JOHN SAUL GIOCO CRUDELE (Suffer The Children, 1977) a Michael Sack, senza il quale questo libro non sarebbe stato scritt...
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JOHN SAUL GIOCO CRUDELE (Suffer The Children, 1977) a Michael Sack, senza il quale questo libro non sarebbe stato scritto. Prologo Cento anni fa La risacca era intensa, quel giorno, aggiungendo un sottofondo sonoro a quel pomeriggio di fine estate. E più in alto, lo stesso vento che agitava il mare sembrava accarezzare lieve l'erba sulla quale la bambina giocava. Era una personcina graziosa, aveva undici anni, il celeste chiaro del suo vestitino si accompagnava a quello dei suoi occhi, e i capelli biondi - quei capelli che solo le bambine possiedono - le ricadevano a cascata sulle spalle e sulla schiena, mentre si chinava a osservare una delle minuscole creature che condividevano il suo mondo. Le diede un colpetto col piccolo dito, poi tirò via la mano quasi prima di udire il lieve scatto che indicava l'involarsi del maggiolino. L'osservò che ricadeva a terra, e prima che potesse scappar via fra l'erba gli diede un altro colpetto. Ancora una volta il lieve scatto. L'insetto si alzò in aria e ricadde a terra. La ragazzina sorrise fra sé, lo prese e se l'infilò in tasca. Sentì attraverso il tessuto i movimenti dell'insetto che si agitava per riacquistare la libertà, i lievi scatti delle zampe completamente attutiti. Lei diede un'occhiata verso la casa, a un centinaio di metri di distanza, poi alla strada che serpeggiava giù per la collina, sparendo infine alla vista. Quasi si aspettava di veder comparire una carrozza che risaliva il pendio, mentre sua madre si affacciava ansiosa alla veranda. Ma era ancora presto, troppo presto. Si chiese che cosa le avrebbe portato la nonna. Sperava che fosse un cucciolo. Le piacevano i cuccioli. La sua attenzione fu all'improvviso distolta quando una raffica di vento la investì; si voltò verso il fitto bosco che separava il prato dal balzo roccioso che, più oltre, precipitava sull'oceano. Restò a lungo a fissare il bosco, come se avesse visto qualcosa laggiù, quasi entro i limiti della sua visione, ma ancora invisibile. Provò lo stimolo di entrare nel bosco, tra gli alberi e le felci, e di smarrirsi nel verde, lasciandosi la casa alle spalle. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo. Sapeva che il bosco era oltre il limite
consentito, che lì vi era pericolo. Ma, tuttavia, pensò che le sarebbe assai piaciuto aggirarsi fra gli alberi... Forse fu per questo che cominciò a seguire il coniglio. Dentro il bosco, nascosto dal fogliame e dalla fitta ombra degli alberi, un uomo era seduto e scrutava il prato all'esterno. I suoi occhi non lasciarono mai la bambina, non deviarono mai di lato a fissare la casa che si profilava, in lontananza, sul lato opposto della distesa d'erba. Era come ipnotizzato, parte della scena, eppure in qualche modo separato da essa. Osservò in silenzio la ragazzina che si volgeva a fissare prima la casa e poi la strada, girandosi infine a guardare direttamente verso di lui. Per un lungo attimo, mentre lei sembrava esaminarlo, scrutare fin nel profondo la sua anima, egli fu colto dal timore che si voltasse di scatto e scappasse di corsa. I suoi muscoli si tesero, ma mentre aguzzava gli occhi nella fitta penombra, niente di simile accadde. Il momento era passato. La ragazzina guardò altrove e l'uomo si rilassò. Le sue mani si tesero verso la bottiglia appoggiata a una roccia accanto a lui. Ne trangugiò una lunga sorsata. Era un coniglio molto giovane. La ragazzina sapeva che non poteva avere più di un paio di mesi. La scrutava da dietro un cespuglio, come se fosse ben conscio d'essere visibile, ma sperando che nessuno se ne accorgesse. Restò immobile mentre la bambina lentamente si avvicinava, ma quand'era ancora a quattro metri da lui, lei lo vide arricciare naso. Seppe che stava per balzar via. Però, pensò, se anche lei fosse rimasta immobile, forse si sarebbe rilassato, permettendole di avvicinarsi un po' di più. Attese finché il naso del coniglio smise di muoversi, poi riprese ad avvicinarsi con rinnovata lentezza. Un altro mezzo metro. Il naso ricominciò ad arricciarsi. Lei si fermò. Il coniglio si rizzò a sedere e drizzò le orecchie. La ragazzina restò immobile. Cautamente il coniglio si riaccucciò sulle quattro zampe e riabbassò le orecchie, come per rendersi del tutto invisibile nel cespuglio. La ragazzina fece un passo, e il coniglio scattò via. La ragazzina, colta di sorpresa, sussultò, ma riuscì a non perderlo di vista. Vide che il coniglietto zoppicava. Una delle sue zampe posteriori era assai più debole dell'altra; così, continuando a saltare, l'animaletto deviò sulla sinistra. E sembrava lento nel fuggire. Forse avrebbe potuto aiutarlo.
Lo seguì, tenendosi il più possibile vicina, fissandolo delusa quando sfuggiva all'ultimo istante alla sua presa. Il coniglio non sembrava avere nessuna meta precisa. Corse a lungo avanti e indietro tra la vegetazione, nascondendosi sotto questo o quel cespuglio. L'uomo seguiva l'inseguimento dal bosco, senza lasciare per un solo attimo con lo sguardo la fanciulla. Di tanto in tanto percepiva con la coda dell'occhio una confusa macchia grigiastra, il coniglio. Ma questo a lui non interessava. Quel che gl'importava era la bambina. Portò un'altra volta la bottiglia alla bocca, e la vuotò del tutto. All'improvviso il coniglio sembrò rinfrancarsi, nella sua fuga prese ad avvicinarsi al bosco, non ancora in linea retta, ma con una serie di balzi deviati a sinistra che lo conducevano direttamente verso il punto in cui l'uomo aspettava. La ragazzina, tutta l'attenzione concentrata sul coniglio, lo seguì, accelerando il passo : ora le sembrò di poter prevedere le mosse della bestiola, il punto in cui sarebbe ricaduta dopo ogni balzo. Quando il coniglio si tuffò nel bosco, la bambina gli era lontana soltanto un paio di metri. L'uomo si alzò di scatto tra i cespugli, tenendo alta la bottiglia. Le nocche della mano destra si sbiancarono quando la strinse per il collo. Poi la calò con forza, quando il coniglio atterrò ai suoi piedi, fracassandogli il cranio. Si raddrizzò in tempo per vedere la bambina che, dall'intensa luce del prato, si tuffava a sua volta nel bosco. Il vento sembrò aumentare d'intensità e la risacca farsi più intensa. Lei non vide morire il coniglio. La sua mente, piuttosto, conservò alcune fulminee impressioni: il coniglio che balzava dal prato nel bosco. Una forma umana che un attimo prima non c'era si profilava adesso davanti a lei. Un rumore, non uno schianto, una specie di scricchiolio attutito, e poi il coniglio, il piccolo animale che aveva sperato di poter aiutare, che giaceva sussultando ai piedi dell'uomo. Lei sollevò lo sguardo sul suo viso. Gli occhi erano iniettati di sangue, e una barba ispida gli spuntava sul mento. I suoi occhi, che un tempo avrebbero potuto riflettere l'azzurro scintillante del cielo d'autunno, erano diventati opachi, e i capelli erano un groviglio incolore che rendeva i suoi lineamenti quasi irriconoscibili. Un lampo di riconoscimento attraversò il volto della ragazzina, ma scomparve
cancellato dall'urlo che si formò nella sua gola quando l'uomo, lasciata cadere la bottiglia, allungò le mani di scatto per afferrarla. Un braccio cinse il piccolo corpo, e la mano che aveva stretto il collo della bottiglia si sollevò per coprirle la bocca prima che l'urlo potesse uscir fuori. La lingua della ragazzina gli sfiorò il palmo e si ritrasse istintivamente al sapore del whisky. Lui la sollevò senza sforzo e si voltò per addentrarsi con lei nel bosco. La bambina cominciò a dibattersi fra le sue braccia, la sua stretta divenne più ferrea, e lui cominciò a sentire ai lombi un calore che non era dovuto all'alcool. Fece tutto in silenzio. La mise giù in silenzio in una piccola radura, e in silenzio si sfilò la cintura. Quindi la usò per legarle i polsi, e quando lei ruppe il silenzio con le sue grida, lui la schiaffeggiò con forza. Le grida si spensero in un lamento, e lei lo fissò con lo sguardo terrorizzato di un animale in trappola. Il sole scomparve dietro una nuvola. Lui si rivestì lentamente, poi sciolse la cintura dai polsi della ragazzina e tornò a infilarsela alla vita. Riaggiustò meglio che poteva gli indumenti strappati della bambina, e la prese su con tutta la delicatezza a lui possibile. Si appoggiò la testa della piccola alla spalla mentre la portava attraverso il bosco, quindi uscì fuori, sull'alta riva, porgendo il corpo della ragazzina al mare, come un'offerta. Cominciò a piovere. Restò lì per un lungo attimo, come se aspettasse un segno di qualche tipo. Poi, sistemato il corpo della ragazzina tra le braccia, così da avere una mano libera, cominciò a scendere, scivolando lungo le rocce con passo sicuro, bilanciandosi con la mano libera soltanto quando il suo peso smuoveva, di tanto in tanto, una pietra. Era ancora una quindicina di metri sopra la battigia quando prese ad aggirare un grosso macigno. Dietro, nascosta a tutti fuorché all'occhio più attento, la parete compatta della scogliera era interrotta da una piccola apertura. Vi spinse dentro il corpo afflosciato della ragazzina, poi scomparve dietro a esso. Il cielo sembrò squarciarsi quando lui ricomparve, solo, riemergendo dall'apertura fra le rocce, e il vento frustò il suo viso con scrosci di pioggia
e spruzzi d'acqua salata. Le acque si mischiarono, ed egli sentì sulla lingua uno strano sapore agrodolce. Senza voltarsi a guardare l'ingresso della caverna, cominciò a risalire la scarpata. Inzuppate dalla tempesta, le rocce si erano fatte scivolose e il vento sembrava avvinghiarsi a lui per strapparlo dai suoi incerti appigli. Tutte le volte che il piede gli scivolava, le mani gli sanguinavano un po' di più, ma lui sembrava non accorgersene. Sentiva soltanto la solidità della roccia sotto di sé, e la furia degli elementi tutto intorno. Infine riguadagnò la cima della scarpata e tornò a immergersi nel bosco, come se il mare fosse sul punto di sollevarsi e inghiottirlo se avesse tardato anche soltanto un attimo. S'inoltrò con passo deciso nel folto della vegetazione, riattraversando il terreno smosso dov'era giaciuto così poco tempo prima con la ragazzina, e poi là dove la bottiglia vuota riposava dopo essergli caduta di mano. E il coniglio. Si fermò e fissò il coniglio: il suo corpo inzuppato di pioggia giaceva pietosamente immobile. Lo prese su, cullandolo tra le braccia come un bimbo, e cominciò ad attraversare il prato verso la casa. Non sostò fra l'erba, neppure per un attimo fece scorrere lo sguardo là dove lei aveva giocato. Tenne gli occhi fissi alla casa, con la stessa concentrazione ipnotica con cui, prima, aveva fissato la bambina. Infine, superato il prato, entrò in casa attraverso l'ampia porta principale. Nessuno era lì a osservarlo mentre portava il corpo del coniglio lungo il corridoio fin dentro il suo studio, né le luci a gas proiettavano, ancora, le ombre che lui temeva di vedere. Chiuse la porta dello studio, poi andò a prender posto sulla poltrona davanti al caminetto, il coniglio morto in grembo. Restò lì seduto a lungo, piegato in avanti come per trarre calore dal gelido focolare di fronte a lui, accarezzando con le mani la pelliccia umida del coniglio. Di tanto in tanto sollevava lo sguardo sul ritratto della bellissima bambina, vestita di celeste, appeso sopra la mensola del caminetto. Non sentì arrivare la carrozza, e neppure l'energico battere alla porta principale. Non udì neppure il leggero bussare alla sua porta, il lieve scatto della porta che si apriva e i passi ovattati della cameriera che entrava nello studio. Lei attese in silenzio accanto alla poltrona, finché lui non si accorse della sua presenza.
«Sì?». La parola suonò strana alle sue orecchie, come se fosse stato qualcun altro a pronunciarla. «Mi scusi, signor John», disse la cameriera, quasi in un bisbiglio. «Sto cercando la signorina Beth. Sua nonna ha chiesto di lei». «La signorina Beth? Non è in casa? Era fuori, a giocare sul prato». «No, signore», rispose la cameriera, «sembra che non sia rientrata in casa. Ho pensato che forse...». Lui sollevò una mano: «No», disse. «Non è con me. Non più». La cameriera si voltò per andarsene, poi si girò di scatto. «Signor John?». Lui sollevò lo sguardo su di lei. «Che cos'è che ha in grembo?». L'uomo abbassò gli occhi, e per la prima volta parve conscio di ciò che giaceva sulle sue ginocchia. «È un coniglio», disse lentamente. «Un coniglio? Ma...», fece la cameriera. «È morto», disse lui. «Una piccola creatura innocente. E adesso è morto». La cameriera lasciò la stanza. Lui restò seduto per qualche istante ancora, poi si alzò in piedi. Depose con cautela il coniglio sulla poltrona, diede un'altra occhiata al ritratto sopra la mensola. Lasciò lo studio, chiudendosi la porta alle spalle, e ripercorse, un passo dopo l'altro, il corridoio. Varcò la porta d'ingresso e poi s'inoltrò lungo un vialetto che girava oltre l'angolo della casa. Giunse alla fine del vialetto e proseguì lungo un sentiero che si dipartiva da lì. In fondo al sentiero, uno strapiombo precipitava fino al mare in tempesta. L'uomo restò immobile un attimo, fissando le onde che si frangevano distanti, sotto di lui, mentre le sue labbra si muovevano, quasi in silenzio. E una parola, persa nel sibilo del vento e nel fragore della risacca, uscì da lui e andò alla deriva. «Beth», bisbigliò. Poi ripeté il nome, e mentre il suono della sua voce svaniva lontano, si gettò nel mare in attesa. Per lui era finita. Libro primo
Quindici anni fa 1 Port Arbello era confortevolmente appollaiata sulle scogliere sopra l'oceano. I suoi alberi agitavano i loro ultimi, smaglianti colori autunnali con un atteggiamento provocante che tradiva la nudità che sarebbe ben presto sopraggiunta. La brezza dell'Atlantico segnava la fine dell'estate di San Martino, e Ray Norton annusò nell'aria i primi sentori dell'inverno, mentre infilava con l'unica macchina della polizia la Strada del Promontorio, verso la dimora dei Conger. Ray era a Port Arbello da sempre, e adesso che era sui cinquantacinque anni, cominciava a sentirsi vecchio. Aveva visto se stesso crescere, diventare adulto e invecchiare mentre Port Arbello restava sempre uguale. Cercò di ricordare quali cambiamenti fossero sopravvenuti nella cittadina dal giorno in cui era nato, e si rese conto che, anche se ce n'erano stati, le differenze visibili erano trascurabili. C'era il nuovo motel che faceva del suo meglio per comportarsi come se fosse stato lì dalla notte dei tempi. Ma non c'era stato, e Ray, mentre ci passava davanti, si chiese che cosa ne sarebbe stato il giorno in cui la direzione avesse finalmente deciso che le perdite di gestione erano troppo grandi per essere ancora tollerate. Forse, Port Arbello avrebbe potuto comperarlo e trasformarlo in un club di campagna. Bastava togliere l'insegna al neon e aggiungervi un nuovo campo da golf. Poi ricordò che Port Arbello aveva già tentato di aprire un club di campagna, o quanto meno un edificio inteso a questo scopo, accanto al vecchio campo da golf. Ma era fallito, e adesso l'edificio si alzava vuoto e morente e serviva solo da riparo alla gente che usava ancora il vecchio campo da golf. Non erano più di una quarantina d'individui, e bastavano appena per versare la quota sufficiente a pagare i servizi di un giardiniere che veniva ogni tanto a tosare l'erba. Tutto considerato, al di fuori del nuovo motel (che era già vecchio di quindici anni) non c'era granché di cambiato a Port Arbello. Di tanto in tanto un negozio cambiava proprietario, di tanto in tanto una casa veniva messa in vendita, e a rari intervalli una nuova famiglia veniva ad abitarci, dalla città. Ma, in pratica, Port Arbello si teneva sulle sue, e le case e i negozi si trasferivano senza sussulti da una generazione all'altra. Le sue piccole fattorie erano rimaste piccole, e la sua piccola flotta da pesca conti-
nuava a dar sostentamento a un piccolo gruppo di pescatori. Ma era così che tutti preferivano vivere, si rese conto Ray. Erano cresciuti così, vi erano abituati, e non avevano alcuna intenzione di cambiare. Ricordava, alcuni anni prima (quanti fossero non era più certo, ma doveva essere stato subito dopo la guerra), quando un'agenzia immobiliare aveva acquistato un sacco di acri appena fuori dai confini della cittadina, con l'intenzione di farli fruttare. Il progetto era trasformare Port Arbello in una città per le vacanze, piena di prefabbricati e di villeggianti. La cittadina aveva avuto sentore del piano, e per la prima volta nella sua storia Port Arbello aveva agito in fretta. Era bastata una sola convocazione, e tutti, salvo il contadino che aveva venduto la sua proprietà, avevano dato il voto a un'ordinanza che proibiva qualunque progetto del genere, e subito dopo la terra che stava per essere edificata era stata dichiarata zona demaniale e seppellita sotto una pioggia di divieti. L'agenzia immobiliare aveva condotto un'aspra battaglia in tribunale, ma alla fine Port Arbello aveva vinto. L'agenzia non era più stata in grado di rivendere la proprietà; e il contadino, più ricco di un paio di centinaia di migliaia di dollari, grazie a questa situazione di stallo era rimasto su quella terra, aveva acquistato le più moderne attrezzature che aveva potuto trovare e aveva continuato a coltivarla, e la stava felicemente coltivando ancora oggi, alla bella età di ottantasei anni. Ray sogghignò fra sé. Quello era il modo in cui andavano le cose a Port Arbello. Suonò il clacson quando passò davanti al vecchio contadino. Ma non agitò la mano, non c'era bisogno, perché il contadino, intento al suo lavoro, neppure sollevò la testa. Ma Ray sapeva che la prossima volta che l'avesse incontrato in città, il vecchio si sarebbe toccato la tesa del cappello e avrebbe detto: «È stato un piacere vederti l'altro giorno, Ray». E anche questo era uno dei modi con cui venivano fatte le cose a Port Arbello. Un miglio fuori della città, la Strada del Promontorio dei Conger descriveva una curva a sinistra che la faceva deviare all'infuori verso il promontorio, prima di rientrare nell'entroterra, diretta a sud. Ray supponeva che anche questo fosse qualcosa di nuovo, anche se la strada era stata prolungata oltre il promontorio molto prima che lui nascesse. Ma ai vecchi tempi, ai tempi veramente vecchi, la strada probabilmente terminava alla porta d'ingresso dei Conger, sorta di cordone ombelicale dalla cittadina fino alla residenza dei suoi membri più importanti. La famiglia dei Conger, anche se non erano stati loro i fondatori della cittadina, era da tanto tempo al vertice della piramide sociale che era ormai
un dogma di fede per la gente che ben poco potesse accadere a Port Arbello senza la loro approvazione. Era anche un dogma di fede che i Conger fossero ricchi. Forse non ricchi quanto i Rockefeller o i Carnegie, ma comunque ricchi a sufficienza perché a Port Arbello li collocassero all'identico livello. Ricordavano ancora i giorni in cui la ferrovia aveva costruito una diramazione fino a Port Arbello soltanto per consentire il passaggio del vagone privato dell'Ammiraglio. E ricordavano anche i giorni quando il personale di servizio al Promontorio dei Conger era due volte più numeroso della stessa famiglia Conger (che, fino a poco tempo fa, non era mai stata piccola). A Port Arbello si presumeva che, essendo i Conger gente sensibile, e di gusto, avessero consentito che la servitù se ne andasse non perché non potessero più permettersela, ma perché averne così tanta era diventata un'inammissibile ostentazione. Ray Norton, che viveva nella stessa Strada del Promontorio, ed era cresciuto col padre di Jack Conger, sapeva come stavano veramente le cose. Ray era nato a cavallo tra due successive generazioni dei Conger, e aveva molto apprezzato il fatto di aver avuto cordiali rapporti con entrambe, anche se la generazione più vecchia adesso era morta. Ray aveva diciassette anni meno del padre di Jack Conger, e quindici più di Jack. Questo, più il fatto che era un vicino, e adesso anche capo della polizia, lo rendeva partecipe del... sì, del potere. Gli piaceva quella sua posizione. E stava molto attento a non danneggiarla, guardandosi bene dal divulgare ciò che sapeva. Uscì con l'auto dalla strada, addentrandosi nel viale dei Conger. Si cominciava a vedere la casa ancora prima di entrare nel viale. In realtà, la si vedeva già dal punto in cui la strada sfiorava il bordo della foresta che ricopriva il lato occidentale del promontorio e prendeva a costeggiare l'ampio prato che separava l'edificio dal folto degli alberi. Ma Ray faceva sempre attenzione a non guardare la casa fino a quando non avesse raggiunto l'estremità del viale. Da quel punto soltanto poteva, per così dire, assorbirla, godere della grandeur con la quale troneggiava, la sua monumentale veranda che guardava, austera, come incorniciata dal doppio filare di antiche querce che bordeggiavano l'accesso. Era una casa coloniale vecchia di duecento anni, ma le sue semplici linee quadrate sembravano armonizzarsi alla desolazione del solitario promontorio sul quale si ergeva. Aveva un suo orgoglio, come se sfidasse continuamente il mare a salire e spazzarla via. Fino a quel momento il mare non aveva accettato la sfida, e Ray Norton dubitava molto che l'avrebbe mai fatto.
Parcheggiò l'auto e attraversò la veranda fino alla grande porta di quercia. Come al solito fu tentato di alzare l'antico battaglio di ottone, lasciandolo poi ricadere di schianto contro la placca sottostante e provocando l'echeggiante «bum!» all'interno della casa che sempre ridestava nella sua mente visioni di tempi passati. Ma, come sempre, resistette all'impulso e premette invece il pulsante per avviare il carillon che avrebbe risuonato nella grande sala all'interno. «Questi aggeggi moderni», bofonchiò tra sé, parodiando i fondamenti fin troppo tradizionalistici della sua cultura del New England. Rose Conger aprì personalmente la porta, e sul suo viso si disegnò un ampio, cordiale sorriso alla vista di Ray Norton. «Ray! Se stai cercando Jack sei nel posto sbagliato. E al lavoro, lo sai». «Andrò da lui più tardi», disse Ray. «In questo momento ho bisogno di parlare con te. Hai del caffè sul fuoco?». Rose si scostò per farlo entrare. «Io no, ma sono certa che la signora Goodrich ne ha. Semmai dovesse capitarle qualcosa, p andarsene, non so proprio che cosa faremmo senza di lei. E una visita di cortesia, la tua, oppure dobbiamo parlare di cose serie? Fa una bella differenza, sai. Quand'è stata costruita questa casa, c'erano stanze diverse per ogni tipo di conversazione. Scegli tu». «Cosa ne diresti dello studio sul retro? Mi è sempre piaciuta quella stanza, ma soltanto quando c'è il fuoco acceso». Rose sorrise. «La legna è pronta, ma il fuoco è spento. Andiamo ad accenderlo... Anzi, perché non vai tu ad accenderlo, mentre io cerco la signora Goodrich?». Senza aspettar risposta, Rose si avviò verso il retro della casa, girando verso la cucina, lasciando che Ray proseguisse da solo verso lo studio. Lui accese il fuoco, poi si accomodò sulla vecchia poltroncina in stile, di cuoio, appena a destra del caminetto. Diede un'occhiata alla stanza, e constatò quanto fosse confortevole quel posto. Aveva spesso desiderato che quella casa fosse sua. Quando Rose Conger lo raggiunse, Ray stava fissando il quadro sopra la mensola. «Quello è nuovo, vero?», chiese. «Soltanto per noi», rispose Rose. «Non ho idea di quanto sia antico. L'abbiamo trovato un anno fa, ma l'abbiamo fatto ripulire soltanto il mese scorso». Ebbe un leggero brivido. «Hai idea di quanto costi far ripulire un ritratto?».
«Non ho nessun antenato che valga la pena di ripulire. Chi era?». «Non ne ho la più pallida idea. Dal modo in cui è vestita, direi che il ritratto deve avere circa novant'anni. Non riusciamo a immaginare chi fosse. Non c'è in nessuno degli album di famiglia, né da bambina, e neppure l'adulta che potrebbe essere diventata». Ray scrutò attentamente il dipinto. «Be', è ovvio a chi assomiglia. Assomiglia a Elizabeth». Rose annuì. «Le assomiglia, non è vero? Decisamente ha gli occhi di Elizabeth, e anche i capelli sembrano dello stesso colore. Ma pare di due o tre anni più giovane di Elizabeth». Fissarono insieme il ritratto, e lo stavano ancora contemplando quando comparve la signora Goodrich col caffè. «Come potevano pretendere che i bambini giocassero vestiti così?», disse lei, seguendo la direzione dei loro sguardi. «Non riesco proprio a capacitarmene. Non c'è da stupirsi che ci fossero tanti servitori qui attorno. Una cameriera impiegherebbe un'intera settimana a pulire il vestito di quella bambina, dopo soltanto un paio d'ore di giochi, qua fuori. E a quell'epoca, poi, senza lavatrici...». Scosse la testa. «Tutto quello che posso dire è che sono contenta che i tempi siano cambiati». Mise giù il caffè, fece un rispettoso cenno di saluto a Ray, e lasciò la stanza. «E se potesse fare a modo suo», commentò Rose, versando il caffè, «lei farebbe vestire così Elizabeth e Sarah mattina e sera, tutti i giorni. E terrebbe puliti i loro vestiti, anche se dovesse strizzarli e sbatterli sulle rocce in riva al fiume. I tempi possono cambiare, ma non la signora Goodrich». Ray sogghignò. «Lo so. Potrei quasi giurare che non è cambiata di una virgola da quand'ero bambino. Mi sono sempre chiesto se ci sia mai stato un signor Goodrich». «Chi lo sa?», disse Rose, scrollando le spalle. «Semplicemente, non si fanno simili domande alla signora Goodrich». Si accomodò sul divano di fronte a Ray e sorseggiò il caffè. «Allora, che cosa ti ha condotto fin qui nel bel mezzo della giornata? Ti sei trovato a corto di malandrini a Port Arbello?». «Vorrei proprio che fosse così. Hai sentito di Anne Forager?». «Anne? Le è successo qualcosa?». «Non lo sappiamo. Sua madre ci ha chiamati questa mattina, molto presto. A quanto pare, Anne è rincasata la scorsa notte molto più tardi di quando avrebbe dovuto, e in uno stato orribile, l'abito stracciato, tutta graffiata e coperta di fango dalla testa ai piedi».
Rose impallidì. «Buon Dio, Ray, cosa le è successo?». «Fino a questo momento tutto è molto confuso. Anne ha detto che stava tornando a casa da scuola, e che qualcosa le è accaduto. Ma non ha voluto dire che cosa. Continua a dire che non ricorda. Che ricorda soltanto che stava tornando a casa da scuola, a piedi, e poi si è ritrovata a camminare, tutta imbrattata di fango, sulla Strada del Promontorio». «Che ora era?». «È tornata a casa verso le undici». «Mio Dio, Ray, vuoi dire che i suoi genitori non ti hanno chiamato subito? Voglio dire, Anne Forager non può avere più di sette o otto anni...». «Ne ha nove». «E va bene, nove. Puoi scommettere che se Sarah, o perfino Elizabeth, non si fossero fatte vive all'ora giusta... alle undici di sera tu saresti stato fuori già da due o tre ore a cercarle». «È quello che faresti tu, Rose. Ma questa gente è diversa. Qui intorno nessuno pensa che possa accadere qualcosa di brutto, Marty e Marge hanno semplicemente pensato che Anne fosse con qualche amica, e questo è bastato a tranquillizzarli. Fino al momento in cui è tornata a casa. Ora stiamo cercando di scoprire che cosa è accaduto». «È stata visitata dal dottore?». «È appunto dal dottore, adesso. Dovrei sapere il risultato della visita questo pomeriggio sul tardi. Ciò che voglio sapere da te è se eri a casa ieri pomeriggio». «No, non prima delle cinque o cinque e mezzo. Perché?». «Speravo che tu potessi aver visto qualcosa. Anne ha detto di essersi ritrovata qui, o molto vicino a qui, quando ha riacquistato coscienza, a notte fonda, ed è ritornata a casa. Era imbrattata di fango, quindi dev'essere stata giù, sulla riva». «O alla cava» Ray si accigliò. «Già, naturalmente, alla cava. Me n'ero scordato». «Quanto vorrei che venisse riempita!», esclamò Rose. «Un giorno qualcuno finirà per rimetterci la vita, laggiù, e non m'importa quello che dice Jack, sarà colpa nostra». «Oh, via, Rose. Quella vecchia cava si trova lì da sempre e nessuno ha mai avuto dei guai, laggiù. Inoltre, è il luogo migliore per pescare, in tutto il circondario. Riempi la vecchia cava, e avrai addosso metà dei ragazzi di Port Arbello, a dir poco». «Potremmo costruirgli una piscina, e lasciarli pescare nel torrente», re-
plicò Rose, in tono aspro. «Credo che nessuno si renda conto di quanto sia pericolosa quella cava». «Be', sia quel che sia, noi non sappiamo dov'era Anne. Può essere stata nella cava, può essere stata giù, sulla riva... o in qualunque altro posto. Non lo sapremo fino a quando non parlerà». «Se mai parlerà...», mormorò Rose, e subito fu quasi pentita di averlo detto. Lanciò un'occhiata a Ray, e vide la compassione nei suoi occhi. Be', erano vecchi amici, e lui era da lungo tempo a conoscenza dei tormenti privati dei Conger. «Se mai...?», chiese Ray con delicatezza. Rose scrollò le spalle. «Potrebbe non farlo, sai. Se le è successo qualcosa... qualcosa che non vuol ricordare, potrebbe semplicemente escluderlo dalla sua mente». «Non riesco a immaginare che cosa possa esserle capitato», disse Ray, «a meno che il dottore non stabilisca che è stata violentata. E francamente mi risulta impossibile pensare che sia stata violentata qui. No, non a Port Arbello». Rose ebbe un sorriso triste. «Cose del genere succedono molto più spesso di quanto non si senta dire». Ray scosse la testa, dubbioso. «Se vuoi la mia opinione, Anne si è trattenuta fuori molto più di quanto avrebbe dovuto, e si è inventata una bella storia per evitare la punizione che si sarebbe meritata. Se fosse mia figlia...». «Ma non lo è», gli fece notare Rose. Ray ridacchiò. «No, non lo è. Ma io sono il capo della polizia e ho un lavoro da fare. È questo che stai dicendo?». «È quello che sto dicendo». Rose sorrise. «Lascia che chiami Elizabeth. Forse sa qualcosa che tu non sai». Andò alla porta dello studio e chiamò sua figlia. Stava versando a entrambi una seconda tazza di caffè, quando Elizabeth Conger entrò nella stanza. Aveva all'inarca tredici anni, ma non mostrava alcuna traccia della goffaggine che contraddistingue la maggior parte delle ragazzine di quell'età. Ray constatò che la somiglianza col ritratto sopra il caminetto era davvero incredibile. Gli stessi occhi, gli stessi biondi, serici capelli... Se i capelli fossero stati pettinati in maniera diversa, lasciandoli ricadere liberamente sulle spalle, le due ragazzine sarebbero state identiche. Elizabeth li aveva invece pettinati a coda di cavallo, con una frangia che le ricadeva sulla fronte, biondi quasi a fondersi con la pelle bianca, accentuando i suoi
incredibili occhi azzurro-cielo. Un'altra bambina, Sarah, comparve silenziosamente alle spalle di Elizabeth. Di due anni più giovane, Sarah formava uno strano contrasto. Aveva la pelle scura, e gli occhi sembravano sprofondare dentro di lei, come se vivesse in un altro mondo. I suoi capelli erano tagliati corti, ed erano scuri quanto quelli di Elizabeth erano chiari. E mentre Elizabeth indossava una minigonna e una camicetta increspata, Sarah era vestita con un paio di blue-jeans e una camicia di flanella a scacchi. Elizabeth entrò nella stanza e sorrise a Ray. «Ehi, signor Norton. Ha finalmente colto in flagrante mia madre? Ha parcheggiato di nuovo in sosta vietata? Se vuole portarla via adesso, posso dire alla signora Goodrich di preparare le valigie». Si sedette, godendosi le risate di sua madre e del capo della polizia. «Mi spiace, Elizabeth», disse Rose. «Il signor Norton non ha prove contro di me». Poi la sua voce assunse un tono più serio, e il sorriso di Elizabeth si dileguò quando le fu chiesto se aveva visto Anne Forager vicino alla casa il pomeriggio precedente. Lei rifletté attentamente prima di rispondere. Quando parlò, la sua voce risuonò insolitamente matura per la sua età. «Non credo. L'ultima volta che mi ricordo di aver visto Anne, ieri, stava camminando verso Fulton Street, da sola. Mi è sembrato che stesse andando a casa». Ray annuì. «È quello che dice anche Anne. Stava camminando per Fulton Street, e poi non ricorda più nulla finché non si è ritrovata da queste parti». «Da queste parti?», fece Elizabeth. «Anne dice di non sapere che cosa sia successo. Ma afferma di essersi incamminata verso casa lungo la Strada del Promontorio ieri notte, verso le undici». «Io non posso saperne nulla», dichiarò Elizabeth. «Vado a letto ogni sera alle nove». «Bene, allora», disse Rose, alzandosi. «Credo sia tutto. Mi spiace, Ray, ma a quanto pare non possiamo esserti di nessun aiuto. Hai fatto il viaggio per niente». Anche Ray si alzò, e tutti e quattro percorsero il corridoio in tutta la sua lunghezza. Ray attese che Elizabeth accompagnasse sua sorella su per la scala, poi guardò Rose. Il suo sguardo era preoccupato, e Rose prevenne la sua domanda.
«Credo stia migliorando, Ray. Lo credo davvero. Non parla ancora, ma sembra un po' più animata di quanto non fosse un anno fa». Poi la sua vivacità sembrò spegnersi. «Naturalmente, può darsi che io mi stia soltanto illudendo. Alla scuola hanno detto che non notano in lei niente di cambiato, per loro è la stessa di sempre. Ma, d'altro canto, anche Elizabeth sembra pensare che ci sia stato un miglioramento. E Dio lo sa quanto tempo Sarah passa in compagnia di Elizabeth... più di quanto ne passi con tutti noi. Non so che cosa farei senza Elizabeth. Non lo so proprio». Si salutarono, e Rose dalla veranda osservò Ray allontanarsi in auto lungo la Strada del Promontorio. Poi si girò, e fissò, con sguardo meditabondo, il bosco sul lato opposto del prato, che nascondeva alla sua vista il profilo della costa. Infine rientrò in casa e salì di sopra a trovare le sue figlie. Erano nella stanza dei giochi, e la porta era aperta. Rose sostò per un attimo in silenzio nel corridoio, osservando Elizabeth che costruiva pazientemente una torre, e poi la costruiva un'altra volta, dopo che Sarah l'ebbe buttata giù. Rose, per l'ennesima volta, fu colpita dalla pazienza di Elizabeth con quella sorella più giovane, così strana. Elizabeth alzò lo sguardo quando sua madre entrò nella stanza, e sorrise. «Uno di questi giorni la torre rimarrà in piedi», disse. «E, allora dirò a Sarah che è giunto il momento di un nuovo gioco. Fino ad allora, io continuerò a costruire la torre, e lei a buttarla giù». Elizabeth notò subito il dolore sul volto di sua madre, e cercò di rassicurarla: «Non mi spiace, mamma. Preferisco che la butti giù, piuttosto che non faccia niente del tutto». Rose si rilassò, ma soltanto un poco. Dentro di sé, benedisse Elizabeth ancora una volta. E disse a voce alta: «Elizabeth, tu non vai mai vicino al bosco o alla scogliera, non è vero?». «Naturalmente no, mamma», disse Elizabeth, senza sollevare lo sguardo dalla nuova costruzione che stava innalzando per Sarah. «Mi hai già detto quant'è pericoloso. Perché mai dovrei andare lì?». Collocò, con attenzione, l'ultimo cubo di legno al suo posto, e guardò Sarah sollevare il braccio e far crollare la torre. 2 Jack Conger allungò istintivamente la mano per regolare lo specchietto retrovisore, quando uscì dalla Strada del Promontorio e infilò il lungo viale. Lo fece con una frazione di secondo di ritardo, e il riflesso del sole al
tramonto gli colpì gli occhi, prima di scivolar giù, innocuo, sulle sue ginocchia. Ammiccò istintivamente e ancora una volta imprecò contro i suoi antenati che avevano tracciato così coscienziosamente la strada lungo l'asse est-ovest. Senso dell'ordine tipico del New England, pensò. Dio, erano tutti così... Cercò la parola giusta, esitando fra due o tre, mentre guardava lungo il viale, verso la sua casa... Così severi. Ecco la parola giusta: severi. Un viale assolutamente rettilineo verso una casa perfettamente squadrata. Si chiese quale dei suoi antenati avesse avuto la temerarietà di spezzare le linee austere della casa con quell'ampia veranda. La veranda, lui l'aveva sempre sentito, non si accompagnava realmente alla casa, anche se senza di essa l'edificio sarebbe stato del tutto privo del minimo calore. Jack parcheggiò l'auto davanti al capanno delle carrozze, adesso trasformato in garage, e girò l'angolo della casa per raggiungere l'ingresso principale. I Conger, come veniva loro insegnato sin dalla nascita, usavano sempre la porta principale. La porta laterale era per i bambini, e quella sul retro per i servitori e i fornitori. Jack sapeva che erano sciocchezze, ma l'abitudine era l'abitudine, e inoltre era praticamente l'ultima delle antiche tradizioni che riusciva ancora a conservare. Gentiluomo di campagna fino all'ultimo, pensò, mentre si chiudeva il portone alle spalle. Nessun cameriere lo aspettava per prendergli il soprabito, e nessuna cameriera corse fuori dal suo studio quando lui entrò. Pensò, asciutto, che poteva tirare il vecchio cordone del campanello e chiedere alla signora Goodrich di portargli qualcosa da bere, ma sapeva che si sarebbe sentito ripetere una volta di più che «gli adulti possono prepararsi le loro bevande da soli. Le cose non sono più come una volta, sa». Poi la cena sarebbe stata leggermente bruciata, per ricordargli che aveva oltrepassato i suoi limiti. Si preparò da solo da bere. Si era accomodato davanti al caminetto, e stava soppesando i prò e i contro se attizzare o meno il fuoco, quando udì i passi di sua moglie in corridoio. «Rose?», chiamò, quasi sperasse che non fosse lei. «Sei tu?». Rose entrò nello studio, si avvicinò a suo marito e lo gratificò con quello che di solito si chiama un bacetto. Poi annusò il suo bicchiere. «Ce ne sarebbe uno per me?». Jack sollevò leggermente le sopracciglia. «Così presto?». «È stata una di quelle giornate... Mi fai tu gli onori, oppure devo versarmelo da sola?». Jack sorrise, ma in modo tutt'altro che sereno. «Visto che non hai fatto
nessuna battuta del tipo "La pratica rende perfetti", lo preparerò io per te. Non sei tornata a casa un po' presto?», le chiese, mentre si avvicinava al bar. «Sono qui dall'ora di pranzo», disse Rose, prendendo posto sul divano. «Tutto il mio lavoro, questo pomeriggio, è stato sulla carta, e in ufficio c'era troppa confusione. Domani concluderò tre affari che ci faranno più ricchi di quindicimila dollari. Dobbiamo fare un brindisi». Gli prese di mano il bicchiere e lo alzò verso di lui. «Alla ricostituzione della fortuna dei Conger!». Jack sollevò il proprio bicchiere di malavoglia e si riaccomodò in poltrona. «Non sembri entusiasta», commentò, cautamente, Rose. «La fortuna dei Conger dovrebbe essere ricostituita da un Conger, ammesso che sia indispensabile ricostituirla. Non dalla moglie di un Conger». «Be'», replicò Rose, asciutta, «non credo sia il caso di ricominciare questa discussione. Oggi pomeriggio ho ricevuto una visita». «È una cosa insolita?». Rose fissò suo marito per un attimo, lottando contro la tentazione di abboccare all'amo. Quando fu certa di aver ripreso controllo di sé, ricominciò a parlare. «Jack, non litighiamo», disse. «Passiamo una serata tranquilla, in pace, proprio come facevamo un tempo». Jack la fissò, vagamente sospettoso, alla ricerca di un eventuale tranello. Un attimo dopo si rilassò, abbassando leggermente le spalle. Non si era accorto di aver trattenuto il respiro, ed esalò un profondo sospiro. Adesso, per la prima volta da quando lei era entrata nella stanza, il suo sorriso fu caldo e aperto. «Mi spiace», replicò. «Sto prendendo la brutta abitudine di stare sempre sulla difensiva, immagino. Chi è venuto? L'hai fatto sembrare importante». «Non sono ancora sicura se fosse importante o no. Era Ray Norton, ed era venuto qui per motivi di lavoro». «Il che», fece Jack, fissando il bicchiere, «dovrebbe avere a che fare con Anne Forager, giusto?». «Lo sapevi già?». «Dimentichi, amore mio, che io sono il direttore dell'unico giornale del posto. D'accordo, non è granché, ma è il mio giornale. E data la mia illustre posizione, non c'è molto che accada in questi paraggi che non giunga alle mie orecchie. Il Courier di Port Arbello non sarà un grosso giornale, ma è un ottimo centro di pettegolezzi. Sì, ho sentito di Anne, e proba-
bilmente molto più di te, dal momento che le mie fonti, al contrario di quelle di Ray Norton, non hanno giurato di attenersi ai fatti. Signora mia, che cosa vuoi sapere?». «Che cosa le è successo?», disse Rose. «Ohimè, questo complica le cose», replicò Jack, incupendosi. «Anne Forager, in successive ore del giorno, è stata data per scomparsa, morta, violentata e decapitata, violentata ma non decapitata, decapitata ma non violentata. Inoltre è stato detto che era stata selvaggiamente picchiata e che si trovava tra la vita e la morte. Oppure che meritava di essere sculacciata, il tutto a seconda di chi volevi ascoltare. In altre parole, le tue scarse informazioni sull'argomento sono più attendibili della valanga delle mie, dal momento che tu hai parlato con Ray, e tutti gli altri hanno parlato con me». Vuotò il bicchiere e si alzò in piedi. Allungò una mano verso il bicchiere di Rose. «Vuoi che lo finisca io, oppure ci pensi tu?». «Ci penso io», disse Rose. Riprese a parlare, mentre Jack si versava un secondo bicchiere. Notò che era doppio, ma decise di far finta di niente. Invece continuò a raccontargli della visita di Ray Norton, quel pomeriggio. «...E questo è praticamente tutto», concluse. «Ray non è venuto anche da te?», chiese poi. Jack scosse la testa. «È strano, avevo le netta impressione che avesse intenzione di venire direttamente al tuo ufficio, quand'è uscito di qui». «Se conosco bene Ray», replicò Jack, brusco, «non appena è uscito di qui è andato direttamente alla cava, per dare un'occhiata in giro. Probabilmente con tanto di pipa e lente d'ingrandimento. Si era infilato il berretto da cacciatore di cervi?». Rose sorrise suo malgrado. «Jack, non è giusto. Ray non è così, e tu lo sai». «Come faccio a saperlo?». Jack scrollò le spalle. «Ray non ha avuto per le mani un vero caso dal giorno in cui ha cominciato a lavorare qui a Port Arbello. Scommetto che era più contento che preoccupato, adesso che finalmente è successo qualcosa, non è vero?». «No, non era affatto contento. Sembrava molto preoccupato, invece. E perché sei così duro con lui? Pensavo che foste buoni amici». «Ray e io? Sì, suppongo che lo siamo. Ma conosciamo anche i nostri limiti. Io non credo che lui sia uno Sherlock Holmes, e lui è più che convinto che io non sia un Horace Greely. Ma ci piace agire come se lo fossimo. Ci fa sentire importanti». «E tu devi sentirti importante?».
Jack sollevò immediatamente la guardia. «Questo cosa vorrebbe dire?». «Lascia stare», si affrettò a dire Rose. «Non vuol dir niente. Ma tu, che cosa credi sia veramente successo ad Anne Forager?». «Anne? Probabilmente nulla. Io sono propenso a credere che sia rimasta fuori a giocare fino a tardi, e che si sia inventata una buona scusa per evitare di essere punita. I bambini sono così». «Non le nostre», replicò Rose, con calma. «No», disse Jack. «Non le nostre». Restò immobile per un attimo, fissando dentro il bicchiere. «Dove sono?». «Di sopra. Elizabeth sta giocando con Sarah. Oh, Dio, Jack, e se ad Anne fosse capitata la stessa cosa che a Sarah?». Jack si trasse indietro di scatto, come se fosse stato schiaffeggiato. «Non è successo, Rose. Se fosse accaduto qualcosa del genere, non parlerebbe affatto. Rimarrebbe seduta, a fissare le pareti. Soltanto... seduta, immobile». S'interruppe un attimo, come se fosse troppo penoso continuare. Poi si sforzò di parlare di nuovo. «Sarah si rimetterà. Tornerà a scuola il prossimo anno...». «È già a scuola», mormorò Rose. «Voglio dire, una scuola regolare, un ambiente normale. Non quell'altro posto». L'amarezza della sua voce gravò nell'aria. Rose si mordicchiò il labbro per un minuto, per scegliere le parole giuste. «È una buona scuola, Jack. Davvero. E Sarah si trova bene, lì. Sai che non si è ancora rimessa abbastanza da poter frequentare una scuola pubblica. Non pensi a quello che le accadrebbe? Accidenti, i suoi stessi compagni...». Lasciò la frase in sospeso. «Dovremmo tenerla a casa», disse Jack. «Il suo posto è qui, con gente che l'ama». Rose scosse la testa. «Non è di amore che ha bisogno, in questo momento. Ha bisogno di avere attorno gente che capisca il suo problema, che possa aiutarla. Dio lo sa che non ho il tempo o le capacità da dedicare a lei». «Non è giusto», insisté Jack. «Quella è una scuola per bambini pazzi e ritardati, non per Sarah. Non per mia figlia. Tutto quello di cui ha bisogno è trovarsi insieme a bambini normali, come Elizabeth. Guarda come sta bene in compagnia di Elizabeth...». Rose annuì. «Certo, so come sta bene insieme a Elizabeth. Ma credi che tutti i bambini siano come Elizabeth? Quanti altri avrebbero la stessa pazienza? I bambini possono essere crudeli, Jack. Cosa credi accadrebbe a
Sarah, se dovesse tornare in una scuola pubblica? Credi che giocherebbero tutti con lei come fa Elizabeth? Sei un illuso, un pazzo, se lo pensi. La schernirebbero, la prenderebbero in giro. Giocherebbero con lei, certo, ma non sarebbe una compagna di giochi, solo uno zimbello. Servirebbe soltanto a farla peggiorare, Jack». Lui terminò il bicchiere e si alzò per riempirsene un terzo. Rose lo seguì con lo sguardo mentre si avvicinava al bar, e un'ondata di compassione la investì. Improvvisamente lui parve insicuro di sé, il suo passo divenne cauto, come se temesse d'inciampare. Mentre inclinava la bottiglia per riempire il bicchiere, lei riprese a parlare. «Credi che sia una buona idea?». «Una buona idea?». Jack voltò la testa a guardarla. «No, non credo che sia una buona idea. Ma lo verso lo stesso. Perché...». L'urlo arrivò prima che Jack finisse la frase e Rose potesse rispondere. Jack restò come paralizzato. Il liquore gorgogliava fuori della bottiglia, straripò dal bicchiere mentre l'urlo terrificante riempiva la casa. Soltanto quando l'urlo finì Jack riuscì a scuotersi: la bottiglia gli scivolò dalle mani, ma Rose era già in corridoio quando si frantumò sul pavimento, e se anche lei sentì lo schianto non si voltò. Jack diede una rapida occhiata al liquore sparso e alle schegge ai suoi piedi, poi corse fuori della stanza. L'orrendo suono era giunto dal piano di sopra. Rose e la signora Goodrich s'incontrarono ai piedi della scala e si precipitarono su insieme, urtandosi, e la governante quasi cadde sotto la spinta di Rose che si lanciava affannosamente su per la prima rampa. Ma la signora Goodrich recuperò l'equilibrio e salì la scala con tutta la rapidità che l'età e l'artrite le permettevano. Jack la sorpassò a metà scala. «Che cosa è successo?», chiese, mentre passava. «Sarah», rispose ansante la signora Goodrich. «Era la voce della signorina Sarah. Dio onnipotente, faccia presto!». Jack raggiunse la sommità della scala in tempo per vedere sua moglie che entrava nella stanza dei giochi delle bambine. Quando a sua volta raggiunse la porta, si rese conto che, qualunque cosa fosse accaduta, era finita. Rose era in piedi, appena dentro la porta, con un'espressione stralunata. Sarah sedeva in un angolo, raggomitolata contro la parete, le ginocchia tirate sotto il mento, le braccia strette intorno a sé. Indossava una camicia da notte di flanella, le cui pieghe si allargavano attorno a lei e sembravano fornirle un'ulteriore protezione. I suoi occhi, innaturalmente spalancati, fissavano il vuoto, mentre la bambina piagnucolava tra sé.
Elizabeth sedeva a gambe incrociate sul pavimento, al centro della stanza, le dita su una tavoletta oui-ja, gli occhi chiusi. Sembrava ignara del terrore di sua sorella, come se non avesse neppure sentito l'urlo lacerante, un attimo prima. Quando Jack entrò nella stanza, Elizabeth aprì gli occhi e sorrise ai genitori. «C'è qualcosa che non va?», chiese. «Qualcosa che non va? Non l'hai sentito?», chiese Jack. La comprensione si fece strada, infine, sul volto di Elizabeth. «Volete dire l'urlo?». Rose deglutì a fatica. «Elizabeth, cos'è successo?». «Niente, davvero», rispose Elizabeth. «Eravamo qui a giocare con la tavoletta oui-ja». «Ma dove l'avete trovata...», cominciò Jack, ma Rose lo interruppe. «Lascia perdere, adesso. Cosa è successo?». «Non è successo niente, mamma. Stavamo giocando con la tavoletta ouija, e non è successo niente di speciale. Poi Cecil si è strofinato contro Sarah, e lei ha urlato». «È tutto?», chiese Jack. L'incredulità risuonava nella sua voce. «Ma guardatela, è terrorizzata!». Rose si avvicinò a Sarah, e la ragazzina si raggomitolò ancora di più nel suo angolo. «Ma certo che è terrorizzata», dichiarò Rose. «Se quel gatto si fosse strofinato contro di me all'improvviso, quanto meno avrei fatto un salto». «Ma quell'urlo...», insisté Jack. «Immagino che sia stato un po' spaventoso», disse Elizabeth. «Ma bisogna abituarcisi». «Ha ragione», disse Rose, chinandosi sopra Sarah. «Sarah non reagisce nello stesso modo di noi. Ma la signora Montgomery mi ha detto che non è cosa per cui ci si debba preoccupare. È soltanto che Sarah di solito non reagisce, e le poche volte che lo fa, lo fa in forma, per così dire, esplosiva. La signora Montgomery mi ha detto che, in questi casi, la cosa migliore è comportarsi come se non fosse accaduto niente del tutto. Per esempio, se Cecil si strofinasse all'improvviso contro di me, e io facessi un salto per la sorpresa, tu faresti tante storie? Ovviamente no. Ed è quello che dovremmo sforzarci di fare con Sarah. Se restiamo calmi, si rimetterà prima; facendo troppe storie, finiamo soltanto per spaventarla di più». «Ma tu ci riesci?», le chiese Jack. «Puoi abituarti a vederla in questo stato?». «Non riuscirò mai ad abituarmi a urla come queste», mormorò Rose,
quasi con astio, mentre prendeva Sarah fra le braccia. Per un attimo Sarah sembrò divincolarsi alla stretta affettuosa; poi, come se all'improvviso si fosse resa conto di chi la stava accarezzando, cinse con le braccia il collo di Rose e affondò il viso nel suo petto. Rose, completamente assorta nel tentativo di calmare sua figlia, portò Sarah fuori della stanza. Jack, che si era fermato accanto alla porta, si scostò per lasciar passare sua moglie. Accennò a una carezza per confortare Sarah, ma si decise a questo gesto affettuoso quando Rose era già passata oltre, per cui la sua mano si agitò incerta, nell'aria, per un attimo, finché non si risolse a infilarla in tasca. Fissò la tavoletta oui-ja. «Dove l'hai trovata?», chiese. Elizabeth sollevò lo sguardo. «Era nell'attico. Sai, dove abbiamo trovato quel ritratto. Quanto credi sia vecchia?». «Non quanto il ritratto. Trenta, quarant'anni al massimo. Quegli affari erano popolari negli anni Venti. Tutti ne avevano uno e tutti organizzavano sedute. Mi sembra di ricordare i miei genitori e i loro amici che si davano da fare con Una di quelle tavolette. Forse è proprio la stessa». «Vuoi provare con me?», chiese Elizabeth. «Forse potremmo scoprire chi è la ragazzina del ritratto». Jack le sorrise. «Ma noi sappiamo chi è», disse. «Ovviamente sei tu. Gli stessi occhi, gli stessi capelli. Soltanto non capisco perché non indossi più quel vestito». «Oh, è così vecchio», replicò Elizabeth, con uno scintillio negli occhi mentre accettava il gioco. «L'ho avuto per almeno cento anni. Adesso è ridotto quasi a uno straccio». Sospirò. «Temo proprio che dovrò buttarlo». «Non farlo. Non posso permettermi di comperartene un altro. Forse quella tavoletta oui-ja può dirmi dove finiscono tutti i soldi». «Forse può dirlo davvero», esclamò Elizabeth, con una sfumatura di bramosia nella voce. «Vuoi provare?». Per un attimo, Jack fu tentato. Poi ricordò Sarah e scosse la testa. «Sarà meglio che scenda a vedere se posso aiutare tua madre con Sarah». Elizabeth annuì. «D'accordo. Scenderò anch'io, fra poco». Seguì con lo sguardo suo padre che usciva dalla stanza, poi abbassò gli occhi sulla tavoletta oui-ja. Allora si ricordò del gatto. «Cecil», chiamò. «Cecil, dove sei?». Restò in attesa per un paio di minuti, poi lo chiamò di nuovo. «Cecil? Ti troverò, lo sai, perciò tanto vale che salti fuori subito». Nessun fruscio rivelò dove il gatto si nascondesse, così lei cominciò a
cercarlo per tutta la stanza. Finalmente scoprì il gatto aggrappato con le unghie sull'altro lato dei tendaggi, a metà altezza dal pavimento. Elizabeth avvicinò una sedia e vi montò sopra per districare le unghie del gatto dallo spesso tessuto. «Sarah ti ha fatto paura?», disse. «Be', tu l'hai spaventata per primo. Se non volevi che urlasse, non dovevi strofinarti contro di lei a quel modo. Ma non è colpa tua, vero? Come potevi sapere che l'avresti spaventata? Volevi solo un po' di attenzione. Perciò lascia andare quella tenda e vieni giù con me. Su, lasciala andare, adesso è tutto a posto». Liberò l'ultimo degli artigli, e tenendo il gatto stretto a sé scese dalla sedia. Portò il gatto fino alla tavoletta oui-ja e si lasciò ricadere nella posizione a gambe incrociate, con Cecil in grembo. Rimase seduta a lungo, accarezzando il gatto, parlandogli sommessamente, aspettando che si calmasse. Quando finalmente Cecil socchiuse gli occhi e cominciò a ronfare, Elizabeth smise di accarezzarlo e tornò ad appoggiare le dita sulla tavoletta oui-ja. Un'ora più tardi, portando con sé Cecil addormentato, Elizabeth scese giù per cena. 3 Lei osservò la luna che saliva lenta sopra l'orizzonte, guardò la palpitante striscia argentea che si rifletteva sul mare fino alla base del dirupo sopra il quale si ergeva la casa, alta sulla risacca. Ascoltò per un attimo, come aspettandosi che la martellante risacca attenuasse il suo sordo fragore al risplendere della luna piena. Ma il rumore non perse d'intensità. Una sottile linea nera interruppe la scia argentea all'orizzonte, e lei si sentì depressa quando il varco fra la luna e il suo riflesso si ampliò. Più la luna si alzava dal mare, più il disco luminoso sembrava restringersi. «Pare diventi più piccola, ogni volta che sale», disse Rose, estrinsecando il suo pensiero, più per se stessa che per Jack. Lui alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, e si scostò per lasciar posto a Rose quando anche lei venne a letto. «Chi sale?». «La luna. Sembra gigantesca quando spunta, poi, mentre sale, diventa sempre più piccola». «È un'illusione ottica», disse Jack. «Ha qualcosa a che fare con la prossimità della linea dell'orizzonte».
Lei si strinse a lui, e cercò d'ignorare il lieve ritrarsi che percepì nel suo corpo. «Il mio Jack, realista fino al midollo. Non riesci proprio a immaginare che si restringa davvero? Come se qualcuno la stesse sgonfiando un poco?». Gli passò le dita sul petto villoso, saggiando l'incresparsi dei muscoli sotto la pelle. Protese di scatto una mano e gli strappò via il libro. Lui si girò, e la fissò rabbioso. «Ehi!», esclamò. «Stavo leggendo». Lei gli sorrise. «Ora non più. Sono stufa di vederti col naso incollato a quel libro. Voglio giocare». Si rizzò a sedere e fece scivolare il libro dietro di sé. «Oh? Ma sì, giocheremo. Ora, però, ridammi quel libro, prima che abbia contato fino a dieci». Quando Jack fu arrivato a nove, Rose si fece scivolare il libro dentro la scollatura della camicia da notte. Le sopracciglia di Jack si sollevarono d'un paio di centimetri. «Allora è a questo che vuoi giocare?». Rose si distese sulla schiena, assumendo una posa seducente. «Se vuoi il libro vieni a prenderlo». I suoi occhi guizzarono. Jack fece per afferrarlo ma quando fu sopra di lei Rose gettò il libro lontano, e gli fece scivolare le braccia intorno al collo. La mano di Jack si trovò imprigionata, premuta contro il suo seno. «Toccami, tesoro», gli bisbigliò Rose all'orecchio. «Per favore, toccami». Jack esitò un momento, poi cominciò a muovere la mano sopra il seno di sua moglie, e sentì il capezzolo che s'induriva sotto il suo tocco. Rose cominciò a baciarlo, premendo con la lingua fra le labbra di lui, cercando di socchiuderle. Lo tirò giù, finché non fu completamente disteso su di lei, e le sue mani cominciarono a muoversi sulla sua schiena, lisciandola, accarezzandola. Per un attimo, soltanto per un attimo, le parve che lui rispondesse. Ma subito sentì il suo corpo diventare inerte, giacere come un peso morto sopra di lei, e allora le sue dita divennero artigli, e lo graffiò rabbiosamente. Jack reagì al dolore balzando giù dal letto. «Dio ti maledica», ringhiò Rose. «Dio ti punisca scaraventandoti all'inferno, per quell'uomo che non sei!». Non c'era più riso nei suoi occhi, soltanto una furia ardente che spaventò Jack. «Rose...», cominciò. Ma lei balzò su, davanti a lui, interrompendo la sua implorazione, ergendosi come se il letto fosse diventato un campo di battaglia. «Non chiamarmi Rose, bastardo. Credi che sia di questo che ho bisogno?».
«Mi spiace», replicò Jack. «Ti dispiace sempre. È tutto quello che ti sento dire da un anno a questa parte. Lo sapevi che è già passato un anno? Ho tenuto il conto». «Non dovevi farlo». «Non dovevo? Perché no? Perché tu non debba mai sapere quanto tempo è passato dall'ultima volta che hai fatto all'amore con tua moglie? Perché tu non debba sapere quanto tempo è passato dall'ultima volta che ti sei comportato da uomo?». «Questo è troppo, Rose», disse Jack. «Non è troppo», ritorse lei, alzando la voce. «Non sarà mai troppo, finché non avrai finito con questa storia, qualunque cosa sia. Guardami. Non sono più attraente?». Si sfilò la camicia da notte e rimase davanti a lui, nuda. La luce della luna che entrava a fiotti dalla finestra avvolse il suo corpo candido di sfumature quasi metalliche; i seni alti e sodi sporgevano sulla vita sottile, i fianchi pieni si affusolavano nelle lunghe gambe snelle. «Allora», gli chiese, mentre Jack la fissava, «che ne dici? Sono diventata una specie di scrofa?». Jack scosse la testa, senza dir nulla. «Be', allora? Che cosa c'è? Che cosa ti è successo? Se non sono io, allora deve trattarsi di te. Che cosa c'è che non funziona in te, Jack?». Ancora una volta lui scosse la testa. «Io... io non posso dirtelo, Rose. Non sono sicuro di saperlo». «Allora devo essere io a dirtelo». C'era una viva sfumatura di malevolenza nella sua voce, che lo spaventò. Lui arretrò d'un passo e si lasciò ricadere in una poltrona, in attesa. Rose cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, gli occhi spiritati. Sembrava cercare qualcosa, chiedersi da dove cominciare. Jack attese, cercando d'indovinare da quale direzione sarebbe giunto l'attacco. «Sono i soldi, non è vero?», chiese lei. E lui pensò: Va sul sicuro. «Non riesci a sopportare che il patrimonio sia sparito, vero? Che l'ultimo dei Conger, tu, debba lavorare sul serio, non per divertimento, ma per guadagnare i soldi necessari a vivere?». Lo fissò, come aspettandosi una reazione, poi si gettò a capofitto nella sua perorazione. «Be', quando imparerai che non ha importanza? È rimasto abbastanza per pagare le tasse in questo posto, anche se Dio solo sa perché mai è necessario continuare a vivere qui... e fra noi due guadagniamo abbastanza per pagare tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Non siamo poveri, per l'amor di Dio. E anche se lo fossimo, cosa importerebbe? Non è necessario che tu sia ricco per essere un uomo, dannazione!».
Lui restò seduto, in silenzio. Sapeva cosa aspettarsi ora, e Rose non lo deluse. «Oppure si tratta di me? Ti senti come se ti avessi castrato, perché guadagno più soldi di te? Si dà il caso che io sia in gamba nel mio lavoro, Jack, e tu dovresti esserne orgoglioso. Ma tu non sei orgoglioso di questo, oh, no! La prendi come una minaccia alla tua personale virilità. Cristo, comincio a capire di che cosa parlano tutte quelle femministe. Tu provi risentimento davanti a una donna che ha successo. Be', allora lascia che ti dica qualcosa. Vuoi sapere perché ho cominciato a lavorare, all'inizio? Perché ero annoiata, Jack, semplicemente, schiettamente annoiata». «Rose, abbiamo già discusso di tutto questo...». «E ne discuteremo di nuovo». All'improvviso lei si lasciò andare sul letto. La sua rabbia si era spenta. «Ne discuteremo finché non saremo arrivati a fondo». Le lacrime cominciarono a scorrerle giù sulle guance. Si nascose il volto tra le mani. «Non so quanto ancora potrò sopportarlo, Jack. Non lo so proprio. Mi spiace aver detto che ero annoiata, non era questo, in realtà io sono frustrata». Sollevò lo sguardo, implorandolo di capire. «Jack, è terribile amare un uomo che non ti ama». «Non è vero», replicò lui, in un bisbiglio. «Io ti amo moltissimo, ti ho sempre amata». Lei sospirò. «Be', hai un modo ben strano per dimostrarlo. Ho pensato, a volte, che forse la situazione sarebbe migliorata se io avessi lasciato il mio lavoro. Ma adesso è troppo tardi per farlo». Ebbe un sorriso spento. «Avere successo è intossicante. Ne vuoi sempre di più, di più. E ne avrò di più, Jack. Qui a casa ormai non ho più nulla, perciò devo trovare un po' di appagamento da qualche altra parte». «Se è così terribile», fece Jack, ottusamente, «come mai sei ancora qui?». Lei lo fissò, e nei suoi occhi c'era una durezza che lo spaventò. «Qualcuno», disse lentamente, «deve proteggere le bambine. Dal momento che tu ti squalifichi da solo, rimango io, non trovi?». La reazione di lui fu così violenta e improvvisa che lei non fece in tempo a scostarsi. Il pugno la colpì in pieno sulla guancia, e la forza del colpo la proiettò distesa sul letto. Ma non gridò, invece si sfiorò con la mano la parte offesa, e alzò gli occhi a guardarlo. «Almeno non sono molto più piccola di te» disse, in un sussurro. Jack guardò lei, poi la propria mano, e sembrò passare un'eternità prima che si rendesse conto di ciò che aveva fatto. «Mio Dio», mormorò. Entrò
in bagno e fece scorrere l'acqua finché non fu fredda. Poi inzuppò un panno e ritornò accanto a lei, porgendoglielo perché se lo premesse sulla guancia, sapendo che lei non gli avrebbe permesso di toccarla, adesso. «Non volevo farlo». «Davvero?». Ma la voce di lei suonò spenta, come se niente avesse importanza. «Suppongo siano parecchie le cose che fai, e che non avevi intenzione di fare». «Rose, questo non è giusto». «La vita non è giusta, Jack. Lasciami sola». Lui si alzò in piedi, accingendosi a uscire. «Forse è la maledizione», disse, in tono forzatamente disinvolto. «Forse l'antica maledizione di famiglia mi ha colpito». «Forse ci ha colpiti tutti e due», replicò Rose, con voce desolata. Lo seguì con lo sguardo mentre usciva dalla stanza da letto, e avrebbe voluto richiamarlo indietro, stringerlo a sé e farsi stringere da lui. Ma non poté farlo. Spense la luce, si girò sul letto e cercò di dormire. Jack sprofondò nella sua poltrona, nello studio, e trangugiò un sorso dal bicchiere che stringeva in mano. Guardò fuori della finestra, cupo, osservando il gioco dell'intensa luce lunare e delle ombre fra i rami degli aceri che interrompevano la distesa uniforme del prato, fronteggiando la casa e coprendo d'un fitto manto il terreno fino all'orlo del dirupo. Il dirupo aveva un che d'invitante, ma Jack sapeva che questo accadeva ogni volta che beveva. Spesso si era augurato che non fosse così. Il ricordo non si era mai schiarito nella sua mente. Forse, inzuppato com'era di alcool, non si sarebbe schiarito mai. Rose aveva ragione: era passato circa un anno. Era successo una domenica, poco più di un anno fa, perché le foglie erano ancora sugli alberi, risplendenti d'oro e di rosso. Rose era uscita per una partita di golf... Con chi? Non riusciva a ricordarlo. Tante cose accadute quel giorno non riusciva a ricordare. Aveva bevuto, il che non era insolito, per una domenica, e al pomeriggio aveva deciso di uscire per fare una passeggiata. Con Sarah. Poi era scesa la nebbia. Avevano cominciato ad attraversare il prato, Sarah era corsa avanti, gridandogli di affrettarsi. Ma lui non si era affrettato, e lei lo aveva aspettato. Si erano fermati a parlare, lì nel prato, ma lui non riusciva a ricordare di che cosa avessero parlato. E poi, Sarah gli aveva chiesto di condurla nel bosco. C'erano tante cose nel bosco che lei voleva vedere, e non aveva mai potuto andarci. E così erano andati nel bosco.
Ricordava di averla, poi, portata fuori del bosco, in casa. Ma questo era tutto. Sentì l'orologio che batteva le ore, e osservò le ombre che danzavano sulla parete. Era una danza sgradevole, e lui non volle guardarla. Preferì abbassare gli occhi sul bicchiere, e cercò di costringersi a non riempirlo di nuovo. Sarah dormiva inquieta, e il sogno la travolse di nuovo, come accadeva ogni notte, interminabilmente. Era in una stanza, in una grande stanza. Non c'era nient'altro nella stanza oltre a Sarah e ai suoi giocattoli. Ma lei. non voleva giocare. Poi c'era papà, e uscivano insieme fuori, sul prato. Lei lo precedeva di corsa e si fermava a guardare un fiore. C'era una formica sul fiore, e lei coglieva il fiore per portarlo a papà. Ma se fosse corsa verso di lui, la formica sarebbe caduta, perciò aveva chiamato. «Papà, fai presto!». Lui però non si era affrettato, e lei lo aveva aspettato. Quando alla fine era giunto accanto a lei, la formica se n'era andata, e anche il fiore le era stato strappato dalle dita da un'improvvisa raffica di vento. Era volato dentro il bosco, e lei voleva ritrovarlo. «Il fiore è nel bosco, papà. Portami nel bosco». E così erano entrati nel bosco, e il suo papà la teneva per mano. Lei si sentiva sicura. Lasciata la luce del giorno, si erano inoltrati fra le ombre profonde degli alberi, e Sarah aveva stretto più forte la mano di suo padre. Si era guardata intorno per cercare il fiore, e aveva visto un cespuglio. Era sicura che il fiore fosse finito nel cespuglio, e insieme al fiore ci sarebbe stata anche la formica. Aveva attirato suo padre verso il cespuglio. «Presto papà, presto, siamo quasi arrivati». Ed eccola che, arrivata al cespuglio, vi stava strisciando sotto. I rami s'impigliavano nei suoi capelli, le spine si protendevano a graffiarla. A un certo punto, aveva sentito qualcosa che l'afferrava alla caviglia. Un tralcio. Doveva essere un tralcio. Tirò per liberarsi, ma la stretta alla caviglia si fece più forte, ed ecco che si sentì tirar fuori da sotto il cespuglio. Non era riuscita a trovare il fiore. Un momento, eccolo lì! Se soltanto fosse arrivata ad afferrarlo... Ma non vi riuscì, e intanto qualcosa la stava tirando fuori dal cespuglio. Urlò:
«Papà, aiutami! Lasciami andare, papà!». Si girava di scatto, e la «cosa» era papà. Ma non era papà. Era qualcos'altro, e sembrava papà, ma non poteva essere papà. Non quell'uomo con lo sguardo spiritato. Quell'uomo che stava per colpirla. Aveva sentito il colpo, aveva cercato di urlare invocando suo padre, ma non aveva più voce. Suo padre l'avrebbe aiutata. Suo padre la colpiva. Voleva che suo padre strappasse via quell'uomo da lei. Voleva che suo padre smettesse di colpirla. Voleva suo padre. La mano stretta a pugno continuò a calare, spietata, su di lei, ma Sarah ben presto non sentì più nulla. Osservava se stessa che veniva picchiata, ma non sentiva alcun dolore. Cercava di fuggire, ma non riusciva a muoversi. Man mano che suo padre continuava a colpirla, vide se stessa svanire... Poi vi fu soltanto grigiore, l'eterno grigiore in cui viveva, e in un lontano angolo di quel grigiore una ragazza, una ragazza bionda dagli occhi azzurri, che si sarebbe presa cura di lei. Elizabeth? Elizabeth sapeva ciò che era successo, e si sarebbe presa cura di lei. Mentre il grigiore s'infittiva intorno a lei, tese una mano verso Elizabeth. Sarah si svegliò, la mano protesa si ritrasse lentamente. E si richiuse nella sua immobilità. Faceva sempre quel sogno, quando dormiva. Elizabeth giaceva nel suo letto, fissando il soffitto, osservando il lento progredire della luce della luna verso la parete opposta. Ascoltava il silenzio. Aveva cercato di non sentire, aveva cacciato la testa sotto il cuscino, mentre i suoi genitori litigavano. Ma i suoni le erano arrivati ugualmente attraverso le pareti, la porta, il letto, e aveva dovuto ascoltare. Alla fine aveva sentito il rumore dei passi di suo padre giù per le scale. Adesso aspettava, osservando la luce della luna. Avrebbe atteso finché non l'avesse sentito risalire le scale, fino a quando non avesse udito il clic della camera da letto dei suoi genitori che si chiudeva definitivamente per la notte. Soltanto allora si sarebbe addormentata. Sua madre non sapeva che cos'era successo nel bosco, quel giorno. Elizabeth avrebbe potuto rivelarlo a sua madre, ma non l'aveva fattoi Elizabeth sapeva che non avrebbe dovuto conoscere ciò che era accaduto. E sapeva anche che non avrebbe mai potuto dimenticarlo.
Li aveva visti uscire, e aveva deciso di accompagnarli. Era uscita sulla porta, chiamandoli, ma il vento soffiava nella direzione opposta, e loro non l'avevano udita. Lei allora li aveva inseguiti attraverso il prato, ma quando era stata sul punto di raggiungerli aveva deciso di prendersi gioco di loro. Aveva deviato sulla sinistra, verso il viale, ed era entrata nel bosco a una quindicina di metri da loro. Poi era ritornata lentamente indietro, spostandosi da un tronco all'altro, sempre tenendosi nascosta. All'ultimo momento sarebbe balzata fuori all'improvviso, ridendo e schiamazzando. Ma aveva udito un rumore confuso, e sbirciando da dietro un albero aveva visto Sarah strisciare sotto un cespuglio. Sfruttando l'occasione, si era fatta ancora più vicina, scivolando dietro un tronco caduto, continuando a tener d'occhio sua sorella che avanzava in un groviglio di rami secchi e di radici rivestite di muffa. Trattenne il respiro, in attesa che anche suo padre seguisse Sarah sotto il cespuglio... E invece lui l'aveva agguantata per una caviglia e aveva cominciato a tirarla indietro, a strappi violenti. Aveva udito Sarah gridare, e aveva visto suo padre levare in alto il pugno. All'improvviso, quand'ebbe strappato via del tutto Sarah dal cespuglio, suo padre aveva calato il pugno su di lei. Sarah aveva cacciato un urlo, girandosi di scatto a fissarlo con gli occhi sbarrati. Elizabeth era rimasta nascosta dietro il tronco, contemplando la tremenda scena che aveva davanti con uno strano distacco. All'improvviso tutto le era parso remoto, estraneo. Non aveva più visto sua sorella e suo padre, ma due perfetti estranei, una ragazzina e un uomo, e l'uomo stava picchiando selvaggiamente la bambina. E la cosa non sembrava avere il minimo effetto su di lei. Elizabeth era rimasta lì, rannicchiata, osservando ciò che accadeva davanti ai suoi occhi. Quando, alla fine, Sarah giacque immobile, Elizabeth vide suo padre che si raddrizzava, e a stento lo riconobbe. Il suo volto aveva un'espressione vuota, assente; i suoi capelli neri, sempre ben pettinati, gli incorniciavano il viso come una criniera selvaggia, e gli pendevano da entrambi i lati, sgocciolanti. Si era guardato attorno, gli occhi non più vacui, ma sconvolti, terrorizzati, poi aveva abbassato lo sguardo sulla bambina esanime ai suoi piedi. Elizabeth aveva chiaramente sentito un singhiozzo scuotergli il petto, poi l'aveva visto curvarsi e raccogliere Sarah dal suolo, avviandosi a lenti passi verso casa. Elizabeth era rimasta perfettamente immobile mentre suo padre attraversava il prato, saliva i gradini della veranda e scompariva dentro l'ingresso
principale. Poi si era alzata in piedi, avvicinandosi al punto dove sua sorella era caduta. Si era voltata un'altra volta verso la casa, poi aveva cominciato a farsi strada attraverso il bosco, verso il ciglio del dirupo. Quand'era tornata a casa, un'ora più tardi, c'erano medici e infermieri, che avevano portato via Sarah. Suo padre non si vedeva da nessuna parte, e sua madre era in preda a una crisi isterica. La signora Goodrich si era finalmente accorta di lei, le aveva chiesto dov'era stata. Elizabeth aveva detto che aveva fatto una passeggiata fin giù, alla cava. Non disse altro, di quel pomeriggio, e non avrebbe mai detto altro, a nessuno. Elizabeth continuò a fissare il soffitto e quando, molto più tardi, udì il clic della porta dei suoi genitori, si addormentò. Giaceva nel letto, ma non dormiva ancora. Ricordava ciò che riusciva a ricordare. Ricordava l'arrivo dei medici, Sarah caricata sull'ambulanza, Rose che rincasava, le grida isteriche, l'iniezione... Avevano portato Sarah in aereo a un ospedale, un ospedale abbastanza lontano da Port Arbello, cosicché nessuno avrebbe mai saputo che cos'era successo alla bambina. Sarah era rimasta laggiù per tre mesi, e i medici erano riusciti a riparare il suo corpo. Le costole si erano rinsaldate, e non vi erano cicatrici sul suo viso. Ma i medici non avevano potuto riparare la sua mente. Quand'era ritornata a casa dall'ospedale, era cambiata. Non era più la bambina vivace e maliziosa di sempre. Non rideva, né correva più per tutta la casa; le sue grida gioiose non si udivano più sul prato. Era fin troppo tranquilla. Non parlava, non rideva, e quando si muoveva lo faceva con estrema lentezza, come se qualcuno la trattenesse. E, ogni tanto, urlava. Sembrava eternamente terrorizzata, ma sopportava la presenza di sua madre. Non veniva mai lasciata sola con suo padre. Si animava un po' soltanto in presenza di Elizabeth, seguiva sempre sua sorella, e se Elizabeth non era in casa, stava seduta tranquilla ad aspettarla. Ma ciò non accadeva spesso. Perché Elizabeth stava quasi sempre con lei. Quando non era a scuola, Elizabeth passava la maggior parte del suo tempo con lei, leggendole qualcosa, parlandole, senza mai dare l'impressione di accorgersi che Sarah non le rispondeva. Elizabeth giocava con lei senza mai perdere la pazienza quando l'attenzione di Sarah vagava altrove, trovando sempre qualcosa di nuovo per distrarre Sarah da qualunque cosa le stesse passando per la mente.
I medici avevano detto che Sarah sarebbe guarita, ma non sapevano quando. Dal momento che non sapevano esattamente che cos'era accaduto a Sarah, e nessuno pareva in grado di dirlo, non erano del tutto sicuri sul modo in cui curarla. Ma un giorno, ne erano certi, Sarah avrebbe finalmente ricordato ciò che le era accaduto, e sarebbe stata in grado di affrontarlo. Quando fosse arrivato quel giorno, Sarah sarebbe stata di nuovo bene. Ma fino a quel giorno, nessuno era in grado di dire ciò che avrebbe fatto Sarah. La schizofrenia, avevano detto, era imprevedibile. 4 Rose Conger alzò gli occhi verso il lato opposto del tavolo dove stavano facendo colazione, e si chiese per l'ennesima volta come mai suo marito potesse bere tanto senza mostrarne gli effetti. Se fosse stato meno assorto nel giornale del mattino, Jack avrebbe notato il corruccio di Rose, mentre lei lo studiava. Aveva quarant'anni, eppure sembrava di dieci anni più giovane. I segni del carattere, o dell'età, avrebbero dovuto solcare il suo viso dalla fronte fino alla mascella, invece la sua pelle era ancora perfettamente liscia, giovane, per niente intaccata da anni di libagioni. Non è giusto, pensò Rose. Qualunque altro uomo avrebbe le vene del naso ingrossate, un colorito malaticcio, un aspetto scheletrico. Ma non Jack. «A che ora sei venuto a letto?», gli chiese. Lui alzò gli occhi un attimo, poi ritornò al suo giornale. «L'una e trenta, le due. Non so». «Vuoi un altro po' di caffè?». Jack mise giù il giornale, e un sorriso che era una smorfia gli attraversò il viso. «Ho l'aria di averne bisogno?». «Vorrei che tu ne avessi bisogno», disse Rose, in tono amaro. «Forse, se dal tuo viso si vedesse, non berresti tanto». «Oh, via, Rose. Lasciamo perdere, vuoi? Le bambine saranno giù fra un minuto». Diede un'occhiata all'orologio, come se il gesto potesse farle comparire d'incanto nella stanza, salvandolo da ciò che, lo sapeva, sarebbe seguito. «Mancano ancora dieci minuti», rispose Rose. «Jack, quello di cui abbiamo parlato stanotte...». «Stamattina è di turno l'alcool? Perché mai, Rose, sono sempre i soldi la notte, e l'alcool la mattina? Perché, tanto per variare, non parli dell'alcool
la notte, e dei soldi la mattina? Forse tutti e due troveremmo qualche altro argomento di cui parlare». Rose fissò la sua tazza, infuriata, e cercò di rispondere con voce calma. «Suppongo di coltivare in me la vana speranza che, non parlandone la notte, tu smetta di bere di giorno. Ormai avrei dovuto imparare che è inutile, vero?». «Sì», fece Jack, «avresti dovuto impararlo». Piegò ostentatamente il giornale e cercò di concentrarsi sulle righe stampate. Lesse un paragrafo, poi lo rilesse, e si rese conto di non aver nessuna idea di ciò che vi era scritto. Era alla terza lettura, quando Rose parlò di nuovo. «Quanto tempo ancora potremo andare avanti così?». Jack mise giù il giornale e la fissò. Restò silenzioso a lungo, e quando rispose il suo tono era duro. «Cosa intendi con "così"? Se intendi dire quanto tempo ci vorrà ancora prima che io riesca a farlo rizzare per te, allora non lo so. Se intendi dire quanto tempo ci vorrà prima che io smetta di bere, anche questo non lo so. Se intendi dire quanto tempo ci vorrà prima che tu la smetta con queste continue storie, questo dipende soltanto da te. Ho la precisa sensazione che smetterò di bere e ricomincerò a montarti quando tu ti deciderai a non ossessionarmi con queste faccende e mi lascerai un po' in pace. Ho dei problemi, sai, e i tuoi continui brontolii non mi aiutano affatto a risolverli. Quindi, perché non lasci perdere, Rose? Ripeto, lascia perdere». Si alzò in piedi e uscì dalla stanza, e Rose fu stupita nell'udire con quanto calore salutò le figlie prima di uscir di casa. Il fatto che non sbattesse la porta dietro di sé nell'andarsene servì soltanto ad aumentare il suo fastidio. Si versò un'altra tazza di caffè e cercò di eguagliare il calore, quando le ragazzine entrarono da lei. «Potete scegliere, stamattina», disse. «La signora Goodrich ha detto che può sbrigarsi in fretta sia con le focacce che con le frittelle, perciò potete decidere cosa preferite». «Le focacce», scelse Elizabeth. Diede a sua madre il bacio del buongiorno e si sedette. Sarah tirò a sé la sedia lasciata vuota dal padre e prese posto accanto a Elizabeth. «Sarah, non vuoi sederti sulla tua sedia?». Non vi fu alcuna risposta da parte di Sarah. Restò seduta in silenzio, con le mani in grembo, fino a quando Elizabeth non le versò un po' di succo d'arancia. Prese il bicchiere, lo vuotò diligentemente e lo mise di nuovo giù. Riportò le mani in grembo. Rose continuò a guardarla in silenzio, sen-
tendosi del tutto impotente. «Sarah», ripeté, «sei sicura di non volerti sedere sulla tua sedia?». La testa di Sarah si girò verso Rose, e la bambina fissò sua madre per un attimo. Rose scrutò desolata il piccolo volto buio, cercando di scorgere qualche segno di comprensione. Ma era come cercare di scandagliare una maschera di cartapesta. Dopo alcuni istanti, Sarah distolse nuovamente il volto da lei. Rose sentì un nodo formarsi nel proprio stomaco. «Forse preferirebbe le frittelle», balbettò penosamente. «Ma come faccio a saperlo?». Elizabeth sorrise a sua madre. «Le focacce andranno benissimo», dichiarò. «Le piacciono molto. Come mai papà se n'è andato così presto?». «Immagino che avesse molto lavoro in ufficio», le rispose Rose, distrattamente, gli occhi ancora fissi sulla figlia più giovane. Sentiva che c'era qualcosa che avrebbe dovuto dire a Sarah, ma non sapeva che cosa. Si sentiva confusa. Depositò in fretta il tovagliolo sul tavolo, e si alzò in piedi. «Ho parecchio da fare anch'io», disse. «Puoi sbrigartela da sola, Elizabeth?». «Ma certo», rispose Elizabeth. «Se lo scuolabus arrivasse dopo che abbiamo finito, posso lasciare Sarah con la signora Goodrich?». «Se pensi che vada bene...», era quello che stava per dire, ma all'improvviso si rese conto che era lei la madre, non Elizabeth. E che, se anche si sentiva del tutto confusa per ciò che riguardava Sarah, era ancora suo dovere essere una madre. Non doveva delegare i suoi compiti a una ragazzina di tredici anni, per quanto matura come Elizabeth. «Andrà senz'altro bene», si corresse. «Io sarò nel mio studio. Vieni a salutarmi prima di partire». Fece per lasciare la stanza, poi, presa da un impulso improvviso, si chinò a baciare Sarah. Sarah non reagì minimamente, e Rose uscì, sentendo il nodo allo stomaco stringerla sempre più. Mentre si dirigeva verso il salottino sul davanti della casa, che aveva convertito in studio per sé, sentì Elizabeth che chiacchierava vivacemente con Sarah, senza mai fermarsi per dare la possibilità a Sarah di dire qualcosa, senza apparire mai infastidita dalla... «ottusità» di Sarah, era questa la parola che le veniva sempre in mente, anche se cercava subito di scacciarla. Volle immergersi immediatamente nel lavoro, per dimenticare ogni altro cruccio. Tirò fuori la cartella piena di carte sulle quali aveva lavorato il pomeriggio precedente, e prese a ricontrollare le cifre. Trovò due errori e li corresse. Era orgogliosa della propria attenzione ai particolari, ed era diventata
sempre più attenta e precisa col passare del tempo. Sin dai primi giorni del suo ingresso nel mondo degli affari e delle proprietà immobiliari, non aveva consegnato nessun documento che non fosse men che perfetto; sapeva che gli uomini del suo ufficio se ne risentivano. Era diventato un gioco tacito, cordiale, da parte sua, ma giocato con una punta d'invidia dagli altri, fornire a Rose cifre sbagliate e vedere quanto tempo ci avrebbe messo a scoprirle. Lei sospettava che si stessero accumulando scommesse, e il premio finale sarebbe andato al primo che fosse riuscito a coglierla in errore. Intendeva far crescere quel fondo scommesse fin quando non si fossero arresi e l'avessero diviso fra loro, oppure l'avessero offerto a lei. Stava giusto riponendo l'ultimo foglio in cartella, quando Elizabeth entrò. «E già ora?», chiese. «Ho detto a Kathy Burton che l'avrei incontrata prima di andare a scuola. Sarah è in cucina con la signora Goodrich». «Tornerai a casa subito dopo la scuola?». «Non l'ho sempre fatto?». Rose fissò sua figlia e le sorrise. Elizabeth si avvicinò a sua madre e l'abbracciò. «Mi sei di grande aiuto, sai?», bisbigliò Rose. Elizabeth annuì in silenzio e disciolse l'abbraccio. «A stasera», disse. Rose la seguì con lo sguardo mentre usciva e chiudeva la porta dietro di sé. Poi si voltò a guardare fuori della finestra. Un attimo dopo sentì la porta principale aprirsi e chiudersi, e vide Elizabeth che, infilandosi il cappotto, scendeva saltellando i gradini e s'incamminava verso la Strada del Promontorio. Tornò al lavoro, scorrendo gli elenchi e accoppiando mentalmente le case con i clienti. Si era scoperta il dono prezioso di saper scegliere la casa giusta per il cliente giusto, e la sua reputazione stava crescendo. Si era fatta una regola di passare un paio d'ore con ciascun cliente parlando di tutto fuorché di case. Poi, quando le pareva di aver afferrato la personalità del cliente, i suoi gusti, tirava fuori gli elenchi, e gli porgeva un paio di case da esaminare. Alla fine lei indicava la scelta che aveva già compiuto per lui, e quasi sempre era nel giusto. Negli ultimi tempi, i clienti avevano cominciato ad affluire da lei in numero sempre crescente, non tanto per farsi mostrare la lista completa di ciò che aveva disponibile, bensì per chiederle ciò che lei giudicava più adatto a loro. Il che rendeva il suo lavoro molto più facile, e il volume di affari assai più cospicuo. Ancora un altro anno, pensò, e otterrò la licenza di mediatore. Poi, atten-
ti, voi di Port Arbello! Un altro Conger sta per sbocciare! Si accorse appena che il piccolo scuolabus Ford era arrivato per condurre Sarah alla White Oaks School, e non alzò gli occhi dal suo lavoro finché non udì bussare alla porta. «Avanti», disse. La porta si aprì e la signora Goodrich comparve, chiaramente dispiaciuta di dover disturbare. «Mi spiace disturbarla», disse infatti. La sua profonda voce yankee tuonò dal suo immenso petto. «Il signor Diller ha chiesto se poteva parlarle un momento. Gli ho detto che lei era molto occupata, ma vorrebbe parlarle ugualmente». Il tono della sua voce rivelava la radicata opinione che, se il signor Diller avesse avuto anche soltanto un minimo senso di correttezza, avrebbe dovuto sprofondare sottoterra non appena informato che la signora Conger era occupata. Rose dissimulò un sorriso e fece del suo meglio per impersonare la gran dama che ovviamente la signora Goodrich si aspettava lei fosse. Per lungo tempo, dal giorno in cui era venuta a vivere nella casa dei Conger, la signora Goodrich l'aveva spaventata a morte, poiché era dolorosamente consapevole di non essere all'altezza degli standard che la signora Goodrich aveva stabilito per le signore Conger ufficialmente in carica. Ma alla fine si era resa conto che, qualunque cosa lei avesse fatto, la signora Goodrich l'avrebbe vista esclusivamente come voleva vederla. Negli ultimi anni, Rose aveva finalmente cominciato a trarre piacere da quel ruolo imposto. Perciò adesso, a beneficio della vecchia governante, si alzò in piedi, il più dritta possibile, e cercò di mostrarsi imperiosa. «È insolito che qualcuno si presenti senza un appuntamento, non è vero?». La signora Goodrich annuì vigorosamente. «Ma suppongo che si possa ugualmente riceverlo, per una volta...». La signora Goodrich annuì, ma con meno vigore. «Perciò, suppongo che lo si possa far entrare...». La porta si chiuse per riaprirsi un attimo dopo, e George Diller scivolò dentro. Rose si rilassò subito e gli sorrise. Diller era un poco più giovane di lei e ostentava una folta barba. Era uno degli insegnanti della scuola di White Oaks, ma dal momento che sembrava avere un modo tutto speciale di trattare i bambini a cui insegnava, guidava anche il furgoncino che li prelevava per portarli a scuola, ogni giorno, e poi li riconduceva a casa. La scuola aveva provato altri conducenti, ma tutto sembrava filare per il me-
glio quando George Diller era alla guida, come se i bambini avessero fiducia in lui e si sforzassero di comportarsi nel migliore dei modi. «Cos'era tutta quella storia?», chiese Diller, voltandosi indietro a guardare verso la porta. «Hai sentito?», ridacchiò Rose «Mi sembrava di sentire mia zia Agatha di Boston, spiccicata. Se mia zia Agatha ordinasse a un servitore di uccidersi davanti a lei, lo sventurato non avrebbe il coraggio di disobbedire. Finora non l'ha mai fatto, ma...». «La signora Goodrich apprezzerebbe molto tua zia Agatha. È convinta che quello sia il modo in cui deve esprimersi una signora ammodo, e io faccio del mio meglio per accontentarla. Anche se devo trattenermi dal ridere». «Be', confesso che se avessi continuato per un altro minuto, mi avresti spaventato». «Gradiresti un po' di caffè?». «Non ho tempo. I ragazzi, là fuori, s'impazientirebbero, e allora...». Rose gettò un'occhiata fuori della finestra e vide Sarah che prendeva posto su uno dei sedili anteriori del furgoncino. Dietro, sei o sette bambini la fissarono, e lei poté vedere che uno o due cominciavano già a dar segni d'irrequietezza. «Allora, che cosa posso fare per te?», chiese Rose. «Per me, niente. Riguarda Sarah. Non è niente di serio, ma il personale della scuola vorrebbe che tu e tuo marito veniste a fare una chiacchierata». «Oh?». Rose si accigliò, e George continuò in fretta: «Davvero, non è niente. Credo che stiano pensando a qualche cambiamento nel programma di Sarah, e prima vogliono parlare con voi». Rose annuì. «Naturalmente. Qual è l'ora migliore, per la scuola?». Si avvicinò alla scrivania e prese su l'agenda. «Sarebbe meglio al pomeriggio», disse George, scrollando le spalle, «dopo che i bambini sono tornati a casa. Ma se non avete tempo, possiamo sempre trovare un momento al mattino». Rose sapeva che tutto era possibile. White Oaks era una scuola assai costosa, ma aveva adottato la politica di farsi in quattro sia per gli studenti che per i loro genitori. Di conseguenza, White Oaks ben raramente era costretta a farsi in quattro perché i genitori, sapendo che la scuola avrebbe fatto tutto quello che poteva per loro, cercavano a loro volta di fare tutto ciò che potevano per la scuola. Così Rose cercò un pomeriggio libero, e prese su un lapis.
