*** WILBUR SMITH GLI EREDI DELL'EDEN Gli sterminati spazi di Passo Chaka erano l'Eden. Mark Anders vi e cresciuto libero...
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*** WILBUR SMITH GLI EREDI DELL'EDEN Gli sterminati spazi di Passo Chaka erano l'Eden. Mark Anders vi e cresciuto libero e brado. Il nonno, che si e preso cura di lui quando e rimasto orfano, gli ha insegnato ad amare tre cose: la natura, la libertà, la carabina. Tre amori che segneranno la sua vita, dalle foreste incontaminate del Sud Africa, al fronte francese della Grande Guerra, agli intrighi dell'alta finanza sudafricana. Quando torna dal fronte, Mark non e piu lo stesso. Era un ragazzo, ora e un uomo. Nella sua vita e passato l'orrore della guerra, ma e passata anche l'amicizia di un uomo straordinario: Sean Courteney. Anche Andersland, la fattoria in cui e cresciuto, non a piu la stessa. La casa e abbandonata, la foresta e stata spazzata via, i pascoli sono diventati terreni coltivabili. L'Eden rischia di scomparire. Il nonno - gli dicono - ha venduto tutto prima di morire in un incidente di caccia. Ma Mark non puo-crederci e lancia la sua sfida. Una sfida che lo portera a raggiungere la verita e a intrecciare la propria vita con quella della famiglia Courteney. Con il vecchio e potente Sean, in cui trovera un nuovo padre, e con i suoi figli. La fanciulla Storm, viziata e capricciosa, che si trasformera in una moglie amorosa e fedele. Il giovane, ricchissimo e spietato Dirk, che diventera un nemico implacabile. La cupidigia di Dirk e dei nuovi ricchi sudafricani vuole distruggere definitivamente l'Eden in cui Mark e stato ragazzo, povero e felice. La sfida non puo essere che mortale. Gli agguati nella foresta si alternano alle trappole ordite nelle sfarzose dimore dei potenti; la prepotenza dei bianchi si scontra con la semplice fierezza degli zulu; l'amore si intreccia con il delitto.
WILBUR SMITH Wilbur Smith e nato nel 1933 nella Rhodesia del Nord (l'attuale Zambia), ma e cresciuto e ha studiato in Sud Africa. La stampa lo definisce «il piu importante scrittore di avventure del nostro tempo». Tra i suoi romanzi di successo ricordiamo: Come il mare, Il destino del leone, Un'aquila nel cielo, Quando vola il falco, L'orma del Califfo, La voce del tuono, Dove finisce l'arcobaleno, La notte del leopardo, L'ultima preda. Wilbur Smith Gli eredi dell'eden Titolo originale: A Sparrow Falls Traduzione di: Maria Giulia Castagnone A Danielle SUL fronte francese incombeva un cielo livido e ingombro di nuvole basse, che rotolavano con lenta dignita verso le linee tedesche. II generale di brigata Sean Courteney aveva gia passato quattro inverni in Francia e ormai, grazie anche alla sua esperienza di agricoltore, era in grado di giudicarne il clima con la stessa precisione con cui valutava quello della sua Africa natale. « Stanotte verra a nevicare », borbottò. Il suo ufficiale d'ordinanza, tenente Nick van der Heever, era molto carico. Oltre al fucile e allo zaino regolamentare portava a tracolla una sacca di tela, perchè il generale Courteney aveva deciso di cenare alla mensa ufficiali del secondo battaglione. Gli ufficiali in questione non erano informati dell'onore che stava per toccare loro e Sean sogghignò, malignamente soddisfatto all'idea che il suo arrivo imprevisto avrebbe suscitato il panico. Il contenuto della sacca, che comprendeva tra l'altro una dozzina di bottiglie di whisky e una grossa oca, sarebbe servito ad attutire il colpo. Sean sapeva bene, tuttavia, che i suoi ufficiali trovavano piuttosto sconcertante sia il suo comportamento informale sia l'abitudine di capitare all'improvviso, senza scorta e inatteso. Solo una settimana prima aveva avuto modo di intercettare una conversazione telefonica tra un maggiore e un capitano. « Quel vecchio bastardo crede ancora di essere rimasto ai tempi della guerra contro i boeri. Perche non provate a chiuderlo in gabbia, li al quartier generale? »
« Sarebbe come cercare di imprigionare un elefante maschio. » « Be', almeno avvertiteci, quando si mette in moto... » Sean sogghignò di nuovo, arrancando dietro il suo ufficiale, con il pesante cappotto che batteva a ogni passo contro le gambe fasciate dalle mollettiere e, sotto l'elmetto, una sciarpa di seta per proteggere la testa dal freddo. Sotto il peso dei due uomini, le assi oscillavano, risucchiate dal fango vischioso su cui erano appoggiate. Questa parte del fronte era poco nota a Sean perchè la brigata vi si era installata solo da una settimana, ma il puzzo non aveva niente di nuovo. All'odore muschioso della terra e del fango si mescolava quello della carne in decomposizione e degli escrementi, oltre naturalmente all'acre sentore della cordite e dell'esplosivo. Sean annusò l'aria e sputò con espressione di disgusto. Sapeva che nel giro di un'ora non ci avrebbe più fatto caso, ma ora gli sembrava che l'odore gli si fosse depositato in gola, rivestendone le pareti come uno strato di grasso rappreso. Alzò di nuovo gli occhi al cielo e aggrottò la fronte. O la direzione del vento si era spostata verso est o, nell'intrico delle trincee, avevano preso una via sbagliata, perché la corsa delle nuvole basse non coincideva più col tragitto della mappa che egli aveva in testa. « Nick! » « Sì, signore. » « Credi che ci siamo persi? » Il giovane subalterno si voltò a guardarlo con espressione dubbiosa. « Per la verità, signore... » Da circa mezzo chilometro le trincee sembravano abbandonate; nel labirinto scavato nel terreno non avevano visto anima viva. « E' meglio dare un'occhiata, Nick. » « Lo faccio subito, signore. » Van der Heever aguzzò lo sguardo e trovò quello che stava cercando. Davanti a lui, in corrispondenza di un incrocio, una scala di legno appoggiata a un muro portava al bordo superiore del camminamento, riparato da sacchetti di sabbia. L'uomo vi si avviò. « Sta' attento, Nick », lo avvertì Sean. « Certo, signore », replicò l'altro, e appoggiò il fucile alla parete di terra per potersi arrampicare più facilmente. Sean calcolò che dovevano mancare ancora circa quattrocento metri alla linea del fronte. L'oscurità stava calando rapidamente. Al di sotto delle nuvole la luce aveva assunto una delicata sfumatura violacea ed era ormai diventata troppo fioca per permettere a un colpo di arrivare a segno. Inoltre van der Heever, nonostante la giovane età, era quasi un veterano. Sean lo vide acquattarsi in cima alla scala, alzare la testa per un breve istante, simile a un furetto che sbirci dalla tana, e poi riabbassarla di colpo. « Ci siamo spostati troppo verso destra rispetto alla colli-
na », gli gridò il giovane. La collina era un rialzo basso e arrotondato che sporgeva di una cinquantina di metri dalla pianura uniforme. Un tempo era stata coperta dagli alberi, ma ora i suoi pendii erano segnati solo dai tronchi spezzati più o meno all'altezza della vita di un uomo e dai crateri prodotti dal tiro dell'artiglieria. « Quanto dista la fattoria? » domandò Sean, sbirciando verso l'alto. La fattoria era un edificio rettangolare e privo di tetto che guardava verso il settore centrale del battaglione. Veniva utilizzata come punto di riferimento sia dall'artiglieria sia dalla fanteria e dall'aviazione. « Do un'altra occhiata », disse van der Heever, rialzando la testa. Lo sparo del Mauser echeggiò con quella tipica nota secca, acuta e maligna, che Sean aveva già udito così di frequente da essere in grado di valutare con precisione la distanza e la traiettoria. Si era trattato di un unico colpo, sparato da circa cinquecento metri, esattamente di fronte a loro. La testa di van der Heever scattò all'indietro come se fosse stata colpita da un pugno, e l'elmetto d'acciaio risuonò come un gong. Il sottogola si strappò e il copricapo rotondo balzò nell'aria, ricadde sulle assi che ricoprivano il fondo della trincea e, rotolando sul bordo, terminò la sua corsa in una pozzanghera di fango grigiastro. Le mani di van der Heever rimasero aggrappate per un attimo al piolo superiore della scala, poi le dita inerti si dischiusero ed egli si rovesciò all'indietro, cadendo pesantemente sul fondo della trincea, mentre le falde del pesante cappotto si gonfiavano nel volo. Sean rimase immobile, incredulo. La sua mente rifiutava il fatto che Nick fosse stato colpito, ma la sua esperienza di soldato e di cacciatore lo induceva a considerare quell'unico colpo con grande rispetto. Era stato un tiro straordinario, data la distanza e l'assenza di luce. Tutto si era compiuto nel giro dei pochi secondi necessari a calcolare la traiettoria, a mirare e a premere il grilletto non appena la testa si era riaffacciata oltre il bordo. Il tedesco che aveva sparato doveva essere un tiratore eccezionale, con i riflessi rapidi come quelli di un leopardo, oppure il cecchino più fortunato di tutto il fronte occidentale. Questa riflessione non durò più di un istante, poi Sean si riscosse e si avviò con passo pesante verso il suo ufficiale. Inginocchiatosi accanto a lui, lo voltò appoggiandogli una mano sulla spalla, e sentì subito un senso di svuotamento nei visceri, una morsa gelida che gli attanagliava il torace. Il proiettile era penetrato nella tempia ed era uscito sotto l'orecchio opposto. Sean prese in grembo la testa squarciata e, toltosi l'elmetto, cominciò a srotolare la sciarpa di seta che gli avvolgeva il capo. Si sentì pervadere da un desolato senso di perdita. Fasciò lentamente la testa del giovane e il tessuto sottile si
impregnò subito di sangue. Era un gesto inutile, ma gli servì a tenere le mani occupate e ad alleviare la sensazione di impotenza. Si sedette sulle assi fangose, con le pesanti spalle ricurve, tenendo tra le braccia il corpo del ragazzo. Le dimensioni della testa di Sean erano accentuate dai riccioli folti e scuri, intessuti di fili bianchi che mandavano bagliori argentei nella luce fioca. Anche la barba corta e fitta era spruzzata di grigio e il grande naso aquilino portava i segni di molte battaglie. Solo le sopracciglia ricurve erano ancora nere e i limpidi occhi blu-cobalto, dallo sguardo fermo e penetrante, sembravano quelli di un uomo molto più giovane. Sean Courteney rimase seduto a lungo, tenendo il ragazzo stretto a sé, poi trasse un profondo sospiro e appoggiò per terra la testa fracassata. Si alzò, si mise la sacca a tracolla e si avviò nuovamente lungo il camminamento. Mancavano cinque minuti a mezzanotte quando il colonnello che era a capo del secondo battaglione entrò nella mensa ufficiali scostando le tende scure che ne celavano l'ingresso e, raddrizzandosi, si spolverò le spalle con la mano guantata per toglierne la neve. La mensa, che fino a sei mesi prima era stata un rifugio sotterraneo tedesco, costituiva l'invidia dell'intera brigata. Costruita dieci metri sotto il liveIlo del suolo, era praticamente inattaccabile; nemmeno il fuoco dell'artiglieria pesante avrebbe potuto scalfirla. Il pavimento era ricoperto da un pesante tavolato, e persino le pareti erano rivestite in legno, per riparare il locale dall'umidità e dal freddo. Una stufa panciuta, addossata al muro, mandava allegri bagliori. Attorno a essa, se ne stavano seduti gli ufficiali fuori servizio, su una serie di poltrone frutto di qualche scorribanda. Il colonnello fissò lo sguardo sulla figura massiccia del suo generale, adagiato sulla poltrona più comoda e più vicina alla stufa, e si precipitò verso di lui, togliendosi contemporaneamente il cappotto. « La prego di accettare le mie scuse, generale. Se avessi saputo che era diretto qui... Ero fuori di ronda. » Sean Courteney ridacchiò e si alzò pesantemente dalla sedia per stringergli la mano. « E' quello che mi aspettavo da te, Charles, ma non devi preoccuparti. I tuoi ufficiali mi hanno riservato un'ottima accoglienza... ti abbiamo persino lasciato un po' di oca. » Il colonnello lanciò una rapida occhiata attorno e aggrottò la fronte, notando le guance arrossate e gli occhi luccicanti di alcuni dei suoi più giovani subalterni. Doveva metterli in guardia contro la tentazione di competere con il generale: nessuno reggeva l'alcool come lui. Il vecchio, invece, era saldo come una roccia e i suoi occhi, sotto le sopracciglia scure, sembravano due baionette, ma il colonnello lo conosceva abbastanza bene per sapere che aveva in corpo un buon litro di Dimple Haig e che qualcosa lo turbava profondamente. Tutt'a un tratto capì di cosa si trattava. Certo, non poteva essere altro che
quello. « Sono molto addolorato per la morte del giovane van der Heever, signore. Il sergente maggiore mi ha riferito l'accaduto. » Il generale alzò la mano come per tagliar corto, ma le ombre nei suoi occhi si addensarono. « Se soltanto avessi saputo che aveva intenzione di venire questa sera, l'avrei messa in guardia. Quel cecchino ci ha dato un sacco di noie sin da quando siamo arrivati. E' uno solo, ne siamo sicuri, ma ha un tiro che non perdona. Non ho mai visto niente del genere. E' una terribile seccatura, soprattutto perché, per il resto, qui è tutto molto tranquillo. Le uniche vittime che abbiamo avuto questa settimana sono opera sua. » « Che provvedimenti conti di prendere? » domandò Sean in tono brusco. A nessuno sfuggì l'improvviso rossore di rabbia che glì colorì il viso, e l'aiutante di campo intervenne con prontezza. « Sono stato dal colonnello Caithness, al terzo battaglione. Ha acconsentito a mandarci Anders e MacDonald... » « Bravo! » esclamò il colonnello con aria entusiasta. « Ehi, dico, è un'ottima soluzione. Non credevo che Caithness avrebbe accettato di separarsi dalla sua coppia d'assi. » « Sono arrivati questa mattina e per tutto il giorno non hanno fatto altro che studiare il terreno. Ho lasciato loro mano libera, ma mi sembra che abbiano fissato l'azione per domani. » II giovane capitano che comandava la prima compagnia tirò fuori l'orologio e lo fissò per un istante. « Partiranno dal mio settore, signori. Anzi, per la verità, stavo per andare ad accomiatarmi da loro, perché prenderanno posizione a mezzanotte e mezzo. La prego di scusarmi, signore. » « Naturalmente, Dicky, vada pure. Auguri loro buona fortuna da parte mia. » Non c'era nessuno, nella brigata, che non avesse sentito parlare di Anders e MacDonald. « Mi piacerebbe conoscere quei due », proclamò Sean Courteney, e il colonnello annuì con deferenza. « Sicuro, vengo con lei, signore. » « No, no, Charles, sei già rimasto fuori al freddo fin troppo a lungo. Non preoccuparti, andrò con Dicky. » Dal buio cielo di mezzanotte cadeva una neve fitta, che attutiva i rumori notturni, soffocandoli sotto la sua spessa coltre e smorzando le raffiche regolari di un Vickers che sparava verso uno squarcio nel reticolato, alla sinistra del battaglione. Mark Anders se ne stava seduto con una coperta sulle spalle e la testa china sul libro che teneva in grembo, cercando di adattare la vista alla fiammella ondeggiante della candela, ormai ridotta a un mozzicone. L'aumento della temperatura, che si verificava sempre in coincidenza con la prima neve, e la mutata qualità dei suoni che penetravano nel piccolo rifugio sotterraneo svegliarono l'uomo che gli dormiva accanto. Questi tossì, poi, giratosi,
aprì uno spiraglio nella tenda. « Dannazione », disse, riprendendo a tossire. La sua tosse aveva un suono aspro e cavernoso, tipico di chi fuma molto. « All'inferno, sta nevicando. » Si voltò di nuovo e guardò Mark. « Stai ancora leggendo? » gli domandò in tono brusco. « Stai sempre col naso sprofondato in quel maledetto libro. Ti rovi nerai la mira. » Mark alzò la testa. « E' già un'ora che nevica. » « Cosa te ne farai poi di tutto quello che impari », insisté Fergus MacDonald, senza lasciarsi distrarre. « Non ti servirà a niente. » « Non mi piace la neve », commentò Mark. « Non ci voleva proprio. » La neve complicava il compito che li attendeva. Il suo mantello bianco era una spia inesorabile. Chiunque si fosse avventurato nella terra di nessuno avrebbe lasciato dietro di sé delle impronte che, alla cruda luce dell'alba, non sarebbero sfuggite al nemico in agguato. Fergus sfregò un fiammifero e accese due sigarette, passandone una a Mark. Presero a fumare, seduti a spalla a spalla e avvolti nelle coperte. « Annulla tutto, Mark. Di' che vuoi rimandare l'azione. Dopotutto sei un volontario. » Continuarono a fumare in silenzio per un minuto buono prima che Mark si decidesse a rispondere. « Quel tedesco è pericoloso. » « E' probabile che domani non esca, se nevica. Vedrai che resterà a letto anche lui. » Mark scosse il capo lentamente. « Se è davvero come dicono, non si lascerà fermare da un po' di neve. » « Sì, è straordinario », convenne Fergus. « Basta pensare al colpo che ha tirato ieri sera, da quella distanza e quasi al buio, dopo aver passato tutto il giorno fuori al freddo... » Fergus s'interruppe, poi si affrettò ad aggiungere: « Ma anche tu sei in gamba, ragazzo. Sei il migliore di tutti ». Mark non rispose, ma staccò con cura la brace dalla sigaretta. « Allora, andrai? » domandò Fergus. « Si. » « Cerca di dormire un pò, ragazzo. Domani sarà una giornata lunga. » Mark spense la candela, poi si sdraiò, tirandosi la coperta sopra la testa. « Fatti un buon sonno », ripeté Fergus. « Ti sveglierò fra un po'. » Vinse l'impulso paterno di dare un colpetto affettuoso alla spalla ossuta che si profilava sotto la coperta. Il giovane capitano parlottò a voce bassa con una delle sentinelle appostate sulla piazzuola di tiro e l'uomo, dopo avergli sussurrato qualcosa in risposta, fece un cenno col mento in direzione della trincea immersa nel buio.
« Da questa parte, signore. » Si incamminò, infagottato al punto da sembrare un orso, e Sean si avviò dietro di lui, sovrastandolo di tutta la testa. Svoltarono un angolo e, attraverso la soffice cortina della neve che continuava a cadere, scorsero l'alone rossastro di un braciere, posto all'interno del piccolo rifugio scavato nella parete della trincea. Attorno a esso erano accoccolate delle figure scure, simili a streghe a un sabba. « Sergente MacDonald? » Una delle figure si alzò e avanzò verso di lui. « Sono io », rispose l'uomo, con un tono di voce così sicuro da rasentare l'impudenza. « C'è Anders con lei? » « Sì, è qui », rispose MacDonald, mentre un altro uomo si alzava dal cerchio e si avvicinava. Era molto alto, ma si muoveva con la grazia di un atleta o di un ballerino. « E' pronto, Anders? » domandò il capitano, parlando con quel mormorio tipico di chi è avvezzo a vivere in trincea. « Prontissimo, signore », s'intromise sMacDonald, con aria di possesso, come se Anders fosse stato un pugile e lui il suo manager. Era chiaro che considerava il ragazzo una sua creatura e che questo fatto gli dava un prestigio che non sarebbe mai riuscito a raggiungere da solo. In quel momento un razzo esplose sopra di loro, illuminando il cielo di un bagliore bianco, appena smorzato dalla neve. L'esperienza e una naturale predisposizione permettevano a Sean di giudicare gli uomini con la stessa precisione con cui giudicava i cavalli, individuando nel branco sia i corrotti sia i puri di cuore. Approfittando della luce del razzo, i suoi occhi indugiarono sul volto del sergente. MacDonald aveva un viso ossuto e smunto, tipico di chi proviene dai quartieri poveri, con gli occhi troppo vicini e le labbra strette rivolte verso il basso. Non c'era niente in lui che potesse interessare Sean, che spostò lo sguardo sull'altro. Costui aveva gli occhi ben distanziati, color dell'ambra chiara, e la sua espressione serena era quella di un poeta o di chi è vissuto a lungo in luoghi dagli orizzonti sconfinati. Le palpebre alte scoprivano ben bene l'occhio, dove l'iride nuotava, tonda come una luna piena, nel candore abbagliante della cornea. Era una caratteristica piuttosto rara, che produceva un effetto quasi ipnotico e comunicava una sensazione di candore e di ingenuità tali che Sean se ne sentì colpito fin nel profondo dell'anima. A questa prima impressione se ne aggiunsero altre. Sean rimase stupito dall'estrema giovinezza del ragazzo, che non doveva avere ancora raggiunto i vent'anni, e, subito dopo, notò la sua prestanza. Nonostante la serenità dello sguardo, Anders era teso fino allo spasimo. Durante gli ultimi quattro anni, Sean si era trovato spesso di fronte a casi del genere: nessuno aveva esitato a sfruttare l'abilità di quel ragazzo, né Caithness,
il comandante del terzo ibattaglione, né lo scaltro MacDonald, né Charles, né Dicky, e, per associazione, nemmeno lui. Tutti l'avevano usato senza pietà, mandandolo allo sbaraglio ogni volta che se n'era presentata la necessità. Il ragazzo teneva in mano una tazza di stagno piena di caffè bollente e il polso che sporgeva dalla manica del cappotto era scheletrico e segnato dalle punture rabbiose dei pidocchi. Il collo era troppo lungo e sottile per la testa che sosteneva, le guance erano incavate e gli occhi infossati. « Questo è il generale Courteney », disse il capitano e, mentre il bagliore del razzo si affievoliva, Sean vide gli occhi del giovane accendersi all'improvviso di una nuova luce, e si accorse che tratteneva il fiato per l'emozione. « Salve, Anders. Ho udito molto parlare di te » « Anch'io di lei, signore. » Il tono di adorazione irritò Sean. Era chiaro che il ragazzo era stato ampiamente messo al corrente delle sue imprese. Nessuna nuova recluta poteva esimersi dall'ascoltare le storie che circolavano su di lui al reggimento, sulle quali, peraltro, egli non esercitava alcun controllo. « E' un grande onore conoscerla, signore », disse il ragazzo in tono di grande sincerità. Solo la balbuzie appena accennata indicava la grande tensione che lo attanagliava. Davanti a lui c'era il leggendario Sean Courteney, l'uomo che si era costruito una fortuna nelle miniere d'oro del Witwatersrand e l'aveva persa nel corso di un'unica mattina. Sean Courteney, che aveva inseguito il generale boero Leroux per mezza Africa del Sud, catturandolo dopo un terribile corpo a corpo. Il soldato che aveva bloccato i feroci guerrieri zulu di Bombata, dirottandoli sulle Maxim in attesa e che poi, alleandosi con il suo nemico di un tempo, aveva contribuito a stendere lo statuto dell'Unione, grazie al quale i quattro stati indipendenti si erano fusi in un'unica grande nazione. L'uomo che aveva saputo ammassare un altro patrimonio con la terra e l'allevamento del bestiame e che aveva rinunciato alla sua posizione nel governo di Louis Botha e alla presidenza del Consiglio Legislativo del Natal per andare in Francia a combattere alla testa del suo reggimento. Era più che naturale che gli occhi del ragazzo brillassero e che la sua lingua si inceppasse, ma Sean ne era ugualmente infastidito. A cinquantanove anni, si sentiva troppo vecchio per impersonare il ruolo dell'eroe. In quel momento il razzo si spense e gli uomini sprofondarono nell'oscurità. « E' avanzato un pò di caffè? » domandò Rean. « Fa un freddo terribile stanotte. » Prese la tazza di smalto sbeccato e si accoccolò accanto al braciere, tenendola con entrambe le mani e soffiando sulla bevanda fumante, finché gli altri, dopo qualche esitazione, lo imitarono. Evidentemente agli uomini doveva sembrare strano starsene accovacciati in presenza di un generale, perché tra loro si stabilì un profondo silenzio. « Vieni dallo Zululand? » domandò Sean al ragazzo. Gli
sembrava di aver colto l'accento di quella regione e, senza attendere risposta, proseguì in zulu: « Velapi wena? Qual è il tuo paese d'origine? » Mark ritrovò con facilità la lingua della sua infanzia, anche se erano due anni che non la parlava. « Sono nato a nord, nelle vicinanze di Eshowe, sul fiume Umfolosi. » « Conosco bene quella zona. Ci sono stato spesso a caccia. Anders? » proseguì poi Sean, tornando all'inglese. « Conoscevo un tale che si chiamava così. Nell'89 si occupava dei trasporti dalla baia di Delagoa. John? Sì, mi pare proprio di sì. Il vecchio Johnny Anders. E' tuo parente, per caso? » « E' mio nonno. Mio padre è morto. Il nonno ha un pezzo di terra sull'Umfolosi ed è lì che abito. » Il ragazzo si era rilassato, i segni di tensione attorno alla bocca erano spariti. « Non pensavo che conoscesse della povera gente come noi... signore », intervenne Fergus MaaDonald con una nota tagliente nella voce, protendendosi verso il braciere e rivolgendo a Sean il viso dall'espressione amara. Questi annuì lentamente. MacDonald doveva essere uno di quei fanatici che sostenevano i sindacati e il marxismo, pensò, uno di quei bolscevichi che scagliavano bombe e tra di loro si chiamavano compagni. Come se lo vedesse per la prima volta, notò che aveva i capelli rossi e delle grosse lentiggini dorate sul dorso delle mani. « E' stato lui a insegnarti a sparare? » domandò, rivolto a Mark Anders. « Sì, signore. » Al ricordo, il ragazzo sorrise per la prima volta. « E' con lui che ho imbracciato il fucile la prima volta. Era un Martini Hendry, che emetteva una nuvola di fumo simile a quella di un cespuglio in fiamme ma che era in grado di colpire il bersaglio a centocinquanta metri di distanza. » « Siamo stati insieme a caccia di elefanti », disse Sean. « Un grande tiratore. » Improvvisamente, nonostante la differenza di età, i due uomini si sentirono amici. Era probabile che la morte recente di Nick van der Heever, il suo giovane e brillante ufficiale, avesse lasciato un vuoto doloroso in Sean, che ora si sentì pervadere da un sentimento di tenerezza paterna nei confronti del ragazzo. Anche Fergus MacDonald dovette accorgersene, perché si intromise come una donna gelosa. « E' meglio che ti prepari, ora. » Il sorriso scomparve dalle labbra di Mark, che annuì rigidamente, con lo sguardo fin troppo calmo. Fergus lo aiutò a prepararsi e, ancora una volta, a Sean venne spontaneo paragonarlo a un allenatore che si affaccenda attorno a un pugile prima di un incontro. Il ragazzo si tolse l'ingombrante cappotto e la giacca dell'uniforme e si infilò una camicia di lana e due maglioni, avvolgendosi attorno al collo una sciarpa pesante. Sopra indossò una tuta da meccanico, che racchiuse i vari strati da cui era composto il suo abbigliamento in un unico involucro compatto, per evitare che il vento, giocando con i
suoi indumenti, finisse per segnalare la sua presenza. In testa si mise un passamontagna di lana su cui calò un berretto di cuoio da aviatore, che offriva una protezione maggiore dell'elmetto abituale e che, soprattutto, era meno individuabile. « Tieni giù la testa, mi raccomando. » Poi calzò dei guanti di lana con le dita tagliate, a cui ne sovrappose un altro paio spesso e largo. « Ricordati di muovere le dita, ragazzo. Non lasciare che si irrigidiscano. » Un piccolo tascapane di cuoio andò ad annidarsi sotto l'ascella sinistra, al termine della vestizione. « Ti ho messo dentro dei panini al prosciutto con un mucchio di senape, una tavoletta di cioccolata e delle caramelle di zucchero d'orzo. Non dimenticarti di mangiare. Ti terrà caldo. » Quindi si aggiunsero quattro caricatori di proiettili: tre finirono nelle tasche della tuta e uno in una tasca speciale cucita sull'avambraccio della manica sinistra. « Li ho ingrassati uno per uno », annunciò Fergus a beneficio del generale. « Li infilerai dentro come... » E concluse la frase con un paragone osceno, tendente a dimostrare il suo disprezzo delle convenienze. Ma Sean era troppo interessato ai preparativi della caccia all'uomo per prestarvi attenzione. « Aspetterò che ci sia la luce giusta per alzare Cuthbert. » « Cuthbert? » domandò Sean, e Fergus, ridacchiando, gli indicò una terza figura, immobile sul fondo del rifugio. Poi, vedendo la sua espressione stupita, si chinò con un ulteriore sogghignò a raccoglierla. Solo allora Sean si rese conto che si trattava di un manichino, realizzato con una certa precisione; i lineamenti erano realistici e la testa coperta dall'elmetto si levava dritta sulle spalle. Ma la somiglianza con il modello umano terminava bruscamente all'altezza dei fianchi. Sotto non c'era altro che un manico di scopa. « Hai già fatto un piano d'azione? » domandò Sean, rivolto a Mark Anders, ma Fergus si intromise un'altra volta. « Ieri quel crucco sparava dalla parte bassa del pendio, verso nord », rispose con aria d'importanza. « Calcolando l'angolo di tiro, abbiamo scoperto dove si è annidato. » « Forse si è spostato », obiettò Sean. « Non credo. La parte del pendio che dà verso nord rimane in ombra tutto il giorno. Resterà lì per non essere infastidito dal sole. » Era tutto molto logico e Sean fece un cenno d'assenso. « Già », convenne. « Ma potrebbe anche sparare da dietro le linee. » « Non credo, signore », rispose Mark in tono educato. « In questo punto sono troppo lontane. Le linee tedesche passano sulla cresta della collina. No, signore, quel tipo spara da più vicino. Si è scelto un punto nella terra di nessuno e, anche se lo cambia tutti i giorni, non si allontana mai troppo dalle nostre postazioni, pur restando nella parte all'ombra », disse con vo-
ce bassa e intensa. Ora che si era concentrato sul problema, aveva smesso di balbettare. « Ho scelto un posto ottimo per il ragazzo, un pò più in là della fattoria. Potrà tenere sotto tiro tutta la parte nord della collina da una distanza inferiore ai duecento metri. Se esce adesso, riuscirà ad appostarsi prima dell'alba senza che nessuno lo veda. E, comunque, voglio che si sistemi prima di quel bastardo per evitare che gli inciampi addosso nel buio », precisò Fergus MacDonald con aria autorevole. « Quando ci sarà abbastanza luce, comincerò a darmi da fare con Cuthbert. » Mollò una pacca al manichino e ridacchiò di nuovo. « E molto difficile dargli l'aria del marmittone ingenuo che tira su la testa per dare la sua prima occhiata alla terra di Francia. Se lo lascerò su troppo, quel crucco finirà per accorgersi che è un trucco; in caso contrario, non avrà il tempo di sparare. No, non è facile. » « Già, sembra proprio la parte più pericolosa di tutta l'operazione », osservò Sean con aria sarcastica. Negli occhi di Fergus MacDonald passò un lampo di odio, poi l'uomo si voltò verso Mark Anders. « Un'altra tazza di caffè, ragazzo, poi sarà ora che ti avvii. Voglio che tu sia al tuo posto prima che smetta di nevicare. » Sean si ficcò la mano dentro il cappotto e la ritirò con la fiaschetta d'argento che sua moglie Ruth gli aveva regalato il giorno in cui era partito. « Metti un pò di fuoco nel caffè », disse a Mark, porgendogli la fiasca. Il ragazzo scosse timidamente il capo. « No, grazie, signore. Mi confonde la vista. » « Vuol dire che ne approfitterò io », intervenne Fergus MacDonald, allungando la mano. Il liquido ambrato e trasparente passò gorgogliando nella sua tazza. Prima di mezzanotte, il sergente maggiore aveva mandato una pattuglia a tagliare un passaggio nel filo spinato davanti alla compagnia A. Mark, fermo ai piedi della scala, si passò il fucile nella mano sinistra. Un altro razzo esplose su di loro e, alla sua luce, Sean notò che aveva un'espressione intensa. Quando aprì l'otturatore della carabina. Sean si accorse che al Lee-Enfield n. 1 corto, in dotazione all'esercito inglese, aveva preferito un P. 14 americano, un fucile dello stesso calibro che aveva, tuttavia, la canna più lunga ed era più proporzionato dell'altro. Mark infilò due caricatori al loro posto e chiuse l'otturatore, inserendo in canna il primo dei proiettili accuratamente scelti e lucidati. Poi guardò Sean e gli rivolse un rapido cenno col capo. Quando il razzo si spense, Sean udì i suoi passi, veloci e leggeri, sulla scaletta di legno. Avrebhe voluto augurargli buona fortuna, ma si trattenne, tastandosi invece le tasche in cerca dei sigari.
« Vuole che torniamo, signore? » gli domandò il capitano in tono pacato. « Vada avanti lei », grugnì Sean con la voce alterata dal timore di qualche tragedia incombente. « La seguirò tra un attimo. » Sapeva di non poter essere di alcun aiuto al ragazzo, ma, se se ne fosse andato in quel momento, gli sarebbe parso di abbandonarlo. Mark si mosse rapido lungo la fune che la pattuglia aveva steso a terra per guidarlo attraverso il varco aperto nel filo spinato. Nella destra aveva il fucile e si chinava a tastare la fune con la sinistra per non sbagliare direzione. Camminava a passo leggero, alzando i piedi con cura per non sollevare la neve e cercando di equilibrare il peso in modo da non romperne la crosta. Ogni volta che si accendeva un razzo, doveva buttarsi per terra a faccia in giù, restando immobile; una macchia scura sul terreno immacolato, velata soltanto dai fiocchi che continuavano a cadere. Quando si rialzava, svanito l'ultimo bagliore del razzo, lasciava un'impronta nella neve. In normali condizioni la cosa non sarebbe stata grave, perché in quella distesa brulla e sconvolta dalle esplosioni un segno del genere sarebbe passato inosservato. Ma Mark sapeva che, alla fredda luce dell'alba, un paio d'occhi insolitamente attenti avrebbero esarninato ogni singola zolla di terra. Tutt'a un tratto si sentì attanagliare dalla morsa gelida della solitudine, più fredda dell'aria gelata che gli sferzava le guance. Era solo e vulnerabile contro un nemico accorto e spietato, un avversario invisibile ed efficiente che, al minimo errore, l'avrebbe punito con la morte. Un altro razzo si accese e si spense. Si alzò in piedi e procedette a tentoni fino al muro sbrecciato della fattoria. Vi si acquattò contro, cercando di controllare il respiro che si era fatto ansimante. Era la prima volta che provava un terrore del genere. La paura che era stata la sua compagna fissa in quegli ultimi due anni, non l'aveva mai assalito con tanta intensità. Si sfiorò la guancia gelata con le dita della mano destra e si avvide che erano percorse da un tremito. Quasi automaticamente, i denti cominciarono a battere a ritmo rapido e discontinuo. « Non posso sparare in questo stato », pensò in preda al terrore, stringendo la mascella fino a farsela dolere e premendosi sull'inguine le mani. « E non posso nemmeno restare qui. » Quel cumulo di rovine sarebbe stato il primo punto su cui gli occhi indagatori del cecchino si sarebbero posati. Doveva andarsene, e in fretta. Doveva tornare alle trincee. Improvvisamente il suo terrore divenne panico; come impazzito, si alzò per darsi alla fuga, lasciando il fucile appoggiato al muro cadente. « Bist du da? » sussurrò una voce a poca distanza da lui. Mark si immobilizzò all'istante. « Ja! » La risposta giunse da un punto più lontano, lungo
il muro. Mark prese il fucile. La mano sinistra si adattò in modo naturale al copricanna e la destra si curvò attorno al calcio, mentre l'indice si piegava a uncino sul grilletto. « Komm, wir gehen zuruck. » Più che vederla, Mark si sentì passare accanto una figura curva sotto un peso. La seguì con il fucile puntato e il pollice sulla sicura, pronto a farla scattare. Il tedesco inciampò nel terreno accidentato e gli attrezzi che portava sbatterono l'uno contro l'altro con rumore metallico. L'uomo imprecò. « Scheisse! » « Halt den Mond », sibilò l'altro, ed entrambi si avviarono verso le loro linee, sulla cima della collina. Mark non si era aspettato di trovare un piccolo distaccamento di soldati addetti alla posa del filo spinato fuori a quell'ora. Quando aveva udito le voci, aveva creduto che si trattasse del cecchino, ma ora il cuore gli balzò nel petto al pensiero della fortuna che gli era capitata. La pattuglia l'avrebbe condotto attraverso gli sbarramenti tedeschi e le sue impronte si sarebbero confuse con le loro. Solo dopo aver preso questa decisione si accorse con sorpresa che l'attacco di panico era passato. Le mani erano tornate salde come il granito e il respiro aveva ripreso il suo ritrno regolare. Con un sogghignò amaro nei confronti della sua fragilità, si avviò silenziosamente al seguito dei due tedeschi, i quali, man mano che si avvicinavano alle loro linee, procedevano con maggior sicurezza. A duecento metri dalla cima, Mark si staccò da loro e cominciò ad aggirare la collina, facendosi strada a fatica tra i reticolati, finché raggiunse la postazione che lui e Fergus avevano individuato il pomeriggio precedente. Il tronco di una delle querce che crescevano sulla collina era caduto verticalmente lungo il pendio, tirandosi dietro un ammasso contorto di radici. Mark strisciò in mezzo a quell'intrico, scegliendo il lato più in ombra e avanzando sul ventre finché fu quasi interamente coperto dalle radici, badando però che le spalle e la testa fossero libere di muoversi in modo da tenere sotto controllo l'intera curva del pendio, davanti a lui. La sua prima preoccupazione fu quella di controllare con cura il P. 14 e soprattutto l'alzo, un Bisley piuttosto allungato e particolarmente vulnerabile, per assicurarsi che non avesse subìto danni durante il tragitto nella terra di nessuno. Mangiò un paio di panini al prosciutto, buttò giù qualche sorsata di caffè zuccherato e si coprì la bocca e il naso con la sciarpa di lana per tenersi caldo e per impedire che i soliti occhi attenti potessero notare la nuvola di vapore prodotta dal suo fiato. Poi appoggiò la fronte al calcio del fucile e si addormentò all'istante, come aveva imparato in guerra. Mentre dormiva, riprese a nevicare. Quando si svegliò era già l'alba, un'alba livida e grigiastra. Si accorse di essere coperto da un sottile velo di neve. Facen-
do attenzione a non smuoverlo, alzò piano la testa e sbatté le palpebre per schiarirsi la vista. Aveva le dita rigide e fredde; cominciò a muoverle nei guanti per farvi affluire il sangue. Per la seconda volta in quella notte era stato toccato dalla fortuna. Prima la pattuglia che l'aveva guidato fino al filo spinato e ora quel lieve strato di neve che l'aiutava a confondersi con l'intrico di radici. Era troppo: prima o poi la bilancia avrebbe cominciato a pendere dall'altra parte. L'oscurità si stava lentamente ritirando, permettendogli di estendere il raggio della sua visuale, finché tutto il suo essere si concentrò nei grandi occhi dorati. Si muovevano rapidi, seguendo i contorni delle cose, esplorando ogni asperità del terreno, soffermandosi a esaminare le eventuali anomalie nel colore e nella consistenza della neve, del fango e del suolo, scrutando i tronchi recisi e i rami caduti, in cerca di ombre là dove non dovevano essercene o di una qualsiasi alterazione nel sottile manto di neve; inquieti, indagatori e attenti a ogni segno di vita Poco prima delle nove smise nuovamente di nevicare; a mezzogiorno il cielo si era schiarito e la cappa di nuvole si era squarciata in alcuni punti. Un unico, pallido raggio di sole scese a illuminare come un riflettore la parte della collina rivolta a sud. « Bene, Cuthbert, tocca a te. Vedi di attirare qualche pallottola nemica. » Fergus aveva segnato tutti i colpi del cecchino su una mappa prestatagli dal sergente maggiore. Nella stessa sezione della trincea si notavano due punti, a poca distanza l'uno dall'altro, là dove il parapetto, troppo basso rispetto alla collina che dominava la linea del fronte, non aveva offerto sufficiente protezione. Dopo che cinque uomini erano stati uccisi, era stato rialzato con dei sacchetti di sabbia e nei due punti erano stati affissi dei cartelli che mettevano in guardia gli incauti in termini crudi. GIU' LA TESTA. CECCHINO IN AZIONE. I due punti neri distavano l'uno dall'altro solo cinquanta passi, e Fergus era riuscito a individuare la tecnica seguita dal cecchino per ottenere i suoi successi. L'uomo aveva aspettato di veder passare una testa in uno dei buchi e aveva mirato in quello seguente, pronto a far fuoco non appena fosse ricomparsa. Spiegò la cosa a Sean mentre faceva i preparativi, avvincèndolo a tal punto che solo una massiccia offensiva nemica avrebbe potuto indurlo a tornare al suo quartier generale. Nel corso della mattinata il generale aveva già avvertito telefonicamente il suo aiutante di campo, dicendogli dove avrebbe potuto rintracciarlo in caso d'emergenza. « E badi che si tratti veramente di un'emergenza », aveva ruggito con aria feroce.
« Lo sposterò da sud a nord », spiegò Fergus. « Quel maledetto crucco sarà costretto a voltarsi rispetto alla posizione occupata da Mark, dandogli così qualche secondo di vantaggio. » Sean dovette ammettere che Fergus ci sapeva fare. Reggeva il manichino a un'altezza superiore a quella normale per compensare il rialzo del parapetto e, passando dalla prima breccia, lo fece dondolare molto realisticamente, imprimendo alle spalle il movimento ondulatorio di un uomo che cammini in fretta. Sean; il giovane capitano e il sergente maggiore, assieme a una mezza dozzina di uomini, erano in attesa oltre il secondo avvallamento e osservavano Fergus che procedeva con passo regolare. Quando si avvicinò al punto incriminato, tutti trattennero istintivamente il respiro e si irrigidirono per la tensione. Dalle colline giunse uno sparo che risuonò come una frustata nell'aria gelida. Il fantoccio sobbalzò bruscamente nelle mani di Fergus MacDonald. Questi lo abbassò di scatto e si inginocchiò per esaminare il foro tondo come una moneta prodotto dal Mauser nella cartapesta. « Oh, merda! » mormorò in tono amaro. « Grandissima merda! » « Cosa c'è, MacDonald? » « Quel maledetto crucco... quel bastardo fetente... » « MacDonald! » « Occupa la posizione che doveva prendere il mio ragazzo. » Per un attimo Sean lo guardò senza capire. « Si è piazzato proprio sopra Mark, fra i tronchi. Sono nello stesso punto. » Lo sparo secco e improvviso del Mauser si ripercosse nelle orecchie di Mark, assordandolo per qualche istante. Il ragazzo rimase come inebetito e paralizzato dalla sorpresa. Il cecchino doveva essere vicinissimo. Per un'assurda coincidenza, si era piazzato più o meno nello stesso punto che aveva scelto lui. Ma forse non si trattava di una coincidenza. Con l'occhio del cacciatore, entrambi avevano individuato la posizione migliore per lo scopo che li accomunava: dare una morte rapida restando nascosti. La fortuna gli aveva girato le spalle. Mark non si era più mosso da quando l'uomo aveva sparato, ma il fiotto di adrenalina che gli si era riversato nel sangue aveva acuito i suoi sensi e il cuore gli batteva così £orte che i colpi si ripercuotevano sulle costole. Il tedesco era alla sua sinistra, un pò più in alto e leggermente più indietro rispetto a lui, con il lato sinistro scoperto. Mark aguzzò lo sguardo, senza muovere la testa, e con la coda dell'occhio vide un altro tronco caduto, poco lontano. Rimase immobile ancora per un minuto, pronto a cogliere il minimo movimento, ma non accadde nulla. Si sentì opprimere dal silenzio, che un attimo dopo fu interrotto dalla raffica di una Spandau, a poco più di un chilometro di distanza, lungo il fronte.
Mark cominciò a girare la testa verso sinistra, con un movimento simile a quello di un camaleonte, che fa la posta a una mosca. Gradualmente la sua visuale si ampliò, finché riuscì a comprendere tutta la parte di pendio che lo sovrastava. Il tronco più vicino era stato straziato dagli shrapnel; la corteccia era stata lacerata e grosse schegge di legno erano state asportate. Era caduto di traverso su un avvallamento del terreno, formando una specie di ponte, e, nonostante la neve che gli si era ammonticchiata contro, vi era rimasta al di sotto una stretta fessura da cui filtrava la luce. In quell'istante il suo sguardo fu attratto da un movimento fugace e quasi impercettibile, sufficiente, tuttavia a catturare la sua attenzione. Aguzzò gli occhi per cinque secondi buoni prima di capire di che cosa si trattasse. Dal limite superiore del tronco sporgeva la canna di un Mauser. Era stata avvolta in tela di sacco per schermarne la sagoma netta e impedire che la luce si riflettesse sul metallo, ma la piccola bocca crudele era rimasta necessariamente scoperta. Il tedesco era sdraiato dietro il tronco, a una decina di metri di distanza. Era di profilo rispetto a lui e aveva il lato destro protetto. Mark rimase a osservare la bocca del fucile per una decina di minuti senza che accadesse niente. Il tedesco aveva due grandi doti: la capacità di restare immobile e la pazienza. Dopo aver ricaricato l'arma, era tornato a irrigidirsi nell'attesa. « E' così in gamba che non posso sperare di sorprenderlo », pensò Mark. « Al minimo movimento mi sentirà e per me sarà finita. » Per poter sparare, Mark avrebbe dovuto indietreggiare di qualche metro e allora si sarebbe trovato proprio davanti alla bocca del Mauser. Per il tedesco sarebbe stato un gioco colpirlo. Mark sapeva di non poter sprecare il piccolo vantaggio che aveva, soprattutto con un avversario di quel tipo. Lunghi attimi di immobilità si susseguirono l'uno all'altro senza che la tensione si allentasse. Mark aveva l'impressione che tutto il suo corpo fosse percorso da un tremito, ma in realtà l'unica cosa che si muoveva in lui era la mano destra, all'interno del guanto. Le dita si agitavano, piegandosi e distendendosi per mantenersi agili e calde, e gli occhi si spostavano lentamente a destra e a sinistra per esplorare il tronco straziato, aprendosi e chiudendosi regolarmente per eliminare le lacrime prodotte dalla tensione e dall'aria gelida. « Cosa diavolo succede lassù? » esclamò Fergus MacDonald in tono nervoso, sbirciando nell'oculare del periscopio che permetteva di guardare fuori restandosene acquattati dietro i sacchetti di sabbia. « Il ragazzo è bloccato », gli rispose Sean Courteney, senza togliere gli occhi dall'altro periscopio, ma facendolo lentamente ruotare nei due sensi per tenere sotto controllo il pendio. « Provi a far passare Cuthbert un'altra volta. » « Non credo che quel crucco ci ricascherà », ribatté Fergus
in tono di protesta, guardandolo con quei suoi occhi ravvicinati che il freddo e l'attesa avevano cerchiato di rosso. « E un ordine, sergente », gli ingiunse il generale, aggrottando la fronte. La sua voce era diventata un brontolio minaccioso, e gli occhi blu, sotto le sopracciglia scure, lanciarono al soldato un'occhiata di fuoco. Persino Fergus MacDonald rimase soggiogato dall'autorevolezza che emanava da lui. « Benissimo, signore », brontolò immusonito, e si avviò verso il fantoccio appoggiato alla parete della trincea. Il Mauser gracchiò di nuovo. Le palpebre di Mark sbatterono un paio di volte molto rapidamente, poi i suoi occhi d'ambra dorata si fissarono sul pendio, intenti come quelli di un falco pellegrino. Un attimo dopo udì lo scatto dell'arma che veniva ricaricata e vide la bocca del fucile avvolto nella iuta muoversi appena... Poi il suo sguardo si spostò velocemente, attirato da un altro movimento, così rapido che sarebbe passato inosservato a occhi meno attenti. Non era stato che un palpito nella fessura tra il tronco caduto e il terreno coperto di neve. Un breve fremito, seguito dall'immobilità. Mark rimase a fissare lo spazio vuoto per qualche istante senza vedere altro che ombra e una forma indefinita, effetto forse della luce che si rifletteva sulla neve. Poi, tutt'a un tratto, si rese conto che si trattava di altro. Nella fessura era inquadrato un pezzo di tessuto, una piccola porzione di stoffa grigia attraversata da una cucitura che sporgeva leggermente sul corpo. Dall'altra parte del tronco il tedesco era sdraiato, in linea con la canna del Mauser. Mark cercò di immaginarsi il corpo dell'uomo. Servendosi della bocca del fucile come punto di riferimento, situò la testa e le spalle, il tronco e i fianchi. « Sì, è così », si disse. « Quello dev'essere il fianco o la parte superiore della coscia... » Improvvisamente la luce cambiò. Il sole riuscì a forare la cortina di nuvole che incombeva sulla terra e il cielo si schiarì temporaneamente. Nella nuova luminosità, Mark riuscì a identificare una parte della cintura del tedesco, ed esattamente l'occhiello che avrebbe dovuto contenere la baionetta. Questo confermò le sue supposizioni. Ora sapeva che la lieve sporgenza del tessuto corrispondeva al punto in cui il femore si inseriva nel bacino. « Se lo colpisco al fianco, non potrà più muoversi », pensò. « E poi li c'è l'arteria femorale... » Con estrema cautela cominciò a sfilarsi il guanto dalla mano destra. Doveva girarsi di lato, facendo compiere contemporaneamente alla lunga canna del P. 14 un arco di circa novanta gradi, il tutto senza il minimo rumore. « Signore, ti prego, aiutami », pregò in silenzio, e iniziò con penosa lentezza a trasferire il peso del corpo sull'altro gomito, ruotando al tempo stesso il fucile. Quando finalmente raggiunse la posizione voluta, con la
bocca del P. 14 puntata in direzione della fessura sottostante il tronco e con tutto il corpo raccolto e teso nel tentativo di mantenere fermo il fucile, gli parve che fosse trascorsa un'eternità. Non poteva togliere la sicura, perché persino quel lieve scatto avrebbe messo in allarme il tedesco. Piegò il dito sul grilletto e tastò la sicura. Prese la mira con attenzione tendendo il capo in modo innaturale, e cominciò a tirare la sicura con il pollice, senza allentare la pressione dell'indice sul grilletto e mantenendo la canna puntata sulla porzione di tessuto grigio che costituiva il suo bersaglio. Il rumore dello sparo parve rimbalzare contro il cielo grigio e incombente, e la pallottola, infilandosi nella fessura, andò a conficcarsi con un tonfo sordo nella carne del tedesco. Questi emise un grido selvaggio e inarticolato, e Mark, con istintiva destrezza, ricaricò l'arma. Lo sparo successivo si fuse con l'eco del primo, tanto da sembrare uno solo, ma questa volta Mark vide sgorgare uno spruzzo di sangue scarlatto che si mescolò con la neve disciolta, sbiadendo rapidamente fino a diventare di un pallido rosa. Poi più nulla; forse il tedesco era stato proiettato più in basso dal colpo o si era lasciato cadere sulla schiena. Mark inserì un'altra pallottola in canna e attese, di faccia al tronco e pronto a sparare. Se la ferita non era mortale, il tedesco avrebbe risposto al fuoco, e lui non doveva farsi cogliere alla sprovvista. Non provava alcuna emozione, ma tutti i suoi sensi erano desti e i suoi nervi tesi fino allo spasimo. A un tratto il silenzio fu rotto da un rumore. All'inizio Mark non lo riconobbe ma, quando si ripeté, capì che si trattava di un singhiozzo. Ai primi due ne seguirono altri, sempre più frequenti, isterici e disperati. « Ach, mein Gott... mein lieber Gott », si lamentò l'uomo con voce spezzata dalle lacrime. « Das Blut... ach Gott... das Blut. » Mark sentì che quel pianto gli penetrava dentro e gli lacerava il cuore. Le mani e la bocca cominciarono a tremargli; strinse i denti, ma anch'essi avevano preso a battere in modo incontrollabile. « Signore, fallo smettere », sussurrò, mentre il fucile gli scivolava di mano. Si premette le mani sulle orecchie, cercando di sbarrare la strada agli atroci lamenti del tedesco morente. « Basta, ti prego. Smettila », implorò ad alta voce. Il tedesco parve udirlo, perché invocò con voce disperata: « Hilf mir, lieber Gott... das Blut! » Mark non riuscì a resistere e si arrampicò alla cieca su per il pendio, arrancando nella neve. « Arrivo, non aver paura », sussurrò. « Purché tu la smetta. » Si sentiva prossimo a svenire. « Ach, mein lieber Gott, ach, meine Mutti. . » « Gesù! Basta, basta! » Mark girò attorno al tronco.
Il tedesco vi era addossato contro e cercava vanamente di tamponare con entrambe le mani il flusso di sangue arterioso che gli scorreva a fiotti tra le dita frenetiche. I due proiettili gli avevano trapassato i fianchi e la neve sotto di lui si era trasformata in una pozzanghera fangosa e insanguinata. Si voltò a guardarlo. Il viso, di un pallore livido, era copervo da un sottile velo di sudore. Mark notò che era giovane, più o meno come lui, ma la morte che si avvicinava rapida gli aveva disteso i lineamenti, tanto da farlo sembrare ancora più giovane. Aveva il volto di un angelo marmoreo, liscio, bianco e stranamente bello, con gli occhi azzurri circondati da un alone altrettanto azzurro e un ciuffo di riccioli d'oro chiaro che gli sfuggiva dall'elmetto per ricadere sulla fronte liscia e pallida. Aprì la bocca e disse qualcosa che Mark non capì. I denti, tra le labbra piene ed esangui, erano bianchi e regolari. Poi il tedesco si accasciò lentamente contro il tronco, senza smettere di fissarlo. Le mani si staccarono dall'inguine e il fiotto intermittente di sangue che gli usciva dalla carne maciullata rallentò, fino a esaurirsi. Gli occhi azzurro-chiaro persero la loro lucentezza febbricitante e divennero opachi e senza espressione. Mark ebbe l'impressione che nel tessuto della propria mente si fosse tirato un filo e provò la sensazione quasi fisica che qualcosa stesse per cedere dentro di lui. La vista gli si offuscò e i lineamenti del tedesco parvero liquefarsi come cera davanti ai suoi occhi, per ricomporsi poi lentamente. Mark sentì il filo che si spezzava, provocando uno squarcio nel velo della sua ragione, oltre il quale si apriva un abisso buio e pieno di echi. Le fattezze del tedesco ripresero consistenza, e Mark ebbe l'impressione che quello che aveva davanti non fosse più il viso del morto, ma il suo stesso volto, riflesso in uno specchio deformante. Un volto spettrale con gli occhi nocciola terrorizzati e la bocca - la sua bocca - spalancata in un grido che racchiudeva tutto il dolore e la disperazione del mondo. Gli ultimi fili della ragione si ruppero, lacerati dall'orrore. Udì se stesso gridare e sentì i suoi piedi che correvano. Poi nella sua mente si fece il buio e il suo corpo divenne leggero e senza peso come quello di un uccello in volo. Il mitragliere tedesco armò la Maxim con un unico strattone alla leva e la spostò trasversalmente verso sinistra, abbassando la grossa canna dell'arma parallelamente al pendio, e puntandola verso le linee inglesi. La figura che correva a perdifiato era diretta verso sinistra, e l'uomo, premendosi il calcio di legno della mitragliatrice contro la spalla, tirò una breve sventagliata, mirando leggermente in basso per controbilanciare la tendenza naturale ad alzare il tiro quando si sparava contro un bersaglio in discesa. Mark Anders quasi non si accorse dei due colpi di maglio
provocati dalle pallottole che gli si conficcavano nella schiena. Sean notò con sorpresa che Fergus MacDonald stava piangendo. Le lacrime gli scorrevano lente dagli occhi cerchiati di rosso, e lui se le asciugò con un gesto stizzito della mano. « Mi autorizza a uscire con una pattuglia, signore? » domandò al giovane capitano. Questi lanciò un'occhiata incerta in direzione di Sean, al di sopra della spalla del sergente. Sean annuì impercettibilmente, chinando appena la testa. « Pensa di poter trovare dei volontari? » domandò il capitano con voce dubbiosa. « Certamente, signore », rispose il sergente in tono burbero. « Gli uomini sono molto riconoscenti al ragazzo per quello che ha fatto. » « Benissimo, allora. Uscirete non appena farà buio. » Trovarono Mark poco dopo le otto. Era appeso al filo spinato arrugginito, teso al termine del pendio, e sembrava una bambola rotta. Fergus MacDonald dovette usare le cesoie per liberarlo e la pattuglia impiegò quasi un'ora per riportarlo entro le linee inglesi, arrancando sul terreno viscido e fangoso. « E' morto », disse il generale Courteney, guardando alla luce della lanterna il volto esangue disteso sulla barella. « No », negò Fergus MacDonald con feroce intensità. « Non è così facile far fuori íl mio ragazzo. » La locomotiva che passava sferragliando sulle impalcature d'acciaio del ponte lanciò un fischio acuto. Il vapore argenteo si levò alto, formando un vivace pennacchio che il vento dissipò subito. Mark Anders era appoggiato al parapetto del terrazzino dell'unico vagone passeggeri, con i soffici capelli scuri scompigliati dal vento. Una scintilla proveniente dalla fornace gli punse la guancia, ma lui strinse gli occhi e abbassò lo sguardo sul fiume che stavano attraversando. L'acqua scorreva tra le canne semiaffondate, separandosi in lenti vortici quando incontrava i piloni del ponte, per poi ricongiungersi e riprendere - verde, forte e compatta - la sua corsa verso il mare. « Di solito non è così alta in questo periodo dell'anno », borbottò Mark. « Il nonno sarà contento. » Le labbra gli si dischiusero in uno dei rari sorrisi a cui si era abbandonato negli ultimi mesi. La locomotiva attraversò il ponte e cominciò ad arrancare su per la salita. Il ritmo dello stantuffo mutò istantaneamente e la velocità diminuì. Mark si chinò per raccogliere la sacca militare, aprì il cancello del terrazzino e discese i gradini metallici, sorreggendosi con una sola mano e sporgendosi al di sopra della massicciata. Con l'accentuarsi della pendenza il treno rallentò ulteriormente la sua corsa; Mark si levò la sacca dalle spalle e tese la mano verso il basso per farla cadere il più dolcemente possi-
bile sulla ghiaia. La sacca prese a rotolare, rimbalzando lungo la massicciata, e finì per rimpiattarsi in un cespuglio, simile a un animale in fuga. Poi Mark si protesé verso la terra che fuggiva rapida e, quando il treno arrivò in cima alla collina, si lasciò andare, cadendo in piedi e spostando il peso del corpo in avanti per controbilanciare l'impatto. Sentì la ghiaia slittare sotto di sé. Riuscì a mantenersi in equilibrio, mentre i vagoni gli passavano accanto sferragliando. Il controllore gli lanciò un'occhiata severa dall'ultima carrozza, apostrofandolo con tono di rimprovero. « Ehi, è proibito saltare dal treno in corsa! » « Mi mandi lo sceriffo », gli urlò Mark di rimando, rivolgendogli un saluto ironico, mentre la locomotiva, avventandosi giù per la discesa, riprendeva velocità, eruttando energici grugniti. Anche il ritmo scandito dalle ruote sui binari accelerò; il controllore agitò il pugno, ma Mark gli voltò le spalle. L'impatto della caduta gli si era ripercosso nella schiena, che aveva ripreso a dolergli. Si infilò una mano nella camicia e, passando sotto l'ascella, si toccò i due solchi gemelli sotto la scapola, sorprendendosi una volta di più di sentirli così vicini alla sporgenza ossuta della spina dorsale. II tessuto cicatriziale aveva una consistenza serica, quasi sensuale, anche se aveva impiegato lunghi mesi a formarsi. Rabbrividì involontariamente, ricordando il rumore del carrello per la medicazione e il volto impassibile e mascolino della capoinfermiera che conficcava i lunghi tamponi nelle bocche spalancate delle ferite; poi la lenta tortura dell'operazione inversa, quando le garze impregnate di sangue gli venivano rimosse con le pinze d'acciaio luccicante, e, al suo respiro diventato singhiozzo, la capoinfermiera rispondeva con voce fredda e impersonale: « Su, non faccia il bambino! » Tutto questo giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, finché il delirio febbrile prodotto dalla polmonite che gli aveva aggredito gli organi respiratori danneggiati dalle pallottole era giunto a portargli un pò di sollievo. Era passata un'eternità; dall'ospedale da campo francese, dove la neve fangosa era solcata dalle ruote delle ambulanze e la squadra addetta alle sepolture scavava una fossa dopo l'altra all'esterno del piccolo accampamento, all'ospedale militare vicino a Brighton, alla nave che l'aveva riportato a casa discendendo lungo l'Atlantico e attraversando i tropici dove non si muoveva un alito di vento, fino al convalescenziario, con i suoi bei giardini e i prati verdi. Quattordici mesi durante i quali la guerra che gli uomini avevano assurdamente definito « grande » si era finalmente conclusa. Anche se il dolore e il delirio avevano offuscato lo scorrere del tempo, gli sembrava che fosse passata una vita intera. Una vita trascorsa tra la carneficina e la sofferenza. Ma ora era rinato. Il dolore alla schiena era diminuito a ritmo costante, fin quasi a sparire del tutto. Respinse i brutti ricordi e si avviò a ricuperare la sacca. Andersland era circa ottanta chilometri più a valle. Mark
sapeva che non ci sarebbe arrivato prima della sera seguente; il treno aveva accumulato un notevole ritardo e ormai era quasi mezzogiorno. E tuttavia, ora che si stava avvicinando a casa, non provava più alcuna fretta. Camminava senza sforzo, con il passo lungo e familiare del cacciatore, badando a spostare la sacca sulla schiena per alleviare la tensione delle cicatrici e godendosi l'aria primaverile che gli aleggiava sul viso, dolce e fresca, e si insinuava nel tessuto sottile della camicia. I lunghi anni di assenza aumentavano il piacere di ritrovarsi in quel mondo, e tutto ciò che una volta non aveva suscitato in lui altro che un'attenzione passeggera gli procurava ora un godimento insolito e nuovo. La densa boscaglia, lungo le rive del fiume, fremeva di una miriade di forme di vita: le libellule ingioiellate che volavano rasente alla superficie dell'acqua su ali trasparenti o si accoppiavano in volo, il maschio sopra la femmina, con il lungo addome luccicante inarcato nell'unione; l'ippopotamo che turbava la tranquillità esalando rumorosamente il respiro, e lo fissava con gli occhi acquosi e arrossati, drizzando le orecchie minuscole e sguazzando nei vortici verdi della corrente come un enorme pallone nero. Gli pareva di muoversi in una sorta di Eden, prima dell'arrivo dell'uomo, e capì che questa solitudine era ciò di cui il suo corpo e la sua mente avevano bisogno per completare il processo di guarigione. Quella notte si accampò in una radura erbosa, alta sull'acqua, lontano dalle zanzare e dall'oscurità minacciosa della boscaglia. Verso mezzanotte fu svegliato dal verso rauco di un leopardo che si spostava lungo il fiume. Restò sdraiato ad ascoltarlo mentre risaliva lentamente il corso d'acqua, finché il rumore si perse tra i dirupi. Rimase a lungo sveglio, pregustando la giornata che lo attendeva. Non c'era stato giorno, nel corso degli ultimi anni, in cui non avesse pensato al vecchio, anche quando si era sentito preda del buio e dei fantasmi. A volte si era trattato di un pensiero fugace, altre, invece, di un desiderio struggente, simile a quello che i ragazzini chiusi in collegio provano per la casa. Il nonno rappresentava per lui i genitori che non aveva mai conosciuto e la continuità di una presenza sicura e comprensiva. Con una fitta di nostalgia, Mark lo rivide seduto nella rigida sedia a dondolo sulla veranda dall'assito largo, con indosso la vecchia camicia cachi tutta spiegazzata, piena di rammendi e bisognosa di una lavata. Dal colletto sbottonato sbucava un ciuffo di peli bianchi; il collo e le guance, bruciati dal sole e rugosi come quelli di un tacchino, erano coperti dai peli duri e argentei della barba non rasata, luccicanti come schegge di vetro. I baffi folti, di un bianco abbagliante, erano ripiegati all'insù e induriti con la cera d'api fino ad assumere l'aspetto minaccioso di due lance appuntite. In testa portava un ampio cappello, con la ban-
da unta e impregnata di sudore, che teneva calato sugli occhi color caffellatte, ridenti e luminosi. Non se lo toglieva mai, nemmeno ai pasti e forse neanche di notte, quando si coricava nel grande letto d'ottone. Lo rivide mentre, interrompendo il lavoro, si passava il tabacco da una guancia all'altra, per poi sputarlo verso la vecchia latta adibita a sputacchiera, facendo immancabilmente centro, senza versare una sola goccia del liquido scuro e riprendendo la storia dal punto in cui l'aveva lasciata. Che storie gli raccontava! Storie da fargli sgranare gli occhi e da costringerlo a svegliarsi di soprassalto, la notte, per sbirciare tremebondo sotto il letto. Mark ricordava il vecchio nelle piccole cose, quando si chinava a raccogliere una manciata di terra grassa e se la lasciava scorrere tra le dita, pulendosele poi sui pantaloni con un'espressione d'orgoglio sul volto avvizzito. « Andersland è una buona terra », diceva, annuendo come un vecchio saggio. E lo ricordava nei momenti difficili. Se lo rivide accanto tra i rovi folti, con il vecchio Martini Hendry che tuonava e fumava, mentre il bufalo si avventava su di loro, grande come una montagna e reso pazzo di furore dalle ferite. Erano passati quattro anni da quando l'aveva visto l'ultima volta e, da allora, non aveva saputo più niente di lui. All'inizio aveva scritto lunghe lettere piene di nostalgia, ma il vecchio non sapeva né leggere né scrivere. Mark aveva sperato che le desse a un amico, magari anche alla postina, per farsele leggere e per rispondergli. Ma era stata una speranza vana. Il vecchio era troppo orgoglioso per rivelare a qualcuno le proprie carenze. Ciononostante, Mark aveva continuato a scrivergli una volta al mese. L'indomani, finalmente, avrebbe saputo qualcosa di lui. Si riaddormentò per qualche ora, poi, nell'oscurità che precedeva l'alba, riaccese il fuoco e preparò il caffè. Appena ci fu abbastanza luce per permettergli di vedere dove poggiava i piedi, si rimise in cammino. Si fermò sulla scarpata a guardarsi attorno. All'orizzonte si ammassavano dei cumuli tempestosi che il sole, sorgendo dal mare, colorò di un'infinità di sfumature, dal rosso al rosa, dal porpora al viola, delineandone i contorni con un bordo dorato e forandoli con fasci di luce. Sotto di lui, il terreno declinava fino alla costa, quel litorale intagliato da valli boscose e ondulato da colline di erba dorata, che si stendeva fino alle interminabili spiagge bianche bagnate dall'Oceano Indiano. Il fiume precipitava oltre la soglia della scarpata, balzando in cascatelle bianche e argentee dalle rocce nere e lucide fino alle pozze scure e profonde, dove l'acqua vorticava schiumando in attesa di avventarsi di nuovo verso il basso. Per la prima volta Mark provò una sensazione di fretta. Prese a discendere il sentiero ripido con la stessa urgenza del fiume, ma era già mattina avanzata quando arrivò nella zona
calda e sonnacchiosa sotto la scarpata. Qui il fiume diventava più largo e meno profondo e, cambiando completamente d'umore, si snodava in ampi meandri tra le rive sabbiose. Anche la fauna era mutata, ma Mark non aveva tempo di soffermarsi a guardarla. Lanciò un'occhiata fugace ai gruppi di cicogne e di ibis dal becco a scimitarra, fermi sui banchi di sabbia, senza lasciarsi distrarre dal loro grido acuto, simile alla risata di un folle, e continuò il suo cammino finché arrivò ai piedi di un enorme fico selvatico, dove un cumulo di sassi mezzo franato segnava il confine occidentale di Andersland. Si chinò a ricostruirlo, tra le radici grigie e rugose che strisciavano sul terreno come rettili preistorici. Mentre lavorava, un gruppo di uccelli verdi si levò con un grande sbatter d'ali dai rami dell'albero, dove si erano posati per cibarsi dei frutti gialli e amarognoli. Quando riprese a camminare, il suo passo si era fatto più lieve ed elastico, le spalle erano più erette e una nuova luce gli splendeva negli occhi, perché la terra che calpestava faceva parte di Andersland: ottomila acri di terreno fertile color cioccolato a cui la presenza del fiume garantiva un continuo apporto d'acqua; un susseguirsi di colline tonde coperte di erba folta che portavano il nome che il vecchio aveva dato loro trent'anni prima. Un chilometro più avanti, Mark stava per lasciare il fiume e prendere una scorciatoia che, superata una cresta, l'avrebbe portato dritto a casa, quando udì in distanza un tonfo seguito dall'eco lontana di voci umane nell'aria immobile e calda. Si fermò ad ascoltare, sorpreso, e il tonfo si ripeté, preceduto da un crepitio secco di rami spezzati. Impossibile sbagliarsi: qualcuno stava tagliando gli alberi. Abbandonando la sua intenzione originale, Mark continuò lungo il fiume finché, emergendo dalla foresta, si ritrovò in una zona aperta che gli ricordò i campi devastati della Francia, dove la terra sconvolta dalle esplosioni si era riempita di squarci e di ferite. Gruppi di uomini di colore, vestiti di dhoti bianchi e con la testa fasciata dal turbante, erano intenti a tagliare i grossi tronchi e a ripulire contemporaneamente il sottobosco lungo il fiume. Per un attimo Mark li guardò senza capire, poi ricordò di aver letto su un giornale che migliaia di braccianti indù erano stati portati dall'India per lavorare nelle nuove piantagioni di canna da zucchero. Ecco chi erano gli uomini scarni dalla pelle scura che, come formiche, si affaccendavano a centinaia lungo il fiume. Tra loro Mark notò anche parecchi buoi, dei bestioni pesanti e forti che camminavano lentamente, trasportando i tronchi massicci che venivano accatastati per essere bruciati. Mark non riusciva a credere ai suoi occhi. Lasciò il fiume e si arrampicò su per il pendio. Dalla cima lo sguardo spaziava su tutta la proprietà e, verso est, si spingeva fino al mare. La devastazione si era estesa ovunque, ma c'era anche qual-
cos'altro che lo fece riflettere. La foresta e i pascoli erano stati spazzati via e coppie di buoi procedevano lentamente le une dietro le altre, trascinando aratri che rivoltavano la terra grassa, frantumandola in grosse zolle rilucenti. Le grida degli uomini e gli schiocchi soffocati delle lunghe fruste giungevano fino in cima alla collina, dove lui assisteva, stupefatto, all'inatteso spettacolo. Si sedette su un sasso e per quasi un'ora rimase a guardare con un senso di paura gli uomini e i buoi al lavoro. Il vecchio non avrebbe mai permesso un simile scempio. Lui odiava la scure e l'aratro, e amava invece con tutto se stesso quegli alberi maestosi che ora crollavano al suolo, gemendo e crepitando. Il vecchio teneva ai suoi pascoli come un avaro tiene alle proprie ricchezze, quasi fossero stati preziosi come l'oro di cui avevano il colore. Non avrebbe mai permesso che venissero distrutti. Ecco perché Mark aveva paura; perché, finché avesse avuto vita, il vecchio non avrebbe mai venduto Andersland. Mark avrebbe preferito non sapere la verità, ma si costrinse ad alzarsi e a rimettersi in cammino. Gli operai dalla pelle scura non capivano le sue domande e lo indirizzarono con gesti eloquenti a un babu grasso che, vestito con una giacca di cotone, si spostava da un gruppo all'altro con aria d'importanza, colpendo una schiena nuda con il suo bastone sottile o fermandosi a scrivere faticosamente qualcosa su un librone nero che si portava dietro. L'uomo alzò gli occhi, stupito e, trovandosi di fronte un bianco, assunse subito un'aria ossequiosa. « Buongiorno, signore... » Gli bastò un'occhiata degli occhi lucenti e inquisitori per accorgersi che il ragazzo aveva la barba lunga e che l'abito di tessuto militare era macchiato e spiegazzato come se ci avesse dormito dentro. Ed era chiaro che quella sacca sulle spalle racchiudeva tutti i suoi averi. « Siamo al completo », gli disse, assumendo un tono arrogante. « Sono io il responsabile e... » « Bene », lo interruppe Mark. « Allora può dirmi cosa ci fanno questi uomini qui ad Andersland. » Quel tipo lo irritava. Ne aveva conosciuti tanti come lui nell'esercito, gente che tiranneggiava quelli che stavano sotto e strisciava in presenza dei superiori. « Lo vede anche lei. Stiamo preparande il terreno per piantare la canna da zucchero. » « Questa terra appartiene alla mia famiglia », disse Mark. L'atteggiamento dell'altro mutò istantaneamente. « Ah, signorino. Allora lei è uno della Società, giù a Ladyburg? » « No, no. Noi viviamo qui. Da quella parte », precisò Mark, indicando la cresta della collina oltre la quale si ergeva la casa. « Questa proprietà è nostra. » Il babu ridacchiò come un bambino grasso e scosse il capo. « Nessuno vive qui, ora. Tutto quello che vede appartiene alla Società. » Allargò il braccio in un gesto che abbracciava l'intero paesaggio, dalla scarpata al mare. « Tra poco qui non ci
sarà altro che canna da zucchero. Un mucchio di canna da zucchero. » Scoppiò nuovamente a ridere. La vecchia casa, dall'alto, sembrava la stessa, con il tetto di lamiera ondulata dipinta di verde, che spiccava sul verde scuro del giardino, ma, mentre Mark risaliva il sentiero invaso dalle erbacce, si avvide che tutte le finestre erano state tolte, lasciando nei muri dei buchi neri e squadrati, e che l'ampia veranda era vuota. La sedia a dondolo era scomparsa, una parte della tettoia era crollata e una delle grondaie esterne si era staccata dal muro e penzolava inerte nel vuoto. Il giardino era incolto, in stato d'abbandono, e le piante avevano cominciato a stringere d'assedio la casa. Il vecchio l'aveva sempre tenuto pulito, rastrellando tutti i giorni le foglie cadute e badando agli alveari dipinti di bianco disposti in file ordinate all'ombra degli alberi. Ora qualcuno li aveva squarciati brutalmente con una scure. Le stanze erano vuote, tutto era stato portato via, persino la vecchia stufa a legna della cucina. L'unico oggetto rimasto era la latta che fungeva da sputacchiera, sulla veranda: era stata rovesciata e il suo contenuto aveva lasciato una macchia scura sul legno dell'impiantito. Mark passò lentamente da una stanza all'altra, oppresso da un terribile senso di vuoto e di desolazione. Le foglie portate dal vento frusciavano sotto i suoi piedi, e grossi ragni gialli lo fissavano con la loro miriade di occhi lucenti dalle ragnatele che avevano teso negli angoli e attraverso gli stipiti delle porte. Uscì di casa e si diresse verso il piccolo cimitero di famiglia. Provò un improvviso sollievo quando si accorse che nessuna tomba si era aggiunta a quelle già esistenti. Lì erano sepolte solo la nonna Alice, la sua figlia maggiore e una cugina, morte prima che Mark nascesse. Il vecchio non c'era. Mark tirò su il secchio dal pozzo e bevve qualche sorso d'acqua fresca, poi cominciò a vagare per il giardino, dove raccolse una manciata di guaiavi e un ananas maturo. Dietro la casa camminava impettito un giovane galletto, sfuggito ai saccheggiatori. Mark dovette dargli la caccia per mezz'ora prima di riuscire a colpirlo con una sassata, facendolo precipitare dal tetto tra strilli di protesta e uno svolazzare di penne. Debitamente spennato e pulito, finì nella pentola posta sul fuoco che aveva preparato in cortile. Mentre esso bolliva, Mark fu colto da un pensiero improvviso. Tornò nella stanza del vecchio e, inginocchiatosi nell'angolo che un tempo era stato occupato dal letto, tastò il pavimento. Sentì un'asse che si muoveva sotto le dita e scalzò con il coltello a serramanico l'unico chiodo che la teneva fissata. Poi la sollevò. Allungò la mano nell'apertura e ne estrasse un pacchetto di lettere legate con una striscia di cuoio. Le scorse con il pollice e vide che le buste erano ancora chiuse, ma riconobbe la propria calligrafia spigolosa. Il vecchio aveva conservato nel suo nascondiglio segreto le lettere che lui gli aveva mandato. Ma non c'erano tutte. La sequenza si interrompeva bruscamente e,
controllando l'ultima busta, Mark s'avvide che il timbro postale risaliva a undici mesi prima. Un groppo gli chiuse la gola e i suoi occhi si riempirono di lacrime pungenti. Depose il pacco di lettere ed estrasse dal buco la scatola del tè che recava sul coperchio l'immagine di una vecchina con gli occhiali cerchiati di metallo. Era lì che il vecchio aveva riposto i suoi tesori. Trasportò tutto in giardino, perché la luce del tardo pomeriggio non era sufficiente per vedere nell'interno della casa. Si sedette sugli scalini, appena fuori della porta di cucina, e aprì la scatola del tè. In un borsellino di cuoio erano contenute quaranta sovrane d'oro, alcune delle quali avevano impressa la testa barbuta di Kruger, il vecchio presidente della Repubblica Sudafricana, mentre sulle altre figuravano i due re, Edoardo e Giorgio. Mark si infilò il borsellino nella tasca interna della giacca e, alla luce che si faceva sempre più fioca, esaminò il resto del tesoro del vecchio. Alcune fotografie della nonna Alice da giovane, ingiallite dal tempo e piegate agli angoli; un certificato di matrimonio; ritagli di giornale risalenti alla guerra boera; qualche gioiello di nessun pregio - gli stessi che la nonna portava nelle fotografie -; una scatoletta contenente una medaglia al valor militare con sei onorificenze, tra cui quelle del Tugela, di Ladysmith e delle campagne del Transvaal; i rapporti scolastici della scuola di Ladyburg e il diploma dell'Università di Port Natal. Questi ultimi avevano avuto un valore speciale per il vecchio, che provava nei confronti della cultura la venerazione tipica dell'analfabeta. Aveva venduto persino alcuni dei suoi capi di bestiame migliori per mantenerlo agli studi, tanto ci teneva. A parte le sovrane, la scatola non conteneva niente di Prezioso, anche se gli oggetti che vi erano riposti avevano avuto un valore inestimabile per il vecchio. Mark rimise tutto con cura nella scatola e la infilò nella sacca. Prima che la luce svanisse del tutto, Mark mangiò il fibroso galletto e la frutta che aveva raccolto. Poi si distese sul pavimento di cucina, arrotolandosi nella coperta, e cominciò a pensare. Ora sapeva che il nonno, ovunque fosse andato, aveva inteso far ritorno ad Andersland. Non avrebbe mai lasciato dietro di sé tutti i suoi averi, altrimenti. Fu svegliato da un calcio nelle costole. Rotolò a sedere, ansimando dal dolore. « Avanti, in piedi! Ti conviene squagliartela... e in fretta! » La luce era ancora debole, ma Mark riuscì ugualmente a distinguere i lineamenti dell'uomo. La mascella forte era stata rasata di fresco e i denti, che spiccavano candidi sull'abbronzatura, terminavano in due linee così dritte da sembrare che fossero stati limati. La testa tonda come una palla di cannone dava un'impressione di pesantezza, soprattutto perché l'uomo la teneva protesa in avanti come un pugile durante l'allenamento. « Alzati », ripeté, ritraendo il piede calzato da uno stivale
consunto, pronto a mollargli un altro calcio. Mark balzò in piedi e si preparò a difendersi. Scoprì che l'uomo, pur essendo più basso di lui, era molto più robusto, con le spalle larghe e il corpo solido e muscoloso. « Questa casa è proprietà privata. Non vogliamo vagabondi tra i piedi. » « Non sono un vagabondo », esordì Mark, ma l'altro lo interruppe con un brusco scoppio di risa. « Oh, mi scusi molto. Non avevo notato né la Rolls né i vestiti all'ultima moda. » « Mi chiamo Mark Anders », continuò il ragazzo. « Questa terra appartiene a mio nonno, John Anders. » Gli parve di vedere qualcosa agitarsi negli occhi dell'uomo e un fremito increspargli la bocca, come se fosse stato sfiorato da un dubbio o colto da qualche preoccupazione. L'uomo si leccò le labbra con un piccolo gesto nervoso, ma, quando riprese a parlare, la sua voce era atona e calma. « Non ne so niente. Tutto quello che so è che questa terra appartiene alla Ladyburg Estates, di cui sono un dipendente. Faccio il sorvegliante e posso giurarle che né a me né alla Società piacciono gli estranei che gironzolano qui attorno. » S'interruppe, piantandosi saldamente sui piedi, con le spalle curve in avanti e la mascella protesa. « Un'altra cosa che so è che di tanto in tanto me la godo a rompere qualche testa e che è un pezzo che non ne spacco una. » Si fissarono. Mark si sentì assalire da un'improvvisa vampata di collera. Provò il desiderio di accettare la sfida dell'uomo, anche se ne riconosceva la forza e la pericolosità. Era grosso, muscoloso, e soprattutto aveva l'aria dell'assassino potenziale. Mark cominciò istintivamente a bilanciarsi sulle gambe, curvando in avanti le spalle. Anche l'altro se ne accorse, con evidente soddisfazione. Stirò le labbra in un sorriso, stringendo le mascelle tanto che i tendini del collo si gonfiarono come corde, e prese a dondolarsi leggermente sui talloni. Subito dopo, però, Mark si sentì rivoltare all'idea di affrontare di nuovo la violenza. Ce n'era già stata fin troppa nella sua vita e, in quel momento particolare, non vedeva alcuna necessità di battersi. Si voltò e raccolse i suoi stivali. L'uomo rimase a osservarlo mentre si vestiva. Sembrava lievemente deluso, anche se non aveva rinunciato al suo atteggiamento bellicoso. « Come ti chiami? » gli domandò Mark, buttandosi la sacca sulla spalla. « I miei amici mi chiamano Hobday », rispose in tono arrogante, pronto a far baruffa. « Hobday e poi? » « Solo Hobday. » « Me lo ricorderò », disse Mark. « Sei stato proprio un angelo, Hobday. » Scese gli scalini che portavano in giardino. Un quarto d'ora dopo, quando si voltò a guardarsi indietro dalla
cima del pendio su cui passava la strada per Ladyburg, Hobday era ancora fermo fuori della cucina e lo fissava con aria intenta. Fred Black osservò Mark che risaliva la collina. Si appoggiò al parapetto della vasca di disinfezione e continuò a masticare il suo pezzo di tabacco. Così fibroso e annerito dal sole com'era, sembrava anche lui un pezzo di tabacco da masticare. Nonostante fosse uno dei più vecchi amici di John Anders e avesse visto Mark sin da quando era un bambino, era chiaro che non l'aveva riconosciuto. Mark si fermò a una ventina di metri di distanza e si tolse il cappello. « Salve, zio Fred », lo salutò, ma passò ancora un attimo prima che il vecchio lanciasse un grido e si precipitasse ad abbracciarlo. « Mio Dio, ragazzo, mi avevano detto che avevi lasciato la pelle in Francia. » Si sedettero sullo steccato di recinzione, mentre gli zulu spingevano il bestiame nello stretto corridoio sotto di loro. Arrivati all'estremità, gli animali saltavano, annaspando nell'aria, nel maleodorante bagno chimico, da cui riemergevano sbuffando, per mettersi a nuotare col naso all'aria verso la rampa inclinata. « E' morto da quasi un anno... no, è già passato più di un anno. Mi spiace, ragazzo. Non ho nemmeno pensato di informarti. Eravamo convinti che fossi morto in Francia. » « Non fa nulla, zio Fred. » Mark era sorpreso di non provare alcun turbamento. Era come se lo avesse già saputo e accettato, eppure il peso della perdita gli opprimeva il cuore. Anche il vecchio rimase in silenzio, in segno di rispetto per il dolore del ragazzo. « Come è... » Mark s'interruppe, quasi non riuscisse a pronunciare la parola. « Come è morto? » « Be', insomma », esordì Fred Black, alzando il cappello e sfregandosi la pelata rosea con gesto tenero. « E successo inaspettatamente. Voleva mettersi da parte un pò di carne secca e così è andato a caccia con Piet Greyling e suo figlio, su al Passo Chaka. » Mark fu assalito dai ricordi. Il Passo Chaka era una vasta zona selvaggia, a nord, dove il vecchio gli aveva insegnato a cacciare. Nel 1869 era stato dichiarato riserva di caccia, ma i guardiani non erano mai arrivati e gli uomini del Natal settentrionale e dello Zululand lo consideravano loro proprietà privata. « Dopo cinque giorni il vecchio non era ancora tornato al campo. Lo cercarono per altri quattro giorni prima di trovarlo. » S'interruppe di nuovo, lanciando un'occhiata a Mark. « Ti senti bene, ragazzo? » « Sì, sì. Sto bene. » Mark pensò a tutti gli uomini che aveva visto morire, a tutti quelli che aveva ucciso, quasi stupito che la morte di un vecchio potesse turbarlo a tal punto. « Va' avanti, zio Fred. Ti prego. » « Piet disse che doveva essere scivolato mentre tentava di ar-
rampicarsi su per un dirupo, cadendo sul fucile da cui era partito un colpo. Il proiettile gli è penetrato nello stomaco. » Rimasero a guardare l'ultimo bue che si tuffava nella vasca, quindi Fred Black discese con movimenti rigidi dalla staccionata, premendosi subito dopo le mani sulle reni. « Brutta cosa la vecchiaia », borbottò. Mark balzò a terra e insieme si avviarono verso casa. « Piet e suo figlio l'hanno seppellito lassù. Non si poteva riportarlo indietro, era rimasto al sole troppo a lungo. Misero un segno di riconoscimento sulla tomba e, quando tornarono a Ladyburg, rilasciarono al magistrato una dichiarazione giurata. » Il racconto di Fred Black fu interrotto da un grido, e una figura femminile si avvicinò a loro correndo lungo il viale fiancheggiato da alberi della gomma. Era una ragazza snella, con una treccia di capelli castano-chiari che le saltellava sulla schiena. Sotto le balze della gonna di cotone sbiadito si intravedevano le lunghe gambe brune e i piedi nudi e sudici. « Mark! » gridò di nuovo. « Oh, Mark! » Mark dovette aspettare che fosse molto vicina per riconoscerla. Quei quattro anni l'avevano trasformata. « Mary. » Sentiva ancora la tristezza dentro di sé, ma preferiva smettere di parlare del nonno, adesso. C'era tempo; avrebbero continuato un'altra volta. Nonostante il suo stato d'animo, si accorse che Mary era diventata una signorina. Non era più quel folletto dispettoso che lui non degnava di uno sguardo quando frequentava l'ultimo anno della scuola superiore di Ladyburg. Aveva ancora lo stesso viso lentigginoso dall'espressione sorridente, con gli incisivi sporgenti e leggermente sovrapposti, ma si era trasformata in una ragazza florida, con i fianchi robusti e la risata sonora. Ora gli arrivava alla spalla e il suo corpo, sotto l'abito di cotone leggero, era morbido e pieno. Gli si incamminò accanto facendo oscillare i fianchi e le natiche. Aveva la vita sottile come il collo di un vaso e il seno pesante, che dondolava a ogni passo. Cominciò a fargli delle domande, un'infinità di domande. Mentre parlava, continuava a toccarlo: gli prendeva il gomito e gli afferrava la mano, scuotendola come per estrarne le risposte, guardandolo con espressione maliziosa e scoppiando di tanto in tanto nella sua risata squillante. Mark si sentì assalire da una strana inquietudine. La moglie di Fred Black, dall'altra parte dell'aia, lo riconobbe subito ed emise una specie di muggito, simile a quello di una mucca privata troppo a lungo del vitellino. Aveva nove femmine e da sempre aveva sognato un figlio maschio. « Salve, zia Hilda », esordì Mark, prima di venire sommerso dal suo abbraccio. « Hai l'aria di non aver mangiato da un pezzo », gridò la donna. « E guardati gli abiti... Puzzano. Anche tu puzzi, Marky. E i capelli... Ancora un pò e ti ci siederai sopra, tanto sono lunghi. » Le quattro ragazze ancora nubili, sotto la guida di Mary,
sistemarono la vasca zincata nel centro della cucina e la riempirono, attingendo l'acqua bollente dalla stufa. Seduto su uno sgabello sulla veranda, Mark vide i propri lunghi riccioli biondi cadere sotto le forbici di zia Hilda. Tra mille proteste, le ragazze vennero spedite fuori della cucina. Mark cercò disperatamente di proteggere la propria nudità, ma la donna non tenne in nessun conto le sue proteste. « Non hai niente che una vecchia come me non abbia già visto, più bello e più grosso », affermò, spogliandolo con aria decisa e gettando i vestiti macchiati e spiegazzati nel vano della porta, oltre la quale Mary si attardava, speranzosa. « Lavali, bambina... E togliti da quella porta. » Mark arrossì intensamente e si lasciò cadere in fretta nell'acqua. Al tramonto, Fred Black e Mark andarono a sedersi sull'orlo del pozzo, in cortile, con una bottiglia di brandy in mezzo a loro. Il liquore prendeva alla gola con la forza di una zebra maschio, tanto che Mark, dopo il primo sorso, non toccò più il bicchiere. « Sì, ci ho pensato spesso », convenne Fred, con gli occhi dilatati dall'alcool. « Il vecchio Johnny amava molto la sua terra. » « Non ti aveva mai proposto di comprarla? » « No. Ho sempre pensato che non se ne sarebbe mai separato. Diceva spesso che avrebbe voluto essere sepolto accanto ad Alice. » « Quando è stata l'ultima volta che l'hai visto, zio Fred? » « Be', fammi pensare », disse, sfregandosi la pelata con aria intenta. « Circa un paio di settimane prima che se ne andasse al Passo Chaka con i Greyling. Sì, è così. Era stato a Ladyburg a comprare viveri e munizioni. Una sera è capitato qui sul suo vecchio carretto e abbiamo fatto due chiacchiere come ai vecchi tempi. » « Non ha accennato alla possibilità di vendere? » « No, non ne ha proprio parlato. » La porta della cucina si spalancò e la luce giallastra della lanterna si riversò in cortile. « La cena è servita », tuonò zia Hilda. « Avanti, Fred, è ora di rientrare. Smettila di insegnare al ragazzo i tuoi sporchi trucchi e guardati bene dal portare in casa quella bottiglia. Mi hai sentito, eh? » Con una smorfia, Fred si versò nel bicchiere tre dita del liquido scuro, le ultime che restavano, poi fissò la bottiglia vuota, scuotendo il capo. « Addio, vecchia mia », disse, facendola volare sopra la siepe e tracannando d'un fiato l'ultimo avanzo come se fosse stato una medicina. Mark si sedette sulla panca appoggiata alla parete della cucina tra Mary e una delle sue prosperose sorelle. La zia Hilda, che gli si era messa di fronte, gli riempiva continuamente il piatto, sgridandolo ogni volta che smetteva per un attimo di mangiare. « Fred ha bisogno di qualcuno che l'aiuti. Sta diventando
vecchio, anche se, pazzo com'è, non se ne rende ancora conto. » Mark annuì. Aveva la bocca così piena da non riuscire a rispondere. Mary si sporse per prendere un pezzo di pane, ancora caldo di forno, e gli premette contro il grande seno morbido. Lui tossì, rischiando di soffocare. « Le ragazze non hanno molte occasioni di incontrare qualche bravo giovane, chiuse qui alla fattoria. » Mary si mosse sul sedile e appoggiò con decisione la coscia contro la sua. « Lascia in pace il ragazzo, vecchia impicciona », borbottò affabilmente Fred, che era seduto a capotavola. « Mary, versa un altro pò di sugo sulle patate di Mark. » La ragazza si protese a versargli il sugo, appoggiandogli una mano sulla coscia, al di sopra del ginocchio, come per sostenersi. « Avanti, mangia. Mary ti ha preparato la sua torta al latte come dessert. » La ragazza, che non gli aveva tolto la mano dalla coscia, cominciò a muoverla lentamente ma inesorabilmente verso l'alto. Immediatamente tutta l'attenzione di Mark si concentrò su quella mano, mentre il boccone che aveva in gola si trasformava in qualcosa di incandescente. « Vuoi un altro pò di zucca, Marky? » gli domandò zia Hilda con aria solerte, e Mark scosse debolmente il capo. Stentava a credere a ciò che Mary stava combinando sotto il tavolo, alla presenza di sua madre, per giunta. Si sentì assalire dal panico. Con l'aria più disinvolta che, date le circostanze, gli riuscì di assumere, si lasciò cadere una mano in grembo e, senza guardare la ragazza, le afferrò il polso in una morsa decisa. « Hai mangiato abbastanza, Mark? » « Oh, sì. Fin troppo », dichiarò con tono deciso, cercando invano di allontanare dalla gamba la mano di Mary. La ragazza, oltre a essere piuttosto forte, non era tipo da lasciarsi sviare facilmente dai suoi propositi. « Mary, cara, pulisci il piatto di Mark e dagli un pò della tua ottima torta. » Mary parve non udirla. Teneva la testa china sul piatto in un atteggiamento di falsa modestia e aveva le guance arrossate. Le sue labbra erano percorse da un lieve tremito. Accanto a lei, Mark si contorceva inquieto. « Ehi, Mary, cosa ti succede? » insisté la madre, lanciandole uno sguardo seccato. « Mi hai sentita? » « Sì, mamma, subito. » Con un sospiro la ragazza si riscosse. Si alzò lentamente e prese il piatto di Mark con entrambe le mani mentre lui si afflosciava sul sedile, sospirando di sollievo. Quella sera si addormentò immediatamente, esausto per il lungo cammino compiuto e per l'eccitazione, ma non dormì tranquillo. Sognò di trovarsi in un paesaggio desolato, tra vortici di nebbia, rischiarato da una luce spettrale. Stava inseguendo una fi-
gura scura, ma le gambe si muovevano con difficoltà, come se fossero immerse nella melassa, e ogni passo gli costava uno sforzo enorme. L'ombra, che sgusciava nella nebbia davanti a lui, era il nonno, lo sapeva bene, ma, nonostante tentasse di gridare, nessun suono usciva dalla sua bocca spalancata. Improvvisamente, nel dorso scuro dell'ombra apparve un forellino rosso, da cui sgorgò un fiotto luccicante di sangue. L'ombra si voltò a guardarlo. Per un attimo vide il volto del vecchio, con gli occhi gialli che gli sorridevano al di sopra dei grandi baffi a punta. Poi il volto si sciolse come se fosse di cera e al suo posto comparve, quasi affiorasse da una superficie liquida, una testa marmorea dai lineamenti delicati. Era il giovane tedesco. Mark gridò e si coprì il viso. Cominciò a singhiozzare piano nel buio della stanza, finché un'altra sensazione si insinuò nella sua immaginazione tormentata. Gli parve che qualcuno lo accarezzasse con dita abili e insinuanti. I singhiozzi gli si inaridirono in gola e pian piano si abbandonò al piacere dei sensi: Sapeva cosa sarebbe successo. Era già accaduto spesso nelle sue notti solitarie, ma questa volta, mentre emergeva lentamente dagli abissi del sonno, ne fu particolarmente contento. Nel dormiveglia udì una voce che mugolava in tono sommesso. « Su, sta' tranquillo. Va tutto bene... andrà tutto bene. Smettila di far baccano. » Si svegliò del tutto, ma per qualche istante non riuscì ad accettare il fatto che quel corpo caldo e sodo non fosse un'illusione. Alla luce della luna che filtrava dalla finestra il pesante seno turgido che gli ondeggiava sul petto risplendeva candido. « Ci penserà Mary a consolarti », gli sussurrò la voce, in tono rauco e appassionato. « Mary? » ripeté, quasi soffocando. Cercò di mettersi a sedere, ma lei lo risospinse indietro, appoggiandosi a lui con tutto il suo peso. « Sei pazza. » Tentò di dibattersi, ma la ragazza premette la bocca sulla sua. Era umida, calda e avvolgente, e il turbamento prodotto in lui da questa nuova sensazione gli fece interrompere per un attimo la lotta. Provava un lieve senso di vertigine. Al tumulto dei suoi sensi si contrapposero dentro di lui tutte le cose terribili che aveva sentito raccontare sulle donne. I fatti strani e spaventosi che il cappellano del reggimento gli aveva spiegato, la conoscenza dei quali gli aveva permesso di resistere agli allettamenti delle piccole poules francesi e ai cenni invitanti che le ladies londinesi gli avevano rivolto dagli androni scuri annidati in viuzze nascoste. Il cappellano aveva detto a tutti loro che l'unione illecita con una donna poteva portare a due conseguenze ugualmente orribili: una malattia incurabile che rodeva la carne, lasciando nell'inguine un buco marcescente e, nella fase finale, condu-
cendo un uomo alla pazzia; o la nascita di un figlio senza padre, di un bastardo la cui esistenza avrebbe macchiato per sempre l'onore di un uomo. Era un rischio troppo grande. Mark sottrasse la bocca dalle labbra avide della ragazza e alla lingua penetrante che non gli dava tregua. « Oh, Dio! » mormorò. « Potresti avere un bambino. » « Cosa importa, sciocco », gli rispose allegra, con un bisbiglio roco. « Ci sposeremo. » La frase lo colpì come una mazzata. In quell'istante lei sollevò il ginocchio, appoggiando la coscia sul suo corpo. Il morbido cuscino di carne lo inchiodò al materasso e i lucidi capelli gli ricaddero a cascata sul viso, soffocandolo. « No », disse, dibattendosi per sottrarsi alla stretta. « No, è una pazzia. Non voglio sposarmi... » « Sì, invece. Oh, sì. » Una volta ancora rimase come paralizzato dalla perentorietà delle parole, finché, con uno strattone violento, riuscì a scrollarsela di dosso. La ragazza gli si aggrappò per un attimo alle spalle, poi ruzzolò dal letto, travolgendo il lavabo nella caduta. Il rumore assordante del metallo contro il pavimento e il tonfo pesante del corpo si ripercossero nella casa addormentata. Poi l'eco si spense e per un attimo tornò il silenzio, subito rotto da un coro di grida proveniente dalla camera da letto delle sorelle minori, all'altro lato del corridoio. « Cos'è successo? » tuonò Fred Black dalla sua stanza. « Dev'esserci qualcuno in casa. » « Su, Fred, non startene lì impalato. Va' a vedere chi c'è. » « Dov'è il fucile? » « Aiuto, papà. Aiuto! » Mary si alzò da terra con un balzo, afferrò la camicia da notte che aveva lasciato sulla sedia e se la infilò dalla testa. « Mary! » gridò Mark, rizzandosi a sedere sul letto. Avrebbe voluto spiegarle, parlarle del cappellano. Si protese verso di lei. Persino nella debole luce lunare riusciva a scorgere l'ira che le sconvolgeva i lineamenti. « Mary... » Non fece in tempo a evitare il colpo. La mano della ragazza gli si abbatté con violenza su un lato della testa. Il colpo fu così forte che la vista gli si annebbiò. Quando riprese a connettere, la ragazza se n'era andata, ma a lui sembrava che un intero alveare gli ronzasse nelle orecchie. Mentre il giovane arrancava sul ciglio della strada, solcata da due profondi avvallamenti tra i quali cresceva folta l'erba, un furgone impolverato gli si fermò accanto. Sul sedile anteriore erano seduti un uomo di mezz'età e sua moglie. « Dove sei diretto, figliolo? » domandò l'uomo a Mark. « A Ladyburg, signore. » « Monta su, allora. » Mark percorse gli ultimi quaranta chilometri seduto su un
mucchio di sacchi di granturco, con accanto una gabbia contenente alcune galline chioccianti. Il vento gli arruffava i capelli ancora rigidi per il taglio recente. Passarono sferragliando il ponte sul Baboon Stroom e Mark si avvide con stupore che tutto era cambiato. Ladyburg si era trasformata in una vera città che si estendeva fino al fiume. Sotto la scarpata era stato costruito un grande scalo merci, dove una mezza dozzina di locomotive erano impegnate a smistare i carri colmi di tronchi appena tagliati o di sacchi di zucchero provenienti dal nuovo zuccherificio. La fabbrica, costituita da una struttura torreggiante di travi d'acciaio e da grandi caldaie, era un monumento al progresso della città. Gli sbuffi di fumo e di vapore che uscivano dalle ciminiere formavano una nebbiolina grigiastra, subito dispersa dalla brezza tesa. Mark arricciò il naso per l'odore che stagnava nell'aria e guardò con stupore reverenziale lungo Main Street. C'erano almeno una decina di case nuove, con le facciate elaborate adorne di fregi in ferro battuto, i timpani dalle ricche decorazioni, le porte di vetro colorato e, al di sopra, il nome del proprietario e la data di costruzione scritte in rilievo con lo stucco. Nessuna di esse, tuttavia, reggeva il paragone con un edificio gigantesco, alto quattro piani e incrostato di decorazioni come la torta nuziale di una ricca sposa. LADYBURG FARMERS BANK, così diceva l'orgogliosa dicitura affissa sulla facciata. L'uomo alla guida del furgone sbarcò Mark sul marciapiede opposto e lo salutò con un allegro cenno della mano. Parcheggiati tra i carretti e le carrozze, c'erano numerosi veicoli a motore. La gente che camminava per le strade era ben vestita e aveva un'aria soddisfatta, quale si addiceva ai membri di una comunità prospera e laboriosa. Mark ne conosceva qualcuno, ancora dai tempi dell'infanzia, e mentre percorreva lentamente la via con la sacca buttata su una spalla, si fermava di tanto in tanto a scambiare un saluto. Dopo un attimo di confusione veniva riconosciuto. « Ehi, Mark, pensavamo che fossi morto in Francia. L'abbiamo letto sulla Gazette », era l'immancabile commento. L'ufficio catastale dei terreni era situato in una specie di labirinto dietro il tribunale e la sede della polizia. Durante il lungo viaggio da Andersland, Mark aveva avuto tutto il tempo di pensare, tanto che ora sapeva esattamente cosa fare e da dove cominciare. Nella parte riservata al pubblico c'erano un'inospitale panca di legno e un bancone, dietro il quale era seduto un impiegato di mezz'età con gli occhi nascosti da un paio di spesse lenti dalla montatura in metallo e da una visiera verde sulla fronte. La giacca di alpaca nera e le mezze maniche di carta lo facevano assomigliare a un vecchio gufo, impressione che veniva ulteriormente accentuata dal naso a becco. L'uomo, chino sulla scrivania, era intento al compito erculeo di timbrare una pila di documenti. Continuò a lavorare per qualche minuto, mentre Mark, nel-
l'attesa, si era messo a leggere le circolari governative affisse alle pareti. Finalmente alzò gli occhi con l'aria esasperata di chi è stato interrotto nel bel mezzo di un'impresa da cui dipende il destino dell'umanità. « Vorrei esaminare un contratto, per favore », gli disse Mark. Oggetto: podere acquistato con contratto a riscatto situato nel circondario di Ladyburg e registrato col n. 42, divisione A. La fattoria è nota con il nome di ANDERSLAND... Atto di passaggio di proprietà a favore della Ladyburg Estates Ltd., registrato a Ladyburg il 19 giugno 1919. Si rende noto che DENNIS PETERSEN è comparso davanti al qui presente ufficiale catastale debitamente munito di procura stilata a Ladyburg il 12 maggio 1919 e concessagli da JOHN ARCHIBALD ANDERS alla presenza dei testimoni previsti dalla legge, allo scopo di dichiarare che il di lui rappresentato aveva venduto a tutti gli effetti... Mark passò al documento seguente. Contratto di vendita di proprietà immobiliare. II sottoscritto JOHN ARCHIBALD ANDERS, da ora in poi definito venditore, e la Società LADYBURG ESTATES LTD, da ora in poi definita acquirente, dichiarano di realizzare un accordo di compravendita riguardante la proprietà nota con il nome di ANDERSLAND, compresi gli edifici, i raccolti, gli utensili e il bestiame. Il prezzo d'acquisto è stato fissato in ragione di tremila sterline d'argento... In fede: JOHN ARCHIBALD ANDERS (il SUO segno: X) A nome della società LADYBURG ESTATES LTD: DIRK COURTENEY (presidente) Testimoni del presente atto: PIETER ANDRIES GREYLING CORNELIUS JOHANNES GREYLING Mark aggrottò la fronte. Piet Greyling e suo figlio avevano accompagnato il vecchio al Passo Chaka subito dopo aver firmato l'atto di vendita. Qualche giorno dopo l'avevano trovato morto e l'avevano seppellito nella boscaglia. Procura generale a favore di DENNIS PETERSEN. Il sottoscritto JOHN ARCHIBALD ANDERS conferisce il potere di rappresentarlo al soprascritto DENNIS... firmato: JOHN ARCHIBALD ANDERS (il SUO segno: X) Testimoni: PIETER ANDRIES GREYLING e CORNELIUS JOHANNES GREYLING Mark studiò attentamente il pacchetto di documenti in rigida pergamena, redatti con caratteri pieni di svolazzi e adorni di sigilli in ceralacca rossa da cui penzolavano dei nastri in seta marezzata. Ricopiò con cura i nomi delle parti in causa su un
taccuino. Al termine dell'operazione, l'impiegato, che non aveva mai distolto lo sguardo dal suo prezioso incartamento, gli porse una ricevuta in cambio dei cinque scellini che costituivano la tariffa per la consultazione. L'Ufficio del Registro delle società era situato dalla parte opposta della viuzza. Qui Mark fu accolto in modo del tutto diverso. La responsabile dello squallido antro era una giovane donna che indossava una giacca severa color tortora e una gonna lunga fino ai piedi. L'abbigliamento era in netto contrasto con gli occhi vivaci e l'aria impertinente. Quando Mark entrò, il suo visetto grazioso, in cui spiccava il nasino lentigginoso, si illuminò di un sorriso soddisfatto. Qualche istante dopo gli aveva già messo davanti tutti i documenti riguardanti la Ladyburg Estates Ltd. e si apprestava con aria cospiratoria ad assisterlo nella lettura. « Abita qui? » gli domandò. « Non l'ho mai vista da queste parti. » « No », rispose Mark sulle sue, senza alzare gli occhi. Faceva fatica a concentrarsi, perché era ossessionato dal ricordo del suo ultimo incontro con una ragazza. « Beato lei », commentò la giovane donna con un sospiro drammatico. « Si muore di noia in questo posto. La sera non c'è niente da fare. » Si interruppe, piena di speranza, ma Mark rimase in silenzio. Il consiglio d'amministrazione della Ladyburg Estates era formato dai signori Dirk Courteney e Ronald Beresford Pye, i quali, peraltro, possedevano solo un'azione ciascuno, sufficiente a qualificarli come rappresentanti della società. Le altre 999.998 azioni da cinque scellini l'una, interamente pagate, erano proprietà della Ladyburg Farmers Bank. « La ringrazio molto », disse Mark, e restituì la documentazione alla ragazza, cercando di evitare il suo sguardo. « Potrei vedere la pratica riguardante la Ladyburg Farmers Bank? » Lei eseguì prontamente. Le azioni della banca, che ammontavano a un milione per il valore di una sterlina ciascuna, erano suddivise in tre quote, di cui erano proprietari i tre consiglieri della Società. Dirk Courteney 600.000 azioni interamente pagate Ronald Beresford Pye 200.000 azioni interamente pagate Dennis Petersen 200.000 azioni interamente pagate Mark aggrottò la fronte. Di nuovo gli stessi nomi, intessuti in una rete intricata e piena di nodi. Anche questa volta li scrisse sul suo taccuino. « Mi chiamo Marion, e lei? » « Mark... Mark Anders. » « Un nome forte e romantico. Ha letto il Giulio Cesare? Anche Marco Antonio era un personaggio forte e romantico. » « Sì, è vero », convenne Mark. « Quanto le devo? » « Oh, lasci perdere. »
« No, non è il caso... Vorrei pagare. » « D'accordo, se proprio insiste... » Giunto alla porta, si fermò. « Grazie », le disse con aria timida. « E stata molto gentile. » « Si figuri. Se c'è qualcos'altro che posso fare... be', sa dove trovarmi. » Poi tutt'a un tratto arrossì. Non se l'aspettava e si voltò per nascondere le guance infuocate. Quando si girò di nuovo, Mark era sparito. La ragazza sospirò, stringendosi la cartelletta al piccolo petto pieno. Mark trovò i conti relativi alla proprietà del vecchio alla Cancelleria del Tribunale. Erano elencati sotto la denominazione spregiativa di BENI INTESTATI INFERIORI ALLE CENTO STERLINE . Nella colonna dei crediti figuravano due fucili e una carabina, quattro buoi da traino e un carretto. Venduti a un'asta pubblica, avevano fruttato ottantaquattro sterline e sedici scellini. Nella colonna dei debiti, invece, si notava la voce « spese legali e provvigioni », maturate da un certo Dennis Petersen, oltre al costo della liquidazione dei beni. Il totale era di centoventisette sterline. Il conto registrava un deficit: i beni rimasti erano stati suddivisi tra i creditori e la pratica risultava chiusa. John Archibald Anders se n'era andato senza lasciare niente dietro di sé, nemmeno le tremila sterline che gli avevano dato per Andersland. Mark si rimise la sacca in spalla e uscì nel sole splendente del pomeriggio. Un carro a botte trainato da una coppia di buoi avanzava lentamente lungo Main Street, spargendo sulla strada dei sottili getti d'acqua per renderne compatto il fondo. Mark si fermò. Fiutò l'odore della terra bagnata e alzò gli occhi sull'imponente edificio della banca, dall'altra parte della strada. Per un attimo fu colto dalla tentazione di entrare per chiedere a quelli che lavoravano là dentro come mai il vecchio aveva rinunciato al suo proposito di essere sepolto ad Andersland, in che modo era stato pagato e cosa aveva fatto dei soldi che aveva ricevuto. Ma cambiò rapidamente idea. Quegli uomini appartenevano a una razza diversa dalla sua e non avevano niente da spartire con il nipote squattrinato di un vecchio analfabeta. La società era organizzata secondo un ordine preciso, fatto di barriere invisibili che un uomo non poteva valicare nemmeno se aveva un diploma universitario, una medaglia al valore militare ed era stato congedato con onore. Quell'edificio era il tempio della ricchezza e del potere, e gli uomini che lo abitavano erano delle divinità, al suo confronto. I tipi come lui non piombavano in un posto come quello, esigendo risposte a domande irrilevanti su un vecchio senza importanza. « Beni intestati inferiori alle cento sterline », ripeté Mark in un sussurro, e si rimise in cammino, attirato dai rumori metallici, e dagli sbuffi che provenivano dallo scalo merci.
« Sì », ammise il capostazione. « Piet Greyling guidava le locomotive sulla linea principale e suo figlio gli faceva da fuochista, ma si sono licenziati tutti e due alcuni mesi fa. Ancora nel 1919, se non sbaglio. » Si sfregò il mento con aria pensosa. « No, non so dove siano andati... a me è bastato che se ne andassero. Ah, sì, ora che ci penso il figlio ha detto che volevano trasferirsi in Rhodesia. Avevano intenzione di comprare una fattoria, se ho capito bene. » L'uomo ridacchiò. « Una fattoria! Chissà con cosa pensavano di pagarla... Non certo con il salario di un conducente e di un fuochista. » La sala del consiglio d'amministrazione della Ladyburg Farmers Bank occupava metà dell'ultimo piano. Le portefinestre, che si aprivano su due lati, erano orientate in modo da cogliere la fresca brezza marina nei giorni caldi mentre, dall'altra parte, si affacciavano sull'alta scarpata. La scarpata costituiva un ottimo fondale per la città e conferiva un aspetto interessante alla vasta sala, i cui soffitti di stucco bianco erano ornati da cherubini danzanti che se ne stavano sospesi a testa in giù, carichi di grappoli d'uva e congelati in un'eterna allegria. Le tende di velluto verde, bordate di passamaneria dorata, spiccavano contro il rivestimento in mogano scuro delle pareti. Anche il tappeto era verde e tanto folto che avrebbe potuto attutire il rombo di una carica di cavalleria. Il grande tavolo di marmo era ricco di fregi in bronzo dorato. Attorno alle gambe si avviluppavano foglie di vite e nudi femminili che suonavano l'arpa o danzavano con aria schiva. Un uomo con il collo corto e le spalle da lottatore stava in piedi in atteggiamento rispettoso a un'estremità del tavolo. Aveva gli stivali impolverati e il fondo dei calzoni lucido per le molte ore trascorse in sella. Tra le dita tormentava la tesa del cappello floscio. Di fronte a lui, all'estremità opposta del tavolo, un altro uomo se ne stava comodamente seduto su una sedia di cuoio imbottita. Era alto, non c'era bisogno che si alzasse per capirlo, e le spalle, coperte di morbida lana inglese, erano larghe e muscolose. La testa che si levava da quelle spalle possenti era armoniosa e ben proporzionata, e i riccioli scuri, folti e perfettamente curati, scendevano fin sulle guance a formare due splendide basette. Il mento ben rasato aveva un piglio sicuro, quale spesso si incontra negli uomini abituati a comandare. La bocca era grande e decisa con i denti bianchi che in quel momento erano impegnati a mordicchiare il labbro inferiore. La fronte leggermente aggrottata si increspava in tre piccole rughe sulla sommità del naso, tra gli occhi dallo sguardo intelligente. L'uomo era intento ad ascoltare l'altro, con il mento appoggiato alla mano dalle unghie perfette. « Ho pensato che avrebbe preferito esserne informato, signor Courteney », concluse questi debolmente, e strisciò gli stivali impolverati sul tappeto folto. Il silenzio calò nella sala. L'uomo che aveva parlato lanciò un'occhiata imbarazzata ai due
gentiluomini seduti a fianco di Dirk Courteney, poi riportò lo sguardo sulla figura centrale. Dirk Courteney si lasciò cadere la mano in grembo e parve rasserenarsi. « Hai fatto molto bene, Hobday », gli disse con un sorriso che accentuò la sua avvenenza. « Va' a riposarti in anticamera. L'impiegato ti porterà qualcosa da mangiare, ma non andartene perché voglio parlarti ancora. » « Sì, signore. Certo, signor Courteney. » L'uomo si avviò, solerte, verso la porta. Se l'era appena chiusa alle spalle, che i due uomini seduti accanto a Dirk sbottarono contemporaneamente. « Ti avevo avvertito che sarebbe successo... » « Ci avevi detto che era morto... » « Sono sempre stato contrario... » « Lo sapevo che questa volta avevamo esagerato... » Le frasi si accavallavano, simili a brevi esplosioni. Mentre li ascoltava con un enigmatico sorrisetto sulle labbra, Dirk Courteney si mise a giocherellare con il brillante che portava al mignolo della mano destra. La grossa pietra, catturando la luce, la rifletteva in chiazze luminose sul soffitto. Quando i due ebbero concluso le loro rimostranze, Courteney alzò gli occhi e li guardò con aria educata. « Avete finito? Vi ringrazio del vostro intervento. E' stato molto utile. Veramente costruttivo. » Fece scorrere lo sguardo dall'uno all'altro, in attesa, ma, visto che non parlavano, soggiunse: « Sfortunatamente non siete al corrente di tutti i dati. Vedrò di completarveli. Il ragazzo è arrivato in città questa mattina ed è andato dritto al catasto, poi all'Ufficio del Registro e infine alla Cancelleria del Tribunale ». I suoi ascoltatori proruppero in un'ulteriore serie di lamentele, mentre lui sceglieva un sigaro e se lo preparava con cura, tagliandone la cima con un temperino placcato in oro e inumidendolo tra le labbra. Poi, prendendolo tra il pollice e l'indice, attese che si ristabilisse il silenzio. « Grazie, signori... Come dicevo, la persona in questione ha concluso il suo giro allo scalo merci, dove si è messa a indagare su Greyling e figlio. » Questa volta gli altri due non fecero commenti, limitandosi a uno scambio di sguardi increduli e preoccupati. Dirk Courteney accese un fiammifero e attese che lo zolfo si consumasse prima di avvicinare la fiammella al sigaro. « L'idea è stata tua », disse Ronald Pye, rompendo il silenzio. Aveva una trentina d'anni più di Courteney. Il suo stomaco, una volta prorompente, si era afflosciato e formava un incavo sotto il panciotto costoso, la pappagorgia gli pendeva come i bargigli di un tacchino e le guance erano costellate di lentiggini sbiadite e delle macchie scure tipiche della vecchiaia. Anche i capelli si erano diradati, e dell'antico rosso non restava altro che qualche riflesso. Ma le orecchie sporgenti, che si staccavano nette dalla testa, gli davano un'aria vigile simile a quella di una volpe del deserto e gli occhi, fissi sul volto di Dirk Courteney, brillavano di una luce astuta.
« Si », convenne Courteney. « Molte delle idee che circolano qui attorno sono mie. Dal momento in cui ho iniziato a elargire le mie idee, le riserve nette della Farmers Bank sono passate da un milione e mezzo a quindici milioni di sterline in soli dieci anni... » Ronny Pye continuò a fissarlo, pentendosi amaramente, per l'ennesima volta nel corso di quei dieci anni, di aver ceduto alla tentazione di vendere la quota maggioritaria a quel giovane avventuriero, a quella specie di pirata in guanti bianchi. Occasioni di dubbio ne aveva avute, tanto che aveva esitato a lungo prima di accettare l'offerta straordinaria che Dirk Courteney gli aveva fatto. Conosceva fin troppo bene la storia del ragazzo; sapeva che aveva lasciato la casa natale, lì a Ladyburg, in circostanze spiacevoli, che si era staccato dal padre e dalla famiglia finché, molti anni dopo, gli era capitato in ufficio senza preavviso e gli aveva fatto la sua offerta. Si era accor to subito che il ragazzo si era trasformato in un duro, ma l'offerta era stata troppo buona per rifiutarla. Subito dopo, aveva avuto sentore delle chiacchiere spiacevoli che lo seguivano come avvoltoi dietro un leone. Avrebbe dovuto saperlo: il fatto che Dirk Courteney potesse offrire seicentomila sterline in contanti in cambio del sessanta per cento delle azioni della banca, sostenendo l'offerta con una garanzia dei Lloyds di Londra, costituiva un elemento sufficiente ad alimentare le voci più sgradevoli. Non capitava quasi mai che un uomo onesto facesse tanti soldi in un periodo così breve. Alla fine la sua avidità aveva vinto. Quella, e l'opportunità di spuntarla contro il suo antico nemico, il generale Sean Courteney. Aveva esultato all'idea di prendere con sé il figlio bandito, innalzandolo a uno stato principesco nel cuore del paese dei Courteney. Era stato un piacere così intenso da far pendere la bilancia a favore del giovane. Per non parlare delle seicentomila sterline, s'intende. Ma era stato un pessimo affare. « Sono stato contrario sin dall'inizio », ripeté. « Mio caro Pye, tu sei contrario per principio a ogni tipo di novità. La settimana scorsa, però, sei andato in brodo di giuggiole sia davanti ai bilanci della Ladyburg Estates sia a quelli dello zuccherificio. » Si levò in tutta la sua altezza. Era davvero imponente. Stringendo il sigaro tra i forti denti bianchi, si lisciò i capelli con le mani. Poi si sistemò le pieghe della cravatta, sfiorando con le dita la perla della spilla e si avviò all'estremità opposta della sala. Srotolò la carta dello Zululand e del Natal settentrionale, che occupava metà della parete, e indietreggiò di qualche passo. Sulla carta erano segnati in scala ridotta i confini di ogni proprietà, e le zone appartenenti alla Ladyburg Estates erano state ombreggiate con un gessetto verde. Il colpo d'occhio era impressionante: un'enorme distesa di terra che andava dal mare alle montagne e trasudava ricchezze naturali.
« Eccolo qui, signori, il progetto a cui vi siete opposti con tanta decisione. » Sorrise un'altra volta. « Era troppo ambizioso per il vostro sangue annacquato. » Il sorriso si spense e lui si incupì. In quei momenti la bocca grande prendeva una piega amara e gli occhi lucenti si stringevano assumendo una espressione meschina. « Il punto strategico dell'intero progetto era qui, sull'Umfolosi. Dovevamo avere l'acqua o tutto sarebbe andato in fumo. E invece un vecchio bastardo, ignorante, stupido e ostinato... » si intermppe bmscamente. Dopo un attimo riprese a sorridere. « A tutto nostro ora », proseguì con voce resa sonora dall'eccitazione. « L'intera riva sud del fiume. E non finirà qui. » Calò sulla carta le mani aperte, piegate ad artiglio. « Andremo oltre. Qui, qui e qui », continuò, mentre le mani marciavano avide verso nord. Indietreggiò, ridendo, e voltò verso gli altri la sua bella testa. « Guardatevi », li schernì. « Ve la fate addosso dalla paura... e tutto perché vi sto facendo diventare ricchi. » Dennis Petersen prese a parlare. Era coetaneo di Ronny Pye, di cui aveva sposato la sorella. Se non fosse stato per quello, non si sarebbe mai seduto al grande tavolo di marmo. Era un uomo insignificante, dai lineamenti incerti e dal corpo tozzo e informe, che nemmeno gli abiti eleganti riuscivano a nobilitare. Anche il colore degli occhi era difficile da definire. « Cosa faremo? » domandò. Aveva le mani raccolte in grembo. Nonostante fossero ferme, dava l'impressione di tormentarsele nervosamente. « Noi? » domandò Dirk gentilmente, avvicinandosi alla sua sedia. « Noi, mio caro Dennis », ripeté, battendogli sulla spalla con aria paterna. « Noi non faremo proprio niente. Tornatene in ufficio, ora. Ti dirò tutto quando la cosa sarà conclusa. » « Senti un pò, Dirk », ribatté l'altro, alzando il mento con atteggiamento deciso. « Sono stufo delle tue prepotenze, mi hai capito? » Poi incontrò il suo sguardo e il mento ripiombò in basso. « Ti prego, smettila », borbottò. Dirk ridacchiò. « Su, tornate ai vostri conti, tutti e due. Pensate ai quattrini e lasciate il resto a me. » Li aiutò ad alzarsi e li guidò alla porta. « Dennis, domani alle nove si riunirà il consiglio per discutere del nuovo impianto estrattivo di Stanger. Avrò bisogno dei dati, vedi di prepararmeli. » Rimasto solo, Dirk Courteney mutò espressione. Spense il mozzicone nel posacenere di onice e si diresse alla porta che dava sull'anticamera. « Hobday », chiamò piano. « Vieni dentro un attimo, per favore. » Qualsiasi cacciatore sa per esperienza che una traccia, che all'inizio si presenta chiara, può svanire all'improvviso come per incanto. Anche lui e il vecchio una volta avevano dovuto rinunciare alla loro preda, proprio vicino al Passo Chaka. « Cara traccia, come promettevi bene », mormorò. Era fermo nella Main Street di Ladyburg, incerto sul da farsi. Ogni spe-
ranza di trovare la tomba del vecchio e di riportarne il corpo ad Andersland per seppellirlo accanto ad Alice era svanita. Il problema dei soldi ricevuti in cambio della fattoria gli sembrava meno importante, nonostante si trattasse di tremila sterline, una piccola fortuna ai suoi occhi. Con quella somma, avrebbe potuto comprarsi un pezzo di terra da qualche parte. Dopotutto non gli sarebbe spiaciuto sapere che fine avevano fatto. Ripensandoci, intravide un'ultima vaga possibilità, ma il cuore gli si strinse all'idea di ciò che avrebbe dovuto fare. Compiendo uno sforzo di volontà, si raddrizzò e si avviò a passo spedito verso la banca. L'aveva quasi raggiunta, quando l'orologio sul campanile della chiesa, in fondo alla strada, batté l'ora: cinque rintocchi chiari la cui eco si ripercosse nella vallata. Gli impiegati uscirono in gruppo dalla porta, sorridendo e chiacchierando allegramente tra loro, felici che un altro giorno di lavoro si fosse concluso. Terminato l'esodo, una guardia in uniforme si accinse a chiudere i battenti di mogano massiccio. Mark provò un inatteso senso di sollievo e tornò sui suoi passi. « Ci verrò domani », si disse con decisione. La pensione dietro la chiesa offriva la cena e un letto per sette scellini e sei pence. Per un attimo fu tentato di entrare, ma ci ripensò. Le sovrane del vecchio avrebbero dovuto durargli a lungo. Si diresse verso il ponte sul Baboon Stroom e discese l'argine, risalendo il fiume per trovare un posto dove accamparsi. Mezzo chilometro prima del ponte trovò un piccolo spiazzo circondato dagli alberi, ma, quando arrivò all'acqua, ne percepì il fetore prima ancora di immergervi la borraccia. Si accoccolò sui talloni e si guardò attorno. La riva era coperta da una schiuma densa che aveva avvolto gli steli delle canne. Si avvide che queste erano morte e che sull'acqua galleggiavano pigre delle bolle gassose. Riempì il cavo della mano d'acqua e la annusò, poi la buttò via, disgustato, e si alzò, fregandosi la mano sul fondo dei calzoni. Un grande pesce giallo, con gli occhi opachi e strabuzzati, galleggiava a pancia in su nella corrente lenta, girando piano nei vortici ai bordi del canneto. Mark rimase a guardarlo con un senso di inquietudine e di premonizione, come se quella carcassa awelenata e putrefatta avesse per lui qualche significato particolare. Poi si strinse nelle spalle e si inerpicò per il pendio. Si rimise la sacca sulla spalla e riprese a camminare, fermandosi di tanto in tanto a sbirciare la riva, finché giunse di fronte al nuovo zuccherificio. Il fiume in quel punto ribolliva, esalando sbuffi di vapore che formavano piccoli banchi di nebbia tra gli steli anneriti delle canne. Superata un'ansa, giunse al condotto di scarico, un tubo di ferro nero del diametro di venti centimetri che sporgeva dalla riva, vomitando nell'acqua un flusso continuo di materiale fumante.
Un soffio di vento portò il suo odore acre fino a Mark, che tossì e si allontanò. Un centinaio di metri più su, l'acqua, tornata chiara, gorgogliava tra le canne verdi che si chinavano e oscillavano con grazia nella brezza. Mark notò in una buca la sagoma sinuosa di un'anguilla e una miriade di granchiolini rosa e neri che correvano sulla sabbia candida, appena sotto la superficie. Trovò un altro posto dove accamparsi, sulla prima balza dell'argine, accanto a una cascata che formava una pozza in cui l'acqua mulinava lenta. Le felci che pendevano dai rami degli alberi parevano soffici veli verdi. Si spogliò ed entrò nell'acqua, provando un piacevole senso di frescura. Seduto su un sasso muschioso accanto alla pozza, cominciò a sbarbarsi con il vecchio rasoio a mano libera. Poi si asciugò con la camicia, la sciacquò e la stese vicino al fuoco. Mentre aspettava che l'acqua bollisse, si diresse, nudo fino alla cintola, verso quella parte del pendio dove gli alberi erano più radi e guardò verso la vallata. Il sole, che era ormai giunto all'orlo della scarpata, aveva tinto il cielo di sfumature rosse e rosate, che traevano riflessi bronzei dai tetti di ferro e coloravano d'oro le colonne di fumo che si levavano dalle ciminiere dello zuccherificio. La brezza era caduta e, nella particolare immobilità della sera africana, il fumo saliva alto nel cielo del tramonto. Qualcosa si muoveva nella piana e Mark strizzò gli occhi, cercando di aguzzare la vista. Anche da quella distanza, capiva che doveva trattarsi di un gruppo di cacciatori. Quattro uomini avanzavano lentamente a cavallo. Uno era chino sulla sella e il fucile che portava appoggiato al fianco aveva la canna rivolta verso il cielo. Anche gli altri tre erano armati; riusciva a vedere il fodero dei fucili, fissato all'altezza delle ginocchia. Notò che avevano l'aria attenta ed eccitata, tipica dei cacciatori. Il gruppo era preceduto da una figura a piedi, uno zulu vestito di laceri abiti di foggia occidentale, che trotterellava con l'andatura falsamente rapida della sua razza. Procedeva a testa bassa, con gli occhi fissi al terreno e con in mano una canna scortecciata, il bastone che serve al battitore per scostare l'erba o individuare una traccia. Mark si chiese pigramente cosa potessero cacciare così vicino alla città e soprattutto lungo quel fiume avvelenato, visto che stavano percorrendo lo stesso sentiero che lui aveva seguito per giungere all'argine. L'oscurità stava calando rapidamente, ora. I tetti di ferro arsero in un estremo falò, mentre il sole spariva dietro la cresta. Con l'ultimo barlume di luce, Mark vide il cavaliere alla testa del gruppetto tirare le redini e raddrizzarsi sulla sella. Era un individuo tarchiato, solidamente seduto sulla sua cavalcatura. L'uomo alzò gli occhi verso il punto in cui si trovava Mark, poi la luce sparì del tutto e il gruppo divenne una macchia scura che si stagliava appena contro la terra opaca. Mark si accoccolò accanto al fuoco, masticando rumorosamente la carne in scatola che aveva fatto riscaldare e annaffian-
dola con qualche sorso di caffè. Provava uno strano senso di inquietudine per la giornata appena trascorsa, inquietudine accresciuta dal ricordo del vecchio, dalla tristezza per quel fiume che stava morendo e dalla figura dell'uomo a cavallo. Si decise a infilarsi la giacca e ad avvolgersi nella coperta, disponendosi a dormire accanto al fuoco, ma non riuscì a prender sonno. Invece di sparire, l'inquietudine continuava ad aumentare, tanto che si scoprì a chiedersi cosa speravano di trovare i quattro cacciatori ai margini di una città affollata. Poi ripensò al fatto che stavano seguendo il suo stesso sentiero e il sonno gli passò del tutto. D'un tratto si ricordò che il nonno non voleva mai dormire accanto al fuoco. « L'ho imparato mentre davo la caccia ai boeri. Una luce nella notte attira ben altro che le falene... leoni, iene, persino uomini. » Gli parve di risentire la voce del vecchio mentre lo diceva e si alzò di scatto con la coperta attorno alle spalle. Risalì il pendio per una cinquantina di metri finché trovò una cavità coperta di foglie morte. Finalmente si rilassò. Nel momento in cui il sonno gli sfiorava gli occhi con la sua mano lieve, un assiolo lanciò il suo richiamo ed egli fu di nuovo sveglio. Era un suono familiare, ma questa volta aveva qualcosa che non lo convinceva. L'imitazione era stata ottima, ma non al punto da ingannare un orecchio come il suo, così avvezzo ai rumori della natura. Con tutti i sensi tesi, Mark alzò la testa lentamente e sbirciò verso il basso. Il fuoco era una pozza di braci rossastre e le sagome degli alberi si stagliavano scure e vaporose contro il cielo terso e ricamato di stelle. L'assiolo lanciò un altro richiamo, questa volta accanto alla pozza sotto la cascata, e nello stesso istante Mark udì qualcuno che si muoveva furtivamente accanto a lui: un fruscio di passi tra le foglie che coprivano il terreno. Poi tornò il silenzio. Mark aguzzò lo sguardo, ma sotto gli alberi l'oscurità era impenetrabile. Giù in basso, nella vallata, una locomotiva fischiò tre volte. Il rumore si propagò chiaro nella notte, subito seguito dai cigolii del treno che usciva dallo scalo merci e dal ritmo regolare dello stantuffo. Mark cercò di rimuoverlo dalla sua percezione per concentrarsi sui suoni attutiti provenienti dall'oscurità che lo circondava. Sentì un lieve alito d'aria smossa; qualcuno stava scendendo giù per il pendio. Poi vide un'ombra che si stagliava contro le braci ardenti del fuoco. Infine un paio di stivali uscì dall'oscurità e un uomo si fermò accanto al fuoco, immobile. Quindi, molto vicino a sé, udì uno scricchiolio di foglie morte, smosse da piedi impazienti, e lo scatto inconfondibile di una sicura che veniva tolta. Il respiro gli si arrestò in gola e gli parve di essere stato colpito da una scarica elettrica. Il punto da cui era venuto il suono non distava più di tre metri.
Cercò di individuare la sagoma dell'uomo contro il cielo stellato e finalmente lo vide: era in piedi sopra la cavità che gli serviva da giaciglio e guardava in basso, verso il fuoco. « Quel bastardo se n'è andato », disse il primo uomo a voce bassa, ma non abbastanza per non essere udita. Si chinò sulla pila di legna asciutta che Mark aveva ammonticchiato e ne gettò un pezzo sulle braci. Una nuvola di scintille si levò in una spirale luminosa e il legno prese fuoco, diffondendo attorno a sé un cerchio di luce giallastra. « La sua sacca è ancora qui », gridò lo stesso uomo, alzando il fucile con aria speranzosa, scrutando nel buio della notte. « Ricordati che c'è una ricompensa di cento sterline su di lui.» Le parole e il modo in cui teneva la carabina non lasciavano dubbi sulle sue intenzioni. Mark sentì il fiotto caldo dell'adrenalina che gli percorreva il corpo e si raccolse in sé, tremando di agitazione compressa, pronto a scattare. L'uomo accanto a lui si mosse di nuovo. Il suo respiro si era fatto rauco per la tensione. Mark udì un cigolio metallico e all'improvviso una lama di luce bianca squarciò la notte. Poi il fascio si mosse fermandosi su di lui, che se ne stava acquattato, ancora avvolto nella coperta. Un attimo prima di scattare, Mark vide la sagoma dell'uomo, oltre il bagliore della luce. Con la mano destra teneva la lanterna, che aveva alzato a livello degli occhi, mentre nella sinistra aveva il fucile, con la canna rivolta verso terra. L'uomo era del tutto impreparato a vederselo davanti. « E' qui », urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Cercò di imbracciare l'arma, ma la lanterna gli impacciava i movimenti. « Spara! Spara, maiedizione! » gridò un'altra voce dal suono lievemente familiare, e l'uomo accanto a Mark lasciò cadere la lanterna e fece per alzare il fucile. In quel momento, Mark gli si lanciò addosso. Sfruttando il movimento dell'altro, afferrò l'estremità della canna con una mano e il calcio con l'altra e abbatté l'arma sul volto dell'uomo, spingendo con tutto il suo peso. Udì un rumore di ossa rotte e di cartilagini spezzate. L'impatto del ferro contro la carne gli si trasmise lungo le braccia, facendogli vibrare le spalle. L'uomo cadde all'indietro con un grido reso gorgogliante dal fiotto di sangue che gli aveva riempito naso e bocca. Mark lo oltrepassò con un balzo e si mise a correre. Dietro di lui si levò un coro di grida, seguito dal duplice sparo di un fucile a canna doppia e da due lampi ravvicinati. I pesanti pallettoni sferzarono con violenza le foglie, e Mark sentì la parte superiore del braccio bruciargli come se fosse stata punta da una vespa. « La lanterna! Prendi la lanterna! » « Eccolo. Non lasciartelo sfuggire! » Una carabina, che dal rumore gli parve una Lee Enfield 303, sparò tre volte in rapida successione. Uno dei proiettili colpì un sasso e rimbalzò stridendo, mentre un altro si conficcava
con un suono sordo nel tronco di un albero accanto a lui. Il terzo lo colpì alla caviglia. Mark cadde pesantemente, e sentì il dolore che gli si diffondeva nella gamba, risalendo fino all'inguine. Si mise in ginocchio; il raggio della lanterna lo illuminò e si avvicinò vorace. « L'abbiamo preso. » Si udì una salva di spari e un coro di urla esultanti. I colpi lacerarono l'aria attorno a Mark e uno di essi gli passò così vicino da assordarlo completamente. Si rialzò, gettandosi giù per il pendio. Il dolore al piede gli strappò un grido. Una stilettata incandescente partì dalla caviglia e gli arrivò al cervello, dove esplose in una miriade di scintille fosforescenti. Continuò ad avanzare tra i singhiozzi, vacillando e trascinando la gamba ferita. Era zuppo di sudore. Gli uomini si erano sparpagliati tra gli alberi, ma la discesa doveva essere eccessivamente faticosa per gente come loro, abituata a muoversi a cavallo, perché le loro grida si erano fatte deboli e ansimanti e dal suono delle loro voci trapelava la preoccupazione di veder svanire la preda. Tra le fitte di dolore che si rinnovavano a ogni passo, Mark cercò di raccogliere le idee. Dapprima pensò di lasciarsi cadere nel folto della boscaglia e di restarvi finché non fossero passati, poi vi rinunciò. Erano troppo vicini e avevano con loro qualcuno che sapeva seguire una pista, qualcuno che li aveva già condotti al suo campo, nonostante l'oscurità. Fermarsi ora sarebbe stato un suicidio, anche se sapeva che non sarebbe riuscito a proseguire ancora per molto. Il dolore era come un'ondata che minacciava di sommergerlo; nella testa sentiva il battito di due grandi ali e ciò che aveva davanti agli occhi si frantumava in un'infinità di punti luminosi. Cadde in ginocchio e vomitò, quasi strozzandosi per il disgusto, e dopo qualche istante si accorse che le voci dei suoi inseguitori si erano fatte più vicine e più pressanti. Si rialzò a fatica, ma la luce della lanterna lo colse in pieno e un proiettile sferzò l'aria vicino al suo capo. Riprese a muoversi, barcollando e servendosi dei cespugli per ripararsi dalla luce. Improvvisamente sentì il suolo impennarsi bruscamenté sotto i suoi piedi. Inciampò di nuovo, ma lo slancio della caduta lo proiettò in avanti. Rotolò su se stesso e si rialzò. Era su un terreno piano e si accorse con sorpresa che stava calpestando della ghiaia. Dopo tre passi, urtò con il piede contro qualcosa e cadde ancora, colpendo con l'avambraccio qualcosa di metallico. Rimase a terra, ansimante e accecato dal dolore, finché udì i suoi inseguitori latrare alle sue spalle come una muta di cani. Il suono lo pungolò: tendendo le mani, annaspò in cerca di un appiglio per rialzarsi. Trovò la sbarra d'acciaio liscio e freddo contro cui era inciampato e la sentì vibrare come un essere vivente. Doveva essersi inerpicato su per il terrapieno della ferrovia ed era caduto
sulle rotaie. Si mise in ginocchio e in quell'istante udì un ansimare rapido e cupo. D'un tratto la massicciata fu illuminata da una luce oscillante che divenne sempre più intensa, quasi solare, finché la locomotiva che poco prima aveva lasciato lo scalo merci, giù nella valle, uscì dalla profonda trincea scavata al margine della parte più scoscesa del pendio per lanciarsi sopra la gola in cui scorreva il fiume. Il lungo fascio bianco lo investì come fosse un oggetto solido. Mark alzò il braccio per schermarsi gli occhi e si allontanò rotolando dai binari, acquattandosi sulla ghiaia dalla parte opposta a quella dei suoi inseguitori. Alla luce della lampada, Mark scorse una figura agile e robusta che saliva di corsa su per il terrapieno, tuffandosi tra le rotaie, poco prima che sopraggiungesse la locomotiva ruggente. Il bagliore gli impedì di vederne il viso, ma il suo modo di muoversi e di tenere le spalle aveva qualcosa di familiare. La macchina si precipitò rombando su di lui e, quando arrivò alla sua altezza, lo sfiorò con l'alito bruciante di uno sbuffo di vapore proveniente dai pistoni. Poi si allontanò, trascinandosi dietro la lunga fila dei carri merci. Mark si rialzò a fatica, appoggiandosi al piede sano, e si deterse i rivoli di sudore che gli offuscavano la vista, cercando di calcolare il momento giusto per saltare. Ci riuscì per miracolo. Aveva le mani scivolose per il sudore e, benché la salita avesse fatto perdere velocità al treno, si sentì quasi strappare le braccia dall'impatto. Lo sforzo a cui aveva sottoposto la spalla gli provocò una fitta di dolore al braccio. Rimase penzoloni lungo la fiancata del carro, con i piedi sospesi nel vuoto, annaspando con l'altra mano in cerca di qualcosa cui aggrapparsi. Finalmente lo trovò. Mentre agitava i piedi per sollevarsi, si sentì serrare la caviglia ferita in una morsa d'acciaio; qualcuno si era appeso a lui e lo tirava verso il basso, scostandolo contemporaneamente dalla fiancata. Urlando per il dolore, radunò tutte le forze che gli restavano per mantenere la presa. Il suo corpo prese a oscillare come un pendolo, mentre l'uomo che gli si era aggrappato, non riuscendo a strapparlo via, correva a fianco del treno come se stesse guidando una slitta trainata dai cani. Mark girò la testa, cercando di scorgere il viso dell'altro, poi gli sferrò un calcio con il piede libero, senza riuscire a colpirlo. In quell'istante il rumore delle ruote sui binari mutò. La locomotiva aveva imboccato il ponte d'acciaio che attraversava la stretta gola sul fiume. I montanti del ponte sbucarono all'improvviso dall'oscurità. Mark udì il sibilo mortale dei tralicci imbullonati che gli sfrecciavano accanto e nello stesso istante sentì che l'uomo che gli teneva la caviglia aveva mollato la presa. Si tenne stretto con la forza della disperazione al bordo del carro merci, mentre il treno oltrepassava sferragliando il ponte e si inerpicava su per
il pendio. Poi, superata la cresta, prese a correre sull'altipiano, acquistando rapidamente velocità. Mark si trascinò penosamente su per la scaletta di ferro, finché, raggiunta l'estremità, si lasciò cadere su un mucchio di sacchi di zucchero, ansimando e cercando di resistere al dolore che gli montava dentro come una gigantesca onda di marea. Si riscosse per il freddo. Il sudore di cui era impregnata la giacca si era fatto gelido nell'aria notturna e Mark si trascinò accanto alla parete metallica del carro in cerca di un riparo. Si frugò in tasca e constatò con sollievo che aveva ancora sia il taccuino sia il portafoglio. A un tratto si accorse di non essere solo e fu assalito dal panico. « Chi c'è? » gracchiò, rannicchiandosi istintivamente per proteggersi. « Non voglio farti del male, Nkosi », si affrettò a rispondere una voce d'uomo in zulu. Mark provò un immediato senso di sollievo. Contro la parete del carro, al riparo dal vento, era accoccolato un uomo, chiaramente spaventato dalla sua presenza quanto lui, prima, lo era stato della sua. « Non voglio farti del male, signore. Sono un pover'uomo che non ha i soldi per pagarsi il biglietto. Devo andare a Tekweni, vicino a Durban. Mio padre sta morendo. » « Pace », borbottò Mark nella stessa lingua. « Anch'io sono un pover'uomo. » Si trascinò accanto allo zulu, ma, nel muoversi, si torse la caviglia e sobbalzò per il dolore. « Hau! » esclamò l'uomo, sbirciando Mark con i grandi occhi in cui si rifletteva la luce della luna. « Sei ferito! » « E la gamba », disse Mark, cercando di sistemarla in una posizione più comoda. Lo zulu si protese in avanti e Mark sentì le sue mani che gli sfioravano piano la caviglia. « Sei senza scarpe? » domandò l'uomo, guardandogli sorpreso i piedi laceri e sanguinanti. « Ero inseguito da uomini malvagi. » « Ah », esclamò lo zulu, annuendo. Mark si avvide che era giovane. « Non credo che l'osso sia rotto, ma è una brutta ferita. » Slegò la piccola sacca che aveva accanto e ne estrasse un indumento, che cominciò a ridurre in strisce sottili. « No », protestò Mark in tono deciso. « Non rovinare i tuoi vestiti per me. » Sapeva bene che qualsiasi capo d'abbigliamento, per quanto consunto, rappresentava un tesoro per quella gente. « E' una vecchia camicia », rispose lo zulu con semplicità e cominciò ad avvolgere il tessuto con dita abili attorno alla caviglia. Al termine dell'operazione Mark provò un immediato senso di sollievo. « Ngi ya bone, ti ringrazio », gli disse. Fu percorso da un brivido violento. Lo sforzo e il riflusso della tensione lo artigliarono con la loro mano gelida; fu assalito dalla nausea e cominciò a tremare in tutto il corpo. Lo zulu si tolse la coperta dalle spalle e gliel'appoggiò ad-
dosso con delicatezza. « No, non posso privartene », protestò Mark. La coperta era impregnata dell'odore del fumo di un fuoco di legna e dell'afrore dello zulu. « Ne hai bisogno », disse questi in tono deciso. « Sei malato. » « Va bene », borbottò Mark, colto da un nuovo attacco di tremito. « Ma è abbastanza grande per due... » « Non si può », si schermì l'altro. « Su », disse Mark in tono brusco e, dopo un attimo di esitazione, lo zulu gli si accostò, prendendo un lembo della coperta. Rimasero così, a spalla a spalla, finché la stanchezza e il dolore non annebbiarono i sensi di Mark. Il pulsare della sua caviglia gonfia sembrava il battito di un tamburo. Lo zulu se ne stava zitto, tanto che Mark pensò che si fosse addormentato, ma quando il treno rallentò, dopo aver corso per due ore sull'altipiano, l'uomo gli sussurrò: « Siamo a Sakabula. Il treno si ferma per lasciarne passare un altro ». Era un luogo desolato, Mark se lo ricordava. Non c'erano case, ma solo un doppio raccordo e un cartello indicatore. Si sarebbe rimesso a dormicchiare se qualcosa non l'avesse allarmato, una specie di sensibilità al pericolo che gli era venuta negli anni passati in Francia. Scostò la coperta e si inginocchiò per sbirciare fuori. Le rotaie si flettevano in una curva e i binari mandavano un luccichio argenteo alla luce della lampada. Anche il cartello che indicava la fermata spiccava, bianco, nell'oscurità, ma c'era dell'altro. Parcheggiato sul sentiero accanto alla fermata vide un grosso camion con i fari ancora accesi. Nel cerchio di luce giallastra, Mark scorse le sagome di alcuni uomini in attesa. La paura gli scosse le viscere, stringendogli il petto in una morsa gelida. Non potevano venire da Ladyburg - non avrebbero fatto in tempo a precedere il treno -, ma forse erano stati avvertiti per telegrafo. « Devo andare », sbottò e, con le dita rigide, estrasse una sovrana dal borsellino che portava legato alla cintura e la ficcò in mano allo zulu. « Non c'è motivo... » esordì l'uomo. « Sta in pace », lo interruppe bruscamente Mark e, trascinandosi verso la fiancata del carro, la scavalcò e scese la scaletta d'acciaio. Sbuffando e cigolando, la locomotiva rallentò. Mark raccolse le forze e si lasciò cadere, cercando di scaricare gran parte del peso sulla gamba sana. Quando toccò terra, si lanciò in avanti e, raggomitolandosi su se stesso, rotolò giù per la massicciata. Rimase sdraiato nell'erba secca e si trascinò, puntando i gomiti, fino a un arbusto basso, a una cinquantina di metri dalla linea ferroviaria. Si insinuò lentamente sotto i rami spinosi e rimase bocconi, stringendo i denti per resistere al battito sordo della caviglia.
