario ferito alla fronte dallo scoppio di una granata. Una vera fortuna che questa volta, per caso, si fosse messo l'elmetto di acciaio, ora sarebbe scotennato, altrimenti. Vediamo avvicinarsi a noi, correndo, il generale SS, seguito da alcuni soldati. « Fate saltare i cannoni. Raggruppamento laggiù nella gola. » Piazziamo le cariche di dinamite, Porta accende la miccia, e corriamo via in direzione della zona di raggruppamento indicataci. Pochi minuti di intervallo, poi un'esplosione mostruosa, la batteria è sparita, e fra qualche ora la neve avrà ricoperto tutto. La temperatura è a meno trentotto gradi; un vento micidiale sconvolge tutta la steppa e ci investe con minuti cristalli di ghiaccio che ci tagliano il viso. Dappertutto intorno a noi non vi sono che corpi irriggiditi, con braccia e gambe rivolte verso il cielo color piombo. In testa alla nostra sparuta colonna, cammina il generale silenzioso e cupo. Quando il vento solleva il panno del suo lungo pastrano si intravedono le fasce bianche delle SS. Deve essere impazzito. È già molto che ne abbiamo il sospetto: è un pazzo che insegue la morte, e palesemente fa di tutto per trascinarvi con sé il maggior numero di soldati possibile. Ci piazziamo davanti a un'ansa del Volga, ai piedi di alcune colline che formano una specie di triangolo. Dalla nostra posizione, vediamo distintamente lunghe colonne in marcia, che attraversano il fiume ghiacciato e il
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giorno dopo, all'alba, inizia il bombardamento intenso di artiglieria pesante. Quattro volte la deflagrazione mi proietta fuori dalla trincea e all'ultima, quando Porta viene a soccorrermi, sono così sconvolto che non riesco a reggermi sulle gambe. La sezione a qualche metro dalla nostra è subissata di granate ad aria compressa il cui effetto è una cosa indescrivibile e atroce. Tutte le rovine intorno, già calcinate, riprendono ad ardere. L'odore fortissimo dì carne bruciata impregna a tal punto le nostre uniformi da provocare urti di vomito. « Incredibile che una cosa completamente bruciata ricominci di nuovo a bruciare », commenta il marinaio perplesso, accucciandosi nel fondo della trincea. Porta sempre in testa il suo berretto tondo, con i nastri che svolazzano sul fianco. Mi sono intrufolato al riparo di alcuni blocchi di cemento, in una cavità dove installo la mia mitragliatrice con la canna infilata in una fessura che ho scoperto con l'intuito, quasi automatico, del soldato del fronte. Dividiamo in silenzio un pezzo di pane secco. Occorre avere una fame molto arretrata per apprezzarne il gusto. Il vapore del Volga sale verso di noi insieme alle colonne in marcia. E improvvisamente, ecco l'attacco! I Siberiani, demoni nati nel ghiaccio e nella neve, sembrano piccoli orsi nelle loro uniformi imbottite. « Hurrah, Stalin! » La postazione dirimpetto alla nostra è invasa e distrutta. Verremo accerchiati, sicuramente. Ma attraverso la fessura del cemento vediamo passare correndo dei grossi stivali di feltro; la mitragliatrice crepita... Cadono a intere file, gli altri fuggono via attraverso le colline calpestando morti e feriti. « Baionetta in canna! » ordina all'improvviso il gene-
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rale. « Avanti! » « Allah Akbar! Viva la Legione! Viva la Morte! » urla il piccolo legionario, precipitandosi dietro il generale. Ubriachi di sangue, calpestiamo i feriti, sventriamo, strangoliamo, in un corpo a corpo talmente cruento che il demonio stesso ne rabbrividerebbe sconvolto. I Russi, tallonati dai loro commissari politici, contrattaccano e cadono, a centinaia. Le loro posizioni vengono invase dai nostri e distrutte, i loro bunker conquistati. Dei viveri, grazie a Dio! Porta vi si lancia sopra e, come in preda alla follia, divora tutto quello che può. Fratellino inghiotte un enorme pezzo di lardo. Facciamo razzia di tutto quello che ci capita tra le mani, e scappiamo via perché i Russi stanno tornando, preceduti da scariche di granate. Il generale, con al fianco un tenente sconosciuto, è accucciato dietro una SMG. È un pazzo, non c'è dubbio, ma non certo un vigliacco, e proprio per questo noi siamo qui, in questo rudere indifeso, e ci sarà quasi impossibile uscirne, perché i Siberiani sono già alle nostre spalle. Questi si avvicinano lentamente, armati di lanciafiamme. È una visione terrificante, che ci paralizza... improvvisamente Heide scatta, striscia dietro dei muri mezzo diroccati, arriva proprio alle spalle del gruppo dei Siberiani e li innaffia con il suo lanciafiamme. Ancora solo qualche istante e nessuno di noi sarebbe più vivo. Un intervallo di silenzio, poi sentiamo, proveniente dall'altra riva del Volga, il rimbombo delle batterie pesanti, un rombo lungo e terrificante che fa vibrare la terra nel raggio di molti chilometri. Sparano contro di noi con quelle tremende granate ad aria compressa che schiantano i polmoni. Scappare, scappare! Ma ancora prima cercare di nasconderci il più in profondità possibile nel fondo di una
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buca. Cado addosso a Porta, il soffio omicida ci sfiora; i polmoni escono letteralmente dalla bocca di quelli che non sono stati abbastanza veloci nel mettersi al riparo. Tutto quello che si trova sulla superficie del terreno viene disintegrato da questo respiro mortale. Bisogna cacciarsi nel fondo di una buca, restare immobili, mordere la canna del fucile, se si vuole avere anche una sola possibilità di sopravvivere. Ore e ore si deve restare in questa posizione. E questo dura tutta la notte. Nessuno di noi crede anche solo per un istante che non abbiamo già perduto la guerra, tuttavia nessuno pensa all'eventualità di rinunciare a battersi. Anche in mezzo a questa atmosfera angosciosa, e a questa infelicità insondabile, la vita diventa sempre più un bene prezioso, non parliamo mai del passato, ma sempre ed esclusivamente del futuro! E anche senza credervi... La vita è divenuta per noi così breve che ogni istante è colmo di un'intensità insospettata. Moriamo di freddo, di fame, di paura, ma non riusciamo a essere insensibili al fascino di un fagiano che vola sopra i campi insanguinati. Nessuno gli spara, sarebbe un assassinio, e nonostante noi stessi uccidiamo i nostri simili ogni secondo, intimamente non ci sentiamo colpevoli. Improvvisamente, tre JU52 spuntano da ovest, scendono sotto le nuvole- grevi e basse, evidentemente cercando di individuarci. Fanno delle ampie curve sopra di noi, indifferenti ai cannoni russi, ed ecco dai loro ventri uscire dei piccoli paracadute con appesi grossi sacchi gialli di vettovagliamenti. Questo spettacolo ci rende quasi pazzi di gioia. Si rischia la vita per correre a recuperarli, ma tutti ci precipitiamo. Cosa ci sarà dentro quei sacchi? Ciascuno di noi sogna...
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« Cosa ne direste di un maialino di latte allo spiedo? » geme Porta che muore di fame. « Mai più parlerò male della nostra aviazione », promette il marinaio, solenne. Con le mani che tremano, strappiamo gli involucri di tela dei contenitori di alluminio: ognuno di questi può contenere l'intero vettovagliamento di una compagnia. I bambini che il giorno di Natale aprono i pacchi dopo un mese di attesa, non possono essere più felici e impazienti di noi. Ma le grosse casse non contengono né maialini di latte, né selvaggina, né patate, nemmeno un pezzo di pane! Sono tutte piene di polvere insetticida, di carta da lettere, e di una quantità di fotografie a colori di Hitler, Goering, Goebbles... si può facilmente immaginare la nostra disperazione e la nostra ribellione feroce. Le fotografie di propaganda vengono buttate al vento della bufera che le trascina verso le linee russe. « Mettetevele nelle vostre latrine! » urla Porta al colmo del furore. « E pulitevi bene il culo con loro! » Dopo le fotografie è la volta della polvere insetticida che impesta tutto. Chili e chili di polvere si spargono come una nuvola sul Volga, insieme alle nostre maledizioni. Questa volta la misura è colma anche per Fratellino, che sputa tutto il suo odio. « Che Dio punisca Adolfo! » Sì, che Dio punisca Adolfo. All'alba, abbandoniamo la posizione, sotto una bufera di neve che, se non altro, ha il vantaggio di nasconderci alla vista del nemico. Passeranno diverse ore prima che i Russi si accorgano che non siamo più laggiù. Sulla circonvallazione di Olowka, il generale ordina di installare uno sbarramento per fermare i fuggiaschi, che escono a ondate dalle fabbriche dei trattori in cui si erano rifugiati. Urla di indi-
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gnazione, suppliche, non servono a nulla. I « commandos » di caccia sono all'opera e il generale non conosce pietà. Due ufficiali che si ribellavano agli ordini vengono abbattuti con un colpo alla nuca, un capitano d'artiglieria è colpito a morte e abbandonato d'autorità svenuto sul posto. Partenza al crepuscolo, questa volta è una colonna abbastanza massiccia. Dopo circa venti chilometri, in un'ansa del terreno, scopriamo un reggimento intero.... ma di cadaveri; le membra congelate spuntano da sotto la neve, dei corvi gracchiano e picchiettano i crani con il loro becco. È una visione che non si può definire che così: « Stalingrado fossa comune, ogni minuto muore un soldato tedesco ». Un grande bunker scavato nelle rocce ci serve da riparo, entriamo e sulla tavola intravediamo una lampada a petrolio che il Vecchio accende. La luce viva e livida illumina... dei cadaveri, ancora dei cadaveri. Volti contorti, corpi a cumuli, gli uni sopra gli altri, per terra. Ancora seduto a una sedia, un tenente colonnello, la testa riversa all'indietro e la nuca forata da un solo proiettile. Gli NKVD sono passati di qui prima di noi. Sopra un tavolo operatorio di fortuna, giace un medico con la gola tagliata, in un angolo due infermieri a ventre aperto. « Sfondati », commenta Porta che suo malgrado ricompone i due corpi. Gli asiatici che devono essere passati di qui, devono aver seguito alla lettera il proclama di Ilja Ehrenburg: « Uccideteli dove li trovate, perfino nel grembo delle loro madri ». Sfiniti, ci buttiamo sopra dei sacchi di paglia ancora intrisi di sangue, con un solo desiderio, dormire. Il generale si è seduto su una panca sotto la parete di roccia.
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Esamina il suo fucile mitragliatore, guarda i cadaveri con aria pensosa, poi la sua testa cade in avanti, le mani si aprono, l'arma cade a terra. Dorme, come noi. Improvvisamente", sveglia di soprassalto! Quanto tempo abbiamo dormito? Nessuno di noi lo può dire. Il bunker vibra tutto. Nelle pieghe del terreno, sentiamortstói motori che rombano, dei cingoli che stridono sulla neve. Che sia un incubo? No, sono di nuovo dei carri armati. Il Vecchio spegne bruscamente la lampada a petrolio, e ci rannicchiamo terrorizzati al buio. Stanno passando qui, proprio a fianco del bunker. È molto se osiamo respirare. Si allontanano... stanno andando in direzione di Gumrak. Il silenzio ripiomba sui morti e sui vivi. Il generale si rimette il berretto di pelo, si alza e si abbottona il lungo cappotto. « Prendete le vostre armi e seguitemi. » Portiamo con noi tutto quello che troviamo di commestibile, compreso un pezzo di carne così stranamente chiara, che il Vecchio sostiene essere carne umana. Porta ne addenta un grosso pezzo. « Proprio buono! Deve essere il culo di un generale! Se è davvero carne umana, scantonate da me, quando avrò di nuovo fame! » « In marcia! » grida il generale, che ci spinge avanti, colpendoci con la canna del fucile mitragliatore. Abbandoniamo il bunker per piazzarci a nord-ovest della ferrovia, qualche chilometro prima di Pestjanka. Vediamo lontano un razzo salire verso il cielo e poco dopo un nuovo attacco a ondate molto serrate. I Russi procedono a passo di marcia come a una parata, gruppo dopo gruppo, baionetta in canna, alla loro maniera particolare. Spinti avanti brutalmente dai loro commissari politici, cadono a terra come delle quaglie, ma i successivi buttano i corpi dei loro morti sui fili spinati, ser-
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vendosene come dei ponteggi. Sono accucciato dentro la mia buca di neve, dietro i rottami di un bulldozer americano; mi arriva di fronte un tiratore siberiano che vedo perfettamente bene, volto largo paonazzo dal freddo, chiuso in un berretto di pelo con la stella rossa. La crocetta del mio mirino è proprio sotto la stella rossa, il colpo parte meccanicamente e sul volto del russo appare una specie di stupore... non capisce, questo sergente di un lontanissimo villaggio siberiano, perché deve morire sulle rive del Volga, questo fiume di cui conosce solo vagamente il nome. Piacerebbe anche a lui tornare dalle sue mucche e dai suoi cavalli, ma eccolo lì steso nella neve, sotto la bufera di Kasakstan. In primavera, quando uscirà dalla sua bara di neve, un bulldozer lo spingerà insieme a mille altri nella fossa comune mescolato e confuso insieme a tutti gli altri morti, estranei per lui, di tutte le repubbliche sovietiche. Continuiamo a retrocedere ancora lungo la strada ferrata. Dallo sventramento del terreno dovuto a una granata un ufficiale chiama aiuto; è molto grave, ma la sua espressione è quella di un vecchio. Prima di scavalcarlo butto un'occhiata su di lui; le gambe non sono che una massa confusa di carne e sangue, non si può far niente per lui. « Portatemi via! » supplica. « Non abbandonatemi. Portatemi con voi, compagni! » « Signor capitano, sbrigatevi a morire! » E gli metto in mano una pistola, prima di correre via a raggiungere gli altri. Da un cespuglio vedo arrivare lentamente un T34, che procede zigzagando sulla strada. Il comandante del carro russo vede il capitano ferito, fa deviare il suo mostro bianco e passa sopra il mucchietto grigio, si ferma e
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vira il suo asse. Quando riparte, non vi è più nulla dov'era il mucchietto grigio. Il russo scoppia in una risata... Uno sporco nazista di meno! Avanti, soldati russi, avanti! Uccideteli tutti fino nel grembo delle loro madri. Ilja Ehrenburg può essere fiero di essere stato così ascoltato, è un ottimo scrittore, un amico del tiranno Stalin. Porta e io, contemporaneamente, saltiamo su un T34 che porta una bandiera rossa sulla torretta, la strappiamo e la tendiamo sul parabrezza, per togliere la visibilità al carro; gli sportelloni si aprono, e, come un cinghiale preso dal panico, il carro accelera la velocità e corre perdendo il controllo della guida. Pioggia di granate all'interno della torretta. Saltiamo giù e corriamo all'impazzata il più lontano possibile. Una esplosione, un inferno di fiamme, una pioggia di brandelli d'acciaio. Stalingrado, fossa comune. Ogni minuto muore un soldato tedesco, e laggiù, molto, molto lontano nella Prussia Orientale, regna un folle che grida istericamente: « Continuate, continuate a combattere fino all'ultimo uomo ». Purtroppo per noi soldati semplici, ci sono ancora degli ufficiali che gli obbediscono, in un sentimento aberrante di dovere militare. Il ventiquattro dicembre siamo a Dinitrijevka, ma nessuno di noi pensa al Natale. Alle sette precise, Ivan attacca con delle unità massicce di fanteria nelle quali seminiamo devastazione ma nonostante tutto, l'attacco non cessa che alle tre del pomeriggio. Poi improvvisamente tutto finisce, torna il silenzio. Non un colpo di fucile, più nessun rumore, silenzio assoluto. Sulla massicciata un treno sta bruciando. Porta, inquieto, si chiede quale possa essere il significato di questo silenzio innaturale. All'orizzonte, non si vede nulla; solo la neve che cade in turbinü spessi sollevati dal vento.
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Cosa succede? Lo si saprà molto presto. Il giorno venticinque alle tre precise, cinque T34 oltrepassano la massicciata, senza il consueto seguito della fanteria siberiana. Dall'altoparlante installato sul carro di testa rimbomba fortissima una marcia militare. In formazione perfetta, si dirigono verso la terza sezione. Noi siamo impotenti contro di essi, non abbiamo cannoni anticarro, nemmeno più un cocktail Molotov. Deviano e procedono diritti verso la seconda sezione. L'altoparlante intona la marcia di Radetzky. Poi i carri si fermano, ognuno sopra una buca di neve, premono sul cumulo virando sulle loro assi, quindi ripartono... il soldato che è nella buca urla di terrore, ma le venti tonnellate di acciaio lo riducono al silenzio... così di seguito per dodici buche di neve, dodici uomini. Poi i carri se ne vanno come sono arrivati, in una nuvola di neve. Silenzio di morte. Non un colpo di fucile. Solo la tempesta che ulula... L'indomani, eccoli ancora, alle tre precise. In testa un T34 rosso vivo, con la bandiera al vento; medesima marcia militare, diffusa dall'altoparlante; medesima precisione del giorno prima su ogni buca di neve dove si è interrato un uomo che un secondo dopo non è più un uomo. Ci turiamo le orecchie per non sentirne le urla... non c'è che aspettare il nostro turno. La notte bianca dell'inverno russo copre la steppa. Di continuo crediamo di sentire delle grida di feriti, ma non è così, è la bufera di Kasakstan, che urla come la morte. Qualche granata di mortaio cade sull'argine di neve dietro di noi. L'altoparlante russo ruggisce: « Fascisti tedeschi! Porci capitalisti! Alle tre torneremo a farvi fuori tutti! » Porta sorride e saluta con il suo cilindro giallo.
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« Molto piacevole venire a sapere che siamo diventati dei capitalisti! Gregor, la mia Cadillac. Parto per la Costa Azzurra! » « Camerati! » grida ora l'altoparlante. « Sono il sottufficiale Buchner, della terza divisione Panzer. Venite anche voi dalla nostra parte! Sputate sui vostri padroni capitalisti! » « Le sappiamo queste cose, le sappiamo », sghignazza Porta. Promettono tutto, anche delle belle ragazze. L'Unione Sovietica, questo paradiso dei proletari, ha tutto, tutto quello che ci vuole per essere felici, questo è il meno che ti vengano a dire. Ma il giorno dopo alle tre precise, eccoli di nuovo! Proprio davanti alla nostra postazione si vedono due muc-chietti grigi, immobili, sono due soldati che avevano creduto alla felicità sovietica e che il generale aveva abbattuto. Terrorizzati, vediamo avvicinarsi cinque nuovi T34. Di chi è il turno oggi? Scendono nella neve, sprofondano, poi si liberano cigolando. Oggi musica da ballo. Io non credo che esista al mondo una cosa che detesto più di un T34 bianco, questa belva che ruggisce, questo assurdo automa omicida. Porta, nella sua buca, suona il flauto come in estasi e la sua tuba gialla spicca sul bianco della neve. Impossibile fare una buca più profonda, gli arnesi non servono a nulla, e la terra è dura come il granito. D'altra parte la bufera di Kasakstan si incarica di seppellirci. I T34 si avvicinano con un fragore che quasi ci rende sordi. Alcuni cercano di fuggire, ma vengono abbattuti dalle mitragliatrici nemiche o dai nostri ufficiali. Diserzione! Vigliaccheria davanti al nemico!
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Attraverso un piccolo foro nella neve, guardo la morte che si avvicina lentamente. Se solo avessi un cocktail Molotov contro questi assassini, ma non ho nulla... solo le mie mani nude... Il primo T34 passa a qualche metro da me, a sportelloni chiusi, ma io so che dietro il piccolo parabrezza spiano degli occhi pronti a uccidere. Piombano sul gruppo vicino, di camerati di vecchia data. Il piccolo sottufficiale Wilmer, comandante del gruppo, che possiede un magazzino di derrate coloniali a Dusseldorf, e che si era arruolato nel '36 per un ingaggio di quattro anni, aveva ricevuto in un colpo solo tutti gli stipendi dei quattro anni, e con questi aveva potuto pagare tutti i suoi creditori, ma non aveva mai capito perché, una volta terminato il periodo dell'ingaggio, non lo avevano rimandato a casa! Quando eravamo ad Anversa, aveva scritto una lettera personalmente al Führer, ma non gli era mai stato risposto. Il tiratore della mitragliatrice è il grosso Bòhmer, di Colonia, che ha come servente al pezzo un procuratore di Lubecca. Un altro è di Amburgo e sogna di diventare un uomo importante nelle ferrovie; vi è anche uno studente di filosofia che non capisce nulla della disciplina militare, e non è mai stato capace di imparare il passo di parata; in compenso, l'apprendista meccanico Neumunster lo sa fare in modo perfetto, e vuole diventare sottufficiale. Il colonnello Hinka gliel'ha promesso. Ma purtroppo è laggiù insieme al gruppo condannato a morte e aspetta che un T34 lo schiacci sotto i suoi cingoli. Il primo mostro si ferma sulla buca di Wilmer, sprofonda lentamente e trasforma gli uomini in un magma sanguinante. Quello che amava le ferrovie urla più a lungo degli altri. « E crepa dunque, cretino! » urla Heide isterico. Il carro che segue è già sopra lo studente di filosofia; le sue grida si attenuano a poco a poco nella neve. Dio
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del Cielo, siete sordo? Da quanto tempo sentite e sopportate queste grida? Sul nostro cinturone è scritto « Dio è con noi » ma voi dovete essere sicuramente contro di noi, per infliggerci queste torture! « I maledetti! » grida il Vecchio, disperato, nascondendosi il viso nelle mani. Impotenti, assistiamo all'annientamento progressivo dei nostri compagni. L'indomani, sempre alla stessa ora, riappaiono alla sommità della massicciata. Delle grosse cimici che ondeggiano, avanzano nella neve, gli sportelli ermeticamente chiusi, la musica diffusa attraverso gli altoparlanti. Questa volta si dirigono verso il gruppo del soldato di marina. Ma lui, lui non vuole lasciarsi schiacciare e striscia in modo strano nella neve, come se nuotasse... « Deve ingoiarne della neve! » dice Porta con una certa ammirazione. « Come fa? » Il suo compagno, il grande secondo nostro siluratore, corre via in piedi, nella sua bella uniforme blu scuro: ma il T34 rosso sangue lo insegue, i cingoli lo afferrano, gli strappano le braccia, lo lanciano in aria, poi, quando ricade, il carro passa sul suo corpo ancora palpitante. Ma non vi è dunque un essere umano dentro quei mostri? Eppure devono sentirle come noi le grida! L'orribile bestia rossa vira sul posto; l'urlo diventa quasi inumano. Il secondo nostromo siluratore ora è morto. Per oggi è finita. All'estremo delle forze, con le gambe che non ci sorreggono più, ricadiamo nella nostra buca. Ma prima del tramonto, per la seconda volta nella stessa giornata, ritornano! E questa volta non può che toccare a noi. Il primo che schiacciano è il tenente di riserva, professore a Monaco. Con un movimento infantile di difesa, lo vediamo tendere il braccio avanti, ma le trenta tonnellate implacabili scendono lentamente sopra di lui.
