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Walter Laqueur Gli ultimi giorni dell'Europa Epitaffio per un vecchio continente
Marsilio
Copyright © 2007 by Walter Laqueur Titolo originale: The last Days of Europe Pubblicato negli USA da St. Martin's Press, LLC, New York
Traduzione dall'inglese di Aldo Mosca © 2008 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione: ottobre 2008 ISBN 978-88-317-9552 www.marsilioeditori.it Realizzazione editoriale: Chiara Romanelli
Indice
9
Prefazione
11
Introduzione 11 Un brevissimo viaggio nell'Europa del futuro 18 Gli ultimi giorni della vecchia Europa
29
L'Europa si restringe
39
Migrazioni 54 Francia: dall'Algeria a Parigi 63 Germania: dall'Anatolia orientale a Berlino 71 Regno Unito: dal Bangladesh all'East End 81 Islamofobia e discriminazione 89 L'Euroislam e Tariq Ramadan 95 La violenza islamista in Europa
107
La lunga via verso l'unità europea
123
II problema del welfare 135 Germania 138 Francia 141 Regno Unito 143 Italia e Spagna
state
149
Russia: un'alba ingannevole?
165
II fallimento dell'integrazione e il futuro dell'Europa 165 Cosa è andato storto? 171 Cosa rimane dell'Europa? 175 II futuro dell'Europa musulmana: Regno Unito 184 II futuro dell'Europa musulmana: Francia 187 II futuro dell'Europa musulmana: Germania 191 II futuro dell'Europa musulmana: Spagna 193 II sogno di un'Europa unita 196 La difesa del welfare state 198 Verso Stati binazionali 215 La salvezza verrà dalla Turchia?
219
Bibliografia
GLI ULTIMI GIORNI DELL'EUROPA
A Avi e Aaron pronipoti nati in questo
secolo
Prefazione
I miei ricordi dell'Europa risalgono alla mia infanzia nella Germania di Weimar e al Terzo Reich nazista, e ho viaggiato regolarmente tra l'Europa e l'America per poco più di quarant'anni. Ho visitato la maggior parte dei paesi europei, che sono stati oggetto dei miei studi per molto tempo. I miei figli sono andati a scuola su entrambe le sponde dell'Atlantico, e anch'io ho lavorato da entrambe le parti e sono vissuto in America e in Europa, cosa che qualche volta è stata una grande comodità, qualche altra mi ha causato grossi problemi. Per la verità conosco alcune parti del continente meglio di altre, e lo stesso vale per la mia conoscenza delle sue lingue principali. Non sono mai stato nei Balcani, e ci sono aspetti della storia e della cultura europea di cui sono penosamente ignorante. Ho visto l'Europa e gli europei in periodi buoni e cattivi. Dopo tutto questo, è arrivato il momento di una sintesi, perché l'Europa che io ho conosciuto sta scomparendo. Cosa prenderà il suo posto? La direzione è abbastanza chiara e non mi riempie il cuore di gioia, né ho soluzioni da offrire per i grandi problemi che l'Europa si troverà a fronteggiare negli anni a venire. Invidio coloro che negli ultimi anni hanno scritto del futuro brillante dell'Europa, mi piacerebbe condividere il loro ottimismo. Per parte mia, ho il sospetto
che sarà un futuro modesto: spero che l'Europa non si riduca a un museo. WALTER LAQUEUR
Washington, D.C. e Londra, agosto 2006
Introduzione
UN BREVISSIMO VIAGGIO NELL'EUROPA DEL FUTURO
Se un amico o un cugino straniero fosse venuto a Londra trent'anni fa e avesse chiesto di vedere cosa c'era di nuovo nella capitale britannica, dove l'avremmo portato? Una decisione per niente facile. Al Barbican, forse, che stava diventando un centro culturale, con arte da tutte le parti, gallerie, la sede del Royal Shakespeare Theatre, e poi un'infinità di ristoranti, pub e bar. O forse al Canary Wharf, che era fatto un tempo dei moli e dei magazzini della compagnia della West India, ma stava diventando un nuovo centro degli affari e della finanza. "Vibrante" era il termine appropriato per il quartiere. Perfino un nuovo aeroporto fu progettato da quelle parti, in mezzo alla città. Se la scena fosse stata quella di Parigi, gli avremmo mostrato il Centro Pompidou, aperto nel 1977 vicino al grande mercato coperto nel quarto arrondissement, non molto alla moda (con le tubature esposte e il male agli occhi che facevano); eppure era il posto dove c'era movimento e azione, con cinquantamila opere d'arte - non tutte esposte, naturalmente. Oppure lo avremmo portato a La Défense, un nuovo centro degli affari con molti grattacieli, lo spettacolare Grande
il
Arche e il Palace, molto diversi da precedenti quartieri di quel tipo. A Berlino gli avremmo mostrato il Muro, ma quello non era poi così nuovo. Se il nostro amico si fosse interessato di architettura, la scelta sarebbe stata ovvia: il Mokische Viertel e gli edifici progettati da Walter Gropius. Oggi la decisione sarebbe più facile. Potremmo mostrargli Berlin Mitte con i nuovi ministeri, il centro della nuova capitale. Ma Berlino è già stata una capitale nel passato, con tanti ministeri dalla Wilhelmstrasse alla Bendlerstrasse. Se il nostro amico volesse veramente vedere il futuro, non saremmo obbligati a fornire lunghe spiegazioni e descrizioni dettagliate: una breve passeggiata o una corsa in autobus sarebbero sufficienti a dargli un'idea di ciò che ha da venire. Un punto di partenza eccellente sarebbe Neukölln o Cottbusser Tor a Berlino, oppure Saint-Denis o Evry nelle banlieues di Parigi. In qualche modo, è diventato più facile circolare e ci sono meno difficoltà con la lingua. Il gergo delle banlieues [vertan), secondo «Le Monde», è fatto di quattrocento parole. E anche vero che a Kreuzburg (che ha anche lo pseudonimo SO 36, il vecchio codice postale) conoscere il turco può essere più utile che parlare tedesco. Tra i giovani il Knackensprach, che consiste di trecento parole (di origine in parte fecale, in parte sessuale) è probabilmente ancora più utile. (Per averne un'idea è utile dare un'occhiata alla traduzione in Knackersprach di biancaneve e Hansel e Gretel sul sito web di Detlev Mahnhert). In Gran Bretagna il linguaggio hip-hop è un incrocio interessante di materialismo e nichilismo, e ha anche molto a che fare con la violenza; le sue origini sono giamaicane, non islamiche. A Londra passeggeremmo lungo Edgware Road, partendo da Marble Arch, oppure, se il nostro ospite volesse avventurarsi più avanti, prenderemmo un autobus per Tower Hamlets (il vecchio East End) o per Lambeth, dove l'arcivescovo ha la residenza ufficiale, oppure per Lewisham. Se lui o lei avesse uno speciale interesse per il Sudest asiatico li porteremmo a Brent, verso nord; se si interessassero all'Africa, prenderemmo un taxi fino a Peckam.
Questi quartieri hanno molte cose interessanti da offrire, e le guide turistiche raccomandano le loro delizie gastronomiche. Ci si possono trovare i suoni del Cairo (senza l'architettura), i colpi d'occhio e gli odori di Karachi e di Dacca. Qualche zona sembrerà pericolosa (forse più a Parigi che a Londra e Berlino), ma molte sono esotiche e affascinanti, con le donne vestite di nero e il loro bijab, i macellai baiai, i locali di kebab e quelli di couscus che arricchiscono il menù dei ristoranti locali, i caffè di Aladino e i minimarket Marhaba. Al turista sarà offerto del fattoush o del f a l a f e l , e si accorgerà presto che da quelle parti la Mecca Cola ha sostituito la Coca Cola. Molti cartelli e scritte non li potrà leggere - a meno che non sia un diplomato di una vicina scuola di studi orientali. A Londra i negozietti all'angolo vendono giornali in arabo, in bengali o in urdu, a Berlino in turco. Il visitatore passerà davanti ad alcune moschee, ma non molte, perché per la maggior parte sono sulle strade laterali o nei sobborghi. A Wembley, vicino allo stadio di calcio, ne stanno costruendo una nuova che potrà accogliere quarantamila fedeli per le preghiere. Oggi alcune città, Birmingham e Bradford, per esempio, hanno più moschee che chiese. Le chiese sono più grandi, ma più vuote. Il visitatore passerà davanti a centri culturali e club finanziati dal governo dell'Arabia Saudita, qualche volta dalla Libia. Ci sono librerie che vendono trattati religiosi, ma anche letteratura laica. Qualche volta salteranno fuori da sotto il banco dei libretti militanti, considerati aggressivi dagli infedeli che sono ignoranti. Edgware Road è un amalgama sociale interessante; il mercato di Church Street, con le sue bancarelle di frutta e verdura, non è certamente il posto dove i ricchi vanno a fare la spesa: loro vanno da Harrods a Knightsbridge, che poi appartiene a un egiziano. Ma le Lamborghini e le Ferrari che si vedono là di sera appartengono a giovani arabi. Il ristorante Maroush non è certamente a buon mercato, e le pop star arabe e nordafricane o le danzatrici del ventre sono ben pagate. Dappertutto si usano gli hookas, le pipe ad acqua (chiamate shisbas o narghilè a Berlino). Ci sono poche Maserati per le
strade di Kreuzburg, ma c'è un ristorante chiamato Baghdad a Schlesische Strasse. La musica è parte integrante di questo scenario, con Abdel Ali Sliman a Londra e Cheb Khaled a Parigi. I cantanti rap con il loro rai furono i primi a entrare in scena, a Bobigny nel 1984, per la precisione, ma si esibiscono solo per i loro compatrioti, mentre a Londra anche i giovani inglesi di entrambi i sessi vanno a questi spettacoli. C'è meno musica a Kreuzburg, che è meno mista etnicamente della banlieues di Parigi, ma anche a Berlino ci sono cantanti rap hard-core. C'è una contraddizione politica qui, perché i fondamentalisti musulmani, soprattutto la Muslim Brotherhood (Fratellanza Musulmana) fondata in Egitto nel 1928, si oppongono senza eccezioni agli spettacoli musicali, per non parlare delle danze del ventre. Eppure se i fondamentalisti cercassero di imporre la loro linea in questi quartieri di Parigi e di Londra, queste zone perderebbero molto in popolarità. I cantanti rap delle banlieues sono, tra i giovani, più popolari degli imam; nella loro musica fanno riferimento all'Islam, ad Allah e a Maometto, con grande scandalo dei predicatori. Alcuni cantanti predissero i disordini del 2005, altri si adoperarono per tenere la calma. Tutto ciò è molto diverso da come erano quelle zone negli anni cinquanta e sessanta, quando erano quartieri operai inglesi, francesi o tedeschi. Per la maggior parte gli abitanti si sono trasferiti, e alcuni quartieri hanno guadagnato colore (meno a Parigi che a Londra). A Berlino, Wedding era una roccaforte comunista, e la sua canzone, Sinistra, sinistra, sinistra, sinistra, la rossa Wedding è in marcia sulla lotta di classe e l'antifascismo, era nota in tutta la Germania. Oggi quel posto è una discarica di immondizie in mezzo alla capitale tedesca, e mi si dice che nessuno sano di mente andrebbe a camminare di notte da solo per quelle strade. Una volta la banlieue rossa era la roccaforte dei co-
munisti francesi, ma anche quella è una cosa del passato. Visite come quelle che abbiamo immaginato possono essere istruttive, ma a parte l'interesse per il folclore offrono anche la possibilità di dare uno sguardo al futuro. La ragione è che quei quartieri si stanno allargando, e nel giro di una generazione occuperanno una porzione molto più grande delle grandi città europee. E un processo graduale che si può osservare, per esempio, nelle zone del Tiergarten o del Moabit a Berlino. In quale direzione si espanderanno? A Londra, a ovest di Edgeware Road c'è Bayswater, ma quello è stato territorio arabo e mediorientale già da molto tempo; a sud c'è Hyde Park, e a ovest il West End, con i suoi negozi eleganti e costosi. Lo strato sociale privilegiato di origine mediorientale si è spostato molto tempo fa verso Knightsbridge e Kensington, non lontano dalle loro ambasciate. A Berlino non esiste una classe ricca di origine turca, solo una classe media; è ancora ristretta, e si è spostata verso certe strade di Schöneberg ma anche di Charlottenburg e altri quartieri a ovest. Comunque non ci sono vere concentrazioni di classe media turca. E vero che i quartieri verso nord di Neukölln sono stati abbelliti, e che là gli appartamenti non hanno più prezzi bassi; allo stesso modo, un appartamento nella Isle of Dogs (Seacon Towers, per esempio), che è anche parte dell'East End di Londra, può costare anche un milione di dollari. Ma quelli che si stabiliscono in quelle zone di famiglie per bene sono probabilmente yuppie inglesi piuttosto che gente di origine pakistana o turca. Nei prossimi decenni ci saranno grandi cambiamenti nelle città europee. Riguarderanno solo la popolazione locale e non i nuovi arrivati? Forse le donne musulmane sceglieranno colori diversi dal nero, e Yhijab si ridurrà a qualcosa di più simbolico? Forse la preferenza per il couscus lascerà il posto a fish and chips e bockwurstì (E se no, che male ci sarà?). Forse la partecipazione alle funzioni nelle moschee calerà bruscamente proprio come è successo nelle chiese dell'Europa occidentale. L'attrattiva dello stile di vita europeo è così de-
bole da essere sopraffatta da abitudini e costumi stranieri? Non sarà vero per caso che gli immigranti rimangono attaccati al modo di vivere tradizionale importato dai villaggi dell'Anatolia, del Nordafrica o del Pakistan precisamente perché sono ancora una minoranza che teme di perdere la sua identità? E non potrebbe succedere che, una volta che non si sentissero più assediati ma fossero la maggioranza, quei gruppi sociali si aprirebbero all'influenza esterna malgrado gli avvertimenti dei loro leader religiosi? Cent'anni fa, una visita alla Commercial Road nell'East End di Londra, o alla Grenadierstrasse e il Scheunenviertel di Berlino, o a Belleville e la Marais a Parigi o la Lower East Side a New York City, avrebbe mostrato uno scenario piuttosto strano e non particolarmente piacevole a vedersi. Si sarebbero visti gli immigranti ebrei dell'Europa orientale nel nuovo ambiente europeo o americano: le piccole sinagoghe, i ristorantini a buon mercato, i laboratori; e poi i giornali in lingua straniera, uomini e donne in abiti stravaganti. Adesso è diverso. Prima di tutto, la scala dell'immigrazione. Solo decine di migliaia vennero in Europa occidentale a quel tempo, non milioni, e fecero grandi sforzi per integrarsi socialmente e culturalmente. Soprattutto, erano decisi a dare ai propri figli una buona istruzione laica, quasi a ogni costo. Il tasso di matrimoni misti era alto già nella prima generazione, e più alto ancora nella seconda. Nessuno li aiutava, non c'erano né assistenti sociali né consiglieri, nessuno gli affittava una casa con un affitto basso o gratis, mentre programmi come Sure Start (l'equivalente inglese dell'americano Head Start) e la "discriminazione positiva" non erano stati ancora inventati. Non c'era alcun servizio sanitario, né pensioni. Non c'era alcuna rete di sicurezza sociale: era una questione di nuotare o affogare. Non c'era ombra di commissioni governative che analizzassero la fobia degli ebrei e studiassero come combatterla. Gli ebrei immigrati entrarono nel commercio e nelle professioni, e la loro ascesa sociale fu rapida e spettacolare. Essi contribuirono in modo significativo alla vita scientifica e culturale dei paesi dove avevano scelto di vive-
re. Alcuni cercarono di mantenere il vecchio stile di vita dello shtetl dell'Europa orientale, ma la maggioranza desiderava l'assimilazione e l'acculturazione. Molti immigranti del 2006 vivono in comunità separate da quelle dei paesi ospiti, e questo vale per le grandi città come per le piccole. Non hanno amici tedeschi, inglesi o francesi, non stanno in loro compagnia e non parlano la loro lingua. I predicatori dicono agli immigrati che i loro valori e tradizioni sono molto superiori a quelli degli infedeli, e che ogni contatto con loro è da evitare, anche con i vicini di casa. I giovani si lamentano di essere vittime e di essere esclusi, ma il loro isolamento sociale e culturale è spesso volontario. I governi dell'Europa occidentale sono stati spesso criticati per non aver fatto di più per integrare questi nuovi cittadini; ma anche se avessero fatto di più, è certo che l'integrazione avrebbe avuto successo? L'integrazione non è una cosa che si risolve da una parte sola. Questi immigranti si identificano con la loro nuova patria? Se glielo si chiede, diranno spesso di essere musulmani (o turchi, o nigeriani) che vivono in Gran Bretagna, in Francia o in Germania. La loro politica, la cultura e la religione la prendono dai canali televisivi arabi e turchi. Possono trovare un'identificazione a livello locale, facendo il tifo per una squadra di calcio come il Hertha BSC o il Liverpool. Se la Germania gioca con la Svezia, come accadde durante il recente campionato del mondo, loro a Berlino sventolano bandiere turche e tedesche. Ma se la Francia gioca con l'Algeria, i ragazzi della banlieue fischiano La Marsigliese e applaudono la squadra nordafricana. Però non hanno alcuna intenzione di ritornare in Turchia o in Algeria: quello nuovo è il loro paese, loro lo mostrano, e nessuno dovrebbe avere alcun dubbio in proposito. Fino a che punto è probabile che questi gradi di separazione e identificazione cambino negli anni a venire? Queste sono alcune delle domande che tratteremo nelle pagine seguenti.
GLI ULTIMI GIORNI DELLA VECCHIA EUROPA
Gli ultimi giorni della vecchia Europa: qualche cenno di chiarificazione è necessario. "Gli ultimi giorni" è naturalmente un modo di dire; che io sappia, non c'è alcun vulcano che stia per avere un'eruzione e bruciare da un giorno all'altro il continente, come a Pompei ed Ercolano. C'è il pericolo dell'innalzamento del livello degli oceani e di inondazioni delle città sulle coste, ma questa non è una minaccia specificamente europea. Se si guardano le cose superficialmente, tutto appare quasi normale, perfino attraente. Eppure l'Europa come l'abbiamo conosciuta è destinata a cambiare, probabilmente in modo radicale, per una serie di ragioni che sono in parte demografico-culturali, in parte politiche e sociali. Anche se l'Europa dovesse unirsi e risolvere le varie crisi interne che si trova davanti, il suo ruolo predominante nel mondo (viene chiamata "l'ombelico del mondo") rimarrebbe una cosa del passato, e le previsioni del suo emergere come superpotenza sono destinate a rimanere una fantasia, per quanto interessante. Il termine "vecchia Europa" non è stato inventato dall'ex segretario della difesa americano Donald Rumsfeld; esso apparve nella prima metà dell'Ottocento, circa tra il Congresso di Vienna e la pubblicazione del Manifesto dei comunisti (1848). Comunque io non lo uso nel suo significato storico, né mi riferisco al famoso ristorante di Wisconsin Avenue a Washington (noto per il suo Sauerbraten e una varietà di salsicce). Nel presente contesto "vecchia Europa" si riferisce alla Comunità Europea (già CEE, Comunità Economica Europea), incluse però la Russia e le altre parti dell'ex Unione Sovietica a ovest degli Urali. Che genere di nuova Europa è probabile che emerga come successore del vecchio continente? Questa, naturalmente, è una domanda che rimane aperta, perché la risposta dipende da eventi che accadranno non solo in Europa ma anche in altre parti del mondo. Visto che la popolazione è in diminuzione, è possibile che l'Europa, o almeno parti considerevoli del continente, siano
trasformati in qualcosa come parchi dei divertimenti a tema, una specie di Disneyland a un certo livello di sofisticazione per turisti benestanti dalla Cina e dall'India, qualcosa come Brugge, Venezia, Versailles, Stratford-on-Avon, o Rothenburg ob der Tauber, ma su una scala più grande. Alcuni già esistono; quando le miniere di carbone della Ruhr furono chiuse, a Dortmund fu aperto il Warner Brothers Movie World, che non solo presenta Batman, ma include il museo Agfa della storia del cinema tedesco. Inoltre, Essen è stata scelta nel 2006 come capitale della cultura per il 2010; le precedenti capitali sono state Glasgow e Antwerp (Anversa). Questa sarà l'Europa delle guide turistiche, dei gondolieri e degli interpreti: «Signore e signori, state visitando le scene di una civiltà altamente sviluppata che un tempo guidava il mondo. Ci ha dato Shakespeare, Beethoven, il welfare state, e molte altre cose di valore...». Ci saranno escursioni per ogni gusto; già adesso a Berlino ci sono escursioni organizzate nei quartieri in degrado e nelle zone considerate pericolose ("Kreuzburg, il quartiere più pittoresco: due ore"). Questo scenario può sembrare abbastanza fantasioso al momento, ma date le tendenze in atto non può essere escluso a priori. In Svizzera il turismo ha avuto un'importanza centrale per molto tempo; esso ha ora una grande e crescente importanza in Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, e altri paesi. Il tasso medio di crescita del turismo in Europa è del 4 per cento all'anno. In diversi paesi europei sta diventando il fattore più importante del sistema economico e il mezzo principale per ottenere valuta straniera. Ormai i cinesi sono la categoria che spende di più a Parigi, e questo è solo l'inizio. E ugualmente possibile che l'Europa, dopo aver risolto in un modo o nell'altro i suoi problemi interni, economici e sociali, dopo essersi messa in grado di sostenere la concorrenza sui mercati mondiali, e dopo aver messo un po' d'ordine nella sua organizzazione politica, trovi un suo ruolo nel nuovo ordine mondiale che emergerà, un ruolo più modesto che nel passato ma ancora rispettabile. Questo è lo scenario miglio-
re, ma è anche possibile che il generale declino e deterioramento possa continuare e farsi perfino più pronunciato. Sotto l'impatto di massicce ondate di immigrazione le condizioni dell'Europa potrebbero diventare simili a quelle del Nordafrica e del Medio Oriente. Questo scenario e forse altri, intermedi fra gli estremi, in questo momento sembrano possibili. Ciò che sembra impossibile è che il ventunesimo secolo sia il secolo dell'Europa, come alcuni osservatori, specialmente negli Stati Uniti, hanno sostenuto verso la fine del millennio. Secondo loro l'Europa unita non solo aveva raggiunto gli Stati Uniti, ma presto li avrebbe probabilmente superati. I paesi europei vivevano in pace l'uno con l'altro e con i loro vicini; avevano forgiato uno stile di vita, un modello, più civile e umano di ogni altro. Era vero che l'Europa non era esattamente una superpotenza politica e militare, ma grazie alla sua "forza di trasformazione", che era di esempio, essa stava cambiando il mondo. In breve, il resto del mondo stava diventando sempre più simile all'Europa, e si stava muovendo verso un ordine che era più giusto e umano di ogni altro nella storia dell'umanità. L'Europa, però, non ha consolidato la propria unità, né ha raggiunto e superato gli Stati Uniti. Al contrario, ha avuto sempre più difficoltà a competere con la Cina e con l'India. La natura della potenza nella politica mondiale non è cambiata radicalmente, e le previsioni di ieri appaiono sempre più chiaramente distanti dal mondo reale. Naturalmente si è posta la domanda di come mai quelle allucinazioni avessero avuto origine. Se si guarda indietro trenta o anche solo quindici anni, si potrebbero trovare circostanze eccezionali che spiegherebbero quelle che adesso appaiono come fantasticherie. Per dare un esempio personale: una storia dell'Europa del dopoguerra, del presente autore, pubblicata negli anni settanta, fu tradotta negli anni novanta con il titolo L'Europa sulla via di diventare una grande potenza, e dato che è vero che i titoli delle opere di saggistica vengono spesso scelti dagli editori anziché dagli autori, non protestai. Non protestai perché la ripresa dell'Europa dopo la seconda guerra mon-
diale fu spettacolare, in certo qual modo miracolosa. Quando i cannoni tacquero, molti pensavano che l'Europa fosse finita e che non si sarebbe mai ripresa. Eppure si riprese, e nel giro di un decennio ebbero luogo i vari miracoli economici. La ripresa non fu solo economica. Non solo i livelli di vita europei erano più alti di prima, ma furono organizzati sistemi di welfare che garantivano servizi sanitari essenziali, istruzione gratuita, e altri servizi; nessuno doveva più temere le malattie, la vecchiaia o la disoccupazione. I paesi europei vivevano in pace; i confini un po' alla volta venivano aboliti, e non c'era alcuna guerra o pericolo di guerra - eccetto forse ai confini d'Europa, come nei Balcani. Durante la guerra fredda l'Europa rimase divisa; poi, con il crollo dell'impero sovietico, cadde il Muro di Berlino e i paesi dell'Europa dell'Est divennero liberi. Vista la situazione in retrospettiva, c'era ragione di essere ottimisti. E vero che l'Europa non era riemersa come un fattore determinante negli affari internazionali e doveva accontentarsi di essere una potenza soft, ossia diplomatica, con tutti i suoi limiti, tuttavia aveva fatto grandi progressi verso una più stretta collaborazione. Erano state create istituzioni comunitarie, e sembrava esserci ragione di credere che nel giro di qualche anno ci sarebbe stata una politica comunitaria estera e di difesa, così che il vecchio continente avrebbe giocato ancora un ruolo nella politica internazionale commisurato alla sua storia e alla sua potenza economica. Ma già negli anni settanta ci furono segnali di pericolo quando il grande boom rallentò e cominciò ad apparire la disoccupazione. I termini "Euroscetticismo" ed "Eurosclerosi" risalgono alla fine degli anni ottanta, ma si riferivano alla rigidità del mercato del lavoro europeo, e in generale alla situazione economica con i suoi alti e bassi, piuttosto che al futuro politico dell'Europa. Fu solo più tardi che si verificò un cambiamento significativo nell'atteggiamento degli europei; il progresso verso l'unificazione rallentò malgrado l'introduzione di una nuova valuta, l'euro, e di altre misure altrettanto importanti, ma si raffreddò quell'entusiasmo che era stato
così impressionante e positivo. Ancora più notevoli furono i segnali di pericolo di ordine demografico. Verso la fine degli anni ottanta gli esperti sostenevano che l'Europa non si stava riproducendo, ma quegli avvertimenti non furono presi sul serio dai politici perché si riferivano a tendenze di lungo periodo e i governi europei (come altrove) venivano eletti solo per pochi anni. Nemmeno la popolazione in generale fece molta attenzione a questi fatti, anche se non occorreva una specializzazione in statistica e demografia per accorgersi che importanti mutamenti stavano avendo luogo: una semplice passeggiata per le città d'Europa poteva mostrare il semplice fatto che c'erano in giro molto meno bambini di prima. Alcuni sostennero che i demografi avevano sbagliato in passato; anche negli anni sessanta molti avevano previsto, non solo per il mondo intero ma anche per l'Europa, che il grande pericolo per l'umanità sarebbe stata la sovrappopolazione. La gente comune aveva preso nota ancora meno di quelle previsioni, in parte per motivi ideologici, poiché pensava che il mondo fosse già sovrappopolato e che di conseguenza l'equilibrio della natura fosse stato danneggato. Ma la grande maggioranza, priva di pregiudizi ideologici, semplicemente ignorò quelle previsioni perché il pericolo (se era un pericolo) appariva remoto e non accertato. Negli anni novanta gli esperti suonarono la campana d'allarme. Una serie di lavori di Alfred Sauvy, il più grande demografo francese della sua generazione, e del suo allievo Jean-Claude Chesnais, attrassero qualche attenzione (si vedano Chesnais, The Twighlight of the Occident, 1995, e Revenge ofthe Third World, 1987; Sauvy, The Aging ofNations, 2000). Come scrisse Chesnais, l'Europa era vecchia e rigida, perciò si stava indebolendo. Si potrebbe concepire questo processo come il ciclo naturale della civiltà. In Germania gli studi di Herwig Blog, professore emerito e presidente dell'associazione dei demografi tedeschi, finalmente attrassero l'attenzione pubblica con il lavoro Die Demographische Zeitenwende {Il punto di svolta demografico nella storia), che a sua volta spinse un noto giornalista, Frank Schirrmacher, a
pubblicare Methusalem Komplott {Il complotto di Matusalemme) sui problemi di una società dai capelli grigi, che per molti mesi fu in testa alla classifica tedesca dei bestseller. In Russia, negli anni ottanta, furono fatte previsioni preoccupanti - specialmente negli ambienti dell'estrema destra sul futuro del popolo russo e di quello ucraino. Fu agitato lo spettro dell'alcolismo (che è molto reale). Si attirò l'attenzione sul fatto che nascevano sempre meno bambini, che si stava verificando una fuga in massa dalle campagne, e che l'aspettativa di vita nell'Unione Sovietica (specialmente degli uomini) era in calo costante. Ma ancora oggi la Russia non si è resa conto delle sue prospettive demografiche. Avrebbe dovuto essere chiaro che l'aspetto e la natura dell'Europa stavano cambiando. C'erano stati i milioni di cosiddetti lavoratori ospiti, che avevano avuto un ruolo centrale nel miracolo economico degli anni cinquanta. Ma erano stati prevalentemente europei: italiani, spagnoli, portoghesi e jugoslavi che alla fine tornarono in patria. Furono rimpiazzati da milioni di nuovi immigranti provenienti dall'Asia, dal Medio Oriente e dall'Africa; molti erano arrivati con la richiesta di asilo politico, ma di fatto aspiravano a una vita migliore per sé e per i propri figli. A differenza dei primi lavoratori ospiti, non avevano alcuna intenzione di tornare in patria, e molti non desideravano nemmeno integrarsi nelle società europee come avevano fatto gli altri. Questa resistenza all'assimilazione creò problemi sociali, politici e culturali sempre più gravi che però furono considerati risolvibili, fino a quando, circa all'inizio del nuovo millennio, ci si accorse tutto d'un tratto che questi nuovi arrivati costituivano un quarto (certe volte un terzo) della popolazione nel cuore di molte città europee. Erano la maggioranza nella nuova generazione: a Bruxelles, per esempio, nel 2004 più del 55 per cento dei nuovi nati avevano genitori immigrati. Nella regione della Ruhr, in Germania, fra pochi anni più della metà della coorte sotto i trent'anni sarà di origine non tedesca; forse nel corso della vita di molti bambini che ora vanno all'asilo i non-tedeschi saranno la maggioranza. Così, quasi da un gior-
no all'altro, quello che era stato considerato un problema secondario e locale sta diventando un problema politico di importanza centrale, perché c'è una crescente resistenza da parte della popolazione locale che non vuole diventare straniera in casa propria. In breve, al più tardi alla fine del millennio avrebbe dovuto essere chiaro che l'Europa non stava più per acquisire lo status di superpotenza ma stava attraversando una crisi esistenziale, o forse, più precisamente, una serie di crisi importanti tra le quali quella demografica era la più grave. Di ciò si cominciò ad accorgersi quasi immediatamente, ma come abbiamo visto c'era confusione perché la crisi sembrava insolubile: era stata scoperta troppo tardi. Si poteva solo sperare che i nuovi arrivati, indifferenti o perfino ostili ai valori europei, avrebbero mostrato un po' alla volta più tolleranza, se non entusiasmo; o che il multiculturalismo, che era stato una grande delusione, alla lunga avrebbe funzionato. Queste non erano esattamente grandi speranze, e certamente non spiegano le illusioni di alcuni osservatori esterni che continuavano a sostenere che il ventunesimo secolo sarebbe stato quello dell'Europa. Essi sostenevano che c'era stata in Europa una rivoluzione di cui gli americani per la maggior parte non si erano accorti. L'Europa, dicevano, aveva una visione della giustizia e dell'armonia sociale molto diversa dal sogno americano, che non esisteva più; la visione europea si appoggiava su una concezione del collettivo, di contro alla miope insistenza sull'individualismo tipica degli Stati Uniti. Essa preferiva la qualità della vita all'accumulazione di denaro. Gli americani dovevano lavorare di più degli europei, avevano meno vacanze, non vivevano tanto a lungo quanto gli europei e, in generale, gustavano molto meno la vita. Goethe aveva detto una volta «Amerika, du hast es besser» («America, tu stai meglio»), ma questo non era più vero. Gli europei erano altruisti, si sosteneva; secondo una stima, il 95 per cento aveva dichiarato che il desiderio di aiutare gli altri era il loro valore più alto. Come disse un altro osservatore, la politica di potenza era una cosa del passato, l'ar-
ma principale dell'Europa era la giustizia e il rispetto della legge. Questa idea che veniva dall'Europa si sarebbe diffusa in tutto il mondo e sarebbe diventata lo strumento principale nella politica internazionale. A ogni modo non mi interessa, in questa sede, fare confronti fra l'America e l'Europa, i meriti e i difetti dei loro rispettivi modi di vivere, ma piuttosto analizzare la situazione dell'Europa, sulla quale i suoi amici americani, come vedremo presto, erano purtroppo disinformati. Come spiegare la gravità di tale confusione? Le motivazioni e le premesse da cui esse derivavano erano differenti; avevano a che fare molto più con la situazione in America che con le realtà europee. Tony Judt, autore di una monumentale storia dell'Europa del dopoguerra, ha descritto la rinascita del continente all'alba del ventunesimo secolo come un esempio di virtù internazionale: una comunanza di valori e un sistema di relazioni fra gli Stati faceva di europei e non europei un esempio che tutti avrebbero dovuto emulare. In parte questa era una reazione alla crescente disillusione rispetto all'alternativa americana. Le lodi dell'Europa e le rosee profezie che, viste in retrospettiva, appaiono così scorrette, sono state scritte da critici della politica estera e interna degli Stati Uniti, e in particolare dell'amministrazione di George W. Bush. In questo contesto è irrilevante se la loro critica degli Stati Uniti fosse corretta o meno; quello che conta è la motivazione psicologica. Questi autori sono arrivati a vedere in Europa tutto o quasi tutto ciò di cui sentivano la mancanza negli Stati Uniti, e sono arrivati a credere non solo che il modello europeo fosse preferibile, ma anche che avrebbe prevalso. Come ha scritto Mark Léonard in un libro intitolato Why Europe Will Run the 21st Century (2005) (Perché l'Europa guiderà il ventunesimo secolo), «Con la continuazione di questo processo assisteremo all'emergere di un "Nuovo Secolo Europeo"». Tony Judt ha scritto un po' più cautamente: «E ancora possibile che il ventunesimo secolo possa appartenere all'Europa». Le loro profonde convinzioni circa la situazione in America evidente-
mente li hanno resi ciechi davanti alla gravità della crisi europea. Non hanno capito che la loro immagine del dopoguerra europeo era sorpassata. E vero che alcuni di loro, come Charles Kupchan, hanno preso le distanze dall'ottimismo della prima ora, ma altri non lo hanno fatto. E rimasta una strana fissazione sulla rivalità fra Europa e Stati Uniti, mentre si è ignorato il fatto che altri centri di potere, capaci di una seria sfida e di una potente concorrenza, stanno emergendo. Sarebbe scorretto, però, limitarsi alle conoscenze imperfette o alla scarsa comprensione da parte di alcuni osservatori americani, perché le illusioni sono state condivise dalle figure politiche di punta in Europa. Mentre l'anno 2000 veniva solennemente celebrato perché adatto all'inizio di un nuovo secolo e di un nuovo millennio, spesso sembrava che tutto andasse avanti come sempre. Quello fu l'ultimo anno della presidenza di Clinton negli Stati Uniti, in Russia fu eletto Putin, la Grecia entrò nell'Unione Europea, e Slobodan Milosevic fu rovesciato. Ci furono pochi disastri, come la tragica perdita del sommergibile russo Kursk e l'esplosione di un Concorde all'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi. Il Reai Madrid vinse la Champions' League e per la prima volta nella storia la Spagna vinse la Coppa Davis nel tennis. Alla fine di marzo di quell'anno, i presidenti e primi ministri dei paesi dell'Unione Europea si riunirono a Lisbona per discutere la loro strategia per i dieci anni successivi. Tra i molti problemi sul tappeto c'erano la disoccupazione e la promozione della ricerca e dell'innovazione. Tutti erano d'accordo nel dire che l'Europa sarebbe diventata l'economia più competitiva e dinamica del mondo, capace di sostenere una crescita permanente con posti di lavoro migliori e più numerosi e una più forte coesione sociale. Nel comunicato finale si dichiarava che questo si poteva ottenere attraverso la transizione verso una società basata sulla scienza, la modernizzazione del modello europeo, l'investimento in capitale umano e la lotta contro l'emarginazione sociale. Tutte le scuole avrebbero dovuto avere accesso a internet e agli stru-
menti multimediali entro la fine del 2001, i lavoratori avrebbero dovuto essere tassati di meno, la pace avrebbe dovuto prevalere nei Balcani e si sarebbe trovata una soluzione politica per la Cecenia. In tutto furono definiti ventotto obiettivi primari e centoventi secondari. Nulla fu detto nelle risoluzioni di Lisbona sulla demografia e le tensioni crescenti con le comunità di immigrati. Non si può negare che i delegati avessero portato a Lisbona lungimiranza e ambizioni, ma esse erano lontane dalle realtà del continente. E possibile che le dichiarazioni di Lisbona fossero distorte dalla falsa alba del 2000, poiché quello fu un anno eccezionale per la crescita economica europea, che raggiunse il 3 per cento, un tasso molto più alto di quello degli anni precedenti e successivi. Quando cinque anni dopo i politici si riunirono ancora per un esame della situazione a medio termine, dovettero ammettere che il progresso era stato molto limitato; perfino quella valutazione era ottimistica, poiché la disoccupazione era aumentata e non c'era stata una crescita significativa della produttività. Non c'era stato alcun salto verso il futuro come ci si era aspettati, e le possibilità che l'Europa potesse diventare la zona più dinamica dell'economia mondiale apparivano più remote che mai. E vero che l'Europa dei Quindici era diventata l'Europa dei Venticinque, ma non era diventata un'unione più coesa. Al contrario, le spinte centrifughe si erano rafforzate, come si vide in occasione del voto contrario a una comune costituzione europea, prima in Francia e poi in Olanda (entrambi i referendum furono tenuti nel 2005). Questo risultato fu una grande sospresa e uno shock per gli eurocrati di Bruxelles, ma anche per una parte considerevole della classe politica europea, poiché tale indicazione non si conformava alla loro visione dell'Europa. Inevitabilmente ci fu un brusco risveglio. Era chiaro che si era più lontani che mai da una politica estera e della difesa comune. Il precedente euro-ottimismo aveva lasciato il posto a un'ondata di pessimismo, espressione non solo di un umore diverso, ma della tardiva consapevolezza che il continente aveva enormi problemi che non aveva anco-
ra affrontato; in una parola, che la questione non era l'emergere di una nuova superpotenza, ma la sopravvivenza. La Bruxelles ufficiale era ancora convinta che nel 2020 l'Unione Europea sarebbe stata molto vicina a come appariva nel 2006 in Europe's World. Ma anche se ciò dovesse accadere, rimane il fatto che non ci si curò di come il mondo sarà in quell'anno, e di quale sarà in quel mondo il peso specifico dell'Europa.
L'Europa si restringe
Il mio nonno materno, un mugnaio, nacque nel 1850 e visse nella Slesia del nord. Ebbe sei figli. Tre di loro non ebbero figli, due ne ebbero due ciascuno è uno ebbe un figlio unico. Questa, in poche parole, è la storia della crescita e del declino della popolazione in Europa. Nell'Ottocento una famiglia aveva in media cinque figli, ma questo numero diminuì costantemente finché, prima dello scoppio della prima guerra mondiale, cadde sotto il tasso di riproduzione (2,2) nei maggiori paesi europei. Ci furono brevi periodi durante i quali la tendenza si invertì, per esempio il baby boom dopo la seconda guerra mondiale, quando il tasso di nascita salì sopra il 2,2 in tutti i paesi europei, e in alcune nazioni come l'Olanda, l'Irlanda e il Portogallo superò il 3,0. Ma questo durò meno di un decennio, e dalla fine degli anni cinquanta il declino è stato continuo. Oggi il tasso di fertilità per l'Europa in generale è 1,37. (Il tasso di nascita grezzo è il numero di nascite per mille persone per anno). Per dare un altro esempio: in Italia e in Spagna, nei primi anni del ventunesimo secolo, sono nati circa la metà dei neonati del 1960. La tendenza continua, ed è difficile pensare che potrebbe esserci un'inversione duratura. Fra cent'anni la popolazione dell'Europa sarà solo una minima parte di quello che è ora,
e in duecento anni alcuni paesi potrebbero scomparire. E certamente una tendenza impressionante se si considera che solo cento anni fa l'Europa era il centro del mondo. L'Africa era costituita quasi interamente da colonie europee, e l'India era il gioiello dell'Impero britannico. La Germania, la Francia e la Russia avevano gli eserciti più forti del mondo, e l'Inghilterra aveva la marina più forte. L'economia europea guidava il mondo mentre l'America stava progredendo rapidamente ma aveva ancora una lunga strada da fare e pochi ne tenevano conto. Politicamente e culturalmente, solo Londra e Parigi, Berlino e Vienna contavano; per gli studenti europei non c'era alcuna buona ragione per iscriversi alle università americane, che erano arretrate rispetto a quelle europee da ogni punto di vista. Per la verità c'erano nubi all'orizzonte, per esempio la rivoluzione russa del 1905, ma anche in Russia il progresso era notevole. C'erano tensioni fra le potenze europee, ma non c'erano state guerre per parecchi decenni, e una nuova guerra sembrava improbabile. La fiducia dell'Europa era solida. La popolazione mondiale nel 1900 era di circa 1,7 miliardi, di cui uno su quattro viveva in Europa, la cui popolazione era circa sei volte quella degli Stati Uniti, a quel tempo 76 milioni. Poi scoppiò la prima guerra mondiale, con la sua orribile devastazione e i suoi milioni di vittime - circa 8,5 milioni di soldati morirono e 13 milioni di civili persero la vita per fame, malattie e massacri - a cui seguirono rivoluzioni, guerre civili, inflazione e disoccupazione di massa. L'Europa era notevolmente indebolita, eppure era ancora il centro del mondo, la sua forza guida. Intanto si profilava inesorabilmente il problema della popolazione, ma pochi vi fecero attenzione, perché in cifre assolute continuava ad aumentare e la gente viveva più a lungo. La popolazione europea era di 422 milioni nel 1900,548 milioni nel 1950 e 727 milioni nel 2000. Infatti, di tanto in tanto furono lanciati falsi allarmi sulla sovrappopolazione. Quando andavo a scuola in Germania, prima dell'avvento dei nazisti, gli insegnanti parlavano sempre del bisogno di più lebensraum, più "spazio vitale". Il famoso bestseller di quel periodo era
Volk ohne Raum (Un popolo senza spazio) di Hans Grimm. L'autore era vissuto per molti anni in Sud Africa, e pensava come molti altri che l'agricoltura fosse il pilastro dell'economia della nazione e ne determinasse il benessere. Questo era sbagliato anche allora, prima della grande rivoluzione tecnlogica nell'agricoltura, e anche Hitler si convinse che per organizzare e mantenere un grande esercito moderno lo sviluppo dell'industria pesante fosse più importante che coltivare patate e pomodori. Eppure anche dopo la seconda guerra mondiale la favola della sovrappopolazione in Europa trovò per qualche tempo sostenitori influenti come il Club di Roma, che nel 1972 pubblicò trenta milioni di copie di un rapporto sui limiti della crescita economica, in cui si faceva la predica precisamente sul problema della sovrappopolazione. Qual'è stata la causa del costante calo del tasso di nascita? Non è facile rispondere a questa domanda, perché la tendenza si è manifestata in tutto il continente, in paesi con caratteri molto diversi, a nord e a sud, a ovest e a est, in paesi cattolici e protestanti, tra i ricchi e i relativamente poveri. Per questa ragione non è sorprendente che non ci sia consenso fra i demografi su questo punto. La pillola anticoncezionale ha avuto un certo peso, ma probabilmente non decisivo. Più importante è stato il fatto che sempre più donne hanno accettato (o si sono sentite obbligate ad accettare) di lavorare a tempo pieno, e non hanno voluto che le gravidanze e la necessità di prendersi cura dei bambini interrompessero la carriera. Per dare solo un esempio, metà delle scienziate tedesche sono senza figli. Con ogni probabilità, il fattore più importante è stato il serio indebolimento del valore della famiglia; la famiglia è come passata di moda, e molti hanno preferito divertirsi piuttosto che essere legati a ogni sorta di obblighi e responsabilità. Di qui il paradosso: proprio quando gli europei avrebbero potuto permettersi di avere più figli che in ogni altro tempo, ne hanno invece avuti di meno. Visto questo calo, quali sono le previsioni per il futuro? Secondo le stime delle Nazioni unite e dell'Unione Europea ('World Population Prospects ed Eurostat), la popolazione della
Francia diminuirebbe solo di poco, da circa 60 milioni di adesso a 55 milioni nel 2050 e 43 milioni alla fine del secolo, però il numero delle persone di matrice etnica francese diminuirà rapidamente. Una simile tendenza è prevista per il Regno Unito: da 60 milioni di adesso a 53 milioni nel 2050 e 45 milioni nel 2100. La maggior parte degli altri paesi europei avrebbero un futuro decisamente peggiore. La popolazione della Germania, 82 milioni adesso, diminuirà fino a 61 milioni nel 2050 e 32 milioni nel 2100. Il declino di Italia e Spagna sarebbe drastico. L'Italia conta adesso circa 57 milioni, ed è prevista una riduzione fino a 37 milioni a metà del secolo e 15 milioni nel 2100; le cifre per la Spagna sono 39 milioni adesso, 28 milioni nel 2050 e 12 milioni alla fine del secolo. Tutte queste previsioni non tengono conto dell'immigrazione nei decenni a venire. Le proiezioni per le perdite di popolazione nei paesi dell'Europa orientale sono ancora più catastrofiche: Ucraina 43 per cento; Bulgaria 34 per cento; Latvia e Lituania 25-27 per cento; Federazione russa 22 per cento; Croazia 20 per cento; Ungheria 18 per cento; Repubblica Ceca 17 per cento. Nel 2050, secondo queste fonti, solo Cipro, il Lussemburgo e forse la Svezia saranno ancora in crescita. Questa, comunque, è solo una parte del quadro generale. Una ragione è che una volta che una società invecchia, il numero di coloro che sono capaci di procreare diminuisce rapidamente e il declino acquista velocità. Per la prima volta nella storia, in grandi paesi europei come l'Italia, la Germania, la Spagna e la Grecia ci sono più persone sopra i sessantanni che sotto i venti. L'altro fattore da tenere in considerazione è che il declino relativamente lento in Francia e Gran Bretagna sarà il risultato del tasso di fertilità relativamente alto nelle comunità di immigrati, neri e nordafricani in Francia, pakistani e caraibici in Gran Bretagna. È vero anche che si è verificato un calo della fertilità a livello mondiale; nel Terzo mondo, fra il 1965 e il 2000, esso si è più o meno dimezzato, da 6,2 neonati a 3,4; secondo le Nazioni unite e altre proiezioni, nel 2100 la popolazione mondiale raggiungerà circa gli 8 miliardi, per poi diminuire (oggi
è di 6 miliardi). Però nelle regioni più vicine all'Europa, come il Nord Africa, l'Africa sub-sahariana e il Medio Oriente, non ci sarà alcuna diminuzione nel prossimo futuro. Secondo queste proiezioni, la popolazione della Turchia sarà di 100 milioni nel 2050, quella dell'Egitto di 114 milioni, e ci saranno 45 milioni di algerini e 45 milioni di marocchini. La crescita più forte si verificherà nei paesi più poveri: nel 2050 lo Yemen avrà una popolazione più numerosa di quella della Federazione Russa, e la Nigeria e il Pakistan avranno ciascuno una popolazione più numerosa di quella dell'Europa dei Quindici. La Germania, ora il quattordicesimo paese per popolazione, cadrà al di sotto di Congo, Etiopia, Uganda, Vietnam, Turchia, Egitto, Afghanistan e Kenia. La Russia ha oggi una popolazione di 145 milioni di persone, ma sarà superata prima dalla Turchia e poi da molti altri paesi, compresi perfino lo Yemen e l'Etiopia. Lo Yemen, come ha notato Paul Demeny in un articolo del 2003 su Population and Development Review, aveva circa 4 milioni di abitanti nel 1950 e ora ne ha 20; secondo prioiezioni basate sull'attuale tasso di fertilità, esso avrà più di 100 milioni nel 2050. Allo stesso tempo la Russia si sta restringendo a un ritmo del 2 per cento annuo, il che significa che in cinquantanni la sua popolazione si ridurrà a un terzo del numero attuale. Demeny osserva che non c'è alcun precedente di un crollo demografico così rapido in tutta la storia umana. Il senso comune trova difficile accettare simili proiezioni, e per buone ragioni - non tanto per il crollo demografico russo ma riguardo alla crescita dello Yemen. Quello è un paese povero, gran parte del suo territorio è deserto (solo il 3 per cento è arabile) e c'è poca acqua. Le prospettive dell'agricoltura sono limitate, e mentre ci sarà indubbiamente un qualche sviluppo dell'industrializzazione, l'idea che l'economia yemenita possa sostenere una popolazione di più di 100 milioni di abitanti è una sfida anche per l'immaginazione più fertile. Sembra più che probabile che la popolazione crescerà meno, perché non ci sarà né lavoro né cibo. Simili considerazioni valgono anche per l'Egitto. Ma allo stesso tempo
sembra certo che anche se ci fosse una forte diminuzione del tasso di fertilità, la popolazione dello Yemen crescerà notevolmente; molti cercheranno lavoro all'estero e ci sarà una pressione demografica sull'Europa ancora più forte. Per paesi più fortunati come la Turchia, invece, le proiezioni fino al 2050 e oltre sembrano molto realistiche; ed è anche realistico prevedere che la quota europea della popolazione mondiale sarà non più del 4 o 5 per cento nel 2050, cioè nel corso della vita di molti che sono vivi adesso, mentre era il 25 per cento nel 1900 e il 12 per cento nel 1950. Le stesse considerazioni valgono per le proiezioni oltre l'anno 2100. Secondo le proiezioni dell'oNU per il 2300, la popolazione europea si ridurrà a soli 59 milioni. Molti paesi saranno ridotti a circa il 5 per cento della popolazione attuale, la Russia e l'Italia all'I per cento, meno di quanti vivono oggi a Novosibirsk o a Torino. Queste possibilità non si possono escludere, ma le proiezioni su un lungo periodo di quasi duecento anni non possono in alcun modo tener conto dello sviluppo scientifico e tecnologico: non sappiamo quali progressi farà la medicina e quanto a lungo vivrà allora la gente. Epidemie, guerre o disastri naturali potrebbero avere effetti che non è possibile calcolare. Non conosciamo l'effetto di nuove tecnologie sulla produttività del lavoro, cioè quanta forza lavoro sarà necessaria per far funzionare i sistemi economici. Nuove ideologie e religioni potrebbero diffondersi e influenzare la crescita o la diminuzione della popolazione. Alcuni hanno sostenuto che se l'Europa sarà ancora un continente di qualche importanza duecento anni da adesso, sarà quasi certamente un continente nero. Altri hanno previusto che alla fine del ventunesimo secolo l'Europa sarà islamica. Previsioni come queste sono basate da un lato sul tasso di fertilità più alto in Africa e nel Medio Oriente, dall'altro sul bisogno di una massiccia immigrazione in Europa. Poiché il continente avrà sempre più capelli grigi già nei prossimi decenni, saranno necessari lavoratori più giovani per garantire la sopravvivenza e un livello di comfort ragionevole della generazione più anziana non più attiva.