«Che ne diresti di giovedì? Naturalmente dovrò parlarne anche a mio marito, ma sono sicura che potrà lasciare l'ufficio». «Bene», disse George. «Verso le quattro?». «Prendo subito l'appunto...». Rose s'interruppe quando udì un grido smorzato provenire dal davanti della casa. Alzò gli occhi, e per un attimo non vide niente di sbagliato. Poi si accorse che il furgoncino si stava muovendo lentamente. «George!», urlò. «Presto! Lo scuolabus!». Senza far domande, George si lanciò verso la porta. Ma era incastrata, e lui cominciò a scrollarla per aprirla. Rose stava ancora guardando fuori della finestra. Il furgoncino adesso stava acquistando velocità lungo il lieve pendio che conduceva al garage. Fulmineamente valutò che, se avesse investito il garage, si sarebbe fermato con poco danno. Ma se avesse mancato il garage... I suoi occhi si spostarono attraverso l'ampio prato, e sul sentiero privo di ostacoli che conduceva direttamente all'orlo del dirupo. «Questa porta!», urlò George. «È incastrata!». «Spingila giù!», gli disse seccamente Rose. «S'incastra in alto». Di nuovo guardò fuori dalla finestra: chiaramente il furgoncino, sempre accelerando, si stava spostando sulla sinistra. Avrebbe mancato il garage. George grugnì rumorosamente. Rose si girò di scatto e lo vide che lottava ancora, angosciato, con la porta. Alle sue spalle, Rose poteva udire le urla terrorizzate dei bambini, i quali si rendevano conto di ciò che stava accadendo. «Lascia fare a me!», gridò Rose, spingendolo energicamente da parte e agguantando la maniglia. Diede un violento strattone, poi si gettò contro la porta con tutto il suo peso. La porta si spalancò, e George balzò fuori, precipitandosi verso l'ingresso principale, a pochi metri di distanza. Ma la signora Goodrich, come paralizzata, ostruiva il passaggio, coprendosi la mano con la bocca per soffocare un grido. George l'urtò violentemente, passando oltre, e la signora Goodrich sarebbe stramazzata a terra se Rose non l'avesse afferrata in tempo. «Tutto a posto», ansimò la signora Goodrich. «Non si preoccupi per me. Aiuti il signor Diller». Ma era ovvio che lei non poteva far nulla. Poté soltanto restar lì, impietrita, gli occhi puntati su George che inseguiva disperatamente il furgone lungo la discesa. Dal punto in cui si trovava lei, sembrava che, se anche George fosse riuscito a raggiungerlo, non sarebbe riuscito in alcun modo a
fermarlo prima che volasse oltre lo strapiombo. La portiera accanto al posto di guida sbatteva violentemente quando George raggiunse il furgone. Egli letteralmente si tuffò sul sedile del conducente, la sua mano sinistra cercò a tentoni il freno a mano mentre con la destra girava il volante. Sentì le ruote posteriori che si bloccavano, il furgone sterzò a sinistra e cominciò a slittare. Non c'era altro che potesse fare. Trattenne il fiato e attese. Dietro di lui i bambini urlavano come impazziti, tutti fuorché Sarah, che sedeva placida in prima fila, guardando fuori dai finestrini. Il furgoncino si arrestò soltanto a pochi centimetri dal ciglio. Se la portiera non fosse stata aperta, pensò George... Ma poi si rese conto che c'erano troppi se. Si risollevò, prendendo posto dietro il volante, e aspettò che i nervi si calmassero. Quando fu pronto a far uscire, con tutte le cautele, i piccoli passeggeri dal furgoncino, Rose l'aveva raggiunto. Uno alla volta i ragazzini scesero, e Rose li condusse alla casa. La signora Goodrich, dopo aver visto che il furgoncino non era precipitato giù dallo strapiombo, era scomparsa in cucina. Quando tutti i bambini si trovarono al sicuro in casa, era già pronta per tutti una cioccolata calda. Rose le lasciò i bambini in custodia e ritornò al furgoncino. George aveva di nuovo preso posto al volante e si apprestava ad allontanare il veicolo dal precipizio. «Stai attento!», lo avvertì Rose. Con Rose che lo guidava, lui scostò il furgoncino dal ciglio e, quando fu a distanza di sicurezza, lo voltò. Chiamò Rose, la fece salire, e guidò lentamente il furgoncino lungo il sentiero. Quando lo parcheggiò, lasciò il motore acceso e controllò due volte il freno a mano. «Che cosa è successo?», gli chiese Rose, mentre rientravano in casa. George scosse la testa. «Non lo so. Devo essermi dimenticato di mettere il freno. Eppure ero sicuro di averlo fatto. È un gesto istintivo, per me». Rifletté un momento, poi scosse la testa. «Riesco quasi a vedermi, che lo mettevo. Ma devo essermene dimenticato». Un'ora più tardi, con i suoi piccoli passeggeri di nuovo calmi, George Diller si avviò verso il furgoncino. Se anche Rose si accorse che questa volta George Diller ebbe cura di far accomodare Sarah su uno dei sedili posteriori, non si lasciò sfuggire alcun commento. Si limitò a restare sulla veranda, e seguì con lo sguardo lo scuolabus che s'inoltrava nel viale. Poi tornò nel suo studio e cercò di concentrarsi sul lavoro. Non fu facile.
George Diller guidò ancora più prudentemente del solito, durante il tragitto fino a scuola, e tenne d'occhio lo specchietto retrovisivo. Ma non era la strada dietro di sé che sorvegliava, bensì i bambini, e in particolare Sarah Conger. Sarah sedeva sul sedile in fondo al furgoncino, e mentre correvano sulla Strada del Promontorio sembrava cercare qualcosa. Poi George ricordò che ogni mattina il furgoncino superava Elizabeth Conger che procedeva a piedi diretta a scuola. E ogni mattina, al passaggio dello scuolabus, Elizabeth salutava Sarah con la mano. Ma quella mattina erano troppo in ritardo. Non c'era nessuno a salutare Sarah. Alla fine di quella giornata, la signora Montgomery avrebbe annotato sul registro che Sarah Conger era stata assai più difficile del solito. E questa era una cosa in più di cui avrebbe dovuto parlare con i genitori della bambina. 5 Rose diede un'occhiata all'orologio, quando uscì di casa; aveva appena il tempo di fermarsi all'ufficio di Jack senza arrivare in ritardo all'appuntamento. Mentre s'incamminava verso il garage, rivolse un'occhiata ai solchi sul prato, e rabbrividì ancora una volta al ricordo del furgoncino che correva sempre più rapido verso il dirupo. Si chiese se non sarebbe stato meglio tenere a casa Sarah per quel giorno, e avvertì una lieve punta di colpevolezza al ricordo del sollievo che aveva provato quando George Diller aveva insistito che sarebbe stato meglio per Sarah proseguire la giornata come se niente d'insolito fosse accaduto. Si fece un appunto mentale di dedicare un po' di tempo extra a Sarah, quella sera. A un quarto di miglio verso la città, Rose sorrise fra sé mentre passava davanti alla vecchia casa dei Barnes. Aveva la netta sensazione che quest'oggi, quando sarebbe tornata a casa, avrebbe potuto tirar giù la scritta IN VENDITA che era rimasta appesa per mesi. Quella casa era rimasta sul mercato troppo a lungo; un altro paio di mesi, e avrebbe assunto quell'orrendo aspetto di abbandono, sarebbe stato impossibile venderla a qualunque prezzo. Ma aveva la sensazione di aver trovato, finalmente, i clienti giusti per la casa. Istintivamente premette sull'acceleratore, e quando la macchina scattò in avanti, buona parte della depressione che aveva gravato
su di lei per tutta la mattina si dileguò. Infilò la macchina nello spazio a lei riservato, dietro la Realty Company di Port Arbello, attraversò la porta dell'ufficio e lasciò cadere la borsa sulla sua scrivania. «Ha un appuntamento fra quindici minuti», le ricordò l'addetta alla ricezione. Rose sorrise alla ragazza. «Ho tutto il tempo che voglio. Farò un salto dall'altra parte della piazza, un minuto soltanto per salutare Jack». Sapeva che avrebbe potuto semplicemente telefonare, ma le piaceva la parte della moglie affettuosa. A Port Arbello i matrimoni saldi avevano la loro parte, nel campo degli affari. Mentre attraversava la piazza, diede una rapida occhiata alla vecchia armeria che si ergeva austera all'angolo sud del tribunale. Un altro anno, pensò, e troverò il modo di comperarla. Poi sarebbe stata una semplice faccenda di variazione zonale, e avrebbe potuto proseguire col suo progetto di trasformarla in un centro-acquisti: non in concorrenza con i negozi che già attorniavano la piazza, e niente di simile a un grande magazzino. Piuttosto, si figurava un gruppo di piccoli, eleganti locali (boutiques, in pratica, anche se odiava quella parola) con al centro un ristorante e un bar. In quel modo, avrebbe aumentato considerevolmente il valore della proprietà senza togliere affari agli altri commercianti. Nella sua immaginazione già vedeva la vecchia armeria come l'avrebbe rimodellata: i mattoni ripuliti con getti di sabbia dal sudiciume accumulato nei secoli, rifiniture bianche, e qualche ritocco alla facciata per darle un aspetto invitante invece di quell'aria tetra con cui aveva sempre guardato la cittadina circostante. Attraversò l'intera piazza con aria svagata fino alla sede del Courier, ed entrò. «Ciao, Sylvia», esclamò con un sorriso. «Mio marito è in ufficio?». La segretaria di Jack le restituì il sorriso. «È dentro, ma oggi è un orso. Che cosa gli hai fatto, stamattina?». «Il solito», replicò Rose. «L'ho legato e frustato. Strilla parecchio, ma gli piace». Entrò senza bussare nell'ufficio di suo marito, chiuse la porta dietro di sé, si avvicinò alla scrivania, si piegò in avanti e lo baciò con calore. «Ciao, caro», gli disse; non le era sfuggito che l'intercom era acceso. «Mi dicono che sei di pessimo umore». Mentre Jack la fissava perplesso, gli indicò l'intercom sulla scrivania. Lui annuì e lo spense. «Mi sembri abbastanza allegra», replicò acido. «Adesso sì. Ma stamattina stava per succedere un disastro». Gli raccontò
l'intera storia del furgoncino. «George è proprio sicuro di aver tirato il freno?», chiese Jack, quando lei ebbe finito. Rose annuì. «Ma non deve averlo fatto. Se invece l'ha tirato, c'è soltanto una spiegazione per quanto è accaduto. Sarah». Jack sembrò perdere un po' del suo colorito. «Così, la scuola vuole parlarci di lei giovedì pomeriggio?». Prese un appunto sul suo calendario. «Non di quello che è accaduto questa mattina», si affrettò a precisare Rose, «anche se immagino che salterà fuori anche questo. Mio Dio, Jack, sarebbero rimasti uccisi tutti. Nessuno avrebbe avuto una sola possibilità di salvarsi». «E tu pensi davvero che Sarah avrebbe potuto togliere il freno?». «Non so che cosa pensare», replicò Rose, con voce incerta. «Suppongo che stia sforzandomi di non pensare a niente finché non avremo parlato con quelli della scuola». «Potrei prendermi libero il resto della giornata», si offrì Jack. «Potremmo fare una partita a golf». Rose sorrise, ma scosse la testa. «Se vuoi, fa' pure. Ma io non posso. Ho un appuntamento, e sono quasi in ritardo. Sono convinta che sarà un affare eccellente. Sto cercando di vendere la casa dei Barnes. Se riuscirò a condurre la faccenda in porto, mi servirà molto più di una partita a golf». Si alzò in piedi. «Per qualche ragione, il lavoro mi distende i nervi». «Vorrei che facesse lo stesso a me», rispose Jack. Non si alzò, e provò un impeto di rabbia al pensiero che Rose non avrebbe giocato con lui. «Mandami Sylvia quando esci, per favore». Rose fece per rispondere, poi cambiò idea. Lasciò l'ufficio in silenzio, costringendo il suo viso ad assumere un'espressione allegra a uso e consumo di Sylvia Bannister. «È proprio un orso», disse a Sylvia. «E ti vuole nella sua tana. Devo correre». Senza aspettare che la segretaria replicasse, Rose lasciò l'edificio e attraversò in fretta la piazza. Quand'ebbe raggiunto il suo ufficio, aveva ricollocato la sua vita privata nello scompartimento in fondo alla mente, ed era pronta ad accogliere i clienti. «Allora, questo è tutto», concluse Rose, un paio d'ore più tardi. «Da quanto ne so, queste sono le tre case a Port Arbello che più si avvicinano a quello che state cercando. Potrei mostrarvene altre, ma vi farei soltanto
sprecare tempo. Perché non cominciamo con queste due e non ci riserviamo questa per ultima?». Prese su la scheda della proprietà Barnes, la infilò sotto le altre due e si alzò in piedi. «Ci stiamo tutti nella sua macchina, oppure dobbiamo seguirla con la nostra?», chiese Carl Stevens. «Prendiamo la mia, così potrò farvi una cronaca volante della cittadina. Se però volete conoscere tutte le abiezioni nascoste, dovete parlare con mio marito. Io sono qui soltanto da vent'anni, e la gente non si fida ancora veramente di me». Barbara Stevens le sorrise. «È per questo che mi piacciono le cittadine come questa. Se non sei nata qui, la gente ti lascia tranquilla. E non si può dipingere, se la gente non ti lascia tranquilla». Uscirono, e Rose assolse egregiamente alla sua promessa. Non era vero, naturalmente, che non fosse al corrente di tutte le porcherie e le abiezioni nascoste; tutte le volte che le veniva affidata una casa da vendere, i proprietari le facevano un resoconto completo dell'edificio in questione e dell'immediato circondario. Rose sapeva con chi era andata a letto la gente, chi era impazzito e chi aveva fatto «cose strane» in ogni più riposto recesso di Port Arbello, negli ultimi cinquant'anni. Ma non riferiva mai queste informazioni ai clienti. Si atteneva strettamente agli affari. Là dove, ad esempio, altri agenti immobiliari mettevano in evidenza la casa dove il vecchio signor Crockett era stato trovato impiccato nell'attico, Rose metteva in risalto il fatto che la scuola si trovava soltanto a due isolati dalla proprietà che stava mostrando. Di conseguenza, riusciva a vendere. Fece visitare rapidamente agli Stevens le prime due case del suo elenco, senza mettere nessuna enfasi sulle buone qualità delle proprietà, per cui anche i clienti mostrarono un interesse assai relativo. Poi, risaliti di nuovo in macchina, li condusse fino all'imboccatura della Strada del Promontorio, e l'infilò. «Qualche parentela?», chiese Carl Stevens, dopo che ebbe letto il cartello indicatore. «Noi siamo gli ultimi Conger», dichiarò Rose, facendo del suo meglio per non apparire pretenziosa, e ci riuscì. «A meno che io non riesca a mettere al mondo un figlio maschio, presto non ci sarà più neppure un Conger sulla Strada del Promontorio dei Conger». «Credo che sia meraviglioso vivere su una strada che porta il proprio nome», commentò Barbara. Rose annuì. «Devo ammettere che mi fa provare una certa eccitazione.
Da quanto ho potuto capire, questa strada era praticamente il viale della proprietà di famiglia. La famiglia di mio marito possedeva tutto quello che si trovava fra la cittadina e il promontorio. Ma questo era cent'anni fa. Poi, è stato un continuo costruir case, e anche la strada ha finito per superarci e procedere oltre. Noi viviamo ancora sul promontorio, e la cosa è in un certo senso simbolica: la strada che un tempo finiva sui gradini di casa nostra adesso prosegue oltre». «Lei è una filosofa», commentò Carl. «Su quale lato del promontorio si trova la proprietà alla quale stiamo andando?». «Su questo lato, appena in dentro. Ma se voi deciderete d'acquistarla, saremo comunque vicini di casa. La casa dei Barnes non è lontana dalla nostra. Non preoccupatevi: c'è sempre un quarto di miglio fra i due edifici, e poi lo spazio intermedio è occupato da una striscia di bosco, un ampio prato, e una breve distesa d'acqua. La casa dei Barnes è ancora sulla terraferma, noi invece ci troviamo del tutto all'infuori, all'estremità del promontorio. Eccoci arrivati», annunciò. Frenò e infilò il viale d'ingresso che conduceva alla vecchia casa. Sentì Barbara che tirava un sospiro di meraviglia, e istintivamente si chiese se avrebbero pagato in contanti o a rate. «Mio Dio», disse Carl. «Quanto è grande?». «Non è grande quanto sembra», lo rassicurò Rose. «È una strana casa, ma credo che vi piacerà. Inoltre, se non vi piace potrete sempre sceglierne un'altra. La prima volta che l'ho vista mi sono convinta che avrebbe dovuto finire nelle mani di un architetto. Nessun altro potrebbe abitarla». «Cos'ha che non va?», chiese Barbara. «Niente, in effetti», disse Rose. Stava parcheggiando la macchina davanti all'edificio, e indicò quelle che sembravano due gallerie sovrapposte che correvano per tutta la lunghezza della casa. «Vedete quelle?». «Non me lo dica», l'interruppe Carl. «Mi faccia indovinare. Si entra dall'ingresso principale e ci si trova in un atrio che attraversa l'intera casa. Su ambedue i lati dell'atrio s'inizia una scala, e le due scale s'incontrano sopra la porta d'ingresso. Da questo punto parte un corridoio che si estende in entrambe le direzioni per tutta la lunghezza della casa». Rose annuì. «Proprio così. E a pianterreno c'è un corridoio identico. Dà l'impressione che l'intero edificio sia un immenso vagone-salotto di un treno di lusso, perché ogni stanza ha almeno una porta che dà sul corridoio. Si gode un'incredibile panorama dell'oceano, sul lato opposto della casa. E io non ho nessuna idea di cosa sia possibile farne. È una delle ragioni per
cui vi ho portati fin qui. Anche se decidete di non comperarla, potrete sempre darmi qualche buona idea da offrire a qualche altro cliente». Entrarono nella casa e l'esplorarono stanza per stanza, prima il pianterreno, poi il piano superiore. Rose, seguendo l'istinto, si limitò a precisare l'uso al quale i Barnes avevano adibito ognuna delle stanze. Infine tornarono giù nell'atrio. «Allora?», fece Rose. Carl e Barbara Stevens si guardarono. «Certo, presenta dei problemi», sospirò Carl. «E sarebbero problemi costosi, non è vero?», aggiunse Barbara. «Non costosi», disse Rose. «Molto costosi. Calcolate di dover spendere per il riatto almeno un'altra metà del prezzo d'acquisto, senza tener conto delle tubature. E l'impianto elettrico dovrà essere rifatto nel giro di cinque anni, e il tetto entro due». «Lei è davvero una venditrice onesta», commentò Carl con un sogghigno. Rose scrollò le spalle. «Se non ve lo dicessi io adesso, me lo direste voi, in tono molto più energico, più tardi. E io non vorrei mai che i miei vicini di casa ce l'avessero con me». «E quant'è il prezzo richiesto?». Rose poté quasi vedere gli ingranaggi che giravano nel cervello di Carl. «Cinquantaduemilacinquecento. Se la pianta dell'edificio non fosse così strana, si potrebbe ricavarne almeno due volte tanto». «Sì», disse Carl. «Sì?», ripeté Rose. «Che cosa vuol dire, "sì"?». Barbara rise. «Vuol dire: "Sì", la comperiamo"». «Al prezzo richiesto?», chiese Rose, in tono incredulo. «Al prezzo richiesto!». Rose scosse la testa. «Siete pazzi, tutti e due. Mi avete chiesto di dirvi quanto chiedevano, non per quanto pensavo sareste riusciti ad averla. Perché non provate a fare un'offerta più bassa?». «No», disse Carl. «Capisco», fece Rose, come intorpidita. «Ma cosa sto dicendo? Non capisco affatto. Vi spiace se vi dico che mi state privando di tutto il divertimento? Io vengo pagata per fare offerte e ricevere controfferte, e per convincere chi vende e chi acquista di aver fatto un eccellente affare. Non ho mai sentito che qualcuno abbia venduto una casa per il prezzo richiesto. In effetti, sono più che certa che potreste averla per meno». Barbara annuì. «Ma ci vorrebbe del tempo. Noi non vogliamo aspettare.
Non abbiamo bisogno di prestiti, né di rateizzazioni. Le faremo un assegno oggi stesso. Possiamo venire qui a fine settimana?». Rose annuì. «Suppongo di sì», disse lentamente. «Non c'è ipoteca, per cui immagino che non ci sia nulla da fare se non trasferire il titolo di proprietà. E può esser fatto senza alcuna perdita di tempo». Carl scoppiò a ridere. «A guardarla, pare che le abbiamo guastato la giornata. Ma ora torniamo subito al suo ufficio e regoliamo la faccenda. Poi noi andremo a casa a prendere Jeff e lo porteremo quaggiù. Il posto gli piacerà moltissimo. Va pazzo per il mare e gli piace arrampicarsi. Quella scogliera dovrebbe farlo felice». Ancora una volta Rose annuì. «C'è qualcosa di sbagliato», insisté. «Vendere una casa come questa non dovrebbe essere così facile. Perché mai avete tanta fretta di venire a vivere qui?». «Abbiamo fretta», spiegò Barbara, «perché cerchiamo casa da un anno, sappiamo esattamente quello che vogliamo, abbiamo i soldi per comperarla, e la possibilità di rimetterla in sesto. E in più cerchiamo proprio una casa come questa. Inoltre Jeff ha quattordici anni, e vogliamo che cominci ad andare a scuola prima che l'anno sia troppo avanti. Un altro mese, e tutti i gruppi e le cricche si saranno formati, e Jeff si troverebbe isolato fino al prossimo autunno. Così, se non potessimo venir qui a fine settimana, probabilmente non ci verremmo mai più. Può sistemare le cose?». «Certo», replicò Rose. «Tanto più che non c'è niente da sistemare. Come ho detto, mi avete tolto tutto il divertimento». «Be'», disse Carl, «faremo del nostro meglio per compensarla». Sulla via del ritorno verso Port Arbello, Rose decise che gli Stevens le piacevano. Martin Forager era in piedi davanti alla scrivania di Jack Conger, gli occhi in fiamme, le mani affondate nelle tasche della giacca a quadri da cacciatore. «Le dico, Conger», stava gridando, «è una vergogna! Sono passati due giorni e non si è fatto nulla». Si voltò a guardare fuori della finestra. «Nulla», ripeté. «Sono certo che Ray sta facendo del suo meglio», tentò di replicare Jack. Forager si girò di scatto: «Il meglio di Ray non basta. Non so ancora che cos'è capitato a mia figlia... Esigo di saperlo!». Jack alzò gli occhi, desolato. Martin Forager, un uomo grande e grosso,
aveva piantato i pugni sulla sua scrivania e si sporgeva verso di lui, fissandolo inferocito. «Non vedo che cosa ci posso fare io», disse Jack. «Può usare il suo giornale!», l'investì Forager. «Ecco che cosa può fare! Può usarlo per accendere un fuoco sotto il sedere di Ray Norton. Fargli sapere che se non fa qualcosa, e in fretta, la gente di Port Arbello si sbarazzerà di lui». «Non mi sembra davvero il...», cominciò a ribattere Jack. «Ah, non mi sembra davvero», lo scimmiottò Forager. «A lei non sembra perché non è successo a sua figlia, ecco perché!». Jack dovette fare uno sforzo per controllarsi. E ricominciò daccapo: «Che cosa pensa esattamente che sia accaduto a Anne?». «Qualcuno...». Martin Forager esitò. «...Le ha fatto qualcosa», terminò, quasi farfugliando. «Fatto che cosa?». Forager sembrò sempre più a disagio: «Be'... A dire il vero non lo so. Ma il dottore ha detto...». «Il dottore ha detto che non le è successo poi molto», replicò asciutto Jack. «Me l'ha detto lui stesso. Lei personalmente ha voluto che io fossi informato. Il dottore le ha fatto un esame completo, e a parte qualche livido, che avrebbe potuto procurarsi in tantissimi modi, sua figlia non presenta ferite, e non è stata assolutamente violentata». E si affrettò a proseguire, vedendo Martin Forager impallidire: «Lo so, lei non ha mai detto che lo sia stata, ma è quello che ha pensato». Le sue mani ricaddero in grembo. Si lasciò andare contro lo schienale. «Per l'inferno, Marty, tutti noi l'abbiamo pensato. Ma invece sembra che non sia successo nulla. E lei sa come sono i bambini. Anne è tornata a casa tardi. Con tutta probabilità non le è successo nulla, e si è inventata tutto». Sollevò prontamente una mano, quando vide la collera di Forager salire di nuovo. «Non ricominci, Martin. Se il rapporto del medico mostrasse qualcosa, qualunque cosa a cui potessi aggrapparmi, farei un baccano grande quanto il suo. Ma non è così. A meno che Anne non dica ciò che le è veramente successo, non c'è niente che nessuno di noi possa fare». Forager lo fissò per un attimo con gli occhi fiammeggianti. «Vuol dire, allo stesso modo in cui Sarah parla di ciò che le è successo?», ringhiò. Si voltò e uscì dall'ufficio di Jack prima di constatare l'effetto delle sue parole. Jack si tenne stretto alla sedia, aspettando che il cuore smettesse di martellargli in petto. Tremava.
Quando, qualche minuto più tardi, Sylvia Bannister entrò nell'ufficio interno, Jack non si era mosso. Sylvia fece per deporre una cartella sulla scrivania davanti a lui, ma si arrestò quando vide il suo viso. «Jack!», esclamò. «Jack, stai bene?». «Non lo so, Sylvia», rispose Jack, con voce piatta. «Perché non chiudi la porta e non ti siedi?». Sollevò gli occhi e la fissò. «Hai tempo?». «Ho sempre tempo», rispose Sylvia, chiudendo la porta. Prese posto sulla sedia all'altro lato della scrivania e si accese una sigaretta. La vaga traccia di un sorriso comparve sul volto di Jack. «È automatico, vero?», disse. «Che cosa?», chiese lei, guardandosi attorno. «La sigaretta. Ti sei accorta che non accendi mai una sigaretta qua dentro quando si tratta di lavoro, ma che ne accendi sempre una quando sai che si tratterà soltanto di una chiacchierata fra noi due? È come se tu usassi la sigaretta per cambiar ruolo, da segretaria a amica». «Ti infastidisce?», chiese Sylvia, ansiosa, fissando la sigaretta con un imbarazzo che non era da lei. Jack scosse la testa. «Niente affatto. In un certo senso ne godo. Mi rassicura sul fatto che riesci a leggermi come un libro». Sylvia si rilassò di nuovo. «Allora cercherò di non ricordarmelo tutte le volte che lo faccio. Non avresti dovuto dirmelo; adesso mi sentirò sempre impacciata». «Non tu», sogghignò Jack. «Tu sei la persona meno impacciata che io abbia mai conosciuto». «Be'», tagliò corto Sylvia, accorgendosi che Jack stava evitando l'argomento per cui l'aveva fatta restare, «invece di parlare delle mie molte e discutibili virtù, perché non parliamo di te? Che cosa è successo?». Jack scrollò le spalle. «Non sono sicuro che sia successo qualcosa, in realtà. Martin Forager mi ha appena detto qualcosa che mi ha scosso. Qualcosa su Sarah». Sylvia tirò una boccata dalla sigaretta e lasciò che il fumo le uscisse lentamente di bocca, mentre sceglieva accuratamente le parole. «Che cosa ha detto, esattamente?», chiese, a voce bassa. Jack le riferì la conversazione che aveva appena avuto. Quand'ebbe finito, Sylvia rifletté con calma, prima di replicare. «Credo che fosse quello che chiamano un salto nel buio, Jack. Non sapeva neppure lui quello che stava dicendo», continuò, perché vide che Jack non sembrava convinto. «Jack, nessuno in questa città, compreso te, tua
moglie, o io, sa che cosa è accaduto a Sarah. Nessuno lo sa. Ma tu devi guardare in faccia le cose. Sarah non parla più, e va alla White Oaks, e tutti, qui, sanno che tipo di scuola è. Perciò è inevitabile che si facciano congetture, ed è inevitabile che alcune di queste puntino su di te». Jack annuì. «Lo so. Ma c'è un'altra cosa che mi preoccupa». «Un'altra? Che altro c'è?». «Be'... La situazione fra Rose e me». Sylvia non era certa di voler ascoltare anche quello, ma sapeva che l'avrebbe fatto. Se soltanto non gli fossi così dannatamente affezionata, pensò. Era stata sul punto di usare la parola «innamorata», ma l'aveva deliberatamente rifuggita. Amava Jack Conger, e lo sapeva. Non che facesse qualche differenza. Si era abituata a essere innamorata del suo capo già da molto tempo, e le era di aiuto sapere che anche lui l'amava, in un certo modo. Non sessuale. Quello l'aveva sempre riservato a Rose, e Sylvia ne era ben felice. Non era sicura di voler affrontare un affaire a tre, ed era ben certa che non sarebbe stata lei a provocarlo. Le piacevano le cose così com'erano. Nell'ufficio, lei e Jack erano assai vicini; i rapporti personali andavano ben oltre quelli puri e semplici di lavoro, e ad ogni istante durante la giornata, variavano in armonia con i reciproci stati d'animo. Era, lei pensava, come una sorta di matrimonio, salvo che durava soltanto otto ore al giorno. Ogni pomeriggio Jack tornava a casa dalla sua famiglia, e lei tornava a casa dal suo gatto. Per otto ore al giorno aveva un lavoro che le piaceva con un uomo che le piaceva. Di solito, questo le bastava. Ma a volte, come ad esempio in quel momento, avrebbe desiderato che Jack non le dicesse tutto, che non si rivelasse così ai suoi occhi. D'altro canto, sapeva che in quell'ultimo anno lui non aveva avuto, in realtà, nessun altro. Non più, dal giorno in cui aveva portato Sarah fuori dal bosco. «Le cose stanno volgendo al peggio?», chiese. «Non sono sicuro che "peggio" sia la parola giusta. Qual è la tua definizione di peggio? Rose comincia a odiarmi, ma perché non dovrebbe? Il mio bere peggiora sempre più, ed è impossibile non accorgersene. E poi c'è Sarah, Sylvia», e la disperazione risuonò quasi tangibile nella sua voce. «Perché non riesco a ricordare cos'è successo quel giorno?». «Eri ubriaco», disse Sylvia. «A volte la gente soffre di amnesie». Lo disse sbrigativamente, ma non c'era condanna nella sua voce, soltanto comprensione. «Ma non avevo mai sofferto di amnesie prima di allora», ribatté Jack. «Mai. E questo fa sì che io mi chieda, continuamente, che cosa le ho fatto
esattamente, nel bosco. Che cosa avrò mai fatto, da non permettere a me stesso di ricordare?». Sylvia accese un'altra sigaretta, e quando parlò la sua voce era più calma, distesa. «Jack, a cosa serve che tu ti tormenti per questo? Se tu avessi fatto quello che credi di aver fatto, i medici l'avrebbero saputo immediatamente. Ci sarebbe stato un qualche danno alla sua...». Cercò la parola, poi decise che tanto valeva parlargli esplicitamente. «...Alla sua vagina. Non l'hai violentata, Jack». La parola lo scosse come un colpo fisico. «Non ho mai pensato...». «Sì, l'hai pensato», lo interruppe Sylvia. «E esattamente quello che hai pensato, che hai sempre pensato. E se vuoi sapere la verità, è probabilmente questo che sta alla base di tutte le tue inquietudini. Rose può pensare che abbia a che fare col denaro o con l'alcool... Ma io in realtà non so che cosa pensi Rose, e non me ne importa. È quello che pensi tu, che conta. E tu pensi di aver violentato Sarah. Be', non l'hai fatto, e non puoi continuare a tormentare te stesso con questa falsa convinzione. È finita, Jack, e devi dimenticarlo. Forse, se riuscirai a dimenticarlo, smetterai anche di bere». Jack evitò i suoi occhi, fissando invece il tampone di carta assorbente sulla scrivania. Vide l'appunto sul calendario, l'appunto che gli ricordava l'appuntamento alla White Oaks giovedì pomeriggio. «È difficile dimenticare», replicò, «quando devo guardare in faccia Sarah ogni giorno». Sylvia annuì. «Naturalmente. E per questo che i medici hanno suggerito che venisse mandata in un istituto per un po'. Non era soltanto per lei, sai. Era anche per te. È difficile dimenticare qualcosa, quando ci si trova davanti a un promemoria tutti i giorni. In particolare, un promemoria del tipo di Sarah». «Non posso chiuderla in un istituto», replicò Jack, desolato. «Non dopo quello che le ho fatto». Sylvia si alzò, andò dietro di lui e gli appoggiò le mani sulle spalle. Sentì i muscoli duri, aggrovigliati, e cominciò a massaggiarli per distenderli. «Sei duro con te stesso, Jack», mormorò. «Troppo duro. Lasciati andare». Ma, anche mentre gli diceva queste parole, sapeva che non l'avrebbe fatto. 6 Nessuno dei due parlò finché Rose non guidò l'auto oltre i cancelli della
White Oaks School. Davanti a loro, una distesa di prati ben tenuti saliva in un dolce pendio ondulato, costellato di aceri. Un giardiniere andava avanti e indietro sul terreno cosparso di foglie con un minitrattore, lasciandosi dietro una scia di erba ripulita. Qua e là c'erano mucchi di foglie, alcuni intatti, altri già disfatti da gruppi di bambini che si spostavano da un mucchio all'altro, sparpagliando sistematicamente le foglie. Il giardiniere non sembrava accorgersene e continuava pazientemente ad avanzare. Rose sorrise, ma quella scena servì soltanto a far sentire Jack ancora più depresso. «Mi piace questo posto», disse Rose. «E così bello, in qualunque stagione». Non ricevette risposta da suo marito, ma continuò ugualmente: «Penso che sia già un bene per i bambini anche soltanto trovarsi in un posto come questo». «Sempre che siano in grado di rendersi conto di dove si trovano», replicò, reciso, Jack. «C'è da pensare che il giardiniere dovrebbe arrabbiarsi con loro, non è vero?». «Suppongo che lo abbiano assunto soprattutto perché non è il tipo che si arrabbia», rispose Rose. «So bene che questo non è un posto dove è facile lavorare. Perciò ammiro la gente che ci riesce». «Io di certo non potrei», disse Jack. «Non capisco come la gente, qui, possa sopportarlo. Guarda laggiù». Le indicò un punto sul lato opposto del prato, dove un bambino di non più di sei o sette anni sedeva sotto un albero. Stringeva in mano un bastone e lo stava picchiando metodicamente sul tronco dell'albero, con la regolarità di un metronomo. Rose fermò la macchina e rimasero a guardarlo. Il bambino rimaneva semplicemente lì, seduto, a battere con un ritmo costante sul tronco dell'albero. «Povero bambino», bisbigliò Rose, dopo parecchi, silenziosi minuti. «Che cosa credi che pensi? Che cosa credi lo renda così?». «Chi lo sa?», rispose Jack, a disagio. Fissò il bambino per un po', e alla fine la sua espressione si ammorbidi. «Mi spiace, Rose», disse. «Non è che io odii veramente questo posto. È soltanto che mi fa sentire così... così impotente. Vedo questi bambini, e tutti sembrano far parte di un altro mondo, un mondo che non posso toccare. E mi strazia il cuore pensare che mia figlia fa parte di questo mondo». Rose protese il braccio attraverso il sedile anteriore e gli strinse la mano. Mise nuovamente in moto la macchina, dirigendosi verso l'edificio principale. Dietro di loro, il bambino era sempre seduto sotto l'albero, continuava a battere sul tronco.
Il dottor Charles Belter si alzò in piedi quando entrarono nel suo studio, e uscì da dietro la scrivania per accoglierli. «Signor Conger», disse, calorosamente, tendendogli la mano. «Signora Conger. Sono lieto che siate potuti venire entrambi. Rimarreste sorpresi se sapeste quant'è difficile per noi far venire qui anche un solo genitore, per non parlare di tutti e due. Naturalmente alcuni genitori devono superare un momento difficile, quando si trovano qui, semplicemente a causa della natura del nostro lavoro...». Fece passare lo sguardo da Rose a Jack. E lei, signor Conger, è uno di quei genitori, disse fra sé. Li invitò ad alta voce ad accomodarsi, e disse loro che l'insegnante di Sarah li avrebbe raggiunti fra un paio di minuti. Charles Belter era quasi sulla sessantina, e aveva l'aspetto che si suppone debba avere uno psichiatra. Esibiva un'immensa barba (senza dubbio il modello a cui s'ispirava George Diller, pensò Rose) e un paio di baffi alla tricheco, e aveva ancora la testa piena di capelli cespugliosi che andavano ingrigendo. Dietro gli occhiali dalla montatura di corno, i suoi occhi azzurri ammiccavano con quel buonumore che gli aveva sempre reso facile comunicare con i bambini oggetto delle sue cure. Anzi, aveva sempre fatto del suo meglio nello sforzo di emulare Babbo Natale, un ruolo che assumeva al cento per cento una volta l'anno (non gli altri giorni, poiché sentiva che il vestito rosso e l'ampia cintura sarebbero stati un po' troppo eccentrici perfino per lui). Di conseguenza, si accontentava d'indossare, per quanto inadeguata, una giacchetta sportiva rossa, che teneva sempre sbottonata. La "White Oaks School era stata il suo sogno fin dal primo giorno in cui l'aveva vista, quand'era ancora un sanatorio tubercolare. Come molte altre istituzioni simili, il sanatorio era rimasto a secco di clienti. Era il sogno del dottor Belter restare anche lui, un giorno, a secco di clienti, ma le prospettive che questo accadesse erano remote, e si aspettava ormai di passare il resto della sua vita alla White Oaks. Il che, rifletté, non era poi una prospettiva del tutto disprezzabile. Si udì bussare alla porta, poi Marie Montgomery entrò nello studio. Compassata, sulla trentina, aveva un aspetto conservatore al punto di suggerire l'immagine di una maestra di scuola, zitella, di cinquant'anni prima. La gente che non l'aveva vista lavorare aveva sempre delle riserve su Marie Montgomery; la gente che si era presa la briga di osservarla all'opera si era totalmente convinta delle sue capacità. Bastava metterla in una classe di bambini anormali, e ogni sua riservatezza scompariva. Non sembrava
mai dar segno di accorgersi della «diversità» dei bambini, e lavorava infaticabilmente con ciascuno dei suoi dieci allievi, scorgendo progressi là dove altri non vedevano nessun cambiamento, inventando tecniche particolari là dove, prima, non ne era esistita nessuna. Rifiutandosi di ammettere le limitazioni dei suoi allievi, riusciva a superarle. E, in verità, i suoi allievi sembravano fare più progressi di chiunque altro. Ma adesso, mentre prendeva posto sulla sedia vuota fra il dottor Belter e Rose Conger, aveva un'espressione preoccupata che andava ben oltre la sua abituale riservatezza. «Marie», disse il dottor Belter, «ti stavamo aspettando». Lei ebbe un fuggevole sorriso. «Mi spiace, sono stata trattenuta per un minuto. Oh, niente di serio», si affrettò ad aggiungere, quando il dottor Belter sollevò con aria interrogativa un sopracciglio. «Soltanto una questione di disciplina. Due bambini sembravano volersi punire a vicenda. Tutto a posto». «Dev'essere difficile», commentò Jack. «Oh, niente affatto», disse la signora Montgomery, in tono deciso ma gentile. «Non dimentichi che la maggior parte dei bambini, qui, non hanno coscienza che qualcosa non va in loro. Hanno, semplicemente, un diverso standard di normalità. E quando si considera lo stato in cui si trova il mondo, chi ha il diritto di affermare che sbagliano? A volte guardo Jerry che batte su quel tronco d'albero, là fuori, e mi capita di pensare che non è davvero il modo peggiore di passare il tempo. A volte vorrei avere la sua forza di concentrazione. Sapete, sono cinque mesi, ormai, che batte sul solito albero. Certo, sarò lieta quando avrà finito». «Ma che cosa sta facendo a quell'albero?», chiese Jack. La signora Montgomery scrollò le spalle. «Se riesce a scoprirlo è più bravo di me. Ma un giorno io lo saprò. Un giorno me lo dirà. Quando sarà pronto. Nel frattempo, ho altre cose che mi tengono occupata». «Ad esempio... Sarah?», chiese Rose. La signora Montgomery annuì. «Ad esempio Sarah. Spero che non vi siate troppo preoccupati. Ho detto a George di rendere assolutamente chiaro che non si tratta di una vera emergenza. Spero che ci sia riuscito». Rose sorrise. «Sì, ce l'ha detto. Ma poi abbiamo avuto il nostro caso d'emergenza. Immagino che ve l'abbia riferito». Il volto del dottor Belter si rannuvolò. «Sì», disse. «Infatti. Inutile dire che questa non era una della cose di cui volevamo parlare, dal momento che non era accaduta quando avevamo deciso questo incontro, ma credo che...».
«Sta forse insinuando che Sarah abbia avuto qualcosa a che fare con l'incidente?», replicò freddamente Jack. «Perché, se così fosse...». «Non sto insinuando niente del genere», disse il dottor Belter. «Dubito che riusciremo mai a scoprire esattamente ciò che è accaduto al furgoncino. George Diller era certo di avere inserito il freno. Ma potrebbe sbagliarsi. Sarah, è ovvio, non può dirci assolutamente niente in proposito. Ma dalle mie personali osservazioni su di lei, e da quanto Marie, qui presente, mi dice, non ho alcuna intenzione d'insinuare che Sarah abbia tolto il freno. Per lo meno, non deliberatamente. Tanto per cominciare, affermare che Sarah ha tolto il freno implica diverse cose. Prima di tutto, che Sarah sapeva ciò che sarebbe successo se lei l'avesse fatto. In altre parole, doveva sapere che, se lei avesse tolto il freno, il furgoncino avrebbe cominciato a muoversi, e se avesse cominciato a muoversi, nel migliore dei casi sarebbe andato a cozzare contro il garage, ferendo parecchi bambini; e nel peggiore dei casi, il furgoncino sarebbe precipitato a picco nel mare, uccidendo tutti quelli che erano dentro, compresa lei stessa. Francamente non siamo affatto certi che, nelle sue attuali condizioni mentali, Sarah sia in grado di associare tutte queste idee. Naturalmente, è sempre possibile che ne sia capace, ma il suo comportamento qui non lo indica. Inoltre, non pensiamo che sia il tipo del suicida, e togliere il freno dovrebbe certamente essere giudicato un gesto di autodistruzione». «In altre parole», interloquì Rose, «voi non pensate che Sarah abbia tolto il freno?». Il dottor Belter ebbe un sorriso forzato. «Vorrei che fosse così semplice», replicò. «È senz'altro possibile che abbia tolto il freno senza la minima idea di ciò che stava facendo. Potrebbe essersi trattato del fugace interesse per un oggetto, senza alcuna idea di tutte le conseguenze di ciò che stava facendo. Questo, temo, rientra senz'altro tra le attuali possibilità del suo comportamento». Vi fu un lungo silenzio, mentre Rose e Jack digerivano ciò che il dottore aveva detto. Jack si agitò inquieto sulla sedia, mentre Rose giocherellava con un guanto. «Ciò che sta dicendo, dottor Belter, se ho ben capito», replicò, aspro, Jack, «è che mia figlia è pericolosa». Il dottor Belter sospirò, e riprese: «No, non è esattamente quello che sto dicendo». «Non esattamente...», insisté Jack, «...ma quasi?». Il dottor Belter annuì quasi impercettibilmente col capo. «Suppongo che
possa dirlo, se vuole. Ciò che comunque è certo, è che Sarah in questo momento è irresponsabile. Da quanto siamo stati in grado di osservare, è spesso del tutto inconsapevole degli effetti che le sue azioni possono avere. In altre parole, agisce senza pensare. E questo è pericoloso per chiunque. Per Sarah, visti i conflitti emotivi che sta attraversando, il pericolo è doppiamente grave. Devo ammettere che l'incidente del furgoncino è un esempio estremo, ma certo chiarisce ciò che potrebbe accadere». «Sempre che sia stata Sarah a togliere il freno», disse Jack, cupo. «Sempre che sia stata veramente Sarah a togliere il freno», ripeté il dottor Belter. «Ma noi, ovviamente, non possiamo dimostrarlo, e neppure dimostrare il contrario. Mi creda, niente mi farebbe più felice del poter dimostrare, oltre ogni dubbio, che si è trattato di negligenza da parte di George Diller. Sarebbe assai più facile risolvere il caso. Ma non posso». «Avete detto che c'è dell'altro», sussurrò Rose. «Che altro c'è?». «Marie», disse il dottor Belter, voltandosi verso l'insegnante, «perché non ci fai il tuo resoconto?». Marie Montgomery prese una cartella dalla scrivania e l'aprì. «Sono tutte cose assai poco importanti», cominciò, «piccole cose, davvero, ma se le sommiamo tutte insieme, ecco che non possiamo più trascurarle. Per prima cosa, Sarah sembra ritirarsi sempre più in se stessa. Niente d'importante, ma ancora due mesi fa Sarah rispondeva subito, o quasi, quando si faceva il suo nome. Adesso non risponde mai, se il suo nome non viene ripetuto: o non sente, o fa finta d'ignorarlo. «Poi c'è la sua capacità di concentrazione. Sembra ridursi sempre più. Ho dati precisi su questo fatto, ma anche in questo caso non sembra qualcosa d'importante. Tutto si riduce alla constatazione che Sarah passa meno tempo, con una qualunque delle cose che fa, di quanto non facesse prima. Questo non mi preoccuperebbe granché (i periodi d'attenzione sembrano dilatarsi o contrarsi come elastici, qui intorno), ma nel caso di Sarah non è esattamente come se lei si annoiasse con quello che sta facendo. È, piuttosto, come se trovasse se stessa più interessante del mondo che la circonda. Sta diventando sempre più difficile far sì che la sua attenzione rimanga a fuoco sul mondo esterno, concreto, e questo mi preoccupa. Sembra che stiamo lentamente perdendo ogni contatto, invece di riavvicinarci a lei». Marie Montgomery colse il lampo di sofferenza negli occhi di Jack, e si affrettò a continuare: «La ragione essenziale per cui vi abbiamo convocati è questa: per sapere se le stesse cose stanno accadendo anche a casa». Rose scosse la testa. «Non credo», disse, in tono dubbioso, «ma natu-
ralmente non posso esserne del tutto certa. Trovo tremendamente difficile studiare obiettivamente il comportamento di Sarah. Temo sempre di voler vedere dei progressi dove, quasi certamente, non ce n'è nessuno». «Ci sono progressi», disse Jack, ma il tono della sua voce indicava che quella dichiarazione era probabilmente assai più un desiderio che un fatto concreto. «Jack», chiese Rose, con la maggior delicatezza possibile, «quale vero progresso c'è stato?». Tornò a rivolgersi alla signora Montgomery. «Vorrei davvero poterle dire se c'è stato o no qualche cambiamento in Sarah, ma non posso». «Non ci aspettiamo che voi siate in grado di dirci qualcosa, oggi», interloquì il dottor Belter. «Come abbiamo cercato di chiarirvi, niente d'importante è accaduto. Questo incontro è soltanto per mettervi in guardia verso qualcosa che potrebbe accadere. Non ne siamo sicuri, e stiamo chiedendo il vostro aiuto... Sarebbe davvero di grande aiuto per noi, e per Sarah, se poteste anche soltanto essere consapevoli che sta accadendo qualcosa che noi non sappiamo, sforzandovi di osservare ogni comportamento diverso o insolito in lei». «Be'», interloquì Jack, cauto, «c'è stata quella faccenda della tavoletta oui-ja, l'altra sera». «La tavoletta oui-ja?», esclamò il dottor Belter. «Non ne vedo una da anni. Le fanno ancora?». «Non so», disse Rose. «Elizabeth l'ha trovata in un ripostiglio. E, in realtà, la tavoletta oui-ja non ha avuto niente a che fare con quello che è accaduto». Riferì l'incidente di qualche sera prima, e la sconvolgente reazione di Sarah quando il gatto si era strofinato contro di lei. Mentre Rose parlava, il dottor Belter prese qualche appunto. «Ma, in definitiva, non è accaduto proprio niente», concluse Rose. «E stavano giocando con la tavoletta oui-ja?», chiese, quasi a cercare conferma, il dottor Belter. «Uhm». Prese un ultimo appunto e alzò gli occhi. «Sarah passa molto tempo con sua sorella?». «Dica piuttosto che ci vive insieme», replicò Jack. «Il momento peggiore di ogni giornata è quando Elizabeth esce per andare a scuola e Sarah deve aspettare, da sola, che arrivi il furgoncino per condurla qui. Sono praticamente inseparabili». «E come reagisce Elizabeth a Sarah?», chiese ancora il dottore. «Considerata la sua età», disse Rose, «è incredibile. Deve ricordare che
Elizabeth ha soltanto tredici anni. Ma dal modo in cui si prende cura di Sarah, penserebbe che ne abbia cinque di più. In qualche modo, Elizabeth sembra capire Sarah. Gioca con lei per ore intere, legge a voce alta per lei, e non l'infastidisce mai il fatto che Sarah distrugga qualunque cosa abbiano costruito giocando, o le strappi un libro dalle mani. L'altra sera, quando Sarah ha urlato, è stato come se Elizabeth non l'avesse affatto sentita. Quelle urla hanno sconvolto molto più Jack e me che nostra figlia». «È strano», interloquì a sua volta Jack. «Elizabeth parla con Sarah, e non sembra mai accorgersi che Sarah non le risponde. È come se, per Sarah, non fosse necessario parlare. Elizabeth sembra comunicare con lei in qualche suo modo particolare, diverso. Mi fa sentire, a volte, inadeguato, incapace. Io ho cercato di parlare a Sarah tante di quelle volte che ne ho perso il conto, ma appena la prendo su comincia ad agitarsi, salta giù dalle mie ginocchia e corre a cercare Elizabeth». «Si è mai data a manifestazioni di violenza, in casa?», chiese il dottor Belter. «Sarah? Non credo», rispose Rose. «Non ricordo. Perché?». «Ancora una volta è qualcosa su cui non possiamo veramente puntare il dito», replicò il dottore. «L'urlo che ha lanciato quando il gatto si è strofinato contro di lei me l'ha ricordato. Un giorno, la settimana scorsa, uno dei bambini è arrivato dietro a Sarah e le ha toccato la spalla. Lei ha urlato, il che non è anormale, per lei, ma si è anche girata di scatto e ha colpito l'altro bambino. Non l'aveva mai fatto prima, e non sappiamo ancora se si sia trattato di un caso, o se l'abbia colpito apposta. Si è mai rivoltata contro uno di voi due, o contro Elizabeth?». Jack e Rose scossero la testa. «Certamente non con noi», disse Rose. «E se l'avesse fatto con Elizabeth, l'avremmo saputo». Tacque un attimo, come se stesse cercando di ricordare qualcosa, poi proseguì: «Temo proprio che non dedichiamo a Elizabeth tutto il tempo che dovremmo. Ma Sarah assorbe talmente la nostra attenzione... Be', Elizabeth non sembra risentirsene». «Siete molto fortunati», commentò il dottor Belter. «Molti genitori affermano di avere più guai con i loro figli cosiddetti normali, che con quelli anormali. E in verità c'è da aspettarselo. Tutti i bambini hanno bisogno di attenzione, e se uno è anormale, i suoi fratelli di solito sono spinti a entrare in competizione per assicurarsi la propria parte di attenzione da parte dei genitori. Sembra che, sotto questo aspetto, Elizabeth sia una bambina eccezionale». Sorrise e si alzò in piedi. «Grazie per essere venuti. Domani
analizzeremo il caso di Sarah durante l'incontro col nostro personale, e probabilmente decideremo qualche piccolo cambiamento nella cura. Oltre a questo, per il momento si tratta soltanto di tenere gli occhi aperti e di scoprire l'eventuale insorgere di nuove tendenze». «Allora è tutto?», chiese Jack, alzandosi a sua volta in piedi. «È tutto», confermò il dottor Belter. «Per il momento, non voglio che vi sentiate allarmati. Tuttavia, dovete rendervi conto che se le condizioni di Sarah manifestassero un deterioramento eccessivo, noi non saremmo più in grado di tenerla qui. La White Oaks è una scuola, non una clinica». Quando vide l'ansia dipingersi sul volto di entrambi, si affrettò a rassicurarli: «È soltanto un'eventualità», disse. «Per il momento, non abbiamo nessun problema, con Sarah, più di quanti ne abbiamo con gli altri bambini. E alcuni di loro sono assai peggiori di lei. Per quanto posso prevedere, conto che anche in futuro Sarah rimanga fra noi». «Possiamo condurla a casa con noi?», chiese Rose. «Oppure è già partita con lo scuolabus?». «Sta aspettando nella mia stanza», disse la signora Montgomery. «Uno degli assistenti è con lei. Sono sicura che sarà lieta di vedervi». Ma Sarah non stava aspettando nella stanza della signora Montgomery. Nella casa sul Promontorio dei Conger, Elizabeth versò un po' di latte rimasto nel bicchiere nella ciotola del gatto, e stette a guardare Cecil che lo lappava. Poi prese in braccio il gatto e lo sentì ronfare. «Su», disse al gatto. «Andiamo fuori». Grattando dietro le orecchie di Cecil, Elizabeth lo portò fuori della casa. Mentre attraversava il prato, Elizabeth tirò via l'elastico che tratteneva la sua coda di cavallo e scosse la testa. I capelli biondi le ricaddero sulle spalle. Il suo passo si fece più rapido. Nessuno la vide scomparire nel bosco. 7 La stanza sembrava sconvolta da un ciclone: la cattedra e le sedie erano rovesciate. Gli oggetti che normalmente erano sistemati sulla scrivania di Marie Montgomery erano stati spazzati via e adesso giacevano sparsi e fracassati sul pavimento, alla sinistra della cattedra. «Gesù», rantolò Jack. Prima che qualcuno potesse dire altro, udirono dei suoni uscire dal guardaroba: il rumore di qualcuno che lottava, come se
una battaglia iniziata nella piccola classe continuasse adesso nel locale dietro la lavagna. I suoni erano soffocati, ma in qualche modo disperati. Non c'erano grida, nessuna delle urla che avrebbero dovuto accompagnare quel tipo di battaglia. Guidati dalla signora Montgomery, i tre attraversarono di corsa la stanza. L'assistente stava lottando, in un angolo del guardaroba, con Sarah. La lotta era arrivata a una posizione di stallo. Quando la signora Montgomery parlò, la sua voce era bassa e controllata ma con una nota d'autorità che, come Rose intuì, doveva renderla capace di penetrare confusioni ben peggiori di quella cui stavano assistendo. «Philip», disse la signora Montgomery, «che cosa è successo, qui?». Subito la lotta cessò. L'assistente, che non doveva avere più di vent'anni, si raddrizzò, allontanandosi di scatto da Sarah. La bambina era in un tremendo disordine, la camicetta era strappata in parecchi punti e ricoperta da una sorta di sostanza gialla. Non appena l'assistente l'ebbe lasciata andare, Sarah portò la mano alla bocca e cominciò a masticare. Rose la fissò, e ci vollero parecchi secondi perché si rendesse conto di ciò che stava facendo sua figlia. Quella sostanza gialla era gesso, e Sarah ne stava masticando un pezzo. Philip l'osservò per un attimo, prima di voltarsi verso i tre che si erano fermati sulla soglia. Rose fece per muoversi verso sua figlia, ma la mano di Marie Montgomery la trattenne. «Non abbia paura», le disse. «Un po' di gesso non le farà male». «Non un po'», replicò Philip. «Ha cominciato quasi subito, quando lei se n'è andata. Deve averne mangiato almeno un'intera scatola, a quest'ora». «E tu hai cercato di fermarla?», chiese Marie. Il giovane annuì. Sembrò avvilito. «Ma non ci sono riuscito», disse. «Temevo di farle male». «Probabilmente l'avrai spaventata a morte», dichiarò Marie. «Se l'avessi lasciata stare, probabilmente avrebbe smesso da sola. Un po' di gesso non le farà male». «Ma una scatola intera?», s'intromise Jack. Mosse un passo verso Sarah. La bambina si ritrasse ancor più nel suo angolo, in quell'angusto locale, e cominciò a rosicchiare un altro pezzo di gesso. I suoi denti produssero uno strano rumore scricchiolante, mentre riducevano il gesso in polvere. Ne inghiottì un poco. La maggior parte colava fuori mista a saliva, giù per la camicetta. Jack sentì una sensazione di nausea afferrargli lo stomaco. Rose si liberò dalla stretta della signora Montgomery, passò davanti a suo marito con due rapidi passi e afferrò la figlia. Sarah si lasciò rimettere
in piedi, ma rifiutò tenacemente di aprire la mano quando Rose cercò di toglierle il gesso che stringeva fra le dita. Rose fu sul punto di riprendere la lotta interrotta da Philip, quando la signora Montgomery parlò di nuovo: «Glielo lasci, signora Conger. Non può farle male, glielo garantisco. Se potesse farle male, non lo useremmo qui. I nostri bambini quasi sempre ne mangiano un po'». Fissò con aria accusatrice l'assistente, che si fece piccolo davanti a lei. «Mi pareva che ne stesse mangiando troppo», balbettò. «Così, l'hai quasi spaventata a morte, e fra te e lei avete sfasciato tutto, qua dentro», affermò l'insegnante, asciutta. «Non credi che il rimedio sia stato peggiore del male?». «Io credo che...». L'assistente lasciò la frase a mezzo. «Non ci ho pensato», concluse, in modo poco convincente. «Credo proprio di no», fece Marie, ma il tono della sua voce non era più gelido, e aveva ripreso a sorridere. «Be', la prossima volta tieni a mente che il gesso non fa male ai bambini, e le cattedre costano care. E potrai pensarci mentre pulisci queste stanze e le rimetti in ordine». Si voltò e condusse fuori i Conger, accompagnandoli fino alla loro auto. «È sicura che non le farà male?», insisté Jack, mentre girava la chiavetta dell'accensione. La signora Montgomery scosse la testa. «Potrebbe vomitare, ma è tutto». Li salutò con un cenno della mano mentre si allontanavano, poi tornò dentro l'edificio. Aveva cambiato idea, e andò ad aiutare Philip a rimettere ordine. Rose, tenendosi sulle ginocchia Sarah, ora diventata completamente passiva, stava ancora cercando di togliersi dalla mente la scena alla quale aveva assistito, quando la bambina cominciò a vomitare. Sulle prime aveva sperato che non sarebbe successo, aveva avvertito un paio d'involontari trasalimenti nel corpo di sua figlia, ma poi Sarah era tornata immobile fra le braccia di sua madre. Poi, senza alcun preavviso, accadde. Un getto giallastro sgorgò dalla bocca di Sarah, le corse giù in grembo, e lì traboccò. Rose sentì il liquido vischioso e tiepido impregnarle i calzoni di lana. Un istante dopo, Jack si voltò verso di lei, per vedere cosa stava succedendo. «Non guardare», lei gli intimò a denti stretti. «Continua a tenere gli occhi fissi sulla strada e portaci a casa il più rapidamente possibile. La signora Montgomery ci aveva preavvisati che avrebbe potuto succedere». Stava
cercando di raggiungere il pacco di kleenex che teneva sempre in borsa, quando vi fu il secondo violento rigurgito. Sentì il vomito ruscellarle lungo le gambe, e capì che sarebbe stato sciocco volerlo frenare con i kleenex. Invece usò la mano rimasta libera per abbassare il finestrino. L'aria fredda le colpì il viso, dandole sollievo dal nauseante sentore agrodolce del vomito. Rose si trovò a lottare con la propria nausea. Poi anche Jack aprì il suo finestrino, e nuova aria fresca entrò. Sarah riprese a vomitare, e Rose si rese conto, allora, dello sbaglio che avevano fatto. C'era il finestrino aperto accanto a lei, e Sarah stava lottando per raggiungerlo. Buon Dio, non può succedere, disse Rose a se stessa, mentre l'aria gelida frammista a nuovo vomito le investiva il volto. Fu certa che avrebbe perduto la battaglia contro la nausea, ma strinse i muscoli per tener ferma Sarah con la testa fuori dal finestrino, nel vento. La bambina stava piangendo, adesso, un pianto rotto da singulti e gorgoglii. Rose cominciò a farsi prendere dal panico, quando si rese conto che Sarah rischiava di restar soffocata dal proprio vomito. «Jack!», esclamò. «Credo che farai meglio a fermar subito la macchina. Non guardare. Ferma soltanto la macchina». «C'è un'area di servizio subito davanti a noi. Mezzo minuto... Ce la farai?». «Devo farcela», ribatté Rose. Sentì la macchina balzare in avanti, poi curvare a destra e frenare bruscamente. Prima ancora che si fosse fermata del tutto, aveva già aperto la portiera. Saltò fuori dalla vettura e mise giù Sarah sull'asfalto della piazzola. Riuscì appena a correr fuori dall'asfalto e a risalire sul pendio di terra spoglia, poi fu colta dal primo conato. Mortificata, restò in piedi, la fronte appoggiata al tronco di un albero. Il suo vomito si mescolò a quello di Sarah, quando le schizzò contro le gambe. Dopo un paio di minuti, tutto era finito. Ritornò infine verso la macchina. I suoi occhi bagnati le dissero che per sua figlia non era ancora finita. Sarah sedeva, penosamente, nel punto in cui Rose l'aveva lasciata, e i violenti conati ricominciavano, facendola sussultare tutta. Freneticamente Rose cercò suo marito. Per un paio di secondi sembrò che fosse scomparso, poi lo vide uscire dal gabinetto degli uomini tenendo fra le mani un asciugamano di carta inzuppato d'acqua. Ignorando la sua presenza, Jack corse verso Sarah, le si inginocchiò accanto e cominciò a lavarle la faccia con l'asciugamano inzuppato.
Rose osservò per un attimo la scena, poi si diresse verso il gabinetto per le donne. Fece scorrere a lungo l'acqua fredda, raccogliendola fra le mani a coppa e versandosela sul viso, come se l'acqua potesse spazzar via l'esperienza che aveva appena vissuto. Infine ritornò alla macchina. Videro la signora Goodrich in piedi sulla veranda, quando infilarono il viale. I Conger si guardarono, i loro occhi restarono fissi per un attimo sui rispettivi volti. Vi fu un improvviso calore fra loro, che da più di un anno nessuno dei due aveva più provato. Quando Rose parlò, non fu per chiedere come mai la signora Goodrich fosse là, sulla veranda. «Mi spiace», disse a bassa voce. «Tutto bene», le rispose Jack, anch'egli in un sussurro. «Fa piacere sapere che servo ancora a qualcosa, anche se si tratta soltanto di prendermi cura delle mie donne malate». Rose colse il dolore e la tenerezza negli occhi di lui. Poi distolse lo sguardo. I suoi occhi finirono per fermarsi su Sarah, che si era addormentata fra le sue braccia. «Credi che dobbiamo chiamare il dottore?». Spostò il corpo di Sarah, in modo che la testa della bambina poggiasse sulla sua spalla. «Se ti fa sentire più tranquilla. Ma sono convinto che ormai tutto è finito. Si è liberata lo stomaco di tutta quella porcheria. Credo che possiamo tranquillamente aspettare fino a quando non si sveglierà; poi vedremo». Fermò la macchina davanti a casa, scese, girò intorno alla vettura per aprire lo sportello a sua moglie. La signora Goodrich aveva lasciato la veranda e stava venendo verso di loro. La sua imponente figura avanzava con la massima rapidità consentitale dall'età. Quando Jack aprì la portiera dalla parte di Rose, la donna si arrestò. «Il Signore abbia pietà di noi», mormorò l'anziana donna, rendendosi conto, con una sola occhiata, del sudiciume che copriva l'interno della macchina, comprese Sarah e Rose. Involontariamente, fece un paio di passi indietro. «Tutto bene, signora Goodrich», la rassicurò Rose, scivolando fuori dalla macchina con la massima cautela, per non disturbare Sarah che stringeva fra le braccia. «Abbiamo avuto un guaio, ma adesso è finita». La signora Goodrich esaminò stoicamente il sudiciume. Se la sua mente si stava chiedendo, angosciata, che cosa mai poteva aver provocato un simile guaio, non lo dimostrò. «Dovrò usare una pompa, per ripulire l'inter-
no di questa macchina», dichiarò, facendola quasi apparire una minaccia. «Me ne occuperò io, signora Goodrich», intervenne Jack. «Non possiamo davvero chiederle...». «Ai miei tempi ho dovuto pulire ben di peggio», l'interruppe bruscamente la governante. «Inoltre, lei ha altre cose da fare». Jack colse una sfumatura particolare nella sua voce e drizzò le orecchie. Rose era già scomparsa con Sarah dentro casa. «Altre cose? Quali altre cose?». «Si tratta della signorina Elizabeth», spiegò la governante. «Credo sia andata a giocare dove non avrebbe dovuto». Jack aspettò che continuasse, ma alla fine toccò a lui sollecitarla. «Be'», riprese la signora Goodrich, «l'ho vista uscire dal bosco non molto tempo fa. Non saprei dire perché, ma sono sicura che è andata a giocare sulla scogliera. Quando gliel'ho chiesto, ha negato, naturalmente». Tutto ciò fu detto con un'espressione che dava per certo, da parte di chi era stato ammaestrato da una dura esperienza, che i bambini erano sempre pronti a negare tutto, anche quando venivano colti con le mani nel sacco. «Elizabeth di solito è sincera», osservò Jack, in tono gentile e cauto. Per niente al mondo avrebbe voluto far arrabbiare l'anziana signora. Quando gli capitava accidentalmente di farlo, di solito veniva ricambiato, la sera, con una cena poco cotta o bruciacchiata. La signora Goodrich lo scrutò da sopra gli occhiali e tenne duro. «Ne sono consapevole, giovanotto», replicò, e Jack fu pronto a una resa senza condizioni. Sin da quando era bambino, aveva saputo che quando la signora Goodrich lo chiamava «giovanotto», la faccenda si faceva seria. «Nondimeno», continuò lei, «credo che farà bene a parlarle. Elizabeth sa che non deve addentrarsi in quel bosco, e meno ancora avventurarsi sulla scogliera. E io so che è stata nel bosco: l'ho vista mentre usciva». «Va bene», si arrese Jack. «Le parlerò non appena mi sarò ripulito. Dov'è?». «Sul prato, laggiù», rispose la signora Goodrich, arcigna, esprimendo così la sua radicata opinione che, per ciò che la riguardava, i bordi del prato erano quasi alla pari, in nefandezza, del bosco e della scogliera. Puntò il dito, irrigidendo il braccio, in una precisa direzione, e seguendo il suo gesto con gli occhi Jack intravide la figlia maggiore. Era accovacciata a terra e sembrava intenta a fissare qualcosa. Fece per avviarsi verso casa, ma un'occhiataccia della signora Goodrich lo fece subito deviare verso il prato.
«Non c'è tempo migliore di adesso», sentì che la governante sentenziava alle sue spalle. Elizabeth non lo vide, finché egli non fu a più di cinque metri da lei. Sollevò di scatto gli occhi come se avesse udito qualcosa, ma Jack era sicuro di non aver fatto alcun rumore. Quando Elizabeth lo vide, un sorriso le illuminò il volto, e Jack sentì il calore di quel sorriso rasserenargli lo spirito. Si fermò, e i due si studiarono vicendevolmente per un attimo. Con i capelli che le ricadevano liberamente sulle spalle, Elizabeth assomigliava più che mai alla ragazza del ritratto. «Come sta la mia figlia favorita?», disse Jack, rompendo il silenzio. «Lo sono davvero?», chiese Elizabeth, e il suo sorriso si fece ancora più radioso. «Be', se è proprio vero, ti meriti questo per avermelo detto». Si chinò, rialzandosi poi con un ranuncolo fra le mani. Corse da lui e glielo offrì con un inchino. «Oh», esclamò lui. «Mi trovi davvero così affascinante?». «Tu vuoi sapere troppo», disse Elizabeth, scoppiando a ridere. «Avete portato a casa Sarah con voi?». Lui annuì, e quando Elizabeth si girò e cominciò a incamminarsi verso casa la fermò. «Aspetta. Non puoi passare un po' di tempo col tuo genitore favorito?». Elizabeth si voltò verso di lui. «Pensavo...», cominciò. «Lascia perdere», l'interruppe Jack. «Sarah ha avuto un po' di guai mentre tornavamo a casa, e tua madre la sta ripulendo. Non è niente di serio», si affrettò ad aggiungere, quando un'espressione preoccupata alterò il volto di Elizabeth. «È soltanto qualcosa che ha mangiato. Ha avuto un piccolo incidente mentre tornavamo a casa». «Ooh!», fece Elizabeth. «La macchina puzza?». «La signora Goodrich la sta ripulendo... A proposito, vuole che ti parli». «Lo immaginavo», esclamò Elizabeth. «Crede che io oggi sia andata sulla scogliera». «E ci sei andata?». Jack si sforzò di mostrarsi indifferente. «No», dichiarò Elizabeth. «Non ci sono andata. Non so perché quella donna si è convinta che l'abbia fatto». «Ha detto che ti ha visto che uscivi dal bosco». «Lo so», disse Elizabeth. «E non so neppure perché mai si è convinta di questo. Non sono andata nel bosco». «E dove sei stata, allora?». «Mi sembrava di aver visto Cecil», spiegò Elizabeth. «Lo stavo seguen-
do. Ma non era Cecil. Sembrava lui, sulle prime, ma poi, proprio mentre stava per entrare nel bosco, ha fatto una serie di balzi ed è scomparso. Cecil era un coniglio». «Ma com'è possibile scambiare un coniglio per Cecil?», chiese Jack. «Fra tutti i gatti che conosco, Cecil è quello che assomiglia di meno a un coniglio». «Davvero non saprei...», fece Elizabeth. «Ma fino a quando non ha cominciato a saltare, sembrava Cecil». «Be', sono lieto che sia scappato via così», dichiarò Jack. «Se non l'avesse fatto, certamente l'avresti seguito nel folto». «Oh, me ne sarei accorta subito», replicò Elizabeth. Restò silenziosa per un attimo, poi: «Papà, perché non mi è permesso di andare nel bosco o sulla scogliera?». «Perché è pericoloso, se vuoi saperlo», rispose Jack, brusco, facendo chiaramente capire che intendeva troncare subito il discorso. Ma Elizabeth non si lasciò intimidire. «Ma papà, ho tredici anni, ormai, e so prendermi cura di me. Per esempio, non vedo perché la scogliera dovrebbe essere più pericolosa della cava, e tu mi lasci andare alla cava tutte le volte che voglio». «Vorrei che tu stessi lontana anche dalla cava», esclamò Jack. «Ma perché?», insisté Elizabeth. Non vi fu risposta, e allora aggiunse: «È a causa di Anne Forager, non è vero?». «Anne Forager», annuì Jack, guardingo. «Tutti i ragazzi ne parlano. Dicono che le sia successo qualcosa di orribile, laggiù. È vero?». «Non lo so», disse Jack, in tutta sincerità. «Non credo che le sia successo davvero qualcosa, e anche se è successo, dubito molto che sia stato proprio laggiù. In ogni caso, la cosa non ha niente a che fare con te. E soltanto che la scogliera è molto pericolosa». «Non più della cava». Jack scosse la testa. «Se scivoli nella cava, per lo meno hai una possibilità. Lì l'acqua è profonda, e tu sai nuotare. Ma cadendo dalla scogliera andresti a sbattere contro le rocce. E una faccenda del tutto diversa». «Suppongo che tu abbia ragione», concluse Elizabeth. Poi alzò gli occhi su di lui, con uno scintillio malizioso. «Ma fra cinque anni ne avrò diciotto. Allora andrò a vedere che cosa c'è in quella scogliera, e tu non potrai fermarmi». «Fra cinque anni», disse Jack. «Ma fra cinque anni potresti aver cambia-
to idea». «No, non la cambierò», dichiarò Elizabeth. Poi fece scivolare la mano nella sua, e insieme rientrarono in casa. Quella sera la cena si svolse tranquillamente in casa Conger, almeno all'inizio. Per rispettare lo stomaco di Rose e di Sarah, dopo tanti sconvolgimenti, la signora Goodrich aveva preparato una soffice omelette, che aveva omesso di bruciacchiare. La conversazione fu composta soprattutto da frasi incoraggianti pronunciate da Rose e Jack a beneficio di Sarah. La bambina, però, sembrava non sentire. Concentrata sul suo piatto si cacciava in bocca ogni forchettata, masticando e inghiottendo stoicamente. A Elizabeth, Sarah sembrò quella di sempre. La signora Goodrich tolse i piatti e portò il dessert. «Oh, rieccoci», esclamò Elizabeth. «Uhmm?», fece Rose, distogliendo l'attenzione da Sarah. Elizabeth le sorrise. «Ho detto rieccoci. Oggi a scuola ci hanno servito lo stesso budino. Salvo che questo è migliore». «Oh?», disse Rose, ma non era veramente interessata; la sua attenzione era nuovamente rivolta a Sarah. «Come è andata a scuola?», le chiese. «Non male. Ci hanno riconsegnato i compiti di storia. Credo che il signor Friedman si sia sbagliato, perché mi ha dato il voto più alto». Adesso Rose e Jack si voltarono entrambi verso Elizabeth, e lei poté vedere l'espressione compiaciuta nei loro occhi. Ma prima che potessero dire una sola parola, uno schianto lacerò l'aria. Elizabeth aveva fatto appena in tempo a schivare il piatto pieno di budino che era volato verso di lei, scagliato da sua sorella, andando a schiantarsi contro la parete alle sue spalle. Quindi Sarah esplose in un'incredibile serie di urla e gemiti. Il volto contorto dall'ira, Sarah afferrò tutto quello che aveva a portata di mano, che finì in un attimo sparso per tutta la stanza. Uno dei pesanti coltelli d'argento fracassò un riquadro della porta-finestra e rimbalzò tintinnando fuori, sulla veranda. Sarah continuò a urlare sempre più forte, mentre le sue braccia sferzavano l'aria all'impazzata, alla ricerca di altri oggetti da scagliare. Rose era rimasta seduta come paralizzata, e fissava Sarah. La bambina era stata così calma fino a un istante prima, e adesso... Riuscì finalmente ad alzarsi in piedi quando vide le mani di Sarah stringersi, brancicando, sulla tovaglia. Si preparò alla nuova distruzione, se sua figlia fosse riuscita
a portare a termine ciò che intendeva fare. E poi, sopra le urla sempre più intense di Sarah, udì la voce di Jack, che a sua volta urlava: «Per l'amor di Dio! Volete portarla fuori di qui?». Rose sbarrò gli occhi, ma quelle parole ebbero se non altro l'effetto di spingerla ad agire. In silenzio, prese Sarah fra le braccia; in qualche modo riuscì a staccare le sue dita dalla tovaglia, e la portò di peso fuori dalla stanza. Passando accanto a Jack, più che vederlo, sentì che si accasciava sulla sedia. Improvvisamente la sala da pranzo fu silenziosa. Jack ed Elizabeth restarono seduti, immobili, senza pronunciar motto. Poi Jack, con uno sforzo visibile, si fece forza. «Mi spiace», borbottò, più a se stesso che a sua figlia. «Tutte le volte che si comporta così, provo un'orribile sensazione... La sensazione di essere stato io a farla impazzire». Cominciò silenziosamente a singhiozzare. Elizabeth restò seduta per qualche altro minuto, come se non avesse udito ciò che suo padre aveva detto, né si fosse accorta del caos che regnava intorno a lei. Ma quando finalmente si mosse, fu per cominciare a far ordine in tutto quello scompiglio. Per prima cosa ripulì la tavola, poi le pareti e il pavimento. Si mosse lentamente, cautamente, come se la sua mente fosse lontana da quello che stava facendo. Quand'ebbe finito, esaminò la sala da pranzo. «Ero davvero convinta che fosse Cecil», disse, senza alcuna ragione apparente. «Ma immagino che non potesse essere lui». Fece una pausa, poi riprese, come rivolgendosi alla stanza: «Vorrei che fosse tornato a casa». Poi anche Elizabeth uscì dalla stanza. 8 Non sarebbero parsi, a un osservatore esterno, diversi da qualunque altra famiglia a colazione. Forse una delle bambine, la più giovane, sarebbe sembrata fin troppo quieta a confronto dell'altra, ma questo è assai frequente nelle famiglie. Soltanto un osservatore particolarmente attento si sarebbe accorto della tensione che pareva avvolgerli, come se stessero deliberatamente evitando qualcosa. Ed effettivamente era così. Rose Conger si sforzava di mantenere un'allegria quasi sinistra, facendo del suo meglio per impedire che quel silenzio, normale per Sarah, lo divenisse anche per tutti loro. Ma sapeva che nessuno le prestava, in realtà, at-
tenzione. Riusciva a vedere Jack, col viso nascosto per la maggior parte del tempo, che cercava disperatamente di concentrarsi sul giornale del mattino. E sapeva che Elizabeth stava dedicando molta più energia a imboccare Sarah che ad ascoltare sua madre. «E naturalmente», concluse Rose, con forzata giovialità, «hanno un figlio». Aspettò una reazione, ma non ve ne fu alcuna. Riprese, a voce più alta: «Un figlio di quattordici anni». E fu compiaciuta quando si accorse che finalmente era riuscita a destare l'attenzione della figlia maggiore. «Chi?», chiese Elizabeth, mettendo giù il coltello che aveva usato per affettare le salsicce di Sarah. «Non hai ascoltato. I nostri nuovi vicini. Se non fossi stata così distratta, mi avresti sentito». Elizabeth sorrise impacciata. «Mi spiace», disse, con una smorfia da cui si capiva che si stava scusando più per forma che in tutta sincerità. «Non dirmi che sei riuscita davvero a vendere la vecchia casa dei Barnes». Fece una smorfia. «Odio quella casa. Chi può desiderare di viverci?». «È una famiglia di artisti», disse Rose, lisciando istintivamente la tovaglia. «Un architetto e una pittrice. E il figlio. Si chiama Jeff». «Un ragazzo!», squittì Elizabeth. «Un vero ragazzo in carne e ossa! Com'è?». «Sono sicura che è incredibilmente bello», rispose Rose. «Il ragazzo della porta accanto non dovrebbe essere sempre incredibilmente bello?». Elizabeth arrossi, e quell'improvviso rossore sconcertò Rose. E poi la colpì il fatto di essere stata indotta, in qualche modo, a considerare Elizabeth più vecchia di quanto fosse in realtà. Dovette, quasi con uno sforzo, ricordare a se stessa che Elizabeth aveva soltanto tredici anni, e che le ragazzine tredicenni arrossiscono molto facilmente quando si parla di ragazzi. «In realtà non so affatto come sia. Ma lo sapremo tutti a fine settimana. Carl e Barbara... Sono i nuovi vicini», aggiunse Rose, a beneficio di Jack, che aveva finalmente messo giù il giornale. «Carl e Barbara Stevens verranno qui stamattina, e io passerò la maggior parte della giornata con loro». Jack la fissò con aria interrogativa. «Be'», riprese Rose, un po' a disagio, «dal momento che i Barnes non sono qui, qualcuno deve far vedere loro come funziona la casa. Soprattutto una casa come quella». Colse un'ombra di dubbio sul volto di Jack. «E va bene», proseguì, mettendo giù il tovagliolo. «Mi sento anche come una vicina ficcanaso, e voglio vedere che cosa posso scoprire su di loro. Fino a
questo momento sembrano una vera delizia, e penso che sarà piacevole avere dei vicini che sono anche amici. Non mi dispiacerà certo avere gente che mi è simpatica come vicina di casa, così da poter scambiare visite. Intendo favorire il più possibile la cosa». «Be'», disse Jack, e la vaga ombra di dubbio era adesso diventata una nube, «non sono sicuro che sia una buona idea». Rose vide i suoi occhi guizzare involontariamente verso Sarah. Il gesto fu così veloce che fu certa che lui non era consapevole di averlo fatto; ma era ugualmente certa di non esserselo immaginato. E decise di affrontare direttamente la questione. Cominciò a piegare il tovagliolo in quadrati sempre più piccoli. «Non vedo nessuna ragione perché dobbiamo ridurci a vivere come eremiti», dichiarò, scandendo le parole. «Se c'è una ragione, vorrei sapere qual è». Jack si sbiancò in viso. Poi fissò sua moglie. «Io... Io penso che...», cominciò. Poi s'interruppe, inquieto, a disagio. «Quello che penso io», l'interruppe Rose, in tono deciso, «è che dobbiamo ricordare in che secolo viviamo. Avere una figlia alla White Oaks non è niente di cui dobbiamo vergognarci. Se tu pensi di sì, allora sei un problema ancora peggiore di Saran». Fece una pausa, quando vide Jack che le indicava con gli occhi il punto in cui era seduta Elizabeth, la quale ascoltava ciò che sua madre stava dicendo. Rose infine si decise e si voltò verso Elizabeth. «Tu cosa ne pensi?», le domandò. «Di cosa?», chiese cautamente Elizabeth, incerta sulla piega che le cose stavano prendendo. «Be'», disse Rose, cercando nella propria mente le parole giuste, «di Sarah, suppongo». Elizabeth fissò sua madre negli occhi; uno sguardo accusatore, venne fatto di pensare a Rose. La ragazzina sembrava lottare con se stessa, quasi sull'orlo delle lacrime. Infine, trovò la voce proprio nel momento in cui le lacrime traboccavano. «Penso», disse, ricacciando un singhiozzo con un suono soffocato, «che noi tutti dovremmo ricordare che Sarah non è sorda. Non parla, ma sente». Fissò suo padre con aria implorante per alcuni istanti, poi tornò a voltarsi verso la sorella. «Vieni, Sarah», fece, «andiamo a prepararci per la scuola». Prese Sarah per mano e l'accompagnò fuori della stanza. In silenzio Rose e Jack le guardarono uscire. «"Dalla bocca dei bimbi..."», citò Jack, a voce bassa. Poi vide le lacrime
che scorrevano lungo le guance di sua moglie. Si alzò dalla sedia e s'inginocchiò accanto a lei. Rose affondò il viso nella sua spalla, e il suo corpo fu scosso dai singhiozzi. «Che cosa faremo, Jack?», gli bisbigliò all'orecchio. «A volte mi fa provare vergogna, tanta vergogna. E ha soltanto tredici anni». Jack le batté lievemente la mano sulla spalla. «Lo so, tesoro», disse. «Lo so. Immagino che a volte i bambini trovino tutto più facile. Accettano le cose come sono. Mentre noi dobbiamo combatterla». «Combatterla?». Rose alzò la testa. I loro occhi s'incontrarono, e vi fu nuovamente intimità, fra loro, un'intimità che Rose non aveva più conosciuto dai primi anni del loro matrimonio. «La vita», spiegò Jack. «Non sarebbe bello se potessimo smettere di combattere la vita?». Rose annuì. «Ma non possiamo, vero?». Jack non rispose, né Rose si aspettava che lo facesse. Qualche minuto dopo Rose andò a vedere le sue figlie. Elizabeth, già vestita, stava spazzolando i capelli folti e scuri di Sarah. Sarah sedeva in silenzio davanti allo specchio, ma Rose non riuscì a capire se stesse guardando Elizabeth. Forse la stava guardando, forse si trovava chissà dove con la mente, immersa in un'esistenza che non aveva nulla a che fare con quella stanza, con sua sorella, o con qualunque altra cosa legata alla casa sul promontorio. «Hai bisogno di qualcosa, prima che me ne vada?», chiese Rose. Elizabeth alzò gli occhi e sorrise. «Un quarto di dollaro in più per la merenda?», propose, allegramente. Rose scosse la testa. Elizabeth si raddrizzò. «Ecco», disse. «Che ne pensi?». Rose notò che le mollette infilate da Elizabeth tra i capelli corti e lucidi della sorella erano storte, e la scriminatura tutt'altro che impeccabile, ma decise di non fare commenti. «Cosa ne pensa Sarah?», ribatté. «Oh, le piace molto», rispose Elizabeth. «Così i capelli non le ricadono sugli occhi». «E questo è molto importante», commentò Rose, sorridendo. «Puoi pettinare anche me?». «Certo», esclamò Elizabeth, piena di zelo. «Adesso?». Rose scoppiò a ridere. «Più tardi. Ora non ho tempo. E neppure tu. Ma forse domani», aggiunse subito, quando vide gli occhi di Elizabeth perdere il loro entusiasmo. «Vuoi darmi un bacio di saluto?».
