Per il racconto Il giudice Surra © 2011 Andrea Camilleri
Per il racconto La Bambina © 2011 Carlo Lucarelli Published b...
85 downloads
686 Views
540KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
Per il racconto Il giudice Surra © 2011 Andrea Camilleri
Per il racconto La Bambina © 2011 Carlo Lucarelli Published by arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria, Pavia
Per il racconto Il triplo sogno del procuratore © 2011 Giancarlo De Cataldo
© 2011 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it isbn 978-88-06-20597-3
Progetto grafico di Riccardo Falcinelli. In copertina: illustrazione di Lorenzo Matteotti.
Andrea Camilleri Giancarlo De Cataldo Carlo Lucarelli
Giudici
Einaudi
Giudici
Andrea Camilleri-Il giudice Surra
1.
Il giudice Efisio Surra arrivò direttamente da Torino a Montelusa quindici giorni dopo che il primo prefetto dell’Italia unita, il fiorentino Falconcini, aveva preso possesso della carica. Prima che il giudice si presentasse in città di persona, su di lui si vennero a sapere un po’ di cose. Come? Per quali vie? Forse qualcuno tra i collaboratori che Falconcini si era portato appresso lo conosceva e ne aveva parlato. Per esempio, si seppe che, pur avendo nome e cognome da sardo, proprio sardo non era in quanto che il suo bisnonno paterno, che era di Iglesias, quando i piemontesi avevano barattato la Sicilia con la Sardegna, si era trasferito a Torino e da lì, avendo messo su famiglia con una torinese, non si era più mosso. Si seppe anche che aveva cinquant’anni, che era un poco al di sotto della statura media, che vestiva sempre con proprietà, che era sposato e padre di un figlio avvocato, ma che a Montelusa sarebbe venuto da solo. Almeno in un primo tempo. Che, come uomo, era solitario e di scarsa parola. Come giudice, però, se ne sapeva poco, avendo sempre fatto parte degli uffici ministeriali e non avendo praticato tribunali. Veniva con un compito certo non facile. Rifare di sana pianta il tribunale che non esisteva più. Concretamente, si trattava di sostituire il vecchio presidente Fallarino che i garibaldini volevano arrestare per le sue idee irriducibilmente filoborboniche e che poi non aveva voluto riconoscere il Savoia come re e si era di conseguenza dimesso -, di riprendere in servizio i giudici che avevano lavorato coi borboni e che avrebbero voluto continuare a lavorare per il nuovo Stato ma cambiando la loro mentalità, di fare applicare il codice piemontese ancora del tutto sconosciuto a giudici e avvocati. Naturalmente, anche al circolo dei nobili - dove non è che erano tutti nobili, c’erano pure ricchi possidenti e commercianti - si parlò a lungo del giudice in arrivo. - La surra, - sentenziò don Agatino Smecca, - nei paisi nostrani significa la vintrisca, che, come tutti sapiti, è la parti cchiù sdilicata e saporita del tonno. Come cognomi, il judici prometti bono. - Vossia parla accussì pirchì è omo di mari, - ribattè don Clemente Sommatino. Ma io, che sugno tirragno e campagnolo, ci dico che la surra è macari un’erba amara e fitusa che quanno le gaddrine se la mangiano, l’ova hanno un sapori tanto laido che si devono ghittare. Come cognomi, per mia, non prometti nenti di bono. - Il cognomi non c’entra con la pirsona che lo porta, non dicemo minchiate! intervenne il commerciante di zolfo Bonocore. - V’arricordate di quel judici che s’acchiamava Benevolo che ’nveci non detti mai ’n’assoluzioni ed era pejo di un boia?
«Vero è, - pensò don Clemente. - ’Nfatti tu ti chiami Bonocore e hai fatto falliri a dù tò colleghi!» Ma non disse niente. Appena che dal postale che veniva da Palermo scese sul molo di Vigàta, al giudice si presentò un impiegato della prefettura. - Sua eccellenza Falconcini le ha procurato un comodo alloggio a Montelusa. L’accompagno con la carrozza. Lei salga, che intanto faccio caricare il bagaglio. Effettivamente, l’appartamento, nella zona alta della città, vicino alla cattedrale, era comodo, arioso e assai bene arredato con mobili del Settecento. Faceva parte del palazzo del marchese Bontadini, ma era completamente indipendente e aveva un ingresso proprio poco distante dal portone principale. Prima di andarsene, l’impiegato gli consegnò un biglietto del prefetto. L’informava che nella stalla che si trovava proprio davanti alla porta della casa, ma dall’altra parte della strada, c’erano a sua disposizione una carrozza, una mula e un cocchiere che si chiamava Attanasio ed era persona fidata. Il giudice si cangiò d’abito e andò nella stalla. - Baciolemano. Attanasio sugno. Aviti bisogno della carrozza? - gli domandò un quarantenne riccioluto, vestito in livrea, con gli occhi intelligenti. - No, preferisco andare a piedi. Piuttosto vorrei che mi faceste due favori. - Non aviti che cumannari, cillenza. - Avrei necessità di una donna che mi pulisse e mi tenesse in ordine l’appartamento e mi preparasse i pasti, perché non mi piace mangiare fuori casa. - Cillenza, lo dico a mè mogliere Pippina. - Se può venire domattina alle sette e mezzo... - Vabbeni. - Poi vorrei comprare un cane da punta. Però lo dovreste tenere voi da qualche parte. - Domani stisso vi fazzo portari tri o quattro cani e vossia sinni scegli uno. E ve lo pozzo tiniri io. Il giudice ringraziò e stava per andarsene quando Attanasio si dette una manata in fronte. - Ah, cillenza, mi lo stavo scordanno. Stamatina, un cammareri di casa Bontadini mi detti 'sta littra e mi dissi che l’attrovò sutta al portoni. La tirò fuori dalla tasca e gliela porse. Surra la guardò interdetto. Ma come? Sapevano già il suo indirizzo prima ancora che arrivasse? La lettera era stata recapitata a mano. L’indirizzo scritto a stampatello faceva: «A S.E. Efisio Surra - Palazzo Bontadini - Città». Il giudice ebbe la certezza che si trattava di una lettera anonima. Aprì la busta. E infatti. Eccellenza, dove sono andate a finire le carte delle istruttorie Milioto, Savastano, Curreli e Costantino? Perché non ne parlate con don Emanuele Lonero inteso don Nené? Un amico della giustizia.
Se l’infilò in tasca e andò a trovare il prefetto. Il quale non gli dette buone nuove. Solo il capousciere, tre uscieri, due messi, quattro ufficiali giudiziari, due presidenti di sezione e quattro giudici erano disposti a collaborare col nuovo governo. Teoricamente, il tribunale era in condizioni di essere riattivato, praticamente era assai difficile che avrebbe potuto funzionare. A ogni modo, il prefetto assegnava stabilmente al tribunale un maresciallo e quattro carabinieri. Di più non poteva. Il giudice Surra si fece dare l’indirizzo del vecchio presidente Fallarino e poi disse al maresciallo Solano, che intanto gli si era presentato, di far venire tutti quelli che volevano lavorare con lui l’indomani mattina alle nove in tribunale. Siccome il prefetto l’aveva invitato a cena, e perciò aveva ancora un poco di tempo a disposizione, scrisse una lettera al vecchio presidente Saverio Fallarino nella quale gli domandava di concedergli un appuntamento, e gliela mandò con un carabiniere. La risposta l’ebbe con lo stesso carabiniere. Il presidente Fallarino l’aspettava a casa sua alle cinque del pomeriggio del giorno appresso. Dopo il giudice uscì dalla prefettura che erano appena passate le nove. Era una serata così bella che ebbe voglia di fare quattro passi al corso. Non s’aspettava di trovarvi tanta gente che passeggiava intrecciando un balletto continuo di scappellate, inchini, sorrisi e complimenti. Ma quella che maggiormente attirò la sua attenzione fu la vetrina di un grande caffè che esponeva una variopinta pasticceria. Il giudice nutriva un unico vizio che poi non era tanto segreto: era un incontenibile goloso di dolci. Origine di frequenti liti con la moglie che temeva per la sua salute. Vide una pila di dolci di forma strana, dei tubi marrone fatti di pasta croccante lunghi una ventina di centimetri e ripieni di una crema bianca coperta ai lati da pezzetti di frutta candita. Non resistette ed entrò. I tavolini erano tutti occupati. Appena che lo scorsero, i presenti ammutolirono per un attimo, poi ripresero a parlare. - Come si chiamano quei dolci? - domandò a un cameriere che stava dietro il bancone. - Cannoli, cillenza. Possibile che l’avessero riconosciuto? - Datemene uno. Se lo mangiò in piedi, al banco. Madonna, che bontà! - Datemene un altro. Andò alla cassa per pagare, ma il cassiere gli disse: - Pagato. - Pagato?! E da chi? - domandò stupito il giudice. - Da don Nené Lonero. Il giudice si voltò a guardare la sala. Da un tavolo dove stavano seduti quattro uomini, due con la coppola e due col cappello, un cinquantino tozzo, baffuto, rossiccio di pelle e pelo si alzò, si cavò il cappello e disse: - Accettate come segno di benvenuto. Il giudice senza rispondergli si voltò nuovamente verso il cassiere e lo guardò
occhi negli occhi. Il cassiere sentì un serpente di freddo corrergli lungo la schiena. Che occhi aveva quell’uomo? Celesti e gelidi come il cielo di una prima mattina d’inverno. Poi, senza dire niente, Surra gli mise davanti una moneta di grosso taglio. Il cassiere, a testa bassa, gli dette il resto. Il giudice allora s’avvicinò a passo lento verso il tavolo dove don Nené era rimasto in piedi, fosco in faccia per il rifiuto. Dentro il caffè si era fatto un silenzio che si poteva tagliare col coltello. - Voi siete Emanuele Lonero? - Si. - Approfitto dell’occasione, - fece il giudice con un sorriso cortese. - Per cosa? - domandò don Nené. - Un momento di pazienza. Tirò fuori dalla tasca la lettera anonima, l’aprì, prese dal taschino gli occhiali, li inforcò con calma e finalmente disse a voce alta, in modo che tutti sentissero: - Non so chi voi siate e non voglio nemmeno saperlo, ma mi risulta che voi avete illecitamente sottratto dal tribunale gli atti istruttori dei procedimenti Milioto, Savastano, Curreli e Costantino. Mi userete la cortesia di farli riavere al tribunale entro ventiquattro ore. Si rimise la lettera in tasca, si levò gli occhiali riponendoli nel taschino, girò le spalle a don Nené che era restato pietrificato e uscì fuori. Capì subito che aveva commesso un grosso errore. Si sarebbe dovuto mangiare un solo cannolo, non due. Se si andava a coricare ora, con lo stomaco appesantito dalla ricotta, non avrebbe preso sonno. No, bisognava passeggiare ancora almeno per un’oretta. Alla terza volta che si rifaceva il corso, due uomini ben vestiti che venivano in senso inverso a lui fecero un movimento per cui uno dei due si venne a trovare quasi a sfiorarlo. E fu allora che il giudice sentì che gli diceva in un soffio: - Bravo! Voi meritate rispetto! Si fermò, attonito. Aveva detto a lui bravo? E perché, che aveva fatto? Non riusciva a darsene una spiegazione. Forse mangiare due cannoli di seguito era da quelle parti una prova di virilità? Sarebbe stato difficile capirli, questi siciliani.
2.
Lo svegliò, alle sei, un urlo lacerante che proveniva dalla strada. Scese precipitosamente dal letto, aprì la finestra, s’affacciò. A gridare era stato un contadino che teneva sottobraccio un paniere pieno d’uova. Il grido si ripeté. Nella casa di fronte, una donna da un balcone fiorito calò un panierino legato a un lungo spago, il contadino pigliò i soldi che c’erano dentro, al loro posto ci mise quattro uova, continuò il cammino. Il giudice stava richiudendo quando risuonò uno straziante ululato femminile. Si riaffacciò. Era una vecchia lacera che vendeva verdure. Ma perché si lamentavano così per decantare la loro merce? Notò che lungo la strada stavano montando le bancarelle di un mercatino. Tornò per un poco a letto, poi andò a lavarsi e a vestirsi. Alle sette e mezzo sentì bussare. Andò ad aprire. - Baciolemano. Pippina sugno. Era grassa, sorridente e simpatica. Ispirava fiducia. Il giudice le domandò quanto avrebbe dovuto corrisponderle mensilmente per il suo lavoro, ebbe in risposta una cifra incredibilmente bassa. Il giudice le disse cosa preferiva mangiare a pranzo e a cena e le consegnò i soldi per la spesa. Le diede anche le chiavi di casa, lui ne aveva una copia. Uscita la donna, scrisse una lettera alla moglie e alle nove meno un quarto s’apprestò a uscire. Aprì la porta e si trovò davanti Attanasio. - Nni voscenza stavo vinenno. - Ora non ho tempo per il cane. - Non vegno per il cani, - fece Attanasio, brusco. - E allora che volete? - Stamatina ’n tribunali è meglio se vossia ci va in carrozza. - E perché? Non piove, è una magnifica giornata! - Sintiti a mia, pigliate la carrozza. Il giudice si irritò. Ma che assurde pretese che aveva, quell’Attanasio! - Basta! Ho deciso che andrò a piedi! - Allura voscenza mi permetti d’accumpagnarlo? - No, - rispose duro. Attanasio allargò le braccia rassegnato e lo lasciò passare. La strada ora era animatissima. Non solo donne, ma anche molti uomini si aggiravano tra le bancarelle. In una vendevano dei dolci coloratissimi. Ebbe un attimo d’esitazione, poi tirò di lungo. La strada era leggermente in discesa, e dove faceva gomito finivano le bancarelle. Qui invece c’erano tre uomini che parlottavano fra loro, altri cinque poco lontano sembravano non fare niente, come se aspettassero qualcosa o qualcuno. Uno dei tre si scappellò inchinandosi. - Buona giornata, signor giudice! Chi era? Boh. Surra, ricambiando il saluto, si tolse il cappello per un attimo, se lo rimise a posto.
Non aveva finito d’abbassare la mano che il cappello gli volò via violentemente dalla testa quasi per un’improvvisa folata di vento. Contemporaneamente udì uno schianto secco, come di un’asse di legno che si spezzava, provenire lateralmente e dall’alto. Vuoi vedere che gli stava cadendo in testa da un balcone un vaso di fiori? Si scansò con un balzo e andò a raccogliere il cappello rimettendoselo in capo. Ora, in strada, non c’era più nessuno. Spariti tutti in un fiat. Va’ a sapere perché. Ma che strano! Sulla soglia del portone del palazzo del tribunale c’era, a riceverlo, il capousciere Nicolosi, che gli presentò i tre uscieri e i due messi. Subito appresso i sei, schierati, l’applaudirono. Sorpreso, il giudice Surra non seppe che balbettare un grazie. - Il vostro cappello, eccellenza, - disse rispettosamente Nicolosi. Il giudice, sempre più stupito, se lo tolse e glielo diede. Che strane usanze che avevano da quelle parti! Che curiosi rituali! - Lo metteremo in una bacheca di vetro come una reliquia, - continuò Nicolosi. Erano pazzi? O era uno scherzo di cattivo gusto? O forse faceva parte della cerimonia d’accoglienza? - Ma a me il cappello serve! - protestò. - Uno nuovo. Perché questo... non vedete, eccellenza? E glielo mostrò. Solo allora il giudice s’accorse che alla falda posteriore mancava un pezzetto. Si vede che quando gli era volato via era andato a urtare contro qualcosa di tagliente. Peccato, ce l’aveva da tre mesi. - Gli altri ci sono? - Tutti, eccellenza. Vi aspettano nella sala riunioni. - I carabinieri? - Sono già qui anche loro. Stanno ripulendo tre camere in fondo al cortile. Ne faranno una casermetta. - Bene. Accompagnatemi, per favore. La riunione fu breve, durò appena un’ora. Più che altro un’occasione di conoscenza reciproca. Sul finire entrarono due persone che vennero accolte con entusiasmo dai presenti. Il presidente di sezione Paoloantonio li presentò a Surra. Erano due giudici, Moresco e Colla, che avevano deciso di collaborare. - Dopo quanto è successo, non potevamo non essere qui, - disse Colla mentre gli stringeva la mano. «Perché, che è successo?» si domandò Surra. Ma preferì tacere. La riunione si sciolse, ma c’era una gran volontà di riprendere il lavoro interrotto. L’appuntamento venne stabilito per l’indomani mattina alla stessa ora. Il giudice Surra aveva domandato a Nicolosi un elenco di tutto quanto occorreva per il funzionamento del tribunale, quel giorno stesso avrebbe fatto un prelievo dallo stanziamento depositato in prefettura. Nicolosi glielo consegnò e il giudice gli domandò di visitare il tribunale. Il disordine era indescrivibile. Armadi spalancati che lasciavano fuoriuscire
carpette e faldoni che a loro volta perdevano fogli e fascicoli sul pavimento... Pratiche dovunque, nei corridoi, sui davanzali delle finestre, persino negli stanzini di comodo... Uno sfacelo. A essere ottimisti, ci sarebbe voluta non meno di una settimana prima di ottenere un qualche risultato. - Fatevi aiutare oltre che dagli uscieri anche dai messi e dai carabinieri. E se occorre chiamate degli uomini per il facchinaggio. E assoldate subito delle donne per le pulizie. Fece appena in tempo a comprarsi un cappello nuovo prima di tornare a casa per il pranzo. Che fu semplice ma gustoso. Quella Pippina ci sapeva fare, l’alloggio era stato pulito a fondo. Si riposò un poco, poi scrisse una sorta di verbale della riunione mattutina, e quindi, rimessosi in ordine, andò alla stalla. - Attanasio, sapete dove abita il giudice Fallarino? - Sissi, cillenza, avi ’na villa fora cita. - Andiamoci. - A che devo l’onore? Il vecchio presidente Fallarino era un uomo alto, magro, tutto bianco, severo, faceva soggezione. Ricevette Surra nel suo studio tappezzato di libri. - In primo luogo, ho ritenuto mio dovere venirvi a ossequiare. - E in secondo luogo? Se pensava di mettere a disagio Surra con la sua bruschezza, si sbagliava. Chiedervi di usarmi la cortesia d’aiutarmi. - Io, aiutarvi? Ma voi lo sapete che io sono... - Signor presidente, - l’interruppe fermo il giudice, - io conosco le vostre convinzioni politiche e, pur essendo di idee opposte alle vostre, ammiro la coerenza del vostro comportamento. Ma abbiamo una cosa in comune che ci lega. - Quale? - Un sincero, rispettoso amore per la giustizia. - In tribunale non ci torno, - disse dopo una pausa Fallarino. - Né io ve lo chiedo, - fece il giudice. - Ma la giustizia è fatta da uomini e io non conosco gli uomini che con me hanno deciso di riprendere servizio. - Nella riunione di stamattina avete detto loro che sareste venuto a trovarmi? Sapeva della riunione! - Non l’ho ritenuto opportuno. - Avete fatto bene. - Perché? - Non tutti avrebbero approvato. Saprete meglio di me che un tribunale funziona quando fra tutti i suoi componenti ci sono stima e rispetto reciproci. Qua, negli ultimi tempi soprattutto, hanno regnato disistima e arrivismo. - Tutto il mondo è paese. - Sì, ma qui si è più paese d’ogni altro. A ogni modo capirete che non posso
aiutarvi. Alcuni che stamattina erano con voi sono stati miei feroci accusatori. Inevitabilmente un mio giudizio su di loro sarebbe passibile di faziosità. Vi ringrazio per la fiducia, ma la mia risposta è: non posso. - Ditemi almeno un solo nome. Chi tra i presenti sarebbe stato il più contrario alla mia visita a voi? Un leggerissimo sorriso apparve per un attimo sul volto di Fallarino. - Voi siete molto abile. Paoloantonio. - Vi chiedo un ultimo favore e poi tolgo il disturbo. Leggete questa. Estrasse da una tasca la lettera anonima e gliela porse. Fallarino la lesse e gliela restituì. - Che ne pensate? - Mi lascia perplesso. - Perché? - Perché l’anonimo non racconta esattamente come sono andate le cose. È questo che vi ha indotto in errore quando iersera al caffè Arnone avete chiesto a don Nené di restituire i faldoni illecitamente sottratti. Il giudice sbalordì. Sapeva anche questo! - E come sono andate con esattezza? - Don Nené Lonero li ha cortesemente domandati a un nostro giudice, e quello altrettanto cortesemente glieli ha consegnati. - Ma questo è un reato gravissimo! - scattò Surra. - Perché gli interessavano quelle carte? - Sarebbero stati tutti processi per omicidio, ricatto, reati gravissimi. Li avevo fatti istruire tutti io. Contro esponenti della fratellanza della quale don Nené è a capo. - E che è la fratellanza? - domandò il giudice. - Voi evidentemente non conoscete la relazione di don Pietro Ulloa, procuratore generale a Trapani nel 1838. È sommamente istruttiva. E la situazione da allora non è cambiata. Si alzò, andò alla libreria, tornò con un libro in mano. - Ve lo regalo, ne ho un’altra copia. Rimase in piedi, a significare che la visita era terminata. Anche Surra si alzò. - Non potete esimervi dal farmi il nome di chi ha consegnato le carte a Lonero. Sarebbe complicità. - Un nome ve l’ho già fatto. Quello vi può bastare, - sorrise di nuovo Fallarino porgendogli la mano.
3. Insistette però per accompagnarlo sino alla carrozza. - Venite a trovarmi quando volete, - disse stringendogli ancora una volta la mano. - Grazie, ne approfitterò. Poi, proprio nel momento in cui la carrozza cominciava a muoversi, Fallarino montò con un piede sul predellino, si sporse in avanti e, guardando Surra occhi negli occhi, disse a bassa voce: - Mi sarebbe tanto piaciuto avere il vostro coraggio. E scese. Il giudice si meravigliò assai di quella frase. Certo, per rimettere il tribunale in grado di funzionare ci sarebbero volute chiarezza d’idee, perseveranza, determinazione, pazienza... ma coraggio addirittura... Che parola grossa! Sì, i siciliani tendevano a esagerare, a drammatizzare, questo cominciava a capirlo. - Dove andiamo? - domandò Attanasio. - In prefettura. La notizia che avevano sparato al giudice Surra impiegò meno di un quarto d’ora a diffondersi per tutto il paese. L’unico a non saperlo era Surra, ma a nessuno passò per l’anticamera del cervello che non avesse capito d’aver subito un attentato, e di conseguenza il suo comportamento animò la discussione di quel pomeriggio al circolo dei nobili. - È priciso ’ntifico al joco degli scacchi, - disse don Agatino Smecca. - C’è uno sfidanti, che sarebbi il nostro judici Surra, il quali, al cafè Arnone, ha lanciato una pubblica sfida a don Nené Lonero facendo la prima mossa, e cioè la richiesta di restituzioni delle carti. ’Na sfida ardita, abbisogna raccanoscirlo. Lo sfidato ha accittato la sfida, e stamatina ha fatto la sua mossa facennogli sparare. - Sì, - intervenne don Clemente Sommatino. - Ma è beni diri che si è trattato di ’na mossa che potremmo definiri ’ntirlocutoria. È stato un avvertimento. Pirchì è chiaro all’urbi e all’orbo che se don Nené lo voliva fari ammazzari, l’ammazzavano. - D’accordo, - fece il professor Sciacca. - Ma penso che vinciri ’sta partita a don Nené stavota non sarà tanto facili. Anzi, dico propio che non si può sapiri chi la vinci. Il judici Surra pari un omo da nenti, ma devi aviri cabasisi di ferro. - Di ferro? Di acciaro timpirato! - s’intromise don Arturo Siccia. - Signori miei, ma l’aviti sintuto quello che hanno contato i testimoni oculari? Doppo lo sparo, frisco frisco come un quarto di pollo, si è calato, ha pigliato il cappeddro, se l’è messo ’n testa manco dignannolo di ’n’occhiata ed è annato in tribunali senza diri ai né bai! Ma che ci ha al posto del sangue? Ghiazzo? - Se è per questo, - fece il dottore Piscopo, - io l’altra sira ero presenti alla scena del cafè Arnone. Matre di Dio, con quanta gelita friddizza ha ordinato a don Nené di restituiri le carti! Signori miei, macari sorridiva mentri che parlava! - Quello è un omo che non si scanta di nisciuno! E a don Nené darà filo da torciri! - concludì don Agatino Smecca. Convennero tutti.