Secondo uno scenario presentato nel rapporto dell'oNU Replacement Migration: Is It a Solution to Declining and Ageing Population? (Migrazione di rimpiazzo: è una soluzione per la diminuzione e l'invecchiamento della popolazione?), non meno di 700 milioni di immigranti saranno necessari tra il 1995 e il 2050 per ristabilire l'equilibrio dell'età. Ma queste cifre sono frutto della fantasia, perché non si sa quanti lavoratori saranno necessari, né da dove verranno. Anche l'India e la Cina stanno invecchiando, e il tasso di nascita si sta abbassando perfino in Bangladesh. Al momento il problema in Europa è quello della disoccupazione tra i giovani immigrati e il fatto che molti non hanno la qualificazione necessaria per lavorare. Molti immigrati della seconda generazione non hanno avuto successo nel sistema di istruzione europeo, il che significa che non è probabile che questo problema si risolverà presto. E anche se gli immigrati avessero le capacità richieste, non si sa se sarebbero disposti a lavorare, per così dire, per il benessere dei pensionati di una società con cui essi non si identificano. Sarà già difficile arrivare a un contratto generazionale all'interno delle società europee, senza nemmeno parlare di un contratto con gli extracomunitari. Che l'Europa abbia bisogno di immigranti è scontato, ma non si sa affatto se questi immigranti con le qualificazioni richieste saranno disponibili. Non è affatto certo nemmeno che l'Europa alla fine del secolo sarà musulmana. Potrà essere vero per alcune città e province, ed è chiaro che il fattore musulmano avrà un peso molto più grande nella politica e nella società europea di quanto non ne abbia oggi. Ma questo non varrà per l'intero continente, per una serie di ragioni. In primo luogo, molti dei nuovi immigranti non sono musulmani; vengono dall'India e dal Sudest asiatico, dall'Africa tropicale, dalle Indie Occidentali e da altre parti del mondo (vedi più avanti). E mentre è vero che i musulmani hanno fatto molta resistenza all'assimilazione e all'integrazione, non è certo che ciò continui con la stessa intensità per diverse generazioni. In altre parole, il significato che l'essere "islamico" avrà per individui e comunità alla fine del ventunesimo secolo non è affatto chia-
ro; il termine viene usato in una proiezione che potrebbe risultare errata a causa di ogni sorta di fattori. Che l'Europa alla fine del secolo sarà molto diversa da oggi, è indiscutibile; per quello che sappiamo, il continente potrebbe avere allora meno prestigio e influenza, ed essere in grave crisi, ma non per questo sarà necessariamente islamico. La diminuzione della popolazione è necessariamente un processo non desiderabile? E fino a che punto contano le cifre? Non è invece desiderabile, per alcuni aspetti, visto che i pericoli della sovrappopolazione sono ovvi? E non è vero che buone condizioni di vita prevalgono più spesso nei paesi più piccoli che in quelli più grandi? Questo può essere vero, ma il problema dell'Europa è come impedire un declino troppo rapido, che avrebbe enormi conseguenze sociali ed economiche. Quando fu introdotto il welfare state dopo la seconda guerra mondiale, la struttura della popolazione nelle società europee era molto diversa; inoltre, l'aspettativa di vita è salita notevolmente e continuerà a salire. Secondo alcuni esperti, nel 2060 l'aspettativa media di vita sarà di cento anni. Questi mutamenti hanno un effetto diretto sui contributi sociali da pagare, sul sistema sanitario, le assicurazioni e altri servizi. Ci sono gli stessi problemi in altri paesi sviluppati, ma in Europa sono particolarmente acuti e diventeranno ancora più acuti in futuro. Da dove verranno i fondi addizionali? Cosa succede all'economia quando la popolazione diminuisce? Alcuni sono propensi a credere che la produttività del lavoro e del capitale fornirà i fondi addizionali, ma questo sembra sempre meno probabile con il passare del tempo: è molto più probabile che vengano tagliati i servizi sociali. Per esempio, l'età pensionabile, oggi sessantacinque anni nella maggior parte dei paesi europei, può essere aumentata, e l'entità delle pensioni, che oggi arriva anche al 70 per cento del reddito medio, può dover essere diminuita. In molti paesi europei ci si è mossi in questa direzione, incontrando una dura opposizione; ma coloro che si sono opposti ai tagli dolorosi non sono stati in grado di fare proposte alternative.
L'età mediana è oggi solo leggermente più alta in Europa che in America (trentasette e trentacinque anni, rispettivamente), ma secondo le proiezioni, nel 2050 sarà trentasei anni in America e cinquantatré in Europa. L'America sarà un paese molto più giovane, un fatto che avrà non solo conseguenze economiche misurabili statisticamente, ma anche e soprattutto effetti secondari di ordine politico e psicologico. Assumendo che le forze armate siano ancora necessarie tra cinquantanni, sorge il problema della provenienza dei soldati dell'Europa - a meno che l'età delle reclute non venga aumentata nel giro di circa vent'anni. Ci sono altri fattori che non si possono misurare: nel giro di una generazione o due l'istituzione della famiglia sarà ulteriormente indebolita. In Germania il suo rapido declino cominciò con la generazione del 1968 e la Scuola di Francoforte, con la sua teoria critica che sminuiva la funzione della famiglia da un punto di vista sia sociale sia economico. Ma la famiglia ha meno importanza anche in altre società in cui il 1968 non fu un importante punto di svolta. Un noto economista ha dichiarato che l'Homo economicus non vorrebbe avere figli. Quali sono le conseguenze, se i giovani scoprono che con la scomparsa della famiglia i loro genitori sono i loro soli parenti? Sarà probabilmente un mondo fatto di gente molto più sola e triste. Non abbiamo risposte per queste domande e altre a esse collegate. Resta da rispondere a due domande, anche se in breve: le proiezioni potrebbero essere sbagliate? Ed è possibile invertire queste tendenze se ciò viene considerato desiderabile? L'esperienza storica mostra per lo più che le "politiche delle nascite" non hanno molto successo, almeno non nel lungo periodo. Sotto Hitler e Mussolini, e anche sotto Stalin per un certo periodo, un tasso di nascita più alto fu promosso dalle macchine di propaganda di quei regimi, e una serie di incentivi furono promessi e dati alle famiglie numerose. Ma ciò non ebbe effetti significativi sulla tendenza di lungo termine. La Germania dell'Est sotto il regime comunista offriva molti servizi alle madri che lavoravano, e molte si sono lamentate
del fatto che dopo la caduta del Muro di Berlino molti di quei servizi sono stati sospesi; ma nemmeno là questa politica ha avuto un effetto duraturo sul tasso di nascita. Tra le società democratiche, la Francia e la Svezia hanno adottato politiche mirate a ridurre il costo dei figli, dalla licenza di maternità per molti mesi prima e dopo la nascita (e la garanzia del posto di lavoro), a riduzioni fiscali, assegni e vari altri incentivi, compresa la possibilità di lavorare part-time. Alcuni hanno suggerito che quando due candidate fanno domanda per lo stesso posto di lavoro, a parità di condizioni si dovrebbe dare la precedenza alle madri rispetto alle donne senza figli. A conti fatti, la Svezia ha speso per questi incentivi dieci volte di più di Italia e Spagna, ma dopo un breve aumento, il numero di nascite è diminuito di nuovo - ciò è stato attribuito a un rallentamento del sistema economico. In Italia, invece, dove il tasso di nascita era diminuito ancora di più, si è pensato che la ragione del declino fosse il benessere. In breve, la Svezia e la Francia, che hanno offerto un certo numero di incentivi per incoraggiare le nascite, non possono essere un modello; il massimo che si può dire è che se queste misure non fossero state introdotte il tasso di nascita sarebbe diminuito ancora di più. Negli anni a venire ci saranno probabilmente piccoli alti e bassi del tasso di nascita europeo, ma la tendenza di base è verso il basso e, anche se un cambiamento radicale è sempre possibile, al momento è difficile immaginare perfino le sue possibili cause. Ciò che si può prevedere quasi con certezza matematica è che il declino continuerà almeno fino alla metà di questo secolo, perché se ci sono più morti che nati verrà a mancare un'intera generazione che avrebbe potuto avere figli. In generale, le previsioni dei demografi sono state esatte, con un margine di errore trascurabile. Essi fanno le loro previsioni secondo lo scenario migliore e quello peggiore, con una previsione addizionale per il caso intermedio. Così, per dare solo un esempio, la proiezione più alta per la popolazione mondiale a metà del secolo è 10,6 miliardi, la più bassa 7,4, e la mediana 8,9. Ma nel caso dell'Europa perfino gli scenari migliori mostrano una tendenza negativa.
Migrazioni
Fino all'anno 2000 circa gran parte della riflessione sul futuro dell'Europa, che fosse politico, sociale, economico o culturale, non teneva conto della demografia. Una visita a una scuola avrebbe funzionato da correttivo, ma a pochi politici, sociologi e filosofi viene in mente di visitare una scuola. E vero che in passato pochi paesi in Europa sono stati etnicamente omogenei, ma le minoranze all'interno dei confini degli altri paesi non erano molto diverse fra loro per vedute, mentalità e origini; non erano venute da paesi lontani o da altri continenti. Prima della prima guerra mondiale le migrazioni di polacchi verso la Germania occidentale e la Francia settentrionale, o di ebrei dall'Europa dell'Est, erano state su una scala relativamente piccola. Inoltre, quegli immigranti erano ansiosi di adottare i valori e lo stile di vita della nuova patria, e molto frequentemente cambiavano perfino il proprio nome per essere più integrati. L'immigrazione di massa dopo la seconda guerra mondiale ebbe luogo a causa di cambiamenti politico-territoriali, come l'espulsione dei tedeschi dall'Europa orientale e sudorientale e poi, dieci anni dopo, a causa del miracolo economico. Ma anche in questo caso i nuovi arrivati venivano per la maggior parte dall'interno dell'Europa: italiani e jugoslavi che anda-
vano in Germania, spagnoli e portoghesi che andavano in Francia. La grande maggioranza di questi gruppi, poi, non rimase ma ritornò al paese d'origine dove la situazione economica stava migliorando. In quel periodo i grandi paesi europei reclutavano manodopera all'estero per fare ciò che i loro lavoratori non erano disposti o capaci di fare. L'ondata successiva di immigranti aveva più che altro a che fare con la dissoluzione degli imperi: cittadini delle Indie Occidentali, pakistani e indiani si trasferirono in Inghilterra; anche gli indiani che Idi Amin espulse dall'Uganda si stabilirono in Inghilterra, mentre i nordafricani emigravano in Francia. Ci fu anche un flusso di turchi, specialmente verso la Germania e in misura minore verso altri paesi europei. Ma in generale si pensava che questo fosse un fenomeno temporaneo e che questi lavoratori ospiti, come venivano chiamati, sarebbero ritornati in patria dopo aver messo da parte il denaro necessario per un'attività economica nelle loro città e villaggi d'origine. Di fatto, invece, solo metà dei due o tre milioni dei lavoratori ospiti che vennero nell'Europa del nord negli anni sessanta ritornò in patria; gli altri rimasero, legalmente o illegalmente, e i governi ospiti tendevano a non applicare la legge contro gli illegali. Fu così che si formarono importanti comunità extracomunitarie, pressappoco al tempo in cui la situazione economica stava peggiorando dopo la crisi del petrolio del 1973 e la disoccupazione era in aumento. I governi europei smisero di rilasciare permessi di lavoro. Il risultato avrebbe dovuto essere una diminuzione o anche un blocco del numero di immigranti in Europa, e il numero dei lavoratori extracomunitari avrebbe dovuto diminuire, ma questo non accadde. A parte l'alto tasso di nascita degli immigrati asiatici e mediorientali, in quell'aumento c'era una serie di ragioni di cui i programmatori governativi non tennero conto. In primo luogo, il numero di dipendenti che furono portati legalmente e illegalmente dal Pakistan, la Turchia e il Nord Africa era considerevolmente più alto di quanto si fosse supposto. In secondo luogo, l'immigrazione illegale aumentò molto e divenne un affare organizzato. Gli immi-
grand illegali dal Medio Oriente venivano fatti passare attraverso i Balcani o attraverso il Mediterraneo verso l'Italia, dal Nord Africa attraverso la Spagna e l'Italia. Dozzine, forse centinaia di loro morirono in mare o a terra durante quei viaggi. Poi c'erano quelli che facevano domanda di asilo. Nel 1983 ce ne furono solo 80.000; nel 1992 il loro numero in Europa era salito a 700.000. All'inizio le autorità avevano scelto un approccio molto generoso, anche se questi immigranti erano, probabilmente per la grande maggioranza, non rifugiati politici ma "immigranti economici" in cerca di una vita migliore per sé e per i propri figli. Tra quelli che chiedevano asilo politico c'erano sostenitori dell'Islam o anche terroristi che erano davvero in pericolo di essere arrestati nei paesi d'origine, ma per ragioni che non avevano nulla a che fare con la lotta per la democrazia e la libertà. Per quanto se ne sa, alcuni immigranti illegali e anche individui che facevano domanda di asilo politico erano dei criminali e arrivarono a formare delle bande, specializzate in traffico di droga, prostituzione, furto di automobili ecc., nei paesi che li ospitavano. C'erano alcuni autentici rifugiati politici fra loro, ma tutti quelli che facevano domanda di asilo, legittimamente o no, erano sostenuti da una lobby potente, quella delle associazioni per i diritti umani e delle Chiese che offrivano assistenza legale e di altro genere. Queste organizzazioni sostenevano che era scandaloso, in violazione di diritti umani elementari, rimandare indietro i nuovi immigranti, e che in caso di dubbio doveva prevalere la compassione. Un po' alla volta l'atteggiamento delle autorità divenne molto meno tollerante e i permessi di ingresso vennero spesso negati, ma questi rifiuti rimasero lettera morta. Poiché coloro che venivano dall'Africa e dal Medio Oriente e chiedevano asilo avevano spesso distrutto i propri documenti, dicendo che li avevano perduti, le loro testimonianze potevano raramente essere verificate, e una volta che erano entrati nel territorio europeo diventava praticamente impossibile deportarli. Con l'accordo di Schengen (firmato nel 1985 a
Schengen, in Lussemburgo, da quel paese insieme al Belgio, l'Olanda, la Francia e la Germania, e più tardi da altri paesi), i controlli di confine fra i paesi europei furono per lo più aboliti, per cui se un immigrante aveva messo piede in un paese poteva liberamente trasferirsi in un altro. La Germania era di gran lunga la meta scelta dalla maggior parte di coloro che chiedevano asilo - circa due milioni tra il 1990 e il 2002 - seguita dal Regno Unito, l'Olanda e la Francia. Il numero dei rifugiati politici, reali e no, cominciò a diminuire dopo il 2002 perché furono introdotte procedure di esame più severe. Anche la composizione etnica dei rifugiati è cambiata; negli anni recenti la maggioranza è arrivata dall'Europa dell'Est e dall'ex Unione Sovietica, dall'Afghanistan e dalla Cecenia. Questi, in breve, sono i precedenti storici dell'emergere delle comunità musulmane. Le cifre delle comunità musulmane per il 2006 sono le seguenti (m = milioni): Francia: circa 5,5 m (raddoppiati dal 1980); Germania: 3,6 m (6.800 nel 1961); Regno Unito: 1,6 m; Olanda: 1,0 m (più che raddoppiati dal 1980); Spagna: 1,0 m (120.000 nel 1982); Italia: 0,9 m (120.000 nel 1982); Grecia: 0,5 m; Belgio: 0,5 m; Austria: 0,4 m (80.000 nel 1982); Svezia: 0,4 m (triplicati dal 1980); Danimarca: 0,3 m (25.000 nel 1982). Si dovrebbero poi aggiungere da 15 a 18 milioni di musulmani nella Federazione Russa, e anche quelli che vivono in Bosnia e in Albania. Tutte queste cifre sono stime e in alcuni casi potrebbero essere troppo alte. Secondo altre stime il numero dei musulmani in Francia potrebbe essere solo 3,5-4 milioni (la stima del Ministero dell'interno francese era 5 milioni nel 2000). Ma molte cifre sono certamente troppo basse: il numero di musulmani in Spagna (il paese che ha il tasso di immigrazione più alto d'Europa) è forse vicino a 1,5 milioni, e in Italia si pensa che ce ne siano 1-1,5 milioni, forse metà dei quali immigrati illegalmente. Fino a che punto è corretto parlare di "comunità" musul-
mane, dal momento che vengono da diverse parti del mondo? La Turchia è il paese di origine della grande maggioranza dei musulmani che vivono in Germania, e i musulmani turchi sono il 50 per cento di quelli che vivono in Austria e in Grecia, 40 per cento di quelli che sono in Olanda, e quasi la stessa percentuale vale per il Belgio. Ma fra questi "turchi" ci sono centinaia di migliaia di curdi i quali, a dir poco, non sono esattamente nei migliori rapporti con il gruppo etnico turco. La maggior parte dei musulmani francesi e spagnoli sono di origine nordafricana, come metà di quelli che vivono in Italia e in Belgio e forse il 40 per cento in Olanda. C'è stata una forte migrazione musulmana dall'Albania in Italia, spesso illegale. Una parte considerevole degli immigranti illegali ha proseguito verso nord, ma è impossibile dire quanti. I musulmani britannici vengono dal Pakistan (45 per cento) e dal Bangladesh (almeno 15 per cento). Così le comunità che vivono in Europa non sono affatto monolitiche; fatta eccezione per la Francia, non parlano una sola lingua e pochi parlano bene l'arabo. Ma sebbene la loro entità sia relativamente piccola, la loro influenza politica è in aumento. Così si ritiene per esempio che la Muslim Association ofBritain (MAB) sia controllata dalla componente araba. La grande maggioranza è sunnita, ma ci sono anche chiese sciite (fra i turchi in Germania), alawite (specialmente in Germania), ahmadiya, queste considerate al di là di ogni limite dai musulmani ortodossi, e una serie di ordini e gruppi mistici, specialmente sufi. La religione è molto importante nella vita delle comunità musulmane; in Francia, per esempio, il numero delle moschee è aumentato da circa 260 alla metà degli anni ottanta fino a 2.000 o più oggi. Ci sono alcune grandi moschee a Parigi, Marsiglia e Lione, ma per la maggior parte sono piccole, come in Germania e in altri paesi. La Germania negli anni ottanta aveva circa 700 moschee o sale per la preghiera, mentre ora ce ne sono più di 2.500. Nel 1999 in Gran Bretagna c'erano 584 "moschee registrate", ma il numero reale oggi è alme-
no 2.000; a Birmingham, la seconda città in Inghilterra, ci sono adesso più moschee che chiese, sebbene siano più piccole. Nel West Ham, nella parte orientale di Londra, vicino agli impianti per le Olimpiadi del 2012 è stata progettata una gigantesca moschea capace di accogliere 70.000 fedeli. Può darsi che ci siano oggi in Gran Bretagna più musulmani praticanti che membri della Chiesa anglicana. Fino a che punto sono ortodossi i musulmani europei? Le stime variano molto. Si ritiene che la partecipazione alle preghiere del venerdì nelle moschee arrivi al 60 per cento in alcune località e solo al 10 per cento in altre; la generazione più anziana, come è usuale, è prevalente. La maggioranza dei giovani musulmani, nati in Gran Bretagna, non capisce i sermoni pronunciati in urdu, bengali e arabo. Il pellegrinaggio alla Mecca (lo haj, uno dei pilastri dell'Islam) viene organizzato dai gruppi musulmani, ma la partecipazione non è molto alta: si pensa che sia da 20.000 a 24.000 persone all'anno in Gran Bretagna, da 16.000 a 17.000 in Germania, e in proporzione non molto più alta in altri paesi; poiché vengono dati sussidi per il viaggio, queste non sono cifre alte. In una ricerca sui turchi che vivono in Germania, nel 7 per cento gli interrogati hanno fatto sapere di essere molto ortodossi, mentre il 27 per cento hanno dichiarato di non essere molto religiosi o di non esserlo affatto. (Altre ricerche però hanno avuto risultati diversi, con cifre molto più alte per i credenti ortodossi; molto dipende dalla definizione di "religioso"). La durata della permanenza in Europa sembra non avere molta rilevanza in questo contesto, mentre l'istruzione e il reddito sono significativi: gli individui con un'istruzione e un reddito più alto tendono a essere meno religiosi degli altri. In una ricerca recente condotta in Francia, il 36 per cento ha dichiarato di essere strettamente osservante, ma una percentuale molto maggiore ha detto di osservare solo comandamenti specifici, come quello del digiuno durante il Ramadan. Alcune moschee sono più ortodosse di altre; altre hanno la reputazione di essere le più "militanti" (cioè una riserva per il reclutamento di terroristi), come quelle di Finsbury Park e di
Brixton a Londra, che però non sono le più ortodosse per la religione. L'orientamento religioso dipende molto dalla personalità dell'imam (il predicatore). Il reclutamento e l'addestramento dei militanti vengono fatti in una serie di organizzazioni diverse nell'ambiente delle moschee, che costituiscono una specie di arcipelago con club sportivi (per soli uomini), scuole, asili e altre istituzioni. Più omogenee sono le comunità (come in Germania), più probabile è l'emergenza di una società alternativa autosufficiente, o subcultura, e meno diffuso il bisogno di imparare la lingua del paese ospite. Gli immigrati musulmani nei paesi europei non sono equamente distribuiti; le maggiori concentrazioni si trovano nelle grandi città e nelle vecchie regioni industriali. Nel Regno Unito si trovano a Londra (e nella città tendono a stabilirsi in certe zone come Tower Hamlets nell'East End), nei Midlands (Bradford, Burnley, Oldham) e anche a Birmingham. In Germania Berlino ha la più grande comunità musulmana, ma la percentuale è ancora più forte nella regione della Ruhr vicino al Reno (Essen, Dortmund, Duisburg, Solingen) e molte altre città hanno una popolazione non tedesca tra il venticinque e il 30 per cento, mentre Colonia ne ha un po' meno. In Francia la concentrazione più forte è nelle banlieues, i sobborghi fuori Parigi come Seine/Saint-Denis, e ci sono forti comunità nel meridione, a Tolosa, Lione, Nizza e sulla Costa Azzurra. Ma se ne trovano anche nelle vecchie città industriali del nord: molti abitanti dell'area urbana intorno a Lille, per esempio, sono musulmani. In Spagna le maggiori concentrazioni sono nel sud e a Madrid, ma anche in Catalogna. In Svezia, Malmò, con il quartiere di Rosengard, è di gran lunga la città più musulmana della Scandinavia, ma ci sono molti musulmani anche nella parte nord e nordest di Stoccolma, a Tensta per esempio, e nei quartieri orientali di Goteborg. L'influenza della Muslim Brotherbood (Fratellanza Musulmana), che è ostile al mondo laico, è stata particolarmente forte nella comunità islamica in Svezia dopo l'arrivo di predicatori sauditi antioccidentali. Un'altra caratteristica peculiare delle comunità musulma-
ne è il fatto che le persone che vi appartengono sono molto più giovani del resto della popolazione. Circa la metà dei musulmani nell'Europa occidentale e centrale sono nati là. I musulmani sono solo il 15 per cento della popolazione di Bruxelles, ma sono il 25 per cento e anche più della coorte degli abitanti sotto i venticinque anni, e come abbiamo già visto più del 55 per cento dei neonati avevano genitori immigrati. Le percentuali corrispondenti nelle grandi città olandesi sono più alte. Secondo le proiezioni, in città tedesche come Colonia, Düsseldorf, Wuppertal, Duisburg e molte altre, nel 2015 la popolazione extracomunitaria, in maggioranza musulmana, sarà più del 40 per cento. In generale, il numero dei musulmani in Germania raddoppierà nel giro di dieci anni, mentre la popolazione tedesca autoctona diminuirà. Il problema, nelle società dell'Europa occidentale, è spesso quello degli immigrati della seconda e terza generazione, proprio quelli che ci si aspettava sarebbero stati bene integrati, membri alla pari di queste società, che invece si sono ribellati contro il paese di adozione. Le ragioni menzionate di solito sono la povertà (due terzi dei musulmani inglesi fanno parte di famiglie a basso reddito), le abitazioni inadeguate e il sovraffollamento, la ghettizzazione, la disoccupazione specialmente fra i giovani, la mancanza di istruzione e i pregiudizi razziali dei vicini non musulmani; si dice che tutto questo conduca alla mancanza di mobilità sociale, alla criminalità e in generale all'emarginazione delle comunità musulmane. Per implicazione o direttamente, viene sostenuto che è colpa dello Stato e della società se ciò è accaduto. Però i musulmani che hanno avuto successo nel mondo degli affari o nelle professioni dicono quasi senza eccezione che la loro identità etnica non li ha affatto ostacolati. In quale misura la ghettizzazione è stata forzata dal mondo esterno, e in quale è stata autoimposta? Che i nuovi immigranti si concentrino in certi settori di una città è un fenomeno ben noto. Lo si può studiare a Londra, nei quartieri dove tradizionalmente si stabilivano gli irlandesi (Camden Town), gli ebrei (East End e più tardi Golders Green), gli australiani
e i polacchi (vicino a Earls Court e Olympia), i giapponesi (South Hampstead) e altri immigranti. Erano motivati dal desiderio di essere insieme a gente che parlava la loro lingua e aveva negozi di alimentari tipici di un gruppo etnico, agenzie di viaggio, club e altre organizzazioni. A Berlino gli immigranti russi dopo il 1920 si concentrarono a Charlottenburg, mentre gli ebrei dell'Europa dell'Est si stabilirono nella parte orientale della città. Un processo simile si è verificato per l'immigrazione musulmana, ma c'era una differenza basilare: le precedenti ondate di immigrazione non ricevevano alcun aiuto per la casa dallo Stato o dalle autorità locali, mentre nella seconda metà del ventesimo secolo questa era la regola piuttosto che l'eccezione. Per questa ragione c'era uno scarso incentivo ad abbandonare abitazioni che, per quanto inadeguate o brutte, erano gratis o poco costose. Quando gli ebrei dell'Europa dell'Est cominciarono a stabilirsi a Whitechapel verso la fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, nessun sindaco di Londra si fece in quattro per aiutarli. Essi e altri immigranti dovettero cavarsela da soli, con difficoltà incomparabilmente più grandi di quelle degli immigrati d'oggi; per esempio, non c'era assistenza medica o sociale in genere. Gli immigranti musulmani sembrano stare con i propri correligionari più a lungo di altri gruppi, e sono incoraggiati a farlo dai loro predicatori. Ciò vale perfino per l'India, dove c'è più ghettizzazione che in Europa; anche i musulmani di classe media sembrano essere riluttanti a lasciare le zone dove vivono i membri della loro comunità. Le zone intorno a Parigi dove vivono molti dei musulmani francesi e che esplosero nel novembre del 2005 sono scomode e sgradevoli a vedersi, ma non sono bassifondi come l'East End di Londra. Eppure è stato precisamente in quei quartieri che, per dirla con le parole di un visitatore straniero, si è formata un'antisocietà piena di un odio ardente per il resto della Francia, una profonda sfiducia e alienazione (si veda I barbari alle porte di Parigi di Theodore Dalrymple). Questo odio, secondo Dalrymple, si manifesta nel desidero di rovina-
re tutto ciò che si vede, facendo graffiti sui muri e bruciando motociclette. L'assistenza sociale infiamma la rabbia dei giovani; sebbene godano di un tenore di vita e di consumo molto più alto che nel paese dei loro genitori, ciò non ispira gratitudine; viene invece sentito come un insulto o una ferita, anche se danno per scontato che gli sia dovuto. "Barbari" sembra una parola dura, forse razzista, ma è del tutto ingiustificata? Una delle bande importanti delle banlieues, che è stata coinvolta in attività criminali o terroriste di vario genere (come il rapimento e l'assassinio di Ilan Halimi nel gennaio del 2006), si fa orgogliosamente chiamare I barbari. La situazione abitativa è stata menzionata come la ragione forse principale dei disordini di Parigi del 2005, insieme alla disoccupazione giovanile. La disoccupazione è dal 30 al 40 per cento in Francia e Germania, e non è più bassa in Gran Bretagna e in Olanda. Come ha dichiarato un preside di Berlino, «Stiamo formando un esercito di disoccupati permanenti». Il numero di ragazzi che lasciano la scuola è molto alto tra i turchi a Berlino e anche in altri paesi; è molto più alto per i maschi che per le femmine. In Germania solo il 3 per cento dei giovani musulmani arriva all'università. La loro conoscenza della lingua locale è scarsa, il che non sorprende dal momento che a casa parlano turco o arabo; in molte famiglie non ci sono libri, e l'uso del tedesco (o dell'inglese) è scoraggiato dai genitori che spesso non lo parlano bene. I ragazzi vengono mandati alle scuole dove si insegna il Corano, ma non sono incoraggiati a studiare altre materie, mentre alle ragazze è spesso proibito andare a scuola oltre i sedici anni e di università non se ne parla nemmeno, perché là potrebbero essere esposte a influenze poco desiderabili. Quando una scuola di Berlino decise, dopo una consultazione con gli studenti e i loro genitori, di insistere sull'uso del tedesco a scuola, essa fu attaccata duramente dai media turchi anche se la maggioranza degli studenti e dei genitori erano a favore. Alcuni esponenti locali del multiculturalismo, pensando di fare del bene, sostennero la protesta perché pensavano che quella decisione fosse equivalente alla repressione culturale. Ma
può una generazione di giovani avanzare socialmente e culturalmente senza aver imparato bene la lingua del paese dove vive? Il razzismo e la xenofobia sono stati indicati come fattori responsabili degli scarsi risultati scolastici dei giovani musulmani. Ma questa spiegazione non rende conto del profitto di allievi indiani o dell'Estremo Oriente, che in molte materie prendono voti più alti dello studente medio tedesco o inglese. Non spiega nemmeno perché le ragazze se la cavano molto meglio dei ragazzi. Ciò potrebbe essere collegato con il fatto che alle ragazze non è permesso andare per strada da sole, mentre i ragazzi ci passano la maggior parte del tempo? Il rendimento degli studenti indiani è doppiamente migliore di quello dei pakistani, e quelli che vengono dall'Estremo Oriente hanno superato quasi tutti gli altri. Ci sono molte spiegazioni, ma l'idea, qualche volta espressa, che sia tutta colpa dello Stato o della società, non è plausibile e non aiuterà a rimediare la situazione. I giovani si sentono dire ogni giorno che sono vittime della società e che non è affatto colpa loro se falliscono. Il risultato di questi fallimenti è che si è sviluppata una cultura dell'odio e del crimine che ha poco a che fare con la religione. Malgrado frequentino le scuole coraniche (più in Germania che in Francia e nel Regno Unito), questi giovani non sono molto interessati alla religione; potranno andare alla moschea il venerdì, ma dopo bevono e si drogano malgrado le proibizioni religiose. L'influenza più forte su di loro non è né quella della famiglia né quella degli imam, ma quella della banda di strada. I genitori hanno poca autorità, non sono abbastanza severi, lavorano troppo e guadagnano troppo poco. L'Islam tradizionale non interessa molto nemmeno a loro; un imam importante in Gran Bretagna ha dichiarato: «Ne stiamo perdendo la metà». Solo pochi leader religiosi carismatici che predicano l'azione violenta possono forse avere un certo seguito fra i giovani. Per comprendere la situazione nelle scuole e per le strade di Kreuzburg e delle banlieues, un libro di testo sulla delinquenza giovanile è probabilmente più utile del Corano.
La scuola ha pochissima autorità; in Francia e nel Regno Unito la lingua non è un grande ostacolo, ma in Germania gli allievi spesso letteralmente non capiscono né quello che dice l'insegnante né i compagni di altri paesi che parlano lingue diverse. Molti insegnanti non riescono a imporre la propria autorità perché se osano punire gli allievi per una condotta scorretta o gli impongono di fare qualcosa, vengono accusati di razzismo e discriminazione. Gli allievi che si sono fatti furbi sulle strade sono bravi a giocare la carta della razza. La cultura dei giovani musulmani varia in certa misura da paese a paese. In comune hanno l'abbigliamento sportivo della strada (bluse da tuta con il cappuccio, sneakers ecc.) e il maschilismo; il loro linguaggio corporeo esprime aggressività. Esigono rispetto, anche se non è chiaro come se lo siano guadagnato; forse ciò si basa sulla credenza che "questa strada, questo quartiere sono nostri". In Francia e nel Regno Unito la cultura hip-hop è della massima importanza; i testi delle loro canzoni parlano di violenza, spesso di sadismo. Le bande di strada di solito hanno una base territoriale di origine; i turchi di Berlino hanno le loro bande, e lo stesso vale per gli arabi e i curdi che sono arrivati in Germania più tardi. Qualche volta le bande di strada fanno riferimento a un certo villaggio o provincia del paese da cui la famiglia (allargata) è venuta. Ci sono stati molti scontri fra queste bande con base territoriale; in Gran Bretagna si è trattato spesso di neri contro indiani o pakistani, a Bruxelles di turchi contro africani neri. Le bande di strada passano il tempo senza scopo, ma spesso si danno a piccoli atti criminosi. In Gran Bretagna i musulmani hanno rimpiazzato in gran parte i neri dei Caraibi nello spaccio di droga al dettaglio, ma le posizioni chiave del mercato normalmente non sono in mano a loro. Il commercio di merci rubate è un altro modo di guadagnare il denaro necessario per vestirsi, per l'hashish (le droghe pesanti vengono vendute ma raramente consumate) e per il divertimento. Gli insegnanti non osano interferire, e la polizia locale è restia a fare arresti perché i giudici di solito rilasciano gli ar-
restati, specialmente se sono minorenni. Alcuni arrivano a commettere crimini più gravi, e questo è un tema che le comunità musulmane in Europa sono state riluttanti a trattare. Le cifre sono difficili da ottenere, ma tutti gli esperti sono concordi nel dire che la percentuale di giovani musulmani nelle prigioni europee è di gran lunga più alta della loro percentuale sulla popolazione. Questo vale anche per i casi di stupro, che in molte bande è diventato parte del rito di passaggio, specialmente in Francia e in misura minore nel Regno Unito, in Scandinavia e in Australia. Le vittime non sono affatto sempre ragazze o donne non musulmane che l'hanno "chiesto" con un abbigliamento e un comportamento provocante, ma sono spesso ragazze musulmane: Yhijab non offre affatto sempre protezione. Un tempo gli Stati Uniti avevano la reputazione di un paese violento con alta criminalità, a differenza della pacifica Europa, ma negli anni recenti i tassi di criminalità europei si sono avvicinati a quelli americani e per certi aspetti li hanno superati, come ha mostrato Alexander Stein in un interessante studio: The Continent ofBroken Windows (Il continente delle finestre rotte), in «The Weekly Standard», 21 novembre 2005). Ci sono più aggressioni nel Regno Unito che negli Stati Uniti, e in Svezia, Norvegia e Danimerca vi sono all'incirca gli stessi tassi; i furti sono più numerosi in Gran Bretagna, Danimarca, Francia, Germania e Norvegia (il tasso di furti a Copenhagen è cinque volte quello di New York); furti e rapine sono tanto comuni nel Regno Unito, in Olanda, nei paesi scandinavi e in Germania quanto lo sono negli Stati Uniti. Molto recentemente c'è stata una diminuzione in alcuni paesi europei, in Germania per esempio, ma la tendenza generale rimane; il tasso di omicidi è tuttora più alto negli Stati Uniti che in Europa, ma quello americano è diminuito mentre quello europeo è aumentato significativamente. L'aumento della criminalità in Europa non può, naturalmente, essere attribuito soltanto all'immigrazione, ma non c'è alcun dubbio che essa ne sia una delle maggiori ragioni. Il capo della London Metropolitan Pólice ha reso noto che l'80 per cento del-
la criminalità nella metropolitana di Londra è dovuto a immigrati africani, mentre il responsabile della polizia di Berlino ha dichiarato che uno su tre dei giovani immigrati della città ha precedenti penali; in Francia le statistiche che nominano la matrice etnica o religiosa sono proibite, ma l'alto numero di giovani musulmani nelle prigioni francesi (70 per cento secondo alcune stime) non è un segreto per nessuno. Come si spiega la forte aggressività di queste bande, come per esempio quella che si è manifestata nei disordini in Francia del novembre 2005, ma anche in molte altre occasioni, prima e dopo? La mancanza di affermazione sociale acuisce senza dubbio l'insoddisfazione di queste persone, e il problema dell'identità (o della sua mancanza) viene menzionato spesso in questo contesto. Molti individui della giovane, seconda generazione non si sentono a casa nella patria dei genitori e nemmeno nel paese in cui vivono; pensano di non essere bene accetti in Europa e magari maledicono il paese ospite in tutte le lingue, ma si sentirebbero ancora meno a casa in Turchia, in Nord Africa o nel subcontinente indiano, e non desiderano affatto ritornare in quei paesi. Come abbiamo già visto, quando la nazionale di calcio algerina gioca contro quella francese i giovani fanno disordini in favore dell'Algeria, ma più come una manifestazione di protesta e per dare fastidio ai francesi che per un senso di profonda identificazione con la patria dei loro genitori o dei loro nonni. La repressione sessuale è quasi certamente un altro fattore che non viene quasi mai discusso all'interno delle loro comunità o da osservatori esterni. Può ben essere che questa repressione, come ha spiegato Tsvetan Todorov, generi più aggressività, un'osservazione che è stata fatta anche da giovani donne musulmane. I giovani maschi non possono incontrare liberamente le ragazze della loro comunità; l'omosessualità è considerata abominevole, eppure di fatto secondo molti rapporti viene praticata frequentemente - come lo è stata in tutta la storia dei musulmani. Il rifiuto della società che li circonda si manifesta in molti modi, a cominciare dallo sfregio dei muri per arrivare all'incendio delle automobili, come è
spesso accaduto in Francia. In casi estremi c'è il desiderio di distruggere tutto quello che trovano e di assalire chiunque, compresi i vigili del fuoco e gli addetti al pronto soccorso che accorrono nei ghetti per affrontare una situazione di emergenza. I fattori socioeconomici sono stati additati come cause della delinquenza, e per questo aspetto ci sono somiglianze interessanti con i giovani neri maschi negli Stati Uniti: se solo fossero disponibili più posti di lavoro, viene spesso sostenuto, tutto cambierebbe per il meglio. Ma molti studi hanno mostrato che quando i posti di lavoro vengono offerti, come negli anni di Clinton negli Stati Uniti, quelli che li accettano sono prevalentemente immigranti dall'America Latina e dall'Estremo Oriente. In generale si trova un'enorme difficoltà, come ha osservato Orlando Patterson ad Harvard, ad accettare spiegazioni culturali per la cattiva condizione dei giovani neri, e tra l'altro c'è anche il fatto interessante che i risultati di tutte queste ricerche non valgono per le femmine di colore. "Perché i giovani neri e maschi sbandano?". La franca risposta è stata quella che i sociologi chiamano la cultura della posa cool, o brava e alla moda, che è troppo gratificante per rinunciarvi. Per questi giovani è quasi come una droga stare in giro per le strade dopo la scuola, fare spese e vestirsi in modo elegante, gustare le conquiste sessuali, i party alla droga e la musica e cultura hip-hop. Loro trovano questa cultura immensamente gratificante, anche perché ha fruttato loro molto rispetto da parte dei giovani bianchi. Dalle ricerche non è risultato chiaro, però, perché la disoccupazione dovrebbe condurre più o meno automaticamente alla criminalità e alla droga; c'è una forte disoccupazione anche in Pakistan e in India, ma molto meno criminalità e uso di droghe. Queste considerazioni generali si possono applicare in grande misura alle comunità musulmane in tutta l'Europa, ma ci sono anche tra queste differenze significative, dalle origini etniche al modo in cui si sono formate e sviluppate. E a questi aspetti specifici che dobbiamo ora volgere l'attenzione.
FRANCIA: DALL'ALGERIA A PARIGI
La Francia è la patria acquisita della più grande comunità musulmana d'Europa, che in gran parte è eredità del dominio coloniale francese in Nord Africa: per la maggior parte i musulmani francesi vengono dall'Algeria e dal Marocco. Poiché lo Stato francese non tiene conto della religione e dell'origine etnica, il loro numero rimane sconosciuto; le stime variano molto, tra 3,5 e 6 milioni. Circa un terzo vive nella zona della Grande Parigi, un altro tra Marsiglia e Nizza, e poi ci sono grandi concentrazioni nel nord industriale, come per esempio la regione di Lille-Roubaix-Turcoing. Il tasso di nascita delle donne provenienti dal Nord Africa era il 5 per cento negli anni settanta, è poi diminuito al 3,5 per cento, ma è ancora il doppio di quello francese. A Lille e Roubaix più della metà della nuova generazione è di origine musulmana, e circa metà dei musulmani nell'intero paese sono cittadini francesi per nascita o naturalizzazione. La linea politica francese nei confronti dei musulmani è basata sul principio della laicità (laicità) e dell'assimilazione, che segue la divisione fra Stato e chiesa stabilita per legge nel 1905. Il principio repubblicano è quello di una società omogenea, e il multiculturalismo viene rifiutato. Il problema è che il modello francese non ha funzionato molto bene, anche se è vero che in Europa altri modelli non hanno avuto migliore successo. Per molto tempo si è pensato che disordini, saccheggi e la guerra fra bande, ciò che accadde nel 1990 a Lione, in altre località del meridione, a Strasburgo e a Lille, fossero fenomeni spontanei e locali, il che infatti può essere anche vero. Si pensava che con il tempo e con l'assistenza, specialmente sussidi economici dallo Stato e dalle amministrazioni periferiche, quei fatti non si sarebbero ripetuti. Ci fu un'ondata di terrorismo, specialmente nel nord e a Parigi, che arrivò al culmine nel 1994-1995, ma presto si spense; la violenza, causata in una certa misura dalla situazione in Medio Oriente e in particolare in Algeria, era limitata a gruppi relativamente ristretti di giovani e fu repressa dall'in-
tervento duro ma efficiente delle forze dell'ordine. Più o meno si credeva che la situazione nelle comunità di immigrati fosse sotto controllo, ma ci furono avvertimenti da persone competenti che la tensione stava aumentando e che i beurs, o beurettes, della seconda e terza generazione di immigrati si stavano radicalizzando. Prevaleva una cultura della violenza che si manifestò, per esempio, nell'incendio di automobili (45.000 nel 2005) e in generale nella guerra fra bande. Come dichiararono ripetutamente i rappresentanti dei giovani, non c'era solo un rifiuto della Francia e dei suoi valori, ma vie era l'odio per la società francese e le sue istituzioni. Nel 2000 c'era ormai un migliaio di zone nei quartieri di immigrati dove la polizia non entrava più - a meno che naturalmente non si presentasse in forze - e allo stesso tempo si stimava che più della metà dei carcerati fosse di origine musulmana. Quella radicalizzazione, che raggiunse il culmine nel 2005, non era prevalentemente di carattere religioso. E vero che c'era stato un processo di islamizzazione nella comunità, ma è poco probabile che i giovani fossero motivati dalla fede e dall'ortodossia religiosa. Se le ragazze sceglievano Yhijab, come molte ma non tutte fecero, quello era un atto di sfida (o di sottomissione) più che l'adempimento di un dovere religioso. Sono state suggerite varie ragioni della violenza, come il risentimento dei beurs per non essere accettati come francesi a pieno titolo, altri esempi di discriminazione, e naturalmente la disoccupazione giovanile e altri problemi sociali. François Mitterand, quando era presidente, descrisse eloquentemente la mancanza di speranze di questa generazione perduta nei sobborghi poveri, ma né lui né il suo partito avevano una soluzione per questi problemi sociali o un modo per dare una nuova speranza a questa generazione, e ci si può ancora chiedere se il problema avrebbe potuto essere risolto con mezzi amministrativi. Manca qualcosa in questa generazione, qualcosa che non mancava in precedenti comunità di immigrati come i polacchi, gli ebrei nordafricani, i cinesi nel tredicesimo arrondissement di Parigi o i vietnamiti. Questi gruppi
hanno avuto un successo sorprendente; la loro motivazione a ottenere un titolo di studio e a salire nella piramide sociale doveva essere diversa. E vero che c'erano gruppi di immigrati molto più piccoli, ma a differenza dei nordafricani essi non ebbero alcun aiuto dalle autorità. Se ora c'è più xenofobia, può ben essere dovuta alla reazione della classe lavoratrice bianca contro il trattamento preferenziale che spesso è stato riservato agli immigrati. Il razzismo dei francesi, dei tedeschi o degli inglesi è spesso chiamato in causa per le tensioni e i conflitti fra gruppi di immigrati e la loro nuova patria. L'esistenza del pregiudizio razziale e le tensioni etniche sono purtroppo un fatto indiscutibile in tutto il mondo, e sarebbe difficile pensare a un paese nel primo, secondo o terzo mondo che ne sia completamente immune. Ma non è affatto ovvio che il razzismo sia più forte adesso di cinquanta o cento anni fa; i nuovi immigranti possono scontrarsi con il pregiudizio nel mercato del lavoro e in molti altri campi, ma in passato ciò non ne ha impedito l'integrazione e l'ascesa sociale. Perché dovrebbe essere diverso adesso? Questa domanda viene fatta solo raramente, ma se non si cercano le cause alla radice, non si troveranno le strategie per migliorare la situazione. Ci sono stati parecchi esempi di successo personale tra i nordafricani, gente che si è affermata in molti campi diversi, si è fatta strada nella classe media ed è uscita dai ghetti. Si è detto più sopra che mentre molti giovani maschi si lamentano della discriminazione (per esempio, "Che possibilità ho io con questo nome e indirizzo?"), poche femmine fanno lo stesso, e i loro nomi e indirizzi non sono stati un ostacolo insormontabile. Quelli che hanno successo, però, sono ancora una minoranza. Ci deve essere qualcosa nel modo di ragionare di coloro che si sentono emarginati che ha reso loro difficile affermarsi nella vita. I governi francesi, uno dopo l'altro, hanno cercato di intervenire sulla comunità musulmana. Tra molte centinaia di imam, solo il 4 per cento è di nazionalità francese; molti non conoscono affatto o parlano male la lingua locale, e dozzine
di loro sono convinti che il loro compito principale sia incitare apertamente i fedeli contro le autorità. Il governo francese da una parte ha deportato i più pericolosi, dall'altra ha offerto denaro pubblico per la costruzione di moschee, che in passato erano finanziate dall'Arabia Saudita e da altri paesi. Il problema era che le autorità non trovavano un interlocutore dall'altra parte, perché c'erano molti gruppi ma non un'organizzazione centrale che rappresentasse i musulmani in Francia. A questo fine nel 2002 fu fondato il Consiglio francese del culto musulmano (Conseil français du culte Musulman, o CFCM), composto da molti gruppi regionali, che però è stato deludente perché dopo dibattiti interminabili non si è giunti ad alcuna decisione o azione. Alla fine, nel 2005, il governo creò un'altra organizzazione nazionale per la costruzione e la manutenzione delle moschee, la formazione dei predicatori e degli insegnanti di religione e altre attività del genere. Rimane da vedere se questa nuova organizzazione si dimostrerà più efficace del CFCM. La più forte organizzazione musulmana in Francia negli ultimi due decenni è stata l'Union des Organizations Islamiques de France (UOIF), il cui orientamento è all'incirca quello della Muslim Brotherhood (bandita nella maggior parte dei paesi arabi). Ufficialmente la UOIF non ha contatti con la Muslim Brotherhood e altre forme di estremismo, e secondo il suo documento istitutivo essa «opera per venire incontro alle necessità religiose, culturali, sociali e umanitarie dei musulmani in Francia. Partecipa alla formazione di una coscienza individuale e collettiva, verso un'integrazione responsabile e positiva». In realtà è un'organizzazione politica molto vicina allo sceicco Qaradawi, influente predicatore della rete televisiva Al Jazeera e anche capo deW European Council for Fativa and Research, un'organizzazione militante della Muslim Brotherhood che una volta aveva base in Gran Bretagna ma ora è a Dublino. Qaradawi fu dichiarato persona non grata negli Stati Uniti quando furono scoperti i suoi legami con la Altaqwa Bank, un'istituzione che apparteneva ad Al Qaeda e alle varie organizzazioni militanti che fanno capo ad Hamas. Qa-
radawi e i suoi seguaci hanno dichiarato di essere sostenitori dei diritti delle donne nell'Islam, ma il leader ha anche approvato gli attentati suicidi, predica la jihad e fa propaganda contro Israele. Allo stesso tempo, per prevenire lo scontro con le autorità la UOIF e i gruppi suoi alleati hanno dichiarato di condannare l'antisemitismo e che «rifiutano l'importazione di conflitti stranieri in Francia in nome dell'Islam». La UOIF non è un'organizzazione terrorista, ma fa propaganda politica sostenendo una versione piuttosto radicale dell'Islam. La Federation nationale des Musulmans de Trance (FNMF), un po' più moderata, è o era appoggiata dal governo marocchino. Poi ci sono due organizzazioni turche e alcune di musulmani africani; anche la posizione della Grande moschea di Parigi, costruita negli anni venti e ora guidata da Dalil Boubakeir, è importante, perché essa ha il privilegio di rilasciare i certificati baiai ("certificati di approvazione" di un'autorità religiosa che approva i cibi permessi dalla legge islamica). Tutte queste organizzazioni sono piccole o molto piccole e in genere sono associazioni di notabili che raccolgono non più del 10 o 20 per cento dei musulmani francesi; esse però hanno acquisito legittimità e influenza grazie al desiderio del governo di considerarle quali interlocutori. Originariamente l'intenzione del governo era quella di favorire una versione dell'Islam più aperta ed europea, ma l'effetto di queste organizzazioni è stato invece il rafforzamento delle frazioni più conservatrici e anche militanti tra i notabili; allo stesso tempo non è affatto chiaro se e in quale misura questi notabili abbiano un'influenza reale sui giovani, per esempio nel Regno Unito. Quanto religiosi sono i musulmani francesi? Secondo un sondaggio del 2001, per il 36 per cento si considerava credente osservante, ma solo il 20 per cento partecipava alle preghiere del venerdì in moschea e solo il 33 per cento pregava quotidianamente, mentre il 70 per cento osservava il digiuno nel Ramadan. Un confronto con una ricerca simile condotta nel 1994 mostra un aumento che va dal 10 al 20 per
cento; si è anche trovato che gli algerini, i più politicizzati, sono i meno osservanti. (Circa il 35 per cento dei musulmani francesi viene dall'Algeria, il 25 per cento dal Marocco, e il resto dalla Tunisia e dall'Africa subsahariana). L'integrazione dei musulmani in Francia non ha funzionato bene. All'inizio c'erano manifestazioni di malcontento (e peggio), ma di solito si trattava di fenomeni locali. In gran parte, anche se non utta, l'ira dei musulmani era diretta contro gli ebrei; le molestie agli allievi ebrei nelle scuole erano frequenti, e si riuscì a risolvere il problema solo separando i gruppi etnici. La politicizzazione, comunque, non era affatto totale. Dominique Strauss-Kahn, un emergente candidato socialista, fu eletto a Sarcelles, una città prevalentemente nordafricana vicino a Parigi che ha anche molti abitanti ebrei, sicché anche il candidato dell'opposizione era ebreo; malgrado ciò Sarcelles, che ha circa 60.000 abitanti, è un posto come un altro per studiare le tensioni prevalenti tra gli ebrei, che vivono in centro, e i musulmani della periferia, con nessun punto di contatto fra le comunità. La situazione in Francia peggiorò quando sorse il problema dell'hijab. Intorno al 1989, in seguito a un'ondata di islamizzazione, divenne un costume per un certo numero di ragazze, spesso su consiglio dei genitori, andare a scuola con il ben noto velo sul capo, cosa che era in patente contrasto con la legge e la tradizione francese, ostili all'aperta messa in mostra di simboli religiosi nelle scuole. Non era nemmeno chiaro se portare Vhijab fosse una presa di posizione religiosa o politica. In grande maggioranza gli insegnanti e in generale la popolazione francese si opposero a quella pratica perché era illegale, e poi c'era anche il problema di proteggere le ragazze musulmane da famiglie non religiose, perché molte, forse la maggioranza, non avevano alcuna intenzione di appoggiare il movimento islamista. La disputa continuò per più di un decennio. Alcune personalità di spicco della comunità dissero che portare Vhijab era desiderabile ma non un obbligo religioso, ma i più estremisti insistevano. Si sarebbe potuto risolvere il problema mandando a scuole musulmane le ragaz-
ze che volevano Yhijab a tutti i costi, ma nemmeno questa soluzione fu accolta con grande entusiasmo; il caso fu portato in tribunale e le corti pronunciarono sentenze diverse. Molto più allarmanti furono i disordini che cominciarono il 28 ottobre 2005 a Clichy-sous-Bois, un sobborgo a est di Parigi, quando una pattuglia della polizia chiese di controllare i documenti d'identità e due giovani che stavano giocando a calcio corsero via, finirono per toccare una centralina per l'alta tensione e morirono fulminati. Ci furono versioni diverse della ragione per cui corsero via senza essere stati inseguiti, ma si sparse rapidamente la voce che erano stati uccisi dalla polizia, e nelle notti seguenti le bande si aggirarono per la zona distruggendo case, saccheggiando e bruciando scuole, asili nido, club giovanili e altre istituzioni, e attaccando la polizia e i vigili del fuoco. I bersagli più frequenti furono le automobili; gli incendi di automobili e autocarri erano stati comuni anche in periodi più tranquilli, ma durante i disordini raggiunsero le migliaia. Questi disordini si allargarono in pochi giorni ad altre parti della Francia e in qualche caso anche fuori del paese. In tutto interessarono circa 274 comuni, con circa 9.000 automobili bruciate in venti giorni e 2.800 arresti. Non ci fu alcuna vittima, ma ci furono centinaia di feriti tra polizia e manifestanti, mentre i danni materiali stimati furono di 200 milioni di euro. L'8 novembre il presidente Chirac dichiarò lo stato di emergenza e furono fatte arrivare riserve della polizia; il 17 novembre Chirac annunciò il ritorno alla normalità perché la notte precedente solo un centinaio di automobili erano state incendiate. I fatti causarono costernazione e shock in Francia e nel resto del mondo, perché le autorità avevano creduto che malgrado tutti gli insuccessi il modello francese funzionasse e potesse servire da esempio per gli altri paesi europei. Nei primi giorni dei disordini le personalità più in vista della repubblica preferirono non fare commenti; l'unico che ne fece fu Nicolas Sarkozy, allora ministro dell'Interno, che fu attaccato duramente dai dimostranti e dai loro sostenitori perché li
paragonò a una "feccia" di cui occorreva liberarsi. Bisogna aggiungere però che Sarkozy, noto per la sua franchezza, era stato anche il principale difensore della "discriminazione positiva" a favore delle minoranze, e che le sue opinioni e i suoi commenti erano condivisi dalla maggioranza dei francesi. (La discriminazione positiva è l'equivalente di quella che negli Stati Uniti si chiama affirmative action). Chi erano i protagonisti dei disordini e quali erano le loro motivazioni? Le ragioni che furono ipotizzate erano le solite: disoccupazione, povertà, cattive condizioni abitative e razzismo da parte della polizia e della società francese in generale. Tutto questo ebbe un peso, ma non può dare una risposta soddisfacente. Non sembra nemmeno che l'islamismo militante avesse un'importanza significativa; infatti una delle organizzazioni musulmane a un certo punto pubblicò una fatica religiosa contro i disordini, e verso la fine, quando la violenza stava ormai diminuendo, i "grandi fratelli", militanti delle moschee, scesero in strada e cercarono di calmare i dimostranti. Altre organizzazioni musulmane denunciarono la fatwa sostenendo che gli assalti non avevano nulla a che fare con loro. La disoccupazione era alta, fino al 45 per cento, nelle località dove i disordini furono più gravi, ma ci furono molti quartieri con una disoccupazione egualmente alta in cui non ci fu alcun problema. Tutti i dimostranti erano giovani - parecchi molto giovani, di dodici o tredici anni - il che creò un problema per la polizia e i giudici che non potevano detenere i minorenni. Con l'eccezione di alcuni portoghesi, i dimostranti erano per lo più di origine africana o nordafricana e appartenevano a bande senza motivazioni religiose; in altri tempi e condizioni avrebbero seguito un leader di estrema destra o di estrema sinistra. In zone dove lo spaccio di droga era diffuso i disordini furono pochi, perché gli spacciatori non volevano che i loro affari fossero disturbati. In generale rimane ancora da spiegare perché i disordini si verificarono in certe parti della Francia ma non in altre, come per esempio Marsiglia e Bordeaux. Era
perché le condizioni di vita a Parigi erano particolarmente cattive? Era perché i dimostranti delle banlieues erano meglio organizzati? Sembra che tutti siano d'accordo nel dire che i disordini furono spontanei, e che non c'era alcuna mano nascosta che li organizzava e li coordinava. Ma si pensa anche che simili gravi esplosioni possano accadere di nuovo, e non solo in Francia. Gli storici dell'Ottocento parlano della formazione di "classi pericolose" che tendevano alla violenza, alla criminalità individuale ma anche all'azione collettiva, ed è sembrato ad alcuni che in Francia si sia ripetuto un fenomeno simile. Quale lezione ne trasse il governo francese? Ci fu naturalmente una forte tendenza ad alleggerire la tensione con la creazione di posti di lavoro, ma questa iniziativa era destinata a trovare difficoltà in un periodo in cui in Francia la disoccupazione era già alta. Nei decenni scorsi sono stati proposti molti piani di questo tipo, che però non hanno avuto un gran successo. Il ministro dell'Interno Nicolas Sarkozy ha proposto che il 15 per cento dei posti nell'istruzione superiore sia riservato alle minoranze etniche. Può darsi che questi provvedimenti di discriminazione positiva non siano facili da applicare in Francia, un paese con tutti i suoi tabù sull'identificazione dell'origine etnica e dell'educazione religiosa dei cittadini. Può essere il caso che queste tradizioni debbano essere messe da parte, insieme alla resistenza al trattamento preferenziale di alcuni in base alla razza e alla religione. Una politica di "eguali opportunità" sostituirà la vecchia politica di integrazione. Si dovrà tentare, ma non c'è alcuna certezza che funzionerà, perché dopotutto non si sa quanto i giovani disoccupati desiderino accettare un posto di lavoro, né la misura in cui sarebbero capaci di avere un buon profitto nel sistema di istruzione francese anche se gli fossero garantite speciali condizioni. Per il governo sarà difficile assicurare l'occupazione a coloro cui è stato concesso un trattamento preferenziale. Sono stati fondati nuovi enti come VHaute Autorité de Lutte contre le Discriminations et pour l'Egalité (Alta Autorità
per la Lotta contro le Discriminazioni e per l'Eguaglianza, o HALDE) in risposta alle proteste contro il razzismo. Ma il razzismo in Francia non è a senso unico; c'è stato un forte sentimento antifrancese, per non parlare dell'aggressione contro altre comunità, per esempio gli ebrei. Di fatto da parte dei francesi non c'è stata praticamente alcuna invidia, anzi, orgoglio, rispetto ai nordafricani che hanno avuto successo, come per esempio Zinédine Zidane, figlio di una poverissima famiglia berbera, che crebbe nella banlieue e poi divenne il calciatore più pagato del mondo e l'eroe del calcio francese. Alcuni sociologi francesi hanno sostenuto che l'integrazione economica è in gran parte fallita mentre l'assimilazione culturale ha avuto molto successo, ma questo è vero probabilmente solo per certi aspetti della cultura di massa condivisi dalla maggioranza e dalla minoranza. Inoltre, parrebbero persistere nelle comunità musulmane certe abitudini che la maggior parte dei francesi trova ripugnanti: si sono fatte le cifre di 70.000 matrimoni forzati e 35.000 casi di circoncisione delle donne, anche se questi numeri non si possono verificare e potrebbero essere esagerati, oppure troppo bassi. La via verso un'autentica integrazione culturale è ancora lunga.
