LIZA MARKLUND I DODICI SOSPETTI (Prime Time, 2002) VENERDÌ 22 GIUGNO Vigilia della festa di mezz'estate Non ce la farò m...
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LIZA MARKLUND I DODICI SOSPETTI (Prime Time, 2002) VENERDÌ 22 GIUGNO Vigilia della festa di mezz'estate Non ce la farò mai, pensò Annika. Adesso muoio. Si premette le palme delle mani contro la fronte, costringendosi a respirare e a calmarsi. I bagagli ammassati nel corridoio lievitavano sotto i suoi occhi, una massa informe che minacciava di occupare l'ingresso e il mondo intero, impossibile da abbracciare con lo sguardo. Come poteva sapere cos'aveva dimenticato? C'erano i vestiti dei bambini, la borsa con la roba da bagno, la farina lattea e gli omogeneizzati, le giacchine impermeabili e gli stivali di gomma, la tenda, il passeggino con la copertura per la pioggia, i sacchi a pelo, gli abiti suoi e di Thomas negli zaini, la coperta e i peluche... «Ma Ellen rimane vestita così?» chiese Thomas affacciandosi alla porta della camera da letto. Annika guardò la piccola di un anno che si dirigeva barcollando verso la borsa con la roba da bagno. «Cosa vuoi dire?» «Non hai niente di più grazioso da metterle?» Lei sentì il cervello ingripparsi. «Perché, cos'ha che non va?» ruggì. Thomas si scostò i capelli dalla fronte, sbatté le palpebre sorpreso. «Era solo una domanda, si può sapere cos'hai?» Il senso d'inadeguatezza, perennemente in agguato, la invase e ruppe gli argini. «È tutta la mattina che faccio i bagagli, ma di abitini di pizzo non ne ho presi. Avrei dovuto?» Lui sbuffò. «Mi chiedevo soltanto se la bambina deve per forza sembrare una scaricatrice di porto.» Annika fece cinque passi veloci verso di lui, e lo fissò negli occhi. «Scaricatrice di porto? Ma che stai dicendo? Dobbiamo andare su un'isola dell'arcipelago o sottoporci a un maledettissimo esame di perbenismo?» La sorpresa di Thomas era genuina: Annika non lo prendeva quasi mai di petto. La furia da cui si era sentito investire era paralizzante. Aprì la bocca per gridarle contro qualcosa, ma non emise alcun suono. Nello stesso istante si udì un trillo: uno dei loro numerosi apparecchi elettronici, un
suono insistente e sempre più intenso. «Tuo o mio?» chiese Annika. Thomas girò sui tacchi ed entrò in camera a controllare cercapersone, cellulare e palmare. Annika spaziò con lo sguardo sul caos nell'ingresso, senza riuscire a localizzare il segnale. «Qua dentro non è!» gridò Thomas. Annika cominciò a frugare in mezzo ai bagagli. Da qualche parte, in quel caos, il trillo attutito continuava insistente. Ellen tentò di sollevarsi verso la borsa di Annika, che scivolò di lato, e la bambina sbatté il viso per terra. «Ohi ohi ohi, adesso la mamma soffia, poteva andare peggio, ecco, così...» Il segnale annegò nel pianto sconsolato della piccola. Annika prese in braccio la figlia, la cullò, ne inspirò il profumo e la morbidezza, ne immagazzinò il calore. Si sedette sulla bassa mensola per le scarpe, e il corpicino si rilassò, con il pollice in bocca. Quando il pianto cessò, anche il trillo tacque. Un attimo dopo cominciò a squillare il telefono fisso. Annika si alzò tenendo in braccio la bimba, s'infilò la cornetta tra l'orecchio e la spalla e continuò a soffiare. «Hai saputo?» chiese Chiodo, il caporedattore. Lei continuò a cullare la piccola. «Cosa?» «Del Sörmland, naturalmente. Michelle Carlsson.» Annika smise di soffiare e sì passò la lingua sulle labbra. Il quotidiano "La Stampa della Sera" irruppe nell'ingresso con la stessa discrezione di un carro armato, totalitario e dilagante. «È la tua vecchia riserva di caccia, no?» continuò il caporedattore. «Il fotografo è partito. Bertil Strand, vero?» Quest'ultima domanda era rivolta a qualcun altro, probabilmente il photo editor. Di nuovo nel ricevitore: «Berra sta arrivando, ti viene a prendere tra cinque minuti». «Li hai presi i pannoloni?» chiese Thomas, sfilandole la piccola dalle braccia. Annika annuì indicando il mucchio di bagagli, mentre annaspava in cerca di un appiglio nella realtà. «Cos'è successo?» chiese. «Ma ce l'hai il flash o no?» Cazzo, il cercapersone con il programma per la ricezione in tempo reale delle agenzie TT. Afferrò la borsa, frugò sul fondo, senza trovarlo. «Ehm, l'ho sentito ma non ho fatto in tempo a guardare l'agenzia.» «Michelle Carlsson è stata assassinata. Una sala regia nei dintorni di Flen. Colpo d'arma da fuoco alla testa.»
Le parole non riuscirono a penetrare nella sua testa, la realtà tangibile le sfuggì ancora una volta. Thomas mise giù la bimba, che subito partì verso Annika, barcollando con le braccia tese. «Stai scherzando!» esclamò. «Carl Wennergren è là, pare che ieri abbia partecipato alla registrazione, quindi abbiamo un vantaggio sugli altri. Alla faccia del tempismo.» L'ammirazione che traspariva dalla voce di Chiodo era autentica e spontanea. Lo udì aspirare una boccata di fumo. In sottofondo, i rumori indefinibili della redazione. Annika si accasciò di nuovo sulla mensola delle scarpe. «Berit è a Öland per fare il pezzo sulla tradizionale gara di bevute tra i giovani del posto, ma molla tutto e viene su con l'auto, dovrebbe arrivare nel tardo pomeriggio. Langeby è alle Canarie, quindi rimani solo tu. Devi precipitarti. Bertil Strand ha con sé quello che è venuto fuori finora dalle agenzie, ma è ben poco, per cui dovrai chiamare dall'auto. Hai qualche buon gancio con la squadra omicidi del Sörmland?» Annika chiuse gli occhi, costrinse i suoi due mondi a ricomporsi, avvertì la manina calda della bimba sulla gamba. «Abbastanza.» «Parla con Wennergren, fatti un'idea della situazione e chiamami... diciamo alle dodici?» «Certo» rispose lei. Thomas la stava fissando, le spalle irrigidite. «E questo cos'era?» Annika riattaccò e lo guardò negli occhi. «No» sbottò lui. «Non dirmelo. Non un qualche lavoro del cazzo, non oggi.» «Michelle Carlsson è morta» lo informò lei, in una specie di vuoto riecheggiante. «Quella della tele?» chiese Thomas. «L'amica di Anne?» Annika annuì, l'adrenalina le invase il cervello e le si rizzarono i peli degli avambracci. Ellen gorgheggiava con la bocca contro le sue ginocchia. «Come? Come è morta?» Annika fece spostare la bimba, si alzò, cambiò prospettiva. I bagagli per la gita nell'arcipelago rimpicciolirono fino a scomparire, lasciando solo il computer e la sua borsa. La piccola si sedette con un tonfo e ricominciò a piangere. Thomas la prese in braccio. «Stanno già venendo a prendermi.» L'uomo la fissò per due secondi, rifiutandosi di capire. «Il traghetto parte alle undici» la avvertì.
Annika gli prese dalle braccia la figlia, la portò nel lettino con le sbarre, la baciò sui capelli. Il sollievo di non doversi sorbire la suocera e l'arcipelago cedette il posto alla nostalgia. «Piccolina mia» sussurrò contro la testa della bimba «la mamma ti vuole tanto bene.» Ellen protestò, non voleva dormire. Annika non riusciva a staccarsi da lei. «La mamma torna, dopo. Adesso starai con il papà e il tuo fratellone, andrà tutto bene. Io lo so che è la soluzione migliore.» La bambina distolse gli occhi, piegò le gambe e si ficcò un dito in bocca. Annika le accarezzò maldestra i capelli, mano e cuore altrettanto angolosi. Uscì rapidamente dalla stanza, urtando lo stipite. Dal soggiorno filtravano i rumori di Scooby Doo, inseguito da un fantasma. Da qualche parte, in sottofondo, si udiva la vocina di Kalle che cantava. Gli altri ce la fanno, pensò. Funzionerà, deve funzionare. «Stai parlando sul serio?» disse Thomas quando lei lo raggiunse nell'ingresso. «Hai intenzione di andare a lavorare? Adesso?» Pronunciò l'ultima parola a volume troppo alto. Lei abbassò gli occhi sul parquet. «Non c'è nessun altro, lo sai che ero reperibile e che il personale è ridotto all'osso...» «E no, adesso basta!» gridò lui, rosso in viso, sporgendosi in avanti. «A Gällnö ci sono cinquanta persone che ci aspettano e tu non hai intenzione di venirci?» La sede delle emozioni, prima invasa dal panico, poi dal sollievo e dalla nostalgia, si colmò d'un tratto di un'inaspettata e irragionevole furia. «Aspettano te» ribatté lei «non me. Di me se ne sbattono, lo sai benissimo.» Kalle comparve nell'ingresso, gli occhi sbarrati per il volume delle voci dei genitori, e si precipitò tra le braccia della madre, le sue manine intorno al collo. La dolcezza di quel contatto minacciò di farle perdere il controllo. «Sei incredibile» continuò Thomas. «Non peggiorare le cose» replicò lei, china, a voce bassa. «Vai sulla tua isola, festeggia con i tuoi amici e tuo fratello, lascia che i bambini giochino, e vedrai che andrà tutto bene.» Il piccolo le infilò il naso dietro l'orecchio. «Amici? Da come ne parli, sembra che sia un viaggio di piacere! Amici un cazzo! Sono i miei genitori e un sacco di vecchie zie.» Annika si divincolò dall'abbraccio, baciò il bimbo di tre anni sulle guance, velluto sotto le labbra. Alzò gli occhi sul compagno. «Sta a te decidere cosa fare, adesso. Io sarò qui quando tornate, domenica.» Mise giù Kalle, si alzò e s'infilò la giacca impermeabile.
«Non puoi dire sul serio» la contraddisse Thomas. «Non puoi lasciarmi nella merda così.» «Ci sarà tanta di quella gente, là, che nessuno sentirà la mia mancanza, nemmeno i bambini. Divertitevi.» Si mise gli stivali, si gettò la borsa sulla spalla, il portatile nella sua custodia nera. Lo sguardo, anche se intimorito, reggeva quello di Thomas. «Certo che capita proprio a proposito, questa faccenda» disse lui con voce soffocata. «Ne abbiamo parlato altre volte» ribatté lei. «Non è facile. Sai che devo.» «Che madre del cazzo che sei.» Il sangue le defluì dal viso. «Pensi che lo faccia perché mi diverto?» chiese senza fiato. «Adesso sei ingiusto.» «Fanculo» rispose lui, con la schiena diritta e rosso in viso. «Questa non te la perdono.» Annika sbatté gli occhi, colpita dalle parole eppure distaccata. La corazza che proteggeva il suo lavoro si serrò, rendendola irraggiungibile. Si girò lentamente, abbracciò il bambino, gli sussurrò qualcosa all'orecchio e uscì. Mentre lei era in congedo di maternità, a Bertil Strand era stata assegnata una nuova auto di servizio, un'altra Saab. Annika intuì che era ancora più fanaticamente attaccato a questa che alla macchina precedente. «Quanto ci hai messo» commentò l'uomo quando la collega gettò sul sedile posteriore borsa e computer. Si accorse dall'espressione del fotografo che aveva sbattuto la portiera con troppa forza. «Che tempo del cazzo» mormorò Annika. «Be', è la festa di mezz'estate. Che ti aspettavi?» Ingranò la prima e si immise sulla carreggiata davanti al muso dell'autobus 62. Annika si sfilò difficoltosamente la giacca impermeabile, armeggiò con la cintura, la bocca secca. «Hai le agenzie?» Il fotografo indicò una mazzetta sottile ai piedi di Annika. «Non sarà un lavoro facile, con tutti i cronisti sparsi su mezzo globo. Meno male che Wennergren era sul posto.» Annika si sporse verso i fogli, ma la cintura che si era appena allacciata le impedì di raggiungerli. Irritata, fu costretta a slacciarla di nuovo. «Mmh» mugugnò. «E questo cosa significa? Sono del tutto trasparente, qui sul sedile anteriore?»
Il fotografo le lanciò un'occhiata. «È allucinante che queste cose ci trovino impreparati. È tipico di una pianificazione carente, lungimiranza zero. Schyman dovrebbe metter mano all'organizzazione, invece di far la guerra a Torstensson.» Annika lasciò perdere l'accenno ai contrasti tra direttore responsabile e condirettore. Si allacciò di nuovo la cintura, chiuse gli occhi e sentì bruciare all'altezza del diaframma il senso di impotenza e la nostalgia dei bambini. Sua suocera avrebbe avuto ancora più acqua al suo mulino. Povero Thomas, come era potuto andare tutto così storto a suo figlio? Si costrinse a espirare, spalancò gli occhi ed esaminò le stampe della TT. Le agenzie, cinque in tutto, erano state trasmesse con un minuto di intervallo l'una dall'altra. Lancio delle 09.41: Morta la giornalista televisiva Michelle Carlsson. 09.42: Michelle Carlsson uccisa da un colpo d'arma da fuoco alla testa. 09.43 Michelle Carlsson trovata in una sala di regia mobile presso il castello di Yxtaholm. Un'arma è stata rinvenuta di fianco al cadavere. 09.44 La polizia sospetta che Michelle Carlsson sia stata assassinata. 09.45 Diverse persone sotto interrogatorio per l'assassinio di Michelle Carlsson. «Stavano registrando una serie di puntate da trasmettere a partire dalla settimana prossima» le spiegò Bertil Strand. «Estate al castello» disse Annika. «La mia amica Anne Sapphane lavora alla produzione del programma dal mese di marzo...» Tacque, fissando il tracciato delle gocce di pioggia sul finestrino laterale: torrenti che si congiungevano e separavano, spinti irresistibilmente all'indietro finché non cozzavano contro il listello cromato della portiera. Le tornarono in mente la rabbia e la disperazione dell'amica quando, dopo sei anni nella casa di produzione, era stata retrocessa a responsabile del casting e assistente di studio invece di essere promossa a redattrice o direttrice di produzione. Il lavoro prevedeva che Anne Sapphane fosse presente sul luogo della registrazione per selezionare, mettere a disposizione e archiviare il materiale, svolgere in pratica tutta la parte più stancante e di bassa manovalanza. Probabilmente era ancora là, in qualche parte del castello. Annika si girò, pescò blocco e matita dalla borsa sul sedile posteriore. «Chi sono gli indiziati?» «Non ne ho idea» rispose Bertil Strand, sbuffando. La Saab aveva raggiunto l'Essingeleden, la tangenziale di Stoccolma
che, come prevedibile, era ingolfata di veicoli fermi. «Qui ci vorrà un secolo» sentenziò lui mettendo in folle. Annika non riuscì a trattenersi: «Be', è la festa di mezz'estate, che ti aspettavi?». Bertil Strand mise la ventola sulla posizione di riciclo dell'aria interna, e i vetri cominciarono immediatamente ad appannarsi. I tergicristalli mantenevano un ritmo costante e regolare, quello sinistro cigolava ogni volta che raggiungeva il punto più alto del parabrezza. Annika chiuse gli occhi, respingendo la voce di Thomas e il senso di inadeguatezza e si concentrò sulla pioggia, i tergicristalli e il sibilo asmatico della ventola. Estate al castello, pensò, il grosso investimento di TV Plus per un pubblico familiare: dibattiti e intrattenimento, ospiti e musicisti. Il ritorno di Michelle Carlsson in prima serata, la rivincita della stella della TV. In realtà, dovette ammettere, era piuttosto brava. «Che opinione avevi di Michelle?» Bertil Strand girò la testa come se fosse imperniata su un cuscinetto a sfere, cercò un varco in mezzo al traffico. «Petulante. Nessuna credibilità. Andava bene quando conduceva i programmi per bambini e i quiz, ma quel talk show in cui si era lanciata non era granché. Non sapeva niente.» Annika fu sorpresa delle proteste che istintivamente le salirono alle labbra. «Non è vero» ribatté. «Michelle lavorava in radio e televisione da dieci anni. Qualcosa doveva pur aver imparato, no?» «A sorridere alla telecamera» la contraddisse Bertil Strand. «Non sarà difficile, no?» Annika scosse la testa, stanche obiezioni premevano per uscire. Eppure lei stessa aveva spesso fatto ricorso più o meno alle stesse argomentazioni discutendo di giornalismo con Anne Sapphane. «La mia migliore amica lavora in televisione da sei anni ed è incredibilmente più complicato di quanto possa apparire.» Bertil Strand si immise prepotentemente sulla tangenziale, tagliando la strada a una Land Rover che arrivava come un missile. Il tizio alla guida si attaccò al clacson. «A me pare un lavoro del cavolo» continuò il fotografo. «Un sacco di apparecchiature che non funzionano mai e un branco di idioti che scorrazzano su e giù e se la tirano.» «Parrebbe la descrizione della "Stampa della Sera"» commentò Annika e di nuovo vagò con lo sguardo fuori dal finestrino, stringendo i denti. Il tizio della Land Rover le mostrò il dito medio. Ma che cosa sto facendo? Eccomi qui, seduta a fianco di un pallone gon-
fiato di fotografo, diretta sul luogo di un delitto insensato, e lascio soli Thomas e i bambini, le uniche persone che significano veramente qualcosa per me. Devo essere pazza. Si annusò le mani: si percepiva ancora l'odore dei capelli di Kalle e delle lacrime di Ellen. Le venne un nodo alla gola. Si girò, prese dalla borsa il cellulare e un fazzolettino e se lo passò sulle mani. «Ecco, lì c'è un varco» indicò Bertil Strand, accelerando. Annika compose il numero. La polizia aveva dato ordine di spegnere tutti i cellulari. Anne Sapphane era sicura di aver ubbidito, per questo la vibrazione proveniente dalla tasca della sua giacca le giunse come un piccolo shock. Si alzò a sedere di scatto sul letto, con il battito cardiaco che le martellava alla gola e alle tempie. Capì che doveva essersi appisolata. Il telefono ronzava come un gigantesco insetto nascosto nella tasca interna della giacca impermeabile. Anne si scostò confusa i capelli dal viso, assaggiandosi la lingua. Muffa. Si fece poi strada in mezzo al disordine di coperte, cuscini ornamentali e copriletto, afferrò la giacca, ne estrasse il cellulare. Guardò incredula il display: numero non riconoscibile. Esitò. Cos'era questo? Una specie di test? Premette il tasto di risposta e bisbigliò cauta: «Pronto?». «Come va?» chiese la voce di Annika Bengtzon, lontana e indistinta. «Sei viva?» Anne Sapphane represse un singhiozzo, si coprì gli occhi con una mano, premette le dita contro la testa dolorante e si concentrò sull'ascolto. Si udivano fruscii e rumori, rombi di motori e suoni sfuggenti di clacson di passaggio. «A malapena» bisbigliò. «Abbiamo saputo di Michelle» continuò l'amica, pronunciando le parole più lentamente del solito. «Stiamo venendo giù. Puoi parlare?» Anne si mise a piangere, un pianto silenzioso, lacrime salate nel microfono. «Credo di sì» sussurrò. «... queste code del cavolo... ancora lì?» La linea andava e veniva, fruscii e pioggia, la voce di Annika a frammenti. Anne inspirò profondamente, sentì che il battito cardiaco si calmava. «Sono chiusa nella mia camera dell'ala sud. Siamo tutti segregati, immagino ci interroghino uno alla volta.» «Cos'è successo?» Si asciugò le lacrime con il dorso della mano, con l'altra strinse il cellu-
lare, lo premette contro l'orecchio, appiglio a una corda di salvataggio. «Michelle» mormorò. «Michelle è morta. Era nell'ob-van, la parte dietro della testa non c'era più.» «Molti piedipiatti in giro?» Il ritmo del suo cuore sì stabilizzò, avvicinandosi a una velocità accettabile. La voce di Annika rappresentava la realtà e il quotidiano. Anne si alzò in piedi, con le ginocchia doloranti, e guardò fuori dalla finestra. «Da qui non vedo molto, un ponte su un canale e qualche bersaglio per il tiro con l'arco. Ho sentito arrivare diverse auto, e un po' di tempo fa è atterrato un elicottero.» «Tu l'hai vista?» Anne Sapphane chiuse gli occhi, si pizzicò la radice del naso, le immagini rimaste impresse dentro di lei balenarono attraverso i postumi della sbornia. «L'ho vista. L'ho vista...» «Chi è stato?» Si sentì bussare. La donna, raggelata, fissò la porta, incapace di muoversi. La corda di salvataggio fu strappata via, e lei tornò a precipitare nel caos. «Devo andare» sussurrò al telefono, e chiuse la conversazione. «Anne Sapphane?» La voce, all'esterno, era incalzante. Anne gettò il telefono sotto la coperta e si schiarì la voce, ma prima che potesse formulare una frase la porta si aprì. Il poliziotto sulla soglia era giovane e visibilmente nervoso. «Okay, può venire, adesso.» Lei lo fissò. «Ho una certa sete.» Il poliziotto non colse il suo senso di irrealtà, non vide nemmeno l'essere umano, quasi fosse trasparente. «Prenda l'uscita, e poi giù a sinistra. Forza!» Il corridoio era scuro di pioggia e le porte chiuse, le pareti strette. Anne non si sentiva ancora del tutto sobria. La mano a sostenerla lungo il percorso, e la solitudine. Non si vedeva nessun altro dello staff della televisione. Quando il poliziotto spalancò la porta, il freddo e l'umidità la colpirono come un asciugamano bagnato. Senza fiato, barcollò sulla soglia, socchiudendo gli occhi verso il castello. Poliziotti, auto della polizia rese indistinte dalla pioggia grigia. «Non è che lei ha un ombrello, per caso?» La guardia rispose indicando l'angolo dell'edificio. Anne si strinse nelle spalle, fece un passo esitante sul gradino di marmo e sentì immediatamente l'acqua infiltrarsi nel colletto. «Dove devo anda-
re?» «La costruzione in riva al lago. Avanti.» Un rivolo freddo lungo la spina dorsale, acqua negli occhi. Sbatté le palpebre per scacciarla, scese ondeggiando i tre gradini fino alla ghiaia, seguì la siepe di bosso in direzione del verziere e poi il muro intonacato di bianco fino all'ala nuova, infine girò intorno a un gruppo di mobili da giardino di ferro smaltato e si fermò. Il muro, intervallato da archi e coperto di tegole rosse, incorniciava il giardinetto. Di qui si scappa facilmente, pensò. «Vada dritto, avanti.» Distolse lo sguardo dal muro e procedette verso l'ingresso. Il commissario era seduto dietro un tavolo nella grande sala per le conferenze. Esattamente dietro di lui, fuori dalla finestra, si vedeva l'ob-van. La sala di regia mobile emergeva dalla pioggia come in rilievo, bianco gesso, con il logo del canale televisivo a caratteri cubitali. Inconsciamente, Anne Sapphane arretrò di un passo, pestando il piede al poliziotto. Chissà se è ancora lì, le balenò nella testa. Chissà se è già fredda. «Si sieda.» Anne si accasciò sulla sedia che il commissario le aveva indicato, si asciugò la pioggia dagli occhi, sbatté le palpebre alzando lo sguardo sul poliziotto e notò la sua camicia hawaiana multicolore. Il sollievo fu immediato. «Dio santo, ma è lei?» L'uomo pareva non averla udita. «Ci siamo conosciuti a Stoccolma, tempo fa» disse Anne, con trasporto, adesso. «Insieme ad Annika Bengtzon...» «Lei è una di quelli che l'hanno trovata» continuò il commissario. Anne sbatté gli occhi, confusa. «Ehm... Sì, una di loro.» D'un tratto il senso di irrealtà la riassalì. Il pavimento ondeggiò, le sue mani si afferrarono al ripiano della scrivania. «È possibile avere un po' d'acqua?» Un poliziotto si avvicinò con una caraffa e un bicchiere. Si versò l'acqua da sola, le tremavano le mani. Scolò avidamente il bicchiere, rovesciando un po' di liquido. «I postumi della sbornia?» La donna si appoggiò allo schienale della sedia, sentendo montare la nausea. «Credo proprio che mi stia per venire un attacco d'asma.»
«Di solito ci si dà ai bagordi alla fine della registrazione di un programma?» Si passò la mano sui capelli, accorgendosi di quanto era bagnata. «Perché sono qua? Quando posso andare a casa?» Il commissario si alzò. «Vi interrogheremo nel corso della giornata di oggi, uno alla volta. Nessuno di voi è più indiziato degli altri, ma naturalmente dobbiamo sentirvi tutti come persone informate dei fatti. Spero che lo capiate.» Anne lo guardò con la bocca semiaperta, tentando di afferrare il concerto. «Il resto del tempo dovrete rimanere in camera. Vi verremo a prendere nell'ordine che riterremo più opportuno. Non potete parlare tra di voi né comunicare in qualsiasi altro modo. È chiaro? Anne Sapphane, mi sente?» Si costrinse ad annuire, pensò al cellulare sotto la coperta nel suo letto. L'uomo accese un registratore e si sedette sulla scrivania davanti a lei. Aveva i jeans lisi sulle ginocchia. «Verbale dell'interrogatorio con Sapphane, Anne, nata...» Si bloccò e guardò con insistenza la sua interlocutrice, che deglutì e mormorò la propria data di nascita. «... condotto da Q, al castello di Yxtaholm, sala delle conferenze dell'ala nuova, venerdì 22 giugno alle 10.25. Anne Sapphane viene sentita come persona informata dei fatti nel caso relativo al presunto omicidio di Michelle Carlsson.» Tacque e la fissò con uno sguardo penetrante. «Qual è la ragione per cui si trova qui?» Anne bevve un altro sorso d'acqua. «Mi state interrogando» rispose a voce bassa. Il commissario Q sospirò. «Scusi» disse Anne Sapphane, schiarendosi la voce. «Mi occupo del casting, faccio parte della Zero Television... è un'azienda di produzione che realizza programmi televisivi per diversi canali. Ho svolto anche le funzioni di assistente di studio qui, durante le registrazioni della settimana scorsa...» Tacque, si guardò intorno nella stanza. Poliziotti davanti, poliziotti dietro, l'ob-van là fuori. «Le registrazioni» disse il poliziotto. «Al plurale. Sono state più di una?» Annuì. «Otto puntate una di seguito all'altra» precisò, la voce un po' meno incerta. «Due al giorno per quattro giorni, e questa pioggia del cazzo non ha mai smesso di venire giù!» Sbottò in un'improvvisa risata, uno sfo-
go stridulo e fuori luogo. Il poliziotto non reagì. «Come si sono svolte le registrazioni?» «Svolte?» Anne chinò la testa. «Come ci si poteva aspettare, anche se il tempo non avevamo potuto pianificarlo. Abbiamo dovuto girare tutti gli slot e le scene sotto tendoni pieghevoli, e diversi musicisti sono stati costretti a suonare nella sala musica al secondo piano del corpo centrale del castello. Per il resto, però, è andata come doveva andare.» Tentò di sorridere. «Qualche screzio?» «In che senso?» Scolò il bicchiere. Il poliziotto spalancò le braccia in un gesto stanco. «Battibecchi. Litigi. Minacce. Violenze.» Anne Sapphane chiuse di nuovo gli occhi prendendo fiato. «Qualcuno, forse.» «Può essere più precisa?» La donna bevve di nuovo, si accorse che l'acqua era finita, agitò il bicchiere vuoto e le fu riempito. «Miliardi di piccole cose possono andare storte in una produzione di queste dimensioni» iniziò «e non ce lo si può permettere. Se tutti sono stressati, succede che le cose assumano proporzioni eccessive.» «Parli chiaro.» Il cuore prese a batterle di nuovo velocemente, si mise a tremare. «Michelle» ricominciò «poteva risultare incredibilmente pesante. In questi giorni ha avuto degli scontri con tutti quelli dello staff.» «Anche con lei?» Anne Sapphane annuì diverse volte e deglutì. Il poliziotto sospirò. «Può rispondere a voce alta alla domanda, per favore?» «Sì» ammise Anne, troppo forte. «Sì, anche con me.» «Quando?» «Ieri sera.» Il poliziotto la scrutò senza abbassare lo sguardo. «Cos'è successo?» «Una cavolata, in realtà. Ci siamo scontrate sui soldi, sul valore delle cose. È cominciato tutto con una discussione sulle azioni. In generale, io sono contraria all'economia basata sulle speculazioni, ma Michelle sosteneva che la democrazia ne dipende, e poi siamo passate al discorso dei salari. I dirigenti aziendali e coloro che occupano cariche pubbliche secondo lei meritavano i loro stipendi e i contratti pensionistici; ha citato Barnevik e compari, ma in realtà stava parlando solo di se stessa, come al solito...»