Elizabeth si avvicinò a sua madre e sollevò il capo per farsi baciare. Rose la strinse a sé per un attimo, poi si avvicinò alla specchiera, dove Sarah sedeva immobile, in apparenza ancora immersa nella contemplazione della sua acconciatura. Rose s'inginocchiò e prese Sarah tra le braccia. «Buona giornata, tesoro», bisbigliò. Baciò più volte la bambina, poi la strinse forte. «Arrivederci a questo pomeriggio», la salutò. Di nuovo a pianterreno, Rose si fermò a parlare con la signora Goodrich. La governante alzò gli occhi a fissarla, perplessa. «Cecil si è fatto vivo?», chiese Rose. La signora Goodrich scosse la testa. «Mi faccia un favore, lo cerchi qui intorno, oggi». «I gatti sanno prendersi cura di sé. Tornerà quando vorrà lui», disse l'anziana signora. «Sono certa che tornerà», replicò Rose, asciutta. «Ma preferirei che desse ugualmente quell'occhiata. Le bambine sentiranno la sua mancanza. Potrebbe esser rimasto chiuso da qualche parte». «Se è così, vuol dire che qualcuno ce l'ha chiuso», dichiarò la signora Goodrich. Poi si ammorbidi. «Vada pure tranquilla... Lo troverò». Rose le rivolse un sorriso di gratitudine e andò a cercare suo marito. Ma Jack era già uscito di casa. In cucina, la signora Goodrich continuò a caricare i piatti nella lavastoviglie. Era convinta che nessuna macchina pulisse i piatti abbastanza bene perché qualcuno potesse mangiarci, ma usava la macchina lo stesso, anche se a modo suo. Prima lavava i piatti con le sue mani, li risciacquava, poi li metteva nella macchina, senza detersivo, pensando che una risciacquata in più male non avrebbe fatto. Chiuse il portello e premette il pulsante. La macchina si mise in moto. Tutto questo fracasso, pensò la signora Goodrich. C'è da meravigliarsi che non vada tutto in pezzi. Poi, sopra il rumore delle stoviglie, udì altri suoni che provenivano dal davanti della casa. Si avvicinò alla porta della cucina, la socchiuse e ascoltò. «No, Sarah», stava dicendo Elizabeth, «non puoi venire con me. Devi aspettare il furgone, qui». La signora Goodrich udì Sarah che gemeva, e allora uscì fuori dalla cucina, a passi rapidi. «Sarah», stava implorando adesso Elizabeth, e alzò ancora di più la voce. «Vorrei tanto che tu potessi venire con me, lo vorrei davvero, ma non puoi. Si tratta soltanto di pochi minuti». Sarah si lamentò in tono ancora più straziante. «Sarah, lasciami andare. Arriverò in ritardo se non parto su-
bito». Quando la signora Goodrich comparve nell'atrio, Elizabeth stava coraggiosamente tentando di liberarsi dalla stretta di Sarah. La sorella più piccola si teneva aggrappata al polso di Elizabeth con entrambe le mani, ed Elizabeth non riusciva a staccarle. Tutte le volte che riusciva a staccare una mano, lei subito l'afferrava di nuovo. Vide la signora Goodrich e le fece segno di avvicinarsi. «Aiuto», esclamò, ma tenendo la voce il più possibile bassa. «La tenga stretta fino a quando non sarò sparita. Poi si calmerà». La signora Goodrich afferrò Sarah e la tenne salda, mentre Elizabeth s'infilava il cappotto. «Corri, adesso!», la sollecitò l'anziana donna. «Prima te ne vai, più facile sarà per me. Non mi dispiace affatto averti attorno, ma in questo momento...». «Lo so», annuì Elizabeth. «Arrivederci a oggi pomeriggio». Elizabeth raggiunse la porta d'ingresso, l'aprì, si voltò per fare un cenno di saluto a Sarah, poi si chiuse la porta alle spalle. E cercò di non ascoltare, quando sentì la voce di Sarah innalzarsi in un ululato d'angoscia. Concentrò la sua attenzione sugli alberi che bordeggiavano il viale. Quand'ebbe raggiunto la Strada del Promontorio si era quasi convinta, ormai, che Sarah aveva smesso di ululare. Ma dietro di lei continuava a infuriare la battaglia... Una battaglia ben strana. Le grida oltraggiate di Sarah riempivano la casa, e lei lottava, dibattendosi selvaggiamente tra le braccia della signora Goodrich. Il volto rassegnato, l'anziana signora fece appello a tutte le sue forze per tenere stretta la ragazzina, nei limiti di quanto osava, sempre con la paura di farle del male. La signora Goodrich era convinta che non valesse la pena di sforzarsi a parlare con Sarah. Era certa che la bambina non avrebbe, comunque, potuto udirla, sopra il tremendo baccano che stava facendo, e se avesse tentato di farsi sentire gridando più forte di lei avrebbe inutilmente sprecato le forze. Tenacemente, rinforzò la stretta. Poi Sarah la morse. La governante sentì i denti che affondavano nella sua mano, incidendo la parte carnosa alia base del pollice. Strinse i denti e resisté al dolore, sollevando con un violento strattone Sarah dal pavimento. Trasportò di peso la bambina sino a una finestra, e si girò in modo che Sarah potesse guardare fuori. Sarah smise di urlare. Allora la signora Goodrich la rimise a terra, e si esaminò il pollice ferito. La pelle era lacerata in un paio di punti, ma la ferita non era grave. «È passato un bel po' di tempo da quando un bambino mi ha fatto una
cosa del genere», osservò a voce alta la signora Goodrich. Sarah, la cui attenzione era stata distolta dalla finestra (del resto il viale, là fuori, era ancora deserto), alzò gli occhi a guardare la governante. Fissando a sua volta quegli occhi castani, così immensi e vuoti, un'ondata di pietà investì la signora. Lentamente s'inginocchiò e la strinse a sé. «Ma non credo che tu intendessi farmi veramente male, vero? E siccome non sei malata di rabbia, non è niente di grave». Continuò a tenere abbracciata la bambina, riempiendola di carezze e calmandola, fino a quando non sentì lo scuolabus che risaliva il viale. Si alzò in piedi e, presa Sarah per mano, la condusse fino alla porta d'ingresso. Sarah si lasciò docilmente infilare il cappotto dalla signora Goodrich, e non fece nessuna obiezione quando George Diller la fece sedere sul furgoncino. La signora Goodrich restò accanto alla porta e seguì con gli occhi il furgone finché non fu scomparso. Non salutò con la mano: la lotta l'aveva troppo stancata, e comunque era molto difficile che Sarah riuscisse a scorgerla. Quando il viale fu nuovamente deserto, la signora Goodrich chiuse lentamente la porta e si ritirò nella sua cucina, dove si lavò la mano ferita, trasalì quando vi applicò la tintura di iodio, e infine la fasciò. Poi si ricordò del gatto. Era sicura che sarebbe stata una perdita di tempo, ma aveva acconsentito a cercare Cecil, e l'avrebbe fatto. Decise di sbrigare per prima la lunga salita all'attico, cominciando da lassù le ricerche. Aveva in tasca la chiave dell'attico, ma mentre infilava una mano in tasca a cercarla, istintivamente appoggiò l'altra sulla maniglia. La porta si aprì, rivelando la ripida scala. La signora Goodrich lasciò ricadere la chiave in tasca e commentò: «Questa porta avrebbe dovuto essere chiusa». Si soffermò qualche istante a riposare, poi affrontò i gradini. Mentre saliva, cercò di ricordare l'ultima volta che qualcuno era stato lassù. Sì, era successo un mese prima, quando avevano portato giù il vecchio ritratto. Superata la rampa, entrò nell'attico e si chiuse la porta alle spalle. «Cecil?», chiamò. «Qui, micio, micio, micio...». Elizabeth era ormai a metà strada quando vide Kathy Burton che camminava davanti a lei. «Kathy!», gridò. L'altra ragazza si fermò e si girò. «Aspettami», gridò ancora Elizabeth. Corse fino a quando non ebbe raggiunto l'amica. «Che cosa fai qui?», le chiese, quando fu al suo fianco. «Ieri sera ho fatto la baby-sitter dai Norton...» Elizabeth ammiccò, poi commentò: «È strano...»
«Che cosa vuoi dire?» «Lui è tanto più vecchio di lei...». Elizabeth lasciò la frase in sospeso, riandando con la mente a ciò che aveva udito fra i suoi genitori. Poi un altro pensiero le attraversò la mente. «Tua madre ti lascia fare la baby-sitter da loro?» «Sicuro», disse Kathy, incuriosita. «Perché non dovrebbe?» «Voglio dire, dopo quello che è successo ad Anne Forager...». «Oh, quella». Kathy scrollò le spalle. «Mia madre dice che non le è successo niente. Dice che ha raccontato soltanto un mucchio di bugie». Elizabeth annuì. «È quello che pensa anche il mio papà. O almeno lo dice, ma non so se lo creda veramente». «Perché no?». «Non lo so», disse Elizabeth. «Si comporta in modo strano». Si guardò intorno e indicò un uccello su un albero vicino. «Guarda», esclamò, «una ghiandaia». Kathy seguì il suo gesto, ma non riuscì a vedere l'uccello. «Sei davvero fortunata a vivere qui», commentò. «È per questo che mi piace lavorare per i Norton. Posso fermarmi la notte e venire a scuola al mattino». «Vorrei che ci fosse un autobus», disse Elizabeth. «Dopo un po', diventa noioso». «Io non mi stancherei mai, se abitassi qui», insisté Kathy in tono confidenziale. «Dev'essere divertente uscire in esplorazione tutte le volte che vuoi». Elizabeth annuì, ma la sua attenzione si era distolta da Kathy. Un coniglio aveva attraversato fulmineamente la strada davanti alle due ragazzine, ed Elizabeth lo guardò con una strana espressione sul viso. Si fermò, sembrò compiere uno sforzo per afferrare un pensiero che le sfuggiva. «C'è un posto», bisbigliò. «Che cosa?», fece Kathy. «Un posto segreto», proseguì Elizabeth. Si voltò verso Kathy e la fissò intensamente negli occhi. «Ti piacerebbe andarci, una volta?». Kathy spalancò gli occhi. «Che tipo di posto?». «Se te lo dicessi, non sarebbe più un segreto, vero? Se ti ci porterò, dovrai promettere di non parlarne mai con nessuno». «Oh, non lo farei mai», esclamò Kathy. L'eccitazione di condividere un segreto aggiunse un tremito alla sua voce. «Sarebbe soltanto nostro». Elizabeth sembrò sul punto di dire qualcos'altro, quando si udì il rumore
di un veicolo che si avvicinava alle loro spalle. Con Kathy si ritrasse sul bordo della strada, ed entrambe aspettarono che il furgoncino della White Oaks le superasse. George Diller agitò la mano e fece squillare il clacson mentre passava. Sul retro dello scuolabus le due ragazze videro Sarah, il volto premuto contro il finestrino del veicolo, fino a quando lo scuolabus non superò una curva della strada, scomparendo alla loro vista. Quando il veicolo si fu allontanato, Elizabeth smise di agitare la mano, e insieme a Kathy riprese a camminare. «Cosa c'è che non va, in lei?», chiese Kathy. «In chi?». «In Sarah», disse Kathy. «Chi ha detto che c'è qualcosa che non va in lei?» ribatté Elizabeth. Era turbata, quando le facevano domande su sua sorella. «Mia madre», dichiarò Kathy, sbrigativa, «ha detto che Sarah è pazza». «Non credo che tua madre dovrebbe parlare in questo modo di Sarah». «Ma è pazza?», insisté Kathy. «No», disse Elizabeth. «E allora perché va alla White Oaks? È un posto per bambini pazzi. Vengono da tutte le parti del paese per andare lì». «E vivono lì, non è vero?», le fece notare Elizabeth. «Se Sarah fosse pazza, non dovrebbe restar sempre chiusa lì dentro?». Kathy ci ripensò. «Be', se non è pazza, perché ci va, allora?». Elizabeth scrollò le spalle. «Non lo so. Le è successo qualcosa circa un anno fa. Era nel bosco ed è caduta, o qualcosa del genere. E adesso non può parlare. Se fosse andata a scuola in città, tutti avrebbero riso di lei. Ma tornerà a star bene appena ricomincerà a parlare». Le due ragazzine camminarono in silenzio per un po', e soltanto quando furono quasi arrivate ripresero a parlare. «Sarah sa di quel luogo segreto?», sbottò Kathy. Elizabeth scosse la testa. «Neppure tu lo saprai, se non smetti di chiedermelo. È un posto dove bisogna... Esserci. Non se ne può parlare». «Me lo mostrerai?», chiese Kathy, in tono di sfida. «Se smetti di parlarne», ribatté Elizabeth. «È un posto davvero speciale, soltanto per me. Ma suppongo di potertici portare, dal momento che sei mia amica». «Quando?». Ma Elizabeth non rispose. Diede all'amica una strana occhiata, poi rapidamente entrò a scuola.
La signora Goodrich passò quasi un'ora nell'attico, ma cercò Cecil soltanto per poco tempo. Una rapida ispezione la convinse che il gatto non era lassù, ed era sul punto di scendere quando qualcosa attirò la sua attenzione. Non era sicura di cosa si trattasse: qualcosa fuori posto, o qualcosa che mancava... oppure qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Restò immobile, e si guardò lentamente intorno. Per parecchi secondi non riuscì a capire di che cosa si trattava. Era una sensazione inafferrabile, non qualcosa di tangibile. Come se qualcuno fosse stato lassù e avesse spostato le cose, per poi sforzarsi di rimetterle nella posizione precedente, lasciando lì nell'attico una sorta di atmosfera... come di qualcosa che era stato messo in disordine. L'anziana signora cominciò a guardarsi intorno con attenzione ancora maggiore, rendendosi conto, mentre lo faceva, che quella soffitta era una sorta di deposito dei suoi ricordi, oltre che il magazzino di tutte le cose scartate e non più usate dai Conger. Tutte le cose di cui i Conger si erano serviti, e di cui adesso avevano dimenticato l'esistenza, erano sparpagliate lassù; ma se loro se ne erano dimenticati, la signora Goodrich no. La sua mano carezzò la culla usata per tanti bambini dei Conger: l'ultima era stata Sarah, ed Elizabeth prima di lei, e il loro padre prima ancora. Si chiese quante generazioni di bambini dei Conger avessero dormito in quella culla. E poi constatò che gli intricati intagli fatti a mano non mostravano una sola particella di polvere. Ecco che cosa l'aveva colpita: tutto, lassù, avrebbe dovuto essere coperto di polvere... E invece tutto era pulito. Passò quasi tutta l'ora, lassù nell'attico, a cercare la polvere che avrebbe dovuto esserci. Ma non c'era. E neppure Cecil. Quel pomeriggio, sul presto, la signora Goodrich finì per convincersi che, dovunque fosse il gatto, non era in casa. Tornerà, pensò. Quando ne avrà voglia. 9 «Davvero non vi dispiace?». Rose fece la domanda fissando Barbara Stevens da sopra l'orlo del suo bicchiere di whisky allungato col seltz. Aveva ragione: le piacevano gli Stevens, e prevedeva molti anni di felice vicinato. Davanti a lei, seduta accanto a Carl, Barbara la stava fissando a sua volta. «Dispiacerci che cosa?», domandò. «Dispiacerci di aver comperato la
casa?». «Be'», disse Rose, lasciando vagare lo sguardo per l'ampio, disarmonico soggiorno, adesso ingombro di scatoloni zeppi di oggetti e di mobili scompagnati, «ve l'avevo detto che era una baraonda. E lo è davvero». Barbara scoppiò a ridere, e il suono argentino della risata sembrò rendere la stanza meno brutta. «Non è poi così male. Ci sono molte possibilità». Rose fu certa di aver percepito una punta d'incertezza nella sua voce. «Dimmene una». Era una sfida. «Carl ne ha a dozzine», rispose Barbara, riuscendo quasi del tutto a schivare l'insidia. «Io entrerò in azione quando la casa sarà stata ristrutturata». «In altre parole», interloquì Carl, «mai. Barbara è assolutamente convinta che la "ristrutturazione" significhi una completa ridipintura, tappezzerie, e, se riuscirà a convincermi, mobili nuovi. Poi, quando tutto sarà finito, uscirà dal suo studio, si guarderà attorno e dirà: "Buon Dio, abbiamo fatto meraviglie con questo posto, non è vero?"». «Dai, non è poi così terribile», protestò Barbara. «E poi sai benissimo che secondo te un architetto deve avere controllo completo di tutto ciò che riguarda un edificio, dal giorno in cui si scavano le fondamenta a quello in cui viene raso al suolo». Si voltò verso Rose e ammiccò. «Pretende persino, nei suoi contratti, che le sue istruzioni debbano essere rispettate alla lettera fino alla quarta generazione. I peccati dei genitori forse non ricadranno sui figli, ma è certo che dovranno, quanto meno, sopportarli». «Basta così», esclamò Carl. Si alzò in piedi e brandì la bottiglia che, in tre, avevano vuotato a metà. «C'è qualcuno che ne vuole ancora, oppure chiudiamo qui la giornata?». Rose diede un'occhiata all'orologio e constatò, sorpresa, di aver trascorso molto più tempo con gli Stevens di quant'era stata sua intenzione. Tutti e tre avevano passato parecchio tempo a esplorare la casa da cima a fondo. Adesso Carl e Barbara si erano ben familiarizzati col sistema d'illuminazione dei Barnes, grazie al quale, ad esempio, le lampade di alcune stanze venivano accese da interruttori ubicati in altre stanze. Alcune stanze che, come Rose aveva spiegato, erano state destinate ai bambini, mancavano del tutto d'interruttori, dal che si deduceva che, effettivamente, i Barnes dovevano aver sistematicamente punito i bambini mandandoli a letto al buio. Comunque fosse, le ore erano trascorse rapide, ed erano ormai le quattro. Anche Rose si alzò in piedi. «C'è ancora una cosa che dovrei mostrarvi», disse, quasi soprappensiero.
«E vorrei farlo subito». Carl sollevò le sopracciglia, incuriosito. «Sembra qualcosa d'importante». «Potrebbe esserlo, oppure no. Lo saprete voi meglio di me, perché non ho ancora fatto la conoscenza di Jeff». «Jeff?», le fece eco Barbara, del tutto disorientata. «Cosa c'entra Jeff?». «Per niente, spero», replicò Rose. «È per questo che desidero parlarvene adesso, prima che lui arrivi qui. Venite». Condusse Carl e Barbara fuori della casa, sul lato dell'oceano. C'era un sentiero che, diretto verso sud, conduceva allo strapiombo. «Dovrebbero fiorire le primule, qui», osservò Carl. Barbara gli sorrise, ma Rose sembrò non averlo udito. Proseguì a grandi passi, e gli altri due la seguirono per una trentina di metri, prima che si fermasse. «Ecco», disse, puntando il dito. Carl e Barbara contemplarono il mare, percorrendo l'intero orizzonte con lo sguardo. L'oceano era sgombro di barche o navi, una distesa d'acqua grigioverde, ininterrotta, e il Promontorio dei Conger si protendeva dalla costa a un centinaio di metri da loro, verso sud. «È meraviglioso», esclamò Barbara. «Ma non so cosa dovrei guardare». «Il promontorio», spiegò Barbara. «Da qui avete un'eccellente visuale del suo lato nord. Il bosco, in cima, non è vasto come sembra, e sull'altro lato comincia il prato. Oltre il prato, naturalmente, c'è la nostra casa. Se non ci fosse il bosco, vedreste senz'altro la casa». «E allora?», chiese Carl, più che mai perplesso e ignaro di ciò che Rose intendeva dire. «Si tratta della scogliera», proseguì Rose. «E senz'altro bene che lo sappiate. E molto ripida, e traditrice, soprattutto quando il vento soffia dal nord. Il mare infuria, là fuori, e gli spruzzi gelati trasformano in vetro la superficie della scogliera. Ci sono stati incidenti...». S'interruppe; poi, cogliendo l'espressione preoccupata negli occhi di Barbara, aggiunse subito: «Oh, non ce ne sono più stati da molto tempo. Nessuno in questo secolo, da quanto ne sappiamo. Siamo sempre stati molto prudenti, e ai bambini non è mai stato permesso di scendere laggiù, anzi, neppure di avvicinarsi. Da generazioni, nella famiglia dei Conger non è mai stato permesso ai bambini di giocare nel bosco, e neppure sulla scogliera. La scogliera non è soltanto pericolosa, è praticamente invisibile. Non si può vedere la superficie della scogliera da nessun punto della nostra proprietà, e anche da questo lato è visibile soltanto da uno o due punti. Anche dalla vostra casa è
completamente nascosta alla vista. Tutto quello che potete vedere è il bosco». «Ma perché non l'avete tagliato?», chiese Barbara, soprappensiero. «Non sarebbe così bello, ma per lo meno potreste vedere se qualcuno dei bambini gioca sull'orlo dello strapiombo». Rose ebbe un sorriso forzato. «L'ho suggerito, un giorno. Ma... C'è naturalmente la questione estetica, in parte. E poi c'è il vento. Il bosco è una protezione molto efficace per la casa, quando il vento soffia da nord, soprattutto d'inverno. E per finire, ovviamente, c'è la privacy. Ai Conger è sempre piaciuta l'idea che nessuno dei loro vicini potesse vederli». «È piacevole potersi permettere questo lusso», mormorò Carl. Rose annuì. «Molto piacevole. Se ci si può permetterlo, cosa che noi riusciamo appena a fare. Un altro paio di stangate fiscali, e non potremo permettercelo più». Si rese conto che stava dicendo più di quanto, probabilmente, avrebbe dovuto, ma si accorse che, in realtà, non gliene importava affatto. In effetti era piacevole poter ammettere con qualcuno, chiunque fosse, che i Conger non erano più quelli di un tempo. Tuttavia, decise, era tempo di rientrare in argomento. «E questo che volevo farvi vedere», disse. «Naturalmente siete liberi di fare quello che volete, ma vi consiglio di dire a Jeff di non avventurarsi per nessuna ragione laggiù». «Il che lo farebbe correre lì nel preciso istante in cui gli voltassimo la schiena», replicò Barbara. «Credo che dovremmo affidarci al suo buonsenso». Notò l'espressione sul volto di Rose, e il suo sorriso svanì. «C'è qualcos'altro?», chiese. Rose esitò un momento, poi disse ancora: «Sì». Diede un'altra rapida occhiata all'orologio. «Non ho tempo di addentrarmi nei dettagli, ma c'è una specie di leggenda sulla scogliera. Si dice che ci sia una caverna, nella quale è molto pericoloso entrare». Sorrise incerta. «Ora devo tornare a casa. Le due ragazze saranno già ritornate, e non mi piace lasciarle sole a lungo, con la sola sorveglianza della signora Goodrich». «La signora Goodrich?». «La governante. Sta invecchiando, dev'essere sulla settantina, ormai, ed è terribilmente tradizionalista, ma è con la nostra famiglia da ancora prima che nascesse Jack». Chiacchierarono ancora un po' sulla via del ritorno alla casa degli Stevens, ma Rose non li accompagnò dentro. Sentiva un'improvvisa urgenza a rincasare. Qualche minuto più tardi, camminava a rapidi passi sulla Strada
del Promontorio, sfiorando l'estremità occidentale del bosco. Vide uno scoiattolo che giocava su uno degli alberi: di solito si sarebbe fermata a contemplarlo per parecchi minuti, ma questa volta non lo degnò di una seconda occhiata. Superò il bosco e s'incamminò lungo il bordo del prato. Improvvisamente, si fermò. Dal bosco, a circa centocinquanta metri da lei, stava uscendo Elizabeth. Un paio di secondi più tardi, anche Sarah uscì dal bosco. Rose sentì una morsa allo stomaco, mentre seguiva con lo sguardo le due figlie che attraversavano il prato dirette a casa. Non le chiamò; anzi, continuò a restare immobile anche quando le ebbe viste scomparire dentro casa. Infine, si decise a riprendere il cammino. Ma il suo passo adesso era lento, e la mente piena di pensieri. Nessuno di quei pensieri, però, aveva molto senso. Ma tutti facevano presagire sciagure. Neppure quando entrò in casa chiamò per salutare. Andò direttamente nel piccolo studio sul retro della casa, si versò un bicchierino e sedette sulla poltrona. Mentre aspettava che suo marito facesse ritorno a casa, studiò il vecchio ritratto sopra la mensola del caminetto. Sembrava, più che mai, Elizabeth. Prese a sorseggiare il bicchierino, continuò a fissare il ritratto e attese. Un'ora più tardi era ancora seduta sulla poltrona, quando Jack tornò a casa. Lo udì chiamare quando aprì la porta, sentì Elizabeth che rispondeva dal piano di sopra. Rose restò silenziosa e ascoltò il rumore dei suoi passi che si avvicinavano allo studio. Tenne gli occhi fissi alla porta quando lui entrò. Jack, a sua volta, sgranò gli occhi per la sorpresa; lei gli sorrise. «Stiamo invertendo i ruoli? Sono io quello che dovrebbe starsene pensieroso su quella poltrona, con un bicchiere in mano». Ma il sorriso di Jack svanì quando osservò meglio il volto di sua moglie. «C'è qualcosa che non va?», chiese, e Rose provò, nonostante tutto, una punta di compiacimento quando udì una preoccupazione che sembrava sincera. «Preparati qualcosa da bere e siediti», gli disse. «E tanto vale che tu riempia di nuovo anche il mio bicchiere. Il ghiaccio si è sciolto». Jack prese il bicchiere di Rose, tornò a riempirlo, e per sé ne versò uno di scotch liscio. Depose il bicchiere di Rose sul tavolo, accanto al suo gomito, e sedette davanti a lei. «Dunque, che cosa succede?... Sarah?». Rose scosse la testa. «Non saprei. Non ne sono sicura». Gli raccontò la sua giornata, senza entrare nei particolari, finché non fu giunta all'ultima parte della conversazione con gli Stevens, cercando di ricordare le esatte
parole che aveva detto. Quand'ebbe finito, Jack non parve particolarmente turbato. «E allora, che cos'è che ti ha tanto sconvolta?», chiese. «Mentre tornavo a casa ho visto le bambine che uscivano dal bosco. Prima Elizabeth, e dietro Sarah». «Capisco», mormorò Jack. «Vuoi che parli con loro?». «Non con tutte e due. Soltanto con Elizabeth. Dille quello che vuoi, ma convincila a starsene lontana da lì». «Devo dirle della leggenda?». «Se vuoi». «Be', se la leggenda non servirà, soltanto Dio sa cosa potrebbe servire. La leggenda ha tenuto quattro generazioni di Conger lontani da quella scogliera». «Quattro?», domandò Rose. «Così tante?». «Credo proprio di sì», Jack contò rapidamente sulle dita. «No, mi scoglio, io sono la terza. La quarta generazione sono Sarah ed Elizabeth. Allora, via il dente, via il dolore». Vuotò il bicchiere di scotch e uscì dallo studio. Rimasta sola, Rose continuò a sorseggiare dal suo bicchiere e a fissare il ritratto sopra il caminetto. Per qualche ragione, le parole di Carl Stevens le riecheggiavano nella mente. «I peccati dei padri...». Poi ricordò il resto e rabbrividì: «...Fino alla terza e alla quarta generazione». Jack salì le scale lentamente, chiedendosi che cosa mai avrebbe detto a sua figlia. Giunto in cima si fermò, raddrizzò le spalle. La verità, immaginò. O per lo meno quella che i Conger avevano pensato fosse, per loro, la verità, da tempo immemorabile. Le trovò nella stanza dei giochi. Una ruga gli solcò la fronte quando vide quello che stavano facendo. Tenevano in mezzo fra loro la tavoletta oui-ja, ed Elizabeth sembrava concentrata. Jack si schiarì la gola. Nessuna delle due ragazzine parve sentirlo, e allora parlò. «Elizabeth», disse, e gli rincrebbe che la sua voce avesse un suono così acuto. Le sue figlie sussultarono leggermente, Elizabeth aprì gli occhi. «Papà! Sei venuto a giocare con noi?». «Sono venuto a parlare con te. Da sola». All'ultima parola i suoi occhi si spostarono su Sarah, ed Elizabeth colse il silenzioso messaggio. Si alzò in piedi, si sporse a bisbigliare qualcosa all'orecchio di sua sorella. Sembrò, agli occhi di Jack, che Sarah non reagisse minimamente, ma Elizabeth
sembrò soddisfatta; Sarah, in qualche modo, aveva accettato di restare sola. Elizabeth lo seguì fuori della stanza, fino alla sua. Quando lei fu entrata, Jack chiuse la porta, ed Elizabeth seppe di aver fatto qualcosa di sbagliato. Sedette sull'orlo del letto e fissò rispettosamente suo padre. «Si tratta del bosco, non è vero?», chiese. Suo padre la guardò severamente. «Sì», disse, «il bosco. Correggimi se sbaglio, ma non ne avevamo parlato, e chiaramente, appena ieri? Ora, a quanto ho capito, oggi tu eri nel bosco. Con Sarah». Elizabeth lo guardò direttamente negli occhi, e Jack cercò d'intuirne l'umore. Si chiese se sua figlia si sarebbe mostrata insolente, o arrabbiata, o cocciuta. Ma negli occhi di Elizabeth lesse soltanto curiosità. «Lo so», disse Elizabeth. «Davvero non mi spiego perché mai ho condotto Sarah nel bosco, oggi. Stavamo giocando sul prato, e poi eravamo nel bosco. Devo essere stata soprappensiero, perché non ricordo assolutamente di esserci entrata. Ricordo soltanto di essermi accorta all'improvviso che eravamo dentro al bosco, e allora ho subito ricondotto Sarah fuori nel prato». Jack ascoltò sua figlia in silenzio, cercando di decidere se fosse sincera. Ricordò quando lui era giovane, e tutte le volte che era stato talmente assorto in qualcosa da perdere completamente la cognizione di dove si trovava. Poteva essere accaduto anche a Elizabeth. «Be'», replicò, «mi aspetto che non accada mai più. Mai più, capisci? Ora sei cresciuta abbastanza da aver ben chiaro, ad ogni istante, quello che stai facendo, e dove lo stai facendo. Soprattutto quando Sarah è con te». «Mi prendo cura di lei», disse Elizabeth, e a Jack parve di udire una nota difensiva nella sua voce. «Ma certo, lo sanno tutti», le disse, per blandirla. «Ma sarà meglio per tutti che tu ti prenda cura di lei sul prato, fuori dal bosco». Ora Elizabeth aveva un'espressione decisamente incollerita. I suoi bei lineamenti s'indurirono. Jack seppe che era giunto il momento delle spiegazioni. E quando lei gli fece la domanda, lui già stava affannandosi a cercare il modo migliore di risponderle. «Voglio sapere perché», gli chiese esplicitamente. «Questa storia sta diventando assurda, e stupida. Sono abbastanza grande per andare dove voglio, almeno nella nostra proprietà. Quand'ero piccola... Ma adesso non sono più piccola. Tu stesso l'hai detto», concluse. «Sarai convinta che siamo tutti pazzi», disse Jack. «E lo siamo?», chiese Elizabeth, ma vi fu un lieve ammiccamento nei
suoi occhi. «Chi lo sa?», rispose Jack, cercando di mantenersi sul tono leggero. «D'accordo, ti racconterò la storia. C'è un'antica leggenda di famiglia». «Lo so», fece Elizabeth. «Lo sai?». Adesso Jack non riuscì a dominare la sorpresa. «E come?». Elizabeth aggrottò gli occhi e cercò di apparire sinistra. «La tavoletta oui-ja», intonò. «Sa tutto e dice tutto». E subito scoppiò in una risata, nel vedere l'espressione che si era dipinta sul volto di suo padre, un miscuglio di sgomento, sorpresa e paura. «Sto scherzando, papà», si affrettò ad aggiungere. «Non so proprio di cosa si tratti». Rifletté un attimo, poi proseguì: «In effetti, non so proprio che cosa so o non so, né dove, eventualmente, avrei dovuto scoprirlo. So soltanto che c'è una specie di storia che risale a molto tempo fa. Di cosa si tratta?». Jack provò una strana sensazione di sollievo, per il fatto che Elizabeth non conoscesse la leggenda, e cominciò a raccontargliela. «Risale a molto tempo fa», disse. «Tua madre e io stavamo proprio calcolando che sono quattro generazioni, contando te e Sarah. Ha a che fare con la tua bis-bisnonna. È accaduto tutto all'inarca cento anni fa, quando lei era già una vecchia, vecchissima signora. Non so quanti particolari io conosca, in realtà, perché non credo che nessuno abbia mai scritto la storia, ma ecco quello che si dice sia successo. «La vecchia signora (credo che si chiamasse Bernice o Bertha, qualcosa del genere) aveva l'abitudine di fare un pisolino ogni giorno, dopo pranzo. Sembra che, ogni giorno, salisse di sopra e dormisse per un'ora, poi si svegliava, scendeva, e questo era tutto. Salvo che un giorno nessuno la vide tornare giù». «Vuoi dire che morì?», chiese Elizabeth. «No», disse Jack. «Non morì. Quando non fu vista scendere dopo il suo pisolino, tutti salirono di sopra, convinti, penso, di trovarla morta. Ma non era morta, era ancora addormentata. «Insomma, per farla breve, la storia dice che dormì per due giorni e due notti di seguito, come un ghiro. Cercarono di svegliarla, ma non ci riuscirono. Chiamarono un medico, ma non trovò niente che non funzionasse, in lei. Io suppongo che avesse subito un mezzo infarto, e che fosse entrata in coma, ma in quell'epoca non ne sapevano molto di queste faccende. Comunque sia, finì per svegliarsi, e riprese a comportarsi nel modo più normale.
«Probabilmente la famiglia se ne sarebbe dimenticata, se non fosse stato per il fatto che, un paio di giorni più tardi, uno dei figli della vecchia signora, che dovrebbe essere stato il mio prozio, credo, entrò in casa portando un coniglio morto. Poi saltò giù dal dirupo dietro la casa». «Stai scherzando», esclamò Elizabeth, gli occhi sbarrati. Jack scosse la testa. «Se sto scherzando, allora tuo nonno si è preso gioco di me, quando mi ha raccontato la storia». «Ma perché lo fece?», insisté Elizabeth. «Nessuno riuscì mai a scoprirlo». Jack scrollò le spalle. «Oppure, se lo scoprirono, si guardarono bene dal divulgarlo. Comunque sia, quando la vecchia signora ne fu informata non mostrò alcuna sorpresa. Sembra che abbia detto che se l'era aspettato. E da quel giorno, fino a quando morì, disse a tutti chi sarebbe morto, e quando. Dichiarò che aveva ricevuto queste informazioni in un sogno che aveva fatto durante quel suo lungo sonno durato due giorni». «E non si sbagliò mai?», fece Elizabeth, dubbiosa. «Chi lo sa? Sai come s'ingrandiscono le cose. Potrebbe essersi sbagliata quasi sempre, ma la gente si sarebbe ricordata soltanto delle poche volte che aveva indovinato, raccontandolo agli altri. Probabilmente la vecchia signora continuava a prevedere la morte di questo e quello ogni giorno^ così, prima o poi, finiva per far centro, per puro caso. È come per gli astrologi, ne dicono tante che, prima o poi, devono per forza azzeccarne qualcuna». «Ma allora, dov'è il punto?», chiese Elizabeth. «Be', l'ultima goccia, per così dire, arrivò appena prima della sua morte. Affermò di aver avuto una visione». «Una visione? Vuoi dire angeli, o fantasmi?». «Non proprio. Una visione, ma non certo del paradiso. Disse che, nella sua visione, era stata condotta in una caverna, dentro la scogliera. All'interno della caverna le era stato mostrato un pozzo che precipitava giù, a picco. Il suo "angelo", o qualunque cosa fosse, le disse che quel pozzo era la porta dell'inferno. La vecchia signora aggiunse che cose orrende, turpi, sarebbero accadute se qualcuno avesse osato attraversare la porta dell'inferno. O, quanto meno, calarsi in quel pozzo. Disse alla famiglia di aver avuto visioni di fatti orribili nel futuro: l'unico modo d'impedire che accadessero era fare in modo che nessuno si avvicinasse a quella caverna. Fece giurare a tutti i membri della famiglia che non avrebbero mai neppure osato avvicinarsi alla scogliera, dove si suppone si trovi la caverna. Poi morì».
Elizabeth lo fissò in silenzio per un buon minuto, prima di parlare; e quando lo fece, lui percepì chiaramente la sua incredulità. «C'è davvero una caverna, nella scogliera?». «Non ne ho la minima idea». «Vuoi dire che tutti le hanno creduto?», insisté Elizabeth. «Nessuno è mai sceso laggiù a controllare se la caverna esisteva davvero?». Jack si umettò le labbra, a disagio. «Qualcuno sì», disse lentamente. «Mio nonno». «E la trovò?», chiese, quasi con avidità, Elizabeth. «No», rispose Jack. Sperò di aver concluso, così, la faccenda, ma Elizabeth non glielo consentì: «Che cosa accadde, esattamente?», chiese ancora. «Neppure questo si sa. Un giorno annunciò che sarebbe andato a cercare la caverna, sempre che esistesse una caverna, e partì da solo. Quando non fu visto ritornare, una spedizione di soccorso andò a cercarlo». «E ci riuscirono?», disse Elizabeth. «A trovarlo, voglio dire». «Sì, lo trovarono... Lo trovarono in fondo alla scogliera. Un piede gli era rimasto incastrato fra due rocce, e apparentemente era affogato all'arrivo dell'alta marea». Un'espressione di orrore si disegnò sul viso di Elizabeth. «Che orribile modo di morire», commentò, con un bisbiglio. «Sì», annuì Jack. «Davvero orribile. Ma il fatto più strano è che i soccorritori non riuscirono esattamente a scoprire che cosa fosse accaduto. Il suo piede era sì infilato fra due rocce, ma non saldamente. Non avrebbe dovuto incontrare eccessive difficoltà a disincagliarsi». «Forse era caduto, aveva perso i sensi», suggerì Elizabeth. «Forse, ma non trovarono alcun livido che avrebbe potuto confermare l'ipotesi. Be'», concluse, «questo è tutto. Qualunque sia la verità, la famiglia ha sempre rispettato il desiderio espresso dalla vecchia signora sul letto di morte. Salvo mio nonno. Se non altro, la sua tragica fine ci dà una buona ragione per starcene lontani da quel luogo pericoloso. Spero che tu rispetterai il divieto come lo ha fatto il resto di noi». Elizabeth sembrava perfettamente calma, e quando rispose lo fece a bassa voce. «Papà», disse, «e tu ci credi?». Jack riesaminò tra sé la domanda e non riuscì a trovare alcuna risposta. Aveva vissuto con quella leggenda così a lungo che non gli era mai venuto in mente di metterne in dubbio la verità. Adesso, considerandola alla luce
fredda dello sguardo azzurro-ghiaccio di sua figlia, scosse la testa. «No», disse, «non mi sembra di... No, non ci credo affatto. D'altra parte non credo che porti sfortuna passare sotto una scala, ma preferisco non camminarci sotto. Quindi, forse, nel profondo della mia mente credo alla leggenda». Elizabeth rimuginò su quella confusa risposta per un buon minuto, e Jack era ormai sul punto di curvarsi e baciarla, a mo' di congedo, quando gli fece, all'improvviso, un'altra domanda: «E la bambina?», chiese. «Quale bambina?», fece Jack, con espressione vacua. «Non ne sono sicura», disse Elizabeth, «ma mi sembra di aver sentito da qualche parte che c'era una bambina nella leggenda». Jack ripassò nei particolari l'intera storia nella sua mente, poi scosse la testa. «No», dichiarò. «Non ne so niente». «Be'», disse Elizabeth, «dovrebbe esserci. Inventiamone una». Jack riuscì a scorgere lo scintillio birichino dei suoi occhi. «Provaci un po' tu», replicò. «E parlamene a cena. Ci vedremo giù fra una trentina di minuti». La baciò, poi lasciò la stanza. Mentre scendeva le scale, si sentì chiamare da Elizabeth. «Lo chiederò alla tavoletta oui-ja». La sentì ridere, mentre correva dentro la stanza dei giochi. 10 «Che cosa le hai detto, esattamente?». Rose parlava nel buio, e la sua voce sembrava rimbalzare sulle pareti e tornare alle sue orecchie più forte di quanto avrebbe desiderato. Sentì Jack che si muoveva accanto a lei. Era sicura che non dormiva, ma ci volle quasi un minuto prima che rispondesse. Nel silenzio, lei cominciò a contare i ticchettii dell'orologio del nonno. Aveva raggiunto i quaranta, quanto Jack finalmente parlò. «Tutto», disse. «L'idea non era quella di tenerla lontana dalla scogliera?». «Immagino di sì», rispose Rose, insicura. «Come l'ha presa?». Sentì Jack che ridacchiava nel buio. «Come prenderesti una storia simile, nel mondo d'oggi? Non sono sicuro che truci leggende di famiglia e ma-
ledizioni contino ancora molto». «Ma molte cose sono effettivamente accadute», insisté Rose. «Alcune sono accadute», convenne Jack, alquanto polemico. «Concedo che la vecchia signora ha dormito per un paio di giorni, che qualcuno si è gettato dal dirupo e qualcun altro è annegato. Ma, stringi stringi, non resta granché di concreto. E, naturalmente, l'ultima visione della signora, ormai moribonda, probabilmente non era nient'altro che una manifestazione della sua degenerazione senile». Si girò sul fianco. «Comunque, è sempre un'eccellente storia, piena di orrore e spavento, e non c'è dubbio che sia servita a tenerci tutti lontani dallo strapiombo per un buon numero di anni». «Come l'ha presa Elizabeth?», chiese Rose. «Non ha fatto nessun commento?». «Voleva sapere della bambina», disse Jack, sorridendo nel buio. «Bambina?», chiese Rose. «Quale bambina? Io non ho mai sentito parlare di una bambina, prima d'ora». «Naturalmente no. Non c'è nessuna bambina. Semplicemente, a Elizabeth è venuto in mente che avrebbe dovuto esserci una bambina coinvolta nella leggenda. Ha detto che le era parso di aver sentito dire, non sa dove e neppure da chi, che ce n'era una... Ma non riusciva a ricordare. Ha detto che avrebbe consultato la tavoletta oui-ja». Rose sentì un brivido assalirla, ma lo respinse. «La tavoletta oui-ja», disse. «Non sono sicura che sia bene lasciarla giocare con quell'oggetto. I bambini sono troppo suggestionabili». A sua volta si girò sul fianco e si rannicchiò contro suo marito. Sentì il corpo di lui irrigidirsi. Sospirando, si scostò da lui. Nella sua stanza, Elizabeth era distesa sul letto, ascoltava il mormorio che usciva dalla stanza dei genitori. Quando le voci si affievolirono e cessarono del tutto, anche gli occhi della ragazzina si chiusero, il suo respiro si fece più regolare e profondo. Quando l'orologio batté l'ora, le sue palpebre furono agitate da un fremito. Una sorta di vago gorgoglio le si formò in gola, ma si spense sulle sue labbra. Si girò, e le coperte caddero sul pavimento. Tirò su le ginocchia e cinse le braccia intorno a sé. Poi si alzò dal letto. Attraversò la stanza a piedi nudi, senza far rumore, e uscì nel corridoio. Raggiunse, come in trance, la porta che dava sulla scala dell'attico, e si alzò sulla punta dei piedi per afferrare la chiave nascosta sopra la cornice. Evitando il terzo gradino cigolante, Elizabeth salì la ripida scala fino all'at-
tico, inconsapevole della silenziosa presenza di Sarah che la stava osservando. Quando Elizabeth fu scomparsa nelle regioni superiori della casa, Sarah ritornò al suo letto, dove giacque, fissando il soffitto col viso privo d'espressione. Elizabeth restò nell'attico per un'ora, ma ciò che vide, o fece, non si registrò nella sua memoria. Distesa sul letto, ancora sveglia, a Rose sembrava di soffocare. Cercò d'ignorare quella sensazione, ma persistette. Alla fine, frustrata, lasciò il letto e andò a sedersi accanto alla finestra. Di malumore, restò seduta lì a fumare e a scrutare la notte. C'era luna piena, e le ombre giocavano sul prato. Com'è tranquillo, pensò. E prese in considerazione la possibilità di uscire a fare una passeggiata. Il dirupo sarebbe parso bellissimo, con la luce che danzava sul mare e la risacca inargentata dalla luna che si frangeva sotto di lei. Ma, con la stessa repentinità con cui l'aveva avvolta, la sensazione soffocante la lasciò. Rose spense la sigaretta, schiacciandola, e tornò a letto. In un attimo si addormentò. Se fosse rimasta accanto alla finestra, quasi certamente non sarebbe tornata a letto, perché avrebbe senz'altro visto l'oscura figura che si muoveva attraverso il prato. Elizabeth uscì dalla veranda nello stesso istante in cui Rose tornò a letto. Si mosse lentamente, con cautela, verso il prato, come se tastasse il terreno con i piedi, poi bruscamente si girò e s'incamminò in fretta verso l'antica scuderia, che si trovava a pochi metri dal garage. Entrò dalla porta laterale e si avvicinò al banco degli attrezzi. Prese su una borsa e uno strano rotolo di corda da cui emergevano pezzi di legno dall'aspetto consunto. Si appese al collo il rotolo, afferrò la borsa e lasciò la scuderia. Ora, a passi non più cauti, ma sempre più rapidi, attraversò il prato verso il bosco. Ben presto si trovò avvolta fra le sue cupe ombre. Il vestito che Elizabeth indossava era vecchio, molto più vecchio di ogni altro vestito da lei usato quando giocava sul prato. Il bordo lacero s'impigliava tra i rami man mano si addentrava nel folto, ma il tessuto consunto cedeva senza opporre alcuna resistenza, per cui la sua marcia non era ostacolata. I capelli biondi le ricadevano sulle spalle, in un'antica acconciatura, riflettendo la luce della luna: da lontano sembravano formare un alone vi-
vido attorno alla sua testa. Elizabeth si muoveva con sicurezza e con grazia, gli occhi costantemente fissi all'oscurità davanti a lei. Non c'erano piste o sentieri, ma avanzava con facilità, come su una strada asfaltata. Nonostante le ombre profonde e la densità del sottobosco, i suoi piedi indovinavano sempre i punti in cui non c'erano rami in attesa per farla inciampare, o pietre che le procurassero lividi, o tralci per intrappolarla. Infine Elizabeth emerse dal bosco e si trovò sopra la scogliera, a fissare il mare. Quella sera il mare era tranquillo e la risacca mormorava appena, là sotto, sommessa e invitante. Elizabeth si diresse verso est, lentamente, come per cogliere un qualche segno che le dicesse che si trovava nel punto giusto. Poi tornò a fermarsi, e ancora una volta fissò il mare. Infine si calò giù, cominciò a discendere la ripida superficie della scogliera. I suoi piccoli piedi trovavano appigli che a una persona adulta non sarebbero serviti. Di tanto in tanto faceva un salto, bilanciandosi col braccio libero; ma di solito non lasciava un appiglio prima di averne afferrato un altro. Continuò a scendere a velocità costante, celandosi ogni tanto alla luce della luna, per poi ricomparire qualche metro più sotto. Infine scomparve definitivamente nell'ombra di un macigno, e strisciò dentro un buco, dove l'oscurità era più fitta. Venti metri più sotto, la risacca martellava contro il promontorio. Elizabeth s'insinuò dentro la cavità, un budello nella roccia più che una caverna, impacciata dal vestito che ogni pochi istanti le restava impigliato sotto le ginocchia, impedendole di avanzare. Era costretta allora a fermarsi, sfilando il tessuto da sotto le gambe e spingendolo avanti, procedendo d'un paio di metri e ripetendo la manovra. Spingeva avanti a sé, con estrema cautela, la borsa, cercando di non perdere mai il contatto, temendo quasi di vederla scomparire in qualche irraggiungibile anfratto. Infine spinse la borsa di lato e passò oltre, tastando il pavimento roccioso, finché le sue dita non incontrarono il pozzo. Si avvicinò all'orlo, tirò a sé la borsa. La mano trovò nelle sue profondità una torcia elettrica, e la tirò fuori. L'accese, facendo ruotare un paio di volte il sottile fascio luminoso intorno a sé. La luce, riflettendosi sulle pareti, rivelò l'ampia cavità in cui si allargava la galleria, una sorta di stanza ovale, il pavimento disseminato di frammenti di roccia. Al centro si apriva l'imboccatura del pozzo. Elizabeth si tolse il rotolo dal collo e, sempre impugnando la torcia, si protese sulla voragine. Molto più in basso, non avrebbe saputo dir quanto,
la luce si riflesse su qualcosa che giaceva sul fondo. Con cautela, infilò la torcia elettrica in una fenditura della pietra, saggiandola per accertarsi che fosse solidamente incastrata. Poi cominciò a svolgere il rotolo che aveva portato dalla scuderia. Era una scala di corda che un tempo era servita ad accedere al sottotetto. Per anni era rimasta fra gli attrezzi, nella scuderia: nessuno saliva più al sottotetto, e la scala era stata tolta perché giudicata un pericolo per i bambini. Elizabeth incastrò le estremità della scala di corda nelle crepe dei macigni, incuneandovi delle schegge di pietra che trovò sparse sul pavimento della caverna. Alla fine saggiò la corda, tirandola con quanta più forza aveva, puntando le gambe contro i macigni. La corda tenne. Spinse allora la scala oltre il ciglio del pozzo. Cadde giù, sbattendo rumorosamente contro il fianco roccioso, e vi s'impigliò. Elizabeth la tirò su, e con molta attenzione la districò; poi la fece scivolare una seconda volta nel vuoto, e questa volta la scala cadde senza incontrare ostacoli. Avvertì una leggera vibrazione, quando l'estremità inferiore della scala urtò il fondo. Elizabeth prese la borsa e la lanciò nel pozzo; udì un tonfo soffocato quando raggiunse il fondo. Poi disincagliò la torcia elettrica dalla fenditura, l'infilò in una tasca del vestito, e a sua volta prese a scendere. Si calò con lentezza, apparentemente senza accorgersi dei frammenti di fango che si staccavano dalle pareti del pozzo mentre passava cautamente da un piolo all'altro. L'oscurità non la spaventava. Finalmente sentì la gelida pietra del fondo venire a contatto con le suole delle scarpe. Infilò una mano in tasca e tirò fuori, di nuovo, la torcia elettrica. Il raggio giallastro oscillò, illuminando un'altra cavità, anch'essa ovale e assai simile a quella sovrastante, anche se più piccola e col soffitto più basso. Anche qui, il pavimento era cosparso di pietre. Il pozzo si apriva quasi al centro del soffitto. Elizabeth diresse la luce sul pavimento della caverna, e l'oggetto che aveva visto lampeggiare dall'alto scintillò di nuovo: era un braccialetto d'oro, con un piccolo opale incastonato. Era ancora al polso della sua proprietaria. Lo scheletro giaceva proprio sotto il pozzo, afflosciato su se stesso nella posizione in cui era rimasto per anni e anni. Qua e là vi aderivano frammenti di tessuto marcio, che si disintegrarono, in uno sbuffo di polvere, quando Elizabeth li toccò. Un sacco giaceva accanto allo scheletro, là dove era caduto. Il suo urto aveva sparpagliato alcune costole sul pavimento. E-
lizabeth prese la borsa, che giaceva vicino al sacco, e la mise da parte, poi illuminò il teschio con la torcia. Raccolse una forcina per capelli che giaceva accanto e l'esaminò con cura. Annuì fra sé. «Sapevo che eri qui», disse. «Ora andrà tutto bene, vedrai». Si allontanò per qualche istante dallo scheletro, cercando un punto dove fissare la torcia elettrica: l'incastrò, lasciandola accesa e orientandola in modo che illuminasse le ossa sbiancate, che luccicavano debolmente al riflesso. Quindi Elizabeth prese a lavorare lentamente, rimuovendo le ossa con cautela. Le ricollocò a un'estremità della caverna, vicino alla parete. Una piccola pietra piatta servì da cuscino al cranio. Quand'ebbe finito, i resti giacevano sulla schiena, le braccia ripiegate in atteggiamento di pace sulla gabbia toracica. Elizabeth sorrise allo scheletro, e c'era una strana luce nei suoi occhi, quando sfilò il braccialetto dal polso scarnificato e lo infilò al proprio. Cominciò a smuovere alcuni macigni intorno; ne spinse uno, discretamente grande e con la superficie superiore relativamente piatta, fino al centro della caverna. Poi ne spostò altri quattro, a formare altrettanti sgabelli intorno al tavolo grossolano. Depositò la borsa e il sacco sul tavolo e sedette su uno degli sgabelli. Dalla borsa cominciò a tirar fuori una serie di indumenti da bambola: un vestitino blu, due minuscole calze, un paio di Mary Janes in miniatura, garantiti di cuoio, insieme a un paio di piccoli guanti bianchi e a un berrettino spiegazzato. Poi aprì il sacco, e un istante dopo Cecil giacque sul tavolo di roccia, il corpo flaccido. La testa formava uno strano angolo col corpo, a causa del collo spezzato. Elizabeth cominciò a vestire il gatto morto con gli indumenti della bambola: gli infilò con molta attenzione il piccolo abito blu sulla testa, spingendo le zampe anteriori nelle maniche, e abbottonandolo poi scrupolosamente lungo la spina dorsale. Poi gli infilò le calze alle zampe posteriori, e quindi, in qualche modo, anche le scarpe in miniatura. Applicò i guanti alle zampe anteriori, e infine mise il berrettino sulla testa di Cecil, annodando i nastrini sotto il suo mento. «La mia graziosa bambina», mormorò, dando gli ultimi tocchi. «Non sei la mia graziosa bambina?». Sistemò l'animale così grottescamente abbigliato sul pavimento di roccia, davanti a lei, ma si afflosciò su se stesso. Per due volte cercò di siste-
marlo in modo che stesse dritto, ma inutilmente. Alla fine raccolse dei ciottoli e formò un piccolo mucchio, così da sostenere il corpo del gatto. Dopo di che, il defunto Cecil se ne stette seduto davanti a lei, la testa imberrettata che ciondolava curiosamente da un lato. Elizabeth sembrò non accorgersi di quella posa innaturale. «E adesso faremo festa», disse. «Vuoi un po' di tè?». Con la mano destra sollevò un'immaginaria teiera, e versò l'invisibile tè in una tazza altrettanto invisibile che stringeva saldamente nella mano sinistra. Poi depose l'immaginaria tazzina davanti al gatto morto. «Una zolletta o due?», chiese cortesemente, offrendo lo zucchero al suo ospite. Senza aspettare risposta, mimò il gesto di porre due zollette nella tazzina invisibile. «Bene», disse, con un sorriso radioso. «Non è bello?». Aspettò, fissando gli occhi chiusi del gatto. «Stai dormendo?», chiese. Allungò il braccio e toccò il corpo con un dito. Poi si alzò dal suo sgabello di roccia, girò intorno al tavolo e s'inginocchiò accanto a Cecil. Gli aprì cautamente, ma con decisione, l'uno e l'altro occhio, tirando su al massimo le palpebre, che però ricaddero subito in basso non appena le lasciò libere. Ripeté la manovra finché le palpebre non rimasero aperte. Tornò al suo sgabello. «Ecco», disse. «Adesso possiamo fare un po' di conversazione. Vuoi un pezzetto di dolce?». Elizabeth prese un immaginario dolce e l'offrì al gatto, che fissava il vuoto con uno sguardo senza espressione. Non vi fu alcuna risposta, ma lei fece scivolare un'immaginaria fetta di torta sull'invisibile piatto che già aspettava davanti a Cecil. «Ora», disse lei, facendo una pausa per addentare un boccone del dolce che non c'era, accompagnandolo con un sorso dell'immaginario tè, «di che cosa vorresti parlare?». Attese di nuovo una risposta, e fissò arrabbiata il corpo flaccido e apatico che aveva di fronte. Due occhi vacui le restituirono lo sguardo. «È molto sgarbato non rispondere, quando qualcuno ti parla», disse, sommessamente. «I bravi bambini rispondono alle domande». Il corpo inerte continuò nel suo silenzio, e il volto di Elizabeth s'imporporò per la collera. «Rispondimi, quando ti parlo», disse seccamente. E ancora non vi fu risposta. Lei fissò sinistramente il gatto, e i suoi occhi ebbero un minaccioso scin-
tillio alla luce giallastra della torcia. «Parlami!», esclamò, e una punta d'odio echeggiò nella sua voce. «Parlami, disgustoso bambino!». La collera di Elizabeth crebbe, quando la creatura morta, per l'ennesima volta, non rispose. La sua voce salì a toni striduli. «Non startene seduto lì a quel modo, bastardo!», urlò. «È tutto quello che sai fare? Ho passato la mia vita con te, e che cosa ho da te? Niente. Niente! Be', adesso mi parlerai, altrimenti ti sculaccerò a sangue!». Improvvisamente agguantò il gatto, afferrando il corpo e tirandolo a sé attraverso il tavolo. Se lo rivoltò sulle ginocchia e cominciò a sculacciarlo. Lo schiaffeggiare della mano sulla schiena del gatto riecheggiò nella caverna, ed Elizabeth mise tutte le sue forze nelle botte che stava somministrando. Poi rimise il cadavere del gatto al suo posto, e gli sorrise. «Ecco», disse. «Adesso che hai avuto quello che ti meriti, possiamo ritornare al nostro tè». Continuò a parlare insensatamente per qualche attimo, miniando nuovamente i gesti di riempire tazze e piatti immaginari. Poi fece al gatto un'altra domanda, e attese una risposta. Quando non ce ne fu alcuna, la collera salì di nuovo in lei, travolgendola come una rossa marea. «Non farmi questo, osceno mostro buono a nulla!», urlò. «Ti odio, quando mi fai questo. Ti odio, ti odio, ti odio!». A quell'ultimo urlo afferrò il gatto e cominciò a farlo roteare sopra la sua testa, poi lo sbatté con forza sul tavolo di pietra. In preda alla collera com'era, non udì lo schianto del cranio che si fracassava. «Rispondimi!», farneticò. «Stramaledetto da Dio, parlami o ti ammazzo!». D'improvviso scagliò il gatto contro la parete della caverna e afferrò nuovamente la borsa. Vi affondò la mano, e quando la tirò fuori impugnava un grosso coltello da cucina. Spinta dalla rabbia che la dilaniava, si gettò sul corpo molle del gatto e cominciò a infliggergli una serie di coltellate. La sua voce crebbe sempre più di intensità, mentre imprecava contro la bestia che non le rispondeva. Con gesto frenetico, riportò l'animale sul tavolo, e il coltello lampeggiò una volta ancora nell'aria. La testa di Cecil, troncata di netto, schizzò via dal tronco e rimbalzò a terra. Elizabeth la fissò, senza capire che cos'era accaduto. «Non farmi questo», ansimò. «Non fare questo a me. Voglio che tu mi
parli. Che tu parli con me!». Dopo l'ultimo urlo, si fermò, rantolando. Un dolore acuto le pulsò nel capo, sentì come un rauco soffiare, simile a raffiche di vento. Poi il dolore passò, e le raffiche di vento si trasformarono in uno strano rumore proveniente dall'alto. Elizabeth alzò lo sguardo, sondando il pozzo sopra. Non vide nulla. Afferrò la torcia elettrica e la puntò, inviando il raggio luminoso su per lo stretto budello. E il raggio illuminò il volto scuro di Sarah: i suoi grandi occhi castani ammiccarono all'improvviso bagliore. Elizabeth le sorrise, e il suo volto si ammorbidi. «Sarah», le disse, e la sua voce era poco più di un bisbiglio, «hai visto? Hai visto quel bambino cattivo? Non è come te. Non è affatto come te. Tu sei una bambina così dolce, amabile...». Si voltò una volta ancora a fissare il corpo decapitato del piccolo felino, che giaceva, grottescamente vestito, sulla roccia ruvida. Poi la luce illuminò la testa staccata, ancora racchiusa nel berrettino all'antica; gli occhi rifletterono, opachi, il bagliore della torcia elettrica. «Avresti dovuto parlarmi», sibilò, rivolta alla testa troncata. «Sì, avresti dovuto parlarmi». Raccolse il coltello e lo appoggiò con cautela su una sporgenza vicina al soffitto della caverna. Poi s'infilò la torcia ancora accesa in tasca e cominciò a risalire la scala di corda. Sarah si ritrasse dal ciglio, quando Elizabeth riemerse dal pozzo. «È tardi», bisbigliò Elizabeth. «Ma non troppo tardi». Si sfilò il braccialetto e l'infilò al polso di Sarah. «Questo è per te», disse. «Da parte di Beth. Lei vuole che tu lo porti. Dice che dovrebbe appartenere a te». Quindi, in apparenza dimentica di Sarah, Elizabeth s'infilò nuovamente nello stretto condotto e riemerse una volta ancora nella notte. Rapidamente risalì la scogliera e s'inoltrò nel bosco, scomparendo fra le ombre. Elizabeth giaceva di nuovo nel suo letto, fissando il soffitto. Sperò di riuscire a riaddormentarsi subito, ma non ci riuscì. Si era svegliata da un sogno, che le era sfuggito non appena aveva aperto gli occhi, e adesso il sonno non voleva ritornare. Le parve di udire un rumore, fuori, e andò alla finestra. Laggiù, intenta ad attraversare lentamente il prato, vide sua sorella. Elizabeth scese a pianterreno e incontrò Sarah all'ingresso principale. Sarah era letteralmente ricoperta di fango, e si era malamente graffiata le mani. Alzò gli òcchi e fissò Elizabeth con una desolata espressione d'impo-
tenza. In silenzio, Elizabeth condusse Sarah al piano di sopra, in bagno. Ripulì la sorella e gettò gli indumenti sporchi nello scivolo della lavanderia. Poi mise a letto Sarah. Elizabeth si chiese dove mai Sarah fosse andata a cacciarsi. Ma quasi subito si addormentò. Fu un sonno profondo e tranquillo. E senza sogni. 11 La signora Goodrich aprì lo sportello in fondo allo scivolo della lavanderia, e guardò distrattamente gli indumenti che ruzzolavano sul pavimento ai suoi piedi. All'improvviso si chinò a raccogliere un paio di blue-jeans particolarmente sporchi, con un ampio strappo all'altezza del ginocchio, e li studiò con occhio critico. «Guarda questi», esclamò, rivolgendosi alla stanza vuota. «Non ho mai visto in vita mia niente di così sozzo. Pare che sia strisciata apposta in un lago di melma puzzolente». Pescò fuori dal mucchio una camicia altrettanto incrostata, e la esaminò con raddoppiata attenzione. Lo sporco si era disseccato durante la notte, e ricadde a scaglie nelle mani dell'anziana signora quando sollevò la camicia alla luce. L'annusò. Il suo naso si arricciò ancora di più, mentre si ritraeva davanti al puzzo di alghe marce. Il suo volto s'indurì. Si girò verso la porta della lavanderia con un'espressione decisa. Trovò Rose e Jack Conger che sedevano, silenziosi, in sala da pranzo, e avrebbe senz'altro notato la tensione nell'aria se non avesse avuto altri pensieri per la testa. Entrò nella stanza col suo passo deciso, senza l'abituale sosta sulla soglia. Jack alzò gli occhi, incuriosito. La signora Goodrich lo ignorò. «Signora Rose», si lamentò. «Guardi questi. Non so come sia possibile pulire cose del genere». Sollevò la camicia per farla vedere meglio a Rose, soprattutto perché lo sporco spiccava meglio sul bianco della camicia che sul blu del ruvido tessuto dei jeans. La signora Goodrich credeva fermamente che le migliori cause dessero i migliori effetti. Scosse leggermente la camicia, per maggior sicurezza, e fu compiaciuta quando vide un po' del fango disseccato cader giù sul tappeto. L'aspirapolvere se ne sarebbe preso, comunque, cura. «Che cos'è?», chiese Rose, incuriosita. «Sembra fango».
«Fango? Lo chiama fango? Io la chiamo melma». La signora Goodrich sporse la camicia ancora più vicino a Rose, che poté darle, così, una buona annusata. «Sa di pesce morto», commentò Rose, chiedendosi che cosa volesse la signora da lei. «Di chi è?». «Della signorina Sarah», dichiarò la signora Goodrich. «Non so che cosa stia combinando quella bambina, ma bisognerebbe, comunque, farla smettere. Non si è certo sporcata così giocando davanti a casa, e neppure sul prato. Non so proprio come fare a togliere questo sporco». Lo sapeva, naturalmente, ma non vedeva alcuna ragione di ammetterlo così prontamente. Col passare degli anni, aveva scoperto che la vita diventava molto più facile se si fingeva, il più possibile, d'essere incompetenti. E quello le sembrava un momento particolarmente adatto per mettere a frutto la sua esperienza. «Be', veda un po' di fare del suo meglio», disse Rose, ancora incerta sul miglior modo di affrontare la situazione. «Non vedo proprio come potremmo scoprire dove si è sporcata, date le circostanze». La signora Goodrich, espressi ormai i propri sentimenti, uscì dalla stanza con passo pesante, lasciandosi dietro una scia di brontolii. A Rose parve di aver colto un accenno al fatto che cose del genere non erano più accadute dai vecchi tempi, e si chiese se era davvero così. Poi vide che Jack la stava fissando, e improvvisamente si sentì a disagio. Fugacemente si chiese che cos'era mai successo alla pace di cui avevano goduto in quegli ultimi giorni. «Be', cosa avrei dovuto rispondere?», chiese, sentendosi vagamente colpevole, ma senza saper bene di che cosa. «Niente», disse Jack. «Non preoccuparti per quello sporco... A ripulirlo basterà una delle occhiate raggelanti della signora Goodrich. Ma... Dove si è sporcata Sarah?». «Sono sicura di non saperlo», ribatté, brusca, Rose. «Perché non lo chiedi a lei?». «Sei crudele, Rose» rispose Jack, a voce bassa. «E non soltanto verso di me, ma anche nei confronti di Sarah». Rose respirò profondamente, poi esalò lentamente l'aria, costringendo la tensione a uscire dal proprio corpo. Si morsicò per un attimo il labbro inferiore, poi cercò di sorridere a suo marito. «Mi spiace», disse infine. «Naturalmente hai ragione. Ma, mio Dio, Jack, che cosa devo fare? Se Sarah se n'è andata da qualche parte da sola,
non c'è assolutamente modo di sapere dov'è stata». «Ma ci sono quei graffi... Dove avrebbe potuto graffiarsi?», insisté Jack. Rose annuì. «Avrebbe potuto farseli in un mucchio di posti». Poi si guardarono, ed entrambi ricordarono. Quella mattina, sul presto, Rose era andata a dare un'occhiata a Sarah nella sua stanza. Durante la notte la bambina aveva buttato via la coperta, e quando Rose si era chinata a coprirla aveva visto che la mano di Sarah era coperta di brutti graffi, e un ginocchio era tutto escoriato. Ma era pulita. E anche le ferite erano state ripulite. Avevano supposto che fosse accaduto qualcosa durante la notte, e che in qualche modo Sarah si fosse procurata quelle ferite da sola. Ma, adesso, quegli indumenti sporchi li costringevano a rivedere l'intera faccenda. Entrambi evitarono l'argomento, ognuno a suo modo: Rose rimescolando il caffè, di cattivo umore; Jack raccogliendo con gesti nervosi, con un pezzo di pane, quant'era rimasto del suo uovo. «Puzzava di mare», disse infine Rose. «Qui intorno tutto puzza di mare, più o meno», ribatté Jack. «E se avesse deciso di scendere giù fino alla spiaggia?». «Nel mezzo della notte?», fece Jack. «Poi il sentiero non è fangoso, ed è facile percorrerlo. Anche col buio pesto basta tenere una mano sulla ringhiera e avanzare. E la spiaggia è sabbiosa». «Ci sono pietre», ribatté Rose, ed era vero. C'erano pietre sulla spiaggia, ma non erano aguzze, scheggiate. Per la maggior parte erano ciottoli che il leggero, continuo rotolio della risacca aveva levigato, sul lato sud del promontorio. Le rocce aspre e accidentate, lo sapevano entrambi, si trovavano sul lato nord, dove si protendeva la scogliera. Nessuno dei due, però, era ancora pronto ad accettare quella possibilità, per Sarah. «E la cava?», esclamò Jack all'improvviso. «Potrebbe essere andata alla cava per qualche ragione. Lì c'è sempre fango, e Dio sa quant'è facile tagliarsi le mani sui mucchi di schegge». Rose fissò soprappensiero il vuoto, e cercò di credere all'idea della cava. Sarebbe stato facile accettarla, salvo per la puzza... Il suo naso, istintivamente, si arricciò, quando ricordò l'orrendo sentore di alghe in putrefazione di cui era intrisa la camicia di Sarah. Decise di dimenticarsene. «Be', non vedo proprio che cosa potremmo fare, adesso», disse. «È troppo tardi. E abbiamo altre cose di cui preoccuparci», aggiunse, decisa. Jack sentì la familiare sensazione di nausea che afferrava il suo stomaco, quella sensazione alla quale non riusciva ad abituarsi, e che provava sempre più spesso.
«Non ti sembra che le cose vadano già abbastanza male?», chiese. La sua voce aveva un tremito che sperò sfuggisse all'attenzione di Rose. «Non peggioriamole ancora di più». «E come potrebbero andar peggio di così?», fece Rose, in tono amaro. Parlò a voce bassa, pronta a interrompere la conversazione se avesse udito le bambine scender giù. Ma non aveva intenzione di lasciar perdere. Ricordò la notte precedente (lui che l'aveva respinta, la lunga, pensosa veglia alla finestra), e si chiese quante ancora ce ne sarebbero state, quante notti ancora sarebbe riuscita a sopportare senza esplodere per la rabbia, la frustrazione e l'umiliazione. La notte scorsa era riuscita a controllarsi e a ricacciare dentro la rabbia, costringendosi a dormirci sopra. Ma la rabbia era ancora lì, pronta a essere sfogata su Jack, a essergli servita assieme al caffè e al succo d'arancia. Lui non provò sorpresa. «Non credi che sia ora che tu torni alla tua terapia?», gli chiese lei sommessamente, tentando un altro approccio. «Non voglio tornarci», replicò Jack, acido. «Sull'argomento, o alla terapia?». «Scegli tu», rispose lui. «Fa differenza?». «Dipende», disse Rose, tenendo deliberatamente il veleno lontano dalla voce. «So che la terapia non basta...». «Niente basta», terminò Jack per lei. «Ormai sei fin troppo prevedibile». «E tu no?», replicò seccamente Rose, senza più preoccuparsi di nascondere l'ostilità che provava. «Ascoltami», gli intimò, quando lui cominciò a voltarsi dall'altra parte, come se la sua schiena potesse completamente schermare le parole di lei. «Non va, Jack... Semplicemente non può andare avanti così. Io sono una donna normale, con desideri normali, e merito una normale soddisfazione. Anche se solo Dio può sapere perché mai debba aspettarmi questo, in una casa dove tutto è meno che normale. Forse non possiamo far nulla per Sarah, ma mi sembra che almeno tu dovresti sforzarti in tutti i modi di fare tutto quello che puoi, prima di diventare come lei». «Non è facile...», cominciò Jack, ma Rose non gli diede il tempo di difendersi. «Che cosa può esserci di facile? E facile vivere con un uomo come te? Con una bambina come Sarah? È facile agire come se nulla fosse? Sbrigare gli affari come se niente fosse? Per quanto tempo credi che si possa continuare ancora? Dio soltanto sa se ogni donna che è entrata a far parte di
questa famiglia ne ha avute fin troppe da sbrigare, perché agli occhi di questo maledetto villaggio doveva essere la signora Conger! Ma adesso nemmeno questo basta più. Non soltanto devo essere la signora Conger, no: anche la madre amorosa di una bambina traumatizzata, la moglie amorosa di un marito impotente, e per giunta occuparmi della compravendita di case e terreni». «Ma questo non sei obbligata a farlo», protestò Jack, aggrappandosi a quest'ultima, esile pagliuzza. «Davvero?», ribatté Rose. «Be', lascia che ti dica anche questo: vendere case e terreni è la parte più facile. Ormai è l'unico svago che mi concede la vita, e ci dà abbastanza soldi per consentirci di tenere Sarah alla White Oaks. Quindi non venirmi a dire cosa è facile e cosa non lo è. Per l'amor di Dio, tutto quello che ti chiedo è che tu vada a parlare con qualcuno!». Parlare con qualcuno. Parlare con qualcuno. Le parole echeggiarono nella sua mente, rimbalzando avanti e indietro, all'interno del suo cranio. Sembrava così facile. Semplicemente andare a parlare con qualcuno. Ma di cosa? Di quello che aveva fatto a Sarah? Della ragione per cui l'aveva fatto? Non era neppure sicuro di quello che aveva fatto, e se non era sicuro di quello che aveva fatto, come poteva anche soltanto cominciare a capire perché? E sì che ci aveva provato. Aveva passato mesi col dottor Belter. Lo psichiatra aveva passato ore con lui, ore con Sarah, ore con tutti e due assieme, osservandoli mentre interagivano, cercando di scoprire ciò che era successo da qualche sia pur minimo indizio. L'aveva picchiata, Jack ormai lo sapeva. Ma non riusciva a ricordare di aver cominciato a picchiarla, non riusciva a ricordare i colpi. Riusciva a ricordare soltanto di essere stato nel bosco, e poi di aver portato Sarah fuori dal bosco. E il suo viso. Per qualche ragione riusciva a ricordare il suo minuscolo viso coi grandi occhi che lo fissavano disperatamente, quegli occhi spaventati che non capivano ciò che stava accadendo, che lo imploravano di aiutarla. Se fosse riuscito a ricordare, avrebbe potuto affrontare la cosa. Ma era come se tutto fosse accaduto a qualcun altro, e lui fosse stato soltanto un testimone. Un testimone oculare, niente più. Avevano perfino tentato con l'ipnosi. Ma anch'essa aveva fallito. Il dottor Belter l'aveva avvertito che certe persone, semplicemente, non potevano venir ipnotizzate, ed era risultato che lui era una di quelle. Nel suo profondo, albergava la chiara sensazione che avrebbe potuto essere ipnotizzato, ma non voleva; che la cosa che si trovava dentro di lui era troppo orribile per portarla alla luce; che stava proteggendo se stesso da qualcosa di
troppo brutto per essere affrontato. Aveva costruito in sé un circolo vizioso: la colpevolezza si nutriva del dubbio, e il dubbio cresceva man mano che cresceva la colpevolezza. Alla fine non era più riuscito ad affrontare quelle spaventose ore di silenzio col dottore, in cui sorseggiava caffè e desiderava disperatamente di riuscire a indurre se stesso a parlare, se non dell'incidente con Sarah, almeno dell'impotenza che ne era risultata; e si era arreso. Era venuto a patti con se stesso, e non erano stati patti facili. Sarebbe vissuto con la colpevolezza e con l'impotenza... Sarebbe vissuto con le domande senza risposta su ciò che era veramente successo. Ma non avrebbe dovuto saperlo. Mai. Era giunto a convincersi che quant'era accaduto si sarebbe rivelato la cosa peggiore di tutte. Fissò in silenzio Rose sull'altro lato del tavolo, chiedendosi se non vi fosse qualche modo di comunicarle tutto questo, sforzandosi di pensare a cosa avrebbe potuto dirle... Ma fu salvato dalla necessità di dirle qualcosa. La voce della signora Goodrich giunse, chiaramente udibile, dalla cucina. «Signorina Sarah, vuole smetterla? Mi ha sentito?». Vi fu uno schianto, il fracasso di pentole e padelle che cadevano per terra, seguito dal suono della voce di Sarah che s'innalzava in quel lamento senza parole che da un anno ormai era il suo unico mezzo di comunicare il suo dolore al mondo. «Buon Dio», mormorò Rose, affondando la testa fra le mani. «Per quanto, ancora?». Poi si ricompose e si diresse verso la cucina, chiedendosi che cosa mai fosse successo questa volta. Non vide Elizabeth che entrava in sala da pranzo dall'altra porta. Elizabeth si fermò, mentre sua madre usciva, e attese un attimo, ascoltando il caos che veniva dalla cucina. Quando il rumore si attuti, si rilassò e si diresse al tavolo. Jack, ancora seduto al suo posto, fissò senza espressione la porta che conduceva alla cucina attraverso la dispensa, pallido in volto. Elizabeth protese una mano e lo toccò. «Tutto bene, papà», gli disse. «Adesso è finita». Jack, a quel tocco, sussultò. La sua mente registrò il fatto che fino a quell'istante non si era reso conto della presenza di Elizabeth, e sentì che la paura si stava nuovamente impadronendo di lui. Cercò di dissimularla con un sorriso. «Ehi, principessa», esclamò, lottando per controllare il tremito della voce. «Non ti ho sentita entrare». «Mi chiedo che cosa stesse facendo Sarah», disse Elizabeth, facendosi più vicina a suo padre. «Speriamo che non si sia fatta male».