GERMANIA: DALL ANATOLIA ORIENTALE A BERLINO
Il numero di immigrati musulmani in Germania è circa 3,5 milioni, di cui circa il 75 per cento è di origine turca. Per un terzo vivono nella regione del Basso Reno-Westfalia, un altro terzo è a Berlino. E una comunità molto più giovane della società tedesca in generale, e anche il tasso di nascita è molto più alto. I primi lavoratori turchi arrivarono negli anni cinquanta e furono assunti dalle imprese tedesche che avevano bisogno di manodopera; si pensava allora che venissero in Germania temporaneamente, ma di fatto in una prima fase solo pochi ritornarono in Turchia e più tardi, quando fu offerta loro una certa somma di denaro per ritornare, circa 55.000 partirono. Negli anni settanta il bisogno di lavoratori
ospiti diminuì molto, ma i giovani lavoratori che si erano stabiliti in Germania tornarono ai villaggi d'origine e ritornarono in Germania con la consorte. L'immigrazione dalla Turchia continuò comunque perché la politica adottata dal governo era permissiva; se i nuovi arrivati chiedevano asilo politico perché erano perseguitati nel loro paese (come i curdi, per esempio) venivano accettati anche se l'asilo era in realtà una motivazione secondaria, perché in Germania le prospettive di un tenore di vita più alto erano molto più favorevoli; se gli immigranti non trovavano lavoro venivano assistiti dallo Stato. In nessun altro paese gli immigrati sono stati oggetto di tante iniziative a opera di istituzioni di buona volontà che promuovevano la loro integrazione, come il Servizio sociale, i ricercatori accademici, le Chiese desiderose di stabilire un dialogo, e i partiti politici, come i verdi e i liberali, interessati a crearsi una base in queste comunità. Gli assistenti sociali e gli "esperti dell'immigrazione" hanno fatto un buon lavoro, per esempio proteggendo gli immigrati da avidi padroni di casa, ma tutto sommato hanno fatto più danno che bene. Hanno insegnato ai turchi come approfittare della rete di protezione sociale, il che significa ottenere dallo Stato e dalle amministrazioni locali il massimo possibile di assistenza economica e di altro genere con il minimo contributo possibile al bene comune. Ciò di cui la comunità turca aveva soprattutto bisogno erano consigli e aiuto per l'istruzione, che avrebbe consentito loro di fare progressi nella piramide sociale. Invece, come ci si può accorgere anche con una breve passeggiata nelle grandi città come Berlino, Colonia e Duisburg, si è formata in Germania una società parallela, e i problemi sono gli stessi della Francia e della Gran Bretagna: ghettizzazione, re-islamizzazione, alta disoccupazione giovanile e scarso rendimento nelle scuole. Gli immigranti turchi e curdi non erano per niente preparati a vivere in Europa. Venivano dalle regioni meno sviluppate della Turchia, nell'Anatolia orientale; molti erano analfabeti e molto più conservatori per credenze religiose e
orientamento politico della classe media turca di Istanbul o Ankara. A differenza di molti immigrati in Francia o in Gran Bretagna, che di solito parlavano già un po' di francese o di inglese, i nuovi arrivati non parlavano tedesco. Perciò non era sorprendente se dal momento dell'arrivo i turchi si isolassero in compagnia dei loro concittadini e mantenessero i propri costumi; avevano le loro moschee, i negozi di baiai e di verdure, e molti altri posti dove potevano stare fra loro. A loro non dispiaceva se i figli frequentavano scuole tedesche, ma si opponevano assolutamente alla partecipazione delle femmine ad attività sportive, gite di classe e lezioni di biologia in cui si parlava di sesso. Si opponevano all'insegnamento di materie anche innocenti che potessero essere in qualche modo non accettabili dalla loro religione, e insistevano sull'educazione islamica a scuola, il che non era compatibile con la costituzione tedesca. Alla fine ottennero quello che volevano. Le autorità tedesche cominciarono a pagare insegnanti di religione che per la maggior parte venivano dall'estero, erano fondamentalisti e conoscevano poco o per niente il tedesco. Non c'era alcuna supervisione esterna sull'educazione (o indottrinamento) che veniva impartita in quei corsi. E vero che le autorità tedesche hanno continuato a insistere perché la lingua usata fosse il tedesco, ma c'è stata una forte resistenza da parte delle organizzazioni religiose e anche del governo turco. I tribunali tedeschi, quando sono stati in dubbio, hanno finito per prendere decisioni a favore dei musulmani, respingendo per esempio le lamentele dei vicini non musulmani per il rumore degli altoparlanti delle moschee che amplificano le chiamate e le preghiere dei muezzin. Queste sentenze, però, non hanno contribuito a migliorare le relazioni fra vicini musulmani e non. I musulmani che si stabilivano in Germania pensavano di essere diversi dalla società che li circondava, che rifiutavano per ragioni religiose o di altro genere. Una volta che si furono stabiliti con le famiglie, la loro determinazione a difendere la propria diversità divenne ancora più forte: essere come i te-
deschi veniva considerato immorale. Nessuno però pensava di abbandonare la Germania per protesta contro gli infedeli; quello, dopotutto, era il loro piccolo mondo, e Dio volendo avrebbe potuto forse diventare un paese tutto loro. E vero che le giovani generazioni, specialmente i ragazzi e i giovani di sesso maschile, hanno adottato il modo di vestire dei loro coetanei tedeschi, ma capita ancora molto spesso che il solo libro che hanno in casa sia il Corano. Visto il suo orientamento reazionario in campo socioculturale e religioso, la comunità turca in Germania è stata oggetto di grande interesse da parte delle forze fondamentaliste di destra in Turchia, guidate da Necmittin Erbakan. Il suo partito estremista ha mandato in Germania emissari e imam, e ha offerto la sua leadership in diversi modi. Le due organizzazioni principali erano il gruppo Cemaleddin Kaplan Khalifat a Colonia e Milli Goerues, un'associazione fondata negli anni ottanta che si diffuse rapidamente in tutta la Germania e, in misura minore, nelle comunità turche di altri paesi europei. Il gruppo Kaplan rimase relativamente ristretto; rifiutava la democrazia per principio e vedeva il suo principale nemico non tanto nella Germania, quanto nella Turchia laica. Secondo i fondamentalisti turchi gli ebrei fondarono due Stati, Israele e la Turchia, perché i fondatori della Turchia moderna, i Giovani Turchi e Kemal Atatiirk, erano di origine Doenme, cioè ebrei che secoli fa si convertirono all'Islam con l'intenzione di sovvertirlo, modernizzarlo e laicizzarlo un po' per volta. Nel 1995 Kaplan morì e suo figlio Matin Kaplan gli succedette alla guida del gruppo Khalifat. Poco dopo il loro eroe e protettore Erbakan fu eletto primo ministro in Turchia, ma non fu rieletto e alla fine fu estromesso dalla vita politica. Questi fatti in Turchia, che portarono a una spaccatura fra fondamentalisti con simili dissidi tra i turchi in Germania, sono al di là dei limiti di questo libro. Basterà dire che a Erbakan, un professore di fisica che era vissuto in Germania per molti anni, alla fine succedette Recep Tayyip Erdogan, già calciatore semiprofessionista, che nel 2003 divenne pri-
mo ministro dopo essere stato un popolare sindaco di Istanbul. Erdogan, che sostanzialmente è anche lui un fondamentalista, si mosse più cautamente del suo predecessore, promuovendo l'entrata della Turchia nell'Unione Europea e migliorando le relazioni con la Grecia, mentre in politica interna seguiva una linea conservatrice ma più prudente e pragmatica. Negli ultimi anni il governo turco si è interessato molto delle comunità in Germania, attraverso canali ufficiali e non. I turchi in Germania per la grande maggioranza ricevono informazioni sui loro problemi e sugli affari internazionali da giornali turchi, l'«Hurriyet» per esempio, che ha edizioni stampate a Berlino, e dalla televisione turca. Chi visita Kreuzberg o Moabit si accorge subito che non c'è appartamento che non abbia un disco satellitare sul balcone per ricevere i canali della madrepatria, mentre le notizie sportive le trovano in una pubblicazione che ha un nome interessante, «Fanatik». Il noto film "ultrapatriottico" La valle dei lupi ha avuto un enorme successo tra i turchi in Germania, con applausi a scena aperta. Il gruppo di Kaplan, proprio per il suo radicalismo, si isolò molto dalla maggioranza dei turchi in Germania, e ci fu perfino un assassinio politico durante una lotta di potere interna. Alla fine Metin Kaplan fu condannato a quattro anni di reclusione per istigazione all'omicidio, e dopo aver scontato la pena fu deportato in Turchia con la famiglia (era sotto inchiesta nel suo paese perché aveva progettato di guidare un aereo contro il mausoleo di Atatiirk durante una celebrazione). L'amministrazione di Colonia cercava intanto di recuperare 200.000 euro che erano stati dati a Kaplan come assistenza sociale; in precedenza, durante un raid della polizia erano stati trovati nel suo appartamento un milione di dollari e molto oro. Questo caso, in cui delle autorità europee davano senza saperlo dei sussidi all'attività terroristica, mentre i tribunali e la polizia trovavano difficoltà a prendere contromisure efficaci per considerazioni politiche o legali, non era affatto raro.
Alla fine il gruppo Khalifat fu dichiarato illegale. I seguaci però rimasero come setta, mentre Milli Goerues, che operava più astutamente, divenne un'organizzazione di massa. Milli Goerues ha sostenuto fin da principio di rispettare la costituzione tedesca, di credere nella democrazia e perfino di accettare i "valori europei". I servizi segreti tedeschi, però (il corpo responsabile per la difesa della costituzione), erano convinti del contrario così come molti osservatori esperti, sebbene gli islamisti turchi si sforzassero di ingraziarsi l'Unione cristiano democratica (CDU) allora al potere. Il progetto della Milli Goerues è quello di un paese governato strettamente secondo la legge islamica, anche se adesso si devono fare alcune concessioni fino a quando i musulmani saranno la maggioranza; i dirigenti sostengono di non essere più antidemocratici della CDU. Fino a circa vent'anni fa le organizzazioni religiose turche erano effettivamente neutrali e i sermoni nelle moschee erano apolitici, ma da allora i gruppi più importanti, compreso il DITIB che dipende dal Ministero turco per gli affari religiosi, sono caduti sotto il controllo di islamisti, spesso radicali. Allo stesso tempo queste organizzazioni hanno minacciato di denunciare legalmente coloro che rivelano il loro vero orientamento e le loro attività, e spesso lo hanno anche fatto. "Milli Goerues" significa "Visione Nazionale" ed è anche il titolo di un libro dell'estremista turco Erbakan. L'organizzazione sostiene di avere 220.000 membri (la cifra reale sembra essere più vicina ai 200.000) e in Germania gestisce circa 270 moschee. Nelle loro direttive ideologiche Milli Goerues e le organizzazioni alleate sono fortemente critiche nei confronti del cristianesimo e sono apertamente antisemite. In qualche occasione hanno appoggiato i gruppi terroristici, ma per quanto se ne sa non hanno partecipato direttamente alle loro azioni. Al Qaeda e altre organizzazioni terroristiche che hanno usato la Germania come terreno di reclutamento di regola si sono concentrate su immigrati di origine araba e nordafricana. Mentre l'obiettivo della politica tedesca sull'immigrazione è stato l'integrazione delle comunità turche, l'obiettivo delle
organizzazioni islamiste sostenute dal governo turco è stato diametralmente opposto. I turchi in Germania rimangono turchi anche se hanno adottato la cittadinanza tedesca; il governo di Ankara vuole che essi votino alle elezioni turche, e allo stesso tempo che essi, dovunque vivano, difendano gli interessi della Grande Turchia che rimane la loro patria. (I turchi nati in Germania non hanno automaticamente la cittadinanza tedesca, ma possono fare domanda per ottenerla). Le istituzioni tedesche sono state impotenti nelle polemiche con gli islamisti. Le Chiese cristiane si sono sforzate di aprire un dialogo in cerca di punti in comune fra le religioni, ma non hanno trovato interlocutori, perché lo scopo delle istituzioni religiose turche è stato quello di mantenere la loro separazione senza essere influenzate dalla religione, la cultura e i valori occidentali. Il fallimento di questi tentativi di integrazione non è limitato alla Germania: secondo alcuni rapporti l'Austria e la Svizzera hanno gli stessi insolubili problemi. Solo negli ultimi anni le Chiese hanno abbandonato quello che era chiaramente uno sforzo inutile. Quali sono state le maggiori questioni controverse fra gli islamisti e la società nella quale (o in parallelo alla quale) vivono? Secondo le autorità tedesche il loro numero non è formidabile - sono 3.600 a Berlino - e non è aumentato significativamente nel corso degli anni. Ma il numero si riferisce a militanti professionisti o semiprofessionisti, e da questo punto di vista sono più forti di ogni altro gruppo. Milli Goerues, che le autorità hanno classificato come "estremista", ha centinaia di gruppi che fanno capo alle sue moschee; il suo scopo, per parlare chiaro, è di sostituire l'ordinamento laico del paese in cui vivono con un ordine basato sulla sharia, prima nelle regioni in cui i musulmani sono la maggioranza e poi nelle zone in cui la loro presenza si è estesa. Questa linea politica è incompatibile con la democrazia. Coloro che conoscono bene queste comunità dicono che finora Milli Goerues e altri gruppi islamisti hanno scelto la pressione sociale piuttosto che l'azione violenta. Sette "omicidi d'onore" in cinque mesi di donne che avevano scelto di
vivere liberamente "come i tedeschi" furono azioni di individui isolati e non il risultato di una campagna organizzata; i colpevoli se la cavarono con poco. Alcuni rapporti da Kreuzberg, Wedding e altri quartieri offrono esempi interessanti del modo in cui questa pressione sociale si manifesta: ci sono giovani che fermano la gente per la strada e dicono che se non sono musulmani devono lasciare il quartiere; i bambini tedeschi sono stati esclusi dai parchi giochi; nelle scuole è stata fatta pressione sui non musulmani perché osservassero il digiuno durante il Ramadan; alle ragazze non musulmane è stato detto di vestirsi come quelle musulmane, o almeno di non portare gonne indecenti, pantaloni o T-shirts; ai genitori è stato detto che qualsiasi cosa ordini la scuola, la moschea e i suoi corsi sono più importanti. Secondo questi rapporti gli attivisti islamisti non hanno interferito con lo spaccio di droga o il gioco del calcio, perché sanno che avrebbero grosse difficoltà a mettersi contro forme popolari di svago. Una delle questioni più controverse è stata quella delle donne. Secondo la tradizione islamica le donne non dovrebbero ricevere un'istruzione al di sopra di un certo livello; dovrebbero invece stare a casa per badare ai figli e uscire di casa solo se accompagnate da un membro maschio della famiglia, sia pure un fratello più giovane. Molte ragazze, probabilmente per la maggior parte, vengono date in sposa dai genitori a giovani che non hanno mai visto - questi sono i cosiddetti matrimoni forzati. Questo è diventato un importante problema politico grazie all'attività e ai libri di alcune dissidenti che hanno reso nota questa pratica. Alcuni "studiosi dell'immigrazione" tedeschi hanno sostenuto che queste critiche sono quantomeno esagerate perché normalmente la motivazione è economica, sicché i matrimoni sarebbero contrattati in anticipo per garantire il benessere della famiglia. Ma qualsiasi sia la motivazione, i ricercatori non hanno negato l'esistenza di questa pratica, l'hanno solo spiegata come una caratteristica etnica profondamente radicata fra i turchi e i curdi; essi sono anche dell'opinione che le autorità non dovrebbero interferire con queste tradizioni.
In generale, in Germania c'è stata molto meno violenza fisica tra comunità musulmane e non musulmane di quanto sia accaduto in Francia e Gran Bretagna, ma c'è molta diffidenza reciproca. Con un alto tasso di disoccupazione giovanile e il cattivo rendimento scolastico di molti ragazzi musulmani, fenomeni che sono il risultato di una scarsa motivazione e dell'indottrinamento islamista, c'è il potenziale per un conflitto. Due dati sono di notevole rilevanza in questo contesto: per il 40 per cento i giovani di origine non tedesca che vivono a Berlino non ottengono nemmeno il diploma della Hauptschule (scuola media superiore), che è il livello inferiore del sistema di istruzione e il rifugio di quelli che non hanno avuto un buon profitto; uno su tre dei giovani di origine non tedesca hanno precedenti penali prima dei diciott'anni. Quel 40 per cento di giovani che non ottengono il diploma è composto di maschi e femmine, ma poiché, come si è già notato, le femmine a scuola vanno molto meglio dei maschi, sembra che questo sia prevalentemente un problema dei giovani maschi e non della nuova generazione in generale. Di qui il potenziale di violenza a Berlino e in altre città. L'atteggiamento di alcuni partiti politici tedeschi, che hanno cercato di guadagnare voti in queste comunità, non è stato di grande aiuto. Nel tentativo di proteggere gli immigrati dalle critiche, questi partiti si sono opposti all'integrazione e hanno appoggiato il separatismo, favorendo così la sopravvivenza di una società parallela.
REGNO UNITO: DAL BANGLADESH ALL'EAST END
I musulmani in Gran Bretagna, 1,6 milioni, provenienti specialmente dal Pakistan e dal Bangladesh (con un po' di somali, arabi e altri), costituiscono circa la metà della popolazione immigrata dal dopoguerra, e per questo motivo come anche per altri la loro situazione è diversa da quella di altri paesi europei in cui gli immigrati musulmani sono la grande maggioranza. La popolazione musulmana della Gran Breta-
gna è concentrata a Londra, Birmingham, i West Midlands, il West Yorkshire e il Lancashire; in città come Dewsbury la sua quota sulla popolazione totale è del 30 per cento. I musulmani non sono stati politicamente più attivi di altri gruppi di immigrati, ma grazie alle attività radicali di alcuni settori di queste comunità essi hanno attratto più degli altri l'attenzione del pubblico. Originariamente venivano da poche province indiane e pakistane: zone del Jammu e del Kashmir, il Punjab, la North-West Frontier Province e anche Sylhet nel Bangladesh. Questo si rifletteva sul loro orientamento religioso, che per lo più era conforme a quello indiano; le sette prevalenti in India sono i Barelvi e i Deobandis, molto ortodossi ma non estremisti in politica. I nativi del Bangladesh portarono con sé una versione dell'Islam influenzata da elementi moderati Sufi e dalla religione popolare Hindu, ma una volta che si furono stabiliti in Gran Bretagna, sotto l'influenza di predicatori fondamentalisti che venivano dall'Arabia Saudita e altre parti del mondo arabo, ebbe luogo una radicalizzazione religiosa (o "arabizzazione"). Da questi circoli emersero terroristi operanti da soli in Gran Bretagna e in altri paesi. Un rapporto del British Home Office (Ministero dell'interno) rende conto di una ricerca sulle origini dello scontento, dell'alienazione e della delusione tra i giovani musulmani. Viene nominata la convinzione che la politica estera britannica sia iniqua (per esempio in Kashmir, in Palestina e in Iraq) e che in questi paesi non sia in conformità con gli interessi musulmani. Inoltre ci sono proteste contro la xenofobia e l'islamofobia, dato che alla maggioranza dei musulmani, che sono innocenti, è stata data la colpa degli attacchi violenti di una minoranza. Questa argomentazione può essere in parte giustificata, ma è anche vero, come dice lo stesso rapporto, che i musulmani hanno una più alta probabilità di altri gruppi religiosi di avere qualifiche professionali più basse (per due quinti non ne hanno alcuna), di essere disoccupati e quindi inattivi economicamente, e di essere sovrarappresentati in alcune zo-
ne. La disoccupazione giovanile è almeno tre volte più alta della media inglese. In confronto la situazione di altri gruppi di immigrati, indiani, sikh, ciprioti e molti altri, è molto migliore; per gli indiani non ci sono dati che indichino una disoccupazione più alta della media, né di problemi scolastici. Da questo punto di vista, dunque, la situazione in Gran Bretagna assomiglia a quella della Germania, della Francia e di altri paesi europei: la minoranza musulmana ha meno successo delle altre ma si lamenta più delle altre per la discriminazione. Spesso è stato anche notato che mentre i musulmani hanno fatto più chiasso di altri per la loro esclusione dalla vita politica, di fatto tendono meno di altri gruppi religiosi o etnici a partecipare ad attività sociali, tantomeno a fare del volontariato. In una certa misura le loro difficoltà hanno origine nel loro retroterra sociale: gli immigrati turchi in Germania vengono da province e villaggi arretrati e sono poco istruiti, molto religiosi e impreparati a vivere in una società laica. Questa separatezza viene perpetuata dalla tendenza a non socializzare con la popolazione locale, a sposarsi raramente fuori della loro comunità e a importare le mogli dagli stessi villaggi e province da dove vengono. Anche altri gruppi di immigrati hanno cercato di mantenere la propria identità, ma a differenza dei musulmani non hanno sofferto pensando di essere un gruppo oppresso e non c'è stato altrettanto odio e risentimento. In altre parole, nelle altre comunità è diffusa l'opinione che sia possibile essere insieme indiani e britannici, sikh e britannici e così via, mentre molti musulmani rimangono fedeli all'Islam; per loro essere cittadini britannici e beneficiare dei servizi sociali locali non implica un obbligo civile nei confronti del paese in cui vivono. Ci sono anche stati dei cambiamenti sotto questo aspetto. Un altro rapporto sugli immigrati dal Bangladesh nell'East End di Londra, pubblicato negli anni novanta, nota che quando queste persone arrivarono erano riluttanti ad accettare l'assistenza sociale pubblica perché ciò era disonorevole e contrario alla loro religione; solo quando cominciarono a
seguire i consigli degli assistenti sociali la dipendenza dagli aiuti divenne accettabile, e alla fine endemica. Con il Race Realations Act del 1976 e una serie di altre leggi sui diritti umani, il governo britannico ha provveduto a difendere i sentimenti delle comunità musulmane, e secondo i risultati di diverse inchieste i loro membri hanno ammesso in maggioranza di essere trattati meglio in Gran Bretagna che in altri paesi europei. Per esempio, non c'è stata alcuna proibizione di portare Yhijab a scuola, mentre ci sono state piuttosto molte lamentele da parte della classe lavoratrice inglese perché gli immigrati hanno un trattamento preferenziale per la casa e per altri servizi. Londra (il "Londonistan") è diventata il rifugio di molti estremisti che erano stati condannati a lunghe pene detentive o anche a morte nei loro paesi d'origine del mondo arabo. Organizzazioni radicali bandite nella maggior parte dei paesi arabi, come la Muslim Brotherhood per esempio, possono operare liberamente nel Regno Unito. In una ricerca d'opinione del febbraio 2006 il 26 per cento dei musulmani intervistati dichiarò di non sentire alcun obbligo nei confronti del paese acquisito; il 40 per cento era favorevole all'introduzione della sharia in certe regioni inglesi; il 13 per cento appoggiava gli attentati sullo stile di Al Qaeda e il 47 per cento approvava gli attentati suicidi come quelli compiuti in Israele. I risultati di queste inchieste sono stati spesso diversi. Secondo un'altra, per il 91 per cento gli intervistati si sono dichiarati fedeli alla Gran Bretagna, ma dal 16 al 20 per cento hanno espresso simpatia per gli attentatori del 7 luglio 2005, che uccisero più di quaranta persone a Londra; e secondo un'altra ricerca ancora, i sentimenti nei confronti dei non musulmani sono più negativi in Gran Bretagna che in ogni altro paese europeo. Allo stesso tempo il 50 per cento degli intervistati ha dichiarato che le autorità non sono state abbastanza severe nel tentativo di eliminare gli individui violenti tra loro - un chiaro segnale della polarizzazione esistente nelle comunità musulmane. Non sarebbe sorprendente se queste cifre fossero errate per difetto, perché è probabile che non tutti gli in-
tervistati abbiano dato risposte che li avrebbero messi in difficoltà con il governo. Le comunità di immigrati in tutto il mondo tendono a stare insieme almeno nella prima e seconda generazione, ma questa tendenza è particolarmente forte fra i musulmani. Secondo alcune inchieste pochissimi musulmani hanno amici di estrazione diversa: ciò vale in particolare per quelli molto ortodossi, che obbediscono al comandamento di non avere relazioni strette con gli infedeli, i kufr, meno per la classe media, che comunque è molto ristretta. Le principali organizzazioni politiche dei musulmani in Gran Bretagna sono il Muslim Council ofBritain ( M C B ) , la Muslim Association ofBritain (MAB) e la Islamic Society ofBritain (ISB). La Muslim Association ofBritain ha contatti con la Muslim Brotherhood e Hamas, si concentra sulla lotta contro Israele e collabora strettamente con il Socialist Workers Party (SWP) che è trotzkista. Uno dei suoi protettori è stato Ken Livingstone, il sindaco di Londra che ha difeso vigorosamente da ogni critica Qaradawi, lo sceicco della televisione e spesso ospite d'onore a Londra. Qaradawi ha anche seguito la posizione ambivalente della Muslim Brotherhood sul terrorismo: in certe occasioni questi dichiarano di opporsi al terrorismo, ma lo difendono in altre. Durante la vicenda dei fumetti danesi all'inizio del 2006 Qaradawi prese una posizione particolarmente aggressiva, incitando in pratica a una guerra santa nel mondo intero. Livingstone dichiarò che quella di Qaradawi era in realtà una voce progressista di cui si parlava male. Il Muslim Council ofBritain è stato in competizione con la MAB per ottenere influenza sulla comunità musulmana; è radicato nelle sette pakistane, mentre tra i dirigenti della MAB gli arabi sono più forti. Uno dei leader del MAB è Iqbal Sacrarne, il quale durante la bufera per la pubblicazione dei Versi satanici di Salman Rushdie dichiarò che la morte era una punizione troppo generosa per l'autore. Più tardi Sacranie ebbe il titolo di Lord, e come portavoce dell'Islam moderato Sir Iqbal divenne un consigliere del primo ministro Tony Blair.
Ma anche l'influenza saudita (wahabi) si è rafforzata all'interno del MCB, e il risultato è stato la fondazione del British Muslim Forum (BMF) nel 2005. Il British Muslim forum è più pakistano che arabo, prede le distanze dai sauditi più radicali e dice di rappresentare più moschee delle altre organizzazioni. Varie iniziative radicali sono state lanciate da musulmani britannici, compreso il progetto di formare un proprio parlamento (Kalim Siddiqi) come primo passo verso la fondazione di uno Stato musulmano separatista in Gran Bretagna. Altri militanti hanno dichiarato che la loro lotta non sarà finita finché la bandiera verde (o nera) dell'Islam non sarà issata al numero 10 di Downing Street, la residenza del primo ministro, e un portavoce musulmano ha detto che ci sono zone proibite agli estranei dove nemmeno un membro del governo può entrare. Gli stessi gruppi hanno preso una posizione estremista in varie occasioni, come per esempio quando furono bruciati i libri di Salman Rushdie alla fine degli anni ottanta, e quando si sono opposti duramente a gruppi religiosi moderati considerati dissidenti, come ^ìAhmadiya, che hanno moschee indipendenti. Tra le organizzazioni più radicali ci sono Hizh al Tahrir e Al Murahitum, fuori legge in quasi tutti i paesi del Medio Oriente ma a lungo tollerate in Gran Bretagna. Hanno continuato la loro attività sotto varie coperture, mentre il governo Blair cercò di metterle fuori legge ma incontrò opposizione in ambienti legali e anche nei servizi segreti. Hizh al Tahrir, che significa "partito della liberazione", sostiene la restaurazione del Califfato (Khalifat)-, non ha sostenuto apertamente la violenza, ma alcuni suoi membri sono stati implicati in attentati terroristici in varie parti del mondo. E stato descritto come razzista e totalitario dai suoi critici anche all'interno della comunità musulmana, ma ha trovato sostegno tra alcuni membri prominenti del Labour Party, come Clare Short per esempio, già titolare di un ministero. Certe moschee, come quella di Finsbury Park a Londra, sono servite come terreno di reclutamento per i terroristi; non sono chiuse, e sono state tenute sotto osservazione dalla polizia.
La situazione dei musulmani in Gran Bretagna è diversa da quella di altri paesi europei, in parte perché costoro non sono la maggioranza tra gli immigrati, e anche perché, a differenza dei musulmani in Francia e Germania, non sono un gruppo omogeneo: quelli che vengono dal Pakistan, dal Bangladesh e dal mondo arabo letteralmente non hanno una lingua comune, se non l'inglese. Le organizzazioni su scala nazionale che sono state fondate, come il MCB e la MAB, non sono affatto riconosciute da tutti i musulmani, e mentre il governo di solito ha considerato questi gruppi come interlocutori per un dialogo, il loro peso all'interno della comunità non è stato considerevole, men che meno fra i giovani. Inoltre, i vicini con cui i musulmani hanno avuto degli scontri sono stati spesso immigrati non musulmani: indiani, caraibici e africani, piuttosto che inglesi. Lo scontro si è verificato con questi settori della popolazione almeno tanto quanto con la maggioranza bianca. L'atteggiamento delle autorità britanniche è stato tradizionalmente quello della benevola noncuranza; finché le organizzazioni musulmane radicali non disturbavano apertamente il quieto vivere, venivano lasciate in pace. La situazione cominciò a cambiare dopo l ' i l settembre2001, gli attentati terroristici del 7 luglio 2005 e gli attentati preparati per l'agosto del 2006. Le autorità si interessarono più attivamente ai predicatori radicali che incitavano all'assassinio, e che per la maggior parte vivevano di assistenza pubblica come i loro colleghi in Francia e in Germania. Una campagna dei media ebbe il suo effetto: alcuni furono deportati e uno, Abu Hamza al-Mizri, fu condannato a sette anni di carcere nel 2006. In generale, però, le autorità ritenevano che non ci fosse un'alternativa al tentativo di stabilire rapporti di fiducia e un dialogo con quei membri della comunità musulmana che venivano considerati, spesso erroneamente, almeno relativamente moderati, anche se non sembra che i moderati siano stati di grande aiuto nella lotta al terrorismo e nella prevenzione di attentati. Anche quando si sono trovate di fronte ad aperti incitamenti all'assassinio, come durante le manifestazioni per
la "guerra fra civiltà" del febbraio 2006, le forze dell'ordine hanno preferito sbagliare dal lato della moderazione piuttosto che agire secondo la legge, e così hanno ignorato quegli incitamenti. Alle manifestazioni si potevano leggere scritte come: «Uccidete [o decapitate] quelli che insultano l'Islam»; «Sterminate quelli che parlano male dell'Islam»; «Libertà vai all'inferno» e «Europa, impara la lezione dell'11/9». L'immigrazione musulmana in altri paesi europei cominciò più tardi e fu in gran parte illegale, come in Spagna e in Italia. Coloro che andarono in Scandinavia fecero spesso domanda di asilo politico, oppure di "riunificazione della famiglia". Quelli che arrivarono in Italia (circa un milione) venivano dal Nord Africa e si stabilirono specialmente al nord, perché la situazione economica del sud era peggiore. Quelli che andarono in Spagna (un milione o più) si stabilirono in giro per tutto il paese. L'Italia e la Spagna hanno spesso funzionato come stazioni di transito, perché l'assistenza pubblica nei paesi del nord è più generosa. Il passaggio è stato molto facile dopo l'abolizione dei confini decisa nell'accordo di Schengen, come abbiamo già visto. Per anni l'itinerario più comune degli immigranti illegali dal Nord Africa è passato per la Spagna, attraverso Ceuta e Melilla, e le autorità spagnole non hanno creato molte difficoltà. Ma con l'ingrossarsi del flusso di illegali, e le proteste degli altri paesi europei contro la compiacenza degli spagnoli, si è cominciato a controllare più attentamente il confine con il Marocco; così l'Italia, con i suoi 7.600 chilometri di coste, è diventata la principale porta d'ingresso per gli immigranti illegali. Nel 2005 l'Italia ha avuto un incremento di quasi il 70 per cento di arrivi rispetto all'anno precedente, ed è chiaro che gli immigranti illegali sono stati contati solo in parte. Come era accaduto in Germania e in Francia, alla fine questi immigrati si sono concentrati in certe località, la zona di Milano per esempio, con almeno centomila residenti, e poi Varese, Cremona e anche Torino. Tra i leader religiosi, di
solito islamisti, c'erano degli egiziani ma anche predicatori radicali provenienti dal Senegal e altri paesi africani neri. Altri gruppi si sono concentrati nella Spagna meridionale e in Catalogna, così come a Malmò in Svezia, a Bruxelles e in molte città olandesi. In generale questi immigrati venivano trattati bene e all'inizio, negli anni settanta e ottanta, ci furono poche tensioni. Le autorità non deportavano gli immigranti illegali e non c'era praticamente alcun impedimento all'immigrazione. Quando il loro numero cominciò a crescere, però, divenne chiaro che malgrado le aspettative la maggioranza non aveva alcun desiderio di integrarsi nella società. Essi formarono invece delle società parallele e molti non si curavano di imparare la lingua locale, eppure facevano pienamente uso dei servizi sociali che venivano loro offerti, come un alloggio, l'indennità di disoccupazione e l'assistenza medica gratuita, spese queste che creavano difficoltà ai paesi ospiti in anni di difficoltà economiche. Un po' alla volta divenne chiaro che il contributo di molti nuovi arrivati non era quello che si era sperato. E vero che alcuni erano disposti ad accettare lavori che pochi svedesi o olandesi avevano voglia di fare, ma allo stesso tempo il tasso di criminalità in questi gruppi, la loro partecipazione al commercio di droga e ad altre attività asociali erano notevolmente superiori alla media nazionale. I membri di queste comunità, in particolare quelli della seconda generazione quando il loro numero cominciò a crescere, cominciarono a imporsi politicamente e in altri modi. Forse il segno più ovvio di questo fu il comportamento aggressivo sulle strade - oggetto di frequenti lamentele da parte dei residenti - come se volessero dimostrare che loro erano i nuovi padroni del paese. Allo stesso tempo si lamentavano di essere vittime della discriminazione, di non essere rispettati abbastanza, e della scarsa attenzione del pubblico alla loro sensibilità nazionale o religiosa. Un esempio significativo di tutto ciò fu la polemica sul Giudizio di Giovanni da Modena nella cattedrale di Bologna. Ispirata dalla Divina Commedia,
l'opera rappresenta Maometto nudo e un demonio vicino a lui mentre vengono gettati nell'inferno. L'Unione dei musulmani italiani, guidata da un certo Adel Smith, presentò le sue proteste al papa e ad altre autorità ecclesiastiche e chiese che l'affresco fosse rimosso, perché era un'offesa ancora più grave dei Versi satanici di Salman Rushdie; tutto ciò sebbene fosse quasi impossibile vedere da terra la figura del profeta. C'è da dubitare che l'affresco avesse davvero offeso il signor Smith o chiunque altro; è più probabile che ciò fosse un pretesto per fomentare tensioni fra comunità diverse, per mostrare ai musulmani che venivano perseguitati e che dovevano manifestare per protesta, presumibilmente guidati dallo stesso signor Smith. Che poi il dipinto oggetto della disputa avesse più di cinquecento anni, e che in molti paesi musulmani le chiese cristiane non siano nemmeno permesse, non aveva nessuna importanza. Richieste simili furono fatte in altri paesi. L'hijab e il burka venivano percepiti dai non musulmani come provocazioni politiche; ci furono attentati a Madrid e Theo van Gogh fu assassinato ad Amsterdam. Alla fine del 2005, in Danimarca, alcuni musulmani si sentirono offesi da figure del profeta nei fumetti di un giornale di provincia e lanciarono una protesta su scala mondiale che causò molte vittime, con grandi danni politici ed economici per il paese che aveva dato loro asilo. In grande misura i paesi nordici, il Belgio e l'Olanda potevano biasimare solo se stessi. Avevano lasciato entrare gli immigranti credendo che fossero perseguitati nel loro paese, e che fosse un elementare dovere umanitario dare a quegli sventurati un tetto, del cibo e altre forme di aiuto. In realtà i paesi ospiti, come la Norvegia per esempio, concessero asilo a terroristi ricercati per omicidio nei loro paesi. L'asilo fu concesso evidentemente nella convinzione che questi immigranti alla fine sarebbero scomparsi, o ritornando in patria oppure lasciandosi assorbire dal paese di adozione. In molti casi venivano considerati come un tocco esotico e colorito, non solo all'atmosfera delle strade ma anche alla cultura e allo stile di vita locale.
Le autorità di questi paesi non avevano tenuto conto né dell'alto tasso di nascita nelle comunità di immigrati, né della loro incapacità o rifiuto di integrarsi. I governi non avevano idea delle conseguenze sociali, culturali e politiche dell'accoglienza offerta a gente i cui costumi e valori erano così diversi da quelli locali; quegli immigranti erano convinti che i propri valori fossero superiori, e che crescendo di numero avrebbero finito per imporli ai paesi ospiti. Gli europei, inoltre, non previdero che queste ambizioni degli immigrati avrebbero generato un'opposizione, rafforzato i partiti xenofobi radicali, e aumentato di molto le tensioni nei loro paesi. Le intenzioni umanitarie degli europei sono state ammirevoli, ma essi non hanno previsto di dover pagare un alto prezzo per il proprio candore e la propria ingenuità. Quando hanno cominciato a rendersi conto della realtà, era troppo tardi per soluzioni radicali. Sono riusciti con grande difficoltà a deportare qualche agitatore che predicava la violenza, ma il problema non poteva più essere affrontato alla radice.
ISLAMOFOBIA E DISCRIMINAZIONE
Il termine "islamofobia" cominciò a essere usato correntemente nel 1998 dopo la pubblicazione di un rapporto del Runnymede Trust, una fondazione inglese che ha la missione di combattere la discriminazione razziale e di mantenere buone relazioni fra le minoranze etniche. Il gruppo di lavoro che affrontò il problema della paura e dell'odio per l'Islam e i musulmani era guidato dal professor Gordon Conway, biologo, vice rettore dell'Università del Sussex e poi presidente della Rockefeller Foundation. L'uso del termine risale agli anni venti, ma allora non divenne di uso comune, mentre dal 1998 è stato spesso impiegato ma è anche stato oggetto di controversie. Coloro che parlavano di "islamofobia", quelli che mettevano in guardia il pubblico contro questa fobia, sostenevano che c'era molto odio per l'Islam e che si sarebbe dovuto com-
battere questo fenomeno; gli avversari, in Gran Bretagna, in Francia e in altri paesi, dicevano che l'allarme era solo un trucco da pubbliche relazioni, perché non c'era affatto una psicosi collettiva europea, non esisteva un odio per l'Islam come religione, che secondo loro per gli europei era indifferente. Nel medioevo, dicevano, i cristiani consideravano i musulmani come nemici specialmente per la loro conquista della Terra Santa. Maometto veniva regolarmente chiamato un falso profeta, ma in realtà la posizione dei cristiani nei confronti di altre religioni, il giudaesimo in particolare, e anche delle sette eretiche all'interno del cristianesimo, era molto più ostile. Nei secoli successivi l'Islam semplicemente non compariva nel pensiero europeo, forse con la sola eccezione dei teologi. Più tardi le Chiese cristiane fecero tutto il possibile, di solito senza risultati, per stabilire un dialogo ecumenico con l'Islam. L'Europa fu minacciata da invasioni musulmane, prima da ovest nell'ottavo secolo e poi da est nel sedicesimo e diciassettesimo, ma anche quelle invasioni non generarono alcun odium theologicum. Se in anni recenti c'è stata in Europa una crescente ostilità nei confronti dei musulmani essa non è stata in risposta alla loro religione, ma al fatto che per lo più gli attentati terroristici sono stati compiuti da musulmani: "terrorofobia" sarebbe un termine più esatto. Se quelli che sono stati coinvolti in atti di terrorismo fossero stati eschimesi, l'orrore e la paura sarebbero stati diretti a loro, anche se la maggioranza degli eschimesi non fosse stata coinvolta. E naturalmente sleale generalizzare a un intero gruppo etnico la condanna meritata da pochi, ma probabilmente ciò è inevitabile, specialmente se una porzione significativa del gruppo non prende chiaramente le distanze dagli "attivisti" né si esprime contro la violenza, ma al contrario sostiene o almeno dichiara comprensione per i terroristi. Secondo alcune inchieste di opinione condotte nel 2005, la maggioranza dei musulmani in Giordania e in Nigeria e il 38 per cento in Pakistan ha dichiarato di avere almeno qualche fiducia in Al Qaeda, e lo stesso hanno fatto minoranze consistenti nelle comunità musulmane in
Europa. Una veemente retorica antioccidentale e la propaganda sulla necessità della jihad, la guerra santa, non hanno certamente migliorato la situazione. Alcuni esempi dovrebbero essere sufficienti. Nel 1997 ci furono poche lamentele da parte dei musulmani in Europa, e infatti il termine "islamofobia" fu coniato solo l'anno seguente. Quattro anni dopo c'era il triplo di lamentele per diffamazioni di carattere etnico o religioso. La ragione di quell'aumento improvviso non è un segreto: è la crescita del terrorismo. In Russia, un paese non esattamente noto per il suo eccessivo amore per gli stranieri o xenofilia, il governo appoggia le autorità musulmane dell'Azerbaijan, mentre i cristiani della Georgia vengono considerati ostili perché sono in lotta per l'indipendenza da Mosca. Un recente studio sull'ostilità degli spagnoli contro i musulmani, nel quale questa viene condannata, suggerisce che «è interessante notare come gli immigrati dall'Africa subsahariana, molti dei quali sono musulmani e provengono da culture molto diverse, non siano inclusi in questa opinione negativa». E vero che quasi l'80 per cento degli spagnoli e dei tedeschi (e quasi altrettanti svedesi) pensano che i musulmani siano fanatici e violenti, ma questa tendenza si è sviluppata in seguito agli attentati terroristici. In Spagna, per esempio, l'immagine dei musulmani africani è risultata positiva; la reazione negativa è stata diretta specialmente contro i musulmani del Nord Africa e del Medio Oriente. In Gran Bretagna e in altri paesi occidentali non si è verificato alcun antagonismo contro i Sufi e altre sette islamiche che si sono dissociate dagli atti di violenza (si veda Gema Martin Munoz, in Jocelyne Cesari, L'Islam et le villes européennes). In molte società c'è stato risentimento e anche ostilità nei confronti dei nuovi arrivati, specialmente in paesi che storicamente non sono serviti da rifugio per gli immigranti. Ci si può domandare se il sentimento negativo nei confonti dei musulmani sia stato più pronunciato che nei confronti di altri gruppi, e se ciò è vero, quale ne sia stata la ragione. E vero per esempio che negli anni settanta ci fu in Gran Bretagna un
fenomeno chiamato "caccia ai Paki", per cui giovani bianchi di origine operaia facevano di tutto per provocare e picchiare i pakistani nell'East End di Londra. Da un lato, queste aggressioni, per quanto riprovevoli, si sono verificate in molti paesi in tempi diversi, e la caccia cessò quando i pakistani crebbero di numero e cominciarono a opporre resistenza. Dall'altro, in Europa negli ultimi anni le aggressioni da parte di immigrati musulmani ai danni di altri gruppi sono state notevolmente più frequenti. (Secondo un'inchiesta del 2005, più del 40 per cento dei musulmani in Gran Bretagna ha dichiarato che in quel paese gli ebrei sono un bersaglio legittimo per attentati terroristici). In Germania, nel 1992, le abitazioni provvisorie di immigrati, specialmente asiatici e africani, furono assalite e incendiate da bande di giovani, qualche volta neonazisti; in altre occasioni gli immigrati furono malmenati e in qualche caso anche uccisi. Ma queste erano aggressioni xenofobe contro gente che veniva dall'Africa Nera e dall'Estremo Oriente, oppure, in qualche caso, contro tedeschi ritornati in patria dall'Unione Sovietica i quali risposero a loro volta con la violenza; gli incidenti non avevano niente di islamofobico. Aggressioni simili si verificarono più spesso in Russia, dove erano dirette contro immigranti dal Caucaso, sia che fossero musulmani dell'Azerbaijan o cristiani della Georgia o dell'Armenia. In Europa, secondo rapporti dell'Unione, le aggressioni fisiche o verbali contro gli immigrati musulmani si sono verificate quasi tutte dopo i gravi attentati dell'11 settembre 2001 a New York, del marzo 2004 a Madrid e del luglio 2005 a Londra. Questi atti di ostilità hanno preso forme diverse: furono fatte delle scritte sui muri delle moschee e di istituzioni musulmane; donne che portavano ì'hijab furono insultate e bambini musulmani furono chiamati Osama. Ci furono anche, sui media, «aggressioni al vetriolo contro immigranti che chiedevano asilo», e molestie da parte di uomini e donne non musulmani. Ma queste «aggressioni al vetriolo» che venivano lamentate di solito non erano nient'altro che l'identificazione da parte dei media della parte spesso notevole pre-
sa da questi immigrati in crimini che erano stati commessi, come il commercio di droga per esempio, e l'accento posto sulla matrice etnica dei responsabili. Sarebbe interessante sapere se ci sono state più scritte ingiuriose sulle moschee che su chiese, sinagoghe e cimiteri ebraici, ma queste statistiche non esistono, e se esistessero non sarebbe ancora chiaro se la motivazione sia stata l'odio etnico o religioso. Nel 2006 una ricerca del Pew Research Center ha concluso che in paesi prevalentemente musulmani gli abitanti sono molto più critici degli occidentali di quanto accada in senso opposto in occidente, e che lo stesso vale, anche se in misura minore, per le comunità musulmane in Europa: in altre parole, c'è molto più una fobia antioccidentale che una islamofobia. Se è vero che ci sono state «aggressioni al vetriolo» sui media contro coloro che chiedevano asilo, non è chiaro se esse hanno avuto per oggetto degli innocenti che cercavano di fuggire da una dittatura brutale, o piuttosto "rifugiati economici", o anche islamisti che avevano partecipato ad attività terroristiche nel loro paese. Se si tiene conto del numero di arresti e di sentenze, appare chiaro che molta più violenza, sia etnica sia criminale, è stata generata da giovani musulmani che dagli "islamofobi", e tra l'altro gli striscioni e i cartelli che si sono visti nelle manifestazioni non invocavano una guerra santa contro i musulmani. Si è sostenuto, per esempio, che la dichiarazione di un primo ministro italiano secondo la quale la cultura occidentale è superiore a quella islamica è stata un atto di aggressione verbale, e c'è stata una polemica sulla veridicità della dichiarazione, tenuto conto del contributo di queste culture alla scienza e ad altri campi del progresso umano. Dichiarazioni simili sulla superiorità di una cultura o religione non hanno alcun risultato utile, ma non sono state un monopolio occidentale: il tema della superiorità dei valori spirituali dell'Islam rispetto alla decadenza occidentale è stato prominente nei sermoni dei predicatori musulmani. Inoltre, se da un lato si è verificata una crescita della tensione e del conflitto, è anche vero che è aumentato l'interesse per l'Islam e i suoi
credenti, e infatti sono state vendute più copie del Corano che nei decenni precedenti. Una delle lamentele più comuni da parte delle organizzazioni musulmane, in Gran Bretagna e altrove, è stata che i giovani musulmani sono stati presi di mira molto più spesso dalla polizia per identificarli, in applicazione della sezione 44 dell'Anti-Terrorism Crime and Security Act del 2001: più musulmani di altri sarebbero stati arrestati come sospetti e trattenuti senza processo. Simili lamentele sono state fatte a Londra ma anche a Parigi e molte altre città; in generale, la legislazione e l'attività antiterroristica vengono considerate come un attacco diretto contro l'Islam o la comunità musulmana. Non esistono statistiche ufficiali che indichino se il numero dei fermati e qualche volta degli arrestati sia di fatto molto più alto che la proporzione dei musulmani sulla popolazione, ma certamente si può avere l'impressione che sia vero. D'altra parte, visto il fatto che il terrorismo ha trovato appoggio specialmente ai margini della comunità musulmana, e in nessun altro gruppo specialmente dopo la fine del terrorismo nell'Irlanda del Nord, le forze dell'ordine non avrebbero potuto agire altrimenti. Per evitare di dare un'impressione di parzialità razziale o etnica, la polizia potrebbe (in certe occasioni l'ha fatto) fermare come sospette anziane signore e persone con un handicap, oppure gente molto vecchia o molto giovane, ma questi tentativi di apparire imparziali sono stati spesso ridicolizzati. Dato il limite delle risorse disponibili, era chiaro che queste esercitazioni di pubbliche relazioni non sarebbero state utili a mantenere l'ordine pubblico. Per ricapitolare la lista delle lamentele degli immigrati musulmani: hanno a che fare con il razzismo nelle prigioni, il sovraffollamento e la discriminazione su base religiosa (anche se ciò è vietato dalla legge). Per il 54 per cento i bambini bangladeshi e i pakistani vivono in alloggi con sussidi economici, cioè con aiuti dallo Stato. Gli scarsi risultati scolastici sono un altro tema spesso menzionato: solo il 34 per cento dei maschi arrivano alla quinta del General Certificate of Educa-
tion, in confronto a una percentuale notevolmente più alta per le femmine (le cifre non sono certe, ma sopra il 50 per cento). In che misura si può dare la colpa alle autorità europee per la discriminazione delle minoranze musulmane? Per quanto riguarda l'assistenza pubblica, per niente. In Danimarca i musulmani sono il 5 per cento, ma contano per il 40 per cento della spesa per l'assistenza. Le cifre di altri paesi sono simili (eccetto solo per le pensioni e per altre voci che non c'entrano). Se questi paesi aumentassero queste spese e altre forme di aiuto, ciò sarebbe fatto a danno della popolazione locale più debole e non musulmana, e porterebbe, come per i sussidi per la casa per esempio, a tensioni politiche e sociali. In Scandinavia molte critiche sono state sollevate contro gli assistenti sociali, che hanno insegnato agli immigrati come manipolare la rete di sicurezza sociale. Alcuni predicatori hanno spiegato alla loro comunità che i membri hanno diritto a ottenere ogni sussidio possibile, e che solo uno stupido non approfitterebbe fino in fondo della cuccagna disponibile nelle società occidentali. Invece di spiegare ai nuovi venuti come trovare lavoro, e l'importanza dell'istruzione, essi hanno creato l'impressione che lo Stato sarebbe occupato dei loro bisogni e che avrebbe avuto l'obbligo di aiutarli, perché essi sono vittime di un ordine mondiale ingiusto, del colonialismo e così via. Il risultato è stato che i fondi disponibili sono stati dispersi egualmente fra i bisognosi e quelli che avrebbero potuto lavorare, e sono stati sussidiati perfino i "militanti" che preparavano azioni violente, non solo i Kaplan in Germania ma anche gli attentatori suicidi in Gran Bretagna e gli islamisti in Scandinavia e in Olanda. Molta della responsabilità per questa situazione poco felice e poco sana si potrebbe certo attribuire alle autorià per non aver convogliato gli immigrati verso il lavoro produttivo. Esse non si sono concentrate sulla necessità di provvedere un'istruzione speciale e scuole di addestramento professionale. E vero però che non è stata colpa delle autorità se i giovani hanno abbandonato la scuola e l'apprendistato, o se non
hanno imparato la lingua locale (un problema in tutta Europa, ma meno in Inghilterra e in Francia). E qui si arriva a un'altra domanda: c'era forse qualcosa nel retroterra sociale e culturale di queste famiglie e individui che impediva loro di avere risultati, tanto quanto gli immigrati di altre culture? Molto dipende dall'ambiente familiare: se le ragazze hanno ottenuto a scuola risultati molto migliori dei ragazzi, è stato forse perché le femmine, a differenza dei maschi, non hanno il permesso di andare in giro per le strade per ore e ore? Oppure è stato perché i genitori non hanno autorità sui figli maschi? O è stato forse perché le famiglie di questo gruppo etnico e culturale danno meno importanza all'istruzione laica di gente proveniente da altri paesi? Queste questioni sono state raramente poste con chiarezza, tantomeno studiate sistematicamente; forse è perché quelli che potrebbero porle hanno paura di essere accusati di razzismo. Si è sostenuto molto spesso che la lamentela principale dei musulmani riguarda il mancato rispetto verso di loro. Ma per ripeterci: poche lamentele del genere si sono sentite in altre comunità etniche o religiose. E ovvio che ogni essere umano ha il diritto di essere trattato giustamente e di non essere oppresso o offeso, ma quelli che si sono lamentati di atteggiamenti condiscendenti o di offese più gravi volevano di più, ed era ciò che si sarebbero dovuti guadagnare con il merito e con il contributo alla vita sociale. I loro meriti erano spesso scarsi e il contributo inesistente, eppure c'era la pretesa di essere rispettati (o almeno temuti). Non si è trovata alcuna facile soluzione a questo dilemma. I politici americani ed europei che desideravano pacificare coloro che si sentivano offesi hanno fatto di tutto per esaltare nei loro discorsi l'importanza e i valori eterni dell'Islam. Gli europei non si sarebbero mai sognati di fare simili complimenti al cristianesimo, al giudaesimo o al buddismo; e poi hanno sottolineato il contributo inestimabile dato dagli immigrati che lavorano sodo. Lo credevano veramente, o era quella taqi'a, l'abitudine di fingere? La taqi'a può essere perfettamente giustificata come mezzo per calmare la gente in
un momento di grande eccitazione e tensione, ma raramente garantisce una soluzione duratura. In Gran Bretagna alcuni leader della comunità musulmana sono stati nominati lord per i meriti acquisiti nel paese, e in nazioni che non hanno questo sistema di onorificenze sono stati concessi altri titoli. Ma non tutti potevano essere fatti lord: tutti i gruppi di immigrati nella storia hanno incontrato delle ostilità fino a quando sono stati pienamente accettati, ma nessuno ha cominciato dalla cima della piramide sociale nel paese acquisito. Non è facile introdurre un nuovo sistema di promozione sociale.