D'un tratto si bloccò, sentì che le guance le s'infiammavano. Il poliziotto la guardava privo di espressione. «Si è arrabbiata con lei?» Adesso mento, pensò Anne Sapphane. Non posso confessare la verità, altrimenti penseranno che sia stata io. L'uomo davanti a lei la studiava, la esaminava, le leggeva nel pensiero. «Se mente, sarà solo tutto più complicato» le consigliò. «Mi è venuta voglia di strozzarla!» esclamò Anne, abbassando lo sguardo, le lacrime brucianti in agguato. «Anche se bisogna dire che eravamo ubriache.» Il commissario di polizia si alzò, fece il giro del tavolo, si risedette sulla sedia. «Ubriache» ripeté. «Fino a che punto? E lo stesso vale per tutti gli altri dello staff?» Anne alzò le spalle, improvvisamente stanca morta, nauseata da tutto. «A voce alta, per favore.» Corto circuito nel cervello. Error and overload. «Ma che ne so io!» gridò. «Come faccio a saperlo? Non giravo a raccogliere i bicchieri vuoti, anche se qui c'era gente che pensava che fosse uno dei miei compiti...» «Chi? Michelle riteneva che lei dovesse raccogliere i bicchieri?» «No!» rispose Anne, in tono leggermente più basso. Il silenzio si fece comparto, la nausea aumentò. «Altre liti ieri sera o nel corso della notte?» La donna deglutì a forza, ansimando. «Può darsi» sussurrò. «Quali?» «Chieda agli altri. Io non lo so, non ascoltavo.» «Ma l'atmosfera era agitata qui ieri sera? Rissosa, persino?» «Andate a vedere» rispose Anne. «Su nella scuderia.» «Lei è stata lì?» «Non per molto.» «Ma è stata una di quelli che l'hanno trovata?» Non insistette per avere una risposta affermativa. «Oltre a lei, chi altro è salito sul van?» Anne chiuse gli occhi un istante. «Sebastian» disse, sentendo che la voce stava per incrinarsi. «Sebastian Follin, l'agente di Michelle Carlsson?» L'interrogata annuì, poi ricordò. «Sì... O meglio, manager. Sebastian Follin è il manager di Michelle.»
Si bloccò, confusa. «Come si deve dire? Che è, oppure era...?» «Qualcun altro?» «Karin. Karin Bellhorn, la direttrice di produzione. C'era anche lei.» «Altri?» «Mariana, e Bambi. Proprio non si sopportavano quelle due.» «Perché siete rimasti alzati tutta la notte?» D'un tratto lei fece una risatina. «C'era ancora da bere.» «Chi sarebbero Mariana e Bambi?» «Mariana von Berlitz è redattrice di Estate al castello, lavora nella mia stessa azienda. Bambi Rosenberg, l'attrice di soap opera, era stata ospite della penultima puntata. Lei e Michelle sono amiche.» «Okay» riassunse il poliziotto. «Il manager, la direttrice di produzione, la redattrice, l'amica e lei. Tutti qui?» La donna rifletté un istante. «Gunnar, naturalmente. Era lui ad avere la chiave. Antonsson, si chiama. Lavora sul van, avreste dovuto vederlo.» La risata le salì gorgogliante alle labbra e al cervello, fuoriuscendo dalla bocca come veleno verde. «È rimasto più turbato dal casino che da...» Fece un gesto con la mano, poi tacque. «Cosa intende dire?» «Gunnar era più infastidito dal fatto che Michelle gli avesse sporcato le attrezzature che dal fatto che era morta.» «Sporcato?» «Be', sapete, quella roba grigia, insomma...» L'immagine, come un lampo, filtrata dallo stato di ebbrezza e di shock, le apparve d'un tratto chiara. Il corpo sottile nella sua posizione grottesca, occhi enormi che non avrebbero mai più visto. «Non ce la faccio» mormorò Anne e svenne. La banchina di fronte al Grand Hotel brulicava di gente. I traghetti in partenza per le diverse isole dell'arcipelago rollavano simili a balene dietro la cortina di pioggia, il vento e l'acqua frustavano i rami fronzuti che ne decoravano la prua e la poppa. Non è possibile, pensò Thomas. Non troveremo mai posto. «Gällnö? L'ultimo traghetto in fondo. Buona festa di mezz'estate!» Thomas cercò di sorridere all'impermeabile dell'addetto ai traghetti, afferrò più saldamente l'impugnatura del passeggino, superò una grossa pozzanghera e finì con l'investire il polpaccio di una giovane donna.
«Di solito si chiede scusa» sibilò questa. Lui guardò dall'altra parte, sentì il manico in plastica del pacco dei pannoloni scavargli un solco nel polso e il telaio dello zaino rimbalzare contro l'anca. «Voglio il gelato» disse Kalle, indicando il chiosco alle loro spalle, sulla banchina. «Te lo compro sul traghetto» rispose Thomas, mentre la fronte gli s'imperlava di sudore. Una folata laterale di vento e pioggia gli frustò il viso, Ellen, sul passeggino, si mise a piagnucolare. Socchiuse gli occhi verso i traghetti ormeggiati e sentì il cuore farsi di piombo. Era il Norrskär che scoppiettava là in fondo. Di fianco ai potenti mostri dell'arcipelago, il decrepito vaporetto pareva una vecchietta curva. Con quel tempo, e con quel traghetto, ci sarebbero volute più di tre ore per raggiungere la casa delle vacanze dei genitori. Salì sull'imbarcazione tra gli ultimi, accatastò passeggino, sacchetti, borse e zaino di fianco alla porta, a prua, sotto il ponte di comando. «Adesso andiamo a fare una bella merenda» annunciò, accorgendosi da solo quanto suonava misero quell'annuncio. Si ballava di brutto fin dallo Strömmen. A Kalle venne il mal di mare prima che avessero superato la prima isola. Vomitò sul tavolo della caffetteria e ci fece cadere dentro il suo Magnum. «Il gelato!» gemette il piccolo, cercando di afferrare il bastoncino scivoloso e asciugandosi contemporaneamente la bocca con la manica. «Aspetta!» gridò Thomas, ed Ellen tentò di divincolarsi dalle sue braccia. Gli altri passeggeri cercarono con fare discreto di stringersi tra loro, allontanandosi il più possibile. «Dovrà pulire da solo» gli ingiunse la cameriera inviperita, tendendogli un rotolo di scottex. «Ecco fatto» disse Thomas, sentendosi bruciare addosso gli sguardi dei compagni di viaggio. «Su, su, Ellen, Kalle, vedrete, andrà tutto bene...» Fuggì sul ponte, la bambina sotto un braccio, il passeggino sotto l'altro e Kalle, simile a un recalcitrante grumo di pianto, alle calcagna. Fece sedere i bambini sotto una piccola tettoia riparata dal vento subito sopra la scala. Si sfilò l'impermeabile, ci avvolse dentro il maschietto e lo sistemò sulla panchina agganciata al muro. Il pianto si spense subito, nel giro di un minuto il piccolo si addormentò. Poi abbassò lo schienale del passeggino, rimboccò la copertina intorno alla figlia e si mise a cullarla ve-
locemente avanti e indietro, avanti e indietro. Insieme al rollio del traghetto, funzionò, ed Ellen prese sonno. Thomas mise il freno al passeggino, controllò che la pioggia non bagnasse i bambini, e poi si piazzò davanti al parapetto, lasciandosi abbracciare dal vento e dalla pioggia. D'un tratto si sentì investire da un inspiegabile senso di abbandono e di perdita: c'era stato qualcosa che aveva avuto, e poi smarrito. L'acqua spumeggiante, pensò. La sensazione, l'odore. Ci era cresciuto in mezzo. L'acqua faceva parte dei suoi punti di riferimento, c'era sempre stata. La limpidezza e la trasparenza non rientravano solo nella sua immagine dell'infanzia e delle estati: a Vaxholm, dove aveva abitato fino a trentadue anni, l'acqua era sempre stata vicina. Ma negli ultimi anni quel frammento di vita era passato in secondo piano, e lui l'aveva quasi dimenticato. Non lo merita, pensò. E poi, con una forza devastante: non avrei dovuto. Rimase senza fiato: mai, prima d'allora, aveva dato sfogo a quella sensazione con tanto impeto. Gli si formò un nodo allo stomaco, la delusione minacciava di trascinarlo negli abissi. Aveva tradito Eleonor, sua moglie, per una scappatella con Annika Bengtzon. Aveva abbandonato la sua villa, la sua famiglia e la sua esistenza per andare a stare nell'appartamento in rovina della reporter, senz'acqua calda, a Kungsholmen, nel centro di Stoccolma. Era venuto meno alla promessa fatta a Dio e a sua moglie, aveva deluso i suoi genitori, i suoi amici e i suoi vicini. Lui ed Eleonor avevano goduto di un'ottima posizione sociale a Vaxholm, sia nella comunità che nella vita lavorativa, lei come direttore di banca e lui come funzionario amministrativo del comune. «Per una scopata del cazzo!» esclamò a voce alta nel vento. Poi il senso di colpa girò intorno al suo stesso asse, colpendolo alla nuca con la stessa incredibile forza. Kalle, pensò. Perdonami, non era rivolto a te. Girò le spalle al mare, inquadrò con lo sguardo i bambini che dormivano sotto la tettoia. Fantastici, ed erano suoi. Suoi! Eleonor non ne voleva, di figli. Quanto a lui, praticamente non ci aveva mai pensato finché Annika non si era presentata nella loro villa una sera subito prima di Natale, il viso gonfio di pianto, incinta. Quanto tempo era
passato, ormai? Tre anni e mezzo? Solo? Sembrava molto di più. Era tornato nella sua casa un'unica volta, da quel giorno, insieme agli operai della ditta di traslochi. I soldi che gli erano arrivati da Eleonor quando aveva rilevato la sua parte di villa li aveva investiti in azioni di aziende di informatica e altre di settori ad alta tecnologia che gli erano state consigliate dagli analisti. «Non comprare quella merda» lo aveva ammonito Annika. «Che cavolo ce ne facciamo della banda larga, se nemmeno sono capaci di fabbricare dei computer che funzionano?» Poi aveva gettato per terra il suo portatile e l'aveva calpestato. «Molto maturo, come comportamento» aveva risposto lui. «La tua analisi della Borsa è davvero affidabile.» Naturalmente, i fatti le avevano dato ragione. Il crollo della Borsa era cominciato un mese dopo, e le sue azioni erano tra quelle messe peggio. Si scostò dal parapetto per ripararsi dal vento e si accorse di essere bagnato e di avere freddo. E ancora non avevano superato Gåshaga. «Perché non funziona l'ascensore?» ansimò Schyman raggiungendo il quarto piano dell'edificio in cui si trovava il giornale. Tore Brand lo fulminò con un'occhiata acida. «L'umidità. I tecnici verranno lunedì.» Il direttore prese fiato e decise di lasciar perdere la faccenda finché non fosse stato di turno un altro portiere. Chiodo era seduto solo e abbandonato al banco della cronaca, i piedi sulla scrivania, la cornetta del telefono praticamente infilata nell'orecchio. Quando Schyman gli appoggiò la mano sulla spalla, trasalì. «Ci sentiamo» disse, sbattendo il ricevitore sul telefono. «Dov'è Torstensson?» chiese Schyman. «Dai suoi parenti in Dalecarlia, a suonare il violino. L'hai mai visto con il costume tradizionale della regione?» Chiodo si mise a sghignazzare. La gente che lavorava in quel giornale non aveva alcun rispetto per il direttore responsabile. Schyman sapeva che era un aspetto secondario. Finché fossero riusciti ad abbindolare Torstensson e fargli fare quello che volevano, il direttore del giornale sarebbe rimasto al suo posto. Si sedette di fronte al caporedattore e si appoggiò allo schienale della poltroncina. Sapeva che i ragazzi lo rispettavano per la sua competenza, ma non aveva alcuna importanza, dal momento che gli mancava il potere
esecutivo. D'un tratto gli venne in mente l'appellativo che Annika Bengtzon aveva affibbiato al gruppo dei capi, "il branco delle giacche blu", visto che indossavano tutti giacche blu di panno incredibilmente identiche, e abbozzò un sorriso. Poi si schiarì la voce. «Cosa facciamo della povera signorina Carlsson?» «Annika Bengtzon ha detto che mi avrebbe chiamato alle dodici, ma non l'ha fatto.» Fece un gesto sconsolato. «Con chi era?» «Berra. Sono partiti poco dopo le dieci.» «Allora saranno appena usciti dalla città. Ci sono delle code assurde.» «Giustissimo!» esclamò Chiodo che abitava a Solna e ogni giorno usava l'auto aziendale per coprire i quattro chilometri di strada fino al lavoro. «Sarebbe una buona causa per una campagna di protesta.» Schyman trattenne un sospiro. «Lo sai, vero, che il nostro giornale ha in corso due cause per diffamazione da parte di Michelle Carlsson.» «E allora?» chiese Chiodo. «Ti pare che dobbiamo andarci cauti su una bomba del genere solo perché, in vita, la tipa aveva manie di persecuzione?» Schyman guardò il caporedattore per dieci, silenziosi secondi. «Chi fa cosa?» domandò poi. Chiodo sfogliò freneticamente le sue carte, il labbro superiore leggermente sudato. «Annika Bengtzon e Berra stanno andando a Flen, come ti ho già detto, Berit Hamrin li raggiunge da Öland. Avrebbe dovuto occuparsi della gara di bevute tra i giovani dell'isola, con un fotografo preso sul posto. Stamattina sono stato al telefono con lui per un'ora, era incazzato nero perché era saltato il lavoro.» «Naturalmente verrà pagato lo stesso» aggiunse Schyman tirando fuori una copia del giornale dal caos che regnava sul banco con i computer. «Certo, ma al tizio non interessava la grana, voleva la foto accanto al titolo della "Stampa della Sera". Alla fine gli ho detto di scattare qualche rullino lo stesso e di mandarci su il materiale con i nomi e l'età delle persone.» «Quelle foto le voglio vedere» lo avvisò il condirettore. «Di finte gare di bevute ne abbiamo avute abbastanza.» Chiodo arrossì leggermente. L'anno prima aveva mandato giù a Öland due sostituti che avevano messo insieme del materiale fenomenale. L'unico problema era che il reporter e il fotografo avevano bevuto con la stessa fo-
ga degli altri, dimenticandosi tra l'altro di avvertire gli intervistati che si sarebbero ritrovati a vomitare, piangere e cagare sulla "Stampa della Sera". Il che aveva comportato cinque condanne da parte del Consiglio della Stampa e patteggiamenti per oltre 150 mila corone per evitare che la cosa finisse in tribunale. In effetti "La Stampa della Sera" avrebbe anche potuto vincere la causa, ma la faccenda era talmente penosa che era stato meglio pagare e tentare di mantenere quel poco di dignità di cui il giornale godeva ancora. «Proprio per questo ci è andata Berit, quest'anno» rispose Chiodo laconico, cliccando sul suo schermo. «E quella cosa al fotografo gliel'ho detta solo per liberarmene.» «Be', comunque assicurati che non blocchi il modem con cinquecento immagini del cavolo a cinque minuti dall'andata in stampa» disse Schyman alzandosi. «Quando chiama, passami la Bengtzon.» «Se chiama» lo corresse il caporedattore, ma l'altro se n'era già andato. La carovana di auto avanzava a passo di lumaca lungo la statale 55, la pioggia scrosciava, i tergicristalli cigolavano. La lenta monotonia creava un'atmosfera di tensione e silenzio pesante all'interno della Saab. Annika cercò una posizione più comoda, ma la cintura le tagliava una spalla e il sostegno per la regione lombare era troppo alto. Sapeva che il problema non era il sedile: quell'irrigidimento era dovuto all'insicurezza. Era rientrata in servizio dal congedo di maternità solo qualche settimana prima, e il suo ruolo all'interno della redazione di cronaca nera era precario e per nulla scontato. Durante le due gravidanze la direzione del giornale l'aveva destinata ad altri incarichi, tra cui la pagina femminile e le stupidate di Questo e Quello. Annika si era sentita penalizzata ed emarginata, ma non aveva protestato. Naturalmente era ben consapevole dell'opinione della direzione nei confronti delle donne giovani, assunte da poco a tempo indeterminato, che restavano incinte. Sapeva di essere considerata sleale, una scansafatiche che sfruttava il sistema del congedo stabilito per legge per mettere nella merda il giornale. Tenere nella redazione di cronaca nera una giornalista con il pancione era improponibile, uno scherzo. Prima di tutto, era scontato che fosse affetta da morte cerebrale dal momento stesso in cui lo spermatozoo era penetrato nell'ovulo, e secondariamente doveva essere punita per la sua slealtà. Ricordò le proprie lacrime amare e i maldestri tentativi di Thomas di
consolarla. "Vedrai che tra poco ti sentirai meglio" le ripeteva, andandole a prendere del latte. Non gli aveva mai svelato che il suo pianto non dipendeva dalla nausea. Il collo le doleva e si passò la mano sulla prima vertebra, la massaggiò, cercò di rilassare le mascelle. Per la maggior parte del viaggio non era riuscita a prendere la linea, il suo abbonamento di infimo livello con la COMVIQ non prevedeva copertura in aperta campagna. Da quel poco che era riuscita a sapere, aveva dedotto che erano stati coinvolti sia il commissariato di Eskilstuna sia la squadra omicidi della capitale. La notizia l'aveva confortata e insieme messa di cattivo umore. Con la squadra omicidi aveva buoni contarti, soprattutto con Q, l'investigatore che spesso conduceva le indagini. Il suo rapporto con il commissariato di Eskilstuna, invece, era decisamente più complesso. Erano stati loro a seguire il caso della morte del giocatore di bandy Sven Matsson a Hälleforsnäs, sei anni prima, ed era certa che non l'avessero dimenticata. Fissò lo sguardo fuori dal finestrino, vide le fitte conifere scorrere via, la stessa rigogliosa vegetazione del Sörmland che quel giorno aveva attraversato di corsa, inseguita, braccata. Era una fredda giornata autunnale, limpida e serena. Aveva lasciato Sven la sera prima, chiudendo una volta per tutte il loro problematico rapporto. Lui aveva risposto che l'avrebbe uccisa, così l'aveva inseguita attraverso il bosco, armato di un coltello da caccia, e aveva sventrato il suo gatto. Chiuse gli occhi, si lasciò cullare dall'asfalto dissestato e dagli ammortizzatori nuovi della Saab, tentando di rilassarsi. Davanti agli occhi si materializzò la testa di Sven che veniva spappolata dalla spranga di ferro che lei teneva tra le mani, lo vide piegarsi lentamente e scomparire oltre il bordo dell'altoforno. Le mancò l'aria, le gambe presero a formicolare. Scacciò l'immagine dalla mente. Era stata condannata per omicidio colposo, e il tribunale di Eskilstuna aveva stabilito la pena: due anni di libertà vigilata. La sua reazione era stata giudicata come legittima difesa, e ciò aveva portato all'assoluzione dall'accusa di omicidio volontario. Quanto a lei, non era troppo sicura che la sentenza fosse corretta. Aveva voluto ucciderlo. Dopo, era rimasta lì tenendo tra le braccia il gatto morente, con le viscere fuori dal ventre, e aveva sentito di aver fatto la cosa giusta. «È qui che dobbiamo svoltare?» Alzò gli occhi. «Sì. A sinistra.»
Seguirono il lungo viale che portava fino all'ingresso di Yxtaholm. Svoltarono oltre la traversa che portava su al maneggio e si ritrovarono la strada sbarrata da una grossa transenna. Bertil Strand sbuffò. «Ecco, lo sapevo, cazzo.» Annika guardò verso destra, scorgendo dietro gli alberi la facciata bianca del castello. Più avanti, sullo spiazzo, si vedeva camminare della gente. Un van satellitare stava entrando in quel momento nel parcheggio di fianco alla scuderia. «Tutti i maledetti mass media del paese sono già qui!» sbottò il fotografo. «Smettila di fare la lagna» rispose Annika. Aprì la portiera e scese dalla macchina nello stesso istante in cui Bertil Strand accelerava per spostarsi. «Fino a dove avete transennato?» gridò al poliziotto di guardia. «L'intera punta.» «E perché gli altri sono potuti entrare?» Sbatté la portiera con tutte le sue forze, fingendo di non udire le proteste concitate del suo collega. «Transenneremo ed evacueremo la zona tra poco» la avvertì il poliziotto, rigoroso, ma senza guardarla negli occhi, e con il pomo d'Adamo che andava su e giù. Era una risorsa locale, probabilmente della stazione di polizia di Katrineholm. Annika decise di andare all'attacco. Tirò fuori dalla tasca il tesserino di giornalista, si avvicinò al poliziotto a passi decisi, gli piazzò il documento sotto il naso e lo trapanò con lo sguardo. «Sta tentando di impedirmi di svolgere il mio lavoro?» Il poliziotto deglutì di nuovo. «Ho precise istruzioni» le spiegò, fissando ostinatamente gli occhi sul lago. «E cioè impedire alla stampa di informare? Non credo proprio...» Lui studiò Annika. «Ma lei non è di Hälleforsnäs?» chiese. Lei ondeggiò, poi girò sui tacchi, tornò all'auto e si accasciò pesantemente sul sedile. «Da questa parte non riusciamo a entrare» sentenziò, sbattendo la portiera. «Quante cazzo di volte devo dirti di non...» Bertil Strand ingranò la marcia e partì lentamente, in modo che la ghiaia non rovinasse la vernice. «Aspetta, aspetta» lo fermò Annika. Poi chiuse gli occhi, si passò una mano sulla fronte, sentendo l'adrenalina che si risvegliava e cominciava a pompare. «Ci dev'essere un altro modo.» Il fotografo accelerò e mise la seconda, slittando appena sulla ghiaia ba-
gnata. La delusione le pulsava nel corpo, pesandole sul petto come un sasso. «Fermati. Dobbiamo riflettere.» Lui parcheggiò accanto a un segnale stradale sbiadito. «Dev'essere possibile arrivarci da un'altra direzione.» Il fotografo guardò verso il lago. «Si riesce a fare il giro dalla parte opposta?» «Il castello si trova su un'isola in mezzo a due laghi» rispose Annika. «Questo si chiama Långsjön. Yxtasjön, dall'altro lato, risale per un bel po' a sinistra. Non credo ci siano altre strade carrozzabili là. Qualche viottolo per i trattori, forse, ma in genere li chiudono.» Guardò verso il lago, in mezzo alle foglie scorse la cascina di Finntorp. Da ragazzina c'era stata per un corso di equitazione, aveva saltato con Soraya, la sua puledra, e vinto una quantità di coccarde. I ricordi le danzarono nella testa: l'odore dell'erba appena falciata, il calore del cavallo sotto le sue cosce, la polvere della strada sterrata, l'armonia totale e l'amore per la puledra. D'un tratto le venne in mente. «Vai a sinistra. E poi ancora a sinistra.» Il fotografo seguì le sue indicazioni senza domande, o perché si fidava di lei o perché era incazzato. Annika tentò di non darsi pensiero di quale fosse il vero motivo. «Adesso da che parte?» chiese quando ebbero raggiunto Finntorp. «A destra, verso Ansgarsgården.» Percorsero lentamente la salita, superando i recinti dei cavalli e i cartelli che vietavano il transito ai veicoli. Le case di legno rosso emergevano dal grigiore come grossi cubi per giocare. «Che cavolo di posto è, questo?» domandò scettico lui. «Un centro cristiano dove organizzano dei corsi, credo che sia di proprietà dell'Unione Svedese delle Missioni. Scendi lungo il pendio, adesso, dietro c'è un parcheggio.» Lo spiazzo era vuoto, con l'eccezione di una roulotte piazzata in fondo. Parcheggiarono la macchina lungo il bordo di un grande prato. «Perché siamo venuti qui?» chiese Bertil Strand. «Dietro il colle, laggiù, c'è una spiaggetta» rispose Annika «e a quanto ricordo c'è una barca di salvataggio attraccata al pontile. Ho pensato che potevamo prenderla in prestito.» La pioggia non dava alcun segno di voler cessare. S'infilarono le giacche e i pantaloni di tela cerata, Bertil Strand avvolse le macchine fotografiche
nella plastica prima di infilarle nello zaino impermeabile. «Copri il computer» le ordinò il fotografo. «Non voglio che mi spacchino il vetro per rubarlo.» Annika strinse i denti e gettò un plaid sulla custodia nera rimasta sul sedile posteriore. Rubare un computer? Nel parcheggio vuoto di un centro cristiano? La barca era dove pensava Annika, per metà piena d'acqua. I remi erano di fianco, di gottazze non se ne vedevano. Insieme tirarono la barca sulla spiaggia, la ribaltarono e guardarono l'acqua formare un rivoletto in mezzo alla sabbia. «Sai remare?» le domandò lui, in tono insolitamente timido. «Spero solo che non abbiano transennato le spiagge» ribatté Annika. Il tragitto si rivelò più lungo di quanto pensasse. La barchetta a remi oscillava sulle onde come una zattera, a tratti le sembrava che non si spostasse affatto. Il fondo ricominciò a riempirsi, l'acqua non veniva solo da sopra. Barca di salvataggio? Sì, buonanotte, pensò a metà percorso. Una volta doppiata la punta, il vento li investì in pieno. Annika cominciava ad avere i crampi alle braccia. «Credi davvero che arriveremo entro sera?» chiese Bertil Strand, bagnato fradicio. La frase la indusse ad aumentare il ritmo e la forza dei colpi dei remi. Proprio quando stava per rinunciare intravide la sauna e la dépendance sulla spiaggia. «Siamo quasi arrivati» annunciò, e socchiuse gli occhi contro la pioggia per mettere a fuoco l'isola su cui sorgeva il castello. Sulla spiaggia stava succedendo qualcosa. Riusciva a distinguere delle figurine nere che si muovevano e un grosso logo colorato su uno sfondo bianco subito accanto allo sbocco del canale. «Quello dev'essere il van con la sala regia, no?» notò il suo collega, tirando fuori una macchina fotografica da un sacchetto di plastica. «Puoi tenere un po' ferma la barca? Tanto vale scattare qualche foto, nel caso ci cacciassero via...» Lei non gli badò e continuò a remare restando al largo, quasi riconoscente per il temporale. Con un po' di fortuna avrebbero potuto fare il giro intorno all'isola senza essere individuati, attraccare ai piedi dell'asta della bandiera e risalire da quella parte. Funzionò. Quando toccarono terra con la barca, Annika tremava come
una foglia, gelida ed esausta. «Tu ti sai orientare qui?» chiese Bertil Strand. Lei ansimò per qualche istante e tentò di soffocare un colpo di tosse. «Mia nonna mi portava qui tutti gli anni, nel giorno del suo compleanno. Passeggiavamo nel parco del castello e festeggiavamo con una cena di tre portate su nella sala ristorante.» «Non badava a spese, eh?» commentò il fotografo infilandosi lo zaino. «Mia nonna era la governante di Harpsund, la residenza estiva del primo ministro. È a meno di dieci chilometri, oltre il bosco. Conosceva il gestore del ristorante, qui a Yxtaholm. La cena era un regalo da parte sua.» Annika indicò a destra, in mezzo alla foschia. «La terrazza. Devono averle fatte lì, le riprese.» Poi agitò la mano verso sinistra. «Ala nord, le suite a due e tre stanze. Diritto, edificio principale, sale da pranzo e saloni. Vieni, andiamo.» Il corpo centrale del castello si ergeva davanti a loro come un palazzo scintillante, bianco e bagnato. Si avvicinarono alla costruzione dall'angolo nord, il tetto spiovente ancor più nero del cielo. Nell'aiuola al centro del giardino digradante le rose stavano per sbocciare. Tre auto della polizia erano parcheggiate davanti all'ingresso. «Ma che posto è questo, in realtà?» chiese Bertil Strand tirando fuori una macchina fotografica. «È un antico maniero di cui si ha notìzia fin dal Medioevo. L'edificio attuale, costruito nel 1753, è ora un hotel e sede di conferenze, di proprietà della Confindustria.» Il fotografo le lanciò un'occhiata di sbieco. «Non nel 1754?» «C'è scritto là» rispose Annika, mostrandogli la data incisa sopra il portone. Le venne in mente che non l'aveva mai visto chiuso prima: il doppio battente era sempre stato aperto e accogliente. Ora, invece, le porte scure apparivano massicce, pesanti e scostanti. Indicò un punto del pendio, oltre l'ala sud. «Le prime case erano di legno, e si trovavano laggiù. Il castello e tutte le dipendenze hanno uno scheletro di mattoni che sono stati cotti in un forno dietro gli alberi laggiù. Cerchiamo il luogo del delitto, innanzitutto?» Bertil Strand annuì. Fecero il giro del castello vero e proprio, passando lentamente e con cautela da un albero all'altro attraverso il parco. Superarono la terrazza con i vialetti di ghiaia ben rastrellati, i prati tagliati di fresco, le siepi e le aiuole. Annika lanciò un'occhiata alla facciata, intonacata e austera, con file di fi-
nestre. La superficie liscia dell'Yxtasjön si rifletteva in centinaia di riquadri di vetro incorniciati nei telai grigio piombo. «Quasi si vede la gente scorrazzare in giro in crinoline» scherzò il fotografo, facendo crepitare la macchina fotografica. Scesero verso il lago, aggirando il piccolo labirinto di siepi e muretti, oltre il pontile e sbucarono sull'angolo occidentale dell'ala nord. «L'ob-van» mormorò Annika indicando il camion. Il suo collega cambiò apparecchio e si piazzò lungo disteso nell'erba. Sostenendo il teleobiettivo con la sinistra, fece partire il motore della macchina con la mano destra. Annika, in piedi dietro di lui, socchiuse gli occhi verso il luogo del delitto. Il van era un vero e proprio TIR. Uno dei due lati del rimorchio era espandibile, lo spazio interno raddoppiava. L'ingresso era rivolto verso di loro: alcuni gradini che portavano a una stretta porticina a sinistra della cabina di guida. Adocchiò un poliziotto in uniforme, girato di spalle, che parlava con qualcuno all'interno della sala regia. «Dobbiamo avvicinarci?» chiese a voce bassa. Pur non andando particolarmente d'accordo con il fotografo, Annika si fidava della sua competenza professionale. «No, non direi. Ho scattato qualche foto dal lato opposto, mentre eravamo in barca. Potremmo provare a scendere a destra per ottenere le ali sullo sfondo. Se vengono per cacciarci via, intrattienili per un po'.» L'uomo si alzò, si mise lo zaino in spalla e si avviò lungo la spiaggia. Annika lo seguì, facendo spaziare lo sguardo sugli edifici immacolati. Il castello in cima alla collina, le ali, le mura, gli alberi fronzuti uno diverso dall'altro, la luce calda e dorata delle finestre sullo sfondo grigio della facciata. Capisco che Oxenstierna abbia scritto La beltà dell'Eden dopo essere stato qui, pensò. «Fatto» disse il suo collega, voltandosi verso il lago. Tornarono sui propri passi, mentre Bertil Strand continuava a scattare foto. Raggiunto il pendio che risaliva verso il castello, s'imbatterono in un poliziotto di Eskilstuna che Annika riconobbe. «Cosa ci fate qui?» chiese lui in tono autoritario. Annika tirò fuori il tesserino di giornalista e glielo piazzò sotto il naso. «Stiamo cercando il nostro collega Carl Wennergren: ieri ha partecipato alla registrazione del programma e probabilmente è ancora qui da qualche parte.»