La locomotiva si fermò. Dal bagagliaio, che era proprio davanti al suo nascondiglio, vide scendere il capotreno con la lanterna in mano, mentre un gruppo di uomini, ugualmente muniti di lanterna, si avviò lungo il treno7 perlustrando i carri scoperti. Mark si avvide che erano tutti armati e udì le loro spiegazioni, fornite a voce alta al conducente e al fuochista che si erano sporti dalla cabina della locomotiva. « Cos'è successo? » « C'è a bordo un ricercato. » « Chi siete? » « Agenti speciali. » « Cos'ha fatto quel tipo? » « Ha rapinato una banca... » « Ha ucciso quattro uornini a Ladyburg... » « E' stato visto salire... » « State attenti, ragazzi, quel bastardo è un assassino... » Continuarono a discendere lungo il treno, parlando ad alta voce e apostrofandosi l'un l'altro come per darsi coraggio, finché Mark si ricordò dello zulu. Si era così concentrato sul pericolo incombente da dimenticarsi di avvertirlo. Avrebbe voluto gridare, dirgli di fuggire, ma non riuscì a farlo. Si consolò pensando che non poteva succedergli niente. Forse l'avrebbero maltrattato, buttandolo giù dal treno, ma non gli avrebbero fatto altro. L'uomo che cercavano era un bianco. In quel momento lo zulu schizzò fuori dallo spazio tra un vagone e l'altro, dove s'era insinuato calandosi sui respingenti. Nel vedere la sua sagoma scura che correva, qualcuno lanciò un grido d'avvertimento. Si udì uno sparo. Il proiettile si conficcò per terra, sollevando una nuvoletta di polvere. Cambiando bruscamente direzione, lo zulu si precipitò verso la distesa erbosa. Una mezza dozzina di spari, seguiti da altrettanti lampi simili a crudeli fiori rossi, lacerarono l'oscurità, ma lo zulu continuò nella sua corsa. Uno degli uomini appoggiò un ginocchio a terra. Il suo volto, alla luce delle lanterne, era pallido e aveva un'espressione avida. Prese la mira con cura. Quando sparò, la canna del fucile si impennò bruscamente verso l'alto Lo zulu si abbatté a terra senza un grido e gli uomini gli si lanciarono addosso pieni di eccitazione, raggruppandosi attorno al corpo come una muta di cani da caccia. « Cristo, è solo un negro! » Scoppiò una discussione animata che si protrasse per qualche minuto, poi in quattro lo sollevarono, prendendolo per le braccia e per le gambe, e lo trasportarono al camion. La testa riversa ciondolava a ogni passo del gruppetto e dalla bocca spalancata sgorgava un fiotto di sangue nero come il catrame. Con un fischio acuto e stridulo, il treno diretto a nord passò sfrecciando e sparì in direzione di Ladyburg. Gli uomini montarono sul camion. Si udì il rombo del moto-
re che veniva avviato e il grosso veicolo si mosse sobbalzando sulla pista accidentata, esplorando cielo e terra con i fari. Il treno merci, con un fischio afflitto, si rimise lentamente in movimento. Sgusciando dal suo nascondiglio, Mark lo insegui barcollando e riuscì a salirvi prima che acquistasse velocità. Strisciando sui sacchi di zucchero si sedette a ridosso della fiancata e scoprì che lo zulu aveva abbandonato la sua coperta. Se la avvolse attorno al corpo gelato, attanagliato dal senso di colpa per la morte dell'uomo che gli si era dimostrato amico, finché questo si trasformò in rabbia, una rabbia amara e corrosiva che gli fece compagnia tutta la notte, mentre il treno correva verso il sud. Fordsburg era uno squallido sobborgo di Johannesburg, distante circa seicento chilometri dalle colline di erba dorata dello Zululand e dalla vallata boscosa di Ladyburg. Era un quartiere operaio, composto di casupole di legno e lamiera zincata, ognuna con il suo misero giardinetto davanti. Alcuni di questi parevano sfidare l'ambiente circostante con uno sfoggio di margherite, canne e poinsezie rosso-acceso, mentre in altri il terreno incolto, su cui crescevano solo arbusti scuri e qualche pianta di cachi, rivelava l'indifferenza dei proprietari. Le strade strette e le villette assiepate erano sovrastate dalla mole maestosa costituita dagli scarti della miniera, montagne piatte di terra giallastra e venefica da cui era stato estratto l'oro. Il cianuro che veniva usato nel processo di estrazione rendeva quella terra sterile. Nessuna pianta vi cresceva e, nei giorni di vento, la polvere e il terriccio si depositavano sulle abitazioni annidate ai piedi di quelle colline. Gli scarichi dominavano il paesaggio, monumenti al paziente sforzo umano, simboli della sua eterna avidità. Le incastellature della miniera si levavano come ragnatele d'acciaio contro il cielo azzurro chiaro e privo di nuvole dell'altipiano. Le grandi ruote d'acciaio poste alla loro sommità giravano senza sosta, avanti e indietro, calando le gabbie cariche di uomini nel ventre della terra e facendole risalire con i bidoni colmi di roccia intrisa d'oro. Mark si avviò lentamente lungo una delle stradine polverose. Procedeva zoppicando leggermente con in mano una valigia di cartone contenente i pochi oggetti che aveva comprato per sostituire quelli rimasti sull'argine. Gli abiti che indossava rappresentavano un indubbio passo avanti rispetto agli indumenti informi donatigli dall'esercito al momento della smobilitazione. I pantaloni di flanella erano ben stirati, la giacca blu si adattava perfettamente alle spalle larghe e ai fianchi snelli e la camicia bianca aperta sul collo metteva in risalto la pelle abbronzata. Giunse alla villetta contrassegnata col numero cinquantacinque, identica a quelle che la fiancheggiavano e a quella che le stava di fronte. Aprì il cancello e percorse il breve vialetto lastricato, conscio del fatto che qualcuno lo stava spiando da
dietro le tendine della finestra. Quando bussò, tuttavia, dovette aspettare parecchi minuti prima che venisse qualcuno. Infine la porta si aprì, e Mark sbatté le palpebre alla vista della donna che era ferma sulla soglia. I capelli corti e scuri recavano le tracce recenti del pettine e l'abito che indossava doveva aver appena sostituito un abbigliamento più trasandato, perché la donna si stava ancora allacciando la cintura attorno alla vita sottile. Era un vestito azzurro chiaro, stampato a margherite gialle, che le dava un'aria giovane e allegra, nonostante dovesse avere almeno dieci anni più di lui. « Si? » gli chiese, temperando con un sorriso l'aspreza della domanda. « E' qui che abita Fergus MacDonald? » le domandò a sua volta, notando che aveva un viso piuttosto attraente, se non propriamente bello, con gli zigomi alti e gli occhi neri e intelligenti. « Sì, questa è casa sua », gli rispose. Parlava con un lieve accento straniero che suscitò la sua curiosità. « Sono sua moglie. » « Oh », esclamò Mark, sorpreso. Sapeva che Fergus era sposato, l'amico glielo aveva ripetuto spesso, ma non aveva mai pensato a sua moglie come a una donna in carne e ossa, e sicuramente non come a quella che gli stava di fronte. « Sono un vecchio amico di Fergus. Siamo stati compagni d'armi. » « Oh, capisco... » commentò lei in tono esitante. « Mi chiamo Anders. Mark Anders. » Immediatamente l'atteggiamento della donna mutò e il suo sorriso, da appena accennato, si fece aperto, illuminandole il viso. Proruppe in una piccola esclamazione di piacere. « Ma certo! Mark! » Lo prese per un braccio con un gesto impulsivo e lo trascinò all'interno. « Ho sentito parlare di te così spesso che mi sembra di conoscerti come un fratello. » Continuava a tenergli il braccio, guardandolo con occhi sorridenti. « Vieni, accomodati. Io sono Helena. » Fergus MacDonald era seduto a un capo del tavolo d'abete, su cui al posto della tovaglia, erano stati stesi dei fogli di giornale. Mentre mangiava, chino sul piatto, ascoltava corrucciato il racconto della fuga di Mark da Ladyburg. « Quei porci! Sono loro il nemico, Mark. Il nuovo nemico », disse, parlando con la bocca piena di patate e boerewors, una grossa salsiccia casereccia. « E' cominciata un'altra guerra, ragazzo, ma questa volta il nemico è peggiore dei maledetti Unni. » « Ancora un pò di birra, Mark », offrì Helena, protendendosi a riempirgli il bicchiere con la bottiglia scura da un litro. « Grazie. » Mark osservò la schiuma che saliva nel boccale, meditando sull'affermazione di Fergus. « Non riesco a capire. Non conosco quegli uomini e non so
nemmeno perché ce l'avessero con me. » « Sono i padroni, ragazzo. Quelli contro cui ci stiamo battendo. I ricchi, i proprietari delle miniere, i banchieri, tutti coloro che opprimono i lavoratori. » Mark mandò giù una lunga sorsata di birra ed Helena gli sorrise dall'altra parte del tavolo. « Fergus ha ragione. Dobbiamo distruggerli. » Poi prese la parola. Erano frasi strane per una donna, pronunciate con una luce di fanatismo negli occhi. Eppure c'era una grande forza di persuasione nella voce chiara e in quella sua cadenza inconsueta. Mark seguiva come affascinato le sue mani che si muovevano, sottolineando certe parole. Erano mani forti, dalle dita affusolate, con le unghie pulite e ben curate. L'indice e il medio della mano destra, tuttavia, erano macchiati di giallo nella parte interna. Mark se ne chiedeva la ragione, quando Helena, protendendosi sul tavolo, prese una sigaretta dal pacchetto che stava davanti a Fergus. Senza smettere di parlare, l'accese, proteggendo il fiammifero con le mani a coppa, e aspirò a fondo. Poi fece uscire il fumo dalla bocca, sporgendo lievemente le labbra. Mark la fissò stupito. Non aveva mai visto una donna fumare. « La storia delle rivoluzioni è scritta col sangue », proseguì lei, scuotendo energicamente la testa. « Basta pensare alla Francia o a quello che è successo in Russia. » I riccioli scuri e corti danzavano attorno alle guance pallide. Helena sporse di nuovo le labbra, tirando un'altra boccata, e Mark trovò il gesto, per lui mascolino, sconvolgente ed eccitante al tempo stesso. Sentì una morsa all'inguine e avvertì il turgore della sua carne che s'induriva al di là dei limiti, oltre ogni possibilità di controllo. Trattenne il respiro, turbato e imbarazzato, e si appoggiò allo schienale, ficcandosi una mano in tasca, certo che tutti avessero notato la sua reazione disdicevole. Invece Helena si protese e gli afferrò il polso stringendoglielo con forza. « Conosciamo il nostro nemico, Mark, e sappiamo cosa fare e come farlo. » Gli parve che quelle dita gli penetrassero nel braccio come ferri arroventati, e fu colto da un senso di vertigine. Si costrinse a risponderle, ma la voce gli uscì roca. « Sono forti, Helena. Forti e potenti... » « Ti sbagli, Mark. I lavoratori sono forti. I nemici sono deboli, perché così li ha resi la loro vanità. Non sospettano nulla e si voltolano come maiali nella falsa sicurezza dei loro soldi, senza capire che sono solo una minoranza impreparata. Non conoscono le loro debolezze, così come i lavoratori non sono ancora consapevoli della loro grande forza. Ma noi gliela riveleremo. » « Ben detto, ragazza », intervenne Fergus, inzuppando una crosta di pane nel sugo rimasto nel piatto e ficcandosela in bocca. « Ascoltala, Mark. Stiamo edificando un nuovo mondo. Un mondo più bello, più pulito. »
Ruttò rumorosamente e allontanò il piatto, appoggiando i gomiti sul tavolo. « Prima, però, dobbiamo distruggere questa società marcia, corrotta e ingiusta. Ci sarà da lottare e avremo bisogno di uomini coraggiosi, decisi a tutto. » Scoppiò in una risata aspra e gli batté una mano sulla spalla. « Torneremo a essere una coppia formidabile, ragazzo. Vedrai. » « Non abbiamo niente da perdere », proseguì Helena, con le guance arrossate. « Niente, se non le nostre catene... Ma abbiamo tutto da guadagnare. L'ha detto Carlo Marx, ed è una delle più grandi verità della storia. » « Helena, tu e Fergus siete... » esitò, come se non riuscisse a pronunciare la parola, « ...be', insomma, non sarete per caso dei bolscevichi? » « E' così che i padroni e i poliziotti, che sono loro servi, ci definiscono », gli rispose, scoppiando a ridere con aria di disprezzo. « Vorrebbero farci passare per criminali, tanto ci temono. E hanno ragione, non sanno ancora quanto. » « Non devi chiamarci bolscevichi, ragazzo. Siamo membri del partito comunista e crediamo nel comunismo internazionale. Io sono segretario della federazione locale e membro della commissione interna del sindacato minatori per i lavoratori delle caldaie. » « Hai mai letto Carlo Marx? » gli domandò Helena. « No », rispose Mark, scuotendo il capo. Nonostante fosse intontito e turbato, i suoi sensi eccitati lo tormentavano in modo quasi doloroso. Dunque Fergus era un bolscevico? Uno di quei mostri che gettavano bombe a tutto spiano? Ma no, era impossibile. Per lui era ancora il suo vecchio commilitone, l'amico fidato. « Ti presterò la mia copia. » « Suvvia, ragazza », la redarguì Fergus, ridacchiando e scuotendo il capo. « Stiamo andando un pò troppo in fretta per lui. Non vorrai spaventarlo, per caso. » Si chinò verso Mark e gli circondò le spalle con un braccio, attirandolo a sé con un gesto affettuoso. « Hai un lavoro, ragazzo? Un posto dove stare? » « No », rispose Mark, arrossendo. « E invece si », intervenne rapida Helena. « Ti ho già fatto il letto nell'altra stanza. Resterai con noi. » « Oh, non posso... » « E' già deciso », disse lei semplicemente. « Fermati, ragazzo », insisté Fergus, stringendolo forte. « Domani vedrò di trovarti un lavoro. Non sarà difficile; sei un uomo istruito. Sai leggere, scrivere e far di conto. So che hanno bisogno di un impiegato all'ufficio paghe e il capufficio è un compagno, un membro del partito. » « Ti pagherò la pigione. » « E' naturale », commentò Fergus con una risata, e gli riempì il bicchiere fino all'orlo. « Sono felice di rivederti, figliolo », disse, alzando il bicchiere. « Ecco di nuovo MacDonald e Anders... Avvertite i bastardi che stiamo arrivando! » Trangugiò
la birra, mentre il suo pomo d'Adamo andava su e giù a ogni sorso, poi si passò il dorso della mano sul labbro superiore per togliere la schiuma. Il cappellano del reggimento l'aveva definito il « peccato di Onan ». La truppa, invece, si serviva di espressioni assai più triviali quali « lucidare la canna » o « far visita alla signora Mano e alle sue cinque figlie ». Il cappellano l'aveva avvertito delle conseguenze terribili che un simile atto comportava: perdita della vista e dei capelli, tremito alla mano incriminata e, alla lunga, la demenza con conseguente ricovero in manicomio. Sdraiato sul lettino di ferro, Mark fissava senza vederla la carta di un rosa sbiadito a motivi floreali che tappezzava le pareti della cameretta. Nell'aria stagnava l'odore muffito dei locali rimasti chiusi a lungo. In un angolo c'era una bacinella di smalto appoggiata a un sostegno di ferro e dal soffitto pendeva una lampadina nuda. Tutt'attorno l'intonaco bianco era punteggiato di mosche e in quel preciso momento tre di queste erano posate pigramente sul filo elettrico, quasi istupidite. Mark le guardò, cercando di concentrare la sua attenzione su di esse, per distoglierla dalle ondate di tentazione che gli si gonfiavano dentro. Udì dei passi leggeri che si avvicinavano lungo il corridoio, poi qualcuno bussò alla sua porta. « Mark? » Si rizzò a sedere in fretta, mentre la coperta leggera gli scivolava di dosso, fermandosi attorno ai fianchi. « Posso entrare? » « Sì », mormorò. La porta si aprì ed Helena si avvicinò al letto. Indossava una camicia da notte rosa di tessuto lucido, tutta abbottonata sul davanti. A ogni suo passo la gonna si apriva, lasciando intravedere la carne morbida e bianca sopra il ginocchio. In una mano teneva un libriccino. « Ti ho detto che te l'avrei prestato », gli disse. « Leggilo, Mark », concluse, porgendoglielo. Era il Manifesto del partito comunista. Mark lo prese e cominciò a sfogliarlo, chinando il capo sulle pagine per dissimulare il turbamento che la presenza della donna gli aveva procurato. « Grazie, Helena. » Era la prima volta che la chiamava per nome. Si sentiva agitato da sentimenti contrastanti, da una parte voleva che se ne andasse, dall'altra sperava che rimanesse. La donna si chinò su di lui per guardare il libro aperto, e il corpetto della camicia si scostò leggermente. Mark alzò gli occhi e vide lo splendore serico di un seno che premeva contro il pizzo di cui era orlata la scollatura. Distolse rapidamente lo sguardo e tra loro cadde il silenzio, un silenzio intollerabile che lo spinse dopo un attimo ad alzare gli occhi di nuovo. « Helena », disse, ma si arrestò di colpo. Un sorriso segreto, tutto femminile, aleggiava sulle labbra dischiuse della don-
na che luccicavano, umide, alla luce cruda della lampadina. Nonostante fossero semichiusi, i suoi occhi scuri rilucevano di quella luce esaltata che Mark vi aveva già scorto prima e il petto, sotto la stoffa leggera, si sollevava e si abbassava rapidamente seguendo il ritmo del suo respiro silenzioso. Un rossore acceso si diffuse sulle guance abbronzate di Helena e lui si girò bruscamente su un fianco, raccogliendo le ginocchia al petto. La donna si raddrizzò lentamente, senza smettere di sorridere. « Buonanotte, Mark », disse, sfiorandogli la spalla con dita che accesero il fuoco dentro di lui. Poi si voltò e si avviò con calma verso la porta. Il tessuto scivoloso della camicia si mosse con lei, seguendo la curva soda delle natiche. « Ti lascio la luce accesa », disse, girandosi verso Mark. Ora il sorriso si era fatto esplicito. « Così potrai leggere. » L'ufficio paghe della Crown Deep Mines Ltd. era un locale lungo e austero dove altri cinque impiegati erano seduti davanti ad altrettante scrivanie, disposte in fila lungo una parete. Erano tutti uomini piuttosto attempati, e due di loro soffrivano di silicosi, la malattia tanto temuta dai minatori, causata dalla polvere di roccia sollevata dalle trivelle, che, accumulandosi nei polmoni, finiva per trasformarli in pietra e per trasformare il colpito in un invalido. L'impiego negli uffici della miniera costituiva una sorta di pensione. Gli altri erano tre individui grigi e amorfi, ingobbiti dalla lunga permanenza sopra i libri mastri. A Mark vennero affidati gli schedari del personale dalla « R » alla « Z ». Il lavoro era noioso e ripetitivo e presto riuscì a svolgerlo in modo così automatico da avere il tempo per fare i propri conti, calcolando anche le ore straordinarie e le vacanze e deducendo dal totale il prezzo della pigione e le quote per il sindacato. Era un lavoro stupido e ingrato, indegno di una mente giovane e dinamica, e il suo spirito, abituato alle vaste distese del veld, dove cielo e terra si confondevano, e al mondo apocalittico dei campi di battaglia della Francia, si sentiva soffocare negli stretti confini dell'ufficio. Durante i finesettimana, fuggiva dalla gabbia e percorreva chilometri e chilometri su una vecchia bicicletta, seguendo i sentieri polverosi che si snodavano alla base delle collinette rocciose su cui crescevano gigantesche piante di aloe, simili ai candelabri di una reggia, con i fiori che splendevano come piccoli falò scarlatti contro il cielo azzurro dell'altipiano. Cercava luoghi segreti e isolati, dove nascondersi dal resto del mondo, ma si scontrava di continuo con le barriere di filo spinato che ostacolavano il cammino: la prateria era stata trasformata in terreno coltivato. Pallidi vortici di polvere danzavano e turbinavano sopra la terra rossa dove, dopo la mietitura, era rimasta solo qualche stoppia secca di granturco, sparsa qua e là. I grandi branchi di animali selvatici che un tempo avevano popolato la prateria a perdita d'occhio erano spariti da un pez-
zo, sostituiti da mandrie stente di bovini scarni e di vari colori, che ruminavano meccanicamente. I pastorelli neri si fermavano a guardare Mark che pedalava, salutandolo con una solennità che si trasformava in piacere quando si sentivano ricambiare il saluto nella loro lingua. Di tanto in tanto, al suo passaggio, un piccolo duiker spaventato, con le corna appuntite e le orecchie erette, saltava fuori dalla sua tana e si allontanava a balzelloni nell'erba secca, oppure qualche antilope solitaria, scampata ai fucili, attraversava la pianura, sfuggente come una nuvola di fumo. Allora, il piacere delle presenze selvatiche restava a lungo dentro di lui, scaldandogli il cuore mentre tornava a casa nella notte buia e fredda. Aveva bisogno di questi momenti di pace e di solitudine per completare il processo di guarigione, non solo delle ferite che la Maxim gli aveva aperto nella schiena, ma di quelle più profonde che la conoscenza precoce degli orrori della guerra gli aveva scavato nell'animo. Aveva bisogno di quella tranquillità per riflettere sulla fitta serie di avvenimenti che riempivano le sue serate, in contrasto con la monotonia delle ore passate in ufficio. Il fanatismo di Fergus ed Helena MacDonald aveva un effetto trascinante su di lui. Fergus era il compagno con cui aveva diviso un'esperienza sconosciuta a molti dei loro connazionali: la durezza e l'atroce coinvolgimento della prima linea. Era anche molto più vecchio di lui e rappresentava ai suoi occhi quella figura paterna che nella vita gli era mancata. Era facile sospendere qualsiasi giudizio critico e lasciarsi andare a credere, smettere di pensare e limitarsi a seguire Fergus ovunque lo conducesse la sua amara inquietudine. C'erano impegno ed eccitazione nelle riunioni a cui partecipavano uomini come lui, uomini con un ideale, che si sentivano segnati dal destino. Gli incontri avvenivano in stanze chiuse a chiave e sorvegliate da guardie armate, e l'atmosfera fremeva della promessa di cose proibite. Il fumo delle sigarette si levava a spirale fino a riempire la stanza di quella spessa nebbia azzurrina che accompagnava il rito, simile a incenso. Dai volti lustri di sudore trapelava la pacata intensità del fanatismo. Harry Fisher, il segretario del partito, era un uomo alto ed energico con il corpo pesante, le spalle muscolose e le braccia villose del calderaio. Aveva gli occhi scuri e penetranti e una zazzera scomposta di capelli neri e duri, intessuti di fili d'argento. « Noi siamo il partito, la guardia pretoriana del proletariato. Le leggi e le considerazioni morali della borghesia non ci riguardano più. Il partito è l'unica nostra legge, la garanzia di un'esistenza più giusta e naturale. » Dopo la riunione strinse la mano di Mark con una forza pari a quella del suo sguardo, mentre Fergus li stava a guardare con orgoglio paterno. « Sei un soldato », gli disse, chinando più volte il capo. « Avremo ancora bisogno di te, compagno. Ci aspetta una dura lotta. »
La presenza inquietante dell'uomo rimase a lungo nei suoi pensieri, anche durante il viaggio di ritorno sul tram affollato. Erano seduti tutti e tre in uno spazio ristretto e la coscia di Helena premeva contro la sua. Parlandogli, lei si chinava fin quasi a sfiorargli la guancia con le labbra, e l'odore del suo alito, che sapeva di fumo e di liquirizia, si mescolava al profumo da quattro soldi e al sottile calore muschiato del suo corpo di donna. Ogni venerdi sera, alla Camera del Lavoro di Fordsburg, aveva luogo un'altra riunione, un'assemblea dominata da urla e schiamazzi, in cui centinaia di minatori bianchi, eccitati dal brandy a buon mercato, vociavano, inframmezzando alle parole grida inarticolate, pronti a menare le mani. Arringati dagli oratori, ruggivano come gli spettatori di una corrida; di tanto in tanto uno del pubblico si metteva in piedi sulla sedia, dove restava in equilibrio precario, gridando slogan confusi e privi di significato finché i suoi vicini lo tiravano giù tra grandi scoppi di risa. Uno degli oratori più popolari era Fergus MacDonald. Fergus ricorreva a un sacco di trucchi per eccitare i suoi ascoltatori, affondando il coltello là dove si annidavano le loro paure più segrete e rigirandolo fino a farli ululare di terrore e di ammirazione. « Sapete cos'hanno in mente i padroni? Cosa si accingono a fare? In primo luogo cercheranno di smembrare il vostro lavoro... » esordì quella sera. Un ruggito tempestoso scosse i vetri delle finestre, e Fergus, scostandosi dalla fronte i capelli biondi e radi, li guardò con un sogghignò amaro, finché lo strepito diminuì. « Sì, il lavoro che avete appreso in cinque lunghi anni verrà suddiviso fra tre persone, ognuna con un solo anno di preparazione alle spalle, che verranno pagate un decimo di quello che prendete voi. » Una salva di « no! » e Fergus riprese, impietoso. « Si! » gridò. « Si, sì, e ancora si. Ecco quello chè intendono fare i padroni. Ma non è tutto qui. Assumeranno i negri. Già, saranno loro a portarvi via il lavoro, in cambio di un salario da fame. » Gli uomini ripresero a urlare in preda a una rabbia frenetica, a una terribile collera che non sapeva contro chi sfogarsi. « Con che cosa sfamerete i vostri figli? Con le pannocchie? E le vostre mogli, per vestirsi, saranno costrette a indossare stracci! E questo che succederà, quando i negri si sostituiranno a voi! » « No! » muggì la folla. « No! » « Lavoratori della terra, unitevi! » gridò Fergus, incitandoli. « Unitevi e mantenete bianco il vostro Paese! » Gli applausi scrosciarono e i piedi si misero a battere ritmicamente sull'impiantito di legno. Per i dieci minuti seguenti, Fergus camminò avanti e indietro sul podio, con le mani strette sopra la testa nel gesto tipico del pugile che ha vinto un
incontro. Quando infine il clamore si acquietò, buttò indietro il capo e attaccò a cantare Bandiera rossa. L'intera sala scattò in piedi e, sull'attenti, si unì a lui. Tornarono a piedi, nella notte gelida, e i loro fiati fumanti si levarono come piume di struzzo alla luce delle lampade stradali. I due uomini camminavano ai lati di Helena che, vestita di un cappotto nero con il collo di pelo di coniglio e con in testa un berretto lavorato a maglia, sembrava ancora più fragile in mezzo a loro. Li teneva entrambi sottobraccio, in un gesto apparentemente imparziale, ma la pressione delle sue dita sul braccio di Mark e la coscia che di tanto in tanto andava a sfiorare la sua, quando cercava di mantenere il loro passo, gli comunicavano una strana agitazione. « Ehi, Fergus, quello che hai detto stasera è assurdo », osservò Mark, rompendo il silenzio, mentre svoltavano nella strada dov'era la loro casa. « Non puoi esortare i lavoratori all'unione e contemporaneamente escludere i negri. » Fergus sbottò in una risatina ammirata. « Sei un ragazzo intelligente, compagno Mark. » « Dicevo sul serio. Non è così che Harry Fisher... » « Certo che no », lo interruppe l'altro. « L'ho detto solo per provocarli. Abbiamo bisogno che si battano come leoni. Dobbiamo distruggere questa società, e non sarà un lavoro facile. » Fece una pausa e si voltò a guardare Mark al di sopra della testa della donna. « Ci servirà molta carne da cannone, ragazzo. » « Allora non credi a quello che hai detto? » domandò Mark. « No. Nel mondo nuovo non c'è posto per l'ingiustizia. Tutti gli uomini saranno uguali, non ci saranno né schiavi né padroni e lo Stato apparterrà soltanto ai lavoratori. » Mark cercò di respingere i dubbi che cominciavano ad assalirlo. « Continui a parlare di lotta, Fergus. A cosa ti riferisci? A una vera guerra? » « Certo. A una guerra combattuta con le armi, in cui verrà versato molto sangue. Dobbiamo prendere esempio dalla Russia. Dobbiamo bruciare i rifiuti, inzuppare la terra con il sangue dei padroni e allagarla con quello dei loro servi, la polizia e l'esercito, i cui ufficiali appartengono a una piccola borghesia corrotta e marcia. » « E con che cosa... con che cosa combatterete la vostra guerra? » Era stato lì lì per dire « combatteremo », ma la parola gli si era fermata in gola. Era un impegno che non si sentiva di prendere. Fergus ridacchiò di nuovo, strizzandogli l'occhio. « Acqua in bocca, ragazzo. Comunque, è ora che tu ne sappia un pò di più », disse con un cenno d'assenso del capo. « Domani sera provvederemo. » Quel sabato, alla Camera del Lavoro, un sindacato femmi-
nile aveva organizzato una vendita per raccogliere i fondi destinati a costruire la nuova chiesa. Là dove, la sera precedente, la folla impazzita e assetata di sangue aveva inneggiato alla rivoluzione, erano stati disposti dei lunghi tavoli montati su cavalletti, dietro i quali le donne badavano allo smercio dei loro prodotti: torte variamente guarnite, vassoi di pasticcini, vasetti di frutta conservata e di marmellata. Per un penny Mark comprò un pacchetto di pasticcini e cominciò a mangiarli in compagnia di Fergus, mentre gironzolavano per la sala, fermandosi a osservare i banchi dove erano ammonticchiati indumenti di seconda mano. A un tratto l'amico scovò in un mucchio un golf marrone e, dopo attenta riflessione, lo acquistò per mezza corona. Giunti in fondo alla sala, si arrestarono sotto il palco. Lanciandosi un'occhiata attorno, Fergus prese Mark per un braccio e lo guidò su per gli scalini. Si incamminarono a passo lento e, giunti a una porta tra le quinte, la varcarono per addentrarsi in un labirinto di uffici e magazzini che, di sabato, erano tutti deserti. Usando una chiave appesa alla catena del suo orologio, Fergus aprì una porticina di ferro che oltrepassarono, chinandosi. Oltre la porta c'era una rampa di scale, ripida e stretta, e, dall'odore di umido e di terra, Mark capì che stavano dirigendosi verso le cantine. In fondo alle scale c'era un'altra porta, a cui Fergus bussò. Dopo un istante, un occhio sospettoso li guardò attraverso lo spioncino. « Sono Fergus MacDonald, compagno. Sono un membro del comitato. » Si udì scorrere un chiavistello e la porta si aprì. Un uomo malvestito li guardò con aria arcigna e si scostò per lasciarli passare. Aveva la barba lunga e sembrava di pessimo umore. Su un tavolo appoggiato a una parete c'erano i resti di un pasto e un giornale spiegazzato. L'uomo rivolse un saluto a Fergus, precedendo Mark, attraversò la stanza fino a un'altra porta che dava sulle cantine. Qui il pavimento era in terra battuta, mentre le colonne che sostenevano gli archi erano in mattoni a vista, senz'ombra di intonaco. Si sentiva un forte odore di chiuso, misto a quello della terra e al puzzo dei topi. Un'unica lampadina illuminava di luce viva il centro del locale, lasciando nell'ombra le nicchie laterali. « Ecco qui, ragazzo, quello che useremo per combattere. » Le nicchie erano piene di casse, disposte ordinatamente una sull'altra fino ad altezza d'uomo, e coperte di pesante tela cerata, che doveva essere stata rubata allo scalo merci perché recava il marchio SAR & H. Fergus alzò il bordo di uno dei teli e rivolse a Mark quel suo ghigno tirato e privo di allegria. « Sono ancora avvolte nel grasso, ragazzo. » Le casse di legno erano stampigliate con la caratteristica punta di freccia e con le lettere W.D., le iniziali
del Ministero della Guerra inglese. Più in basso portavano l'iscrizione: LEE-ENFIELD MODELLO IV (CNVD). 6 PEZZI. Mark rimase a bocca aperta. « Buon Dio, Fergus, ce ne sono a centinaia! » « L'hai detto, ragazzo. E questo non è che uno degli arsenali. Ce ne sono molti altri. » Sotto un altro telo, che si estendeva fino in fondo alla cantina, erano nascoste le casse di munizioni. « Ce n'è abbastanza per buttare all'aria il mondo », disse Fergus, stringendogli il braccio e spingendolo avanti, a completare il giro. Erano arrivati ai fucili, intere rastrelliere di fucili pronti all'uso, il cui acciaio brunito e lubrificato mandava bagliori metallici alla luce. Fergus ne scelse uno e lo porse a Mark. « Questo ha il tuo nome scritto sopra. » Mark prese l'arma e la sentì terribilmente familiare. « E' l'unica che abbiamo, ma nell'attimo stesso in cui l'ho vista ho pensato a te. Quando arriverà il momento, sarai tu a usarla. » La carabina P. 14 aveva quell'armonia di proporzioni che la rendeva perfetta da impugnare, ma in quel momento gli rivoltò lo stomaco. La restituì a Fergus senza una parola e l'altro la rimise a posto con una strizzatina d'occhio. Come un presentatore da cabaret, Fergus aveva tenuto il meglio per ultimo. Con un ampio gesto del braccio tolse la tela che ricopriva l'arma pesante, la cui canna spessa e ondulata, fornita di una camicia ad acqua, se ne stava accovacciata sul treppiede d'acciaio. Le mitragliatrici Maxim, nelle loro varie forme, avevano il dubbio pregio di aver ucciso più esseri umani di qualsiasi altra arma ideata dal talento distruttivo dell'uomo. L'esemplare che aveva davanti, una Vickers-Maxim IV B, aveva accanto alcune scatole, ognuna delle quali conteneva un nastro con 250 colpi. L'arma era in grado di sparare 750 colpi al minuto a una velocità di otto chilometri al secondo. « Che ne dici, compagno? Volevi sapere con quali armi avremmo combattuto. Non ti sembra che bastino per cominciare? » Nel silenzio Mark udì un suono di risa infantili, debole ma distinto, provenire dalla sala sopra di loro. Mark era seduto da solo sulla cima più alta dei kopjes che si stendevano verso ovest, una dorsale nera di roccia che sporgeva dalla terra arida e piatta come il dorso crestato di un coccodrillo immerso nell'acqua ferma di un lago. Il pensiero dell'arsenale nascosto non gli aveva dato tregua tutta la notte, impedendogli di addormentarsi, tanto che ora gli sembrava di avere della sabbia negli occhi e si sentiva la pelle del viso secca e tesa. La mancanza di sonno l'aveva lasciato con uno strano senso di sospensione, quasi di distacco dalla realtà. I suoi pensieri
avevano perso consistenza e lui se ne stava seduto al sole a sbattere le palpebre come un gufo, scrutandosi nella mente come se questa appartenesse a un altro. Pensava con crescente sbigottimento alla facilità con cui si era lasciato trascinare lungo la strada che l'aveva condotto fino all'orlo dell'abisso. Aveva dovuto riprendere la P. 14 tra le mani e udire quel riso di bambini, su nella sala, per aprire gli occhi. Era stato educato nel rispetto della legge, nella convinzione che il vivere sociale significasse ordine e senso della responsabilità. I suoi pochi anni di adulto li aveva passati a combattere per questa convinzione. E ora, all'improvviso, aveva deviato per apatia fino alle linee del nemico, che l'aveva già induso nelle sue legioni di fuorilegge, avvertendolo di tenersi pronto a cominciare l'opera di distruzione. Ora il problema non era più limitato a frasi senza senso, gridate durante qualche assemblea di lavoratori ubriachi; aveva visto le armi! Il futuro che si prefigurava sarebbe stato crudele e spietato. Aveva visto Harry Fisher e aveva riconosciuto le forze che lo guidavano. Conosceva Fergus MacDonald e sapeva che era capace di uccidere, l'aveva fatto spesso e non avrebbe avuto la minima esitazione a rifarlo. Mark gemette forte, inorridito da ciò che aveva fatto di sé. Lui, che aveva vissuto l'esperienza della guerra; lui, che aveva indossato l'uniforme del re ed era stato premiato per il suo coraggio. Sentì il calore vischioso e nauseabondo della vergogna che gli montava in gola e, per armarsi contro la possibilità di ricadute future, cercò di analizzare le ragioni che l'avevano spinto a imboccare quella strada. Nello smarrimento che l'aveva assalito quando si era ritrovato senza più casa né famiglia, Fergus gli era parso l'unico rifugio. Era il vecchio compagno di tanti rischi, a cui affidarsi senza riserve, la figura paterna da cui farsi guidare senza porsi domande sulla meta. E poi c'era Helena, c'era l'attrazione che aveva esercitato su di lui e che costituiva una forza in grado di rendere schiavo un altro essere umano. Era stato totalmente soggiogato da lei e sapeva di esserlo ancora. Helena aveva risvegliato la sua sessualità troppo a lungo repressa. Sarebbe bastato un soffio a demolire la diga che egli aveva eretto e, una volta crollata, ciò che stava al di là sarebbe uscito con una violenza dirompente e impossibile da controllare: una prospettiva che lo terrorizzava quasi quanto l'altra. Cercò di scindere la donna dalla sua femminilità, di vedere la persona al di là della ragnatela immobilizzante che gli aveva tessuto attorno ai sensi, e ci riuscì nell'attimo stesso in cui si rese conto che era un tipo di donna che non ammirava e che mai e poi mai avrebbe scelto come madre dei suoi figli. Finalmente era pronto a prendere la decisione di andarsene, sicuro di perseguire il suo sogno fino in fondo.
Sarebbe partito da Fordsburg senza indugi, abbandonando Fergus MacDonald e i suoi cupi progetti di distruzione. A quella prospettiva, il suo morale si risollevò immediatamente. Non avrebbe sentito la sua mancanza, né quella dello squallido ufficio dove pagava quotidianamente il suo scotto di noia e di insoddisfazione. Il suo spirito giovanile si levò alto come una fiamma viva, pregustando ciò che lo aspettava. Avrebbe lasciato Fordsburg con il primo treno, allontanandosi per sempre anche da Helena. A questo pensiero la fiamma vacillò ed egli perse tutta la sua baldanza. Provò una fitta dolorosa all'inguine e sentì aprirsi le prime crepe nella diga della sua passione. Era buio quando lasciò la bicicletta nella baracca costruita nel giardino. Dalla casa provenivano delle voci allegre, intercalate da scoppi di risa, e dalle tendine della cucina filtrava la luce. Quando entrò nella stanza, vide che c'erano quattro uomini seduti attorno al tavolo. Helena gli andò incontro e l'abbracciò di slancio, ridendo. Poi lo prese per mano e lo condusse al tavolo. « Benvenuto, compagno », gli disse Harry Fisher, alzando su di lui gli occhi inquietanti, con la zazzera nera che gli spioveva sulla fronte. « Arrivi in tempo per festeggiare. » « Helena, da' un bicchiere al ragazzo », ordinò Fergus, sogghignando, e lei gli lasciò la mano, affrettandosi a prendere un bicchiere nella credenza e a riempirglielo di birra scura. Harry Fisher leva il suo in un brindisi. « Compagni, bevo al nuovo membro del comitato centrale, Fergus MacDonald. » « Non è meraviglioso, Mark? » domandò Helena, stringendogli la mano. « E' l'uomo che ci vuole », ruggì Harry Fisher. « Il momento fatidico si avvicina. Abbiamo bisogno di gente con la sua grinta. » Gli altri annuirono in segno d'assenso e si portarono il bicchiere alle labbra. Gli altri due membri del gruppo facevano parte della federazione locale del partito e Mark li aveva già conosciuti alle riunioni. « Siediti, ragazzo », lo invitò Fergus, facendogli posto al tavolo. Mark gli si strinse accanto e l'attenzione di tutti si accentrò immediatamente su di lui. « Un brindisi anche a te, giovanotto », continuò Harry Fisher, appoggiandogli sulla spalla la mano possente e pelosa. « Abbiamo deciso di accoglierti tra di noi. Avrai la tua tessera... » « Cosa ne dici, ragazzo? » gli domandò Fergus con una strizzata d'occhio, mollandogli una gomitata tra le costole. « Di solito ci vogliono due anni, se non di più. Cerchiamo di tenere lontano la marmaglia, ma tu sei fortunato. Ormai hai degli amici al comitato centrale. » Mark aprì la bocca per parlare e rifiutare l'onore che gli era stato accordato. Nessuno gli aveva chiesto niente. A quanto pareva, il fatto di essere un protetto di Fergus lo metteva automaticamente dalla loro parte. Mark stava per chiarire la sua
posizione e per comunicare la decisione che aveva preso quel giorno, ma la sua particolare sensibilità al pericolo lo mise in guardia dal farlo. Aveva visto le armi e questo significava che, se non era un amico, era un nemico a conoscenza di un segreto fatale. Quindi non potevano correre il rischio di lasciarlo circolare liberamente; l'avrebbero sistemato in modo da impedirgli di rivelare ad altri ciò che sapeva. Ormai non aveva più dubbi sugli uomini che gli stavano davanti. Per fortuna in quell'attimo la conversazione prese un'altra piega. « Compagno MacDonald, devo informarti che ti è stata affidata una missione estremamente urgente e importante. Puoi lasciare il lavoro per due settimane? » « Ho la mamma invalida », si schermì Fergus, ridacchiando. « Dimmi quale sarà il mio compito e quando dovrò partire. » « Diciamo mercoledì. Così io avrò tempo di trasmetterti le consegne e tu di sistemare le tue cose », rispose Harry Fisher. Buttò giù un sorso di birra e la schiuma gli si fermò sul labbro superiore. « Hai l'incarico di recarti a visitare tutte le federazioni locali, Città del Capo, Bloemfontein, Port Elizabeth, per coordinarne l'attività. » Con una punta di vergogna Mark riconobbe che la notizia gli aveva procurato um notevole senso di sollievo. Non ci sarebbe stato alcun confronto diretto con Fergus. Avrebbe approfittato della sua partenza per andarsene indisturbato. Poi alzò lo sguardo e trasalì, notando gli occhi di Helena fissi su di lui. La donna lo guardava con l'espressione intenta e vorace di un leopardo che scruta la preda dal suo nascondiglio, un attimo prima di balzarle addosso. Quando i loro occhi si incontrarono, lei gli rivolse ancora quel suo strano sorriso, sfiorandosi le labbra dischiuse con la punta della lingua rosea. Mark sentì il cuore che gli martellava nel petto fino a fargli male e abbassò in fretta lo sguardo sul bicchiere. La prospettiva di restare da solo con Helena lo riempiva di timore e di desiderio. Mark accompagnò Fergus alla stazione e gli portò la valigia logora e malconcia. Si avviarono lungo la scorciatoia che tagliava per i campi, calpestando la brina spessa che scricchiolava come zucchero sotto le scarpe e brillava ai primi raggi del sole. Alla stazione attesero con altri quattro membri del partito che arrivasse il postale diretto a sud. Quando infine comparve, lanciando rauchi sbuffi di vapore nell'aria gelida, aveva trentacinque minuti di ritardo. « E' quasi in anticipo rispetto al solito », commentò Fergus con una risata e, dopo aver salutato gli amici con grandi strette di mano e pacche sonore sulle spalle, salì la scaletta di ferro ed entrò nel vagone. Mark gli passò la valigia attraverso il finestrino aperto. « Prenditi cura di Helena, ragazzo, e bada anche a te, mi raccomando. »
Mark rimase a osservare il treno che correva verso sud, rimpicciolendo sempre di più con l'aumentare della distanza, finché il suo rumore si ridusse a un sospiro e poi svanì nel nulla. Allora si voltò e cominciò a risalire la collina verso la miniera, mentre le sirene attaccavano il loro lamentoso richiamo che, rifrangendosi contro le montagne gialle di detriti, convocava alla quotidiana fatica gli uomini che sopraggiungevano in lunghe file disordinate. Mark si unì a loro, uno tra mille, identico agli altri, sia nell'aspetto sia negli obiettivi. Di nuovo provò un fremito di scontento e la consapevolezza ancora vaga che la vita non era tutta lì, che ben altri erano i compiti in cui impegnare la propria giovanile esuberanza. Guardò con curioso distacco gli uomini che si affrettavano insieme a lui verso i cancelli di ferro, obbedendo al richiamo imperioso della sirena. Tutti avevano un'aria assorta e distaccata, dietro la quale - Mark ne era certo - si celavano gli stessi timori e le stesse insoddisfazioni che l'avevano assalito poco prima. Era impossibile che non sentissero la futilità e la monotonia del loro lavoro quotidiano, almeno i giovani. Agli altri, quelli più vecchi e stanchi, non restava forse altro che il rimpianto e lo struggimento per i lunghi giorni assolati trascorsi in un vano travaglio, destinato ad arricchire qualcun altro. Non potevano non affliggersi del fatto che, una volta spariti dalla faccia della terra, non avrebbero lasciato dietro di sé alcuna impronta, alcuna traccia della loro esistenza, se non qualche figliolo che avrebbe ripercorso da capo il loro stesso cammino. Si fermò ai cancelli, scostandosi per lasciar passare quel fiume di umanità, e con crescente eccitazione sentì nascere dentro di sé la certezza che da qualche parte lo attendeva un compito importante, qualcosa di speciale a cui dedicarsi, e che non doveva far altro che trovarlo. Si affrettò a entrare, provando un improvviso senso di gratitudine per Fergus MacDonald che l'aveva messo di fronte alla realtà, costringendolo ad affrontare se stesso e a riscuotersi dall'apatia in cui si era calato da quando aveva lasciato Ladyburg. « E' in ritardo, Anders », lo ammonì il sorvegliante con aria severa, subito imitato dai suoi subalterni che, tutti in fila, al zarono gli occhi a guardarlo con la stessa espressione disapprovante. « Cos'ha da dire? » « Sono venuto solo a riordinare la mia scrivania », rispose Mark, sorridendo, ancora in preda all'eccitazione che l'aveva colto poco prima. « Ho deciso di licenziarmi. » Lo sguardo degli altri passò dalla riprovazione a uno stupore attonito. Era il tramonto quando Mark aprì il cancello posteriore della villetta e percorse il breve viottolo che conduceva alla cucina. Aveva girovagato tutta la giornata, spinto dalla nuova
corrente di energia e dai pensieri eccitanti che gli fluivano dentro, dimenticandosi persino di mangiare. Ora, però, la luce accesa e il debole aroma di cibo che proveniva dalla casa gli avevano messo appetito. La cucina era deserta, ma udì Helena chiamarlo dall'altra stanza. « Sei tu, Mark? » Prima che potesse risponderle, la donna comparve sulla soglia e si appoggiò con il fianco allo stipite. « Credevo che non saresti tornato. » Indossava l'abito azzurro, il migliore che avesse, quello che teneva per le grandi occasioni, e Mark notò che, per la prima volta da quando la conosceva, si era truccata. Aveva messo del fard sulle guance e si era data il rossetto; la sua carnagione, generalmente smorta, ne risultava come illuminata. I capelli appena lavati brillavano alla luce e una molletta di tartaruga ne tratteneva una parte, sopra l'orecchio. Mark la fissò. Le calze di seta le mettevano in risalto le gambe, e aveva ai piedi un paio di scarpine leggere. « Perché mi guardi così? » gli domandò. « Perché sei... » esordì Mark con voce roca. Poi si interruppe per schiarirsi la gola. « Sei molto bella stasera. » « Grazie, signore », gli rispose Helena con una risatina di gola e facendo una piroetta. La gonna leggera si allargò, scoprendo appena le gambe. « Tutto merito del vestito », si schermì. Poi gli si accostò e lo prese per un braccio. Il tocco della sua mano gli procurò un turbamento delizioso, simile a quello che si prova tuffandosi in un laghetto di montagna. « Siediti, Mark », gli disse, guidandolo alla sedia disposta a capotavola. « Ti porto una birra. » Andò alla ghiacciaia e, mentre apriva la bottiglia e gli riempiva il bicchiere, continuò a chiacchierare. « Ho comprato un'oca dal macellaio... Ti piace l'oca arrosto? » « L'adoro », rispose Mark, sentendosi l'acquolina in bocca. « Come contorno, ho preparato patate arrosto e torta di zucca. » « Roba da vendere l'anima al diavolo. » Helena scoppiò in una risata felice per la spontaneità della risposta, che contrastava con l'abituale riservatezza di Mark. Uno strano senso di eccitazione lo circondava come un'aureola, quella sera, e lei vi vide un riflesso della propria. Tornò con i due bicchieri e si sedette appoggiando un fianco sul tavolo. « A cosa brindiamo? » « Alla libertà », disse lui, senza esitazioni. « E a un felice domani. » « D'accordo », commentò Helena, e si chinò verso di lui per toccargli il bicchiere, finché il corpetto del vestito non gli fu proprio davanti agli occhi. « Perché rimandare a domani?... Perché non cominciare a essere felici ora, in questo preciso istante? » Mark scoppiò a ridere. « Giusto. Un brindisi a una notte felice, seguita da un giorno altrettanto felice. »
« Mark! » esclamò Helena, atteggiando la bocca a una smorfia di disapprovazione, e lui arrossì di colpo, mettendosi a ridere, confuso. « Oh, no, non intendevo... E stata una frase infelice. Io... » « Sono convinta che dici così a tutte le ragazze », osservò Helena, alzandosi e dirigendosi verso la cucina, per toglierlo dall'imbarazzo, timorosa di poter rovinare l'atmosfera della serata. « Se vuoi mangiare, è pronto », gli annunciò. Si sedette di fronte a lui, cercando di prevenire i suoi desideri, spalmando le fette di pane di burro giallo e fresco, badando che il suo bicchiere fosse sempre pieno. « E tu non mangi? » « Non ho fame. » « E buono. Non sai cosa perdi. » « E' meglio di quello che ti cucinavano le altre ragazze? » gli domandò, scherzando, e Mark abbassò lo sguardo sul piatto, dandosi da fare con la forchetta. « Non ci sono mai state altre ragazze. » « Oh, Mark, non spererai che ci creda! Un bel ragazzo come te! Chissà quante ne hai combinate in Francia. » « Avevo altro da fare, e poi... » « Poi cosa? » insisté lei. Mark la guardò, restò in silenzio ancora per un attimo, poi cominciò a parlare. Si confidò con facilità, incoraggiato dalla baldanza che si sentiva dentro e rinfrancato dall'ottima cena. Le parlò come non aveva mai parlato a nessun altro essere umano e lei gli rispose con una franchezza degna di un uomo. « Oh, Mark, che stupidaggini. Solo le ragazze di strada sono malate, non le altre. » « Oh, lo so. Non ho mai pensato che lo fossero. Ma quelle sono le uniche con cui un uomo può... » S'interruppe, incapace di proseguire. « E le altre restano incinte », concluse debolmente. Helena scoppiò a ridere e cominciò a battere le mani, divertita. « Oh, Mark, caro. Non è così facile, sai! Sono sposata da nove anni e, come vedi, non ho avuto figli. » « Be' », rispose Mark, esitante. « Nel tuo caso è diverso. Non mi riferivo a te. Alludevo a un altro tipo di ragazze. » « Devo prenderlo come un insulto o come un complimento? » lo schernì. Già prima aveva capito che era vergine. Molti segni tradivano la sua innocenza: una sorta di trasparenza che lo illuminava dall'interno, l'attraente goffaggine che assumeva in presenza delle donne, e quella particolare timidezza che sarebbe svanita fin troppo presto, ma che ora accresceva la sua eccitazione, stimolandola in modo quasi perverso. In quel momento capì perché ci fossero uomini disposti a pagare grosse somme di denaro per violare l'innocenza. Gli toccò l'avambraccio, godendo della morbida compattezza dei giovani muscoli, incapace di tenere le mani lontano da lui. « Oh, voleva essere un complimento », si affrettò a rispon-
dere Mark. « E io ti piaccio? » « Oh, sì. Più di qualsiasi altra ragazza che ho conosciuto. » « Vedi, Mark », continuò Helena, avvicinandosi a lui e abbassando la voce finché fu solo un rauco sospiro. « Io non sono malata e non rimarrò nemmeno incinta... mai. » Alzò una mano per sfiorargli la guancia. « Sei un bell'uomo, Mark. Mi sei piaciuto fin da quando ti ho visto risalire il vialetto con l'aria di un cucciolo smarrito. » Si alzò lentamente e andò alla porta che dava sul retro, poi girò la chiave nella serratura con un gesto deciso e spense la luce. Nella stanza si fece buio, rotto solo dal fascio di luce proveniente dal corridoio. « Vieni », lo invitò, prendendolo per mano e facendolo alzare. « Andiamo a letto. » Giunta sulla porta della camera dove dormiva Mark, si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò lievemente su una guancia, poi, senza dire altro, si allontanò silenziosa. Mark la seguì con gli occhi, incerto. Da una parte avrebbe voluto chiamarla, correrle dietro; dall'altra provava quasi un senso di sollievo all'idea che se ne fosse andata e che la lunga corsa nell'ignoto si fosse, almeno per il momento, interrotta. Arrivata alla porta della sua stanza, Helena entrò senza guardarsi indietro. Agitato da sentimenti contrastanti, si girò a propria volta ed entrò in camera. Si spogliò con lentezza, ora dichiaratamente deluso, e, mentre disponeva ordinatamente gli abiti, tese l'orecchio per cogliere i fievoli rumori provocati dai movimenti della donna, oltre la parete sottile. Infine si sdraiò sul lettino di ferro, dove rimase come irrigidito, finché non sentì l'interruttore della luce scattare nell'altra stanza. Allora prese il libro dal comodino, sperando che l'arido testo politico lo aiutasse a scaricare le emozioni tanto da permettergli di addormentarsi. Poi udì la maniglia della porta che girava piano e la vide entrare. Indossava la camicia da notte di lucido satin color pesca, si era pettinata e aveva ritoccato il trucco sulle guance e sulle labbra. Helena richiuse la porta con delicatezza e gli si avvicinò, facendo oscillare lentamente i fianchi sotto la stoffa morbida. Nessuno dei due parlò. « L'hai letto, Mark? » gli chiese piano, immobile accanto al letto. « Non tutto », rispose lui, appoggiando il libro aperto sulle lenzuola. « Be', non è questo il momento di finirlo », commentò lei e, con un gesto deciso, si sbottonò la camicia da notte. Poi se la fece scivolare dalle spalle e la lasciò cadere sullo schienale della sedia. Rimase nuda e Mark sussultò. Era così liscia. Non sapeva perché, ma ne fu sorpreso e si soffermò a guardarla mentre la
donna restava in piedi, accanto a lui. La sua pelle aveva la consistenza cremosa della porcellana antica e una levigatezza che attirava la luce, quasi riflettendola. Mark sentì il proprio corpo che fremeva nella piacevole tensione dell'eccitamento e cercò debolmente di opporvisi. Si sforzò di pensare a Fergus e alla fiducia che aveva riposto in lui. Prenditi cura di Helena, ragazzo, e bada anche a te, mi raccomando. Il suo seno, fin troppo grande per il corpo sottile, pendeva come un frutto maturo, liscio e tondo; i capezzoli larghi e di un rosa brunito, sembravano due chicchi d'uva. Quando gli si accostò, le sue mammelle oscillarono, pesanti. Mark notò che, attorno all'areola sporgente, cresceva qualche pelo scuro e arricciato. Ciuffi di peli lucidi e neri sbucavano anche da sotto le ascelle, e un fitto cespuglio spiccava alla base del ventre cremoso e leggermente arrotondato. Quei peli lo eccitarono, così scuri e animati sullo sfondo chiaro della pelle, tanto che rimase a fissarli senza riuscire a distogliere lo sguardo. Le considerazioni sull'onore e sulla fiducia si fecero sempre più sfumate e sentì che la diga stava per crollare. Quando lei allungò una mano per sfiorargli una spalla, il corpo di Mark si contrasse come se avesse ricevuto una frustata. « Toccami, Mark », sussurrò. Lui protese una mano, esitante, come se fosse in trance, e toccò con un dito l'avorio liscio e caldo del fianco, continuando a fissarla negli occhi. « Sì, Mark. Così. » Gli prese il polso e lentamente lo guidò verso l'alto, cosicché la punta delle sue dita passò con la leggerezza di una piuma sulla pelle, fino al costato. « Qui, Mark... e qui », gli disse. Al suo tocco i grandi capezzoli scuri si contrassero, cambiando forma, facendosi duri e sporgenti, più gonfi e più scuri. Mark non avrebbe mai creduto che la carne di una donna reagisse in modo altrettanto rapido ed evidente come quella di un uomo. Sentì la diga che cedeva del tutto, e la piena che si riversava attraverso la breccia, invadendogli il corpo e la mente e spazzando ogni sua difesa, troppo violenta e troppo a lungo trattenuta perché potesse opporvi resistenza. Con un grido strozzato afferrò Helena alla vita e l'attirò forte a sé, premendo il viso nella calda morbidezza del suo ventre nudo. « Oh, Mark! » gridò lei con la voce roca che tremava di piacere e di trionfo. Poi si chinò su di lui, infilando le dita tra i suoi capelli scuri. I giorni scorrevano, insieme chiari e sfocati, e l'universo si era ristretto a una villetta situata in una viuzza sordida. Solo i loro corpi scandivano il passaggio del tempo. Dormivano e si svegliavano per amarsi finché, vinti dalla stanchezza, si addormentavano ancora per risvegliarsi famelici di cibo e d'amore. All'inizio Mark si scagliava su di lei con la violenza irrifles-
siva di un toro, tanto da spaventare la donna, che non si era aspettata una forza simile da quel corpo snello e aggraziato. Lei lo assecondava, cercando a poco a poco di controllarne l'impeto finché cominciò a guidarlo con dolcezza. Molto tempo dopo, ripensando a quei cinque giorni incredibili, Mark si sarebbe reso conto della fortuna che gli era capitata. Molti giovani iniziano il loro cammino nei territori misteriosi dell'amore fisico senza il sostegno di una guida e, molto spesso, in compagnia di un partner che, come loro, compie il suo primo viaggio esitante nell'ignoto. « Sai che in Sudamerica esiste una tribù dove ogni donna sposata prende sotto la sua ala protettrice un giovane guerriero per insegnargli quello che stiamo facendo noi? » gli disse, mentre gli stava inginocchiata accanto durante uno degli intervalli di quiete tra una tempesta e l'altra. « Che peccato », le rispose Mark con un sorriso pigro. « Mi ero illuso che fossimo stati i primi a pensarci. » Prese il pacchetto di Needlepoint dal comodino e ne accese due. Helena aspirò una boccata con il viso atteggiato a un'espressione di orgoglio affettuoso. Era suo il merito del mutamento repentino e radicale avvenuto in lui negli ultimi giorni. Una nuova sicurezza, una saldezza di propositi ancora in boccio si erano sostituite alla timidezza e alla reticenza. Anche il suo modo di parlare era cambiato e si era fatto calmo e autorevole. Stava finalmente diventando un uomo, e lei aveva contribuito a renderlo tale. Mark aveva pensato che ogni nuovo piacere fosse l'ultimo, ma lei gli aveva sempre dimostrato il contrario. C'erano cose che, raccontate da altri, l'avrebbero forse disgustato, mentre, fatte da lei, lo lasciavano stupito e pieno di riverente ammirazione. Lei gli insegnò a rispettare il corpo in tutte le sue manifestazioni, ad amarlo in tutti i modi possibili, e Mark scoprì che anche i confini della sua mente si erano allargati. Per cinque giorni non uscirono di casa; poi, il sesto giorno, un postino in divisa arrivò in bicicletta a consegnare una lettera, e Mark, che andò a ritirarla alla porta, riconobbe immediatamente la calligrafia indecifrabile di Fergus MacDonald. I sensi di colpa lo assalirono con la violenza di una pugnalata e il sogno si infranse come un fragile vaso di cristallo. Helena, seduta al tavolo di cucina ricoperto di carta di giornale, con la camicia da notte ormai sudicia sbottonata fino alla vita, lesse la lettera ad alta voce, prendendosi gioco di Fergus e dei piccoli avvenimenti che descriveva; gli applausi ricevuti durante una riunione ristretta, i messaggi di lealtà e di impegno che avrebbe dovuto trasmettere al comitato centrale, le promesse di intervento quando i tempi fossero stati maturi. Continuò a schernirlo, alzando gli occhi al cielo e ridacchiando, quando Fergus passò a parlare di Mark, chiedendole come stava e raccomandandole di occuparsi di lui. Aspirò un'ultima boccata dal mozzicone di sigaretta che stava fumando e poi lo buttò nella tazzina di caffè ormai vuota,
dove si spense con un sibilo. Bastò questo semplice gesto per provocare in Mark un innaturale senso di ripugnanza. Gli parve di vederla per la prima volta. Il volto che gli era sembrato giovane gli fece ora l'effetto di un quadro scrostato. Notò il ventaglio di rughettine agli angoli degli occhi, le occhiaie violacee, la piega insolente delle labbra e il tono astioso della voce. All'improvviso si avvide dello squallore della stanza, in cui stagnava un odore di cibo e di piatti sporchi, della camicia da notte sudicia e spiegazzata, del seno grosso e pendulo. Si alzò e uscì. « Mark, dove vai? » gli gridò dietro Helena. « A fare due passi », le rispose. Si lavò nella vasca di smalto corrosa dalla ruggine, fregandosi forte e usando acqua più calda possibile cosicché, quando si asciugò, il suo corpo era diventato di un rosa acceso. Passò circa mezz'ora alla biglietteria della stazione a leggere gli orari affissi sulle pareti. Rhodesia. Aveva letto che avevano bisogno di uomini nelle nuove miniere di rame. Lassù la natura ancora incontaminata prometteva orizzonti sconfinati e animali selvatici, laghi, montagne e grandi spazi aperti: un nuovo Eden. Si avvicinò a uno sportello e l'impiegato lo guardò, aspettando che parlasse. « Un biglietto di seconda per Durban. Solo andata », disse Mark, sorprendendo se stesso. Tornava nel Natal, a Ladyburg, dove aveva lasciato molte cose in sospeso e molte domande senza risposta. Oltre a un nemico sconosciuto da rintracciare e affrontare. Mentre pagava il biglietto con le sovrane del vecchio, lo rivide molto nitidamente sulla veranda di Andersland, con i grandi baffi a punta e il cappello consunto calato sugli occhi chiari e tranquilli. Mark capì allora che il periodo appena trascorso non era stato che una tregua durante la quale si era concesso il tempo di guarire e di raccogliere il coraggio necessario al compito che lo attendeva. Tornò a casa per prendere le sue poche cose. Non ci avrebbe messo molto e ormai lo divorava la fretta. Mentre buttava nella valigia di cartone qualche paio di mutande e di calze pulite, percepì la presenza di Helena alle sue spalle e si voltò di scatto. Si era lavata e vestita, ed era ferma sulla soglia a osservarlo. « Stai partendo », disse. Era un'affermazione, non una domanda. Mark fu colpito dal contrasto tra l'espressione troppo calma degli occhi e il senso di solitudine che trapelava dalla sua voce. « Sì », le rispose semplicemente, voltandosi di nuovo a chiudere la valigia. « Vengo con te. » « Non è possibile. » « E io cosa farò? » « Mi spiace, Helena. Mi spiace davvero. »
« Ma non capisci, io ti amo... » La sua voce si levò in un gemito disperato. « Ti amo, Mark. Non puoi andartene. » E, così dicendo, allargò le braccia per sbarrare la porta. « Ti prego, Helena. E' stata una follia. Sapevamo entrambi di non avere un futuro. Non sciupare tutto, ora. Lasciami andare. » « Nò », esclamò, coprendosi le orecchie con le mani. « Non parlare così. Ti amo, ti amo. » Cercò di scostarla dalla porta con dolcezza. « Devo andare. Il mio treno parte tra poco. » Helena lo assalì all'improvviso, con la ferocia di un leopardo ferito, cogliendolo del tutto impreparato. Le sue unghie gli scavarono dei solchi sanguinanti sulle guance, mancando di poco gli occhi. « Bastardo! Porco egoista », strillò. « Sei anche tu come gli altri. » Cercò di colpirlo di nuovo, ma lui riuscì a fermarla, afferrandola per i polsi. « Siete tutti uguali. Prendete, senza dare niente in cambio... » L'afferrò e, nonostante si dibattesse con furia selvaggia, la scaraventò sul letto sfatto. La donna affondò il volto nel cuscino svuotata di ogni rabbia. I suoi singhiozzi lo inseguirono lungo il corridoio, fino in giardino. Il porto di Durban distava più di cinquecento chilometri. Il treno superò ansimando la grande barriera montuosa del Drakensberg, scavandosi la via attraverso i passi. Poi si tuffò gioiosamente oltre la scarpata e discese rapido e leggero nel bacino verde del litorale i cui pendii, da ripidi, digradavano verso il mare fino a sfociare in quella serra semitropicale costituita dalla costa, con le sue spiagge candide come neve e le acque blu, scaldate dalla corrente del Mozambico. Durante il viaggio Mark ebbe molto tempo per riflettere. Era tormentato dai rimorsi. I pianti e le accuse di Helena gli echeggiavano nella mente e, ogni volta che pensava a Fergus, i sensi di colpa tornavano a ingombrargli lo stomaco come fredde pietre grigie. Poi, quando il treno oltrepassò la città di Pietermaritzburg per iniziare l'ultima parte del suo viaggio, Mark accantonò ogni rammarico e cominciò a pensare al futuro. In un primo momento aveva deciso di tornare direttamente « Ladvburg, ma ora capiva che sarebbe stata una follia. Là stava in agguato il suo nemico, un nemico potente, ricco, pericoloso, che aveva al suo servizio un gruppo di uomini armati e pronti a uccidere. Mark pensò a tutte le azioni in cui lui e Fergus si erano trovati coinvolti, in Francia. La prima mossa era sempre stata quella di identificare il nemico, individuarne la posizione e scoprirne le caratteristiche, valutandone l'abilità. Agiva in base a uno schema rigido o lo adattava volta per volta alla situazione? Era sufficientemente distratto da lasciare che i suoi uomini corressero qualche rischio oppure pensava che ogni ri-
schio equivalesse a un suicidio? « Dobbiamo cercare di immedesimarci nel modo di pensare di quel bastardo... » era la prima preoccupazione di Fergus, quella che precedeva qualsiasi piano d'azione. « Devo scoprire chi è », si disse Mark. « Devo capire qual è il suo modo di ragionare. » C'era un'unica cosa chiara: cento sterline erano un prezzo troppo alto per una persona insignificante come lui. L'unica cosa che poteva renderlo degno di attenzione era il suo rapporto con il vecchio e con Andersland. Alla fattoria era stato visto sia dal babu indiano sia dal sorvegliante bianco. Poi se n'era andato in città, dove aveva cominciato a far domande e a ficcare il naso negli archivi. Era stato a questo punto che avevano iniziato a dargli la caccia . La terra era la chiave dell'enigma, e lui aveva il nome di tutti gli uomini coinvolti nella faccenda. Mark tirò giù la valigia dalla reticella e, tenendola sulle gambe, frugò all'interno e ne estrasse il taccuino. Eccoli, i nomi: Dirk Courteney, Ronald Pye, Dennis Petersen, Piet Greyling e suo figlio Cornelius. Doveva scoprire tutto ciò che poteva su di loro e, come al fronte, individuarne la posizione e valutarne le caratteristiche e l'abilità, ma soprattutto doveva riuscire a capire chi di loro fosse il cecchino. Nel frattempo doveva tenersi al riparo, evitando la zona di pericolo. E la zona di pericolo era Ladyburg. Avrebbe stabilito la sua base a Durban: era abbastanza grande perché la sua presenza non venisse notata, senza contare che avrebbe potuto trovare tutte le fonti di informazioni di cui aveva bisogno: dalle biblioteche agli uffici governativi, alle sedi dei giornali. Cominciò a stenderne un elenco sul retro del taccuino, ma ben presto dovette rammaricarsi di non poter rimettere piede a Ladyburg. I documenti locali venivano conservati nelle singole province e non ne esisteva copia nella capitale. Improvvisamente gli venne un'idea. « Accidenti, come diavolo si chiama? » si domandò. Chiuse gli occhi e rivide il volto luminoso e cordiale della ragazza che lavorava nell'Ufficio del Registro di Ladyburg. Mark, un nome forte e romantico... Gli pareva quasi di udire la sua voce. Finalmente, quando il treno stava quasi per fermarsi, riacquistò la memoria. « Marion! » esclamò, e lo riportò sul taccuino. Scese dal treno e con la valigia in mano, si fece largo tra la folla dei viaggiatori e di quelli che erano venuti ad accoglierli. Poi si mise in cammino in cerca di un alloggio. Investì un penny nel Natal Mercury e, consultando i piccoli annunci, scovò una pensione in Point-Road, vicino al porto. La stanza, piccola e buia, era impregnata dell'odore di quei giganteschi scarafaggi che infestavano la città, sbucando ogni sera dalle fogne in orde di un nero lucente, ma il prezzo dell'affitto era solo di una ghinea alla settimana, compreso l'uso dei servizi, situati nel cortiletto interno.
Quella sera scrisse una lettera alla ragazza. Cara Marion, forse non ti ricordi di me. Sono Mark Anders, l'omonimo di Marco Antonio. Ti ho pensato spesso da quando sono stato costretto a lasciare Ladyburg all'improvviso, senza avere il tempo di rivederti... La conoscenza delle donne acquisita di recente lo indusse a non accennare alle ricerche che intendeva chiederle di svolgere. Avrebbe aspettato a parlargliene nella seconda lettera. Indirizzò la busta semplicemente alla « Signorina Marion, Ufficio del Registro, Ladyburg ». La mattina seguente, Mark iniziò il suo lavoro dalla biblioteca comunale. Risalì Smith Street fino all'imponente edificio che ospitava gli uffici del Comune. Sembrava un palazzo ed era affiancato, ai due lati, dalla costruzione ugualmente maestosa del Royal Hotel e dalla cattedrale. Davanti, si apriva una piazza sistemata a giardino, dove i fiori primaverili creavano vivaci effetti di colore. Mentre si avvicinava al banco della bibliotecaria, ebbe un'ispirazione. « Sto facendo delle ricerche per un libro che intendo scrivere... » L'espressione severa della signora dai capelli grigi che presiedeva alle sale silenziose, tappezzate di libri fino al soffitto, si addolcì all'istante. I patiti dei libri amano i loro simili, e Mark ricevette in consegna la chiave di una delle sale di lettura e gli arretrati di tutti i giornali pubblicati nel Natal, fin dall'epoca della prima occupazione inglese. Mark, che era un lettore vorace, provò la tentazione immediata di perdersi nei racconti affascinanti di cui i titoli costituivano una drammatica promessa. La storia, infatti, era stata una delle sue materie preferite sia alla scuola di Ladyburg sia all'università. Tuttavia, vincendo la curiosità, si rivolse immediatamente ai cassetti che contenevano le copie del Ladyburg Lantern and Recorder. Le più vecchie erano già ingiallite dal tempo. Le sfogliò con cura, per evitare di danneggiarle. Incontrò per la prima volta il nome dei Courteney in un grande titolo scuro, su un numero che risaliva al 1879. I FUCILIERI A CAVALLO DI LADYBURG MASSACRATI A ISANDHLWANA. IL COLONNELLO WAITE COURTENEY E' CADUTO CON TUTTI SUOI UOMINI. LA FOLLIA DEGLI IMPI ASSETATI DI SANGUE HA RAGGIUNTO IL MASSIMO. Il nome citato doveva corrispondere a quello del fondatore della dinastia. A partire da quella volta, il nome compariva in quasi ogni numero. C'erano stati molti Courteney, e tutti avevano vissuto nel distretto di Ladyburg, ma bisognava arriva-
re al 1900 per trovare la prima menzione di Dirk Courteney. LADYBURG DA' IL BENVENUTO A UNO DEI SUOI FIGLI PREDILETTI. L EROE DELLA GUERRA ANGLO-BOERA TORNA A CASA. IL COLONNELLO SEAN COURTENEY ACQUISTA IL RANCH DI LION KOP. Dopo un assenza di molti anni, ha fatto ritorno uno dei nostri figli più amati. Ci sono pochi di noi che non sono al corrente delle gesta del Colonnello Sean Courteney, e tutti ricorderanno il ruolo importante che ha avuto nell'avviare la prospera industria mineraria del Witwatersrand... Seguiva un lungo racconto elogiativo delle imprese dell'uomo che terminava così: Il Colonnello Courteney ha acquistato il ranch di Lion Kop dalla Ladyburg Farmers Bank per farne la sua casa. Il terreno verrà piantato a bosco. Il maggiore Courteney, che ha perso recentemente la moglie, è accompagnato dal figlioletto decenne, Dirk. L'articolo lo sconvolse. Così Dirk Courteney era il figlio del suo generale, dell'uomo grande e barbuto, con il naso aquilino, che aveva incontrato in una notte di neve in Francia. L'uomo che aveva rispettato e amato all'istante, la cui forza virile e la cui presenza, unite alla fama di cui godeva, gli avevano ispirato un senso di venerazione quasi religiosa. La sua prima reazione fu quella di chiedersi se anche il generale fosse in qualche modo coinvolto nell'aggressione che aveva subìto sulla scarpata, e il pensiero lo turbò a tal punto che dovette uscire. Giunto al lungomare fiancheggiato da palme, si sedette su una panchina prospiciente le acque calme della baia, chiuse dal grande promontorio simile a una balena addormentata. Rimase a osservare il movimento delle navi, meditando sull'intricata ragnatela che aveva il suo centro a Ladyburg, dove il ragno nascosto tesseva la sua rete mortale. Sapeva che le indagini sarebbero andate per le lunghe. L'esame dei giornali richiedeva tempo e ci sarebbero voluti molti giorni prima di poter sperare in una risposta di Marion. Più tardi, nella sua stanzetta, contò le sovrane che gli restavano e capì che, lì in città, non gli sarebbero durate a lungo. Doveva cercarsi un lavoro. Il direttore del negozio aveva lo stomaco dilatato e l'abbigliamento vistoso, tipici di chi faceva il suo mestiere. Mark rispose alle sue domande con estrema educazione e con un'allegria simulata dietro cui si celava la disperazione. Da cinque giorni batteva la città nella vana ricerca di un'occupazione.
« Sono tempi duri », era l'immancabile giustificazione che gli propinavano all'inizio di ogni colloquio. « Cerchiamo una persona che abbia già una certa esperienza. » Mark aveva dovuto interrompere le sue visite in biblioteca. Ora se ne stava seduto sull'orlo della sedia, in attesa di salutare e andarsene, ma, nonostante il colloquio fosse terminato l'altro non la smetteva più di parlare. Era passato a trattare ii problema della provvigione, sottolineando il fatto che era così abbondante che sarebbe bastata per due. « Non so se mi sono spiegato », concluse con una strizzatina d'occhio, infilando una sigaretta nel bocchino. « Sì, certamente », rispose Mark con energici cenni d'assenso, benché non avesse la minima idea di quello che l'altro aveva inteso dire, ma desideroso solo di compiacerlo. « Naturalmente, le starò dietro di persona. Sempre che si riesca ad arrivare a un accordo... » « Certo », convenne Mark, e solo in quel momento capì che l'altro gli stava chiedendo una parte della sua provvigione. Avrebbe ottenuto il posto. « Per me va bene, signore », continuò. Si sarebbe messo a saltare per la gioia. « Sarei felice di poter fare a metà con lei. » « Bene. » Era più di quanto si fosse aspettato. « Ci vediamo lunedì, alle nove in punto », gli annunciò, sorridendogli con aria raggiante. Mark gli strinse la mano con gratitudine e stava per uscire dal gabbiotto che fungeva da ufficio, quando l'altro gli disse: « Ha un abito decente, Anders? » « Certo », si affrettò a mentirgli. « Se lo metta. » Al mercato indiano trovò un sarto indù che, per trentadue scellini, gli cucì da un giorno all'altro un abito a tre pezzi grigio. « Porta bene i vestiti, signore. Sembra un principe », gli disse il sarto, accompagnandolo davanti allo specchio sudicio del piccolo laboratorio e mettendosi alle sue spalle per trattenere con dita abili l'eccesso di abbondanza della giacca, così da dare all'abito un taglio più alla moda. « Sarà un'ottima pubblicità per le mie umili dita. » « Saprà guidare, naturalmente », osservò il direttore, che si chiamava Dicky Lancome, mentre attraversavano il salone diretti alla scintillante Cadillac. « Certo », affermò Mark. « E' logico », commentò l'altro. « Altrimenti non avrebbe accettato un lavoro come questo. » « Già », si limitò a rispondere lui. « Salti su, allora », lo invitò Dicky. « Mi porti a fare un giro. » Mark pensò affannosamente a come cavarsi d'impaccio e finalmente ebbe un'idea. « Preferirei che mi mostrasse le particolarità di questo tipo di macchina. Non ho mai guidato una
Cadillac. » Il che corrispondeva a verità, se si eccettuava il piccolo particolare che non solo non aveva mai guidato una Cadillac, ma nessun altro veicolo a motore. « Benissimo », convenne Dicky. Percorsero la Marine Parade e, mentre Dicky rivolgeva fischi ammirati e cenni di saluto alle ragazze che passavano, Mark tenne gli occhi fissi sul volante e sui pedali per non perdere uno solo dei suoi gesti. Tornati al negozio sulla West Street, Dicky spulciò distrattamente un pacchetto di moduli. « Se conclude una vendita, riempia uno di questi. E stia attento a farsi pagare. » Poi estrasse l'orologio. « Dio mio, si è fatto tardi. Ho un appuntamento con un cliente molto importante. Pranzeremo insieme », annunciò, trascurando il fatto che erano da poco passate le undici. Poi, con voce più bassa, proseguì: « E' una bionda. Una pupa fantastica! » E, con un'ultima strizzatina d'occhio, concluse: « Ci vediamo ». « Come faccio per i prezzi e altre informazioni del genere? » gli gridò dietro Mark in tono disperato. « C'è un taccuino sulla mia scrivania. E' tutto scritto li, tutto. Arrivederci. » Mark stava girando attorno alla Cadillac con aria incerta, assorto nella consultazione del libretto. Ripeteva a bassa voce le istruzioni per il funzionamento del veicolo, cercando di identificarne le varie parti raffrontandole con i disegni che aveva in mano, quando sentì un colpetto sul braccio. « Mi scusi, giovanotto. E' lei il commesso? » Davanti a lui c'era una coppia anziana. L'uomo indossava un abito scuro di taglio perfetto, con un garofano all'occhiello, e aveva un bastone da passeggio. « Stiamo pensando di comprare quest'automobile, ma prima vorremmo fare un giro di prova », disse la signora elegante che l'accompagnava, rivolgendogli un sorriso materno da sotto la veletta che scendeva a coprirle il volto. I capelli che si intravedevano sotto il cappellino ornato di fiori artificiali avevano riflessi argentei ed erano pettinati con cura. Mark si sentì travolgere da ondate di panico. Si guardò attorno disperatamente in cerca di una via d'uscita, ma l'uomo stava già aiutando la moglie a prender posto sul sedile anteriore della Cadillac. Evitando di guardarli, Mark sparì dietro la macchina per dare un'ultima ripassata alle istruzioni. « Premere il pedale della frizione con il piede sinistro, inserire la marcia spostando la leva in alto a sinistra, quindi premere con decisione il pedale dell'acceleratore, lasciando andare quello della frizione », mormorò. Poi si ficcò in tasca il libretto e raggiunse il posto di guida. L'uomo era seduto dietro, al centro del sedile, con le mani appoggiate al pomo del bastone e l'espressione grave e intenta di un giudice. « Quanti anni ha, giovanotto? » domandò a Mark la moglie, sorridendogli gentilmente.
« Venti, signora. Quasi ventuno. » Premette il pulsante dell'accensione e il motore cominciò a borbottare. « Pensa un pò », commentò la donna, alzando la voce per farsi sentire. « La stessa età di mio figlio. » Mark le rivolse un ghigno smorto e sofferente, mentre ripassava mentalmente le istruzioni. « ...premere con decisione il pedale dell'acceleratore. » Il rumore del motore mutò in un mugghio assordante, e Mark si aggrappò al volante, stringendolo fino a farsi diventar bianche le nocche delle dita. « Vive con i suoi genitori? » gli chiese la passeggera. « No, signora », rispose Mark, lasciando andare la frizione. Le ruote posteriori lanciarono uno strido simile a quello di uno stallone ferito e una nuvola azzurrina si levò da dietro. L'automobile parve impennarsi, poi balzò con un guizzo selvaggio verso la porta che dava sulla strada, lasciando due lunghe strisce nere sul pavimento lucido del salone. Mark lottò col volante finché la Cadillac, dopo una serie di sbandate, riusì a imboccare la porta e si infilò in strada, inclinandosi di fianco e spostandosi lateralmente come un granchio. Un tiro di cavalli collegato a una carrozza si scostò bruscamente per togliersi dalla traiettoria della vettura rombante e il passeggero alle spalle di Mark annaspò per riprendere l'equilibrio, cercando di ricuperare il bastone che gli era sfuggito di mano. « Visto che ripresa? » urlò Mark, per superare il ruggito del motore. « Straordinaria », convenne il passeggero, con gli occhi che gli schizzavano dalle orbite. La moglie si sistemò il cappellino fiorito che le era scivolato sugli occhi e scosse il capo con aria sconsolata. « Ah, i giovani! Appena ve ne andate di casa, cominciate a fare la fame. Si vede che vive da solo, è magro come... » Mark attraversò l'incrocio tra la Smith e la Aliwal a tutta velocità quando, giunto al centro, un camion stracarico gli tagliò la strada. Sterzò immediatamente, e la Cadillac, compiendo una svolta ad angolo retto, imboccò la Aliwal su due ruote. « ...un chiodo », continuò la signora, tenendosi saldamente aggrappata alla maniglia con una mano e al cappellino con l'altra. « Deve venirci a trovare una domenica. Così finalmente mangerà un pasto decente. » « Grazie infinite, signora. E molto gentile. » Quando Mark fermò finalmente la Cadillac davanti al negozio, le mani gli tremavano con tanta violenza che dovette fare due tentativi per riuscire a spegnere il motore. Sentì che la giacca dell'abito nuovo era impregnata di sudore e scoprì di non avere nemmeno la forza di smontare dall'automobile. « Incredibile », commentò l'anziano signore. « Giovanotto, lei ci sa proprio fare. Mi sembra di essere tornato giovane. » « Mi sono molto divertita », convenne la moglie. « La prendiamo », decise l'uomo d'impulso. Mark non riu-
sciva a credere alle proprie orecchie. Aveva concluso la sua prima vendita. « Non sarebbe bello se questo giovanotto venisse a farci da autista? Guida in modo eccezionale! » « Oh, no, signora », rispose Mark, prossimo a esser colto da un'altra ondata di panico. « Non voglio lasciare il mio lavoro. Grazie lo stesso. » « Bel colpo, vecchio mio », commentò Dicky Lancome, piegando le due banconote da cinque sterline che costituivano la sua parte della provvigione di Mark. « Hai un grande futuro davanti a te. » « Oh, non esageriamo », si schermì Mark. « Un grande futuro, ti dico », ripeté l'altro con aria convinta. « C'è un'unica cosa che non va, vecchio mio... Il vestito. » Simulò un piccolo brivido. « Vorrei presentarti al mio sarto, ora che puoi permettertelo. Non intendo offenderti, ma, così conciato, sembri diretto a un ballo in maschera. » Quella sera, per la prima volta da una settimana, Mark tornò in biblioteca. La bibliotecaria lo accolse con l'espressione severa di una maestra che ha colto in fallo un alunno. « Credevo di non vederla più. Ho pensato che avesse rinunciato. » « Oh, no. Niente affatto », la rassicurò Mark. Lei si addolcì e gli porse di nuovo la chiave della sala di lettura. Mark si era fatto una specie di albero genealogico dei Courteney per aver chiara davanti agli occhi la loro situazione familiare. Sean aveva un fratello che, al pari di lui, al termine della guerra boera, era stato congedato con il grado di colonnello, ricevendo la Victoria Cross per meriti di guerra. Niente da dire, era proprio una famiglia di eroi. Il colonnello Garrick Courteney era diventato un famoso autore di libri di storia militare e di biografie di soldati famosi, da Con Roberts a Pretoria a Buller, un grande combattente, per continuare con La battaglia della Somme e Kitchener. Una vita. Tutte le sue opere erano state recensite in termini altamente elogiativi sul Lantern. L'autore aveva un unico figlio, Michael Courteney. Prima del 1914 questi era stato citato spesso, sia per la sua attività professionale - era stato direttore delle Segherie Courteney, nel distretto di Ladyburg - sia per le sue prestazioni atletiche ed equestri. Poi più niente, fino al 1917. In un numero di quell'annata compariva il seguente articolo. EROE DI LADYBURG DECORATO. Il capitano Michael Courteney, figlio del colonnello Garrick Curteney, è stato insignito dalla Distinguished Flying Cross per le gesta compiute in Francia con la 21' Squadriglia aerea della R.F.C. Il capitano Courteney, che ha il merito di aver abbattuto cinque aerei tedeschi, è stato definito dal suo comandante « un ufficiale coraggioso, dotato di grande senso del dovere, e ottimo pilota ». Un eroe, figlio di un
eroe. Qualche mese dopo, in prima pagina, compariva un altro articolo su di lui, incorniciato da una listerella nera. E' con grande rincrescimento che annunciamo la morte del capitano MICHAEL COURTENEY, avvenuta nel corso di un'azione. Si pensa che il capitano Courteney sia stato abbattuto oltre le linee nemiche dal famoso barone von Richthofen in persona, di cui nessuno ignora le terribili gesta. Il Ladyburg Lantern esprime le sue più vive e sincere condoglianze ai familiari « Una rosa strappata ancora in boccio. » Le attività di questo ramo della famiglia, i suoi trionfi e le sue tragedie, erano state puntualmente riportate con dovizia di particolari, e lo stesso valeva per la famiglia di Sean Courteney, in tutto il periodo compreso tra il volgere del secolo e il maggio del 1910. Il matrimonio tra Sean e la signora Ruth Friedman, avvenuto nel 1903, era stato descritto senza trascurare alcun dettaglio, dall'abito della sposa alle decorazioni sulla torta nuziale. « Tra le damigelle spiccava la signorina Storm Friedman, quattro anni, che indossava una copia esatta dell'abito materno. Il signorino Dirk Courteney acquista una splendida sorellina », così scriveva l'articolista. Ancora una volta compariva il nome che lo interessava, e Mark lo notò perché non l'avrebbe più ritrovato fino al maggio del 1910. Il 12 maggio 1910 il Ladyburg Lantern and Recorder annunciava in prima pagina: Il Ladyburg Lantern ha il piacere di informare i suoi lettori che il suo intero capitale azionario è stato acquistato dal signor Dirk Courteney, tornato recentemente a Ladyburg dopo un'assenza di qualche anno. Il signor Courteney ci ha detto di aver trascorso questo periodo viaggiando, allo scopo di fare nuove esperienze e di aumentare il suo capitale. Evidentemente non ha perso il suo tempo perché, appena tornato, è diventato socio maggioritario della Ladyburg Farmers Bank, pagando la sua quota un milione di sterline d'argento in contanti. La popolazione di Ladyburg non potrà che ricavare enormi vantaggi dalla ricchezza e dall'esperienza di questo suo concittadino. « Intendo occuparmi personalmente della gestione delle mie società », ha dichiarato Courteney, rispondendo alla domanda su quali fossero i suoi progetti futuri. « Le mie parole d'ordine sono: progresso, sviluppo e prosperità per tutti. » Il Ladyburg Lantern saluta Dirk Courteney e riconosce in lui uno dei figli benemeriti di questa bella comunità. Dopo questo esordio, non c'era copia del Lantern che non contenesse qualche articolo elogiativo nei confronti del suo proprietario mentre le notizie riguardanti la famiglia venivano liquidate solo in qualche trafiletto nelle pagine interne.
Per sapere qualcosa di Sean Courteney, Mark dovette rivolgersi agli altri giornali del Natal. Cominciò dal Natal Mercury. I FUCILIERI A CAVALLO DI LADYBURG PARTONO PER LA FRANCIA. ANCORA UNA VOLTA IL GENERALE COURTENEY PORTA I SUOI UOMINI IN GUERRA. Mark sussultò. Rivide la nebbia leggera che velava la baia e le lunghe file di uomini in uniforme che salivano lungo le passerelle, portando lo zaino e il fucile. Ricordò le canzoni, le grida delle donne e il lancio di stelle filanti e di petali che, ricadendo, li avvolgevano in una nuvola multicolore. Risentì il lamento delle sirene da nebbia che il promontorio amplificava in un'eco afflitta. Tutto era ancora vivo nella sua memoria. Anche lui avrebbe presto seguito quegli uomini, dichiarando un'età superiore a un sottufficiale di reclutamento che non andava troppo per il sottile. FUCILIERI DI LADYBURG DECIMATI DURANTE UN ATTACCO A DELVILLE WOOD. IL GENERALE COURTENEY DICHIARA: « SONO ORGOGLIOSO DI LORO ». Mentre esaminava la lunga lista dei caduti, fermandosi tutte le volte che riconosceva un nome, Mark sentì un improvviso fiotto di lacrime bruciargli le palpebre. I ricordi lo riportavano indietro, a quel mare di fango, sangue e sofferenza. Fu ricondotto alla realtà da una mano che gli toccava una spalla. Si riscosse, raddrizzandosi a sedere, quasi stupito di trovarsi lì. « Sono le nove passate, dobbiamo chiudere », gli disse piano la giovane bibliotecaria di turno. « Mi spiace, ma deve andare. » Poi, scrutandolo da vicino, gli domandò: « E' sicuro di star bene? Ha l'aria di aver pianto » « No », rispose Mark, frugandosi in tasca in cerca del fazzoletto. « Sono tutte queste ore passate a leggere. » Quando entrò in casa, la padrona gli gridò dal piano superiore: « C'è posta per lei ». Dallo spessore, avrebbe detto che la busta contenesse un libro, ma quando l'aprì si accorse che c'erano solo ventidue fogli. Mio caro Mark, mi ricordo benissimo di te, ti ho pensato spesso e mi sono chiesta che fine avessi fatto. La tua bella lettera mi è giunta del tutto inattesa... Il tono di autentica gioia delle sue parole lo fece sentire vagamente in colpa.
Mi rendo conto che non sappiamo quasi niente l'uno dell'altro. Non conosci nemmeno il mio cognome! Bene, mi chiamo Littlejohn. Stupido, vero? Mi piacerebbe cambiarlo (non è una proposta, sciocco!) Sono nata a Ladyburg (non ho nessuna intenzione di dirtiquando. Una signora non rivela mai la sua età!) Mio padre aveva una fattoria, ma l'ha venduta cinque anni fa e ora lavora come caporeparto allo zuccherificio. L'intera storia della famiglia, le scuole che aveva frequentato, i nomi e l'attività di tutti i suoi numerosi parenti, le sue speranze, i sogni, le aspirazioni - « Mi piacerebbe viaggiare. E a te? Pensa un pò, Parigi, Londra... » - tutto era raccontato con scoraggiante minuzia, tra un fiorire di parentesi, punti esclamativi e punti di domanda. Non è strano che i nostri nomi siano così simili? Mark e Marion. Hanno un che di solenne, non ti pare? Mark cominciò ad agitarsi, lievemente allarmato. Aveva chiesto una brezza e gli giungeva un tornado. Eppure si sentiva contagiato dalla gaiezza e dal calore che trapelavano dalla lettera della ragazza e si rammaricò di non avere un ricordo più preciso delle sue fattezze. Se l'avesse incontrata per la strada, non l'avrebbe neppure riconosciuta. Le scrisse quella sera stessa, mettendo infinita cura nella risposta. Non poteva ancora manifestarle apertamente lo scopo di quella corrispondenza, così accennò vagamente al fatto che stava pensando di scrivere un libro. Prima di dedicarvisi, aveva bisogno di svolgere alcune ricerche negli archivi di Ladyburg, ma al momento non aveva né il tempo né il denaro necessari. Concluse chiedendole una sua fotografia. La lettera di Marion doveva essere stata scritta e impostata il giorno stesso che aveva ricevuto la sua. « Mio carissimo Mark... » esordiva. Era un rapido passo avanti rispetto al « Mio caro Mark » con cui iniziava la prima missiva. Il testo, consistente in venticinque pagine fittamente scritte, era accompagnato da una fotografia, in cui una ragazza vestita a festa, con un sorrisetto nervoso stampato sul viso, fissava l'obiettivo come se fosse la bocca di un obice pronto a sparare. L'immagine era piuttosto sfocata, ma non al punto da rendere il volto indistinguibile, e Mark si sentì allargare il cuore. La ragazza era un pò rotondetta, ma il suo viso a forma di cuore aveva un'espressione dolce. La bocca era grande e sorridente, gli occhi erano ben distanziati e intelligenti. Nel complesso, aveva un'aria sveglia e vivace. Quanto al resto, Mark sapeva già che aveva studiato, era ragionevolmente istruita e, soprattutto, estremamente desiderosa di piacere. Dalla dedica scritta sul retro della fotografia si accorse di
aver ricevuto un'ulteriore Promozione. All'amato Mark con grande affetto Marion Sotto il nome erano state tracciate tre piccole croci. La lettera traboccava di un'ammirazione sconfinata per i suoi successi come venditore di Cadillac e di riverente rispetto per le sue aspirazioni di scrittore. Sarebbe stata felice di aiutarlo nelle sue ricerche, bastava che le dicesse di quali informazioni aveva bisogno. Aveva accesso a tutti gli archivi, sia a quelli statali sia a quelli comunali (« e questa volta non ti costerà un soldo ») e sua sorella maggiore lavorava nella redazione del Ladyburg Lantern. Senza contare che nel palazzo del Comune c'era una biblioteca molto ben fornita di cui era un'assidua frequentatrice. Le avrebbe permesso di aiutarlo? A proposito, poteva mandarle una sua fotografia? Le sarebbe piaciuto avere un suo ricordo tangibile. Per mezza corona Mark si fece scattare una fotografia in uno studio all'aperto vicino alla spiaggia, con indosso l'abito nuovo, la paglietta sulle ventitré e un ghigno da scavezzacollo stampato in faccia. Mio carissimo Mark, come sei bello! Ho esibito la tua fotografia alle mie amiche, che sono tutte molto invidiose. Aveva già parte delle informazioni che le aveva chiesto e avrebbe provveduto a mandargli le altre al più presto. Alla libreria Adams, in Smith Street, Mark acquistò un grosso quaderno rilegato in cuoio, tre enormi fogli di cartoncino e una grande mappa catastale del Natal e dello Zululand. Gli ultimi due articoli li appese alle pareti della sua stanza, in modo da poterli studiare mentre era a letto. Su uno dei cartoncini riportò gli alberi genealogici dei Courteney, dei Pye e dei Petersen, tutti nomi che comparivano sui documenti relativi alla vendita di Andersland. Su un altro tracciò una specie di piramide composta da società e proprietà controllate dalla Ladyburg Farmers Bank e sull'ultimo riportò con lo stesso sistema le società e le proprietà controllate dalla società finanziaria appartenente al generale Sean Courteney, la Natal Timber and Estates Ltd. Poi prese la mappa e colorò con cura le proprietà terriere dei due gruppi, segnando in rosso quelle del generale Courteney e in blu quelle di suo figlio Dirk. Mentre passava il pastello blu lungo i contorni irregolari di Andersland che, da un lato, seguivano l'andamento contorto della riva sud del fiume, sentì più forte dentro di sé lo slancio a continuare le sue ricerche. Poi si pulì le dita con uno straccio
e avvertì in bocca il gusto amaro della rabbia. Era convinto che il vecchio si sarebbe fatto uccidere piuttosto che cedere la sua terra. La rabbia lo riassaliva puntuale ogni volta che riempiva un'altra parte della mappa o quando, sdraiato sul letto, studiava il mosaico blu e rosso formato dalle proprietà dei Courteney, fumando un'ultima sigaretta. Con un sorriso torvo, pensava a quali sarebbero stati i commenti di Fergus MacDonald di fronte a tanta ricchezza riunita nelle mani di due sole persone, e poi si accingeva a scrivere sul suo quaderno nuovo tutti i dati di cui era entrato in possesso nel corso della giornata. Spenta la luce, restava sveglio a lungo e, quando finalmente si addormentava, nel sogno rivedeva il Passo Chaka, i grandi dirupi a guardia del fiume e la natura esuberante, oltre il passo, in cui era nascosta una tomba solitaria. Una tomba non segnata, ormai coperta dalla prorompente vegetazione africana... o violata, già da tempo, dalle iene o dagli altri spazzini della boscaglia. Una sera, mentre si accingeva al solito compito nella sala di lettura della biblioteca, decise di cominciare dai numeri più recenti del Lantern e, in particolar modo, da quelli usciti nella settimana successiva alla sua fuga da Ladyburg. La notizia che lo colpì si limitava a poche righe in una delle pagine interne. Ieri ha avuto luogo il funerale del signor Jacob Henry Rossouw, nella chiesa metodista di Pine Street. Il signor Rossouw è deceduto precipitando nella gola del Baboon Stroom, proprio sotto il ponte della ferrovia, mentre era a caccia con un gruppo di amici. Il signor Rossouw era scapolo e lavorava alla Zululand Sugar Co. Ltd. Al rito funebre ha presenziato il presidente della Società, signor Dirk Courteney, che ha reso un breve e commosso tributo alla figura dell'estinto dimostrando una volta di più il suo vivo interessamento per tutti i dipendenti delle sue Sccietà, fino ai più umili. « I grandi uomini si vedono nelle piccole cose. » La data coincideva con quella della sua fuga dalla valle. Il morto doveva essere uno degli uomini che gli avevano dato la caccia, forse quello che gli si era appeso alla caviglia ferita per cercare di tirarlo giù dal treno. In questo caso il legame con Dirk Courteney era fin troppo evidente. Mark aveva cominciato a intrecciare la corda, ma gli mancava ancora la testa da infilare nel cappio. Eppure, almeno da un certo punto di vista, si sentiva più tranquillo. Tutto lasciava credere che tra padre e figlio, tra il generale Courteney e Dirk, esistesse una profonda frattura. Non avevano alcun rapporto sul piano professionale, le loro attività erano completamente disgiunte e le società che possedevano si ergevano come grandi monoliti distanti l'uno dall'altro. A quanto pareva, questa separazione andava al di là dell'aspetto commerciale e finanziario. Mark non aveva trovato alcuna prova circa il fatto che i due uomini si frequentassero sul piano sociale, anzi il repentino cambiamento di atteggiamento del
Ladyburg Lantern nei confronti di Courteney padre, quando Dirk ne aveva rilevato la proprietà, indicava, semmai, l'esistenza di un aperto conflitto. Mark, tuttavia, non ne era del tutto convinto. Fergus MacDonald l'aveva ripetutamente messo in guardia contro la perfidia e l'astuzia dei padroni e dei ricchi in generale. « Sarebbero disposti a tutto pur di nascondere le loro colpe. Non c'è trucco a cui non ricorrerebbero per nascondere il sangue dei lavoratori che macchia le loro mani. » Forse il suo primo passo doveva essere quello di stabilire al di là di ogni dubbio se l'uomo cui doveva dare la caccia era solo uno. Poi sarebbe dovuto tornare a Ladyburg per provocare una seconda aggressione, solo che questa volta, sapendo da che parte veniva il nemico, si sarebbe preparato ad accoglierlo. Tornò col pensiero a Cuthbert, il manichino di cui lui e Fergus si erano serviti per costringere il nemico a sparare, individuandone così la posizione, e sogghignò tristemente pensando che questa volta il ruolo di Cuthbert sarebbe toccato a lui. Era spaventato, più di quanto non lo fosse mai stato in Francia, perché si sarebbe scontrato con qualcuno la cui crudeltà oltrepassava i limiti dell'immaginazione e perché il momento dello scontro si stava avvicinando a grandi passi. Fu temporaneamente distratto da un'altra consistente epistola proveniente da Ladyburg, che gli fornì un valido motivo per procrastinare l'azione. Mio carissimo ho una spiendida notizia da darti! Se la montagna non va a Maometto, Maometto (o Maometta!) andrà alla montagna. Mia sorella e suo marito hanno deciso di venire a Durban a trascorrere una vacanza di quattro giorni e desiderano che io mi unisca a loro. Arriveremo il quattordici e scenderemo all'Hotel Marine, sul lungomare. come dei veri signori! Mark fu sorpreso dall'intensità della gioia e dall'impazienza che provava. Non si era reso conto della quantità di affetto che la lontananza aveva contribuito ad accumulare dentro di lui nei confronti di quella creatura amichevole e volonterosa. La sorpresa si rinnovò quando si incontrarono, entrambi vestiti con la massima cura e con grande attenzione ai particolari, entrambi timidi e impacciati sotto lo sguardo vigile della sorella di Marion. Si sedettero sulla veranda dell'albergo, sorseggiando impettiti il loro tè e chiacchierando del più e del meno, mentre di sottecchi si lanciavano lunghe occhiate indagatrici. Mark si accorse subito che la ragazza era dimagrita. Quello che non seppe mai, invere, fu che aveva fatto la fame in previsione di quel momento. Era graziosa, molto più graziosa di quanto non lasciasse supporre la fotografia. Ma ciò che più lo colpì fu la sua trasparenza e quel senso di rettitudine e di calore che emanava da lei. Mark non si era mai sentito tanto solo
come in quelle ultime settimane, trascorse in una squallida cameretta d'affitto, con gli scarafaggi e i suoi progetti come unica compagnia. Reagì quindi alla presenza della ragazza come un viaggiatore che, in mezzo a una tempesta di neve, si trova improvvisamente davanti una taverna con il camino acceso. All'inizio la sorella di Marion prese il suo compito di chaperon molto seriamente. Ma aveva solo cinque o sei anni più di Mark ed era abbastanza sensibile per accorgersi della reciproca attrazione dei due e della fondamentale onestà del giovanotto. La sua età e il fatto che si fosse sposata da poco la rendevano molto comprensiva nei loro confronti. « Vorrei portare Marion a fare un giro. Non staremo via molto. » Marion fissò la sorella con gli occhi imploranti e pieni di sentimento di una gazzella morente. « Ti prego, Lyn. » La Cadillac era un modello di prova. Lui stesso era stato presente quando due zulu della Natal, Motors avevano lucidato la carrozzeria fino a renderla abbagliante. Si spinse fino alla foce del fiume Umgeni, mentre Marion gli sedeva stretta accanto, traboccante d'orgoglio. Mark non si era mai sentito così felice in vita sua, vestito alla moda, con le tasche piene di soldi, una grande automobile luccicante sotto di lui e una ragazza graziosa e adorante accanto. Questo, in£atti, era l'unico termine atto a descrivere l'atteggiamento di Marion nei suoi confronti. Non riusciva a distogliergli gli occhi di dosso e si illuminava ogni volta che lui si girava a guardarla. Nemmeno nei suoi sogni più sfrenati si era mai immaginata di venir corteggiata da un giovane così bello e raffinato, che la portava a spasso su una Cadillac splendente e, come se non bastasse, era un eroe di guerra. Mark parcheggiò a lato della strada. Imboccarono un sentiero che, attraverso le dune coperte di arbusti, giungeva fino alla foce del fiume, e lei gli si appese al braccio come un naufrago. A monte doveva essere piovuto perché il fiume era in piena. La foce era larga quasi un chilometro, l'acqua era fangosa e scura come il caffè e scendeva tumultuosa a incontrare le onde del mare che avanzavano in senso contrario. Una cresta di spuma bianca e turbinosa indicava il punto in cui fiume e mare si univano. L'acqua scura trascinava nella sua corsa detriti e carcasse di animali annegati. Alcuni grandi pescicani neri avevano risalito il fiume in cerca di cibo, le loro pinne scure e triangolari fendevano l'acqua in grandi cerchi. Mark e Marion sedettero a fianco a fianco su una duna che guardava verso l'estuario. « Oh », sospirò Marion, come se le si stesse spezzando il cuore. « Abbiamo solo quattro giorni da passare insieme. » « Quattro giorni sono tanti », obiettò Mark, prendendosi
gioco di lei. « Non so neanche come faremo a riempirli tutti. » Non si separarono mai. Dicky Lancome fu molto comprensivo con il giovane venditore che costituiva il suo fiore all'occhiello. « Metti dentro il muso per qualche minuto, ogni mattina, tanto per far contento il capo. Poi sparisci pure. Resterò io a guardia della postazione. » « E la Cadillac di prova? » gli chiese Mark, facendosi coraggio. « Gli dirò che stai cercando di venderla a un ricco piantatore. Prendila pure, vecchio mio, ma cerca di non finire contro un albero. » « Dicky, sei un angelo! Non so come farò a ricambiare la tua gentilezza! » « Non preoccuparti, vecchio mio. Troveremo il modo. » « Ti giuro che è l'ultima volta, ma questa ragazza... insomma, non è una cosa qualsiasi. » « Capisco », disse l'altro, battendogli qualche colpetto sulla spalla con aria paterna. « La cosa più importante nella vita è un bel pezzo di focaccia. Ti seguirò col pensiero, figliolo. Ti sarò accanto minuto per minuto nella conquista del fortino. » « Non è come pensi tu, Dicky », obiettò Mark, arrossendo violentemente. « Naturale, non è mai così. Comunque, divertiti », concluse Dicky con una strizzatina d'occhio, ammiccando maliziosamente. Mark e Marion - aveva ragione, i loro nomi uniti avevano un suono « importante » - trascorsero le giornate gironzolando per la città, mano nella mano. Lei guardava deliziata l'animazione e il trambusto delle vie, affascinata dalla raffinatezza e dalla cultura che si respiravano nell'aria; dai musei e dai giardini tropicali; dal parco dei divertimenti vicino alla spiaggia, con la sua miriade di luci stregate; dai concerti all'aperto nei giardini del vecchio forte; dal grande magazzino di West Street, Stuttafords & Ansteys, con le vetrine zeppe di costose mercanzie di importazione; dal porto, dove le grandi navi mercantili erano ormeggiate l'una accanto all'altra e le gru si muovevano, sbuffando e cigolando sopra di esse. Rimasero a osservare i pescatori indiani che mettevano in mare le loro barche piatte, superando i frangenti d'acqua verde che avanzavano allineati come soldati, e, una volta al largo, gettavano le reti, in un ampio semicerchio. Poi Marion, con le gonne rialzate, e Mark, con i calzoni rimboccati fino al ginocchio, li aiutavano a tirare a riva le reti, finché i pesci non erano tUtti stivati sulla barca, in un mucchio argenteo e scintillante, dove restavano a guizzare e a contorcersi negli ultimi sussulti di vita. Mangiarono gelati alla fragola in coni di croccante biscotto e scorrazzarono su e giù per il lungomare in un risciò aperto, tirato da uno zulu saltellante, che indossava un costume incredibile, tutto penne, corni e collanine. Una sera si unirono a Dicky Lancome e alla sua languida
sirena di turno e insieme si recarono all'Oyster Sox Hotel di Umhlanga Rocks, dove mangiarono aragoste alla griglia e ballarono al suono di un'orchestrina jazz. Poi tornarono a casa sulla Cadillac, brilli e felici, cantando a squarciagola, mentre Dicky sfreccisva lungo le stradine polverose e accidentate come se fosse stato Nuvolari e Mark e Marion, seduti sul sedile posteriore, si tenevano abbracciati, perduti in un mondo di beatitudine. Nella hall dell'albergo, sotto l'occhio attento del portiere di notte, pronto a intercettare Mark se si fosse diretto verso l'ascensore con la ragazza, si diedero bisbigliando la buona notte. « Non sono mai stata così felice », gli disse lei con semplicità alzandosi sulla punta dei piedi per baciarlo sulle labbra. Dicky Lancome era sparito, portandosi via la Cadillac e la ragazza, per andare a rifugiarsi con tutta probabilità verso qualche luogo buio e isolato vicino alla spiaggia, e Mark, mentre se ne tornava da solo per le strade deserte, ripensava alle parole di Marion, sentendole profondamente vere. Anche lui non si ricordava di essere mai stato così felice, ma, d'altra parte, le occasioni di felicità nella sua vita erano state tutt'altro che numerose. Per un povero un soldino rappresenta una fortuna, pensò con un sorriso triste. Era l'ultimo giorno che passavano insieme e la consapevolezza dell'imminente separazione tingeva la loro felicità di un velo di nostalgia. Mark lasciò la Cadillac in un campo di canna da zucchero, alla fine di un viottolo, e insieme scesero verso un lungo arco di sabbia candida come la neve, protetto alle estremità da due promontori rocciosi. L'acqua era così chiara che dalle alte dune potevano vedere il fondo roccioso, inframmezzato da banchi di sabbia che parevano scolpiti. Più al largo, l'acqua assumeva un intenso color indaco che si conservava fino alla linea lontana dell'orizzonte, dove si incontrava con montagne di cumuli che il sole tingeva di viola e d'argento. Si avviarono a piedi nudi sulla sabbia che scricchiolava sotto i piedi, portando il cestino da picnic che Marion si era fatta preparare in albergo e una sottile coperta grigia, sottratta da Mark al proprio letto. Avevano la sensazione di essere soli al mondo. Riparandosi ai due lati opposti di un fitto cespuglio di euforbia verde scuro, si infilarono il costume da bagno e poi corsero ridendo a tuffarsi nell'acqua calda e chiara. Il sottile tessuto nero del costume di Marion, una volta bagnato, le aderiva alla pelle facendola sembrare nuda, nonostante la coprisse da metà della coscia fino al collo; e quando lei si tolse la cuffia da bagno rossa e scosse la massa folta dei suoi capelli, Mark si sentì eccitato per la prima volta. Fino a quel momento l'unico piacere che aveva provato con lei era stato quello dell'amicizia. L'aperta adorazione della ragazza aveva colmato un vuoto, suscitandogli dei sentimenti protet-
tivi, quasi fraterni. L'istinto femminile di Marion le disse subito che in Mark qualcosa era cambiato. Il riso morì sulle labbra, e negli occhi, fattisi cupi, si addensarono ombre di paura e di apprensione. Si voltò ugualmente a guardarlo, alzando gli occhi su di lui, come per farsi forza con un gesto di coraggio. Si sdraiarono a fianco a fianco sulla coperta grigia, all'ombra fitta di un albero della gomma, nella pesantezza languida del mezzogiorno. I costumi da bagno, ancora bagnati, rinfrescavano la loro pelle accaldata e quando Mark tolse delicatamente quello di Marion, la sentì umida sotto le dita. Scoprì, sorpreso, che il suo corpo era molto diverso da quello di Helena. Aveva la carnagione lattea, appena soffusa di rosa, e i peli erano di un colore bruno-dorato, fini come fili di seta e soffici come una nuvola. Il suo corpo era morbido e la sua plasticità lo incuriosiva e lo eccitava. Solo quando Marion sussultò, mordendosi un labbro, e poi voltò il viso, nascondendolo nell'incavo del suo collo, Mark si rese conto, pur attraverso la nebbia della sua eccitazione, che tutto ciò che Helena gli aveva insegnato aveva su di lei un effetto diverso. Il suo corpo era rigido, il suo volto pallido e teso. « Marion, cosa c'è? » « Niente, Mark. Va tutto bene. » « Non ti piace? » « E' la prima volta... » « Possiamo smettere. » « No. » « Nessuno ci costringe. » « No Mark, continua. E quello che vuoi, no? » « Ma tu no. » « Io desidero quello che ti fa piacere, Mark. Va' avanti. Lo faccio per te. » « No... » « Non fermarti, Mark. Ti prego, continua. » Lo guardò e lui le lesse sul suo volto la sofferenza. Aveva gli occhi pieni di lacrime e le labbra tremanti. « Oh, Marion. Mi dispiace. » Si ritrasse, inorridito dall'infelicità della sua espressione, ma lei lo seguì, gettandogli le braccia al collo e quasi buttandosi su di lui. « No, Mark, non devi dispiacerti. Voglio che tu sia felice. » « Non posso essere felice, se non lo sei anche tu. » « Oh, Mark, ti prego. Non dire così. La cosa che più desidero è renderti felice. » Fu coraggiosa e tollerante. Lo tenne stretto a sé, con le braccia allacciate attorno al suo collo, il corpo rigido ma desiderosa di compiacerlo. La prova, per Mark, fu quasi altrettanto penosa; soffriva per lei, sentendo lo spasimo dei nervi tesi e i mugolii di dolore e di paura che cercava di soffocare in gola. Per fortuna finì presto.
« Ti è piaciuto, Mark, caro? » gli domandò, restandogli aggrappata. « Oh, sì. E' stato meraviglioso », la rassicurò con enfasi. « Sapessi quanto voglio farti felice, tesoro mio. Sempre e in tutti i modi che sceglierai. L'unica cosa che conta è la tua felicità. » « E' stata la cosa più bella della mia vita », le disse. Lei lo guardò negli occhi per un attimo in cerca di una rassicurazione che vi trovò, forse perché la desiderava con tanta intensità. « Sono così felice, caro », sussurrò, attirandogli la testa sul seno umido e caldo, così morbido, roseo e confortante. Poi cominciò a cullarlo piano, come fa una madre col bambino. « Sono così felice, Mark. Vedrai, sarà sempre più bello. Vedrai, imparerò. Ce la metterò tutta per farti felice. Sempre. » Al tramonto tornarono lentamente verso casa. Marion gli stava seduta accanto, piena d'orgoglio, ma c'era qualcosa di diverso in lei, un'aria nuova, un'espressione di maturità e di sicurezza, come se in quelle poche ore la bambina si fosse trasformata in donna. Mark si sentì travolgere dall'affetto che provava per lei. Voleva proteggerla, preservarla dall'infelicità e dal male, impedire alla sua dolcezza di inasprirsi. Per un attimo rimpianse che Marion non fosse riuscita ad alimentare la furia dirompente del suo corpo e si dolse di non essere stato capace, a propria volta, di guidarla attraverso la tempesta fino alla stessa pace che aveva raggiunto lui. Forse col tempo sarebbe venuto anche questo, forse avrebbero trovato insieme la strada per arrivarci e in caso contrario... be', non era poi così importante. Ciò che contava era l'impegno che sentiva di avere nei suoi confronti. Marion gli aveva dato tutto ciò di cui era capace e ora toccava a lui ricambiarla, proteggendola e prendendosi cura di lei. « Marion, vuoi sposarmi? » le domandò con semplicità, e lei cominciò a piangere piano, accennando di sì col capo attraverso le lacrime, senza riuscire a parlare. La sorella di Marion, Lynette, era sposata con un giovane avvocato di Ladyburg. Quella notte, rimasero alzati tutti e quattro fino a tardi per parlare del fidanzamento. « Papà non ti darà il permesso di sposarti finché non avrai compiuto i ventun anni. Sai quanto abbiamo dovuto aspettare anche noi. » Peter Botes, un giovanotto dall'aspetto serio, annuì con aria saggia giungendo le mani con attenzione, come per assicurarsi che le dita combaciassero. Aveva i capelli rossicci e il modo di fare pomposo di un giudice in toga. « Non vi farà male aspettare qualche anno. » « Qualche anno? » gemette Marion. « Non hai che diciannove anni », le ricordò Peter. « E Mark dovrà mettere da parte un pò di soldi prima di potersi assumere le responsabilità di una famiglia. » « Continuerò a lavorare », proruppe la ragazza.
« Dicono tutte così », commentò Peter, scuotendo il capo con aria saggia. « E poi, due mesi dopo, c'è già un bambino in viaggio. » « Peter! » lo rimproverò la moglie, sdegnata, ma lui proseguì imperterrito. « Di' un pò, Mark, che progetti hai? Sono sicuro che il padre di Marion vorrà esserne informato. » Mark non aveva previsto di dover presentare un rendiconto della sua situazione, e, al momento, non ricordava nemmeno a quanto ammontassero le sue finanze. Il mattino seguente, li accompagnò al treno. Si salutarono con un lungo abbraccio e con la promessa di scriversi tutti i giorni. Marion gli giurò che si sarebbe messa al lavoro per preparare il corredo e che avrebbe fatto di tutto per modificare i pregiudizi paterni contro i matrimoni in giovane età. Mentre lasciava la stazione, a Mark tornò in mente, senza ragione apparente, un'altra mattina di primavera di tanto tempo prima, la mattina in cui aveva lasciato il fronte per le retrovie. Anche questa volta raddrizzò il busto e cominciò a camminare con passo elastico e baldanzoso. Era stato al fronte ed era sopravvissuto. Per il momento non riusciva a pensare ad altro. Dicky Lancome era seduto davanti a lui, con i piedi calzati da stivaletti lucidi appoggiati alla scrivania e le caviglie incrociate. Con una mano dal mignolo rigidamente proteso teneva una tazza di tè, con l'altra il giornale. « Ecco l'eroe che torna vincitore, con l'arma appesa stancamente alla spalla. » « Oh, piantala, Dicky! » « Ha le ginocchia deboli, gli occhi iniettati di sangue e la fronte febbricitante. » « Nessuna novità? » gli domandò Mark con aria seria. « Ah, ora l'eroe rivolge la sua nobile mente agli aspetti più banali dell'esistenza. » « Ti ho detto di smetterla », ripeté, scorrendo rapidamente un pacchetto di messaggi che lo attendevano. « Un eccesso d'amore, un travaso di passione, un'indigestione di focaccia, un'ubriacatura genitale. » « Cosa c'è scritto? Non riesco a leggere le tue zampe di gallina », domandò Mark, cercando di concentrarsi sul biglietto. « Bada a ciò che ti dico, Mark. Quella donna è una nidificatrice. Lasciati andare per un attimo, e la troverai sull'albero più vicino a preparare il nido. » « Piantala, Dicky. » « E' esattamente quello che dovresti fare tu, vecchio mio, se non vuoi ritrovarti attorno una nidiata di marmocchi », insisté Dicky, scrollando le spalle con gesto teatrale. « Mai guidare una berlina, se puoi avere un'auto sportiva; il che mi fa venire in mente », concluse mettendo giù il giornale ed estraendo l'orologio dal panciotto, « che ho un appuntamento con un cliente molto importante. » Ispezionò gli stivali lustri, li spol-
verò con il fazzoletto che portava nel taschino, si alzò e, aggiustandosi la paglietta, gli strizzò l'occhio. « Suo marito è partito per una settimana. Ti affido la postazione, vecchio mio, adesso tocca a me. » Sparì attraverso la porta che immetteva nel negozio e ricomparve immediatamente con un'espressione di orrore dipinta sul volto. « Oh, Dio! Ci sono di là dei clienti. Occupati di loro, vecchio mio. Io me la batto dal retro. » Sparì di nuovo, lasciando dietro di sé una lieve scia di profumo di brillantina. Mark si sistemò la cravatta nel frammento di specchio infilato nell'intelaiatura della finestra e, atteggiando le labbra al suo miglior sorriso di benvenuto, si avviò verso la porta. Giunto sulla soglia, tuttavia, si bloccò come se qualcuno l'avesse trattenuto da dietro. Aveva sentito un timbro di voce così bello, che il cuore gli si gelò nel petto. Rimase ad ascoltarlo con i nervi tesi fino allo spasimo, immobile e concentrato come una gazzella. Il suono durò solo qualche secondo, ma la sua eco trillò nell'aria per altri lunghi attimi, e solo allora il cuore di Mark riprese a pulsare, battendogli forte contro il costato. Ciò che aveva sentito era la risata di una ragazza. Gli parve che l'aria attorno a lui avesse assunto la consistenza del miele, perché, quando si mosse, dovette compiere uno sforzo per farsela scendere fin nei polmoni, e si sentì le gambe impaccate, come prese in una pania. Infine lanciò un'occhiata nel salone. Accanto all'ultimo modello di Cadillac, nel bel mezzo del locale, c'era una coppia. L'uomo, voltato di spalle, era vestito di nero e dava un'impressione di imponenza. La ragazza era fragile, quasi eterea; un'immagine di bellezza che fluttuava lieve e aggraziata su ali invisibili, simile a un usignolo. Mentre Mark la guardava, la terra parve inclinarsi sotto suoi piedi. La ragazza teneva alzato il viso all'indietro per guardare l'uomo. Il suo collo lungo e liscio sorreggeva una testa piccola, con due enormi occhi neri e la bocca ridente: si intravedevano i denti piccoli e regolari tra le labbra rosse. Sopra quegli occhi stregati si spiegava la fronte, candida e spaziosa. Il tutto era incorniciato da una cascata di capelli lucidi e folti, così neri che le loro onde sembravano scolpite nell'ebano. Scoppiò di nuovo in quella sua risata argentina e accarezzò il volto dell'uomo. Aveva la mano stretta, con dita lunghe e affusolate, una mano che trasmetteva una sensazione di forza, e Mark capì di essersi sbagliato. La ragazza sembrava piccola solo rispetto all'uomo che le stava accanto ed era la posizione del suo corpo che accentuava questa impressione. Ora Mark si accorse che era alta e aggraziata come un papiro mosso dal vento, snella e flessuosa, con la vita sottile e le gambe lunghe sotto la stoffa leggera dell'abito. La ragazza percorse con le lunghe dita la linea della mandi-
bola dell'uomo, piegando il capo sul lungo collo di cigno. La sua bellezza era sconvolgente. I grandi occhi splendevano, teneri, e la linea della bocca era addolcita da un moto d'affetto. « Oh, papà, sei un vecchio orso brontolone e all'antica », gli disse, allontanandosi con una piroetta, leggera come una ballerina, e mettendosi in posa accanto alla grossa vettura luccicante. Poi, simulando un accento francese, proseguì con aria ironica: « Regarde! Mon cher papa, c'est très chic... » L'uomo borbottò: « Non mi fido di queste novità. Preferisco una Rolls ». « Una Rolls? » gridò la ragazza, con una smorfia inorridita. « E' così austera! Così biblica! Caro papà, ricordati che siamo nel ventesimo secolo. » Poi si afflosciò come una rosa appassita. « Non oserò mostrarmi alle mie amiche, se mi costringerai a girare su uno di quei giganteschi carri funebri. » In quell'istante ella notò Mark, che era rimasto fermo sulla soglia dell'ufficio, e il suo atteggiamento cambiò. Si raddrizzò all'istante e l'espressione del suo viso, persa ogni sfumatura scherzosa, si trasformò in quella di una signora. « Vecchio », disse con voce composta, lanciando a Mark una occhiata fredda con cui lo squadrò dalla testa ai piedi. « E' arrivato il commesso. » Si voltò e cominciò a camminare lentamente attorno alla Cadillac, senza più degnarlo di uno sguardo. Mark notò l'oscillare dei fianchi sotto la gonna e l'ondeggiare sfacciato del piccolo sedere tondo. Sentì che il suo cuore accelerava i battiti. La fissò affascinato ed emozionato. In tutta la vita non aveva mai visto niente di tanto bello, di così totalmente seducente. Frattanto l'uomo si era girato e lo stava scrutando con aria pensosa. Lui sì che aveva un aspetto biblico. Era alto e asciutto, con le spalle larghe come le braccia di una croce e la testa grande e fiera, le cui dimensioni erano accentuate dal naso aquilino, leggermente storto, e dalla barba folta e scura, spruzzata di grigio. « Dannazione! Ma io ti conosco! » esclamò. Il suo volto era stato bruciato da ventimila soli, ma agli angoli degli occhi erano rimaste delle profonde pieghe chiare, e anche sotto l'attaccatura dei folti capelli argentati c'era una striscia candida, come se la pelle fosse stata protetta dalla tesa di un cappello da cacciatore o dal berretto di un'uniforme. Mark si riscosse, distogliendo lo sguardo dalla ragazza. Anche lui l'aveva riconosciuto. Al momento pensò che si trattasse di una mostruosa coincidenza, ma negli anni a venire avrebbe cambiato idea. I fili delle loro vite erano indissolubilmente intrecciati tra loro. Però in quell'attimo lo shock, che seguiva a così breve distanza il precedente, gli fece perdere ogni sicurezza. « Sì, generale Courteney, sono... » esordì con voce gracchiante. « Non dirmelo, maledizione », lo interruppe l'altro con un tono che ricordava il crepitio di un Mauser. Mark sentì la propria baldanza svanire del tutto davanti all'espressione dell'al-
tro; niente l'aveva mai intimidito a quel punto. « Conosco il tuo nome... ce l'ho sulla punta della lingua! » insisté, guardandolo in cagnesco. « Non dimentico mai le facce della gente. » Mark si sentì quasi travolgere dall'impatto della sua presenza. « Stai diventando vecchio, papà », disse la ragazza in tono distaccato, guardandolo con un viso freddo e inespressivo. « Non dire una cosa simile, ragazza », la voce dell'uomo sembrava il brontolio di un vulcano. « Non t'azzardare mai più a ripeterlo. » Mosse un passo minaccioso in direzione di Mark, corrugando la fronte e lanciandogli uno sguardo che gli penetrò nell'anima come il bisturi di un chirurgo. « Sono gli occhi! Quegli occhi li ho già visti. » Mark arretrò di scatto di fronte a quella montagna zoppicante che avanzava verso di lui, incerto di quello che l'attendeva, ma convinto che Sean Courteney avrebbe anche potuto alzare su di lui il pesante bastone d'ebano, tanto terribile pareva la sua ira. « Generale... » « Ci sono! » esclamò Sean, facendo con le dita uno schiocco simile al crepitio di un ramo che si spezzi. La fronte si spianò e gli occhi azzurri si strinsero in un sorriso così sicuro, così complice e contagioso, che Mark non poté fare a meno di ricambiarlo. « Anders », esclamò Sean Courteney. « Anders e MacDonald. Com'è il nome? Martin? Michael? no, Mark. Mark Anders! » concluse, battendosi il pugno sulla coscia. « Visto, figliola? E tu che mi davi del vecchio! » « Papà, sei straordinario », commentò lei, alzando gli occhi al cielo, ma il generale stava già avanzando verso Mark. Gli afferrò la mano e gliela strinse, facendogli scricchiolare le ossa, finché, dopo un attimo di smarrimento, Mark reagì, restituendo la stretta con altrettanta energia. « Ho riconosciuto gli occhi », disse Sean, ridendo. « Sei molto cambiato da quel giorno, anzi, da quella notte... » e il riso gli morì sulle labbra al ricordo del ragazzo steso sulla barella, pallido come un morto, imbrattato di fango e di sangue coagulato. Riudì la propria voce che esclamava: « E' morto! » poi cancellò l'immagine, tornando al presente. « Come stai ora, figliolo? » « Bene, signore. » « Non credevo che ce l'avresti fatta. » Sean lo scrutò con attenzione. « A quanto vedo, invece, sei in perfetta forma. Quante ne hai beccate? E' dove? » « Due, signore, nella parte alta della schiena. » « Ferite gloriose, figliolo. Un giorno o l'altro faremo qualche raffronto. » Poi si rabbuiò di nuovo e lo guardò con quel suo tremendo cipiglio. « Ti hanno decorato, spero. » « Sì, signore. » « Bene, non si può mai essere sicuri con certa gente. Ho scritto la citazione quella notte stessa, ma non si sa mai. Cosa
ti hanno dato? » gli domandò, con un sorriso di sollievo. « La medaglia al valor militare, signore. L'ho ricevuta mentre ero ancora in ospedale, in Inghilterra. » « Splendido, sono contento! » commentò con un cenno d'assenso, e gli lasciò andare la mano, voltandosi verso la ragazza. « Cara, questo signore era con me in Francia. » « Che bello », rispose lei, sfiorando il radiatore con un dito e proseguendo nel suo giro senza degnarli di un'occhiata. « Possiamo provare l'auto adesso, papà? » Mark si precipitò ad aprire la portiera posteriore per farla sedere, ma la ragazza gli annunciò: « Guido io », e attese che lui ripetesse l'operazione con la portiera corrispondente al posto di guida. « Quello è il pulsante dell'accensione », le spiegò Mark. « Grazie, lo so. Si sieda dietro, per favore. » Guidava come un uomo, veloce e sicura. Stringeva le curve e usava le marce per frenare, facendo il « punta-tacco » con piedi che parevano danzare sui pedali e spostando la leva del cambio con rapidità e decisione. Accanto a lei sedeva il generale. Visto da dietro, con la schiena eretta, sembrava molto più giovane. « Vai troppo veloce », ruggì, attenuando il tono feroce con un sorriso da innamorato. « E tu sei un vecchio brontolone », ribatté la ragazza, scoppiando di nuovo a ridere. L'eco argentina della sua risata sembrava un canto. « Non ti ho sculacciata abbastanza quando eri piccola. » « Be', ora è troppo tardi », replicò lei, sfiorandogli la guancia con la mano libera. « Non ne sarei tanto sicura, se fossi in te. » Scuotendo la testa con finta disperazione, ma con una luce adorante negli occhi, il generale si girò, sollevandosi sul sedile, e sottopose Mark a un'altra indagine minuziosa. « Non vieni mai alle parate settimanali? » « No, signore. » « Si svolgono tutti i venerdì e durano un'ora. Mezz'ora di esercitazioni, seguita da una conferenza. » « Davvero, signore? » « Ci si diverte, sai? C'è un'atmosfera straordinaria, anche se si sono aggregati gli altri reggimenti. » « Sì, signore. » « Sono il comandante in capo », precisò Sean, ridacchiando. « Non è facile liberarsi di me. » « No, signore. » « Organizziamo tutti i mesi una gara di tiro con dei premi interessanti e, al termine, un barbecue. » « Davvero, signore? » « Quest'anno la nostra squadra di tiro parteciperà all'Africa Cup. A spese del reggimento, naturalmente. E' una splendida opportunità per i fortunati che verranno scelti. » « Non ho dubbi, generale. »
Evidentemente Sean si aspettava qualcosa di più, ma Mark rimase in silenzio. Per evitare lo sguardo fiero e assillante dell'altro, distolse gli occhi e colse il viso della ragazza riflesso nello specchietto retrovisivo. Lo osservava intenta, con un'espressione indefinibile, in parte sprezzante, in parte divertita, ma Mark intuì in lei qualcosa di imprevedibile e di pericoloso. Per una frazione di secondo i loro occhi si incontrarono, poi la ragazza voltò il capo, ruotandolo sull'esile colonna del collo. I capelli neri e lucenti le lasciavano scoperta la nuca, dove si facevano fini e setosi; dietro l'orecchio perfetto un ricciolo a spirale se ne stava sospeso come un punto interrogativo. Mark provò il desiderio struggente di chinarsi a baciarlo. Al pensiero, gli parve che una scarica elettrica lo colpisse all'inguine e sentì i nervi della spina dorsale contrarsi fino allo spasimo. Si rese conto in quell'istante di essersi innamorato di lei, e lo shock della scoperta fu tale da fargli quasi perdere il controllo dei sensi. « Voglio vincere quella coppa », disse il generale con voce intensa, senza perderlo d'occhio. « Finora non ce l'abbiamo mai fatta. » « Credo di averne avuto abbastanza delle armi, generale », rispose Mark, costringendosi a fissarlo. « Ma le auguro buona fortuna. » L'autista aprì la portiera posteriore della Rolla Silver Wraith, e Sean Courteney si infilò all'interno, sedendosi accanto alla figlia. Alzò la mano destra, rivolgendo un breve saluto vagamente militare al giovane fermo sul marciapiede, poi la macchina si mise lentamente in moto. Rimasti soli, la ragazza uscì in uno strillo deliziato e gettò le braccia al collo del padre, arruffandogli la barba con i suoi baci e sciogliendogli il cuore. « Oh, paparino, tu mi vizi! » « Sì, lo so. » « Irene diventerà verde dalla rabbia. Suo padre non le ha mai comprato una Cadillac. Ti adoro, mio bello e buon papà! » « Mi piace quel ragazzo, è un tipo in gamba. » « Alludi al commesso? Non ci ho badato. » Sciolse l'abbraccio e si rimise a sedere dritta. « Quel ragazzo ha fegato. » Fece una breve pausa, mentre rivedeva la neve che cadeva silenziosa su una collina sconvolta dai bombardamenti. « E' sprecato a vendere automobili. » Poi uscì in un sorriso malizioso che lo fece sembrare molto più giovane. « Voglio vedere la faccia che farà Hamilton quando gli porteremo via l'Africa Cup. » Storm Courteney rimase in silenzio. Tenendo ancora sottobraccio il padre, si chiese cosa ci fosse in Mark Anders che l'aveva turbata. Alla fine decise che erano stati gli occhi, quegli occhi gialli dallo sguardo sereno, calmi e vigili al tempo
stesso, che galleggiavano come lune dorate. Davanti al cancello, Mark frenò rallentando con tanta decisione che la grossa vettura quasi si fermò. Sui due alti pilastri gemelli, intonacati di bianco, spiccava in rilievo la scritta EMOYENI. Era un nome evocatore; in lingua zulu significava « Luogo dei venti » ed era probabile che la casa, situata sulla cresta delle colline sovrastanti Durban, ricevesse il fresco beneficio della brezza marina durante gli afosi mesi estivi. Il cancello vero e proprio era costituito da due file di pesanti lance in ferro battuto, che ora erano scostate. Mark oltrepassò la grata di ferro che impediva agli animali dotati di zoccoli di entrare o uscire e imboccò la curva dolce del viale d'accesso, costituito da sassolini color burro, rastrellati con cura e bagnati di fresco, e fiancheggiato da canne in piena fioritura. I fiori formavano macchie di colore diverso, rosso-scarlatto, giallo e bianco, che, alla viva luce del sole, abbagliavano lo sguardo. Oltre la bordura di canne, si stendeva uno splendido tappeto erboso di un verde intenso, perfettamente curato e disseminato di gruppi di alberi spontanei, che erano stati risparmiati per le loro dimensioni, la loro bellezza o la forma inconsueta. Da essi pendevano festoni di liane, il mezzo di trasporto preferito dalle scimmie, onnipresenti nel Natal. In quell'istante, un piccolo cercopiteco grigio-azzurro si lasciò cadere lievemente da una di quelle corde viventi. Poi, arcuando il dorso come un gatto e tenendo la coda alta in segno di presunto allarme, attraversò balzelloni un tratto aperto di prato finché, raggiunto un altro gruppo di alberi, si inerpicò sui rami più alti, cominciando a schiamazzare con insolenza in direzione della macchina che procedeva lentamente. Mark aveva appurato nel corso delle sue indagini che questa non era che la dimora di città dei Courteney, mentre la casa di famiglia si trovava a Ladyburg, e quindi non si era aspettato niente di casi grandioso. Perché no? commentò tra sè con un sogghignò sarcastico. Quell'uomo era ricco sfondato; quella, per lui, non doveva essere altro che un semplice pied-à-terre. Si voltò per guardarsi alle spalle. Il cancello era ormai sparito, eppure non si vedeva ancora la casa. Era circondato da un paesaggio fantastico, a metà selvaggio e a metà tenuto con cura scrupolosa, e ora capiva perché era stata messa quella grata, all'ingresso. Piccoli branchi di animali semiaddomesticati brucavano l'erba corta del prato o guardavano l'automobile che passava con composta curiosità. Vide gli impala bruno-doraro, dal ventre bianco e le corna ricurve; un daiker bluastro non più grande di un fox-terrier, con le orecchie a punta e grandi occhi rotondi; un'antilope alcina con la pappagorgia ricurva e le grosse corna a spirale che ornavano la testa corta e pesante, e il corpo tozzo come quello di un toro da esposizione. Attraversò un ponticello basso che si stendeva sopra l'imboccatura di un laghetto artificiale. I fiori azzurri del loto si le-
vavano alti sopra le grandi foglie rotonde che galleggiavano piatte sulla superficie e spandevano nell'aria calda un profumo lieve e dolciastro. Sotto le foglie di loto, i persici scuri dalle forme a siluro sembravano sospesi nell'acqua chiara. Sulla riva del lago, un'oca bianca e nera distese le ali, larghe come le braccia di un uomo, e protese in avanti il collo serpentino e la testa dai bargigli rosa come se volesse levarsi in volo, seccata per l'intrusione. Poi parve ripensarci e, ripiegando le grandi ali, agitò la coda, accontentandosi di lanciare un unico grido di protesta al passaggio della Cadillac. Ora tra gli alberi si intravedeva il tetto della casa, coperto di tegole rosa-confetto, e adorno di torri e torrette come un castello spagnolo. Superata l'ultima curva, Mark giunse in vista della casa. Essa si apriva su una distesa di aiuole fiorite dai colori così accesi e vibranti che lo sguardo ne restava abbagliato e trovava momentaneo sollievo solo negli alti getti, simili a piume di struzzo, che si levavano dal centro di quattro vasche rotonde bordate di pietra. La brezza lanciava una pioggia di spruzzi, leggeri come sbuffi di fumo, fin sulle aiuole, bagnando i fiori e facendone risaltare ancora di più i già sgargianti colori. L'edificio a due piani era adorno di torri, che rompevano la compattezza della struttura, e di colonne avvolte a spirale, simili a bastoncini di zucchero, che ornavano l'ingresso e sostenevano gli architravi delle finestre. L'intonaco bianco la faceva risplendere al sole come un blocco di ghiaccio. Avrebbe dovuto dare un'impressione di solidità e di grandezza, ma chi l'aveva progettata era riuscito a trovare il modo di farla anche sembrare lieve come un pasticcino. Era una casa allegra, costruita per divertimento e forse per amore. Il dono di un uomo ricco a una bella donna. Il tocco femminile era presente dappertutto e le grandi chiazze fiorite, le fontane, i pavoni e le statue di marmo parevano l'unico contorno possibile per un edificio del genere. Stupito e affascinato, Mark terminò lentamente l'ultima curva del viale, quando un debole suono di grida femminili attrasse la sua attenzione. Alcune donne giocavano sui campi da tennis, all'estremità del prato. Gli abiti bianchi splendevano al sole e le gambe balenavano in un turbinio di movimenti. Le voci e le risate si levavano dolci e melodiose nella calma del mattino tropicale. Mark scese dall'auto e attraversò il prato, diretto ai campi. Altre figure femminili vestite di bianco erano allungate su alcune sedie a sdraio disposte all'ombra di un baniano, da dove osservavano il gioco, conversando pigramente e sorseggiando le bevande ghiacciate contenute in lunghi bicchieri, in attesa che venisse il loro turno. Nessuna notò Mark finché non fu a pochi passi. « Ehi, ragazze », esclamò una, voltandosi rapidamente a guardarlo con occhi che dalla noia erano passati rapidamente a un interesse pieno d'ammirazione. « C'è un uomo. Siamo for-
tunate. » Immediatamente anche le altre tre si animarono, ciascuna a suo modo: una finse indifferenza, accentuando la sua posa indolente, un'altra si sistemò la sottana con una mano ravviandosi i capelli con l'altra, mentre la terza gli sorrise allegramente, tirando in dentro la pancia. Erano tutte giovani e lustre come gatti, risplendenti di salute e circonfuse da quell'aura sfuggente ma inconfondibile, data dalla ricchezza e da un'educazione raffinata. « A cosa dobbiamo il piacere di questa visita, signore? » domandò quella che lo aveva avvistato per prima. Era la più carina delle quattro. I suoi capelli d'oro pallido formavano un'aureola attorno alla testolina, e il suo sorriso rivelava denti di un candore abbagliante. Sotto i loro sguardi, Mark si sentì a disagio, soprattutto quando quella che gli aveva rivolto la parola, girandosi ulteriormente sulla sedia, incrociò le gambe, lasciandogli intravedere un lampo di seta bianca sotto la gonna corta. « Sto cercando la signorina Storm Courteney. » « Buon Dio! » commentò una di loro. « Vogliono tutti Storm. Perché nessuno si accontenta di me? » « Storm! » gridò la biondina. Storm Courteney, che stava per servire, fu distratta dal richiamo e guardò verso di loro. Vide Mark, ma non cambiò espressione e tornò a concentrarsi sul gioco. Lanciò in alto la palla e la colpì al di sopra della testa con un gesto fluido e controllato. La racchetta diede un suono metallico e il movimento le sollevò il gonnellino di cotone bianco, scoprendo il retro delle cosce. Aveva delle gambe ben modellate, con le caviglie sottili, i polpacci rotondi e le ginocchia segnate solo da due fossette simmetriche. Con una leggera rotazione si preparò a prendere la palla che tornava. Il lungo braccio dorato avanzò con un movimento circolare e dalla racchetta sfrecciò via un'ombra bianca. La gonnellina si alzò di nuovo e Mark spostò il peso del corpo di una gamba all'altra, come se la terra, sotto i suoi piedi, avesse perso di stabilità. La ragazza corse verso la linea di fondo a passi piccoli e precisi, con la testa gettata indietro per seguire la parabola della palla contro l'azzurro del cielo. I capelli scuri avevano il luccichio metallico delle ali di un uccello mosca. Valutò il tiro e poi lo effettuò con tutto il corpo. Il movimento, partendo dalle lunghe gambe, si snodò attraverso le natiche tonde e sode, coperte dalla gonnellina leggera, fino alla vita sottile; da lì si trasmise ai giovani muscoli della schiena per esplodere nell'arco del braccio. La palla partì sibilando come una freccia, passò rasente alla rete e si abbatté sulla linea di base, sollevando una nuvoletta bianca. « Non vale! » protestò l'avversaria con aria disperata, e Storm scoppiò a ridere, gaia e trionfante, avviandosi verso la
rete di recinzione per raccogliere le palle. « Ehi, Storm, c'è qui un signore che vuole parlarti », le gridò un'altra volta la biondina, e Storm, sollevata una palla tra la punta della racchetta e un lato del piede, la fece rimbalzare una volta e poi la acchiappò con la mano libera. « Si, Irene », rispose in tono dimesso. « Ho capito. E' solo un venditore. Digli di aspettare, vicino alla macchina, che io abbia finito. » Senza degnarlo di uno sguardo si voltò. « Quaranta a zero », gridò con aria allegra, tornando di corsa verso la linea di fondo. Nemmeno la sua voce melodiosa riuscì a placare l'improvviso fiotto di rabbia che assalì Mark e che gli fece stridere i denti con aria torva. « Se fa il venditore, potrebbe vendermi qualcosa di tantin tanto », mormorò Irene. « Ma ora, caro, le suggerisco di fare ciò che le ha detto, altrimenti ce la vedremo brutta. » Storm arrivò attorniata dalle altre ragazze, come una principessa circondata dalle sue damigelle e, mentre la guardava, Mark sentì svanire ogni risentimento. Non si poteva serbar rancore a una donna come quella, così regale, seducente e bella da spezzare il cuore Rimase fermo ad aspettarla. Quando gli si avvicinò, si accose che era molto più alta di quanto avesse pensato. Gli arrivava quasi al mento. « Buongiorno, signorina Courteney. Le ho portato la sua Cadillac nuova. Tutti noi della Natal Motors le auguriamo di divertirsi. » Era l'immancabile discorsetto che accompagnava le consegne, e anche questa volta lo pronunciò con tutto il calore e la sincerità che avevano fatto di lui, nel giro di pochi mesi, il fiore all'occhiello della sua ditta. « Dove sono le chiavi? » gli domandò Storm Courteney, posando per la prima volta gli occhi su di lui. Come quelli del generale, erano di un blu così fondo da sembrare nero. Non c'erano dubbi su chi fosse suo padre. Mentre lo fissava, lì spalancò ed essi, alla luce del sole, assunsero il colore di uno zaffiro levigato o quello della corrente del Mozambico, lontano dalla costa. « Sono in macchina », le rispose. La sua voce aveva un suono strano, come se venisse da lontano. « Vada a prenderle », gli disse. Mark stava per obbedire al suo comando, quando quella specie di sesto senso che lo avvertiva del pericolo incombente lo sconsigliò dal farlo. La ragazza aveva un'espressione neutra, quasi indifferente, come se parlare con lui costituisse uno sforzo inutile, uno dei tanti momenti morti in una vita altrimenti piena di significato. Eppure l'avvertimento era chiaro come il rintocco di una campana, e infatti scorse qualcos'altro agitarsi nei suoi occhi, un'ombra pericolosa ed eccitante, simile alla sagoma di un leopardo che cacci nell'oscurità. Era una provocazione. D'un tratto capì che la figlia di Sean Courteney non poteva essere tanto arrogante e scortese. Dietro il suo comportamento doveva esserci qual-
che ragione segreta, qualche disegno nascosto. La mente gli diventò leggera e dentro di lui si scatenò quella particolare follia che, di fronte a un pericolo o a un'impresa disperata, gli faceva dimenticare la paura delle conseguenze. Le sorrise con aria di sfida. Non dovette sforzarsi; il sorriso gli venne spontaneo e naturalmente provocatorio. « Certo, signorina Courteney. Lo farò volentieri, appena mi avrà chiesto per favore. » Le ragazze che la circondavano trattennero il fiato all'unisono e si immobilizzarono, riverenti e deliziate, facendo scorrere lo sguardo dall'uno all'altra. « Di' per favore a questo simpatico giovanotto », ironizzò Irene, col tono che avrebbe usato una madre con un bambino ricalcitrante, e le altre scoppiarono a ridere, al settimo cielo. Per un attimo una fiamma avvampò negli occhi blu della ragazza, una fiamma diversa dalla rabbia. Mark ne riconobbe la portata; anche se ignorava l'esatta emozione che l'aveva provocata, sapeva che non sarebbe stata senza conseguenze. Poi si spense e al suo posto si scatenò una collera autentica, non simulata. « Come osa! » esclamò Storm con voce bassa e vibrante. Il sangue le defluì dalle labbra, che divennero bianche come il ghiaccio. La sua reazione era stata troppo repentina e così sproporzionata rispetto alla circostanza, che Mark provò un'eccitazione violenta all'idea di averla colpita tanto in profondità. Continuò a sorridere con aria di scherno. « Dagliele, cara », la provocò Irene. Per un attimo Mark pensò che l'avrebbe fatto. « Chiudi la tua stupida bocca, Irene Lenchars. » « Oh, là là! » esclamò Irene, gongolando. « Siamo di cattivo umore! » Mark Si voltò con aria indifferente e aprì la portiera della Cadillac. « Dove sta andando? » « In città », rispose. Avviò il motore e la guardò dal finestrino. Non c'erano dubbi, era la più bella creatura che avesse mai visto. L'ira le aveva arrossato le guance, e i capelli scuri e fini, ancora umidi di sudore, aderivano alla pelle liscia delle tempie in piccoli riccioli. « Quella è la mia automobile! » « Gliela porterà qualcun altro, signorina Courteney. Io sono evvezzo a trattare con le signore. » Ancora una volta le ragazze trattennero il fiato, prima di scoppiare in una risatina soddisfatta. « Oh, che tipo straordinario! » gridò Irene, battendo le mani in un applauso, ma Storm la ignorò. « Mio padre la farà licenziare. » « Sì, è probabile », convenne Mark. Rifletté a fondo per un attimo sull'eventualità, poi, con un cenno del capo, mollò la frizione. Mentre imboccava la prima curva del viale, guardò nello specchietto retrovisivo. Erano ancora là ferme, vestite di
bianco, che lo seguivano con gli occhi come un gruppo di statue di marmo. « Le ninfe spaventate dal satiro »: sarebbe stato un titolo ideale per una composizione del genere, pensò, e scoppiò a ridere in preda a una sorta di perversa eccitazione. « Cristo », mormorò Dicky Lancome, aggrottando la fronte con un moto d'orrore. « Cosa diavolo ti ha preso? » domandò stupefatto, scuotendo lentamente la testa. « E' stata maledettamente scortese. » Rocky lasciò cadere le braccia e lo fissò inorridito. « E' stata villana con te? Oh, mio Dio, questa si che è bella! Ti rendi conto che dovresti esserle grato di averti trattato in modo scortese? Lo sai che ci sono migliaia di bifolchi come noi che trascorrono tutta la loro esistenza senza essere mai nemmeno sfiorati da uno sguardo di Storm Courteney? » « Non potevo starmene li a subire le sue villanie », gli spiegò Mark, in tono ragionevole, ma Dicky lo interruppe. « Senti, vecchio mio, ti ho insegnato tutto quello che so, ma c'è ancora qualcosa che ignori. Non solo devi subire le sue villanie, ma se la signorina Courteney esprime il desiderio di prenderti a calci nel culo, le devi rispondere: 'Certo, signorina, ma lasci prima che mi cambi i calzoni. Non vorrei che si sporcasse il suo bel piedino!' » Mark scoppiò a ridere. La sua eccitazione si stava dissolvendo, mentre l'espressione di Dicky si faceva sempre più lugubre. « Non mi sembra il momento di ridere. Lo sai cos'è successo? » Prima che Mark potesse rispondere, proseguì: « E' arrivata una convocazione dalle alte sfere, anzi, dal presidente del consiglio di amministrazione in persona. Il capo e io ci precipitiamo di corsa, in preda a un miscuglio di sentimenti diversi: paura, trepidazione, cauto ottimismo. Verremo licenziati o riceveremo una promozione? Oppure il presidente ci ha fatti chiamare per congratularsi con noi del livello delle vendite? Arriviamo e ci troviamo di fronte tutto il consiglio riunito. Sembrava un'assemblea di becchini ai quali fosse appena stata annunciata la scoperta del vaccino di Pasteur... » Rocky s'interruppe, come se il ricordo fosse troppo doloroso per soffermarvisi oltre, e trasse un profondo sospiro. « Non le avrai detto sul serio di chiederti per piacere, vero? » Mark annuì. « E le hai detto anche che non era una signora? » « Non esplicitamente », protestò Mark. « Gliel'ho solo lasciato intendere. » Dicky Lancome si passò una mano sul volto, partendo dall'attaccatura dei capelli e arrivando lentamente giù fino al mento. « Sono costretto a licenziarti. Lo sai, vero? » Mark annuì di nuovo. « Stammi a sentire », proseguì Dicky. « Ci ho provato, Mark, te lo giuro. Ho mostrato loro i totali delle tue vendite. Ho detto che eri giovane, impulsivo... Insomma, ho fatto una vera e
propria arringa. » « Grazie, Dicky. » « Be', alla fine del discorso, per poco anch'io non ci rimettevo il posto. » « Non ti saresti dovuto esporre per me. » « Ma perché non hai scelto qualcun altro? Potevi prendere a pugni il sindaco, mandare lettere anonime al re... Perché, nel nome di Dio, dovevi scegliere proprio una Courteney? » « Vuoi sapere una cosa, Dicky? » gli domandò Mark, e questa volta fu l'altro a muovere lentamente il capo in segno d'assenso. « Mi sono divertito... Me la sono goduta un mondo. » Dicky mandò un gemito, estraendo il portasigarette d'argento e porgendolo a Mark. Fumarono in silenzio per qualche istante. « E così sono licenziato, eh? » domandò infine il giovane. « Sono dieci minuti che sto cercando di dirtelo. » Mark cominciò a ripulire i cassetti della propria scrivania, poi si fermò e chiese d'impulso: « E' stato il generale Courteney a chiedere la mia testa? » « Non ne ho la minima idea, vecchio mio, ma puoi star certo che qualcuno l'ha fatto. » Mark preferiva credere che non fosse stato il generale. Era un gesto troppo meschino per un uomo della sua statura. Faceva meno fatica a immaginarselo mentre si precipitava in negozio brandendo il frustino. Chi era capace di vendicarsi così di una battuta scherzosa, non sarebbe indietreggiato davanti a niente, nemmeno alla prospettiva di uccidere un vecchio per sottrargli la sua terra. Il pensiero era così atroce che preferì rimuoverlo. « Bene, allora. Tanto vale che me ne vada subito. » « Mi spiace, vecchio mio. » Dicky si alzò e gli porse la mano. Poi, con aria vagamente imbarazzata soggiunse: « Sei a posto con i quattrini? Posso sganciarti qualcosa se hai bisogno ». « Grazie, Dicky, ma non è necessario. » « Senti », proruppe l'altro. « Lascia passare un mesetto, giusto il tempo che il polverone si acquieti, e poi, se non ti sei ancora sistemato, torna a trovarmi. Cercherò di farti rientrare dalla finestra, anche se dovessi registrarti sotto falso nome. » « Ciao, Dicky, e grazie di tutto. Dico sul serio. » « Mi mancherai, vecchio mio. Tieni la testa sotto il parapetto la prossima volta, d'accordo? » Il banco dei pegni era in Soldiers Way, quasi di fronte alla stazione ferroviaria. Il locale era piccolo e straripante di oggetti di ogni tipo e valore, da quelli più preziosi alla paccottiglia, che si erano andati accumulando nel corso degli anni. Le file di abiti da sposa ingialliti e le vetrinette polverose contenenti vecchie fedi nuziali, orologi intarsiati, portasigarette e fiaschette d'argento offrivano una visione malinconica. « Due sterline », disse l'uomo che stava dietro il banco,
dopo aver lanciato un'occhiata al vestito. « Non ha che tre mesi », ribatté Mark in tono pacato. « L'ho pagato quindici. » L'uomo si strinse nelle spalle e gli occhiali dalla montatura in metallo gli scivolarono sul naso. « Due sterline », ripetè, sollevando le lenti con un pollice grigio e impolverato come la sua mercanzia. « Va bene... E quanto mi dà per questa? » Aprì il piccolo astuccio mostrando il dischetto bronzeo che se ne stava annidato nel suo letto di seta, ornato di un allegro nastrino bianco, rosso e blu. La medaglia al valor militare che veniva attribuita agli ufficiali di complemento e alla truppa. « Ne portano a bizzeffe », disse l'uomo, con una smorfia. « Non potrò darle granché, al massimo dodici sterline. » « Quanto tempo le tenete prima di venderle? » domandò Mark, provando un'improvvisa riluttanza all'idea di separarsi da quel pezzetto di metallo. « Un anno. » « Va bene », disse Mark, rassegnato. I dieci giorni trascorsi nella vana ricerca di un impiego l'avevano privato delle sue ultime risorse di denaro e di coraggio. Mentre l'uomo gli scriveva la ricevuta, Mark cominciò a vagare nei recessi del negozio. Scovò un macchio di vecchie bisacce militari e ne scelse una; poi vide una rastrelliera di fucili, per la maggior parte Martini e Mauser della guerra boera. Uno, però, si distingueva dagli altri. La parte in legno era quasi priva di segni e quella metallica splendeva, lustra e oliata, senza graffi né tracce di ruggine. Mark lo prese in mano e immediatamente si sentì assalire dai ricordi. Li rimosse con altrettanta rapidità. Avrebbe avuto bisogno di un fucile nel luogo dove stava andando, ed era più saggio prenderne uno che conosceva bene. Il destino aveva messo lì quel P. 14 apposta per lui. Al diavolo i ricordi, decise. Tolse il caricatore e puntò la canna verso la luce che proveniva dalla porta. Anche dentro era in ottimo stato, le rigature si snodavano in una spirale regolare, senza difetti o corrosioni. Qualcuno si era preso molta cura di quell'arma. « Quanto vuole? » chiese all'uomo. I suoi occhi, dietro gli occhiali cerchiati, si trasformarono in due sassi. « E' un ottimo fucile », rispose. « L'ho pagato un mucchio di soldi e lo vendo con un centinaio di proiettili. » Mark scoprì che la vita cittadina l'aveva infiacchito. Dopo soli dieci chilometri i piedi gli dolevano e le cinghie del fucile e della bisaccia gli segavano la spalla. La prima notte si stese accanto al fuoco e dormì come se qualcuno gli avesse dato un colpo in testa. Quando si svegliò. era così rigido che lo sforzo di mettersi a sedere gli strappò un lamento. Percorse il primo paio di chilometri barcollando come un vecchio, finché i muscoli non si rilassarono, cosicché, quando
raggiunse il bordo della scarpata e cominciò a discendere verso la piana costiera, aveva già ripreso a camminare spedito. Si tenne lontano da Andersland e guadò il fiume una decina di chilometri più a nord. Scelse un punto in cui l'acqua scorreva bassa tra le rive sabbiose e lo varcò portando vestiti, bisaccia e fucile in equilibrio sulla testa. Si distese ad asciugare al sole, come una lucertola, poi si rivestì e si rimise in cammino, dirigendosi verso nord. Il terzo giorno il suo passo si era trasformato nella lunga falcata del cacciatore e il carico che portava sulle spalle aveva smesso di pesargli. Ma procedeva ugualmente con difficoltà. Le ondulazioni del terreno lo costringevano a salire e a scendere in continuazione, mettendo a dura prova i suoi muscoli, e i rovi, che crescevano fitti, lo obbligavano a muoversi a zigzag perdendo tempo e raddoppiando quasi la distanza tra un punto e l'altro. L'erba, inoltre, era secca e aveva già fatto i semi, che, appuntiti come lance, si facevano strada attraverso le calze di lana, arpionandogli la pelle. Ogni mezz'ora doveva fermarsi per estrarli; eppure quel giorno riuscì a percorrere sessanta chilometri. Al tramonto, valicò l'ennesima cresta del terreno. La sagoma del Passo Chaka spiccava azzurrognola in distanza, fondendosi con le nuvole scure della sera. Si accampò li quella notte, ripulendo il terreno sotto un albero per farsi un giaciglio e mangiando carne in scatola e fiocchi di mais alla luce del fuoco di legno d'acacia che, bruciando, produceva una caratteristica fiamma bianca ed emanava odore d'incenso. Il generale Sean Courteney era in piedi davanti alla massiccia credenza di teak, con i suoi ripiani a specchio decorato su cui era disposta in bella mostra l'argenteria. In una mano teneva un forchettone con il manico d'avorio e nell'altra il lungo coltello Sheffield, con cui gesticolava per sottolineare ciò che stava dicendo al suo ospite d'onore. « L'ho letto tutto in un giorno. Sono rimasto sveglio fino a mezzanotte per finirlo. Credimi, Jan, è la cosa migliore che abbia scritto finora. Ha raccolto una quantità impressionante di notizie. » « Non vedo l'ora di leggerlo », rispose il Primo Ministro, rivolgendo un cenno del capo all'autore dell'opera di cui stavano discutendo. « E' ancora manoscritto. Ha bisogno di qualche ritocco prima di venir pubblicato. » Sean si rivolse nuovamente all'arrosto e con mano sicura tagliò cinque fette sottili di carne rosa orlata da una striscia di grasso giallo. Servendosi del forchettone, sollevò la carne e la dispose sul piatto di porcellana Rosenthal, che un servo zilù, vestito di un Kanza bianco e con in testa un fez rosso, si affrettò a portare al suo posto, a capotavola. Sean depose il coltello, si pulì le mani con uno strofinaccio
di lino, e, seguendo il servo, tornò a sedersi. « Ci chiedevamo se non avresti potuto scrivere una breve prefazione al libro », disse poi, levando il calice di cristallo pieno di vino rosso in direzione del Primo Ministro. Jan Christiaan Smuts chinò il capo che si ergeva sulle spalle strette in un gesto simile a quello di un uccello. Era un uomo piccolo e le mani appoggiate al tavolo davano un'impressione di fragilità. L'aria da filosofo, o da studioso, era ulteriormente accentuata dalla barbetta appuntita. La sua forza vitale e la soggezione che incuteva contraddicevano con la sua statura, oltre a essere in netto contrasto con il tono acuto della voce. « Ne sarò felicissimo e mi ritengo molto onorato », rispose, e parve quasi crescere sulla sedia, tale era la forza della sua personalità. « Sono io a esserne onorato », replicò in tono serio il colonnello Garrick Courteney con un inchino appena accennato. Sean osservò il fratello con affetto. « Povero Garry », si disse, e subito provò una fitta di rimorso. Eppure gli pareva naturale pensare a lui in quei termini. Era diventato vecchio e fragile, curvo, grigio e rinsecchito al punto da sembrare più vecchio dell'uomo che gli stava di fronte. « Ha già trovato il titolo? » gli domandò Jan Smuts. « Ho pensato di intitolarlo Le giovani aquile. Spero che non lo consideri eccessivamente melodrammatico per una storia dei Corpi aerei reali. » « Niente affatto », affermo Smuts. « Lo ritengo eccellente. » « Povero Garry », pensò Sean un'altra volta. Il libro riempiva il vuoto tremendo lasciatogli dalla morte del figlio, ma non gli aveva impedito di invecchiare. Era una specie di monumento alla memoria di Michael, un gesto estremo d'amore. « Questo libro è dedicato al capitano Michael Courteney, una delle Giovani Aquile che non voleranno più », così diceva la dedica. Sean sentì rinascere il proprio dolore e compì un notevole sforzo per reprimerlo. All'altro capo del tavolo, sua moglie se ne accorse e catturò il suo sguardo. Come lo conosceva bene, pensò la donna, come sapeva leggere nei suoi sentimenti. Gli sorrise, piena di comprensione. Lui reagì, raddrizzando le spalle e stringendo la mandibola barbuta, poi le ricambiò il sorriso. « Garry, il generale Smuts ha promesso di accompagnarmi a fare un giro in giardino, oggi pomeriggio », intervenne lei, cambiando abilmente discorso. « Voglio che mi consigli il luogo adatto per piantare le protee che mi ha portato dalla montagna. Perché non vieni con noi, tu che sei un esperto? » « Mia cara Ruth, non si faccia illusioni », disse Jan Smuts con quella sua voce acuta e tuttavia autorevole. « Ho poche speranze che riescano a sopravvivere. » « E i leucadendri? » azzardò Garry. « Chissà? Se trovassimo un posto fresco e asciutto... »
« Quelli si », convenne il generale, e si immersero in un'animata discussione. Ruth aveva agito con tanta abilità da far pensare che il discorso fosse nato spontaneamente. Sean si fermò sulla porta dello studio e percorse la stanza con un'occhiata lunga e lenta. Come sempre, provò una fitta di piacere all'idea di rientrare nel suo rifugio. Le porte a vetri si aprivano sulle grandi aiuole fiorite e sui getti leggeri delle fontane, ma i muri spessi erano una garanzia di frescura anche nell'afa sonnacchiosa del mezzogiorno. Si avvicinò alla scrivania in legno di ocotea, scura, massiccia e così lustra che splendeva persino in quella fresca penombra, e si sedette sulla sedia girevole, sentendo il cuoio fine ed elastico che cedeva sotto il suo neso. La posta giornaliera era sistemata su un vassoio d'argento alla sua destra. Quando la vide, sospirò: benché il capufficio della sede centrale, giù in città, la passasse a un vaglio accurato, c'erano almeno un centinaio di lettere che attendevano di essere aperte. Ritardò il momento, girando lentamente sulla sedia per dare un'altra occhiata alla stanza. Era difficile credere che fosse stata arredata da una donna, a meno che la donna in questione non amasse e capisse il marito al punto da prevenire i suoi desideri. Gran parte dei libri erano rilegati in cuoio verde scuro e recavano, stampigliato in oro sulla costola, lo stemma di Sean. L'unica eccezione era costituita da tre scaffali alti fino al soffitto, contenenti le prime edizioni di opere che avevano per tema l'Africa. Un mercante di Londra e uno di Amsterdam avevano carta bianca nella ricerca di questi tesori. Tra essi figuravano le prime edizioni firmate delle opere di Staoley, Livingstone, Cornwallis Harris, Burchell, Munro e di quasi tutti gli altri esploratori o cacciatori che avessero mai scritto qualcosa. Il rivestimento in legno scuro tra gli scaffali era zeppo di dipinti dei primi artisti africani, tra cui i Baines spiccavano come gemme, con i loro colori sgargianti e la raffigurazione ingenua e quasi infantile di scene campestri. Uno di essi, racchiuso in una cornice di sequoia della Rhodesia dall'intaglio elaborato, recava la dedica: « Al mio amico David Livingstone, Thomas Bames ». Questi legami con la storia e col passato lo accendevano di soddisfazione, e Sean si abbandonò al flusso dei suoi pensieri. Il folto tappeto aveva attutito i suoi passi, ma il lieve profumo che indugiava nell'aria lo avvertì della sua presenza. Girò la sedia in modo da ritrovarsi di fronte alla scrivania e la vide. Gli stava vicina, snella e dritta come una ragazza. « Credevo che fossi andata in giardino con Garry e Jan. » Ruth gli sorrise e a lui parve ancora giovane e bella come quando l'aveva vista la prima volta, tanti anni prima. La penombra della stanza nascondeva le piccole rughe all'angolo degli occhi e i fili d'argento annidati tra i capelli scuri che portava raccolti con un nastro sulla nuca.