Il prefetto non c’era, sarebbe tornato tardi da fuori città. Il giudice prelevò il denaro da consegnare a Nicolosi, ma prima di andare a casa passò dal caffè Arnone e si fece incartare due cannoli. Pazienza se gli avrebbero fatto peso allo stomaco. Per strada non poté fare a meno di notare un qualcosa di cambiato nell’atteggiamento dei passanti verso di lui. Alcuni, ed erano la maggioranza, lo salutavano con un certo calore e gli sorridevano con simpatia; una minoranza invece ostentatamente lo ignorava voltando la testa dall’altra parte o s’affrettava a scendere dal marciapiede sul quale lui si trovava. Non riusciva a capire. Ma santo Iddio, non era lo stesso Surra della sera prima? Che aveva di diverso? Non aveva fatto nulla che potesse giustificare una così evidente e netta manifestazione di ostilità da una parte e di simpatia dall’altra. Un amico di Torino, siciliano, l’aveva avvertito che i siciliani erano assai più volubili di quanto volessero apparire. Ma fino a questo punto? C’era qualcosa che non andava nel suo comportamento? Forse ad alcuni dava fastidio che fosse tanto ghiotto di cannoli mentre ad altri faceva piacere il suo apprezzamento per un prodotto locale? Boh. Valli a capire! Cenò e voleva cominciare a leggere il libro che gli aveva regalato Fallarino. Ma cambiò idea e si mise a pensare a come avrebbe dovuto comportarsi con il presidente Paoloantonio. Dopo un due ore gli sembrò di avere trovato una soluzione e andò a dormire. - Mi dispiace dovervi comunicare che la vostra domanda di riammissione in servizio non è stata accolta. Il presidente Paoloantonio impallidì. - Posso saperne il motivo? - Ne avete tutto il diritto. Voi vi siete impadronito illecitamente di atti istruttori in corso coperti dal segreto e li avete consegnati a un estraneo dietro sua richiesta. E sono certo che eravate perfettamente cosciente che stavate commettendo un grave reato. Al presidente venne difficile parlare. Si passò il fazzoletto sulla fronte sudata. - Ci sono cose che... anche contro la propria volontà... - Per quello che avete fatto non ci sono giustificazioni, - tagliò gelido Surra. - E vi avverto inoltre che ritengo mio dovere procedere contro di voi per questo reato. La faccia di Paoloantonio divenne cadaverica. - Io... io vi scongiuro di evitarmi... Il giudice Surra lo guardò. Il presidente rabbrividì e tacque. - Una soluzione ci sarebbe. - Ditemela e io... - Fatevi restituire gli atti e riportatemeli qui. Entro due ore. Potete farvi accompagnare da due uscieri. Lo lasciò che stentava ad alzarsi dalla sedia e andò nella sala riunioni dove tutti lo aspettavano.
- Mi scuso per il ritardo, ma ho avuto un colloquio col presidente Paoloantonio al quale ho comunicato che la sua domanda di riammissione in servizio non è stata accolta. Il motivo credo che lo conosciate o lo immaginiate tutti. E ora al lavoro. Verso la fine della riunione, Nicolosi venne a dirgli qualcosa all’orecchio. Stabilirono di rivedersi l’indomani mattina, nei pomeriggi per ora era meglio lasciare campo libero alle donne delle pulizie. - I signori giudici Moresco, Colla, Di Betta e Consolato favoriscano per cortesia da me. Lo seguirono. Sopra lo scrittoio del giudice Surra c’erano i quattro faldoni che erano stati asportati. Parevano in perfetto ordine. - Signori, questi sono gli atti istruttori che erano stati indebitamente sottratti e che mi sono fatto restituire. I quattro giudici si guardarono tra loro stupiti e meravigliati. Ma di che pasta era fatto quell’uomo? - Avete fatto intervenire i carabinieri? - domandò Colla. - Non ne ho avuto la necessità. Era riuscito a intimorire uno come don Nené, da solo, senza farsi spalleggiare dalla forza pubblica! - Desidero che ciascuno di voi, - continuò Surra, - non appena saremo in grado di funzionare, si occupi di uno di questi quattro procedimenti. Voglio che abbiano la precedenza assoluta. Per ora ritengo prudente tenere questi faldoni qua, nella mia stanza, dentro l’armadio verde, l’unico che abbia la chiave. Buongiorno. Una volta che i giudici lasciarono la stanza, chiamò due uscieri, fece sgombrare un ripiano dell’armadio verde che era proprio alle spalle della scrivania, ci fece sistemare i quattro faldoni. Chiuse e si mise la chiave in tasca. Gli uscieri se ne andarono. Surra si attardò ancora un poco a controllare il pacco coi timbri che si era portato da Torino. Nell’alzarsi, l’alto schienale della sua poltrona andò a sbattere contro le ante dell’armadio verde. Scostò la poltrona e l’armadio si aprì. Com’era possibile, se l’aveva chiuso a chiave! Provò a richiudere e solo allora si rese conto che la chiave girava a vuoto. Non poteva lasciare i faldoni alla portata di tutti, dovevano essere troppo importanti se un presidente di sezione aveva rischiato la galera per sottrarli. Uscì nel corridoio. Il tribunale era deserto, erano andati tutti a pranzo. Notò che a qualche metro dalla sua porta c’era un massiccio armadio nero. Tentò d’aprirlo. Era chiuso a chiave, ma la chiave chissà dove era andata a finire. Ebbe un’ispirazione. Tornò nella sua stanza, sfilò la chiave dell’armadio verde, l’infilò nella toppa dell’armadio nero, la girò. L’armadio si aprì. Era completamente vuoto. Provò ancora una volta la chiave. Funzionava perfettamente.
Trasferì i faldoni nell’armadio nero e chiuse a chiave. Poi tornò nella sua stanza e, infilando pezzetti di carta ripiegati sotto le ante dell’armadio verde, riuscì a mantenerle chiuse. Quindi se ne andò a casa. E mentre il giudice assaporava per la prima volta, beandosela, la pasta con la ricotta fresca, la notizia dell’allontanamento del presidente Paoloantonio e della restituzione dei faldoni fece il giro della città. Tutti giudicarono geniale la mossa del giudice Surra, che si stava rivelando un abile, astuto e freddo giocatore. Forse l’unico in grado di far perdere la testa a don Nené. - Non fatevi acchianare il sangue alla testa e soprattutto non combinate minchiate! - intimò infatti il senatore Pasquale Midulla a don Nené che gli stava fremente davanti. - Ma io non pozzo lassari che ’sto cornuto mi mette la sputazza supra al naso davanti a tutti! Qualichicosa la devo fari! Lo capite sì o no? Masannò perdo la facci! Aveva quasi la bava alla bocca. - Facciamo così, - disse il senatore. - Mandategli un secondo avviso. E se continua a non voliri capiri, ci parlo io.
4.
Ad apertura della riunione, il giudice Surra annunziò due novità. La prima era che il capousciere Nicolosi aveva fortunatamente ritrovato il registro che annotava i processi che erano in corso fino al momento dell’interruzione dell’attività e quindi la seduta sarebbe stata dedicata all’esame del registro, fermo restando l’impegno di dare comunque la precedenza alle quattro istruttorie i cui atti erano stati prima sottratti e poi restituiti. La seconda novità era che due altri magistrati, Di Cagno e Martorana, avevano fatto domanda di riammissione in servizio e sarebbero stati presenti alla riunione del giorno dopo. Tralasciò di dire che Di Cagno e Martorana si erano presentati a casa sua con un biglietto nel quale il vecchio presidente Fallarino ne tesseva ampi elogi. A metà della riunione entrò Nicolosi reggendo a due mani un grosso pacco. - Ora ora lo portò un uomo per voi, signor giudice, e mi disse di consegnarvelo mano con mano. Disse che è un regalo. - Non accetto regali. Rimandatelo immediatamente indietro, - fece brusco Surra. - E come faccio? Qua sopra non c’è scritto il mittente e non conosco l’uomo che... - Allora buttatelo. - Un momento, - intervenne il presidente di sezione Butera. - Forse è meglio se prima di farlo buttare vedete di che si tratta. - Dite? - domandò perplesso il giudice Surra. - Be’, sapete, da noi ci sono certe costumanze che... La verità era che tutti, eccetto il giudice Surra, volevano che il pacco venisse aperto in loro presenza perché già avevano il mezzo sospetto di cosa potesse contenere. - E va bene, apritelo, - disse il giudice Surra a Nicolosi. Il capousciere posò il pacco in mezzo al tavolo, levò lo strato di carta che lo ricopriva e apparve una scatola di metallo. Nicolosi si fermò, indeciso. Anche lui evidentemente nutriva lo stesso sospetto degli altri. - Ebbene? Apritelo! - fece il giudice. Nicolosi scoperchiò la scatola. Tutti si alzarono a mezzo per vedere, videro e ricaddero pesantemente sulle sedie, sconvolti, pallidi e muti. Semiavvolta in alcuni pezzi di stoffa un tempo bianchi e ora rossi perché zuppi di sangue, c’era una testa d’agnello recisa di netto. I grandi occhi spalancati parevano umani. L’unico a parlare fu il giudice Surra. - Toh! Una testina d’agnello! - e sorrise. Sorrise mentre gli altri restavano immobili, agghiacciati dall’orrore e dal terribile significato di quella minaccia.
Il giudice Surra continuava a sorridere a un lontano ricordo di casa. Quand’era bambino, suo nonno ogni tanto riusciva a persuadere la nonna a preparargli una testina d’agnello. E a lui, che gli stava seduto accanto, gliene passava dei pezzetti. Dio, quant’era buona! Morto il nonno, la testina d’agnello era scomparsa dal menu famigliare. - A qualcuno di voi piace? - domandò. Tutti scossero la testa, sgomenti, ancora incapaci di parlare. - Filippazzo, uno dei miei, se la mangia, - disse Nicolosi. - Bene. Dategliela, e che buon pro gli faccia! Allora, signori, vogliamo riprendere? - Quell’uomo in tutta sincerità mi fa paura. Ha qualcosa che non potrei dire umano, - confidò il giudice Moresco al collega Consolato mentre tornavano a casa. Dato che abitavano vicini, usavano fare un pezzo di strada insieme. - La fa anche a me. E tanta, - disse Consolato. - Privo di Dio, è stato capace di mettersi a sorridere davanti a una minaccia di morte! A essere atterriti eravamo noi, non lui. Lui ha reagito come davanti a un regalo che purtroppo non poteva accettare. Dio mio, che tempra! Che coraggio disumano! - Vogliamo dirla tutta? - fece Moresco. - Il giudice Surra è quello che si dice un eroe. - Sono d’accordo con te, - concluse Consolato. Ma che si era messa in testa la Pippina? Di cambiare menu ogni giorno e di fargli una rassegna di tutta la cucina siciliana? La pasta con le sarde era da leccarsi le dita, gli fece dimenticare la voglia di testina d’agnello. I pranzi, le cene, i cannoli... Sarebbe di sicuro tornato in Piemonte ingrassato. Alla fine del pasto un messo gli portò un biglietto del prefetto. Lo pregava di recarsi in prefettura alle quindici perché sua eccellenza il senatore Pasquale Midulla, eletto nella circoscrizione di Montelusa nonché sottosegretario al ministero della Giustizia, in partenza per Roma dopo una breve visita ai suoi elettori, desiderava essere ragguagliato sullo stato del tribunale. - Accomodatevi in questo salottino, - disse il prefetto. - Così potrete parlare in tutta tranquillità. E se ne uscì. Il giudice Surra si sentì in dovere di non aspettare le domande del senatore e gli fece un’ampia relazione sullo stato dei lavori di ripristino, concludendo che al massimo entro una settimana il tribunale avrebbe potuto riprendere, sia pure parzialmente, la sua attività. - E qui viene la parte più difficile, - disse il senatore. - Perché? - domandò un po’ stupito il giudice. - Dico per voi, - precisò il senatore. - Per me? Per allora la parte più difficile sarà stata superata. Si tratterà d’iniziare la normale... - Normale? Sentite, signor giudice, vi volevo far riflettere sul fatto che la Sicilia non è il Piemonte.
- Questo lo so, - fece piccato Surra. - Mi spiego meglio. Da noi non sempre le cose sono come appaiono. Da voi è diverso. Da voi il bianco è bianco e il nero nero. Da noi predomina il grigio. - Che strano, - fece il giudice. - Pensavo fosse l’opposto. Da quando sono arrivato, mai un giorno di pioggia. C’è un sole che fa ombre nette. Il senatore lo guardò perplesso. Non aveva capito o fingeva? Ma il giudice aveva uno sguardo così limpido che... - Cercherò di spiegarmi meglio. Quando Ippolito Nievo sbarcò con Garibaldi e vide combattere i nostri picciotti, in un primo momento li definì selvaggi feroci. Poi cambiò idea, perché capì che si trattava di un coraggio estremo, dove la morte poteva costituire addirittura il premio più ambito. Con ciò voglio dire che certi comportamenti che agli occhi di un non siciliano possono apparire addirittura criminali sono spesso dettati invece da un profondo senso dell’onore e da una giustizia che non sempre, purtroppo, coincide con quella del codice. - Se non coincide con quella del codice, mi viene difficile chiamarla giustizia, disse semplice semplice il giudice. - Che vi dicevo? È un comportamento difficile da spiegare e addirittura non comprensibile per chi non ha la nostra mentalità. Vi porto un altro esempio. Gli anni recenti, da noi, sono stati anni di carenza di tutto, di regole, di leggi, in una parola, di Stato. Saremmo piombati nel disordine più totale, nel caos, se alcuni uomini di buona volontà non si fossero rimboccati le maniche e assunti l’onere di dettare delle regole e di farle rispettare. E poiché erano regole non contemplate nei codici, questi uomini si sono venuti a trovare automaticamente fuori dalla legge. Eppure essi hanno avuto il merito di... - Permettetemi una domanda, eccellenza, - l’interruppe il giudice. - Tra questi uomini di buona volontà annoverate anche il signor Emanuele Lonero? Il senatore sorrise. Quel piemontese non era poi così fesso come sembrava. - Sì, anche lui, perché no? - Perché questo signore si è fatto dare da un magistrato disonesto degli atti istruttori che... - E qui vi volevo! Appena glieli avete richiesti, Lonero ve li ha riconsegnati intatti, - obiettò pronto il senatore. - Se si è fatto dare gli atti è stato per metterli al sicuro, visto che il tribunale non era più custodito. Vedete com’è facile cadere in grossi equivoci? - Al signor Lonero queste quattro istruttorie stanno evidentemente molto a cuore. - Sì, perché riguardano quattro suoi amici e collaboratori che hanno contribuito a mantenere l’ordine, a badare alla correttezza dei rapporti tra le persone... Proprio per questo lui vorrebbe, come dire, vederli trattati bene, non dico con parzialità, Dio me ne scampi e liberi, ma con occhio comprensivo per tutto quello che hanno... Il giudice Surra si alzò. Aveva ascoltato troppo. - Il signor Lonero allora sarà contento di sapere che le quattro istruttorie hanno avuto da me la priorità assoluta. Saranno i primi quattro processi che il nuovo tribunale di Montelusa celebrerà, ve lo posso garantire. Fece un mezzo inchino al senatore che lo guardava basito e uscì dal salotto.
- Don Nené è troppo rozzo per uno come il judici Surra! Certo che si è mittuto a sorridiri quanno vitti la tistuzza d’agneddro! Era ’u sorriso dell’omo superiori, ecco che era! - fece, infervorato, don Agatino Smecca. - Dell’omo che sa di potirisi mittiri ’n sacchetta all’avversario come e quanno vole! Il professor Sciacca gli diede man forte. - La cosa certa è che fino a ’sto momento don Nené è in svantaggio. Ha dovuto cediri un pezzo ’mportanti come al presidenti Paoloantonio e ha dovuto riconsignari i faldoni. Con la conseguenzia che i quattro amiciuzzi di don Nené saranno i primi a essiri processati! Bella figura che sta facenno! - Secunno mia, dovite portari pacienza. - Nun nni aio cchiù pacienza! Tutta me la spardai! Ma non lo viditi com’è fatto? Che minchia aviti ottinuto dalla parlata con lui? Eh, me lo spiegati? - Ho capito come ragiona. E cioè che non voli ragionari. - E allura? - Io dumani torno a Roma. E farò di tutto per farlo trasfiriri. Per questo doviti portari pacienza. - E ’ntanto quello va avanti con le quattro 'struttone? - È inevitabili. - ’Nveci io farò ’n modo che avanti non ci va. - Sintitimi, don Nené, e sintitimi bono. Se fate qualichi minchiata contro la pirsona del judici Surra, ora come ora manco Gesù Cristo ’n pirsona vi potrà aiutari! - Non vi lo tocco al vostro judici, partitivinni tranquillo. - E allura che voliti fari? - Sunno cazzi mè.
5.
Lo svegliò un insistente bussare al portoncino di casa. Insonnolito, s’affacciò e alla luce del primo mattino riconobbe Solano, il maresciallo dei carabinieri. Si allarmò. - Che succede? - Hanno tentato di dar fuoco al tribunale. Venite. Vi aspetto. La notizia lo scosse tanto da non permettergli di dar ordine ai pensieri che gli tumultuavano in testa. Si vestì in fretta, scese. - Qual è la situazione? - Le fiamme sono state domate facilmente. Per fortuna il carabiniere di guardia se n’è accorto a tempo e ha dato l’allarme. - Molti danni? - Non molti. Solo il vostro ufficio è stato parzialmente distrutto. L’armadio verde e la scrivania combusti con tutte le carte che contenevano. - Ah, - fece il giudice, rassicurato. E dopo un po’ domandò: - Perché mi avete detto che si tratta d’incendio doloso? - Perché per entrare senza farsi scorgere hanno dovuto forzare una porticina laterale. Nella piazzetta davanti al palazzo di giustizia, malgrado l’ora, c’erano una trentina di curiosi. Uno si staccò dal gruppo, s’avvicinò al giudice, si levò il cappello. Era don Nené Lonero, compunto, con la faccia d’occasione. Nella piazzetta si fece improvviso e teso silenzio. - Mi auguro che la giustizia non abbia subito grave danno, - disse. - La giustizia, - replicò gelido il giudice, - non ha subito danno alcuno, rassicuratevi. Ed entrò nel palazzo. Passando per il corridoio notò che il nero armadio massiccio era intatto e al suo posto. Gli fu impossibile entrare nel suo ufficio, completamente annerito, dentro il quale Nicolosi e due uscieri si stavano dando da fare per recuperare quel poco che si era salvato dalle fiamme. L’armadio verde era ridotto a un cumulo di cenere e di pezzi di legno bruciati, mezza scrivania invece non esisteva più. - Dove volete trasferirvi? - gli domandò Nicolosi. - Nella stanza accanto. Tanti uffici erano vuoti, non c’era che l’imbarazzo della scelta. Venne raggiunto dal giudice Consolato. - Ho appena saputo e sono corso. Il giudice gli sorrise. Madre santa, quell’uomo al posto dei nervi doveva avere corde d’acciaio!
- Avete fatto colazione? - Non ne ho avuto il tempo. - Neanche io. Venite con me al caffè Arnone? - Volentieri. Uscirono, s’incamminarono. Consolato trovò il coraggio di rompere il silenzio. - A quanto pare, gli interessava solo di distruggere l’armadio verde, - disse. - Già, - fece il giudice. - E ci sono riusciti in pieno. Consolato ammirò ancora una volta la freddezza, la calma di Surra anche di fronte a una grave sconfitta come quella. Perché era chiaro che delle quattro istruttorie non se ne sarebbe più potuto parlare. Entrarono nel caffè. A un tavolo c’erano don Nené e quattro uomini. Don Nené stava riempiendo i calici di spumantino. Molti altri tavoli erano occupati da gente che faceva colazione. A veder entrare il giudice Surra, don Nené si alzò con un calice in mano: - Volete unirvi a noi? Io e i miei amici Milioto, Savastano, Curreli e Costantino stiamo festeggiando. I quattro citati guardarono il giudice, fecero un inchino e poi scoppiarono a ridere. Risero anche dai tavoli vicini. Il volto di Consolato era terreo. Quello del giudice impassibile. - No, grazie, non bevo mai la mattina Poi, rivolto al banconista: - Quelle cose che sta mangiando quel signore cosa sono? - Una granita di limone e un tarallo. - Li fate provare anche a me? E voi che prendete, Consolato? - Un... caf... caffellatte. Il giudice si mangiò la granita. Ogni tanto socchiudeva gli occhi. - Buona! - disse alla fine. - Me ne date un’altra? Poiché tutti i componenti del tribunale, appena che apprendevano la cattiva notizia, vi si precipitavano, il giudice Surra poté aprire la riunione con un’ora di anticipo. Davanti a sé aveva volti scuri e corrucciati. C’era un’atmosfera da funerale. Stava per prendere la parola quando Nicolosi entrò per dire che il corrispondente del «Giornale dell’Isola» voleva fare alcune domande al signor giudice sul tentato incendio. - Fatelo entrare, - disse inaspettatamente Surra. - Qui? - si meravigliò Nicolosi. E non solo Nicolosi. - Sì. Qui. Il giornalista entrò, il giudice lo fece accomodare e disse: - Vi ricevo in presenza dei miei colleghi perché il mio nuovo ufficio, dato che il vecchio è inagibile, non è stato ancora approntato. - Vi ruberò pochissimo tempo, - fece il giornalista, - solo per avere o meno una conferma. Non è mia abitudine scrivere cose inesatte. È vero che è andato completamente distrutto un armadio verde del vostro ufficio? - Sì, e anche la scrivania, se è per questo. - Corre voce in città che dentro quell’armadio fossero conservate carte processuali
assai importanti. Lo potete confermare? - Lo confermo. - Quindi posso scrivere che il vero e unico scopo di chi si è introdotto in tribunale era di bruciare quelle carte? - Direi che lo potete scrivere. - E che di conseguenza il danno subito è stato irreparabile? Il giudice Surra sembrò perplesso. - Perché irreparabile? Guardate, la scrivania era tarlata, l’armadio verde era ridotto in pessime condizioni... Farò comprare mobili nuovi. - Ma io mi riferivo alle carte che c’erano dentro. - Ma dentro l’armadio quelle carte non c’erano più, - disse Surra. Il sussulto dei presenti avvenne all’unisono e così il lungo tavolo attorno al quale stavano seduti sussultò anch’esso. - Non... c’erano... più? - domandò stranito il giornalista. - No. Le avevo tolte e messe in un altro posto. Guardò i presenti e i presenti lo guardarono. Videro nei suoi occhi solo il candore di un’innevata cima alpina. - E poi mi sono dimenticato d’avvertire dello spostamento. Non ci fu bisogno d’aspettare l’arrivo del giornale da Palermo il giorno seguente, perché la notizia a Montelusa si sparse quello stesso pomeriggio. E la città curiosamente sembrò accendersi qua e là di lampi d’allegrezza. Si rideva dovunque, nelle case, nelle strade, nei caffè. Era tutto un ammiccare e ridere, anche tra persone che non si conoscevano. - Con quanta finezza, con quanta astuzia ha attirato don Nené in una trappola mortale! - fece con le lacrime agli occhi per il gran ridere don Agatino Smecca. Per l’occasione, si era messo a parlare in italiano. - Ha preparato la sua mossa con un’abilità infernale! Prima ha fatto vedere i faldoni ai quattro giudici e ha detto loro che li avrebbe messi nell’armadio verde, poi ha chiamato gli uscieri e ce li ha fatti mettere, poi, quando sono andati via tutti ed è rimasto solo, li ha levati dall’armadio e li ha nascosti in un altro posto. E così gli uomini di don Nené hanno bruciato un armadio vuoto! - Scusate, - intervenne il professor Sciacca, - perché avete parlato di trappola mortale? - Perché mi pare evidente che don Nené è stato ucciso e sepolto dal ridicolo. È un colpo dal quale non si risolleverà più. Il giudice gli ha dato scacco matto. E Lonero ha perso ogni prestigio. E ancor di più ne perderà appena i quattro giudici istruttori ripiglieranno a lavorare su quei faldoni. Vedrete quanti testimoni a carico troveranno ora il coraggio di parlare, confortati dalla presenza del giudice Surra. Quanto ci scommettete che questi processi non si risolveranno con un’assoluzione per insufficienza di prove come troppo spesso accade dalle nostre parti? Don Agatino Smecca fu facile profeta. Tempo quindici giorni don Nené Lonero fece sapere che per gravi motivi famigliari era costretto a lasciare Montelusa e a trasferirsi, forse per sempre, a Palermo. Al suo posto si mormorò che era stato
nominato don Sabatino Vullo, anziano, posato e di vasta esperienza. - Che nisciuno m’addimanni favori in tribunali fino a quanno c’è il judici Surra, fu la prima dichiarazione che fece ai suoi. Il quale giudice resse per tre anni il tribunale di Montelusa facendone un modello di efficienza, di correttezza, d’imparzialità. L’unico suo svago era quello di andarsene ogni tanto a caccia da solo. Attanasio gli aveva trovato un buon cane. Poi venne richiamato a Torino. Sua moglie lo trovò alquanto ingrassato e lo mise a dieta. Ma il suo ricordo tra i montelusani durò a lungo, per decenni e decenni. E quando il tribunale tornò a essere purtroppo non più così efficiente, corretto, imparziale, trasparente come l’aveva voluto e fatto lui, c’era chi sospirando rimpiangeva: «Al tempu di lu judici Surra...» Dimenticavo: il giudice non trovò mai l’occasione per leggere la relazione di don Pietro Ulloa che il vecchio presidente Fallarino gli aveva regalata. Anzi, quando se ne tornò a Torino, se la dimenticò a Montelusa.
Nota. Riporto qui un passo della relazione di don Pietro Ulloa che sicuramente, se l’avesse letto, assai avrebbe interessato il giudice Surra. «Non vi è impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato di trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un funzionario, ora d’incolpare un innocente...» Dunque il giudice Surra ignorò l’esistenza della Fratellanza, che già ai suoi tempi si chiamava maffia e che poi, strada facendo, perdette una effe. La domanda è: se ne fosse stato al corrente, il suo atteggiamento sarebbe stato diverso? Sinceramente, crediamo di no. Crediamo anzi che il giudice, nel suo intimo, ne volle ignorare l’esistenza. Agì come se non ci fosse e, così facendo, inconsapevolmente l’annullò.