«È sotto interrogatorio» ribatté il poliziotto piazzandosi vicinissimo ad Annika. «Per favore, allontanatevi di qui e raggiungete gli altri cronisti.» «È sospettato di qualcosa?» «Al momento non posso rispondere.» Il poliziotto le diede una leggera spinta. «La smetta» gli intimò la donna. «Non si interrogano i giornalisti per niente. Se avete arrestato o fermato un reporter di uno dei più importanti quotidiani del paese, avete l'obbligo di riferirlo al suo datore di lavoro.» Era una bugia, ma il poliziotto non ne era del tutto sicuro. «Guardi che io non lo so» ammise l'agente. «Non so niente.» «Quante persone state interrogando?» «Tutti quelli che hanno passato la notte qui.» «E quanti sarebbero?» «Una dozzina. E tra questi c'è un'altra vostra collega. Quella donna di mezz'età che si occupa di cronaca rosa.» Annika rimase a bocca aperta. «Barbara Hanson? E che cosa ci fa qui?» Il poliziotto si sporse in avanti e abbassò la voce. «Non sono stati arrestati, comunque. Altrimenti lo avrei saputo.» «C'è qualcuno del personale del castello tra gli interrogati?» «No, per il momento: nessuno di loro era qui stanotte.» «Qualcos'altro?» chiese Annika rapidamente. Un uomo in stivaloni e impermeabile si stava avvicinando, il poliziotto si agitò visibilmente. «Adesso deve andarsene» le intimò voltandola letteralmente con le mani in direzione opposta al castello. Si avviarono a passo lento verso il ponte, nella zona in cui si trovavano gli altri giornalisti. Annika tirò fuori il cellulare e chiamò Chiodo. Il caporedattore doveva essere intento a mangiare: stava masticando e bevendo, e tentava di parlare tra un boccone e l'altro. «Cosa dice Wennergren?» «Non ne ho idea, può parlare solo con i poliziotti.» «Ma cazzo, hanno arrestato Wennergren? È un giornalista!» Annika ebbe l'impressione che qualcosa di bagnaticcio fosse schizzato sul ricevitore dall'altra parte del filo, e fece una smorfia. «Non ho detto che l'hanno arrestato, l'hanno sentito come persona informata dei fatti. E poi è in buona compagnia. C'è anche Barbara, qui.» «Hanson? Cazzo, Schyman le aveva detto di smetterla di sparare merda su Michelle Carlsson.» Annika si sentì vagamente rimbecillita: non capiva a cosa alludesse Chiodo. A dire la verità, durante la maternità non era stata troppo costante
nella lettura del giornale, e in particolare delle maligne colonne di pettegolezzi di Barbara Hanson. Cambiò argomento. «In tutto le persone sotto interrogatorio sono dodici.» «E chi sono?» Il caporedattore doveva aver finito di mangiare: ruttò e accese una sigaretta. «Più che altro quelli della troupe della televisione, immagino, ma me ne accerterò.» «Dobbiamo avere nome e foto di tutti» rispose il suo interlocutore, cominciando subito a buttare giù i possibili titoli. «Ecco i sopravvissuti al castello. Uno di loro è l'assassino... E poi rimasero in dodici... Cavolo, che figata.» «Vera poesia» rispose Annika, chiudendo la conversazione. «E adesso che si fa?» domandò Bertil Strand. «Il parcheggio» rispose lei. Dovettero passare sotto una transenna in fondo al ponte, e poi si ritrovarono con il resto dei cronisti. «Come avete fatto a entrare?» chiese il reporter del "Concorrente", un tipo alto con i capelli biondi e la giacca di pelle tutta bagnata. «Ci siamo nascosti nella tana del lupo fin da ieri sera» rispose Annika avviandosi verso la scuderia. Si rilassò, il corpo cominciava a decontrarsi. I crampi alle braccia erano cessati, l'ansia che le attanagliava lo stomaco stava scomparendo, l'acqua infiltratasi all'interno dei vestiti era stata scaldata dalla pelle. Camminò un po' per sgranchirsi le gambe. Un poliziotto in divisa uscì dalla scuderìa e si mise ad armeggiare con la serratura. Poi si affrettò verso il castello senza degnare di uno sguardo i giornalisti. Annika lo seguì con gli occhi, sentì la pioggia scorrerle sul collo. Quando si spostò le sembrò che il suolo ondeggiasse leggermente. Era intriso d'acqua come una spugna, intorno ai suoi piedi c'erano solo pozzanghere. Fissò il terreno, bruno e macchiato, ghiaia e cartacce. Emanava un odore umido e stantio. La Svezia, pensò. Che paese di merda. Subito trovò delle scusanti, inorridita dal pensiero appena concepito. In fondo il paese delle tre corone non è male, a volte. Abbiamo sempre il welfare, e la natura. La natura. Cercò di metterla a fuoco dietro la cortina di pioggia, riuscendo a cogliere solo grigio e marrone in diverse sfumature, tutte sfocate.
In un giorno come quello, non c'erano scusanti. Si asciugò il naso, allontanando l'odore di stantio. Oltre al "Concorrente" notò che erano riusciti a superare le transenne in tempo utile la televisione nazionale, Radio Sörmland, "Notizie Est" e il suo vecchio quotidiano locale, "Il Corriere di Katrineholm". Le loro auto erano parcheggiate in maniera più o meno disinvolta dalle parti dell'ala del giardino. Annika tirò fuori blocco e matita e si voltò verso i veicoli. Una Range Rover color oro, la jeep più grande e costosa sul mercato: prese nota della targa. Continuò per ordine: una Volkswagen Polo, rossa con il tettuccio apribile nero, una Fiat Uno arrugginita, un'auto sportiva nera che le parve piuttosto esclusiva finché non si rese conto che era in effetti una Chrysler, una Volvo S40 verde, una Renault Clio color bronzo con la scritta GESÙ È VIVO sul lunotto posteriore, una BMW azzurra e una Saab 900 marrone con qualche decennio sulle spalle. La ricezione del cellulare era a posto e dopo poco più di un minuto Annika riuscì a beccare un tipo alla Centrale di polizia di Stoccolma. «Ho qualche numero di targa da controllare, ha tempo?» Il gippone apparteneva a TV Plus, la cabriolet tedesca era intestata a Barbro Rosenberg, di Solna, la Fiat a una certa Hannah Persson di Katrineholm, la Chrysler sportiva risultava di proprietà della società per azioni Build&Create con sede a Jönköping, la Volvo era di Karin Andersson di Hägersten, la Renault di Mariana von Berlitz residente in Grevgatan a Stoccolma, la BMW di Carl Wennergren di Djurslholm, e la Saab di un certo Stefan Axelsson di Tullinge. Poi Annika chiamò il numero delle informazioni telefoniche e decise di fregarsene delle banconote da cento corone che scorrevano via. «A Solna non risulta nessuna Barbro Rosenberg, ma c'è una Bambi Rosenberg con numero telefonico segreto» la informò la telefonista, che si era presentata con voce strascicata con il nome di Linda. L'attrice, annotò Annika sul blocco. Di Hannah Persson, a Katrineholm, non ne risultavano. «Ormai molti hanno solo il cellulare con la scheda prepagata» la informò Linda «e di quelli non abbiamo alcuna traccia.» Build&Create aveva un'infinità di numeri, Annika li annotò tutti. Il primo doveva teoricamente appartenere a un certo Sebastian Follin, manager. Il nome suonava vagamente familiare. Karin Andersson Bellhorn sull'elenco telefonico si era sbarazzata del primo cognome e risultava come direttrice di produzione televisiva. Anni-
ka sapeva chi era, le era capitato di incrociarla qualche volta sul posto di lavoro di Anne. Mariana von Berlitz aveva un numero segreto, ma Annika conosceva anche lei. Avevano condiviso la scrivania alla "Stampa della Sera" sei anni prima, litigando di brutto su chi doveva sgombrare il ripiano alla fine del turno. Mariana stava insieme a Carl Wennergren. Stefan Axelsson risultava con il titolo di direttore della fotografia. Annika contò rapidamente. A occhio e croce aveva idea di chi fossero sette persone, ammesso che il manager fosse quello che pensava lei. Inoltre là dentro c'era Anne Sapphane, e facevano otto. Era venuta in treno, così come doveva aver fatto anche Barbara Hanson. Nove. Chi altri? La Range Rover della TV Plus doveva essere l'auto aziendale di uno dei pezzi grossi, forse il signore e padrone in persona. Anne non si riferiva mai a lui se non con l'appellativo di Highlander. "Perché pensa di essere immortale e invincibile" le aveva spiegato una volta l'amica. Chi potevano essere gli altri due? Spaziò con lo sguardo sul parco del castello. Sul lato opposto del viale belavano alcune pecore, bagnate fradice e affamate. Sull'isola vera e propria due poliziotti sorvegliavano il ponte. L'ob-van non si vedeva, nascosto com'era dagli edifici. Il camion, pensò. Ci dev'essere qualcuno responsabile della sala regia, un tecnico. Undici. Chi fosse il dodicesimo, proprio non riusciva a indovinarlo. Era il momento di andare per esclusione. Tirò fuori il cellulare e compose il numero di Anne Sapphane. Era occupato. «Annika! Annika Bengtzon!» La voce veniva dalle auto parcheggiate davanti all'ala del giardino. Annika si voltò e socchiuse gli occhi nella pioggia. Era Pia Lakkinen, una delle sue colleghe ai tempi del "Corriere di Katrineholm". Appena scesa dall'auto, si tirò su il cappuccio della giacca impermeabile e si affrettò a raggiungerla. «Quanto tempo!» esclamò. «Che piacere vederti!» Si strinsero la mano. Annika tentò di sorridere. Non era altrettanto entusiasta. Per principio non le andavano troppo a genio le pacche sulle spalle sul luogo di un omicidio, e il fatto che in passato fossero state colleghe non migliorava le cose, anzi. Si era licenziata per cominciare a lavorare alla
"Stampa della Sera" a Stoccolma, cosa che era stata interpretata dai suoi ex colleghi come un affronto nei confronti del loro giornale. «Allora, dimmi, come vanno le cose in redazione?» s'informò Annika. Pia sospirò teatralmente. «Be', sai, come al solito. Pessima pianificazione, nessuna lungimiranza, e così via... e poi, questa pioggia! Non ti sembra che sia un po' diminuita, però?» Annika cercò qualche parola, una base da cui partire, senza trovarne. L'altra non se ne accorse, anche lei non aveva appigli, e il nervosismo la induceva a continuare a blaterare. «E poi questa storia, proprio alla vigilia della festa di mezz'estate e tutto quanto. Un omicidio qui a Flen, è assurdo, chi l'avrebbe detto che potesse succedere una cosa del genere proprio da queste parti, un posto così tranquillo...» Annika si guardò intorno in cerca di Bertil Strand, o di chiunque altro potesse salvarla dalla sua ex collega. Pia Lakkinen si accorse di risultare indesiderata, e non lo accettò. «Ma naturalmente su a Stoccolma ne avrete tutti i giorni, di questi casi» aggiunse. «Per la verità gli assassini più brutali si verificano fuori dalle grandi città, nei paesini e nei villaggi più piccoli» rispose Annika in tono sostenuto. La risposta ebbe l'effetto sperato: Pia parve improvvisamente scioccata e preoccupata. «Credi che prenderanno presto l'assassino?» «Difficile stabilirlo. In questo momento su nel castello ci sono dodici persone sotto interrogatorio.» La sua ex collega sbarrò gli occhi. «Davvero?» Annika raddrizzò un po' la schiena in mezzo alla pioggia. Era lei la più informata. Il "Corriere" non sarebbe uscito prima di lunedì, poteva permettersi di essere un po' generosa. «Quasi tutti fanno parte della troupe televisiva che ha registrato il programma» continuò. «Alcuni erano ospiti, o giornalisti venuti per l'occasione. Ho individuato tutti tranne uno.» La reporter del quotidiano locale era rimasta interdetta. «È difficile venire a sapere delle cose quando non si conoscono i poliziotti. Non capisco cosa ci faccia qui la squadra omicidi di Stoccolma.» «Per tradizione, è il dipartimento investigativo della capitale che viene allertato in casi del genere; questi comunque sono della squadra omicidi nazionale, è gente che sa il fatto suo.» Pia rivolse lo sguardo al castello. «A me sembra che per lo più vadano in giro.» «Cominciano sempre esaminando la zona esterna, tipo orme e roba del genere. Diciamo che investigano dall'esterno verso l'interno. Sai per caso a
che ora hanno ricevuto l'allarme?» La giornalista scosse la testa. «Il lancio della TT è delle nove e quarantuno.» «Be', certo, ma a quell'ora c'era già qualcuno qui, probabilmente una pattuglia di Katrineholm o di Eskilstuna, che aveva constatato la presenza di una persona morta nell'ob-van sul retro dell'ala nord. Quando l'agenzia è partita, quasi sicuramente avevano già transennato il luogo del delitto vero e proprio e rinchiuso i diversi testimoni in stanze diverse. I tecnici e gli investigatori non dovevano essere ancora arrivati, ma erano in viaggio.» Pia Lakkinen parve impressionata. «Lei è ancora là?» «Probabilmente sì. Qualche minuto fa, mentre ero là dietro, stavano lavorando sul van. Non credo che la sposteranno prima che la pioggia diminuisca. Distruggerebbero troppe tracce.» «Ma tu sei riuscita ad arrivare là dietro?» La collega sembrava scettica. «Se c'è stata una colluttazione, diventa tutto più difficile» continuò Annika, accorgendosi del proprio tono saccente. «Da una parte viene esaminato il van, dall'altra il cadavere. Passano in rassegna i vestiti, controllano se il corpo è stato spostato nel camion o se il delitto si è verificato dentro. Quando avranno finito e la pioggia sarà cessata, la porteranno via.» «Via? E dove?» «In qualche dipartimento di medicina legale. Credo che la manderanno al Karolinska, è il più vicino. La spogliano insieme medici legali, tecnici e investigatori. Sai, devono controllare le fibre sotto le unghie e cose del genere...» «Brrr» rabbrividì l'altra, tentando di ridere. «E per il resto?» Annika inspirò. «Ma sì, grazie, sto bene. È bello essere tornata al lavoro, sono stata in maternità per due volte di seguito e ho ricominciato da poco.» «Li tiene il papà i figli per la festa di mezz'estate?» Annika sorrise. «Sì, certo.» «E i bambini, come la prendono?» Pia aveva un'espressione partecipe, Annika continuò a sorridere. «Bene, naturalmente. Sono tutti dai nonni paterni, a Gällnö. Avremmo dovuto dormire in tenda, ma visto il tempo spero che ci sia posto in casa.» La giornalista la fissò con uno sguardo penetrante per qualche secondo. «Avreste? Come, dovevi andarci anche tu?» «Sì» ammise lei con una risatina «ma con questa pioggia tanto vale essere qui.» Il viso di Pia rifletteva delusione e incredulità. «Ma allora non vi siete
separati?» Il sorriso di Annika si spense. «Separati? Io e Thomas?» Pia sbottò in una risatina. «Be', sai, se ne sentono tante... qualcuno aveva detto che eravate andati a stare ognuno per conto proprio, che lui aveva lasciato te e i bambini...» Lei sentì che impallidiva. «Chi l'ha detto?» Pia Lakkinen arretrò, abbozzò un sorrisino imbarazzato. Annika lesse sul suo viso scherno e maligna soddisfazione. «Sai come girano le chiacchiere in una città piccola come Katrineholm... credo sia stato qualcuno alla cassa del Kvarnen, ma adesso devo andare via con il mio fotografo, dobbiamo fare un pezzo anche sulla festa di mezz'estate a Bie e poi c'è l'intervista di rito al primo ministro in vacanza a Harpsund. Stammi bene, e saluti a casa...» Annika si girò, la pietra nel petto fece una capriola intera. La nostalgia la investì di nuovo, mescolandosi all'umiliazione. Nella sua cittadina natale la gente non era impressionata dal suo lavoro, dalla sua carriera e dalle sue ambizioni. La compativa. Gunnar Antonsson si alzò lentamente dal proprio letto nella soffocante camera dell'ala sud, e guardò l'ora. Non c'era da meravigliarsi che avesse fame. Andò a prendere la sua piccola caffettiera francese, si avvicinò al lavandino e buttò i fondi. La riempì poi di acqua fredda, che versò nel bollitore, e mise quattro misurini di caffè nel filtro. Mentre l'acqua cominciava a scaldarsi nel bollitore guardò dalla finestra le chiome verde chiaro degli alberi e il grigiore impenetrabile del cielo dietro la pioggia. Quando il bollitore si spense versò l'acqua fumante, spinse verso il basso il filtro e travasò il liquido scuro nel bicchiere per lo spazzolino. Mentre ne beveva un sorso, si guardò nello specchio sopra il lavandino. Il bicchiere scottava, lo appoggiò facendolo tintinnare sulla ceramica. Si passò una mano sul mento, sentendo che la barba grattava. Avrebbe avuto bisogno di radersi. In realtà a quell'ora avrebbe già dovuto essere in viaggio verso la Dalecarlia con il van. C'era da registrare un programma di mezz'estate in una cava smantellata, Dalhalla: un grande concerto d'opera con musiche di Wagner, Alfvén e Beethoven. La Reale Orchestra Filarmonica sotto la direzione di Uno Kamprad, e alcuni solisti nordici. Lo aveva aspettato con ansia, quel concerto, e non solo perché avrebbe
generato entrate più che benvenute per la sua azienda: Wagner, infatti, gli piaceva molto. Anche a Michelle Carlsson piaceva la lirica, pensò all'improvviso. Probabilmente sarebbe venuta volentieri ad assistere al concerto sul posto. L'idea era stranamente eccitante. Incrociò il proprio viso nello specchio senza vederlo. Vide invece le gambe bianche, il curato ciuffo di peli sul grembo, l'umidità che scintillava ancora tra le cosce. Sentì che il membro gli s'irrigidiva, e poi la vergogna. Ma che stava facendo? Non aveva più chiuso occhio dalle 6.12 di quella mattina. Era stato allora che aveva infilato la chiave nella serratura del mezzo mobile per le riprese esterne numero cinque, aperto la porta e avvertito quello strano odore. Mai, in vita sua, aveva percepito un odore del genere. Dolciastro, acre e nauseante nello stesso tempo. Solo allora si era reso conto dell'assurdità della situazione, quando aveva già aperto la porta e l'odore l'aveva avvolto nella sua insopportabile rete. "Ma che ci siete venuti a fare qui, tutti quanti?" aveva chiesto ai visi alle sue spalle, da cui trasparivano diversi gradi di ubriachezza. "Dobbiamo parlare con Michelle" aveva risposto il piccoletto emaciato, il manager o quel che era. Aveva cercato di farsi strada spingendolo da parte, ma Gunnar gli si era parato davanti. "Il van è stato sistemato ed è pronto per partire" aveva detto. "Non c'è nessun motivo per farvi entrare." "Ma Michelle è lì dentro" aveva ribattuto Anne, e quando parlava Anne Sapphane, lui ascoltava. "Impossibile. Ho appena aperto io con la chiave." Mentre era lì, ancora insonnolito, in pantaloni, camicia sbottonata e scarpe senza calze, si era reso conto che gli altri quella notte non erano proprio andati a letto. Lo avevano svegliato per fargli aprire il van. Solo in quel momento si era arrabbiato. "Ma che state facendo?" aveva chiesto. "Che stupidate sono queste?" Aveva rimesso le chiavi nella tasca sinistra dei pantaloni, avvertendone il peso familiare contro l'inguine, le punte metalliche attraverso la fodera della tasca. Poi era salito sull'ultimo gradino per entrare nella sala regia, sbattendo gli occhi nella penombra. Lo stretto corridoio che portava alla zona della produzione era debolmente illuminato da alcuni monitor, la regia a destra, la centralina elettrica. Aveva controllato i CCU, aperto la porta della sala apparati, dato un'occhiata nella sala video, fatto correre lo sguardo sulle cassette betacam e sulle digibeta, sui VHS, sugli encoder.
Tutto sistemato e assicurato per la partenza. Era uscito di nuovo nel corridoio e aveva visto Anne sulla soglia, con gli altri che spingevano dietro di lei. "Gunnar, tesoro, piove a dirotto" lo aveva pregato la donna e Gunnar aveva sempre avuto difficoltà a negarle qualcosa. Aveva borbottato una risposta e lei l'aveva subito interpretata come un invito, entrando nel corridoio seguita dal resto del gruppo. L'illuminazione nell'area regia era irregolare e molto debole, veniva dalle lampade di controllo dei monitor e delle manopole. L'odore era intenso e penetrante, adesso, il morbido grigiore delle pareti assorbiva ogni ombra. Gunnar aveva sbattuto le palpebre un paio di volte prima di vedere Michelle Carlsson. Era stesa nello spazio angusto tra la consolle anteriore e quella posteriore, davanti alla postazione del direttore della fotografia. La prima cosa di cui si era reso conto era che non indossava pantaloni né mutandine. La seconda che le gambe nude avevano un'angolazione inspiegabile e innaturale. La terza che era troppo immobile. Poi aveva capito. Ancor prima di aver visto i resti della sua testa, ne era stato certo. Era un cacciatore, sapeva che aspetto aveva la morte. E tuttavia era qualcosa di nuovo, un'emozione totalmente estranea, un odore diverso che lo sopraffaceva. Un'ondata di dolore e tenerezza lo aveva colpito con una violenza inaudita, aveva sentito se stesso boccheggiare e poi era caduto in ginocchio. "Cosa c'è?" gli aveva domandato Anne alle sue spalle, e lui non aveva fatto in tempo a fermarla. La donna aveva premuto l'interruttore principale e l'intera sala regia era stata inondata di luce. Le gambe di Michelle risaltavano, anemiche e bianche come gesso, sullo sfondo blu scuro della moquette, il grosso revolver accanto a un piede, e nella sua testa era riecheggiato un grido. Chiuse gli occhi, non voleva ricordare altro. Si girò di scatto allontanandosi dallo specchio, si scosse via l'odore di dosso, si avvicinò alla finestra. La pioggia scrosciava imperterrita, tamburellando come un motore sul davanzale. Si mise a guardare fuori, vide due poliziotti gironzolare intorno al van, in modo apparentemente casuale e irrazionale. D'un tratto sentì che ne aveva abbastanza. Si mise la giacca di popeline, si allacciò meglio le scarpe, si lisciò i capelli e uscì dalla porta. I poliziotti alzarono sorpresi lo sguardo vedendolo avvicinarsi, rimasero lì come se il camion fosse loro e non suo.