« Mi stanno aspettando, ma sono sgusciata via un attimo per assicurarmi che non avessi bisogno di niente. » Gli sorrise, poi prese un sigaro dalla scatola d'argento e cominciò a prepararlo. « Me la sbrigherò in un paio d'ore », le disse Sean, lanciando un'occhiata al mucchio di lettere. « Hai bisogno di un segretario, Sean », osservò Ruth, tagliando con cura la cima del sigaro. Lui emise un brontolio. « I giovani d'oggi sono assolutamente inattendibili... » proclamò. Ruth sbottò in una risatina e gli ficcò il sigaro tra le labbra. « Parli come se fossi Matusalemme », commentò, poi accese un fiammifero e lasciò bruciare lo zolfo prima di accostarlo alla punta del sigaro. « La sfiducia nei giovani è un segno di vecchiaia. » « Con te vicina non corro il rischio di invecchiare », le disse. Nonostante gli anni trascorsi insieme, i complimenti gli costavano ancora fatica, e la donna, consapevole del suo sforzo, si senti pervadere da un'ondata d'amore. Si chinò di scatto a baciargli la guancia. Con una rapidità che non mancò di stupirla, lui alzò il braccio muscoloso e la ghermi alla vita, costringendola a sederglisi in grembo. « Sai cosa succede alle ragazze impertinenti, vero? » le disse, sogghignando maliziosamente e guardandola con gli occhi ridotti a due fessure. « Sean », protestò lei, fingendosi sdegnata. « Cosa diranno i servitori? E i nostri ospiti? » Si dibatté per liberarsi dell'abbraccio. Si rassettò la gonna e si aggiustò i capelli. Sentiva ancora sulle labbra il calore umido del suo bacio, il solletichio dei baffi e il gusto del sigaro. « Sono una sciocca », osservò, scuotendo tristemente il capo. « Continuo a fidarmi di te. » Si sorrisero, perduti nel loro amore. « Oh Dio, gli ospiti », si ricordò Ruth d'un tratto, portandosi una mano alla bocca. « Ti va bene se ordino il tè per le quattro? Lo farò servire giù al lago. E' una bella giornata. » Dopo che se ne fu andata, Sean rimase a fissare assorto la portafinestra da cui era uscita. Poi, con un sospiro soddisfatto, attirò a sè il vassoio d'argento che conteneva la posta. Lavorò in fretta e con concentrazione, impartendo le proprie istruzioni a piè di pagina e siglandole con le iniziali. « No! Ma glielo dica educatamente. S.C. » « Mi faccia avere le cifre corrispondenti agli acquisti dell'anno scorso e attenda la garanzia bancaria prima di provvedere al prossimo invio. S.C. » « Questo non mi riguarda. Lo mandi a Barnes. S.C. » « D'accordo. S.C. » « Ad Atkinson per un giudizio. Grazie. S.C. » Gli argomenti delle lettere erano i più disparati, come diversi erano gli scriventi: uomini politici, finanzieri, supplicanti, vecchi amici, impostori, questuanti. Ce n'era per tutti i gusti. Prese in mano una lettera ancora chiusa e la fissò per un
attimo, senza riconoscere il nome del destinatario né il motivo per cui l'aveva scritta. « Signor Mark Anders, Natal Motors, West Street, Durban. » Eppure la calligrafia marcata e svolazzante era proprio la sua. Improvvisamente si ricordò di cosa si trattava. Qualcuno aveva scritto sulla busta: « Il destinatario è partito senza lasciare indirizzo. Restituire al mittente ». Si ficcò il sigaro in un angolo della bocca e aprì la busta con un tagliacarte d'argento. Il cartoncino portava lo stemma del reggimento impresso a secco. Il Comandante in Capo e gli Ufficiali dei Fucilieri a cavallo del Natal richiedono il piacere della presenza di Mark Anders a una cena che si terrà al vecchio forte... Sean aveva scritto il nome del ragazzo nello spazio vuoto, aggiungendo di suo pugno in fondo al biglietto: « Cerchi di venire. S.C. ». Vedendoselo restituire, si accigliò. Come sempre, ogni minimo cambiamento nei suoi piani lo infastidiva. Con un gesto di stizza, buttò nel cestino sia la busta sia il cartoncino, ma mancò il bersaglio ed entrambi finirono per terra svolazzando. Constatò con sorpresa che il suo umore era cambiato. Continuò a lavorare di malavoglia e senza più concentrazione, e il tono delle istruzioni a piè di pagina divenne brusco e sarcastico. « Quell'uomo è un pazzo o un mascalzone. Non mi sognerei mai di raccomandarlo per un posto di responsabilità... in barba al nome che porta! S.C. » Un'ora dopo aveva finito. Nella stanza stagnava il fumo del sigaro, come una nebbiolina. Si appoggiò allo schienale e si stirò voluttuosamente come un vecchio leone, poi lanciò un'occhiata all'orologio. Mancavano cinque minuti alle quattro. Si alzò. Lo sguardo gli cadde sul cartoncino incriminato. Si chinò a raccoglierlo e lo rilesse, attraversando la stanza. Poi se lo batté sul palmo della mano, mentre usciva alla luce del sole e si avviava sul prato. Su un'isola artificiale al centro del lago c'era un padiglione unito alla terraferma da una stretta passerella. I familiari e gli ospiti di Sean vi si erano già radunati e ora stavano seduti attorno al tavolo, sotto quella tettoia bizzarra piena di volute di ferro battuto dipinte nei colori più incredibili. Le anitre selvatiche erano già accorse in frotta attorno all'isola e reclamavano schiamazzando la loro parte di biscotti e di torta. Storm Courteney vide il padre che si avvicinava sul prato e, con un gridolino eccitato, badò dalla sedia e scese di corsa la passerella per andargli incontro. Sean la sollevò senza sforzo, come se fosse stata ancora una bambina, e la baciò. Storm aspirò il suo profumo, il piacevole odore di cuoio vecchio che le era così familiare e faceva parte
della sua vita come quello della pioggia sul terreno caldo e riarso, quello dei cavalli o quello del mare. Quando la rimise a terra, la ragazza gli prese il braccio e si strinse a lui, cercando di adattare il suo passo leggero all'andatura zoppicante del padre. « Com'è andato il tuo pranzo? » le domandò, abbassando lo sguardo sulla testolina lucente. Storm gli lanciò un'occhiata feroce. « E' un giovanotto molto presentabile », continuò Sean in tono burbero. « Un'ottima persona. » « Oh, papà, detto da te significa solo che è un povero imbecille, mortalmente noioso. » « Signorina, vorrei ricordarti che è uno studente di Rhodes e che suo padre è presidente della corte suprema. » « Oh, so già tutto. Ma gli manca il guizzo, papà! » Per un attimo Sean assunse un'aria perplessa. « Se non sono troppo indiscreto, potrei sapere cos'è questo 'guizzo'? » « Non è facile da definire », disse lei in tono serio. « Tu, ad esempio, ce l'hai. Sei la persona con più guizzo che io conosca. » Dopo questa affermazione Sean scoprì che tutte le sue parole di paterna disapprovazione e i suoi saggi consigli avevano preso il volo come uccelli migratori. Le sorrise, scuotendo il capo. « Smettila di adularmi. Cosa vuoi? » « Tu non ci crederai, papà, ma i Payne si sono fatti arrivare dodici modelli esclusivi di Patou. Patou fa furore quest'anno... » « Bella roba! Come faranno le donne a farsi raggirare così da quei furbacchioni di Parigi... » grugnì Sean, e Storm ridacchiò con aria deliziata. « Sei un tesoro, papà », gli disse. « Sai, il papà di Irene gliene ha comprato uno, e lui non è che un commerciante! » Sean sbatté le palpebre sentendo descrivere in termini così riduttivi il proprietario di una delle più grandi ditte di importazione del Paese. « Se Charles Leochars è un commerciante, vorrei sapere come definisci me », le domandò incuriosito. « Tu sei un proprietario terriero, un Ministro della Corona, un generale, un eroe... e l'uomo più fantastico del mondo. » « Vedo che ho una reputazione da difendere », commentò Sean, senza riuscire a trattenere una risata. « Di' al signor Payne di mandarmi il conto. » Storm lo abbracciò estasiata, e solo allora notò il cartoncino che teneva in mano. « Oh! » esclamò. « Cos'è, un invito? » « Non ti riguarda, figliola », la ammonì Sean, ma lei gliel'aveva già tolto di mano. Quando lesse il nome, il suo umore mutò. Di colpo divenne calma e controllata. « Hai davvero intenzione di invitare quel... venditore? » A quel pensiero anche lui cambiò umore, tornando ad accigliarsi. « L'ho già fatto, ma l'invito mi è tornato indietro. Se
ne è andato senza lasciare l'indirizzo. » « Il generale Smuts ti sta aspettando per parlarti », gli disse Storm, ricuperando il sorriso con uno sforzo e saltellandogli accanto. « Sbrighiamoci. » « E' una cosa seria, amico mio. Sono organizzati ed è chiaro che stanno cercando un confronto diretto. » Jan Christiaan Smuts sbriciolò un biscotto e lo lanciò alle anitre. Queste litigarono rumorosamente, sollevando un'infinità di spruzzi e schiamazzando con i becchi larghi e piatti, mentre si tuffavano a caccia di briciole. « Quanti saranno i lavoratori bianchi licenziati? » domandò Sean. « Per cominciare duemila », rispose Smuts. « In totale forse quattromila. Ma si pensa di farlo gradualmente, man mano che i negri saranno pronti a sostituirli. » « Duemila », ripeté Sean, assorto. Non riusciva a non pensare alle mogli e ai bambini... a tutti coloro il cui sostentamento dipendeva dal salario di ciascuno di quegli uomini. Duemila lavoratori disoccupati significavano un bel macchio di sofferenze e di indigenza. « A quanto vedo, la cosa ti disturba esattamente quanto disturba me. » L'uomo era astuto e gli aveva letto nel pensiero. Non per niente i suoi avversari lo chiamavano « lo scaltro Jannie ». « Duemila disoccupati sono una faccenda seria », osservò. Poi, dopo una pausa significativa, proseguì: « Ma esistono già delle altre prospettive. Avremo bisogno di molte braccia per l'ampliamento della rete ferroviaria e per la realizzazione di altri progetti, come l'impianto di irrigazione VaalHarts ». « I salari saranno inferiori a quelli che prendono in miniera », osservò Sean. « E' vero », ammise Jan Smuts con aria pensierosa. « Ma ti sembra che valga la pena di rischiare la chiusura delle miniere per proteggere il reddito di duemila minatori? » « Vuoi dire che la situazione è così critica? » domandò Sean, accigliandosi. « Il presidente dell'Associazione mineraria mi ha assicurato che lo è, suffragando la sua affermazione con dei dati eloquenti. » Sean scosse il capo, incredulo e addolorato. Anche lui aveva posseduto delle miniere e conosceva bene il problema dei costi, ma sapeva anche che le cifre potevano essere manipolate in modo da dimostrare ciò che si voleva. « Tu, in particolare, non puoi ignorare quanti altri dipendono da quelle miniere d'oro », soggiunse Smuts. Era una frase provocatoria, che lo ferì come la punta di un pugnale. L'anno precedente, per la prima volta, le sue segherie avevano venduto puntelli di legno alle miniere d'oro del Transvaal per un totale di due milioni di sterline d'argento. Il piccolo generale sapeva quello che diceva.
« Quanti sono i dipendenti delle Segherie del Natal, vecchio Sean? » « Ventimila », rispose lui in tono secco, alzando un sopracciglio con aria perplessa. Prima di proseguire, il Primo Ministro gli sorrise soavemente. « Ci sono altre considerazioni da fare, vecchio mio. Se ben ti ricordi, ne abbiamo già discusso, ed eri proprio tu a sostenere in quelle occasioni che il nostro Paese, per prosperare, dovrà basarsi sulla collaborazione tra bianchi e negri, e che le ricchezze dovranno essere suddivise secondo le capacità di ciascuno e non secondo il colore della pelle. Non è così? » « Si », convenne Sean. « Di solito ero io a dire che bisognava procedere con calma, ma ora sei tu che esiti e ti tiri indietro. » « Ti ho anche detto, Jannie, che molti piccoli passi erano più sicuri di qualche balzo selvaggio ottenuto con un assegai alle costole, e che dovevamo imparare a piegarci per evitare di essere costretti a spezzarci, in seguito. » Jannie Smuts rivolse di nuovo la propria attenzione alle anitre ed entrambi rimasero a guardarle distrattamente. « Avanti, Jannie », disse infine Sean. « Ci devono essere delle altre ragioni. Quelle che mi hai dato finora sono tutte validissime, ma non così pressanti. Ti conosco, sai? Come tutti gli uomini politici, avrai tenuto il meglio per ultimo. » Jannie sbottò in una risatina divertita e si chinò a battergli un colpetto sul braccio. « Ci conosciamo entrambi fin troppo bene. » « Per forza », commentò Sean, ricambiandogli il sorriso. E' Abbiamo combattuto a lungo l'uno contro l'altro. » Entrambi si rabbuiarono al ricordo dei terribili giorni della guerra civile. « Senza contare che abbiamo avuto tutti e due lo stesso maestro, che Dio lo benedica. » « Che Dio lo benedica », ripeté Jan Smuts. Rimasero un attimo in silenzio a ricordare quel colosso di Louis Botha, guerriero e uomo politico, artefice dell'Unione e suo primo capo. « Avanti », insiste Sean. « Qual è l'altra ragione? » « E' molto semplice. Si tratta di decidere chi deve comandare: se i rappresentanti eletti dal popolo o quella banda di avventurieri senza scrupoli che si autodefiniscono dirigenti sindacali, i cosiddetti rappresentanti dei lavoratori. Insomma, per dirla in breve, il comunismo internazionale. » « Non ti sembra di esagerare? » « No, Sean. La situazione è grave. I servizi segreti mi hanno fornito delle informazioni che riferirò durante la riunione del Consiglio, alla riapertura del Parlamento. Ho voluto parlartene prima perché ho di nuovo bisogno del tuo aiuto, amico mio. Desidero che tu partecipi a quella riunione. » « Dimmi tutto », lo invitò Sean. « Sappiamo che si stanno armando e che hanno organizzato i minatori in veri e propri commando militari. » Jan Smuts continuò a parlare concitatamente per quasi venti minuti. Quan-
do ebbe finito, guardò Sean. « Bene, amico mio, adesso sai tutto. Ti schiererai con me? » Sean ebbe una rapida visione del futuro. Ancora una volta la terra che amava sarebbe stata dilaniata dall'odio e avrebbe dovuto affrontare i patimenti della guerra civile. Sospirò, addolorato. « Si », disse poi, annuendo ripetutamente. « Starò dalla tua parte, hai la mia parola. » « Tu e il tuo reggimento? » gli domandò Jan Smuts, stringendo la mano poderosa che l'altro gli porgeva. « Ti avrò con me sia come Ministro sia come soldato? » « Si », dichiarò Sean. « Fino alla fine. » Marion Littlejohn lesse la lettera di Mark seduta sull'asse del gabinetto dell'ufficio, con la porta chiusa a chiave, ma il suo amore trascendeva lo squallore dell'ambiente che la circondava fino a ignorare il gorgoglio dell'acqua che fluiva nel serbatoio sospeso sopra la sua testa. La lesse tutta due volte, con gli occhi velati di lacrime e un sorrisetto tenero che le indugiava incerto sulle labbra, poi baciò la firma, in fondo all'ultima pagina, ripiegò i fogli e li rimise nella busta che, dopo essersi sbottonata il corpetto, infilò nell'incavo del seno rotondo. Tornò in ufficio con un'insolita protuberanza sotto il vestito e il capufficio, alzando gli occhi dal gabbiotto di vetro, consultò vistosamente l'orologio che aveva al polso. Era una regola tacitamente accettata che le necessità corporali dovessero essere assolte rapidamente, in un tempo, comunque, che non doveva mai superare i quattro minuti al giorno. Il resto della giornata si trascinò penosamente per Marion che, di tanto in tanto, si toccava la sporgenza del corpetto con un sorriso segreto. Quando giunse l'ora di chiusura, si affrettò lungo Main Street, giungendo senza fiato al negozio della signorina Lucy, proprio mentre costei stava chiudendo. « Sono ancora in tempo? » le domandò. « Entra pure, cara. Come sta il tuo giovanotto? » « Ho ricevuto una sua lettera proprio oggi », annunciò la ragazza in tono orgoglioso. La signorina Lucy scosse i riccioli argentei in segno d'assenso e le lanciò un'occhiata benevola da sotto le lenti montate in argento. « Lo so. Il postino me l'ha detto. » Ladyburg non si era ancora ampliata al punto tale da non interessarsi più alle vicende dei suoi figli di ambo i sessi. « Come sta? » Marion cominciò a cicalare, con le guance arrossate e gli occhi splendenti, mentre ispezionava ancora una volta le quattro paia di lenzuola di lino irlandese che la signorina Lucy le aveva tenuto da parte. « Sono molto belle, cara. Puoi proprio andarne orgogliosa. Farete degli splendidi bambini tra queste lenzuola. » Marion arrossi un'altra volta. « Quanto le devo ancora, signorina Lucy? » « Vediamo un po'... mi hai già dato due sterline e sei pence.
Restano ancora trenta scellini. » Marion aprì il borsellino e ne esaminò attentamente il contenuto, poi, dopo un attimo di lotta con se stessa, raggiunse finalmente una decisione e appoggiò sul banco una mezza sovrana d'oro. « Adesso le devo solo una sterlina. » Poi, dopo un attimo d'esitazione, arrossì ancora e sbottò: « Potrei ritirarne un paio? Vorrei cominciare a ricamarle ». « Certo, figliola », convenne la signorina Lucy. « Ne hai già pagate tre. Aspetta che ti apro il pacco. » Marion e sua sorella Lynette siedono sul divano, l'una accanto all'altra. Le teste sono chine sul lenzuolo che hanno cominciato a ricamare, ognuna da un capo, e gli aghi da ricamo si muovono con alacrità pari a quella delle loro lingue. « Mark ha trovato molto interessanti gli articoli che gli ho mandato su Dirk Courteney e ha detto che ne farà un personaggio importante del suo libro. » All'altra estremità della stanza il marito di Lyn è immerso nello studio di alcuni documenti legali, sparsi sul tavolo davanti a lui. Ha inaugurato di recente una pipa di radica, che ora gorgoglia piano a ogni tiro. I capelli, imbrillantinati con cura, sono perfettamente divisi nel mezzo da una riga che sembra tirata con la squadra. « Oh, Peter », esclama Marion all'improvviso, interrompendo il lavoro e illuminandosi in volto. « Mi è venuta un'idea straordinaria. » Peter Botes alza gli occhi dalle carte, con la fronte bianca appena solcata da una ruga di stizza di fronte a quell'intrusione femminile che viene a distoglierlo dal suo lavoro. « Tu segui tutti gli affari del signor Courteney, giù in banca. Sei stato persino a casa sua, non è vero? E lui ti saluta quando ti incontra, l'ho visto coi miei occhi. » Peter annuisce con aria d'importanza, mandando uno sbuffo di fumo. « Sì, anche Carter è convinto che il signor Courteney mi apprezzi. Credo che finirò per occuparmi sempre di più delle sue faccende in futuro. » « Oh, Peter, perché non dici al signor Courteney che Mark ha intenzione di scrivere un libro su Ladyburg e che è molto interessato alla storia della sua famiglia? » « Andiamo, Marion », obietta Peter, agitando la pipa. « Non puoi aspettarti che un uomo come il signor Courteney... » « Al contrario, forse ne sarà lusingato. Ti prego... Sono certa che ti ascolterà. E, se l'idea gli piace, le tue azioni saliranno alle stelle. » Peter comincia a riflettere, contrapponendo il desiderio di acquistare credito e prestigio presso le donne della sua famiglia alla terribile prospettiva di parlare a tu per tu con il signor Courteney. L'idea è tutt'altro che piacevole. Dirk Courteney lo terrorizza al punto che, in sua presenza, assume un atteggiamento servile e adulatore, il che, d'altra parte, costituisce una
delle ragioni per cui al signor Courteney piace trattare con lui. Certo, è anche estremamente meticoloso nel lavoro, ma il signor Courteney è molto sensibile alla deferenza. « Ti prego, Peter; Mark si sta dando tanto da fare per questo libro che è quasi doveroso aiutarlo. Ho appena detto a Lynette che ha preso un mese di permesso dal lavoro per andarsene al Passo Chaka con l'unico scopo di raccogliere del materiale. » « Al Passo Chaka? » ripetè Peter, incredulo, togliendosi di bocca la pipa. « Cosa diavolo spera di trovare? Se c'è un posto sperduto al mondo, è proprio quello. » « Non lo sa », ammette Marion, ma poi si affretta a soggiungere: « Ha detto solo che è importante per il libro. Comunque, dobbiamo aiutarlo ». « E cosa dovrei chiedere al signor Courteney? » « Dovresti chiedergli un appuntamento, in modo che possa raccontare personalmente la storia della sua vita a Mark. Credo che sarebbe molto utile per lui. » Peter deglutisce. « Senti, Marion, il signor Courteney è un uomo molto occupato. Non avrà il tempo di... » « Ti prego », esclama Marion, balzando in piedi e andando a inginocchiarsi al suo fianco. « Ti scongiuro, fallo per me! » « Va bene », borbotta. « Glielo accennerò. » Peter Botes era fermo come una guardia del corpo accanto all'unica sedia posta a capo del lungo tavolo di marmo e si chinava rigidamente con la parte superiore del corpo solo quando doveva voltare pagina. « Anche qui, per favore, signor Courteney. » Dirk si limitava a lanciare un'occhiata distratta al punto indicato, poi tracciava rapidamente la sua firma continuando a conversare con gli altri uomini elegantemente vestiti che erano seduti al tavolo. Attorno a lui aleggiava il suo profumo intenso, che portava con una disinvoltura tale da farlo sembrare il suo odore naturale. Peter cercò invano di identificarlo. Doveva essere terribilmente costoso, ma era l'odore del successo, e Peter si ripromise di comprarsene una boccetta a qualunque costo. « E ora qui, per favore, signore. » Vicino com'era, notò che i capelli di Dirk Courteney erano privi di brillantina e lasciati lunghi alle tempie, così da fondersi con le basette. « E' tutto, signor Courteney. Domani le farò mandare le copie. » Dirk Courteney annuì senza degnarlo di un'occhiata e, spingendo indietro la sedia si alzò. « Bene, signori », disse, rivolto agli altri. « Non facciamo aspettare le signore. » Tutti scoppiarono in una risata carica di sottintesi, con gli occhi che brillavano come quelli dei leoni in gabbia al momento del pasto. Peter aveva sentito descrivere con dovizia di particolari le
serate che Dirk Courteney organizzava a Great Longwood, la sua maestosa dimora. Aveva sentito parlare del gioco d'azzardo, dei combattimenti di cani - due esemplari messi in una fossa, che si sbranavano, lacerandosi a vicenda - o di quelli tra galli, e delle donne che arrivavano in automobili chiuse da Durban o da Johannesburg. Donne di città: il pensiero gli faceva rimescolare il sangue. Gli inviti a questi ricevimenti erano riservati agli uomini che contavano sia per il loro potere sia per la loro ricchezza, e durante i festini, che si protraevano per tutto il finesettimana, la proprietà era pattugliata dalle guardie del corpo del padrone di casa. A volte Peter sognava di essere invitato a uno di questi trattenimenti. Si vedeva mentre, seduto al tavolo da gioco, proprio di fronte a Dirk Courteney, spingeva verso di lui una pila di fiches multicolori con il sigaro infilato all'angolo della bocca, o mentre scherzava tra sete fruscianti e bianche membra lisce. Sapeva che a quelle serate erano presenti delle ballerine, splendide donne che si spogliavano a suon di musica, restando completamente nude tra le urla entusiastiche e le mani brancicanti degli uomini. Peter si riscosse giusto in tempo. Dirk Courteney era in fondo alla sala e stava congedando i suoi ospiti; ridendo e scherzando, con i denti candidi che mandavano lampi nel bel volto scuro. Un servitore gli sorreggeva il cappotto e giù in strada gli autisti attendevano a bordo delle limousine, pronti a partire per un mondo di cui Peter non poteva far altro che immaginare i risvolti erotici. Si affrettò a raggiungerlo. « Signor Courteney, dovrei chiederle un favore personale », balbettò nervosamente. « A presto, Charles », disse Dirk Courteney, senza guardarlo, ma circondando con un braccio le spalle di un ospite. « Spero che la fortuna ti assista più della volta scorsa. Non mi va l'idea di portare via i soldi a un amico. » « Il fidanzato della sorella di mia moglie », arrancò Peter disperatamente, « sta scrivendo un libro su Ladyburg e vorebbe includervi la storia della sua vita... » « Alfred, tu va' con Charles nella prima macchina », proseguì Dirk Courteney, abbottonandosi il cappotto e sistemandosi il cappello. Poi si voltò per uscire. Una ruga appena accennata sulla fronte era l'unico segno di fastidio per l'interferenza di Peter. « E' uno di qui », insistè questi testardamente, sull'orlo delle lacrime. « Un bravo ragazzo, che si è distinto particolarmente durante la guerra. Suo nonno era John Anders, forse se lo ricorderà... » Il volto di Dirk Courteney assunse una strana espressione e, per la prima volta, l'uomo si girò lentamente a guardare Peter. Questi si sentì pervadere dal terrore; mai in vita sua aveva visto tanta malvagità, una crudeltà così spietata dipinta sul viso di un uomo. Durò solo un istante, poi l'altro gli rivolse un sorriso così amichevole e cordiale che Peter provò un senso
di stordimento. « Un libro su di me? » domandò Dirk Courteney, prendendolo affettuosamente per un braccio al di sopra del gomito. « Mi parli un pò di questa persona. Presumo che sia giovane, no? » « Oh, sì, signore. Molto giovane. » « Signori », disse Dirk, con un sorriso di scusa in direzione dei suoi ospiti. « Devo chiedervi di precedermi. Vi seguirò tra breve. Le vostre stanze sono pronte e vi prego di non sentirvi in dovere di attendermi per dare inizio ai divertimenti. » Senza lasciare il braccio di Peter, lo pilotò gentilmente verso l'interno della sala, facendolo accomodare in una delle poltrone di cuoio che stavano davanti al camino « Bene, mio giovane amico, che ne dice di un bicchiere di brandy? » Glielo versò con le sue stesse mani, mentre Peter lo guardava stupito. Erano mani grandi e forti, coperte da una peluria scura, con un brillante delle dimensioni di un pisello al mignolo. A ogni passo che faceva verso nord, Mark aveva l'impressione che i grandi bastioni del Passo Chaka cambiassero gradualmente d'aspetto. Man mano che si avvicinava, infatti, le due sagome azzurrine che in distanza gli erano apparse sfocate, prendevano lentamente consistenza fino a rivelare ogni anfratto della roccia viva I due torrioni gemelli, alti più di trecento metri e così simili da sembrare uno il riflesso dell'altro, erano nettamente separati dalla gola attraverso la quale il fiume Bubezi si riversava nella piana costiera dello Zululand, dove si snodava per duecentocinquanta chilometri in un labirinto di acquitrini, lagune e foreste di mangrovie da cui infine si liberava per gettarsi in mare. La sua foce stretta respirava con la marea, e, nella fase di riflusso, una grande chiazza scura si allargava nel blu intenso della corrente del Mozambico, in stridente contrasto con la striscia di sabbia abbagliante che si stendeva per circa duemila chilometri a nord e a sud. Risalendo il corso del Bubezi dal Passo Chaka, come Mark e il vecchio avevano fatto tante volte, si giungeva a un ampio bacino, proprio sotto la scarpata principale. Qui, in mezzo a dense foreste, il Bubezi si divideva nei suoi due affluenti: il Bubezi Bianco, che si lanciava in una serie di cascate e di cateratte fino a raggiungere la piattaforma continentale, e il Bubezi Rosso che svoltava verso nord seguendo la linea della scarpata e che, procedendo attraverso foreste impenetrabili e ampie radure erbose, finiva per segnare il confine della colonia portoghese del Mozambico. Durante la stagione delle piogge, nel pieno dell'estate, i detriti di laterite scavati dall'erosione nei sedimenti all'interno del Mozambico gli conferivano un colore rosso-sangue, che lo faceva sembrare un'arteria pulsante e giustificava il nome di Bubezi Rosso. In lingua zulu, Bubezi significa leone, ed era proprio sulle
sue rive, un chilometro sotto il punto d'unione dei due affluenti, che Mark aveva cacciato e ucciso il suo primo leone. Era quasi mezzogiorno quando infine raggiunse il fiume nel punto in cui emergeva dalla gola tra i due torrioni. Fece per prendere l'orologio per controllare l'ora, ma si arrestò. Lì il tempo non era più misurato dalle lancette, ma dall'arco maestoso del sole e dall'eterno fluire delle stagioni. Si liberò dello zaino e appoggiò il fucile al tronco di un albero, con un gesto che aveva quasi un significato simbolico. Assieme al fardello che si era tolto dalle spalle, se ne andò anche il peso che gli gravava sul cuore. Alzò gli occhi verso la roccia che riempiva il cielo sopra di lui e fu colto dalla stessa riverente ammirazione che aveva provato di fronte agli archi di pietra intagliata della cappella di Enrico VII, nell'Abbazia di Westminster. Le colonne di roccia, che il vento, il sole e l'acqua avevano scolpito nel corso dei secoli, possedevano la loro stessa grazia eterea con in più quella libertà di linee conferita dal fatto che non avevano dovuto sottostare alle regole ferree dei canoni estetici imposti dall'uomo. I licheni che vi si abbarbicavano in chiazze rosse, gialle e argentee, aggiungevano al grigio dello sfondo un tocco di colore. Tra le fessure della roccia, centinaia di metri sopra i loro simili, crescevano degli alberi stenti, che la natura aveva deformato, compiendo da sola il lavoro di un esercito di esperti in bonsai, e che ora, piegati in angoli assurdi, protendevano i rami verso il sole in un gesto supplice. Nei punti sottostanti alcune strette cornici, la roccia era scurita dagli escrementi dei soffici conigli delle rocce, che, uscendo a frotte da ogni buco e da ogni fenditura, venivano ad acquattarsi in file sonnacchiose sul bordo del precipizio, dove restavano a scaldare al sole i loro corpi paffuti, scrutando la minuscola figura dell'uomo, giù nella gola. Seguendo con gli occhi un avvoltoio che si librava nel cielo, Mark lo vide accostarsi alla parete rocciosa, planando e sbattendo le grandi ali per far fronte ai turbini di vento. Protendendo gli artigli in cerca di un appiglio, l'uccello si spinse in avanti, atterrando su una cornice, a una cinquantina di metri sopra il fiume. Poi, ripiegando le ali e accoccolandosi in quel suo modo grottesco, con la testa calva e squamosa sospinta in avanti, si spostò di lato lungo il bordo del suo squallido nido fatto di sterpi. Da dove si trovava, Mark non riusciva a vedere i piccoli, ma, dai movimenti dell'avvoltoio, capì che stava espellendo dal gozzo il carico di carne putrefatta che aveva portato loro. Pian piano un grande senso di pace scese su di lui, avvolgendolo come un mantello. Si sedette contro il tronco ruvido di un eucalipto e con tutta calma scelse una sigaretta e l'accese, aspirando lentamente ed esalando il fumo dalle narici, restando poi a osservare le volute azzurrognole che si levavano pigre nell'aria.
Pensò che l'essere umano più vicino doveva essere almeno a un centinaio di chilometri che, nel caso dei bianchi, diventavano sicuramente duecento, e il pensiero gli parve stranamente confortante. Lì in quel vasto mondo primordiale, il continuo affannarsi degli uomini gli sembrava privo di significato, e d'un tratto pensò che se fosse stato possibile trasportare, in quel luogo, anche per un breve periodo, tutti, anche coloro che non avevano mai fatto altro che agitarsi come topi nelle città, forse sarebbero tornati alle loro esistenze consuete dotati di una nuova freschezza, che avrebbe reso i loro sforzi meno accaniti, armonizzandoli al ritmo eterno della natura. All'improvviso emise un brontolio. Le sue fantasticherie erano state bruscamente interrotte da una forte puntura nel collo, proprio sotto l'orecchio. Si diede una botta con il palmo della mano. Il piccolo insetto rimase solo stordito; la sua corazza era troppo robusta perché corresse il rischio di essere schiacciato anche da un colpo così forte. Ronzando e volteggiando gli cadde in grembo e Mark lo prese tra il pollice e l'indice, esaminandolo con curiosità, perché erano passati molti anni da quando l'aveva visto l'ultima volta. La mosca tse-tse è leggermente più grande della sua sorella domestica, ma ha il corpo più affusolato e ali trasparenti venate di marrone. « La salvatrice dell'Africa », così l'aveva definita il suo vecchio, e Mark lo ripeté ad alta voce mentre la schiacciava tra le dita. L'insetto scoppiò in un'esplosione di liquido rosso, restituendo il sangue che gli aveva succhiato dal collo. Sapeva che il punto colpito si sarebbe gonfiato, per diventare poi di un rosso acceso e che il suo corpo avrebbe reagito allo stesso modo a ogni puntura successiva fino a ricostituire le sue difese immunitarie. Entro una settimana, le punture della tse-tse non gli avrebbero dato più fastidio di quelle di una zanzara. « E' stata questa piccola bastarda a salvare l'intero Paese dall'invasione degli animali domestici », gli aveva spiegato il vecchio. « Dopo le mandrie sarebbe venuto l'aratro e l'aratro sarebbe stato seguito dalle città e dalla ferrovia. » Il vecchio masticava lentamente, ruminando come un toro alla luce del fuoco, con la tesa del cappello che gli ombreggiava la faccia. « Un giorno troveranno il sistema di sterminarla o di curare la pagana, la malattia del sonno di cui è portatrice. Quella sarà la fine dell'Africa che conosciamo, figliolo. » Spedì nel fuoco un lungo sputo color miele scuro. « Pensa a cosa sarebbe l'Africa senza i suoi luoghi deserti o gli animali selvatici! Tanto varrebbe vivere a Londra, allora. » Guardando con occhi diversi e con un nuovo senso di comprensione la foresta maestosa che lo circondava, Mark cercò di immaginare cosa sarebbe diventata senza i suoi piccoli guardiani alati. Vide gli alberi tagliati per farne legna e il terreno ripulito per poter essere coltivato, vide le praterie trasformate in pascolo e il bestiame che, spaccando il terreno con gli zoc-
coli, dava inizio all'erosione, vide i fiumi corrotti e insudiciati dal sangue della terra e dalla sporcizia dell'uomo. Gli animali selvatici sarebbero stati cacciati, in parte per la loro carne e in parte perché sottraevano cibo agli animali domestici. Da migliaia d'anni il bestiame rappresentava la ricchezza per gli zulu, che arrivavano con le loro mandrie ovunque ci fosse un pascolo. Eppure era stato proprio uno zulu a ergersi a difesa di questa terra selvaggia, oltre, naturalmente, alle legioni alate. Chaka, il grande re zulu, era venuto in quella zona molto tempo prima. Quando non si sapeva, perché gli zulu non misurano il tempo come l'uomo bianco e non conoscono la parola scritta. Era stato il vecchio a raccontargli la storia ricorrendo per l'occasione alla lingua degli zulu, molto più adatta al tema del racconto. Anche il vecchio servo zulu che gli portava il fucile era rimasto ad ascoltarla, annuendo in segno d'approvazione o borbottando qualche correzione e, a volte, dilungandosi in aggiunte o abbellimenti. A quei tempi viveva nel bacino una piccola tribù di cacciatori e raccoglitori di miele selvatico che si erano dati il nome di Inyosi, e cioè api. Era un popolo povero, ma orgoglioso al punto di contrastare il potente re e il suo desiderio di conquista e di potere. Davanti all'incalzare dei suoi impi, gli Inyosi si erano ritirati sulla fortezza naturale costituita dal bastione a nord. Mentre ricordava la storia, Mark alzò gli occhi a guardare la muraglia rocciosa, oltre il fiume. Furono in milleduecento, tra uomini, donne e bambini, a inerpicarsi lungo l'unico sentiero, stretto e pericoloso, fin sulla cima. La lunga fila scura si era snodata contro la parete di roccia per raggiungere il suo rifugio e, dalla cima, il capo e i suoi guerrieri avevano sfidato il re. Chaka si era staccato dai suoi ed era andato alla base del torrione; una figura alta e snella, resa terribile dal vigore della gioventù e dalla maestà della sua presenza. « Scendi, capo, a ricevere la benedizione del tuo re. Ti prometto che guiderai ancora il tuo popolo, sotto il sole sfolgorante del mio amore. » Il capo aveva sorriso e, additandolo con gesti di scherno ai guerrieri che lo circondavano, aveva detto: « Ho sentito stridere un babbuino! » Le loro risa, amplificate dall'eco, erano giunte fino al re. Questi si era voltato e aveva fatto ritorno al luogo dove i suoi diecimila impi attendevano pazientemente, accoccolati a terra. Durante la notte Chaka aveva scelto cinquanta uomini, chiamandoli piano per nome a uno a uno. I suoi uomini migliori, quelli più coraggiosi. « Quando la luna sarà calata, ci arrampicheremo sulla muraglia, dalla parte del fiume », aveva detto loro e, con quella sua risata bassa che per molti avrebbe rappresentato l'ultimo suono udito in vita, aveva soggiunto: « Il capo ci ha chiamati babbuini, e i babbuini si arrampicano
dove nessun uomo oserebbe salire ». Il vecchio servo prima aveva indicato a Mark il percorso seguito da Chaka per arrivare in cima. Solo col cannocchiale era riuscito a distinguere le fenditure sottili come un capello e le sporgenze non più larghe di una mano. Ripercorrendo con gli occhi quell'impossibile via, Mark ebbe un brivido e ricordò che Chaka aveva compiuto la salita senza l'aiuto di corde, nel buio più pesto e con lo scudo e la lancia a punta larga legati sulla schiena. Sedici dei suoi guerrieri erano scivolati, precipitando, ma tale era la tempra degli uomini che Chaka aveva scelto, che nessuno di loro si era lasciato sfuggire il minimo lamento durante quel terribile volo nella notte per evitare di mettere in allarme le sentinelle degli Inyosi e l'unico rumore era stato il tonfo lontano dei corpi che battevano contro le rocce del fondo. All'alba, mentre gli impi distraevano gli Inyosi, impegnandoli in schermaglie lungo il sentiero, Chaka, superato il bordo della parete, aveva raggruppato i guerrieri che gli restavano e si era impadronito della cima con un'unica carica prorompente. Le grandi lame erano penetrate nei corpi, infilzandoli da parte a parte e risucchiandone il sangue in un fiotto scarlatto quando venivano estratte. « Ngidhla! Ho mangiato », avevano ruggito il re e i suoi uomini a ogni colpo, e molti degli Inyosi avevano preferito buttarsi nel fiume sottostante piuttosto che affrontare l'ira di Chaka. Quelli che si erano mostrati esitanti, erano stati aiutati a prendere la loro decisione. Chaka aveva sollevato il capo degli Inyosi con entrambe le mani, alzandolo sopra la testa e tenendolo saldamente, nonostante si dibattesse. « Se io sono un babbuino, tu sei un passero! » aveva gridato con una risata selvaggia. « Vola, passero, vola » E l'aveva lanciato nel vuoto. Quella volta non erano state risparmiate nemmeno le donne e i bambini, perché tra i sedici zulu precipitati durante la salita c'erano i guerrieri prediletti del re. Il vecchio servo, grattando tra i sassi del pendio ai piedi del torrione, aveva scovato dei frammenti di ossa che aveva mostrato a Mark, tenendoli sul palmo della mano. Dopo la vittoria, Chaka aveva disposto che si tenesse una grande battuta di caccia nel bacino tra i due fiumi. La caccia era durata quattro giorni, durante i quali i suoi diecimila guerrieri avevano convogliato la selvaggina per portarla a tiro dei cacciatori. Si dice che il re da solo abbia ucciso duecento bufali. Tale era stato il suo divertimento che, al termine, aveva emanato un decreto. « Questo territorio è riserva del re e nessuno potrà cacciarvi all'infuori di lui. A partire dalla cima da cui Chaka ha scagliato gli Inyosi, fino alle creste montuose che si levano a est e a sud e a nord, per la distanza che un uomo può percorrere in un giorno, una notte e un altro giorno, questa terra è riservata alla caccia del re. Che tutti ascoltino queste parole, tremino
e obbediscano. » Lasciato uno dei suoi più vecchi guerrieri con cento uomini a pattugliare la zona, Chaka aveva fatto spesso ritorno a quel luogo di pace, attirato forse dal desiderio di riposare la mente, rosa da una spasmodica brama di potere. Era venuto lì a cacciare anche nel periodo di oscura follia seguito alla morte di sua madre, Nandi la dolce. E vi era tornato quasi tutti gli anni finché non era caduto sotto le lame assassine impugnate dai suoi fratelli. Quasi un secolo dopo, il Consiglio Legislativo del Natal, riunitosi in assemblea solenne a chilometri e chilometri di distanza dai bastioni del Passo Chaka, aveva proclamato la zona parco nazionale, ma, a differenza del vecchio re zulu, non aveva predisposto alcuna sorveglianza. Nel corso degli anni i bracconieri si erano dati da fare con l'arco e le frecce, con i lacci e le trappole, con le lance e i cani e infine con le armi ad alta precisione. Forse prima o poi gli uomini avrebbero trovato una cura per la nagana o un sistema per sterminare la tse-tse. La legge che difendeva il territorio sarebbe stata abrogata e la terra sarebbe stata invasa dalle lente mandrie di bestiame e dalla lama argentea dell'aratro. Mark si sentì cogliere da un senso di malessere allo stomaco. Per superarlo, si alzò e si avviò lungo il pendio sassoso alla base del torrione. Il vecchio era stato una creatura abitudinaria, persino nei vestiti che indossava o nei piccoli riti di tutti i giorni. Si accampava sempre nello stesso posto, quando percorreva un itinerario familiare e amava tornare nei luoghi dove era già stato. Mark andò direttamente al vecchio campo situato in un'ansa del corso principale a monte della confluenza, dove, sopra l'argine tagliato a perpendicolo dalle acque alluvionali, si stendeva un pianoro ombreggiato da un boschetto di sicomori dai tronchi larghi come la colonna di Nelson a Trafalgar Square, alla cui ombra fresca e verde ronzavano gli insetti e tubavano le colombelle. Le pietre che già altre volte erano servite a costruire il focolare erano ancora lì, sparpagliate all'intorno e annerite dal fumo. Mark le radunò, sistemandole nella forma giusta. La legna da ardere non mancava; il luogo era pieno di alberi morti, rami caduti e stecchi lasciati dalle inondazioni e ammucchiati nel punto più alto dell'argine. Mark prese l'acqua dal fiume e mise a bollire il pentolino per il tè, poi estrasse dalla tasca laterale dello zaino i fogli che Marron gli aveva mandato, trattenuti da una graffetta, segnati dalle ditate e già molto stropicciati. TRASCRIZIONI! DELLE TESTIMONIANZE RESE DURANTE L'INCHIESTA SVOLTA DAL CORONER SULLA MORTE DI JOHN ANDERS DELLA FATTORIA ANDERSLAND, SITA NEL DISTRETTO DI LADYBURG.
Marion Littlejohn li aveva battuti faticosamente a macchina durante gli intervalli di colazione, ma la quantità di cancellature e correzioni denunciava la sua scarsa abilità. Mark li aveva letti e riletti tante volte che avrebbe potuto quasi ripeterne il testo a memoria, comprese le osservazioni irrilevanti del magistrato. Signor Greyling padre: Eravamo accampati sulla riva del fiume Bubezi, signor giudice... Magistrato: Non sono un giudice. Quando si rivolge alla Corte dovrà usare l'espressione a Vostro Onore ». Questa volta, però, ricominciò a leggere tutto da principio, sperando di trovare un indizio, anche minimo, che gli fosse sfuggito nelle precedenti letture. Dalla deposizione, tuttavia, non risultava niente che già non sapesse. Magistrato: Invito il testimone a servirsi del termine di « deceduto » e non di « vecchio » per indicare il deceduto. Signor Greyling padre: Mi scusi, Vostro Onore. Quel lunedì mattina il deceduto aveva lasciato il campo di buon'ora, dicendo che andava in cerca di un cudù lungo la cresta. Poco prima dell'ora di pranzo sentiamo uno sparo e mio figlio Cornelius dice: « Vuoi vedere che il vecchio ne ha trovato uno? » Mi scusi, volevo dire « il deceduto ». Magistrato: Era ancora al campo in quel momento? Signor Greyling padre: Si, Vostro Onore, mio figlio e io stavamo tagliando della carne da mettere a seccare. Quel giorno non ci siamo mossi. Mark rivide la scena davanti agli occhi: le carcasse degli animali sezionate, la carne cruda e rossa tagliata in lunghe strisce, poi immersa nella salamoia e quindi appesa ai rami degli alberi. Anch'egli aveva partecipato a quel rituale infinite volte in passato. Quando la carne, seccando, si trasformava in tanti bastoncini neri, simili a tabacco da masticare, veniva riposta in sacchi di iuta che venivano poi trasportati dai muli. La carne secca, il cui peso si riduceva a circa un quarto di quello originale, era molto apprezzata ovunque e si vendeva a prezzi così elevati da rendere il mestiere di bracconiere molto redditizio. Magistrato: Quando cominciò a preoccuparsi per l'assenza del deceduto? Signor Greyling: Be', quella notte non tornò al campo, ma noi non ci siamo preoccupati. Abbiamo pensato che stesse seguendo le tracce di un animale e che si fosse messo a dormire su un albero. La deposizione terminava con queste parole Signor Greyling padre: ... Be', l'abbiamo trovato solo il quarto giorno. Sono stati gli assvogel... chiedo scusa, gli avvoltoi... che ci hanno guidato sul luogo. Il fucile era ancora sotto di lui. Forse è stato quello lo sparo che abbiamo sentito. L'abbiamo seppellito lì
sa com'è, non si poteva certo trasportarlo. Il sole e gli uccelli l'avevano conciato male. Abbiamo segnato il posto con una croce - l'ho preparata io stesso - e abbiamo pregato per la sua anima. Mark piegò i fogli e li rimise nella tasca dello zaino. Il tè era pronto. Prima di berlo, vi aggiunse del latte condensato e lo addolcì con dello zucchero scuro. Mentre soffiava sul liquido per raffreddarlo e lo sorseggiava adagio, elencò mentalmente gli elementi di cui disponeva. Una cresta rocciosa, un pendio scosceso, abbastanza vicino perché il rumore dello sparo arrivasse fin lì, un cumulo di sassi e una croce di legno che forse le termiti avevano divorato da un pezzo. Si domandò se il mese di tempo che si era preso gli sarebbe bastato. Se fosse stato sfortunato, avrebbe potuto impiegare anche degli anni prima di trovare qualcosa. Comunque, non sapeva cosa avrebbe fatto in seguito. L'unica sua preoccupazione, in quel momento, era quella di trovare la tomba del vecchio. Al resto avrebbe pensato dopo. Iniziò con l'esplorare le alture e il terreno roccioso della riva sud. Per dieci giorni non fece altro che salire e scendere lungo il bordo accidentato del bacino, lottando contro l'andamento delle formazioni geologiche naturali, fino a ridursi magro come un levriero, con le braccia e la faccia del colore di una pagnotta appena sfornata e un accenno di barba ispida e scura sul mento. I calzoni erano stati lacerati dall'erba ruvida e tagliente e da certi rovi chiamati popolarmente « fermati-un-attimo » perché si abbarbicavano alle gambe, ostacolando l'avanzata. Il bacino era popolato di ogni sorta di uccelli. Persino nell'ora calda del mezzogiorno l'aria risuonava dei loro richiami; dal fischio flautato e malinconico della colombella, allo strido acuto dell'aquila dalla testa bianca che volava in cerchio, alta nel cielo. Di primo mattino e nella frescura della sera, il bosco si animava dei lampi di penne dai mille colori: dal rosso scarlatto del petto del Narina Trogon, un uccello di incredibile bellezza, così chiamato da uno dei primi esploratori in onore di una fanciulla ottentotta, al lampo metallico dell'uccello-mosca, sospeso sopra i fiori perlacei delle piante rampicanti; al rosso cardinale della testa del picchio che si accaniva a un ritmo impossibile contro i tronchi degli alberi; alla lucentezza d'ebano delle lunghe penne della coda del sababula, giù, tra i canneti della riva. Tutto questo rappresentava un sollievo alle lunghe ore di cammino, e Mark si fermava un'infinità di volte a guardare, incantato, per pochi attimi preziosi. Non riuscì a scorgere alcun animale più grosso, anche se il luogo era disseminato delle tracce inconfondibili della loro presenza. Vide le palline luccicanti che i cudù deponevano lungo i loro sentieri segreti attraverso la foresta; le feci secche del leopardo miste ai peli di un babbuino che aveva ucciso; i grandi cumuli dei rinoceronti bianchi, una montagna di escremen-
ti sparsi che si erano andati ammonticchiando nel corso degli anni, visto che quello strano animale tornava a defecare ogni giorno nello stesso posto. Fermatosi accanto a uno di questi cumuli, Mark sogghignò, ripensando a una delle storie che gli aveva raccontato il vecchio, una leggenda che spiegava come mai il rinoceronte avesse tanta paura del porcospino e perché aveva l'abitudine di sparpagliare le sue feci. Una volta, tanto tempo prima, il rinoceronte si era fatto prestare dal porcospino uno dei suoi aculei per cucire una lacerazione della pelle, prodotta da una spina di gaggia. Al termine dell'operazione, il rinoceronte si era messo a rimirare il proprio lavoro tenendo l'aculeo tra i denti e, per errore, l'aveva inghiottito. Da allora, ogni volta che vede un porcospino, fugge per evitare le sue recriminazioni e fruga immancabilmente nelle sue feci in cerca dell'aculeo perduto. Il vecchio conosceva centinaia di storie come questa, che avevano fatto la sua felicità da ragazzino, e Mark lo senti di nuovo accanto a sé. La decisione di trovarne la tomba si rafforzò e, passando il fucile sull'altra spalla, si rimise in cammino verso le alture scoscese. Il decimo giorno, mentre riposava nell'ombra fitta ai margini di una radura di erba dorata, vide per la prima volta degli animali più grandi. Un piccolo branco di impala aggraziati, guidati da tre maschi dalle grandi corna, emerse dal folto degli alberi nella parte opposta della radura. Brucavano con cautela, fermandosi di tanto in tanto. immobili come statue. con le grandi orecchie ritte pronte a cogliere il minimo rumore sospetto e il naso nero che fiutava silenziosamente. Mark aveva terminato la carne - l'ultimo pezzo l'aveva consumato il giorno prima - e aveva portato con sé il fucile per servirsene in un momento come quello; eppure ora, a differenza di quando era ragazzo, si scoprì stranamente riluttante a usarlo. Per la prima volta, i suoi occhi non vedevano solo la carne, ma un'immagine di rara e insolita bellezza. I tre maschi si mossero lentamente attraverso la radura, a un centinaio di passi dal punto in cui Mark sedeva, senza far rumore, e poi si allontanarono come ombre, infilandosi in una macchia. Le femmine li seguirono, trotterellando per stare loro dietro; una aveva a fianco un cucciolo che barcollava sulle lunghe zampe goffe. La fila era chiusa da una femmina quasi adulta, che procedeva zoppicando. Una delle zampe posteriori era più corta delle altre e pendeva rinsecchita senza toccare il suolo, tanto che l'animale stentava a stare al passo col resto del branco. Era in pessime condizioni; le costole e la spina dorsale sporgevano dalla pelle, che aveva perso la lucentezza tipica della buona salute. Mark imbracciò il P. 14 e il crepitio del colpo si ripercosse contro le pareti rocciose dall'altra parte del fiume, spaventando uno stormo di anitre dalla testa bianca, che si levarono in
volo dall'acqua, schiamazzando. Mark si chinò sull'impala che giaceva nell'erba, toccando le lunghe ciglia ricurve che bordavano i grandi occhi umidi. Le palpebre rimasero immobili; l'animale era morto. Mark sapeva che si era trattato di un controllo superfluo. Il proiettile gli era penetrato nel cuore, uccidendolo all'istante. « Ricordati di controllare sempre », gli aveva insegnato il vecchio. « Anche Percy Young te lo direbbe, se potesse. Se ne stava seduto su un leone che credeva di aver ucciso, a farsi una pipata in santa pace, quando questo all'improvviso tornò in vita. Ecco perché non è qui a raccontartelo. » Mark fece rotolare la carcassa e si accoccolò per esaminare la zampa posteriore. Il laccio di filo di ferro aveva tagliato la pelle, e i tentativi dell'animale per liberarsi della trappola l'avevano fatto penetrare ulteriormente nella carne, fino all'osso. Al di sotto del laccio, la gamba era andata in cancrena, e l'odore nauseante che emanava aveva richiamato un nugolo di mosche. Mark sventrò l'animale, deviando la lama verso l'alto per evitare di forare l'intestino. La pancia dell'impala si aprì come un borsellino. Con un abile colpo di coltello praticò un taglio dall'ano alla vagina ed estrasse i visceri tutti assieme. Poi staccò il fegato, asportò la cistifellea e la gettò. Il fegato, arrostito sulla brace, avrebbe costituito una cena deliziosa. Tagliò la zampa marcia e maleodorante e ripulì la cavità dello stomaco con una manciata di erba secca. Poi praticò delle aperture nella pelle del collo e, usandole come manici, sollevò la carcassa e la trasportò al campo, vicino al fiume. La carne, una volta tagliata, salata e seccata, gli sarebbe bastata per il resto del periodo. Appese le strisce di carne ai rami più alti del sicomoro per salvarli dagli animali necrofagi che sicuramente avrebbero fatto visita al campo durante le sue assenze diurne; solo dopo aver terminato l'operazione, mentre se ne stava accoccolato accanto al fuoco con la tazza fumante in mano, ripensò al laccio che aveva azzoppato l'impala. Senti un moto di rabbia nei confronti della persona che aveva teso la trappola, ma quasi subito si domandò perché mai se la prendeva con quel particolare cacciatore, quando si era imbattuto infinite volte nei campi abbandonati dai bianchi, disseminati di ossa e di cumuli di corna putrefatte e pullulanti di verme La trappola era stata posta sicuramente da un negro, che cacciava per sopravvivere e non, come altri, per vendere la carne e arricchirsi. A questo pensiero Mark si sentì cogliere da una sorta di malinconia. Nei pochi anni trascorsi da quando era venuto per la prima volta in quella zona, gli animali selvatici erano incredibilmente diminuiti e presto sarebbero spariti pressoché del tutto. Come aveva detto il vecchio: « Tra poco qua attorno ci sarà il vuoto ». Mark si sedette accanto al fuoco, profondamente rattristato
dalla prospettiva. Nessuna creatura vivente poteva competere con l'uomo e, ancora una volta, ricordò le parole del vecchio. « Alcuni dicono il leone, altri il leopardo. Ma credimi, ragazzo mio, quando un uomo si guarda allo specchio, ciò che vede riflesso non è altro che l'assassino più pericoloso e spietato di tutto il mondo naturale. » Il pozzo, costruito per assomigliare a una cisterna, era largo una quindicina di metri e profondo tre. Di forma perfettamente circolare, aveva le pareti intonacate e il fondo di cemento liscio. Nonostante fossero state installate delle condutture e benché la sua posizione sul primo pendio della scarpata sovrastante Ladyburg fosse tale da assicurare la perfetta caduta dell'acqua fino alla grande casa, il pozzo non ne aveva mai contenuta. Il muro circolare era di un bianco splendente e il fondo era cosparso da un leggero strato di sabbia fluviale, perfettamente rastrellata. Attorno alla finta cisterna erano stati piantati dei pini per ripararla dagli sguardi e un recinto di filo spinato circondava tutta la piantagione. Al cancello, quella sera, c'erano due guardie: uomini duri e silenziosi che controllavano i passeggeri delle auto provenienti dalla casa. Il flusso eccitato e ridente di invitati - quarantotto tra uomini e donne - oltrepassò il cancello e si inoltrò lungo il sentiero fiancheggiato dai pini fino al pozzo, illuminato a giorno dalle lanterne appese a una serie di pali disposti tutt'attorno. Dirk Courteney, che guidava la truppa festante, indossava un paio di calzoni da cavallerizzo di gabardine nero e degli stivali di cuoio lucido alti fino al ginocchio per proteggere le gambe dalle zanne. La camicia di lino bianco, sbottonata fin quasi all'ombelico, lasciava intravedere i muscoli duri e rilevati del petto e i peli neri e arricciati. Le maniche erano tagliate al di sopra del polso. Dirk si passava il sigaro lungo e sottile da un angolo all'altro della bocca senza toccarlo, perché le braccia erano impegnate a circondare la vita delle giovani donne che gli stavano accanto, donne dallo sguardo sfacciato e dalla bocca dipinta. I cani li sentirono venire e cominciarono ad abbaiare, pazzi d'eccitazione. Saltavano contro le sbarre foderate delle gabbie e cercavano di sgusciare dagli interstizi, ringhiando, sbavando e mordendo, tra le grida degli inservienti che tentavano di ridurli al silenzio. Gli spettatori si allinearono lungo il parapetto circolare del pozzo, sporgendosi oltre il bordo per vedere. La luce impietosa delle lanterne illuminava i loro volti rivelandone le emozioni, i fremiti sadici e l'attesa del sangue, che si manifestava nelle guance arrossate delle donne, nel luccichio febbrile degli occhi degli uomini, nella nota acuta delle risate e nei gesti esagerati. Durante gli incontri preliminari, la ragazza dai capelli scuri che stava accanto a Dirk strillò e si dimenò, coprendosi con i
pugni stretti la bocca spalancata, gemendo e sobbalzando per lo spettacolo che l'atterriva e l'affascinava al tempo stesso. Nel momento cruciale si voltò e seppellì il viso nel petto di Dirk, premendogli contro il corpo tremante. Dirk scoppiò a ridere e la strinse a sé, allacciandola alla vita. Al momento dell'uccisione urlò con tutti gli altri, arcuando la schiena e, mentre singhiozzava, ansante, Dirk la condusse, sostenendola fin quasi a sollevarla, al tavolo del buffet, carico di bottiglie di champagne nei loro secchielli d'argento e di tartine di pane nero e salmone affumicato. Charles si avvicinò a Dirk, che era seduto con la ragazza in grembo e le stava dando da bere dello champagne da un bicchiere di cristallo, circondato da una dozzina di cortigiani con cui scherzava, gioviale ed espansivo, godendosi il crescente senso di tensione per l'incontro finale della serata che avrebbe visto di fronte il suo cane Chaka e quello di Charles. « Ehi, Dirk », gli disse questi. « Sono molto dispiaciuto, perché mi hanno detto che il tuo cane ha perso quasi dieci libbre. » « Meglio per te, Charles. Quel tuo bastardo avrà bisogno di ogni libbra in più. Ti conviene tenere il tuo dispiacere per dopo, quando ne avrai bisogno. » Improvvisamente Dirk perse ogni interesse per la ragazza, che spinse via distrattamente, tanto da farle quasi perdere l'equilibrio. La ragazza, piccata, si rassetto la gonna e gli fece una smorfia corrucciata, poi, rendendosi conto che lui si era già dimenticato della sua esistenza, si allontanò sculettando. « Siediti qui, vecchio Charles », disse Dirk, indicando la sedia vuota accanto a sé. « Parliamo un pò del tuo problema. » La folla si chiuse attorno a loro, ascoltando intenta le loro smargiassate e ridendo servilmente a ogni battuta. « Il mio problema è che non mi dispiacerebbe fare una piccola scommessina, ma trovo poco sportivo approfittare di una bestia leggera come la tua. » Charles sogghignò, tamponandosi il volto arrossato con un fazzoletto di seta. Lo champagne, l'eccitazione e l'umidità afosa della sera estiva lo facevano sudare abbondantemente. « Sappiamo tutti che ti guadagni da vivere scommettendo su ciò di cui sei certo », replicò Dirk, alludendo al mestiere di Charles, che faceva l'agente di cambio. « E tuttavia, un sentimento così nobile non può che farti onore », concluse, battendogli sulla spalla con l'impugnatura del frustino in un gesto di familiarità condiscendente. Charles strinse i denti, quasi digrignandoli. « Sei d'accordo, allora? » domandò, rivolgendo cenni d'intesa e strizzatine d'occhio ai suoi sostenitori, sparsi tra la folla che li circondava. « Si va alla pari? » « Certo, di' tu la cifra. » « Bene. Il mio Kaiser contro il tuo Chaka fino alla morte per una posta di... » Charles s'interruppe e lanciò un'occhiata alle signore, lisciandosi i baffetti ben curati e spruzzati di gri-
gio, in una pausa ben calcolata. « Mille sterline d'oro. » La folla sussultò e sbottò in una serie di esclamazioni, seguite da qualche applauso isolato. « No! No! » proruppe Dirk Courteney, alzando le mani in segno di protesta. « Mille, no! » I presenti borbottarono, mentre il suo seguito assumeva un'aria stupita e scandalizzata di fronte a quella dichiarazione che equivaleva a una perdita di prestigio. « Be' », mormorò Charles. « Se per te è troppo, fissa tu la cifra. » « Rendiamo la cosa più interessante. Che ne dici di diecimila sterline d'oro? » E Dirk gli batté un altro colpetto sulla spalla, mentre il ghigno dell'uomo gli si gelava sulle labbra. Il sangue gli defluì dal volto arrossato che divenne pallidissimo e segnato da chiazze purpureo. I suoi occhi piccoli e inquisitori si mossero rapidi, esplorando il cerchio di volti ridenti e approvanti come per cercare una via d'uscita, poi tornarono a posarsi con riluttanza su Dirk. Si sforzò di parlare, ma la voce gli si ruppe come quella di un adolescente « Hai detto qualcosa? » chiese Dirk con ostentata gentilezza. Temendo di non riuscire a parlare, Charles annuì più volte rigidamente e cercò di ritrovare il proprio ghigno insolente, ma riuscì solo a prodursi in un sorriso storto e tirato che gli rimase goffamente incollato alle labbra. Dirk prese il proprio cane sotto il braccio, godendo nel sentire la sua compattezza elastica e trasportandolo con facilità giù per i gradini che portavano al fondo del pozzo. Ogni muscolo dell'animale era teso e scattante, i nervi e i tendini vibravano, le membra erano rigide e tremanti e la gola eruttava un ringhio continuo che gli scuoteva tutto il corpo. Dirk depose il cane sul fondo di sabbia ben rastrellata, con il guinzaglio avvolto saldamente attorno al polso sinistro. Appena le zampe toccarono il terreno, l'animale si lanciò in avanti, dando al laccio uno strattone così violento che Dirk rischiò di perdere l'equilibrio. « Ehi, bastardo! » gridò, trattenendolo. Frattanto, dall'altra parte del pozzo, Charles e il suo inserviente avevano riunito le forze per portare giù Kaiser. Era un cane grosso, nero come il demonio, con qualche tocco di marrone agli occhi e al petto, un'eredità che gli proveniva da quella parte di Dobermann Pinscher che c'era in lui. Quando Chaka lo vide, i tentativi di liberarsi raggiunsero il parossismo e il suo ringhio divenne simile al rumore che fa una vela che si laceri durante un uragano. L'addetto al conteggio del tempo si affacciò al parapetto e, alzando la voce per superare il brusio degli spettatori, gridò: « Bene, signori. Incitateli! » I due proprietari li aizzarono l'uno contro l'altro con grida del tipo: « Fallo a pezzi, Kaiser! » o « E' tuo, Chaka! Ammazzalo! » trattenendoli al tempo stesso al guinzaglio con entrambe le mani e portandoli così al culmine dell'ira e dell'aggressività. Nel breve spazio concessogli dal guinzaglio, il Dobermann
si muoveva a zigzag, tuffandosi in avanti; aveva le gambe lunghe, per un cane da combattimento, e le spalle larghe si stringevano nella parte posteriore del corpo, più bassa di quella anteriore. Ma i suoi denti erano buoni e l'apertura delle fauci era più che sufficiente ad assicurargli una buona presa alla gola dell'avversario. Era un cane veloce, lo dimostrava la rapidità con cui si dibatteva, spostandosi da destra a sinistra, abbaiando e allungando con violenza il collo lungo e sottile. Chaka, invece, non abbaiava, limitandosi a emettere un ringhio cupo e fondo che gli scuoteva il torace e standosene ben saldo sulle gambe tozze. Era un incrocio tra un bull-terrier dello Staffordshire e un mastino, aveva il corpo pesante e tozzo, e il mantello ruvido, nero a striature dorate. La testa era corta e larga come quella di una vipera e, quando ringhiava, il labbro superiore si rialzava in una serie di pieghe profonde, rivelando le lunghe zanne color avorio vecchio e le gengive rosa scuro. Guardava l'altro cane con occhi gialli da leopardo. « Aizzateli! Aizzateli! » gridava la folla attorno al parapetlo, e i proprietari, servendosi del guinzaglio come due fantini in lotta per la vittoria, li eccitavano, indicando a ciascuno l'avversarlo. Dirk estrasse di tasca un piccolo arnese di ferro e si inginocchiò accanto al proprio cane. Immediatamente l'animale si voltò verso di lui con le fauci aperte, ma la pesante museruola gli imprigionava le zanne. Aveva cominciato a schiumare dalla bocca e qualche goccia di saliva colò sulla camicia immacolata di Dirk. Questi protese il braccio dietro l'animale e gli infilò il breve pungolo d'acciaio nella carne provocandogli una piccola ferita all'attacco dei testicoli, niente di più di una lacerazione superficiale della pelle da cui usci un pò di sangue. L'animale ringhiò più forte, scattando di lato per urtarlo e Dirk lo pungolò di nuovo portandolo a un parossismo di cieco furore. Finalmente il cane abbaiò, e il suono gli uscì dalla gola contratta in una serie di ondate rabbiose. « Sono pronto », urlò Dirk, lottando per mantenere il controllo del suo cane. « Anch'io! » ripete Charles, dall'altra parte del pozzo, ansimando e scivolando sul fondo sabbioso, trascinato da Kaiser che si era alzato sulle zampe posteriori. « Liberateli! » gridò il cronometrista e, in quello stesso istante, entrambi tolsero ai cani la museruola, il guinzaglio e il collare guarnito di borchie, lasciandoli liberi. Charles si voltò e si arrampicò rapidamente fuori del pozzo, mentre Dirk si trattenne qualche attimo di più per non perdersi il momento in cui i due cani si sarebbero scontrati. Il Dobermann rivelò subito la sua velocità lanciandosi ad affrontare Chaka sul suo stesso terreno, con lunghi balzi e la testa protesa in avanti, cosicché il dorso si distese in un'unica linea piatta. Mirò alla testa e lacerò all'altro la pelle sotto l'occhio con
una sciabolata dei denti bianchi, senza attaccarvisi. Anche Chaka non cercò la presa, ma, al momento dell'impatto, si voltò e con un colpo di spalle bloccò la carica dell'altro, facendogli perdere l'equilibrio e scaraventandolo lontano. Kaiser urtò contro la parete del pozzo e fu questo a salvarlo: se fosse caduto, Chaka sarebbe stato pronto ad azzannarlo. Con un rapido spostamento di peso, Kaiser ritrovò la stabilità e si lanciò contro il muso dell'altro, che si chinò rapido. Il Dobermann mancò il bersaglio, riuscendo solo a lacerare il corto orecchio dell'avversario. Alcune gocce di sangue nero caddero a macchiare la sabbia. Ancora una volta Chaka lo colpì con la spalla, caricandolo con tutto il suo peso. L'altro cane si alzò sulle zampe posteriori, sottraendosi alla prova di forza, e quando ridiscese, si approntò ad azzannare. La folla si accorse del suo errore e lanciò un urlo. « Lascialo! Lascialo! » ululò Charles, con il volto color di una prugna matura. Il suo cane aveva affondato i denti nella pelle spessa e foderata di grasso delle spalle dell'altro e ringhiava nel vano tentativo di dilaniarla. « Fatti sotto, Chaka! Coraggio! » urlò Dirk, seduto sullo stretto parapetto al di sopra dei cani in lotta. « Tocca a te, bello! » Il Dobermann, con i denti inchiodati nelle spalle dell'altro cane, aveva la testa e il collo troppo alti, e rischiava di sbilanciarsi. Strattonava la pelle, che si spostava avanti e indietro come se fosse stata di gomma e non gli offriva alcun appiglio sicuro su cui far presa per buttare a terra l'avversario. Chaka non sembrava nemmeno essersi accorto dei suoi sforzi, benché la rottura di una piccola arteria avesse mandato uno zampillo di sangue a danzare nell'aria come una piuma di flamingo. « Mollalo », gridò Charles, torcendosi le mani dalla disperazione e sudando copiosamente. « Colpiscilo alla pancia! » incitò Dirk, e, come se avesse capito, il suo cane si girò, insinuandosi sotto il torace dell'altro e costringendolo ad alzarsi finché le zampe anteriori non si staccarono da terra. Poi aprì la bocca e affondò i canini giallastri nella pelle tenera e lustra sotto le costole. Il Dobermann cacciò un grido e lasciò la presa, girandosi di scatto, cosicché le zanne di Chaka gli procurarono una lacerazione nella pelle dello stomaco, da cui sporsero i visceri umidi e purpurei. Stava per lanciarglisi alla gola, ma Kaiser riuscì a batterlo sul tempo. Le mascelle si urtarono con uno scricchiolio di denti, poi i due cani, sempre ringhiando, si ritirarono e presero a girarsi attorno in cerchio. Le teste erano ridotte a due maschere sanguinolente; le palpebre sbattevano rapidamente, gli occhi erano inondati dal sangue scornato dalle ferite, il pelo ne era impregnato, i denti scoperti erano macchiati di rosa e la bava che gocciolava dagli angoli della bocca era tinta di rosso scarlatto.
Si caricarono ancora due volte, sempre per iniziativa del solito Chaka, ma ogni volta il Dobermann evitò lo scontro di torace contro torace che il terrier cercava sempre per istinto Chaka, invece, ricevette nel mantello striato due ferite profonde che, aprendogli la carne, gli misero a nudo le ossa: quando finì contro la parete bianca del pozzo, vi lasciò una spessa striscia rossastra. Poi si girò di nuovo, pronto ad attaccare. Kaiser teneva la schiena inarcata per il dolore provocatogli dalla ferita alla pancia, ma non aveva perso né la sua rapidità né la sua agilità. Dopo quella prima presa sbagliata alla spalla, aveva rinunciato ad azzannare l'avversario, limitandosi a infliggergli dei tagli profondi con i denti e tenendolo a distanza come un pugile. Chaka aveva cominciato a perdere molto sangue e, mentre girava in tondo, lasciò penzolare per la prima volta la lingua da cui colava una bava schiumosa rossa di sangue. Dirk imprecò ad alta voce, irritato da questo segno di debolezza che faceva presagire un imminente collasso. Il grosso Dobermann partì di nuovo all'attacco; al primo momento parve che puntasse direttamente alla gola, poi scartò e si avventò contro il fianco, aprendovi un altro squarcio. In quell'istante Chaka si voltò di scatto e, chinando la testa sotto il ventre smilzo dell'altro, riuscì ad addentargli i visceri che sporgevano dai lembi della ferita. Irrigidendosi immediatamente sulle zampe anteriori, il terrier arcuò il collo, abbassando il mento sul petto per mantenere la presa. Il Dobermann, sospinto dal suo stesso slancio, non riuscì a fermarsi, e i visceri gli uscirono in un lungo nastro spesso e luccicante. Le donne lanciarono un urlo acuto, misto di orrore e di delizia, e gli uomini gridarono. Chaka gli passò dietro, sempre tenendo tra i denti i suoi intestini, e le zampe posteriori del Dobermann si impigliarono nel tubo rosato e scivoloso che gli usciva dal ventre. Il grosso cane inciampò e il terrier si lanciò in avanti, colpendolo violentemente con il torace, scaraventandolo in aria e mandandolo ad abbattersi sul dorso, dove rimase a scalciare e a guaire. Chaka reagì d'istinto, nel modo più naturale per la sua razza: con la rapidità di una vipera, fece scattare la testa nella presa mortale. I denti si conficcarono a fondo nella gola dell'altro, e il terrier cominciò a scuotere la testa sorretta dal collo corto e arcuato finché i canini non trovarono la carotide del Dobermann. Dirk Courteney saltò giù agilmente dal parapetto. Con una risata eccessivamente acuta e il volto congestionato, allontanò il cane con il frustino e voltò la carcassa del Dobermann con la punta dello stivale. « E' stata una bella lotta, no? » gridò ridendo, rivolto a Charles. Questi gli lanciò un'occhiata torva, poi si strinse nelle spalle, ammettendo la sconfitta, e guardò da un'altra parte. Dicky Lancome se ne stava seduto alla scrivania con il tele-
fono piazzato proprio davanti a sé e il ricevitore tenuto attaccato all'orecchio dalla spalla sollevata, e si puliva le unghie con un temperino placcato in oro. « Cosa vuoi che ti dica, vecchia mia. Sono desolato, ma la zia Ortensia era ricca come quel tipo che trasformava tutto in oro, Mida o Creso, non so più come diavolo si chiamava. Non posso non farmi vedere al funerale, lo capisci anche tu. No? » Con un sospiro drammatico si rimise il temperino nel taschino del panciotto e cominciò a sfogliare il taccuino degli indirizzi in cerca del numero dell'altra ragazza. « No, vecchia mia, come puoi dire una cosa simile? Sei sicura? Dev'essere stata mia sorella... » Era quasi mezzogiorno di un sabato mattina e Dicky era da solo in negozio. Prima di chiudere, voleva organizzarsi il finesettimana a spese della ditta, e contemporaneamente stava accertando la veridicità del motto che sconsiglia di cambiare cavalcatura nel bel mezzo di un corso d'acqua. In quell'attimo fu distratto da un rumore di passi sul pavimento di marmo del salone e girò la sedia per guardare attraverso la porta del gabbiotto. Era impossibile non riconoscere l'alta figura che era entrata, le spalle larghe e il mento forte, coperto dalla barba, il luccichio degli occhi scuri, simili a quelli di una vecchia aquila. « Dio ci scampi », ansimò Dicky e la sua cattiva coscienza gli procurò una stretta allo stomaco. « Il generale Courteney. » Lasciò cadere il ricevitore che si mise a oscillare, attaccato al filo, e, scivolando furtivamente dalla sedia, strisciò in cerca di un rifugio sotto la scrivania, dove rimase seduto con le ginocchia piegate fino al mento. Non era difficile immaginare le ragioni della visita del generale. Era venuto a discutere personalmente l'affronto subito da sua figlia, e Dicky Lancome aveva sentito parlare a sufficienza della sua impulsività per non avere la minima voglia di essere coinvolto nella discussione. Tese l'orecchio come un animale notturno attento a cogliere il passo silenzioso del leopardo, rizzando la testa in allarme e trattenendo il respiro per non rivelare il suo nascondiglio. Dal ricevitore, che continuava a dondolare, proveniva una voce femminile acuta e distorta dalla collera. Senza abbandonare il suo rifugio, protese la mano per cercare di attutirla, ma il maledetto oggetto penzolava ben oltre la portata della sua mano. « Dicky Lancome, rispondi! So benissimo che sei lì », strillò la voce metallica. Dicky si contorse, allungando il braccio di qualche centimetro. Una mano grande quanto quella di un gorilla maschio entrò nel campo della sua visuale, si chiuse sul ricevitore e glielo ficcò tra le dita protese. « Ecco, tenga », disse una voce fonda e lievemente roca da un punto imprecisato vicino alla scrivania. « Grazie, signore », mormorò Dicky, cercando di non attira-
re un'eccessiva attenzione su di se. Non sapendo che altro fare, si accostò con aria obbediente il ricevitore all'orecchio. « E' inutile che tu finga di non ascoltare », proseguì la voce femminile. « So tutto di te e di quella sgualdrinella bionda... » « Ho la sensazione che le serva anche questo », disse la voce fonda dall'alto, e la mano gli passò il microfono. « Grazie, signore », ripete Dicky, sempre mormorando, incerto se l'emozione che predominava in lui in quel momento fosse l'umiliazione o un senso di panico. Schiarendosi la voce, si decise a parlare. « Cara, ora devo andare », gracchiò. « E' arrivato un cliente molto importante. » Sperava che quel tocco di adulazione potesse influenzare favorevolmente l'incontro che lo attendeva. Interruppe la comunicazione e usò a malincuore, strisciando sulle mani e sulle ginocchia. « Generale Courteney », esclamò con un sorriso di prammatica, spolverandosi l'abito e lisciandosi i capelli nel tentativo di riacquistare un minimo di dignità. « Quale onore! » « Spero di non averla disturbata in un momento delicato », disse il generale. Solo il lampo degli occhi blu, sovrastati dalle sopracciglia pesanti, indicava che si stava divertendo. « Nemmeno per sogno », lo rassicurò Dicky. « Stavo... » si interruppe in cerca dell'ispirazione. « Stavo solo meditando. » « Ah! » commentò Sean Courteney. « Adesso capisco. » « Posso esserle utile, generale? » domandò Dicky, affrettandosi a cambiare discorso. « Volevo qualche informazione su un vostro venditore, Mark Anders ». Il cuore di Dicky Lancome fu stretto da una morsa di gelo. « Stia tranquillo, generale, l'ho licenziato immediatamente », proruppe. « Ma prima gli ho fatto una lavata di capo che non dimenticherà per un pezzo. » Vide le sopracciglia scure del generale riunirsi nel mezzo e la fronte aggrottarsi fino a rassomigliare a un paesaggio desertico solcato dalle erosioni. « Non troverà un altro lavoro in città, ci può contare. Ho sparso la voce e ormai è finita per lui da queste parti. » « Di cosa diavolo sta parlando, giovanotto? » domandò il generale con voce simile al borbottio di un vulcano prossimo all'eruzione. « E' bastata una sua parola, signore », insisté Dicky, che ormai aveva le palme delle mani fredde e madide di sudore. « Una mia parola? » ripetè il generale. Il borbottio si era trasformato in un ruggito, e Dicky si sentì come un contadino sulle pendici dell'Etna, che sollevi gli occhi timorosi verso la cima. « Cosa c'entro io con questa storia? » « Be', dopo quello che ha fatto a sua figlia », gli spiegò Dicky, rischiando di strozzarsi. « A mia figlia? » La voce si ridusse a una sorta di sussurro freddo e intenso, ancor più terrorizzante del ruggito che l'aveva preceduto. « Ha infastidito mia figlia? » « Oh Dio! No, signor generale », gemette debolmente Dicky.
« Nessuno dei nostri dipendenti si permetterebbe di alzare un dito sulla signorina Storm. » « E allora si spieghi. Mi dica esattamente ciò che è successo. » « Ha mancato di rispetto a sua figlia. Credevo che lo sapesse. » « Cosa significa? Avanti, parli. » « Le ha detto che non si era comportata come una signora. La signorina non gliel'ha riferito? » gli domandò Dicky, deglutendo a fatica. Il cipiglio del generale sparì, sostituito da un'espressione perplessa e divertita. « Santo cielo. E' così che le ha detto? E cos'altro? » « Le ha detto di chiedere per piacere quando doveva dare un ordine. » Dicky abbassò il capo per non incontrare lo sguardo dell'altro. « Mi spiace, signore. » Il generale emise una specie di brontolio soffocato e Dicky indietreggiò rapidamente, pronto a difendersi. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto che il suo interlocutore stava cercando di soffocare l'ilarità che gli scuoteva il petto. Poi decise di darle libero sfogo e cominciò a ridere, buttando indietro la testa e spalancando la bocca. Indebolito dall'emozione, Dicky si arrischiò a concedersi una risatina sommessa e prudente, in armonia con l'allegria dell'altro. « Non c'è niente da ridere, giovanotto », ruggì il generale, e Dicky assunse all'istante un'espressione sofferente. « Lei è da biasimare. Come ha potuto condannare un uomo basandosi sui capricci di una bambina? » Dopo un attimo Dicky capì che la bambina in questione era la splendida e volitiva reginetta della buona società del Natal. « Credevo che fosse stato lei a dare l'ordine », balbettò Dicky. « Io! » esclamò il generale, smettendo immediatamente di ridere e asciugandosi gli occhi. « Lei ha pensato che io volessi rovinare un uomo perché aveva avuto abbastanza fegato da opporsi alle bizze di mia figlia? Mi ha creduto capace di una cosa simile? » « Si », rispose Dicky con aria triste. « No », soggiunse poi, correggendosi immediatamente. « Non lo so, signore », ammise infine, sconfitto. Sean Courteney estrasse una busta dalla tasca interna della giacca e la scrutò per un istante, come se stesse riflettendo. « Anche Anders ha creduto che io fossi responsabile del suo licenziamento? » domandò con voce pacata. « Sì, signore. » « Può mettersi in contatto con lui? Avrà occasione di rivederlo? » Dicky ebbe un attimo d'esitazione, poi si raddrizzò, respirando a fondo. « Gli ho promesso di riassumerlo alla fine del mese, quando le acque si fossero calmate. Anch'io, al pari di lei, ho ritenuto che l'affronto non meritasse una simile punizione. » Sean Courteney lo guardò con una nuova luce negli occhi
e sogghignò, sollevando un angolo della bocca e una delle sue folte sopracciglia. « Quando lo rivedrà, gli riferisca la nostra conversazione e gli consegni questo biglietto. » Dicky prese la busta e, mentre il generale si voltava per andarsene, lo sentì borbottare in tono minaccioso: « E ora a noi due, signorina Storm ». A quelle parole, non poté impedirsi di provare una fitta di compassione per la ragazza. Quasi contemporaneamente, Ronald Pye se ne stava seduto sul sedile posteriore della sua limousine, rigido come un bocchino sul carro funebre e con un'espressione altrettanto lugubre sul volto. Indossava un abito a tre pezzi grigio scuro, con una camicia dal colletto alto e inamidato. Sul naso a becco luccicavano gli occhiali cerchiati d'oro. L'autista svoltò, lasciando la strada principale di Ladyburg, per imboccare il lungo viale dritto che portava agli edifici di Great Longwood che si stagliavano, abbaglianti come neve, sulle prime pendici della scarpata. Il viale era fiancheggiato di cicadàcee che avevano almeno duecento anni, piante dal tronco grosso simili a palme con un frutto dorato delle dimensioni di una botte annidato come una pigna mostruosa al centro delle fronde eleganti. I giardinieri di Dirk Courteney avevano battuto il paese per un raggio di duecento chilometri per trovarle, poi, dopo averle raggruppate a seconda della grandezza, le avevano trapiantate lì. Il viale liscio era stato bagnato per evitare che la polvere si sollevasse e davanti alla casa erano parcheggiate una trentina di automobili di lusso. « Aspettami », ingiunse Ronald Pye all'autista. « Non ci metterà molto. » Scese dall'auto e alzò gli occhi sull'elegante facciata. Era la copia esatta della storica dimora, tuttora esistente a Constantia, di Simon Van der Stel, primo governatore del Capo di Buona Speranza. Dirk Courteney ne aveva fatto riprodurre con la massima fedeltà ogni stanza, ogni arco e ogni decorazione dai suoi architetti. La casa doveva essergli costata una fortuna. Giunto nell'atrio, Ronny Pye si fermò, guardandosi attorno con impazienza. Non c'era nessuno ad accoglierlo, nonostante fosse stato esplicitamente invitato, o più esattamente convocato, per mezzogiorno. E tuttavia in casa c'era qualcuno: dall'interno si udiva provenire un suono di voci femminili, interrotto da risate argentine, mentre, da più vicino, giungeva il borbottio più fondo di voci maschili, punteggiato da rauchi scoppi di risa e caratterizzato di tanto in tanto da quelle esplosioni stridule ed eccitate, tipiche di chi ha bevuto molto. Nell'aria stagnava un odore di profumo femminile, misto all'aroma del sigaro e al pazzo dell'alcool. Abbandonati sul tavolo pregiato di legno di rosa, Ronny Pye notò dei bicchieri di cristallo, vuoti, che avevano lasciato una macchia rotonda
di umidità sulla superficie lucida. Sulla maniglia della porta che portava in soggiorno era drappeggiata in modo suggestivo una combinazione di seta di un rosa perlaceo. Mentre se ne stava lì, esitante, la porta all'estremità opposta dell'atrio si aprì e ne uscì una giovane donna. Si insinuò nella stanza con lo sguardo fisso e distaccato della sonnambula, muovendo silenziosamente i piedi calzati di pantofole. Ronny Pye notò che era molto giovane, poco più di una bambina, nonostante il trucco le fosse colato, macchiandole il volto. I cerchi scuri di mascara sotto gli occhi le davano un'aria malata e il rossetto sbavato faceva assomigliare la sua bocca a una rosa sfiorita. Non aveva addosso altro che le pantofole, e la sua nudità rivelava il seno tenero e immaturo, con i capezzoli chiari e ancora informi. Sulle spalle le ricadevano i capelli biondo-chiaro, annodati in due trecce scompigliate e contorte. La ragazza prese la combinazione dalla maniglia e se la infilò con gesti lenti, da drogata. In quel momento si accorse di Ronny Pye, fermo accanto alla porta d'ingresso, e le labbra infiammate e sporche di rossetto si distesero in un sorrisetto depravato. « Ancora un altro? D'accordo, tesoro, andiamo. » Mosse un passo verso di lui, poi vacillò e si aggrappò al tavolo per sostenersi. Il suo volto da bambola dipinta sbiancò di colpo, facendosi trasparente come l'alabastro, poi la ragazza si piegò in due e vomitò sull'enorme tappeto di seta cinese. Con un'esclamazione di disgusto, Ronald Pye si voltò, dirigendosi verso la porta che conduceva in soggiorno. Nessuno alzò gli occhi a guardarlo, benché nella stanza ci fossero più di venti persone raccolte con aria intenta attorno al tavolo rotondo di ebano, intarsiato d'avorio. Attorno al tavolo, disseminato di fiches dai vivaci colori, erano seduti quattro uomini, ciascuno dei quali aveva in mano delle carte aperte a ventaglio. La tensione nella stanza era tale che si poteva quasi sentirne il crepitio, simile a quello dell'elettricità. Ronald Pye non si sorprese di vedere che uno degli uomini seduti al tavolo era suo cognato. Sapeva che Dennis Petersen era un frequentatore abituale di Great Longwood; per un attimo pensò a sua sorella, così remissiva e ligia al dovere, e si domandò se ne fosse informata. « Quell'uomo ci ha coinvolti tutti », riflettè amaramente, lanciando un'occhiata a Dennis e notando gli occhi cisposi e infiammati, la faccia pallida e tirata. « Io, almeno, mi sono risparmiato quest'ultima degradazione. Nonostante tutto il male che mi sono lasciato trascinare a commettere, posso dire di aver conservato una traccia di rispetto per me stesso. » « Bene, signori, temo di dovervi dare una pessima notizia », annunciò Dirk Courteney, sorridendo con aria condiscendente. « Le signore hanno voluto favorirmi. » E depose le carte scoperte sul panno verde del tavolo. Le quattro regine, vestite nei loro costumi stravaganti, fissavano il soffitto con espressione
imperturbabile. Gli altri giocatori le guardarono per un attimo, poi scoprirono a loro volta le carte che avevano in mano con aria disgustata. Dennis Petersen fu l'ultimo ad ammettere la sconfitta. Aveva il volto contratto e le mani che gli tremavano. Infine, con un verso che assomigliava a un singhiozzo, si lasciò sfuggire le carte dalle dita, spinse indietro la sedia e si avviò alla cieca verso la porta. A metà strada si fermò di scatto, avendo riconosciuto la figura scarna e ostile del cognato. Rimase a fissarlo un attimo, con le labbra tremanti, sbattendo le palpebre sugli occhi iniettati di sangue, poi scosse il capo, come se non riuscisse a credere a ciò che vedeva. « Tu, qui? » « Ah, si », disse Dirk dal tavolo, dov'era intento a raccogliere e ad ammucchiare le fiches. « Mi sono dimenticato di dirti che avevo invitato anche Ronald. Vogliate scusarmi, soggiunse rivolto agli altri giocatori. « Sarò di ritorno tra un attimo. » Si alzò dalla sedia, scostò la mano di una donna che cercava di trattenerlo e, prendendo amichevolmente per il gomito Ronald Pye e suo cognato, uscì con loro dal salotto e li guidò lungo il corridoio dalle pareti rivestite in legno che portava al suo studio. Persino a quell'ora del giorno la stanza era fresca e buia. Con i suoi muri spessi e i tendaggi di velluto, i pannelli di legno scuro e i folti tappeti persiani e orientali, i quadri a olio dalle tinte cupe, tra cui un Reynolds e un Turner, e i mobili pesanti foderati di cuoio color cioccolato, aveva sempre avuto su Ronald Pye un effetto deprimente, tanto che aveva finito col considerarla il centro della ragnatela in cui lui e la sua famiglia si erano trovati imprigionati. Dennis Petersen si lasciò cadere in una delle poltrone di cuoio e, dopo un attimo di esitazione, anche Ronald Pye si mise a sedere di fronte a lui, in atteggiamento rigido e disapprovante. Dirk Courteney versò del whisky di malto nei bicchieri posti sul vassoio d'argento che occupava un angolo della grande scrivania di mogano, poi ne alzò uno, offrendolo con un gesto silenzioso a Ronald Pye, che rifiutò con un cenno sdegnato del capo. Dennis, invece, accettò il liquore ambrato con mani tremanti, ne trangugiò una sorsata e poi sbottò: « Perché l'hai fatto, Dirk? Mi avevi promesso che nessuno avrebbe saputo che ero qui e invece hai invitato... » s'interruppe, lanciando un'occhiata al volto arcigno del cognato. Dirk ridacchiò. « Mantengo sempre le mie promesse... finché mi convinci. Comunque, tra noi non devono esserci segreti. Brindo alla nostra alleanza. » E alzò il bicchiere. Quando lo abbassò, Ronald Pye gli chiese: « Perché mi hai fatto venire qui? » « Abbiamo alcuni problemi da discutere. Il primo è rappresentato dal nostro caro Dennis. Come giocatore di poker è un
vero disastro. » « Quanto? » domandò Ronald Pye con voce pacata. « Diglielo, Dennis », lo sollecitò Dirk. Rimasero in attesa mentre l'interpellato studiava il liquore rimasto nel bicchiere. « Allora? » ripeté Ronald Pye. « Non essere timido, Dennis. Sembri una viola mammola », lo incoraggiò Dirk. Dennis borbottò una cifra senza alzare gli occhi. Ronald Pye si agitò sulla poltrona. « E' un debito di gioco », disse con labbra tremanti. « Ci rifiutiamo di pagarlo. » « Devo chiedere a un paio delle ragazze che sono mie ospiti di andare da tua sorella a fornirle un resoconto di prima mano dei giochetti di cui il nostro Dennis si diletta? Lo sapevi che le fa inginocchiare e... » « Dirk, piantala. Non puoi farmi una cosa simile... » belò Dennis, seppellendosi il volto tra le mani. « Ti farò avere un assegno domattina », intervenne Ronald Pye a bassa voce. « Grazie, Ronny, è un vero piacere trattare con te. » « Abbiamo finito? » « Oh, no », disse Dirk con un sogghigno. « Abbiamo appena cominciato. » Prese la bottiglia di cristallo e, avvicinatosi a Dennis, gli riempì il bicchiere. « C'è un'altra faccenduola di cui dobbiamo parlare. » Si riempì a propria volta il bicchiere e lo alzò, guardandolo controluce. « Diciamo che si tratta di una questione bancaria », proseguì, ma Ronald Pye lo interruppe immediatamente. « Devo informarti che sto per ritirarmi dalla banca. Ho ricevuto un'offerta per le azioni che mi restano e sto trattando l'acquisto di un vigneto, giù al Capo. Ho intenzione di trasferirmi e di portare con me la mia famiglia. » « No », gli disse Dirk, scuotendo il capo con un sorriso appena accennato. « Noi due siamo legati da un vincolo indissolubile. Non posso lasciarti andare; sei l'unica persona al mondo di cui mi fido. Abbiamo condiviso tutto, vecchio mio, persino l'omicidio. » La parola li raggelò entrambi, e Ronald Pye diventò di un pallore mortale. « John Anders e suo nipote », continuò Dirk, suscitando un coro di obiezioni. « Il ragazzo è scappato... » « E' ancora vivo... » « Ancora per poco », assicurò Dirk. « I miei uomini gli stanno dando la caccia e questa volta lo sistemeranno per sempre. » « Non puoi farlo », protestò Dennis Petersen, scuotendo la testa con violenza. « Perché ti accanisci tanto contro di lui? » lo implorò Ronald Pye, perdendo tutta la rigidezza che aveva contraddistinto il suo comportamento fino a quel momento. « Lascialo in pace. » « No. Lui non ha lasciato in pace noi », gli spiegò Dirk pa-
zientemente. « Si è dato un gran daffare per raccogliere informazioni su di noi e sulle nostre attività. E' solo per caso che ho saputo dov'è, e la fortuna vuole che sia solo, in un luogo isolato. » Nella stanza cadde il silenzio. Mentre aspettava che traessero le loro conclusioni, Dirk buttò nel caminetto il mozzicone del sigaro e ne accese un altro. « Cosa vuoi ancora da noi? » si decise a chiedere Ronald. « Bene, vedo che sei pronto a discutere la faccenda in termini pratici. » Dirk si sedette sul bordo della scrivania e prese in mano un'antica pistola da duello che usava come fermacarte, facendola roteare sul dito. « Ho bisogno di liquido per completare il piano di sviluppo che ho iniziato cinque anni fa. Il prezzo dello zucchero è calato e anche il flusso degli investimenti bancari è diminuito... Dimenticavo che anche tu ne sei al corrente. » Ronald Pye annuì con aria sospettosa. « Abbiamo già deciso di ridimensionare gli acquisti di nuove terre per adattarli alle nostre possibilità finanziarie immediate, almeno per qualche anno. Ci vuole un pò di pazienza. » « Non sono un uomo paziente, Ronny. » « Il bilancio subirà una flessione di duecentomila sterline annue per i prossimi tre anni. Eravamo d'accordo di ridurre le spese », obiettò Ronald Pye, ma Dirk non lo ascoltava. Fece ruotare un'altra volta la pistola, la puntò contro gli occhi del ritratto sopra il caminetto e fece scattare il percussore contro la capsula vuota. « Duecentomila sterline l'anno per tre anni fanno seicentomila », riflette Dirk ad alta voce, abbassando la pistola. « Vedi caso, è la cifra che ti ho versato per le tue azioni, circa dieci anni fa. » « Cosa c'entra? » osservò Ronald Pye, con una punta di panico nella voce. « Quelli sono soldi miei, fanno parte del mio capitale personale e non hanno niente a che vedere con la banca. » « Li hai fatti fruttare molto bene », si congratulò Dirk. « Le azioni della Crown Deep sono state un ottimo acquisto. Secondo i miei calcoli, i tuoi beni ammontano a non meno di ottocentomila sterline. » « Quei beni appartengono alla mia famiglia, a mia figlia e ai miei nipoti. Io non ne sono che l'amministratore fiduciario », insistè Ronny, sull'orlo della disperazione. « Ho bisogno immediato di quei soldi », disse Dirk in tono ragionevole. « Perché non li prendi dai tuoi fondi personali? » gli chiese Ronald Pye, sempre più disperato. « Perché sono ridotti all'osso, mio caro Ronald. Tutto quello di cui disponevo l'ho investito nei terreni e nello zucchero. » « Potresti farteli prestare... » « Spiegami un pò perché dovrei farmi prestare dei soldi da un estraneo, quando può darmeli un caro amico, sotto forma
di prestito alla Ladyburg Farmers Bank. Quale sicurezza può essere maggiore di quella offerta da un Istituto tanto venerabile? Un prestito, caro Ronald, non ti chiedo altro che un prestito. » « No », rispose seccamente Ronald Pye, alzandosi in piedi. « Quei soldi non sono miei. Appartengono alla mia famiglia. Vieni, ti accompagno a casa », concluse, rivolto al cognato. Dirk li guardò con quel suo sorriso scintillante e pieno di sottintesi, poi alzò la pistola da duello e la puntò tra gli occhi di Dennis Petersen. « Resta dove sei, Dennis », gli ingiunse, facendo scattare il cane. « Non lasciarti spaventare », disse Ronald Pye a Dennis. « Vieni via con me, non può farti niente. » Ansimava e sudava come se avesse fatto una corsa. « Non può accusarci di omicidio, senza coinvolgere se stesso. Possiamo provare che non siamo stati noi a organizzare la cosa e nemmeno a dare gli ordini. Credo che stia bluffando. Comunque è un rischio che dobbiamo correre, se vogliamo liberarci di lui. » Gli si mise di fronte, guardandolo con atteggiamento di sfida. « Sei un mostro. Fa' pure come vuoi, ma ricordati che, assieme a noi, dannerai anche te stesso. » « Che bel discorsetto! » esclamò Dirk, ridendo con aria divertita. « Sono convinto che sei abbastanza stupido da credere a quello che hai detto. » « Vieni, Dennis. Lasciamolo alle sue nefandezze. » Ronald Pye si avviò verso la porta, senza guardarsi indietro. « Qual è il nipotino a cui sei più affezionato, Ronald? Natalie o Victoria? » domandò Dirk, in tono allegro. « No, deve essere il ragazzino... Come diavolo si chiama? Accidenti! Dovrei saperlo, visto che sono il suo padrino. » Ridacchiò di nuovo, poi fece schioccare le dita. « Ma certo, come ho fatto a dimenticarlo? Si chiama Ronald, come il nonno » Ronald Pye si era voltato e lo fissava, immobile. Dirk continuò a sorridergli, con aria complice, come se avesse appena escogitato uno scherzo straordinario. « Il piccolo Ronald, » ripeté, puntando la pistola verso una figura immaginaria al centro del tappeto e mirando basso come se avesse davanti un ragazzino. « Addio, piccolo Ronald », mormorò, e premé il grilletto. « Addio, piccola Natalie. » Spostò la pistola, puntandola verso un'altra figura invisibile e ripeté l'operazione. « Addio piccola Victoria. » Si udì un altro scatto e il rumore metallico si ripercosse con terribile intensità nel silenzio della stanza. « Non devi... » proruppe Dennis con voce strozzata. « Non avrai il coraggio... » « Ho molto bisogno di quei soldi », gli disse Dirk. « Ma non puoi fare una cosa simile. » « Vuoi smetterla di dirmi cosa devo o non devo fare? Da quando in qua ti credi in diritto di giudicare il mio comportamento? »
« Non oserai fare del male ai bambini? » insisté Dennis con voce implorante. « Non sarebbe la prima volta », osservò Dirk. Ronald Pye era rimasto immobile accanto alla porta. Sembrava improvvisamente invecchiato di dieci anni. Aveva le spalle curve e il volto segnato; la pelle, attorno agli occhi, si era rilassata formando un'infinità di pieghe. « Prima che tu te ne vada, Ronny, voglio raccontarti quello che hai cercato disperatamente di sapere nel corso degli ultimi anni. So che hai speso molto tempo e molto denaro per scoprirlo. Torna a sederti, per piacere. Quando avrai sentito quello che ho da dirti, sarai libero di andarsene... se ne avrai ancora voglia. » Ronald Pye staccò la mano dalla maniglia e si trascinò fino a una poltrona di cuoio, dove si lasciò cadere come se il suo corpo non gli appartenesse più. Dirk riempì di whisky un bicchiere vuoto e glielo pose sul bracciolo, a portata di mano, senza suscitare alcuna protesta da parte sua. « E' la storia di un ragazzo di diciannove anni che è riuscito a procurarsi un milione di sterline in contanti e l'ha usato per comprare una banca. Quando l'avrai sentita, voglio che tu mi dica se sei ancora convinto che quel ragazzo è tipo da fermarsi davanti a qualcosa. » Dirk si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro sul tappeto folto. Sembrava un felino in gabbia, agile e aggraziato, ma minaccioso e feroce al tempo stesso. Poi cominciò a parlare, e la sua voce morbida e insinuante tessé una ragnatela attorno agli ascoltatori, che seguivano con gli occhi quel simmetrico andirivieni. « Chiamerò il mio protagonista Dirk, è un bel nome, un nome duro, adatto a un ragazzo che, dopo essere stato buttato fuori di casa da un padre dispotico, è partito alla conquista del mondo. Il nostro ragazzo apprendeva in fretta e non aveva paura di niente. A diciannove anni era già primo ufficiale su una vecchia carretta arrugginita che solcava i mari d'oriente trasportando carichi non sempre puliti da un posto malfamato all'altro. Nonostante la giovane età, il nostro ragazzo era già in grado di condurre la nave da solo, spronando a suon di frustate i negri che componevano la ciurma, mentre il capitano se ne stava in cabina a sbronzarsi di gin. » Si fermò accanto alla scrivania per versarsi dell'altro whisky nel bicchiere. « Come vi sembra finora? » domandò al suo pubblico. « Sei ubriaco », disse Ronald Pye. « Non mi ubriaco mai », obiettò Dirk, riprendendo il suo andirivieni. « Vogliamo dare un nome anche al battello? Bene... Allora lo chiameremo L'Oiseau de Nuit, anche se, per la verità, è un nome che non si addice a una bagnarola puzzolente come era quella. Il capitano era un certo Le Doux, anche se di dolce non aveva proprio niente. » Dirk ridacchiò al ricordo e mandò giù
un sorso di whisky. « Una notte d'estate del 1909 questa allegra brigata si liberò del suo carico sul Fiume Giallo, dirigendosi poi verso il porto di Liang Su per imbarcare un genere di mercanzia più legale, tra cui tè e seta, da riportare indietro. « Quando arrivò in rada, i marinai videro che la periferia della città era in fiamme e udirono il crepitio delle armi leggere. In porto non c'erano navi, solo qualche sampan e un paio di piccole giunche, ma la popolazione terrorizzata, radunata sul molo, invocava un passaggio verso la salvezza. « Quando videro la nave, si tuffarono in acqua a centinaia e arrivarono a nuoto fino al punto in cui eravamo ormeggiati. Il nostro primo ufficiale ne lasciò salire a bordo qualcuno e saputo ciò che era accaduto, respinse gli altri con le pompe. » Dirk s'interruppe ripensando alla scena. I pesanti getti d'acqua avevano sospinto quelli che nuotavano sotto la superficie sudicia e giallastra del porto, mentre gli altri, gemendo, cercavano di tornare a riva. « Han Wang, il capo dei ribelli, aveva attaccato la città, promettendo ai ricchi mercanti una piacevole morte nelle gabbie di bambù. Si dava il caso che il primo ufficiale conoscesse l'entità delle loro ricchezze. Dopo essersi consultato con il capitano, fece accostare la nave al molo, allontanando la plebaglia con getti di vapore e qualche colpo di pistola, e alla testa di un drappello armato si diresse verso il palazzo del comune, dove si erano rifugiati i mercanti, paralizzati dal terrore e rassegnati al loro fato. Un altro whisky, Ronny? » Ronald Pye, che non gli aveva tolto gli occhi di dosso per tutta la durata del racconto, scosse il capo in segno di diniego. Dirk gli sorrise. « Il nostro giovanotto chiese duemila sovrane a testa in cambio del passaggio. La cifra era così esorbitante che solo i più ricchi poterono permettersi di sborsarla, eppure furono in novantasei a salire a bordo, barcollando sotto il peso dei loro beni. Persino i bambini erano stati caricati come muli; perché nel gruppo c'erano anche dei bambini: quarantasei per l'esattezza e tutti maschi. Nessun cinese sano di mente, infatti, avrebbe sprecato duemila sterline per una femmina. Erano in un'età compresa fra l'infanzia e l'adolescenza e alcuni di loro dovevano essere più o meno coetanei del tuo piccolo Ronald. » Dirk attese che il colpo fosse andato a segno e proseguì: « Ce la cavammo per il rotto della cuffia. Nell'attimo stesso in cui il primo ufficiale diede l'ordine di staccarsi dal molo, i banditi di Han Wang uscirono dalla città e, tirando d'ascia e di baionetta, si aprirono una strada fino al mare. Le raffiche dei fucili si abbatterono sulle sovrastrutture e spazzarono i ponti, seminando il panico tra gli insoliti passeggeri, che si precipitarono urlando nella stiva vuota. La nave, tuttavia, riuscì ugualmente ad allontanarsi lungo il fiume finché, verso sera, si ritrovò nel tranquillo mare tropicale. « Il capitano Le Doux non riusciva a credere alla fortuna che gli era capitata: quasi duecentomila sovrane d'oro - tale era la somma raccolta fra i mercanti - erano andate a riempire
quattro casse da tè nella sua cabina. Fuori di sé dalla gioia, promise al giovane Dirk un premio di mille sterline. Dirk sapeva quanto valessero le sue promesse, eppure gli suggerì un altro sistema per aumentare ulteriormente le ricchezze appena acquistate. « Il vecchio Le Doux era stato un uomo spietato prima che l'alcool lo distruggesse. Aveva trasportato schiavi dall'Africa e oppio dall'India, ma ormai si era ridotto a un mollusco, e la proposta del suo primo ufficiale lo sconvolse. Bestemmiò e pianse. 'Les pauvres petits', biascicò tra i singhiozzi, e continuò a ingollare un bicchiere di gin dopo l'altro finché crollò in quella sorta di torpore da cui, come Dirk sapeva, non sarebbe riemerso per almeno quarantott'ore. « Il primo ufficiale salì sul ponte e suonò la sirena, gridando ai passeggeri che stavano per incrociare una cannoniera dell'esercito. Terrorizzati, costoro abbandonarono il ponte e rientrarono nella stiva come pecore nell'ovile, tenendosi stretti i loro averi. Il giovane e i suoi scherani chiusero i boccaporti imprigionandoli. Vi lascio immaginare il resto. Anzi, offro una ghinea a chi troverà per primo la soluzione dell'enigma ». Ronald Pye si passò la lingua sulle labbra livide e scosse il capo. « No, » lo schernì Dirk. « Peccato, era così semplice! Avresti potuto intascare una ghinea senza alcuna fatica. Comunque, l'ufficiale aprì le prese d'acqua e allagò la stiva. » Li guardò incuriosito, in attesa delle loro reazioni, ma gli altri due rimasero in silenzio, incapaci di parlare. Dirk riprese il racconto, apportandovi un piccolo cambiamento. Dalla terza persona passò direttamente alla prima. « Ovviamente non potemmo riempirla fino all'orlo, perché, nonostante il fondale basso, la nave avrebbe corso il rischio di colare a picco. Dovemmo quindi lasciare un piccolo spazio tra l'acqua e i boccaporti, dove i cinesi issarono i bambini. L'eco di quello che accadde là dentro riuscì a oltrepassare il legno spesso dei boccaporti. Per quasi mezz'ora gli uomini imprigionati nella stiva continuarono a gemere e a lamentarsi finché l'ossigeno si esaurì e lo sciabordio ebbe la meglio su di loro. Quando aprimmo i boccaporti, scoprimmo che avevano graffiato e scheggiato il rivestimento di legno della coperta come un gruppo di scimmie chiuse in gabbia. » Dirk si abbandonò nella poltrona vuota accanto al camino. Fece roteare il liquore nel bicchiere e lo trangugiò. Poi getto il recipiente di cristallo nel camino dove si infranse lanciando intorno una miriade di schegge simili a diamanti, che i tre uomini fissarono in silenzio. « Perché? » chiese infine Dennis con voce roca. « Perché li hai uccisi, in nome di Dio? » Dirk non lo degnò di uno sguardo, perduto com'era nel ricordo di uno dei momenti più intensi della sua vita. A un tratto si riscosse e proseguì: « Quando svuotammo la stiva, ordinai ai marinai di portare nel salone tutte le sacche, i fagotti e le
casse che erano appartenuti ai cinesi. Cristo, Ronny, avresti dovuto esserci stato anche tu. Avido come sei, la vista di tutta quella roba ti avrebbe fatto perdere la testa. « Ammonticchiai tutto sul tavolo. Era un tesoro quale nemmeno cinquanta abili uomini d'affari riuscirebbero ad accumulare nel corso di una vita intera. C'erano monete e lingotti d'oro, diamanti grandi quanto la punta di un pollice, rubini che avrebbero potuto strozzare un cammello, smeraldi... insomma una fortuna degna della fama di cui godevano i mercanti di Liang Su. Aggiungendo a tutto quel ben di Dio la somma pagata per il trasporto, si arrivava a più di un milione di sterline... » « E la quota che spettava al capitano Le Doux? » domandò Ronald Pye. Pur nell'orrore, la sua mente da ragioniere non smetteva di lavorare. « Il capitano? » ripeté Dirk, scuotendo il capo e schiudendo le labbra in quel suo sorrisetto da ragazzino. « Povero Le Doux! Ubriaco com'era, è probabile che sia caduto fuori bordo. Il mare della Cina pullula di pescicani e, quella sera, con tutti quei cadaveri in acqua, dovevano essere accorsi particolarmente numerosi. No, il tesoro rimase intatto, a eccezione di un piccolo premio ai membri dell'equipaggio... duecento sterline a testa, una somma che superava i loro sogni più audaci. Nel corso di una notte ero diventato proprietario di un milione di sterline e non avevo nemmeno vent'anni. » « E' la storia più atroce che abbia mai sentito. » La voce di Ronald Pye tremava come il bicchiere che si accostò alle labbra. « Cerca di ricordartela, la prossima volta che ti verrà la tentazione di lasciare Ladyburg », gli consigliò Dirk, battendogli un colpetto sulla spalla. « Io e te siamo uniti per sempre... fino alla morte. » I giorni che Mark si era concesso stavano approssimandosi alla fine. Tra poco avrebbe dovuto lasciare la vallata per far ritorno nel mondo degli uomini. Si sentì invadere da una sorta di disperazione quieta. Aveva già perlustrato la riva meridionale e le alture che la circondavano; ora non gli restava che riprendere la sua ricerca sulla sponda opposta del fiume. Lì, per la prima volta, capì da alcuni segni che non era l'unico essere umano da quelle parti. Il primo giorno si imbatté in una serie di lacci, disposti lungo la pista seguita dagli animali che si abbeveravano al fiume. Il filo metallico in acciaio zincato era lo stesso che aveva trovato attorno alla zampa cancrenosa dell'impala azzoppato. Probabilmente era stato tagliato dalla recinzione di qualche contadino ignaro. Quello stesso giorno trovò quattordici trappole e le distrusse tutte, appallottolando il filo e gettandolo in uno dei punti più profondi del fiume. Due giorni dopo ne scovò un'altra, questa volta costituita da un tronco caduto. Era stata concepita con tanta abilità e camuffata con tale furbizia da riuscire a trarre in inganno una lontra adulta. Facendo leva con un ramo,
riuscì a sollevare il tronco ed estrasse la carcassa. Accarezzò la morbida pelliccia lustra color cioccolato e sentì la collera che gli montava dentro. Cominciava a provare un senso di possesso del tutto irrazionale per gli animali della vallata e un odio crescente per chiunque desse loro la caccia o li molestasse. Da quel momento in poi la sua attenzione si divise equamente tra la ricerca della tomba del nonno e quella delle tracce del bracconiere. Eppure passò quasi una settimana prima che scovasse altri segni del misterioso cacciatore. Ogni mattina all'alba attraversava il fiume per esplorare la riva nord. Sarebbe stato più semplice abbandonare il campo sotto il sicomoro, ma troppi ricordi lo trattenevano lì. Era il campo del vecchio, lo stesso dov'erano stati assieme e, comunque, non gli dispiaceva la sua traversata quotidiana e il percorso attraverso gli acquitrini che si erano formati all'incrocio dei due fiumi. Benché si muovesse solo ai margini di quel mondo acquatico, sapeva che esso costituiva il cuore di quell'Eden, una infinita riserva di acqua preziosa e di vita ancor più preziosa, l'ultimo rifugio sicuro per tante creature della vallata. Ogni giorno scovava nuove prove del passaggio degli animali sui sentieri fangosi che si addentravano tra i gruppi di canne e di papiri che, piegandosi gli uni verso gli altri, formavano una galleria fresca e ombrosa di steli verdi. Si avvide della presenza dei bufali e per due volte li udì farsi strada rumorosamente tra i papiri, senza vederli. Gli ippopotami e i coccodrilli trascorrevano le loro giornate negli anfratti scuri orlati di canne e in pozze misteriose coperte di gigli. Di notte gli capitava di svegliarsi e di avvolgersi dentro la coperta per assaporare i loro grugniti rauchi che echeggiavano dagli acquitrini. Un mezzogiorno, mentre se ne stava seduto su un basso promontorio roccioso e coperto di alberi, vide un rinoceronte bianco uscire con il suo cucciolo dal riparo delle canne, per andare a cibarsi al limitare della boscaglia. Era una grossa femmina con la pelle grigia, graffiata e segnata dalle ciratrici, che si arricciava in un'infinità di pieghe sul corpo da animale preistorico. Doveva pesare almeno quattro tonnellate e si affaccendava ansiosamente attorno al suo piccolo, privo di corno e grasso come un porcellino, guidandolo con la lunga sporgenza ricurva. Mentre li osservava, Mark capì tutt'a un tratto che questo luogo aveva influenzato per sempre la sua vita, e provò una nuova fitta di possessivo amore nei suoi confronti. Da quando era arrivato, aveva vissuto come se fosse stato il primo uomo sulla terra, soddisfacendo qualche profondo bisogno atavico, sepolto dentro di lui. Quello stesso giorno si imbatté in altri segni recenti dell'altra presenza umana che, oltre la sua, si era infiltrata nei recessi boscosi di là dal Passo ChaLa. Stava seguendo uno dei sentieri appena accennati che percorrevano gli animali, lungo una delle alture confluenti nel pendio della scarpata, quando notò la traccia. Era l'impronta di un piede nudo, un piede piatto e largo
che non aveva mai conosciuto la schiavitù della scarpa. Mark s'inginocchiò per esaminarla con attenzione. Vide subito che era troppo grande per appartenere a una donna. Capì dal passo che l'uomo doveva essere alto. Camminava coi pollici leggermente in dentro, appoggiando il peso sul tallone, un pò come un atleta. Alzava i piedi con decisione, senza strascicarli. Doveva essere un uomo forte, veloce e attento, e si muoveva rapido e silenzioso. La traccia era così fresca che, dove l'uomo si era fermato a orinare, le farfalle svolazzavano ancora in una nuvola brillante, in cerca di sali e di umidità. Mark capì di essergli molto vicino, e si sentì assalire dall'eccitazione della caccia. Senza esitare, riprese a camminare, seguendo le impronte. Gli si stava avvicinando rapidamente, ma l'uomo che seguiva ignorava la sua presenza. Si era fermato per spezzare un ramoscello da un nespolo selvatico, forse per utilizzarlo come stuzzicadenti, e il legno, nel punto in cui era stato reciso, recava ancora tracce di linfa. A un certo punto l'uomo si era fermato, era tornato indietro di un passo e si era fermato di nuovo, quasi certamente per ascoltare, poi aveva lasciato bruscamente il sentiero. Le impronte, infatti, finivano di colpo come se si fosse levato in volo o fosse stato portato via da un carro alato. La sua scomparsa aveva qualcosa di magico e, nonostante Mark si fosse dato da fare per un'altra ora esplorando i dintorni con occhi attenti, non aveva trovato altri segni della sua presenza. Si sedette e accese una sigaretta. Era sudato e irritato con se stesso. Benché avesse usato tutta la sua abilità per raggiungere la propria preda, sapeva di aver fatto una ben magra figura. L'uomo s'era certamente accorto di essere inseguito e se l'era svignata, badando bene a cancellare ogni traccia dietro di sè e lasciando il suo inseguitore con un palmo di naso. Sentì la sua irritazione trasformarsi in rabbia. « Finirò per prenderti », promise allo sconosciuto ad alta voce, senza neanche soffermarsi a pensare a ciò che avrebbe fatto se lo avesse davvero raggiunto. Era stato sfidato e intendeva raccogliere la sfida. L'uomo era molto furbo, furbo come... cercò un paragone adatto e, quando lo trovò, sorrise. Già, era proprio così, l'uomo era furbo come uno sciacallo, ma poiché era uno zulu, Mark lo apostrofò servendosi del termine pungushe. « Riuscirò a scovarti, pungushe. Ti troverò, piccolo sciacallo. » Dopo questo sfogo, il suo umore migliorò. Spense la sigaretta, pregustando il piacere di misurarsi con l'altro. Da quel momento in poi la sua attenzione si acuì, pronta a cogliere le impronte familiari sulla terra nuda o un movimento fugace tra gli alberi. Altre tre volte trovò tracce dell'uomo, ma erano troppo vecchie e smosse dal vento perché valesse la pena di seguirle. I giorni trascorrevano, contenuti nel cerchio maestoso del
cielo e delle montagne, del sole, del fiume e degli acquitrini, e il tempo sembrava senza fine, finché, contando sulle dita, Mark si rese conto che il suo mese era quasi trascorso. Fu colto dal terrore di partire e sprofondò in una depressione simile a quella che provano i bambini quando, dopo l'idillio della vacanza, si profila all'orizzonte il momento di tornare a scuola. Tornò al campo al cadere dell'oscurità e appoggiò il fucile contro il tronco del sicomoro. Indugiò un istante a stirarsi i muscoli doloranti, pregustando il piacere del caffè caldo e del fuoco che si sarebbe preparato di lì a poco, ma a un tratto si inginocchiò a esaminare il terreno che, sotto l'albero, le foglie decomposte avevano reso particolarmente soffice. Nonostante la luce fioca, l'impronta del piede nudo era perfettamente riconoscibile. Mark alzò gli occhi e frugò con lo sguardo nella boscaglia lì attorno, sentendo un brivido freddo all'idea che forse, in quel preciso momento, qualcuno lo stava osservando. Quando fu sicuro di essere solo, seguì la pista dello sconosciuto e scoprì che aveva trovato lo zaino appeso all'albero e, esaminatone il contenuto, aveva rimesso ogni cosa al suo posto, riappendendolo tra i rami. Se non avesse notato l'impronta, non avrebbe mai sospettato che qualcuno aveva frugato tra le sue cose. L'idea che lo sconosciuto, da lui seguito con tanta cura, aveva fatto altrettanto, e per giunta con maggior successo, lo lasciò inquieto e a disagio. Quella notte il suo sonno fu turbato da incubi. Sognò di seguire una figura scura che, battendo con un bastone sul sentiero scosceso, si allontanava, voltandogli le spalle. Nel sogno, cercò disperatamente di chiamarla senza che dalla gola gli uscisse alcun suono. Si svegliò tardi. Era intontito e si sentiva la testa pesante. Il cielo era pieno di nuvoloni scuri, che si muovevano lentamente, spinti dal vento di sud-est proveniente dall'oceano. Presto sarebbe cominciato a piovere e lui se ne sarebbe dovuto andare. Il tempo a sua disposizione era scaduto, ma, in quel momento decise di concedersi una proroga, per amore del vecchio e per la propria serenità. Quella mattina, prima di mezzogiorno, ci fu un acquazzone rapido e violento che lo inzuppò da capo a piedi. Non era che un piccolo, breve anticipo di ciò che sarebbe venuto in seguito e, poco dopo, il sole si aprì un varco tra le nuvole. Mark aveva la sensazione che la pioggia gli fosse penetrata fin nelle ossa e non riuscì a controllare il tremito che lo scuoteva. Quando si avvide che continuava a tremare benché i suoi abiti fossero ormai asciutti, fece un rapido conto, da cui dedusse che erano passati ventidue giorni dal suo arrivo sul fiume e dalle prime punture delle zanzare che infestavano la zona. Fu colto da un'altra crisi di tremito e capì che la sua vita dipendeva dalla boccetta di chinino che aveva nello zaino e dalla possibilità di raggiungerla prima che l'attacco di malaria si scatenasse in tutta la sua virulenza.
Il campo distava otto chilometri. Si avviò lungo una scorciatoia che, tagliando attraverso i rovi e oltrepassando un'altura rocciosa, si ricongiungeva più avanti al sentiero. Quando lo raggiunse, si sentì travolgere dal capogiro e si accorse che le gambe non lo reggevano più. Si fermò a riposare e accese una sigaretta, ma non riuscì a tollerarne il sapore. Spense il mozzicone schiacciandolo sotto il tacco e, in quel momento, scorse un'altra impronta sul sentiero. Il fogliame di un albero di mahoba hoba l'aveva protetta dal violento acquazzone. Si era quasi sovrapposta a una delle sue e puntava nella stessa direzione in cui si era mosso egli stesso, ma ciò che più lo turbò era che si trattava di uno stivale chiodato e che il piede, stretto e allungato, non poteva che appartenere a un uomo bianco. Nel suo stato di debolezza, che prelude all'insorgere della malaria, quel segno sul terreno assunse un significato particolarmente sinistro. Fu percorso da un'altra serie di brividi che, una volta passata, gli lasciò la testa finalmente sgombra e un'illusoria sensazione di forza. Quando si alzò, si accorse di avere le gambe pesanti come il piombo. Dopo cinquecento metri, un gufo di palude lanciò il suo richiamo da un'altura alle sue spalle, nel punto esatto in cui aveva appena attraversato il sentiero. Mark si fermò di scatto e inclinò il capo in ascolto. Rimase perfettamente immobile, nonostante la puntura di una tse-tse sulla nuca avesse cominciato a prudergli furiosamente. Un altro gufo rispose al primo, ma il flautato uut-uut, per quanto perfettamente-imitato, era privo della sua naturale risonanza. Questa volta il verso gli ricordò quello dell'assiolo che aveva sentito sulla scarpata sopra Ladyburg, una notte di molti mesi prima. Cominciò a correre lungo il sentiero serpeggiante, con la sensazione che le gambe si fossero staccate dal resto del corpo, ma non aveva percorso neanche cento metri che cominciò ad ansimare. La nausea gli saliva a ondate dal fondo dello stomaco, provocandogli continui conati di vomito. Sentì la febbre stringerlo nella sua morsa. Davanti ai suoi occhi le cose si scomponevano e si ricomponevano come un mosaico: chiazze oscure si alternavano a bolle di colore e solo di tanto in tanto le cose gli ricomparivano davanti nella loro nitidezza. Procedeva spinto dalla forza della disperazione, aspettandosi da un momento all'altro di sentire sotto i piedi il terreno spugnoso della palude e di imboccare la galleria oscura e protettiva formata dai papiri, che gli avrebbe offerto riparo, guidandolo fino al campo. Udì di nuovo il verso del gufo. Era molto più vicino e proveniva da una direzione del tutto inattesa. Confuso e spaventato, Mark si lasciò cadere alla base di un'acacia dal tronco spinoso per riposare e riprendere forza. Il cuore gli martellava nel petto e il senso di nausea si era fatto così intenso da costringerlo quasi a vomitare. Riuscì a resistere e, quasi per miracolo, il
sipario che gli offuscava la vista si sollevò. Si avvide che, durante la cecità indotta dalla febbre, aveva smarrito la strada. Non aveva la minima idea di dove fosse né della direzione in cui si stava muovendo. Cercò di intuirlo, esaminando la posizione del sole, la pendenza del terreno e guardandosi attorno in cerca di qualche altro indizio, ma i rami dell'albero che si allargavano sopra di lui e la boscaglia che lo circondava limitavano drasticamente il suo campo visivo. Si rimise in piedi a fatica e si voltò verso il pendio roccioso. Sperava di riuscire a raggiungere la cima, ma riudì alle sue spalle il verso cupo e lamentoso del gufo. Ancora una volta fu colto dal tremito e sprofondò in un nuovo abisso di cecità. Sentì un rivoletto di sangue caldo che gli scorreva lungo il polpaccio e capì che doveva essersi tagliato; quando alzò le mani al viso, si accorse che tremavano a tal punto che non riuscì a detergere il sudore gelido che gli colava sugli occhi. I denti gli battevano così forte che la loro eco amplificata gli si ripercuoteva dolorosamente nelle orecchie. Il gufo gridò di nuovo, questa volta alla sua sinistra. Mark si girò e sbirciò in quella direzione, cercando di allontanare l'oscurità che lo avvolgeva e sbattendo le palpebre per liberare gli occhi dal sudore salato. Era come se stesse guardando dentro una galleria al cui termine si intravedeva una luce fioca o se avesse davanti un telescopio rovesciato. Qualcosa si stava muovendo su una distesa di erba giallastra: cercò di aguzzare gli occhi doloranti, ma tutto ondeggiava davanti a lui. Eppure era sicuro di aver notato un movimento. Silenziose meteore di luce colorata esplosero nella sua mente, poi svanirono, e tutt'a un tratto la vista gli si schiarì. Di fianco a lui stava passando un uomo; era grande e grosso e aveva la testa tonda e pesante come una palla di cannone. Le spalle erano robuste come quelle di un lottatore, e il collo largo e bovino. Mark non riuscì a vederlo in faccia, eppure la sua figura gli parve minacciosamente familiare. Portava una camicia in stile militare con le tasche abbottonate, aveva una bandoliera a tracolla, e i calzoni erano infilati in un paio di stivali consunti da cavallerizzo. Portava il fucile appeso trasversalmente sul petto e si muoveva con il passo esageratamente cauto del cacciatore. Tutto riprese a girargli davanti agli occhi, disintegrandosi. Si rizzò in piedi, appoggiandosi al tronco dell'acacia, e una spina ricurva gli si conficcò nel pollice. Non sentì quasi il dolore e cominciò a correre. Udì un grido alle sue spalle, simile a quello dei cacciatori, e, guidato dall'istinto di sopravvivenza, svoltò di scatto, cambiando bruscamente direzione. Una frazione di secondo prima del rumore dello sparo, udì il proiettile che gli passava accanto
alla testa con uno schiocco simile a quello di una frusta gigantesca. « E' un Mauser », pensò e fu trasportato come per incanto in un luogo e in un tempo diversi. Ancora una volta, il suo istinto, più forte della cecità e della malattia, lo indusse a calcolare mentalmente i secondi necessari all'altro per ricaricare l'arma e prendere la mira. Senza smettere di correre, Mark scartò di nuovo e il proiettile gli passò accanto frustando l'aria. Senza fermarsi, si tolse il fucile dalla spalla. A un tratto si ritrovò tra gli alberi. Un pezzo di corteccia schizzò via da un tronco esplodendo in frammenti umidi di linfa e lasciando al suo posto una candida ferita. Mark, frattanto, aveva raggiunto la cresta dell'altura. La superò e si buttò verso sinistra piegato in due, cercando a tentoni un riparo. Poi udì un rumore terribile. Era come se il cielo si fosse schiantato e il sole gli fosse piombato addosso. Fu accecato da una luce abbagliante e vicinissima, e per un attimo edbe l'impressione che un proiettile del Mauser gli fosse esploso in testa. Si lasciò cadere in ginocchio. Nel silenzio che seguì si rese conto che un fulmine aveva colpito l'altura, proprio accanto a lui. L'aria era piena del sentore dell'elettricità e un brontolio cupo indugiava ancora sopra la parete blu della scarpata. L'enorme massa di nuvole livide, precipitando dalla volta azzurra del cielo, premeva ora sulla terra. Il vento giunse immediato. Folate rapide e fredde squassarono i rami degli alberi e, quando Mark riuscì a rimettersi in piedi, gli gonfiarono la camicia, arraffandogli i capelli e provocandogli un altro attacco di tremito. Gli parve che il sudore che gli bagnava il volto si fosse trasformato in brina. Udì nel vento il gufo che lanciava di nuovo il suo richiamo, lì vicino, e un attimo dopo cominciò a piovere. Offuscata dalla pioggia, vide la sagoma contorta e torturata di un albero morto. Sembrava uno stregone irato, con le braccia protese minacciosamente e il corpo scarno, ma gli offriva comunque un riparo, l'unico possibile in quel momento. Per qualche istante benedetto la cortina di oscurità che gli offuscava gli occhi si sollevò e il suo sguardo abbracciò un cerchio limitato di luce grigia. Si rese conto che era tornato sui suoi passi, avvicinandosi di nuovo al fiume. L'albero morto dietro cui si era riparato era quasi sulla riva, all'inizio del pendio scosceso, e l'acqua, scavando la terra sotto le radici, ne aveva determinato la morte. Col tempo l'avrebbe risucchiato, trascinandolo a valle. La pioggia aveva ingrossato il fiume che fluiva rapido e scuro, impedendogli la ritirata. Era imprigionato sulla riva, alla mercé dei suoi inseguitori. Dai richiami aveva capito che dovevano essere in più d'uno, proprio come sulla scarpata di Ladyburg. L'unica speranza che gli restava era di riuscire a separarli, attirandoli verso di lui senza che si insospettissero; ma dove-
va agire rapidamente per precedere il nuovo attacco febbrile. Si portò una mano a coppa alle labbra e imitò il verso triste e lamentoso del gufo. Poi appoggiò di nuovo la schiena all'albero, abbassando il fucile sul fianco. Da destra udì provenire un altro richiamo. Mark rimase immobile contro il tronco, limitandosi a volgere gli occhi in direzione del richiamo, con la fronte aggrottata per lo sforzo di vedere. Dopo qualche lungo attimo, il grido si ripetè, questa volta più vicino. La pioggia, sospinta dal vento, cadeva ora diagonalmente; le staffilate gelide laceravano la boscaglia e le radure erbose, e una miriade di aghi acuminati si abbatté sul suo volto, pungendogli le palpebre. Si portò di nuovo la mano alla bocca ed emise il richiamo del gufo, che avrebbe indotto il suo uomo a venire ancor più vicino. « Dove sei? » disse qualcuno. « Ehi, Rene, dove diavolo ti sei cacciato? » Mark puntò lo sguardo in direzione del suono. Dal folto degli alberi gocciolanti, sbucò una figura, sfocata dalla pioggia. « Ho sentito gli spari. L'hai preso? » domandò, avvicinandosi a Mark. Era un individuo alto con la faccia bruciata dal sole, un ventaglio di rughe attorno agli occhi e una barba corta e ispida che gli copriva il mento. In una mano teneva il fucile e sulle spalle aveva una mantellina di gomma di tipo militare, luccicante per la pioggia. Era già avanti negli anni e aveva lo sguardo spento e ottuso, i lineamenti gravi, quasi brutali, di un contadino russo. Il suo viso era quello di un uomo per il quale uccidere un proprio simile era altrettanto facile che sgozzare un maiale. Ingannato dal richiamo aveva scambiato la sagoma incerta che si profilava contro il tronco dell'albero per quella del suo compagno. « Rene? » ripeté. Poi si fermò insospettito e strizzò gli occhi inespressivi per oltrepassare con lo sguardo la spessa cortina di pioggia. Imprecò con rabbia, afferrando il fucile con entrambe le mani e alzando la sicura con il pollice calloso. « E' lui! » gridò. Aveva riconosciuto Mark e sul volto gli si leggeva chiara la sorpresa. « No », gridò Mark, mentre l'altro alzava la canna del fucile. Aveva udito lo scatto della sicura e sapeva che, nel giro di un attimo, l'uomo l'avrebbe colpito. Lasciò partire un colpo dal P. 14 che teneva ancora accostato al fianco e lo sparo echeggiò, assordante. L'uomo fu sollevato da terra e scagliato all'indietro, mentre il fucile gli sfuggiva dalle mani. Si abbatté sul terreno roccioso con le spalle; i calcagni presero a martellare il suolo, frenetici, mentre le palpebre fluttuavano come farfalle in trappola. Il flusso di sangue che gli usciva dal petto impregnò la stoffa fradicia della camicia e fu immediatamente diluito dalla pioggia scrosciante fino ad assumere un pallido colore rosato. L'uomo inarcò la schiena in un ultimo spasmo e giacque immobile. Mark ebbe l'impressione che si fosse rimpicciolito,
sembrava più vecchio e più fragile, e la mandibola rilassata rivelava le gengive di gomma di una dentiera macchiata di tabacco. La pioggia batteva sugli occhi spalancati, e Mark provò la morsa ormai familiare della disperazione, l'alito freddo del rimorso per aver inflitto la morte a un altro essere umano. Avrebbe voluto giustificarsi e soccorrerlo, anche se ogni aiuto era ormai inutile. L'impulso, nato dalla febbre, volava sulle ali del delirio; ogni linea di confine tra fantasia e realtà era nuovamente svanita. « Non avresti dovuto provarci, » sbottò. « Ti avevo avvertito... » Uscì allo scoperto, abbandonando il riparo del tronco e dimenticando l'altro uomo, benché il suo istinto gli avesse già detto che era il più pericoloso dei due. Rimase fermo sopra il corpo cui aveva appena tolto la vita con il fucile stretto al petto, vacillando. Hobday aveva mandato a vuoto i suoi tre colpi, ma la prima volta aveva tirato da lontano e verso l'alto, ostacolato dagli alberi e dagli arbusti, contro un bersaglio che correva a zigzag, un'esile forma in movimento: peggio che dare la caccia al cudù nella parte più impenetrabile della boscaglia. Gli altri due colpi li aveva sparati per disperazione o per tentare la fortuna prima che la sua preda raggiungesse la cresta del pendio e sparisse alla vista. Ora, forse, si era fatto più cauto, perché aveva visto il fucile appeso alla spalla di Mark e temeva che si fosse acquattato sulla cresta in attesa che gli si presentasse l'occasione di sparare. Sfruttando ogni possibile copertura per non farsi scorgere, si spostò verso la cresta rocciosa, aspettandosi da un momento all'altro di essere investito dal fuoco di Mark. Sapeva che il ragazzo era un ottimo tiratore e si mosse con cautela, conscio del pericolo. Quando arrivò in cima al pendio, provò un enorme sollievo. Si sdraiò bocconi sull'erba con il Mauser carico e scrutò in cerca della preda. Udì il gufo che gridava alla sua sinistra e aggrottò la fronte, irritato. « Quel vecchio bastardo! » grugnì. « Se la fa addosso dalla paura. » Il suo compagno aveva bisogno di essere costantemente rassicurato; aveva i nervi troppo fragili per quel tipo di lavoro, e i continui richiami rivelavano la sua paura. Quell'idiota! Dai colpi avrebbe dovuto capire che la caccia era in una fase critica, eppure era lì che chiamava di nuovo, come un bambino che fischietta al buio per farsi coraggio. Distolse il pensiero dal compagno e si concentrò sul pendio battuto dalla pioggia. A un tratto si riscosse, incredulo. Un altro richiamo, in risposta al primo, era giunto da sinistra, appena sotto la cima. Hobday si rimise in piedi e, tenendosi acquattato, si spostò rapidamente lungo la cresta. Vide qualcosa che si muoveva tra gli arbusti grigi e piegati dal vento e, appoggiando un ginocchio a terra, in posizione ti-
pica di tiro, prese la mira, sbattendo le palpebre per liberare gli occhi dalla pioggia, pronto a far fuoco. A un tratto emise un brontolio di delusione. Aveva riconosciuto il suo compagno che, chino sotto la mantellina luccicante di pioggia, si muoveva con la pesantezza di una donna gravida nell'oscurità prodotta dal fogliame e dalle raffiche di pioggia. L'uomo con la mantellina si fermò e, con la mano a coppa sulla bocca, ripeté il verso del gufo. Il suo barbuto osservatore sogghignò. « Ma bene ». sussurrò. « Quel vecchio idiota se lo sta tirando addosso! Non provò il minimo scrupolo all'idea che il compagno fungesse da specchietto per le allodole. Rimase a fissarlo, tenendosi basso, in modo che la testa e le spalle fossero nascoste dagli arbusti sotto cui si era acquattato. Il vecchio con la mantellina ripetè il richiamo e rimase in attesa, con la testa inclinata di lato. Quando udì il grido di risposta, si affrettò, nel vento e nella pioggia, verso il suo destino. Hobday sogghignò. Meglio così, si sarebbe intascato l'intero premio. Strofinò con il pollice l'alzo del Mauser per liberarlo dalle gocce di pioggia. A un tratto il vecchio fece per alzare il fucile, ma non riuscì a completare il movimento perché si udì uno sparo e lui crollò nell'erba. Hobday imprecò a bassa voce. Si era lasciato sfuggire un'ottima occasione; non aveva identificato il punto da cui il colpo era stato sparato. Attese con l'indice sul grilletto, cercando di penetrare la pioggia con lo sguardo. Aveva perso molta della sua sicurezza e provava un nuovo senso di rispetto per la sua preda, misto, questa volta, a una punta di paura. Era stata una mossa abile quella di far avvicinare il vecchio, che si era lasciato attirare come un leopardo affamato dal belato emesso dal corno di un battitore. Poi, a un tratto, la sua insicurezza svanì e, per un attimo, rimase quasi incredulo di fronte alla fortuna che gli era capitata. Proprio quando si stava disponendo ad affrontare un duello lungo e pericoloso, la sua preda abbandonò l'albero morto dietro il quale si era rifugiata e uscì allo scoperto. Era un gesto infantile e ridicolo, un gesto quasi suicida, che rivelava una tale ingenuità da fargli temere per un attimo che si trattasse di una trappola. Il giovane si fermò accanto al corpo dell'uomo che aveva ucciso. Anche da quella distanza sembrava che stesse vacillando. Il suo volto, nella debole luce grigiastra, era molto pallido, e il colore della camicia spiccava con chiarezza contro la luce riflessa dalla superficie del fiume. Il colpo non poteva essere più semplice. Hobday mirò al centro del torace, poi premé il grilletto con cura esagerata, certo che avrebbe colpito il cuore. Il fucile rinculò, urtandogli bruscamente la spalle, e l'eco dell'esplosione gli ferì i timpani. Il proiettile penetrò con un tonfo sordo nel corpo del ragazzo, che cadde all'indietro. Mark non udì lo sparo, perché la pallottola viaggiava a una velocità superiore a quella del suono, ma senti un urto violento
nella parte superiore del corpo che lo scaraventò all'indietro, estraendogli tutta l'aria dai polmoni. La terra si spalancò davanti a lui e, mentre cadeva, ebbe la sensazione di venire inghiottito da un gorgo buio. Pensò di essere sul punto di morire. La corrente gelida e vorticosa del fiume lo afferrò, sottraendolo all'abisso. L'acqua gli si richiuse sopra la testa, ma lui, con una spinta del piede sul fondo fangoso, riuscì a risalire alla superficie. Quando riemerse, inspirò a fondo per riempire d'aria i polmoni che gli bruciavano e s'avvide che teneva ancora il P. 14 stretto al petto. Il proiettile del Mauser si era abbattuto sulla parte in legno, andando poi a schiantarsi contro l'acciaio della culatta; ora era ridotto a un ammasso informe, simile a una pallina d'argilla che qualcuno avesse scagliato contro un muro. Il fucile aveva arrestato la sua corsa, ma la violenza dell'impatto era stata tale da scaraventare Mark in acqua senza più un filo di fiato. Con grande sollievo, lasciò cadere l'arma sul fondo fangoso e si lasciò trascinare dalla corrente, abbandonandosi alla febbre, alla pioggia e alla rabbia del fiume. Si sentì lentamente sprofondare nell'oscurità e pensò all'ironia di essersi salvato dal Mauser per poi morire annegato come un gattino. L'acqua gli riempì la bocca, riversandosi nei polmoni. Poi fu il nullla. Non c'è delirio peggiore di quello indotto dalla malaria. La mente, preda di un incubo senza fine a cui non riesce a sottrarsi, è privata perfino del sollievo del risveglio. Gli incubi provocati dalla malaria superano qualsiasi immaginazione, non conoscono tregua e sono accompagnati da una sete irriducibile. Per opporsi al male, i cui attacchi si susseguono a cicli sempre uguali, ma non per questo meno terribili, il corpo brucia ogni sua energia e ogni suo fluido vitale. I brividi gelidi sono seguiti da una febbre che porta la temperatura del corpo a livelli così alti da provocare talvolta delle lesioni cerebrali. Poi la febbre recede, sostituita da una sudorazione continua, che estrae dal corpo della vittima ogni stilla di liquido, lasciandola completamente disidratata e privandola persino della forza di alzare una mano, in attesa che una nuova crisi si ripresenti identica alla prima. Nell'alternarsi di gelo e calore, sullo sfondo costante di un indicibile terrore, Mark ebbe qualche raro attimo di semilucidità. Una volta, mentre era sconvolto dalla sete al punto che ogni sua cellula invocava un pò di umidità e la bocca era gonfia e riarsa, ebbe la sensazione che la testa gli venisse sollevata da un paio di mani forti e fresche e che del liquido meravigliosemente amaro gli scorresse giù per la gola. Altre volte era egli stesso a tirarsi sulle spalle la coperta di lana grigia che emanava l'odore familiare e rassicurante del suo corpo, misto a quello di fumo e di tabacco. In quegli attimi sentiva la pioggia e il rombo del tuono, nonostante fosse all'asciutto. Poi ogni ru-
more esterno svaniva e lui veniva risucchiato di nuovo nel gorgo della malattia. Quando tornò in sé definitivamente, seppe che erano passate settantadue ore dai primi brividi che gli avevano squassato il corpo. La malaria ha un ciclo così preciso che non esisteva possibilità d'errore. Era tardo pomeriggio e lui giaceva, avvolto nella coperta, su un giaciglio di erba appena tagliata e di foglie profumate. La pioggia continuava a scrosciare, grigia e uniforme, dai banchi di nuvole gonfie che parevano premere contro le cime degli alberi, ma egli era perfettamente asciutto. Sopra di lui c'era la roccia, una roccia annerita nel corso dei millenni dai fuochi di molti altri che avevano cercato rifugio in quella caverna bassa la cui apertura, rivolta verso nord-ovest, la riparava dai venti portatori di pioggia e ora coglieva gli ultimi raggi di luce nel punto in cui il sole stava sparendo dietro la spessa coltre che ricopriva il cielo. Mark si sollevò a fatica su un gomito e si guardò attorno, stupito. Appoggiato al muro, accanto alla sua testa, vide lo zaino. Lo fissò per un attimo senza capire. L'ultimo ricordo che aveva era quello dell'acqua gelida che si richiudeva sopra la sua testa. A portata di mano c'era un boccale panciuto di argilla scura, su cui si gettò immediatamente, con le mani che tremavano non solo per la debolezza, ma per l'impellente bisogno di calmare la sete. Il liquido che conteneva era amaro, sapeva di erbe e di zolfo, ma lo tracannò con grandi sorsate avide finché lo stomaco, allagato di colpo, prese a fargli male. Depose il boccale e scoprì accanto a esso una ciotola contenente farinata di granoturco, ormai fredda e dura, ma insaporita con un'erba selvatica simile alla salvia. Ne mangiò metà e sprofondò in un sonno ristoratore. Quando si risvegliò, aveva smesso di piovere e il sole, alto nel cielo, splendeva attraverso gli squarci aperti nei cumuli di nuvole. Con grande sforzo, Mark si alzò e si avviò vacillando verso l'ingresso della grotta. Guardò giù verso il Bubezi in piena; una valanga d'acqua rossiccia e mugghiante, in cui grandi alberi vorticavano, sospinti verso il mare, protendendo verso il cielo le loro radici nude, simili a dita adunche e irrigidite nella morte. Guardando verso nord, Mark si avvide che l'intero bacino paludoso era stato allagato. I papiri erano completamente sommersi sotto un lenzuolo argenteo che brillava come uno specchio gigantesco, e solo i rami più alti degli alberi sporgevano dall'acqua, mentre i rialzi del terreno e i bassi kopjes spuntavano come isole dalla distesa luccicante. Mark, che era ancora troppo debole per restare a lungo in piedi, tornò al suo giaciglio d'erba e di foglie. Prima di addormentarsi, riandò con la memoria all'agguato, domandandosi come avessero fatto i suoi aggressori a sapere che si trovava lì
e concludendo che la loro presenza doveva essere collegata ad Andersland e alla morte del vecchio. Poi il sonno lo colse. Quando si ridestò, era di nuovo mattina. Durante la notte qualcuno aveva riempito il boccale con il liquido amaro e aveva rimesso nella tazza una nuova porzione di farinata, mista a qualche frammento di carne arrostita che aveva il sapore del pollo, ma doveva essere iguana. Il livello del fiume era calato in modo sorprendente, tanto che i papiri erano ricomparsi, con i lunghi steli appiattiti e le soffici cime imbevute d'acqua. Anche gli alberi che crescevano nella parte più bassa dell'argine erano tornati allo scoperto e il Bubezi, nella stretta gola sotto il rifugio, aveva assunto una parvenza pressoché normale. Mark si accorse di essere nudo e sentì per la prima volta il puzzo del sudore e degli escrementi di cui era impregnato. Scese faticosamente fino alla riva, fermandosi più volte durante il tragitto a riprendere fiato e a tentare di eliminare il ronzio che gli risuonava nelle orecchie. Si lavò, liberandosi del puzzo e del sudiciume che aveva ad dosso, ed esaminò il livido violaceo comparso nel punto in cui il P.14 gli aveva compresso il torace. Poi si lasciò asciugare al calore cocente del sole di mezzogiorno, che risucchiò dal suo corpo gli ultimi brividi rimasti. Quando tornò al rifugio, il suo passo aveva già ritrovato parte dell'antica vivacità. Il mattino seguente scoprì che il boccale e la tazza erano spariti. Capì che si trattava di un gesto intenzionale, con il quale il misterioso benefattore intendeva comunicargli che, per quanto lo riguardava, il suo compito era terminato. Mark raccolse le proprie cose e scoprì che i suoi abiti, asciutti, erano stati riposti nello zaino. Notò che c'erano anche la bandoliera e il coltello da caccia con il manico d'osso, ma si avvide che le riserve di cibo erano ormai ridotte a una scatola di fagioli. L'aprì e ne mangiò metà, conservando il resto per la cena. Poi, lasciato lo zaino sul fondo della grotta, si avviò verso l'estremità opposta del bacino. Gli ci vollero quasi due ore per trovare la zona in cui era avvenuto lo scontro, che riconobbe solo grazie ai rami artritici dell'albero morto. Il terreno era più basso di quanto avesse immaginato. L'acqua alluvionale l'aveva ricoperto interamente; l'erba appiattita al suolo sembrava cosparsa di brillantina e pettinata; alcuni alberi erano stati sradicati e trascinati via, e nei rami più bassi di quelli che restavano si erano annidati i detriti dell'alluvione a segnalare il livello raggiunto dal fiume. Mark cominciò a perlustrare i dintorni in cerca di qualche traccia dello scontro, senza riuscire a trovarne. Il cadavere era scomparso e così pure il suo fucile. Sembrava quasi che non fosse successo niente. Mark ebbe il sospetto di essersi inventato tutto finché, infilatosi la mano nella camicia, non senti sotto le dita il gonfiore della botta. Seguì la traccia lasciata dall'acqua per circa un chilometro,
nella stessa direzione in cui era piegata l'erba. Finalmente vide degli avvoltoi appollaiati sugli alberi e altri che battibeccavano rumorosamente tra gli arbusti. Affrettò il passo, ma non trovò altro che un piccolo rinoceronte travolto dalla corrente e già in stato di putrefazione. Mark tornò all'albero morto e si sedette a fumare l'ultima sigaretta, godendosi ogni boccata. Arrivato a metà, la spense e ripose il mozzicone nella scatoletta metallica che recava l'immagine di un gatto nero e la marca CRAVEN A. Stava per alzarsi, quando vide qualcosa baluginare ai suoi piedi. Scavando con le dita nella terra ancora umida, ne estrasse una cartuccia d'ottone che puzzava ancora leggermente di polvere bruciata. Stampigliata alla base c'era la scritta MAUSER FABRIKEN. 9 mm. Se la rigirò tra le dita con aria assorta. La cosa più giusta da fare sarebbe stata quella di andare a denunciare il fatto alla più vicina stazione di polizia, ma già due volte aveva commesso l'errore di richiamare su di sé l'attenzione, mentre un nemico spietato gli dava la caccia restando nascosto. Mark si alzò e discese il pendio fino al bordo della palude. Esaminò la cartuccia ancora per un attimo, poi la lanciò nell'acqua. Tornato alla grotta, si mise lo zaino sulle spalle, saltando con le ginocchia piegate per sistemarlo. Poi, mentre stava per andarsene, vide le impronte sulla cenere fredda. Erano state prodotte da un piede nudo e largo, e le riconobbe subito. Obbedendo a un impulso, estrasse dalla cintura il coltello da caccia e lo depose come un'offerta alla base della parete. Poi, prendendo un pezzo di carbone dal fuoco, tracciò sulla roccia i due antichi simboli che, come il vecchio servo zolu gli aveva insegnato, significavano « lo schiavo-inchinato-che-porta-doni ». La prossima volta che fosse tornato alla caverna, Pungushe, il bracconiere, avrebbe interpretato i simboli, accettando il dono. Sul pendio del torrione meridionale del Passo Chaka, Mark si fermò a guardare un'ultima volta il grande spazio selvaggio e cominciò a parlare, piano, perché sapeva che il vecchio l'avrebbe sentito indipendentemente dal volume della voce. Dopo quell'esperienza appena vissuta era più che mai deciso a scoprire la verità e a svelare il mistero che ancora circondava la morte del nonno. « Un giorno tornerò », disse. Poi si voltò verso sud, allungando il passo fino ad assumere quell'andatura rapida e trotterellante che gli zulu definiscono Minza umhlabathi, cioè che « divora la terra avidamente ». Il vestito lo stringeva come una morsa e il colletto inamidato gli faceva l'effetto di uno di quegli anelli di ferro che un tempo si mettevano al collo degli schiavi. I marciapiedi resistevano alla pressione del piede, mentre il clangore dei tram e il rombo delle automobili gli sembravano quasi intollerabili dopo l'infinito silenzio della boscaglia. Eppure c'era qualcosa di eccitante e di stimolante nella marea umana che gli fluiva
rapida attorno, rima di contrasti, colorata e viva. Quella serra tropicale che era la città di Durban incoraggiava ogni forma di vita, e la varietà delle persone che ne percorrevano le strade non aveva mai smesso di incuriosirlo. Le donne indù con i loro sari di seta dai colori sgargianti, le narici ingioiellate e i sandali ai piedi; gli zulu alti e col viso tondo; le loro mogli, con la tipica acconciatura conica a treccine impastate di fango rosso che le avrebbe accompagnate per tutta la vita e il seno nudo sotto la leggera copertura, il grande seno generoso e pieno come quello della madre terra, a cui i neonati si attaccavano come pidocchi grassi. I corti grembiuli di cuoio oscillavano a ogni passo delle gambe scure e forti, e anche gli uomini procedevano muscolosi e pieni di dignità, vestiti solo del perizoma o di consunti indumenti occidentali che portavano con sicurezza e ostentazione simili a quelle di un militare in alta tenuta. Le donne bianche, camminavano altere e tranquille, seguite da un servo, o si spostavano a bordo delle loro vetture come in un bozzolo. I loro uomini indossavano abiti scuri con colletti inamidati, più adatti al clima nordico dei loro luoghi natali. Molti avevano il colorito giallastro e il corpo appesantito dall'alimentazione troppo ricca, ma tutti si affaccendavano, intenti ai loro affari, con i volti perennemente aggrottati come per isolarsi dai corpi che premevano da ogni parte. Gli parve strano essere di nuovo in città. Da una parte Mark sentiva di odiarla, mentre dall'altra era felice di ritrovarvisi e soprattutto di ritrovare la compagnia di altri uomini, dei quali, nelle lunghe settimane appena trascorse, aveva sentito spesso il bisogno. « Santo cielo, sei proprio tu », esclamò Dicky Lancome, venendogli incontro con un garofano rosso all'occhiello. « Sono felice che tu sia tornato, anzi ti aspettavo già da qualche settimana. Gli affari sono andati a rilento, le ragazze erano noiose e per niente incoraggianti, il tempo non poteva essere peggiore... Non hai perso niente, amico, assolutamente niente. » Allontanò Mark, tenendolo con entrambe le braccia e lo esaminò con espressione fraterna. « Santo cielo, sembra che tu sia stato in Riviera; sei scuro come una salsiccia, anche se meno grasso. Anzi, mi sembri decisamente dimagrito... » soggiunse, dandosi una pacca al panciotto dai bottoni in tensione, premuti dalla mole prorompente dello stomaco. « Devo mettermi a dieta, il che mi ricorda che è ora di pranzo! Sarai mio ospite, vecchio mio. Non accetto obiezioni! » Dicky iniziò la dieta con un piatto di riso fumante che l'aggiunta di zafferano aveva reso colore dell'oro chiaro, su cui versò un curry di carne di montone, insaporito di erbe e guarnito da salsa di mango, cocco tritato e una mezza dozzina di altri intingoli. Quando il cameriere indiano gli accostò il vassoio d'argento che conteneva le insalate, Dicky si servì entusiasticamente senza smettere di parlare. « Ehi, non sai quanto ti invidio. Anch'io mi sono ripromes-
so più volte di fare qualcosa di simile. Un uomo solo contro la natura, roba da pionieri. » Licenziò il cameriere con un cenno della mano e alzò il boccale di birra da un litro. « Salute, vecchio mio. Adesso voglio sapere tutto. » Finalmente Dicky si decise a tacere e, mentre rendeva al curry i debiti onori, Mark iniziò il proprio racconto. Parlò della bellezza e della solitudine, dell'alba nella boscaglia e delle silenziose notti stellate. Di tanto in tanto l'amico usciva in un sospiro e scuoteva il capo con aria nostalgica. « Non sai come ti invidio, ragazzo mio. » « Puoi sempre farlo anche tu », replicò Mark, e Dicky lo guardò stupito. « Il posto è là. Basta andarci. » « Come la metto con il lavoro? Non posso mollare tutto. » « Ti piace quello che fai? » gli chiese Mark a bassa voce. « Ti senti appagato a vendere automobili? » « Ma cosa dici? » obiettò Dicky, vagamente a disagio. « Non ne farei un problema del genere. Insomma, nessuno si diverte a lavorare, ma non se ne può fare a meno. E' già una bella fortuna se uno riesce a trovare qualcosa di non troppo sgradevole per tirar su quattro soldi. » « Chissà », osservò Mark con aria riflessiva. « Dimmi, Dicky, cos'è più importante: i quattrini o la propria realizzazione? » Dicky lo fissò con la bocca leggermente aperta, in cui si intravedeva del riso mezzo masticato. « Laggiù mi sentivo me stesso », continuò Mark, giocherelando con il boccale di birra. « Non c'erano né padroni, né clienti, né provvigioni. Forse non riesco a spiegarmi... il fatto è che mi sentivo importante. » « Importante? » esclamò Dicky, inghiottendo rumorosamente. « Importante? Ehi, ragazzo, i tipi come noi li vendono sulle bancarelle a un soldo la dozzina. » Affogò il riso in una sorsata di birra e si tamponò la schiuma che era rimasta sul labbro superiore con il fazzoletto immacolato che portava nel taschino. « Da' ascolto a un vecchio saggio. Quando dici le preghiere, la sera, ringrazia Dio di aver trovato un posto come questo e di essere in gamba nel tuo lavoro. Fa' come ti dico, figliolo, e smettila di pensarci, altrimenti ti si spezzerà il cuore. » Dal tono di voce si capiva che considerava concluso l'argomento. Si chinò ad aprire la cartella che aveva appoggiato per terra, accanto al tavolo. « Ho qualcosa per te. » Gli porse la posta arrivata per lui in quel periodo: una dozzina di lettere, vergate con calligrafia femminile da Marion Littlejohn e contenute in altrettante buste di carta azzurra, un colore che, a quanto gli aveva detto, indicava eterno amore; quindi un conto del sarto per l'ammontare di dodici scellini e sei pence, che Mark era convinto di avere già pagato, e un'altra busta di costosa carta marezzata beige chiaro, su cui una mano arrogante e perentoria aveva scritto solo il suo nome, tralasciando l'indirizzo. Mark la prese e la voltò per esaminare lo stemma che spiccava in rilievo sul retro.