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Si avvicina ora a noi. Il primo che salta fuori dalla buca è Porta, seguito dal gatto che miagola contro i T34 e sprofonda nella neve soffice. Preso dal panico Gregor fugge abbandonando le armi; il generale sembra riflettere qualche istante, poi scappa anche lui..- tutti scappano a testa bassa senza pensare che stiamo disertando! Sabotaggio agli ordini del Führer. Battersi fino all'ultimo uomo, all'ultima cartuccia! Dietro di noi arrivano alla carica i colossi, che afferrano quelli che scivolano sulla neve. Questa è la guerra. Quanta gente ha visto dei carri armati sfilare nelle parate! Ma questi stessi sanno cosa significa essere accucciati nella neve con un freddo mortale e vedere uccidere uno per uno i propri compagni? Più volte anche i mostri scivolano, ma riescono a liberarsi dalla stretta candida della neve, le fiamme dei tubi di scappamento sono come lingue di fuoco. Sono ormai a cinquecento metri da noi. Con il fiato mozzo, corro, corro come posso, cado, grido... Piango in preda a un terrore inaudito; quando respiro a fondo l'aria gelida penetra e provoca un dolore acutissimo, sembra che mi spezzi i polmoni; ho il sangue al naso che arrossa tutta la neve, cado dentro un cumulo che subito mi comprime e non mi lascia, come una mano di ferro... Dietro di me, questo orribile rumore del motore! Un carro di trenta tonnellate, è mai possibile che debba inseguire un uomo solo? La neve mi tiene strettamente avvinghiato e la morte è già sopra di me. Improvvisamente un pugno violento mi strappa dal torpore. « Allora, cretino? » tuona la voce di Fratellino, « ti vuoi sbrigare? »
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Porta ci supera barcollando, il gatto lo segue. Dietro di noi i T34... come mai non sparano? È strano. Devono aver deciso di schiacciarci. Come tortura è molto più raffinata. Arriviamo, non si sa come, a una gola molto stretta tra due alture; in una cavità del suolo dove erano ammucchiate montagne di rifiuti, evidentemente tutte le immondizie di Stalingrado. I carri devono averci abbandonato; svuotati di forze ci buttiamo per terra in mezzo a tutti questi innominabili detriti. « Letamaio militare », dice il piccolo legionario. « Ho già visto una cosa simile a Sidi-Bel-Abbès. » Non esiste una colonia francese dove l'eterno soldato, il caporale capo Alfred Kalb, non si sia battuto. Due volte al giorno si inginocchia con il viso rivolto alla Mecca e prega, perché crede tenacemente in Allah. È un soldato fanatico. Contro chi si debba battere per lui è assolutamente uguale, va là dove lo mandano, ma crede sempre di battersi per la Francia, anche qui a Stalingrado. Sostiene che in questo momento stiamo battendoci perché le vengano risparmiate le orde sovietiche. Il suo volto è orribile; oltre al grosso sfregio, ha dei tatuaggi dei Kabili e la bomba a sette picche della Legione incisa a fuoco nella pelle. Sta già pulendo la sua mitragliatrice mentre noi siamo ancora buttati a terra, indifferenti a tutto. « In piedi! » grida il generale. « E non illudetevi che la guerra sia finita! Sconterete più tardi la vostra fuga ignominiosa! » Si dimentica di aver tagliato la corda anche lui come noi, ma lui è un generale, è tutta un'altra cosa. I T34 sono scomparsi. La bufera attutisce il rumore dei motori già lontani. « Nei ranghi, destra! Sguardo davanti a voi! Il capo sezione in testa! »
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« Tutti questi ordini bisognerà dirli davanti alla fossa comune, coglione con le fasce bianche! » grida una voce. Livido, il generale entra nei ranghi e ordina che il colpevole si faccia avanti. Prende Fratellino per il collo. « Siete voi che avete gridato, cane! » urla appoggiandogli la canna della pistola sul ventre. « Confessate o sparo entro tre secondi... uno, due... » comincia a contare il folle. A questo punto esce dalla fila un sottufficiale di fanteria, la testa e il collo fasciati da una benda sporca e intrisa di sangue, l'uniforme a brandelli. Su una delle sue mani, la pelle non è che una sola profonda bruciatura. È il solo sopravvissuto di una sezione totalmente distrutta dai lanciafiamme russi. « Sono io che ho gridato, generale di brigata! E aggiungo, voi siete un assassino come tutti i generali di Stalingrado! » Con il dorso della mano, il folle colpisce la bocca del ferito; questi barcolla e cade cercando con la mano valida la sua pistola, ma qualche istante prima che sia riuscito a toglierla dalla fondina, la sua testa si schianta sotto i colpi di mitraglietta del generale. « Mi occuperò di voi più tardi », dice a Fratellino. « È già parecchio che mi infastidite, e per il momento vi consiglio di starvene tranquillo se non volete subire anche voi la stessa lezione di questo ribelle. Ora prendete con voi un volontario e tornate alla posizione per verificare se ci sono ancora dei sopravvissuti. Vi ricongiungerete con noi a Gumrak. E non pensate che mi accontenti di un rapporto falso. Vi tengo d'occhio. Filate! » « Vieni tu, come volontario con me », mi dice Fratellino. « No. Volontario è solo chi si dichiara tale. » « Allora ti ordino di dichiararti volontario e credo che
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non avrai nessuna voglia di essere impiccato per rifiuto d'obbedienza. » A grandi passi, quel mascalzone raggiunge il generale e gli dichiara che mi presento come volontario, ma me la pagherà, lo giuro! « Portatemi indietro il mio letto », ordina Porta. « È rimasto là dove eravamo interrati. L'ho dimenticato quando abbiamo tagliato la corda. » « Solo se mi fa comodo », risponde il gigante altero. « Voialtri berlinesi, avete il culo così alto che potete pisciare nelle buche delle lettere, ma qui bisogna ritornare per terra, Dio Santissimo! » « Non ti rendi conto che Berlino vuol dire Germania? Voi, voi siete rimasti proprio ancora all'era delle palafitte! Non avete neanche un teatro e vi permettete di sfotterci! » « Eh, no, questo poi non è vero! » grida Fratellino. « Come non abbiamo neanche un teatro! Ma se ci andavo proprio a alzare e abbassare le foreste di cartapesta! » « Peuh! Una birreria che puzza perché la gente ci va in zoccoli! Beh, pazienza, non stare a portarmi indietro il letto, tanto non ne saresti capace. » « Te lo farò vedere io, cane di Berlino! E tu », grida scuotendomi per le spalle, « in strada, coglione molle! Dobbiamo andare a prendere un letto. » Cammina così veloce che non riesco a stargli dietro, ma ogni volta che mi siedo perché un dolore al fianco mi attraversa da parte a parte, torna indietro e mi prende per il bavero minacciandomi di impiccagione. « Ti farò impiccare, maiale! Capito, stupido di uno svedese? » Nel suo cervello ignorante svedese o danese è la stessa cosa. Naviga in una nebbia di alcool dalla nascita. Non vi è rimasto nulla di vivo nella postazione. Solo
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dei mucchietti intrisi di sangue. I T34 non hanno mancato un solo uomo e hanno distrutto anche il rifugio. Il famoso letto è in pezzi, ma Fratellino, coscienzioso, li raccoglie tutti con cura. Lo guardo con furore! È completamente ubriaco. Ecco che una mitragliatrice comincia a crepitare. Del tutto indifferente ai proiettili che sibilano vicino alle sue orecchie, ingiuria la mitragliatrice con tutti gli epiteti che conosce. Il tiratore l'ha sentito? Sarà un caso, ma il tiro cessa. Poi si accende un grosso proiettore che inonda di luce il gigante che sta ramazzando i pezzi del baldacchino. Sentiamo i Russi che gridano delle parole incomprensibili insieme a degli enormi scoppi di risa. Mi butto subito per terra, coprendo tutto il mondo delle mie maledizioni. « Spegnete quella maledetta lampada, cani rossi! » urla Fratellino. « Non vedete che mi accecate con quella stramaledetta luce! » Nuove risate dei Russi che spengono il proiettore. Esco barcollando dalla buca e scappiamo via prima che le cose si mettano male sul serio. I pezzi del letto sono al completo e ritroviamo il nostro gruppo di combattimento a Gumrak. « Tieni! » dice il gigante. « Ecco il tuo letto buono per le puttane! Ti faccio notare che sono stato in pericolo di vita a causa di questo maledetto letto. Gli Ivan mi hanno illuminato con una grossa lanterna, ma devono aver avuto una paura bestiale di me, quando mi sono messo a urlare. Mi conoscono ormai quelli là, vero Sven? »
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L'SS Brigadenführer Paul Augsberg, si recò dal generale d'armata Paulus, al quartier generale insediato nell'edificio che prima ospitava la GPU. « Signor generale », disse in tono molto asciutto l'ufficiale SS. « È assolutamente necessario preordinare uno sfondamento nelle linee russe. Continuare a combattere in questa situazione è pura follia. Prendo personalmente la totale responsabilità di effettuare la sortita alla testa di un gruppo di carri armati, e possiamo contare su un numero sufficiente di batterie di artiglieria pesante, per garantirci di riuscire a rompere l'accerchiamento. La zona di Kaslonowska sarebbe la più idonea: in quel punto le batterie nemiche sono molto distanziate. Abbiamo così buone probabilità di poter penetrare. » « Sono dolente, generale Augsberg », rispose sorridendo il generale Paulus, « ma è assolutamente impossibile. Il Führer ha proibito qualsiasi iniziativa di penetrazione ». « Allora capitolate, che diamine! » « Generale Augsberg, anche questo è altrettanto impossibile. Il Führer ha proibito qualsiasi capitolazione. » L'SS si chinò in avanti sul tavolo, fissando da vicino il generale, e i suoi occhi mandavano lampi. « Avete dunque deciso di esasperare all'estremo lo stato d'animo dei soldati? Fino al punto da puntare le armi contro i loro stessi capi? » « Non temete, non si arriverà mai a tanto, Augsberg. I soldati tedeschi non si ribellano mai, obbediscono. Tutta la nostra alta civiltà germanica è basata su una obbedienza cieca, e proprio questa disciplina ci porterà alla vittoria, anche se, per il momento, la situazione sembra estremamente sfavorevole. Non perdete coraggio, dunque. Noi tedeschi non facciamo mai una cosa a metà. » « Senza dubbio », mormorò il generale SS. « La disfatta che stiamo per subire qui a Stalingrado non potrà mai essere paragonata ad altra. »
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Senza tendere la mano al suo superiore, lasciò l'ufficio del generale e percorse rapidamente gli ampi corridoi della GPU. Edificio sinistro, dove centinaia di feriti, ancora sanguinanti, e abbandonati per terra stavano morendo senza alcuna assistenza. Si fermò qualche istante nel grande cortile interno, illuminato da proiettori, e guardò sconvolto il muro di cadaveri congelati, ammucchiati l'uno sull'altro come una barricata, tutto intorno al quartier generale. Proseguì attraverso il sotterraneo adiacente al teatro, gremito di moribondi, qualcuno ancora steso sul lettino operatorio e abbandonato dai chirurghi. Dappertutto giacevano membra amputate. In un angolo stava il generale von Daniels, inebetito, gli occhi pieni di lacrime. La sua divisione, la centosettantaseiesima di fanteria, era stata completamente distrutta; non uno dei diciassettemila uomini era sfuggito alla morte, ed egli piangeva sulla fine di tutti i suoi soldati e di tutte le sue illusioni. Augsberg lo fissò qualche minuto senza dire una sola parola, poi si allontanò. Incontrò degli ufficiali che camminavano furtivamente con dei sacchi sulle spalle lungo i muri, come ladri. Erano gli stessi ufficiali che avevano costretto le loro truppe a combattere fino all'ultimo; si erano rifiutati di retrocedere di un solo passo anche in condizioni disperate, e avevano perfino mandato gli uomini della polizia militare nelle infermerie, perché obbligassero i feriti a riprendere il combattimento. Ora stavano fuggendo verso le retrovie, tentando di attraversare il fiume ghiacciato, lontano dalle battaglie perdute, e dalle montagne di cadaveri. L'SS attraversò delle rovine annerite dal fumo; ancora cadaveri, montagne di cadaveri, ma a un tratto, in mezzo a questa città morta, si udirono delle voci, dei passi stentati. Una colonna di soldati, cenciosi, sfiniti, passava davanti a lui in fila indiana, in cammino verso non si sapeva quale linea di combattimento. Andavano a buttarsi nella neve e a
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sparare a caso, senza nemmeno sapere su che cosa. Il mattino seguente il generale Augsberg ritornò al suo battaglione accantonato nella fortezza. Il suo volto era di pietra e le labbra erano serrate in un'espressione amara e brutale, ma risoluta. Gettò davanti a noi un sacco di viveri poi, senza una parola, si sedette su una panca, vuotò le tasche di tutti i documenti, li accartocciò e li bruciò.
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LA RITIRATA « DUNQUE », dice Augsberg, in un tono che non ammette repliche. « Ho intenzione di farvi uscire da questo inferno. Voi siete liberi di seguirmi o di rimanere. Non porteremo con noi che le munizioni e le armi. Vi sciolgo dal giuramento alla bandiera, e se voi volete seguirmi, fatelo in piena coscienza perché non posso promettervi nulla. Ma se decidete di rimanere qui, marcirete in una prigione russa, e voi sapete come i Russi trattano i prigionieri. Nel caso riuscissimo nella nostra impresa, qualcuno di voi avrà certamente la fortuna di raggiungere le linee tedesche, dall'altra parte del Don. All'incirca centoventi chilometri da qui, due o tre giorni di marcia forzata, ma sarà molto duro, non illudetevi. Una marcia forse anche verso la morte. Solo i più forti tra di voi avranno la fortuna di uscire vivi. Questo è tutto quello che ho da dirvi. » Fa dietro-front e si incammina sotto il sole verso ovest. Il Vecchio si alza per primo e, ciondolandosi sulle sue lunghe gambe, segue il generale. Uno dopo l'altro ci alziamo tutti lentamente. Formiamo così una colonna abbastanza lunga, circa ottocento uniformi grigio ferro, delle armi più disparate, compresi due aviatori il cui Condor è stato abbattuto. Hanno ancora indossò la loro splendida uniforme di pelliccia e le basse soprascarpe di foca. Dietro a me cammina il fuciliere di marina; dell'intera uniforme, la sola cosa che gli resta di tedesco è il berretto dai nastri che svolazzano al vento; tutto il resto è russo, tolto a un cadavere. Porto la mitragliatrice sulla spalla, ma il treppiede mi preme sulla schiena e con un calcio lo butto nella neve. « Che assurdità », commenta il legionario, « di quel-
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l'aggeggio ne avrai bisogno fra un po', te lo dico io; peggio per te ». Eccoci in cammino. Per due volte passiamo le anse del fiume Karpowka e raggiungiamo l'autostrada Stalingrado-Kalatsch. Lunghe colonne di T54 sono in marcia per Stalingrado; un treno blindato distrutto è fermo sui binari, alcuni vagoni deragliati sono sparpagliati intorno, la locomotiva è in verticale in mezzo a un campo. Augsberg alza la mano, è il segno convenuto per mimetizzarci. « Aiutante », dice al Vecchio, « prendete il vostro gruppo d'assalto di destra e scattate per primo oltre la strada. Se sarà necessario, mentre la colonna passerà, ci coprirete con il vostro fuoco. Direzione Jlarionowskji dove dovrà avvenire il raggruppamento. » « Seguitemi », ci ordina il Vecchio. Con il fiato mozzo, corriamo avanti nella pianura. Cado a terra due volte e vorrei tanto rimanervi. Dormire! Ho un solo desiderio in questo momento, dormire. Sono stanco e non ne posso più. Ma brutalmente il legionario mi spinge avanti. È veramente infaticabile, temprato da tutti i combattimenti nel deserto, e le mie lacrime, il mio furore, la mia disperazione, lo lasciano perfettamente indifferente. Seguiamo un percorso fiancheggiato, ai due lati, da una serie di camion rovesciati, dai quali volano lontano orrendi corvi. Nell'interno dei veicoli, dei cadaveri congelati. Sono delle ambulanze tedesche mitragliate da mezzi blindati russi. Alcuni cadaveri hanno il cranio sfondato. Sappiamo bene cosa significhi questo. Il cervello è stato estratto dai compagni, che altrimenti sarebbero morti di fame, quando la razione giornaliera era stata ridotta a quattro piselli conservati e due grammi di pane per ciascuno. Un medico ci aveva detto che un cervello umano è incredibil-
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mente nutriente, ma Fratellino che ne aveva assaggiato, era stato costretto a vomitare immediatamente il cervello di un colonnello, principe di sangue, oltretutto! Era meno orribile mangiare carne di topo, a condizione di trovare del sale da strofinarvi sopra. Porta sosteneva che assomigliava come gusto al maialino da latte, e in ogni caso era decisamente meglio della talpa e del cane, essendo molto più grasso! E aveva ragione... Come si sia finalmente arrivati a Jlarionowskji, non lo ricordo assolutamente. Per molte ore ancora, siamo costretti a proseguire oltre il villaggio, tra carri armati russi abbandonati; di tanto in tanto Augsberg si siede sfinito su qualche scarpata coperta di neve e guarda fìsso verso ovest, muto, là dove le colline della valle del Don dovrebbero finalmente apparire. « Bisogna prendere come direzione il villaggio di Peskowatka, ora », spiega il generale al Vecchio, « poi tutto diritto verso l'ansa del Don, dove penso si trovi in questo momento il fronte tedesco, ma l'attraversamento del fiume, questo proprio temo sia difficile e estremamente rischioso. » La lunga pianura sembra a tutti interminabile. Sopra di noi il cielo di un azzurro scintillante e gelido, e tutto intorno la neve, nient'altro che la neve che brilla come cristallo. Non un albero, non un cespuglio nemmeno un solo filo d'erba. Gli occhi cominciano a dolermi come fossero colpiti dalla lama di un coltello, non vedo quasi più nulla, il riflesso della neve mi acceca, barcollo, mi sfrego gli occhi con questa neve che brucia. Degli stivali neri camminano davanti a me; ma comincio a temere che sarò fra quelli che cadranno come addormentati tra il Volga e il Don. Il Don! Che bel nome, così breve, così dolce... Ma il Don invece è un fiume russo spietato, che emana
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durante l'inverno un'umidità gelida e durante l'estate un vapore pestilenziale. In Russia, è la natura il nemico più temibile. Non vi può essere che la morte per chi non è in grado di lottare contro questa implacabile natura russa. Il soldato russo nasce con gli sci ai piedi, e con gli stivali ricoperti di pelo, ma noi! Noi, soldati di Hitler, cosa possiamo fare in questo paese terribile? Vengo sollevato da terra da un gesto brusco. Il Vecchio e Fratellino si chinano su di me. « Cos'hai, Sven? » mi chiede il Vecchio con calma. « È questa neve che mi rende folle. Ho un tal male agli occhi! Perché questa neve è così bianca? » « Che colore vuoi che abbia? Hai mai visto della neve nera? » Mi aiutano a rimettermi in piedi e Porta mi tende la borraccia. Bevo una sorsata, e la mitragliatrice mi sembra più leggera, grazie alla vodka; quando si conosce a fondo l'inverno russo e la sua estate torrida, come si capisce questo bisogno e questo amore per la vodka! Un villaggio di capanne in rovina. Il legionario e qualche altro vengono inviati in avanscoperta, mentre noi ci sdraiamo nella neve. Come sarebbe utile adesso il treppiede della mitragliatrice, aveva ragione il legionario! Mezz'ora dopo questi riappare e ci fa segno da lontano che possiamo avvicinarci. Il villaggio è stato abbandonato in fretta e furia da tutti i suoi abitanti, salvo uno, un gatto bianco che miagola per la fame; il gatto di Porta immediatamente gli salta sopra per ucciderlo e mangiarlo. La guerra è guerra anche per loro. Nelle capanne deserte, dei giochi abbandonati per terra, una macchina dei pompieri di piombo, una bambola; e in una stalla cinque cadaveri uccisi con un colpo alla nuca. « Nagan », constata Porta con aria autorevole. « I
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compagni dell'NKVD, evidentemente sono appena passati di qui. » In una cantina un'intera famiglia è impiccata al soffitto e dobbiamo farci largo in mezzo ai cadaveri per vedere di scovare qualche cosa da mangiare. Gli impiccati non ci interessano, siamo ormai insensibili a queste cose. Porta trova un recipiente che annusa prima con diffidenza, poi più convinto, ne fa colare qualche goccia in bocca, rutta con soddisfazione e tende il recipiente a Heide; questi ne beve una sorsata, tossisce, si sente soffocare, e diventa paonazzo. « Che torcia! » balbetta, riprendendo fiato. « Che torcia! Me la sento bruciare fino dentro il culo! » « È fuoco puro! » geme il Vecchio, « cosa diavolo può essere? » « Samorchonka », sghignazza Porta. « Il liquore di Stalin per i guerrieri stanchi. Due fustini bastano per una compagnia, e dopo che l'hanno bevuto, si buttano addosso ai carri prendendoli a pugni. Dunque, la samorchonka si fa con i seguenti ingredienti: grano, barbabietole e patate... » « Quali barbabietole? » chiede il Vecchio. « Ce ne sono di tanti tipi. » « E il tuo cervello è uno di quelli », grugnisce Porta di pessimo umore. « Dunque, si buttano tutti gli ingredienti in una botte, e vi si lasciano per un mese .1 fermentare; la schiuma la si dà ai maiali, la cui carne diventa tenera con un gusto lievemente piccante. La samorchonka è l'arma segreta di Stalin. I cristiani possiedono tre cose che danno loro coraggio, dicono i missionari: l'amore, la fede e la speranza. Suona bene come frase ma non funziona qui da Ivan. I rossi pisciano sulla fede, la speranza e l'amore e spediscono i missionari nelle miniere di piombo dove possono continuare a
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sperare. Al posto di queste tre cose, Stalin ha inventato la samorchonka per dare vitalità e coraggio. D'altra parte, Giuseppe è un nome ebreo: è una garanzia di astuzia. » « Allora, Giuseppe Porta, mi vergogno di te », grida Heide. « Non sai che il Führer ha ordinato che tutti i nomi ebrei devono essere cambiati? » « Il nome solo non fa l'ebreo », garantisce Gregor prendendosi un'altra sorsata. « Giuseppe Stalin mica ama di più gli ebrei di Giuseppe Goebbels a Berlino, ma ha una sua maniera particolare per eliminare i non ariani. Gli ebrei di Stalin sono della carne da cannone; quelli di Adolfo del bestiame, molto meno astuto come concetto. Nessuno qui nell'Est può soffrire gli ebrei. Vi ricordare quel polacco che aveva messo alla catena un ebreo nel suo campo, al posto di un cane da guardia? I sovietici li detestano ancora più di noi. » « Allora perché diavolo ci battiamo contro di loro? » grida Heide con furore, « dal momento che siamo d'accordo nel sopprimere tutti quei disgraziati? » « Noialtri tedeschi non capiamo mai un bel niente », interviene il Vecchio, dando una boccata alla sua vecchia pipa. « Abbiamo reso un bel servizio a Stalin; il mondo intero parla di quelli di Stalin che devono esina nessuno parla di quelli di Stalin che devono essere altrettanto spaventosi dei nostri. I tedeschi sono degli imbecilli con la loro mania di fare tutte le loro cose fino in fondo. Nessuna immaginazione, mai, è per questo che perderemo questa guerra come abbiamo perso tutte le altre, perché abbiamo il dono di rendere complicato tutto quello che è semplice. Cosa fanno i Russi per sbarazzarsi degli ebrei? Li spediscono tutti con i loro nasi a uncino nei ' commandos ' della morte. Niente assassinü come da noi, ma la morte degli eroi. Una bella
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trovata. » « Discorso antinazi! » urla Heide che è completamente ubriaco. « Aiutante capo Beier, vi farò arrestare dalla gendarmeria. » Perde l'equilibrio e cade pesantemente sulla stufa: « Aiuto! Son ferito. Ambulanza! » « Letamaio! » grugnisce Fratellino, pisciando su di lui. « Grazie, camerata », geme Heide, « hai fatto bene a portarmi sotto la pioggia, schiarisce le idee. » E si addormenta con un berretto russo sul naso. Abbiamo completamente dimenticato dove ci troviamo e perché. Siamo ancora dietro le linee russe e molto all'interno, anche. Abbandonati da tutti. Nessun esploratore del polo deve essersi mai sentito più isolato di noi. Verso l'alba siamo svegliati dai canti stonati di Porta, e da quelli ancora più stonati di Fratellino. Ma, improvvisamente, la porta si apre con un calcio, e chi vediamo inquadrato nel vano? Il generale SS seguito da un medico in seconda. « Non avete certo l'aria di esservi annoiati! » dice con aria brusca, dietro il suo monocolo che luccica come un occhio malvagio. « Non vi presentate, aiutante capo? » Il Vecchio si rimette in piedi con fatica, si abbottona il cappotto di traverso e butta il suo fucile sulla spalla con un gesto decisamente malsicuro. « Signor generale », balbetta, « aiutante capo Willie Beier, sempre qui pronto con tutti i suoi ragazzotti per la guerra, va bene? » « Maiale! » grida il generale che afferra il Vecchio per il bavero e lo butta fuori dalla capanna. Porta si eclissa a tutta velocità, Fratellino e il legionario si mettono al riparo dietro la stufa, Gregor e io più lenti atterriamo nella neve di fianco al Vecchio.
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« Questo capo SS proprio non è distinto », commenta con un singhiozzo Ü Vecchio, che questa volta è veramente ubriaco fradicio. Finalmente siamo tutti pronti a partire, ma non certo prima di aver ricevuto una strapazzata molto pesante dal nostro generale. « Perché poi ce l'ha con noi? » si chiede ingenuamente Fratellino. « Siamo così bravi. Ci ha anche sciolto dal nostro giuramento alla bandiera. Non arriverebbe mai da Hitler senza di noi, del resto! » « Fucile sulla spalla », comanda secco il generale; « in colonna dietro di me. » Solo la metà della lunga colonna possiede degli stivali adatti alla neve, qualche soldato ha degli sci, tra i quali Porta, naturalmente. È lui che arriva per primo al Don e lo vediamo scendere veloce verso di noi in una nuvola di scintillante neve. « Il Don! » urla. « Ma nemmeno un prussiano in vista! » Il generale si ferma, si guarda intorno a lungo con il binocolo ma anche lui non vede nessuno. Neve, solo neve. Cupo, si morde le labbra. Dove erano allora il tuono dei cannoni e il fragore della battaglia? Qui, vi è solo un silenzio assoluto. Solo la bufera di Kasak-stan che sibila passando sopra il fiume gelato. Non c'è più il fronte, non c'è più nemmeno un razzo per illuminare questo deserto abbagliante che ci rende ciechi. Qui vi è un solo nemico: l'inverno russo inesorabile e spietato. Il generale dà un'occhiata alle sue spalle verso la lunga colonna grigia, muta e disperata; gli uomini si lasciano cadere nella neve. Che delusione disastrosa e opprimente! Dove si trovano i nostri? Non sono più sul Don, come tutti ci avevano assicurato? Ecco un P4, quasi interamente ricoperto di neve, ab-
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bandonato dall'armata blindata di Mannstein, che sarebbe dovuto venire in soccorso a Natale. Qualche scatola di conserva; i cannoni sono intatti. Nel posto destinato al comandante, i documenti di bordo. Il carro appartiene alla ventitreesima divisione Panzer. « Lo faremo spedire a Torgau », dice Heide, cacciandosi in tasca i documenti. « Se solo avessimo un pezzo di cingolo », mormora Porta, esaminando il carro con estrema cura. « Non capisco perché l'abbiano abbandonato! Parrebbe in buono stato, salvo il cingolo. » La sezione pionieri (del genio guastatori), fatta chiamare dal generale, arriva di corsa agli ordini di un giovane tenente del genio. Dopo otto ore di lavoro riescono a riparare il cingolo spezzato; Porta si arrampica al posto di guida, ma il motore non ha abbastanza gas per uscire dal cumulo di neve in cui era adagiato. Tutti si mettono a spingere il grosso veicolo, e lentamente il carro riesce a uscire dal pantano ghiacciato. Per prudenza vengono staccati dai cingoli in cui sono incastrati dei bossoli di granata. Il generale fa passare il P4 in testa alla colonna. « Dottor Heim », dice al medico, « dovete assumervi la responsabilità che nessun uomo ancora valido salga sul carro. Quelli che possono camminare e si rifiutano di farlo, non hanno che da rimanere sul posto. Aiutante capo Beier, prendete il comando del carro e a chiunque cerchi di montarvi sopra senza autorizzazione del medico, sparate. Il caporale Porta sarà l'autista, il sergente Heide, tiratore di testa e radiotelegrafista, sergente Gregor Martin, tiratore di torretta. » Cercò con gli occhi il maresciallo d'alloggio d'artiglieria dai piedi sanguinanti: « Voi, ve ne intendete di cannoni di carro armato? Bene, il cannone vi compete, salite ».
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« Sì, signor generale », dice con sollievo il maresciallo d'alloggio, finalmente esentato dal dover camminare a piedi. I suoi piedi infatti sono una massa sanguinante; gli ultimi venti chilometri li ha percorsi con due fucili adoperati come stampelle. Ci dirigiamo scivolando pericolosamente verso il fiume ghiacciato. Il carro rischia di capovolgersi derapando sul ghiaccio. Che terrore! E se i cingoli si spezzano di nuovo? Ma Porta è un esperto e sa manovrare un meccanismo di questo tipo veramente come nessun altro; speriamo solo che il ghiaccio tenga sotto il peso di tre tonnellate di acciaio, perché sappiamo che il Don non è mai gelato completamente. Sentiamo la corrente che passa sotto la crosta ghiacciata. Tutti sono scesi a terra salvo Porta, e dall'altra riva guardiamo con enorme ansietà il grosso carro che procede zigzagando sulla superficie ruvida del fiume. Viene avanti molto lentamente, si impenna sopra enormi blocchi di ghiaccio, ripiomba in una pioggia di cristalli e raggiunge finalmente l'altra riva. I miei occhi mi fanno sempre più male, nonostante le gocce messemi dal medico. Se solo avessimo con noi qualche cacciatore alpino! L'Alto Comando tedesco non ha previsto degli occhiali da neve per la fanteria bassa. « La più splendida banda di idioti che abbia mai dichiarato una guerra! » aveva detto qualche giorno prima il Vecchio, e il Vecchio non dice mai una cosa senza senso. « Ci hanno mandato in Russia quasi senza equipaggiamento. Per dieci anni gli ufficiali tedeschi sono stati istruttori della Scuola di Guerra russa e hanno collaborato allo studio dell'equipaggiamento invernale dell'armata russa. Ma noi, noi ci mandano qui proprio sen-
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za niente! » Al termine di sei ore di marcia, gli uomini si lasciano cadere per terra per un riposo di mezz'ora. « Fai attenzione al tuo LMG », mi avverte Fratellino, guardandomi buttare l'arma sulla neve. « Può succedere che noi si abbia bisogno di adoperarlo più presto di quanto non si creda. Hai dell'olio antigelo? Il legionario ne ha più di un litro, l'ho visto quando abbiamo fatto uscire il P4 dal mucchio di neve. » « Non me ne darà mai neanche una goccia quello! » rispondo troppo stanco per lottare. « Vado io », dichiara il gigante che torna dopo pochi minuti. « Bisogna proprio essere svitati! Me ne ha dato un bel po' senza nemmeno protestare e gratis anche, e sì che mi avevano detto che i Francesi non danno mai niente per niente... » Si arrestò bruscamente e tese l'orecchio. « Un aereo! » grida, guardando il cielo senza una nuvola, « uno dei nostri! Un Focke Wulf ». Gregor afferra un razzo e lo lancia verso l'aereo. L'apparecchio vira, ritorna sopra di noi all'altezza di duecento metri; l'equipaggio ci fa dei segnali, e si vedono distintamente le grandi croci uncinate nere sulle ali del velivolo... Balliamo di gioia! Avrebbe atterrato? Ma il pilota non pensava affatto di atterrare. Un elmetto di acciaio cade a terra dall'aereo, un soldati coperto da una pelliccia fa ancora altri segnali, poi tutto scompare all'orizzonte. Nell'interno dell'elmetto vi era questo messaggio: « Camerati, torneremo indietro. Quando ci sentirete arrivare, mettetevi a croce o lanciate due proiettili traccianti rossi ». « Vengono a prenderci! » grida di gioia Gregor. « Quattro JU52 con gli sci d'atterraggio e tutti decolliamo a casa! » « Impossibile », dichiara uno dei nostri aviatori; « si
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riesce forse ad atterrare qui, con un apparecchio vuoto, a rigore. Ma ripartire carichi, non è assolutamente possibile. » « È vero », dice il Vecchio, « non abbiamo che una sola possibilità per potercela cavare: camminare. Il Don è stata'una delusione ma al prossimo fiume ritroveremo i nostri. » « E qual è il prossimo fiume? » chiede ridendo Porta. « Il Reno, magari? A dieci minuti da qui, vero? Io ho un soffio al cuore e una sclerosi epatica dalla tenera età di sei anni, come vuoi che riesca a trottare fino al Reno? Ah! Giusto, il mio soffio al cuore! » geme improvvisamente, premendo la mano sul lato destro del petto, prima di lasciarsi cadere nella neve. « Cos'ha? » chiede il medico, correndo pronto alle grida pietose di Porta. « Crisi di cuore », risponde Fratellino, « il signor dottore non avrebbe per caso un po' di alcool? Di solito giova molto ». « Simulazione? » chiede il medico guardando con aria diffidente Porta che finge di soffocare. Il poveretto ne sapeva poco: era venuto direttamente dalla Scuola di medicina di Graz, e Stalingrado era una esperienza abbastanza rude per lui. Ma il generale e il tenente del genio che si erano avvicinati, si limitano a dare una semplice occhiata in silenzio. « Allora, in piedi! » comanda il generale. « Basta con queste storie! » « Vodka! » geme Porta. Il tenente gli tende la sua borraccia sorridendo. « Grazie, signor tenente, mi avete salvato la vita, chiederò ad Adolfo che vi dia la medaglia al valore per salvataggio! » I due ufficiali se ne vanno ma il dottore continua a
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non capire: « Forse voi dovreste essere smobilitato », dice con enorme ingenuità. Porta non lo contraddice. In attesa dell'aereo, ci prepariamo a passare la notte. In lontananza sentiamo dei minacciosi rumori di grossi motori. « Camion pesanti », dice il legionario. « Se potessimo prenderne qualcuno con il nostro carro armato, arriveremmo presto alle nostre linee. » Porta lo guarda con ironia. « Allora, ti do un consiglio. Metti un annuncio economico sulla Stella Rossa. Era quello che si faceva sempre a Berlino quando si aveva bisogno di qualche cosa. » Verso est, il cielo è rosso viola: è Stalingrado che continua a bruciare. Verso nord, degli enormi lampi rischiarano a tratti l'orizzonte. « Artiglieria », dice Heide, forte della sua esperienza. « Ma è impossibile! » replica il legionario, « non c'è più nessuno che combatte laggiù! » « Allora, pazienza. Giochiamo a carte! » « Fareste meglio a dormire », dichiara il tenente del genio, avvicinandosi. Ma eccoci presi come sempre dal demone del gioco. Impossibile sottrarsi, e tutti mettono la propria firma sul libro nero di Porta che consente dei prestiti, a un tasso sempre più esorbitante. Così, il mattino dopo ci presentiamo per la partenza, sfiniti, con gli occhi brucianti, e di pessimo umore. « Prendete le vostre armi! » comanda il tenente brusco. « Avanti! Il P4 in testa. » Porta passa con fierezza davanti a noi e saluta con la sua tuba gialla mezza fuori dalla torretta.