«Quanto durerà ancora questa faccenda?» chiese Gunnar. «Quale faccenda?» disse un ragazzotto spelacchiato in divisa. «Quando mi verrà riconsegnato il camion?» «Vado a chiamare il commissario» lo avvertì lo spelacchiato. L'altro rimase a qualche metro di distanza, senza staccargli gli occhi di dosso. «Sarei dovuto partire di qui alle otto di stamattina» sbottò il tecnico sotto la pioggia. Il poliziotto si girò. Subito dopo tornò il primo, con un uomo in abiti civili al seguito. «Salga sul camion» gli ordinò quello in borghese. Indossava una giacca di pelle e sotto una camicia variopinta. Gli tese la mano e lo salutò come un uomo normale. Quelle parole fecero ammutolire Gunnar, che si sentì sul punto di mettersi a piangere. Salì i cinque gradini della scaletta metallica, sollevato e riconoscente. Entrò, lasciandosi alle spalle il bagnato, e si bloccò. Il passaggio che portava alla zona della produzione era fortemente illuminato e ingombro di gente, o almeno questa fu la sua impressione al primo sguardo. «Come capirà sicuramente, stiamo passando al setaccio l'intera sala regia in cerca di indizi» gli spiegò il tizio in camicia sgargiante. Gunnar annuì brevemente, insicuro della propria voce. «Lei è... ancora lì?» Lo sgargiante tirò fuori un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia, ci armeggiò un secondo e guardò il suo interlocutore. «Sì. È ancora lì. Esattamente come l'ha trovata lei.» Gunnar Antonsson abbassò lo sguardo. «Dev'essere stata un'esperienza tremenda» disse il commissario. «E sul suo van, oltretutto.» «Non è il mio van» disse Gunnar, con improvviso trasporto. «È dell'azienda. E lei mi piaceva. Ero uno dei pochi, qui, a cui andasse a genio.» Il poliziotto tirò fuori una sigaretta, ma si fermò e rimise l'intero pacchetto nella tasca. «In che senso?» «Era buona.» La voce cominciava a tremargli. «Aveva sempre una parola gentile per tutti. Gli altri erano solo invidiosi.» Poi non riuscì a trattenersi, le lacrime cominciarono a scorrergli sulle guance. Imbarazzato, le asciugò con il dorso della mano sinistra. «Che ruolo ha lei qui?» domandò il poliziotto. Gunnar inspirò profondamente, cercando di ricomporsi. «Sono il TOM,
Technical Operation Manager, questo è il mezzo mobile di ripresa numero cinque. Sono stato responsabile tecnico del van durante tutte le riprese del programma estivo di TV Plus.» «Certo che questo è davvero un prodigio su ruote» disse lo sgargiante. Gunnar si schiarì la voce. «Ci sono molti utilizzi per un mezzo di queste dimensioni, dagli eventi sportivi di grande rilevanza, tipo calcio, mondiali di hockey, e così via, ai grandi show e ai programmi d'intrattenimento. L'abbiamo usato sia per il Festival Europeo della Canzone che per il gran gala di MTV al Globen, quest'anno.» Il commissario di polizia si lasciò scappare un fischio ammirato. «Certo che questa faccenda proprio non ci voleva. Ed è stato lei ad aprire con la chiave?» Gunnar annuì. «Mi hanno svegliato subito dopo le sei...» «Chi?» Gunnar rifletté. «Erano in diversi... c'era Anne e poi quel manager, e Karin, la direttrice di produzione, e credo anche qualcun altro. È importante?» «Sì» rispose il commissario «ma per questo possiamo aspettare finché non faremo un interrogatorio vero e proprio su nell'edificio. Mi racconti solo brevemente cos'è accaduto stamattina.» Gunnar inspirò profondamente. «Ho aperto la porta con la chiave, e me la sono ritrovata davanti. La gente ha reagito in modo diverso. Quel tizio, il manager, si è messo a strillare come un ossesso, pareva una donnetta. Karin è semplicemente uscita, Anne Sapphane si è chinata e le ha toccato la gamba, è rimasta lì a fissarla, ho dovuto spingerla via. Mariana e l'altra ragazza non devono aver visto molto, sono riuscito a farle andare via subito.» «Dunque è stato lei a occuparsi di tutto?» Il responsabile operativo abbassò lo sguardo sulla moquette. «Sono andato dentro e ho telefonato al 112 alle 6.22, ho detto che c'era una persona morta nella sala regia mobile.» «Ma non ha detto che si trattava di omicidio?» «Non volevo prevenire il lavoro della polizia.» Uno degli agenti al lavoro si scusò e passò in mezzo a loro, uscendo poi nella pioggia giù per la scaletta metallica. Gunnar notò che teneva in mano delle piccole buste di plastica dal contenuto indefinibile. «E dopo cos'ha fatto?» chiese lo sgargiante. «Mi sono preparato un po' di caffè con la caffettiera che tengo in camera. Poi mi sono seduto e ho aspettato la polizia. C'è voluto un sacco di
tempo, fino alle 8.16.» «La pattuglia era fuori per uno stupro a Vingåker» spiegò il commissario. «Questa chiamata non era stata ritenuta prioritaria, dato che non si sapeva che si trattava di un omicidio.» Gunnar tacque. «E gli altri cos'hanno fatto nel frattempo?» Antonsson deglutì, esitando. «Io mi faccio gli affari miei.» «Dunque non ne ha idea?» I tecnici della polizia passarono di nuovo in mezzo a loro, senza buste. Gunnar Antonsson era stanco della discussione e di tutta la situazione. «Sono rimasti a parlare giù nella sala riunioni, qualcuno piangeva. Per quanto ne avrete ancora qui dentro? Sarei dovuto partire diverse ore fa.» «Temo che ci vorrà un po'.» «Quanto?» «Qualche settimana.» L'uomo trasalì. «Settimane? Ma siete pazzi?» Il commissario rimase calmissimo. «Dovremo porre il mezzo sotto sequestro» annunciò, tirando fuori di nuovo le sigarette. «Credo che rimarrà nel nostro garage per almeno due settimane, in modo che sia sempre accessibile per le indagini.» Le orecchie di Gunnar arrossirono per l'indignazione. «Il futuro dell'azienda dipende da questo mezzo» mormorò con voce un tantino strozzata. «Non capite quanto ci costa ogni ora di mancato lavoro? Lunedì dovremo andare giù in Danimarca, abbiamo un sacco di produzioni da realizzare. Come faremo?» Lo sgargiante sospirò con aria partecipe e s'infilò una sigaretta all'angolo della bocca. «Eh, sa, è il pubblico ministero a decidere il sequestro. Se vuole può discuterne con lei.» Il responsabile operativo si gettò un'ultima occhiata alle spalle, verso la sala editing, ma non vide altro che le schiene dei poliziotti. Decise di lanciare una frecciatina. «Come fate a trovare degli indizi qua dentro, con tutta questa gente che gira?» «Non sarebbe stato un problema» rispose il commissario «se non fosse stato per tutto il viavai di questa notte.» Non mollava, il poliziotto. «Qui non c'è stato nessun viavai!» esclamò Gunnar con la sicurezza di chi è più che convinto. «Ho sorvegliato io stesso le operazioni di smontag-
gio sul set, e poi il carico e la sistemazione delle attrezzature. Alla fine ho chiuso a chiave.» Il commissario annuì con aria pensosa. «Allora c'è solo una cosa che mi sfugge. Come ha fatto a entrare Michelle? E l'assassino?» L'altro fissò l'agente, e l'improvvisa intuizione gli fece defluire il sangue dal cervello, giù fino ai piedi. «Non crederete che io...» «A credere si va in chiesa» lo interruppe il poliziotto. «Esiste un'altra copia delle chiavi, oltre alle sue?» L'uomo scosse la testa, ammutolito. «Le viene in mente qualche spiegazione? Come hanno fatto a entrare in una sala regia chiusa a chiave? E come ha fatto a richiudersi la porta alle spalle l'assassino?» Il responsabile operativo infilò le mani nelle tasche dei pantaloni con un gesto brusco, tastando istintivamente nella sinistra in cerca del peso del mazzo di chiavi. Non lo trovò, e si ricordò che l'aveva la polizia. In quello stesso istante capì, con chiarezza cristallina, come erano andate le cose. Fissò lo sguardo sul viso del poliziotto, e gli parve di leggervi arroganza e malevolenza. «Ci pensi pure su» disse, uscendo di nuovo nella pioggia. Quasi tutti gli altri passeggeri erano scesi a Grinda, Boda e Puttisholmen. Quelli rimasti a bordo dovevano raggiungere Gällnö. A Thomas parve di riconoscere due persone, ma quando si voltarono dalla sua parte distolse lo sguardo. Nel momento in cui cominciò a intravedere attraverso la foschia e la pioggia il podere Söderby, sentì che gli stava venendo il raffreddore. Lo scenario che emergeva dalle folate di pioggia era terribilmente familiare. Non veniva sull'isola da quasi un anno, eppure riconosceva ogni singolo cespuglio lungo la riva, l'inclinazione di ogni casa, ogni vecchio tetto di lamiera. La stalla a sinistra del molo non era ancora stata riverniciata e la ruggine che incrostava il capanno delle barche sulla destra era peggio che mai. La gamma dei colori andava dal grigio al verde e al marrone, come sempre quando pioveva. Solo i cartelli stradali blu rompevano la monotonia. Inspirò profondamente, sentendosi colmare dall'aspettativa e dalla nostalgia. Nonostante tutto, il fine settimana si preannunciava abbastanza divertente.
Svegliò i figli, infreddoliti e piagnucolosi. Avvertì un vago senso di colpa: Annika si assicurava sempre che i bambini fossero caldi e asciutti. Li prese in braccio tutti e due, li portò giù nella caffetteria e li lasciò lì ad aspettare mentre accatastava i bagagli sul ponte. Non appena si avviarono verso il paesino lungo la strada sterrata, la pioggia diminuì. Le gocce diventarono più piccole, fermandosi sospese e trasparenti nell'aria. Aveva convinto i bambini a scendere comprando un gelato ciascuno, cosa che comportava il cambio completo dei vestiti una volta arrivati, ma non gliene importava niente. Ormai la sua pazienza era quasi al limite. Quando la grande villa di legno rossiccio dei genitori entrò nel suo campo visivo, il sollievo fu enorme. «Thomas, oh, Thomas, che bello! Quanto vi abbiamo aspettato! Perché siete così in ritardo?» La madre si affrettò a scendere goffamente la scala con il golf sulle spalle trattenuto dal primo bottone in alto. «Attenta all'anca, non cadere, mamma...» La donna gli prese la testa tra le mani e gli diede un bacio su ciascuna guancia. «Come sei freddo.» Poi si guardò intorno. «Ma Annika dov'è?» Thomas tacque e strinse le labbra per un breve attimo prima di rispondere. «È dovuta andare a lavorare.» La reazione di sua madre fu immediata e spontanea. «Al lavoro? Oggi? Ma non è possibile!» «Mi spiace del ritardo, ma l'unico traghetto disponibile era il Norrskär, e avevo un bel po' di roba da portare...» All'improvviso si sentì terribilmente solo e abbandonato. Maledetta Annika. «Ma santo cielo, hai portato questa montagna di roba per tutta la strada? Aspetta che ti aiuto...» Il gelato di Ellen si era sciolto e scivolò sul vialetto. La bimba si sporse per afferrarlo e si mise a strillare. «Non sono riuscito a prendere anche la tenda» spiegò lui «ma devo entrare a cambiare i bambini. Possiamo dormire da qualche parte?» «Visto che sei da solo, puoi dormire in casa, con noi.» Sorrise e gli diede una pacchetta sul braccio, prodigio di organizzazione, gentilezza e premura. «Lascia tutto qua fuori, ci penseranno papà e Holger a portare dentro i bagagli. Non devi trascinarti dietro tutta questa roba. Adesso entra e beviti una bella tazza di caffè caldo, ai bambini ci penso io. Venite qui, Kalle, Ellen... mamma mia come sei sporca piccolina mia, mi sa che ti dovremo mettere nella vasca...»
Thomas fece una lunga doccia mentre la madre cambiava i bambini e dava loro una fetta di dolce con la crema alla vaniglia. Man mano che il calore gli si diffondeva nel corpo tornò anche il senso di benessere. Sarebbe andato tutto bene, qui c'era chi si sarebbe occupato di lui. Una volta addormentati Kalle ed Ellen avrebbe potuto farsi qualche bicchierino con suo fratello e magari andare a pescare con lui all'alba. Di buon umore, si diresse nel soggiorno, avvolto nell'ampia vestaglia bordeaux del padre. L'atmosfera vacanziera lo avvolse: la luce del mare attraverso le grandi vetrate, il pavimento strofinato di fresco che gli accarezzava i piedi nudi. «Ah, ecco qui il nostro elegante cittadino» lo salutò la zia materna Märta, alzandosi faticosamente dal divano. Anche lei lo baciò sulle guance e gli diede una pacchetta sul braccio. «Doris mi ha detto del viaggio. Sei stato davvero bravo a cavartela da solo, con tutti i bambini. Ah, bisogna proprio dirlo, gli uomini d'oggi sono fantastici! Organizzano, fanno le valigie, si danno da fare per la propria famiglia...» Thomas rise, un po' imbarazzato, asciugandosi l'orecchio con un asciugamano. «È stata Annika a fare le valigie. Allora mio fratello è già arrivato?» Zia Märta gli rivolse un sorriso compassionevole. «Povero Thomas, una moglie che abbandona il tetto familiare alla vigilia della festa di mezz'estate. Non sei capace di tenerla un po' al guinzaglio?» La rabbia scaturì da un punto imprecisato. L'uomo si irrigidì, divincolando il braccio. «Era reperibile, questo fine settimana» ribatté. «Sapevamo che poteva succedere.» Una volta pronunciata la frase, si rese conto che era la verità. Solo che se n'era dimenticato. «Ma scrivere di violenze e crimini, sarà poi davvero un lavoro da donne?» gli chiese zia Märta. Lui non rispose e si diresse verso la cucina. «Ma Märta» obiettò la madre in tono di rimprovero. «La moderna donna in carriera può assumersi tutti i ruoli che si assumono gli uomini.» Poi si rivolse al figlio. «Holger è arrivato stamattina.» «Papà!» chiamò Ellen, sgambettando e tendendogli le mani. «Pa-pa-papà!» Lui prese la bimba dalle ginocchia della madre e se la mise sulle spalle. Poi galoppò per tutto il piano terra con la piccola che rideva gorgheggian-
do sopra la sua testa e Kalle che gli pendeva dalla vestaglia gridando: «Anch'io, papà, anch'io!». «Eh no, adesso la festa dei bimbi è finita» annunciò Holger dall'ingresso. «Ora è il momento di farsi un cicchetto!» Anne Sapphane si alzò a sedere di scatto sul letto, svegliata da un suono di cui non si ricordava più. Il cuore le batteva forte nel petto, i capelli le si erano appiccicati contro le tempie, e i piedi nudi erano freddi. Per qualche secondo rimase sospesa in un vuoto incolore, poi tutto le crollò nuovamente addosso. Gemette e ricadde contro i cuscini. La stanza era diventata ancora più piccola. Sotto le coperte regnava un calore umido. Anne era completamente vestita, a eccezione di calze e scarpe, e gli abiti emanavano un cattivo odore. Non voglio, pensò. Non voglio mai più. I postumi della sbornia si erano attutiti, cedendo il posto a un altro tipo di nausea. Lo shock, forse, o il terrore. Rimase immobile ad ascoltare i rumori dell'antico edificio: gli schiocchi dell'impalcatura di travi, il tamburellare della pioggia contro l'intonaco e la latta. Avvertiva la presenza degli altri intorno a sé. Si accoccolò su un fianco e si concentrò su direzioni e distanze. Sopra di lei Gunnar Antonsson, intento a camminare lentamente avanti e indietro nella stanza. A destra Bambi Rosenberg, che piangeva senza sosta. I singhiozzi aumentavano e diminuivano d'intensità. Si voltò nel letto per non udirli. A sinistra il terzo canale della radio, e dietro il chiacchiericcio dei conduttori il borbottio di Mariana che aveva acceso la radiosveglia per coprire la propria voce al cellulare. Che espediente banale. Scalciò il lenzuolo sudaticcio in fondo al letto, ci infilò i piedi e si mise a fissare il soffitto. Il corpo era tormentato dall'irrequietezza, l'attesa era insostenibile. Chiuse gli occhi, respirando a scatti e prestando orecchio allo scoppiettante vocio dietro la parete sottile, due conduttori che battibeccavano e ridevano. La musica di sottofondo si stemperò e venne sostituita da fischi e jingle e dal notiziario. La conduttrice in studio era tangibilmente nervosa nella sua rigidità, doveva trattarsi di una sostituta estiva a cui era stato affidato l'incarico un giorno in cui tutti gli altri erano in ferie. Anne udì, senza ascoltarla veramente, la notizia di un attentato terroristico nel centro di Gerusalemme. Si lasciò successivamente scivolare in una dichiarazione del leader dell'oppo-
sizione riguardo alla proposta di legge sul decentramento regionale sulla quale ci si aspettava che il governo avrebbe deliberato in autunno. Seguiva l'annuncio della morte di Michelle. Anne Sapphane allertò tutti i sensi, ma l'agenzia era breve, obiettiva, priva di qualsiasi congettura e al limite dell'indifferenza. La giornalista Michelle Carlsson era stata trovata morta in una sala regia dopo una registrazione televisiva. La polizia sospettava che fosse stata uccisa. Per ragioni investigative, il portavoce della polizia si asteneva da ulteriori commenti. La conduttrice del notiziario fece una pausa di mezzo secondo, poi proseguì con due uomini dispersi nel lago Vänern, partiti a bordo di una barca a vela che era stata trovata cappottata al largo; seguirono un'inondazione in Polonia e le previsioni meteo: il fronte di aria fredda proseguiva verso il Sud del paese e sarebbe stato sostituito da nuove aree di bassa pressione provenienti dall'Atlantico. Nella regione dello Svealand le piogge sarebbero state costanti, con locali temporali nel corso della giornata, mentre verso sera sarebbe giunta una schiarita da nord. Mariana abbassò improvvisamente il volume, il tempo nel Norrland fu inghiottito a metà parete. Anne sentì le tappezzerie avvicinarsi, premendo contro i suoi polmoni. Si alzò faticosamente, girò intorno al letto verso la finestra e guardò in direzione del ponte e del piccolo canale. Aprì per far entrare un po' d'aria, boccheggiando quando il vento e la pioggia minacciarono di strapparle il battente dalle mani. Sconvolta, richiuse il vetro, agganciandolo con le mani tremanti. Rimase per qualche minuto seduta sulla scrivania, dando le spalle alla finestra. Poi andò alla porta, sicura di trovarla chiusa a chiave. Non lo era. La spalancò circospetta, udì delle voci mormorare più in là, nella sala riunioni. Sbirciò nel corridoio, vuoto e buio, suoni attutiti da tutte le parti. La luce proveniente dalla sua finestra si rifletteva sulla porta di fronte, quella di Karin Bellhorn. La decisione prese forma nella sua testa in un istante. Chiuse senza far rumore la sua porta, raggiunse in due passi nel buio quella della collega e l'aprì. La direttrice di produzione era seduta alla sua scrivania. Non appena Anne Sapphane entrò nella stanza e richiuse la porta, sollevò il viso tumefatto, occhi gonfi e labbra screpolate. «Ma che...» Si era alzata dalla sedia. Anne si portò un dito alle labbra. «Devo parlare con qualcuno» sussurrò «altrimenti divento pazza.»
«Non possiamo» rispose Karin in un bisbiglio. «Torna in camera tua.» Il labbro inferiore di Anne, le mani, le braccia, cominciarono a tremare. «Per favore» la implorò. «Non ce la faccio.» La direttrice di produzione le si avvicinò, la scrutò e le prese le mani. «Poveretta» mormorò a voce bassa. «Siediti un momento.» Anne si accasciò sul letto, si portò le mani al viso e pianse. Le lacrime le parvero meno aspre, non sconvolgenti e strazianti come nella solitudine della sua camera. «Fanculo, che schifo. Come è potuto accadere?» L'altra sospirò profondamente, emettendo un verso che somigliava a un singulto. «Non lo so. Non ci capisco niente.» «L'hai vista, tu?» Anne alzò gli occhi sulla direttrice di produzione. Questa si passò una mano sui capelli grigi, distolse lo sguardo. «Abbastanza.» «Era ancora calda, ma sul van la temperatura era alta, in effetti. L'hai notata la pistola?» La donna deglutì e annuì. «Non mi è mai capitata una cosa tanto orrenda» continuò Anne. Ormai le parole sgorgavano con l'impeto di un ruscello primaverile. «Non ho mai nemmeno visto un morto prima d'ora, e guarda cosa capita a un'amica, una con cui hai lavorato per quasi quattro anni, che solo qualche ora prima avevi accanto viva e vegeta... e poi assassinata! Con un colpo di pistola! L'hai vista quella roba grigia tutta spiaccicata sulla parete e sui monitor? Era il suo cervello, porca puttana, era il suo maledetto cervello, spiaccicato lì sugli schermi, che schifo, cazzo... i suoi ricordi, la sua infanzia, le sue emozioni, rutto quello che lei era, ridotto a uno schifo appiccicaticcio, sparito...» Chinò la testa e pianse di nuovo, forte, adesso, quasi gridando. Karin le appoggiò una mano calda e asciutta sulla nuca. «Anne» sussurrò. «Anne, per favore, non puoi stare qui. La polizia s'infurierebbe se ti trovasse da me, per favore, calmati...» L'altra inspirò profondamente un paio di volte, con le lacrime che le rigavano le guance. «Cazzo» sbottò. «Cazzo, Karin, che orrore...» «Lo so.» La direttrice di produzione la prese tra le braccia. «Lo so...» Rimasero sedute così a lungo, la giovane donna tra le braccia di quella più anziana. «Mi vergogno tanto» sussurrò Anne una volta recuperata la calma. Karin le lasciò andare le spalle. «Sono sempre stata così cattiva nei confronti di Michelle.» «Ma no, non è vero.»