Dicky lo osservò aprirla, poi si protese sfacciatamente in avanti, ma Mark gliela passò, risparmiandogli così la fatica. « Una cena del reggimento », gli spiegò. « Sei arrivato giusto in tempo », commentò Dicky. « E' per venerdì 16. » Poi cambiò tono, cominciando a imitare la voce di un sergente maggiore. « Alle due in punto, abito da cerimonia, si prega rispondere. Lascia che te lo dica, sei nato con la camicia, la tua quota è stata pagata dal gran capo in persona, l'eccellentissimo generale Courteney. Ti do la mia benedizione, ragazzo; bevi tanto champagne e ruba una manciata di sigari. Viva i lavoratori. » « Non credo che ci andrò », mormorò Mark, infilandosi in tasca le lettere di Marion per evitare che Dicky le leggesse. « Devi essere impazzito! Il sole ti ha dato al cervello! » dichiarò in tono solenne. « Pensa ai trecento futuri proprietari di Cadillac che saranno seduti attorno a quel tavolo, sbronzi marci, ognuno col suo sigaro in bocca. Basta che ti dia un pò da fare mentre sono ancora intontiti dai discorsi ufficiali e riuscirai a incastrarli tutti. » « Sei stato in Francia? » domandò Mark. « No », rispose Dicky, cambiando espressione. « Mi hanno spedito in Palestina, a Gallipoli e in altre località solatie. » Il ricordo gli rabbuiò lo sguardo « Allora puoi capire perché non me la sento di andare a festeggiare la lieta ricorrenza », gli disse Mark, e Dicky Lancome lo fissò dall'altra parte del tavolo colmo di leccornie. Il suo mestiere gli aveva insegnato a valutare le persone. Era un requisito indispensabile per un buon venditore, tanto che si sorprese di non aver notato prima la trasformazione avvenuta in Mark. Ma ora si accorse che c'era qualcosa di nuovo in lui, una riserva di forza e di determinazione quale pochi uomini riescono ad acquisire nel corso di tutta una vita. Improvvisamente provò un senso di umiltà, accompagnato da una punta di invidia, un'invidia priva di rancore. Quell'uomo sarebbe andato lontano, più di quanto lui fosse in grado di seguirlo, percorrendo sentieri su cui poteva avventurarsi solo chi possedeva il cuore di un leone. Provò l'impulso di stringergli la mano per augurargli buon viaggio, ma si limitò a parlargli tranquillamente, abbandonando per un attimo la facciata burlona e disinvolta. « Vorrei che ci pensassi, Mark. Il generale Courteney è venuto di persona a portare quell'invito... » E gli riferì la visita di Sean e la collera che l'aveva assalito quando aveva appreso che Mark era stato licenziato dietro esplicita richiesta di sua figlia. « Ha insistito perché tu ci andassi, e ti garantisco che diceva sul serio. » Mark mostrò l'invito al portone d'ingresso e oltrepassò le massicce fortificazioni esterne. Dai rami degli alberi posti lungo il vialetto che si snodava nei giardini del forte pendevano delle lanterne e la loro luce colorata contribuiva a creare una
atmosfera frivola e carnevalesca ben diversa da quella che la roccaforte aveva conosciuto in tempi passati, durante le guerre combattute contro olandesi e zulu. Altri ospiti lo seguivano e lo precedevano, ma Mark li evitò. Si sentiva a disagio nello smoking che aveva preso a nolo nello stesso banco dei pegni dove era passato a ritirare le sue decorazioni. L'abito aveva quella sfumatura verdastra tipica dell'età e le tarme avevano compiuto la loro opera devastatrice, aprendo qua e là dei varchi per la ventilazione. Il vestito, troppo stretto sulle spalle e troppo largo sullo stomaco, lasciava scoperte le caviglie e un'abbondante porzione di polsini. Quando, tuttavia, aveva fatto notare l'inconveniente all'uomo del banco, questi gli aveva chiesto di toccare la fodera in seta pura, riducendo il prezzo di cinque scellini. Con aria infelice si unì alla fila degli altri invitati in smoking che si sgranava sui gradini della sala d'armi e attese che venisse il suo turno. « Bene! » esclamò il generale Courtenev. « Così sei venuto. E' gli strinse la mano nella sua, dura come il guscio di una tartaruga, e il volto rugoso tornò a essere per un attimo quello di un ragazzino. Indossava un abito nero dal taglio perfetto e una candida camicia inamidata. Sfoggiava sul petto un ammasso ingombrante di nastrini, croci e decorazioni. Alzò un sopracciglio con gesto imperioso, convocando uno dei suoi subalterni. « Questo è Mark Anders », gli disse. « Si ricorda del duo Anders-MacDonald, la brigata, vero? » « Certo, signore. » L'ufficiale lanciò a Mark un'occhiata interessata, passando dal volto ai nastrini di seta appuntati sul risvolto della giacca e tornando poi a guardarlo in faccia. « Occupati di lui », gli ingiunse il generale. Poi continuò, rivolto a Mark: « Procurati qualcosa da bere, ragazzo. Più tardi voglio parlarti ». Gli lasciò la mano e si voltò a ricevere il prossimo, ma il magnetismo che emanava dalla sua persona era tale che Mark smise di sentirsi un estraneo, goffo e intimidito, per entrare nei panni dell'ospite onorato, degno di ogni riguardo. L'ufficiale prese il suo compito molto seriamente e lo guidò attraverso la folla composta da altri uomini vestiti di nero, che se ne stavano in piccoli gruppi compatti, nonostante i camerieri avessero già iniziato a girare con i vassoi d'argento, segno tangibile dell'ospitalità del reggimento. « Va bene un whisky? » gli domandò, porgendogli un bicchiere. « Questa sera i liquori sono offerti dal generale. » Poi prese un bicchiere anche per sé. « Salute! Vediamo un po'... la brigata... » e si guardò attorno. « Allora avrai conosciuto Hooper e Dennison? » Certo che li aveva conosciuti, e non soltanto loro. Alcuni non erano che sagome vanamente familiari, ai margini della memoria; altri, invece, erano presenti nel ricordo con i sentimenti che gli avevano ispirato: simpatia, antipatia, a volte anche odio. Con qualcuno aveva diviso il cibo o un mozzicone
di sigaretta, con altri aveva vissuto momenti di terrore o di piacevole noia. C'erano tutti: quelli in gamba, i lavoratori, i vigliacchi, i lavativi e i prepotenti, mentre i vassoi d'argento continuavano a girare in un interminabile processione. Fu avvicinato da gente che non aveva mai visto prima. « Ti ricordi di me? Ero caposezione a Bois D'Arcy quando tu e MacDonald... » « Sei tu il famoso Anders? Credevo che fossi più vecchio... Ehi, hai il bicchiere vuoto. » E il whisky continuava ad arrivare a ondate ricorrenti. Mark si sentiva adulto e intelligente, perché gli altri stavano ad ascoltarlo quando parlava e ridevano quando scherzava. Si sedette al tavolo lungo quanto l'intera sala e coperto da una tovaglia damascata di un bianco abbagliante. Gli argenti del reggimento risplendevano come eliografie alla luce delle candele e lo champagne si riversava nei bicchieri di cristallo in cascatelle dorate e spumeggianti. La sala echeggiava del suono delle voci e di scoppi di risa, e ogni volta che Mark deponeva il bicchiere si ritrovava accanto una figura scura e inturbantata pronta a riempirglielo. Si appoggiò allo schienale con i pollici infilati sotto le ascelle e un sigaro lungo un palmo che gli sporgeva dalla bocca, e si abbandonò ai commenti di rito durante i discorsi che seguirono la cena, scambiando cenni d'approvazione con i suoi vicini, come un vecchio saggio che sa tutto della vita, mentre il porto color rubino gli incendiava il bicchiere. Quando il generale si alzò dal proprio posto al centro della tavola, un fremito passò tra i convitati, appesantiti dal vino e dalla prolissità degli oratori. I volti si animarono ansiosi e anche Mark, benché non l'avesse mai sentito parlare, percepi l'interesse collettivo e si raddrizzò sulla sedia. Il generale iniziò con una storia che dapprima li lasciò sbalorditi, quasi senza fiato, e poi scatenò nella sala una risata irrefrenabile. Si addentrò nel discorso con un tono rilassato e disinvolto che sembrava spontaneo, usando le parole come un maestro d'armi usa lo stocco, buttando là una battuta, un'imprecazione, una frase fatta, o qualcosa che essi desideravano sentire, subito seguito da un'osservazione che li disturbasse scegliendo tra i suoi ascoltatori qualcuno a cui rivolgere una lode o un garbato rimprovero. « Signori, quest'anno ci siamo piazzati al terzo posto nel campionato nazionale di polo, un onore che ci è toccato anche l'anno scorso. Ma un certo signore seduto a questa tavola ha deciso di passare alla squadra dei piantatori di canna, cosa che è liberissimo di fare e per la quale nessuno può biasimarlo... » S'interruppe, sogghignando con aria perfida e lisciandosi i baffi, mentre nella sala si levava un tremendo boato, accompagnato dal rumore dei cucchiaini da dessert che battevano sul tavolo. Il malcapitato si imporporò in viso, dimenandosi sulla sedia in preda all'imbarazzo. « Ho invece un'ottima notizia per quanto riguarda l'Africa
Cup. Grazie a una serie di indagini abilmente condotte, siamo riusciti a scoprire in seno al nostro consesso una perla rara... E' un attimo dopo scrosciavano gli applausi, e le teste si giravano verso Mark, mentre il generale annuiva, sorridendogli raggiante. Quando vide che il ragazzo si era piegato su se stesso come il metro di un falegname per sottrarsi agli sguardi, lo chiamò: « Alzati, figliolo. Fatti vedere ». Mark obbedì timidamente, chinando il capo a destra e a sinistra. Solo in seguito si rese conto di essere stato abilmente raggirato, ma, accettando gli applausi, si era impegnato di fronte a tutti. Era la prima volta che gli capitava di vedere il generale all'opera: aveva forzato il destino di un uomo, raggiungendo il suo scopo apparentemente senza colpo ferire. Era a questo che continuava a pensare, seppur confusamente, mentre si dirigeva vacillando verso il solido ancoraggio costituito da un lampione stradale. Avrebbe fatto meglio ad accettare l'offerta di uno dei conducenti di risciò che attendevano fuori del portone e che l'avevano assalito quando, alle due di notte, era sbucato in strada, malfermo sulle gambe. Tuttavia, la mancanza di un lavoro e i soldi spesi per il noleggio dell'abito non gli avevano lasciato molta libertà di scelta. Ora l'attendeva un tragitto di sei chilometri che il suo modo di procedere, tutt'altro che lineare, avrebbe reso piuttosto lungo. Raggiunto il lampione, vi si appoggiò. In quell'istante una Rolls-Royce nera gli si fermò accanto. La portiera posteriore si aprì e il generale gli ingiunse: « Monta su! » Mark si lasciò cadere pesantemente sul soffice sedile in cuoio e sentì una mano d'acciaio che lo teneva in equilibrio. « Non sei abituato all'alcool. » Era un'affermazione, non una domanda, e Mark fu costretto ad assentire. « No, signore. » « Hai davanti una scelta », disse il generale. « O impari a bere o ci rinunci del tutto. » Sean aveva atteso quasi mezz'ora nell'auto parcheggiata sotto i baniani che Mark comparisse in strada, e stava già per lasciar perdere e per ordinare all'autista di far ritorno a Emoyeni, quando l'aveva visto arrivare. Dopo aver respinto i conducenti di risciò, il ragazzo si era avviato a zigzag sul marciapiede, simile a un granchio incerto sulla direzione da prendere. La Rolle gli si era avvicinata in silenzio, con i fari spenti, mentre Sean seguiva con occhio benevolo la sua singolare avanzata. Si sentiva particolarmente indulgente sia verso il giovane sia verso se stesso e i capricci che, con sua grande sorpresa, lo coglievano ancora di tanto in tanto. A sessantaquattro anni un uomo aveva l'obbligo di conoscersi; doveva saper sfruttare i suoi punti di forza e combattere le sue debolezze. Eppure, per qualche misteriosa ragione, quel giovane sconosciuto l'aveva incuriosito e attratto a un punto tale che ora gli stava dedicando parte del suo tempo, apparentemente senza scopo alcuno. Forse il ragazzo gli ricordava la sua gioventù. Anzi, ora che
ci pensava, gli pareva di percepire dietro l'euforia dello champagne una sorta di nostalgia per quel momento di incertezze e slanci tumultuosi che coincide con il passaggio alla vita adulta. O forse dipendeva da quella specie di perfezione che tanto ammirava, o meglio amava, in ogni essere vivente, cavallo, cane o uomo che fosse, quella dote che gli appassionati di cavalli chiamano « sangue » e gli allevatori di cani definiscono « classe ». Lui aveva scorto questa particolare qualità in Mark Anders, ma sapeva anche che, come un purosangue o un cane di razza potevano essere rovinati da abitudini sbagliate, anche un giovane aveva bisogno di essere opportunamente guidato per sviluppare appieno le sue qualità. C'erano troppa mediocrità, troppa grossolanità al mondo, cosicché, quando incontrava la classe, se ne sentiva irrimediabilmente attratto. Oppure - e mentre ci pensava si sentì nuovamente oppresso dal peso del dolore -, forse si trattava semplicemente del fatto che non aveva un figlio maschio. In realtà ne aveva avuti tre. Il primo era morto nell'attimo stesso in cui aveva visto la luce, in mezzo alla natura incontaminata al di là del fiume Limpopo. Il secondo, nato da una donna che non era sua moglie, aveva chiamato papà un altro uomo. Sean sentì la tristezza farsi più intensa e mescolarsi ai sensi di colpa. Anche questo suo figlio era morto, e di lui non era rimasto altro che un corpo annerito dal fuoco nel giocattolo di legno e tela su cui aveva solcato i cieli. Gli torno in mente la dedica scritta da Garry sul suo libro. « Questo libro è dedica to al capitano Michael Courteney, una delle Giovani Aquile che non voleranno più. » Michael, suo figlio, cresciuto nel ventre della moglie di suo fratello. Il terzo era ancora vivo, ma era suo figlio solo di nome e, se fosse stato possibile, Sean avrebbe volentieri sciolto anche quest'ultimo legame. Gli incidenti spiacevoli che, tanti anni prima, avevano preceduto la partenza di Dirk da Ladyburg, tra cui un incendio e un omicidio colposo, non erano niente a paragone di tutto il male che aveva commesso dopo il suo ritorno. Quelli che gli erano vicini sapevano che non era il caso di pronunciarne il nome in sua presenza. Aveva sentito la tristezza tramutarsi in rabbia e, per porvi rimedio, si era proteso in avanti, battendo sulla spalla dell'autista. « Fermati accanto a quell'uomo », aveva ordinato, indicando Mark Anders. « Hai bisogno di un pò d'aria », disse ora a Mark. « Ti schiarirà le idee o ti farà vomitare. Sono entrambe ottime soluzioni. » Quando la Rolle parcheggiò all'inizio del molo di West Street, Mark, con un grande sforzo di volontà, era già riuscito a riprendere il controllo della vista. Prima, guardando il generale, aveva avuto l'impressione che gli fosse spuntato un terzo occhio nel bel mezzo della fronte e che le orecchie gli si fossero moltiplicate come onde sulla superficie di uno stagno. Aveva stentato anche a controllare la voce, tanto da stupirsi nel sentire la serie di suoni confusi che gli era uscita dalle lab-
bra in risposta alle domande del generale. Poi, aggrottando la fronte per lo sforzo e articolando le parole in modo eccessivo, era riuscito a renderla intelligibile. Dovettero attraversare la spiaggia soffice e arrivare a quel tratto di sabbia umida e compatta che la marea, ritirandosi, aveva lasciato scoperto, perché Mark riuscisse a capire ciò che il generale gli diceva, accorgendosi che non erano semplici chiacchiere. Sean parlava del potere e dei potenti, dello sforzo e della ricompensa, e benché la sua voce suonasse pacata, gli parve simile al brontolio di un vecchio leone che aveva appena ucciso la sua preda e che era pronto a colpire di nuovo. Mark aveva la sensazione che quelle parole fossero preziose e provò una fitta di odio per l'alcool che gli scorreva nelle vene, rallentandogli i riflessi e impastandogli la lingua, tanto che si impegnò con tutto se stesso a combatterne gli effetti. Si avviarono lungo la striscia luccicante di sabbia bagnata, che gli ultimi raggi della luna tingevano di giallo. L'aria era piena dell'odore pungente e benefico del sale e dello iodio, e la brezza leggera fece rabbrividire Mark. Ma in breve la sua mente riuscì a stare al passo con quella della figura imponente che gli zoppicava accanto, e pian piano un senso di eccitazione si impadronì di lui. Stava ascoltando cose che risvegliavano un'eco sepolta nel fondo della sua anima e idee che, prima di allora, aveva creduto appartenessero solo a lui. La sua lingua perse ogni impaccio e, tutt'a un tratto, si sentì lucido come una lama e leggero come la rondine che si disseta in volo, passando rasente alla superficie dell'acqua. Si ricordò di aver sospettato che quell'uomo fosse in qualche modo responsabile della perdita di Andersland e della morte del vecchio, ma ora questo pensiero gli parve quasi blasfemo. Lo rimosse per concentrarsi nella discussione da cui si sentiva totalmente affascinato. Solo molto tempo dopo capì l'importanza che quel colloquio notturno aveva avuto nella sua vita, e forse, se l'avesse saputo prima, la sua lingua si sarebbe paralizzata e la sua mente si sarebbe rifiutata di lavorare. Quella notte il generale l'aveva sottoposto a un esame rigoroso. Ogni tema che gli era stato proposto in modo apparentemente casuale prevedeva una risposta in base alla quale sarebbe stato giudicato. Ogni domanda gli toccava la coscienza e metteva a nudo i suoi principi. Poco per volta e in modo molto abile Mark fu indotto a dire la sua opinione sugli argomenti più disparati, dalla religione alla politica, dal patriottismo alla morale. Un paio di volte il generale si mise a ridere. « Sei un radicale, lo sapevi? Ma forse anch'io lo ero alla tua età. Passiamo tutti dalla fase in cui vogliamo cambiare il mondo. E' ora dimmi cosa ne pensi di... » E gli buttava lì una domanda che non aveva alcun rapporto con quella che l'aveva preceduta. « In questo Paese ci sono dieci milioni di negri e uno di bianchi. Secondo te, in che modo riusciranno a convivere nel corso dei prossimi mille anni? »
Mark deglutì di fronte alla vastità del problema, poi cominciò a parlare. La luna impallidiva con l'approssimarsi dell'alba, mentre Mark si addentrava in quel mondo incantato fatto di idee entusiasmanti e visioni stupefacenti. Ciò che non sapeva era che anche il suo interlocutore condivideva la sua eccitazione. Louis Botha, il vecchio combattente e uomo di Stato, aveva detto una volta a Sean: « Anche i migliori invecchiano, Sean. Quando succede, un uomo dovrebbe avere qualcuno a cui passare la fiaccola perché continui il cammino ». Con una rapidità che li colse entrambi di sorpresa, il giorno si sostituì alla notte, accendendo il cielo di sfumature rosa e dorate. Si fermarono l'uno accanto all'altro a osservare il sole che sorgeva dal mare verde-scuro e iniziava la sua corsa quotidiana. « Da molti anni ho bisogno di un segretario. Mia moglie non mi dà tregua », e Sean ridacchiò al pensiero, « tanto che ho promesso di trovarmelo. La persona di cui ho bisogno dev'essere sveglia, brillante e di tutta fiducia. Non ce ne sono molte in giro. » Il sigaro di Sean pendeva spento e orribilmente masticato dalle sue labbra. Se lo tolse di bocca e lo esaminò con aria di lieve disapprovazione, poi lo lasciò cadere nelle minuscole onde che gli lambivano i piedi. « E' un lavoraccio senza orari o compiti precisi, e io sarei il primo a rifiutarmi di lavorare per un vecchio bastardo, rissoso e severo come me. D'altra parte, di una cosa sono certo, e cioè che chi accetta non morirà di noia e avrà modo di imparare qualcosa. » Mark si voltò verso di lui, allungando il collo e fissandolo negli occhi. Il vento gli aveva arraffato la barba e il cravattino era sparito già da tempo in una delle tasche. I raggi dorati del sole nascente davano ai suoi occhi blu una sfumatura particolarmente intensa. « Vuoi lavorare per me? » domandò a Mark. « Si, signore », rispose questi senza alcun indugio, abbagliato dalla prospettiva che il suo rapporto con quell'uomo incredibile potesse continuare. « Non mi chiedi quanto guadagnerai? » gli chiese Sean. « I soldi non sono importanti. » « Lezione numero uno », disse il generale, alzando un sopracciglio scuro e guardandolo con uno sfavillio divertito. « I soldi sono sempre importanti. » La seconda volta che Mark varcò i cancelli di Emoyeni segnò per lui l'inizio di una nuova vita, di un'esistenza superiore a ogni immaginazione. C'era qualcosa, tuttavia, che Mark temeva in particolar modo, più ancora del turbinio di novità da cui si sentiva preso, della preoccupante processione di visitatori e degli infiniti compiti che lo aspettavano, ed era il momento in cui avrebbe rivisto Storm Courteney. Forse era stato predisposto dal generale: sta di fatto che Storm non era a Emoyeni il giorno del suo arrivo e rimase
assente anche durante quelli che seguirono. Eppure i segni della sua presenza erano un pò ovunque, nelle fotografie disseminate in ogni stanza e soprattutto nel grande ritratto a olio che occupava una parete della biblioteca, dove Mark trascorreva gran parte del suo tempo. Il pittore, che l'aveva raffigurata seduta al grande pianoforte a coda del salone principale con indosso un abito lungo color avorio, era riuscito a catturare un pò del suo spirito e della sua vivacità. Mark si sentiva spesso sconcertato di fronte allo sguardo indagatore di quel ritratto. Tra Mark e il generale si stabilì subito un rapporto d'intesa e, nel corso dei primi giorni, tutto il lavoro arretrato venne rapidamente smaltito. Sean, che tollerava a fatica la presenza di un altro essere umano per un lungo periodo di tempo, si stupiva di cercare la compagnia del giovane. L'idea iniziale era stata quella che Mark si occupasse della corrispondenza quotidiana e delle altre banalità che sottraevano a Sean un'infinità di tempo, per dargli modo di dedicarsi solo agli affari e alla politica. Ma in breve Sean prese l'abitudine di capitare in biblioteca nei momenti più impensati per discutere con lui di qualche problema, contento di poterlo considerare alla luce di quegli occhi più giovani e più freschi. A volte chiedeva a Mark di sostituire l'autista al volante della Rolls e si faceva condurre alle segherie o a una riunione del consiglio di amministrazione, giù in città seduto accanto a lui, ricordava i giorni passati in Francia o gli raccontava di quando aveva estratto l'oro ed era andato a caccia di elefanti nelle foreste al di là del fiume Limpopo, su a nord, mentre Mark lo stava ad ascoltare affascinato. « Oggi ci sarà un dibattito interessante in Parlamento. Ho intenzione di dare del filo da torcere a Hendricks sulla questione del bilancio delle ferrovie. Accompagnami, così potrai assistervi dalla galleria riservata al pubblico. » « Quelle lettere possono aspettare fino a domani. C'è stato un guasto alla segheria Umvoti. Prendiamo la carabina: sulla via del ritorno cercheremo di sparare a un paio di faraone. » « In sala d'armi alle otto in punto, Mark. Se non hai niente di più importante da fare, naturalmente... » Era un ordine, nonostante fosse stato formulato in tutt'altro tono, e Mark si trovò risucchiato pian piano nei ranghi del reggimento. Era cambiato tutto dai tempi della Francia. « Non mi servi come galoppino. Hai cominciato a conoscere il mio modo di lavorare, figliolo, e ti voglio sottomano anche quando giochiamo ai soldatini. E poi hai bisogno anche tu di un pò di allenamento », aveva concluso Sean con quel suo sogghignò complice. Non aveva ancora fatto in tempo ad abituarsi alla rapidità d'azione del generale che si ritrovò vestito con l'uniforme di sottotenente, completa di cordone, spalline e di un'unica, scintillante stelletta. Aveva creduto che la sua nomina sarebbe stata accolta con ostilità o almeno con condiscendenza dagli altri ufficiali, ma dovette ricredersi di fronte all'entusiasmo che manifestarono quando gli venne affidato il comando delle eserci-
tazioni di tiro. All'inizio, la sua posizione a Emoyeni non era molto chiara. La matura bellezza e l'efficienza della padrona di casa gli ispiravano un sacrosanto rispetto. Per le prime due settimane ella lo trattò con distacco e cortesia, chiamandolo « signor Anders » e abbondando nei « grazie » e nei « per piacere ». Il pranzo gli veniva portato in biblioteca da uno dei servi su un grande vassoio d'argento, mentre la sera, quando si separava dal generale, montava sulla vecchia motocicletta che aveva comprato e si lanciava giù per la collina verso il bacino afoso della città e la sua stanza infestata dai parassiti. Ruth Courteney, frattanto, lo studiava con occhio ancora più attento di quello con cui già l'aveva esaminato suo marito. Se l'avesse delusa, non avrebbe esitato a esercitare tutta la sua influenza perché Sean lo licenziasse. Un giorno, mentre Mark stava lavorando in biblioteca, Ruth entro dal giardino portando su un braccio un mazzo di fiori appena recisi. « Continui pure », gli disse, cominciando a sistemarli nella coppa d'argento sul tavolo centrale. All'inizio lavorò in silenzio, poi, in modo molto cordiale e naturale, cominciò a chiacchierare con lui, riuscendo a estorcergli tutti i particolari circa la sua sistemazione domestica: dove dormiva, dove mangiava e chi si occupava del suo bucato. Ne rimase segretamente inorridita. « Deve assolutamente portarlo qui », gli disse. « Verrà lavato con tutto il resto. » « E' molto gentile, signora Courteney, ma non voglio essere di peso. » « Sciocchezze, ci sono due dhohi indiane che non hanno altro da fare che lavare e stirare. » Persino Ruth Courteney, che era una delle prime signore del Natal ed era ancora considerata una bellezza nonostante i quarant'anni suonati, non era insensibile al fascino naturale di Mark, a cui si aggiungeva l'effetto benefico che la sua venuta aveva avuto sul suo uomo. Nelle ultime settimane Sean le era sembrato più giovane e più spensierato e non solo perché era stato sollevato di parte del lavoro. Il ragazzo gli aveva restituito un pò di quello spirito giovanile, di quella freschezza di pensiero, di quell'energia e di quell'entusiasmo per le cose della vita che si era andato affievolendo fino a togliergli lo slancio di agire. I due coniugi avevano l'abitudine di trascorrere l'ora che precedeva il riposo notturno nello spogliatoio di Ruth. Sean, seduto in poltrona con indosso una vestaglia a quadri, osservava la moglie che si spazzolava i capelli o si spalmava la crema sul viso. Con l'ultimo sigaro in bocca, discuteva degli avvenimenti della giornata, deliziandosi del corpo ancora snello che si intravedeva sotto la seta leggera della camicia da notte e sentendo il suo stesso corpo risvegliarsi, pronto al momento in cui lei, distolto lo sguardo dallo specchio, si sarebbe alzata, ten-
dendogli la mano, e, guidandolo in camera, l'avrebbe condotto verso l'enorme letto coperto dal baldacchino in velluto rosso. Dall'arrivo di Mark, era già capitato tre o quattro volte che Sean facesse commenti così drastici e così insoliti per la sua mentalità conservatrice, che Ruth, lasciando cadere in grembo la spazzola d'argento, si era voltata a guardarlo, stupefatta. Lui scoppiava a ridere con aria imbarazzata, alzando una mano per prevenire i suoi commenti scherzosi. « D'accordo, so già cosa stai per dire, ma ne ho parlato con il giovane Mark. » E a questo punto faceva un'altra risatina. « Quel ragazzo è pieno di buonsenso. » Una sera - Mark era da loro già da un mese -, Sean le disse: « Quel giovanotto non ti ricorda un pò Michael? » « Oh, non ci ho mai pensato... No, direi di no. » « Non mi riferivo all'aspetto. Piuttosto al modo di pensare. » Ruth sentì l'antico rimpianto impossessarsi di lei, buio e freddo, simile a un'onda di marea. Non gli aveva dato un maschio. Era l'unico rammarico che aveva, l'unica ombra che gravava sogli anni radiosi passati insieme. Le sue spalle si curvarono, appesantite dal dolore, e, guardandosi allo specchio, vide riflessa nei propri occhi la colpa per la sua inadeguatezza. Sean, che non se n'era accorto, proseguì in tono allegro: « Non vedo l'ora che arrivi febbraio. Sarà dura per Hamilton cedere quella tazzona d'argento. Mark ha trasformato radicalmente la squadra. Ora che c'è lui, sono tutti sicuri di vincere ». Ruth l'aveva ascoltato in silenzio, odiandosi per non essere stata capace di dargli ciò che aveva desiderato tanto intensamente. Poi lo sguardo le era caduto sulla statuetta del dio Thor, sul piano della toilette. Era sempre rimasta lì da quando Sean gliel'aveva regalata come augurio di fertilità. Storm era stata concepita durante un temporale carico di elettricità ed era per questo che si chiamava così. Regalandole la piccola divinità, Sean le aveva detto scherzando che occorreva la voce del tuono per metterla incinta. « Sei stata proprio di grande aiuto », commentò in tono amaro e spostò lo sguardo sul proprio corpo riflesso nello specchio. « Così bella da guardare e così maledettamente inutile! » Non le capitava spesso di imprecare, ma questa volta era stato uno sfogo indispensabile. Il suo corpo tanto attraente non era in grado di generare un altro figlio. L'unica cosa che poteva dare a Sean era il piacere. Si alzò di scatto senza completare il rituale serale e si diresse verso di lui. Poi, togliendogli il sigaro di bocca, lo schiacciò con gesto deciso nel portacenere di vetro. Sean alzò gli occhi su di lei, sorpreso e pronto a chiederle spiegazioni, ma le parole gli si arrestarono in gola. Ruth lo guardava con le palpebre socchiuse e gli occhi languidi, e le sue labbra leggermente protese rivelavano i piccoli denti bianchi. I suoi zigomi delicatamente rilevati erano coperti da due chiazze rosse. Sean conosceva bene quest'espressione e ciò che preannun-
ciava. Il cuore gli balzò nel petto e prese a battere come un animale in gabbia contro le costole. Il loro modo di fare all'amore rifletteva quell'affetto profondo che era andato crescendo nel corso degli anni, una cosa buona e forte, simbolo della loro completa fusione e della vita trascorsa assieme, ma qualche rara volta, quando Ruth socchiudeva le palpebre e sporgeva le labbra in quel modo, diventava selvaggio, violento e incontrollato, tanto da ricordargli lo scatenarsi della natura. Ruth insinuò la mano sottile nella vestaglia di Sean, graffiandogli lo stomaco con le unghie lunghe. Egli sentì un fremito percorrergli la pelle. Poi lei si chinò e insinuando le dita tra i peli della barba, gli sollevò il viso e lo baciò, infilandogli in bocca la lingua. Con una specie di grugnito Sean la afferrò, cercando di attirarla in grembo e contemporaneamente aprendo il corpetto della sua camicia da notte. Il piccolo seno appuntito si mosse, libero, ma lei si sciolse dalla stretta. La sua pelle d'avorio rosato splendeva sotto la seta trasparente della camicia e il seno nudo oscillava in modo delizioso. Correndo con le lunghe gambe affusolate, volò in camera da letto con una risata allusiva e invitante. La mattina seguente, Ruth tagliò un mazzo di garofani rossi e bianchi e lo portò in libreria, dove Mark era al lavoro. Il giovane si alzò immediatamente e lei rispose al suo saluto guardandolo come se lo vedesse per la prima volta. Non si era resa conto che fosse così attraente, ma ora notò che il suo viso, grazie alla buona struttura ossea e al naso forte e fiero, sarebbe invecchiato bene. Mark era uno di quegli esseri fortunati il cui aspetto migliora con qualche ruga attorno agli occhi e un pò d'argento nei capelli. Ma per questo doveva passare ancora molto tempo, mentre ora erano i suoi occhi ad attirare l'attenzione. « Sì », riflettè Ruth, guardandoli. « Sean ha ragione. E' fatto della stessa pasta di Michael. » Cominciò a sistemare i fiori, lanciandogli qualche occhiata di sfuggita, poi, scegliendo le parole con cura, prese a chiacchierare. Terminato il lavoro, si scostò per ammirare il risultato e, senza guardarlo, disse al giovane: « Perché non pranzi con noi in terrazza, Mark? » Era la prima volta che lo chiamava per nome e a nessuno dei due sfuggì il significato della cosa. « A meno che tu non preferisca continuare a mangiare qui », soggiunse. Quando Mark uscì in terrazza, Sean alzò gli occhi dal giornale e lo guardò senza sorpresa. Poi, mentre Ruth indicava al giovane il suo posto, si rituffò nel quotidiano, cominciando a leggere l'editoriale a voce alta, con commenti ora irati ora ironici nei confronti dell'autore, finché lasciò cadere il foglio senza piegarlo. « Quest'individuo è un maledetto idiota. Dovrebbero rinchiuderlo. » « Be', signore... » esordì Mark educatamente.
Ruth respirò di sollievo. Aveva invitato il giovane senza consultare il marito, ma i due si erano subito immersi in un'animata discussione. Quando fu servito il secondo, Sean borbottò: « Tu pensa al pollo, Mark. Io mi occuperò dell'anatra ». Mentre tagliavano, continuarono a conversare tra loro come se appartenessero alla stessa famiglia. Quando Sean, seppure a malincuore, fu costretto a dar ragione al suo giovane assistente, Ruth nascose un sorriso dietro il tovagliolo. « Ammettiamo pure che tu abbia ragione, anche se non ne sono affatto convinto. Allora come spieghi che... » E cominciò ad attaccarlo da un altro punto di vista. Mark si difese con abilità e Ruth, mentre li ascoltava, capì perché Sean l'aveva scelto. Fu solo dopo il caffè che Mark seppe dove era finita Storm. « Ancora niente lettere di Storm? » domandò Sean alla moglie. Ruth scosse il capo e lui proseguì: « Quella spocchiosetta ha bisogno di una lezione. Sono quasi due settimane che non scrive. Dove dovrebbe essere ora? » « A Roma », disse Ruth. « Roma! » ripeté Sean. « Avrà il sedere segnato dai pizzicotti. » « Sean! » lo sgridò Ruth, severa. « Scusami, cara », rispose lui imbarazzato. Poi con un sogghigno malizioso proseguì: « Sarà lei a metterlo in posizione giusta per farselo pizzicare, te lo dico io! » Quella notte, mentre si accingeva a scrivere a Marion, Mark capì che il solo nome di Storm era stato sufficiente a mutare il suo atteggiamento nei confronti della ragazza che doveva sposare. L'enorme quantità di lavoro che Sean Courteney gli aveva scaricato addosso aveva diradato le sue lettere e quello che prima era stato un rito quotidiano si era trasformato in un evento straordinario Le lettere di Marion, invece, gli giungevano con immutata regolarità ed erano improntate a un identico ardore. Mark sapeva che i suoi impegni non erano l'unica ragione per cui continuava a dilazionare il loro incontro. Rimase seduto a masticare la matita in attesa che gli venisse l'ispirazione, finché il legno si ruppe. Trovava sempre più difficile riempire le pagine di frasi elaborate e di espressioni di amore eterno, e ogni nuovo foglio gli sembrava un tratto di deserto da attraversare. « Il prossimo finesettimana andremo a Johannesburg, dove si disputeranno le gare di tiro dell'Africa Cup », scrisse, e poi pensò che, dilungandosi opportunamente sulla notizia, avrebbe potuto riempire almeno una pagina. Inutile mentire: Marion Littlejohn apparteneva alla vita che si era lasciato alle spalle varcando i cancelli di Emoyeni, eppure questa certezza lo riempiva di sensi di colpa. Si rituffò nella lettera, cercando di non pensare ad altro, ma una ridda di immagini gli si affollò davanti agli occhi, prima tra tutte quella di Storm Courteney, agile e gaia, risplendente di bellezza e
indimenticabile come le stelle L'Africa Cup s'innalzava tronfia sul suo piedistallo di ebano lucido, alta quasi fino al petto di un uomo. I servi l'avevano lustrata per tre giorni prima che il generale si dichiarasse soddisfatto, e ora essa si ergeva tra una piramide di rose gialle al centro del buffet. Questo era stato sistemato nell'anticamera del grande salone da ballo, straripante di tutti coloro che Sean Courteney aveva convocato per festeggiare il suo trionfo. Aveva invitato persino il colonnello Hamilton degli Scozzesi di Città del Capo, assieme ai suoi ufficiali superiori, offrendo loro il viaggio in prima classe sul piroscafo di linea della Union Castle. Hamilton aveva rifiutato con un compìto bigliettino di quattro righe, escluso l'indirizzo e i saluti finali. La coppa non si era mai mossa dal castello di Città del Capo sin da quando la regina Vittoria l'aveva regalata, il primo anno della guerra boera, e il fatto di aver inflitto ad Hamilton una simile umiliazione contribuiva non poco all'allegria di Sean. Per Mark quello era stato il periodo più indaffarato dal suo arrivo a Emoyeni. Ruth Courteney, che faceva sempre maggior affidamento su di lui, lo aveva incaricato di preparare gli inviti e di occuparsi della sistemazione dei rinfreschi. Ora l'aveva pregato di far ballare tutte le bruttone che altrimenti avrebbero trascorso la serata a far tappezzeria, ma alla fine di ogni ballo il generale, che aveva preso posizione accanto alla coppa, lo convocava con un cenno imperioso del sigaro « Consigliere, voglio presentarle il mio nuovo assistente Mark, il consigliere Evans. E' grazie a questo giovanotto che abbiamo arraffato la coppa. » Mentre Mark arrossiva imbarazzato, il generale ripeteva per la quinta o sesta volta il racconto dettagliato della finale della gara, quando i giudici, per sbloccare il pareggio tra le due squadre finaliste, avevano affidato a due singoli tiratori il compito di portare a termine la competizione. « Il vento soffiava di sbieco a cinquanta o sessanta chilometri all'ora e il primo bersaglio era a duecento metri di distanza... » Mark fu sorpreso nel notare il piacere intenso che quel ninnolo dava al generale. Quell'uomo possedeva una fortuna quasi incalcolabile, terreni a perdita d'occhio, quadri e libri antichi, gioielli e pietre preziose, oltre a case, cavalli e imbarcazioni, ma niente di tutto ciò valeva in quel momento quanto quel pezzo di metallo lucente. « Be', io stesso ero stato incaricato di segnare i punti », proseguì il generale, che aveva bevuto abbastanza whisky per movimentare il suo racconto con i gesti. Pinse di acquattarsi dietro un riparo, alzandosi di tanto in tanto a controllare il bersaglio. Mark sorrise. Era vero, il tiratore degli Scozzesi l'aveva contrastato colpo su colpo e ogni volta le bandierine degli addetti
avevano segnalato che si era trattato di un centro. « Entrambi hanno ottenuto il punteggio massimo da duecento e da cinquecento metri. Poi, arrivati ai mille metri, il nostro Mark, che ha la straordinaria capacità di valutare la velocità del vento... » A questo punto gli ascoltatori avevano gli occhi appannati dalla noia, resa ancor più intensa dalla triste prospettiva di doversi sorbire il resoconto dettagliato di altre dieci serie di tiri a fuoco cadenzato e di altrettante a fuoco rapido. Fu allora che Mark ebbe la sensazione che qualcuno lo stesse osservando e alzò gli occhi. Accanto alla porta del salone da ballo c'era Ruth Courteney con il maggiordomo zulu, un uomo che aveva sangue guerriero nelle vene, e di solito, il portamento di un capo. Ora, invece, stava parlando rapidamente alla sua padrona con un'espressione molto simile alla paura e con il volto grigio. Ruth lo licenziò, sfiorandogli il braccio con un gesto rassicurante, e si voltò ad attendere Mark. Mentre questi si affrettava verso di lei attraverso il salone dove le danze erano state momentaneamente interrotte, non poté fare a meno di notare quanto madre e figlia si assomigliassero. Ruth Courteney aveva ancora il corpo sottile di una ragazza, che le cavalcate e le lunghe passeggiate avevano conservato sodo e atletico, e bisognava essere molto vicini per notare le piccole rughe sulla sua pelle color avorio. Portava i capelli raccolti sulla sommità del capo, disdegnando la moda che li voleva corti, e l'abito semplice ed elegante sottolineava la sua figura armoniosa e il piccolo seno tondo. Uno dei suoi ospiti le si accostò prima di Mark e lei gli sorrise, parlandogli in tono pacato, finché non riuscì a liquidarlo. « Mark », esclamò, alzando su di lui gli occhi carichi di preoccupazione, par senza smettere di sorridere. « Ci sono guai in vista. E' arrivato un ospite sgradito. » « Mi dica cosa devo fare. » « Sta aspettando nell'atrio. Ti prego, portalo nello studio e resta con lui finché arriverà il generale. Lo farai? » « Certamente. » Gli rivolse un sorriso di ringraziamento, poi, mentre Mark stava per andarsene, lo trattenne appoggiandogli la mano sul braccio. « Mark, resta anche tu. Non lasciarli da soli. Ho paura di quello che può succedere. » A un tratto le sue difese si incrinarono. « In nome di Dio, perché è venuto... proprio stasera che.. » Lasciò la frase in sospeso, cercando di riprendersi, ma entrambi sapevano cosa stesse per dire. Quella sera Sean aveva bevuto. Ormai Mark conosceva il generale abbastanza bene da condividere la sua preoccupazione. Quando Sean Courteney beveva, era capace di tutto, da un'espansiva cordialità alla collera più violenta. « Farò il possibile », le promise. « Mi dica chi è questa persona », domandò poi. Ruth si morse il labbro inferiore. Sul suo volto si leggeva
la tensione, ma un attimo dopo aveva già assunto un atteggiamento quasi indifferente. « E' suo figlio, Dirk Courteney. » Lo shock di Mark fu tale che lei se ne accorse. Lo guardò, leggermente accigliata. « Cosa c'è, Mark? Lo conosci? » Mark si riprese all'istante. « No. Ne ho solo sentito parlare. » « C'è sangue cattivo in quell'uomo, Mark. Sta' attento. » Lo lasciò e si avviò attraverso il salone, rivolgendo qualche cenno di saluto, fermandosi a scambiare una parola o un sorriso, finché arrivò nella sala del buffet, dove Sean Courteney teneva banco. Mark si fermò nel lungo corridoio e si osservò in uno dei grandi specchi dalla cornice dorata. Aveva il viso pallido e tirato e, quando si lisciò i capelli, si accorse che la mano gli tremava. Si rese conto che aveva paura; il terrore gli pesava nello stomaco e il respiro si era fatto ansante. Temeva l'uomo che stava per incontrare. L'uomo su cui aveva indagato con tanta pazienza e che conosceva così bene nella fantasia. Se l'era immaginato come una figura diabolica, un essere dotato di un'enorme capacità di nuocere, e ora l'idea di conoscerlo personalmente gli provocava un terrore indicibile. Si incamminò nuovamente lungo la galleria. I suoi passi erano attutiti dal tappeto spesso e gli occhi non vedevano i tesori d'arte che ornavano le pareti, accecati dalla sensazione del pericolo imminente. Arrivato allo scalone di marmo, si fermò e, appoggiatosi con una mano alla balaustra, si sporse per guardare nell'atrio. Un uomo era in piedi sul pavimento a scacchi bianchi e neri. Indossava un cappotto scuro con mantellina, che lo faceva sembrare ancora più alto. Teneva le mani unite dietro la schiena e si bilanciava sui talloni, con il mento proteso in modo aggressivo. Era una posa così simile a quella del padre, che Mark sbatté le palpebre, incredulo. La sua chioma era una profusione di riccioli scuri cui la luce del lampadario conferiva riflessi castani. Mark si avviò giù per lo scalone e l'uomo alzò il capo a guardarlo. Fu colpito dalla sua bellezza e, subito dopo, dalla straordinaria somiglianza con il generale. Aveva la stessa mandibola forte, la stessa bocca, gli stessi occhi e un'identica forma di testa, eppure era molto più bello del padre. Sembrava una statua di Michelangelo, un misto tra la bellezza del David e la forza del Mosè, ma, nonostante tutto, era un essere umano e non il mostro implacabile che aveva popolato gli incubi di Mark. Sentì la paura allentare la sua morsa e, con un sorrisetto di benvenuto, continuò a scendere. Dirk rimase a guardarlo senza muoversi. Solo quando gli fu vicino, si accorse di quanto era alto. Lo superava di un pezzo,
eppure era così proporzionato che la sua altezza non sembrava eccessiva. « Signor Courteney? » domandò Mark. L'uomo si limitò a rispondergli con un cenno del capo. Il diamante che fermava la cravatta di seta bianca mandò un bagliore sinistro. « Chi sei, ragazzo? » gli domandò Dirk con un timbro di voce proporzionato alla sua mole. « Sono il segretario del generale. » Nonostante la brutalità della domanda, Mark conservò il suo sorriso, anche se sapeva che Dirk era di poco più vecchio di lui. Questi lo esaminò lentamente dalla testa ai piedi, cogliendo con un'unica occhiata ogni dettaglio, poi distolse l'attenzione, come se non lo trovasse sufficientemente interessante. « Dov'è mio padre? » domandò, voltandosi verso lo specchio più vicino per sistemarsi la cravatta. « Sa che lo sto aspettando da venti minuti? » « Il generale sta intrattenendo i suoi ospiti, ma la raggiungerà subito. Se non le dispiace, la faccio accomodare nello studio. Da questa parte, prego. » Dirk Courteney si fermò in mezzo alla stanza e si guardò attorno « Il vecchio si tratta bene, a quanto pare », commentò con un lampo dei denti candidi, e si diresse verso una delle poltrone di cuoio che erano accanto al camino. « Dammi un brandy e soda, ragazzo. » Mark apri il mobile bar, situato in una delle librerie, prese una bottiglia di Courvoisier, ne versò un pò in un bicchiere vi spruzzò sopra un pò di soda e lo porse a Dirk. Questi lo ringraziò con un cenno del capo. Era sdraiato in poltrona con la grazia insolente di un leopardo in riposo. Sorseggiò il liquore e si guardò attorno, esaminando la stanza un'altra volta. Il suo sguardo si posò, attento e calcolatore, sui quadri e gli altri oggetti di valore che la ornavano. « Come hai detto che ti chiami? » domandò poi con aria indifferente, come se la risposta non lo interessasse. « Anders... Mark Anders. » Per un attimo non accadde niente, poi il nome arrivò a segno e i lineamenti di Dirk subirono una trasformazione incredibile, tanto che Mark sentì rinascere in se il terrore rimosso. Una volta il vecchio era riuscito a catturare un leopardo con una tagliola. Il mattino seguente, quando si erano recati sul posto, l'animale li aveva caricati e, nonostante la pesante catena che lo tratteneva, era riuscito ad arrivargli molto-vicino. Nel balzo, gli occhi della belva si erano portati alla stessa altezza dei suoi. Non aveva mai dimenticato la terribile malvagità che ardeva in quello sguardo. Ora la ritrovava. L'espressione dell'uomo che aveva davanti rivelava una furia omicida e una ferocia tali che Mark si ritrasse. Durò solo lo spazio di un respiro, durante il quale l'altro passò dalla bellezza più perfetta a una grottesca bruttezza, per tornare di nuovo all'avvenenza di prima. Riprese a parlare con
voce misurata. Il volto era atteggiato a una cortese indifferenza e gli occhi avevano perso il loro perfido luccichio. « Anders? E' un nome che mi pare di aver già sentito... » Rifletté un attimo, come se cercasse di ricordare, poi ci rinunciò, concentrandosi sul quadro di Thomas Baines appeso sopra il camino. Ora Mark sapeva con assoluta certezza che i vaghi sospetti che aveva nutrito fino a quel momento corrispondevano alla verità. Non dubitava più del fatto che dietro la vendita di Andersland e la morte dei vecchio ci fosse un piano ben congegnato, ed era sicuro che gli uomini che gli avevano dato la caccia sulla scarpata sopra Ladyburg e nella boscaglia al di là del Passo Chaka avevano obbedito a ordini precisi. Finalmente aveva identificato il suo nemico, anche se temeva che non sarebbe mai riuscito a fargli scontare le sue colpe. La forza e il potere di quell'uomo lo rendevano quasi invincibile. Si voltò a riordinare la pila di documenti sulla scrivania del generale; non osava alzare gli occhi per paura di tradirsi. Si era già esposto fin troppo, ma era stato indispensabile. L'opportunità che gli si era presentata era troppo buona per lasciarla cadere. Rivelando la sua identità, aveva costretto il nemico a uscire allo scoperto e sapeva che, nello scontro, era stato l'altro a perdere. C'era un ulteriore elemento che gli dava una certa sicurezza. Mentre prima era stato isolato e senza amici, ora godeva della protezione di Sean Courteney e dubitava che Dirk potesse permettersi dl non tenerne conto. Mark alzò gli occhi e si accorse che l'altro lo stava guardando con il volto privo d'espressione e una certa cautela negli occhi. Stava per mettersi a parlare, quando udì i passi pesanti e strascicati del generale avvicinarsi lungo il corridoio. Entrambi si voltarono verso la porta, in attesa. Sean Courteney si fermò sulla soglia. La cima della testa irsuta sfiorava quasi l'architrave e le spalle, ampie come le braccia di una forca, riempivano il vano. Tenendo entrambe le mani appoggiate al pomo del bastone, lanciò un'occhiata ardente nella stanza. I suoi occhi si posarono immediatamente sull'uomo alto ed elegante che si era alzato ad accoglierlo, e il volto forte, scurito dal sole, avvampò. I due si fronteggiarono in silenzio, e Mark assisté affascinato al gioco delle emozioni, al rinascere del ricordo di antichi torti e all'affetto istintivo del padre per il figlio e del figlio per il padre che, morto e sepolto tanto tempo prima, veniva ora riesumato come un cadavere putrefatto, ancora più orribile se si pensava all'intensità che l'aveva caratterizzato un tempo. « Ciao, papà », disse Dirk e, al suono di quella voce, le spalle di Sean persero ogni rigidezza e la sua collera fu sostituita da una sorta di tristezza, dal rimpianto per qualcosa di prezioso che ormai era irrecuperabile. « Perché sei venuto? » chiese Sean, quasi in un sospiro. « Vorrei parlarti da solo, senza estranei attorno. » Mark fece
per avviarsi alla porta, ma Sean lo fermò appoggiandogli una mano sulla spalla. « Non ci sono estranei, qui dentro. Resta pure, Mark. » Era la cosa più gentile che gli avessero mai detto e lui si sentì sopraffatto dall'affetto per il generale. Dirk Courteney si strinse nelle spalle e, per la prima volta, si abbandonò a un sorrisetto lievemente ironico. « Ti sei sempre fidato troppo degli altri, papà. » Sean annuì e si avviò con passo pesante alla sedia dietro la scrivania. « E' vero. Nessuno lo sa meglio di te. » Il sorriso di Dirk sparì. « Sono venuto con la speranza che potessimo dimenticare il passato e perdonarci a vicenda. » « Perdonarci? » ripete il generale, alzando gli occhi di scatto. « E che cosa dovresti perdonarmi, se non chiedo troppo? » « Sei stato tu a crescermi, papà. Io sono come mi hai fatto.» Sean scosse il capo in segno di diniego e stava per parlare quando Dirk lo interruppe. « Tu credi che sia stato io a mancare nei tuoi confronti, ma io so che è vero il contrario. » « Parli per enigmi », disse Sean, accigliandosi. « Vieni al punto. Cosa ti porta in questa casa, dove nessuno ti ha invitato? » « Sono tuo figlio. Non è giusta questa separazione », dichiarò Dirk, in tono convincente. Si avvicinò alla massiccia figura dietro la scrivania, tendendo le mani in un gesto supplichevole. « Credo di aver diritto alla tua considerazione... » S'interruppe, lanciando un'occhiata a Mark. « Maledizione, non possiamo parlarci senza quest'allocco tra i piedi? » Sean esitò un attimo. Stava per chiedere a Mark di andarsene, quando ricordò la promessa che aveva fatto a Ruth qualche istante prima. « Non restare solo con Dirk, Sean. Non mi fido di lui. E' cattivo e non porta con sì altro che guai e infelicità. Lo sa, lo sento... la sua malvagità lo circonda come un alone. Lascia che Mark resti con voi. » « No », rispose Sean, scuotendo il capo. « Se hai qualcosa da dire, dilla subito. Altrimenti vattene e lasciaci in pace. » « D'accordo, basta con i sentimentalismi », convenne Dirk e, abbandonando di colpo il ruolo del supplicante, prese a camminare avanti e indietro con le mani affondate nelle tasche. « Passiamo agli affari. Ora mi detesti, ma quando avremo lavorato insieme, condividendo l'avventura più fantastica e audace che questo Paese abbia mai conosciuto, sono certo che torneremo a parlare dei sentimenti. » Sean rimase in silenzio. « Ogni cosa a suo tempo. Per ora mi limiterò a essere un uomo d'affari, in attesa che tu riprenda a considerarmi tuo figlio. D'accordo? » « Ti ascolto », rispose Sean, e Dirk riprese a parlare. Persino Mark venne catturato dalla sua eloquenza. Si serviva della voce fonda e del suo splendido aspetto con molta abilità, attento agli effetti come un attore provetto.
L'unico carattere naturale era il convincimento totale e quasi fanatico che emanava dai suoi gesti e dalle sue parole. La sua fede era una forza trascinante cui era difficile opporsi. Usando le mani e la voce, fece apparire davanti agli occhi del padre un impero sconfinato, un tesoro quale pochi uomini avevano mai posseduto: un'immensa distesa di terra fertile e ricca, coltivata a cotone, canna da zucchero e granoturco, irrigata dalle acque dolci e fresche di un enorme lago artificiale. Era un sogno da mozzare il fiato. « Possiedo già metà di quella terra », disse Dirk, poi, piegando le mani a coppa con le dita irrigidite come gli artigli di un'aquila, soggiunse: « E' qui. E' mia. Non è un'illusione ». « E il resto? » domandò Sean riluttante, travolto dal flusso di immagini. « E' tutto lì... come un frutto maturo, pronto per essere colto. » Dirk fece una pausa drammatica. « Sembra che la natura abbia creato quella zona a questo scopo. Esiste già una base su cui costruire la diga, e anche questo è un segno della benevolenza divina. » « Così tu saresti uno strumento della volontà di Dio », grugnì Sean in tono scettico. « E dove sarebbe quest'impero che ti ha promesso? » « La metà che già mi appartiene è costituita dalle terre a sud del fiume Umkomo. » Si fermò davanti alla scrivania e, appoggiando le mani alla superficie lustra, protese verso il padre il volto che splendeva di luce esaltata. « Costruiremo una diga tra i bastioni del Passo Chaka e allagheremo l'intera vallata del Bubezi, creando un bacino artificiale lungo trecento chilometri e largo duecento. La terra da lì al fiume Umkomo andrà ad aggiungersi a quella che già possiedo. Due milioni di acri di suolo coltivabile e facilmente irrigabile! Prova a pensarci! » Mark fissò Dirk Courteney, sgomento da ciò che aveva appena udito. Poi spostò su Sean lo sguardo implorante, ansioso di udirlo respingere il mostruoso progetto. « La zona è infestata dalla mosca tse-tse », osservò questi infine. « Papà, in Germania ci sono tre uomini, Dressel, Kothe e Rochi, che hanno appena messo a punto un farmaco chiamato Germanin. Serve a curare la malattia del sonno indotta dalla puntura della tse-tse. Si tratta di un segreto di cui pochi sono a conoscenza », si affrettò a dire. « Ma, grazie a esso, elimineremo la mosca tse-tse da tutta la vallata. » « E come? » domandò Sean con genuino interesse. « Ci serviremo degli aerei. Sorvoleranno la zona, spruzzando insetticidi. » Era un'idea sconcertante. Sean rimase per un attimo in silenzio, poi domandò. « Qualcuno l'ha già fatto? » « No », rispose Dirk, sorridendo. « Saremo i primi. » « Hai pensato a tutto », commentò Sean, appoggiandosi allo schienale e allungando la mano verso la scatola dei sigari. « Hai
trascurato solo un piccolo particolare. La valle del Bubezi è area protetta già dai tempi di Chaka, mentre gran parte delle terre comprese tra il Bubezi e il fiume Nkomo sono riserve tribali o forestali, oppure appartengono alla Corona. » « Portami un altro brandy, ragazzo », disse Dirk, richiamandolo con un dito. Mark guardò il generale che gli rispose con un cenno d'assenso. Rimasero in silenzio, mentre Mark versava il brandy e porgeva il bicchiere a Dirk. « Ti fidi di lui? » domandò questi a suo padre, prendendo il bicchiere e accennando a Mark con il capo. « Va' avanti », scottò Sean in tono irritato, senza curarsi di rispondere. Dirk levò il calice con un sorriso astuto. « Siete voi che fate le leggi, papà. Tu e i tuoi amici del Consiglio e dell'Assemblea Provinciale. Voi le fate e voi le cambiate. qui dove entri in gioco tu. » Mentre Dirk parlava, Sean aspirò una profonda boccata di fumo, che lasciò uscire poco alla volta, finché la sua testa fu avvolta da una nuvola azzurrognola. « Vediamo di chiarire. Se ho capito bene, tu metteresti i soldi, mentre io dovrei convincere il Parlamento ad abrogare le leggi che tutelano il territorio tra il fiume Nkomo e il Bubezi. E' esatto? » « Non dimenticare la valle del Bubezi », intervenne Dirk. « Già, anche la valle del Bubezi. Poi dovrò fare in modo che una società di copertura si accaparri la gestione dei terreni con un contratto a lunga scadenza, è così? » « Esatto », annuì Dirk. « Disponi anche del capitale necessario per costruire la diga e per portare fin lì una linea ferroviaria? » Mark non riusciva a credere alle proprie orecchie. Gli sembrava pazzesco che Sean Courteney stesse mercanteggiando il patrimonio nazionale, quel tesoro che la popolazione gli aveva affidato quando l'aveva eletto suo rappresentante. Avrebbe voluto mettersi a urlare e scagliarsi contro di loro, pur di interrompere quel folle progettare. L'affetto profondo che aveva provato qualche istante prima svanì dal suo cuore. Si sentiva tradito e oltraggiato. « Nessuno possiede un capitale del genere », rispose Dirk. « Secondo un calcolo approssimativo, la cifra si avvicinerebbe ai quattro milioni di sterline. E' una fortuna che supera le possibilità di un singolo. » « E allora? » domandò Sean, mentre la cortina di fumo si diradava. Mark lo guardò e lo vide improvvisamente invecchiato. Il volto era grigio e stanco e, per un gioco di luce, i suoi occhi infossati sembravano le orbite vuote di un teschio. « Ce le costruirà il governo », disse Dirk, ridacchiando e riprendendo il suo andirivieni. « O meglio, le costruirà per la nazione. Allo scopo di valorizzarne le risorse naturali. » E uscì in un'altra risatina. « Immagina il prestigio di cui godrà l'uomo che riuscirà a far approvare una misura del genere al Parlamento, l'uomo che porterà il progresso e la civiltà dove ora non c'è che boscaglia. » Prese il bicchiere e ingollò metà del contenuto. « Senza contare che la diga avrà il tuo nome... che te
ne pare? » « Molto impressionante. » « E' un monumento degno di te. » E Dirk levò il bicchiere in un brindisi a suo padre. « E le riserve tribali, Dirk? » Era la prima volta che lo chiamava per nome, pensò Mark, lanciandogli un'occhiata penetrante. « Prenderemo i negri e li trasferiremo da un'altra parte », gli rispose Dirk con indifferenza. « Possiamo sistemarli sulle colline. » « E gli animali selvatici? » « Santo cielo, cosa vuoi che sia un pò di selvaggina in confronto a cento milioni di sterline? » Scosse la bella testa ricciuta con aria di finta costernazione. « Prima di allagare la vallata organizzeremo una bella battuta. Ti è sempre piaciuto cacciare, vero? Ricordo bene i tuoi racconti di caccia all'elefante. » « Già », annuì Sean con aria grave. « Ne ho uccisi un sacco » « Allora siamo d'accordo, pa' », gli chiese Dirk, fermandosi davanti a lui. Per la prima volta aveva un'aria ansiosa e la sua fronte alta e orgogliosa era segnata da una piccola ruga di preoccupazione. « Lavoreremo insieme? » « Devo ammettere che mi hai colto di sorpresa. Si tratta di un progetto gigantesco », disse, parlando lentamente e misuranda ogni parola. « E' vero, e richiede anche una buona dose di fegato », convenne Dirk. « Ma tu non sei uomo che si spaventi facilmente, pa'. Una volta mi hai detto: 'Se vuoi qualcosa, prenditela. Perché puoi star sicuro che nessuno verrà a portartela'. » « Sono invecchiato, Dirk. Sono un uomo stanco e non ha più l'energia di quand'ero giovane. » « Sei ancora forte come un toro. » « Ho bisogno di tempo per pensarci. » « Quanto? » domandò Dirk. Sean ebbe un attimo d'esitazione. « Fin dopo la prossima sessione parlamentare. Dovrò prendere dei contatti ed esaminare le possibilità di realizzazione del progetto. » « E' troppo », disse Dirk, rabbuiandosi. Improvvisamente il suo viso perse ogni bellezza e gli occhi si strinsero, simili a quelli di un furetto. « E' il tempo di cui ho bisogno. » « D'accordo, allora », convenne Dirk e, abbandonato ogni cipiglio, sorrise alla massiccia figura del padre. Fece per porgergli la mano, ma, vedendo che Sean non lo guardava, se la ficcò nella tasca del cappotto. « Sto trascurando i miei ospiti », osservò Sean a bassa voce. « Ti prego di scusarmi. Mark ti accompagnerà alla porta. « Mi farai sapere qualcosa? » gli chiese Dirk. « Sì », rispose Sean con voce stanca, senza alzare gli occhi. « Ti terrò informato. » Mark accompagnò Dirk al portone. Bruciava di rabbia e di odio nei suoi confronti. Camminarono in silenzio, l'uno accan-
to all'altro, mentre Mark cercava di combattere gli impulsi oscuri e violenti che lo agitavano. Lo detestava per aver offuscato la figura dell'uomo che amava e rispettava, per averla insozzata con il suo sudiciume. Lo odiava per quello che aveva fatto al vecchio e ad Andersland, per le orribili macchinazioni che aveva ordito e per i suoi progetti sulla terra che gli era tanto cara, quell'Eden al di là del Passo Chaka. Giunti al portone, Dirk Courteney prese il cappello dal tavolo e se lo ficcò in testa, inclinandolo sogli occhi. Poi guardò Mark. « So essere molto generoso con chi mi è amico », mormorò. « Mio padre si fida di te e sono certo che ti dice molte cose. Visto che hai sentito la nostra conversazione, saprai anche quali sono le informazioni che possono interessarmi. Non dovrai pentirtene, te l'assicuro. » Mark lo fissò. Aveva le labbra secche e fredde, e tremava per lo sforzo di controllarsi. Rimase zitto, temendo che la voce potesse tradirlo. Dirk Courteney si voltò di scatto e, senza attendere risposta, scese a passo svelto i gradini, sparendo nella notte. Mark tenne gli occhi fissi a lungo sul punto in cui era scomparso. Udì il rombo di un potente motore e lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote. I fasci di luce dei fari sfiorarono rapidi il giardino e si allontanarono. Mark camminava al passo con l'impeto della propria rabbia, tanto che, quando giunse davanti allo studio, si accorse che stava quasi correndo. Spalancò la porta senza bussare. Le parole gli premevano alle labbra, pronte a esplodere. Parole di condanna, di accusa e di rifiuto. Guardò verso la scrivania; non c'era più nessuno. Voleva avvertire il generale che sarebbe ricorso a tutto pur di sventare l'atroce piano che aveva sentito prospettare quella sera, voleva manifestargli la sua delusione, anzi l'orrore che provava all'idea che l'avesse anche solo ascoltato. E invece, a quanto aveva visto, il generale l'aveva preso seriamente in considerazione e si era lasciato sfuggire una mezza promessa. Sean era in piedi davanti alla finestra, rivolto verso il giardino. Aveva le spalle curve e sembrava quasi rimpicciolito. « Generale », esordì Mark con voce aspra, quasi stridula. « Ho deciso di andarmene... per sempre. Ma prima voglio dirle che mi batterò fino in fondo perché i piani di suo figlio non possano venire attuati... » Sean Courteney si voltò. Era ancora curvo e teneva la testa piegata di lato come fanno i ciechi quando ascoltano. La voce di Mark si spense, svuotata di ogni collera. « Sei tu, Mark? » domandò Sean Courteney, come se si fosse dimenticato della sua esistenza. Mark lo fissò incredulo. Il generale stava piangendo. Lacrime lucenti gli inondavano gli occhi, accecandolo, e colavano lungo la guance segnate e bruciate dal sole, fermandosi in gocce rotonde tra i peli duri e rifiuti della barba. Era uno degli spettacoli più strazianti cui Mark avesse mai assistito,
tanto che provò l'impulso di fuggire. « Dammi qualcosa da bere, figliolo », gli disse Sean, dirigendosi con passo pesante verso la scrivania. Una lacrima cadde sullo sparato della camicia, lasciando una chiazza umida. Mark si voltò. Con gesti volutamente lenti scelse un bicchiere e vi versò il liquore contenuto nella pesante brocca. Cercò di prolungare l'operazione il più possibile e, quando si girò, vide che Sean Courteney si era seduto alla scrivania. Aveva in mano un fazzoletto bianco tutto stropicciato e bagnato. Si era asciugato le guance, ma le palpebre erano ancora rosse e infiammate ai bordi, e il blu intenso degli occhi era velato dalle lacrime. « Grazie, Mark », disse, appoggiando il bicchiere sulla scrivania. Lo fissò senza toccarlo. Poi prese a parlare con voce bassa e roca. « L'ho messo al mondo con le mie stesse mani, perché non c'erano dottori. L'ho preso che era ancora bagnato, caldo e viscido... e ne sono stato orgoglioso. L'ho portato sulle spalle e gli ho insegnato a parlare, a ridere e a sparare. Non ci sono parole per spiegare ciò che un uomo prova per il suo primogenito. » Uscì in un sospiro spezzato. « L'ho pianto già una volta, molti anni fa, come se fosse morto. » Trangugiò un sorso di whisky e proseguì a voce casi bassa che Mark riuscì a stento a udirlo. « Ora è tornato e mi costringe a piangerlo un'altra volta. » « Mi dispiace, generale. Ho creduto che avesse intenzione di aiutarlo. » « E' un pensiero che mi fa torto », disse Sean sottovoce, senza alzare gli occhi. « Lasciami solo, ora. Ne riparleremo un'altra volta. » Sulla soglia, il giovane si voltò a guardarlo, ma il generale si era già dimenticato di lui. I suoi occhi lucidi erano fissi su un orizzonte lontano. Mark chiuse piano la porta. Nonostante la promessa fattagli dal generale di discutere la proposta di Dirk Courteney, passarono molte settimane senza che venisse fatto il suo nome. La vita a Emoyeni continuava secondo il suo ritmo consueto, ma c'erano giorni in cui Mark, entrando nello studio, trovava il generale che meditava con aria cupa, seduto alla scrivania. Il naso aquilino e l'espressione intenta lo facevano assomigliare a un uccello rapace, appollaiato su un ramo. Allora Mark si ritirava senza far rumore, rispettando la sua tristezza per il figlio perduto. Ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima che fosse pronto a parlare. Durante quel periodo anche la vita di Mark subì dei piccoli cambiamenti. Una sera, dopo mezzanotte, Sean entrò nello spogliatoio e vide che in camera da letto la luce era ancora accesa, Ruth, appoggiata ai cuscini, stava leggendo. « Non avresti dovuto aspettarmi sveglia », la sgridò. « Potevo anche dormire sul divano. » « Preferisco che tu stia con me », rispose lei, chiudendo il libro.
« Cosa stai leggendo? » le domandò Sean. « Il nuovo romanzo di D.H. Lawrence, Donne innamorate », gli disse, mostrandogli la copertina. Sean si sbottonò la camicia con un sogghigno. « Hai imparato qualcosa di nuovo? » « Non ancora, ma non ho perso le speranze. » Gli sorrise e lui notò che la camicia da notte di pizzo le donava in particolar modo. Così vestita, Ruth sembrava ancora molto giovane. « E tu? Hai finito di scrivere il tuo discorso? » « Sì » Si sedette per togliersi gli stivali. « E' un capolavoro. Li farò a pezzi, quei bastardi. » « Ho sentito Mark che se ne andava con la sua motocicletta pochi minuti fa. Tu abusi di quel ragazzo. » « Ha cercato dei dati che mi servivano per il discorso. » « E' tardi. » « E' giovane », replicò Sean. « E lo pago fior di quattrini. » Prese gli stivali e si avviò verso lo spogliatoio. A piedi nudi, l'andatura claudicante si notava ancora di più. « E poi non mi risulta che si sia mai lamentato » Quando tornò, era in camicia da notte. Le si infilò accanto nel letto. « Se hai intenzione di tenere sveglio quel povero ragazzo fino a quest'orai non è giusto rimandarlo in città tutte le notti. » « Cosa hai in mente? » le chiese Sean, caricando l'orologio a doppia cassa e appoggiandolo sul comodino. « Potrei ricavargli un appartamento nella casetta del custode. Non credo che ci vorrebbe molto, anche se sono anni che non ci abita più nessuno. » « Buona idea », convenne Sean in tono noncurante. « Teniamolo vicino, così potrò farlo sgobbare come si deve. » « Sei un duro, generale Courteney. » Lui si voltò e la baciò a lungo. « Sono contento che tu l'abbia notato », le sussurrò poi nell'orecchio. « Non intendevo quello », bisbigliò lei di rimando, ridacchiando come una ragazzina. « Vediamo se riuscirò a insegnarti qualcosa io, visto che Lawrence ha fatto fiasco », le propose. La villetta, una volta ridipinta e ammobiliata con gli scarti della casa madre, parve a Mark un palazzo. Lo entusiasmava anche il fatto di aver detto addio agli insetti e agli scarafaggi. La sua nuova abitazione distava meno di un chilometro dalla villa e la vicinanza fece sì che i suoi orari divenissero sempre più simili a quelli del suo padrone e lui finisse per integrarsi sempre di più nella vita familiare. Anche i suoi incarichi erano diventati più gravosi: dalla ricerca alla stesura dei discorsi, dalla corrispondenza meno importante ai conti di casa, fino al compito più modesto di starsene seduto ad ascoltare Sean Courteney quando questi aveva bisogno di parlare, facendo da cassa di risonanza alle sue idee e ai suoi progetti.
Eppure gli restava del tempo da dedicare al suo antico amore, la lettura. La biblioteca di Emoyeni era composta da migliaia di volumi, e ogni sera Mark se ne portava a casa qualcuno. Restava sveglio fino alle ore piccole, divorando con identico ardore libri di storia e di satira, biografie e trattati politici, Zane Grey, Kipling e Rider Haggard. All'approssimarsi dell'apertura del Parlamento, un fremito di eccitazione e di rinnovamento percorse Emoyeni. Bisognava prepararsi a compiere il lungo viaggio verso Città del Capo, distante circa duemila chilometri. Ruth Courteney, scherzando, definiva questo spostamento annuale « la grande migrazione ». Si trattava di un'espressione azzeccata, perché l'avventura comportava il trasferimento di tutta la famiglia, oltre a quindici dei servitori più anziani, tre automobili, una dozzina di cavalli, tutti gli indumenti, l'argenteria, il vasellame, le carte, i libri e un'infinità di altri oggetti necessari ad affrontare con lo stile adeguato l'indaffarata stagione sociale e politica, durante la quale il generale Courteney e i suoi colleghi avrebbero guidato gli affari della nazione. Significava anche chiudere casa a Emoyeni e aprirla a Newlands, sotto la mole squadrata della Table Mountain. Nel bel mezzo di questa frenetica attività, Storm Courteney tornò dal suo viaggio in Europa, compiuto in compagnia di Irene Lenchars e della madre di costei. Nella sua ultima lettera a Ruth la signora Leuchars aveva ammesso di essere esausta, sia fisicamente sia psicologicamente. « Cara, non puoi immaginarti che razza di responsabilità sia stato questo viaggio. Siamo state inseguite per mezzo mondo da frotte di giovanotti appassionati: americani, italiani, francesi, conti, baroni, figli di industriali e persino il rampollo di un dittatore sudamericano. Lo sforzo è stato tale che a un certo punto, non potendone più, ho chiuso le ragazze in camera. In seguito ho scoperto che sono scappate dalla scala antincendio per finire in una disdicevole boite di Montparnasse, dove hanno ballato fino alla mattina seguente. » Con il tatto tipico di una moglie innamorata, Ruth si era ben guardata dal mostrare quella lettera a Sean, che si stava accingendo ad accogliere la figlia con tutto lo straripare del suo affetto paterno, sgombro dalle nubi che la conoscenza delle recenti scappatelle di Storm avrebbe indubbiamente provocato. Per una volta Mark fu escluso dalle vicende familiari. Dalla finestra della biblioteca guardò Sean che aiutava la moglie a salire sulla Rolle. Era vestito come uno sposino, con un colletto inamidato dalle punte ripiegate, un'allegra cravatta di seta, un abito blu scuro completo di garofano bianco all'occhiello e un cappello a cilindro gagliardamente inclinato su un occhio. La barba era tagliata con cura e il suo sguardo sfavillava d'allegria. Girò attorno alla macchina facendo ruotare il bastone. L'automobile si allontanò ronfando come un grosso gatto, in anticipo di quasi due ore sull'orario d'arrivo del postale che avrebbe attraccato al molo numero 1. La seguiva a rispettosa
distanza un'altra Rolle, cui sarebbe spettato il compito di trasportare il bagaglio della signorina Courteney. Mark pranzò da solo nello studio. Continuò a lavorare, ma la sua concentrazione era disturbata dal pensiero dell'imminente ritorno della processione. Quando la sentì arrivare, si precipito alla finestra. Intravide Storm per un attimo, mentre scendeva dall'auto e saliva danzando i gradini tenuta per mano dalla madre. Il generale si affrettò a seguirle. Il bastone scandiva il tempo sugli scalini di marmo mentre egli si affannava a tener dietro alle sue donne. L'espressione severa, che faceva di tutto per mantenere, si stemperava di tanto in tanto in un sorriso raggiante. Mark udì le risate e il mormorio eccitato dei servi, accorsi nell'atrio per salutare la signorina. La voce di Storm che li ricambiava uno per uno conferiva nuova dolcezza alla cadenza dello zulu. Mark tornò ai suoi libri, ma continuò a guardare per aria, assaporando la fugace visione che gli era comparsa dinanzi agli occhi. Pareva impossibile, ma la ragazza si era fatta ancora più bella. Era come se in lei si fosse distillata l'essenza stessa della giovinezza: l'allegria e la grazia, il calore e la dolcezza, la qualità della pelle e la morbidezza dei capelli, la perfezione delle forme e la delicatezza dei lineamenti, il timbro musicale della voce, chiaro come il cristallo, l'armonia dei movimenti, il portamento della testa perfetta sulle spalle nude e abbronzate. Mark era confuso. Lo stupiva il cambiamento avvenuto in quella casa da quando la ragazza vi era entrata; tutti sembravano animati da una nuova energia, come se avessero ripreso a vivere dopo un lungo sonno. Mark aveva preferito non restare a cena con loro quella sera, per non disturbare con la sua presenza quella prima riunione familiare. Si sarebbe recato alla sala d'armi per l'adunata settimanale e poi avrebbe cenato con qualcuno degli altri giovani ufficiali. Alle quattro uscì da una porta laterale e si diresse verso la villetta per fare un bagno e indossare l'uniforme. Era già uscito dai cancelli di Emoyeni sulla sua rombante motocicletta, quando si ricordò che il generale gli aveva chiesto di lasciargli sulla scrivania il rapporto delle Ferrovie. Nel turbine causato dall'arrivo di Storm se n'era dimenticato. Facendo compiere al pesante veicolo una curva stretta, ripercorse il viale d'accesso. Si fermò nel cortile lastricato sul retro della casa e, lasciata la motocicletta in bilico sul cavalletto, entrò dalla porta posteriore. Era in piedi davanti al tavolo della biblioteca con in mano il rapporto e lo stava scorrendo per controllare le proprie annotazioni, quando udì lo scatto della maniglia. Depose il fascicolo e si voltò Da vicino, Storm Courteney era ancora più bella. Mosse
qualche passo nella stanza prima di accorgersi che non era sola, poi si fermò di soprassalto, con la grazia di una gazzella sul punto di fuggire Si portò alla bocca una mano dalle dita affusolate, con le unghie lunghe che luccicavano come madreperla. Le labbra umide, lisce e lucenti ebbero un fremito, quando le sfiorò con la punta di un dito. Lo guardò con gli occhi spalancati, di un azzurro cupo e profondo. Sembrava una ragazzina spaventata e sola. Mark avrebbe voluto rassicurarla, scacciare le sue paure, metterla a suo agio, ma non riusciva né a muoversi né a parlare. Avrebbe potuto fare a meno di preoccuparsi, perché lo sgomento di Storm non durò che un istante, il tempo necessario per rendersi conto che ciò che l'aveva causato era un giovanotto alto e attraente, vestito con un'uniforme che ne metteva in risalto il corpo sottile e armonioso e sulla quale spiccavano i segni distintivi del coraggio e della responsabilità. Inavvertitamente, tutto il suo atteggiamento cambiò. Il dito che le sfiorava la bocca si spostò sulla guancia, compiendo un arco, e le labbra tremanti si immobilizzarono, socchiudendosi in un broncio appena accennato. Gli occhi grandi, non più spaventati, sparirono quasi completamente dietro le palpebre abbassate e la ragazza cominciò a esaminarlo in modo critico, alzando il mento per guardarlo in faccia. Anche la sua posizione mutò. Protese leggermente un fianco e sollevò il seno tondo, premendolo audacemente contro la seta sottile dell'abito. La piega tenera e ironica delle labbra bastò a fermare il respiro nella gola di Mark. « Salve », disse la ragazza. Il saluto, pronunciato da quella voce bassa e sensuale, parve rimbalzare contro il cuore di Mark e rimanere sospeso nell'aria per qualche istante. « Buonasera, signorina Courteney. » Mark si accorse con sorpresa che le aveva risposto in tono fermo e sicuro. Fu la sua voce a risvegliare in lei il ricordo. Lo fissò con gli occhi sgranati. Poi la sorpresa si trasformò in rabbia. Lo sguardo si fece lampeggiante e due macchie scarlatte le imporporarono le guance lisce e perfette. « Lei qui? » domandò incredula. « Temo di si », rispose. La costernazione della ragazza era così comica, che le rivolse un sogghignò, dimenticando le proprie apprensioni. Improvvisamente si senti tranquillo e padrone di sé. « Cosa ci fa in questa casa? » gli chiese Storm, rizzandosi in tutta la sua statura e assumendo un atteggiamento di gelido distacco. L'effetto su cui contava fu annullato dal fatto che aveva ancora le guance rosse per l'agitazione e che, per guardarlo, fu costretta ad alzare la testa. « Sono il segretario privato del generale », le disse Mark, sorridendole di nuovo. « Sono sicuro che si abituerà presto alla mia presenza. » « Questo è da vedere », sbottò. « Parlerò con mio padre. »
« Oh, credevo che aveste già discusso il problema del mio impiego... o del mio licenziamento, se preferisce. » « Io... » esordì Storm, poi serrò le labbra. Il rossore si diffuse dalle guance alla gola, mentre ricordava con profondo imbarazzo l'episodio dell'auto. L'umiliazione era ancora così intensa che la ragazza parve avvizzire improvvisamente come una rosa sotto il solleone, e un singulto di disperazione le si arrestò in gola. Suo padre, in quell'occasione, invece di darle il suo appoggio incondizionato, come aveva sempre fatto da che lei si ricordava, le aveva detto in tono irato che si era comportata come una bambina viziata, che l'aveva oltraggiato usando a sproposito il suo potere e la sua influenza e che l'offesa era stata ancora più grave perché aveva agito a sua insaputa. Si era spaventata, come le capitava sempre quando lui si arrabbiava, ma senza preoccuparsi eccessivamente. Erano passati quasi dieci anni dall'ultima volta che aveva alzato le mani su di lei. « Una vera signora rispetta tutti coloro che le stanno attorno, indipendentemente dal colore della pelle, dal loro credo o dalla posizione sociale. » Aveva sentito ripetere spesso dal padre quella frase, e la paura si trasformò in irritazione. « Accidenti, papà! Non sono più una bambina! » aveva replicato, pavoneggiandosi. « Quel tipo mi ha trattato con insolenza. E io non tollero che qualcuno mi manchi di rispetto! » « Hai fatto due affermazioni inesatte », aveva notato il generale, apparentemente calmo. « Se ti ha mancato di rispetto, è probabile che l'abbia fatto per rispondere a una tua scortesia. Quanto al fatto che non sei più una bambina, ti sbagli di grosso. » Si era alzato dalla sedia dietro la scrivania, ergendosi in tutta la sua altezza. Le era parso immenso, come una quercia o una montagna. « Un'ultima cosa. Le signore non imprecano, e tu diventerai una signora, con le buone o con le cattive. » L'aveva afferrata per il polso e lei aveva capito all'improvviso quello che stava per accadere. L'ultima volta che era successo, aveva quattordici anni ed era stata certa che non si sarebbe più ripetuto. Si era divincolata per liberarsi, ma Sean era troppo forte per lei. L'aveva sollevata e, tenendola alla vita con un braccio, l'aveva trasportata al divano di pelle. Lei si era lasciata sfuggire uno strillo di paura e di vergogna, che si era trasformato in un grido d'angoscia quando il padre se l'era messa sulle ginocchia, sollevandole la gonna sopra la testa. Quel giorno Storm indossava un paio di mutandoni di crepe de Chine azzurro con delle roselline ricamate in corrispondenza del bersaglio. Il palmo calloso e duro si era abbattuto sulla doppia protuberanza soda con un colpo secco. Sean aveva smesso solo quando i calci e le urla si erano trasformati in singhiozzi strazianti. Poi le aveva riabbassato la gonna e le aveva detto tranquillamente: « Ti manderei a chiedergli scusa, se sapessi dove trovarlo ». Ricordando la minaccia, Storm si sentì cogliere dal panico.
Sapeva che suo padre era capace di mantenere la promessa anche se era passato molto tempo, e fu quasi tentata di precipitarsi fuori della stanza. Dovette compiere un grosso sforzo per riprendere il controllo di sè. Finalmente alzò il mento con aria di sfida. « Ha ragione », gli disse in tono freddo. « Le vicende professionali dei dipendenti di mio padre non mi riguardano. E ora la prego di farsi da parte... » « Certamente. Mi scusi », rispose Mark sorridendo. Poi, con un inchino caricaturale, si scostò per farla passare. Lo oltrepassò a testa alta con un gran frusciare di gonne e, per l'agitazione, si diresse allo scaffale sbagliato. Dovette trascorrere qualche minuto prima che si accorgesse che stava studiando attentamente le copie rilegate degli atti parlamentari di dieci anni prima, ma non poteva ammettere il suo errore. Sarebbe stato troppo umiliante. Sempre più adirata, cominciò a pensare alla prossima bordata, via via scegliendo e scartando una dozzina di battute demigratorie, finché ne trovò una che la convinse. « Le sarò grata se, in futuro, mi rivolgerà la parola solo quando sarà strettamente necessario. E ora la prego di lasciarmi sola », annunciò, con lo sguardo fisso sul dorso dei libri. Non udendo risposta, si girò con aria altezzosa. « Mi ha sentito? » La stanza era vuota. L'uomo se n'era andato senza far rumore e lei si era lasciata talmente trascinare dalle proprie elucubrazioni, da non avvertire nemmeno lo scatto della serratura. Non aveva aspettato di essere liquidato. La rabbia la accecò. Una frotta di commenti mordaci le si attaccò alle labbra, resi ancor più pungenti dalla frustrazione. Doveva trovare il modo di sfogarsi. Si guardò attorno in cerca di qualcosa da rompere, poi ricordò, appena in tempo, che quella era la biblioteca di suo padre e che tutti gli oggetti che conteneva avevano per lui un significato particolare. Allora prese a lambiccarsi il cervello in cerca di un'imprecazione particolarmente violenta. « Maledizione! » esclamò, battendo il piede per terra. Niente da fare; era del tutto inadeguata. A un tratto si sovvenne dell'espressione che, nel repertorio paterno, figurava al primo posto. « Brutto bastardo », proclamò, facendosi rotolare le parole in bocca com'era abitudine di Sean. Si sentì subito meglio. Lo ripetè e la rabbia sparì, sostituita da qualcosa che non aveva mai provato prima. Percepì una sensazione conturbante di calore nella zona misteriosa tra l'ombelico e le ginocchia. Si precipitò in giardino, sconvolta e preoccupata. Lo splendore del breve tramonto tropicale conferiva agli alberi e ai prati un aspetto irreale, rendendoli simili al fondale di un palcoscenico. Si avviò quasi di corsa sul terreno spugnoso, come per sfuggire alle proprie sen-
sazioni. Arrivata al largo, si fermò. Aveva il fiato corto, e non certo per la camminata. Si appoggiò al parapetto del ponte. Alla rosea luce del tramonto, la sua immagine si rifletteva nell'acqua perlacea come in uno specchio. Ora che quella strana sensazione era passata, si rammaricò di averla repressa. C'era già stata una volta in cui aveva sperato di provare qualcosa del genere. Ripensò con imbarazzo allo sgradevole episodio avvenuto a Montecarlo. Le continue punzecchiature di Irene, che si vantava di conoscere gli uomini, l'avevano messa in una situazione di inferiorità rispetto all'amica e quindi, in parte per umiliarla, in parte per difendersi dal suo sarcasmo, si era decisa a sgattaiolare fuori del Casinò con quel giovane conte italiano. Quando questi aveva parcheggiato la Bugatti tra i pini che orlavano la strada panoramica sopra Cap Ferrat, si era guardata bene dal protestare. Aveva sperato in qualcosa di bello e selvaggio; la luna sarebbe esplosa nel cielo e un coro di angeli avrebbe cantato per lei. E invece era stata un'esperienza frettolosa, confusa e, nell'insieme, penosa. Nessuno dei due aveva più parlato lungo la strada che si snodava tortuosa fino a Nizza. Arrivati all'Hotel Negresco, si erano limitati a scambiarsi un rapido saluto. Non l'aveva più rivisto. Non riusciva a capire perché la vicenda le fosse tornata in mente proprio in quel momento e la rimosse senza sforzo alcuno. A essa si sostituì immediatamente l'immagine del giovane alto in uniforme, con il sorriso ironico e lo sguardo calmo e penetrante. Risentì la sensazione di calore nella parte bassa del ventre, ma questa volta non cercò di combatterla. Rimase appoggiata al parapetto, sorridendo alla propria immagine riflessa che diventava sempre più scura. « Sembri una vecchia gatta compiaciuta », sussurrò ridacchiando con aria sorniona. Sean Courteney montava come i boeri, seduti indietro sulla sella, con i piedi infilati nelle staffe lunghe e le gambe tese in avanti. Teneva le redini nella mano sinistra, allentate, e il frustino in pelle di ippopotamo, che gli pendeva dal cinturino legato al polso, arrivava quasi fino a terra. La sua cavalcatura preferita era uno stallone ossuto di quasi diciotto spanne con una macchia bianca sul muso e un caratteraccio imprevedibile che solo lui riusciva a controllare. Eppure di tanto in tanto doveva ricorrere al frustino per ricordare all'animale i suoi doveri. Mark invece montava all'inglese o, per dirla come Sean, sembrava una scimmia a cavallo di un manico di scopa. « Prova a cavalcare per duecento chilometri così appollaiato, e il sedere ti scotterà a un punto tale che potrai cuocerci sopra un paio di uova. Una volta abbiamo percorso quattromila chilo-
metri in due settimane per inseguire il generale Leroux. » Cavalcavano assieme quasi tutti i giorni. Quando le grandi stanze di Emoyeni rischiavano di soffocarlo e il suo stesso grande corpo gli faceva l'effetto di una gabbia, il generale dava l'ordine di preparare i cavalli. Dietro le proprietà che si estendevano ai confini della città, c'erano ancora grandi spazi aperti e, più oltre, chilometri e chilometri di strade di terra rossa che si intersecavano con le piantagioni di canna da zucchero. Nemmeno a cavallo smettevano di lavorare. L'unica interruzione era quella riservata al chilometro di galoppo veloce che serviva a scaldare i cavalli. Poi il generale tirava le redini e continuavano all'ambio su e giù per le colline dolcemente ondulate, l'uno a fianco dell'altro. Mark portava sempre in una tasca interna un taccuino rilegato in cuoio per prendere appunti sulle cose da fare al ritorno, ma se ne serviva raramente, preferendo affidarsi alla memoria. La settimana che aveva preceduto la partenza per Città del Capo era stata dedicata all'espletamento delle pratiche lasciate in sospeso, alla conclusione dei lavori del Consiglio Legislativo provinciale e all'elaborazione delle proposte da portare in Parlamento. Quel giorno erano così immersi nella discussione che, senza accorgersene, si spinsero molto più lontano del solito. Giunti sulla sommità di una collina, il generale decise di fermarsi. Il panorama si apriva fino al mare e oltre, fino alla sagoma lontana del promontorio a forma di balena che delineava il porto di Durban. Sotto di loro, un solco era stato aperto nella terra, simile a una coltellata che, oltrepassato il tappeto verde della vegetazione, aveva messo a nodo la carne viva del suolo. Era il tracciato della ferrovia. In quel momento una locomotiva si stava avvicinando al terminale, spingendo davanti a sè un carrello carico di rotaie. Rimasero in silenzio a osservare le guide d'acciaio che venivano scaricate con un rimbombo lontano e le minuscole figure dei posatori che vi si affollavano attorno, simili a formiche, trasportandole poì sulla fila ordinata di traversine. Il rumore dei martelli che battevano a ritmo sincopato sui coprigiunti si levò fino a loro. « Due chilometri al giorno », commentò Sean sottovoce. Mark capì dalla sua espressione che stava pensando a un'altra ferrovia, più su, verso nord, e a quello che avrebbe significato. « Cecil Rhodes sognava la costruzione di una linea ferroviaria che andasse dal Cairo a Città del Capo, e io una volta ero convinto che fosse un sogno grandioso. » Scosse il capo con aria cupa. « Chissà, forse abbiamo avuto torto tutti e due. » Voltarono i cavalli e discesero la collina senza parlare. Il silenzio era rotto soltanto dal tintinnio dei finimenti e dal tonfo ritmato degli zoccoli. Entrambi stavano pensando a Dirk Courteney, ma passarono altri dieci minuti prima che Sean af-
frontasse l'argomento. « Conosci la valle del Bubezi, al di là del Passo Chaka? » « Si », rispose Mark. « Parlamene », gli ordinò Sean soggiungendo: « Sono passati cinquant'anni dall'ultima volta che ci sono stato. E' li che abbiamo ricacciato gli impi del vecchio re Cetewayo, inseguendolo poi lungo il fiume ». « Sono stato da quelle parti qualche mese fa, prima di venire a lavorare per lei. » Sean si voltò di scatto a guardarlo, aggrottando la fronte. « Cosa ci facevi laggiù? » domandò in tono brusco. Per un attimo Mark fu tentato di confidargli tutto. Avrebbe voluto raccontargli di Dirk Courteney, della fine che aveva fatto il vecchio, del suo pellegrinaggio per ritrovare la tomba e scandagliare il mistero che avvolgeva la vicenda. Ma si trattenne; qualcosa gli diceva che, se l'avesse fatto, si sarebbe inimicato Sean Courteney per la vita. Nonostante il suo atteggiamento nei confronti del figlio, non era uomo da tollerare che un estraneo gli muovesse delle accuse, soprattutto se non aveva prove per sostenerle. « Ci andavo spesso con il nonno quand'ero piccolo », gli spiegò invece. « Avevo bisogno di tornarci, di ritrovare la bellezza e il silenzio... di godere ancora di quella pace. » « Sì », il generale l'aveva capito subito. « E gli animali? » « Ne sono rimasti pochi. I bracconieri li hanno sterminati con le trappole e le carabine. E quei pochi che ci sono si tengono ben nascosti. » « Bufali? » « Ce n'è ancora qualcuno nella palude. Vanno a pascolare nella boscaglia durante la notte, ma io non li ho mai visti. » «Nel 1901, dopo l'epidemia di peste bovina, il vecchio Selous ha scritto che il bufalo del Capo era estinto. Dio mio, Mark, quando avevo la tua età, giravano a branchi di diecimila capi. Le pianure lungo il Limpopo erano nere di bufali. » Si perse nei ricordi. Erano le reminiscenze di un vecchio e avrebbero potuto annoiarlo, ma Sean le narrava con tanta vivacità che Mark, affascinato, si lasciò trasportare in quel mondo dove un uomo poteva viaggiare con i suoi carri per sei mesi senza incontrare un altro bianco. « E' tutto finito ora », continuò il generale, con una piccola punta di rimpianto per quel periodo irrimediabilmente perduto. « La linea ferroviaria passa attraverso i giacimenti di rame della Rhodesia settentrionale. Rhodes si è preso i territori tra lo Zambesi e il Limpopo. Là dove mi sono accampato e ho cacciato ci sono ora città e miniere, e la terra su cui vivevano gli elefanti è stata solcata dall'aratro. » Scosse il capo. « Credevamo che quella ricchezza non avrebbe avuto mai fine e invece non è rimasto quasi niente. » Si interruppe; sembrava rattristato. « Forse i miei nipoti non vedranno mai un elefante, né sentiranno il ruggito del leone. » « Il nonno diceva che se l'Africa avesse perso i suoi animali,
lui sarebbe tornato a vivere a Londra. » « La penso anch'io così », convenne Sean. « E' strano, ma forse Dirk ha reso un prezioso servizio all'Africa e all'umanità. » Pronunciò il nome a fatica, come se stentasse a farlo uscire dalla gola. Mark rimase in silenzio per rispettare il suo sforzo. « Vedi, senza volerlo mi ha costretto a pensarci. Una delle cose che farò durante la prossima sessione parlamentare è assicurarmi che la legge riguardante la vallata del Bubezi venga ratificata. Ho intenzione di trovare i fondi per amministrare la zona, in modo che a nessuno sia permesso di trasformarla in un'enorme piantagione, né di seppellirla sotto una valanga d'acqua. » Mark lo ascoltava intento, consapevole delltimportanza di quelle parole. Era tutta la vita che attendeva di udirle. Il generale continuò a parlare, calcolando i costi e il numero degli uomini necessari a effettuare il progetto, individuando i gruppi politici da cui farsi appoggiare, i colleghi che, secondo lui, avrebbero aderito alla proposta, e soffermandosi infine a ipotizzare la struttura da dare alla legge, mentre Mark registrava tutto sul suo taccuino, correndo con la mano sulla carta per stare al passo con il profluvio di parole che usciva dalla bocca del generale. Nel bel mezzo delle sue elucubrazioni, il generale s'interruppe e scoppiò a ridere forte. « E' vero, sai, Mark. Nessuno è più virtuoso di una puttana pentita. E' la gente come me quella che ha rapinato questa terra: Rhodes e Robertson, Bailey e Barnato, Duff Charleywood e il sottoscritto. Noi ce ne siamo appropriati, abbiamo estratto l'oro dalle sue viscere, siamo andati a caccia dove più ci piaceva e abbiamo tagliato il legno migliore per scaldarci e cucinare. Chiunque avesse un fucile e un paio di scarpe era un re e sarebbe stato disposto a battersi con tutti, boeri, inglesi o zulu, pur di salvaguardare il suo diritto al saccheggio. » Scosse il capo e si frugò nelle tasche in cerca dei sigari. Aveva smesso di ridere. Ne accese uno con la fronte aggrottata. Lo stallone parve accorgersi del suo cambiamento di umore e cominciò a scartare e a ricalcitrare. Sean lo ricondusse alla ragione, giocando di redini e dandogli qualche colpo di frustino sul fianco. « Comportati bene! » borbottò. Quando il cavallo si calmò, proseguì: « Il giorno in cui ho conosciuto la mia prima moglie - e sono passati solo trentadue anni - ero andato a caccia con suo padre e suo fratello. Abbiamo trovato un branco di elefanti e, tra tutti, ne abbiamo uccisi quarantatré. Dopo aver tagliato le zanne, abbiamo abbandonato le carcasse, il che significa cento tonnellate di carne, più o meno ». Scosse di nuovo il capo. « Solo ora comincio a rendermi conto dell'enormità di ciò che abbiamo fatto. E c'è dell'altro, episodi avvenuti durante le guerre contro gli zulu, quella contro Kruger o la ribellione di Bombata, tutte cose che preferisco dimenticare. Ora forse è troppo tardi per rimediare. E tipico degli anziani rimpiangere i tempi andati. I giovani anelano al cambiamento, poi, quando invecchiano, vorrebbero che tutto fosse
rimasto com'era. » Mark rimase in silenzio, temendo che le sue parole potessero interrompere il flusso dei ricordi dell'altro. Capiva l'importanza di ciò che stava ascoltando, anche se non arrivava a vederne tutte le implicazioni. « Dobbiamo tentare, Mark. Dobbiamo mettercela tutta. » « Sì, signore », convenne Mark. Il tono della sua voce colpi il generale, che si voltò leggermente sorpreso. « Ci tieni molto, vero? » Annuì, come per sottolineare l'affermazione. « Si, lo si capisce. E' strano, un ragazzo come te! Quando avevo la tua età, le uniche cose che mi interessavano erano le sovrane e i bei pezzi di... » Si riprese prima di concludere la frase e tossì per schiarirsi la gola. « Be', signore, la verità è che io ho conosciuto la morte e la distruzione molto prima di lei. La più grossa catastrofe che abbia colpito gli uomini. » Il volto del generale si rabbuiò al pensiero dell'esperienza che entrambi avevano vissuto in Francia. « Quando uno ha visto come sia facile distruggere, capisce l'importanza di conservare. Forse sono nato troppo tardi », concluse con un sorriso mesto. « No », disse il generale a bassa voce. « Sei nato al momento giusto. » Avrebbe continuato, se proprio in quel momento un suono musicale emesso da una voce femminile non fosse giunto fino a loro, volando nell'aria calda. Il generale alzò il capo di scatto e il suo volto si illuminò. Storm Courteney si avvicinò al galoppo. Cavalcava con la stessa agile grazia che caratterizzava tutti i suoi gesti. Indossava un paio di calzoni da gaucho infilati negli stivali alti fino al ginocchio, un panciotto ricamato a vivaci colori e una camicia di satin bianco con le maniche ampie. Un cappello a tesa larga da vaquero le ciondolava sulla schiena, trattenuto alla gola da un laccio. Si fermò accanto al padre, ridendo. Si scostò i capelli dal volto arrossato e si protese a baciarlo, senza degnare di un'occhiata Mark, che si scostò con discrezione. « Ti abbiamo cercato dappertutto », esclamò la ragazza. « Siamo arrivate fino al fiume. Come mai sei venuto da questa parte? » In sella a una giumenta baia stava sopraggiungendo la biondina che Mark aveva già incontrato quel giorno fatale sul campo da tennis. Indossava un abito più convenzionale, composto da un paio di calzoni da cavallerizza color tortora e da una giacca di taglio maschile. Il vento giocava nell'oro chiaro dei suoi capelli corti e lucenti. Mentre salutava il generale, la ragazza continuò a lanciare occhiate in tralice alla volta di Mark. Questi frugò nella memoria e ricordò di averla sentita chiamare Irene. Doveva essere quella la ragazza che aveva accompagnato Storm in Europa. Una cosina graziosa dai modi vivaci e dagli occhi calcolatori. « Buongiorno, signorina Leuchars! » « Oh! » esclamò, sorridendogli con aria altera. « Ci cono-
sciamo? » Con un impercettibile tocco di ginocchia spronò la cavalla e gli si accostò, lasciando che gli altri due li precedessero. « Ci siamo incontrati una volta », affermò Mark. Gli occhi azzurro-porcellana si spalancarono, e la ragazza si coprì la bocca con la mano guantata. « Lei è quel tipo che... » Diede uno squittio deliziato e, imitando la sua voce, disse: « Appena mi avrà chiesto per piacere! » Storm Courreney non si era mai voltata, anzi, prestava al padre un'attenzione esagerata, ma Mark notò che le sue orecchie piccole e perfette si erano colorate di rosa. Poi la vide gettare la testa all'indietro con gesto irato. « E' un episodio che preferisco dimenticare », mormorò Mark. « Dimenticare? » cinguettò Irene. « Non ci penso neanche. stata una risposta esemplare. » Si chinò e gli appoggiò una mano sul braccio. In quell'attimo Storm, che era arrivata al limite della sopportazione, si voltò di scatto. Stava per apostrofare Irene, quando vide la mano appoggiata al braccio di Mark. Il suo viso assunse un'espressione feroce e gli occhi blu crepitarono di bagliori elettrici. Irene ricambiò arditamente il suo sguardo, sgranando gli occhi con espressione ingenua, e mantenne la mano sul braccio di Mark, stringendolo lievemente con aria di sfida. Le due ragazze si capirono all'istante. Doveva essere un gioco consueto tra loro, ma quella volta Irene intuì di essere in una posizione di forza. Era la prima volta che Storm aveva una reazione così immediata e chiaramente ostile, e si che la conosceva da un pezzo. Finalmente l'aveva in suo potere, e intendeva approfittarne fino in fondo. Spostò la cavalla lateralmente fino a toccare con il ginocchio quello di Mark e alzò gli occhi su di lui. « Sei un gigante », mormorò. « Quanto sei alto? » « Uno e ottantasei », rispose Mark. Intuì vagamente che si era creata una situazione difficile e presagì che non gliene sarebbe venuto niente di buono. « Oh, l'altezza è fondamentale per un uomo. » . Storm aveva ripreso a ridere allegramente con suo padre, cercando al tempo stesso di ascoltare la conversazione che si svolgeva alle sue spalle. Per contrastare la rabbia che l'attanagliava, strinse il frustino fino a farsi dolere le dita. Non riusciva a capire che cosa l'avesse turbata a quel modo, ma moriva dalla voglia di colpire con una frustata il volto di Irene e far sparire quel suo sorrisetto sciocco. Certo la sua reazione non aveva niente a che vedere con Mark Anders. Dopotutto non era altro che un dipendente. Poteva fare lo stupido con Irene quanto voleva e, in altre circostanze, la cosa non l'avrebbe minimamente toccata. Ma in quel momento la sentiva lesiva della sua dignità e di quella di suo padre. La sfacciataggine con cui Irene Leuchars, che era
ospite dei Courteney, si era offerta a Mark era un insulto alla sua famiglia. Era evidente che non vedeva l'ora di condurre Mark Anders lungo i sentieri già battuti che portavano alla sua umida... Il suo pensiero fu interrotto dall'immagine vivida di quel corpo pallido e apparentemente fragile che se ne stava languidamente disteso in attesa che Mark... Fu colta da un'altra ondata di rabbia e si agitò nervosamente sulla sella. Poi lasciò cadere il frustino e si voltò di scatto. « Oh, Mark, mi è caduto il frustino. Ti prego, vieni a raccogliermelo. » Mark rimase sbalordito non solo dalle parole, ma anche dal sorriso radioso e dal calore della voce di Storm. Cadde quasi di sella nella fretta di raccogliere il frustino da terra. Quando le si avvicinò per restituirglielo, lei lo trattenne con un sorriso di ringraziamento e una domanda. « Mi aiuteresti ad attaccare le etichette sui bagagli? Ormai mancano pochi giorni alla partenza. » « Che bellezza! Non vedo l'ora di partire », disse Irene, che li aveva raggiunti, affiancandosi a Mark dall'altra parte. Storm le rivolse un sorriso angelico. « Sarà divertente », convenne. « Mi piace Città del Capo. » « Un vero spasso », ripete Irene, ridendo con allegria, e Storm si pentì amaramente di averla invitata a stare per ben quattro mesi a casa loro. Prima che riuscisse a trovare qualche frase tagliente per ribattere, Irene si chinò verso Mark. « Su, andiamo », gli disse, girando la giumenta. « E dove? » domandò Storm in tono secco. « Scendiamo al fiume. Mark vuole mostrarmi il monumento eretto nel punto in cui Dick King, proveniente da GrahamStown, l'ha guadato per andare a ricongiungersi con le truppe inglesi. » « Oh, Irene cara », proruppe Storm, portandosi al volto un angolo del foulard. « Mi è entrato qualcosa nell'occhio. Vedi se riesci a togliermelo. No, non aspettarci, Mark. Raggiungi il generale. So che ha ancora bisogno di te. » Poi voltò verso Irene la piccola testa perfetta, offrendola alle sue cure. Con evidente sollievo Mark spronò il cavallo. « Non hai niente nell'occhio, tesoro, tranne una punta di invidia », disse Irene con voce mielata. « Vacca », sibilò Storm. « Cara, non capisco a cosa ti riferisci. » Il Dunottar Castle vibrò sotto la spinta dei motori e cominciò a muoversi verso sud sull'acqua illuminata dalle stelle. Il mare sembrava scolpito nell'ossidiana e le onde procedevano con tale ponderosa dignità che parevano immobili. Solo quando la nave le fendeva con la sua prua acuminata, esplodevano in una cascata di spuma bianca e si ritiravano sibilando lungo lo scafo. Il generale si fermò a guardare la volta celeste, dove la grande croce splendeva attorniata dalle sue coorti e Orione il
cacciatore brandiva la spada. « E' così che il cielo dovrebbe essere ovunque », dichiarò, con un cenno d'approvazione del capo. « Non sono mai riuscito ad abituarmi ai cieli del nord. Là è come se l'universo si fosse disintegrato e al grande disegno della natura si fosse sostituita l'anarchia. » Appoggiati al parapetto, guardarono la luna che sorgeva dal mare buio. Mentre la sua cupola dorata cresceva all'orizzonte, il generale estrasse l'orologio d'oro dalla tasca del panciotto e borbottò « E' mezzanotte e ventuno. La luna è puntuale, oggi ». La battuta fece sorridere Mark. Sapeva che tra i riti quotidiani del generale c'era quello di consultare l'almanacco per informarsi sull'orario di levata del sole e della luna. Quell'uomo aveva un'energia formidabile. Avevano cominciato a lavorare a metà mattina e avevano smesso solo qualche minuto prima. Mark si sentiva intontito, aveva la testa pesante per lo sforzo e per il fumo dei sigari, che aveva riempito la stanza con il suo odore pungente. « Credo che oggi abbiamo esagerato un pò, ragazzo », ammise Sean Courteney, come se gli avesse letto nel pensiero. « Ma volevo terminare tutto prima di arrivare. Grazie, Mark. E ora perché non scendi a ballare anche tu? » Dal ponte delle barche, Mark si sporse a guardare la confusione ondeggiante delle coppie che ballavano sul ponte di passeggiata. L'orchestra della nave stava strimpellando un valzer di Strauss e i ballerini giravano come trottole. Le sottane delle donne si aprivano come fiori esotici, e gridolini e risate facevano da dolce contrappunto all'elettrizzante motivo del valzer. Mark individuò Storm tra la folla. Era facile notarla: la sua grazia particolare la distingueva dagli altri. Appoggiata al bracao del compagno, volteggiava rapida; la luce traeva riflessi dai suoi capelli scuri e faceva risplendere la pelle morbida e dorata delle sue spalle nude. Mark accese una sigaretta e rimase a guardarla appoggiato al parapetto. Non gli era mai capitato di sentirsi solo nel silenzio dei grandi spazi aperti, mentre ora, che era circondato dalla musica, dall'allegria e dalle risate, provava un grande senso di solitudine. Il generale, invitandolo a unirsi alle danze, aveva commesso un'involontaria crudeltà. Sarebbe stato fuori posto in mezzo a tutti quei giovani che si conoscevano sin dall'infanzia; un'élite esclusiva pronta a serrare i ranghi contro qualsiasi intrusione, soprattutto da parte di chi non possedeva le qualifiche necessarie. Cercò di pensare a che cosa sarebbe successo, se avesse invitato Storm Courteney a ballare. Immaginò la sua umiliazione per essere stata avvicinata dal segretario di suo padre, i colpi di gomito e i commenti derisori, e udì le domande che gli sarebbero state rivolte. « Sei tu che batti a macchina le lettere, vecchio mio? » Si sentì avvampare al solo pensiero.
Eppure non si mosse per un'altra mezz'ora, godendo ogni volta che riusciva a vederla e odiando ferocemente tutti quelli che le facevano via via da partner. Quando finalmente si decise a scendere in cabina, non riuscì a prender sonno. Scrisse una lettera a Marion Littlejohn, scoprendo di provare nei suoi confronti un calore ormai insolito. D'un tratto gli parve che la gentilezza e la sincerità della ragazza, oltre all'autenticità dell'affetto che provava per lui, fossero dei beni preziosi da non disprezzare. Ricordò la visita che lei gli aveva fatto a Durban poco prima della sua partenza. Il generale era stato comprensivo, tanto da concedergli molte ore libere nei due giorni che si era fermata. Marion era rimasta a bocca aperta di fronte alla sua nuova posizione e all'ambiente in cui viveva. E tuttavia il secondo tentativo di rapporto fisico, nonostante fosse avvenuto nella sicura intimità della villetta di Mark, era stato, se possibile, ancor più disastroso del primo. Non aveva avuto l'opportunità di rompere il fidanzamento, o forse gliene era mancato l'animo, ed era stato con un certo sollievo che l'aveva messa sul treno per Ladyburg. Ora, invece, la solitudine e la lontananza ne avevano rinverdito il ricordo. Le scrisse con affetto sincero, ma, dopo aver chiuso la busta, scoprì che non aveva alcuna voglia di dormire. Scovò una copia di Jock of the Bushvell nella biblioteca della nave e cominciò a rileggerlo. Le avventure dell'uomo e del cane e la descrizione viva e nostalgica della boscaglia africana gli diedero un piacere così intenso da fargli dimenticare la sua solitudine. A un tratto udì un colpo leggero alla porta della cabina. « Oh, Mark, ti prego. Lascia che mi nasconda qui per un attimo », lo scongiurò Irene. Entrò rapida come un baleno, senza dargli il tempo di protestare. « Presto, chiudi la porta », gli ordinò poi. Il suo tono lo indusse a obbedirle immediatamente ma, quando si voltò, capì di aver commesso un errore. Irene aveva bevuto. Il rossore delle guance non era dovuto al belletto, negli occhi aveva un luccichio febbrile e la sua risata suonava innaturale. « Cos'è successo? » le domandò. « Oh, santo cielo, me la sono vista brutta. Charlie Eastman mi sta dando la caccia. Non ho il coraggio di tornare nella mia cabina. » « Vado a parlargli », propose Mark, ma lei lo bloccò. « Ti prego, non fare scene. Non ne vale la pena. » Si buttò sulla spalla un'estremità del boa di struzzo. « Rimarrò qui per un attimo, se non ti spiace. » Il suo vestito era composto da parecchi strati di una stoffa leggera che le fluttuava attorno come una nuvola a ogni movimento. Le spalle erano nude e il corpetto così esiguo da contenere a malapena il seno che sporgeva tondo, morbido, bianco e ben distanziato. « Allora, posso restare? » gli chiese, perfettamente consapevole della direzione che avevano preso i suoi occhi. Fece una
smorfia di impazienza, in attesa della risposta. Le sue labbra, coperte da un rossetto scarlatto e luccicante, sembravano un frutto maturo. Mark sapeva che avrebbe dovuto farla uscire. Si rendeva conto del pericolo che correva. Irene apparteneva a una famiglia molto potente, mentre la sua posizione era estremamente precaria. Come se non bastasse, aveva già intuito che quella ragazza era astuta e priva di scrupoli. Ma era solo, solo in modo tormentoso. « Certo, rimani pure », le disse. Lei abbassò le palpebre e si passò la punta della lingua rosea sulle labbra dipinte. « Hai qualcosa da bere, tesoro? » « No, mi spiace. » « Non ti deve dispiacere. Non è proprio il caso », gli disse, mentre gli si avvicinava vacillando. Il suo alito sapeva di alcool, ma non era sgradevole e, mescolandosi al profumo, diventava quasi eccitante. « Guarda », insistè, sollevando la borsettina da sera in argento. « Sono una ragazza organizzata. » Ed estrasse dalla borsa una fraschetta d'argento e smalto. « Ho tutto quello che può fare felice un uomo », concluse, atteggiando le labbra a una smorfia lasciva e provocante. « Avvicinati, che te ne darò un esempio. » La sua voce si era abbassata fino a diventare un giro di valzer, fischiettando qualche battuta del Danubio blu. La stoffa leggera dell'abito volteggiò con lei e si sollevò scoprendole le cosce. Le sue gambe, velate di seta, scintillavano alla luce morbida. Infine si lasciò cadere sulla cuccetta di Mark. La gonna si gonfiò e ricadde molto in alto, tanto da permettere a Mark di notare che la giarrettiera di elastico nero che tratteneva le calze era ricamata con un motivo di farfalle a vivaci colori, che formavano uno strano contrasto con il pallore serico delle cosce. « Vieni, Markie. Vieni a bere un goccetto con me. » Batté con la mano sul materasso accanto a sè e si scostò, dimenandosi, per fargli posto. La gonna si sollevò ulteriormente, scoprendo il triangolo delle mutande. Erano così leggere che sotto di esse Mark intravide i riccioli di oro rossastro intrappolati e appiattiti dalla seta. Mark sentì qualcosa che si spezzava dentro di sé. Cercò di pensare alle conseguenze, si sforzò di non lasciarsi sviare dall'unica strada che rappresentava per lui la sicurezza, ma sapeva che tutto era già stato deciso nell'attimo in cui aveva permesso alla ragazza di restare. « Vieni, Mark. » Teneva la fiaschetta come se fosse un'esca e la muoveva per catturare la luce, riflettendogliela negli occhi. La diga si infranse, travolgendo ogni sua resistenza. Irene se ne accorse; lo guardò con una luce di trionfo negli occhi e lo accolse con un piccolo grido animalesco, gettandogli le braccia al collo e stringendolo con forza notevole. Era piccola e vigorosa, rapida ed esigente, abile come Helena MacDonald... ma diversa, molto diversa.
La pelle era lustra e senza un difetto, e la gioventù dava alla sua carne una dolce freschezza, una compattezza voluttuosa resa ancora più sorprendente dal pallore del suo incarnato. Si lasciò scivolare una spallina lungo il braccio e fece uscire dal corpetto una delle sue mammelle lucenti, offrendola a Mark con un verso gutturale simile alle fusa di un gatto. Mark trattenne il respiro con una sorta di singhiozzo. Il seno era bianco come la porcellana e altrettanto lucente; sembrava quasi troppo grande per il corpo snello della ragazza, ma era duro, sodo ed elastico al tocco. Il minuscolo capezzolo, simile a una pietra preziosa trattenuta dal castone dell'areola, gli parve ancora più delicato allorché lo raffrontò con quello di Helena: scuro, sporgente e circondato da peli neri. « Aspetta, Mark. Aspetta », ansimò con una risatina. Si alzò e lasciò cadere con un unico movimento il boa e il vestito sul pavimento della cabina. Poi si fece scivolare le mutandine fino alle caviglie e se ne liberò con un calcio. Sollevò le mani sopra la testa e girò lentamente su se stessa. « Sì ? » gli domandò. «Sì. Oh, sì.» Il suo corpo era morbido e privo di peli, a parte la nuvola d'oro rossastro che offuscava la montagnola alla base del ventre. Il seno era alto e arrogante. Tornò verso di lui e gli si inginocchiò sopra. « Bravo, il mio tesoro », lo vezzeggiò, e intanto le mani si davano da fare con fibbie e bottoni, insinuandosi curiose e trovando infine ciò che cercavano. A quel punto fu lei a sussaltare. « Oh, Mark, complimenti... Hai fatto tutto da solo! » « No », replicò lui ridendo. « Qualcuno mi ha aiutato! » « E lo farà ancora », gli promise, abbassando su di lui la testa soffice e dorata. La sua bocca rossa e vorace gli ricordò quegli anemoni di mare che la marea, ritirandosi, lasciava scoperti sugli scogli e cui egli, da bambino, si era divertito a porgere il cibo, restando a osservarli mentre si richiudevano su ogni boccone, risucchiandolo in profondità. « Oh, Dio », bisbigliò, al contatto della calda bocca di Irene, più calda e più profonda di quella di qualsivoglia animale marino. Irene Leuchars camminava con le scarpe in mano, e il boa di struzzo appeso all'altro braccio strusciava per terra seguendola come un vero rettile. I capelli scompigliati formavano un soffice alone attorno alla testa, le palpebre erano scurite dalla stanchezza, i contorni della bocca macchiati di rossetto e le labbra gonfie e infiammate. « Dio », esclamò, ridacchiando. « Sono ancora brilla. » Il rollio della nave la faceva traballare. Sollevò una spallina che le era scivolata. Udì un acciottolio di stoviglie alle sue spalle e si voltò sorpresa. Un cameriere in giacca bianca stava spingendo verso di
lei un carrello carico di tazze e di brocche. Non si era resa conto che fosse così tardi: il rito mattutino del tè coi biscotti stava per avere inizio. Irene affrettò il passo e svoltò l'angolo per sottrarsi al sogghigno allusivo del cameriere. Raggiunse la cabina di Storm senza fare altri incontri. Bussò alla porta con il tacco di una scarpa, ma dovette aspettare cinque minuti prima che l'amica si decidesse ad aprirle. Storm, che si era messa la vestaglia sulle spalle, la guardò con i grandi occhi gonfi di sonno. « Sei impazzita? » le domandò. « E' ancora notte! » Poi notò il suo abbigliamento e sentì l'odore forte dell'alito. « Dove diavolo sei stata? » Irene spalancò la porta e quasi inciampò sulla soglia. « Sei ubriaca! » constatò Storm in tono rassegnato, chiudendo la porta. « No », affermò Irene, scuotendo il capo. « L'alcool non c'entra... Sono in estasi. » « Avanti, dove sei stata? » ripete Storm. « Ti credevo già in letto da ore. » « Sono volata sulla luna », le annunciò Irene in tono drammatico. « Sono corsa a piedi nudi tra le stelle, mi sono librata sulle ali di un'aquila al di sopra delle vette. » Storm scoppiò a ridere, svegliandosi del tutto. Anche in camicia da notte era più bella di quanto Irene non sarebbe mai stata. Costei lo notò e provò per lei un rinnovato slancio di odio. Assaporò l'attimo che preludeva al suo trionfo, cercando di prolungarlo il più possibile. « Allora, mi dici dove sei stata, ragazzaccia? » insistè Storm, cominciando a intuire che aria tirava. « Oltre i cancelli del paradiso, nella terra del mai sul continente del sempre... » Il sorriso di Irene si stirò, trasformandosi in un sogghignò velenoso. « Insomma, cara, Mark Anders mi ha dato una sgroppata come si deve! » L'espressione del volto di Storm le procurò la più intensa soddisfazione che avesse mai provato. « Il 3 gennaio l'Associazione Mineraria ha deliberatamente infranto l'accordo stipulato con il vostro sindacato, nel quale si impegnava a mantenere lo status quo. Ha stracciato quel foglio in mille pezzi e li ha sbattuti in faccia ai lavoratori. » La furia gelida e controllata di Fergus MacDonald si insinuò in ogni angolo della grande sala, mettendo a tacere persino i più chiassosi, che si erano sistemati nelle ultime file, portandosi dietro le bottiglie avvolte in sacchetti di carta marrone. Tutti lo ascoltavano intenti. Harry Fisher, seduto accanto a lui sul palco, si voltò lentamente a scrutarlo da sotto le sopracciglia sporgenti; le pieghe da bulldog della sua faccia penzolavano tristi. Una volta di più si stupì della trasformazione che avveniva in quell'uomo quando si alzava a parlare. Non era certo un individuo che si notasse, con quel corpo
scarno deturpato dalla pancetta sporgente, l'abito goffo e modesto, lustro ai gomiti e al sedere, il colletto sfilacciato e rammendato e la cravatta lisa e costellata di macchie. I capelli radi che crescevano in ciuffi ispidi sul collo, si erano ritirati sulla fronte, sparendo del tutto alla sommità del capo, dove avevano lasciato una chiazza rosea. Il volto aveva quella tonalità grigiastra prodotta dall'accumularsi del sudiciume, tipico di chi lavora nelle officine meccaniche. Ma quando Fergus si alzava in piedi sul palco di fronte alla sala gremita, con la bandiera rossa e l'emblema della Confederazione Sindacale dei Minatori alle spalle, sembrava che, per qualche strano fenomeno naturale, fosse realmente cresciuto in altezza. Pareva anche più giovane, e la passione bruciante che lo animava lo spogliava degli abiti frusti per rivestirlo di quella che, in teatro, viene definita « presenza ». « Compagni! » proseguì, alzando la voce. « Quando le miniere si sono riaperte, dopo le feste natalizie, duemila membri di questo sindacato sono stati licenziati, messi su una strada, buttati via come un paio di scarpe rotte... » Nella sala si levò un brusio minaccioso, simile al rumore di un alveare in una calda giornata estiva; l'immobilità di quelle migliaia di corpi premuti l'uno contro l'altro era più terribile di qualsiasi movimento. « Compagni! » ripeté Fergus, agitando le mani in un lento gesto ipnotico. « Compagni! A partire dalla fine di questo mese e per molti mesi a venire altri seicento uomini saranno... » fece un'altra pausa, prima di pronunciare il termine ufficiale « ... rimosso » Gli uomini parvero ondeggiare, come se qualcosa ne avesse investito la massa compatta, finché dal fondo provenne un urlo selvaggio. « No, compagni. No! » Si udì un rombo simile al frangersi delle onde su una scogliera durante una burrasca. Fergus rimase a osservarli mentre rumoreggiavano, e infilò i pollici nel panciotto stazzonato, gongolando di gioia e crogiolandosi nell'euforia del trionfo. Li studiava e, nell'attimo stesso in cui la violenza della loro reazione cominciò a calare, alzò entrambe le mani. Nella sala calò il silenzio. « Compagni! Sapete qual è la paga quotidiana di un negro? Due scellini e due pence! Nessun bianco riuscirebbe a vivere con un salario del genere! » Lasciò loro il tempo di registrare l'informazione e poi proseguì. « Chi prenderà il posto dei nostri duemila compagni che sono rimasti senza lavoro? Chi sostituirà i seicento che andranno a unirsi a loro alla fine di questo mese e per molti altri mesi? Chi rimpiazzerà te? » E puntò un dito minaccioso contro uno degli uomini presenti. « E te, e te? Chi porterà via il pane di bocca ai vostri bambini? » Fece una pausa drammatica, come se si aspettasse una risposta, inclinando la testa e guardandoli con occhi fiammeggianti. « Ve lo dirò io, compagni! Dei carri morti di fame, ecco chi
lo farà! » Tutti si levarono in piedi di scatto, facendo cadere le panche, ruggendo di rabbia e agitando i pugni chiusi in un delirio di furore. « No, compagni! No! » I piedi battevano all'unisono, i pugni si levavano In aria. Fergus MacDonald si sedette di colpo ed Harry Fisher si congratulò con lui in silenzio, stringendogli la spalla con la sua zampa da orso prima di mettersi faticosamente in piedi. « Il comitato esecutivo ha deliberato di proclamare lo sciopero. Vi rilancio la proposta, compagni. Chi è favorevole... » La sua voce fu soffocata da migliaia d'altre. « Sì, compagni! Sciopero! Sciopero! » Fergus si protese in avanti, voltando la testa verso un'estremità del tavolo. Helena era china sul libro dei verbali; si accorse di essere guardata e alzò gli occhi. Dal suo volto irradiava un'espressione estatica e i suoi occhi splendevano di quell'aperta ammirazione che lei gli riservava nei momenti come quello. « Non c'è afrodisiaco migliore del potere », gli aveva detto una volta Harry Fisher « Non c'è donna che sappia resistervi. » Mentre la folla tuonava e migliaia di piedi battevano per terra, Fergus si alzò di nuovo. « I proprietari delle miniere, i padroni, ci hanno sfidato. Si sono presi gioco del comitato esecutivo e hanno affermato pubblicamente che siamo troppo deboli per mobilitare i lavoratori e proclamare lo sciopero! Bene, compagni, gliela faremo vedere » Dalla folla si levò un ruggito. Fergus lasciò passare un minuto e poi ripristinò il silenzio. « Ci occuperemo per prima cosa delle carogne. Non ci saranno crumiri. » Quando il furore si fu acquietato, proseguì: « Jannie Smuts, lo smilzo, ha detto che ci troncherà le mani. Se lui ha un esercito, ne avrema uno anche noi. Forse i padroni si sono dimenticati di averci spedito a combattere le loro fottute guerre in Francia, in Africa orientale, a Tabora e a Delville Wood ». I nomi servirono a placarli e nella sala tornò la calma. « Finora ci siamo battuti per loro, ma questa volta ci batteremo per noi. Ognuno di voi si presenterà al proprio comandante di zona. Verrete organizzati in commando armati. Saprete tutti cosa fare e qual è la posta in gioco. Li sconfiggeremo, compagni. Batteremo i maledetti padroni e i loro schiavi corrotti! Lotteremo e vinceremo! » « Si sono organizzati in commando di tipo militare », disse il Primo Ministro, spezzando il fragrante panino scuro. Le sue dita erano sorprendentemente piccole, ben modellate e sicure come quelle di una donna. « Sappiamo tutti che George Mason intendeva formare dei nuclei armati di lavoratori già nel 1914. E' questa la ragione principale per cui l'ho fatto deportare. » Gli altri ospiti rimasero in silenzio. La deportazione di George Mason era una macchia nera sulla reputazione di Smuts. « Ma
questa è gente diversa. Quasi tutti i membri più giovani dei sindacati sono reduci di guerra. Sabato scorso a Fordsburg, sono sfilati in cinquecento davanti alla Camera del Lavoro. » Si voltò verso la sua ospite rivolgendole quel suo sorriso malizioso e irresistibile. « Mia cara Ruth, ti prego di perdonare le mie cattive maniere. Questa conversazione ci distoglie dal delizioso pranzo che ci hai offerto. » La tavola era stata apparecchiata sotto le querce sul prato di un verde così vivo che Ruth soleva definirlo « prato inglese ». Anche la casa possedeva la struttura solida e imponente delle dimore georgiane, così diversa dalla frivolezza di Emoyeni, ma quell'immagine di vecchia Inghilterra era smentita dalla parete scoscesa di roccia grigia che faceva da sfondo alla scena. I ripidi pendii della Table Mountain erano ammorbiditi dai pini che si abbarbicavano precariamente su ogni cornice e in ogni minima sacca di terra. « Generale, in questa casa lei può fare ciò che vuole », gli rispose Ruth sorridendogli « Grazie, mia cara. » Si rivolse di nuovo ai suoi ascoltatori. L'allegria sparì dal suo volto e gli occhi azzurri assunsero bagliori metallici. « Cercano lo scontro, signori. E' una sfida al nostro potere e alla nostra determinazione. » Ruth riuscì ad attirare lo sguardo di Mark, seduto a un'estremità del tavolo, e il giovane si alzò per riempire i bicchieri di un vino bianco appena sfumato di verde, frizzante, secco e rinfrescante. Mentre procedeva lungo il tavolo, sostando accanto a ogni ospite, continuava ad ascoltare attentamente. Della tavolata facevano parte tre ministri, un baronetto inglese e il segretario dell'Associazione Mineraria. « Possiamo solo sperare che tu stia esagerando », intervenne Sean Courteney in tono aspro. « Personalmente sono convinto che andranno allo scontro a cavallo delle loro biciclette, con dei manici di scopa come armi. » Tutti scoppiarono a ridere, ma Mark si bloccò dietro la sedia di Sean, dimentico della bottiglia che aveva in mano. Gli erano tornate in mente le cantine della Camera del Lavoro di Fordsburg, le rastrelliere di fucili moderni, tra cui il P. 14 riservato a lui e la mitragliatrice Vickers, sinistramente acquattata. Quando si riprese, si avvide che la conversazione era continuata sullo stesso tema. Sean Courteney stava assicurando la compagnia che riteneva assai improbabile un intervento armato da parte dei sindacati e che, nel peggiore dei casi, l'esercito era pronto a una convocazione immediata. Nella nuova casa, Mark possedeva un piccolo ufficio tutto suo accanto allo studio del generale. In precedenza era stato un guardaroba, ma era abbastanza grande per accogliere una scrivania e alcuni scaffali per l'archivio. Il generale aveva fatto aprire una grande finestra perché la stanza ricevesse aria e luce, ed era da quella finestra che Mark stava guardando fuori, con
i piedi appoggiati al piano del tavolo e le caviglie incrociate. La vista spaziava, oltre che su prati e querce, anche su una porzione di Rhodes Avenue, la via intitolata a quel vecchio avventuriero asmatico che aveva arraffato una fortuna in terre e diamanti arrivando a essere Primo Ministro durante il primo Parlamento del Capo, per finire poi soffocato dalla malattia e dalla cattiva coscienza. La casa dei Courteney si chiamava Somerset Lodge, in onore di Lord Charles, che era stato governatore nel secolo precedente. Anche le altre grandi magioni dalla parte opposta di Rhodes Avenue, Newlands House e Hiddingh House, perpetuavano la tradizioni coloniale. Erano lussuose dimore circondate da ampi terreni. Mentre le guardava attraverso la sua nuova finestra, Mark le paragonò alle villette dei minatori di Fordsburg. Erano molti mesi che non pensava a Fergus e a Helena, ma la conversazione avvenuta a tavola glieli aveva riportati alla memoria e ora si sentiva lacerato da disposizioni d'animo contrastanti. Aveva conosciuto sia il mondo dei potenti sia quello dei minatori e sapeva quanto fossero in contrapposizione. Cercava di analizzare la situazione con freddezza, ma un'immagine si insinuava nei suoi pensieri, sempre la stessa: l'aspetto crudele delle armi sistemate in bell'ordine nelle profondità di una cantina e l'odore vischioso del grasso dei fucili che prendeva alla gola. Accese un'altra sigaretta, rimandando la decisione. Attraverso là solida porta di teak che dava sullo studio del generale gli giungeva il suono soffocato delle voci, quella del Primo Ministro, acuta e chiara, quasi cinguettante, e quella fonda di Sean, simile a un rombo lontano. Come accadeva spesso, il Primo Ministro si era fermato dopo che gli altri ospiti avevano preso congedo, ma Mark si augurava che se ne andasse presto, concedendogli dell'altro tempo prima di affrontare il problema che lo assillava. Un amico gli aveva concesso la sua fiducia, un uomo che gli era stato accanto nel momento del pericolo, che gli aveva aperto la sua casa trattandolo come un fratello, che non aveva esitato a metterlo al corrente dei suoi più riposti segreti e a lasciarlo solo con sua moglie. Mark aveva già tradito quella fiducia, almeno in parte. Si agitò inquieto sulla sedia, ricordando i giorni rubati e le notti di perdizione trascorse con Helena. Possibile che dovesse tradirlo del tutto? Ancora una volta la visione delle armi gli passò davanti agli occhi, poi svanì lentamente, ma venne subito sostituita dall'immagine sconvolgente di un volto. Era il viso di un angelo di marmo, liscio, bianco e stranamente bello. con gli occhi azzurri affondati nelle orbite scure e un ciuffo di riccioli chiari che sfuggiva dall'elmetto metallico per ricadergli sulla fronte esangue. Mark appoggiò i piedi per terra con un tonfo, cercando di scacciare dalla memoria il ricordo del giovane cecchino tedesco. Poi si alzò di scatto.
Scoprì che gli tremavano le mani. Schiacciò la sigaretta nel portacenere e si diresse verso la porta. Bussò con energia eccessiva. « Avanti », disse il generale con voce brusca e irritata. Mark entrò. « Che cosa vuoi, Mark? Ti avevo detto che non volevo essere disturbato... » Sean Courteney s'interruppe. Vedendo l'espressione del giovane, il tono della sua voce si fece immediatamente preoccupato. « Che cosa c'è, ragazzo? » « Ho qualcosa da dirle, signore », sbottò. Sean e il Primo Ministro lo ascoltarono con grande attenzione, mentre egli descriveva i suoi rapporti con il comitato esecutivo del Partito Comunista. A un tratto Mark s'interruppe, come per prepararsi al tradimento finale. « Questi uomini sono stati miei amici, signore. Mi hanno trattato come uno di loro. Vorrei che capisse perché ho deciso di parlare. » « Va' avanti, Mark », annuì Sean Courteney. Il Primo Ministro era affondato nella poltrona e se ne stava zitto e quieto, intuendo la lotta che si svolgeva nell'animo del giovane. « Sono convinto che molte delle cose per cui si battono sono buone e giuste, ma non posso approvare i metodi che hanno scelto per conquistarle. » « Cosa intendi dire? » « Stanno preparando una guerra, una guerra di classe, signore. » « Hai le prove di quanto affermi? » domando Sean a bassa voce, misurando le parole. « Si. » Mark respirò a fondo e soggiunse: « Ho visto i fucili e le mitragliatrici che si sono procurati ». « Continua », lo invitò Sean con un cenno del capo. Mark raccontò tutto, senza tralasciare alcun particolare, riferendo esattamente ciò che aveva visto e dove l'aveva visto, calcolando con grande accuratezza il numero delle armi, tipo per tipo. « MacDonald mi ha detto che quello non era l'unico arsenale, che ce n'erano altri distribuiti in tutto il Witwatersrand. » Nessuno parlò per qualche istante. Poi il Primo Ministro si alzò e andò al telefono posto sulla scrivania di Sean. Girò la manovella e il rumore echeggiò invadendo la stanza silenziosa. « Sono il generale Smuts, il Primo Ministro. Voglio essere messo subito in comunicazione con il commissario Truter, il capo della polizia di Johannesburg », disse. Poi rimase in ascolto con il volto aggrottato e gli occhi fiammeggianti di rabbia. « Mi passi il direttore del centralino », sbottò, poi si voltò verso Sean, senza abbassare il ricevitore. « E' caduta la linea. C'è stata un'alluvione. La linea è interrotta. Non sanno quando potranno ripristinarla. Rivolse di nuovo la sua attenzione al telefono e conversò tranquillamente per qualche minuto prima di riappendere il ricevitore. « Cercheranno di darmi la linea al più presto. » Tornò a sedersi. « Hai agito per il meglio, giovanotto », disse rivolto a Mark.
« Lo spero », replicò questi, ma le ombre che aveva negli occhi e la nota di infelicità nella voce tradivano i suoi dubbi. « Sono orgoglioso di te », intervenne il generale. « Ancora una volta hai fatto il tuo dovere. » « E ora, signori, vi prego di scusarmi. » E con queste parole, Mark si diresse verso il proprio ufficio. I due uomini rimasero a fissare la porta oltre la quale era scomparso. Infine il Primo Ministro si decise a parlare. « Un giovane notevole », riflettè ad alta voce. « Onesto, leale e dotato di un forte senso di umanità. » « Sì, possiede qualità che potrebbero portarlo molto in alto e per le quali un giorno forse gli saremo grati », convenne Sean. « L'ho notato fin dal nostro primo incontro e ho fatto di tutto perché venisse a lavorare con me. » « Avremo bisogno di lui e di altri come lui negli anni a venire, amico mio », dichiarò Jannie Smuts. Poi, cambiando argomento, soggiunse: « Truter spiccherà immediatamente un mandato di perquisizione e con l'aiuto di Dio schiacceremo la testa del serpente prima che abbia la possibilità di mordere. Il nome di MacDonald non mi è nuovo; quanto a Fisher, sono anni che lo teniamo d'occhio ». Mark aveva camminato per ore, sottraendosi all'angustia dell'ufficio. Spinto dalla cattiva coscienza e dai propri timori si era inoltrato sotto le querce e, percorrendo una serie di strette viuzze, aveva oltrepassato il piccolo ponte di pietra sul Liesbeeck, torturato dal rimorso di aver denunciato l'antico compagno d'armi. A un tratto gli venne in mente che i traditori venivano condannati all'impiccagione. Pensò a Fergus MacDonald in piedi sulla botola, mentre il boia gli legava i polsi e le caviglie. Fu percorso da un brivido e si fermò, le mani affondate nelle tasche e le spalle curve. Poi alzò gli occhi e si accorse che era arrivato all'ufficio postale. In seguito pensò che forse aveva inteso recarvisi fin dall'inizio, ma in quel momento gli parve un segno del destino. Non ebbe un attimo d'esitazione; entrò nell'ufficio e si avvicinò al tavolo, dov'era appoggiata una pila di moduli. Il pennino difettoso si impuntò, spruzzando all'intorno l'inchiostro acquoso e macchiandogli le dita. MACDONALD 55 LOVERS WALK FORDSBURG. SANNO COSA TIENI IN CANTINA. SBARAZZATENE SUBITO. Tralasciò di firmarlo. L'impiegato dell'ufficio postale lo assicurò che, con un supplemento di sette pence, il telegramma avrebbe avuto la priorità sugli altri, appena la linea fosse stata ripristinata. Mark riprese a vagare per le strade. La crisi di coscienza gli aveva lasciato addosso uno strano senso di malessere. Era come svuotato, torturato dai dubbi e non si illudeva sull'efficacia del telegramma. Sarebbe stato molto difficile che Fergus
MacDonald si lasciasse convincere a buttare il suo arsenale nel pozzo di qualche miniera abbandonata prima che la rivoluzione scatenasse il suo carico di morte in tutto il Paese. Era quasi buio quando Fergus MacDonald, lasciata la bicicletta sotto la tettoia, si fermò nel giardinetto dietro casa per togliersi le mollette che trattenevano i calzoni alla caviglia. Si avviò verso la cucina. Nella stanza ristagnava odore di cavolo e il vapore che usciva dalla pentola gli fece sbattere gli occhi. Helena era seduta al tavolo e, sentendolo entrare, non alzò quasi gli occhi. Dalle labbra le penzolava una sigaretta accesa con un lungo tratto di cenere all'estremità. Indossava ancora la stessa vestaglia con cui l'aveva lasciata al mattino ed era evidente che non si era nemmeno lavata. I capelli lunghi le pendevano come serpentelli viscidi sulle guance. Si era appesantita nel corso degli ultimi mesi, tanto che la linea del mento era ricoperta da un cuscinetto di grasso. Anche i peli sul labbro superiore erano più scuri e più folti e il seno abbondante e flaccido le sfuggiva dalla vestaglia sbottonata. « Ciao, tesoro », disse Fergus, togliendosi la giacca e butandola sullo schienale di una sedia. Lei voltò la pagina dell'opuscolo che stava leggendo, strizzando gli occhi per proteggerli dalle volute di fumo che si levavano dalla sigaretta. Fergus tolse il tappo a una bottiglia di birra scura, da cui il gas uscì sibilando. « Novità? » le chiese. « C'è qualcosa per te », gli rispose, indicando la credenza. La cenere le cadde sulla vestaglia, tempestandola di piccole scaglie grigie. Fergus si avvicinò al mobile con la bottiglia in mano e sfiorò la busta scura. « Sarà una delle tue belle », osservò Helena, ridacchiando per l'assurdità della battuta. Fergus si accigliò e aprì la busta. Dapprima fissò il telegramma senza capire, poi sbottò in un'imprecazione. « Cristo! » Sbatté la bottiglia sul tavolo di cucina. Nonostante l'ora tarda, alcuni capannelli di persone indugiavano agli angoli delle strade. Gli uomini avevano l'aria sconsolata e annoiata di chi non sa come riempire il tempo; evidentemente anche le esercitazioni di tiro e le riunioni serali avevano cominciato a tediarli. Mentre Fergus MacDonald pedalava furiosamente per le strade quasi buie, l'ansia e la paura che aveva provato all'inizio si trasformarono in viva esultanza. I tempi erano maturi per passare all'azione e forse, da un certo punto di vista, era un vantaggio che la situazione fosse precipitata, perché i lunghi giorni di inattività rischiavano di privare gli uomini della loro determinazione. Ciò che fino a qualche istante prima gli era sembrato un disastro, gli apparve ora come un colpo di fortuna insperato. « Che vengano pure »,
pensò. « Troveranno pane per i loro denti. » Frenò accanto a un gruppetto fermo fuori del bar del Grand Hotel di Fordsburg. « Riferite a tutti i comandanti di zona che devono radunarsi subito alla Camera del Lavoro. Si tratta di un'emergenza. Sbrigatevi, mi raccomando. » Gli uomini si avviarono in fretta, prendendo ognuno una direzione diversa e Fergus ricominciò a pedalare su per la salita, fermandosi di tanto in tanto a comunicare il proprio messaggio. Negli uffici della Camera del Lavoro c'erano ancora una dozzina di persone; alcune stavano mangiando dei panini e bevendo tè da un thermos, mentre altre erano intente a dibattere il problema dei sussidi alle famiglie degli scioperanti. Quando Fergus irruppe nella stanza, l'atmosfera, da serena, divenne immediatamente tesa. « Compagni, è giunto il momento che aspettavamo. Gli ZARPS * sono Dronti ad attaccare. » * Sigla corrispondente alla Zuid Afrikaanse Republiek Polisie, usata in senso denigratorio. La polizia si mosse alle prime luci dell'alba, secondo la tattica consueta. L'avanguardia a cavallo scese nell'avvallamento tra Fordsburg e la ferrovia, dove la strada per Johannesburg si snodava tra le casupole e gli spiazzi di terreno incolto, ricoperti da erbacce e da cumuli di rifiuti. Nell'avvallamento stagnava una nebbia bassa e spessa, e i nove poliziotti vi si immersero come nelle acque pigre di un guado. I finimenti e le bardature erano stati avvolti in stracci in modo da smorzarne il rumore, cosicché gli uomini penetrarono nei lenti vortici di nebbia in un silenzio stregato. L'unico elemento di identificazione era la sagoma scura degli elmetti, perché la luce non era ancora abbastanza forte da rivelare i distintivi o i bottoni bruniti delle divise. A cinquanta metri di distanza seguivano i due pesanti carri a quattro ruote muniti di sbarre alle finestre, che venivano abitualmente adibiti al trasporto dei prigionieri. Accanto a ciascun carro c'erano dieci agenti con il fucile a spallarm, i quali trotterellavano a passo rapido per non farsi distanziare. Arrivati all'avvallamento, la nebbia li inghiottì fino all'altezza del petto, lasciando scoperto solo il busto, che continuò ad avanzare sulla superficie biancastra come se fosse stato reciso dal resto del corpo. Anche il rumore degli stivali era attutito, tanto da farli sembrare degli strani animali marini. Le vedette di Fergus MacDonald li avevano individuati prima che raggiungessero l'incrocio ferroviario, seguendoli per circa cinque chilometri, prima di oltrepassarli e precipitarsi non visti alla casetta che Fergus aveva adibito a quartier generale. « Benissimo », sbottò questi, quando un'altra delle figure scure sbucò al di sotto della siepe che delimitava il giardino sul retro e gli borbottò sottovoce il proprio rapporto attra-
verso la finestra aperta. « Si stanno avvicinando sulla strada principale. Va' ad avvertire gli altri picchetti e di' che tornino qui subito. » L'uomo grugnì in segno d'assenso e sparì di nuovo. Fergus aveva disposto dei gruppi di sorveglianza lungo ogni via d'accesso alla città per poter avvistare gli agenti nel caso in cui fossero arrivati da più parti. Ma, a quanto pareva, si era trattato di una precauzione eccessiva. Evidentemente la polizia, contando sulla sorpresa e sulla superiorità delle forze, non aveva predisposto alcuna manovra diversiva. Fergus fece un rapido calcolo. In effetti i ventinove agenti più i quattro conducenti dei carri sarebbero stati sufficienti a sopraffarli, se il telegramma del loro misterioso alleato non li avesse messi sull'avviso. Fergus entrò nel soggiorno la cui finestra dava sulla facciata. Tutte le famiglie che abitavano nella strada erano state allontanate prima di mezzanotte. Se n'erano andate insieme, con i mocciosi piagnucolanti appollaiati sulle spalle dei padri e le donne, pallide e spaventate che trasportavano in un fagotto i loro miseri beni. Ora le casette buie sembravano deserte e l'unico suono che si udiva era l'ululato lamentoso di un cane, poco distante. E tuttavia in ciascuna delle piccole abitazioni c'erano uomini che attendevano in silenzio, appostati alle finestre. Fergus sussurrò qualche parola a uno di loro, facendo un cenno in direzione dell'avvallamento coperto dalla nebbia, poi sputò e infilò una serie di proiettili nella culatta del LeeEnfield appoggiato al davanzale. Il caricatore mandò un rumore metallico che accese una scintilla nella memoria di Fergus e gli fece rizzare i capelli sulla nuca. Era tutto fin troppo familiare: il silenzio, la nebbia e la notte carica di presentimenti di violenza. « Aspettate il mio ordine », avvertì Fergus sottovoce. « Lasciamo che si avvicinino ben bene prima di sistemarli come si meritano. » La pattuglia a cavallo era ormai ben visibile; distava ancora quasi un chilometro, ma si stava avvicinando rapidamente. La luce non era ancora sufficiente per sparare, ma il cielo, al di là delle montagnole scure create dagli scarti della miniera, aveva già assunto la particolare tinta azzurrina, simile a quella delle uova di gabbiano, che preannunciava l'inizio di un nuovo giorno. Fergus si voltò a guardare la strada. La nebbia costituiva un altro punto a loro favore. Era giunta inattesa - era vero, però, la fortuna bussa alla porta quando uno menò se l'aspetta - e sarebbe durata finché i primi raggi del sole non l'avessero dispersa. Un'altra mezz'ora, quindi. « Sapete tutti cosa fare », disse Fergus, alzando la voce. Gli uomini lo guardarono, distogliendosi per un attimo dalle armi e dal nemico in arrivo. Erano tutti reduci. Brava gente coraggiosa, li avrebbero de-
finiti i generali fiduciosi che li avevano avuti sotto di loro in Francia. In fondo era piuttosto ironico il fatto che uomini addestrati a combattere a fianco dei padroni si accingessero a distruggere il sistema che quegli stessi padroni avevano insegnato loro a difendere. « Rifaremo tutto daccapo », pensò Fergus, sentendo il sangue fluirgli più rapido per l'esultanza. « Distruggeremo i padroni con le loro stesse armi, li soffocheremo con le loro ricchezze... » Tornò al presente, calandosi sugli occhi il berretto e alzando il bavero della giacca. « Buona fortuna a tutti, compagni », disse a bassa voce, sgusciando fuori della porta. « Quel vecchio matto ha un bel fegato », riconobbe uno degli uomini di guardia alle finestre. « Hai ragione, non ha paura di niente », convenne un altro. Lo osservarono tuffarsi sotto una siepe, poi attraversare di corsa la strada e sparire nel fosso che la fiancheggiava. Nascosti oltre il bordo c'erano una dozzina di uomini, uno dei quali gli porse un piccone. « L'hai fissato bene quel filo? » gli domandò Fergus. L'uomo emise un brontolio. « E' più teso della corda di un violino », gli rispose con un ghigno furbesco. I suoi denti mandarono uno strano bagliore alla luce fredda del mattino. « Ho controllato io stesso i picchetti... resisterebbero alla carica di un elefante. » « Bene, compagni. State pronti al mio cenno. » Si alzò in modo da poter vedere al di sopra del basso strato di nebbia. Gli agenti stavano risalendo il pendio; scorse gli elmetti che ballonzolavano, i distintivi d'ottone lustri e le canne scure delle carabine che sporgevano dalla spalla destra. Fergus aveva misurato personalmente le distanze dal punto in cui si trovavano, indicandole con degli stracci legati ai pali del telefono che fiancheggiavano la strada. Quando i poliziotti arrivarono all'altezza del primo segnale, corrispondente a centocinquanta metri, Fergus balzò in mezzo alla strada. Alzando il piccone sopra la testa, gridò: « Alt! Fermi dove siete! » I suoi uomini uscirono dal fosso e presero rapidamente posizione. Erano una squadra perfettamente addestrata; le figure nere e minacciose, coi volti nascosti dai berretti e dal bavero rialzato della giacca si erano affiancate a spalla a spalla e ostruivano completamente la strada, ognuna con il suo piccone all'altezza dei fianchi. L'ufficiale che cavalcava al centro dello squadrone alzò la mano per far fermare gli agenti, i quali si raggrupparono colti da stupore, mentre il loro superiore si alzava sulle staffe. « Chi siete? » « Il consiglio degli scioperanti », gridò Fergus di rimando. « Non c'è posto per le carogne da queste parti. » « Siamo qui per ordine del commissario capo e siamo muniti di un mandato emesso dalla Corte Suprema. » L'ufficiale era
un uomo pesante che se ne stava ritto sulla sella con un paio di baffoni impomatati le cui punte si estendevano ai lati della faccia. « Ci volete fregare! » strillò Fergus. « Non vi lasceremo proseguire. » « Fatevi da parte! » minacciò l'ufficiale. Alla luce più forte Fergus notò che aveva le mostrine di capitano, il volto arrossato dal sole e dalla birra, e le sopracciglia folte e scure che sporgevano da sotto il bordo dell'elmetto. State ostacolando la polizia nell'esercizio delle sue funzioni. Mi costringerete a caricare. » « Andate all'inferno, fantocci dell'imperialismo, cani da guardia del capitalismo » « Truppa, allinearsi », gridò il capitano, e i soldati si allargarono in modo da permettere a quelli che stavano in seconda fila di avanzare. Si disposero su un'unica linea, così vicini l'uno all'altro che le ginocchia si toccavano. « Carogne! » strillò Fergus. « Le vostre mani si macchieranno del sangue di lavoratori innocenti! » « Sfollagenti! » gridò il capitano imperterrito, e i poliziotti estrassero i lunghi bastoni di quercia dal fodero, impugnandoli con la mano destra come sciabole. « Quest'atrocità passerà alla storia », urlò Fergus. « Il sangue dell'agnello... » « Al passo! Avanti! » La linea dei cavalieri vestiti di scuro avanzò fendendo la nebbia, che si mosse in piccoli vortici attorno agli stivali. « Galoppo! Carica! » cantilenò il capitano. Gli agenti si chinarono in avanti con gli sfollagente tesi lungo il collo del cavallo e si lanciarono all'attacco contro gli uomini che li attendevano a piè fermo mentre gli zoccoli traevano dal terreno un rombo cupo. Il capitano, che precedeva gli altri di una lunghezza, incappò nel filo metallico per primo. Gli uomini di Fergus avevano conficcato i paletti ai bordi della strada, facendoli penetrare a fondo con un martello da cinque chili in modo che sporgessero dal terreno solo per un terzo dell'intera lunghezza, e avevano teso dall'uno all'altro un trefolo di filo spinato, stringendolo forte con le pinze. Il filo segò le gambe al cavallo che caricava. L'osso si ruppe con uno schianto secco, che risuonò nell'atmosfera ovattata dell'alba, e il cavallo, trascinato dalla velocità, si tuffò in avanti cadendo di spalla. Un istante dopo l'ondata di cavalieri che lo seguiva si abbatté sul filo e venne falciata quasi per intero; solo tre, infatti, riuscirono a evitarlo. I lamenti dei poliziotti e i nitriti dei cavalli si mescolarono alle urla di esultanza degli uomini di Fergus, che si precipitarono verso i caduti, agitando i picconi. Uno degli animali si era rialzato, ormai privo di cavaliere. Le staffe gli battevano contro i fianchi, ma era fermo sulle zampe di dietro e agitava penosamente per aria quelle anterio-
ri, spezzate. I suoi acuti lamenti echeggiavano al di sopra dei gemiti degli uomini. Fergus estrasse il revolver dalla cintura, girò attorno agli animali impazziti e sollevò in ginocchio il capitano. Aveva colpito il terreno di lato, fratturandosi una spalla, che ora pendeva floscia. Anche il braccio ciondolava contorto e inerte. La carne del volto, dalla parte che aveva battuto per terra, era stata lacerata dai sassi e dalla ghiaia, tanto da lasciare scoperto l'osso. « Alzati, bastardo », ringhiò Fergus, accostandogli la pistola al volto e premendo la canna sulla ferita. « Tirati su, sporco piedipiatti! Ti darò una bella lezione! » I tre agenti che erano riusciti a evitare il filo spinato avevano ripreso il controllo delle loro cavalcature e ora stavano girando in cerchio, chiamando per nome i compagni abbattuti nella speranza di salvarne qualcuno. « Attaccati alla staffa, Heintjie! » « Avanti, Paul. Tirati su! » Cavalli e uomini si agitavano in una mischia selvaggia, da cui si levavano grida disperate. « Fermateli! Non lasciate che quei bastardi se la battano », urlò Fergus a voce così alta da sovrastare lo strepito. I suoi uomini si lanciarono in avanti brandendo i picconi, incuranti degli sfollagente, per dare addosso ai tre poliziotti rimasti in sella, ma non furono abbastanza svelti. Trascinando con sè i commilitoni appesi alle staffe, i cavalieri indietreggiarono e si voltarono per allontanarsi, lasciando sul terreno solo il capitano ferito e un altro corpo inerte, che giaceva tra il filo spinato e gli animali atrocemente mutilati. I poliziotti di scorta, frattanto, avanzavano curvi su due colonne. Fergus li vide e fu preso dalla collera. Cercò di costringere il suo prigioniero ad alzarsi, ma l'uomo non aveva nemmeno la forza di star seduto. I venti agenti appiedati si fermarono a cinquanta metri di distanza. La prima fila si inginocchiò, gli altri restarono in piedi con i fucili in posizione di tiro. Si udi un comando chiaro. « Una salva d'avvertimento. Fuoco! » I fucili crepitarono. La scarica era stata tirata alta di proposito e le pallottole passarono sibilando sopra la testa degli scioperanti, che si dispersero, buttandosi nel fosso. Fergus ebbe un attimo di esitazione, poi puntò la pistola verso l'alto e sparò tre colpi in rapida successione. Era il segnale convenuto: immediatamente una tempesta di proiettili si abbatté sulla strada dall'interno delle casupole silenziose e i lampi provenienti dalle bocche dei fucili nascosti risplendettero come fiori di fuoco nell'alba. La raffica spazzò la strada. Dopo un attimo d'incertezza, Fergus abbassò la pistola. Era una Webley, la rivoltella d'ordinanza degli ufficiali inglesi. Il capitano gli vide negli occhi lo sguardo spietato dell'aquila che piomba sulla preda, e dalle labbra maciullate gli uscì un mormorio implorante. Cercò di alzare le mani per proteggersi il viso.