L'EUROISLAM E TARIQ RAMADAN
In Occidente alcuni hanno espresso grandi speranze nella crescita di uno specifico Euroislam, una versione della religione musulmana che terrebbe conto delle tradizioni e situazioni europee e sarebbe con esse compatibile. L'Euroislam ha avuto in Tariq Ramadan il suo rappresentante più noto ed eloquente; nessuno è apparso più frequentemente di lui in interviste televisive e talk show in Europa, e le cassette con i suoi discorsi sono circolate in decine di migliaia di copie. Il settimanale «Time» lo ha incluso tra i cento intellettuali più importanti del ventesimo secolo, mentre altri lo hanno chiamato l'equivalente musulmano del reverendo Martin Luther King Jr. Tariq Ramadan, nipote di Hassan al-Banna, il fondatore della Muslim Brotherbood in Egitto, è nato in Svizzera nel 1962 ed è cittadino svizzero. Da giovane era un bravissimo calciatore e giocò anche per la Servette di Ginevra, una delle migliori squadre svizzere, ma poi resistette alla tentazione e si dedicò invece allo studio dell'Islam. Ha fatto discorsi in molti paesi ed è stato consigliere del primo ministro Tony Blair, ma gli è stato rifiutato il permesso di entrare negli Stati Uniti e per qualche tempo anche in Francia. I critici di Tariq Ramadan, dopo aver confrontato i suoi scritti e i suoi discorsi in arabo e nelle lingue europee, hanno
sostenuto che il "fratello Tariq" ha predicato regolarmente in francese e inglese una versione moderata e illuminata della sua fede, mentre ha lanciato messaggi più aggressivi e radicali in arabo. In breve, Tariq è un sostenitore della Muslim Brotherhood tanto quanto suo nonno, suo padre Said (ora defunto) e i suoi fratelli, i quali erano o sono ancora tutti molto attivi nell'organizzazione, e non solo per fare propaganda. Tariq ha dichiarato di non essere mai stato membro della Brotherhood, ma questo non significa molto, perché l'organizzazione non è come un partito politico e non ha iscrizioni formali alla maniera occidentale, con contributi mensili, tessere e cose del genere. Nei suoi libri e discorsi (si vedano To Be a European Muslim, 1999, e Western Muslims and the Future of Islam, 2003) Ramadan sostiene che con la crescita delle comunità musulmane in Occidente si sta verificando un cambiamento graduale (forse perfino una rivoluzione silenziosa) che dovrebbe rendere possibile per i musulmani credenti e praticanti rimanere fedeli alla loro religione e insieme vivere in pace con i concittadini, piuttosto che rinchiudersi nella nicchia di una minoranza. Dato il carattere dell'Islam, la sharia (la legge religiosa) e le direttive del Corano su come comportarsi con gli infedeli, questo non è un compito facile e Tariq Ramadan cade inevitabilmente in contraddizione. Egli sostiene di non avere alcuna obiezione contro uno Stato e una società laici, ma allo stesso tempo si è opposto con veemenza alla legge francese che bandisce Vhijab. Dice che i musulmani appartengono prima di tutto alYumma - la comunità dei credenti e che non dovrebbero fare nulla di ciò che li renderebbe dei cattivi fedeli; ma dice anche che i musulmani in Occidente dovrebbero essere leali allo Stato e al paese in cui vivono. Questo significa che dovrebbero obbedire alle autorità solo finché esse non impongono niente che contraddica la loro religione; in questo caso ci dovrebbe essere una "clausola di coscienza" che consentirebbe di affermare che un certo comportamento è contrario alla loro fede. Questa scelta arbitraria delle leggi da osservare si può trovare anche in certe sette
cristiane, per esempio a proposito del servizio militare, ma nel caso dell'Euroislam essa avrebbe applicazioni molto più estese. A differenza di partiti islamici radicali come Hizb al Tahrir, che sostiene che i musulmani non dovrebbero occuparsi della vita politica nel paese di residenza, almeno non fino a quando saranno la maggioranza, Tariq Ramadan appoggia molto l'impegno politico. La sua posizione gravita verso la sinistra, naturalmente non quella marxista e materialista ma piuttosto la New Left e i radicali interessati al Terzo Mondo; fin dall'inizio i suoi sostenitori sono stati personalità come lo svizzero Jean Zigler e Alan Gresh, un condirettore di «Le monde diplomatique» in Francia. Ramadan è un avversario irriducibile della globalizzazione e nei suoi sermoni insiste sulla visione sociale dell'Islam e i mali del capitalismo, proprio come Hizb al Tahrir. Ma le sue opinioni non sono sistematiche; non arrivano a niente di simile a un socialismo religioso, né si trova la richiesta che i musulmani ricchissimi spartiscano le loro ricchezze con i poveri. Tariq Ramadan non solo difende un'etica della responsabilità, ma persegue anche l'alleanza con altri gruppi ambientalisti e religiosi, varie organizzazioni alternative (come la Association pour la taxation des transactions pour l'aide aux citoyens - Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie per l'aiuto ai cittadini - meglio nota come ATTAC), e anche gruppi per la difesa dei diritti umani fuori dalla comunità musulmana. Egli si rende conto che molti musulmani, insicuri della propria identità, hanno difficoltà ad andare troppo lontano in questa direzione, e infatti non è un caso se le sue idee in difesa dei diritti umani sono state quelle con il minore successo. La sua opinione che le regole islamiche nel campo degli affari debbano essere adattate alle necessità della società moderna non ha quasi trovato opposizione da parte della gerarchia religiosa ortodossa. Se queste leggi antiquate fossero applicate alla lettera, diventerebbe impossibile per i musulmani possedere dei capitali, fare investimenti finanziari o anche, a
livello personale, usare carte di credito o acquistare una polizza di assicurazione. Quando però Ramadan si occupò, per esempio, delle hudud - pene imposte dal Corano e dalla sharia come la lapidazione delle adultere e l'amputazione delle mani per i ladri - si trovò davanti una dura opposizione. Si rendeva conto che l'oppressione delle donne è qualcosa come il tallone d'Achille dell'Islam nelle società moderne e che dovrebbe essere riformata, ma dato il potere della gerarchia religiosa c'era poco che lui potesse fare. Riforme come questa erano assolutamente inaccettabili per la gerarchia ortodossa, che comprendeva Qaradawi, lo sceicco televisivo di Al Jazeera amico di Ken Livingstone, sindaco di Londra. La gerarchia respinse tout court le posizioni di Ramadan: le hudud facevano parte del Corano e perciò non erano soggette a riforma. Dati i rapporti di parentela di Ramadan, però, i suoi oppositori accettarono, seppure con notevole riluttanza, a discutere alcune sue proposte; ma il risultato era prevedibile: esse furono respinte all'unanimità. Un esperto legale dichiarò che se si impone una moratoria sulla lapidazione delle donne e la pena di morte, domani qualcuno chiederà di abolire la preghiera del venerdì. (Ramadan non ha chiesto l'abolizione delle antiche leggi, solo una moratoria). Uno degli alleati di Qaradawi, un autorevole teologo musulmano americano, ha dichiarato che qualsiasi rimaneggiamento delle hudud sarebbe equivalente alla distruzione della nazione musulmana e perciò vicino all'apostasia. L'argomento di Ramadan, che le norme del Corano sono state spesso violate nel mondo musulmano da autorità arbitrarie, non ha scosso la gerarchia, che era più forte, mentre Ramadan non aveva nessuna intenzione di fare la parte del riformatore radicale e tantomeno del martire. Molti tra coloro che avevano seguito le dichiarazioni di Ramadan non credevano che fossero sincere; pensavano invece che nel suo intimo egli fosse ancora un membro della Muslim Brotherhood e che le riforme da lui difese fossero solo una facciata di comodo. Una delle tesi da lui scritte era sta-
ta una difesa della Brotherhood-, aveva attaccato degli intellettuali francesi ebrei (alcuni dei quali non erano affatto ebrei) per le loro critiche all'Islam, e su questioni importanti non aveva mai preso le distanze dall'organizzazione e dalle sue posizioni fondamentali. Qualcuno potrebbe sostenere in sua difesa che non è giusto criticarlo per la sua ambivalenza, cosa inevitabile vista la sua situazione. Era difficile rimanere allo stesso tempo l'idolo delle banlieues musulmane di Parigi e degli intellettuali progressisti: doveva solo addattarsi alla sua audience, facendo discorsi di tipo diverso spesso in contraddizione fra loro. Egli è rimasto sostanzialmente un fondamentalista, come dimostrano le sue critiche dei musulmani progressisti e riformatori, ma ha capito che alcune riforme sono necessarie se l'Islam vuole mantenere la fiducia di una nuova generazione esposta all'influenza occidentale. In qualche occasione Tariq Ramadan ha ammesso questo dilemma. Quando in un dibattito televisivo gli è stata chiesta esplicitamente la sua opinione sulla lapidazione delle donne come punizione per l'adulterio, non si è dissociato da quella pratica ma ha solo chiesto una moratoria. Suo fratello, dottore in filosofia e docente a Ginevra, ha appoggiato la lapidazione. Ramadan ha poi dichiarato che se avesse condannato la lapidazione si sarebbe fatto amico Nicolas Sarkozy, ministro dell'Interno, ma avrebbe perduto il proprio seguito nel mondo musulmano e «una volta condannato, non [avrebbe potuto cambiare] niente». Tutto ciò mostra i limiti di Ramadan come riformatore. Le sue dichiarazioni sono state contradditorie. Ha condannato il terrorismo, specialmente in Inghilterra, vuole che i musulmani in Europa siano più autocritici, ma allo stesso tempo più conservatori nell'Islam sulle questioni religiose; dice di essere contro la censura, ma allo stesso tempo si è battuto con grande energia a Ginevra per il bando di una commedia di Voltaire, Il fanatismo, o Maometto il Profeta. Non esiste un Tariq Ramadan, ce ne sono due; per il momento, e nel futuro prevedibile, il Tariq islamista è senza dubbio il più forte. La questione di un Islam più liberale o progressista non
comincia e finisce con Tariq Ramadan. Ci sono state molte voci che hanno parlato in favore di un reinterpretazione del Corano, ma sono venute dal Nord Africa e dal Medio Oriente, dall'India e dall'Indonesia, non dall'Europa, che non è un centro del pensiero islamico religioso. I riformatori sostengono che l'Islam non è antidemocratico e deve essere democratico, che i diritti umani devono essere rispettati, che le pratiche comuni nel settimo secolo non sono obbligatorie nel nostro tempo, che le fatwa dei leader musulmani ortodossi (spesso autonominati) non hanno un'autorità indiscutibile, e che gli individui hanno il diritto di interpretare le sacre scritture della loro religione e devono avere libertà di pensiero e di opinione. Ma queste, almeno per il momento, sono posizioni di minoranza, anche se internet ha dato ai riformatori una audience più vasta di quella che avrebbero avuto in passato. La gerarchia religiosa conservatrice e reazionaria è ancora molto stabile: i liberali sono considerati come falsi, perfino eretici, e agenti dell'Occidente. Paradossalmente l'Islam riformatore è più debole in Europa che in certi paesi musulmani, e i tentativi dei governi francesi, inglesi e tedeschi di sostenere le frange liberali e progressiste nelle comunità musulmane non hanno avuto molto successo. Ciò è dovuto specialmente al fatto che tra i musulmani immigrati in Europa ci sono relativamente poche persone istruite o intellettuali aperti a idee nuove; molti di loro, come i turchi in Germania per esempio, sono venuti da regioni remote e tradizionaliste, non da centri metropolitani e cosmopoliti. Questa situazione potrà anche cambiare col tempo, ma non è probabile che cambi presto. Qualche riforma nell'Islam tradizionale è diventata inevitabile con lo sviluppo economico e tecnologico, ma i conservatori stanno ancora cercando di imporre limiti a questi cambiamenti. Perfino Osama bin Laden, quando era in Sudan negli anni novanta, era un uomo d'affari di successo che operava in modi per niente compatibili con l'Islam fondamentalista. C'è da dubitare che alla lunga i fondamentalisti riescano a impedire l'emancipazione delle donne. I loro tentativi di far-
lo sono mossi non tanto da argomentazioni religiose quanto da posizioni politiche e dal loro atteggiamento antioccidentale, l'idea di essere una comunità sotto pressione dall'esterno. Ma le radici di questo atteggiamento non sono puramente religiose: il pericolo, per i tradizionalisti islamici, non è la riforma religiosa ma l'indifferenza. Con tutti i successi del fondamentalismo nei decenni recenti, essi si rendono conto per citare un imam di Berlino - che la via verso la moschea è lunga e che su di essa i giovani trovano molte tentazioni. I giovani ascoltano Tariq Ramadan con entusiasmo, ma la maggioranza non osserva più strettamente i comandamenti della religione, e non solo quello delle cinque preghiere quotidiane. Alla lunga questo potrebbe essere il pericolo reale; l'autorità dei predicatori non è più tanto forte quanto lo era per la generazione dei loro genitori.
LA VIOLENZA ISLAMISTA IN EUROPA
Il terrorismo in Europa ha una lunga storia: comprende i nazionalisti e separatisti dell'Irish Republican Party e i gruppi estremisti di sinistra e di destra, dai rivoluzionari socialisti dell'Ottocento in Russia agli anarchici circa tra il 1890 e il 1910, fino alla banda Baader-Meinhof degli anni sessanta e settanta e a vari gruppetti neofascisti. Ma fin dagli anni ottanta quel terrorismo è rifluito ed è stato sostituito da cellule radicali musulmane. Perché l'Europa è diventata un bersaglio? Secondo la dottrina di Al Qaeda e di gruppi suoi alleati gli Stati Uniti e Israele, il grande e piccolo Satana, sono il nemico principale. Ma Israele è difficile da attaccare dall'esterno, così il terrorismo in quel paese è stato lasciato ai palestinesi; quanto agli Stati Uniti, c'è stato naturalmente I ' l l settembre del 2001, ma da allora per molto tempo non ci sono stati attentati gravi e c'è stato invece un dibattito sulla questione se gli Stati Uniti fossero davvero Dar alHarb, la patria della guerra, dove gli attentati erano non solo permessi ma anche auspicabili. Per ragioni pragmatiche o di altro tipo gli
islamisti radicali hanno deciso per la maggior parte che al momento gli attentati negli Stati Uniti non sono un compito fondamentale. Sembra anche che, con qualche eccezione come gli yemeniti di Schenectady, nello stato di New York, non sia stato facile reclutare militanti in quel paese. Malgrado ciò, l'Europa non era una scelta ovvia: ci si sarebbero potuti aspettare più attentati contro il "nemico vicino", cioè governi arabi come quelli dell'Arabia Saudita, dell'Egitto e dell'Algeria, che gli estremisti considerano ostili; ma in generale i leader del terrore si sono accorti che gli attentati contro stranieri sarebbero stati comunque più popolari nei paesi arabi di attentati contro altri musulmani. In fin dei conti sembra che l'Europa sia stata scelta perché era più facile trovarci delle reclute e perché era molto facile muoversi e organizzarsi liberamente in paesi democratici. Le ragioni per gli attentati si potevano sempre trovare: punizioni per l'aiuto agli Stati Uniti nella loro guerra globale contro il terrorismo e l'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, o per le cosiddette persecuzioni di minoranze musulmane in Europa. L'Italia è diventata di particolare importanza come stazione di transito verso altri paesi europei, base di partenza per i combattenti in Iraq e centro di appoggio logistico e finanziario. Molte di queste attività hanno fatto capo a due moschee alla periferia di Milano, in viale Jenner e in via Quaranta. Le forze dell'ordine italiane hanno chiesto ai magistrati di deportare diversi imam coinvolti in queste attività non esattamente di loro competenza, ma in alcuni casi i giudici non hanno dato il permesso dicendo che quegli "attivisti" erano dei combattenti per la libertà - o semplicemente con lo scopo di irritare e frustrare il governo del primo ministro Silvio Berlusconi. L'Italia però ha arrestato dozzine di militanti che avevano collaborato con la al-Gama'a llamiyya, un gruppo egiziano, il Gruppo salafista per la chiamata e il combattimento, algerino, l'Ansar al Islam, iracheno, e altri gruppi. Il paese è stato anche usato per il transito di musulmani dalla Bosnia e dall'Albania, ma pochi di questi sono stati coinvolti in attività terroristiche.
Secondo esperti francesi è in corso una competizione per il reclutamento di "attivisti" fra gruppi vari, come i salafi, forti negli anni novanta in Egitto e in Nordafrica, e i tabligh, che si sono concentrati sul'educazione religiosa di tipo fondamentalista e anche sulla conversione all'Islam, tanto che alcuni convertiti hanno avuto un ruolo di primo piano nelle attività terroristiche. Alcuni di questi gruppi hanno addestrato i loro membri per agire in Francia, altri per operazioni in Iraq, nel Caucaso e altri paesi. In generale il terrorismo in Europa è stato relativamente limitato, per una serie di ragioni possibili. Forse non ci sono state reclute sufficienti, e forse il lavoro dell'antiterrorismo francese ha avuto successo. Potrebbe anche essere che le azioni terroristiche del 1984-85 e della metà degli anni novanta siano apparse in retrospettiva inefficaci e perciò inutili. Ma l'esperienza passata non offre necessariamente previsioni per il futuro, poiché ogni quattro o cinque anni cresce una nuova generazione di potenziali "militanti" che si interessa di più ai fatti correnti che a quelli passati. Il fatto che il terrorismo degli anni passati non abbia avuto molto successo, o quasi per niente, può non essere necessariamente un deterrente, perché la memoria storica degli interessati è corta. E difficile stabilire in quale misura i terroristi in Europa siano stati diretti e coordinati da lontano. Si è saputo che l'attentato del 2004 a Madrid fu preparato e compiuto da un gruppo marocchino, che gli algerini sono stati attivi specialmente in Italia e in Francia, che degli arabi sono stati attivi in Germania e così via, ma in gran parte queste attività erano frutto di iniziative locali. C'era naturalmente un aiuto reciproco fra gruppi diversi, ma per questo non era necessaria una leadership centralizzata. I contatti locali si potevano trovare nelle moschee, nei club, nelle librerie ecc., perciò era fuorviante considerare per ogni caso Al Qaeda come il grande burattinaio, come invece è stato fatto dai media. La vecchia leadership di Al Qaeda in realtà era sempre in fuga, ed era difficilmente in grado di organizzare e preparare operazioni in paesi molto lontani dai loro nascondigli in Afghanistan e in Pakistan.
Le reti clandestine musulmane si svilupparono negli anni novanta. In parte erano composte da "afghani", uomini che avevano combattuto in Afghanistan e poi erano ritornati in Algeria e in altri paesi arabi, ma anche da militanti locali. E stato spesso sostenuto che i candidati più probabili per missioni terroristiche erano giovani disoccupati che facevano capo a certe moschee o a club affiliati ad esse. Sarebbero stati scelti da agenti reclutatori che promettevano loro azioni con uno scopo che avrebbe dato un significato alla loro vita, per non parlare del brivido. Le bande di strada avrebbero avuto un ruolo importante in questo processo; altri venivano reclutati da compagni di detenzione nelle prigioni. Eppure fattori come la povertà e la disoccupazione non sono spiegazioni sufficienti. Non pochi terroristi reclutati in Europa Occidentale venivano da famiglie della classe media e stavano studiando per un titolo di primo o secondo livello. Era lo stesso per la rete di Amburgo che preparò gli attentati dell'11 settembre a New York e Washington. L'assassino del giornalista americano Daniel Pearl aveva studiato alla London School of Economics; erano istruiti anche Mohamed Boujeri, l'assassino di Theo Van Gogh, e molti altri, come Khaled Kalkal, il terrorista militante degli anni novanta, e Zacaria Moussaoui, il cosiddetto ventesimo dirottatore dell'I 1 settembre che è stato arrestato negli Stati Uniti. I più istruiti venivano spesso reclutati via internet, che col passare degli anni è diventata un importante terreno di reclutamento per gli jihadisti. Se le motivazioni economiche e sociali non sono sufficienti per una spiegazione, occorre considerare fattori politici e psicologici. La religione ha certo avuto una certa importanza, ma per quanto se ne sa non sono stati affatto i più pii e ortodossi a scegliere l'azione violenta. Secondo un rapporto inglese del 2005 preparato dai Ministeri dell'interno e degli esteri, le reclute provenienti dalla classe media erano per la maggior parte dei solitari che frequentavano i club universitari di carattere religioso o etnico, mossi dalla delusione per la propria condizione. Alcuni erano arrivati recentemente
dal Nordafrica o dall'Africa Orientale, ma c'erano anche cittadini britannici di seconda o anche terza generazione le cui famiglie erano immigrate dal subcontinente indiano. Inoltre, sempre secondo il rapporto, un numero notevole proveniva da ambienti musulmani non religiosi e liberal oppure erano stati convertiti in età adulta - compresi alcuni cittadini di origine britannica e caraibica. Tutto ciò sembra mostrare che ci deve essere stata una combinazione di motivazioni: l'odio per l'America, l'Occidente e il paese adottato; un'aggressività incontrollata e il bisogno di acquisire "rispetto" (e se non rispetto, di incutere almeno paura); e l'insoddisfazione per i due pesi e due misure applicati dal loro nuovo paese in politica internazionale. Perché, poi, la mancanza di attività sui problemi della Cecenia, del Kashmir e della Palestina? Tutto sommato, troppo pochi "attivisti" sono stati oggetto della ricerca e analizzati dai ministeri per poter trarre delle generalizzazioni sulla loro provenienza e le loro motivazioni. Non è facile comprendere, per esempio, le motivazioni di quei turchi, sia in Turchia sia in Germania, che hanno accolto con grande entusiasmo film antiamericani, antioccidentali e anche antisemiti come The Valley of the Wolves (La Valle dei Lupi) e romanzi in cui veniva descritto un attacco nucleare turco-russo contro gli Stati Uniti. L'America, dopotutto, appoggiò la Turchia quando essa si oppose alle rivendicazioni territoriali sovietiche dopo la seconda guerra mondiale; ha appoggiato la richiesta della Turchia di entrare nell'Unione Europea, contro una forte resistenza da parte degli europei; e ha contribuito a salvare la vita di musulmani nei Balcani. Forse è stata la propaganda dei leader spirituali delle comunità islamiche, secondo la quale l'America è il nemico numero uno, sebbene né i russi né gli arabi siano mai stati grandi amici della nazione turca (per non parlare del panturchismo). E ancora più difficile capire perché dei musulmani nigeriani abbiano ucciso decine di nigeriani cristiani dopo la pubblicazione dei fumetti danesi all'inizio del 2006. Nessuna delle consuete spiegazioni ha funzionato in questi e altri casi, quelle che si richiamavano all'oppressione coloniale, al pa-
ternalismo occidentale o in generale alla mancanza di rispetto. Perché i paesi europei hanno attirato questi attentati? Prima di tutto è stata l'ingenuità che ha reso possibile l'immigrazione indiscriminata nei decenni passati. L'Europa fu scelta dai terroristi come un gigantesco rifugio perché a differenza di altre parti del mondo (compresi i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente e altri paesi musulmani) offriva non solo protezione ma anche assistenza economica, dato che come richiedenti di asilo politico gli "attivisti" avevano diritto a essere assistiti date le norme vigenti. Così si è venuta a creare una situazione grottesca. Abu Qatadah, ritenuto il rappresentante di Osama bin Laden in Europa, ha ottenuto asilo in Gran Bretagna; Abu Hamza al-Mizri ha fatto della moschea di Finsbury il centro delle "attività militanti" in Europa occidentale; Mullah Krekar, leader di Ansar al Islam, si è stabilito in Norvegia; Abu Talal al-Qasimi, uno dei capi dell'egiziana al-Gama'a, ha fatto della Danimarca la base delle sue operazioni fin dal 1993; Abdel Ghani Mzoudi e Mounir el-Mouttazadek, membri della cellula di Amburgo che organizzò gli attentati dell'I 1 settembre, continuano a operare liberamente: furono arrestati e detenuti per un po' di tempo, ma il sistema giudiziario tedesco non riuscì a mantenerne il controllo. Da diversi anni sono state formate e sono attive cellule terroriste a Madrid, Torino, Milano, Francoforte, Rotterdam, Eindhoven (nella moschea Al Furqan) e in molte altre località. In alcuni casi i "militanti" sono stati processati, ma spesso si è dovuto assolverli. Per la maggior parte erano vissuti per anni di assistenza pubblica, avevano ricevuto dalle autorità appartamenti e sussidi in denaro che ammontavano a decine se non centinaia di migliaia di dollari, e indennità di disoccupazione per sé e per le loro famiglie numerose; in qualche caso hanno avuto assistenza anche per le loro attività religiose. Mullah Krekar, capo ài. Ansar al Islam, fu arrestato in Olanda per un breve periodo; lui denunciò le autorità e gli furono pagati 5.000 euro per arresto ingiustificato, dopodiché la
somma fu portata a 45.000 euro. Nel frattempo questi attivisti non hanno certo tenuto segrete le proprie intenzioni, anzi, hanno minacciato i governi ospiti di gravi conseguenze se le loro richieste non fossero state accolte. Nella maggior parte dei paesi europei, come negli Stati Uniti, in Russia e in India, la legislazione antiterroristica è stata in qualche modo resa più severa dopo l'I 1 settembre e altri attentati in altri paesi, ma malgrado ciò le autorità sono state per lo più impossibilitate ad arrestare o condannare i sospetti terroristi. Quando lo hanno fatto sono state denunciate per illegalità non solo da gruppi locali per i diritti umani, Amnesty International eccetera, ma anche da istituzioni politiche europee, che di regola si sono appellate alla Convenzione europea sui diritti umani. Il terrorismo è stato spesso definito come guerra asimmetrica, e da un punto di vista legale lo è stato certamente. Se gli islamisti facevano propaganda per azioni violente, questo poteva spesso essere permesso secondo le leggi sulla libertà di parola. Se preparavano un attentato terroristico potevano forse essere arrestati, ma non potevano essere condannati perché non avevano commesso il fatto: si poteva sempre sostenere che in realtà non avevano avuto intenzione di portare a termine l'azione terroristica. Allo stesso modo, è stato sostenuto che anche negli Stati Uniti coloro che agirono l ' i l settembre avrebbero forse potuto essere fermati per un breve periodo, ma non incriminati e tantomeno condannati fino al momento in cui presero effettivamente il controllo degli aerei per la loro missione finale. Se fossero stati trovati in possesso di armi, questo sarebbe stato naturalmente illegale, ma le sentenze sarebbero state inevitabilmente leggere. Nemmeno le armi di distruzione di massa, specialmente se binarie, cioè materiali usabili anche per scopi pacifici, erano necessariamente una prova schiacciante. Se l'appartenenza a un'organizzazione terroristica veniva provata al di là di ogni ragionevole dubbio, si poteva sempre sostenere che quello era un gruppo di guerriglia protetto dalla Convenzione di Ginevra o un movimento di liberazione nazionale (come ac-
cadde in Italia), l'appartenenza al quale non era punibile ma anzi degna di supporto. E accaduto spesso che le prove addotte contro sospetti terroristi non fossero accettate in tribunale perché erano state ottenute con intercettazioni, o perché avrebbero comportato che le forze di sicurezza rivelassero pubblicamente le loro fonti, cosa che nella maggior parte dei casi esse si rifiutarono di fare. Fra tutti i paesi europei, solo la Francia aveva un sistema capace di fronteggiare più o meno efficacemente il terrorismo, e quel paese fece anche seguito all'incriminazione con condanne e deportazioni. Il risultato fu che negli anni novanta molti terroristi che avevano chiesto asilo politico in Francia, legalmente o no, si trasferirono a "Londonistan"; in quasi tutti gli altri paesi la deportazione si è dimostrata estremamente difficile in termini legali e perciò molto rara. Gli individui che si scoprivano essere un pericolo per lo Stato non potevano essere deportati nel paese di origine, perché la maggior parte dei paesi non europei, compresi gli Stati Uniti e molti Stati asiatici e africani, non avevano abolito la pena di morte e c'era sempre il pericolo che questa gente venisse trattata duramente o anche torturata. Ci sono voluti anni per ottenere l'estradizione di terroristi anche da un paese europeo all'altro, e in qualche occasione queste estradizioni, per una ragione o per l'altra, non sono mai state effettuate. Quando, malgrado queste leggi, alcuni individui sono stati estradati o deportati (la cosiddetta rendition), si è scatenato il finimondo. Come si poteva, veniva detto, trattare in modo disumano persone che dovevano essere considerate innocenti fino alla prova della loro colpevolezza? Oltre a tutto, la situazione era ulteriormente complicata dal fatto che i sospetti terroristi non erano cittadini stranieri ma erano ormai naturalizzati. L'ingenuità, cioè l'incapacità di capire il pericolo terrorista, è stata indicata come la principale ragione dell'atteggiamento permissivo di fronte a individui che chiedevano asilo politico ed erano invece pronti a impegnarsi in attività violente. Si pensava che fosse "non britannico" o "non scandi-
navo" negare un rifugio a persone che sostenevano di essere in grave pericolo nel loro paese d'origine. C'era forse del senso di colpa che risaliva agli anni trenta, quando tutti questi paesi avevano negato asilo ai rifugiati dalla Germania nazista, ma c'erano quasi certamente altri motivi in gioco. In Gran Bretagna, per esempio, si fece capire agli estremisti islamici che se si fossero astenuti da azioni "illegali", cioè dalla propaganda per il terrorismo, la loro presenza sarebbe stata tollerata e le altre loro attività non sarebbero state indagate. Questo tacito patto sembra essere stato in forza per anni, e sembrano esserci stati simili accordi in altri paesi europei. Qualcuno ha anche sostenuto che se l'attività di islamisti violenti non fosse stata bandita, questi individui si sarebbero potuti controllare più facilmente che quando entravano in clandestinità. Sembra che questi calcoli, basati sul principio del "chiedi un favore al vicino", abbiano funzionato in alcuni casi ma non in altri; per esempio non impedirono gli attentati a Londra nel luglio del 2005. In generale, l'atteggiamento degli europei nei confronti dei terroristi e dei loro sostenitori è stato quello della tolleranza almeno finché "si comportavano bene", mentre dopo gravi attentati furono introdotte misure più severe. Ma poiché gli attentati gravi non sono stati frequenti, la richiesta di abolizione di queste misure ha guadagnato sempre più forza mentre il ricordo degli attentati diventava più vago. Ci sono stati molti individui e gruppi convinti che il pericolo del terrorismo fosse molto sopravvalutato (o forse anche esagerato dalle autorità), e che la difesa dei diritti umani fosse il dovere principale anche se metteva a rischio delle vite umane. Nella loro lotta contro il terrorismo i governi europei hanno avuto scarso aiuto dalle comunità musulmane. Nel settembre 2006 il capo della divisione antiterrorismo di Scotland Yard rese noto che le forze dell'ordine inglesi stavano ricercando migliaia di individui sospettati di organizzare, finanziare o incoraggiare degli attentati. I portavoce delle comunità musulmane in Gran Bretagna risposero come sempre
che o le forze dell'ordine erano in errore oppure, più probabilmente, intendevano rovinare la reputazione di persone innocenti. Può anche essere vero che il problema più grave in Europa non sia, o non sia principalmente, il terrorismo: anche se non ci fosse stato un solo attentato, rimarrebbero i profondi cambiamenti demografici, sociali e culturali in atto. Inoltre, esistono organizzazioni islamiste che si dissociano ufficialmente da attività sullo stile di Al Qaeda, eppure credono ancora nella jihad e in altre forme di violenza. Per certi versi assomigliano ai movimenti fascisti degli anni trenta, che puntavano anch'essi alla violenza, ma sulle strade, non quella di atti individuali. Questo, per esempio, è il caso di Hizb al Tahir ("partito della liberazione"), fondato a Gerusalemme, allora giordana, all'inizio degli anni cinquanta. Come molte altre organizzazioni, Hizb al Tahir proviene dalla Muslim Brotherhood, che esso considera non abbastanza antioccidentale. Il suo antisemitismo è estremo («e uccidili dovunque li trovi», dice il Corano), ma allo stesso tempo i dirigenti hanno sostenuto che le loro dichiarazioni sono state citate fuori contesto. Pare che esso abbia cercato di operare sia come partito legale sia come organizzazione clandestina, e ciò ha creato complicazioni dottrinali e di altro tipo. Hizb al Tahir è certamente un'organizzazione fondamentalista e radicale, sebbene nella sua versione l'Islam sia una religione razionale; il suo scopo principale è ristabilire il Califfato ( K h a l i f a t ) che fu abolito dopo l'abdicazione dell'ultimo sultano turco negli anni venti. L'Hizb e le sue diramazioni, ancora più radicali, riconoscono solo l'umma, la comunità mondiale dei credenti musulmani, e considerano artificiali gli Stati-nazione e i confini tra loro. Questi estremisti sostengono di non appoggiare il terrorismo, ma alcuni hanno partecipato ad azioni terroristiche e anche missioni suicide, mentre hanno approvato le attività di Al Qaeda nelle loro pubblicazioni. Sono ben organizzati e molto forti in certe comunità musulmane, dove minacciano i
loro rivali e avversari di conseguenze non meglio specificate. La loro visione è la presa del potere, presumibilmente con mezzi violenti, quando saranno sufficientemente forti dopo essersi infiltrati nell'apparato statale. A differenza di altri gruppi islamisti, YHizb al Tahir è un'organizzazione elitista che recluta quadri istruiti. Ha cominciato a svilupparsi in Gran Bretagna, dove è abbastanza ben rappresentata nei campus universitari di Birmingham, Bradford, e del London Imperiai College. Sarebbe un errore, però, considerarla un gruppo di intellettuali e ideologi: la sua base è costituita piuttosto da tecnici. Non è forte in Francia, ma è molto attiva in regioni dell'ex Unione Sovietica, specialmente in Asia Centrale. Gruppi ancora più radicali si sono dati a provocazioni aperte («isseremo le nostre bandiere sopra 10 Downing Street»), ma Hizb al Tahir sembra credere che queste posizioni siano controproduttive. Hizb al Tahir è solo una tra le diverse organizzazioni islamiste attive in Europa, e ci sono state e continuano ad esserci parecchie spaccature fra loro. L'Hizb è stato accusato da gruppi simili di comprendere agenti dell'imperialismo occidentale, e ha risposto allo stesso modo. Che questo sia possibile non può essere escluso in alcun modo; anzi, si può dare per scontato che per la maggior parte questi gruppi siano stati infiltrati dai servizi di sicurezza e da gruppi islamisti rivali. Naturalmente non si sa se le loro attività siano effettivamente manipolate da forze a loro esterne. Comunque stiano le cose, il semplice fatto che questi gruppi esistono dimostra che le società europee hanno di fronte il pericolo della violenza, non solo quella terrorista a opera di piccole cellule clandestine, ma anche quella di organizzazioni politiche che cercheranno, quando i tempi saranno maturi, di lanciare movimenti di massa. Hizb al Tahir è stato messo fuori legge in quasi tutto il Medio Oriente (eccetto il Libano, la Giordania e gli Stati del Golfo) e in molti paesi europei, ma almeno in Europa ciò non sembra aver frenato la sua attività. Questa breve analisi dei gruppi islamisti violenti non ha compreso un'importante categoria nel panorama della vio-
lenza: quella spontanea, come la si è vista a Parigi nel novembre del 2005. Per la maggior parte coloro che presero parte a quei disordini (o ai precedenti disordini dei Midlands in Inghilterra) erano musulmani, ma non c'è alcuna prova che essi fossero istigati da qualche organizzazione secondo un piano generale. I disordini furono il risultato, da una parte, di condizioni "oggettive" come gli atteggiamenti dei giovani nei ghetti, dall'altra, naturalmente, dell'indottrinamento da parte di predicatori e agitatori. Questo però non significa che gli agitatori fossero in grado né di dare inizio ai disordini, né di fermarli, e questa è una situazione che molto probabilmente si ripresenterà. Nicolas Sarkozy, il ministro degli Interni francese, ha parlato di due o tremila casseurs (spaccatori) che vivono soprattutto nelle banlieues di Parigi e fanno del vandalismo e delle azioni violente, come incendiare e distruggere oggetti di proprietà, rubare e rapinare. Per lo più vengono dai sobborghi musulmani, ma ci sono anche dei militanti dell'estrema destra e anche degli anarchici. Come ha detto Sebastian Roche, un politologo francese, sono sostanzialmente apolitici, al di fuori della vita politica pubblica, e credono nella violenza fine a se stessa.
La lunga via verso l'unità europea
Dai tempi della seconda guerra mondiale l'Europa politica è cambiata enormemente. Dopo un inizio incerto, il movimento verso una più stretta collaborazione e unità fece grandi progressi negli anni cinquanta e sessanta, avanzò a strattoni, rallentò, poi riguadagnò forza. Ma si arrestò nel 2005, quando Francia e Olanda, due dei membri fondatori dell'Unione Europea, respinsero la costituzione che era stata messa ai voti. Il futuro di un'Europa unita rimane incerto, e per discuterlo occorre ricapitolare la storia di questo processo. Come ha scritto un eminente studioso della Comunità, Andrew Moravcsik, «la costruzione della Comunità europea è uno dei risultati più straordinari della politica mondiale contemporanea, ma il consenso sulle sue cause è scarso». L'idea di Europa come un'entità separata dall'Asia e dall'Africa risale all'antichità, ma non preoccupava molto i greci e i romani. Durante e dopo il medioevo furono pubblicati diversi libri e opuscoli sull'Europa, ma il problema interessava di più i geografi che i filosofi della politica. La situazione cominciò a cambiare nel Seicento, quando il ministro delle Finanze francese Maximilien de Bethune, il duca di Sully, William Penn e alcuni altri concepirono la necessità di fondare un'istituzione europea, forse anche un parlamento, per di-
fendere la pace del continente, purtroppo violata in quel periodo dalle guerre di religione (1562-98) e dalla guerra dei trent'anni (1618-1648). L'idea fu ripresa cent'anni dopo da Charles-Irenée Castel, l'Abbé de Saint-Pierre (1658-1743), nel suo libro sulla pace perpetua, Le projet depaixperpetuelle (1713). Le sue posizioni vennero a conoscenza di Rousseau, Kant e altri pensatori dell'Illuminismo. L'idea centrale era quella di difendere la pace, cosa che, si riteneva, non poteva essere garantita semplicemente dalla fiducia nelle intenzioni pacifiche dei governanti, né dall'equilibrio delle potenze. Con la Rivoluzione francese ebbe inizio l'era degli Stati nazionali, e per quanto l'idea dell'unità europea non scomparisse completamente - la si può trovare nel concetto mazziniano di Giovane Europa e negli Stati Uniti d'Europa di Victor Hugo - l'accento veniva posto sul nazionalismo piuttosto che sull'internazionalismo, sulla guerra e l'espansione piuttosto che sulla cooperazione internazionale. Richard de Coudenhove-Calergi (1894-1972), per esempio, continuò a sostenere la necessità di una sicurezza mutualmente riconosciuta come "Pan-Europa", ma proposte come queste erano pure costruzioni teoriche: le masse potevano essere mobilitate da forze nazionaliste, non da schemi astratti. Hitler e Mussolini erano più forti di Aristide Briand e Gustav Stresemann (rispettivamente ministri degli Esteri di Francia e Germania e rappresentanti di avanguardia della pace in Europa, che condivisero il Premio Nobel nel 1926). La destra europea era per dottrina contraria allo spirito cosmopolita, ma anche nella sinistra c'era poco entusiasmo: Lenin criticò l'idea degli Stati Uniti d'Europa durante la prima guerra mondiale. E vero che anche Hitler parlò di un'Europa unita, ma solo verso la fine della sua vita, quando stava per perdere la guerra e aveva bisogno di aiuto contro l'Unione Sovietica e gli alleati occidentali; a ogni modo, la sua idea era quella di un'Europa unificata sotto la leadership tedesca. Per alcuni europei non era affatto ovvio il dover essere più uniti. Parlavano lingue diverse, avevano diverse tradizioni e stili di vita, e ciò che li separava sembrava molto più impor-
tante di ciò che avevano in comune. La Germania e la Francia erano state nemiche da sempre, e lo stesso valeva per tedeschi e slavi. Non c'era alcun idillio passato fra la Gran Bretagna e gli altri paesi. Non esistevano né gli Stati Uniti d'Asia o d'Africa, e nemmeno dell'America Latina - dove pure si parla la stessa lingua, con una eccezione. Dunque, perché avrebbero dovuto esserci gli Stati Uniti d'Europa? Gli Statinazione, dopotutto, si erano sviluppati organicamente e indipendentemente. Gli europei erano disposti a lavorare, a sacrificarsi, perfino a morire per il proprio paese, ma non c'era alcun sentimento equivalente di fedeltà nei confronti dell'Europa in quanto tale. Fu la seconda guerra mondiale, con i suoi disastri, che diede nuova vita a varie iniziative che puntavano a un'unità più stretta. I governi in esilio del Belgio e dell'Olanda decisero di formare un'unione (il Benelux: da Belgio, Netherlands e Lussemburgo), e altri progetti furono proposti: la cooperazione era nell'aria. Ma fu soprattutto la necessità economica che agì come il motore principale del movimento per l'unificazione. Jean Monnet, una figura di prima grandezza in questo movimento, che contribuì a gettare le basi della Comunità economica europea (il Mercato comune) e poi dell'Unione Europea, disse una volta che le crisi sono i veri agenti della federazione, e l'Europa del dopoguerra era certamente in una grave crisi. (In un'altra occasione, molti anni più tardi, Monnet dichiarò che se avesse dovuto cominciare daccapo sarebbe partito dalla cultura piuttosto che dall'economia). Tale era lo stato di devastazione alla fine della guerra che sembrava improbabile che i paesi europei si sarebbero ripresi solo con le proprie forze. Era necessario un aiuto dall'esterno, e questo poteva venire solo dagli Stati Uniti; ma c'erano altre condizioni necessarie per la ripresa, compresa una stretta collaborazione, la riduzione delle tariffe doganali, la liberalizzazione del commercio e altre misure simili. L'America appoggiò i progetti di unificazione così come la Gran Bretagna, sebbene Churchill suggerisse che il Regno Unito avrebbe fatto meglio a rima-
nerne fuori. L'Unione Sovietica, invitata a parteciparvi, respinse l'unione perché la considerava cóme una sfida pericolosa per i propri progetti sul futuro dell'Europa. Eppure il bisogno di una cooperazione più stretta era così pressante che alla fine anche la Russia istituì una organizzazione per la cooperazione economica chiamata COMECON, che mise l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche in relazione con la Germania dell'Est, la Cecoslovacchia, la Bulgaria, la Polonia e altre nazioni all'interno della sua sfera di influenza. Queste, dunque, erano le circostanze in cui l'Unione Europea si formò nel 1950-51, dapprincipio come un'associazione che si occupava della produzione di carbone e acciaio, i cui membri fondatori erano la Francia, la Germania, l'Italia e il Benelux. E vero anche che non fu solo l'economia l'agente della federazione. Quelli erano gli anni dell'inizio della guerra fredda, dell'occupazione comunista dell'Europa dell'Est, del blocco e del ponte aereo di Berlino (1948-49) e dello scoppio della guerra in Corea (1950). C'era bisogno di difendere l'Europa occidentale, cosa che i singoli paesi non erano in grado di fare, da cui varie iniziative per formare un sistema di difesa continentale. Questi progetti, però, non ebbero successo, e la difesa dell'Europa fu lasciata alla North Atlantic Treaty Organization (NATO), fondata nell'aprile del 1949 come un'alleanza fra Stati Uniti, Canada e dieci paesi europei - più tardi con l'aggiunta della Turchia e della Grecia (1952), della Germania (1955) e di altri paesi. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, si fecero i primi passi verso l'unità europea, l'idea di una politica estera e di difesa comune non era prominente; essa riapparve solo molto più tardi, alla fine degli anni settanta, ma presto perse importanza. Il processo verso un Mercato comune, invece, si fece più robusto. Per molti anni il presidente francese Charles de Gaulle bloccò l'entrata della Gran Bretagna, ma nel 1972 essa entrò nel Mercato comune insieme alla Danimarca, seguita dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Grecia; i sei divennero nove, poi dodici e quindici, e dopo il crollo dell'Unione Sovietica entrarono altri tredici Stati. Furono fon-
dati il Consiglio d'Europa, il Parlamento europeo, la Corte europea, una Banca centrale, la Commissione europea, la Comunità europea per l'energia atomica (EURATOM), e molte altre istituzioni comunitarie. Nel 1962 fu concordata una politica agricola comune, una delle decisioni più controverse mai prese, che avrebbe poi generato dispute senza fine. Alla fine, nel 2002, fu introdotta una moneta comune, l'euro. Ci furono vertici importantissimi, come quello del 1992 a Maastricht, in Olanda, in cui fu firmato il Trattato sull'Unione Europea, e altre riunioni di minore importanza. Non era un segreto che gli Stati che entravano nell'Unione lo facevano per ragioni economiche; quelle ragioni erano importanti per tutti, e nessuno - o quasi nessuno - voleva rimanerne fuori. Era naturale che ogni paese facesse i propri interessi, e che la domanda cruciale fosse: "Cosa ci guadagnamo?". Ci furono aspettative non realistiche e qualche lamentela ingiustificata. Daremo solo due esempi. I paesi più piccoli si sono lamentati del fatto che i loro interessi non sarebbero stati considerati e che le grandi potenze avrebbero gestito le istituzioni comunitarie come se appartenessero a esse soltanto. Guardando alle cose in retrospettiva, tuttavia, i paesi più piccoli Irlanda, Austria, Spagna e Portogallo — hanno beneficiato molto, economicamente parlando, dal Mercato comune; hanno ricevuto aiuti non indifferenti in periodi di crisi, ed è perlomeno da dubitare che avrebbero ottenuto gli stessi risultati fuori dall'"Eurosfera". Un'altra ragione di lamentele è stata l'introduzione dell'euro. All'inizio la moneta era valutata 1,18 dollari; dopo meno di un anno era caduta a 90 centesimi di dollaro, mentre nel momento in cui scriviamo è a 1,25. Ma gli europei sono meno interessati al valore relativo dell'euro che all'impressione, non del tutto ingiustificata, che l'introduzione della nuova valuta abbia aumentato il carovita. Ci sono state ondate di europessimismo (chiamato anche euroscetticismo, eurosclerosi ed europaralisi) fin dagli anni ottanta, perché il Mercato comune non funzionava tanto bene quanto ci si era aspettato. E vero che le dogane erano state abolite, ma c'erano molti altri modi di frenare la liberaliz-
zazione, per esempio con l'introduzione di ostacoli non tariffari in grado di imporre ai concorrenti esteri i criteri e le condizioni di un dato paese. Se Bruxelles interferiva con queste pratiche, si levavano di nuovo lamentele per interventi non dovuti e non necessari. E vero che i visti sono stati aboliti e che ci si può muovere liberamente da un paese all'altro, ma è anche vero che ciò era possibile già prima della prima guerra mondiale (con l'eccezione della Russia e della Turchia). Certe lamentele hanno avuto a che fare non tanto con il funzionamento del Mercato comune, quanto con la situazione economica in generale. Nei primi anni ci fu una crescita spettacolare in tutta la Comunità; nei decenni seguenti la crescita è stata lenta o nulla. All'inizio non si parlava di disoccupazione, ma verso la fine dell'ultimo secolo essa è diventata un problema serio. Negli ultimi anni del ventesimo secolo ebbe inizio un fenomeno insieme interessante e inquietante, che è continuato negli anni seguenti: è aumentato il numero degli europei che criticano gli Stati Uniti e specialmente la loro politica estera. La percentuale di disapprovazione ha raggiunto il 58 per cento in Germania, il 62 per cento in Spagna, il 66 per cento in Francia e il 41 per cento in Gran Bretagna, e le cifre sono state simili in Svezia e in Olanda. La Grecia e la Turchia erano d'accordo su poche altre cose, ma la loro opposizione agli Stati Uniti è stata fra il 70 e l'80 per cento. Ci sono stati molti motivi di dissenso. Gli americani - cioè, l'amministrazione di George W. Bush - si rifiutarono di firmare il Protocollo di Kyoto aggiunto alla Convenzione generale dell'oNU sul cambiamento del clima (riscaldamento globale), proposto nel 1997 e vigente dal 2005, sebbene gli Stati Uniti fossero il paese che emette più "gas serra" di tutti. Inoltre, gli americani non firmarono il trattato che istituisce la Corte internazionale di giustizia formata dalle Nazioni unite. Ci sono state continuamente dispute fra gli Stati Uniti e l'Europa sui sussidi all'agricoltura e i dazi sull'acciaio, e anche divergenze su problemi della politica mondiale, come il conflitto arabo-israeliano. Durante la seconda guerra in Iraq (2003-)
l'opposizione alla politica americana è cresciuta ancora di più in Francia, in Germania e in molti paesi più piccoli: la percentuale del dissenso è stata vicina all'80 o 90 per cento. Data questa opposizione, ci si sarebbe aspettati che gli europei esprimessero un forte consenso su un'Europa unita; ma quando nel 2004 fu chiesto loro come avrebbero reagito se l'Europa cessasse di esistere domani, meno di un terzo degli abitanti della Gran Bretagna, ma anche dell'Europa dell'Est, dissero che se ne sarebbero dispiaciuti. Solo il 54 per cento degli europei dichiarò che l'appartenenza all'Unione Europea era un bene, e un anno dopo questa cifra era scesa al 48 per cento - fino al 28 per cento nel Regno Unito. Questa posizione è condivisa anche dai nuovi membri: come disse il presidente della Repubblica Ceca nel 2006, ciò di cui l'Europa ha bisogno è più democrazia, non necessariamente un'unità più forte. L'entusiasmo per l'Europa si è affievolito anche nei paesi in cui la protesta contro il governo nazionale non è un fattore importante. Per esempio, nel 2006 solo il 33 per cento degli austriaci era ancora a favore dell'appartenenza all'Unione, mentre un anno prima la cifra era il 42 per cento. I numeri per la Finlandia erano simili. Nel 2003, due anni prima della crisi acuta del 2005 dopo il no di Francia e Olanda, John Gillingham, storico dell'integrazione europea, riassumeva come segue lo stato di cose e le prospettive dell'unificazione europea: il futuro dell'Europa e dell'integrazione europea è oggi in pericolo; I'UE ha ottenuto poco o niente negli ultimi dieci anni, la popolazione ne è distante e i leader si sono mostrati incapaci di evitare il disastro sulla questione dell'allargamento; la privatizzazione e il rafforzamento del mercato si sono quasi fermati; l'autorità normativa dell'UE, anzi, la sua stessa legittimità, viene contestata1. Ma queste voci pessimistiche erano ancora poche, sia tra gli esperti accademici sia tra gli eurocrati di Bruxelles. C'erano stati segnali di avvertimento molto prima. Nel 1992 i da-
' John Gillingham, European
Integration
1950-2003
(Cambridge, 2003).