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« Credete che la Germania sia ancora molto lontana? » chiede Fratellino che comincia anche lui, il gigante infaticabile, a non poterne più. « Lontana? » fa Gregor. « Così lontana che il solo pensarci ti stronca. » Un brontolio profondo e melodioso gli risponde. L'aereo! Viene immediatamente lanciato il razzo rosso, e l'apparecchio, un HE111, vira; gli sportelli sono aperti, sotto le ali sono sospesi dei grossi contenitori di viveri in juta; i paracadute si aprono. Chi sente più la fatica! Corriamo come pazzi nella pianura per recuperare i preziosi colli... delle salsicce, del montone affumicato, degli enormi prosciutti, del pane, pane nero militare, delle sardine! Le baionette sono già pronte come forchette. Ma il generale già ordina che tutto venga raccolto e razionato, quando il Vecchio gli tende un messaggio trovato in uno dei sacchi: « A sette chilometri a nord ovest della strada ferrata Nich-Tschirskaia-Thernys, forte concentrazione di cavalleria. Avanzate con molta precauzione. La strada Kamensky-Stalingrado occupata. Ponti sorvegliati da carri armati. Formazioni pesanti avanzano da ovest verso sud. Kalitwa occupata dal nemico. Ponti impossibili a forzare senza l'appoggio di armamenti pesanti. Violenti combattimenti presso Aidar. Delle unità di caccia operano sulla pianura. Sezione nemica più vicina, trenta chilometri a nord. Terminato ». « Cretini! » impreca il generale Augsberg; « nemmeno una parola sulle posizioni dei mezzi corazzati tedeschi. Dove si trovano i Russi, l'avremmo scoperto fin troppo presto anche noi! » E tende un pugno in direzione dell'aereo che si allontana. Mi accorgo che il Vecchio è come rattrappito, perduto, con gli occhi fissi all'orizzonte.
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« Moriremo tutti uno sopra l'altro », dice con voce rauca. « Ci hanno ormai cancellati dall'armata. Questo è senza alcun dubbio il nostro ultimo vettovagliamento. » Il generale si butta sulle spalle il suo fucile mitragliatore e alza il pugno chiuso: « Gruppo di combattimento, in marcia! » E la ritirata continua. Il freddo morde i nostri volti rattrappiti e penetra fino alle ossa. Delle nuvole nere si raccolgono sopra le nostre teste, minacciose, il vento riprende a soffiare di nuovo; viene da est, come se volesse scacciarci dalle steppe, dalle terre della Russia dove noi non dobbiamo più rimanere. È un vento che taglia la nostra carne come una lama, e rende la terra dura come il marmo. A un tratto vediamo apparire una colonna di vettovagliamenti tirata da due cavalli; i soldati del convoglio si buttano a terra, o in postazione nel fossato della carreggiata. Il nostro carro armato vira e si nasconde dietro un muro di neve; se viene scoperto, avremo un reggimento di mezzi blindati russi alle nostre calcagna! « Stoi! » gridano i Russi. « Idi soda! (venite qua!) » Superato il primo istante di paura, prendono coraggio, e mettono la baionetta in canna; questo incontro col nemico è evidentemente una grande occasione! Non è cosa di tutti i giorni che un soldato di un convoglio possa giocare a fare l'eroe. Un alto ufficiale esce dalla linea di tiratori e cammina verso di noi, con la rivoltella puntata. « Rukì werch! Ruki werch! (mani in alto!) » « Che il diavolo ti porti! » grugnisce Fratellino alzando la sua arma scaricandola addosso a lui. Il russo crolla schiantato e i suoi uomini arretrano di botto. Noi saltiamo dentro a un grosso cumulo di neve
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e la mitragliatrice crepita. I Russi ritornano correndo verso la strada, ma molti di essi restano uccisi, dei piccoli mucchietti marrone che giacciono sulla neve. Porta è dietro al carro, armato di un fucile a binocolo che maneggia come un asso; un fucile a proiettili esplosivi. Un solo proiettile sfiora la spalla e tutto il braccio viene stroncato... Stalin non si preoccupa certo delle convenzioni internazionali. Un commissario, con una frusta in mano, rispedisce gli uomini all'attacco, e il terrore per il commissario equivale a quello che noi ispiriamo loro. « Coprimi! » grida un guastatore lanciafiamme, alzandosi. Una lunga e atroce fiamma si allunga verso i Russi. Il guastatore ride con crudeltà, e pompa una seconda carica di petrolio nella riserva della sua arma. Nessuno ama i guastatori lanciafiamme, i carnefici della guerra, ma quando la situazione è così disperata, è certo meglio averli con sé. Anche quando eravamo in guarnigione, nessuno di noi andava mai nei loro baraccamenti. Sono tutti professionisti e non ho mai visto sorridere un guastatore lanciafiamme; né mai una ragazza ballare con uno di loro. I contrassegni neri e gialli della divisa facevano inorridire tutti. Il guastatore mi fa un cenno con le due dita sul berretto e corre avanti a carbonizzare altre vittime. Improvvisamente, l'attacco cede, poi si arresta; il silenzio ripiomba sulla steppa; sulla strada, i cavalli scalpitano nella neve, lentamente la notte avvolge tutti i villaggi del Don. Il generale Augsberg si butta sfinito per terra vicino a noi e le sue labbra semi congelate sanguinano. « Alle ventitré, si riprende la marcia. Direzione ovest. Raggruppamento a Tschir. Sono solo sessanta chilo-
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metri. » « Cosa? » mi dico. E perché non a New York? Ma non ci arriveremo mai! Nuovo attacco; il commissario russo urla di furore; il mio LMG crepita e maledico il momento in cui ho buttato via il treppiede, perché senza il suo appoggio l'arma è molto difficile da tenere nella mano. Fratellino furibondo me la strappa di mano, io tiro sempre troppo corto. Arrotola la correggia intorno al collo e senza preoccuparsi della mitraglia nemica si alza in piedi sparando appoggiato all'anca. Ubriaco di sangue omicida, grida. Il nastro è presto esaurito. « Munizioni cretino! » Rotolo nella neve, trovo la cassa di munizioni, la porto via con me, ma preso dal panico maneggio malamente il caricatore. Fratellino mi caccia indietro brutalmente; lui, lui non conosce la paura. Una cosa sciocca la paura! L'attaccò si attenua un poco, i Russi si trincerano, e due fanti sconosciuti che trascinano una mitragliatrice si mettono in posizione vicino a noi. Sono dei vecchi soldati pieni d'esperienza; erano stati a Mosca. Da lontano si sentono delle grida: « Infermiere, infermiere! » Il dottore arriva di corsa trafelato con il suo grosso sacco di medicazioni sulle spalle. Dappertutto delle grida e dei lamenti strazianti, ma nessuno può far nulla per nessuno. Anche i feriti russi sanguinano spaventosamente sulla steppa coperta di neve. Il fuciliere di marina ha ricevuto una raffica al braccio e conficchiamo un pacchetto intero di garza nella ferita, cosa che evidentemente deve fargli molto male, e si lamenta infatti; ma il legionario mi dà un'occhiata; il bordo della ferita è già violaceo. Sarà necessario amputarlo? « Sei fortunato che non è stato un proiettile trac-
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ciante, ma invece uno dei soliti proiettili ormai fuori moda », gli dice Porta, per consolarlo. « Altrimenti, non avresti più il braccio. » Lungo tutta la posizione corre l'ordine del generale: « Raggruppamento a Tschir. » « Cos'è Tschir? » chiede Fratellino. « Un fiume », risponde il Vecchio, con aria stanca, « in Russia si cammina di fiume in fiume, e ce ne sono molti ». Restiamo in silenzio, lo sguardo perduto e spento; un freddo pazzesco ci penetra fino alle ossa; delle nuvole corrono davanti alla luna, la notte si rischiara lievemente per il riflesso della neve. Per fuggire, come noi dobbiamo fare, è quello che ci vuole. Da lontano, sentiamo uno strano ululato. « I lupi », mormora il fante della SMG. Sentiamo sulla strada i cavalli che nitriscono spaventati; hanno ugualmente paura dei lupi come degli uomini. E proprio in questo momento, un razzo parte in direzione del cielo. « Arrivano dalla strada! » si sente gridare dall'altra parte della posizione. « Abbandonate le armi pesanti », comanda un sergente di artiglieria. « Voi due, coprite la ritirata », dice a Fratellino e a me. E corre via con la SMG. Guardo l'orologio con angoscia. I secondi passano... Mancano ancora dieci minuti. « Adesso filiamo anche noi », dice Fratellino. « Si sono dimenticati di dirci grazie. Meglio un vigliacco vivo che un eroe morto! » Tutt'intorno a noi, regna un silenzio assoluto e terrificante; non osiamo parlare a voce alta, e, per prudenza, tolgo la sicurezza del mio fucile mitragliatore.
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La paura mi chiude la gola in una stretta. « Un rumore! » mormora a un tratto il gigante, la bocca contro il mio orecchio. Tutti sanno che il suo udito è veramente straordinario. Sente il più lieve sospiro a distanza di due chilometri. Mi metto in ascolto... e lo sento anch'io. Uno scricchiolio strano nella piana... ma capisco finalmente cosa sia e vedo cos'è: il nemico sta scavando un camminamento nella nostra direzione. « Adesso gli faccio vedere io, a questi farabutti! » impreca il gigante. Collega insieme tre granate e striscia un poco avanti. Un'esplosione, delle grida... « Filiamo! È il momento giusto, altrimenti crepiamo anche noi come degli eroi. » Raggiungiamo i compagni vicino a un ruscello gelato; corrono pesantemente nella neve, e improvvisamente il fante con la SMG urla e cade a terra: un proiettile perduto gli ha spezzato la schiena. Non c'è niente da fare quando si è colpiti da questi proiettili esplosivi. Vengo inondato dal suo sangue. Corriamo ancora. Da quanto tempo stiamo correndo? Non so. Ma alla fine dobbiamo fermarci e buttarci sfiniti in mezzo alla neve, con queste terribili fitte ai fianchi che vi penetrano come degli aghi acuminati. Nella pianura rimbombano dei colpi di arma da fuoco isolati. « Ivan fa piazza pulita », constata il legionario: « il nagan è al lavoro. » Qualcuno grida e si lamenta. Un colpo di fucile. Il grido finisce in un'rantolo. E la ritirata continua, verso ovest; lontano dai nagan assassini. Si cammina tutta la notte, tutta la notte... Qualcuno rinuncia a proseguire e si lascia cadere sul sentiero ghiacciato, si raggomitola come una palla e muore rapidamente di freddo.
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« Ritirata vittoriosa della Sesta Armata! » sghignazza il legionario. « Vieni dolce morte, vieni! » Mi fermo un istante per guardare dietro di me. Così, ecco cosa resta di un esercito di quasi un milione di uomini; a malapena trecento fuggiaschi estenuati, disperati, e molti di questi ancora rinunceranno fra poco a seguirci. Ma la loro morte nella neve e nel ghiaccio non è terribile; un nagan nella nuca è molto peggio, e non è nulla in confronto all'essere crocifissi su una porta, o castrati con delle tenaglie da fabbro, piccolo piacere raffinato di alcuni reggimenti cosacchi. Molti soldati tedeschi di Stalingrado hanno avuto questo destino e sono morti in questo modo atroce. Io sono un vecchio soldato, anche se non ho che vent'anni. So che la sola cosa essenziale al mondo in questi momenti è di mantenere in perfetta efficienza la mia arma. Ma prima di tutto, prima di tutto ancora, evitare di essere fatti prigionieri. Il mio LMG è sotto il braccio, carico e in posizione di tiro; nella tasca tengo sempre una granata, e quelli che vorranno uccidermi andranno in cielo con me. Porta ha una pistola Walter agganciata alla manica, sotto l'ascella; basta che sollevi il braccio e questa spara a forte distanza. Fratellino ha ben nascosti nella sua uniforme due pacchetti di plastico che può far esplodere per mezzo di un dispositivo di sua invenzione. Prima di tutto evitare di essere fatti prigionieri! Come « reggimento speciale », non ci aspettiamo nessuna pietà da parte dell'avversario, ed è molto singolare il fatto che i reggimenti PU (Politicamente sospetti) siano, da ambedue i fronti, russo e tedesco, considerati con estrema severità, molto più che non i reggimenti politicamente ben definiti. « Comunisti e nazisti hanno la stessa mentalità », dice il Vecchio. « E in più quelli che i tedeschi definiscono
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politicamente sospetti, vale a dire non fidi del tutto, dai comunisti sono giudicati negativamente in modo assoluto. » Perciò, qualsiasi soldato PU, viene inesorabilmente liquidato, qualsiasi sia il simbolo della sua patria, croce uncinata o stella rossa. Ecco perché gli uomini dei PU tedeschi o russi, non si arrendono mai. Passano dalla parte del nemico, che li accetta e li assume nelle proprie forze, solo gli uomini dei cosiddetti « battaglioni disciplinati » vale a dire i criminali o i condannati dal diritto civile e comune, che erano stati prelevati dalle prigioni e incorporati nelle forze armate.
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Questo Adolfo Hitler è un uomo singolare, per la verità. Tuttavia non diventerà mai Cancelliere, al massimo Ministro delle Poste, e anche questo non è poi così certo. Non è che un bohémien vanitoso che viene dalla strada. Che vi sia della gente che lo teme, ecco una cosa che veramente va al di là della mia comprensione. Nel volgere di un anno come massimo sarà dimenticato e per quanto riguarda il suo partito di giovani canaglie, nessuno ne parlerà più. Il Presidente del Reich, Hindenburg, nel corso di una riunione con il generale Schleicher e il vescovo di Münster. 4 febbraio 1931 Il primo ottobre 1933, nel corso del lavori di installazione del campo di Dachau, l'ispettore generale dei campi KZ, la SS Standartenführer Theodor Eicke, tenne il seguente discorso al suo reggimento, il famoso e sinistro reggimento T (Tod = Morte). « Tolleranza e umanità sono indici di debolezza. L'uomo che non si sente capace di tagliare la gola alla propria madre o di castrare il proprio padre, è un debole. La nostra professione di fede ci deve rendere forti. Noi dovremo impiegare, senza alcuna esitazione, i mezzi più brutali e spietati, perché è meglio uccidere dieci innocenti che lasciarsi sfuggire un solo colpevole. Il cittadino comune, che conduce la sua vita tranquilla e modesta non sarà mai in grado di poterci capire, la sua immaginazione non arriverà mai fino a noi; così quello che noi facciamo nei nostri campi contro degli esseri d'altronde sotto-umani e politicamente asociali, deve rimanere rigorosamente segreto. Voi, miei soldati della divisione T, voi dovete diventare duri come il granito. La vista del sangue non deve essere per voi più emozionante della vista dell'acqua. Dovete gioire della morte dei traditori e degli intellettuali; sterminateli tutti questi nostalgici sognatori, bruciate le loro opere,
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distruggete tutto questo! Lo Stato Nazionalsocialista ha tre nemici giurati: i preti, gli ebrei, gli intellettuali. Se non trovate nessun crimine da addossare loro, inventatelo. Non allentate mai la stretta. Tenetevi sempre in tasca dei volantini di propaganda sovversiva da lasciare nelle loro case, e chiamate poi subito gli uomini di Heydrich perché li arrestino. « Il fine giustifica i mezzi, questo deve essere il nostro dogma. Coloro che entrano vivi dentro i fili spinati dei nostri campi di concentramento, ne devono uscire solo morti, ma lasciate loro il tempo di apprezzare il soggiorno che noi riserviamo loro! « Vi sono ancora, e in cariche di alto prestigio, anche nella Gestapo delle persone che si rifiutano di capire che noi ci troviamo in piena era di sangue. Questi imbecilli hanno istituito delle leggi di umanità e di disciplina. Pulitevi il culo con queste leggi, ma non fatevi prendere in flagrante, questo è tutto. « Non siate impazienti, soldati della Morte! Un giorno non lontano tutti i traditori, senza nessuna eccezione, saranno dentro i nostri campi con l'uniforme a righe, e quel giorno dovranno imparare a conoscerci! »
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UNA FESTA DAI CALMUCCHI DA cinque giorni siamo talmente travolti nel turbinio di una tortissima bufera di neve, che nemmeno riusciamo a vedere a distanza anche di solo mezzo metro; tanto che non ci accorgiamo di essere nel villaggio se non quando ci troviamo proprio davanti alle capanne. Porta riesce a evitare di un millimetro una capanna con il suo enorme P4, e quasi automaticamente tutti puntano le proprie armi, perché in un villaggio isolato non possono non esserci dei nemici in agguato ad aspettarci. Il P4 fa marcia indietro, il lungo cannone pronto a sparare. Il legionario con un calcio apre la porta di una capanna e un'ondata di calore ci colpisce al viso come un pugno imprevisto. Nel piccolo locale con il soffitto molto basso vediamo un gruppo di contadini che ci guardano con sgomento. In mezzo a loro, una donna anziana seduta su uno sgabello da mungitura, tiene sulle ginocchia una ciotola molto voluminosa piena di semi di girasole; dietro la grande stufa si intravedono dei volti infantili spauriti; l'esperienza aveva loro insegnato che non ci si deve mai aspettare niente di buono da un soldato, qualsiasi sia la sua uniforme. « Ruki werch! (Mani in alto!) » grido nervoso, mettendo la canna del mio fucile sotto il naso di un giovane vestito con una giacca di montone molto logora e dei pantaloni militari tedeschi. Si alza lentamente, le braccia sopra la testa. Gregor lo perquisisce, ma è completamente disarmato. Il legionario si è già infilato dietro la grande stufa, ma non vi ha trovato che dei magrissimi bambini in lacrime coperti di pulci.
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« Dio sia ringraziato, siete ritornati, Tedeschi! » esclama un vecchio tendendoci amichevolmente la mano. « Lo sapevamo che sareste tornati! Babuschka è morta... » « Chi diavolo è questa Babuschka? » chiede Fratellino. « Siamo già stati qui, per caso? Questi dannati villaggi russi si assomigliano tutti. Ammazzalo piuttosto, questo vecchio rimbambito! A me non piace mai la gente che ti tende la mano e fa la commedia dell'amicizia. È la stessa tattica della Gestapo quando vuole schiaffar dentro qualcuno, e sappiamo benissimo dove si va a finire. » Il villaggio è ispezionato rapidamente; non vi è un solo soldato sovietico, solo dei civili calmucchi. Questi accendono delle piccole lampade davanti alle loro icone e ci invitano a prendere il tè. Il samovar borbotta allegramente. « Buonissimo! » dice Fratellino soffiando nella tazza, « certo che un sorso di rhum lo farebbe diventare ancora più buono ». « Fammi il santo piacere di bere questo tè così com'è », replica severo il legionario. « Altrimenti ti spacco il grugno. Questo tè è sacro, è il tè dell'amicizia, capito? » Il legionario non poteva sopportare che non si rispettasse tutto quanto fosse sacro. Io mi sento molto imbarazzato con il mio ingombrante LMG sotto il braccio. Lo poso per terra, ma una vecchia contadina lo raccoglie e lo porta, tenendolo con molta precauzione, vicino alla stufa. Sono ancora più a disagio, perché senza la mia arma ormai mi sento indifeso, e come fossi nudo! « Gospodin, noi siamo i vostri servi », dichiara Porta inchinandosi con ossequio davanti allo starosta del villaggio.