«Sono sicuro di no», replicò Jack, anche se in realtà era ben lungi dall'esserlo. «Siediti, che ti verso un po' di succo d'arancia». Elizabeth gli sorrise maliziosa. «E se mi sedessi sulle tue ginocchia?». «Le mie ginocchia? Non sei un po' troppo grande per questo genere di cose?». «A volte mi piace sentirmi di nuovo piccola», rispose Elizabeth. «Tu ti senti mai così?». «Tutti si sentono così», dichiarò Jack, allargando le braccia. «Su, salta qui e fatti piccola per un po'». La ragazzina sedette sulle ginocchia, e Jack le passò affettuosamente un braccio intorno alla vita. Poi, all'improvviso, Rose comparve sulla soglia, e li fissò freddamente. «Scusami», disse, la voce gelida, gli occhi accusatori puntati su Jack. «Non intendevo interrompere nulla». «Non...», cominciò a dire Elizabeth, ma non le fu concesso di finire la frase. «Siediti sulla tua sedia, Elizabeth», sbottò sua madre. Obbediente, Elizabeth scivolò giù dalle ginocchia del padre e ritornò sulla sua sedia. Afferrò la caraffa di succo d'arancia e se ne versò un bicchiere. Jack aprì la bocca per fare aspre rimostranze a sua moglie; poi cambiò idea, e disse invece: «Tutto a posto?». «La signora Goodrich ha la situazione sotto controllo, e Sarah sembra essersi calmata, ma la cucina è un disastro. La signora Goodrich pensa che Sarah, per chissà quale motivo, stesse cercando di arrivare alla custodia del coltello da affettare». «La custodia del coltello?», ripeté Jack. Elizabeth cominciò a spalmare il burro su una fetta di pane integrale. «Be', non ne è del tutto sicura», continuò Rose. «Non riesco a immaginare cosa volesse fare col coltello». «No», disse Jack, asciutto. «Non riesco a immaginarlo neppure io». Poi frugò nella mente alla ricerca di un altro argomento, qualcosa che distogliesse l'attenzione di tutti da ciò che era successo. La trovò, si schiarò in viso e chiese a Elizabeth: «Hai poi trovato Cecil?». Elizabeth scosse la testa. «Non so che cosa gli sia successo. Dev'essere scappato da qualche parte. Tornerà. I gatti sono fatti così, dicono. Sul serio, preferirei un cane. Sono molto più affettuosi e attaccati al padrone». «Avevo chiesto alla signora Goodrich di cercarlo, l'altro giorno», disse Rose, mentre il suo piede si spostava verso il pulsante del pavimento che
serviva a chiamare la governante, «ma me n'ero completamente scordata fino a questo momento». Anche Rose era lieta della diversione dallo spiacevole incidente di poco prima, che aveva rannuvolato un mattino sotto ogni altro aspetto splendido, in cui il sole brillava luminoso. La porta si aprì, la massiccia figura della signora Goodrich comparve. «Sì?». «Mi spiace disturbarla, signora Goodrich, so che non è stata una delle mattine migliori per lei, ma mi stavo giusto chiedendo se poi aveva ritrovato Cecil, l'altro giorno». «Ho ben altro da fare che cercare un gatto vagabondo», replicò seccamente la governante. Ma subito si ammorbidi. «No, non l'ho trovato, e ho frugato dappertutto da cima a fondo». Sembrò riflettere un attimo, poi riprese: «E già che mi ricordo... C'è qualcuno, qui, che non è soddisfatto del mio lavoro?». «Non è soddisfatto...», ripeté Rose, sconcertata. «Ma che cosa intende dire?». «Be'», proseguì la signora Goodrich, spostando il suo peso da una gamba all'altra, «qualcuno è andato su nell'attico a far pulizia. Se volevate l'attico perfettamente spolverato, non avevate che da dirmelo. Sono vecchia, ma posso ancora badare perfettamente a questa casa». Rose lanciò un'occhiata a suo marito e a sua figlia. Entrambi scrollarono le spalle, a indicare la loro completa innocenza. «Sono certa di non sapere chi l'abbia pulito», disse allora, facendo del suo meglio per suggerire che, probabilmente, non era stato affatto pulito. «E non ha trovato nessuna traccia di Cecil?». «I gatti non lasciano tracce», replicò in tono reciso la signora Goodrich. Fece dietro-front, poi, di scatto, si scostò. «Scusami», disse, e girò intorno alla piccola figura di Sarah che era venuta avanti con lei, ma tenendosi nascosta dietro la sua forma massiccia durante tutta la conversazione sul gatto. Gli occhi di Sarah erano pieni di lacrime, e tremava tutta. Elizabeth si precipitò accanto alla sorella e la cinse fra le braccia, calmando i suoi singhiozzi. «Va tutto bene, Sarah», le mormorò. «Se Cecil non si farà più vivo, potremo procurarci un altro gatto. O forse perfino un cane», aggiunse, con un sospiro di desiderio. Saran riprese a tremare così violentemente che parve sul punto di urlare. Poi, finalmente, sembrò placarsi e distendere il corpo, pronto a scattare, sotto il sorriso amoroso di Elizabeth. Rose osservò Elizabeth che asciugava gli occhi di Sarah e l'accompa-
gnava al tavolo, e desiderò ancora una volta di essere capace della compassione per Sarah che la sua figlia maggiore chiaramente dimostrava. Ma subito respinse la punta di colpevolezza che le procurava un vivo disagio, e versò dell'altro caffè, prima per sé, poi per Jack. Era il suo modo di dichiarare una tregua, almeno per un po'. 12 Port Arbello si crogiolava nel sole insolitamente caldo di quel pomeriggio d'autunno; il sole non riscaldava soltanto l'aria, ma anche l'atmosfera all'interno della casa all'estremità del Promontorio. Già a mezzogiorno una sensazione di pace aveva avvolto la casa, una pace che tutti i Conger sentivano. La tensione del mattino si era dissipata, e la tregua non dichiarata fra Jack e Rose sembrava sbocciare in un prolungato armistizio. Nel loro intimo si chiedevano quanto sarebbe durato, ma tutti erano decisi a goderselo il più possibile. «Mi piace l'estate di San Martino», dichiarò Rose durante il pranzo. «Organizzeremo qualcosa per oggi pomeriggio?». «Non posso», fece Jack, in tono di scusa. «Ho già promesso a Ray Norton una partita a golf». Rose sentì una frase caustica salirle alle labbra, su chi trascurava di più la famiglia, ma la ricacciò indietro prima che guastasse irreparabilmente il pranzo a tutti i presenti. «In ogni caso, ho del lavoro da fare», aggiunse lei, e non c'era nulla nella sua voce che suggerisse disappunto, ostilità, o qualunque altra cosa che potesse contribuire a guastare la buona armonia che percepiva in quella stanza. Jack, che si era aspettato un qualche scatto, alzò gli occhi, stupito. «Potrei rimandare», si offrì, e Rose capì che la proposta era genuina. «No, vai pure», rispose Rose. Le bastava l'intenzione. Conclusero il pranzo in quel silenzio sereno che spesso esiste fra persone che si amano, ma che per troppo tempo era stato assente dalla loro vita. L'apprezzarono, e non fecero nulla per turbarlo. Jack uscì per la sua partita a golf, le bambine corsero al piano di sopra. Rose si recò nel suo piccolo studio sul davanti della casa e rimescolò un po' di carte intorno a sé. Scoprì che non riusciva a concentrarsi. Uscì dallo studio e vagò lungo il corridoio, fino allo studio sul retro. Vi entrò, e qualcosa attirò il suo sguardo. Fu talmente rapido che non fu certa che fosse accaduto : uno di quegli istanti in cui si è sicuri di aver visto qualcosa, ma
non si ha la minima idea di che cosa. Diede un'occhiata intorno, ma non mancava nulla. Entrò, chiuse la porta, e sedette. Era una stanza gradevole; il sole entrava a fiotti dalla finestra. I raggi si riflettevano su un'antica sputacchiera di ottone trasformata in posacenere con piedestallo. Rose si rese conto che doveva essere stato quell'oggetto ad attirare la sua attenzione, quand'era entrata. Poi alzò gli occhi sul vecchio ritratto sopra la mensola. Doveva senz'altro essere un'antenata. La somiglianza con Elizabeth era troppo incredibile perché quella ragazzina non fosse una Conger. Ma quale? Avevano trovato il dipinto nell'attico più di un anno prima. Ma proprio in quei giorni era iniziato il «turbamento» di Sarah, come a Rose piaceva chiamarlo, e soltanto il mese prima lei si era ricordata di quel ritratto e l'aveva portato giù. Era strano, rifletté per l'ennesima volta, che quel dipinto fosse stato cacciato in un angolo della soffitta, quasi deliberatamente nascosto. I Conger, che in apparenza sembravano aver sempre venerato gli antenati, possedevano nell'attico un'ampia e comoda rastrelliera dove i ritratti degli avi non esposti nei due piani inferiori della casa erano decorosamente conservati. Al momento, praticamente tutti gli antenati si trovavano tranquillamente a dormire nella rastrelliera; soltanto la madre di Jack godeva ancora della luce del sole sopra il caminetto del soggiorno. Ma anche con tutti gli antenati sotto naftalina, restava posto in abbondanza nella rastrelliera per il dipinto della ragazzina. Ma non l'avevano trovata lì. Il suo ritratto era nascosto in un angolo. L'altra cosa strana era che la ragazzina non aveva nome. Le cornici di tutti gli altri ritratti ostentavano targhette sulle quali erano incisi il nome, la data di nascita e di morte dei rispettivi personaggi. Ma quel ritratto, no. Un tempo, come lo provavano i forellini dei chiodi nella parte bassa della cornice, vi era stata anche lì una targhetta, ma era stata rimossa. Rose fissò il ritratto e si chiese che cosa mai avesse bandito quella ragazzina dalla galleria di famiglia. La sua immaginazione galoppò sfrenata, e lei creò, uno dopo l'altro, i più disparati eventi che avrebbero potuto spiegare la caduta dallo stato di grazia. E poi, una cosa la colpì. Non era stato il riflesso della sputacchiera d'ottone ad attirare la sua attenzione. Era stato qualcosa nel ritratto. Lo studiò attentamente, cercando di costringere la mente a ripristinare il collegamento e a dirle che cosa aveva riconosciuto. Il braccialetto. Il braccialetto al polso della ragazza. L'aveva visto, molto di recente... Ma dove? Era un braccialetto d'oro, e vi era incastonata una
pietra. Sembrava un opale, ma le antiche pennellate a olio erano alquanto sbiadite in quel punto. Avrebbe potuto essere qualcos'altro. Si concentrò, cercando di ricordare dove avesse visto quel braccialetto, perché mai le fosse improvvisamente parso così familiare. Ma non vi riuscì. E più fissava il quadro, più si sentiva sicura che non fosse un vero ricordo, ma semplicemente un déjà vu. L'illusione di un ricordo. Sollevò il braccio per aggiustare la posizione del quadro, che sembrava scentrato, e decise di non perdere altro tempo a preoccuparsi di un braccialetto in un ritratto. Aveva del lavoro importante da sbrigare. Tornò nel suo studio, decisa a evitare di guardar fuori dalla finestra fino a quando non fosse penetrata ben addentro nel ritmo del lavoro. La giornata era troppo bella, e sapeva che se avesse guardato fuori subito, o quasi, avrebbe senz'altro trovato una scusa per chiudere le cartelle e uscir fuori al sole. Ma il sole poteva aspettare. S'immerse nella pila di carte che l'aspettavano sulla scrivania. Più tardi, fu consapevole di non essere più sola. Non aveva sentito aprirsi la porta, ma quando si guardò attorno scoprì Sarah appena dentro la soglia, i grandi occhi scuri fissi su sua madre. Rose mise giù la penna. «Sarah», disse, e tese le braccia. Lentamente, quasi con cautela, Sarah si avvicinò a lei. La ragazzina si fermò un attimo prima di essere alla portata delle sue braccia. «Vuole che tu giochi con lei», disse Elizabeth dalla porta. Rose alzò gli occhi. «Non ti avevo vista», fece. «Entra pure». «Adesso no», disse Elizabeth. «Io esco fuori un po'. Sarah vuole che tu giochi con lei». «E che gioco vuole che...». «Qualunque gioco», l'interruppe Elizabeth. «Arrivederci a più tardi». Scomparve, e qualche istante dopo Rose udì la porta d'ingresso che si apriva e si chiudeva. Riportò l'attenzione su Sarah. «A che cosa vuoi giocare?», chiese alla ragazzina silenziosa. Sarah si limitò a restar lì, immobile; poi, dopo qualche istante, arretrò di alcuni passi e si sedette pesantemente al suolo. Rose si accigliò lievemente, poi lasciò la sedia e raggiunse sua figlia sul pavimento. «Per favore, frittelle calde», tentò Rose, battendo le mani sui fianchi, poi una sull'altra, e poi tendendole davanti a sé, in silenzio. Non vi fu nessuna reazione da parte di Sarah, la quale restò seduta, immobile, sul pavimento, il volto disteso, vacuo, gli occhi fissi su sua madre. Rose decise di ritenta-
re, questa volta guidando le mani della figlia nei movimenti del gioco. «Per favore, frittelle fredde», disse. «E adesso proviamo a farlo insieme». Iniziò nuovamente il gioco, e al primo «Per favore» le mani di Sarah batterono sui fianchi. Ma quando Rose riprese la filastrocca, le mani della bambina continuarono a battere sui fianchi, senza passare al movimento successivo, e Rose si trovò a giocare con l'aria. Ma, con decisione, continuò il gioco. Le mani di Sarah battevano ritmicamente contro i suoi fianchi. Alla fine, quando Rose smise di giocare, le mani di Sarah continuarono il loro va e vieni, e il battito proseguì, quasi cavernoso, nel silenzio. Rose fissò l'insensato sbattere per un minuto o due, poi non riuscì a sopportarlo. Agguantò la bambina e sedette sull'ampia poltrona con Sarah in grembo. La bambina non oppose resistenza, ma Rose ebbe la netta sensazione che, se non avesse continuato a sostenere sua figlia, sarebbe scivolata, inerte, al suolo. Prese una rivista da un tavolo accanto alla sedia e cominciò a sfogliarla. Di tanto in tanto la mano di Sarah si protendeva, obbligando Rose a fermarsi. Quando accadde per la terza volta, Rose si rese conto che Sarah bloccava le pagine tutte le volte che compariva l'immagine di un gatto. «Lo so, tesoro», bisbigliò Rose, «se Cecil non torna entro un giorno o due, ti faremo avere un altro gatto». E improvvisamente Sarah se ne andò. Prima che Rose potesse fare qualcosa per fermarla, la ragazza si era divincolata, scivolando giù dal suo grembo, ed era uscita di corsa dalla stanza. Rose sentì i suoi passi che si allontanavano su per le scale, e fece per seguirla. Ma poi si fermò, rendendosi conto che c'era ben poco che potesse fare, poiché non aveva modo di scoprire da Sarah cosa l'avesse spinta a fuggir via. Si fermò per un buon minuto sulla soglia del suo studio, ascoltando attentamente, ma non udì alcun suono provenire da sopra. E soltanto quando il silenzio si prolungò permise a se stessa di rendersi conto che non si era aspettata il silenzio. Si era aspettata un pandemonio, una ripetizione della crisi di quella mattina. Quando questa non si concretizzò, provò sollievo. Lasciò aperta la porta dello studio e ritornò alla scrivania. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, quando ancora una volta provò la sensazione di non esser sola. Si guardò dietro le spalle e lì, di nuovo immobile appena dentro la soglia, c'era Sarah. La bambina sembrò trasalire lievemente quando sua madre le rivolse l'occhiata, e Rose si affrettò a tornare al lavoro. Ma restò attenta ad ascoltare i più piccoli movi-
menti di sua figlia. Sarah si addentrò nello studio e prese ad aggirarsi qua e là, toccando gli oggetti, raccogliendoli per esaminarli, rimettendoli poi dove li aveva trovati. Rose sentì lo scalpiccio dei suoi piccoli piedi per la stanza, sentì i lievi rumori che facevano gli oggetti quando Sarah li rimetteva al loro posto. Poi vi fu silenzio, ma Rose si trattenne dal guardarsi intorno per vedere che cosa stesse facendo sua figlia. Poi sentì qualcosa toccarle le gambe, e si rese conto che Sarah era strisciata sotto la scrivania. Rose sorrise tra sé, ricordando quanto si era divertita da bambina immaginando che la scrivania fosse una caverna. Se sua figlia fosse stata anche soltanto un poco simile a lei, se ne sarebbe rimasta lì felice, per il resto del pomeriggio. Rose riportò tutta l'attenzione al suo lavoro. Man mano che il pomeriggio avanzava, Rose di tanto in tanto si rendeva conto dei movimenti sotto la scrivania, ma fu soltanto quando sentì qualcosa che le veniva stretto alla caviglia che finalmente mise da parte le sue carte. Restò seduta, completamente immobile, chiedendosi cosa mai le stesse facendo Sarah. Aspettò di sentire qualcosa anche all'altra gamba, e la sua attesa non andò delusa. La ragazzina le stava legando i piedi. Rose cominciò a progettare lo spettacolo che avrebbe recitato a beneficio di sua figlia, quando Sarah avesse finito. Anche lei, da bambina, si era dedicata allo stesso scherzo, legando insieme i lacci delle scarpe di suo padre mentre era seduto alla scrivania, ed era stata appagata quando lui si era alzato, aveva clamorosamente incespicato e per un intero minuto aveva saltato scompostamente per la stanza, prima di crollare al suolo in un groviglio impotente. Allora non le era passato per la mente che suo padre non avesse perso per un solo attimo il controllo della situazione; e, in realtà, soltanto in quell'attimo si era resa conto che suo padre aveva inscenato tutta quella commedia per lei, allo stesso modo in cui lei si preparava a inscenarla per Sarah. Poi sentì che Sarah aveva finito. «Be'», disse a voce alta, «ecco fatto. Credo che adesso mi darò una stiracchiatina alle gambe». Immaginò la bambina che sogghignava, fremendo di una risata repressa sotto di lei. Rose si spinse lontana dalla scrivania, e mosse i piedi con cautela per saggiare la lunghezza dello spago che, ne era certa, le impastoiava le caviglie. Sembrava davvero molto lungo, e si chiese come avrebbe fatto a fingere in maniera convincente. Soltanto quando fu del tutto discosta dalla scrivania si rese conto che
non c'era nessuno spago, e che ciò che le cingeva le caviglie era qualcosa di completamente diverso. Abbassò la mano e toccò qualcosa di duro. Quando guardò, sentì il cuore saltarle in gola e provò una sensazione allo stomaco come se si fosse trovata in un ascensore che partiva veloce verso il basso. Era il braccialetto. Se lo sfilò dalla caviglia, dimenticandosi di Sarah per il momento, e lo esaminò con cautela. Sì, era il braccialetto del ritratto: d'oro, con un piccolo opale incastonato. Minuscole scaglie di terriccio vi erano appiccicate, come se fosse rimasto all'aperto per molto tempo. Rose si alzò in piedi, con l'intenzione di portarlo nello studio sul retro per confrontarlo direttamente col ritratto, quando sentì qualcos'altro, qualcosa che le sbatteva contro l'altra caviglia. Guardò giù un'altra volta, e non riconobbe subito l'altro oggetto. Era di un colore pallido, biancastro, con delle brutte macchie, e sembrava possedere una fibbia. Un collare. Un collare antipulci di plastica, per gatti. «Dove diavolo...», mormorò Rose, mentre toglieva il collare dalla caviglia. Si raddrizzò e lo esaminò. Lo sporco che l'imbrattava non era dello stesso tipo di quello del braccialetto. Le macchie sul collare erano brunorossastre. Ci volle un po' perché Rose si rendesse conto che quelle macchie sembravano sangue disseccato. Subito, allora, si affacciò alla porta dello studio. «Signora Goodrich», chiamò. «Venga qui, per favore. Presto». Quando tornò a voltarsi verso la scrivania, vide che Sarah era ancora là sotto, strettamente rannicchiata. Il suo viso scrutava dal buio come un coniglio intrappolato in un buco. Rose guardò la ragazzina senza la più pallida idea di cosa dirle. Quando la signora Goodrich comparve sulla soglia, Rose era ancora lì, immobile. «Spero proprio che le focacce non si brucino», disse l'anziana signora, pulendosi le mani sul grembiule. Poi, quando Rose non si voltò verso di lei, smise di pulirsi le mani e parlò di nuovo. «C'è qualcosa che non va, signora Rose?», domandò. «Non... non lo so», disse con voce malferma. «Guardi questo». Le porse il collare, e la signora Goodrich allungò la mano per prenderlo. «Sembra un collare», disse la governante. «Dello stesso tipo che abbiamo messo a Cecil». I suoi occhi si accorsero delle macchie. «Queste... Che cosa sono?».
«Non ne sono sicura», rispose Rose, sperando che la signora Goodrich le potesse offrire un'alternativa. «Ma è sangue!», esclamò l'anziana donna. «Be', se questa non le supera tutte... Da dove salta fuori, questo collare?». «Sarah», disse Rose, in tono vago. «Sarah me l'ha messo alla caviglia». «È una cosa assai strana da farsi», commentò la signora Goodrich. «Ma dove pensa che l'abbia preso?». «Non ne sono sicura», rispose Rose. «Non ne ho la minima idea». «Be', se l'ha tolto a quel gatto, vorrei che ci dicesse dove si trova il gatto». Annusò l'aria. «Sento l'odore delle mie focacce». Si allontanò in fretta, e Rose ascoltò il rumore dei passi nel corridoio. «Sarah?», disse Rose. Sua figlia accennò a strisciar fuori da sotto la scrivanìa. «Sarah, tesoro, va tutto bene», continuò Rose, senza sapere se andava realmente bene oppure no. «Esci da lì sotto». Protese le mani, e lentamente tirò fuori sua figlia. Poi la portò al piano di sopra. Mise Sarah sul letto e la coprì con una sciarpa di lana. «Fatti un sonnellino», le disse, e si chinò per baciarla sulla fronte. Si comportava con una calma che davvero non sentiva. Udì la macchina di Jack che risaliva il viale, mentre stava ridiscendendo le scale, e lo attese alla porta d'ingresso. «Ciao», la salutò lui, ma il sorriso gli sparì dalle labbra quando vide quanto Rose era pallida. «Cosa c'è che non va?», le chiese. «È successo qualcosa?». «Non lo so», replicò Rose, a voce bassa. «Andiamo nel tuo studio. Sarò da te fra un minuto». Entrò nella sua stanza, prese su il braccialetto e il collare. Poi seguì Jack lungo il corridoio. «Perché non versi qualcosa da bere a tutti e due?», gli disse, chiudendosi la porta alle spalle. Jack la guardò, perplesso. «Mi sembri sconvolta», osservò. «Che cosa è successo?». Gli raccontò quello che era accaduto, e gli mostrò i due oggetti. Jack esaminò brevemente il collare, poi rivolse la sua attenzione al braccialetto. «Questo non mi è nuovo», mormorò. «Giuro di averlo già visto, ma non ricordo dove». «Il ritratto», disse Rose. «Il ritratto?». Poi Jack alzò gli occhi su ciò che lei gli stava indicando, e scoprì il braccialetto al polso della ragazzina. «Buon Dio», ansimò. «Sei sicura che sia lo stesso?».
«Non li ho ancora confrontati da vicino, ma sì, sono sicura», replicò Rose. «E la cosa più strana è che poco fa, prima che Sarah me lo mettesse alla caviglia, ho guardato quel braccialetto nel ritratto. Ero quasi sicura di averlo già visto da qualche altra parte, non nel dipinto». «Sarah l'aveva infilato al polso?», chiese Jack. «Non so. Se è andata in giro con quel braccialetto, non l'ho notato consciamente. Ma suppongo di averlo fatto». Jack si avvicinò al ritratto e sollevò il braccialetto all'altezza di quello dipinto. Era lo stesso. «Ma è il collare che mi preoccupa di più», riprese Rose, inghiottendo una lunga sorsata dal bicchiere. «Il collare?». «Be', dove credi l'abbia preso? E quelle macchie di sangue... Secondo te, da dove provengono?». «Vuoi alludere a Cecil?». L'incredulità risuonò nella voce di Jack. «Che altro potrebbe essere?». «Oh, andiamo, Rose. Sarah adora quel gatto». «Lo so», fece Rose, avvilita. «Ma metti assieme i fatti. Il gatto è scomparso. Sarah, proprio stamattina, stava cercando d'impadronirsi del coltello per affettare. E poi, questo pomeriggio, è rimasta turbata alla vista di fotografie di gatti. E adesso, questo». Gli indicò il collare insanguinato. «Tu pensi che abbia ucciso Cecil». Quelle parole colpirono Rose, che quasi visibilmente si ritrasse. Si rese conto che stava pensando proprio quello, solo che fino a quel momento si era rifiutata di tradurre l'idea in parole. Annuì, in silenzio. «Non ci credo», dichiarò Jack. «Semplicemente, non ci credo». «E allora, dove ha preso il collare? E anche il braccialetto, non dobbiamo dimenticarlo». «Non lo so», disse Jack. «Ma io non credo che abbia ucciso Cecil. Non farebbe mai una cosa del genere». «Come facciamo a sapere che non lo farebbe, Jack? Come facciamo a sapere quello che può o non può fare?». Rose era sull'orlo delle lacrime, e Jack tese una mano per confortarla, ma lei si scostò. «Che cosa credi dovremmo fare?», chiese Jack. «Chiamare la scuola, suppongo», disse Rose. «Parlare al dottor Belter. Vuol essere informato se accade qualcosa d'insolito. E Dio sa se questo non è insolito». «Che cosa gli diremo?», fece Jack, a disagio. «Che Sarah ha trovato un
paio di oggetti, e noi pensiamo che abbia ucciso il gatto?». «Non lo so», rispose Rose. «Io gli dirò semplicemente quello che è successo, poi vedremo che cosa ne pensa». «Quando lo chiamerai?». Nella voce di Jack si era insinuata una sfumatura quasi di sfida. «Subito», disse Rose. Si avvicinò al telefono, fece il numero, e quasi immediatamente ebbe la linea. Il dottor Belter ascoltò la sua storia, e quando Rose ebbe finito, le fece alcune domande. «Come sta Sarah, adesso?», volle sapere. «Sarah? Immagino che stia bene. Non sembra turbata, se è questo che intende. È di sopra e sta dormendo». Il dottor Belter valutò la cosa, poi parlò di nuovo: «Perché non venite tutti e due alla scuola, lunedì? Lei e suo marito? Potremmo parlarne più a fondo. Vi è possibile aspettare fino ad allora?». «Be'... suppongo di sì», rispose Rose, anche se non era sicura che fosse possibile. Il dottor Belter percepì l'inquietudine nella sua voce. «Sa che le dico? Se dovesse accadere qualcos'altro, mi chiami, e io arriverò subito. Altrimenti ci vediamo lunedì». «Va bene», assentì Rose. «Suppongo che vada bene. Grazie, dottore». Riattaccò, e stava per informare Jack di ciò che avevano concordato, quando vide gli occhi di suo marito balzare dai suoi a un punto alle sue spalle, e il suo volto svuotarsi completamente del sangue. A sua volta si girò di scatto, non sapendo che cosa aspettarsi. Era Elizabeth, in uno stato terribile. Il vestito, così lindo e pulito quand'era uscita di casa, era adesso incredibilmente sudicio, coperto di fango, e la melma le imbrattava anche il viso. «Mio Dio», esclamò Rose, «che cosa è successo?». «Mi spiace», balbettò Elizabeth, con voce da bambina disperata. «Ero fuori alla cava. Sono scivolata nel fango». «Che cosa facevi laggiù?», chiese Jack. «Avresti potuto ammazzarti». Elizabeth era sull'orlo delle lacrime. «Ho detto che mi spiace», ripeté. «Sto bene. È... è soltanto fango». «Il vestito», la rimbrottò Rose. «Hai rovinato quel vestito. Toglitelo subito e dallo alla signora Goodrich. Forse lei riuscirà a rimediare». Elizabeth esplose in un pianto dirotto e fuggì fuori della stanza. Rose la seguì con lo sguardo, e dubitò che la signora Goodrich sarebbe stata capace di salvare il vestito. Sembrava irrimediabilmente rovinato. Anche a Rose venne voglia di piangere.
«Oh, merda», esclamò, in tono infelice. «È soltanto un vestito», disse Jack, per calmarla,. «No, non è soltanto un vestito», ribatté Rose. «È tutto». E si sentì travolgere da un'ondata d'impotenza. 13 «E questo è il punto a cui ci troviamo», concluse il dottor Charles Belter, chiudendo il dossier davanti a sé. Si guardò attorno, notando l'aria infelice di Marie Montgomery e l'evidente fastidio di Josephine Wells. Tutti e tre stavano aspettando Jack e Rose Conger, e Josephine Wells aveva suggerito che sarebbe stata una buona idea rivedere tutto il dossier prima del loro arrivo. La mentalità di un burocrate, aveva pensato il dottor Belter, ma aveva acconsentito a farlo. Ora guardò Josephine Wells: «Qualche domanda?». «Mi colpisce il fatto», disse Josie Wells, e il dottor Belter osservò fra sé che le cose invariabilmente «colpivano» Josie Wells, «che in questo caso dev'esserci certamente molto più di quanto sappiamo». Il dottor Belter cercò di mantenersi schietto e aperto il più possibile, e annuì gravemente. «Continua pure», disse, ben sapendo che Josie Wells l'avrebbe comunque fatto. «Mi colpisce», disse di nuovo la signorina Wells, e questa volta il dottor Belter dovette lottare contro l'impulso di esaudirla alla lettera, «l'idea che dovremmo guardare al di là di Sarah come individuo e cercare, piuttosto, di sondare i più importanti fattori socio-psicologici aventi a che fare con l'unità primaria». «Se intendi dire che dovremmo parlare alla famiglia», osservò asciuttamente il dottor Belter, «questa è esattamente la ragione per cui siamo qui. Sempre che vengano». Diede un'occhiata all'orologio e constatò che mancavano ancora cinque minuti all'appuntamento coi Conger. Strinse i denti e tese i muscoli, per meglio sopportare le prevedibili, ulteriori pontificazioni dell'assistente sociale. «Quello che sto cercando di dire», insisté la signorina Wells, battendosi gli incisivi sporgenti con la punta della Pental che portava sempre con sé, apparentemente senz'altro scopo, visto che ben di rado prendeva appunti, «è che abbiamo qui un chiaro caso di regressione». La signorina Wells, la quale pensava che il suo diploma di assistente sociale la qualificasse come psicoioga, sociologa e onnisciente in genere, si appoggiò allo schienale, con un'aria soddisfatta di sé.
«E...?», la sollecitò il dottor Belter. «E perciò mi colpisce il fatto che dovremmo soprattutto scoprire verso che cosa sta regredendo». Il dottor Belter lanciò un'occhiata alla signora Montgomery, ma il volto dell'insegnante era protetto da una maschera di blanda innocenza. Marie Montgomery aveva scoperto molto tempo prima che con Josephine Wells la cosa migliore era starsene seduti tranquilli ad ascoltare. Ogni risposta aveva fin troppe possibilità di far sprofondare la signorina Wells ancora più addentro in quel gergo burocratico che lei scambiava per erudizione. Marie colse l'occhiata del dottor Belter e si chiese perché mai lui accettasse quel confronto con le idee impossibili dell'assistente sociale. «Credo che tu abbia assolutamente ragione», disse il dottor Belter, con aria grave. «Suggerisco che tu faccia immediatamente fare copie dell'intero dossier, e cominci a confrontare i fattori comuni fra l'esperienza prenatale di Sarah e la depressione post-parto futeriundus di sua madre». Il dottore fu compiaciuto quando vide la Pental di Josie Wells che scribacchiava una parola. Si chiese quanti libri avrebbe consultato prima di decidere che non esisteva la parola «futeriundus». Poi lo colpì l'idea che, assai più probabilmente, Josie avrebbe comunque attribuito un significato a quella parola, prendendola come punto di partenza per eseguire le sue istruzioni. Sospirò fra sé e imprecò contro i regolamenti che imponevano un'assistente sociale alla scuola. Quando vide la macchina dei Conger infilare il viale che portava all'edificio, il suo sospiro si fece udibile. Richiamò tutte le difese e inalberò un ampio sorriso nell'istante in cui loro facevano ingresso nel suo studio, cosicché né Jack né Rose si resero conto del minuzioso esame cui erano sottoposti mentre Beiter li salutava cordialmente. Osservò l'ovvia tensione sul volto di Rose, quella tensione che era cresciuta durante tutto l'ultimo anno. Non gli sembrava molto peggiorata da quando l'aveva vista l'ultima volta, ma adesso c'erano altri segni, indizi che le sue riserve nervose andavano esaurendosi. I suoi capelli, di solito perfettamente acconciati, mostravano i primi segni di disordine. Non che fossero scarmigliati, niente affatto; semplicemente non erano perfetti come al solito. E c'era una minuscola macchia sulla giacca del suo abito di foggia maschile, una macchia che la maggior parte della gente non avrebbe mai notato, ma il dottor Belter sapeva che in condizioni normali Rose Conger non l'avrebbe affatto tollerata. Jack, d'altro canto, sembrava del tutto immutato. Ma qualcosa avrebbe ben dovuto trasparire, pensò il dottor Beiter; a meno che Jack non fosse
una specie di mostro. Ma il dottor Belter non pensava che le persone fossero mostri, perciò guardò più attentamente. E trovò quello che stava cercando nelle unghie di Jack: cominciava a rosicchiarsele. Non al punto da farle sembrare chiaramente rosicchiate, ma comunque con qualche irregolarità; come se, accortosi di averle masticate, le aggiustasse poi con una Umetta, ma lasciandole una più lunga, una più corta... «Su, sedete», li invitò calorosamente il dottor Belter. «Noi, qui, abbiamo appena discusso di Sarah. Dal momento che non avete più chiamato, presumo che la giornata di ieri sia trascorsa tranquilla». «Mah», commentò Rose. «Io non sono più sicura di che cosa voglia dire "tranquilla". Se intende dire che non è successo niente... niente fuori dell'ordinario, sì, suppongo si possa dire che tutto è filato tranquillo. Ma temo di doverle dire che io sono convinta che stia peggiorando». «Rose!», esclamò Jack. «Non credo che sia giusto». «No», disse Rose, stancamente. «So che tu non pensi che sia giusto. E potrebbe non esserlo. Ti concedo che non sono una psicoioga, e ti concedo che non ho alcuna pratica del tipo di turbe che affliggono Sarah. Ma sono una madre, e so come mi sento... E mi sento logorata, nauseata, e sento che mia figlia non sta affatto migliorando...». «È piuttosto diverso dal peggiorare», ribatté Jack. «Va bene, forse mi sbaglio. Ce lo dica lei». Rose si appellò al dottore. Poi gli raccontò gli avvenimenti del sabato, senza tralasciare nessun particolare. Il dottor Belter ascoltò attentamente, come l'insegnante e l'assistente sociale. Quando Rose ebbe finito, il dottore si lasciò andare contro lo schienale, chiuse gli occhi e sembrò riflettere su qualcosa. Nessuno nella stanza parlò, e a Jack venne in mente che il dottore somigliava proprio a Babbo Natale. Se avesse saputo di quel pensiero, il dottor Belter ne sarebbe stato compiaciuto. Infine il dottore aprì gli occhi e si rivolse a Marie Montgomery: «Nessuna idea?». Lei scosse la testa. «No, ma francamente non mi sembra che stia peggiorando». Gli occhi di Jack s'illuminarono. «No?», chiese avidamente. «Be'», rispose cauta Marie Montgomery, «a me sembra che il fatto che sia riuscita a concentrarsi il tempo necessario a metterle quel collare alla caviglia indichi che sta migliorando un po'. D'accordo, è stato macabro da parte sua... almeno così sembra a noi, ma per lei potrebbe non essere stato affatto macabro. Avrebbe potuto essere qualcosa di completamente diver-
so». Rose rivide le mani di Sarah sulle pagine della rivista e la sua reazione davanti alle immagini dei gatti. «Forse ha cercato di dirvi qualcosa», concluse l'insegnante. «Per esempio?», chiese Rose. Marie Montgomery scrollò le spalle. «Questa è la parte più difficile. Lei deve ricordare che la mente di Sarah non funziona come la nostra. In realtà, non abbiamo alcun modo di sapere che cosa stesse cercando di comunicarci. Ma qualunque cosa fosse, deve essere stata importante. Normalmente, Sarah non passa mai tanto tempo a fare qualcosa... Soprattutto qualcosa che richieda la destrezza manuale d'infilare uno di quei collari di plastica. La fibbia è piuttosto complicata». Il dottor Belter assentì con un cenno del capo, e parve giungere a una decisione. Si rivolse alle sue colleghe: «Credo che farò meglio a parlare da solo ai Conger, se non vi dispiace». Josephine Wells cominciò a protestare, ma la signora Montgomery era già in piedi. «Naturalmente», rispose sopra la voce dell'assistente sociale. «Se avete bisogno di noi, mandateci a chiamare». Prima che Josie potesse riaprire bocca, Marie Montgomery la trascinò fuori dello studio. Il dottor Belter attese che la porta fosse chiusa, prima di cominciare a parlare. «Voi due state passando un brutto momento a causa di tutto questo, non è vero?», chiese infine. Rose e Jack lo fissarono, ognuno aspettando che l'altro cominciasse a parlare. Il silenzio si prolungò finché Rose non lo spezzò. «Sì», annuì, con voce appena udibile. «É così. E la causa non è soltanto Sarah». La testa del dottor Belter oscillò, in segno affermativo: «Non direttamente, ad ogni modo. Volete dirmi che cosa sta accadendo in casa vostra?». Rose tacque, aspettando che fosse Jack a parlare, ma lui rimase in silenzio, e allora fu lei a cominciare a descrivere i loro problemi. Mentre parlava, divenne conscia di uno strano distacco, come se stesse parlando di altre due persone, non di se stessa e di suo marito. Gli raccontò dei diverbi e delle crudeltà che si erano inflitti a vicenda, e fu sorpresa nel constatare che lo stava facendo con la massima obiettività, presentando le cose sia dal proprio punto di vista che da quello di Jack. Quand'ebbe finito, il dottor Belter si rivolse a Jack. «Vuole aggiungere qualcosa?».
«No», disse Jack. Sorrise a sua moglie. «Devo concedertelo: io non avrei potuto essere più equanime». «Signora Conger», riprese il dottor Belter, «le è mai passato per la mente che forse anche lei dovrebbe sottoporsi a terapia?». «Cosa intende dire?», chiese Rose, sulla difensiva. Il dottor Belter sorrise, senza scomporsi. «Be', guardiamo in faccia le cose. Parlando in generale, io considero i disturbi emotivi una malattia contagiosa. Se una persona in famiglia ha problemi, di solito anche gli altri ne hanno, se non altro perché non è facile vivere con qualcuno malato di mente. È molto comune che qualcuno, che inizialmente non ha problemi particolarmente gravi, finisca per svilupparli a causa dell'ulteriore pressione che gli deriva dal vivere con una persona afflitta da turbe mentali, come Sarah». «E lei pensa che io stia sviluppando in me questi gravi problemi?». «Provi a riflettere», disse il dottor Belter, rilanciandole la domanda. Il suo primo impulso fu di negare, ma Rose si rese conto di non poterlo fare... No, se voleva essere onesta. Ricordò i momenti di panico che l'afferravano, gli improvvisi accessi di rabbia, le nausee allo stomaco, il modo in cui aveva cominciato a reagire rabbiosamente. Le balzò alla mente l'immagine di Elizabeth che fuggiva in lacrime dallo studio, semplicemente perché lei l'aveva sgridata per essersi sporcata di fango il vestito. «Sta suggerendo che anch'io potrei aver bisogno di un po' di terapia?», chiese, mantenendosi guardinga. «Sto suggerendo che un po' di terapia farebbe bene a entrambi. Non mi pare che affrontiate bene i vostri problemi, né l'uno né l'altra, il che del resto è comprensibile, data la situazione. Quello che sto suggerendo è che un po' di aiuto farebbe bene a entrambi». «Forse sarebbe meglio buttarci dentro anche Elizabeth, e praticarci uno sconto per famiglie numerose», replicò Jack. Il dottor Belter ridacchiò, ma subito il suo volto tornò a farsi serio. «Che cosa non va con Elizabeth?», chiese. «È... da non crederci», disse Rose. «Salvo quando sabato si è sporcata il vestito e l'ho sgridata, è sempre stata un angelo. E paziente con Sarah, si prende cura di sé. Spesso mi chiedo cosa farei senza di lei». «Dev'essere una bambina eccezionale», disse, in tono meditativo, il dottor Belter. «Di solito, una ragazzina della sua età, con una sorella poco più giovane come Sarah, mostrerebbe quanto meno un'ostilità intermittente
verso il bambino malato. Ciò, naturalmente, è dovuto all'attenzione supplementare che ricevono i malati, ed è perfettamente naturale». «Be'», replicò Rose, «con Elizabeth non succede niente di simile». Jack sogghignò. «Immagino che Elizabeth sia l'unica di noi immune alla maledizione di famiglia». Scoppiò a ridere, ma s'interruppe quando si avvide che il dottore non si era unito a lui. «Ah, sì», disse il dottor Belter, appoggiandosi nuovamente allo schienale e tornando a chiudere gli occhi. «La maledizione della famiglia Conger». «Ne ha sentito parlare?», chiese Jack. «Chi non ne ha sentito parlare, a Port Arbello? In effetti, è assai probabile che io ne sappia più di voi, sulla maledizione della vostra famiglia». «Oh?», fece Jack, guardingo. «Come mai?». Il dottor Belter gli sorrise. «Ho l'abitudine di scoprire tutto quello che posso, sui miei pazienti e sulle loro famiglie. Perciò, non appena vi ho incontrati, ho cominciato a ficcanasare». «E che cosa ha scoperto?», chiese Rose. «Un certo reverendo Caspar Winecliff», disse il dottor Belter, assaporando quel nome. «Intende il vecchio pastore metodista?», disse Jack, inarcando le sopracciglia. «Un uomo che conosciamo appena». «Ah, ma lui conosce voi», ribatté il dottore, godendosi l'espressione perplessa sui volti dei Conger. Poi lasciò perdere quell'aria di mistero. «In effetti, Caspar Winecliff ha un'autentica passione per le leggende e il folclore locale, soprattutto in riferimento alle maledizioni della Nuova Inghilterra e simili cose. La mia opinione è che quest'argomento gli piaccia perché pensa che sia malvagio e vada contro le sue solide basi metodiste. E sono convinto che creda a ogni parola di tutte le leggende che siano mai giunte alle sue orecchie, anche se naturalmente le nega. E si dà il caso che la leggenda dei Conger sia la sua preferita». «Lei sta scherzando», replicò Jack. «Sapevo che la leggenda non era un gran segreto, ma non immaginavo che qualcuno ne fosse interessato a tal punto». «Neppure io, fino al giorno in cui non mi sono recato alla biblioteca a fare qualche domanda. Speravo di trovare vecchi documenti o qualcosa di simile, dove la leggenda fosse messa per iscritto. Non c'era nulla, ma il bibliotecario m'indirizzò da Caspar Winecliff. Quanto sapete, voi, della vostra leggenda?». Jack raccontò quello che sapeva, e quand'ebbe finito il dottore annuì. «È
proprio così, salvo per la storia riguardante la bambina». Jack e Rose si guardarono, e al dottor Belter parve di cogliere un lampo di allarme nei loro occhi. «Una bambina?», chiese Jack, in tono apprensivo. Per qualche ragione gli balenò nella mente l'immagine del ritratto nel suo studio. «Ha a che fare con quel vostro parente che si buttò giù dal dirupo», riprese il dottore, fissando Jack con sguardo interrogativo. «So di lui», rispose Jack, «ma non sono certo di sapere come si chiamasse». «Si chiamava John Conger», disse, serio, il dottor Belter. «Le stesse sue iniziali». Jack sentì un brivido corrergli per la schiena. «Che cosa può dirmi di lui?». «Be'», rispose il dottor Belter, «la storia dice che la ragione per cui si gettò era che aveva appena violentato e ucciso una bambina, sua figlia». Il sangue si prosciugò sul volto di Jack, ed egli fissò, gelido, il dottore. «Che cosa sta cercando di dire?». Il dottore gli sorrise con fare rassicurante. «Non sto cercando di dir nulla. Le sto semplicemente raccontando la storia. Che, naturalmente, potrebbe essere del tutto apocrifa. Caspar Winecliff mi ha detto che non hanno mai trovato un cadavere, e sembra, in più, che non vi sia nessun documento che attesti che John Conger avesse una figlia». Rose vide il ritratto con l'occhio della mente, la targhetta del nome asportata dall'orlo inferiore della cornice. «Il reverendo Winecliff non aveva idea di quanti anni avesse la bambina, e quale fosse il suo aspetto?». Ed ebbe quasi paura di ascoltare la risposta. Il dottor Belter scosse la testa. «Niente sul suo aspetto, ma si suppone che avesse dieci o undici anni». «Circa la stessa età di Sarah?», chiese Jack, con un crescente nervosismo nella voce. «Sì», annuì il dottor Belter, incontrando il suo sguardo turbato, «all'incirca la stessa età di Sarah». «Dottor Belter», disse Rose, «dove vuole arrivare? Sembra che lei creda tutto ciò che dice questa sciocca leggenda». Il dottor Belter rifletté attentamente prima di rispondere, e quando parlò scelse accuratamente le parole. «La questione non è se io credo o no alla leggenda. La questione è se suo marito ci crede o no. Ci crede, signor Conger?».
Jack fece per rispondere, ma il dottore lo fermò. «Non si affretti a rispondere, la prego. Ci pensi... Cerchi di pensarci su due livelli. Sono sicuro che la sua mente cosciente non crede che possa esistere una maledizione sulla sua famiglia. Di questi giorni, in questa nostra epoca, tendiamo a pensare che queste cose siano sciocchezze. Ma c'è anche la sua mente subconscia. Spesso scopriamo che le cose che la nostra mente cosciente si rifiuta di prendere sul serio sono giudicate con assoluta serietà dal nostro subconscio. Essenzialmente è di questo che sono fatti i sogni, e a volte le neurosi e le psicosi. Si potrebbe dire che le malattie mentali nascono quando la nostra mente conscia e la mente inconscia cercano l'una di svolgere il lavoro dell'altra. Perciò ci pensi, prima di rispondere alla mia domanda». Jack ci pensò, e fu stupito dalla risposta alla quale arrivò. Sorrise, impacciato, al dottore. «D'accordo», disse. «Credo proprio di dover ammettere che credo nella leggenda, compresa la maledizione. Suppongo che per noi Conger sia una sorta di religione. Siamo cresciuti con questa idea, e pur sapendo che è una sciocchezza, è sempre lì in agguato, appena sotto la superficie». Il dottor Belter annuì. «Ma ha detto di non aver mai udito parlare di una bambina, prima d'ora». Jack scosse la testa. «No. Ne sono sicuro. Me ne sarei ricordato, altrimenti. Perché?». «Non è ovvio? Se la storia della bambina è vera, esistono parallelismi molto stretti fra quello che le accadde, e quello che è successo a lei e a Sarah. Salvo che lei non ha violentato Sarah e nessuno è morto. Ma, altrimenti, è la stessa cosa». «La storia che si ripete?». Era la voce di Rose, e i due uomini si voltarono verso di lei. «Non ci credo». «Non è esattamente quello che intendevo», disse il dottor Belter. «Anche se l'effetto sarebbe lo stesso. Qualcuno di voi sa qualcosa del voodoo?». «Sono un sacco di baggianate», rispose Jack, troppo in fretta. «Non proprio», replicò il dottor Belter. «È basato sul potere di suggestione. Essenzialmente si riduce a questo: se qualcuno crede con forza sufficiente che qualcosa accadrà, con ogni probabilità accadrà davvero. Per esempio, secondo la tradizione voodoo è possibile causare dolore a una persona piantando spilli nella sua effigie. Ma il punto è che la persona deve sapere che vengono piantati spilli nella bambola con le sue fattezze. Quando la persona sa che gli spilli vengono piantati, la sua mente crea il
dolore. Capisce?». Jack rimuginò la cosa. «In altre parole, lei pensa che io possa essere vittima della leggenda semplicemente perché ci credo?». «Esatto», annuì il dottore. «Detto nel modo più semplice, ma essenzialmente si tratta di questo». Rose ebbe un sorriso forzato. «Salvo che noi non sapevamo nulla della parte più importante della leggenda. La bambina. Ha detto lei stesso che non si hanno prove che sia esistita». «Ma è esistita, Rose», replicò Jack, con calma. «Non vuoi dire al dottor Belter a chi assomiglia?». Il dottor Belter si voltò interrogativamente verso Jack. «Abbiamo trovato un quadro in soffitta», gli spiegò Jack, e proseguì descrivendogli il ritratto. «Ma come potete essere sicuri che sia proprio quella bambina? O anche soltanto che sia una bambina dei Conger?». «Perché», la voce di Jack era adesso diventata un bisbiglio, «la bambina del quadro è il ritratto vivente di Elizabeth». «Capisco», disse il dottor Belter dopo un lungo silenzio. «Signor Conger, è sicuro di non aver mai visto quel ritratto fino ad ora, o di non averne mai sentito parlare?». «No, fino a un anno fa», rispose Jack, in tono reciso. «Assolutamente non ricordo». «Non dico che non sia così», disse il dottore, meditabondo, «ma non sempre ricordiamo tutto ciò che vorremmo ricordare, non è vero? Penso che forse sarebbe una buona idea cercare di scoprire esattamente ciò che lei ricorda». Jack sembrò sul punto di obiettare, ma vide l'espressione che era comparsa sul volto di Rose, un'espressione dalla quale capì che avrebbe fatto meglio ad acconsentire. Allora cedette, sconfitto. «E va bene», disse. «Quando dobbiamo cominciare?». Il dottor Belter consultò la propria agenda. «Che ne direste fra due settimane da domani, all'una del pomeriggio? Tutti e due». Prima che Jack potesse protestare, Rose esclamò: «Verremo». La seduta col dottor Belter era finita. Nessuno dei due Conger provava il minimo sollievo. Erano più spaventati che mai. 14
A quindici miglia dalla White Oaks, mentre Jack e Rose Conger stavano discutendo col dottor Belter, il campanello squillò nei corridoi della Memorial School di Port Arbello, indicando la fine delle lezioni, e i bambini cominciarono a precipitarsi fuori in massa dalle aule. Elizabeth Conger scorse il volto di Kathy Burton tra la folla e si affrettò verso di lei. Un sorriso bramoso illuminò il volto di Kathy. «È oggi il giorno?», chiese. «Quale giorno?». Il viso di Elizabeth era senza espressione. «È il giorno in cui mi condurrai al posto segreto?». Elizabeth la fissò stranamente; gli occhi di Kathy si spalancarono, e lei si sentì attraversare da un brivido di eccitazione. Ma subito si afflosciò per il disappunto. «Non posso», gemette. «Devo andare subito dai Norton a fare la babysitter». «Non c'è problema», disse Elizabeth. I suoi occhi all'improvviso sembrarono sprofondare in quelli di Kathy. «Il posto segreto si trova soltanto un po' più in là della loro casa, e non ci vorrà molto». «Non so», replicò Kathy, dubbiosa. «Avevo detto alla signora Norton che sarei andata subito dopo scuola». Le due ragazze lasciarono l'edificio scolastico e s'incamminarono verso la Strada del Promontorio dei Conger. Quando si trovarono la cittadina alle spalle, Elizabeth cominciò a parlare a bassa voce del luogo segreto e dei meravigliosi momenti che vi aveva passato. Mentre parlava, Kathy Burton cominciò a desiderare di non aver promesso alla signora Norton la sua opera di baby-sitter quel pomeriggio. «Perché non ci andiamo domani?», chiese. Elizabeth scosse la testa. «No, dev'essere oggi». «Be', non vedo perché non possiamo aspettare», ribatté Kathy, imbronciata. «Non si può, e basta», dichiarò Elizabeth. «Ma se non vuoi venire...». Lasciò la frase in sospeso. «Ma io voglio venire!», insisté Kathy. «È soltanto che ho promesso alla signora Norton di andare subito da lei». Attese una risposta dall'amica, ma quando non ne arrivò nessuna, guardò l'orologio. «Forse, se facciamo in fretta», disse. «Potrei anche arrivare con qualche minuto di ritardo...». Elizabeth affrettò il passo, sorridendole: «Andrà tutto bene», replicò.
«Vedrai, il posto segreto ti piacerà». Quando superarono l'imboccatura del vialetto dei Norton, Kathy provò una punta di colpevolezza, e si chiese se la signora Norton non stesse aspettando il suo arrivo. Non vide nessuno, non udì nessuno che la chiamava, ed ebbe un sospiro di sollievo. Quando furono fuori vista della casa dei Norton, chiese: «Quanto dista, ancora?». «Non molto. Subito dopo la vecchia casa dei Barnes. Hai visto la gente che l'ha comprata?». «C'è anche un ragazzo», disse Kathy. «E bello. Come si chiama?». «Jeff Stevens. Ha quattordici anni. Sua madre è una pittrice». «Sa del posto segreto?», chiese Kathy. Elizabeth scosse la testa. «Non credo che glielo dirò. Lo terremo soltanto per noi». Passarono davanti alla vecchia casa dei Barnes e la guardarono, incuriosite. Avevano sentito dire che veniva ristrutturata, ma da fuori sembrava quella di sempre. «E davvero brutta», disse Kathy. «I Barnes erano pazzi», commentò Elizabeth. «All'interno è ancora più strana». «Sei stata dentro?», chiese Kathy. «Sì, tempo fa». Ora stavano per entrare nel bosco, ed Elizabeth prese Kathy per il braccio. «Passeremo di là», disse. Kathy fissò nervosamente il bosco. «Non so», fece. «Non dovrei entrare là dentro. Pensano che sia lì che è accaduto qualcosa ad Anne Forager». «Non è successo niente ad Anne Forager», la schernì Elizabeth. «Sai che razza di bugiarda è». Kathy rimuginò fra sé la cosa. Era vero, Anna Forager era una piccola bugiarda, e lei voleva vedere il posto segreto, eppure... Alla fine si decise. «Va bene», disse. «Ma guidami tu. Io non conosco la strada, là dentro». Lasciarono la strada principale e si tuffarono nel bosco. Seguirono un cammino che le portò proprio nel folto, e di tanto in tanto scorgevano attraverso gli alberi il mare su un lato, e il prato sull'altro. Non c'era nessun sentiero, ma Elizabeth non sembrava avere nessun problema per aprirsi la strada attraverso il sottobosco. Kathy di tanto in tanto incespicava, e doveva chiamare Elizabeth perché l'aspettasse. Era ben decisa a non restare indietro. Poi Elizabeth girò a sinistra, e dopo un paio di minuti si trovarono
sulla scogliera, in alto sulla risacca. «Non è bello?», le bisbigliò Elizabeth. «È questo il posto?», chiese Kathy, guardandosi attorno. Non era quello che si era aspettato. «No», rispose Elizabeth. «È da quella parte». Condusse Kathy lungo la scogliera, e ad un certo punto (Kathy non riuscì a vedervi nessuna differenza dagli altri punti) Elizabeth cominciò a scendere lungo la superficie accidentata. Kathy, dietro di lei, si fermò. «Sembra tremendamente pericoloso», osservò. Elizabeth si girò, e alzò gli occhi a fissarla, e a Kathy parve di vedere qualcosa negli occhi di Elizabeth, qualcosa che la rese inquieta. «Non sono sicura di doverlo fare», disse, nervosamente. «A quest'ora dovrei essere dai Norton». «Sei una pusillanime», esclamò Elizabeth, in tono spregiativo. «Guarda, è facile». Saltò da una roccia all'altra, e Kathy dovette ammettere fra sé che sembrava facile. Inoltre non era una pusillanime, e non avrebbe permesso che Elizabeth pensasse che lo era. Cominciò a sua volta a farsi strada giù lungo la scogliera, cercando di seguire la pista che Elizabeth aveva preso. Non era facile. Kathy si disse che trovava tutto più difficile perché era la prima volta che ci veniva. La prossima volta, giurò a se stessa, avrebbe ricordato la strada e sarebbe stata in grado di procedere rapidamente almeno quanto Elizabeth. Alzò lo sguardo e vide, in quel momento, Elizabeth scomparire dietro un immenso macigno. Deve essere lì, si disse. Quando a sua volta raggiunse il macigno, Elizabeth la stava aspettando. Kathy si rannicchiò nell'ombra fitta che avvolgeva il breve spazio fra il macigno e la parete della scogliera. «E questo?», bisbigliò, e si chiese come mai, all'improvviso, stesse parlando con un filo di voce. «Quasi», le rispose Elizabeth, anch'essa con un bisbiglio. «Guarda». E le indicò un punto in profondità, nel cuore dell'oscurità, e Kathy si rese conto all'improvviso che non si trattava di un'ombra più densa delle altre, ma dell'imboccatura di un cunicolo nella scogliera. «Non andremo mica là dentro?», bisbigliò. «Ma certo», le rispose bisbigliando Elizabeth. «Hai paura?». «No», mentì Kathy, e si chiese fino a che punto avrebbe perso la faccia se ora fosse tornata indietro. «Ma è spaventosamente buio, là dentro, non è vero?». «Ho modo di far luce», disse Elizabeth. Infilò la mano dentro al buco e
tirò fuori la torcia elettrica dalla nicchia dietro la roccia, subito all'interno dell'imboccatura. L'accese con un clic e puntò il raggio dentro la cavità. «È una galleria», constatò Kathy. «Dove porta?». «Al posto segreto», disse Elizabeth. «Vieni». Strisciò dentro il cunicolo, e Kathy vide che c'era abbastanza posto perché Elizabeth avanzasse senza sbattere la testa contro il soffitto della caverna. Inghiottendo la sua paura, seguì Elizabeth. In mezzo minuto si trovarono nella cavità più ampia, al centro della quale si apriva il pozzo. Elizabeth attese che Kathy emergesse dalla galleria, e la sentì dire: «Bello». «Non siamo ancora arrivate», disse Elizabeth. «Il posto segreto è lì sotto». Diresse il raggio di luce giù nel pozzo, e sentì Kathy respirare profondamente. «Dove porta?», alitò Kathy. «Giù nel luogo segreto. Ho una scala, vedi?». Elizabeth diresse il raggio della torcia sulla scala di corda, che penzolava ancora nel pozzo, saldamente ancorata al pavimento roccioso della caverna. «Non mi sono mai calata giù con una di queste», dichiarò Kathy, nella speranza che la mancanza d'esperienza potesse esimerla da quell'ultima traversia. «È facile», insisté Elizabeth. «Guarda, scendo io per prima, e quando sarò giù, terrò alta la torcia per farti luce. Il fondo non è tanto lontano, e tu non cadrai. Ma anche se dovessi scivolare, non cadrai tanto da farti male. A me è capitato un sacco di volte, e non c'era nessuno che mi tenesse la luce». «Ma come hai fatto a trovare questo posto?», insisté Kathy, volendo ritardare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto vincere la paura e calarsi giù. «Non so. Credo di aver saputo da sempre, o quasi, che esisteva. La mia amica me l'ha detto». «La tua amica?». «Lascia perdere», disse Elizabeth, con un sussurro misterioso. «Vieni». Reggendo la torcia accesa, cominciò a scendere la scala di corda, e in pochi secondi raggiunse il fondo del pozzo. Sollevò il raggio luminoso e vide il volto spaventato di Kathy che la fissava. «Non riesco a vederti», sibilò Kathy. «È perché sono dietro la luce», sibilò a sua volta Elizabeth. «Scendi giù».
Kathy rifletté sulla situazione. Aveva una gran paura del pozzo, e ancor più di calarsi dentro su quella scala traballante, ma non voleva che Elizabeth sapesse quanta paura aveva. Si girò a guardare verso l'ingresso della galleria, e l'oscurità che regnava in quel budello scavato fra le rocce la fece decidere. Non avrebbe cercato di risalire la galleria, avvolta da una totale oscurità. Si sporse oltre l'orlo del pozzo finché i suoi piedi non trovarono i primi pioli della scala. La discesa si rivelò molto più facile di quanto avesse pensato. «Ho delle candele», bisbigliò Elizabeth, tenendo la torcia puntata contro il viso di Kathy. All'intenso bagliore, Kathy distinse appena la vampa del fiammifero quando Elizabeth lo strofinò. Elizabeth avvicinò il fiammifero alle candele, poi spense la torcia. Per un attimo, Kathy non riuscì a vedere più nulla, salvo i due punti di luce, e il volto di Elizabeth che si profilava al loro barlume. «È un luogo sinistro», disse, quasi balbettando. «Non sono sicura che sia giusto trovarci qua sotto». I suoi occhi cominciarono ad adattarsi alla fitta penombra, e lei si guardò attorno. Non sembrava ci fosse molto da vedere, soltanto una cavità grande e irregolare con alcuni macigni sparsi all'intorno. Nel mezzo, alcuni dei macigni erano stati sistemati in cerchio, come fossero un tavolo e degli sgabelli. Poi Kathy vide qualcosa alle spalle di Elizabeth. «Che cos'è quello?», domandò. Elizabeth si fece da parte, e gli occhi di Kathy riconobbero lentamente lo scheletro, disteso in ordine perfetto lungo la parete. Il suo urlo fu troncato da un violento schiaffo. «Devi stare zitta, qui sotto», bisbigliò Elizabeth, e la sua voce sembrò a Kathy echeggiare attraverso la caverna più rumorosa del suo urlo. Avrebbe urlato di nuovo, ma l'acuto dolore provocato dallo schiaffo la convinse a restarsene silenziosa. «Faremo una festa», bisbigliò Elizabeth. «Soltanto tu, io, e il mio bambino». «Bambino?», ripeté Kathy, ancora intontita. «Quale bambino?». Non si rendeva ben conto di cosa stesse parlando Elizabeth, e la sua mente, allarmata e confusa, non riusciva ancora a ragionare. Poi le venne fatto di pensare che Elizabeth doveva riferirsi a una bambola. «Siediti», le ordinò Elizabeth. «Ora porterò il bambino». Lentamente, Kathy si accovacciò su una delle rocce che fungevano da sgabello e osservò affascinata Elizabeth che tirava fuori un sacco e lo piazzava sopra il macigno che fungeva da tavolo.
«E rotta», disse Kathy, quando Elizabeth tirò fuori un fagotto di vestiti da bambola dal sacco e lo mise sul tavolo. «Non c'è la testa». «Eccola qui», mormorò Elizabeth. «Eccola». La tirò fuori dal sacco col berrettino infilato, e l'appoggiò sul tavolo. La piccola testa rotolò, e nella caverna echeggiò un altro urlo quando Kathy riconobbe i lineamenti distorti del muso del gatto, gli occhi aperti e schiacciati. Il moncone del collo reciso cominciava a putrefarsi. Kathy lottò per controllarsi, ma fu sul punto di vomitare. «Non voglio restare qui», disse, la voce che le tremava sull'orlo di un attacco isterico. «Andiamo a casa». «Ma dobbiamo fare una festa», ribatté Elizabeth. La sua voce aveva una dolcezza mielata che spaventò ancora di più Kathy. «E per questo che siamo venute qui». Cercò di tenere dritto il corpo del gatto contro una roccia, e Kathy l'osservò piena di orrore mentre si sforzava in qualche modo di mettere in equilibrio la testa in cima al corpo decapitato. «Smettila!», urlò. «Non farlo!». Sentì il dolore di un altro schiaffo, e questa volta reagì. Alzò fulmineamente la mano, ma non riuscì neppure a sfiorare Elizabeth, perché lei le si precipitò addosso. Kathy sentì l'intero peso di Elizabeth travolgerla; cercò di aggrapparsi a qualcosa, ma non trovò nulla. Finì per cadere lunga distesa sul pavimento della caverna; le unghie di Elizabeth le si conficcarono in viso; urlò di nuovo. «Non fare così, qua sotto», ringhiò Elizabeth. Ogni dolcezza era scomparsa dalla sua voce, e il suo respiro era diventato un rapido, affannoso rantolare. «Quaggiù devi stare quieta. Alla mia amica non piace il rumore». Schiacciata dal suo peso, Kathy gemette e cercò di dominare il terrore. Doveva farlo, lo sapeva, altrimenti le botte sarebbero continuate. Costrinse il suo corpo a rilassarsi. «Fammi alzare», bisbigliò disperatamente. «Per favore, Elizabeth, fammi alzare». Le percosse allora cessarono, e Kathy sentì diminuire la pressione, quando Elizabeth la lasciò andare. Giacque in silenzio, gli occhi serrati, in attesa di ciò che sarebbe successo. «Siediti là», udì sibilare Elizabeth. «Siediti là e io ti verserò un po' di tè». Kathy aprì lentamente gli occhi e si guardò attorno. Elizabeth era seduta su una roccia, accanto all'estremità penzolante della scala di corda; ciò fece svanire le sue speranze. Aveva sperato di riuscire ad arrampicarsi fuori del
pozzo prima che Elizabeth potesse fermarla. Ma adesso vide chiaramente che non vi sarebbe mai riuscita. Si rizzò, tremando, in piedi, e sedette sul macigno di fronte a Elizabeth. In mezzo a loro, il macabro cadavere del gatto stava dritto, appoggiato a una terza roccia, le fauci contorte in un sogghigno repellente. Kathy cercò di non guardarlo. «Non trovi che è bello, qui?», chiese Elizabeth. Kathy annuì in silenzio. «Rispondimi!», sbottò Elizabeth. «Sì», bisbigliò Kathy, timorosa di alzare la voce. «Come?», fece Elizabeth, e per un attimo Kathy temette che la colpisse di nuovo. «Sì», ripeté, questa volta a voce più alta. «Sì che cosa?», insisté, implacabile, Elizabeth. «Sì», disse Kathy, come strappandosi ogni parola di bocca, «È molto bello». Elizabeth sembrò rilassarsi e le sorrise. «Tè?», le chiese. Kathy la fissò. «Rispondimi!», le ordinò Elizabeth. «Vuoi un po' di tè?». «S-sì...», fece Kathy. «Un po' di tè...». Elizabeth cominciò a miniare l'atto di versare il tè e di passare la tazza a Kathy. Kathy esitò una frazione di secondo, ma subito finse di accettare la tazza invisibile che Elizabeth le stava porgendo. C'era un'espressione strana, folle, negli occhi di Elizabeth, e Kathy sentì il panico crescere sempre più in lei. Avrebbe voluto precipitarsi verso la scala di corda, ma sapeva che non c'era modo di arrivarci prima che Elizabeth la bloccasse. «Credo che adesso dovremmo andare«, disse lentamente Kathy. «Credo proprio che dovremmo. La signora Norton mi starà cercando». «Vada a farsi fottere, la signora Norton», replicò, a bassa voce, Elizabeth. Gli occhi di Kathy si spalancarono a quelle parole, e la sua paura crebbe ancora di più. «Per favore, Elizabeth», disse, con voce spaventata, «non possiamo andare, adesso? Non mi piace qua sotto». «Non ti piace?», fece Elizabeth, contemplando la caverna debolmente illuminata. Le fiamme delle candele tremolarono, le ombre danzarono maligne sulle pareti. «È il mio posto segreto», proseguì, «e adesso è anche il tuo. Soltanto noi conosciamo questo posto». Fino a quando non sarò ritornata a casa, disse tra sé Kathy. Lottò per
mantenersi calma e fissò Elizabeth con attenzione. Elizabeth era tutta presa dalla sua pantomima, stava versando il tè al corpo esanime che era stato il suo gatto, fingendo, nel contempo, di servire pasticcini tutt'intorno. Il suo sguardo cadde nuovamente su Kathy. «Parlami», le ingiunse. «Parlarti?», ripeté Kathy. «Di che?». «Loro non mi parlano, sai. Nessuno di loro mi parla. Parlano soltanto a Sarah, anche se lei non può rispondere. Perciò io vengo qui, e i miei amici mi parlano». Stava fissando Kathy negli occhi, con uno sguardo gelido. «Qui tutti i miei amici mi parlano», ripeté. Kathy si umettò le labbra. «Mi... mi piace il tuo posto segreto», disse con cautela, sperando di aver scelto le parole giuste. «Sono felice che tu mi abbia portata qui. Ma, per favore, sono terribilmente in ritardo per il mio lavoro. Se avrò dei guai a causa del ritardo, non potrò più tornare qui con te». «Tornerai», disse Elizabeth con un sorriso, e Kathy, fissandola, si sentì ancora più a disagio. «Imparerai ad amare questo posto. Imparerai ad amarlo quanto me». «S...sì», balbettò Kathy. «Suppongo di sì. Ma adesso devo andare», implorò. Elizabeth sembrò riflettere sulla cosa, poi annuì. «Va bene», disse infine. «Aiutami a sgomberare la tavola». Si alzò in piedi e cominciò a fare gesti, come se stesse ammucchiando piatti e tazzine immaginari. Kathy l'osservò in silenzio, ma a uno sguardo furioso di Elizabeth si affrettò ad alzarsi e cercò di convincerla, a gesti, che la stava aiutando. Cercò anche di avvicinarsi all'imboccatura del pozzo, ma Elizabeth riuscì sempre a tenersi fra lei e la scala. «Spegni le candele», le ordinò Elizabeth. Era ai piedi della scala di corda, con la torcia in mano. «Accendi la torcia», ribatté Kathy. Elizabeth l'accese. «La terrai accesa, mentre mi arrampico su per la scala?». Elizabeth annuì. Kathy si mosse verso la scala. «Le candele», bisbigliò Elizabeth. «Ti ho detto di spegnerle». Kathy, obbediente, tornò verso la lastra di pietra. Soffiò su una delle candele, spegnendola, poi si curvò sopra l'altra. Un attimo prima di soffiare sulla fiammella, guardò sopra la luce tremolante e vide Elizabeth che le sorrideva. Allora soffiò e spense anche la seconda fiamma. Mentre la fiamma moriva, Elizabeth spense all'improvviso la torcia elettrica e si lanciò su per la scala di corda. Sotto di sé, udì il primo urlo di ter-
rore esplodere dalla gola di Kathy. «Eliiiizabeth!», fu il grido acuto di Kathy. «NoooooolOh Dio, non lasciarmi qui, Elizabeth!». Le urla crebbero d'intensità, ed Elizabeth udì Kathy che incespicava nell'oscurità del pozzo. Certo stava affannosamente cercando l'estremità della scala di corda, che doveva penzolare da qualche parte in quel buio opprimente. Ma Elizabeth si era già affrettata a tirar fuori dal pozzo la scala. Le urla di Kathy sembravano giungere da ovunque, riverberandosi sulle pareti della cavità superiore, ripercuotendosi sui suoi timpani. Elizabeth arrotolò la scala, poi tornò ad affacciarsi sul pozzo e proiettò il raggio della torcia in basso. Vide Kathy che si precipitava alla luce come una falena verso una fiamma. Il volto di Kathy, svuotato di ogni goccia di sangue, si alzò a guardare; i suoi occhi sbarrati luccicarono all'incerto raggio della torcia elettrica. La sua bocca era contorta, e continuavano a uscirne urla laceranti che sembravano provenire dalle profondità dei suoi visceri. Le sue braccia erano sollevate, imploranti. «Noooooo!», urlava. «Per favore, noooooo!». Elizabeth tenne ferma la torcia e aguzzò gli occhi verso la sua amica. «Devi star buona, nel posto segreto», le disse, a voce bassa. Poi spense la torcia e si avviò verso il cunicolo che portava all'esterno. Non ebbe esitazioni, nel buio; conosceva fin troppo bene la strada. Quando riemerse sulla scogliera, il rombo della risacca soffocò ogni più piccola eco delle grida che risuonavano ancora all'interno. Elizabeth fu soddisfatta nel constatare che nessun suono usciva dal suo posto segreto. Prese a inerpicarsi destramente su per la scogliera, e in pochi attimi scomparve nel bosco. 15 Marilyn Burton cominciò a preoccuparsi soltanto alle otto di quella sera. Se fosse tornata a casa più presto, avrebbe cominciato a preoccuparsi anche prima, ma avendo chiuso il negozio alle sei, come al solito, aveva deciso di concedersi una cena fuori. Non le era dispiaciuto mangiare da sola, anzi, aveva assaporato quell'attimo di tranquillità. Per tutta la giornata al negozio era costretta a parlare alla gente, e adesso era un sollievo starsene sola con i suoi pensieri. Quando infilò la chiave nella serratura di casa, sentì il telefono suonare; mancava qualche minuto alle otto, e fu subito af-
ferrata dalla sensazione di un guaio incombente, e capì che i suoi pensieri, da quel momento in poi, non sarebbero più stati tanto piacevoli. «Marilyn?». Riconobbe subito la voce di Norma Norton, e la sensazione d'allarme s'intensificò. «Sì», rispose. «È successo qualcosa, non è vero?». Vi fu una breve pausa, prima che Norma riprendesse a parlare. «Be', non so», fece, incerta. «È un bel po' che ti sto chiamando, tutto il pomeriggio». «Perché non mi hai chiamata in negozio?». «Ho provato, ma la linea è guasta». Marilyn si accigliò, poi si rese conto che, infatti, non aveva ricevuto nessuna chiamata per tutto il pomeriggio. E non aveva avuto bisogno di usare il telefono. Si riscosse quando udì Norma Norton fare il nome di sua figlia. «Scusami», si affrettò a dire. «Mi sono distratta un attimo. Che cosa hai detto di Kathy?». «Vorrei proprio sapere che cosa le è saltato in testa», replicò Norma. Il tono esasperato della sua voce era fin troppo esplicito. «Che cosa le è successo? Non si è fatta vedere, da noi, dopo la scuola». «Non si è fatta vedere?», chiese la signora Burton, interdetta. «È strano». «È una piccola incosciente, ecco che cos'è», insisté Norma, seccatissima. «Ho pensato che potesse essersi ammalata, ma avrebbe almeno potuto chiamare». «Un momento», disse Marilyn, «lasciami controllare qui. Sono appena rientrata». Mise giù il telefono, ma già mentre si avviava verso la stanza di Kathy sapeva che l'avrebbe trovata vuota. Stava facendo l'identica cosa dal giorno in cui l'avevano chiamata per dirle che Bob era morto. Stava ritardando l'inevitabile. E, pur sapendolo, girò per l'intera casa prima di tornare al telefono. «Non è qui», annunciò. E restò lì, muta, aspettando che la donna all'altro capo del filo riprendesse la conversazione. Vi fu un lungo, impacciato silenzio, mentre il ricordo della strana storia di Anne Forager attraversava la mente di entrambe. Ma nessuna delle due voleva farne cenno. «Forse è andata a trovare qualche amica», disse gentilmente la signora Norton. «Forse si è completamente dimenticata che doveva venire da me a fare la baby-sitter, oggi». «Sì», replicò Marilyn, come intorpidita. «Sai che ti dico? Lasciami fare un paio di telefonate, e ti richiamo appena la trovo. Ti deve delle scuse». «Vuoi che avverta Ray?».
«Oh, no», esclamò Marilyn, troppo in fretta. «Sono sicura che tutto è in ordine». Ma sapeva che non era così. Mise giù il ricevitore sulla forcella e restò seduta, in silenzio, per alcuni minuti. Rinviando l'inevitabile. Poi prese su il telefono e fece un numero. «Signora Conger?», disse. «Sono Marilyn Burton». «Oh, buonasera», la salutò calorosamente Rose. «Non mi dica che ha deciso di vendere il suo negozio?». «No», rispose Marilyn, «non è per questo che la chiamo. Mi stavo chiedendo... Kathy non è da lei?». «Kathy?», fece Rose, interdetta. «No. Non è a casa?». Si rimproverò per aver fatto una domanda così sciocca. «Mi spiace», si corresse prontamente. «Naturalmente non è a casa, vero?». «No», ammise Marilyn, con riluttanza. «Vorrei proprio che ci fosse. C'è Elizabeth?». «Sì, naturalmente», disse Rose. «Un momento che la chiamo». Jack la guardò incuriosito quando la vide dirigersi verso la porta dello studio. «Kathy Burton non è ancora tornata a casa da scuola», spiegò Rose. «La signora Burton si chiede se per caso Elizabeth non sappia dove possa essere andata». Uscì in corridoio e chiamò Elizabeth, poi attese che sua figlia scendesse le scale. «È la madre di Kathy», le spiegò. «Si sta chiedendo se tu non sappia dov'è andata Kathy questo pomeriggio». Elizabeth si avvicinò al telefono e prese il ricevitore. «Signora Burton? Sono Elizabeth». «Ciao, cara, come stai?». La signora Burton proseguì in fretta, senza aspettare risposta. «Hai visto Kathy oggi pomeriggio?». «Certo», disse Elizabeth. «Mi ha accompagnata per un buon tratto verso casa. Andava a fare la baby-sitter dai Norton, oggi». «E venuta con te fino dai Norton?». «Un po' più oltre», disse Elizabeth. «Stavamo parlando, ed è arrivata fin dopo la casa degli Stevens». «Gli Stevens?», fece Marilyn Burton, interdetta. «E chi sono?». «Oh, quelli che hanno comperato la casa dei Barnes», spiegò Elizabeth. «Sono appena venuti ad abitarci». «Capisco», disse Marilyn. «E Kathy sarebbe andata subito dai Norton, poi?». «È quello che mi ha detto», rispose Elizabeth. «Io l'avevo invitata a venire fin qui, a casa mia, per un po', ma ha detto che non aveva tempo». «Capisco», ripeté Marilyn Burton, anche se aveva a malapena afferrato
ciò che Elizabeth aveva appena detto. «Be', sono sicura che tutto è a posto». «Non è andata dai Norton?», chiese Elizabeth. «No», disse Marilyn Burton. «Non c'è andata. Ma non preoccuparti, sono sicura che è da qualche parte». Lasciò ricadere il ricevitore sulla forcella, poi richiamò Norma Norton. «Norma?», disse. «Sono Marilyn. Credo che sia meglio chiamare Ray». Rose colse l'apprensione sul volto di sua figlia quando Elizabeth riappese il telefono. «Che cosa c'è?», domandò. «È successo qualcosa a Kathy?». Elizabeth scrollò le spalle e scosse lentamente la testa. «Non so. Non è mai arrivata dai Norton». «Dove ti ha lasciata?», chiese Jack. «Ai bordi del bosco», rispose Elizabeth. «Stavamo parlando degli Stevens, e Kathy sperava che, se fossimo passate accanto alla loro casa, forse sarebbe riuscita a intravedere Jeff». «E tu l'hai visto?», chiese Rose, maliziosamente. Elizabeth scosse la testa. «Credo che non ci fosse nessuno a casa», disse. «Almeno, noi non abbiamo visto nessuno. E così, quando siamo arrivate al bosco, Kathy ha detto che doveva andare dai Norton». Vi fu un silenzio inquieto, e Rose fu certa che tutti e tre stavano pensando ad Anne Forager. «Be'», disse alla fine, rompendo il silenzio, «farai meglio a tornare di sopra prima che Sarah senta la tua assenza». «Già», disse Elizabeth, con voce priva d'espressione. «Spero che non sia successo niente a Kathy». Scrutò in viso i genitori, come a cercarvi l'assicurazione che non c'era da preoccuparsi per la sua amica. Rose fece del suo meglio per ostentare un radioso sorriso. «Sono certa che non è nulla di serio», disse, con una fiducia che non sentiva. Poi decise di farsi interprete di quello a cui tutti pensavano. «Dopotutto, ad Anne Forager non è successo niente, non è vero?». «No», ammise Elizabeth. «Ma, in ogni caso, è una piccola bugiarda. Kathy non è così». Uscì dallo studio, e Jack e Rose udirono il rumore dei suoi passi che echeggiavano su per le scale. «Dovremmo far mettere un tappeto su quella scala», disse Jack, con fare distratto. «Che cosa sciocca da dire!», esclamò Rose. Poi si azzitti, sorpresa da ciò che aveva detto. Jack la fissò.
«Che cosa ti aspettavi che dicessi?», chiese freddamente. «Dovremmo forse starcene qui a far congetture su ciò che potrebbe essere accaduto a Kathy Burton?». Vide la rabbia avvampare negli occhi di sua moglie, e desiderò di aver tenuto la bocca chiusa. Prese su il bicchiere e si diresse verso il bar, all'angolo dello studio. «Vorrei che tu non lo facessi», disse Rose. «Davvero? Be', mi spiace», ribatté Jack, irritato, e si versò il doppio, nel bicchiere, di quanto aveva intenzione. Si stava preparando per la battaglia che vedeva sul punto di esplodere, quando il telefono tornò a squillare. Questa volta era Ray Norton. «Sei tu, Jack?», chiese, quando Jack prese su il ricevitore. «Ciao, Ray», rispose Jack. «Devo indovinare perché mi stai chiamando?». «Mi stavo chiedendo se non potevo fare un salto da te per un paio di minuti». «Qui?», chiese Jack. «E perché qui?». «Be'», rispose Ray, «sembra che Elizabeth sia stata l'ultima persona a vedere Kathy...». «Stai parlando come se fosse morta», l'interruppe Jack. «Non era mia intenzione», si scusò Ray, conservando il tono fermo. «Ma sembra sia scomparsa, e vorrei sentire il resoconto di Elizabeth direttamente dalla sua bocca». «Che cosa intendi dire?», chiese Jack, sulla difensiva. Ray Norton percepì il tono della sua voce, e si affrettò a dissipare le preoccupazioni di Jack. «Piantala di saltare alle conclusioni», gli disse. «Non mi piace avere informazioni di seconda mano, neppure da una madre. Anzi, soprattutto da una madre. Preferisco averle direttamente dalla fonte, e da quanto ne so Elizabeth è una fonte sulla quale si può fare molto affidamento. Posso fare un salto da voi per un paio di minuti?». «Ufficialmente o ufficiosamente?», insisté Jack. «Oh, insomma, Jack», replicò Ray, «se mi stai chiedendo se hai bisogno di un avvocato...». «No», l'interruppe Jack. «Mi stavo soltanto chiedendo se devo bermi un bicchierino mentre ti aspetto. A tra poco». Lasciò ricadere il ricevitore sulla forcella, interrompendo la risata di sollievo di Ray Norton, e si rivolse a sua moglie. «Stiamo per avere compagnia», disse.
«L'ho intuito», replicò Rose, asciutta. «Presumo che voglia parlare con Elizabeth». «Proprio così», annuì Jack. «Immagino che Marilyn Burton sia parecchio sconvolta, e gli abbia fornito una versione assai confusa di quanto Elizabeth le ha raccontato». «Comunque ha tutto il diritto di esserlo», ribatté Rose. «Sconvolta, voglio dire». Fissò il bicchiere in mano a Jack, e all'improvviso le dispiacque di averlo criticato. «Se ti porgessi le mie scuse per essere stata brusca con te, mi prepareresti uno di quelli?», gli disse con un sorriso. Jack le preparò il cocktail, e tutti e due sedettero davanti al caminetto in attesa di Ray Norton. «Mi chiedo che cosa sia veramente accaduto», disse Jack, dopo qualche istante di silenzio. Rose alzò gli occhi e fissò il marito, e vide che non stava guardando lei, ma il ritratto della ragazzina. Anche lei sollevò gli occhi al ritratto, per un attimo. «Che cosa intendi dire?», ribatté. «Vuoi dire... a lei?». Indicò l'immagine, che li sovrastava. «Chi lo sa? E chi lo sa, se esisteva davvero la ragazzina di cui ha parlato il dottor Belter? E anche se è esistita, come facciamo a essere sicuri che è proprio la ragazzina di questo ritratto?». «Se c'era una ragazzina, è quella», replicò Jack, con assoluta sicurezza. Rose lo fissò in silenzio, tentando di capire ciò che stava avvenendo nella mente di suo marito. «Sembri così sicuro», fu il suo commento. Jack storse le labbra e accennò ad accigliarsi. «Sì», disse lentamente, «sembro sicuro. E sai che ti dico? Che non soltanto sembro, ma sono sicuro. Non posso dirti perché, ma sono sicuro che c'era una ragazzina, e il quadro è il ritratto di quella ragazzina. E mi terrorizza». In quel momento si udì il rumore di un'auto che risaliva il viale, e Jack si alzò in piedi per andare alla porta d'ingresso. Mentre era fuori della stanza, Rose studiò una volta ancora il ritratto e pensò alla leggenda. Una sciocchezza, pensò. Una grande, completa sciocchezza. Ray Norton chiuse il taccuino e sorrise a Elizabeth. «Vorrei che tutti i testimoni fossero come te», commentò. Poi volle scorrere ancora una volta il resoconto di Elizabeth su ciò che era accaduto quel pomeriggio. «E sei assolutamente sicura di non aver sentito mia moglie che vi chiamava?», insisté.
«Mi spiace», rispose Elizabeth, «ma non l'abbiamo sentita. E sì che tutte e due avevamo teso le orecchie per sentire se chiamava. Kathy aveva detto che, se avesse sentito la signora Norton che chiamava, sarebbe subito corsa da lei, anche se eravamo in anticipo. Mi spiace, ma proprio non l'abbiamo sentita». Ray Norton annuì vagamente. Norma non aveva chiamato le ragazze quand'erano passate davanti alla casa, non le aveva neppure viste. Ma a Ray piaceva lanciare l'esca di tanto in tanto, soltanto per vedere se e quanto un testimone avrebbe cambiato la sua storia. Ma Elizabeth non l'aveva fatto. Erano sole, non avevano visto niente o nessuno d'insolito; ma, naturalmente, come Elizabeth aveva spiegato, non l'avevano neppure cercato. Salvo un attimo, quand'erano passate davanti alla casa dei Norton, erano state sempre assorte a parlare di Jeff Stevens. «E quando vi siete lasciate, non ti sei voltata a salutarla?», insisté Ray. «Ho tagliato attraverso il prato», spiegò Elizabeth, «per cui in ogni caso non avrei potuto vedere Kathy. C'era il bosco di mezzo». «Già». Ray sospirò, guardò Jack. «Adesso mi farei quel bicchierino, se è ancora disponibile. Probabilmente non dovrei accettarlo, dal momento che praticamente sono in servizio, e devo tornare in città, ma... Detesto casi come questi». Vide Rose che si accigliava, e si rese conto che Elizabeth era ancora nella stanza. «Non che sia successo qualcosa», si affrettò ad aggiungere. Prese con gratitudine il bicchiere che Jack gli stava offrendo. «Grazie». «Posso accompagnarti?», chiese Jack. «Come giornalista, non come amico. Questa volta vorrei essere ben informato, dopo tutto quello che mi son sentito dire da Martin Forager. Inoltre, ho del lavoro arretrato in ufficio». «Per me va bene», annuì Ray, vuotando il bicchiere. «Ma non posso garantirti a che ora torneremo indietro». «Oh, non preoccuparti», disse Jack. Andò a cercare il cappotto, e mentre lui era via Ray guardò il ritratto. «Sembri proprio tu», dichiarò, rivolto a Elizabeth. «Lo so», replicò Elizabeth. «Ma non sono io. È un'altra. E non è affatto come me». Rose e Ray Norton la seguirono con lo sguardo mentre usciva dallo studio. «Cosa voleva dire?», chiese Ray, perplesso. «Non chiederlo a me», fece Rose. «Lei e Sarah hanno trovato una vec-
chia tavoletta oui-ja, su nell'attico. Forse ha parlato col suo fantasma». «Giusto», annuì Ray con finta serietà. «Sono sicuro che è proprio così». Jack ricomparve col cappotto abbottonato fino al mento. «Arrivederci a quando ci rivedremo», disse, e baciò frettolosamente Rose. I due uomini lasciarono la casa, e qualche istante più tardi Rose sentì la macchina di Ray Norton rombare lungo il viale. Non avrebbe saputo dire perché, ma si versò un altro bicchiere. Ray Norton fermò la macchina davanti al Courier di Port Arbello, ma non spense il motore. «Sembra che ci siano dei ladri, da te», commentò, indicandogli un'ombra che si muoveva dietro la tenda dell'ufficio del direttore. Jack sorrise. «Sembra che si tratti di Sylvia che sta cercando di portare avanti un po' del mio lavoro arretrato, ecco che cosa sembra». Ray Norton scosse la testa, mestamente. «Quanto vorrei avere anch'io una segretaria così. Alla stazione di polizia la gente non vuol fare neppure il suo lavoro, figurarsi il mio». «Sì», replicò Jack, compiaciuto, «è un problema, non è vero? Ma, d'altra parte, Sylvia può fare il mio lavoro meglio di me, mentre le tue ragazze non possono fare il tuo. Hai idea di quanto ci metterai?». «Assolutamente no. Chiamami quando hai finito, oppure ti chiamo io, se finisco prima. E se me lo chiederai garbatamente, t'informerò di tutto quello che avremo scoperto su Kathy Burton». «Che cosa pensi sia successo?», chiese Jack. Il capo della polizia si fece tetro. «Se siamo fortunati, sarà la stessa storia di Anne Forager. Ma non saremo fortunati». «Mi sembri tremendamente convinto che...». «Chiamala intuizione. E conoscendo un po' questi giovincelli... Non riferire le mie parole, ma sono incline a trovarmi d'accordo con quelli che dicono che ad Anne Forager non è successo niente. È sempre stata quel tipo di ragazzina. Ma Kathy Burton è del tutto diversa». «Sì?». «Norma e Marilyn Burton sono amiche da anni, da quand'erano bambine. Perciò conosco Kathy. È una brava ragazza, con un grande senso di responsabilità, niente affatto capace di piantare Norma come ha fatto oggi, a meno che non le sia successo qualcosa. È stata così sin dalla morte di suo padre». Norton scosse tristemente la testa. «Quello è stato un duro colpo sia per Kathy che per sua madre, non c'è ombra di dubbio».
«Un incidente di caccia, non è vero?». «Già. Circa tre anni fa. Una cosa banale, sciocca. Non si era messo i colori, e l'hanno scambiato per un cervo. Io insisto a dirlo ogni anno: non dimenticatevi i colori, e ce n'è sempre un paio che non mi ascolta. Ma Burton è il solo che si sia beccato una fucilata per un motivo del genere». Norton guardò l'orologio. «Be', basta con le chiacchiere. Ho del lavoro da fare». Innestò la marcia mentre Jack scendeva. «Ci vediamo dopo». Jack l'osservò mentre si allontanava, girava attorno alla piazza, diretto alla stazione di polizia. Era una delle cose che più gli piaceva: poter osservare praticamente l'intera cittadina dalla porta del suo giornale. E aveva ragione: Sylvia Bannister era nel suo ufficio, e si stava sforzando di mandare avanti il suo lavoro. Gli sorrise, quando lui entrò. «Hai appena scritto uno dei migliori editoriali che siano mai usciti da questo ufficio», gli disse, porgendogli dei fogli di carta. «Pura dinamite. Tu sei coraggioso, anzi, temerario al punto da mettere a repentaglio la tua reputazione. Ma sei anche modesto e umile». «Splendido», dichiarò Jack. «Ma come mai sono tutto questo?». «Il progetto di Rose per l'armeria». «Come fai a saperlo?», fece Jack, perplesso. «Dovrebbe essere un segreto». «Non in questa cittadina», replicò Sylvia. «Comunque, tu sei contro il progetto». «Davvero?», balbettò Jack, interdetto. «Sarà davvero splendido per me, a casa, quando avrò pubblicato questa roba». «Oh, non ti farà poi male. Tu non potresti in nessun caso dichiararti a favore... Tutti ti accuserebbero di esserti fatto corrompere. In questo modo, invece, il tuo credito crescerà, perché ti sarai mostrato onesto e coraggioso, e Rose otterrà che si parli del suo progetto». «Ne hai parlato con Rose?», s'informò Jack, dubbioso. «Naturalmente», disse Sylvia. «Chi credi abbia avuto l'idea? Non te ne ha parlato?». «Non mi dice molto, di quello che fa», spiegò Jack, e un'improvvisa ondata di sconforto lo avvolse. Vide Sylvia che si accigliava. «Mi spiace», disse la segretaria. «Speravo che le cose andassero migliorando». Jack sorrise, ma era un sorriso forzato. «Anch'io spero sempre che migliorino, ma è impossibile esserne sicuri. Un giorno tutto sembra andare per il meglio, e il giorno dopo si scatena l'inferno».