nesi, sebbene con una maggioranza ridotta, avevano respinto la ratificazione del trattato di Maastricht, cosa che provocò grande stupore e indignazione nelle grandi capitali europee. (Anche gli irlandesi votarono no in un altro contesto nel 2000, cosa che sorprese molti osservatori). Il presidente francese François Mitterrand stupidamente decise di tenere un plebiscito, che era del tutto inutile perché un semplice voto del parlamento sarebbe stato sufficiente. Mitterrand alla fine la spuntò con il 51 per cento, non esattamente una grande vittoria. Non solo nella Gran Bretagna euroscettica, ma in tutta Europa ci fu un contraccolpo contro le élite che volevano imporre le loro strategie politiche su una popolazione che non era stata consultata. Che i progetti di Bruxelles fossero sensati e dettati dall'interesse comune o no, era del tutto irrilevante: l'insoddisfazione popolare aveva una grande varietà di cause, non ultima l'opposizione ai governi nazionali che erano criticati per il peggioramento della situazione economica. Un'altra ragione importante era la riluttanza a lasciare la sovranità nazionale in mano a istituzioni centrali, lontane e anonime sulle quali la gente non aveva alcun controllo. Alcuni paesi europei avevano chiaramente tratto beneficio più di altri dalle iniziative di Bruxelles. In che misura l'opposizione a una più stretta unificazione aveva a che fare con questo fatto? In alcuni casi la risposta era ovvia: nel 2005 molti spagnoli votarono a favore della costituzione europea perché la Spagna aveva beneficiato molto dall'aiuto ricevuto, che aveva reso possibile lo sviluppo economico. I problemi economici, però, non spiegavano l'opposizione francese, poiché anche la Francia, e non solo i suoi contadini, era stata tra i principali beneficiari dell'Unione. Non solo: la Francia aveva avuto un'influenza sproporzionata in tutte le istituzioni europee. A livello internazionale essa aveva avuto un ruolo importantissimo, precisamente perché si riteneva che parlasse a nome di tutta l'Europa. L'Olanda, tutto considerato, non aveva sofferto per l'unificazione; il paese era stato uno dei membri fondatori ed era stato sempre considerato
come un modello di spirito comunitario. Eppure gli olandesi votarono contro la costituzione. L'aggravarsi dell'europessimismo che portò alla crisi del 2005 aveva a che fare in parte con il calo di popolarità dei vari governi, di destra come di sinistra. A Bruxelles si parlava molto del "modello europeo", che distingueva il continente dagli Stati Uniti e da altre parti del mondo; ciò riguardava specialmente il welfare state, e di fatto c'era un consenso su questa visione politica. Nemmeno una conservatrice come Margaret Thatcher, già primo ministro in Gran Bretagna, osava toccare i servizi sociali. Ma si trattava solo di un vago consenso, e per di più fu precisamente in quel periodo che divenne necessario fare delle riforme e ridurre i servizi del welfare. Sempre più spesso ci si chiedeva quanto ci si potesse permettere il welfare state in un periodo di crescita economica lenta o nulla, mentre la popolazione andava invecchiando. Nessuno era convinto che fosse necessaria una più stretta unificazione; non ci sembravano essere nemici esterni come durante la guerra fredda, né c'erano secondo l'opinione pubblica, negli ultimi anni del secolo scorso e all'inizio di questo, altre minacce. Il fatto che fossero emersi in Asia dei formidabili concorrenti non era stato ancora notato, mentre l'Islam sembrava un pericolo ancora molto distante. Il terrorismo veniva generalmente considerato come un problema degli Stati Uniti. Tutto considerato, il Mercato comune sembrava funzionare abbastanza bene, sicché non era affatto chiaro perché fosse necessario rinunciare ad altri diritti di sovranità, come dicevano gli eurocrati. I leader politici avevano lanciato a Maastricht la Common Foreign and Security Policy (Politica comunitaria estera e per la sicurezza) come uno dei tre pilastri della sicurezza comunitaria, insieme alla politica economica e sociale e alla giustizia/affari interni, ma come spesso accade questo accordo era poco più che una dichiarazione di intenti. Il documento di Saint-Malo suonava così: «L'Unione Europea deve essere in grado di avere pienamente un proprio ruolo sulla scena internazionale [...] A questo fine l'Unione deve avere la capacità di agire autonomamente, sostenuta da
forze militari credibili». Questa proposizione, suggerita da Gran Bretagna e Francia, fu confermata in un summit a Colonia sei mesi dopo, ma in realtà non se ne fece praticamente nulla. La Francia sembrava interessata a una politica comunitaria del genere solo nella misura in cui essa potesse averne la leadership, come era stato in passato, ma con l'allargamento dell'Unione questo era inevitabilmente sempre più difficile. L'Europa mostrò una vergognosa impotenza durante le crisi nei Balcani degli anni novanta (prima in Bosnia e poi nel Kosovo). Quei conflitti ebbero luogo, dopotutto, non in qualche parte remota del mondo ma alle porte dell'Europa, e invece, se non fosse stato per gli Stati Uniti, non si sarebbe fatto nulla. L'Europa, la "superpotenza pacifica", mandò osservatori militari - che poi furono arrestati dagli eserciti locali - e quegli osservatori non fecero altro che guardare mentre decine di migliaia di civili venivano massacrati. Dopo il fallimento nei Balcani, in un altro summit tenuto ad Amsterdam nel 1997 si decise di accelerare il processo di decisione in politica estera e di formare un centro per la programmazione e gli allarmi tempestivi, ma ancora una volta non si arrivò a nulla di concreto perché I'UE non disponeva di forze militari. Dopo altri incontri a Helsinki (1999) e Nizza (2000), fu deciso di formare entro tre anni un'unità militare europea forte di 60.000 uomini più una marina e un'aeronautica militare con 30.000 uomini dotati di 100 navi e 400 aerei. Tutte queste forze avrebbero dovuto essere pronte a entrare in azione in sessanta giorni. Il loro compito, però, era quello di mantenere la pace in zone di crisi e di compiere missioni umanitarie. Ci sono state diverse crisi da allora, per esempio il genocidio in corso nella regione del Darfur nel Sudan occidentale, ma questa forza europea non è intervenuta. E anche se fosse intervenuta nel Darfur, a cosa poteva servire un'unità che aveva bisogno di due mesi per essere pronta? Era diventata tutta una farsa. Come spiegare il fallimento del tentativo di concordare una politica estera e di difesa comunitaria? In parte ciò aveva a che fare con la pesantezza della struttura che era stata creata.
Furono stabilite diverse linee guida per le decisioni e procedure in un dialogo politico regolare, e furono nominati speciali rappresentanti per regioni in crisi, ma troppe istituzioni avevano la responsabilità di elaborare e implementare la politica estera e di difesa comunitaria: il Consiglio europeo, il Consiglio dei ministri, il presidente del Consiglio e così via. Furono anche istituite nuove cariche come quella dell'alto rappresentante per la politica estera e di difesa, una Commissione di rappresentanti permanenti, e una Commissione politica per la sicurezza, più almeno sette altre commissioni e sottocommissioni. Non era materialmente possibile per tutti questi centri di potere agire rapidamente ed efficacemente, anche se avessero avuto delle forze militari a disposizione. Anche supponendo che ci fosse una catena di comando capace di prendere decisioni con rapidità, e anche se ci fosse un esercito europeo, non ci sarebbe ancora l'unanimità fra paesi diversi su programmi e strategie. Fino alla fine della guerra fredda, e anche dopo, la NATO è stata uno scudo per l'Europa; ma la NATO è stata dominata dagli Stati Uniti, e dopo il crollo dell'Unione Sovietica molti pensarono che avesse perso la sua ragion d'essere perché gli interessi europei non erano affatto identici a quelli americani. Anche negli anni novanta e dopo, però, alcuni paesi europei erano a favore della cooperazione con gli Stati Uniti (gli "atlantisti" come la Gran Bretagna, l'Olanda e l'Europa dell'Est) mentre altri, come la Francia e i socialdemocratici tedeschi, volevano creare un contrappeso agli Stati Uniti. Altri ancora erano neutrali, o neutralisti, come l'Austria, la Svezia e la Finlandia. Alcuni paesi hanno collaborato con gli Stati Uniti nella Guerra del Golfo e in Iraq, mentre altri si sono opposti a quelle guerre. Ma anche quelli che intendevano organizzare una forza separata dalla NATO e dagli Stati Uniti non avevano in realtà la determinazione per fare lo sforzo politico, finanziario e militare che era necessario a quello scopo. In teoria non avrebbe dovuto essere troppo difficile. I paesi europei avevano eserciti per un totale che andava da 1,5 a 2 milioni di uomini, 22.000 carri armati e 6.500 aerei; se avessero deciso
di assegnare solo un quarto di queste forze avrebbero creato un'organizzazione militare considerevole. Ma a parte le difficoltà tecniche, semplicemente non c'era la volontà politica di farlo, e nemmeno l'idea che ciò fosse urgente. Al contrario, negli anni novanta e nel decennio successivo praticamente tutti gli Stati europei hanno ridotto le spese militari e così la propria forza. La Gran Bretagna e la Francia sono potenze nucleari, ma si può dare per scontato che metterebbero il proprio arsenale nucleare a disposizione di un esercito europeo? In breve, dopo tutte quelle decisioni e deliberazioni, l'Europa come potenza militare non esiste. Tra Washington e molti leader europei c'erano differenze profonde nell'approccio ai problemi correnti nella politica mondiale, e gli scambi divennero sempre più aspri. Quello fu il famoso dibattito chiamato "gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere". Nel saggio di Robert Kagan, spesso citato, Power and Weakness (Potenza e debolezza), pubblicato nella «Policy Review» del giugno 2002, la fiducia degli europei nelle Nazioni unite e nella diplomazia come i migliori strumenti per risolvere le crisi internazionali fu interpretata non come espressione di un "carattere di certe nazioni" - nel 1940 nessuno avrebbe detto che gli europei vengono da Venere - ma della statura ridotta dell'Europa sulla scena mondiale. Sempre secondo Kagan, l'Europa concepiva un mondo contemporaneo in cui leggi, regole e cooperazione internazionale avevano un ruolo sempre più decisivo, mentre la potenza militare e anche quella politica venivano gradualmente messe da parte: il diritto sarebbe diventato la norma vigente non solo nella politica interna ma anche in quella internazionale. La forza bruta, secondo alcuni euro-ottimisti americani, era una cosa del passato, e il mondo stava procedendo al di là della politica di potenza. Uomini di Stato e politologi europei criticavano l'America per la sua derisione delle Nazioni unite, l'autorità suprema e la più grande speranza per un mondo pacifico (mentre non si diceva nulla dei seggi di Pakistan, Cuba, Cina, Russia, e Arabia Saudita nel nuovo Consiglio per i diritti umani d e l l ' o N u ) . Per gli euro-entusiasti americani
l'esempio dell'Europa pacifica, con la sua democrazia e il suo modello sociale, era destinato ad avere un effetto domino sul resto del mondo. L'Europa alla fine sarebbe riuscita a creare un nuovo ordine internazionale basato sulla pace, la giustizia e la libertà, mentre la politica aggressiva dell'America era destinata a fallire. Nel ventesimo secolo, si diceva, la potenza militare era stata screditata; l'Europa aveva imparato la lezione ed era diventata una superpotenza morale. Ogni volta che ci fu una crisi, però, che fosse nei Balcani o nel Medio Oriente, divenne presto evidente che né Teheran e neppure Slobodan Milosevic facevano gran caso all'importanza dell'Europa come grande potenza civile, e che senza l'intervento militare americano l'Europa non sarebbe stata capace di ottenere alcunché. Nell'estate del 2006 ci vollero settimane di aspre discussioni prima di mettere insieme una missione militare per la difesa della pace in Libano, e quella forza era molto più piccola dei 15.000 uomini richiesti da Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni unite. Che la strategia americana di esportazione della democrazia abbia successo o no, quella è un'altra storia; ciò che importa in questa sede è la visione europea. La credenza che il futuro appartenesse alla potenza soft dell'Europa era sincera, o solo una razionalizzazione della debolezza? La risposta non è facile. Viste le realtà del mondo all'inizio del ventunesimo secolo, con le tendenze aggressive di carattere religioso e nazionalista non solo in paesi lontani ma proprio alle porte dell'Europa; vista la debolezza demografica del continente, la disoccupazione e la dipendenza dalle forniture di petrolio; visti i fallimenti delle iniziative europee nei Balcani e nel Medio Oriente, come anche gli eventi inquietanti nell'ex Unione Sovietica, è difficile credere che qualcuno abbia pensato seriamente che questo secolo sarà quello dell'Europa. Comunque, non si deve mai sottovalutare la forza dell'immaginazione: quel pensiero era indiscutibilmente eurocentrico, basato sulla crescente cooperazione europea nel dopoguerra e sul fatto che una guerra tra paesi europei è veramente diventata impensabile.
Quel pensiero era anche basato sulla previsione che la politica estera aggressiva dell'America fosse destinata a fallire, e che il risultato sarebbe stato un ritiro degli Stati Uniti dalla politica mondiale, una specie di neoisolazionismo. Ma tutto ciò non poteva giustificare la credenza in un mondo in cui sarebbe prevalsa la potenza senza forza; quella era una visione del mondo che tralasciava la proliferazione nucleare, la probabilità crescente dell'uso di armi di distruzione di massa, l'impotenza delle Nazioni unite da una parte e il rafforzamento di regimi ostili come l'Iran e la Corea del Nord dall'altra. In breve, era un pensiero basato sull'ipotesi che il resto del mondo fosse simile all'Europa occidentale e settentrionale, e che se non aveva proprio raggiunto quel livello di maturità lo avrebbe raggiunto presto, perché l'Europa e il potere del diritto erano invidiati in tutto il mondo. Era una visione così distante dalla realtà che le sue origini e motivazioni rimangono un mistero. Lo sviluppo dell'Europa unita ha attirato grande interesse da parte di politologi, avvocati specializzati in diritto internazionale e altri. I teorici hanno avuto il loro periodo migliore, specialmente quelli che si sono occupati dell'integrazione, e la scuola neofunzionalista ha avuto qualcosa da dire, insieme agli specialisti dei rapporti fra governi; la questione di un governo sovranazionale, compreso il problema di un governo a più livelli, è diventata oggetto di un vivace dibattito. Ma mentre i teorici sono stati assorbiti da queste affascinanti discussioni, c'era e c'è il pericolo che le preoccupazioni e gli umori della gente comune fossero ignorati, ed è proprio ciò che è accaduto. Questa, dunque, molto brevemente, era la situazione quando il voto contrario alla costituzione fece precipitare l'Europa in una grave crisi. Il problema dell'allargamento (la questione se includere la Turchia o no) generò un'altra crisi. Naturalmente si poteva spiegare il voto contrario come un "contraccolpo popolare", e questa spiegazione non era del tutto sbagliata. L'opposizione a un'unione più solida comprendeva l'estrema sinistra e l'estrema destra (in Francia circa il 75 per cento veniva dalla sinistra) più varie frange no
global e antidemocratiche. Essa trovava origine nell'egoismo nazionalista oppure nei settori più reazionari e retrogradi della popolazione, che non avevano dimenticato niente e imparato ancora meno dalla recente storia europea. Questa però era solo una parte della questione. Bruxelles aveva dato per scontato l'appoggio della popolazione: se gli euro-entusiasti credevano veramente che l'Europa fosse una superpotenza morale, l'invidia del resto del mondo, perché mai avrebbero dovuto impegnarsi a rafforzarne la difesa?
Il problema del welfare
state
Spesso le grandi crisi sono una sorpresa, a meno che non capitino in seguito o come risultato di una guerra importante. Negli anni novanta non c'erano forse ragioni immediate per sospettare qualcosa di negativo a proposito del futuro dell'Europa. E vero che c'erano problemi basilari irrisolti che avrebbero dovuto suggerire cautela, ma negli ambienti più influenti circolava un grande ottimismo, non solo tra gli eurocrati di Bruxelles ma anche nei governi nazionali a partire da Berlino e Parigi. E poi c'erano gli intellettuali americani e gli esperti degli istituti di ricerca che si erano persuasi che il ventunesimo secolo sarebbe stato quello dell'Europa. Che dire se c'era della disoccupazione e se gli indicatori economici non erano stati tanto brillanti per un certo periodo? Forse dopo decenni di crescita rapida il continente aveva bisogno di una pausa per consolidare i risultati raggiunti, dopodiché avrebbe potuto continuare nel suo entusiasmante progresso. E anche se in futuro il progresso fosse stato più lento, questo non era un motivo sufficiente per disperare: un miracolo economico con una forte crescita anno dopo anno non sembrava necessario e nemmeno desiderabile. Non sembrava esserci alcuna fretta di accelerare il passo; dopotutto, in quasi tutti i giochi c'è un intervallo per dare ai giocatori il tempo di
riprendersi e di riguadagnare nuove forze. Ciò che era vero per il calcio o per l'hockey era tanto più vero per un'impresa seria come quella di costruire una nuova Europa. Negli ultimi duecento anni l'Europa è stata dichiarata molte volte morta o morente, ma ha sempre sorpreso i profeti di sventura con il suo vigore. La Francia fu data per finita dopo la sconfitta a opera dei tedeschi nel 1870-71, e sul triste destino della grande nation furono scritte molte opere che finivano con la frase lapidaria : «Finis Galliae». Eppure nel giro di trent'anni essa si riprese, e il dilagante pessimismo fu sostituito da un nuovo ottimismo. Il declino dell'Occidente di Oswald Spengler fu un bestseller nel 1919 e negli anni seguenti, ma Spengler si riferiva al destino ciclico delle grandi civiltà in lunghi periodi storici. Jean-Paul Sartre e i suoi amici scrissero delle convulsioni di un'Europa morente dopo la seconda guerra mondiale, eppure gli eventi del dopoguerra smentirono quelle previsioni. Invece di crollare definitivamente, l'Europa aveva ricominciato a vivere di nuovo, e aveva prodotto non solo un maggiore benessere dei suoi cittadini ma anche la società più giusta e civile di tutti i tempi. Se è vero che ci furono segnali di avvertimento negli anni novanta, è anche vero che c'erano motivi per una grande speranza: con il crollo dell'Unione Sovietica l'Europa, che era stata divisa fin dal 1945, poté riunificarsi, ma una crescita comunitaria aveva bisogno di tempo, non la si poteva né doveva gestire in fretta. Solo gradualmente si cominciò a capire che quello che era sembrato a prima vista un intervallo temporaneo in realtà continuava anno dopo anno, e che né i governi nazionali né Bruxelles (il quartier generale dell'Unione) sembravano avere soluzioni per i problemi del continente. Fu anche in quel periodo che si fece strada in Europa il desiderio di seguire una linea politica indipendente, distinta dall'America, in un mondo che era cambiato. Ma con il passare degli anni divenne anche chiaro che l'idea di una superpotenza civile era stata una chimera, che la potenza politica e militare contava ancora in un mondo inquieto, e che i paesi europei non erano
disposti a fare gli sforzi necessari per diventare una potenza che il mondo dovesse rispettare. Non erano ancora venuti a patti con l'idea che per diventare una forza efficace nella politica internazionale dovevano rinunciare alla propria sovranità e allo stesso tempo aumentare la propria capacità di difesa. La "potenza civile" poteva anche andare come alternativa a quella militare, ma l'Europa non aveva molto né dell'una né dell'altra. Quando avrebbe dovuto essere dato l'allarme? Fino alla prima crisi del petrolio (1973) la performance dell'economia europea era stata eccellente, con regolari tassi di crescita dal 5 all'8 per cento in Germania, 4-5 in Francia e 5 per cento in Italia; solo l'Inghilterra rimaneva indietro. Alla metà degli anni settanta ci fu una considerevole recessione: l'inflazione aumentò fino e oltre il 10 per cento, mentre la disoccupazione crebbe e rimase relativamente alta. Gli anni ottanta furono quelli della stagflation (stagnazione accompagnata da inflazione) ma il quadro generale non era omogeneo e alcuni paesi ebbero risultati migliori di altri. Negli anni novanta ci fu una lenta ripresa, seguita da un'altra recessione nel 1992-94. Tra le performance migliori ci furono quelle di Inghilterra, Spagna e Irlanda, paesi che si erano sviluppati più lentamente nei decenni precedenti. Diversi fattori furono additati come cause di una crescita molto più lenta, per esempio I'"eurosclerosi", la rigidità del mercato del lavoro, ma era anche chiaro che la crescita impetuosa del dopoguerra era destinata a rallentare. Non era possibile continuare a creare nuovi posti di lavoro e le esportazioni non potevano aumentare senza fine, perché la crescita aveva dei limiti. Infatti, la disoccupazione cresceva continuamente: superò il 10 per cento in tutti i grandi paesi europei eccetto la Gran Bretagna, e in Spagna superò il 20 per cento. Qualsiasi politica si scegliesse, la disoccupazione rimaneva estremamente difficile da ridurre. Negli anni dopo il 1995 la crescita economica fu lenta (un po' più del 2 per cento all'anno) ma relativamente stabile; la disoccupazione, però, continuava a crescere. Si parlava molto
della necessità urgente di riforme, specialmente in Germania e in Francia, due dei paesi che ne avevano più bisogno, ma poco fu fatto perché c'era una resistenza politica troppo forte. E molto interessante vedere quanto differente fosse la diagnosi dello stato di cose da parte di economisti di orientamento diverso. Nel 2003 Philippe Legrain osservava in un articolo su «The New Republic» che il livello di vita in Europa era cresciuto negli ultimi tre anni quasi del 6 per cento, contro l'I per cento negli Stati Uniti; l'aumento della produttività in diversi paesi europei, in particolare la Germania, era più alto di quello degli Stati Uniti, e perfino la disoccupazione era più bassa in certi paesi che in America1. L'Europa poteva soffrire di una recessione ciclica, ma questo non implicava un declino nel lungo periodo. Le leggi europee sull'occupazione erano restrittive, ma non per questo potevano essere un grande ostacolo alla crescita economica, e malgrado la loro esistenza alcuni paesi avevano avuto una performance migliore di quella degli Stati Uniti; a ogni modo, stavano per essere riformate. In breve, secondo Lagrain, la verità era che le debolezze dell'Europa non erano così gravi come poteva sembrare, mentre i vantaggi del sistema europeo venivano sottovalutati. L'euro aumentava di valore, e la spinta a una crescita di lungo periodo grazie alla creazione di un vero mercato comune con una sola moneta sarebbe stata enorme. Questa era una maniera di vedere le cose, e le risoluzioni di Lisbona dei leader europei nel marzo del 2000 (citate nell'introduzione) erano sullo stesso tono. Molti, però, avevano una visione molto più pessimista sia della situazione corrente sia del futuro dell'Europa. Un rapporto della Cia del 2005 predisse il crollo dell'Unione Europea entro dieci o quindici anni, a meno che non si facessero riforme radicali. In Francia apparvero libri intitolati per esempio II crollo della Francia (La France qui tombe) e, in Germania, Si può ancora salvare la Germania? 1
Philippe Legrain, Europe's Migbty Economy (La potente economia l'Europa), in «The New Republic», 16 giugno 2003.
del-
C'è da domandarsi se questi economisti e commentatori politici parlassero dello stesso continente. Il pessimismo sull'Europa fu riassunto da Robert Samuelson in un articolo intitolato The End of Europe («Washington Post», 15 giugno 2005) e da Fareed Zakaria in The Decline and Fall of Europe («Newsweek», 14 febbraio 2006). Samuelson sottolineava la differenza tra il tasso di nascita europeo e quello americano, notando che nel 2050 un terzo della popolazione europea avrà almeno sessantacinque anni; a parte l'alta disoccupazione e la crescita lenta, diceva, come potrà funzionare il sistema economico con tanti anziani che dipenderanno dalle pensioni, le quali a loro volta richiederanno tasse più alte? La generosità degli europei era ammirevole, ma richiedeva un robusto sistema economico; un problema simile esisteva negli Stati Uniti, ma il tasso di nascita in quel paese era notevolmente più alto. Il punto centrale era che gli europei avevano una grande illusione: pensavano che in qualche modo, anche con tutti i loro problemi, la vita sarebbe andata avanti come prima. Quasi ogni cambiamento e ogni riforma apparivano come una minaccia; la Costituzione era stata respinta anche se non comportava cambiamenti radicali, eppure era diventata il parafulmine che attirava tutto lo malcontento degli europei. Fareed Zakaria, nel suo commento su un dettagliato rapporto dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), pubblicato all'inizio del 2006, citava la valutazione del principale economista dell'ocsE secondo la quale, se le tendenze in atto fossero continuate, il cittadino americano medio sarebbe diventato due volte più ricco del cittadino medio francese o tedesco. L'argomentazione che gli europei tenevano al tempo libero più degli americani, e che di conseguenza erano più poveri ma avevano una migliore qualità della vita, non convinceva Zakaria, perché se gli europei avessero avuto la metà del reddito americano ciò si sarebbe tradotto in meno assistenza sanitaria e istruzione, una disponibilità più limitata di ogni genere di beni e una qualità inferiore della vita. Le riforme necessarie sono state rimandate più volte, bloccate da scioperi e proteste, e anche gli sforzi
per liberalizzare il mercato hanno incontrato una dura opposizione. L'università e la ricerca scientifica, un tempo le migliori del mondo, sono in continuo declino; nelle scienze biomediche l'Europa è scomparsa dalla scena e sta per essere superata dai paesi asiatici: tutto questo comporta un ulteriore ridimensionamento del continente nel mondo. Allo stesso tempo, una spesa militare inferiore indebolisce la sua capacità di essere una partner militare degli Stati Uniti, e perfino quella di usare questa potenza militare in operazioni di pace. L'indebolimento dell'Europa significa che essa non è in grado di essere un serio rivale dell'America, e che gli Stati Uniti manterranno il proprio status di superpotenza. Ma per tornare a Samuelson: ciò è un male anche per gli Stati Uniti, perché indebolisce l'economia mondiale. L'Europa non può più essere un forte alleato degli Stati Uniti, perché un alleato dovrebbe prendersi degli impegni: «Non essendo disposti ad affrontare i loro veri problemi, gli europei stanno abbracciando una posizione critica verso America». Ciò dà loro l'impressione di avere una parte attiva nel mondo, anche se in realtà si adattano in silenzio al proprio declino. E interessante leggere in retrospettiva le impressioni di alcuni osservatori americani, come per esempio T.R. Reid, responsabile della redazione londinese del «Washington Post» e autore di The United States of Europe: The New Superpower and the End of America 's Supremacy (2004). Reid racconta di aver dovuto portare sua figlia al pronto soccorso di un ospedale di Londra appena arrivato. Dopo un'attesa di soli quindici minuti, un'infermiera gentile e un medico che sa il fatto suo visitano la bambina e affrontano i sintomi con competenza. Quando Reid tira fuori il suo libretto di assegni l'infermiera sorride per il suo errore e gli dice semplicemente che in Inghilterra si lavora in un modo diverso e che non deve pagare per l'assistenza medica ricevuta. In realtà Reid e sua figlia furono fortunati: il periodo di attesa in un pronto soccorso nel Regno Unito è normalmente di qualche ora, ed è poco probabile incontrare un medico competente. Ma avrebbe potuto citare altri notevoli risultati
del welfare state britannico, come il fatto che l'istruzione a livello universitario e anche gli studi di medicina sono gratuiti, o che a Londra i pensionati possono usare i mezzi pubblici senza pagare il biglietto. Avrebbe dovuto anche dire, però, che a Washington le tasse sono più basse che a Londra, anche se la seconda è molto più cara; che le pensioni negli Stati Uniti sono più alte, e che i medici americani, una volta laureati, guadagnano il doppio o anche più di quelli inglesi. Nella prefazione al suo libro Reid scrive che gli americani, compresa la Washington ufficiale e la maggior parte della classe politica, dormiva mentre un nuovo tipo di entità politica superiore emergeva in Europa. Gli americani semplicemente non si sarebbero resi conto della rapida crescita della potenza e dell'autorità del governo di Bruxelles: negavano l'evidenza. Non molto dopo la pubblicazione del libro di Reid, uscì un altro libro che metteva in guardia contro i pericoli di sonni tranquilli mentre importanti processi storici si stanno svolgendo: While Europe Siepi (2006) di Bruce Bawer, con il sottotitolo (che la dice lunga) «Come l'Islam radicale sta distruggendo l'Occidente dall'interno». Un altro libro ancora, L'ora degli asiatici (Die Stunde der Asiaten) di Jochen Buchsteiner, lamenta il fatto che un'Europa sonnolenta, diversamente dall'America, in una maniera o nell'altra non si è mai accorta di un grande cambiamento nella politica mondiale, l'emergere di Cina, India e altri paesi asiatici come importanti potenze economiche e politiche. Il risultato è che l'Europa è ormai emarginata e ora è solo una spettatrice. Gli amici dell'Europa in America e nell'Europa stessa non hanno avuto tutti i torti nell' additare molti risultati sociali e culturali e i tratti positivi del suo stile di vita. Non hanno avuto torto nemmeno quando hanno sottolineato che per certi aspetti gli Stati Uniti hanno un ritardo scandaloso, o che ci sono differenze di reddito che si possono considerare oscene. Ci sono altre notevoli differenze. In La potenza di domani (Die Macht von Morgen, 2006), Martin Hufner ha giustamente esaltato le bellezze del panorama europeo, anche se sono meno scontati alcuni dei «dodici valori e caratteristi-
che» che egli elenca per dimostrare come l'Europa sarebbe predestinata a essere la potenza del futuro. E proprio vero che gli europei, a differenza degli americani, sono inclini a pensare al futuro e a fare progetti? Gli europei sono veramente più tolleranti nei confronti di altre opinioni o religioni? Sono più internazionalisti? Dominique de Villepin, il primo ministro francese che coniò l'espressione "patrottismo economico" quando si oppose alla fusione di alcune grandi imprese francesi con altre imprese europee, probabilmente avrebbe risposto di no. Per quanto riguarda l'esperienza nell'assorbimento degli immigranti, non c'è molto che l'America abbia da imparare dall'Europa. E certamente vero che all'Europa non importa molto avere una missione, ma c'è un altro lato della medaglia: le inchieste di opinione hanno mostrato che per la maggior parte i paesi europei non sono orgogliosi delle proprie tradizioni, dei propri valori e stili di vita. Di fatto, se i risultati delle inchieste sono corretti, gli europei hanno un'autostima piuttosto bassa. Gli euro-ottimisti hanno fatto un grave errore non solo nella sopravvalutazione della potenza economica europea, ma anche nel concentrare instancabilmente l'attenzione sul confronto con gli Stati Uniti. Anche se la loro critica dell'America fosse giustificata, non ne seguirebbe direttamente che i risultati ottenuti dall'Europa sono solidi e duraturi. Si è creata soprattutto l'impressione che gli Stati Uniti sarebbero il principale rivale, mentre in realtà la concorrenza è venuta e viene dalle nuove nazioni industrializzate. Il welfare state ha avuto un'importanza centrale in tutti questi dibattiti. Alla sua origine c'è l'idea, rintracciabile in tempi molto lontani nella storia, che in una società civile ci debba essere una rete di sicurezza per i deboli. In Germania le sue radici si trovano specialmente nella legislazione sulle pensioni e l'assistenza sanitaria promulgata dal cancelliere Otto von Bismarck. In Inghilterra, almeno nella sua forma moderna, essa si trova nel programma predisposto da Sir William Beveridge durante la seconda guerra mondiale, che
garantiva un sistema nazionale di assicurazione sociale e assistenza sanitaria; l'obiettivo era quello di eliminare situazioni di bisogno e di povertà. Secondo gli economisti contemporanei, il moderno welfare state redistribuisce il reddito dai giovani lavoratori ai vecchi pensionati e dai ricchi ai poveri (si vedano Assaf Razin ed Efraim Sadka). Secondo una classica definizione di Asa Briggs (ora Lord Briggs), il welfare state britannico garantisce uno standard di vita minimo, che comprende un reddito minimo e protezione sociale in caso di disoccupazione, con servizi al più alto livello possibile. Questa è la teoria. In pratica i servizi sono di basso livello e devono essere razionati secondo i finanziamenti disponibili. Il tipo di welfare state varia da paese a paese. In Francia gran parte del bilancio è costituito dalle pensioni, che sono relativamente alte come in Germania (almeno fino a poco tempo fa). In Svezia e negli altri paesi scandinavi c'è il welfare state più ambizioso, che offre un minimo sociale a tutti i cittadini. La spesa sociale è alta ed è aumentata nel corso degli anni in tutta Europa, come in tutti i paesi sviluppati. Nel 2001 andava dal 27 al 29 per cento del prodotto nazionale lordo in Danimarca, Svezia, Francia, Germania e Belgio, ed era sopra il 20 per cento in tutti i grandi paesi europei, compresi quelli del sud - Italia, Spagna, Grecia e Portogallo - e alcuni paesi dell'Est - Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. I paesi non europei avevano un tasso di spesa molto inferiore: 18 per cento in Australia, Nuova Zelanda e Canada; 17 per cento in Giappone; 15 per cento negli Stati Uniti e 14 per cento in Irlanda. Queste cifre, però, sono in qualche modo fuorvianti, perché negli Stati Uniti e in Canada, per esempio, veniva offerta dalle assicurazioni private una più alta percentuale dell'assistenza sanitaria che altrove. I risultati del welfare state europeo sono stati notevoli. Gli americani se la sognano una settimana di trentacinque ore, o cinque settimane di ferie - in Danimarca ci sono stati scioperi per ottenerne sei. Alcuni critici hanno detto che la rete di sicurezza è diventata un'amaca; ci sono state critiche sempre più severe (non solo dalla destra ideologica) agli abusi sem-
pre più gravi dei parassiti, cioè al fatto che per certi aspetti i servizi assicurati dal welfare stanno dando adito al parassitismo sociale. Questi abusi, però, non sono il vero problema; si potrebbe eliminarli con un certo grado di controllo. Il problema reale è che tutti questi sistemi di assistenza sociale erano sostenibili solo fintanto che ci fosse una sostanziale crescita economica. Da molti anni ormai il futuro del welfare state europeo è stato oggetto di discussione, fino a quando è diventato il problema politico più importante, a parte la politica estera: le trou dans le secu - il buco dei servizi sociali. Ciò non tanto perché ci sia stata una fortissima opposizione ideologica, perché nessun politico, per quanto conservatore, si potrebbe permettere di candidarsi con un programma anti-welfare-, la ragione, piuttosto, è stata che il welfare state è diventato sempre più costoso, per quali motivi lo si sa bene. La gente vive più a lungo e la spesa per le pensioni è aumentata; l'assistenza sanitaria costa sempre di più; con l'aumento della disoccupazione si è dovuto sostenere di più coloro che erano senza lavoro; il numero degli studenti è aumentato di cinque o dieci volte in tutta Europa fin dalla seconda guerra mondiale, sicché sono aumentati i finanziamenti per scuole e università. In breve, tutto è diventato più costoso e c'è ovviamente un limite all'imposizione fiscale. Il tasso di imposizione ha raggiunto il 45 per cento del reddito in Francia e in Italia, ed è ancora più alto in altri paesi. Negli ultimi due decenni sono state discusse diverse strategie per risolvere questo problema, tra le quali l'aumento graduale dell'età pensionabile, ma vista la gravità della situazione - la percentuale di anziani nella popolazione sarà doppia nel 2050, e quella degli occupati diminuirà fortemente ci dovrà essere una riduzione delle pensioni. L'assistenza sanitaria è già limitata e anche gli stanziamenti per l'istruzione sono stati ridotti. Tutto ciò ha incontrato una dura opposizione da parte delle sinistre e dei sindacati, ma questi non hanno saputo offrire strategie alternative per raccogliere i finanziamenti che essi ritengono necessari, e nello stesso tem-
po tenere a galla il sistema economico (compresi tassi stabili di risparmio e di investimento). Come si può spiegare il rallentamento dell'economia europea negli ultimi vent'anni? Varie teorie sono state proposte. Una delle più recenti e feconde è quella di Marcus Olson sullo sviluppo e il declino delle nazioni {The Rise and Decline of Nations: Economie Growth, Stagflation, and Social Rigidities, 1982). Secondo Olson piccole coalizioni che difendono interessi specifici hanno più facilità di gruppi che agiscono per l'interesse comune a far approvare provvedimenti che le favoriscono. Questi provvedimenti sono tendenzialmente protezionisti e ostacolano l'innovazione tecnologica, perciò hanno un effetto negativo sulla crescita. Si può pensare per esempio agli agricoltori e ai produttori di acciaio dell'Europa occidentale. C'è da dubitare, però, che una teoria come questa possa offrire più di una spiegazione parziale. La crisi europea sarebbe certamente meno acuta o in ogni caso sarebbe sentita meno acutamente se non fosse per l'emergere delle nuove potenze economiche in Asia - prima il Giappone, poi le "tigri" del Sudest asiatico (Corea del Sud, Taiwan e Malesia), poi la Cina e l'India. Negli anni novanta le "tigri" mostrarono segni di debolezza, ma poi si sono riprese. La performance economica di Cina e India è stata impressionante. Con tassi di crescita del 10 per cento annuo e anche superiori la Cina è diventata la terza potenza commerciale del mondo, mentre l'India ha avuto una crescita intorno al 7,3 per cento. L'Europa ha beneficiato in vari modi dallo sviluppo di queste nuove potenze - con esportazioni, investimenti e joint ventures - ma era anche chiaro che le esportazioni non sarebbero potute andare avanti allo stesso livello all'infinito, e l'Europa ha trovato spesso difficile competere con importazioni sempre in crescita e sempre più sofisticate da paesi in cui i costi di produzione sono molto più bassi. Come può sopravvivere il modello sociale europeo in un ordine economico mondiale in cui l'Europa deve competere con paesi che sono in grado di produrre beni a un costo mol-
to inferiore? Ciò significa che "condizioni asiatiche" alla fine prevarranno in Europa? Sono questi problemi, e non la questione del superamento degli Stati Uniti, che sono diventati centrali e preoccupanti a Bruxelles e nelle capitali europee. Con la crescita delle economie asiatiche anche il loro standard di vita aumenta, ma ci vorrà un lungo periodo prima che esso raggiunga il livello europeo: il reddito pro capite è oggi 700 dollari all'anno in India e 1.700 in Cina, a fronte di un reddito dai 30.000 ai 40.000 dollari nei grandi paesi europei. Ma è certo che le tendenze e gli indici economici sono la chiave per comprendere lo sviluppo e il declino delle nazioni? La storia non dà una risposta chiara. Essi sono naturalmente importanti, perché un sistema economico debole e arretrato non può sostenere un paese o mantenere politicamente vivo un continente, ma i fattori economici non possono spiegare da soli l'ascesa e il declino di potenze grandi e piccole, anzi, non possono nemmeno rendere conto di importanti tendenze dell'economia stessa. Se l'umore di una nazione è ottimista o pessimista, se ha grandi speranze per il futuro o tende allo sconforto, sono cose che sembrano dipendere da molti fattori. Nella sua Storia del declino e della caduta dell'impero romano (1776-1788) Gibbon individuò forse il fattore principale nella perdita di vigore di una società immersa nel lusso e nella pigrizia: perché fare grandi sforzi se la vita è diventata così facile? Il declino può essere inoltre una questione di ricambio generazionale. Come si può spiegare la diminuzione del tasso di nascita quando ci si può permettere di avere figli più che in ogni altro tempo, e quando molte donne vorrebbero averne due o tre? Che sia perché i giovani hanno paura del futuro, come molti hanno sostenuto, o perché, come anche è stato scritto, vogliono godersi la vita senza il peso dei figli, oppure perché l'istituzione della famiglia si è indebolita e il tasso di divorzio ha raggiunto il 40 per cento? Si stima che in Germania crescere un figlio fino al ventesimo anno costi circa mezzo milione di euro. Ma una gran parte di questo denaro viene dallo Stato o da istituzioni locali, e se i nostri bisnonni avessero fat-
to queste considerazioni economiche la maggior parte di noi non sarebbe venuta al mondo. Molte domande, nessuna risposta decisiva.
GERMANIA
La Germania è ancora l'economia più forte in Europa ed è stata per molti anni il motore principale che faceva marciare la Comunità europea. Ma già prima della crisi dell'ultimo decennio prevaleva nel paese un evidente scetticismo, se non un pessimismo vero e proprio. Fin dalla seconda guerra mondiale c'è stata in Germania una tendenza a reagire con più nervosismo che in altri paesi a ogni insuccesso politico o economico, anche di piccole proporzioni, e ciò si accompagnava a una tendenza altrettanto forte a ignorare minacce sul lungo periodo. Negli anni ottanta questo aveva a che fare con la paura di un'altra guerra mondiale; un pazzo presidente americano, Reagan a quel tempo, spinse il mondo fin sull'orlo della guerra, per cui ci furono manifestazioni di massa per le strade tali da creare l'impressione che il giorno del giudizio fosse vicino. Il mondo in realtà stava solo andando verso la fine della guerra fredda. Molti politici, però, non impararono nulla dalle proprie valutazioni sbagliate, e il loro pessimismo trovò altri bersagli, come gli Stati Uniti, il mercato o la globalizzazione. Tutto ciò era collegato senza dubbio con la storia della Germania nel xx secolo: la sconfitta in due guerre mondiali, il trauma dell'inflazione, la Grande depressione degli anni trenta e l'esperienza del nazismo. Ma altre nazioni europee avevano subito i loro traumi, senza perciò reagire esageratamente. E vero che l'economia tedesca ha avuto serie difficoltà, che sono ben note. Per un decennio o anche più prima del 1998 il reddito prò capite era diminuito e la disoccupazione era rimasta alta; quando il cancelliere Gerhard Schroeder prese il potere, promise di ridurre la disoccupazione 3,5 mi-
lioni, ma quando si dimise sei anni dopo la cifra era quasi 5 milioni. Come disse uno dei principali consiglieri economici di Schroeder, la Germania era diventata una società a movimento lento. Il tasso di crescita era diminuito dal 1995 all'1-2 per cento annuo, cioè inferiore a quasi tutti gli altri paesi europei, e per qualche anno si ebbe una crescita negativa. La Germania era ancora un gigante nelle esportazioni, ma il futuro era incerto perché la domanda interna rimaneva bassa. Il costo della riunificazione è stato molto più alto di quanto si era ipotizzato: il trasferimento di capitali da Ovest a Est ammontava al 4 per cento del Pil per tutti gli anni novanta e anche dopo. Malgrado ciò, i residenti della Germania Est ('Ostdeutsche) si sentivano vittime di discriminazione, mentre quelli dell'Ovest si sentivano sfruttati dagli inefficienti compatrioti dell'Est (che chiamavano sprezzantemente Ossis). Inoltre il prezzo del petrolio, già alto e ancora in aumento, era un altro fattore che frenava la crescita economica. Anche le previsioni degli esperti hanno avuto vistose oscillazioni. Alla metà del 2005 «The Economist», la bibbia settimanale della classe dirigente politica ed economica, pubblicò un editoriale annunciando che tutto era cambiato o stava per cambiare, prevedendo per la Germania un futuro positivo se non brillante; sei mesi più tardi, in un articolo ancora più lungo, il settimanale affermò che solo un miracolo poteva salvare il paese. Dove si potevano trovare le cause del malessere? Era forse il fatto che i tedeschi, noti per essere lavoratori instancabili e tenaci, non lavoravano più così sodo, e che a causa di un orario di lavoro meno pesante e di salari alti i costi di produzione erano aumentati tanto da rendere i prodotti poco competitivi? Certo è che per questa ragione alcune grandi imprese hanno spostato parte delle fabbriche all'estero, dove i costi di produzione sono molto più bassi. Che i tedeschi lavorino meno ore degli abitanti di quasi ogni altra nazione è fuori discussione, ma altri paesi europei (per la verità più piccoli) pur avendo gli stessi livelli di vita sono riusciti a creare nuovi posti di lavoro. O si doveva piuttosto attribuire il malessere
al fatto che molti giovani, i più intraprendenti, preparati e aperti all'innovazione, avevano scoperto che le loro possibilità di avere successo erano notevolmente migliori all'estero, soprattutto in America, e che la Germania li aveva perduti? Il governo del cancelliere Schroeder fece preparare un piano generale chiamato Agenda 2010, che prevedeva il recupero della competitività tedesca abbassando i costi di produzione tramite il taglio dei salari. Fu nominata una commissione presieduta da Peter Hartz, riformatore della politica del lavoro, con il compito di tagliare alcuni servizi sociali come pensioni e indennità di disoccupazione, e di limitare l'assistenza sanitaria che era gratuita. Queste erano misure dolorose e portavano all'impoverimento di alcuni strati della popolazione. I sindacati e la sinistra socialdemocratica si opposero decisamente ai tagli, e alcuni misero in discussione perfino la legalità dei provvedimenti, che secondo loro violavano la Legge di base (la Costituzione) che promette a tutti i cittadini una vita dignitosa. Ma come poteva lo Stato assicurare una vita dignitosa se non aveva i fondi per farlo? Da una parte, l'opposizione di sinistra diceva che il governo avrebbe potuto sostenere l'economia rafforzando la domanda interna, il che poteva essere anche vero, ma avrebbe reso le esportazioni ancora meno competitive e avrebbe obbligato il governo ad accettare un deficit ancora più alto. Dall'altra, per l'opposizione neoliberale la riforma di Schroeder era molto al di sotto del necessario. In ogni caso, come stava accadendo anche per altri governi europei, la riforma portava il deficit di bilancio al di là dei limiti fissati da Bruxelles (3 per cento) e questo era un grave scacco per il futuro dell'economia comunitaria. Alla fine del 2005 il governo Schroeder cadde perché non riuscì a trovare un sostegno sufficiente per la sua linea di riforma. Fu succeduto da una grande coalizione guidata da Angela Merkel, leader dell'Unione cristiano democratica, che divenne così non solo la prima donna cancelliere, ma anche il primo cancelliere dalla Germania Est. Quasi tutti in Germania sono d'accordo nel dire che il vec-
chio modello non funziona più e che la modernizzazione e la riforma sono il comandamento di questo tempo, ma c'è ancora una fortissima resistenza perché la maggioranza dei cittadini sa che "modernizzazione e riforma" significherebbero pesanti tagli nel welfare e un abbassamento del livello di vita di tutti o quasi. Accettano la tesi che questo è inevitabile, ma non vogliono subirne le conseguenze. La situazione è tale per cui nessun partito politico e nessuna coalizione è disposta a impegnarsi in una manovra che porterebbe quasi certamente a una sconfitta elettorale. Ci si può aspettare un sostegno per una politica di tagli drastici solo in risposta a una grande crisi alle porte, non in una situazione di lento declino. Ma perché allora altri paesi, come l'Olanda negli anni ottanta e la Svezia negli anni novanta, sono stati capaci di implementare riforme dolorose che hanno condotto a un certo miglioramento del quadro economico, una massiccia riduzione della disoccupazione e una diminuzione del debito pubblico? Probabilmente è più facile farlo in paesi più piccoli che in società più grandi e anonime, e i successi dell'Olanda e della Svezia possono forse avere a che fare con tradizioni storiche. A ogni modo, non abbiamo ancora una risposta convincente.
FRANCIA
L'economia della Francia è la quinta al mondo, e i suoi problemi assomigliano a quelli della Germania. Dopo anni di successi spettacolari, per un lungo periodo governi di destra e di sinistra non sono riusciti a incoraggiare la crescita e l'occupazione. Come ha notato Nicolas Baverez, la Francia è l'unico paese sviluppato che non ha ancora superato la crisi degli anni settanta (avrebbe però potuto aggiungere la Germania). Il paese sta correndo sempre di più il rischio di diventare un museo e un centro di distribuzione, privo di connessioni con la produzione e la ricerca. Questa situazione ha prodotto nella popolazione un atteggiamento non tanto di
disperazione cosmica quanto di sfiducia in tutto, specialmente nelle promesse dei governi; secondo un rapporto segreto dei prefetti al governo centrale questa è la ragione di una relativa calma. Secondo alcune inchieste di opinione, solo il 9 per cento dei francesi crede che il paese stia facendo dei progressi; per il resto, essi sono convinti che il paese stia al massimo segnando il tempo, oppure che sia in declino. Quando nel 1981 François Mitterrand fu eletto presidente, promise che avrebbe ridotto drasticamente la disoccupazione (così come avrebbe fatto Schroeder nel 1998); quando finì il suo mandato la disoccupazione era il doppio di quando era cominciato. Alcuni economisti pensano che alla fine il problema sarà risolto dalla diminuzione del tasso di nascita, ma anche se questa previsione fosse corretta, non è probabile che si verifichi presto. Nella sua storia la Francia non ha mai avuto uno sviluppo costante, ma cicli di rapido progresso alternati a lunghi periodi di stagnazione e di declino. Ma c'è da dubitare che se si accetta questa tesi ci sia ragione per essere molto ottimisti per il futuro, perché la stagnazione dura ormai da troppo tempo e le sue cause sono troppo profonde per permettere cambiamenti sostanziali. Negli anni sessanta si seguiva un modello che funzionava bene: era il dirigisme, un sistema economico tipicamente francese, semipianificato e combinato con l'economia di mercato; ma quarantanni dopo non funziona più. All'inizio esso dette all'economia una spinta indispensabile, ma recentemente ha mostrato di non essere sufficientemente flessibile e innovativo. E vero che c'è stata in parte una rinuncia al dirigisme, ma lo Stato possiede ancora un settore delle imprese che è il più grande di tutta Europa, e spende il 53 per cento del Pil. Ci sono state poche privatizzazioni in Francia, un paese che considera il mercato sospetto e non ama la concorrenza. E nato un welfare state che nella sua forma originale non ci si può più permettere, ma l'opposizione alle riforme è ancora più forte che in Germania e si manifesta in scioperi di massa e iniziative simili.