Carlo Lucarelli-La Bambina
Quando leggeva i fumetti muoveva sempre le labbra. Soltanto i fumetti, perché non era comunque un gran lettore e come titolo di studio aveva solo l’avviamento, ma non è che stesse così indietro da sillabare le frasi. Lo faceva solo con i baloon, e lo faceva fin da piccolo. Era colpa di suo fratello. Il primo albo illustrato, come si chiamavano allora, era stato un «Topolino»: Topolino contro Wolp, il terribile brigante dell’Est. Va bene, prima c’erano state le tavole del «Corriere dei Piccoli», ma per quelle le didascalie gliele leggeva sua madre. Poi era andato a scuola, e proprio mentre stava imparando a leggere, lui e suo fratello avevano trovato quel «Topolino» per terra, accanto all’edicola, per fortuna, perché mica glieli avrebbero mai dati cinquanta centesimi, figurarsi, con lo stipendio di suo padre poliziotto. Era più grande di un anno e gli toccava il primo turno col giornalino, ma siccome non lo mollava più, incagliato su tutte quelle lettere nuove che intasavano le nuvolette bianche, grattandole, quasi, con le labbra dalla carta per passare alla vignetta successiva, Enrico, che invece andava velocissimo perché guardava solo le figure, aveva gridato: «Ma quanto ci metti?» e glielo aveva strappato di mano. Da allora, anche dopo, aveva continuato a leggere frase per frase, parola per parola, e le mormorava a fior di labbra, apposta, per fare rabbia a suo fratello, che invece si rifiutava di leggere i baloon, apposta. «Così ci immagino quello che mi pare», gli diceva, fissando Cino e Franco, Tarzan e Flash Gordon, scrutando dentro i disegni con una faccia sempre diversa, come se ogni volta ci trovasse qualcosa di nuovo, mentre lui alla terza lettura già li sapeva a memoria. Poi si era arruolato in polizia, come da tradizione di famiglia. Enrico, invece, non aveva fatto in tempo, perché intanto era scoppiata la guerra, l’avevano mandato in Albania e dopo in Russia e poi era andato in montagna con i partigiani e là era morto. Così aveva continuato a muovere le labbra anche dopo, su Tex, il Piccolo Sceriffo, Kinowa, Tiramolla, Zagor e il Comandante Mark, le storie dell’«Intrepido» e del «Monello», Pedrito el Drito, Cristal e Billy Bis. Per un po’ aveva detto che li prendeva per i figli, anche se loro nel frattempo erano diventati grandi e comunque leggevano «Diabolik», «Linus» e «Corto Maltese». Che si era letto anche lui, nonostante gli piacessero meno, e sempre muovendo ostinatamente le labbra. Era il suo modo di ricordare Enrico. Adesso stava leggendo un «Lanciostory» e muoveva le labbra su una storia interna, un detective dalla faccia rincagnata come la sua, anche i baffi sembravano i suoi, ma più scuri, non sale e pepe come i capelli che lo facevano sembrare più vecchio dei suoi cinquantasei anni. Leggeva «Larry Mannino» ma lo faceva più lentamente, perché prima si era fermato a guardare la copertina e così in testa gli erano rimaste due cose. L’annuncio di un’intervista a Pino Daniele, Je so’ pazzo, che lo sapeva - gli avrebbe lasciato in testa la canzone per tutta la giornata. E il disegno di una ragazza mora, abbronzata, in bikini, lunghi capelli neri e un anello esotico alla caviglia, che gli aveva fatto venire in mente il mare e con quello una improvvisa voglia di un fritto misto. Così leggeva Distretto 56 ma intanto sognava di essere a Riccione, con sua moglie, a mangiare calamari e gamberetti fritti col sottofondo di Pino Daniele.
Je so’ pazzo. Ah! Je so’ pazzo! - Ferro! Piegò il giornaletto in due, per il lungo, e se lo infilò nella tasca di dietro dei pantaloni sotto la giacca, dritto accanto alla fondina con la pistola. Si staccò dalla macchina a cui stava appoggiato e guardò Grisenti perché non si stava avvicinando da solo, c’era un agente più giovane con lui, non ricordava il nome. - Cambio programma. - Non andiamo a prendere il giudice? - Ci vado io con Mazzuca. Te ti spostano a un altro servizio. - Non è mica professionale. Quant’è che stiamo dietro il giudice, tre mesi? C’eravamo abituati a Cancedda, lui lì, - indicò l’agente più giovane, - deve imparare tutto da capo. Non è professionale. Mazzuca fece un passo indietro, alzando le braccia a mezz’aria come per dire che non era colpa sua. - E cos’è che mi mandano a fare? - Sempre scorta magistrati. Ti tocca la Bambina. - E con chi sto? - Con nessuno. È solo una tutela. Mica ha bisogno di una vera protezione, la bambina. - Appunto. Grisenti non disse più niente. Aprì la portiera costringendolo a staccarsi dall’auto e si mise al volante. Mazzuca allargò un’altra volta le braccia e si infilò dentro. Lo lasciarono lì in mezzo al parcheggio della questura di Bologna a pensare ma guarda un po’ se uno come lui, Ferrucci Ivano, detto Ferro, brigadiere, dopo trentasette anni di polizia doveva andare a fare da autista e portaborse a un giudice istruttore donna così nuova e così giovane che la chiamavano tutti la Bambina. E mentre lo pensava, da qualche parte nella testa gli risuonava la voce muta di Pino Daniele. Je so’ pazzo. Ah! Je so’ pazzo! Se Ferro aveva cinquantasei anni ma ne dimostrava di più, la Bambina ne dimostrava di meno dei suoi trenta. Conosceva la sua età perché glielo aveva detto lei appena salita in macchina - «Mi faccia gli auguri, oggi è il mio compleanno, classe '50, una vecchiona» - e lui aveva fatto il conto al primo luglio 1980. Avrebbe potuto essere sua figlia, anche perché Ferro ce l’aveva davvero una figlia di trent’anni, ed era la secondogenita dei tre. E infatti gli scocciava starsene seduto davanti nella Ritmo in borghese della questura con quella ragazzina seduta dietro che leggeva il giornale. Sembrava un autista che porta la figlia del padrone all’università. La guardò nello specchietto retrovisore, le labbra strette, un po’ sporte in avanti in un’espressione assorta, una piccola ruga concentrata fra le sopracciglia, una manciata di efelidi attorno al naso, sulla pelle arrossata da quel primo sole di luglio. Ferro aveva un’anca che non girava bene, i reumatismi e la pressione alta, ma la vista gli era rimasta quella di una volta, attento soprattutto ai particolari, istintivamente. Scarpe basse, gonna, camicetta bianca, maglioncino nero e giubbotto di jeans su una
spalla li aveva registrati subito appena lei si era presentata - «Lorenzini, piacere» quando era andato a prenderla a casa. Capelli corti sulle spalle, biondi, raccolti dietro con un pettine d’osso. Carina, piccolina, un topolino. Giudice istruttore presso il tribunale di Bologna, primo incarico. La Bambina. - Le dispiace? La Bambina si sporse in avanti fra i due sedili, odore di saponetta Camay e shampoo alla mela, li usava anche sua figlia. Punse con un dito il pulsantone dell’autoradio e si spinse ancora più avanti per schiacciare quelli dei canali memorizzati. La voce di Pino Daniele uscì ovattata dall’altoparlante sotto il cruscotto. Je so’ pazzo, je so’ pazzo, ci ho il popolo che mi aspetta e scusate vado di fretta... - Aspetti, dottoressa... lasci, per favore. La Bambina tornò indietro sul suo sedile. - Le piace Pino Daniele? - No, però è tutta la mattina che ce l’ho in testa... così la sento e mi passa. E lo Stato questa volta non mi deve condannare, pecché so’ pazzo, je so’ pazzo, e oggi voglio parlare... Sospirò, sentendo che la musica gli si scioglieva in testa, liberandolo. - Cambio? - disse. - No, va bene, io di solito ascolto altro ma va bene. Posso? Prese «Il Resto del Carlino» che Ferro aveva appoggiato sul sedile del passeggero, ma lo lasciò cadere subito perché sotto c’era una pistola. - Oh, Dio... - Scusi. La metto lì perché la tengo dietro la schiena e quando guido... - Mi sa che la può tenere anche dietro. Non credo che con me avrà occasione di usarla. - Dottoressa, non si sa mai... - Come, non si sa mai? Lei rise, e sorrise anche Ferro. La Bambina toccò il montante di metallo della Ritmo e lui, rapido, si fece le corna in mezzo alle gambe mentre lei non guardava. - La scorta serve a quelli che fanno le inchieste sulla politica, serviva al povero Amato, ammazzato così alla fermata del tram. Io, per me, potevo continuare a venire in tribunale in motorino. Sa di che mi occupo questa mattina? Prese il giornale, scoprendo la pistola, ma sembrava che non le facesse più impressione. Aprì il «Carlino» e lo sfogliò fino alle pagine interne. - Ecco, non è neanche sul giornale. Lo richiuse e si fermò a guardare la fotografia dell’aereo in prima pagina. Sotto c’era quella sgranata e terribile dei morti che galleggiavano nel mare di Ustica, macchie bianche nell’acqua nera, persone a pancia in su, come pesci. - In effetti, - mormorò, - c’è qualcosa di più drammatico della mia bancarotta fraudolenta. Erano arrivati al tribunale. Ferro scese dall’auto e ci girò attorno per aprirle la portiera, ma la Bambina era già uscita.
- Ci vediamo stasera, - gli disse agitando una mano in aria, mentre lui la guardava allontanarsi, così biondina e minuta, il giubbotto di jeans e la cartella su una spalla, e pensava che se non fosse stato per la sua pistola sotto il giornale e la gazzella dei carabinieri davanti al tribunale, davvero gli sarebbe sembrato di essere l’autista che porta la figlia del padrone all’università. La sera, però, quando andò a prenderla, era cambiata. Sempre topolina, sempre la Bambina, ma per un momento, quando si fermò sulla porta del tribunale, lo sguardo perso nel vuoto dietro un pensiero, sembrò dimostrarli tutti i suoi trent’anni compiuti quel giorno. Lasciò Ferro con la mano sulla portiera di dietro e salì davanti, nel posto del passeggero, si sfilò le ballerine e appoggiò i piedi sul cruscotto, rannicchiandosi contro le ginocchia. Disse: - Posso? - e Ferro non capì se si riferiva ai piedi o al posto, poi vide la cassetta che teneva in mano e annuì. Lei la inserì nell’autoradio, premette il pulsante per andare avanti finché trovò il brano che cercava e poi alzò il volume, appoggiando all’indietro la testa sul sedile, con gli occhi chiusi. L’altoparlante della Ritmo civetta non era un granché e vibrò sui bassi che pulsavano come un cuore vecchio, mentre la batteria era solo una strisciata intermittente, come se qualcuno soffiasse tra le labbra. Lontano, quasi un’eco, si sentiva cantare. La Bambina alzò ancora il volume. I hear her voice, calling my name, the sound is deep, in the dark. - Le piace? - disse, senza aprire gli occhi. - È un po’ cupa per i miei gusti... piacerebbe a mio figlio. - Appena finisce la tolgo. Mi rilassa. - Giornataccia? - Non lo so. Forse sì, forse no. A lei piace il suo lavoro? - Sì. Tradizione di famiglia, mio padre era un poliziotto, mio nonno un poliziotto... tra un paio d’anni vado in pensione. - Anch’io... cioè, tradizione di famiglia, non la pensione. Mio padre era un magistrato, ma non l’ho fatto per lui. Questa sera però non so se amarlo o odiarlo questo mestiere. Ci penserò domani, oggi è il mio compleanno. Suddenly I stop, but I know it’s too late, I’m lost in a forest, all alone. - Come festeggia il compleanno? - Il mio gatto, Cointreau col ghiaccio e una lunga telefonata col fidanzato avvocato a Torino. E i Cure, - indicò l’autoradio. Chiuse di nuovo gli occhi, immergendosi in quella musica lontana e scura. Again, and again, and again. Abitava a Casalecchio, e quando ci arrivarono nell’autoradio erano già passati altri due pezzi perché lei era così assorta nei suoi pensieri che si era dimenticata di togliere la cassetta, come promesso. Infilò le ballerine, cercandole con i piedi sul pianale, e si girò per prendere la borsa che aveva lasciato sul sedile di dietro, e fu allora che l’ombra si mosse. Ferro l’aveva già notata, e per lui non era già più un’ombra ma un uomo che usciva da dietro un furgoncino parcheggiato accanto al marciapiede, e aveva visto la pistola
prima ancora che quello stendesse il braccio verso il parabrezza della Ritmo. Gettò subito la mano verso il sedile per prendere la sua Beretta, poi la trattenne, piegandola verso la schiena, ma il sedile, la giacca, la posizione, non fece in tempo. Il primo colpo mandò in frantumi il parabrezza e strappò un gemito alla Bambina, corto come un singhiozzo, il secondo la fece sussultare e il terzo era per lui, che intanto era riuscito ad aprire la portiera e a buttarsi fuori. Gli anni, l’anca, i reumatismi, anche la pressione alta sparirono di colpo mentre tirava fuori la pistola e sganciava la sicura, lasciando partire tutti i colpi che poteva, e ne sparò ancora dietro il furgone che partiva sgommando, la pistola tenuta a due mani e il dito che schiacciava il grilletto, finché il carrello non scattò all’indietro per l’ultima volta e lì rimase, senza più niente da sparare. Se non si fosse girata a prendere la borsa sul sedile di dietro sarebbe morta. A giudicare dalla posizione dei fori calibro 38 sullo schienale, almeno un colpo le avrebbe spaccato il cuore. Invece il primo la prese di striscio alla schiena con taglio lungo come una coltellata, e il secondo al fianco, tra le costole, senza ammazzarla, senza toccare organi vitali, ma lasciandola tra la vita e la morte, in coma farmacologico, al Maggiore. Dicevano tutti che non era stata colpa sua, ma lui lo sapeva che qualcuno pensava il contrario, che Ferro non era più quello di una volta, che stava invecchiando male, si era quasi fatto ammazzare il giudice, e non importava se forse non lo pensava nessuno, lo pensava lui. Anche se stava bene gli avevano dato tre giorni di malattia. Aveva passato i primi due dentro e fuori dalla questura, in una eccitazione adrenalinica che non gli aveva permesso di fermarsi. C’erano state rivendicazioni? No. Riscontri all’identikit? No. Fermato qualcuno? No. Vai a casa, Ferro, ci pensiamo noi. Aveva chiesto della Bambina soltanto il secondo giorno, perché aveva paura che gli dicessero che l’operazione non era andata bene, che c’erano state complicazioni, che era morta. E non in ospedale, ma in ufficio, come se parlare con un collega ammorbidisse la paura di avere brutte notizie. Il terzo giorno era crollato e lo aveva passato a casa, praticamente davanti alla televisione. Fino all’Almanacco del giorno dopo, musica fischiettante su un giro di incisioni che sembrava Carosello, domani è il 4 luglio, il sole sorge alle cinque e quaranta e tramonta alle venti e quarantanove, la luna si leva a mezzanotte e cinquantasei e tramonta alle dodici e diciotto minuti, i santi di domani sono Elisabetta del Portogallo e Ulderico vescovo. Poi Domani avvenne su Giovanni Papini, e Parliamo così su «venire ai ferri corti» e «parlare a viso aperto». E alla fine il vecchio con la falce e la bandiera, È FINITA LA COMMEDIA. Il motto del giorno se lo era perso, come tutto il resto. Era il segnale per la cena. In cucina trovò le bistecchine che sfrigolavano in padella e sua moglie che finiva di scolare la pasta. Solo due posti apparecchiati. - Lorenzo non cena? - Dice che non sta bene. - Quello è una vita che non sta bene.
Lorenzo era venuto tardi, quando non se l’aspettavano. Annalaura e Giovanna le avevano fatte subito, finita la guerra, appena lui aveva cominciato a sistemarsi, poi era arrivato il maschio, vent’anni dopo, così, di colpo. Adesso aveva diciotto anni e da quando era tornato da Londra in viaggio premio per la maturità vestiva sempre di nero e portava un assurdo taglio di capelli, corti di dietro e giù sulla faccia, capelli a cazzo e vestito come un fascista, diceva Ferro, e Lorenzo rispondeva schifato che no, la politica non c’entrava niente. Almeno quello, almeno non era un extraparlamentare di destra o di sinistra. Per la droga non era sicuro, e se Lorenzo non c’era gli perquisiva la camera con cura e discrezione, ma non aveva mai trovato nulla. Uscì dalla cucina senza badare a sua moglie che diceva: «E dài, lascialo stare», ma rassegnata, senza intonazione. Due passi nel corridoio ed era davanti alla porta della camera di Lorenzo, chiusa. Mise la mano sul pomello ma si fermò, sentendo un pulsare familiare oltre il laminato di legno. Aprì la porta. I hear her voice, calling my name... Lorenzo stava steso sul letto, le mani dietro la nuca rasata, a guardare il soffitto. Abbassò gli occhi su suo padre e si irrigidì, contratto in difesa, pronto a litigare. Ferro invece guardava il disco che girava lucido sul piatto del Sony, regalo delle sorelle, sempre per la maturità. - Sono i Cure, questi? Lorenzo si contrasse ancora di più, come se avesse ricevuto un colpo. Suo padre aveva detto i chiur con la «u» dura e la «r» allungata di chi ripete una cosa che ha sentito, ma aveva detto giusto, erano loro, il suo gruppo preferito. - Sì, - disse Lorenzo, alzandosi a sedere sul letto. - Ma com’è che... - Vieni a cenare, dài. A tavola Lorenzo glielo aveva chiesto ancora, «Ma com’è che conosci i Cure?», e allora lui gli aveva parlato della Bambina, sotto lo sguardo sorpreso di sua moglie perché era un pezzo che quei due non lo facevano, parlare, e a momenti bruciò le bistecchine quando si accorse che un po’ dello sguardo ammirato di Lorenzo per quel giudice che ascoltava la sua musica si era trasferito anche sul padre poliziotto. Finito di mangiare, Ferro uscì. Prese la macchina e guidò fino all’ospedale Maggiore, entrò dal pronto soccorso mostrando il tesserino e salì fino ai reparti. A terapia intensiva c’era la porta chiusa, stava per suonare ma intanto alle sue spalle era arrivata un’infermiera che aprì per sé e lasciò passare anche lui, visto che era un poliziotto. In fondo al corridoio c’era Lo Iacono, seduto su una sedia di metallo, a gambe larghe come al gabinetto. Faceva girare il berretto sulla punta di un dito e lo riconobbe subito, perché si conoscevano. - C’è uno della polizia che la vuole di sotto, - disse l’infermiera a Lo Iacono, che guardò Ferro. - Tranquillo, ci sto io. Aspettò che fossero usciti, collega e infermiera, non voleva che lo vedessero inspirare per farsi forza. Gli ospedali gli avevano sempre fatto paura. L’odore, quell’odore acido di alcol e
medicine lo faceva sentire debole, con la carne morbida. Quando aprì la porta e mise la testa dentro la stanza fece fatica a vedere la Bambina. C’era il letto, e c’era il tubo di una flebo che si infilava sotto le lenzuola, e c’era anche lei, ma sembrava così piccola e così sottile, bianca come il cuscino, con le gambe che si perdevano nelle pieghe del letto, e a Ferro sfuggì un sospiro di sconforto e tenerezza che gli raschiò la gola. Aveva gli occhi chiusi e tra le labbra le usciva un soffio leggero e regolare, sul ritmo del ronzio di un’altra macchina a cui altri tubi la tenevano attaccata, dall’altra parte del letto. Ferro strinse i denti, con le lacrime che gli pungevano gli occhi. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori, cercando di pensare che se respirava così regolarmente e la macchina non faceva altri rumori, allora voleva dire che stava bene, che andava tutto bene, e che quando l’infermiera fosse tornata con Lo Iacono glielo avrebbe chiesto: «Va tutto bene, vero?» Terapia intensiva stava in un padiglione abbastanza alto, da cui si inquadrava la strada. Ferro guardava senza vedere, concentrato nei suoi pensieri, ma notò lo stesso che giù c’era Lo Iacono che stava parlando con qualcuno in una macchina nera, chino sul finestrino. Poi Lo Iacono si rialzò, salutando con la mano alla visiera del berretto, e si allontanò verso il parcheggio, e anche se Ferro cercava di dimenticare quel singhiozzo che gli aveva graffiato la gola, lo notò lo stesso. Istinto di poliziotto. «Cambio turno», si disse, e poi si disse: «No». Sono le nove di sera, i turni sono zero-sei, sei-dodici, dodici-diciotto, diciotto-ventiquattro, lo aveva fatto tante volte anche lui, il piantone. Guardò Lo Iacono che spariva inghiottito nella penombra da sera d’estate, chiedendosi perché si sentisse così inquieto. Potevano esserci milioni di spiegazioni se qualcuno aveva deciso di togliere la sorveglianza all’ospedale, davvero stava arrivando un cambio turno, magari l’avevano presa in forza i carabinieri, oppure non c’era più pericolo, ma allora perché si sentiva così teso, la fronte schiacciata contro il vetro della finestra a guardare quella macchina nera che non si era mossa? Istinto di poliziotto. Poi li vide uscire dalle ombre del parcheggio, li vide passare accanto alla macchina nera e uno, il primo, il più grosso, battere la mano sul cofano come per una specie di saluto. Tre uomini, in borghese, jeans e giubbotti. Erano carabinieri? No, perché il terzo, quello più magro, si fermò un momento ad accendersi una sigaretta. Sembrava nervoso e alzò la testa per tirare la prima boccata e lui lo vide bene, illuminato dal lampione giallo dell’ospedale. Era il tizio dell’identikit. L’uomo che gli aveva sparato. Ferro si staccò dal vetro e si tirò indietro, come se l’altro potesse vederlo. Tuffò istintivamente la mano sotto la giacca per prendere la pistola. Per un momento pensò di uscire, chiamare qualcuno, telefonare al 1 1 3 , ma non voleva lasciare sola la Bambina e non poteva farsi aiutare da medici e infermieri, quello era un ospedale, mica una caserma. L’unico telefono che ricordava di aver visto stava giù, e giù c’erano loro.