«E oggi si è scatenato l'inferno?». Jack scrollò le spalle e si lasciò andare su una sedia. Incrociò le mani sullo stomaco e allungò le gambe. All'improvviso, si sentiva a proprio agio come non si era sentito da moltissimo tempo. «Non proprio. Ma potrebbe ancora accadere. La notte è appena cominciata». Sylvia lo fissò, con sguardo interrogativo, e lui l'informò della scomparsa di Kathy Burton. Quand'ebbe finito, lei sembrò perplessa. «Be', mi spiace sentire quello che è successo a Kathy Burton, naturalmente, ma non vedo quali rapporti abbia con te e Rose». «Rose ha problemi in relazione a me e alle ragazzine», mormorò Jack. Vide un lampo risentito balenare negli occhi di Sylvia, e questo gli fece piacere. «Ma è ridicolo», protestò la sua segretaria. «Per l'amor di Dio, è rimasta con te tutta la giornata. Che cosa pensa, che tu passi tutto il tempo, anche quando sei con lei, a molestare i bambini?». Jack allargò le braccia in un gesto d'impotenza. «Lo so. Ma tutto questo la rende nervosa. E suppongo di non poterla biasimare». «Oh, io penso che sia terribile», esclamò Sylvia, e Jack poté sentire l'indignazione che ribolliva dentro di lei. «Ha intenzione di usare quell'unico incidente contro di te per tutto il resto della tua vita? Non credo che dovresti tollerarlo. Davvero non credo!». «Mio Dio, Sylvia», disse Jack. «Sei davvero arrabbiata!». «Sì, credo proprio di esserlo», avvampò la segretaria. «Sono convinta che non è giusto. Sappiamo che tu non hai fatto nulla, in realtà, a Sarah. Non sei responsabile per quello che è accaduto, no davvero. Eri ubriaco...». Lasciò in sospeso la frase. «Ma io sono responsabile», replicò Jack, dolcemente. «Non ero così ubriaco, e suppongo di averla davvero picchiata. Perciò mi merito una certa punizione». La sua voce si ridusse quasi a un mormorio. «Ma a volte è dura. Non immagini quanto». «Oh, posso benissimo immaginarlo», disse Sylvia, con voce carica di comprensione. Gli si avvicinò, gli appoggiò le mani sulle spalle. Mentre continuava a parlare, le sue dita cominciarono a massaggiare i muscoli tesi del suo collo, e lui si rilassò a quel tocco. «Non sono disumana, sai? Anch'io porto dentro dolori e colpe. E faccio come fai tu. Cerco di tenerli dentro, di fronteggiarli in qualche modo. E a volte vorrei riuscire a fare quello che fai tu... Vorrei ubriacarmi». Ebbe un pallido sorriso. «Ma non lo fac-
cio. Non mi è consentito». «Che cosa ti ferma?», chiese Jack. «Io stessa, suppongo. Io, e la mia educazione puritana, i miei alti ideali, e tutto il resto che mi è stato inculcato e m'impedisce di piacere a me stessa». Jack sollevò una mano e la chiuse sulle sue. La sentì irrigidirsi, ma Sylvia non si ritrasse. Lentamente, l'obbligò a spostarsi finché non l'ebbe davanti a sé, e la guardò negli occhi. Erano azzurri, di un azzurro profondo, e Jack provò la sensazione di non averli mai visti prima. Si alzò in piedi. «Mi spiace», disse, e le mise le braccia intorno al collo. «Spiacerti?», fece lei. «E per cosa?». Cercò di tenere gli occhi fissi nei suoi, ma non ci riuscì. Un attimo dopo li distolse, e appoggiò la fronte sul suo petto. «Non saprei dirlo esattamente, ma...», riprese Jack, sopra la sua testa. «Per tutto, immagino. Per tutti i fastidi che hai avuto, e per tutte le cose che non sono stato capace di darti». Le prese la testa fra le mani e la baciò. Fu un bacio caldo, tenero, che sorprese Jack. Non aveva pensato di baciarla, non si era reso conto di volerlo fare. Ma quando la baciò, gli fu chiaro, senza ombra di dubbio, che voleva baciarla, e che non voleva fermarsi a un bacio. Sentì scorrergli per il corpo un calore che non provava da lungo tempo. Poi sentì Sylvia che si staccava da lui, e provò vergogna. «Mi spiace», ripeté, e questa volta fu sicuro che lei sapeva benissimo ciò che voleva dire. E poi ebbe la chiara sensazione che lei non fosse più di umore cupo, ma che, invece, stesse ridendo. La guardò, e vide una luce maliziosa, deliziata, brillarle negli occhi e aleggiarle agli angoli della bocca. «Credevo che tu non fossi capace di far questo», disse lei, sopprimendo una risatina. Jack sentì una vampa di rossore salirgli al viso, quando si rese conto di ciò che lei aveva detto. «Non l'ho fatto da un anno», disse, nervosamente. «Non mi aspettavo certo...». Cominciò a incepparsi. «Quello che voglio dire è che non intendevo...». «Non scusarti», lo soccorse Sylvia. «Sii felice. Per lo meno ora sai che il problema non è interamente tuo. Sembra che sia proprio tua moglie che non ti fa andar su di giri, non tutte...». Jack la fissò, e gli parve che tutto il suo essere si fosse come sgravato di un peso. Forse, pensò, le cose non sono così brutte, dopotutto.
«E adesso che facciamo?», disse. Sylvia scrollò le spalle e si avviò fuori della stanza. «Niente», e senza voltarsi proseguì: «Per un po', almeno». La sentì chiudere dietro di sé la porta dell'ufficio, e si rese conto che aveva ragione. Lui aveva bisogno di tempo per pensare. E, così sperava, anche lei. 16 Port Arbello non si addormentò che molto tardi, quella notte. Alle dieci della sera, un'ora alla quale era immersa, di solito, nel primo sonno, Marilyn Burton si trovò a salire sulla sua macchina, diretta alla Strada del Promontorio, per recarsi a trascorrere un numero imprecisabile di ore d'attesa con Norma Norton. Le due donne rimasero sedute a bere caffè e a parlare tranquillamente dei più svariati argomenti, salvo che dei loro figli. Ognuna accennò parecchie volte che tutto quel caffè le avrebbe certamente tenute sveglie l'intera notte. Evitarono però accuratamente di accennare a ciò che avrebbe reso necessaria una veglia così lunga. E continuarono a bere una tazza dopo l'altra. Poco dopo le undici, Martin Forager comparve alla stazione di Polizia. Il suo alito puzzava di whisky e i suoi modi erano truculenti. «Be'», chiese, rauco, «che cosa hai da dire?». Ray Norton alzò gli occhi su Forager, e il suo dito smise di formare il numero sul telefono della scrivania. Stava ormai completando la formazione di una squadra di ricerca, e l'interruzione di Martin Forager l'infastidiva. «Su che cosa, Marty?». Forager sedette pesantemente sulla sedia di fronte al capo della polizia. Un'espressione scontrosa gli incupiva il viso. «Non si è ancora fatta viva, vero?». «No», annuì Norton, «non si è ancora fatta viva. Ma non capisco a che cosa tu stia mirando». «So che cosa pensa la gente, qui», lo sfidò Forager. «Sento anch'io le voci. Pensano che la mia Anne abbia mentito. Che non le sia successo niente». «A quest'ora Anne era già a casa, non è vero?», replicò, pacato, Norton. Diede un'occhiata all'orologio. «A meno che non sbagli, Anne è rientrata verso le undici. E adesso sono quasi le undici e trenta». Forager lo guardò furioso. «Aspetta», ringhiò. «Aspetta e vedrai. Salterà fuori... E con la stessa storia!».
«Non m'importa che storia racconterà», ribatté Norton. «Spero soltanto che salti fuori». «Lo farà», ripeté Martin Forager. «Aspetta e vedrai». «Aspetterò e vedrò, Marty», annuì Ray Norton. E quando l'uomo davanti a lui si alzò in piedi, aggiunse: «Dove stai andando?». «Ho visto le luci accese da Conger», borbottò Martin Forager. «Ho pensato di andare a vedere che cosa sta combinando». Ray Norton ostentò i suoi migliori modi da poliziotto. «Io, se fossi in te, credo proprio che adesso me ne andrei a casa», disse, e la sua voce trasformò il suggerimento in un ordine. Forager si girò lentamente a fissare il capo della polizia. «Mi stai dicendo quello che devo fare?». «Oh, no di certo», proseguì Norton, ancora più affabile. «Ma qui prevediamo una notte molto intensa, e penso che la prevedano anche al Courier. E per una faccenda che non riguarda te, Marty. Ora vai a casa. Parlerai a Jack Conger domattina, se sarai ancora dell'idea di farlo». «Tu e lui siete proprio culo e camicia, vero?», ringhiò, sospettoso, Forager. «E tutti e due vivete là fuori, sulla Strada del Promontorio, dove sembra che capitino tutti i guai, non è vero?». Fissò con sfrontatezza da avvinazzato il poliziotto, che prese in considerazione la possibilità di sbatterlo nell'unica cella a disposizione di Port Arbello per fargli smaltire la sbornia. Ma poi decise di non farlo. Invece sorrise, irradiando benevolenza. «Proprio così, Marty. Pensavo che tu lo sapessi. Da quando io sono diventato capo della polizia e Jack Conger ha preso in mano la direzione del Courier, ci siamo divertiti a rapire ragazzine. Il bosco è pieno dei loro cadaveri, ma nessuno interverrà mai a metterci fine, perché tutti sanno che Jack e io siamo amici e ci copriamo a vicenda. In realtà, ma non andarlo a dire in giro, Jack e io siamo due bei finocchi, e la vera ragione per la quale ci diamo tanto da fare con le ragazzine è che così nessuno potrà sospettare che c'inculiamo a vicenda». Si alzò in piedi. «E adesso, perché non esci di qui e non vai in giro a divulgare questa storia, anche se ti proibisco di farlo? È plausibile almeno quanto la storia che ha raccontato tua figlia». Ma, appena terminata quell'ultima frase, si pentì di averla detta. Si consolò pensando che, comunque, Forager era troppo ubriaco per connettere. «Va bene», borbottò Forager fra i denti. «Vedrai. Qualcosa sta succedendo in questa città, ed è cominciato con mia figlia. Vedrai». Uscì barcollando, e Ray Norton si alzò dalla scrivania e si affacciò per vedere dove fosse diretto. Lo seguì con lo sguardo finché non fu sicuro che l'ubriaco
non stava marciando verso gli uffici del Courier, poi tornò alla scrivania. D'impulso prese su il telefono e formò in fretta un numero. «Jack?», disse, quando sentì rispondergli la voce del suo amico. «Se fossi in te, chiuderei a chiave la porta d'ingresso». «Cosa stai dicendo?», replicò Jack Conger, e a Ray Norton parve di percepire un che di tagliente che non quadrava col tono volutamente leggero con cui aveva espresso il suo suggerimento. «Spiacente», fece. «Non intendevo spaventarti. Marty Forager è in giro, stanotte, ed è piuttosto sbronzo. E appena stato qui, e ha detto che poi sarebbe venuto da te». «È diretto da questa parte?», chiese Jack. «No. Mi è parso che stesse andando verso l'osteria, ma dopo essersi allargato la cintura di un altro paio di buchi potrebbe dimenticarsi di quello che gli ho detto. O, peggio ancora, potrebbe ricordarsene». «Che cosa gli hai detto?», chiese Jack, incuriosito. Ray Norton gli ripeté la storia ridicola che aveva inventato a uso e consumo dell'ubriaco, e fu sorpreso quando a Jack Conger non sembrò divertente. «Splendido», fu il commento di Jack, e una nota di fastidio gli risuonò nella voce. «Be', io non me ne preoccuperei», disse Norton, a disagio. «Immagino che se ne sarà completamente dimenticato, prima di domattina». «Lo spero», rispose Jack Conger. Poi cambiò argomento. «E Kathy Burton?». «Niente», disse Ray Norton, passando al tono professionale. «Non è saltata fuori, e nessuno l'ha vista. Marilyn Burton è a casa mia, adesso, e Norma è rimasta alzata con lei. Ho la sensazione che passerà molto tempo, prima che possano andare a letto». «Insieme al resto di Port Arbello», commentò Jack. Si era girato con la sedia e stava guardando pensosamente fuori della finestra. C'era molto traffico, macchine che giravano lentamente intorno alla piazza e capannelli di gente intenta a parlare sotto i lampioni. Sapeva di cosa stavano parlando tutti, e questo lo faceva sentire a disagio. «Stanno tutti parlando troppo». «Soltanto perché hanno qualcosa di cui parlare», gli rispose il capo della polizia, «e questo non capita abbastanza spesso. Quanto tempo ancora pensi di fermarti?». «Ho praticamente finito. E tu?». «Lo stesso anche qui. Stavo giusto finendo le telefonate per la squadra di
ricerca, quando è entrato Marty. I ragazzi dovrebbero essere tutti qui nel giro di mezz'ora, e voglio anche te». «Perché anch'io? Non che io abbia obiezioni». Norton ridacchiò. «Meglio per te che tu non ne abbia. Cominceremo le ricerche proprio da casa tua, e personalmente le guiderai. Dal momento che noi due conosciamo meglio di ogni altro quell'area, e siamo entrambi cittadini responsabili, ho pensato di dividerci in due gruppi. Io porterò la mia banda alla cava, e tu comincerai a setacciare il bosco». Jack avvertì un gelo improvviso, e la fronte gli si imperlò di sudore. Non era più stato nel bosco da un anno. Cercò di tener fuori il vivo disagio dalla sua voce, quando rispose: «Va bene. Chiudo la baracca e vengo da te. A fra poco». Non aspettò che Ray facesse eco al suo arrivederci prima di metter giù il telefono. Ripulì di ogni carta il ripiano della scrivania, la chiuse a chiave, poi fece lo stesso con la porta del suo ufficio. Lasciò comunque accese le luci principali all'interno, e si assicurò di essersi chiuso alle spalle l'ingresso principale, quando uscì sul marciapiede. Il folto traffico e le continue domande dei curiosi gli fecero perdere una buona mezz'ora, prima che riuscisse a raggiungere la stazione di polizia. Una media di tre metri al minuto. Rose Conger aveva cercato di lavorare anche dopo che suo marito aveva lasciato la casa, ma non era riuscita a concentrarsi. Aveva finito, perciò, per rinunciare, e aveva rivolto l'attenzione a un libro, ma ancora una volta le parole le danzarono incomprensibili davanti agli occhi. Infine, aveva semplicemente rinunciato a tutto, edera rimasta seduta ad ascoltare il vecchio orologio che batteva i quarti d'ora, le mezz'ore, le ore. La notte sembrava dilatarsi interminabilmente. Poi, Rose aveva deciso di chiamare Norma Norton, per accertarsi se non vi fosse qualche novità a proposito di Kathy Burton. Norma, un po' incerta, l'aveva invitata a recarsi da lei, unendosi alla veglia. Nonostante i rispettivi mariti fossero molto amici, le due donne non si erano mai trovate molto bene insieme. In parte Rose sospettava che ciò fosse dovuto al fatto che Norma Norton la considerava non come un essere umano, ma come la signora Conger. Rose fu pronta a cogliere l'opportunità di sfatare quell'immagine. «Verrò volentieri», disse. «Sono rimasta seduta qui, e la casa è servita soltanto a rendermi sempre più nervosa man mano che passavano i minuti. Vado a vedere se la signora Goodrich è ancora alzata. Se non ha intenzione
di andare a letto subito, la pregherò di tener d'occhio le bambine. Sarò lì fra un minuto, oppure richiamerò». Trovò la signora Goodrich che guardava la televisione nella sua stanza, accanto alla cucina. L'altra le assicurò che sarebbe rimasta alzata per la maggior parte della notte. «Sembra che, più vecchi si diventa, meno si abbia bisogno di dormire», commentò, scontrosamente. «O forse si tratta soltanto di artrite. Ma vada pure. Non è successo niente in questa casa, negli ultimi cinquant'anni, che io non sia stata capace di affrontare». Rose la ringraziò e corse al piano di sopra per dare un'occhiata alle figlie. Stavano dormendo pacificamente. Baciò Sarah sulla fronte, sfiorandola appena, e non volle disturbare Elizabeth. Con due minuti d'anticipo sui dieci che si era concessi, aveva già parcheggiato la propria auto davanti alla casa dei Norton; un minuto dopo, accettava con gratitudine la prima tazza di caffè da Norma. «Sono così spiacente per quanto è accaduto», dichiarò a Marilyn Burton. «Ma sono certa che Kathy sta bene. Finirà come per Anne Forager». Il guaio era che nessuna sapeva come fosse finita per Anne Forager. Rimasero sedute l'una accanto all'altra, un gruppo di tre donne a disagio, cercando di affogare le paure in un mare di caffeina. Gli occhi di Elizabeth si aprirono di scatto non appena udì il leggero tonfo della porta della camera da letto che si chiudeva. Non avrebbe saputo dire perché aveva finto di essere addormentata quando sua madre aveva aperto la porta. Di solito le diceva qualche parola, anche soltanto per ricambiare la buonanotte. Ma questa volta aveva tenuto gli occhi chiusi, continuando il suo lento, regolare respiro, come se fosse immersa nel sonno. E adesso, la porta nuovamente chiusa, gli occhi aperti, Elizabeth continuava a respirare con quel suo ritmo lento e costante. Giacque silenziosa, ascoltando i rumori della notte; udì il ronzio dell'auto di sua madre che si allontanava rapidamente lungo il viale. Quando il ronzio del motore svanì lontano, Elizabeth si alzò e andò alla finestra. Guardò sul lato opposto del prato, e le parve quasi di riuscire a vedere attraverso il bosco che si ergeva tenebroso nella notte. Restò a lungo alla finestra, e una strana sensazione la invase, come una sorta d'interiore fusione con gli alberi e il bosco, e un desiderio di essere più vicina al mare, oltre il bosco. Voltò le spalle alla finestra, e con le palpebre che ammiccavano stranamente cominciò a vestirsi. Qualche istante più tardi lasciò la stanza, raggiunse la cima delle scale.
Qui si soffermò, dando l'impressione di ascoltare il silenzio, poi cominciò a scendere, silenziosa come la notte. Passò davanti all'orologio del nonno senza neppure accorgersi del suo ticchettare. In fondo alla scala voltò, si avvicinò alla cucina. Non udì il televisore acceso nella stanza lì accanto; se l'avesse sentito, forse avrebbe bussato alla porta, l'avrebbe aperta e avrebbe visto la signora Goodrich che pisolava sulla sua poltrona. Elizabeth aprì il frigorifero, e per un attimo ne contemplò l'interno con lo sguardo privo d'espressione; poi la sua mano si protese e le sue dita si chiusero su un pacchetto avvolto nella carta bianca. Chiuse infine lo sportello del frigorifero e lasciò la cucina. Nella piccola stanza accanto, il tranquillo dormicchiare della signora Goodrich non fu turbato dal sommesso scatto della porta d'ingresso, e neppure dai sonori rintocchi dell'orologio, quando suonò la mezzanotte. Elizabeth attraversò rapidamente il prato, e si dileguò nel bosco. Quando fu celata tra gli alberi, il suo passo accelerò. Le torce delle squadre di ricerca ondeggiavano nell'oscurità intorno a lei, ma anche se Elizabeth fu conscia della loro presenza, non ne diede alcun segno. Per un paio di volte fu questione di attimi se non s'imbatté, prima d'immergersi nell'ombra di un tronco, in qualcuno degli esploratori, e appena un istante prima di emergere dal bosco sulla scogliera quasi sfiorò suo padre. Non si accorse di lui, né produsse alcun suono che in qualche modo richiamasse la sua attenzione. Ma, d'altra parte, Jack Conger era troppo assorto nella sua intima lotta per vincere gli oscuri timori che gli suscitava la foresta. Continuò, ottusamente, nella sua vana, desolata ricerca di Kathy Burton. Ben presto, Elizabeth si trovò nuovamente sulla scogliera sovrastante il mare. Ascoltò il fragore della risacca, e le parve un suono sin troppo facile a ricordarsi, come se lo conoscesse da molto più tempo di quanto potesse ricordare. Cominciò a discendere la scogliera, fino a quando non scomparve dietro il macigno. Il fragore della risacca, o qualcos'altro, le impedì di udire il secco crepitio dei ramoscelli che si spezzavano sopra di lei, nella faticosa avanzata degli uomini con le torce, nel sottobosco. Kathy Burton non era affatto sicura di aver udito qualcosa. Durante le ultime ore, le sue orecchie erano state fin troppo messe alla prova. Prima c'erano state le sue urla che, rimbalzando sulle pareti rocciose, le erano ri-
tornate alle orecchie come l'invocazione di una creatura abbietta, moribonda. Aveva urlato fino a quando non le era mancata la voce, poi era giaciuta sul pavimento della caverna piangendo in silenzio, il corpo scosso da sussulti per la stanchezza e la paura. Il panico, infine, era passato, e allora aveva cominciato ad ascoltare il rumore ovattato della risacca, un sommesso fondale sonoro il quale impediva che il silenzio totale moltiplicasse lo spavento di quelle tenebre ininterrotte. E poi aveva cominciato a percepire rumori più sottili, come il trepestio di minuscoli piedi in corsa, ai quali, a tutta prima, non era stata capace di attribuire alcun significato. Poi la sua mente aveva cominciato a creare immagini nel buio: immagini di topi che si rincorrevano nella caverna, che sfrecciavano appena fuori della sua portata. Man mano che le immagini della sua mente si rafforzavano, cominciò a sentire che i topi si avvicinavano a lei (se erano poi topi), annusando l'aria, e la sua paura aveva ricominciato a crescere. Ed era salita sul macigno che poche ore prima era stato il tavolino per il tè nel folle ricevimento di Elizabeth. Ed era rimasta lì, rannicchiata per proteggersi dalle tenebre, e si era sentita raggrinzire, diventando, quasi, sempre più piccola. Era giunta a immaginare se stessa che scompariva, e quella era soltanto la meno spaventosa delle sue fantasticherie, perché, se fosse scomparsa, almeno sarebbe stata lontana da lì. E lei voleva essere lontana da lì, lo desiderava disperatamente. Le ore erano trascorse, le sue giunture diventavano sempre più rigide a causa dell'immobilità e del gelo che pervadeva la caverna. Infine era stata costretta a muoversi, ma non aveva osato lasciare la superficie piatta della roccia, timorosa di ciò che avrebbe potuto incontrare nel buio che la circondava. E adesso sentì un suono diverso, il rumore di un corpo trascinato, sopra di lei. Sentì un urlo formarsi nella sua gola dolorante, ma lo trattenne. Il rumore continuò. Kathy allungò il collo, cercando di ritrovare, in qualche punto dell'oscurità sovrastante, il pozzo che conduceva fuori della prigione. Pensò di averne individuato la posizione poiché percepiva una lieve corrente d'aria, non più di un alito sottile, l'unico vero movimento in quella cavità buia, che doveva per forza aleggiare in corrispondenza del condotto verticale. Già prima si era alzata in piedi, cercando di raggiungere il basso soffitto della caverna, ma non c'era riuscita; e l'incapacità di riuscire anche soltanto a definire i confini della sua prigione era servita solo ad alimentare la pau-
ra. Ora giaceva sulla schiena, il volto verso l'alto, in direzione della corrente d'aria che era certa provenisse dal pozzo. E all'improvviso si trovò accecata. Sentì il volto che le si contraeva quando i suoi occhi furono investiti dalla luce, un bagliore abbacinante. Come una cerbiatta investita all'improvviso dalla luce dei fari di un'auto, restò paralizzata sulla lastra di pietra. Sopra di lei, Elizabeth impugnava la torcia e fissava il volto terrorizzato di Kathy, laggiù. Negli occhi di Kathy c'era un'espressione stralunata che in qualche modo piacque a Elizabeth, la quale sorrise fra sé. Poi Kathy parlò. «Chi è?», riuscì a balbettare con una voce che suonò strana alle sue stesse orecchie. «Per favore, chi è?». «Stai buona», sibilò Elizabeth. «Devi star buona, qua sotto». «Elizabeth?», fece Kathy, incerta. E quando non udì risposta, ripeté la domanda. «Elizabeth?», disse la sua voce, rauca. «Per favore, Elizabeth, sei tu?». Sopra di lei, Elizabeth continuò a stringere saldamente in una mano la torcia elettrica, mentre con l'altra toglieva la carta bianca al pacchetto che aveva portato dalla cucina. Quand'ebbe tolto la carta, parlò: «Ecco», disse, con una voce aspra quasi quanto il raschiare della gola di Kathy. «Ecco la tua cena». Gettò qualcosa dentro il pozzo: un pezzo di carne cruda che colpì, con uno schiocco umido, il volto di Kathy. Kathy non lo vide arrivare, e quando la fetta di carne la colpì istintivamente si ritrasse, e la voce le ritornò, ma soltanto sotto forma di un urlo di paura mista a ripugnanza per quella cosa gelida e vischiosa che le era caduta addosso. Fu come un ruggito quello che uscì dalla sua gola, riempiendo la caverna di suoni. Il lontano, monotono rombare della risacca scomparve, e tutti gli altri piccoli rumori vennero cancellati dal lacerante echeggiare del terrore di Kathy. Poi la voce di Elizabeth, aspra e cattiva, penetrò l'urlo come la lama di un coltello: «Dio ti maledica!», urlò a sua volta Elizabeth. «Chiudi quella tua fottuta bocca! Chiudi il becco!». Le sue urla continuarono, mentre la voce terrorizzata di Kathy si spegneva. «Chiudi il becco!». E poi il silenzio tornò a chiudersi sulla caverna, fino a quando il rombo della risacca lontana non trovò nuovamente il modo d'insinuarsi. «Mangia», ordinò Elizabeth. «Mangia la tua cena!».
Sotto di lei, gli occhi di Kathy cominciarono ad abituarsi a quel raggio di luce che squarciava dolorosamente l'oscurità. Abbassò gli occhi e vide, nel cerchio luminoso, la bistecca cruda che luccicava rossastra. La fissò, cercando di non ascoltare la voce di Elizabeth che le dava ordini da sopra. «Prendila!», le stava ingiungendo Elizabeth. «Prendila, piccola puttana, prendila! Su, prendila e mangiala! Prendila. Prendila. Prendila!». L'echeggiare di quella voce, lassù, acquistò qualità ipnotiche, e all'improvviso Kathy si trovò a stringere quell'oggetto sanguinolento e flaccido fra le mani. E poi l'ordine da sopra cambiò: «Mangiala», sillabò Elizabeth. «Mangiala. Mangiala. Mangiala!». Impotente, Kathy portò la carne cruda alla bocca. La luce si spense. Kathy restò seduta molto a lungo, rannicchiata sulla lastra di roccia, il pezzo di carne stretto fra le mani, ascoltando il rumore di un corpo che si trascinava, sempre più lontano, sopra di lei. E poi, infine, vi fu di nuovo il silenzio. Lei continuò a restar seduta nell'oscurità, come un animale guardingo, in attesa che un nemico invisibile le balzasse addosso dalla notte. E divenne consapevole del fatto che aveva fame. Lentamente, la sua mente cominciò a mettere a fuoco la realtà, e si chiese da quanto tempo si trovasse intrappolata in quel luogo, e quanto tempo fosse passato da quando aveva mangiato l'ultima volta. Pensò all'oggetto sanguinolento che stringeva in mano. In qualche punto nelle profondità della sua mente scoprì un piccolo fatto, un frammento d'informazione: certa gente mangiava carne cruda. Avvertì un sussulto allo stomaco, e per un attimo pensò che avrebbe vomitato. Poi la nausea passò, e ancora una volta provò i morsi della fame. Si decise. A forza si cacciò la carne cruda in bocca e cominciò a masticarla. Era lieta, adesso, di trovarsi al buio. Sapeva che non sarebbe stata capace di mangiarla, se fosse stata in grado di vederla. Quando fu a metà della bistecca cruda, udì di nuovo il rumore del corpo strascicato. Smise allora di masticare la carne e ascoltò. Il rumore divenne più forte; poi, quando le parve che fosse proprio sopra di lei, cessò. Kathy cominciò a dire qualcosa, poi s'interruppe. Più per istinto che per ragionamento, balzò giù all'improvviso dalla lastra di roccia. Qualcosa nel suo subconscio sembrò dirle che giù, nella fossa, il pericolo era minore di quello del pozzo sovrastante. Si rannicchiò contro la parete della caverna e aspettò che il raggio luminoso scendesse ancora dal pozzo, creando una paura che sarebbe stata ben più grande della paura dell'oscurità e del silenzio. Ma non vi fu nessun raggio di luce, nessun raschiare, nessuna voce
minacciosa che le impartisse ordini da lassù. Vi fu invece uno schianto secco, come se un oggetto, un oggetto duro, fosse stato lasciato cadere da sopra. Vi fu un nuovo silenzio, poi riprese il rumore del corpo strascicato che lentamente svanì in lontananza, fino a quando non si fuse completamente col rumore di fondo della risacca. Kathy restò ancora rannicchiata contro la parete. Quando infine le sue gambe si riscossero, invitandola esplicitamente a muoversi, Kathy cominciò una volta ancora a cercare a tentoni la strada verso il centro della caverna. Trovò il tavolo di roccia, e cominciò cautamente a passare le mani sopra la sua superficie, non volendo trovare l'oggetto che vi era caduto dall'alto, ma nello stesso tempo timorosa di non trovarlo. E poi le sue dita sfiorarono qualcosa. Le ritrasse, quasi che l'oggetto fosse arroventato, poi si fece coraggio e ritentò. Cominciò a esaminare l'oggetto con la punta delle dita: era duro e tondo, appiattito. Sembrava coperto da una specie di tessuto. Poi indovinò che cos'era: una borraccia. L'afferrò e la scosse. Sentì qualcosa sbattere contro le pareti, all'interno. Cautamente, svitò il tappo e annusò il contenuto. Non sentì nessun odore. Finalmente si fece coraggio e assaggiò il liquido. Era acqua. Kathy, assetata, la trangugiò a sorsate rapide. E l'acqua placò il bruciore della sua gola. Quando si svegliò, la mattina dopo, Elizabeth sgranò gli occhi davanti al mucchio d'indumenti incredibilmente sporchi in mezzo alla camera da letto. Lo fissò incuriosita, chiedendosi da dove potessero essere saltati fuori. Decise che Sarah doveva averli depositati lì durante la notte. Li raccolse, e dopo averli infilati nello scivolo che portava alla lavanderia, scese giù a fare colazione. Qualche minuto più tardi, Sarah si svegliò, e anche lei trovò un mucchio d'indumenti sporchi sul pavimento della stanza. Si alzò dal letto e li indossò. Poi anche Sarah scese giù e prese silenziosamente posto al tavolo della colazione. I suoi genitori la guardarono inorriditi. Elizabeth alzò gli occhi, si avvicinò a lei e la prese per mano. «Vieni, Sarah», le mormorò. «Non vorrai andare a scuola con questi vestiti». Elizabeth ricondusse sua sorella al piano di sopra, mentre Rose e Jack si guardavano. Nessuno dei due riuscì a spiccicar parola. Erano troppo spaventati.
17 Il tempo passò lentamente a Port Arbello, quella settimana. Marilyn Burton, rimandando ancora, coraggiosamente, l'inevitabile, aprì il negozio ogni giorno, e ogni giorno sorrise ai suoi clienti e li assicurò che, sì, era sicura che niente di male era successo a Kathy, e che sua figlia sarebbe tornata. Dentro di sé sapeva, tuttavia, che Kathy non sarebbe ritornata mai più. Ray Norton infoltì le squadre di ricerca, e gli uomini di Port Arbello iniziarono una ricerca sistematica nell'intera zona, ogni giorno battendo lungo un arco più ampio intorno alla cittadina. Norton non si aspettava che trovassero nulla, ma così li tenne occupati, e impedì che prestassero troppo orecchio alle accuse di Martin Forager, che ogni sera si esibiva, completamente ubriaco, all'osteria, e insultava la polizia che, secondo lui, non faceva nulla. Norton sperava di tenere occupati gli uomini per almeno dieci giorni, e di poter disporre, alla fine di quel periodo, di qualcosa di più solido su cui basarsi, oltre alla pura e semplice denuncia di una scomparsa. Le donne di Port Arbello si scoprirono tutte a bere più caffè, e presero l'abitudine di accompagnare i figli a scuola e di andarli a prendere alla fine delle lezioni. Tutte, salvo quelle che abitavano lungo la Strada del Promontorio dei Conger, dove Anne Forager, a quanto si riteneva, era stata aggredita, e Kathy Burton era scomparsa senza lasciare tracce. Le famiglie della Strada del Promontorio non discussero di quello che stava accadendo, né si consultarono a vicenda su quale fosse il modo migliore di affrontare la situazione. Era come se, ognuna per conto proprio, avessero deciso che niente sarebbe accaduto se non avessero ammesso che c'era qualcosa che non andava. Perciò i bambini della Strada del Promontorio continuarono ad andare a scuola e a tornare da soli, ogni giorno. Se qualcuno osservò che c'era un insolito traffico di automobili sulla Strada del Promontorio perché ognuna delle madri scopriva di avere una faccenda o due, urgenti, da sbrigare in città proprio nelle ore in cui, guarda caso, i bambini andavano a piedi, nessuno fece mai commenti. Tacitamente, esse conservavano le apparenze della normalità, e la continua vista delle squadre di ricerca in attività le rassicurava. Giovedì mattina Elizabeth fu sul punto di precipitarsi a correre dalla casa dei Conger fino alla Strada del Promontorio. Avrebbe anche tagliato attra-
verso il prato per arrivar prima alla Strada, all'inizio del bosco, ma la trattenne un leggero imbarazzo. Quand'ebbe raggiunto la Strada, lanciò una rapida occhiata sulla destra, poi deliberatamente rallentò il passo e cercò di assumere un'aria noncurante. Per la terza mattina di seguito, Jeff Stevens l'aspettava. Martedì mattina aveva supposto che fosse una semplice coincidenza. Non gli aveva chiesto come mai fosse uscito di casa nell'esatto momento in cui lei stava passando, lungo il bosco. Invece si era semplicemente affiancata a lui, gli aveva porto i libri, e lui se li era caricati. Mercoledì mattina l'aveva attesa accanto alla cassetta della posta degli Stevens, e lei si era chiesta se, per caso, non gli avessero detto di scortarla a scuola. Come se lui le avesse letto nel pensiero, aveva spontaneamente allungato la mano verso i suoi libri e le aveva sorriso. «Domattina tu potrai portare i miei», le aveva detto. «Sono lieto che tu viva quaggiù. Non è divertente farsi tutta questa strada da solo». Così, giovedì mattina Elizabeth si avvicinò a Jeff e protese le mani: «È il mio turno», sorridendogli. Quand'egli restò immobile, incerto, lei insisté: «Hai detto che oggi sarebbe toccato a me portare i tuoi libri». Jeff le porse in silenzio il pacco giurando tra sé di affrettarsi a riprenderli non appena fossero giunti in vista della scuola. Era già stato preso in giro abbastanza quando si era presentato portando i libri di Elizabeth; se oggi avessero visto Elizabeth che portava i suoi, non avrebbe potuto sopportare le nuove, ancor più salaci canzonature. Cercò affannosamente qualche argomento di conversazione, ma non gli venne in mente nulla. Questo, comunque, gli andava bene, perché aveva scoperto in sé, con vivo disappunto, una certa tendenza a balbettare quando parlava con Elizabeth. Si chiese se non si stesse già prendendo una cotta per lei, e decise che probabilmente era proprio così. «Sei terribilmente tranquillo, stamattina», fece Elizabeth. Jeff arrossì come un peperone. «Io stavo... uhm... stavo giusto pensando a Kathy Burton», riuscì a balbettare, e il rossore aumentò. Ma che cosa gli stava capitando? Aveva ben chiaro ciò che stava per dire. Perché non riusciva a dirlo, così, normalmente? «Mi chiedo che cosa le sia successo», disse Elizabeth, accigliandosi un po'. «Forse, dopotutto, Anne Forager non mentiva». «Salvo che Anne Forager è ancora in giro, e Kathy è scomparsa». Questa volta Jeff Stevens pronunciò ogni parola con estrema attenzione e riu-
scì a non balbettare. «Spero tanto che la trovino», esclamò Elizabeth. «È una mia buona amica. Ha fatto molte volte la baby-sitter per i Norton, e avevamo l'abitudine di fare questa strada assieme». Jeff si scoprì improvvisamente a desiderare che non ritrovassero mai più Kathy Burton. Non era sicuro di voler fare la strada addirittura con due ragazze. Decise che avere quattordici anni era una faccenda schifosa. Naturalmente dimenticò di riprendersi i libri fin quando lui ed Elizabeth non furono dentro la scuola. Quella mattina Jeff Stevens dovette sorbirsi una tremenda presa in giro. Entro giovedì pomeriggio Port Arbello aveva cominciato ad accettare la realtà della situazione. Marilyn Burton scoprì che gli incassi stavano tornando a un livello normale; sempre meno gente si fermava «tanto per fare una chiacchierata», comperando intanto un oggetto o due più per senso di colpa che per reale bisogno. Ray Norton ricominciò a multare le macchine che avevano preso l'abitudine di parcheggiare in piazza. Quel giovedì mattina aveva deciso che le ricerche sulla ragazzina scomparsa non avrebbero più potuto essere usate come scusa per sorvolare su quelle faccende meno importanti. Le cose stavano tornando alla normalità. La signora Goodrich era ancora una volta in lavanderia, e quando vide il nuovo mucchio d'indumenti sporchi scosse mestamente il capo. Pensò di separarli dal resto della roba da lavare e di riportarli di sopra, dalla signora Rose, poi ricordò ciò che era accaduto l'ultima volta che l'aveva fatto. E concluse che sarebbe stata fatica sprecata. Perciò mise gli indumenti infangati in una tinozza a parte, e aggiunse del sapone in più e della candeggina mentre s'inzuppavano. Due ore più tardi, quando uscirono dall'asciugatore, erano puliti come nuovi. Puliti come esigevano gli alti standard della signora Goodrich. Elizabeth Conger si fermò incerta, fuori dell'edificio scolastico di Port Arbello, scrutando i volti di bambini e ragazzi mentre ne emergevano. Per un attimo temé di aver perso quello che stava cercando. Poi, all'improvviso, sorrise e agitò la mano. Quando l'oggetto dei suoi sforzi non le rispose, chiamò: «Jimmy!». Urlò. Un ragazzino alzò lo sguardo. «Da questa parte», gli gridò, agitando di nuovo la mano.
Jimmy Tyler era piccolo per la sua età, ma non al punto che il fatto rappresentasse uno svantaggio troppo forte per lui. Si trattava soltanto di un paio di centimetri in meno o giù di lì, e suo padre gli aveva detto che, comunque, quando fosse arrivato il suo prossimo compleanno, sarebbe stato sicuramente alto quanto gli altri ragazzini di otto anni. Ma quando si hanno soltanto sette anni, gli otto sembrano molto lontani; perciò Jimmy compensava il suo leggero svantaggio in altezza superando ogni altro in agilità. Soprattutto nell'arrampicarsi. Jimmy Tyler si arrampicava su qualunque cosa; il suo più grande desiderio era di arrampicarsi sempre più in alto e più rapidamente di ogni suo amico. Così poteva guardarli dall'alto, e questo lo faceva star bene. Alzò gli occhi quando sentì chiamare il suo nome e vide Elizabeth Conger che lo salutava agitando la mano. Lui le rispose nello stesso modo, vide che lei lo stava aspettando e affrettò il passo. «Vuoi far la strada fino a casa con me?», gli chiese Elizabeth Conger. I Tyler vivevano anch'essi sulla Strada del Promontorio, ma ancora più lontano dei Conger, e quella settimana, con molta sorpresa e piacere di Jimmy, Elizabeth lo aveva aspettato ogni pomeriggio, e aveva fatto con lui la strada di casa. A Jimmy piaceva Elizabeth, anche se era una ragazza. Supponeva che, essendo lei due volte più vecchia di lui, questo non avesse importanza. Ad ogni modo, nessuno dei suoi amici l'aveva ancora preso in giro perché faceva la strada con una ragazza. «D'accordo», annuì vivamente. Percorsero in silenzio la maggior parte della strada di casa, e fu soltanto quando stavano passando davanti agli Stevens che Jimmy parlò: «È qui che è successo, non è vero?», chiese, pieno di curiosità. «Dove è successo che cosa?», ribatté Elizabeth. «Dove Kathy Burton è scomparsa», spiegò Jimmy, senza che la sua giovane voce esprimesse una qualche reazione per quel fatto sconvolgente. «Non lo so», fece Elizabeth. «Immagino di sì». «Non credi che l'abbiano presa loro?», chiese Jimmy, indicando la vecchia e brutta casa sovrastante il mare. «No, non credo proprio», replicò Elizabeth, in tono reciso. «Quella gente non è come erano i Barnes». «Be'», fece Jimmy. «Anche così, quella casa non mi piace». «Anch'io un tempo pensavo che quella casa fosse infestata», lo stuzzicò Elizabeth, «quando avevo la tua età». «Io non credo agli spiriti», ribatté Jimmy, chiedendosi, nel contempo, se
ci credesse o no. «Non ci credi?», disse Elizabeth, ma la sua voce suonò diversa, come se all'improvviso stesse parlando a se stessa, e non più a Jimmy. «Neppure io, una volta; ma adesso non ne sono più sicura». «E perché?», chiese Jimmy. Elizabeth sembrò riscuotersi da un pensiero segreto, e lo fissò. «Che cos'hai detto?», fece. «Ho chiesto, perché?», tornò a chiedere Jimmy. «Perché ora credi agli spiriti, se una volta non ci credevi?». «Oh», disse Elizabeth, «non lo so». Si sentì improvvisamente a disagio e accelerò il passo. Jimmy Tyler fu quasi costretto a mettersi a correre, per tenerle dietro. «Rallenta, per favore», disse infine, ansimando. «Non ce la faccio». Adesso erano vicini al bosco, ed Elizabeth si arrestò, scrutando fra gli alberi. «Se c'è qualcosa d'infestato qui intorno, è là dentro». «Nel bosco?», replicò Jimmy. «E perché mai il bosco dovrebbe essere infestato?». «A causa di qualcosa che è accaduto là dentro. Qualcosa di brutto, molto tempo fa». «Che cosa è accaduto?», chiese Jimmy. «Non lo so», disse Elizabeth. «Ma credo di averlo quasi...». «Scoperto?», esclamò Jimmy. La sua voce si alzò stridula. «E me lo dirai, quando l'avrai saputo? Per favore, Elizabeth, me lo dirai?». Elizabeth sorrise al bambino accanto a lei e gli afferrò una mano. «Sai che cosa?», gli disse, abbassando la voce. «Questo pomeriggio cercherò di scoprire che cos'è veramente accaduto. Puoi venire a casa mia alle quattro e mezzo?». «Non lo so», fece Jimmy, dubbioso. «Perché non mi chiami al telefono? Mia mamma di solito non mi lascia uscire così tardi. Di questa stagione a quell'ora comincia a fare buio, e non le piace che io stia fuori al buio». «Se vuoi sapere quello che è accaduto nel bosco», ripeté Elizabeth con voce allettante, «vieni da me alle quattro e mezzo. Non farà buio fin dopo le cinque. Inoltre, Sarah vuol giocare con te». «Come fai a saperlo?», chiese Jimmy, in tono inquisitivo. «Sarah non può parlare». «Lo so, e basta», rispose Elizabeth. «Tu fatti trovare qui alle quattro e mezzo, e io ti dirò perché il bosco è infestato». «Va bene», finì per assentire Jimmy. «Ma sarà meglio che tu abbia una
buona spiegazione. Io non credo ai fantasmi». Cominciò ad allontanarsi. «Accanto alla cassetta della posta», precisò Elizabeth. «Alla cassetta della posta» gli ripeté, quasi gridando. «Ci troverai lì». Jimmy Tyler annuì, ormai lontano; la salutò con un gesto della mano. Elizabeth lo vide affrettarsi, sempre più rapido, lungo la strada. Si chiese che cosa gli avrebbe raccontato quel pomeriggio, e perché mai gli avesse detto che il bosco era infestato. Ora si rendeva conto che era stata una cosa ben sciocca. Jimmy aveva ragione, naturalmente. I fantasmi non esistevano. Be', avrebbe inventato qualche storia, e almeno Sarah avrebbe avuto qualcun altro, oltre a lei, con cui giocare. Sarebbe stato simpatico. Alle quattro e mezzo Elizabeth e Sarah erano in attesa accanto alla cassetta della posta, sulla Strada del Promontorio, all'imboccatura del lungo viale dei Conger. Elizabeth vide la piccola sagoma di Jimmy Tyler che veniva verso di loro e agitò la mano. Lui le restituì il saluto. «Vedi?», disse Elizabeth, rivolta a Sarah. «Eccolo che viene, proprio come ti avevo detto». Sarah fissò Elizabeth, e non c'era nulla nei suoi grandi occhi castani, niente a indicare che, quanto meno, l'avesse udita. Ma Elizabeth sapeva che Sarah l'aveva udita. Le sorrise, ma Sarah non rispose. Si limitò a restare immobile, aspettando pazientemente, mentre Jimmy Tyler si avvicinava. «Non posso fermarmi molto a lungo», disse Jimmy quando infine le raggiunse. «Mia madre ha detto che devo essere a casa prima che faccia buio». E guardò il sole che stava ormai scendendo verso l'orizzonte, dietro di loro. «Usciamo sul prato», propose Elizabeth. «Giochiamo a rincorrerci». «Sarah sa come si gioca?», chiese Jimmy, senza sapere, né preoccuparsi, se il soggetto della sua domanda potesse udirlo o capirlo. Elizabeth lo fissò con aria di rimprovero. «Ma certo che lo sa», replicò. «E farai meglio ad augurarti che non tocchi mai a te star sotto, perché lei sa correre assai più veloce di te. E anche di me, se è per questo». «Chi sta sotto per primo?», chiese Jimmy. «Starò sotto io», disse Elizabeth. «E conterò fino a cinque, per darvi il tempo di scappare. Uno... due... tre...». Jimmy Tyler stava già galoppando attraverso il prato. Sarah si limitò a star ferma, fissando sua sorella. Elizabeth smise di contare, appoggiò delicatamente le mani sulle spalle di sua sorella, piegando un po' le ginocchia così da trovarsi alla sua stessa altezza.
«Stiamo giocando a rincorrerci», le disse. «E io sto sotto. Devi scappar via da me». Per un attimo Sarah sembrò non aver sentito; poi, come se all'improvviso l'idea le fosse penetrata nella mente, scattò veloce nella stessa direzione presa da Jimmy Tyler. «Quattro... cinque!». Elizabeth gridò l'ultimo numero e cominciò a inseguire gli altri due. Sapeva che avrebbe potuto raggiungerli quando voleva, e perciò non ci mise troppa energia. Sembravano divertirsi molto a sfuggire alla sua presa, e lei un paio di volte fece apposta a scivolare col piede quando ormai si trovava a pochi centimetri da uno di loro, e a un certo punto fece addirittura un capitombolo, fra le risate di Jimmy. Poi, quando sentì che l'interesse di Jimmy per il gioco scemava, all'improvviso lo raggiunse. «Ora sei sotto tu», gridò, scappando via da lui. Lui si arrestò all'improvviso, come stordito dalla piega che aveva preso il gioco. Poi sorrise felice e si mise a inseguire Sarah. Sarah giocava con una decisione che non si riscontrava in altri bambini. Quando Jimmy l'inseguiva, lei guizzava qua e là in una corsa pazza, la testa piegata in avanti, le gambe che si muovevano veloci come pistoni. Fu subito ovvio che Jimmy non sarebbe mai riuscito a raggiungerla. Elizabeth lo aggirò e deviò verso Sarah. Quando fu vicina a sua sorella, la chiamò, e il suono della sua voce fece alzare la testa a Sarah, la quale interruppe il passo e si fermò per un attimo. Elizabeth sfrecciò verso Jimmy, mentre Sarah teneva gli occhi fissi su di lei. «Te l'avevo detto che non l'avresti mai presa!», gridò Elizabeth, beffarda, al ragazzino. «Ma scommetto che posso pigliare te», ribatté Jimmy, spostando la sua attenzione da Sarah a Elizabeth. Dare la caccia era in ogni caso più divertente: Elizabeth correva a zig zag, e non in linea retta, nel tentativo di schivarlo. Jimmy cominciò a sforzarsi di prevedere le sue mosse, senza accorgersi che Elizabeth, fingendo di andare avanti e indietro, in realtà si stava avvicinando sempre più al bosco. Non se ne rese conto finché lei non si accasciò al suolo, lasciando che lui la raggiungesse. «Mi arrendo», fece Elizabeth, scoppiando a ridere, cercando di riprender fiato. «Non posso correre più veloce di te». Jimmy si lasciò cadere sull'erba accanto a lei, poi si rizzò a sedere. «Oh, guarda», disse. «Siamo quasi nel bosco». «Sì», annuì Elizabeth. «Non mi sono accorta che fossimo così vicini. Forse sarebbe meglio tornare indietro». «No», replicò Jimmy con fermezza. «Voglio sapere del bosco. Hai scoperto nulla?».
«Non c'è nulla», disse Elizabeth. «Niente del tutto». «Scommetto che invece c'è qualcosa», ribatté Jimmy, facendo il broncio. «Semplicemente non vuoi dirmelo». «Be'», fece Elizabeth, lentamente, scrutando fra gli alberi, «c'è un luogo segreto. Soltanto Sarah e io lo conosciamo». Gli occhi di Jimmy si spalancarono per l'interesse. «Un luogo segreto?», le fece eco. «Che tipo di luogo segreto?». Elizabeth scosse la testa. «Non credo che ti piacerà», disse. «Fa paura». «Io non ho paura», dichiarò Jimmy. «Io non ho paura di nulla. Dove si trova?». Elizabeth sorrise. «Non è proprio nel bosco... È oltre il bosco». Jimmy si accigliò. «Ma non c'è niente oltre il bosco. Soltanto l'oceano». «Ma è là che si trova il posto segreto», insisté Elizabeth. «Voglio andarci», dichiarò perentoriamente Jimmy, alzando la voce. «Sssst», gli intimò Elizabeth. «Non spaventare Sarah». «Si spaventa facilmente?», volle sapere lui. «A volte. Non sempre... Ma a volte sì». Sarah sedeva tranquilla con loro, e sarebbe stato impossibile per un osservatore dire se seguisse o no la conversazione. Guardava prima l'uno e poi l'altra, ma non sempre fissava quello che stava parlando. Sembrava ascoltare una propria conversazione, una conversazione completamente separata, distinta, da quella tra Elizabeth e Jimmy. Jimmy fissò Sarah, soprappensiero. «E lei ha paura del posto segreto?», chiese. «Non credo», disse Elizabeth, con una punta d'incertezza. «E tu?», insisté Jimmy, che percepiva l'esitazione nella sua voce. «Non lo so», rispose Elizabeth, dopo una lunga pausa. «Credo che forse dovrei aver paura, ma non l'ho». «Voglio vederlo». Non era più una semplice richiesta, ma un ordine. Jimmy Tyler atteggiò il volto a un'espressione cocciuta e fissò Elizabeth negli occhi. «Voglio vederlo», ripeté. «Si sta facendo tardi», tentò di dissuaderlo Elizabeth. «Non m'importa», insisté Jimmy, più ostinato che mai. «Voglio vedere il posto segreto... E voglio vederlo subito!». «E va bene». Elizabeth si arrese. «Vieni». Si alzarono in piedi, ed Elizabeth condusse gli altri due attraverso il bosco. Questa volta non avanzò tra gli alberi con passo rapido e sicuro, bensì con cautela, e molte volte dovette fermarsi e guardarsi attorno, come se
stesse cercando segni particolari che indicassero la strada. Finalmente, emersero dal bosco, sulla scogliera. «Dov'è?», chiese Jimmy. «E questo?». Nella sua voce suonava un vivo disappunto. Elizabeth si guardò intorno, incerta sulla direzione verso la quale andare. Oggi si sentiva a disagio, e qualcosa dentro di lei le diceva di non procedere oltre, di tornare indietro prima che fosse troppo tardi. Ma non sapeva per quale motivo sarebbe stato «troppo tardi». Sapeva soltanto, in quel momento, di aver perduto, per qualche ragione, il suo orientamento, dimenticando la direzione che avrebbe dovuto prendere. Cominciò a percepire uno strano ronzio nelle orecchie, un ronzio che non soffocava il rombo della risacca, ma sembrava penetrarla al punto da stordirla. Lottò con se stessa e fu quasi sul punto di tornare indietro, immergendosi nuovamente nel bosco, quando udì la voce di Jimmy. «Guarda», stava dicendo il ragazzino. «Sarah conosce la strada. Seguiamola». Elizabeth si guardò affannata intorno, ed ecco, c'era lì Sarah che stava scendendo lungo il fianco della scogliera, come seguendo un invisibile sentiero, muovendosi da un appiglio all'altro. Jimmy cominciò subito a seguirla. Smilzo e agile com'era non ebbe alcuna difficoltà a tenerle dietro. Elizabeth esitò per un altro paio di secondi, poi, sia pure con riluttanza, a sua volta cominciò la discesa. Man mano che procedeva sempre più giù, lungo la scogliera, la confusione che le aveva invaso la mente si dissipava. Ora sapeva dove stava andando. Il suo passo si fece più sicuro, i suoi movimenti riacquistarono l'elasticità e l'agilità che sempre, prima di allora, l'avevano portata con tanta sicurezza fino al grande macigno che nascondeva l'ingresso della galleria della caverna. E poi furono lì, tutti e tre rannicchiati all'ombra dell'enorme roccia. Jimmy guardò Elizabeth, perplesso. «È questo?», chiese, e il tono della sua voce sottintendeva che era meno di quanto si era aspettato. «Questo è l'ingresso», bisbigliò Elizabeth. «Vieni». E, all'improvviso, scomparve. Jimmy fissò il punto dove lei si trovava un istante prima, rannicchiata, e poi si rese conto che doveva esserci una galleria. Bramoso, seguì Elizabeth dentro il cunicolo che sprofondava nelle viscere della scogliera.
Laggiù nella fossa, Kathy Burton non fu immediatamente conscia del rumore dei corpi trascinati che proveniva dall'alto. Giaceva sul pavimento della caverna, la borraccia stretta spasmodicamente fra le mani. Una volta l'aveva perduta nel buio, e aveva impiegato quella che le era parsa un'eternità per ritrovarla, muovendosi su e giù sul gelido e umido pavimento roccioso, non sapendo se stesse esplorando davvero l'intera area, oppure soltanto una piccola porzione di essa, girando in cerchio. A un certo punto, mentre cercava a tentoni nel buio, la sua mano si era chiusa su uno strano oggetto, e c'erano voluti alcuni istanti prima che si rendesse conto che era un osso, un frammento dello scheletro che giaceva là sotto, ordinatamente disteso lungo una parete. Un'altra volta la sua mano aveva sfiorato la carcassa pelosa del gatto, e l'aveva colta un accesso irrefrenabile di vomito. Soltanto dopo qualche minuto era riuscita a riprendere la sua ricerca. L'odore nella caverna cominciava a farsi disgustoso, poiché la carne del gatto si stava putrefacendo sempre più, e Kathy era stata ovviamente costretta a soddisfare i suoi bisogni naturali più volte. Mescolato a questi fetori c'era l'odore acido del suo vomito. Finalmente aveva ritrovato la borraccia, e aveva preso l'abitudine di tenerla stretta a sé tutto il tempo in cui era sveglia. Quando l'esaurimento la sopraffaceva, facendola cadere in un sonno agitato, pieno di sussulti e di bruschi risvegli, la borraccia restava accanto a lei, ed era la prima cosa che cercava a tentoni non appena si svegliava. Da parecchio tempo non riusciva più a udire il rumore della risacca, non avrebbe saputo dire da quanto; gli unici suoni che ancora venivano registrati dalla sua mente erano quelli prodotti dal raschiare delle minuscole creature che le facevano compagnia: sulle prime aveva creduto che fossero topi, ma in realtà erano minuscoli granchi che correvano fra le rocce, trovando rifugio e cibo nelle piccole pozze d'acqua marina prodotte qua e là dalle infiltrazioni. Non aveva ancora tentato di mangiarli, ma temeva di essere vicina al momento in cui avrebbe dovuto sforzarsi di farlo. Stava appunto riflettendo se sarebbe stata davvero una cosa saggia mangiare quei granchi, quando all'improvviso fu consapevole dei suoni che provenivano da sopra di lei. Kathy s'immobilizzò nel punto in cui si trovava, e attese in silenzio. Avrebbe voluto mettersi a gridare, ma temeva di farlo : non sapeva che cosa ci fosse sopra di lei. E poi il raggio della torcia elettrica la investì, per la prima volta dopo tre giorni. Ormai i suoi occhi si erano talmente abituati
all'oscurità totale che la luce la trafisse con fitte insopportabili di dolore. Udì una voce sopra di lei, ma non riuscì a distinguere le parole. «Guarda», stava dicendo Jimmy Tyler, tenendo bassa la voce per l'improvvisa paura. «C'è qualcuno, là sotto!». «Ssst», fece Elizabeth. «Ti sentirà». «Ho paura», confessò Jimmy. La paura della caverna sopraffaceva quella di essere giudicato un codardo. «Va tutto bene», lo rassicurò Elizabeth. «Non può salire fin quassù». E poi Kathy Burton aprì gli occhi e mosse il capo, così da trovarsi nuovamente sotto il raggio di luce. Guardò in alto. Cercò di parlare, ma con vivo sgomento scoprì di non esserne capace. Tutto quello che le uscì dalla gola fu un rauco suono gorgogliante. «Ma è Kathy!», esclamò Jimmy. «Abbiamo trovato Kathy Burton!». «Sì», disse lentamente Elizabeth. «L'abbiamo trovata, non è vero?». Jimmy Tyler non notò la strana sfumatura che si era insinuata nella sua voce. Tutta la sua attenzione era per Kathy. «Ma che cos'ha?», bisbigliò. Poi aggiunse: «Dev'essere davvero malridotta!». Si affacciò al pozzo: «Kathy!», chiamò, con quanta più voce aveva. «Sono io, sono Jimmy». Là sotto, Kathy Burton sentì un'ondata di sollievo afferrarla. Era salva. Jimmy Tyler avrebbe chiamato i soccorsi, e lei sarebbe uscita finalmente dalla sua prigione, laggiù. «Vai a chiamare qualcuno», riuscì a sillabare, con grande difficoltà. «Non riesco a sentirti», gridò Jimmy, e la sua voce echeggiò più volte nel pozzo. «Aiuto», gracchiò Kathy, un po' più forte. Jimmy si voltò verso Elizabeth. «Dobbiamo farla uscire di qui. Sarà meglio andare a chiamare qualcuno». «No», mormorò Elizabeth. «Tiriamola fuori subito. C'è una scala, qui. Guarda». Gli mostrò la scala di corda. «Non reggerà il mio peso, ma scommetto che per te andrà bene. Puoi scendere a controllare come sta. Se sta abbastanza bene, potrà risalire con te». Jimmy rifletté un attimo. Non aveva mai usato una scala di corda prima di allora, ma d'altro canto lui era il miglior scalatore che conoscesse. E pensò a quanto sarebbe stato bello se fosse stato suo il merito di aver salvato Kathy Burton, dopo che tutte le squadre di ricerca degli adulti non c'erano riuscite. «Tutto bene», gridò giù nel pozzo. «Scendo giù». E all'improvviso, laggiù nella fossa, Kathy si rese conto con orribile
chiarezza di ciò che stava per accadere. Cercò di gridare, di metterlo in allarme, ma la sua voce non riuscì a valicare la barriera della paura. I suoi occhi orrificati videro la scala di corda comparire all'imboccatura del pozzo. Cercò di alzarsi in piedi, di raggiungere la scala e di afferrarne l'estremità, ma era troppo debole. In silenzio, seguì la lenta discesa di Jimmy Tyler, un gradino dopo l'altro. Accadde quando Jimmy fu a poco più di metà strada: sopra di lui Elizabeth chiamò a raccolta tutte le sue forze, afferrò strettamente ambo i lati della scala e diede un violento strappo. Se Jimmy se lo fosse aspettato, la sua presa avrebbe retto. Ma non se l'aspettva, e prima una mano e poi l'altra si staccarono dalle corde viscide. E precipitò. Si agitò incompostamente, cercando un appiglio qualsiasi per interrompere la caduta, ma era troppo tardi. Cadde a testa in giù, con un tonfo, accanto a Kathy Burton, e giacque immobile. Il raccapriccio fu tale che riuscì a strappare un urlo lacerante dalla gola riarsa di Kathy, che trovò forza sufficiente per spiccare un balzo verso la scala di corda. Ma, impotente, la vide una volta ancora scomparire su per il pozzo. E poi udì la voce aspra e cattiva che aveva imparato ad associare con Elizabeth: «Prenditi cura di lui... Prenditi cura del tuo fratellino. Ha bisogno di te». La luce si spense e Kathy tese l'orecchio ad ascoltare il rumore del corpo trascinato che scompariva ancora una volta lontano. Cominciò a cercare tentoni, al buio, Jimmy Tyler. Era quasi l'imbrunire quando Elizabeth e Sarah riattraversarono il bosco e quando furono oltre il prato la notte era ormai buia, su Port Arbello. 18 Il giorno dopo non ci fu scuola, a Port Arbello. La scuola aveva aperto come al solito, ma alle nove era divenuto fin troppo ovvio agli insegnanti che si sarebbero trovati davanti ad aule praticamente vuote. I pochi bambini che si erano fatti vivi furono quasi subito congedati. Ma si rifiutarono di andare. Tutti avevano ricevuto precise istruzioni, a casa, di non lasciare la scuola finché i loro genitori non fossero venuti personalmente a prenderli, anche quelli che vivevano soltanto a un isolato o due di distanza. Il panico era cresciuto durante l'intera notte, dall'istante in cui la madre di Jimmy Tyler aveva telefonato a Ray Norton che suo figlio non era tornato a casa. Ossia, era tornato a casa da scuola, aveva poi ammesso sua
madre sotto interrogatorio, ma era subito tornato fuori a giocare. E non l'aveva più rivisto. No, non sapeva dove fosse andato. Sì, supponeva che avrebbe dovuto informarsi, prima di lasciarlo uscire, ma aveva pensato che, comunque, sarebbe rimasto vicino a casa; dopotutto non c'erano bambini della sua età con cui giocare. Per quanto, a ripensarci, c'erano le figlie dei Conger, anche se un po' più adulte di lui, non troppo distanti... La fronte di Ray Norton si corrugò, quando Lenore Tyler nominò le figlie dei Conger. Con quello erano tre i casi in quella zona, anche se in verità l'avventura di Anne Forager... Si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che Martin Forager comparisse nel suo ufficio, per ricominciare a insultarlo per il modo in cui aveva diretto le cose in generale, e nel caso di sua figlia in particolare. Quand'ebbe concluso il colloquio con Lenore Tyler, Norton fece per chiamare Jack Conger, poi ci ripensò. Decise di aspettare un po', per vedere che cosa sarebbe successo. Rivolse invece la sua attenzione a un altro problema, un problema che, pensava, avrebbe potuto rivelarsi ben peggiore di quello dei bambini scomparsi... La scomparsa dei bambini era un fatto. Non c'era niente che lui potesse fare in proposito, per il momento, salvo cercare di scoprire dove fossero finiti. Tutt'altra cosa era la reazione di Port Arbello a quelle scomparse. Una reazione, pensò Ray Norton, prevedibile; e non gli piaceva affatto quello che intuiva prepararsi. Port Arbello non era abituata ad avere a che fare col crimine. I portarbellesi facevano parte di quella grande massa di americani i quali sapevano, sì, che il crimine esisteva, ma non lo sperimentavano mai personalmente. Vivevano immersi in un'atmosfera fiduciosa, non avevano alcuna ragione di non farlo. Per la maggior parte della sua carriera, Ray Norton non aveva fatto niente di più che infliggere multe per eccesso di velocità (per la maggior parte a turisti) e mantenere calma e ordine nell'osteria. C'era stato un isolato caso di suicidio, a Port Arbello, ma ciò era tutt'altro che insolito nel New England, in particolare durante l'inverno. Ma i crimini che infestavano il paese, i crimini che costringevano la gente delle metropoli a barricarsi nelle proprie case, erano praticamente sconosciuti a Port Arbello. Non c'era mai stata un'aggressione a scopo di furto, e neppure un assassinio, quanto meno durante gli ultimi cento anni. La cittadina era stata sempre così innocente, che solo negli ultimi giorni la gente aveva cominciato a far in-
stallare nuove serrature alle proprie porte. Fino a quel momento si erano sentiti perfettamente a proprio agio con le vecchie serrature che, come tutti sapevano, chiunque poteva aprire con la prima chiave che gli fosse capitata fra le mani. Ma adesso avevano paura, e Ray Norton trovava la cosa preoccupante. Soprattutto con un uomo come Martin Forager che faceva del suo meglio per soffiare sul fuoco. Normalmente, nessuno avrebbe prestato troppa attenzione a Martin Forager, ma adesso egli aveva qualcosa di cui servirsi come leva per richiamare su di sé sguardi e orecchie, e Ray Norton era convinto che l'avrebbe usato per ricavarne il miglior vantaggio. Ray era ben conscio che Martin Forager provava un vivo risentimento verso di lui, per la carica che aveva a Port Arbello. Non che potesse biasimarlo. Chi mai avrebbe voluto essere noto ovunque come «il povero Marty Forager», definizione sempre accompagnata da un patetico scrollare del capo e da parole di pietà per sua moglie e sua figlia? Ray stava riflettendo sulla situazione, cercando il modo migliore di disinnescarla, quando l'oggetto principale della sua preoccupazione comparve nel suo ufficio. Martin Forager torreggiò nella stanza, e Ray Norton si avvide subito che aveva bevuto. «Sono venuto a dirti», ringhiò Forager, con voce ostile, «che ci sarà un incontro, stasera. Dal momento che tu non sembri capace di far nulla per impedire ciò che sta accadendo, vogliamo vedere, riunendoci, se non salterà fuori qualche buona idea nostra». Chinò la testa e fissò il capo della polizia con sguardo deciso, come se aspettasse di venir sfidato. Ray Norton lo contemplò, senza scomporsi. «Sono invitato?», domandò, pacatamente. Forager sembrò colto di sorpresa, e arretrò d'un passo. «Non abbiamo alcun modo d'impedirti di venire», disse, sia pure con riluttanza. «Ma non sarai tu a dare ordini», aggiunse. «Presumo che a dirigere l'incontro sarà Billy Meyers», disse Ray, sempre calmo. «È ancora presidente della giunta, non è vero?». «Questo è un consiglio dei cittadini», ghignò Forager, «non una riunione della giunta. Nessuno lo dirigerà». «Capisco», disse Norton, alzandosi in piedi. Fu contento di vedere che Forager arretrava di un altro passo. «In questo caso puoi contare sulla mia presenza. Ho sempre desiderato assistere a una riunione che nessuno dirige. Dovrebbe essere affascinante». Martin Forager lo guardò furioso, e Ray pensò che stesse per sbottar
fuori con qualcos'altro. Invece Forager, semplicemente, girò sui tacchi e uscì in silenzio dall'ufficio. Norton lo seguì con lo sguardo, e quando fu scomparso decise che era ora di chiamare Jack Conger. «Jack», cominciò, quando il direttore del Courier fu al telefono, «temo che stiano per nascere dei guai». «Non un altro bambino», disse Jack. «Non credo che Port Arbello possa sopportarlo». «No», rispose Norton. «Non è questo. Adesso è Port Arbello che mi preoccupa. Martin Forager è appena stato qui, un'altra volta». Rapidamente informò Jack di quello che Forager gli aveva detto. Si accertò che Jack afferrasse perfettamente non soltanto le parole di Forager, ma l'intero suo atteggiamento. «In altre parole», disse Jack, dopo che ebbe ascoltato Ray Norton fino in fondo, «tu prevedi che si radunerà una folla inferocita per un linciaggio». «Non direi questo», replicò Ray, lentamente. «Non per vederlo pubblicato sul giornale», lo schernì Jack. «Ma è questo che stai dicendo, non è vero?». «Be', non credo che siamo ancora arrivati a questo punto...», cominciò il capo della polizia. «...Ma è la direzione che le cose stanno prendendo», finì Jack Conger per lui. «Hai idea di chi voglia strigliare Forager?». «Io credo di essere in cima alla lista», rispose cercando di mettere un po' d'ironia nella voce. Poi ritornò serio: «Francamente, sono preoccupato soprattutto per te». «Per me?», replicò Jack. La sua voce rifletteva un'incredulità che non sentiva. «E perché mai?». «Tanto vale che guardiamo in faccia i fatti», disse Norton. «Tutto quello che è accaduto... è accaduto accanto a casa tua». «Non è del tutto vero», lo corresse Jack. «Anne Forager ha dichiarato che si trovava vicino a casa nostra, ma nessuno lo sa per certo. Kathy Burton è stata vista per l'ultima volta vicino a casa nostra, ma sarebbe più esatto dire che si trovava davanti alla casa degli Stevens. Dopotutto Elizabeth ha detto che si sono lasciate all'altezza del bosco, ai confini della proprietà. E in quanto a Jimmy Tyler, non sappiamo assolutamente nulla di lui. I Tyler vivono un buon quarto di miglio più in là di noi. E allora, perché pensi che debbano concentrare tutta la loro attenzione su di me?». «Ma è naturale», replicò in tono conciliante il poliziotto. «Tutto è accaduto sulla Strada del Promontorio dei Conger. Perciò, che cosa viene in
mente quando si pensa alla Strada del Promontorio dei Conger? I Conger, naturalmente». «Capisco», disse lentamente Jack. «E io, che cosa pensi dovrei fare?». «Penso che dovresti venire all'incontro di stasera, e dovresti venirci con me». «Dopo quello che hai detto di noi due a Martin Forager?», fece Jack, riuscendo ancora ad aggrapparsi a un brandello di umorismo, per quanto nero. Ray Norton ridacchiò. «Be', visto che ormai siamo in ballo, balliamo fino in fondo. Tuttavia, parlando seriamente», proseguì, «penso davvero che farai meglio a intervenire all'incontro, se non altro per non metterti in evidenza con la tua stessa assenza». «Mah», disse Jack, dubbioso, «non sono sicuro di essere d'accordo col tuo ragionamento, ma sarò lì, se non come privato cittadino, almeno come direttore del Courier. Se tutti sapranno che le loro parole saranno riferite, nero su bianco, questo potrebbe contribuire a calmare tanti bollori». «Forse questo può valere per alcuni di loro, ma non per Martin Forager. Credo che cominci a pensare a tutto questo pasticcio come alla sua personale crociata». «Sì», rifletté Jack. «È proprio quel tipo di persona, non è vero? Vuoi che ti dia un passaggio fino al luogo della riunione?». «D'accordo», assentì Ray. «Ti aspetto un po' prima delle sette. Scoprirò dove s'incontrano: ti telefonerò, oppure te lo dirò quando vieni qui». La conversazione ebbe termine. «C'è niente che dovrei fare?», chiese Rose. Erano nel piccolo studio. Rose aveva ascoltato in silenzio Jack che le riferiva dell'incontro al quale doveva partecipare, e di ciò che Ray temeva ne sarebbe saltato fuori. «Forse dovrei venire con te», aggiunse Rose. «No», disse Jack. «Non ne vedo la ragione. Credo sia meglio che tu resti qui con le bambine». Rose lo fissò, cercando di sondare il suo umore. Sembrava preoccupato per qualcosa, ma non era sicura di sapere di cosa, esattamente. «Non penserai che possa capitar loro qualcosa, non è vero?», chiese. Jack scrollò le spalle. «Non vedo come. Non fino a quando tu sarai qui, e loro rimarranno a casa», disse. «In ogni caso, sarò molto più tranquillo alla riunione se saprò che ci sei tu a sorvegliarle».
«Jimmy Tyler», disse Rose lentamente. «È strano». «Che cosa è strano?». «Che sia scomparso. Voglio dire, supponi che la storia di Anne Forager sia vera, e francamente io comincio a credere che lo sia. Be', allora, in un certo qual modo, ha senso che Kathy Burton sia scomparsa. Ma Jimmy Tyler?». «Non vedo a cosa tu stia mirando», disse Jack, e in realtà aveva paura di vederlo. «Guardiamo in faccia la realtà», proseguì Rose. «Non ci sono stati messaggi di rapitori o domande di riscatto, vero? Perciò, che cosa rimane? Un maniaco. Un pazzoide che trova sfogo con i bambini. Con le bambine, anzi. Ma adesso è scomparso Jimmy Tyler, ed ecco che questa ipotesi non entra più nello schema». «Sempre che ci sia uno schema», fece Jack, riluttante. «Perché, non c'è?». Rose lo stava fissando negli occhi. «Non vedi uno schema?». «Sì», ammise Jack, alla fine. «Suppongo di sì». Ma si aggrappò ancora alla speranza che quello che era in sospeso fra loro due, taciuto, sarebbe rimasto taciuto. «E non aiuta affatto le cose che tutto questo stia accadendo qua fuori, vero?». «No», disse Rose a bassa voce, «non aiuta affatto». Stava per dire di più, quando Elizabeth comparve sulla soglia. Rose si chiese da quanto tempo si trovasse lì. «Mamma?», fece Elizabeth, incerta. «Vieni dentro, tesoro», l'invitò Rose, sollevata per l'interruzione. «È vero che anche Jimmy Tyler è scomparso?». Rose lanciò un'occhiata a Jack, incerta su come prendere la domanda, ma vide che avrebbe dovuto decidere da sola. Comunque, non vide nessuna ragione di negarlo. «Sì, nessuno riesce più a trovarlo da ieri pomeriggio». «Ma a che ora è scomparso?», volle sapere Elizabeth. «Perché me lo chiedi?... Non so», rispose Rose, perplessa. «Credo proprio che non lo sappia nessuno... Nessuno l'ha visto dopo che è uscito da scuola». «Ho fatto la strada con lui, a piedi, fino a casa, ieri», disse Elizabeth lentamente, come se cercasse di ricordare qualcosa. «Avete fatto la strada insieme?», esclamò Rose. «Non me l'avevi detto». «Immagino non mi sia sembrato importante», fece Elizabeth. Rose ebbe
la netta impressione che sua figlia stesse pensando a qualcos'altro. «C'è qualcosa che ti preoccupa, cara?», le domandò. «Non... Non lo so», proseguì Elizabeth, esitante. «È soltanto che non ne sono sicura...». S'interruppe, e Rose tornò a sollecitarla: «Sicura di che, Elizabeth?». Elizabeth spostò il peso del corpo da un piede all'altro, a disagio. Infine si sedette e guardò sua madre, con un'espressione preoccupata sul viso. «Non ne sono sicura», disse, «ma mi è parso di vedere Jimmy, ieri pomeriggio». «Vuoi dire... qualche ora dopo aver fatto la strada a piedi con lui fino a casa?», chiese Jack. Elizabeth annuì. «Ma non sono sicura che fosse lui», ripeté, come se per qualche ragione fosse importante che, chiunque avesse visto, non fosse Jimmy Tyler. «Dove pensi di averlo visto?», insisté Jack. «Nel prato», disse Elizabeth, «che giocava con Sarah». «Ma non sei riuscita a distinguerlo chiaramente?», chiese Rose, già intuendo la risposta della figlia. «Erano troppo lontani», fece Elizabeth, avvilita. «Erano quasi nel bosco». «Capisco». Rose sospirò. Evitò di guardare Jack, timorosa di scoprire sul suo volto le stesse emozioni che la stavano agitando. Invece, si rivolse di nuovo a sua figlia. «Erano soli?», chiese, e sperò che Elizabeth non avvertisse la critica implicita in queste parole. Dopotutto, rifletté Rose, lei non è l'infermiera di Sarah. Si pentì di averle fatto quella domanda, ma non poteva più ritirarla. «Sì», disse Elizabeth, come scusandosi. «Io ero nella mia stanza, non li avrei visti affatto se non avessi guardato fuori della finestra. Ero convinta che Sarah fosse nella sua stanza. Mi... Mi spiace». «Non è niente», Rose sentì che Jack diceva: «Tu non sei responsabile per Sarah». Rose avrebbe voluto essere stata lei a dirlo. «Perché non vai di sopra, tesoro? Tua madre e io dobbiamo parlare». Elizabeth lasciò lo studio. Rose ebbe la netta impressione che fosse uscita soltanto perché le era stato detto di farlo, mentre avrebbe voluto restare. Ma non c'era più niente da dire. Rose guardò il marito, ma lui evitò il suo sguardo. Il silenzio si prolungò finché Rose non riuscì più a sopportarlo. «Non so che cosa pensare», disse. «Non sono sicura di voler pensare». «Forse faremmo meglio a chiamare il dottor Belter», fece Jack.
«No», disse Rose, precipitosamente. «Voglio dire, chiamarlo per cosa?». Ora toccò a Jack sospirare stancamente. «Non pensi sia giunto il momento di guardare in faccia la realtà?». «Non so di cosa tu stia parlando». Jack sorrise amaro. «Cosa pensi ci accadrebbe se decidessimo tutti e due di adottare la politica dello struzzo nello stesso momento?». «E va bene», replicò Rose dopo un breve silenzio, alzando la voce. «Hai ragione, naturalmente. Suppongo che dobbiamo accettare la possibilità che Sarah stia diventando pericolosa. È di questo che si tratta?». «Proprio di questo», annuì Jack. «Ovviamente, c'è anche una buona probabilità che non sia vero, ma non credo che sia possibile starcene seduti qui senza far nulla. No, sinceramente non possiamo, considerato ciò che sta accadendo». «Parliamole», disse Rose, disperatamente. «Facciamo almeno quest'ultimo tentativo, prima di prendere nuove iniziative». «Ma a che cosa potrà servire?». «Non lo so», sospirò Rose. «Ma possiamo almeno provare, non è vero?». I suoi occhi lo fissavano imploranti. Alla fine Jack si alzò in piedi. «Va bene», disse. «Devo andare a prenderla?». «No!», esclamò Rose. «Andrò a prenderla io. Tu aspetta qui». Mentre Rose era via, Jack si versò da bere. Al diavolo l'incontro!, pensò. Qualche minuto dopo Rose era di ritorno, conducendo Sarah per mano. La bambina la seguiva docilmente, come inconscia di quanto stava accadendo. Non opponeva alcuna resistenza, ma neppure sembrava prestare la minima attenzione a ciò che la circondava. Rose fece sedere la bambina, poi s'inginocchiò accanto a lei. Sarah restò seduta, immobile, sul divano, lo sguardo vacuo. Dopo un minuto o due alzò la mano destra e il pollice scomparve dentro la sua bocca. «Sarah», mormorò Rose. Sarah continuò a restar seduta, succhiandosi il pollice, in apparenza senza udire la voce di sua madre. «Sarah!», ripeté Rose, un po' più forte. «Mi senti?». Sarah girò la testa e fissò, priva d'espressione, sua madre. Rose fece uno sforzo fin troppo evidente per non distogliere lo sguardo. «Sarah!», disse Jack, seccamente. La testa della bambina si alzò di scatto e il suo sguardo fissò suo padre. Jack incontrò i suoi occhi per un attimo, ma lui non era forte quanto Rose, e subito interruppe il contatto visivo. Trangugiò un paio di sorsi dal bicchiere.