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Subito i Calmucchi si fanno premura di offrirgli dei regali, e lui ringrazia come può nel suo pessimo russo; lo vediamo offrire loro in cambio il suo fucile mitragliatore. « Ma non sarai mica matto? » gli fa Fratellino stupefatto. « Chiudi il becco e fa come ti dico », bisbiglia Porta. « Smettila di fare dei complimenti sulle loro merde, altrimenti si aspetteranno chissà che cosa di meraviglioso in cambio, e finirai per perdere la faccia se non hai niente di buono da offrire, cretino! » « La Russia! » mormora il Vecchio. « Che strana e misteriosa questa Russia! In un posto ti incollano una palla nella nuca e appena di fianco ti accolgono come un principe! E questo è il paese che Adolfo, zotico proprio come un contadino prussiano, si immagina di poter conquistare. Che follia! » « Fate attenzione! » ci avverte il legionario parlando a bassissima voce. « Adesso sono dolci come degli agnelli, ma se li offendete, ci tagliano la testa in un baleno senza fare una piega. » Dopo la tazza di tè del benvenuto, le donne sparecchiano la tavola di legno su cui erano sparse le tazze vuote, e la ricoprono di una bellissima tovaglia ricamata, eredità di generazioni antiche. Ci viene offerto del vino calmucco in grossi boccali fatti al tornio, quindi un agnello arrostito allo spiedo, portato e messo sulla tavola da due giovani donne. Lo starosta sguaina una sciabola dalla lama acuminata, di provenienza cosacca, con un gesto molto ampio al disopra delle nostre teste. Fratellino, sempre più nervoso, cincischia il suo nagan. « Imbecilli! » dice. « Vi fate prendere per il culo da questi russi del cavolo! »
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Con la sciabola scintillante, lo starosta taglia di netto la testa dell'agnello, l'alza verso l'alto, poi la depone solennemente davanti a Porta. Tutti sono seduti per terra, ma per lui vi è un morbido cuscino di lana, omaggio particolare per gli ospiti di un certo rango. Quattro ragazze in abito bianco, che simboleggiano l'inverno entrano nel grande locale, seguite da altre in abito azzurro che simboleggiano la primavera. Tutta la sala risuona delle note della balalaika. Fratellino, alla vista delle ragazze, si alza in piedi immenso e goffo, rimboccandosi le maniche sulle sue braccia da gorilla, e ride di desiderio. « Un po' di contegno, cretino! » lo riprende il legionario, costringendolo brutalmente a risedersi. « Non siamo mica in un bordello! » Il gigante si rimette a sedere deluso e immusonito. Secondo lui le ragazze che ballano non possono che significare un'offerta, altrimenti per quale ragione dovrebbero ballare? La danza, sempre secondo il suo punto di vista, è la ginnastica preparatoria all'amore e nient'altro. Nel frattempo Porta sta estraendo il cervello dalla testa dell'agnello, lo taglia in due e ne offre metà al padrone di casa e la seconda metà alla figlia maggiore. Un mormorio di ammirazione si leva intorno alla tavola. Tutti i presenti riconoscono chiaramente in lui un vero gentiluomo. Le brocche sempre coirne passano di mano in mano. Si rutta perfino, con estrema educazione. Ma Porta diventa per tutti veramente un gran signore quando taglia l'orecchia destra dell'agnello e la porge alla figlia maggiore. È il massimo della buona educazione e delle buone maniere. Poi una vecchia donna ci racconta tutto quanto è successo prima del nostro arrivo. Una sezione di cavalleria,
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agli ordini di un commissario dal berretto di pelliccia bianco, era arrivato al villaggio e la prima cosa che aveva visto era una manica marrone scuro appesa ad asciugare dietro la capanna di Babuschka. « Una camicia SS », commenta il legionario. « Effettivamente, proprio niente di bello. » Il commissario aveva strappato la camicia via dallo steccato e l'aveva fatta calpestare dal suo cavallo, mentre due NKVD scovavano Babuschka nascosta nel grande forno della capanna dove, già nel 1917, ella aveva nascosto dei soldati trotszkysti. « Impiccarono per prima cosa mio figlio », commenta la vecchia, « sostenendo che avrebbe dovuto seguire Pjotr, il figlio del vicino, che ora è commissario politico nel nord della Russia, vicino al mare ghiacciato. Poi impiccarono Babuschka dietro l'ovile del kolkoz. Arrestarono anche altri contadini che avevano delle calze e delle uniformi tutte rattoppate delle truppe tedesche. Tre uomini anziani che confessarono di aver tagliato la legna per la cucina da campo tedesca, ebbero la gola tagliata e venne proibito a tutti noi di seppellirne i cadaveri che sono sempre laggiù sotto la neve. È una buona cosa che siate tornati, Germanskj, e non occorre che ammazziate voi stessi i commissari, è solo sufficiente che li portiate qui; poi saremo noi che ce ne incaricheremo! » Mentre Porta e Fratellino corteggiano due ragazze che non sembrano per nulla intimidite, casco addormentato con la testa sul tavolo. La vecchia donna mi accarezza maternamente il capo; suo figlio aveva la mia stessa età quando l'avevano impiccato... Se solo la guerra fosse finita in quel momento! Non essere più costretti a uccidere! Sarei rimasto sempre qui, e mi sarei addormentato la sera con la mano ruvida della vecchia
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sulla fronte... L'indomani all'ora della partenza, la povera donna mi regala un cosciotto d'agnello. « Che Dio ti protegga, ragazzo mio... » Tutti i contadini del villaggio seguono la nostra colonna per un buon tratto, poi si fermano e ci guardano allontanarci. Nessuno infatti osa attraversare il fiume. Sulla riva opposta non vi possono essere che dei brutti incontri: i commissari politici che portano i loro nagan sempre appesi a una cordicella sul petto. « Ho visto la stessa cosa in Indocina », dice il legionario. « Si dice addio ai nemici per poi andare a farci ammazzare dai compagni. Che Allah protegga questa gente, se i commissari russi verranno a sapere del nostro passaggio. » E la ritirata continua. In una boscaglia ci scontriamo con dei cosacchi sperduti anch'essi nella tremenda tempesta di neve. La cosa dura solo pochi minuti, i cosacchi vengono tutti liquidati, i loro cavalli galoppano via nitrendo nella steppa, le selle vuote e le staffe al vento. Il Tschir! Finalmente il Tschir! Dove sono le nostre linee? Delusione spaventosa! Eravamo così sicuri di ritrovare almeno qui i nostri. Ma non vi è nulla, assolutamente più nulla. Solo la tempesta di Kasakstan che sibila senza sosta. Non ne possiamo più. Anche i più ottimisti sono al limite delle forze; anche il generale Augsberg, che si lascia cadere nella neve e nasconde il viso fra le mani gelate. « Signore, aiutateci! » mormora. « Per pietà, Signore, aiutateci! » Dimentica che nelle SS è proibito credere in Dio. Non si sente un colpo di cannone, non il più lieve brontolio lontano di artiglieria, non si sente nessuno di
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quei rumori tipici che rivelano la presenza di un fronte di combattimento, e questo almeno per altri cento chilometri intorno. Immensa Russia! Immenso paese capace di annientare un'armata intera! « Brigadenführer », dice il tenente del genio preso dall'angoscia. « Non potete rinunciare! Non potete abbandonarci! » « Lasciatemi in pace! » urla il generale Augsberg. « Lasciatemi in pace! Non ne posso più! » « Brigadenführer, noi vi abbiamo dato tutta la nostra fiducia. Voi avete ancora la facoltà di poterci salvare. » « Sparite! » grida il generale all'ufficiale testimone della sua improvvisa debolezza. Si rialza, il volto di pietra, raddrizza il monocolo e fìssa il tenente avvolto in una sciarpa blu lavorata a maglia da sua madre, che era arrivata con l'ultimo corriere di Stalingrado. « Colonna avanti, marsch! » comanda con le labbra contratte. Passiamo sullo Tschir ghiacciato e proseguiamo. « Il prossimo corso d'acqua è il Kalitva », dice il Vecchio. « Ma in ogni caso, è impensabile che i nostri siano ancora là! » « Dopo il Kalitva, c'è l'Aidar », risponde il legionario senza fiato. « E dopo ci sarà l'Oskol, e da quel punto, non mancano che duecento chilometri per arrivare al Donetz! » « Chi ti dice che il fronte sia sul Donetz? » chiedo. « Nessuno di noi avrà la forza di arrivare fino al Dniepr, e voi non vi ricordate più la quantità di piccoli fiumi che si trovano tra uno e l'altro di questi due. Io, io proprio non ce la faccio più! » Di fianco a me si trascina un aiutante. È il solo sopravvissuto della « Divisione della Fortuna », una delle
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unità più celebri dell'armata tedesca. Il cappellano di questa divisione aveva dichiarato in una predica poco prima della battaglia dell'Ottobre Rosso che niente avveniva senza la volontà di Dio. Perché dunque Dio aveva potuto permettere che la « Divisione della Fortuna » venisse totalmente annientata dai lanciafiamme russi a Stalingrado? La maggior parte degli effettivi provenivano dalle missioni del nord della Germania e tutti i servizi religiosi erano seguiti con molto scrupolo e fede. Dietro di noi trotta il tesoriere contabile della divisione di Vienna, la divisione « Grande Germania ». Non smette mai di parlare degli ammodernamenti che farà nel suo albergo, appena sarà rientrato a Vienna; prima, non si degnava mai di parlare con un inferiore di grado, ora discute con Porta che lo persuade a installare nel suo albergo un bar con annesso bordello clandestino. « È l'unica cosa che rende, te lo dico io », dichiara Porta con estrema sicurezza. Passiamo la notte in un villaggio abbandonato, le cui capanne non sono che delle rovine bruciate; in una stalla giace un cavallo morto congelato, ma la sua carne scongelata e trattata con tutte le cure da Porta e quindi venduta come carne di mucca trova subito degli acquirenti. Un sergente asserisce che è la miglior carne che abbia mai mangiato. « Si può arrivare a mangiare anche della carne umana? » chiede Gregor, guardando di sbieco un grosso sottufficiale che passava di fianco a lui. « Tutto si può mangiare », risponde Porta. « Nel campo di concentramento russo per prigionieri di guerra vicino a Paderborn, c'era perfino un mercato di fegato umano. Severamente proibito, naturalmente, ma tutti lo sapevano e stavano zitti. L'importante è sempre e so-
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lo riuscire a sopravvivere. » Il mattino, riprendiamo la marcia, ma il P4, proprio lui questa volta, non ne vuole sapere. Il motore era completamente congelato, e non avendo niente con noi per poterlo riparare, siamo costretti ad abbandonarlo nel villaggio. La bufera di neve aumenta sempre più di forza. Dov'è il fronte? Tutti tendiamo le orecchie, per riuscire a percepire il rumore tipico che ce ne riveli la presenza. Porta sostiene che non è più in Russia ma sul Reno, perché è proprio il Reno che ha spesso deciso la sorte della Germania ed è là, afferma, che Adolfo tenterà la sua ultima carta. La ritirata continua, ma la colonna è ormai solo di trecento uomini. Ne abbiamo lasciati quasi cinquecento sulla steppa; membra congelate, dissenteria, tifo, sfinimento hanno ucciso gran parte di essi. Breve sosta. Anche se dovremmo evitare di segnalare la nostra presenza agli eventuali « commandos » della NKVD, accendiamo un fuoco. È estremamente pericoloso, naturalmente, ma l'infernale e implacabile freddo russo mina la nostra resistenza. Porta accende una grifa, che fa il giro del nostro gruppo, ma la sigaretta non è ancora finita, che sentiamo risuonare un ordine secco. « Avanti! In marcia! » Un sergente non riesce a sollevarsi in piedi. « Andiamo, vieni », gli dico. « Se resti qui, lo sai che non puoi che morire. » « Ma non ne posso più! » geme, premendosi il ventre. È un anziano, uno degli ultimi richiamati alle armi, e per la sua età l'avevano chiamato « sottufficiale addetto alla posta ». Ha già fatto la prima guerra mondiale. Guardo il piccolo mucchietto grigio, che fino a qualche settimana fa, era ancora un funzionario abbastanza ar-
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rogante. « Su », insiste Gregor, « non vorrai mollar proprio adesso! Siamo quasi arrivati. Non senti il cannone? » « Il cannone? » balbetta con enorme sforzo. « Non imbrogliarmi, te ne supplico. Non sento nessun rumore di cannone. » « Allora crepa! » risponde Gregor con aria volutamente indifferente. Mi chino sul vecchio: « Su, alzati che andiamo ». « Non ne posso più », mi dice singhiozzando. « Tu, tu sei giovane, muoviti a raggiungere gli altri. Io sono vecchio e stanchissimo, lasciami morire. » « Cosa fate qui? » dice il tenente passando. « Su in marcia, seguite la colonna. » Gli indico in silenzio il mucchietto grigio nella neve. Alza le spalle: « Dissenteria. Lasciatelo qui. Non potrebbe fare più di un'ora di marcia. Perché diavolo poi non è rimasto a Stalingrado? » Toglie di tasca il suo revolver, guarda un istante il poveretto, poi ripone l'arma e se ne va a lunghi passi. « Camerata », mi dice il moribondo tendendomi un pezzo di carta stropicciato. « Se te la cavi, spedisci questo a mia moglie e raccontale come siamo stati traditi a Stalingrado. » « Te lo prometto. » Gli stringo la mano. « E lo dirò a tutti, non solo a tua moglie, che quei maledetti ci hanno buttato qui tutti, a morire. » « Eccolo qui, il pulcino bagnato », è la voce di Heide dietro le mie spalle. « Ti stiamo cercando da un'ora, cosa stai facendo qui? » « Non vedi? Sta morendo. » « E con questo? Dopo di lui ce ne saranno degli altri. » Mi ficca sulle spalle il mio LMG, e il suo volto è duro
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come la pietra. « Prendi il tuo innaffiatoio. Ricordati che sei un soldato e non un prete. » Camminiamo tutta la notte, il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Rotoliamo sugli argini dei fiumi, ci trasciniamo sulla steppa, ci graffiamo tutti nei boschi. Russia, immenso e spietato paese! Alle nostre spalle vagano e si avvicinano gli NKVD, questi uomini dai berretti verdi col contrassegno a croce, i piccoli siberiani che sono capaci di inseguire un uomo per settimane. Il fante che mi precede camminando faticosamente con la sua SMG sulle spalle, cade a terra improvvisamente come un masso, in modo così imprevisto che inciampo nel suo corpo. Lo guardo, ma non ho dubbi: volto arrossato, febbricitante, il collo cosparso di piccoli punti rossi. Emana un odore molto forte e acre. Tifo. Lo scuoto, ma è incosciente. Allora tolgo dalla sua fondina di metallo la rivoltella e gliela appoggio vicino a portata di mano. Non abbiamo fatto che pochi passi quando sentiamo un colpo d'arma da fuoco, poi tutto torna silenzio. Bivacco nel bosco dove ci interriamo sotto la neve; la maggior parte della colonna si addormenta immediatamente, mentre il nostro gruppo si raccoglie intorno a un fuoco. Porta fa arrostire della carne di cavallo, Fratellino ha un sacchetto di sale, Gregor delle cipolle, io delle patate, il Vecchio un po' di latte in polvere. Un pasto splendido, veramente! Qualche sigaretta divisa a metà e siamo già ottimisti. Occorre così poco per vedere le cose in un modo migliore! Il fuoco riscalda le suole dei nostri stivali, ma il calore ci spinge a ritirare in fretta e furia i piedi. Porta si toglie gli stivali. Il suo alluce è già notevolmente violaceo... ansiosi, ci affanniamo tutti a toglierci scarponi e stivali,
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perché sappiamo bene che non c'è niente di peggio di un inizio di congelamento! Ci freghiamo violentemente con la neve anche se il dolore che provoca è fortissimo. Chiamato a fare un controllo, il medico esige un esame accurato e generale dei piedi, e arrivato al generale Augsberg, constata che il suo piede sinistro sta diventando quasi completamente violaceo. Trattamento brutale che lo fa imprecare di dolore, tuttavia il dolore è un buon segno. Purtroppo un soldato, le cui gambe sono violacee fin sotto il ginocchio, afferma invece di non sentire alcun male, e l'arto stesso comincia a emanare un forte odore, tipico del secondo stadio del congelamento, vale a dire un principio di cancrena. « Dovrò amputargliela se voglio salvargli la vita », mormora il medico ad Augsberg. « Ma come faremo a trasportare un amputato? » Il generale si volta con aria cupa e si allontana senza dire una parola. A un tratto vediamo Fratellino sussultare guardando in direzione di un bosco lontano. « Qualche cosa si muove, là dentro! » Ci mettiamo in ascolto coi nervi tesi... niente. « Falso allarme », dice Porta che per prudenza spegne il fuoco. « Ti ripeto che c'è qualcosa nella boscaglia, diamine! » Uno scricchiolio... le orecchie straordinarie di Fratellino non si sono sbagliate neanche questa volta ed è già disteso a terra, il suo MPI pronto a sparare. Con i nervi tesi spiamo nel buio. Di nuovo, un ramo ha scricchiolato nel sottobosco. Non c'è più dubbio. Qualcuno sta venendo verso di noi, e sono sicuramente uomini; gli animali fanno un altro rumore e una volta sola, lo sappiamo, conosciamo ormai questa steppa con tutte le sue
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consuetudini e i suoi brusü sommessi... Anche noi siamo diventati degli animali. Devono essere ancora molto lontani, ma in un bosco assolutamente silenzioso e immoto il minimo rumore si sente nella notte a distanze enormi. « Ivan! » La parola bisbigliata, passa di buca in buca, ed è sufficiente per far dimenticare immediatamente la dissenteria e lo sfinimento. Tutto, ma non cadere vivi nelle mani degli NKVD! Abbiamo visto troppi cadaveri torturati per aspettarci un briciolo di umanità da questi uomini dai berretti verdi con la croce. Il rumore si fa più distinto. Sono sicuramente dei siberiani dell'NKVD, armati di mitragliette Kalashnikikov e di lunghe nagajkas fissate all'impugnatura. Devono aver seguito le nostre tracce nella neve e noi sappiamo che questi soldati della lontana Siberia non abbandonano mai una pista. Sono nati per la caccia all'uomo. Sentiamo delle voci, delle voci russe molto rauche... « Germanskij... Job Tvojemad. » « Filiamo! » mormora Fratellino alzandosi in piedi. « Io detesto gli NKVD. » « Troppo tardi », risponde il legionario, prendendolo per un braccio. « Questi dannati ci seguiranno in capo al mondo, ormai ci siamo o loro o noi, non c'è più scelta. Conosco questa faccenda dopo essere stato nel Rif; quei maledetti Berberi ci spiavano dappertutto. Una volta ci hanno aspettato lungo la nuova strada CasaMarrakech, dietro dei cespugli, per giorni interi, e hanno fatto fuori tutta la compagnia. Siamo rimasti solo in quattro. » Un gruppo di fantasmi bianchi, con gli sci ai piedi, passa nel sottobosco, silenziosamente. Sotto i cappucci bianchi intravediamo gli occhi neri e luminosi che ci
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spiano attraverso le sottili fessure. Il terrore mi prende alla gola; non è che il retaggio di disciplina prussiana che mi impedisce di sparare e di falciare i fantasmi. Una sagoma alta guida il gruppo, con la nagajka in mano. Sul berretto bianco vediamo brillare la stella rossa con la falce e il martello. Un commissario politico. « Avanti, cani! » abbaia indicando con un gesto proprio il punto dove ci troviamo. « Dio Santissimo! » bisbiglia Fratellino, sgomento, de-capsulando di furia una granata. « Dawaj, dawaj! » continua a gridare il commissario spingendo brutalmente avanti i suoi esploratori che appaiono incerti e intimoriti. Gli sci passano ora sulla neve dura e li sentiamo perfettamente, gli uomini sembrano dei demoni cui solo gli occhi brillano stranamente. Il legionario che intuisce il mio terrore mi stringe la mano... per fortuna ho rimpiazzato il mio vecchio LMG con un modello nuovo paracadutato l'altro giorno. Un colpo di fucile rompe il silenzio! Il commissario si mette la mano sul petto e cade. È uno dei nostri che ha perso il controllo dei nervi e ha sparato, ma il colpo è andato a segno. Fischio stridente del generale... Fragore infernale. Un tappeto di fuoco rotola sulla pianura bianca; dalla macchia del bosco sentiamo partire dei colpi d'arma da fuoco, e delle raffiche di fucili mitragliatori, tanto che le cortecce degli alberi spezzate e diverte arrivano fino a noi. Ma i fantasmi sono scomparsi. Sulla neve giacciono dei cadaveri che la neve già incomincia a coprire di piccoli fiocchi leggeri. Più nessun rumore. Che assurda tragedia, nessuno penserebbe che degli uomini si spüno solo per uccidersi l'un l'altro. « Aiutante Beier », bisbiglia il tenente, « penetrate nel bosco con la vostra sezione; noi vi copriremo da qui.
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dovete aggirare gli NKVD e farli fuori fino all'ultimo. Non si deve risparmiare nessuno. Ordine del generale. » « Sempre noi! » grugnisce Porta. « Perché dobbiamo noi da soli assicurare la ritirata di Adolfo? Come se la guerra fosse perduta se non ci fossimo noi qui! » «Hai ragione-come sempre, amico», conferma il legionario infilandosi il lungo coltello fra i denti. « Silenzio e seguite le tracce », replica brusco il Vecchio dietro di noi. Camminiamo con estrema cautela ma siamo arrivati ormai alla fine del bosco senza vedere un solo russo. « Devono essere là dentro », dice Fratellino a bassa voce, indicando un cespuglio molto fitto. « Ho sentito proprio adesso scorreggiare un Ivan. » Facciamo un giro molto ampio alle spalle dei Russi che, fortunatamente per noi, sono invece sempre fissi a sorvegliare la nostra prima posizione. Cercando di fare il meno rumore possibile, metto la baionetta in canna. Porta per primo salta nel cespuglio e con un colpo di pala decapita una delle sentinelle. « Allah el Akbar! » ruggisce il legionario caricando. « Viva la Morte! » Lo stupore paralizza gli NKVD che non si aspettavano di essere presi alle spalle. Uccidiamo senza pietà, come farebbero loro stessi se dovessero uccidere noi; il legionario ha il fucile puntato davanti a due che hanno alzato le braccia. Degli occhi a mandorla nei larghi visi imploranti. « Desolato! La guerra è guerra. » E i due corpi crollano a terra, il petto squarciato dalla raffica della mitragliatrice. Giubilo di Fratellino che ha trovato altri nove denti d'oro, e sventola il sacchetto davanti al naso di Porta
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molto deluso e contrariato. È sempre estremamente seccante essere superato dal proprio allievo! Il sacchetto viene cacciato dentro a una tasca di sicurezza dell'uniforme del gigante, guai a chi vorrà portarglielo via! All'orizzonte comincia ad apparire il giorno come un sottile filo grigio dietro il bosco che diventa a sua volta simile a una parete nera, minacciosa e vendicatrice. Il sole si alza e abbraccia tutto il deserto di neve. La sfera color sangue emerge dalla distesa immacolata, il cielo diventa a poco a poco chiaro, poi di un azzurro scintillante e tutto è veramente così bello che non possiamo non fermarci un istante a guardarci intorno. Che meraviglia la natura intorno! Il flauto di Porta dà il benvenuto al sole, il tappeto di cristallo brilla di tutti i colori. Ma di nuovo gli occhi cominciano a dolermi, e in modo tale che delle lame affilatissime sembra mi attraversino il cranio. E mi prende un terrore improvviso davanti a tanta bellezza, accorgendomi che questo bianco abbacinante si trasforma a poco a poco nei miei occhi in un grigio opaco; dei piccoli cerchi neri mi ballano davanti alla pupilla... sto diventando cieco? Sfregare gli occhi con i guanti non fa che peggiorare il male. Il Vecchio, cui evidentemente faccio molta compassione, mi circonda le spalle col braccio; anche a lui è capitato di rimanere quasi accecato dal riverbero della neve, e sa che veramente soffro in maniera atroce, e lo sgomento della cecità totale mi prende e mi paralizza. Nel pomeriggio uno dei nostri fabbri della compagnia muore. Apparteneva alla prima divisione di cavalleria, ma tutti i suoi bei cavalli erano stati uccisi e mangiati dopo che la divisione stessa era stata annientata dai T34. Il solo sopravvissuto sta morendo ora sulla neve, e sappiamo che porta degli occhiali speciali... Ma quanto tem-
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po impiega a morire! « Ammazzalo », propone Fratellino, « così per lui sarà finita. » Stiamo quasi per farlo, ma il poveretto dà l'ultimo respiro e china la testa da un lato. Mi impadronisco subito degli occhiali, senza provare il minimo senso di pudore davanti alla morte. È un'insensibilità assurda e crudele, lo so, ma che sollievo! Degli occhiali speciali per la neve. Così rari! Solo i Russi hanno questo tipo di lente fornito dagli Americani; sappiamo infatti che già dalla primavera del 1942, hanno cambiato tutto il vecchio equipaggiamento militare con del materiale ottimo arrivato diritto dagli Stati Uniti. Mi sembra di avere degli occhi nuovi e mi precipito dal medico perché annoti sul mio libretto militare gli occhiali, altrimenti (che assurdità) potrei avere delle noie... « Non posso farlo », protesta il medico. « Occorre un esame clinico speciale per portare questo tipo di occhiali. » « Ma voi siete pazzo! » protesta il tenente. « Il ragazzo è quasi cieco! È evidente, mi pare! » « Sì, ma il regolamento... » balbetta il medico. « Il regolamento deve essere seguito. » « Dio Santissimo! » grida il tenente furioso. « Abbi pietà di questi imbecilli di Tedeschi! Non riescono a vivere senza il regolamento! La gente come voi, fedele a Brüning, lavorava anche per Ebert, acclamava Hindenburg, e oggi lecca il culo a Hitler, aspettando l'arrivo di Stalin! Perché ci vuole sempre il regolamento... » Il medico fa un passo indietro sconcertato e inquieto, e guarda il tenente con i suoi grandi occhi azzurri così ingenui. « Fate attenzione alle vostre parole, camerata! Guai a
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voi se il generale sente quello che state dicendo! » « Basta! » urla il tenente ormai fuori di sé. « Nessuno osa dire quello che pensa, finché quel maledetto caporale di Boemia è là, che regna indisturbato! Mio padre era capitano della guardia nel 1916, ed era molto comico con la sua placca di metallo da ulano sulla testa, ma nessuno avrebbe mai osato dirglielo! Oggi lavora al Ministero della Propaganda e nessuno osa dirgli che serve Adolfo, per carità, nessuno! I bravi Tedeschi non servono il Partito, vero? Servono la Grande Germania, ma fortunatamente per loro con un regolamento nazista! »
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Se la pietra cade sull'orcio, malasorte all'orcio. Se l'orcio cade sulla pietra malasorte all'orcio. Sempre malasorte all'orcio. Talmud « Ordine del giorno a tutte le divisioni, da parte del comandante della Sesta Armata, generale Friedrich Paulus. Quartier Generale dell'Armata 25-11-1942 Io, comandante della Sesta Armata. In qualità di soldato io proclamo che essere fatti prigionieri significa perdere il proprio onore. Il dovere di un ufficiale è pertanto di suicidarsi ' solo ' quando vedrà la sua postazione sopraffatta dalle forze nemiche, senza più alcuna possibilità di continuare a combattere. Se si lascia prendere vivo, non sarà più degno di indossare la divìsa di ufficiale, non potrà essere considerato che un disertore, e dovrà comparire davanti a un giurì d'onore dopo la fine delle ostilità. Questo vale ugualmente per i sottufficiali e i soldati. Arrendersi è una viltà. Il nostro capo supremo, Adolfo Hitler, esige dai suoi ufficiali, e sottufficiali e soldati della Sesta Armata, che combattano come gli eroi wagneriani nella fortezza di Stalingrado. Coloro che decìderanno di costituirsi prigionieri saranno radiati dai quadri. Heil Hitler! Paulus, Generale d'Armata. » Quello stesso giorno, quattro ufficiali di alto grado lasciarono la fortezza di Stalingrado: il generale del genio Jaenecke, comandante il Quarto Corpo d'Armata, fu evacuato per via aerea in qualità di ferito grave; aveva ricevuto sulla testa una grossa putrella e benediceva il suo enorme bernoccolo. Il generale Pitkert e il generale Hube se ne andarono su ordine della direzione del personale. Il maggiore generale Berger se ne andò senza alcun ordine. Al suo atterraggio a Warnapol, fu arrestato da due generali
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e condannato a morte per diserzione. Due ore dopo, veniva fucilato dietro l'hangar dell'aeroporto stesso. Nella zona di Stalingrado, un intendente generale si suicidò insieme a tutto il suo personale nel momento stesso in cui la fanteria russa penetrava nella sua posizione. All'ospedale di Baburkin, un chirurgo e i suoi quattro assistenti si apprestavano a operare, quando, improvvisamente, dei T34 fecero irruzione nella strada adiacente. Senza esitare un secondo, i medici buttarono una manciata di terriccio nei ventri già aperti dei feriti, una carica di granate nei locali gremiti, poi si fecero saltare il cervello. I Russi non trovarono che dei cadaveri. Quello che ancora restava della trentesima divisione MOT fu annientato, presso Katlowska, da quattrocento T34. Un tenente e cinque uomini si misero in salvo all'ultimo secondo. Un'ora più tardi erano raggiunti e presi da una pattuglia della polizia militare e fucilati sul posto tutti e sei per sabotaggio agli ordini. Avevano abbandonato la posizione di Katlowska senza aspettare l'ordine.
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PRIGIONIERI DELLA NKVD UNA nuova bufera, proveniente dall'estremità più lontana della Siberia, ci colpisce come un macigno, improvvisamente, al punto da proiettarci al suolo schiantati. Un uragano di neve come non ne avevamo mai visto. Il freddo è tale che le lacrime che ci colano sulle guance si trasformano istantaneamente in ghiaccio sulle nostre facce. Continuare questa ritirata sarebbe una follia. Siamo costretti a scavare dei rifugi. Per quattro giorni consecutivi, la tempesta sospinge davanti a sé degli immensi cumuli di neve, e nei rari momenti in cui si calma lievemente, il silenzio è tale che il minimo rumore metallico ci fa sussultare e ci rendiamo perfettamente conto di rasentare la follia. Poi la tempesta riprende con un furore ancora più acuto; degli alberi sradicati volano in aria; un branco di lupi, spazzati sulla neve dalle ventate, viene a schiantarsi contro un bosco. Due giorni ancora sotto questo uragano d'inferno, poi la tempesta si acquieta. Svuotati di forze, sfiniti e stroncati, ci trasciniamo dietro il generale Augsberg che ci spinge avanti senza pietà. Nonostante l'estrema spossatezza, egli cammina sempre eretto in testa alla colonna. « I Russi! » grida improvvisamente il Vecchio indicando la pianura. A circa due chilometri sta passando davanti a noi una lunga colonna di carri armati pesanti, che per ore e ore procede in direzione ovest. « Vanno verso ovest », dice Heide categorico, « l'ovest è il fronte, è la Germania ». « Sì », grida Gregor, « e anche la Francia e l'America.