Chiuse a chiave la porta e ci puntò contro la pistola. Ma nemmeno quella era l’idea giusta. Se anche si metteva a sparare, sarebbero riusciti a entrare e ad ammazzarli tutti e due prima che potesse arrivare qualcuno in grado di aiutarli. Alla sua sinistra c’era un bagno. La porta era aperta e se ne vedeva un’altra, chiusa, che comunicava con un’altra stanza. Ferro scosse la maniglia, poi tirò un calcio, dritto, con la suola della scarpa di piatto, tenendosi al lavandino, e scardinò la serratura. L’altra stanza era buia e vuota. Ferro tornò dalla Bambina e lì si fermò, accanto al letto, ammorbidito da un’improvvisa debolezza. Tutti quei tubi, gli aghi, lei così bianca e sottile. Per un momento si sentì svenire, poi si fece forza, staccò il tubo dalla sacca della flebo, perché l’ago non se la sentiva proprio di toccarlo, staccò i tubi della macchina, e sforzandosi di ricordare quando prendeva in braccio la sua prima figlia appena nata, così piccola che aveva paura di romperla, infilò le mani sotto il lenzuolo e prese in braccio la Bambina. Non pesava niente. Attraversò il bagno, chiudendosi la prima porta alle spalle, e stette immobile nella stanza buia, trattenendo il fiato. Sentì che entravano nella stanza della Bambina, ne sentì uno dire: «Ma dove cazzo...» e allora uscì nel corridoio vuoto ed entrò nell’ascensore che era ancora aperto. La discesa gli sembrò eterna. Per un tempo infinito si guardò allo specchio, si guardò tenere tra le braccia quella ragazzina pallida, afflosciata e scalza, vestita solo del camicione leggero dell’ospedale, i tubi che le uscivano dalle braccia come tentacoli di plastica. Che stava facendo? Per quanto ne sapeva poteva averla appena uccisa. Poi l’eternità finì, le porte dell’ascensore si aprirono e Ferro corse fuori. - Chiami il 113! - gridò all’infermiera che lo guardava con gli occhi spalancati, e continuò a correre perché lo sapeva che quelli stavano già scendendo. Voleva arrivare alla sua auto, nel parcheggio, ma davanti al padiglione c’era la macchina nera. Un uomo uscì dal posto di guida e si appoggiò al tetto. Ferro lo sapeva cosa stava facendo, prendeva la mira, così sparò da sotto la Bambina con la sua pistola, non l’aveva mai mollata, il proiettile attraversò i finestrini aperti e gettò l’uomo all’indietro, su un’aiuola. Un altro colpo, da dietro, Ferro non lo sentì ma lo vide mentre si schiacciava sulla portiera della macchina. Non stette neanche a voltarsi per guardare quelli che gli stavano sparando, gettò la Bambina sul sedile di dietro e girò di corsa fino al posto di guida. Se il silenziatore non avesse reso così impreciso il tiro delle pistole l’avrebbero già colpito, invece si prese un altro colpo sul montante e uno che gli sibilò davanti al naso, come un calabrone. Poi riuscì a ingranare la marcia e schizzò via. Si infilò sulla via Emilia e tirò dritto, cercando di capire in che direzione stesse andando. Voleva correre in questura, portarci dentro la Bambina, in braccio, ma intanto pensava, o meglio, più che pensare sentiva. Sentiva quella sensazione di inquietudine che si mescolava all’agitazione e alla paura - aveva sparato, gli avevano sparato - ma era qualcosa di diverso, qualcosa di più lucido e freddo. Istinto di poliziotto. Rallentò e si fermò al semaforo rosso che prima aveva intenzione di bruciare. Si guardò attorno, vide il cruscotto modificato per contenere la radioricevente, il
microfono che penzolava in fondo alla spirale del filo, anche la paletta bianca e rossa schiacciata sotto l’aletta parasole, al posto del passeggero. Sul sedile accanto a lui c’era la giacca dell’uomo a cui aveva sparato. La strinse con la mano finché non sentì qualcosa nella tasca interna. Era un portafogli con un tesserino. Maresciallo Montana, arma dei carabinieri. Tornò il verde. Ma Ferro non si mosse, dietro non c’era nessuno. Sirene impazzite sfrecciarono lungo la via Emilia, nella direzione opposta. Accese la radio e la sintonizzò facilmente sulla frequenza giusta, dove sentì la descrizione della macchina e anche la sua, molto precisa, mancava solo il nome. Dicevano che aveva rapito un magistrato e ucciso un sottufficiale dei carabinieri. Il primo nome a cui aveva pensato era quello di Grisenti - «Mi faccio aiutare da lui, parliamo con il giudice Cancedda...» - Doveva trovare una cabina, o andare direttamente a casa sua. Poi aveva sentito quel singhiozzo, dietro, e si era ricordato della Bambina. Rannicchiata sul sedile, gli occhi chiusi e i tentacoli di plastica, sempre più bianca. Sul fianco, sotto il camicione dell’ospedale, si era allargata un’ombra scura che gli ammorbidì di nuovo la carne. Non aveva più tempo per pensare. C’era quella inquietudine fredda che gli impediva di correre in questura o chiamare il 1 1 3 , e non poteva portarla in ospedale e stare lì a proteggerla con la pistola in mano finché non fosse arrivato qualcuno di cui fidarsi. Se arrivavano gli altri? Se lo arrestavano appena si faceva vedere? Ma non c’era più tempo. Così gli venne in mente il secondo nome, e allora ingranò la marcia e partì, anche se il semaforo era ancora rosso. L’altro nome era Sanna. Stava a Croce di Casalecchio, in una casetta isolata che era quasi campagna, anche se accanto ci passava la tangenziale. Era già andato a letto e quando lo vide attraverso la finestra richiuse la tenda e spense la luce, ma Ferro cominciò a battere sul vetro con la mano aperta e sicuramente lo avrebbe sfondato. - Che vuoi? - Ho bisogno di aiuto. - Perché, stai male? - Io no, ma lei sì. Sanna si chiuse il pigiama attorno al collo e venne fuori a guardare dentro la macchina. - Cazzo, - disse, - chi è? - Un giudice istruttore. Sanna fece un passo indietro, continuando a guardare la Bambina. - Mi prendi per il culo? - disse. - Mi hanno arrestato tre volte per esercizio abusivo della professione medica e adesso viene un poliziotto a chiedermi di curare un magistrato? Nello scantinato di casa sua Sanna aveva un ambulatorio perfettamente attrezzato, segno che aveva ripreso a ricucire quelli della mala sforacchiati nei conflitti a fuoco con le forze dell’ordine. In frigorifero aveva anche sacche di sangue - segno che lo aveva fatto di recente - e pure una macchina simile a quella dell’ospedale accanto al lettino che gli serviva per le operazioni.
Quando l’adrenalina crolla - Ferro lo sapeva - viene un gran sonno anche se non sarebbe certo il caso di dormire. Aspettò che Sanna avesse sistemato la Bambina, lo guardò annuire in silenzio, segno che per adesso andava tutto bene, poi uscì e con la macchina raggiunse una cabina telefonica abbastanza lontana. Si sentiva lento, con la testa piena di una nebbiolina frizzante che gli appesantiva i movimenti. Infilò nella fessura il gettone che gli aveva dato Sanna, e si sarebbe addormentato in piedi, con la fronte appoggiata alla cassetta fredda del telefono, se sua moglie non avesse risposto subito. - No, no, tranquilla, tutto a posto, non è successo niente. Sto fuori la notte, ragioni di servizio. No, non ti preoccupare, domani ti racconto. Sì, il giudice sta bene. Ciao, ciao. Era uno scatto metallico quello che aveva sentito mentre parlava con sua moglie? Aveva fatto bene a non chiamare da casa di Sanna? O era soltanto la paranoia che viene dopo che hanno cercato di ammazzarti due volte? A quello che aveva ucciso lui cercò di non pensarci, gli era già successo, all’inizio della carriera, e sapeva come fare. Così tornò in macchina, appoggiò la nuca allo schienale, agganciò le mani al volante per rilassare le braccia, si disse: solo un minuto, un minuto solo, è anche pericoloso starsene in questa macchina qui. Poi chiuse gli occhi e si addormentò. Quando si svegliò era quasi mattino. Si stropicciò la faccia con le mani, abbandonò l’auto e girò a piedi per il quartiere cercando un bar aperto. Ne trovò uno che stava alzando la saracinesca proprio in quel momento, e intanto che il barista scaldava la macchina si fece dare un altro gettone e andò dietro i flipper ancora spenti, a telefonare. Grisenti ci mise un po’ a rispondere, probabilmente era ancora a letto. - Sono Ferro... lo so, sta’ calmo, lo so che mi cercano tutti, lo so... lascia stare la Bambina... fammi parlare a me, Cristo! Ci vengo io in questura, ma ci dovete essere anche te e il giudice. Vi racconto tutta la storia, vi dico tutto, tranquilli... sì, lo so che mi devi fermare, guarda, me le metto già da solo le manette, vengo già arrestato, ma mi devi far parlare con Cancedda, capito? Mi dovete ascoltare. Non ti preoccupare per la Bambina, sta bene, le ho salvato la vita. No, non te lo dico dov’è, te lo dico quando arrivo... va’ a prendere il giudice e andate in questura, ciao. Riagganciò, pensando che questa volta non aveva sentito nessuno scatto ma non voleva dire niente, e andò a bere il caffè. - Cosa pretende, - disse il barista quando lo vide storcere le labbra, - è il primo, dovremmo essere ancora chiusi. Voleva dare a Grisenti il tempo di andare in questura col giudice e voleva vedere come stava la Bambina, così tornò da Sanna col primo autobus del mattino. La Bambina stava bene, dormiva nel lettino delle operazioni, la flebo nel braccio, la macchina dall’altra parte, come in ospedale. Addosso, al posto del camicione macchiato di sangue, aveva uno dei pigiami a righe di Sanna. Sembrava addirittura che avesse preso un po’ di colore. Il caffè della moka di Sanna era meglio di quello del bar. Ferro aveva cominciato a raccontargli un po’ di quello che era successo ma il dottore lo aveva fermato senza
dire niente, alzando solo una mano. Ferro aveva annuito, aveva finito il caffè ed era uscito. Per andare in questura aveva chiamato un taxi e si era fatto venire a prendere all’angolo. Avevano attraversato Bologna e Ferro aveva pensato che a quell’ora la città gli era sempre piaciuta. Sembrava una donna che si stirasse, morbida e sensuale, prima di alzarsi dal letto. Quando stava sulle volanti e rientrava dal turno di notte, faceva sempre un giro in più per godersi quella luce ancora umida e lucida, i rumori che risuonavano più forti, improvvisi, prima di scivolare in un silenzio che era ancora quello della notte. Non poteva chiedere al tassista di arrivare fino alle due Torri e tornare indietro solo per godersi la sua Bologna, non c’era tempo, così lasciò che girasse in via della Zecca e scese in piazza Roosevelt, appena in tempo per vedere Grisenti e Mazzuca che uscivano dall’auto assieme al giudice Cancedda. Ferro alzò una mano, agitandola sopra la testa, ma non fece in tempo a dire niente. Sentì Grisenti che urlava: - Attento! - e percepì con la coda dell’occhio il furgoncino bianco che arrivava da dietro. La botta sul sedere non gli fece male, solo un fastidio secco che gli fece arricciare le labbra nel sentire l’osso del bacino che si spezzava come un ramo di legno. Il dolore sarebbe arrivato un attimo dopo, e anche forte, ma lui non lo sentì, perché intanto aveva fatto una capriola all’indietro, sfondando il parabrezza con la nuca, ed era già morto prima ancora di scivolare giù dal cofano, sulla strada. Valentina aprì gli occhi con la sensazione di averlo già fatto prima, anche se non ricordava né come né quando. Non tanto per il soffitto basso e la macchia di umidità che sembrava disegnare un delfino, né per l’arredamento da ospedale povero e neanche per quell’uomo che sedeva sulla poltrona, una gamba di traverso sul bracciolo e la guancia su una mano, addormentato. Gli pareva di averlo già visto, magro, scuro, un paio di baffi stretti sotto il naso e quella giacca bianca che sembrava il camice di un dentista, ma non era a quello che doveva la sensazione familiare di déjà-vu. Era la musica, quella voce troppo dolce per i suoi gusti che allungava le finali di ogni parola, ondeggiando su un ritmo saltellante, scandito dal grattare di una chitarra, distorto dall’altoparlante di una radiolina portatile. Luna! Luna tu parli solamente a chi è innamorato, chissà quante canzoni ti hanno già dedicato, ma io non sono come gli altri, per te ho progetti più importanti, Luna! Valentina si alzò a sedere sul lettino, di scatto, afferrandosi ai bordi perché la testa cominciò a girarle forte, e sarebbe caduta di sotto se l’uomo non fosse saltato giù dalla poltrona ad abbracciarla. - Piano, piano! Cercò di rimetterla giù ma Valentina fece resistenza, e siccome non riusciva a fare forza con la schiena gli si aggrappò al collo, come una scimmia. - Va bene, va bene, - sussurrò l’uomo, - stia seduta, ma la tengo io. Lei si accorse solo in quel momento del pigiama e della flebo e anche del dolore al fianco, che bruciava come uno strappo, e si sentì così debole che adesso tirava dietro
il collo dell’uomo, con le braccia, per farsi accompagnare giù sul lettino. Restò un po’ a occhi chiusi, respirando tra le labbra, non tanto per il dolore o la fatica, che si stavano attenuando, quanto per mettere in ordine la confusione che aveva in testa, una confusione di domande che premevano e facevano ancora più male dello strappo al fianco. Dovette fare appello a quello che aveva imparato quando faceva l’uditore nei processi e si segnava la progressione delle domande dei pubblici ministeri. E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’, a mezzanotte puoi trovarmi vicino a un juke-box, poi sopra i muri scrivo in latino, evviva le donne, evviva il buon vino. - Dove sono? Non sapeva se sarebbe riuscita a parlare e infatti raschiò la voce dal fondo della gola secca, così roca che Sanna capì la domanda solo perché se l’aspettava. Aveva passato gli ultimi due giorni a chiedersi cosa avrebbe risposto quando quel giudice che sembrava una ragazzina avesse aperto gli occhi. - Aspetti, - le disse, sollevandole la testa perché potesse bere dalla bottiglia di vetro che le aveva avvicinato alle labbra. - Dove sono? - ripeté Valentina. - In un ospedale clandestino. Valentina lasciò che l’acqua minerale le pizzicasse la gola, scivolando giù. Quella risposta aveva aperto un altro orizzonte di domande, tutte nuove. - Lei è un medico? - Lo ero. Radiato dall’ordine dieci anni fa. Ospedale clandestino, medico clandestino. Valentina non sorrise e neanche Sanna. Non era una battuta. - Perché sono qui? - Perché le hanno sparato. - E perché non sono in un ospedale vero? - Perché volevano ammazzarla anche lì. Non mi chieda di più, non l’ho voluto sapere. L’ha portata qui Ferro. Valentina chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Si attaccò al bordo del lettino e tornò a sedersi, perché così stesa non riusciva a pensare. La testa le girava meno, adesso, e le bastò appoggiarsi un momento alla spalla di Sanna per ritrovare l’equilibrio. Il nome di Ferro era uno spartiacque. Le servì a mettere in ordine la sua vita, tutto quello che era successo prima di voltarsi a prendere la borsa, in macchina, tutto a posto, tutto in fila. - Da quanto tempo sono qui? - Tre giorni. E tre giorni in ospedale, prima, quello vero. Più o meno sempre in coma, tranne gli ultimi due che era soltanto sedata. Da me. - E come sto? - Meglio. - Mi ha portata qui Ferro? Cioè, il brigadiere Ferrucci? - Ferro, sì. - E lui dov’è?
- È morto. Valentina abbassò lo sguardo. Allungò un piede nudo verso il pavimento ma non arrivò a toccarlo. Li sfregò assieme, stringendoli l’uno sull’altro come mani. Il quadro cominciava a precisarsi. Confuso, ipotetico, indiziario, ma le cose stavano prendendo una direzione. Che non le piaceva. Aveva bisogno di sapere tante altre cose, come era morto Ferro, perché, che stava succedendo là fuori, ma prima doveva fare un’altra domanda. Riguardava quell’uomo minuto e nervoso, con la sua giacca bianca da dentista. - Perché mi ha tenuto qui? Poteva lasciarmi davanti a un ospedale, oppure da qualche parte e chiamare i carabinieri. Sanna si strinse nelle spalle. - Giuramento di Ippocrate, - disse, e Valentina non capì se fosse finalmente una battuta, perché le labbra di Sanna si tirarono appena in una smorfia che non era facile dire se fosse o no un sorriso. Luna, che cosa vuoi che dica, non so recitare, ti posso offrire solo un fiore e poi portarti a ballare, vedrai, saremo un po’ felici, e forse molto più che amici, Luna! Una delle domande che Valentina voleva fare a Sanna riguardava quella canzone. Perché aveva l’impressione di averla già sentita tante altre volte? Poi lo capì da sola quando Sanna spense la radio dicendo che l’aveva aiutata abbastanza a farla uscire dal coma. Doveva essere il tormentone dell’estate, e infatti rimase a rimbalzarle in testa per un pezzo, fastidioso e incompleto, Luna! Sanna le aveva procurato un giornale che lei non era riuscita a leggere, così lo aveva fatto lui, a voce alta. L’ipotesi del giudice istruttore che si occupava del caso era che il brigadiere Ferrucci fosse impazzito per non averla saputa proteggere e quindi l’avesse rapita e nascosta da qualche parte. Pentito del suo gesto, aveva contattato i colleghi, ma era così sconvolto da attraversare la strada come un pazzo e finire sotto un furgone. C’era il nome del giudice istruttore, Valentina lo conosceva e aveva sempre pensato che fosse un imbecille. Riguardo al suo attentato, all’inizio avevano pensato a un atto di terrorismo, o comunque qualcosa che avesse a che fare con le sue indagini, ma avevano poi scartato l’ipotesi, perché si occupava soltanto di un banale caso di bancarotta. Valentina aveva corrugato la fronte sentendo che il suo principale indiziato, il titolare della ditta, era sparito subito dopo l’interrogatorio e adesso, dicevano, si stava sicuramente godendo i soldi alle Barbados. Poi seppe che le indagini puntavano sulla pista passionale. A Torino stavano interrogando il suo fidanzato in attesa degli esami balistici su una pistola trovata nel suo appartamento. - Roberto? È assurdo, - disse Valentina. Sanna stese le labbra e questa volta si capì che era un sorriso. Lo divertiva il fatto che il giudice ragazzina fosse ancora così sedata da reagire con una calma olimpica a tutto quello che le stava succedendo. Avevano cercato di ucciderla, le avevano ammazzato la guardia del corpo e arrestato il fidanzato, e lei diceva assurdo, seduta sulla sua poltrona, in pigiama, come se si fosse appena alzata dal letto e leggesse la critica di un film.
Anche lui era calmo, ma solo perché aveva imparato a esserlo. Altrimenti avrebbe già ucciso qualcuno. Quando era all’università e si vedeva passare davanti i figli di papà agli esami, e poi ai concorsi, e all’ospedale, a Cagliari, finché non lo avevano beccato a curare un latitante in montagna, un amico di un amico, perché non poteva dire di no e non lo voleva neppure. Da medico clandestino, poi da dottore della mala, non è che fosse facile coltivare un punto di vista rilassato e gratificante, in pace col mondo e con la società. O forse chissà, era inquieto, nervoso e arrabbiato di natura. L’ultima cosa che Sanna le aveva letto era che la stavano cercando dovunque. - Devo chiamare la polizia, o i carabinieri, qualcuno... - Io ci penserei bene... - Non la denuncerò. Dovrei farlo, ma non so nemmeno dove mi trovo. E non conosco il suo nome. - Non parlo per me, parlo per lei. Tra le poche cose che Ferro mi ha raccontato c’erano dei carabinieri che non erano proprio carabinieri. Gente che toglieva le scorte, che si muoveva con una certa disinvoltura... insomma, non lo so se può fidarsi proprio di tutti, a casa sua. - Devo fidarmi. Sono un giudice. Sanna allargò le braccia, stringendosi nelle spalle. Valentina chiuse gli occhi, affondando la nuca nel cuscino della poltrona. Anche se le sembrava di avere una nuvola dentro la testa, riusciva a pensare lucidamente. Carabinieri che non sono proprio carabinieri, come poliziotti che non sono proprio poliziotti, significa servizi segreti. Servizi significa a volte servizi deviati. - A volte? - disse Sanna, e Valentina si accorse che aveva parlato a voce alta. - A volte, - ripeté lei. - Il quadro si mette a fuoco sempre di più. Ci sono alcune cose successe prima che mi sparassero.... - Non le voglio sapere. - Stavo indagando su un caso di bancarotta fraudolenta... - Non lo voglio sapere. - E salta fuori che nelle disponibilità di un certo ragioniere c’è una società... - Non lo voglio sapere! Non aveva urlato, non lo faceva mai, aveva ringhiato. Le mani strette a pugno, Valentina per un attimo pensò che l’avrebbe colpita. Invece le infilò nelle tasche del camice, spingendole giù fino a deformare la stoffa. - Ho fame, - disse Valentina. - Ci credo, - disse Sanna, - è una settimana che va avanti a flebo. - Posso mangiare? - Può fare tante cose. Non sta così male come sembra. Può anche andarsene. Posso lasciarla a una cabina telefonica, così lei... - No. Io sono un giudice, un magistrato, e ci sono due cose che sono obbligata a fare. Una è fidarmi. Lei è un clandestino, io no, io sono parte del sistema che difendo e che devo mantenere sano. Chi l’aveva detto? Il suo professore, all’università? - Si fidi allora. Chiami il 1 1 3 . - No. Mi fido, ma non così alla cieca. Quando i giudici sanno troppo ma non hanno
ancora in mano niente finisce che li ammazzano. È cronaca di questi giorni, e non mi riferisco solo a me. Se le cose stanno come credo, corro il rischio di non essere protetta abbastanza. - La seconda cosa? - Come? - Ha detto che ci sono due cose che è obbligata a fare. La prima è fidarsi, la seconda? - Andare avanti. Non posso far finta di niente e lasciar perdere. Il brigadiere era un suo amico? - Ferro? No. Era vero, in un certo senso. Ferro era corretto, leale e simpatico, un brav’uomo che gli piaceva abbastanza da poterci diventare amico, in altre circostanze. Ma gente come lui non poteva essere amica di uno sbirro. - Io l’ho visto solo due volte, per pochi minuti, in macchina. Ma non mi va che l’abbiano ammazzato così. Perché l’hanno ammazzato, no? Questo lo sappiamo. Sanna deglutì, stringendo i pugni nelle tasche. Non andava neanche a lui. - Già basterebbe Ferro, ma non c’è solo lui. Ieri sera... no, una settimana fa mi chiedevo il perché del mio lavoro, ecco, adesso l’ho capito. Stavo indagando... no, me lo lasci dire, - Sanna aveva alzato una mano ma Valentina si era sporta in avanti, aggrappata ai braccioli della poltrona, - poi se vuole se lo dimentica, ma me lo lasci dire. Indagavo su un caso di bancarotta fraudolenta, un ragioniere che fa sparire un sacco di soldi dalla sua società in un gioco di scatole cinesi mettendo sul lastrico un mucchio di gente, e provavo una rabbia, ma una rabbia, perché ci sono questi che si fanno gli affari loro, se ne fregano delle regole e lasciano giù un sacco di gente rovinata, che si fidava. Ecco, a me questo mi fa arrabbiare. Sanna annuì appena. Faceva arrabbiare anche lui. - Faccio le mie indagini e scopro che in questo caleidoscopio di società fittizie ce n’è una che si sa legata ai servizi. E così più che un’appropriazione indebita questa bancarotta sembra una costituzione di fondi neri finita male. Valentina si era alzata, senza accorgersene, così presa dal suo ragionamento che sembrava non le girasse neppure più la testa. Teneva sempre una mano sullo schienale della poltrona, ma si muoveva avanti e indietro, scalza e in pigiama, i capelli arruffati che le sfioravano le spalle. Sembrava davvero una ragazzina. - Allora sono andata dal mio capo e gli ho raccontato i miei sospetti, ma lui non era convinto. Anzi, mi ha detto che non ero abbastanza esperta per queste cose e che mi avrebbe affiancato un collega più anziano, proprio l’imbecille che firma quelle assurdità su Ferro. E poi cercano di ammazzarmi. Valentina riprese fiato. Si mise una mano sul fianco, sopra la garza che le imbottiva la ferita. Pulsava, fastidiosamente. - Io penserei male, - disse Sanna. - Anch’io, - disse Valentina, - ma non è questo il punto. È che se c’è dietro una storia di fondi neri e di servizi deviati mi fa incazzare ancora di più. Gente che decide sulla nostra testa quello che ritiene meglio, meglio per loro naturalmente... poi fa le cose alle nostre spalle e chi se ne frega se qualcuno ci prende di mezzo o ci muore.
Ecco, io non lo sopporto. È per questo che faccio il magistrato ed è per questo che non posso lasciar perdere. Valentina si lasciò cadere sulla poltrona. Il gomito sul bracciolo e il mento sul pugno. Le labbra sporte in fuori in una piega pensosa e decisa. L’altra mano sul fianco e i piedi nudi uno sopra l’altro. La Legge. La Legge in pigiama. Valentina alzò gli occhi su Sanna. La ruga concentrata fra le sopracciglia si distese, ma non tanto. Lo sguardo restava duro e deciso. - Vorrei chiederle tre cose. Qualcosa per vestirmi e qualcosa da mangiare, per favore, sto morendo di fame davvero. La terza gliela dico dopo. Sanna annuì. Pensò: «Sì, la Legge è una ragazzina in pigiama», e in quel momento seppe con certezza che qualunque fosse la cosa che voleva chiedergli, lui l’avrebbe fatta. C’erano solo due posti a Bologna in cui facessero un pastis quasi come a Marsiglia. Perché non è solo una combinazione di acqua e pernod, che già non sarebbe più un vero pastis ma è lo stesso. Ci vuole quell’anice e quell’acqua e anche quella mano e quell’aria, ci vuole Marsiglia, insomma. Lui a Marsiglia ci aveva vissuto un paio d’anni dopo che lo avevano cacciato dall’ordine e sembrava quasi che lo volessero mettere in galera. La prigione l’aveva scampata grazie a un cognato avvocato, ma in Francia si era specializzato nel curare malavitosi sforacchiati, e quando aveva rischiato di finire dentro anche lì era tornato in Italia. Bologna gli era sembrata abbastanza anarchica, sotto sotto, da incontrare i suoi gusti, e negli ultimi cinque anni si era ricreduto e riconvinto almeno una decina di volte. Ma Bologna era Bologna, non Marsiglia, e un pernod quasi come lo voleva lui Sanna poteva trovarlo solo in una osteria del Pratello, che era appunto di un marsigliese, e in un baretto del Pilastro, chissà perché. Il baretto lo faceva peggio dell’osteria, ma il Pilastro era più fuori mano del Pratello, e lui non voleva essere visto da chi non doveva vederlo. Laggiù, in quel buco di periferia, tra casermoni di cemento compatti come alveari, la polizia non ci passava quasi mai. E quando lo faceva lo venivano subito a sapere tutti. Il baretto non aveva tavoli fuori, soltanto sedie a listelli di plastica che una volta erano stati bianchi. Sanna si sedette al sole del tramonto, sotto una tettoia di lamiera, col bicchiere su un ginocchio. Si aprì il colletto della camicia che portava sempre chiuso, ma quell’inizio di luglio il caldo stava picchiando forte e c’era ancora un’afa così umida che faceva sudare. Non ci aveva messo molto a convincere i fratelli Ricciuti ad aiutarlo, anzi. Gli dovevano tanti di quei favori. O meglio, uno, quello giovane, che prima faceva le rapine e si era trovato un paio di volte con i proiettili delle guardie giurate nella carne. Adesso si era messo col fratello più anziano, furti in appartamento e casseforti, ma un’anca fratturata da un calibro 9 gli faceva sempre male e Sanna gli procurava le ricette per gli analgesici, sottobanco e gratis.