Il colpo si disperse nell'inferno degli spari provenienti dalle abitazioni e nel fuoco di risposta della polizia che stava ripiegando confusamente nell'avvallamento. Il pesante proiettile si conficcò nella bocca che chiedeva pietà, frantumando i due incisivi superiori, continuò la sua corsa all'interno della gola e uscì dalla nuca in un'esplosione di sangue scarlatto e di frammenti d'osso. L'uomo si abbatté nella polvere, mentre Fergus si voltava di scatto tuffandosi dietro la siepe, ai riparo. L'attacco della polizia fu respinto solo a Fordsburg. Negli altri centri infatti gli scioperanti, ignari, non si erano neanche preoccupati di mettere delle sentinelle. Alla Camera del Lavoro di Fordsburg quasi tutto il comitato organizzatore degli scioperi era riunito in assemblea con i dirigenti degli altri sindacati, che non erano ancora passati all'azione, ma stavano esaminando la possibilità di intraprendere delle iniziative di sostegno. Erano presenti i rappresentanti della Società dei Calderai, del Sindacato Lavoratori Edili, dell'Unione Tipografica e di una mezza dozzina di altre associazioni, oltre agli scioperanti più energici e attivi. C'erano Harry Fisher, Andrews, Ben Caddy e tutti gli altri. La polizia entrò nell'edificio mentre erano intenti a dibattere la strategia da adottare, e il rombo degli stivali che salivano di corsa la scala di legno segnalò il suo arrivo. Harry Fisher era seduto a un capo del tavolo attorno al quale si svolgeva la riunione. Se ne stava curvo, con il solito ciuffo spettinato di capelli crespi che gli ricadeva sulla fronte e i pollici infilati sotto le bretelle. Le maniche arrotolate lasciavano scoperte le braccia villose. Fu l'unico a muoversi. Allungandosi sul tavolo, afferrò il timbro di gomma del comitato esecutivo e se lo ficcò in tasca. Quando i calci dei fucili si abbatterono sulla serratura della sala, balzò in piedi e si lanciò con la spalla contro le persiane, riuscendo ad aprirle. Con un'agilità sorprendente per un uomo della sua mole, scavalcò la finestra sparendo all'esterno. La facciata della Camera del Lavoro era sovraccarica di decorazioni in ferro battuto che gli fornirono un ottimo appiglio. Si arrampicò come un gorilla fino al cornicione del terzo piano, spostandosi poi verso l'angolo dell'edificio. Dal piano di sotto provenivano gli schianti del mobilio rovesciato, le grida intimidatorie degli agenti e le urla inferocite dei dirigenti sindacali. Con la schiena addossata al muro e le braccia aperte per mantenersi in equilibrio, Harry Fisher voltò il capo per sbirciare dietro l'angolo, nella via principale. Pullulava di agenti in uniforme, e altri ancora stavano sopraggiungendo a passo di marcia. Un ufficiale ordinò agli uomini di circondare l'edificio. Harry Fisher si ritrasse rapido e si guardò attorno in cerca di una via di scampo. Sarebbe stato assurdo rientrare da un'altra finestra, perché
tutto l'edificio echeggiava del trepestio degli agenti e delle voci che strillavano ordini. A circa cinque metri sotto di lui, dall'altra parte della via, c'era una tettoia che riparava una bottiglieria e un negozio di articoli vari. Purtroppo la strada era larga tre metri e la tettoia era fatta di lamiera ondulata. Se vi fosse saltato sopra, avrebbe provocato un rumore tale da tirarsi addosso tutti i poliziotti. Eppure non poteva restare lì, perché nel giro di qualche minuto l'intero edificio sarebbe stato circondato. Si spostò lentamente di lato verso il tubo di scolo più vicino e vi si arrampicò. Raggiunse la sporgenza del tetto e si inclinò all'indietro per attaccarsi al bordo della grondaia, poi lasciò andare i piedi e rimase appeso per le braccia. Il vuoto parve risucchiarlo e la grondaia scricchiolò, piegandosi sensibilmente sotto il suo peso. Si tirò su facendo forza sulle braccia, ansimando per lo sforzo, finché riuscì a puntare un gomito sopra la grondaia e a trascinare il resto del corpo oltre il bordo del tetto. Ancora ansante, strisciò lentamente attorno allo spiovente e si protese a sbirciare nella via principale, dove stavano affluendo gli uomini che la polizia aveva sospinto fuori dell'edificio. Cinquanta agenti con in testa l'elmetto e i fucili a spallarm si erano disposti in modo da formare un quadrato, nel cui interno venivano spinti gli scioperanti, alcuni dei quali erano a testa nuda e in maniche di camicia. La folla che si era assembrata sul marciapiede continuava a gonfiarsi. La notizia degli arresti era passata di porta in porta e i curiosi sopraggiungevano da ogni direzione. Harry Fisher contò i prigionieri man mano che venivano condotti all'aperto. Era arrivato a venti, quando l'umore della folla mutò. « Ci siamo, compagni », disse Harry Fisher, rimpiangendo di non essere giù a guidarli. La gente si accostò minacciosamente ai poliziotti e cominciò a chiamare gli uomini che erano stati arrestati, inveendo contro l'ufficiale che, servendosi di un altoparlante, ingiungeva di disperdersi. Gli agenti a cavallo si disposero in un'unica linea e spinsero la folla all'indietro per allontanarla, poi, quando l'ultimo prigioniero uscì dal portone, la scorta si mise in marcia mantenendo la rigida formazione a quadrato entro la quale era racchiuso il mesto gruppetto di sindacalisti. Qualcuno attaccò a cantare Bandiera rossa, ma le voci che seguirono erano esili e prive di entusiasmo. La scorta si avviò verso il forte portando con se non solo i principali organizzatori dello sciopero, ma anche i componenti dell'ala moderata, che fino a quel momento si erano dimostrati contrari alla violenza, all'attività criminale e alla rivolta armata. Harry Fisher rimase a guardarli mentre si allontanavano con una crescente sensazione di trionfo. In un colpo solo si era visto offrire dei martiri e sottrarre tutti coloro che si opponevano al suo estremismo. Senza contare che, nella tasca dei calzo-
ni, aveva il timbro con il simbolo del comitato esecutivo. Con un sogghignò stiracchiato e privo d'allegria si sistemò in un angolo del tetto in attesa che calasse la notte. Mark Anders scese i gradini portando la pesante cartella di coccodrillo del generale e la piazzò sul sedile accanto a quello dell'autista, dandogli contemporaneamente le istruzioni. « Prima a Groote Schuur e poi al City Club per il pranzo. » Si rialzò, indietreggiando di un passo, e attese che il generale uscisse di casa. Questi si fermò sul primo gradino a baciare la moglie come se stesse per partire per un viaggio attorno al mondo. L'avvolse in un ampio abbraccio da orso e, prima di liberarla, le sussurrò qualcosa che suscitò la sua indignazione, tanto che Ruth gli lasciò andare una pacca su una spalla. « Vattene subito », gli disse, piccata, e Sean discese i gradini con aria estremamerite compiaciuta, rivolgendo a Mark un sogghignò di complicità. « Il Primo Ministro farà una dichiarazione in Parlamento, oggi. Voglio vederti subito dopo. » « Benissimo, signore », replicò Mark, restituendogli il sorriso. « Sistemati nella galleria del pubblico. Ti farò un cenno appena avrà finito. Ci incontreremo nell'atrio e poi andremo nel mio ufficio. » Mentre parlava, Mark lo aiutò ad accomodarsi nel sedile posteriore della Rolls. Si muoveva sempre con fatica quando doveva appoggiarsi alla gamba malata, ma non tollerava di essere aiutato. Le sue debolezze lo infastidivano quasi più di quelle degli altri, tanto che, appena fu seduto, si scrollò di dosso la mano di Mark. Questi ignorò il gesto e gli disse con voce pacata: « Gli appunti per la riunione del consiglio sono nel primo fascicolo », e indicò la cartella di coccodrillo appoggiata sul sedile anteriore accanto all'autista. « Pranzerà al Club con sir Herbert. La seduta avrà inizio alle 2,15 e lei dovrà rispondere a tre interrogazioni da parte di membri dell'opposizione. Si è messo in lista persino Hertzog. » Sean ruggì come un vecchio leone abbandonato dal branco. « Quel bastardo! » « Ho allegato le risposte al registro delle mozioni. Mi sono consultato con Erasmus, poi ho aggiunto qualche piccolo tocco personale, per cui sarà meglio che le legga prima di alzarsi... potrebbe anche non approvarle. » « Spero che tu non abbia avuto la mano troppo leggera! » « Naturale », rispose Mark, sorridendogli di nuovo. « Ho sparato a zero. » Mark rimase a guardare la Rolls che discendeva il viale e, arrivata al cancello, svoltava in Rhodes Avenue. Poi tornò in casa. Invece di andare subito in ufficio, Mark si fermò nell'atrio e si guardò attorno con aria colpevole. Ruth Courteney era
sparita negli abissi domestici della cucina e non c'erano servitori in vista. Fece lo scalone a tre gradini per volta, svoltò nel corridoio e lo percorse fino alla porta di teak massiccio posta all'estremità. Entrò senza bussare, chiudendosi piano il battente alle spalle. L'odore di acquaragia era così forte che gli occhi gli lacrimarono per qualche istante, prima di abituarsi. Mark sapeva di non correre rischi. Storm Courteney non emergeva mai prima delle dieci dal suo santuario protetto dalla doppia porta dipinta a cherubini dorati e tortorelle in volo. Dal suo arrivo a Città del Capo aveva preso l'abitudine di rientrare a un'ora così tarda che persino suo padre l'aveva aspramente redarguita. Come probabilmente faceva il generale, anche Mark si era scoperto a restare sveglio la notte in attesa dello scricchiolio prodotto dalle gomme sul ghiaietto, con le orecchie tese a cogliere il suono smorzato delle voci per giudicare la lunghezza e l'intensità di ogni addio, turbato da sentimenti che non riusciva a definire. Il suo rapporto con Storm era peggiorato drasticamente. Il periodo trascorso nel Natal era stato contraddistinto da un'accettazione tranquilla, non priva di un certo calore. Dai sorrisi e dalle parole amichevoli erano passati alle passeggiate a cavallo e alle gite a South Beach, dove avevano nuotato nell'acqua tiepida, sedendosi poi sulla spiaggia a discutere di religione. Storm, seguendo la moda del momento, si era lasciata attrarre dalle teorie spiritualiste che erano in voga in quel momento e lui si era sentito in dovere di dissuaderla. Dopo la fase religiosa, Storm gli aveva annunciato di aver bisogno di un compagno per esercitarsi in un nuovo ballo. E Mark aveva girato la manovella del grammofono, cambiato le puntine e ballato con lei, obbedendo alle sue istruzioni. « Non sei affatto male, sai », gli aveva detto Storm in tono magnanimo, sorridendogli e volteggiando agile e aggraziata tra le sue braccia nella grande sala da ballo di Emoyeni. « Con lei anche uno zoppo sarebbe bravo. » « Ehilà », aveva esclamato, scoppiando a ridere. « Com'è galante, signor Anders! » Poi, da un giorno all'altro, tutto era cambiato. Da quando erano arrivati a Città del Capo, i sorrisi erano spariti e lei non gli aveva più rivolto la parola. Irene Leochars, che si sarebbe dovuta fermare dai Courteney quattro mesi, era rimasta una sola notte, per ripartire subito dopo a bordo del postale. Nessuno l'aveva più nominata e l'ostilità di Storm nei confronti di Mark si era spinta al punto che la ragazza aveva evitato ogni occasione di restare sola con lui nella stessa stanza. Ora che era nello studio di Storm, Mark si sentiva come un ladro, ma non aveva saputo resistere alla tentazione di verificare di persona come procedeva il suo nuovo quadro. La stanza riceveva luce da alcune finestre lunghe fino a terra
che erano state aperte nella parete a nord e che guardavano verso la montagna. Il cavalletto era posto al centro del locale, sul pavimento nudo, e gli unici altri arredi erano uno sgabello, un tavolo da falegname carico di tubetti di colore e una sedia sopra una pedana. Alcune tele già incorniciate di ogni misura e dimensione, in gran parte bianche, erano appoggiate alle pareti. Quando le loro relazioni erano ancora amichevoli, Storm gli aveva persino chiesto di aiutarla a montare le cornici. Era una perfezionista; Mark ripensò con una fitta di rimpianto alla cura minuziosa con cui ella aveva controllato ogni bordo e ogni giuntura. La tela era quasi terminata. Si chiese dove avesse trovato il tempo per fare tanto lavoro negli ultimi giorni e si rese conto di averla giudicata male. Invece di restare a crogiolarsi a letto, come aveva pensato lui, doveva aver trascorso le sue mattinate lavorando. La sua attenzione fu attratta dal quadro. Rimase fermo a guardarlo con le mani in tasca, mentre una sensazione di piacere gli si diffondeva lentamente in tutto il corpo. Rappresentava una radura in una foresta, con il sole che giocava sulla terra e sulle rocce, e due figure, una donna vestita di bianco china a raccogliere i fiori selvatici e un uomo che l'osservava appoggiato al tronco di un albero. Era la cosa migliore che la ragazza avesse mai dipinto e, nonostante fosse piuttosto semplice, il quadro suscitò in lui una emozione così forte che sentì un nodo stringergli la gola. Provò un senso di venerazione nei confronti dell'ingegno che aveva potuto produrre un'opera simile. Si stupì della sua capacità di catturare la realtà, raffinandola, cogliendone l'essenza e facendo di un tema quotidiano un'occasione importante. E' strano come anche un occhio inesperto riesca a individuare il vero talento in ogni campo. Persino chi non ha mai visto tirare di scherma è in grado di riconoscere sin dai primi fendenti un grande spadaccino. E ora Mark, che era digiuno di pittura, si sentiva turbato dalla scoperta della vera bellezza. Udì lo scatto della serratura alle sue spalle e si girò di slancio. Storm aveva già mosso qualche passo all'interno della stanza, quando si accorse della sua presenza. Si immobilizzò, cambiando espressione. Il suo corpo s'irrigidì e il respiro si fece ansante. « Cosa fai qui? » Non seppe cosa risponderle, ma era ancora sotto l'influenza del quadro e così le disse: « Sono sicuro che diventerai una grande pittrice ». Storm fu presa in contropiede dal complimento e dalla sua evidente sincerità. Il suo sguardo si posò sul quadro e, tutt'a un tratto, la sua alterigia l'abbandonò. Improvvisamente non fu altro che una ragazza molto giovane, con indosso un grembiule informe costellato di macchie di colore e le guance rosa per il piacere di essere stata lodata mi-
sto a una punta di timidezza. Era la prima volta che Mark la vedeva così spontanea, così disponibile e vulnerabile. Era come se per un attimo lei gli avesse dischiuso i compartimenti segreti della sua anima, permettendogli di scorgere dove teneva riposti i suoi veri tesori. « Grazie, Mark », gli disse piano, e in quell'istante la ragazzina ricca e viziata, la farfalla luminosa che tutti ammiravano, si trasformò in una creatura piena di sostanza e di calore. La sua ondata d'emozione doveva essere parsa così evidente - Mark era stato sul punto di cedere al desiderio di prenderla tra le braccia e di tenerla stretta - che lei indietreggiò di un passo, improvvisamente incerta e nervosa, come se gli avesse letto nel pensiero. « Non credere di cavartela così », dichiarò nell'antico tono altezzoso, calando di colpo una cortina a protezione dei suoi riposti segreti. « Questo è il mio studio e nemmeno mio padre oserebbe entrarci senza prima aver ottenuto il mio permesso. » Il cambiamento avvenuto in lei era davvero straordinario. Sembrava una grande attrice intenta a interpretare un ruolo consueto. Batté persino il piede per terra: un gesto che Mark trovò insopportabile. « Non succederà più », le assicurò bruscamente, e le passo accanto, avviandosi verso la porta. Era così adirato che tremava. « Mark! » lo richiamò Storm con tono imperioso. Lui si costrinse a voltarsi con uno sforzo; si sentiva il corpo rigido e le labbra tirate dalla rabbia. « Mio padre mi chiede il permesso ogni volta che intende venire qui dentro », gli disse. Poi gli rivolse un sorrisetto tremulo e assolutamente incantevole. « Non potresti fare altrettanto? » Lo colse di sorpresa: la sua collera si era appena destata che già lei l'aveva placata con un sorriso. Sentì le membra che si scioglievano, ma Storm si era già voltata verso il tavolo, cominciando ad armeggiare con i tubetti di colore. Parlò senza alzare gli occhi. « Chiudi la porta quando esci », gli ingiunse con il tono di una principessa che dia ordini a un servo. La collera di Mark riavvampò come per incanto e il giovane, facendo risuonare le assi del pavimento sotto i piedi, si avviò alla porta. Stava per sbatterla con tutta la sua forza, augurandosi che uscisse dai cardini, quando lei lo chiamò di nuovo. « Mark! » Si fermò, senza riuscire a risponderle. « Verrò in Parlamento con te, questo pomeriggio. Partiremo subito dopo pranzo... Voglio sentire il discorso del generale Smuts. Papà dice che è importante. » Mark temeva che, se avesse cercato di risponderle, le labbra gli si sarebbero spaccate, tanto se le sentiva aride e rinsecchite. « Oh, santo cielo », mormorò lei. « L'ho di nuovo dimenticato... Quando ci si rivolge al signor Mark Anders, bisogna sempre chiedere per piacere! »
Incrociò le mani sul petto con aria pudica e chinò la testa con finta contrizione, sgranando gli occhi e rivolgendogli uno sguardo mesto. « Per favore, posso venire in Parlamento con te, oggi? Ti sarei molto riconoscente, credimi. E ora sbatti pure la porta, se vuoi. » « Dovresti fare l'attrice... Sei sprecata come pittrice », le disse Mark chiudendo la porta con studiata lentezza. Lei attese di sentire lo scatto della serratura, poi si lasciò cadere sulla sedia scuotendosi dal ridere e stringendosi le braccia con aria deliziata. Pian piano le risate si esaurirono lasciandole sul volto solo un lieve sorriso. Scelse una tela bianca e la pose sul cavalletto. Servendosi di un carboncino, tratteggiò la sagoma della testa di Mark, che le riuscì d'acchito. « Gli occhi », mormorò. « Sono gli occhi il segreto. » Sorrise di nuovo vedendoli apparire miracolosamente sulla tela, sorpresa di ricordarli così bene. Cominciò a fischiettare sottovoce, completamente assorta nel suo lavoro. La Camera dei Deputati era un alto salone squadrato con una galleria destinata ad accogliere il pubblico e la stampa. Le pareti erano rivestite di pannelli di legno scuro e il baldacchino che sovrastava la sedia del presidente era intagliato nello stesso legno e riccamente decorato. La moquette di un verde tenue faceva risaltare il verde più acceso delle panche dei deputati, presenti in massa. Anche le gallerie straripavano di gente, ma nel salone regnava un silenzio assoluto, una quiete da cattedrale in cui la voce acuta del Primo Ministro echeggiava sonora. La sua figura minuscola ma armoniosa spiccava sotto il palco presidenziale. « L'intera zona del Witwatersrand sta passando lentamente nelle mani dei commando rossi... » Sottolineava le parole con i gesti, e Mark si sporse per vedere meglio. Nel movimento accostò la gamba a quella di Storm e per tutta la durata del discorso sentì la coscia della ragazza, calda contro la sua. « Tre agenti sono rimasti uccisi in un agguato a Fordsburg e altri due hanno riportato gravi ferite durante gli scontri con gli scioperanti. I gruppi di ribelli, muniti di moderne armi da fuoco, si aggirano liberamente per le strade in formazioni paramilitari, commettendo atti di violenza nei confronti sia di passanti innocenti, sia di pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni o di chiunque intralci loro il cammino. Hanno paralizzato i servizi pubblici, dai trasporti all'elettricità alle comunicazioni, attaccando e occupando alcune stazioni di polizia. » Sean Courteney, che se ne stava seduto in un banco di prima fila con una mano sogli occhi, alzò il capo ed esclamò con voce sonora « Vergogna! » L'intonazione era quella tipica del terzo whisky, e Mark non riuscì a trattenersi dal sorridere. Sean doveva aver approfittato del pranzo al Club per tonificarsi in vista della seduta. « Sono d'accordo », convenne Smuts. « Gli scioperanti han-
no raccolto attorno a sé tutta la feccia della comunità, e il loro umore si è fatto cattivo e pericoloso. Dalla legalità dello Sciopero sono passati al terrore e alla violenza criminale. E tuttavia l'aspetto più preoccupante di questa terribile vicenda è che la gestione di questo conflitto, o piuttosto la sua regia, è passata nelle mani degli elementi più accesi, il cui unico obiettivo è quello di rovesciare il sistema di governo attuale per instaurare un regime anarchico di stampo bolscevico. » « Mai! » tuonò Sean, e il suo grido fu ripreso dall'assemblea. « Davanti a questo Parlamento e all'intera nazione si apre la prospettiva del sangue e della violenza in misura superiore a ogni immaginazione. » I deputati lo ascoltavano in silenzio e Smuts proseguì misurando le parole. « L'unico torto che ha avuto il governo è quello di essere stato troppo paziente e tollerante nei confronti dei minatori. Abbiamo concesso loro troppo spazio ed essi ne hanno approfittato per manifestare il loro scontento in modo esagerato e dannoso per la nazione. « E' vero », gridò Sean. Gli altri deputati fecero coro. « A questo punto siamo stati costretti a valutare il prezzo di ogni futura condiscendenza e l'abbiamo trovato inaccettabile. » S'interruppe, chinando il capo per un attimo; poi lo risollevò, guardando l'assemblea con espressione fosca. « Abbiamo quindi deciso di decretare la legge marziale in tutta l'Unione del Sudafrica. » Il silenzio durò ancora per qualche secondo, poi la sala si animò all'improvviso, in un intrecciarsi di commenti, domande e interiezioni. Persino nelle gallerie del pubblico regnava la confusione e i giornalisti premevano alle porte, cercando di superarsi a vicenda nel tentativo di raggiungere per primi un telefono. La legge marziale rappresentava l'ultima risorsa e in precedenza era stata usata solo una volta, durante la ribellione del 1916, quando De Wet aveva organizzato di nuovo i suoi seguaci, scatenandoli contro Botha e Smuts. Dai banchi dell'opposizione si levarono grida di protesta e di rabbia, Hertzog agitava il pugno col pince-nez che mandava bagliori minacciosi, mentre i membri del governo, ritti in piedi, acclamavano la decisione. I ripetuti inviti all'ordine del presidente andarono persi nel clamore. Sean Courteney si voltò verso le gallerie e fece a Mark il segnale convenuto. Questi aiutò Storm ad alzarsi, poi; facendole scudo col proprio corpo per proteggerla dalla ressa, uscì con lei e percorsero il corridoio che portava allo scalone. Il generale li aspettava all'ingresso del pubblico. Aveva il volto scuro e accigliato, e il bacio distratto che depose sulla guancia di Storm tradiva la sua agitazione. Si rivolse subito a Mark. « Brutta faccenda, ragazzo mio », disse, prendendolo per il gomito. « Vieni, andiamo nel mio ufficio. Lì potremo parlare in pace. »
Li guidò verso l'ala riservata ai deputati. Salirono le scale sotto l'occhio severo di una serie di giudici della Corte Suprema che li osservavano dai ritratti appesi alle pareti. Giunti nello studio del generale, Sean Courteney richiuse la porta e, facendo cenno a Storm di accomodarsi su una delle poltrone, si rivolse immediatamente a Mark. « Il reggimento è stato convocato alle dieci di questa mattina. Ho telefonato a Scott a casa sua, rimettendomi a lui. E' un tipo in gamba. Penso che a quest'ora avrà già mobilitato tutti. Si imbarcheranno su un treno speciale questa sera alle undici in pieno assetto da combattimento e partiranno per il Witwatersrand. » « E noi? » domandò Mark. Era tornato soldato e sapeva che il suo posto era con il resto del reggimento. « Li raggiungeremo là. Anche noi partiremo stasera e viaggeremo in convoglio assieme al Primo Ministro. Tu guiderai una delle auto. » Sean si era avvicinato alla scrivania e aveva cominciato a riempire la cartella. « Quanto impiegheremo? » « Sono duemila chilometri, signore », rispose Mark. « Questo lo so, dannazione », sbottò Sean. « Ti ho chiesto quanto ci vorrà. » Non era mai riuscito né a capire né ad apprezzare il motore a combustione interna, e la sua avversione l'aveva indotto a ignorarne il funzionamento e le possibilità, mentre non aveva la minima esitazione quando si trattava di valutare un viaggio a cavallo o col carro. « Non arriveremo prima di domattina. La strada è brutta. » « Maledette automobili », borbottò Sean. « Il treno che trasporta il reggimento arriverà prima di noi. » « La linea ferroviaria è lunga solo seicento chilometri », osservò Mark, lanciandosi in una difesa d'ufficio dell'automobile. Sean gli rispose con un grugnito. « Desidero che tu vada subito a casa. Di' a mia moglie di prepararmi la sacca militare e raduna il tuo equipaggiamento. Partiremo appena sarò tornato anch'io. » Poi si rivolse a Storm. « Va' con Mark, signorina. Avrò da fare qui per un pò ». Mentre preparava il proprio zaino, Mark osservava dentro di sé che i suoi beni si erano moltiplicati da quando aveva cominciato a vivere all'ombra dei Courteney. C'era stato un tempo in cui avrebbe potuto portarsi in tasca tutto ciò che possedeva... Le sue riflessioni vennero interrotte da un colpo alla porta. « Avanti », disse, pensando che si trattasse di un servo. A parte costoro, solo Ruth Courteney si spingeva in quell'ala della casa, una volta la settimana, per la consueta ispezione contro polvere e scarafaggi. « Per favore, prenda la sacca e la porti in macchina », ordinò Mark in zulu, sistemandosi il berretto dell'uniforme nello specchio appeso sopra il lavabo. « Non sarà troppo pesante per me? » gli domandò Storm con voce dolce, servendosi della stessa lingua. Mark si voltò stupefatto.
« Non dovresti venire qui. » « Perché no? Rischio forse di essere violentata? » Aveva richiuso la porta e vi si era addossata, con le mani dietro la schiena; ora lo stava guardando con espressione canzonatoria. « Sarebbe meno rischioso tentare di violentare uno sciame di calabroni. » « Bene, noto che hai fatto progressi », gli disse. « Sei diventato villano, volgare e insolente. E pensare che volevo aiutarti a preparare le valigie », soggiunse. « Per molti uomini è un compito al di sopra delle loro forze, ma vedo che tu ce l'hai fatta. Hai bisogno di nient'altro? » « Ora che ci penso, qualcosa ci sarebbe », le rispose Mark in tono serio, ma la particolare sfumatura della sua voce indusse Storm a sorridere e a metterlo in guardia. « Non esageriamo con i progressi. » Si avvicinò al letto e vi si sedette come per sperimentarne l'elasticità. « Santo cielo! Cos'hai messo nel materasso? Non mi stupisco che Irene Leuchars se la sia data a gambe! Poverina, dov'essersi ammaccata la schiena! » Aveva parlato con aria d'innocenza, ma i suoi occhi lo fissarono con tale intensità che Mark arrossì violentemente. A un tratto capì ciò che per tanto tempo gli era sfuggito e, voltandosi verso lo specchio, si chiese come avesse fatto Storm a scoprire quello che era successo tra lui e Irene. Diede un colpetto alla visiera del berretto, tanto per superare l'imbarazzo. « Sei splendido », commentò lei. « Stai andando a dare una lezione a quei poveri scioperanti o hai intenzione di prendertela con le loro mogli? » Prima che potesse reagire alla provocazione, Storm proseguì: « Ti sembrerà strano, ma non ero venuta per litigare. Una volta avevo un vecchio micio cui ero molto affezionata; purtroppo è finito sotto un'auto. Hai una sigaretta? » « Non sapevo che tu fumassi. » Trovava difficile continuare la conversazione. « Lo so, ma ho deciso di imparare. E' una cosa così soave, non ti pare? » Soave era l'aggettivo di moda in quel momento. Mark le accese una sigaretta e lei la tenne tra le dita in atteggiamento da vamp. « Come ti sembro? » « Soave », le rispose lui. Storm sbatté le palpebre e aspirò una boccata. Trattenne il fumo in gola per un attimo e poi comincio a tossire. « Avanti, dammela », le disse Mark, togliendogliela di mano. Se la infilò tra le labbra: aveva il suo sapore. Sentì il corpo che si tendeva per il desiderio misto a una strana tenerezza che non aveva mai provato prima. Storm gli parve improvvisamente giovane e vulnerabile. « Sarà pericoloso? » gli domandò, facendosi seria. « Non credo... In fondo si tratta di una semplice operazione di polizia. » « Ci sono state delle vittime tra i poliziotti », replicò Storm. Poi si alzò e si avvicinò alla finestra. « C'è una vista terribile...
a meno che tu non ami i bidoni della spazzatura. Mi lamenterei, se fossi in te. » Si voltò a guardarlo. « Non ho mai salutato un uomo che va in guerra. Cosa si dice in simili circostanze? » « Non lo so. E' la prima volta anche per me. » « Cosa ti diceva tua madre? » « Non l'ho conosciuta. » « Oh, Mark, mi dispiace. Non sapevo... » La sua voce spense, e lui notò con stupore che aveva gli occhi pieni di lacrime. « Non preoccuparti », si affrettò a rassicurarla. Storm si voltò di nuovo verso la finestra. « In fondo, tendendo un pò il collo si riesce a vedere il Picco del Diavolo » gli disse con voce un pò roca. Passò quasi un minuto prima che si voltasse. « Be', visto che è un'esperienza nuova per entrambi, tanto vale che ci diamo una mano. » « Forse dovresti dirmi: 'Torna presto' » « Già, credo che tu abbia ragione. E poi cosa dovrei fare? » « Potresti provare a baciarmi. » Le parole gli erano sfuggite senza che se ne rendesse conto, e Mark fu il primo a stupirsi della sua stessa audacia. Storm rimase immobile, come paralizzata, poi si mosse con la fissità lenta di una sonnambula, guardandolo con occhi spalancati. Si fermò davanti a lui e sollevò le braccia, alzandosi sulle punte dei piedi. L'aria era piena del suo profumo. Mark si sentì cingere il collo e avvertì con stupore il calore e la morbidezza delle labbra. Il corpo della ragazza parve fondersi col suo, mentre le lunghe dita affusolate gli accarezzavano la nuca. Le passò un braccio attorno alla vita e si sorprese di trovarla così fragile e sottile, ma Storm inarcò la schiena spingendo in avanti il bacino e Mark sentì i suoi muscoli che si tendevano, sodi ed elastici. Quando furono avvinti, la ragazza ebbe un piccolo sussulto e fu scossa da un brivido di voluttà. Rimase così per qualche lungo istante, con i fianchi premuti contro di lui e il seno schiacciato contro la giacca dell'uniforme Mark si chinò su di lei; le sue mani cominciarono a risalire lungo la schiena di Storm e la sua bocca forzò quelle labbra morbide che si dischiusero come i petali carnosi di un'orchidea. Lei ebbe un nuovo brivido, ma in quell'istante il mugolio sommesso si trasformò in un gemito di paura e di protesta e, nonostante i suoi sforzi per trattenerla, la ragazza si liberò con forza e decisione dall'abbraccio. Giunta alla porta, si fermò a guardarlo. Stava ancora tremando e lo fissava con gli occhi grandi e scuri come se lo vedesse per la prima volta. « Ma bene! E Così sarei peggiore di uno sciame di calabroni! » gli disse in tono canzonatorio; ma la sua voce era incerta, spezzata. Poi aprì la porta e cercò di sorridergli, ma riuscì a prodursi
soltanto in un risolino distorto. « Quasi quasi sono tentata di ritrattare quel 'torna presto' », continuò, ancora ansante. Tenendo la porta aperta per farsi coraggio, gli sorrise di nuovo, questa volta con maggior successo. « Non farti investire, vecchio micio », concluse, sparendo nel corridoio. I suoi passi risuonarono lievi e danzanti nel silenzio della grande casa, e Mark, tutt'a un tratto, si sentì le gambe così deboli che fu costretto a sedersi sul letto. Guidava in fretta, con gli occhi fissi sul percorso che si snodava infido tra le montagne, seguendo la via tracciata dai fari cerchiati di ottone della Rolls sovraccarica. Superò Baines Kloof, dove la strada, a sinistra, terminava in un precipizio che piombava dritto fino in fondo alla valle; oltrepassò Worcester, con i suoi vigneti ordinati che spiccavano in linee scure sotto la luna, e infine attaccò l'ascesa finale che, risalendo i monti del fiume Hex, l'avrebbe condotto al vasto scudo compatto all'interno dell'Africa. Quando raggiunsero la cima, videro aprirsi davanti a loro la distesa sconfinata del pianoro arido e privo di alberi, dove le sagome stranamente simmetriche dei kopjes dalla cima piatta si stagliavano contro il freddo cielo stellato. Ora Mark poteva rilassarsi. Si appoggiò allo schienale imbottito e continuò a guidare meccanicamente sulla strada che gli correva incontro pallida e dritta nell'oscurità circostante, finalmente attento ai discorsi dei due uomini seduti dietro. « Quello che non capiscono, caro Sean, è che, se non assumiamo tutti i negri che si offrono di lavorare, anzi, se non cominciamo a reclutarli attivamente, la situazione peggiorerà al punto che non ci saranno più posti di lavoro per nessuno. » Uno sciacallo piccolo e irsuto entrò saltellando nel fascio di luce dei fari con le orecchie dritte e Mark sterzò per evitarlo, attento alla risposta di Sean. « Pensano solo al presente », lo senti dire con voce grave e seria. « Invece noi dobbiamo pianificare con un anticipo di anni e anni, se vogliamo costruire un Paese saldo e unito. Non possiamo più permetterci le lotte intestine che hanno visto i boeri schierati contro gli inglesi, e meno che mai possiamo tollerare un conflitto tra bianchi e negri. Non è più sufficiente che convivano, devono imparare a lavorare assieme. » « Piano, piano, amico mio », lo esortò il Primo Ministro con una risatina. « Non lasciarti trasportare dai sogni. » « Non sono tipo da vivere di illusioni, Jannie. Dovresti saperlo. Se non vogliamo che il Paese venga lacerato dalle discordie, dobbiamo fare in modo che ognuno abbia una sua collocazione, bianco o negro che sia. » Continuarono la loro corsa in quella terra sconfinata di cui la luce di una fattoria isolata comparsa all'improvviso su una cresta buia accentuò la vastità e la solitudine « Coloro che chiedono a gran voce meno ore di lavoro e salari più alti non hanno pensato al prezzo che un giorno dovran-
no pagare in cambio di questo beneficio temporaneo. Un prezzo fatto di sacrifici, fame e infelicità », riprese Sean. « L'unico modo per evitare il disastro è che gli uomini imparino ancora una volta a lavorare insieme e a considerare con più serietà le esigenze di una società ordinata e disciplinata. » « Sean, ti sei mai chiesto quanta gente si guadagni da vivere trovando ed elaborando motivi di conflitto tra i datori di lavoro e i lavoratori, tra la manodopera e il padronato? » Sean annuì, continuando idealmente il discorso di Smuts. « Come se non fossimo legati gli uni agli altri da un vincolo indissolubile! Percorriamo la stessa strada, diretti allo stesso fine e uniti da un destino comune. Se uno inciampa, anche l'altro lo seguirà fino a farsi sanguinare le ginocchia, e la rovina dell'uno sarà la rovina dell'altro. » Pian piano, mentre le stelle percorrevano il loro arco grandioso nella volta celeste, la conversazione si affievoll finché fu sostituita dal silenzio. Lanciando un'occhiata nello specchietto retrovisivo, Mark vide che Sean Courteney si era addormentato e ora riposava con una coperta sulle spalle e la barba appoggiata al petto. Russava emettendo un suono basso e regolare, e Mark si sentì gonfiare il cuore da un sentimento misto di rispetto e devozione, di orgoglio e di affetto. « Forse è questo che proverei, se avessi un padre », pensò. Poi, intimidito dall'intensità di ciò che provava e dalla propria presunzione, tornò a rivolgere tutta la sua attenzione alla strada. Il vento notturno aveva spruzzato l'aria di una polvere sottile e l'alba avanzava in tutto il suo splendore. Dall'orizzonte sconfinato fino al centro della volta celeste era tutto un fremere di colori sgargianti, che divennero sempre più intensi fino a trasformarsi in un incendio, quando il sole finalmente si levò dal confine estremo della terra. « Non faremo sosta né a Bloemfontein né nelle altre grandi città, Mark. Il Primo Ministro vuole mantenere l'incognito », gli disse Sean, sporgendosi in avanti. « Dobbiamo far benzina, generale. » « Fermati lungo la strada », gli consigliò Sean. « E, già che ci sei, cerca di trovare una stazione di servizio dove non ci sia il telefono. » La stazione era costituita da un negozietto di articoli vari con il tetto in lamiera, un pò arretrata rispetto alla strada e affiancata da due eucalipti stenti. Non c'erano altri edifici in vista, e l'immenso veld si stendeva, arido e bruciato dal sole, fino all'arco di orizzonte. I muri del negozietto, pieni di crepe e bisognosi di un'imbiancata, erano coperti da manifesti che reclamizzavano un estratto per brodo e una marca di tè. Le persiane e la porta erano chiuse; la casetta non era ancora stata collegata ai fili del telefono che correvano lungo la strada e un'unica pompa dipinta di rosso stava rigidamente sull'attenti nello spiazzo polveroso davanti alla veranda. Mark tenne schiacciato il clacson della Rolls. Nel frattempo
anche la Cadillac nera del Primo Ministro lasciò la strada e venne a fermarsi dietro di loro. L'autista e i tre membri del seguito smontarono dall'auto e si sgranchirono gli arti irrigiditi. Finalmente il proprietario del negozio si decise a emergere dall'interno. Aveva gli occhi rossi e la barba lunga, e stava terminando di abbottonarsi i pantaloni. L'uomo non parlava inglese e Mark gli si rivolse in afrikaans. « Il pieno per tutte e due le auto, per favore. » Mentre il negoziante faceva andare avanti e indietro la leva e il carburante affluiva alternativamente nei due contenitori di vetro da un gallone situati alla sommità della pompa, sua moglie uscì con un vassoio su cui aveva messo delle tazze di caffè bollente e dei biscotti croccanti e dorati, appena tolti dal forno. Mangiarono e bevvero con soddisfazione e, dopo una ventina di minuti, erano pronti a ripartire. L'uomo, immobile davanti alla casetta, si grattò le guance ispide, seguendo con.gli occhi le due colonne di polvere rossi che si levavano dalla strada, verso nord. La moglie uscì sulla veranda e lui si voltò a guardarla, strizzando gli occhi. « Sai chi era quello? » le domandò. Lei scosse il capo. « Era Jannie l'astuto, scortato dai suoi banditi inglesi. Non hai notato l'uniforme che indossava il giovane? » Sputò nella terra rossa e la saliva formò una pallottola che cominciò a rotalare. « Inglesi! Maledetti inglesi! » Pronunciò la parola con rabbia e, svoltato l'angolo dell'edificio, si diresse verso la stalla. Stava stringendo il sottopancia della vecchia giumenta grigia dal dorso insellato, quando sua moglie lo raggiunse. « Lascia perdere, Hendrick. Non sono affari tuoi. » « Non sono affari miei? » ripete in tono indignato. « Ho fatto la guerra contro gli inglesi, ho combattuto di nuovo nel 1916 a fianco del vecchio De Wet e mio fratello fa lo spaccapietre nella miniera Simmer & Jack. E io adesso dovrei lasciar perdere? Ma se è proprio lì che sono diretti Jannie l'astuto e i suoi boia! » Montò in sella e diede un colpo di tacco alla cavalla, che partì di scatto verso la cresta. Il raccordo ferroviario distava una quindicina di chilometri e nella casa del casellante, che era suo cugino, era stato sistemato un telegrafo. Il sindacato dei ferrovieri aveva indetto uno sciopero di solidarietà con i minatori. All'ora di pranzo il Comitato Esecutivo di Johannesburg sarebbe stato informato dell'imminente arrivo di Jannie l'astuto. Mentre Mark Anders beveva il caffè alla stazione di servizio, Fergus MacDonald, sdraiato a pancia in giù sotto una siepe che delimitava un giardino sfolgorante di canne color cremisi, stava tenendo d'occhio col binocolo la stazione di polizia di Newlands, in fondo al pendio. Le porte e le finestre erano protette da sacchetti di sabbia.
La sera precedente la padrona di casa era seduta sulla veranda con una tazza di caffè in mano e aveva assistito all'arrivo di un camion da cui erano sbarcati rinforzi, consistenti in quarantasette agenti, inviati per difendere la stazione. Suo figlio era capoturno alla Simmer & Jack. Chiunque fosse il capo della polizia di Newlands non era un soldato, pensò Fergus, uscendo nel suo ghigno crudele, simile a quello di un lupo. Si era subito accorto dell'angolo morto che, del resto, non sarebbe sfuggito a nessuno dotato di un minimo d'occhio. « Portami le granate », borbottò all'uomo che gli stava accanto e che si allontanò immediatamente, piegato in due. Fergus esplorò con il binocolo la strada fino all'inizio della salita ed emise un grugnito di soddisfazione. Sia i fili del telefono sia quelli dell'elettricità penzolavano tagliati dai pali. La stazione di polizia era isolata. L'uomo che era andato a prendere le granate tornò, trascinando un pesante zaino. Sogghignò, rivelando un foro tra i denti superiori. « Dagli una bella lezione, compagno. » La faccia di Fergus era nera di fuliggine, le ciglia tutte bruciacchiate. Poco prima di mezzanotte avevano incendiato la stazione di polizia di Fordsburg. « A un mio fischio voglio fuoco di copertura. » « Non preoccuparti. Faremo l'inferno. » Fergus aprì lo zaino e ispezionò i globi d'acciaio a cui i quadrati in rilievo garantivano il potere dirompente, quindi si mise la sacca a tracolla e se la sistemò in modo che poggiasse comodamente sul fianco. Al termine dell'operazione, porse il suo Lee-Enfield all'uomo senza un dente. « Trattalo bene », gli disse. « Ne avremo ancora bisogno, oggi. » Si allontanò tenendosi curvo lungo il fosso di scolo che portava a un canale sotterraneo di cemento posto attraverso la strada. Il canale era rivestito al suo interno di tubi di lamiera ondulata. Fergus vi si insinuò con cautela ed emerse dall'altra estremità. Rimase sdraiato nel fosso opposto, appoggiato sul fianco, e alzò appena la testa per sbirciare al di sopra del bordo. La stazione di polizia distava circa centocinquanta metri. La luce blu che sovrastava la porta era spenta e la bandiera inastata pendeva tristemente immobile nell'aria senza vento. Dal punto in cui si trovava all'angolo morto sotto le finestre volte a oriente c'erano circa cinquanta metri, e Fergus notò le canne dei fucili che spuntavano dalle fessure tra i sacchetti di sabbia. Estrasse il fischietto argenteo dalla tasca posteriore, tirandolo per il cordino, e scattò verso l'alto come una scheggia. Tirò un respiro profondo e soffiò nello strumento, che emise uno strillo acuto e prolungato. Un'esplosione di fucileria partì dalle siepi e dai fossi che circondavano la stazione. La lampada blu andò in mille pezzi e dai mattoni dell'edificio si staccarono delle nuvolette di polvere, simili a batuffoli di
cotone tinti di rosso. Fergus sbucò dal fosso e cominciò a correre. Una pallottola colpì il terreno e i frammenti di pietra gli punsero le caviglie; un'altra parve tirarlo per il fondo della giacca come una mano impaziente. Infine si ritrovò nell'angolo morto, fuori della portata dei fucili. Per precauzione continuò a correre piegato in due, finché, raggiunto l'edificio, si appiattì contro la parte di muro compresa tra due finestre, cercando di controllare il ritmo della respirazione. Un fucile sparò dalla finestra alla sua sinistra ed egli scorse la canna che sporgeva dai sacchetti. Aprì lo zainetto ed estrasse una granata. Ne strappò la sicura con i denti, tastandosi contemporaneamente la cintura per estrarre la pistola. Agganciò con un braccio la canna del fucile, scostandola in modo da tenersi fuori tiro e, postosi davanti alla finestra, sbirciò all'interno attraverso la fessura tra i sacchetti. Dall'altra parte, un giovane imberbe lo fissò con occhi sgranati e con la bocca leggermente aperta per la sorpresa. Fergus gli sparò all'attacco del naso, in mezzo agli occhi dall'espressione sbalordita, e la testa del ragazzo scattò all'indietro, scomparendo alla sua vista. Fergus lanciò la granata nella fessura e si chinò. L'esiguità dello spazio amplificò l'esplosione, rendendola ancor più assordante. Balzò in piedi e lanciò un'altra granata nell'edificio. Dalle finestre uscirono frammenti di vetro e nuvole di fumo e dall'interno si udirono provenire le grida degli uomini intrappolati e i lamenti dei feriti. Lanciando una terza granata, Fergus gridò: « Fatene indigestione, maledetti porci ». La bomba esplose, abbattendo un pannello della porta d'entrata, e cumuli gonfi di fumo proruppero dalle finestre. Una voce cominciò a gridare: « Basta! Vi prego, basta! Ci arrendiamo! » « Uscite con le mani alzate, bastardi! » Un sergente si affacciò vacillando alla porta squarciata. Teneva una mano levata sopra la testa, mentre l'altra gli penzolava inerte dalla manica lacera e impregnata di sangue. L'ultima telefonata fatta dalla stazione di polizia di Newlands prima che gli scioperanti tagliassero i cavi era stata un'invocazione d'aiuto. I rinforzi, un convoglio di tre camion provenienti da Johannesburg, non riuscirono a proseguire oltre l'hotel sulla strada principale, dove vennero bloccati dal fuoco di fucileria. Nell'attimo stesso in cui si fermarono, i rivoltosi li raggiunsero alle spalle e incendiarono i camion con bottiglie Molotov. Gli agenti, abbandonati i veicoli, si rifugiarono in una casetta a lato della strada. Era un'ottima postazione difensiva ed essi sembravano intenzionati a tenerla a oltranza. Sulla strada, accanto ai camion che bruciavano, avevano lasciato tre morti e due feriti gravi che invocavano soccorso.
Dal lato opposto della via si vide sventolare una bandiera bianca. Il comandante usò sulla veranda della casetta. « Cosa volete? » gridò. Fergus MacDonald si fece avanti continuando ad agitare la bandiera: la sua figura scarna coperta dall'abito liso e da un berretto di stoffa non aveva niente di marziale. « Non potete lasciare quegli uomini qui fuori », urlò, indicando i corpi che giacevano a terra. Il comandante uscì con venti poliziotti disarmati per portar via morti e feriti, e nel frattempo i rivoltosi agli ordini di Fergus si intrufolarono nella casetta passando dalla parte posteriore. Improvvisamente, Fergus estrasse la pistola da sotto la giacca e premette la canna alla testa del capitano. « Ordina ai tuoi uomini di alzare le mani o ti spappolo il cervello. » Frattanto gli scioperanti avevano disarmato gli agenti all'interno della casa, mentre altri rivoltosi armati si erano uniti a Fergus sulla strada. « Ha alzato bandiera bianca », protestò il comandante in tono amaro. « Questo non è un gioco, sporco piedipiatti », ringhiò Fergus. « Stiamo lottando per un mondo migliore. » Il comandante aprì la bocca con l'intenzione di continuare nelle sue proteste e Fergus, con un ampio gesto del braccio, lo colpì sul viso con il calcio della pistola, facendogli saltare gli incisivi e spaccandogli il labbro superiore. L'uomo cadde in ginocchio e Fergus si allontanò con i suoi seguaci. « Dobbiamo impadronirci di Brixton, poi passeremo a Johannesburg. Prima di sera, la bandiera rossa sventolerà su ogni edificio pubblico della città. Avanti, compagni, ormai non ci ferma più nessuno. » Quella stessa mattina gli Scozzesi del Transvaal sbarcarono dal treno alla stazione di Dunswart per riconquistare la città mineraria di Benoni che era in mano ai commando del Comitato Esecutivo, ma i soldati trovarono ad aspettarli i rivoltosi. L'avanguardia, attaccata di fianco e alle spalle dal fuoco incrociato proveniente da centinaia di postazioni, si difese strenuamente per tutta la giornata nel tentativo di togliersi d'impaccio, ma solo nel pomeriggio i soldati riuscirono a ritirarsi, inseguiti da qualche colpo isolato, per risalire sul treno. Il bilancio della giornata era stato di tre morti tra gli ufficiali e di nove nella truppa. Altri trenta uomini avevano ricevuto delle ferite: alcuni sarebbero periti in seguito. Gli scioperanti si scatenarono da un capo all'altro del Witwatersrand e il Comitato Esecutivo si trovò a controllare quel grande complesso di città e di concessioni minerarie che seguiva il corso della gigantesca vena aurifera che si snoda nelle viscere dello spoglio veld africano per oltre cento chilometri, da Krugersdorp a Ventersdorp, con Johannesburg al centro. Era la formazione aurifera più ricca che l'uomo avesse mai
scoperto, un tesoro risplendente su cui un'intera nazione aveva basato la sua prosperità, e gli scioperanti l'avevano invasa con le loro bandiere rosse, scacciando l'ordine e la legge. Gli ufficiali di polizia esitavano a dare l'ordine di aprire il fuoco, così come i loro sottoposti a eseguirlo, perché coloro contro i quali sparavano erano amici, concittadini, fratelli. Nelle cantine della Camera del Lavoro di Fordsburg era in corso un processo. I membri del sindacato stavano giudicando un traditore. Harry Fisher aveva rivestito la sua mole imponente con una giubba in stile militare munita di tasche abbottonate, su cui portava una bandoliera completa di munizioni. Al braccio destro aveva una fascia di tessuto rosso e i capelli spettinati gli ricadevano sugli occhi dallo sguardo acceso. Era seduto davanti a una cassa che fungeva da tavolo e accanto a lui c'era Helena MacDonald. Si era tagliata i capelli corti come quelli di un uomo, aveva i calzoni ficcati negli stivali e sulla giacca portava la stessa fascia rossa di Harry. Il suo viso era pallido e tirato, e gli occhi erano così infossati nelle orbite scure da essere quasi invisibili, ma il corpo vibrava della frenesia nervosa di un cane che fiuti l'odore della lepre. L'imputato era un negoziante della città che guardava i suoi giudici sbattendo gli occhi chiari e acquosi dietro le lenti cerchiate di metallo. « Ha chiesto di parlare con la sede centrale della polizia in Marshall Square. » « Aspettate un attimo », interruppe Helena rivolgendosi a una donna che era lì presente. « Tu sei impiegata ai telefoni, è esatto? » « Sì, sono a capo del centralino. » I capelli grigi dai riflessi metallici, il vestito ordinato e l'aria severa della donna la facevano sembrare un'insegnante. « Va' avanti. » « Ho pensato che fosse meglio ascoltare la telefonata, tanto per vedere cosa aveva in mente. » Il negoziante si stava fregando nervosamente le mani pallide e ossute e si mordicchiava il labbro inferiore. Dimostrava almeno sessant'anni. Un ciuffetto di capelli argentei si levava in modo comico dalla sommità rosea del capo. « Be', quando ha cominciato a raccontare quello che stava succedendo qui, ho interrotto la comunicazione. » « Cosa ha detto di preciso? » le chiese Fisher. « Disse che avevate una mitragliatrice. » « E' vero? » domandò Fisher con espressione bellicosa, spostando lo sguardo sul negoziante, che parve raggrinzirsi sotto suoi occhi di fuoco. « Il mio ragazzo è nella polizia. E' il mio unico figlio », mormorò questi, cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli riempivano gli occhi slavati. « Quest'affermazione equivale a una confessione », commen-
tò Helena in tono freddo. Fisher si voltò a guardarla e annuì. « Portatelo via e fucilatelo », dichiarò. Il camioncino avanzò sobbalzando lungo il sentiero invaso dalle erbacce e si fermò accanto al vecchio pozzo abbandonato che apparteneva alla società Crown Mine. Erano dodici anni che non veniva usato e sia le piattaforme di cemento che servivano da sostegno ai macchinari arrugginiti, sia la bocca del pozzo erano state ricoperte dalla vegetazione. Due uomini trascinarono il negoziante verso la recinzione di filo spinato, in parte divelta, che proteggeva la voragine nera del pozzo. Un tempo questo era stato profondo quasi cinquecento metri, ma ora, dopo che l'acqua l'aveva invaso, arrivava si e no a centocinquanta. Sulla recinzione erano stati posti dei cartelli di pericolo completi di teschio e tibie incrociate. Helena MacDonald rimase sul camioncino, al posto di guida. Accese una sigaretta tenendo gli occhi fissi davanti a sé e aspettando di udire senza emozione apparente lo sparo che avrebbe posto fine alla vita dell'uomo. I minuti passarono, mentre la sigaretta le si consumava tra le dita. Quando finalmente uno degli uomini si avvicinò al finestrino, lei lo assalì con impazienza. « Cosa diavolo state facendo? » « Mi scusi, signora, ma non ci riusciamo. » « Cosa significa? » gli domandò Helena. « Be' », disse l'uomo, abbassando gli occhi. « Sono dieci anni che compro la verdura dal vecchio Cohen. Ogni volta che i bambini vanno in negozio, lui gli regala sempre un bastoncino di zucchero... » Con un'esclamazione seccata, Helena aprì la porta del camioncino e smontò. « Dammi la pistola », disse e, mentre si avviava verso il punto in cui si trovavano l'altro uomo e il negoziante, controllò che l'arma fosse carica e fece ruotare il tamburo. Cohen la sbirciò con i suoi occhi miopi e le rivolse un sorrisetto ingraziante, ma poi vide la sua espressione e la pistola che teneva in mano. L'uomo cadde in ginocchio e, per il terrore, cominciò a orinare a fiotti, inzuppandosi il davanti dei pantaloni informi. Quando Helena parcheggiò il camioncino nella strada retrostante il mercato, si accorse immediatamente dell'eccitazione che regnava nell'aria. Gli uomini che erano di guardia alle finestre protette dai sacchetti di sabbia le gridarono: « Il suo vecchio è tornato, signora. il giù in cantina con il capo! » Fergus alzò gli occhi dalla carta che rappresentava la parte orientale dell'altopiano su cui lui e Harry Fisher erano chini. Helena stentò a riconoscerlo. Era coperto di fuliggine come uno spazzacamino e l'assenza di ciglia gli conferiva un'aria leggermente stupita. Nell'angolo
degli occhi iniettati di sangue si erano formati dei piccoli grumi sudici. « Ciao, tesoro », le disse con un sogghignò stanco. « Cosa fai qui, compagno? » gli chiese Helena. « Non dovresti essere a Brixton? » « Brixton è già nostra », intervenne Harry Fisher. « Fergus ha fatto miracoli, ma ora ci è capitato un colpo di fortuna. » « Di che cosa si tratta? » chiese Helena. « Jannie Smuts sta arrivando da Città del Capo. » « Mi sembra una pessima notizia », lo contraddisse Helena in tono freddo. « Viaggia in macchina ed è privo di scorta », le spiegò Harry. « Ci cadrà tra le braccia come un innamorato », concluse Fergus sogghignando, e allargò le mani in un gesto eloquente. Le maniche della giacca erano costellate di schizzi di sangue rappreso. L'aiutante di campo del Primo Ministro aveva sostituito Mark alla guida della Rolle sul lungo tratto di strada dritta a nord di Bloemfontein. Sul sedile accanto a lui, Mark era riuscito a dormire con la testa reclinata sul petto, insensibile ai sobbalzi dell'auto nei punti in cui la strada era più brutta, cosicché, quando Sean Courteney fece fermare il piccolo convoglio su una collina deserta a una trentina di chilometri dal complesso di città e di miniere che affollavano il Witwatersrand, si svegliò riposato. Era pomeriggio avanzato e il sole che stava calando aveva tinto di una sfumatura violacea le nuvole che stagnavano a nord, frutto degli scarichi di centinaia di ciminiere, appartenenti alle centrali elettriche e alle raffinerie, mescolati al fumo delle locomotive, a quello prodotto dai fuochi accesi nelle case di decine di migliaia di lavoratori e a quello che si levava dagli edifici e dai veicoli in fiamme. Mark arricciò il naso per l'odore acre della città che guastava l'aria secca e pura dell'altopiano. Il gruppetto approfittò della sosta per stirarsi i muscoli irrigiditi e per assolvere ai bisogni fisiologici. Mark notò con ironia che le distinzioni sociali venivano rigidamente osservate anche in questa circostanza: chi godeva del grado di generale o del titolo di Primo Ministro si era sistemato al riparo delle auto, mentre gli altri avevano operato direttamente sulla strada. Mentre erano intenti all'operazione, avevano continuato a discutere. Per ragioni di prudenza, Sean sosteneva la necessità di aggirare i sobborghi di Johannesburg e le zone limitrofe. « E' meglio tagliare attraverso Standerton ed entrare per la strada del Natal. Tutti i quartieri a sud sono in mano ai ribelli. » « Non si aspettano il nostro arrivo, amico mio. Riusciremo a scavalcarli e a raggiungere Marshall Square prima ancora che si rendano conto di quel che è successo », insistè Jannie Smuts. « Non possiamo permetterci di buttar via altre due ore per girare attorno alla città. »
« Sei sempre stato troppo impulsivo, Jannie », brontolò Sean. « Già, in fondo sei stato tu a catturare Città del Capo con centocinquanta uomini, sottraendola a tutto l'esercito inglese. » « Gli ho fatto prendere un bello spavento », ridacchiò il Primo Ministro, abbottonandosi i calzoni mentre sbucava da dietro la Rolls con Sean al seguito. « E' vero », proseguì questi. « Ma quando hai ripetuto lo scherzetto con Lettow von Vorbeck nell'Africa orientale tedesca, lo spavento è toccato a te. Per poco non ti arrostiva il culo. » Mark sobbalzò di fronte alla crudezza del linguaggio di Sean, mentre gli uomini che costituivano la scorta del Primo Ministro vagavano con lo sguardo un pò ovunque, cercando accuratamente di non posarlo sul suo volto fattosi improvvisamente cupo. « Entreremo a Johannesburg per la Booysens Road », dichiarò questi in tono freddo. « Non sarai di nessuna utilità, da morto », borbottò Sean. « Basta, amico mio. Faremo come ho detto. » « D'accordo », convenne Sean in tono lugubre. « Però salirai sulla seconda macchina, mentre la Cadillac ci precederà con il tuo vessillo bene in vista. » Poi si rivolse all'autista del Primo Ministro: « Tieni premuto l'acceleratore, mi raccomando. E non fermarti per nessuna ragione ». « Sì, signore. » « Siete pronti con la musica? » domandò poi, e tutti gli mostrarono la pistola. « Mark », continuò, « tira giù il Mannlicher dal tetto. » Mark prese il contenitore di cuoio dal tetto e montò il fucile da caccia, l'unica arma di una certa efficacia che avevano trovato a Somerset House prima di partire. Lo caricò e lo porse a Sean, poi si infilò in tasca due scatole di munizioni. « Bravo », gli disse Sean, guardandolo attentamente. « Come ti senti? Sei riuscito a dormire un pò ? » « Sto benissimo, signore. » « Prendi il volante. » L'oscurità calò rapida, offuscando le sagome degli eucalipti che spiccavano lungo le creste basse e restringendo il campo visivo. L'unico segno di vita erano le luci ondeggianti dei fuochi accesi dagli indigeni fuori di qualche capanna sulle colline. La strada era deserta e, quando cominciarono a inoltrarsi nell'abitato, videro che anche le case erano immerse nel buio. Tutto era fermo in un'immobilità innaturale e inquietante. « La centrale elettrica principale è stata chiusa. All'inizio i minatori hanno limitato i rifornimenti di carbone a cinquanta tonnellate al giorno per permettere il funzionamento dei servizi essenziali, poi hanno sospeso anche quelli », osservò il Primo Ministro, ma le sue parole caddero nel silenzio. Nell'oscurità incombente, Mark teneva dietro alle lucine rosse del-
la Cadillac. Accese gli abbaglianti e, tutt'a un tratto, si trovarono a percorrere le stradine strette di Booysens, il sobborgo più a sud di Johannesburg. Le casette dei minatori affollavano la strada come presenze vive e minacciose. A sinistra la sagoma scheletrica dell'incastellatura d'acciaio dell'ascensore principale delle miniere Crown si stagliava contro l'ultimo debole baluginio del giorno, mentre le collinette piatte costituite dagli scarti della miniera provocarono in Mark una fitta di nostalgia. Tutt'a un tratto gli tornarono in mente Fergus MacDonald ed Helena, ed egli distolse lo sguardo dalla strada per lanciare una rapida occhiata alla propria sinistra. Oltre l'incastellatura d'acciaio, a non più di due chilometri di distanza, c'era la casa in cui Helena l'aveva guidato alla scoperta della sua virilità. Il ricordo riattizzò il senso di colpa; lo rimosse in fretta e tornò a concentrare la propria attenzione sulla strada, nell'altimo stesso in cui dalle finestre buie alla sua destra partivano i primi colpi di fucile. La sua mente si mise in moto all'istante, giudicando l'angolo e il campo di tiro del nemico e notando che coincideva con la curva, punto in cui le auto dovevano rallentare. « Ottima scelta », pensò spassionatamente e con una doppietta spostò la leva del cambio per inserire la marcia inferiore in modo da aumentare i giri del motore in vista della curva. « Abbassatevi! » gridò ai suoi illustri passeggeri La Cadillac che gli stava davanti sterzò bruscamente, poi si riprese e affrontò la curva a tutta velocità. « Devono essere sei o sette fucili », valutò Mark e nello stesso istante notò l'alta siepe e il marciapiede sotto le finestre delle casette. Disse a se stesso che li avrebbe colti di sorpresa e, sfruttando la potenza della Rolls, sterzò, salendo sul marciapiede e portandosi sotto la siepe. Le foglie strisciarono con un lieve fruscio contro il fianco dell'automobile mentre, alle sue spalle, Sean Courteney rispondeva al fuoco sparando con la pistola d'ordinanza. Mark frenò e abbordò la curva, quindi lasciò il marciapiede e fece sbandare l'auto attraverso la strada per confondere ulteriormente i tiratori nascosti. Pigiò a fondo l'acceleratore e, conclusa la curva, sfrecciò nella zona commerciale di Booysens, lasciando i suoi nemici stupefatti a fissare la via deserta, mentre il rombo della Rolls-Royce svaniva in lontananza. Ancora pochi chilometri e sarebbero stati fuori della zona di pericolo, poi, superata la cresta, sarebbero entrati a Johannesburg. Davanti a lui la Cadillac stava attraversando una zona di negozi, magazzini e piccole fabbriche, e i suoi fari illuminavano gli edifici che affiancavano la strada, scavando una galleria di luce lungo il percorso che portava alla salvezza. Nel sedile posteriore della Rolls i due generali, incuranti del consiglio di Mark, se ne stavano seduti eretti a discutere della
situazione con atteggiamento obiettivo e toni freddi e misurati. « Che prontezza di riflessi! » osservò Smuts. « La manovra li ha colti di sorpresa. » « E' un ragazzo in gamba », convenne Sean. « Ma è inutile che tu ti dia da fare con la pistola. » « Serve a tenermi impegnato », gli spiegò Sean, ricaricando il tamburo. « Avresti dovuto combattere un pò al mio fianco, amico mio. Ti avrei insegnato a risparmiare le munizioni », commentò Smuts, vendicandosi delle frecciate che in precedenza gli aveva lanciato l'altro. I fasci di luce provenienti dai fari della Cadillac si inclinarono leggermente verso l'alto, mentre affrontava la prima lieve salita, oltre l'avvallamento. Improvvisamente davanti a loro si parò una barricata. Era un'accozzaglia di oggetti: barili, travi, letti di ferro, sacchetti di sabbia, mobili; c'era di tutto. Sean imprecò con rabbia. « Posso fare marcia indietro », urlò Mark, « ma rischiamo di farci colpire e, se torniamo, dovremo passare di nuovo dal punto dell'imboscata. » « Segui la Cadillac », gli disse Sean. La pesante automobile nera si era lanciata senza esitazioni verso la barricata, dopo aver individuato il punto in cui appariva più fragile. « Cercherà di aprire un varco! Stalle dietro! » La Cadillac cozzò contro la barricata, e sedie e tavoli volarono nell'aria. Lo schianto superò il mugghiare del vento e il rombo del motore, ma un istante dopo l'auto, superato l'ostacolo, già risaliva il pendio. Però stava perdendo velocità e una nuvola bianca si levava dal radiatore squarciato. Mark si diresse verso il varco aperto nella barricata, sobbalzando sull'ammasso di legna, e accelerò su per la salita guadagnando rapidamente terreno rispetto al veicolo che li precedeva. L'urto doveva aver danneggiato in modo serio la Cadillac, che stava rallentando visibilmente. « Devo fermarmi è farli salire? » domandò Mark. « No », rispose Seap. « Dobbiamo portare in salvo il Primo Ministro. » « Sì », controbatté Smuts. « Non possiamo lasciarli qui. » « Accidenti, cercate di mettervi d'accordo! » urlò Mark. Sul sedile posteriore calò un silenzio attonito e incredulo, e Mark cominciò a frenare per prendere a bordo i passeggeri della Cadillac. La mitragliatrice aprì il fuoco dai cespugli che crescevano alla base del più vicino deposito. I proiettili traccianti squarciarono la notte e la loro luce bianca investì la strada con un bagliore accecante. Mark e Sean riconobbero immediatamente il crepitio acuto e lacerante, ed entrambi esclamarono inorri-
diti: « E' una Vickers! » Il vessillo verde e dorato del Primo Ministro che sventolava sul cofano della Cadillac attirò la raffica mortale e, in alcune frazioni di secondo, Mark vide l'auto che cominciava ad andare in pezzi. Il parabrezza e i finestrini esplosero in una nuvola lucente di schegge di vetro, mentre i tre occupanti venivano smembrati come polli intrappolati dalle lame di una trebbiatrice. La Cadillac sbandò e andò a schiantarsi contro la parete di legno di un magazzino, ma i proiettili continuarono a investirla con un flusso continuo, perforando la carrozzeria con innumerevoli buchi neri e tondi, privi di vernice ai bordi, che luccicavano alla luce dei fari della Rolla come dollari d'argento appena coniati. Era questione di un attimo, poi il mitragliere avrebbe spostato l'arma, puntandola su di loro. Mark si guardò attorno in cerca di una via di scampo. Tra il magazzino di legno e l'edificio successivo si apriva una viuzza stretta, ma sufficientemente ampia per permettere il passaggio della Rolls. Mark si allargò in modo da poter svoltare nella stradina, e il mitragliere intuì le sue intenzioni. Spostò trasversalmente la canna dell'arma, ma non fu abbastanza rapido. La raffica colpì il fondo stradale e una sventagliata di sassolini si abbatté contro la parte bassa dell'automobile. Prima che l'uomo potesse correggere la mira, il serbatoio della Cadillac esplose con uno schianto secco, vomitando una fiammata scarlatta che si avvolse su se stessa assieme a una nuvola di fumo nero e denso. Mark approfittò della copertura offertagli dall'esplosione per immettersi nella viuzza. Sentì che lo sterzo opponeva resistenza e si accorse che la parte anteriore dell'auto sobbalzava in modo anormale. A una ventina di metri la via era bloccata da un pesante carretto, carico di travi appena tagliate. Mark frenò di colpo e balzò fuori della macchina. Si avvide che per il momento l'angolo dell'edificio li proteggeva dal tiro della Vickers, ma appena gli scioperanti si fossero resi conto che la preda aveva la strada bloccata avrebbero spostato la mitragliatrice in modo da prenderla d'infilata. A Mark bastò un'occhiata per capire che i proiettili avevano lacerato una delle gomme anteriori. Spalancò la portiera posteriore e strappò il Mannlicher dalle mani di Sean, fermandosi solo un attimo per sbraitare ai due generali: « Cambiate la gomma. Cercherò di tenerli impegnati ». Poi tornò indietro di corsa verso l'imboccatura della stradina. « Dovrò insistere perché la prossima volta che mi dà un ordine mi chieda almeno per piacere », commentò Sean, cercando di buttarla sul ridere, poi si rivolse a Smuts. « Hai mai cambiato una gomma, Jannie? » « Non dire sciocchezze, amico mio. Non sono un geniere e
vorrei ricordarti che sono superiore a te in grado », disse Smuts con un sorriso. Al riflesso dei fari, la sua barba dorata lo faceva assomigliare a un vichingo. « Maledizione! » brontolò Sean. « Saprai almeno girare il cricco! » Mark raggiunse l'angolo del magazzino e vi si accocciò dietro, controllando che l'arma fosse carica prima di sbirciare oltre lo spigolo. La Cadillac bruciava come un'enorme pira e il puzzo che emanava - un misto di gomma bruciata, benzina e carne umana era insopportabile. L'autista era ancora seduto al volante, ma le lingue di fuoco l'avvolsero, annerendogli il capo, e il suo corpo prese a torcersi e a dimenarsi in un macabro balletto. Soffiava un vento che Mark prima non aveva notato; scendeva a raffiche incostanti dalla cresta, sospingendo verso il basso le nuvole nere e puzzolenti, poi cambiava improvvisamente forza e direzione, lasciando che il fumo riprendesse a levarsi ritto nel cielo notturno. La scena era illuminata dal riflesso aranciato delle fiamme, la cui luce incerta ingigantiva le ombre e falsava la prospettiva. Mark capì che l'unica possibilità che aveva di bloccare il mitragliere era quella di attraversare la strada e nascondersi tra i cespugli e le rocce alla base della collina. Doveva superare cinquanta metri di terreno aperto prima di raggiungere il punto da cui avrebbe potuto trarre vantaggio dalla difficoltà di movimento della Vickers. Attese che il vento riprendesse a soffiare in suo favore. Lo vide arrivare; nella sua corsa arruffò gli steli d'erba e fece rotolare un giornale appallottolato lungo la strada, poi catturò il fumo e lo distese come un tappeto sulla via. Mark balzò fuori del suo riparo, ma non aveva percorso che venti passi quando si accorse che il vento lo aveva imbrogliato. Si trattava soltanto di una breve folata che in un attimo sarebbe svanita, lasciando la notte così come l'aveva trovata, immobile e silenziosa, a parte i crepitii e gli schianti della Cadillac in fiamme. Era arrivato a metà strada, quando il fumo si diradò e il peso freddo del terrore che gli gravava sul ventre si riflettè sulle gambe, rallentando la sua corsa e rendendola impacciata come quella di un uomo con le catene ai piedi. Per fortuna il suo orologio interiore che si attivava in momenti come quello prese a scandire i secondi permettendogli di valutare il momento in cui il mitragliere, individuata la sua sagoma in corsa, avrebbe cominciato a spostare la pesante arma per puntarla su di lui. « Ora! » pensò, tuffandosi in avanti, appoggiando le spalle a terra e avvitandosi in una capriola per sfuggire alla raffica che giunse nel momento esatto in cui l'aveva prevista. Si rimise in piedi di slancio, giudicando che doveva avere ancora qualche secondo prima che il mitragliere nascosto lo individuasse di nuovo. Scattò in avanti, sentendo improvvise fit-
te di dolore riaccendersi nelle vecchie ferite sulla schiena; era da un anno che non le avvertiva, ma l'impatto della caduta e una sorta di oscuro presagio le avevano ridestate. L'argine di terra rossa, a lato della strada, gli parve lontanissimo e l'istinto gli disse che la Vickers gli era ormai addosso. Si lanciò in avanti con i piedi, come un giocatore di baseball che salti sulla base, e in quello stesso istante una nuova raffica si abbatté accanto a lui, sollevando una nuvola di polvere dal bordo dell'argine. I proiettili, rimbalzando, produssero uno strillo disumano che si perse nella notte. Mark rimase sdraiato sotto l'argine con il volto nascosto nella piega del braccio, ansimante, finché il dolore alle ferite diminuì e il cuore riprese il suo battito normale. Quando rialzò il capo, il suo sguardo si era fatto freddo e calcolatore. Fergus MacDonald imprecò a bassa voce tenendo entrambe le mani sulle maniglie della Vickers, con gli indici piegati a trattenere la sicura e i pollici appoggiati sul pulsante di tiro. Continuò a spostare la canna trasversalmente avanti e indietro, esplorando il pendio e snocciolando a denti stretti una serie di imprecazioni in una specie di monotona cantilena. L'uomo che stava in ginocchio accanto a lui, pronto ad alimentare la mitragliatrice, gli disse in un rauco sussurro: « Credo che tu l'abbia colpito ». « Col cavolo », sibilò Fergus, e girò l'arma con uno strattone, puntandola verso un'ombra sulla strada. Sparò una breve raffica e poi borbottò: « Bene, andiamocene ». « Dannazione, compagno, ma se li abbiamo presi... » protestò l'altro. « Maledetto imbecille, non l'hai visto? » gli domandò Fergus. « Non ti sei accorto di come ha attraversato la strada? Quel tipo è pericoloso, da' retta a me. » « Hai intenzione di tagliare la corda per colpa di un bastardo? » « Esattamente », rispose Fergus in tono aspro. « Non voglio rischiare di perdere la mitragliatrice. Vale più di cento uomini bene addestrati. » E batté qualche colpetto affettuoso sull'otturatore. « Siamo venuti per far fuori Jannie l'astuto e lui è là che sta arrostendo nella macchina di lusso. E adesso via alla svelta... » Diede inizio alla complessa serie di operazioni necessarie a smontare la Vickers. Prima tolse i proiettili già entrati nella camera di scoppio e poi levò quelli presenti nel blocco d'alimentazione. « Di' ai ragazzi di darci fuoco di copertura », borbottò, estraendo il nastro dalla fessura di caricamento e cominciando a staccare l'arma dal treppiede che la sosteneva. « Su, dammi una mano », disse all'altro in tono brusco. « Quel bastardo ci sta alle costole. Sento già il suo fiato sul collo. » Erano in otto sul pendio. Fergus e altri due uomini si occupavano della mitragliatrice, mentre i restanti cinque si erano sparpagliati per proteggerli.
« Bene, avviamoci. » Fergus trasportava la grossa canna su una spalla e una pesante cassa di munizioni con la mano sinistra, il secondo uomo era curvo sotto i venticinque chili del treppiede metallico, mentre il terzo portava la latta contenente l'acqua per il raffreddamento e la seconda cassa di munizioni. « Ce ne stiamo andando », disse Fergus agli altri cinque. « Tenete gli occhi aperti, c'è un tipo pericoloso appostato qua attorno! » Si alzarono tutti insieme, chini sotto i rispettivi carichi, e si avviarono slittando sulla sabbia della collinetta imbiancata dal cianuro. Lo sparo giunse da sinistra. Fergus non se l'aspettava; era troppo alto per le sue previsioni. Quel bastardo doveva aver messo le ali per essere arrivato lassù. La detonazione aveva uno strano rimbombo; doveva trattarsi di un fucile da caccia, pensò Fergus. Dietro di lui, l'uomo con la latta emise un rantolo strozzato, come se i polmoni gli fossero stati svuotati all'improvviso. Fergus si guardò alle spalle e vide che giaceva a terra in posizione scomposta. « Cristo », esclamò. Quel tipo doveva aver colpito per puro caso, vista la distanza da cui aveva sparato e considerato il fatto che le uniche fonti di luce erano le prime stelle e il bagliore rossastro della Cadillac in fiamme. Il fucile tuonò di nuovo e Fergus udì uno dei suoi uomini gridare e poi dibattersi selvaggiamente tra gli arbusti. Capì di aver giudicato correttamente il suo avversario. Era un pericolo mortale. Cominciarono a correre tutti insieme, gridando e sparando a casaccio, cercando di ripararsi a ridosso della collina, e Fergus, mentre correva, non aveva in mente che un unico pensiero: portare in salvo la sua preziosa Vickers. Il sudore gli aveva impregnato la giacca sulla schiena e gli era colato negli occhi, accecandolo. Quando riuscì a gettarsi in un profondo crepaccio, si accorse che non poteva parlare e rimase seduto con la schiena appoggiata alla parete di terra, tenendo in braccio la mitragliatrice come fosse un bambino. Anche gli altri raggiunsero uno dopo l'altro il crepaccio e vi saltarono dentro tirando un respiro di sollievo. « Quanti erano? » domandò qualcuno, ansimando. « Non lo sa », rispose un altro, ugualmente senza fiato. « Dovevano essere almeno una dozzina. Hanno beccato Alfie. » « Anche Henry. Quanto ai poliziotti, io ne ho visti cinque. » Fergus aveva ripreso fiato a sufficienza per poter parlare. « Era uno, uno soltanto... ma faceva per cento. » « Abbiamo preso Jannie lo smilzo? » « Sì », rispose Fergus in tono cupo. « Era nella prima automobile. Ho visto la bandierina e lui che andava arrosto. Possiamo tornarcene a casa. » Erano quasi le undici quando la Rolls-Royce solitaria venne fermata ai cancelli della sede centrale della polizia, in Marshall
Square, dalle sentinelle sospettose, ma, dopo che i suoi occupanti vennero riconosciuti, una mezza dozzina di alti ufficiali della polizia e dell'esercito si precipitarono dagli scalini per salutarli. Il Primo Ministro si recò direttamente nel grande salotto che era stato trasformato in quartier generale dall'amministrazione militare, chiamata in causa dall'istituzione della legge marziale. Sui volti degli ufficiali lì riuniti si leggeva un senso di sollievo. La situazione era grave, ma Smuts era finalmente arrivato a dirigere l'azione e a mettere ordine in quel caos. Questi ascoltò i loro rapporti in silenzio, tirandosi la barbetta caprina, mentre la sua espressione si faceva sempre più cupa man mano che gli veniva spiegata la situazione. Alla fine del resoconto, continuò a tacere ancora per un pò, esaminando una mappa, poi alzò gli occhi sul generale van Deventer, un vecchio compagno d'armi che aveva combattuto al suo fianco per ben due volte, durante la presa del Capo, nel 1901, e nella guerra contro lo scaltro Lettow von Vorbeck, nell'Africa orientale tedesca. « Jacobus », gli disse, « ti occuperai della zona orientale del Rand. » Van Deventer gli comunicò il proprio assenso con un sussurro; un proiettile inglese gli aveva danneggiato le corde vocali nella campagna del 1901. « A te, Sean, affido la parte occidentale. Per domani a mezzogiorno la cresta di Brixton dovrà essere tornata in mano nostra. » Poi, come avesse un ripensamento, soggiunse: « I tuoi ragazzi sono già arrivati dal Natal? » « Lo spero », rispose Sean Courteney. « Anch'io », ribatté Smuts con un sorrisetto tirato. « Non credo che ti divertiresti molto, se fossi costretto a prendere la cresta da solo. » Il sorriso si spense sul viso. « Signori, voglio che mi presentiate i vostri piani di battaglia domattina presto, superfluo ricordarvi che, come sempre, la parola d'ordine è rapidità. Dobbiamo cauterizzare e risanare la ferita al più presto. » All'inizio della primavera, il sole dell'altopiano possiede una luminosità particolare, conferita dall'azzurro intenso del cielo e dall'aria resa tersa e sottile dall'altezza. Una condizione ideale per i picnic e gli incontri amorosi nella quiete dei giardini, ma quel 14 marzo 1922 a Johannesburg e nelle cittadine satelliti quell'atmosfera da idillio era stata sostituita da un'immobilità minacciosa e sinistra. In due giorni van Deventer aveva ripulito la parte orientale del Rand, sorprendendo gli scioperanti con le sue tattiche da commando, travolgendo ogni resistenza a Benoni e Dunswart, riconquistando Brakpan e la miniera, mentre le colonne inglesi ai suoi ordini, impadronitesi delle miniere Modder e Geduld, si erano ricongiunte con lui a Springs. In due giorni avevano sedato la rivolta, e gli scioperanti, che si erano arresi a migliaia, erano stati avviati alla prigionia e verso un eventuale processo. Ma il cuore della rivolta era a Fordsburg, e la cresta di
Brixton costituiva il passaggio obbligato per arrivarci. Dopo due giorni di aspri combattimenti, Sean Courteney l'aveva finalmente conquistata, ma era stato necessario ricorrere all'artiglieria e alle forze aeree per liberare i kopjes rocciosi, le scuole, i mattonifici, il cimitero, gli edifici pubblici e privati che erano stati trasformati in capisaldi dai rivoltosi. Durante la notte i due eserciti opposti avevano ricuperato i propri morti, seppellendoli nel cimitero di Milner Park accanto ai loro compagni, i soldati con i soldati e i lavoratori con i lavoratori. Ora Sean era pronto a sferrare l'attacco finale. Sotto di lui, i tetti di lamiera di Fordsburg rilucevano nella luce calda e chiara. « Eccolo che arriva », disse Mark Anders, e tutti alzarono i binocoli per cercare il puntino nero nell'immensità del cielo. Il DH.9 arrivò con calma da sud, poi si inclinò lentamente e si rimise quindi in orizzontale preparandosi al volo radente sulle casette acquattate. Mark individuò la testa e le spalle del pilota nella cabina di guida. Lo vide sollevare i pacchi di volantini fino al bordo della cabina, poi tagliare il filo che li tratteneva e spingerli fuori. Catturati dalla scia delle eliche, turbinarono come impazziti, allargandosi e vorticando come uno stormo di colombe bianche. Una folata di vento ne sospinse un gruppo verso la cresta, e Mark, afferratone uno al volo, ne scorse rapidamente il testo, rozzamente stampato su spessa carta ordinaria. LEGGE MARZIALE AVVISO Le donne, i bambini e tutti coloro che sono bendisposti verso il Governo sono invitati a lasciare prima delle undici antimeridiane di oggi quella parte di Fordsburg e le zone limitrofe dove l'autorità del Governo è stata sfidata e dove stanno per essere intraprese delle azioni militari. Nessuna immunità da punizione o arresto è garantita alle persone interessate a questo avviso che abbiano infranto la legge. SEAN COURTENEY CAPO DELLE OPERAZIONI Mark si domandò chi fosse l'autore di quelle frasi così goffe, poi appallottolò il foglio e lo lasciò cadere nell'erba, ai suoi piedi. « E se i rivoltosi non li lasciassero uscire? » domandò a Sean. « Non ti pago per farmi da buona coscienza, giovanotto », borbottò il generale in tono d'ammonimento. Entrambi rimasero in silenzio per un attimo, poi Sean sospirò e, prendendo i sigari dalla tasca che aveva sul petto, ne offrì uno a Mark con un gesto conciliante. « Cosa posso fare, Mark? Dovrei mandare laggiù i miei ragazzi senza l'appoggio dell'artiglieria? » Staccò con un morso la punta del sigaro e la sputò nell'erba. « E' più importante la vita degli scioperanti e delle loro famiglie o quella degli uomini che si fidano di me e mi onorano
della loro lealtà? » « E' molto più facile combattere contro chi si odia », osservò Mark sottovoce. Sean gli lanciò un'occhiata penetrante. « Dove l'hai letto? » gli domandò. Mark scosse il capo. « Almeno i negri non sono rimasti coinvolti », disse per tutta risposta. Si era preoccupato personalmente di mandare oltre le linee dei poliziotti di colore camuffati perché avvertissero i loro compagni di evacuare la zona. « Povera gente », commentò Sean. « Mi domando che cosa pensano di questa improvvisa follia dei bianchi. E' Mark si avvicinò al bordo della spianata, ignorando il pericolo di qualche colpo isolato dalle casette sottostanti, e ispezionò con il binocolo. « Stanno uscendo! » esclamò a un tratto. Sotto di loro, in lontananza, alcune persone cominciarono a uscire alla spicciolata dal sottopassaggio di Vrededorp. Le donne portavano in braccio i neonati e si tiravano dietro i bambini più grandicelli, che camminavano strascicando i piedi, riluttanti a seguirle. Alcune erano chine sotto il peso dei loro pochi beni, altre avevano con se gli animali: canarini in gabbie metalliche e cani al guinzaglio. Pian piano il flusso di persone si trasformò in un torrente lento e luttuoso di gente che spingeva carretti o biciclette o si era caricata di tutti i fagotti che riusciva a portare. « Manda giù un plotone a guidarli e a dar loro una mano », ordinò Sean a bassa voce, poi si fece pensoso, la barba appoggiata al petto. « Sono contento che almeno le donne siano al sicuro », borbottò. « Anche se il significato di quest'esodo mi rattrista. » « Gli uomini hanno intenzione di combattere », osservò Mark. « Già », convenne Sean. « Speravo che il massacro fosse terminato, ma evidentemente sono decisi a concludere questa brutta storia in modo ancor più tragico. » Schiacciò sotto il tacco il mozzicone di sigaro. « D'accordo, Mark. Va' giù a dire a Molyneux che ci siamo. Alle undici in punto inizieremo il bombardamento. Buona fortuna, figliolo. » Mark rispose con il saluto militare e Sean si allontanò dalla cresta per andare a raggiungere il generale Smuts e i suoi ufficiali che erano usciti a osservare l'ultimo atto della battaglia. I primi colpi di shrapnel solcarono il cielo, esplodendo in batuffoli di fumo chiaro e lucente sopra i tetti di Fordsburg e rompendo il silenzio dell'attesa con improvvisa violenza. Erano stati sparati dalle batterie dell'artiglieria a cavallo situate sul pendio, cui un istante dopo si unirono quelle piazzate in Sauer Street. Per una ventina di minuti il frastuono fu assordante e l'aria tersa venne offuscata da una cortina di fumo e di polvere. Mark levò il capo per sbirciare oltre il bordo della trincea scavata in tutta fretta. C'era qualcosa di terribilmente familiare
in quello che stava succedendo. L'aveva già vissuto molte volte, ma ora sentì i nervi contorcersi, e il nodo di paura che aveva nei visceri gli procurò una sensazione di nausea. Avrebbe voluto nascondersi nella trincea, turandosi le orecchie per proteggerle dal clamore metallico che le feriva, e non uscirne più. Dovette compiere un grande sforzo di volontà per restare dov'era e per conservare un'espressione tranquilla e distaccata. Gli uomini della compagnia A erano allineati nella trincea accanto a lui; tanto per distrarsi, cominciò a pensare al percorso che avrebbe seguito per entrare in città. Gli scioperanti dovevano aver creato barricate a ogni incrocio e trasformato le casette in altrettante roccaforti. Il fuoco di sbarramento non poteva avere un grande effetto su chi stava al chiuso, perché Sean, preoccupato della salvezza di quel centinaio di uomini che i rivoltosi avevano catturato e ora tenevano prigioniero all'interno della città, aveva deciso di ricorrere soltanto agli shrapnel. « Niente artiglieria pesante », era stato l'ordine, e Mark sapeva che la sua compagnia rischiava di essere massacrata per le strade. Decise di ignorare le vie d'accesso normali e di passare invece dai giardinetti posti sul retro delle case e dalle stradino che portavano ai gabinetti esterni per raggiungere l'obiettivo finale, la Camera del Lavoro, situata tra la Commercial e la Central Street. Guardò di nuovo l'orologio: mancavano quattro minuti. « Adesso, sergente », disse con calma. L'ordine fu trasmesso lungo tutta la trincea e gli uomini si misero in piedi, al riparo del parapetto. « Come ai vecchi tempi, signore », disse il sergente in tono affabile. Mark gli lanciò un'occhiata. Gli parve che l'uomo si stesse davvero godendo quel momento e sentì di odiarlo. « Andiamo », gli disse in tono brusco quando la lancetta dei minuti terminò il suo giro, e l'altro soffiò con energia nel fischietto, traendone un suono acuto. Mark appoggiò una mano al bordo del parapetto e lo superò con un balzo. Cominciò a correre, mentre dalle case davanti a loro giungeva il crepitio secco della fucileria. Improvvisamente si accorse di non avere più paura. Era poco più che un ragazzo, con le guance rosee e lisce e una leggera peluria dorata che gli ombreggiava il labbro superiore. Lo spinsero giù per gli ultimi gradini della scala che conduceva in cantina. Lui inciampò e cadde. « Un altro vigliacco », gridò l'uomo che l'accompagnava, un individuo grande e grosso con la barba, il fucile in spalla e la fascia rossa sul braccio. « L'ho beccato mentre cercava di svignarsela dal sottopassaggio. »
Il ragazzo si rimise in piedi. Si era sbucciato le ginocchia e sembrava che stesse per piangere da un momento all'altro. Harry Fisher torreggiava su di lui; nella mano destra aveva un lungo sjambok nero, la terribile frusta di pelle di ippopotamo. « Un traditore », tuonò. Gli ultimi giorni di lotta e di tensione avevano lasciato il segno. Nei suoi occhi brillava un bagliore fanatico, si muoveva a scatti e con gesti esagerati, e parlava con voce rotta e troppo alta. « No, compagno, non sono un traditore. Te lo giuro », belò il ragazzo in tono implorante. « Allora sei un codardo », sbraitò Fisher, afferrando con la grossa mano villosa la camicia del ragazzo e stracciandola fino alla vita. « Non avevo fucile », protestò il giovane. « Ci saranno fucili per tutti, quando cominceranno a morire i compagni. » Il colpo di frusta lacerò la pelle bianca e liscia della schiena come una rasoiata. Il ragazzo cadde in ginocchio con un grido, mentre il sangue che sgorgava dalla ferita formava una vivida linea rossa. Harry Fisher continuò a frustarlo finché le urla e i lamenti cessarono e nella cantina non si udivano che i sibili e gli schiocchi dello sjambok. Poi si ritrasse, ansante e sudato. « Portatelo fuori, così i compagni vedranno cosa succede ai traditori e ai codardi. » Due uomini lo presero per le braccia e lo trascinarono su per i gradini, con la pelle che pendeva a brandelli e i calzoni impregnati del sangue colato dagli squarci che gli erano stati aperti nella schiena. Mark scavalcò il muro e si lasciò cadere a quattro zampe nel cortiletto lastricato. Lungo le pareti era accatastata una serie di casse contenenti bottiglie di birra vuote, che mandavano un odore acido e dolciastro particolarmente intenso nel calore del mezzogiorno. Dopo un'ora circa dall'inizio dell'attacco aveva raggiunto la bottiglieria di Mint Road; la decisione di procedere lungo i giardinetti dietro le case e sopra i tetti si era dimostrata più astuta di quanto avesse osato sperare. Avevano evitato i blocchi e per ben due volte avevano aggirato i gruppi di ribelli arroccati nelle loro postazioni, sorprendendoli e disperdendoli con un'unica raffica. Mark attraversò di corsa il cortile e aprì con un calcio la porta della bottiglieria, appiattendosi quasi contemporaneamente contro il muro esterno, per evitare di essere raggiunto da eventuali colpi sparati dall'interno. Il sergente e una dozzina di uomini lo seguirono per la stessa via, sparpagliandosi in modo da tenere sotto tiro la porta e le finestre sbarrate. Quando si furono sistemati, il sergente rivolse a Mark un cenno del capo e questi si tuffò di lato nel
vano della porta con il fucile appoggiato al fianco e gli occhi semichiusi per attenuare il brusco passaggio dalla luce solare al buio del locale. Il negozio era deserto; la saracinesca era abbassata e gli scaffali colmi erano intatti. Nessuno era venuto a rubare: ciò dimostrava la rigorosa disciplina che gli scioperanti si erano imposta. Le bottiglie, ornate delle loro etichette a colori vivaci, erano disposte in bell'ordine e luccicavano nella semioscurità. Mark era entrato lì dentro l'ultima volta per comprare una dozzina di bottiglie di birra scura per Helena MacDonald; scacciò il pensiero e si avvicinò alle vetrine, mentre il sergente e i suoi uomini entravano dalla porta posteriore. Le persiane erano state forate dagli shrapnel e dal fuoco di fucileria, e Mark guardò fuori da un buco come se si trattasse di uno spioncino. A cinquanta metri di distanza c'era la Camera del Lavoro, ma nella piazza era stata eretta una serie di barricate. Persino i bagni pubblici erano stati trasformati in una roccaforte, ma l'attenzione dei difensori era concentrata sulle strade che si aprivano sul lato opposto della piazza. Allineati dietro i ripari, sparavano senza sosta in direzione degli Scozzesi del Transvaal che stavano puntando verso di loro provenienti dalla stazione. I rivoltosi erano vestiti nei modi più disparati: tute da lavoro, giacche da caccia e giacche militari, fino all'abito della festa, completo di panciotto e cravatta. La stessa varietà si notava nei copricapi che andavano dai berretti ai cappelli flosci, a qualche tuba. Tutti portavano di traverso sul petto la bandoliera con le munizioni e voltavano le spalle alla bottiglieria. Sarebbe bastata una raffica per eliminarli, e il sergente stava già ordinando agli uomini di piazzarsi alle finestre con una punta di soddisfazione sadica nella voce. « Potrei far piazzare una mitragliatrice », pensò Mark, ma una parte di lui inorridì alla prospettiva del massacro che la Vickers avrebbe potuto compiere in quel gruppo di uomini ignari. Mentre li guardava, vide che prima uno poi tutti gli altri si abbassavano per proteggersi dal fuoco incessante che i soldati stavano rovesciando su di loro. « Innestate le baionette », ordinò Mark, e la stanza fu colma del sibilo metallico dell'acciaio che veniva estratto dai foderi. Una pallottola vagante forò la persiana sopra la sua testa e infranse una bottiglia di whisky su uno scaffale. L'odore del liquore si sparse nell'aria, acuto e sgradevole. « Al mio ordine, spalancate porte e finestre e lanciatevi su di loro », disse ancora. Le persiane e la porta si aprirono di scatto e gli uomini si lanciarono all'esterno, urlando e correndo affiancati verso le barricate. Non avevano ancora raggiunto la prima linea di sacchetti, che i ribelli, deposte le armi, alzarono le mani sopra
la testa. I soldati che sopraggiungevano dall'altra parte si riversarono nella piazza con grida di gioia e Mark si sentì invadere da una sensazione di sollievo all'idea di aver attaccato gli scioperanti con la baionetta invece di ordinare di far fuoco. Mentre i suoi uomini disarmavano i rivoltosi e li riunivano in un gruppo sconsolato, Mark si precipitò su per gli scalini della Camera del Lavoro. Giunto in cima si fermò e gridò: « Toglietevi dalla porta ». Quindi fece saltare la serratura, sparandole contro tre colpi di fucile. Harry Fisher si appoggiò al muro e sbirciò dalla finestra sul caos che regnava nella piazza. Era scosso da un tremito di disperazione e respirava rumorosamente, simile a un toro ferito prima della stoccata definitiva. Guardò i suoi uomini deporre le armi e li vide andar via come una mandria di animali, strascicando i piedi, le mani alzate e i volti grigi per la fatica e per il dolore della sconfitta. Emise un brontolio basso e sordo, carico di un'indicibile disperazione. Le spalle muscolose si curvarono, tanto che parve quasi rimpicciolire. La grossa testa spettinata si abbassò e gli occhi gli si offuscarono mentre guardava il giovane tenente in uniforme che correva su per le scale e udiva i tre colpi di fucile con cui faceva saltare la serratura. Si trascinò fino alla scrivania e si lasciò cadere sulla sedia posta di fronte alla porta chiusa. Con mano tremante estrasse la pistola dalla cintura, alzò il cane e la depose con cautela sul piano del mobile. Inclinò il capo e rimase ad ascoltare per un attimo la confusione di rumori che si levavano dalla piazza, il tramestio degli uomini misto a ordini e a grida, poi udì i passi che salivano di corsa la scala di legno. Prese l'arma e appoggiò entrambi i gomiti alla scrivania per darsi stabilità. Mark spalancò la porta della sala riunioni e si fermò, perplesso e stupefatto. Sdraiati per terra c'erano centinaia di corpi. Un capitano degli Scozzesi e una mezza dozzina di soldati, sopraggiunti dietro di lui, si bloccarono anch'essi sulla soglia. « Santo cielo », ansimò il capitano, e Mark si rese conto all'improvviso che i corpi erano tutti in uniforme, dal cachi della polizia al verde-bottiglia dei kilt dei soldati, al tessuto ruvido di cui era fatta la sua stessa divisa. « Hanno ucciso i prigionieri », pensò Mark con un moto d'orrore, fissando l'ammasso di uomini. A un tratto vide che dal gruppo si alzava lentamente una testa, poi un'altra. « Oh, grazie a Dio », esclamò il capitano, tirando un profondo respiro, mentre i prigionieri si mettevano in piedi, con i volti illuminati dal sollievo, parlando tutti insieme per scaricare la tensione. Si precipitarono alla porta, alcuni per abbracciare i loro liberatori, altri per uscire all'aria e al sole.
Mark evitò un grosso sergente di polizia con l'uniforme stazzonata e la barba di tre giorni e, tuffandosi al di sotto delle sue braccia protese, si precipitò verso le scale. Salì i gradini a tre alla volta e si fermò sul pianerottolo. C'erano cinque porte aperte e una chiusa. Si avviò rapidamentete lungo il corridoio, controllando le stanze una a una. Il pavimento coperto di cartacee, corrispondeva all'ufficio del capo del sindacato locale. Mark lo sapeva bene, perché un tempo l'ufficio era stato occupato da Fergus MacDonald, l'uomo che egli stava cercando, guidato da un residuo di lealtà e dagli obblighi di un'amicizia trascorsa, per dargli aiuto e protezione. Mentre si avvicinava alla porta, Mark tolse la sicura. Allungò la mano verso la maniglia e, ancora una volta, il suo fiuto del pericolo lo mise in guardia. Rimase per un attimo con le dita sospese, poi si spostò di lato; allungò di nuovo la mano e girò la maniglia. La serratura scattò e Mark spalancò la porta. Non accadde nulla. Con un sospiro di sollievo, varcò la soglia. Harry Fisher era seduto alla scrivania e lo guardava. Era una figura minacciosa, così curvo sul piano del mobile, con la grossa testa arruffata incassata nelle spalle informi e le mani strette attorno alla pistola che teneva puntata contro di lui. Mark sapeva che qualsiasi movimento gli sarebbe potuto costare la vita. Vide le punte di piombo dei proiettili nel tamburo, notò che il cane era alzato e si immobilizzò. « Non crediate di averci sconfitti », disse Harry Fisher con una strana voce strozzata che Mark stentò a riconoscere. « Siamo come i denti del drago. Basta seppellirne uno perché nascano mille guerrieri. » « E' finita, Harry », rispose Mark lentamente, cercando di distrarlo. Sapeva che, se avesse cercato di alzare il fucile, l'altro non avrebbe esitato a premere il grilletto. « No », insisto Fisher, scuotendo la testa. « Questo non è che l'inizio. » Mark non capì ciò che stava per accadere finché Harry Fisher non voltò la pistola verso di sé, infilandosi la canna in bocca. L'esplosione risuonò soffocata e la testa di Harry parve deformarsi come se fosse una palla di gomma colpita da un bastone. La parte posteriore del cranio si squarciò, eruttando un ammasso giallastro e scarlatto che si spiaccicò sul muro, dietro di lui. L'impatto del proiettile scagliò il suo corpo all'indietro, poi la sedia si rovesciò. Il puzzo di polvere bruciata indugiò nell'aria assieme a un'esile nuvola di fumo, e i talloni di Harry Fisher presero a scalciare sul pavimento di legno eseguendo una piccola danza senza senso. « Dov'è Fergus MacDonald? » era la domanda che Mark
rivolse a centinaia di prigionieri. Tutti lo fissarono con espressione volta per volta amara, incollerita, truce o semplicemente di sfida, ma nessuno si degnò di rispondergli. Con la scusa di una perlustrazione, Mark prese tre uomini e andò alla villetta dei MacDonald. La porta d'ingresso era aperta e i letti erano disfatti. Mark provò una strana ripugnanza mentale, cui si contrappose una fitta di desiderio ai lombi quando vide la vestaglia di Helena gettata su una sedia e un paio di mutandine di cotone abbandonate a terra. Si voltò repentinamente e perquisì il resto della casa. Sui piatti sporchi, in cucina, si era già depositato uno strato di muffa verdastra e l'aria odorava di stantio. Dovevano essere giorni che nessuno entrava più in quelle stanze. Per terra, accanto alla stufa annerita, c'era un foglietto di carta, Mark lo raccolse e vide che vi era impresso il simbolo familiare della falce e martello. Lo appallottolò, lanciandolo contro la parete e raggiunse i suoi uomini che lo attendevano sulla veranda. Gli scioperanti avevano minato la linea ferroviaria alla stazione di Braamfontein e al passaggio a livello di Church Street, cosicché il reggimento non riuscì a scendere a Fordsburg. Gran parte delle strade erano bloccate dalle macerie e dai detriti e c'era il pericolo che negli edifici allineati lungo la strada che conduceva a Johannesburg fossero ancora annidati dei ribelli. Jean Courteney decise di far risalire ai suoi uomini il pendio che portava alla spianata della miniera Crown. Uscirono da Fordsburg prima dell'alba. La notte era stata lunga e tormentosa, e nessuno aveva dormito molto. I soldati camminavano curvi sotto il peso degli zaini, trascinando i piedi per la stanchezza, ma per fortuna la strada era lunga poco più di due chilometri. Il convoglio era parcheggiato sulla spianata vicino all'incastellatura dell'ascensore principale, una struttura gigantesca dalla forma simile a quella della Torre Eiffel, costruita con travi d'acciaio imbullonate e disposte a lisca di pesce per assicurare una maggiore resistenza, che si elevava per una trentina di metri fino alle grandi ruote che trainavano i cavi. Quando la miniera era in funzione, le ruote giravano avanti e indietro in continuazione, abbassando le gabbie cariche di uomini e di attrezzi fin dentro le viscere della terra e sollevando dagli abissi milioni di tonnellate di roccia aurifera. Ora, invece, le grandi ruote erano immobili, come lo erano state da tre mesi a quella parte, e gli edifici raggruppati attorno alla torre sembravano in stato d'abbandono. Il convoglio era costituito da una serie di camion, adibiti solitamente al trasporto delle merci, che erano stati requisiti in virtù della legge marziale: c'era persino il camioncino di un fornaio, ma era chiaro che non sarebbero bastati a trasportare seicento uomini.
Quando arrivò Mark, che marciava affiancato alla compagnia A, alla testa del convoglio c'erano una mezza dozzina di ufficiali che discutevano animatamente. Mark riconobbe il volto barbuto del generale Courteney, che sovrastava gli altri di tutta la testa e che in quel momento stava parlando a voce alta e in tono adirato. « Voglio che tutti questi uomini se ne vadano prima di mezzogiorno. Hanno fatto un buon lavoro e si meritano un piatto caldo e un posto dove... » In quel momento vide Mark e si accigliò. Gli fece cenno d'avvicinarsi e cominciò a parlare prima ancora che gli fosse accanto. « Dove diavolo sei stato? » « Con la compagnia... » « Ti avevo affidato un messaggio e mi aspettavo che tornassi subito. Sai benissimo che non volevo che prendessi parte ai combattimenti. Ricordati che sono un tuo superiore. » Mark era stanco e irritabile. Le esperienze di quella giornata l'avevano profondamente turbato e non era dell'umore giusto per subire i capricci del generale. Lo guardò con espressione di sfida ed esordì « Signore... » Non fece in tempo a dire altro perché Sean reagì immediatamente. « Non usare questo tono con me, giovanotto! » Mark si sentì assalire da una rabbia cieca e irresponsabile. Senza pensare alle conseguenze, si protese in avanti, pallido di collera e aprì la bocca per rispondere. Il reggimento era fermo in mezzo alla strada, inquadrato a blocchi simmetrici, seicento uomini in fila per tre. I capitani diedero l'alt ai rispettivi reparti, seguito dall'ordine di riposo. Visti dalla cima dell'incastellatura d'acciaio, alla luce calda del primo mattino, costituivano uno spettacolo indimenticabile. « Pronta, tesoro? » sussurrò Fergus MacDonald ad Helena, che annuì in silenzio. La realtà era svanita da tempo ed era stata sostituita da uno stato simile al sogno. Sulle spalle della donna, nel punto attraversato dalle cinghie delle pesanti scatole di munizioni, le si era formata una piaga, ma lei non sentiva dolore, solo un leggero intorpidimento. Stentava a muovere le mani, su cui spiccavano le unghie smangiate e orlate di nero. La tela ruvida delle cartucciere le sembrava morbida come seta, e i bossoli d'ottone erano freschi sotto le dita, tanto che fu presa dal desiderio di premerli sulle labbra aride e screpolate. Chissà perché Fergus la stava fissando in quel modo, si domandò con una punta d'irritazione che svanì subito per far di nuovo posto a quella sensazione fluttuante di irrealtà. « Puoi andare ora », le disse Fergus a bassa voce. « Non è necessaria che tu rimanga. » Sembrava molto invecchiato e aveva il viso rinsecchito e cadente. La barba lunga sulle guance rugose splendeva argentea come punte di diamante, ma la pelle era grigia di sudiciume e di sudore. Solo gli occhi, sotto la visiera del berretto, ardevano della
fiamma cupa dell'esaltazione. Helena scosse il capo. Avrebbe voluto che la smettesse di parlare: il rumore le dava fastidio. Distolse lo sguardo. Gli uomini nella spianata erano fermi spalla a spalla in file ordinate. Il sole ancora basso proiettava le loro ombre allungandole sulla terra rossa della strada. Fergus si soffermò con lo sguardo sulla moglie. Gli parve di vederla per la prima volta; era pallida e sciupata, le ossa sporgevano dalla pelle tirata del suo viso e i capelli corti e neri erano coperti da un foulard annodato dietro la nuca. « D'accordo », mormorò, dando un colpetto all'otturatore della Vickers e ruotandolo a sinistra. Accanto alla testa della colonna c'era un gruppo di ufficiali, tra cui spiccava un omone con la barba scura. Le spalline della sua uniforme splendevano al sole. Fergus abbassò la testa e guardò attraverso il mirino della Vickers. Notò, tra gli altri, un giovane ufficiale, e sbatté le palpebre, mentre qualcosa gli si destava nella memoria. Afferrò la levetta della sicura e l'alzò, poi appoggiò i pollici al pulsante di sparo. Sbatté di nuovo le palpebre. Il volto del giovane ufficiale scosse qualcosa dentro il suo animo; per un attimo sentì che la sua decisione perdeva vigore, ma reagì immediatamente e premette con forza il pulsante. L'arma cominciò a oscillare sul treppiede, risucchiando avidamente il lungo nastro guidato con cura dalle mani pallide di Helena e sputando i bossoli vuoti che caddero tintinnando sulle travi d'acciaio dell'incastellatura. Il rombo assordante penetrò nella testa di Helena, ripercuotendosi contro i suoi occhi, come un uccello prigioniero che sbatta le ali contro le pareti della gabbia. Anche il tiratore più abile deve guardarsi dalla tendenza ad alzare il tiro quando il bersaglio è in discesa. La posizione dell'arma, in cima alla torre, rendeva l'angolo di tiro molto acuto, e la luce giallastra del primo mattino confondeva la vista. La raffica che sparò Fergus era troppo alta: aveva mirato all'altezza delle spalle invece che al ventre. I primi proiettili arrivarono a tiro prima che Mark udisse lo sparo. Uno colpì Sean Courteney nella parte superiore del corpo, gettandolo in avanti contro di lui e facendoli cadere entrambi. Fergus diede un colpo all'otturatore, abbassando la mira, e spostò l'arma trasversalmente in un lungo arco, falciando le file dei soldati e paralizzandoli per sempre in una stupefatta immobilità. Il fiume di proiettili li travolse, ammucchiandoli uno sull'altro, morti e feriti assieme, in un coro di urla di diversa intensità. Sean rotolò di lato cercando di togliersi da sopra Mark, con i lineamenti contorti dall'ira; fece per alzarsi in ginocchio, ma i movimenti erano ostacolati dal braccio che gli penzolava iner-
te. Si lasciò ricadere, mentre il suo sangue colava su entrambi. Mark si dimenò finché riuscì a liberarsi dal peso che lo opprimeva e alzò gli occhi verso l'incastellatura. Vide i proiettili sfrecciare come moscerini sulla strada affollata, seguiti dal tuono trionfante della mitragliatrice. Nonostante lo stato di confusione in cui si trovava, osservò che chi aveva portato la mitragliatrice lassù aveva scelto un'ottima posizione. Sarebbe stato difficile stanarlo. Poi rivolse lo sguardo alla strada e si sentì stringere le viscere da una morsa di gelo. Era stata un'esecuzione spietata. I soldati correvano disordinatamente cercando di ripararsi dietro i veicoli e le asperità del terreno, ma la strada era piena di corpi. Giacevano in un ammasso brulicante, strisciavano, gridavano e si dibattevano nella polvere, mentre il sangue si trasformava in una fanghiglia color cioccolato e la mitragliatrice andava e veniva, vomitando i suoi proiettili nel carnaio, sollevando fontane di polvere e di ghiaia dalla strada, infierendo crudelmente sui feriti. Mark si accucciò e infilò un braccio sotto il petto del generale. L'uomo pesava enormemente, ma Mark trovò in sé una forza sconosciuta, indotta forse dal tuonare ostinato della Vickers e dallo sfarfallio letale dei proiettili. Sean Courteney si sollevò a stento, simile a un toro che fosse stato risucchiato dalle sabbie mobili, e Mark lo aiutò a mettersi in piedi. Lo sorresse, impedendogli di cadere, mentre l'altro oscillava come un ubriaco, curvo e sanguinante, col respiro che gli si era fatto affannoso, poi lo costrinse a correre in cerca di un riparo. La mitragliatrice li inseguì, conficcando il suo carico di morte nella schiena di un giovane tenente che strisciava per terra, trascinandosi dietro le gambe inerti. L'uomo si abbatté a faccia in giù e rimase immobile. Raggiunsero il fosso e vi si lasciarono cadere. Era profondo solo una quarantina di centimetri, troppo pochi per proteggere il generale, nonostante si fosse sdraiato bocconi; la Vickers era ancora in caccia. Dopo quel primo passaggio trasversale, aveva cominciato a sparare con raffiche corte e accurate, più pericolose di una sventagliata, contro bersagli ben precisi per impedire all'arma di surriscaldarsi e per risparmiare munizioni. L'uomo in cima alla torre doveva essere stato un soldato, riflettè Mark. « Dove l'hanno colpito? » domandò - a Sean, ma - questi gli scostò la mano con un gesto irritato, girando il capo per sbirciare l'alta struttura d'acciaio. « Ce la fai a beccarlo? » chiese, premendosi le dita sulla spalla, da cui il sangue sgorgava nero e scuro come melassa. « Non da qui », si affrettò a rispondere Mark, cui erano bastati pochi secondi per valutare il tiro. « E' imprendibile. » « Gesù santo! I miei poveri ragazzi. » « Si è fatto un nido lassù », osservò Mark, studiando l'incastellatura. La piattaforma sotto le grandi ruote era ricoperta di pesanti assi di legno, appoggiate alla struttura d'acciaio.
Il mitragliere se n'era servito per alzare attorno a sè quattro pareti, spesse circa sei centimetri. Mark vide balenare la luce attraverso le fenditure delle assi e riuscì a individuare la forma e le dimensioni del rifugio fortificato. « Puo tenerci bloccati qua tutto il giorno! » disse Sean, guardando i corpi in divisa ammucchiati sulla strada. Entrambi sapevano che molti dei feriti sarebbero morti dissanguati, se fossero rimasti lì ancora a lungo. D'altra parte, nessuno osava avvicinarsi. La mitragliatrice tornò a sparare, frustando il terreno vicino alle loro teste, ed essi si schiacciarono faccia a terra. Dal punto in cui si trovavano alla torre d'acciaio, la spianata scendeva insensibilmente, tanto che per accorgersene occorreva essere a livello del suolo, come loro. « Bisogna riuscire ad arrivargli sotto o a prenderlo alle spalle », disse Mark, pensando ad alta voce. « E' impossibile. E' terreno aperto », brontolò Sean. Dall'altra parte della strada, a una cinquantina di metri, una ferrovia a scartamento ridotto correva lungo il lieve pendio erboso fino alla base della torre. Era adibita al trasporto dei materiali di scarto dalla bocca del pozzo al deposito, distante circa un chilometro. Quasi di fronte al punto in cui si trovavano i due uomini erano stati abbandonati una mezza dozzina di vagoncini all'inizio dello sciopero. Erano dei piccoli carrelli ribaltabili a quattro ruote, agganciati l'uno all'altro e ancora carichi di grossi blocchi di roccia. Mark si rese conto che non si era ancora tolto lo zaino e si sfilò le cinghie dalle spalle, pensando contemporaneamente a come organizzare l'agguato e valutandone mentalmente i rischi. Frugò nell'interno in cerca delle bende e le porse a Sean. « Le prenda », gli disse. Sean aprì il pacchetto e infilò la medicazione dentro la giacca, con le dita appiccicose di sangue. Il P.14 di Mark giaceva sulla strada, dove l'aveva lasciato cadere, ma nelle tasche del cinturone aveva cinque caricatori. « Appena mi muovo, mi faccia fuoco di copertura », disse, alzando gli occhi verso la torre in attesa della prossima raffica. « Non ce la farai », commentò Sean. « Farò portare su un mortaio e vedrai che riusciremo a stanarlo. » « Bisognerà aspettare fino a mezzogiorno. Per loro sarà troppo tardi. » Lanciò un'occhiata ai feriti rimasti sulla strada. In quel momento dalla torre partì una fiumana lucente di proiettili diretta verso la coda della colonna. Mark schizzò dal fosso e si mise a correre rapidamente, chinandosi per raccogliere il fucile in pieno slancio. Attraversò la strada con una dozzina di falcate, poi inciampò in un sasso, vacillò cercando di ritrovare l'equilibrio e ripartì di scatto. Quella piccola esitazione gli costò un decimo di secondo, forse il margine tra la vita e la morte, il tempo necessario perché il mitragliere lo individuasse, orientasse l'arma e prendesse la
mira. I vagoncini erano proprio davanti a lui, a una quindicina di passi, ma sapeva che non ce l'avrebbe fatta. Nella sua mente scattò l'allarme, si lasciò cadere nell'erba corta e prese a rotolare nell'attimo stesso in cui la bufera di proiettili scatenata dalla Vickers gli si abbatteva attorno con la forza di centinaia di staffilate. Mark continuò a rotolare come un tronco. Un proiettile scavò un solco nella terra arida e sassosa a qualche centimetro dalla sua spalla. Terminò la sua corsa contro le ruote del vagoncino, e l'impatto fu tale che gli sfuggì un grido di dolore. I proiettili della Vickers percossero con un crepitio metallico la fiancata e schizzarono via con un lamento, ma Mark era ormai al sicuro. « Tutto bene? » tuonò il generale dall'altra parte della strada. « Datemi fuoco di copertura. » « Avete sentito, ragazzi? » gridò il generale, e un paio di fucili cominciarono a sparare spasmodicamente dai fossi e da dietro i camion. Mark si trasse in ginocchio, sottoponendo il fucile a un rapido esame e spolverando con il pollice l'alzo e il mirino per ripulirIi e accertarsi che non fossero stati danneggiati dalla caduta. Poi arrivò fino al punto in cui il vagoncino era collegato a quello posteriore e liberò il gancio. La rotella del freno era così rigida che dovette usare entrambe le mani per girarla. I freni cigolarono piano mentre si staccavano, ma l'esiguità della pendenza costrinse Mark a spingere il carrello con la spalla per farlo muovere. Vi si appoggiò con tutto il suo peso; finalmente le ruote compirono un unico giro riluttante e il vagoncino venne catturato dalla forza di gravità. « Fagli vedere chi sei! » strillò Sean Courteney, quando capì quali erano le sue intenzioni. Mark accolse l'esortazione con un sorriso amaro e cominciò a trotterellare curvo dietro il carrello carico. Una sventagliata di proiettili si abbatté contro il veicolo in movimento, e istintivamente Mark si abbassò di più, accostandosi alla fiancata metallica. Man mano che si avvicinava alla torre, l'angolo di tiro cambiava. Capì che in breve la bocca dell'arma sarebbe stata proprio sopra di lui; allora il vagoncino non gli avrebbe più offerto alcun riparo, ma ormai non esisteva altra possibilità. Niente poteva più arrestare la corsa del carrello, che scendeva sempre più rapido il leggero pendio, spinto dal peso delle dieci tonnellate di roccia che trasportava. Anche Mark aveva preso a correre sempre più veloce e ben presto non sarebbe più riuscito a tenergli dietro. Frattanto la Vickers riprese a tuonare e i proiettili si abbatterono stridendo e gemendo sul metallo. Mark appese il fucile alla spalla e si afferrò con entrambe le mani al bordo della fiancata. I piedi si staccarono da terra e ciondolarono, rischiando di essere catturati dalle ruote. Tirò su le ginocchia, caricando tutto il peso del corpo sulle braccia;
i muscoli dell'addome gli dolevano per lo sforzo, mentre il vagoncino volava verso la torre che lo attendeva ritta sulle sue gambe da polipo. Mark gettò indietro la testa e guardò in su. L'incastellatura, vista da sotto, gli parve incombere come un mostro in agguato; si stagliava netta contro il cielo dolce del mattino, una piramide d'acciaio freddo e di travi di legno che svettava verso l'alto. Sulla cima Mark intravide il volto pallido del mitragliere e la grossa canna a camicia d'acqua della Vickers inclinata al massimo e rivolta verso di lui. L'arma emise una fiammata e i proiettili colpirono l'acciaio vicino alla sua testa, traendone un suono simile a quello di una campana. Si conficcarono nella roccia, frantumandola e disintegrandosi in uno sciame di schegge che ferirono le mani di Mark. Chiuse gli occhi e restò appeso senza poter far niente. La velocità era tale che rimase sotto tiro solo per qualche secondo, poi il camioncino arrivò alla piattaforma di cemento e andò a sbattere contro i respingenti. Mark fu scaraventato via dal suo appiglio. La cinghia del fucile si strappò e l'arma fu scagliata lontano, mentre egli concludeva il volo sulla piattaforma, abbattendosi di fianco con un tonfo che lo lasciò intontito. Il cemento ruvido strappò il tessuto spesso dell'uniforme, lacerandogli la pelle e mettendo a nudo la carne. Andò a fermarsi contro una pila di fusti d'olio dipinti di giallo e rotolò sulla schiena per guardare verso l'alto. Era finito sotto la torre, la cui complessa intelaiatura lo proteggeva dal fuoco della mitragliatrice. Si alzò, temendo di scoprire qualcosa di rotto. Ma, nonostante si sentisse tutto indolenzito, poteva ancora muoversi, e si avviò zoppicando a raccogliere il fucile. Nella caduta il calcio si era incrinato, tanto che, quando sollevò l'arma, si spezzò in due parti. Non avrebbe più potuto sparare appoggiandolo alla spalla. Anche il mirino si era rotto: il metallo smangiato aveva una consistenza simile a quella dello zucchero scuro cristallizzato. Per colpire il suo uomo gli sarebbe dovuto andare molto vicino. Il blocco dell'otturatore era segnato da una ferita lucente. « Signore, fa' che funzioni! » implorò, cercando di aprirlo. Lottò invano per qualche secondo, poi dovette arrendersi. « Benissimo », pensò. « Niente calcio, niente mirino e un unico proiettile in canna... ci sarà da divertirsi. » Lanciò una frettolosa occhiata attorno. Sotto la torre, le due aperture quadrate che portavano al pozzo principale erano circondate da un bordo di cemento e protette da un reticolato. Una delle gabbie era ferma alla stazione di superficie con le porte aperte, pronta ad accogliere gli uomini che sarebbero scesi con il turno successivo, mentre l'altra attendeva in basso, a circa quattrocento metri sotto il livello del suolo. Erano così da mesi. Sul lato opposto della piattaforma c'era il piccolo ascensore di servizio che, nel giro di mezzo minuto,
era in grado di trasportare gli uomini addetti alla manutenzione fino in cima alla torre. La mancanza di elettricità, tuttavia, lo rendeva inservibile. L'unico mezzo per salire era costituito dalla scala d'emergenza, una struttura d'acciaio che si avvolgeva a spirale e protetta soltanto da un tubo sottile che faceva da corrimano. In alto, sopra la testa di Mark, la Vickers sparò di nuovo, ed egli udì un grido di dolore proveniente dalla strada. Si avviò zoppicando verso la scala con rinnovato slancio. Il lucchetto che chiudeva l'accesso al reticolato era stato forzato: evidentemente il cecchino aveva raggiunto il proprio nido passando da quella stessa strada. Si avviò su per la scala a chiocciola, salendo in tondo, un giro dopo l'altro. Alla sua destra c'era la bocca nera del pozzo, un orifizio osceno attraverso il quale si scendeva dritti fin nel ventre della terra, quattrocento metri di abisso spaventoso. Mark cercò di ignorarlo e continuò la salita, trascinando il corpo dolorante lungo il corrimano, tenendo il fucile rotto con la mano libera e allungando il collo all'indietro nel tentativo di scorgere il mitragliere appostato in cima. La Vickers sparò di nuovo e Mark guardò di lato. Era abbastanza in alto per vedere la strada. Uno dei camion stava bruciando e, simile alla bocca di un drago, vomitava fiamme e fumo nel cielo; tutt'attorno, il terreno era ingombro dei corpi vestiti con l'uniforme color cachi, che giacevano a terra simili a giocattoli abbandonati. Un'altra raffica li frustò, straziando la loro carne senza vita, e la sua rabbia ingigantì, fredda come il ghiaccio e tagliente come la lama di una spada. « Continua a sparare, tesoro », gracchiò Fergus con quella sua strana voce arrochita. « Solo brevi raffiche. Conta lentamente fino a venti e poi schiaccia il pulsante. Voglio fargli credere che sono ancora qui. » Estrasse la Webley dalla cintura e strisciò sul ventre verso l'inizio della ripida scala. « Non lasciarmi, Fergus. » « Andrà tutto bene », la rassicurò, abbozzando un sorriso. « Continua a sparare. Io scenderò a incontrarlo; lo coglierò di sorpresa. » « Non voglio morire da sola », sussurrò Helena. « Resta con me. » « Non preoccuparti, tesoro. Tornerò. » Era arrivato alla scala. Helena si sentì di nuovo bambina, intrappolata in uno di quei terribili incubi della sua infanzia, prigioniera di un destino ineluttabile, e provò il desiderio di piangere. I singhiozzi arrivarono fino alle labbra e lì morirono, spegnendosi in un gemito soffocato. Un colpo di fucile si conficcò nella barricata di legno che la circondava. Avevano cominciato a sparare dalla spianata. Non riusciva a vederli perché erano nascosti nei fossi e dietro le
asperità del terreno, protetti da lunghe ombre violacee, e anche perché i suoi occhi erano annebbiati dalle lacrime e dalla fatica. Tuttavia, con le ultime briciole di forza che le restavano, si trascinò verso la mitragliatrice. Vi si acquattò dietro; aveva le mani così minuscole che stentò a raggiungere il pulsante di tiro. Inclinò la canna verso il basso e strinse gli occhi per liberarli dal velo che li offuscava, stupita che le figurine che stavano là sotto fossero così piccole. L'arma le sobbalzò tra le mani come una creatura vivente. « Una raffica breve », mormorò tra sé, ripetendo le istruzioni di Fergus, e sollevò i pollici dal pulsante. « Uno... due... tre », iniziò poi a contare, preparandosi a sparare di nuovo. Quando la Vickers riprese a latrare, Mark si fermò e alzò gli occhi. Era arrivato a metà strada e, dal punto in cui si trovava, riusciva a individuare il pavimento della piattaforma di servizio, sotto le ruote, sul quale era piazzata la mitragliatrice. Nel legno c'erano delle fenditure attraverso le quali filtrava la luce, ma a un tratto una delle linee luminose fu interrotta da un'ombra in movimento. Fu questione di un attimo, ma gli bastò per capire che in quel punto, oltre le assi, era appostata la persona che azionava la mitragliatrice. Doveva essere accovacciata sopra la fessura tra una tavola e l'altra e il suo corpo impediva il passaggio della luce. Sarebbe bastato un colpo ben azzeccato per inchiodarlo, ma, lanciando un'occhiata all'arma mutilata che aveva in mano, Mark capì che non poteva permettersi di rischiare il suo unico colpo da quella distanza. Cominciò a salire di corsa. Anche se cercava di non gravare con il peso del corpo sui piedi, i chiodi degli scarponi risuonavano sui gradini di ferro. Fergus MacDonald lo udì e si fermò, appiattendosi al riparo di una delle travi d'acciaio. « E' uno solo », borbottò. « Ma è veloce. » Appoggiò un ginocchio a terra e sbirciò nello spazio tra gli scalini, sperando di vedere l'uomo che stava aspettando. I gradini si sovrapponevano a ventaglio come carte da gioco e i supporti laterali della torre formavano una foresta impenetrabile. L'unico modo per riuscire ad avvistarlo era quello di sporgersi all'interno del corrimano verso la parte centrale del pozzo. L'idea della voragine sottostante lo intimoriva. Sapeva che, se non aveva sbagliato a giudicare il suo avversario, la cosa migliore che poteva capitargli era una pallottola tra gli occhi. Si sistemò in posizione più vantaggiosa, tale da poter tenere sotto controllo il giro della scala immediatamente sotto di sé. « Lascerò che arrivi fin qui », decise e, passando il braccio attorno a una trave d'acciaio, appoggiò la pesante pistola nell'incavo del gomito per sostenerla. Sapeva che l'arma non dava alcuna garanzia di precisione se il bersaglio era più lontano di dieci passi, ma contava di farlo avvicinare a sufficienza. Inclinò leggermente il capo per ascoltare il rumore degli stivali che percuotevano l'acciaio e sentì che l'uomo era ormai
molto vicino. Ancora pochi gradini e sarebbe stato a portata di tiro. Alzò lentamente il calcio della Webley e guardò nella fenditura dell'alzo. Sopra di loro la Vickers ricominciò a sparare e Mark si fermò per riprendere fiato e controllare la posizione del mitragliere. Con sua grande costernazione scoprì di essere salito troppo. Dal punto in cui si trovava non riusciva più a vedere le fessure della piattaforma. Doveva ridiscendere, se voleva che le lame di luce che filtravano dall'assito si ripresentassero di nuovo davanti ai suoi occhi. Dall'ombra capì che il mitragliere non aveva cambiato posizione. Era ancora acquattato tra le due assi, ma non poteva colpirlo da lì. Uno sparo in verticale sarebbe stato difficile anche in condizioni ideali, ma con un fucile privo di calcio e di mirino diventava quasi impossibile. Non gli era chiara nemmeno la direzione della fessura, coperta in parte dal corpo del mitragliere; se l'avesse mancata anche di poco, il proiettile si sarebbe conficcato nel legno spesso. Cercò di non pensare al fatto che aveva a disposizione un unico colpo, anche se l'otturatore bloccato era li a ricordarglielo. Appoggiò il fianco al corrimano e si sporse al di sopra della voragine, stringendo gli occhi per mettere a fuoco il bersaglio. Poi alzò l'arma mutilata con un movimento naturale. Sapeva di doversi affidare unicamente all'istinto; non poteva permettersi di esitare e nemmeno di prendere la mira troppo a lungo. Nell'attimo stesso in cui la lunga canna fu in linea con il bersaglio, premette il grilletto. Il fucile tuonò e una scheggia bianca si staccò dal bordo della fessura. Il proiettile aveva toccato il legno, e Mark si sentì travolgere dalla disperazione. Poi il corpo nascosto dalle assi venne scaraventato di lato e la fessura tornò a essere un'unica linea ininterrotta di luce. Sulla piattaforma qualcuno gridò. Helena MacDonald era arrivata a contare di nuovo fino a venti e stava puntando l'arma su un gruppo di uomini che si erano appena raccolti al di là di un camion. Era accucciata sopra la mitragliatrice, e stava per premere i pollici sul pulsante di tiro, quando il proiettile la colpì dal basso. Nella sua corsa aveva sfiorato una delle due assi di mogano e il colpo ne aveva alterato la forma, schiacciandone leggermente la punta così da renderlo simile a un fungo, tanto che quando penetrò nel suo corpo non produsse un foro dai contorni ben definiti. Lacerò la morbida carne alla congiuntura delle cosce divaricate e s'infilò nella parte bassa dell'addome, andando poi a conficcarsi nei muscoli della schiena. Helena fu sbalzata in aria e ricadde a faccia in giù sulla piattaforma. « Dio! Oh, Dio, aiutami! Fergus! Fergus! Non voglio mo-
rire da sola », urlò, e il grido arrivò chiaro alle orecchie dei due uomini fermi sulla scala. A Mark parve di riconoscere la voce, e il nome pronunciato dalla donna confermò i suoi sospetti. Il fucile rotto gli scivolò di mano; riuscì ad afferrarlo e si sostenne al corrimano. Helena urlò di nuovo, questa volta senza dire parole precise. Era lo stesso grido strano e selvaggio che aveva emesso al culmine di uno dei loro amplessi più intensi, e per un attimo Mark rivide davanti a se il suo volto sudato e trionfante, gli occhi scuri e ardenti, la bocca rossa socchiusa e la lingua rosata, palpitante come il petalo di un fiore. Riprese a correre, lanciandosi su per le scale. Le grida trafissero il cuore di Fergus come un nugolo di frecce, causandogli una sofferenza lancinante. Lasciò cadere la mano che teneva la pistola, guardando indeciso verso l'alto, senza capire ciò che era successo, conscio del fatto che Helena stava morendo. Aveva udito troppo spesso quel grido di morte per avere dubbi. Era l'urlo dell'agonia, e non riuscì a costringere il suo corpo a risalire fino all'orrore che lo attendeva lassù. Mentre esitava, Mark sopraggiunse sbucando dal basso e gli finì addosso. Fergus cadde all'indietro e cercò di alzare la pistola per sparare a bruciapelo nel petto dell'uomo in uniforme. Neppure Mark era preparato. Non si aspettava di imbattersi in un altro nemico ma, quando vide la pistola, alzò il fucile per colpire Fergus. Questi si chinò, sparando al tempo stesso, e il proiettile passò rasente alla testa di Mark. Il rumore gli ferì i timpani e lo fece trasalire. Il fucile finì contro l'intelaiatura d'acciaio e l'impatto glielo strappò di mano, poi i due uomini si impegnarono in un corpo a corpo. Mark afferrò Fergus per il polso della mano che teneva la pistola stringendolo con tutta la sua forza. Nessuno aveva riconosciuto l'altro. Fergus era invecchiato, trasformandosi in una caricatura ingrigita di se stesso, e aveva gli occhi nascosti dalla visiera del berretto, mentre l'uniforme polverosa e insanguinata dava a Mark un aspetto poco familiare. Anche lui era cambiato; il ragazzo si era fatto uomo. Mark lo sovrastava in altezza, ma il loro peso si eguagliava, e Fergus era animato da una furia selvaggia che gli dava una forza straordinaria. Lo spinse contro il corrimano, piegandolo all'indietro sopra la voragine, ma Mark gli stringeva ancora il polso, tenendogli il braccio sollevato con l'arma puntata verso l'alto. Fergus era scosso da singhiozzi disperati e lo premeva con tutta la forza di un corpo temprato dal duro lavoro fisico. A un tratto sparò, mosso solo dal bisogno di sfogare la rabbia e lo sconforto che provava. Mark si sentì mancare il terreno sotto i piedi. I chiodi degli stivali scivolavano sui gradini d'acciaio ed egli si inclinò ancor più, come attirato dall'abisso che gli si spalancava sotto.
Helena gridò di nuovo e quel suono penetrò come un ago alla base del cervello di Fergus, che fu percorso da un brivido e si contorse in uno spasmo disperato, cui Mark sentì di non avere la forza di opporsi. Cadde all'indietro sopra il corrimano, senza lasciare la presa sul polso di Fergus e tenendogli l'altro braccio avvinghiato alle spalle. Scivolarono entrambi, allacciati nell'orribile parodia di un abbraccio, ma Mark riuscì subito ad agganciarsi con le gambe al corrimano come un trapezista e si bloccò, restando appeso a testa in giù sul pozzo. Fergus fu proiettato al di sopra di lui dallo slancio, roteò nell'aria, perdendo il berretto nella caduta. Mark sentì un violento strattone alla spalla; per uno strano istinto non aveva mollato la presa sul polso di Fergus ancora armato di pistola. L'uomo penzolava nel vuoto, trattenuto solo dalla mano di Mark. I due oscillarono sulla voragine nera del pozzo: Mark teso al massimo, con le ginocchia agganciate al tubo, e Fergus appeso a lui, ultimo anello della catena. Fergus aveva gettato indietro la testa e lo fissava. I capelli lini e radi gli avevano scoperto il viso e Mark si sentì venir meno le forze a quella nuova emozione. « Fergus! » esclamò con voce strozzata, ma l'altro lo ricambiò soltanto con il suo sguardo folle, senza dare il minimo segno di averlo riconosciuto. « Cerca di aggrapparti a qualcosa », lo scongiurò Mark, facendolo oscillare verso la scala. « Afferrati al corrimano. » Sapeva che non avrebbe potuto sorreggerlo ancora per molto, perché la caduta gli aveva indebolito il braccio e il sangue, che la posizione gli faceva affluire alla testa, gli martellava nelle tempie, gonfiandogli il viso. La bocca nera e vorace del pezzo spalancato sotto di lui gli procurava un senso di nausea. Annaspò con la mano libera e la chiuse sul polso di Fergus, rafforzando la stretta. Questi si contorse, ma, invece di aggrapparsi al corrimano, protese il braccio verso l'alto e afferrò la pistola, spostandola da una mano all'altra. « No », urlò Mark. « Sono io, Fergus! Sono Mark! » Ma Fergus, ormai al di là di ogni ragione, continuò a muovere la pistola nella mano finché riuscì a impugnarla saldamente. « Morte », borbottò. « Morte a tutti i vigliacchi. » Alzò la canna per puntarla contro Mark, dondolando al di sopra dell'abisso e girando lentamente su se stesso. « No, Fergus », gridò di nuovo Mark, ma la bocca della pistola si rivolse contro il suo viso. Da quella distanza gli avrebbe fatto saltare mezza testa. Vide l'indice di Fergus che si irrigidiva sul grilletto e la nocca che sbiancava per la pressione. Aprì le mani e il polso di Fergus gli sfuggì dalle dita. L'uomo precipitò turbinando e, invece dello sparo, si udì il suo lamento stridulo e sottile. Mark osservò il corpo che, con
gli arti che giravano come i raggi di una ruota, si allontanava rapidamente, rimpicciolendo e portando con se il proprio grido disperato, finché non fu più che una macchiolina chiara, simile a una tarma, che a un tratto sparì, inghiottita dalla bocca nera del pozzo. Nel silenzio che seguì, Mark, sempre appeso come un pipistrello, sbatté gli occhi per liberarli dal sudore, incapace di trovare la forza di muoversi. Poi, dalla piattaforma giunse un lungo gemito e Mark si riscosse con un brivido. Costringendo il proprio corpo ammaccato a reagire, riuscì ad aggrapparsi al corrimano e si sollevò, finché atterrò sulla scala riprendendo a salire con le gambe molli. Helena si era trascinata fino alle assi che facevano da parete, lasciando sul pavimento una scia umida e scura. I calzoni cachi che indossava erano impregnati di sangue che, continuando a colare, aveva formato una pozza nel punto in cui lei era seduta. Se ne stava appoggiata a un'asse, accanto alla Vickers, in un atteggiamento di estrema stanchezza, a occhi chiusi. « Helena », la chiamò Mark. La donna aprì gli occhi. « Mark », sussurrò, ma non parve sorpresa. Era come se lo stesse aspettando. Il volto era completamente privo di colore, le labbra sembravano orlate di brina e la sua pelle aveva la lucentezza del ghiaccio. « Perché mi hai lasciato? » gli domandò. Lui le si avvicinò esitante. Le si inginocchiò accanto, guardandole l'addome, e sentì il flusso acido del vomito che gli saliva in gola. « Ti amavo tanto », continuò Helena con voce esile e il respiro lieve come la brezza che si leva all'alba nel deserto. « E tu te ne sei andato. » Mark tese la mano per scostarle le gambe ed esaminare la ferita, ma non riuscì a toccarla. « Non mi lascerai più, vero, Mark? » gli domandò, così piano che egli stentò a udirla. « Sapevo che saresti tornato. » « Non ti lascerò più », promise lui, con una voce che faticò a riconoscere come propria. Un debole sorriso comparve sulle labbra gelide di Helena. « Ti prego, tienimi stretta. Non voglio morire da sola. » Con un gesto impacciato Mark le circondò le spalle con un braccio e la testa della donna si abbatté contro il suo petto. « Mi hai amata almeno un pò ? » « Sì, ti ho amata », le rispose, mentendo senza fatica. Improvvisamente un fiotto di sangue scarlatto e lucente le sgorgò dalle cosce. L'arteria danneggiata si era lacerata del tutto. La donna si irrigidì, sbarrando gli occhi; la testa le cadde all'indietro e il corpo parve sciogliersi contro quello di Mark. Gli occhi spalancati erano scuri come il cielo di mezzanotte. Mentre Mark la fissava, gli parve che il suo volto si trasformasse lentamente. Come la cera di una candela posta troppo vicino alla fiamma, parve sciogliersi, scomponendosi, poi riformar-
si pian piano: ma non era più il volto di Helena, bensì quello di un angelo di marmo, liscio, bianco e stranamente bello, il viso di un ragazzo morto in terra lontana. La mente di Mark non resse alla visione. Fece per gridare, senza che alcun suono gli uscisse dalla gola. L'urlo gli rimase nel profondo dell'anima, celato dietro il volto senza espressione e gli occhi asciutti. Lo trovarono così un'ora dopo. Quando i primi soldati, arrampicatisi cautamente su per la scala di ferro raggiunsero la cima della torre d'acciaio, Mark era lì seduto con il cadavere della donna tra le braccia. « Bene », disse Sean Courteney. « Hanno impiccato Taffy Long! » Piegò il giornale con un gesto irritato e lo lasciò cadere per terra, accanto alla sedia. Nel fogliame scuro e lucente del nespolo del Giappone che protendeva i suoi rami sopra il tavolo, i piccoli uccelli-mosca erano indaffarati a ficcare i becchi aguzzi nei fiori, cinguettando senza sosta e agitando spasmodicamente le ali come farfalle attratte dalla luce. Nessuno parlava attorno al tavolo della prima colazione. Tutti sapevano che Sean si era adoperato in mille modi per ottenere clemenza nei confronti degli scioperanti che erano stati condannati a morte. Ma il suo potere e la sua influenza non erano serviti a piegare il desiderio di vendetta di chi invocava il massimo della pena come compensazione agli orrori della rivolta. Sean, seduto a capotavola, si fece pensoso, con il mento chino sul petto e gli occhi fissi sulla vallata di Ladyburg. Portava il braccio appeso al collo con una benda di lino; la ferita continuava a spurgare e stentava a cicatrizzarsi. I medici erano preoccupati, ma Sean li aveva tranquillizzati, dicendo: « Ne ho viste di tutti i colori. Ho addosso segni di leopardo, di proiettili, di shrapnel e di coltello. Non mi preoccupo. La carne vecchia impiega molto tempo a guarire, ma quando si riprende è migliore di prima ». Ruth Courteney non si preoccupava tanto delle ferite del corpo, quanto di quelle dello spirito. Entrambi gli uomini che vivevano nella sua casa erano tornati segnati dal dolore e oppressi dai sensi di colpa. Non sapeva esattamente cosa fosse successo in quei giorni bui, perché nessuno ne aveva parlato, ma l'orrore di quel periodo li aveva seguiti persino a Lion Kop, nell'aria morbida e luminosa di quelle colline di sogno in cui lei li aveva portati perché si riposassero e dimenticassero. Era un luogo speciale per lei e Sean, il centro delle loro vite, il porto in cui il marito l'aveva condotta appena si erano sposati. Possedevano molte altre case, ma nessun'altra come questa rappresentava il focolare, qui erano tornati in cerca di pace. Eppure l'angoscia li aveva seguiti. « E' follia », borbottò Sean. « Pura follia. Non riesco a capire come non se ne rendano conto. » Scosse il capo e rimase
in silenzio per un attimo. Poi sospirò. « Impiccarli ora, significa farli vivere per sempre. Il loro ricordo ci perseguiterà finché avremo fiato. » « Hai tentato tutto, caro », gli disse Ruth sottovoce. « Tentare non basta », borbottò Sean. « Quello che conta è riscire. » « Oh, papà, hanno ucciso centinaia di persone », sbottò Storm, guardandolo con le guance arrossate e scuotendo la testa lucente. « Anche tu hai rischiato di morire! » Mark, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, alzò la testa e guardò Storm, che gli stava seduta di fronte. Notando la sua espressione, la ragazza soffocò le frasi che le erano venute alle labbra. Era molto cambiato dal suo ritorno, sembrava invecchiato di cent'anni. Dal suo volto liscio la giovinezza era svanita, travolta dal peso di quell'esperienza e da una nuova consapevolezza. Quando la guardava in quel modo, la faceva sentire una bambina. Non era una sensazione particolarmente gradevole, anzi le faceva venir voglia di infrangere la corazza che lo avvolgeva e lo rendeva così distante. « Non sono che dei volgari assassini », continuò, fissandolo negli occhi. « Siamo tutti assassini », replicò Mark con voce pacata e, nonostante avesse ancora sul volto quella sua espressione distaccata, il coltello che aveva in mano urtò fragorosamente contro il piatto. « La prego di scusarmi, signora Courteney... » disse, rivolto a Ruth, che lo guardò aggrottando la fronte. « Oh, Mark, ma non hai toccato cibo! » « Devo andare in paese questa mattina. » « Nemmeno ieri sera hai mangiato. » « Voglio spedire la posta in modo che parta con il treno di mezzogiorno. » Piegò il tovagliolo, poi si alzò e si avviò a passi rapidi attraverso il prato. Ruth seguì con gli occhi l'alta figura armoniosa poi, scrollando le spalle con aria sconsolata, si volse verso Sean. « E' così teso... Sembra una molla sul punto di scattare », osservò « Cosa gli sta succedendo, Sean? » Questi scosse il capo. « E' qualcosa di inspiegabile », le disse « Ho visto tanti casi del genere in guerra. Uno sopporta tensioni indicibili, poi a un certo punto non regge più. Qualcosa si spezza dentro di lui. Noi la chiamiamo psicosi da bombardamento, ma non c'entrano soltanto i bombardamenti. » Fece una breve pausa. « Non vi ho mai parlato di Mark, di come l'ho conosciuto e del perché l'ho scelto... » E raccontò tutto. Mentre erano lì seduti all'ombra verde e fresca del nespolo, parlò del fango, della paura e dell'orrore vissuti in Francia. « Tutto questo non dura soltanto un giorno o una settimana, ma continua per un tempo così lungo da sembrare eterno. La situazione è ancora peggiore per i tipi in gamba, che
finiscono per essere sfruttati senza ritegno. Mark era uno di loro... Il ragazzo aveva doti particolari ed è stato usato come un cane da caccia. » Sean continuava a raccontare mentre le due donne lo ascoltavano attentamente, avvinte dalle vicende del giovane che pian piano aveva assunto così tanta importanza nella vita di ciascuno di loro. « L'orrore e la paura si accumulano sull'uomo come le alghe su una chiglia di nave. Non si vedono perché restano sotto la linea di galleggiamento, eppure ci sono. Anche Mark ne ha accumulato una buona dose, e a Fordsburg dov'essere successo qualcosa che l'ha condotto vicino al punto di rottura. Ecco perché è così, da quando è tornato. » « Cosa possiamo fare per lui? » domandò Ruth a bassa voce, osservandolo di sottecchi, felice che finalmente avesse un figlio, perché - come sapeva da tempo - era questo che Sean vedeva in Mark. Amava tanto suo marito da non disperarsi se non era stata lei a dargli quello che aveva desiderato intensamente, felice che l'avesse finalmente trovato e soddisfatta di poterne godere assieme a lui. Sean scosse il capo. « Non lo so. » Storm sbuffò con aria irritata ed entrambi si voltarono a guardarla. Sean sentì un gran calore diffondersi nel petto e provò un senso di gratitudine all'idea che quella bella creatura facesse parte di lui. Storm sembrava tenera e fragile, ma lui sapeva che aveva la forza e la resistenza di un cavo d'acciaio. Sapeva anche che, nonostante possedesse l'innocenza di un fiore appena sbocciato, poteva diventare pericolosa come un serpente. La sua bellezza luminosa e viva celava abissi che non mancavano mai di sconvolgerlo, e il suo umore mutevole lo incantava. Anche ora, dopo quell'inspiegabile accenno di stizza, si sentì catturare dalla sua magia. Per nascondere i propri sentimenti, finse un'irritazione che non provava. « Be', che c'è, signorina? » borbottò. « Se ne andrà », gli rispose, e Sean sbatté le palpebre, dondolandosi sulla sedia. « Di chi stai parlando? » le chiese. « Di Mark. Vedrai che se ne va. » « Come fai a saperlo? » Qualcosa dentro di lui si ribellava all'idea di perdere un altro figlio. « Lo sa e basta », gli rispose Storm, alzandosi di scatto e facendo balenare le lunghe gambe lisce come una gazzella che si leva, allarmata, dal suo giaciglio d'erba. Rimase in piedi accanto a lui, sovrastandolo. « Pensavi davvero che ti avrebbe scodinzolato attorno per sempre? » gli chiese con un tono pungente che, in altra occasione, si sarebbe attirato una rispostaccia. Questa volta, invece, Sean rimase a fissarla senza parole. Improvvisamente la ragazza si allontanò. Mentre attraversava il prato, la luce del sole si mise a giocare con i suoi capelli scuri accendendoli di bagliori candidi e, penetrando nella stoffa leggera dell'abito, delineò con tratti precisi la sagoma del suo
corpo sottile, circondandola al tempo stesso di un alone luminoso che le conferiva l'aspetto di una splendida creatura ultraterrena. « Non ti sembra che sia meglio piangere un pò adesso piuttosto che disperarti per il resto della vita? » le chiese Mark dolcemente, cercando di non farle capire che la sua risolutezza cominciava a vacillare. « Non tornerai più? » Marion Littlelohn non era di quelle donne a cui le lacrime donano. Il suo piccolo viso tondo aveva perso i contorni, deformandosi come se fosse stato di argilla, e gli occhi erano gonfi e arrossati. « Marion, non sa nemmeno dove andrò. Come faccio a sapere se tornerò? » « Non capisco, Mark. Davvero, non ci riesco. » Spiegò il fazzoletto umido che teneva in mano e si soffiò il naso. « Eravamo così felici. Ho fatto tutto quello che potevo per renderti felice... anche quello. » « Tu non c'entri, Marion », si affrettò a rassicurarla Mark. Avrebbe preferito che non gli avesse ricordato ciò a cui si riferiva sempre con l'appellativo di « quello ». Era come se lei gli avesse prestato un tesoro a un tasso d'interesse esorbitante. « Non ti ho reso felice, Mark? E pensare che ce l'ho messa tutta! » « Marion, te l'ho detto tante volte. Non è colpa tua. Tu sei una ragazza simpatica e graziosa. Sei buona e gentile, insomma, sei la persona migliore che conosco. » « E allora perché non vuoi più sposarmi? » gli domandò, mentre il suo tono di voce si alzava in una sorta di lamento Mark lanciò un'occhiata allarmata lungo il portico. Sapeva che la sorella e il cognato stavano di sicuro con le orecchie tese per cercare di cogliere qualche brandello di conversazione. « Il fatto è che non voglio sposare nessuno. » Marion emise un suono basso simile a un gemito e poi si soffiò il naso rumorosamente nel quadratino di lino ormai fradicio. Mark le porse il proprio fazzoletto, che aveva estratto dalla tasca interna della giacca. « Non voglio sposarmi. Non ancora, insomma », ripetè. « Non ancora, hai detto. Ma un giorno? » insistè lei. « Può darsi », rispose Mark. « Quando avrò scoperto ciò che voglio dalla vita e come fare per averlo. » « Ti aspetterò. » Si sforzò di sorridere e riuscì a prodursi in un risolino acquoso. « Ti aspetterò, Mark. » « No! » esclamò Mark, con tutti i nervi del corpo in allarme. C'era voluto tutto il suo coraggio per dirglielo e ora sembrava che tanta fatica non fosse servita a niente. « Potresti anche aspettare in eterno. Marion, il mondo è pieno di uomini e tu sei una ragazza così dolce, così affettuosa... » « Ti aspetterò », ripetè lei in tono fermo, mentre il suo volto tornava a essere quello di sempre e le spalle perdevano la loro piega sconsolata.
« Ti prego, Marion. Non è giusto per te », insisté Mark, facendo un ultimo disperato tentativo per dissuaderla, conscio della sconfitta. Ma lei, tirando su rumorosamente col naso, inghiottì di colpo ciò che restava della sua infelicità come se si trattasse di una medicina. Poi gli sorrise, sbattendo gli occhi per scacciare le ultime lacrime. « Oh, non importa. Sono una donna molto paziente. Vedrai », gli disse in tono conciliante. « Non capisci. » Mark si strinse nelle spalle, sentendosi totalmente impotente. « Ma si che capisco », ripeta lei, sorridendogli di nuovo, con l'espressione indulgente di una madre alle prese con un ragazzina discolo. « Quando sarai pronto, torna da me. » Si alzò e si lisciò la gonna. « E ora vieni. Il pranzo è pronto. » Storm aveva scelto la posizione con molta cura. Voleva cogliere il gioco della luce pomeridiana e la corsa delle nuvole attraverso la scarpata e al tempo stesso aveva bisogno di avere davanti a sé la gola, perché il pennacchio bianco della cascata avrebbe avuto il posto d'onore nel suo quadro. Voleva poter guardare lungo la strada di Ladyburg, ma anche essere al riparo dagli sguardi di qualche passante. Piazzò il cavalletto sul bordo di una piccola conca in una piega del terreno vicino al confine orientale di Lion Kop e vi si sistemò accanto, badando di assumere una posa che soddisfacesse il suo occhio d'artista. Ma, mentre se ne stava con la tavolozza annidata nell'incavo del braccio sinistro e il pennello nell'altra mano, alzò il volto e guardò l'ampio panorama in cui si fondevano terra, foresta e cielo. Colse i diversi effetti della luce e il colore dell'aria, un intenso turchese con sfumature dorate, e la sua attenzione fu immediatamente catturata. La posa perse ogni ricercatezza e lei cominciò a lavorare, inclinando il capo per valutare una mescolanza di colori, allontanandosi e avvicinandosi alla tela in un lento rituale, simile a quello di una vestale intenta a un sacrificio. Si immerse nel lavoro a tal punto che il rombo lontano della motocicletta di Mark non riuscì a penetrare all'interno del bozzolo che la concentrazione le aveva costruito attorno. Benché la sua intenzione originale fosse stata quella di intercettarlo, si accorse di lui solo all'ultimo momento e si bloccò con il pennello in mano, circonfusa dalla morbida luce dorata del tardo pomeriggio. La sua immagine in quell'atteggiamento spontaneo era assai più incisiva che se avesse studiato la posa con cura. La strada polverosa che si snodava serpeggiando a qualche centinaio di metri sotto di lei formava il primo tornante all'inizio della scarpata; Mark imboccò la curva e fu subito attratto dalla figura delicata che era in piedi sul pendio. L'ultimo sole, penetrando dagli squarci delle nuvole, mandava lunghi fasci di luce nella vallata, e uno di essi cadeva dritto su Storm.