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Puoi arrivare anche in Giappone e tornare indietro, continuando a camminare! » La discussione degenera in parole grosse e in una zuffa violenta, e siamo talmente con i nervi a pezzi che certamente potrefnmo arrivare anche a uccidere se il tenente non intervenisse. Sono cinquantasei giorni che camminiamo, e già da molto tempo abbiamo superato i limiti del minimo senso di correttezza reciproca. Un mattino, all'alba ci troviamo davanti al fiume Oskol e sulla riva opposta vediamo il villaggio di Kubjansk, un grosso borgo. Là avremmo trovato calore e cibo, tutte cose di cui avevamo terribilmente bisogno, ma potevano esservi accantonati anche i Russi. « Aiutante capo Beier, voi resterete fermi qui da questo lato del fiume con la vostra sezione e ci coprirete », comanda in tono secco il generale. « Noi penetreremo nel villaggio e vi segnaleremo di raggiungerci quando avremo fatto piazza pulita, se ce ne sarà bisogno. Se dovessero sparare contro di noi mentre attraversiamo il fiume, non muovetevi finché non sapremo cosa succede dall'altra parte. » Quindi, primo davanti a tutti si lascia scivolare sul greto del fiume e i suoi uomini avanzano con l'arma puntata verso il borgo. Un colpo di fucile. Poi è l'inferno. « Ivan! » grida Porta buttandosi dietro la mitragliatrice. Eccoli! Vengono fuori dal villaggio coperti di pellicce scure, con armi automatiche in mano. In un istante, il generale, il tenente e tutti gli altri del gruppo vengono disarmati e presi prigionieri. « Me lo immaginavo », dice il Vecchio. « Un borgo grosso come questo per forza è occupato. Adesso il problema è tirarli fuori di lì. »
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Accende lentamente la pipa, senza nessuna precipitazione, come il solito; comprime il tabacco col pollice prima di chiudere il coperchio e si stropiccia l'orecchio. Noi ci sentiamo ad un tratto terribilmente soli e abbandonati vedendo sparire i nostri compagni circondati dai soldati siberiani. « Filiamo! » dice Heide, « non possiamo fare niente per loro. Nel giro di un'ora saranno fucilati tutti. » « Se ho bisogno di un tuo consiglio, te lo chiederò », risponde calmo il Vecchio. « In ogni caso non fileremo affatto, lasciando i nostri compagni nelle loro mani. Questo lo dobbiamo a Augsberg. Senza di lui non saremmo mai arrivati fin qui. » « Cretino! » protesta Heide. « Crepiamo sicuri come l'oro, se rimaniamo attaccati a quei disgraziati! » Il Vecchio si alza, piccolo, con le gambe arcuate, massiccio, la pipa corta fra i denti. « Due volontari per una ricognizione. » « Mi ha sempre interessato sapere cosa fa Ivan quando crede di essere solo », risponde semplicemente Fratellino, dando un colpo di gomito a Porta. Tutti e due spariscono nel buio della prima alba. Due ore più tardi li vediamo, il gigante con un maiale mezzo cotto sulle spalle. « L'abbiamo preso davanti al naso di due Ivan », dice Porta, buttando il maiale ai piedi del Vecchio. « I nostri sono in un porcile vuoto con due sentinelle davanti alla porta. » « Ma i Russi? » chiede il Vecchio con impazienza. « Quanti sono? Una compagnia? Un battaglione? » « Un battaglione di galline, se mai! » risponde Porta. « Il villaggio formicola di donne in uniforme, e talmente brutte che anche una scimmia in calore ci penserebbe un momento prima di saltargli addosso! È una
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sezione di approvvigionamento. Dei camion carichi di granate sono fermi sotto degli alberi. » « Dei dilettanti! » riprende Fratellino. « Nemmeno una doppia sentinella. Devono sentirsi proprio al sicuro. » « È proprio quello che pensavo », dice il Vecchio, e ci divide immediatamente in gruppi d'attacco. Porta prende il comando del nostro ed entriamo nel bosco dove il buio è assoluto. Gregor che detesta i boschi e le loro insidie, trema di paura e si tiene accanto a me e a Porta. « Non pisciarti nelle braghe, prima che sia incominciata la festa », dice tranquillamente Porta. « Non c'è niente di meglio di un bosco. Attaccati stretto a un albero e nessuno riesce a vederti. Un bosco è sempre un ottimo rifugio. » Continuiamo ad addentrarci all'interno della boscaglia in silenzio. Io-ho la stessa paura di Gregor e preferirei avanzare strisciando. « Che guerra di merda! » mormora il marinaio, « e dire che volevo vederla da vicino! È proprio più forte di noi, teutonici puri; vogliamo sempre metterci davanti a tutti, e ricadiamo sempre sul culo. » « Avete notato come sono gentili gli ufficiali da un po' di tempo? È un segno inequivocabile che stiamo perdendo la guerra! » « Dove sono gli altri? » bisbiglia Gregor, che si ferma per mettersi in ascolto. Silenzio di morte. Non facendo più rumore degli animali in agguato, continuiamo a camminare, con le armi puntate. I rovi si attaccano e strappano le uniformi, tremiamo di paura, e vediamo un Mongolo in pelliccia dietro ogni cespuglio. In questo dannato paese, non si combatte solo contro degli uomini ma contro tutta una
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natura ostile. Porta incespica, cade a testa in giù, si lascia sfuggire la mitragliatrice. È talmente furioso che si mette a colpire un albero con la pala; ma nessuno osa ridere, anche se vederlo è tremendamente comico. A un tratto, un rumore d'inferno! Come se tutto il bosco ci cascasse sulla testa! Un grosso stormo di corvi ci vola addosso gracchiando; hanno la stessa paura che abbiamo noi. « Maledetti uccelli! » grugnisce Porta. « Adesso si sveglia anche tutta l'Armata Rossa! » « Ma che baccano state facendo, voi! » bisbiglia il Vecchio, arrivando da dietro a un albero. « Mica noi, di certo! » protesta Fratellino, « sono questi maledetti uccelli sovietici. Se solo riesco a beccarne qualcuno, gliela faccio vedere io! » Il sole è ancora alzato e si rimette a nevicare; un tempo simile è una vera fortuna per noi in questo momento. Finalmente al margine del bosco si profila il villaggio, e tutti ci nascondiamo ad aspettare il grosso della compagnia. Fratellino prepara le granate, tre granate legate intorno a una bottiglia di fosforo e ne mette un bel mucchio sotto il naso di Heide. « Tieni, buono a niente! È una buona droga contro il mal di testa. » « Culo! » grugnisce Heide che sta preparandosi le sue mine. Arriva un sergente che porta sulle spalle un apparecchio fumogeno. « Occorre farlo funzionare al momento giusto. Tutto deve avvenire nel minor tempo possibile, se tenete alla vostra pelle. Voi due », ordina a Gregor e a me, « di sentinella vicino al porcile. Ci sono davanti sei poveri diavoli, anziani per di più, che a mala pena riescono a tenere in mano un fucile. Non appena riusciamo a far
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sloggiare tutti di lì, io faccio funzionare l'apparecchio fumogeno. Questo gruppo deve aprire la ritirata. » Fischio! Segnale dell'attacco. Le cariche di esplosivo volano all'interno attraverso le finestre, grida, spari, un'esplosione sembra addirittura sollevare la terra sotto i nostri piedi. Io corro attraverso le strade in fiamme del piccolo borgo; le mitragliatrici crepitano, delle ombre si accasciano a terra, delle donne gridano correndo disordinatamente in mezzo alle fiamme. Dietro un camion rovesciato, la MG crepita. Una bottiglia di fosforo buttata all'interno della scuola, solleva in aria in blocco il tetto della costruzione. Veniamo avanti sempre lungo la via principale e scivoliamo dietro una trebbiatrice Mac Cornick, dono degli Stati Uniti, questo paese generoso, benefattore del comunismo. Un esplosivo cade sulla piattaforma di un camion carico di granate; lo spostamento d'aria ci fa precipitare al suolo e il pesante camion si rovescia su una mietitrice in un geyser di fiamme. Un vero vulcano. « Dio del cielo! » grida il tenente appena liberato, « state polverizzando il villaggio! » « È la loro polvere da sparo che salta, ma garantisco che è di ottima qualità! » L'incendio divampa e le scintille volano a chilometri di distanza sulla steppa. « A rapporto », comanda il generale Augsberg, con il volto coperto di bruciature. Il nostro bilancio sale a quattordici morti e nove feriti tra i quali dobbiamo abbandonare sette uomini che sarebbero morti in ogni caso durante la prossima marcia nella steppa. Dopo di che il generale ci spinge avanti con impazienza. L'incendio deve sicuramente aver dato l'allarme ad altre unità russe. Bisogna muoversi, e così la ritirata ri-
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prende. Da qualche parte, lontano ancora da noi, scorre il Donetz. « Fino a lì, e non un passo di più », abbiamo deciso, ma questa decisione inderogabile era già stata presa per il Don, e da allora non facciamo che seguire l'infaticabile generale Augsberg. Cionondimeno non si fa che protestare, gli ordini vengono eseguiti con una lentezza provocante, e un soldato semplice arriva a minacciare di schiaffeggiare un tenente del genio. È in questi casi che sentiamo sibilare, implacabile, il fischietto del generale. Lui conosce molto bene l'infallibile sistema per ristabilire l'ordine e la disciplina. I tedeschi sono un popolo di schiavi che obbediscono ciecamente e immediatamente a un fischio o a un urlo. Ogni tedesco di una certa importanza possiede un fischietto, un piccolo fischietto d'argento, legato a una •cordicella grigia intrecciata. Un piccolo tratto di cordicella deve uscire dal bordo della tasca perché venga riconosciuto, in questo modo, un superiore. Un fischietto è capace di far alzare da un letto morbido e soffice un'intera armata; ha mandato intere generazioni alla morte. Il tedesco che non ubbidisce a un fischietto non esiste. A cominciare dall'asilo gli ordini vengono dati con un fischietto. L'istruzione militare viene fatta con il fischietto; la circolazione stradale viene regolata dal fischio del vigile, e senza fischietto la Germania è perduta. I vincitori hanno potuto strappare ai tedeschi le loro uniformi, le loro armi; sono stati capaci di far versare fiumi di lacrime e di sangue, e di sconfìggerli. Ma è sempre stato il fischietto, che li ha poi rimessi in piedi! L'urlo poi vale il fischietto. Al settimo reggimento di cavalleria di Breslavia, abbiamo attaccato dei carri ar-
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mati polacchi a sciabola sguainata, solo perché il nostro maresciallo capo d'alloggio urlava. Un compagno e io abbiamo una volta tenuto sollevato un cavallo che si rifiutava di lasciarsi ferrare, perché il nostro maresciallo capo d'alloggio urlava. Siamo rimasti in ospedale due mesi con i tendini spezzati, ma i tendini spezzati guariscono molto rapidamente grazie agli urli del nostro maresciallo capo d'alloggio. I medici dell'ospedale militare, ci dichiararono rivedibili e destinati solo ai servizi ausiliari; ma gli urli del maresciallo capo d'alloggio riuscirono a cambiare la dichiarazione in « atti al servizio militare ». Questa è la Germania. Fischietti e urli. Lo so, ho vissuto in Germania molti anni, e malgrado tutto amo questo popolo che va fatto obbedire con il manganello, come il domatore fa con le sue belve. Il generale si ferma al margine di un bosco, che non era segnato sulle mappe tedesche. Nella maggioranza dei casi, infatti le mappe militari tedesche sono piene di errori di questo tipo. Il generale, teso e cupo, ripiega con un gesto nervoso la carta e chiede due volontari. Gregor e io ci presentiamo per una ricognizione nel bosco. Siamo già molto all'interno del bosco che sembra molto vasto, quando veniamo accerchiati da un gruppo di uomini in uniformi molto disparate. Non c'è altro da fare che alzare le braccia in aria. « Da dove venite? » chiede un tipo in uniforme rumena senza gradi e, poiché noi siamo un po' troppo lenti nel rispondere, ci schiaffeggia brutalmente in viso, con rabbia. Sono elementi dell'armata Vlassov che lavorano dietro le linee russe e sono molto noti per la loro estrema crudeltà. Minaccia di morte se non rispondiamo immediatamente; noi gli diciamo tutto quello che loro ci chie-
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dono, senza però assolutamente menzionare il luogo dove si trova il resto del gruppo di combattimento. Ci vengono legate le mani dietro la nuca con del filo spinato, il che non è certo piacevole se si è costretti a camminare. Dopo tre giorni di marcia arriviamo a un villaggio molto all'interno della foresta. Durante il percorso i partigiani si impadroniscono degli approvvigionamenti paracadutati dagli aerei tedeschi e, slegateci le mani dal filo spinato, ci ordinano di trascinare le slitte delle munizioni. Appesi a un pino oscillano due cadaveri; un tenente russo e un sergente tedesco. I partigiani di Vlassov fanno guerra a tutti, senza distinzione. Ma la notte seguente, grande scompiglio. Da lontano si sentono dei colpi d'arma da fuoco; tutti scappano a destra e a sinistra; ma prima di abbandonare il villaggio, questi bruti si dedicano a due operazioni di estrema violenza: installare nelle capanne delle cariche di esplosivo e appendere a un albero per i piedi due donne russe lanciagranate. La marcia nella foresta continua. Gregor e io trascinando il pesantissimo carico di munizioni sulla slitta, cerchiamo di rimanere sempre nella parte terminale della colonna in marcia. Le guardie che dovrebbero sorvegliarci e che invece non pensano ad altro che a scappare, il più lontano possibile dal villaggio, ci ignorano al punto che riusciamo a saltare in un grosso cumulo di neve rimanendovi sommersi finché non sentiamo più alcun rumore. Quando ci sentiamo del tutto sicuri ci rialziamo immediatamente e ci mettiamo a correre nella direzione opposta. Breve sosta in un sentiero su cui vediamo delle pesanti impronte di suole. Ci lasciamo cadere per terra e divoriamo una patata che Gregor aveva in tasca. Dove
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andare? Cosa dobbiamo fare? « Stoi, ruki werch! » Questo ordine perentorio e terribile rimbomba d'i punto in bianco alle nostre spalle. Un ordine che di solito è sempre seguito da una fucilata se l'obbedienza non è immediata. In un baleno, eccoci di nuovo in piedi, con le braccia alzate. Dietro di noi la neve scricchiola sotto degli stivali di feltro. Un volto rossiccio e screpolato ci guarda trionfante. « Germanskij, Woenna kaput! » È un soldato del settore trasporti, con la croce azzurra sul berretto, ma non è certo meno pericoloso né meno crudele di un NKVD professionista. L'uomo ci perquisisce, poi si impadronisce del coltello da tasca di Gregor. « Arma segreta di Hitler? » chiede, abbandonandosi a una grossa risata. « Hitler kaput. Germanskji bestie. Grande Stalin intelligente. » Ci conduce in un villaggio dove è alloggiata la sua divisione, e da rozzo mattacchione si trasforma in una sentinella rigidissima sotto gli occhi del suo commissario. « Dawaj! Dawaj » urla per darsi un tono, spingendoci avanti con la canna del suo fucile. Veniamo consegnati a una pattuglia i cui uomini ci pizzicano allegramente con le loro baionette, ma questo arrivo trionfale è molto deludente perché dedicato a due miserabili soldati tedeschi, che non valgono certo neanche una mezza carica di polvere da sparo. A colpi di canna di fucile e a calci, veniamo spinti in un ufficio dove si trova un vecchio maggiore circondato da alcuni ufficiali dalle spalline azzurre del settore Trasporti ferroviari. « Tschort! » grida il vecchio, schiaffeggiandoci con il
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dorso della mano, esattamente come il comandante SS di Fagen. Sono proprio tutti uguali, salvo l'uniforme. I suoi urli valgono quelli di un sottufficiale tedesco. Diventa paonazzo, ci sputa in faccia, e quando faccio per asciugarmi la guancia, ricevo un pugno sulla bocca. « Woenna Plennys! (prigionieri di guerra). Kaput! » sbraita strappando le aquile ricamate sulle nostre spalline. « Mangiatele immediatamente! » Noi ubbidiamo immediatamente, beninteso. Non è poi una cosa così terribile masticare e ingoiare dei pezzi di stoffa, e da un prigioniero di guerra si possono esigere cose molto peggiori. Noi ne sappiamo qualche cosa. Quando l'uomo ha terminato la sua sfuriata, veniamo buttati in un ripostiglio per le patate che emana un lezzo insopportabile. Ci devono essere dei tuberi imputriditi che tuttavia noi ci cacciamo nello stomaco, perché Gregor sostiene che contengono un'enorme quantità di vitamine. Sembra che sia passato un lunghissimo intervallo di tempo, quando entra un soldato a portarci una innominabile zuppa di pesce. « Job Tvojemadj! » sghignazza quel mascalzone, sputando nella ciotola. Noi certo non dubitiamo nemmeno per un secondo che nello stesso momento in cui un soldato russo sporco come un maiale sputa nella nostra zuppa, il maresciallo Paulus si siede davanti a una tavola imbandita con estrema raffinatezza, in un vecchio castello degli Zar, a qualche chilometro da Mosca. Alla sua destra, il suo capo di stato maggiore, il Generaloberst Schmidt promosso di fresco, alla sua sinistra il tenente generale Babitsch dell'Armata Rossa. A capo tavola troneggia l'implacabile generale Lattmann, in uniforme nera dei
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carristi, colui che sarebbe diventato in futuro capo della polizia della Germania dell'Est. È anche presente il generale von Seydlitz che si intrattiene con il commissario politico maggior generale della NKVD, il cui padre è stato arso vivo a Kron-stadt, nel locale adibito alle caldaie di una corazzata, da dei marinai sovietici bolscevichi ammutinati... «Verrete fucilati domani», sghignazza il nostro cuciniere rovesciando di proposito in terra metà della nostra già magra porzione di zuppa. « Gli stessi imbecilli dappertutto! » grugnisce Gregor, la cui fame, come la mia, è resa ancora più feroce dal pasto così scarso. Il tempo passa ancora. È notte? È giorno? Non possiamo capirlo dentro come siamo in questo buco così buio, ma pensiamo che sia giorno, quando ci viene portata un'altra ciotola della stessa inimmaginabile zuppa. Inventano mille angherie raffinate: o lasciano colare un po' di zuppa e ci costringono a leccarla dal pavimento sudicio, o un topo morto naviga nella zuppa e dobbiamo mangiarla ugualmente. Ma, affamati come siamo, tutto questo non riesce a toglierci l'appetito. « Che maiali! » impreca Gregor. « Che mi vengano a tiro quando avrò sotto le mani la mia bella MPI! » « Non prendertela tanto. I nostri sono più o meno uguali, lo sai benissimo. A Kiev, ho visto delle SS allineare migliaia di donne davanti alle fosse comuni, e costringerle a togliersi da sole le stelle gialle dai loro poveri indumenti, prima di venir fucilate. È solo una specie di prova generale anticipata di quello che ci a-spetta se perdiamo la guerra. Sono stati commessi degli orrori in nome del popolo tedesco, e saremo noi, i poveri cristi, che pagheremo per tutti. » La porta viene aperta con violenza. Due NKVD, con
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la croce verde sul berretto, ci fanno uscire dallo stanzino con la stessa brutalità delle SS tedesche. « Dawaj, dawaj! » Ci buttano su un camion carico di munizioni; ci sediamo come possiamo sulle granate e cacciamo le mani dentro le maniche della nostra uniforme. Deve fare un freddo tremendo nella pianura! Al momento della partenza, un altro NKVD sale e si siede proprio accanto a noi. « Gli orologi! Le penne stilografiche! A Kolima non ne avrete certo più bisogno! » Ma dato che tutto quello che era possibile sequestrare l'avevano già sequestrato altri prima di loro, riceviamo solo dei calci astiosi e delusi. « Proprio come i nostri », mormora Gregor, con uno sguardo pieno d'odio in direzione del NKVD. « Ti ricordi quando hanno appiccato il fuoco alle lunghe barbe di quei poveri ebrei in Galizia, che si rifiutavano di consegnare gli orologi e il denaro? Comunisti o nazisti, è la stessa razza! » Il camion procede lentamente sulla strada ghiacciata, e non si ferma che per fare il pieno alle taniche sistemate sulla piattaforma dove siamo seduti; naturalmente siamo noi che dobbiamo trascinare e caricare i pesantissimi recipienti. Poi, arrivati in una città sconosciuta abbastanza grossa, veniamo consegnati contro ricevuta, come fossimo capi di bestiame, e la sera stessa ecco che arriva il momento cruciale dell'interrogatorio. « Da dove venite? » chiede una donna, con le mostrine da capitano, che funge da interprete presso un tenente colonnello dell' NKVD, mezzo ubriaco. « Stalingrado. » « Ci prendete per degli imbecilli? A Stalingrado sono morti tutti, è scritto nella Pravda. Allora; da dove ve-
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nite? » « Stalingrado, Sesta Armata », rispondiamo tutti e due insieme. « Basta con le storie, cani! Da qui a Stalingrado ci sono settecento chilometri, e la zona è tutta sotto il controllo dell'Armata Rossa. » « Eppure è la verità. » « E allora chiudi il becco, imbecille! Non ti stiamo domandando niente! » urla la donna, colpendomi sulla bocca con il frustino. Ci rendiamo conto che è una donna molto pericolosa, e può certamente farci fucilare se questo le fa comodo. Lentamente, accende un grosso sigaro e se lo infila tra le labbra, poi mi soffia il fumo sul viso. « Così tu ti trovavi a Stalingrado, vero? Quale divisione? » « Sedicesimo Panzer. » « Chi era il tuo comandante? » « Il tenente generale Angern. » « È falso! » mormora, con evidente imbarazzo. Non appena ha terminato di tradurre all'ufficiale le risposte, questi si alza in piedi di scatto e mi colpisce al ventre con l'impugnatura della frusta. « Cani bugiardi! » « Crede che voi siate delle spie », spiega ridendo l'interprete. « Voi non siete mai stati a Stalingrado! Confessatelo! Siete dei sabotatori fascisti e delle spie! » « Arriviamo da Stalingrado », dice Gregor, con stanchezza. « Va bene. Ora sarete subito smascherati. Dove si batteva la vostra divisione a Stalingrado? » « Davanti a Ottobre Rosso. » « A quale armata appartane la sedicesima divisione
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Panzer! » « Alla cinquantunesima armata blindata. » « E quale divisione avevate di fronte a voi? Non sareste in grado di rispondere se non eravate effettivamente presenti. » « La settantaquattresima divisione blindata della quarta armata della Guardia Sovietica! » « Ma non è possibile! » risponde la donna percuotendo di nuovo Gregor. « Allora come avete fatto ad arrivare fino a qui? L'NKVD li ha catturati tutti questi porci fascisti che erano riusciti a sfondate il fronte di accerchiamento nella zona di Stalingrado. Non ne è sfuggito neanche uno. » « Facciamo parte di un gruppo di combattimento guidato da un generale delle SS. » Il tenente colonnello si alza e fa rotolare la sedia in fondo alla stanza con un calcio; prende una sorsata di vodka, si caccia indietro il berretto di pelo sulla nuca; la traduzione in russo delle nostre risposte lo mette evidentemente fuori di sé. Noi, per la verità, possiamo capire molto bene il suo stato d'animo. Se noi arriviamo effettivamente da Stalingrado, il corpo di polizia di cui egli stesso fa parte non possiede evidentemente quell'efficienza e quella capacità che dovrebbe avere e di cui si vanta! Sa anche che alcuni capi dell'NKVD, tra i quali forse anche lui, perderanno i loro gradi non appena il rapporto dell'interrogatorio arriverà a Mosca, e il tenente non ha il minimo desiderio di essere spedito in prima linea in una sezione di fanteria. Dato che noi siamo in grado di dargli l'esatto elenco dei nomi di tutti gli ufficiali del ventisettesimo Panzer, alla fine riusciamo a convincerlo che effettivamente arriviamo purtroppo da Stalingrado. « Così voi facevate parte di un gruppo di combatti-
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mento? Dove si trovano gli altri? » « Da qualche parte », risponde Gregor con un gesto molto vago. « Alcuni sul Don, altri sullo Tschir, distesi sulla steppa. Quando arriverà la primavera li vedrete venir fuori dalla neve; gli ultimi sono scomparsi in un bosco. Noi due siamo i soli sopravvissuti. » Silenzio di morte. « Fantastico! » mormora l'ufficiale che si china e bisbiglia qualche parola all'interprete che subito traduce. « Questa volta vi crediamo », dice la donna. « Ma siete dei criminali per aver trasgredito alle leggi sovietiche, varcando le nostre frontiere con le armi in pugno. Questo può costarvi la testa oppure venticinque anni di lavori forzati. Vi faremo trasportare altrove, e personalmente penso che sarete fucilati. » Ci viene fatta firmare una dichiarazione nella quale riconoscevamo di aver attaccato l'Unione Sovietica con le armi in pugno. Molto difficile poter negare una simile cosa! Domani saremo fotografati di fronte e di profilo e verranno prese le nostre impronte digitali. Ecco che siamo ormai dei criminali di stato, e dichiarati tali. Un sergente ci dice ridendo che forse potremo beneficiare di un trattamento speciale. È una parola ben nota. È abitualmente un eufemismo per dire « esecuzione », e suona meglio, secondo loro. Veniamo spinti brutalmente in uà veicolo fuori strada siglato « Willys Knight », e a destra dell'autista prende posto un vecchio sergente decorato della prima guerra mondiale; senza dubbio una eredità della polizia zarista. I regimi si avvicendano, ma la polizia resta invariata. Sul sedile davanti a noi, un caporale, con il suo MPI in posizione di tiro. Fuma ininterrottamente delle belle sigarette moscovite, delle vere sigarette NKVD, e non le Machorka che puzzano a chilometri di distanza; quel-
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le sono esclusivamente riservate alla bassa forza, mentre i graduati sovietici, quelli non fumano che le « Stella Rossa ». Non abbiamo più nessun dubbio che la nostra sorte è ormai decisa e sarà conclusa questa stessa notte. Saremo sicuramente fucilati, perché abbiamo commesso un crimine imperdonabile sfondando l'accerchiamento di Stalingrado. Se la cosa venisse a galla, Stalin perderebbe la faccia. I dittatori e i loro sbirri sono tutti estremamente suscettibili riguardo la loro reputazione. Il vento ci taglia la faccia, mentre la grossa macchina continua a correre per ore. Nessuno apre bocca. Prendiamo la strada Mosca-Orel-Kharkov. A nord-ovest l'orizzonte è rosato, e cominciamo a percepire un lontano tuono che, volta a volta, prende forza e poi si affievolisce: il fronte! Il mattino dopo, il veicolo devia e prende una strada laterale molto stretta; le due guardie si sono addormentate; di fronte a noi il caporale assonnato si lascia sfuggire dalle mani il suo MPI... Gregor infila silenziosa-, mente il piede nella tracolla e tira lentamente l'arma verso di noi. La macchina sobbalza, l'autista impreca, il caporale storce il naso e si accomoda più a suo agio sul sedile. Stiamo andando a tutta velocità in direzione di un bosco. Gregor ha in mano ormai il MPI... È adesso o mai più. Non ci sono alternative. Non sento il rumore dello sparo, vedo solo le lingue di fiamma che escono dalla bocca dell'arma. L'autista è decapitato dalla frangia metallica del parabrezza, il vecchio sergente si rovescia indietro con un grido. Io vengo proiettato fuori dal veicolo che si schianta con un frastuono enorme contro un albero, e vedo Gregor strisciare fuori dalla Willys sfasciata, con
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un fucile mitragliatore e qualche nastro di cartucce fra le mani. Ma se veniamo pescati qui, ci mettono al muro senza battere ciglio, e sentiamo già venire dalla strada dei rumori di motore sempre più vicini. Ci impadroniamo dei due berretti di pelo dei morti e ce li cacciamo in testa, nonostante la sensazione sia tutt'altro che piacevole. « Se Ivan ci becca con questi in testa, siamo fregati! » « Siamo fregati in ogni caso, e almeno abbiamo caldo alle orecchie. In più questi fetenti sono magari capaci di pisciarsi addosso dalla paura, se solo vedono la croce verde! » Ci buttiamo in un bosco molto fitto e corriamo, i rami ci graffiano il viso, ma non sentiamo alcun dolore tanta è la nostra tensione. Un solo pensiero ci ossessiona: correre il più lontano possibile dai cadaveri sanguinanti dei nostri guardiani. Corriamo, corriamo sempre, e alla fine terminato il bosco e usciti all'aria aperta, ci buttiamo sfiniti sulla neve. Sento delle fitte dolorosissime ai fianchi e gli occhi mi dolgono di nuovo. Davanti a noi vediamo la strada Kharkov-Mosca; all'orizzonte si intravede il mare di fuoco del fronte; l'aria è colma di rumori sordi. Laggiù c'è l'inferno. Lungo tutta la strada, colonne continue di camion che vanno verso ovest e sembrano tante piccole lanterne scintillanti sulla strada ghiacciata. Gregor mi porge una sigaretta e un pezzo di lardo affumicato trovato nelle tasche delle nostre guardie. « La strada porta diritto al fronte », dice, « e dobbiamo arrivarci anche noi, là; finiremo col dare nell'occhio se continuiamo a correre nei campi ». « Credi davvero che sia meglio camminare così aper-
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tamente in mezzo a loro? » « Certo che lo credo, e del resto non abbiamo scelta. Sulla strada, nessuno farà caso a noi soprattutto con questo berretto con la croce verde in testa, mentre se corriamo in mezzo ai campi, non è possibile non attirare l'attenzione. » Ci mettiamo così sulla strada mescolati alla lunga colonna di « Studebaker » e di « Willys ». Sulle portiere sono ancora ben visibili le stelle bianche dell'esercito americano, e sopra queste il marchio con la falce e il martello. I motori ruggiscono; ai finestrini appaiono i visi stanchi degli autisti che ci prendono per una pattuglia di NKVD, ma proprio qualche metro prima di un incrocio, ecco invece un vero posto di blocco NKVD! Tutti i soldati a piedi vengono fermati, mentre sembra che i camion vengano lasciati passare senza molte difficoltà. In un lampo ci buttiamo in un fosso dietro un cespuglio, con un vento gelido che ci penetra fino alle ossa. Non ne posso più e lo dico quasi piangendo: « Non riusciremo mai a evitare quei maledetti! » « Dobbiamo saltare su di un camion », dice Gregor a denti stretti. « È l'unica possibilità che abbiamo di cavarcela. » « Ma come vuoi che possiamo fare una cosa simile? Vengono avanti a dieci metri uno dall'altro! Quello che segue ci vedrà immediatamente e darà l'allarme! » « Hai qualche cosa di meglio da proporre? » Ha ragione. Per un'ora restiamo nascosti, accucciati, a spiare un'occasione buona, quando a un tratto la lunga colonna si ferma. Un « Molotov », con le catene rompighiaccio appese all'esterno, passa sobbalzando lentamente; in un baleno ci aggrappiamo alla portiera posteriore, e così abbarbicati, ci facciamo trascinare. Poi
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Gregor si sistema meglio e mi tende la mano per farmi montare proprio mentre sto per abbandonare l'appiglio. Come sono riuscito ad arrampicarmi nell'interno del veicolo vicino a lui? Non lo so, non ricordo nulla, ma mi trovo seduto sulla ruota di scorta. Ho dolori dappertutto! Questo maledetto camion « Molotov » sarà uno dei peggiori ricordi di quell'avventura. « Presto! Dobbiamo nasconderci in qualche modo sotto questi sacchi il più velocemente possibile; non vedi che siamo quasi arrivati al posto di blocco? » Un NKVD, grida qualche parola all'autista; questi frena, il motore batte in testa, e ci spruzza in faccia residui di olio; le portiere vengono aperte... sentiamo il classico rumore metallico delle armi! Gregor punta il suo MPI... « Non sparare! » gli bisbiglio terrorizzato. « Se spari, siamo finiti. » Una testa coperta di un grosso berretto di pelo spunta dietro la portiera posteriore, butta un'occhiata sui grossi mucchi di granate, poi sparisce. In questo momento, stanno ispezionando la colonna di carri armati, dei T34; poi l'artiglieria pesante, poi altri veicoli ancora... Delle ore... Alcuni soldati dei Trasporti militari saltellano intorno al nostro camion per riscaldarsi; il freddo è tale che non so come noi stessi non siamo congelati immediatamente, dovendo stare immobili. A un tratto, ecco risuonare il famoso fischietto che hanno introdotto anche nell'Armata Rossa; delle grida rauche; i motori vengono avviati, la colonna si mette lentamente in moto. Proprio dietro di noi, il radiatore caratteristico di una « Studebaker », con i piccoli fari mimetizzati che brillano debolmente come se il veicolo si vergognasse di trovarsi proprio qui, su una strada sovietica, con un grosso mongolo al volante. Il fragore sordo dell'artiglieria aumenta, il fronte or-
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mai non può essere lontano, questo fronte che abbiamo tanto cercato di raggiungere di fiume in fiume! Il camion si ferma per far benzina e dei fusti vuoti ci cascano addosso; anch'essi hanno il marchio dell'esercito americano! Uno mi casca sulla testa e mi stordisce al punto che per qualche minuto perdo conoscenza, ma il rimbombo di un'esplosione molto vicina mi sveglia di botto... delle granate esplodono ai margini della strada; è il limite di tiro dell'artiglieria tedesca! « Che Dio ci protegga! Se bombardano proprio il nostro camion saltiamo in aria, e tanti saluti a tutti! » Il tiro aumenta di intensità di minuto in minuto, e il camionista preso dal panico preme l'acceleratore al massimo. Chi non avrebbe paura sotto un bombardamento intenso di artiglieria pesante, su un camion carico di venti tonnellate di granate? Saltare in aria insieme al proprio camion di munizioni apparentemente non sembra glorioso; ma tutti gli autisti sono dei veri eroi, anche se non vengono mai decorati al merito di guerra. Giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese, durante la guerra che continua per anni, i camion militari corrono di continuo con i loro carichi di munizioni su delle strade sempre prese di mira dai bombardieri nemici. Anche noi in fondo pensiamo poco a questi uomini, e non li consideriamo mai come dei veri camerati. Quando smettono di guidare perché i loro nervi hanno ceduto, viene cacciata loro in mano una pala e devono sgomberare dai rottami le strade perché altri camion possano trasportare altri carichi di granate. Non hanno neanche possibilità di avanzamento questi lavoratori dell'esercito, nessuna bandiera particolare che li distingua, e sono altrettanto indispensabili di un tiratore scelto dietro la sua mitragliatrice. La loro paga resta invariata rispetto a quella che ricevono quando
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sono in guarnigione, senza nemmeno il supplemento di dieci marchi che viene aggiunto a tutti i soldati che si trovano al fronte. Dodici marchi e cinquanta scellini ogni dieci giorni. Non bastano nemmeno per andare al bordello militare di quarta classe! Superiamo alcune batterie di cannoni a lunga gittata. La terra sembra vibrare tutta sotto il loro cannoneggiamento. Che fragore spaventoso! Dalla gola di questi cannoni esce una strana e terrificante luce verdastra, ma i serventi sembra si divertano a scherzare con queste armi colossali. Queste batterie scagliano la morte molto all'interno delle linee tedesche. Brusco arresto dell'intera colonna... grida e richiami... Un bagliore improvviso illumina la notte. I copertoni di alcuni veicoli prendono fuoco, i soldati scendono e si mettono a correre sconvolti. « Filiamo prima che il nostro camion salti in aria! » dice Gregor. « Adesso arriva una di quelle esplosioni a catena veramente spettacolosa! » « E l'autista dietro di noi? Appena ci vede dà l'allarme! » « Figurati! Con le nostre croci verdi sulla testa, sarà lui che fa un fugone. Presto! Altrimenti facciamo un tvolo fino alla Via Lattea! » Saltiamo e caschiamo nelle braccia di un artigliere stupefatto che ci fa un lungo discorso incomprensibile, indicandoci i veicoli in fiamme. Rispondiamo con il nostro linguaggio approssimativamente russo. « Job Tvojemadj! » L'artigliere ride poi sparisce correndo a gambe levate. Un ufficiale grida degli ordini, gli autisti cercano di far arretrare i loro mezzi, un grande camion a rimorchio slitta e si mette di traverso sulla strada... la confusione è
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totale. Corriamo a tutta velocità in direzione della batteria pesante che tuona senza sosta verso ovest; superiamo un maggiore cui facciamo il saluto militare russo. Senza guardarci nemmeno risponde distrattamente; non esistiamo evidentemente per lui, in questo momento. In questo stesso istante, un'esplosione mostruosa erompe, superando di volume perfino le cannonate. Un inferno. Un maremoto di aria rovente si abbatte su di noi, e ci buttiamo in fretta e furia sotto la neve per sfuggire a questo calore insopportabile. Una serie di esplosioni a catena, pezzi interi di camion, e brandelli umani vengono proiettati verso il cielo e ricadono sparsi sui campi di neve tutt'intorno. È finito. Gregor ed io cerchiamo di uscire dalla montagna di neve sotto cui siamo protetti, ma ogni passo è uno sforzo enorme. La neve è molto morbida, e se non riusciamo a stare in piedi, questa istantaneamente ci si incolla addosso come una piovra. Dei proiettili e-normi passano sopra le nostre teste. Siamo quasi alla fine della nostra odissea, ma superare questa ultima fase non è certo facile, questa zona tra l'artiglieria e la HKL che brulica di poliziotti di campagna, questi sciacalli sempre sulle tracce di selvaggina da ammazzare. Viene giorno. Dobbiamo nasconderci di nuovo e aspettare la notte, la nostra amica sicura... Ci scaviamo una buca nella neve, adoperando come pala le canne del MPI; quando la buca è abbastanza larga per contenerci ci adagiamo dentro e ci ricopriamo di neve, ma questa volta anche il giorno così breve dell'inverno russo, ci sembra eterno! Una pattuglia passa proprio vicino a noi, sentiamo lo stridio del cuoio di grossi stivali che si piega, il rumore degli elmetti d'acciaio che urtano le custodie delle ma-
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schere antigas; per fortuna o per caso non siamo scoperti. Quando viene la notte usciamo silenziosamente dalle nostre buche, pestiamo i piedi sulla neve per rianimare le nostre povere membra intorpidite dal gelo. Ancora una sigaretta NKVD, un ultimo pezzo di lardo, e un tozzo di pane nero fradicio. Lontano il crepitio delle mitragliatrici. Il fronte è in fermento; stride e geme come un animale ferito. Questo è un attacco che si scatenerà all'alba, lo avvertiamo con tutti i nostri nervi, un soldato non si sbaglia mai. Troviamo un riparo: un cannone con una ruota schiantata da un'esplosione. I serventi degli artiglieri tedeschi sono morti o moribondi. Il giovane tenente ha le due gambe dilaniate e la neve intorno è rossa del suo sangue. Il campo di battaglia è illuminato senza sosta dai bagliori delle granate al magnesio. Con dei movimenti cauti da indiani, dobbiamo farci strada in mezzo ad in caos indescrivibile: dappertutto carri armati incendiati, cannoni di tutti i tipi distrutti, migliaia di cadaveri, dalle uniformi marroni, verdi, grigie, nere. Migliaia di cadaveri, alcuni appesi o oscillanti sugli alberi come dei fantasmi; e sopra tutto questo orrore, dei nugoli di grossi corvi affamati, gli sciacalli alati dell'esercito. Da ogni parte il cannone spara di continuo; i proiettili traccianti corrono via nella notte; una pattuglia russa passa così vicino a noi che tendendo un braccio potremmo sfiorarli... I miei nervi sono al limite, un singhiozzo mi sale alla gola e mi prende un bisogno folle di urlare... Di urlare la mia paura sempre soffocata! Ma devo stringere i denti e seguire come un'ombra Gregor che salta da una buca all'altra. Ogni tanto un cadavere attutisce il colpo della caduta. Ma dove sono le linee tedesche?