«Sarah», rispose Rose, «ieri hai giocato con Jimmy Tyler?». Nessuna risposta. «Abbiamo bisogno di saperlo», insisté Rose. «Non puoi almeno annuire con la testa? Hai giocato, ieri, con Jimmy Tyler?», ripeté con maggior forza, come se sua figlia fosse dura d'orecchi. La sua frustrazione crebbe, mentre Sarah continuava a fissarla vacuamente. Infine, Sarah si portò una mano alla fronte e scostò un inesistente ciuffo di capelli. «Sarah», ricominciò Rose, «sappiamo che ieri hai giocato nel prato insieme a Jimmy Tyler. Non c'è niente di male. Tutto quello che abbiamo bisogno di sapere è se siete entrati nel bosco. L'avete fatto?». Nessuna risposta. «Per l'amor di Dio, Sarah», l'implorò Rose, «è terribilmente importante. Ti prego, ti prego, cerca di capire. È andato a casa, non è vero? Jimmy Tyler è andato a casa?». Sarah continuò a fissare sua madre. Il silenzio gravò pesante sulla stanza. Poi, molto lentamente, Sarah scosse la testa. La riunione si rivelò confusa, caotica, e Jack fu spiacente di aver acconsentito ad accompagnare Carl Stevens con sé: si sentiva imbarazzato per il comportamento dei suoi concittadini, e sapeva di non essere stato una buona compagnia. Prima sulla via della casa dei Norton, e poi mentre attraversavano Port Arbello, aveva sempre davanti a sé l'immagine di Sarah che guardava tenebrosamente in distanza e scuoteva lentamente la testa. Più volte Jack aveva cercato di dirsi che era un buon segno, che finalmente Sarah aveva reagito a qualcosa. Ma ricordava anche a che cosa aveva reagito, ricordava la domanda di Rose, e la disperazione lo riafferrava. Jimmy Tyler non era andato a casa. Sarah sapeva che Jimmy Tyler non era andato a casa. Si avvicinava il momento quando tutti loro (lui, sua moglie, Elizabeth e la signora Goodrich) avrebbero dovuto accettare il fatto che Sarah non sarebbe più stata con loro. Ma non era ancora tempo. Le facce della gente di Port Arbello si profilavano intorno a lui. Jack si sentì incapace di affrontare col suo sguardo quegli occhi che sembravano fissarlo accusatori. Marilyn Burton l'accolse calorosamente, ma lui fu sicuro di aver sentito una nota falsa nella sua voce. Lenore Tyler gli sorrise e lo salutò con la mano, e Jack si chiese perché non gli avesse anche parlato. Aveva forse indovinato? Nonostante Martin Forager avesse dichiarato che non ci sarebbe stato nessun presidente in quell'incontro, fece del suo meglio per dirigerlo come
voleva lui. «Sta succedendo qualcosa, qui a Port Arbello», urlò, «e sta succedendo proprio là, al Promontorio dei Conger». Improvvisamente tutti gli occhi, nell'anfiteatro stipato, si puntarono su Jack, ed egli si rese conto che avrebbe dovuto replicare qualcosa. Si alzò in piedi e affrontò la cittadinanza. Improvvisamente non erano più i suoi vecchi amici; improvvisamente lui non era più il signor Conger, della Strada del Promontorio dei Conger. Improvvisamente il Promontorio dei Conger era qualcosa di cui aver paura, non rispetto. E lui era l'uomo che viveva lì. «Io non so che cosa stia succedendo», cominciò, e un mormorio attraversò la folla, un mormorio che Jack temeva potesse trasformare quella folla in un'orda scatenata. Avrebbe dovuto agire nel modo migliore. Ascoltò le proprie parole, e si chiese da dove mai uscissero: «Mia figlia ha visto Jimmy Tyler ieri pomeriggio». «Come ha fatto a dirtelo? Col linguaggio dei segni?», una voce beffarda gli urlò dal fondo. Jack esitò, e cercò di dominare la collera improvvisa. «Elizabeth ha visto Jimmy Tyler», si sentì dire, «giù alla vecchia cava. Gli ha parlato. Gli ha detto di andare a casa. Gli ha detto che quello era un posto pericoloso per giocare, ma lui non le ha prestato nessuna attenzione. Elizabeth mi ha detto che quando è tornata a casa, poco prima del buio, lui era ancora laggiù. È tutto». Jack sedette e sentì decine di occhi che lo fissavano incuriositi. Si chiese se sapevano che stava mentendo, e cercò di convincersi che aveva mentito soltanto a causa del modo in cui stava andando la riunione, a causa della sensazione che aveva avuto, di una folla sul punto di scatenarsi. Ma sapeva che anche questo non era vero: aveva mentito per proteggere sua figlia. La sua figlia più piccola. Poi organizzarono una squadra, dissero che avrebbero subito controllato sul posto. Ray Norton cercò di fermarli, ma non c'era nulla che potesse fare. Forse, se Marilyn Burton non si fosse trovata lì, oppure se Lenore e Bill Tyler se ne fossero rimasti a casa, Norton sarebbe riuscito a controllare la situazione. Ma si trovavano lì, e la loro presenza, combinata alle farneticazioni di Martin Forager, destava in tutti il desiderio di fare qualcosa, qualunque cosa. E così andarono fuori fino alla vecchia cava. Ray Norton fece in modo di essere in testa al gruppo e trovò un punto per parcheggiare la macchina bloccando efficacemente la strada. Se c'era qualcosa lì, Ray Norton voleva
garantirsi che ci rimanesse. Non voleva che eventuali prove venissero cancellate da quindici macchine che avanzavano a sussulti sopra un terreno molle. Norton organizzò la gente meglio che poteva, e gli uomini di Port Arbello si sparpagliarono per perlustrare l'area. L'ironia della sorte fu che l'unico a trovare qualcosa fosse Martin Forager. Ciò che trovò furono impronte di pneumatici. Erano fresche, e di uno strano tipo. Mentre gli uomini si radunavano per esaminarle, Jack Conger sorrise fra sé. Quelle impronte avrebbero rafforzato la sua storia. Stavano ormai per lasciare la cava, quando Ray Norton lo prese da parte. «Be'», disse Jack, quando si ritrovarono, soli, a bordo dell'auto di Norton, «per lo meno adesso hai qualcosa su cui lavorare». «Già», replicò Norton, ma non sembrava molto speranzoso. «Mi stavo giusto chiedendo a che cosa ci porteranno quelle impronte. Se vuoi sapere che cosa ne penso, la macchina che le ha lasciate risulterà introvabile. Ma non è di questo che volevo parlarti». Jack fissò perplesso il capo della polizia. Norton sembrava in preda a un vivo disagio, quasi non fosse del tutto sicuro del modo in cui affrontare l'argomento. Alla fine decise che il modo migliore era quello diretto. «Senti, Jack», disse. «So che quello che sto per dirti ti parrà stupido, ma devo dirlo lo stesso. O meglio, devo chiedertelo. Quanto sai delle vecchie leggende riguardanti la tua famiglia?». Jack cercò di sorridere, ma sotto il sorriso un po' forzato si sentì gelare. «So che ce n'è una», cominciò, cautamente. «Ma che cosa ha a che fare con tutto questo?». «Niente, probabilmente», rispose Norton. «Se ricordo bene, dovrebbe parlare di una caverna... Non è vero?». Jack annuì. «Già. La vecchia signora sosteneva che si trovava da qualche parte, nel cuore della scogliera. Ma naturalmente sostenne di non averla mai visitata, salvo che nelle sue cosiddette visioni...». «Ma tu cosa puoi dirmi in merito?». Jack fissò interdetto il poliziotto. «Che cosa dovrei dirti?». «Esiste, questa caverna?». «La caverna?», esclamò Jack, incredulo. «Stai parlando sul serio? Mio Dio, Ray, la caverna è sempre stata solo un parto dell'immaginazione della vecchia signora. Se qualcuno raccontasse la stessa storia, oggi, direbbero che è rimbambito. E avrebbero ragione». «Ma qualcuno l'ha mai cercata?», insisté il capo della polizia. «Sicuro», disse Jack. «Mio nonno l'ha cercata. E gli è costata la vita. La
scogliera è un luogo pericoloso. È ripida, scivolosa, traditrice. Se non altro, la leggenda ci serve a tener lontani i bambini da quel posto». «E nessuno di loro è mai andato laggiù a cercare se c'era veramente qualcosa?», chiese Norton, sempre più incuriosito. «Sai, quand'ero ragazzino la cosa che mi ha sempre tentato di più è stata andare a cercare la caverna. Ma non potevo». «Perché no?», chiese Jack. «La scogliera era lì». «Ah, ma si trovava nella proprietà dei Conger. Non devi dimenticare che quando io ero ragazzino, la tua famiglia era per noi un simbolo di regalità, o quasi. Avremmo potuto introdurci nei terreni di chiunque altro, ma non certo in quelli dei Conger». Jack ridacchiò, ricordando. Quando lui era ragazzo, la famiglia Conger incuteva ancora non poco timore. «Be', lascia che ti tranquillizzi», disse. «Naturalmente anch'io sono andato a cercare la caverna. E immagino che anche mio padre l'abbia fatto. Ma non l'ho trovata. Con tutta probabilità, perché non c'è nessuna caverna. Se esistesse davvero, l'avrei trovata». «E va bene», commentò Norton. «Quasi speravo che tu non l'avessi mai cercata, e che potessimo finalmente scoprire quel buco maledetto. Non posso far uscire l'intera popolazione a cercarlo, quando tutto quello su cui possiamo basarci sono le visioni di una vecchia signora in piena crisi di senilità. E col rischio che qualcuno scivoli e si rompa la testa. Perciò presumo che dovremo tornare alla cava. Tu non hai nessuna obiezione se mando qualcuno a dragarla?». «No di certo», replicò Jack. «La cava è a tua disposizione. Ma, mio Dio, spero che non trovino nulla». «Anch'io», assentì Norton. «Anch'io». Un'ora più tardi, Jack era a casa. Salì di sopra a dare la buona notte alle due figlie, e a Rose sembrò che si fermasse troppo a lungo con Elizabeth. Era sul punto di salire a sua volta di sopra, per vedere che cosa mai lo trattenesse, quando lui ridiscese. Quando entrò nello studio, appariva stanco ma sorridente. «Be'», dichiarò, versandosi l'ultimo bicchierino prima di coricarsi, «se non altro ci siamo guadagnati un po' di tempo». 19 Né Rose né Jack dormirono, quella notte, ma vegliarono in silenzio, o-
gnuno in scomoda compagnia dei propri pensieri, tutti e due cercando disperatamente il modo dì rinviare il momento delle decisioni. Cercarono di sfuggire ai propri pensieri, mentre giacevano nel letto fianco a fianco, separati dalle loro paure. Jack continuava a ripetersi la storia che aveva raccontato all'incontro, a Port Arbello, fino a quando anche lui cominciò quasi a crederci. Prima che l'oscurità della notte avesse cominciato a sbiadire in un'alba grigia, si era quasi convinto che Sarah non aveva giocato nel prato con Jimmy Tyler, che invece Elizabeth aveva davvero visto Jimmy alla cava e gli aveva detto di andare a casa. Ma con l'alba la verità ritornò, implacabile; la realtà irruppe nuovamente nella sua vita insieme al sole. Come per mutuo consenso, cominciarono a parlarne a colazione. Si erano alzati presto, perché nessuno dei due aveva dormito, e lì, seduti nella casa silenziosa, sorseggiarono il caffè, continuando a chiedersi che cosa avrebbero dovuto fare. «Suppongo che dovremmo chiamare il dottor Belter», disse Rose. «No, non ancora». Jack sapeva che lei aveva ragione, ma in qualche modo chiamare il dottor Belter simboleggiava la sconfitta, e non si sentiva pronto a dichiararsi battuto. «Insomma, che cosa potremmo dirgli?», proseguì, ben sapendo che stava cercando giustificazioni tanto per sé quanto per sua moglie. «Il fatto che Elizabeth abbia visto Sarah e Jimmy che giocavano assieme non è una buona ragione per saltare subito a certe conclusioni». «No», convenne Rose, «non lo è. Ma a me sembra che abbiamo un dovere che va oltre la nostra famiglia. Se Sarah ha qualcosa a che fare con tutto questo... o se anche avesse a che fare soltanto con Jimmy Tyler, penso che dobbiamo dirlo a qualcuno. E il dottor Belter mi sembra, a fil di logica, la persona più adatta. E poi c'è sempre Sarah, da considerare». «Sarah?». Rose aveva un'espressione addolorata, e Jack sapeva quanto le costasse dire quelle cose. Si chiese se fosse più ifficile per lei dirle, o per lui ascoltarle. «Che cosa sappiamo veramente di lei?», continuò Rose. «Se sta combinando qualcosa, e non sto dicendo che lo faccia davvero, non ne è responsabile. Ha bisogno di aiuto. E come può ottenere l'aiuto di cui ha bisogno se non siamo neppure disposti a parlare di quello che fa?». S'interruppe un attimo, mescolò il proprio caffè con gesti nervosi. «Forse dovremmo cercare nel bosco», riprese. «Se è successo qualcosa, dev'essere successo lì. A
meno che non siano arrivati fino alla scogliera». Ebbe un sorriso privo di calore. «Per lo meno sappiamo che non esiste una caverna, perciò non dobbiamo cercarla». «Non so se ci sia o no una caverna», ribatté Jack a bassa voce. Rose sembrò trafiggerlo con un'occhiata: «Che cosa intendi dire? Non hai dichiarato ieri sera a Ray Norton che hai passato la maggior parte della tua adolescenza a cercarla, ma che non esiste?». «Sì», fece Jack, a disagio. «È quello che gli ho detto. Ma non era più vero di tutte le altre cose che ho detto ieri sera, a chiunque». Rose mise giù la tazzina e lo fissò. «Vuoi dire che hai mentito anche sulla caverna?», chiese, incredula. Lui annuì, depresso, e Rose fu colpita dal fatto che somigliava più che mai a un bambino colto in flagrante con le mani sul barattolo della marmellata. Le venne voglia di ridere, anche se si sentiva tutt'altro che allegra. «Perché mai hai mentito anche su questo?», gli chiese, quando la sua risata si spense. Il tono beffardo fece arrossire Jack. «Perché non volevo che ficcassero il naso nel bosco e sulla scogliera, ecco perché», esclamò con veemenza. «Ma ficcheranno lo stesso il naso nel bosco», disse Rose, come se stesse parlando a un ragazzino recalcitrante. «E per di più hanno già frugato nel bosco quando cercavano Kathy Burton». Poi un pensiero le balenò nella mente, e scrutò attentamente il viso di Jack, cercando la risposta alla domanda che le era fiorita, irresistibile. E Jack a sua volta la stava fissando, con un'espressione da cane bastonato, chiuso in se stesso, sulla difensiva. «Tu ci credi, non è vero?», disse Rose. «Tu credi nella leggenda. C'è, allora, una caverna?». «Non lo so», rispose Jack quasi in un bisbiglio. «Io non l'ho mai cercata». «Perché no?», chiese Rose. «Te ne stai lì seduto a dirmi che, con una leggenda affascinante come questa, neppure una volta, tu e i tuoi amici, non una sola volta, dico, siete andati a cercare quella caverna?». Sgranò gli occhi per lo stupore, mentre scuoteva la testa. «Be', per l'amor del cielo, quella leggenda ha funzionato sul serio». Scoppiò di nuovo a ridere a scatti e a sussulti, in parte per l'idea dell'incredibile fede che suo marito aveva nella leggenda, al punto che non si era mai preoccupato di compiere ricerche per verificarla, in parte per semplice sfogo. Uno sfogo della troppa ten-
sione che si era accumulata dentro di lei. Non furono scoppi di risa piacevoli a udirsi, non risuonarono in tutta la casa; si limitarono a echeggiare sordamente in quella stanza, addensando cupamente l'atmosfera. «Credo», dichiarò infine Rose, «che sia tempo che esploriamo a fondo la scogliera. Se laggiù c'è una caverna, credo che sia giusto saperlo. Noi, e tutta Port Arbello». «Cercala pure, se vuoi», rispose Jack, sempre a bassa voce. «Sinceramente, io preferisco non saperlo». Quella mattina, Jack Conger arrivò presto in ufficio, prima di ogni altro. Quando il resto del personale arrivò, alle otto e trenta, trovarono la porta dell'ufficio di Jack chiusa, e la luce rossa sopra accesa. Tutti, salvo Sylvia Bannister, rispettarono quella luce di avvertimento. Sylvia la ignorò ed entrò. Non si annunciò bussando. Jack alzò gli occhi a fissarla, ma non fece commenti. «Brutta notte?», chiese Sylvia, in tono comprensivo. Jack lasciò cadere la matita e si lasciò andare contro lo schienale, sfregandosi gli occhi. «Dipende da quello che chiami una brutta notte. Se mentire all'intera popolazione e al capo della polizia, se chiedere anche a tua figlia maggiore di mentire, e poi non riuscire a dormire, e poi coronare il tutto facendo apparire te stesso come un perfetto imbecille agli occhi di tua moglie, se tu chiami tutto questo una brutta notte, allora, sì, suppongo che sia stata davvero una brutta notte. Altrimenti è stata splendida». Sylvia si sedette. «Vuoi parlarmene?». «No», replicò Jack, irritato. «Non voglio. Voglio essere lasciato solo, per cercare di vederci chiaro. Perciò, se vuoi farmi la gentilezza...». Stava già fissando di nuovo il pezzo di carta sulla scrivania, davanti a sé, masticando l'estremità della matita, per cui non vide l'espressione ferita che si era disegnata sul volto di Sylvia. La ragazza si alzò in piedi e si lisciò la gonna. «Naturalmente», replicò freddamente. «Mi spiace averti disturbato». Lasciò la stanza e Jack, quando sentì chiudersi la porta, sollevò di nuovo lo sguardo, fissando con aria d'impotenza davanti a sé, quasi potesse vedere la sua segretaria oltre il pannello di legno. Voleva richiamarla, ma non lo fece. Lavorò per un'ora, scrivendo e riscrivendo, e quando ebbe finito lesse ciò che aveva scritto. Poi appallottolò i fogli e li gettò nel cestino.
Era un artìcolo di fondo, e quando aveva finito di scriverlo e l'aveva riletto, si era reso conto che avrebbe potuto essere stato scritto sia da lui che da Martin Forager. Aveva attaccato il capo della polizia, aveva perfino suggerito che forse era giunto il momento di sostituire Ray Norton. Aveva chiesto una risposta chiara ed esauriente su quello che era veramente accaduto ad Anne Forager. E aveva suggerito, anche se con termini che sembravano negare il contenuto dell'articolo, che era giunto il momento, per gli abitanti di Port Arbello, di trasformarsi in una folla di linciatori. Lui, naturalmente, non aveva usato esplicitamente quella parola, ma con la richiesta che venisse formata una «associazione protettiva» in sostanza chiedeva proprio quello. In breve, aveva scritto un editoriale ipocrita, egoista, concepito per sminuire il capo della polizia e allo stesso tempo consolidare l'immagine di Jack Conger, cittadino integerrimo interessato al bene della città. Jack Conger si rese conto che stava cercando di fuorviare a tutti i costi Ray Norton da una pista sulla quale il capo della polizia neppure sapeva di essere. Una pista che poteva condurre soltanto fino a Sarah, la quale non poteva assolutamente esser giudicata responsabile per qualunque cosa avesse fatto. Jack recuperò l'editoriale dal cestino della carta straccia dove l'aveva buttato, e lo rilesse un'altra volta. Decise, obiettivamente, che quell'editoriale aveva comunque servito assai bene al suo scopo. Lo bruciò, gettò le ceneri nel cestino, e prese su il telefono. Era giunto il momento di parlare a Charles Belter. Il dottor Charles Belter ascoltò attentamente tutto quello che Jack Conger gli disse. Ci vollero più di tre ore perché Jack raccogliesse tutto e l'esponesse il più chiaramente possibile al dottore, e parecchie volte fu costretto a tornare indietro, a sottolineare un punto particolare, ad ampliarlo, ad arricchirlo completando lo sfondo. Il dottor Belter ascoltò pazientemente, interrompendolo quanto meno poteva. Sentiva che era importante non soltanto ascoltare quello che veniva detto, ma anche il modo in cui veniva detto, e in quale ordine. La mente tendeva ad attribuire una sua priorità alle cose, il dottor Belter lo sapeva, e spesso si poteva apprendere molto di più non tanto dai singoli punti riferiti, ma dalla loro successione, o, in altre parole, dall'importanza relativa assunta agli occhi della persona che li descriveva. Quando Jack ebbe finito, il dottor Belter si rilassò sulla poltrona, incrociando comodamente le mani sul suo ampio stomaco. «Così, lei non sa se esiste veramente, o esisteva, una caverna?», chiese.
«Esisteva?», fece Jack. «Che cosa intende dire?». «Soltanto che un tempo potrebbe, sì, essere esistita una caverna, in seguito riempita da depositi o crolli. Ma non è importante. È soltanto la mia mente che esamina ogni particolare, valutando il pro e il contro nel suo solito modo. Dimentichi che l'ho detto. Così, e questa è la cosa importante, lei non sa se la caverna è qualcosa di reale oppure no». «No, non lo so, e non vedo che importanza abbia». Il dottor Belter si accese una sigaretta e agitò il fiammifero per spegnerlo, prima di parlare di nuovo. «Non lo so», disse infine. «Ha importanza?». «Dove vuole arrivare?», chiese Jack, sospettoso. Il dottor Belter sorrise. «Be', a me pare che lei attribuisca un sacco d'importanza a quella caverna. Dopotutto, è arrivato a dichiarare al capo della polizia, nel modo più deciso, che quella caverna non esiste. Questo mi dice un paio di cose». «Quali cose?». Ora nella voce di Jack risuonava una ben definita ostilità. «Per prima cosa, lei pensa che una caverna esista veramente. Se lei fosse davvero convinto che non c'è nessuna caverna, e che la leggenda è soltanto una leggenda e niente più, perché mai si darebbe tanto da fare a dissuadere Norton dal cercarla? Se fosse sicuro che non esiste, non si preoccuperebbe che qualcuno finisca per trovarla, giusto?». «E qual è la seconda cosa?», insisté Jack, senza commentare la prima. «E strettamente legata alla prima», proseguì il dottor Beiter, protendendosi, con un sogghigno, sopra la scrivania. «Lei non soltanto è sicuro che la caverna esiste, ma ha una folle paura di ciò che accadrebbe se fosse scoperta». «È la cosa più stupida che abbia sentito da parecchio tempo», dichiarò Jack, rabbioso. «Davvero?». Jack sapeva che la sua reazione era dettata più dalla paura che dalla rabbia, e si chiese perché. Di che cosa aveva paura? Poi decise che non aveva paura di, bensì aveva paura per. Aveva paura per Sarah. «Sono preoccupato per Sarah», disse, nervosamente. «Davvero?», chiese il dottore, e a Jack parve di udire una sfumatura irridente nella sua voce. «Soffermiamoci su questo per un minuto, allora. Esattamente cosa la preoccupa? L'idea che Sarah abbia attirato in qualche modo dei bambini, per poi imprigionarli o farli precipitare in una caverna? Questa sì è una delle cose più stupide che io abbia mai sentito. Tanto per cominciare, rifletta un po' sulle dimensioni di Sarah. Non è molto grande,
vero? In effetti è piuttosto piccola per la sua età, un po' indietro nello sviluppo...». Notò l'espressione incollerita sul volto di Jack, e alzò prontamente una mano. «Oh, via, non ho detto che sia anormalmente piccola o sottosviluppata. Fisicamente si trova senz'altro entro le misure normali. Ma tende al limite inferiore della media, piuttosto che a quello superiore. E adesso mi dica se crede veramente che una bambina delle dimensioni di Sarah avrebbe potuto fare granché a una ragazza delle dimensioni di Kathy Burton. Da quanto ho saputo, Kathy Burton era grande per la sua età, e muscolosa. Perciò, considerato che era anche di un anno più vecchia di Sarah, non vedo molte possibilità che Sarah possa averle fatto qualcosa. Non so nulla di Anne Forager e Jimmy Tyler, entrambi più giovani di Sarah e, mi hanno detto, un po' più piccoli di statura. Ma Kathy Burton non avrebbe mai potuto essere sopraffatta da Sarah». «A quanto mi è stato detto, i bambini con... con dei problemi mentali... a volte mostrano una forza straordinaria», disse Jack. «Lei ha visto troppi film. Oh, certo, può accadere, ma è raro, e la cosa si manifesta soltanto per brevi periodi di tempo, sotto quelle che chiamiamo condizioni isteriche. Le stesse cose che possono accadere, in certe situazioni-limite, anche a persone normali. Ad esempio, la madre che riesce a sollevare da sola l'automobile che ha messo sotto suo figlio. Questo e altro può accadere. Sotto una forte tensione, il corpo semplicemente si autoinietta una cospicua dose di adrenalina, garantendo a se stesso, per brevi istanti, un'eccezionale carica di vigore. Ma è raro, dura brevi istanti, non certo il tempo necessario a fare ciò che lei sta suggerendo». «Io non sto suggerendo niente», replicò Jack, gelido. «Davvero? E io credo invece che lei lo stia facendo. Ho ascoltato attentamente, sa? È la mia professione. Ed ecco che cosa l'ho sentita dire... Non in forma diretta, ovviamente, ma implicitamente. E tutto perché Elizabeth ha detto di aver visto Sarah che giocava con qualcuno che assomigliava a Jimmy Tyler. «Lei vede Sarah che trascina bambini nel bosco, li picchia, e poi li scarica da qualche parte, in una caverna. Giusto?». Jack si agitò a disagio, sulla sedia. Il dottore aveva riprodotto troppo fedelmente i suoi pensieri. «Vada avanti», lo sollecitò, per niente sicuro di voler ascoltare ancora, ma convinto che fosse suo dovere andare sino in fondo. «Se non le spiace che glielo dica, questa teoria è ridicola. Non soltanto Sarah sarebbe del tutto incapace di esibire tutta la forza indispensabile a
una simile impresa, ma se anche fosse in grado di abbattere, in un raptus di violenza, un bambino, riesce a immaginare le difficoltà che poi incontrerebbe a trascinare un corpo esanime, grande quasi quanto lei, lungo la superficie della scogliera? Lei stesso ha detto che è già pericoloso per un adulto scalarla da solo. E allora, dobbiamo ritenere del tutto impossibile che una ragazzina sia in grado di compiere la stessa impresa, per giunta sobbarcandosi il trasporto di un peso morto di dimensioni quasi uguali alle sue». Jack rifletté, e provò una strana sensazione di sollievo. Il dottore aveva ragione: ciò che lui aveva temuto era privo di senso. Lui e Rose erano stati vittime di una reazione eccessiva, più che giustificata, del resto, da ciò che era accaduto negli ultimi giorni. Nessuno aveva avuto vita facile, a Port Arbello; Rose e Jack Conger non avevano fatto certo eccezione. Sentì un sorriso disegnarglisi sul volto, e provò un'autentica pace interiore. «Dunque», disse, «questa è risolta. Ha qualche altra idea?». Il dottor Belter si sporse in avanti. La sua espressione tremendamente seria fece svanire il sorriso dal volto di Jack. «Sì, l'ho, signor Conger. Lei ha mai sofferto di amnesie? Recentemente?». Ci volle quasi un intero minuto prima che le implicazioni di quello che il dottore aveva detto penetrassero nella mente di Jack. Quando finalmente ciò avvenne, ed egli capì ciò che il dottor Belter stava suggerendo, riuscì a controllarsi soltanto a prezzo di un duro sforzo. Tremando, si alzò in piedi. «Soltanto una volta, dottore», replicò, freddamente. «Ed entrambi sappiamo che cosa successe quella volta. Da quel giorno, mai». Lasciò lo studio del dottore senza altre parole, e senza aspettare che il dottor Charles Belter rispondesse. «Come può esserne sicuro?», chiese il dottore, rivolto alla porta chiusa e alla stanza vuota. «Come fa ad essere sicuro di non aver mai amnesie?». Quando Jack ritornò al giornale, era mezzogiorno. Chiuse la porta dietro di sé e un attimo più tardi la luce rossa brillò, ammonitrice. Vi furono sguardi incuriositi fra il personale del Courier, ma nessuno era disposto ad avanzare ipotesi su ciò che stava accadendo. Invece, tutti guardarono l'orologio e uscirono alla spicciolata per andare a mangiare. Quando la redazione fu completamente vuota, Sylvia Bannister fissò la porta chiusa. Esitò un buon minuto, poi premette il pulsante dell'intercom sulla sua scrivania. «Adesso vado a mangiare», annunciò. Attese una risposta, e quando non
ne ricevette alcuna, cominciò a infilarsi il cappotto. Era ormai sulla porta, quando l'intercom improvvisamente si animò. «Puoi concedermi un minuto?», crepitò la voce di Jack. Sylvia si sfilò il cappotto e lo riappese al gancio. Poi si lisciò la gonna ed entrò nell'ufficio interno. Si era preparata a mostrarsi fredda verso il suo datore di lavoro, ma l'espressione del viso di Jack le fece subito cambiare idea. «Non stai bene, vero?», disse. Fu più un'affermazione che una domanda. Jack sollevò lo sguardo a fissarla, e lei fu sicura di scorgere delle lacrime che cercavano di farsi strada. «Sono appena tornato da un colloquio col dottor Belter». «Mi ero chiesta, appunto, dove fossi andato», annuì Sylvia, prendendo posto sulla sedia di fronte a lui. «Perché sei tornato dal dottore?». «A esser sincero, non ne sono proprio sicuro. Pensavo di parlare con lui di Sarah, di chiedergli che cosa dovevamo fare con lei, a questo punto. Ma non ha voluto parlare di Sarah». «Oh?». «Ha voluto parlare di me». Sylvia gli sorrise, rassicurante. «E ti sembra un'idea tanto cattiva? Tutti possiamo sopportare di parlare di noi stessi, di tanto in tanto. E tu non hai avuto la vita facile ultimamente, non è vero?». «Non era di questo che voleva parlarmi. Secondo lui, è senz'altro possibile che sia io colui che aggredisce i bambini». Sylvia lo fissò con totale incredulità. «Tu? Devi aver capito male quello che ti ha detto». «No, non ho capito male. Ha insistito per sapere se ero stato vittima di qualche amnesia, ultimamente». «Questa è la cosa più disgustosa che io abbia udito da parecchio tempo a questa parte», dichiarò Sylvia. La sua voce rifletteva la nausea che provava allo stomaco. «Quello è accaduto un anno fa, non la settimana scorsa, il mese scorso. Un anno fa, tredici mesi, a essere precisi. È davvero convinto che sia potuto accadere di nuovo adesso? E per tre volte?... E poi sappiamo benissimo dove ti trovavi quando i bambini sono scomparsi». «Il giorno in cui Kathy Burton è scomparsa mi trovavo nel mio ufficio», disse Jack, con un sorriso pallido. «Ma, allora, che cosa sta cercando di fare?», chiese Sylvia. «Non lo so», disse Jack. «Ma, perdio, mi spaventa. Se è questo che lui pensa, che cosa penserà il resto di Port Arbello?».
«Non ne ho la minima idea, ma so che cosa penso io. Penso che sia insensato, e penso soprattutto che il dottor Belter dovrebbe farsi per primo esaminare il cervello». Si alzò in piedi. «E penso che tu e io dovremmo uscir fuori a mangiare qualcosa», proseguì. «A casa mia». Jack la fissò senza capire. «Jack», gli disse Sylvia, con voce bassa e vibrante, «non credi di averne sopportate anche troppe? Prenditi un po' di tempo libero... per te. Anche se si tratta soltanto di poche ore con me. Ne hai bisogno. Ne hai veramente bisogno. E anch'io». Raggiunsero in silenzio, in auto, la casa di Sylvia, e parlarono tranquillamente mentre lei preparava il pranzo. Evitarono gli argomenti scottanti; ma non era il deliberato, faticoso schivare gli argomenti proibiti che tanto contribuiva a scavare un abisso tra Jack e Rose, quando coscientemente voltavano la testa all'incombente verità. Qui fu facile evitare ogni riferimento sgradevole, e parlare, per mutuo accordo, di cose piacevoli e distensive. La loro intimità crebbe così, per virtù spontanea. Non tornarono al Courier quel pomeriggio. Furono sul punto di farlo, ma cambiarono idea. Passarono invece il pomeriggio nel letto di Sylvia Bannister, e fu una buona cosa. Fu buona per entrambi. Per la prima volta dopo un anno Jack Conger giacque a suo agio tra le braccia di una donna. Sylvia Bannister fu felice. E anche lui fu felice, assaporando quegli istanti. I due bambini nella caverna si tenevano stretti l'uno all'altra, come avevano fatto per quasi trentasei ore. Jimmy Tyler era rimasto privo di sensi per più di un'ora, dopo esser precipitato giù, e Kathy aveva finito per convincersi che sarebbe morto. Ma poi si era ripreso e aveva recuperato i sensi, nel buio, terrorizzato. Kathy si era sforzata di calmarlo per spiegargli ciò che era accaduto. La sua voce era ridotta a un filo, e spesso si perdeva in un farfugliare incoerente, ma il suono di una voce umana era bastato, lì, nella tenebra profonda, ad acquietare Jimmy. E quando infine si era calmato, aveva avuto inizio l'attesa. Erano sempre rimasti vicino l'uno all'altra, senza mai allontanarsi troppo, così da potersi sempre toccare allungando le mani, e quando avevano dormito, l'avevano fatto l'una nelle braccia dell'altro. Jimmy si era nuovamente spaventato nell'udire gli strani suoni nel buio, ma quando Kathy gli aveva spiegato chi li provocava, aveva cercato di catturare uno di quei minuscoli granchi. Finalmente c'era riuscito e se l'era
cacciato in bocca. Ma era amaro, e l'aveva subito sputato fuori, vomitando. Kathy gli aveva fatto bere una sorsata d'acqua per sciacquare via l'orribile sapore. Di tanto in tanto parlavano, soprattutto Jimmy, perché la gola di Kathy era infiammata e le faceva molto male; ma per la maggior parte del tempo se ne stavano seduti, in silenzio, tenendosi per mano, chiedendosi per quanto tempo sarebbero rimasti intrappolati là sotto, senza poter uscire. Fu mentre Jimmy parlava che Kathy all'improvviso gli strinse la mano e gli intimò: «Sssst!». La sua stretta si fece più intensa e Jimmy si azzitti. Sopra di lui sentì il rumore di un corpo trascinato. Man mano il rumore cresceva, la stretta di Kathy si fece spasmodica, fino a fargli male. Capì che quel rumore, là sopra, spaventava Kathy, e la paura era contagiosa. Dimenticò il dolore alla mano, mentre si sforzava di rendersi conto di ciò che accadeva là sopra. «Copriti gli occhi con la mano», gli bisbigliò Kathy. Lui non capì perché dovesse farlo, ma si affrettò a ubbidire. Un attimo più tardi, percepì un debole chiarore rossastro attraverso le dita. Le scostò leggermente e vide un raggio di luce che scendeva, vivido, dal pozzo. Le palpebre socchiuse, si tolse la mano dagli occhi; poi, mentre questi si abituavano sempre più alla luce, li aprì del tutto. Kathy sedeva ancora rannicchiata accanto a lui, una mano sempre stretta sulla sua, l'altra premuta sugli occhi. «Togli pure la mano», le bisbigliò. «Se tieni gli occhi socchiusi, la luce non ti farà male». Kathy, esitante, staccò la mano dal viso e lasciò che i suoi occhi si abituassero all'insolita illumuiazione. Il raggio restò immobile, e lassù c'era silenzio. I due bambini si guardarono, perplessi. Mentre si scrutavano reciprocamente in viso, udirono un tonfo sordo. Jimmy fece per parlare, ma Kathy gli tappò la bocca. Videro ambedue il pacchetto avvolto in carta bianca che giaceva in mezzo alla pozza di luce. Jimmy, divincolandosi, riuscì a liberarsi dalla stretta di Kathy e si protese con un guizzo verso il pacchetto, afferrandolo, come un topo che ghermisse un pezzo di formaggio in mezzo a una stanza per precipitarsi poi, nuovamente, nel suo buco. Disfece il pacchetto. «Guarda», disse. «Sandwich». Kathy fissò il cibo, e la fame cancellò la paura. Afferrò uno dei sandwich e se lo cacciò in bocca. Jimmy stava già ingurgitando il cibo con la voracità di chi non è avvezzo a lunghi digiuni. La nausea li afferrò simultaneamente, e all'improvviso tutti e due giacquero distesi sul pavimento della caverna in preda a incontrollati conati di
vomito. I sandwich, il meraviglioso dono piovuto dall'alto, erano imbottiti di sabbia. Sabbia e alghe marine. Sopra di loro sentirono esplodere una spaventosa, folle risata, e seppero che era Elizabeth, che reggeva la torcia con mano ferma e li guardava vomitare. Istintivamente, Kathy e Jimmy si ritrassero nella protezione dell'oscurità, come animali sotterranei che strisciassero via dal sole. Quando furono completamente usciti dalla luce, il raggio si spense, e udirono il rumore prodotto da Elizabeth che strisciava nel cunicolo verso l'esterno. Kathy e Jimmy piansero in silenzio, stringendosi spasmodicamente per mano. 20 La domenica successiva fu una giornata grigia e pesante, tipica di quando l'autunno si prende un perverso piacere ad anticipare l'inverno. A Port Arbello il tempo non fece altro che accentuare la depressione che gravava sulla popolazione, e l'osteria fece più affari del solito. Di solito, la mattina della domenica solo Martin Forager ciondolava lì, sulla soglia, fin dal mattino, ad annunciare che sarebbe rimasto lì, di «servizio», per tutta la giornata, uscendo fuori, traballante, dopo il vespro. Ma la domenica successiva alla scomparsa di Jimmy Tyler, le chiese di Port Arbello ebbero i banchi stracolmi fin dal primo servizio religioso, e l'osteria ebbe tavoli e sgabelli stracolmi fin dal primo «servizio» di Martin Forager. I Conger non andarono in chiesa, quella domenica mattina, né si fecero vivi all'osteria. Non sarebbero andati all'osteria in nessun caso, e avevano evitato la chiesa per mutuo, anche se silenzioso, consenso: nessuno, infatti, aprì bocca per spiegare la propria decisione, né avrebbe voluto sentire gli altri spiegarla. Era come se presentissero che qualcosa stava per accadere, e sperassero di poterlo evitare restando a casa. Stavano svolgendo il loro rituale del caffè del mattino, in silenzio, quando il telefono squillò. «Rispondo io», sentirono che Elizabeth diceva dal piano di sopra. Un attimo più tardi l'udirono di nuovo. «È per te, mamma. La signora Stevens». «Barbara», esclamò Rose, cercando di apparire più allegra di quanto non si sentisse. Si sentiva depressa quanto chiunque altro, a Port Arbello, ma riusciva a nasconderlo usando la sua voce «professionale». «Cominciavo a credere che foste...». Fu quasi sul punto di dire «morti», ma si trattenne in tempo. Non si preoccupò di cercare una parola migliore. «Terribile dirlo, non è vero? Be', immagino sia quello che abbiamo pensato tutti, in questi
giorni». «È per questo che sto chiamando», rispose Barbara Stevens. «Sono stanca dell'unico argomento di conversazione a Port Arbello, e immagino che lo sia anche tu. E il tempo è troppo brutto per far lavori, qui in casa, perciò Carl ha pensato che una partita a bridge in questo pomeriggio umido potrebbe essere la cosa migliore. Sareste disposti a...». «Mi piacerebbe davvero», fece Rose. «A che ora, e dove?». «Qui, verso l'una. E portate le bambine». «Ora chiedo a Jack. Ti richiamo subito». Riappese, e tornò in sala da pranzo. «Era Barbara Stevens. Lei e Carl vorrebbero che andassimo a casa loro per una partita a bridge, questo pomeriggio. Con le bambine», aggiunse. Jack parve dubbioso. «Non so», disse. «Sai che effetto può fare a Sarah trovarsi in un posto insolito». «Allora le lasceremo tutte e due a casa con la signora Goodrich», fu pronta a replicare Rose. Jack capì che non sarebbe comunque riuscito a evitare la partita a bridge e decise di acconsentire con garbo, nonostante odiasse quel gioco. «Perché non giochiamo qui, invece?», suggerì. «A meno che non ci sia qualche ragione perché gli Stevens ci vogliano a casa loro». «Bene», sorrise Rose. «Barbara ha detto all'una. Va bene per te?». Jack lanciò istintivamente un'occhiata all'orologio. «E perché no?», fece. Rose continuò a sorridere. «Perché tu detesti quel gioco, giusto?». Senza dargli il tempo di rispondere, si affrettò a continuare: «Be', almeno ci darà qualcosa di nuovo a cui pensare. Dopo l'ultima settimana che abbiamo passato, potresti perfino scoprire che ti piace». Lo stesso pensiero era venuto anche a lui, e ricambiò il sorriso di Rose, e la seguì con lo sguardo mentre usciva dalla stanza. L'ascoltò mentre parlava a Barbara Stevens, ma non sentì, in realtà, ciò che stava dicendo. Stava cercando di decidere perché mai, da quando aveva trascorso quel pomeriggio con Sylvia, quel meraviglioso pomeriggio, si era sentito assai meglio nei riguardi del suo matrimonio. Suppose che ciò fosse dovuto al fatto che si era sentito assai meglio nei confronti di se stesso. Scoprì che non vedeva l'ora di giocare a bridge. Era piacevole pregustare in anticipo qualcosa. «Uno fiori». «Passo».
«Uno picche». «Passo». «Uno senza atout». La dichiarazione passò, e Barbara Stevens fissò la sua partner. «Tuo marito ti fa giocare una dichiarazione?», chiese. «Soltanto se pensa di potermi sistemare per le feste», rispose Rose. Barbara guardò prima Jack e poi Carl. «Be', ragazzi, che si fa? Devo giocarla?». Jack esaminò attentamente la sua mano, poi fece un mazzetto delle carte e le buttò: «Non quando il quarto migliore è dal quattro al sette», disse. «Tu hai sottodichiarato. Ti fai quaranta punti, e noi ci consideriamo fortunati». Carl Stevens distribuì la mano successiva, e mentre metteva in ordine le carte, alzò gli occhi al soffitto. «Terribilmente calmo, là sopra», commentò. «Non sapevo che tre bambini potessero essere così tranquilli. Tocco ferro». Terminò di riordinare le carte, e cercò di dissimulare la sua esultanza. «Due senza atout», dichiarò, e fu lieto di sentire le due donne che lanciavano un gemito. Di sopra, i tre bambini sedevano sul pavimento della stanza dei giochi, intenti a terminare una partita a monopoli che ormai Sarah aveva vinto, soprattutto perché sia Jeff che Elizabeth, avendo fatto a turno a giocare per lei, avevano concluso per suo conto degli ottimi affari. Da parte sua, Sarah sedeva lì tranquilla, fissando l'ampio riquadro del gioco e raccogliendo di tanto in tanto un pezzo per esaminarlo attentamente prima di rimetterlo giù nel punto esatto da cui l'aveva preso. «È soltanto fortunata, ecco tutto», dichiarò Jeff, mentre spingeva verso Sarah i suoi ultimi soldi. Sarah, come se avesse capito che la partita era finita, spazzò via all'improvviso tutti i pezzi. Elizabeth cominciò a raccogliere il denaro sparpagliato sul pavimento e a rimetterlo in ordine. Sorrise a Jeff. «Lo fa sempre», disse. «Tutte le volte che faccio una partita con lei, vince. E poi spazza via tutto». Non aggiunse che questo spazzar via tutto era l'unica parte attiva che Sarah aveva nella partita. Era certa che Jeff lo capiva benissimo, senza bisogno che glielo si dicesse. «Hai mai visto una tavoletta oui-ja?», gli chiese. «Vuoi dire una di quelle cose che dovrebbero dirti la fortuna?».
«No, non ti dicono la fortuna. Dovrebbero metterti in grado di parlare con gli spiriti». «Io non credo agli spiriti», dichiarò Jeff. E poi aggiunse: «Ne hai una?». Elizabeth annuì. «L'ho trovata su nell'attico. Sarah e io ci giochiamo sempre. Vuoi provare anche tu?». «Ma certo», annuì Jeff. «Perché no?». Elizabeth finì d'infilare al loro posto tutti i pezzi del monopoli, poi tirò fuori la tavoletta oui-ja. La depositò sul pavimento, giusto in mezzo fra lei e Jeff, poi chiamò Sarah, che ritornò dalla finestra alla quale si era accostata per guardar fuori con aria assente. Sarah sedette in silenzio sul pavimento e appoggiò le mani sulla tavoletta. «Che cosa bisogna fare?», chiese Jeff. «Oh, è facile», disse Elizabeth. «Basta che tu appoggi le dita su quest'affare, allo stesso modo di Sarah, e poi fai una domanda. Dopo pochi istanti, la tavoletta comincia a muoversi». «Da sola?», chiese Jeff, scettico. «Ma certo. Su, proviamo». Mise un dito sopra la tavoletta, e un attimo più tardi, pur sentendosi un po' sciocco, Jeff fece lo stesso. «C'è nessuno?», intonò Elizabeth. Per quasi un minuto non successe nulla. Jeff stava per rinunciare, convinto che fosse tutta una stupidaggine, quando gli parve di avvertire una vibrazione sotto le dita. Poi la freccia si mosse, ruotò sopra la tavoletta e si arrestò sulla lettera B. «Sei stata tu a muoverla?», chiese Jeff, rivolto a Elizabeth. Elizabeth scosse vigorosamente la testa. «Ssst», gli intimò. «Non devi parlare». Jeff strinse le labbra, e sentì che la freccia cercava di muoversi di nuovo. Premette il dito con più forza, cercando d'immobilizzarla. Sentì che si sforzava, sotto i suoi polpastrelli, e guardò furtivamente Elizabeth per scoprire se non fosse lei che stava cercando di muoverla. Ma Elizabeth era lì tranquilla e rilassata. Sotto i polpastrelli di Jeff, che stavano diventando bianchi per la pressione esercitata, la freccia cominciò a muoversi. «Non puoi fermarla», gli bisbigliò Elizabeth. «Ci ho provato anch'io. Credevo che fosse Sarah a muoverla. Ma non sono riuscita a tenerla ferma». Jeff seguì, affascinato, la freccia che ruotava attraverso la tavoletta per fermarsi sulla E. Cercò ancora una volta di tenerla immobile, ma la freccia si spostò implacabilmente in avanti, andando a fermarsi sulla lettera T.
«"Bet"», disse Jeff. «Che cosa mai può voler dire?». «Non ha ancora finito», fece Elizabeth. «Ma io so dove andrà adesso». La freccia prese a ruotare in senso contrario, e si fermò sulla H. Jeff provò un'indefinibile sensazione, e seppe che la freccia adesso sarebbe rimasta immobile. «Beth», disse. «È il tuo nome. L'abbreviazione di Elizabeth». «Lo so», annuì Elizabeth. «Ma non sono io. È uno spirito, e il nome dello spirito è Beth. Mi vuol dire qualcosa». «E perché non a me?», disse Jeff, sorridendo. «Ci sono anch'io, qui, sai». Elizabeth scosse la testa, seria in volto. «No, è a me che vuol parlare. Le ho già parlato altre volte». «Certo che l'hai fatto», la canzonò Jeff. «Suppongo che fosse la tua bisbisnonna, o qualcosa di simile». Ora Elizabeth lo guardò nervosamente, e sembrò meno sicura di sé. «Perché hai detto questo?», gli domandò, incerta. «Che cosa ho detto?», ribatté Jeff. «Che cosa intendi dire con la mia bis-bisnonna?». Jeff parve sconcertato. «Non ho inteso dir niente. La gente non parla sempre della sua bis-bisnonna?». «Hai sentito dir niente sulla mia bis-bisnonna?». «Perché dovrei?», replicò Jeff. «Non lo so», disse Elizabeth. «Ho pensato che tu potessi aver sentito della leggenda». «Quale leggenda? Non dirmi che Beth era la tua bis-bisnonna perché, se tu lo facessi, vorrebbe dire che sei più matta di tua sorella». «Non parlare così di Sarah», saltò su Elizabeth. «Non è bello». Si rivolse a Sarah: «Non ascoltarlo, Sarah. Lui non sa niente». Jeff parve imbarazzato e borbottò qualche parola di scusa. Poi chiese a Elizabeth di parlargli della leggenda. «Si dice che ci sia una caverna, da qualche parte nel promontorio», cominciò Elizabeth. «La mia bis-bisnonna, o forse i bis sono tre, l'ha sognata. Ed è stato un sogno orrendo. Quella caverna era un posto spaventoso. Mio padre mi ha detto che la mia bis-bis-bisnonna l'ha descritta come la porta dell'inferno. E dal giorno in cui la sognò, sono cominciate ad accadere cose terribili». «Che genere di cose terribili?», chiese Jeff, avidamente. «Qualcuno è rimasto ucciso?». «Sì», annuì Elizabeth. «E credo che Beth, appunto, sia una delle vitti-
me». «Ma chi era?». «Non ne sono sicura», disse Elizabeth. La sua voce si era abbassata fino a un sussurro, e i suoi occhi avevano assunto una strana espressione vacua. «Era soltanto una bambina quando morì. Un po' più giovane di Sarah. Io continuo a chiederle che cosa le accadde, ma lei non vuole dirmelo. Ma aveva a che fare col bosco e la caverna, ed è per questo che ci è proibito uscire dal prato». «È tutto?». Jeff sembrò deluso, come se si fosse aspettato molto di più di quanto Elizabeth gli aveva detto. «Be', c'è anche il mio pro-prozio. Si uccise». «Come lo sai?». «Lo so. Un giorno tornò a casa e aveva qualcosa con sé. Un gatto morto, o qualcosa di simile. O forse era un coniglio. Ad ogni modo, sai quello studio, sul retro della casa?». «Quello col tuo ritratto sopra il caminetto?». Elizabeth annuì. «Sì, ma quello non è il mio ritratto. Dicono, comunque, che il mio pro-prozio portò il gatto, o il coniglio, o qualunque altra cosa fosse, nello studio. Poi uscì sul retro della casa e saltò giù dal dirupo». Jeff sgranò gli occhi. «Davvero? Dentro l'oceano?». «Naturalmente, nell'oceano», annuì Elizabeth. «Non c'è nient'altro là sotto, salvo le rocce». «Mio Dio», alitò Jeff. «Ed è accaduto qualcos'altro?». «Un'altra vittima, il mio bisnonno. Non sanno che cosa gli sia accaduto, in realtà, ma un giorno andò a cercare la caverna, e non tornò mai più». «Fu mai ritrovato?». «Sì. Ma era morto. Era rimasto intrappolato con un piede fra due rocce, e quando la marea salì, affogò». «Non credo a niente di tutto questo», ribatté Jeff, sperando così di estorcere altre sconvolgenti rivelazioni. «Non m'importa che tu ci creda o no», dichiarò Elizabeth. «È accaduto, e tanto basta». «Chi te l'ha detto?». «Mio padre. E a lui l'ha raccontato suo padre. O sua madre. Ad ogni modo, è tutto vero». «Hai mai visto la caverna?», chiese Jeff. «No», disse Elizabeth. La sua voce s'inceppò un attimo. «Ma nessun altro l'ha mai vista».
«Allora come fai a sapere che esiste davvero?». «Lo so e basta». «Ma come?». «Semplicemente lo so». «Se non sai dirmi come lo sai, allora non lo sai», ribatté Jeff sarcastico. «Lo so», insisté Elizabeth. «Me l'ha detto Beth», rivelò. Jeff sgranò gli occhi. «Ma certo, è stata Beth... Anche se tu non sai neppure chi sia». «So anche questo», replicò Elizabeth, fremente. «È... È la ragazza del quadro giù nello studio. Quella che mi assomiglia». Jeff la fissò sprezzante. «Ma certo che è lei», disse, con un sorriso di scherno. «Sì, è proprio lei!», esclamò Elizabeth. «Mi parla attraverso la tavoletta oui-ja... È stata lei a dirmelo!». Jeff si piegò all'indietro, reggendosi su un gomito, e sorrise a Elizabeth. Né lui né la ragazza si erano accorti che Sarah si era allontanata e adesso era di nuovo accanto alla finestra, guardando fuori e spostando nervosamente il proprio peso da un piede all'altro. «Sai che ti dico?», riprese Jeff. «Se mi dirai dove si trova esattamente la caverna, allora crederò anche al resto». Elizabeth lo fissò, pronta a sbottare, poi si frenò e pensò al modo migliore per convincerlo. «Be'», disse nervosamente, «c'è un posto...». Sarah girò di scatto le spalle alla finestra e fissò Elizabeth col suo sguardo privo d'espressione. Né Elizabeth né Jeff sembrarono accorgersi che era lì. «Che tipo di posto?», chiese Jeff, con voce piena d'incredulità. «Un... un posto segreto», disse Elizabeth. Sa'rah cominciò a urlare. Il primo gemito acuto le uscì dalla gola mentre si lanciava a folle corsa attraverso la stanza. Il volto contorto, afferrò la tavoletta oui-ja e la scagliò contro la finestra. La tavoletta frantumò il vetro e cadde con fragore sul tetto della veranda. Jeff balzò in piedi e fissò Sarah che continuava a correre come impazzita intorno alla stanza, come se stesse cercando qualcosa. Improvvisamente, balzò verso la porta, la spalancò e scomparve nel corridoio. Jeff, pallidissimo, fissò interdetto Elizabeth. Ma Elizabeth gli ricambiò lo sguardo, imperturbabile. Andò alla finestra, l'aprì, recuperò la tavoletta oui-ja dal mucchio di schegge di vetro sulle quali giaceva, graffiandosi accidentalmente il dito su uno dei frammenti. Si succhiò con cura la ferita, dopo es-
sersi accertata che non vi fosse rimasta nessuna scheggia di vetro. Dopo di che, tornò a voltarsi verso Jeff e sorrise. «Va tutto bene», gli disse. «Non preoccuparti. Succede spesso. Si calmerà». Quando il primo urlo di Sarah risuonò nella casa, Barbara Stevens lasciò cadere le sue carte e portò istintivamente le mani alla bocca. «Mio Dio!», esclamò. «È successo qualcosa ai bambini?». Si era già alzata a metà sulla sedia, quando Rose la fermò. «E Sarah», spiegò Rose. «È tutto a posto. Accade di tanto in tanto. So che può sembrare spaventoso ma, per favore, calmati e resta seduta». Barbara, l'incertezza dipinta in viso, si lasciò ricadere sulla sedia. Era pallida in volto; e Carl Stevens a sua volta era seduto immobile, come impietrito, mentre le urla crescevano d'intensità. Poi sentirono il trepestio dei piedi giù per la scala. La porta del soggiorno si aprì, e la stanza vibrò immediatamente delle urla angosciose della bambina isterica. Sarah si guardò intorno, selvaggiamente; i suoi occhi sembrarono cercare qualcosa, ma senza veder nulla; poi attraversò a folle velocità la stanza, a braccia tese, verso la porta a vetri. Urtò in piena corsa: le sue mani colpirono più il telaio di legno che i riquadri di vetro. La porta cedette sotto l'urto e si spalancò, andando a sbattere contro la parete; i vetri si frantumarono, ma Sarah stava già attraversando, sempre di corsa, la veranda. «Jack!», gridò Rose. «Fermala! Fai presto!». Jack era già balzato in piedi e, mentre gli Stevens fissavano la scena sconvolti, sfrecciò attraverso il soggiorno infilando a sua volta la porta. Udirono le urla di Sarah, attenuate dalla distanza mentre correva attraverso il prato, inseguita da Jack. In preda al suo isterismo, Sarah si precipitava in avanti a innaturale velocità, quasi più rapida di suo padre. Si stava dirigendo verso il bosco. Nell'improvviso silenzio della casa, Rose si avvicinò alla porta a vetri per osservare l'inseguimento. Al piano superiore, proprio sopra di lei, Elizabeth e Jeff seguivano anch'essi ciò che stava accadendo sul prato, qualcosa che, avvolto nel denso grigiore della pioggia sottile, acquistava il grottesco aspetto del giocare a rincorrersi. Nessuno parlò, e il tempo sembrò quasi arrestarsi mentre Jack Conger cercava di raggiungere la figlia che fuggiva.
Jack sentì la pioggia frustargli il viso mentre attraversava con un paio di salti i cinque gradini della veranda e si lanciava sul prato. Distingueva Sarah davanti a sé, le piccole gambe che si agitavano come pistoni mentre correva a capofitto verso il bosco. Si era convinto che non avrebbe avuto difficoltà a raggiungerla, ma mentre accelerava senza che la distanza da Sarah diminuisse in maniera apprezzabile gli tornarono alla memoria le parole del dottor Belter, e si rese conto che il corpo di sua figlia ora si precipitava in avanti spinto dall'adrenalina e non dai muscoli. Si chiese quanto a lungo sarebbe riuscito a mantenere quel ritmo. Sarah cominciò chiaramente a rallentare quando fu poco più oltre la metà del prato, pur continuando a correre diritta come una freccia, come se avesse scelto un punto e si stesse precipitando verso di esso. Jack, mentre l'inseguiva, sentì i propri piedi scivolare sull'erba umida, e un paio di volte incespicò. Sarah invece non perse mai l'equilibrio, e ogni volta che Jack incespicò aumentò nuovamente il vantaggio. Poi, finalmente, cominciò visibilmente a barcollare, e Jack si convinse che la corsa era quasi finita. L'avrebbe raggiunta ai margini del bosco, o appena dentro. Dentro. Per qualche ragione quell'idea lo raggelò, poi avvertì una strana sensazione. Adesso il suo organismo aveva preso il sopravvento sulla mente, ed egli quasi percepì il guizzare dell'adrenalina nel suo sangue. A stento distinse il bosco, che ormai si ergeva davanti a lui, mentre si tuffava verso Sarah. Le sue braccia si chiusero intorno alle gambe di sua figlia, ed egli la sentì cadere, più che vederla. Poi lei si divincolò tra le sue braccia, cercando di liberarsi, e le sue urla crebbero nuovamente d'intensità. Padre e figlia lottarono, là in mezzo al fango, e l'agitarsi di Sarah si fece più frenetico, come se per qualche ragione le sue paure si fossero moltiplicate. Lui quasi perse la presa; poi, improvvisamente com'era cominciato, finì. Le urla di Sarah cessarono, e lei giacque nel fango. Il suo piccolo petto si alzava e si abbassava ansante, la gola risuonava di tanti piccoli singhiozzi soffocati. Jack la sollevò con delicatezza e prese a dirigersi verso casa. Cominciò ad attraversare il prato. La sua mente era vuota. Poi il ricordo acquistò lentamente consistenza dentro di lui. Era... Sì, era come un altro giorno, il giorno di un anno prima quando aveva portato Sarah attraverso quel prato, e aveva piovuto e lei aveva pianto. Quel giorno il suo vestitino era lacerato, e il suo corpo sanguinava. Con riluttanza abbassò gli occhi sulla bambina abbandonata fra le sue braccia.
Il volto di Sarah era rimasto graffiato nella lotta, e c'era un sottile filo di sangue sulla sua guancia sinistra. La sua tuta era infangata e la pettorina, lacerata, sbatteva al vento. Jack sentì il panico crescere dentro di sé. Guardò verso la casa, e attraverso il velo della pioggia li vide che aspettavano... aspettavano che lui portasse a casa la sua bambina, aspettavano che dicesse loro ciò che aveva fatto. Che cosa aveva fatto? Non sapeva che cosa aveva fatto. Stava portando a casa la sua bambina. Ma loro stavano aspettando. Perché lo stavano aspettando? Non sentì più lo sferzare della pioggia sul viso, o la spugnosa morbidezza del prato inzuppato d'acqua sotto i suoi piedi. Era come se stesse camminando lungo una galleria, e lui non sapeva cosa vi fosse all'estremità verso la quale stava andando, né sapeva che cosa c'era all'estremità dalla quale veniva. Si sentì stordito, e costrinse i suoi occhi a distogliersi da quel gruppo di gente che lo aspettava accanto alla porta a vetri. Si costrinse a sollevare lo sguardo. Vide Elizabeth. Era lassù, alla finestra, e lo stava osservando. Gli sorrideva. Era un sorriso dolce, e lo confortò. Jack sentì che il panico cominciava a sparire, e si concentrò a fissare Elizabeth, a fissare Elizabeth che lo guardava, che gli faceva cenno di avanzare, confortandolo in qualche modo mentre trasportava Sarah attraverso la pioggia. Elizabeth scomparve alla sua vista quando mise piede sulla veranda. E il panico lo assalì di nuovo. Portò Sarah nel soggiorno e la depose con delicatezza sul divano. Poi cedette al panico e all'isterismo, cominciò a singhiozzare. Arretrò da Sarah, quasi non avesse dovuto portarla dentro la casa, e guardò, con strano distacco, Rose e gli Stevens che la circondavano, parlando tutti assieme e affaccendandosi. Nessuno lo vide uscire dal soggiorno. Erano troppo occupati con Sarah. Lui salì le scale ed entrò nella stanza che divideva con Rose. Si gettò sul letto e riprese a piangere. Adesso ricordava. E odiava quel ricordo. Giù, in soggiorno, i tre adulti fissavano impotenti la bambina singhiozzante distesa sul divano. Tutto ciò che potevano fare, lo sapevano, era aspettare che passasse. Ma i singhiozzi erano tali da strappare il cuore, e sembrava quasi che Sarah stesse tentando di dire qualcosa... Ascoltarono attenti, e cercarono di afferrare le parole fra gli strani suoni che uscivano gorgogliando dalla gola di Sarah, come costretti da una forza invisibile.
«Segreto», sembrava dicesse. «Segreto... segreto...». Ma non ne erano sicuri. Non potevano esserne sicuri. 21 Barbara Stevens si sentì del tutto impotente, mentre osservava Rose che cercava di confortare Sarah. La bambina giaceva tremante sul divano, i suoi occhi vuoti guizzavano tutt'intorno, come alla ricerca di una via di fuga. Se dei pensieri coerenti le attraversavano la mente, era del tutto impossibile interpretarli. «Va tutto bene, tesoro», continuava a ripeterle Rose, con voce sommessa, cantilenante. «Ora tutto andrà bene. È finita, e la tua mamma è qui». Cercava di sollevare la testa di Sarah tra le braccia, per tenerla ferma, ma Sarah continuava a sobbalzare spasmodicamente. Fu già molto se Rose riuscì a impedire che la bambina cadesse giù dal divano. Gli occhi degli Stevens s'incontrarono sopra il corpo piegato di Rose, scambiandosi un'espressione di pietà. Poi udirono un lieve rumore e videro comparire alla porta del soggiorno Elizabeth e Jeff. Carl si affrettò a far loro un gesto, invitandoli a tornare di sopra, ma anche Rose li aveva visti. «Va tutto bene», disse. «Si sta calmando». Rivolse tutta la sua attenzione ai due ragazzini che adesso erano entrati in soggiorno e se ne stavano lì in silenzio. Jeff giocherellava nervosamente con le mani. «Che cosa è successo lassù?», chiese Rose, in tono pacato. Guardò entrambi i ragazzini, poi il suo sguardo si fermò su Elizabeth. «Che cosa ha scatenato la crisi?». «Non so», disse Elizabeth. «Stavamo giocando con la tavoletta oui-ja e poi ho cominciato a raccontare a Jeff la vecchia leggenda di famiglia». «Sarah ascoltava?». «Non lo so», disse di nuovo Elizabeth. «In quel momento non le prestavo molta attenzione. Jeff e io stavamo discutendo». «Discutendo?», chiese Barbara Stevens. «Su che?». «Mi stava raccontando una storia», disse Jeff. «Una storia pazzesca. E si è arrabbiata quando le ho detto che non ci credevo». «Ma è vera», ribatté Elizabeth. «La storia della caverna?», chiese Barbara. Suo figlio la fissò sorpreso. «Vuoi dire che ne hai sentito parlare anche tu?». «Sì, ne ho sentito parlare. Ma che la storia sia vera, oppure no, non avresti comunque dovuto discuterne con Elizabeth».
«Ma...», cominciò Jeff, ma suo padre lo interruppe. «Niente ma», disse Carl Stevens. «Dovresti sapere che non si discute mai su qualcosa di cui non si sa nulla. Chiedi scusa a Elizabeth». Per un attimo sembrò che Jeff volesse ricominciare tutta la discussione, poi si rivolse a Elizabeth. «Mi spiace di aver discusso con te», le disse; poi non riuscì a resistere, e aggiunse: «Ma continuo a non credere che quella caverna esista». Elizabeth aprì la bocca per rispondere, ma fu preceduta da Rose. «In questo momento non ha importanza se c'è o non c'è una caverna. Ciò che ha importanza è che Sarah è rimasta sconvolta. Cosa è successo?». Elizabeth riprese a narrare. «Stavo raccontando a Jeff della leggenda ed ero arrivata alla parte che riguarda la caverna. Avevamo cominciato a discutere se la caverna esistesse oppure no, quando all'improvviso Sarah si è messa a urlare... C'è una finestra rotta nella stanza dei giochi». «Una finestra rotta?». «Sarah vi ha scaraventato attraverso la tavoletta oui-ja», spiegò Jeff. «Ma che cosa diavolo stavate facendo, con quella tavoletta?», volle sapere Carl Stevens. Jeff cominciò a parlare, ma questa volta Elizabeth rispose per prima: «Stavamo semplicemente giocando. La freccia aveva formato la parola "Beth"». «È il tuo nome», disse Barbara Stevens, con un sorriso. «Sì», disse Elizabeth, scrollando le spalle. Lanciò una rapida occhiata a Jeff, ed egli afferrò immediatamente ciò che lei intendeva. Non far saper troppo agli adulti. È un nostro segreto. A sua volta le sorrise. «Ma che cosa ha fatto scattare Sarah?», insisté testardamente Rose, cercando disperatamente una spiegazione per lo scoppio di violenza di sua figlia. Per favore, implorò silenziosamente, rivolgendo una preghiera al cielo. Fammi capire, almeno una volta. Jeff ed Elizabeth si guardarono, e scrollarono le spalle. Rose stava per riprendere il controinterrogatorio, ma cambiò idea quando vide suo marito che stava lentamente scendendo le scale. Jack non entrò in soggiorno, però. Attraversò il corridoio, diretto allo studio sul retro della casa. Lo studio sul retro e il bar, pensò Rose. «Be'», disse, «penso che questo chiuda definitivamente la nostra partita a bridge, non è vero? Non credo che riuscirei più a concentrarmi sulle carte». Ed esibì uno di quei sorrisi allegri e vivaci che dicono graziosamente all'ospite che è ora di andarsene. Gli Stevens afferrarono il messaggio.
Carl guardò nervosamente l'orologio. «In ogni caso, è ora che ce ne torniamo a casa», disse. «Mi spiace per quello che è accaduto. Se c'è qualcosa che possiamo fare...». Lasciò la frase in sospeso, impotente, ben sapendo che non c'era nulla. «Ci vedremo di nuovo», si affrettò a dire Barbara, venendogli in soccorso. «Presto. Fatevi vivi, d'accordo?». Rose le sorrise. Elizabeth li accompagnò fino all'ingresso. Aspettò che si fossero infilati il cappotto, e tenne loro la porta aperta mentre uscivano. Fuori, la pioggia continuava a cadere silenziosa dal cielo grigio. «Non troppo bello», disse Carl. «No», assentì Elizabeth. «Ma ci siamo abituati». Quando si trovarono fuori, né Carl né Barbara furono sicuri se Elizabeth si fosse riferita al tempo o all'esplosione di furia di sua sorella. Nessuno dei due parlò finché non ebbero infilato la Strada del Promontorio. «Dev'essere dura», commentò infine Barbara. «Che cosa?». «Avere una figlia come Sarah. Mi spiace tanto, per tutti e due». Carl annuì. «Non sono sicuro che riuscirei a farcela, e comunque non certo nel modo in cui ci riescono Jack e Rose. Per non parlare di Elizabeth», aggiunse. «Una ragazzina notevole. Sono fortunati ad averla. Suppongo che in un certo senso riequilibri la situazione». «È pazza», dichiarò Jeff dal sedile posteriore. Carl rimproverò suo figlio perché aveva parlato così. Non gli passò affatto per la mente che Jeff stesse parlando di Elizabeth, e non di Sarah. E non passò per la mente a Jeff che i suoi genitori avessero capito male. Elizabeth seguì con lo sguardo gli Stevens che si allontanavano in macchina sotto la pioggia, poi chiuse in silenzio la porta e tornò in soggiorno. Sostò per un attimo a contemplare sua madre che cercava di confortare Sarah, poi si avvicinò e s'inginocchiò accanto a lei. «Faccio io», disse. «Io posso calmarla». Rose si alzò in piedi, con un sospiro di sollievo. Non sapeva mai cosa fare in quelle situazioni, e finiva sempre per sentirsi impotente e frustrata; sensazione che, ne era certa, veniva in qualche modo trasmessa a Sarah. Piena di gratitudine, lasciò che Elizabeth prendesse il suo posto, e quando vide che Sarah stava effettivamente riprendendosi dall'attacco, o qualunque cosa fosse, si allontanò, dirigendosi, cupa in volto, verso lo studio sul
retro della casa. Lì finalmente avrebbe affrontato ciò che le era familiare, e per lo meno suo marito avrebbe capito quello che lei diceva. Fino a quando non fosse stato troppo ubriaco. L'immagine di Martin Forager le balenò nella mente, poi i lineamenti di Forager, all'improvviso, si dissolsero e furono sostituiti da quelli di Jack. Rose scosse via quell'immagine ed entrò nello studio senza bussare. Jack era seduto nella sua solita poltrona, con un bicchiere di roba forte in mano, gli occhi fissi sul ritratto della bambina appeso sopra il caminetto. «Potrei dire alla signora Goodrich di accendere il fuoco», propose cautamente Rose. «Non farebbe nessuna differenza», disse Jack, fiaccamente. «Avrei freddo lo stesso». I suoi occhi non lasciarono il ritratto. «Stai bene?», gli chiese Rose. «Suppongo di sì. Mi spiace essere crollato così. Ho avuto un brutto momento, là fuori». «L'ho notato». Una sfumatura acida rese tagliente la voce di Rose. Jack sollevò una mano. «Non cominciare, Rose. Non adesso. Ho ancora i nervi a fior di pelle, e non voglio parlarne». «Dovrai farlo, prima o poi». «Lo so. Ma il più tardi possibile, se non ti spiace». Rose sedette sull'altra poltrona, accanto al caminetto, e subito il freddo che regnava nella stanza l'avvolse. Decise di chiedere comunque alla signora Goodrich di accendere il fuoco, e andò a cercarla. Quando tornò, Jack non si era mosso, ma il suo bicchiere era più pieno di quando era uscita. Lei capì che aveva vuotato il primo e se n'era versato un secondo, ma non sembrava aver minimamente cambiato posizione. I suoi occhi erano ancora vitrei e fissi sul ritratto, come se esercitasse su di lui un qualche tipo di forza magnetica. Anche Rose guardò il ritratto, e aguzzò gli occhi nel tentativo di scoprire che cosa mai Jack vi vedesse. Qualche minuto più tardi la signora Goodrich entrò per accendere il fuoco. Non disse nulla, e nessuno le rivolse la parola. Quand'ebbe lasciato lo studio, i suoi datori di lavoro stavano ancora fissando il quadro, in silenzio. Soltanto, adesso un allegro fuoco crepitava ai loro piedi. La signora Goodrich, tornando nella sua stanzetta accanto alla cucina, si sentì vagamente preoccupata. Raccolse il fascicolo coi programmi televisivi e prese posto nella sua poltrona. Elizabeth sgusciò fuori attraverso la porta principale, attraversò il fitto
velo di pioggia e raggiunse la scuderia. Quando fu dentro, raggiunse rapidamente la vecchia stanza degli attrezzi e chiuse la porta dietro di sé. Si tolse l'impermeabile e lo appese a un gancio. Poi cominciò a sbottonarsi il vestito. Quand'ebbe sfilato tutti i bottoni, se lo tolse e lo ripiegò con cura. Lo depositò su uno scaffale vuoto e lo coprì con una vecchia coperta da cavalli. Poi si curvò a frugare sotto un mucchio di fieno rinsecchito in un angolo della stanza e tirò fuori un piccolo fagotto di tessuto. Lo scosse. Era il vecchio vestito che aveva trovato nell'attico, ora qua e là strappato e macchiato, ma ancora tutto d'un pezzo. Se l'infilò con cura, poi cominciò a sciogliersi i capelli annodati a coda di cavallo. Quando i capelli biondi le ricaddero liberi sulle spalle, si guardò attorno, poi aprì la porta. Un attimo dopo era fuori della scuderia; s'incamminò lentamente attraverso il prato, in direzione del bosco. Ora la pioggia aveva preso a cadere con maggior forza; a una ventina di metri dalla casa Elizabeth era già inzuppata da capo a piedi, ma sembrò non accorgersene. Continuò ad avanzare lentamente, con passo deciso, nella tempesta che si scatenava in tutta la sua furia. Raggiunse i margini del bosco, ma non cercò riparo sotto gli alberi dalla pioggia torrenziale. Adesso i capelli le erano appiccicati come un sudario alle spalle; la loro umida levigatezza sottolineava i lineamenti del suo viso. Il suo passo si fece più rapido. Elizabeth attraversò il bosco con una sicurezza che sarebbe parsa impossibile a chi l'avesse vista. Ma non la vide nessuno. I fulmini cominciarono a solcare l'orizzonte quando emerse dal bosco; uno scroscio di tuono l'accolse quando uscì sulla cresta della scogliera. Faceva buio, sempre più buio, anche se il sole non era ancora sotto l'orizzonte. La tempesta cancellava quasi del tutto la residua luce del giorno; il mare, appena visibile attraverso la pioggia, aveva l'aspetto minaccioso di una belva notturna. Elizabeth, ignorando pioggia e oscurità, cominciò a scendere lungo la superficie accidentata della scogliera. Mentre la tempesta aumentava ancora d'intensità, lei scomparve dietro il macigno che proteggeva l'ingresso della galleria. Trovò la torcia elettrica nella nicchia accanto all'imboccatura, ma non l'accese finché non ebbe raggiunto la cavità superiore. Ormai il fetore del gatto morto, mescolato all'odore acido del vomito dei bambini, aveva appestato tutta l'aria, all'interno. Ma Elizabeth non sembrò accorgersene. Strisciò fino all'imboccatura del pozzo, accese la luce e guardò giù. Non riuscì a veder nulla, oltre alla lastra di roccia che formava il rozzo tavolo, ma percepì gemiti sommessi. Seppe che Kathy e Jimmy erano ancora lì
sotto, rannicchiati da qualche parte nell'oscurità. Sorrise tra sé e cominciò a calar giù nel pozzo la scala di corda. Saggiò brevemente la sua robustezza, poi cominciò a scendere. La luce della torcia proiettava ombre arcane, infilata in una tasca del suo vestito d'antica foggia. Elizabeth sentì infine che il piede toccava il suolo della caverna, e si staccò dalla scala. Estrasse la torcia dalla tasca e illuminò tutt'intorno. Kathy Burton e Jimmy Tyler sedevano rannicchiati l'uno addosso all'altra contro la parete della caverna, nel punto opposto a quello in cui giaceva lo scheletro. Gli occhi di Kathy erano strettamente chiusi per evitare l'improvviso bagliore della luce, ma Jimmy Tyler aveva gli occhi socchiusi e li proteggeva con una mano, tentando di vedere oltre l'improvvisa fonte di luce. Kathy gemeva sommessamente fra sé, e salvo per una mano stretta sul viso, sembrava del tutto inconscia di ciò che stava accadendo. Jimmy non cercò di alzarsi, ma i suoi occhi seguirono guardinghi la luce. Elizabeth spostò il raggio a illuminare il vecchio scheletro, e un'esclamazione strozzata le uscì dalle labbra quando si accorse che le ossa erano scomposte, sparpagliate in ogni direzione. Elizabeth infilò una mano in tasca e tirò fuori alcune candele che aveva trovato nella stanza degli attrezzi della scuderia e un piccolo accendino che aveva trovato in casa. Infilò le candele in alcune crepe delle pareti e le accese, e infilò l'accendino, con molta attenzione, in una stretta fenditura proprio sotto le candele. Poi spense la torcia, che fece nuovamente scomparire dentro la grande tasca del vestito. Le fiammelle delle candele tremolarono, poi presero vigore, e una luce calda inondò l'interno della caverna. Ignorando i due bambini rannicchiati l'uno sull'altra, Elizabeth si diede da fare con le vecchie ossa sparpagliate. Con tenerezza ricollocò ogni osso nella sua giusta posizione, e nel giro di pochi minuti lo scheletro fu di nuovo completo, le braccia nuovamente ripiegate sulla cassa toracica vuota. Soltanto allora Elizabeth riportò la sua attenzione su Kathy Burton e Jimmy Tyler. «È ora di fare un'altra festa», bisbigliò. Kathy non sembrò sentirla, ma Jimmy si rannicchiò ancora di più contro la ragazza accanto a lui, mentre il terrore l'afferrava. Sapeva che quella era Elizabeth... ma non l'Elizabeth che aveva conosciuto in tutta la sua vita. Era un'altra Elizabeth, un'Elizabeth che faceva paura. Era coperta di fango; i suoi capelli, impregnati d'acqua e impastati di
melma, erano appiccicati al viso e alle spalle. L'abito strappato, inzuppato come una spugna e reso viscido dal limo della caverna, si attorcigliava sul suo corpo in pieghe grumose, e il suo volto dall'espressione vacua ricordava a Jimmy sua nonna come l'aveva vista al funerale, due mesi prima. Sembra morta, pensò Jimmy. Elizabeth sembra morta. Cercò di rannicchiarsi ancora più vicino a Kathy Burton. Mentre Jimmy la guardava, orrendamente affascinato, Elizabeth trovò i resti del gatto morto. I suoi indumenti da bambola erano coperti dal limo della caverna. Lo raddrizzò con cautela sopra una delle rocce sistemate come sgabelli intorno al tavolo di pietra. Elizabeth trovò anche la testa del gatto, adesso priva di un occhio, ma sempre col suo grottesco berretto, e cercò di risistemarla in equilibrio in cima al tronco. Quando non riuscì nel suo intento, afferrò saldamente la testa e la schiacciò contro il tronco come un arancio su uno spremilimoni. La carne putrefatta cedette e l'estremità superiore della spina dorsale sporse verso l'alto, conficcandosi nel foramen magnum. La testa restò lì inchiodata, tra le spalle del felino. «Vieni al tavolo», mormorò Elizabeth, e con un cenno invitò Jimmy Tyler a lasciare la sicurezza della parete rocciosa e a unirsi al gatto in quell'assurdo consesso. Jimmy scosse la testa. «Vieni al tavolo», ripeté Elizabeth; la sua voce si era fatta minacciosa. Jimmy si tirò le ginocchia sul petto, e strinse con forza ancora maggiore la mano di Kathy Burton. Elizabeth si diresse verso di lui e la sua mano si alzò a colpirlo. Un istante prima che il colpo fosse vibrato, Jimmy fuggì via a quattro zampe e si rannicchiò tremante, lontano da Kathy, su uno degli sgabelli di roccia. Elizabeth si voltò verso Kathy. «Anche tu», le disse. Kathy non si mosse, ma i suoi occhi lentamente si socchiusero e la sua bocca si mosse, come se stesse cercando di parlare. «Muoviti!», le intimò Elizabeth. Questa volta lo schiaffo andò a segno, e Jimmy Tyler si fece piccolo al violento schiocco. Ma Kathy continuò a restare immobile: un lieve gorgoglio le uscì dalle labbra. Elizabeth fissò per qualche istante la ragazzina inerte, poi le afferrò le caviglie e cominciò a trascinarla verso il centro della caverna. Sebbene indebolita, Kathy Burton cercò di liberarsi, ma la stretta di Elizabeth era ferrea. Nel giro di pochi secondi, Elizabeth sistemò Kathy sul terzo sgabello. Quando la lasciò andare Kathy tornò ad accasciarsi sul pavimento. Elizabeth la prese a calci. «Stai dritta quando siedi a tavola!», le ordinò bruscamente. Kathy sem-
brò acquistare un barlume di consapevolezza, per cui riuscì a tirarsi su e a restare diritta. «Così va bene», disse Elizabeth. Fece un paio di passi indietro e contemplò la strana scena. «Adesso», proseguì, «tu, Kathy, sei la madre, e Jimmy il padre. E Cecil è la tua bambina. La tua bambina pazza. Dai da mangiare alla tua bambina, madre». Kathy restò seduta in silenzio, appena in grado di tenersi ritta. «Ho detto: "Dài da mangiare alla tua bambina!"», ripeté Elizabeth, incattivendosi. Quando Kathy non fece alcuna mossa verso il gatto, Elizabeth sollevò il pugno e lo calò con forza sulla schiena di Kathy, che cadde lunga distesa sul tavolo. «Devi fare sempre quello che ti dico!», ringhiò Elizabeth. Poi si voltò verso Jimmy. «Se la madre non può dar da mangiare alla bambina, lo farai tu», gli disse. Lui la fissò perplesso, cercando d'immaginare che cosa avrebbe dovuto fare. Vide il pugno di lei che tornava a chiudersi, e subito decise che la cosa migliore era fingere. Rapidamente mimo il gesto di portare un biberon alla bocca della bambina. «È troppo vecchia per il biberon», sibilò Elizabeth. «Mangia vero cibo». Rapidamente Jimmy finse di afferrare un cucchiaio e d'imboccare il gatto. «Parlale», ordinò Elizabeth. «Parla alla tua bambina!». Jimmy restò paralizzato per un attimo, poi ritrovò l'uso della lingua. «Bella bambina», disse. «Ecco della buona pappa per la bella bambina». «Si chiama Sarah!», urlò Elizabeth. «Non conosci neppure il nome della tua bambina? Che razza di padre sei?». «Sarah», si affrettò a ripetere Jimmy. «Ecco un po' di cibo per la piccola, bella Sarah». Continuò a fingere d'imboccare il gatto morto e continuò a farfugliargli qualcosa, senza neppur sapere quello che diceva, ma facendo bene attenzione a chiamarlo Sarah ogni pochi secondi. «Non risponde, vero?», chiese, melliflua, Elizabeth. Jimmy scosse la testa. «Perché è pazza!», urlò Elizabeth. «Ma ci si aspetta che i bambini rispondano quando gli rivolgiamo la parola, non è vero?». Jimmy annuì in silenzio. «Allora è una bambina cattiva», dichiarò Elizabeth. «È pazza ed è cattiva. Puniscila». Jimmy non si mosse. «Puniscila!». Gli occhi fissi su Elizabeth e sulla sua mano che minacciosamente con-
tinuava a piegarsi a pugno, Jimmy afferrò lentamente il gatto morto. La testa ruzzolò giù dal corpo e finì lontana, fra le ombre. Rabbrividendo, Jimmy si appoggiò la carcassa sul ginocchio e cominciò a sculacciarla. Elizabeth sorrise. Kathy, ancora distesa sopra il tavolo, la testa fra le mani, doveva essersi mossa leggermente, poiché l'attenzione di Elizabeth si rivolse immediatamente a lei. «Non dormire sul tavolo», le intimò, minacciosamente. Jimmy, timoroso che Kathy stesse per ricevere un altro di quei tremendi pugni da Elizabeth, tese la mano per scuoterla. «Non toccarla», gli ordinò Elizabeth. «Non ti piace toccare sua madre, vero? Lei vuole che tu la tocchi, ma a te non piace. Sappiamo quello che ti piace, non è vero?». Fissò maliziosamente il ragazzino, che la guardò sconcertato. «Ti piace la bambina, non è vero? Sappiamo che ti piace la bambina molto più di quanto ti piaccia la madre, non è vero?». E all'improvviso la sua voce crebbe d'intensità, e la caverna fu piena fino a traboccare dell'echeggiare delle sue parole: «Se è questo che vuoi, è questo che avrai!». Elizabeth balzò su Jimmy e cominciò a strappargli i vestiti. Lui lottò, ma era troppo debole per la fame e la paura per poter opporre una valida resistenza. Ben presto, prima che avesse la possibilità di rendersi conto di ciò che stava accadendo, Elizabeth l'aveva completamente spogliato dei suoi indumenti, gettandoli in un angolo. Nudo, si rannicchiò in un angolo della caverna. Elizabeth afferrò il corpo decapitato del gatto. «È questo che vuoi, non è vero?», sibilò. «Tu vuoi la tua bambina, non è vero?». E si gettò su Jimmy Tyler, spingendo a forza la carne putrescente del gatto morto contro il suo inguine, farfugliando incoerentemente che, se la desiderava tanto, eccola lì. I singhiozzi impotenti di Jimmy Tyler, mescolati alle farneticazioni di Elizabeth, riempirono la caverna. Lui non comprendeva ciò che gli stava accadendo. Kathy Burton sentì quei suoni assurdi penetrarle nella mente annebbiata: alzò lo sguardo e vide la scena abbietta che si svolgeva davanti a lei. Sulle prime non riuscì ad afferrarla, a darle un qualche significato. Poi la sua mente si schiarì un po' di più, e lei si rese conto di ciò che stava accadendo. Fissò inorridita Elizabeth che moltiplicava i suoi sforzi per costringere Jimmy Tyler a copulare con la carcassa del gatto.
Kathy Burton urlò, e con l'ultima riserva d'energia si alzò in piedi e si diresse verso il punto in cui Elizabeth lottava con Jimmy Tyler. «Non farlo», gracidò. «Per favore, Elizabeth, non farlo». Elizabeth si girò di scatto, e Kathy desiderò di non aver tentato d'interferire. Cominciò ad arretrare, e la luce che brillava negli occhi di Elizabeth la spinse all'indietro finché si schiacciò contro la parete della caverna. Il suo terrore crebbe quando vide Elizabeth raccogliere una pietra dal pavimento della caverna. Sentì ogni energia lasciarle il corpo quando Elizabeth sollevò la pietra sopra la sua testa, e quando la pietra fu calata con forza a colpirla, si accasciò come un sacco di stracci sulla gelida roccia. Per Kathy Burton l'orrore era finito. Un'ora più tardi Rose Conger trovò sua figlia maggiore che usciva dalla doccia. «Stavo proprio per dirti che se volevi fare una doccia prima di cena avresti fatto meglio a sbrigarti. Vedo che sono arrivata in ritardo». Elizabeth annuì e sorrise a sua madre. Rose sorrise a sua volta, e ringraziò silenziosamente Dio per averle mandato Elizabeth. Senza Elizabeth non sapeva proprio come avrebbe fatto. «Vuoi accompagnare Sarah giù con te?», le chiese. «Ma certo», rispose Elizabeth. «Non appena sarà vestita». Nella caverna, Jimmy Tyler giaceva dove Elizabeth l'aveva lasciato, troppo debole e troppo confuso perfino per ritrovare i suoi vestiti. Giaceva tremante, nudo nell'oscurità. 22 Quella notte Rose giacque distesa, rigida, nel suo letto, fino a tardi, ascoltando il picchiettare della pioggia sul tetto. I suoi pensieri erano tempestosi come il tempo là fuori. Non percepiva nulla dal corpo inerte di Jack disteso accanto a lei, ma sentiva che non era addormentato. «È qualcosa che ha a che fare con quel ritratto, non è vero?», disse lei, alla fine. Jack accese di scatto la lampada accanto al letto e si sollevò su un gomito. «Lo senti anche tu?», fece. «No», replicò Rose in tono reciso. «Io no. Ma per tutta la sera sei rimasto a fissarlo. Che cos'ha? È come se tu stessi cercando di vederci qualco-
sa». Jack tornò a distendersi e fissò il soffitto. «Non ne sono sicuro», disse. «È soltanto che mi sembra... Mi sembra che il ritratto dovrebbe assomigliare più a Sarah che a Elizabeth». «Sarah? E perché a Sarah?». «Niente di concreto. Soltanto una sensazione. Continuo a pensare a quello che ci ha detto il dottor Belter. Circa la ragazzina che si suppone sia stata uccisa. Continuo ad avere la sensazione che quello sia il suo ritratto». «E questo che cosa c'entra con Sarah?». La voce di Rose si era fatta adesso più tagliente, come se lei volesse proteggersi da ciò che stava per accadere. «Io... ho ricordato. Ho ricordato tutto, Rose. Quel giorno di un anno fa, quando ho quasi ucciso Sarah». «Ma non l'hai uccisa». «No, non l'ho uccisa», annuì Jack, triste, desolato. «In realtà volevo qualcos'altro». «Qualcos'altro?». «Volevo violentarla», spiegò Jack, con calma. Attese una risposta da Rose, e quando non ve ne furono, proseguì: «Non avevo la più vaga idea di cosa mi fosse successo, ma oggi, quando stavo riportando Sarah a casa in mezzo alla pioggia, ho alzato gli occhi e ho visto Elizabeth che mi guardava. E, all'improvviso, ho ricordato tutto. Ho ricordato di essere stato nel bosco, e di aver visto Sarah che strisciava sotto un cespuglio. E all'improvviso la volevo. Sessualmente. Non chiedermi di spiegarti perché, non lo so. E stata la cosa più orrenda che io abbia provato in vita mia. Mi è sembrato di essere un altro, ma ero sempre io. Era come se fossi spinto a far qualcosa, a voler fare qualcosa che non volevo fare. E poi mi afferrò un'altra orrenda sensazione, come se... come se Sarah stesse tentando di sedurmi». Rose si drizzò a sedere. «Sedurti?», chiese. «Sedurti? Mio Dio, Jack, aveva soltanto dieci anni!». «Non ho detto che stesse tentando di sedurmi. Ho detto che sentii come se lo stesse facendo. E così cominciai a picchiarla. Volevo davvero ucciderla. Oh, Gesù, Rose, è stato davvero orribile». Il dolore di quel ricordo lo investì ancora una volta, e cominciò a piangere sommessamente. Rose, non riuscendo a capire quello che gli era successo, a sua volta con i sentimenti in subbuglio, cercò qualcosa da dire. «Non lo so, non ne sono sicuro», farfugliò Jack, «ma quando guardo quel ritratto, ho l'inspiegabile sensazione che quello che è successo a Sarah
un anno fa fosse già accaduto a quella ragazzina, tanto tempo fa». «E questo, immagino, ti libera da ogni responsabilità, non è vero?», replicò, fredda, Rose. «Così, improvvisamente, invece di essere l'aggressore tu sei la vittima? Mio Dio, Jack». Jack, a quelle parole, si ritirò in se stesso, in un vano tentativo di fuga, ma Rose continuò spietatamente: «E oggi? Sei stato di nuovo vittima anche oggi? Qualche strana forza ti ha sopraffatto anche oggi? Oggi non eri più te stesso?». «Di cosa stai parlando?». «Oggi ho visto, Jack. Ho visto tutto. E ho provato vergogna che anche Carl e Barbara Stevens abbiano visto». Jack si rizzò a sua volta a sedere e fissò la moglie. «Non so di cosa tu stia parlando», esclamò. «Sto parlando di te, là fuori sul prato con Sarah. Davvero non so quale sia stata la cosa peggiore, se guardare te che correvi attraverso il prato, urlando, o guardarti quando l'hai salvata. Sei stato sadico, Jack. Non era come se tu la stessi aiutando. Sembrava che tu l'aggredissi! Era come se tutto si stesse ripetendo un'altra volta, nell'identico modo!». Jack s'irrigidì, gli occhi in fiamme. «Sei uscita di senno?», l'affrontò. «Oggi non è stato niente di simile a un anno fa. Tanto per cominciare, oggi ero completamente sobrio». Rose si accigliò. «Forse non hai bisogno di essere ubriaco», dichiarò, esplicita. «Forse c'è qualcosa di più grave che non va in te». Qualcosa scattò dentro Jack. Afferrò Rose per le spalle e la inchiodò sul letto. «Vedremo chi posso violentare», ringhiò, e mentre Rose giaceva lì distesa, inerte, come se non valesse la pena lottare contro di lui, la sua rabbia crebbe. Afferrò la sua camicia da notte e gliela strappò di dosso. Rose continuò a restar lì, distesa, schernendolo con la sua passività. Si gettò su di lei, e cercò disperatamente di possederla. E non riuscì. Rose cominciò ad agitarsi sotto di lui, e per un attimo Jack non fu sicuro se stesse cercando di liberarsi o di aiutarlo. «Non puoi farlo, vero?», gli giunse beffarda la voce di Rose, sotto di lui, leggermente soffocata dal suo petto. «Soltanto ragazzine? Be', io non sono una ragazzina, Jack. Io sono una donna. Una vera donna. E adesso togliti di dosso». Lei fece forza contro il suo corpo, e ancora una volta lui tentò di pene-
trarla. E ancora una volta fallì. La lotta, a quel punto, cominciò a farsi davvero violenta, e improvvisamente Rose ebbe paura di ciò che sarebbe potuto accaderle. Questo la spinse a raddoppiare gli sforzi, e alla fine riuscì a liberarsi. Riuscì a scivolare giù dal letto, e subito si voltò a fronteggiarlo. Con gli occhi fiammeggianti, la collera che ancora saliva in lui, la fissò e anche la paura di Rose crebbe. Si rese conto che ora stava provando ciò che anche Sarah doveva aver provato un anno prima, nel bosco. Istintivamente allungò una mano ad afferrare un portacenere sul comodino accanto al letto. «Non venirmi vicino!», urlò. «Lo giuro, Jack, se soltanto mi metti un dito addosso, io...». «Tu che cosa?», tuonò Jack. «Mi uccidi? Credi davvero che me ne importi?». Adesso era anche lui in piedi, e il letto li separava. Entrambi urlavano, nessuno dei due ascoltava le parole dell'altro. E poi, quando tutti e due fecero una pausa, udirono il rumore. Qualcuno stava battendo alla loro porta. Si guardarono allibiti. Le bambine! Ma la voce che risuonò fuori, in corridoio, era della signora Goodrich. «State bene?», stava chiedendo. «Per l'amor del cielo, state svegliando tutta la casa!». Vi fu silenzio, poi Rose rispose: «Tutto a posto, signora Goodrich». La sentirono allontanarsi verso la scala. I suoi passi pesanti discesero faticosamente i gradini. «Anche le bambine avranno sentito tutto», si lamentò Rose. «Non cercare di dar la colpa a me», ribatté Jack. «Potresti anche cercare di ascoltarmi, una volta tanto, invece di accusarmi». «Tu non sei mai responsabile, vero?», replicò Rose, facendo uno sforzo per tener bassa la voce. «Non ti prenderai mai la responsabilità di niente, vero?». «Lo farò. Ma non per ogni cosa, Rose. Non per ogni cosa». Cominciò a vestirsi. «Dove vai?», chiese Rose. «Non devi saperlo», dichiarò Jack. Poi ebbe una smorfia cattiva. «Mi prenderò tutta la responsabilità per dove sto andando. E anche per quello che farò». La lasciò in piedi accanto al letto, la camicia da notte stracciata. Rose non si era ancora mossa, quando udì la sua macchina allontanarsi rombando lungo il viale, due minuti più tardi. Soltanto quando il rumore della macchina svanì in distanza, lei ricadde sul letto. Con mano tremante prese
una sigaretta e l'accese. Il fumo, inspirato profondamente nei polmoni, sembrò calmarla. Terminata la sigaretta, si mise più comoda sul letto e spense la luce. Giacque immobile a lungo, mantenendo regolare il respiro e costringendo i muscoli a rilassarsi. Cercò anche di mettere ordine fra i suoi pensieri, e quando non ci riuscì, decise di lasciarsi andare alla deriva, per vedere dove l'avrebbero condotta. Trenta minuti più tardi stava cercando ancora di rilassare i muscoli, e la sua mente era più che mai immersa nel caos. Decise di mangiare qualcosa. Raggiunse la cucina a passi furtivi e accese la luce. Tese le orecchie per un istante, e udì il ritmico russare della signora Goodrich nella stanzetta accanto. Si avvicinò in punta di piedi al frigorifero e l'aprì. Mentre frugava fra i resti di cibo ben incartati sulle mensole del frigorifero le parve di udire, alle sue spalle, lo scatto di una porta che si apriva. Ma si voltò soltanto quando udì un soffio d'aria fredda sulle gambe. La porta sul retro era spalancata. Una fitta di paura l'attraversò, e istintivamente si voltò per avvicinarsi al cassetto dov'erano conservati i coltelli. E così facendo, vide chi aveva aperto la porta sul retro. Sarah, la camicia da notte di flanella inzuppata d'acqua e coperta di fango, i capelli lucidi di pioggia, era immobile accanto al cassetto dei coltelli, come se stesse cercando di decidere se aprirlo oppure no. «Sarah?», sussurrò Rose, mentre il cuore le balzava in gola e una tremenda paura s'impadroniva di lei. «Sarah?», ripeté. Si avvicinò alla bambina e si curvò su di lei. Tese una mano e la toccò lievemente, per timore che sua figlia fosse sonnambula e per paura di svegliarla, se lo era davvero. Ma a quel tocco Sarah si voltò e fissò sua madre. Ammiccò un paio di volte, e Rose fu certa che era sveglia. «Sarah», chiese Rose a bassa voce, «che cosa c'è? Che cosa stavi facendo, là fuori?». Sarah fissò sua madre, priva d'espressione, e Rose non seppe se l'avesse udita o meno. Poi una grossa lacrima si formò sull'angolo di uno degli occhi di Sarah e lentamente le colò lungo la guancia. Si arrestò al mento, poi, quando fu troppo pesante per rimanere appesa, in equilibrio, cadde a terra. Rose raccolse la bambina fra le braccia. Sarah non oppose resistenza. «Su, vieni», disse Rose. «Ti porto di sopra e ti metto a letto». Sollevò la bambina e chiuse la porta sul retro e lo sportello del frigorifero. Spense la luce della cucina, e cantando sommessamente alla bambina
che era scossa da brividi fra le sue braccia salì di sopra e andò in bagno. Mise giù Sarah e cominciò a far scorrere l'acqua nella vasca. Poi andò a prendere degli asciugamani. Quando tornò, Sarah sedeva ancora dove l'aveva lasciata, immobile, come se stesse pensando a qualcosa. Ma i suoi occhi, i suoi bellissimi, grandi occhi castani, apparivano ancora vuoti, fissi sulla vasca piena d'acqua. Rose la spogliò e la mise dentro la vasca. Quand'ebbe finito di lavarla, Rose mise Sarah a letto, rimboccò con cura le coperte alla bambina, poi le sedette accanto finché non fu sicura che si era addormentata. Infine uscì dalla stanza di Sarah, lasciando accesa la luce, e scese nuovamente di sotto. Sapeva che non sarebbe riuscita a dormire, anche se fosse ritornata a letto. Ora si trovò a desiderare che lui fosse a casa, o per lo meno che le avesse detto dove andava. Si sedette nello studio e attese. Sopra di lei, la ragazzina che tanto assomigliava a Elizabeth le sorrise. Il ritratto confortò Rose e rese meno pesante la sua attesa. Jack guidò in fretta nella tempesta. I battiti del suo cuore andavano a tempo coi tergicristallo che si affannavano inutilmente a tener pulito il parabrezza davanti ai suoi occhi. Ma, in realtà, lui non aveva un bisogno assoluto di vedere: la Strada del Promontorio gli era talmente familiare che, sentiva, avrebbe potuto percorrerla completamente bendato, riconoscendo ogni buca e ogni minimo rigonfiamento del terreno. Guidò automaticamente, con la mente che galoppava in un turbine di pensieri caotici. Poi vide le luci di Port Arbello baluginare fra la pioggia davanti a lui, e seppe dove stava andando. Infilò con la macchina il vialetto della casa di Sylvia Bannister. Si fermò e scese, lasciando lì l'automobile per chiunque volesse vederla. La casa era al buio, ma neppure per un attimo considerò la possibilità di recarsi altrove. Raggiunse a piedi la porta e bussò energicamente. Quando non vi fu risposta, tornò a bussare, con più forza ancora. Finalmente colse il balenio di una luce che si accendeva e udì un rumore di passi che si avvicinavano alla porta. «Chi è?», chiese la voce sonnolenta di Sylvia. «Sono io. Jack». Restò in ascolto mentre lei toglieva la catena dalla porta e sfilava il chiavistello. Poi la porta si aprì e lei lo fissò, strizzando gli occhi. «Scusami», disse, e fece scattare l'interruttore della luce sulla veranda. «Non volevo lasciarti al buio».