La ragazza rimase immobile con gli occhi fissi nella sua dirazione, come se non lo avesse riconosciuto. Mark fermò la motocicletta a lato della strada e, restando seduto a cavalcioni, si tirò gli occhiali sulla fronte. Continuarono a fissarsi in silenzio ancora per qualche istante. Quando Mark fece per rimettere in moto, Storm provò una immediata sensazione di abbandono che riuscì a non far trapelare all'esterno; la sua espressione rimase immutata e così pure l'immobilità del corpo. Si concentrò con tutta se stessa su di lui, cercando di trasmettergli il proprio pensiero, tanto che Mark alzò gli occhi a guardarla. « Avvicinati! » gli ingiunse mentalmente e lui, con un gesto d'impazienza e quasi di sfida, si tolse gli occhiali e si sfilò i guanti. Lei si voltò verso il quadro, rasserenata, con un piccolo sorriso segreto sulle labbra dischiuse, mentre Mark le si avvicinava nell'erba gialla alta fino al ginocchio. Udì il suo respiro alle spalle e ne avvertì l'odore. Aveva una fragranza particolare, che ormai le era diventata familiare, simile a quella del pane fresco, all'odore di un cucciolo che succhia il latte materno o a quello del cuoio appena lucidato. Si sentiva la pelle calda e formicolante e provò una piccola stretta al petto. « E' bello », le disse Mark e la sua voce le sfiorò la nuca come una carezza. Sentì rizzarsi i capelli leggeri che crescevano dietro, sulla parte alta del collo, e il sangue espandersi nel petto. I capezzoli diventarono duri come sassolini. Le facevano male, ma non si trattava di un vero e proprio dolore, quanto piuttosto di un desiderio così intenso da divenire oppressivo. Avrebbe voluto che la toccasse e, al pensiero, sentì le gambe che le tremavano e i muscoli che si irrigidivano alla congiuntura delle cosce. « E' proprio bello », le ripeté. Era così vicino che sentì il suo alito sul collo. Un altro brivido le corse lungo la spina dorsale le parve che un artiglio le stesse lacerando la carne e strinse i glutei per controllare l'emozione, come avrebbe fatto in sella a un cavallo troppo focoso per limitarne l'ardore. Storm fissò il dipinto e si avvide che Mark aveva ragione. Nonostante fosse ancora incompiuto, era bello. L'aveva già tutto in mente e sapeva che sarebbe riuscito bene, ma l'unica cosa che voleva, ora, era il tocco delle sue mani. Era come se il quadro avesse esasperato la sua emotività, aprendo l'ultima porta segreta del suo essere e facendola vibrare di desiderio. Si voltò verso di lui, alzando gli occhi a guardarlo; era così alto e vicino che il respiro le si fermò di nuovo. « Toccami », lo pregò mentalmente. « Toccami », gli ordinò in silenzio, ma le braccia di Mark rimasero lunghe contro i fianchi e l'espressione dei suoi occhi parve indecifrabile. Fu colta da una strana agitazione e spostò le anche con un
movimento lento e voluttuoso; era come se nella parte inferiore del suo corpo si fosse sciolto qualcosa che ora ardeva dentro di lei come un incendio. « Toccami », ripete tra sé, cercando di piegarlo mentalmente al proprio desiderio. « Toccami lì dove la sensazione è così forte! » Ma lui non l'ascoltava, non reagiva alle sue implorazioni silenziose, e Storm fu colta da una collera improvvisa. Avrebbe voluto colpirlo, schiaffeggiare quel suo bel volto austero; si vide mentre gli strappava la camicia e affondava le unghie nel petto muscoloso. Fissò il collo, all'altezza del colletto sbottonato: i peli scuri si avvolgevano a spirale e la sua pelle aveva una lucentezza quasi oleosa che il sole aveva tinto di un caldo colore dorato. La sua rabbia esplose. Mark aveva suscitato in lei emozioni che non riusciva a capire né a controllare, aveva scatenato quelle terribili ondate di desiderio fisico che la scuotevano; bene... l'avrebbe punito, l'avrebbe fatto soffrire, avrebbe agito in modo che anche lui venisse divorato dalla sua stessa febbre. Da una parte avrebbe voluto cullare la sua bella testa orgogliosa sul petto come fa una madre col bambino, vezzeggiarlo e amarlo; dall'altra avrebbe voluto graffiarlo, ferirlo e maltrattarlo, e la lotta tra questi sentimenti la rendeva confusa, stordita e adirata. Ma più forte di tutto era l'eccitazione fisica che le si era gonfiata dentro come un'onda, rendendola viva e desta come un uccellino. « Sarai stato a spassartela con quella tua sgualdrinella tutta ciccia, immagino », gli disse con una sorta di ringhio. Lui la guardò, stupito e offeso, e Storm provò una sensazione di trionfo, di cui si pentì subito. Avrebbe voluto gettarsi ai suoi piedi e chiedergli perdono, sennonché, rapido com'era venuto, il pentimento sparì, sostituito da una furia cieca. « Che bello, se la provvidenza che ti ha dato bellezza e talento avesse anche provveduto a fare di te una persona gradevole », le disse Mark con calma e quasi con una punta di tristezza nella voce. E poi soggiunse: « Anziché quella ragazzina maligna e viziata che sei ». Storm sussultò, provando una sorta di shock delizioso. L'insulto l'autorizzava a rinunciare a quel pò di controllo che ancora esercitava su se stessa. Ora si che avrebbe potuto sfogarsi in piena libertà. « Brutto porco! » esclamò lanciandoglisi contro, puntando agli occhi, conscia del fatto che egli era più rapido e più forte, eppure attaccandolo ugualmente con violenza per costringerlo ad afferrarla. E quando Mark la prese per le braccia, riducendola all'impotenza, Storm si gettò contro di lui, riuscendo a farlo indietreggiare. Vide la sorpresa dipingersi sul suo volto: non si era aspettato che fosse così forte. Continuò a spingere con il corpo agile e temprato dalle lunghe ore trascorse a cavallo e sui campi da tennis, cercando di fargli perdere l'equilibrio e, mentre lui tentava di resisterle spostando il peso da un piede
all'altro, Storm gli agganciò una caviglia, gettandosi da un lato. Caddero entrambi e, prima che Storm atterrasse sulla conca erbosa, Mark le lasciò i polsi, appoggiando le mani a terra per attutire il colpo. Lei ne approfittò subito e gli graffiò il collo con le unghie. Mark si lasciò sfuggire un lamento e Storm scorse nei suoi occhi i primi segni della collera. Ne fu felice e, quando lui le afferrò il polso, si voltò e gli conficcò i denti nell'avambraccio con forza sufficiente a incidere due piccole mezzelune nella sua carne. Mark sussultò. Con rabbia crescente, saltò su di lei, inchiodandole i fianchi con le gambe e cercando di afferrarle le mani che sferzavano l'aria. Storm si dibatté nel tentativo di liberarsi. La gonna si sollevò fino alla vita e una delle sue cosce lisce e morbide si alzò in un gesto naturale e non meditato verso i genitali di Mark, non abbastanza forte da fargli male ma con energia sufficiente a fargli prendere coscienza del suo stato di eccitazione. Quando capì cos'era successo, Mark le lasciò i polsi e cercò disperatamente di districarsi da quel viluppo, ma lei gli passo un braccio attorno al collo e gli premette contro il viso una guancia calda e setosa. Le mani di Mark si mossero istintivamente; raggiunsero l'incavo profondo al centro del piccolo dorso arcuato, e poi, seguendo le sporgenze dure della spina dorsale, si spinsero fino al solco tra le natiche rotonde, coperte di seta morbida e scivolosa al tatto. Il respiro di Storm si era fatto rauco; mosse la testa e gli catturò la bocca, inarcando la schiena e sollevando la parte inferiore del corpo per permettergli di sfilarle le mutandine. Il suo corpo cereo sorse dai petali disordinati della gonna come lo stame di una splendida orchidea; nulla ne interrompeva la straordinaria perfezione se non la tonda cavità al centro del suo ventre squisito e, poco più sotto, l'esplosione di riccioli scuri, un triangolo cupo e folto che mutò di forma mentre lei si rilassava con movimenti lenti e voluttuosi. « Oh, Mark », sospirò. « Mark, è così bello. » La sua rabbia era svanita, lasciandola debole e ansante. Lo avvolse dolcemente, calda, tenera e appassionata, ma il suono della sua voce riportò bruscamente Mark alla realtà. Capì che stava tradendo la fiducia che Sean Courteney aveva riposto in lui, che stava approfittando della propria posizione privilegiata e la respinse, inorridito all'idea del tradimento. « Devo essere impazzito », mormorò esterrefatto, cercando di staccarsi da lei. Storm reagì con la violenza istintiva di una leonessa, rivelando una volta di più la sua particolare proprietà di passare da un tranquillo stato di quiete alla collera più intensa nel breve volgere di un secondo. La sua mano aperta si abbatté sul viso di Mark, facendogli esplodere davanti agli occhi una miriade di girandole colorate che gli offuscarono la vista. Poi gridò: « Che razza di uomo
sei? » Cercò di colpirlo di nuovo, ma ormai l'aveva messo sull'avviso Mark riuscì a bloccarla e rotolarono uniti nell'erba. « Sei una nullità e tale rimarrai. Non hai abbastanza grinta per diventare qualcuno », sibilò la ragazza, e le sue parole lo ferirono mille volte più dello schiaffo che aveva appena ricevuto. Si sentì invadere dalla rabbia e finalmente reagì. « Maledizione! Come osi dire una cosa del genere? » « Almeno io oso! oso! » gli gridò Storm di rimando. « Tu non sei capace di osare... » S'interruppe subito, rendendosi conto che... si, si, Mark stava osando... poi gridò di nuovo ma in tono diverso. « Oh Dio », cominciò a tremare, stringendolo a sé; lo circondò con le braccia e, con un tono di trionfo nella voce che si era fatta fonda e roca. mormorò: « Oh Mark! caro. caro Mark! » Sean Courteney montava alla maniera dei primi coloni: staffe lunghe e spinte in avanti, piuttosto arretrato sulla sella, con lo sjambok che gli pendeva dalla mano sinistra e le redini tenute basse. Il suo stallone era fermo all'ombra di un albero, paziente come un cavallo dell'esercito, e brucava l'erba che ricopriva la parte superiore della scarpata: mentre masticava, i suoi denti producevano uno strano scricchiolio Sean guardò la distesa d'erba e di alberi sotto di lui e pensò a quanto quei luoghi erano cambiati da quando vi aveva giocato da ragazzino. Ricordò le corse a piedi nudi con i cani da caccia, si vide mentre lanciava un bastone e i cani correvano a prenderlo. A una decina di chilometri di distanza, a ridosso della muraglia protettiva costituita dalla scarpata, c'era la fattoria di Theunis Kraal, dove, in un afoso mattino d'estate, aveva visto la luce nel vecchio letto d'ottone della stanza grande assieme al suo gemello, Garrick. Quella doppia nascita aveva ucciso sua madre. Garrick viveva ancora lì e aveva finalmente trovato pace e soddisfazione tra i libri e le carte. Sean ebbe un sorriso d'affetto e simpatia e risentì l'antico rimorso. Si domandò che vita avrebbe fatto suo fratello se un colpo di carabina che lui aveva sparato non gli avesse maciullato la gamba. Rimosse il pensiero e si voltò sulla sella per esaminare la sua proprietà. Migliaia e migliaia di acri piantati a foresta costituivano le basi della sua fortuna. Dal punto in cui si trovava poteva vedere le segherie e i depositi di legname adiacenti allo scalo ferroviario, giù in città, e una volta di più si sentì felice all'idea di non aver sprecato la propria vita e provò piacere per il successo raggiunto. Sorrise e accese uno dei suoi sigari lunghi e scuri, sfregando il fiammifero sugli stivali e adattandosi ai movimenti del cavallo sotto di lui.
Indugiò un pò più a lungo del solito in questo atteggiamento di autocompiacimento, forse per evitare di pensare al problema che lo assillava. Poi lasciò scorrere lo sguardo sulla distesa di tetti fino alla tozza struttura d'acciaio e lamiera zincata che si ergeva al di sopra di tutti gli altri edifici della vallata, compreso il massiccio palazzo a quattro piani che ospitava la nuova Ladyburg Farmers Bank. La raffineria di zucchero sembrava un idolo pagano, brutto e vorace. Era acquattata ai bordi dei rettangoli simmetrici costituiti dalle piantagioni di canna da zucchero che si stendevano a perdita d'occhio, ricoprendo le basse colline ondulate con un tappeto fremente che il vento muoveva come un mare verde, e che erano destinate a nutrire quella struttura perennemente affamata. Sean si accigliò e la pelle tra gli occhi e l'attacco del naso aquilino si riempì di grinze. Mentre la sua terra era stimata in migliaia di acri, quella dell'uomo che una volta era stato suo figlio veniva calcolata in decine di migliaia di acri. Il cavallo avvertì il suo cambiamento di umore e, rianimandosi, chinò la testa con gesto nervoso e si tese tutto, pronto a scattare. « Sta' buono », borbottò Sean, e cercò di calmarlo appoggiandogli una mano sul collo. Si dispose all'attesa, poiché, com'era sua abitudine, anche questa volta era arrivato in anticipo all'appuntamento. Gli era sempre piaciuto arrivare per primo e lasciare che fossero gli altri a raggiungerlo. Era un vecchio trucco, grazie al quale chi arrivava per secondo si sentiva come un intruso in un territorio già occupato, mentre lui aveva avuto modo di riflettere, di elaborare una linea d'azione e di studiare l'altro mentre si avvicinava. Aveva scelto con cura sia il luogo che l'ora. Non era riuscito a tollerare il pensiero che Dirk Courteney oltrepassasse i confini della sua proprietà ed entrasse in casa sua. L'alone di malvagità che lo contornava era contagioso e Sean non voleva che contaminasse quell'estremo rifugio rappresentato da Lion Kop. Aveva quindi fissato come luogo dell'incontro l'unico breve tratto di confine tra le loro proprietà, il solo in cui aveva fatto erigere una recinzione di filo spinato. Anche la scelta dell'ora non era stata casuale. Avrebbe avuto il sole alle spalle mentre l'altro, risalendo il pendio, se lo sarebbe trovato di fronte. Sean estrasse l'orologio dal panciotto e vide che mancava un minuto alle quattro, l'ora fissata per l'appuntamento. Guardo verso la valle e scosse il capo, seccato. Il pendio era deserto e non c'era nessuno nemmeno sulla strada che, dal punto in cui lui si trovava, si vedeva in tutta la sua lunghezza. Da quando il giovane Mark era passato a bordo della sua motocicletta un'ora prima, nessuno l'aveva più percorsa. Fece scorrere lo sguardo sulla città e lo fissò sui muri bian-
chi della grande casa che Dirk Courteney si era fatto costruire subito dopo il suo ritorno a Ladyburg. Great Longwood, un nome pretenzioso per un edificio ancor più pretenzioso. Non gli piaceva guardarla. Persino alla luce del sole un alone di malvagità, simile a quello del suo padrone, la circondava come un guscio. Senza contare che i soliti pettegoli non avevano perso occasione di raccontargli con gran soddisfazione ciò che succedeva al suo interno al calar della notte. Lui credeva a quelle storie, perché, con l'istinto che una volta era stato amore, sapeva di cosa fosse capace l'uomo che era stato suo figlio. Guardò di nuovo l'orologio e aggrottò la fronte. Erano le quattro. Lo scosse e se lo portò all'orecchio. Ticchettava regolarmente; lo rimise in tasca e prese le redini. Ormai non sarebbe più venuto. Provò un senso di sollievo, perché gli incontri con Dirk Courteney rappresentavano una fatica che lo lasciava immancabilmente svuotato d'energia. « Buon pomeriggio, papà. » La voce gli procurò un soprassalto; istintivamente strinse le ginocchia attorno ai fianchi del cavallo e diede uno strattone alle redini. Lo stallone scalpitò e si mosse in cerchio agitando la testa. Dirk montava un baio rossiccio. Doveva essere sbucato dalla foresta e lo spesso tappeto di foglie cadute doveva aver attutito il rumore degli zoccoli. « Sei in ritardo », disse Sean. « Me ne stavo andando. » Dirk doveva aver deviato dal percorso normale, risalendo la scarpata sotto le cascate verso Lion Kop e, dopo aver attraversato le piantagioni per evitare la recinzione di filo spinato, era giunto al luogo dell'appuntamento dalla direzione opposta. Non era da escludere che fosse rimasto nascosto tra gli alberi a osservarlo per un pò di tempo. « Di cosa dovevi parlarmi? » domandò Sean. Avrebbe dovuto stare attento a non sottovalutarlo più in futuro. L'aveva già fatto, e ogni volta gli era costato un prezzo esorbitante. « Credo che tu lo sappia », rispose Dirk sorridendogli. A Sean venne spontaneo paragonarlo a un animale splendido e mortalmente pericoloso. Montava con grazia disinvolta; era rilassato ma al tempo stesso controllava perfettamente il cavallo. Indossava una giacca da caccia di tweed robusto e attorno al collo aveva un foulard di seta gialla, mentre i lunghi polpacci muscolosi erano chiusi in un paio di stivali lustri di cuoio marrone-bruciato. « Preferirei che tu me lo ripetessi », lo invitò Sean, cercando di distogliersi dal fascino suadente che l'uomo era in grado di esercitare. « Oh, andiamo. So che sei stato molto impegnato a ricacciare le orde sudicie e sudate di lavoratori nelle loro tane. Ho letto con orgoglio la cronaca delle imprese, papà. Il massacro di Fordsburg è stato quasi all'altezza di quello avvenuto nel 1906, durante la ribellione di Bombata. Complimenti... » « Vieni al sodo. » Sean sentì rinascere dentro di sè l'antico
odio. Dirk Courteney aveva la capacità di colpire una persona nei suoi punti deboli, umiliandola senza pietà. Sentendolo alludere in quei termini all'atroce dovere che era stato costretto a compiere, Sean provò un profondo senso di dolore e di vergogna. « Naturalmente era necessario che le miniere riprendessero a funzionare. Se non mi sbaglio, sono le maggiori acquirenti del tuo legname. Devo avere anche le cifre da qualche parte », continuò Dirk, scoppiando in una risatina. Aveva denti bianchi e perfetti, e la luce del sole che lo illuminava da dietro giocava nei riccioli lucenti della sua testa, dandogli un'aria quasi teatrale « Buon per te, caro papà. Hai sempre avuto un occhio straordinario per le buone occasioni. Sarebbe stato assurdo lasciare che un branco di rossi scatenati ci mandasse in malora. Anch'io, alla lunga, dipendo dal buon funzionamento delle miniere. » Sean non riuscì nemmeno a rispondergli, perché aveva la gola serrata dalla rabbia. Si sentiva insozzato e umiliato dalle sue parole. « Comunque, da questo punto di vista ti sono debitore », soggiunse Dirk, osservandolo attentamente e sorridendogli con gentile perfidia. « E' da te che ho ereditato la capacità di cogliere al volo le buone occasioni che mi si presentano. Sei stato tu a insegnarmi a catturare i serpenti, ricordi? Tu mi hai fatto vedere come prenderli, tenendoli col pollice e l'indice dietro la testa. » Sean ricordò l'episodio. Già allora la totale assenza di paura del ragazzo l'aveva stupito e spaventato « Vedo che ti ricordi. » Il sorriso svanì dal volto di Dirk assieme alla gentilezza dei modi. « Quanti momenti passati assieme... Ti ricordi quando ci siamo persi dopo che i leoni avevano fatto fuggire i cavalli? » Anche quell'episodio tornò immediatamente alla memoria di Sean. Erano andati a caccia nella contea di Mopani e quella era stata la prima notte che il bambino aveva trascorso lontano dal riparo sicuro dei carri. Ma l'avventura si era trasformata in un incubo. Un cavallo ucciso dai leoni, un altro fuggito e un viaggio di ritorno di cento chilometri attraverso il veld riarso. « Tu mi hai insegnato a trovare l'acqua. Quella rimasta nel cavo degli alberi... ne sento ancora il fetore, e quella che attingevamo con una pagliuzza nei pozzi scavati dagli indigeni nella sabbia. » I ricordi tornavano a frotte, nonostante Sean cercasse di scacciarli. Il terzo giorno avevano sbagliato strada, confondendo il greto sassoso di un fiume secco per quello di un altro, e da quel momento avevano vagato nell'immensa landa desolata in attesa della morte. « Ricordo che ti sei legato al collo la cartucciera e mi ci hai messo dentro a sedere per trasportarmi. » Quando il bambino era rimasto senza forze, Sean l'aveva por-
tato così chilometro dopo chilometro, giorno dopo giorno, camminando sulla sabbia che cedeva sotto i piedi. Poi anche l'ultima briciola delle sue energie si era consumata, e allora si era accovacciato sopra il figlio, difendendolo dal sole con la propria ombra e lasciandogli cadere tra le labbra annerite e screpolate le poche gocce di saliva che era riuscito a produrre per cercare di tenerlo in vita il più possibile. « Quando infine Mbejane è arrivato, ti sei messo a piangere. » Il cavallo fuggito aveva raggiunto i carri; portava su sè i segni degli artigli del leone, e il vecchio servo zulu, nonostante fosse in preda a un attacco di malaria, aveva sellato il grigio, tirandosi dietro un'altra bestia per la cavezza. Aveva compiuto in senso inverso il percorso fatto dall'animale, arrivando al campo dov'era avvenuto l'incidente, e da li aveva seguito le tracce dell'uomo e del bambino, rese quasi indistinguibili dal vento e dal tempo trascorso. Li aveva trovati abbracciati sulla sabbia, sotto il sole cocente, in attesa di morire. « E' stata l'unica volta che ti ho visto piangere », disse Dirk a bassa voce. « Hai mai pensato a quanto hai fatto piangere me? » Sean non voleva più ascoltarlo. Non voleva più ricordare quel bambino bello, caparbio e selvaggio cui egli aveva fatto da padre e da madre, eppure la voce pacata e insidiosa di Dirk lo imprigionava in una ragnatela da cui non riusciva a evadere. « Non saprai mai quanto ti adoravo. Tutta la mia vita era basata su di te, imitavo ogni tua azione nella speranza di assomigliarti. » Sean scosse il capo, tentando di negare le parole dell'altro, rifiutando di credere al loro significato. « Proprio così, ho cercato di diventare come te e forse ci sono riuscito... » « No », rispose Sean con voce strozzata. « Forse è per questo che mi hai respinto », insiste Dirk. « Mi vedevi come un'immagine riflessa in uno specchio e non sei riuscito a tollerarlo. Per questo mi hai cacciato, causandomi infinite sofferenze. » « No, Dio, no... Non c'è niente di vero in quello che dici. » Dirk avvicinò il cavallo finché la sua gamba toccò quella di Sean. « Papà, siamo la stessa persona... perché non vuoi ammettere che io sono identico a te, come è vero che sono nato dai tuoi lombi e che tu mi hai cresciuto e plasmato? » « Dirk », esordì Sean, ma fu incapace di proseguire. La sua intera esistenza era stata messa in discussione dalle parole del figlio « Ti rendi conto che tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per te? E non solo da bambino, ma anche quando ormai ero già diventato uomo. Ti sei mai chiesto perché sono tornato proprio qui a Ladyburg, quando sarei potuto andare in qualsia-
si altro posto al mondo... a Londra, a Parigi, a New York. Eppure sono tornato. Perché l'ho fatto, papà? » Sean scosse il capo, incapace di rispondere, e fissò quell'estraneo che gli stava davanti, bello e traboccante d'energia vitale, la cui presenza gli causava tanto dolore. « Sono tornato perché qui c'eri tu. » Rimasero entrambi in silenzio con gli occhi impegnati in una lotta muta, agitati da emozioni contrastanti. Sean sentì che la sua risolutezza vacillava, pronta a cedere all'incantesimo che Dirk gli stava tessendo attorno. Diede di tacco al cavallo, costringendolo a spostarsi e interrompendo il contatto fisico tra di loro, ma Dirk continuò impietoso. « La mia presenza è un segno del mio amore, di quell'amore che è stato abbastanza forte da tollerare la tua indifferenza e tutti i rifiuti che gli hai opposto, così intenso da resistere ai colpi che gli hai inferto. E' in nome di quell'amore che io ti porgo la mano. Torna a essere mio padre, così come io sarò di nuovo tuo figlio. Se uniamo le nostre fortune, edificheremo un impero. La terra di cui ti ho parlato è come un frutto maturo, pronto per essere colto. » Dirk allungò la mano nello spazio tra i due cavalli, col palmo rivolto verso l'alto e le dita tese. « Stringiamoci la mano, papà », insistè. « Niente ci può fermare. Spazzeremo tutti gli altri dalla nostra strada; insieme diventeremo delle divinità. » « Dirk », disse Sean, ritrovando la voce e cercando disperatamente di uscire dalla spirale in cui si sentiva intrappolato. « Ho conosciuto molti uomini, e nessuno di loro era completamente buono o del tutto malvagio. Ognuno era un misto di bontà e cattiveria. Poi ho capito la tua vera natura. Tu sei l'unico uomo che non ha in se la minima ombra di bontà, e solo quando sono stato costretto ad accettare questa realtà ti ho voltato le spalle. » « Papà. » « Non chiamarmi così. Non sei mio figlio e non lo sarai mai più. » « C'è una grande fortuna laggiù, una delle più grandi del mondo. » « No », ripeté Sean scuotendo il capo. « Non è per noi. Appartiene ai molti popoli che abitano questo Stato... agli zulu, agli inglesi, agli afrikander. Non sarà mai né mia né tua. » « L'ultima volta che sono venuto da te, mi hai lasciato credere che c'era qualche speranza », protestò Dirk. « Non è vero. Non ti ho fatto alcuna promessa. » « Ti ho detto tutto. Ti ho svelato tutti i miei piani. » « Sì », ammise Sean. « Sono stato io a spingerti a farlo. Volevo conoscerli in tutti i dettagli e non per aiutarti, ma per ostacolarti. » Sean s'interruppe, poi si protese in avanti avvicinando il volto a quello di Dirk e guardandolo fisso negli occhi. « Non avrai mai la terra che sta oltre il fiume Bubezi. Lo giuro », gli disse a bassa voce ma con tale intensità che le
parole risuonarono come le campane di una cattedrale. Dirk indietreggiò e il suo volto colorito divenne bianco come un cencio. « Ti ho respinto perché sei malvagio. Ti ostacolerò con tutte le mie forze, a costo della vita. » Il volto di Dirk mutò all'improvviso, le linee della bocca e della mandibola si alterarono e gli occhi si strinsero, attraversati da una luce crudele. « Ti sbagli, papà. Io e te siamo una cosa sola. Se io sono malvagio, è perché tu mi hai fatto così. Risparmiati pure i sermoni e gli atteggiamenti nobili. Ricordati che ti conosco, così come conosco me stesso. » Scoppiò nuovamente a ridere, ma il suono della sua risata aveva assunto una nota acuta e crudele e le labbra non avevano perso la loro piega dura. « Tu mi hai respinto per quella tua puttana ebrea e per la piccola bastarda nata dal seme che hai deposto nel suo ventre morbido. » Sean emise un urlo rabbioso, e lo stallone indietreggiò impennandosi e frustando l'aria con le zampe. Anche la cavalla baia scartò allarmata, scalpitando e fremendo, e Dirk la lavorò col barbazzale per calmarla. « Hai detto che sei disposto a rischiare la vita per combattermi », gridò Dirk, rivolto al padre. « Bada che non ti prenda in parola. » Riprese il controllo del cavallo e si avvicinò nuovamente allo stallone. « Non tollero che mi si pestino i piedi. Se è necessario, distruggerò anche te, come ho fatto con gli altri. Ti distruggerò, capisci, assieme alla tua puttana ebrea. » Sean fece scattare il polso, tirando un colpo di rovescio con lo sjambok, e la sottile frusta nera di pelle di ippopotamo, con un rumore simile a quello che fanno le oche selvatiche quando si levano in volo calò sul volto crudele e ringhiante dell'uomo che un tempo era stato suo figlio. Dirk alzò il braccio e bloccò la frusta, che penetrò nella manica come fosse una spada. Poi spostò la giumenta, facendole compiere un ampio giro, mentre il sangue che sgorgava dal taglio impregnava il costoso tessuto. Appoggiò la mano sulla ferita e guardò Sean con gli occhi fiammeggianti e il volto distorto da un odio incommensurabile. « Ti ucciderò per quello che hai fatto », gli disse a bassa voce, poi voltò la cavalla e la lanciò al galoppo verso la recinzione di filo spinato. L'animale si sollevò, distendendosi per il salto, poi si staccò dal suolo e atterrò dall'altra parte, raccogliendosi con un movimento perfetto e riprendendo a correre. Dirk era davvero un cavaliere straordinario. Sean lottò contro la tentazione di spingere a propria volta lo stallone al galoppo e si avviò al passo, seguendo il sentiero che tagliava il pendio, coperto da erbacce al punto da essere quasi invisibile. Solo una persona che l'avesse già percorso molte volte in passato avrebbe potuto individuarlo.
Non c'era più nulla delle capanne del kraal di Mbejane, tranne il cerchio di sassi su cui erano state edificate, che spiccava bianco nell'erba. Le capanne erano state bruciate, come sempre dopo la morte di un capo. Il muro della stalla era ancora intatto. Le pietre scelte con cura e con amore erano state disposte l'una sull'altra fino a raggiungere un'altezza pari alle spalle di un uomo. Sean smontò e legò il cavallo a un palo. Aveva le mani scosse da un tremito febbrile e si sentiva lo stomaco contratto dai crampi, conseguenza della tempesta d'emozioni di poco prima. Ritrovò l'antico sedile sul muro, una roccia piatta che sembrava fatta apposta per accogliere le sue natiche, e accese un sigaro. Il fumo servì a calmare lo sfarfallio del cuore e ad arrestare il tremito. Guardò verso terra. I capi zulu venivano sepolti seduti al centro del kraal del bestiame, con il viso rivolto verso il sole nascente e il cerchio dell'induna sul capo. Avvolti nella pelle ancora umida di un bue appena ucciso, simbolo di ricchezza, attendevano, con accanto la ciotola del cibo, il boccale della birra, la scatola del tabacco, lo scudo e le lance, di partire per il lungo viaggio « Salve, amico mio », mormorò Sean. « L'abbiamo allevato noi, tu e io. Eppure ti ha ucciso. Non so come e non posso provarlo, ma so che l'ha fatto. E ora ha giurato di uccidere anche me ». concluse con un brivido nella voce. « Bene », esordì Sean con un sorriso. « Se hai dovuto chiedermi un appuntamento per parlarmi, deve trattarsi di una faccenda grave. » Sotto il balenio allegro degli occhi, lo sguardo che rivolse a Mark era attento e inquisitore. Storm aveva ragione: il ragazzo si stava preparando al grande salto. Se ne sarebbe andato come un animale ferito oppure come un cucciolo di leone che, diventato adulto, si allontana dal branco? E quali sofferenze gli avrebbe causato il distacco? « Sì, signore, è così », convenne Mark, e per la prima volta non riuscì a sostenere il suo sguardo. Gli occhi luminosi e puri oltrepassarono Sean e si posarono sugli scaffali carichi di libri, per proseguire poi verso le finestre, dove si fissarono sulle piantagioni illuminate dal sole e sulla vallata sottostante, esaminandole come se le vedesse per la prima volta. « Accomodati, allora », lo invitò Sean, allontanando la sedia dalla scrivania e indicando la poltrona sotto la finestra con gli occhiali cerchiati di metallo che si era appena tolto. « Grazie, signore. » Mentre Mark attraversava la stanza, Sean si alzò, dirigendosi verso l'armadietto di legno di ocotea. « Se è così importante, sarà meglio bere un goccetto. Ci aiuterà ad affrontare il discorso », disse, sorridendo di nuovo. « Non è ancora mezzogiorno », gli fece notare Mark. « E' stato lei a insegnarmi che prima di mezzogiorno non bisogna
bere. » « Chi fa le regole può permettersi di cambiarle », replicò Sean, versando nei bicchieri due dosi abbondanti di whisky e aggiungendo uno spruzzo di seltz. « Che ne dici di questa mistura? L'ho inventata apposta per l'occasione. » Scoppiò in una risatina soddisfatta, poi proseguì: « Bene, ragazzo mio, a quanto pare hai scelto la giornata giusta ». Porse a Mark il bicchiere e tornò alla scrivania. « Anch'io ho qualcosa di molto importante da dirti. » Buttò giù un sorso, fece schioccare la lingua con evidente soddisfazione e si asciugò i baffi con il dorso della mano. « Posso cominciare io, visto che sono il più anziano? » « Naturalmente, signore », si affrettò a dire Mark con manifesto sollievo, mandando giù un piccolo sorso di liquore, mentre Sean gli sorrideva contento. La tattica che aveva congegnato era così scaltra e abile da lasciarlo quasi stupito. Si domandò quale divina ispirazione gliel'avesse suggerita. Non voleva che il giovane se ne andasse, eppure sapeva che, se avesse cercato di trattenerlo, l'avrebbe sicuramente perduto. « Mentre eravamo a Città del Capo mi sono intrattenuto a lungo con il Primo Ministro », esordì, « e da allora ci siamo scritti ripetutamente. A seguito di questi contatti il generale Smuts ha istituito un nuovo ministero, affidandomi l'incarico di occuparmene. Si tratta del Ministero dei Parchi Nazionali. Naturalmente bisogna ancora studiare la relativa legislazione, avremo bisogno di fondi e dovremo essere dotati di nuovi poteri. Per il momento cominceremo dall'esame e dal rilevamento dei territori interessati, poi, sulla base dei dati raccolti, intraprenderemo le azioni necessarie... » Continuò a parlare per quasi un quarto d'ora, leggendo lettere e appunti, riferendogli le conversazioni avute con il Primo Ministro, illustrandogli il progetto nei particolari, mentre Mark lo ascoltava proteso in avanti e dimentico del bicchiere. Aveva la sensazione che si stesse compiendo il suo destino e non osava quasi respirare, assorto nella contemplazione del grande quadro che gli si spiegava davanti. Sean, infiammato dalla propria visione, si era alzato e stava camminando avanti e indietro, servendosi delle mani per enfatizzare le proprie parole. A un tratto si fermò di scatto e si voltò verso Mark. « Il generale Smuts è rimasto molto colpito da te sia quella notte a Booysens sia in altre circostanze. » S'interruppe di nuovo e i suoi occhi assunsero un'espressione astuta, ma Mark era troppo intento per accorgersene. « Non ho avuto difficoltà a convincerlo che eri l'uomo ideale per quel lavoro. » « Quale lavoro? » gli domandò Mark con interesse. « La prima zona di cui intendo occuparmi è quella che comprende il Passo Chaka e la valle del Bubezi. Ci vuole qualcono che faccia i rilevamenti necessari, così, quando ci presenteremo in Parlamento, potremo parlare con cognizione di causa. Tu conosci bene quei posti... »
I grandi silenzi e la pace di quei territori incontaminati si ripresentarono alla memoria di Mark ed egli senti di desiderarli con la stessa intensità con cui un bevitore desidera l'alcool. « Naturalmente, quando la legge sarà stata approvata dal Parlamento, ci sarà bisogno di qualcuno che la faccia rispettare. » Mark si abbandonò lentamente contro lo schienale della poltrona. La sua ricerca era terminata. Come una nave uscita dalla baia, anche lui aveva trovato la propria rotta e il vento che soffiava propizio gli faceva presagire un viaggio felice. « Bene, adesso tocca a te. Di che cosa volevi parlarmi? » gli domandò Sean in modo garbato. « Non ha più importanza », rispose Mark sottovoce. « Nessuna importanza. » Gli occhi gli brillavano come quelli di un neofita al momento della rivelazione. Mark Anders non aveva mai saputo cosa fosse la felicità, nemmeno da bambino e, come un ragazzino che per la prima volta si ritrova a bere un liquore forte, era del tutto impreparato ad affrontarla. Lo stato di ebbrezza in cui si trovava e l'esaltazione di cui era preda gli stavano facendo vivere un'esperienza che non avrebbe mai creduto possibile. Sean Courteney aveva assunto un nuovo segretario per sostituire Mark. Era un ometto serio dalla calvizie precoce che sfoggiava una giacca lustra di alpaca nera e un colletto fuori moda di celluloide con le punte rivoltate. Il suo abbigliamento da lavoro era completato da una visiera verde e da un paio di mezze maniche di carta. Lavorava in silenzio e con grande efficienza, e nessuno a Lion Kop si sarebbe sognato di chiamarlo con altro nome che « signor Smathers ». Mark si sarebbe fermato ancora un mese per istruire il signor Smathers nei suoi nuovi compiti, sistemare le proprie cose e prepararsi alla partenza. L'efficienza del signor Smathers era tale che dopo una settimana Mark si trovò totalmente sollevato dai propri impegni e libero, quindi, di podere appieno della sua nuova felicità. Solo ora che il sogno si era trasformato in realtà si rendeva conto dell'influenza che gli alti bastioni di pietra del Passo Chaka avevano avuto sulla sua vita, finendo col diventarne il centro. Avrebbe voluto essere già là, in quello splendido luogo di pace, a costruire qualcosa che sarebbe durato in eterno. Il recente turbine di vicende e di emozioni lo aveva distolto dal dovere che si era prefissato, quello di trovare la tomba del nonno Anders, facendo luce sul mistero che circondava la sua morte. Ma il tempo dell'indecisione era finito, finalmente aveva chiarito i propri scopi e aveva dato un senso alla propria vita. Questo, però, non costituiva altro che la base della sua felicità, la base da cui lanciarsi verso le altezze vertiginose del proprio amore.
Da quell'attimo indimenticabile sulla conca erbosa della scarpata era sorto un incanto senza fine. L'amore che si era tenuto dentro per tanto tempo, freddo e pesante come una pietra, in un unico, magico istante era sbocciato dando vita a una pianta rigogliosa dai mille colori, così splendida, vigorosa e capace di esaltarlo al punto che non finiva di stupirsene. Nessuno doveva conoscerne l'esistenza, e così tra lui e Storm era un continuo intrecciarsi di accordi segreti, piani elaborati, sotterfugi complessi, escogitati apposta per proteggere questo loro tesoro. In presenza di altri non si rivolgevano la parola ed evitavano persino di guardarsi, ma il freno che si erano imposto pesava a tal punto su di loro che, appena si ritrovavano soli, si buttavano avidamente l'uno sull'altra. Quando non erano soli, invece, passavano il loro tempo a studiare tutti i possibili sistemi per esserlo. I bigliettini che si passavano sotto il tavolo alla presenza di Sean e Ruth ardevano di tale passione che avrebbero scottato le dita di chiunque li avesse toccati. Elaborarono un sistema di segnali e scovarono luoghi segreti in cui incontrarsi, correndo un'infinità di rischi. Il pericolo aggiungeva sapore al loro già ricco banchetto amoroso ed essi erano tormentati da una fame insaziabile. All'inizio si erano recati a cavallo negli angoli più segreti della foresta, seguendo percorsi separati e contorti, e coprendo gli ultimi chilometri al galoppo, cosicché, quando arrivavano, erano completamente senza fiato. Si abbracciavano ridendo, senza scendere di sella, mentre i cavalli scalpitavano e sbuffavano. La prima volta erano caduti allacciati sul letto di felci e foglie morte, senza curarsi di legarli. Il ritorno a piedi era stato lungo, soprattutto perché l'avevano compiuto aggrappati l'una all'altro come due ubriachi, tra continue risate. Per fortuna i cavalli si erano fermati in un campo di erba medica, senza raggiungere la stalla, evitando così di mettere in allarme gli stallieri. Nessuno aveva scoperto il loro segreto, ma da quel momento si erano adattati a perdere qualche attimo prezioso per permettere a Mark di impastoiare i cavalli. Ben presto non si accontentarono più di quell'ora rubata durante il giorno e cominciarono a incontrarsi nello studio di Storm. Mark si arrampicava sull'albero di baniano, mentre Storm gli teneva aperta la finestra, lanciando un gridolino d'orrore quando gli scivolava un piede o bisbigliando qualche parola d'avvertimento se sentiva passare un servo. Poi, nel momento in cui scavalcava il davanzale, batteva le mani entusiasta e gli gettava le braccia al collo. Nello studio non c'erano mobili, il pavimento era di legno e il pericolo che entrasse qualcuno era troppo grande perché riuscissero a dimenticarlo. Eppure, con la fantasia propria degli innamorati, scoprirono molto presto che Mark era abbastanza forte, lei abbastanza leggera e che in amore tutto è possibile.
Una volta Mark, al culmine della passione, aveva perso l'equilibrio mandandola a finire addosso a uno dei suoi capolavori incompiuti. Le era toccato inginocchiarsi sulla sedia di legno, con le gonne sollevate fino alla vita e il piccolo didietro tondo in bella mostra, per permettere a Mark di toglierle le macchie color terra bruciata e blu di Prussia con uno straccio impregnato di trementina, compito che era stato reso ancor più difficile dalle risate irrefrenabili da cui Storm era stata scossa. L'imbarazzo l'aveva fatta arrossire a un punto tale che anche il suo sedere si era soffuso di un delicato rosa: da quel giorno l'odore di trementina ebbe sempre su Mark un effetto afrodisiaco. Un'altra volta avevano udito l'inconfondibile passo pesante e strascicato di Sean che si avvicinava nel corridoio fuori dello studio, ed erano rimasti con le orecchie tese in ascolto, paralizzati e pallidi come morti, non osando quasi di respirare. Il colpo perentorio alla porta aveva gettato nel panico Storm, che aveva fissato su Mark gli occhi sgranati dal terrore. Lui si era subito reso conto del pericolo e aveva reagito con grande presenza di spirito. Se Sean avesse visto la pupilla dei suoi occhi che si faceva scopare da lui, non avrebbe esitato un attimo a far fuori prima entrambi e poi se stesso. Il colpo si ripete, impaziente e minaccioso, e, mentre si rivestivano con mani frenetiche, Mark sussurrò a Storm di rispondere. Lei eseguì coraggiosamente, anche se con voce incerta. « Un attimo, papà. » Afferrando il grembiule sporco di colore, Mark glielo infilò dalla testa, poi prese un pennello dal vaso in cui erano contenuti e glielo ficcò in mano; infine, stringendole le spalle per farle coraggio, la spinse delicatamente verso la porta. Lui andò ad accoccolarsi nello spazio angusto tra il muro e una tela che vi era appoggiata, cercando di trattenere il fiato. Udì il rumore del chiavistello che veniva tirato e la voce di Storm che salutava il padre. « Adesso chiudiamo anche la porta a chiave, eh, signorina? » brontolò Sean, lanciando un'occhiata sospettosa allo studio deserto. « Disturbo, forse? » « No, papà, tu mai! » Sean entrò nella stanza, mentre lei lo seguiva stranamente remissiva, e fece qualche commento sul quadro che stava terminando. « Non ci sono alberi su Wagon Hill. » « E' un quadro, papà, non una fotografia. L'albero serve a equilibrare la composizione. Non sembra anche a te che sia meglio così? » Si era ripresa in modo egregio e Mark provò per lei una fitta d'amore quasi dolorosa. Spinse la propria audacia fino a dare un'occhiata oltre il bordo della tela, e la prima cosa che vide fu una costosa combinazione di candida seta con le gambe strette da una finitura di pizzo color avorio, che giaceva abbandonata sul pavimento dello studio là dove Storm l'aveva lasciata cadere poco prima.
Sentì un velo freddo di sudore inumidirgli la fronte; lì, sul pavimento nudo, quel pezzo di seta era più vistoso della bandiera di un reggimento. Allungò le dita per raggiungere il fagottino peccaminoso, ma era troppo lontano. Storm, che stava appesa al braccio del padre - forse perché non aveva la forza di reggersi sulle gambe -, notò il braccio di Mark proteso in quel tentativo disperato e, vedendo ciò che la sua mano cercava di raggiungere, si senti riprendere dal panico. Balbettando delle risposte senza senso alle domande del padre, cercò invano di spingerlo verso la porta, ma era come distogliere un elefante maschio dalla meta che si era prefisso. Sean procedeva inesorabile verso l'indumento abbandonato e la tela dietro la quale Mark era nascosto. Un ultimo passo e la seta si avvolse attorno alla punta del suo stivale. La stoffa era così sottile che Sean non se ne accorse nemmeno e continuò a camminare con il piede fasciato in modo stravagante da quell'esotico oggetto femminile, mentre i due giovani seguivano terrorizzati il viaggio della combinazione attraverso la stanza. Quando giunsero alla porta, Storm gli buttò le braccia al collo e lo baciò, riuscendo al tempo stesso ad ancorare saldamente l'indumento sotto il proprio piede; poi spinse con una certa energia il padre in corridoio, chiudendogli la porta alle spalle. Esausti per l'emozione e le risate, si abbracciarono in mezzo allo studio. Appena riuscì a ricuperare la voce, Mark, traendo insegnamento dall'esperienza, le disse: « D'ora in poi non correremo più rischi, hai capito? » « Sissignore », convenne Storm con un'aria remissiva che il bagliore perverso degli occhi provvide subito a smentire. Poco dopo mezzanotte Mark fu svegliato da una lingua appuntita che gli stuzzicava l'orecchio, e avrebbe lanciato un urlo se non glielo avesse impedito la mano piccola e forte che Storm gli teneva premuta sulla bocca. « Sei impazzita? » le sussurrò, quando la vide china su di lui alla luce della luna che entrava dalla finestra aperta. Aveva attraversato tutta la casa, infilandosi nei corridoi deserti e oltrepassando le scale scricchiolanti, nel buio più pesto e con indosso soltanto un pigiama leggero. « Si », gli rispose lei, ridendo. « Sono impazzita, sono completamente pazza, sono preda di una sconvolgente follia. » « Cosa fai qui? » le domandò; non era ancora del tutto sveglio, altrimenti si sarebbe ben guardato dal chiederglielo. « Sono venuta a violentarti », gli rispose, infilandosi nel letto. « Ho i piedi freddi », gli annunciò poi in tono regale. « Scaldameli. » « Per l'amor di Dio, non fare tanto baccano », la scongiurò, anche se, date le circostanze, la richiesta non era priva di ironia, soprattutto considerando il fatto che il coro di gemiti che si levò dalle loro bocche qualche istante dopo avrebbe potuta svegliare tutta la casa.
Molto tempo dopo, Storm gli mormorò, con quella sua voce carezzevole e felina che Mark aveva imparato a conoscere così bene: « Lei è un uomo davvero abile, signor Anders. Dove ha imparato a essere così depravato? » Poi, con un risolino assonnato, soggiunse: « E' meglio che tu non risponda, se non vuoi che ti cavi gli occhi ». « Non devi più venire qui. » « Perché no? A letto è molto meglio. » « Cosa farebbe tuo padre, se ci scoprisse? » « Ti ucciderebbe », gli rispose in tono indifferente. « Ma questo che cosa c'entra? » Uno dei vantaggi secondari di quel rapporto era che Storm poteva finalmente servirsi di un modello maschile, cosa che aveva sempre desiderato, ma che non aveva mai avuto il coraggio di chiedere a suo padre. Sapeva fin troppo bene quale sarebbe stata la sua reazione. Mark non era propriamente entusiasta dell'idea, e lei aveva dovuto ricorrere a tutte le sue arti per convincerlo a spogliarsi e a mettersi in posa. Aveva scelto uno dei loro luoghi segreti, nel folto della foresta, ed ora erano lì, Storm con il pennello in mano e Mark appollaiato con aria impacciata su un tronco caduto. « Rilassati », lo pregò. « Pensa a qualcosa di bello. » « Mi sento un idiota », protestò lui. Indossava solo un paio di mutande di cotone a strisce che si era rifiutato di togliere, nonostante le preghiere della ragazza. « Non c'è niente, qui sotto, che potresti mettere sulla tela », aveva sottolineato. « Ma non è questo il punto. Dovresti rappresentare un greco antico ... non si è mai visto un atleta greco in mutande. » « Niente da fare », tagliò corto Mark. « Queste restano. Non parliamone più. » Storm sospirò - gli uomini erano proprio intransigenti - e si dedicò ai colori. Pian piano Mark si rilassò e cominciò persino ad apprezzare la sensazione di libertà che gli dava l'assenza di abiti e il piacere di sentire sulla pelle l'aria e il sole. Gli piaceva guardarla mentre lavorava. Osservava, piacevolmente attratto, la piccola ruga di concentrazione sulla fronte, gli occhi socchiusi, i denti bianchi come porcellana che mordicchiavano il labbro inferiore, la danza rituale che faceva attorno alla tela, e, guardandola, immaginò un futuro in cui entrambi avrebbero camminato mano nella mano in quella specie di Eden che si stendeva oltre il Passo Chaka. Un futuro radioso di felicità, benedetto dal lavoro e dai risultati raggiunti. Cominciò a descriverglielo, rivestendo i propri pensieri di parole che Storm non sentì neppure. Non avrebbe potuto, perché le sue orecchie erano sbarrate: tutta la sua esistenza era concentrata negli occhi e nelle mani, e nulla aveva importanza per lei se non le forme, i colori e l'atmosfera del momento. Vide il corpo di Mark perdere ogni rigidezza e assumere una
posa naturale, quale lei non avrebbe mai saputo conferirgli; vide l'espressione rapita del suo volto e annuì, mormorando parole d'assenso, per non rovinare quel suo stato di grazia, mentre le mani correvano rapide a catturare la magia di quell'attimo. La sua mente e le sue capacità erano concentrate in quell'unico compito, e, anche se il suo volto radioso pareva un riflesso di quello di Mark ed essi sembravano uniti dall'amore reciproco e dall'identità di propositi, in realtà la distanza tra di loro era maggiore di quella tra la terra e la luna. « Studierò il terreno per trovare il posto giusto dove situare la casa », le disse Mark. « Mi ci vorrà un anno intero, perché dovrò valutarlo in tutte le stagioni. Dovrà essere vicino all'acqua per superare i periodi di siccità, ma non troppo per via delle alluvioni. Ventilato d'estate e riparato d'inverno. » « Oh, si », mormorò Storm. « E' un'idea splendida. » Ma badava soltanto ai suoi occhi. « Se solo riuscissi a catturare quella macchiolina di luce che li rende casi brillanti », pensava, aggiungendo al bianco un tocco di blu per preparare il colore. « Due stanze, per cominciare. Una per dormire e l'altra per viverci, oltre, naturalmente, a una grande veranda aperta sulla vallata. » « Mi sembra meraviglioso », commentò lei in tono esultante, toccando l'occhio con la punta del pennello. Bastò quello perché il volto acquistasse vita e la scrutasse dalla tela con un'espressione che le strinse il cuore. « Estrarrò la pietra dai bastioni; dall'altra parte del fiume. però, per non lasciare cicatrici che rovinino il paesaggio. Taglierò la paglia per il tetto ai bordi della palude, e i pali per sostenerlo nella foresta. » Il sole, che era ormai arrivato a occidente, filtrava attraverso il fogliame. La luce fresca e verde dei suoi raggi si posò sui muscoli lisci del braccio di Mark e sul suo dorso marmoreo, e Storm notò quanto era bello. « La progetterò in modo che sia possibile ampliarla, se ce ne sarà bisogno. Quando arriveranno i bambini, cederemo loro il soggiorno e costruiremo una nuova ala. » Poteva quasi sentire l'odore aromatico dei pali di wit-el e il profumo dolce del fieno appena tagliato, e con la fantasia vide il tetto nuovo e lustro scurirsi e ammorbidirsi col tempo; sentì la frescura delle grandi stanze nell'ora calda del mezzogiorno e udì il crepitio dell'acacia che ardeva nel caminetto di pietra nelle notti fredde e stellate. « Saremo felici, Storm; te lo prometto. » Furono le uniche parole che la ragazza udì, e alzò il capo a guardarlo. « Oh, sì. Saremo felici », gli fece eco, e i due giovani si sorrisero senza essersi minimamente intesi. Quando Sean disse a Ruth che Mark aveva deciso di partire, la reazione di sconforto della moglie lo lasciò stupito e allarmato. Non si era reso conto che il ragazzo avesse conquistato un posto così grande nel suo cuore.
« Oh, no, Sean », aveva protestato. « E' meno grave di quello che sarebbe potuto essere », si affrettò a rassicurarla. « Vivreino lontani, ma non lo perderemo. Continuerà a lavorare per me, anche se solo in veste ufficiale. » Le raccontò tutto. Quando finì, Ruth rimase in silenzio per un attimo, per riflettere su ciò che aveva appena ascoltato, prima di manifestargli la propria opinione. « E' un compito a cui mi sembra adatto », ammise infine. « Anche se mi ero abituata ad averlo attorno. Mi mancherà. » Sean emise una specie di grugnito d'assenso, incapace di esprimere con altrettanta franchezza i suoi sentimenti. « Bene », proseguì Ruth immediatamente, rivolgendo la propria attenzione ai problemi pratici. « Bisognerà che cominci a darmi da fare. » Ciò significava che Mark Anders sarebbe stato assistito nei preparativi della partenza da uno dei maggiori esperti nel campo. Ruth aveva salutato il proprio uomo che andava in guerra o partiva per la caccia così spesso da sapere esattamente ciò che era necessario alla sopravvivenza nella boscaglia africana. Aveva imparato a limitare i bagagli all'indispensabile, conscia che ogni lusso superfluo sarebbe stato subito rifiutato o abbandonato lungo il cammino. Gli oggetti che sceglieva erano tutti della migliore qualità, perché era andata a saccheggiare la borsa da campagna di Sean, giustificando a se stessa ogni furto con l'affermazione: « Tanto a Sean non servirà più ». Il sacco a pelo aveva bisogno di essere rammendato e lei lo riparò, facendo un piccolo capolavoro. Poi si dedicò alla scelta dei libri, unico genere voluttuario che Mark avrebbe portato con sé. Ne discussero assieme a lungo, perché i problemi di peso e di spazio rendevano indispensabile una scelta di libri che potessero essere letti e riletti più volte. La materia prima non mancava di certo: centinaia di vecchi volumi ammaccati, segnati dalla pioggia e dal fango, coperti di macchie di tè e, in qualche caso, da qualche spruzzo di sangue, sbiaditi dal sole e dall'età, che avevano percorso grandi distanze nella borsa di tela di Sean. Dopo un'accurata selezione il « comitato di lettura » diede la propria preferenza a Macaolay e Gibbon, a Kipling e a Tennyson, a Shakespeare e a una piccola edizione della Bibbia rilegata in cuoio, e Mark, il cui equipaggiamento fino a quel momento consisteva di una coperta, un pentolino e un cucchiaio, ebbe la sensazione che gli fosse stato offerto un intero appartamento in un albergo di lusso. Sean fornì il resto dell'attrezzatura, e cioè il Mannlicher nella sua custodia di cuoio e un paio di muli, due animali robusti, grandi lavoratori e di buon carattere, che erano stati debitamente esposti alla puntura della tse-tse ed erano sopravvissuti, risultando quindi vaccinati. Sean li aveva pagati un occhio della testa, ma la nagana era mortale nel novanta per cento dei casi e sarebbe stato meglio sparare in mezzo agli occhi a un animale piuttosto che portarlo nella zona oltre il
Passo Chaka, infestata dalla tse-tse. Ogni giorno Sean dedicava un'ora del proprio tempo a discutere con Mark gli obiettivi primari della spedizione. Stesero un elenco cui aggiungevano di continuo nuove voci e, con l'allungarsi della lista, cresceva anche l'entusiasmo di Sean. A volte, durante questi loro incontri, si interrompeva e, scuotendo il capo, borbottava: « Hai una bella fortuna! Non sai cosa darei per avere di nuovo la tua età e potermene tornare nella boscaglia ». « Potrà sempre venirmi a trovare », gli diceva Mark, sorridendo. « Lo farò senz'altro », lo assicurava Sean, sistemandosi gli occhiali sul naso e passando al punto successivo. Il primo dei compiti di Mark sarebbe stato quello di compilare un elenco approssimativo delle specie di fauna selvatica sopravvissute nella zona con relativo numero di esemplari. Era un dato di importanza fondamentale: bisognava che gli animali fossero in numero sufficiente per der credito e valore ai loro sforzi. « Non vorrei che fosse già troppo tardi », osservava talvolta Sean. « No », si opponeva Mark, rifiutandosi di prendere in considerazione l'eventualità. « Lassù ci sono animali a sufficienza, ne sono certo. Quanto bastano perché valga la pena di tentare. La seconda cosa da fare sarebbe stata quella di mettersi in contatto con le tribù che ancora vivevano nel territorio, gli zalu che allevavano bestiame lungo la fascia della tse-tse, i cacciatori e raccoglitori che vivevano al suo interno, rintracciando i gruppi di nomadi e battendo la zona villaggio per villaggio, per appurare quale sarebbe stata la reazione degli indigeni all'istituzione di un parco nazionale e per informarli della novità. Quello che da sempre avevano considerato terreno di proprietà comune, in cui cacciare e portare gli animali al pascolo, sarebbe passato sotto il controllo dello Stato. Da quel momento in poi non avrebbero più potuto tagliare gli alberi e l'erba a loro piacimento, e nemmeno raccogliere i frutti o uccidere gli animali. La conoscenza approfondita della lingua avrebbe aiutato Mark a farsi capire. All'inizio si sarebbe accontentato di una sistemazione temporanea, ma avrebbe studiato la zona per trovare il posto adatto a costruire una dimora stabile. Seguivano una cinquantina di altri punti meno urgenti, ma non meno laboriosi. Mark era eccitato e incuriosito, e non vedeva l'ora di cominciare. Tuttavia, man mano che il giorno della partenza sí avvicinava, la nube che incombeva sullo splendido orizzonte del suo futuro si faceva sempre più grossa e minacciosa. Avrebbe dovuto separarsi da Storm, ma si consolava pensando che non sarebbero stati lontani per molto. Avrebbe semplicemente preceduto la sua Eva nell'Eden per prepararle una dimora adatta.
Si era addormentato sul letto di foglie secche, con le braccia aperte come un crocifisso, senza nemmeno le mutande di cotone a coprire in parte la nudità, e Storm, guardandolo, dischiuse le labbra nel sorriso caldo e possessivo di una madre che osserva la propria creatura attaccata al seno. Anche lei era nuda, e i suoi abiti erano sparpagliati tutt'attorno come i petali di una rosa troppo dischiusa, dispersi dal vento tempestoso di una passione ora sedata. Seduta a gambe incrociate sulla coperta, studiava il suo volto, pensando a quanto sembrava giovane nel sonno, sentendosi prendere alla gola dalla tenerezza e provando dentro il corpo, nel punto in cui Mark era stato, quella sensazione di dolce sfinimento che lascia l'amore. Si chinò su di lui, e il suo seno oscillò con una nuova pesanteza. Anche i capezzoli si erano fatti più scuri e sporgevano come chicchi d'uva bruno-rosati. Chinò le spalle e lasciò che gli sfiorassero lievemente il viso, poi sorrise di nuovo, vedendo che Mark arricciava il naso e protendeva le labbra, sbuffando come se intendesse scacciare una mosca fastidiosa. All'improvviso si destò e tese una mano per afferrarla. Storm lanciò un gridolino strozzato e si scostò, dandogli un colpetto sulle mani. « Mi lasci subito andare, signore! » gli ordinò, ma lui la acchiappò e le attirò la testa sul petto, cosicché Storm sentì sotto l'orecchio i battiti del suo cuore. Si accovacciò accanto a lui, emettendo dei piccoli gemiti di piacere. Mark tirò un sospiro profondo; il suo torace si gonfiò e Storm udì l'aria che gli riempiva i polmoni. « Mark », gli disse. « Cosa c'è? » « Non ci andrai. Lo sai, vero? » Mark trattenne il fiato, e l'aria nei polmoni si arrestò così come la mano che le stava accarezzando la schiena. Storm sentì le sue dita che si irrigidivano. Rimasero così per qualche istante, poi Mark espirò di colpo con una sorta di brontolio minaccioso. « Cosa significa? » le domandò. « Dov'è che non dovrei andare? » « In quel posto nella boscaglia. » « Vuoi dire il Passo Chaka? » « Sì. Non ci andrai. » « Perché no? » « Perché te lo proibisco. » Mark si rizzò a sedere di scatto, scostandola bruscamente. Rimasero seduti l'uno di fronte all'altra e Mark la fissò con un'espressione tale che Storm si fece passare le dita tra i capelli e poi incrociò le braccia sul seno come per proteggersi. « Storm, di cosa diavolo stai parlando? » le chiese. « Non voglio che tu perda altro tempo », replicò lei. « Devi cominciare a farti una posizione, se vuoi diventare qualcuno. » « Ma è questa la mia strada, la nostra strada », insisté Mark,
stupefatto. « Non eravamo d'accordo che ti avrei preceduto per costruire quella che sarebbe diventata la nostra casa? » « Una casa! » esclamò Storm, incredula e preoccupata. « Lassù nella boscaglia? E io dovrei andare a vivere in una capanna? Devi essere impazzito! » « Ma io credevo... » « Smettila di giocare », gli disse in tono energico. Poi raccolse da terra la camicetta e se la infilò, e quando la testa arruffata emerse dall'apertura, soggiunse: « E' ora che cominci a guadagnare un pò di soldi ». « Ma li guadagnerò ugualmente », ribatté lui, con espressione dura, quasi ostile. « Ah sì? E come? » chiese Storm in tono altrettanto gelido. « Be', avrò il mio stipendio. » « Uno stipendio! » La ragazza buttò indietro la testa e scoppiò in una risata sprezzante. « Uno stipendio, davvero! E a quanto ammonta? » « Non lo so », ammise lui. « Non è molto importante. » « Sei un bambino, Mark. Uno stipendio! Magari venti sterline alla settimana! Credi davvero che riuscirei ad accontentarmi di così poco? Ma lo sai chi sono quelli che vivono di uno stipendio? » E pronunciò l'ultima parola in tono di profondo disprezzo. « Sono i tipi come il signor Smathers. » Si era alzata in piedi e stava saltellando nervosamente su una gamba per infilarsi le mutandine. « I capireparto di papà, giù alla segheria... i camerieri che ci servono a tavola, gli stallieri... ecco chi prende uno stipendio. » Si tirò su i calzoni, riacquistando in pieno la propria dignità. « Un vero uomo non si accontenta di così poco, Mark », proseguì con voce acuta. « Vuoi sapere cosa fanno i veri uomini? » Mark scosse il capo in silenzio; costretto dal suo esempio, anche lui si era infilato i calzoni e li stava abbottonando. « I veri uomini li danno, gli stipendi, non li prendono. Lo sai che, quando mio padre aveva la tua età, era già miliardario? » Mark non seppe mai cos'era stato a provocarlo, forse il nome di Sean pronunciato in quel momento particolare, fatto sta che perse la pazienza. « Non m'importa niente di quello che faceva il tuo dannato papà », gridò. « Non ti permettere di insultarlo », urlò Storm di rimando. « Non sei neppure degno di lustrargli le scarpe. » Si fissarono come due animali in lotta, ansimanti e rossi in viso, con gli abiti spiegazzati, i capelli in disordine e gli occhi fiammeggianti, incapaci di parlare per la rabbia e la delusione. Storm fu la prima a cedere. Inghiottì vistosamente e protese le mani con i palmi sollevati. « Ascolta, Mark. Ho già pensato a tutto. Se decidessi di lavorare con papà, sono sicura che ti darebbe una rappresentanza; così potremmo vivere a Johannesburg. » Mark era ormai troppo in collera per poter tornare indietro. « Grazie », le rispose in tono aspro. « Così io dovrei passare la
vita a mettere insieme i soldi che ti servono a comprare quei ridicoli vestiti e... » « Non azzardarti a insultarmi, Mark Anders », sibilò Storm. « Io sono quello che sono e intendo rimanerlo finché campo. Se mi amassi davvero, mi rispetteresti. » « E se tu amassi me, non penseresti neanche per un attimo di farmi vivere in una capanna. » « Io ti amo », ribatté Mark gridando. « Ma, quando sarai mia moglie, farai quello che dico io. » « Attento, Mark Anders, non provocarmi. Non ti conviene! » « Ci sposeremo... » cominciò, ma Storm raccolse gli stivali e corse verso il cavallo. Si chinò per slegarlo e gli saltò in sella a piedi nudi. Poi si voltò a guardare Mark, rossa di rabbia. « Non ne sarei tanto sicuro, se fossi in te! » replicò, cercando di controllare la voce, che le usci gelida e tagliente. Poi voltò l'animale e lo lanciò al galoppo. « Dov'è Storm? » domandò Sean, lanciando un'occhiata al posto vuoto, mentre spiegava il tovagliolo e ne infilava una cocca nel panciotto. « Non si sente molto bene », rispose Ruth, prendendo la minestra dalla zuppiera panciuta e versandola nei piatti tra una nuvola di fragrante vapore. « Le ho permesso di cenare in camera. » « Che cos'ha? » chiese Sean, aggrottando la fronte in segno di preoccupazione. « Oh, niente di grave », rispose Ruth col tono fermo di chi non intende discutere oltre. Sean la fissò per un attimo e infine capì. « Oh! » esclamò. La fisiologia femminile era sempre stata avvolta per lui dal più profondo mistero e gli suscitava una sorta di reverenziale timore. « Oh! » ripete, protendendosi in avanti per soffiare rumorosamente sul cucchiaio colmo nel tentativo di nascondere l'imbarazzo e il lieve dispiacere che provava all'idea che la sua adorata bambina non fosse più una bambina. Mark, che era seduto dall'altra parte del tavolo, si concentrò sulla minestra con la stessa determinazione, ma con una dolorosa sensazione di vuoto in mezzo al petto. « Dov'è Storm stasera? » chiese Sean con una punta di diffidenza nella voce. « Non sta ancora bene? » « Ha telefonato a Irene Lenchars. Pare che i Leuchars diano una grande festa stasera e-lei ha voluto andarci. Ha preso la Cadillac. » « Dove dormirà? » « Dai Leuchars, naturalmente. » « Avrebbe dovuto chiedermi il permesso », osservò Sean, accigliandosi. « Sei stato tutto il giorno alla segheria, caro. Bisognava de-
cidere subito, altrimenti non avrebbe fatto in tempo ad arrivare. Pensavo che saresti stato d'accordo. » A Sean dispiaceva tutto quello che allontanava sua figlia da lui, ma non poteva certo ammetterlo. « Credevo che odiasse Irene. » « E' successo il mese scorso. » « Pensavo che non stesse bene », insiste Sean. « E' successo ieri sera. » « Quando tornerà? » « Forse si fermerà fino a domenica per assistere alle corse. » Mentre Mark li ascoltava, il senso di vuoto che aveva nel petto si trasformò in un'enorme voragine. Storm se n'era andata a raggiungere quel gruppo di giovani ricchi e indolenti, che pensavano solo a divertirsi passando da una festa all'altra, mentre lui, domenica, sarebbe partito con due muli per il territorio selvaggio oltre il Passo Chaka. Chissà come aveva fatto a saperlo, si domandò Mark. Per lui quella era l'ennesima prova dell'enorme potere di Dirk Courteney, i cui tentacoli arrivavano ovunque. « A quanto mi risulta, il Governo l'ha incaricata di verificare se valga la pena di dichiarare parco nazionale la zona oltre il Passo Chaka », osservò Dirk. Mark non riusciva quasi a credere di essere davvero lì, disarmato e privo di protezione, nella casa di Great Longwood. Il senso del pericolo incombente gli procurava uno strano formicolio, i suoi nervi erano tesi come corde di violino ed egli si muoveva con cautela eccessiva, tenendo le mani strette a pugno, ficcate nelle tasche dei calzoni. Dirk Courteney gli camminava accanto, alto, affabile e cortese. Si voltò a parlargli con un largo sorriso sulla bella bocca e gli appoggiò una mano sul braccio. Era un gesto lieve e amichevole, ma Mark ne restò turbato come se un mamba l'avesse baciato con la linguetta nera e saettante. « Come avrà fatto a saperlo? » si domandò ancora, fissandolo e rallentando il passo, in modo da sottrarsi alla mano dell'altro. Se anche Dirk se ne accorse, non lo diede a vedere, e continuò a sorridere, lasciando cadere la mano con naturalezza ed estraendo dalla tasca della giacca il portasigarette d'argento. « Provi una di queste », mormorò. « Me le faccio preparare appositamente. » Mark annusò l'aroma dolciastro del tabacco turco e approfittò dell'atto di accendere la sigaretta per nascondere la sorpresa e l'imbarazzo. Solo Sean Courteney e la sua famiglia erano al corrente del suo viaggio, oltre naturalmente all'ufficio del Primo Ministro... Già, doveva essere così. Ma se i tentacoli di Dirk Courteney erano riusciti a spingersi fin lì, bisognava ben dire che il suo potere era davvero sconfinato. « Mi sembra di poter interpretare il suo silenzio come una conferma », osservò Dirk, mentre percorrevano il viottolo la-
stricato su cui si affacciavano le poste imbiancate a calce. Da sopra le mezze porte, i cavalli protendevano le teste verso Dirk, che si fermava di tanto in tanto ad accarezzare un muso vellutato con dita sorprendentemente delicate, mormorando qualche complimento. « Lei è un giovanotto di poche parole », osservò poi, rivolgendogli un altro dei suoi sorrisi accattivanti. « Apprezzo la gente che sa tenere per sé i propri pensieri e rispetta il silenzio degli altri. » Si voltò verso Mark, costringendolo a guardarlo negli occhi. Dirk gli ricordava un felino dal pelo lucente, non certo un esemplare domestico, bensì uno dei grandi predatori. Un leopardo, dorato, bello e crudele. Si stupì del coraggio, o piuttosto dell'incoscienza con cui si era inoltrato fin dentro la sua tana. Un anno prima, mettersi nelle mani di quell'uomo sarebbe stato come suicidarsi, e anche ora Mark non avrebbe avuto l'ardire di farlo se non avesse potuto contare sulla protezione di Sean Courteney. Eppure, anche se sapeva che nessuno, nemmeno Dirk, avrebbe osato fargli del male, un brivido d'apprensione gli serpeggiò lungo la spina dorsale. Dirk gli prese il gomito con un gesto che Mark non riuscì a eludere e lo guidò attraverso un cancello fino ai recinti degli stalloni. Questi erano circondati da un'alta staccionata, completamente imbottita per evitare che i costosi animali potessero farsi male. All'interno dei due spazi rettangolari il terreno era coperto di segatura fino all'altezza della caviglia. Il primo recinto era vuoto, nell'altro c'erano quattro stallieri alle prese con i cavalli. Due uomini tenevano con doppie redini la giumenta, una giovane baia dal colore intenso, che aveva la testa armoniosa dei cavalli arabi, con le narici larghe, segno di temperamento focoso, e l'ossatura forte e delicata al tempo stesso. Dirk Courteney appoggiò un piede calzato di stivale sulla traversa inferiore della staccionata e si protese a guardarla con evidente orgoglio. « Mi è costata mille ghinee », osservò, « ed è stato un affare. » Gli altri due stallieri controllavano lo stallone, un vecchio animale dalla corporatura pesante con il muso spruzzato di grigio. Portava una fascia legata alla pancia e, tra le gambe posteriori, aveva una gabbia di maglia metallica, un specie di cintura di castità che doveva impedirgli di coprire la cavalla. Gli stallieri gli allentarono le redini perché le si avvicinasse, ma, nell'istante stesso in cui la giumenta si sentì sfiorare sotto la coda, abbassò il collo e scalciò con le zampe posteriori, mancando di poco la testa dello stallone. Questo sbuffò e indietreggiò. Poi, non convinto, si avvicinò un'altra volta fino a sfiorarle con il naso il pelo lucente del fianco, con la delicatezza di un innamorato. La giumenta fu percorsa da un brivido violento, simile a quello che avrebbe provato se fosse stata punta da una vespa, e lanciò un nitrito offeso di fronte a quel palese attacco alla sua virtù. Poi si sca-
gliò contro lo stallone scoprendo i denti gialli, e, prima che riuscissero a tirarla indietro, lo colpì al collo, lasciando nel mantello pomellato un taglio da cui sgorgò del sangue. « Povero diavolo », mormorò Mark. Anche se la ferita era poco profonda, l'ingiustizia della situazione era tale che le sue simpatie andavano tutte allo stallone. L'animale doveva sopportare i calci e i morsi della giumenta, finché questa non fosse passata a più miti consigli. Poi, terminato il suo lavoro, sarebbe stato portato via. « Non vale la pena di sprecare la propria simpatia per i perdenti », lo ammonì Dirk. « Ce ne sono fin troppi al mondo. » Nel recinto coperto di segatura, la giumenta alzò la coda, simile a un pennacchio ondeggiante, ed emise un rapido schizzo, segno dell'eccitazione raggiunta. Lo stallone le girò attorno, ritraendo il labbro superiore in modo da esporre i denti, poi, contraendo i muscoli delle spalle in uno spasmo violento, chinò il capo con forza cercando nuovamente di avvicinarsi. Questa volta la femmina non reagì, ma, con la coda sempre alzata tremò al tocco lieve del suo muso, pronta ad accoglierlo. « Basta », gridò Dirk. « Portatelo via. » Ci vollero le forze riunite di entrambi gli stallieri per riuscire a fargli girare la testa e a condurlo fuori del cancello che Dirk teneva aperto. « E' strano, ma sono convinto che lei non sia un perdente » continuò Dirk in tono disinvolto, mentre attendevano accanto al cancello. « Ecco perché l'ho fatta venire. Non tratto mai con una persona, se non è dotata di talento o di forza o di fantasia o di tutte queste qualità messe assieme. Credo che lei sia un tipa del genere. » In quel momento Mark capì che tutto faceva parte di un piano preordinato: dall'incontro con Peter Botes, il cognato di Marion Littlejohn, fuori dell'ufficio postale di Ladyburg, dove l'uomo aveva insistito perché si recasse immediatamente a casa di Dirk Courteney, togliendogli così la possibilità di discutere della proposta con Sean, fino allo spettacolo dei cavalli che si accoppiavano. Tutto era stato progettato per confonderlo e metterlo in difficoltà. « A mio parere, lei assomiglia di più a quest'altro », proseguì Dirk, mentre gli stallieri portavano lo stallone che avrebbe montato la giumenta, un animale troppo prezioso per rischiare di danneggiarlo accostandolo a una femmina ricalcitrante, un cavallo alto e nero come un'ala di corvo che avanzava orgoglioso, sollevando la soffice segatura con gli zoccoli lustri. Annusò la giumenta e si fermò di colpo, tremando sulle gambe rigide; il grosso membro arrogante gli uscì dal ventre, lungo come un braccio e altrettanto spesso, con l'estremità scintillante che pulsava di vita propria e batteva impaziente contro il ventre. « I perdenti lavorano e i vincenti si prendono il premio », commentò Dirk, mentre l'animale balzava sulla cavalla per mon-
tarla. Uno degli stallieri si precipitò a guidargli il membro, e la giumenta inarcò il dorso per essere penetrata. « Già, al mondo c'è chi vince e c'è chi perde », ripeté, osservando lo stallone che premeva con i quarti posteriori lucenti e muscolosi. Il suo bel volto si era imporporato e le mani stringevano i pali della staccionata con forza tale che le nocche si erano fatte bianche come il marmo. Quando infine lo stallone si ritrasse dalla giumenta e ricadde sulle quattro zampe, Dirk sospirò e, prendendo Mark per ti gomito, lo condusse via. « Lei era presente, quando ho parlato a mio padre dei miei progetti. » « E' vero », ammise Mark. « Ma bene », commentò Dirk con una risata cordiale. « Cominciavo a temere che avesse perso la voce. A quanto mi risulta, invece, quello che non le fa mai difetto è il cervello. » Mark gli lanciò un'occhiata di fuoco e Dirk soggiunse: « E naturale che abbia preso informazioni sul suo conto. Lei conosce il mio progetto fin nei minimi particolari; devo essere in grado di difendermi ». Costeggiarono il laghetto ornamentale, sotto la casa, la cui superficie era coperta di ninfee, che emanavano un profumo lieve e zuccherino nel calore pomeridiano, e proseguirono attraverso il roseto. Nessuno dei due disse più nulla finché non arrivarono nello studio dal soffitto alto, anche troppo ricco di mobilia. Dirk aveva chiuso le persiane per riparare la stanza dal caldo e adesso era fresca, buia e stranamente minacciosa. Indicò a Mark una poltrona vicino al camino e si avvicinò al tavolo su cui era appoggiato un vassoio d'argento pieno di bottiglie e bicchieri. « Beve qualcosa? » gli domandò. Mark scosse il capo in segno di diniego e lo osservò mentre si versava il liquore da una bottiglia scura. « Visto che è a conoscenza del mio piano, vorrei che mi dicesse cosa ne pensa », disse Dirk, senza distrarsi dal suo compito. « Mi sembra piuttosto grandioso », rispose Mark con cautela. « Grandioso? » ripete Dirk, scoppiando a ridere. « Non è il termine che userei io. » Levò il bicchiere in direzione di Mark e sorseggiò il contenuto, guardandolo al di sopra del bordo di vetro. « Che strana cosa il destino », pensò poi Dirk, osservando la figura snella e prestante del giovane. « Per ben due volte ho cercato di liberarmi di lui. Se ci fossi riuscito, ora non potrei più servirmene. » Appoggiò una gamba sopra l'angolo della scrivania e depose il bicchiere. « Si tratta di varcare una nuova frontiera, di far compiere al nostro Paese un altro enorme passo avanti, di creare posti di lavoro per decine di migliaia di persone, di costruire città, porti e ferrovie. » Aprì le braccia in un gesto che intendeva rappresentare quell'infinita serie di possibilità. « C'è un'unica parola che racchiude tutto questo
progresso! Chiunque cercasse di fermarlo sarebbe un pazzo, un criminale, un traditore, e come tale dovrebbe essere trattato! Una persona del genere è pericolosa, e dovrà essere eliminata a qualunque costo. » Si fermò e guardò Mark con occhi fiammeggianti. La minaccia era esplicita, e Mark si agitò sulla sedia, a disagio. « D'altro canto », proseguì Dirk con un sorriso improvviso come il sole che fori repentino uno strato di nuvole tempestose, a chi contribuirà alla realizzazione di questo immensa progetto avrà diritto a parte della ricompensa. » « Cosa vuole da me? » chiese Mark, e la domanda sorprese l'altro proprio mentre stava per lanciarsi nella parte finale della sua arringa. Dirk lasciò cadere le mani sui fianchi e lo fissò con aria d'attesa, come se sapesse che il giovane non aveva detto tutto. « E qual è la ricompensa cui ha alluso? » proseguì Mark. Dirk scoppiò a ridere deliziato: erano quelle le parole che attendeva. Ogni uomo aveva il suo prezzo. « Sa bene cosa voglio da lei. » « Sì, credo di saperlo », ammise Mark. « Allora me lo dica », lo invitò Dirk, scoppiando a ridere. « Vuole un rapporto dal quale risulti che la trasformazione dell'area protetta del Passo Chaka in parco nazionale non è consigliabile. » « E' lei che l'ha detto », osservò Dirk, prendendo il bicchiere e levandolo di nuovo in un brindisi. « Nondimeno, bevo alle sue parole. » « E la ricompensa? » proseguì Mark. « Non le basta la soddisfazione di aver compiuto il suo dovere nei confronti del Paese? » gli chiese Dirk in tono solenne. « La soddisfazione di cui parla l'ho già avuta abbondantemente in Francia », disse Mark a bassa voce. « Ma ho scoperto che non la si può né bere né mangiare. » Dirk scoppiò a ridere di nuovo. Era davvero contento. « Questa è buona, devo ricordarmela. E' sicuro di non volere qualcosa da bere? » Per la prima volta anche Mark sorrise. « Ma sì. Ho cambiato idea. » « Un whisky? » « Grazie. » Dirk si alzò e si diresse al vassoio d'argento. Doveva ammettere di provare un certo senso di sollievo. Se quell'uomo non si fosse lasciato comprare, come aveva cominciato a temere, sarebbe crollato uno dei pilastri su cui si fondava la sua intera filosofia. Ma per fortuna non era così. Anche lui aveva un prezzo, e nemmeno molto alto. Non era diverso dagli altri, pensò Dirk con subitaneo disprezzo. Si voltò verso Mark. « Ecco qui qualcosa da bere », disse, porgendogli il bicchiere. « E ora parliamo del mangiare. » Tornato alla scrivania, aprì uno dei cassetti e ne estrasse una busta di carta scura, sigillata con della ceralacca. L'appoggiò sul piano e prese il bicchiere. « Ecco una pro-
va della mia buona volontà. » « E cioè? » « Mille sterline », disse Dirk. « Sufficienti a comprare una montagna di pane. » « Una delle sue società ha acquistato la fattoria di mio nonno », esordì Mark in tono cauto. « Il nonno l'aveva promessa a me ed è morto senza lasciarmi neanche un soldo. » Il volto di Dirk si irrigidì e i suoi occhi si fecero attenti e sospettosi. Per un attimo fu tentato di fingere di non sapere niente, ma poi ricordò di aver detto che aveva preso informazioni su di lui. « Sì », ammise. « Sono al corrente della cosa. Il vecchio deve avere speso tutto. » « La fattoria è stata venduta per tremila sterline. E' denaro che mi spetta », proseguì Mark. Dirk calò di nuovo la mano nel cassetto e ne estrasse altre due buste uguali, che depose sopra la prima. « Per una strana coincidenza, ho proprio qui la somma che mi chiede », osservò. Era proprio una cifra modesta, riflette Dirk con un sorriso sprezzante. Si domandò cosa l'avesse indotto a pensare che quell'uomo fosse diverso dagli altri. Nel cassetto della scrivania c'erano altre sette buste identiche, ognuna delle quali conteneva dieci biglietti da cento sterline. A tanto aveva pensato di spingersi pur di avere quel rapporto. Ma no. In realtà sarebbe stato disposto ad andare oltre, molto oltre. « Prenda », disse sorridendo. « E' tutto suo. » E seguì con gli occhi Mark Anders che si alzava dalla poltrona, attraversava la stanza, prendeva le buste e se le infilava in tasca. I peli della barba di Sean Courtenev si rizzarono come gli aculei di un porcospino adirato e il suo volto assunse lentamente il colore di un mattone troppo cotto. « Buon Dio! » esclamò, fissando le tre buste posate sulla sua scrivania. I sigilli erano già stati rotti e il contenuto era stato suddiviso in tre mucchietti di banconote aperte a ventaglio. « E tu hai preso i suoi soldi? » « Sì, signore », rispose Mark, che stava in piedi davanti alla scrivania come uno scolaro che attenda una lavata di capo dal preside. « Hai una bella faccia di bronzo a portarmeli qui », dichiarò Sean, facendo il gesto di spazzare la scrivania. « Toglimi dalla vista questi sporchi quattrini. » « E' stata la sua prima lezione, generale. Non ricorda? I soldi sono importanti », insistè Mark in tono pacato. « Ma cosa ci dovrei fare con questi? » « Come presidente dell'associazione per la protezione della fauna africana, dovrebbe mandare al donatore una bella lettera, ringraziandolo per la generosa offerta... » « Di cosa diavolo stai parlando? » gli chiese Sean, guardandolo fisso. « A che razza di associazione ti riferisci? »
« L'ho appena fondata, signore. In seguito penseremo a stendere uno statuto e a darle una serie di obiettivi altisonanti, ma il suo scopo primario è quello di informare il pubblico di quello che stiamo facendo, di trovare degli appoggi... » Mark continuò a parlare rapidamente, esponendo il proprio progetto, e Sean rimase ad ascoltarlo, mentre il suo volto riprendeva pian piano il colorito solito e sulle labbra gli compariva un sorriso dapprima solo accennato che poi si dilatò deformandogli la barba. « Useremo questo denaro per una campagna stampa. La gente deve imparare a conoscere il patrimonio nazionale », proseguì Mark. Le idee gli sgorgavano una dietro l'altra e, mentre Sean lo ascoltava, il suo sorriso si trasformò in una risata sonora che gli scosse le spalle e continuò, irrefrenabile, per qualche minuto. « Basta! » esclamò esultante. « Siediti, Mark. Smettila di parlare. » Prese il fazzoletto e si tamponò gli occhi, soffiandosi il naso con fragore di tromba, mentre cercava di tornare padrone di sé. « E' indecente », bofonchiò. « Assolutamente sacrilego! Non hai il minimo rispetto per il denaro. Non ho mai conosciuto nessuno come te. » « Non è vero... solo che per me i soldi sono un mezzo e non un fine », replicò Mark, scoppiando a ridere, contagiato dall'ilarità del generale. « Mio Dio, Mark, sei un tipo straordinario. Come ho fatto a trovarti? » E, dopo un'ultima risata, tornò serio. Prese un foglio di carta dal cassetto laterale della scrivania e cominciò a scrivere. « Come se non avessi già abbastanza da fare », brontolò. « Bene, vediamo di precisare gli scopi di questa dannata associazione. » Lavorarono quasi tre ore, finché Ruth venne a chiamarli per la cena. « Un attimo ancora, cara », la pregò Sean, piazzando un fermacarte sulla pila di fogli che aveva appena riempito. Stava per alzarsi, ma ebbe un ripensamento. « Ti sei scelto un nemico pericoloso, giovanotto », disse a Mark, accigliandosi. « Lo so », rispose lui con voce bassa e intensa. « Sembri molto convinto. » Lo fissò con aria indagatrice. Mark ebbe un attimo d'esitazione, poi iniziò il suo racconto. « Lei ha conosciuto mio nonno, John Anders. Me ne ha parlato una volta. » Sean annuì e si appoggiò allo schienale imbottito della poltrona. « Possedeva ottomila acri di terra, una fattoria che aveva chiamato Andersland... » Sean annuì di nuovo e Mark proseguì lentamente, raccontando i fatti così come stavano, senza abbellimenti e, se era il caso, precisando che si trattava di una sua supposizione. Nel momento in cui stava descrivendo l'agguato tesogli di notte sulla scarpata, Ruth entrò di nuovo a chiamarli. Stava per insistere perché si sbrigassero, preoccupata che la cena si freddasse, quando notò la loro espressione intenta. Allora si avvicinò silenziosamente, fermandosi dietro la poltrona di Sean ad ascol-
tare e, man mano che il racconto procedeva, il suo viso si faceva sempre più pallido e fisso. Mark parlò del Passo Chaka, raccontò della ricerca della tomba del nonno, degli uomini che erano venuti per ucciderlo e, quando finì, nella stanza cadde un profondo silenzio. Poi Sean si alzò e fece un sospiro addolorato. « Perché non ne hai mai parlato? » gli domandò. « E con chi? Nessuno mi avrebbe creduto. » « Saresti potuto andare alla polizia. » « Non avevo prove contro Dirk Courteney, anche se ero sicuro che era stato lui a ordire tutta la faccenda. E' Abbassò lo sguardo « E' una storia così assurda che avevo paura persino a raccontarla a lei. » « Già, ti capisco. Ancora adesso provo una sorta di rifiuto a credere che sia tutto vero. » « Mi spiace », disse semplicemente Mark. « So che mi hai detto la verità, ma non voglio crederci » Sean scosse il capo e abbassò il mento sul petto. Ruth, in piedi dietro di lui, gli appoggiò una mano sulla spalla per confortarlo. « Oh, Dio, quanto ancora dovrò soffrire per colpa sua? » sussurrò di nuovo. Poi alzò il capo. « Ora sei in pericolo, Mark se e possibile, più di prima. » « Non credo, generale. Sono sotto la sua protezione e lui lo sa. » « Speriamo che basti », borbottò Sean. « Cosa possiamo fare contro di lui? Ci dov'essere un modo per fermare questo.. » s'interruppe, come se gli mancasse la parola, poi sibilò con ferocia: « ... questo mostro! » « Ci mancano le prove », disse Mark. « Siamo inermi contro di lui. E' stato molto abile finora. » « Eppure ci devono essere », ribatté Sean in tono deciso. « Sono sicuro che, se questa storia è vera, da qualche parte esistono le prove di quello che ha fatto. » Il dorso di Trojan era così largo che a Mark sembrava di cavalcare una botte. Stava scendendo lungo l'argine del Bubezi, trascinandosi dietro l'altro mulo, Spartan, legato per la cavezza; il sole batteva e il sudore gli aveva scurito la camicia tra le scapole e sotto le ascelle. Giunto a una delle secche di sabbia bianca, lasciò che i muli entrassero in acqua fino al ginocchio. Gli animali cominciarono a bere, risucchiando l'acqua rumorosamente e in tale quantita che Mark sentì la pancia di Trojan gonfiarsi sotto i suoi polpacci. Si spinse il cappello indietro e si deterse la fronte madida con il pollice, alzando contemporaneamente gli occhi sui bastioni del passo. Parevano scendere dal cielo come due cascate di pietra, immobili ed eterne, così grandi e solide che il fiume e la terra accostante ne risultavano rimpiccioliti. Il doppio paniere che viaggiava sul dorso del secondo mulo non era niente al confronto degli altri pesi che Mark aveva por-
tato con sé dagli spazi affollati della civiltà: il peso del peccato e del rimorso, il dolore di un amore perduto e l'amarezza di non aver compiuto fino in fondo il proprio dovere. Ora, però, sotto le rupi del passo, si sentiva più leggero e gli pareva che le sue spalle si fossero fatte più forti. La boscaglia che si stendeva dall'altra parte del fiume gli comunicava una sensazione indefinibile; era come se il suo destino si stesse finalmente per compiere e lui fosse sul punto di ritrovare qualcosa che aveva smarrito da tempo. « Si », pensò con gioia improvvisa, « sto tornando a casa. » Tutt'a un tratto fu colto da frenesia. Diede uno strattone alla testa riluttante di Trojan, dalle cui labbra molli e gommose colava ancora l'acqua, e lo spronò, spingendolo a immergersi nei vortici verdi del fiume e scivolando di sella per nuotargli accanto appena il fondo gli sfuggì da sotto le zampe. Quando i grandi zoccoli si appoggiarono di nuovo a terra, Mark rimontò in sella e risalì l'altra riva, con i calzoni attaccati alle cosce e la camicia grondante acqua. Per la prima volta in quella settimana scoppiò improvvisamente a ridere senza alcuna ragione apparente e l'allegria di quella risata spontanea e immotivata lo circondò a lungo di un alone scintillante. Il suono era sordo, mentre gli zoccoli di Troian affondavano nel terreno soffice lungo il fiume con un rumore ritmico simile a un risucchio, così Mark ebbe la sensazione di essersi sbagliato. Tirò le redini per far fermare il mulo e tese l'orecchio ad ascoltare. Il silenzio era così totale che sembrava palpabile, e quando un uccello lanciò il proprio verso melodioso e malinconico a uno o due chilometri di distanza, gli parve così vicino da poterlo quasi toccare. Mark scosse il capo e diede un colpo di redini. Appena il mulo riprese a camminare, il suono si ripetè, inconfondibile. I capelli sulla nuca di Mark si rizzarono, ed egli si raddrizzo rapidamente sulla sella. Era un verso che aveva udito un unica volta, ma in circostanze tali da renderlo indimenticabile. Veniva da vicino, molto vicino, e cioè dalla zona di fitta vegetazione tra il punto in cui lui si trovava e il fiume, un intrico di nespoli selvatici e liane che costituiva il nascondiglio ideale per l'animale che l'aveva emesso. Era un rumore strano, quasi ultraterreno, un suono fluido che faceva pensare a un liquido versato da una brocca di pietra e solo chi l'avesse già sentito avrebbe riconosciuto in esso il grido di dolore di un leopardo adulto. Mark voltò il mulo e lo indusse a inerpicarsi pesantemente su per il pendio finché si ritrovarono sotto la vasta ombra di un albero, dove legò l'animale, slacciandogli il sottopancia. Poi estrasse il Mannlicher dalla custodia e controllò rapidamente il caricatore. Vide le grosse cartucce d'ottone con l'ogiva ricoperta di rame, ancora lustre e unte di grasso, e richiuse l'otturatore.
Prese il fucile con la sinistra, tenendolo basso, perché non aveva alcuna intenzione di usarlo. Si rese conto, invece, di provare una piacevole sensazione d'eccitazione e di attesa. Nei due mesi trascorsi cavalcando e camminando nella zona, non gli era mai capitato prima di avvistare un leopardo. Sapeva che ce n'erano molti lungo il Bubezi, ne aveva visto le tracce quasi quotidianamente e li aveva uditi durante la notte. Il leopardo e il cudù erano sempre gli ultimi a cedere di fronte all'uomo e alla civiltà. La loro astuzia e capacità di vivere nascosti facevano sì che riuscissero a sopravvivere alle altre specie. Adesso Mark aveva la possibilità di vederne uno. Il boschetto era fitto, ma non troppo esteso, e gli sarebbe bastato cogliere un balenio nell'ombra, un lampo di giallo, per poter riportare l'avvenimento nel suo giornale di bordo, per aggiungere un altro nome alla lista sempre più lunga dei presenti. Si mosse con cautela, spostando lo sguardo dall'ammasso verde al terreno soffice su cui camminava, in cerca di tracce del felino. All'inizio dell'argine ripido si fermò di colpo e fissò intensamente il suolo, poi si chinò su un ginocchio a toccarlo. Le tracce che aveva trovato non erano quelle del leopardo, ma altre, che aveva ormai imparato a riconoscere bene. Non avevano alcuna caratteristica particolare, dita mancanti o cicatrici, ma l'occhio allenato di Mark ne riconobbe la forma, le dimensioni, la lunghezza del passo. Notò anche che il piede era leggermente rivolto all'interno e che il peso poggiava soprattutto sulla parte anteriore, segno che l'uomo si muoveva in modo agile e scattante. Ora capiva perché il grido dell'animale, giù nel boschetto, aveva quell'intonazione disperata. « Pungushe », si disse Mark a bassa voce. « Lo Sciacallo ha colpito ancora. » Per terra c'erano due serie di impronte, segno che l'uomo era prima entrato e poi uscito dal boschetto. Le prime erano più profonde, come se l'uomo stesse portando un peso; le altre, invece, più superficiali, indicavano che se n'era sbarazzato. Mark si avvicinò lentamente al boschetto, seguendo la traccia. Faceva qualche passo, poi si fermava a esaminare attentamente il sottobosco o si accovacciava per riuscire a vedere al di sotto dei rami coperti di liane. Ora che sapeva cosa avrebbe trovato, l'ardore dell'eccitazione era stato sostituito dalla morsa fredda della rabbia e dalla consapevolezza del pericolo incombente. Un punto chiaro nel folto del boschetto attirò il suo sguardo. Dovette fissarlo per qualche attimo prima di capire che si trattava del midollo di un albero scortecciato dagli artigli di un animale folle di dolore, che aveva lasciato nel tronco scuro lunghe ferite parallele. La collera gli si insinuò nel ventre come un serpente pronto a mordere. Si spostò lateralmente, e in avanti, muovendosi lento, con il fucile all'altezza dei fianchi, ma dopo tre passi si fermò di nuovo. I cespugli e l'erba al limitare del boschetto erano appiatti-
ti e il suolo ricco di humus era smosso come se vi fosse passato sopra qualcosa di pesante. Notò una macchiolina rossa e umida illuminata da un unico raggio di sole, che poteva essere il petalo di un fiore selvatico o una goccia di sangue. Improvvisamente udì un altro suono, di metallo che urta contro metallo, il rumore di una pesante catena trascinata nel fitto degli alberi, che lo mise in allarme. Ora sapeva dov'era nascosto l'animale e si spostò di lato, camminando come un gambero, un passo dopo l'altro. Tolse la sicura al fucile e lo impugnò saldamente, tenendolo all'altezza del petto. Scorse un'altra macchia di un bianco innaturale, che spiccava tonda contro il fogliame scuro, e si immobilizzò. Solo dopo lunghi attimi si rese conto che si trattava dell'estremità di un ceppo, un pezzo di legno corto e biforcuto, largo come la vita di una ragazza e tagliato di fresco, tanto che da esso colavano ancora grosse gocce appiccicose di resina color vinaccia. Notò anche il fil di ferro piegato a uncino, rubato a qualche recinzione, che collegava la catena al legno. Il ceppo era una sorta di ancora che l'animale era costretto a trascinarsi dietro, un peso che lo impacciava in ogni movimento, senza scampo. La catena risuonò di nuovo. Il leopardo era a una ventina di passi da lui. Sapeva dove si trovava, anche se non riusciva a vederlo e, mentre scrutava nell'oscurità del fogliame, gli si affollavano alla mente tutte le storie che il vecchio gli aveva raccontato sull'animale. « Non lo vedi finché non ti è addosso, e anche allora non ti apparirà altro che un lampo di luce gialla, simile a un raggio di sole. Al contrario del leone, che si preannuncia con un ruggito, lui arriva in silenzio e non ti addenta un braccio o una spalla, ma punta dritto alla testa. Sa tutto sui bipedi, visto che il suo piatto preferito è il babbuino, e quindi è perfettamente in grado di rintracciare subito la testa. Ti aprirà il cranio più facilmente di quanto tu potresti aprire un uovo e, per maggior sicurezza, ti lavorerà il ventre con le zampe posteriori. Hai in mente quello che fa un gatto con le zampe posteriori quando gli gratti la pancia? Bene, lui fa lo stesso, con la differenza che ti sbudellerà come un pollo e così rapidamente che, se assalisse quattro uomini, riuscirebbe a farne fuori tre prima che il quarto sia riuscito a sollevare il fucile. » Mark aspettava, assolutamente immobile. Non riusciva a vedere l'animale, ma ne avvertiva lo sguardo, se lo sentiva sulla pelle come la puntura di un insetto velenoso. Ripensò alla cicatrice, lucida e bianca come il marmo, che Sean Courteney gli aveva mostrato in uno di quei momenti di confidenza cui si lasciava andare dopo il quarto whisky. Tirandosi su la camicia, aveva contratto il muscolo, cosicché la cicatrice era balzata in evidenza, lucente come una striscia di seta. « Un leopardo », gli aveva detto. « Bestia maledetta... è il peggior bastardo della foresta. » Si accorse che stava indietreggiando: le foglie morte gli frusciavano sotto i piedi. Avrebbe potuto andarsene e tornare
quando la presenza degli avvoltoi gli avesse fatto capire che il leopardo era morto o troppo debole per risultare pericoloso. Poi immaginò il terrore e la sofferenza dell'animale. Tutt'a un tratto non fu più l'animale, ma il suo animale, parte del compito che si era assunto, e allora ricominciò a procedere. La catena risuonò di nuovo e il leopardo arrivò. Si avvicinò con una corsa terribile e silenziosa: un'immagine sfocata per la velocità in cui si notavano solo gli occhi, fiammeggianti di odio, di paura e di dolore. La catena dietro di lui si muoveva come una frusta e, mentre Mark si portava il fucile alla spalla, notò la trappola che gli pendeva da una delle zampe posteriori, simile a un sinistro granchio grigio. La pesante tagliola d'acciaio rallentò la carica dell'animale quel tanto che bastava. Il tempo sembrava scorrere con una lentezza di sogno, i secondi cadevano l'uno sull'altro come gocce d'olio denso e Mark si accorse che la zampa del leopardo era completamente smangiata. Sentì lo stomaco che gli si rivoltava: l'animale, nel disperato tentativo di liberarsi, si era dibattuto al punto che i denti della tagliola gli avevano segato persino l'osso. La zampa era trattenuta solo da una striscia di pelle sanguinolenta, che si strappò in quell'istante. Il leopardo ormai libero, pazzo di dolore e di paura, si lanciò verso la testa di Mark. La bocca del Mannlicher toccò quasi la fronte ampia e piatta; l'animale era così vicino che Mark vide i lunghi baffi bianchi, al di sopra della bocca ritratta in un ringhio, simili a fili d'erba irrigiditi dalla brina, le zanne gialle dietro le labbra umide e scure, la spessa lingua rosa arcuata e gli occhi. I terribili occhi gialli carichi di odio. Mark sparò e il proiettile scoperchiò la testa dell'animale; gli occhi gialli sbatterono rapidi per il colpo, la testa si rovesciò e il collo scattò all'indietro come quello di un serpente, mentre il corpo, sospeso nel balzo, perdeva la sua agile grazia per diventare pesante e informe. Il leopardo cadde come un sacco ai piedi di Mark, spruzzandogli la punta dello stivale consunto di gocciolino di sangue rosso vivo, che brillarono come piccoli rubini. Mark sfiorò l'occhio spalancato, da cui già stava sparendo il crudele luccichio giallo, ma le palpebre oriate di lunghe ciglia scure rimasero immobili. Il leopardo era morto. Mark si lasciò cadere nel pacciame accanto alla carcassa e si frugò addosso in cerca delle sigarette. La mano che teneva il fiammifero tremava così violentemente che la fiammella oscillò come l'ala di una farfalla. Mark lo scosse per spegnerlo, poi lo buttò via e accarezzò con la mano aperta la pelliccia morbida color ambra dorata punteggiata delle caratteristiche rosette nere simili all'impronta delle cinque dita di un angelo. « Pungushe.. sei un gran bastardo! » mormorò. Era per quella pelliccia dorata che l'animale era morto, per i pochi scellini d'argento che avrebbe fruttato se fosse stata venduta nel mercato di un villaggio, a una fermata della ferrovia o su una
strada di campagna. Quella morte atroce sarebbe servita a fare un tappeto o una pelliccia per una signora. Mark accarezzò di nuovo il pelo lustro e s'accorse di provare una rabbia cieca nei confronti dell'uomo che gli aveva salvato la vita e al quale stava dando la caccia da due mesi. Si alzò e si avvicinò alla tagliola, legata alla catena. La zampa recisa era ancora chiusa tra le inesorabili mascelle, e Mark si accucciò a esaminarle. I denti d'acciaio erano stati accuratamente limati in modo che penetrassero nella carne senza tagliarla. L'acciaio era scuro e fuligginoso, segno che il bracconiere l'aveva bruciacchiato con una torcia d'erba secca per togliere il proprio odore dal metallo. Al limitare del boschetto c'era la carcassa in decomposizione di un babbuino, l'esca maleodorante che aveva irresistibilmente attratto il felino. Mark ricaricò il Mannlicher; era così furibondo che, se gli fosse capitato a tiro, non avrebbe esitato a sparare all'uomo che aveva combinato quel disastro, anche se gli doveva la vita. Risalì il pendio e tolse la sella a Trojan, impastoiandolo con i finimenti, poi appese le bisacce al ramo di un albero per metterle al sicuro dalle incursioni delle iene o dei tassi. Quindi tornò ai margini del boschetto e prese a seguire la traccia del bracconiere. Si avviò a piedi, ben sapendo che, se fosse andato col mulo, l'uomo avrebbe sentito l'animale a un chilometro di distanza. La traccia era fresca e il campo di Pungushe non poteva essere lontano; era difficile pensare che il bracconiere lasciasse a lungo incustodito un oggetto così prezioso come la tagliola. Si, aveva decisamente buone probabilità di trovarlo, anche se l'uomo doveva aver preso le sue precauzioni, perché certo non ignorava che la caccia era stata proibita. Mark si era recato personalmente in tutti i villaggi a parlare con i capi, cui aveva spiegato, davanti a un boccale di birra, le nuove disposizioni. Il bracconiere sapeva di agire contro la legge. Mark aveva seguito le sue tracce più di una volta e gli espedienti elaborati a cui l'altro era ricorso per non farsi trovare non lasciavano dubbi sul fatto che sapesse di essere in torto. Ma ora Mark si sentiva in vantaggio. Circa un chilometro più in basso la traccia s'interrompeva; per poi riprendere dall'altra parte del fiume con uno strano andamento a zigzag tra cespugli, foresta e boscaglia, giustificato forse dal fatto che il bracconiere era stato a visitare le proprie trappole. Quella che aveva imprigionato il leopardo doveva essere stata la più importante, ma ne aveva poste altre, adatte ad animali più piccoli, preparate con del filo metallico da imballaggio acquistato per pochi scellini nel negozio di articoli vari di qualche villaggio o con il filo di rame del telegrafo, ottenuto tagliandolo direttamente dai pali in una zona isolata. I lacci, evidentemente dedicati a sciacalli, visto che l'esca era costituita da interiora, erano disseminati un pò dovunque, nei
luoghi ricchi di sale e nei pantani, dov'era solita recarsi la selvaggina di piccole dimensioni. Seguendo la linea delle trappole, Mark fece scattare il meccanismo di ciascuna e le distrusse. Sapeva che si stava avvicinando rapidamente alla preda, ma ci vollero tre ore prima che raggiungesse il campo del bracconiere. Lo trovò sotto i rami grigi, gonfi e striscianti di un baobab. L'albero era vecchio e marcio, e nel suo enorme tronco si era formata una cavità profonda che l'uomo aveva eletto a proprio rifugio. Il fuoco era stato accuratamente soffocato con la sabbia, ma l'odore di fumo che ristagnava lì attorno servì a Mark a ritrovarlo. Le ceneri erano fredde. Nei recessi dell'albero erano stati riposti due fagotti legati con un laccio di corteccia. Uno di essi conteneva una sudicia coperta grigia, un poggiatesta di legno intagliato, una piccola pentola a tre gambe e una borsa di pelle di impala contenente un paio di chili di granturco e alcune strisce di carne secca. Il bracconiere viaggiava leggero e si muoveva in fretta. L'altro fagotto conteneva quindici pelli di sciacallo, seccate al sole e rigide come pergamena, belle pellicce color argento, nero e rosso, e due pelli di leopardo, una appartenuta a un maschio adulto e l'altra, più piccola, a una femmina. Mark riaccese il fuoco e vi buttò sopra coperta, poggiatesta e borsa, restando a guardarli mentre bruciacchiavano, soddisfatto della vendetta compiuta. Fracassò la pentola con un sasso, poi gettandosi il rotolo di pelli sulla spalla, prese la via del ritorno. Era quasi buio quando tornò al boschetto accanto al fiume. Lasciò cadere l'involto, che a questo punto gli sembrava pesante come un sacco di mattoni, e fissò stupefatto la carcassa del leopardo. Brulicava di grosse mosche di un verde dai riflessi metallici, le cui uova spiccavano sulla carne come piccoli grumi di riso bollito, ma ciò che più lo stupì fu che il leopardo era stato scuoiato. La pelliccia dorata era stata tolta da una mano esperta, e l'animale non era che un ammasso di carne rosa, cosparsa di grasso giallo e delle tracce bianche dei nervi. Anche la testa era nuda e gli occhi opachi sporgevano dallo scheletro come biglie; dai fori delle orecchie sporgevano ciuffi di peli neri e le zanne erano esposte in una sorta di ghigno giallastro. Mark si diresse verso il ceppo cui era stata ancorata la tagliola, ma sia questa sia la catena erano sparite. Gli ci volle un minuto buono per trarne la logica conclusione. Risalì di corsa il pendio, dirigendosi verso l'albero sotto il quale aveva lasciato il mulo. Trojan non c'era più. Le pastoie, tagliate da una lama affilata come un rasoio, erano state deposte ordinatamente sotto l'albero. Il mulo, trovatosi improvvisamente libero, aveva reagito in maniera prevedibile. Lanciatosi attraverso la foresta, era tornato alla sua stalla rudimentale, alla razione serale di fieno e alla piacevole compagnia del suo vecchio amico Spartan.
C'erano trenta chilometri da lì al campo base, ed entro un quarto d'ora sarebbe stato buio. Le bisacce erano state tirate giù dall'albero e accuratamente perquisite. Quello che non gli interessava, Pungushe l'aveva deposto in bell'ordine su una roccia piatta. Evidentemente non doveva avere una buona opinione di William Shakespeare, visto che ne aveva scartato le tragedie, accanto alle quali aveva messo la giacca di camoscio che Ruth Courteney aveva regalato a Mark poco prima della partenza. Aveva preso invece il sacco a pelo che un tempo era appartenuto al generale, con il lenzuolo incorporato e l'imbottitura di piumino d'oca, acquistato da Harrod's a Londra e pagato venticinque ghinee, che avrebbero sostituito egregiamente la coperta sudicia e lisa e il poggiatesta di legno. Si era appropriato della pentola, del tegamino e delle posate, del sale, della farina e della carne in scatola, lasciandogli solo una scatoletta di fagioli. Aveva preso la camicia pulita e i calzoni color cachi, disdegnando le calze di lana e gli stivali con la suola di gomma. Era un caso che questi puntassero verso il campo base, o non si trattava invece di un'indicazione precisa? Una scatola di fagioli e un paio di stivali per affrontare il viaggio di ritorno. Nonostante l'umiliazione, mista a un crescente senso di rabbia, Mark fu colpito dall'ironia della situazione. L'uomo l'aveva tenuto d'occhio. Ne era sicuro, perché la scelta operata tra gli oggetti contenuti nelle bisacce rispecchiava troppo fedelmente ciò che lui aveva bruciato. A Mark parve di sentire l'eco profonda della risata dello zulu; prese il Mannlicher e cominciò di nuovo a seguire le tracce di Pungushe. Procedette per circa cento metri, poi si fermò. Nonostante fosse carico come un somaro, il bracconiere aveva preso il passo che gli zolu chiamano Minza umhlabatti e stava procedendo a una velocità che lo rendeva irraggiungibile. Mark tornò verso l'albero e si lasciò cadere a terra. La sua rabbia si trasformò in acuto disagio all'idea dei trenta chilometri da percorrere a piedi con le bisacce e il rotolo delle pelli. A un tratto cominciò a ridere, scuotendo le spalle quasi con disperazione, finché le lacrime presero a corrergli giù per le guance e si senti dolere il ventre. « Pungushe, me la pagherai », promise con voce debole, tra le risate. Dopo mezzanotte cominciò a piovere. Fu uno scroscio rapido e violento, sufficiente a inzupparlo e ad appesantire i fili d'erba di grosse gocce. Poi si levò un venticello fastidioso come una vecchia moglie, e l'erba bagnata gli infradiciò gli stivali. Le sigarette erano ridotte a una specie di pappa e il carico che portava sulle spalle gli segava la pelle. La voglia di ridere gli era passata completamente. Nella luce che precedeva l'alba i torrioni di Passo Chaka
erano violetti e lisci come il marmo, ma, appena ricevettero il bacio ardente del sole si incendiarono, diventando color del bronzo e rosa acceso. Mark tirò avanti, curvo sotto il proprio carico, così stanco da non riuscire più ad apprezzarne la bellezza, insensibile e indifferente, finché, uscito dalla foresta, si trovò sull'argine del Bubezi, dove si fermò stupito. Annusò l'aria, incredulo, e venne immediatamente assalito dalla fame, che si manifestò con un fiotto di saliva in bocca e coi crampi che gli assalirono il ventre. Era l'odore più delizio sa che avesse mai sentito, l'aroma del bacon e delle uova che friggevano in padella, passando dallo stato gelatinoso a una morbida consistenza nel grasso sfrigolante. Non poteva essere che uno scherzo della sua immaginazione, perché aveva finito il bacon sei settimane prima. Poi gli parve di soffrire di allucinazioni, perché udì in lontananza il rumore di un'ascia sul legno e un suono cantilenante di voci che parlavano in zulu. Alzò il capo e guardò il gruppo di fichi selvatici in cui aveva fatto il campo. Vide una chiazza bianca: era una tenda conica da ufficiale, montata di recente accanto al suo grossolano riparo con il tetto di paglia. Il fuoco era stato acceso e Hlubi, il vecchio cuoco zulu, era intento a cucinare qualcosa, mentre, poco più in là, il generale Courteney se ne stava comodamente seduto su una sedia pieghevole a osservare con occhio critico i preparativi della colazione. Sean alzò gli occhi e scorse Mark, che lo guardava dal limitare della foresta, sporco e fradicio, e gli rivolse un largo sorriso cordiale. « Hlubi, altre quattro uova con tanto bacon », disse in zulu al cuoco. L'energia e l'entusiasmo di Sean Courteney fecero della settimana che seguì uno dei periodi indimenticabili della vita di Mark. Il generale gli sarebbe ricomparso spesso nel ricordo così come l'aveva visto quel giorno quando, dopo essersi sbellicato dalle risa al racconto della sua avventura con Pungushe, aveva chiamato a raccolta i servi per ripetere loro la storia, arricchendola di tocchi personali finché anch'essi erano stati contagiati dall'ilarità. Quel grassone di Hlubi aveva rovesciato una padella piena di uova, mentre la pancia gli ballonzolava dal ridere e la grossa testa tonda coperta di riccioli bianchi e lanosi, roteava da una parte all'altra del collo. Mark, che da un pezzo non mangiava altro che carne in scatola e fagioli, si rimpinzò del cibo meraviglioso che fluiva dalle enormi mani di Hlubi. Era stupito delle molte comodità che Sean Courteney aveva portato con se per far fronte ai disagi della foresta africana: da un semicupio per il bagno al frigorifero portatile a cherosene da cui scorreva un flusso interminabile di birra gelata, refrigerio ideale nel calore del mezzogiorno. « Perché viaggiare in terza classe quando si può andare in prima? » diceva a Mark, facendogli l'occhiolino.
Di notte restavano alzati a parlare fino a tardi, alla luce di una lampada a petrolio che sibilava tra i rami dell'albero sopra le loro teste, mentre gli sciacalli facevano sentire la loro risata stridula, e di giorno cavalcavano esplorando la zona. Sean Courteney, a cavallo di Spartan, godeva ogni istante di quelle giornate con la vitalità di un uomo molto più giovane. Sempre senza cappello, anche nelle ore più calde della giornata, ispezionava il luogo che Mark aveva scelto per fare il campo base, discuteva sul punto più adatto per erigere un ponte, percorreva il sentiero che Mark aveva aperto nella foresta, esultava alla vista di un grande nyala nero con la criniera folta e le strisce spettrali che fuggiva spaventato davanti all'uomo. Al ritorno si adagiava nel semicupio sotto i fichi selvatici, immerso fino alla vita nella schiuma bianca e cremosa, con un sigaro in bocca e un grande bicchiere di birra in mano, e, quando l'acqua si raffreddava, sbraitava perché Hlubi ne aggiungesse di calda versandola dal bollitore. Era enorme, villoso, segnato dalle cicatrici, e Mark capì in quei giorni quanta parte della sua vita avesse occupato quell'uomo. Man mano che si avvicinava il giorno della partenza, l'umore di Sean mutò e non ci fu sera che non si mettesse a riflettere sulla lista di animali compilata da Mark. « Cinquanta zebre », lesse ad alta voce, versandosi le ultime gocce di whisky contenute nella bottiglia. « Ricordo che sul fiume Sabi, nel '95, un branco tagliò la strada ai miei carri. Anche se gli animali andavano al galoppo, ci vollero quaranta minuti prima che passassero tutti, e la testa del branco era già sparita all'orizzonte quando la coda ci superò. Dovevano esserci circa trentamila zebre in un branco. » « Niente elefanti? » chiese poi, alzando gli occhi dal foglio, e, quando Mark scosse il capo in segno di diniego, proseguì a bassa voce: « Credevamo che sarebbero durati per sempre. Nel 99, quando sono sceso a Pretoria dal nord, avevo con me un carico di dieci tonnellate d'avorio. Dieci tonnellate, diecimila chili. » « Niente leoni? » domandò ancora, e di nuovo Mark scosse il capo. « Non credo, generale. Non ne ho visto traccia e di notte non li ho mai sentiti, ma quando ero ragazzo ne ho ucciso uno da queste parti. Ero a caccia col nonno. » « Già. Ma tuo figlio, Mark? Riuscirà a vedere un leone in libertà? » Mark non rispose. « Niente leoni sul Bubiezi! Dio, cosa abbiamo fatto a questo Paese? » Fissò lo sguardo sul fuoco. « Chissà se è stato solo il caso che ci ha fatto incontrare, Mark. Tu mi hai aperto gli occhi, hai risvegliato la mia coscienza. Sono stati gli uomini come me che hanno combinato questo disastro... » Scosse la folta chioma e si frugò nella tasca laterale della giacca da caccia, da cui estrasse un volumetto spesso, rilegato in pelle, coperto di impronte e lucido per il lungo uso.
Quando Mark lo riconobbe, rimase molto stupito. « Non sapevo che leggesse la Bibbia », disse. Sean lo guardò da sotto le sopracciglia folte. « E invece sì », replicò in tono burbero. « Più vecchio divento, più ho bisogno di leggerla. Mi dà molta consolazione. » « Ma non l'ho mai vista andare in chiesa », insisté Mark. Questa volta Sean si accigliò, come se considerasse il discorso troppo personale. « La religione è un modo di vivere. Io non vado a pregare la domenica, per poi dimenticare Dio per il resto della settimana, come tanta gente che conosco », proclamò in tono definitivo, come se considerasse chiuso l'argomento. Poi rivolse di nuovo l'attenzione al volume consunto. La Bibbia si aprì nel punto in cui aveva infilato un fiore secco a mò di segnalibro. « L'ho trovato ieri sera », disse a Mark, poggiandosi gli occhiali sul naso. « Mi è sembrato di buon auspicio e l'ho segnato apposta per leggertelo. Matteo X. » Si schiarì la gola e lesse lentamente: « Non si vendono due passeri per un soldino? Eppure neanche uno cade al suolo se non lo vuole nostro Padre ». Chiuse il libro e lo infilò di nuovo in tasca. Entrambi restarono in silenzio, pensosi, gli occhi fissi sulle braci. « Forse il Signore ci aiuterà a impedire che il passero cada, qui a Passo Chaka », disse Sean, chinandosi a prendere un ramoscello ardente dal fuoco e accostandolo al sigaro. Aspirò a fondo, gustando l'aroma del fumo di legna e del tabacco, poi riprese a parlare. « E' una sfortuna che ci siamo messi in moto in un momento come questo. Bisognerà aspettare la fine dell'anno prossimo per poter chiedere l'approvazione della legge e i soldi necessari per realizzare i progetti che abbiamo in mente. » « L'anno prossimo? » ripetè Mark con voce aspra, improvvisamente impensierito. « Purtroppo sì. » « Perché così tardi? » « Così va la politica, figliolo », borbottò Jean. « Abbiamo appena ricevuto un grosso colpo, e non possiamo muoverci finché non avremo vinto la nostra battaglia. » « Cos'è successo? » domandò Mark, ora davvero preoccupato. « Sono due mesi che non leggo un giornale. » « Beato te », commentò Sean, con un sorriso sforzato. « Nel Transvaal sono state indette delle elezioni straordinarie. La zona è sempre stata nostra, e il seggio era occupato da un parlamentare di secondo piano, persona di grande fiducia ma di modesto intelletto. Be', il poveretto ha avuto un infarto nella sala da pranzo del Parlamento ed è morto tra la minestra e il pesce. Pensavamo che tutto andasse liscio e invece ci siamo presi una suonata coi fiocchi. Abbiamo perso il quindici per cento dei voti a favore del partito di Hertzog. Ci hanno dato battaglia sul modo in cui abbiamo represso lo sciopero l'anno scorso... è stato un disastro. » « Non lo sapevo. Mi dispiace. »
« Se la perdita che abbiamo subito dovesse estendersi a tutto il Paese, nella prossima legislatura ci troveremo all'opposizione. Il generale Smuts ha deciso di indire le elezioni generali per l'anno prossimo, in marzo, e allora ci batteremo con tutte le forze. Ma fino a quel momento non possiamo prendere iniziative e meno che mai chiedere fondi. » Mark sentì la disperazione che si insinuava dentro di lui, fredda e strisciante, fino a intorpidirgli la punta delle dita. « E qui cosa succederà? » domandò. « Dovrò interrompere il lavoro che sto facendo? Lasceremo che i bracconieri si scatenino indisturbati ancora per un anno? » Sean scosse il capo. « Ho incaricato i miei avvocati di studiare la legge già esistente, quella che dichiarava questa zona area protetta. In realtà ci darebbe molti poteri, solo che mancano i fondi per farla applicare. » « Non si può far niente senza quattrini », osservò Mark con aria infelice. « Ah, finalmente un pò di rispetto per il potere del denaro », esclamò Sean, rivolgendogli un sorrisetto al di sopra del fuoco. Poi proseguì in tono più serio: « Ho deciso di finanziare la conduzione dell'area protetta, finché il Governo non si deciderà a stanziare i fondi necessari. Pagherò le spese di tasca mia. Chissà, forse un giorno otterrò un rimborso, ma, anche se questo non dovesse succedere, lo considererò come il saldo di un debito ». Ristrinse nelle spalle. « Credo di potermelo permettere. » « Non ci sarà bisogno di molto », si affrettò a dire Mark, ma Sean lo zittì con un gesto irritato. « Avrai lo stesso stipendio che hai adesso. Ti darò quattro uomini per cominciare il lavoro al campo base. Dovremo rinunciare al ponte sul fiume e accontentarci di una pista anziché di una strada vera e propria, ma sarà sempre un inizio, e poi, chissà, dopo le elezioni la situazione potrebbe anche mutare. » L'ultimo giorno, a colazione, Sean depose una cartelletta davanti a Mark. « Ho chiesto a Caldwell di prepararci il bozzetto. E' l'autore delle illustrazioni di Jock of the Bushveld », gli disse sorridendo, mentre Mark apriva la cartelletta. « Volevo che tu avessi il massimo, in cambio delle tue tremila sterline. » La cartelletta conteneva il bozzetto di un annuncio pubblicitario a piena pagina, destinato al lancio dell'associazione « Amici della fauna africana ». Il margine era costituito da splendidi disegni di animali selvatici e sotto il titolo erano elencati gli scopi dell'associazione. Seguiva l'invito a iscriversi e a sostenere l'iniziativa. « I miei avvocati hanno elaborato lo statuto. L'annuncio verrà pubblicato su tutti i giornali del Paese. L'associazione avrà sede presso gli uffici della mia più grossa società, e ho assunto un impiegato a tempo pieno perché ne segua l'attività. Ho preso anche un giovane giornalista perché si occupi del giornale dell'associazione. E' un ragazzo pieno di idee, che si è
subito entusiasmato all'iniziativa. Se siamo fortunati, riusciremo a conquistare le simpatie e il sostegno dell'opinione pubblica. » « Tutto questo verrà a costare molto di più di tremila sterline », obiettò Mark, lacerato tra la contentezza e la preoccupazione per le dimensioni assunte dal suo primitivo progetto. « Si », concordò Sean, scoppiando a ridere. « Questo è certo. A proposito, ho mandato a Dirk Courteney una ricevuta per la sua donazione e una tessera di socio a vita! » La battuta li aiutò a superare l'imbarazzo degli ultimi momenti prima della partenza. I portatori di Sean sparirono tra gli alberi, recando sul capo i fagotti con l'equipaggiamento, per tornare al camion, che era stato lasciato sulla strada più vicina, a una quarantina di chilometri oltre i torrioni del Passo Chaka. Sean non si decideva ad andarsene. « Mi dispiace di dover partire », ammise. « E' stato un bel periodo, che è servito a rinfrancarmi. Ora mi sento pronto ad affrontare di nuovo tutti quei bastardi. » Si guardò attorno, dando l'addio al fiume, ai monti e alla foresta. « C'è qualcosa di magico in questo posto », dichiarò annuendo col capo. « Abbine cura, figliolo », concluse porgendogli la mano. Era l'ultima opportunità che aveva Mark per ripetere la domanda che gli aveva già posto almeno una dozzina di volte, senza che Sean la prendesse mai in considerazione. Mentre afferrava la mano ossuta di Sean, stringendola come se non avesse voluto più lasciarla andar via, gli chiese: « Non mi ha detto ancora come sta Storm, signore. Va tutto bene? E i suoi quadri? » Anche questa volta Sean cercò di non rispondere. Si irrigidi con aria stizzita e fece per allontanare la stretta, ma la sua rabbia sbollì prima ancora di raggiungere gli occhi. Per un attimo il suo sguardo assunse un'espressione di profondo dolore e la sua mano riprese a stringersi come una trappola attorno a quella di Mark. « Storm si è sposata un mese fa, ma io non l'ho più vista da quando sei partito da Lion Kop », disse. Quindi lasciò la mano di Mark e, senza aggiungere altro, si voltò e si allontanò a passo lento e pesante, trascinandosi dietro la gamba malata come un vecchio, un pover'uomo vecchio e stanco. Mark avrebbe voluto corrergli dietro, ma aveva il cuore spezzato e temeva che le gambe non l'avrebbero sorretto. Rimase lì, solo, a guardare Sean Courteney che si allontanava zoppicando tra gli alberi. Il numero due della squadra del Natal avanzò lungo la linea di demarcazione. Nella corsa, gli zoccoli del suo pony sollevarono tante nuvolette bianche dal gesso che era servito a tracciarla, cosicché parve che una raffica di mitragliatrice si fosse abbattuta sul terreno. Il giocatore afferrò la palla un attimo prima che uscisse dal campo. Si chinò sulla sella e la prese di rovescio da sotto il collo del
pony, imprimendole un colpo così violento che la mazza finì alta sopra la sua testa e la palla si alzò tracciando un arco candido contro l'azzurro intenso del cielo estivo. Gli applausi si levarono dalla veranda del club e dalle sedie a sdraio poste sotto gli ombrelloni colorati, sovrastando il rumore degli zoccoli, quindi scemarono lasciando posto a un mormorio diffuso quando la folla si avvide che Derek Hunt era partito in anticipo. Stava sopraggiungendo al galoppo su Saladin, che non era ancora stato chiamato. Saladin era un pony di notevoli dimensioni, con una brutta testa che inclinò di lato per osservare il volo della palla, dilatando le narici già larghe: le mucose rosse balenarono come un vessillo. L'occhio che osservava la palla roteò nell'orbita conferendo al cavallo un'aria folle. Era un roano tendente al grigio, con un pelo che nessuna striglia sarebbe mai riuscita a rendere lustro, e aveva zoccoli simili a quelli di un cavallo da tiro. Dovette alzarli molto per correre durante quell'azione scorretta che l'aveva portato davanti al veloce pony argentino. Derek se ne stava seduto come fosse in poltrona e faceva oscillare la mazza con movimenti rapidi del polso. In testa portava il casco coloniale calato fino alle orecchie e strettamente legato sotto il mento. La pancia gli sporgeva al di sopra della cintura dei pantaloni, e le braccia lunghe e sviluppate come quelle di uno scimpanzé erano ricoperte da una folta peluria rossiccia. La pelle, sotto le efelidi, era rossa al punto da sembrare scottata dall'acqua calda. Anche il volto aveva lo stesso colorito acceso, accentuato da una sfumatura purpureo e da quella lucentezza tipica dei bevitori accaniti. Derek stava sudando copiosamente. Il sudore luccicava sul viso come rugiada e gli colava dal mento in gocce pesanti. La maglietta di cotone a maniche corte era madida. Gli si era incollata alle spalle da orso e aderiva a tal punto al ventre sporgente che era diventata trasparente, rivelando la cavità scura e fonda dell'ombelico. Ogni volta che gli zoccoli di Saladin colpivano il terreno compatto, il grosso didietro di Derek Hunt, rivestito da calzoni da cavallerizzo troppo stretti per lui, tremava come gelatina. Due giocatori della squadra argentina stavano tagliando attraverso il campo, begli uomini dalla pelle olivastra, eleganti come ufficiali di cavalleria. Cavalcavano con grande entusiasmo, lanciando grida eccitate in spagnolo, ma Derek sogghignò sotto i baffi ispidi e rossicci, mentre la palla cominciava la sua lunga curva verso terra. « Cristo », esclamò con voce strascicata uno degli spettatori, in piedi sui gradini del club. « Il cavallo più brutto della cristianità. » E alzò il bicchiere in un brindisi a Saladin. « Già, con il più brutto giocatore di tutto il mondo sul dorso », convenne un tipo con l'aria da donnaiolo che gli stava accanto. « Mi stupisco che quei poveri argentini non si trasformino in pietra al solo guardarli. »
Saladin e il numero uno degli argentini arrivarono sulla palla quasi contemporaneamente. L'argentino si alzò sulla sella per prenderla di rimbalzo, con i denti candidi che balenavano sotto la linea nera e sottile dei baffi. I muscoli del braccio abbronzato si gonfiarono, mentre si preparava a colpire di dritto, e il suo bel pony lustro si mise in posizione per facilitare il colpo, agile e svelto come un furetto. Poi accadde una cosa straordinaria. Derck Hunt sedeva, floscio e pesante, sulla sella, e nessuno notò la tirata di redini e il colpo di tacco che fecero girare Saladin. Il pony argentino gli finì addosso e fu come se fosse andato a cozzare contro un kopje di granito; il cavaliere volò sopra la testa del cavallo, passando in un attimo da una posizione perfetta a uno scomposto agitare di braccia e di gambe, e cadde pesantemente, sollevando una nuvola di terra rossa. Poi si mise in ginocchio e comincio a protestare selvaggiamente contro l'arbitro e il destino. Derek si chinò appena e diede un colpetto alla palla, un colpo leggero, appena udibile, che la fece ricadere docilmente davanti alla testa curva e pesante di Saladin. Rimbalzò una volta, poi un'altra e infine si offrì obbediente al colpo successivo che la fece saltellare lungo il campo. Il numero quattro argentino giunse da destra con l'agilità e la grazia di una leonessa che sta per caricare, e l'urlo della folla lo incitò alla sfida. L'uomo lanciò un incitamento in spagnolo con gli occhi che lampeggiavano per l'eccitazione. Derck si passò con calma la mazza dalla destra alla sinistra e colpì la palla sul lato esterno, costringendo l'argentino ad ampliare l'angolo da cui si preparava a intercettarla. Quando fu vicino, Derek colpì forte la palla, sollevandola al di sopra della testa dell'altro. Disse: « Ah! » con voce moderata e toccò Saladin con i tacchi. Il brutto roano allungò il collo e si distese, e questa volta Derek si sollevò sulla sella per aiutarlo a correre. Superarono l'argentino, che sembrava davvero trasformato in statua, e lo lasciarono nella loro scia, poi Derek raccolse di nuovo la palla. Tap! Tap! Con un ultimo colpo, la piazzò esattamente al centro dei pali della porta, quindi si voltò e trottò fuori campo. Con il ventre che gli ballonzolava dal ridere, Derek fece ruotare una gamba al di sopra del collo di Saladin e smontò di sella lasciando che il cavallo tornasse dagli stallieri. « Monterò Satan nel prossimo tempo », gridò con quella sua voce roca da bevitore. Storm Courteney lo vide arrivare e capì quello che stava per succedere. Fece per alzarsi ma era lenta e goffa, perché il bambino che portava in grembo l'ancorava come una pietra. « Mi merito un premio, eh? » gridò Derck, afferrandola con un braccio rossiccio e coperto di pustole. Puzzava di birra rancida e di cavallo, e il sudore gelido che gli colava dal viso bagnò la guancia di Storm. La baciò con la bocca aperta davanti a Irene Lenchars, alle altre quattro ragaz-
ze, ai loro mariti, agli stallieri sogghignanti e ai soci del club che stavano sulla veranda. Storm fu assalita da un senso di nausea. Il sapore acido del vomito le montò in gola e la ragazza pensò che avrebbe rigettato lì, davanti a tutti. « Derek, le mie condizioni! » sussurrò in tono disperato, ma lui la tenne stretta con il braccio, mentre l'altra mano si protendeva verso la bottiglia di birra che uno dei servitori in giacca bianca gli aveva recato su un vassoio d'argento. Disdegnando il bicchiere, Derek se la portò alle labbra. Storm si dibatté per liberarsi, ma lui la trattenne senza sforzo. Poi fece un rutto che parve un boato. « Salute! » urlò, e tutti scoppiarono a ridere, come tanti cortigiani a una battuta del re. Il buon vecchio Derek. L'unica legge che conosceva era la sua. Depose la bottiglia vuota. « Tienti pronta per quando torno, mogliettina! » esclamò, scoppiando a ridere, poi afferrò una delle sue mammelle piene nella mano rossa ed enorme e la strizzò fino a farle male, lasciandola vinta e tremante per l'odio e l'umiliazione. A Storm era capitato altre volte di saltare un mese, così non cominciò a preoccuparsi se non quando i mesi diventarono due. Stava per dirlo a Mark, allorché scoppiò la lite. Aveva sperato che la cosa si risolvesse da sola ma, col passare delle settimane, l'enormità del fatto finì per insinuarsi all'interno della sua torre d'avorio. Gli incidenti di questo genere capitavano alle altre ragazze, alle ragazze qualsiasi, a quelle che lavoravano, non a un tipo come lei. Per le giovani donne come Storm c'erano delle regole speciali. Quando fu sicura al di là di ogni dubbio di non essersi sbagliata, pensò subito di dirlo a Mark. Mentre il panico le conficcava nel cuore i suoi piccoli uncini crudeli, desiderò ardentemente di correre da lui e buttargli le braccia al collo, ma l'orgoglio ostinato e incontrollabile dei Courteney soffocò quell'impulso. Era lui che doveva tornare da lei. E doveva tornare alle sue condizioni, perché lei non avrebbe modificato le proprie opinioni anche se, quando pensava a Mark, si sentiva un nodo in mezzo al petto e le gambe le si facevano molli. Pianse in silenzio, nella notte; come aveva pianto quando l'aveva lasciato la prima volta. Lo desiderava ancora di più, ora che il suo bambino stava crescendo nelle profondità segrete del suo grembo. Ma quell'orgoglio distorto che la incatenava non le permetteva nemmeno di informarlo dello stato in cui si trovava. « Non provocarmi, Mark Anders », gli aveva detto, ma lui non se n'era curato. Lo odiava e lo amava al tempo stesso perché era stato capace di sfidarla, però non voleva piegarsi. Poi pensò di parlarne a sua madre. Erano sempre state molto vicine e Storm sapeva di poter contare sulla lealtà e sul buonsenso materni. La fermò la certezza che Ruth sarebbe corsa immediatamente a dirlo a suo padre. Non gli teneva nascosto
nulla, come lui faceva con lei. Il suo cuore tremò al pensiero di quello che sarebbe successo se suo padre avesse saputo che portava in seno un bastardo. L'amore immenso e indulgente che provava per lei avrebbe reso la sua collera ancor più terribile. Era certa che anche Mark ne sarebbe stato distrutto. Suo padre era troppo forte, troppo insistente e troppo deciso perché lei potesse resistergli. Sarebbe sicuramente riuscito a farle rivelare il nome di Mark. Non aveva mai fatto mistero di essere profondamente affezionato al giovane, ma nemmeno questo sarebbe stato sufficiente a salvarli. Sean era un padre all'antica e il suo comportamento obbediva a leggi rigide che non lasciavano spazio al compromesso. Mark Anders aveva trasgredito quelle leggi, e Sean, nonostante i sentimenti che provava nei suoi confronti, non avrebbe esitato a distruggerlo, uccidendo così anche una parte di sé. Lo stesso avrebbe fatto con sua figlia, a costo di morire di crepacuore. E così, per amore di suo padre e di Mark, Storm rinunciò all'idea di chiedere aiuto alla madre. Si rivolse invece a Irene Leochars, che stette ad ascoltare le sue spiegazioni esitanti con crescente interesse e maligna soddisfazione. « Sciocchina, ma non hai preso delle precauzioni? » Storm scosse il capo con aria cupa, senza capire bene cosa intendesse Irene con la parola « precauzioni », ma certa di non averle prese. « Chi è stato, cara? » fu la domanda seguente, e Storm scosse di nuovo il capo, questa volta ben più energicamente. « Santo cielo », esclamò Irene, sgranando gli occhi. « Sono così numerosi i candidati? Sei una ragazzaccia, Storm cara. » « Non si può... insomma, non si può far niente? » domandò lei con aria infelice. « Vuoi dire un aborto, cara? » le chiese brutalmente Irene e, quando Storm annuì, le rivolse un sorrisetto sprezzante. Era un uomo alto e pallido, grigio di capelli e curvo di spalle, con la voce sottile e le mani così bianche che risultavano quasi trasparenti. Sotto la pelle si vedevano le vene azzurrine e le ossa delicate color dell'avorio. Storm si sforzò di non pensare a quelle mani, mentre la frugavano, ma erano troppo fredde e crudelmente ostili perché riuscisse a dimenticarsene. Alla fine l'uomo se le lavò nel lavandino di cucina con cura così esagerata che Storm, dimenticando il dolore e l'imbarazzo, se ne sentì offesa. Tutta quella pulizia le parve un affronto « Presumo che l'attività fisica - cavalcare, giocare a tennis - abbia una parte importante nella sua vita », azzardò l'uomo con aria severa, e, quando Storm rispose con un cenno affermativo del capo, mandò un piccolo verso di disapprovazione. « Il corpo femminile non è adatto a sostenere simili sforzi. Lei è molto esile, mentre la sua muscolatura è eccessivamente
sviluppata. Inoltre, è incinta da quasi dieci settimane. » Terminato infine di lavarsi, cominciò ad asciugarsi le mani in un panno liso ma candido di bucato. « Può aiutarmi? » gli domandò Storm con aria irritata, ma lui scosse lentamente la testa grigia. « Se fosse venuta un pò prima... » e allargò le mani bianche in un gesto di impotenza. Assieme a Irene, Storm aveva buttato giù una lista di nomi di uomini che avevano tutti due aspetti in comune. Erano innamorati di Storm, o almeno avevano dichiarato di esserlo, ed erano tutti forniti di una discreta fortuna. I prescelti erano sei. A due di essi Storm aveva scritto un bigliettino, ricevendo risposte vaghe, auguri educati, ma nessuna proposta di incontro. Con il terzo, invece, era riuscita a combinare un incontro all'Umgeni Country Club. Era ancora in grado di indossare la tenuta da tennis e la gravidanza aveva conferito nuova luminosità alla sua pelle e maggiore pienezza ai suoi seni. Aveva conversato in tono lieve e civettuolo, sicuro e posato, incoraggiandolo come non aveva mai fatto prima. Non aveva notato lo sguardo subdolo e maligno dei suoi occhi, finché l'uomo non le aveva chiesto in tono confidenziale, chinandosi verso di lei: « Continui a giocare a tennis... nonostante le tue condizioni? » Era riuscita a controllarsi finché aveva raggiunto la Cadillac parcheggiata nello spazio apposito dietro i campi. Quando uscì dai cancelli piangeva e dovette fermarsi sulle dune in vista dell'oceano. Passata la prima ondata di umiliazione, rifletté a mente fredda sull'accaduto. Era stata Irene, naturalmente. Che stupida, a non capirlo prima. Ormai dovevano saperlo tutti. Ci aveva pensato Irene a far circolare la notizia. Si sentì oppressa da una sensazione di solitudine e di infelicità. Derik Hunt non era stato incluso nella lista dei sei, non perché non fosse ricco, né perché non avesse dimostrato interesse in lei. Derek Hunt s'interessava a quasi tutte le ragazze carine. Ne aveva sposate due, ed entrambe avevano divorziato con grande scalpore, non prima di avergli regalato sette rampolli. La reputazione di Derek Hunt era inversamente proporzionale alla sua ricchezza. « Senti, vecchia mia », le aveva detto con voce ispirata al buonsenso. « Abbiamo tutti e due un problema. Io ti voglio e ti ho sempre voluta. Non riesco a dormire la notte, perdiana! » esclamò, mentre i baffoni rossicci vibravano con aria lasciva. « E tu hai bisogno di me. Ormai lo sanno tutti, ragazza mia. Sei segnata a dito, purtroppo. Mors tua, vita mea. Non me ne è mai importato niente della condanna della società. Ho già sette piccoli bastardi, un altro non farà differenza. Cosa
ne dici? Affare fatto, eh? » Si erano recati nello Swaziland, dove Derek era riuscito a ottenere la licenza matrimoniale, mentendo sull'età di Storm. Alla cerimonia non aveva presenziato nessuno che lei conoscesse, solo cinque amici di Derek. Storm non l'aveva detto né a suo padre, né a sua madre, né a Mark. Lo udì tornare a casa come se avesse vinto il Gran Premio di Le Mans. Udì il rombo delle automobili che risalivano in corteo il viale d'accesso, lo stridere dei freni, le portiere che sbattevano, le urla, i richiami e i brani di canzoni oscene. La voce di Derek si levò sopra le altre. « Caramba, ragazzi! Vi ho lasciato col culo per terra sul campo e adesso vi farò bere finché non capirete più niente. Da questa parte, eroi d'Argentina. » Salirono i gradini che portavano alla porta tra grida, lazzi e un forte scalpiccio. Storm rimase supina sul letto, con gli occhi fissi sugli amorini di stucco che ornavano il soffitto. Come tutte le altre volte, provò l'impulso irrazionale di alzarsi e scappare. Ma non aveva un posto dove rifugiarsi. Da quando si era sposata, aveva parlato con sua madre solo tre volte, e ogni volta era stato un vero tormento per entrambe. « Se solo gliel'avessi detto. Forse papà sarebbe riuscito a capirti e a perdonarti... » « Oh, cara, non riesci a immaginare i progetti che faceva per il tuo matrimonio. Era così orgoglioso di te... e tu non l'hai nemmeno invitato... » « Dagli tempo, Storm, ti prego. Credimi, cara, sto facendo tutto il possibile. Sarebbe più facile, se non si trattasse di Derek. Sai qual è l'opinione che tuo padre ha di lui. » Non sapeva dove andare e così rimase li, immobile e terrorizzata, finché udì i passi pesanti e incerti che arrancavano sulla scala. Dopo un attimo la porta si spalancò. Non si era cambiato e portava ancora gli stivali. Il fondo dei pantaloni aveva una patina scura lasciatagli dalla sella, e il cavallo gli arrivava quasi alle ginocchia, come se fosse imbottito di pannolini. Il sudore, asciugandosi, aveva lasciato dei cerchi chiari sulla maglietta di cotone. « Sveglia, vecchia mia. Un vero uomo non si addormenta senza aver fatto il suo dovere. » Si spogliò, lasciando cadere gli abiti per terra. La pancia sporgente era bianca come quella di un pesce e coperta da una peluria rossiccia. Le spalle pesanti erano disseminate di cicatrici violacee, segno di antiche pustole, e la sua virilità esplodeva massiccia, rigida e coriacea come un ramo di pino. « Diamoci sotto », esclamò con una risatina roca, avvicinandosi al letto. Improvvisamente Storm rivide il corpo snello e armonioso di Mark Anders e la forma netta dei suoi muscoli, così come le erano apparsi quel giorno nella radura illuminata da chiazze
di sole. Ricordò con dolore la bella testa, la linea decisa della bocca e delle sopracciglia, e gli occhi sereni, da poeta. Mentre il letto sprofondava sotto il peso del marito, provò l'impulso di mettersi a gridare per la disperazione e la consapevolezza della pena che l'attendeva. Durante la prima colazione Derek amava bere una mistura di birra scura e champagne, che preparava in una speciale coppa di cristallo e versava poi in un boccale di peltro. Lo champagne era sempre un Bollinger del 1911. Derck era convinto che fosse necessario nutrirsi abbondantemente al mattino. Quel giorno sul piatto aveva uova strapazzare, aringhe affumicate, rognone in salsa piccante, funghi e un grosso filetto ben cotto. Nonostante gli occhi recassero i segni della baldoria della sera precedente e il colorito del suo volto fosse di un rosso acceso come quello del sole nascente, Derek era di ottimo umore. Rideva sgangheratamente alle proprie battute e si chinava attraverso il tavolo per pungolarla con il pollice color aragosta ogni volta che voleva richiamare la sua attenzione. Storm attese finché ebbe versato l'ultima goccia della sua pozione nel boccale, poi gli disse con voce pacata: « Derek, voglio il divorzio ». Lui non smise di sogghignare, spiando il liquido che colava. « Questa maledetta roba evapora... a meno che la coppa non abbia un buco », disse sbuffando, poi ridacchiò allegramente. « Capito? Un buco! Carina, eh? » « Hai sentito cosa ti ho detto? Non hai intenzione di rispondermi? » « Non c'è risposta, ragazza. Gli affari sono affari. Tu hai dato un nome al tuo bastardo, ma io devo ancora ricevere la mia parte. » « L'hai avuta tutte le volte che hai voluto », ribatté Storm, tranquilla, con voce carica di rassegnazione. « Perché non mi lasci libera? » « Buon Dio! » Derek la fissò al di sopra del bordo del boccale, con i baffi ispidi e gli occhi arrossati sgranati per lo stupore. « Non crederai che mi interessasse davvero la tua cosina, eh? Se ne trovano a migliaia in giro, e al buio sono tutte uguali. » La leggera ilarità si era ormai trasformata in un'aperta risata. « Buon Dio, ragazza mia... Non avrai davvero creduto che fossi impazzito per le tue tette candide, per caso? » « E allora perché? » gli chiese Storm. « Per un milione di buone ragioni, vecchia mia. » Mandò giù una forchettata di uova strapazzate e rognone. « Tutte contenute nel conto in banca del generale Courteney. » « Mi hai sposata per i soldi di papà? » gli domandò, con gli occhi fissi per la sorpresa. « Adesso si che ragioni », le disse lui, sogghignando. « Se continui così, sarai promossa. »
« Ma... ma... » balbettò Storm, con dei piccoli gesti delle mani che esprimevano la sua difficoltà a capire. « Sei già così ricco! » « Lo ero, ragazza mia, lo ero... Meglio usare il passato. » E sghignazzò di nuovo, compiaciuto. « Due mogli affezionate, due giudici poco comprensivi, sette figli, quaranta pony da polo, alcuni amici scrocconi, delle rocce che non si sarebbero dovute trovare sul tracciato di una strada, una miniera senza diamanti, un edificio crollato, una diga distrutta, una scogliera sbucata all'improvviso, il bestiame sterminato da una malattia e un avvocato miope che non riesce a leggere i caratteri piccoli. E' così che spariscono i soldi. Basta niente e... cucù, non ci sono più. » « Non posso crederci », gli disse Storm sbalordita. « Non scherzerei su cose del genere », replicò Derek con un altro sogghigno. « Non ho mai scherzato sui soldi; è uno dei miei principi, anzi, il mio unico principio. » La solleticò con il pollice. « Il mio unico principio, capito? Sono completamente a secco, te l'assicuro. L'ultima risorsa è papà, ragazza... Dovrai andare a parlargli, temo. L'ultima risorsa buona, eh? » Bussò alla porta d'ingresso, ma nessuno venne ad aprire. Mark fu sul punto di andarsene e tornare al paese. Provava una sensazione di profondo sollievo, come se si fosse liberato di un peso, ma poi si diede del vigliacco. Così cambiò idea, scese con un balzo dalla veranda e fece il giro della casa. Il colletto rigido e la cravatta gli davano fastidio e anche la giacca gli faceva provare una sorta di costrizione alla quale non era abituato, ma decise di non farci caso e passò l'indice all'interno del colletto mentre raggiungeva il cortile dietro il cottage. Erano passati ormai cinque mesi da quando aveva indossato per l'ultima volta abiti normali o camminato su un marciapiede lastricato. Persino le voci femminili non gli erano più familiari. Si fermò ad ascoltarle. Marion Littlejohn era in cucina con la sorella e il loro allegro cicaleccio aveva un tono e una cadenza che gli davano una piacevole sensazione di freschezza. Il chiacchierio cessò di colpo quando Mark bussò, e Marion venne alla porta. Indossava un grembiule a strisce colorate e le braccia nude erano coperte di farina fino ai gomiti. Aveva raccolto i capelli con un nastro, ma alcune ciocche le ricadevano sul collo e sulla fronte. In cucina aleggiava un profumo di pane che stava cuocendo e le guance di lei erano arrossate dal calore del forno. « Mark », esclamò con voce pacata. « Che piacere! » Tentò di scostare la ciocca di capelli sulla fronte, cosicché si disegnò un baffo di farina bianca alla radice del naso. Fu un gesto stranamente commovente, che fece tenerezza a Mark. « Su, entra », lo esortò, scostandosi e tenendo la porta aperta per farlo passare.