Oddio, forse se gli avesse detto per chi stavano lavorando e anche perché, non sarebbe riuscito a convincerli neppure con i crediti d’onore. Soprattutto se avesse usato le parole di Valentina. «Adesso sono clandestina anch’io, come lei, un giudice istruttore clandestino. Quindi farò un’indagine clandestina. Avevo individuato la sede fantasma di una società del ragioniere e stavo per chiedere alla guardia di finanza di farci una perquisizione. Lo chiedo a lei, invece: una perquisizione clandestina». Tutta quella clandestinità non sarebbe bastata a nascondere che stavano facendo una cosa da sbirri. E per uno sbirro, anche se ragazzina e in pigiama a righe. Finì di bere il suo pastis e si spinse indietro con la sedia, perché il sole scendeva in fretta sul bordo della tettoia e gli feriva gli occhi. I Ricciuti dicevano che quello era il momento migliore per farsi gli uffici. Dopo che gli impiegati se ne sono andati e prima che i metronotte comincino il giro. Quello, poi, era un ufficio praticamente vuoto, per cui avrebbero fatto presto, anzi, a quell’ora dovevano già essere di ritorno. Passò un bambino in bicicletta, suonando il campanello come se volesse strada, ma davanti a lui non c’era nessuno. Sanna si alzò dalla sedia ed entrò nel baretto, dove si fece versare un altro pastis aspettando che l’auto dei carabinieri passasse lentamente e sparisse oltre la curva. Tornò a sedersi e immerse le labbra nel liquido biancastro che intorbidiva il bicchiere. E lui? Perché stava aiutando uno sbirro? No, anzi, perché le obbediva, dal momento che mentre lei gli spiegava tutto divorando quattro uova sbattute, lui si era quasi messo sull’attenti, a prendere ordini davvero come un maresciallo della guardia di finanza. Perché? Per Ferro? Per lei, perché era carina, un topolino grazioso, con quelle efelidi simpatiche? L’aveva già vista nuda quando l’aveva spogliata per medicarla e rivestirla, l’aveva anche toccata, e allora era solo un paziente in coma, ma dopo, calda di letto e di pigiama sgualcito, era tornata a essere una donna. O perché anche a lui non piacevano quelli che facevano le cose sulla testa e dietro le spalle della gente? Sanna non ebbe tempo di darsi una risposta, se mai ci fosse riuscito, perché l’auto dei Ricciuti intanto era arrivata e aveva fatto un giro dietro il baretto, per fermarsi nel parcheggio. Uscì solo quello vecchio. Quello giovane era seduto dietro, e da come stava di traverso Sanna capì che si era preso un’altra pallottola. - Che è successo? Stava per andare dal giovane, ma quello vecchio lo fermò mettendogli una mano sulla spalla. - Dopo. Non è niente e c’è abituato. Adesso vedi questo. Si guardò attorno per essere sicuro che non ci fosse nessuno, ma il parcheggio era vuoto. Poi aprì il baule e scopri un tizio rannicchiato come un feto, le mani e i piedi legati insieme e un livido violaceo tra gli occhi chiusi. - E fortuna che doveva essere vuoto quel cazzo di ufficio. C’era già uno che voleva farsi la cassaforte. Ha sparato a mio fratello con questa. Sollevò la maglietta e mostrò una pistola infilata nella cintura, sopra i calzoni. Avvitato sulla canna aveva un silenziatore.
- Sanna, vatti a far dar nel culo, ce lo spieghi in che merda di storia ci hai messo? Il tesserino era quello dei carabinieri e la foto corrispondeva all’uomo dal naso a becco che dormiva dietro il livido sulla fronte. C’era scritto che era un capitano, il capitano Allegretti, ma a quel punto Valentina era quasi sicura che non si chiamasse così e che non fosse proprio un carabiniere, vista anche la pistola col silenziatore. Ce l’aveva in mano uno dei fratelli Ricciuti, non avrebbe saputo dire se quello più giovane o più vecchio, perché le sembravano uguali quasi come due gemelli. Lei li distingueva in quello ferito e quello no. La pistola ce l’aveva quello no, ed era un bene, perché quello ferito sembrava parecchio arrabbiato, bloccato a sedere sul lettino soltanto dalla gamba fasciata. Ai Ricciuti Sanna aveva raccontato tutto, lasciandogli l’alternativa tra fare un massacro o fidarsi di lui, e visto che i fratelli non erano tipi da strage e che si erano lasciati scappare l’occasione di ammazzare il tipo col naso a becco in ufficio e mollarlo là, avevano scelto la seconda opzione. In ogni caso non erano così intelligenti da fare altro. - Ahi. Il capitano Allegretti, o comunque si chiamasse, cominciò a muoversi, ma teneva ancora gli occhi chiusi. Ciondolò la testa da una parte e dall’altra, seduto sul pavimento, in un angolo, e sembrava che volesse dire: «No, dài, ancora cinque minuti». - Possiamo svegliarlo? - chiese Valentina. - Ma certo, - disse Sanna. Prese un bicchiere d’acqua che stava accanto al lettino e lo tirò in faccia ad Allegretti. Il capitano sussultò, aspirando così in fretta da farsi andare l’acqua di traverso. Quando smise di tossire guardò Valentina, massaggiandosi la fronte. - La Bambina, - disse sorpreso. - Prego? - È il soprannome che le hanno dato in procura. Non lo sapeva? Ce n’era un altro, adesso, uno nuovo e meno bello, che sicuramente l’avrebbe fatta arrabbiare. I suoi colleghi dei servizi lo avevano sparso in giro per avallare l’ipotesi del fidanzato geloso dal grilletto facile. Ma non glielo disse. - No, non lo sapevo. - Che ci fa qui? La stanno cercando tutti... - si guardò attorno: il piccoletto nervoso, quello grosso sul lettino con la gamba fasciata, l’altro che gli assomigliava con la pistola. - E voi chi siete? Per quale reparto lavorate? - Le domande le faccio io, se permette. Che ci faceva nell’ufficio segreto del ragioniere? - Cercavo il ragioniere. - No, lei cercava questa. Valentina batté una mano sulla cartellina rossa che teneva appoggiata al bracciolo della poltrona. Il volto di Allegretti si contrasse per una frazione di secondo, che a Valentina non sfuggì. Si trattenne dal lasciarsi scappare un sorriso e batté di nuovo la mano sulla cartellina.
- So cosa c’è dentro. Transazioni, numeri di conti correnti, nomi di società... tutto quello che mi serve. Voglio sapere per conto di chi lei si trovava in quell’ufficio a recuperare questi documenti. Per chi lavora, insomma. - Per lo Stato. Sono un ufficiale dei carabinieri. - Sì, forse un tempo. Adesso è nei servizi. - Questo lo sta dicendo lei. E comunque lavorerei sempre per lo Stato, no? - Lavoro per lo Stato anch’io, ma non mi sembra che stiamo dalla stessa parte. Allegretti sorrise. Se non fosse stato per quel naso a becco che lo faceva somigliare a un rapace e gli induriva il volto, avrebbe avuto un’espressione simpatica. - Dottoressa, la chiamano la Bambina, ma lei lo sa come va il mondo. - No, come va? - Va che da quando è nato questo nostro benedetto paese, c’è sempre stato qualcuno che lo avrebbe voluto diverso. Gente particolare, magari non sempre la stessa gente ma gente con gli stessi interessi. E siccome non potevano averla come la volevano, questa bella Italia democratica, hanno dovuto gestire la situazione. Gestire la democrazia con altri mezzi, insomma. - Le bombe, i dossier e i fondi neri, - disse Sanna. Allegretti si strinse nelle spalle. Guardò Valentina, notando come era vestita, abiti maschili che non sembravano i suoi, e di nuovo guardò gli altri, il piccoletto, l’azzoppato e quell’altro. - Ma chi siete? - chiese. - Chi diavolo... - Le ho già detto che le domande le faccio io. - Ah, sì? Perché siamo nel suo ufficio? Non mi sembra il tribunale, questo, i signori qui non mi sembrano colleghi e guardi un po’, dottoressa, messa così neanche lei sembra un giudice. - Le ho chiesto per chi lavora. Risponda alla mia domanda. Allegretti si tolse la giacca. Lo fece lentamente, dopo un’occhiata a quello con la pistola come per chiedere permesso. Scosse la testa guardando penzolare la fodera della tasca interna che gli avevano strappato per prendergli il tesserino, poi ripiegò la giacca sul pavimento e cominciò ad arrotolarsi le maniche. - Che stai facendo? - chiese il Ricciuti con la pistola. - Mi metto comodo, - disse Allegretti. - Ho l’impressione che la nostra conversazione andrà per le lunghe. - Non credo, - disse Sanna. Il Ricciuti ferito scese giù dal lettino, atterrando sulla gamba buona e saltellando prima di appoggiare anche l’altra. Allegretti smise di arrotolarsi le maniche, allarmato. - Ehi, ehi, - disse Valentina, - che sta succedendo? - Il giudice esce un momento a fumarsi una sigaretta mentre la forza pubblica continua l’interrogatorio. - Io non fumo e non sono quel tipo di giudice. Certe cose non si fanno. - Si fanno, si fanno... - disse Sanna, e: - Vero che si fanno? - ai Ricciuti, che annuirono. Quello ferito si scostò i capelli dalla fronte, mostrando una cicatrice biancastra. Allegretti era ancora troppo sorpreso per opporre resistenza e si fece sollevare dal
pavimento senza fatica. Valentina si affossò nella poltrona, tirando su le gambe come per nascondersi dietro le ginocchia. Chiuse gli occhi e fece in tempo a sentire Sanna che diceva: «Cesso o finestra?» Prima di tapparsi anche le orecchie, con le mani. I vestiti di Sanna le andavano abbastanza bene, perché era piccolo e minuto quasi quanto lei. Aveva dovuto arrotolare solo le maniche della camicia e i risvolti dei calzoni, troppo larghi in vita, ma faceva lo stesso. Le scarpe invece no, quelle erano corte, perché lui portava un numero in meno del suo. Per un po’ Valentina le aveva infilate a metà, schiacciandole sotto il tallone come ciabatte - Sanna di pantofole non ne aveva - poi se le era tolte e adesso camminava nel giardino con le scarpe in mano, schiacciando la ghiaia del vialetto sotto i piedi nudi. Non ce la faceva a stare giù nello scantinato. Il sedativo iniziava a perdere effetto e lei si sentiva come se avesse la febbre, elettrica e nervosa, col fianco che le faceva male. Così aveva sfidato i giramenti di testa e la debolezza e si era avventurata per la rampa di scale che portava al giardino. L’aria le aveva fatto bene. Aveva ripreso lucidità e aveva ricominciato a pensare. Non era vero che aveva tutto quello che le serviva, nella cartellina rossa. Probabilmente qualcosa c’era, o magari c’era anche tutto, ma lei non era in grado di capirlo. Sì, transazioni, conti correnti, nomi di società, ma le mancava la chiave per interpretarli. Con il ragioniere, forse, ma chissà dov’era. Se poi era veramente scappato, o piuttosto non avevano ucciso anche lui. Prima o poi sarebbe dovuta rientrare. Presentarsi a una stazione dei carabinieri. Consegnare la cartellina all’imbecille che si occupava del caso perché esaminasse i documenti. Sì, però... documenti ottenuti illegalmente, fatti rubare da un gruppo di delinquenti che la aiutavano clandestinamente. Di cui non avrebbe potuto raccontare nulla perché non voleva farli finire in galera. Valentina si sedette su un gradino, rimase un po’ a guardare i campi oltre la siepe che chiudeva il giardino - era proprio campagna, quella - e si prese la testa tra le mani. La Bambina, la chiamavano i colleghi. La Bambina. Quando lo aveva detto Allegretti le aveva fatto rabbia, ma aveva altro a cui pensare. Poi, per un momento, l’aveva fatta sorridere, ma adesso aveva voglia di piangere, proprio come una bambina. Ma che cosa credeva di fare? Era un giudice, e i giudici non fanno indagini clandestine, i giudici usano la polizia, i carabinieri, la guardia di finanza e anche i servizi. E tutti gli strumenti che offre il codice di procedura penale. Altro che la sua armata Brancaleone di medici radiati e topi d’appartamento. Guardie e ladri, le guardie stanno da una parte e i ladri da quell’altra. Sì, e quando si mischiano? Ad ammazzare Ferro era stata gente col tesserino di Allegretti. Una pioggia di oggetti tintinnò sulla ghiaia accanto a Valentina e qualcosa di duro la colpì sulla testa, bruciante come un taglio. Era una moneta da dieci lire, la vide rotolare sul gradino accanto a un mazzo di chiavi. Poi da sopra arrivò un urlo roco, qualcosa a metà tra un ringhio e un muggito, che la fece alzare di scatto incassandosi
fra le spalle, prima di sollevare lo sguardo e vedere Allegretti fuori dalla finestra, a testa in giù, le braccia allargate come in croce, e sopra i due Ricciuti che lo tenevano per le gambe. Rientrò in casa, così scossa da non sentire lo strappo al fianco e neppure il bruciore tra i capelli. Si fermò sulla porta, sbigottita, senza arrischiare di affacciarsi per guardare in su. Cosa credeva di fare? Qualunque cosa le avesse detto Allegretti in quelle circostanze non avrebbe mai potuto usarla, anzi, se solo ne avesse parlato sarebbe finita in galera anche lei. Poteva avere qualche indicazione, qualche indizio sulla chiave per interpretare i dati, nomi di funzionari infedeli, roba da portare in procura, giustificandola in qualche modo, perché la sua indagine non venisse ignorata. Oppure no, niente di tutto quello. Una cosa, però, doveva farla subito. Interrompere quella tortura. Farli smettere, adesso. Fece per uscire dalla porta ma la percezione dell’ombra che cadeva giù la bloccò sulla soglia un attimo prima che Allegretti le passasse davanti, insaccandosi sui gradini con un tonfo, seguito dalla sua cintura, spezzata a metà, e da una bestemmia di Sanna. - Di nuovo. - Ancora? L’ho già ripetuto due volte. - Lo ripeta ancora. Voglio sapere tutto quello che ha detto. Sanna sospirò. - Allora, ha detto che c’era una guerra e non sapevamo in che merdaio ci eravamo infilati. - Ha detto così, c’è una guerra, non sapete in che merdaio vi siete infilati? - No, prima il merdaio e poi la guerra, «siete in mezzo a una guerra», per essere precisi. - E quando? Mentre era a testa in giù? - No, quando eravamo nel cesso, tra un’immersione nel water e l’altra. Valentina represse un brivido. - Di nuovo, per favore. E dall’inizio. Sanna sospirò ancora. Un interrogatorio così non l’aveva subito neanche quando lo avevano arrestato. Ma dopo quello che era successo non poteva fare altro che obbedire. I Ricciuti avevano suggerito di buttare anche il giudice dalla finestra e poi filarsela, ma lui non voleva. «Lasciamo fare alla Bambina», aveva detto, proprio così, pure lui, la Bambina, e gli altri avevano annuito, in silenzio. Anche perché intanto si era preso la pistola col silenziatore e non l’aveva più mollata. Così raccontò per la terza volta che avevano portato Allegretti in gabinetto, al pianoterra, e i Ricciuti gli avevano tenuto la testa dentro la tazza per quasi un minuto, ma lui niente. Allora dentro un altro minuto e mezzo, e lui aveva sputato e tossito, ma ancora niente. Allora dentro per quasi due minuti - Sanna aveva anche tirato l’acqua due volte - e quando lo avevano tirato su aveva detto: «Non sapete in che merdaio vi state infilando». Sanna aveva risposto: «Nella merda per ora ci stai tu», e allora
Allegretti aveva detto: «Siamo in mezzo a una guerra». E siccome sembrava ammorbidito abbastanza lo avevano riportato nell’ambulatorio. Quella parte Valentina se la ricordava. Allegretti in ginocchio sul pavimento, a tossire, i capelli bagnati che gli scendevano a ciuffo sul naso a becco. Lei seduta impettita sulla poltrona, le mani aperte sui braccioli come su uno scranno, cercando di sembrare un magistrato inquirente nonostante la camicia di Sanna, i suoi calzoni arrotolati in vita e sulle caviglie, e i mocassini portati come fossero espadrillas. Almeno non era in pigiama. - Davvero non sa quello che sta succedendo fuori? Non ha idea di quello che si è scatenato? - Con le mie indagini? - Ma no. Quella è routine. Capita che un magistrato bravino arrivi a scoprire uno dei nostri traffici. Tra parentesi, io l’ho sempre detto che bisogna coprire bene le storie di soldi, meglio del resto. Insomma, a seguire un omicidio al massimo si trova un assassino. Invece a seguire i soldi non si sa mai dove si va a finire. - Fine parentesi. E poi? Eravamo rimasti alla routine. Il magistrato bravino scopre una società che produce fondi neri. - Esatto. Si sostituisce l’anello debole della catena... in questo caso con una esfiltrazione all’estero perché serve ancora... poi si fa fuori il magistrato con una scusa plausibile e si affida l’indagine a uno dei nostri. Allegretti si era morso un labbro, Valentina se lo ricordava bene. Si era subito annotata mentalmente di aggiungere «corrotto» all’aggettivo «imbecille» quando pensava al collega istruttore. - E il casino cosa sarebbe? Che non siete riusciti a uccidermi? - No... cioè, sì, anche quello, ma... mi perdoni dottoressa, è sempre rimediabile. No, il casino è che lei è sparita. E sono tutti lì a chiedersi chi ce l’ha, chi se l’è presa, per chi lavorava quel poliziotto, perché non ci crede nessuno che se la sia portata via così, solo perché è matto, naturalmente. Ma se lo ha fatto ci sarà un motivo, no? Dottoressa, io sono qui in mano vostra e non faccio danni, ma avrà capito che sono curioso, no? Faccio questo mestiere praticamente per questo... me lo dice per chi lavorava il poliziotto? Chi sono questi qui? Con chi sta, lei? - In questa guerra? - Guerra? Quale guerra? - L’hai detto tu quando ti tenevamo la testa nel cesso, - aveva sibilato Sanna, i baffi dritti sulle labbra tese. Si vedeva che si stava arrabbiando sempre di più. - Be’, lei sa come va il mondo, dottoressa, non è che quelli che stanno dietro siano sempre d’accordo tra di loro. Soprattutto quando quelli vecchi non vogliono mollare il posto a quelli nuovi, e adesso siamo più o meno in un periodo così, con i nostri che stanno un po’ con quelli vecchi e un po’ con quelli nuovi. Un brutto periodo. Lei lo sa cosa si fa quando si deve cambiare tutto perché niente cambi. - No, che si fa? Allegretti aveva gonfiato le guance e lasciato andare il fiato tra le labbra socchiuse. - E mica solo con le bombe. Con i ricatti, i dossier, i soldi, e le informazioni. E i giudici.
- Adesso lei mi dice chi è questa gente in guerra. Mi dice chi sono. Mi dice i nomi. - È una lista lunga. Non ha idea di chi c’è dentro. - E cos’è, un partito? Un gruppo, un clan, una loggia? Cos’è? Allegretti aveva sospirato, senza dire niente, e si capiva che da quel punto in poi più che sospirare non avrebbe fatto. - No, no... io non l’ho mai detto. Allora Sanna aveva fatto un cenno ai Ricciuti, che avevano preso Allegretti per le braccia, Valentina si era di nuovo affossata nella poltrona e i suoi ricordi erano finiti lì. Avevano pensato che ormai le immersioni nel water non avrebbero avuto più lo stesso effetto, così avevano portato Allegretti al terzo piano e lo avevano messo a testa in giù fuori dalla finestra, dato che da quella parte la casa dava sui campi e non li avrebbe visti nessuno. Avevano fatto notare al capitano che sarebbe caduto di testa proprio sulle scale - cosa che in effetti era avvenuta - e avevano cominciato a scrollarlo. Lo tenevano i Ricciuti, soprattutto quello giovane, che gli aveva afferrato la cintura, ma si era spezzata e quello era venuto giù. Amen. - Senta, - disse Sanna, - questo qui non è il Pinelli, questo era un gran bastardo, non è che dobbiamo farci troppo il sangue cattivo se è caduto dalla finestra. Molliamolo da qualche parte e ciao. Valentina sembrava non ascoltarlo. Aveva rimesso il gomito sul bracciolo e il mento sulla mano, con l’altra sul fianco sano, e Sanna era rimasto a guardarla in silenzio. Le labbra strette e la ruga tra gli occhi, in mezzo alla fronte. La ragazzina. La Bambina. Il giudice. Restò così un pezzo, poi girò su Sanna quello sguardo deciso a cui non si poteva fare altro che obbedire. - No, - disse. - No? - Non lo molliamo così. - Guardi che la polizia noi non possiamo chiamarla... - I fratellini le sanno rubare le macchine? - In che senso? - Non lo so, spaccando il vetro, forzando la serratura. La possono rubare una macchina? - Sì, ovvio... sì. - Allora rubate una macchina, mettete Allegretti nel baule e date fuoco a tutto. Sanna rimase a bocca aperta, così sorpreso che non alzò neanche la mano per prendere il portafogli che Valentina gli aveva lanciato. Gli rimbalzò sul petto e cadde sul pavimento, aperto sulla tessera del capitano. - E fate in modo che questo resti intatto dove lo possano trovare. Successe tutto in tre giorni.
Il primo giorno fu quello del ritrovamento dell’auto con il corpo carbonizzato di Allegretti che i Ricciuti avevano lasciato alla periferia di Bologna, ancora abbastanza in città da poter chiamare sia la polizia che i carabinieri, prima l’una e poi gli altri. Come Valentina si aspettava, nacque subito un conflitto di attribuzione che dette risalto al fatto che Allegretti fosse un carabiniere che non era proprio un carabiniere. Era sicura che la morte del capitano avrebbe reso ancora più incandescenti i rapporti tra i vari uffici dei servizi, e che sicuramente sui giornali c’erano messaggi criptati che riportavano reciproche accuse, offerte di pace e dichiarazioni di guerra, ma non era in grado di leggerle tra le righe e non lo fece. Il secondo giorno fu comunque quello della stampa. Mandò Sanna a fare il giro delle cartolerie per fotocopiare i documenti rubati nell’ufficio del ragioniere, poi li spedì a tutti i giornali che le vennero in mente. Li aveva accompagnati con una nota anonima che accennava ai legami tra una certa società e i servizi, così la stampa mise in relazione i documenti con la morte di Allegretti. Il terzo giorno l’avvocato del fidanzato di Valentina rilasciò un’intervista al vetriolo, ripresa dai telegiornali, in cui lamentava che il suo assistito fosse indagato per un tentato omicidio passionale quando appariva evidente che qualcuno aveva sparato a Valentina per le indagini che stava facendo e che sembravano toccare pericolosamente frange deviate dei servizi. Quello stesso giorno, dalla Spagna, il ragioniere si fece vivo con un giornalista della controinformazione dicendo che forse sarebbe potuto rientrare. Probabilmente era una forma di pressione di un ufficio su un altro, ma dal punto di vista di Valentina contribuì a rendere la situazione abbastanza definita da ritenere che fosse arrivato il momento del suo rientro. E così il quarto giorno si fece comprare da Sanna un maglioncino e un paio di ballerine, uscì a cercare il primo posto di blocco a cui consegnarsi, e resuscitò. Non sapeva il suo nome, non glielo aveva mai chiesto, e quando lo vide, lontano e di spalle, sotto i portici di via Indipendenza, non poté fare altro che gridare: - Ehi! - e poi: - Dottore! Sanna si voltò. Valentina allargò le braccia, facendo cenno ai due poliziotti in borghese che la scortavano di stare indietro, e corse verso di lui che pensava: «Cavolo, sembra proprio una ragazzina». Non portava più il maglioncino, perché agosto era iniziato da un paio di giorni e faceva un gran caldo, ma si era anche tagliata i capelli e dimostrava meno di vent’anni. - Ha visto, - gli disse, - ho mantenuto la promessa. Non sono un’infame. Alla polizia aveva raccontato di essere rimasta sotto sedativo fino al momento in cui era riuscita a scappare, non sapeva da dove né da chi. Non aveva rivelato niente di utile e non era arrivato nessuno a metterle la testa nel cesso per farle dire di più. - Però non si aspetti un occhio di riguardo se dovessimo incontrarci di nuovo. Professionalmente, intendo. - Dubito che tornerà a farsi ricucire nel mio ambulatorio. - Non mi riferivo a me. - Lo so.