«Oh, va bene lo stesso», sogghignò Jack, con aria d'intesa. Il vederla davanti a sé già lo faceva star meglio. «Comunque sembra che sia buio completo per me, in questi giorni». Lei aprì la porta e lo fece entrare, poi tornò a chiuderla, rimise la catena e fece scorrere il chiavistello. «Suppongo che sia sciocco», commentò, «ma mi fanno sentire più sicura». Poi lo scrutò da vicino, e un'espressione preoccupata le si disegnò sul volto. «Stai bene? Lascia che ti riempia un bicchiere. Hai l'aria di averne bisogno». «Infatti», annuì Jack. «Immagino che non dovrei, ma uno mi farebbe davvero bene». «È riuscita a convincerti, vero?», disse Sylvia, mentre lo conduceva in cucina. «Convincermi?». «Che sei un alcoolizzato», concluse Sylvia, riempiendo a entrambi un bicchiere. «Suppongo di esserlo». Jack accettò il bicchiere che lei gli porgeva. «No», ribatté Sylvia, in tono deciso. «Non lo sei. Martin Forager è un alcoolizzato. Tu no. Per lo meno, non ancora. Ma immagino che se tu volessi, potresti diventarlo. Vuoi?». «Non ne sono sicuro, ma sì, a volte vorrei proprio diventarlo. A volte mi piacerebbe restare ubriaco in permanenza. Lo farei senz'altro, ma soffro terribilmente dopo una sbornia. Non si vede, ma perdio, se mi fa male!». «Be', suppongo che fino a quando soffrirai così, sarai al sicuro. Per lo meno è quello che mi ha insegnato mio padre. Vuoi star seduto qui, o devo accendere il fuoco?». «Qui va più che bene», disse Jack, sistemandosi su una delle sedie accanto al tavolo della cucina. «Almeno è diverso da casa nostra. La signora Goodrich non tollera che un Conger si sieda in cucina. Credo che pensi che sia macchiare la nostra dignità. Non che ci sia rimasta una qualche dignità da macchiare, dopo stanotte». Raccontò a Sylvia quello che era successo a casa. «Dev'essere stato terribile», commentò lei, quando Jack ebbe finito. Lui agitò il bicchiere ed ebbe un sorriso forzato. «Be', non è stato piacevole. Così me ne sono andato. Ed eccomi qui». «Voglio dire... Ricordare. Dev'essere stato terribile». Jack annuì. «Certo. Vorrei non aver ricordato. Non sapere ciò che avevo fatto era già brutto. Ma adesso... Sapere quello che tentavo di fare è molto peggio».
«Sciocchezze», ribatté Sylvia. «Sembra che tu ti dimentichi di qualcosa: non l'hai violentata. E neppure uccisa». «Ma volevo farlo», disse Jack, sentendosi un miserabile. «Voler fare qualcosa e farlo veramente sono due cose del tutto diverse. Se dovessi sentirmi male per tutte le cose che avrei voluto fare, ora sarei ridotta a pezzi. E neppure l'intera Port Arbello sarebbe in buone condizioni. Così, sull'unghia, mi vengono in mente tre persone che avrei voluto uccidere. Intendo dire... uccidere sul serio, con tutto un piano dettagliato su come farlo e uscirne pulita. Perciò, piantala di sentirti male». Guardò il bicchiere di Jack, poi il proprio, entrambi vuoti. «E prepara altri due di questi. Non sono la tua segretaria adesso, sai? Sono una donna, e voglio essere servita e riverita». «Puoi buttarmi subito fuori a calci, se vuoi tornare a dormire», disse Jack. «Ma spero che non lo farai». «Buttarti fuori a calci? Non contarci. Potresti licenziarmi domattina, quando sarai nuovamente il mio capo. E inoltre... Si dà il caso che mi piaci». «Davvero, Sylvia?», chiese Jack, in tono serio. «Proprio davvero? Immagino di non essermi comportato nel modo più simpatico, ultimamente». «E non ti è passato per la testa che la cosa potrebbe aver a che fare col modo in cui Rose ti sta trattando? È difficile sentirsi bene quando qualcuno che si ama ti fa star male». «Non sono sicuro dì amarla», replicò Jack, lentamente. Sylvia gli rivolse un'occhiata, e gli angoli della sua bocca guizzarono all'improvviso all'insù. «Potrei sfruttare a fondo, a mio profitto, questa frase, ma non voglio. Tu ami Rose, Jack, anche se ora credi di non amarla. Sei abituato a lei. E molta parte dell'amore è fatta di abitudine». «Io pensavo che l'amore avesse a che fare con la passione», replicò Jack, cercando di mantenere la discussione su un tono frivolo. «Passione? Non sono sicura che la passione abbia a che fare con tutto questo. Guarda me, per esempio. Ti ho amato per tanto tempo». Sorrise all'espressione sconcertata che gli era comparsa sul volto. «Non lo sapevi? Be', perché avresti dovuto? Non era il tipo di amore che esige attenzione. Era il tipo di amore che conforta. Se anche tu, o gli altri, non sapevate della sua esistenza, non importava. Era il mio amore, e a me piaceva. E non aveva niente a che fare con la passione». «E l'altro pomeriggio?». «Quella era passione», mormorò Sylvia. «E mi è piaciuta. Ma mi fa pau-
ra». «Ti fa paura?». «Sì. Continuo a chiedermi... Quando la passione sarà morta, avrò ancora il mio amore? O sarà svanito? Io non voglio che questo accada, Jack. Voglio continuare ad amarti». I loro occhi s'incontrarono, e Jack allungò il braccio per sfiorarle la mano. «Ma io voglio che tu continui ad amarmi, Sylvia. Desidero moltissimo che tu mi ami». Insieme raggiunsero la camera da letto di Sylvia e chiusero la porta. I loro bicchieri rimasero dimenticati sul tavolo della cucina, e il ghiaccio si sciolse lentamente. Rose sentì il ronzio della macchina che risaliva il viale, e diede un'occhiata all'orologio. Jack era stato via quasi tre ore. Rose si chiese se avrebbe notato la luce che filtrava da sotto la porta dello studio, quando fosse entrato, oppure se sarebbe stato troppo ubriaco per farlo. Sentì la porta d'ingresso che si apriva e il rumore dei passi di suo marito nel corridoio. Si arrestarono, poi ripresero, e lei sentì che si dirigeva verso lo studio. Aveva visto la luce. Rose aspettò che la porta si aprisse, prima di parlare. «Spero che stanotte non sia scomparso nessun bambino», disse freddamente. «Non sarei in grado di garantire dove sei stato». Gli lanciò un'occhiata gelida, ma lui non trasalì. Rose si rese conto che era sobrio. «In caso di necessità», replicò Jack, «Sylvia Bannister potrà dire a chiunque dove sono stato stanotte. E quello che ho fatto». «Capisco», disse Rose, quietamente, assimilando ciò che lui aveva detto. «Immagino che avrei dovuto saperlo. È stata innamorata di te per anni. Non sapevo che la cosa fosse reciproca». «Neppure io lo sapevo, fino a poco tempo fa», rispose Jack. «Stiamo per cominciare un litigio?». «Vuoi?». Jack sorrise e si sedette. «No, non voglio. Ne ho avuto abbastanza di litigi, Rose, con te, con tutto. Se vuoi davvero saperlo, non volevo tornare a casa stanotte. È stata Sylvia a mandarmici». «Mandarti?». Rose arcuò le sopracciglia. «Forse aveva paura che i vicini parlassero?». «No. Era preoccupata per te. Le sei simpatica, sai?». «E lei è simpatica a me. Ma non al punto di lasciarle prendere il mio po-
sto». Jack ridacchiò. «Non è passato molto tempo da quando pensavi di lasciarmi». «Una donna ha il suo orgoglio. Se ti lasciassi, non lo farei certo per permetterti di sposare Sylvia Bannister. Saresti così al verde da non essere in grado di sposare nessuno». «Capisco», fece Jack, alzandosi in piedi. «In qualche modo, pare che questa conversazione ci stia sfuggendo di mano. Non ho nessuna intenzione di chiederti il divorzio, per lo meno non subito. Perciò credo che andrò a letto». «Non ancora», disse Rose. Si rese conto che era sembrato un ordine, e Jack non avrebbe ubbidito a un ordine. Non stanotte. Ammorbidi la voce. «Per favore, stanotte è successo qualcosa, e non so che cosa significhi, o che cosa dovremmo fare in merito». Jack ricadde sulla sedia che aveva appena lasciato. «Vuoi dire dopo che me ne sono andato?». Rose annuì. «Non riuscivo a dormire, e dopo un po' sono scesa per fare uno spuntino. Ero appena entrata in cucina, quand'è arrivata Sarah». «E allora?». «Mi spiace. È entrata dall'esterno. Grondava d'acqua ed era coperta di fango. Inutile dire che non ho la più pallida idea di dove sia stata, e perché». «Che cosa hai fatto?». «Che cosa potevo fare? L'ho accompagnata di sopra, le ho fatto un bagno e l'ho messa a letto. Ho atteso fino a quando si è addormentata, poi sono scesa qui. Da allora sono rimasta qui, cercando d'immaginare che cosa potesse aver fatto». «Ha fatto qualcosa, mentre era in cucina?». «Se intendi dire una delle sue scene, no. Ma ho provato la più strana delle sensazioni. Stavo frugando nel frigorifero quando è entrata, e non l'ho sentita. Non mi sono resa conto che c'era qualcuno in cucina finché non ho sentito la corrente d'aria che veniva dalla porta aperta. Quando ho capito che c'era qualcuno nella stanza, il mio primo pensiero è stato di afferrare un coltello. Ed è stato allora che no visto Sarah. Era in piedi accanto al cassetto dei coltelli, e sembrava stesse cercando di decidersi a far qualcosa». «Che cosa?». «Non lo so», disse Rose, e a disagio. Poi: «Oh sì, lo so. Credo che stesse
per prendere un coltello. Probabilmente mi sbaglio, ma è questa la netta sensazione che ho avuto». Jack riesaminò tutto ciò che aveva udito nella sua mente, ma non riuscì ad arrivare a nessuna conclusione. «È ancora nella sua stanza?», chiese. «Sì. L'avrei sentita, se fosse scesa». «Be', non vedo che cosa possiamo fare stanotte. Diamole un'occhiata e poi andiamo a letto. Domattina chiamerò il dottor Belter. Ma non credo che sia qualcosa di serio. Probabilmente è un attacco di sonnambulismo». «No», replicò Rose, recisamente. «Non era sonnambula. Sono certa che era sveglia, e che sapesse benissimo quello che faceva. E ho molta paura di quello che potrebbe essere stato». Stava pensando a Kathy Burton e a Jimmy Tyler, e Jack lo sapeva. Ma non vide alcuna ragione per addentrarsi in argomento. Sarebbe stato molto meglio lasciare che se ne occupasse il dottor Belter, domattina. «Vieni», disse a bassa voce, «andiamo a letto». Mentre la conduceva di sopra, si rese conto che Sylvia aveva ragione. Lui amava sua moglie. L'amava moltissimo. Sperò che non fosse troppo tardi per loro. 23 Il giorno successivo, il Columbus Day, spuntò luminoso e freddo, con un vento del nord che sferzava la casa all'estremità del Promontorio dei Conger. Ma alle nove ogni luminosità era scomparsa, e il cielo grigio si era fuso sull'orizzonte quasi invisibile col mare color piombo. Il mare era agitato, e la risacca batteva con forza contro la costa rocciosa. «So che è un giorno di vacanza», Rose sentì dire Jack al telefono, mentre scendeva le scale, «ma credo che sia piuttosto importante. Sembra un attacco di sonnambulismo». A quindici miglia di distanza, nel suo appartamento alla White Oaks, un po' strettino per lui, Charles Belter stava soffocando uno sbadiglio. Si destò di colpo a quella parola, mentre le sopracciglia gli s'intrecciavano sulla fronte. Sonnambulismo? Non rientrava nello schema. «Che cosa intende per sonnambulismo?», indagò. Tornò a sbadigliare, coprendo il microfono, e allungò la mano per prendere il suo caffè. Era lieto che Jack Conger fosse almeno consapevole che era un giorno di vacanza, anche se non intendeva rispettarlo.
«Be'», stava dicendo Jack, «non sono del tutto sicuro che fosse sonnambula. Ma mi sembra la spiegazione più logica. Ieri notte ha vagato sotto la pioggia». Belter mise giù il caffè e si rizzò. «Sotto la pioggia?», chiese. «Vuol dire fuori di casa?». «Sì». «Che ora era?». «Direi le undici e mezzo. Forse mezzanotte». «Quanto è rimasta fuori?». «Non ne ho nessuna idea. Non sapevamo che fosse uscita di casa. Mia moglie era scesa a fare uno spuntino, e mentre era in cucina Sarah è rientrata, inzuppata d'acqua e infangata». «Capisco», disse il dottor Belter. «Ma per il resto, sembrava a posto?». «Io.. Io non lo so», fece Jack. «Non ero a casa». Quando il silenzio all'altra estremità del telefono si prolungò, Jack sentì di dover dare una spiegazione: «Ero dovuto uscire per un po'», disse. «E a che ora è tornato a casa?», chiese il dottor Belter, udendo qualcosa nella voce di Jack che lo spinse ad approfondire. «Non ne sono sicuro», rispose Jack, evasivo. «Tardi. Credo verso le tre». «Capisco», proseguì il dottor Belter. «Posso presumere che lei desideri parlarmi oggi?». «Se non è di eccessivo disturbo per lei. Noi pensiamo che dobbiamo deciderci su cosa fare con Sarah, e vorremmo parlarne con lei. Dopo la scorsa notte, all'improvviso sembra urgente». Sembra urgente a te, comunque, pensò il dottor Belter. E a voce alta disse: «Che ne direbbe di venire qui da me verso l'una, insieme a sua moglie?». «Dobbiamo portare Sarah con noi?». Il dottor Belter rifletté. «Non credo. Non c'è davvero nessun bisogno, e oggi la maggior parte del personale è in vacanza, perciò non c'è nessuno che possa occuparsi di lei mentre parliamo». «Va bene», annuì Jack. «Verremo da lei all'una, allora». Riattaccò il telefono e sorrise a Rose. Lei non ricambiò il sorriso. «All'una», l'informò. «Ma non vuole che portiamo Sarah». Rose parve dubbiosa. «Non so», fece. «Odio l'idea di lasciarla a casa». «Non sarà sola. Elizabeth rimarrà con lei, e la signora Goodrich». «Mi sembra che con tutto quello che sta succedendo non sia una buona idea lasciar sole le bambine».
«Non chiamerei restar sole l'esser lasciate con la signora Goodrich. Quand'ero bambino, aveva l'abitudine di sorvegliarmi come un falco, mentre i miei erano via. Credo che fosse ossessionata dal ricordo del caso Lindbergh». «E stato molto tempo fa», obiettò Rose. «Sta diventando un po' troppo vecchia per sorvegliare i bambini come si deve». «Non così vecchia». «Oh, non so», disse Rose. «Normalmente non mi preoccuperei, ma con Sarah...». Lasciò in sospeso la frase, e si versò un po' di caffè nella tazza. Jack spinse la sua verso di lei, ma Rose l'ignorò. «Andrà tutto bene», disse Jack, e allungò la mano verso la caffettiera. «Che cosa?». Era la voce di Elizabeth. Jack alzò lo sguardo e sorrise a sua figlia. Cercò con lo sguardo Sarah dietro di lei, ma non la vide. «Dov'è tua sorella?», le chiese. «Dorme ancora», rispose Elizabeth. «Stamattina non voleva svegliarsi, perciò l'ho lasciata a letto. Se vuoi vado a prenderla». Fece una pausa, poi ripeté la domanda: «Che cosa andrà bene?». «Dobbiamo andar dal dottor Belter, questo pomeriggio», disse Jack. «Tua madre è un po' preoccupata all'idea di lasciar sole te e Sarah mentre siamo via». «Non ci sarà la signora Goodrich?». «Naturalmente». «Ma allora perché dovreste preoccuparvi?», chiese Elizabeth a sua madre. «Io sono abbastanza vecchia e posso restar sola, e anche prendermi cura di Sarah». «Sono sicura che puoi», fece Rose, in tono rassicurante. «Di solito non mi preoccuperei affatto, ma con tutto quello che è accaduto ultimamente voglio essere il più possibile prudente. Tutto qui». Elizabeth sorrise a sua madre. «Su, non ti preoccupare così. Non accadrà nulla». Verso mezzogiorno cominciò a cadere una pioggia sottile, e Rose desiderò non essere costretta a uscire. Fissò con desiderio il caminetto dello studio e pensò a quanto sarebbe stato piacevole starsene raggomitolati sul divano e passare l'intero pomeriggio a leggere. Ma non poteva. C'erano cose che andavano fatte e decisioni che andavano prese. Ma non subito. Si lasciò andare sulla poltrona e fissò di cattivo umore il fuoco. Sentì che u-
n'ondata di malinconia l'avvolgeva e cercò di respingerla. Sollevò lo sguardo sul quadro, e si scoprì una volta ancora irresistibilmente portata a giudicarlo l'autentico ritratto di Elizabeth. Con uno sforzo ricordò a se stessa che non lo era, e si chiese per l'ennesima volta chi potesse mai essere quella ragazzina. Poteva davvero essere la ragazzina di cui aveva sentito parlare il dottor Belter? No, si disse. Tutta la faccenda era una grande sciocchezza. Si alzò in piedi e fissò il quadro. Alla tremolante luce delle fiamme l'espressione della ragazzina sembrò cambiare in modo percettibile: qualcosa negli occhi... Forse. Rose tornò a fissarla, aguzzando la vista, e decise che erano i suoi occhi a giocarle degli scherzi. Qualunque cosa avesse creduto di vedere, era scomparsa. «Be'», si fece udire Jack dalla porta. «È ora di metterci in moto». «Già?», chiese Rose. «Ma c'è tempo in abbondanza». Stava cercando pretesti per rinviare quella visita, lo sapeva. Una particolare sensazione si era impadronita di lei fin da quando si era svegliata: che quel giorno avrebbe segnato una specie di svolta. Per questo voleva rinviare il più possibile il colloquio col dottore. «Lo so», disse Jack, in tono blando. «Neppure io vorrei. Ma è qualcosa che va fatto». «Sì», rispose Rose. «Suppongo di sì. D'accordo. Lascia che m'infili il cappotto. Le bambine sono giù?». «Credo che siano nella stanza dei giochi». «Chiamale giù, vuoi? Voglio salutarle con un bacio». Jack la fissò, incuriosito. «Rose, oggi andiamo semplicemente a parlare. Ti stai comportando come se fosse la fine del mondo o qualcosa di simile». Lei ebbe un sorriso agro. «Probabilmente. Ma chiamale giù lo stesso, vuoi?». Cominciò a infilarsi il cappotto, e sentì la voce di Jack che chiamava le figlie dai piedi della scala. Quando Rose raggiunse la porta d'ingresso, le bambine la stavano aspettando. Baciò Elizabeth affrettatamente, poi s'inginocchiò accanto a Sarah e le passò le braccia intorno al corpo. Strofinò il naso contro la guancia di Sarah, e sentì che la bambina si ritraeva leggermente. «Ora fai la brava», le bisbigliò. «Mamma e papà devono uscire per un po'». Si rialzò in piedi e sorrise a Elizabeth. «Dovremmo essere di ritorno verso le quattro e mezzo o le cinque», disse. «Per favore, restate in casa». «E chi vorrebbe uscire con un tempo simile?», esclamò Elizabeth. «Lo so», assentì Rose. «È così brutto, non è vero?»
«Vorrei che nevicasse», disse Elizabeth. «La neve, almeno, è bella. Questo grigiore è deprimente». Rose sorrise udendo l'aggettivo usato da sua figlia. Decisamente Elizabeth stava maturando, se cominciava a trovare il tempo «deprimente». Uscì dalla casa con suo marito ed entrò in macchina. Si voltò per salutare con la mano le bambine mentre l'auto si allontanava, poi cominciò a prepararsi al colloquio col dottor Belter. Elizabeth seguì con lo sguardo la macchina finché non ebbe raggiunto la Strada del Promontorio, poi chiuse la porta. Stava per salire di sopra quando squillò il telefono. «Lo prendo io», gridò Elizabeth alla signora Goodrich. «Pronto!», disse nel ricevitore. «Chi parla?». «Chi parla?», le fece eco una voce. «Elizabeth. Chi è?». «Jeff Stevens. Cosa stai facendo?». «Niente. I miei dovevano andare da qualche parte, e io mi sto occupando di Sarah». «Oh». Jeff parve deluso. «Stavo pensando che potevamo andare a cercare quella caverna», disse. «La caverna? Credevo che fossi convinto che non esiste nessuna caverna!». «Non lo so. Ma se non riusciremo a trovarla, dovrai ammettere che ho ragione, non è vero?». «Non so», gli fece eco Elizabeth, senza impegnarsi. «Non vedo come il fatto che noi non si sia capaci di trovarla possa dimostrare che non c'è. Quello che stai dicendo non ha senso. Tutt'al più, dimostrerà che noi non siamo capaci di trovarla». «Se c'è, la troveremo. Vuoi tentare?». Elizabeth rifletté. «Perché non vieni qui da me?», gli propose. «I tuoi genitori ti lasciano?». «Sono fuori a giocare a golf», disse Jeff. «In mezzo alla pioggia?». «La pioggia non gli dà fastidio. Giocano sempre, anche quando piove. Hanno perfino giocato sopra la neve, a volte». «Che strano», commentò Elizabeth. «Già», annuì Jeff. «Arrivederci a fra poco».
Elizabeth riappese il telefono e andò a cercare la signora Goodrich, per annunciarle che Jeff stava venendo da loro. Giunta in cucina, sentì il televisore in funzione nella piccola stanza accanto. Elizabeth bussò leggermente alla porta. Non vi fu risposta, e allora provò a scostare la porta. Non era chiusa a chiave, e si aprì: Elizabeth guardò dentro la stanza. La signora Goodrich era seduta nella sua poltrona, davanti al televisore in funzione. Era profondamente addormentata. Elizabeth sorrise e chiuse silenziosamente la porta. Jeff Stevens arrivò venti minuti più tardi, ed Elizabeth lo condusse nello studio sul retro. Sarah li seguì in silenzio. I suoi grandi occhi castani sembravano assimilare ogni cosa, pur non vedendo nulla. «Qui è dove il mio pro-prozio lasciò il coniglio», disse Elizabeth indicando la poltrona in stile. «E quella è la ragazzina che dovrebbe essere stata uccisa?», chiese Jeff, indicando il ritratto sopra il caminetto. «Sì, è Beth», annuì Elizabeth. «Sembri tu», disse Jeff. «Lo so. Ma non sono io. E non mi piace». Jeff le sorrise. «Sembra quasi che tu la conosca». «Infatti», disse Elizabeth. «Ho parlato con lei». «Questa è una sciocchezza», dichiarò Jeff. «Non si può parlare coi morti». «Sì, si può», insisté Elizabeth. «Con la tavoletta oui-ja». «Non ha detto niente, ieri», replicò Jeff, sarcastico. «Si è limitata a formare un nome, niente di più. E scommetto che sei stata tu a farlo». «È stata lei!», esclamò Elizabeth, in tono di sfida. «Be', se quanto dici è vero, andiamo a cercare questa caverna. Se davvero esiste, scommetto che la tua amica Beth si trova proprio lì». «Non lo so», disse Elizabeth. «Si dice che la caverna sia sulla scogliera, e a me è proibito andarci». «Neppure io dovrei andarci», dichiarò Jeff. «Ma certo non permetterò che questo m'impedisca di farlo. Hai paura?». «No, semplicemente penso che non dovremmo farlo». «Hai paura che non la troviamo, e di dover confessare che ti sei sbagliata». «E va bene, allora», disse Elizabeth. «Andiamo». Si voltò per lasciare la stanza, e Jeff sorrise. Aveva funzionato. Elizabeth prese il suo cappotto e se l'infilò. «Dovremmo portare Sarah
con noi», disse. «Non la posso lasciare qui da sola». «E la governante? Non può sorvegliarla lei?». «Dorme. Poi non saprebbe come fare, se Sarah avesse una delle sue crisi». Jeff decise che sarebbe stato meglio prendere Sarah con loro piuttosto che rinunciare ad andare. «Va bene», acconsentì. «Andiamo». Elizabeth infilò a Sarah il cappotto e l'abbottonò. Poi tutti e tre lasciarono la casa. La pioggia sembrava leggermente diminuita quando attraversarono il prato, e una volta dentro il bosco gli alberi li protessero quasi completamente. Quando si trovarono nel folto, Jeff si guardò intorno. «Da che parte?», chiese. «C'è un sentiero», disse Elizabeth. «Si riesce appena a vederlo, ma c'è. Vieni». Improvvisamente a Jeff parve che la sua voce fosse diversa, e anche i suoi occhi gli parvero strani. Elizabeth li condusse, rapida e silenziosa, attraverso il bosco, e Jeff fu stupito dalla sicurezza con cui si muoveva. Sembrava sapere esattamente dove stava andando, e i punti esatti dove appoggiare i piedi in mezzo al groviglio di radici e di pietre che tappezzavano il sentiero. Non una volta si girò a guardare se gli altri la seguivano. Due volte Jeff dovette chiamarla perché li aspettasse, e si fermò altre due volte per aiutare Sarah, che stava avanzando con grande difficoltà. Infine, emersero dal bosco e si trovarono sulla scogliera. Ora la pioggia aveva ricominciato a cadere con maggior violenza, il vento sferzava i loro volti. Sotto di loro il mare si agitava, più che mai infuriato. Jeff si sentì colto da un leggero brivido e si chiese se avesse fatto bene a spingere Elizabeth ad accompagnarlo fin laggiù. La scogliera aveva effettivamente l'aspetto pericoloso che i suoi genitori gli avevano descritto. «Dove pensi che sia?», chiese, nella speranza che Elizabeth, come tutta risposta, suggerisse di rinunciare. «Non ne sono sicura», disse invece Elizabeth. «Proviamo da questa parte». Li condusse lungo la scogliera, e Jeff stava per suggerire che procedere così era troppo pericoloso, quando Elizabeth all'improvviso cominciò a scendere lungo l'accidentata parete rocciosa, seguendo una pista che Jeff non riusciva in alcun modo a scorgere. La vide muoversi con sicurezza da una roccia all'altra, e decise che, se poteva farlo lei, poteva anche lui.
Ma scoprì che era più difficile di quanto avesse immaginato. Le rocce erano viscide, e non riusciva a trovare gli stessi punti di appoggio che erano serviti così bene a Elizabeth. Discese lentamente, aguzzando gli occhi per cercar di vedere i punti esatti dove Elizabeth appoggiava i piedi. Di tanto in tanto si voltava a vedere come se la stava cavando Sarah, ma la bambina sembrava perfettamente in grado di tenersi al passo con lui, e dopo un paio di minuti Sarah non fu più un motivo di preoccupazione. La pioggia rendeva a ogni istante le rocce sempre più scivolose, e lui temette di perdere di vista Elizabeth che scendeva agilmente sempre più in basso. La chiamò, ma Elizabeth non lo sentì in mezzo al ruggire del vento e della risacca. Poi, lei scomparve all'improvviso dietro un enorme macigno. Jeff strisciò in avanti con prudenza, studiando attentamente ogni balzo da una roccia all'altra, tenendo gli occhi puntati sul grosso macigno dietro al quale Elizabeth era scomparsa. Dietro di lui, Sarah si era adeguata al suo lento procedere. «Qui». Jeff sussultò al suono di quella parola, e scrutò nell'ombra della pietra gigantesca. C'era Elizabeth, rannicchiata per proteggersi dalla pioggia e dal vento. «Che cosa?», chiese lui. «E qui», disse Elizabeth. «Ho trovato la caverna». Jeff si accigliò e scrutò l'oscurità. «Non vedo niente. Non c'è». «Sì, c'è», insisté Elizabeth. «Vieni quaggiù». Scese fino a venirle accanto. «Dov'è?». «Proprio qui». Elizabeth gliel'indicò. E Jeff finalmente vide: là, nell'ombra cupa del roccione, quasi invisibile al buio, un buco si apriva nella scogliera. Si curvò e guardò dentro. Fu vagamente conscio che Sarah, dietro di lui, l'aveva afferrato e lo stava tirando, producendo piccoli singhiozzi. Se la scrollò di dosso, e quando lei fece per afferrarlo nuovamente e tirarlo, Elizabeth le prese le mani e la fissò negli occhi. Un momento dopo Sarah era calma. «Cosa credi che ci sia, lì dentro?», chiese Jeff. «Non lo so», disse Elizabeth. «Perché non diamo un'occhiata?». Jeff guardò dubbioso il buco. Sembrava che a stento fosse possibile strisciarvi dentro, e non era sicuro che conducesse da qualche parte. Però non volle mostrarsi codardo. «Vado io per primo», esclamò, cercando di apparire molto più fiducioso di quanto in realtà si sentisse.
S'infilò nel cunicolo e scoprì che c'era abbastanza spazio per strisciare comodamente. Si spinse avanti, tastando il terreno davanti a sé, nel buio. Alle sue spalle, Elizabeth prese la torcia dal nascondiglio, ma non l'accese. Seguì Jeff. Sarah seguì Elizabeth. Jeff non riuscì a capire quanta strada avessero percorso nella galleria, ma lì nelle tenebre sembrava davvero molta. Sentiva lo spavento crescere in lui, e stava per dire a Elizabeth che, a suo giudizio, erano andati fin troppo lontani, quando avvertì un cambiamento intorno a sé. Nonostante non potesse vedere nulla al buio, gli parve che vi fosse più spazio tutt'intorno. Tese il braccio, e si avvide che le cose stavano appunto così. Non riuscì più a toccare le pareti della galleria che fino a poco prima si stringevano intorno a lui. Si chiese quanto fosse grande la caverna nella quale adesso si trovavano, e strisciò cautamente in avanti. La sua mano incontrò l'orlo del pozzo e si fermò. Cercò di toccare più avanti e in basso, tentando di stabilire quanto profonda fosse la caduta. Sentì Elizabeth urtare la sua schiena. Prontamente si raddrizzò e restò lì accovacciato accanto al pozzo. «C'è qualcosa qui», disse. «Scende a picco. Non posso dire quanto sia profondo, o quanto ampio». E poi sentì la violenta spinta: cercò, spasmodicamente, di aggrapparsi a qualcosa, lì nella fitta oscurità. Ma non c'era nulla a cui afferrarsi, e si sentì precipitare nel pozzo tenebroso. Colpì violentemente il fondo prima ancora di aver cacciato un grido, e l'oscurità divenne ancora più fitta. Jeff Stevens giacque immobile laggiù, nelle viscere della roccia. Nella caverna superiore, Elizabeth accese la torcia e si affacciò all'orlo del pozzo. Puntò il raggio verso il basso, illuminando il corpo inerte di Jeff che giaceva afflosciato accanto all'ampia roccia piatta che lei aveva usato come tavolo per i suoi tè. Non poté veder altro, nel pozzo. Un attimo dopo mise giù la torcia e prese a srotolare la scala di corda. Dietro di lei Sarah emerse dalla galleria e sedette a gambe incrociate, tremante, fissando sua sorella. Elizabeth calò la scala nel pozzo, e un istante più tardi, con la torcia che baluginava debolmente infilata nella tasca del cappotto, scomparve nell'oscurità sottostante. Sarah strisciò in avanti e scrutò nelle profondità del pozzo. Le candele erano ancora ritte nelle crepe dove Elizabeth le aveva incastrate, e l'accendino si trovava ancora nella fenditura sotto una delle candele. Quand'ebbe acceso le candele, spense la torcia e si guardò attorno. Kathy Burton giaceva dov'era caduta. La sua fronte era illividita dal colpo subito sbattendo sulla pietra. I suoi occhi erano aperti e il volto comin-
ciava a gonfiarsi. Elizabeth la toccò, incuriosita, e quando non vi fu alcun movimento di risposta, cercò di chiuderle gli occhi. Ma non vollero chiudersi. Jimmy Tyler giaceva nudo, rannicchiato contro la parete della caverna. Anche i suoi occhi erano aperti, ma erano quelli di una piccola, terrorizzata creatura. Uggiolava ed era scosso da tremiti convulsi. Quando Elizabeth gli si avvicinò, sembrò non vederla, e non vi fu alcuna reazione quando lo toccò. Si stringeva al petto il corpo del gatto decapitato, come fosse un orsacchiotto di pezza. L'odore della morte riempiva ogni angolo della caverna, ed Elizabeth lo respirò profondamente. Sorrise allo scheletro che giaceva contro la parete. «È bello, vero?», bisbigliò. «Guarda, sono tutti qui, adesso. Mamma, papà e le loro bambine. E tuo padre, Beth. Ho portato tuo padre a farti visita, oggi. Vuoi parlare a tuo padre?». Trascinò il corpo privo di sensi di Jeff Stevens fino allo scheletro e lo sistemò accanto alle ossa scarnificate. Quindi spostò le ossa dello scheletro, cosicché Jeff giacque nel suo macabro abbraccio. Con movimenti misurati, Elizabeth cominciò a preparare un'altra festa a base di tè e dolci, l'ultima festa. Sollevò il corpo di Kathy Burton dal punto in cui giaceva e lo mise in posizione seduta su una delle pietre che fungevano da sgabelli intorno al tavolo. Il corpo ricadde in avanti e giacque a faccia in giù sulla lastra di roccia. Poi Elizabeth prese a districare il corpo decapitato del gatto dalla stretta di Jimmy Tyler. Il bambino lottò con lei, cieco, incurante, senza rendersi conto di ciò che stava accadendo, bramoso soltanto di non essere disturbato, nei recessi nascosti dove la sua mente l'aveva trasportato. Lottò passivamente, le piccole braccia avvinghiate alla carcassa del gatto, ma non reagì cercando di colpire Elizabeth a pugni e a calci. Lottò in silenzio, contro una forza che per lui non aveva più senso. Il gatto scivolò via dalla sua stretta, e le sue braccia si chiusero sul vuoto. Elizabeth collocò il gatto su uno sgabello di pietra, ma questa volta non riuscì a sistemare la testa in equilibrio sulla spalle ormai in avanzata putrefazione. La vide ruzzolare via, e la lasciò giacere dove si arrestò, un oggetto non più riconoscibile avvolto in un berrettino azzurro incredibilmente sudicio. Poi si avvicinò di nuovo a Jimmy Tyler e lo afferrò; lui non resistette, e neppure si rese conto che qualcuno lo stava trascinando. Senza aggrapparsi a niente, sembrò arrendersi, ed Elizabeth riuscì a metterlo in posizione seduta, gli occhi vacui che fissavano senza espressione l'aria attraverso la tre-
molante luce delle candele. Elizabeth cominciò a parlare, ma il suo discorso era incoerente. La sua voce continuava a cambiare intonazione, come se si trattasse di due persone, prima l'una e poi l'altra. Mentre parlava, cominciò a diventare rabbiosa. Esigeva che gli oggetti della sua rabbia rispondessero, e siccome non lo fecero, la sua rabbia continuò irresistibilmente a crescere. «Rispondetemi!», urlò, e la voce non era la sua. «Voglio sapere perché l'avete fatto! Perché mi avete lasciata qui? È buio e fa freddo, qui! Mi spaventa. Perché volete spaventarmi? Perché non posso uscire di qui ed essere come tutti gli altri?». Vi fu silenzio, mentre lei aspettava una risposta. Ma non vi fu alcuna risposta. «Siete tutti uguali», sibilò. «Tutti. Nessuno di voi è cambiato. Amate lei». Prese a calci il corpo del gatto, facendolo volare fino alla parete della caverna, dove la carcassa giacque immobile. «Tutta la vostra attenzione è per lei. Perché non potete prestare attenzione anche a me?». Poi sembrò cambiare di nuovo, e fissò Jeff, ancora disteso al suolo, privo di sensi. «Adesso sei dove volevi essere, non è vero? Quel giorno non ero disposta a fare quello che volevi, non è vero? Così mi hai messo quaggiù, tutta sola. Ma sapevo che saresti tornato. E questa volta rimarrai con me. Questa volta rimarrai. Tu, e tutti loro». Elizabeth afferrò il coltello dalla sporgenza dov'era giaciuto per lungo tempo, e si girò di scatto verso i corpi immoti. «Ora rimarrete tutti con me!», urlò. Si gettò sul corpo di Kathy Burton, tranciandolo a coltellate, lacerandolo selvaggiamente, strappando brandelli di carne. Quando infine il cadavere giacque smembrato, rivolse la sua furia contro Jimmy Tyler. Lui urlò quando il coltello affondò nel suo stomaco, poi cadde gorgogliando sul pavimento della caverna, mentre Elizabeth estraeva la lama e gliela conficcava nella gola. Si dibatté sotto di lei, il suo corpo reagì d'istinto al penetrare del coltello in lui. Elizabeth continuò a gravargli addosso con tutto il suo peso, il metallo scintillò più e più volte alla luce gialla delle candele, mentre continuava a colpirlo. In preda alla furia, lei non udì i gemiti sommessi che uscivano da Jeff Stevens che riprendeva lentamente conoscenza. Cercava di ricordare ciò che era accaduto. Si era trovato immerso nel buio e qualcuno lo aveva spinto. Era precipitato... nella caverna! Sì, ora si
trovava nella caverna. Ma non era più al buio. C'era un bagliore giallastro, come se stessero ardendo delle candele. E suoni. Strani suoni gorgoglianti. Aprì gli occhi e cercò di muovere la testa. Vide Elizabeth. Gli venne da vomitare quando si rese conto di quello che stava facendo. Stava pugnalando qualcuno, ma c'era tanto sangue che non riuscì a distinguere... Si sollevò sulle mani e sulle ginocchia, e aguzzò gli occhi. Era un bambino! Elizabeth stava pugnalando un bambino. «No!», urlò. Cercò di rizzarsi in piedi, ma era troppo stordito. Vide Elizabeth che si voltava e l'udì parlare. «Tu!», gridò Elizabeth. «Tu mi hai fatto fare questo, papà! Tu hai spinto me a fare questo, e adesso io lo farò a te. Rimarrai qui con me, papà. Non mi lascerai più sola, non più». Lui capì che era pazza furiosa, e tentò di proteggersi, ma non poteva far niente. La sua mente, ancora intorpidita dalla caduta, sembrava incapace di decidere quali muscoli muovere; le sue braccia e le sue mani rifiutavano ogni coordinazione. Vide, con occhi annebbiati, il coltello balenare verso di lui, ma non sentì nulla. Vide soltanto il sangue zampillargli dal braccio. Cercò ancora una volta di muoversi, anche soltanto di sollevare il braccio per difendersi, ma la paralisi continuava ad avvolgerlo, totale. Il terrore scaturì dal suo intimo, mentre il coltello calava un'altra volta su di lui, e un'altra volta ancora, e ancora, e ancora. Ben presto non vide più nulla. Si chiese perché mai non sentisse dolore. Eppure, avrebbe dovuto sentire un dolore atroce. Morire dovrebbe far male, pensò. Ma non faceva male. Jeff Stevens andò lentamente alla morte. Mentre la nebbia s'infittiva su di lui, Jeff cominciò a pregare. Elizabeth continuò a colpire, a squarciarlo, per molto tempo dopo che era morto, e quando ebbe finito, il corpo di Jeff era del tutto irriconoscibile. Giaceva a brandelli sparsi sul pavimento della caverna, insieme ai corpi smembrati di Jimmy Tyler e di Kathy Burton. E infine la rabbia di Elizabeth si esaurì, e lei sedette in mezzo a quella carneficina, guardandosi attorno incuriosita. «Perché hai fatto questo?», chiese in un mormorio sommesso. «Non capisco perché hai dovuto farlo. Non ti avevano fatto niente. Erano tuoi amici. E poi, tutto è accaduto molto tempo fa. Sì, moltissimo tempo fa...». Strisciò lungo il pavimento della caverna e s'inginocchiò accanto allo scheletro. «Non avresti dovuto farlo, Beth», proseguì. La sua voce si alzò di tono. «Non erano quelli che pensavi. Lui non era tuo padre. Tuo padre è morto
molto tempo fa. E gli altri non erano i miei genitori. E quel gatto non era Sarah. Era soltanto un gatto, Beth. Un povero gatto inoffensivo. Perché mi hai fatto far questo? Io non li odiavo, Beth. No, non li odiavo. Tu li odiavi. Li odiavi tutti. Perché non li hai lasciati in pace... Non li hai lasciati vivere? Non ti avevano fatto niente. Nessuno di loro ti aveva fatto niente. Nessuno di loro». E andò di nuovo in collera, ma adesso era in collera con Beth, la povera Beth che era morta tanto tempo fa. Elizabeth afferrò una delle ossa del braccio e la sollevò sopra la propria testa. «Muori!», urlò. «Perché non muori e non ci lasci in pace?». Calò l'osso con violenza sul cranio, frantumandolo. «Muori», sussurrò ancora una volta. «Oh, ti prego, muori, e lasciami per sempre». E poi finì. Elizabeth si alzò in piedi e raggiunse la scala di corda. Non soffiò sulle candele per spegnerle: si sarebbero spente da sole. E non tirò su la scala dal pozzo. Non c'era più bisogno, adesso. Lei non sarebbe più tornata, e non c'era più nessuno, laggiù, che potesse servirsi della scala per fuggire. Emembralizabeth strisciò attraverso la galleria ed emerse dal buco della scogliera. Cominciò ad arrampicarsi verso l'alto, lontano dalla caverna. Nell'oscurità, Sarah guardò giù nella tremolante luce gialla che s'irradiava da sotto. Poi, lentamente, cominciò a scendere la scala di corda. Sarah lavorò a lungo, nella caverna, per far combaciare di nuovo i pezzi dei corpi. Quand'ebbe finito, trovò la borraccia dell'acqua che aveva lasciato cadere dentro il pozzo tanto tempo prima. Appoggiò l'imboccatura della borraccia alle labbra di ciascuno dei ragazzini morti, e cercò di farli bere. Poi si sedette e guardò attorno. Restò seduta per molto tempo, ad aspettare. 24 Erano le quattro e mezzo quando il dottor Charles Belter terminò l'incontro con Jack e Rose Conger. Era convinto che non fosse stato concluso nulla, ma già in partenza era convinto che non vi fosse nulla da concludere. Aveva passato la maggior parte del tempo non tanto nello sforzarsi d'indovinare, attraverso le informazioni di seconda mano che gli venivano fornite, l'eventuale, nuova direzione che la malattia di Sarah stava prendendo, bensì nel rassicurare i suoi allarmati genitori. Aveva scoperto che, nel caso di Sarah, questo rappresentava già di per sé una buona metà della battaglia.
I genitori di Sarah leggevano troppi libri, e del tipo sbagliato. Erano convinti che la loro figlia stesse diventando una specie di mostro, e qualunque cosa accadesse si concentravano sempre sulle implicazioni peggiori. Da tempo Belter aveva scoperto che il suo lavoro non era tanto quello di curare la bambina, quanto calmare i suoi genitori. E c'era riuscito. Mentre stavano ritornando a casa in auto sotto la pioggia battente, Rose e Jack si sentivano meglio sotto ogni aspetto. Il dottor Belter aveva detto loro di non preoccuparsi. Avevano fede nel dottore: non si sarebbero, perciò, preoccupati. La pioggia crebbe ancora d'intensità, e percepirono come una brusca diminuzione della temperatura. «Inverno precoce, quest'anno», commentò Jack, mentre curvava nella Strada del Promontorio dei Conger. «Potrebbe mettersi a nevicare da un momento all'altro». «Mi è sempre piaciuta la prima neve, qui», dichiarò Rose. «Spesso mi convinco che la casa sia stata concepita per l'inverno. In qualche modo la neve sembra ammorbidirla». Guardò attraverso la pioggia, in direzione della vecchia casa che si profilava davanti a loro, e provò uno strano presentimento. È il tempo, si disse. La pioggia rende sempre tetro questo posto. Il telefono prese a squillare quando aprirono la porta d'ingresso. «Faccio io», disse Jack, e prese su il ricevitore con una mano, mentre con l'altra si sbottonava il cappotto grondante d'acqua. «Pronto?». «Jack? Sono Barbara Stevens. Siamo appena tornati a casa da una partita a golf...». «Con questo tempo?», esclamò Jack, incredulo. Barbara ridacchiò. «Alcuni di noi sarebbero disposti a giocare con qualunque tempo. Ma, detto fra noi, quella vecchia capanna che fa da deposito delle mazze ha bisogno di un tetto nuovo». «Ha bisogno di un tetto nuovo, ma non ci sono abbastanza soci per la spesa necessaria. Inoltre, dubito che, a parte voi, ci fosse qualcun altro fuori con un tempo simile». «Era piuttosto umido», ammise Barbara. «Ad ogni modo, mi stavo giusto chiedendo se Jeff era lì da voi. Avrebbe dovuto restare a casa tutto il pomeriggio, ma non è qui. E dal momento che non conosce ancora nessuno, salvo voi, ho pensato che fosse venuto a giocare con le vostre figlie». «Siamo appena rientrati anche noi», disse Jack. «Rimani in linea, vado a vedere se è qui». Appoggiò il ricevitore sul tavolo e si rivolse a Rose, che
lo stava fissando incuriosita. «E Barbara Stevens», fece. «Si stava chiedendo se Jeff non era qui da noi». Rose sentì un tuffo allo stomaco. Ricordò una telefonata analoga, una telefonata fattale dalla madre di Kathy Burton, soltanto pochi giorni prima. Quanti giorni? Non riuscì a ricordarlo. La sensazione di un'imminente sciagura crebbe in lei. «Che cos'hai?», chiese Jack, rivolto a sua moglie, quando la vide sbiancarsi in volto. «Niente», replicò Rose. «Stavo solo pensando...». S'interruppe. «Niente. Chiamo Elizabeth». Raggiunse la scala, alzò la testa verso l'alto e chiamò. La sua voce echeggiò attraverso la casa. Un istante dopo una porta si aprì e si chiuse, e un rumore di passi si avvicinò alla cima delle scale. Era Elizabeth. «Ciao», li salutò. «Non vi ho sentiti entrare. Stavo leggendo». «Non hai sentito suonare il telefono?», le chiese Rose, incuriosita. «Sì, ma quando ha smesso di suonare dopo il secondo squillo ho pensato che la signora Goodrich fosse venuta a rispondere. È per me?». «No», disse Rose. «Era per Jeff Stevens. C'è Jeff?». «Jeff?», chiese Elizabeth. «Se n'è andato alcune ore fa». La sensazione di sventura prese ancora più corpo, togliendo il respiro a Rose. «Allora era qui?». Elizabeth annuì. «Oh, sì. È venuto subito dopo che voi ve ne siete andati. Ha detto che voleva andare a cercare la caverna». «La caverna?». Rose si accigliò. «Ma sì. La leggenda. Mi ha preso in giro dicendo che non esiste, e voleva andare a cercarla. Voleva che andassi con lui, ma io gli ho detto di no. Ho insistito che era troppo pericoloso. E poi pioveva». Jack, che aveva seguito le rapide frasi scambiate fra Elizabeth e Rose, prese su nuovamente il telefono. «Barbara?», disse. «A quanto pare è stato qui, ma questo pomeriggio sul presto. Elizabeth non sa dove avesse esattamente intenzione di andare, ma sembra volesse cercare la caverna». «La caverna?», chiese Barbara. «Vuoi dire la caverna della scogliera sul promontorio?». «Immagino di sì», rispose Jack. «Sempre che ce ne sia davvero una. Si tratta soprattutto di una vecchia leggenda di famiglia. Nessuno l'ha mai
trovata». «La scogliera è pericolosa, non è vero?», disse Barbara, la voce sempre più tesa per la preoccupazione. Jack decise di esser sincero: «Sì, è pericolosa. È una delle ragioni per cui abbiamo tenuta viva la leggenda. È stata molto utile per tenere i bambini lontano da quel luogo pericoloso». «Lo so. Rose me l'ha detto quando siamo venuti ad abitare qui. Avevamo detto a Jeff di tenersi lontano da lì». «Allora sono sicuro che vi ha ubbidito», replicò Jack, sforzandosi di rassicurarla. «Probabilmente avrà deciso di farsi una passeggiata, e avrà fatto tardi senza accorgersene». «Non so», fece Barbara. La sua voce era sempre più ansiosa. «Jeff non conosce la zona, e di solito quando fa qualcosa dà prova di molta responsabilità». «Ma è un ragazzo», le ricordò Jack. «L'unico affidamento che si può fare sui ragazzi è che su loro non si può fare affidamento». «Suppongo di sì», annuì Barbara, dubbiosa. «Be', non comincerò a preoccuparmi per un'altra ora. Se non sarà tornato a casa per le sei, non so che cosa faremo». «Mi spiace di non avervi potuto essere di maggior aiuto. Se si facesse vivo qui da noi, vi chiamo». Si salutarono, e Jack riappese il telefono. Si voltò verso Rose, e la preoccupazione che non aveva consentito trasparisse nella sua voce era adesso chiaramente incisa sul suo viso. «È come gli altri, non è vero?», disse. Rose annuì, in silenzio. Era fin troppo come gli altri. E poi lei si ricordò all'improvviso di Sarah. Sarah non era comparsa dietro sua sorella, in cima alle scale. Rose alzò gli occhi e vide Elizabeth ancora nel punto in cui si era trovata poco prima, in attesa di sentire che cosa aveva detto la signora Stevens. «Dov'è Sarah?», le chiese Rose, ritrovando la voce. «Sarah?», ripeté Elizabeth. «Nella sua stanza, immagino. O in quella dei giochi». Tacque, e sembrò ascoltare. «Un momento», fece. «Dò un'occhiata». Rose sentì il rumore dei passi di Elizabeth che si allontanavano nel corridoio verso la stanza di Sarah, e poi verso quella dei giochi. Quando Elizabeth tornò ad avvicinarsi alla sommità della scala e non si udì il sommesso mormorio con cui era solita rivolgersi alla sorella, seppero che non aveva trovato Sarah. Elizabeth ricomparve in cima alla scala e cominciò a
scendere. «Non è qui sopra», disse. «Probabilmente è con la signora Goodrich». Mentre cominciavano a cercare al piano inferiore, Rose già sapeva che non avrebbero trovato Sarah. Invece di unirsi alla ricerca, Rose entrò nel piccolo studio e si abbandonò sulla poltroncina dietro la sua scrivania. Per qualche ragione lì provava una certa sicurezza... Una sicurezza di cui aveva assolutamente bisogno. «No», disse Jack, affacciandosi sulla porta, cercando di mantenere calma la voce, «non è neppure quaggiù. La signora Goodrich era convinta che fosse di sopra». «Ma deve essere qui», insisté Rose, disperatamente. «Guardate di nuovo di sopra. Potrebbe essere nella nostra stanza, o in quella degli ospiti. O nell'attico. Guardate nell'attico». Non si offrì di unirsi alle ricerche, perché era già convinta che sarebbero state inutili. Sarah non era in casa. Rose restò seduta dietro la sua scrivania e ascoltò Elizabeth e Jack mentre passavano sistematicamente al setaccio l'intera casa. Vi fu silenzio mentre cercavano in alto, nell'attico; poi li sentì ridiscendere al piano intermedio, e infine di nuovo al pianterreno. Entrarono nel piccolo studio, e Jack scosse la testa. «Niente», disse. «Non è qui». «Non m'illudevo certo che ci fosse», dichiarò Rose. «Mi è bastato sapere che non era nella sua stanza». Si fissarono, incerti sul da farsi. «La scuderia», disse Elizabeth, all'improvviso. «Forse è andata nella scuderia». Senza aspettare una risposta dai genitori, lasciò la stanza, e loro sentirono l'ingresso principale che si apriva. E poi sentirono Elizabeth che lanciava un urlo. Non era quel tipo di urlo al quale si erano abituati con Sarah, l'urlo frustrato di una bambina incapace di comunicare con qualunque mezzo. Quello di Elizabeth era un urlo di orrore. Raggelò per un attimo sia Jack che Rose, poi entrambi scattarono in piedi e si precipitarono verso la porta d'ingresso. Trovarono Elizabeth sulla veranda anteriore, gli occhi stralunati che fissavano attraverso il prato. Seguirono la direzione dei suoi occhi, e Rose sentì un urlo emergere anche dalle proprie labbra. Riuscì a sopprimerlo portandosi di scatto le mani alla bocca. Dal bosco era emersa una piccola forma, che adesso stava attraversando il prato, diretta verso la casa. Era Sarah, e perfino in distanza potevano vedere che era inzuppata d'acqua e coperta di fango. E c'era qualcos'altro. Qualcosa che le striava il volto e le braccia e le macchiava i vestiti di un
rosso che, lo sapevano, non era fango. Era sangue. Sarah era coperta di sangue. «Dio Gesù», mormorò Jack. La sua mente era quasi incapace di accettare ciò che vedevano i suoi occhi. E poi ricordò che anche Elizabeth stava contemplando quell'assurda apparizione che lentamente attraversava il prato. Prese sua figlia per un braccio e la tirò dentro casa. Elizabeth sembrava stordita. Non oppose resistenza, mentre Jack la scortava fin dentro la sua stanza. «Rimani qui», le disse lui. «Non scendere fino a quando non verrò a chiamarti io». La scrutò da vicino e vide che era pallida in volto e tremava. «Ti senti bene?». Lei annuì, le sue labbra si mossero: «Che cos'ha Sarah, papà?», chiese con voce flebile. «È ferita?». «Non lo so», rispose Jack. «Ma andrà tutto bene, vedrai. Rimani qui, e andrà tutto bene». Elizabeth alzò gli occhi a fissarlo, e all'improvviso sembrò molto più bambina. Jack la prese fra le braccia. Lei cominciò a singhiozzare silenziosamente. «Andrà tutto bene, tesoro», bisbigliò Jack. «Mi prenderò io cura di lei». La cullò dolcemente, ed Elizabeth si calmò. La distese sul letto. «Cerca di non pensarci», disse. «Ora devo scendere giù ad aiutarla, ma sarò di ritorno fra poco. Cerca di non pensarci», ripeté, ma seppe che in nessun modo lei avrebbe potuto cancellare dalla sua mente ciò che aveva visto. Rose era ancora come impietrita sulla veranda anteriore, le mani sulla bocca, le lacrime che le colavano lungo le guance. Sarah stava ancora attraversando il prato, sempre più vicina alla casa: avanzava lentamente, trascinando dietro di sé qualcosa. Faceva sempre più freddo, e adesso la pioggia cadeva frammista a neve. Piccoli suoni gorgoglianti cominciarono a uscire dalla bocca di Rose, mentre cercava di venire a patti con ciò che vedeva. Ora l'oggetto tra le mani di Sarah era chiaramente visibile, e quando Jack alfine si rese conto di ciò che era, dovette lottare contro una nausea improvvisa che gli salì dallo stomaco. Era il braccio di un bambino, troncato alla spalla. Sembrava essere stato stroncato brutalmente, e il sangue ne gocciolava ancora lentamente, mentre sobbalzava sul fango dietro a Sarah. Sarah sembrava inconsapevole della pioggia e della neve. Avanzava con passo sempre uguale nella morsa del gelo. I suoi occhi vacui erano fissi sui
genitori, che l'aspettavano sulla veranda. Jack avrebbe voluto precipitarsi verso di lei, afferrarla e portarla a casa, ma non ne fu capace. Restò immobile, impotente, accanto a sua moglie, mentre la loro giovane figlia avanzava verso di loro. Poi Sarah, finalmente, arrivò a casa. Si fermò alla breve scalinata della veranda e alzò su di loro il suo sguardo senza espressione. Quindi protese il braccio troncato, come un dono. L'isterismo che Rose era riuscita a dominare fino a quell'istante la travolse. La sua bocca si aprì di scatto, e l'urlo che per lunghi minuti aveva lottato nella sua gola esplose, risuonando attraverso il prato. Gli alberi del bosco parvero quasi tremare, percossi dalle grida laceranti che uscivano da quel corpo tormentato di donna. I suoi occhi furono travolti dall'incubo, e tutto ciò che riuscirono a vedere fu il braccio, quel braccio insanguinato, sospeso nel nulla contro uno sfondo che stava diventando sempre più nero. Quel braccio che sembrò crescere davanti ai suoi occhi, ostentando l'orribile estremità dove un tempo si innestava alla spalla, la carne straziata che avvolgeva l'osso. Le sue urla crebbero ancora, e ancora... Il primo urlo, quello di Elizabeth, aveva svegliato la signora Goodrich che era rimasta seduta, stordita, a scrutare lo schermo del televisore, incerta se fosse quello, o no, la fonte del suono che l'aveva destata. Ma quando udì le grida di Rose si rese conto che non era stata la televisione. Si alzò in piedi, e il suo corpo irrigidito si mosse quanto più rapidamente poteva verso il lato anteriore della casa. Le grida angosciate crebbero d'intensità mentre si avvicinava alla porta d'ingresso, ma soltanto quando uscì sulla veranda poté rendersi conto della causa. I suoi occhi si spalancarono alla vista della bambina insanguinata e coperta di fango. Ricacciò la nausea e diede un'occhiata a Rose, rendendosi subito conto che era la madre, non la figlia, ad aver bisogno d'immediata attenzione. «Si prenda cura della signora Rose», ordinò a Jack. Quindi si fece avanti e, deglutendo a fatica, staccò le dita di Sarah dal polso del braccio smembrato. Prendendo Sarah con una mano, e reggendo il macabro resto con l'altra, condusse la bambina in casa. Rapidamente la portò in cucina, davanti al lavello. Prese un asciugamano, vi avvolse il braccio troncato e lo mise da parte. Quindi si dedicò a Sarah, spogliandola e cominciando a pulirla. Infine, quando l'ebbe lavata da capo a piedi, l'avvolse in una vecchia coperta presa dalla sua stanza; andò al telefono, formò il numero della stazione di polizia e chiese di Ray Norton. «Ray», gli disse, «qui è la signora Goodrich della casa dei Conger. Farai
meglio a venire qui in fretta. È successo qualcosa di molto brutto. E porta un dottore con te, quello della White Oaks, se riesci a trovarlo. Ci conosce». Il capo della polizia fece per porre domande, ma la vecchia governante lo interruppe. «Quando arriverai qui», esclamò. «Io ho troppe cose da fare, adesso». Riappese il telefono e ritornò da Sarah. La bambina stava aspettando, tranquilla, e non oppose alcuna resistenza quando la signora Goodrich la condusse di sopra in bagno. L'ordine della signora Goodrich aveva riportato Jack alla ragione. Afferrò Rose e la scosse. «Va tutto bene», le disse. «La signora Goodrich si sta occupando di lei». Rose continuò a urlare, e lui allora la scosse con forza ancora maggiore, e le gridò: «Va tutto bene!». Le urla cessarono all'improvviso. Lei lo fissò, gli occhi spalancati, le labbra che si muovevano senza emettere alcun suono. «Su, vieni», la sollecitò lui. La condusse in casa e la costrinse a seguirlo fino allo studio sul retro. Riempì di brandy due bicchieri e ne porse uno a Rose. «Bevi questo», le ordinò. «Ne hai bisogno». Senza una parola, lei accettò il bicchiere e ne trangugiò metà. Poi, tremando, si lasciò andare sul divano. «Che cosa dobbiamo fare?», disse, in un sussurro. «Oh, Dio, Jack, che cosa dobbiamo fare?». «Chiamare il dottor Belter», rispose Jack, in tono pacato. «Chiamerò il dottor Belter. E Ray Norton». Ma nessuno dei due fece il minimo movimento per prendere il telefono. Restarono lì, immobili, guardandosi in viso, cercando di assimilare ciò che avevano visto. Erano ancora lì nello studio quando arrivò Ray Norton. Ray si stava preparando a tornare a casa quand'era giunta la telefonata. Aveva capito subito che c'era qualcosa di sbagliato. Di molto sbagliato. Durante tutti gli anni in cui l'aveva conosciuta, la signora Goodrich non aveva mai usato il telefono. Perciò aveva subito chiamato la White Oaks School e aveva detto al dottor Belter di raggiungerlo dai Conger. Poi era salito in macchina e si era diretto a tutta velocità verso la Strada del Promontorio dei Conger, azionando la sirena per la prima volta da quand'era stata installata. La porta d'ingresso era aperta, e lui non si preoccupò di suonare il cam-
panello. Entrò e si chiuse la porta alle spalle. Sentì l'acqua che scorreva da qualche parte di sopra, e nessun altro rumore. Fece per salire le scale, poi cambiò idea e infilò il corridoio fino allo studio sul retro. Aprì la porta e vide Jack e Rose seduti, immobili e pallidi in volto, davanti al caminetto. Nessuno dei due accennò il minimo movimento quando lui entrò nella stanza. «La signora Goodrich mi ha telefonato», spiegò a bassa voce. «Ha detto che è successo qualcosa». «Sì», disse Jack, con voce smorta. «Solo che non sappiamo come sia...». Si azzitti, e Ray Norton si fece più vicino. «State bene?», chiese. «Che cosa è successo?». «Farai meglio a chiamare il dottor Belter alla White Oaks School», disse Jack. «Stavo per farlo io stesso, ma...». Di nuovo le sue parole rimasero in sospeso. «Già fatto», l'informò Norton. «La signora Goodrich mi ha detto di chiamarlo. È già diretto qui». E tacque, incerto se aspettare o no il dottore prima di insistere perché Jack e Rose gli dicessero che cosa era accaduto. In ogni caso, qualunque cosa fosse accaduta, adesso sembrava finita. L'atmosfera della casa gli dava una sensazione di shock, non di emergenza. Era come se qualcosa di terribile fosse passato sopra di loro, lasciandoli storditi. Decise di aspettare il dottore. Notò i bicchieri vuoti in mano a entrambi i Conger e, anche se dentro di sé pensava che era meglio non farlo, tornò a riempirli. «Avete l'aria di averne un gran bisogno», spiegò, in tono gentile. Quindi sedette, e insieme aspettarono che arrivasse il dottor Belter. Il rumore dell'acqua che scorreva al piano di sopra cessò all'improvviso e la casa divenne mortalmente silenziosa. Poi, Rose cominciò a piangere sommessamente. Passò quasi mezz'ora prima che il campanello squillasse alla porta. Ray Norton si alzò per rispondere. Ma si fermò quando udì il passo pesante della signora Goodrich che scendeva le scale. Un rapido mormorio di voci risuonò fuori dello studio, poi la governante aprì la porta e fece entrare lo psichiatra. Quindi, senza aspettare che glielo chiedessero, entrò a sua volta e si chiuse la porta alle spalle. «L'ho messa a letto», annunciò. «Ora dorme. Ho dato un'occhiata anche alla signorina Elizabeth. È spaventata, ma sta bene». Il dottor Belter fissò perplesso Jack e Rose Conger.
«Che cosa è successo?», domandò, e quando non vi fu risposta si rivolse alla governante. «Che cosa è successo?», ripeté. «Be'», disse sbrigativamente la governante, «non è piacevole a dirsi, tanto più che non sono certa di che cosa si tratti. Ero nella mia stanza, a guardare la televisione, e all'improvviso ho sentito una spaventosa confusione. La signora Rose stava urlando. Naturalmente, non sapevo chi stesse urlando finché non sono arrivata sulla veranda... E quando sono stata lì non ho più fatto molta attenzione a chi urlava. C'era la signorina Sarah, era lì in piedi in mezzo alla pioggia, tutta coperta di fango e di sangue. E aveva qualcosa in mano». «Che cosa?», insisté il dottore, quando la vecchia improvvisamente si azzitti. La signora Goodrich lanciò un'occhiata a Rose. «Che cosa aveva in mano?», ripeté ancora il dottore, con più urgenza. «Un... un braccio», disse la signora Goodrich. «È in cucina. L'ho lasciato lì, quando ho condotto Sarah su in bagno». «Oh, Gesù», alitò Ray Norton. Guardò impotente il dottore, chiedendosi che cosa doveva fare. Il dottor Belter si rese conto che, per il momento, toccava a lui prendere in mano la situazione. «Farà meglio a venire con me», disse al capo della polizia. «Non vedo a cosa possa servire, in questo momento, ma sarà meglio darci un'occhiata». I due uomini entrarono in cucina e srotolarono l'asciugamano macchiato di sangue. Ray Norton sentì lo stomaco che gli si rivoltava a quello spettacolo macabro. «Un bambino», affermò il dottor Belter. «È il braccio destro di un bambino». Norton annuì in silenzio. Poi chiese: «Quanti anni?». Il dottor Belter scrollò le spalle. «Difficile dirlo, ma sembra un bambino di otto o nove anni, non più». «La stessa età di Jimmy Tyler», mormorò Ray Norton. «E il sangue non si è ancora coagulato». «Non può essere accaduto molto tempo fa», annuì il dottore. «Dev'essere stato questo pomeriggio». Riavvolsero il braccio nell'asciugamano e tornarono nello studio. Ray Norton, a disagio, fissò i Conger. So che sarà dura», disse, con quanta più delicatezza poté, «ma dovrò farvi delle domande». «Lo so», rispose Jack, con un filo di voce. «Il dottor Belter non potrebbe condurre Rose di sopra? Penso che dovrebbe distendersi. Io ho visto tutto quello che ha visto lei».
«Naturalmente», rispose Norton, invitando con un gesto il dottore a portare Rose fuori della stanza. Aspettò fino a quando non furono usciti, poi sedette di fronte a Jack. «Che cosa è successo, Jack? Prendi pure tutto il tempo che vuoi per rispondere, ma io devo sapere quello che è successo». «Non lo so. Siamo tornati a casa dalla White Oaks e Sarah non c'era. L'abbiamo cercata dappertutto, e poi Elizabeth ha detto che forse era nella scuderia. Stava per uscire e andarci, ma aveva appena messo piede sulla veranda quando si è messa a urlare. Rose e io ci siamo precipitati a vedere che cos'era successo, e abbiamo visto... Lei». Trasalì al ricordo di quella scena raccapricciante. «Era coperta di sangue, e trascinava quella... quella cosa. Dio, Ray, è stato orrendo». «Stava uscendo dal bosco?». «Sì». «Be'... So che non sarà piacevole per voi, ma devo radunare una squadra di ricerca. Se Sarah ha trovato quella cosa nel bosco, noi dobbiamo trovare il resto del...». S'interruppe, non volendo esprimere a parole ciò che aveva in mente. «Mio Dio», bisbigliò Jack all'improvviso. «Me n'ero dimenticato...». Norton rizzò di scatto la testa. «Si tratta di Jeff Stevens», proseguì Jack, sempre con un filo di voce, fissando il capo della polizia con un'espressione d'impotenza. «È scomparso anche lui». Norton guardò Jack, incredulo. «Jeff Stevens?». Poi ripeté il nome come se non l'avesse mai udito prima. «Il ragazzo della vecchia casa dei Barnes?». Jack annuì in silenzio. «Merda», borbottò Norton fra i denti. Poi: «Ne sei sicuro?». «La stessa storia», annuì Jack. «È venuto da queste parti, e non si è più fatto vivo a casa. Proprio come gli altri». Norton si alzò in piedi. «Ora chiamo i suoi genitori. Penso che suo padre vorrà fare senz'altro parte della squadra di ricerca». «Suppongo di sì», disse Jack. «Dobbiamo assolutamente scoprire che cosa sta accadendo, non è vero?». Tacque un attimo, poi proseguì: «Verrò anch'io, Ray. Il minimo che posso fare è aiutare a cercare». Norton scosse la testa. «Non tu», replicò. «Tu ne hai passate anche troppe». Andò al telefono e cominciò tutta una serie di chiamate. Quand'ebbe fi-
nito, Carl e Barbara erano già per via, ed era stata organizzata una squadra di ricerca. Guardò fuori, verso il bosco. Ora stava decisamente nevicando, a ogni istante più fitto. Mentre stava guardando, il bosco sparì dietro la cortina turbinante di neve. Frugarono nel bosco, prima alla luce morente del crepuscolo, poi con l'aiuto di torce elettriche, ma non trovarono nulla. Se c'era una pista, la neve l'aveva coperta, e coll'avanzare della notte, si scatenò un'autentica tormenta. Dopo quattro ore rinunciarono. La squadra di ricerca si riunì alla casa sul Promontorio dei Conger, ma ben presto gli uomini cominciarono a ritornarsene a gruppi a Port Arbello. Non si poteva far niente, al promontorio. Ma a Port Arbello, dove non c'erano i Conger a sentirli, gli uomini potevano parlare. Nella casa del promontorio erano rimasti soltanto Ray Norton e il dottor Belter. Sedevano nello studio insieme a Jack Conger, e stavano parlando. L'argomento della discussione non era più se si dovesse far qualcosa con Sarah, ma che cosa si doveva fare. Jack Conger era stanco. Si sentiva stanco, e terribilmente solo. Sedeva lì, col dottore e il capo della polizia, soltanto perché si stava discutendo di sua figlia, della sua famiglia. Ma aveva superato il punto in cui gli importava quello che avrebbero deciso di fare. Avrebbe fatto qualunque cosa fosse stata decisa. Si versò un altro bicchiere e si mise più comodo accanto al fuoco. Invidiava Rose che dormiva, grazie a un'energica dose di sedativo, al piano di sopra. Il dottor Belter stava giusto terminando una lunga e dettagliata spiegazione della malattia di Sarah. Quand'ebbe finito, Ray accese la pipa, cosa che faceva raramente, e si lasciò andare contro lo schienale. «Non so proprio cosa fare», commentò, infine. «Dovrò dire qualcosa alla gente, sapete». Il dottor Belter ebbe un sorriso forzato. «Dica quello che vuole. Se lo chiede a me, come credo che stia per fare, non ho nessun consiglio da darle. Vorrei che quella squadra di ricerca avesse trovato qualcosa. Ma non hanno trovato niente, e non possiamo cambiare questo fatto». Norton annuì, mostrandosi d'accordo con lui. «Permette che le faccia una domanda? Premetto, soltanto a titolo di possibilità... Sarah può aver ucciso quei bambini?». «Non lo so», rispose il dottor Belter, esitando. Non gli piaceva discutere di possibilità. Ne aveva viste tante che era incline a credere che qualunque
cosa fosse possibile. Ma capì subito che avrebbe dovuto mostrarsi più esplicito col capo della polizia, perciò proseguì, soppesando cautamente le sue parole: «Mettiamola così. Devo dire che, sì, è possibile che Sarah abbia ucciso tutti e tre i bambini scomparsi. Lo dico non perché io pensi che l'abbia veramente fatto, ma perché al momento non abbiamo alternative fra cui scegliere. Se fossi in lei, continuerei a cercare. Se questa neve dovesse continuare per tutto l'inverno, riprenderei a cercare in primavera. Là fuori, da qualche parte, c'è il resto di quel corpo, e forse altri due corpi. E certo non penso che lei possa accusare Sarah basandosi soltanto su quel braccio. Sì, ammetto che è brutto. Ammetto che al momento non disponiamo di nient'altro, o quasi. Ma lei deve rendersi conto che, se cercasse di sostenere che Sarah è responsabile dello smembramento di quel bambino e della scomparsa degli altri due, non riuscirebbe a combinare nulla. Qualsiasi psichiatra lei chiamasse in causa le direbbe le stesse cose che le dico io. Sarah non è responsabile di quello che fa. È quasi irrimediabilmente schizofrenica. Dico quasi, perché col suo tipo di disordine mentale esiste sempre una possibilità che ne esca fuori. Ma anche se lo facesse, non esiste alcuna garanzia che sia in grado di riferirle che cosa è successo. Probabilmente non lo ricorderà. Francamente, se fossi in lei, terrei aperto il caso». «Ma se Sarah fosse veramente responsabile?», chiese Norton, a disagio. «Non credo che vi siano molti dubbi sul futuro di Sarah. Sono certo che dopo questi ultimi due giorni i Conger saranno senz'altro d'accordo che è tempo che venga rinchiusa in un istituto. Sarà la cosa migliore per lei, e anche per loro. Non possono continuare a vivere come hanno fatto finora». Guardò Jack, il quale annuì e chiese: «Quando?». Il dottor Belter rifletté. «Stanotte, credo. Non vedo alcuna ragione perché sua moglie debba vivere questa esperienza. Non è facile vedere la propria figlia che lascia la casa per l'ultima volta. E sarà meglio anche per Sarah. Io posso portarla a White Oaks per stanotte, e domani potremo decidere quale sia il posto migliore per lei». Jack annuì in silenzio. Si chiese perché non provasse nulla, ma era così, non provava nulla. «Non t'immagini quanto mi dispiace», disse Ray Norton. Erano usciti nel corridoio, e Ray era accanto alla porta d'ingresso, a disagio, desideroso più che mai di andarsene. «Se c'è qualcosa che posso fare...». Le sue parole rimasero in sospeso, quando Jack scosse la testa. «Grazie, Ray», disse. «Davvero non so. Sono come... intontito».
Jack cominciò a salire le scale per andare a preparare la valigia per Sarah. Ray Norton allungò la mano sulla maniglia della porta d'ingresso. «Aspetti un momento, per favore», gli disse a bassa voce il dottor Belter. Norton lasciò andare la maniglia, ma non alzò gli occhi a fissare lo psichiatra. Durante l'ultima ora era stato costretto ad ascoltare un sacco di cose che non avrebbe voluto sentire, ed era pieno d'imbarazzo. Era acutamente conscio del disagio che si prova quando si viene a sapere troppo dei propri amici, e adesso ebbe la precisa sensazione che stava per sentire dell'altro. E aveva ragione. Il dottor Belter lo ricondusse nello studio e l'informò rapidamente di ogni particolare dei casi sia di Jack Conger che di sua figlia Sarah. Quando ebbe finito, Ray Norton lo fissò negli occhi, incapace di nascondere l'animosità che provava verso quell'uomo. «E per quale ragione, esattamente, mi ha raccontato tutto questo?», gli chiese. «Mi sembra che nel migliore dei casi ciò che lei ha fatto sia amorale, e nel peggiore illegale». Il dottor Belter fissò il fuoco davanti a lui. Era perfettamente conscio della verità di ciò che aveva detto Norton. Ciò che aveva fatto era sia amorale che illegale, ma aveva riflettuto a lungo prima di decidersi a quel passo. E adesso era troppo tardi per tirarsi indietro; e, del resto, aveva appena cominciato. «Lei ha ragione, naturalmente», disse, a disagio. «E, mi creda, se avessi pensato che vi fosse qualche altro modo di procedere, mi starei comportando in modo del tutto diverso». «Non vedo che cosa spera di ottenere», ribatté Norton. «Questo significa che lei non vuol vedere». Ma il rimprovero del dottor Belter non suonò aspro. «Ciò che sto suggerendo», e la sua voce tornò a farsi dura, «dal momento che lei vuole che io le dica per filo e per segno, è che penso che vi sia una precisa possibilità che Jack Conger sia direttamente coinvolto in tutto questo». «Non vedo come», replicò Norton. «Lei stesso può testimoniare che Jack si trovava nel suo studio quando una, e probabilmente due scomparse si sono verificate». «Non è del tutto vero. Non sappiamo esattamente quando quelle scomparse sono avvenute. In realtà, tutto quello che sappiamo è quando e dove i bambini sono stati visti l'ultima volta. E si dà il caso che siano stati visti tutti e tre sulla, o nei pressi della, proprietà dei Conger. In quanto al momento effettivo in cui è capitata loro... qualunque cosa sia capitata, non lo
sappiamo. Non è così?». Norton si trovò d'accordo, sia pure con riluttanza. «Che cosa propone? Che io accusi Jack Conger di aver ucciso tre bambini? Va bene, suppongo che potremmo servirci della sua documentazione su quell'aggressione di un anno fa, ma questo dove ci condurrebbe? Senza alcun cadavere, e con lei stesso come testimone per l'alibi, non c'è una sola possibilità al mondo di comprovare l'accusa». «E naturalmente», aggiunse il dottore, «lei non pensa affatto che Jack abbia avuto qualcosa a che fare con tutto questo». «No», replicò Norton, deciso. «Non lo penso». Il dottor Belter si afflosciò sulla sedia e incrociò le mani sullo stomaco. «Allora, che cosa propone di fare?». «Niente», disse Norton. «Quando verrà primavera farò frugare di nuovo il bosco e organizzerò una ricerca in grande stile della caverna, dovessi rovesciare per aria l'intera scogliera. Per adesso, intanto, aspetterò... Se spariranno altri bambini, rivedrò i miei programmi. Ma se vuole la mia opinione, credo che sia finita». «Lei è davvero convinto che abbia fatto tutto Sarah?», chiese lo psichiatra, incredulo. Norton annuì. «Sono pronto a scommetterci. E rimarrò di questa opinione finché non avrò niente di più concreto su cui basarmi. Già in tutta Port Arbello si è sparsa la voce che Sarah Conger è completamente pazza (queste parole non le ho usate io, le ho sentite ripetere dagli uomini della squadra, e può star sicuro che in poche ore si saranno diffuse fra tutta la popolazione), e che verrà rinchiusa. Bene, questo è importante per un posto come Port Arbello. Quando si spargerà la notizia che Sarah è stata portata via, qualunque sia il posto dove decidete di rinchiuderla, la gente si calmerà. E io non intendo affatto agitare di nuovo le acque e ritrovarmi con tutta la gente che si mette a parlare di ciò che è accaduto a Jack Conger un anno fa. Posso contare che lei non racconterà a nessun altro quello che mi ha detto?». «Non c'è neanche bisogno di dirlo», replicò, rigido, il dottor Belter. «Ma mi faccia un favore, vuole? Parli a Jack Conger. Non gli faccia il terzo grado, semplicemente gli parli. E non ufficialmente». «Perché?», chiese Norton. Belter ebbe un sorriso forzato. «Solo per... Sì, per punzecchiarlo. Lei potrebbe avere senz'altro ragione; può darsi che Jack Conger non abbia niente a che fare con tutto questo. Ma potrebbe essere vero anche il contrario.
In ogni caso, la mia opinione professionale è che Jack Conger sia, emotivamente, quasi allo stremo. Se lei gli farà capire di esserne conscio, questo potrebbe innervosirlo ancora di più... Al punto da spingerlo a cercare aiuto prima di cader vittima di un'altra crisi». «Ci penserò», replicò Norton, senza impegnarsi. «Se non c'è altro, avrei parecchio lavoro da fare». Si alzò in piedi. I due si salutarono con una rigida e fredda stretta di mano. Quando il capo della polizia se ne fu andato, il dottor Belter andò col pensiero alle due cartelle nel suo studio. Rivide l'espressione del poliziotto quand'era uscito. Sapeva che Norton non sarebbe mai venuto a cercare quelle cartelle. E lui non avrebbe spinto oltre la cosa di sua iniziativa. Domani avrebbe sigillato la cartella di Jack Conger e l'avrebbe messa via tra i casi chiusi, nello speciale armadietto in cui conservava la documentazione dei pazienti che riteneva di non vedere più. Improvvisamente si sentì stanco. Si girò e salì di sopra ad aiutare Jack che stava finendo di preparare la valigia. Gli sembrò che avesse pianto. «Le farò un'iniezione», disse il dottor Belter, «così, neppure si sveglierà. Lei potrà venire alla scuola domattina, se vuole. Potrebbe rendere le cose più facili. Per lei e per sua moglie, se non per Sarah. Francamente, dubito che Sarah sia anche vagamente conscia di ciò che sta accadendo. Per lei, signor Conger, questo sarà difficile da accettare, immagino». Poi si affrettò ad aggiungere, con un sorriso, quando vide l'espressione sul volto di Jack: «Non dimentichi che non sappiamo ciò che avviene veramente nella mente di una bambina come Sarah. Spesso sospetto che la schizofrenia di un bambino sia più terribile per la famiglia che per lui. Di solito la mente conduce una persona dove vuole andare. Sarah starà bene. Forse non secondo i vostri standard o i miei, ma vive dove vuole vivere. Noi possiamo soltanto augurarle che guarisca». «Ma che cosa le accadrà?», insisté Jack, stordito. Prese su sua figlia e cominciò a scendere le scale. Sapeva che sarebbe stata l'ultima volta. Il dottor Belter attese che avesse raggiunto la porta d'ingresso, prima di rispondere alla sua domanda. «È difficile dirlo», mormorò infine. «Con Sarah, soltanto il tempo potrà dire che cosa accadrà. Tutto quello che posso consigliarle è continuare con la sua vita. Non c'è letteralmente nulla che lei possa fare per Sarah». Un'espressione addolorata comparve negli occhi di Jack, e il dottore, allora, si addolcì. «Non le ho detto di dimenticarla. Continui ad amarla. Ma è ora che lei smetta di vivere la sua vita concentrandola tutta su Sarah. Lei, sua moglie ed Elizabeth siete ancora una famiglia, sa?».