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« Finalmente! » sospira Gregor, morto di stanchezza, aggrappandosi al mio braccio. I primi reticolati! Sono quasi tutti distrutti, e se vi erano state posate delle mine, ormai dovevano essere scoppiate da tempo. Come dei serpenti strisciamo sotto i fili. Con enorme attenzione. Vi può essere ancora della corrente ad alta tensione... Di nuovo strisciamo verso le nostre posizioni. Abbiamo un bisogno spasmodico di correre ma ci scambierebbero per dei Russi; nemmeno gridare in tedesco, non saremmo creduti. Vi sono state già troppe simulazioni di questo tipo, nessuno ci crederebbe più. Una trincea! Vi caschiamo dentro. Salvi, siamo salvi! Felice, bacio la neve. Che odissea! Ma subito dopo dei passi pesanti, dei rumori metallici. Apro la bocca per chiamare finalmente nella lingua del mio paese... delle voci russe! Degli stivali di feltro camminano su Gregor e me immobili come morti. « Job tvojemadj », sghignazza uno dei due colpendo ci col calcio del fucile. Sono paralizzato dal terrore... ma proseguiamo e, ancora tremando, riprendiamo a strisciare verso le nostre linee. Lentamente si fa giorno, il fuoco dell'artiglieria diventa parossistico e insostenibile, la Morte sembra urlare nell'aria. Tutto intorno appare come un'enorme pentola ribollente dove la terra, la neve, i cannoni, i relitti dei carri armati, dei tronconi umani, delle membra dilaniate e strappate volano e ricadono per essere rilanciate in aria. E sopra questo paesaggio da incubo, un vapore verdastro. Dopo qualche ora, il fuoco sembra attenuarsi. Accovacciati in un profondo cratere di granata, vi troviamo un proiettile di cinquantadue centimetri non esploso,
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uno di quei proiettili il cui spostamento d'aria vi strappa i vestiti di dosso. Ci sputiamo sopra, « mena buono », sostiene Porta. In questo momento ne abbiamo davvero un bisogno estremo, mentre guardiamo ansiosi la terra di nessuno. « Andiamo, vieni », dice Gregor, « bisogna finirla una buona volta », e salta fuori dalla buca, « questa volta le linee non possono essere molto lontane. » Di colpo, emergendo da un'ansa del terreno, enorme, minaccioso, croce nera sul bianco sporco della torretta, e^cone ancora uno! Un carro armato... Il lungo cannone è puntato contro di noi. Il rumore dei cingoli ci raggela. Sulla corazzatura anteriore, la testa di morto. È un Tigre, un carro armato SS. « Nicht schiessen! wir sìnd Deutsch! » (non sparate, siamo tedeschi), urliamo alzando le braccia. I motori vanno al massimo dei giri; il carro armato si impenna sopra un dislivello del terreno, schiaccia i rottami di un cannone di campagna e ricade pesantemente, tracciando la neve con i cingoli. Le bocche delle mitragliatrici sono puntate verso di noi. Vi è una sola probabilità che i serventi al pezzo non sparino su di noi... Siamo sempre in piedi, le mani dietro la nuca... innanzitutto non spaventarli! Lo sportello della torretta si apre con un rumore metallico, i tubi di scappamento ci soffiano addosso, appare un viso sporco di fuliggine sotto un elmetto grigio. Sulle spalline dei galloni bianchi, ai risvolti il teschio, la divisione dell'SS Obergruppenführer Eicke. « Heil Ivan! » grida l'ufficiale. « Dove state andando, sottosviluppati? » Punta contro di noi il suo fucile mitragliatore e nel suo viso sporco di fuliggine, brillano i denti bianchis-
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simi. Il minimo errore e ci uccide. Senza aspettare la nostra risposta, fa un gesto autoritario e ci ordina: « Salite qui, pezzi di maiali! e poche storie! altrimenti vi faccio fuori! » Ci arrampichiamo rapidamente sul carro, sempre con le mani dietro alla nuca, ma ricaschiamo all'indietro. Un ordine rauco. Il colosso vira. Altri tre Tigre, sempre della divisione T, appaiono in una nuvola di neve, e il mostro ritorna verso le posizioni tedesche. Dei giovani SS sghignazzando ci tirano giù dal grosso mezzo, ci spingono, ci tastano... degli animali rari! « Avanti, parlate, mezzi uomini Rossi, prima che vi ammazzi! » urla l'ufficiale. « Siamo tedeschi! » dico, e immediatamente mi rendo conto che ho commesso un errore. Bisognava dire: « dei soldati tedeschi ». « Tedeschi! » urla l’Obersturmführer furente. « Dei porci comunisti o dei traditori della patria, questo siete! Attaccateli con del filo spinato alla parte anteriore del carro! » « Ma siete pazzi? » urla Gregor, questa volta fuori di sé. « Arriviamo da Stalingrado, una città che voi non sapete nemmeno cosa sia, imboscati! Siamo tutto quello che resta della Sesta Armata! » Un silenzio inaudito accoglie queste parole. « E allora come mai avete addosso questi stracci russi? » chiede a voce bassa l’Obersturmjuhrer. « Abbiamo ben dovuto ammazzare qualche NKVD, per riuscire a passare! » risponde brusco Gregor. « Si fa quello che si può! » « Toglietevi quei berretti! » ordina l'SS. « Il solo vederli mi fa vomitare! » Strappa i nostri berretti con la croce verde e li cal-
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pesta con furore nella neve.
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Se qualche centinaio di donne russe o polacche muoiono di fatica nel costruire le trincee anticarro, questa cosa non mi riguarda se non nella misura in cui questa loro inadempienza ritarda la difesa dell'Armata tedesca. Heinrich Himmler, nel corso di una riunione segreta con gli ufficiali delle SS a Posen. 4 ottobre 1943 Il generale Roske, comandante del quattordicesimo corpo dei mezzi blindati, era seduto di fronte al generale Paulus, al quartiere generale che si era insediato nella vecchia e sinistra prigione della GPU. Per un singolare riserbo, i Russi avevano soprannominato l'orribile edificio « Commissariato degli Affari Interni ». Paulus era livido; tutto il lato sinistro del suo viso trasaliva sotto l'effetto di un tic nervoso continuo, fumava senza sosta e la fronte era imperlata di sudore. « Roske », disse « sono lieto di vedervi. Mi avevano riferito che eravate caduto nelle mani del nemico. Sapete che sette dei nostri generali sono già deceduti? Siamo la sola armata che abbia avuto delle perdite così forti, soprattutto dal punto di vista dei capi di stato maggiore. Quando i combattimenti si saranno conclusi almeno nella zona di Stalingrado, è presumibile che la Sesta Armata non abbia più un solo generale; abbiamo fatto degli errori spaventosi, ma l'esperienza insegna. » « Generale, sapete quello che succede nei campi trincerati? » chiese Roske. « Le truppe vivono come bestie, i soldati mangiano i cadaveri per non morire di fame, dappertutto regna il caos e lo sbandamento più totale, le divisioni non esistono più. La trentesima divisione Panzer, la centosettantaseiesima divisione di fanteria, la ventiquattresima divisione Panzer, sono state annientate; i feriti muoiono per mancanza di assistenza. Gli ospedali non hanno più i medicinali, nemmeno più aspirina, generale! Non vi è che una solu-
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zione: capitolare. » « Lo so, lo so... ma il Führer ha proibito questa capitolazione che sarebbe la nostra unica risorsa, e come soldati, non possiamo che obbedire. Salutate le vostre truppe da parte mia, Roske, e se posso fare qualche cosa per voi, fatemelo sapere. » Due ore più tardi, il generale Paulus inviava questo telegramma al suo capo supremo: « Al Führer Nell'anniversario della Vostra presa del potere, la Sesta Armata saluta il suo Führer. Le bandiere con la croce uncinata sventolano sempre sopra la fortezza di Stalingrado. La nostra lotta sarà per la generazione futura, l'esempio sfolgorante di come, anche in una situazione assolutamente disperata, non si deve capitolare. Noi crediamo nella vittoria e salutiamo il nostro Führer. Heil Hitler! Paulus, Comandante della Sesta Armata. Stalingrado 29-1-1943 ».
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DI RITORNO NELLE LINEE TEDESCHE VENIAMO trasportati a Kharkov in una vettura anfibia e consegnati al battaglione di formazione della riserva della centosessantasettesima divisione, di stanza nella caserma di Djinski, sulle colline davanti a Nova Bavaria. Un sergente capo ci manda al deposito per prelevare delle nuove uniformi e delle armi. Gli addetti al deposito ci informano che tutti quelli che arrivano da Stalingrado, sono accantonati qui, al centosessantasettesimo battaglione di riserva, che ne arrivano tutti i giorni e che, dopo essere stati equipaggiati ci si deve presentare all'ufficio della Polizia Segreta, dove l'interrogatorio viene fatto da un giovane capitano di stato maggiore, che infatti cominciò subito a controllare la nostra identità. Quindi iniziò l'interrogatorio vero e proprio. « Come siete usciti dall'accerchiamento di Stalingrado? » « Un Brigadenführer delle SS ci ha riuniti e guidati nel trasferimento », risponde Gregor. « Formavamo un gruppo di combattimento di circa ottocento uomini. » « Quale giorno esattamente? » chiede in tono amichevole il capitano sfogliando degli incartamenti. « Doveva essere il 26 o il 27 di gennaio. » « Allora si combatteva ancora nella fortezza, quando il Brigadenführer ha lasciato la posizione e ha formato questo gruppo di combattimento! » « Sì, si combatteva ancora in alcune zone », rispondo ingenuamente. « I Russi erano sul punto di attaccare le nostre posizioni vicino al Teatro Nuovo e alla Piazza dei Morti. » « E nessuno ha protestato a questa proposta di questa
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penetrazione attraverso le linee nemiche? » chiede il capitano sorridendo e offrendoci una sigaretta. « Intendo dire almeno gli ufficiali presenti? » « No, signor capitano. Non avevamo che un solo pensiero dominante, fuggire da quell'inferno dal momento che la battaglia era perduta. Eravamo tutti condannati a morire altrimenti. Voi certo non potete sapere cosa significhi per un soldato tedesco cadere nelle mani dei Russi. » « Capisco », mormora il capitano, alzando le spalle. « Così il Brigadenführer Augsberg ha preso il comando del gruppo di combattimento, e nessun ufficiale ha protestato contro questa presa di comando del tutto irregolare? Eppure era un ufficiale estraneo alla vostra armata, perfettamente sconosciuto anche, non è vero? » « Oh! La confusione era tale! Non eravamo che un gregge confuso che veniva da tutte le divisioni possibili. Si trovava lì in quel momento e prese il comando, è tutto qui. Senza di lui, nessuno sarebbe riuscito a scampare alla morte, e d'altra parte era un ufficiale al quale non era assolutamente possibile disobbedire. » « Non vi siete resi conto che si trattava di una diserzione? Voi disponevate di tutto, armi, munizioni, formavate un gruppo di combattimento molto efficiente. Perché non avete continuato a battervi contro i Russi? » « Ma una cosa simile era impensabile, e noi abbiamo obbedito al Brigadenführer », rispose Gregor, che continuava a non capire il significato di questo interrogatorio. Il capitano si diede un leggero colpetto agli stivali col frustino e sorrise con aria di superiorità. « Era però vostro dovere protestare! Avreste dovuto fermare questa strana iniziativa del generale! » « Signor capitano », replicò dolcemente, « non ho mai sentito un soldato semplice protestare davanti a un ge-
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nerale. » « Vi siete battuti contro delle grosse unità russe nella zona di Gumrak? » continuò il capitano che evidentemente era al corrente di tutta la questione. « Quando questo scontro è terminato, cosa avete fatto? » « Siamo filati via! » risponde ridendo Gregor. « Verso il Don, e a gambe levate anche! » « I soldati tedeschi non fuggono mai », risponde in tono severo il capitano. « Questa è vigliaccheria. Così, tutta la vostra marcia dopo aver disertato da Stalingrado », calcò sulla parola « disertato », « non fu che una fuga verso ovest? Il Brigadenführer non ha mai dato ordine di attaccare le posizioni russe, di distruggere dei depositi di munizioni, o dei convogli in marcia? » « No, signor capitano, egli desiderava come noi del resto, rientrare il più presto possibile nelle linee tedesche. » « Cosa ha fatto il medico militare del gruppo di combattimento, dei feriti e degli ammalati? Ha operato? Si è occupato della loro evacuazione? » « Ma era materialmente impossibile trasportare qualsiasi cosa, signor capitano, e il medico non poteva assolutamente operare in condizioni così spaventose. » « Così ha abbandonato i feriti e gli ammalati nella neve? » chiede l'ufficiale stringendo gli occhi. « Nessuno ha protestato, nemmeno il Brigadenführer? » « Non si poteva fare nulla, signor capitano, assolutamente nulla. Ognuno di noi riusciva a malapena a trascinare se stesso; eravamo al limite delle forze, delle sofferenze fisiche, della fame. Portare con noi dei feriti era assolutamente impossibile! » « Assolutamente impossibile dite? » Sembrò gustare l'espressione. « Mi auguro lascerete ad altri il compito di giudicarlo. Proseguiamo: qualcuno ha parlato con disap-
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provazione della tattica della guerra o del Partito? » « Nessuno, signor capitano! » rispondiamo subito insieme. « Ne siete assolutamente certi? » chiede scettico. Si alza, liscia con la mano l'uniforme molto elegante in panno grigio, e infila i documenti in una busta molto grande di pelle. « Se avete delle lettere consegnatevi da compagni prima di morire, consegnatemele. » « Non ne abbiamo neanche una, signor capitano », risponde Gregor. « I Russi ci hanno portato via tutto, quando siamo stati presi prigionieri. » « Avete rivelato ai Russi dei particolari concernenti la vostra fuga? » « No, signor capitano, abbiamo soltanto dichiarato i nostri nomi è le unità di combattimento cui appartenevamo. » « E la NKVD si è accontentata delle vostre dichiarazioni? » Senza aspettare la nostra risposta, proseguì: « Proibizione assoluta per tutti e due di parlare ad alcuno di questo interrogatorio, soprattutto di quello che concerne Stalingrado. Se qualcuno vi fa delle domande in merito, denunciatelo immediatamente alla GEFEPO (Polizia segreta di campagna) ». Un'ora dopo, una Mercedes che batteva la bandiera del quartier generale lasciava la caserma. In essa era seduto il capitano. Facciamo il nostro ingresso alla prima compagnia, e la nostra apparizione assolutamente inaspettata immobilizza di stupore i nostri compagni. « Oh, evviva! Non avrei mai. creduto di rivedervi! » grida Porta. « Cosa vi è successo quando siete spariti in quel bosco? Vi abbiamo aspettato per due ore, ma io l'avevo capito del resto. Avevate incontrato degli Ivan, e non avevate nessuna voglia di dividere il caviale con i camerati! »
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« Bambini miei, bambini miei! » dice il Vecchio con gioia sincera. « E noi che pensavamo che foste morti già da tanto tempo! » « Sapete che stanno ricostituendo la Sesta Armata? » dichiara senza perifrasi Barcelona, che se l'era cavata e ora stava bene. « Sa Dio da dove salta fuori tutta questa carne da cannone! La Germania deve essere stata proprio passata all'aspirapolvere! » « Più presto si svuota, meglio è! » dichiara Porta. « La guerra finirà e noi si cambierà la divisa! Questa marrone ha finito per darmi sui nervi! » « Oh sì, la guerra finisce », dice il Vecchio, con aria assorta. « Che effetto ci farà dopo tanto tempo? » « Io posso dire una sola cosa, in ogni caso », interrompe il legionario. « Dopo la guerra del Rif, siamo rientrati alla base, e non era passato molto tempo che già rimpiangevamo la guerra. Quelli, almeno, erano i bei tempi! » « A proposito », chiede Gregor. « Cosa ne è di Augsberg, del tenente e del medico? » « Avresti potuto anche immaginartelo », risponde il Vecchio. « Non vi ha interrogato un capitano di stato maggiore? » « Sono stati arrestati, per cosa? » grido stupefatto. « E cosa credi? In un esercito la disciplina è indispensabile. Augsberg ha lasciato Stalingrado contro gli ordini di Hitler e così pure il tenente e il medico. Saranno degradati tutti e spediti a Dirlewanger, vedrete se non è vero, sono pronto a scommetterlo. » « Ma è una follia! Qualsiasi essere umano appena ragionevole, avrebbe cercato di uscire da quel carnaio! Noi non abbiamo disertato, siamo rientrati nelle linee tedesche! » « Mettiti in testa una buona volta che tu non capisci
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niente, mai niente », dice Porta. « Soltanto i pezzi grossi capiscono tutto. Va bene? Quando ti ordinano di marciare verso est, anche se devi fare dieci volte il giro del mondo, devi marciare verso est e basta. » Per un po' ci divertiamo a guardare il flusso continuo di nuovi arrivati. I soldati di Stalingrado però vengono considerati come dei semidei, e noi ne approfittiamo abbondantemente. Regali e boccali di vino sono indispensabili perché noi ci degnamo di rendere tollerabile l'esistenza ai « novellini »! In questo modo la guerra potrebbe durare anche dieci anni! Un giorno, mentre Porta e io passiamo davanti al mercato coperto che è ora il magazzino del reggimento, un grosso intendente generale ci corre dietro e prende Porta per le spalle. « Allora! Ecco qui Hauber! Dove siete sparito per cinque ore di seguito, pezzo di fannullone! » Porta, stupito, fissa per qualche minuto i grossi occhiali scuri, spessi e quasi opachi, poi si rende conto immediatamente che l'uomo molto miope l'ha preso per un altro. Il suo istinto infallibile e pronto tuttavia, gli suggerisce di stare al gioco e di approfittarne. « Voi non sapete ancora cos'è la guerra, maledetto sfaticato! » grida l'uomo. « Andate a prendere il vostro camion e tornate immediatamente qui a prendere gli ordini! » Nascosto dietro un albero, seguo il corso degli avvenimenti, ascoltando il grosso intendente che continua a urlare. Un quarto d'ora dopo Porta, raggiante, esce al volante di un grosso camion e mi fa segno di montare vicino a lui. « Su, in viaggio, ragazzo! Andiamo a ritirare della merce per quel cretino cogli occhiali. Lui è un mezzo svitato,
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ma di sicuro ci sarà qualche cosetta da arraffare. Guarda un po' che occasione meravigliosa che ci capita! » A tutta velocità filiamo verso il deposito, dove Porta, molto sfacciatamente presenta il suo ordine di requisizione. « E voi, chi siete? » chiede diffidente il sergente incaricato. « Come mai Hauber non è venuto personalmente come sempre? » « Faccio presente al signor sergente che il poveretto è ammalato », risponde Porta battendo i tacchi. « Malessere molto grave sopraggiunto improvvisamente. È per questa ragione che l'hanno trasferito d'urgenza all'ospedale militare. » Il sergente timbra l'ordine e Porta firma senza la minima esitazione. Come prima cosa ci consegnano un lotto di stuoie, poi uno di uniformi, cosa che fa infuriare Porta. Al terzo magazzino ci vengono consegnati cinquecento fucili mitragliatori. E Porta diventa sempre più furioso. Ma al quarto e ultimo magazzino, le cose migliorano. Dei grossi colli di cibi in scatola che vengono ammucchiati sul camion. « Per quanto riguarda le dieci casse di vodka, le riceverete al magazzino trentasei, dove ho già dato disposizioni telefoniche proprio adesso », dice il sergente che Porta ora vorrebbe abbracciare teneramente. Presa subito in consegna anche la vodka ripartiamo, e ci fermiamo poi in una viuzza da un russo disertore, amico di Porta. Tutto quello che c'è di commestibile viene nascosto in un sotterraneo, e per quanto riguarda il camion, lo portiamo fuori città dove, a colpi di granata, simuliamo un attacco partigiano. Questo è sempre il miglior sistema per insabbiare qualsiasi inchiesta. Segue una ubriacatura generale in piena regola, come sempre nella sala delle armi, mentre le voci più allarmi-
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stiche cominciano a circolare per le strade. Si dice che i Russi hanno sfondato il fronte tedesco a nord, e che si combatte ormai in certe zone della stessa Germania. Si parla anche di ritirata strategica, termine che in tutte le lingue significa ritirata precipitosa. Sicuramente sta accadendo qualche cosa di molto grave, perché giorno e notte i mezzi di trasporto partono per Bjelgorod e Orel. E, colmo di ironia, ci viene ordinato di seguire un corso accelerato, proprio a noi specializzati, sui vari sistemi per distruggere un carro armato... Assurdo, saremmo noi in grado di dar loro lezione! Poi rientro alla caserma di Nova Bavaria, trasformata in vero e proprio formicaio. Tutto viene rimesso in perfetto ordine, il vecchio materiale viene rimpiazzato con altro perfettamente nuovo, tutto viene lustrato, e naturalmente tutti cercano di rubare tutto quello che è possibile rubare, dal momento che stiamo per partire (così pare) per Berlino, per rafforzare il reggimento della Guardia. Anche noi crediamo a tutte queste voci, solo perché abbiamo voglia di credervi. Così, dall'alba al tramonto facciamo esercitazioni continue, e finiamo per sentirci simili a delle reclute in tempo di pace. « Ho capito », dice Porta. « Stiamo per arrenderci e ci esercitiamo per ricevere Stalin secondo le tradizioni dell'Armata prussiana! » Heide invece sostiene che la pace è già stata conclusa all'Ovest, e che il re d'Inghilterra e il presidente Roosevelt stanno arrivando proprio qui. È tutta fantasia, naturalmente, ma qualcuno comincia già a imparare qualche parola di inglese! Ma strano a dirsi, cominciamo a rimpiangere l'atmosfera del fronte, e la tranquillità delle trincee... Finalmente una notizia vera, ed è naturalmente Heide che ce la porta: siamo in attesa della visita di Hitler! Al
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primo momento lo stupore è generale. Poi un immenso scoppio di risa. Il Führer che viene a vederci, a vedere proprio noi, il letame della trincea! Impossibile! La farsa è troppo grossa. « Dopo tutto », commenta il Vecchio, tirando su col naso, « magari vuole vedere con i suoi occhi i resuscitati di Stalingrado, in fondo non è poi da escludere. » « Non mi va proprio niente questa faccenda », grugnisce Fratellino. « A questo punto preferirei, e molto anche, andare a fare un po' di sminamenti! Sono molto meno pericolosi che non avere a che fare con i pezzi grossi! » Bene, ci viene confermato che la notizia è esatta. E di punto in bianco sembra che il diavolo in persona voli nella caserma. Sconvolti, ufficiali e sottufficiali urlano come degli ossessi degli ordini perentori che vengono immediatamente seguiti da contrordini, e tutti sono lì lì per prendersi a pugni perché nessuno è d'accordo sull'ordine che effettivamente è da eseguire. Verso mezzanotte, allineati su tre file, aspettiamo... La guardia imperiale non potrebbe essere più scintillante di noi. Due sergenti, dislocati in fondo alla strada come delle vedette e muniti di pile intermittenti, sono incaricati di annunciare l'arrivo delle macchine. Tutto questo dura tre ore. Il nervosismo cresce di minuto in minuto. Dei soldati svengono e cascano rigidi come delle travi fuori dalle file. Finalmente arriva il momento fatidico! In testa, tre cabriolet Hoesch irrompono con un gran rumore nel cortile della caserma. Ne scendono degli ufficiali SS che formano immediatamente un cordone, la pistola in pugno; quindi entrano quattro camion zeppi di soldati LSSAH (guardie del corpo di Adolfo Hitler), che formano due altre file serrate, tutti con gli MPI in posizione di tiro. Altra colonna di enormi veicoli speciali ar-
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riva a tutta velocità dal portone di ingresso; una masnada di ufficiali SS, corre in tutte le direzioni, ispeziona, perquisisce, grida, urla, ruggisce, minaccia di consiglio di guerra, di polizia militare, di gendarmeria di guerra, di Gestapo, di forca, di Torgau, di battaglioni disciplinari, di tutto! Un attimo di calma. Tutti riprendono fiato. D,a lontano risuona l'allarme della sentinella. Gli ufficiali attraversano senza sosta il grande cortile presi da un'ansietà inesprimibile; una SS lascia cadere per terra il suo MPI, che fa un frastuono spaventevole, un gatto si mette a miagolare dallo spavento sul bordo di un muro altissimo, il comandante di compagnia ha una crisi di nervi e ordina di arrestare il gatto, cinque uomini si precipitano per arrestare l'animale che dall'alto li innaffia con disprezzo poi sparisce con la coda all'insù. Dos Mercedes di lusso sboccano nel cortile in mezzo a una nuvola di neve e si fermano davanti al nostro comandante. Risvolti rossi e galloni d'oro fanno a gara di luminosità con le decorazioni; gli speroni tintinnano, le sciabole e i monocoli mandano lampi luccicanti. Dalla prima auto scende il Generalfeldmarschall von Mannstein, seguito da tutto il suo stato maggiore; dalla seconda il generale d'Armata Guderian, ispettore generale dei mezzi corazzati, che è molto raffreddato, ha il naso tutto rosso e lo soffia di continuo. Il nostro comandante presenta il reggimento al generale d'Armata. Echeggiano ordini, esercitazioni con i fucili, piedi che corrono veloci e a tempo, urla, minacce, imprecazioni. Il cane del reggimento si prende una scarica di calci perché in mezzo al cortile si mette ad annusare lo sterco del gatto del reggimento. Un sergente sviene. Ispezione delle truppe; un cinturone e una cartuccera sono irregolari; il sergente del deposito si affloscia tremando
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quando il povero soldato corre da lui per farle sostituire. Il generale Guderian presenta il reggimento al Generalfeldmarschall von Mannstein: nuova ispezione. Questa volta, dalle teste viene strappato un elmetto cui manca la piccola aquila di metallo; appartiene alla seconda compagnia. Il comandante del reggimento lancia degli sguardi omicidi al comandante di compagnia, che a questo punto ammazzerebbe volentieri tutti quanti. Nuovi ordini secchi, nuove esercitazioni, e di nuovo si aspetta... Nella strada sentiamo la voce di una donna russa che grida: « Pesce da vendere! » proprio davanti all'ingresso della caserma. Il frustino di von Mannstein ha degli strani movimenti nevrotici: chi non sa ancora che il Führer detesta il pesce, santo cielo! Quattro SS al galoppo corrono a cacciar via la venditrice di pesce, poi una nuova colonna di macchine zeppe di SS arriva a grande velocità. E alla fine, alla fine, ecco apparire la grande Mercedes nera nella quale troneggia Adolfo Hitler! « Reggimento a destra, destr », ruggisce il comandante con una voce talmente rauca che si spezza. « Testa eretta! Attenti! Presentat'arm! » Hitler scende lentamente dalla macchina, cammina con le gambe rigide in avanti, com'è sua abitudine quando ispeziona le truppe; il suo passo fa pensare a una strana danza. Del suo volto, non si vede che il naso e i baffi: il resto è nascosto dall'ombra dell'elmetto e del grande collo di pelo. Il comandante presenta la sua unità al Führer che saluta con un gesto della mano. « Secondo reggimento carristi... » comincia. Ci confonde evidentemente con un altro ma nessuno osa farglielo notare. « Vi ringrazio, soldati, per il vostro coraggio e il vostro valore! Siete l'orgoglio della intera Germania. Quando avremo vinto la guerra sarete decorati.