Curioso come sentissero tutti e due di avere un sacco di cose da dire ma provassero imbarazzo a farlo. A Sanna era già successo con rapinatori a cui aveva tenuto la mano come bambini, e a Valentina con poliziotti e carabinieri con cui aveva diviso serate e notti sulle carte, in ufficio. Poi finiva tutto e tornavano estranei. - Posso sapere come si chiama? - chiese Valentina. - Preferirei di no, - disse Sanna. - Come va la sua inchiesta? Leggo il suo nome sui giornali. Anche il soprannome, ogni tanto. La Bambina. - È ferma. Lo so, non è passato neanche un mese, ci sono ancora tanti accertamenti da fare, ma lo capisco quando non si muove più niente. Aveva fatto tornare il ragioniere, aveva arrestato un po’ di colletti bianchi e si erano dimessi un paio di colonnelli dei servizi. Il collega imbecille e corrotto era stato incriminato e sospeso. Aveva messo le mani su un bel giro di fondi neri, ma niente di più. Nessuno che avesse mai parlato di qualcosa di più grosso, partito, clan o loggia, vecchio o nuovo che fosse. E tantomeno di una lista di gente importante. - Almeno abbiamo vendicato Ferro, - disse Sanna. Valentina fece un altro cenno ai poliziotti, perché stessero ancora lontano. - Io voglio pensare che abbiamo fatto qualcosa di più. Gli abbiamo dimostrato che non possono fare quello che vogliono sopra la nostra testa e dietro la nostra schiena, come se fossimo dei burattini che si possono anche gettare via. - E crede che smetteranno di ammazzare la gente e mettere le bombe per... come diceva quello... gestire la democrazia? - Non lo so. Ma ogni volta che si fa un’inchiesta come questa, dovunque arrivi, gli mettiamo i bastoni fra le ruote e prima o poi la macchina si ferma. - Lo crede davvero? - Sì, adesso l’ho capito. Non farei questo mestiere se non fosse così. Sanna stese le labbra sotto i baffi. Ormai Valentina aveva imparato a distinguere un sorriso da una smorfia, e adesso stava sorridendo. - Marco Sanna, - disse, tendendo la mano. In quel momento un boato si schiantò fortissimo nell’aria immobile di agosto, seguito da un rombo che restò a rotolare nel cielo come un tuono infinito. Molta gente sotto i portici era caduta a terra per la sorpresa, e anche Sanna e Valentina erano in ginocchio sul marciapiede, la testa incassata nelle spalle, a tenersi le mani. Poi si alzarono e uscirono da sotto il portico, nella strada, e videro una colonna di fumo che si alzava, gonfia e nera, là dove c’era la stazione.
I versi delle canzoni citate in questo racconto alle pp. 45-47, 50, 64-65, 67 sono tratti rispettivamente da: Pino Daniele, Je so’ pazzo (P. Daniele) - © 1979 Emi Music Publishing; The Cure, A Forest (Smith/ Tolhurst/Gallup/Hartley) - © 1980 Universal Music Publishing Group; Gianni Togni, Luna (G. Morra - G.Togni) - © 1980 Sugarmusic s.p.a., Parking Edizioni Musicali s.r.l.
Giancarlo De Cataldo-Il triplo sogno del procuratore
La leggiadria con la quale l’Occidente si sta consegnando, legato mani e piedi, alla criminalità, mi fa pensare che fra mafia e democrazia esista un legame indissolubile. Grazie ai flussi di capitali che il crimine organizzato riversa giorno dopo giorno nei settori strategici dell’economia, le nostre democrazie possono sopravvivere egregiamente alle crisi ricorrenti. L’accumulazione del capitale mafioso, in origine illecita, necessita di trovare la sua giustificazione in un complesso sistema, legislativo e processuale. Si tratta, da un lato, di continuare a illudere la gente che a governare le dinamiche sociali siano la politica e la legge; dall’altro, di assicurare, nel giro di due, al massimo tre generazioni, la completa integrazione delle mafie. I mafiosi sono, oggi, i nuovi capitani di ventura: garantiscono la tenuta del sistema e si avviano a traghettarlo verso l’alba del domani. I loro figli e nipoti costituiranno una nuova élite destinata a ereditare l’Occidente. THELONIOUS K. LECINSKY, Democracy and Conspiracy, Samanthowatan University Press, 2010.
Prologo
Novere, autunno 1966. - Ragazzi, per favore, un momento di attenzione! Oggi vi insegnerò un nuovo gioco. Statemi a sentire! Il primo ottobre 1966 il nuovo maestro, un giovanotto con gli occhiali cerchiati, il pullover e i calzoni di velluto, aveva preso il posto del vecchio ex ufficiale della Repubblica sociale italiana tristemente noto agli alunni della scuola elementare Fratelli Bandiera di Novere per il suo uso disinvolto della bacchetta e per la strana mania di concludere il Paternoster di rito con le parole «così è». - Piccoli deficienti, cos’è questo così sia? Osate mettere in dubbio la parola di Colui Che Tutto Può? Così è si deve dire, santa pace! E giù bacchettate ai disobbedienti, che distribuiva velocissimo, come velocissimo risaliva in cattedra e apriva il registro con una mano, lisciandosi i baffi con l’altra. Il maestro Vito invece non alzava mai la voce, non distribuiva botte a destra e a manca, e, a parte l’inveterata incapacità di padroneggiare la corretta pronuncia delle «e» e delle «o», retaggio dell’origine pugliese, era un tipo simpatico e gagliardo. Soprattutto, li sapeva acchiappare. Li coinvolgeva: chiedeva la loro opinione su tutto. Li faceva sentire importanti e, sì, quasi (ma solo quasi, eh) adulti. - Allora, il gioco è questo, ragazzi. Noi tutti viviamo in una democrazia. Sapete cos’è una democrazia? I vostri genitori ve lo hanno spiegato? Qualcuno vuole rispondere? Sentiamo Ottavio. - La democrazia è la nostra forma di governo. Significa che tutti siamo uguali e abbiamo il dovere di votare alle elezioni. - Ci siamo quasi. Bravo. Qualcun altro? Pierfiliberto! - La democrazia significa che tutti vogliono mangiare e nessuno ha voglia di lavorare. - Interessante. Farina del tuo sacco, Pierfiliberto? - Mio padre dice così. Dice che si stava meglio quando si stava peggio. - Molto chiaro. Adesso vi spiego il gioco che faremo domani... Il maestro la prese alla lontana. Partì da Pericle, il grande re che per primo aveva sostenuto l’uguaglianza dei cittadini, narrò di Bruto e Cassio e del loro vano tentativo di liberare Roma dal tiranno, dei baroni inglesi, con la loro lotta per strappare al re la Magna Charta, di Macchiavelli e dei Medici, signori della libera e fiorente Firenze, della Rivoluzione francese e dei diritti dell’uomo. S’interruppe un momento, li fissò uno per uno e riprese a raccontare ai ragazzi le guerre che i loro avi avevano combattuto per fare dell’Italia un paese libero e unito. Di questo e di tanto altro ancora parlò il maestro Vito. E i suoi ragazzi lo stavano ad ascoltare, rapiti. Non si può dire che capissero tutto: i fratelli Bandiera, per esempio, quelli che davano il
nome alla scuola. Secondo il maestro Vito erano stati due giovani e nobili eroi. E questo un poco li sorprese, perché per i ragazzi della V C fino a quel momento si era trattato di brutti busti di gesso ricoperti di sputi, cicche filanti incastonate nelle orbite vuote, scritte oscene. Anche se non avevano capito tutto, una cosa di sicuro ai ragazzi della Fratelli Bandiera fu chiara: da allora in avanti avrebbero eletto loro stessi il capoclasse. Era una vera e propria rivoluzione: il vecchio maestro, il capoclasse l’aveva sempre nominato lui. E la scelta era sempre caduta, sin dal primo anno, su Pierfiliberto Berazzi-Perdicò. Perché era il più alto, il più grosso, il più manesco e, va da sé, il più spione. In una parola, il più cattivo. Perfetto, dunque, agli occhi del vecchio maestro, visto che il suo compito consisteva nel mantenere l’ordine a suon di sberle e riempire con almeno sei-sette nomi al giorno la colonna dei «cattivi» alla lavagna - quanto ai «buoni», un nome a settimana, il suo, era più che sufficiente. Un fremito di gioia selvaggia percorse dunque i bravi figlioli quando capirono che c’era aria di rivoluzione. E ai pochi che si ostinavano a ripetere che non sarebbe cambiato niente, Ottavio spiegò che, invece, cambiava tutto. Niente più punizioni arbitrarie, niente più angherie né soprusi, niente bacchettate ai nemici né crudeli pegni imposti con la violenza. Finalmente era arrivata la democrazia. - Allora voteremo tutti per te! - proclamò di slancio Donato Casati, piccolo, biondino, mingherlino, vittima prediletta di Pierfiliberto, che amava gratificarlo degli appellativi, ogni volta alternati nell’ordine ma sempre cumulati, di mezzafemmina, pisciasotto e quattrocchi. - Io o un altro di noi, è lo stesso, - si schermì Ottavio, - basta che non sia lui! - Devi essere tu! Davanti alla collettiva, convinta adesione di ventiquattro coraggiosi compagni, che era già pronto a vedere come giovani eroi, Ottavio provò il primo, autentico brivido di vanità della sua ancor giovane vita. Ma anche Pierfiliberto aveva fiutato il vento del cambiamento. Quei miserabili pisciasotto, mezzafemmina, quattrocchi si sarebbero coalizzati contro di lui. E lui avrebbe perso il potere. Nessuno avrebbe più avuto paura di lui. Nessuno gli avrebbe più fatto i compiti temendo, in caso di rifiuto, la ritorsione. Addio, maglia di centravanti nelle partitelle del finesettimana: tutti avrebbero urlato a gran voce ciò che era risaputo ma non si osava dire apertamente, e cioè che Pierfiliberto era una scamorza al gioco del calcio. La catastrofe incombeva. E il grande nemico, Ottavio, l’unico che non aveva mai avuto paura a metterglisi contro, quello che incassava stoicamente le bacchettate con un insopportabile sorrisetto di scherno, proprio Ottavio avrebbe trionfato. Non poteva accadere. Non doveva accadere. E non sarebbe accaduto. Quei cacasotto avevano fatto i conti senza l’oste. Pierfiliberto non sapeva che diamine significasse, quell’espressione: suo padre l’aveva pronunciata in due o tre occasioni storiche, al culmine di accese dispute domestiche. Era la frase che riduceva al silenzio la mamma e riportava l’armonia in famiglia. Se funzionava in casa, doveva funzionare anche a scuola. Pierfiliberto non era tipo da arrendersi senza combattere. C’erano ventiquattro ore di tempo prima
delle elezioni. Il maestro Vito aveva commesso un grave errore. Gli aveva dato tempo per organizzare la contromossa. Se si fosse votato subito, sull’onda emotiva del discorso su Pericle e quegli altri vecchi deficienti, il suo destino sarebbe stato segnato. Ma il maestro Vito aveva sbagliato. Serviva un’idea. E l’idea arrivò, nottetempo. La mattina delle elezioni Ottavio sentì subito un’aria strana. Donato Casati, che il giorno prima era stato il suo più entusiasta sostenitore, gli era scivolato accanto con gli occhi bassi, mentre andava a deporre il bigliettino nell’urna allestita dal maestro Vito. Pierfiliberto, invece, aveva votato con ostentata sicurezza, circondato da tre o quattro di quelli che, il giorno prima, avevano giurato a Ottavio eterna fedeltà. Quando il maestro proclamò il risultato, sull’aula della V C scese un colpevole silenzio. - Berazzi-Perdicò, voti venticinque. Mandati, voti uno. Dichiaro Pierfiliberto Berazzi-Perdicò capoclasse sino al termine dell’anno scolastico. A Ottavio si offuscò la vista. Dovette lottare con quanta forza aveva in corpo per ricacciare indietro le lacrime che premevano per erompere, furiose. No, questo no. Piangere davanti a Pierfiliberto mai! Si perse così, teso nello sforzo di non piangere, il sorriso addolorato con cui, a uno a uno, i rinnegati si sentirono in dovere di affibbiargli sulla spalla delle pacche amichevoli. Si perse il ghigno apertamente ostile del vincitore; e il tono un po’ amaro con il quale il maestro sanzionò il risultato. - Complimenti. Oggi avete dato tutti una bella prova di democrazia. Quello stesso giorno, all’uscita, Donato Casati gli rivelò l’inghippo. A dire il vero, Ottavio nemmeno avrebbe voluto ascoltarlo: quando l’altro gli si era avvicinato, aveva fatto di tutto per scansarlo. Ma la curiosità, alla fine, aveva prevalso sulla rabbia. Com’era andata? Semplice. Pierfiliberto si era comperato i voti. A uno a uno. Il prezzo: fumetti da collezione, e senza lesinare su quelli particolarmente ambiti. I «Tex» in formato striscia, «Capitan Miki» e «Black Macigno» e i coloratissimi albi dell’«Intrepido». E gomme da masticare, quaderni nuovi, rare figurine Panini persino bisvalide e trisvalide. Anche il maestro Vito aveva saputo. Dopo che Donato Casati si era ritirato, il maestro si avvicinò a Ottavio e lo abbracciò, come un padre con un figlio. - È stata una dura lezione, ma ti servirà. Tu sei un leoncino, ti riprenderai. Ma la storia non era ancora finita. Qualche giorno dopo, sempre Donato Casati, durante la ricreazione, lo avvicinò con aria contrita. - Pierfiliberto si è ripreso tutto quello che ci aveva dato. I giornaletti, le figurine, tutto. Ha anche detto che da domani gli dobbiamo pagare a turno la merenda. Ha detto che ormai è stato eletto e quindi gli dobbiamo ridare la roba sua. - E io che dovrei fare? - Devi dirlo al maestro. Così annullerà l’elezione e rifaremo i voti. - Ah, no. Voi ve lo siete scelto e voi ve lo tenete! E, mentre lo diceva, si sentiva invadere da un meraviglioso senso di sconfitta. Non poteva ancora saperlo, il piccolo Ottavio, ma si trattava proprio di quell’autocommiserazione autocelebrativa che Teresa gli avrebbe
rinfacciato per tutta la vita. Ma, corna d’alce, per dirla con l’adorato Black Macigno, si sentiva così tanto Cincinnato, e così fiero di esserlo! Pierfiliberto restò capoclasse per tutto l’anno. Ma poiché il maestro Vito era molto diverso dal vecchio maestro, fu presto chiaro che il suo ruolo era soltanto formale. Incapace di farsene una ragione, Pierfiliberto, la prima volta che il maestro dovette assentarsi per una «riunione dal signor direttore», si precipitò alla lavagna, tracciò una linea nel bel mezzo del piano di scrittura, incise col gesso BUONI a sinistra e CATTIVI a destra e cominciò a scrivere nomi sulla seconda colonna. Era arrivato a quindici (capolista: Ottavio) quando il maestro fece ritorno all’improvviso. - Che cosa credi di fare, Pierfiliberto? - I buoni e i cattivi, signor Maestro! - E da dove nasce questa brillante trovata? - Col vecchio maestro facevo sempre così. E poi lui dava la ricompensa ai cattivi. - La ricompensa? - Dieci bacchettate... - Forse non ti è chiara una cosa, ragazzino. Io non sono il tuo vecchio maestro. Qui non si usano né bacchettate né punizioni di quel tipo. Adesso torna al posto. Fammi un’altra volta questo scherzo e ti revoco l’incarico di capoclasse. - Non può farlo, signor maestro. Sono stato eletto dai miei compagni. È la democrazia. Il maestro Vito guardò i suoi allievi. Ridevano, divertiti dalla battuta di Pierfiliberto, estasiati dalla sua prontezza di spirito. Provò, per loro e per sé, una gran pena. Solo Ottavio se ne stava serissimo, quasi disgustato. Provò pena anche per lui. Per un istante gli balenò il pensiero che la democrazia poteva persino essere una pessima idea.
1.
Novere, Italia, oggi. Una notte, Ottavio Mandati, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Novere, fece un sogno. Due uomini vestiti di nero bussavano alla sua porta e gli notificavano un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Quei tizi erano in tutto e per tutto identici a Bardolfo e Pistola, i due vecchi marescialli che da sempre collaboravano con lui. Se non si fosse trattato di un sogno, il procuratore si sarebbe fatta una bella risata. Bardolfo e Pistola erano noti buontemponi, toscanacci tosti, di quelli che, pur di non rinunciare a una burla, si sarebbero bucati un occhio. Ora, notificare a un alto magistrato un ordine di arresto con la sua stessa firma in calce era certo una bella burla. Ma era un sogno. E Mandati per primo sapeva di sognarlo. Il procuratore, d’altronde, amava sognare. Così si limitò a dare una rapida scorsa al documento, senza soffermarsi più di tanto sulla propria firma. - Papà! Ma che sta succedendo? Lucio era il suo unico figlio. Un ragazzone introverso. Ventidue anni, masticava malvolentieri legge, adorava il rock, inseguiva ragazze impossibili, era inseguito da altre, più disponibili, che regolarmente disdegnava. Tutti dettagli appresi dopo una scorribanda clandestina in Facebook. Quando Teresa lo aveva sorpreso in piena attività di spionaggio, si era difeso debolmente: lo faccio anche per te, non è giusto che nostro figlio ci tagli fuori dal suo mondo. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo di commiserazione di lei. - Allora, papà, vuoi spiegarmi? Quella mattina, come tante altre, il figlio stava rincasando. Da un concerto, da un amore, da chissà dove. Lucio non doveva sapere. Anche se era solo un sogno, non doveva sapere. Il procuratore interrogò con un’occhiata sgomenta i suoi angeli custodi. Annuirono. - Niente, un imprevisto. Va’ a dormire, ché hai certe occhiaie... Rinfrancato, il procuratore che aveva arrestato sé stesso scivolò sul sedile posteriore della vecchia Alfetta blindata, rabbrividendo nel sottile kimono con la stampa del Fujiyama innevato che aveva indossato in fretta e furia sul tradizionale pigiama a righe. Pistola si mise al volante, Bardolfo prese posto accanto a lui. L’Alfetta parti tossicchiando, accompagnata dall’eco di un sinistro tintinnare di ferraglia. Da sei mesi, da quando erano cessati i rifornimenti ministeriali, era Mandati
a pagare la benzina, di tasca propria. Quanto al kimono e al pigiama, erano regali di Teresa. Il kimono ricordo di un viaggio postadolescenziale nel paese del sol levante, il pigiama di una più prosaica gita a un outlet sul lago di Lugano. Due indumenti ormai logori e socialmente impresentabili. Ottavio Mandati ci era morbosamente affezionato perché gli ricordavano l’aspro affetto della compagna di vita, i tanti momenti teneri trascorsi insieme. E anche, naturalmente, il bagliore esasperato dei suoi occhi nerissimi che immancabilmente scandiva le loro interminabili discussioni. D’altronde, chi mai si sarebbe presentato in società, se così si poteva dire, in kimono e pigiama, se non il protagonista di un sogno? Scorrevano, intanto, circonfuse da una curiosa luminescenza giallognola, forse dovuta ai fiochi filari di lampioni, forse ai finestrini sporchi, le sagome dei casermoni 2. della Zona Pep. Il capolavoro edilizio del signor sindaco. La sua più grande truffa. La Madre Di Tutti Gli Abusi. Trecentoventisette licenze edilizie concesse in una sola notte a titolo di variante del piano regolatore. Intestatarie quindici società dalle denominazioni accattivanti: Prato Fiorito, Alba Luminosa, Fonte Meravigliosa, Azzurro Orizzonte. Titolari: altrettanti prestanome del signor sindaco. Una mattina, le ruspe avevano inesorabilmente spianato la vecchia scuola elementare, lo storico giardino con le panchine e il cippo ai caduti di Novere «in tutte le guerre per la difesa della Patria». Nemmeno uno dei quarantotto alti e ombrosi platani era stato risparmiato. Ottavio, giovane sostituto procuratore, si era fatto delle domande. E aveva avviato un’indagine. Il procuratore capo Smilzi-Trionfi lo aveva subito convocato. - Il popolo di Novere chiede case per sé e i suoi figli, Mandati. Vuole spiegarmi che cavolo c’entriamo noi, la legge, con tutto questo? Cosa? Perquisizioni? Arresti? Ma non se ne parla proprio! Smilzi-Trionfi avocò il caso, che morì di istantanea e indolore archiviazione. Roba passata. Provi un piacere malato nel rievocare le tue sconfitte, lo rimproverava Teresa. Ma l’alambicco dell’autocommiserazione non distilla altro che fiele. Passarono, senza fermarsi, davanti al carcere. Mandati ne chiese ragione ai suoi angeli custodi, che si strinsero nelle spalle. Che si procedesse per direttissima? Ma anche in quel caso, si sarebbe dovuto comunque registrare l’arresto. Sogno proceduralmente scorretto, annotò, con una vaga ironia, il procuratore. Davanti al palazzo di giustizia attendeva una piccola folla. L’aurora luceva incerta. Caroselli precoci di rondini squarciavano l’aria. Si annunciava una giornata di sole. Mandati distinse volti familiari di assassini, ladri e stupratori dei quali aveva chiesto, e non sempre ottenuto, la condanna. Attendevano, muti e composti, che scendesse dall’Alfetta, frammisti ad altri volti altrettanto noti: erano le parti offese nel cui nome aveva chiesto, e non sempre ottenuto, giustizia. Riconobbe la vedova Schirinzi. Suo marito, giovane operaio precario, era stato ucciso dalla gestione delinquenziale di un cantiere privo delle più elementari regole di sicurezza. C’era il piccolo Teodori, rattrappito sulla sedia a rotelle. Aveva tredici anni quando un giovane rampollo della Novere bene lo aveva investito durante una gimkana a luci spente che doveva concludere degnamente una notte brava a base di whisky, pupe & coca. Una perizia compiacente, in appello, aveva ribaltato i fatti: come gli era venuto in mente, al
ragazzino, di attraversare di corsa tagliando la strada a un bravo giovane che se andava per i fatti propri? Come? Rischiava di perdere l’ultima corriera per la scuola? Cavoli suoi! Poteva alzarsi prima! Bardolfo e Pistola si affiancarono al procuratore. La piccola folla attese che si avviassero lungo la scalinata, poi li seguì, disciplinatamente. Mandati si girò. Invano cercò di decifrare una qualche espressione: risentimento, delusione, vendetta. Niente. Quei volti di pietra non esprimevano che una comune, algida indifferenza. All’improvviso, da quei volti impenetrabili prese a levarsi un mormorio sinistro. Mandati si sforzava di afferrare il senso di quei suoni: come facevano, se avevano la bocca chiusa? Che diavolo cercavano di dirgli? La... lasc... Ah, ecco: lasciate ogni speranza o voi ch’entrate... Per la prima volta dall’inizio del sogno, il procuratore Mandati ebbe paura. E la paura si fece terrore quando, seduto al banco degli imputati, vide profilarsi l’inconfondibile sagoma di Pierfiliberto Berazzi-Perdicò, il signor sindaco. Indossava la toga nera e i cordoli d’oro dell’inquisitore. Il procuratore che aveva arrestato sé stesso diventava, dunque, imputato del suo imputato.
2.
Scortato dai fidi Bardolfo e Pistola, il procuratore Mandati si affacciò a palazzo di giustizia alle nove in punto del 18 marzo. Era un lunedì piovoso. Tirava un vento umido e freddo. Giornataccia. Il clima, da quelle parti, non era mai stato granché. Pierfiliberto Berazzi-Perdicò aveva contribuito al suo peggioramento provvedendo a far abbattere il bosco di larici che da lunghi anni attenuava il rigore degli inverni e l’afa delle fulminee, pestilenziali estati. D’altronde, l’edificando complesso edilizio residenziale Colle d’Oro avrebbe dato una formidabile spinta alle attività produttive della provincia e catturato, con le sue indubbie attrattive, quel turismo selettivo che Novere meritava. A chi poteva stare a cuore la sorte di quattro vecchi alberi spelacchiati? - Allora, dottor Mandati... Non s’è ancora stancato di perseguitare il nostro sindaco? Tafano Tafàni, principe dei cronisti di Telenovere, con assistente tatuato e microfono «gelato» in resta, l’attendeva ai piedi della scalinata. Cinque o sei galoppini di testate minori, muniti di registratorini digitali, si mantenevano a rispettosa distanza, pronti a intercettare qualunque battuta. Nel corso degli anni Ottavio aveva imparato ad attenersi ad alcune regole. Primo: mai parlare con un giornalista ostile. Secondo: mai perdere la calma. Elargì dunque al cronista, che amava definirsi «la voce di Novere libera», un sorriso rassicurante, e cercò di dribblarlo con agile slalom. Ma Tafàni gli si mise alle calcagna. - Non parla con la stampa libera, procuratore? Come mai? Ha saputo che secondo l’ultimo sondaggio il sindaco Berazzi-Perdicò gode della fiducia del settantacinque per cento dei suoi concittadini? Le risulta che... Bloccati con un cenno imperioso Bardolfo e Pistola, che su Tafàni avrebbero volentieri rinverdito i fasti pugilistici della vecchia palestra Audace di Rosignano Marittima, Ottavio salì i quattordici gradini in marmo screziato e varcò la soglia del palazzo di giustizia. Con lui davanti che si sforzava di non ascoltare, Tafàni che si sforzava di farsi ascoltare, i carabinieri che si sforzavano di non menargli e i galoppini che si sforzavano di fare i galoppini, non c’è che dire, facevano proprio un bel siparietto. E infatti, tutti si fermavano a guardarli: e chi accennava un sorriso, chi un saluto, mentre i giovani avvocati volgevano ostentatamente lo sguardo altrove, nell’evidente intento di manifestare nella maniera più aperta il disprezzo che ispirava la pubblica accusa. Prima di raggiungere l’auletta delle udienze preliminari, Ottavio si arrestò davanti a uno specchio. Il nodo della cravatta sembrava a posto. L’insieme, dignitoso e sobrio, mai eccessivo, e per amor di Dio senza alcuna concessione all’eccentrico, gli conferiva quel perbenismo un po’ coglione che la gente si aspetta da un magistrato. Quando aveva cercato di spiegarlo a Lucio, suo figlio l’aveva sarcasticamente rimbeccato. - Ma papà, non è che ti vesti così per apparire, perché la gente te lo chiede. È che tu
sei così: perbenista, e un po’ coglione. Il giudice per le indagini preliminari, una collega rotondetta e gioviale, era in ritardo. Tafano Tafàni ne approfittava per registrare qualche passaggio di raccordo per lo special giudiziario che sarebbe andato in onda, a ciclo continuo, per tutto il pomeriggio.