Una delle peculiarità dell'economia francese è che un più alto numero di occupati (dal 25 al 35 per cento) lavorano nel settore pubblico; questi lavoratori hanno un trattamento notevolmente migliore degli altri, sia per il salario che per le pensioni, e sono pronti a lottare con le unghie e con i denti per mantenere questi privilegi. Nel 1994-95 milioni di francesi scesero in piazza non per affermare una solidarietà di classe rivoluzionaria, né per sfidare un governo poco generoso e antioperaio, e nemmeno per protestare contro l'ineguaglianza del reddito o per combattere gli effetti nefasti della globalizzazione, ma, come ha suggerito un osservatore esterno ben informato, Timothy B. Smith, per difendere i loro privilegi corporativi. Quegli scioperi di massa sono continuati con fasi alterne fino a oggi. Le conquiste sociali dei lavoratori francesi sono state notevolissime, ma erano limitate a certi settori, in particolare a quelli che occupavano posizioni chiave ed erano in grado di paralizzare l'economia. Ci sono state e ci sono ancora una profonda antipatia e una grande diffidenza per le imprese private, i cui dipendenti, eccetto alcuni sui gradini più alti, sono pagati meno e hanno meno programmi di assistenza. Il modello francese, con i suoi interessi particolari e le sue lobby, è molto vicino a quello di Mancur Olson, sebbene Olson abbia dichiarato di comprendere l'economia francese meno di tutte. Per finanziare questo tipo di sistema di grandi imprese insieme con il welfare, un sistema che esclude vasti strati della popolazione, i governi francesi hanno dovuto indebitarsi sempre di più, ma i loro tentativi di fermare la marea hanno incontrato una dura opposizione. Il problema sembrava essere senza soluzioni. Quando con la legge Aubry del 2000 fu introdotta la settimana di trentacinque ore, si pensava che questo avrebbe avuto effetti positivi sull'occupazione (l'idea era dividere il lavoro fra più lavoratori) ma ciò non accadde. Quando il primo ministro Alain Juppé decise di alzare l'età di pensionamento in certi settori da cinquanta a cinquantacinque anni, questo fece risparmiare del denaro ma non creò nuovi posti di lavoro. Come ha osserva-
no
to Timothy Smith, il welfare state delle corporazioni bloccava la creazione di posti di lavoro. Era comune prendersela con la globalizzazione, ma osservando più attentamente si vede che solo una piccola percentuale dei lavoratori francesi sono stati danneggiati da questo processo. Il turismo è uno dei settori più dinamici dell'economia, e alcuni economisti vedono il futuro del paese nel turismo e nel marketing. Le impressioni di un turista, a meno che non visiti anche uno dei molti ghetti, possono essere superficialmente quelle di un paese fiorente, ma sono fuorvianti. Tassi di crescita annua dallo 0,9 al 2 per cento non sono sufficienti a mantenere il posto della Francia nel mondo, e recentemente i tassi di crescita della produzione industriale sono stati ancora più bassi. La sinistra e la destra sono d'accordo nel dire che il settore produttivo deve essere rafforzato, nuovi posti di lavoro devono essere creati e i costi dei servizi pubblici tagliati. Le restrizioni imposte alla concorrenza in settori terziari protetti e altrove riducono la produttività del sistema. I politici di sinistra sostengono che molti dei nuovi posti di lavoro sono malpagati e troppo a breve termine; come molti tedeschi, non vogliono nel loro paese "condizioni americane" o il thatcherismo. Solo che non offrono alternative realistiche. Molti anni fa sentii Raymond Aron dire a un congresso che la Francia sperimentava di tanto in tanto delle rivoluzioni, ma mai riforme. A quel tempo pensai che fosse una buona battuta, ma ci può essere stata in essa più verità di quanto pensassi allora.
REGNO UNITO
Dopo la fine della seconda guerra mondiale l'economia inglese aveva una produttività più bassa degli altri paesi europei. La Germania e la Francia la superavano, e l'Italia arrivò a eguagliarla nel 1990. Negli anni settanta la Gran Bretagna era diventata "la malata d'Europa", ma le dure riforme introdotte dal primo mi-
nistro Margaret Thatcher (1979-90) portarono a un cambiamento radicale; la Thatcher difendeva il libero mercato, la privatizzazione fin dove era possibile, un'imposizione fiscale più bassa e la riduzione del potere dei sindacati. Tutto questo culminò con la sconfitta della National Union of Mine Workers (Unione nazionale dei minatori), che aveva stupidamente dichiarato uno sciopero generale proprio quando l'industria mineraria era in crisi. Il thatcherismo condusse alla ripresa dell'economia inglese, e si attirò una grande ostilità da parte della sinistra. Tra gli aspetti negativi di quel periodo c'era un irriducibile nazionalismo e l'opposizione al resto dell'Europa, insieme all'indebolimento dell'industria manifatturiera, il quale però si sarebbe probabilmente verificato con qualsiasi governo. Perfino gli avversari più accaniti della Thatcher non potevano negare che la sua linea aveva funzionato (Peter Mandelson disse «Ora siamo tutti thatcheriani»). Dopo di lei la popolazione britannica non stava certamente peggio di prima. Ciò che seguì con il governo laburista, dalla metà degli anni novanta fino a circa il 2005, fu il decennio d'oro dello sviluppo economico inglese. Nel 2002 il tasso di crescita fu del 2 per cento, e poi del 2,5, 3,2 e 1,9 negli anni seguenti. Nel 2005 l'economia della Gran Bretagna era la quarta al mondo e il paese era il dodicesimo per ricchezza. La crescita era stabile, l'inflazione bassa, e la sterlina forte, mentre il tasso di disoccupazione era tra i più bassi d'Europa. L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) apprezzò la stabilità e la solidità dell'economia e ne notò la flessibilità. Tra l'altro, uno dei suoi punti di forza è l'autosufficienza energetica, grazie al petrolio del Mare del Nord e alle riserve di carbone. Tra i punti deboli c'è un basso tasso di risparmio e un indebitamento delle famiglie per più di un miliardo di sterline; un altro punto debole è la dipendenza dal boom edilizio e la relativa fragilità dell'industria manifatturiera, che conta solo per il 16 per cento del prodotto interno e ha un lento declino come in altri paesi europei. Con il 2005 l'economia ha co-
minciato a rallentare e i suoi punti più vulnerabili si sono fatti più evidenti. Ma secondo Anatole Kaletsky, autore di The World in 2006 pubblicato dall'«Economist», non c'è ragione di disperare, purché il governo applichi una politica economica corretta, vale a dire una riduzione della spesa pubblica invece dell'aumento delle tasse. Le forze che hanno reso possibile il decennio d'oro sono ancora operanti: libera concorrenza nel mercato del lavoro e dei prodotti, miglioramento delle condizioni di scambio, flessibilità della politica monetaria, crescita della domanda di servizi ad alta intensità di conoscenza e così via. Ciò che rimane in dubbio è la possibilità politica di promuovere una linea del genere. A parte le ragioni politiche e psicologiche, la performance relativamente forte dell'economia britannica, e della sterlina sui mercati finanziari, ha rafforzato negli anni più recenti la posizione di coloro che dubitano dell'opportunità di legami più stretti con la Comunità europea.
ITALIA E SPAGNA
Il confronto fra lo sviluppo dell'economia spagnola e quella italiana negli anni recenti è uno studio di contrasti. Sotto Francisco Franco (morto nel 1975) e poi per alcuni anni la Spagna era tra i paesi più arretrati d'Europa, ma dopo il suo ingresso nell'Unione Europea nel 1986, grazie ad aiuti considerevoli, il paese ha avuto un rapido progresso e nel 2005 ha quasi raggiunto il livello di vita medio dell'UE. Il suo Pil è ora poco più di mille miliardi di dollari e la svalutazione della peseta ha reso competitiva l'economia spagnola. La disoccupazione è stata ridotta dal 25 a circa il 10 per cento, mentre un sistema molto centralizzato veniva in gran parte decentrato. La Spagna è diventata uno dei più fiorenti paesi europei e anche uno dei più fedeli all'Europa, come hanno mostrato i risultati della consultazione sulla costituzione comunitaria. Insieme alla Francia ha scelto una politica neogollista per l'Europa, dissociandosi in diverse occasioni dagli Stati Uniti.
I problemi dell'economia spagnola sono stati in gran parte gli stessi delle altre nazioni europee: una rapida diminuzione del tasso di nascita ha causato l'invecchiamento della popolazione e ha quindi generato il bisogno di riformare il welfare state, primo fra tutti il sistema pensionistico. L'Italia ha avuto il suo miracolo economico un po' più tardi degli altri grandi paesi europei - negli anni sessanta e settanta - ma da allora il paese è rallentato e per anni il tasso di crescita è stato il più basso. L'industria italiana ha avuto difficoltà a introdurre in tempo l'alta tecnologia, l'industria automobilistica non è stata concorrenziale, e l'industria tessile è stata quasi distrutta dalla concorrenza asiatica. Il maggior reddito viene ora dai beni di lusso (vestiario firmato, alimentari e automobili) e dal turismo. Il settore sommerso dell'economia, tradizionalmente forte nel sud, non ha avuto un effetto decisivo sulla performance del sistema, eccetto forse quello di ridurre fino a un certo punto la disoccupazione. Come è accaduto in Germania, una parte della produzione industriale è stata trasferita all'estero per aggirare l'alto costo del lavoro. Come in altre economie europee, si è d'accordo nel dire che "le cose vanno avanti come sempre", ma c'è una fortissima resistenza a riforme sostanziali. La linea politica di un governo di centrodestra è stata quella di dare la colpa dei problemi economici a fattori esterni che non poteva controllare (i governi di sinistra hanno usato esattamente lo stesso argomento, dando la colpa alla globalizzazione). Infine, la rapida diminuzione del tasso di nascita e l'immigrazione, spesso illegale, dall'Africa centrale e settentrionale, hanno inasprito le tensioni sociali. Per quanto tempo ancora ce la faranno paesi come l'Italia, la Francia e le altre grandi economie europee? Forse più a lungo di quanto molti si aspettano. Per la maggioranza della popolazione la vita è ancora tollerabile e spesso piacevole, purché le ambizioni non siano esagerate. Vista la situazione, un declino graduale sembra più probabile di un grande crollo. Come nella vita politica di questi paesi, quella che manca
è la volontà di mettere in atto cambiamenti radicali; essa molto probabilmente nascerà, se nascerà, da un ulteriore drastico deterioramento, un pericolo che è chiaro e reale. Una simile situazione potrebbe realizzarsi, ma non è certo, perché il deterioramento potrebbe essere lento, quasi impercettibile, per esempio finché la disoccupazione non supera il 10 per cento. Oppure potrebbe essere troppo tardi per le riforme necessarie, perché prima che questa necessità sia riconosciuta da tutti, i sistemi economici potrebbero essere troppo deteriorati per un salvataggio (in ogni caso, troppo tardi in un quadro democratico). E vero che molte economie dei paesi più piccoli, come l'Olanda e i paesi scandinavi, hanno avuto risultati un po' più soddisfacenti dei più grandi, ma ciò non cambia il quadro generale in modo decisivo. E vero anche che di tanto in tanto ci sono segni incoraggianti che indicano prospettive migliori per il futuro; la performance economica dell'Europa è stata deludente nel 2005 ma ci sono stati segni di miglioramento nel 2006. Le esportazioni tedesche sono aumentate, come anche quelle di altri paesi, ma con un tasso di crescita dell'1,3 o del 2 per cento i problemi di base persistono. Il debito pubblico delle grandi economie continua a crescere inesorabilmente, la domanda interna è ancora decisamente troppo bassa, non c'è alcuna probabilità che i prezzi del carburante diminuiscano significativamente, e vengono creati troppo pochi posti di lavoro. Le prospettive economiche sono per lo più imprevedibili perché i paesi europei dipendono molto l'uno dall'altro, oltre che dagli Stati Uniti e dall'Estremo Oriente. Ogni recessione di queste economie gigantesche può avere immediate ripercussioni sull'Europa. E difficile anche solo fare delle speculazioni sulle conseguenze politiche della debolezza economica dell'Europa. Non ci sono grandi differenze fra le proposte della destra e della sinistra sui cambiamenti che si dovrebbero fare. La Germania ha un governo di coalizione, e nel Regno Unito conservatori e laburisti, per quanto possano essere in disac-
cordo su altri problemi, non hanno divergenze di fondo per quanto riguarda l'economia. Le sinistre in Francia e in Spagna sono più avverse del centro alle liberalizzazioni e temono di più le forze del mercato, ma le condizioni sono tali che nemmeno loro sono in grado di implementare politiche differenti. Se le sinistre e le destre moderate dovessero fallire, c'è naturalmente il pericolo che il consenso vada a sostenere partiti estremisti che in condizioni normali non avrebbero possibilità di successo. Ma nemmeno loro hanno formule magiche: il tempo del fascismo e del comunismo è passato, almeno nell'Europa occidentale, centrale e meridionale. E una situazione deprimente, e le prospettive di un cambiamento per il meglio sono scarse. Resta solo da domandarsi se ci sarà un peggioramento lento o un collasso rapido. Si diceva un tempo che l'Europa era un gigante economico e un nano politico; ora c'è il pericolo che essa perda anche il suo peso economico. In queste condizioni si potrebbe anche andare in pensione con i libri pubblicati solo l'altro ieri sul brillante periodo del dopoguerra quando c'era tanto ottimismo nell'aria, o meglio ancora con una delle pubblicazioni recenti che ci dicevano che l'Europa sarebbe stata la grande potenza di domani. Ci sono sempre possibilità di un futuro migliore che forse sono state sottovalutate; per esempio, gli investimenti dall'estero potrebbero essere superiori a quelli degli ultimi due decenni. Ma a quali settori dell'economia andrebbero? Al turismo o all'alta tecnologia? La Francia accoglie 75 milioni di turisti all'anno, la Spagna 52 e l'Italia 40, e questo porta a questi paesi tra i 30 e i 45 miliardi di dollari. Ma così siamo al punto di partenza: il futuro dell'Europa potrebbe essere quello di un museo. Gli Stati Uniti, dato il loro forte indebitamento e anche per altre ragioni, rischiano un'improvvisa grave recessione; può anche darsi che la crescita della Cina e dell'India, con i loro squilibri interni di carattere economico e sociale, rallenti improvvisamente o perfino si trasformi in un cedimento, e il rafforzamento dei partiti comunisti in India potrebbe portare a gravi tensioni e alla lotta di classe vecchia maniera. Tut-
to ciò è possibile, ma l'Europa non necessariamente ne beneficerebbe; al contrario, eventi di questo tipo metterebbero in pericolo la stabilità che l'Europa cerca affannosamente e danneggerebbe le sue esportazioni. Se ne dovrebbe concludere allora che i giganti di oggi non sono così forti come si crede e che la posizione relativa dell'Europa non è poi così debole. Ma tutto considerato, ciò sarebbe di scarso conforto, perché i problemi degli altri non porteranno al trionfo dell'Europa i cui problemi, come abbiamo visto, persistono. Uomini e donne non vivono di solo pane, malgrado il famoso slogan di Bill Clinton nel 1992: «il problema è l'economia, stupido». Fin dalla seconda guerra mondiale molti governi europei sono stati rieletti nonostante i risultati economici insoddisfacenti, mentre altri sono stati sconfitti malgrado una performance ragionevolmente buona: la Svezia nel 2006 è un esempio. Non si sa con certezza quale religione o ideologia favorisca la crescita economica; Max Weber riuscì a spiegare lo sviluppo del capitalismo nell'Europa occidentale e in Nord America in tempi moderni, ma non quello della Cina, del Giappone o della Corea del Sud. Per essere precisi, occorre dire che fattori diversi contribuiscono alla forza delle imprese, come il duro lavoro e una visione del futuro. Lo spirito di una nazione dipende da varie motivazioni e ragioni, comprese quelle imponderabili che nessuno sa spiegare con certezza.
Russia: un'alba ingannevole?
Quando l'Unione Sovietica si disintegrò la grande maggioranza degli europei, a ovest come a est, tirò un gran sospiro di sollievo; quasi tutti erano fermamente convinti che i tempi bui della dittatura comunista, dello stalinismo, della repressione interna e dell'aggressione all'estero fossero finiti per sempre. I leader occidentali diedero il benvenuto a Mikhail Gorbachev quando nel 1985 divenne segretario generale del Partito comunista dell'Unione Sovietica, e dopo di lui ai presidenti Boris Eltsin e Vladimir Putin. Espressero un forte desiderio di cooperare con questi dirigenti, e la collaborazione con la Russia prese il via nel quadro del G8 e altrove, non perché la Russia fosse così forte, ma perché i leader occidentali pensavano che fosse preferibile avere Mosca tra loro piuttosto che rimanesse risentita e aggressiva fuori dal gruppo. Era probabilmente la cosa giusta da fare, ma è troppo presto per dire se quell'approccio ha avuto successo. Quasi nessuno si era reso conto allora che la via russa verso la libertà sarebbe stata lunga e difficile, misurata in generazioni piuttosto che in anni o decenni, e che su quella strada ci sarebbero stati molti ostacoli. Il sistema sovietico era fallito, ma la Russia aveva ancora enormi riserve di gas e di petrolio, molte bombe atomiche e una grande industria degli ar-
mamenti; non era più una superpotenza, ma era ancora in grado di creare difficoltà all'Europa e agli Stati Uniti. Vent'anni dopo l'ascesa al potere di Gorbachev l'opinione pubblica in Russia è cambiata, ma non sempre per il meglio. Alcune inchieste di opinione condotte nel 2003 e 2004, quindici anni dopo la svolta cruciale costituita dal crollo dell'Unione Sovietica, mostrarono che il vecchio ordine aveva ancora molti ammiratori sia nella popolazione più anziana sia tra i giovani. Alia domanda se avrebbero votato per Stalin in un'elezione, il 46 per cento dei giovani dichiarò: certamente no. Ma il 51 per cento disse che Stalin era stato un buon leader, e il 56 per cento pensava che avesse latto più bene che male («Foreign Affairs», febbraio 2006). Questi risultati non significarono necessariamente che ci fosse un enorme entusiasmo per il grande leader defunto, ma certo mostrarono che se c'era stata una destalinizzazione della Russia, certamente non era stata radicale. "Democrazia" era diventata per molti una parola sporca, sinonimo di declino, corruzione, anarchia e prevalenza di forze antipatriottiche. Questo atteggiamento si espresse non solo in riflessioni sul passato, ma anche, ciò che è più importante, in posizioni e politiche correnti. È difficile definire il carattere politico della Russia contemporanea. Certamente non è diventata una democrazia; al contrario, la tendenza è stata quella di allontanarsi dalle strutture democratiche e di avvicinarsi a un regime autoritario. Ci sono elezioni, ma non possono certamente essere libere e senza interferenze; ci sono dei partiti politici, ma non hanno molto da dire; c'è la censura, diretta e indiretta, anche se non è totale come nei regimi fascisti e comunisti; e non esiste una magistratura indipendente. Il potere è nelle mani del leader e dei siloviki, gli uomini in posizioni influenti, molto spesso ex (o ancora) ufficiali dei servizi segreti e i loro accoliti. Per certi aspetti la Russia di oggi assomiglia alla Russia zarista dopo il 1905, con la sua ideologia nazionalista ufficiale e stretti rapporti con la Chiesa; ma per altri versi la Russia postsovietica è naturalmente molto diversa dalla vecchia monarchia.
Per qualche tempo dopo il crollo sovietico sembrava che la Russia si fosse ritirata dalla politica internazionale e perfino dagli affari europei, occupata com'era dai suoi problemi interni, ma quella situazione non durò a lungo; dopo qualche anno ritornò ad avere parte attiva, certamente con grandi debolezze ma anche con una forza considerevole, nel tentativo di ristabilire la sua vecchia sfera di influenza. I russi si domandavano come quel crollo fosse potuto accadere e chi ne fosse stato responsabile, e il loro atteggiamento non era molto diverso da quello che prevaleva in Germania dopo la prima guerra mondiale e il Trattato di Versailles (1919), con la perdita di parte del territorio nazionale e la conseguente umiliazione - eccetto il fatto che la Russia non ha perduto una guerra, c'è stata piuttosto un'implosione. E per questa ragione, se non altro, che non si può ignorare la Russia in una discussione sul futuro dell'Europa. Di chi è la colpa dei recenti sviluppi in Russia? O era forse più o meno inevitabile che si diffondesse un sentimento antioccidentale, mentre coloro che in Occidente speravano nella democratizzazione e nella coesistenza pacifica semplicemente si ingannavano? Avrebbe dovuto essere chiaro fin dagli anni settanta (infatti lo era per qualcuno) che il sistema sovietico non funzionava per niente bene. La stagnazione in tutti i campi era la norma anziché l'eccezione, e quella situazione, parlando a grandi linee, fu quella che permise a Gorbachev di prendere il potere. Ma Gorbachev, che guardava alla Svezia come modello più che alla vecchia Unione Sovietica, agì illudendosi che il sistema sovietico potesse essere riformato radicalmente. Altri membri del gruppo dirigente scelsero una linea molto più dura, e in retrospettiva si può dire che se il loro colpo di stato contro i "liberali" del 1991 avesse avuto successo, il vecchio sistema sarebbe potuto durare per altri dieci anni. Sta di fatto invece che le riforme di Gorbachev, per quanto concepite con tutt'altro scopo, portarono a una acuta crisi economica, all'indebolimento del potere dello Stato e infine alla secessione delle repubbliche non russe.
Gorbachev dovette lasciare il passo a Boris Eltsin, che rimase al potere dal 1990 al 1999, e nel frattempo ebbe luogo una caotica privatizzazione. Sembra che Eltsin fosse sinceramente impegnato a democratizzare il paese, ma non aveva un sostegno sufficiente al di là di un piccolo gruppo di intellettuali liberali. Inoltre fu sfortunato, perché la situazione economica non gli era favorevole (a differenza di Putin, non potè trarre beneficio dall'alto prezzo del petrolio), e una volta che l'impeto iniziale cominciò a esaurirsi sembra che il potere gli sia sfuggito di mano. In un momento in cui i russi volevano soprattutto un leader forte e uno Stato forte, Eltsin non offriva né leadership né stabilità. Il tacito slogan di quel periodo era Enrichissez vous ("Arricchitevi"), come lo era stato in Francia tra il 1830 e il 1848. Individui che si trovavano ad avere posizioni privilegiate in istituzioni come il Partito comunista, la burocrazia statale o il KGB, oppure avevano i contatti giusti, accumularono un'enorme fortuna in pochi anni. Gli oligarchi del mondo degli affari appoggiavano Eltsin perché quella era la leadership più conveniente e malleabile che si potesse trovare, ma Eltsin, che era spesso brillo e ancora più spesso maldestro e imbarazzante durante le sue presenze ufficiali, prendeva continuamente decisioni impulsive e nominava per poi licenziare gente nuova in posizioni chiave, non poteva mantenere il potere. Non è stato provato che fosse più corrotto di altri politici, ma quelli che lo circondavano ("la famiglia") furono certamente coinvolti in grandi scandali. Il meglio che poteva fare era nominare il proprio successore, con l'intesa che né Eltsin stesso né quelli vicini a lui sarebbero stati incriminati in futuro. Sette anni dopo aver dato le dimissioni, nel giorno del suo settantacinquesimo compleanno, dichiarò che Putin era stato la scelta giusta per la Russia. Certamente era stata la scelta giusta per Eltsin. Al tempo della sua nomina Putin non aveva ancora cinquantanni, aveva fatto carriera nel KGB e aveva passato diversi anni nella Germania dell'Est sotto il vecchio regime, fino a ottenere il grado di tenente colonnello. Più tardi divenne as-
sistente di Anatoly Sobchak, sindaco di San Pietroburgo, e gli fu leale fino a diventare vicesindaco. Rimase al suo fianco anche quando Sobchak ebbe dei problemi e dovette lasciare il paese. Più tardi Putin si avvicinò a Eltsin e fu nominato capo della FSB, l'organizzazione erede del KGB anche se notevolomente risimensionata e priva dell'influenza della vecchia polizia segreta. Putin non si era mai sforzato di mettersi in vista e quando ascese al potere di lui si sapeva ben poco; forse non c'era molto da sapere, come dissero alcuni dei suoi critici. Non aveva un'ideologia precisa, e nelle sue campagne elettorali era un po' di tutto per ogni pubblico diverso. Certamente non era un marxista-leninista: si cercherebbe invano nei suoi discorsi una citazione o un'idea tratta da quell'ideologia. La sua esperienza nel KGB significava semplicemente che era un patriota e credeva in una Russia forte. Quando fu discussa la questione dell'inno nazionale e dei simboli ufficiali della nazione Putin optò per la continuità, reintroducendo il vecchio inno del periodo staliniano. Quell'esperienza influenzava anche il suo stile di lavoro: solo dei "nostri" ci si poteva fidare, cioè quelli che avevano un'esperienza simile, preferibilmente gli ufficiali con cui aveva lavorato in passato. Ma questa non era una novità in Russia e nella storia sovietica, né d'altronde era un fenomeno limitato alla Russia. In situazioni di crisi, come il disastroso naufragio del sommergibile Kursk nell'Oceano Artico nel 2004 o il massacro di Beslan, nel Caucaso, nel settembre dello stesso anno, Putin non mostrò un polso sicuro, ma fu favorito dal miglioramento della situazione economica che ebbe inizio proprio nell'anno della sua ascesa al potere, il 2000, e la sua campagna contro gli oligarchi ebbe un grande successo pubblico. Il fatto che molti tra i primi oligarchi fossero di estrazione ebraica non li aiutò certo a essere popolari, ma è interessante notare che la burocrazia statale, secondo la maggioranza delle inchieste di opinione, era ancora meno popolare. Quando nel primo Ottocento un membro della famiglia reale ritornò in
Russia dopo una lunga assenza, chiese a suo cugino lo zar, «Cosa c'è di nuovo in Russia?». Lo zar rispose laconicamente: «Ntchevo, kradut» («Niente, rubano»). La (relativa) prosperità permise al governo di aumentare le pensioni, che però rimasero molto basse; nel 2004 il salario medio aumentò fino a 210 dollari, ma la sperequazione dei redditi era ancora enorme. Nei primi anni del nuovo secolo Mosca aveva tutte le apparenze di una città in pieno boom, con molte costruzioni nuove, negozi di lusso e un enorme numero di automobili che provocavano grandi ingorghi di traffico. Un quarto del Pil veniva da quella città, che riceveva una forte percentuale degli investimenti, stranieri e interni. Il problema era che fuori dalla capitale non c'era affatto lo stesso boom e si facevano molto meno investimenti. La campagna russa si spopolava, migliaia di villaggi cessarono di esistere, il 30 per cento dell'Estremo Oriente e del nord della Russia era scomparso nel corso degli anni e l'esodo dalla Siberia, mai molto popolata, continuava. Dove sarebbero stati i confini della Russia qualche decennio più tardi? La vita era ancora molto dura per la grande maggioranza della popolazione e i pensionati - ce ne sono milioni - avevano la peggio. Allo stesso tempo erano spuntati più di trenta miliardari, molti dei quali ostentavano spese vistose. Putin non aveva obiezioni di principio all'esistenza di gente molto ricca, tanto che il loro patrimonio raddoppiò dal 2004 al 2005; ma aveva una forte antipatia per quelli che combinavano la ricchezza con ambizioni politiche, come l'oligarca Boris Berezovsky e il magnate dei media Vladimir Gusinsky, che presto si ritrovarono in esilio, e l'industriale miliardario Mikhail Khodorkovsky, che finì in un campo di lavoro in Siberia. Nella lotta fra gli oligarchi e il KGB divenne presto chiaro dove stava il potere. Molte grandi imprese, specialmente le più fiorenti, passarono sotto il controllo dello Stato o, per essere precisi, di una casta privilegiata all'interno dell'apparato dello Stato. Emerse così una nuova forma di grande capitalismo che secondo alcuni assomiglia a quello del Venezuela o della Libia.
Gli altri oligarchi compresero che sarebbero riusciti a difendere le loro ricchezze solo se avessero appoggiato il Cremlino e se si fossero ingraziati i funzionari che occupavano posizioni chiave. Delle riforme democratiche di Eltsin, come la libertà di espressione, non è rimasto molto con il suo successore. Le stazioni televisive e radiofoniche sono passate sotto il controllo di persone o imprese vicine al governo; alcune voci indipendenti della stampa sono rimaste indisturbate, ma la loro tiratura è piccola e non hanno costituito un pericolo per il presidente e i suoi sostenitori. A differenza dell'era comunista non c'è stato un partito politico che funzionasse come cinghia di trasmissione. L'Unità, il gruppo più forte nella Duma, fu formato per assicurare l'appoggio a Putin, ma è stato solo uno strumento elettorale; diversamente dal vecchio Partito comunista, non ha avuto alcun'altra funzione. In generale, c'è stata molto poca vita politica attiva nel paese, ma questa calma (che è stata presa per stabilità) era probabilmente quello che i russi volevano dopo gli anni turbolenti che seguirono il crollo dell'Unione Sovietica. In ogni caso la popolarità di Putin è rimasta forte per tutti e due i mandati presidenziali (fu rieletto nel marzo del 2004), malgrado la seconda guerra in Cecenia che era tutt'altro che popolare. In politica estera, che è più cara a Putin degli affari economici e interni, il presidente ha mantenuto una linea equidistante da coloro che volevano collaborare con l'Occidente e i revanscisti che vedevano nell'America e negli altri paesi occidentali l'origine di tutti i mali. La Russia è rimasta molto delusa dall'Occidente; si era aspettata aiuti massicci, qualcosa come un altro Piano Marshall, che però non sono mai arrivati. Più tardi, con il rapido aumento dei prezzi del petrolio e del gas, non c'è stato più bisogno di aiuto. L'allargamento della NATO e dell'Unione Europea sono stati considerati una minaccia per gli interessi russi, e sia l'America che l'Europa occidentale sono state accusate di sostenere le forze indipendentiste in Ucraina e in Georgia, che hanno deciso la secessione dalla Russia e che il Cremlino ha considerato ostili; lun-
ghi negoziati con TUE non hanno dato risultati concreti. È vero che Washington e le capitali europee hanno parlato spesso di una partnership con la Russia e che ci sono stati tentativi di ogni genere per stabilire relazioni più strette; le riforme democratiche furono lodate a gran voce perfino in un momento in cui avrebbe dovuto essere chiaro che la Russia si stava allontanando dalla democratizzazione e stava per diventare uno Stato autocratico. Putin però si rendeva conto che la Russia ha interessi comuni con Washington e l'Europa, per esempio nella lotta al terrorismo, e ritenne sciocco entrare in collisione con l'Occidente come avrebbero voluto gli ultranazionalisti. La Russia voleva non solo riconoscimento e rispetto, ma anche la riconquista della sua vecchia sfera di influenza, perciò era inevitabile che si venisse a uno scontro. Forse sarebbe stato più saggio procedere più cautamente su questa linea, ma Putin e i suoi probabilmente erano soggetti a varie pressioni - pressioni politiche per mostrare risultati, e anche pressioni economiche. L'arma del petrolio era formidabile, ma chi poteva sapere quanto sarebbe durata? C'era soprattutto la pressione demografica: la popolazione russa era in costante diminuzione, e se fosse diminuita al di sotto di un certo limite i sogni di impero sarebbero finiti. Secondo proiezioni dell'oNu, nel 2050 la popolazione russa sarà tra i 70 e i 100 milioni, mentre quella del Pakistan nel 2020 sarà raddoppiata; ma di quella russa almeno un quarto, forse più, non sarà del gruppo etnico originale, e in generale la popolazione sarà in media più anziana. Basterà a controllare l'enorme territorio tra Kaliningrad e Vladivostok, per non parlare di ambizioni imperiali? Nell'ultimo decennio circa il 40 per cento della popolazione dell'Estremo Oriente russo, e due terzi di quella del nord, sono scomparsi, mentre l'esodo dalla Siberia continua. La Russia è diventata un fornitore molto importante di petrolio e di gas per l'Europa occidentale, specialmente per la Germania e l'Italia e in misura minore per Gran Bretagna e
Francia. Questa dipendenza energetica potrebbe diventare una dipendenza politica; in un articolo pubblicato in una rivista specializzata con bassa tiratura, Putin scrisse molto prima di diventare presidente che le forniture di petrolio e gas erano lo strumento più importante per riguadagnare lo status di grande potenza. La minaccia di aumentare i prezzi o di sospendere completamente la fornitura (come la Russia ha fatto brevemente con l'Ucraina e la Georgia) sono stati segnali di avvertimento. Era ovvio che la Russia non avrebbe perso interesse nell'Ucraina; dopotutto la vecchia Kiev fu la culla dello Stato russo e molti cittadini di origine russa vivono nell'Ucraina orientale. I paesi baltici potevano essere dati per persi malgrado la presenza di un numero significativo di russi, ma sono piccoli e poco importanti. Nel 2006, tuttavia, la Russia non aveva rinunciato alla Moldavia (o per essere precisi, alla Transnistria, regione indipendentista di lingua russa), ed era presente militarmente, con la giustificazione di mantenere la pace, nell'Ossezia meridionale, nell'Abkhazia e nell'Ingushezia, la quale era governata da un generale della FSB (ex KGB) e poteva essere usata contro la Georgia. Alla popolazione di queste regioni è stata concessa la cittadinanza russa. In Asia centrale, la posizione della Russia si è rafforzata grazie alla debolezza dei governi nazionali, che erano per lo più impopolari e dipendevano dalla Russia per un supporto economico, politico e militare. Il Caucaso è Stato uno dei problemi più difficili, perché il separatismo della Cecenia era una ferita che non si rimarginava e c'era il pericolo che l'infezione si allargasse, perché non era più certo fino a che punto il Daghestan, la repubblica a nord della Cecenia, fosse sotto controllo russo. In retrospettiva appare chiaro che la situazione in Cecenia avrebbe potuto essere trattata da Mosca più saggiamente; si sarebbero potuti offrire ai ceceni maggiori incentivi per rimanere, se non parte della Russia, almeno molto strettamente legati a essa. La Russia invece temeva di perdere l'intera regione del Caucaso se avesse fatto concessioni eccessive.
Le grandi operazioni militari della seconda guerra in Cecenia cessarono nel 2002, ma l'ordine non fu ristabilito. Il paese fu quasi completamente distrutto, ma il prezzo per la Russia è stato alto: parecchie migliaia di soldati morirono e molti di più rimasero feriti; la guerra ebbe un impatto negativo sulle forze armate e mise in dubbio la capacità della Russia di fronteggiare la guerriglia, danneggiandola così politicamente. La resistenza cecena all'inizio era stata tribale e nazionalista, ma con con il procedere dei combattimenti divenne più radicale, islamista e jihadista oltre che nazionalista. C'era il pericolo che il terrorismo si diffondesse nel Caucaso e alla fine, come i leader della ribellione minacciarono di fare, in altre parti del paese. La Russia ha cercato con qualche successo di stabilire relazioni più strette con la Turchia, l'Iran e i paesi arabi, in parte senza dubbio per prevenire l'internazionalizzazione del conflitto nel Caucaso; assumendo cioè che questi paesi, riconoscendo il supporto politico e tecnologico che ricevevano da Mosca, non avrebbero appoggiato i musulmani radicali all'interno della Russia. Non era però affatto chiaro se nel lungo periodo ci si potesse aspettare una simile gratitudine. Inoltre, questa linea politica poteva avere ripercussioni pericolose sugli interessi di lungo termine della Russia; non era prudente fornire armi a vicini sulla cui buona volontà non si poteva contare all'infinito. Questa linea era stata proposta prima di Putin dal ministro degli Esteri Yevgeny Primakov, già capo del KGB e anche primo ministro, ed era destinata a rendere più complicate le relazioni con l'Occidente. Si dimentica spesso che in Russia vivono da 15 a 20 milioni di musulmani; non si conosce il numero esatto, ma il loro tasso di nascita è certamente molto più alto di quello russo, che è oggi 1,2. Inoltre, il numero dei "lavoratori ospiti" provenienti dalle repubbliche dell'Asia centrale potrebbe ammontare ora ad alcuni milioni. Le proiezioni secondo le quali i musulmani supereranno di numero i russi entro una generazione sono quasi certamente esagerate, ma c'è stato un forte movimento per la piena autonomia nelle regioni ad alta den-
sita musulmana come il Tatarstan, e probabilmente si sta rafforzando. Il separatismo non è probabile, perché i musulmani non vivono in una sola regione ma sono dispersi in tutta la Russia europea - Tatarstan, Bashkortostan, la Crimea e il Caucaso mentre almeno un milione vive a Mosca (secondo alcune stime sarebbero molti di più). Secondo le statistiche ufficiali nel 2005 sono entrati in Russia circa 20 milioni di stranieri, la maggior parte da repubbliche confinanti, specialmente dell'Asia centrale; questa cifra però include probabilmente entrate multiple delle stesse persone. Anche nelle repubbliche autonome come il Tartarstan (dove sono il 52 per cento) e il Bashkortostan (55 per cento) i musulmani non sono in maggioranza di larga misura; ma gli islamisti radicali sono stati attivi in queste concentrazioni, legalmente e più spesso illegalmente, ed è probabile che aumentino le tensioni politiche specialmente se si tiene conto della crescente xenofobia tra i russi autoctoni ("la Russia per i russi"). Il pericolo di un colpo di Stato neofascista oppure nazionalista-bolscevico fu esagerato al tempo del crollo dell'Unione Sovietica; oggi è del tutto improbabile precisamente perché è difficile prendere alle spalle il governo di Putin sulla questione del patriottismo. Potenzialmente, però, il pericolo sussiste: i comunisti di Gennady Zyuganov sono ancora il secondo partito nella Duma, e i neofascisti sono relativamente pochi ma ora sono meglio organizzati di dieci o quindici anni fa. L'influenza dei comunisti è abbastanza diminuita; persero seggi nelle elezioni del 1999 e nel 2004 non si misero seriamente in competizione con Putin, perché si rendevano conto che la sua vittoria era sicura. Ma visto che la maggioranza del popolo russo vive in condizioni di povertà, e che migliaia di villaggi semplicemente scompaiono con la fuga di massa dalle campagne, c'è una riserva disponibile per un partito dei poveri, anche se la leadership di Zyuganov, totalmente privo di carisma, ispira poco entusiasmo. E difficile trovare temi specificamente comunisti nell'ideologia di questo movimento, eccetto l'opposizione alla liberalizzazione e privatizzazione
dell'economia. Del marxismo-leninismo vecchio stile è rimasto ben poco, e dell'internazionalismo proletario nulla: i comunisti sono nazionalisti tanto quanto l'estrema destra. Sono il partito dei "veri russi"; per gli stranieri (cioè più o meno tutti quelli che non sono di estrazione russa) non c'è posto né tra le loro fila né nel paese, a meno che non si rendano il più possibile indistinguibili. I comunisti sono più o meno uniti, mentre i gruppi di estrema destra e neofascisti sono molto attivi e si fanno sentire, ma sono divisi in molte sette e fazioni; per di più non è affatto facile stabilire con certezza quali fra loro sono accesi patrioti in buona fede e quali sono sponsorizzati o assistiti dalla FSB (KGB). Come accadeva negli ultimi decenni del potere zarista, i servizi segreti si sono infiltrati in questi gruppi e fino a un certo punto hanno preso in mano le loro operazioni. Qualche volta questi gruppi sostenuti dalla polizia sono sfuggiti alla protezione segreta; questo accadde nel periodo precedente al 1914 e potrebbe accadere adesso. I gruppi di punta dell'estrema destra hanno tutti origine, in un modo o nell'altro, da Pamyat, un gruppo che apparve per la prima volta negli ultimi anni del potere sovietico. Tuttavia, mentre Pamyat apparteneva sostanzialmente alla tradizione dell'estrema destra prerivoluzionaria (era antisemita, antimassonico, credeva in ogni tipo di cospirazioni e si identificava con le tendenze più reazionarie della Chiesa ortodossa russa), i suoi successori hanno abbracciato tutta una serie di strane dottrine, spesso straniere. Il 4 novembre 2005 migliaia di giovani fascisti sfilarono a Mosca gridando «Heil Hitler» e «Sieg Heil»; i loro ideologi sostenevano che solo il fascismo e il nazismo potevano offrire una via d'uscita dal malessere della Russia: la corruzione, la povertà, il dominio degli stranieri, la comune umiliazione e disperazione. Alcuni hanno tentato di combinare il fascismo con il comunismo vecchio stile, mentre altri si sono dati a ogni tipo di idee religiose e settarie spesso di origine orientale, all'astrologia, a varie "scienze occulte" e a idee degli ambienti della New Age occidentale. Hanno avuto molta influenza gli eura-
siatici; questa scuola di pensiero si è richiamata a una dottrina politica elaborata a Praga e a Parigi da emigrati russi, secondo la quale il futuro della Russia stava a est e non a ovest. Nella sua forma contemporanea Euroasiatismo significa grande ostilità verso l'America, considerata come l'origine di tutto il male, e una politica estera aggressiva mirante al dominio russo dell'Europa e, se possibile, anche di parte dell'Asia. C'è da chiedersi però come sarebbe possibile combinare un'alleanza con l'Islam con la profonda xenofobia russa. Il problema, naturalmente, era che l'"asiatismo" di queste ideologie era una loro fantasia. Cina e Giappone non avevano nessuna intenzione di stabilire un'alleanza con la Russia; al contrario, costituivano una minaccia per la Russia in Asia data la loro forza numerica. Quanto all'Islam, le relazioni non sono mai state amichevoli, e l'idea di formare un asse russo-turco o russo-iraniano, oppure russo-arabo, appariva stravagante in un periodo in cui "la Russia per i russi" era lo slogan principale della destra; secondo alcune inchieste di opinione più del 50 per cento dei russi lo approvava, e allo stesso tempo lo jihadismo aveva molti sostenitori nel mondo musulmano. Un'idea simile poteva incontrare il favore di qualche leader politico, ma era molto impopolare tra le masse. Un'alleanza del genere non era fattibile, a meno che gli euroasiatici non pensassero alla Russia come alleato minore, cosa che è fuori discussione. Alcuni leader di queste sette (che si sono spesso divise, hanno cambiato nome e poi si sono riunite) erano personaggi curiosi. Aleksander Dugin riuscì a mettere insieme un'ideologia che comprendeva gli elementi più diversi, incoerenti e contradditori del pensiero radicale europeo di estrema sinistra e destra, più l'astrologia e le scienze occulte. Riuscì perfino a convincere il comando dell'esercito sovietico che la sua dottrina era la migliore, se non l'unica maniera per restaurare lo spirito patriottico fra i giovani. Eduard Limonov era scrittore e attore prima di entrare in politica; accusò Dugin, con il quale aveva collaborato, di essere troppo vicino alle istituzioni politiche e militari, e se ne separò. Il gruppo di Limonov, il
Partito nazionale bolscevico, fu messo fuori legge per un po' di tempo, come l'Unità nazionale russa di Alexander Barkashov con i suoi reparti paramilitari chiamati Cavalieri russi. Ma in complesso questi gruppi non hanno avuto grandi difficoltà per mano delle forze dell'ordine, che li consideravano sostanzialmente come giovani innocui, solo di tanto in tanto eccessivi nel loro entusiasmo. Per le strade sono stati molto attivi gli skin-heads, che celebrano ogni anno l'anniversario della nascita di Hitler; sembra che ci sia stato un patto di non aggressione fra loro e la polizia, che interviene solo quando uno o più stranieri vengono uccisi per strada. Gli ideologi dei gruppi di estrema destra come Dugin, che negli anni novanta erano considerati degli eccentrici e non venivano presi sul serio da nessuno, sono diventati molto di moda nell'intellighenzia e vengono spesso intervistati da riviste che una volta erano roccaforti liberali. Eppure, malgrado tutto ciò, è difficile immaginare un grande futuro per il neofascismo russo, a meno che naturalmente non ci sia un crollo totale delle istituzioni. Un attacco aperto contro il sistema politico attuale non sarebbe molto popolare, e gli assalti ai commercianti di frutta e verdura caucasica nei mercati di Mosca non sono esattamente una grande campagna politica. Quasi tutti gli ebrei hanno lasciato la Russia, e quelli che rimangono non sono più il grande demonio da battere. I neonazisti propagandano un odio parossistico per l'America, che secondo loro ha provocato il crollo del loro paese, ma l'America è lontana, e oggi i pericoli per la Russia vengono da altre e più vicine regioni; non c'è alcun pericolo che gli Stati Uniti invadano il Caucaso, la Siberia, o l'Estremo Oriente russo. La nuova Russia ha grandi riserve di carburante fossile e un numero impressionante di armi atomiche, ma questa non è una base sufficiente per ritornare allo status di superpotenza. Secondo le inchieste di opinione, la maggioranza vorrebbe riguadagnare quella posizione per la Russia, che dopotutto è stata una grande potenza per trecento anni. Ma, secondo quanto ci dice la politologa Lilia Shevtsova, quando si chiede
alla gente se è disposta e capace di fare lo sforzo necessario per ritornare ad essere una grande potenza, la risposta è molto più riluttante. Il paese è ancora troppo debole per cercare grandi avventure; la sua economia dipende più dall'esportazione di materie prime che dalla produzione industriale; è in ritardo con lo sviluppo di moderne tecnologie, e i suoi malanni sociali, come l'alcolismo, la droga e I'AIDS, sono diffusi. Ci può essere odio e invidia per i nemici stranieri e interni, ma il morale non è alto e la corruzione è molto più grave di quanto si considerava più o meno normale in passato. In poche parole, il paese non ha riguadagnato la fiducia in se stesso necessaria a raggiungere lo status di grande potenza. Una ripresa simile può durare ancora molto tempo, e non è certo quanti russi saranno allora rimasti. C'è voluto molto tempo prima che la leadership si accorgesse del problema demografico, forse perché guardando alla Russia da Mosca, che nel 2000 era ormai diventata un immenso ingorgo di traffico, era facile ignorare il fatto che il resto del paese si stava spopolando. C'erano stati avvertimenti da tempo, ma come fu notato in un congresso organizzato dal Parlamento russo nel marzo del 2006, il governo non se ne era curato. Come dichiarò in quella occasione il ministro degli Esteri Yevgeny Primakov, se le tendenze attuali continuassero la Russia cesserebbe di esistere alla metà di questo secolo, e lo spopolamento della Siberia e delle regioni orientali creerebbe un vuoto che sarebbe occupato da altri ancora prima senza sparare un colpo. Nel giugno del 2006 Putin, in toni meno drammatici, espresse la previsione che con le tendenze attuali la popolazione russa alla fine del secolo sarà la metà di quanto è adesso; la diminuzione della popolazione veniva considerata come un problema di estrema importanza per la sicurezza nazionale, e se c'era ancora una "Idea russa", questa era come salvare il paese dall'estinzione. I ministri della difesa e i generali, però, non andavano alle riunioni in cui si discutevano questi problemi. Chi pensavano avrebbe difeso la patria quindici o venti anni dopo? - ammesso che ci sia ancora una patria da difendere, disse qualcuno.
Nel maggio 2006 il governo Putin emanò un decreto che assegnava 55 dollari al mese per il primo figlio e 110 per il secondo; non solo, si sarebbe dato alle madri un assegno una tantum di diverse migliaia di dollari, una somma considerevole per gli standard russi. Il governo ha speso in tutto da 30 a 40 miliardi di rubli per promuovere un aumento del tasso di nascita, ma un'alta percentuale di donne continuano a non desiderare figli. Inoltre, non era chiaro chi esattamente avrebbe dovuto pagare, lo Stato o le autorità locali, e in passato c'erano state denunce di abusi, come l'affidamento di bambini a un orfanotrofio dopo aver incassato l'assegno. Se l'iniziativa del governo avesse successo, sarebbe la prima volta nella storia che un supporto economico porta a un aumento duraturo del tasso di nascita.
Il fallimento dell'integrazione e il futuro dell'Europa
COSA È ANDATO STORTO?
Recentemente un giornalista dell'«Economist» ha criticato il luogo comune secondo il quale l'Europa è un continente stanco, invecchiato e stagnante economicamente, destinato inesorabilmente a perdere terreno non solo rispetto al dinamismo degli Stati Uniti ma anche alla Cina e perfino all'India. Ma questo fino a non molto tempo fa non era un luogo comune nei campus e negli istituti di ricerca americani, e anche in Europa ci sono stati discorsi, libri e dichiarazioni ufficiali pieni di ottimismo. Nel momento in cui scriviamo queste righe la Germania è più forte che in anni recenti, così c'è da domandarsi se i profeti di sventura non fossero dopotutto in errore. Il miglioramento, però, potrebbe essere solo temporaneo, un miraggio prima di un rinnovato pessimismo sui mercati e nelle borse. Le opinioni convenzionali, tuttavia, come la medicina convenzionale, non sono sempre in errore, né è senza precedenti il fenomeno della crescita e del declino. La storia è piena dell'ascesa e del declino di paesi e civiltà e dell'indebolimento di grandi potenze: nessuna di esse è durata per sempre, e alcune sono scomparse. Il loro declino ha avuto cause diverse, per
alcune potenze si è trattato di quelle economiche, per altre la sconfitta militare, per altre ancora una specie di esaurimento e perdita di volontà o di forza spirituale, che le ha portate a non curarsi più della propria riproduzione. Gibbon scrisse che gli antichi greci pensavano che Roma avesse prevalso su di loro grazie alla "fortuna", cioè per puro caso. E fu almeno in parte per caso che l'impero romano d'oriente durò per altri mille anni dopo che quello d'occidente era scomparso. Il problema del perché le nazioni hanno avuto un declino si può discutere all'infinito. Quando sarà scritta la storia del declino europeo nel ventesimo secolo è possibile che ci si chiederà non perché la potenza del continente è diminuita, ma perché è durata così a lungo. Le migrazioni possono essere state un fattore di declino delle nazioni, ma spesso le hanno anche rafforzate. La storia medievale e quella moderna sono storie di migrazioni: basti pensare all'emigrazione europea verso il nord e il sud dell'America (italiani e spagnoli), agli ugonotti che emigrarono in Germania e in altri paesi europei, all'emigrazione polacca in Francia e Germania nel ventesimo secolo, all'emigrazione russa in Francia dopo il 1917, a quella ebraica dall'Europa dell'est, o ancora agli emigranti cinesi e indiani che si stabilirono in gran numero nel Sudest asiatico e anche in Africa. Molto spesso questi emigranti erano gli individui più intraprendenti, che lasciavano il paese di nascita per una ragione o per l'altra, e ci fu un beneficio da entrambe le parti: gli immigrati trovarono la via del successo nella nuova società e i paesi che li assorbivano beneficiavano dei loro talenti e capacità. Società forti e fiduciose in se stesse sono state quasi sempre in grado di assorbire queste ondate di immigrazione e di trarne i risultati migliori. All'inizio ci sono sempre state delle difficoltà; anche in un paese fatto di immigrati come gli Stati Uniti, per un lungo periodo né gli irlandesi né gli ebrei erano benvenuti, per non parlare del "pericolo giallo". Qualche volta i nuovi venuti hanno trovato difficile accettare le leggi e lo stile di vita dei paesi ospiti; alcuni, per sempio, rifiutavano il servizio militare. C'è sempre stata una migrazione di ritorno, ma la maggio-
ranza è rimasta nel paese di adozione e dopo qualche generazione è diventata una sua parte integrante. Tutto ciò vale anche per il nostro tempo. Ho già discusso i contributi degli indiani alla Gran Bretagna, dei cinesi agli Stati Uniti e ad altre parti del mondo, dei sikh, degli armeni, dei ciprioti e di una lunga serie di altri popoli. I lavoratori ospiti polacchi sono bene accolti in tutta Europa e i filippini in tutto il mondo. E vero che in un'era di nazionalismo aggressivo le minoranze etniche si sono trovate in difficoltà. Per esempio, Idi Amin cacciò gli indiani dall'Uganda e Gamal Abdel Nasser espulse dall'Egitto greci, italiani, altri europei e anche gli ebrei anche se erano vissuti là per generazioni, mentre le minoranze cinesi hanno subito pressioni nel Sudest asiatico. Ma questi erano gruppi relativamente piccoli, ed è solo in Europa che il problema degli immigrati musulmani è diventato un grave problema politico. L'integrazione non ha funzionato, in parte perché gli immigrati stessi non la volevano. Il multiculturalismo ha fatto emergere delle società parallele, con conseguenze spesso negative. Questa situazione ha imposto di interrogarsi: di chi era la colpa, e cosa si poteva fare per rimediare? Una delle ragioni era naturalmente che i paesi europei non erano abituati ad assorbire milioni di stranieri radicati in culture differenti, che non avevano nessun desiderio di rinunciare al vecchio stile di vita e accettare i costumi dei paesi d'adozione. Questa non è una caratteristica dell'Europa; si può trovare in tutto il mondo, eccetto in quei paesi che sono dipesi per lunghi periodi dal flusso di immigranti, come le nazioni del nordamerica, alcuni paesi dell'America Latina, il Canada e l'Australia. Per il resto, l'antipatia per gli stranieri, anche quelli vicini per lingua, religione e cultura, è stata profonda e diffusa. Perfino le condizioni dei rifugiati palestinesi nei paesi arabi sono state spesso difficili; venivano e vengono spesso chiusi nei campi profughi, qualche volta venivano espulsi, e solo raramente ottenevano la cittadinanza, anche se non mancavano certo i discorsi che parlavano di solidarietà con questi fratelli e sorelle perseguitati.