«Sì invece» insistette Anne, pulendosi il naso con la manica. «Non la sopportavo, e solo perché era tanto più bella e più brava di me!» «Non lo era affatto» protestò la direttrice di produzione. «Sei sempre stata una giornalista migliore di Michelle.» «Voglio dire più brava in TV» spiegò Anne. «Bucava il video in modo completamente diverso da me. Lo sai anche tu che l'incarico di conduttrice del programma nel talk show al femminile sarebbe andato o a me o a lei. L'hanno dato a lei. E io non l'ho mai perdonata.» «E così lei è diventata ricca e famosa a tue spese?» Anne esitò, poi annuì. «Qualcosa del genere.» Karin Bellhorn fece un sorrisino. «Be', guarda un po' com'è andata a finire.» L'altra alzò lo sguardo stilla sua interlocutrice con espressione scioccata, la fissò negli occhi e scoppiò in una risatina isterica. «Devo ammettere che oggi preferisco essere me stessa piuttosto che trovarmi nei suoi panni.» Rimasero sedute accanto sul letto, e Anne Sapphane sentì che nel petto prendeva forma una calma malinconica. «Che serata di merda.» Karin sospirò e scosse la testa. «Mai assistito a una registrazione più incasinata in vita mia, e dire che ne ho viste delle belle. Le anarchiche, poi, erano il massimo. Chi le ha pescate, quelle?» «Mariana, credo. E le hai sentite, lei e Bambi Rosenberg, quando si sono messe a discutere di deviazioni alle due di notte giù nella sala riunioni? Che casino!» «Poi, nel bel mezzo della discussione, è arrivato Highlander, e ha fatto una litigata allucinante con Michelle.» «Il boss in persona? E su che cosa?» chiese Anne. «L'ha licenziata.» «Ma va'!» Karin si portò un dito alle labbra. «Sì, cara, c'ero anch'io. Si è fatto avanti subito dopo la trasmissione. Naturalmente Michelle non era in grado di affrontare nessuna discussione in quel momento, lo sai che subito dopo le riprese è fuori, e soprattutto dopo una di quel genere...» «Highlander non è sano di mente» notò Anne. «Le sue argomentazioni erano ben soppesate, ma non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per esporgliele.» «Perché, cos'ha detto?» «Che era troppo vecchia.» «Troppo vecchia? Ma se aveva compiuto trentaquattro anni lunedì scor-
so!» Karin abbozzò un sorrisino, non senza amarezza. «All'inizio Michelle non ha capito cosa le diceva Highlander, era ancora su di giri dopo la registrazione. A un certo punto ho pensato che sarebbe svenuta, era pallidissima, si masticava la lingua. Poi è completamente impazzita, si è messa a gridare che lui era un cascamorto di merda, che aveva fatto carriera nell'organizzazione succhiando cazzi e pulendo i cessi e facendo il caffè ai pezzi grossi di Londra...» «Vero, in effetti» intervenne Anne. «... e che si rifiutava di accettare qualsiasi decisione presa da un fantoccio presuntuoso e dispotico senza né cervello né coglioni. È andata avanti così per un po'...» Anne si mise a ridacchiare. «In effetti, la scena era quasi comica» concordò la direttrice di produzione. «Secondo Highlander, Michelle avrebbe dovuto essergli grata per il fatto che si era preso la briga di parlargliene personalmente. In realtà sarebbe stato sufficiente comunicarglielo per lettera, per mezzo di una terza persona. Pare che nel suo contratto ci sia scritto così. Naturalmente sarebbe stata pagata sino alla fine del periodo pattuito, un anno e mezzo abbondante, a condizione che non contravvenisse alla clausola di quarantena.» «Cioè non avrebbe potuto lavorare per altri, nonostante fosse stata licenziata?» «Esatto» confermò Karin Bellhorn. «Se avesse accettato un altro incarico come conduttrice di un programma, le avrebbero fatto causa per rottura del contratto. E non è finita. Dopo il casino su nella scuderia, Michelle ha dato il benservito al suo manager, definendolo sanguisuga, palla al piede e via di questo passo.» «Così anche Follin è stato licenziato?» chiese Anne. L'altra accese una sigaretta, giocherellando con il labbro inferiore. «Non lo so. Che il diavolo mi prenda se so più qualcosa.» D'un tratto Anne sentì di nuovo la voglia di mettersi a piangere. «Ma che cosa stiamo facendo?» sussurrò. Rimasero in silenzio per un po'. I rumori intorno a loro filtravano dalle pareti: Sebastian Follin faceva scorrere l'acqua nel lavandino sopra le loro teste, la radio di Highlander sbraitava a destra, Barbara Hanson tossiva a sinistra. «Senti» disse Anne Sapphane. «Secondo te, chi è stato?» Karin puntò la lingua contro l'interno della guancia, riflettendo. «Non lo
so. E secondo te?» «Pensi che sia uno di noi?» Il sussurro di Anne era quasi impercettibile. Lo sguardo della direttrice di produzione si spostò sulla finestra, lucido e assente. «I tecnici se ne sono andati appena finito di caricare il camion. È rimasto solo Gunnar. E noi.» «Può essere stato qualcun altro, qualcuno che veniva da fuori?» «In piena notte?» Karin guardò Anne Sapphane, gli occhi un abisso senza fondo, scosse la testa. «No» bisbigliò. «È stato qualcuno di noi.» Anne deglutì così forte che si sentì in tutta la stanza. «Lo credo anch'io, e quindi stai attenta a quelli con cui parli» convenne la direttrice di produzione «e a cosa dici.» Anne annuì. Il terrore era di nuovo lì, nel suo sguardo. «Hai visto qualcosa?» le chiese Karin. «Qualcosa di strano?» D'un tratto la diffidenza s'impadronì di Anne Sapphane, il dubbio mise radici, un cuneo che minava le fondamenta della fiducia. Sentì che veniva rispecchiato nei suoi occhi, che prendeva le distanze, mettendosi sulle sue. «No» sussurrò. «E tu?» La direttrice di produzione scosse la testa e Anne vide i propri sentimenti riflessi in quelli della sua interlocutrice. «Adesso è meglio che vada.» Si alzò con un nuovo dolore allo stomaco. Non si sarebbero più fatte confidenze. Torstensson non si era fatto sentire. Anders Schyman, scalpitante, era seduto nel suo gabbiotto di vetro ai margini della redazione, e sentiva aumentare l'irritazione. Davanti a sé aveva una pila di documenti legali, querele presentate al tribunale di prima istanza di Stoccolma in cui si citava in giudizio il direttore responsabile della "Stampa della Sera". I capi d'accusa variavano dalla diffamazione alla diffamazione aggravata. Il direttore responsabile era Torstensson. In quanto tale, era lui ad avere sempre l'ultima parola quando si trattava di controversie relative al materiale da pubblicare. Non importava quello che sosteneva il resto della redazione, era il direttore a decidere. Dopo molti se e ma, Schyman era riuscito a ottenere di essere registrato, in quanto condirettore, come direttore responsabile facente funzione presso l'Ufficio Svedese Brevetti e Registrazioni. Ciò comportava che la responsabilità delle decisioni poteva essere delegata a lui, ma solo previa espressa indicazione del direttore. In questi
casi venivano cambiati i nomi nel colophon, cosa che in sé era soltanto un'operazione estetica, ma dava a Schyman più potere internamente, il che accadeva di rado. L'uomo si grattò la testa. La situazione era molto sgradevole. Michelle Carlsson rappresentava da tempo un problema per il suo quotidiano, allo stesso modo in cui "La Stampa della Sera" aveva rappresentato un grosso problema per la conduttrice. Alcuni collaboratori del giornale avevano deciso che lei non era all'altezza del suo compito, cosa che spesso e volentieri facevano notare ai lettori. L'avevano eletta per due volte di seguito la donna peggio vestita dell'anno, incoronata come la svedese più sopravvalutata del Millennio, definita "velina da strapazzo" e altri epiteti poco lusinghieri che Schyman non riusciva a ricordare così su due piedi. Avevano deriso il suo programma e pubblicato la sua caricatura nelle pagine della cultura, l'avevano bocciata nella rubrica degli spettacoli e presa in giro quando aveva ricevuto il premio per la televisione dei lettori. Dopo quella sbaragliante vittoria, il giornale aveva modificato il regolamento per l'attribuzione del premio. I lettori non potevano più votare chi volevano: una giuria interna al quotidiano, con Barbara Hanson in testa, nominava una rosa di personalità della televisione tra cui potevano scegliere. L'ultima volta, Anders Schyman non aveva mai sentito nominare due dei quattro proposti. Finché le critiche e le idiozie sul suo conto erano rimaste su questo piano, né Michelle Carlsson né i suoi legali si erano fatti sentire. Era stato al momento della pubblicazione degli articoli sulla presunta società di comodo in cui era coinvolta che la conduttrice li aveva querelati per la prima volta. Per quanto poteva giudicare Anders Schyman, il giornale avrebbe perso clamorosamente la causa. La seconda querela era arrivata dopo che il quotidiano aveva dato alle stampe delle foto di Michelle nuda insieme a un uomo, che secondo l'articolo sarebbe stato un prigioniero evaso dal carcere di Österåker. La donna aveva giudicato profondamente offensivo il collegamento fatto tra lei e il ladro. Purtroppo, il giornale aveva scambiato il criminale con un noto attore norvegese, il che aveva avuto come risultato un'ulteriore querela. Il divo era sposato con figli e sosteneva di essere stato danneggiato dalla pubblicazione delle foto con la conduttrice nuda. La strategia del giornale nei due processi era dunque risultata un tantino schizofrenica. Nella prima causa, quella intentata da Michelle, era stato so-
stenuto che l'uomo era chiaramente identificabile come un noto attore norvegese, e che dunque lei non aveva ragione di sentirsi offesa, a prescindere dal fatto che il quotidiano avesse erroneamente sostenuto che l'uomo era un criminale. Nella seconda, quella intentata dalla stella del cinema, il giornale aveva affermato che l'uomo non era affatto identificabile, e che anzi era stato definito nella didascalia come un criminale evaso dal carcere, il che avrebbe dovuto escludere ogni ipotesi di danneggiamento della reputazione dell'attore. Anders Schyman sospirò e si passò una mano sulla fronte. La terza querela, per la quale si era fatto ricorso al patteggiamento, riguardava la madre di Michelle. Un giornalista aveva scovato la donna, alcolizzata e ridotta in povertà, in un hotel di Riga, dove si manteneva, con limitato successo, come prostituta. "Al giorno d'oggi sono tante le belle ragazze giovani nel settore" si era lagnata dalle colonne della prima pagina del quotidiano. Le era stato anche concesso lo spazio per pregare Michelle di farsi viva con lei, poiché la nostalgia della sua bambina e dell'affetto che le legava era tale da averla indotta a darsi alle droghe e all'alcol. Le guance di Schyman bruciavano di vergogna quando gli tornò in mente il titolone: Aiutami, Michelle adorata! Il fatto che la donna avesse abbandonato la figlia e il marito quando la piccola aveva tre anni non era stato riportato da nessuna parte. L'unica ragione per cui si era riusciti a raggiungere un accordo sulla questione era il fatto che Michelle non aveva nessuna voglia di parlare di sua madre. Naturalmente per il giornale era stata una soluzione conveniente dal punto di vista economico, molto meno costosa che pagare la parcella dell'avvocato del quotidiano per un processo che sicuramente sarebbe andato per le lunghe. Il motivo per cui non si era fatto ricorso al patteggiamento nelle altre cause era che la conduttrice si era rifiutata e ormai era troppo tardi. Il condirettore raccolse in una pila le querele della donna uccisa. Aveva la testa pesante a causa della pessima ventilazione nella stanza. Sapeva che avrebbe dovuto rimanerci per un pezzo ancora. Sarebbe stato costretto a passare al setaccio ogni singola parola che avrebbero stampato il giorno successivo su Michelle Carlsson. L'ultima cosa che voleva era un'ulteriore querela, questa volta secondo il paragrafo quattro del regolamento sulla libertà di stampa: diffamazione di persona deceduta. Si appoggiò allo schienale della poltroncina che scricchiolò sotto il suo
peso. Sua moglie era a cena da alcuni conoscenti a Vikingshill per festeggiare la mezz'estate: chiuse gli occhi e se la vide davanti, sotto il grande tendone, mentre rideva e cantava con i fiori nei capelli e un bicchierino in mano. Perché diavolo aveva accettato questo lavoro di merda? Perché era stanco della superficialità, frustrato dalle possibilità che gli si prospettavano a livello economico e di carriera all'interno del programma di approfondimento giornalistico dell'emittente televisiva nazionale, dove aveva lavorato come conduttore e direttore di produzione. Si era stancato della notorietà che comportava quella posizione. Quando aveva accettato l'incarico di condirettore alla "Stampa della Sera", era animato dall'ambizione di costruire qualcosa di meglio, più concreto, responsabile e ponderato. Da allora si era chiesto spesso se era stata la mossa giusta. Il programma che aveva abbandonato, nel frattempo, andava a gonfie vele. Come conduttore, Mehmed era molto meglio di quanto lui non fosse mai stato. Si alzò e si mise a passeggiare irrequieto su e giù per la stanza. Aveva voluto la bicicletta, ora gli toccava pedalare. La pioggia stava per far impazzire Annika. Bertil Strand, prodigio di socievolezza, era salito sull'auto di servizio del "Concorrente", e stava intrattenendo i colleghi, cosa a cui lei non si sarebbe mai abbassata solo per riscaldarsi e asciugarsi un po'. Frugò invece con lo sguardo nei paraggi in cerca di un riparo dal vento, una tettoia. Si soffermò sulla serra poco sopra il parcheggio. Chissà se veniva chiusa a chiave! La porta non aveva serratura. Fece scorrere di lato un battente di vetro e sgattaiolò in mezzo al verde. Il calore e i profumi l'avvolsero con un'intensità che le fece girare la testa. Solo in quel momento si rese conto che non mangiava niente dalla mattina. Si sedette sul vialetto di ghiaia tra due file di pomodori in fiore, bagnata e con la testa che le girava, appoggiò la schiena a un grosso vaso di legno e guardò fuori dalla parete di vetro. Aveva una buona visuale sul parcheggio e anche sul ponte che saliva al castello. Le parole che aveva rimosso per tutta la giornata risalirono in superficie. La voce di Thomas, strozzata dall'ira. "Certo che capita proprio a proposito, questa faccenda. Che madre del cazzo che sei. Fanculo. Questa non te la perdono." Soffiò fuori lentamente l'aria dai polmoni.
«Scusa» sussurrò. «Mi dispiace tanto, ma lo sapevi che forse avrei dovuto...» Per qualche minuto si lasciò sopraffare dalle emozioni. Rimorso e autocommiserazione si contendevano lo spazio. Si sentiva miserabile, ma senza grande convinzione. Neppure il richiamo alla mente dei visi dei bambini riuscì a toccarla in profondità. Si alzò in piedi, cercò un rubinetto e bevve fino a spegnere la sete. Trovò poi un settore coltivato a rucola e piselli e ne prese un po' qui e un po' là in modo che non si notasse. Inviterò qui a cena Thomas e lascerò una mancia generosa, si ripromise in un tentativo poco convinto di giustificare il furto. Un po' meno debole, tornò alla sua postazione contro il vaso di legno, e dopo qualche attimo di esitazione telefonò ad Anne Sapphane. Nel momento stesso in cui la segreteria telefonica stava per scattare, l'amica rispose. «Dalla voce sembri giù» disse Annika. «Ma cosa ti aspettavi, scusa?» sussurrò l'altra, alzando il volume di una radio in sottofondo. «Come stai?» La voce di Anne era spenta e atona. «Fatico a respirare. Pensi che si possa diventare asmatici dalla sera alla mattina?» La giornalista non rispose, evitando di incoraggiare l'ipocondria dell'amica. «È orribile» continuò la donna. «Me la vedo davanti continuamente, ho l'impressione che sia colpa mia.» «Ma scusa, Anne!» la rimproverò Annika. «Non puoi ragionare...» «Non dirmi cosa posso e non posso fare. Non sei tu a startene rinchiusa qui come un maledetto assassino.» Si mise a piangere al ricevitore. Annika si pentì di averla chiamata. «Vuoi che mettiamo giù?» chiese con delicatezza. «Preferisci essere lasciata in pace?» «No!» sussurrò l'altra. «Per favore, non riattaccare.» Rimasero a lungo in silenzio, ascoltando il ronzio di sottofondo della radio. «Ti hanno detto quando potrai tornartene a casa?» domandò Annika. «No. Solo che ci lasceranno andare man mano che finiscono gli interrogatori. Q è qui, a proposito. Mi ha interrogato lui, brutto stronzo.» «Hai parlato con Mehmed?»
L'amica sospirò. «No. Puoi telefonargli e avvertirlo che sono ancora qui? Dio, quanto mi manca Miranda.» «Ma lei sta da papa» tentò di consolarla Annika controllando contemporaneamente il parcheggio. «Puoi parlare al cellulare?» «No, in realtà. Sei qui fuori?» «Piove che Dio la manda, mi sono nascosta in una serra. Ma sei sicura di voler parlare?» Sentì che l'amica si muoveva, cambiava canale alla radio, i passi che rimbombavano. «Un pochino, forse.» «Mi puoi dare una mano a risolvere una cosa?» chiese la reporter. «Ho passato in rassegna le auto nel parcheggio e credo di aver individuato la maggior parte di voi lassù. Puoi confermare o smentire, se te li elenco?» La sua interlocutrice emise una risatina stanca. «Sei sempre la stessa. Cosa vuoi sapere?» «Highlander c'è?» «Sì.» «Mariana von Berlitz e Carl Wennergren?» «Yes.» «Mariana appartiene alla chiesa nonconformista?» «Quando le conviene. Come fai a saperlo?» «Ha l'adesivo con la scritta GESÙ È VIVO sulla macchina. E poi una certa Hannah Persson di Katrineholm?» «Esatto.» «Cosa ci fa qui?» L'amica inspirò profondamente. Quando la sua voce tornò a farsi sentire, conteneva almeno qualche frammento di vita, come se parlare di un argomento di tutti i giorni la facesse sentire più forte. «È la segretaria dei NN di Katrineholm, cioè una neonazista. Ha discusso con due anarchiche durante l'ultima trasmissione, è venuto fuori un casino. Le anarchiche sono saltate addosso sia alla ragazza che a Michelle, alla nazista è uscito il sangue dal naso. Io e uno dei tecnici del suono siamo dovuti intervenire per dividerle, mi sono beccata un graffio sul mento.» «Perché è rimasta dopo la registrazione?» «Alcol gratuito. Nessuno ha avuto la forza di mandarla via. Qualcun altro?» «Barbara Hanson?» «La stronza, sì. Era qui per sputtanare Michelle come al solito. Naturalmente si è presa una sbronza con i fiocchi e si è addormentata come un
sasso prima di mezzanotte.» «Che mi dici di Karin Bellhorn?» «Le ho appena parlato, sta nella camera di fronte alla mia.» «Un certo Sebastian Follin?» «Il manager di Michelle, è quello che negozia tutti i suoi contratti, la pubblicità, le comparsate, le conferenze e così via. Ieri sera hanno litigato, non so su che cosa.» «Bambi Rosenberg, la pupa delle telenovelas?» «Bambi-Bimba, proprio lei, la miglior amica di Michelle. Era intervenuta nell'ultima puntata e si è fermata per la festicciola. Michelle aveva decisamente bisogno di una buona amica, non dico altro...» «Stefan Axelsson, il direttore della fotografia?» «Ha tenuto le redini di tutto quanto dal van, ogni giorno. Bravissimo direttore della fotografia ma gran musone, non fa altro che lagnarsi di tutto e di tutti. È qui.» «E poi ci sei tu e qualche tecnico del van, giusto?» «Già. Gunnar Antonsson. Tiene più a quel camion che alla sua stessa vita.» «Credi che parleranno con me?» Anne riuscì a sbottare in una risatina. «Dipende da chi cerchi di agganciare. Sebastian, di sicuro. Steffe, mai e poi mai. Michelle ti avrebbe sputato in faccia. Odiava "La Stampa della Sera", dopo tutta la merda che le avete buttato addosso, sosteneva che la perseguitavate. E quasi quasi non posso darle torto.» «Ma dai» fece Annika. «Queste cose tocca sopportarle, in fondo è una personalità pubblica. Chi è il dodicesimo?» Si rese conto di aver parlato di Michelle al presente, perse il filo del discorso ed esitò per qualche secondo. «Se n'è andato» rispose l'altra. «Come ha fatto? La polizia ha transennato tutta l'isola.» «Se n'è andato stamattina presto, prima che Michelle venisse trovata.» «Ma come? E chi è?» L'amica inspirò con tale violenza che sì udì un fischio nel ricevitore. «Be', tanto prima o poi verrà fuori.» «Ma di che stai parlando?» «Doveva restare segreto fino alla messa in onda della trasmissione. Ha suonato su nella sala concerti del castello, e dunque gli altri ospiti non l'hanno neanche visto. John Essex.»
Annika non riuscì a fare a meno di boccheggiare. «Ma dai. Veramente?» «Yeah. È un vero bocconcino, eravamo tutte lì a sbavare.» «Dici sul serio? E come siete riusciti a farlo venire a Yxtaholm?» «Karin, naturalmente: il suo ex marito è il produttore del gruppo. Doveva essere il clou del programma.» La giornalista dovette per forza alzarsi in piedi, eccitata com'era. «Ma è incredibile! John Essex al castello di Yxtaholm la notte dell'assassinio di Michelle, sparito prima del ritrovamento?» «Il gruppo è partito ieri sera verso le nove, ma John è rimasto qui a bere. L'ho visto subito prima dell'una, ma non so a che ora abbia levato le tende. Può essersene andato ben prima che lei morisse.» «Si sa a che ora è stata uccisa?» «Io l'ho vista alle due e mezzo. Di colpi non ne ho sentiti, ma non sono mai passata nei paraggi del camion per tutta la serata. Era stato caricato e chiuso a chiave. Inoltre, per tutta la notte si sono susseguiti dei terribili temporali.» «Quindi gli interrogati sono undici, non dodici? Il dodicesimo piccolo indiano se l'è data a gambe?» «Pare di sì.» «Che arma è stata usata?» Anne esitò di nuovo. «Quella della neonazista» rispose poi. «Una pistola ridicola, enorme e molto elaborata. Ha girato per tutta la sera mettendola in mostra. Mi prometti che chiamerai Mehmed?» «Certo, nessun problema. Non credo che resteremo qui a lungo, ormai.» «C'è tanta gente della stampa?» «Molto meno di quanto uno si potesse aspettare. Hanno transennato tutta la punta, siamo riusciti a entrare in pochi. Appena gli investigatori avranno qualche poliziotto libero verranno a buttare fuori anche noi.» Tacquero, ascoltando il brusio della linea. Annika seguì con lo sguardo il percorso irregolare della pioggia lungo le pareti della serra, ricordando all'improvviso altre feste di mezz'estate: lei e Anne Sapphane nella sua mansarda nella Città Vecchia di Stoccolma, la pioggia che scrosciava allora come adesso, i film di fantascienza in videocassetta. «Pensa un po', alla fine ci siamo ritrovate di nuovo a passare la festa di mezz'estate insieme, tu e io» concluse. Anne non poté trattenere una risata triste che si spense in un attimo. «A proposito» riprese Annika. «Sai che ho incontrato Pia Lakkinen,
quella del "Corriere di Katrineholm"? E lo sai cosa mi ha detto? Che tutta Katrineholm sostiene che Thomas ha lasciato me e i bambini.» «Ah» fece l'amica. «E allora?» «Che cattiveria, non trovi?» «No, perché?» Tacquero di nuovo. Il senso della famiglia era uno dei due argomenti su cui avevano opinioni contrastanti. L'altro era il giornalismo televisivo. «Senti» ricominciò Annika «tu lo sai chi le ha sparato?» La sua interlocutrice ansimò nel ricevitore più volte. L'incubo era tornato. «Ho sentito un litigio tremendo subito dopo mezzanotte» ammise. «Nella scuderia. C'era un casino bestiale lassù.» «E chi è che litigava?» «Mariana e Michelle.» «Cazzo, che faccenda da brividi.» «Già» concordò Anne Sapphane. «Ehi, qua fuori si sentono dei rumori. Devo mettere giù.» Chiusero la telefonata. Annika rifletté qualche secondo e poi chiamò la redazione. Quando Chiodo fece scorrere di lato la sua porta a vetri, Schyman alzò gli occhi. «Notizie dal nostro suonatore di violino?» Il condirettore sospirò. «Neanche una nota. Ci toccherà mettere uno di quelli del turno serale a cercare di rintracciarlo. Come vanno le cose?» Chiodo sollevò un braccio e fece scorrere la mano destra sui titoli immaginari. «Gli indiziati: ecco la lista. Occhiello: I dodici VIP che hanno trascorso le ore fatidiche nel maniero di "Estate al castello".» Abbassò la mano. «Uno di loro, tra l'altro, è John Essex.» Schyman si lasciò scappare un fischio e si alzò. «L'Elvis Presley della nostra epoca!» esclamò. «Questa storia assurge a livello internazionale.» Passò davanti a Chiodo e si portò nella redazione. «Sono stati tutti fermati?» «Non ancora» rispose l'altro, una mano infilata nella tasca dei pantaloni. «Allora non ci sogniamo neanche di definirli "indiziati". Pelle! Breve riunione al banco della cronaca.» Il photo editor, che teneva il ricevitore con una mano, sollevò il pollice dell'altra. Chiodo camminava nella scia di Schyman in uno stato emotivo costituito in parti uguali di umiliazione e ammirazione. Il condirettore era
uno stronzo, ma uno stronzo abile. «Jansson è arrivato?» «Doveva solo...» Schyman liquidò con un gesto il resto della frase. «Cos'abbiamo in arrivo?» Si sedette sulla poltroncina vuota del redattore degli esteri, una delle più centrali intorno al banco della cronaca. Chiodo si mise al proprio posto, si schiarì la voce e bevve un sorso da una tazza da caffè quasi vuota. «Dunque, abbiamo la lista delle dodici persone che si trovavano al castello durante la notte. Per quanto ha capito la Bengtzon, sono ancora tutti lì, eccetto John Essex, che se n'è andato prima che Michelle venisse trovata.» Anders Schyman prese nota con le sopracciglia sollevate. «Benissimo» si congratulò. «Questa roba non mi pare sia venuta fuori dalle agenzie, sono informazioni ufficiali?» Jansson, il caporedattore di notte, si precipitò al tavolo, rovesciò un po' di caffè e mostrò un sorrisino allegro. «No, ragazzi, è farina di Annika Bengtzon. Può darsi che siamo gli unici al corrente.» Schyman guardò il caffè gocciolare nel cestino della carta. «E come l'ha avuta la lista?» «Le auto nel parcheggio visitatori. E poi ha una fonte che non vuole rivelare.» Pelle e Chiodo alzarono gli occhi al cielo. «John Essex» continuò Schyman. «Cosa ci faceva là? Ormai è troppo famoso anche per poter suonare al Globen. Gli dedichiamo un articolo a parte. Chiedi alla redazione degli spettacoli di dare un'occhiata alla faccenda.» Chiodo prese nota. «E allora, cosa ne facciamo della lista?» domandò Jansson. «Come li definiamo, i dodici?» Schyman batté con la penna sul blocco. «Di certo, non indiziati. Amici, magari, o testimoni. Dovremo leggere il testo dell'articolo e vedere cosa conviene di più.» «Da semplici amici a testimoni di un assassinio» scandì Pelle Oscarsson in sottofondo. «Naturalmente dobbiamo riferire anche sulle indagini della polizia» ricordò Schyman.