3.
3.
Su quindici procedimenti intentati a carico di Pierfiliberto, solo tre si erano conclusi con l’assoluzione, quindi con una pronuncia che aveva stabilito la sua «innocenza». In quattro occasioni, le sue richieste di rinvio a giudizio erano state disattese; cinque volte l’incriminazione spiccata da Ottavio era stata fulminata da modifiche legislative subentrate in corso d’opera. La collega tardava. Anche gli abituali azzeccagarbugli di fiducia dell’illustre imputato non si erano ancora fatti vivi. Ottavio pregò Bardolfo e Pistola di avvisarlo quando tutto fosse stato a posto, e andò a fumarsi un sigaro toscano su un terrazzino dal pavimento cosparso di cicche ed escrementi di piccioni. Naturalmente, l’appalto delle pulizie era stato affidato, a seguito di trattativa privata, alla ditta di un consigliere comunale legato a Pierfiliberto. Un altro benefattore della comunità noverese. Le prime boccate di sigaro gli mozzarono il fiato. Accidenti, invecchiava. Anche in questo Pierfiliberto lo distaccava di parecchie lunghezze. Avevano la stessa età, ma il sindaco sembrava suo fratello minore. Non fumava, non beveva, faceva jogging due ore al giorno. Si diceva dormisse pochissimo. Possedeva un’energia animalesca che lo piazzava a metà strada fra un ariete e un extraterrestre. Non c’era da stupirsi che in tanti lo amassero. Non fosse stato per quei piccoli particolari - era un delinquente costituzionale, un bugiardo patologico, un predatore d’istinto - persino Ottavio l’avrebbe trovato simpatico. Su un ponteggio dall’altro lato del cortile due operai picchiavano fiaccamente su una lamiera dall’incerta tenuta. Anche il palazzo di giustizia aveva una sua storia. E come avrebbe potuto essere altrimenti, a Novere? Era sorto a metà degli anni Ottanta su un terreno di proprietà di Rocco e Saro Pantaleo, due fratelli di Piatì usciti di scena negli anni successivi a causa di un’intossicazione acuta da piombo. Fra acquisizione del terreno, concessione della licenza edilizia, appalto, ristrutturazione (a un certo punto era emerso un serio problema con l’amianto), il signor sindaco ci aveva lucrato un paio di patrimoni. Ed era uscito da tutte le inchieste come un neonato fresco di bagnetto. Ogni volta che metteva piede in quel palazzo, Ottavio doveva farsi forza per non vomitare. Sedeva sul prodotto del malaffare. E in suo nome amministrava la giustizia. Bardolfo e Pistola, trafelati, irruppero, sottraendolo al flusso dei ricordi. - Dottore, venga, presto, è successo un casino!
4.
Alle otto e quarantacinque, mentre si apprestava a salire a bordo della Lexus RX450 di colore nero parcheggiata nell’ampio giardino della villa di famiglia, il sindaco Pierfiliberto Berazzi-Perdicò era stato raggiunto dal figlio Terenzio. L’avvocato Appella, bloccato da un ingorgo sulla tangenziale del capoluogo, chiedeva di lui con urgenza. La telefonata era giunta all’apparecchio fisso. Alla domanda del padre: «Perché non mi ha chiamato sul portatile?» il ragazzo aveva risposto esibendo il suddetto portatile, dimenticato sbadatamente da Pierfiliberto sulla scrivania del gabinetto privato. Il sindaco aveva così seguito il ragazzo all’interno dell’appartamento. E aveva avuto appena il tempo di portare la cornetta all’orecchio che un’esplosione violentissima aveva squarciato l’aria. Bardolfo e Pistola relazionarono concisamente durante il viaggio verso la clinica Villa Maria. - La Lexus è saltata in aria, probabilmente una carica esplosiva telecomandata. L’onda d’urto ha mandato in frantumi i vetri nel raggio di cento metri. Un paio di alberi sono caduti. - L’autista? - Il sindaco non ha autista. Ama guidare di persona il suo Suv da duecentomila euro. - Tipico. Quindi, nessun morto... - E nemmeno feriti. Il sindaco è ricoverato a titolo precauzionale. Per via dello shock. - Se l’è messa da sé. Per ritardare il processo, - bofonchiò a mezza voce Bardolfo. Il procuratore scosse il capo. - Non è da lui. Quanto hai detto che vale quel Suv? - Duecentomila. - E secondo te don Pierfiliberto è tipo da sacrificare un Suv così costoso quando per ottenere un rinvio gli bastava un certificato medico? No, non è da lui. - Magari è in leasing. Oppure ha un impiccio coll’assicurazione. - È una possibilità. Ma per il momento... Per il momento, c’erano un attentato e una vittima. Pierfiliberto. Sta’ a vedere che per una volta si sarebbero ritrovati dalla stessa parte. In clinica, un paio di suorine eccitate li dirottarono in una saletta d’attesa riservata. Villa Maria era una delle quattro strutture convenzionate di Novere. La più prestigiosa ed efficiente. L’affare delle cliniche. Un’altra batosta. Certo che ne aveva presi di schiaffoni, da quell’uomo. Un tempo a Novere c’era un ospedale pubblico. Funzionava anche bene. A un certo punto erano cominciate a fioccare, contro sanitari, dirigenti e infermieri, denunce per colpa professionale. Un’iradiddio di parenti in lacrime, assistiti da principi del foro locale. Si andava dalla nonna novantenne con parkinsonismo avanzato all’alcolista col fegato spappolato da sbronze di improbabile distillato fai da te. Ogni sacrosanto decesso finiva immancabilmente sul tavolo del procuratore. E lui, immancabilmente, archiviava,
beccandosi l’etichetta di odiato difensore della malasanità. Ma che avrebbe dovuto fare? Le denunce erano palesemente pretestuose, al limite del ridicolo. Che diavolo stava succedendo ai suoi concittadini? Se la prendevano con Madre Natura, adesso? Ma volevano rendersi conto che ogni essere umano nasce e poi, ineluttabilmente, muore? Il mistero fu svelato quando, tre mesi dopo lo tsunami, la regione rese noto il nuovo piano sanitario. L’ospedale di Novere era tra quelli degradati da nosocomio generale a presidio d’urgenza. In pratica, per tutte le patologie eccedenti l’unghia incarnita, i noveresi dovevano far capo all’ospedale di Vaglio di Sotto (ottanta chilometri) o a quelli del capoluogo (centocinquanta chilometri). Oppure, se ne andavano cheti cheti in una delle quattro cliniche convenzionate della città. Che il signor sindaco Pierfiliberto Berazzi-Perdicò controllava, direttamente o per tramite d’interposta testa di turco. E mentre negli altri comuni della provincia, e un po’ in tutta la regione, l’annuncio di ridimensionamenti e soppressioni di ospedali veniva accolto con una gamma di reazioni che andavano dallo sputo in faccia all’assessore fino al blocco stradale (a Minisola Castromontana ci fu uno studente no-global che minacciò di darsi fuoco come un bonzo tibetano), a Novere, e solo a Novere, i cittadini plaudirono alla decisione. Ottavio Mandati si era lanciato a testa bassa in quell’inchiesta. Aveva incriminato Pierfiliberto e l’intera giunta comunale. Il processo era morto prima ancora di nascere. Gli atti erano formalmente regolari. Le teste di turco, due ottuagenari avvinazzati, avevano esibito ricevute di vincite di lotterie grazie alle quali avevano improvvisamente, e saggiamente, deciso di investire nel settore della sanità. Le sue richieste di arresto erano state respinte una dopo l’altra. Telenovere aveva alzato il tiro: il procuratore Mandati difende l’ospedale «delle cento morti» perché, unico nella zona, dava lavoro a medici abortisti, perché nemico della vita e paladino del decadimento morale della società. Erano scesi in campo il vescovo, le monache (alle quali era affidata la gestione delle quattro cliniche) e un paio di sottosegretari. Ottavio era stato processato dal consiglio superiore della magistratura. Pierfiliberto aveva commentato lapidariamente l’assoluzione disciplinare con una frase storica riportata dal fedele Tafano Tafàni: «Cane non mangia cane». Ancora ad anni di distanza, se a lui, alla moglie o al figlio serviva un’analisi, si faceva gli ottanta chilometri pur di non mettere piede in territorio nemico. Finalmente il primario gli comunicò che l’illustre paziente era pronto a riceverli. - Ma non me lo stressate, eh? Se l’è vista brutta. - Chi? Quello? Maremma... Azzittito con un’occhiata imperiosa Pistola, Ottavio, preceduto dal medico, entrò nel padiglione Berazzi-Perdicò (casomai qualcuno si fosse dimenticato chi comandava, a Novere). Pierfiliberto era sprofondato in una morbida poltrona. Era in giacca e cravatta, le guance rosee perfettamente rasate, stampato sul volto il sorriso accattivante da eterno adolescente che i suoi elettori trovavano irresistibile. - Buongiorno, signor sindaco. - Che ne dici di rilassarti, Otta’? Guarda che stavolta stiamo dalla stessa parte. Io sono la vittima. E tu devi scoprire chi sono quei grandissimi bastardi che vogliono la
mia pelle. Che era poi, il discorsetto, l’ennesima variante di un tema caro a Pierfiliberto sin dagli albori della loro conoscenza. - Ma perché tu e io non possiamo essere amici, Ottavio?
5.
La prima volta che Pierfiliberto gli aveva teso la mano era stato proprio alla fine dell’anno scolastico '66-'67. - Vabbe’, ti ho fatto uno scherzo da niente con quella storia del capoclasse, ma in fondo non ne valeva la pena. Comunque, era solo uno scherzo. Che ne dici di diventare amici, tu e io? Altre offerte erano piovute negli anni successivi: alle medie, con la proposta di entrare in un giro di riciclaggio di pastarelle. - Ci vediamo alle sette e mezzo al bar di Franco e comperiamo tutte le paste a sessanta lire. Poi le portiamo a scuola e le rivendiamo a settanta. Calcolando che nella media Mazzini ci sono cinque sezioni con cinque classi l’una, fanno venticinque classi, e se metti una media di venticinque alunni a classe, fanno seicentoventicinque pezzi. A dieci lire di guadagno netto al pezzo fanno seimiladuecentocinquanta lire al giorno. Calcola gli assenti, i malati, quelli coi genitori rompicoglioni che gli preparano il cestino a casa, diciamo allora, sempre al netto, cinquemila lire al giorno. Che, diviso due, fa duemilacinquecento a testa. Che ne dici? Niente male, eh? Ma ci pensi a quante belle cose ti puoi comperare con duemilacinquecento lire al giorno? Che poi sono quasi cinquantamila lire al mese. Oh, mica giuggiole, lo sai tu quanto prende un bidello, eh, Otta’, lo sai? Va da sé che l’aveva mandato al diavolo. Il riciclaggio di pastarelle, con varianti ancora più sofisticate (il lunedì si vendevano gli avanzi della domenica della pasticceria Torquato, nella vicina frazione di Sant’Anselmo I Tre Pizzi) era stato infine organizzato con la complicità, appunto, del bidello Santissimi, detto Ganascia per la sua proverbiale avidità. Al liceo classico Pisacane, l’unico della città - era giocoforza frequentarlo per i figli della borghesia, come Pierfiliberto e Ottavio - era stata formulata la seconda proposta. - Hai presente Teodorico, il supplente di latino e greco? Quello con la barba lunga che puzza di pesce e crede di essere un poeta? Pensa te, un poeta! Be’, ’sto Teodorico sarà pure un morto di fame, ma ci ha agganci buoni nel consiglio d’istituto. Pare che si ciuli la Mantegazza, quella di storia con le tette infinite... Insomma, Teodorico per i soldi si venderebbe pure la madre. Stammi a sentire: lui è in grado di sapere la traccia delle versioni che ci dànno la mattina. Lo sa il pomeriggio prima, capisci? Allora ho pensato cosi: Teodorico ci fa una traduzione. Con cinquemila ce la caviamo, credo, al massimo seimila, seimilacinquecento, ché quello è sempre un morto di fame. Poi facciamo le fotocopie e le vendiamo ai nostri compagni. Quelli che stanno per essere segati ma che se ci si mettono d’impegno possono ancora farcela, e quelli che non li salva manco Cristo ma che ci sperano ancora... hai capito, no? Bene. Anche tenendoci all’osso, una ventina di versioni a botta le piazziamo. Le vendiamo a settemila a quelli in bilico, diecimila ai condannati. Oh, son somari, se vogliono salvarsi qualche cosa dovranno pure rischiarla, non ti pare? Diciamo, per una media
di ottomila, che fan centosessantamila a versione, detratti i cinque-sei per il morto di fame, facciamo pure dieci, va’, mi voglio rovinare, ché quello è molto morto di fame... avanzano centocinquanta. Settantacinque per uno. Tu capisci, Otta’? Lui se ne prende dieci, e noi settantacinque per uno. Questo è il giusto guadagno di chi rischia! E allora: tre versioni a trimestre di latino e tre di greco fanno sei versioni. Centocinquanta per sei fa novecento. A fine anno alziamo quasi mezzo milione a testa. E, oh, stammi a sentire, questa è una bomba: Teodorico sta lavorando per avere i problemi di matematica. E quelli, dai retta a me, a meno di ventimila non si sganciano. - E perché non anche i temi? - aveva azzardato Ottavio, combattuto fra il disgusto e la voglia di capire sino a che punto si sarebbe spinto Pierfiliberto. Qual era il suo limite, ammesso che ci fosse. - Ma sei scemo? Oh, non farmi pentire di avertene parlato, eh! I temi, quelli sono personali. Esprimono la visione del mondo di ciascuno di noi. Mica si possono replicare. Ci sgamano subito. Perché - e l’aveva capito in quel preciso momento - Pierfiliberto non era solo avido, meschino e gagliardamente refrattario al rispetto delle regole. Era anche intelligente, il ragazzo. Intelligente e, come avrebbe dimostrato negli anni a venire, talora imprevedibile e geniale. - Scusa, ma perché non te la fai da solo, ’sta bella manfrina? A che ti servo io? - Ma caro Ottavio! Io sono uno da 6 stentato di media. Tu sei il primo della classe in tutte le materie. Ammesso che ci scoprano... non dovrebbe succedere, ma... ammesso che ci scoprano, potrai sempre dire che l’hai fatto per ragioni umanitarie, per contestare il sistema, che ne so... tu sei di sinistra, no? T’inventi qualcosa! Ecco. Contesti il sistema. Non potranno farti niente. Ci farai pure un figurone. Dài, dimmi di sì! Ottavio gli aveva detto di no. Ma qualche anno dopo c’erano davvero andati vicino, a diventare amici. Era l’80, più o meno. Ottavio studiava come un forsennato per passare il concorso in magistratura. Con Pierfiliberto si erano persi di vista da tempo: università diverse, giri diversi, ambizioni diverse. Un bel giorno Pierfiliberto era tornato a Novere. Con in testa grandi progetti. - Vedi, amico mio. Ti sarai chiesto perché, nonostante la tua evidente ritrosia, in tutti questi anni io abbia co-stan-te-men-te cercato la tua amicizia. Ora te lo spiego. Ho imparato, no, anzi, ho capito da subito, sin dall’età della ragione, che gli uomini si dividono in due categorie. I coglioni e i super. I coglioni sono la massa: è facile controllarla, la massa. Basta darle quello che chiede. Cioè, quello che voglio io. E io ho idee chiare in proposito. Molto chiare... Però, i super... «Noi» super, se mi permetti, perché io ho stima di te, ti rispetto, ti considero un super, come me, guarda, da questo punto di vista siamo molto simili... più che amici... fratelli siamo, Ottavio, fratelli... Dunque, dove eravamo? - Noi super... - Ah, sì, noi super... noi super non dobbiamo farci la guerra. Noi dobbiamo stare dalla stessa parte. È la natura che lo esige. Le nostre energie non devono essere
sprecate in una guerra fratricida. Devono cooperare per il progresso dell’umanità... - Scusa, ma non ti pare di esagerare? Il progresso dell’umanità... - Solo i coglioni si pongono dei limiti. Noi super abbiamo il dovere di pensare in grande. Be’. Ogni volta che riandava con la mente a quella stagione, Ottavio provava un misto di imbarazzo, vergogna, rabbia. Il fatto è che Pierfiliberto gli era sembrato diverso, dopo tanti anni. Aveva perso la ruvidità e l’aggressività dell’adolescenza. Era riuscito a trasformare la naturale avidità in una sorta di forza messianica. Si era fatto più alto e più magro. Sapeva stare in mezzo alla gente. E la gente lo adorava. Esibiva una fidanzata dal nome prestigioso, una mezza contessa con vaste proprietà, e si diceva pronto a rischiare del suo per dare una scossa alla sonnolenta Novere. I suoi riferimenti al cambiamento erano continui, assillanti, e si intuiva dietro le parole un’energia ribalda che, sì, forse avrebbe davvero reso possibile tutto. In quel momento, d’altronde, molte delle certezze di Ottavio vacillavano. La fede politica, l’ingenua fede politica che l’aveva sorretto durante gli anni dell’Università, era naufragata in una tempesta di delusioni alimentate dal piombo ottuso dei terroristi. E Teresa rifiutava così ostinatamente la sua corte... Per farla breve: c’era cascato con le mani e con i piedi. Avevano preso a frequentarsi. Pierfiliberto si stava lanciando nel settore delle speculazioni edilizie, e cominciava a provare un certo interesse per la politica. Un discreto tossicchiare di Bardolfo e Pistola lo riportò alla realtà. Stentò a mettere a fuoco la scena. I due carabinieri che lo fissavano, straniti. Pierfiliberto, sprofondato nella poltrona, che lo scrutava, la fronte aggrottata. - Non è che soffri di narcolessia, no, Otta’? Son dieci minuti che te ne sei andato da un’altra parte... guarda che se hai un problema di quel tipo io conosco fior di specialisti. - Mi racconti dettagliatamente l’accaduto, la prego, - sibilò, ricomponendosi. Assumere un tono neutro e professionale gli costò un’immensa fatica.
6.
Tre giorni dopo l’attentato, mentre Bardolfo, Pistola, sedici carabinieri, ventiquattro poliziotti e un paio di ufficiali dei servizi esploravano ogni possibile pista investigativa, Pierfiliberto Berazzi-Perdicò, seduto alla scrivania del suo ufficio, intento a esaminare gli attestati di solidarietà che gli erano pervenuti da autorità e semplici cittadini, ebbe voglia di un cannolo. La fedele segretaria, donna di proverbiale valore e certificata bruttezza (le donne belle non hanno bisogno di lavorare, sennò quelle brutte che ci stanno a fare, soleva ripetere il sindaco), ci mise venti minuti per comparire con una guantiera di dolciumi siciliani provenienti dalla nota pasticceria Turiddu di corso Vittorio Emanuele III. Era una giornata di sole. Le finestre erano spalancate. Pierfiliberto, pregustando il piacere della densa massa di ricotta con le scagliette di cioccolato, scartò il pacchetto. Un piccione affamato, che evidentemente era da tempo in agguato, si catapultò sulla scrivania e affondò il becco in un cannolo. Colto di sorpresa, il sindaco non poté reprimere un moto di disgusto. Poi afferrò un fermacarte e lo scagliò contro il volatile, mancando il bersaglio. Il piccione, per nulla intimidito, triturò un notevole pezzo di sfoglia e prese a becchettarlo. Pierfiliberto chiamò aiuto. La segretaria accorse. Il piccione si staccò dalla guantiera, lanciò tutt’intorno uno sguardo di disperato stupore, emise un curioso verso, qualcosa a metà fra un singulto e un rutto, ruotò su sé stesso e si schiantò al suolo. Due ore dopo, i ragazzi della scientifica divulgarono il responso: stricnina. Ce n’era tanta, in quel cannolo, da ammazzare l’intero consiglio comunale. Più tardi, mentre passava da una telefonata all’altra (tutti si erano fatti sentire, tutti: ministri, stampa interna e internazionale, colleghi, cittadini), il procuratore Mandati si vide piombare in ufficio Teresa e Lucio, pallidi e sconvolti. - Oggi, a scuola, sono stata aggredita. - Ma perché? Come? - La gente dice che non te ne frega niente di scoprire gli assassini. Dicono che a te se ammazzano Pierfiliberto fa persino piacere. - Tu che ne pensi? - chiese a Lucio. - Non mi va di parlarne, papà. - Non ti va mai di parlare di niente, a quanto pare. - E che ti dovrei dire? Sei ossessionato da quel tipo. Fatti curare! - Guarda che questa volta non sono io ad avercela con lui... - Ma sii sincero, per una volta! Guardati dentro! - Ma vattene al diavolo, per una volta, figlio! A sera si ritrovò in una casa vuota. Madre e figlio si erano trasferiti da una zia dalle parti di Roma. Provò una fitta acuta. La sensazione di essere stato tradito, abbandonato da chi dovrebbe credere in te. Eppure, era stata proprio Teresa a risvegliarlo dall’incantamento che Pierfiliberto aveva esercitato su di lui. La prima e unica volta che era riuscito a trascinarla a una festa del suo antico compagno di
scuola. Non avrebbe mai dimenticato lo sguardo, sospeso fra stupore e commiserazione, che Teresa gli aveva lanciato. Erano sbracati in un grande salotto: belle signore e signorine, uomini d’affari, qualche politico locale, un paio di prelati. Pierfiliberto cantava, accompagnandosi alla chitarra. Aveva una bella voce. Tutti facevano a gara per stargli dietro. Fu su un’ammiccante versione di Pazza idea che Teresa lo guardò in quel modo. Un modo per dire: che cosa ci fai tu qui? Che cosa ti accomuna a questa gente? La prese in disparte. - Che c’è? Non ti diverti? - Ma in che mondo vivi, Ottavio? Ma non ti rendi conto? - Ma perché? Non facciamo niente di male, mi pare... - Scusa, ma le mogli di questi signori dove sono? Ti sei reso conto che tu e io siamo l’unica coppia qua in mezzo? Quelle sono zoccole, caro il mio Mister Magoo! - Teresa, scusa... 8.
- Zoccole! - Pierfiliberto aveva allargato le braccia. - Ma che parolona sgradevole! Accompagnatrici, piuttosto. E che male c’è se di tanto in tanto un uomo si prende un po’ di svago... Tu, piuttosto, stai attento, quella tua Teresa mi pare una mezza monaca... non è che ti sposi una femminista, eh? - Ma falla finita! - Oh, Ottavio, quella gente mi serve. Serve al mio progetto. Ci serve, volevo dire. Guarda, questo è un paese fermo, vecchio, arretrato. Non bastano le idee. Ci vogliono le gambe per farle camminare. Non è colpa mia se sono quei coglioni ad avercele. Io sai quanto ne farei volentieri a meno. Ma non si può. Non si può. Questi signori che si dànno tante arie, questo sono per noi: coglioni con le gambe. Ora, noi due, insieme, tu e io, i super, ci prenderemo le gambe e i coglioni li butteremo a mare. Amico mio, questo è il momento della scelta suprema: o super oggi, qui, adesso, con me... o coglione per sempre! In quel preciso momento aveva scelto di essere coglione per sempre. E non l’aveva mai rimpianto. Anche il dispiacere per l’abbandono di Teresa e Lucio si andava lentamente attenuando. Avevano le loro ragioni. Anche a lui, a volte, capitava di pensare che li aveva trascinati, loro malgrado, in una battaglia insensata. Le gente amava Pierfiliberto. Lo aveva scelto come proprio rappresentante e lo difendeva a spada tratta. Ripensò al povero maestro Vito: non era questo forse, nel bene e nel male, il senso ultimo della democrazia? E chi era lui per battersi contro la democrazia? Non sarebbe stato più «democratico» lasciar perdere tutto? A mezzanotte, mentre cercava di concentrarsi su quel vecchio film, In nome del popolo italiano, si materializzarono Bardolfo e Pistola. - Abbiamo una rivendicazione. - È arrivata via Internet. - Si fanno chiamare Brigate Novere libera. - Hanno lasciato una traccia Ip. - Stavolta li si fa a brodino. Tutti gli informatori sono all’erta. La Digos è sul piede di guerra. Ci vorrà un po’ di tempo, ma li si fa a brodino!
7.