Ma c'erano anche altre ragioni. Per cominciare, l'immigrazione musulmana in Europa è stata in gran parte spontanea e incontrollata. E continuata per molto tempo, anche dopo che è diventato chiaro che i "lavoratori ospiti" non avevano alcuna intenzione di ritornare al paese d'origine, e molto tempo dopo che era diventato evidente che per loro non c'era lavoro. In una certa misura l'immigrazione era la conseguenza del passato imperiale: gli algerini avevano diritto di stabilirsi in Francia, mentre gli abitanti delle Indie Occidentali e gli indiani che vivevano in Uganda avevano diritto di andare in Gran Bretagna. Ma questa spiegazione postcoloniale non si applicava alla maggioranza, nata molto tempo dopo che gli imperi avevano rinunciato ai loro possedimenti e quei paesi avevano ottenuto l'indipendenza, né si applicava a tutti quelli che erano emigrati in Germania o in Svezia, in Austria, in Olanda o in Belgio. C'era, e c'è ancora in una certa misura, una scuola di pensiero secondo la quale la responsabilità della mancata integrazione era da attribuire alle società europee, che non avevano un atteggiamento sufficientemente benevolo verso gli immigrati e non avevano investito abbastanza per aiutarli a trovare casa e in altri modi, compresa l'istruzione. Ma alle società europee - ai singoli cittadini - non è mai stato chiesto se volevano avere nel loro paese milioni di nuovi vicini; quei cittadini avevano il diritto di votare su tutta una serie di problemi, interni e di politica estera, ma su questo problema assolutamente centrale nessuno li ha mai consultati: i governi e le imprese hanno fatto tutto da soli. Avrebbero agito diversamente se avessero previsto le conseguenze? Nemmeno per questa domanda c'è una risposta certa. Alcuni paesi sarebbero stati più cauti nell'aprire le porte agli immigranti e nel concedere asilo. Altri probabilmente non si sono curati del problema, nella credenza di non avere più molto da offrire, di avere cioè più o meno assolto la propria missione storica (semmai ne hanno avuta una) e che difendere la propria identità sociale e culturale non era una questione di primaria importanza nel mondo contemporaneo. Per
nazioni esauste forse era arrivato il momento di passare la fiaccola della civiltà ad altri popoli, altre religioni, altri gruppi etnici. In alcuni casi, come quelli della Scandinavia e dell'Olanda, può aver avuto un certo peso una cattiva coscienza che risale agli anni trenta, quando ai rifugiati dalla Germania nazista veniva quasi sempre negato asilo sebbene fossero perseguitati per motivi politici o razziali. Anche in Germania c'era il timore di essere accusati di razzismo se veniva negato l'ingresso agli immigranti. E difficile capire, anche con uno sguardo retrospettivo, cosa avessero in mente i governanti di questi paesi nel dopoguerra. Immaginavano forse che un'immigrazione incontrollata non avrebbe creato grandi problemi? Che i problemi economici, sociali e culturali sarebbero stati risolti? Che gli immigranti un giorno sarebbero scomparsi o che si sarebbero bene integrati? Tutto ciò non significa che delle società europee fiduciose in se stesse avrebbero dovuto chiudere ermeticamente le porte a tutti gli immigranti. Ma li si sarebbe dovuti avviare al lavoro produttivo, non permettergli di usufruire dei servizi di assistenza fin dal giorno del loro arrivo. I predicatori e gli agitatori che parlavano della decadenza di uno stile di vita occidentale peccaminoso avrebbero dovuto essere espulsi. Si sarebbe dovuto imporre agli immigrati di rispettare le leggi, i valori e le norme prevalenti; se queste leggi e norme non fossero state conformi alle loro convinzioni, sarebbero stati liberi di andarsene. Questo, dopotutto, è ciò che è accaduto nella storia: cristiani dell'Europa centrale ed ebrei dell'Europa orientale emigrarono in America precisamente perché si sentivano vittime di discriminazioni e persecuzioni. I governi e le società europee, invece, non avevano più fiducia in se stesse; la xenofobia non era scomparsa, ma la classe dirigente era ben poco orgogliosa di appartenere a una certa nazione, o all'Europa. Ciò che prevalse fu il relativismo culturale e morale, forse in parte come reazione al nazionalismo del passato. Queste società non erano in grado di offrire una guida ai nuovi arrivati ed erano molto permissive, sicché
gli immigrati inevitabilmente si facevano l'idea che leggi e norme si potessero tranquillamente ignorare. Atteggiamenti come questi, insieme al relativismo culturale e morale degli europei, erano destinati ad avere gravi conseguenze, e gli europei dovranno sopportarle. Gli immigranti illegali in Giappone, in Cina o a Singapore, praticamente in ogni altro paese, sarebbero stati rispediti indietro entro pochi giorni, se non poche ore. Gli Stati Uniti hanno avuto un problema simile con gli immigranti messicani, ma almeno questi non avevano in mente di imporre una nuova legge straniera e religiosa al paese di adozione. Agli immigranti illegali in Europa è stato permesso di rimanere, ma anche se le autorità avessero scelto una linea più dura, questa avrebbe avuto effetto solo su una minoranza, dal momento che i membri delle comunità di immigrati sono ormai cittadini del nuovo paese o ci sono nati, quindi hanno diritto di viverci come chiunque altro. Oggi ci si sta gradualmente rendendo conto di come tutto questo peserà sul futuro dell'Europa, insieme ad altre minacce che il continente ha di fronte. Certamente si tratta della fine dell'Europa come grande protagonista della politica mondiale. Come si è già detto, disgrazie e disastri epocali potrebbero capitare anche in altri continenti; alcuni sono stati descritti in opere di fantascienza, altri sono stati elencati e descritti in un libro di Richard A. Posner, Catastrophe: Risk and Response, 2005. Vanno dal terrorismo biologico a una gigantesca epidemia, al surriscaldamento del pianeta, fino alla collisione con una cometa. Ma in tutta probabilità una simile catastrofe su scala planetaria colpirebbe anche l'Europa, quindi non sarebbe una consolazione per gli europei. Il gigantesco boom economico della Cina potrebbe arenarsi a causa di pratiche capitalistiche corrotte e della fragilità del sistema politico, come del sistema sanitario e scolastico, oppure l'opposizione a una riforma politica potrebbe condurre all'alienazione delle masse. Il boom indiano potrebbe fermarsi di colpo; solo una minoranza della popolazione ha beneficiato del nuovo benessere, e si sta creando un'enorme sperequazione fra ricchi e poveri, città e campa-
no
gne, la quale a sua volta potrebbe scatenare la lotta di classe vecchia maniera e un grave scontro politico. L'enorme potenza economica degli Stati Uniti si regge su basi malferme, a cominciare dall'altissimo debito pubblico e dal deficit del bilancio commerciale; si potrebbero verificare sconfitte nella politica estera e una crescita di tensioni interne. Tutto ciò può anche accadere, ma non andrebbe a vantaggio dell'Europa. L'economia europea è in gran parte orientata verso l'esportazione, e lo sarà ancora di più con il restringersi del mercato interno. Difficoltà sui suoi grandi mercati porterebbero quasi certamente a una crisi di tutta l'Europa. Ancora una volta: l'immigrazione incontrollata non è stata la sola ragione del declino dell'Europa, ma insieme agli altri gravi problemi del continente ha già portato a una crisi profonda: ci vorrebbe un miracolo per salvare l'Europa da questa situazione.
COSA RIMANE DELL'EUROPA?
Nessuno può dire con certezza se l'unificazione europea farà grandi progressi negli anni a venire, o come andrà l'economia. Ma i problemi demografici possono essere previsti con ragionevole accuratezza, e sono questi che discuteremo per primi. E vero che anche le proiezioni si basano su certe ipotesi, e come ha notato il demografo francese Jean-Claude Chesnais, quelle prodotte da organizzazioni come le Nazioni unite molto spesso sono errate per essere politicamente corrette e ottimiste, perché non si vogliono spaventare i lettori e si preferisce sminuire le implicazioni politiche. Le stime di esperti indipendenti sono spesso più affidabili. Anche le proiezioni dell'oNu, però, basate sull'ipotesi che il tasso di nascita in Europa aumenti di circa un quarto nei prossimi anni (cosa che molti considerano irrealistica) hanno concluso che nel 2050 la vecchia l'Unione Europea avrà 60 milioni di abitanti in meno, e che l'intera Europa, compresa la Russia, ne avrà 130 milioni in meno. E ancora più impor-
tante notare che dopo il 2050 il declino della popolazione sarà molto più forte e il numero delle nascite, in Germania per esempio, sarà la metà di quello che è adesso. Se non si conta un'ulteriore immigrazione, e c'è ogni ragione perché diminuisca per motivi politici ed economici come la disoccupazione, i paesi con un basso tasso di nascita come l'Italia e la Spagna si saranno notevolmente ristretti, come si è già spiegato abbastanza dettagliatamente in un altro capitolo. Questa diminuzione della popolazione si può già osservare in alcune zone come la Russia europea, dove migliaia di villaggi hanno cessato di esistere, per non parlare dell'esodo dalla Siberia e da altre parti della Russia settentrionale. In Spagna lo spopolamento delle campagne cominciò nell'era post-Franco; ha colpito l'Andalusia e le regioni povere come l'Estremadura e in anni recenti è accelerato. Si è tentato senza grande successo di far occupare i villaggi abbandonati dai nuovi immigranti, e c'è un flusso considerevole specialmente dall'Ecuador e dalla Colombia, ma i nuovi arrivati di solito vanno ad abitare nelle città, dove il lavoro è meglio pagato. In Gran Bretagna Manchester e Newcastle negli ultimi quarant'anni hanno perduto il 40 per cento degli abitanti, e 100.000 persone lasciano Londra ogni anno. A Londra i prezzi immobiliari sono ancora astronomici anche a confronto con quelli americani e nel resto d'Europa, ma si possono comprare case a basso prezzo nei centri cittadini dei Midlands e del Nord, dove le vecchie industrie tradizionali sono scomparse. E particolarmente in quelle zone che si concentrano forti comunità musulmane. In Germania lo spopolamento è particolarmente grave nelle regioni orientali, da dove i giovani se ne sono andati. Duemila scuole sono state chiuse negli ultimi anni, sono rimasti pochi negozi e ancora meno medici; è solo una questione di tempo prima che gli ultimi abitanti dei villaggi se ne vadano anche loro. La diminuzione della popolazione non si limita alla campagna, si verifica anche in piccole cittadine e in alcune città più grandi; i prezzi delle case sono in diminuzione e qui e là si vedono strade deserte. Negli ultimi dieci anni
Halle, Rostock, Cottbus e Magdeburgo hanno perduto dal 16 al 20 per cento degli abitanti, per lo più giovani. Düsseldorf, che ha anch'essa perduto abitanti, è ancora il grande centro bancario e commerciale della regione, ma la Ruhr, la cintura tedesca dell'acciaio, è in costante declino; molte città vicine, compresa Hägen, hanno meno abitanti di una volta. Il destino di Hagen o Gelserkirchen è più tipico nella regione di quello di Düsseldorf, e lo stesso vale per le zone con acciaierie e miniere del Belgio meridionale (Charleroi e Möns, per esempio) e anche per le città francesi appena al di là del confine. Le tensioni etniche ad Antwerp, un tempo città pacifica e prospera, ne hanno fatto uno dei centri urbani più problematici di tutta l'Europa. Ci sono quartieri interi di città dove si vedono pochi bambini; queste città assomigliano piuttosto a dei pensionati e non corrispondono più all'immagine tradizionale della vibrante e pulsante vita urbana. Ma chi si occuperà di questa popolazione che sta invecchiando, e chi saranno i giovani lavoratori produttivi che garantiranno il benessere economico del paese, cosi che si possa provvedere alle pensioni degli anziani, all'assistenza sanitaria e ad altri servizi? Un tempo si credeva che l'Europa dell'est avrebbe fornito questa forza lavoro, ma il numero di coloro che si sono trasferiti è basso e tende a diminuire ancora, perché i tassi di nascita dell'est sono bassi come quelli dell'ovest, se non di più. C'è una grande e crescente riserva di giovani disoccupati in Nordafrica e nel Medio Oriente - circa il 25 per cento - e la crescita della popolazione è più rapida di quella economica. Per risolvere il problema saranno necessari cento milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni, ma è poco probabile che vengano creati. Il problema della disoccupazione in Nordafrica e nei paesi arabi ad est del Maghreb è stato chiamato una bomba a orologeria: la domanda è se esploderà nel Medio Oriente, in Europa, o in entrambe. Ma al di là delle considerazioni politiche, quale sarebbe il senso di invitare immigranti da questi paesi, quando la disoccupazione fra i giovani musulmani è del 20 per cento, 30 per cento, perfino
40 per cento in Germania, in Francia e in altri paesi europei? Avere più lavoratori giovani che sono privi non solo di formazione professionale ma qualche volta anche di motivazione aggraverebbe le tensioni etniche che già ci sono e non servirebbe a soddisfare i bisogni economici e sociali. L'Asia meridionale, il Sudest asiatico e le ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale potrebbero essere una riserva di forza lavoro più promettente. Ma finora i paesi europei hanno fatto poco per attrarre immigranti da quelle regioni del mondo, e non si sa quanti lavoratori specializzati e tecnici sarebbero disposti a trasferirsi in Europa in un momento in cui le loro economie stanno decollando. In Germania per un breve periodo sono stati fatti dei tentativi di attirare esperti di computer da Bangalore e altri centri dell'industria indiana ad alta tecnologia, ma le offerte non erano abbastanza allettanti e c'erano pochi candidati. (Furono assegnati all'India solo 20.000 permessi di residenza, ma pochi candidati mostrarono interesse e dopo un paio d'anni l'iniziativa fu sospesa). In Spagna c'è un rinnovato interesse per gli immigranti dall'America Latina; negli ultimi anni decine di migliaia sono arrivati specialmente dall'Ecuador e la Colombia, e ci si è domandati se questo flusso debba essere incoraggiato. E probabile che ci sia un aumento del tasso di nascita nelle società europee? Esso è diminuito costantemente per 150 anni, e adesso un'inversione di tendenza sembra improbabile. Le dittature degli anni trenta e l'Unione Sovietica cercarono di promuovere l'aumento della fertilità con vari premi e ricompense, ma senza grandi risultati. In Russia è stato proposto che ai membri di famiglie con figli sia data una preferenza per gli impieghi statali. In Francia e in Svezia una legislazione per la famiglia che assicura una lunga licenza di maternità ha probabilmente portato a un aumento del tasso di nascita, ed è probabile che altri paesi seguano questo esempio. Ma in Francia e in Svezia il tasso di nascita rimane ben al di sotto di quello di riproduzione (2,2 figli per donna fertile). Insomma, salvo sviluppi imprevedibili, la tendenza prevalente non si invertirà.
È vero che anche il tasso di nascita cinese e giapponese (e recentemente anche quello indiano) è notevolente diminuito, ed è probabile che lo stesso accada nel Medio Oriente e in Nordafrica. Sembra altrettanto certo che diminuisca anche il tasso di nascita delle comunità di immigrati in Europa, oggi significativamente più alto (forse tre volte) di quello locale. Ma l'impatto di questa diminuzione si sentirà solo fra una generazione o due, non nei prossimi decenni.
IL FUTURO DELL'EUROPA MUSULMANA: REGNO UNITO
Le comunità di immigrati in Europa sono molto diverse per molti aspetti, e lo saranno anche i problemi delle società europee negli anni a venire. Le generalizzazioni sui musulmani sono utili solo fino a un certo punto. I dati essenziali sugli immigrati nel Regno Unito provenienti da paesi musulmani sono stati esposti più sopra: sono solo circa la metà del totale (1,6 milioni, forse un po' di più contando gli illegali), e per la metà sono nati in Gran Bretagna; è una comunità giovane e il tasso di nascita è abbastanza alto; la disoccupazione è tre volte più alta della media; e la maggior parte degli osservatori ha notato tra i giovani non solo un'alienazione culturale, ma anche un sentimento crescente di discriminazione e perciò di disinteresse. Esiste dunque certamente una riserva per azioni violente, come ha mostrato l'arresto di "militanti" pakistani nell'agosto del 2006. Ma in un futuro prevedibile i musulmani non saranno una forza politica decisiva a livello nazionale, a meno che il governo non permetta un'immigrazione incontrollata nei prossimi anni, cosa che è improbabile vista l'esperienza passata. I musulmani in Gran Bretagna avranno piuttosto un ruolo più attivo nella politica locale, come consiglieri comunali o anche sindaci di alcune città (come Mohammed Afzal Khan a Manchester) e anche come parlamentari. E difficile che diventino una forza politica decisiva eccetto forse nei quartieri poveri di città come Bradford e Birmin-
gham e in alcune zone di Londra; sono in tutto circa quaranta o cinquanta circoscrizioni elettorali, come BirminghamSparkbrook, Bethnal Green e East Ham. I politici di queste circoscrizioni fanno attenzione al voto musulmano, perché con il sistema elettorale vigente i risultati di qualche dozzina di circoscrizioni potrebbero acquisire una certa importanza. Dozzine di parlamentari dovranno stare attenti a prendere posizioni politicamente corrette sul Kashmir, sul conflitto israelo-palestinese e questioni simili. I musulmani potrebbero voler fondare un partito etnico, ma questo non è molto probabile; anche coalizioni con altri gruppi etnici o religiosi sono possibili, ma probabilmente non durerebbero. Il governo inglese ha cercato più di ogni altro di venire incontro alle comunità musulmane, a livello collettivo permettendo un'immigrazione quasi indiscriminata e l'attività di gruppi estremisti già messi fuori legge nei paesi arabi; come si è già detto, negli anni novanta Londra divenne il centro di attività degli islamisti radicali. Allo stesso tempo sono stati fatti grandi sforzi per dialogare con le organizzazioni musulmane, e non solo quelle moderate; sono stati organizzati gruppi di lavoro per ridurre la disaffezione e sono state promulgate leggi che proteggono gli interessi dei musulmani e ne impediscono la discriminazione. A livello individuale è stata accordata una corsia preferenziale agli immigrati musulmani per quanto riguarda la politica della casa e altri servizi. Alcuni di questi sforzi erano lodevoli, ma hanno ottenuto magri risultati. Secondo una grande inchiesta di opinione condotta dalla Pew Foundation nel giugno 2006, da una parte circa il 63 per cento degli inglesi aveva unatteggiamento positivo nei confronti della comunità musulmana, mentre dall'altra i musulmani «avevano un atteggiamento verso gli occidentali molto più negativo di quello dei musulmani in Francia, Germania e Spagna», e criticavano gli inglesi per il loro egoismo, l'arroganza, la violenza, l'avidità di denaro, l'immoralità e il fanatismo. I musulmani in Gran Bretagna tendevano anche a credere a teorie della cospirazione: solo il 17 per cento era disposto a dire che gli attacchi terroristici
dell'11 settembre 2001 erano stati compiuti da arabi (in confronto, per esempio, al 48 per cento in Francia). Quando i rapporti tra gruppi etnici erano tesi, più inglesi che musulmani tendevano a dare la colpa ai propri compatrioti mentre i musulmani davano la colpa agli inglesi, il che, se è esatto, mostra che le proteste contro l'islamofobia sono prive di fondamento. Molti più musulmani in Gran Bretagna (il 47 per cento) che in altri paesi europei erano pessimisti sul futuro, perché percepivano un conflitto fra la propria fede religiosa e la vita in una moderna società democratica. Secondo la stessa inchiesta, i cittadini tedeschi e spagnoli avevano opinioni molto più negative di quelle degli inglesi sui musulmani che vivono nel loro paese; d'altra parte, gli atteggiamenti di indiani e nigeriani verso i musulmani erano molto più critici di quelli di ogni europeo. Non è stata condotta una ricerca approfondita in ogni regione della Gran Bretagna, ma ci sono studi, per esempio, sull'East End di Londra (Tower Hamlets - già Bethnal Green Wapping, Bow, Stepney e Poplar) e su Bradford, e i risultati non sono incoraggianti. Un rapporto sul New East End del professor Geoff Dench e altri è di particolare interesse; esso fa seguito a uno studio simile condotto da membri del Labour Party nel 1954.1 risultati del 2006 sono che l'East End è ancora il dietro (per evitare un termine più crudo) della capitale britannica. Si è formata tra gli immigrati una cultura dei diritti e un nuovo ordine sociale li ha sostenuti, cosa che ha generato il risentimento della classe operaia bianca che si è sentita sempre più emarginata. Conclusione: «Un approccio concentrato sulle minoranze è come gettare benzina sul fuoco». Una volta questo era l'East End dei mercatini di strada e di Jack lo Squartatore, del Bloom's Restaurant (lockshen e gefilte fish), di Dixon Dock Green, il leggendario, commovente programma televisivo degli anni cinquanta, e di Underneath the Arches. Ma c'è stato nell'East End un esodo della popolazione e un cambiamento dell'amministrazione locale, e il quartiere
ora è abitato prevalentemente da immigrati del Bangladesh. Il fenomeno si è manifestato, tra l'altro, nelle statistiche della criminalità. Mentre fino agli anni novanta gran parte delle denunce di violenze di carattere razziale venivano dai nuovi immigrati, ora vengono dai bianchi, sebbene ci sia stato un esodo di bianchi dalla zona. Ma anche i bangladeshi benestanti (specialmente proprietari di ristoranti e di servizi di catering) hanno lasciato la zona, prendendo le distanze dai vecchi ghetti e trasferendosi in strade e quartieri con scuole migliori. Allo stesso tempo i giovani bangladeshi che non hanno fatto carriera (cioè la maggioranza) «hanno risposto al fallimento adottando pratiche della controcultura britannica che non hanno niente in comune con lo stile di vita dei loro genitori». Questa è un'espressione educata che si riferisce in realtà a bande di strada, cultura delle bande, abuso di droghe, furti e rapine. Il riferimento alla controcultura britannica non è esattamente appropriato. In quelle strade c'erano bande di bianchi, criminali o semicriminali, già negli anni prima e dopo la seconda guerra mondiale, ma sono praticamente scomparse e non sono mai state "controcultura". In ogni caso la generazione più anziana degli immigrati non ha alcun controllo sui giovani, proprio come accade in Francia e in Germania. Una ragione importante della demoralizzazione dei bianchi è stata quella delle pratiche in vigore nelle scuole dell'East End. Queste scuole hanno ricevuto fondi speciali per aiutare i ragazzi del Bangladesh secondo una norma chiamata Sezione 11, e questo ha creato tra i genitori bianchi l'impressione che per gli insegnanti fosse diventato importante bocciare i ragazzi bianchi, così che le scuole guadagnassero la reputazione di favorire le minoranze - e ricevessero più finanziamenti. Un altro problema che ha creato molta tensione è la preferenza data agli immigranti per l'assegnazione di abitazioni, che ha generato tra i vecchi residenti la sensazione di un'invasione di stranieri. Un anziano si lamentava delle scritte in urdu che comparvero improvvisamente sui muri degli ospe-
dali («Questo era un quartiere ebraico, ma non ricordo scritte in lettere ebraiche»). La comunità del Bangladesh è diventata sempre più dipendente dal sistema di welfare, sebbene all'inizio fossero riluttanti ad accettare questo genere di sussidi che venivano considerati una violazione dei precetti della loro religione. Non c'è bisogno di dire che la dipendenza dalle assicurazioni sociali non ha fatto che perpetuare l'inferiorità del loro status nel sistema sociale. La posizione che ispirava la politica di discriminazione positiva da parte del Labour Party, che amministrava l'East End, fu formulata dal capogruppo parlamentare del partito. La classe operaia bianca, specialmente la generazione anziana, veniva considerata conservatrice, spesso testardamente razzista e reazionaria, e perciò era uno spreco di tempo e denaro spendere fondi per mantenere la sua collaborazione; il tasso di nascita dei bangladeshi era un'altra motivazione importante di quella politica. Ma alle elezioni del 2005 la candidata del Labour Party, una donna in parte nera e in parte ebraica, fu sconfitta da George Galloway, segretario di un nuovo partito chiamato Respect, un uomo che molti consideravano un clown e un personaggio spregevole. Il suo movimento era basato su una coalizione fra il Socialist Workers Party, trotzkista, e vari gruppi islamici radicali. Il Labour Party non ottenne nulla dalla propria linea: in politica c'è poca gratitudine. Un altro esempio è quello di Bradford, una città di circa 470.000 abitanti nel Lancashire, con una vecchia comunità musulmana prevalentemente pakistana; oggi ci sono circa 80.000 pakistani, metà dei quali nati nel Regno Unito. Secondo rapporti semiufficiali, c'è stato a Bradford un tentativo liberal di garantire dei diritti ai musulmani, compreso quello di avere scuole divise fra maschi e femmine. Nel 1982 c'era una moschea, ora ce ne sono più di sessanta. Ma secondo lo stesso rapporto, è apparso presto chiaro che non c'era alcuna definizione dei "valori condivisi" che sono stati sempre invocati in città. Le autorità locali e i leader musulmani di fatto non hanno prestato alcuna attenzione alla necessità di impe-
gnarsi in un dialogo critico sull'idea di una società integrata e multietnica. Secondo un altro rapporto, Bradford è diventata una città autosegregata, demarcata da differenze culturali, etniche, religiose e sociali. Ci sono stati alti livelli di disoccupazione e un serio problema di criminalità, mentre la droga veniva venduta apertamente nei quatrieri bassi della città. In breve, la situazione era molto simile a quella di molte altre città britanniche con una simile composizione etnica. Bradford fu uno dei luoghi dove nel 1989 furono bruciati i libri di Salman Rushdie, al tempo dello scandalo e della protesta provocata dal suo Satanic Verses, e poi ci furono disordini nel 1995 e in altre occasioni. I non musulmani, sia inglesi sia indiani, furono costretti a traslocare (qualche residente ha usato l'espressione "pulizia etnica") e la zona fu islamizzata. Chiese e pub furono presi d'assalto, mentre le donne non musulmane non potevano avventurarsi per le strade al buio e anche durante il giorno correvano il pericolo di essere molestate. Per dirla con le parole dei giornali locali, i quartieri bassi erano diventati zona di guerra. I pakistani prendevano anche parte alla politica amministrativa: c'erano tredici consiglieri comunali e uno divenne sindaco, ma secondo alcuni i consiglieri musulmani dipendevano quasi sempre da istruzioni date per telefono dal Pakistan, pare da leader politici e religiosi. Secondo un intellettuale musulmano cresciuto a Bradford, i leader locali del Labour Party e quelli dell'estrema sinistra erano in parte responsabili per questi fatti. Avevano formato un Consiglio delle moschee e lo consideravano come la voce della comunità. Il multiculturalismo non ha creato l'Islam militante, ma ha creato per esso uno spazio nelle comunità musulmane della Gran Bretagna che non esisteva prima. Esso ha favorito la formazione di una nazione più tribale, ha ostacolato le tendenze progressiste nelle comunità musulmane e ha dato forza ai leader religiosi conservatori1. 1
Kenan Malik, Born in Bradford,
in «Prospect», ottobre 2005.
Gli attivisti dell'estrema sinistra abbandonarono la vecchia idea marxista della classe operaia come agente di cambiamento e sostennero ogni genere di "nuovi movimenti sociali"; quando questa tattica non funzionava, allora sostennero la "politica dell'identità". In altre parole, i valori comuni erano meno importanti di ciò che vari gruppi etnici o tribali rivendicavano, per quanto fossero reazionari. L'ironia è che a Bradford, come in tutta la Gran Bretagna, nemmeno l'appoggio ai leader musulmani conservatori portò ad alcun risultato politico. Nella comunità c'era un crescente conflitto generazionale, e l'influenza dei leader religiosi sui giovani era scarsa o nulla. I portavoce locali della comunità musulmana non negavano la serietà del problema, ma davano la colpa alla crisi d'identità di cui soffrivano i giovani, alla disoccupazione, alla mancanza di opportunità di istruzione, all'alienazione sociale e all'islamofobia (o razzismo), compresi "i messaggi islamofobici dei mass media". Ma secondo la legge britannica, qualsiasi messaggio del genere è proibito e punibile. La verità è che non mancavano affatto le opportunità di istruzione; Bradford ha anche un'università, ma i giovani pakistani non approfittavano di queste opportunità, anzi, molto spesso non andavano nemmeno a scuola. Un giornalista indiano ha scritto un interessante articolo in cui confronta la situazione della comunità indiana di Leicester con i pakistani di Bradford. (Anche Leicester, una città dei Midlands orientali con 330.000 abitanti, ha una grande comunità asiatica, ma la situazione è molto migliore che a Bradford). Da una parte gli indiani, che a Leicester sono la maggioranza, hanno migliorato la propria condizione; dall'altra i giovani pakistani hanno scelto inutili azioni di sfida e si sono presentati come vittime. Hanno chiesto rispetto, hanno cercato di sfuggire al proprio status miserevole ritirandosi in un mondo interiore e ostile, e spesso si sono dati alla violenza. Gli uomini si sono fatti crescere la barba e hanno imposto alle donne di portare Yhijab e il burka. E vero che quando gli indiani arrivarono (spesso dall'Africa Orientale,
espulsi da Idi Amin) avevano già un'istruzione migliore e un po' di denaro - non milioni, come dicevano certi pakistani abbastanza per aprire un negozietto all'angolo. Ma il fatto è che gli indiani avevano la determinazione a migliorare la propria posizione. Cosa potevano fare le autorità per migliorare le possibilità di successo dei pakistani? La domanda riguarda non solo Bradford ma tutta la Gran Bretagna e l'Europa. Ora, le autorità non potevano risolvere una crisi d'identità, ma potevano concedere prestiti o assegnare borse a uomini e donne che proponessero progetti concreti per guadagnarsi da vivere. Anche se solo alcuni di questi progetti avessero avuto successo, quelli sarebbero stati investimenti utili. Soprattutto, le autorità potevano cercare in ogni modo di far andare a scuola i giovani, di portarli a un diploma e far sì che continuassero con studi superiori o la formazione professionale. A questi giovani doveva essere concesso uno status speciale a scuola, viste le origini sociali svantaggiate. Negli ultimi anni il governo britannico ha lanciato e condotto un'iniziativa chiamata "sure start" (partenza sicura) che, come l'Head Start americano, è un programma di istruzione per bambini piccoli che è stato poi esteso e dovrebbe essere esteso ancora di più; lo stesso vale per l'insegnamento della lingua inglese e per i centri di avviamento professionale. Il governo di Tony Blair ha appoggiato molto le scuole religiose islamiche, anche se la maggioranza degli inglesi è contraria. A queste scuole è richiesto di svolgere i programmi nazionali oltre che offrire un'istruzione religiosa, ma di fatto non c'è alcun controllo su cosa viene insegnato e sul rispetto di standard minimi. Un'altra iniziativa nell'istruzione, Aim Higher (Punta più alto), è mirata a giovani di talento in zone povere, che si cerca di avviare a buone scuole e università. I leader musulmani si sono lamentati del fatto che finora sono gli africani e i caraibici che hanno tratto più beneficio da queste iniziative. Forse si dovrebbero assegnare sussidi economici non solo a coloro che si distinguono a scuola, ma anche a quelli che in
qualche modo mostrano di avere buona volontà. I cinici possono rispondere che si guadagna di più con lo spaccio di droga e il furto, ma questo è un campo ristretto, e se le autorità riuscissero a ridurre la criminalità sulle strade e a offire ai giovani l'opportunità di un lavoro, anche questo sarebbe un risultato importante. Certamente ciò non sarebbe equo rispetto ai non musulmani, ma se si deve scegliere fra giustizia sociale e pace, dovrebbero prevalere provvedimenti capaci di garantire la seconda. Lee Jasper, consigliere per gli affari razziali del sindaco di Londra Ken Livingstone, ha dichiarato: «Bisogna trattare la gente in modo diseguale per trattarla equamente». Il governo britannico, attraverso il Ministero dell'interno e altri dipartimenti, ha istituito varie commissioni e sottocommissioni che hanno prodotto e in parte implementato una serie di raccomandazioni, da lezioni sulla cittadinanza nelle scuole musulmane e il reclutamento di poliziotti musulmani, all'offerta di benefici fiscali e corsie preferenziali per l'impiego e l'istruzione superiore, sempre favorendo i cittadini musulmani. Ma alla fine dei conti l'iniziativa di un cambiamento per il meglio deve venire dalla comunità musulmana, perché le autorità possono solo facilitare il processo. Se i genitori non incoraggiano l'istruzione dei figli - o nel caso delle ragazze spesso la scoraggiano o la proibiscono - c'è poco che gli amministratori possano fare. Non ci sono stati segni di sorta che una leadership musulmana alternativa stia per emergere nel breve periodo. I rappresentanti liberal e laici della società musulmana hanno poca influenza, e i membri della classe media emergente non hanno mostrato un grande interesse ad aiutare i propri compatrioti o fratelli nella fede che sono stati meno fortunati; molti infatti hanno preso le distanze dalla comunità anche fisicamente. L'iniziativa dei politici britannici di aiutare giovani di talento nati nei ghetti a farsi strada fino ad Oxford, Cambridge e altre grandi università è lodevole. L'idea, naturalmente, è che in futuro questi giovani, uomini e donne, possano diventare insegnanti e leader, modelli per i
giovani. Ma quanti seguiranno questa strada? Probabilmente la maggioranza troverà la strada verso pascoli più verdi. In Gran Bretagna ci sono degli intellettuali musulmani laici e alcuni di loro pubblicano un'elegante rivista («Q»), ma le strade sono dominate dai seguaci degli imam conservatori e radicali. Quelli apprezzati da politici inglesi come Livingstone come modelli di un Islam illuminato, come il predicatore televisivo Qaradawi, sono reazionari secondo i quali perfino Tariq Ramadan è quasi un apostata. In breve, la lotta per un accordo con la comunità musulmana è come remare contro corrente. Molti provvedimenti proposti per risolvere il problema possono essere utili, e perfino il dialogo con i leader sbagliati forse non è del tutto inutile, purché non si nutrano illusioni sulle tendenze fondamentalmente illiberali di questi leader e sui limiti del loro potere e della loro influenza nella loro comunità.
IL FUTURO DELL'EUROPA M U S U L M A N A : FRANCIA
Mentre i musulmani in Gran Bretagna sono una minoranza relativamente ristretta, la situazione in Francia è diversa: la popolazione musulmana va dai quattro ai cinque milioni. Le autorità francesi sono state molto più severe nell'applicazione delle leggi della Repubblica: hanno deportato gli imam che si dedicavano all'agitazione politica (alcuni sono ritornati poco tempo dopo) e non hanno fatto alcuna concessione sul problema d é N h i j a b o sulla questione delle scuole divise per sesso. La loro linea politica è stata quella dell'integrazione e assimilazione, non il multiculturalismo. Ciò ha portato da un lato a conflitti e scontri fisici molto più diffusi che in Gran Bretagna, dall'altro all'emergere di un settore laico di origine musulmana molto più forte. Non si sente molto parlare di questi ultimi perché non sono tra i dimostranti e non sono oggetto di attenzione da parte dei media, però il tasso di matrimoni interetnici è più alto che in Gran Bretagna e il terrorismo è stato meno grave. Più
immigrati musulmani della seconda, terza e quarta generazione sono stati assimilati, sono entrati nell'amministrazione pubblica centrale o locale e si sono fatti strada nella vita sociale e culturale francese. Gruppi interi, per esempio i kabyles (berberi) del Nordafrica, non hanno partecipato alla rivolta nelle banlieues, ma questo è dovuto al fatto che spesso si erano trasferiti e staccati dalla comunità musulmana. In Francia ci sono più zone escluse ai non musulmani che in Gran Bretagna, e i politologi pensano che il paese vada verso la balcanizzazione in un futuro non lontano. E probabilmente più difficile prevedere il futuro della Francia che quello di altri paesi a causa del bisogno urgente di una riforma e di una forte resistenza ad essa; è altrettanto difficile pensare a una vera balcanizzazione, cioè all'emergere di Stati separati o regioni autonome nel territorio francese. Gli islamisti radicali possono anche volere il potere in regioni in cui i musulmani sono la maggioranza, ma queste sono zone povere con un'altissima disoccupazione e non è chiaro chi pagherebbe per sostenerle. Per questa ragione, anche i musulmani radicali potrebbero essere costretti a opporsi a un'ulteriore ondata di immigrazione, poiché più poveri ci sono meno lo Stato sarà in grado di aiutarli. Forse si andrà verso la costituzione di regioni autonome binazionali. I musulmani potrebbero fare delle concessioni sulla sharia, e le autorità francesi potrebbero rinunciare al vecchio modello repubblicano che prevede una chiara distinzione fra Chiesa e Stato. Ci sono state città e regioni in cui la coesistenza etnica in qualche modo ha funzionato, come Marsiglia per esempio, un modello che si dovrebbe studiare. Ogni tipo di coalizione politica è possibile. I comunisti e la New Left hanno cercato di trovare sostenitori nella comunità musulmana, ma non hanno avuto un grande successo. Un'inchiesta di opinione condotta dalla stazione radio Skyrock, molto popolare nella "zona", ha avuto strani risultati. La domanda era per quale candidato gli ascoltatori avrebbero votato. Jean-Marie Le Pen, leader del Front National, ha avuto
i maggiori consensi; Donadieu, un famoso antisemita non esattamente serio, mezzo francese e mezzo senegalese, è stato secondo e Nicolas Sarkozy, ministro dell'Interno, è arrivato terzo. Nessun altro politico è stato considerato. Forse nasceranno uno o più partiti musulmani, ma se questo dovesse accadere le divisioni all'interno della comunità diventerebbero aperte; per esempio, le differenze fra Africa nera e Nordafrica, e anche fra algerini e marocchini. Tutto considerato, sembra più probabile che i partiti già esistenti competano per il voto dei musulmani. Al momento non ci sono forti organizzazioni politiche nelle comunità musulmane, e in mancanza di queste l'azione "diretta" è più probabile di quella politica. Dopo i disordini del 2005 il governo francese ha ricevuto tutta una serie di suggerimenti da organizzazioni internazionali come l'International Crisis Group (ICG), per esempio quello di «rivedere le assegnazioni di alloggi popolari promuovendo il vicinato fra gruppi etnici diversi», ma c'è da domandarsi se gli interessati accoglieranno questo vicinato con entusiasmo; né è chiaro come «la severa riduzione di finanziamenti pubblici delle associazioni fin dal 2002» possa essere riconsiderata in un periodo di crisi economica e austerità finanziaria senza danneggiare i poveri di altri gruppi etnici: una manovra simile acuirebbe invece che diminuire le tensioni già esistenti. Il ministro dell'Interno Nicolas Sarkozy, il più schietto tra i politici francesi e bestia nera degli attivisti islamici, ha sostenuto una politica di discriminazione positiva, cioè un trattamento preferenziale per i musulmani, osteggiato da quasi tutta la classe dirigente, che però potrebbe diventare la linea del governo nei prossimi anni. Se questo sia sufficiente a mantenere la pace sociale e politica, rimane incerto. In molte occasioni i socialisti francesi hanno manifestato un atteggiamento favorevole e anche compassione per gli immigrati musulmani, ma le loro proposte non sono sostanzialmente differenti da quella di altri partiti.
IL FUTURO DELL'EUROPA MUSULMANA: GERMANIA
La situazione degli immigrati musulmani in Germania per certi versi è più promettente, per altri è peggiore. A Berlino per esempio, dove c'è la comunità turca più numerosa (Kreuzberg, Neukolln, Wedding), quelli che hanno avuto un certo successo sociale ed economico sono inclini a stare nei loro quartieri e a investire là. Ci sono banche turche e agenzie di viaggi, negozi e ambulatori medici, ed è meno probabile che quei quartieri diventino dei bassifondi di quanto non valga per i quartieri bassi inglesi o le periferie francesi ("la zona"). Ma occorre ricordare anche che a Duisburg, per esempio, lo stato di cose è meno incoraggiante. Una volta c'erano poche imprese turche eccetto piccoli chioschi di legno dove si vendeva doner, frutta e verdura, ma un po' alla volta comparvero imprese piccole e medie. Ne furono aperte circa 60.000, per la maggior parte ditte a gestione familiare. Ora però ci sono alcune grandi imprese, e nomi come quello di Kemal Sahin, un ingegnere che è diventato capo di una grande holding, sono ben noti al di fuori della comunità. Gli immigrati della seconda e terza generazione sono entrati in politica, sono autori di libri di successo, hanno ricevuto premi per il migliore film dell'anno e così via. Il numero dei matrimoni misti è raddoppiato da 4.000 (all'anno) prima del 2000 a circa 8.000. Malgrado tutto ciò, l'integrazione degli immigrati turchi ha avuto tutt'altro che successo; l'alienazione culturale è probabilmente peggiore che in Gran Bretagna e in Francia perché la lingua non è la stessa (la maggior parte degli immigrati in Gran Bretagna sa un po' di inglese e quelli in Francia parlano francese). Il tasso di disoccupazione tra i giovani turchi è più del doppio di quello degli altri, e l'89 per cento dei residenti turchi e arabi appartengono alla underclass. Per quanto riguarda l'istruzione, la situazione è particolarmente scoraggiante: nel 1985 circa l'86 per cento dei giovani fino a ventun anni andava a scuola, mentre oggi ci va il 40 per cento. Il numero di ragazzi che non finiscono la scuola, nemmeno
quella superiore che è il rifugio di coloro che hanno un profitto scarso, è alto e in aumento. La loro conoscenza del tedesco è scarsa; il loro punto di riferimento sociale è la banda di strada. Il tasso di criminalità giovanile è due o tre volte più alto che nel resto della popolazione. E vero che circa 24.000 turchi studiano nelle università tedesche, cioè l'8 per cento di questa coorte demografica (dai 18 ai 25 anni); questo è ancora un numero basso rispetto alla percentuale dei giovani tedeschi di quell'età, ma è una luce di speranza in una situazione peraltro pesante. I dati sono anche peggiori a Duisburg (la cui zona turca è Marxlohe), Amburgo (Wilhelmsburg) o Colonia (Kalk ed Ehrenfeld). Dopo più di quarant'anni la situazione nelle comunità turche in Germania è peggiore che in molte città della Turchia, per esempio riguardo alla posizione delle donne. L'influenza dei gruppi politici e religiosi più reazionari è più forte, e quella delle forze progressiste e laiche è più debole che nella madrepatria. Mentre in Turchia lo stato maggiore dell'esercito, la magistratura e la maggior parte degli intellettuali costituiscono un contrappeso agli islamisti, in Germania queste forze sono assenti. Gli intellettuali turchi in Germania non hanno molta influenza sulle loro comunità; i loro libri vengono letti dai tedeschi e non dai loro compatrioti, e non sono in grado di competere con i sermoni degli imam. Le poche donne turche che lottano coraggiosamente per un'emancipazione almeno parziale sono considerate come traditrici e in pratica emarginate dalla comunità. Cosa si può fare, cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione? Nel 2000 il governo tedesco ha varato una legge che ha reso più facile l'acquisizione della cittadinanza, e circa 160.000 persone all'anno ne hanno usufruito. I candidati devono passare certi esami che richiedono un minimo di conoscenza del tedesco e delle leggi fondamentali del paese. Questi esami sono stati criticati, ed è certamente vero che un individuo può essere un buon cittadino senza conoscere il nome dei fiumi principali o gli autori più importanti della lette-
ratura tedesca; d'altra parte, senza un minimo di conoscenza della lingua una persona, tranne che in speciali circostanze, avrà difficoltà a obbedire alla legge e a beneficiare dei propri diritti di cittadino. Inoltre è utile sapere che la Germania si trova in Europa, che è una democrazia, e che la sharia non è la legge vigente. Praticamente ogni paese al mondo ha questi esami, compresi gli Stati Uniti (chi scrive è un professore di storia ma sbagliò due risposte sugli emendamenti alla costituzione americana). In Gran Bretagna c'era la regola che un ispettore di polizia visitasse le abitazioni dei candidati alla naturalizzazione, per controllare tra l'altro se i bambini andassero a scuola e sapessero un po' di inglese. La società tedesca, come quella inglese e francese, è stata considerata da alcuni responsabile del fallimento dell'integrazione e dell'esistenza dei ghetti. E certamente vero che pochi tedeschi accolsero gli immigranti a braccia aperte: dopotutto, non fu mai chiesto loro se fossero d'accordo, e più tardi trovarono difficile accettare che la presenza di milioni di "stranieri" non fosse un fenomeno temporaneo dato che gli immigrati sarebbero rimasti nel paese. Il governo tedesco spende circa 100 milioni di euro all'anno per promuovere l'integrazione, una somma che per quanto se ne sa non è nemmeno lontanamente sufficiente a risolvere quello che è diventato il più importante problema interno. Ma non è affatto certo che il risultato sarebbe stato radicalmente diverso se si fosse investita una somma dieci volte più alta. La ragione è che la maggioranza degli immigrati turchi non volevano assolutamente che i figli vivessero come i tedeschi, ed è naturale che a questo scopo la ghettizzazione autoimposta fosse la maniera migliore per proteggere i giovani dalla tentazione. Quasi tutti i genitori, avendo essi stessi un basso livello di istruzione, hanno mostrato uno scarso interesse all'istruzione dei figli. Solo pochi sono entrati in consigli di genitori e insegnanti che si occupano di sostegno nella vita scolastica. I figli di altri gruppi di immigrati all'inizio hanno avuto difficoltà a imparare il tedesco, ma in molti casi con l'aiuto degli insegnanti i
genitori hanno organizzato lezioni supplementari dopo l'orario scolastico perché i bambini potessero mettersi rapidamente al passo con gli altri. Si conoscono solo poche iniziative del genere nelle comunità turche. Quando veniva chiesto ai genitori come mai non collaborassero, spesso la risposta era che per vivere nel ghetto la conoscenza del tedesco non era una necessità vitale. Ci sono tre canali televisivi in turco oltre a quelli che hanno sede in Turchia, per non parlare dei quotidiani turchi stampati in Germania. Quando gli insegnanti tedeschi hanno insistito che si parlasse tedesco durante le lezioni e negli intervalli, sono stati accusati da zelanti muliculturalisti di praticare una repressione culturale, di privare i bambini della loro eredità, e peggio ancora. Molti bambini frequentano scuole religiose dopo le lezioni nelle scuole pubbliche. La sfortuna della Germania non è stata quella di accogliere milioni di immigranti, ma il fatto che questi venivano dalle fasce più arretrate e meno istruite della società turca. Ciò che impedisce un'assimilazione più o meno soddisfacente è da un lato il fattore sociale e dall'altro la pesante influenza della religione fondamentalista, che può essere mantenuta solo isolando la comunità da influenze estranee. Per molti immigrati della generazione più anziana la moschea è ancora non solo un centro religioso, ma anche sociale, culturale e politico. Il problema è che molte moschee sono controllate da gruppi islamisti e nazionalisti come Milli Goerues, tanto che circa trenta di esse sono state sotto osservazione costante per il sospetto che vi si predicasse la jihad. (Fino al 2001 le moschee avevano, come le chiese, dei diritti speciali e non potevano essere osservate dalle forze dell'ordine, ma la situazione è cambiata dopo gli attentati terroristici in Europa, Asia e America). E chiaro che la chiave del successo è l'istruzione; questa e l'addestramento professionale non garantiscono automaticamente la fedeltà al paese di adozione, ma aumentano di molto le possibilità di affermazione sociale ed economica e quindi almeno di un inizio di integrazione. A meno che non venga indebolito il controllo degli immigrati da parte di gruppi
fondamentalisti che praticano il loro indottrinamento non ci sarà progresso, ma c'è da dubitare che le autorità tedesche possano fare una cosa del genere. Gli assistenti sociali e gli esperti di programmazione hanno presentato nel corso degli anni centinaia se non migliaia di proposte per migliorare la condizione degli immigrati. Hanno suggerito misure per "costruire la fiducia" con "incontri interculturali" al fine di ottenere l'appoggio di coloro che vivono prevalentemente (o esclusivamente) nei quartieri di immigrati; hanno proposto una lotta allo stigma connesso con i ghetti e l'ammodernamento delle infrastrutture in questi quartieri. Alcuni pensano che l'esistenza dei ghetti non impedisca necessariamente un miglioramento, mentre altri li considerano un serio ostacolo. Non c'è mai stata prima nella storia delle migrazioni tanta attenzione e pianificazione, ma si sono ottenuti solo magri risultati, il dibattito è stato prevalentemente astratto e c'è stata poca franchezza. Il solo punto sul quale ci sembra essere un consenso è che sarà più facile risolvere certi problemi se la situazione economica migliora, cosa che purtroppo non si può dare per scontata.
IL FUTURO DELL'EUROPA MUSULMANA: SPAGNA
Paesi europei diversi hanno trattato le loro minoranze musulmane in modi diversi, qualche volta con una benevola noncuranza come in Spagna e in Italia. Il numero di musulmani per lo più nordafricani che vivono in Spagna non si conosce, ma è probabilmente vicino al milione; sono concentrati nel sud e nelle grandi città. Il governo socialista di Zapatero ha legalizzato la posizione degli immigrati illegali, circa 700.000, nella speranza che questo avrebbe contribuito a una normalizzazione, ma la pressione è continuata nel 2005 e 2006. Molti hanno cercato di entrare nelle zone spagnole in Nordafrica, Ceuta e Melilla, scavalcando i muri di cinta; altri hanno tentato di raggiungere le isole Canarie. I negoziati della Spagna con il Marocco, il paese d'origine della maggior
parte degli immigranti, hanno avuto solo un successo parziale. Molte migliaia di immigranti dall'Africa subsahariana sono riusciti a raggiungere le isole Canarie, porta d'ingresso per la Spagna e l'Europa, e i negoziati con i paesi africani sono stati altrettanto scoraggianti. In Marocco la disoccupazione è alta, per cui c'è stata una costante pressione per entrare in Europa non solo da parte di giovani non qualificati ma anche di diplomati. In Spagna ci sono state poche lamentele da parte dei musulmani per molestie da parte della polizia e "islamofobia" (malgrado l'antica ostilità nei confronti dei mori), ma l'integrazione sociale è stata scarsa. Il governo spagnolo ha istituito una fondazione per aiutare i fedeli di religioni minoritarie a integrarsi nella società spagnola, prevalentemente offrendo corsi di lingua, ma all'inizio i fondi si limitavano a 3,5 milioni di dollari, una cifra simbolica in confronto al miliardo di dollari assegnato in Francia. Le autorità spagnole non si sono opposte all'uso dell'hijab a scuola e hanno accettato l'insegnamento dell'Islam, ma non pagano gli insegnanti di religione musulmani. La spesa, come quella per le moschee, è coperta da forti contributi dell'Arabia Saudita e della Libia. Per lo più nelle moschee si predica una versione moderata dell'Islam, ma ci sono notizie di altre moschee impegnate nell'indottrinamento radicale. Ci sono molte indicazioni dell'esistenza di cellule terroriste clandestine, ma con l'eccezione degli attentati di Madrid del marzo 2004 non ci sono stati gravi attentati né attività antimusulmane, salvo una o due eccezioni. Le comunità musulmane in Spagna sono relativamente omogenee, come quelle francesi; per la maggioranza vengono dal Nordafrica, un numero minore dall'Africa subsahariana. Il paese d'origine però continua ad avere una certa importanza: i marocchini in particolare, che sono la maggioranza, tengono molto alla propria nazionalità, gli algerini meno. Tra gli algerini ci sono le differenze significative della popolazione berbera-kabyle, che si considera non una tribù ma un popolo a sé stante. Nelle organizzazioni musulmane ci sono spesso dei conflitti tra membri di gruppi diversi. In altri pae-
si europei le comunità sono molto più eterogenee, e mentre i non musulmani tendono a fare poca attenzione a queste differenze, esse hanno spesso un ruolo importante nelle questioni intramusulmane. Le divisioni etniche all'interno delle comunità musulmane in Europa sono considerevoli e spesso sottovalutate. Più di un terzo dei musulmani che vivono in Austria proviene dalla Bosnia e dal Kosovo, mentre quelli del Belgio sono in parte turchi e in parte marocchini, e altri paesi sono rappresentati; lo stesso vale per l'Olanda. Dei musulmani che vivono in Italia, più di un quarto sono albanesi. Esiste un po' di interazione fra questi gruppi diversi, ma spesso si isolano nelle proprie zone residenziali e i propri centri assistenziali, sociali e sportivi. Ci sono state tensioni a livello collettivo e individuale, per esempio fra turchi e curdi in Germania, spesso generate dai conflitti in corso tra i paesi d'origine. In breve, il mondo esterno tende a vedere le comunità musulmane come un gruppo più o meno monolitico, mentre sono in realtà costituite da vari elementi diversi, che hanno certamente interessi comuni ma vivono anche tensioni e conflitti.