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Heil, soldati! » Un urlo generale: « Heil Hitler! » fa vibrare tutti i vetri della caserma. Seguito dai generali e dallo stato maggiore, Hitler a piccolo trotto passa in rivista le truppe. Fa alcune domande a dei soldati e prosegue senza aspettarne la risposta. Si ferma un istante davanti a Porta poi prosegue senza dire una parola. Nel giro di sette minuti e mezzo esatti è tutto finito. Un vero record. Von Mannstein che è un po' corpulento e di una certa età, fa visibilmente fatica a tener dietro al passo così celere del grand'uomo. Senza stringere la mano a nessuno, Hitler risale sulla Mercedes che sparisce all'orizzonte, seguita dal corteo delle auto dello stato maggiore. La visita è durata undici minuti. Delusione generale. È molto più piccolo di quanto noi pensassimo, quasi comico nella sua divisa, tutto sembra troppo grande su di lui. L'elmetto, il cappotto, gli stivali, i baffi, tutto! Fratellino trova che. assomiglia a un clown. E quando poco dopo ci troviamo tutti alle latrine per giocare a carte, tutti sono d'accordo; sì, assomiglia proprio a un clown. « Merda allora! » mormora Fratellino. « E dire che un grand'uomo così è schiacciato dentro a un formato così piccolo! È proprio assurdo. È vero che riesce a proibire che gli Italiani mangino gli spaghetti e obbligare i Francesi a bere la birra tedesca? » « Può essere benissimo che ci riesca », fa il Vecchio perplesso, « sarebbe un'imbecillità, ma non si può più giurare su niente ormai! » « È vero che è quasi un Dio? » chiede di nuovo Fratellino deluso ma sempre più sconcertato. « Quasi. Deve anche aver detto a un vescovo che Dio ha creato gli uomini ma che lui si sarebbe incaricato di distruggerli tutti. Beh, e adesso piantiamola con il tuo Hit-
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ler e distribuisci le carte. » « Così, potrebbe anche far finire la guerra se solo volesse », continua ostinato Fratellino. « Certo, se solo volesse », risponde sospirando il Vecchio. « E farebbe bene anche a volerlo subito, dal momento che un qualsiasi cretino si accorgerebbe che si sta andando tutti a ramengo! »
281 Coloro che sono sopravvissuti al combattimento non sono che i meno valorosi. I veri eroi sono caduti al fronte. Adolfo Hitler 19 marzo 1945
La mattina del primo febbraio 1943, giunse al Quar-tier Generale, il seguente telegramma: « Mio Führer, La Sesta Armata ha tenuto fede al giuramento della bandiera. Ci siamo battuti fino all'ultimo uomo e all'ultima cartuccia, come voi stesso ci avevate ordinato di fare. L'Armata non ha più né munizioni, né armi, né viveri. Sono state interamente distrutte: la quattordicesima divisione Panzer, la sedicesima e la ventiquattresima Panzer, la nona divisione della FLAK, la trentesima divisione MOT, la quarantaquattresima, la settantunesima e la centosettantaseiesima divisione di fanteria, la centesima divisione cacciatori. La Sesta Armata saluta il suo Führer, Adolfo Hitler. Viva la Germania! Paulus, Generale d'Armata ». Alle cinque e trenta dello stesso giorno, la Sesta Armata inviò il suo ultimo messaggio radio: « I Russi penetrano nei bunkers. Li facciamo saltare ». Il tenente Wultz, ufficiale radio-telegrafista, trasmette al suo diretto comandante, il segnale EL che, nel linguaggio telegrafico internazionale, significa che la stazione radio cesserà di emettere comunicazioni. Poi con una vanga, demolisce la stazione radio e si fa saltare il cervello. Ma colui che era comandante in capo, che senza sosta aveva urlato per mesi: « lo obbedisco perché sono un soldato », e che senza un minimo senso di pietà umana, aveva fatto fucilare tutti coloro che avevano abbandonato i loro posti di combattimento, nonostante la situazione fosse assolutamente disperata... questi dichiarò al suo comandante di stato mag-
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giore, che lo avvertiva che i Russi offrivano a noi ancora una volta una resa onorevole: « Non desidero nel modo più assoluto occuparmi personalmente della cosa, Schmidt. Fate quello che credete meglio. Rifiuto ogni responsabilità e desidero essere trattato alla stessa stregua di un civile. Potete, se lo desiderate, rilevare voi stesso l'Armata, ma per quello che mi concerne dovete prevenire i Russi che per nessuna ragione io attraverserò la città a piedi. Che sia messa a mia disposizione un'automobile, e una seconda a disposizione dei generali ». Il generale Paulus si comportava esattamente come Hindenburg nel 1918: rifiutava la responsabilità di una catastrofe nazionale, di cui egli stesso doveva portare personalmente tutto il peso.
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IL TRENO LA stazione assomigliava a mille altre stazioni ferroviarie russe. Qualche fiorellino primaverile intristito lottava per non appassire, dello sterco di cavalli decorava l'entrata dell'ufficio del capostazione, tutti imprecavano contro quello sterco ma nessuno pensava a toglierlo, e sarebbe rimasto nello stesso posto fino a quando un colpo di vento abbastanza forte non l'avesse trascinato lontano. Dei contadini con i loro polli aspettavano il treno da due giorni, e per impedire ai poveri animali di razzolare e sparpagliarsi intorno, erano state slogate loro le zampe. Un altro trascinava un maiale al guinzaglio, un bel maiale per la verità, tutto bianco con la testa nera; si chiamava « Tanja » e lo conoscevamo tutti così bene che nessuno avrebbe avuto il coraggio di ammazzarlo e mangiarlo! In realtà, non è che i treni non arrivassero o avessero avuto dei deragliamenti; ne arrivavano una quantità invece, soprattutto treni carichi di munizioni che andavano verso est. Dei lunghissimi convogli trainati da due locomotive, una davanti e una dietro, delle grandi, immense locomotive, simili a enormi bollitori con la ciminiera molto bassa e degli uomini neri di fumo nella cabina di comando. Erano degli uomini ormai familiarizzati con la morte proprio come noi; ad ogni curva rischiavano di saltare in aria e di cuocere nel vapore bollente. Molti vagoni di solito trasportavano dei morti, ma questi invece erano carichi di carcasse di cannoni da riparare in qualche parte della Germania e li accompagnavano degli uomini con un'uniforme a grosse righe orizzontali dietro dei fili spinati. Sul binario di destra passava ogni venti minuti un treno espresso con impressa sui va-
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goni una grande croce rossa in campo bianco. Questi treni andavano molto più veloci degli altri; trasportavano divisioni intere di uomini feriti e sanguinanti, il prezzo della gloria e del grande concerto dei cannoni tedeschi. Anche noi viaggiamo questa volta, per un permesso di dieci giorni in un convalescenziario del Sud; per la verità non era una licenza come le altre, e nessuno ne ottiene del resto in questo momento, per lo meno la bassa truppa. Stiamo andando verso una bellissima città sulle rive del Mar Nero, un luogo che Porta descriveva come l'anticamera del paradiso; puttane e viveri a volontà, casse di sigari distribuite ogni due giorni, vodka. Un convoglio sanitario entra nella stazione, un convoglio molto lungo. Per l'ennesima volta un contadino guarda l'orario appeso alla parete esterna della stazione, ma non arriva a capire che questo orario è ormai scaduto, già dal 1940. « Dodici e ventisette! » borbotta scuotendo la testa con aria scoraggiata. « Dove è andato a finire questo maledetto treno? Avranno sbagliato strada, naturalmente! Si accorgerebbe anche un cieco che questi imbecilli di ferrovieri sono pagati dalla finanza internazionale, questi imbecilli con i loro berretti tutti lustri! Tovaritsch Germanskij-soldat », chiede rivolgendosi a Porta, « quando parte il prossimo treno per Nikopol? Mi auguro che voi tedeschi siate venuti proprio per mettere un po' di ordine in queste maledette ferrovie sovietiche! » « A Natale parte », risponde Porta. « Ma non prendetevela, Pjotr, è colpa della guerra, guardate invece cosa devo io a questi ritardi », e mostra quello che le sue enormi vincite al gioco gli hanno procurato. « Io, personalmente, prego la Santa Maria di Kazan che la guerra duri altri vent'anni! La guerra, caro amico, è una specie di enorme ritardo nella nostra esistenza! Così sedetevi e
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aspettate; Tovaritsch Pjotr, il treno partirà quando può. Alla stazione si deve avere pazienza. » Ma un Oberfeldwebel invece in questo momento sta saltando giù da un treno che entra lentamente nella stazione e si ferma sferragliando. « Il treno! Il treno! » gridano tutti eccitatissimi. Caos incredibile. Tutti corrono, i bambini scoppiano in lacrime, i polli schiamazzano, i cani pisciano e abbaiano, vengono urlati degli ordini, tutti protestano, i vagoni di coda per passeggeri si fermano molto indietro e fuori dalla bandierina del marciapiede, tutti si precipitano verso gli sportelli che vengono presi d'assalto, l'uomo con il maiale è immobilizzato in una portiera e tutti lo spingono, il maiale strilla, l'uomo grida ancora più forte del suo maiale e il capo treno spara una rivoltellata. « Sabotaggio! Sabotaggio! » Porta scavalca un finestrino e atterra sopra un branco di polli. Fratellino si scontra con tre cucinieri e sbatte loro sulla testa tre polli schiamazzanti. Un sergente rumeno sguaina la sua sciabola per avventarsi su Barcelona che l'ha chiamato « culo del Mar Nero »; arrivano di corsa i Feldgendarmen e le manganellate arrivano addosso a tutti, indifferentemente. Un sottufficiale di artiglieria spara a caso e colpisce il maiale che urla e scappa veloce come una schioppettata attraverso i vagoni rovesciando tutto al suo passaggio. Tutti alla fine si ritrovano uno sopra l'altro; il maiale viene chiuso nelle latrine insieme a un vitello, sei grosse oche vengono cacciate sotto i sedili dello scompartimento, e i gendarmi sono cacciati giù dal treno. Il capotreno sembra impazzito e corre avanti e indietro sul marciapiede maledicendo Dio e gli uomini. Alla fine il treno si mette in moto scricchiolando senza neanche aspettare il segnale del capotreno...
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« Ferma! » urla il poveretto rimasto a terra. « Sono il capotreno! Non si può partire senza il capotreno! » Incespica in un cassone, poi cade lungo disteso perché un impiegato gli fa apposta lo sgambetto, e finalmente riesce a saltare sul gradino dell'ultimo vagone. « Che culo! » esclama Porta. « Sarebbe meglio se si calmasse un po', altrimenti quello rimane secco! State a sentire, questo mi fa venire in mente una storia proprio autentica. Una volta ho conosciuto un certo Manfried Katenmeyer, capitano di artiglieria, che avevano stangato perché un giorno, ancora nell'altra guerra, aveva fatto delle confusioni nello smistamento di certe casse di granate. Vi immaginate il mare di guai dell'artiglieria di Guglielmo! I francesi per colpa sua, si impadroniscono di due postazioni, il Kronprinz accorre avanti a Verdun, per farla breve un panico generale. Bene, quel cretino di capitano viene silurato e lo spediscono a scortare gli ufficiali feriti. Dopo Guglielmo arriva Adolfo. Dal momento che hanno urgente bisogno di imbecilli, viene affidato a questo capitano un treno, un vero e proprio convoglio da comandare. Vi garantisco che non guardava più nessuno in faccia. Si fa fare un'uniforme, non sto a entrare nei particolari, ma una di quelle uniformi così zeppa di nastrini gialli che sembrava un campo di tulipani. E che cagnara, che faceva! In tutte le stazioni lo temevano come il colera. Era stato soprannominato ' L'Ussaro delle latrine ' perché la gente doveva andarci secondo un regolamento rigidissimo. Prima di tutto il regolamento, come sempre. La mattina dopo la zuppa e la sera prima di andare a dormire. Tre minuti e trenta secondi per ciascuno e due fogli di carta; grigia per i soldati, gialla per i sottufficiali, bianca per gli ufficiali. Quanto ai treni, naturalmente, non ne sapeva niente, tanto che una volta gli succede quello che adesso vi rac-
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conto. Il suo treno un giorno si ferma in una piccola stazione dall'altra riva del Donetz. Lì si trovava un vecchietto che andava su e giù con in mano una scopa che gli avevano consegnato nel 1922. Per dargli un'occupazione, naturalmente. Durante e dopo una rivoluzione proletaria, bisognava che tutti avessero un'occupazione, altrimenti non andava bene niente. Il vecchietto ne aveva viste di tutti i colori sotto tutte le varie occupazioni; la cavalleria di Wrangel, i marinai di Trotzskj, i Franchi Tiratori di von der Golz, i Cosacchi con la loro piccola rivoluzione personale, senza parlare della nostra prima occupazione nel 1914. Lui si limitava a cambiare bracciale sulla manica e a gridare: ' Sono di Petsamo! Sono dei vostri! Viva il Kaiser! Viva la Russia! Viva la Germania! Viva la Rivoluzione! Viva Tutti! ' Dunque, sempre quel giorno del 1922, quando i marinai di Kronstadt erano arrivati in questa stazioncina sperduta, il commissario politico aveva ordinato al vecchietto di prendere in consegna la scopa e di non abbandonarla mai per nessuna ragione, sotto pena di essere spedito a Koli-ma. Vi garantisco che ci dormiva assieme. Ma ecco che arriva proprio il famoso capitano delle latrine, solo che erano passati la bellezza di ventun'anni. Il vecchietto lo guarda, col mento appoggiato all'impugnatura della scopa come si fa in tutto il mondo e il capitano si mette a urlare esattamente come si fa in tutto in mondo. Mentre lui fa la sua sfuriata, il treno del capitano, in mancanza di meglio, si mette in moto lentamente senza di lui, e adesso arriviamo alla morale della favola: nella vita non si deve mai avere fretta. La gente che ha sempre fretta, l'ha anche quando non bisogna averla. Esattamente quello che succede al nostro capitano, comandante del treno. « Si aggrappa all'ultimo vagone, non ce la fa, cade lungo disteso, si rialza affannato, perde il
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berretto e gli corre dietro. Anche il capostazione russo gli corre dietro, salutando militarmente e gridandogli: ' Gospodin, Tova-ritsch capitano! Vi faccio umilmente presente che state correndo nella direzione opposta! ' Il capitano, vedendo questo berretto rosso fiammante, si ferma di botto e saluta militarmente due volte di seguito, credendo si trattasse di un generale. ' Cretino! ' gli urla poi, accorgendosi dell'errore. Ed eccolo che riparte di corsa dietro il suo treno. Ma che scarogna! Dato che, pur continuando a correre imprecava violentemente contro il capostazione, inciampa e va lungo disteso proprio davanti alle latrine. Il treno, intanto, sobbalza tranquillamente sui deviatori di scambio per mettersi sul binario giusto. Senza affrettarsi l'avrebbe preso tranquillamente; ma il capitano galoppa sul marciapiede, la lingua fuori e la sciabola sotto il braccio. Per fare il furbo, corse in direzione del deposito merci ma qualcuno, un controrivoluzionario di sicuro, aveva sbarrato il passaggio per impedire ai viaggiatori di entrarvi. Perfettamente visibile a occhio nudo questo steccato, ma il capitano, comandante del convoglio ottocentonove, non vede che una sola cosa, la lanterna rossa dell'ultimo vagone del suo treno, e naturalmente va a urtarci in pieno contro a questi paletti fascisti, opera sicuramente anche del semitismo internazionale. A questo punto gli viene un'idea geniale, di infìlarvisi sotto per passare, ma essendo molto grosso, vi resta impigliato, e il vecchietto si dà da fare a tirarlo per una gamba e disincagliarlo da questo recinto fascista... Nuovo saluto militare... Adesso il capitano si attacca ben saldo al bordo del recinto e riesce a issare i suoi cento chili e passare dall'altra parte; ma dall'altra purtroppo c'è uno stagno dove stanno galleggiando beate delle anitre. Il capostazione russo lancia un grido molto borghese: ' Mio Dio! ', mentre il capitano vi casca dentro perdendo
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la sua sciabola scintillante. E senza sciabola, non si può essere comandante di un convoglio ferroviario! Va a raccattare la sua sciabola, ma intanto diventa sempre più furioso: ' Arrestate quel treno! ' urla, ' lo vedete sì o no che c'è un capitano senza treno, volevo dire un treno senza capitano! Vale a dire un convoglio ferroviario, senza il suo comandante in capo, e un comandante in capo non può circolare senza il suo treno? E adesso tacete, mi avete seccato! ' E infuriato gira di continuo intorno al povero capostazione sbigottito. A questo punto il telegrafo comincia a battere i tasti: veniva annunciato l'arrivo dell'espresso Dniepr-Petrovsk. « ' Santa Madre di Dio! ' ruggisce il capostazione ' Trattenete ancora un momento questo dannato treno! Sto mandando il capitano con una bicicletta. ' Gli impiegati della stazione precedente che non riuscivano a capire cosa diavolo stesse dicendo, convinti che l'uomo fosse ubriaco come il solito, decidono di non fermare il treno, mentre il capitano pedala come un pazzo in mezzo ai binari. « ' Che il diavolo se li porti, questi maledetti tedeschi! ' impreca il capostazione, fuori di sé. ' Non si può tener liberi i binari solo per la bicicletta di un capitano, anche se comandante di un convoglio! ' E si precipita nella cabina degli scambi per le manovre relative all'espresso in arrivo. Il capitano intanto pedala, la sciabola sotto il braccio, proteso in avanti come un corridore professionista, e non si accorge che abbandona i binari giusti per andare su quelli che portavano a un magazzino e che terminavano in un reggispinta molto duro e massiccio. In pieno slancio, la bicicletta supera il pendio breve in salita, fa un salto mortale, proprio come al circo equestre, ricade sui binari e riparte in senso inverso per ritornare sui binari principali. Nel vedere il bolide in corsa, il ca-
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postazione saluta, poi afferra e sventola una bandierina verde, e contemporaneamente manovra lo scambio per inserirlo in un nuovo binario morto, che conduce al garage, dalla parte opposta della bandiera della stazione. Purtroppo a suo tempo i fascisti e il semitismo internazionale avevano messo proprio qui un cumulo di terriccio e di pietre... Fracasso spaventoso, fuoco d'artificio dell'elmetto, dei pedali, della sciabola scintillante! Occorre subito confortare il povero corridore professionista con una sorsata di cognac, e accompagnarlo alla stazione, con l'elmetto di traverso e la sciabola ridotta a un falcetto... « Beninteso, a questo punto bisogna redigere un rapporto, ma a chi? Alla direzione delle Ferrovie russe o a quelle tedesche? Chi lo sa? Il capostazione stava già tornando con in mano tutti i suoi moduli da riempire, quando dà un'occhiata e non crede ai suoi occhi! Il capitano si è impadronito di una draisina ' e ha già superato la cabina dello scambio. E intanto l'espresso è già in arrivo! Il capostazione afferra il telefono e urla nel cornetto: ' Comandante tedesco su draisina, direzione Dniepr. Arrestate l'espresso quattrocentododici! ' Un altro urlo gli risponde immediatamente: ' Espresso quattrocentododici partito. Ci avete rotto le balle. Arrestatela voi la vostra draisina 1 . Per un istante il poveretto riflette, poi piazza tutti i segnali sullo stop, sia sul davanti che sul retro della stazione, poi blocca di nuovo tutti gli scambi. Solo dopo un'ora si accorgono che aveva completamente perduto la ragione. Ecco cosa succede a frequentare i Prussiani! A una velocità di novanta chilometri all'ora, l'espresso entra nella stazione, fila sul binario dei depositi merce e si ferma un chilometro e 1
Specie di rudimentale bicicletta. (N.d.C.)