La sorella di Marion salutò Mark con aria gelida, quasi più indispettita di Marion stessa dal fatto che quell'uomo avesse piantato la sorella. « Ma guarda come sta bene, non trovi? » disse Marion rivolta alla sorella. Entrambe esaminarono con attenzione Mark, in piedi al centro della cucina. « Per me è troppo magro », disse la sorella in tono di dispetto, cominciando a slacciarsi il grembiule. « Può darsi », convenne Marion senza scomporsi, « che abbia solo bisogno di mangiare un pò come si deve. » Poi sorrise, notando quanto Mark fosse abbronzato e snello. Nel contempo si rese conto, con un'espressione materna negli occhi, che i tratti di lui si erano fatti più decisi. Vide anche le tracce lasciate dalle avversità e dalla solitudine, e avrebbe voluto abbracciarlo e stringerselo al seno. « C'è del latte fresco », disse invece, scacciando il pensiero. « Siedi qui, dove posso vederti. » Mentre versava il latte dalla brocca, la sorella appese il grembiule dietro la porta e disse con voce risentita, senza guardare Mark: « C'è bisogno di uova. Vado a prenderle in paese ». Quando furono soli, Marion prese il matterello e si chinò sul tavolo, sollevandosi e abbassandosi, mentre l'attrezzo riduceva la pasta a una sfoglia sottile come carta. « Raccontami che cosa hai fatto », lo invitò, e Mark cominciò a parlare, da principio in tono esitante, poi con accento sempre più sicuro di sì e sempre più entusiasta. Le parlò del Passo Chaka, del lavoro e dell'ambiente che aveva trovato. « Che bello! » lo interrompeva Marion a tratti, mentre precorreva con la mente i futuri eventi. Compilava liste di oggetti da acquistare, le adattava con una sorta di pragmatismo alle contingenze di una vita vissuta lontano dagli agi della civiltà, quando persino le cose più normali diventano un lusso: un bicchiere di latte fresco, una luce per la notte, tutte cose che devono essere programmate e predisposte con cura. Non provava né entusiasmo né sgomento nell'esaminare questa prospettiva, il che era tipico di lei. Apparteneva a una schiatta di pionieri. La donna deve seguire il proprio uomo, ovunque egli vada. Si trattava solo di un lavoro che andava fatto. « Il terreno per la casa è in alto, tra due colline, ma lo sguardo abbraccia tutta la valle, e i roccioni del Passo Chaka vi sono proprio sopra. E' un posto bellissimo, specialmente di sera. » « Ne sono sicura. » « Ho progettato la casa in maniera che si possa ingrandirla a piacere, aggiungendo una stanza alla volta. Tanto per cominciare, ci saranno solo due locali... » « Due locali basteranno, tanto per cominciare », convenne Marion, aggrottando soprappensiero le sopracciglia. « Ma avremo bisogno di una stanza separata per i bambini. » Mark s'interruppe di colpo e la guardò trasecolato. Non era
sicuro di aver sentito bene. Lei cessò di spianare la pasta con il matterello, pur tenendolo sempre con entrambe le mani, e gli sorrise. « Be', è per questo che sei venuto qui, no? » chiese con voce flautata. Mark abbassò gli occhi e annuì. « Sì. » Sembrava confuso. « Immagino di sì. » Durante la cerimonia, Marion perse solo una volta, e per un brevissimo istante, la propria disinvoltura. Fu quando vide il generale Sean Courteney seduto nel primo banco accanto alla moglie: Sean in tight e con una spilla di diamante nella cravatta, Ruth compassata ed elegante con un cappello a tesa larghissima in testa, carico di rose bianche. « E' venuto! » bisbigliò Marion in estasi, né poté fare a meno di lanciare un'occhiata trionfante agli amici e ai parenti, con un fare simile a quello di una gran dama che getti una monetina ai piedi di un mendicante. La sua posizione sociale aveva raggiunto un vertice da capogiro. Dopo, il generale l'aveva baciata con tenerezza sulla guancia, prima di rivolgersi a Mark: « Ti sei scelto la più bella ragazza del villaggio, ragazzo mio ». E Marion era arrossita di gioia, felice e graziosa come non era mai stata in vita sua. Con l'aiuto dei quattro braccianti zulu fornitigli da Sean, Mark si era aperto un varco fino al Bubezi. Portò la sposa al Passo Chaka sul sedile posteriore della motocicletta. Il carrozzino della moto rigurgitava di oggetti facenti parte della dote di Marion. Indietro, molto più lontano, gli zulu conducevano Trojan e Spartan, entrambi stracarichi, con il resto del bagaglio della ragazza. Nella prima mattina, una densa coltre di nebbia fiancheggiava il fiume, silenzioso e piatto come la superficie di un lago avvolto da sfumature delicate rosa e lilla nella nuova luce dei giorno che stava spuntando. I grandi bastioni del Passo Chaka spuntavano impervi dalla nebbia, oscuri e misteriosi, ciascuno circondato da ghirlande di nubi dorate. Mark aveva scelto con cura l'ora dell'arrivo, in maniera che Marion ricevesse, vedendo per la prima volta la sua nuova residenza, l'impressione migliore possibile. A un certo punto uscì con la motocarrozzetta dal tratturo a fondo roccioso e spense il motore. In perfetto silenzio sedettero a guardare il sole che sfiorava le creste dei bastioni con raggi simili a quelli che il marinaio cerca nei deserti d'acqua dell'oceano, lampi di luce che lo invitano a raggiungere la terraferma e il tranquillo porto in cui gettare l'ancora. « E' molto bello, amore », mormorò lei. « Adesso fammi vedere dove sorgerà la casa. » Marion lavorò con gli zulu, con le braccia infangate fino ai gomiti, mentre modellavano l'argilla per ricavarne mattoni. Li incitava in tono scherzoso nella loro lingua, spingendoli con
le sue allegre canzonature a compiere sforzi di solito inusitati in Africa. Lavorò, tirandoli per la cavezza, con i muli che trascinavano dalla valle i tronchi d'albero necessari per la costruzione della casa. Aveva le maniche arrotolate sulle braccia lisce e abbronzate, e i capelli raccolti in un foulard. Si diede da fare con il rudimentale forno d'argilla, estraendo con una pala dal manico lunghissimo le pagnotte dorate e tondeggianti, osservando poi con aria soddisfatta Mark che, con un pezzetto molle, raccoglieva le ultime tracce di spezzatino rimaste sul piatto. « Era buono, amore? » Durante le serate sedeva accanto alla lanterna, con la testa curva sul cucito che teneva in grembo e annuiva con interesse, mentre lui le raccontava le avventure della giornata, ogni piccolo trionfo, ogni delusione. « Che peccato, amore! » oppure: « Che fortuna, amore! rispondeva lei. Una volta - era una splendida giornata - Mark la condusse per l'antico sentiero fino alla cresta del Passo Chaka. La teneva per mano mentre la conduceva nei tratti più stretti e impervi, dove un precipizio li separava dal fiume che scorreva duecento metri più in basso. Marion aveva infilato gonna e sottoveste nei mutandoni, aveva afferrato con mano salda il cestino con le provviste, e durante tutta la lunga arrampicata non diede mai segno di stanchezza o sgomento. Arrivati in vetta, Mark le mostrò i muri a secco diroccati e le caverne, ora coperte da una fitta vegetazione, in cui aveva abitato la tribù che aveva sfidato Chaka. Le raccontò la storia del vecchio re che si era arrampicato fin lì, mostrandole anche il pauroso sentiero lungo il quale il sovrano aveva condotto i suoi guerrieri. Alla fine le descrisse il massacro, conclusosi con una pioggia di corpi umani scaraventati nel lontano fiume sottostante. « Com'è interessante tutto questo, amore », commentava Marion, mentre toglieva dal cestino la tovaglia. « Ho portato le focaccine e un pò della marmellata di albicocche che ti piace tanto. » Qualcosa - un insolito movimento lontano nella valle - destò l'attenzione di Mark, che afferrò il binocolo. Nell'erba dorata al limite del canneto sembravano tanti insetti neri e grassi, una lunga fila in marcia su un lenzuolo pulito. Seppe immediatamente di che cosa si trattava e cominciò a contare con entusiasmo le macchie nere. « Diciotto! » esclamò. « Una nuova mandria. » « Che cosa c'è, amore? » chiese Marion, alzando gli occhi dalla focaccina sulla quale stava spalmando la marmellata. « Una nuova mandria di bufali », rispose Mark con esultanza. « Dev'essere venuta dal nord. La faccenda comincia a funzionare. » Con il binocolo vide uno dei bestioni emergere in una ra-
dura del canneto. Poté scorgerne non solo la possente schiena nera, ma anche il testone massiccio e le orecchie a ventaglio sotto le corna rivolte in basso, nere e lustre, che riflettevano i raggi del sole, assumendo un aspetto metallico. Quei bufali erano suoi. Provava la fierezza del padrone che acquisisce una nuova proprietà. Quella mandria era entrata nella zona protetta che lui aveva creato proprio a questo scopo. « Guarda! » disse, porgendo il binocolo a Marion. Lei si terse le mani con cura e se lo portò agli occhi. « Laggiù, al limite della palude », indicò con il dito Mark, il cui volto brillava di fierezza e gioia. « Sì, li vedo », fece lei, sorridendo con aria felice, per farlo contento. « Che bello, amore. » Poi puntò il binocolo al di là del fiume, dove, tra gli alberi, si distingueva il tetto della casa. « Guarda com'è bella con il nuovo tetto di paglia! » esclamò Marion con fierezza. « Non vedo l'ora di andarci ad abitare. » Il giorno dopo lasciarono il capanno di paglia e teli da tenda al centro del vecchio campo sotto i sicomori, e una coppia di rondini traslocò assieme a loro. Gli uccellini sfrecciavano di qua e di là per costruire il loro nido di fango sotto le travi portanti del nuovo tetto, giallo di paglia, che contrastava con le pareti di mattoni imbiancati a calce. « Questa è la più grossa fortuna che poteva capitarci », esclamò Mark, ridendo. « Sporcano dappertutto », replicò Marion con aria dubbiosa, ma quella sera, per la prima volta, cominciò a fare l'amore con lui. Si sdraiò sulla schiena nel grande letto matrimoniale, sollevò la camicia da notte fino alla cintola e divaricò le calde cosce formose. « Va benissimo, amore, se ci tieni. » E, poiché lei si dimostrò tanto gentile e desiderosa di piacergli, Mark fece del proprio meglio per sbrigarsi in fretta e non essere brutale. « Ti è piaciuto, amore? » « E' stato meraviglioso », le rispose. Improvvisamente ebbe la visione di una donna incredibilmente bella, con un corpo sinuoso e pieghevole come un giunco, e il senso di colpa lo investì come un pugno in pieno stomaco. Tentò di scacciare quell'immagine, ma la donna continuò ad adescarlo nei sogni, ridendo e ballando e accarezzandolo, cosicché Mark si svegliò al mattino con grandi occhiaie nere. Si sentiva spossato. « Vado nella valle per dare un'occhiata in giro », disse, senza alzare gli occhi dalla tazza di caffè. « Sono di pattuglia. » « Ma se sei appena tornato lo scorso venerdì! » Marion era sorpresa. « Voglio dare un'altra occhiata a quei bufali », disse Mark. « Benissimo, amore. Ti preparerò la bisaccia. Quanto resterai via? Ti metterò anche il maglione e la giacca, di sera fa fresco. Per fortuna ho cotto il pane solo ieri », continuò lei, ciarliera, e Mark provò un improvviso, terribile desiderio di gridarle di stare zitta. « Così potrò mettere le piantine a dimora. Sarà bello avere di nuovo della verdura fresca e poi... quan-
to tempo è passato da quando non ho più scritto una lettera! A casa mia saranno in pensiero per noi. » Mark si alzò e uscì per sellare Trojan. Il furioso sbattere di grandi ali, simile a un'esplosione, lo scosse dal suo sogno a occhi aperti. Mark si drizzò sulla sella proprio mentre una decina dei grandi uccelli si alzavano dal margine del canneto. Si trattava di uno stormo di sporchi avvoltoi fulvi che facevano del loro meglio per alzarsi in volo dopo essere stati disturbati dalla comparsa di Mark. In quel frangente, quei volatili si trasformarono come per magia da esseri brutti e sgraziati in altrettante forme snelle, impegnate in bellissimi voli planati. Mark impastoiò Trojan e sfilò per precauzione il Mannlicher dalla custodia. Provava una certa eccitazione. Sperava di trovare qualche animale ucciso dai grandi felini predatori della zona. Magari un leone, uno degli animali che finora aveva cercato invano nella valle. Il bufalo giaceva al limite del terreno umido e soffice, seminascosto dalle canne, e doveva essere morto da pochissimo tempo. Gli avvoltoi non erano infatti riusciti ancora a perforare lo spesso mantello nero né a cancellare l'orma profondamente impressa nella terra umida. Avevano asportato solo uno degli occhi del bufalo e scalfito con i loro becchi la pelle delicata intorno all'ano del bestione. Era questo, infatti, il loro punto preferito di penetrazione, quando avevano a che fare con una carogna dal mantello molto resistente. Il bufalo era un grosso maschio adulto con le corna solidamente intrecciate sul cranio. La distanza tra le due estremità delle corna superava il metro. Aveva un corpo massiccio, più possente di un toro Hereford da esposizione, e le spalle prive di peli. La calvizie grigia era sporca di fango e coperta di zecche. Mark infilò la mano nell'incavo tra le zampe posteriori per controllare il residuo calore del corpo. Dev'essere morto meno di tre ore fa, concluse mentalmente e si accovacciò accanto alla carcassa per determinare la causa del decesso. Mark non trovò alcun indizio rivelatore sulla parte esposta del corpo, così, facendo uno sforzo sovrumano e servendosi delle zampe irrigidite come leve, rivoltò il bufalo morto che doveva pesare almeno una tonnellata e mezzo. Vide subito le ferite mortali. La prima si trovava dietro la spalla. L'arma era penetrata nella cassa toracica, e il suo occhio da cacciatore esperto capì subito che il colpo aveva raggiunto il cuore. Era una ferita slabbrata e profonda, e il sangue sgorgato copioso si era coagulato sulla terra umida. Se ci poteva essere ancora qualche dubbio sulla causa di quelle ferite, esso scomparve non appena Mark esaminò la seconda ferita. Si trattava di un colpo frontale, vibrato alla base del collo, ma angolato in maniera così abile da raggiungere il
cuore. Per di più, l'arma non era stata ricuperata. Era ancora conficcata nella ferita fino alla base della lama. L'asta era spezzata perché il bufalo vi era caduto sopra. Mark afferrò lo spezzone di lancia, puntò lo stivale contro la spalla della bestia e dovette compiere un notevole sforzo, accompagnato da brontolii, per estrarre la lama compressa dai muscoli. La esaminò con interesse. Si trattava di una lancia a lama larga, un assegai, concepito dal vecchio re Chaka in persona. Mark ricordava di aver sentito parlare il generale Sean Courteney delle guerre contro gli zulu, di Isandhlwana e della gola di Morma. « Quelli sono capaci di conficcare uno dei loro assegai nel torace di un uomo, di trapassarlo da parte a parte e di far uscire per sessanta centimetri l'arma dalla schiena: quando estraggono la lama, dissanguano la vittima come se le avessero applicato una pompa. » Sean si era interrotto per un attimo fissando il fuoco acceso. « Quando tirano fuori la lama, gridano: 'Ngidbla! Ho mangiato'! Chi ha sentito quel grido, non lo dimentica più. Oggi, a quarant'anni di distanza, il ricordo di quel grido mi fa ancora rizzare i capelli in testa. » Con il corto e pesante assegai ancora in mano, Mark ricordò che Chaka stesso usava andare a caccia del bufalo con un'arma simile. Un diversivo senza importanza tra una guerra e l'altra. Quando Mark spostò lo sguardo dalla lama al bestione nero, senti mutarsi la collera che lo pervadeva in una sorta di riluttante ammirazione. Era arrabbiato per l'uccisione futile di una delle sue preziose bestie, ma provava al contempo ammirazione per il coraggio particolare dimostrato da colui che aveva compiuto il misfatto. Ripensando al cacciatore, Mark si rese conto che doveva essersi trovato in circostanze senz'altro speciali per aver abbandonato un'arma così preziosa, costruita con tanta abilità e amore, assieme alla preda per la quale aveva messo a repentaglio la propria vita. Mark cominciò a seguire a ritroso le impronte rimaste sulla soffice terra scura e scopri il punto in cui il bufalo era uscito dal sentiero, simile a una galleria nella foresta, dopo aver bevuto al fiume. Trovò anche il punto in cui il cacciatore si era appostato al coperto, allo sbocco del sentiero. Le impronte dei suoi piedi non lasciavano alcun dubbio. « Pungushe! » esclamò Mark. Pungushe si era piazzato sottovento e, al passaggio del bufalo, lo aveva colpito dietro la spalla, al cuore. Il bufalo aveva fatto un balzo in avanti per iniziare un travolgente galoppo, mentre Pungushe estraeva l'arma, e il sangue era uscito a getto dalla profonda ferita, e con violenza tale da dare l'impressione che il canneto fosse stato annaffiato con del liquido rosso da un giardiniere sbadato. Il bufalo è uno dei pochi animali selvaggi che attaccano il
loro cacciatore e lo inseguono. Il bestione, benché ormai moribondo e perdendo sangue a dismisura a ogni passo, si era messo a propria volta sottovento per individuare con l'olfatto il punto in cui si trovava Pungushe. Scopertolo, lo aveva investito con una di quelle cariche che solo la morte riesce a fermare. Pungushe aveva affrontato l'animale che lo stava caricando attraverso il canneto e aveva scelto il punto alla base del collo per vibrare il secondo colpo e immergere l'assegai fino al cuore della bestia, ma anche il bufalo lo aveva colpito, prima di compiere ancora una decina di passi malsicuri e accasciarsi sulle ginocchia. Mark trovò il punto dove Pungushe era caduto. Le sue orme erano perfettamente impresse nella soffice argilla. Mark le seguì fino al punto in cui il cacciatore era uscito dal canneto rimettendosi in piedi. Pungushe si era diretto lentamente verso nord, ma il suo passo era quello di un uomo che procedeva a fatica, camminando sui talloni anziché sulle punte dei piedi. Si era fermato una prima volta nel punto in cui aveva lasciato la sua trappola a molla con le ganasce d'acciaio e l'aveva nascosta nella tana di un formichiere, coprendo l'ingresso con della sabbia. Evidentemente si era sentito troppo debole per portar via la trappola o nasconderla in un posto più sicuro. Mark ricuperò la trappola e si chiese, mentre la legava alla sella di Trojan, quanti dei suoi animali fossero morti per colpa di quell'arnese. Un chilometro e mezzo più avanti, Pungushe si era fermato per raccogliere delle foglie usate dagli indigeni come medicinale perché contenenti trementina. Da qui aveva proseguito lentamente, senza arrampicarsi, fino ai costoni rocciosi e non aveva usato le abituali precauzioni per cancellare le proprie impronte. Nell'attraversare uno stretto e ripido torrente asciutto dal fondo sabbioso, Pungushe era caduto in ginocchio e si era servito di entrambe le mani per rialzarsi in piedi. Mark fissò sconcertato l'impronta in cui spiccavano gocce di sangue frammiste ai granelli di sabbia. Pur risentito per quello che Pungushe aveva fatto e giubilante per averlo individuato, Mark provò tuttavia una punta di compassione. Quell'uomo, ora gravemente ferito, un giorno gli aveva salvato la vita. Mark ricordava ancora il sapore dell'amara medicina contenuta nel pentolino annerito dal fuoco. Quel liquido gli aveva placato la terribile sete dovuta all'attacco di malaria. Fino a quel momento Mark aveva condotto Trojan per la cavezza al fine di non elevarsi al di sopra dell'orizzonte e anche per non comunicare troppo in anticipo, con il pesante battito degli zoccoli dell'animale, il suo arrivo. Adesso salì in sella e colpì con i tacchi il ventre del mulo, che diede inizio a un trotto oscillante. Pungushe era a terra. Era caduto di schianto sul suolo misto
di terriccio e sabbia. Si era allontanato strisciando dal sentiero tracciato dagli animali per mettersi al riparo dal sole sotto un basso cespuglio. Si era tirato sulla testa il leggero cappuccio di pelle di scimmia, come da quelle parti fanno gli uomini quando devono dormire... o morire. Giaceva così immobile che Mark pensò che fosse davvero morto. Scese con cautela, scivolando di sella, e si avvicinò con circospezione al corpo prostrato di Pungushe. Le mosche ronzavano rabbiose, a sciami, al di sopra della medicazione di verdi foglie fissate con strisce di corteccia intorno al fianco e al fondoschiena dell'uomo. Mark poté raffigurarsi subito come quell'uomo era rimasto ferito. Gli parve di vedere Pungushe che affrontava il bufalo attaccante con il corto assegai dalla lama larga, che conficcava l'arma nel bestione e poi balzava di lato per allontanarsi. Ma il bufalo si era girato di colpo, facendo perno sulle tozze zampe anteriori, per investire l'uomo con le micidiali corna ricurve. Pungushe era stato colpito al fianco, molto in basso, all'altezza del cinto pelvico. L'impatto doveva averlo scaraventato lontano, dandogli il tempo di allontanarsi strisciando, mentre il bufalo continuava ad avanzare barcollante, cercando di vincere il dolore della punta d'acciaio conficcata profondamente nel torace, fino a quando, venute meno le forze, era caduto in ginocchio sulle zampe anteriori lanciando al cielo il suo ultimo muggito di sfida. Mark rabbrividì sotto il sole dardeggiante e guardò la ferita coperta dall'impacco di foglie. Posò un ginocchio a terra per allontanare le mosche con la mano. Ora, per la prima volta, si rendeva conto della vera conformazione fisica di quell'uomo. Il cappuccio copriva solo la testa e le spalle, ma il possente torace era nudo. Un perizoma di soffice pelle conciata e coperta di perline blu gli proteggeva iinguine lasciando allo scoperto le natiche, i muscoli delle cosce e il piatto ventre sodo. Ogni singolo muscolo si stagliava nettamente, e le vene, simili a corde sottili sotto la superficie della pelle, sembravano grovigli di serpenti, una muta testimonianza del formidabile sviluppo fisico di quel corpo superallenato. Il colorito di Pungushe era più chiaro di quello solito degli zulu. La sua pelle era liscia e lucente come quella delle donne, ma il petto era coperto da fitti riccioli neri. « Volevo prendere uno sciacallo », pensò Mark perplesso, « e ho catturato invece un leone, un grosso e vecchio leone dalla criniera nera. » Ora temeva davvero che Pungushe fosse morto Poi si accorse che il torace muscoloso si alzava e abbassava quasi impercettibilmente. Tese la mano e toccò la spalla attraverso la pelle del cappuccio. L'uomo si mosse per sollevarsi, facendo leva sul gomito. Poi lasciò cadere il cappuccio e guardò Mark. Pungushe era un uomo al culmine delle proprie forze, della
propria fierezza e dignità. Poteva avere una quarantina d'anni, e i corti capelli neri e lanosi alle tempie recavano appena le prime striature grigie dovute al gelo della saggezza. Il volto non recava tracce della sofferenza dell'uomo. L'ampia fronte era liscia, simile all'ambra levigata, gli occhi brillavano oscuri, pieni di fierezza e orgoglio. Era il bel volto dall'ovale perfetto di uno zulu di alto lignaggio. « Sakubona, Pungushe », disse Mark. « Ti vedo, Sciacallo. » L'uomo lo soppesò per un attimo con lo sguardo, riflettendo sul nome e sullo stile usati in quel saluto, sulla lingua e sull'accento nel quale era stato pronunciato. L'espressione calma del volto non subì alcuna trasformazione. Sulle grosse labbra tumide non comparve né un sorriso né un'espressione di disprezzo. Solo una luce nuova si accese negli occhi scuri. « Satubona, Jamela. Ti vedo, Cercatore. » Lo voce era bassa e profonda, ma parve risuonare con il clangore bronzeo di un gong nell'aria silenziosa. Pungushe proseguì subito dicendo: « Sakubona, Ngaga ». Mark sbatté le palpebre. Non gli era mai venuto in mente che lo Sciacallo potesse averlo catalogato mentalmente con un nome altrettanto insultante. Ngaga è il pangolino, un formichiere coperto di squame, una piccola creatura che rassomiglia all'armadillo, un animale notturno il quale, se colto di sorpresa in pieno giorno, comincia a correre per ogni dove curvo come un vecchietto, osservando con occhi miopi tutti gli ostacoli che incontra sul suo cammino e riprendendo subito a correre. I due nomi, Jamela e Ngaga, usati insieme, descrivevano con imbarazzante chiarezza qualcuno che corre frastornato di qua e di là descrivendo dei piccoli cerchi e guardando tutto senza in realtà vedere nulla. Improvvisamente, Mark vide, con gli occhi di un osservatore nascosto, se stesso impegnato a perlustrare il terreno, a scendere ogni tanto dal mulo per esaminare da vicino tutto ciò che destava il suo interesse e risalire poi in sella... proprio come uno Ngaga. Non era una riflessione lusinghiera. Con disagio si rese conto che, nonostante le ferite di Pungushe e la sua momentanea inferiorità, era lui quello che faceva la figura più magra. « Sembra che lo Ngaga abbia trovato finalmente ciò che cercava », disse in tono sarcastico, dirigendosi verso il mulo e srotolando la coperta da dietro la sella. Sotto l'impacco insanguinato di foglie c'era un grosso foro, là dove era penetrato il corno appuntito del bufalo. Poteva darsi che la ferita arrivasse fino ai reni, nel qual caso l'uomo poteva considerarsi praticamente morto. Mark scacciò il pensiero e ripulì la ferita con tutta la delicatezza di cui fu capace, per medicarla poi con una soluzione di acriflavina. La camicia di ricambio che Mark aveva portato con sé era ancora bianca come la neve e fresca al tatto, quasi fosse appena stata lavata e stirata da Marion. Mark asportò le maniche, fece con il resto della camicia un tampone che pose sulla ferita e
poi provvide a fasciare il tutto con le maniche strappate. Pungushe non aprì bocca, mentre Mark si dava da fare, né protestò o diede segno di provare dolore quando Mark lo fece mettere seduto per poter lavorare con maggior facilità. Ma quando vide Mark strappare la camicia, mormorò, con una punta di rammarico: « E' una bella camicia ». « C'era una volta un bello Ngaga giovane che sarebbe potuto morire in preda alla febbre », gli ricordò Mark, « ma un Dio Sciacallo mangiacarogne lo portò in un posto sicuro e gli diede da bere e da mangiare. » « Ha », annuì Pungushe. « Ma non era uno Sciacallo tanto stupido da strappare una bella camicia. » « Allo Ngaga preme molto che lo Sciacallo sia in buona salute, in maniera da poter lavorare con impegno spaccando pietre e facendo altri lavori degni di un uomo quando sarà ospite ignorato nel kraal di re Giorgio. » Quindi chiese: « Puoi pisciare, Sciacallo? Il necessario, per vedere a quale profondità è arrivato il corno del bufalo ». L'orina aveva una tinta rossiccio-brunastra, ma non recava tracce di sangue fresco. Tutto stava a indicare che i reni erano stati appena sfiorati e che lo spesso strato di fasci muscolari sulla schiena dello zulu aveva assorbito in buona parte la penetrazione brutale del corno. Mark si accorse di pregare silenziosamente che le cose stessero così, benché non riuscisse a capire perché fosse tanto preoccupato. Lavorando in fretta, tagliò due giovani alberi dal tronco sottile e confezionò con l'aiuto di strisce di corteccia umida ed elastica una sorta di barella, che coprì con la propria coperta e col cappuccio di Pungushe, legandola poi per le estremità alla sella di Trojan in maniera che il mulo potesse trascinarla. Quindi aiutò lo zulu a sistemarsi sulla barella, restando sorpreso dalla sua statura e dal vigore del braccio con il quale l'indigeno fece forza sulla spalla di Mark per sorreggersi. Con Pungushe sdraiato sulla barella, Mark ricondusse il mulo sul tratturo, e le due estremità posteriori dei tronchi incisero profondi solchi sulla terra soffice. Faceva quasi buio, quando superarono il punto in cui giaceva il bufalo morto. Mark lanciò un'occhiata al di là del canneto e riuscì a distinguere le macabre sagome scure degli avvoltoi appollaiati sugli alberi, in attesa di dare il cambio a quelli che già divoravano la carogna. « Perché hai ammazzato il mio bufalo? » chiese Mark, senza essere certo che Pungushe fosse ancora in sé. « Tutti conoscono le nuove leggi. Sono stato in tutti i villaggi, ho parlato con ogni induna, ogni capo: tutti gli uomini hanno sentito. Tutti gli uomini conoscono la pena che devono aspettarsi se vengono a cacciare in questa valle. » « Se quel bufalo era tuo, perché non portava il marchio del tuo ferro? Non hanno forse l'abitudine, gli Abelungu, gli uomini bianchi, di imprimere con il fuoco il marchio sul loro
bestiame? » chiese Pungushe dalla barella, senza sorridere e senza aver l'aria di volerlo sfottere, benché Mark fosse sicuro che l'uomo volesse fare proprio questo. Cominciò a provare una certa stizza. « Questo posto è stato dichiarato sacro persino dal vecchio re, Chaka. » « No », replicò Pungushe. « Il posto è stato dichiarato riserva di caccia del re. E poi c'è un'altra cosa », soggiunse in tono più severo. « Io sono uno zulu di sangue reale. Vengo a cacciare qui per diritto di nascita: è un'occupazione degna di un uomo. » « Nessun uomo ha il diritto di venire a cacciare qui. » « E gli uomini bianchi che sono venuti qui con i loro isibamu - i loro fucili - durante le ultime cento stagioni? » chiese Pungushe. « Sono dei malfattori così come lo sei tu. » « E allora perché non sono stati catturati per diventare ospiti nel kraal di re Giorgio, l'onore che tocca a me? » « Lo saranno in futuro », lo rassicurò Mark. « Oh! » fece Pungushe, e questa volta la sua voce era carica di disprezzo e scherno. « Quando li coglierò sul fatto, ci andranno anche loro », ripeté Mark, cocciuto, ma lo zulu fece con la mano un gesto come per dire: lasciamo perdere! Quella mano dalla palma rosea diceva che esistevano molte leggi: alcune per i ricchi, altre per i poveri, alcune per i bianchi e altre per i negri. Nessuno dei due parlò più fin dopo calata l'oscurità, quando Mark si accampò per la notte e lasciò che Trojan pascolasse legato a una lunga fune. Quando Mark si accovacciò accanto al fuoco per preparare il pasto serale, Pungushe, sdraiato sulla barella in una zona d'ombra, parlò di nuovo. « Per chi proteggi i silwane, gli animali selvaggi della valle? Verrà re Giorgio a caccia qui? » « Nessuno verrà mai più a caccia qui, né re né uomo comune. » « Perché, allora, proteggi i silwane? » « Perché, se non lo faremo, verrà il giorno in cui non ce ne saranno più in queste terre. Non ci saranno più bufali né leoni né cudù. Più nulla. Sarà un gran vuoto. » Pungushe tacque, mentre Mark trasferiva cucchiaiate di polenta liquida di granoturco e pezzi di carne bollita sul coperchio della pentola per porgerlo poi allo zulu. « Mangia », gli ordinò, e sedette a gambe incrociate davanti a Pungushe, tenendo il proprio piatto nel grembo. « Ciò che dici è vero », disse Pungushe, sopra pensiero. « Quando ero bambino - avevo la tua età - », Mark si accorse della punzecchiatura, ma non ci fece caso, « questa valle era piena di elefanti, con zanne lunghe come lance, e c'erano anche molti leoni e mandrie di bufali come quelle del grande re. » S'interruppe, per riprendere dopo un pò. « Queste bestie sono
scomparse, anche quelle rimaste scompariranno. » « E' un bene? » chiese Mark. « Non è né un bene né un male. » Pungushe si strinse nelle spalle e cominciò a mangiare. « E semplicemente così che va il mondo... non serve pensare sopra. » Finirono ai mangiare in silenzio e Mark ripose i piatti. Quindi portò del caffè, ma Pungushe lo respinse con un gesto della mano. « Bevilo », gli disse Mark in tono perentorio. « Devi berlo per togliere il sangue dalla tua orina. » Poi porse a Pungushe una delle proprie sigarette, e lo zulu staccò con cura il filtro prima di stringerla tra le labbra. Arricciò un pò il naso piatto, perché la sigaretta non lo soddisfaceva. Lui era abituato al grossolano tabacco nero degli indigeni, ma, d'altra parte, non volle fare commenti che potevano offendere l'ospitalità di Mark. « Quando tutto sarà scomparso, quando il grande vuoto sarà arrivato in questa valle, che sarà di te, Sciacallo? » chiese Mark. « Non capisco la tua domanda. » « Tu sei un uomo dei silwane. Sei un grande cacciatore. La tua vita è legata ai silwane così come il mandriano è legato alle sue bestie. Che sarà di te, o grande cacciatore, quando il tuo bestiame non ci sarà più? » Mark si rese conto di essere riuscito a stabilire il contatto con lo zulu. Vide che le sue narici si dilatavano e che i suoi occhi assumevano uno strano bagliore. Attese che Pungushe riflettesse a lungo sulla frase. « Andrò a Igoldi », disse infine Pungushe. « Andrò la dove ci sono le miniere d'oro e diventerò ricco. » « Ti faranno lavorare in profondità sottoterra, dove non potrai vedere il sole né sentire il vento, e ti faranno spaccare pietre esattamente come dovrai fare adesso nel kraal di re Giorgio. » Un'espressione di disgusto si disegnò sulla faccia dello zulu. « Andrò a Tekweni », continuò Pungushe, cambiando idea. « Andrò a Durban e diventerò un uomo molto importante. » « A Tekweni ti riempirai i polmoni con i fumi delle fabbriche dove lavorano la canna, e quando il grasso babu sorvegliante parlerà con te, risponderai: Yebbo, Nkosi, sì, padrone! » Questa volta, un'evidente ripugnanza comparve sul volto dello zulu, che finì la sigaretta e schiacciò tra indice e pollice il minuscolo mozzicone rimasto. « Jamela », disse con aria quasi risentita. « Tu dici parole che turbano l'uomo. » Mark sapeva benissimo che la ferita dello zulu era più grave di quanto la sua stoica sopportazione lasciasse intendere. Del resto, si sarebbe rivelato una donnicciola se si fosse lamentato per i dolori e, questo, Pungushe non lo voleva. Ci sarebbe voluto molto tempo prima che fosse in grado di
raggiungere a bordo della motocarrozzetta la stazione di polizia e la sede giudiziaria di Ladyburg su quegli impervi tratturi, su quelle piste aspre e piene di buche. Mark lo ricoverò in una specie di baracchetta per gli attrezzi che aveva costruito a ridosso della parete esterna della stalla dei muli. Era un locale asciutto e fresco, provvisto di una porta robusta, munita di un buon lucchetto. Nonostante le proteste di Marion, Mark diede a Pungushe delle coperte tolte dal baule della moglie e il materasso che lei aveva messo da parte per la stanza dei bambini. « Ma è uno zulu, amore! » continuava a dire Marion. Ogni sera, Mark portava al prigioniero il pasto in un pentolino, esaminava la ferita e la medicava. Poi, mentre aspettava che Pungushe finisse di mangiare, sedeva sullo scalino più alto all'ingresso della baracchetta per fumare e chiacchierare. « Se la valle appartiene adesso a re Giorgio, come mai tu hai costruito la tua casa proprio qui, dove coltivi anche un orto e fai pascolare i muli? » « Io sono un uomo del re », spiegò Mark. « Sei un induna? » Pungushe rimase con il cucchiaio sospeso a mezz'aria e guardò incredulo Mark. « Tu sei uno dei consiglieri del re? » « Io sono il guardiano della riserva reale di caccia », rispose Mark, conferendosi il vecchio titolo in uso presso gli zulu, e Pungushe scosse tristemente la testa. « Il padre di mio padre era a suo tempo il guardiano della riserva di caccia reale, ma era un uomo molto importante, con ventiquattro mogli, un uomo che aveva combattuto una decine di guerre e ammazzato tanti nemici che le code di bue sul suo scudo erano fitte come l'erba sulle colline in primavera. La coda di bue era la decorazione che il re concedeva al guerriero che si era distinto in battaglia, perché la applicasse allo scudo. Pungushe finì di mangiare, per soggiungere poi con aria ingenua: « Re Chaka non faceva certi errori... Mandare un bambino a fare il lavoro di un uomo! ... » La sera successiva, Mark constatò che la ferita si stava rimarginando rapidamente senza tracce di infezione. Ciò grazie alla formidabile robustezza e all'allenamento di quell'organismo. Pungushe era ormai in grado di sedere a gambe incrociate, e anche la testa era di nuovo fieramente eretta. Lo zulu sarebbe stato in grado di sopportare il viaggio fino a Ladyburg molto più presto di quanto pensasse, e Mark cominciò a provare una strana sensazione di dispiacere. « Re Giorgio è senza dubbio un grande e saggio re che vede tutto », furono le parole con cui Pungushe iniziò la conversazione serale. « Allora, perché aspetta il calare del sole per iniziare un lavoro che avrebbe dovuto cominciare all'alba? Se avesse voluto evitare il grande vuoto in questa valle, è suo padre colui che avrebbe dovuto cominciare il lavoro. » « Il re ha molto da fare in tanti paesi lontani. Deve fidarsi
degli induna per avere consigli, ma questi induna non sono così saggi come lui e non vedono tutto », spiegò Mark. « Gli Abelungu sono come bambini golosi, sempre pronti ad arraffare più cibo di quello che possono mangiare. Così si impiastricciano la faccia. » « Anche tra i negri vi sono uomini avidi e ignoranti », ribatté Mark. « Alcuni di loro arrivano persino ad ammazzare i leopardi con trappole d'acciaio per togliergli la pelliccia. » « Per venderla agli avidi uomini bianchi e per vestire le donne ignoranti di costoro », replicò Pungushe. « Così siamo pari! » pensò Mark, mentre raccoglieva il pentolino vuoto. La sera dopo, Pungushe aveva un'aria triste, quella di un uomo che sta per congedarsi. « Tu mi hai detto cose sulle quali devo riflettere profondamente », esordì. « Avrai molto tempo per farlo », disse Mark. « Nelle pause di lavoro, quando spaccherai pietre. » Pungushe ignorò l'allusione. « Le tue parole hanno molto peso, considerato che sono state dette da uno che è ancora abbastanza giovane per portare al pascolo il bestiame », soggiunse lo zulu per spiegare meglio il complimento fatto. « Dalla bocca di un poppante », tradusse Mark in lingua zulu, e Pungushe annuì con aria solenne. L'indomani mattina non c'era più. Aveva praticato un buco nella parte posteriore del tetto di paglia ed era uscito da lì. Aveva portato con sé il cappuccio di pelle e lasciato le coperte di Marion, ben ripiegate, sul materasso. Aveva tentato di riprendersi la tagliola, ma Mark l'aveva chiusa in cucina. Cosi, Pungushe l'aveva lasciata dove stava e se n'era andato durante la notte verso settentrione. Mark era furibondo per non aver saputo valutare esattamente le condizioni fisiche del prigioniero, e mormorava oscure minacce mentre lo inseguiva in sella a Trojan. « Questa volta gli sparerò a vista », promise, rendendosi conto nello stesso istante che Pungushe aveva confuso le orme. Dovette scendere di sella e impiegare un certo tempo per capire qualcosa della confusione di impronte lasciate dallo zulu. Mezz'ora più tardi le orme di Pungushe lo avevano condotto a un fiume e solo nel pomeriggio Mark trovò finalmente il posto in cui lo zulu aveva lasciato il corso d'acqua posando il piede con delicatezza su un tronco d'albero. Però le perdette di nuovo e definitivamente sul terreno roccioso all'estremità opposta della valle. Era quasi mezzanotte quando ritornò, stanco, a casa. Marion aveva preparato da mangiare e anche una bella pentola d'acqua calda per il bagno che stava gorgogliando sul fuoco. Sei settimane più tardi, Pungushe tornò nella valle. Mark, che era seduto sulla veranda, rimase allibito quando lo vide avvicmarsi. Avanzava a lunghe falcate con passo cadenzato, segno che
la ferita era perfettamente guarita. Indossava il perizoma con le perline e aveva sulla spalla una mantella di pelle di sciacallo. Portava due assegai ad asta corta e le sue mogli lo seguivano a una certa distanza. Con lui ce n'erano tre, con il seno scoperto e l'acconciatura alta e fissata con l'argilla delle donne zulu. La più anziana aveva la stessa età del marito, ma le mammelle pendevano flaccide e vuote come due borse di cuoio. Inoltre aveva perso gli incisivi. La moglie più giovane era ancora adolescente, carina e paffutella, con mammelle simili a meloni e un pupo grassetto color cioccolato a cavalcioni sulla schiena. Ogni moglie portava sulla testa un enorme fagotto che teneva in bilico senza servirsi delle mani. Le tre donne erano seguite da una nidiata di bambini nudi o seminudi. Come le madri, ogni bambino portava sulla testa un carico le cui dimensioni erano proporzionate all'età e alla statura. La più piccola poteva avere forse quattro anni portava sulla testa una piccola zucca, di quelle usate per contenere la birra, e imitava con molto impegno il portamento eretto e l'ondeggiare di natiche delle sorelle più grandi. Mark contò sette maschi e sei femmine. « Ti vedo, Jamela! » Pungushe si fermò ai piedi del rialzo di terreno. « Anch'io ti vedo, Pungushe », rispose Mark con cautela, e lo zulu si accasciò comodamente sul gradino più basso. Le mogli sedettero lungo il bordo dell'orto di Marion, abbastanza distante perché la voce non potesse arrivare fino a loro. Così voleva la buona educazione. La moglie più giovane porse una delle sue mammelle turgide al piccolo, che cominciò a succhiare allegramente. « Domani pioverà », disse Pungushe. « A meno che il vento non viri verso settentrione. Nel qual caso non pioverà più fino alla luna piena. » « E' così », convenne Mark. « Adesso la pioggia farebbe bene ai pascoli. Farebbe scendere i silwane dal territorio portoghese al di là del Pongola. » Lo stupore di Mark aveva ceduto nel frattempo il passo a una grande curiosità. « Nei villaggi si continua a parlare, ne parlano proprio tutti, di una notizia arrivata solo recentemente alle mie orecchie », continuò Pungushe con disinvoltura. « Dicono che Jamela, il nuovo guardiano della riserva reale di caccia di re Giorgio, sia un forte guerriero che ha ucciso moltitudini di nemici del re nella guerra al di là del mare. » Lo Sciacallo s'interruppe per prendere fiato, poi continuò. « Eppure non ha ancora la barba ed è giovane come l'erba di primavera. » « Dicono questo? » chiese Mark in tono cortese. « Si dice che re Giorgio abbia concesso a Jamela una coda di bue nera da portare sullo scudo. » La coda di bue nera è la più alta onorificenza per un guerriero. « Anch'io sono un guerriero », fece rilevare Pungushe. « Ho
combattuto con Bombata alla gola e poi sono venuti i soldati e mi hanno portato via il bestiame. il così che sono diventato un uomo dei silwane e un grande cacciatore. » « Noi due siamo fratelli di lancia », concesse Mark. « Ma adesso preparerò la mia isi-du-du-du, la motocicletta. Così potremo andare a Ladyburg per parlare con il giudice di alcune cose di grande interesse per tutti noi. » « Jamela! » Lo zulu scosse il capo con tristezza, come un padre alle prese con un figlio che non capisce. « Tu vorresti diventare un uomo dei silwane, tu vorresti riempire il grande vuoto... ma chi ti insegnerà ciò che devi fare, chi ti aprirà gli occhi perché tu possa vedere e le orecchie perché tu possa sentire, se io sarò nel kraal di re Giorgio a spaccare le sue pietre? » « Sei venuto per aiutarmi? » chiese Mark. « Tu e le tue bellissime mogli grasse, i tuoi coraggiosi figli e le tue figlie nubili? » « Così è. » « E' un pensiero nobile », dichiarò Mark. « Sono uno zulu di sangue reale », disse Pungushe. « Anche a me hanno rubato la trappola d'acciaio, hanno rubato il bestiame, così sono diventato un'altra volta un uomo povero. » « Vedo », annuì Mark. « Adesso devo solo dimenticare la faccenda delle pelli di leopardo e del bufalo morto, no? » « Così è. » « Senza dubbio il cuore mi dirà anche di pagarti per questo tuo aiuto e consiglio, vero? » « Anche questo così è. » « Che grossezza dovrà avere la moneta con la quale dovrò pagarti? » Pungushe affettò disinteresse e si strinse nelle spalle. « Sono zulu di stirpe reale, non un mercante indù che discute il prezzo al mercato. La moneta sarà giusta e sufficiente. » Qui fece una pausa piena di delicatezza, per riprendere subito: « ... sempre tenendo presente la moltitudine delle mie bellissime mogli, i numerosi e coraggiosi figli e la schiera delle figlie nubili. Tutte e tutti provvisti di un formidabile appetito ». Mark fu costretto a tacere, perché non si fidava di aprire bocca nel timore di prorompere in un'irrefrenabile risata. Alla fine cominciò a parlare in tono solenne, anche se i muscoli del ventre gli si torcevano per il desiderio di scoppiare a ridere. « Con quale linguaggio ti rivolgerai a me, Pungushe? Quando ti chiederò qualcosa, risponderai: 'Yehbo, Nkosi - sì, padrone? » Pungushe si scosse e sul volto gli comparve l'espressione di uomo schizzinoso il quale abbia appena scoperto sul piatto un grasso verme. « Ti chiamerò Jamela », disse. « E quando parlerai come hai appena parlato, ti risponderò: 'Jamela, questa è una grande sciocchezza'. » « Come dovrò chiamarti io, allora? » chiese Mark sempre in tono cortese, cercando di dominare la risata nella quale stava per prorompere.
« Mi chiamerai Pungushe. Lo sciacallo è infatti il più intelligente e astuto di tutti i silwane, e ogni tanto sarà necessario ricordartelo. » Poi accadde qualcosa cui Mark non aveva mai assistito fino a quel momento. Pungushe sorrise. Era come se fosse comparso improvvisamente il sole in una giornata con il cielo coperto. Aveva grossi denti bianchi e perfetti, e il sorriso era così largo da far temere una lacerazione agli angoli della bocca. Mark non riuscì più a trattenersi, e proruppe in una fragorosa risata. Anche Pungushe scoppiò a ridere, e sembrò che una campana stesse risuonando in lontananza. I due uomini continuarono a ridere con tale veemenza e così a lungo che le mogli dello zulu smisero di parlottare e cominciarono a contemplare sbalordite la scena, mentre anche Marion compariva sulla veranda. « Che cosa c'è, amore? » Mark non fu in grado di risponderle, e lei se ne andò scuotendo la testa, pensando che gli uomini sono dei bei matti. Quindi smisero entrambi di ridere. Erano esausti. Mark diede a Pungushe una sigaretta, che questi portò alla bocca dopo aver rimosso con cura il bocchino di sughero. Entrambi continuarono a fumare in silenzio per quasi un minuto. Poi, improvvisamente, senza alcun preavviso, Mark proruppe in un'altra incontrollabile risata, imitato subito dallo zulu. Le vene del collo di Pungushe erano gonfie come corde, simili a due colonne di ebano scolpito, e la bocca era una profonda caverna rosa munita di una chiostra di perfetti denti candidi. Continuò a ridere fino a quando le lacrime cominciatono a colargli sulle guance e a scendere dal mento, e, quando gli venne meno il fiato, sbuffò con una sorta di fischio, simile a un ippopotamo che sorga dall'acqua. Si terse le lacrime con il pollice e proruppe in un alto Ii-hii! battendo la mano sulla coscia con schiocchi che sembravano altrettante pistolettate. Mark pose termine alla situazione tendendo la mano destra, che tremava, a Pungushe che la afferrò con una stretta alla rovescia, ancora tutto ansimante. « Pungushe, sono il tuo uomo », fece Mark con un singhiozzo. « E io, Jamela, sono il tuo. » Quattro uomini erano seduti lungo la parete della stanza dell'albergo. Erano tutti vestiti in maniera tale da sembrare in uniforme, con giacche completamente abbottonate, lucidi colletti di celluloide, cravatte a tinte neutre. Benché di età scaglionate lungo una trentina di anni, benché uno di loro fosse calvo e provvisto di ciuffi di pelo grigio soltanto alle orecchie e un altro ostentasse una zazzera rosso fuoco, benché uno portasse un pince-nez d'oro a cavallo del naso aquilino e un altro avesse lo sguardo lungimirante del coltivatore, tutti avevano la stessa faccia calvinista, tagliata con l'accetta, indomabile, spietata, dura come il granito.
Dirk Courteney parlò loro con il linguaggio dei giovani, riconosciuto solo recentemente come un'entità separata dalla lingua madre, l'olandese, un linguaggio al quale era stato dato il nome di Afrikaans. Lo usò con un'eleganza e precisione che fece scomparire in parte le riserve espresse dalle facce degli uomini. Le mandibole si allentarono e le schiene divennero meno rigide. « E' una zona di sciovinisti, fanatici dell'Inghilterra », disse Dirk « Su ogni tetto sventola la bandiera inglese. E' una circoscrizione elettorale ricca, composta di latifondisti, professionisti: il vostro partito non dice niente a quella gente. » Stava parlando della circoscrizione elettorale di Ladyburg. « Nelle ultime elezioni non avete nemmeno presentato il vostro candidato. Non avete trovato il fesso disposto a perdere il deposito di garanzia, e il partito di Smuts ha fatto ritornare in carica, senza opposizione, il generale Courteney. » Il più anziano degli ascoltatori annuì e lo invitò a continuare. « Se vi proponete di conquistare il seggio di Ladyburg, avrete bisogno di un candidato che affronti la lotta in maniera diversa, di un candidato che parli l'inglese, un uomo benestante con il quale gli elettori possano identificarsi... » Se l'era cavata magnificamente. Dirk Courteney, bello, affabile, con la sua perfetta padronanza sia dell'inglese sia dell'Afrikaans, aveva continuato a misurare a passi lenti il tappeto che copriva il salotto, tenendo sempre desta l'attenzione degli ascoltatori, interrompendosi a tratti per sottolineare ciò che aveva appena detto con un grazioso gesto delle muscolose mani abbronzate. Parlò per circa mezz'ora, osservando gli ascoltatori, prendendo mentalmente nota delle reazioni di ognuno di loro, tentando di intuirne i punti deboli e quelli forti. « Allora è vero! » pensò Dirk Courteney, soddisfatto. « E' più facile corrompere la gente quando è onesta. I mascalzoni costano tanti soldi mentre, per conquistare un uomo onesto, bastano poche belle parole, piene di nobili sentimenti. Preferisco la gente onesta. » Uno degli uomini più anziani si sporse in avanti e chiese con voce pacata: « Il generale Courteney occupa il seggio sin dal 1910. Fa parte del gabinetto Smuts, è un eroe di guerra, un uomo che esercita un grande fascino sulla gente. Ed è anche suo padre. Crede lei che gli elettori sceglieranno il cucciolo quando possono avere il genitore? » Dirk rispose: « Sono disposto non solo a rischiare il deposito, se il Partito Nazionale dovesse porre la mia candidatura, ma ho abbastanza fiducia nel successo da versare un sostanzioso contributo ai fondi impegnati dal partito nella campagna elettorale per offrire una valida testimonianza della serietà delle mie intenzioni ». Quindi specificò una somma che indusse i presenti a scambiarsi rapide occhiate di sorpresa. « E in cambio di tutto questo? » chiese l'uomo politico anziano. « Nulla che non sia nell'interesse della nazione e della mia
circoscrizione elettorale », rispose Dirk in tono asciutto, mentre toglieva dalla parete di fronte a loro la carta geografica che vi era appesa. Poi riprese a parlare, ma ora con il contagioso fervore del propagandista acceso. Con parole ardenti evocò l'immagine di campi arati che si stendevano fino all'orizzonte, di canali d'irriiazione pieni d'acqua fresca e pulita che raggiungevano ogni punto. Gli ascoltatori erano tutti uomini che avevano coltivato e arato il suolo africano, fertile ma ostile, e tutti avevano frugato con occhi ormai privi di speranza il cielo azzurro e sereno alla ricerca di nubi foriere di piovaschi che non arrivavano mai. La visione di solchi profondi e di una rete di irrigazione era irresistibile. « Naturalmente, dovremo revocare la legge riguardante la valle del Bubezi », disse Dirk, come se la cosa in fondo non avesse grande importanza, e nessuno dei presenti diede segno di preoccuparsi di questa dichiarazione. Immaginavano già un grande lago di acqua dolce e limpida, increspato dalla brezza. « Se vinceremo queste elezioni... » cominciò l'uomo politico più anziano. « No, Menheer », lo interruppe Dirk con gentilezza. « Quando vinceremo. » Per la prima volta, un sorriso comparve sulla bocca dell'uomo. « Quando le vinceremo », convenne. Dirk Courteney era in alto, sul podio, con i pollici infilati nel panciotto. Quando sorrideva e scuoteva la nobile testa leonina coperta dalla massa di riccioli lucenti, le donne tra i convenuti che affollavano la sala parrocchiale si agitavano. Sembravano tanti fiori lambiti dalla brezza. « Il Macellaio », disse Dirk Courteney con un accento profondo e sonoro che fece provare un brivido di eccitazione a tutti, uomini e donne, giovani e vecchi. « Il Macellaio di Fordsburg ha le mani che ancora grondano del sangue dei nostri concittadini. » I primi ad applaudire furono gli uomini della claque che Dirk Courteney aveva radunato, ma poi tutti seguirono il loro esempio. « Io sono andato con Sean Courteney contro Bombata... » Un uomo in fondo alla sala era balzato in piedi. « Sono stato in Francia con lui », gridò, con voce così alta da soverchiare l'applauso « Lei, invece, signor Dirk Courteney, dov'era quando rullavano i tamburi? » Dirk continuava a sorridere, ma due macchie rosse gli comparvero sugli zigomi. « Ah! » esclamò, guardando l'uomo al di sopra delle teste che si erano tutte voltate. « Uno dei coraegiosi fucilieri del generale. Quante donne ha abbattuto a Fordsburg? » « Lei non ha risposto alla mia domanda », gridò di rimando l'uomo. Dirk lanciò un'occhiata a uno dei due omaccioni che si erano alzati e si stavano avvicinando senza dare nell'occhio al
tizio che aveva fatto la domanda. « Quattromila tra morti e feriti », disse Dirk. « Il Governo vorrebbe nascondere questo fatto, ma quattromila uomini, donne e bambini... » I due omaccioni avevano raggiunto la preda e Dirk Courteney fece un ampio gesto teatrale con le braccia, attirando l'attenzione di tutti. « Un Governo che non tiene in alcun conto la vita, i beni e la libertà del suo popolo. » Ci fu un pò di agitazione, si udì un grido di dolore e l'uomo venne scaraventato all'aperto attraverso una porta laterale. I giornali s'impadronirono quasi immediatamente dell'argomento. Gli stessi editoriali che avevano denunciato la « cricca rossa » e la « minaccia bolscevica », che avevano lodato « il tempestivo e diretto intervento » di Smuts, parlavano ora di una « soluzione brutale imposta con la violenza ». In tutto il Paese l'opinione pubblica, sobillata da Dirk Courteney e dai seguaci di Hertzog, seguì la parabola del pendolo, che torna alla posizione di partenza tracciando una curva simile a quella dell'ascia del boia. Dirk Courteney parlò a tremila persone nella sala comunale di Durban, a trecento nella sala parrocchiale di Ladyburg. Parlò in ogni chiesa dei paesini che formavano la circoscrizione elettorale, negli empori isolati, dove una decina di aventi diritto al voto si radunavano la sera per fare quattro chiacchiere, e la stampa fu sempre presente. Dirk Courteney si spostò pian piano verso nord, visitando le zone agricole di sua proprietà, le sue nuove fabbriche per la lavorazione della canna da zucchero, e ogni sera arringava in qualche comizio. Era sempre enfatico e persuasivo, di bell'aspetto e con la parola facile, prospettando agli elettori un Paese attraversato da ferrovie e bellissime strade, un Paese pieno di città prosperose, di mercati traboccanti di gente. E gli elettori ascltavano con le orecchie tese. « Ce ne sono due », disse Pungushe. « Uno è un leone adulto. Lo conosco bene. L'anno scorso girava nel territorio portoghese sulla sponda settentrionale del fiume Usutu. Allora era solo, ma adesso ha trovato una femmina. » « Dove sono passati? » chiese Mark. « Hanno attraversato a valle lo Ndumo e si sono trasferiti a sud nella zona tra la palude e il fiume. » Il leone aveva cinque anni ed era molto astuto, un maschio magro, alto di spalla e con una corta criniera rossastra. La fronte era attraversata da una brutta cicatrice spelacchiata. Inoltre zoppicava leggermente con la zampa anteriore destra a causa di un proiettile che lo aveva colpito due anni prima all'articolazione della spalla, rimanendovi conficcato. Gli uomini gli avevano dato la caccia praticamente sin da quando era cucciolo, ma ora stava diventando vecchio e stanco. Attraversò il fiume al buio, preceduto dalla sua leonessa, ed
ebbe l'accortezza di tenersi più a sud dei battitori che il mattino dopo avrebbero perlustrato la boscaglia lungo il fiume. Udiva i tamburi che continuavano a rullare e percepì l'odore dei fuochi accesi dagli uomini. Udi anche il frenetico abbaiare delle mute di cani. I cacciatori avevano radunato, oltre ai cani da caccia, due o trecento indigeni della zona e una decina di meticci portoghesi armati di fucili a retrocarica, solo perché i due leoni avevano ammazzato due buoi da tiro alla periferia di uno dei villaggi situati sul fiume. Anche la femmina era una bestia di rispettabili proporzioni. benché ancora giovanissima e non così esperta come il compagno, era tuttavia agile e forte e continuava a fare progressi di giorno in giorno sotto la guida del saggio leone. Aveva la pelle ancora liscia, priva di tracce lasciate da unghiate o spine. Il pelo della parte posteriore aveva una tinta olivastra che passava al giallo all'altezza della gola, mentre la peluria del ventre aveva una tonalità quasi bianca. Le zampe posteriori erano ancora pomellate come nei cuccioli, ma, proprio la notte in cui attraversarono a nuoto l'Usutu, la leonessa andò per la prima volta in calore. Arrivati sulla sponda meridionale, i due animali si scrollarono spasmodicamente. Poi il leone la annusò, accompagnando il gesto con un cupo brontolio gutturale, puntando il muso in alto, verso il cielo stellato; quindi la sua schiena si curvò, allorché le nari cominciarono a percepire l'odore della secrezione venata di sangue della femmina. La leonessa lo guidò per circa un chilometro nella valle di un affluente coperto da una fitta vegetazione, per immergersi poi nel fitto sottobosco costituito da cespugli muniti di robuste spine lunghe cinque centimetri e tinte di rosso sulla punta come se avessero già ferito qualcuno. Li, all'alba, il leone la coprì per la prima volta. La leonessa si accovacciò, emettendo a tratti suoni rabbiosi, mentre il maschio si gettava su di lei mordicchiandole le orecchie e il collo per costringerla a sottomettersi. Dopo, la femmina rimase sdraiata accanto al leone, leccandogli le orecchie, sfiorandogli con il muso il collo e il ventre, scostandosi un pò da lui e quindi accostandogli, come per sedurlo, i quarti posteriori, finché il maschio manifestò nuovamente il desiderio di possederla. Allora si accovacciò di nuovo sottomessa, con un sordo brontolio nella gola, mentre il maschio la copriva rapidamente un altra volta. Quel giorno si accoppiarono ventitré volte, e durante la notte lasciarono la boscaglia spinosa per dirigersi di nuovo verso meridione. Mezz'ora prima del calar della luna, raggiunsero il limite di un campo arato e il leone si fermò e ruggì sommessamente quando percepì l'odore dell'uomo e del bestiame. Con esitazione tese una zampa e tastò la terra appena smossa dall'aratro, poi ritirò l'arto emettendo un breve suono, simile a un miagolio, manifestando preoccupazione e indecisione. La
leonessa lo sfiorò, come se volesse accarezzarlo, con un fianco, ma il maschio si scostò e cominciò a guidarla lungo il confine della terra arata. « Arriveranno alla valle, Pungushe? » chiese Mark, sporgendosi dalla sella per parlare con lo zulu che trotterellava accanto a Trojan. Pungushe rispose senza dare alcun segno di fatica benché avesse ormai corso per quasi tre ore, senza fermarsi, per tenere il passo con il mulo. « I leoni devono percorrere un terreno che richiede mezza giornata di marcia per essere attraversato, un terreno dove gli aratri e i nuovi piantatori di canna da zucchero si stanno dando da fare. Inoltre, Jamela, le bestie non sanno nulla della tua valle e del matto Ngaga che vorrebbe dare loro il benvenuto. » Mark si drizzò in sella e si rimise in marcia con un'espressione risoluta sul volto. Sapeva che quella coppia impegnata nel gioco amoroso era per lui l'ultima possibilità per avere dei leoni nella sua valle. Eppure dovevano attraversare una trentina di chilometri di terreno pericolosa, un terreno che degli animali provenienti dalla boscaglia del Mozambico portoghese non potevano conoscere, visto che si trattava di campi coltivati e di terre destinate unicamente al bestiame, nelle quali i leoni erano considerati animali nocivi. Una zona priva di prede allo stato selvaggio, ma densamente popolata da animali domestici. Una zona dove il solo grido d'allarme: i leoni! avrebbe indotto cinquanta uomini a precipitarsi con entusiasmo sui fucili, cinquanta uomini bianchi in lizza per il trofeo di caccia, cinquanta uomini che nutrivano un cieco e irrazionale odio per i predatori, desiderosi di cogliere al volo quella che forse sarebbe stata l'unica occasione nella loro vita per dare la caccia a un leone e per di più sicuri che si trattava di una selvaggina priva di protezione legale, visto che si trovava nel territorio riservato all'allevamento degli animali domestici. I leoni arrivarono all'accampamento da sottovento e si sdraiarono, appiattiti, sull'erba al margine del campo, al buio. Ascoltarono le voci sonnolente degli uomini seduti intorno al fuoco e annusarono la miriade di strani odori, del fumo del tabacco, della polenta di mais che cuoceva e anche l'odore acidulo della birra degli zulu, rimanendo appiattiti, con tutti i sensi tesi, sulla terra. Solo le loro orecchie rotonde dall'estremità nera erano in movimento e le narici continuavano ad annusare l'aria. I buoi si trovavano all'interno di un basso recinto circolare, fatto di acacie spinose abbattute, con il tronco rivolto all'interno e il fogliame all'esterno. L'odore del bestiame era forte e tentatore. C'erano settantadue buoi nel kraal, trentasei tiri. Appartenevano alla Ladyburg Sugar Company e stavano arando i nuovi terreni a est del Passo Chaka dopo che questi erano stati dissodati, previo abbattimento degli alberi poi distrutti con il fuoco, dalle apposite squadre di braccianti.
Il leone attese paziente, ma perfettamente all'erta, senza fare il minimo rumore, mentre il disco argenteo della luna calava dietro gli alberi e le voci degli uomini si spegnevano man mano. Attese che i fuochi si trasformassero in altrettanti mucchietti fumanti di cenere e poi si alzò silenziosamente. La leonessa non si mosse. Solo i possenti muscoli del petto e delle membra s'inturgidirono, rigidi per la tensione mentre le orecchie erano tese a cogliere qualsiasi rumore. Il leone aggirò con cautela l'accampamento fino a trovarsi sopravvento. Da est soffiava una brezza costante, e l'animale la sfruttò con abilità. I buoi percepirono il sentore del leone mentre esso entrava nel tratto lambito dal vento, e lui lì sentì alzarsi con mosse goffe dal posto dove si erano sistemati. Le corna cozzarono le une contro le altre, mentre gli animali cominciavano a formare un gruppo compatto, con la testa rivolta sopravvento, e uno di essi emise un cupo muggito che parve un gemito. Il lamento venne subito imitato dagli altri buoi, destando gli uomini che giacevano intorno ai fuochi. Qualcuno lanciò un urlo e scaraventò un ceppo di legno sul fuoco. Un torrente di scintille si alzò verso i rami oscuri della mimosa selvatica e il ceppo prese fuoco, illuminando il campo con brevi fiammate giallastre. Gli aratori e i ragazzi addetti alla guida delle coppie di buoi che trascinavano l'aratro si radunarono pieni di paura intorno al fuoco, con i cappucci di pelle sulle spalle e gli occhi assonnati e pieni di paura. Il leone scivolò come un'ombra, appiattito sulla terra, nella direzione del kraal, e i buoi ripresero ad agitarsi e a muggire sonoramente quando percepirono in pieno l'aspro odore del felino. Il leone si accovacciò, accostato sottovento allo spinoso recinto del kraal, curvò la schiena e scaricò un copioso getto di orina. Il puzzo acre e ammoniacale fece perdere la testa ai buoi. Riuniti in un'unica massa compatta, si lanciarono sottovento e caricarono il recinto spinoso dell'improvvisato kraal, sfondandolo e proseguendo la corsa, per sparpagliarsi in tutte le direzioni e scomparire nel buio della notte. La solida formazione di poco prima non esisteva più. La leonessa li aspettava al varco e raggiunse con pochi balzi il fianco della massa di buoi in preda al panico per scegliere un'unica vittima, un animale giovane e molto ben nutrito. Lo fece correre come avrebbe potuto fare un cane da pastore, costringenlolo ad allontanarsi sempre più dai fuochi e dagli uomini. Poi si affiancò alla bestia e la agganciò con un'abile zampata a una delle cosce anteriori. Contemporaneamente immerse le ricurve zanne giallastre appena al di sopra del garretto finché i denti incontrarono l'osso. Poi indietreggiò accovacciandosi sui quarti posteriori e tirò la zampa del bue finché questa si accavallò all'altra. Il bue cadde di schianto, come se fosse stato colpito al cer-
vello da una pallottola, e fece una capriola, finendo con la schiena a terra e tutt'e quattro le zampe all'aria. Con mossa veloce, la leonessa si avvicinò, evitando con perfetta accortezza gli zoccoli del bue, in grado di fracassarle il cranio, e le grandi corna che avrebbero potuto trapassarla da parte a parte. Quindi affondò le possenti zanne alla base del cranio del bue, tra la prima e la seconda vertebra. Le due vertebre si spezzarono con un rumore secco di noce schiacciata. Quando il maschio emerse correndo dal buio, la leonessa aveva già sventrato il bue e stava affondando la testa tutta coperta di sangue nel ventre dell'animale alla ricerca del fegato, della milza e dei reni. La femmina appiattì le orecchie sul cranio coperto di sangue e affrontò il leone con un ringhio minaccioso, ma il maschio con una poderosa spallata l'allontanò. La leonessa ringhiò di nuovo, e il leone le diede una zampata e immerse a propria volta la testa nella cavità già praticata per mangiare. La femmina lo guardò con occhi cattivi per un attimo, ma poi drizzò le orecchie e cominciò a leccargli la spalla con lunghi colpi voluttuosi della lingua ruvida, facendo le fusa come un gigantesco gatto e strofinando il proprio agile corpo su quello del maschio. Il leone tentò di ignorarla e continuò a divorare, ruggendo sordamente tra gli schiocchi della carne che si lacerava. La leonessa diventava sempre più baldanzosa. L'eterno femminino approfittava della sua nuova e attraente condizione per concedersi libertà che in altri momenti avrebbero provocato una rapida e severa reazione punitiva. Disperato, il leone tentò di trattenerla posandole una possente zampa sulla testa, badando bene a non sfoderare gli artigli, mentre annaspava nel tentativo di divorare tutto il bue prima che essa potesse partecipare al festino, ma la femmina si sottrasse alla zampa che la tratteneva e gli lambì un orecchio. Il maschio emise un grugnito che sarebbe dovuto apparire un rimprovero ma in realtà non risultò tale, e mosse l'orecchio, al che la leonessa si fece ancora più sotto e cominciò a leccargli gli occhi, cosicché il leone fu costretto a chiuderli aggrottando le sopracciglia e tentando di mangiare alla cieca. Alla fine si arrese, permettendo alla compagna di introdurre a propria volta la testa nel cratere insanguinato. Entrambi mangiarono a fianco a fianco, mugolando e facendo le fusa. Erano in diciotto gli uomini radunati sull'ampia veranda protetta da zanzariere del cottage del caporeparto. I lumi a petrolio sibilavano. La bottiglia di brandy era in circolo sin dal tramonto e quasi tutti avevano la faccia arrossata e gli occhi scintillanti mentre ascoltavano Dirk Courteney. « Ci saranno scuole e ospedali entro un raggio di trenta chilometri da ogni fattoria », promise, e le donne, che stavano lavorando a maglia, alzarono la testa. Sapevano che cosa significasse tirare su una giovane famiglia in quel luogo. « Questo è
solo l'inizio », continuò Dirk, rivolto agli uomini. « E quelli tra voi che aderiranno per primi saranno anche i primi a trarne beneficio. Quando sarò in Parlamento, avrete qualcuno che si farà sentire per tutelare i vostri interessi. Vedrete miglioramenti che non avreste mai creduto possibili... e ben presto. » « Lei è un uomo ricco, signor Courteney », disse uno degli uomini. Si trattava di un piccolo commerciante non alle dirette dipendenze della Ladyburg Sugar, e tuttavia sufficientemente legato a quell'industria per usare un tono ossequioso. « Uno dei padroni. Come mai lei si mette a difendere i lavoratori? » « Sono ricco perché ho sgobbato, ma so anche che non resterò ricco per molto tempo senza il vostro appoggio. Siamo legati gli uni agli altri e dipendiamo gli uni dagli altri. » Gli uomini annuirono e cominciarono a parlottare, ma Dirk non perse tempo e proseguì: « Vi prometto, comunque, una cosa. Quando dovrò assumere qualcuno con una paga decente, non mi rivolgerò certo ai negri! » Tutti applaudirono e riempirono i bicchieri per bere alla sua salute. « Il vostro Governo attuale, gli uomini di Smuts, hanno provato a farlo nelle miniere d'oro. Due scellini e due pence al giorno per i negri, e gli uomini bianchi a spasso. Poi, quando gli operai hanno cominciato a protestare, hanno mandato quel fottuto Macellaio di Fordsburg, l'uomo che per mia vergogna devo chiamare padre... » Qualcuno stava bussando con estrema violenza alla porta della cucina e il caporeparto chiese scusa e uscì di corsa: Ritornò quasi subito e bisbigliò qualcosa all'orecchio di Dirk Courteney. Dirk sghignazzò e annuì, rivolgendosi poi agli uomini che lo stavano osservando. « Be', signori, abbiamo una bella battuta di caccia in vista: un leone ha ammazzato uno dei miei buoi, là dove stiamo costruendo il nuovo stabilimento, a Buli. Uno degli aratori è arrivato proprio adesso con la notizia. E' successo soltanto un'ora fa, per cui abbiamo tutte le possibilità di stanare la preda. Permettetemi perciò di interrompere questo convegno. Ci incontreremo di nuovo qui... » diede un'occhiata all'orologio da polso « ... alle cinque di domattina. Ciascuno venga a cavallo e con il proprio fucile! » Mark e Pungushe dormivano, protetti dalle coperte, sul suolo riarso dal sole, e Trojan stava brucando l'erba giallastra e secca nelle vicinanze. Da levante soffiava una brezzolina fredda e i due uomini si svegliarono che era ancora buio pesto. Sedettero accanto al fuoco, sorseggiarono il caffè e fumarono in silenzio finché Pungushe fu in grado di distinguere di nuovo le orme. Per Mark, in sella a Trojan, faceva ancora troppo buio per scrutare i particolari del suolo, ma Pungushe lo precedeva correndo, perfettamente sicuro del fatto suo, e costringendo il mulo a iniziare uno sgraziato trotto per seguirlo.
Al limite della terra arata, lo zulu fu costretto a fermarsi per vedere quale direzione aveva preso il leone, ma ritrovò quasi subito le orme. I due uomini si rimisero in marcia mentre i primi raggi del sole mettevano in risalto le corone degli alberi, che si stagliavano nere e folte di spine sullo sfondo dorato del cielo. I deboli raggi ambrati erano ancora freddi e stagliavano le lunghe ombre distorte del mulo e degli uomini sul duro terreno rossiccia. Mark si meravigliò ancora una volta per il fatto che lo zulu potesse seguire le orme con quella poca luce e su un terreno in cui lui non riusciva a distinguere alcuna traccia. Improvvisamente si udì il rumore di una fucilata, un rumore così debole da far credere a Mark di averlo immaginato, ma Pungushe si arrestò all'istante e gli fece segno di fermare il mulo. I due uomini si misero in ascolto con le orecchie tese. E ancora udirono in lontananza un'intensa scarica di fucileria, dieci undici fucilate, seguita subito dal silenzio. Pungushe si volse e guardò Mark con il volto privo di qualsiasi espressione. Il silenzio era totale. Persino il coro mattutino degli uccelli si era spento a causa delle fucilate. Poi, mentre il silenzio persisteva, uno stormo di piccoli francolini dalle piume castane riprese a cinguettare al margine dei campi arati. « Cammina! » disse Mark a Pungushe, accompagnando la parola con un cenno del capo e sforzandosi di non far trasparire alcuna emozione. Tuttavia, la voce rivelò la sua indignazione. Erano arrivati troppo tardi. Gli ultimi leoni a sud dell'Usutu erano morti. La rabbia impotente gli diede un senso di nausea. Gli uomini non si accorsero di Mark finché questi non fu praticamente loro addosso. Erano troppo eccitati, troppo occupati in ciò che stavano facendo. Erano otto uomini bianchi, tutti armati fino ai denti. Vestivano grossolani indumenti da caccia. Due zulu tenevano i cavalli. In una radura tutta calpestata tra gli alberi di mimosa giaceva la carcassa di un bue dal pelo rosso pezzato di bianco. Ma non era il bue che teneva desta l'attenzione di quella gente. Gli uomini erano raggruppati in un cerchio molto stretto a poca distanza. Le voci rauche esprimevano grossolane facezie e gioiose imprecazioni. Mark scese di sella e consegnò le redini a Pungushe. Poi si avviò a passi lenti verso il gruppo, temendo ciò che avrebbe trovato. Ma si arrestò appena uno degli uomini sollevò il volto e lo vide. L'uomo riconobbe immediatamente Mark. « Ah, capo! » esclamò Dirk Courtenev ridendo e scuotendo la testa dalla chioma ricciuta. « Stiamo facendo un lavoro che toccava a lei. » La risatina era subdola e sarcastica. Mark si rese subito conto che Dirk stava pensando alla bustarella che egli aveva accettato per servirsene poi come arma contro di
lui. « Eccone uno che lei può cancellare dalla sua relazione. » Dirk ridacchiò di nuovo e invitò i propri uomini a scostarsi. Il cerchio si aprì e Mark si fece avanti. Gli uomini che lo circondavano avevano ancora la faccia arrossata ed erano molto loquaci. Tutti emanavano un puzzo stantio di alcool. « Signori, posso presentarvi il guardiano di fresca nomina della zona protetta del Passo Chaka? » Dirk era di fronte a lui, all'estremità opposta del cerchio. Teneva una mano infilata con noncuranza nella tasca della giacca di pelle scamosciata e un fucile a due canne fabbricato a mano, su ordinazione, da Gibbs di Londra e solitamente usato per la caccia all'elefante, appoggiato all'incavo dell'altro gomito. Il leone giaceva su un fianco con le quattro zampe distese. Era un maschio adulto pieno di cicatrici, così magro e malandato che si vedevano le costole nonostante il corto pelo marrone che ricopriva il torace. L'animale era stato colpito da quattro pallottole, una dietro la spalla che gli doveva aver attraversato entrambi i polmoni mentre un'altra di grosso calibro gli aveva fracassato il cranio. Dalle fauci spalancate colava un rivolo di saliva mista a sangue sulla lingua rosea e pendula. « Congratulazioni, signori », disse Mark annuendo, e solo Dirk Courteney si accorse dell'accento ironico della voce. « Sì », convenne Dirk. « Più presto ripuliremo questa zona, rendendola sicura per il bestiame, e meglio sarà per tutti. » Gli fece eco un coro d'approvazione e uno degli uomini estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni una bottiglia che cominciò a passare di mano in mano. Ciascuno sollevava per un attimo la bottiglia verso il cielo per bere a garganella ed esprimere subito dopo il proprio apprezzamento per il liquore facendo schioccare le labbra. « E la leonessa? » chiese Mark in tono pacato, rifiutando la bottiglia quando venne il suo turno. « Non si preoccupi per quella », lo rassicurò uno degli uomini « E' praticamente finita. L'ho presa in pieno alla spalla. Vogliamo solo darle la possibilità di riprendersi un pò prima di rimetterci in marcia per finirla. » Poi estrasse il coltello dal fodero e cominciò a scuoiare la carcassa del leone, mentre i compagni commentavano ad alta voce dandogli consigli. Mark tornò da Pungushe, pazientemente accovacciato davanti a Trojan. « La leonessa è ferita, ma è scappata. » « Ho visto le orme e, annuì Pungushe, indicandole con gli occhi senza muovere la testa. « E' grave la ferita? » « Non lo so ancora. Devo vedere con quale andatura si è allontanata prima di dare un giudizio. » « Segui le orme », disse Mark. « Andiamocene alla chetichella senza mettere in allarme i grandi cacciatori. » Si allontanarono senza dare nell'occhio dalla radura, conducendo con aria indifferente il mulo per le redini. Mark seguiva
lo zulu a una decina di passi di distanza. Dopo un mezzo chilometro, Pungushe si fermò e disse con voce pacata: « E' stata colpita alla spalla o alla gamba destra, ma non credo che l'osso si sia spezzato, perché poggia la zampa a terra ogni due passi. Procede bene su sole tre gambe. All'inizio c'era un pò di sangue, che però diminuisce continuamente ». « Starà forse sanguinando all'interno? » chiese Mark. « Se è così, la troveremo tra poco... morta », rispose Pungushe con un'alzata di spalle. « Va bene. » Mark salì in sella. « Andiamocene alla svelta, in maniera da distanziare quella gente. Nessuno di loro sarà in grado di seguirci su un terreno così duro. » Ma era già troppo tardi. « Anders! » gridò Dirk Courteney, comparendo a cavallo alla testa della sua banda. « Che diavolo ha in mente di fare? » « Il mio lavoro », rispose Mark. « Sto seguendo un animale ferito. » « Veniamo con lei. » Mark rivolse un'occhiata a Pungushe e un silenzioso accordo si stabilì tra i due uomini. Mark si rivolse di nuovo al gruppo. « Vi rendete conto del pericolo? Queste bestie, probabilmente, hanno già avuto a che fare con altri cacciatori in passato, e il mio uomo, che segue le orme, pensa che la leonessa non abbia riportato una ferita grave. » Gli uomini si fecero pensosi e manifestarono qualche esitazione, ma poi tutt'e otto cominciarono a seguire Pungushe. Lo zolu si mosse iniziando un'andatura molto veloce, minza umblabatti, costringendo i cavalli a mettersi al trotto. Dopo circa un'ora Dirk Courteney cominciò a imprecare. « Non vedo più tracce di sangue. » « Non sanguina più », gli disse Mark. « La ferita si è chiusa. » Il contenuto della bottiglia di brandy era ormai esaurito da un pezzo. Rivoli di sudore colavano dalle facce con il progressivo aumento del caldo, gli occhi erano iniettati di sangue e l'ebbrezza alcolica si stava trasformando un pò alla volta in mal di testa e lingue impastate. Nessuno aveva pensato di portare una borraccia d'acqua. Due degli uomini tornarono indietro. Un'ora più tardi, Dirk Courteney manifestò con aria velenosa un sospetto: « Quel fottuto negro ci sta prendendo per i fondelli. Gli dica che lo frusterò ». « La leonessa cammina forte... » « Non ci credo. Non vedo alcuna orma. » Pungushe si arrestò di colpo, fece cenno di fermarsi e s'inoltrò con cautela in una macchia di piante acquatiche a basso fusto. « Ne ho le tasche piene », borbottò uno dei cacciatori con aria disfatta. « Anch'io. »
« E io ho un sacco di lavoro da fare. » Altri tre se ne andarono e i superstiti trattennero i cavalli finché Pungushe emerse dalla macchia e fece cenno di seguirlo. Nel bel mezzo dei cespugli lo zulu fece notare l'inconfondibile orma di una leonessa sul macchietto di terra all'ingresso di una tana di talpa. L'orma puntava a sud. « Va bene », disse Dirk Courteney. « Non ha perso le tracce. Gli dica di muoversi. » All'una del pomeriggio le orme della leonessa scomparvero sulla superficie rocciosa, un'altura di solido granito. Pungushe si mise a sedere con aria stanca. Le membra sudate luccicavano sotto il sole come se fossero state strofinate con l'olio. Lo zulu alzò lo sguardo in direzione di Mark, alto sul mulo, e si strinse nelle spalle per indicare che non poteva fare più niente. « Le orme sono scomparse », disse Mark. « L'abbiamo perduta. » Dirk Courteney trattenne di colpo con uno strattone delle redini il cavallo e investì Mark. « Senta, Anders. Voglio parlare con lei. » Poi si allontanò al trotto per non essere sentito dagli altri, e Mark lo seguì. Si fermarono l'uno di fronte all'altro. La bocca di Dirk era contratta in una smorfia risentita. « Questa è la seconda volta che lei fa il furbo a mie spese, coininciò in tono aspro. « Avrebbe potuto avermi come alleato, invece ha spinto mio padre a mandarmi una ricevuta per il regalo che le avevo fatto. Adesso, assieme al suo indigeno, lei mi ha giocato di nuovo. Non so come abbiate fatto, ma le assicuro che è l'ultima volta. » Continuava a fissare Mark con occhi che ora brillavano di una luce folle e malevola. « Sarei stato un amico potente. Ma ora sono un nemico ancor più potente. Fino a questo momento, lei deve la sua salvezza solo alla protezione di mio padre, ma le cose cambieranno. Non permetto a nessuno di attraversare la mia strada, glielo assicuro. » Poi voltò il cavallo, gli conficcò gli speroni nel ventre e si allontanò al galoppo. Gli altri due sconsolati cacciatori lo seguirono. Mark tornò da Pungushe. Bevettero dalla borraccia e si concessero una fumata, prima che Mark chiedesse allo zulu: « Dov'è la leonessa? » « Non abbiamo più seguito le sue orme da un paio d'ore. E' Mark gli rivolse un'occhiata interrogativa. Pungushe si alzò e si diresse verso un altro mucchietto di terra sollevato da una talpa al margine del terreno roccioso. Si accovacciò e impresse sul terriccio la palma della mano distesa. Poi strinse il pugno e calcò sull'impronta precedente le nocche delle dita. Come per miracolo, l'orma di un leone adulto apparve sulla terra soffice e Pungushe guardò Mark, ancora trasecolato e incredulo, prorompendo poi in una delle sue risate cavalline, mentre si bilanciava sulle punte dei piedi. « Per due ore abbiamo seguito il Toboloshe », * concluse. * Mitica creatura delle leggende zulu.
« Non riesco a vederla », disse Mark, perlustrando attentamente con il binocolo il piatto avvallamento boscoso ai loro piedi. « Ma guarda! Jamela che non riesce a vedere. » « Dov'è, Pungushe? » « Vedi l'albero forcuto dietro le tre rocce tonde? » Pian piano aiutò Mark a orientarsi finché questi riuscì a distinguere le due macchie oscure e tonde delle orecchie della leonessa che spuntavano dall'erba giallastra, a circa seicento metri di distanza. L'animale era appiattito al suolo in una macchia di cespugli spinosi e proprio in quell'istante abbassò la testa. Le orecchie scomparvero. « Ora che è rimasta sola, vorrebbe tornare nei luoghi che conosce bene, sull'altra riva dell'Usutu. E' per questo che si sposta sempre in quella direzione, quando il dolore della ferita glielo permette. » Prima di arrivare lì avevano trovato altri tre luoghi in cui la bestia si era sdraiata per riposare, e in uno di questi avevano scorto tracce di sangue coagulato misto a peli gialli. Pungushe aveva esaminato con cura i peli. Il colore e lo spessore di questi gli permettevano di stabilire da quale parte del corpo erano stati strappati. « E' stata colpita in alto, alla spalla destra. Se avesse una perdita di sangue interna, ora sarebbe già morta. Però soffre molto, perché cammina a piccoli passi. La ferita si è gonfiata. Non potrà andar lontano. » Mark puntò il binocolo a ponente e contemplò con nostalgia gli azzurrognoli bastioni del Passo Chaka velati dalla foschia, distanti una decina di chilometri. « Quant'era arrivata vicino! » mormorò. « Così vicino! » Ma l'esausta leonessa si stava allontanando penosamente dal luogo in cui sarebbe stata al sicuro, per tornare verso le terre arate, il bestiame, gli uomini e le mute di cani. Istintivamente Mark si volse in quella direzione, descrivendo con il binocolo un ampio semicerchio passando per il settentrione e il levante. Dall'altura, per quanto bassa, sulla quale si trovavano, lo sguardo poteva spaziare per chilometri e chilometri al di sopra della boscaglia non molto fitta, fino alle distese color cioccolato dei terreni arati. Qualcosa si stava muovendo nel campo visivo del binocolo. Mark sbatté le palpebre e guardò di nuovo attentamente. Tre uomini a cavallo avanzavano nella loro direzione, e nonostante la distanza, Mark riuscì a distinguere i cani che li precedevano. Si affrettò a osservare di nuovo l'uomo che cavalcava in testa. La figura arrogante in sella non lasciava dubbi. Dirk Courteney non aveva rinunciato alla caccia. Era tornato indietro solo per radunare una muta di cani, e questi si stavano ora avvicinando rapidamente seguendo la pista del felino ferito. Mark posò una mano sulla spalla muscolosa di Pungushe indicando con l'altra il gruppo che si avvicinava. Lo zulu si
alzò in piedi e osservò a lungo gli uomini a cavallo in arrivo. Poi cominciò a parlare rapidamente. « Senti, Jamela, tenterò di attirare la leonessa e di guidarla. Mark fu sul punto di fare una domanda, ma Pungushe lo interruppe con tono aspro: « Sei capace di sviare i cani, o di fermarli? » Mark riflette per un istante, poi annuì. « Dammi il tuo tabacco da fiuto, Pungushe. » Lo zulu si sfilò il corno con il tabacco da fiuto che portava appeso intorno al collo e lo consegnò a Mark senza fare domande. « Va' », disse Mark, « e attira la leonessa. » Pungushe si lasciò scivolare lungo il pendio dell'altura, mentre Mark si affrettava a raggiungere Trojan. Nella bisaccia di Mark c'erano tre strisce di carne secca. Mark raccolse due pietre piatte e cominciò a sminuzzare la carne. Ogni tanto alzava lo sguardo per controllare i cacciatori che si stavano avvicinando rapidamente. Una volta ridotta in polvere la carne, la raccolse in un pentolino e aggiunse una manciata del tabacco da fiuto indigeno prelevato dal corno. Poi, continuando a mescolare con le dita la polvere di carne e il tabacco, scese di corsa il pendio. Quando raggiunse il costone dove la leonessa ferita aveva aggirato un ammasso di rocce, pose il ginocchio a terra e fece tre mucchietti di miscela polverosa, che piazzò sulla pista che i cani in arrivo avrebbero seguito. La carne secca avrebbe esercitato un fascino irresistibile sui cani, che si sarebbero messi ad annusarla con bramosia. Poteva già sentire il loro eccitato abbaiare. Si avvicinavano rapidamente, costringendo i cacciatori a procedere al trotto. Un sorriso sornione comparve sulla faccia di Mark, mentre si dirigeva verso l'altura su cui aveva lasciato il mulo. Qualsiasi cane avrebbe perso per almeno dodici ore il senso dell'olfatto dopo una buona annusata di quel micidiale tabacco da fiuto indigeno. La leonessa giaceva su un fianco, con la bocca spalancata Respirava rumorosamente e i polmoni lavoravano come il mantice di un fabbro. Gli occhi erano chiusi. La pallottola che l'aveva colpita era stata sparata alla sua destra. Un proiettile di piombo sparato da un Martini Hendry l'aveva colpita alla spalla, in alto, ma molto avanti, attraversando il grosso fascio di muscoli e sfiorando l'articolazione della spalla, lacerando tendini e fratturando lo strano ossicino libero che si trova solo nella spalla del leone, un trofeo molto apprezzato dai cacciatori che lo considerano una specie di portafortuna, un talismano. La pallottola era penetrata nel collo mancando l'arteria e si era fermata sotto la pelle formando un gonfiore delle dimensione di una noce. Le mosche ronzavano gioiosamente intorno alla ferita, e la
leonessa alzava a tratti la testa e tentava di azzannarle. Gemendo sommessamente per il dolore che il movimento le causava, cominciò a leccare il foro d'ingresso della pallottola con delicatezza. La lunga lingua faceva il rumore di una lima sfiorando il pelo, rosea ed esperta mentre puliva il sangue acquoso che sgorgava dal foro. Poi ricadde a giacere esausta e chiuse di nuovo gli occhi. Pungushe teneva conto del vento esattamente come il nocchiero d'una grande nave. Per lui, il vento era altrettanto importante come per il marinaio. Ne conosceva esattamente in ogni momento della giornata forza e direzione, ne anticipava ogni cambiamento prima che questo si verificasse e non aveva alcun bisogno di trascinarsi dietro un sacchetto di cenere o di bagnarsi il dito, perché l'istinto gli diceva tutto. Si mosse con cautela per mettersi sottovento rispetto all'animale ferito. Non si curò di rivolgere un pensiero grato alla provvidenza per la costante brezza da levante che gli consentiva di piazzarsi tra l'animale e il vicino confine del Passo Chaka. Silenzioso come l'ombra di una nube che si sposta sulla terra, si avvicinò alla leonessa, valutando con cura l'estremo limite dell'acuto udito dell'animale prima di posare il ginocchio a terra con la faccia rivolta verso la bestia ferita, distante circa trecento metri. Inspirò ed espirò rapidamente una decina di volte, gonfiando e comprimendo il possente torace muscoloso, per immagazzinare una certa riserva d'ossigeno nel sangue. Poi trasse un ultimo profondo respiro e sporse in alto la testa a un angolo particolare, accostando infine le mani alla bocca spalancata perché agissero da cassa di risonanza. Dal profondo dei polmoni pieni d'aria uscì un basso rantolo tambureggiante che un pò alla volta assunse, alzandosi e abbassandosi di tono, un ritmo naturale, per terminare infine con un secco, piccolo colpo di tosse. La leonessa sollevò di colpo la testa con le orecchie dritte e un bagliore giallo negli occhi. Pur sofferente e impaurita e confusa, aveva sentito il richiamo del vecchio maschio, quel cupo richiamo percepibile a notevole distanza con il quale esso l'aveva così sovente guidata in passato durante la caccia e del quale si serviva per chiamarla quand'erano distanti l'uno dall'altra nella fitta boscaglia. Il dolore che provò alzandosi minacciò di sopraffarla. La ferita era gonfia, il collo e il torace erano stretti in un'insopporlabile morsa di dolore, ma proprio in quell'istante udì per la prima volta anche il coro di latrati della muta dei cani. Essa e il vecchio maschio avevano già vissuto insieme l'esperienza di essere inseguiti dai cani, e queì suoni le diedero nuova forza. Si alzò e rimase per un attimo, ansimante, ferma su tre gambe, tenendo sollevata quella anteriore destra. Poi si mise in cammino uggiolando debolmente per il dolore, tenendo alta la gamba ferita e mantenendosi precariamente in equilibrio sulle altre tre.
Mark, appostato sulla cresta, vide il felino rimettersi in moto e dirigersi zoppicando verso ponente. Lontano, davanti alla leonessa, tenendosi celato, trotterellava lo zulu, fermandosi tutte le volte che l'animale cadeva sulle ginocchia. Ripeteva il richiamo del leone maschio, e tutte le volte la leonessa gli rispondeva con piccoli ruggiti lamentosi per rimettersi lentamente in cammino verso gli azzurri monti di sogno che proteggevano la valle del Bubezi. Mark aveva sentito spesso ciò che raccontavano i vecchi cacciatori. Il vecchio Anders aveva continuato a ripetere che un suo portatore, ucciso da un elefante sul fiume Sabi nell'84, sapeva usare il richiamo dei leoni. Mark, comunque, non l'aveva mai visto fare e, nel segreto del suo cuore, aveva collocato questi racconti nella categoria delle leggende pittoresche ma apocrife. Ora, pur assistendo coi propri occhi a un avvenimento del genere, non riusciva a crederci. Continuava a osservare la scena affascinato, da quel magnifico punto d'osservazione che era la cresta dell'altura, e solo un mutamento di tono nell'abbaiare della muta dei cani lo indusse a puntare il binocolo verso levante. All'estremità rocciosa della cresta in cui aveva posto l'esca di biltong e tabacco da fiuto, i cani della muta correvano confusamente senza direzione. Erano otto o nove animali, una muta composta da terrier e cani boeri. Il coro aggressivo dei segugi si era disintegrato per trasformarsi in una cacofonia di mugolii e guaiti, mentre Dirk Courteney, in mezzo alla muta, li colpiva selvaggiamente, sollevato sulle staffe, con una lunga frusta. Mark prese le redini di Trojan e lo condusse in basso, lontano dalla cresta, sfruttando la poca copertura che il terreno e la vegetazione gli offrivano, ma fiducioso, comunque, che i cacciatori fossero troppo occupati a risolvere i loro problemi per spaziare con lo sguardo e vederlo. Quando raggiunse la macchia di cespugli spinosi attorno a cui la leonessa si era lasciata cadere per l'ultima volta, tagliò il ramo di un albero e lo impugnò a mò di scopa per cancellare ogni traccia dell'animale. Così seguì lentamente lo zulu e la leonessa verso ovest, il Passo Chaka, fermandosi a tratti per ascoltare il richiamo del falso leone, osservando il suolo mentre camminava e usando il ramo per cancellare ogni traccia. Continuò a proteggerla così fino all'imbrunire, quando furono sul primo varco tra le colline per scendere verso il Bubezi. Pungushe lanciò l'ultimo richiamo che era già buio. Poi si allontano descrivendo un ampio semicerchio. La leonessa si trovava a un centinaio di metri dal fiume. Lo zulu sapeva che l'animale, esausto dalla calura e dal dolore, doveva esser pazzo di sete. Trovò Mark grazie al bagliore della sigaretta che questi aveva acceso.
« Monta », gli disse Mark porgendogli il braccio. Pungushe non si fece pregare. Aveva continuato a correre praticamente senza interruzione sin dall'alba e balzò sul mulo, dietro a Mark. Tornarono a casa, tutt'e due a cavalcioni della possente groppa di Trojan, e nessuno apri bocca finché non videro la lanterna accesa alla finestra del cottage. « Jamela », disse Pungushe, « oggi mi sento come il giorno in cui è nato il mio primo figlio. » Nella sua voce vi era un accento di stupore. « Non avrei mai creduto che un uomo potesse provare sentimenti simili per un diavolo che ammazza il bestiame e gli uomini. » Sdraiato al buio con Marion sul letto matrimoniale, Mark le raccontò tutta la storia, tentando di comunicare alla moglie la propria soddisfazione per il compito portato a termine. Le raccontò ciò che Pungushe gli aveva detto ed ebbe difficoltà a trovare le parole giuste per descrivere ciò che aveva provato lui stesso. Quando tacque, Marion commentò: « Questo è tutto molto bello, amore. Quando scendi di nuovo in città? Vorrei comprare delle tendine per la cucina. Secondo me andrebbe bene una tela a quadretti. Che ne pensi, amore? » La leonessa diede alla luce i suoi piccoli nella fitta macchia di cespugli all'ingresso di uno degli stretti canaloni sfocianti nel fiume. Erano sei, e avevano ormai quasi tre settimane quando Mark li vide per la prima volta. Lui e Pungushe erano sdraiati sul ventre sull'orlo della cresta dei bastioni dominanti la valle, quando la leonessa, all'alba, li riportò dal fiume. I cuccioli la seguivano in disordine, sparpagliati su un centinaio di metri. Il tendine della gamba destra anteriore era ricresciuto storto e leggermente più corto, il che le conferiva un'andatura pesante. Barcollava come un marinaio ubriaco mentre risaliva il canalone. Uno dei piccoli, più cocciuto degli altri, stava tentando di succhiare il latte dalle pendule e rigonfie mammelle mentre la leonessa camminava. Il cucciolo faceva piccoli balzi maldestri per raggiungere i capezzoli che gli passavano sulle orecchie e ricadeva quasi sempre a terra a testa in giù, finendo con l'essere investito dalle zampe posteriori della madre. Ci fu però la volta in cui riuscì ad attaccarsi a uno dei capezzoli, e parve una grossa zecca scura. La leonessa si volse di scatto e lo colpì lievemente sul muso, prima a destra poi a sinistra. Quindi cominciò a leccarlo con la lingua che gli avvolse completamente la testa e lo rimise in piedi un'altra volta. Un altro dei piccoli seguiva di soppiatto i fratelli, nascondendosi anche dietro un semplice filo d'erba, come se volesse tendere un agguato, appiattendo le orecchie e con gli occhi ridotti a due fessure. Quando usciva allo scoperto per balzare su fratelli e sorelle e questi ignoravano completamente le sue manovre bellicose, nascondeva il proprio imbarazzo fermandosi e annusando il filo d'erba con tale impegno da far sembrare che
fosse stata questa la sua intenzione originale. Tre degli altri stavano cacciando farfalle della famiglia colotis jone, le cui crisalidi si erano appena dischiuse. I lepidotteri svolazzavano con le ali bianche e rosse vicinissimi a terra e i cuccioli si rizzavano sulle zampe posteriori tentando di afferrarle finché perdevano l'equilibrio e si accasciavano a terra in un groviglio di arti sproporzionati rispetto al corpo e coperti da una soffice peluria. Il sesto cucciolo continuava a dar la caccia alle code dei fratelli e delle sorelle. Tutte le volte che questi agitavano repentinamente le code in preda alla febbrile eccitazione della caccia alle farfalle, il piccolo si avventava su di esse con selvaggi ruggiti. I cuccioli erano costretti a voltarsi e a difendersi dalle punture dei dentini simili a piccoli aghi. Il trasferimento della famiglia dal fiume fino alla macchia si trasformò in una serie di indecorose risse alle quali la leonessa pose infine termine. Si voltò con un secco colpo di tosse, segnale che prometteva un'immediata punizione se non fosse stato obbedito. I cuccioli smisero di giocare, si posero in fila e s'infilarono, trotterellando dietro alla leonessa, nel rifugio costituito dalla macchia. « Mi piacerebbe sapere quanti di quei piccoli sono femmine », bisbigliò Mark, sorridente come chi sia appena diventato padre. « Se lo desideri, Jamela, andrò laggiù e guarderò sotto le loro code », replicò Pungushe con aria solenne. « Vorrà dire che tratterai con generosità le mie vedove. » Mark ridacchiò e s'incamminò lungo il fianco della collina. Avevano quasi raggiunto l'albero sotto cui Mark aveva lasciato Trojan, quando qualcosa attrasse la sua attenzione. Si volse e diede un calcio pieno di speranza al piccolo cumulo di pietre, rendendosi subito conto che i sassi non erano stati ammacchiati da mani umane, ma sollevati dalle radici di una pianta di serenella. Emise un brontolio di delusione e si scostò. Pungushe lo osservava pensieroso, ma non fece commenti. Aveva visto spesso Mark compiere quello strano rito ogniqualvolta un sasso o un mucchio di pietre destavano la sua attenzione. Mark aveva preso l'abitudine di attraversare ogni tanto, la sera, quel tratto di terreno che separava il cottage con il tetto di paglia dal gruppo di capanne alzate dalle mogli di Pungushe. Ogni capanna aveva la forma conica di un'arnia ed era costituita da lunghi pali flessibili, piegati in maniera da formare lo scheletro della costruzione. Su questo reticolo erano fissati i fasci di paglia, stretti da strisce della corteccia tolta ai pali stessi. Il terreno tra le capanne era stato spianato e pulito, e lo sgabello di legno scolpito di Pungushe era piazzato davanti al basso ingresso della sua capanna personale, dove dormiva. Dopo la quarta visita di Mark, apparve accanto a questo un altro sgabello, scolpito di recente. Benché nessuno l'avesse mai detto,
fu subito chiaro che il secondo sgabello era riservato esclusivamente alle visite di Mark. Non appena Mark si era seduto, una delle mogli di Pungushe gli portava una ciotola d'acqua perché si lavasse le mani. L'acqua era stata attinta e trasportata con molta fatica dal fiume, e Mark si bagnava appena le punte delle dita per non sprecare il prezioso liquido. Poi, la moglie più giovane s'inginocchiava davanti a lui con un timido sorriso e gli offriva con entrambe le mani una scodella con la deliziosa utshwala, la birra di miglio degli zulu, densa come brodo e leggermente alcolica. Solo quando Mark aveva deglutito il primo abbondante sorso, Pungushe alzava lo sguardo e lo salutava. « Ti vedo, Jamela. » Poi, potevano parlare, con quel tono rilassato degli uomini che si sentono perfettamente a loro agio con l'interlocutore. « Oggi, mentre scendevamo dalla collina dopo aver osservato i leoni, tu ti sei allontanato dal sentiero e hai preso a calci un macchio di sassi. Ed è proprio per questa tua strana abitudine, quella di cercare sempre qualcosa, di frugare tutto con lo sguardo senza trovare mai ciò che speri, che ti ho dato il nome di 'Cercatore'. » Pungushe non rivolgeva mai una domanda diretta. Sarebbe stato estremamente maleducato chiedere che cosa Mark stesse cercando; solo un bambino oppure un umlungu, un bianco, sarebbe stato così rozzo. Gli erano occorsi molti mesi per fare questa domanda, che ora formulava sotto le sembianze di una constatazione. Mark bevette un altro sorso di birra e offrì a Pungushe il proprio portasigarette. Lo zulu declinò con un gesto della mano distesa l'offerta e cominciò ad arrotolarsi una sigaretta per proprio conto: un pò di tabacco nero e catramoso, molto grossolano, su un pezzo di carta marrone. Ne venne fuori una specie di sigaro. Mark, osservando le mani dello zulu, disse: « Mio padre e mia madre sono morti di difterite, il mal di gola bianco, quando ero bambino, e un vecchio mi ha fatto da padre e da madre ». Cominciò a rispondere alla domanda nella stessa maniera tortuosa in cui gli era stata posta, e Pungushe lo ascoltò annuendo e continuando tranquillamente a fumare. « Quest'uomo, mio nonno, al quale volevo molto bene, è sepolto da qualche parte in questa valle. E' la sua tomba che cerco », concluse semplicemente. Si rese subito conto che Pungushe lo stava osservando con un'espressione estremamente seria sul volto. « Che cosa c'è? » chiese Mark. « Quando è accaduto questo? » « Sei stagioni fa. » « Quel vecchio si era forse accampato sotto i fichi selvatici? » chiese Pungushe indicando la valle. « Dove ti sei accampato tu la prima volta? » « Sì », confermò Mark. « Si accampava sempre lì. » Ebbe un tuffo al cuore. Presagiva che qualcosa di importante stava
per accadere. « C'era un uomo », continuò Pungushe, « che portava il cappello, un cappello sotto il quale avrebbe potuto accamparsi un impi... » E qui distese le braccia esagerando solo un tantino le dimensioni di un terai a tesa larga. « Un uomo che portava la barba, una barba simile alle ali di un airone bianco... » Nella mente di Mark comparve improvvisamente l'immagine della barba biforcuta del vecchio, bianca come la neve e macchiata dal tabacco solo intorno alla bocca. « Un vecchio che camminava come l'uccello sagittario quando cerca le cavallette nell'orba. » La descrizione delle gambe lunghe e sottili del vecchio, delle spalle curve a causa dell'artrite, dei passi compassati era perfetta. « Pungushe! » esclamò Mark, tutto eccitato. « Tu lo conosci! » « Nulla si muove in questa valle, nessun uccello vola, nessun babbuino grida, senza che lo Sciacallo senta e veda. » Mark lo fissava, trasecolato all'idea della propria ottusità. Ma era ovvio: Pungushe sapeva tutto! Pungushe, l'osservatore silenzioso. Perché, in nome di Dio, non gli era venuto in mente di chiederglielo prima? « Ha seguito questo sentiero. » Pungushe camminava davanti a Mark e imitava con l'abilità naturale dell'attore nato John Anders, l'andatura incerta e le spalle spioventi del vecchio. A Mark bastava socchiudere gli occhi per rivedere il nonno così come lo aveva visto tante volte in passato. « Qui ha lasciato il sentiero. » Pungushe lasciò il viottolo e cominciò a risalire uno degli stretti corsi d'acqua asciutti. La sabbia, simile a zucchero, scricchiolava sotto i piedi. Mezzo chilometro più avanti, Pungushe si fermò e indicò uno dei lucidi e neri roccioni, levigati dall'acqua. « Qui si è seduto e ha posato il fucile. Ha acceso la pipa e si e messo a fumare. » Pungushe si volse e salì, aiutandosi con le mani e con i piedi, sulla ripida sponda del corso d'acqua. « Mentre il vecchio fumava, il quarto uomo risalì la valle. Veniva con il fare del cacciatore, in silenzio, seguendo le tracce del vecchio, facili da scoprirsi. » Si servì della parola piena di rispetto usata dagli zulu per definire un anziano: ixhegu, « Aspetta, Pungushe », lo interruppe Mark. « Tu parli di un quarto uomo. Non capisco. Dimmi quanti erano. » Si accovacciarono sulla sponda del torrente asciutto e Pungushe prese un pò di tabacco, offrì il corno a Mark che rifiutò, e poi aspirò con il naso la polvere rossa raccolta sul palmo della mano, badando a tappare con il pollice le narici una alla volta. Infine chiuse gli occhi e si abbandonò a un gustoso starnuto prima di continuare. « C'era il vecchio, tuo nonno, l'ixhegu. » « Ed è uno. » « Poi c'era un altro vecchio, senza capelli sulla testa né sul
mento. » « E sono due », convenne Mark. « Poi c'era un uomo giovane con i capelli nerissimi, un uomo che rideva sempre e camminava facendo più rumore di un'intera mandria di bufali. » « Sì. E sono tre. » « Questi tre sono arrivati insieme nella valle. Sono andati a caccia insieme e si sono accampati insieme sotto i fichi selvaticì. » Pungushe stava descrivendo evidentemente i Greyling, padre e figlio, che avevano deposto sotto giuramento davanti al giudice di Ladyburg. Fino a quel punto, tutto corrispondeva a quanto si aspettava. Al che fece un'altra domanda: « E il quarto uomo, Pungushe? » « Il quarto uomo li seguiva di nascosto e l'ixhegu, tuo nonno, non lo sapeva. Il quarto uomo si è comportato sempre come un cacciatore di uomini. Osservava stando al coperto e si muoveva senza far rumore. Una volta, però, tuo nonno, l'ixhegu, lasciò l'accampamento per cacciare da solo gli uccelli lungo il fiume. Allora l'uomo nascosto è venuto all'accampamento sotto i fichi selvatici e tutt'e tre si sono messi a parlare insieme, tranquillamente, ma con le facce di pietra e gli occhi preoccupati di uomini che discutono faccende di vita e di morte. Poi, l'uomo che non faceva rumore li ha lasciati ed è andato a nascondersi nella boscaglia prima che l'ixhegu tornasse. » « Tu hai visto tutto questo, Pungushe? » chiese Mark. « Ciò che non ho visto, l'ho letto nelle orme. » « Adesso capisco la faccenda del quarto uomo. Raccontami che cos'è successo quel giorno. » « L'ixhegu era seduto lì e fumava la pipa. » Pungushe indicò il corso d'acqua asciutto. « L'uomo silenzioso è venuto e si è fermato qui, dove noi siamo seduti ora, e ha guardato da basso nella direzione di tuo nonno senza parlare, tenendo il suo isihamu, il suo fucile, così. » « Che cosa ha fatto l'ixhegu allora? » chiese Mark. Era talmente inorridito da provare un senso di nausea. « Ha alzato la testa e ha fatto una domanda a voce alta, come fa chi ha paura, ma il silenzioso non ha risposto. » « E allora? » « Mi dispiace, Jamela, ma raccontartelo mi fa pena, sapendo che l'ixhegu era del tuo sangue. » « Continua », disse Mark. « Poi, il silenzioso ha sparato un colpo con il fucile e l'ixhegu è caduto con la faccia nella sabbia. » « Era morto? » chiese Mark. Pungushe non rispose subito « Non era morto. Era stato colpito qui, nel ventre. Si e mosso e ha gridato. » « E il silenzioso ha sparato di nuovo? » Mark sentiva qualcosa di acido nella gola, come se dovesse vomitare. Pungushe scosse la testa. « Che cosa ha fatto? »
« Si è seduto sulla sponda dove noi siamo seduti ora e si è messo a fumare in silenzio, guardando il vecchio uomo ixhegu sdraiato nella sabbia finché quello non è morto. » « Quanto ci ha messo a morire? » chiese Mark con voce strozzata, piena di rabbia. Pungushe tracciò con la mano un segmento nel cielo per indicare due ore del corso del sole. « Alla fine, l'ixhegu ha parlato non solo nella propria lingua, ma anche in zulu. » « Che cosa ha detto, Pungushe? » « Ha chiesto dell'acqua e poi ha chiamato Dio e una donna che poteva essere stata sua madre o sua moglie. Dopo è morto. » La mente di Mark era pervasa alternativamente da sensazioni di nausea, sprazzi di feroce odio e impeti di dolore. Tentò di immaginare perché l'assassino aveva lasciato morire la propria vittima facendolo agonizzare così a lungo, e gli ci volle parecchio per capire che tutto doveva essere stato predisposto in precedenza: il vecchio doveva dare l'impressione di essere morto in seguito a un incidente di caccia. E nessuno si ferisce due volte di seguito per caso. Il corpo doveva presentare un solo colpo di arma da fuoco. Chi è colpito allo stomaco è sempre quello che soffre di più. A Mark tornarono in mente le urla dei feriti all'addome nelle trincee mentre i barellieri li conducevano nelle retrovie. « Il tuo dolore è il mio, Jamela. » Mark si scosse, udendo le parole di Pungushe. « Che cos'è successo dopo la morte dell'ixhegu? » « Gli altri due uomini, il vecchio calvo e il giovane chiassoso, sono arrivati dall'accampamento. Tutt'e tre si sono messi a parlare qui, accanto al cadavere. Hanno parlato per molto tempo, con molte grida e facce rosse per la rabbia, e hanno agitato le mani così, e poi così. » Pungushe imitò gli uomini che altercavano. « Uno ha indicato questa direzione, l'altro la parte opposta, ma alla fine si è messo a parlare il silenzioso e gli altri due lo hanno ascoltato. » « Dove lo hanno portato? » « Prima gli hanno aperto le tasche e hanno tirato fuori delle carte e una borsa. Hanno ripreso a litigare, finché il silenzioso si è fatto dare le carte e le ha messe di nuovo nelle tasche del morto... » Mark si rese conto dell'opportunità del gesto. Un uomo onesto non deruba le spoglie della vittima di un incidente. « Poi lo portarono a monte, lungo la sponda, e così... » Pungushe si alzò e condusse Mark per circa quattrocento metri nella foresta, sotto il primo pendio molto ripido della sponda. « ... hanno trovato qui la tana di un formichiere, profonda, e hanno infilato dentro il cadavere del vecchio. » « Qui? » chiese Mark. Sul suolo cresceva, sparsa, l'erba. Non c'era segno di cumuli di pietre. « Non vedo nulla. » « Hanno raccolto delle pietre là, sul roccione, e le hanno gettate nella tana, sul cadavere, in maniera che le iene non potessero tirarlo fuori. Poi hanno coperto le pietre con terra e livellato tutto con un ramo. »
Mark posò un ginocchio a terra e ispezionò il suolo. « Si », esclamò. Vi era una lieve depressione in quel punto, come se il terreno avesse ceduto un poco in seguito a uno scavo. Mark estrasse il coltello da caccia e incise quattro degli alberi più vicini, in maniera da ritrovare più facilmente il punto, poi costruì una piccola piramide di sassi sulla depressione del terreno. Quando ebbe finito, chiese a Pungushe: « Perché non lo hai detto mai a nessuno fino a questo momento? Perché non sei andato alla polizia a Ladyburg? » « Senti, Jamela, le follie degli uomini bianchi non mi riguardano. Inoltre bisogna camminare molto per arrivare a Ladyburg, al poliziotto che direbbe: 'Ehi, cafro, e tu, che cosa ci facevi nella valle del Bubezi per essere testimone di così strani avvenimenti? » Pungushe scosse la testa. « No, Jamela, qualche volta è meglio per l'uomo essere cieco e sordo. » « Dimmi la verità, Pungushe. Se tu dovessi rivedere quegli uomini, li riconosceresti? » « Tutti gli uomini bianchi hanno una faccia che assomiglia a una patata dolce bollita, rossa, piena di bitorzoli e senza forma » A questo punto, Pungushe ricordò le buone maniere. « All'infuori di te, Jamela, che non sei così brutto. » « Grazie, Pungushe. Così, non li riconosceresti adesso? » « Potrei forse riconoscere il vecchio calvo e il giovane chiassoso. » Pungushe aggrottò le sopracciglia. Stava pensando. « E il silenzioso? » chiese Mark. « Oh! » Il volto di Pungushe si distese. « Si può forse dimenticare l'aspetto del leopardo? Si può dimenticare un assasino? Il silenzioso lo riconoscerei in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. » « Bene! » esclamò annuendo Mark. « Adesso torna a casa, Pungushe. » Attese che lo zolu fosse scomparso dalla vista tra gli alberi poi si inginocchiò e si tolse il cappello. « Be', nonno », disse. « Io non sono molto esperto in queste faccende, ma so che avresti voluto sentire queste parole. » Lo disse con voce così bassa e roca che dovette schiarirsi rumorosamente la gola prima di proseguire. La casa a Lion Kop aveva le persiane chiuse. I mobili erano tutti coperti da lenzuola per proteggerli dalla polvere, ma il capo della servitù venne incontro a Mark nel cortile sul retro. « Nkosi è andato a Tekweni. E' partito due settimane fa. » Servì a Mark una modesta colazione a base di uova con il bacon. Poi il giovane lasciò la casa e risalì sulla motocicletta. Il percorso fino alla costa era lungo e Mark ebbe tutto il tempo per riflettere, mentre le ruote della sua Ariel Square 4 macinavano i chilometri sulla strada polverosa. Aveva lasciato il Passo Chaka poche ore dopo aver trovato la tomba del vecchio, pensando di chiedere consiglio e aiuto all'unico uomo che potesse darglieli. Avrebbe voluto che Marion andasse con lui, per lo meno
fino a Ladyburg, dove si sarebbe potuta fermare dalla sorella, ma la ragazza si era rifiutata di lasciare la casa e l'orto, e Mark si rassicurò sapendo che Pungushe avrebbe dormito nel ripostiglio degli attrezzi dietro la stalla per sorvegliare la dimora durante la sua assenza. Mark aveva guadato il fiume e aveva risalito il pendio sotto l'inizio del sentiero che portava alla tettoia coperta di paglia dove teneva la motocicletta. Era stato un viaggio lento e pieno di scossoni, al buio. Arrivato a Lion Kop all'alba, aveva scoperto che Sean Courteney si era trasferito con la famiglia a Durban. Ruth Courteney era nel roseto, ma, quando vide Mark, lasciò cadere il cestino con i fiori recisi e sollevò le gonne fino alle ginocchia per corrergli incontro. Il cappello di paglia a tesa larga le scivolò dalla testa e le ricadde sulla spalla, restando appeso al nastro che le cingeva il collo. La sua allegra risata sembrava quella di una ragazzina. « Oh, Mark... quanto ci sei mancato. » Lo strinse in un abbraccio materno, baciandolo su entrambe le guance. « Come sei abbronzato. E sei diventato anche più robusto. » Allontanandolo leggermente, gli palpò i bicipiti, come per esprimere la propria ammirazione, e lo abbracciò di nuovo. « Il generale sarà davvero contento di vederti. » Poi prese Mark sottobraccio e lo condusse verso la casa. « Non è stato troppo bene, Mark; rivederti sarà come un tonico per lui. » Mark si fermò senza volerlo sulla soglia e provò una specie di scossa che gli prosciugò la saliva sotto la lingua. Il generale Sean Courteney era un vecchio. Era seduto sulla veranda che faceva corpo unico con la camera da letto. Indossava una pesante vestaglia e aveva le ginocchia avvolte da una coperta. Il tavolo accanto a lui era coperto da una catasta di documenti e relazioni, libri bianchi del Parlamento e una pila di lettere, ma il generale si era appisolato e gli occhiali cerchiati di metallo gli erano scivolati sulla punta del naso. Russava dolcemente e le labbra tremavano a ogni respiro. Il volto era dimagrito al punto da rendere sporgenti gli zigomi e le arcate sopraccigliari. Gli occhi erano infossati entro due cavità rosee e la pelle aveva un pallore grigiastro, come se fosse priva di vita. Ma la cosa veramente sconvolgente era il colore della barba e della chioma, una volta tanto folta. Sean Courteney stava incanutendo paurosamente. La barba si era trasformata in una cascata argentea e i capelli erano candidi e sottili come l'erba sbiancata dal sole nel deserto di Kalahari. Ruth si avvicinò alla poltrona e gli tolse gli occhiali dal naso. Poi, con il delicato tocco della moglie amorosa, gli sfiorò la spalla. « Sean, amore. Hai una visita. » Il generale si svegliò come sono soliti fare i vecchi, sbattendo le palpebre, borbottando e agitando le mani con piccoli movimenti privi di senso. Poi vide Mark e l'espressione del vol-
to si fece più decisa. Gli occhi si rianimarono, acquistando un pò della luminosità dei tempi passati, e sulla bocca gli comparve un sorriso. « Ragazzo mio! » esclamò, sollevando le mani, e Mark si fece avanti con perfetta naturalezza. Si abbracciarono per la prima volta come padre e figlio, mentre Sean lo contemplava con aria raggiante. « Cominciavo a credere che quella terra selvaggia ti avesse inghiottito per sempre. » Guardò Ruth, ferma accanto alla poltrona. « Data l'occasione, credo che possiamo una volta tanto venir meno alla regola stabilita dal medico. Potresti dire a Joseph di portare su il vassoio con la roba da bere? » « Senti, Sean, tu sai, vero, che cosa ha detto il medico ieri? » Sean replicò con un borbottio che manifestava tutto il suo disappunto. « Da cinquant'anni a questa parte, sin da quand'ero ragazzo, il mio stomaco si è abituato a ingurgitare ogni sera un bicchiere di John Haig. La mancanza di whisky mi ammazzerebbe molto prima del dottor Henderson e di tutte le sue pillole e pozioni ciarlatanesche. » Poi circondò con il braccio i fianchi di Ruth e la strinse. « Su, fa' la brava, ragazza! » Quando Ruth se ne fu andata, sorridendo ma scuotendo la testa in segno di disapprovazione, Sean fece cenno a Mark di prendere posto sulla sedia davanti a lui. « Che cosa c'è che non va, secondo il medico, signor generale? » « Il medico! » Sean emise una specie di fischio silenzioso. « Più invecchio e meno mi fido di tutta la congrega dei medici. » Allungò la mano verso la scatola dei sigari. « Volevano persino che smettessi di fumare! Ma a che cosa serve vivere, mi domando io, se uno deve rinunciare a tutto nella vita? » Poi accese il sigaro con un ampio gesto e cominciò a fumare con gusto. « Ti dirò io, ragazzo; che cosa c'è che non va in me. Troppi anni di dure fatiche, di lotte, di ore trascorse in sella e al lavoro. Tutto qui. Ora mi sto riposando un pochino, e tra una settimana o giù di lì sarò più in gamba e più sveglio di quanto sia mai stato. » Ruth portò il vassoio d'argento e tutt'e tre rimasero seduti, chiacchierando e ridendo finché non fece buio. Mark descrisse la vita al Passo Chaka e ogni piccola iniziativa riuscita, il cottage e i lavori per migliorare le strade. Parlò del bufalo, della leonessa e dei suoi piccoli, e Sean gli raccontò dei progressi compiuti dalla loro Wildlife Society, l'Associazione per la Protezione della Fauna. « E' tutto così deludente, Mark, così diverso da quanto speressi. E' incredibile come la gente si disinteressi delle cose che non influiscono direttamente sulla sua vita quotidiana. » « Non ho mai sperato nel successo immediato. Come può la gente interessarsi a qualcosa che non ha mai visto? Solo quando avremo reso accessibili le terre selvagge, solo quando la gente potrà rendersene conto personalmente - come, per esempio, vedendo i cuccioli della leonessa -, comincerà a capire.
« Già », convenne Sean, soprappensiero. « E' proprio questo il vero senso dell'Associazione. Educare la gente. » Quando fu completamente buio, Ruth chiuse le persiane e tirò le tende. Mark aspettava la buona occasione per rivelare il vero motivo che lo aveva spinto a venire a Emoyeni. Tuttavia esitava, perché temeva l'effetto che il racconto avrebbe prodotto sul generale malato. Alla fine non riuscì più a trattenersi. Respirò profondamente un paio di volte, espresse mentalmente la speranza che tutto andasse bene e raccontò alla svelta e senza tante perifrasi tutta la faccenda, ripetendo con precisione quanto gli aveva detto Pungushe e descrivendo ciò che aveva visto egli stesso. Quando ebbe finito, Sean tacque a lungo fissando il proprio bicchiere. Alla fine si destò da quella specie di trance e cominciò a fare domande, domande intelligenti e pertinenti, rivelando che la sua mente era sveglia e agile come sempre. « Hai aperto la tomba? » Mark scosse la testa. « Bene », disse Sean. « Questo zulu, Pungushe, era l'unico testimone presente. In quale misura si può fare affidamento su di lui? » Parlarono per un'altra mezz'ora. Infine, Sean fece la domanda più importante e che fino a quel momento aveva evitato con cura. « Credi che sia Dirk Courteney il responsabile di tutto questo? » « Sì », rispose Mark, annuendo. « Che prove ci sono? » « E' l'unico che può aver tratto profitto dall'assassinio di mio nonno, e lo stile è il suo. » « Ti ho chiesto quali prove ci sono, Mark. » « Nessuna », ammise Mark, e Sean ricadde nel silenzio, pensoso. « Senti, Mark, capisco che cosa provi... e credo che tu sappia anche quel che provo io. C'è un fatto, comunque: per il momento non possiamo far nulla. Qualsiasi azione servirebbe soltanto a mettere in guardia l'assassino, chiunque sia. » Si sporse dalla poltrona e stese la mano per posarla sull'avambraccio di Mark, come per confortarlo. « Per ora abbiamo solo la testimonianza priva di conferme di un bracconiere zulu che non conosce l'inglese. Qualsiasi buon avvocato ne farebbe un solo boccone, e Dirk Courteney non avrebbe problemi a farsi difendere dal miglior avvocato esistente, ammesso che riuscissimo a dimostrare che il 'silenzioso' era lui e a trascinarlo davanti al giudice. Abbiamo bisogno di altre prove, Mark. » « Lo so », convenne Mark. « Pensavo tuttavia che potremmo rintracciare i Greyling, padre e figlio. Credo che si siano trasferiti in Rhodesia. Me lo hanno detto alla stazione di Ladyburg. » « Bene, troverò qualcuno che indaghi su questa faccenda. I miei avvocati conosceranno sicuramente qualche buon investigatore. » Fece un'annotazione sul taccuino che aveva accanto a
sé. « Nel frattempo, però, possiamo solo aspettare. » Continuarono a parlare, ma era evidente che la discussione aveva stancato Sean Courteney, sul cui volto ombre grigie e azzurrine mettevano in rilievo le rughe. Si sistemò un pò meglio sulla poltrona, la barba gli ricadde sul petto e, all'improvviso, si addormentò. Si piegò leggermente e lentamente sul fianco destro, il bicchiere di cristallo che teneva in mano cadde sul tappeto con un lieve tonfo, versando qualche goccia di whisky, e il generale cominciò a russare. Ruth raccolse il bicchiere, sistemò con cura la coperta intorno alle spalle di Sean e fece cenno a Mark di seguirla. Nel corridoio ripresero a chiacchierare di cose più allegre. « Ho detto a Joseph di prepararti il letto nella stanza azzurra, e una vasca piena d'acqua calda ti aspetta nel bagno. Saremo solo noi due a cena, Mark. Il generale mangerà in camera. » Erano arrivati alla porta della biblioteca e Mark non fu più in grado di tacere. Afferrò il braccio di Ruth. « Signora Courteney! » esclamò con voce implorante. « Di che cosa si tratta? Che cos'ha il generale? » Il sorriso raggiante scomparve dalla faccia di lei. Ruth cominciò a vacillare lievemente, come se stesse perdendo l'equilibrio. Per la prima volta, Mark notò come i pochi fili bianchi nei capelli di lei si fossero trasformati in ciuffi color grigioferro alle tempie. Notò anche le minuscole ragnatele intorno agli occhi, e così pure la profonda ruga tra le sopracciglia, dovuta alle preoccupazioni. « Ha il cuore spezzato », rispose con semplicità, poi cominciò a piangere. Non era un pianto isterico accompagnato da esclamazioni di dolore, ma un torrente di lacrime che saliva silenzioso dall'anima, più sconcertante e rivelatore di qualsiasi gesto drammatico. « Gli hanno spezzato il cuore », ripetè, e vacillò di nuovo, per cui Mark l'afferrò per sorreggerla. Ruth si aggrappò a lui, premendo il volto sulla sua spalla. « Prima la rottura con Dirk, poi la morte di Michael », bisbigliò. « Non ne parlava mai, ma una parte di lui è andata distrutta. Adesso, tutti ce l'hanno con Sean. La gente alla quale ha dedicato la sua vita in pace e in guerra. I giornali lo chiamano 'Il Macellaio di Fordsburg'. Dirk Courteney li ha aizzati come una muta di cani selvaggi. » La accompagnò nella biblioteca e la fece sedere sul basso divano trapuntato. Pose il ginocchio a terra accanto a lei e trasse dalla tasca della giacca un fazzoletto tutto cincischiato. « E, come se non bastasse, c'è anche la faccenda di Storm. La maniera in cui è scappata e ha sposato quell'uomo. E' un uomo orribile, Mark. E' venuto persino qui a chiedere soldi e c'è stata una terribile scenata. Proprio quella notte Sean ha avuto la prima crisi. Poi, tutta quella vergogna e le altre scene strazianti quando Storm ha divorziato. Era troppo, persino per un uomo come Sean. » Mark la guardò con gli occhi sbarrati. « Storm ha divorzia-
to? » chiese in tono sommesso. « Si », annuì Ruth. Improvvisamente, il volto di lei assunse un'espressione più serena. « Oh, Mark, so che tu e Storm stavate diventando davvero amici. Sono sicura che ha molta simpatia per te. Non potresti andare da lei? Potrebbe essere la cura nella quale speriamo tanto tutti. » Umhlanga Rocks era un piccolo villaggio in riva al mare, uno dei tanti sparpagliati lungo la costa sabbiosa ai due lati del porto principale di Durban. Mark attraversò il basso ponte sul fiume Umgeni e si diresse verso nord. La strada attraversava la fitta boscaglia della costa, simile alla giungla e impenetrabile come una foresta equatoriale. Dagli alberi pendevano grovigli di liane sulle quali si dondolavano chiassose scimmiette dalla pelliccia blu. La strada correva parallela alle bianche spiagge, ma al diciannovesimo chilometro Mark raggiunse il bivio e scese in direzione della costa. Il paesino era raccolto intorno all'albergo Oyster Box dal tetto di lamiera. Love Mark e Dicky Lancome avevano ballato e mangiato tanto tempo addietro con Marion e quell'altra ragazza senza nome. Le uniche altre costruzioni erano una ventina o trentina di cottage situati in mezzo a grandi giardini e quasi soffocati dalla giungla rampante. Ruth gli aveva spiegato bene il percorso e Mark parcheggiò la motocicletta nello stretto viottolo polveroso e seguì il sentiero che s'inoltrava, all'apparenza senza una direzione precisa, nel giardino inselvatichito, pieno di buganvillee rosse e lucenti poinsezie. Il cottage era piccolo e le buganvillee si erano arrampicate lungo le colonnine della veranda per estendersi come un manto brillante e quasi accecante sul tetto di paglia. Mark seppe subito di essere arrivato al posto giusto perché la Cadillac di Storm era parcheggiata all'aperto, sotto gli alberi. La macchina aveva un aspetto trascurato e un palese bisogno di riparazioni. I battistrada delle gomme erano consumati e un lungo graffio deturpava un fianco della macchina. Uno dei finestrini aveva il vetro rotto e la vernice era opaca, coperta di polvere e di escrementi lasciati cadere dai pipistrelli dagli alberi da frutto. Mark si fermò a guardare trasecolato la Cadillac per un minuto buono. La Storm che aveva conosciuto in passato avrebbe pestato i piedi e invocato, urlando, il padre, se qualcuno avesse preteso di farla salire su un simile rottame. Mark salì gli scalini della veranda e si fermò di nuovo per dare un'occhiata in giro. Era un posto tranquillo, bellissimo, ottimo per un artista, ma poco adatto, a causa della sua posizione e dello stato di abbandono in cui era tenuto, a uno degli eleganti e giovani esponenti della buona società. Mark bussò alla porta d'ingresso e sentì qualcuno muoversi all'interno per qualche minuto prima che la porta si aprisse.
Storm era molto più bella di quanto lui ricordasse. Aveva i capelli lunghi e schiariti alle punte dall'acqua salmastra e dal sole. Scalza, le braccia e le gambe abbronzate, snelle e scattanti come sempre, solo il volto era cambiato. Benché fosse senza trucco, la pelle, brillante come l'interno lucido di una conchiglia, sprizzava vigore giovanile. Gli occhi erano limpidi e svegli, ma lo sguardo era più profondo di una volta. La piega stizzosa della bocca si era addolcita. L'arroganza era diventata dignità. Nell'attimo in cui si fissarono a vicenda, Mark seppe che la ragazza si era trasformata in donna durante il periodo in cui non l'aveva più vista. E intuiva anche che il processo doveva essere stato dolorosissimo, ma che da esso emergeva un nuovo valore, una nuova energia. L'amore per lei, che non era mai venuto meno, pervase la sua anima. « Storm », disse, mentre gli occhi di lei si spalancavano a dismisura e lo fissavano. « Tu! » Il suo fu un piccolo grido di dolore. Subito tentò di chiudere la porta. Mark fece un balzo e la trattenne. « Storm, devo parlarti. » Lei dava disperati strattoni alla maniglia. « Vattene, Mark. Per favore, vattene. » La nuova dignità, il nuovo atteggiamento parvero dissolversi, mentre lo guardava con gli occhi dilatati dallo sgomento di una bambina che si desti da un incubo. Alla fine si rese conto che non poteva chiudere di prepotenza la porta. Mark era troppo forte. Così si volse e rientrò lentamente in casa. « Non saresti dovuto venire », disse in tono dimesso, e il bambino parve intuire che l'atmosfera era cambiata e cominciò a strillare. « Zitto, piccino », esclamò Storm a voce bassa, ma le sue parole provocarono un nuovo scoppio di urla. Allora attraversò a piedi nudi la stanza con il lungo velo di capelli che le scendeva sulla schiena. La stanza era poco arredata, il pavimento di cemento nudo e freddo, senza tappeti per attenuarne l'asperità. Lungo le pareti, invece, erano esposte diverse tele, molte ancora in bianco, altre lasciate a metà o finite, e il familiare odore della trementina era pesante e pungente. Il bambino giaceva sulla pancia, sdraiato su una coperta di pelle di scimmia distesa sul pavimento di cemento. Aveva le gambette e le braccine distese come un ranocchio, nella posizione caratteristica dei bambini piccoli, e aveva addosso, intorno ai fianchi, un pannolino di spugna. Per il resto era nudo e tutto abbronzato. La testa era rovesciata in atteggiamento di rabbia e il faccino arrossato a furia di urlare. Mark entrò nella stanza e guardò come affascinato il bambino. Non s'intendeva assolutamente di bambini piccoli, tuttavia capì che si trattava di un animaletto sano, robusto e aggressivo. Le membra erano ben tornite e si agitavano in fretta e con forza, come se stesse nuotando. La schiena era larga e soda.
« Su, non gridare, amore », disse Storm con voce suadente, mentre s'inginocchiava accanto al bambino per sollevarlo, sorreggendolo sotto le ascelle. Il pannolino scivolò sulle ginocchia del bimbo e Mark non ebbe più dubbi circa il suo sesso. Il minuscolo pene sporgeva a mezz'asta come un ditino bianco, con il suo berrettuccio di pelle raggrinzita simile a un cappello da chef afflosciato. Mark scoprì improvvisamente che odiava quel bimbo, figlio di un altro uomo, e che lo odiava con un odio che gli faceva paura. Eppure si avvicinò involontariamente a Storm che teneva il piccino in grembo. Il tocco della madre aveva placato le grida rabbiose. Ora il bimbo stava schioccando le labbra ed emettendo piccoli mugolii di fame, percuotendo nel frattempo con le manine il seno di Storm. La testa del piccolo era coperta da un casco di peluria dorata attraverso la quale Mark poté scorgere la rotondità perfetta del cranio e le venuzze bluastre sotto la pelle quasi traslucida. Ora, scomparso il rossore dovuto alla rabbia, Mark vide che era bellissimo, bello come la madre... e lo odiò con un'amara sensazione di nausea allo stomaco e un sapore acidulo in bocca. Si avvicinò. Storm asciugò un pò di saliva dal mento del piccolo e riportò alla giusta altezza il pannolino. Il bambino si accorse della presenza dell'estraneo. Alzò la testolina e cominciò a fissare Mark: vi era un che di familiare in quel visino che gli ricordava qualcosa. Quegli occhi che lo stavano guardando ora lo avevano già guardato altre volte. Li conosceva troppo bene. « Non saresti dovuto venire », ripeté Storm, senza guardarlo in volto. « Dio mio, Mark, perché sei venuto? » Mark pose un ginocchio sul pavimento e fissò il viso del bambino, che tese le braccia paffutelle verso di lui. Le manine erano rosee e umide di saliva. « Come si chiama? » chiese Mark. Dove diavolo aveva già visto quegli occhi? Tese involontariamente l'indice e il piccino lo afferrò con una risatina gorgogliante, tentando di portarselo alla bocca. « John », rispose Storm, sempre senza guardarlo. « John era il nome di mio nonno », replicò Mark in tono sommesso. « Sì », bisbigliò Storm. « Me lo avevi detto. » Quelle parole non gli suggerivano nulla, per il momento. Si rese conto però di una cosa: che l'odio provato per quel minuscolo rappresentante dell'umanità stava lentamente scomparendo per cedere il passo a qualcos'altro. Poi, improvvisamente, ricordò dove aveva visto quegli occhi. « Storm...? » A questo punto, la ragazza alzò la testa e lo fissò negli occhi. Il tono della voce esprimeva fierezza, ma anche sfida. « Sì! » disse, annuendo. Impacciato, Mark tese le braccia. Entrambi in ginocchio sul-
la coperta di pelle di scimmia, si abbracciarono con impeto. Il bambino tra di loro gorgogliava e lanciava grida gutturali di gioia, continuando a masticare con le gengive prive di dentini il dito di Mark. « Dio mio, Mark, che cosa ho fatto a noi due? » bisbigliò Storm, disperata. Il piccolo John li svegliò nella luce grigio-argentea che precede il giorno. Mark gliene fu grato, perché non intendeva perdere un solo minuto del giorno che s'approntava. Vide Storm accendere la candela e poi darsi da fare sopra la culla. Mentre cambiava i pannolini al bambino, faceva piccoli rumori carezzevoli per tenerlo buono, e la luce della candela si rifletteva nelle linee dolci e pure della sua schiena. I capelli scuri, soffici come seta, le pendevano sulle spalle, e Mark s'accorse che la gravidanza non le aveva ingrossato i fianchi, che conservavano i loro contorni armoniosi. Poi portò il piccino nel letto, sorridendo a Mark, mentre questi sollevava le coperte per farle posto. « Ora di colazione », spiegò. « Permetti? » Sedette sul letto a gambe incrociate, afferrò con il pollice e l'indice uno dei propri capezzoli e lo introdusse nella bocca spalancata che chiedeva cibo. Mark si spinse più vicino che poté e mise un braccio sulla spalla di Storm. Era affascinato. Le sue mammelle erano adesso grosse e pesanti e terminavano a forma di cono arrotondato Sotto la pelle, si scorgevano vene bluastre che pulsavano, e i capezzoli avevano il colore delle more quasi mature e anche la stessa consistenza rugosa. Gli sforzi del bambino provocarono per simpatia la fuoruscita di una goccia di latte bianco-azzurrognolo dal capezzolo dell'altra mammella. La goccia brillava come una perla alla luce della candela. John si nutrì a occhi completamente chiusi, accompagnando le poppate con grugniti da porcellino. Il latte gli usciva dagli angoli della bocca e, una volta placati i primi morsi della fame Storm dovette scuoterlo per impedirgli di riaddormentarsi. A ogni sollecitazione, la boccuccia tornava a muoversi con vigore per circa un minuto. Poi l'attività declinava lentamente fino al successivo sollecito. Storm offrì al bambino l'altro seno e appoggiò con gratitudine la guancia ai solidi muscoli del petto di Mark. « Credo di essere felice », mormorò. « Ma sono stata infelice per così tanto tempo che non ne sono proprio sicura. » John era sdraiato in una pozzanghera d'acqua di mare profonda cinque centimetri. Era completamente nudo e abbronzato dappertutto: trovarsi in simili condizioni non doveva essere per lui niente di straordinario. Batteva l'acqua con entrambe le manine e questa gli inondava il volto lasciandolo senza fiato a sbattere le palpebre e a leccarsi le labbra. Restava incerto, senza sapere se doveva ridere o piangere. Allora ripeteva l'esperimento ottenendo esattamente lo stesso risultato e spu-
tando poi sabbia e acqua di mare. « Poverino », esclamò Storm che lo osservava. « Ha ereditato l'orgoglio e la cocciutaggine dei Courteney. Non la smetterà fino a quando non sarà annegato. » Lo sollevò dalla pozzanghera, ma le urla di protesta che si levarono furono tali che dovette rimetterlo immediatamente in acqua. « Sono certo che se tu andassi dal generale... con John », insistè Mark. « Tu in realtà continui a non capire i Courteney. » Storm si mise seduta e cominciò a raccogliersi i capelli su una spalla. « Non siamo abituati a dimenticare tanto presto né a perdonare le offese. » « Non vuoi provarci, Storm? Va' da lui, ti prego. » « Lo conosco troppo bene, Mark. Meglio di te e meglio di quanto lui stesso si conosca. Lo conosco come conosco me stessa, perché siamo tutt'uno. Io sono lui e lui è me. Se dovessi andare da lui ora, dopo aver fatto ciò che ho fatto - averlo insultato, aver distrutto tutti i sogni che nutriva nei miei riguardi, se ci andassi ora, senza dignità e senza onore, se dovessi presentarmi da mendicante, lui mi disprezzerebbe per sempre. » « No, Storm, ti sbagli. » « In queste cose non mi sbaglio mai, amore mio. Farebbe di tutto per non disprezzarmi, così come ora fa di tutto per non odiarmi, ma non potrebbe farne a meno. Lui è Sean Courteney, intrappolato tra le ganasce d'acciaio del proprio onore. » « E' malato... devi dargli l'opportunità... » « No, Mark. Lo ammazzerebbe. Io lo so... e ammazzerebbe anche me. Per il bene di entrambi non oso andare da lui adesso. » « Tu non sai quanto ti vuol bene. » « Oh, sì che lo so, Mark. E so anche quanto io gli voglio bene... Un giorno, quando sarò di nuovo fiera di me, andrò da lui. Te lo prometto. Quando saprò che può essere fiero di me, glielo dirò per fargli un regalo... » « Un accidente a te e al suo inflessibile e crudele orgoglio! Hai rischiato di distruggere anche noi due con quello. » « Vieni, Mark ». disse Storm, alzandosi. « Prendi l'altra manina di John. » Passeggiarono con il bambino lungo la striscia di sabbia umida e compatta della battigia. Il piccino era appeso alle loro mani e si sporgeva in avanti per osservare i piedini che comparivano e scomparivano come per magia sotto di lui, lanciando grida di trionfo per ciò che stava facendo. La giornata era serena e limpida e i gabbiani, sostenuti dal vento, si libravano sopra le loro teste, sulle ali bianche, rispondendo al bambino con i loro gridi. « Oh, avevo tanti bei vestiti e amici snob. » Storm osservava i gabbiani. « Ho venduto i vestiti e perso gli amici, scoprendo quanto in realtà le due cose non rappresentassero nulla ai miei occhi. Guarda i gabbiani! » disse, rovesciando la testa
« Attraverso le piume distese delle loro ali si vede il sole. Prima ero sempre tanto occupata, da non vedere chiaramente il mondo che mi circonda. Non vedevo me stessa né la gente intorno a me. Ma ora sto imparando a guardare. » « Me ne sono accorto dai tuoi quadri », disse Mark, sollevando John al petto. Stringere a sè quel corpicino frenetico gli dava una sensazione deliziosa. « Hai cambiato soggetto nelle tue opere. » « Voglio diventare una grande artista. » « Credo che lo diventerai. Pensa alla cocciutaggine dei Courteney... » « Noi non otteniamo sempre ciò che vogliamo », rispose Storm, mentre la risacca, ritirandosi, formava una schiuma biancastra intorno ai loro piedi. Il bambino dormiva a faccia in giù sul tappeto di pelle di scimmia, esausto dal sole, dal mare, dal gran giocare e dal pancino pieno. Storm lavorava al cavalletto sotto la finestra. Aveva gli occhi socchiusi e la testa leggermente piegata di lato. « Tu resti il mio modello preferito », disse. « Già, perché costo poco, » Mark replicò con una risata. « Con quello che do io a te potrei essere ricca », gli fece osservare Storm. « Lo sai, no, come si chiamano le signore che lo fanno per soldi? » ribatté Mark con aria svagata, ricadendo poi nel silenzio e abbandonandosi totalmente al piacere di contemplarla. Il silenzio si protrasse per quasi un'ora. Tacevano, ma erano spiritualmente in sintonia. Infine, Mark parlò di nuovo. « So che cosa vuoi dire, quando affermi di vedere più chiaro, adesso. Quella tela li », disse, indicando uno dei dipinti più grandi appoggiati al muro, « quella è probabilmente la cosa migliore che hai fatto finora. » « Mi è dispiaciuto molto venderla... l'uomo che l'ha comperata viene domani. » « Hai venduto dei quadri? » chiese Mark, sorpreso. « Come credi che sopravviviamo, John e io? » « Non lo so. » Non ci aveva pensato. « Immaginavo che tuo marito...» L'espressione del volto di Storm cambiò, diventando tetra. « Non voglio nulla da lui. » E scosse la testa in maniera così violenta che i capelli sciabolarono l'aria come la coda di una leonessa infuriata. « Non voglio niente da lui né dai suoi amici né dagli amici miei, che dicono di volermi tanto bene; tutta quella bella gente che adesso si tiene lontana da me, visto che sono una povera divorziata. Ho imparato molte cose da quando ti ho visto l'ultima volta, e in particolare ho imparato a conoscere quel genere di persone. » « Sono ricchi », le fece rilevare Mark. « Una volta mi dicevi che è molto importante. » La cupezza scomparve dal volto di lei. Si rilassò e lasciò ca-
dere il pennello. « Oh, Mark, ti prego, non farmi rimproveri. Non credo che li sopporterei. » Mark sentì qualcosa che gli si agitava nel petto. Si alzò di colpo, avvicinandosi, la sollevò con un poderoso abbraccio e la portò, tenendola sulle braccia, attraverso la porta protetta da una tenda, nella piccola, buia e fresca camera da letto. Era strano, ma non facevano mai l'amore alla stessa maniera. Tutte le volte scoprivano nuove meraviglie, nuovi desideri condivisi dall'altro, tante piccole cose che li eccitavano entrambi al di là del loro apparente significato. La ripetizione non riusciva né a stancare né a rendere banale la voglia che ognuno aveva dell'altro, e non appena quell'appetito era completamente soddisfatto, il pozzo senza fondo del loro desiderio cominciava di nuovo a colmarsi. Riprendevano subito a sfiorarsi reciprocamente il corpo mentre giacevano insieme, raggomitolati come due cuccioli sonnolenti, e il sudore dovuto agli sforzi appena fatti si asciugava sulla pelle provocando la pelle d'oca intorno alle scure areole dei capezzoli di Storm. Lei sfiorava con un dito la guancia di Mark, accarezzando la barba lunga, simile a carta vetrata, per spingerlo poi sulla sua bocca e costringerlo a voltare la testa per un altro delicato bacio, un semplice sfiorarsi di labbra e un mescolarsi di respiri, in maniera che lui potesse aspirare dalla sua bocca il caratteristico profumo del desiderio, un odore eccitante simile a quello dei tartufi appena portati alla luce, dei funghi. Storm vedeva una nuova scintilla di desiderio brillare negli occhi di lui e si ritraeva con delicatezza per guardarlo, ridendo. Era un riso gutturale, sensuale, poi Storm portava subito la mano dietro alla schiena di Mark e con l'unghia appuntita del dito seguiva il tracciato della sua spina dorsale, provocando tante piccole scosse nei suoi nervi, al punto di fargli inarcare la schiena. « Ti voglio graffiare perché te lo meriti, vecchio gattone libidinoso. » Dalla gola di Storm usciva una specie di ringhio, mentre racchiudeva le dita della mano fino a far assumere a esse le sembianze di artigli leonini con cui gli sfiorò la spalla e subito dopo, con più forza, il ventre, in maniera che le unghie lasciassero tracce rosate sulla pelle. Storm guardava quelle linee rosa con le labbra dischiuse, mentre con la punta della lingua si lambiva la chiostra di denti bianchissimi. I capezzoli le crescevano come germogliando all'improvviso, come sul punto di spaccarsi. Vedeva la direzione dello sguardo di Mark e gli poneva la mano dietro la testa, attirandolo a sè con dolcezza e ritraendo le spalle, in modo da porgere il turgido seno tondeggiante come se stesse compiendo l'offerta sacrificale. Mark trovò qualche grosso gambero squamoso nelle pozzanghere lasciate dall'alta marea. Avevano un odore di alghe e di iodio, sbattevano furiosamente la coda, estendevano e contrae-
vano le zampe, mentre le mandibole multiple delle piccole bocche emettevano bollicine. Mark emerse, grondante acqua salmastra, dalla pozza e porse i gamberi a Storm, seduta sulla sponda rocciosa, che cominciò a gridare per l'eccitazione e afferrò le bestie con precauzione, servendosi del cappello di paglia come di un guanto per difendersi dalle punte e dalle pinze. Mark accese il fuoco preparato in precedenza sulla sabbia, mentre Storm teneva John in grembo per allattarlo attraverso una camicetta sbottonata con discrezione. Nel contempo dava consigli e faceva salaci commenti all'indirizzo di Mark. Mark gettò una manciata di alghe sulle braci, vi adagiò sopra i gamberi e poi li coprì con un altro strato di alghe che a sua volta fu rivestito da uno strato di sabbia. Nell'attesa che i gamberi cuocessero e che John finisse di ingozzarsi rumorosamente, bevettero del vino, osservando lo spettacolo del sole che tramontava. « Dio mio, la natura è davvero un vecchio gigione. Se io lavarassi così, direbbero che non sento i colori e mi consiglierebbero di dipingere scatole per qualche società produttrice di cioccolatini. » Dopo, Storm depose John nella grande cesta che serviva da culla portatile. Mangiarono i gamberi staccando la saporita carne bianca e innaffiandola con sorsi dell'asprigno vino bianco del Capo. Nel cielo buio, le stelle erano tante punte bianchissime, brillanti, e la risacca muggiva formando lunghe strisce fosforescenti. « Com'è meravigliosamente romantico tutto questo. » Storm contemplava lo spettacolo, con le braccia intorno alle ginocchia. A un certo punto volse la testa e sorrise maliziosamente. « E questa è un'allusione, se t'interessa. » Seduti insieme sulla coperta, Storm chiese: « Lo sai che cosa fa certa gente? » « No, che cosa fa certa gente? » Mark sembrava più interessato a ciò che stava facendo che non alle abitudini di gente di cui non gli importava nulla. « Non pretenderai che te lo dica senza perifrasi. » « Perché no? » « Sarebbe maleducato. » « Va bene, dimmelo nell'orecchio. » Storm glielo disse in un bisbiglio, ma era talmente sopraffatta dalla ridarella che lui non fu sicuro di aver capito bene. Lei lo ripetè e Mark ebbe la certezza di aver sentito bene. Era davvero imbarazzato e s'accorse di essere arrossito. « Ma è terribile », replicò Mark con voce roca. « Tu non lo faresti mai! » Tuttavia aveva superato la sorpresa iniziale e l'idea cominciava a interessarlo. « No, naturalmente », bisbigliò Storm, per soggiungere dopo un attimo di silenzio: « A meno che tu non lo desideri, naturalmente ». Seguì un altro lungo silenzio durante il quale Storm fece ul-
teriori indagini. Quindi disse, rompendo ogni indugio: « Ammesso che io sia in grado di esprimere un giudizio, e a questo punto dovrei esserlo, tu lo desideri ». Molto tempo dopo, nudi nell'oscurità, nuotarono insieme verso il largo, al di là del primo formarsi delle onde. L'acqua era tiepida come latte appena munto, e Mark e Storm si fermarono per baciarsi con labbra umide e salmastre. Tornati a riva, Mark riaccese il fuoco e sedettero abbracciati, alla luce giallastra delle fiamme, bevendo ciò che era rimasto del vino. « Mark », disse Storm dopo qualche minuto, e vi era nella sua voce una punta di tristezza che a Mark non era mai capitato di sentire. « Sei con noi ormai da due giorni, due giorni di troppo. Voglio che domani tu te ne vada. Alzati di buon'ora, prima che John e io ci svegliamo. Così non ti vedremo. » Quelle parole lo colpirono come una frustata. La guardò con il viso sconvolto dal dispiacere. « Che cosa stai dicendo? Tu e John mi appartenete. Noi tre ci apparteniamo l'un l'altro, per sempre. » « Non hai capito una parola di quello che ti ho detto, eh? » disse lei con voce sommessa. « Non hai capito quando ti ho detto che dovevo ricostruire la mia fierezza, rimodellare il mio onore? » « Ma io ti amo, Storm. Ti ho sempre amata. » « Tu sei sposato con un'altra donna, Mark. » « Questo non significa niente », obiettò lui. « Sì che importa. » Scosse la testa. « E tu lo sai. » « Lascerò Marion. » « Vuoi divorziare, Mark? » « Sì. » Era disperato. « Le chiederò il divorzio. » « Così potremo essere entrambi davvero fieri. Sarà un ottimo sistema per andare da mio padre. Pensa a come sarà orgoglioso di noi. Sua figlia e il figlio che non ha mai avuto, perché è così che lui ti vede, entrambi divorziati. Pensa al piccolo John. Potrà camminare a testa alta. Pensa a noi due... che bella vita nobile costruiremo sul dolore della ragazza che era tua moglie. » Guardandola negli occhi, Mark vi lesse un orgoglio di ferro e una cocciutaggine d'acciaio. Si rivestì rapidamente al buio e, quando fu pronto, si avvicinò a tentoni alla culla e baciò suo figlio. Il piccolo, che dormiva, emise una specie di gemito. Era tutto tiepido e odorava di latte, come un cucciolo appena nato. Pensò che anche Storm stesse dormendo quando la scavalcò, ma poi si rese conto che giaceva irrigidita con il volto premuto contro il cuscino per soffocare i silenziosi singhiozzi che la scuotevano. Lei non sollevò il volto e Mark la baciò sui capelli e sul il collo. Poi uscì nella notte. La motocicletta si mise in moto al primo colpo e Mark la condusse sul sentiero. Storm, sdraiata al buio, ascoltò il rumore del motore che si affievoliva man mano nella notte e subito dopo sentì solo il
cupo brontolio della risacca e il gracidare delle rane sotto la finestra. Mark era seduto sullo sgabello scolpito, al tramonto, davanti alla capanna di Pungushe e gli chiese per la prima volta qualcosa che gli era rimasto impresso nella mente sin dal loro primo incontro. « Pungushe, raccontami di quando lo Sciacallo ha salvato lo Ngaga dal fiume in piena. » Lo zulu si strinse nelle spalle. « Che cosa c'è da raccontare? Ti ho trovato impigliato tra i rami di un albero trascinato a riva dal fiume... e, se fossi stato furbo, me ne sarei andato, perché tu eri davvero uno Ngaga morto. L'acqua fangosa stava scorrendo sopra la tua testa. » « Hai visto perché ero caduto nel fiume? » Seguì un attimo di silenzio. Pungushe si preparava ad ammettere che non lo sapeva. « Ho pensato che tu fossi stato accecato dalla febbre e fossi caduto nel fiume. » « Non hai visto né l'uomo che ho ucciso né l'uomo che mi ha sparato con il fucile? » Pungushe riuscì a nascondere con discrezione la propria sorpresa, ma scosse la testa. « Poco prima di trovarti nel fiume avevo sentito un rumore di fucili, quattro, forse cinque spari. Dovevate essere tu e l'uomo che ti dava la caccia, ma io non ho visto nessuno e la pioggia aveva cancellato ogni traccia prima di giorno. La piena avrà travolto il cadavere e i coccodrilli lo avranno mangiato. » Seguì un'altra pausa di silenzio, mentre la ciotola della birra passava dall'uno all'altro. « Hai visto l'uomo che ti ha sparato? » chiese Pungushe. « Sì », rispose Mark. « Ma i miei occhi non distinguevano bene a causa della febbre e anche perché, come hai detto tu, stava piovendo. Non l'ho visto bene. » Hobday si trovava all'interno della sala, appoggiato a una parete, lontano dalla calca di uomini eccitati. Se ne stava lì simile a una roccia, solido e irremovibile, con la testa bassa incollata sul collo taurino da lottatore. Aveva gli occhi velati, come se fosse in grado di coprirli con una membrana opaca, similmente ai grandi uccelli da preda. Solo le mandibole erano mosse da un quasi impercettibile movimento masticatorio. Stringeva con forza i denti piatti al punto da gonfiare lievemente le gote. Teneva d'occhio Dirk Courteney all'estremità opposta della sala come un mastino fedele tiene d'occhio il padrone. Alto e gentile, Dirk Courteney si produsse in un'affettuosa stretta di mano con tutti coloro che si fecero avanti per assicurargli il loro appoggio e augurargli buona fortuna. Lo sguardo era calmo e immobile, ma ogni tanto si abbassava fulmineo in direzione dei lunghi tavoli dove venivano contati i voti. Erano rozzi tavoli costruiti alla buona, già utilizzati in mi-
gliaia di convegni parrocchiali e matrimoni. Ora, gli scrutatori seduti davanti a essi aspettavano che le ultime urne, provenienti dalle zone più lontane, venissero portate nel salone della parrocchia di Ladyburg. Poiché l'elettorato di Ladyburg era sparpagliato su una regione molto ampia, alcune delle urne giungevano da distanze di novanta chilometri e più, e, nonostante le votazioni si fossero chiuse la sera precedente, nessun risultato era stato ancora comunicato benché fossero già le undici di mattina. Mark si diresse lentamente verso il punto in cui il generale Sean Courteney era seduto, aprendosi con gentilezza un varco nella folla che si assiepava lungo il cordone di protezione steso intorno alla zona dove si trovavano i tavoli con le urne. Mark e Marion erano arrivati dal Passo Chaka tre giorni prima, proprio per dare una mano nelle elezioni. Le persone disposte ad aiutare non erano mai sufficienti e Marion si era sentita perfettamente a suo agio preparando panini e distribuendo caffè, lavorando con una ventina di altre donne sotto il controllo di Ruth Courteney nelle cucine dietro la sala. Mark aveva perlustrato il distretto del villaggio con altri organizzatori del partito. Con molta energia avevano individuato gli elettori assenti o ricalcitranti, portandoli al seggio elettorale. Era stato un lavoro duro e nessuno di loro aveva dormito molto durante la notte precedente. I balli all'aperto e i barbecue erano continuati fino alle quattro del mattino e, dopo, l'attesa dei risultati li aveva tenuti quasi tutti in piedi. Per Mark, quella faccenda aveva un significato particolare. Ora sapeva con certezza che il futuro da lui sognato per il Passo Chaka sarebbe stato definitivamente compromesso, se Dirk Courteney fosse stato eletto al Parlamento come deputato di Ladyburg. Le speranze avevano segnato alti e bassi durante l'arrivo dei voti. Spesso era sembrato che l'estremità della sala dove i galoppini di Dirk Courteney erano seduti sotto giganteschi manifesti con l'effigie del loro candidato fosse sovraffollata, mentre quella riservata ai seguaci di Sean Courteney appariva deserta. Quando accadeva questo, il cognato di Marion, Peter Botes, si toglieva la pipa dalla bocca e guardava con aria sorniona Mark che stava all'altro capo della sala. Era diventato un seguace entusiasta di Dirk Courteney, registrando un notevole successo professionale negli ultimi sei mesi. Aveva aperto lo studio per proprio conto al primo piano della Ladyburg Farmers Bank. Possedeva una Packard nuova e si era trasferito dal cottage in una bella casa al centro di un ettaro e più di terreno, coltivato a giardino e frutteto. La sera precedente aveva insistito perché Marion e Mark andassero a cena da lui. « La stella vespertina tramonta, caro Mark, e sorge la stella del mattino. Chi è saggio lo riconosce », aveva pontificato tranciando l'arrosto.
« La stella del generale Courteney non è ancora tramontata », aveva ribattuto Mark, cocciuto. « Non ancora », aveva convenuto Peter. « Ma, quando tramonterà, avrai bisogno di amici nuovi. Amici potenti. » « Puoi sempre fare affidamento su di noi », aveva detto la sorella di Marion in tono gentile. « Non dovrete vivere sempre fuori, nella boscaglia. » « Voi non capite », l'aveva interrotta Mark in tono pacato. « Il mio lavoro è là fuori, nella foresta. » « Oh, io non ci farei troppo assegnamento », aveva detto Peter, ammonticchiando fette di arrosto sul piatto di Mark. « Ci saranno dei cambiamenti nel distretto di Ladyburg, quando il signor Dirk Courteney prenderà in mano le redini. Grossi cambiamenti! » « Inoltre non è giusto che la povera Marion debba abitare là fuori. Nessuna donna ci starebbe... » « Oh, io sono molto contenta di andare dove vuole Mark », aveva mormorato Marion. « Non preoccupatevi », li aveva rassicurati Peter. « Vi aiuteremo noi », aveva aggiunto, dando una fraterna pacca sulla schiena di Mark. « Il signor Dirk Courteney ha molta fiducia in Peter », aveva detto sua moglie in tono fiero. Ora, Mark, che stava attraversando la sala per andare dal generale Sean Courteney, sentiva una specie di stretta allo stomaco, dovuta alla paura. Non avrebbe voluto comunicare al generale la brutta notizia di cui era portatore, ma d'altra parte era preferibile che questa gli venisse anticipata in tono gentile da un amico anziché con maligno trionfo da un nemico. Si fermò un istante per osservare da lontano Sean Courteney e provò un senso di compassione e di rabbia. Sean si era ripreso bene dai tempi deprimenti di Emoyeni. Le spalle avevano riguadagnato l'antica possanza e anche le rughe erano scomparse. Si vedeva che era stato di nuovo molto sotto il sole. La pelle del volto era abbronzata e contrastava con la tonalità argentea della barba e dei capelli. Ma, adesso, sembrava di nuovo abbattuto. La tensione degli ultimi giorni aveva inciso sul suo aspetto. Sedeva eretto sulla sedia dallo schienale rigido. Entrambe le mani erano posate sul pomo d'argento del bastone. Con lui c'erano parecchi dei suoi vecchi amici venuti per appoggiarlo. In quel momento stava ascoltando con un'espressione seria sul volto ciò che gli diceva il fratello Garrick, seduto dietro a lui, e annuiva, come per dire che era d'accordo. Mark voleva aspettare ancora, avrebbe voluto ritardare il momento, ma in quell'attimo stesso la gente all'altro capo della sala cominciò a muoversi. Mark vide Peter Botes attraversare frettolosamente la sala in direzione di Dirk Courteney. Aveva la faccia arrossata dall'emozione. Cominciò a parlare in tono concitato, gesticolando, e Dirk Courteney lo ascoltò con aria rapita.