«E poi c'è il castello in sé» disse Chiodo. «Yxtaholm. Bel posticino, pare, a soli cento chilometri da Stoccolma eppure completamente isolato.» Il condirettore annuì. «Vero. Il governo lo usa in occasione di trattative segrete. So che la Colombia negoziò con la guerriglia delle FARC proprio lì, qualche anno fa.» «Si dice che ci siano stati anche Arafat e gli israeliani» intervenne Jansson. Il caporedattore annuì compiaciuto. «Funzionerebbe come articolo a sé a pagina dodici. Chi lo fa?» «È stata Annika Bengtzon a dirmi della faccenda, non so più quando» ammise Schyman «e dunque la cosa migliore è che lo butti giù lei. E come stanno le cose con il nostro uomo laggiù, Wennergren? Qualcuno ha avuto sue notizie?» Chiodo si agitò sulla sedia. «Non ancora, non può telefonare, per via degli interrogatori e palle varie...» «È vero che anche Barbara è là?» La domanda era stata posta in modo brusco, il caporedattore tacque. «Guarda» replicò Jansson «Barbara fa quello che le gira di fare. Ho parlato con lei prima che partisse, mi ha detto che, finché ha il benestare del direttore responsabile, nelle sue cronache scrive quello che vuole.» «Finché avrà la benedizione della famiglia che detiene la proprietà, soprattutto» aggiunse Pelle. «D'altra parte è una di loro» disse Jansson. «Di Michelle, che facciamo?» domandò Schyman. Intorno al banco della cronaca il silenzio diventò immediatamente pesante. Il photo editor si mise a sfogliare le copie su carta delle foto, Jansson sorseggiava il suo caffè con grande concentrazione. Schyman si accorse che Chiodo, dopo un attimo di esitazione, prendeva la rincorsa. «La cosa giusta, giornalisticamente, sarebbe presentare il suo passato com'è» propose. «Una puttana alcolizzata per madre, un padre morto in un incidente automobilistico, uomini a destra e a manca, personaggio controverso e ricco, discusso e detestato...» Il condirettore aveva alzato la mano destra. Chiodo tacque. «Innanzitutto» cominciò «questo giornale ha già pagato cinquantamila corone di danni per aver pubblicato le notizie sulla madre prostituta e drogata. Inoltre ci siamo impegnati per iscritto a non pubblicare mai più delle notizie su di lei. Gli articoli relativi non possono essere venduti dal nostro archivio. Quanto agli altri aggettivi che hai usato, Chiodo, non credo che tu li abbia
attinti dal pubblico, no? In pratica, solo questo giornale la pensa così di Michelle Carlsson.» Sul labbro del caporedattore si era formata qualche gocciolina di sudore. «Non possiamo fingere di non averle mai gettato addosso merda.» «Vero. Ma non per questo dobbiamo farcela rotolare dentro adesso che è morta. Voglio una descrizione moderata e dignitosa della sua vita. E anche della sua morte, tra l'altro. Tutti i premi che ha ricevuto, quanto era amata dagli spettatori... La faccenda del padre, naturalmente, dobbiamo mettercela, terribile com'è...» D'un tratto Schyman si sentì svuotato. Sangue e morte, gli balenò nella mente, terrorismo e tragedie, omicidi e malevolenze: ecco il mio pane quotidiano. «Altro?» chiese in tono spento. «Come facciamo con Torstensson?» chiese Chiodo. «In realtà sarebbe lui, no, a dover prendere queste decisioni?» «Io sono nel mio acquario» ribatté Schyman. «Avvertitemi appena si fa vivo qualcuno, un suonatore di violino o qualcosa del genere...» Si diresse verso il gabbiotto di vetro, le spalle curve. "Il Corriere di Katrineholm" se n'era andato per riferire della festa di mezz'estate a Bie, ma quelli di "Notizie Est" non avevano ancora levato le tende. Erano sul loro furgone e stavano bevendo caffè da un termos, mentre quelli della televisione nazionale se la tiravano attorno al loro van satellitare e il reporter di Radio Sörmland parlava al cellulare su alla scuderia. Bertil Strand era ancora seduto a scaldarsi nell'auto di servizio, in folle, del "Concorrente" quando Annika bussò al finestrino anteriore dalla parte del passeggero. Il fotografo lo abbassò di due centimetri. «Adesso» disse Annika. Un secondo dopo il fotografo era sceso dall'auto, imitato dal resto dei giornalisti. «Un carro funebre!» gridò eccitato il reporter dell'altro giornale, e si precipitò verso le transenne lungo il canale. Annika rimase dov'era, tremante e ammutolita. Alzò gli occhi verso il castello. L'asta della bandiera si ergeva esattamente al lato opposto del corso d'acqua, come un punto di riferimento per tutto il villaggio. La barchetta ondeggiava sulla riva. Ricordava sempre, sotto forma di sgradevoli flashback, la prima volta che aveva visto portare via una persona morta. Era stato in Kronobergsparken, a Stoccolma, a pochi isolati da casa sua. Il piccolo cimitero ebraico, diroccato e buio in mezzo agli alberi giganteschi, il caldo, l'odore,
gli occhi sbarrati e il grido silenzioso della donna morta. Si chiamava Josefin. Josefin Liljeberg. Era morta per aver amato troppo. Sarebbe potuto toccare a lei. Poi intravide il carro funebre in mezzo agli alberi, vicino alla dépendance sulla spiaggia. Lentamente, arrivò fino al punto in cui si trovavano i giornalisti. Le macchine fotografiche si misero a ronzare e a crepitare, i fotografi si pestavano i piedi a vicenda. Annika si fece un po' da parte, guardò l'auto avvicinarsi a passo d'uomo e la polizia che allontanava la ressa dei giornalisti, la flessibilità delle transenne, il mezzo che accelerava superando il ponte, il sacco bianco appena distinguibile dietro i vetri affumicati, oltre le pecore, e poi via lungo il viale d'ingresso. Il reporter della radio locale corse dietro il veicolo puntando il microfono verso le gomme, Annika sbatté gli occhi. Che espediente di pessimo gusto. Bertil Strand seguì l'auto con il teleobiettivo finché non scomparve alla vista nella curva verso il maneggio. «Adesso dimmi due cose» disse rivolto ad Annika. «Come ce ne andiamo di qui, e come faccio a riprendere la mia macchina?» Lei fissò lo sguardo negli occhi del fotografo. «Non ti serve nient'altro? C'è ancora qualcosa che posso fare per te?» Prese il cellulare e chiamò un numero che aveva in rubrica. «Sono a Flen» rispose Berit Hamrin nell'auricolare. «Dove sta Yxtaholm?» Lei tirò un sospiro di sollievo. «Vieni da Norrköping, giusto? Attraversa la cittadina, prendi la statale 55, a sinistra e poi a destra all'altezza del cartello stradale... Sì, noi siamo dentro, ma non credo che ti lascino passare. Noi siamo arrivati via lago. Sì, con una barca a remi.» Chiudendo la conversazione si mise a ridere. «Berit è qui tra dieci minuti. Puoi andare via con lei e riprendere la tua macchina appena avremo finito.» «Cosa stiamo aspettando?» «Che i dodici, o meglio, undici, escano. Se ci lasciano restare nel parcheggio abbiamo l'occasione della nostra vita per parlare con loro quando partono...» «Sta succedendo qualcosa su al castello» notò il fotografo guardando oltre la sua testa. Un poliziotto in giacca di pelle e camicia hawaiana stava imboccando il ponte. Quel che restava dell'assembramento di giornalisti si riunì da una parte delle transenne, il poliziotto rimase da quella opposta. «Okay. L'addetto stampa ha appena comunicato che non verrà qui, e dunque ho io un
paio di informazioni da dare ai giornalisti. Facciamola breve.» Annika tirò fuori dalla borsa blocco e pennarello. Guardò i colleghi che facevano scattare invano le loro biro. Possibile che non imparassero mai? Le biro non valevano niente, l'inchiostro si scioglieva con la pioggia e si congelava al freddo. Con quell'umidità non scriveva nemmeno la matita, solo il pennarello indelebile. «Michelle Carlsson è dunque stata trovata morta in una sala regia mobile dietro l'ala nuova, nel parco del castello di Yxtaholm. Ha ricevuto un colpo d'arma da fuoco alla testa, e la morte è stata istantanea...» «Ci sono segni di colluttazione nella sala regia?» gridò la reporter della televisione di stato. Annika la conosceva di nome, sapeva che ci teneva un sacco a farsi bella durante le conferenze stampa. In altre parole, la giornalista era convinta di essere la migliore se gridava più forte e arrivava per prima quando era il momento delle domande. Q sospirò. «Possiamo procedere con calma e buon senso? Grazie. La vittima è stata trasferita all'istituto di medicina legale di Solna, il medico legale e gli investigatori proseguiranno il lavoro là. Nel corso della giornata abbiamo interrogato una serie di persone che si trovavano dalle parti del castello al momento del decesso. Per ora non ci sono indiziati, ma le perlustrazioni e gli interrogatori proseguono, sia qui che altrove. Sui particolari relativi alle indagini, come il fatto che ci siano segni di colluttazione nella sala regia, naturalmente non mi soffermerò qui e ora. Qualche domanda?» «Per quanto tempo verranno trattenuti al castello gli indiziati?» gridò la giornalista dell'emittente di stato. Q attese qualche secondo prima di rispondere. «Come ho appena ripetuto» disse poi molto lentamente «al momento non ci sono indiziati. Nessuno viene trattenuto al castello contro la sua volontà. Le persone che nel corso della giornata di oggi hanno partecipato agli interrogatori l'hanno fatto di propria volontà, come contributo alle indagini a cui ovviamente desiderano spianare la strada in tutti i modi.» «I testimoni sceglieranno di tornare a casa stasera, o preferiranno fermarsi un'altra notte a Yxtaholm?» chiese Annika in tono educato. Q quasi si lasciò scappare un sorriso. «La mia valutazione è che tutti i testimoni opteranno per fermarsi anche questa notte al castello. Altre domande?» Naturalmente ce n'erano. I rappresentanti di televisione e radio dovevano per forza porre le proprie domande una alla volta, dato che le loro erano di
un livello superiore e meritavano ciascuna una risposta superspeciale. In altre parole, Annika rimase a sentire il commissario che ripeteva le stesse cose altre tre volte. Prima rivolto alla grande e ingombrante telecamera dell'emittente di stato, dato che la televisione è molto più prestigiosa della radio, e che essere di stato è molto più prestigioso che essere locali. Poi alla piccola camera digitale di "Notizie Est" e infine al microfono del reporter della radio locale. Annika gironzolava alle loro spalle, aspettando. Una volta che i telegiornali e le varie emittenti ebbero avuto la loro, si fece avanti. «Cazzo se è bagnata!» notò Q. «Avete rintracciato Essex?» chiese. Il commissario sospirò e tirò fuori dalla tasca interna della giacca un pacchetto di sigarette. «Se si vuole beccare John Essex basta seguire gli strilli delle adolescenti» rispose, accendendo una sigaretta e tirando una boccata profonda. «Certo che l'abbiamo rintracciato.» «Si riferisce a lui quando parla di interrogatori altrove?» Per tutta risposta, il poliziotto sogghignò. «Allora?» insistette Annika. «Non è più indiziato di altri.» «Quando è stata trovata?» Lui la guardò, soffiando fuori il fumo. «Non posso dirlo.» «Dunque ci avete messo un po' ad arrivare?» «Sarebbe bene che non lo scrivesse» replicò il poliziotto. «Parli lei, allora.» Il commissario sospirò. «La Centrale l'ha ricevuto solo come decesso non confermato. È stata trovata subito dopo le sei, la pattuglia è arrivata qui un paio d'ore dopo.» «Tutto il tempo che serviva alle persone coinvolte per sincronizzare le proprie versioni» constatò lei. «Non abbiamo notato niente del genere» la contraddisse l'uomo, laconico. «E come aveva fatto la neonazista Hannah a procurarsi il pistolone elaborato?» «La trovo preparata come al solito. Cos'altro sa?» «Oltre all'arma?» Alzò le spalle. «Chi avete interrogato, che per l'intera nottata hanno litigato tutti come dannati, che probabilmente uno dei dodici è l'assassino.» «Può essere arrivato qualcuno dal lago» obiettò Q, nei cui occhi brillava
un sorriso. «Certo» convenne Annika. «È per questo che il governo usa Yxtaholm per i negoziati di pace segreti, proprio perché è facile per degli assassini arrivare qui non visti, nottetempo...» Il poliziotto scoppiò a ridere forte, s'infilò entrambe le mani nelle tasche della giacca, si voltò e si avviò verso il castello, la sigaretta penzolante dalle labbra. Ridi, ridi pure, pensò la giornalista trionfante. Intanto io sono arrivata qui non vista dal lago, in pieno giorno. «Annika!» La voce veniva dalle transenne nella direzione del maneggio. Berit era lì in piedi sotto un ombrello, di fianco a una delle auto di servizio del giornale. «Cosa succede?» gridò. Sollevata, le corse incontro, salutandola con la mano. «Non lasceranno andare i testimoni» le spiegò «ma voglio restare qui un'oretta. Ce la fai a venirmi a ripescare tra un po'?» La collega alzò il pollice in segno affermativo, Annika portò la mano alla fronte e corse dal fotografo, prendendolo da parte. «Vai con Berit, recupera la macchina e affitta delle camere al Loftet di fianco al distributore Statoil a Flen. Berit tornerà a recuperarmi tra un po'. Voglio dare un'occhiata in giro.» «Ma come, scusa? Che cosa vuoi fare?» Annika si strinse nelle spalle e si guardò intorno. «Devo controllare un paio di cose» rispose. «Cosa?» Annika girò sui tacchi, allontanandosi dal parcheggio, per poi oltrepassare la torre campanaria e fare il giro intorno alla scuderia. Giù sulla spiaggia del Långsjön si trovavano il pollaio, la lavanderia e i campi da tennis. La lavanderia era chiusa a chiave. Annika si appoggiò al muro e si guardò intorno. La pioggia era quasi cessata adesso, ma restava sospesa come una foschia umida tra gli edifici. D'un tratto avvertì la presenza dei profumi dell'estate: l'erba tagliata di fresco, le rose sbocciate, l'umidità, la fragranza. Appoggiò la borsa sulla scala, girò la pagina del blocco e lo posò sul gradino di fianco alla borsa per non bagnarsi il fondo dei pantaloni. Poi si sedette, la schiena contro la porta. Almeno due auto vennero messe in moto e si allontanarono dal par-
cheggio. Restava solo l'attesa. "Che madre del cazzo che sei. Fanculo. Questa non te la perdono." Si passò una mano sui capelli. Thomas non intendeva davvero quello che aveva detto. Sono cose che scappano quando si è delusi e incazzati. Avrebbe capito, non era poi così strano che reagisse in quella maniera. Aveva avuto un periodo duro al lavoro. Il progetto sui sussidi sociali, che seguiva da tre anni e mezzo, doveva essere completato entro la fine del mese, e ancora non era finito. Inoltre non sapeva se il suo lavoro all'Unione dei Comuni Svedesi sarebbe cessato con la conclusione del progetto. La direzione aveva accennato vagamente ad altri incarichi, ma senza dargli alcuna certezza. Annika sospirò. Sapeva quanto Thomas fosse logorato dal non poter pianificare il futuro. Non riusciva ad accettare i suoi tentativi di consolarlo, non voleva ascoltare le sue argomentazioni. Che c'erano altre possibilità, posti di lavoro diversi dall'Unione dei Comuni. Quando gli mostrava le inserzioni per posizioni di funzionario amministrativo o dirigente negli enti locali, si chiudeva a riccio. In realtà, Annika sapeva esattamente come stavano le cose. Thomas voleva avere un lavoro di prestigio. Voleva un posto che superasse quello di funzionario amministrativo del comune di Vaxholm. Voleva dimostrare ai suoi genitori e ai vecchi conoscenti che era salito di almeno un gradino nella carriera, anche se in tutti gli altri ambiti era sceso più in basso. Annika spaziò con lo sguardo sul parco, si accorse che aveva smesso di piovere del tutto. Sapeva che Thomas guardava alla propria vita in quel modo. Lei rappresentava un regresso. Niente di ciò che era, aveva o faceva poteva misurarsi con Eleonor, sua moglie, la direttrice di banca dotata di villa a Vaxholm. Non ne avevano mai parlato, ma lei glielo leggeva negli occhi, nella tensione delle labbra. I suoi sforzi non bastavano, e non sarebbero mai bastati. Per i primi due anni avevano abitato nell'appartamento senza ascensore, bagno e acqua calda che lei aveva in affitto nella scala interna di un vecchio palazzo. Finché erano stati soli era anche andata bene, ma una volta nato Kalle la situazione si era fatta quasi insostenibile. Lei era andata su e giù portando in braccio figlio, borse e tutto quanto, piangendo ma senza mai lamentarsi una volta. Il giorno che l'avesse fatto, sapeva che lui se ne sarebbe andato. Aveva preso lei il congedo di maternità, senza mai pretendere nulla dal compagno. Lavava i piatti, scaldava l'acqua, allattava, faceva la spesa, cambiava i pannoloni, puliva e faceva l'amore con la stessa irri-
ducibile caparbietà. Se solo lei avesse avuto la forza di resistere, ce l'avrebbero fatta. Per continuare ad abitare lì si era resa disponibile a fare da portiera per il condominio, senza retribuzione. Cambiava le lampadine lungo le scale, metteva la carta igienica e gli asciugamani nel bagno comune, chiamava l'amministratore non appena un condomino scopriva una falla o una crepa nel vecchio edificio cadente. Quando il palazzo antistante la strada era stato restaurato, aveva raccolto punti di vista e reclami da parte degli abitanti, li aveva trasmessi al proprietario e negoziato soluzioni che potessero andare più o meno bene a tutti. Quando la lettera che avrebbe risolto la loro situazione era finalmente arrivata, aspettava Ellen ed era al settimo mese di gravidanza. Lei e Thomas avrebbero potuto affittare un appartamento di cinque locali nel palazzo che dava sulla strada, al terzo piano con ascensore, stufa di maiolica, bagno e balcone verso il cortile. Aveva pianto di felicità leggendo la missiva con l'offerta, e ancora oggi le riecheggiava nella testa l'unico commento di Thomas: "Avremmo potuto abitare in tre ville contemporaneamente, con quest'affitto". Probabilmente, aveva ragione. Costava molto, ma era un appartamento davvero fantastico. Pannellature in legno, porte laccate, parquet lamato e incerato in tutte le stanze, cucina con le piastre in vetroceramica, due bagni con il riscaldamento a pavimento. Quando i genitori del compagno erano venuti a trovarli per la prima volta, il loro commento era stato identico. "Quanto hai detto che è l'affitto? Be', sareste potuti stare in una villa." La madre di Thomas la sopportava a fatica, non riusciva ad accettare il fatto che Annika avesse mandato a monte il suo schema di vita. Eleonor era stata la figlia che non aveva mai avuto. A quanto pareva le due si vedevano ancora, spesso e volentieri. Nemmeno i bambini avevano indotto la suocera ad accettarla. "Poveri piccoli" diceva "costretti a vivere in città." Quel che faceva Annika non andava mai bene. "Mamma mia" diceva a volte "come sono mingherlini questi bimbi. Non mangiano come dovrebbero?" Sottinteso: "Non dai loro da mangiare?". E poi aggiungeva: "Speriamo soltanto che non vengano su magri come te". Con il suocero, Annika non aveva proprio alcun rapporto. Si metteva a leggere il giornale non appena arrivava a casa loro, rispondeva a monosil-
labi e distrattamente. Capitava che andasse a stendersi sul loro letto matrimoniale e trascorresse russando cene e serate davanti alla TV. Un violento tuono la fece sussultare. Il cielo si era scurito nuovamente, la volta nera e minacciosa incombeva sugli edifici. L'aria vibrava di elettricità, una folata di vento la investì. Irritata, infilò il blocco bagnato nella borsa e se la mise in spalla. In quello stesso istante l'intero paesaggio esplose in una luce bluastra, il boato risuonò dopo una frazione di secondo. Da un momento all'altro la pioggia le si sarebbe rovesciata addosso di nuovo. Senza far rumore, avanzò dietro i cespugli, sgattaiolando lungo il perimetro della vecchia scuderia. Sbirciò verso il parcheggio: i giornalisti se n'erano andati tutti. Il poliziotto di guardia alla salita per il castello era sparito. Un altro fulmine squarciò il cielo, il lieve ritardo del tuono rivelò che questa volta era caduto leggermente più in là. Percorse rapida il lato lungo della scuderia. Giù alla lavanderia, una finestrella del seminterrato sbatteva nel vento. Annika sperò di non essere costretta a infilarsi nell'edificio da quella parte. Abbassò cautamente la maniglia della porta di servizio delle cucine, che cigolò e si aprì con un gemito arrugginito. Nello stesso istante fu colpita dalle prime gocce di pioggia, grandi come palline da tennis. Senza riflettere oltre, entrò nei locali di servizio della cucina e si richiuse la porta alle spalle. La penombra la inghiottì immediatamente. Fuori, dall'unica finestrella del locale, la pioggia aveva tessuto una cortina di grigiore. Scorse una lavatrice e un'asciugatrice, un piccolo piano di lavoro in acciaio inossidabile, e mucchi di federe e lenzuola da lavare. Una porta conduceva a una piccola cucina. Annika entrò: lavastoviglie, macchina per il caffè, tavolo da cucina con sei sedie e tovaglia di tela cerata, bottiglie vuote, rifiuti e piatti da lavare dappertutto. Una finestra sull'esterno, una porta socchiusa che pareva portare nel grande salone. La spinse e si bloccò, sbigottita. Praticamente tutti i mobili della sala, un divano, due poltrone, un tavolo da pranzo, erano rovesciati. Alcune sedie, lanciate in direzione dell'ingresso principale, erano a pezzi. Davanti al camino c'era un vaso rotto, i fiori di lupino che aveva contenuto sparsi, ormai flosci, nella pozza di acqua e frammenti di porcellana sparpagliati sul pavimento. I tappeti erano spostati e un quadro si era staccato dalla parete. Non dovrei essere qui, le balenò nel cervello. Dovrei andarmene immediatamente. Ma rimase dov'era, inchiodata al pavimento, a fissare il caos. Un gigante
era passato di lì, rovesciando, lanciando, fracassando oggetti. Affascinata, cercò di immaginare gli eventi che avevano causato quel disastro, la forza delle braccia che avevano spezzato lo schienale delle sedie. Avanzò cauta in mezzo al casino, muovendosi esitante fino al tavolo rovesciato. Scorse delle carte da gioco e dei bicchieri rotti sul lato opposto. La sensazione di trovarsi in un luogo dove non sarebbe dovuta entrare mise in moto l'adrenalina, facendola procedere più velocemente. Dietro una delle poltrone c'erano delle carte, stampate di computer su cui erano tracciate delle tabelle. Annika si chinò, ne prese una, lesse sottovoce: «"Schema di registrazione, programma 7, Estate al castello"». Scorse il foglio con gli occhi, era un documento di lavoro destinato alla troupe, ma il testo non le dava alcuna indicazione sulla persona a cui apparteneva. «"Titoli di testa, scritta, inserto filmato, diretta, stacco, musica, intro, ospite, scritta..."» Lo lasciò cadere in modo che finisse più o meno nel punto di prima. Si diresse verso il camino, mentre la luce di un lampo creava ombre nitide. Qualcuno è impazzito, pensò a disagio ma stranamente eccitata. Di fianco al vaso rotto spiccava un ammasso scuro. Annika si avvicinò in punta di piedi, pizzicò un angolo della stoffa, lo sollevò alla luce della finestra. Un indumento, nero. Una gonna leggermente umida, a causa della pioggia o dell'acqua del vaso. La lasciò ricadere. Si guardò intorno, fu colta da un'ispirazione e infilò la mano nella cenere del camino. Freddo, nessun calore della notte trascorsa. Si stava sfregando le mani per toglierne i frammenti di fuliggine e la polvere quando fuori il cielo esplose. Il tuono fece tremare l'intero edificio; i lampi, accecanti, la costrinsero ad appiattirsi atterrita contro la parete. L'elettricità e l'odore di zolfo saturarono l'aria e le pizzicarono la gola. Ora capisco perché la gente credeva a Tor, pensò. Un secondo dopo udì un rumore proveniente dall'ingresso sul lato opposto della sala. Paralizzata, fissò la maniglia e alla luce del fulmine successivo la vide abbassarsi. La porta si aprì lentamente. Trattenendo il fiato, in tre rapidi passi raggiunse la cucina e sbirciò dalla fessura tra porta e stipite. Era un uomo. Lo sconosciuto entrò rapidamente nella sala e si richiuse la porta alle spalle. Quando abbassò il cappuccio dell'impermeabile, Annika provò un sollievo tale che le gambe le tremarono. Quello stronzo! Che cosa ci faceva lì? Rimase nascosta dov'era e lo vide cercare e frugare in mezzo ai rottami. Si muoveva cautamente, fermandosi quando i tuoni erano più forti. Prendeva in mano, spostava, esaminava, scartava. Si piegava, guardava sotto
alcuni oggetti, ne sollevava altri, tastava con la mano infilandola negli angoli più bui. Quando si trovò a un metro e poco più dalla porta della cucina, Annika la spalancò e chiese: «Perso qualcosa?». L'altro si sollevò letteralmente dal pavimento, con un salto all'indietro. La sua faccia era bianca come il gesso, gli occhi atterriti, grandi come lanterne. Annika si appoggiò allo stipite, e non poté fare a meno di sorridere divertita. «Ma che...» esclamò il suo collega. «Da dove cazzo arrivi tu?» «Dal quotidiano "La Stampa della Sera"» rispose lei. «Hai parlato con Chiodo? È tutto il giorno che sbraita su di te.» «Come diavolo sei entrata?» «Cosa stai cercando?» Lui, fradicio di pioggia, ansimava. «Non sono cazzi tuoi.» Annika lo osservò. Non l'aveva mai visto in quello stato. Carl Wennergren era il fighetto della redazione, il fascinoso del giornale, il cocco della direzione, il figlio del presidente del consiglio d'amministrazione. Nel corso degli anni lui e Annika avevano avuto diversi scontri: lei considerava Carl immorale e viziato, e cosa lui pensasse di lei, lo poteva solo immaginare. In quel momento però lui non era né presuntuoso né particolarmente spaccone, il che gli giovava. «Accomodati» lo invitò al tavolo della cucina. «Hai parlato con Schyman o con qualcun altro al giornale?» Carl Wennergren la fissò. La paura cominciava a scemare. «No. Ero sotto interrogatorio.» «Fortuna che ci siamo incontrati adesso, allora. Così puoi raccontarmi quello che è successo ieri.» Il collega sbuffò, emettendo un verso che avrebbe dovuto suonare come una risata. «A te? E perché mai dovrei raccontare qualcosa proprio a te?» Certo che mi odia davvero, pensò Annika. Lo zolfo le pizzicava le narici. «Perché lavoriamo nello stesso giornale» ribatté, accorgendosi con disappunto che la voce le tremava. «Se adesso collaboriamo, abbiamo un vantaggio strabiliante sugli altri. Io so diverse cose, ma tu ne conosci molte di più. Insieme potremmo strutturare e passare in rassegna quello che possiamo pubblicare e quello che invece pregiudicherebbe le indagini. Questa sarà la notizia dell'estate, e con il tuo racconto potremmo battere tutti i concorrenti.» Alzò gli occhi sul collega e si morse il labbro rendendosi conto di averlo praticamente implorato.
«Certo che potremmo» replicò Carl Wennergren «però la mia storia è mia, non tua. Per quale motivo dovrei offrirti un titolone su un piatto d'argento?» Annika sentì montare la rabbia, il rifiuto si trasformò in un nodo allo stomaco. Il suo interlocutore sogghignò: la sicurezza di sé e la superbia erano tornate al loro posto. Annika fissò il proprio sguardo nel suo con le mascelle serrate. «Okay» disse alzandosi. «Non voglio trattenerti, sembravi presissimo là in mezzo a quei rottami. Vuoi che ti aiuti a cercare?» Si fermò, alzò gli occhi su di lui. «Anzi, sai cosa penso? Che la polizia l'abbia già trovato, qualunque cosa fosse.» Il ghigno gli morì sulle labbra. Lei gli passò davanti, prese la borsa e si diresse verso l'uscita sul retro. «Cosa vuoi sapere?» chiese lui. Annika si fermò e sollevò il mento. «Cos'è successo qua dentro, per esempio.» Carl Wennergren guardò verso la penombra del salone, deglutì con uno sforzo. «È successo un casino» mormorò. Lei si astenne dal commentare quell'affermazione scontata. «Sebastian Follin è entrato mentre Michelle e John Essex se la stavano spassando qui, ed è come impazzito.» «In che senso se la spassavano?» «Hai due figli, no? Immagino che tu sappia come si fa.» Lei sentì che le guance le s'infiammavano. «È stato Sebastian Follin a rovesciare tutto?» L'uomo abbassò gli occhi a terra. Lo vide stringere le mascelle senza comprendere il significato di quella reazione. Stava lottando contro la bugia o la verità? Contro l'imbarazzo di non sapere niente pur essendo stato presente? Cercava di coprire qualcuno? Era stato lui a sparare? Annika fece suo malgrado qualche passo indietro. Si rese conto che non avrebbe potuto accettare niente di ciò che lui le poteva raccontare. Si gettò la borsa sulle spalle, tirò fuori il cellulare e uscendo chiamò Berit. Quando parcheggiarono davanti alla locanda Loftet di Flen, il temporale cessò con la stessa velocità con cui era venuto. «Non è proprio il Grand Hotel» commentò Berit.