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mezzo dopo. Ma purtroppo qui non c'erano più binari, e viene ritrovato un mucchietto di ferraglia e del povero capitano la sciabola e l'elmetto. « Questa storia sarebbe finita qui, se tutta la faccenda non fosse passata in mano ai militari, e in mano ai militari le cose naturalmente non finiscono mai. La pratica arriva al consiglio di guerra e non era una cosetta: pensate, un espresso e un comandante di un convoglio ferroviario! Proprio quel giorno i guastatori dell'armata, conformemente ai piani della ritirata, dovevano far saltare a sud di Tichwin duecentosessanta chilometri di strada ferrata, settantacinque locomotive, e sedici stazioni. Ma il consiglio di guerra, impassibile, condanna a morte i! nostro povero capostazione per aver manovrato erroneamente lo scambio, e aver sconquassato un espresso russo con quattro vagoni. Il capitano morto viene dichiarato responsabile dei gravi danni subiti, perché aveva superato, senza un previo ordine, un semaforo rosso, inforcando una draisina appartenente alle Ferrovie di Stato russe, e provvisoriamente requisita dalle autorità prussiane. Valore della draisina: tremilaquattrocento marchi tedeschi. Valore della bicicletta: quattrocento marchi tedeschi. Due stanghe di legno divelte al recinto: dodici marchi tedeschi. Sgraffi alla smaltatura e verniciatura a fuoco della locomotiva: sedici marchi tedeschi. Un totale, con varie altre piccole aggiunte, di quattromila marchi tedeschi. « E il treno che intanto stava filando da solo senza il suo comandante, vi state chiedendo? Poveretto! Continuò a girare dappertutto come un povero pazzo furioso. Senza il suo comandante, nessuno sapeva dove andare e per sbarazzarsene, lo si inseriva in tutti i binari temporaneamente liberi. È stato per questa ragione che lo si vide arrivare quindici volte a Kiev, tre volte a Ber-
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lino, una volta sola a Parigi, dove arrivò e proseguì senza fermarsi per filare verso Amsterdam e Bruxelles; tornò sui suoi passi a Copenaghen perché non poteva proseguire verso la Svezia, dato che il ferry boat era momentaneamente in riparazione. Naturalmente negli scompartimenti vi era la confusione più mostruosa! Cinque intendenti si suicidarono, tre disertarono. Vennero perse le sue tracce per due mesi, poi lo si vide spuntare di nuovo a Monaco, che arrivava diritto da Roma, e qui un imbecille lo spedì a Francoforte. I manovratori erano diventati mezzi svitati. L'avrebbero spedito verso Pechino se il semaforo in quel momento fosse stato verde. Pensate un po' cosa sarebbe costato, fino là! Dal momento che il capitano era deceduto, resero responsabile la moglie che non trovò che un mezzo per cavarsela: .sparire. E così silenziosamente se ne andò in Andorra, un piccolo paese molto ragionevole che vive di francobolli, di banche e di altre piccole cose indefinibili e forse un po' losche, ma dove si vive bene. La moglie del capitano non volle più sentir parlare di treni, ma fortunatamente per lei, di treni in Andorra non ce ne sono! » A Winnitza cambio di treno, ma dobbiamo aspettare tutta la notte sulla banchina della stazione, e l'indomani verso mezzogiorno, prendiamo l'espresso che naturalmente si ferma ad ogni stazione. Sono solo disponibili dei vagoni merce aperti. Durante le soste interminabili, litigate feroci con gli impiegati del rifornimento viveri, che si rifiutano di darci le nostre razioni, perché mancano dei timbri che il comando di compagnia si è dimenticato di apporre sui nostri documenti. A Novojovsk, l'espresso prosegue per altra destinazione e noi dobbiamo continuare su una strada ferrata a scartamento ridotto, con una locomotiva che tossicchia penosamente.
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A Slin, termine dei binari a scartamento ridotto, che del resto erano provvisori. Questa volta dobbiamo attraversare delle paludi per raggiungere una cosiddetta linea principale, e riusciamo a saltare su un convoglio di munizioni; ci sistemiamo su dei mucchi di granate, ma per tre volte di seguito siamo costretti a scendere precipitosamente e rifugiarci sotto i vagoni, per tre consecutivi attacchi aerei molto violenti. Due strani tipi di genieri con un estintore a mano, montano a Krivy Rog; uno dei due è stato dato per morto da più di un anno, l'altro è riuscito a scomparire durante un trasporto di munizioni. Hanno le tasche piene di fogli di via truccati, e da più di otto mesi vanno su e giù per tutta Europa, in barba a tutti i posti di blocco della polizia militare. Uno risulta caduto sul fronte, l'altro disperso, e nessuno più li cerca. Quattro giorni dopo arriviamo finalmente a destinazione. Disorientati e un po' spauriti, guardiamo sparire il treno che si porta via i nostri nuovi amici ma, che sorpresa, qui tutto profuma di lillà, è primavera! Un gendarme della polizia militare, con il suo MPI sulle ginocchia, sonnecchia in una poltrona di vimini, e ci dà un'occhiata diffidente attraverso le palpebre semichiuse. Il terribile distintivo dei cacciatori di uomini sul petto; non-è che un caporale capo, ma noi ne abbiamo già visti parecchi di questi sottufficiali scortare dei generali alla forca. Passiamo davanti a lui fischiettando, con i nostri documenti in vista, ma lui sfoglia il suo libretto con le mille fotografie segnaletiche: evidentemente il classico poliziotto avido di arresti e insieme servile davanti a qualsiasi autorità costituita. Tutti in gruppo eccoci a passeggiare nella deliziosa piccola città con delle casette bianche circondate da aiuole. Che strana sensazione sentire il rumore dei nostri sti-
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vali chiodati in questo silenzio inquietante del mezzogiorno. « Non mi piace affatto questo posto », bisbigliò Fratellino. « È fin troppo quieto: non ci si sente al sicuro. » Un asino che sbocca da una via laterale lo fa saltare sopra una palizzata e atterrare con un frastuono spaventoso sopra un mucchio di recipienti per il latte. Ma al termine della strada in un leggero pendio, vediamo il mare! La nostra meraviglia è tale che dimentichiamo la paura. Delle palme, dei cespugli, dei bellissimi alberelli con dei fiori rossi, degli eleganti cipressi punteggiano questo bellissimo lungomare. « Ma questa calma, questo silenzio! » dice Porta a bassa voce, inquieto ora anche lui. « Questo maledetto silenzio non mi dice niente di buono! Mi fa venire la pelle d'oca, non sono abituato a questa atmosfera, io. » Lentamente scendiamo verso il mare, dirigendoci istintivamente verso sinistra, come fanno tutti i soldati del fronte quando si trovano in una zona sconosciuta, e qui una guardia con la coccarda sul berretto ci indica la strada che conduce al convalescenziario dell'esercito. Sempre fiori bellissimi e sconosciuti dai colori vivissimi contro l'azzurro straordinario di questo mare che noi vediamo per la prima volta. Le onde arrivando sulla spiaggia fanno un dolce fruscio. « È così bello che sembra finto! » dice Fratellino. A un tratto lancia un ruggito: due ragazze molto prosperose con dei maglioni colorati molto stretti, scendono verso la spiaggia. « Santa Maria di Kazan! » geme Porta. « Ma questa è una meraviglia! » Circondiamo subito le ragazze, che prendiamo allegramente a pacche sul sedere e Porta propone subito cinquecento marchi e una bottiglia di vodka per un in-
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contro. Sdegno delle due ragazze che sono in realtà delle infermiere. Ci sfuggono dalle mani e corrono lungo la spiaggia gridando, quando un sergente in un'uniforme nuova di zecca e tutta lustra, salta fuori da un cespuglio fiorito, e le insegue pieno di sacro zelo. Le ragazze gli corrono incontro gridando aiuto e questi allora si ferma davanti a noi, a gambe divaricate. È un infermiere ma vuol fare il generale. « Avete cercato di violentare due delle mie infermiere, vi ho visti! Vi denuncerò e sarete spediti a Torgau. » « Svuota vasi da notte che non sei altro! » gli grida Barcelona. « Se credi di farci paura, ti illudi! » « Specie di verme schifoso! Qui, nella nostra guarnigione non si accettano rifiuti del fronte! » « Non lo mettiamo in dubbio », risponde il Vecchio, calmo come sempre. « Stai in guardia però, eroe del termometro! » Il sergente si toglie di tasca un taccuino e punta una matita acuminata in direzione del Vecchio. « Nome, unità. Fuori, specie di scimmione! » Porta alza una gamba e molla un peto fragoroso, uno di quelli che puzzano come una fuga di gas, e il vento lo sospinge verso il sergente. « Offesa a un sottufficiale prussiano », grida fuori di sé. « Vi faccio arrestare e deferire al consiglio di guerra. » « Cretino! » risponde il Vecchio aprendo sul petto la tuta mimetica che rivela immediatamente agli occhi del sottufficiale le due stelle di aiutante-capo. « Eh... bastava dirlo! » mormora battendo i tacchi. « Non si sa mai cosa si nasconde sotto questi maledetti stracci mimetici. L'altro giorno mi è successo con un colonnello; non dovrebbe essere permesso, santo cielo! » « Hai una sigaretta? »
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Il sergente offre tutto il pacchetto, e anche l'accendisigari, ignorando che Fratellino in questo stesso momento sta accarezzando i fianchi di una delle due infermiere. « Qui nel convalescenziario di Zatoka, regna la disciplina », dice prendendo un atteggiamento cattedratico e severo. « Disciplina di guarnigione, ma condizioni di vita democratiche. Però niente strappi al regolamento. Dovrete leggere e firmare uno stampato. Il regolamento stesso è affisso in tutte le camere e nelle sale di ricreazione. E inoltre, tenetevelo per detto, disciplina di ferro. Sono dolente di dovervi avvertire che alcuni sono già stati spediti a Torgau. » « Quante perdite avete avuto finora nel settore dei sergenti,, in questa guarnigione così democratica? » chiede Porta sorridendo. « Nessuna », risponde il sergente stupito, « di cosa dovrebbero morire? » « Intossicazione di piombo », risponde lui amabile, maneggiando con un gesto significativo il suo revolver. Mentre lui e Fratellino sono corsi già via alla ricerca di ragazze, Gregor mi fa un cenno d'intesa che capisco immediatamente; noi due preferiamo nettamente le due infermiere. Solo inconveniente è la proibizione formale alla visita nelle camere, e naturalmente non è consentito servirsi delle scale. È il regolamento. Venuta notte, guardiamo con una certa perplessità l'edificio. L'alloggio delle infermiere è al quarto piano, molto alto! Mi arrampico sulle spalle di Gregor, agguanto il parapetto del primo piano, salto nel balcone; poi tiro su Gregor che arriva sano e salvo. Adesso abbiamo davanti il tubo della gronda. « Speriamo che sia abbastanza solido! » Parto per primo e arriviamo così come due scimmie al
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tetto, sudati ed emozionati, sempre abbarbicati alla gronda. Guardare verso il basso è una vera emozione. Da lontano intravediamo il mare e le rocce; sarebbe una caduta di almeno duecento metri. « Non guardar giù, cretino! » mi fa Gregor, « altrimenti fra un momento non cascherai beato in un letto, te lo dico io! » Sempre aggrappati alla gronda, arriviamo finalmente alle finestre della camera delle infermiere. « Ma siete pazzi! » dice la bruna, rabbrividendo al pensiero del nostro ritorno. La stanza è profumata e tiepida, la luce fioca e dolce, queste ragazze sanno il fatto loro! Un po' imbarazzati e timidi, ridiamo scioccamente offrendo loro i nostri regali; una bottiglia di vodka e una scatola di caviale, ma c'è anche una mia grossa sorpresa; un orologio e un braccialetto antichi, rubati a Fratellino che li aveva a sua volta rubati a chi sa chi. Quando se ne è accorto il gigante ha giurato di strangolare il colpevole, se lo beccava! Tutti ci sediamo a tavola felici, davanti a delle polpettine di carne tritata, del cavolo rosso e del caviale. Mi stringo vicino alla bruna che mi stringe la mano, comincio ad abbracciarla ma, in fondo, sono terribilmente sulle spine. È molto peggio di un attacco di artiglieria! E poi, perché sono venuto? È tanto tempo che non avvicino una ragazza... eppure per non sembrare ridicolo, devo pure far qualche cosa. Per fortuna, è lei che « prende l'offensiva »; la sua bocca si posa dolcemente sulla mia. Che sgomento sto provando! Con timidezza estrema la mia mano arriva al suo ginocchio e già le sue dita scivolano dolcemente sulla mia pelle nuda. Gregor è molto meno timido di me; un paio di mutandine vola attraverso la stanza come un piccione spa-
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ventato, una calza va a finire sul lampadario e si sentono delle risa soffocate. « Ma sei pazzo! Aspetta ancora un poco! » Gregor geme di piacere e la biondina protesta ma senza reagire. La mia ragazza mi butta disteso sul divano, si corica vicino a me, mi abbraccia ed eccomi sul punto di perdere i sensi! « Mi chiamo Gertrude », mi dice giocando con le dita fra i miei capelli. « E io Sven. » Mi sembra di avere quaranta di febbre. « Sono già stata sposata due volte», bisbiglia. «Il mio primo marito è stato ucciso in Polonia, l'altro lavorava aWOstkommandantur e l'hanno fatto fuori gli Inglesi; tutta la strada è scomparsa sotto un bombardamento terribile.- Bombe incendiarie, così mi hanno detto. » Sempre parlando mi aiuta a svestirmi, e mi aiuta a svestirla, poi con un lieve grido si abbandona sopra di me, le sue gambe mi tengono avvinghiato, preme contro il mio ventre. « Caro! È tanto tempo che non faccio questo con un uomo! » « E con chi allora? » « Hai avuto tante ragazze? » mi chiede, senza rispondere alla mia domanda. « Non credo, per lo meno non me ne ricordo più. Arrivo da Stalingrado. » « Stalingrado! Era terribile, vero? » « Sì. Eravamo condannati a morte. » « Oh », dice stringendomi ancora più forte, poi uno contro l'altro ci abbandoniamo sfiniti. « Mi hanno raccontato che certi riescono a farlo cinque giorni di seguito! I giapponesi, dicono, e anche otto giorni con la stessa ragazza. »
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Le sue dita mi accarezzano di nuovo, mi abbraccia con passione. E poi, e poi dobbiamo purtroppo andarcene, kiprendiamo la stessa strada che abbiamo fatto nel venire, con una promessa formale di ritornare e arriviamo alle nostre camere camminando lungo la cinta dell'ospedale psichiatrico. Nel buio intravediamo due figure: sono Porta e Fratellino felici con delle bottiglie sotto il braccio. « Dove staranno andando? » mi chiede Gregor ridendo. « In ogni caso non mi sembra il caso di avvicinarli! » La notte seguente, altra spedizione dalle nostre amiche, e l'incanto ricomincia. Per tre giorni i nostri compagni non ci riconoscono più, da tanto che siamo svagati, ma un telegramma del reggimento ci richiama prima della fine della licenza. Circondati dalle nostre conquiste, la nostra partenza è trionfale; ci accompagnano fino al vagone, ma poi ci ritroviamo soli. Siamo i soli passeggeri di questo treno che è un convoglio che trasporta solo cavalli. Ci sdraiamo nelle mangiatoie fissate alle pareti, e questa volta è la carezza umida dei musi tiepidi che ci sveglia... Le povere bestie e noi con loro, ritorniamo in guerra.
300 Noi saremo spietati contro tutti gli avversari della Confederazione dei popoli germanici. Tutti coloro che non potranno inserirsi nella nostra società, saranno mandati a morte, senza alcuna distinzione di razza o di religione. Goering, in un discorso alla Polizia 12 dicembre 1934
Una sezione di T34, si faceva lentamente strada tra le centinaia di cadaveri che riempivano la piazza del Teatro. Nel carro di testa, il tenente Jevtjenki guardava con indifferenza totale, delle povere ombre grigie uscire strisciando dalle cloache, dalle rovine intorno, e trascinarsi a stento lungo la strada. Un colonnello tedesco impazzito, accoglieva i carri armati russi tendendo le braccia in avanti, col grido isterico: «Heil Hitler! » Quanti uomini erano impazziti in quel breve tragico periodo a Stalingrado! Tra questi il generale Lange, che afferrata una mitragliatrice, sparava sulle truppe tedesche che si arrendevano. Il suo gesto insensato costò un migliaio di morti prima che si riuscisse a ridurlo all'impotenza. Poco dopo, un auto privata nera passava davanti alla sezione dei carri, facendosi strada con una certa difficoltà nella calca dei soldati. Sul sedile posteriore due generali: uno in kaki, il generale di divisione Polkownik, dello stato maggiore generale sovietico; l'altro in grigio ferro con i risvolti dell'uniforme scarlatti e un frustino in mano; questi era Friedrich Paulus, da poco promosso maresciallo sovietico. Guardava senza battere ciglio i suoi ex-soldati seduti per terra nelle strade sudicie e fangose, in attesa dell'ordine di evacuazione. Non proferiva parola davanti allo spettacolo di questi uomini, non una sola parola dei duecentottanta-cinquemila cadaveri che giacevano nella steppa, e ancora non una sola parola
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dei diecimila e più ordini di esecuzioni firmati da lui negli ultimi quarantotto giorni della battaglia. Nemmeno il generale di artiglieria Heinz, ex presidente del Consiglio di Guerra pensava a queste cose, ma nel momento stesso in cui il generale Paulus attraversava la piazza del Teatro, questi veniva picchiato brutalmente perché aveva rubato un pezzo di carne di cavallo a un tenente ferito. Stravolto e mal ridotto dalle violenze che aveva subito, venne raccolto da tre ufficiali russi, e portato al campo dei prigionieri che era stato allestito nell'edificio dell'Armata Rossa. Senza la minima esitazione, denunciò lui stesso i suoi aggressori, che vennero processati sommariamente e quindi fucilati immediatamente dai gendarmi della polizia militare tedesca, questi individui che continuavano, anche nel campo di prigionia, il loro abominevole compito. Contemporaneamente, in un sotterraneo, sotto le rovine di un panificio dove era stato installato un ospedale militare di fortuna, un gruppo di soldati della quarantaquattresima MOT, mangiavano delle membra umane, trovate in un secchio. Si presentarono poi a stomaco pieno, all'adunata, commentando di non aver mai mangiato così bene in vita loro. E sempre nelle medesime ore così tragiche, il nuovo maresciallo sovietico Paulus si intratteneva con il generale sovietico in merito a una pianta dai fiori rossi gialli e bianchi, che lo interessava vivamente. Questa pianta veniva chiamata comunemente « coda di gatto » e con le sue foglie si faceva la machorcka del tabacco pestilenziale destinato alla bassa forza russa. Paulus ne aveva appena ricevuto dieci pianticelle e questo regalo molto gradito, gli impediva di guardare i soldati affamati, pieni di pulci e con le uniformi a brandelli che lo segnavano a dito mentre passava in mezzo a loro. Guai a lui se fosse stato costretto ad affrontarli! Ma si era fatto proteggere dai generali russi, era stata veramente un'ottima precauzione.
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L'ESECUZIONE UN turbine di polvere sollevato dal vento, accoglie il grosso camion che entra nel cortile della prigione. La prigione centrale di Kharkov era una bella prigione, e Dio sa quante ne avevamo già viste! Potevamo benissimo fare dei confronti, ormai. Ma questa era la prima volta che ne vedevamo una tutta dipinta di bianco. Il grande edificio era composto di blocchi, disposti a stella, e, davanti al blocco quattro dei prigionieri correvano in tondo reggendosi con le mani i pantaloni. In una prigione militare non è permesso tenere né cinture né bretelle. Non si deve assolutamente correre il rischio che uno si impicchi prima di essere fucilato! Questi poveretti ci guardavano con ansietà incredibile, perché non ignoravano la ragione della nostra venuta, tuttavia non sapevano di chi si trattasse effettivamente. Nel blocco quattro tutti erano condannati a morte. « Fucile sulla spalla sinistra! » ordina il Vecchio. « Avanti, marsch! » Nessuno ci aveva detto quale sarebbe stato il nostro compito, ma lo sapevamo già, purtroppo. Dodici uomini in divisa di campagna, venticinque proiettili ognuno, e ora la prigione... Siamo un plotone di esecuzione. « Perché, Dio Santissimo, le SS non se la sbrigano loro queste maledette faccende? » dice Porta a mezza voce. « Non è assolutamente lavoro nostro questo! » « Chi credi che sarà fucilato? » chiede Fratellino. « Spero che non sia un'altra ragazza del Telegrafo, come l'ultima volta! » « Eh, piantala, cretino! » impreca il Vecchio. « Non tarmici pensare! » E rabbrividisce ancora al pensiero di
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quella terribile esecuzione, anche se era una cosa successa molto tempo prima. Ci fermiamo in un giardinetto, dietro l'edificio riservato al comando. La grande stella rossa era sempre sopra l'ingresso e vr si leggeva sempre NKDV, in grandi lettere sinistre sbalzate in bronzo sulla cornice del portone. Ma la bandiera che sventola sull'asta è quella nazi. Una bandiera orribile anche se teoricamente bella. Nel centro di una piattabanda, avevano conficcato un palo catramato dal quale pendevano sciolte delle correggie di cuoio. Aspettavano. Aspettavano di fare la loro funzione, una per le caviglie, una per il tronco una per le spalle e le braccia. Il palo, nuovo fiammante emana ancora odore di catrame. Probabilmente il precedente era stato troppo sforacchiato dai proiettili. I gendarmi dicono sempre che un palo resiste a quattrocento esecuzioni, ma poi deve essere sostituito. Un maggiore della Feldgendarmerie si crede in dovere di farci un'arringa. « Soldati! » grida, mentre cincischia l'orrenda piastrina con la sigla SS che luccica al sole. « Soldati! Siete stati scelti per un compito che non ha certo nulla di piacevole, lo riconosco. Il Consiglio di Guerra ha condannato a morte tre disertori e la Ostkommandantur, vi ha incaricato di eseguire la sentenza. Non dovete avere per loro alcun senso di pietà. Questi porci hanno ben meritato il loro destino, non sono che dei vigliacchi e dei disertori, con cui voi valorosi non avete nulla a spartire. Aggiungo anche che vi consiglio di non fare sciocchezze, in caso contrario avrete delle gravi sanzioni. Se uno di voi, per caso, ha la sfortuna di sparare di fianco, passerà al consiglio di guerra. Mirate al cuore, e che tutto sia concluso nel minor tempo possibile. Qualcosa da chiedere? »
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Senza aspettare risposta, gira sui tacchi e si avvia verso un'albero di lillà, a raggiungere i due preti, uno cattolico, l'altro protestante. Il tenente Betz si rivolge al Vecchio. Esamina attentamente ogni fucile, ispeziona le cartucciere dove venticinque proiettili contenuti in cinque caricatori sono allineati con la punta rivolta verso l'alto, fa un passo indietro e ordina: « Togliete la sicura e verificate le canne! » Ticchettio di fucili. Gli ordini vengono eseguiti al secondo. Tutti gli ufficiali guardano verso di noi. In un pioppo vicino si ode un picchio che batte con forza sul tronco. « Caricate i fucili! La sicura! Arma al piede! Riposo! Fissi! Riposo! » Per un'ora circa rimaniamo immobili con l'arma al piede; degli ufficiali arrivano in gruppi, si salutano rumorosamente; sentiamo ridere il maggiore della Feldgendarmerie, il medico capo racconta una storia di bordelli, tutti fumano senza sosta. Appaiono molto inquieti e parlano concitatamente di continuo. Il picchio è volato via. Al suo posto delle cornacchie schiamazzano sulla cima del pioppo. E alla fine avviene una cosa... Dal blocco quattro escono quattro gendarmi, in mezzo a loro un uomo ammanettato, vestito di un camiciotto di tela logoro. Il gruppo scompare qualche istante dietro un cespuglio fiorito, poi riappare tra le due grandi piattabande che delimitano la corte. Un silenzio di morte è calato improvvisamente. Il prigioniero in tenuta di fatica è molto più alto dei suoi guardiani. Augsberg! È il generale Augsberg... Un mormorio si alza da tutto il plotone. « Mascalzoni! » grugnisce Porta. « Dio, che mascalzoni! »
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Il gruppo si ferma davanti al maggiore della Feldgendarmerie, che saluta poi si rivolge al prigioniero ammanettato. « SS Brigadenführer Augsberg, è mio dovere informarvi che la richiesta di grazia, che avete inoltrato è stata rifiutata dal comandante in capo della Quarta Armata. Siete condannato a morte per aver abbandonato, senza ordine superiore, la zona di combattimento di Stalingrado. Avete ritirato dal fronte, inoltre, delle truppe efficienti e in perfetto assetto di guerra, e avete così sabotato la difesa. Avete qualche cosa da dire prima dell'esecuzione? » « Idioti! » grugnisce il generale. Il maggiore trasale, fa un cenno ai due preti che si avvicinano al generale. « Inutile! », esclama con fierezza il prigioniero. A questo punto H maggiore della gendarmeria lancia un grido rauco e isterico: « Pronti? » Un sergente spinge verso il palo il condannato, che incespica nelle catene che ha ai piedi; delle mani esperte lo legano alle corregge di cuoio. « Io tiro di fianco », dice Fratellino a bassa voce. « Anch'io », dico. « Plotone a destra, destri Impugnate il fucile! » Dodici colpi partono simultaneamente. Il generale si affloscia in avanti, trattenuto dai lacci, ma resta come sospeso, si muove lentamente, non è ancora morto. Il medico capo, con il suo stetoscopio che gli oscilla sul petto, si china sull'uomo piegato in due, si rialza, e grida al maggiore: « Prigioniero non ucciso dai proiettili ». « Impossibile! » mormora il maggiore tesissimo.
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Il medico si asciuga il viso con il dorso della mano, si riprende, saluta militarmente e dichiara, in base al regolamento: « Signor maggiore, il medico capo Wincklemann dichiara che il prigioniero non è morto. Nessun proiettile è arrivato al cuore ». Il maggiore ci lancia uno sguardo pieno di furore, e lo si sente dire a denti stretti: « Sabotaggio di un ordine! » Poi urla: « Ricominciate, porci! Altrimenti sarete voi che finirete al palo! » E per la seconda volta risuona il comando: « Plotone! Caricate le armi! Puntate! Attenti! Fuoco! » Questa volta miriamo dritto al fazzoletto rosso che indica la esatta posizione del cuore. « Prigioniero morto. Sentenza eseguita », dichiara il medico capo. Due infermieri arrivano correndo con una bara di legno di pino, il corpo vi viene buttato dentro, poi viene sparsa della sabbia sulla terra insanguinata. Tutto è pronto per la seconda esecuzione. Il gruppo sta già arrivando al cespuglio di lillà. È il tenente del genio, ma questa volta il maggiore ha fretta: « Avete qualche cosa da dire prima dell'esecuzione? Voi sapete già le ragioni per le quali siete stato condannato a morte. Desiderate forse i conforti religiosi? » « Sbrigatevi », risponde il tenente a denti stretti. « Pronti per l'esecuzione? » Il tenente ci guarda amichevolmente, e ha un movimento quasi impercettibile della testa dedicato a ciascuno di noi. Il sergente della polizia militare gli mette una sigaretta tra le labbra: « Puntate! » Tremo talmente che il mio fucile sussulta. Chiudo gli
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occhi, non voglio vedere... ignoro il punto sul quale sto sparando... sogno di sparare al maggiore della Feldgendarmerie. « Fuoco! » « Prigioniero morto. » La voce del medico capo mi arriva da molto lontano. Come in una nebbia vedo gli infermieri andarsene correndo con la bara e lasciarla cadere in una fossa lungo il muro di cinta. Stanno già colmando di terra quella del generale. Molte fosse si allineano lungo il muro, ma per noi non è ancora finita; e sappiamo già chi arriverà anche se il gruppo è ancora lontano. Sentiamo un grido: « No! Voglio vivere, non voglio morire, no! » Eccoli avvicinarsi trascinando letteralmente il prigioniero, le cui gambe non lo reggono più. « Camerati, lasciatemi vivere, sono innocente! » Il maggiore tende febbrilmente al Feldgendarm il cappuccio nero che viene infilato sulla testa del condannato, per soffocarne le grida. Uno dei soldati del plotone cade in avanti, svenuto; il maggiore, che batte i piedi per l'impazienza, fa un cenno e il prete si avvicina al condannato, mormorando una preghiera. « Fuoco! » ordina il tenente. In questo modo viene assassinato anche il tenente medico. Credo di poter affermare che è stato questo giorno il ricordo più tragico per noi, della disfatta di Stalingrado. Come sempre dopo un'esecuzione, abbiamo libera uscita per il resto della giornata, e ciascuno di noi riceve un litro di vodka; ma prima di tutto, prima di tutto come sempre bisogna andare a firmare il « Segreto » all'ufficio della prigione. Tutte le esecuzioni sono ultrasegrete, e per la verità è meglio cancellarle dalla propria memoria, se non si desidera finire subito al blocco
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quattro. Non sapevamo che il giorno stesso, a Berlino, una donna aveva ricevuto un telegramma: « Signora Elisabeth Augsberg Berlino Charlottenburg SE DESIDERATE RIVEDERE PER L'ULTIMA VOLTA IL SOLDATO PAUL AUGSBERG PRIMA DELL'ESECUZIONE CHE AVRÀ LUOGO IL 6 MAGGIO 1943, ALLE ORE OTTO, DOVETE PRESENTARVI PRESSO IL COMANDO DELLA
KHARKOV, UCRAINA, Vi È ACCORDATA
PRIGIONE DI ORE
19.
CONDANNATO
DELLA
DURATA
IL
5
MAGGIO ALLE
UNA DI
VISITA
DIECI
PORTERETE CON VOI QUESTO TELEGRAMMA.
AL
MINUTI,
Firmato: MANNSTEIN - GENERALFELDMARSCHAL OB -QUARTA ARMATA PANZER ». Che la signora Augsberg avesse ricevuto questo telegramma dopo l'esecuzione di suo marito, nessuno poteva farci nulla. L'invio di un telegramma di questo tipo non presenta alcun interesse strategico.
FINE