IL SOGNO DI UN'EUROPA UNITA
Dopo che la nuova costituzione europea fu bocciata in Francia e in Olanda nel 2005, si decise di fare una lunga pausa di riflessione, l'unica cosa possibile. Alcuni, come l'allora ministro dell'Interno Sarkozy in Francia, dicevano che una nuova iniziativa verso una cooperazione più stretta avrebbe dovuto venire da un nucleo propulsore incentrato su Francia e Gemania, e forse Spagna e Italia, anche se la Francia aveva appena votato contro la costituzione. Era chiaro a tutti che l'idea originaria degli "Stati Uniti d'Europa", ciò che in un modo o nell'altro era stato l'obiettivo dei padri fondatori dopo la seconda guerra mondiale, non era più praticabile ora che l'Unione Europea aveva ventisette membri. Alcuni proposero un nuovo piano D, ma era chiaro che il
vero problema non era quello di trovare una nuova formula verbale che accontentasse coloro che temevano la perdita della sovranità nazionale o anche della propria identità nazionale o culturale. Il problema reale era che una nuova spinta poteva venire solo sulla base di un nuovo orientamento psicologico, uno spirito nuovo, un nuovo atteggiamento nei confronti dell'Europa. In fondo tutti erano in favore di un'Europa unita di qualche tipo, ma non c'era un accordo sui suoi confini. Soprattutto, ogni volta che entravano in collisione gli interessi degli Stati-nazione e dell'Europa, i primi avevano sempre la meglio. Questo si è manifestato in ogni occasione, e sarà sufficiente solo un esempio recente. All'inizio del 2006 ci fu una riunione per discutere della costituzione di un mercato comune europeo per l'energia, e tutti erano d'accordo sulla necessità di una politica comunitaria. Oggi l'Europa dipende dall'esterno per metà della sua energia e nel giro di vent'anni, quando le riserve del Mare del nord saranno esaurite, si arriverà al 70 per cento e oltre. La dipendenza dal gas naturale della Russia e dell'Algeria, e dall'importazione di petrolio dai paesi del Golfo Persico, è una questione di importanza economica ma anche politica. Uno dei capi di governo, il polacco Lech Kaczynsy, propose l'istituzione di una NATO dell'energia per assicurare l'aiuto reciproco in caso di emergenza, ma questa idea non ebbe più successo di altre. I membri dell'UE semplicemente non erano disposti a lasciare a Bruxelles il diritto di decisione su questioni come l'energia nucleare e altre. I governi ritenevano che il loro compito principale fosse quello di proteggere le proprie imprese petrolifere e di gas dalla scalata di altre imprese europee: era come se il Mercato comune non esistesse più. Se da un lato non c'era un minimo di volontà di collaborazione per l'energia, dall'altro ce n'era ancora meno nella politica estera e di difesa. La debolezza politica dell'Europa fu oltremodo evidente al tempo della guerra balcanica. La potenza "civile" fu messa alla prova, ma i tentativi diplomatici di fermare la lotta armata finirono nel nulla. Non c'era alcuna forza europea capace di intervenire, e più tardi i paesi eu-
ropei furono costretti ad agire all'interno della NATO sotto un comando americano. Detto semplicemente, non c'era alcuna alternativa. Quando ci si accorse di questa debolezza si decise di elaborare la Politica comunitaria estera e di sicurezza, e anche di nominare un alto rappresentante che più tardi sarebbe diventato il ministro degli Esteri europeo. Ma finora questa carica non è stata istituita ed è poco probabile che lo sia in tempi brevi. E anche se lo fosse, cosa potrebbe fare quel poveruomo, o donna che sia? C'è forse da pensare che ventisette paesi potranno mettersi d'accordo per un'azione comune, politica o militare? Anche se tutti fossero d'accordo, non avrebbero comunque una capacità di intervento credibile. L'Europa rimarrà dipendente per l'energia dalla Russia e dal Medio Oriente, e sarà minacciata da nuove potenze nucleari. In breve, non ci sono prospettive realistiche per un progresso significativo in questa direzione. Un primo ministro belga, Guy Verhofstadt, ha detto che se l'Europa vuole davvero avere un ruolo nella politica mondiale deve essere più integrata, ma non è certo che l'Europa lo voglia veramente. Ogni tanto si sentono voci che prendono questa posizione, specialmente in tempi di crisi, ma in generale non ci sembra essere un grande consenso su questa idea. Anche se il consenso esistesse, l'Europa non è disposta a pagare alcun prezzo per diventare una potenza mondiale. Perché fare un tale sforzo? Dopotutto non esiste nemmeno in America Latina una politica comune estera e di sicurezza, e quel continente non ne ha subito alcun effetto negativo. Forse le tempeste degli anni a venire non colpiranno l'Europa (come quelle passate non hanno colpito l'America Latina); forse non ci sarà alcuna tempesta. Ma cosa succederebbe se ci fosse un'altra guerra in Medio Oriente? Cosa farebbe l'Europa nel caso di una calamità simile, se non torcersi le mani? I negoziati farsa tra I'UE e Teheran sulla questione nucleare sono stati del tutto inefficaci, e possono dare un'idea di ciò che accadrà in futuro. Va da sé che questa politica è miope, ma c'è qualche possi-
bilità di un cambiamento a breve termine nella determinazione europea? Una grande crisi farebbe scattare un nuovo dinamismo e, purtroppo, ci sono parecchie crisi potenziali, economiche, politiche e militari. Ma queste crisi potrebbero anche generare il disfattismo, ossia l'argomentazione che l'Europa è troppo debole per agire con determinazione e che non è più in grado di avere un ruolo nella politica internazionale. In una parola, crisi simili la porterebbero a una sorta di abdicazione. Più passa il tempo, più è difficile lanciare una politica comunitaria estera e di difesa. E probabile invece che, date le tendenze demografiche in atto, gli Stati europei si stiano muovendo in direzioni differenti. Fra vent'anni la composizione etnica della Francia o dell'Olanda sarà diversa; ciò potrebbe avere un impatto notevole sulla loro politica interna ed estera, e anche sulle loro relazioni con i paesi confinanti. Potrebbe anche portare a un nuovo esodo di ebrei dall'Europa; d'altra parte non ce ne sono rimasti molti, e tenendo un basso profilo potrebbero riuscire a sopravvivere nelle nuove condizioni.
LA DIFESA DEL WELFARE STATE
Le opinioni degli economisti più in vista sul futuro del welfare state (l'Europa sociale, il modello sociale) vanno da un cupo pessimismo, secondo il quale il welfare state è defunto e non può essere resuscitato, a un cauto ottimismo: con una combinazione di tagli parziali ai trasferimenti e un leggero aumento dell'imposizione fiscale, la struttura essenziale si potrebbe salvare. Negli ultimi vent'anni tutti i paesi europei hanno dovuto ridurre le prestazioni; hanno cominciato i governi conservatori (Margaret Thatcher in Inghilterra, Helmut Kohl in Germania e Cari Bidt in Svezia), ma i governi socialdemocratici che li hanno seguiti hanno dovuto scegliere la stessa politica. I servizi pubblici sono diventati sempre più costosi, da un lato perché più persone vivono più a lungo
e sono aumentati i costi dei servizi sanitari, dall'altro perché c'è stata una crescita economica lenta, se non una stagnazione. Quando il ivelfare state fu introdotto per la prima volta, le spese erano molto più basse e la crescita più robusta. I tagli decisi da governi vari hanno generato una reazione negativa e alimentato una vivace opposizione; il Partito socialdemocratico tedesco di Gerhard Schroeder, che tentò di riformare il sistema tagliando le spese, andò incontro a un'inevitabile sconfitta alle elezioni successive. Gli oppositori di questi governi, d'altro canto, non hanno avuto maggior successo; potevano cedere all'ostilità della popolazione indebitandosi, ma questa linea non era sostenibile nel lungo periodo ed era anche proibita dalle regole dell'Unione Europea. Oppure potevano aumentare le tasse, ma nei paesi europei queste erano già alte - vicino al 50 per cento - e altri aumenti avrebbero rallentato la crescita e aumentato la disoccupazione. Nemmeno la linea dell'estrema sinistra - paghino i ricchi - era praticabile. E vero che in un periodo di crisi economica era difficile giustificare grandi sperequazioni di reddito: perché i parlamentari avrebbero dovuto avere una pensione cinque o sei volte più alta della media? Ma non c'erano abbastanza ricchi da far pagare per ottenere un cambiamento decisivo e generale, e se la pressione su imprese o individui fosse stata troppo forte c'era il pericolo, anzi proprio la probabilità, che si sarebbero trasferiti in paesi con una tassazione più bassa. In breve, sembra che non ci sia una facile soluzione per il dilemma; di fatto non ce n'è alcuna senza un deciso miglioramento della situazione economica. L'unica alternativa è un accordo politico e sociale tra le parti perché venga scelta la moderazione e venga accettata la necessità di tagli, per quanto dolorosi, al fine di salvare almeno in parte un minimo di welfare state. Un simile patto sembra più facile in alcuni paesi che in altri; in Svezia e fino a un certo punto in Olanda, per esempio, ha funzionato malgrado molte proteste, mentre in Germania e specialmente in Francia c'è un enorme resistenza al cambiamento. I populisti danno la colpa alla globalizza-
zione e agli incerti dell'economia di mercato, ma non hanno soluzioni per i problemi europei; un'economia dirigista e il nazionalismo economico molto probabilmente non sono una soluzione. A parte la situazione generale dell'Europa, c'è un problema generazionale che ancora non ha trovato soluzione. Poiché più persone vivono più a lungo e la forza lavoro si restringe, il peso delle spese per gli anziani si fa più grave per i giovani e probabilmente lo sarà ancora di più. Ci sarà bisogno di un patto intergenerazionale, non solo in Europa ma in tutti i paesi sviluppati.
VERSO STATI BINAZIONALI
Si può pensare a diverse soluzioni per progredire verso l'unità europea nel corso del tempo. Lo stesso vale, malgrado tutte le difficoltà, per la riforma del welfare state, che va ridotto e reso praticabile. I cambiamenti demografici, però, sono irreversibili: la questione non è se avranno luogo, ma quale impatto avranno sul futuro dell'Europa. Auguste Comte, il padre della sociologia moderna, diceva che la demografia è come il fato, e il famoso Declino dell'Occidente di Spengler finisce con una citazione da Seneca: Ducunt fata volentem, nolentem trahunt (il Fato guida coloro che vogliono, trascina coloro che non vogliono). E vero che il Fato qualche volta cambia direzione, ma quelli che hanno occhi per vedere devono sapere che la faccia dell'Europa sta cambiando, e non solo nelle grandi città. I quartieri musulmani di Berlino e Milano, di Madrid e Stoccolma, di Londra e Copenhagen si stanno allargando. Un ministro della Giustizia olandese ha dichiarato che se la maggioranza degli olandesi scegliessero la sharia, la decisione dovrebbe essere rispettata. Per osservare il cuore dell'Europa musulmana, dove ci si può aspettare che ci sia una maggioranza prima della metà del secolo, si dovrebbe fare una passeggiata in una delle città della Ruhr e poi partire in autostrada verso ovest nella dire-
zione di Eindhoven e oltre, oppure a nordovest verso Nijmegen, Utrecht e il Canale della Manica. Se si parte da Dortmund e Duisburg, si passa per la Francia settentrionale e il Belgio meridionale, per grandi città olandesi (Amsterdam, Rotterdam, Utrecht) e per vecchi centri dell'industria pesante e tessile come la zona urbana di Lille/Roubaix/Tourcoing con il suo milione e mezzo di abitanti. Poi ci sono grandi concentrazioni musulmane in Gran Bretagna come quella di Bradford/Burnley/Oldham, in Svezia a Malmò, e in varie città nel mezzogiorno della Francia e della Spagna. Alcune di queste regioni stanno diventando simili alle zone meno piacevoli del Nordafrica e del Medio Oriente. Dubito che Georges Simenon, che nacque a Liegi circa cent'anni fa, riconoscerebbe lo scenario della sua infanzia. Mutamenti demografici di questo genere non sono affatto unici al mondo. Negli Stati Uniti né New York né Los Angeles hanno più una maggioranza "bianca", e fra poche decine d'anni la zona intorno a Washington e la città di San Francisco saranno nella stessa categoria. Ma c'è una differenza importante, perché gli Stati Uniti sono un paese di immigrati, abituato alla coesistenza di vari gruppi etnici. New York, Washington, Chicago e Los Angeles hanno avuto sindaci neri. Negli Stati Uniti non si porrà il problema di uno specifico gruppo etnico che arriva alla supremazia sugli altri: se i "bianchi" perdono il controllo, così accadrà ai neri, perché i gruppi in ascesa sono i latinoamericani e gli asiatici. Inoltre, l'America può forse non essere più un amalgama di gruppi etnici, ma nessuno di essi cerca di imporre agli altri la propria religione, una legge religiosa o uno stile di vita. Certo ci sono tensioni sociali, ma una chiamata alla jihad non avrebbe una risposta apprezzabile. Ciò che interessa ai gruppi etnici di minoranza è guadagnarsi il benessere, non combattere eccetto forse le lotte fra bande per il territorio, e la malavita in generale. In America ci sono ghetti, ma anche una classe media nera e latinoamericana che ne sta uscendo. Per quanto riguarda gli immigrati dall'Estremo Oriente, essi hanno avuto più successo di ogni altro gruppo nel mondo degli affari,
nelle professioni e nella scuola, e anche gli immigrati da paesi musulmani hanno fatto più fortuna negli Stati Uniti che in Europa. Come si svolgerà la transizione in Europa? C'è una tendenza alla disintegrazione? Sarebbe esagerato sostenere che gli immigrati dal Pakistan e dalla Turchia, dal Nordafrica e dal Medio Oriente hanno fallito in modo uniforme, socialmente ed economicamente. Ci sono solo poche statistiche disponibili, ma si sa che in Gran Bretagna ci sono 5.400 milionari musulmani (si pensa che il totale dei loro beni ammonti a circa sei miliardi di sterline). Nella lista dei miliardari russi si trovano non solo Mikhail Fridman e Roman Abramovich, ma anche Alisher Usmanov (2,6 miliardi), Suleiman Kerimov (7,1) e Iskander Mahmudov (4,5). Ci sono turchi ricchi in Germania e ricchi nordafricani in Francia. C'è una ristretta classe media musulmana che sta crescendo dovunque ci siano comunità di quel gruppo, ma è anche vero che per il momento prevale il ghetto, insieme alla disoccupazione giovanile e alla dipendenza dai sussidi provenienti dallo Stato e dai comuni. La leadership religiosa cerca in tutti i modi di tenere insieme il suo gregge, e ciò può essere ottenuto solo se il ghetto continua ad esserci e se ci sono pochi contatti fra fedeli e infedeli. I giovani vengono indottrinati fin da piccoli, e molti di loro in Germania, in Olanda e in Scandinavia conoscono la lingua locale solo quel tanto che basta per le esigenze quotidiane; è scarsa anche la conoscenza della lingua madre dei genitori. Quali sono le conseguenze di questo deplorevole stato di cose? Tutti pensano che, visto che il tasso di nascita è in diminuzione, quasi tutti i paesi europei negli anni a venire avranno bisogno di inmmigranti. Ma sembra inutile cercare immigranti senza formazione professionale e istruzione, che andrebbero solo ad aggiungersi alla massa dei disoccupati e dei non occupabili; le società europee non saranno in grado di mantenerli. Sono necessari invece immigranti dotati di abilità e ambizione, e si dovrebbero fare dei tentativi di attirare gente che possa offrire un contributo positivo alle socie-
tà occidentali come anche migliorare la propria condizione. Gli educatori europei che hanno seguito da vicino l'istruzione dei giovani musulmani ritengono che i più grandi, in particolare i maschi, siano in gran parte una generazione perduta. Bisognerebbe concentrare gli sforzi sui più piccoli, perché imparino la lingua locale e si facciano una cultura generale. E vero che i giovani hanno sviluppato una subcultura tutta loro che si esprime, tra l'altro, in canzoni e in un gergo, qualche volta imitati dai giovani bianchi che li trovano divertenti; ma il rapping, misogino e omofobico, è brutto come la loro parlata, che consiste per lo più di parole volgari e imprecazioni; è il gergo dei bassifondi, del tutto privo di ogni senso dell'umorismo come il cockney a Londra e il patois a Berlino. Non ci si può aspettare che i candidati alla cittadinanza abbiano una profonda conoscenza della cultura tedesca, francese o inglese - quanti fra i nativi passerebbero simili esami? - ma rimane ragionevole chiedere che una certa padronanza della lingua e la conoscenza delle leggi e delle norme vigenti siano condizioni per l'ammissione. Potrebbe succedere che nel giro di una generazione o due, quando le minoranze di oggi diventeranno più numerose dei tedeschi, degli olandesi o dei francesi in certe zone di questi paesi, le discussioni sull'integrazione non abbiano più senso; se diventeranno una minoranza, i nativi non potranno aspettarsi che la maggioranza adotti il loro stile di vita, la loro lingua e le loro leggi. A quel punto saranno i nativi a doversi integrare in una società ormai diversa. Non siamo ancora a quel punto, ma non è certamente troppo presto per riflettere sul carattere di questa nuova società e le probabili implicazioni delle tendenze in atto. Nelle regioni in cui i musulmani saranno la maggioranza, ci sarà un richiesta di autonomia; il separatismo, cioè la rivendicazione di una piena indipendenza, è poco probabile, se non altro per la depressione economica in queste regioni. Saranno loro i nuovi amministratori locali e regionali, ma si aspetteranno che lo Stato accetti la responsabilità per il sostentamento degli abitanti, senza il quale ci sarà almeno un
impoverimento, se non una crisi generale. Forse ci sarà un tempo in cui le comunità musulmane esprimeranno un'élite di ottimi imprenditori, scienzati e ingegneri, gli Einstein e i premi Nobel di domani, ma per il momento non si vede nemmeno l'inizio di una simile tendenza. Anche se ci sarà una forte richiesta di introdurre la legge religiosa musulmana (la sharia) in un paese, saranno concesse esenzioni ai non musulmani. E vero che in alcuni ambienti ci sono state richieste di una islamizzazione totale; ciò è accaduto in Gran Bretagna, ma in realtà non c'è unanimità su questa rivendicazione nemmeno all'interno della comunità. In altre parole, è più probabile che emergano Stati binazionali, anche se non hanno funzionato affatto bene in altri paesi. Come abbiamo già visto, le comunità musulmane sono divise internamente secondo la religione e l'appartenenza nazionale. Perfino in Germania c'è una divisione fra turchi sunniti e minoranze consistenti come quella curda (almeno mezzo milione), da una parte, e alawiti dall'altra. Ci sono importanti differenze religiose fra marocchini e turchi in Olanda e Belgio, tra pakistani e mediorientali in Gran Bretagna, e perfino fra algerini e marocchini in Francia; la lista potrebbe continuare. Ci sono state lamentele perché i leader politici e religiosi originari di un paese (oppure una setta, come i turchi in Belgio e gli arabi in Gran Bretagna) hanno raggiunto un'influenza sproporzionata all'entità del proprio gruppo etnico. Toccherà alle comunità musulmane trovare un denominatore comune; ci sarà una lotta per la supremazia e il potere, e il risultato non è affatto certo. "Eurabia" è un termine interessante ma fuorviante al tempo stesso, poiché non è applicabile né alla Germania né alla Gran Bretagna, né a molti altri paesi europei. I turchi non sono arabi, e il loro atteggiamento verso gli arabi è tutt'altro che amichevole; le lotte di strada a Berlino fra gruppi di adolescenti turchi, arabi e curdi non fanno certo pensare a un'alleanza fra queste comunità. Nemmeno i pakistani vedono di buon occhio gli arabi, anche se politici e predicatori di origine araba hanno ottenuto influenza nelle comunità musulma-
ne in Gran Bretagna e in altri paesi. Le ambizioni arabe di dominare le comunità in Europa hanno generato un'opposizione. Nel Regno Unito l'identità nazionale non è più un obiettivo delle scuole, né lo è l'integrazione; vista la composizione etnica della popolazione immigrata, la minoranza del Sudest asiatico sarà una forza più determinante di quella araba nella formazione della Gran Bretagna del futuro. Non è nemmeno certo quanto sarà forte negli anni a venire il movimento verso il fondamentalismo religioso e il radicalismo: c'è ragione di pensare che esso perderà slancio. Il radicalismo dei giovani può anche manifestarsi in questa veste, ma c'è da dubitare che sia di ispirazione veramente religiosa. Il leader religiosi delle comunità musulmane in Europa se ne sono lamentati; hanno sostenuto che nella nuova generazione la conoscenza dell'Islam è superficiale, mentre si sente poco il bisogno di approfondirla. Il problema riguarda di più i giovani, ma anche coloro che per una ragione o un'altra hanno lasciato i ghetti, o perché hanno migliorato la propria posizione sociale o per altro. A contatto con le tentazioni delle società occidentali, il processo di assimilazione culturale e politica è inevitabile: la questione è quanto sarà rapido. Tra gli intellettuali c'è una crescente disaffezione per una religione che, per l'influenza di interpreti radicali, è diventata più primitiva ed è stata identificata soprattutto con la violenza politica contro civili innocenti. Tra le donne, per quanto ortodosse, c'è un bisogno crescente di un Islam che garantisca loro più diritti di quelli che i fondamentalisti siano disposti a concedere. Per quanto riguarda i giovani maschi, un imam molto noto a Berlino ha dichiarato che la via verso la moschea è lunga mentre le tentazioni sono molte; con ciò si riferiva alla droga, alla criminalità, al sesso e ad altri aspetti seducenti della decadenza morale dell'Occidente. Ciò che è decadente attrae ed è contagioso. In Gran Bretagna e in Francia tra i giovani musulmani è diffuso non solo lo spaccio ma anche l'uso della droga; lo stesso giovane che minaccia la sorella di picchiarla (o peggio) se non si veste con modestia e non porta Yhijab
può benissimo non disdegnare la pornografia occidentale. Secondo le autorità saudite, dei 2,2 milioni di utenti di internet in quel paese circa il 92 per cento cerca materiale proibito o indecente, il che quasi sempre significa non siti arabi atei, ma pornografia («Arab News», 2 ottobre 2005); le stesse autorità hanno notato che cifre come queste possono anche non essere stranamente alte in confronto con altri paesi, ma sono certamente un indicatore dell'atteggiamento profondamente ambivalente dei giovani musulmani verso ciò che è proibito, dato che l'attrazione è tanto più forte quanto più seducente è l'oggetto proibito. (Un commento comune è «chiudono le porte e noi rientriamo dalle finestre»). Nella letteratura medievale araba c'è anche una tradizione simile a quella del Kama Sutra (Omar Ibn Rabi'a, Ibn Hazm Andalou e più tardi Ibn Foulyata) che senza dubbio uno di questi giorni verrà riscoperta. I Beatles ebbero un certo ruolo, anche se marginale, nel crollo dell'impero sovietico; allo stesso modo il pop arabo (Fun A Da A Mental, Natasha Akhanaton, IAM) sta forse contribuendo a minare il fondamentalismo musulmano. Negli anni ottanta la musica leggera, compreso ogni genere di CD, fu assolutamente proibita dalla Muslim Brotherhood in Egitto e altrove, e ancora nel 2003 gli spettacoli di Nancy Ajram, probabilmente la più famosa danzatrice del ventre del mondo arabo, furono banditi da tutti i canali televisivi egiziani; ora però lei e le sue colleghe si possono vedere in centinaia di migliaia, se non milioni, di brevi video e su innumerevoli canali satellitari privati come Rotana TV, Nagham o Melody Hits, che trasmettono ventiquattr'ore su ventiquattro e raggiungono un'audience molto vasta. Il genere pop si è diffuso nel Medio Oriente e nelle comunità musulmane in Europa malgrado tutti i bandi e le fativa. E vero che i testi dei rapper in Europa contengono versetti del Corano e slogan nazionalisti («Sono un soldato dell'esercito di Allah» - oppure di Malcom x o Louis Farrakhan), ma ci sono anche versi che esaltano il maschilismo, il razzismo anti-occidentale e lo stupro di gruppo. Uno studio comparato di questi testi può essere istruttivo: mentre
quelli mediorientali, in arabo, hanno una semplice funzione di intrattenimento, quelli europei, specialmente i francesi, sono molto più politicizzati, pieni di odio e di brutalità. Ciò che rende sospetta per i fondamentalisti questa subcultura di "gangsta rap" e "hip-hop" è l'ispirazione non musulmana ma afro-caraibica di questa musica, e forse anche il fatto che alcuni dei cantanti più famosi non sono di origine musulmana, ma italiani (Akhnaton), copti (Mutamassick) o anche ebrei (Natasha Atlas). Quanto al livello artistico di questa subcultura, può ben darsi che abbia ragione quel professore di Beirut che ha detto che sono stati copiati gli aspetti peggiori, non i migliori, della cultura di massa occidentale. I leader fondamentalisti non hanno avuto difficoltà a ostracizzare le ideologie occidentali come il liberalismo e il marxismo, ma sono stati impotenti davanti al pop, e al calcio. Il Corano non parla di bande di strada, ma questo fenomeno, insieme a quello delle lotte fra di esse, nelle strade musulmane d'Europa è molto importante ed è stato studiato troppo poco. Bande come queste sono comparse in tutto il mondo, e vari fattori sono stati additati per spiegarne l'origine: da famiglie disfunzionali a caratteri individuali, dagli istinti all'abuso di minori, dall'urbanizzazione alla politica dell'identità, all'esperienza della violenza nella società in cui questi adolescenti sono cresciuti. Anche il fattore etnico ha un suo peso, e alcune culture tendono alla violenza più di altre. In molte società c'è stato un conflitto generazionale, ma mentre in Germania, per esempio, l'avversario era il padre tirannico o l'insegnante (come nel movimento studentesco del secolo scorso) nella minoranza islamica ora è "l'altro". In Europa le bande possono avere motivazioni economiche come il traffico di droga, oltre a quelle psicologiche come lo sfoggio di virilità e il controllo del territorio. Le bande si trovano spesso nella seconda e terza generazione di immigrati, e ciò ha a che fare con la ritirata dello Stato, che nelle società democratiche non ha più il monopolio della violenza. Nei regimi autoritari ci si libera presto dei malviventi, senza guardare all'età e al sesso; nelle società de-
mocratiche invece essi non hanno molto da temere, perché in Europa la polizia ha limiti di azione ristretti, così come gli insegnanti e i giudici. I colpevoli vengono spesso rilasciati entro pochi giorni, se non ore, e proprio l'arresto ne fa degli eroi agli occhi dei compagni. Quando sono stati intervistati, i membri delle bande hanno parlato con disprezzo dei coetanei "bianchi" che raramente oppongono resistenza quando vengono assaliti e rapinati. La loro aggressività dà loro proprio il rispetto di cui hanno bisogno. Il fenomeno delle bande ha avuto in passato un'importante dimensione politica (per esempio tra i latinoamericani in Sudamerica e nel nord, e in Sudafrica, a Soweto e altrove) e lo stesso è vero oggi. Ma in che misura l'ideologia delle bande d'oggi è islamismo, e in che misura è cultura hip-hop e gangsta rap? In vari paesi è stato spesso notato che i giovani che cercano di imporre la sharia sono anche spacciatori e consumatori di droga, hanno rapporti sessuali che non sono affatto legittimi per la loro religione, e ascoltano continuamente musica rap, anch'essa in contravvenzione all'Islam ortodosso. E vero che alcuni islamisti si sono rivolti alle bande e ai detenuti nel tentativo di convertirli, ma è anche vero che le bande hanno invaso le moschee per trovare nuovi membri: non si sa chi vincerà in questa competizione. Tutto questo fenomeno è stato prevalentemente maschile, ma anche ragazze hanno partecipato ad alcune di queste attività, specialmente a scuola; sembra che anche questo abbia a che fare con il forte bisogno di ottenere rispetto, o almeno di non essere considerate "puttane" ( S c h l a m p e n , putains) dai maschi, se se ne stanno da parte durante un assalto. Ci sono state molte lamentele da parte di giovani musulmani in Gran Bretagna e in Francia a proposito del carattere formalistico e privo di gioia della loro religione, della interminabile ripetizione delle preghiere come pappagalli. Come ha dichiarato in un'intervista un giovane che vive in Inghilterra, esprimendo probabilmente il pensiero di molti coetanei, la loro religione chiede troppo. Loro vorrebbero fare quello che fanno i loro amici laici, avere una ragazza, andare
ogni tanto al cinema, guardare la televisione, giocare con i video-games - non vivere nell'isolamento sociale e culturale. Ma è improbabile che entrino in una disputa con gli imam sull'interpretazione del Corano. E più facile che che i giovani musulmani un po' alla volta abbandonino la religione o si limitino ad atti formali per rispetto ai genitori e alle famiglie. La prossima guerra tra culture non sarà fra fedeli e infedeli ma all'interno dei primi, perché la fede si erode non tanto con la sfida aperta quanto in modo fraudolento. Questa erosione della fede e del fanatismo religioso, però, certamente non coinvolgerà tutti: ci saranno fanatici che, per tutto ciò che se ne sa, potrebbero anche raddoppiare il proprio vigore militante. Come reagiranno i non musulmani alla crescita numerica e alla diffusione delle comunità musulmane? Alcuni se ne andranno, come sta succedendo ormai da anni, dall'East End di Londra, da alcuni quartieri di Dortmund e Colonia, da molte parti della banlieu di Parigi. A parte le migrazioni interne, si è verificata anche un'emigrazione dall'Olanda e altri paesi verso località estere in cui è meno probabile essere esposti a uno stile di vita che molti trovano poco piacevole; è impossibile dire fino a che punto questo processo si rafforzerà in futuro. Sarà probabilmente più facile raggiungere una coesistenza politica che sociale. I partiti politici entreranno in competizione per i voti musulmani, e alcuni potrebbero passare sotto il controllo degli immigrati. Ci sono certi interessi comuni e si potrebbero formare delle coalizioni. Già adesso il voto musulmano è qualche volta decisivo e lo sarà ancora di più in futuro; il socialista PVDA, Partito laburista olandese, ha vinto le elezioni del 2006 e metà dei consiglieri eletti era di origine musulmana. Ken Livingstone, già sindaco di Londra, sarebbe stato eletto senza il voto musulmano? I musulmani hanno un quarto dei rappresentanti nel consiglio regionale di Bruxelles, e una donna è stata eletta sindaco. C'è il pericolo della polarizzazione; nel 2006 le elezioni amministrative hanno mostrato un aumento del voto xenofobo, da una parte per il British
National Party e dall'altra per i gruppi trotzkisti-islamici. I partiti di sinistra hanno fatto grandi sforzi per guadagnarsi una base nelle comunità musulmane; c'è una forte tendenza populista nell'Islam radicale, ma questi sono matrimoni di convenienza che probabilmente non dureranno a lungo. L'anticapitalismo e antiglobalismo dell'Islam radicale hanno radici in un'ideologia di destra e reazionaria, nella quale prevalgono uomini estremamente conservatori. Una reazione antimusulmana dell'estrema destra sembra probabile in alcune località. Un buon esempio è Antwerp (Anversa), come anche il Black Country in Inghilterra e l'East End di Londra, Barking e Dagenham (quartieri operai bianchi di Birmingham), e in Francia le roccaforti elettorali del Front National (Drieux, Orange, Vitrolles e altre città). E improbabile però che una reazione simile abbia conseguenze determinanti a livello nazionale. In un libro di fantascienza politica si immagina che i musulmani (e gli ebrei) vengano espulsi dal Belgio in ventiquattr'ore (Jacques Neirynk, Le siège de Bruxelles, Parigi 1996); in un altro, un "giallo politico" pubblicato dopo i disordini del 2005, si immagina una reazione di destra (Clement Weill-Rayna, Le songe du guerrier, Parigi 2006). Una reazione della destra sembra probabile, ma una sua presa del potere è tanto realistica quanto certe fantasie russe sulla Francia che diventa uno Stato islamico fondamentalista, con una minoranza cristiana che organizza la resistenza clandestina, la quale viene poi salvata dall'esercito russo (Elena Chudinova, Mechet Parizhskoi bogomateri, La moschea di Notre Dame, Mosca 2005); qui i cristiani vengono rinchiusi in un ghetto, gli strumenti musicali e i quadri vengono distrutti e a Parigi non funziona più niente, nemmeno la metropolitana. Le speculazioni politiche si basano spesso sull'assunto che ci sia un blocco musulmano monolitico, il che, come si è già detto, non corrisponde alla realtà. Malgrado tutta la radicalizzazione religiosa e politica degli ultimi anni, ci sono di fatto molte forze centrifughe e una competizione tra fazioni rivali. Per molti versi si tratta di una lotta contro il tempo: al-
meno in parte è una questione di resistenza del fanatismo, perché le ondate di tensione provocate da una religione, o da una "religione laica", non durano a lungo. Il fanatismo dei musulmani in Europa non dovrebbe essere sopravvalutato. C'è simpatia per i cosiddetti militanti, c'è frustrazione, aggressività, e il desiderio di manifestare questo malcontento, ma per la maggioranza i musulmani non vogliono morire da martiri, vogliono piuttosto avere una vita tranquilla e ragionevolmente comoda. Allora, come si possono promuovere le tendenze pacifiche tra i musulmani in Europa? Si tratta soprattutto di alzare il livello di istruzione, di farli pensare per se stessi, di diminuire la dipendenza dalla guida degli imam fondamentalisti che hanno interesse a mantenere il loro gregge in un ghetto materiale e spirituale. Non si può escludere una ribellione musulmana al fondamentalismo: è successo in quasi tutte le religioni. Ma una cosa è certa: anche se prevalesse un Islam moderato, l'Europa non sarà più la stessa. La linea politica delle forze laiche europee sarà fondata su un certo grado di appeasement, per quanto difficile possa essere per alcuni accettarlo. Appeasement (pacificazione) è giustamente un termine con una cattiva reputazione, data la sua connotazione storica che risale agli anni trenta. Ma visto che le nazioni europee non hanno saputo prendere una posizione decisa che avrebbe forse potuto evitare la crisi attuale quando era ancora possibile, quali sono le alternative, adesso che gli immigrati musulmani stanno diventando la maggioranza in certe città e regioni, e lo saranno in futuro in paesi interi? Forse uno Stato binazionale? Questa soluzione però non ha funzionato molto bene, per esempio in Belgio. O forse un'Europa unita in cui gli Stati-nazione non siano più importanti? In questo momento non ci sono risposte facili. Appeasement, tra l'altro, significa astenersi dalla critica di credenze e pratiche fondamentali della parte opposta; se una religione ha 1,2 miliardi di fedeli non è consigliabile parlare apertamente e candidamente dei suoi aspetti negativi: la quantità, come diceva Marx, diventa qualità diversa. Alcuni ritengono che la curiosa osservazione del principe Carlo
d'Inghilterra, su come la critica musulmana del materialismo lo abbia aiutato a riscoprire la sacra spiritualità islamica, potrebbe essere un modello per gli alfieri della pace quando si tratta di guadagnare degli amici e influenzare la gente in un'epoca di tensioni. I politici e i media occidentali praticano già una certa autocensura e ce ne può essere di più in futuro; per esempio, un canale televisivo europeo ha deciso di non mandare in onda un programma sulla condizione dei cristiani perseguitati nei paesi arabi, e papa Benedetto xvi si è dichiarato dispiaciuto (ma non ha offerto scuse formali) dopo discorso tenuto in Baviera nel settembre del 2006 in cui citò una dura critica dell'Islam di un imperatore cristiano del medioevo. Nello stesso mese un teatro lirico tedesco cancellò dal programma Vldomeneo di Mozart per paura di quello che la polizia chiamò un rischio incalcolabile di offendere la sensibilità dei musulmani (in una scena aggiunta dal regista il re di Creta, Idomeneo, porta sul palcoscenico le teste di Gesù, Maometto, Budda e Poseidone e mette ciascuna su uno sgabello). Il caso di Hirsi Ali può essere uno spaccato del futuro. Questa donna somala trovò rifugio in Olanda e divenne una critica severa della pratica islamica della mutilazione genitale delle donne, di cui era stata vittima. Divenne anche deputata al parlamento olandese e comparve nella lista della rivista «Time» delle cento persone più influenti del mondo. Tutto ciò, però, nel 2006 non impedì a un tribunale olandese di decidere che dovesse lasciare il suo appartamento ad Amsterdam perché la sua presenza costituiva un pericolo per i vicini, che si erano lamentati sostenendo di non essere responsabili per i loro fratelli e sorelle; alcuni arrivarono a dire che la donna disturbava la pace e doveva essere mandata via. Alla fine, dopo una campagna mediatica contro di lei, fu costretta a lasciare il paese. La taqi'a (che significa pressappoco dissimulazione o finzione, e nella lingua persiana antica si dice ketman) è stata usata per molto tempo nel mondo musulmano in situazioni estreme, e potrebbe essere usata dai non musulmani in certe
circostanze. Forse c'è bisogno di un nuovo Machiavelli per coesistere con le religioni politiche e radicali nell'era della democrazia: non è una pratica ammirevole, ma può salvare vite umane. Il saggio di Macaulay su Machiavelli, del 1850, può essere un punto di partenza per la riflessione. Qui nescit dissimulare, nescit regnare («Chi non sa fingere, non sa regnare»). Ciò significa manifestare non solo comprensione ma anche rispetto e ammirazione per una civiltà e uno stile di vita in fondo lontani dai propri valori. I residenti non musulmani delle grandi città olandesi, di quelle tedesche e di altre faranno bene a imparare un po' di turco e di arabo, come i residenti della California e del Sudovest americano hanno imparato un po' di spagnolo. A Londra il Times Atlas of the World definisce l'euro la valuta della Germania, il tedesco e il turco le sue lingue: forse una dichiarazione prematura, ma potrebbe essere vera da qui a trent'anni. Appeasement significa anche un approccio più modulato da parte delle autorità europee alle comunità musulmane che, come abbiamo detto e ripetuto, non sono affatto monolitiche. Non c'è ragione di trattarle come se fossero un insieme integrato, cosa che non sono mai state. L'esempio inglese, quello di trattare i "fondamentalisti moderati" come se fossero i soli autentici rappresentanti della comunità musulmana, non ha avuto molto successo, anzi ha rafforzato i militanti antioccidentali. I governi e gli amministratori locali dovrebbero trattare con tutti i gruppi: gli interessi dei berberi non sono affato identici a quelli degli algerini; turchi e curdi hanno tradizioni diverse e hanno diversi gruppi d'interesse che le autorità dovrebbero riconoscere, piuttosto che condurre negoziati solo con i leader, spesso autonominati, che dicono di parlare in nome dell'intera comunità musulmana. L'importanza centrale dell'istruzione è stata sottolineata più volte in queste pagine, ma è precisamente in questo campo che l'approccio tedesco ha avuto meno successo di altri. Secondo alcune allarmanti testimonianze, l'insegnamento normale è praticamente bloccato in alcune scuole di Berlino
frequentate da alunni emigrati da paesi musulmani. Le scuole sono diventate una giungla fra le lavagne, dove gli arabi litigano con i turchi, i turchi lottano con i curdi, i musulmani se la prendono con gli immigrati dalla Russia e dai Balcani, e tutti sono contro i tedeschi. Avrebbe potuto essere diverso? I ragazzi turchi appartengono a famiglie patriarcali e sono spesso picchiati anche per piccole violazioni di regole severe; il loro incontro con un'educazione progressista deve essere stato uno shock culturale. Gli insegnanti conoscono poco l'Islam e il suo stile di vita, e la loro formazione antiautoritaria non ha esattamente contribuito al successo di un tale incontro. La portavoce del Turkische Bund (Unione turca) a Berlino ha affermato che una certa misura di autorità nella scuola è assolutamente necessaria. Un giovane indiano, ricordando gli anni passati in una scuola di Ealing, una zona di Londra, ha scritto di poveri insegnanti disorientati, candidi e idealisti, che avevano letto Marx e Malcom x e avevano seguito un corso di teoria postcoloniale in un istituto politecnico. Cercavano in tutti i modi di mostrare simpatia per i poveri allievi vittime di angherie, ma rimasero allibiti e impotenti davanti alla loro indifferenza e alla loro pessima condotta: «Ce li mangiavamo vivi al primo segno di debolezza da classe media piena di sensi di colpa» («The Times», Londra, 9 aprile 2006). Alcuni insegnanti di Berlino hanno proposto di chiudere le scuole che sono ormai fuori controllo. Con tutta la comprensione per le condizioni difficili degli allievi e per le loro enormi difficoltà, c'è da domandarsi se un approccio meno antiautoritario avrebbe dato risultati migliori. La situazione nelle banlieues di Parigi non è molto più incoraggiante. Negli ultimi dieci anni le autorità francesi hanno fatto grandi sforzi per migliorare il grado di istruzione. C'è un programma chiamato "seconda possibilità" per coloro che cercano di recuperare gli anni perduti; ci sono scuole classificate come ZEP (zone d'education prioritaire) e zus {zone urbaine sensible) in cui ci sono condizioni speciali, e ci sono piani per evitare la violenza nelle scuole. Eppure, con tut-
to questo, i risultati non sono esaltanti: il numero di coloro che abbandonano la scuola è molte volte più alto che altrove e il profitto di molti allievi è scarso. Quale può essere la soluzione? Mandarli a giocare a calcio, finanziare la loro istruzione in Turchia o in Giappone, o introdurre una disciplina di tipo militare? Forse ci vorrebbe un Baden-Powell per fondare un nuovo movimento dei Boyscout, ma si teme che se dovesse comparire una persona simile sarebbe un islamista radicale. Bisogna considerare delle concessioni. Quale deve essere il programma nelle scuole pubbliche? Nelle comunità musulmane in Olanda è stato messo in questione l'insegnamento di Rembrandt, che dopotutto non fa parte della loro tradizione. I giovani musulmani in Italia dovrebbero studiare il Rinascimento, tutti quei ritratti di santi e madonne di un'altra religione, o anche le opere di Dante, che scrisse versi molto duri su Maometto? Goethe disse delle belle cose sulle caratteristiche comuni di Oriente e Occidente e scrisse anche il West-ostlicber Divan {Il divano d'Oriente e d'Occidente), ma non appartiene alla storia turca. Ma allora perché si dovrebbe insegnare agli allievi marocchini in Olanda la storia dell'Impero ottomano, che per loro ha poco significato? Un docente della London School of Economics, Iftikar Ahmed, riflettendo sui voti bassi dei ragazzi musulmani nelle scuole inglesi, ha notato che essi passano troppo tempo imparando a memoria il Sacro Corano nelle scuole delle moschee e non hanno tempo per fare i compiti; nemmeno si identificano con gli insegnati non musulmani, quindi per migliorare la situazione ci sarebbe bisogno di scuole speciali per i musulmani. Questa situazione migliorerà col tempo? In Germania alcune ricerche hanno mostrato che la seconda generazione di allievi musulmani sta andando peggio della generazione precedente. Ma quale sarebbe l'orientamento di scuole musulmane separate? Non perpetuerebbe le divisioni nella società? E poi nemmeno un miglioramento dell'istruzione dei giovani musulmani risolverebbe i loro problemi se questi non riuscissero poi a trovare un lavoro dopo il diploma.
Ma fino a che punto ci si può spingere con l'appeasement} Un osservatore inglese, Timothy Arton Gash, ha dichiarato che in fondo dipenderà dall'atteggiamento personale e il comportamento di centinaia di milioni di europei se i cittadini musulmani cominceranno a sentirsi a casa propria in Europa. Questa posizione sembra essere basata sull'assunto che le ambizioni dei musulmani non vadano oltre il "sentirsi a casa propria", ma ciò non è affatto scontato. Ash ha giustamente criticato la versione del multiculturalismo che dice "tu rispetti i miei tabù e io rispetto i tuoi", notando che se si mettono insieme tutti i tabù di tutte le culture non rimane molto di cui parlare liberamente. Ma questo è precisamente uno dei punti principali della disputa. Gli islamisti radicali, che esaltano la jihad, vogliono essere immuni dalle critiche e da ogni commento negativo, mentre allo stesso tempo pensano di non dover concedere alcuna immunità ad altre religioni e culture. In breve, può darsi che l'autocensura, il tatto e simili mezze misure da parte degli europei non siano sufficienti. Per avere successo, Vappeasement dovrebbe andare molto più in là: lodando la bellezza dell'Islam e della giustizia della sharia; dicendo apertamente che l'Occidente, il quale ha perduto i suoi principi spirituali, ha molto da imparare dalla spiritualità musulmana; e accettando le proteste secondo le quali i musulmani sono sempre stati delle vittime, le loro lamentele sono giustificate e l'Occidente deve offrire riparazioni. Non si sa se un appeasement così massiccio avrebbe successo. Potrebbe forse portare a una instabile coesistenza pacifica, ma anche a una trasformazione pressoché totale della civiltà europea. Potrebbe essere inaccettabile per la maggioranza degli europei, timorosi di perdere il loro status e la loro identità nell'Europa del futuro. E in questo quadro che sono destinati a scoppiare dei conflitti. Nella storia moderna la tolleranza verso le minoranze non è stata una delle migliori virtù delle società musulmane: gli armeni non sono stati trattati bene in Turchia, né lo sono stati i copti in Egitto, i bahai in Iran e nemmeno gli ahmadiya e gli ismailiti in Pakistan, anche se sono musulmani. La posizione dei cristiani in Indonesia, uno
dei paesi musulmani più tolleranti, è ancora problematica, come quella dei cinesi in Malesia. Se questa situazione non cambierà nei prossimi decenni, la prospettiva di una coesistenza pacifica in Europa rimarrà scarsa. L'esperienza ha insegnato che la tolleranza unilaterale non funziona.
LA SALVEZZA VERRÀ DALLA TURCHIA?
Cosa succederà quando la Turchia entrerà nell'Unione Europea? Questo problema non è stato ancora discusso nel presente saggio. Dopo un iniziale entusiasmo si è manifestato un crescente scetticismo da entrambe le parti. In Turchia c'era un forte consenso - circa l'80 per cento, più che in quasi tutti i paesi dell'Unione - ma la percentuale è scesa con il passare del tempo. L'entrata della Turchia era appoggiata da Gran Bretagna e Francia, ma c'era una forte opposizione in Germania, Austria e alcuni altri paesi. Molti tedeschi sospettavano che i turchi residenti in Europa sarebbero rimasti più fedeli al proprio paese d'origine che al paese di adozione, ma d'altra parte questo sarebbe vero indipendentemente dall'entrata della Turchia. Era anche chiaro che, viste le tendenze demografiche, la Turchia sarebbe stata il paese più popoloso d'Europa, il che avrebbe rafforzato l'Islam nel continente. In Turchia l'affievolirsi dell'entusiasmo fu determinato in parte da un crescente sentimento nazionalista e in parte da una straordinaria crescita economica, quasi il 10 per cento annuo. Malgrado ciò, il reddito prò capite è ancora poco più di 4.000 dollari, molto più basso di quello dei paesi europei, e si temeva che per questo motivo ci sarebbe stato un ulteriore e massiccio flusso di immigranti verso l'Europa. Inoltre, le condizioni politiche e sociali imposte dall'Unione a tutti i membri (ma implicitamente soprattutto alla Turchia) preoccupavano molti turchi. L'entrata nell'Unione potrebbe mettere in difficoltà l'agricoltura (che ha un terzo degli occupati) e anche i commercianti; e potrebbe influire sul-
la politica interna, per esempio con riguardo alle relazioni con la minoranza curda. La Turchia potrebbe essere un ponte verso il mondo musulmano, e quindi un partner potenziale per moderare le relazioni fra l'Europa laica e le comunità musulmane? Questa è forse la questione essenziale. Per decenni, fin dai tempi di Kemal Ataturk, fondatore e primo presidente della Turchia moderna (1923-38), la nazione si è evoluta verso la modernizzazione e una cultura laica. Ma negli ultimi vent'anni circa l'Islam - o per essere più precisi un misto di Islam e di panturchismo - si è rafforzato, insieme al suo orientamento sostanzialmente antioccidentale. E vero che le forze laiche sono ancora molto più forti che nel mondo arabo, e che perfino gli islamisti, il Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), non sono neanche lontanamente estremisti come la Muslim Brotherhood, come si è dimostrato con l'appoggio dell'AKP all'entrata nell'Unione. (Recentemente è stato anche aperto a Istanbul un museo di arte moderna). A ogni modo, la situazione in Turchia è imprevedibile, e il rifiuto dell'eredità di Kemal era l'ultima cosa che l'Unione Europea potesse desiderare. Questo, dunque, è un quadro dell'Europa nel primo decennio del nuovo secolo: è un quadro di graduale declino che lascia poche speranze agli euro-ottimisti. Probabilmente gli storici del futuro avranno difficoltà a capire perché ci si sia reso conto così tardi di questo triste stato di cose, malgrado il fatto che tutte le importanti tendenze descritte in questa breve rassegna - la questione demografica, il rallentamento del processo verso l'unità europea e la crisi del welfare state erano apparse già prima della fine del secolo scorso. Se non fosse stato per l'assassinio di Theo van Gogh nel 2004, pochi intellettuali olandesi avrebbero scritto articoli sulle difficoltà interne del loro paese rispetto agli immigrati, e non ci sarebbe stato un dibattito su scala nazionale su ciò che d'un tratto divenne un problema di esistenza o di estinzione. Il declino dell'impero romano è stato discusso per secoli, e
può darsi che la discussione sul declino dell'Europa duri altrettanto. Perché è stato ignorato così a lungo? In parte questo si può spiegare come risultato della fissazione europea con l'America - l'America come modello e come deterrente, come rivale, avversaria e alleata - a costo di ignorare il resto del mondo. Ma ci devono essere state altre cause, che saranno discusse per molto tempo. Ci sono molti interrogativi affascinanti: forse il declino era inevitabile? Era reversibile? Se era reversibile, a che punto è diventato irreversibile? Il declino molto spesso non procede tanto rapidamente quanto si teme, perché di solito ci sono circostanze che lo ritardano. Ma è anche vero che, per il bene o per il male, l'orologio della storia gira più rapidamente che nel medioevo. Per esempio, il crollo dell'Unione Sovietica si è svolto molto rapidamente; per quanto Putin e i suoi cerchino di recuperare almeno in parte ciò che hanno perduto, le loro probabilità di successo sono scarse. Dopo che i pericoli per l'Europa sono stati ignorati così a lungo, c'è il pericolo di alzare le mani per la disperazione e di rassegnarsi al ruolo di museo della storia e della civiltà del mondo, mentre si predica a un pubblico inesistente l'importanza della morale negli affari internazionali. Il declino mette davanti a sfide che si dovrebbero raccogliere anche se non c'è alcuna certezza di successo. Nessuno può dire con certezza quali problemi avranno in futuro le potenze che ora sembrano in ascesa, e nei prossimi decenni si potrebbero presentare grandi pericoli per l'umanità che non si possono ancora intravedere. Anche se il declino dell'Europa è oggi irreversibile, non c'è alcuna ragione perché diventi un crollo. A una condizione, però: quella di guardare finalmente in faccia la realtà, una cosa che è stata rimandata fino a oggi in molti paesi europei. Si dovrebbe discutere quali tradizioni e valori europei si possono ancora salvare, non parlare dell'Europa come esempio fulgente per tutta l'umanità, la superpotenza morale del ventunesimo secolo. L'epoca delle illusioni è finita. Chiunque abbia ancora dei dubbi dovrebbe fare un giro a Neukölln, La Courneuve o Bradford: non sono i posti mi-
gliori e nemmeno i peggiori, sono piuttosto indici plausibili della situazione futura. Anche queste località sono destinate a cambiare, ma sarà un processo molto lento e il risultato sarà un'Europa molto diversa da quella che conosciamo.
Of
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