«Stai scherzando?» rispose Annika. «La mia vecchia ha organizzato qui la festa di compleanno per i suoi cinquant'anni. Dopo sosteneva di essere rimasta intossicata dal lombo di maiale che le avevano servito, ma noi sapevamo benissimo da cosa dipendeva il vomito.» Berit accennò un sorrisino storto. L'aria era molto più facile da respirare, adesso: il temporale l'aveva lavata, rendendola pulita e frizzante. I raggi obliqui e dorati della luce serale radevano l'asfalto. Il parcheggio era vuoto, a eccezione delle auto dei suoi colleghi. Al distributore della Statori sul lato opposto della Katrineholmsvägen vide alcuni ragazzi che parlavano. Li studiò per qualche secondo, con una sensazione di disagio. Tutti gli abitanti di Hälleforsnäs avevano sempre dovuto recarsi in autobus fino alla Stenhammarskolan di Flen, alle medie, e lì erano costantemente considerati i buzzurri della campagna. Quel senso di inferiorità era ancora radicato in lei e saltava fuori ogni volta che incontrava gente della sua età a Flen. Le sembrò di riconoscere almeno due dei ragazzi. Un attimo dopo si rese conto che quei giovani dovevano avere almeno dieci anni meno di lei. Buon Dio, le balenò nel cervello. Sto diventando vecchia. «Vuoi che vada a prenderti qualcosa da mangiare? Cotoletta o cotoletta?» Annika sorrise. «Con le patate arrosto?» «Oppure patate arrosto» aggiunse Berit. «Sali, hai la stanza numero tre. La chiave è nella porta. Io sono alla uno, Berra alla quattro...» La camera era squallida come il menu, ma c'era l'acqua calda. Si era appena rivestita quando Berit entrò con il vassoio. «Voilà, mademoiselle» scherzò la collega, appoggiando la cena sul comodino. «Perché sei ancora signorina, no?» Annika alzò gli occhi al cielo e si buttò sulla carne gommosa. «Ho parlato con Schyman e Chiodo» la informò la collega mentre lei masticava freneticamente. «Abbiamo concordato di dividere il più possibile il lavoro tra me e te. Su a Stoccolma ci sono alcuni del turno serale, ma sono sostituti e decisamente alle prime armi. È vero che John Essex era qui?» Annika bevve la sua Coca-Cola a lunghi sorsi, ricordando la propria frustrazione, quando era una sostituta, per non essere mai presa in considerazione e non risultare mai all'altezza. «Yes» rispose. «Pare che la pagina degli spettacoli stia andando al massimo. Si sono
lanciati all'inseguimento dei suoi compari per tutta Europa per ottenere delle dichiarazioni, quindi loro fanno la loro parte. Vediamo...» Berit cominciò a spuntare un elenco. «Ho ordinato dall'archivio tutti i pezzi su Michelle, in questo momento dovrebbero essere in viaggio. Oltre agli aspetti che riguardano le indagini dobbiamo fare una Michelle Carlsson story, dalla culla alla tomba.» «Da bimba indigente di periferia a stella televisiva del paese» mormorò Annika con la bocca piena. «Occhiello: La sua vita è stata come una favola triste.» L'altra sorrise. «Poi abbiamo la tragedia in sé» continuò. «Quando si spegne una stella, il mondo dello spettacolo sotto shock per l'omicidio di Michelle Carlsson. La caccia all'assassino, le piste della polizia, come è potuto accadere, e così via...» «Di questo posso occuparmene io» disse Annika tentando di staccare un filamento di carne che le si era infilato tra i molari. «L'arma del delitto apparteneva a uno degli ospiti, ce lo infilo dentro.» Berit annuì con aria ammirata. «L'ultima trasmissione, i dati relativi al programma, le riprese, gli ospiti... sai qualcosa in proposito?» «Molto poco, ma è facile. Dovrebbe esserci del materiale su nella redazione degli spettacoli. Se non altro l'addetta stampa di TV Plus dovrebbe poterci procurare qualcosa. Non sarebbe meglio che se ne occupassero quelli degli spettacoli?» «Proverò a sentire da Chiodo» rispose Berit prendendo appunti. «Vogliono un pezzo anche sul castello in sé, dicono che tu sai tutto in proposito.» «Be', proprio tutto no» replicò Annika scolandosi l'ultimo sorso di CocaCola. «Quante battute?» «Al massimo duemila. Per la caccia all'assassino, invece, puoi allargarti quanto ti pare. Che cos'altro avevi?» «L'ultima notte al castello, i dodici sopravvissuti.» «Esatto» confermò Berit, puntando la penna nel vuoto. «Sarebbe l'ultimo articolo di domani, oltre a quello su John Essex. Mettici tutto quello che hai, ma sii cauta con le formulazioni intorno a sospetti e assassini.» «Così ricordiamo Michelle, gli svedesi famosi che fanno le loro insulse e adoranti dichiarazioni?» «Di quello si occupano i sostituti del turno serale a Stoccolma» ribatté Berit. Si sentì bussare alla porta. La receptionist dell'albergo era nel corridoio con le braccia cariche di fogli. «Questa roba è arrivata via fax» disse fis-
sando con occhi sbarrati i titoloni. Berit le prese la pila di fogli dalle mani, chiuse la porta sul naso curioso della ragazza e sparse le carte sul letto matrimoniale. «Schyman voleva che dessimo un'occhiata a questo materiale prima di cominciare.» «Caspita!» esclamò Annika. «Possibile che abbiamo scritto tutta questa roba su di lei?» «Dove sei stata negli ultimi anni?» le domandò la collega. «Immersa nella farina lattea» ammise Annika tirando fuori un articolo dal mucchio. Risaliva a poco più di un anno prima e parlava del sensazionale contratto di passaggio dal canale popolare via etere all'emittente via cavo TV Plus, che in quel momento investiva alla grande. Michelle era strafelice e non vedeva l'ora di conoscere i suoi nuovi colleghi. Il manager Sebastian Follin, che aveva negoziato il contratto record, l'abbracciava nella gioiosa fotografia che corredava l'articolo. Sollevò a caso un altro ritaglio, un riquadro in cui Michelle risultava prima nell'hit parade degli spettatori da quindici settimane di fila. Sparpagliarono i fogli: gli articoli e i trafiletti più vecchi sul copriletto, sul pavimento quelli più recenti, che ben presto si macchiarono dell'umidità lasciata da scarpe e borse. Annika fu attratta da un riquadro con i dati relativi alla conduttrice: la sua breve vita riassunta in poche righe. Nata in Bielorussia, madre lettone, padre svedese. Cresciuta con il padre, addetto all'estrazione petrolifera, fino alla morte di questi, poi presso famiglie affidatarie. Liceo a Växjö, in seguito accompagnatrice turistica a Jönköping. Predilige la cucina giapponese, beve volentieri il vino, interessata a yoga e sport acquatici. Alla ribalta come nuova conduttrice di un talk show al femminile. «Tu lo sapevi che era un'immigrata?» chiese Annika. «Be', non era proprio un'immigrata» rispose la collega. «Deve aver abitato in Svezia dall'età di tre anni. Mi puoi passare quel mucchio per favore?» Glielo porse, si mise comoda e cominciò a scorrere gli articoli. Quelli antecedenti all'ultimo anno, in generale, parevano parlare di successi, premi, hit parade e bonari pettegolezzi. Dopo il passaggio alla nuova emittente, i toni si facevano più accesi. Il programma di Michelle non aveva assolutamente riscosso il successo sperato dalla direzione di TV Plus. Fonti anonime all'interno dell'azienda televisiva riferivano di perdite nell'ordine
di diversi milioni di corone e di ascolti in caduta libera. La stella stessa veniva improvvisamente criticata a causa di tutti, quegli aspetti che in passato le erano stati attribuiti come meriti. All'inizio veniva descritta come "spontanea", aggettivo che si trasformava in "svenevole". Ad "affascinante" si sostituiva "ridicola", a "disinvolta" "non concentrata". Un sindacato le era saltato addosso perché non si faceva pagare per partecipare a programmi d'intrattenimento alla radio e alla TV. "Capiamo benissimo che i soldi non le servano" dichiarava un sindacalista "ma così distrugge il mercato per tutti gli altri." Il ritaglio successivo parlava del responsabile di una radio che le rimproverava di aver fatturato cinquecento corone per ferie non godute dopo che aveva collaborato a un programma. "L'avidità di certe persone non ha confini" commentava. «Comunque ci si giri, ci si ritrova con il culo per terra» notò Annika. «Aspetta di vedere le cronache rosa» preannunciò Berit. Barbara Hanson, l'addetta alle pagine gossip del giornale, aveva sparso fiumi d'inchiostro per perseguitare Michelle Carlsson. Pretendeva che lei desse le dimissioni dal suo incarico di conduttrice televisiva come se fosse stata un politico. La incolpava di evasione fiscale quando i dati relativi alle sue dichiarazioni erano completamente errati. Ne criticava l'aspetto, la dizione, i compensi, la morale, la competenza e le frequentazioni. Le mazzate collettive avevano però cominciato a pioverle addosso solo quando Michelle aveva preso in mano un talk show che trattava di argomenti relativi alla società moderna, cosa che i critici televisivi trovavano indicibilmente ridicola. Quando, dopo sole cinque puntate, il programma era stato accantonato, la loro gioia maligna aveva toccato punte assurde. Il fiasco di Michelle era seguito da La caduta della regina della TV e da una lusinghiera foto promozionale con il titolo Il peggior affare della Svezia. Nell'articolo Highlander dichiarava che il passaggio alla sua azienda di Michelle Carlsson era visto come un investimento a lungo termine che avrebbe dato i suoi frutti con i giusti target nel giro di un paio d'anni. «Ma questa roba è da malati di mente» sbottò Annika lasciandosi cadere sulle ginocchia un mucchio di fogli. «Perché abbiamo scritto così incredibilmente tanto su questa donna?» Berit alzò le spalle, mise insieme alcuni ritagli e si sedette sul letto. Gli articoli scivolarono in direzione del suo sedere, finendo uno sull'altro. «Ci faceva vendere. Era conosciutissima, e all'inizio rivelava volentieri dettagli della sua vita privata, anche piccanti. Si prestava a farsi fotografare nuda e verniciata d'oro sulla copertina del supplemento settimanale; parla-
va di come aveva perso la verginità, riferiva delle saltuarie esperienze lesbiche avute al liceo; si rendeva disponibile per un reportage dal letto d'ospedale quando si era rotta una gamba... Insomma, hai capito.» «Ma non poteva tenere» constatò Annika. «Infatti.» concordò la collega, frugando tra i fogli. «Con il tempo ha cominciato a recalcitrare, cosa che la rendeva ancora più interessante. È stato allora che è diventata La VIP perennemente nei guai, il nuovo tormentone delle civette. Chiunque avesse qualcosa di negativo da dire su Michelle si ritrovava in prima pagina, e lei era costretta a rispondere. Credo che tu sia seduta sopra uno di quegli articoli... Ecco, proprio quello.» Annika afferrò uno dei fogli, lo scorse rapidamente con gli occhi. Un conduttore televisivo di mezz'età, di un canale concorrente, dava addosso a Michelle affermando che il suo programma era un flop, una montatura. Un milione di svedesi avrebbero saputo porre delle domande come le sue in televisione, diceva, ma ben pochi erano in grado di farlo come lui. «Che megalomane del cazzo!» commentò Annika, fissando la foto dell'egocentrico e abbronzatissimo conduttore. «Questi sono i pezzi per cui siamo stati querelati.» Berit le porse un mucchietto che aveva sistemato a lato del letto. «Dobbiamo leggerceli con una certa attenzione, in modo da sapere cosa evitare.» Annika abbassò gli occhi sui titoli a caratteri cubitali. MICHELLE CAELSSON - EVASIONE FISCALE? copriva tutta la prima pagina. La foto che corredava il pezzo mostrava Michelle Carlsson in una foto da passaporto che doveva risalire ad almeno dieci anni prima. Fissava atterrita l'obiettivo, pesantemente truccata e con i capelli acconciati in una pettinatura antiquata che non le donava. Pareva una ladra d'automobili, trovò Annika. All'interno del giornale i pezzi su di lei avevano occupato otto pagine. Erano stati scritti da Carl Wennergren. "Da stella omaggiata a evasore fiscale, la discesa di Michelle dall'olimpo della TV al tribunale di prima istanza" suonava l'originale tìtolo interno. Il giornalista riferiva che la conduttrice era oggetto di una complessa indagine riguardo a una compagnia di comodo collegata a una serie di società per azioni. L'azienda di sua proprietà, come diverse altre, era stata venduta e liquidata da una banda di criminali che la polizia definiva "i più abili farabutti del paese". Si sosteneva che Michelle l'avesse ceduta a dei malviventi per sottrarsi alle tasse, che ci avesse guadagnato dodici milioni di corone e che le fosse stato consegnato un avviso di garanzia per falso in bi-
lancio. Un commissario del dipartimento competente confermava nella sostanza la notizia, ma sottolineava che la proprietaria della società non era ancora stata incriminata. Entro la fine della settimana, ci si aspettava che l'imputazione sarebbe stata comunicata. Alla pagina seguente troneggiava un complesso grafico che illustrava come si erano svolti i vari affari e le varie transazioni. Annika sbatté le palpebre, lesse ma non capì praticamente niente. Accanto campeggiava un pezzo in cui si registrava l'indignazione suscitata tra i VIP della Svezia dall'avidità di Michelle che, in quanto stella della TV, avrebbe dovuto essere di esempio per le giovani donne. Secondo l'opinione comune, anche se non fosse stata condannata, era moralmente inaccettabile sfruttare le scappatoie offerte dalla legge. Nell'ultimo articolo la conduttrice veniva chiamata a rispondere sulla truffa e la conseguente evasione. La foto era stata scattata con una prospettiva tale da farla apparire immensa e grottesca. "Non so di cosa stia parlando" era la risposta che, a quanto riportato, aveva dato Michelle al reporter della "Stampa della Sera" Carl Wennergren. Le domande, stampate in grassetto tra le laconiche risposte, occupavano la maggior parte del testo. Diverse erano di argomento etico, come: "Ritiene giusto che le persone ricche commettano dei crimini per sottrarsi alle tasse?". Le risposte mostravano incomprensione e irritazione, Annika dubitava che Michelle avesse capito che sarebbe stata citata sul giornale. Alla domanda "In quale prigione preferirebbe scontare la sua pena?" evidentemente la giornalista televisiva ne aveva avuto abbastanza. A quanto riportato, aveva gridato: "Ma che cazzo le prende? È fuori di testa?". L'ultima frase era stata evidenziata e faceva da titolo all'intera pagina. «Be', ma scusa» esclamò Annika «questa me l'ero proprio persa! Com'è finito il processo? È stata condannata?» Berit emise un sospiro profondo. «Come vedi, Wennergren aveva una fonte sicura su tutta la truffa. Era riuscito persino a ottenere i numeri di registrazione all'Anagrafe delle aziende di diverse società coinvolte, ed è stato lì che qualcosa è andato storto.» «In che senso?» «Nessuno lo sa con certezza, ma in qualche punto della catena alcuni numeri sono stati scambiati.» Annika chiuse gli occhi. «Oh, no.» «Oh, sì. Non era affatto la società di Michelle Carlsson a essere coinvolta in una di queste operazioni illegali. Wennergren sostiene che o la polizia
o l'Anagrafe delle aziende hanno scambiato le matricole, e la direzione del giornale ha deciso di credergli.» «Ma il commissario?» chiese l'altra, che dava grande credito alle fonti interne della polizia. «Quando si sono parlati, né lui né Wennergren hanno fatto nomi. Si sono limitati a parlare della proprietaria sospettata.» «Ma non hanno controllato la sua identità?» «Secondo l'Anagrafe delle aziende si chiamava Karlsson, con la K, e come nome di battesimo c'erano le iniziali, M e B. Tra l'altro lei era solo una copertura, una malata di mente alla quale avevano dato un contentino in cambio della firma come proprietaria della società liquidata.» «Caspita!» commentò di nuovo Annika. «E il giornale come ci ha messo una pezza?» «È stata offerta a Michelle la possibilità di scrivere una risposta personale con la promessa di pubblicarla.» «Ma dai! Ma se era tutto sbagliato!» «Certo, ma pensa a come sarebbe venuta fuori bene. Se Michelle avesse formulato una risposta, avremmo avuto di nuovo dei titoloni sensazionali. Michelle Carlsson parla della sua evasione fiscale. Avremmo avuto, e gratis, un articolo della VIP più nota della Svezia, e quelli che si fossero persi la faccenda il giorno prima se la sarebbero sciroppata il giorno dopo.» «Sono stata via troppo tempo» constatò Annika. Berit alzò le spalle. «Naturalmente Michelle si è rifiutata di scrivere qualsiasi cosa, ha preteso che il giornale smentisse tutto e chiedesse scusa. Torstensson ha risposto con un no secco, sempre dell'idea che a Michelle dovesse essere offerta solo la possibilità di rispondere. Lei ha denunciato il giornale al garante dell'editoria, ma stranamente siamo stati assolti.» «Non può essere vero!» «Ricordati chi abbiamo come garante dell'editoria» disse Berit. «Un ex conduttore di Studio Sex, che non condannerebbe mai un giornale per qualcosa che ha scritto su un personaggio in vista.» «Ma come abbiamo fatto a farla franca?» «Le avevamo dato la possibilità di rispondere. Dato che non aveva accettato, la colpa era sua. La sentenza era piuttosto sarcastica, in effetti...» «E adesso invece ci ha querelato?» «Sì, ed è più che probabile che Torstensson perda la causa.» Annika lesse rapidamente gli altri articoli. Da quanto poteva capire, in entrambi i casi c'era il rischio di incorrere in diffamazione o diffamazione
aggravata. «La faccenda della madre è stata risolta con il patteggiamento» la informò la collega, raccogliendo i fogli. «Ma dimmi un po', com'è andata là al castello?» Annika si alzò, si sgranchì le gambe, piegò le ginocchia, si appoggiò alla piccola scrivania. «Una gran tristezza. In certi momenti è stato davvero spiacevole. Anne Sapphane aveva il cellulare acceso, abbiamo parlato un paio di volte. È sconvolta.» «E Wennergren?» Annika si rivide davanti il salone devastato, avvertì nelle narici l'odore di zolfo. «Mi ci sono imbattuta per caso in un'ala secondaria. Stava cercando qualcosa, ma non mi ha detto cosa.» «Carl dà sempre del filo da torcere. Ti ha raccontato qualcosa di tutto quello che è successo?» L'altra scosse la testa. «Hanno litigato un casino, questo sono riuscita a capirlo. La sala riunioni della scuderia era completamente devastata, e pare che Michelle se la sia spassata con John Essex.» Berit si fece rimbalzare la matita contro gli incisivi. «Cercava qualcosa, hai detto. Grande o piccolo?» Annika rifletté. «Piccolo. Ha frugato con le mani sotto una credenza, sollevava degli oggetti per guardarci sotto.» «Fogli? Blocco? Più piccolo? Può essere qualsiasi cosa. Sigarette. Accendino. Fiaschetta da giacca. Un indumento. Una rubrica telefonica. Un cellulare. Chi l'ha sfasciata la stanza?» «Carl sostiene che sia stato Sebastian Follin, ma non so se sia il caso di credergli.» Berit si alzò, scosse la testa rassegnata, si diresse verso la porta con il blocco in mano. «I telefoni non hanno dei numeri interni, qui. Bussa sul muro se hai novità.» Lasciò Annika nella stanzetta. Nello stesso istante in cui la porta si chiuse, la voce tornò. "Fanculo. Che madre del cazzo che sei." Estrasse il portatile dalla borsa, cercò una spina, la trovò dietro la tenda e accese il computer. Fissò senza vederle tutte le icone del Macintosh che si avviava. "Capita proprio a proposito, questa faccenda. Questa non te la perdono."
Prese la borsa, estrasse il cellulare, compose il numero di Thomas. Solo la segreteria telefonica, raschiante e fredda. Esitò, poi chiuse senza pronunciare una parola. Piazzò il cuscino sulla scomoda sedia davanti alla scrivania per ottenere una migliore angolazione per gli avambracci, appoggiò la testa alle mani per tre secondi e poi partì. Prima il breve articolo sul castello in sé, era il più facile. Poi mise insieme quel che sapeva sull'omicidio. Non era molto, ma nessun altro avrebbe reperito di più. Prima di cominciare con la lista di nomi chiamò Anders Schyman. «Uno di loro è l'assassino, no?» chiese lui. «Probabilmente.» Il condirettore emise un sospiro tale che lo si udì fino a Flen senza telefono. «Cavoli. Questo qui sarà un numero di equilibrismo della scuola più alta. A quanto si sa, stanotte lì non c'erano altre persone?» «No.» «Ma potrebbe essere arrivato qualcuno che poi è ripartito?» «In teoria, sì.» «In auto? Bici? Mongolfiera?» «Sì, o in barca.» «In barca! Suona bene. Metticelo. Il castello era raggiungibile via terra, aria e acqua. Chiunque sarebbe potuto venire ad assassinare Michelle.» «Nell'articolo di fianco c'è scritto però che Yxtaholm è talmente isolato che il governo lo usa per i negoziati segreti.» «Merda» imprecò Schyman. «Cestinalo.» Annika gemette tra sé e sé. «E su cosa punto? L'ultima notte al castello? Gli amici? I testimoni? Come li devo chiamare?» Schyman tacque un istante. «Tu cosa dici?» Annika deglutì, spinse l'auricolare nell'orecchio e lasciò correre le dita sulla tastiera. «La notte scorsa, al castello di Yxtaholm c'è stato un gran viavai di persone» cominciò assaporando le parole mentre scriveva. «C'erano ospiti delle varie puntate, giornalisti, musicisti, personale tecnico, amici e colleghi di Michelle Carlsson. "Chiunque avrebbe potuto raggiungere il posto nottetempo e poi andarsene, in auto o in barca" riferisce alla "Stampa della Sera" una fonte interna alla polizia.» «È vero?» chiese Schyman. «Più o meno» rispose lei, per poi continuare: «Nessuno è stato trattenuto al castello contro la sua volontà. "Le persone che si sono rese disponibili
per gli interrogatori l'hanno fatto spontaneamente, come contributo alle indagini che naturalmente vogliono facilitare il più possibile" riferisce il commissario Q. "La Stampa della Sera" è in grado di svelare i nomi delle undici persone che si trovavano ancora al castello la mattina della vigilia della festa di mezz'estate. Sono queste persone a essere state interrogate nel corso della giornata. Un dodicesimo testimone, John Essex, è stato sentito altrove...». «Ne sei sicura?» la interruppe il condirettore. «Sì. Poi mi limito a elencarli. Abbiamo le foto di tutti?» «Non della ragazza di Katrineholm, non ha né il passaporto né la patente.» «Be', l'auto la guida lo stesso» ribatté Annika. «Avete controllato le foto del catalogo scolastico alla Duveholmsskolan?» «Proverò a sentire.» Scese il silenzio e lei avvertì la stanchezza vibrarle nella testa. «Ho visto Wennergren» annunciò, sentendo che il condirettore trasaliva all'altro capo del filo. «Perché non l'hai detto prima?» Sorpresa e rimprovero. «Perché si è rifiutato di parlare con me» rispose Annika, lottando per tenere la voce sotto controllo. «Ha detto che la sua storia era sua. Mi ha chiesto perché doveva offrirmi un titolone da prima pagina su un piatto d'argento.» «Perché lavorate allo stesso giornale, magari?» Lei deglutì, vergognandosi di come era stata trattata, arrabbiata con se stessa per essere stata così remissiva. «Esattamente quel che ho ribattuto.» Rimasero di nuovo un istante in silenzio. «Te la sei cavata bene» la rassicurò Schyman. «Non prendertela troppo, per questa faccenda di Wennergren. Lo sai com'è fatto.» «E per quanto tempo ancora gli verrà permesso di essere fatto così?» chiese Annika, in tono piuttosto freddo. Il condirettore lasciò una pausa di mezzo secondo. «Manda gli articoli per e-mail direttamente a me.» La donna chiuse la conversazione. La giornata appena trascorsa le danzava davanti agli occhi. L'ob-van, il carro funebre, il salone sfasciato, la solidarietà appiccicaticcia di Pia Lakkinen, il viso di Thomas contratto in una smorfia. Finì di scrivere gli articoli, li spedì, spense tutte le lampade e s'infilò sot-
to le coperte. Rimase distesa al buio, osservando il fascio di luce dei fanali scorrere sulle pareti e ascoltando i veicoli passare lungo la statale 55, via da Flen, verso il mondo. Il sonno non voleva venire. Le immagini continuarono a danzare, ma a velocità ridotta a causa della stanchezza. Alla fine ne rimase una sola. Andò a prendere il cellulare e compose il numero, ascoltò la risposta della segreteria, attese il segnale acustico. «Ciao» sussurrò piano nel vuoto. «Ti amo. Sei il migliore del mondo...» SABATO 23 GIUGNO Giorno della festa di mezz'estate Il bosco alle spalle dell'ostello era una cortina rumoreggiante di fuoco. Si fece strada attraverso l'aria densa, oltre la salita dei Salström, giù verso l'emporio. La vegetazione aveva cambiato colore, sfrigolava, lilla, nell'arsura; lo spoglio paesaggio era stato cancellato, diventando aspro e contorto. Le rocce gli bruciavano i piedi, si precipitò verso il mare e la frescura, sapeva che la risposta era nell'acqua, la salvezza, se solo fosse arrivato alla spiaggia la minaccia si sarebbe dissolta, Gällnö sarebbe stata salva, le case sarebbero risorte, il refrigerio l'avrebbe calmato e rinfrescato. Ma quando arrivò al bagnasciuga, il mare ribolliva. L'acqua spumeggiante sapeva di zolfo e di fuliggine, gorgogliava come lava, si allungava per carpirgli i piedi... Thomas si svegliò di soprassalto. Il sole gli inondava il viso, quando aprì gli occhi ne rimase abbagliato, i capelli bagnati di sudore. Era steso sul divano del soggiorno dei genitori, rigido e indolenzito, completamente vestito. Il peso all'altezza dei piedi, che penzolavano oltre il bracciolo, gli rivelò che non si era neanche sfilato gli stivali di gomma. Il sogno era rimasto sospeso come un drappeggio puzzolente nel suo cervello. Deglutì, avvertì il gusto di fuliggine e fuoco. Merda, pensò. Merda. Si alzò a sedere, pensò che la testa gli sarebbe scoppiata. Mai più. Nemmeno una birra. Il suono di voci infantili penetrò nella stanza, cavalcando la corrente da una finestra aperta, gli fece venir voglia di piangere. Era un padre inqualificabile. Delle immagini gli balenarono nella coscienza, brevi sequenze con il volume troppo alto. Lui che cantava, schiamazzava, cadeva, percepiva oscuramente la riprovazione dell'ambiente circostante, passi che si allontanava-
no. «Ah, ti sei svegliato» disse sua madre dalla porta della cucina. «Bene. Allora puoi cambiare tua figlia. Ha fatto la cacca.» Alzò gli occhi sulla donna, il tono secco si rispecchiava nel viso. Con le labbra strette e pallide gli piazzò Ellen sulle ginocchia. La puzza del pannolone gli colpì violentemente il naso, per poco non vomitò. «Certo» affermò respirando a bocca aperta, ma la madre era già fuori. La bambina piagnucolava, voleva alzarsi in piedi sulle sue ginocchia. Thomas tentò di sollevarsi dal divano, perse l'equilibrio, dovette darsi nuovamente la spinta. Barcollò poi in direzione del bagno, una mano intorno alla piccola, l'altra, a mo' di sostegno, contro la parete. Si tolse gli stivali con un calcio. Stese un asciugamano sul fasciatoio e appoggiò delicatamente la bambina. Ellen lo guardò negli occhi, si mise a ridere. «Papà» gridò. «Pa-pa-papà.» Lo accarezzò sul naso, Thomas sorrise, staccò gli adesivi che tenevano fermi il pannolone, arretrò sentendo l'odore. La bimba tentò di voltarsi sulla pancia nello stesso momento in cui lui sfilava il pannolone e sporcò l'asciugamano sotto. «Ellen, non muoverti adesso.» Dovette tenerle ferma una gamba per impedirle di alzarsi sporcandosi, ma la piccola si mise a gridare. Il sudore cominciò a imperlargli la fronte. «Dai, piccolina, aspetta che adesso il papà...» Ellen però girò l'altro ginocchio finendo per immergerlo nel pannolone sporco. Lui chiuse gli occhi e deglutì. Ora gli toccava farle il bagno. Risolutamente prese la figlia sotto la pancia, buttò il pannolone nel cestino sotto il lavello, si avvicinò alla vasca e aprì la doccia. Solo acqua fredda. Aprì la finestra del bagno, scorse sua madre con Kalle sulle sedie del giardino. «Mamma!» la chiamò cercando di sovrastare il rumore della doccia. «Non c'è acqua calda!» «Si vede che è finita» rispose lei girando la testa. «Eleonor si è fatta la doccia.» Thomas sbatté le palpebre un paio di volte, impietrito sul bordo della vasca con la bambina che gli sgambettava sotto il braccio. Eleonor? Lì? Senza riflettere oltre infilò sotto il getto Ellen, che si mise a strillare a squarciagola non appena l'acqua gelida le bagnò sedere e gambe, divincolandosi come un verme per liberarsi. Per poco Thomas non la fece cadere,
aveva il sudore che gli annebbiava gli occhi. Una volta lavata e asciugata, la bambina gli lanciò un'occhiata di totale sfiducia, di promesse disattese. Non voleva stargli in braccio. Si allontanò ballonzolando, verso la veranda. Lui allora si sedette sul pavimento dell'ingresso, appoggiò la testa alle mani, con le arterie che gli bruciavano per la disidratazione. «Thomas!» urlò sua madre da fuori. Un secondo dopo udì qualcosa rimbalzare lungo i pochi gradini della veranda, qualcosa di piccolo e morbido. S'irrigidì in tutto il corpo, smise di respirare, mentre la madre si metteva a gridare. «O, Dio santo, Ellen, ti sei fatta male?» Uno strillo lacerante gli penetrò nel cervello. Si precipitò fuori, di slancio, vide la figlia stesa sulla ghiaia ai piedi della scala. Sua madre stava accorrendo, zoppicando sull'anca malata, lo sguardo turbato e ostile. «Ma che cosa combini, Thomas? Non sei capace di badare a tua figlia?» Saltò i gradini d'un balzo, arrivò prima della madre, sollevò Ellen, tremando in tutto il corpo. Si era ferita la fronte, il sangue le colava negli occhi, piangeva al punto di non riuscire a prendere fiato. «Scusami» sussurrò lui, mentre lacrime di vergogna gli salivano agli occhi. «Scusami tesoro mio, perdona il papà, ti sei fatta male...» Soffiò sul taglio, la cullò, imbarazzato e a disagio. La madre andò in bagno a cercare il disinfettante. Oltre la spalla della bimba Thomas vide Kalle seduto sul dondolo con una ciambellina in mano e del succo davanti, triste e confuso. Il figlio incrociò il suo sguardo, lasciò cadere la ciambellina nell'erba e decise di scendere dal dondolo. Scavalcando il bracciolo diede un calcio al suo bicchiere e alla tazza di caffè della nonna. «Credi che ci vogliano dei punti?» chiese la madre, tendendo verso la fronte della nipotina una compressa imbevuta di disinfettante. Lui la prese e tamponò delicatamente la ferita, mentre la piccola cercava di girare la testa. «No» rispose con la voce impastata «è solo un'escoriazione, niente di profondo.» Lentamente, il pianto si esaurì, lasciando come unico strascico dei singhiozzi isolati che scuotevano di tanto in tanto il corpicino. «Papà, anche io mi sono fatto un po' male, qui» disse Kalle tendendogli la manina sporca di succo e di zucchero. «Oh, oh, allora dovrò soffiare un po' anche lì» disse Thomas. «Posso finire di soffiare sulla fronte della sorellina, prima?»