Jack si chiese che razza di famiglia sarebbero stati, d'ora in poi. «Se posso esserle di qualche aiuto, per favore, me lo faccia sapere», continuò Belter. «Non è la fine del mondo... È stato soltanto un brutto anno, per lei e per chiunque altro, a Port Arbello. Ma adesso è finita». Tese le braccia per ricevere la bambina addormentata. Jack guardò ancora una volta il viso di sua figlia, e si chinò delicatamente a baciarla. «Ti amo», le bisbigliò. «Ti ho sempre amata. Mi spiace tanto, bambina mia. Tanto». Poi affidò la bambina alle braccia del dottore, e Sarah Conger fu portata via dalla casa sul Promontorio dei Conger. Mentre fissava l'auto che portava via sua figlia dalla sua casa, Jack Conger si chiese se adesso sarebbe tutto finito. Sperò di sì. Restò solo in mezzo alla neve vorticante, a guardare finché i fanalini di coda non sparirono. Alzò una mano in un ultimo gesto di saluto. «Sarah», bisbigliò. E poi di nuovo: «Sarah...». 25 Passò una settimana. Poi un'altra. Port Arbello cominciò a tornare alla normalità, anche se si trattava di una normalità leggermente diversa dal normale. La maggior parte dei bambini ricominciarono ad andare a scuola a piedi, ma qualcuno continuò ad andarci in macchina. «Quello che è accaduto una volta, potrebbe accadere di nuovo», dicevano alcuni genitori. Tre giorni dopo il pomeriggio in cui Sarah era uscita dal bosco, Carl e Barbara Stevens misero in vendita la loro casa. Rose Conger, con sua viva sorpresa, si vide offrire l'incarico ma rifiutò. Spiegò che aveva bisogno di un po' di tempo per riprendersi, ma quella era soltanto una parte della verità. In realtà, non si sentiva capace di rivedere Barbara Stevens. Marilyn Burton continuò a gestire il suo negozio di abbigliamento, e la gente notò che cominciava a parlare da sola. Per qualche tempo, molte delle donne di Port Arbello fecero uno sforzo per recarsi da lei il più possibile, ma tutto questo non sembrò servire a nulla. Dopo un po' smisero di frequentare il suo negozio, e se l'abitudine di Marilyn Burton di parlare da sola peggiorò nessuno lo seppe. Martin Forager fece del suo meglio per tener viva l'eccitazione, ma quando i giorni passarono e nient'altro accadde, la gente cominciò a dirgli di smetterla: tutti preferivano dimenticare al più presto. Lui, naturalmente, non ci riuscì, e poche sere passarono all'osteria senza che Martin Forager si
alzasse all'improvviso, pretendendo a gran voce, in preda ai fumi dell'alcool, che qualcuno scoprisse che cosa era veramente accaduto a sua figlia. Ma la gente non gli prestava più attenzione. I genitori di Jimmy Tyler agivano come se nulla fosse accaduto. Tenevano la sua stanza com'era il giorno in cui era scomparso, e preparavano sempre il posto per lui a tavola. La signora Tyler diceva a tutti che lei e suo marito si aspettavano che Jimmy tornasse a casa da un momento all'altro. L'attesa era dura, diceva, ma lei e suo marito la sopportavano bene, e comunque sarebbe presto finita, quando Jimmy fosse tornato a casa. La gente di Port Arbello discorreva cordialmente con la signora Tyler, ma quando lei non era presente scuotevano compassionevolmente la testa. Vedevano nascere un'altra leggenda di Port Arbello. Per Jack e Rose Conger le settimane successive alla partenza di Sarah furono difficili. Rose rimaneva in casa quasi tutto il tempo. Dopo la seconda settimana, telefonò alla Realty Company di Port Arbello e li informò che non sarebbe più tornata. Non furono sorpresi; al contrario, provarono sollievo. Si erano scervellati alla ricerca della maniera più diplomatica di dirle che i suoi servigi non sarebbero più stati necessari, che quello dei Conger non era più un nome di cui essere fieri, a Port Arbello. Jack Conger non poteva restare a casa: aveva un giornale da dirigere, e doveva cercare di comportarsi come se tutto fosse normale. Questo era impossibile, naturalmente, e lui s'immaginava che la gente lo guardasse in modo strano anche quando non era così. Si scoprì a passare la maggior parte del tempo barricato nel suo ufficio, parlando soltanto con Sylvia Bannister. Sylvia era entrata nel suo ufficio il primo giorno del suo ritorno al Courier di Port Arbello e aveva chiuso con fermezza la porta dietro di sé. «Hai intenzione, o no, di rimetterti in sesto?», gli aveva chiesto senza preamboli. «Dipende da cosa intendi per "in sesto"», aveva risposto lui. «Intendo continuare a vivere e a lavorare, se è questo che vuoi dire». «Suppongo che sia appunto questo che voglio dire», aveva annuito Sylvia. Poi aveva lasciato il suo ufficio con la stessa repentinità con cui era entrata. I Conger dissero a Elizabeth che si era reso necessario ricoverare sua sorella in un istituto. Elizabeth aveva accettato la cosa senza chiedere ulteriori spiegazioni. Non aveva fatto nessuna domanda su ciò che era accaduto il
giorno in cui Sarah era uscita dal bosco, e pur pensando che era un po' strana, loro avevano accettato la cosa con gratitudine. Né Jack né Rose avevano alcun desiderio di rievocare quel giorno, e si consideravano fortunati che anche Elizabeth sembrasse volerlo dimenticare. Ai primi di novembre, circa un mese dopo che Sarah era stata mandata all'Ocean Crest Institute, Jack e Rose Conger sedevano nel piccolo studio sul retro della casa. Jack stava leggendo, Rose si stava sforzando di leggere. Elizabeth entrò senza bussare e sedette sul divano accanto a sua madre. Quando Rose alzò gli occhi per chiederle che cosa volesse, Elizabeth stava fissando il ritratto della ragazzina appeso sopra il caminetto. Rose alzò lo sguardo al quadro. «A volte è difficile ricordare che non sei tu», rifletté Rose ad alta voce. Elizabeth socchiuse gli occhi: «Be', non sono io», esclamò, con rabbia. «Non mi sembra affatto che assomigli a me». Jack mise giù il libro e sorrise a sua figlia. «Non avresti potuto dirlo, due o tre anni fa. Oggi sei più vecchia di com'era lei quando è stato dipinto quel ritratto, ma quando avevi quell'età eri esattamente come lei». «Non sono come lei», ribadì Elizabeth. «Nessuno ha detto che tu lo sia», disse Rose. «Tutto quello che tuo padre, o chiunque altro, ha detto è soltanto che assomigliavi a lei». «Non voglio assomigliare a lei». Il volto di Elizabeth si accese per la collera. «È una persona orribile, e io non voglio avere a che fare niente con lei. Vorrei che tiraste giù quel quadro». «Tirarlo giù?», chiese Rose, perplessa. «Perché mai dovremmo tirarlo giù?». Lo esaminò ancora una volta, cercando di vedere che cosa avesse mai che non piaceva a sua figlia. Ma non riuscì a trovare nulla. «Perché io lo voglio», ribadì Elizabeth. «Deve tornare nell'attico dove l'avete trovato». «Non vedo nessuna ragione di metterlo via», replicò Jack. «E mi sembra che dovresti, invece, esserne orgogliosa. Non sono molte le ragazze che hanno un ritratto come quello». «Ma non sono io!», ripeté Elizabeth, in preda a una collera sempre più intensa. I suoi genitori si scambiarono un'occhiata nervosa. «Be'», fece Jack, esitante, «se significa tanto per te...». «Sì che significa!», dichiarò Elizabeth. «Non voglio vedere quel quadro mai più. Lo odio». Fece una pausa e fissò furiosamente il ritratto, quella
ragazzina che le assomigliava tanto e la guardava sorridendo. «Ti odio!», urlò improvvisamente Elizabeth rivolta al quadro. Poi si precipitò fuori dello studio, e un attimo più tardi i suoi genitori l'udirono che saliva le scale battendo i piedi, diretta nella sua stanza. Jack e Rose si guardarono nuovamente negli occhi, in preda a una viva preoccupazione. «Cosa pensi abbia provocato uno scatto simile?», chiese Jack. Rose rifletté qualche istante, poi espresse ad alta voce il risultato delle sue riflessioni. «Ultimamente mi sembra che stia cambiando. Non ti sei accorto? Non è più come una volta. Comincia a mostrarsi un po' trasandata. Sono soltanto piccoli particolari, ma... E ha cominciato a discutere con me. Una volta bastava che le chiedessi di fare qualcosa, e lei mi ubbidiva subito... A volte l'aveva già fatto prima ancora che glielo chiedessi. In questi ultimi tempi ha cominciato a discutere, o semplicemente a rifiutarsi di fare ciò che le chiedevo. E l'altro giorno ha addirittura risposto di no a una precisa richiesta della signora Goodrich!». Jack ridacchiò. «Ho sentito, infatti, la signora Goodrich... Trent'anni fa mi ero rifiutato anch'io di fare qualcosa che mi aveva ordinato. E anche quella volta l'ho sentita, eccome! È stata la prima e l'ultima volta che ho opposto resistenza a un suo ordine!». «Sospetto che sarà l'ultima volta anche per Elizabeth». Rose sorrise. Ma poi il suo sorriso si spense, e la sua voce tornò seria. «Jack, ma tu non l'hai notato?». Si morse pensosamente il labbro inferiore. «Oppure è soltanto la mia immaginazione?». E aggiunse: «Temo che in questi giorni la mia immaginazione faccia gli straordinari». Jack ci pensò su, e si rese conto che Rose aveva ragione. Elizabeth era cambiata... Ma non c'era niente di cui preoccuparsi, a quanto aveva visto. Elizabeth, a suo avviso, cominciava semplicemente ad agire come ogni altra ragazza di tredici anni. «Io non mi preoccuperei, se fossi in te. Dopotutto ne ha passate tante, almeno quanto noi, e la sua vita è cambiata almeno quanto la nostra. Non possiamo chiederle di conservarsi eternamente la stessa. Tu cambi, anch'io sono cambiato... Perché non dovrebbe poter cambiare anche lei?». «Oh, davvero non so», sospirò Rose. «Non sono neppure sicura di essere davvero preoccupata. In un certo senso è un sollievo. Era così perfetta che, spesso, mi faceva sentire inadeguata. Ad esempio, non sono mai riuscita a controllare Sarah come ci riusciva lei». Jack sembrò irrigidirsi, e Rose si rese conto che era la prima volta che il nome di Sarah veniva pronunciato da uno di loro due da un mese a quella
parte. Negli ultimi tempi non erano andati a trovarla; era quasi come se avessero cercato di fingere che non fosse mai esistita. Ma era esistita. Il giorno successivo si recarono in auto a Ocean Crest, quaranta miglia a sud di Port Arbello. Era abbastanza vicino da rendere facili le visite a Sarah, ma sufficientemente lontano perché Port Arbello potesse sentirsi sicura. Sarah sarebbe rimasta lì per molto, molto tempo. Fu una visita difficile. La bambina restò seduta di fronte a loro, i suoi enormi occhi castani fissi su un punto imprecisato del vuoto, in qualche zona dell'universo in cui né Rose né Jack avrebbero mai potuto entrare. Non oppose resistenza quando entrambi l'abbracciarono; né manifestò nessun'altra reazione. «È sempre così», spiegò l'infermiera. «Fino ad oggi non ha reagito a nulla. Mangia, ma bisogna imboccarla come un bambino piccolo». Quando sembrò che Rose stesse per scoppiare in lacrime, l'infermiera si affrettò a spiegare: «Non è niente di cui preoccuparsi», disse. «Sarah ha subito un brutto trauma, e a modo suo sta reagendo. Si è ritirata temporaneamente in se stessa, proprio come fanno le persone normali. Salvo che Sarah già prima si era ritirata in se stessa, e adesso ha eretto una barriera impenetrabile fra sé e il mondo. Ma ne uscirà, sono sicura». Tornarono a casa in silenzio. Quando si ritrovarono davanti alla porta del piccolo studio, Rose disse: «Preparami qualcosa da bere, vuoi? Ho urgente bisogno di un bicchiere. Intanto faccio un salto di sopra a salutare Elizabeth». «Dalle un bacio da parte mia», disse Jack. Entrò nello studio mentre Rose spariva di sopra. Un paio di minuti più tardi, quando Rose entrò nello studio, trovò suo marito in piedi, in mezzo alla stanza, che fissava il muro vuoto sopra la mensola del caminetto. «È sparito», esclamò. «L'ha riportato nell'attico». Rose fissò a sua volta in silenzio, per un buon minuto, lo spazio vuoto, poi si affacciò fuori dalla porta dello studio. «Elizabeth!», chiamò. «Che cosa c'è?». La risposta giunse smorzata dal piano di sopra. «Scendi giù», ordinò Rose, asciutta. «Fra un minuto», fu la risposta. «Subito!», ordinò Rose. Tornò dentro lo studio a grandi passi. Passò un
lunghissimo minuto, quindi Elizabeth fece la sua comparsa. «Avevi l'abitudine di bussare, prima di entrare in una stanza», le fece notare Rose. «Oh, mamma», protestò Elizabeth. «Non piagnucolare», le disse seccamente Jack. «T'imbruttisce. Sei stata tu a tirar giù quel quadro?». «Quale quadro?», chiese Elizabeth, sulla difensiva. «Sai benissimo di quale quadro stiamo parlando», sbottò Rose. «Quello sopra il caminetto». «Oh, quello», fece Elizabeth, scrollando le spalle. «Ve l'avevo detto che l'odiavo». «Dove l'hai messo?». «L'ho riportato nell'attico», dichiarò Elizabeth. «E lassù il suo posto». Poi marciò con passo deciso fuori dello studio. «Be'», commentò Jack, «immagino che questo sia tutto». «Non so», replicò Rose. «Ma non dobbiamo assolutamente lasciare lassù il quadro. Mi sembra che se vogliamo appendere un nostro quadro nel nostro studio, qui nella nostra casa, non è certo nostra figlia quella che può dirci che non possiamo». «Ma se è una cosa che significa tanto per lei...», prese a obiettare Jack. Ma Rose lo interruppe prontamente: «Non è questo il punto. E soltanto che Elizabeth comincia a comportarsi come una figlia unica». «Ma in un certo senso», disse Jack, con un filo di voce, «lo è, non è vero?». Il quadro della bambina sconosciuta rimase nell'attico. Libro secondo Oggi 26 Ray Norton guidava lentamente lungo la Strada del Promontorio dei Conger, in parte perché teneva soltanto un occhio sulla strada, e in parte perché cominciava a invecchiare. Sarebbe andato in pensione tra un anno, ed era pronto al gran passo. Port Arbello stava cambiando, anche Ray Norton stava cambiando, e sentiva di non esser più il miglior capo della polizia che la cittadina potesse avere. Non aveva parlato a nessuno di quella sua sensazione, ma era un segreto di Pulcinella, e lui lo sapeva. Col passare
degli anni aveva trasferito sempre più il lavoro al vicecapo. Adesso Port Arbello disponeva di dieci poliziotti, e non erano sufficienti. Non era più come ai vecchi tempi, pensò ancora Ray Norton, mentre arrestava l'auto. Tutto stava cambiando. Aveva parcheggiato ai bordi del prato. Si soffermò a osservare i cantieri in piena attività nel bosco, all'estremità opposta. Stavano costruendo un complesso di appartamenti, laggiù, e nonostante Ray Norton non approvasse la cosa, doveva pur sempre ammettere che, nel suo genere, era un ottimo lavoro. Il complesso si sarebbe bene armonizzato col promontorio: un edificio lungo e basso, aderente al suolo per proteggersi dai gelidi venti del nord, d'inverno. Mentre prendeva mentalmente nota del progredire dell'edificio, Ray Norton si rese conto del perché del suo corruccio: non si risentiva dell'edificio in sé, ma del fatto che quell'edificio avrebbe significato la fine di quella che per lui era diventata una tradizione annuale. Ogni primavera degli ultimi quindici anni, infatti, Ray Norton aveva passato intere giornate, e non poche, perlustrando il bosco, alla ricerca di qualche traccia dei tre bambini scomparsi in quell'autunno dalla neve precoce. Durante la primavera successiva, la prima, una squadra di ricerca si era unita a lui, setacciando il bosco per giorni, estendendo poi le esplorazioni sulla scogliera, alla ricerca del più piccolo indizio, o quanto meno dell'ingresso della caverna che si supponeva si aprisse laggiù. Non avevano trovato nulla. Qualunque cosa potesse esserci stata, sembrava essersi dileguata con la neve. Avevano ugualmente continuato la ricerca della caverna, fino a quando uno degli uomini non aveva perso l'equilibrio, precipitando fra le rocce e perdendo quasi la vita in una tremenda caduta fino alla distesa ciottolosa in riva al mare. La gente aveva subito sciolto la squadra di ricerca, e da quel momento Ray Norton aveva proseguito da solo. Non aveva trovato nulla, ma cercare era diventata per lui un'abitudine, e ogni primavera tornava nel bosco, lo setacciava centimetro per centimetro, poi si spostava sulla scogliera. E ogni primavera non trovava nulla. Be', adesso la ricerca era finita. Il bosco veniva strappato via e le fondamenta del complesso d'appartamenti venivano ancorate alla scogliera. Ray Norton scese dall'auto e cominciò a dirigersi con passo strascicato verso il bosco. Non si può mai sapere, pensò. Potrebbero scoprire qualcosa che mi è sfuggito. Dalla vecchia casa all'estremità del Promontorio dei Conger, Elizabeth Conger stava osservando il capo della polizia, ai capelli ormai bianchi, che
attraversava lentamente il prato. Ogni primavera lei l'aveva osservato, e ogni primavera gli aveva chiesto che cosa sperasse di trovare. «Non so», aveva sempre risposto Ray Norton. «Ma, semplicemente, non posso lasciar perdere. C'è qualcosa, là fuori... Deve esserci. E se c'è, io la troverò». Elizabeth si era spesso chiesta che cosa sperasse di trovare il vecchio capo della polizia, e che cosa avrebbe fatto se l'avesse trovato. Avrebbe dovuto essere quell'anno, o mai più. Diede un'occhiata all'orologio e vide che aveva tre ore prima che giungesse il momento di partire per Ocean Crest. Sylvia Bannister stava guidando verso nord, e non aveva nessuna intenzione di fermarsi finché non avesse raggiunto il Maine. Ma quando vide, a una deviazione, il cartello che annunciava Port Arbello, svoltò. Mentre guidava verso la cittadina, si chiese perché l'avesse fatto. Aveva lasciato Port Arbello un anno dopo che Sarah era stata chiusa nell'istituto, e nei quattordici anni successivi non vi era mai ritornata. Adesso, mentre vi entrava con l'auto, decise che era giunto il momento di dare una rapida occhiata al proprio passato. Infatti aveva avuto soltanto l'intenzione di compiere un giro intorno alla piazza e ripartire, ma quando giunse davanti agli uffici del Courier di Port Arbello si fermò istintivamente. Prima di entrare, diede un'occhiata alla vecchia e tetra armeria, sul lato opposto della piazza, ancora immutata. Così, pensò Sylvia, Rose non ha mai portato a compimento il progetto di convertirla in un centro di acquisti. Meno male. Spinse la porta d'ingresso del Courier, e seppe subito che Jack Conger non era più lì. Tutto era cambiato, compresa la maggior parte del vecchio personale. Ma individuò ugualmente un volto che le era familiare, un volto che la fissò incuriosito. «Signorina Bannister?», disse il giovanotto, e Sylvia si rese conto che ai suoi tempi era il fattorino del giornale. Oggi era un redattore. Sì, le cose cambiavano. «Stavo cercando il signor Conger», disse, esitante. «Ma ho la sensazione che non sia più qui». Il giovane la fissò. «Vuol dire che non ha saputo?», chiese. «È morto. Nove o dieci anni fa». «Capisco», disse Sylvia. «E la signora Conger? Vive ancora sul promontorio?».
Il giovane redattore scosse la testa. «Soltanto Elizabeth. La signora Conger è morta allo stesso modo del signor Conger». Non spiegò in che modo, e Sylvia lasciò l'edificio. Fu quasi sul punto di andarsene subito da Port Arbello, proseguendo verso nord, ma cambiò idea. Non avrebbe saputo dire perché. Ma voleva vedere Elizabeth Conger. Girò l'auto e puntò verso la Strada del Promontorio dei Conger. La casa non era cambiata. Sylvia parcheggiò la macchina davanti alla veranda. Mentre saliva i gradini guardò in direzione del bosco, e si sentì attraversare da un brivido mentre si chiedeva che cosa fosse accaduto veramente là fuori. Vide l'edificio in costruzione mentre suonava il campanello. Una giovane donna, alta e incredibilmente bella, aprì la porta e la fissò incuriosita. Sylvia Bannister seppe immediatamente chi era. «Elizabeth?», chiese. La giovane annuì. «Che cosa posso fare per lei?». Le sembrava di riconoscere la donna, ma non ne era sicura. Tanti forestieri bussavano alla sua porta, facendole domande sul passato. Domande alle quali lei non poteva rispondere. «Non sono sicura che lei si ricordi di me», disse Sylvia. «Sono Sylvia Bannister». «Oh, sì, naturalmente», esclamò Elizabeth, spalancando la porta. «La segretaria di mio padre. Prego, entri». Sylvia si guardò intorno, mentre Elizabeth la conduceva fino allo studio sul retro. Lì nulla era cambiato, a quanto sembrava. «Non so perché», stava dicendo Elizabeth, «ma sembra che si finisca per trascorrere tutta la vita in questa stanza. Ormai praticamente non uso più il soggiorno, e il vecchio studio di mia madre è chiuso a chiave». «Ho sentito dei suoi genitori», disse delicatamente Sylvia. «Ho voluto venire fin qui per dirle quanto mi dispiace». «Oh, non sia dispiaciuta», rispose Elizabeth. «Può apparire impietoso da parte mia, ma sono sicura che adesso sono molto più felici». «Le dispiace se le chiedo che cosa accadde?», fece Sylvia. «Niente affatto. Sono passati quasi dieci anni da quando sono morti, ora posso parlarne senza eccessivo disagio. E forse lei potrà rispondere ad alcune domande, se non le dispiace». «Niente affatto», disse Sylvia. «Le dirò tutto quello che posso». Le due donne si sedettero, ed Elizabeth raccontò a Sylvia quello che era successo a Jack e a Rose Conger. «È accaduto cinque anni dopo il giorno in cui si dovette internare Sarah
a Ocean Crest», iniziò Elizabeth. «Subito dopo il mio diciottesimo compleanno, per essere esatti. Naturalmente non sapremo mai esattamente cosa accadde, ma un giorno papà condusse mamma fuori, in barca a vela. E non tornarono più. Tutti pensarono a un incidente, ma una settimana dopo il direttore del porticciolo, non ricordo il suo nome, trovò tutti i salvagente del Sea Otter ammucchiati dentro un capanno. Dal momento che papà era sempre stato molto attento a questo genere di cose, la gente decise che, dopotutto, non si era trattato di un incidente. A quanto pare papà condusse fuori la mamma e affondò l'imbarcazione con entrambi a bordo». Fece una pausa, sembrò riflettere per qualche attimo. «Soltanto negli anni successivi ho cominciato a raccogliere tutte le fila, per così dire. Allora, naturalmente, ciò che era accaduto non aveva molto senso per me. Ma nel corso degli anni ho cominciato a rendermi conto abbastanza chiaramente di che cosa dev'essere stato, per loro. Credo che papà non sia più riuscito a sopportare. La gente, a quanto pare, non aveva mai smesso di parlare di ciò che era accaduto quell'autunno, e per qualche ragione era convinta che papà vi fosse direttamente coinvolto. Lei sa come sono a Port Arbello. Hanno la memoria lunga, e le storie continuano a peggiorare ogni volta che vengono raccontate. Verso la fine, mia madre non voleva neppure più uscire di casa, salvo quando papà la portava lontano, a fare un viaggio, e papà... Be', immagino si fosse stancato della gente che continuava a voltarsi a guardarlo». «Ma perché non si sono semplicemente trasferiti altrove?», chiese Sylvia. «E perché non l'ho fatto io?», replicò Elizabeth. «Credo che per noi Conger questo luogo sia la casa. Non è facile abbandonare tutto ciò che ci è familiare. Papà non avrebbe mai potuto farlo, e neanch'io. Inoltre, c'è anche Sarah a cui pensare». «Sarah?». Gli occhi di Sylvia ebbero un guizzo d'interesse. «Come sta?». «Molto meglio», disse Elizabeth. «In effetti, tornerà a casa oggi, per la prima volta». «Potrà restare?». «Non questa volta. Ma spero che molto presto sia possibile. Non che Ocean Crest sia un brutto posto per viverci. In effetti Sarah è molto felice, lì». «Sì», annuì Sylvia. «Immagino che lo sia». «Ma noi... Anzi, dovrei dire lei, non ricordiamo ancora ciò che veramente accadde quel giorno in cui Sarah uscì dal bosco con quella... cosa in
mano. È l'unica cosa che Sarah non riesce ancora a ricordare. Mentre ricorda ciò che accadde fra lei e papà...». Improvvisamente Elizabeth s'interruppe, e fissò Sylvia imbarazzata. «Oh, non si preoccupi», si affrettò a dire Sylvia. «Probabilmente io posso dirle di più su quell'incidente di quanto possa fare Sarah, anche se ora lo ricorda». «Davvero?», replicò Elizabeth. «Non so perché, ma ho sempre avuto la sensazione che sia stato la causa principale di ciò che è accaduto a mamma e papà». «Indubbiamente lo è stato», sospirò Sylvia. «Jack me ne parlò moltissimo. Eravamo molto intimi, sa». Elizabeth annuì. «Vi furono dei pettegolezzi. Non sono stata mai sicura di quanta verità contenevano, ma sapevo che mamma e papà non andavano d'accordo. Specialmente dopo che Sarah si ammalò». «Quello è stato il nocciolo del problema», disse Sylvia. «Jack non fu mai più lo stesso, dopo quella terribile giornata nel bosco». Tacque per qualche istante e poi continuò: «Io e Jack avemmo una relazione», proseguì, irrigidendosi e colorandosi in volto. «Non durò a lungo, soltanto un anno. Alla fine la troncai. In realtà non so bene perché. In parte, credo, perché mi dispiaceva per Rose, e in parte perché temevo ciò che sarebbe accaduto quando fosse giunta alla fine. Perciò troncai la relazione e lasciai Port Arbello. Ma quando me ne andai, ebbi la sensazione che per Jack la vita fosse finita. Forse può apparire presuntuoso ma, mi creda, non lo è. Non aveva niente a che fare con me. Sembrava logorato. E ancora oggi, quando ci ripenso, mi sorprende che abbia resistito così a lungo». Elizabeth annuì. «Credo che l'abbia fatto per me. Non credo affatto che sia stata una coincidenza il fatto che si sia ucciso subito dopo il mio diciottesimo compleanno. Volle aspettare che fossi adulta abbastanza, e poi, in un certo senso, se ne... andò...». «Dev'essere stato terribile per lei», disse Sylvia. «Sulle prime lo fu. E non è facile ancora oggi. Dovetti vendere un po' di terreno per mantenere me stessa e Sarah. Decisi di sbarazzarmi del bosco. Mi sembrò che fosse stato nella vita della mia famiglia più che a sufficienza. Immagino di aver sperato che, se mi sbarazzavo del bosco, e anche di quell'orribile scogliera, mi sarei sbarazzata anche della leggenda e dei pettegolezzi». «Sono sicura che sarà così», annuì Sylvia. Poi diede un'occhiata all'orologio: «Santo cielo, se voglio arrivare dove sto andando, devo rimettermi
subito in moto. Grazie per avermi detto quello che è accaduto a Jack. Le sono stata di qualche aiuto?». «Naturalmente», disse Elizabeth. «Sono lieta di sapere che mio padre ha avuto un po' di felicità nella sua vita». Poi anche lei guardò il suo orologio. «Mi spiace che debba essere una visita così breve. Tornerà a trovarmi?». Sylvia assicurò che l'avrebbe fatto, ma entrambe sapevano che non si sarebbero viste mai più. Elizabeth salutò Sylvia agitando una mano, mentre lei si allontanava in macchina lungo il viale, poi ancora una volta guardò l'orologio. Aveva ancora un'ora a disposizione prima che giungesse il momento di partire per Ocean Crest. Andò a cercare la signora Goodrich. Anche se la vecchia governante non aveva mai confessato la sua vera età, Elizabeth era convinta che da tempo avesse superato l'ottantina. Viveva ancora nella stanzetta accanto alla cucina e faceva del suo meglio per fingere di essere lei a occuparsi di Elizabeth, e non il contrario: preparando il caffè la mattina e riuscendo a mettere insieme qualcosa che poteva passare per un pranzo, anche se Elizabeth si era abituata ad aspettare che la vecchia sprofondasse nel suo pisolino pomeridiano per scivolare in cucina e prepararsi qualcosa per rimettersi in sesto fino all'ora di cena. Elizabeth era preoccupata per la signora Goodrich. Non sarebbe passato molto tempo ancora, e la vecchia governante avrebbe avuto bisogno di essere assistita a tempo pieno, ed Elizabeth non sapeva in qual modo avrebbe potuto permetterselo. A meno che quello che i medici avevano detto non fosse vero, e a Sarah non fosse permesso tornare definitivamente a casa. Bussò piano alla porta della signora Goodrich. «È lei, signora Rose?», tremolò l'antica voce. Elizabeth scosse la testa, addolorata. Negli ultimi tempi, la vecchia governante scambiava con frequenza sempre maggiore Elizabeth per sua madre: un ulteriore segno, Elizabeth pensava, che l'anziana donna sprofondava sempre di più nella senilità. «Sono io», le rispose gentilmente. «La signorina Elizabeth». Aprì la porta e la vecchia la fissò senza espressione. Poi la sua mente parve schiarirsi e un sorriso esitante le comparve sul viso. «Oh, sì», annuì, incerta. «Dov'è sua madre?». «Rientrerà più tardi», le promise Elizabeth, sapendo che entro pochi minuti la signora Goodrich si sarebbe dimenticata di aver chiesto di Rose. La prima volta che la vecchia governante l'aveva scambiata per sua madre, Elizabeth aveva tentato di spiegarle che Rose era morta, e un'espressione di orrore si era disegnata sul volto della signora Goodrich.
«Oh, cara», aveva chiocciato. «E adesso, che cosa mai ne sarà del povero signor Jack?». Elizabeth l'aveva fissata per un attimo, prima di rendersi conto che la vecchia governante doveva aver completamente dimenticato ciò che era accaduto. E oggi, più che mai, la signora Goodrich viveva in un suo mondo in cui Jack e Rose Conger erano ancora vivi. Elizabeth chiuse la porta. Quindi si recò in cucina, e pensò che sarebbe stato doveroso, per lei, lavare i piatti, risparmiando alla signora Goodrich la fatica. Le mani artritiche della vecchia governante non avevano quasi più la forza di reggere i piatti umidi, e i suoi occhi quasi non l'aiutavano più a vedere ciò che faceva. Ma Elizabeth aveva scoperto che questo doversi addossare il ruolo di cuoca e sguattera non le pesava. La signora Goodrich aveva servito bene la sua famiglia per lungo tempo. Il minimo che si poteva fare adesso era prendersi cura di lei nella vecchiaia. E inoltre Elizabeth non aveva, praticamente, nient'altro da fare. Senza esserne consapevole, stava diventando sempre più simile a sua madre, restando il più possibile a casa e recandosi a Port Arbello soltanto per le spese indispensabili. Non le era mai passato per la mente che, all'età di ventotto anni, aveva cominciato a comportarsi come una zitella due volte più vecchia di lei. E neppure le era passato per la mente che il suo modo di vivere sembrava strano a parecchia gente. In realtà Elizabeth Conger era discretamente soddisfatta della propria vita. Aveva la sua casa, che amava, e aveva il suo gatto, un vecchio persiano che aveva chiamato Cecil, in memoria dell'altro Cecil che era scomparso. Suo padre aveva portato a casa il micetto non appena Sarah era andata a Ocean Crest. Ora, dopo tanti anni, il gatto era decrepito e aveva bisogno di molte cure. Elizabeth aveva considerato la possibilità di «mettere a dormire» il vecchio gatto, ma non aveva trovato il coraggio di farlo. Diede un'altra occhiata alla cucina e si chiese da dove cominciare. Poi, non appena ebbe preso una decisione, cambiò idea e decise di uscire per una passeggiata. Diede un'altra occhiata alla signora Goodrich dentro la sua stanza: la vecchia era ancora profondamente addormentata. Era sulla porta d'ingresso che s'infilava il soprabito, quando sentì Cecil che si strofinava contro le sue caviglie. «Vuoi venire anche tu?», chiese al gatto. «Ma ti conosco bene. Sarai felicissimo di sgambettare per tre metri, poi sarò costretta a portarti in braccio». Il gatto alzò i suoi occhi tondi a fissarla e miagolò.
«Oh, d'accordo, vieni», cedette Elizabeth, e aprì la porta d'ingresso. Il gatto balzò fuori nella vivida luce primaverile. Elizabeth, vedendo la macchina di Ray Norton ancora parcheggiata sulla Strada del Promontorio accanto al prato, decise di andare fino al bosco a osservare i lavori da vicino. Aveva evitato il bosco per anni, fino al giorno in cui era stata costretta a percorrere la proprietà insieme all'agente dell'agenzia immobiliare alla quale si era affidata. Perfino allora si era sentita a disagio nel bosco e sulla scogliera. Ma adesso, con i lavori in corso, l'intera zona aveva perduto la sua aria minacciosa, e lei aveva scoperto che le piaceva aggirarsi laggiù. Trovò Ray Norton con la schiena appoggiata a un albero, intento a osservare pazientemente i lavori. «Posso unirmi a lei?», gli chiese sorridendo. Il vecchio poliziotto alzò gli occhi, sorpreso. «Toh, guarda chi c'è», esclamò. «Da quando in qua alle ragazzine dei Conger è permesso giocare qua fuori?». Ammiccò, ed Elizabeth rise sommessamente. «Non più tanto ragazzina», replicò. «E poi è tutto cambiato, da quando sono arrivati». E inglobò in un ampio gesto gli uomini e le macchine tutt'intorno. «Umf», sbuffò Norton. «Se lo chiede a me, era meglio prima». «Non so», rifletté Elizabeth. «So che non dovrei dirlo, ma sono lieta di tutto questo. Per la prima volta in vita mia, mi sento perfettamente a mio agio qua fuori». Fissò il mare per un momento, poi riprese a parlare: «Signor Norton, ma lei pensa che ci sia stato davvero qualcosa, qua fuori?». «Per esempio?», chiese Norton. «La caverna... So che lei l'ha cercata per anni e non l'ha mai trovata, ma lei è più che mai convinto che ci sia veramente, in qualche punto qua fuori, non è vero?». «Non lo so», disse il vecchio poliziotto. «Per molto tempo ho creduto che non esistesse. Poi, invece, ci ho creduto. Adesso non so cosa pensare. Immagino che quando si arriva alla mia età sia normale. O, almeno, lo spero, perché io sono fatto così». «Tornerà ancora?», chiese Elizabeth. «Voglio dire, una volta che questa costruzione sarà finita, e la gente verrà ad abitarci... Verrà ancora ogni primavera a cercare qui in giro?». Norton scosse la testa. «Ne dubito. Tanto per cominciare, l'anno prossimo, in questo periodo, sarò in pensione. E poi questo posto non sarà più lo
stesso. Se non troverò quest'anno quello che cerco, non lo troverò mai più». Elizabeth si alzò in piedi e batté una mano sulla spalla del vecchio. «La troverà», lo rassicurò. «Qualunque cosa sia, lei la troverà». Guardò l'orologio. «Ora devo andare». Norton la fissò incuriosito. «Oggi Sarah torna a casa», spiegò Elizabeth. «Soltanto per una visita, per vedere come vanno le cose. Ma sarà la prima volta dopo quindici anni». Fece una pausa, poi strizzò l'occhio a Norton. «E non ho neppure lavato i piatti in cucina». Si girò e cominciò a riattraversare il bosco, avanzando prudentemente fra i rovi. Per due volte restò impigliata col piede. Sarebbe stato un sollievo quando tutti quei cespugli spinosi sarebbero stati spazzati via. Il vecchio poliziotto la seguì con lo sguardo finché non fu scomparsa tra la vegetazione, poi riportò la sua attenzione sugli operai. Così, Sarah torna a casa, pensò. Be', è piacevole sentirlo. E pensò anche: se è destino che io trovi qualcosa dopo tanti anni, questo è il giorno. Si mise comodo e continuò a guardare. Così andava bene; non aveva niente da fare. Ripensandoci, Ray Norton concluse che non aveva mai avuto niente di meglio da fare per quindici anni. Tre ore più tardi, mentre Ray Norton continuava a guardare, uno dei battipalo che incastravano i supporti per le fondamenta sfondò il tetto della caverna superiore. La luce del giorno illuminò, pallida, la porta dell'inferno. 27 L'istituto Ocean Crest aveva abbandonato l'aggettivo «Mental» ormai da molti anni. Si estendeva per venticinque acri di bosco e di prateria su un promontorio che precipitava ripido sopra l'Atlantico. Assomigliava molto a una stazione climatica, ed era questo, appunto, che la direzione si sforzava di farlo apparire. Ed era in grado di mantenere le rette di degenza entro limiti ragionevoli soltanto grazie a un immenso cumulo di donazioni che, nel corso degli anni, erano giunte da famiglie ricche e ricchissime, grate per l'efficacia delle cure e la discrezione di cui Ocean Crest aveva gratificato quelli, fra i loro membri, le cui eccentricità erano andate ben oltre i limiti dell'innocuo. Non c'erano sbarre a deturpare il panorama che si contemplava dalle finestre di Ocean Crest; erano stati installati vetri a prova di
proiettile nelle unità che ospitavano i pazienti considerati pericolosi. Sarah Conger era vissuta in una di queste unità per quattro anni, senza mai sapere che non avrebbe potuto fuggire da una di quelle finestre. Ma raramente i residenti di Ocean Crest tentavano di fuggire; se qualcuno per caso si allontanava, era quasi sempre a causa della confusione mentale, non per un vero desiderio di fuga. Dopo i primi quattro anni, Sarah Conger era stata tolta dall'unità di sicurezza e sistemata in una casetta che divideva con altre tre adolescenti e una governante. Un estraneo, ignaro che fossero vittime di turbe mentali, le avrebbe giudicate quattro ragazze insolitamente tranquille. Era molto raro che una di loro fosse colta da qualche nuova crisi. Si poneva ogni cura, a Ocean Crest, nel farle vivere in condizioni il più possibile vicine a un'esistenza normale. Il direttore, il dottor Lawrence Felding, era interamente votato all'idea che i malati mentali avessero bisogno di «asilo», e non di cura. Se si voleva che un «ospite» si comportasse da persona normale, sosteneva il dottor Felding, bisognava trattarlo come se lo fosse. Aveva scoperto che la gente tendeva ad adeguarsi e a vivere molto più seguendo il tacito esempio altrui che ubbidendo a ordini e imposizioni espressi ad alta voce. D'altro canto, il dottor Felding si assicurava che a Ocean Crest poco o nulla venisse lasciato al caso. Si era dedicato a sviluppare una sorta di spontaneità «applicata» che sembrava funzionare con i suoi pazienti. Molto spesso i residenti di Ocean Crest scoprivano che un amico, conosciuto da mesi, o perfino da anni, giudicato sempre un altro paziente, era in realtà uno psichiatra. I dottori di Ocean Crest praticavano felicemente le loro terapie durante partite a carte, pic-nic e incontri «casuali» nelle sale di ritrovo. Soltanto quando i pazienti erano giudicati maturi per essere dimessi venivano tenute sedute formali con i medici. E dopo quindici anni a Ocean Crest, Sarah Conger aveva cominciato i suoi primi incontri formali con i medici. «Che cosa si prova quando si sta per tornare a casa?», le stava chiedendo il dottor Larry Felding. Sarah accese una sigaretta e spense nervosamente il fiammifero prima di rispondere. «Non provo affatto l'impressione di tornare a casa», dichiarò. «Qui ho passato più di metà della mia vita. Questa è la mia casa». Il dottor Felding ebbe una breve risata. «Attenta. Se dirai una cosa del genere nel posto sbagliato, la gente dirà che l'istituto ti ha istituzionalizzata».
Sarah gli rivolse un ampio sorriso, e Larry Felding ricordò tutti gli anni durante i quali Sarah Conger non aveva mai sorriso ed era rimasta seduta, immobile e muta, a fissare il mare, il volto privo d'espressione. Il suo silenzio era stato totale per tre anni, e ne erano passati altri cinque prima che cominciasse a parlare con frasi complete. Dopo dieci anni trascorsi a Ocean Crest, finalmente aveva sorriso, e soltanto allora Felding aveva cominciato a sperare che un giorno sarebbe guarita. Per tutto l'ultimo anno, assai di rado Sarah Conger non aveva sorriso. Adesso il suo buonumore scompariva soltanto quando qualcuno portava il discorso sugli avvenimenti che avevano preceduto immediatamente la sua venuta a Ocean Crest. Il suo sorriso, allora, svaniva subito, e lei appariva molto a disagio. Ancora oggi non riusciva a ricordare ciò che era successo. Ora Larry Felding era vivamente dispiaciuto di dover spegnere, una volta ancora, quel sorriso, ma non vedeva modo di evitarlo. «Mentre sarai a casa, Sarah», disse, «voglio che tu cerchi di ricordare». «Ricordare?», fece Sarah, e com'era prevedibile il suo sorriso svanì. «Ricordare cosa?». Felding la fissò da sopra i suoi mezzi occhiali, e Sarah si agitò, inquieta. «D'accordo», disse. «So di che cosa parli, non fingerò di non saperlo. E so anche che devo ricordare tutto». Il sorriso riaffiorò sul suo viso. «Naturalmente», disse, «se non ricorderò, non potrò venir dimessa, non è vero?». «No, infatti», annuì Felding, esaminandosi le unghie. «Ma posso buttarti fuori a calci per aver finto di essere malata, non è vero?». «Non tu», replicò Sarah, in tono compiaciuto. «Tu non riusciresti a buttar fuori a calci uno scoiattolo da questo posto». Poi ridivenne seria. «Temo di aver paura di ricordare, Larry. Credo davvero che sia questo il problema». «Brava», commentò il dottor Felding. «Dopo quindici anni, hai finalmente scoperto che non affrontiamo quello che temiamo di affrontare. Devo scriverlo nella tua cartella clinica?». Poi si sporse in avanti, e l'ironia lasciò la sua voce. «È naturale che tu abbia paura. Sarah. Quando ricorderai, non sarà affatto piacevole. In effetti, temo che sarà molto spiacevole. Ma non ricorderai tutto d'un colpo. Ti tornerà alla memoria a frammenti, a brandelli, come il giorno nel bosco con tuo padre. Non dovrai affrontare tutto nello stesso istante. Ma dovrai affrontarlo. Altrimenti non saremo mai in grado di dichiararti "guarita", qualunque cosa questa parola voglia dire. Perciò, mentre sarai a casa voglio che tu cerchi di ricordare che cosa è accaduto».
«Va bene», disse Sarah, sia pure con riluttanza. «Mi sforzerò. Ma non posso promettere nulla. C'è qualcosa di particolare che dovrei fare? Qualcosa che possa aiutare a scuotere la mia memoria?». Felding scrollò le spalle. «E chi lo sa? Prova ad aggirarti nel bosco, o sul prato». «Il bosco lo stanno abbattendo», disse Sarah. «Elizabeth è stata costretta a venderlo perché io potessi rimanere qui, non ricordi?». Il suo sorriso radioso era ricomparso, e Larry Felding decise di non turbarlo un'altra volta. Sospirò con finto imbarazzo. «Lo so», replicò. «Ma devo pur pagarmi in qualche modo la mia RollsRoyce». Guardò fuori dalla finestra la malandata Chevrolet che era tecnicamente sua, ma che tutti, a Ocean Crest, usavano come una specie di trasporto pubblico. Vide un'altra automobile che si stava infilando nello spazio accanto al suo. «Parlando di Elizabeth, eccola che sta arrivando. Sei pronta?». «Vado a prendere la mia valigia», disse Sarah, alzandosi in piedi. «Suppongo che tu voglia fare la tua solita chiacchierata privata con la famiglia». «Sei rimasta qui troppo a lungo», dichiarò Felding con amarezza. «Stai imparando come funziona questo posto». Sarah gli strizzò l'occhio, e lui le restituì il sorriso. «Di' a Elizabeth che l'aspetto qui, che entri pure. Vuoi?». «D'accordo. Quanto tempo devo impiegare per prendere la mia valigia? I soliti dieci minuti?». «Esci di qui!», urlò Felding, e Sarah scappò fuori dallo studio, ridendo fra sé. Incontrò Elizabeth nel corridoio. «Ciao», la salutò. «Larry vuole parlarti, ma ho paura di averlo fatto arrabbiare. Vai dentro e cerca di calmarlo». Sempre ridendo, uscì dall'edificio e cominciò ad attraversare il prato, diretta alla casa in cui aveva vissuto durante gli ultimi cinque anni. Elizabeth bussò leggermente alla porta socchiusa e mise dentro la testa. Gli occhi di Felding ebbero un rapido scintillio quando la guardò. «Entri pure», le disse, agitando la mano. «Ho appena buttato fuori a calci sua sorella». «Mi ha detto che l'ha fatto arrabbiare. Che cosa è successo?». Elizabeth non sapeva se doveva essere preoccupata o no. Quando Felding scoppiò a ridere, si rilassò. «A volte finisco per rimpiangere i vecchi tempi, quando non diceva niente del tutto. Prova un diabolico piacere a punzecchiarmi. Era così anche da bambina?».
«Fin dal giorno in cui è nata. Era impertinente, ma sempre allegra. E questo rese la cosa ancora più dura, quando si ammalò. All'improvviso diventò così diversa...». Restò silenziosa per qualche istante, immersa nelle sue rievocazioni. Poi si scrollò di dosso i ricordi e alzò gli occhi a fissare il dottor Felding. «Sarah ha detto che lei voleva parlarmi». «Sì. Mi piace sempre scambiare qualche parola con la famiglia di un ospite, quando torna a casa per la prima volta. Per preparare i parenti a tutto quello che potrebbe accadere». «Perché? Potrebbe accadere ancora qualcosa, con Sarah?», chiese ansiosa Elizabeth. «Non lo so», replicò asciutto il dottor Felding. «In realtà, tutto dipende da Sarah». «Sarah? Non capisco». «Le ho chiesto di fare qualcosa, mentre si trova a casa», spiegò Felding. «Le ho detto che usi il più possibile del suo tempo sforzandosi di ricordare che cosa è successo quel giorno in cui è uscita dal bosco». «Capisco», disse Elizabeth, in tono vago. «E c'è niente che vorrebbe che io facessi?». «Soltanto se vuole farlo». «Se è per aiutare Sarah, sono pronta a qualunque cosa», replicò Elizabeth, animata da sacro zelo. «Lei lo sa». «Be', non c'è bisogno di fare una faccia così seria. Non sto pensando a niente di terribile. Mi dica, la casa è molto cambiata dal giorno in cui Sarah se n'è andata?». Elizabeth scosse la testa. «Quella casa non è cambiata granché da intere generazioni, salvo gli effetti dovuti al puro e semplice passare degli anni». Poi la sua espressione si rannuvolò un poco. «Salvo la stanza di Sarah», precisò, quasi scusandosi. «Mia madre la ridipinse, e si sbarazzò di tutte le cose di Sarah». Il volto di Felding, a sua volta, si oscurò un poco. «Che cosa intende dire con "si sbarazzò"?», chiese. «Se è importante», si affrettò ad aggiungere Elizabeth, «devo dirle che tutto è ancora lì in casa. Nella nostra famiglia "sbarazzarsi" di qualcosa significa trasportarla nell'attico. Sono certa che tutte le cose di Sarah sono ancora lassù. È importante?». «È difficile dirlo. Potrebbe essere importante. Ciò che voglio che lei faccia è passare in rassegna tutte le vecchie cose di Sarah insieme a sua sorel-
la. Cerchi di farne un'avventura, o qualcosa di simile». «Lo farò senz'altro», sorrise Elizabeth. «Sono anni che non salgo più nell'attico. In effetti, non sono sicura di esserci più stata, dopo che Sarah venne qui». Rifletté per un attimo. «Una volta, forse, ma è tutto». «Allora dovrebbe essere divertente», disse Felding. «Chissà che cosa troverete lassù. E qualcosa potrebbe dare una spinta alla memoria di Sarah». «In un certo qual modo mi dispiace per lei. Quello fu un giorno terribile. Neppure io ricordo molto di ciò che avvenne. Soltanto Sarah che veniva avanti attraverso il prato, tutta coperta di...». Si azzitti, come per costringere il ricordo a lasciare la sua mente. «Be'», riprese qualche istante dopo, «suppongo che sia necessario, per Sarah, ricordare tutto, ma mi sembra un peccato, dopo tutti questi anni, doverlo scavar fuori un'altra volta». «Lo so», disse Felding, col maggior tatto possibile, «ma bisogna farlo». Si udì un rumore di passi, fuori, nel corridoio. Felding guardò l'orologio. Esattamente dieci minuti. Sarah era tornata. «Mi sembra perfettamente uguale», disse Sarah quando Elizabeth infilò il lungo viale che portava alla casa. «Soltanto più piccola. Me la ricordo molto più grande di adesso». «Dicono che succede sempre, quando hai visto una casa soltanto quand'eri bambina. Non è la casa che rimpicciolisce, sei tu che cresci. Il risultato è lo stesso. Siccome tu non ti senti più grande, le cose devono sembrarti più piccole». Manovrò per entrare nel garage. Scesero dall'auto e s'incamminarono verso la casa. Senza rendersene conto, Elizabeth aveva adottato la vecchia abitudine di suo padre, di servirsi soltanto dell'ingresso principale, e anche adesso puntò verso di esso. «Proprio come papà», commentò Sarah. Quando Elizabeth la fissò incuriosita, Sarah proseguì: «Non ricordi? Non avrebbe mai usato nessuna porta se non quella principale. Era un vero e proprio rituale, per lui». «Credo di essermene dimenticata», confessò Elizabeth. «Davvero ti ricordi questo?». «Oh, adesso ricordo perfettamente ogni cosa, perfino quello che è successo l'anno prima che andassi a Ocean Crest. Salvo le ultime settimane. Vedo tutto come una macchia confusa, e non riesco a penetrare la nebbia. E non sono sicura di volerlo fare. Suppongo che Larry te l'abbia detto». «Chiami tutti i dottori di Ocean Crest per nome? Oppure il dottor Fel-
ding è qualcosa di speciale?». Sarah scoppiò a ridere. «Non è speciale, salvo nel modo in cui tutta la gente di Ocean Crest è speciale. Li chiamiamo tutti per nome. Non dimenticare che durante i primi anni non sapevo neppure che Larry fosse un dottore. Credevo che fosse anche lui uno dei matti». Un'espressione costernata si dipinse sul volto di Elizabeth. «Come puoi parlare così?», fece. «Così come?». «Riferirti a te stessa e a tutti gli altri ospiti di Ocean Crest come a dei matti». «Scusami», replicò Sarah. «Dimenticavo. Di solito non uso questa espressione davanti agli estranei. Sembra che li turbi allo stesso modo in cui ha turbato te. Ma noi non ci sentiamo minimamente disturbati», aggiunse, placidamente. «Noi pensiamo che "matto" sia una parola assai migliore di "paranoico", "schizofrenico" o "maniaco depressivo". Suona assai più umano». «Non mi abituerò mai a quel posto», dichiarò Elizabeth, «ma sembra che funzioni, per cui immagino che vada bene così». «Perché non ti fai ricoverare?», suggerì in tono frivolo Sarah. «Chissà, mettendoci un po' di buona volontà, forse riusciresti a essere matta anche tu. Ma non è facile», aggiunse, con un tono di voce più serio. «Ci vuole molta forza per essere come sono stata io, tutto quel tempo... O forse ero soltanto troppo stanca per parlare». «Come la signora Goodrich», disse Elizabeth. Improvvisamente provò il desiderio di cambiare argomento. Era assai più facile per Sarah parlare della propria malattia, di quanto fosse per lei. «Come sta?», chiese Sarah. «Come ci si può aspettare, considerata la sua età», rispose Elizabeth. «Potrebbe anche non riconoscerti, e dire cose strane. Volevo soltanto metterti in guardia». «Sono abituata a gente che dice cose strane», disse Sarah, e un sorriso le illuminò il volto. «Conducimi da lei». Elizabeth aprì la porta principale ed entrarono nell'atrio. «È sempre lo stesso, come lo ricordavo», esclamò Sarah. Passò da una stanza all'altra, esaminando ogni cosa. «Non hai cambiato niente, vero? Ma non ti annoia mai?». «Annoiarmi?», fece Elizabeth. «E perché dovrebbe?». «Non so. Mi sembra che avresti potuto desiderare un cambiamento, ogni
tanto. Tutto qui». Per qualche ragione, Elizabeth provò un improvviso disagio. «Suppongo di essere figlia di mio padre», commentò un po' rigida. «Neppure lui avrebbe mai voluto che le cose cambiassero». «Spero che tu non sia completamente figlia di tuo padre», replicò Sarah. «Se tu lo fossi, non credo proprio che vorrei andare nel bosco con te». Elizabeth sentì lo stomaco stringersi in una morsa, e fissò sua sorella inorridita. «Come puoi dire una cosa del genere, Sarah?». Il sorriso di Sarah svanì. Guardò Elizabeth negli occhi. «Credo che sarà meglio fare una chiacchierata», le disse. «Posso aspettare a salutare la signora Goodrich. Dov'è il posto più comodo?». «Lo studio sul retro», disse Elizabeth. «Lo uso più di ogni altra stanza della casa». Fece strada alla sorella, sentendosi a disagio per quello che Sarah avrebbe potuto dirle. Decise di prepararsi qualcosa da bere. «Vuoi prepararne uno anche per me?», le chiese Sarah, e quando Elizabeth le lanciò una strana occhiata, Sarah proseguì: «Non ci è affatto proibito di bere, a Ocean Crest». Si sedette e attese fino a quando Elizabeth non le ebbe porto il bicchiere, prendendo posto sulla poltrona davanti alla sua. «Senti, Elizabeth», cominciò Sarah. «So che pensi che io abbia detto una cosa orribile quando ho pronunciato quella battuta. Ma ci sono cose, di me, che devi capire. So che cosa accadde là fuori, nel bosco, e ciò che mi fece papà fu una cosa orribile. Ma è finita. Voglio dire, è davvero finita. Ho passato tutte le fasi: dolore, rabbia, risentimento, tutto. E... sì, adesso riesco perfino a scherzarci sopra. Per tanto tempo quell'incidente con mio padre è stato praticamente la fine della mia vita. Ma ora non lo è più. È finito, e appartiene al passato. È come se fosse accaduto a qualcun altro, e se ci scherzo sopra, immagino che sia semplicemente uno degli espedienti per affrontare il fatto. Le mie battute non possono fare male a papà; è morto. E non c'è nessuna ragione perché debbano far del male a te». «È soltanto che sembrano così... così...». Elizabeth annaspò per trovare la parola giusta, ma non vi riuscì. «Macabre?», suggerì Sarah. «Probabilmente lo sono. Ma credimi, è meglio per me che io ci scherzi sopra, piuttosto che me ne stia seduta in silenzio a rimuginarci. Perciò lasciami fare, d'accordo?». Sorrise, ed Elizabeth le restituì il sorriso, sia pure col volto atteggiato a perplessità. Elizabeth e Sarah tornarono nel piccolo studio dopo cena. Si sedettero a
sorseggiare il brandy e a godersi il fuoco. «Sembro davvero nostra madre?», chiese improvvisamente Sarah. La signora Goodrich aveva insistito a chiamare Sarah «signora Rose», perfino dopo che Elizabeth le aveva spiegato con abbondanza di parole che non si trattava di Rose, bensì di Sarah, tornata a casa per una visita. La signora Goodrich aveva accolto la spiegazione poco convinta. «Sì, molto», annuì Elizabeth. Poi le venne un'idea: «Sai tutti gli album con le fotografie di papà e mamma, su nell'attico? Perché non andiamo a cercare qualche fotografia di nostra madre quando aveva la tua età? Forse la somiglianza è più grande di quanto io riesca a vedere. E possiamo tirar fuori tutti i giocattoli che avevamo quando eravamo bambine». «Riesco a scorgere la longa manus di Larry Felding, in tutto questo», ridacchiò Sarah. «Ma devo darti credito: hai recitato in un modo assai convincente. E del resto suppongo che non avrei potuto rinviare la cosa per sempre. Dunque, saliamo di sopra. Forse qualcosa scuoterà la mia memoria». Le due giovani donne salirono fino alla porta che bloccava la ripida rampa di scale che s'innalzava verso l'attico, e la trovarono chiusa a chiave. «Spero che non saremo costrette a buttarla giù a spallate», disse Elizabeth. «Non sono stata quassù da anni, e non ho nessuna idea di dove possa trovarsi la chiave». Improvvisamente Sarah sollevò il braccio e fece scorrere le dita lungo la sporgenza che sovrastava la porta. Un attimo più tardi, infilava la chiave nella toppa e la porta si apriva. «Come facevi a saperlo?», chiese Elizabeth, incuriosita. «Io di certo non immaginavo che la chiave si trovasse là sopra». «Non lo so», replicò Sarah, stringendosi nelle spalle. «Suppongo di aver visto qualcuno che l'infilava lassù molti anni fa, o qualcosa di simile. Ma che importanza ha? Vediamo che cosa c'è lassù». Protese la mano verso l'interruttore della luce e cominciò a salire i gradini. «Oh, santo cielo», esclamò, non appena messo piede nell'attico. «Dài un'occhiata laggiù». «Che cosa?», disse Elizabeth. A lei pareva soltanto un attico, non vi vedeva niente di strano. «Quell'angolo», disse Sarah, e gliel'indicò. «È così pulito. Gli attici dovrebbero essere pieni di polvere». Era vero. In un angolo, dove un vecchio quadro era appoggiato rivolto contro il muro, non c'era un solo filo di polvere, neppure sul pavimento.
«È strano, non è vero?», disse Elizabeth. «Che ci sia uno spiffero d'aria che spazza via la polvere da quel punto? Ma mi sembrava che l'attico fosse ermeticamente chiuso». «Non pensi che la signora Goodrich salga quassù a fare pulizia?», chiese Sarah. Elizabeth scosse la testa. «Sono anni che non sale quassù. E in ogni caso, perché mai dovrebbe pulire soltanto un angolo?». Si scrollò di dosso quel mistero. «Be', adesso mettiamoci all'opera. Va bene?». Cominciarono a passare al setaccio l'attico, e trovarono una scatola con la scritta «Sarah». «Ecco qua», esclamò Elizabeth, trionfante. «Preparati ad affrontare il tuo passato». Sarah sfiorò la scatola con riluttanza, quasi fosse rovente. Poi sembrò riacquistare il controllo di sé. «Non c'è altro tempo che valga il presente», borbottò, e aprì la scatola. Dentro, c'era un guazzabuglio d'indumenti, di libri per bambini e di giocattoli. Sarah tirò fuori ogni oggetto, e tutti le parvero familiari. Riconobbe alcuni fra i suoi indumenti preferiti di un tempo, e altri li tirò fuori invece con aria disgustata. «Uh», disse. «Ti ricordi di questa?». Era una sciarpa bruna, e Sarah la reggeva tra due dita. «Detestavo dovermela mettere, mi procurava tanto di quel prurito... Perché mai nostra madre non l'ha buttata via?». «Non è stata nostra madre», rispose Elizabeth. «È stato nostro padre a insistere perché fosse conservato tutto. Credo che quassù, in questi mucchi di oggetti, si trovi praticamente l'intera storia dei Conger». Sarah sbuffò. «Col tipo di storia che abbiamo noi Conger, c'è da pensare che avrebbero dovuto seppellirla o bruciarla, invece che voler conservare tutto religiosamente. Non si dice che ci sia una maledizione su di noi, o qualcosa di simile?». Elizabeth fissò sua sorella, incuriosita. «Non sapevo che tu ne fossi informata», disse lentamente. «Oh, ma certo», replicò Sarah. «Non lo sapevi? È tutto scritto nella mia cartella clinica, prima a White Oaks, poi a Ocean Crest. Che cumulo di sciocchezze! Caverne segrete e tutto il resto». «Ray Norton sta ancora cercando la caverna», disse Elizabeth. «Ray Norton?», fece Sarah, senza mostrare particolare interesse. «Chi è?». «Il capo della polizia. Ogni anno viene qui a cercare nel bosco e sulla scogliera».
«Be'», commentò Sarah, «sinceramente vorrei che trovasse qualcosa. Forse, allora, riuscirei a ricordare quelle ultime settimane e a riprendere il filo della mia vita». Frugò sul fondo della scatola. «E questo che cos'è?». Tirò fuori una bambola, con un braccio spezzato alla spalla. Era una vecchia bambola, all'antica, vestita di un abitino azzurro increspato sul petto e tutt'intorno al bordo. Sulla testa, un minuscolo cappellino le incorniciava il volto di porcellana sbiadita. «Questa proprio non la ricordo», disse Sarah. «Da dove pensi sia saltata fuori?». Elizabeth esaminò la bambola cautamente, e una strana sensazione la prese. Poi si rese conto che il braccio mancante era il destro. Quindici anni prima Sarah aveva trascinato attraverso il prato, uscendo dal bosco, il braccio destro di un bambino. «Non so», disse Elizabeth, affrettandosi a rimettere giù la bambola. «Neppure io l'ho mai vista prima». Sentì il campanello squillare due piani più sotto, e provò una strana sensazione di sollievo a essere chiamata fuori dell'attico. Non sapeva perché, ma quella bambola aveva esercitato su di lei un'impressione stranamente intensa. «Chi potrà mai essere?», disse. Poi, quando Sarah fece per alzarsi, parlò di nuovo: «Vado io», disse. «Intanto perché non cerchi l'altro braccio della bambola? Ha un aspetto orribile, così». Elizabeth lasciò l'attico e scese in fretta le scale. Si fermò davanti alla porta principale e gridò: «Chi è?». «Ray Norton», fu la risposta. Elizabeth aprì la porta e fece entrare il capo della polizia. Non appena lo vide, capì dall'espressione del suo viso che c'era qualcosa che non andava. Era pallidissimo, con una luce strana negli occhi. «Che cosa c'è?», chiese Elizabeth. «È successo qualcosa?». «Sarah è qui?», domandò Norton. «È di sopra», disse Elizabeth. «Stavamo frugando nell'attico. Che cosa è successo?». «Temo di avere brutte notizie per lei», proseguì Norton. «Possiamo andare nello studio?». «Sì, certo», annuì Elizabeth. «Devo chiamare Sarah?». «No», disse Norton. «È meglio parlare da soli». «Va bene», replicò Elizabeth. «Vada pure avanti. Io avvertirò Sarah che ci metterò un po' di tempo, prima di tornare su. Ci vorrà molto?».
«No». Il vecchio poliziotto scosse la testa e si addentrò nel corridoio. Un minuto più tardi Elizabeth lo raggiunse nello studio e si chiuse la porta alle spalle. «Avete trovato qualcosa, non è vero?», disse subito. «Nel bosco». «Sì, abbiamo trovato qualcosa», annuì Norton. «Ma non nel bosco. Oggi gli operai del cantiere hanno sfondato il tetto della caverna». «La caverna?», disse Elizabeth, a bassa voce. «Vuol dire la caverna della leggenda? Ma io ho sempre pensato... Tutti noi abbiamo sempre pensato che non esistesse». «Lo so», annuì Norton, anche lui a bassa voce. «E invece la caverna esiste». «C'era... C'era qualcosa dentro?». Norton annuì in silenzio; poi, dopo una pausa durante la quale sembrò chiedersi quanto poteva dirle, riprese: «So che Sarah avrebbe dovuto fermarsi qui per un paio di giorni, ma sarà meglio riportarla all'istituto domani mattina», disse. «Domani mattina?», chiese Elizabeth. «Perché? Che cosa avete trovato?». «Un bel guaio», rispose Norton. «C'erano quattro scheletri nella caverna, e anche i resti di un gatto morto. Abbiamo già identificato tre degli scheletri. Sono gli scheletri dei tre bambini che scomparvero quindici anni fa. E allo scheletro di Jimmy Tyler manca il braccio destro». «Ha detto quattro scheletri», disse Elizabeth, con un filo di voce. «Di chi è il quarto?». «Non lo sappiamo», rispose Norton. «Sembra che sia molto più vecchio degli altri tre. Tutto quello che sappiamo è che probabilmente appartiene a un altro bambino, probabilmente una bambina». «Capisco», disse Elizabeth. «Ad ogni modo», proseguì Norton, a disagio, «per il momento stiamo trattando la cosa col massimo riserbo. Ma entro domani pomeriggio la voce si sarà sparsa e questo posto pullulerà di gente, cronisti, fotografi, gente alla ricerca del brivido. Tutto questo, e altro. E non credo che lei voglia che Sarah debba subire tutto questo». «No», replicò Elizabeth, brevemente. Fece una pausa, e i suoi occhi incontrarono quelli del capo della polizia. «Signor Norton», disse, «che cosa accadrà?». «Non lo so», rispose Norton. «Lo saprò meglio domani, quando avrò avuto la possibilità di parlare al coroner e al procuratore distrettuale». Si
alzò nervosamente in piedi, chiaramente desideroso di andarsene. «Mi scusi se non mi trattengo oltre», disse. «In effetti non avrei dovuto neppure venire, ma sapevo che Sarah era qui. Ho voluto soltanto...». Lasciò le parole in sospeso, non sapendo che altro dire. «Lo so», disse Elizabeth. «E lo apprezzo. Grazie per essere venuto». Lo accompagnò fino alla porta d'ingresso e restò a guardare finché non vide i fanalini di coda della sua auto scomparire in fondo al viale. Poi spense la luce della veranda e salì lentamente le scale fino all'attico. Mentre saliva, si sforzò di pensare a che cosa avrebbe detto a Sarah. 28 Sarah dormì di un sonno agitato, quella notte, e si svegliò parecchie volte. Non le sembrava giusto dover ritornare a Ocean Crest la mattina dopo, ma supponeva che Elizabeth avesse ragione a non volerla lasciare sola in casa con la signora Goodrich. Non che pensasse che sarebbe successo qualcosa, ma non era ancora abituata a essere sola, e a Ocean Crest avevano acconsentito a lasciarla venire soltanto perché Elizabeth sarebbe stata con lei tutto il tempo. Ma Elizabeth, adesso, doveva andare fuori città per un giorno intero. Sprofondò la testa nel cuscino e cercò di riaddormentarsi. I primi momenti in cui udì i rumori sopra la sua testa, Sarah si convinse di esserseli immaginati. Ma quando continuarono, tese le orecchie ad ascoltare. Era certa che qualcuno si muoveva nell'attico. Scivolò fuori dal letto, s'infilò la vestaglia e si recò alla stanza di Elizabeth. Il letto era disfatto, ma vuoto. Sarah si avvicinò alla scala dell'attico e ascoltò. Udì qualcuno che si muoveva. Poi, silenzio. Poi, ancora qualcuno che si muoveva. Fece per salire e vedere che cosa mai stava succedendo, poi cambiò idea. Tornò nella sua stanza, lasciando la porta accostata, sedette sull'orlo del letto e si accese una sigaretta. La sigaretta era quasi finita quando Sarah cominciò a sentire un rumore di passi che scendevano. Si avvicinò allora alla porta della stanza da letto e sbirciò fuori, attraverso la fessura. Elizabeth stava scendendo dall'attico. Sarah l'osservò mentre chiudeva la porta che dava sull'ultima rampa di scale e rimetteva la chiave al suo posto sulla sporgenza. Infine Elizabeth entrò nella sua stanza da letto e chiuse la porta. La casa fu di nuovo immersa nel silenzio, e Sarah tornò a letto. Quando scese a pianterreno, la mattina dopo, Elizabeth la stava aspettando in sala da pranzo. Davanti a lei, una caffettiera fumante e un piatto di focaccine fragranti. Elizabeth sorrise.
«Bello, vero?», osservò. «Ormai praticamente non uso più la sala da pranzo. Non mi piace starmene qui tutta sola. Ma stamattina mi è piaciuto tornarci. Un po' di caffè?». Sarah annuì e si sedette. Rimescolò il suo caffè. «Che cosa hai fatto stanotte?», domandò all'improvviso. Elizabeth la guardò sorpresa. «Stanotte? Niente. Sono andata a letto e basta. Perché?». Sarah decise di non insistere, di non dire a sua sorella ciò che aveva visto durante la notte. Apparentemente Elizabeth non voleva ammettere di essere stata nell'attico. «Non so», disse Sarah, scrollando leggermente le spalle. «Mi era parso di sentire qualcosa nell'attico. Ho pensato che forse eri tu». Osservò attentamente sua sorella, cercando qualche indizio che le spiegasse tanta reticenza. Ma Elizabeth sembrava genuinamente perplessa. «Nell'attico? Io non ho sentito niente. Ma d'altra parte dormo come un ghiro. Che ora era?». «Non lo so. Tardi, però, l'una o le due, credo. Non riuscivo a dormire, così ho fumato una sigaretta. Avrei giurato di sentire qualcuno che si muoveva là sopra». Sorrise a Elizabeth. «Ho pensato che fossi tu, sempre alla ricerca di quel braccio». «Be', non ero io», dichiarò Elizabeth. «A meno che non abbia cominciato a cader vittima di attacchi di sonnambulismo. Sei venuta su a guardare?». «No. Ho deciso di non farlo. Gli attici nel bel mezzo della notte non sono la mia passione». Imburrò una focaccina e la mangiò. «Vorrei proprio non dover rientrare stamattina», commentò. Una nuvola sembrò attraversare il volto di Elizabeth. «Dispiace anche a me», replicò, sbrigativamente, «ma sono intervenuti dei problemi legali e io devo essere presente, oggi. A quanto pare, sembra che non possano continuare con la costruzione fino a quando non saranno stati risolti». Elizabeth aveva deciso di avvicinarsi il più possibile alla verità senza dire a Sarah che la caverna era stata scoperta il giorno prima. «Suppongo che dovrò essere presente molto presto, stamattina». Terminarono la colazione in silenzio. Il dottor Lawrence Felding osservò le due donne che parcheggiavano la macchina accanto alla sua e si affrettò a raccogliere dal ripiano della scrivania la cartella che stava consultando, infilandola nel cassetto più alto.
Ostentò un'espressione sorpresa quando Sarah ed Elizabeth entrarono nel suo studio. «Che cosa fate qui?», domandò. «Ho perso un giorno per strada?». La delusione era fin troppo evidente negli occhi scuri di Sarah, ma lei cercò di mantenere leggero il tono della voce. «Sono stata buttata fuori a calci», dichiarò. «La verità è che all'improvviso è successo qualcosa che costringe Elizabeth a recarsi fuori città per tutta la giornata. Così, eccomi qui». Felding atteggiò il suo viso nella sua miglior espressione di perplessità. «Perché non vai a sbarazzarti della tua valigia, intanto che io faccio una chiacchierata con tua sorella?», disse. «I soliti dieci minuti?», chiese Sarah. «Sì, concedimene venti, in modo che possa farmi dire tutti i particolari». Felding sorrise. Ma il sorriso scomparve non appena Sarah ebbe lasciato l'ufficio. «Si sieda», disse, rivolto a Elizabeth. «Ho ricevuto una telefonata questa mattina, dal capo della polizia di Port Arbello, Horton». «Norton», lo corresse Elizabeth. «Ray Norton. È venuto a trovarmi ieri sera. Immagino che il nostro improvviso ritorno non l'abbia sorpresa, allora». «No», disse Felding. «Temo di avere brutte notizie per lei». «Brutte notizie?», ripeté Elizabeth. «Norton ha discusso l'intera questione col procuratore distrettuale di Port Arbello. Vogliono intentare un'azione legale». «Un'azione legale?». Elizabeth pronunciò quelle parole come se non le avesse mai udite prima. «Il procuratore distrettuale sembra convinto di poter intentare una causa contro Sarah. Sembra che abbiano tenuto in frigorifero quel braccio tutti questi anni, e l'osso combacia perfettamente con uno degli scheletri che hanno trovato». «Jimmy Tyler», fece Elizabeth a bassa voce. «Lo temevo. Quando il signor Norton, ieri sera, me l'ha detto, ho intuito subito che doveva essere il braccio che Sarah ha portato fuori dal bosco quel giorno. Ma non mi era passato per la mente che l'avessero ancora». Alzò gli occhi, fissò Felding nella muta ricerca di una parola rassicurante. «Ma non capisco», proseguì. «Voglio dire, tutti sanno che Sarah era... era...». La sua voce si perse in un balbettio, perché non voleva pronunciare la parola. «Non sana di mente?». Felding terminò la frase per lei. «Ma certo che lo
sanno. E naturalmente questo sarà l'argomento-base della difesa, se la processeranno. Non c'è alcuna possibilità al mondo di un verdetto diverso dall'assoluzione, sulla base, appunto, della follia. Ma affermano di dover seguire la routine, per chiudere definitivamente il caso». «Ma che utilità potrà avere, tutto ciò?», esclamò Elizabeth, agitandosi. «Non farà rivivere quei bambini, e non aiuterà Sarah. Mio Dio, sarà terribile per lei!». «Lo so», disse Larry Felding, a disagio. «Ma io non vedo alcun modo per evitarlo. Se le sue condizioni mentali non avessero fatto tanti progressi in questi anni, non ci sarebbe nessun processo. Verrebbe giudicata inabile a essere processata. Ma, sfortunatamente, oggi non è inabile. In questo momento, è del tutto sana di mente». «Salvo che non riesce ancora a ricordare che cosa accadde quel giorno», gli fece notare Elizabeth. «Come possono processarla per qualcosa che non riesce neppure a ricordare?». «Be', non c'è molto che possiamo fare. Quello che ora dobbiamo fare, è dirglielo». «Dirglielo?», chiese Elizabeth, con un filo di voce. Non le era passato per la mente che bisognava dirlo a Sarah... Naturalmente, non si poteva evitarlo, ma non era facile abituarsi all'idea. «Quando?», chiese ancora. «Adesso, credo», disse Felding. «Questo pomeriggio sarà su tutti i giornali, e allora lo verrà a sapere in ogni caso. Ho pensato che la sua presenza, qui, mentre glielo dico, potrebbe essere di aiuto». Sorrise e aggiunse: «Sa, questa potrebbe essere la scossa che le farà ricordare ciò che è accaduto. E potrebbe anche risultare che Sarah non ha avuto niente a che fare con quella storia». Elizabeth si mordicchiò il labbro inferiore. «Potrebbe anche essere, non è vero? Dio, non sarebbe meraviglioso?». Qualche minuto più tardi Sarah tornò nello studio del dottor Felding. «Sono contenta che tu mi abbia aspettato», disse, rivolta a Elizabeth. «Temevo che te ne potessi andare senza salutarmi». Poi si accorse dell'espressione tesa sia di Elizabeth che del dottor Felding, e si accasciò su una sedia. «C'è qualcosa che non va, vero?», chiese, mentre i suoi occhi guizzavano dall'uno all'altro. «Non è vero che oggi dovevi recarti fuori città, Elizabeth». Sarah fissò sua sorella con sguardo accusatorio. «E allora, di cosa si tratta?», gridò. «Per favore, ditemi che cosa c'è di nuovo!».
Larry Felding le disse che cosa c'era di nuovo. Ciò che era stato trovato nella caverna, e ciò che sarebbe accaduto nei prossimi giorni. Mentre ascoltava, il sangue defluì completamente dal viso di Sarah. Non riusciva a credere a ciò che sentiva. La caverna esisteva veramente. Quattro corpi, uno senza un braccio. Un gatto morto. Un coltello. Sangue. Sangue e fango. Cominciò a ricordare, e sentì che la sua mente s'intorpidiva. Una serie d'immagini balenò davanti ai suoi occhi... Lei avanzava barcollando attraverso il prato, nel cuore della notte. Seguiva qualcuno... Chi? Strisciava attraverso il bosco, tentando di tenersi al passo con l'ombra fugace davanti a lei. Rocce. Rocce viscide. Una storta alla caviglia che le impediva di raggiungerla. Si era sforzata ugualmente, arrancando, ma l'ombra era scomparsa. Oscurità. Un luogo chiuso. E poi un raggio di luce che risplendeva nel buio. E la corda. C'era una corda. A che cosa serviva la corda? E suoni. Voci di bambini. Imprecazioni. Urla. Un pozzo. Le pareva di guardare giù in un pozzo, e c'era luce. Luce che s'irradiava tremolando da qualcosa. Che cosa? Un coltello. Vide balenare un coltello nella luce gialla. E poi un volto guardò su verso di lei. Un volto... Il volto di chi? Ricordò. Il dolore balenò attraverso la testa di Sarah, e lei portò di scatto le mani alle tempie. Si guardò intorno come impazzita. Il volto era lì, nella stanza, con lei. Sua sorella. «Elizabeth!», urlò. «Elizabeth...». E poi un altro nome le lampeggiò nella mente, un nome che aveva sentito nel buio. «Elizabeth!», gridò di nuovo. La sua voce divenne un rantolo stridente. Poi: «Eliza... beth. Beth! Beth!». E poi qualcosa scattò nella mente di Sarah, le mani le ricaddero flaccide in grembo. Il colore tornò lentamente nel suo viso, ma non vi era più alcuna espressione. I suoi occhi, quegli occhi che avevano danzato così vivacemente in quel volto arguto, erano tornati vacui, vitrei. «Sarah?».
Elizabeth pronunciò il nome in un bisbiglio, perplessa, angosciata. Tese la mano verso sua sorella, ma non ebbe risposta. Sarah sedeva tranquilla, apatica; gli occhi avevano la fissità dei ciechi in quel volto smorto, immobile. «Sarah?», fece di nuovo Elizabeth. Il dottor Felding si alzò in piedi. Era accaduto così in fretta. Avrebbe dovuto essere pronto con una siringa ipodermica e un sedativo. Ma non avrebbe dovuto accadere così in fretta. Avrebbe dovuto essere graduale, tornarle alla mente a pezzi, a brandelli, lentamente. E invece era stato un lampo abbagliante, che l'aveva colta di sorpresa, schiantandola. Non aveva potuto affrontare la cosa. E sotto il colpo violento, la mente di Sarah si era chiusa di nuovo. Sentiva di non aver afferrato del tutto i motivi, ma per Sarah era finita. Il passato l'aveva nuovamente stretta nella sua morsa. Fissò Elizabeth con un'espressione d'impotenza. «Mi spiace», disse. «Mio Dio, non può immaginare quanto mi dispiace». «Che cosa le è successo?», balbettò Elizabeth. «Che cosa le è successo? Sta bene, non è vero?». Nella sua voce risuonava la disperazione, e Felding premette un pulsante sotto la scrivania che avrebbe fatto accorrere un'infermiera con un calmante. «Sta bene», si sforzò di blandirla. «Ha ricordato, ecco tutto. Le è ritornato tutto alla mente». «Ma», balbettò ancora Elizabeth, «ma la guardi... Sembra... sembra com'era una volta...». Elizabeth cominciò a piangere sommessamente quando si rese conto di quello che era successo. Sua sorella se n'era andata di nuovo, e questa volta, forse, non sarebbe tornata mai più. Soltanto quel pomeriggio sul tardi permisero a Elizabeth di tornare a casa, e anche allora il dottor Felding insistette per guidare la sua macchina. Erano seguiti da un inserviente di Ocean Crest, che avrebbe riportato indietro il dottore. «Non credo che saremmo comunque riusciti a impedirlo», stava dicendo il dottor Felding. «È stato troppo fulmineo. Ed è sprofondata in se stessa. Non so cosa dirle». Elizabeth era come intorpidita. Continuava a sentire Sarah che gridava il suo nome. «Elizabeth... Elizabeth...». E poi l'altro nome: «Beth. Beth». Qualcosa si agitò nel suo profondo. «L'amava molto», sentì che stava dicendo il dottor Felding. «Per questo, alla fine, ha invocato il suo nome. Voleva che lei l'aiutasse». Allungò una mano e la batté su quella di Elizabeth, e non fu sorpreso quando lei si ritrasse. Ora erano arrivati al viale dei Conger.
«Vuole che venga con lei?», le chiese gentilmente Felding. Elizabeth scosse la testa, «No», disse. «Ma la ringrazio. Starò bene. Glielo prometto». Con riluttanza Felding la lasciò uscire sola dall'auto e la seguì con lo sguardo finché non la vide entrare in casa. Poi parcheggiò la macchina accanto al garage, ne uscì e salì sulla sua, non appena si fu arrestata dietro quella di Elizabeth. Diede un'ultima occhiata alla casa, poi mise in moto l'auto e si allontanò. Un giorno, volle convincersi, il passato allenterà la sua stretta e Sarah sarà finalmente libera. Elizabeth sedeva davanti al caminetto, fissando lo spazio vuoto sopra la mensola. Quel nome continuava a echeggiarle nella mente. Beth. Beth. Sarah non aveva chiesto aiuto. Aveva accusato. Ma chi aveva accusato? Elizabeth lottò con la propria mente. Sentiva che c'era qualcosa che doveva ricordare. C'era stato qualcuno nell'attico, la notte prima? Sarah aveva davvero sentito qualcosa? Decise di salire a dare un'occhiata. Quando fu nell'attico, si sentì attirata in uno degli angoli più lontani, un angolo dove non era stata da anni. L'angolo dove giaceva il vecchio ritratto. Elizabeth afferrò il ritratto, lo girò, e l'appoggiò contro una delle travi del tetto spiovente. Lo fissò, e non riuscì a ricordare la ragione per cui, anni prima, con tanta insistenza aveva voluto che fosse portato via dallo studio. Quella bambina era così graziosa, tutta vestita di celeste chiaro, l'abito ornato da increspature davanti e sull'orlo. E un cappellino in bilico sulla testa non riusciva a nascondere l'abbondante capigliatura bionda che le ricadeva sulle spalle. Elizabeth decise di riportare giù il ritratto e di riappenderlo nello studio. Poi tornò a fissare il punto dove si era trovato il ritratto fino a pochi istanti prima, e vide la bambola, la bambola dal braccio mancante. Era appoggiata su quello che sembrava un vecchio libro, e il libro le parve familiare. Decise di portare tutte e tre le cose giù nello studio. Appese con cura il ritratto sopra il caminetto, lo aggiustò finché non fu perfettamente dritto, poi fece alcuni passi indietro per ammirarlo. Sapeva che andava bene. Apparteneva a quel luogo. Quindi depose la bambola su una delle sedie, quella strana bambola all'antica. E in quel momento notò che la bambola era vestita nell'identico modo della ragazzina del ritratto. Doveva essere stata la sua bambola, pen-
sò Elizabeth. La bambola di Beth. Elizabeth sedette sulla poltrona in stile. La bambola di Beth, ripeté fra sé. Perché mai aveva pensato quello? Era Beth il nome della ragazzina del ritratto, quella bambina che assomigliava tanto a lei? Protese infine le mani verso il vecchio libro, lo afferrò e lo aprì. In qualche vaga zona della memoria le parve di averlo già visto prima. Molto tempo prima. Era un diario, vergato a mano su fogli di carta rigata, ingiallita; la calligrafia era chiaramente infantile. Le parole erano accuratamente tracciate in una foggia antiquata che, curiosamente, sembrava l'opera di una persona molto giovane che stesse ancora imparando a scrivere. Per la maggior parte era sbiadita e illeggibile, ma Elizabeth riuscì a decifrarne alcune parti. «Continua a guardarmi. «Oggi mi sta guardando. Mi guarda sempre quando gioco fuori sul prato. «Oggi mio padre ha tentato di farmi del male. Quanto vorrei che mio padre se ne andasse via, lontano. Anche mia madre vuole che se ne vada. «Oggi ha di nuovo cercato di farmi del male. Ma perché papà vuole farmi del male?». C'erano altre frasi scritte, ma Elizabeth non riuscì a decifrarle. Girò lentamente le pagine del vecchio diario, poi lo chiuse. Quindi lo riaprì sul frontespizio e rilesse l'iscrizione sulle prime pagine. Era tracciata con mano vigorosa, mascolina, e non era sbiadita. Le iniziali, sotto, erano identiche a quelle di suo padre: J. C. Il diario doveva essere stato regalato alla ragazzina da suo padre. Elizabeth mise da parte il diario e alzò gli occhi sul ritratto. Era il tuo diario, pensò. Era il tuo diario, non è vero? Cecil, il vecchio gatto, entrò in quel momento nella stanza, e strofinò il muso contro le sue gambe. Elizabeth lo prese in grembo. Accarezzò il vecchio gatto a lungo; poi, sempre reggendolo tra le braccia, uscì dallo studio e raggiunse la cucina. Qui aprì il cassetto dei coltelli, v'infilò una mano, e tirò fuori il coltello più grande. Senza preoccuparsi di chiudere di nuovo il cassetto, fece ritorno nello studio e fissò in silenzio il ritratto. «Sì», disse infine, «va bene». E ripeté: «Va bene». Stringendo con una mano il vecchio gatto contro il proprio petto, e impugnando il coltello con l'altra, Elizabeth Conger uscì lentamente dalla casa. Cominciò ad attraversare il prato, diretta al bosco e alla scogliera più ol-
tre. Mentre camminava nella notte, la strana scritta sul frontespizio del diario le tornò ripetutamente alla mente. Diceva: Lasciate che i bambini vengano a me. Elizabeth Conger stava rispondendo alla chiamata. FINE