In attesa che le indagini informatiche dessero frutti, che la Digos facesse il suo dovere e che gli informatori informassero, Pierfiliberto Berazzi-Perdicò scampò a un terzo attentato. Accadde il quarto giorno dal mancato avvelenamento. Il sindaco si era recato presso la riserva Bella Novere, ai margini del bosco di San Lampediano, a inaugurare l’apertura ufficiale della stagione di caccia: le doppiette, numerose in zona, erano parte consistente della sua base elettorale. Il presidente del locale circolo, noto per aver dato alle stampe una dotta pubblicazione sulle Origini del segugio noverese da ferma, gli aveva offerto in dono una carabina ad altra precisione Browning Bar Stalk Synthetic calibro 30-06, particolarmente adatta per il cinghiale. Nell’attimo 9. preciso nel quale Pierfiliberto si era chinato per esaminare il mirino telescopico di cui l’arma era dotata, due proiettili calibro 7.65 erano sibilati a un niente dalla sua tempia sinistra. Immediata si era scatenata la caccia all’uomo. Il bosco di San Lampediano era stato preso d’assalto da uno sciame imbufalito. Si era creduto di scorgere ombre dietro ogni singolo larice o cedro, nel fondo dei ruscelli, tra il folto fogliame, all’ombra delle altane, lungo i sentieri che scendevano a valle, verso la città di Novere. La scientifica, piombata sul posto nel giro di venticinque minuti, si era trovata al cospetto di uno spettacolo impressionante. I bravi cacciatori di Novere avevano esploso non meno di cinquecento colpi di ogni calibro, tipo e formato. Ogni possibile traccia era stata cancellata dal terreno, stropicciato da centinaia di piedi impegnati in una corsa affannosa. Un tipo grassoccio, il ragionier Parascalchi-Parata di Villerbosa, si teneva mugolando la rotula insanguinata, e bestemmiava senza ritegno (per un cattolico praticante) contro un tizio alto e secco che se ne stava lì vicino rigirando fra le mani un sovrapposto Beretta. Era il cavalier Finuoli-Finamore di Salaperta di Mezzo. Aveva scambiato l’antico compagno di caccia per l’assassino, agendo di conseguenza. L’unica traccia attendibile risultò quella fornita da un’anziana contadina che, mentre si trovava sull’aia a dar becchime alle sue oche, era stata quasi investita da una Mini Minor color melanzana. Al volante, raccontò la vecchia, c’era un giovane con i capelli lunghi e la barba incolta. La brava donna ricordava i primi numeri della targa: NO36... La stampa si scatenò. Bersaglio principale, anzi, unico: il procuratore Ottavio Mandati. Teresa e Lucio si offrirono di tornare a Novere. Ottavio declinò signorilmente (ah, Cincinnato, ah, l’autocommiserazione autocompiaciuta!) La moglie trovò modo di informarlo che il ragazzo aveva ottenuto una borsa di studio all’università di Edimburgo. In prima fila tra gli aggressori, accanto al fin troppo prevedibile Tafano Tafàni, il quotidiano «La folgore di Pietrasanta». In un articolo a firma di tal Marco Sgambazzi si chiedeva, a chiare lettere, l’arresto immediato del procuratore, indicato quale mandante occulto degli attentati. Ma che diavolo gli aveva fatto lui a questo Sgambazzi? Poi, piano piano, dal fondo della memoria affiorò l’associazione: Versilia-Sgambazzi. Ma certo! Dopo la terza, o la
quarta, non ricordava più, batosta processuale, questo Sgambazzi, al tempo cronista precario presso «L’Eco di Novere», aveva trovato il coraggio di annotare, ironicamente: o il commendatore Berazzi-Perdicò è l’uomo più sfortunato del mondo, perché i peggiori tagliagole lo scelgono immancabilmente come referente politico e imprenditoriale, o è alquanto sprovveduto, visto che non sa scegliersi i collaboratori giusti. La carriera di Sgambazzi si era bruscamente interrotta. Qualche tempo dopo, il ragazzo gli aveva scritto un’accorata missiva: era finito a vendere frittelle in Versilia. Ottavio aveva risposto con una lettera d’incoraggiamento alla quale aveva accluso qualche spicciolo. Ora Sgambazzi tornava in pista: ma dalla parte giusta, stavolta. Pronto a tutto pur di farsi perdonare l’irruenza giovanile. Insomma, le cose andavano male, anzi, peggio, quando, esattamente sette giorni dopo l’ultimo attentato, Bardolfo e Pistola irruppero nell’ufficio del procuratore carichi di fotografie, filmati, annotazioni e tracciati informatici. 10. - Le Brigate Novere libera non esistono. - O meglio: sono fatte da una persona sola. - Il ragazzo che guidava la Mini Minor. - Targa e aspetto fisico corrispondono. - Anche i tracciati del computer e i tabulati riconducono a lui. - È un uomo solo, dottor Mandati. - Il figlio. Terenzio Berazzi-Perdicò. Ha fatto tutto da solo. - Che si fa? Lo si va a caricare?
8.
No. Perdio, no! Stavolta non si sarebbe lasciato fregare. Né dai sentimenti né dal rispetto. E che diavolo! A tutto c’è un limite! Come aveva detto una volta il presidente Pertini? A brigante, brigante e mezzo. Si fece consegnare tutto l’incartamento e ordinò a Bardolfo di chiamare il sindaco. - Digli che sto andando da lui. E che si faccia trovare. Terenzio. Era la seconda volta che le loro strade s’incrociavano. Mentre montava in auto, si abbandonò ai ricordi. Flashback. Estate 2000. Inchiesta Neve bianca, su un traffico di stupefacenti negli ambienti bene del capoluogo. Emerge che un paio di ragazzi della jeunesse dorée di Novere fanno da pusher per i coetanei dello stesso giro. Pedinamenti, intercettazioni. A un certo punto salta fuori Terenzio Berazzi- Perdicò. Si accerta che il ragazzo fa uso continuo e dissennato di eroina. Un tossico fatto e finito. Il padre è all’oscuro. Il ragazzo viene pizzicato con venti grammi di roba di altissima qualità. Siamo al confine fra uso personale e spaccio. Portato in caserma, Terenzio va in crisi d’astinenza. Scoppia a piangere davanti a Ottavio. Propone uno scambio. Rinuncino all’arresto. Lo mandino a casa, in comunità, dove gli pare, ma non in galera. Non lo facciano, o si taglierà le vene. In cambio, offre rivelazioni sul padre. Numeri di conti esteri. Recapiti di boss della malavita organizzata con i quali il padre è in affari. Dice di odiarlo, quel padre ingombrante che lo ha sempre trattato come un idiota e non ha mai manifestato un briciolo d’affetto nei suoi confronti. Bardolfo e Pistola sono eccitatissimi. Scoccano al procuratore occhiate speranzose. È la grande occasione, capo. Affonda gli artigli. Suoniamogliele, a quel bastardo. Se non ora, quando? In quella, un grande strepito. Il padre ha saputo dell’arresto. Ma il Pierfiliberto che si presenta in caserma è un uomo vinto, affranto, distrutto. La verità di Pierfiliberto contrasta con quella del figlio. Parla di amore, affetto, dedizione, degli sforzi per sottrarre il ragazzo all’influenza delle cattive compagnie, si dice pronto a tutto pur di salvarlo. Esibisce cartelle cliniche. Dimostra tentativi di suicidio. Terenzio è un ragazzo fragile. Lui un povero papà disperato. - Sono pronto a tutto pur di salvarlo. Anche a farmi da parte. Bardolfo e Pistola gongolano. Il lupo viene a consegnarsi, legato zampe e muso, al cacciatore. Fa’ l’accordo, procuratore, fallo subito. Ce l’hai in pugno. Da mesi va in televisione a predicare la fine dell’èra della tolleranza, la necessità di una dura repressione delle condotte asociali, da mesi organizza cortei con le beghine di Novere per «scuotere le coscienze». Pensa che colpo: il moralizzatore col figlio tossico. Stroncalo! Chiama la stampa libera. Chiama la Rai. Sputtanalo. Riprenditi Novere, e, soprattutto, ridalla a noi!
Ma Ottavio tentenna. La sua coscienza si ribella. Torna da Terenzio. Il ragazzo trema, vomita, si agita, sbatte la testa contro il muro. Violando molte regole, accorda al padre il permesso di incontrarlo. Resta fuori dalla camera di sicurezza. Non sa che cosa i due si dicano, non vuole saperlo. Intuisce in quell’incontro la dimensione del sacro, e non osa intromettersi. Pierfiliberto esce dopo una decina di minuti, sconvolto. - Il patto è sempre valido. Ha davanti un uomo finito. Ma sa che non ne approfitterà. Negli occhi disperati di Pierfiliberto rivede sé stesso come padre. A chiunque, anche al peggior delinquente, può capitare il figlio sbagliato. E se accadesse, domani, a Lucio? Non sarei anch’io, allora, colpevole? Non invocherei anch’io clemenza? Non odierei chi, potendola concedere, me la negasse, inchiodandomi alla mia miseria di uomo? - Io non sono come te, - conclude, infine. Nunc et semper Cincinnatus. Ordina caffè per tutti. - Conosci una buona comunità terapeutica, Pierfiliberto? - Certo. - Portaci il ragazzo. - Quando? - Subito. - Io... grazie... io non so... La stessa notte chiede al Gip di stralciare la posizione di Terenzio dall’inchiesta principale. Finirà archiviato per uso personale dopo qualche settimana. Un anno dopo gli arriva una cartolina da Rotterdam. Terenzio studia diritto della navigazione all’estero. È ripulito. Vuol fargli sapere che gli deve molto. Così allora. Con il contorno dello scetticismo di Teresa (ti ha fregato un’altra volta, sei troppo tenero per questo mondo, amore mio) e degli sguardi delusi, e incarogniti, di Bardolfo e Pistola. Così allora. Non aveva mai avuto ripensamenti. Io sono una cosa e lui un’altra. Noi siamo una cosa e loro un’altra. È così che dovrebbe funzionare il mondo. Così allora. - Ma non oggi, Pierfiliberto. Oggi le regole sono cambiate. E si gioca a modo mio. Il sindaco lanciò un’occhiata distratta al dossier, ascoltò senza muovere un muscolo il resoconto dei carabinieri, si strinse nelle spalle, sospirò. - Hai finito, Otta’? - A me non interessa tuo figlio. È solo un povero matto. Fallo curare, forse si salverà. A me interessi tu. - Sai una cosa? L’avevo immaginato. - Tu sei il cancro di questa città, Pierfiliberto. Finché resterai qui a comandare, per la gente di Novere non ci sarà futuro. - Futuro? E tu credi che gliene freghi qualcosa, del futuro? Credi che se fossero capaci di pensare, semplicemente di pensare al futuro, mi avrebbero scelto? Andiamo, Ottavio! - Basta chiacchiere. Sono venuto a proporti un accordo.
- Un accordo! Ma non sei stato tu a dire che i giudici non fanno accordi con i criminali? - Ho cambiato idea, va bene? - Sarebbe la prima volta in vita tua che dimostri un minimo di saggezza. - Vuoi che tuo figlio passi il resto dei suoi giorni in un manicomio criminale? - Ti ascolto. - Lasceremo Terenzio fuori da questa storia. - E le bombe? Il veleno? Le fucilate? - Archiviazione per essere ignoti gli autori del fatto. - Uhm... in cambio cosa chiedi? - Terenzio, povero figlio, va ricoverato in una clinica per malati di mente. E tu... - E io? - E tu ti dimetti da tutti gli incarichi, vendi le tue proprietà, oppure no, fai una bella donazione al comune, al ministero, a una Onlus che ti pare... e ti levi definitivamente di torno. - Sai una cosa, Ottavio? - rise Pierfiliberto. - Tu non hai mai capito un cazzo di niente. Non a caso sei finito pubblico ministero. Guarda, il treno della tua vita è arrivato, quella volta, e tu l’hai lasciato passare. Allora sì che sarei stato veramente pronto a tutto per salvare il ragazzo... ma erano altri tempi. Io non ero così... come potrei dire? Sicuro di me? E tu sei sempre stato troppo coglione per capire come stanno veramente le cose. In altri termini, adesso sarai tu a levare le tende, mio caro! Pierfiliberto batté le mani, con quel suo aplomb teatrale e seducente che così bene Ottavio conosceva. Una porticina si aprì. Entrò Terenzio. Perfettamente rasato, sorridente, elegantemente vestito in grisaglia. - Hai sentito, ragazzo? - Tutto, papà. - E voi avete sentito? Bardolfo e Pistola annuirono. - Bene, - sorrise Pierfiliberto, - e ora le carte. Bardolfo e Pistola fecero scattare all’unisono le serrature delle ventiquattrore (strano, pensò Ottavio, non mi ero accorto che le avessero con sé...) e porsero al procuratore due cartelline dalle copertine rosa. - Su, coraggio, Ottavio, guarda che bello scherzo ti ho combinato. È come quella volta a scuola, ricordi? Anche allora eri così sicuro di vincere... Dalle cartelline scivolarono alcune istantanee. Ottavio le raccattò, con mano tremante. Clic. Il procuratore piazza una bomba sotto la Lexus di Pierfiliberto. Clic. Il procuratore inietta veleno con una siringa in un cannolo. Clic. Il procuratore indossa una parrucca da no-global e una barba finta. Clic. Il procuratore sale a bordo di una Mini Minor color melanzana. Clic. Il procuratore, armato di pistola, spara contro il sindaco. - Allora? Che ne dici? Ottavio si guardò intorno, smarrito. Bardolfo si strinse nelle spalle. - Dotto’, c’era il mutuo da pagare, e io... - Ma dilla tutta, maremma impestata! - subentrò Pistola, gli occhi iniettati di
sangue, puntando l’indice contro il procuratore. - Tu sei un perdente, signor Ottavio Mandati. E io n’ho la fava piena di perdere sempre! Voglio vincere anch’io, per una volta! Chiaro? Ottavio incrociò lo sguardo di Terenzio. Il ragazzo gli sorrise, e allargò le braccia. - Talis pater... Dal profondo delle viscere gli parti un urlo terrificante, da bestia ferita. Si avventò sul dossier, quello vero, e prese a sventolarlo, in preda a un’ossessione malata. - Eh, no! Non mi freghi! Non mi fregate! Nessuno mi frega! Qua dentro ci sono le prove! Qua c’è la verità! - Be’, - ridacchiò Pierfiliberto, - di verità, intanto, ce ne sono almeno due. La tua e la nostra. - Tu non sai nemmeno che cosa sia, la verità! - Ammetto l’addebito. Ma secondo te a chi crederà la gente? A te che mi odi da una vita, e hai sempre perso, o a me che tutti amano, e che vinco sempre? Poi, come a un segnale impercettibile, il sindaco, il figlio del sindaco e i carabinieri si misero a canticchiare un motivetto su ritmo hip-hop. Lasciate ogni speranza oh, yeah lasciate lasciate lasciate ogni speranza oh, yeah o voi ch’entrate lasciate lasciate lasciate ogni speranza... Ottavio vacillò. Cercò invano un puntello, una leva, un qualsiasi punto d’equilibrio per scampare al buio che sentiva montargli intorno. Non lo trovò da nessuna parte.
9.
Bardolfo e Pistola si presentarono alle nove in punto del 18 marzo. Il procuratore li accolse con un sorriso vago, ancora sotto l’effetto del secondo sogno. Il percorso verso il tribunale. L’ingresso. La piccola folla di supporter di BerazziPerdicò, l’agguato di Tafano Tafàni... era come ritrovarsi in quel film dove il povero Bill Murray era costretto a rivivere di continuo la stessa giornata... come accidente si chiamava, quel film? Bah. Diverso, invece, il picchetto d’onore che attendeva davanti all’auletta del Gip. A comandarlo, un giovane capitano dei carabinieri in alta uniforme che si irrigidiva nel saluto militare, sciabola alzata. Eh, che esagerazione! - Comodo. Piacere di conoscerla, capitano, sono il procuratore Mandati, - disse, andandogli incontro a mano tesa. Ma quello lo ignorò, gli girò intorno con un grazioso passo di minuetto, rinfoderò la sciabola e si precipitò a riverire Berazzi-Perdicò, che proprio in quel momento si era materializzato con tanto di agguerrito e spocchioso codazzo di azzeccagarbugli. Andiamo bene, bofonchiò fra sé il procuratore, e poi aggiunse: ma sì, chi se ne frega, benedetto sia il sogno, anzi, l’incubo, che mi ha fatto capire quanto sono solo. Ma meglio soli che male accompagnati. - Che fa, dottore, parla pe’ proverbi stamattina? Pistola aveva davvero l’aria stranita. E lui, a onta della curiosa serenità che sentiva di provare, stava perdendo pericolosamente il contatto. Giurò che, a udienza finita, sarebbe corso diritto e difilato da un neurologo. Pierfiliberto, con molta signorilità, andò a stringergli la mano. Gesto prontamente immortalato da lampi ripetuti di flash. Ottavio gli sorrise. Pierfiliberto si inchinò. Ottavio incassò la testa fra le spalle. Il giudice, la stessa collega rotondetta e gioviale del sogno, entrò in aula. Tutti si alzarono in piedi di scatto, e altrettanto rapidamente tornarono a mettersi comodi. - Allora, - disse la collega, - trattiamo oggi... - Signor giudice, mi permetta, - la interruppe, balzando in piedi, Gianmaria Allegro Appella, il numero uno del collegio difensivo. - Avremmo un’eccezione preliminare. Ottavio si sforzò di ostentare sicurezza, anche se, come una piccola puntura di spillo... - Di che cosa si tratta, esattamente? - A nostro avviso le intercettazioni telefoniche sono inutilizzabili. A Ottavio scappò una risata. Mirava in alto, il principe del foro! Ma si capisce. Il processo erano le intercettazioni. Neutralizzate quelle, il processo moriva. Gli avvocati ci provavano sempre, anche quelli seduti in parlamento, molti, potenti e, come si diceva in gergo, alquanto cazzuti. Le intercettazioni erano da sempre la loro bestia nera. Le intercettazioni, quando sono fatte come si deve, rivelano molto. In certi casi, tutto. In questo caso rivelavano un giro vertiginoso di tangenti per gli appalti pubblici legati allo smaltimento dei rifiuti dell’intera provincia. Berazzi-
Perdicò ci faceva la parte del leone. Un imprenditore napoletano confidava a un suo sodale: ma quanto cazzo magna chisto? Un altro aveva dovuto sbattersi fra decine di concessionarie del Nordest per trovare una Lexus del tipo, modello e colore gradito al sindaco. La Lexus, pensò con un sorriso Ottavio, che nel suo sogno saltava in aria... L’appetito del sindaco era diventato leggenda persino fra i suoi complici. Senza intercettazioni, in altre parole, non c’era giustizia. Per questo gli avvocati le odiavano tanto, le intercettazioni. Per questo Ottavio era così attento a farle come si deve: nel rispetto delle regole, senza lasciare spiragli alla difesa. La chiave di tutto era nella motivazione. Bisognava spiegare perché era necessario che Tizio fosse intercettato e anche perché si usava un registratore invece di un altro. Sottigliezze, certo. Ma facevano la differenza. Ottavio si sentiva in una botte di ferro. - A nostro avviso, il decreto autorizzativo è carente di motivazione ai sensi dell’articolo 268 del codice di procedura... L’avvocato Appella si avvicinò alla cattedra del giudice e consegnò un foglio formato A4. Il giudice lo prese e cominciò a esaminarlo. Ottavio chiuse gli occhi. Pochi secondi, era una di quelle decisioni che si prendono, per così dire, all’impronta, e la collega avrebbe respinto l’eccezione. - Pubblico ministero, venga un po’ qua... Vuole fare un po’ di scena, si illuse Ottavio, mentre raggiungeva Appella, impalato davanti alla cattedra. - Che cos’è ’sta roba, Ottavio? - Ma... il decreto di... le intercettazioni, insomma. - Ma l’hai scritto tu, questo? Un brutto presentimento avanzava. Ottavio scorse il foglio. Un prestampato senza nessuna qualità. «Si ordina l’intercettazione delle seguenti utenze...» Seguiva elenco. Non una riga di motivazione. Non era il suo stile. - Non l’ho fatto io, - proclamò, restituendolo alla collega. - Qualche tuo sostituto, allora? - No. Me ne sono occupato personalmente. - Infatti, giudice, - flautò Appella, - come lei può vedere, reca in calce appunto la firma del procuratore Mandati. - Così com’è, questo documento non ha nemmeno uno straccio di motivazione, sospirò la Gip, una vena di sincero rammarico nella voce. Poi aggiunse, più sfumata ancora: - Così stando le cose, le intercettazioni sono radicalmente inutilizzabili. Un filo di sudore freddo prese a colargli lungo la schiena. Non l’aveva scritto lui quel foglio maledetto. Era un trucco. Era un falso. Un falso grossolano. - Non so da dove l’avvocato abbia preso quel documento, - sibilò, inferocito, - e mi permetto sin da ora di avanzare dubbi circa la sua autenticità... - Giudice! - insorse Appella. - Non consento che... - Sta’ zitto! - lo rimbeccò Ottavio, sotto lo sguardo attonito della collega. - Ora te lo dò io, il decreto! Si avventò al suo bancone. L’originale. Doveva trovare l’originale. Ricordava di averlo inserito... scartabellò nel suo fascicolo, andò alla pagina che gli serviva, eccolo, e... Ma era impossibile! Era questo il vero incubo! Anche l’originale, quello
che era sempre stato in suo possesso, custodito nel suo ufficio, in un armadio del quale solo lui aveva le chiavi, anche quello era... era una cartaccia... una cartaccia senza senso... - Allora, signor procuratore? Si guardò intorno. Incrociò lo sguardo beffardo di Pierfiliberto. E comprese che aveva perso. Un’altra volta. E, forse, per sempre. Comprese anche come avevano fatto. Lo comprendeva, ma non sarebbe mai riuscito a dimostrarlo. Qualcuno si era fatto corrompere. Qualcuno gli aveva fregato le chiavi dell’armadio e aveva sostituito l’originale del decreto con quella robaccia. Ma chi? Bardolfo e Pistola confabulavano fra loro, in apparenza sorpresi e sgomenti quanto lui. Chi? Una segretaria? Un giovane collega? Chi? Di chi poteva fidarsi? Di nessuno, chiaro. Meglio soli... - Non è il momento dei proverbi, dottore. Chiediamo un rinvio. Quel figlio di puttana non deve passarla liscia. Bardolfo lo fissava, aggressivo. La collega lo fissava, interdetta. Appella lo fissava, strafottente. Tutti lo fissavano. All’improvviso, sulle sue labbra spuntò un sorriso, no, un rictus. Per quanto cercasse di dominarlo, non riusciva a ricacciarlo indietro. Si arrese. Non c’era più niente da fare. Si alzò, come in trance, e si avviò all’uscita. Dietro di lui presero a gridare, a richiamarlo. Ma alle sue orecchie arrivava soltanto l’eco beffarda di una canzoncina dal ritmo hip-hop. Una canzoncina che diceva: «Lasciate ogni speranza... oh, yeah, lasciate lasciate...»
Epilogo
- Papà! Papà, svegliati! Ma che succede? - Ottavio, per favore, svegliati! Ottavio... Una tenue luminosità rosata filtrava dalla finestra. Ottavio faticò a mettere a fuoco le figure che lo circondavano. - Guarda che sono le otto. Fra mezz’ora arrivano Bardolfo e Pistola. Hai dimenticato che giorno è oggi? Dunque, dunque, si convinse definitivamente sorseggiando il caffè che Lucio gli aveva preparato, era stato tutto un sogno. Anzi, un triplo sogno. Era il 18 marzo. E, come illustrava il titolone dell’«Eco di Novere», «il sindaco Pierfiliberto BerazziPerdicò si appresta a combattere contro l’ennesima provocazione del procuratore Mandati». Sogni, però istruttivi. Perché nemmeno in sogno ci si può allontanare dalla legge. «A brigante, brigante e mezzo» è una cazzata. Non esistono le scorciatoie. Le bugie hanno le gambe corte. Ma anche le distrazioni, anche il pressappochismo si pagano. Lucio si era impossessato del quotidiano. - Qua c’è scritto che «la difesa ha in serbo una mossa strategica destinata a stroncare questa ennesima montatura giudiziaria». - E tu falli dire. È il loro mestiere. - Però mi sembri strano lo stesso. - Vi voglio bene. Davvero, non sapete quanto! - Papà, promettimi una cosa. - Dimmi, figlio. - Tu adesso ci provi, provi a incastrare quel fetente. Diciamo che non ci riesci... - Stavolta non ha scampo, Lucio, credimi. - Diciamo che succede qualcosa all’ultimo momento... - Come nel sogno... - Ancora con questi sogni! - Scusa. Va’ avanti. - Promettimi che è l’ultima volta. Se perdi, riconosci che è più forte. Chiedi il trasferimento. Ce ne andiamo tutti a Roma. Ci riprendiamo la nostra vita. - Te lo prometto. Dopo tanti anni, Lucio si lasciò abbracciare. Aveva dimenticato la meravigliosa sensazione del contatto fisico con un figlio. Provò brividi di piacere, di commozione. Non è una promessa vana, ragazzo mio. Ma aspetta di vedere il finale, ok? Prima di raggiungere Bardolfo e Pistola, che attendevano scalpitando nei loro completi stazzonati da centro commerciale, il procuratore andò nel suo studio e scostò una brutta riproduzione dei Falchi della notte di Hopper. Comparve la piccola
cassaforte la cui combinazione era l’unico a conoscere. Fece scorrere le dita sulla cartella di plastica trasparente. Conteneva le dieci paginette con la richiesta delle intercettazioni. Aveva deciso di trattenere presso di sé l’originale nel preciso momento in cui si era reso conto della potenza devastante dell’inchiesta. Ora, Pierfiliberto e i suoi avrebbero potuto perquisirgli l’ufficio, corrompere mezzo mondo, inventarsi le più sofisticate alchimie procedurali, architettare la più spudorata falsificazione... Quella cartellina non l’avevano trovata.
Indice
p. 3
Il giudice Surra di Andrea Camilleri
41
La Bambina di Carlo Lucarelli
93
Il triplo sogno del procuratore di Giancarlo De Cataldo