Mark non poteva più aspettare. Si affrettò ad avvicinarsi e Sean lo vide. « Be', ragazzo mio, vieni qua e siediti. Mi dicono che fino a questo momento i risultati sono quasi pari, ma le cifre definitive le sapremo prima di mezzogiorno. » Poi vide l'espressione di Mark. « Che cosa c'è? » domandò in tono aspro. Mark si chinò su di lui, con la bocca che quasi sfiorava la guancia del generale, e la propria voce rauca gli rimbombò nelle orecchie. « La notizia è appena arrivata per telegrafo, generale. Abbiamo perso Johannesburg, Doornfontein e Jeppe... » Erano tutti seggi considerati con certezza appartenenti a Smuts, riservati al Partito Sudafricano sin dall'Unione del 1910. Ora non più. Era un disastro, un'incredibile catastrofe. Sean afferrò l'avambraccio di Mark come se gli chiedesse aiuto, e la mano gli tremava. All'altro capo della sala, la gente prorompeva in urla di giubilo e Mark dovette affrettarsi. « Non è tutto, generale. Persino il generale Smuts ha perso il proprio seggio. » La nazione li aveva respinti. La coalizione del Partito Laburista e del Partito Nazionale sotto Hertzog stava per salire al potere. « Mio Dio », borbottò Sean. « E' accaduto. Non lo credevo possibile! » Continuando a stringere il braccio di Mark, si alzo in piedi. « Accompagnami fino alla macchina, ragazzo. Non credo di essere in grado di congratularmi con il nuovo deputato di Ladyburg. » Ma era troppo tardi. L'annuncio arrivò prima che giungessero all'uscita. Venne dato con voce stentorea dal capo degli scrutatori, sul podio all'estremità della sala. « Signor Dirk Courteney, Partito Laburista Nazionale: 2.683 voti. Generale Sean Courteney, Partito Sudafricano: 2.441 voti. Vi presento il nuovo deputato di Ladyburg... » Dirk Courteney salì con un balzo sul podio, congiungendo le mani sopra la testa come un pugile che abbia vinto l'incontro. « Be'. » Un ghigno contorto era comparso sulle labbra di Sean, la pelle aveva ripreso la tonalità grigiastra e le spalle erano tornate cadenti. « Cosi, il Macellaio di Fordsburg se ne va... » Mark lo accompagnò fuori, in strada, dove aspettava la Rolls. Lo champagne era un superbo Dom Pérignon del 1904, e Sean lo versò di persona, passando claudicante da un ospite all'altro. « Speravo di brindare alla vittoria », disse sorridendo, « ma adesso servirà ad annegare il nostro dispiacere. » Vi erano solo poche persone nel salotto della casa di Lion Kop, e i pochi tentativi per creare un'atmosfera gioviale si disperdevano nell'immensa stanza. Gli ospiti se ne andarono per tempo. Solo la famiglia prese posto a tavola per la cena, con Marion sulla sedia un tempo riservata a Storm, e Mark tra lei e Ruth Courteney. « Be', ragazzo mio che cosa conti di fare ora? » chiese al-
l'improvviso Sean, e Mark lo guardò con sincero stupore. « Torneremo al Passo Chaka, naturalmente. » « Naturalmente. » Per la prima volta in quella giornata tetra, un caldo e spontaneo sorriso apparve sulla faccia di Sean. « Lo stupido sono io, a pensare che potrebbe essere diversamente. Ma ti rendi conto di che cosa questa... » Sean fece un gesto con la mano, incapace di pronunciare la parola « disfatta », « ... tutto questo potrebbe significare per te? » « Sissignore. Ma lei continua anche adesso a esercitare un'enorme influenza. Abbiamo la nostra Associazione... possiamo batterci. Dobbiamo lottare per conservare il Passo Chaka. » « Sì », annuì Sean, e un rapido lampo accese gli occhi del vecchio. « Combatteremo, ma immagino che sarà una lotta dura e sporca. » All'inizio non vi fu alcun segno di nubi in procinto di addensarsi nel cielo azzurro sopra il Passo Chaka. L'unico cambiamento consisteva nel fatto che Mark doveva sottoporre la propria relazione mensile non a Sean Courteney bensì al nuovo Ministro del Territorio, Peter Grobler, un uomo dedito anima e corpo a Hertzog. Il ministero prendeva formalmente atto delle relazioni e continuava a pagargli con regolarità lo stipendio, finché una breve lettera avvertì Mark che tutta la questione delle zone protette sarebbe stata riesaminata a livello di gabinetto e che nuove leggi sarebbero state promulgate nella prossima sessione del Parlamento. La sua nomina a conservatore della zona protetta doveva essere considerata temporanea, senza diritto a un trattamento di quiescenza. Mark poteva perdere il posto da un momento all'altro con un mese di preavviso. Continuò a lavorare imperterrito, ma trascorse molte serate al lume della lanterna per scrivere al generale Courteney. Entrambi stavano progettando una campagna a largo respiro per ridestare l'interesse dell'opinione pubblica per il Passo Chaka, ma, quando Marion se n'era andata a letto nella stanza accanto, Mark prendeva un foglio bianco per scrivere anche a Storm e confidarle ogni suo pensiero, ogni suo sogno, tutto il suo amore. Storm non rispose mai alle sue lettere. Mark non sapeva nemmeno se lei si trovasse ancora nel cottage con il tetto di paglia a ridosso della spiaggia, ma immaginava che fosse lì e la pensava spesso durante il giorno e la notte. Gli pareva di vederla ferma davanti al cavalletto, intenta a dipingere, o a passeggiare lungo la spiaggia con il piccolo John. Una notte, in particolare, si svegliò e immaginò di vederla nella minuscola stanza da letto con le persiane chiuse. Teneva il bambino al seno, e l'immagine fu così nitida e al contempo così dolorosa per lui da impedirgli di riprendere sonno. Si alzò con circospezione, lasciò un breve biglietto per Marion che dormiva profondamente, uscì e cominciò a risalire la valle, con Pungushe davanti a Trojan. Marion si svegliò un'ora dopo che lui se n'era andato, e il
suo primo pensiero fu che, se anche quella mattina non avesse avuto segni contrari, la cosa si sarebbe potuta considerare ormai certa. Aveva atteso per settimane di avere l'assoluta certezza prima di dirlo a Mark. Aveva temuto che parlarne troppo presto le avrebbe portato sfortuna. Si lasciò scivolare dal letto ed attraversò la stanza ancora buia per andare in bagno. Quando ritornò dopo qualche minuto, avrebbe voluto abbracciare se stessa per l'esultanza. Accese la candela accanto al letto, per vedere la faccia di Mark quando glielo avrebbe detto. Fu una grossa delusione per lei trovare il letto vuoto e disfatto e il biglietto appoggiato al cuscino, ma il malumore le passò subito grazie al suo carattere mite. « Così avrò più tempo per godermi la notizia tutta da sola », disse ad alta voce, per soggiungere subito dopo, sempre ad alta voce: « Harold... Harold Anders? No, è troppo banale. Dovrò farmi venire in mente un nome davvero bello. » Cominciò a canticchiare, felice, mentre si vestiva, per uscire poi sul retro della casa. Era una mattinata tranquilla, fresca, e il cielo aveva un colore rosa-latteo. Un babbuino lanciava il suo richiamo dai roccioni del Passo Chaka e i brevi gridi risuonavano nella valle come un saluto al sole nascente, che conferiva un bronzeo splendore alle alture. Faceva piacere sentirsi vivi in una giornata del genere, con un bambino che cresceva nel ventre, pensò Marion, e si propose di fare qualcosa di speciale per festeggiare l'occasione. Sul foglietto Mark aveva scritto che sarebbe tornato all'imbrunire « Preparerò del pane fresco nel forno e... » Voleva qualcosa di davvero speciale per quel giorno. Poi le venne in mente che era piovuto cinque giorni prima. Dopo la pioggia dovevano essere spuntati quei funghi dal cappello brunastro e attaccaticcio. Erano i preferiti di Mark, che le aveva insegnato quando e dove trovarli. Consumò la prima colazione distrattamente, tenendo davanti a sé, appoggiata al vaso della marmellata, la copia della rivista alla quale era abbonato Mark, Il Melico in Casa, per rileggere la rubrica intitolata « La mamma in attesa ». Poi cominciò a sbrigare le faccende di casa, contemplando con fierezza e soddisfazione la limpidezza dei pavimenti in cemento, la patina lucida che aveva saputo conferire ai semplici mobili di legno, i fiori campestri nei loro vasi. Lavorando, cantava, e a un certo punto proruppe in una risata senza motivo. A metà mattinata si allacciò sotto il mento le stringhe della cuffia che doveva proteggerla dal sole, mise una bottiglia di Chamberlain's Superior, un rimedio popolare contro la diarrea, nel cestino e cominciò a risalire la valle. Si fermò al kraal di Pungushe e la moglie più giovane la condusse a vedere il bambino più piccolo. Marion constatò con sollievo che il piccino stava meglio e la moglie di Pungushe le assicurò di avergli dato molto liquido da bere. Marion lo prese
in grembo e gli fece ingurgitare una cucchiaiata di medicinale diluito, nonostante le violente proteste del piccolo. Dopo, le cinque donne rimasero sedute al sole e parlarono di bambini, uomini e parti, di malattie, alimenti e vestiti, e di tutte le altre cose che assorbono la vita di una donna. Era trascorsa quasi un'ora quando lasciò le quattro donne zulu e scese verso il fiume. Il rovescio di pioggia aveva impensierito la leonessa. L'istinto le diceva che non era stato che un preludio ai futuri grandi temporali. La boscaglia nella valle non era più il rifugio adatto per i suoi cuccioli. Le piogge avrebbero presto trasformato lo scosceso e stretto canalone in un impetuoso torrente. Due volte già aveva tentato di portar via i piccoli, ma questi erano cresciuti ed erano diventati più tenaci e cocciuti. Restavano aggrappati alla dimora in mezzo ai cespugli spinosi e tutti gli sforzi della madre erano risultati vani. Appena lontani mezzo chilometro, l'uno o l'altro dei piccoli paurosi voltava le terga e tornava di corsa a quella che considerava la propria casa. Non appena la leonessa si voltava per riacciaffare il fuggiasco, il suo gesto provocava una precipitosa diserzione in massa, e dopo cinque minuti tutti erano tornati all'antica dimora. La leonessa era disorientata. Era la prima volta che aveva i cuccioli, ma seguiva il proprio istinto. Sapeva che era venuto il momento di svezzare i piccoli, di portarli lontano dalla trappola rappresentata dallo stretto canalone, di cominciare a insegnare a essi la caccia, ma era resa impotente dalle dimensioni della sua famiglia. Sei cuccioli in una volta erano una rarità nella foresta. Fino a quel momento, nessun cucciolo era andato perduto e la sua famiglia era troppo impegnativa. L'istinto, comunque, la indusse ad agire nel bel mezzo di quella mattinata fresca e serena. Sentiva le piogge in arrivo e tentò di nuovo il trasloco. I piccoli la accompagnarono sgambettandole accanto, facendo dei ruzzoloni e fingendo di azzannarsi, fino al fiume. Era un terreno che conoscevano, per cui seguirono felici la madre. Quando la leonessa s'inoltrò sulla riva di sabbia bianca, allo scoperto, in direzione della sponda opposta, si verificò immediatamente la solita crisi di sfiducia. Tre piccoli la seguirono, due si fermarono indecisi in cima alla ripida sponda, uggiolando preoccupati, mentre il sesto voltava le terga e risaliva di corsa il canalone dirigendosi verso il cespuglio. La leonessa lo inseguì al galoppo e lo fece cadere sulla schiena. Poi lo afferrò per la collottola e lo sollevò. I cuccioli erano ormai grandi e, benché essa lo avesse sollevato il più alto possibile, il piccolo strisciava sulle irregolarità del terreno. Il cucciolo contrasse le zampe e strinse la coda tra quelle posteriori, chiudendo gli occhi e rimanendo appeso alla bocca della leonessa mentre essa lo riportava verso il letto del Bubezi. Il fiume era largo cinquecento metri in quel punto e quasi completamente asciutto, visto che la stagione secca stava per
terminare. C'erano ancora alcuni specchi d'acqua verdastra profondi tra i banchi di sabbia candidi come la neve, e queste pozze erano collegate da piccoli ruscelli di acqua limpida e calda, profondi solo pochi centimetri. Mentre cinque cuccioli assistevano, in preda all'indecisione, alla scena dalla sponda più vicina, la leonessa attraversò con il sesto il fiume, trascinandolo semimmerso nell'acqua, cosicché la bestiola cominciò a soffiare e a divincolarsi, indignato. Poi la leonessa risalì al trotto la sponda opposta e trovò una fitta macchia di wit-el, dove lo lasciò cadere. Si volse per andare a prendere un altro cucciolo, ma quello già sistemato le corse dietro, in preda al panico. La leonessa dovette fermarsi e dargli delle zampate sulle orecchie, ringhiando, finché il piccolo guaì e cadde sulla schiena. La madre lo afferrò per la collottola e lo trascinò di nuovo nella macchia di wit-el. Quando fu sul punto di riattraversare il fiume, si ritrovò di nuovo il cucciolo alle calcagna. Questa volta lo aggredì con vera violenza e lo ricondusse nella macchia. Gli mordicchiò i quarti posteriori finché la bestiola si distese piatta sul suolo, così mortificata e sottomessa da non avere più il coraggio di seguirla. Rimase sdraiata sotto il cespuglio a guaire sommessamente. Marion non s'era mai allontanata tanto, da sola, dal cottage, ma quella era una mattinata così meravigliosa, calda, limpida, pacifica e tranquilla, che lei continuò a camminare incantata e felice come mai le era capitato in passato. Sapeva che non poteva perdersi finché avesse seguito la sponda del fiume, e Mark le aveva insegnato che la boscaglia africana è un posto più sicuro per andare a zonzo delle strade di una città. Bastava osservare alcune regole, del resto molto semplici. Alla confluenza dei due fiumi si fermò per pochi minuti a osservare una coppia di falchi pescatori, appollaiati sull'orlo del loro misero nido posto alla biforcazione di un ramo di leadwood. Le teste bianche dei due uccelli brillavano come due fari, in contrasto con le piume rossicce, e Marion credette di percepire il cinguettio della nidiata all'interno della coppa di paglia intrecciata. Il rumore degli uccellini la rese ancora più conscia della vita nel proprio grembo. Rise e continuò a scendere lungo il ramo del Bubezi Rosso. A un certo punto, un corpo pesante cadde di schianto nel vicino sottobosco, e subito dopo si udì un rumore di zoccoli sul terreno sassoso. Marion fu percorsa da un brivido di paura, ma poi, tornato il silenzio, riprese coraggio, fece una risata un pò forzata e continuò a camminare. L'atmosfera calma e calda era pervasa da un profumo dolce, simile a quello di una rosa in piena fioritura, e lei lo seguì, perdendone due volte la traccia, ma incontrando alla fine un serto di liane che pendeva dal tronco di un grande albero morto. Le foglie erano di un verde scuro e lucido, e i grappoli di fiori
di un giallo pallido. Marion non aveva mai visto una pianta del genere, come non aveva mai visto i sunbirds. Erano uccellini minuscoli che sfrecciavano senza posa per ogni dove, con piume lucide, variopinte, dall'aspetto metallico, molto simili ai calibri americani. Le bestiole si avventavano con i loro becchi snelli e ricurvi sui fiori profumati. Le loro piume assumevano tinte incredibili sotto la luce del sole, passando dal verde-smeraldo al blu-zaffiro, dall'antracite al rosso-sangue. Conficcavano il becco profondamente nelle gole spalancate dei fiori gialli per succhiare le grosse gocce di nettare con l'aiuto delle lingue cave e tubolari. Marion si fermò deliziata a contemplarli, allontanandosi solo dopo parecchio tempo. Trovò i primi funghi un pò più avanti e s'inginocchiò per staccare i gambi rasoterra, avvicinando poi la pianta carnosa a forma di ombrello al viso per inalare l'inebriante profumo di muschio, prima di deporla con cura, cappello in alto, nel cestino, in maniera che la terra non penetrasse nelle lamelle delicate. Raccolse una ventina di funghi in quel punto, ma sapeva che sarebbero molto rimpiccioliti durante la cottura. Poi si avviò verso lo scosceso pendio della riva. Un soffio nelle immediate vicinanze la fece sobbalzare. Il suo primo pensiero fu che si trattasse di un serpente, di uno di quei grossi rettili gonfi, con macchie gialle e color cioccolato sulla schiena e testa piatta e squamosa, una vipera soffiante. Marion cominciò ad arretrare con cura, tenendo lo sguardo fisso sulla macchia di wit-el dalla quale proveniva il rumore. Vide qualcosa muoversi, ma le ci volle qualche secondo per rendersi conto di ciò che vedeva. Il leoncino era disteso sulla pancia all'ombra del cespuglio e le sue macchie pomellate da cucciolo si accordavano meravigliosamente con la coltre di foglie secche sulla quale era disteso. Il cucciolo aveva già appreso la prima lezione di mimetizzazione: rimase perfettamente immobile e solo le due orecchie tonde si muovevano avanti e indietro, rivelando chiaramente ogni emozione ed intenzione. Fissava Marion con i grandi occhi tondi, non ancora con l'iride ferocemente gialla dell'animale adulto, ma velati da quella sorta di smalto azzurrastro proprio dei cuccioli. I baffetti erano irti e le orecchie segnalavano una serie di messaggi contrastanti. Orecchie appiattite sul cranio: provati a fare un altro passo e ti farò a pezzi. Orecchie di traverso: provati a fare un altro passo e morirò di paura. Orecchie ritte e rivolte in avanti: chi diavolo sei, dopo tutto? « Oh », esclamò Marion. « Quanto sei carino. » Depose il cestino e si chinò, stendendo una mano e facendo versi come si fa con i bambini. « Ma guarda che carino. Sei tutto solo, povero piccolo? » Poi cominciò ad avanzare lentamente, sempre parlando e facendo versi.
« Nessuno ti farà del male, piccino. » Il cucciolo era incerto sul da farsi. Fissava Marion, mentre le orecchie esprimevano curiosità e indecisione. « Sei proprio solo? Sarai un magnifico amico per il mio bambino, vero? » Marion si avvicinò sempre più e il leoncino la mise in guardia con un soffio non proprio convinto. « Come siamo vispi », disse Marion sorridendo, e si accosciò ad un metro di distanza dal cucciolo. « Come dobbiamo fare per portarti a casa? » chiese Marion. « Riuscirai a stare nel cestino? » Da basso, nel letto del fiume, la leonessa attraversava i punti guadabili con il secondo cucciolo appeso alla bocca. Era seguita da uno degli eroi della cucciolata che avanzava coraggiosamente nella profonda sabbia bianca. Però, non appena questo raggiunse il limite del poco profondo rivolo d'acqua e allungò la zampetta per vedere di che cosa si trattava, il coraggio appena trovato gli venne meno e sedette sulle zampe posteriori, prorompendo in un amaro pianto. La leonessa, a questo punto ormai rabbiosa per i continui andirivieni, tornò indietro mollando il proprio carico, che si diresse immediatamente, con un disordinato galoppo, di nuovo verso la macchia di cespugli spinosi. La madre afferrò invece l'eroe piangente e riattraverso al trotto il fiume, puntando decisamente verso la sponda opposta. Le sue enormi zampe non facevano alcun rumore quando toccavano la soffice terra, mentre risaliva la sponda portando in bocca il cucciolo. Marion udì quello strano rumore alle proprie spalle e balzò in piedi in un attimo, voltandosi. La leonessa era accovacciata al margine della sponda, a una cinquantina di metri di distanza, e la mise in guardia di nuovo con quel terribile soffio. Marion vide una cosa sola: gli occhi, occhi gialli e furenti, feroci, terrificanti. Urlò, e il suo fu un urlo selvaggio di crescente intensità. L'urlo indusse la leonessa a caricare. Arrivò con una velocità incredibile, che la trasformò in una macchia gialla. Toccò terra e la sabbia schizzò sotto le zampe dagli artigli sfoderati. Il muso era contratto, con le fauci spalancate in un silenzioso ringhio; le lunghe zanne bianche e appuntite bene in mostra. Marion si voltò per fuggire, ma non riuscì a fare cinque passi che la leonessa le fu addosso. Con una zampata al fondo schiena, l'animale la atterrò, e i cinque artigli gialli e ricurvi penetrarono in profondità nella carne, aprendo come una sciabolata pelle e muscoli, stritolando le vertebre e facendo scoppiare all'istante entrambi i reni. Quel colpo avrebbe ammazzato persino un bue. Marion fece un volo di vari metri e, quando cadde sulla schiena, la leonessa le fu di nuovo addosso.
Le fauci erano spalancate e le lunghe zanne facevano corona alla caverna umida e rosea formata dalla lingua e dalla gola. In quell'istante di acuita percezione, Marion distinse le lisce venature della carne rosea che costituiva il tetto arcuato delle fauci della leonessa e avvertì l'odore carnoso del fiato della bestia. Marion rimase contorta sotto il grande felino giallo. Continuava a urlare e la parte inferiore del suo corpo giaceva in una posizione bizzarra a causa della colonna vertebrale spezzata. Tuttavia riuscì a sollevare entrambe le braccia per proteggersi il volto. La leonessa azzannò gli avambracci subito sotto i gomiti e le ossa si spezzarono con uno schianto, formando un ammassa sanguinolento di muscoli e schegge. Entrambe le braccia erano quasi recise. Poi la leonessa azzannò Marion alla spalla e cominciò a dilaniarla finché i lunghi incisivi non riuscirono a penetrare la massa di ossa frantumate, di grasso e di tessuto... e Marion continuava a urlare, contorcendosi e dimenandosi sotto il felino. La leonessa si concesse molto tempo per ucciderla, confusa essa stessa dalla rabbia che la pervadeva e dal gusto e dalla forma poco familiari della vittima. Continuò a mordere e strattonare per quasi un minuto prima di trovare la gola. Quando infine la leonessa si rizzò sulle zampe, aveva la testa e il collo ridotti a una maschera purpureo, col pelo intriso di sangue e appiccicoso. La coda continuava a sciabolare l'aria per un residuo di furore, poi la bestia si leccò la faccia con la lunga lingua agile e le sue labbra si contrassero allorché percepirono lo strano sapore dolciastro. Si pulì il muso con cura prima di ritornare dal suo cucciolo e cominciare a leccare anche il piccolo con lunghe carezze avvolgenti della lingua. Il corpo spezzato e dilaniato di Marion rimase dove la leonessa lo lasciò fino a quando giunsero, poco prima del calar del sole, le mogli di Pungushe Mark e Pungushe attraversarono il fiume al buio, con il chiarore lunare che conferiva una tinta spettrale, grigia, ai banchi di sabbia. L'astro, bianco e tondo, si rifletteva perfettamente nella immobile superficie dello specchio d'acqua sotto l'accampamento principale. Quando attraversarono a guado quel punto, l'immagine della luna sull'acqua si dissolse in una miriade di punti luminosi, come un bicchiere di cristallo scaraventato su un pavimento di pietra. Mentre risalivano la sponda, udirono nella notte il lamento funebre, quella terribile litania con la quale le donne zulu piangono i loro morti. I due uomini si fermarono involontariamente, entrambi impauriti. « Vieni! » gridò Mark, togliendo un piede dalla staffa. Pungushe si afferrò alla sella e balzò in groppa al mulo, che Mark sferzò per condurlo al galoppo. E al galoppo risalirono l'altura.
Il fuoco che le donne avevano acceso lanciava grotteschi bagliori giallastri, creando sinistre ombre frementi. Le quattro donne erano sedute attorno al lungo fagotto avvolto in coperte di pelle di scimmia. Nessuna di esse alzò lo sguardo quando i due uomini entrarono correndo nel cerchio di luce creato dal falò. « Chi è? » chiese Mark. « Che cosa è successo? » Pungushe afferrò la moglie più anziana alle spalle e cominciò a scuoterla, tentando di distoglierla dall'isterismo del rito funebre, ma Mark, impaziente, si fece avanti e sollevò un lembo della coperta. Guardò per un momento senza capire, senza riconoscere. Poi, improvvisamente, si sbiancò in viso, si voltò e corse verso il buio. Qui cadde in ginocchio e si sporse in avanti per vomitare l'amara bile dell'orrore. Mark portò Marion a Ladyburg, avvolta in un grande telo e sistemata nella carrozzella dell'Ariel. Rimase in città per assistere al funerale e subire le recriminazioni della famiglia di lei. « Se solo non l'avessi portata con te nella foresta... » « Se solo fossi rimasto con lei... » « Se solo... » Il terzo giorno tornò al Passo Chaka. Pungushe lo stava aspettando al guado del fiume. Sedettero insieme al sole sotto la rupe, e quando Mark porse a Pungushe una sigaretta, questi strappò con cura il bocchino di sughero. Poi cominciarono a fumare in silenzio. Quindi Mark chiese: « Hai letto i segni, Pungushe? » « Ho letto, Jamela. » « Dimmi che cos'è successo. » « La leonessa stava spostando i suoi piccoli, portandoli uno alla volta attraverso il fiume dalla macchia dei cespugli spinosi. » Un pò alla volta, con precisione, Pungushe ricostruì la tragedia in base alle tracce trovate sul terreno che aveva esplorato durante l'assenza di Mark. « Dov'è andata ora? » chiese Mark in tono sommesso. « Ha portato i piccoli verso settentrione, ma lentamente, e tre giorni fa. Il giorno dopo... » Punaushe esitò. « Il giorno dopo quello in cui accadde la cosa, ha ammazzato un impala maschio e i cuccioli hanno mangiato un pò con lei. Comincia a svezzarli. » Mark si alzò. Insieme guadarono il fiume e risalirono lentamente attraverso la boscaglia fino al cottage. Mentre Pungushe attendeva sulla veranda, Mark entrò nella piccola casa deserta. I fiori di campo erano morti e si erano essiccati nei vasi, conferendo alla stanza un aspetto triste e disperato. Mark cominciò a raccogliere gli oggetti appartenuti a Marion, i suoi vestiti e i gioielli, di scarso valore, ma ai quali lei teneva tanto, i suoi pettini, le sue spazzole e anche i pochi
vasetti di cosmetici, gelosamente custoditi. Raccolse con cura tutto e lo pose nella valigia più grande per portarla alla sorella di lei. Quando ebbe finito, portò fuori la valigia e la chiuse a chiave nel ripostiglio degli attrezzi. Era un ricordo troppo penoso perché potesse tenerlo in casa con sé. Quindi tornò dentro e si sfilò l'abito buono. Staccò il Mannlicher dalla rastrelliera e lo caricò con cartucce dal bossolo di rame, tolte da un pacco nuovo. I bossoli giallastri luccicavano sotto il sottile velo protettivo di cera. Le pallottole avevano la punta in metallo duttile, in maniera da assicurare il massimo effetto al momento dell'impatto. Quando uscì sulla veranda con il fucile in mano, Pungushe lo stava ancora aspettando. « Pungushe », disse, « abbiamo un lavoro da compiere, adesso. » Lo zulu si alzò lentamente e per un attimo i due uomini si fissarono negli occhi. Poi, Pungushe abbassò lo sguardo e annuì. « Segui le orme », ordinò Mark con voce sommessa. Trovarono il punto in cui la leonessa aveva ammazzato l'impala, ma gli spazzini della foresta avevano già ripulito il posto in maniera perfetta. Rintracciarono qualche frammento d'osso caduto dalle fauci delle iene, qualche ciuffo di peli, qualche lembo di pelle già secca e una parte del cranio, con le corna nere contorte, ancora intatta. Ma le orme erano ormai svanite. Il vento e le zampe degli spazzini, sciacalli e iene, avvoltoi e marabù, avevano cancellato ogni traccia. « Continuerà ad andare a nord », disse Pungushe. Mark non gli chiese come lo sapesse, perché lo zulu non sarebbe stato in grado di dargli una risposta. Lo sapeva e basta. Ripresero a salire lentamente la valle. Pungushe camminava davanti al mulo spostandosi a destra e a sinistra, cercando attentamente le tracce, e al secondo giorno le trovò. « A questo punto ha fatto dietrofront. » Pungushe si piegò sulle ginocchia al di sopra dei segni lasciati dalle grosse zampe della leonessa e da quelle minuscole dei cuccioli. « Credo che stesse tornando in direzione dell'Usutu. » Annuì, guardando le orme e sfiorandole con il sottile giunco che teneva in mano. « Stava portando indietro i piccoli, ma poi ha cambiato idea. Si è diretta verso meridione e dev'essere passata vicino al posto dove ci siamo fermati la notte scorsa. Ha deciso di restare nella valle. La considera ormai sua e non la lascerà più. » « No », convenne Mark con aria tetra. « Non la lascerà più. Continua a seguire le orme, Pungushe. » La leonessa camminava piano e, col passare delle ore, le orme diventavano sempre più nitide. Trovarono il luogo in cui aveva dato la caccia a qualche animale, senza risultato. Pungushe indicò il punto in cui la leonessa si era appostata e i segni degli artigli che si erano conficcati profondamente nella terra quando aveva spiccato il balzo per piombare sulla schiena di qualche zebra. Venti passi più in là era caduta pesantemente a terra,
costretta a lasciare la preda che scalciava disperata. La leonessa aveva colpito il suolo con una spalla, disse Pungushe, e la zebra era scappata, pur sanguinando a causa delle ferite provocate dagli artigli. La leonessa si era allontanata zoppicando per sdraiarsi sotto un'acacia spinosa, dov'era rimasta per molto tempo prima di alzarsi e tornare lentamente verso il punto in cui aveva lasciato i cuccioli. Probabilmente si era procurata degli strappi muscolari o qualche lesione durante la caduta. « Quando la raggiungeremo? » chiese Mark con il volto impietrito dal desiderio di vendetta. « Forse prima del calar del sole. » Poi, però, persero due ore su una cresta rocciosa e Pungushe dovette estendere la sua esplorazione a largo raggio e dar prova di tutta la sua abilità per ritrovare le orme là dove queste piegavano verso ponente, in direzione della scarpata. Pungushe e Mark si distesero per la notte accanto alle orme lasciate dalla leonessa e accesero solo un debole focherello, rimanendo adagiati sulla terra nuda. Mark non dormì. Incapace di prender sonno, giaceva sulla schiena e osservava la luna che si affacciava a tratti tra le cime ondeggianti degli alberi. Solo quando Pungushe cominciò a parlare in tono pacato, egli si rese conto che anche lo zulu era sveglio. « I cuccioli non sono ancora svezzati », disse. « Ma ci vorrà molto tempo prima che muoiano. » « No », replicò Mark. « Ammazzerò anche loro. » Pungushe si sollevò a metà, annusò un pò di tabacco appoggiandosi sul gomito, e cominciò a fissare le braci del fuoco. « Ha assaporato il sangue umano », disse poi Mark. Benché furioso e addolorato, intuiva la tacita disapprovazione di Pungushe e voleva giustificarsi per quanto stava per fare. « Ma non ha mangiato », gli fece rilevare Pungushe. Mark ebbe di nuovo un conato di nausea e risentì in bocca quel sapore amaro, al ricordo delle terribili mutilazioni, ma Pungushe aveva ragione, la leonessa non si era nutrita di quelle povere carni dilaniate. « Era mia moglie, Pungushe. » « Sì », rispose Pungushe annuendo. « E' così. Ma lui era il suo cucciolo. » Mark rifletté su quelle parole e per la prima volta si senti incerto sul da fare. La leonessa aveva obbedito a uno dei più antichi istinti degli esseri viventi, quello di proteggere i propri piccoli... ma lui, Mark, invece, perché voleva farlo? « Devo ammazzarla, Pungushe », disse in tono deciso. Avvertì qualcosa di viscido e osceno nel ventre. Era la prima volta che provava una simile sensazione e tentò di negarne a se stesso l'esistenza. Marion era morta. La dolce, fedele Marion, sempre così pronta a fare il proprio dovere, la migliore moglie che qualsiasi uomo potesse mai desiderare. Aveva perso la vita in una maniera terribile, che sfuggiva a ogni descrizione... e adesso Mark era solo. Si chiese se la parola « solo » non gli fosse venuta in
mente con troppa facilità. Improvvisamente vide davanti a sé l'immagine di una bella ragazza snella, abbronzata, e di un allegro bambinetto nudo, passeggio al calar del sole sulla riva del mare. Il senso di colpa, quella cosa viscida, cominciò a srotolarglisi nel ventre e ad agitarsi come un serpente, e Mark non riusciva a tenerlo a bada. « Deve morire », ripetè. Forse, anche il suo senso di colpa sarebbe morto nello stesso processo purificatore. « Molto bene », convenne Pungushe. « La troveremo domattina, prima di mezzogiorno. » Si distese di nuovo sulla terra, coprendosi la testa con il cappuccio di pelle di scimmia e, da sotto, la sua voce emerse attutita, quasi incomprensibile. « Cerchiamo di raggiungere in fretta il grande vuoto, adesso. » Trovarono la leonessa la mattina dopo, per tempo. Si era avvicinata alla base delle alture che formavano la scarpata e quando la prima calura del giorno aveva cominciato a esercitare il suo effetto sui piccoli che la seguivano stanchi e sconsolati, aveva scelto una rigogliosa acacia a ombrello e si era sdraiata sul margine dell'ombra, esponendo al sole la soffice peluria color crema del ventre sul quale spiccavano due file di capezzoli scuri. I cuccioli erano ormai sazi, solo due dei più voraci continuavano a succhiare energicamente. Avevano i pancini già gonfi e l'atto dell'inghiottire sembrava quasi forzato. L'instancabile cacciatore di code stava ora concentrando tutti i propri sforzi sulla lunga appendice della madre, che sottraeva abilmente il ciuffo di peli neri all'estremità proprio nell'istante in cui il cucciolo passava all'attacco. Gli altri tre lottavano contro il sonno con violente esplosioni di energia non aventi alcun obiettivo particolare. Poi cedettero lentamente, sollecitati dalle palpebre che si abbassavano e dai pancini troppo gonfi, finché rimasero immobili formando un disordinato mucchietto di peli vaporosi. Mark si trovava sottovento a una distanza di poco superiore ai cento metri. Era sdraiato ventre a terra dietro un piccolo formicaio. Gli ci era voluta quasi un'ora per avvicinarsi tanto. L'acacia sorgeva al centro di una radura erbosa e Mark era stato costretto ad avvicinarsi strisciando, facendo forza sui gomiti, con il fucile posato nella piega interna del braccio. « Possiamo avvicinarci ancora? » chiese Mark, con un bisbiglio che era quasi un soffio. La bassa erba giallastra era appena sufficiente per celare alla vista il felino sdraiato sul fianco. « Jamela, io potrei avvicinarmi abbastanza per toccarla... » Calcò con enfasi sulla parola « io », lasciando sospeso il resto della frase. Attesero così, sotto il sole, per un'altra ventina di minuti fino a quando la leonessa alzò la testa. Forse un profondo istinto di sopravvivenza radicato in lei l'aveva messa in guardia, segnalandole la presenza dei cacciatori. La testa si erse all'improvviso, simile a una macchia gial-
la, con la straordinaria velocità di cui sono capaci i grandi felini. Gli occhi frugavano la zona sottovento, il settore più pericoloso. Continuò a osservare a lungo con gli occhi gialli fissi e spalancati, senza batter ciglio. Due dei cuccioli intuirono che la madre era preoccupata e si rialzarono, assonnati, in attesa, come lei. Mark sentiva che la leonessa lo stava fissando, ma obbedì alla legge dell'assoluta immobilità. Gli sarebbe bastato alzare il Mannlicher perché essa scomparisse fulmineamente. A un certo punto, la leonessa lasciò ricadere la testa e si appiattì al suolo. « E' inquieta », lo mise in guardia Pungushe. « Non possiamo avvicinarci di più. » « Non posso sparare da qui. » « Aspetteremo », disse Pungushe. I cuccioli ora dormivano tutti e la leonessa sonnecchiava, ma con i sensi sempre all'erta. Le narici annusavano attentamente ogni alito di vento per scoprirvi eventuali tracce di pericolo, le grandi orecchie tonde si muovevano in continuazione per captare ogni minimo rumore. Mark era sempre disteso sotto il sole e il sudore cominciò a bagnargli la camicia. Una mosca tse-tse gli si posò dietro l'orecchio e lo morse sul collo, ma lui non fece alcun movimento. Ci volle un'ora perché la buona occasione si presentasse. La leonessa si erse all'improvviso in tutta la sua statura e sciabolò l'aria con la coda. Era troppo irrequieta per restare più a lungo sotto quell'acacia. I piccoli si alzarono a loro volta, ancora assonnati, e la guardarono con espressioni perplesse e contrariate. La leonessa mostrava a Mark il fianco. Teneva la testa bassa e aveva le fauci appena spalancate. Ansimava per la calura. Mark era abbastanza vicino per scorgere i punti neri delle mosche tse-tse sulla sua groppa. L'animale era ancora in ombra, ma la sua figura si stagliava sullo sfondo di erba giallastra. Era un bersaglio ideale. Il cacciatore doveva puntare il mirino sull'articolazione della zampa anteriore e spostarlo di una spanna verso l'interno. La pallottola avrebbe perforato entrambi i polmoni. Una spanna più sotto, avrebbe centrato il cuore. I polmoni erano un buon bersaglio, ma il cuore assicurava una fine più rapida. Mark scelse il cuore e portò il calcio del fucile alla spalla. La sicura era stata spostata già da un pezzo sulla posizione di fuoco. Mark sfiorò il grilletto facendolo arretrare fino al limite di sparo. La più lieve pressione avrebbe fatto partire il colpo. La pallottola era piuttosto pesante e il rivestimento di bronzo era sormontato da una capsula di piombo che si sarebbe aperta a ventaglio al momento dell'impatto, aprendo un profondo squarcio nella cavità toracica dell'animale.
La leonessa chiamò i cuccioli con un lieve ruggito ed essi si radunarono obbedienti ai suoi piedi, ancora assonnati e malfermi sulle zampe. Quindi uscì alla luce del sole procedendo con la sinuosa andatura dei felini. La testa piegava a destra e a sinistra a ogni passo, l'estremità posteriore del corpo ondeggiava da una parte all'altra e i fianchi ben sviluppati mettevano in rilievo la graziosa sagoma del corpo. « No », pensò Mark. « Sparerò ai polmoni. » Sollevò il mirino, puntando sempre a dieci centimetri di distanza dall'articolazione e spostando la canna per seguire l'animale che si era messo al trotto. I cuccioli seguivano la leonessa in disordine. Mark continuò a tenerla inquadrata nel mirino finché la leonessa raggiunse il limite della boscaglia, per scomparire nell'attimo successivo tra gli alberi con un movimento quasi impercettibile, simile a una zaffata di fumo trascinata dal vento. Quando la bestia fu scomparsa, Mark abbassò l'arma, continuando a tenere lo sguardo fisso in quella direzione. Pungushe vide che qualcosa si stava spezzando in Mark. Era la fredda coltre di odio, di senso di colpa e di orrore che si lacerava, e Mark cominciò a piangere con strazianti singhiozzi purificatori. E' difficile per un uomo osservare un altro uomo che piange, specialmente se si tratta di un amico. Pungushe si alzò in silenzio e tornò al punto in cui avevano impastoiato il mulo, sedette al sole, annusò una presa di tabacco e attese Mark. UN MINISTRO PARLA DEI DOVERI NEI CONFRONTI DELL UMANITA' Il Viceministro del Territorio recentemente nominato, signor Dirk Courteney, ha espresso oggi la propria preoccupazione per il luttuoso incidente di cui è rimasta vittima una giovane donna nella zona protetta dello Zululand settentrionale. La donna, signora Marion Anders, era la moglie del ranger governativo della zona. E' stata dilaniata da una leonessa lo scorso venerdì. Questo disgraziato incidente mette in evidenza il grave pericolo derivante dal fatto di permettere che bestie selvagge vivano in prossimità di insediamenti umani I residenti di quelle zone rimarranno costantemente esposti al pericolo di attacchi da parte delle bestie feroci, di raccolti distrutti e di malattie trasmesse dagli animali selvatici a quelli domestici fino a quando non sarà posto rimedio a questa situazione. Il signor Dirk Courteney ha dichiarato che l'epidemia diffusasi tra il bestiame a cavallo del secolo ha provocato tra gli animali domestici, soprattutto bovini, una perdita di oltre due milioni di capi. La cosiddetta peste bovina fu causata dagli animali selvatici. Il Ministro ha voluto sottolineare con la seguente frase la situazione: « Non possiamo rischiare il ripetersi di una simile calamità ».
La zona protetta dello Zululand settentrionale comprende terreni preziosi dal punto di vista agricolo e un consistente spartiacque di vitale importanza per una razionale conservazione delle risorse naturali. Se vogliamo sfruttare in pieno il potenziale delle nostre ricchezze nazionali, bisognerà procedere a uno sviluppo opportunamente controllato di queste zone. Il Ministro ha detto anche: « Il Governo concentra tutti i propri sforzi in questo senso, e opportuni progetti di legge saranno sottoposti al Parlamento nella prossima riunione ». Mark lesse con attenzione l'articolo, pubblicato sulla prima pagina del Natal Witness. « Ma c'è dell'altro. » Il generale Sean Courteney aprì una cartella contenente altri ritagli di giornale. « Portali con te; ti accorgerai subito che lo scopo è uno solo. Dirk Courteney sta battendo la grancassa con una bacchetta molto robusta, temo. » « In questo momento è investito di un notevole potere. Non avrei mai immaginato che sarebbe diventato Viceministro. « Già », annuì Sean. « Ha raggiunto in fretta il potere, ma d'altra parte noi abbiamo ancora qualcuno che conta. Uno dei nostri, eletto in un seggio sicuro, lo ha ceduto a Jannie Smuts, e persino a me hanno offerto un seggio in una circoscrizione fidata. » « Lo accetterà, generale? Sean scosse lentamente la barba argentea. « Sono rimasto invischiato per molto tempo nella vita pubblica, ragazzo mio.. e tutto ciò che si fa troppo a lungo viene a noia. » Poi, riflettendo su quanto aveva detto, commentò: « Naturalmente, questo non è del tutto vero. Sono stanco. Lasciamo che i giovani, più pieni di energia, prendano le redini a questo punto. Jannie Smuts resterà in stretto contatto con me. Sa che può contare su di me, ma io mi sento come un vecchio capo zulu. Voglio semplicemente sedere al sole, bere birra, ingrassare e contare i miei capi di bestiame ». « E il Passo Chaka, generale? » chiese Mark in tono accorato. « Ho parlato con Jannie Smuts e con altri, appartenenti a entrambi i partiti rappresentati in Parlamento. Anche nel nuovo Governo possiamo contare su molti appoggi. D'altra parte, non vorrei inserire la faccenda nel programma del Partito. Preferirei che ognuno si regolasse secondo coscienza. » Continuarono a chiacchierare finché Ruth intervenne, seppure con riluttanza. « E' mezzanotte passata, amore. Potreste finire domattina la vostra conversazione. Quando parti, Mark? » « Dovrei essere di ritorno al Passo Chaka domani sera. » Mark sentì una punta di rimorso per la propria bugia. Sapeva benissimo che non sarebbe tornato a casa così presto. « Ma resterai a colazione domani a mezzogiorno? » « Si, mi farà molto piacere. Grazie. » Mark, alzandosi, prese la raccolta di ritagli dalla scrivania di Sean. « Le restituirò tutto domani, generale. » Nel momento, però, in cui fu solo nella sua stanza, Mark si
lasciò cadere su una poltroncina e si precipitò a leggere il rovescio del primo ritaglio di giornale datogli dal generale. Non aveva osato girarlo per leggere ciò che aveva destato la sua attenzione mentre si trovava in presenza del generale. Ora lesse e rilesse varie volte con gusto. Una parte dell'articolo mancava, ma ciò che era rimasto gli era più che sufficiente. ECCEZIONALE MOSTRA DI UNA GIOVANE ARTISTA. E' stata inaugurata nelle sale del Marine Hotd, sulla Marine Parade, una mostra di trenta dipinti di una giovane artista. Miss Storm Courteney espone per la prima volta in pubblico i suoi quadri e qualsiasi artista più anziano e più noto sarebbe rimasto piacevolmente sorpreso dall'accoglienza riservata all'esposizione dagli amici dell'arte della nostra città. Dopo i primi cinque giorni, ventuno dei suoi dipinti avevano già trovato entusiastici compratori a prezzi che arrivano fino a cinquanta ghinee. Miss Courteney ha un concetto classico della forma, unito sia a una sicura percezione dei colori sia a una tecnica matura e personale, tutte qualità rare in un'artista così giovane. Particolare attenzione merita il numero 16, Il riposo dell'atleta greco. Il dipinto, di cui l'artista si è riservata la proprietà e che non è in vendita, è una composizione lirica che farebbe forse inarcare le sopracciglia a gente di vecchio stampo. E' un'autentica ode spudoratamente sensuale... A questo punto, le forbici avevano interrotto il testo, lasciando in Mark un irritante senso di sospensione. Lo rilesse ancora una volta, straordinariamente contento del fatto che Storm avesse ripreso il suo nome da ragazza per firmare le opere. Poi ripiegò con cura il ritaglio e lo mise nel portafoglio. Rimase seduto sulla poltroncina a fissare la parete finché si addormentò, ancora vestito. Una ragazza zulu che non poteva avere più di sedici anni aprì la porta del cottage. Indossava il tradizionale camice bianco di cotonina delle bambinaie e portava in braccio il piccolo John. Sia la bambinaia sia il bambino fissarono Mark con occhi spalancati, seri, ma il sollievo della ragazza fu palese quando Mark si indirizzò a lei in uno zulu fluente. Udendo la voce di Mark, John proruppe in gridolini eccitati, fatto che poteva significare che lo aveva riconosciuto, benché si trattava più probabilmente soltanto di un saluto. Il piccino cominciò a dimenarsi tra le braccia della bambinaia con tanto impeto che costei fu costretta a stringerlo a sì saldamente per impedirgli di partire a razzo. John tese entrambe le manine verso Mark, ridendo e gridando, e Mark lo prese dalle braccia della ragazza. Era caldo e frenetico, ed emanava il profumo tipico dei bambini piccoli. John si aggrappò a un ciuffo di capelli di Mark, come se volesse strap-
parglieli. Mezz'ora più tardi, quando Mark lo restituì alla giovanissima bambinaia dalla faccia di luna e cominciò a scendere il ripido sentiero verso la spiaggia, le indignate urla di protesta di John lo inseguirono, spegnendosi solo a grande distanza. Mark si liberò scalciando delle scarpe e le abbandonò assieme alla camicia al di là del segno lasciato dall'alta marea. Poi puntò verso nord, seguendo la distesa di sabbia bianca. I piedi nudi imprimevano delle orme nitide sulla compatta superficie di sabbia della battigia. Dopo una camminata di circa un chilometro e mezzo non aveva incontrato nessuno. La sabbia era ondulata in seguito all'azione del vento e recava tracce dei palmipedi marini che vi erano passati. Sulla destra, le onde si sollevavano in lunghe strisce vitree per poi arricciarsi in cascatelle verdi e bianche allorché l'acqua ricadeva con uno schianto sulla sabbia sotto i suoi piedi. Sulla sinistra, la fitta boscaglia verdeggiante si ergeva al di sopra della spiaggia candida, e più in là, in lontananza, si distinguevano i monti azzurri e il cielo ancora più azzurro. Era solo... finché vide, a un paio di chilometri di distanza, un'altra figura solitaria, intenta a seguire anch'essa la battigia, una figuretta che gli veniva incontro. Era ancora troppo lontana per distinguere se si trattasse di un uomo o di una donna, di un conoscente o di un estraneo. Mark allungò il passo e la figura si avvicinò, diventando più nitida. Cominciò a correre e la figura davanti a lui si fermò di botto, nell'atteggiamento di chi stia per voltarsi e fuggire. Poi, all'improvviso, l'immobilità si frantumò e la figura cominciò a correre in direzione di Mark. Era una donna, una donna con capelli scuri e soffici come la seta che svolazzavano nel vento, una donna con le braccia tese e le gambe che si sollevavano in ampie falcate, una donna con denti bianchi e occhi azzurri, azzurrissimi. Erano soli nella stanza da letto. Il lettino del piccolo John era stato trasferito in sala da pranzo da quando il piccino aveva cominciato a mostrarsi interessato a tutto ciò che prometteva una gioiosa baruffa. Si aggrappava con grida di plauso e approvazione alla sponda ribaltabile del lettino, tentando di scavalcarla e partecipare al gioco. Storm e Mark godevano ora quei piacevoli istanti tra l'amore e il sonno, parlando a bassa voce al lume di candela sotto un unico lenzuolo, sdraiati fianco a fianco, stretti, con le labbra quasi a contatto. « Ma è pur sempre una capanna con il tetto di paglia in piena foresta, Mark caro. » « E' una grande capanna con il tetto di paglia », le fece rilevare lui. « Non saprei. Non so se sono cambiata fino a questo punto. »
« C'è una sola maniera per scoprirlo. Vieni con me. » « Ma che cosa dirà la gente? » « Quello che direbbe se potesse vederci ora. » Storm ridacchiò e si strinse ancor di più a lui. « E' stata una domanda stupida. Una domanda degna della vecchia Storm. La gente ha detto su di me tutto ciò che poteva dire, e io in realtà me ne sono fregata. » « Da quelle parti non c'è molta gente per giudicarti. Solo Pungushe, e lui è un signore dalle vedute molto ampie. » Lei proruppe di nuovo in una risatina sonnolenta. « C'è una sola persona di cui m'importa... Papà non deve saperlo. Gli ho fatto già abbastanza male. » Così Storm, alla fine, andò al Passo Chaka. Vi arrivò con la sua Cadillac malconcia, con John seduto accanto a lei e tutto ciò che possedeva affastellato alla bell'e meglio sui sedili posteriori o legato sul tetto. Mark la precedeva in motocicletta, facendole da scorta sulla pista impervia e piena di buche. Al termine della strada sterrata, sulla sponda del fiume Bubezi, Storm scese dalla macchina e si guardò attorno. « Be' », disse, dopo aver dato una lunga occhiata pensierosa ai bastioni torreggianti, al fiume le cui acque verdi scorrevano tra sponde coperte di sabbia bianca e incorniciate dalle erbe lacustri. « Per lo meno è pittoresco. » Mark si mise John in spalla. « Pungushe e io torneremo con i muli per prendere il resto della tua roba. » Poi la condusse lungo il sentiero fino al fiume. Pungushe era in attesa sotto gli alberi della sponda opposta, alto, nero e imponente nel suo perizoma coperto di perline. « Pungushe, questa è la mia sposa. Si chiama Vungu Vungu: Tempesta. » « Ti vedo, Vungu Vungu. E vedo anche che ti hanno dato un nome sbagliato », disse Pungushe in tono pacato. « perché la tempesta è una brutta cosa che uccide e distrugge. E tu sei una bella signora. » « Grazie, Pungushe. » Storm gli sorrise. « Ma anche il tuo nome è sbagliato perché lo sciacallo è una piccola creatura spregevole. » « Ma astuta », intervenne Mark in tono solenne, mentre John prorompeva in grida di saluto e cominciava ad agitarsi sulla spalla di Mark, tendendo entrambe le manine verso Pungushe. « E questo è mio figlio. » Pungushe guardò John. Due sono le cose che uno zulu ama sopra tutte: il bestiame e i bambini. Tra i due preferisce i bambini, meglio se maschi. E, dei bambini maschi, gli piacciono soprattutto quelli robusti, baldanzosi e aggressivi. « Jamela, mi piacerebbe tenere in braccio tuo figlio », disse, e Mark gli affidò John. « Ti vedo, Phimbo », disse Pungushe salutando il piccino. « Ti vedo, piccolo uomo dalla grande voce. » Poi, sulla faccia di Pungushe comparve un sorriso radioso. John gridò di nuovo
per la gioia e conficcò la manina nella bocca di Pungushe per afferrare i grossi denti lucenti, ma Pungushe lo prese in spalla e lo portò, sbruffando come un ippopotamo, verso la vetta della collina. Così arrivarono al Passo Chaka e, fin da quel primo giorno, scomparve ogni dubbio. Non era passata un'ora, che qualcuno bussò discretamente alla porta della cucina e, quando Mark l'apri, vide davanti a sé, schierate in scala decrescente secondo l'età, tutte le figlie di Pungushe, dalla più grande, che aveva quattordici anni, alla più piccola, che ne aveva quattro. « Siamo venute », annunciò la più grande, « per salutare Phimbo. » Mark lanciò un'occhiata interrogativa a Storm e lei annuì. La più grande delle figlie afferrò John con un gesto che rivelava una lunga pratica e lo fece sedere a cavalcioni sulla schiena, per fissarlo poi a sè con una striscia di tessuto. Aveva fatto da bambinaia ai fratelli e alle sorelle, e probabilmente s'intendeva di bambini piccoli più che Storm e Mark messi insieme. John, da parte sua, assunse sulla schiena della ragazza la posizione della rana, come se fosse un vero zulu. Poi la bambina fece un lieve inchino a Storm e si allontanò trotterellando, seguita dalla processione delle sorelle per condurre John in un paese delle meraviglie popolato soltanto da una sterminata varietà di affascinanti compagni di gioco. Il terzo giorno Storm cominciò a fare degli schizzi, e alla fine della prima settimana si era già impadronita della condizione della casa applicando un sistema che Mark definiva un confortevole caos intervallato da brevi periodi di pandemonio. Si poteva parlare di confortevole caos quando ciascuno mangiava ciò che gli andava a genio, magari biscotti al cioccolato e caffè una sera, e carne al barbecue la sera successiva. Mangiavano dove faceva loro comodo, seduti sul letto oppure distesi su una coperta sulla sponda sabbiosa del fiume. E mangiavano quando ne avevano voglia, la prima colazione a mezzogiorno oppure la cena a mezzanotte, allorché facevano tardi a furia di chiacchierare e ridere. Si poteva parlare di confortevole caos quando la gioia di vivere faceva dimenticare a entrambi la necessità di spolverare i mobili o lucidare i pavimenti; quando gli indumenti che avevano bisogno di essere riparati venivano scaraventati in fondo all'armadio; quando Mark si lasciava crescere i capelli al punto che gli coprivano il collo. Il confortevole caos cessava di colpo, senza preavviso, per cedere il passo al pandemonio. Il pandemonio aveva inizio quando Storm cominciava a lanciare all'improvviso occhiate fulminee per annunciare: « Questo è un porcile! » Il giudizio era seguito da un rumore di forbici scattanti, da file di secchi di acqua bollente, da nubi di polvere, da pentole che si urtavano e da un lampeggiare di aghi. Mark veniva tosato e rivestito con indumenti rimessi a nuovo, il cottage era tutto lucido e splendente, dopo di che
l'istinto della massaia in Storm si assopiva per un altro periodo indefinito. Il giorno dopo saliva in groppa a Spartan, con John legato sulla schiena alla maniera zulu, per seguire Mark in pattaglia nella vallata. La prima volta che John era uscito con loro in esplorazione, Mark aveva chiesto con una punta d'ansia nella voce: « Credi proprio che sia il caso di portarlo con noi? E ancora così piccolo! » Storm aveva risposto: « Io sono più vecchia e più importante del signorino John. il lui che deve adeguarsi alla mia vita, non io alla sua ». Così, John andava in pattuglia a dorso di mulo, dormiva di notte nella sua cesta sotto le stelle e faceva il bagnetto giornaliero nelle pozze d'acqua fresca e verdastra lungo il Bubezi, divenendo ben presto immune ai morsi della mosca tse-tse e fiorendo nel fisico. Si arrampicarono lungo il ripido sentiero fino alla vetta del Passo Chaka, sedettero sull'orlo del bastione con i piedi penzoloni sopra il pauroso dirupo e poterono abbracciare con lo sguardo l'intera vallata, le lontane colline azzurre, le pianure, le paludi e i larghi fiumi dall'andamento tortuoso. « Quando ti ho conosciuto, eri povero », disse Storm a mezza voce, appoggiata alla spalla di Mark. I suoi occhi esprimevano un senso di pace e di stupore. « Ora, invece, sei l'uomo più ricco del mondo, perché sei il padrone dell'Eden. » La condusse, risalendo il fiume, fino alla tomba solitaria sotto la scarpata. Storm lo aiutò ad ammassare un cumulo di pietre e a sistemare la croce che aveva costruito. Mark le raccontò la versione di Pungushe sull'uccisione del vecchio e Storm pianse senza vergognarsene, tenendo John nel grembo, seduta sulla tomba, ascoltando e soffrendo per ogni parola. « Io ho provato a guardare, ma finora non sono mai riuscita a vedere bene », disse Storm, quando Mark le mostrò il nido di un sunbird, tessuto sapientemente con licheni e tele di ragno, voltandolo con molta cautela in maniera che lei potesse guardare attraverso l'ingresso a imbuto nell'interno e scorgere le minuscole uova picchiettate. « Non ho mai saputo che cosa fosse la vera pace, finché non sono venuta qui », disse poi, mentre erano seduti sulla sponda del Bubezi all'imbrunire e osservavano un cudù maschio, con le lunghe corna a spirale simili a un cavaturacciolo e le spalle coperte da strisce bianche come la calce, che conduceva all'acqua le sue femmine dalle enormi orecchie. « Non ho mai saputo, finora, che cosa fosse la felicità », bisbiglio Storm quando, poco dopo mezzanotte, si svegliarono insieme nel letto, senza un motivo particolare, per stringersi l'uno all'altra. Poi, una bella mattina, Storm si mise a sedere sul letto disfatto, nel quale il piccolo John imperversava non controllato seminando briciole di biscotti appena masticati, e guardò Mark con un'espressione seria sul volto. « Lei, una volta, mi ha chie-
sto di sposarla », disse. « Le dispiacerebbe ripetere quella domanda, signore? » Fu più tardi, in quello stesso giorno, che sentirono il boscaioli al lavoro nella valle. La lama dell'ascia, abbattuta contro il tronco dell'albero legno duro, produceva con le sue vibrazioni un rumore simile a una pistolettata, e questo suono riecheggiava dai bastioni del Passo Chaka spezzandosi in tanti echi lungo la valle. Ogni colpo d'ascia risuonava ancora nell'aria, quando già l'eco del colpo successivo veniva rimandata dalle rocce grigie. C'erano vari boscaioli al lavoro, cosicché il riecheggiare era continuo. Sembrava il rumore di una battaglia. Storm non aveva mai visto un simile furore dipinto sul volto di Mark. La scomparsa di ogni traccia di sangue dalla pelle conferiva un colorito giallastro, simile a quello lasciato da un febbrone, alla sua abbronzatura. Aveva occhi che lampeggiavano, e Storm dovette correre per tener dietro alla sua rabbiosa andatura mentre risalivano dal fiume il pendio fin sotto il passo. Il rumore prodotto dalle asce li investì, e ogni colpo era brutale e sconvolgente come quello che lo aveva preceduto. Davanti a loro uno degli altri lealwoods sussultò come se fosse in preda all'agonia e si mosse sullo sfondo del cielo. Mark si arrestò di colpo, con la testa rovesciata, per osservarlo, e le sue labbra si contrassero rabbiosamente. Era un albero straordinariamente simmetrico, il cui fusto si ergeva con tanta grazia da sembrare snello come una ragazzina. Aveva impiegato duecento anni per raggiungere quell'altezza, un'altezza di oltre venti metri. Le sue foglie verde-scuro formavano una grande cupola. Mentre guardavano, l'albero tremò di nuovo e le asce tacquero. Lentamente, maestosamente, l'albero cadde descrivendo un arco nell'aria. La caduta accelerò man mano, e il tronco in parte reciso gemé e scoppiettò mentre le sue fibre cedevano a una a una. La velocità di caduta aumentò finché l'albero investì di schianto le sommità delle piante più basse che lei attorniavano. Il legno che si spezzava e si torceva sembrava come un essere vivente, finché il tronco toccò il terreno solido con un impatto che sconvolse nell'intimo Storm e Mark. Il silenzio si protrasse per molti secondi. Poi si udirono le voci degli uomini, voci timorose, come se fossero rimasti sconvolti dall'ampiezza della distruzione che avevano provocato. Subito dopo, le asce ripresero a picchiare, frammentando il grande silenzio della vallata, e Mark cominciò a correre. Storm non riusciva a tenergli dietro. Ai suoi occhi si presentò un terreno sconvolto, coperto da file di alberi abbattuti, dove cinquanta negri lavoravano come formiche, seminudi e lucidi di sudore. Tagliavano i rami e li accatastavano in lunghe file per bruciarli. Le schegge di legno risplendevano bianche come ossa sotto il sole, e gli umori che colavano dai tagli inferti dalle asce emanavano l'odore dolcia-
stro del sangue appena versato. A un'estremità della lunga e stretta radura, un unico uomo bianco era piazzato davanti a un treppiede con l'occhio incollato all'oculare di un teodolite. Puntava lo strumento verso l'altra estremità della radura e regolava con cenni della mano il collocamento delle aste verniciate a colori vivaci. Si sollevò dallo strumento quando scorse Mark. Era un giovanotto con una faccia simpatica. Portava spessi occhiali cerchiati d'argento e i fini capelli color sabbia gli ricadevano sulla fronte. « Oh, salve », disse sorridendo, ma cambiò subito espressione quando Mark lo investi con un sibilo. « E' lei che comanda qui? » « Be', si, immagino di si », balbettò il giovane. « La dichiaro in arresto. » « Non capisco. » « E' molto semplice », lo investì Mark. « Lei sta tagliando degli alberi in una zona protetta. Io sono il ranger governativo e la dichiaro in arresto. » « Ecco, vede... » cominciò il geometra per placarlo, allargando le braccia per dimostrare che aveva intenzioni pacifiche. « Io non faccio altro che il mio lavoro. » Nel suo cieco furore, Mark non aveva notato un altro uomo che si stava avvicinando, un uomo massiccio dalle spalle larghe che sbucò silenziosamente dal sottobosco al margine della radura. Lo spiccato accento del nord fu comunque sufficiente per abbattersi come una frusta su Mark, che lo riconobbe subito. Ricordava Hobday dal giorno in cui era tornato per la prima volta ad Andersland per scoprire che tutto il suo mondo era andato a catafascio. « Va bene, amico. Parlerò io con il signor Anders. » Hobday posò la mano sulla spalla del giovane geometra, come per dirgli di non prendersela, Sorrise a Mark, mettendo in mostra denti corti e regolari. Un sorriso privo di qualsiasi calore o buona disposizione d'animo. « Non c'è nulla che lei possa dirmi », cominciò Mark. Hobday sollevò una mano per interromperlo. « Io mi trovo qui nella mia veste di Ispettore Provinciale del Ministero del Territorio, Anders, e lei farà bene a starmi a sentire. » La rabbiosa replica che Mark aveva sulla punta della lingua non ci fu. Mark guardò Hobday con occhi spalancati, mentre questi toglieva con calma un documento dal portafoglio per porgerlo a Mark. Era scritto a macchina su carta intestata del Governo e firmato dal Viceministro per il Territorio. La firma era baldanzosa e spiccava sul bianco del foglio: Dirk Courteney. Mark lesse lentamente lo scritto, pervaso da un senso di disperazione, e quando ebbe finito lo restituì a Hobday. Questi era investito di poteri illimitati nella valle, poteri sanzionati dall'autorità del Governo. « Lei sta facendo carriera », disse Mark, « ma lavora sem-
pre per lo stesso padrone. » L'uomo annuì compiaciuto. Poi, i suoi occhi si distolsero dal volto di Mark quando vide arrivare Storm. La sua espressione mutò repentinamente. Storm aveva raccolto i capelli in due grosse trecce che le ricadevano sul seno. Il sole l'aveva abbronzata, conferendo alla sua pelle una tonalità bronzea. Su questo sfondo, gli occhi di lei assumevano una straordinaria limpidezza, azzurri com'erano. Se non fosse stato per gli occhi, sarebbe sembrata una principessa sioux, prelevata di peso da una romantica storia d'amore. Gli occhi di Hobday perlustrarono lentamente dall'alto i basso il corpo di lei con una tale insolenza da indurla a cercare istintivamente il braccio di Mark e stringersi a lui, come per mettersi sotto la sua protezione. « Che cosa c'è, Mark? » Era ancora senza fiato, perché aveva appena risalito la china, e le sue guance erano arrossate. « Che cosa stanno facendo qui? » « Sono stati mandati dal Governo », rispose Mark con aria cupa. « Dal Ministero del Territorio. » « Ma non possono tagliare i nostri alberi », protestò Storm, alzando la voce. « Devi farli smettere, Mark. » « Devono fare dei tagli per effettuare i rilevamenti », spiegò Mark. « Stanno misurando la valle. » « Ma quegli alberi? » « In realtà, la cosa non ha importanza, signora », le disse Hobday. Parlava ora a voce più bassa e con tono suadente, mentre gli occhi continuavano a frugare il corpo di lei, simili a insetti che abbiano avvertito il profumo del miele. Erano puntati soprattutto sulla sottile cotonina, sbiancata dal sole, che le copriva il seno. « Non ha la minima importanza », ripeté. « Tanto, finiranno tutti sott'acqua, tagliati o in piedi... finirà tutto sotto. » Poi distolse gli occhi da lei, indicando con la mano tesa la radura. « Da laggiù fino a qui », soggiunse, mostrando il varco tra i torreggianti bastioni grigi del Passo Chaka, « e passando per lì, costruiremo la più grande, fottuta diga esistente al mondo. » Sedevano al buio, stretti l'uno all'altra, come per consolarsi reciprocamente, e Mark non aveva acceso la lanterna. Il bagliore riflesso delle stelle arrivava fin sotto la veranda protetta dal tetto di paglia del cottage, permettendo a Storm e Mark di guardarsi, se non altro, in faccia. « Sapevamo che sarebbe accaduto », bisbigliò Storm. « Eppure non riuscivo a crederci. Come se fosse bastato desiderarlo per impedire che la cosa accadesse. » « Domattina vado da tuo padre », disse Mark. « Deve saperlo. » Storm annuì. « Sì, dobbiamo essere pronti ad affrontarli. » « Che cosa intendi fare? Non posso lasciarti qui con John. » « E tu non puoi portarmi via con te. Non da mio padre », replicò lei. « Ma non importa, Mark. Riporterò John al cottage sul mare e ti aspetteremo là. »
« Verrò a prenderti e, quando torneremo qui la prossima volta, sarai mia moglie. » Storm si appoggiò a lui. « Ammesso e non concesso che avremo un motivo per tornare cui ». bisbigliò. « Oh, Mark, Mark... non possono farlo! Non possono allagare tutto questo... questo... » Le parole le vennero meno. Si strinse a Mark. Non parlarono più finché - pochi minuti più tardi - udirono un sommesso e discreto colpo di tosse. Mark si drizzò e scorse l'oscura sagoma familiare di Pungushe, in piedi sulla veranda, le stelle per sfondo. « Pungushe », disse. « Ti vedo. » « Jamela », replicò lo zalu e vi era nella sua voce un tono accorato che Mark non aveva mai udito prima. « Sono andato all'accampamento di quella gente. Dei boscaioli, degli uomini con le pertiche dipinte e con le asce luccicanti. » Volse la testa in direzione della valle, e Storm e Mark seguirono il suo sguardo. Il bagliore rossastro dei molti fuochi di un accampamento tremolava nell'aria sullo sfondo formato dalla base dei bastioni, e le voci degli uomini e le loro risate arrivavano fievoli nella tranquilla atmosfera notturna. « E allora? » chiese Mark. « Ci sono due uomini bianchi con loro. Uno dei due è giovane e non ci vede, e non ha alcuna importanza. L'altro è un uomo massiccio e grosso, piantato sui piedi come un bufalo. Eppure si muove senza far rumore e parla poco, con voce tranquilla. » « E allora? » chiese di nuovo Mark. « Ho già visto quest'uomo nella valle. » Pungushe s'interruppe. « E' il silenzioso del quale abbiamo parlato. E' lui quello che ha sparato all'ixhegu, tuo nonno; che fumava mentre lo guardava morire. » Hobday camminava senza far rumore, con passo sicuro, al limite della tagliata. Le asce tacevano, ora, ma il lavoro, interrotto per la pausa del mezzogiorno, sarebbe ripreso esattamente al momento stabilito. Li faceva sgobbare sodo. Faceva sempre sgobbare gli uomini alle sue dipendenze. Si gloriava di ottenere da ogni uomo un rendimento superiore a quello per il quale era pagato. Era una delle qualità che Dirk Courteney apprezzava in lui; questa e la sua fedeltà, una fiera, incrollabile fedeltà che non veniva mai meno, quali che fossero le circostanze. Hobday non faceva tanto il difficile, non esitava. Quando Dirk Courteney dava un ordine, non c'erano discussioni. Il compenso - è chiaro - non si era fatto aspettare. Hobday era già un uomo importante e ricco, ma, quando fossero state suddivise le nuove terre, quel suolo rossiccio, ben irrigato, sostanzioso come la carne di un manzo appena macellato, avrebbe ricevuto il suo premio finale. Si fermò nel punto in cui il pendio si faceva più ripido per svoltare in direzione del letto del fiume sottostante e spaziò con lo sguardo. Si leccò involontariamente le labbra come un
ghiottone che senta l'odore di un piatto particolarmente appetitoso. Avevano lavorato tanto a lungo per arrivare a questo, ciascuno a modo suo, guidati e ispirati da Dirk Courteney, e, benché la parte di bottino riservata a Hobday fosse solo l'un per cento, era pur sempre una ricchezza che quasi tutti gli altri uomini non potevano neppure sognare. Si leccò di nuovo le labbra, restando immobile e silenzioso all'ombra, e alzò lo sguardo verso il cielo. I cumuli erano accatastati fino ad altezze vertiginose: montagne d'argento, accecanti nella luce del sole, e si muovevano lentamente, sospinti dal vento. Li sentiva vicini ed ebbe un moto d'impazienza. Le piogge avrebbero provocato un grave ritardo nel lavoro, e ormai stavano arrivando, le grandi e torrenziali piogge estive. Qualcosa lo distrasse, qualcosa che si muoveva all'altra estremità della tagliata, e lo sguardo puntò subito in quella direzione. Era stato uno sprazzo di colore, simile al colpo d'ala di un sunbird, e gli occhi all'erta di Hobday lo afferrarono subito. Si sentì pervadere da una forte tensione. La ragazza comparve nella radura e si fermò a una trentina di passi. Non lo aveva visto e se ne stava immobile, tendendo l'orecchio con la testa piegata di lato come un animale della foresta. Se ne stava lì, graziosa e splendente. Aveva braccia e gambe snelle e abbronzate, e quelle carni gli apparvero così sode, giovani e attraenti da fargli riprovare lo stesso impeto di desiderio sensuale che lo aveva pervaso il giorno precedente, quando l'aveva vista per la prima volta. Portava un'ampia gonna da contadina a tinte vivaci e una sottile camicetta di cotone molto scollata, allacciata da un nastro, che lasciava intravedere le coppe del seno. La pelle levigata, bronzea, assumeva una tinta crema sotto il tessuto. Era vestita come una ragazza che si rechi a un incontro d'amore, e vi fu una deliziosa e timorosa esitazione nel modo in cui fece un passo avanti per fermarsi di nuovo, incerta. Hobday si sentì cogliere da un'eccitazione sessuale all'inguine e si accorse all'improvviso di respirare affannosamente. La ragazza volse la testa, guardando nella sua direzione, e quando lo vide rimase visibilmente scossa, arretrò di un passo e si portò una mano alla bocca. Lo fissò per cinque lunghi secondi, per subire poi una lenta trasformazione. Le dita della mano lasciarono la faccia e la ragazza portò entrambe le mani dietro la schiena, un movimento che spinse il seno sodo contro il tessuto della camicetta consentendo a Hobday di intravedere attraverso la stoffa trasparente i bottoncini rosa-scuro dei suoi capezzoli. Poi spostò una gamba evidenziando il fianco con mossa seducente e sporse il mento, come se volesse sfidarlo. Di proposito, gli occhi di lei cominciarono a esaminare Hobday dall'alto in basso, soffermandosi in corrispondenza dell'inguine, per risalire poi di nuovo verso il vol-
to. Era un invito bell'e buono, chiaro come se lo avesse espresso a voce, e Hobday sentì il sangue che gli rimbombava nelle orecchie. Storm scrollò la testa, facendo ricadere le grosse trecce sulle spalle e si volse per allontanarsi deliberatamente verso il bosco, esagerando lo sculettamento delle natiche sode e rotonde. Lo guardò al di sopra della spalla, e quando Hobday si mosse per seguirla, lei proruppe in una squillante risatina e cominciò a correre sui piedi leggeri calzati di sandali per svoltare poi in discesa, lungo il pendio. Anche Hobday si mise a correre. Dopo cinquanta metri, Storm lo aveva perso di vista nel fitto sottobosco, così si fermò ad ascoltare, temendo che l'uomo avesse rinunciato all'inseguimento. Poi si accorse di un movimento più in alto, sulla cresta del pendio, e si rese conto, per la prima volta veramente allarmata, che lui si era spostato con una velocità superiore a quella che aveva previsto. Inoltre non l'aveva seguita in discesa, ma era rimasto in alto, in posizione dominante. Storm ricominciò a correre e si rese conto quasi immediatamente che lui la stava precedendo. Si spostava velocemente sulla cresta. Dall'alto poteva intrappolarla piegando rapidamente verso la discesa. Storm fu colta dal panico e cominciò a correre sul serio. Improvvisamente, il terriccio molle la tradì e la ragazza scivolò. Cadde e rotolò su se stessa, allargò le braccia per fermarsi e riuscì a mettersi in ginocchio proprio nell'istante in cui si arrestava. Singhiozzò per la paura. L'uomo l'aveva vista cadere e aveva sceso la china. Era così vicino che Storm riusciva a distinguere i denti bianchi e quadrati sul volto liscio e abbronzato. I suoi occhi ghignavano. Era un ghigno eccitato e Hobday si mosse velocemente, senza sbagliare un passo, imboccando il sentiero che le doveva consentire di mettersi al sicuro, tagliandola letteralmente fuori dal punto in cui Mark la stava aspettando. Storm balzò in piedi e prese a risalire la china, obbedendo all'istinto che le imponeva di distanziare il suo inseguitore, sebbene, casi facendo, si allontanasse anche da colui che avrebbe potuto aiutarla. All'improvviso fu completamente sola, in frenetica corsa nella boscaglia. Se avesse gridato, nessuno l'avrebbe sentita. Si rese conto che Mark aveva ragione. Non avrebbe voluto che lei facesse da esca. Lui conosceva i pericoli del gioco al quale Storm intendeva prestarsi, ma lei, cocciuta e arrogante, aveva insistito ridendo delle sue proteste, minimizzando le sue paure, finché Mark aveva acconsentito, seppure con riluttanza. Ora correva, terrorizzata, con il cuore in tumulto e i polmoni che le scoppiavano; si sentiva le gambe molli, come se stesse camminando su uno strato di gomma. A un certo punto tentò di tornare indietro, ma l'uomo, simile a un vecchio e astuto cane da caccia all'inseguimento di una lepre, la prevenne subito, pronto a bloccarla. Storm riprese a correre e si trovò improvvisamente davanti il fiume. A monte
era piovuto e le acque del Bubezi scorrevano maestose e verdastre su un'ampia distesa. Fu costretta a seguire la sponda e si ritrovò di nuovo nel tratto coperto da cespugli spinosi. I grossi aculei acuminati la sfioravano negli stretti passaggi. Storm finì in un buio labirinto, cosicché perse quasi subito l'orientamento. Si fermò, tentando di distinguere i rumori sopraffatti da quello del proprio respiro, cercando di vedere qualcosa attraverso le lacrime, lacrime di paura e impotenza. I capelli le ricadevano a piccole ciocche sulla fronte, gli occhi erano ardenti e le lacrime conferivano a essi un bagliore febbrile. Non sentiva nulla ed era circondata dai cespugli spinosi. Si voltò lentamente, come cieca. Ora stava singhiozzando, terrorizzata. Scelse uno degli stretti passaggi e lo imboccò correndo. Lui la stava aspettando. Storm superò la prima svolta del sentiero e gli finì pressoché addosso. Solo all'ultimo istante vide le braccia tese, grosse, abbronzate e lisce, con le dita di entrambe le mani piegate ad artiglio per afferrarla. Storm urlò e si volse, cercando di fuggire nella direzione dalla quale era venuta, ma le dita dell'uomo si aggrapparono alla sottile cotonina della camicetta. Il tessuto si ruppe come carta, e, mentre Storm riprendeva a correre, la carne levigata della schiena trasparì attraverso lo strappo, facendo intravedere una promessa che eccitò ancora di più i sensi di Hobday. Quando questi rise, fu un suono rauco e affannoso che gli uscì dalla bocca e precipitò Storm in un nuovo parossismo di terrore. La inseguì attraverso la macchia di cespugli spinosi e per ben due volte se la lasciò sfuggire di proposito. Ne ricavava un sadico piacere, simile a quello del gatto che gioca con il topo. La maniera in cui lei strillava appena la toccava e le continue esplosioni di frenetico terrore lo eccitavano. Infine Storm, esausta, arretrò in un angolo nella solida e impenetrabile parete di cespugli spinosi, rimanendo accovacciata e tentando di coprire con i lembi della camicetta strappata la schiena e il seno, scossa da incontrollabili brividi come se avesse la febbre. Aveva il volto coperto di lacrime e sudore e fissava l'uomo con occhi spalancati, con enormi occhi azzurri. Hobday si avvicinò lentamente, si chinò e Storm non oppose alcuna resistenza quando le posò le massicce mani abbronzate sulle spalle. Stava ancora ridacchiando, ma aveva il respiro irregolare e le labbra ritratte scoprivano i quadrati denti bianchi, atteggiando un ghigno di desiderio carnale. Premé la bocca su quella di Storm, e per lei fu come esser preda di uno di quegli incubi in cui non si riesce né a muoversi né a urlare. I denti dell'uomo strinsero le sue labbra e Storm conobbe il sapore del proprio sangue, una sensazione metallica sulla lingua. Credeva di soffocare. Le mani dell'uo-
mo, dure e rugose come il granito, si erano posate sulla pelle vellutata del seno e Storm si riprese, tentando di bloccargli polsi. « Si », grugnì con voce strozzata Hobday. « Resisti. Continua a resistermi. Si. Si. Così va bene... dibattiti... non fermarti. » La voce dell'uomo la destò da quella specie di stato ipnotico dovuto al terrore, e Storm riuscì a gridare. « Sì », disse lui. « Fallo ancora. Urla ancora. » La costrinse a curvarsi e ad abbassarsi finché il corpo di Storm, teso all'indietro come un arco, si adagiò di traverso su un ginocchio ripiegato dell'uomo. I capelli della ragazza spazzavano il suolo e la curva della sua gola appariva soffice, bianca, vulnerabile. Hobday spalancò la bocca e la baciò sulla gola. Storm era completamente immobilizzata, quando lui con una mano le sollevò la gonna al di sopra della cintola. « Urla! » bisbigliò con voce gutturale. « Urla ancora! » Incredula e inorridita, Storm sentì le grosse dita callose e crudeli dell'uomo frugarle le parti più intime e tenere del corpo, penetrarla nei recessi più segreti, come gli artigli di un rapace... Storm urlò ancora, con tutta la sua forza. Mark li aveva persi nel labirinto di spine. Poi erano seguiti lunghi minuti di silenzio. A testa scoperta, ansimante, teso all'ascolto con tutto il suo essere, gli occhi pieni di rabbia, continuava a rimproverarsi per essersi lasciato persuadere da Storm. Mark sapeva quanto fosse pericoloso quell'uomo. Quell'uomo era un assassino, un freddo e spietato assassino, e lui gli aveva mandato incontro, come esca, una giovane e tenera ragazza. Poi udì le urla di Storm, vicinissime nella macchia. Provò un violento senso di sollievo e riprese a correre. Hobday lo sentì arrivare all'ultimo momento e lasciò cadere lo snello corpo martoriato di Storm per voltarsi con uno scatto incredibilmente veloce e mettersi in guardia come un peso massimo, solido e chino, con le braccia sollevate e i pugni stretti. Mark sollevò alta l'arma che si era costruito la sera prima, un lungo salsicciotto di pelle non conciata, con doppie cuciture e riempito di pallini di piombo di grosso calibro. L'arma pesava circa un chilo e fendé l'aria con un rumore simile a quello prodotto da un'anitra selvatica. Mark sferrò la botta con tutta la forza di cui fu capace, traendo ulteriore energia dal terribile odio che lo animava. Hobday sollevò il braccio destro per parare il colpo. Le ossa dell'avambraccio si ruppero con uno schianto, ma l'impeto dell'arma non si era ancora esaurito e il manganello si abbatté sul volto di Hobday. Se il colpo non fosse stato intercettato dal braccio, l'impatto del salsicciotto sul viso l'avrebbe ucciso all'istante. Nondi-
meno, la faccia parve afflosciarsi e la testa si rovesciò fino al limite consentito dalle vertebre cervicali. Hobday andò a sbattere con fracasso contro la muraglia di cespugli, e le spine ricurve dalla punta rossa azzannarono gli indumenti che aveva addosso e le parti scoperte del corpo trattenendolo. L'uomo rimase impigliato in quella parete come un bambolotto di gomma, con le braccia spalancate, le gambe penzoloni, il volto chino sul torace. Grosse gocce di sangue scuro cominciarono a colare sulla camicia e sul ventre, lasciando tracce umide e vermiglie sul tessuto cachi. Cominciò a piovere proprio mentre trasportavano Hobday sul tratturo in salita fino ai due veicoli rimasti al coperto sotto i bastioni del Passo Chaka, sulla sponda meridionale del Bubezi. Da principio caddero solo alcuni grossi goccioloni caldi che pizzicavano la pelle con il loro peso. Poi la pioggia prese a cadere con sempre maggiore violenza, e l'acqua trasformò la superficie del tratturo in una poltiglia simile a cioccolato fuso, cosicché i piedi cominciarono a slittare sotto il peso di Hobday. Questi era bloccato alle caviglie dalle manette che servivano a Mark per i cacciatori di frodo arrestati. Il braccio illeso era ammanettato alla cintura di cuoio dei calzoni. L'altro braccio era tenuto fermo da stecche improvvisate e legato alla stessa cinghia. Mark aveva tentato di farlo camminare, ma Hobday o aveva finto di non poterlo fare o era realmente troppo debole. Il volto era ridotto a una maschera grottesca, il naso gonfio e spostato di lato, entrambi gli occhi quasi chiusi e bluastri per i colpi ricevuti. Anche le labbra erano gonfie e coperte di grumi di sangue rappreso nei punti in cui si erano spaccate urtando contro i denti. Attraverso le labbra s'intravedeva un sanguinoso squarcio dove cinque dei grandi denti quadrati erano stati spezzati dal micidiale colpo sferrato da Mark. Pungushe e Mark lo trasportavano risalendo penosamente il ripido sentiero sotto il violento piovasco, seguiti da Storm con il piccolo John in braccio. I capelli della ragazza formavano lunghe strisce nere e lucide che le attraversavano il volto. Era percorsa da violenti brividi, da improvvisi spasimi incontrollabili, dovuti al freddo o forse all'effetto persistente dello shock. Il bambino in braccio strillava con insistenza, e lei lo coprì con un lembo di incerata, tentando distrattamente di calmarlo. Raggiunsero i due veicoli sotto la tettoia di paglia che Pungushe aveva costruito alla bell'e meglio per proteggerli dalla violenza degli elementi. Sistemarono Hobday nella carrozzella dell'Ariel; e Mark montò la capote e la abbottonò per proteggerlo dalla pioggia e sorreggerlo. Sembrava un cadavere. Poi, Mark si diresse verso la Cadillac al cui volante era seduta Storm, tutta tremante, bagnata e con aria afflitta. « Mando Pungushe con te », disse Mark, mentre la abbracciava e stringeva a sé. Lei non ebbe la forza o la voglia di di-
scutere e appoggiò la testa pesantemente al suo petto, come per cercarvi rifugio. « Torna al cottage sul mare e rimani lì », continuò. « Non uscire finché non verrò a prenderti. » « Sì, Mark », bisbigliò Storm, rabbrividendo di nuovo. « Ti senti abbastanza in forze per guidare? » le chiese con improvvisa tenerezza. Storm si scosse e annuì con l'aria di chi ha coraggio da vendere. « Ti amo », disse Mark. « Ti amo più di qualsiasi cosa e di chiunque al mondo. » Mark precedette in motocicletta la Cadillac sul tratturo scivoloso e pieno di fango, ed era quasi buio quando raggiunsero la strada principale, anch'essa non migliore, a causa della doppia fila di profondi solchi melmosi. Durante tutto il tempo non smise maì dl piovere. Arrivati all'incrocio, Mark portò la motocicletta fuori strada e si affrettò a tornare alla Cadillac per parlare con Storm attraverso il finestrino aperto. « Da qui ci vogliono sei ore per arrivare a Umhlanga Rocks, con questo fango. Cerca di non correre troppo », le disse, introducendo la testa nell'auto. Si abbracciarono in quella posizione piuttosto scomoda, con grande tenerezza. Poi Storm alzò il finestrino e la Cadillac si allontanò slittando e sbandando nel fango. Mark seguì con lo sguardo l'auto fino alla prima altura e, quando i fanali di coda scomparvero oltre la salita, tornò alla motocicletta e avviò il motore. Nel carrozzino, l'uomo si mosse e la sua voce usci impastata e distorta attraverso le labbra ferite. « Ti ammazzerò per quello che mi hai fatto », disse. « Così come hai ammazzato mio nonno? » chiese Mark a voce bassa, portando la motocicletta sulla strada. Imboccò la via di Ladyburg, distante quasi cinquanta chilometri da percorrere al buio, nel fango e sotto la pioggia, ma l'odio e la rabbia che sentiva continuarono a fargli provare una sensazione di calore nel ventre. Si meravigliò egli stesso del proprio autocontrollo che gli aveva permesso di resistere alla tentazione di ammazzare Hobday con il manganello improvvisato quando ne aveva avuto la possibilità. L'uomo che aveva assassinato il vecchio e abusato di Storm era in suo potere, e la tentazione di vendicarsi era forte. Mark s'impose di non pensarci e continuò a divorare i chilometri nella notte. La motocicletta slittava sbandando da una parte della strada all'altra, quando iniziò la ripida salita della scarpata di Ladyburg. Ai suoi piedi, le luci della città s'intravedevano appena a causa della pioggia. Mark non sapeva se il generale fosse tornato a Lion Kop, ma quando introdusse la motocicletta rombante nel cortile sul retro, vide le finestre illuminate, e una muta turbolenta di cani da caccia si precipitò nella notte, seguita da tre domestici
zulu muniti di lanterne. Mark gridò loro: « E' a casa lo Nkosi? » Le loro risposte si rivelarono superflue perché Mark, scendendo dalla motocicletta, alzò lo sguardo e vide la grossa e amata sagoma a lui tanto familiare affacciarsi alla finestra illuminata dello studio, con la testa incassata tra le spalle. Il generale lo stava guardando. Mark entrò di corsa in casa, si tolse l'impermeabile grondante acqua ed entrò nello studio del generale. « Ragazzo mio », disse Sean Courteney muovendogli incontro. « Che succede? » Mark sembrava teso fino allo spasimo, deciso a ottenere ciò che si era proposto. « Ho con me l'uomo che ha ucciso mio nonno », disse con esultanza, e Sean, che era arrivato al centro della stanza, si fermò di colpo e lo guardò con occhi sbarrati. « E'... » S'interruppe. La paura gli si leggeva in volto. « ... è stato Dirk, è stato mio figlio? » I domestici portarono il corpo pesante e inerte di Hobday nello studio e lo deposero sul divano di pelle trapuntata davanti al caminetto acceso. « Chi gli ha messo queste manette? » brontolò Sean, esaminando l'uomo, e poi, senza aspettare una risposta: « Togligli le manette. Dio mio, che cos'è successo alla sua faccia? » In quel momento entrò Ruth, che era stata svegliata dai rumori e dal vociare concitato. Indossava una lunga vestaglia e aveva in testa la cuffia da notte. « Buon Dio », disse guardando con tanto d'occhi Hobday. « Ha il braccio spezzato e forse anche la mandibola rotta. » « Com'è successo? » chiese Sean. « Sono stato io a colpirlo », spiegò Mark, e Sean tacque per un lungo attimo, fissandolo, prima di parlare di nuovo. « Penso sia meglio che tu mi racconti tutto », disse. « Tutta la storia sin dall'inizio. » Mentre Ruth Courteney si dava da fare in silenzio con la faccia malconcia di Hobday, Mark cominciò a spiegare la faccenda al generale. « Si chiama Hobday e lavora per Dirk Courteney... da anni. uno dei suoi uomini di fiducia. » « Naturalmente », annuì Sean. « Avrei dovuto riconoscerlo. E' stato il viso gonfio che me lo ha impedito. L'ho già visto altre volte. » Con voce pacata, rapidamente, Mark raccontò tutto ciò che sapeva su quell'uomo, a cominciare dal primo incontro con Hobday alla fattoria deserta di Andersland. « Ti ha detto allora che lavorava per Dirk Courteney? » chiese Sean. « Per la Ladyburg Sugar », precisò Mark. Sean annuì. La barba bianca gli ricadde sul petto. « Continua. » Mark ripetè ciò che Pungushe gli aveva raccontato circa la
morte del vecchio: come i tre uomini fossero arrivati con lui nella valle, come « il silenzioso » gli avesse sparato aspettando poi che morisse, e come lo avesse sepolto in una tomba priva di qualsiasi contrassegno. Sean, accigliato, scuoteva la testa, e Hobday sul divano si agitò e tentò di mettersi a sedere. La sua mandibola gonfia e slogata funzionava, ma le parole che gli uscirono di bocca erano appena comprensibili. « Quel fottuto negro mente », disse. « Non avevo mai messo piede al Passo Chaka pruna di tre giorni fa. » Sean Courteney era preoccupato. Glielo si leggeva in faccia, quando si rivolse di nuovo a Mark. « Tu dici che hai colpito quest'uomo, che sei responsabile delle sue ferite. Com'è successo? » « Quando arrivò nella valle, Pungushe ha riconosciuto in lui l'uomo che ha ucciso John Anders. L'ho attirato con uno stratagemma dal suo accampamento e Pungushe e io lo abbiamo catturato e portato qui. » « Dopo averlo mezzo ammazzato? » chiese Sean con aria corrucciata, senza attendere la risposta di Mark. « Credo che tu ti sia cacciato in un brutto pasticcio, ragazzo mio. Non vedo l'ombra di una prova che confermi tutto questo, una prova in grado di far condannare quest'uomo da un tribunale. Tu, d'altra parte, hai aggredito una persona, le hai procurato gravissime lesioni e l'hai sequestrata. Questo è il minimo delle accuse che ti si possono muovere. » « Oh, ma io le prove le ho », si affrettò a interromperlo Mark. « Quali? » chiese Sean, burbero. L'uomo sul divano volse il viso martoriato in direzione di Sean, e vi era una traccia di fiducia nella sua voce. « E' un fottuto bugiardo. Sono tutte menzogne. » « Zitto! » disse Sean, imponendo con un gesto della mano A Hobday di tacere. « La prova? » chiese. « La mia prova consiste nel fatto che Dirk Courteney ammazzerà quest'uomo, o lo farà ammazzare, non appena lo rimetteremo in libertà. » I due uomini guardarono sbalorditi Mark, in silenzio, e questi continuò con la massima serietà: « Noi tutti sappiamo come lavora Dirk Courteney. Distrugge tutto ciò che gli intralcia il cammino o rappresenta un pericolo per lui ». Hobday lo stava guardando e, una volta tanto, i suoi occhi non erano glaciali. Le labbra ferite annasparono e si schiusero lievemente, mettendo in mostra le gengive dilaniate là dove i denti gli erano stati strappati dalla mascella. « Non è necessario che quest'uomo rilasci una confessione a noi. Il fatto che sia stato qui, in questa casa, con il generale e me, nella roccaforte dei nemici di Dirk Courteney, il fatto che la sua faccia riveli i segni di una pesante opera di persuasione... queste due cose saranno sufficienti per Dirk Courteney. Poi basterebbe una telefonata. Una telefonata di questo te-
nore... » Mark s'interruppe, per proseguire dopo un attimo: « 'Hobday è stato da noi, è pronto a deporre sotto giuramento circa l'assassino di John Anders'. Poi porteremo Hobday da basso, al villaggio, e lo lasceremo lì. Dirk Courteney tenterà di ucciderlo, ma questa volta lo aspetteremo al varco. Una volta tanto saremo in grado di incastrarlo ». « Che Dio vi stramaledica », ringhiò Hobday, riuscendo con molti sforzi a mettersi a sedere. « E' una bugia. Io non ho confessato niente. » « Questo raccontalo a Dirk Courteney. Potrebbe anche crederti », gli disse Mark in tono pacato. « D'altra parte, se tu ti decidessi a confessare e a testimoniare per l'accusa, potresti contare sulla protezione del generale e della legge, di tutto il potere della legge... noi non ti abbandoneremmo. » Hobday cominciò a lanciare occhiate furenti a destra e a sinistra, come se qualche miracolosa via d'uscita potesse presentarsi all'improvviso, ma Mark proseguì spietatamente: « Tu conosci Dirk Courteney meglio di chiunque altro, non è vero, Hobday? Tu sai come ragiona. Pensi davvero che sarà disposto a correre il rischio di credere che non hai confessato? Quanto gli potrai servire ancora in futuro? Potrà continuare a fidarsi, ora che l'ombra del dubbio è calata su di te? Tu sai che cosa farà. Se ci pensi bene, ti renderai conto che potrai sopravvivere solo se Dirk Courteney sarà al sicuro dietro le sbarre di una prigione o se penzolerà da una corda ». Hobday lo guardò con occhi rabbiosi. « Bastardo », sibilò attraverso le labbra spaccate e, come se un tappo fosse stato tolto di colpo, un torrente di parole oscene uscì da quella bocca, un linguaggio lurido, le stesse parole sconce e prive di senso ripetute all'infinito mentre gli occhi sprigionavano un odio impotente. Mark si alzò e girò la manovella del telefono sulla scrivania di Sean. « Centralino » disse nel microfono. « Mi dia per favore l'abitazione del signor Dirk Courteney. » « No! » urlò con voce strozzata Hobday. « Non farlo! » All'odio era subentrato il terrore, e il volto dell'uomo parve afflosciarsi intorno al naso e alla bocca contorti. Mark non lo ascoltò e tutti i presenti nella stanza udirono lo scatto indicante l'avvenuto collegamento. Alla fine si udì il gracidio di una voce deformata dai disturbi atmosferici e dalla distanza. « Parla la residenza del Viceministro del Territorio, signor Dirk Courteney... » Hobday scese penosamente dal divano e si avvicinò barcollando alla scrivania, strappò il ricevitore dalla mano di Mark e lo ridepose con un colpo violento sulla forcella del telefono. « No », disse, ansimante per il dolore e la paura. « Per favore, non lo faccia. » Rimase aggrappato all'angolo della scrivania, in preda a fitte penose, stringendo il braccio spezzato al petto e atteggiando il volto a continue smorfie convulse. Tutti aspettavano tran-
quillamente che prendesse una decisione. Hobday si voltò e si diresse con passo pesante, barcollando, verso il divano. Vi cadde a sedere con la testa sul petto, chinato al punto da sfiorare quasi le ginocchia; il respiro gli usciva dalla bocca sotto forma di sibili e singhiozzi. « Va bene », bisbigliò con voce rauca. « Che cosa volete sapere? » Il generale Sean Courteney si scosse come se si stesse destando da un incubo, ma la sua voce aveva un timbro deciso che non ammetteva repliche. « Prendi la mia Rolls, Mark, scendi in città e procurarni un legale. Voglio che la dichiarazione venga redatta a termini di legge: sono ancora giudice di pace e magistrato. Come tale convaliderò io il documento. » Mark parcheggiò la Rolls-Royce nel ghiaioso viale d'accesso della grande casa nuova di Peter Botes, alla periferia della cittadina. La casa era buia e silenziosa, ma, quando Mark insistè a picchiare pesantemente sul portone d'ingresso di teak scolpito, un cane cominciò ad abbaiare da qualche parte nell'interno e, alla fine, la luce si accese dietro una finestra al primo piano e il vetro si sollevò con uno scricchiolio. « Chi è ? Che cosa desidera? » La voce di Peter era querula e assonnata. « Sono Mark », gridò con la testa rivolta in alto. « Devi venire con me subito! » « Dio mio, Mark! Sono le undici passate. Non potresti aspettare fino a domattina? » « Il generale Courteney ti vuole, subito. » Il nome produsse il suo effetto. Si udì un mormorio di voci proveniente dall'interno della stanza da letto. La sorella di Marion protestava con voce alterata dal sonno e, subito dopo, Peter si affacciò di nuovo. « Va bene, dammi il tempo di vestirmi, Mark. » Mentre aspettava, seduto al volante della Rolls, con la pioggia che tambureggiava sul tetto e scorreva a rivoli sul parabrezza, Mark si chiese perché avesse scelto Peter Botes. Non era stato solo per il fatto che sapeva dove trovarlo a un'ora così tarda della notte. Capì che desiderava che Peter fosse presente quando sarebbe crollato il suo idolo, che si convincesse definitivamente del proprio errore quando lui avrebbe dimostrato che Dirk Courteney era un ladro e un assassino. Voleva questa soddisfazione, e un sorriso gli comparve sulle labbra nel buio della Rolls. « Ho diritto almeno a questo », bisbigliò a se stesso, mentre la porta d'ingresso della casa si apriva. Peter ne uscì di corsa, curvando la testa sotto la pioggia sferzante. « Di che cosa si tratta? » chiese attraverso il finestrino della Rolls. « Sarà meglio per te che sia una cosa importante, per farmi alzare a quest'ora della notte. »
« E' importante, e come! » replicò Mark mettendo in moto il motore. « Entra! » « Ti seguirò con la mia Packard », disse Peter, e si diresse di corsa verso la rimessa. Peter Botes era seduto alla grande scrivania del generale Courteney. Si era vestito in fretta. Non aveva cravatta e il suo ventre piccolo, ma protoberante, tendeva la camicia bianca che gli fuorusciva in parte dai pantaloni. I capelli color sabbia stavano diventando più radi e arruffati, cosicché s'intravedeva la pelle lucida e rosea del cranio, mentre si chinava sul foglio. La penna correva veloce sulla carta. Era una scrittura precisa, regolare. I tratti del volto rivelavano ogni emozione di Peter man mano che egli tracciava le parole sulla carta. Le sue guance erano pallide. Stringeva le labbra. A tratti si fermava incredulo e guardava Hobday, traendo un profondo respiro tutte le volte che questi rivelava qualche nuova e terribile circostanza. « Ha scritto questo? » chiedeva il generale, e Peter annuiva con un rapido cenno della testa, rimettendosi a scrivere. Gli altri ascoltavano con molta attenzione. Il generale era accasciato sulla poltrona vicino al caminetto. Aveva gli occhi chiusi, come se dormisse, ma le domande che faceva in tono perentorio a intervalli più o meno regolari erano lucide e penetranti come la lama di una spada. Mark era in piedi dietro la poltrona, tranquillo e assorto, con il volto privo di qualsiasi espressione, benché la rabbia e l'odio gli dilaniassero le viscere. Hobday era seduto sull'orlo del divano, e la sua voce dal pesante accento settentrionale gli usciva di bocca come un sommesso borbottio, che contrastava non poco con i fatti spaventosi che quelle parole raccontavano. Non si trattava solo dell'assassinio di John Anders. Erano in ballo ben altre cose. Contraffazione di documenti ufficiali, corruzione di alti funzionari, abuso di autorità, e Mark ebbe un sobbalzo quando Hobday confessò di aver tentato per ben due volte di ucciderlo per ordine di Dirk Courteney. Mark non se n'era reso conto né lo aveva riconosciuto, ma ora la figura tozza di Hobday si collegava nel ricordo con l'ombra del cacciatore senza volto di quella notte sulla scarpata e con l'altra figura intravista attraverso la pioggia con occhi annebbiati dalla febbre. Hobday non alzò lo sguardo, mentre raccontava questi episodi, né Mark ebbe domande da fargli. Era come se Hobday, una volta avviato, sentisse il prepotente bisogno di liberarsi di tutto quel sudiciume, come se ricavasse quasi una perversa soddisfazione dalla sensazione di orrore che le sue parole destavano in chi lo ascoltava. E gli altri ascoltarono, sbalorditi dalla portata dei misfatti confessati. A tratti, Ruth si lasciava scappare involontariamente un'esclamazione e Sean apriva per un istante gli occhi, guardandola, prima di richiuderli e coprirli con la mano.
- Alla fine, Hobday arrivò all'assassinio di John Anders, e ogni particolare corrispose esattamente alla descrizione fatta da Pungushe. Mark provò un senso di nausea mentre ascoltava, ma fece una sola domanda. « Perché lo hai lasciato morire così lentamente, perché non lo hai finito subito? » « Doveva sembrare un incidente. » Hobday non alzò lo sguardo. « Doveva esserci una sola pallottola. Uno non si spara due volte per sbaglio. Ho dovuto lasciarlo morire dandogli tutto il tempo che ci voleva. » La rabbia provata da Mark non aveva più limiti, e questa volta Ruth Courteney trattenne il fiato con un rumore simile a un singhiozzo. Sean riaprì gli occhi. « Stai bene, amore? » Lei annuì senza parlare e il generale si rivolse di nuovo a Hobday. « Continui », disse. Alla fine, Peter Botes lesse la dichiarazione con voce che tremava e scemava nei passi più orrendi, al punto che Sean fu costretto a richiamarlo severamente all'ordine. « Parli più forte! » Aveva steso due copie conformi dell'originale e Hobday firmò ogni pagina con uno sgorbio che rivelò la sua scarsa dimestichezza con la scrittura. Poi, ciascuno dei presenti appose la propria firma, come testimone, sotto quella di Hobday, e Sean impresse il proprio sigillo ufficiale nella ceralacca sull'ultima pagina di ogni copia. « Va bene », disse, chiudendo la prima copia nella cassaforte murata nella parete dietro la scrivania. « Voglio che lei metta agli atti l'altra copia », disse a Peter. « Grazie per la sua assistenza, signor Botes. » Fece scattare la serratura. « Mark, ti dispiacerebbe telefonare al dottor Acheson? Immagino che dobbiamo curare il nostro testimone, anche se, per quanto mi riguarda, preferirei vederlo soffrire. » Quando il dottor Acheson arrivò a Lion Kop, erano quasi le due del mattino, e Ruth Courteney lo fece salire nella stanza degli ospiti, dove giaceva Hobday. Né Sean Courteney né Mark salirono. Rimasero nello studio, seduti davanti al fuoco che un domestico aveva riacceso. Il vento scuoteva i battenti delle finestre martellate dalla pioggia. Sean stava bevendo whisky e Mark gli aveva già riempito il bicchiere due volte nello spazio di un'ora. Era accasciato nella sua poltrona preferita, stanco, vecchio e prostrato dal dolore, e teneva il bicchiere con entrambe le mani. « Se avessi il coraggio di farlo, lo ammazzerei a fucilate io stesso, come un cane rabbioso. Ma è pur sempre mio figlio, anche se continuo a negarlo, sangue del mio sangue, concepito da me. » Mark non replicò. Ruth comparve nella stanza. « Il dottor Acheson sta sistemando il braccio di quell'uomo », disse. « Ci vorrà un'altra ora, ma credo che faresti bene ad andare a letto subito, amore. » Si avvicinò alla poltrona di Sean e gli pose con gentilezza la mano sulla spalla. « Credo che ne abbiamo viste e sentite più che abbastanza in una sola gior-
nata. » Il telefono sulla scrivania squillò con un tintinnio irritante che fece sobbalzare tutti. Lo fissarono a lungo, finché il campanello riprese a suonare imperioso. Ruth si avvicinò e sollevò il ricevitore. « Parla la signora Ruth Courteney », disse in tono sommesso, quasi timoroso. « Signora Courteney, lei è la madre della signora Storm Hunt? » « Sì .» « Dobbiamo darle una brutta notizia. Qui è l'ospedale Addington di Durban. Sua figlia è rimasta coinvolta in un incidente stradale. Colpa della pioggia e del fango temo. Il bambino, suo nipote, è rimasto ucciso all'istante. Per fortuna non ha sofferto, ma sua figlia è grave. Potrebbe raggiungerla non appena le sarà possibile? Temiamo che non riesca a superare la notte. » Ruth lasciò cadere il ricevitore. Barcollò e divenne pallida in volto, bianca come ghiaccio. « Dio mio! » bisbigliò. Le ginocchia non riuscirono più a sorreggerla e cominciò ad accasciarsi. Mark riuscì ad afferrarla prima che toccasse il suolo e la adagiò sul divano. Sean si avvicinò al ricevitore che penzolava dall'apparecchio e lo sollevò. « Parla il generale Courteney », disse con voce rabbiosa. « Che cosa c'è? » Mark, al volante della possente Rolls, imboccò la curva in direzione del ponte a velocità molto sostenuta. La donna che amava, la madre del suo bambino morto, era in fin di vita. A Mark si stava spezzando il cuore nel petto. La strada era coperta di fango brunastro, e gli altri veicoli avevano creato solchi profondi nel fondo stradale, trasformandolo in uno spesso strato di melma dall'aspetto sinistro. La Rolle slittava e sbandava nei solchi, ma Mark dominava con decisione il volante. Il ponte sul Baboon Stroom distava ancora cinquecento metri, sempre invisibile nella pioggia che non accennava a diminuire. I coni di luce dei fari riuscivano a illuminare solo un tratto di quindici metri davanti al veicolo. Al di là, una cortina di gocce di pioggia, simili a tanti giavellotti, ostruiva la visuale. Ruth Courteney, seduta sul sedile posteriore, aveva lo sguardo fisso. I suoi occhi non vedevano. Il collo della pelliccia le copriva le orecchie facendola sembrare piccola e fragile come una bambina. Il generale Sean Courteney, seduto accanto a Mark, stava chiacchierando con voce sommessa, come se stesse parlando a se stesso. « Ho perso troppo tempo, da quel cocciuto vecchio fesso che sono. Le chiedevo troppo, pretendevo che fosse migliore degli altri esseri umani e sono stato severo con lei quando non è riuscita a raggiungere il grado di perfezione che volevo io. Sarei dovuto andare da lei molto tempo fa, e ora è forse troppo tardi. »
« Non è troppo tardi », replicò Mark. « Vivrà, deve vivere. » « Ormai è troppo tardi per conoscere il mio nipotino », insisté Sean con un bisbiglio. « Non l'ho mai visto, e solo ora mi rendo conto di quanto lo desiderassi... » Al sentir nominare il piccolo John, Mark fu colto da un senso di acuta disperazione. Fu come un colpo basso allo stomaco. Aveva voglia di urlare: « Era mio figlio. Il mio primogenito! » ma Sean, accanto a lui, aveva ripreso a parlare. « Sono stato un vecchio vendicativo. Che Dio mi perdoni, ma sono arrivato persino a non menzionare mia figlia nel testamento. L'ho diseredata, e ora mi pento amaramente di averlo fatto. Se solo potessi raggiungerla e trovarla ancora viva, se solo potessi parlare con lei anche una sola volta. Ti prego, Iddio, concedimi questo! » Davanti a loro, la ringhiera metallica del ponte emerse dall'oscurità, e un fulmine rimbalzò dal ventre delle nubi. Per un istante, Mark intravide la ragnatela dei montanti del ponte che valicava duecento metri d'abisso. Sotto di esso, le sponde rocciose della gola strapiombavano per quasi cinquanta metri fino alla superficie sconvolta del Baboon Stroom in piena. Mark sfiorò il pedale del freno, passando poi con una « doppietta » alla marcia inferiore e riprendendo il perfetto controllo della Rolls mentre si accingeva ad affrontare l'ingresso del ponte stradale. Improvvisamente, un accecante cono di luce si accese al margine destro della strada e Mark sollevò la mano per schermare gli occhi. Dal buio eruppe una grande sagoma oscura con due forti fari, brillanti come occhi malvagi, che si avvicinava. Mark si rese subito conto, con molta presenza di spirito, che la Rolls era intrappolata senza scampo sulla rampa d'accesso al ponte, che sulla sua sinistra solo una fragile ringhiera di tubi di ferro si frapponeva tra lui e il precipizio e che il mostruoso veicolo che gli stava venendo incontro a tutta velocità da destra lo avrebbe investito, sospingendo la Rolls contro la ringhiera che avrebbe ceduto come cartapesta. « Tenetevi stretti! » urlò, e sterzò violentemente per affrontare il mostro rombante d'acciaio e i fasci di luce bianca che lo stavano accecando. Peter Botes lasciò la strada e s'inoltrò tra gli alberi con la sua Packard, spegnendo il motore. Si udiva il frusciare dei rami di pino agitati dal vento, e le gocce di pioggia picchiettavano sul tetto della macchina. Peter accese una sigaretta e aspirò profondamente, attendendo l'effetto calmante del fumo, e diresse lo sguardo lungo il rettilineo che portava a Great Longwood, la residenza di Dirk Courteney. Sentiva che la decisione che doveva prendere in quel momento avrebbe assunto una vitale importanza per il resto della sua vita. Del resto, qualsiasi cosa avesse deciso, la sua vita era
ormai cambiata per sempre. Dirk Courteney avrebbe trascinato con sè nella rovina tutti coloro che gli erano vicini, anche gli innocenti come lui, Peter. Lo scandalo e la colpa lo avrebbero contaminato, compromettendo i risultati che aveva ottenuto, con tanta fatica, fino a quel momento. Il prestigio, la rapida carriera e le altre cose belle della vita che proprio ora cominciava ad assaporare. Sarebbe finito tutto. Avrebbe dovuto ricominciare da capo, forse in un altro luogo, in un altro Paese, partendo dalla gavetta. L'idea lo faceva inorridire. Si era abituato a essere un personaggio importante, ricco. Non sapeva se sarebbe stato in grado di affrontare un nuovo inizio. D'altra parte, se Dirk Courteney fosse scampato al disastro e alla morte, quale gratitudine avrebbe provato per l'uomo che lo aveva salvato? Conosceva le dimensioni dell'attuale ricchezza e potenza di Dirk Courteney, ed era senz'altro pensabile che una parte di tutto questo, forse una grossa parte, sarebbe passata a lui, Peter Botes, l'uomo che aveva salvato Dirk Courteney e che aveva in mano lo strumento capace di distruggerlo da un momento all'altro. Il destino offre solo a pochi eletti, Peter se ne rese conto, un'occasione come questa. Da un lato il disonore e l'oscurità, dall'altro il potere e la ricchezza; decine di migliaia, magari milioni di sterline. Rimise in moto la Packard e le ruote posteriori slittarono, girando a vuoto nel fango. Alla fine riuscì a risalire con un pò di manovre sulla strada e si diresse verso la sommità della collina. Dirk Courteney era seduto su un angolo della scrivania con una gamba penzoloni. Indossava una vestaglia di seta, e il tessuto lucente rifletteva la luce della lampada mentre si muoveva. Portava una sciarpa di seta bianca intorno al collo e gli occhi spiccavano limpidi e svegli nel volto regolare e abbronzato. Non aveva affatto l'aria di essersi appena destato da un sonno profondo. Faceva roteare intorno all'indice teso una pistola da duello e lo ascoltò con molta attenzione. Peter Botes, innervosito, sedeva sull'orlo della sedia e rabbrividiva a tratti, strofinandosi le mani, benché il caminetto fosse acceso e Dirk avesse smosso il fuoco per ottenere una bella fiamma. Peter si rese conto che la sensazione di gelo era dovuta al suo stato d'animo, cosicché alzò un tantino la voce mentre continuava a riferire. Dirk Courteney non parlò, non fece commenti né proruppe in esclamazioni, e neppure fece domande finché Peter non ebbe finito. Fece compiere due giri alla pistola e il calcio finì nell'incavo della mano. Due giri, e aveva l'arma in pugno. Quando Peter Botes ebbe finito, Dirk armò il cane della pistola e il Clic del meccanismo fece un rumore esagerato nella stanza avvolta dal silenzio.
« Hobday, mio padre, sua moglie, il giovane Anders... e tu. Gli unici che sanno tutto. » « E lo zulu. » « E lo zulu », convenne Dirk, facendo scattare a vuoto la pistola. Il percussore batté sul metallo con uno schianto. « In quante copie è stato redatta la dichiarazione? » « Una sola », mentì Peter. « Si trova nella cassaforte che c'è nello studio del generale. » Dirk annuì e riarmò la pistola. « Va bene. Se esiste un'altra copia, vuoi dire che l'hai tu », dichiarò. « Ma noi due non ci diciamo bugie, eh, Peter? » Era la prima volta che Dirk usava il nome di battesimo di Botes. Vi era familiarità ma anche una certa minaccia in questo, e Peter poté solo annuire. Aveva la gola secca. Ancora una volta Dirk fece scattare a vuoto la pistola e sorrise. Era il sorriso caldo e simpatico, franco e affascinante che Peter conosceva così bene. « Noi due siamo troppo affezionati l'uno all'altro per farci del male, non ti pare? » Continuava a sorridere. « E per questo che sei venuto a raccontarmelo, no? Perché siamo uniti da tanto affetto. » Peter non disse nulla, e Dirk continuò, sempre sorridendo: « E naturalmente tu sarai ricco, Peter, se farai quello che ti dirò io. Molto ricco. Farai quello che ti chiederò, no, Peter? » Peter annuì di nuovo. « Sì, naturalmente », bofonchiò. « Voglio che tu faccia una telefonata », disse Dirk. « Se parlerai attraverso un fazzoletto teso sopra il microfono, sembrerà che la chiamata venga da molto lontano. Per di più, altererà la tua voce. Nessuno la riconoscerà. Lo farai? » « Naturalmente », annuì Peter. « Chiamerai la casa di mio padre e parlerai con lui o con sua moglie. Dovrai fingere di essere qualcuno dell'ospedale Addington, ed ecco che cosa dovrai dire... » Dirk Courteney era seduto nell'ombra dell'abitacolo dell'autocarro e ascoltava il rumore della pioggia, mentre riesaminava mentalmente con cura i suoi progetti e preparativi. Non gli piaceva entrare in azione in maniera affrettata, senza aver il tempo di predisporre tutto con cura. Era troppo facile trascurare qualche particolare di vitale importanza. Non gli piaceva inoltre agire di persona in casi del genere. Era molto meglio incaricare un'altra persona. Non voleva più correre personalmente dei rischi, se non nei casi in cui non poteva fare altrimenti. Ma i rimpianti e i cattivi presentimenti risultavano futili in quel momento. Così riprese a riesaminare con cura il proprio piano. Si sarebbero serviti della Rolls-Royce, e sarebbero stati in tre: il generale, la sua puttana ebrea e quell'arrogante e intrigante di un Anders. Dirk aveva scelto il posto con cura, e l'autocarro aveva nel cassone cinquanta sacchi di avena. Tre tonnellate. Un peso che
avrebbe conferito una forza d'inerzia terribile al veicolo. Dopo, doveva fare due cose. Prima di tutto, assicurarsi che tutt'e tre fossero morti. Aveva un tubo di piombo avvolto in un fodero in grado di fracassare qualsiasi cranio senza ledere la pelle. Poi doveva prendere le chiavi del generale. La chiave della cassaforte era appesa al mazzo che il generale portava attaccato alla catena dell'orologio. L'idea di derubare la salma del padre non lo sgomentava minimamente. Era solo preoccupato di ricuperare le chiavi, che non scoppiasse un incendio e la Rolls non venisse travolta e sommersa dall'impetuosa corrente del Baboon Stroom. Se questo fosse successo, avrebbe dovuto confidare nel fatto che il generale certamente non aveva cambiato abitudini da una ventina d'anni a quella parte. Vent'anni prima, il doppione della chiave della cassaforte si trovava in cantina, sulla rastrelliera posta sopra quella delle bottiglie di champagne. Dirk lo aveva scoperto da ragazzo mentre giocava, e aveva preso per ben due volte la chiave per i propri finì, rimettendola a posto di nascosto. Il generale era un vecchio, molto attaccato alle proprie abitudini. La chiave doveva essere ancora lì. Dirk ne era certo. Dunque, la cassaforte. Due chiavi. Se non fosse riuscito a ricuperare né l'una né l'altra, non importava. Si trattava, in fondo, di una cassaforte vecchia, ma lui non voleva scassinarla. Doveva sperare nella presenza delle chiavi. Tuttavia, il pensiero che in una maniera o nell'altra avrebbe potuto aprirla lo soddisfaceva. Una volta in possesso della dichiarazione, l'avrebbe bruciata con cura. Così restava Hobday. Probabilmente ricoverato in una delle stanze per gli ospiti, sotto sedativo, impotente. Il tubo di piombo sarebbe entrato di nuovo in azione, e una lampada a petrolio rovesciata avrebbe fatto il resto. Era una grande casa di vecchio tipo, con le travi di legno e uno spesso tetto di paglia. Avrebbe preso fuoco come una pira funebre, con Hobday dentro, simile a un capo vichingo. Restava ancora un problema: Peter Botes. Dirk lo guardo in tralice. Era una situazione che poteva essere risolta, non peggiore delle molte alle quali era sopravvissuto in passato. Bastava entrare in azione rapidamente, con decisione. Così si rivolse a Peter in tono incoraggiante. « Non preoccuparti », disse. « Da domani comincia una vita nuova per te. Ti condurrò con me sulla strada della ricchezza e del potere, Peter. Non rimpiangerai mai ciò che farai questa notte, te lo giuro. » Strinse il braccio di Peter, un gesto cameratesco nel buio. Naturalmente Peter aveva una copia della dichiarazione, pensò Dirk, ma in seguito avrebbe avuto tutto il tempo che voleva, tutto il tempo necessario per ritrovarla e liberarsi di quel tronfio piccolo arrivista. Sarebbe bastato aspettare un anno, perché le acque si calmassero. Poi, un altro piccolo infortunio, e tutto sarebbe finito.
« Hai con te la pistola? » chiese, e Peter inghiottì a vuoto. Teneva tra le ginocchia con entrambe le mani la grossa Smith Wesson, il revolver d'ordinanza delle forze armate. « Non dovrai usarla », lo avvertì Dirk. « Se non in un caso estremo. Non dovremo trovarci tra i piedi fori di proiettili da giustificare a un eventuale investigatore. Hai capito? » « Si, ho capito. » « La tua presenza sarà solo una misura di sicurezza, ecco tutto. Di sicurezza assoluta. » Fuori, nel buio, s'intravedevano attraverso la cortina di pioggia due fari che scomparivano a tratti e risalivano, sempre più luminosi, la strada in salita. « Eccoli, arrivano », disse Dirk, mettendo in moto l'autocarro. Mark sterzò violentemente a destra e schiacciò l'acceleratore a tavoletta, tentando di sottrarsi alla collisione e arrivare al ponte prima del grande veicolo rombante. Alle sue spalle, Ruth Courteney emise un acuto strillo, ma Mark credette di avercela fatta. Pensò per un istante che l'improvvisa accelerata avesse fatto guadagnare abbastanza spazio alla Rolls, ma l'autocarro sbandò e Mark presenti in ogni osso del proprio corpo lo schianto dell'impatto. L'autocarro investì la Rolls all'altezza delle ruote posteriori, e la grossa vettura si spostò di lato. Mark si sentì strappare il volante di mano e andò a sbattere contro lo sportello. Ebbe la sensazione che le costole della sua gabbia toracica si schiacciassero come tanti ramoscelli secchi. Poi, il mondo si capovolse quando la Rolls cominciò a rotolare. Una pioggia di brillanti scintille apparve, simile a una meteora, nel buio della notte mentre l'acciaio cozzava contro l'altro acciaio. Ci fu un nuovo strattone quando la Rolls sfondò la ringhiera del ponte... subito dopo precipitarono in caduta libera nel baratro oscuro. Sul sedile posteriore, Ruth Courteney stava ancora urlando. La Rolls colpì di striscio la parete rocciosa sottostante, rimbalzando per ripiombare ancora una volta nel vuoto. Mark era compresso contro lo sportello, trattenuto dall'accelerazione del veicolo in caduta, ma all'impatto successivo lo sportello si spalancò di colpo e Mark venne scaraventato fuori, simile a un sasso lanciato da una fionda, per piombare nel vuoto, pervaso dai rumori del metallo lacerato. Scorse sotto i propri piedi i fari accesi della Rolls che scendevano tracciando una brillante spirale, e la gola rimandò l'eco dello schianto dell'acciaio contro la roccia, accompagnato dal rombo pazzesco del motore imballato dell'auto. Ebbe la sensazione che la caduta non avesse mai fine. Improvvisamente sbatté contro qualcosa di solido con tale violenza che i polmoni si vuotarono di ogni traccia d'aria. La botta ricevuta gli fece pensare per un attimo di essersi schiantato sul fondo roccioso della gola, ma poi la corrente fredda e tumultuosa dell'acqua lo sopraffece. Era stato scagliato abbastanza lontano per finire nel fiume.
Con uno sforzo, pur in procinto di perdere i sensi, tentò di respirare, di tenere la testa fuori dell'acqua, mentre la corrente lo trascinava via. Grandi roccioni neri e lucidi emergevano dal buio improvvisamente come tanti predatori, gli afferravano le gambe, lo colpivano al torace ferito, lo scaraventavano di qua e di là, e l'acqua gelida cominciò a scendergli in gola, bruciandogli i polmoni e dandogli a ogni respiro la sensazione di dover vomitare, di essere sul punto di soffocare. Scivolò nel bel mezzo di una cascata bianca sentendosi strappare la pelle dall'anca e dalla spalla al contatto con la ruvida roccia, e, arrivato in fondo, andò a cozzare di nuovo, per restare incastrato, stavolta, tra due macigni giganteschi. I massi si ergevano nel buio alti sopra la sua testa come due pietre tombali. I due roccioni lo trattenevano e l'acqua tentava di trascinarlo via, furiosa perché le era stata negata la preda. C'era un pò di luce, appena sufficiente per distinguere le forme e le distanze, e Mark se ne meravigliò benché avesse il cervello quasi fuori uso per i colpi ricevuti e per la mancanza di ossigeno. Poi alzò lo sguardo e vide con gli occhi annebbiati dall'acqua che l'autocarro era parcheggiato sulla soglia del ponte, alto sulla gola. I fari del veicolo illuminavano i montanti di ferro e la luce veniva spezzata e diffusa dalla pioggia, creando un vago riverbero nella gola. Oltre a questa, vi era un'altra fonte di luce più vicina e più potente. La carcassa fracassata della Rolls-Royce giaceva ai piedi della scarpata, a metà sommersa e a metà posata sulle rocce. Era capovolta, con le quattro ruote all'aria che giravano per inerzia, e i due fari ancora accesi investivano con potenti fasci di luce le frastagliate pareti rocciose, creando un drammatico scenario. Mark si guardò attorno e vide che la corrente lo aveva trascinato sotto la scarpata e che una cengia di roccia nera e lucida creava una specie di tetto sopra la sua testa. Tese il braccio destro, ma un grido di dolore gli eruppe dal petto quando le dita sfiorarono la pietra. Doveva avere anche il polso spezzato. Si aggrappò disperatamente ai macigni viscidi e tentò di costringere le dita della mano destra ad aprirsi e chiudersi. La corrente era troppo forte perché potesse resistere ancora a lungo. Mark si sentiva scivolare sulle rocce semisommerse e fu sul punto di mollare la presa. Sapeva che cento metri più a valle c'era la prima grande cascata, dove l'acqua precipitava schiumante e rabbiosa. Aggrappato con la mano sinistra al macigno, spostò la destra verso l'alto con tutta la forza di cui fu capace. Le dita riuscirono ad afferrare il tagliente margine della sovrastante cengia, e il suo corpo cominciò a oscillare. Le acque voraci gli percuotevano le ginocchia, mettendo a dura prova la saldezza della sua presa, tentando di trascinarlo, di spezzargli le dita contratte come artigli. Molto lentamente, con uno sforzo penoso, Mark riuscì a pie-
gare il braccio, a sollevare le ginocchia e a estrarre i piedi dal l'acqua, sottraendosi al suo micidiale risucchio. Rimase appeso per un altro istante, raccogliendo tutte le forze di cui ancora disponeva, e poi lanciò in alto, con un'ultima mossa convulsa, il braccio destro per agganciare il gomito alla parte superiore della cengia, effettuando subito dopo la stessa manovra con il gomito sinistro. Un altro attimo di riposo e finalmente riuscì a salire sulla cengia e a sdraiarvisi bocconi. Credeva di essere diventato cieco, o che le luci si fossero spente, ma il buio era solo nella sua mente. La sensazione scomparve pian piano e Mark alzò la testa. Il rombo del fiume sopraffaceva ogni altro rumore. Così non poté udire le pietre smosse che cadevano né lo scalpiccio dei passi di Dirk Courteney che scendeva lungo il sentiero quasi verticale sotto il ponte. Mark non rimase sorpreso quando lo vide: gli sembrava anzi perfettamente naturale che Dirk Courteney fosse presente sulla scena del disastro. Indossava pantaloni da caccia e calzava stivali a mezzo polpaccio. Portava una giacca a vento da marina e una cuffia di lana calata sugli occhi. Dirk scese in scivolata gli ultimi due o tre metri di scarpata, tenendosi in equilibrio come un ballerino, per fermarsi sulla cengia accanto alla Rolle fracassata. Si guardò attentamente in giro frugando con il fascio di luce di una torcia ogni ombra e anfratto. Mark si appiattì sulla roccia, anche se la luce non arrivava fino a lui. Il generale Sean Courteney era stato scagliato attraverso il parabrezza, ma solo per metà, e l'intero peso della macchina gli aveva schiacciato la parte superiore del torace. La testa era quasi staccata dal corpo e la fitta barba bianca era inzuppata di sangue vermiglio, che risplendeva come tanti rubini alla luce della lanterna. Dirk Courteney si chinò su di lui e tastò la carotide. Nonostante la paurosa mutilazione subita da quel corpo, dovette scoprire qualche residuo di vita che non voleva andarsene. Dirk fece ruotare la testa del generale, i cui occhi erano spalancati ed esprimevano sorpresa. Poi sollevò il corto e spesso manganello che teneva nella destra. Mark tentò di gridare, ma la sua esclamazione gracidante fu sopraffatta dal rombo dell'acqua. Dirk colpì il padre alla tempia, sopra l'orecchio destro, dove i riccioli grigi erano appiccicati al cranio. Il tonfo sordo del corpo parve penetrare fino in fondo all'anima di Mark. Poi, Dirk premé con l'indice la tempia, per valutare l'esito della propria opera e sentì che il dito sprofondava tra i lembi fracassati del tessuto osseo, penetrando profondamente nella testa del padre. Il volto di Dirk era privo di qualsiasi espressione, freddo e distaccato, ma poi fece qualcosa che a Mark sembrò ancora più
terribile, più sconvolgente del colpo che aveva dato la morte al generale. Con un gesto tenero chiuse con i polpastrelli delle dita gli occhi privi di vita di Sean Courteney. Quindi pose un ginocchio a terra e sfiorò lievemente con un bacio le labbra insanguinate del padre, senza mutare l'espressione del volto. Un atto che solo una mente squilibrata poteva compiere. In quell'istante Mark si rese conto per la prima volta che Dirk Courteney era pazzo. Quasi immediatamente, il comportamento di Dirk cambiò. Le mani persero il tocco gentile e presero di nuovo a muoversi con decisione compiendo gesti precisi. Rivoltò il cadavere, sbottonò il cappotto di pelo di cammello e perquisì rapidamente Sean. Poi estrasse la catena d'oro alla quale erano attaccate le chiavi e l'orologio. Esaminò rapidamente le chiavi e se le mise in tasca. Quindi balzò in piedi, raggiunse lo sportello posteriore della Rolle e girò la maniglia. Lo sportello si spalancò di colpo e il corpo di Ruth Courteney scivolò fuori di fianco, fermandosi ai piedi di Dirk. Questi afferrò una ciocca dei capelli scuri di lei e le rovesciò la testa. Di nuovo alzò il manganello, colpì alla tempia e palpò il cranio come un medico che debba fare una diagnosi. Soddisfatto, prese in braccio il corpo inerte di Ruth Courteney e lo portò fino all'acqua. Qui lo lasciò cadere, e quella che era stata Ruth Courteney scomparve all'istante, trascinata dalla corrente verso le cascate della valle di Ladyburg. Avrebbero pensato gli spuntoni di roccia a togliere al coroner ogni dubbio circa la causa della morte. Impotente perché ferito ed esausto, con il corpo malridotto oltre ogni limite, Mark non fu in grado di muoversi. Riusciva a malapena a respirare quando vide Dirk Courteney chinarsi e afferrare il padre per le caviglie. Poi, Dirk trascinò la pesante salma del generale al limite del fiume, curvandosi all'indietro per lo sforzo. Mark lasciò cadere il volto sulle mani e si accorse di piangere. Erano singhiozzi senza lacrime che irritavano le ferite nel torace. Quando alzò di nuovo lo sguardo, il corpo di Sean Courteney non c'era più e Dirk si stava avvicinando al punto in cui giaceva lui, seguendo con cautela la stretta cengia, frugando il buio con la luce della torcia, perlustrando le acque tumultuose, esaminando ogni centimetro di roccia, cercando lui, Mark, sapendo che si trovava sulla Rolls. I fasci di luce dei fari dell'autocarro avevano investito in pieno il volto di Mark nell'attimo fatale della collisione. Dirk Courteney sapeva che lui era lì, da qualche parte. Mark si girò su un fianco e tentò di sbottonare la giacca, ma nella fretta adoperò la mano destra e il dolore gli strappò un gemito. Allora fece saltare i bottoni con la sinistra, riuscendo a liberarsi dell'indumento che, bagnato fradicio, ostacolava ogni suo movimento. Quando ebbe finito, Dirk Courteney distava solo una quindicina di metri. Avanzava senza fermarsi, con
molta cautela, la torcia in una mano e il corto, pesante manganello nell'altra. Mark spostò la giacca, tentando di farla cadere nel fiume, ma non fece in tempo a vedere se c'era riuscito. Dirk Courteney era troppo vicino. Mark rotolò su se stesso verso la base della scarpata, soffocando ogni gemito mentre le costole spezzate e il polso rotto venivano a contatto con il suolo. Trovò un cammino buio, ma poco profondo, dove le luci dei fari e della torcia non arrivavano. Mark si alzò in piedi. Dirk Courteney era nascosto dall'angolo di roccia, e il fascio di luce della torcia oscillava di qua e di là, si alzava e si abbassava a ogni passo. Mark volse il viso in direzione della scarpata, si scosse e constatò che le forze gli stavano ritornando, almeno in parte, e che la sua rabbia era ancora viva, simile a una fiamma che gli ardeva nel petto. Cominciò ad arrampicarsi lentamente, in maniera maldestra, aggrappato alla fredda roccia bagnata come un insetto ferito. Era salito di circa sei metri, quando Dirk Courteney si fermò sulla cengia immediatamente sotto di lui. Mark s'irrigidì in un silenzio totale. Era l'ultima difesa di un animale altrimenti impotente. Tuttavia sapeva che Dirk lo avrebbe scoperto non appena avesse illuminato la parete rocciosa. Se lo aspettava con la cupa rassegnazione dell'animale che attende di essere abbattuto al macello. Dirk esaminò un'altra volta con molta attenzione il terreno circostante, agitando la torcia in maniera da illuminare anche la sponda opposta del fiume, e fu sul punto di dirigere il fascio di luce verso l'alto per scrutare la scarpata, quando qualcosa destò la sua attenzione. Con pochi passi affrettati raggiunse l'orlo della cengia e diresse il fascio di luce della torcia verso il basso. La giacca di Mark si era impigliata in uno dei macigni e Dirk pose un ginocchio a terra e tentò di raggiungerla con il braccio teso. Era l'attimo di tregua di cui Mark aveva bisogno. Dirk badava solo alla giacca sul macigno e il rombo della corrente coprì il rumore prodotto dalle mani e dai piedi di Mark che continuò l'arrampicata. Non guardò più da basso finché non fu risalito per un'altra quindicina di metri, e qui si accorse che la giacca aveva funzionato da esca. Dirk Courteney era sceso a valle per una trentina di metri e stava in piedi su uno spuntone di roccia che sovrastava la prima ripida cascata, proprio al limite della scarpata. Aveva la giacca bagnata in mano e stava frugando con lo sguardo il pauroso salto d'acqua. Sotto la luce della torcia l'acqua scorreva nera e liscia come l'olio mentre precipitava nell'abisso, salvo poi trasformarsi in bianca spuma quando toccava il fondo. Dirk Courteney scagliò la giacca nel vuoto e si allontanò lievemente dal precipizio. Si accasciò. Il roccione lo proteggeva
dalla pioggia e dal vento, e con tutta calma estrasse un sigaro e lo accese, simile a un operaio che interrompa il lavoro dopo aver portato a termine in maniera soddisfacente una difficile operazione. Questo piccolo gesto occasionale, la fiammata del fiammifero e l'azzurrastra nube di tabacco afferrata dalla luce della torcia salvarono probabilmente la vita di Mark. La sua rabbia raggiunse un parossismo che gli diede la forza necessaria per superare ogni dolore o esaurimento fisico. Gli diede l'impulso per continuare, cosicché riprese l'arrampicata. A tratti, durante la salita, Mark perdeva il senso della realtà. Un'illusione di calore e di benessere cominciò a pervadere tutto il suo corpo. Era una sensazione meravigliosa, gli pareva di librarsi senza peso, come se stesse per addormentarsi, ma si riprese un attimo prima di abbandonarsi, percuotendo di proposito con la mano destra la superficie rocciosa. Urlò di dolore, ma il dolore fu per lui un nuovo incitamento a resistere. Quello stimolo perse però lentamente d'efficacia a causa del freddo e del dolore, e la fantasia cominciò a riprendere il sopravvento. Credeva di essere uno dei favoriti di Chaka, di seguire il vecchio re su quel terribile roccione fino alla vetta del passo, e si accorse di dire sciocchezze in uno zulu approssimativo. Nella testa gli rimbombava la profonda e sonora voce del vecchio re che gli diceva di farsi sotto, che lo incoraggiava, e Mark sapeva che sarebbe riuscito a intravedere il suo volto se si fosse arrampicato più in fretta. Per l'impazienza gli sfuggì la presa e così cominciò a scivolare indietro, acquistando sempre maggiore velocità sul pendio, finché cadde di schianto su uno dei deformi alberi nani che spuntavano dalla superficie della scarpata. L'albero arrestò la caduta, ma Mark urlò, perché le costole rotte gli dolevano terribilmente. Quando riprese l'arrampicata, udì la voce di Storm, così limpida e vicina da indurlo a fermarsi. Alzò il volto verso la pioggia e il buio. Lei era lì, galleggiava al di sopra della sua testa, bellissima, pallida e piena di grazia. « Vieni, Mark », disse Storm, e la sua voce rimbombò e riecheggiò nella sua testa come una campana d'argento. « Vieni, amore mio. » Mark sentì così che lei era viva, che non stava morendo in un freddo letto d'ospedale, che era lì, che era venuta per assisterlo nel dolore. « Storm! » esclamò, e si lanciò verso l'alto, cadendo in avanti e ritrovandosi disteso, con il volto affondato nella corta erba verde alla sommità della scarpata. Sarebbe voluto restare sdraiato li per sempre. Non era neppure sicuro di avere raggiunto la sommità, dubitava che si trattasse di un'altra fantasia. Forse era già morto e tutto era finito. Poi sentì le gocce di pioggia sulla guancia e un gracidare di piccole rane e l'alito freddo del vento, rendendosi conto, con dispiacere di essere ancora vivo. Il dolore ricominciò a farsi sentire. Ebbe inizio dapprima al polso e subito dopo si diffuse in tutto il corpo. Dubitò che
avrebbe avuto la forza di sopportarlo. All'improvviso si formo nella sua mente l'immagine, netta e precisa, di Dirk Courteney chino sul corpo del padre, con il manganello in mano, pronto a colpire, e lo scoppio di furore conseguente fu un'altra volta la salvezza di Mark. Si rizzò penosamente sulle ginocchia e si guardò attorno. A circa cento metri di distanza, l'autocarro era parcheggiato sulla soglia del ponte di ferro e, alla luce dei fari, Mark riuscì a distinguere i contorni di un uomo. Con un altro gigantesco sforzo che lo lasciò quasi esausto, Mark si alzò in piedi. Barcollava mentre raccoglieva le forze per fare il passo successivo. Peter Botes era fermo sotto la pioggia e la pistola di grosso calibro gli pendeva dalla mano destra. La pioggia gli scorreva lungo le guance e sulla fronte dopo avergli bagnato i sottili capelli color sabbia, cosicché continuava a tergersi il volto con la mano sinistra. La pioggia era penetrata attraverso il cappotto bagnandogli le spalle, e Peter Botes rabbrividiva spasmodicamente sia per la paura sta per il freddo. Era rimasto invischiato in una confusione di eventi che sfuggivano a ogni suo controllo, in una rete nella quale non vedeva via d'uscita, benché la sua mente, abituata a ragionare da avvocato, si contorcesse nella vana ricerca di inghippi per cavarsela. « Complicità in omicidio, prima e dopo il fatto. » Non voleva sapere che cosa stesse accadendo da basso, ai piedi della scarpata, eppure provava nel contempo un fascino malsano e un senso di panico. Non era quello che si era immaginato quando aveva deciso di andare da Dirk Courteney. Credeva che poche parole sarebbero bastate e che se ne sarebbe potuto andare, fingendo che nulla fosse accaduto, per tornare a infilarsi nel caldo letto della moglie e tirarsi le coperte sopra la testa. Non si era preparato ad assistere a scene di orrore e violenza, a tenere una pistola in mano, a prender parte a quella brutta e sanguinaria faccenda nella scarpata. « In questi casi c'è la pena di morte », rifletté, e rabbrividì di nuovo. Sarebbe voluto fuggire, ma non avrebbe saputo dove andare. « Dio mio, perché l'ho fatto? » bisbigliò ad alta voce. « Vorrei, Dio mio, vorrei... » Era l'antico grido dei deboli, ma Peter non espresse il desiderio fino in fondo. Udì un rumore alle proprie spalle e cominciò a voltarsi, a sollevare la pistola per puntarla, con entrambe le braccia distese davanti a sé. Dal buio gli veniva incontro una figura e Peter spalancò la bocca per gridare. Era un fantasma di sangue e fango, aveva un volto pallido e contorto e si avvicinava con tale velocità che il grido non arrivò alle labbra di Peter. Peter Botes era un uomo abituato alle parole e alle idee, un ometto debole, avvezzo alle scrivanie, ai cibi prelibati, mentre l'uomo uscito dal buio era un soldato.
Mark pose un ginocchio a terra nel fango e si chinò su di lui, ansimando e comprimendosi le costole, in attesa che il dolore provocato dal balzo diminuisse e che gli si schiarisse la vista. Guardò l'uomo che aveva sotto di sé. Il viso era premuto nel fango e Mark, afferrando un ciuffo di capelli, costrinse la testa posata sulle spalle esili a voltarsi, per impedire che l'uomo restasse asfissiato nella fanghiglia. Fu solo allora che Mark lo riconobbe. « Peter! » bisbigliò con voce rauca. Di nuovo gli parve di venir meno. Temeva che si trattasse di un'altra visione fantastica, irreale. Toccò le labbra dell'uomo privo di sensi. Erano calde e soffici come quelle di una ragazza. « Peter! » ripeté, e subito tutto gli fu chiaro. Non c'era bisogno di troppi ragionamenti. Ora capiva come Dirk Courteney avesse potuto conoscere il punto migliore per tendere l'agguato. Capiva che era Peter il traditore, che le esche erano state Storm e il piccolo John, che era tutta una menzogna. Sapeva che Storm e suo figlio erano al sicuro, addormentati nella minuscola stanza da letto sopra la spiaggia, e questa consapevolezza lo stimolò. Afferrò con la mano sinistra la Smith Wesson che giaceva nel fango e la ripulì con cura sulla camicia. Dirk Courteney si fermò all'uscita del sentiero. Era solo appena affannato in seguito all'arrampicata, ma i suoi stivali erano coperti di fango e le gocce di pioggia gli brillavano sulle spalle, riflettendo la luce dei fari dell'autocarro. Quei fari lo abbagliavano e dietro a essi c'era una zona di impenetrabile oscurità. « Peter? » chiamò Dirk, sollevando il braccio per schermare gli occhi. Vide la figura indistinta dell'uomo in attesa, appoggiato all'abitacolo del camion, e riprese a camminare « E' fatta », disse. « Ora non devi più preoccuparti di nulla. Ho la chiave della cassaforte. Ora ci resta solo da fare pulizia. » Si fermò di colpo e aguzzò di nuovo lo sguardo per esaminare la figura in attesa. L'uomo non si era mosso. « Peter », fece con voce rauca. « Su, muoviti! Fatti coraggio! C'è ancora del lavoro da fare. » Fece qualche passo e uscì dal fascio di luce dei fari. « Che ore sono? » chiese. « Dev'essere tardi. » « Sì. » La voce di Mark era impastata e strascicante. « Per te è molto tardi. » Dirk si fermò di nuovo, guardandolo con occhi sbarrati. Il silenzio parve protrarsi per un'eternità, ma ci volle un solo istante perché Dirk scorgesse la rivoltella e la pallida faccia sporca di fango. Sapeva che la pallottola sarebbe arrivata subito e cercò di ritardarla quanto bastava. « Ascoltami », disse Dirk in tono precipitoso. « Aspetta solo un secondo. » Cambiò la presa della mano destra che sorreggeva la torcia e la voce aveva un tono urgente, esplosivo, quasi ipnotico, quanto bastava perché il dito di Mark si arrestasse sul grilletto.
« C'è una cosa che devi sapere. » Dirk fece un gesto inaspettato, agitò la torcia per scagliarla subito dopo con il lungo e possente braccio. Al contempo balzò in avanti. La torcia colpì Mark alla spalla, sfiorandolo in misura sufficiente per deviare il tiro dell'arma mentre sparava. Ma udì la pallottola andare a segno, quel tonfo attutito del piombo duttile che dilania la carne viva, e percepì il soffio dell'aria spremuta di prepotenza dai polmoni di Dirk Courteney in seguito all'impatto. Il corpo massiccio e muscoloso di Dirk investì di schianto Mark, e, mentre tutt'e due si piegavano da un lato, sorretti dallo chassis dell'autocarro, Mark sentì un braccio di Dirk cingergli il torace e dita robuste stringergli la mano che reggeva la rivoltella. In quel primo contatto diretto, Mark si rese conto all'istante che Dirk Courteney era molto più forte e più pesante di lui. Anche se non fosse stato ferito, sarebbe stata una lotta impari. Mark si sentiva così impotente che ebbe la sensazione di essere intrappolato dagli ingranaggi di un possente macchinario. Dirk Courteney sembrava possedere un corpo non fatto di carne e ossa, ma d'acciaio. Le costole spezzate di Mark si spostarono sotto la stretta del braccio di Dirk, e Mark proruppe in un grido di dolore quando le punte spezzate della gabbia toracica gli si conficcarono nella carne viva. Dirk lo stava costringendo a piegare la mano che reggeva la rivoltella, non solo: la bocca dell'arma si stava dirigendo contro la sua faccia. Dirk Courteney tentò uno sgambetto, ed entrambi cominciarono a girare l'uno intorno all'altro avvinghiati come due ballerini. Ma ora Mark era lontano dalla carrozzeria dell'autocarro, non aveva più punti d'appoggio, e ogni spinta successiva di Dirk lo avrebbe scaraventato lungo disteso nel fango. Sentiva che Dirk Courteney si stava preparando all'attacco successivo. I suoi muscoli di atleta allenato gli permettevano di compiere movimenti perfettamente equilibrati. Mark tentò disperatamente di opporsi, ma si sentì investire da qualcosa di irresistibile, un gigantesco maroso che stia per abbattersi sulla spiaggia. Poi, come per miracolo, proprio nell'istante in cui stava per cedere, Mark si accorse che il massiccio corpo che lo stringeva era pervaso da un tremito; udì il rumore, simile a un singhiozzo, dell'aria che usciva dai polmoni di Dirk Courteney, e subito dopo si senti colpire al ventre da un copioso getto di liquido caldo che colava dalla bocca dell'avversario. Le forze abbandonarono il corpo di Courteney. Mark sentì che Dirk stava barcollando e che la presa alla mano che reggeva la rivoltella diminuiva. Si rese conto che la sua pallottola aveva causato grossi danni all'avversario e che l'ultimo sforzo compiuto da questi aveva provocato uno strappo, un cedimento di qualcosa nel torace di Dirk. Il sangue zampillava dalla ferita sibilando con copiosi getti pompati dal cuore, e Mark si accorse di essere in grado di alterare con uno sforzo supremo la
direzione nella quale era puntata la canna dell'arma, che descrisse un lento arco e tornò alla posizione primitiva, rimanendo puntata contro il volto di Dirk Courteney. Mark non credeva di aver abbastanza forza per premere il grilletto. L'arma parve sparare per proprio conto, e la vampata del colpo in partenza quasi lo accecò. La testa di Dirk Courteney si rovesciò di scatto come se fosse stata colpita in piena bocca da una mazza da baseball. L'impatto fece arretrare Dirk Courteney di colpo, scagliandolo dalla zona di luce dei fari nel buio, e Mark udì il corpo di Dirk scivolare e precipitare lungo il ripido pendio dell'abisso. La rivoltella cadde di mano a Mark, che si accasciò prima sulle ginocchia e poi, lentamente, con il volto nel fango. Ultime volontà e testamento di SEAN COURTENEY, sposato previa separazione dei beni con RUTH COURTENEY (già FRIEDMAN, nata COHEN) e residente attualmente a Lion Kop Ranch nel distretto di Ladyburg ... assegno in eredità tutto il mio patrimonio e tutti i miei effetti mobili e immobili, vuoi in mio possesso, vuoi reversibili, vuoi presumibili o contingenti, ovunque situati e rispondenti a qualsiasi descrizione, nessuna esclusa, a mia moglie già menzionata, RUTH COURTENEY. Alle prime luci dell'alba del mattino successivo, Mark fece scendere la squadra di soccorso lungo la ripida sponda del fiume. Portava il braccio destro al collo, le costole erano strettamente fasciate sotto la camicia, e claudicava penosamente a causa delle ferite riportate. Trovarono Sean Courteney circa mezzo chilometro a valle dell'ultima cascata, dove il Baboon Stroom sfociava in pianura. Giaceva sulla schiena e non presentava tracce di sangue. L'acqua lo aveva ripulito. Le ferite avevano una tinta blu-pallido. All'infuori dell'infossatura nella tempia, i tratti del volto erano praticamente intatti e la grande barba bianca si era asciugata sotto i primi raggi del sole. I riccioli all'estremità della barba erano posati sul petto. Sembrava l'effigie in pietra di un cavaliere medioevale, disteso con corazza e spada su un sarcofago nel buio recesso di un'antica cattedrale. Nell'eventualità che mia moglie dovesse morire prima di me, o morire simultaneamente, o se uno di noi dovesse decedere entro sei mesi dalla morte dell'altro... Il fiume era stato gentile e aveva trascinato Ruth sullo stesso banco di sabbia. Giaceva a faccia in giù, sepolta a metà nella soffice sabbia bianca. Un braccio snello e sodo era disteso, e all'anulare brillava una fede d'oro lucente. Le dita toccavano quasi il braccio del marito. Li seppellirono insieme, fianco a fianco, nella stessa fossa profonda, scavata nel pendio della grande scarpata non lontano
dalla dimora di Lion Kop. ... voglio che le sottoelencate disposizioni vengano osservate per quanto riguarda il resto del mio patrimonio. Seguivano quasi cinquecento lasciti distinti che coprivano una cinquantina di pagine e assommavano complessivamente a quasi cinque milioni di sterline. Sean Courteney non aveva dimenticato nessuno, a cominciare dai più umili inservienti, stallieri e domestici, che ricevevano ciascuno quanto bastava per acquistare un pezzo di terra e una piccola mandria: l'equivalente di un vitalizio. Per coloro che avevano prestato servizio per tutta la vita con fedeltà, i lasciti erano, in proporzione, maggiori. Per coloro che avevano contribuito attivamente alla fondazione e allo sviluppo delle varie società e imprese, c'era - per ciascuno di essi - un pacchetto di azioni, un considerevole pacchetto d'azioni, della società o impresa nella quale avevano lavorato. Non aveva dimenticato un solo amico, un solo parente. Riconosco di avere un figlio legittimo maschio, benché esiti a usare la parola figlio: tale DIRK COURTENEY, attualmente residente a Great Longwood nel distretto di Ladyburg. Dio o il diavolo hanno già provveduto ai suoi bisogni in maniera così lauta che ogni aggiunta da parte mia risulterebbe superflua. Perciò non gli lascio nulla... nemmeno la mia benedizione. Seppellirono Dirk Courteney nella foresta di pini. Non fu possibile trovare un sacerdote disposto a celebrare il rito funebre, e il becchino chiuse la tomba sotto gli occhi curiosi di pochi rappresentanti della stampa e di una folla avida di sensazioni morbose. A guardare furono in molti, ma nessuno pianse. A mia figlia STORM HUNT (nata COURTENEY), che ha preso troppo alla leggera i suoi doveri filiali, io, a mia volta, assolvo il mio dovere paterno con il lascito di una singola ghinea. « Non era in realtà quello che voleva », le disse in un bisbiglio Mark. « Ha parlato di te quella sera... quando è accaduto il fatto... Ha pianto per te. » « Avevo il suo affetto ». disse Storm con voce sommessa. « Anche se - alla fine - tentò di negarmelo. Lo avrò sempre. Questo patrimonio mi basta. Non ho bisono anche dei suoi soldi. » A MARK ANDERS, per il quale ho nutrito un affetto che un uomo di solito concede solo a un figlio da lui generato, non lascio denaro, perché mi rendo fin troppo bene conto del disprezzo che nutre nei confronti di esso. Gli lascio, in luogo di denaro contante tutti i miei libri, dipinti, armi da fuoco - pistole e fucili -, i monili di mia proprietà personale e tutti i miei animali domestici, compresi i cani, i
cavalli e il bestiame. I soli dipinti rappresentavano già un considerevole patrimonio, e molti dei libri erano unici per la loro rarità e bellezza. Mark vendette solo il bestiame e i cavalli. I capi erano troppi; tutti non avrebbero trovato posto nella valle del Bubezi, infestata dalla mosca tse-tse Lascio il residuo del mio patrimonio al sunnominato MARK ANDERS nella sua qualità di curatore dell'Associazione per la protezione della fauna africana. Il lascito dov'essere utilizzato per promuovere i fini della società, in particolare per quanto riguarda lo sviluppo e l'incremento dei territori protetti, al momento noti con il nome di Passo Chaka, che dovranno essere trasformati in una riserva per gli animali selvatici. « Nessun membro del Governo vorrà avere a che fare con un progetto di legge elaborato e promosso dall'ex-Viceministro del Territorio », disse il generale Jannie Smuts a Mark, mentre conversavano tranquillamente dopo il funerale. « Il nome di quell'uomo lascerà un'impronta maleodorante su tutto ciò di cui si è occupato. Le reputazioni politiche sono troppo fragili per correre un rischio come questo; prevedo che il nuovo Governo farà fuoco e fiamme per dissociarsi dal suo ricordo. Possiamo aspettarci fiduciosi un nuovo progetto di legge che confermerà e attribuirà maggiore importanza allo stato giuridico dei territori protetti del Passo Chaka, e io posso assicurarle, ragazzo mio, che il progetto di legge avrà il pieno appoggio del mio partito. » Come il generale Smuts aveva previsto, la legge venne approvata dal Parlamento nella sessione successiva per diventare operante in data 31 maggio 1926 con il titolo di « Legge n. 56 del 1926 del Parlamento dell'Unione Sudafricana ». Cinque giorni più tardi, arrivava a Ladyburg il telegramma che confermava la nomina di Mark a Primo Conservatore del Parco Nazionale del Passo Chaka. Non ci fu alcun processo nel quale Hobday potesse denunciare i complici e richiedere l'immunità per l'assassinio. Così al suo processo il Pubblico Ministero chiese la pena di morte. Nel prospettare succintamente il caso ai giurati, il presidente del tribunale menzionò la testimonianza di Sithole Zama, alias Pungushe. « Ha fatto un'eccellente impressione sulla Corte. Ha dato risposte chiare e precise. Mai la difesa è riuscita a mettere in dubbio la sua palese onestà e la sua memoria perfetta. » Alla vigilia di Natale, nella stanza imbiancata a calce della prigione centrale di Pretoria, Hobday precipitava, con le braccia e le gambe legate da cinghie di cuoio e la testa coperta da un sacchetto nero di cotone, nell'eternità attraverso la botola di legno che si era spalancata di colpo.
Peter Botes, risultato non coinvolto nei reati di omicidio e tentato omicidio grazie alla testimonianza di Mark Anders, venne assolto in istruttoria e non subì alcun processo. « Gli unici suoi delitti sono stati la debolezza e la rapacità », tentò di spiegare Mark a Storm. « Se questi due reati fossero punibili, ciascuno di noi potrebbe finire sulla forca. Del resto, abbiamo già avuto abbastanza vendette e morti. » Peter Botes lasciò Ladyburg subito dopo l'istruttoria e Mark non seppe mai dove fosse andato a finire e che cosa fosse stato di lui. Ora, se vi dovesse capitare di attraversare il fiume Bubezi sul basso ponte di cemento armato, là dove sarebbero dovute sorgere la diga e la centrale idroelettrica di Dirk Courteney trovereste una barriera. Un ranger zulu nell'elegante uniforme con il tipico cappello a tesa ripiegata vi saluterà con un sorriso brillante come lo stemma del Parco posto alla sommità del suo copricapo. Quando vi capiterà di scendere dalla macchina e di entrare nella palazzina di pietre squadrate con il tetto di paglia, dove trovano posto gli uffici, per firmare il registro, date un'occhiata alla parete a sinistra della scrivania del funzionario. In una teca di vetro sono esposte le fotografie e i cimeli risalenti all'epoca in cui fu fondato il Parco. Al centro della collezione spicca il grande ritratto di un vecchio signore arzillo, snello, abbronzato e coriaceo come una pelle essiccata, con un ciuffo di capelli bianchissimi in testa e un paio di meravigliosi baffi. La sua giacca di cotone è un pò stazzonata e sembra cucita per il suo fratello maggiore, perché non è proprio della sua misura. Il nodo della cravatta è scivolato in basso di vari centimetri, e una delle punte del colletto della camicia è leggermente ripiegata. Il sorriso è sbarazzino, ma la forma del mento conferisce a quel signore un'aria risoluta e decisa. Ma quelli che destano maggiormente l'attenzione sono gli occhi. Sono occhi sereni che vi guardano in faccia, gli occhi di un visionario o di un profeta. La didascalia sotto il ritratto dice: COLONNELLO MARK ANDERS, PRIMO CONSERVATORE DEL PARCO NAZIONALE DEL PASSO CHAKA. E sotto, in lettere più piccole: « Grazie all'energia e alla lungimiranza di quest'uomo, il Parco Nazionale del Passo Chaka è sopravvissuto per i posteri. Il colonnello Anders ha fatto parte del consiglio di amministrazione dell'Ente dei Parchi Nazionali sin dalla sua fondazione nel 1926. Nel 1935 ne è stato eletto Presidente. Ha combattuto, distinguendosi per il suo coraggio, nelle due guerre mondiali, è rimasto gravemente ferito nella prima e ha comandato il suo battaglione nel Nordafrica e in Italia durante la seconda. Ha scritto molti libri sulla difesa dell'ambiente naturale, ivi compresi i volumi Sanctuary e Vanishing Africa. Ha tenuto conferenze in tutto il mondo per cercare appoggi alla sua opera di conservazione della natura. stato onorato da monarchi, governi e università ».
Nella fotografia, una donna alta e snella è in piedi accanto al colonnello. Ha i capelli screziati di grigio e raccolti sulla nuca, In maniera da lasciare completamente libero il volto. Su questo si notano piccole ragnatele di rughe agli angoli degli occhi e profondi solchi intorno alla bocca, ma sono segni lasciati dai suoi sorrisi. Nei tratti del volto si scorgono ancora tracce di quella che un tempo deve essere stata una grande bellezza, appoggiata in atteggiamento un pò protettivo e un pò possessivo al braccio destro del colonnello e, sotto, la didascalia della fotografia continua: « Ha avuto come moglie e compagna di lavoro durante tutta la vita la celebre pittrice di fama internazionale che ha raffigurato tanti paesaggi africani e animali selvaggi sotto il suo nome di ragazza, Storm Courteney. « Nel 1973, il colonnello Anders si è dimesso dalla carica di Presidente della Commissione dei Parchi ed è andato a vivere con la moglie in un cottage a Umhlanga Rocks, sulla costa del Natal, in riva al mare ». Quando avrete letto la didascalia, potrete tornare alla vostra macchina. Il ranger zulu vi farà di nuovo il saluto e alzerà la sbarra. Da quel momento potrete entrare anche voi, per breve tempo, nell'Eden del Passo Chaka.
Finito di stampare nel mese di novembre 1996 per conto della CDE S.p.A. - Milano presso la Milanostampa S.p.A. Farigliano (CN)