Il bambino annuì e gli afferrò una gamba dei pantaloni. «Ciao, Thomas» lo salutò una voce alle sue spalle. Il cuore gli si fermò. Chiuse gli occhi. Avrebbe voluto morire. Inspirò profondamente e silenziosamente. «Ciao, Eleonor» disse voltandosi. La prima cosa che notò furono i capelli. Li aveva tagliati corti e un po' scalati, si era fatta qualche mèche. Era più alta di come la ricordava, più morbida. Santo cielo, pensò. Quanto è bella. La donna con cui era stato sposato per tredici anni gli tese la mano, sorrise. «Mi fa piacere vederti.» Thomas spostò la bambina al braccio sinistro e le strinse la mano. Era calda e asciutta. «Anche a me.» «Dunque questi sono i tuoi prodigi» si complimentò la donna sorridendo ai bambini, la voce assolutamente priva di amarezza. «Kalle ed Ellen» li presentò Thomas. Lei gli sorrise negli occhi, il sole le fece brillare i capelli, lo sguardo scuro e caldo. «Sì» disse. «Lo so.» Dalla casa dei genitori uscì un uomo che le si piazzò dietro, un po' spostato di fianco. Lei gli mise la mano sul braccio nudo. «Questo è Martin.» «Piacere» fece lo sconosciuto tendendo una mano abbronzata e robusta. Thomas sorrise fino a farsi dolere le mascelle. Martin? E chi diavolo era? «Tu ti trovavi già nel mondo dei sogni, ieri, quando Eleonor e Martin sono arrivati» lo informò la madre in tono vagamente acido, dando una pacchetta sul braccio di entrambi i suoi ospiti mentre, oltrepassandoli, si avviava verso casa. «Lo volete un caffè, vero?» Thomas si scusò e si rifugiò in bagno con la bambina, la mise per terra mentre cercava dei cerotti nell'armadietto. Quando vide la propria faccia riflessa nello specchio trasalì: era rossa e in fiamme, gli occhi sfuggenti e iniettati di sangue, i capelli unti, la barba lunga. Gli bruciava il palato, riempì un bicchiere di acqua gelida e bevve avidamente. «Papà» lo chiamò la bambina ai suoi piedi, battendogli una manina sulla gamba e alzando gli occhi su di lui, con il suo sorriso a otto denti. Thomas staccò la protezione di carta dal cerotto, si chinò, scostò una ciocca di capelli dal viso della piccola, glielo applicò sulla fronte. «Ellen» sussurrò. «Ellen di papà.» La strinse a sé, ne avvertì il calore, ne aspirò il profumo dolce. «Papà» lo chiamò lei e gli mise le braccia al collo.
«Gunnar Antonsson?» Il tecnico si alzò in piedi di scatto, non aveva udito la donna aprire la porta. «Mi chiamo Karin Lindberg» si presentò lei, tendendogli la mano. «Pubblico ministero, giudice per le indagini preliminari di quest'inchiesta. Posso sedermi?» L'uomo si ricompose, annuì e indicò il letto, raddrizzandosi sulla sedia. Il pubblico ministero si lisciò la gonna e si sedette accavallando le gambe, con le mani appoggiate sulle ginocchia. Una donna elegante, pensò lui. «Mi è sembrato di capire che è della massima importanza che il sequestro del suo trailer duri il meno possibile» esordì. Lui annuì di nuovo, senza curarsi di correggerla riguardo al tipo di veicolo. «Mi può spiegare come mai è tanto importante per lei?» Gunnar Antonsson deglutì rumorosamente, sentì il pomo d'Adamo sussultare, cercò le parole. Non si trattava solo dei soldi, ma anche dell'amore in sé, della vita, in un certo modo. Quella sera avrebbe avuto luogo il concerto a Dalhalla. Avrebbe potuto trovarsi seduto nella balconata dell'anfiteatro naturale, a godere dell'energia della musica mentre il denaro affluiva copioso nelle casse aziendali. Quell'idea gli provocò una collera bruciante nel petto. «È che le cose non vanno per il meglio. Per la società, intendo. Abbiamo lavoro sino alla fine della settimana prossima. Poi l'agenda è vuota. Dobbiamo portare a termine questi incarichi, altrimenti...» Tacque, spostò lo sguardo oltre la finestra. Michelle gli sarebbe mancata. Si era mostrata sinceramente interessata al van, aveva ascoltato le sue spiegazioni riguardo all'attrezzatura e alle sue caratteristiche. Si era sforzata di capire, desiderosa di sondare le possibilità e gli ambiti di applicazione. Il fatto che avesse dedicato del tempo a lui, un tecnico, aveva irritato alcuni degli altri componenti della troupe. «Ho parlato sia con i tecnici che con gli investigatori» mormorò il pubblico ministero «e cercheremo di portare a termine le rilevazioni nella maniera più approfondita e sistematica in modo che il camion possa essere restituito già all'inizio della settimana prossima. In effetti, nonostante tutto, lo spazio è piuttosto limitato. Purtroppo dobbiamo anche mettere sotto sequestro ed esaminare tutto il materiale delle registrazioni, potrebbe esserci qualcosa di utile per le indagini.»
Il responsabile operativo si schiarì la voce. «Di utile, per individuare l'assassino?» Il pubblico ministero sorrise, aveva il rossetto lucido. «Già, chi lo sa? Magari qualche particolare è stato captato da una telecamera.» Lui scosse lentamente la testa. «No. Non è così. Abbiamo smantellato tutto il set appena concluse le riprese. L'attrezzatura è stata messa via e assicurata sotto la mia direzione. Dopo le 22.45 non erano rimasti collegamenti che potessero registrare alcun tipo di informazione.» «Come fa a esserne così sicuro?» L'irritazione lo faceva sudare e sentire a disagio. «Tutte le telecamere, i microfoni, i diffusori, i collarini erano stati messi via in casse di zinco e caricati negli appositi scompartì. Non restava un singolo apparecchio elettronico, né nel castello né sul van, in grado di captare o registrare un solo suono.» La donna lo fissò a lungo, rendendolo insicuro. Il silenzio lo indusse a parlare, le parole gli uscirono troppo precipitosamente, accavallandosi. «Ho messo via le attrezzature di quel van cinquecentotrenta volte, e non mi sono mai dimenticato nemmeno un oggetto. Alle otto di ieri mattina sarei dovuto partire da qui. L'unica cosa che restava da fare era azionare il meccanismo idraulico per chiudere il lato espandibile...» Si zittì di nuovo, si alzò e andò alla finestra, studiando il grosso mezzo. Incredibile quante possibilità si aprivano per le trasmissioni, video e audio, grazie alle nuove tecnologie, sia per le produzioni d'autore che per i programmi di infimo livello. L'era digitale, con video e audio su dischi fissi invece delle vecchie cassette, tutti i trucchi possibili, e anche tutti i possibili errori fatali. Un nastro rotto poteva essere incollato da chiunque. Un encoder che saltava poteva invece mandare in malora un'intera serie di trasmissioni, solo per colpa di un bug in un programma che qualcuno aveva messo insieme nel lontano Giappone. Quanto a lui, lavorava sempre con la cintura di sicurezza. A nessuno importava mai un fico secco, i suoi sforzi non valevano niente fino al giorno in cui si ritrovavano lì con la cassetta betacam rotta e i computer in tilt. Allora sì che s'interessavano, eccome, si strappavano i capelli e maledicevano innanzitutto la tecnologia, e poi lui. Michelle invece no. Chiedeva sempre: "Come sono venuta sul nastro oggi?". E lui passava sempre in rassegna con lei i risultati, raccontava e spiegava. Anche il pubblico ministero si alzò, si piazzò dietro di lui, vicina. Non era solo bella, era anche alta. «Il commissario vuole parlarle un'altra volta»
lo avvertì. «Poi, da parte nostra, non ci sono altre richieste.» Gunnar si voltò, avvertì il sentore del suo profumo. «Cosa?» chiese. «Può andare a casa» gli spiegò lei. «Ma...» obiettò il tecnico «e il van? Io non ho l'auto qui.» Il sorriso della donna si fece forzato. «Magari qualcuno può darle un passaggio, oppure potrà prendere un taxi.» Dopo che se ne fu andata, l'uomo rimase dov'era a fissare la porta chiusa, cercando di capire le conseguenze di quella visita. Primo: la settimana prossima avrebbe riavuto il van. Forse il lavoro in Danimarca poteva essere salvato. Secondo: aveva il permesso di andarsene di lì. Ciò doveva significare che non era sospettato dell'omicidio. Si sentì enormemente sollevato. Annika prese in consegna l'auto di servizio di Berit alla stazione ferroviaria di Flen, stazione terribilmente sovradimensionata rispetto alle esigenze del paesino poiché al tempo del principe Guglielmo era la fermata di rappresentanza per gli ospiti diretti al castello di Stenhammar. Non c'era motivo di aspettare in due per tutto il giorno che i testimoni uscissero da Yxtaholm. Insieme al cadavere, alcune parti dell'inchiesta giornalistica si erano trasferite a Stoccolma: l'autopsia del medico legale, la prospettiva John Essex, il lutto del mondo dello spettacolo, e così via. Dato che Annika la sapeva lunga sul luogo del delitto, la ripartizione dei compiti era stata scontata: a lei spettava Flen e Berit sarebbe tornata al giornale in treno. «Laggiù il circo sarà senz'altro diminuito, oggi» tentò di confortarla la collega prima di scendere dall'auto, anche se non avevano discusso della cosa. Aveva ragione. Le transenne all'ingresso del viale erano sparite, così come le guardie. Annika poté proseguire indisturbata fino al parcheggio. La salita che portava al castello vero e proprio, gli edifici e il parco erano ancora transennati, ma intorno alla scuderia, alla serra e alla dépendance i giornalisti potevano muoversi liberamente. Bertil Strand era già lì, c'erano anche il reporter e il fotografo del "Concorrente" e tre troupe della televisione di stato: sopportabile, insomma. Affrontare i testimoni si prospettava un compito sgradevole, e la calca avrebbe peggiorato le cose. L'aria era limpida e rarefatta, leggera e gioiosa dopo l'ira del temporale, fresca senza risultare fredda. Il sole faceva rilucere tra le betulle, bianchissimo, il castello, inaccessibile dietro il nastro della polizia che ondeggiava
lentamente. Si fermò vicino alla macchina, si appoggiò al bagagliaio e sentì il freddo del metallo penetrare attraverso i pantaloni. Sarebbe potuta benissimo restare lì tutto il giorno senza perdersi niente. Tutti coloro che fossero usciti dal castello sarebbero stati, costretti ad attraversare il ponte sul canale. Le loro auto erano sparse intorno a lei. Il Långsjön scintillava liscio, la superficie pigra appena increspata dalla brezza leggera. Le foglie, ancora sottili e trasparenti, frusciavano e sussurravano. Le pecore gironzolavano a valle, lanose e ben pasciute. Annika chiuse gli occhi, respirò, avvertì rallentare il battito cardiaco. Un insetto le ronzò davanti al viso, l'odore penetrante di terra bagnata nel naso. Devo ricordarmi di riconsegnare la barca all'Ansgarsgården, pensò. Il primo a uscire dall'ala sud con il proprio bagaglio fu un uomo di mezz'età, vestito con cura e vagamente perplesso. Davanti al nastro bianco e blu della polizia esitò come se si trattasse di un ostacolo per lui, non per i giornalisti sul lato opposto. Annika rimase dov'era, in attesa, lasciando che il sole giocasse con quell'immagine. Vide il reporter del "Concorrente" chiedergli qualcosa con il blocco in mano. L'uomo, restio, alzò una mano, lo sguardo a terra. La televisione nazionale lo filmò a distanza, senza accennare a farsi avanti. Dopo un minuto il reporter del "Concorrente" si tirò indietro, l'uomo si avviò lungo il vialetto. Cinquant'anni abbondanti, leggermente tarchiato, camicia scozzese ben stirata. Annika si spolverò il fondo dei pantaloni, seguì l'uomo dalla parte opposta del muretto. Si fermò, guardandosi intorno con aria impotente. Annika si fece avanti. «Scusi. Mi chiamo Annika Bengtzon e sono della "Stampa della Sera". Posso aiutarla in qualche modo? Le serve un passaggio?» Il volto confuso dell'uomo si aprì in un sorriso sollevato. «Sì. Devo tornare a casa. Il van deve restare qui.» Lei annuì, infilò le mani in tasca, guardò verso il lago. «Le hanno detto fino a quando?» «Forse fino all'inizio della settimana prossima. Martedì avrei un lavoro in Danimarca, ho già l'autorizzazione e tutto.» Si era infervorato, adesso. Appoggiò la valigetta sulla ghiaia. «Sa, è proprio al limite, quanto a misure. Venti metri di lunghezza. Siamo costretti a chiedere una deroga per poter girare in alcuni paesi europei. La Danimarca è chiusa al transito, possiamo andarci solo se ci dobbiamo lavorare, ma quando si tratta di rag-
giungere il continente ci tocca prendere il traghetto per Sassnitz.» Annika sorrise, sempre rivolta al lago. «L'accompagno alla stazione di Flen? I treni per Stoccolma partono ogni ora, più o meno.» L'uomo sbarrò gli occhi, prese la valigetta. «Non occorre» rispose, alzando una mano in un gesto che riassumeva la sua personalità: riservato, compassato. «Mi arrangio.» «Non è un problema» lo rassicurò. «Ho qui la macchina.» Senza attendere le sue proteste tornò al parcheggio, saltò sull'auto, colse con la coda dell'occhio la figura dinoccolata del giornalista del "Concorrente" e partì lungo il viale. «Si accomodi» lo invitò aprendo la portiera dal lato del passeggero. «Salga pure.» L'uomo ubbidì, sedendosi con la valigetta sulle ginocchia. «Anne Sapphane, che è una mia amica, mi ha parlato molto di lei» cominciò Annika. Lui sbatté gli occhi confuso. «Davvero? Anne?» «Sì, della professionalità con cui gestisce il van, del fatto che è una roccia, per la troupe. Gunnar Antonsson, non è vero?» L'uomo sbatté le palpebre e poi annuì. «Sono il Technical Operation Manager dell'ob-van numero cinque» si presentò. «Il responsabile per la gestione del mezzo.» Lei si guardò intorno e svoltò poi sulla statale 55. «C'era anche lei quando è stata trovata, vero? Dev'essere stato terribile.» Gunnar sbatté ripetutamente le palpebre, il mento si contrasse in una smorfia che poteva essere interpretata come pianto trattenuto. «Michelle era una brava ragazza. Non lasci che altri sostengano il contrario.» «Perché, qualcuno potrebbe farlo?» domandò la giornalista. Il responsabile operativo fece un profondo sospiro, armeggiando con la valigetta. «I giornalisti ce l'hanno sempre con il conduttore. Trovano costantemente i difetti e mai i meriti. Tutti vogliono comparire sullo schermo, è questo il problema.» «Lei però no?» L'uomo riuscì a sbottare in una risatina. «No, io no. Sarebbe proprio bella.» Svoltarono verso Flen, oltrepassando l'incrocio per Hälleforsnäs. «Ho dato un'occhiata nella scuderia» gli raccontò. «Pareva che ci fosse stata una rissa, dentro. C'era anche lei?» L'uomo scosse la testa. «Dovevo alzarmi alle sette, far colazione, chiudere il van e partire per la Dalecarlia. Sono andato a letto dopo E.R. Medici
in prima linea.» «Dunque durante la notte non ha sentito niente?» chiese Annika rallentando in vista dell'unico semaforo del paesino. Il viso di Gunnar Antonsson si chiuse, assente. «Non aveva i pantaloni» disse perplesso. «Nemmeno le mutandine.» Annika gettò un'occhiata verso l'uomo, che sostenne il suo sguardo. «Lei riesce a capire cosa ci faceva sul van senza mutande?» Vide scorrere sulla propria retina le immagini come attraverso una telecamera, scosse la testa e frenò. «Eccoci arrivati. Spero che non debba aspettare troppo a lungo.» «Grazie per il passaggio» disse lui educatamente. Le strinse la mano, si lisciò i capelli e scese dall'auto. Schyman si stava dirigendo verso il suo ufficio, di ritorno dalla macchinetta del caffè, quando udì delle voci concitate provenire dalla reception. Non riusciva a distinguere le parole, ma qualcosa nell'intensità del modo di parlare e nel dialetto marcato lo indusse ad andare a vedere. Tore Brand era in piedi di spalle, le mani sui fianchi, la testa protesa in avanti. Di fronte a lui si trovava un uomo alto, con il viso rosso fuoco, sul punto di esplodere di rabbia. «Sarebbe proprio bella» stava dicendo il portiere «che facessi entrare cani e porci a loro piacimento!» Schyman appoggiò una mano sulla spalla del portiere. «È tutto a posto» disse tendendo la mano al presidente del consiglio d'amministrazione del giornale. «Anders Schyman, condirettore. Cosa posso fare per lei?» Tore Brand sbuffò e tornò al suo gabbiotto dietro il banco della reception. Herman Wennergren spiegò un giornale che aveva tenuto fino a quel momento sotto il braccio. «Voglio parlare con Torstensson» sentenziò. Il condirettore sospirò con aria preoccupata. «Non è ancora arrivato.» «Allora voglio parlare con il direttore responsabile.» Schyman alzò leggermente le sopracciglia. «Ma è Torstensson, ieri come oggi. Venga da me, per il momento. Gradisce una tazza di caffè?» Il presidente del consiglio d'amministrazione del giornale ignorò la domanda. «Avete parecchio da spiegare» replicò mettendogli davanti le due pagine più dense di notizie di attualità, la sei e la sette. Contenevano l'esercizio d'equilibrismo di Annika Bengtzon sui dodici testimoni del castello. «Nel mio ufficio» lo invitò Schyman con lo stesso tono autoritario che usava quando qualcuno dei dipendenti si metteva a fare ostruzionismo in
pubblico. Mentre si dirigeva verso il gabbiotto nell'angolo, ebbe l'impressione che il pavimento ondeggiasse leggermente. A quanto ne sapeva lui, Herman Wennergren non aveva mai messo piede in redazione prima di quel giorno. «In cosa posso esserle utile?» chiese indicando al presidente una delle poltroncine per i visitatori al suo interlocutore. L'altro rimase in piedi. «Come cazzo è possibile che si attribuisca a mio figlio l'etichetta di assassino? E sul nostro stesso giornale, per giunta!» Il condirettore inspirò, pronto a fare ricorso alle consuete parole di giustificazione, a evidenziare le circostanze che chiarivano perfettamente come suo figlio non fosse affatto descritto come un assassino ma come un eroe, a sottolineare la differenza tra le parole "testimone" e "indiziato", quando improvvisamente successe qualcosa. Un'idea, cristallina e purissima nella sua genialità, campata per aria ma alimentata e incrementata da mesi e anni di frustrazione e impotenza. Un attimo dopo, le argomentazioni a sfavore, gli scrupoli morali, i rischi, le conseguenze. Inspirò ancora una volta e respinse i dubbi. «Mi dispiace molto» cominciò. «Vorrei poterle fornire una spiegazione convincente. Ma le decisioni del tipo a cui si riferisce lei, come la pubblicazione di nome e foto di indiziati o criminali, ricadono solo e unicamente sotto la responsabilità del direttore.» «Ma come osate?» ruggì Herman Wennergren mettendosi a passeggiare agitato su e giù per lo stretto spazio tra la libreria e le poltroncine. «Dipingere mio figlio come un indiziato, e anche la sua fidanzata. Carl e Mariana von Berlitz sono due giovani rispettabili, possiamo querelarvi per questa faccenda. E dove l'avete trovata quella vecchia foto di Carl? Sembra un gangster!» Schyman si sedette lentamente sulla poltrona. «La foto è quella che mettiamo sempre accanto al titolo dei suoi articoli, l'ha scelta Carl stesso. Quanto alla questione dell'opportunità di pubblicare le notizie, purtroppo devo rimandarla a chi ne è responsabile.» Il presidente del consiglio d'amministrazione, abituato a esercitare potere e influenza, non si dava per vinto tanto facilmente. «E voi altri, allora? Questa Annika Bengtzon, che razza di essere umano è? Come fa a scrivere delle sciocchezze del genere?» «I nostri reporter sono la nostra fanteria» ribatté Schyman. «Tengono l'orecchio incollato al terreno e riferiscono ciò che sentono. Non sono loro a decidere cosa si deve scrivere o stampare. Questo può farlo solo il direttore. Ma sono d'accordo con lei sul fatto che quell'articolo è un esercizio
d'equilibrismo. Il direttore responsabile avrebbe potuto benissimo discuterne con noi.» «Intende dire che non l'ha fatto?» «Né con me né con la giornalista.» «Telefoni a questo stronzo. Adesso!» Schyman si alzò, prese la cornetta, compose il numero del cellulare del direttore. Per la prima volta dall'inizio del lungo fine settimana di mezz'estate. Torstensson rispose dopo il terzo squillo. «Meno male che l'ho trovata, Torstensson» esordì Schyman, incrociando lo sguardo del suo ospite e indicando significativamente il ricevitore. «C'è un problema di cui dobbiamo discutere. Che ne pensa del giornale di oggi?» Nel coacervo di rumori in sottofondo si distinguevano il tintinnio di posate contro le stoviglie, chiacchiere e risate, il suono distante di una fisarmonica. «Non l'ho ancora letto» rispose l'altro. «Perché, c'è qualcosa in particolare?» «Ah» fece Schyman tenendo lo sguardo fisso negli occhi di Herman Wennergren. «Okay. Abbiamo avuto delle reazioni alle prime due pagine della cronaca, la sei e la sette. Le foto dei testimoni al castello.» «Quali testimoni?» La voce del direttore era disinteressata, pareva stesse prestando ascolto a una discussione che si stava svolgendo al suo tavolo. «Certo, le decisioni di questo tipo si possono sempre mettere in discussione» improvvisò il condirettore lentamente, voltandosi a guardare la redazione dalla vetrata. «Forse varrebbe la pena di fare una valutazione della procedura.» «Ma di che diavolo parla?» sbottò la voce dall'altra parte del filo, questa volta più vicina all'apparecchio. Schyman attese un attimo, annuì rivolto al silenzio, poi scosse la testa. «Non sono d'accordo. Ritengo invece che questa discussione sia pertinente e importante.» La confusione di Torstensson stava cominciando a trasformarsi in rabbia. «Ma che cazzo si sta inventando?» Schyman udì una sedia grattare il pavimento, le voci e i rumori di piatti attutirsi. «Credo anch'io che si debba andare avanti, ma non è detto che riflessione e ponderatezza debbano essere in contrasto con ambizione e determinazione.» «Mi sta prendendo in giro?» Adesso il direttore era furibondo. I rumori
di cucina erano stati sostituiti dal fischio del vento nel microfono. «Per niente» rispose Schyman. «Nemmeno per sogno. Ma il fatto è che Herman Wennergren è qui, e ha da esprimere il suo punto di vista sulle decisioni editoriali relative al giornale di oggi.Vuole parlare con lui?» «Io? Adesso?» «Lo immaginavo. Glielo passo.» Schyman tese il ricevitore a Wennergren, con il cuore che gli galoppava, trattenuto, nel petto. Sentì che la mano del presidente era calda e umida. «Dover leggere una cosa del genere» esclamò il presidente del CdA «sulle pagine del mio stesso giornale è uno scandalo, ecco cos'è! Una vergogna!» Il condirettore deglutì, aguzzò le orecchie, si concentrò per evitare di fissare l'uomo. Delle risposte di Torstensson non udì nemmeno una parola. «Carl!» gridò Wennergren, rosso in faccia. «Lei ha dato dell'assassino a mio figlio sul giornale di oggi! Come giustifica questo fatto?» Silenzio, una vena che pulsava sulla tempia dell'uomo. «Che cazzo dovrei intendere, se non questo?» tuonò nel ricevitore. Schyman esaminò la polvere sul vetro. «Insomma, lei è o non è il direttore responsabile?» Il presidente del consiglio d'amministrazione prese il giornale dalla scrivania, lo sfogliò. «In questo momento sto guardando il colophon. Significa che lei non prende sul serio il suo incarico?» Schyman girò la testa, chiuse gli occhi, respirò con la bocca aperta. O la va o la spacca, pensò. Il silenzio durò a lungo. Quando il presidente del consiglio d'amministrazione parlò, la sua voce era più calma. «Bene. Certo. Non vedo l'ora» tuonò e sbatté giù la cornetta. Schyman si voltò. Il viso di Wennergren era nero di rabbia. «Lei cospira contro il suo direttore?» gli domandò questi. L'altro sospirò e si sedette dietro la scrivania, si appoggiò allo schienale e si rilassò. «Magari fosse così semplice.» Giunse le mani e le portò dietro la nuca. «Per poter cospirare contro qualcuno bisogna che la controparte abbia un'esplicita volontà, un modo di rapportarsi contro cui opporsi. Ma in questo giornale non è così.» Il presidente sbatté le palpebre, confuso. «In che senso?» Schyman si protese in avanti, perforando il suo interlocutore con lo sguardo. «Torstensson sta mandando a fondo l'intero giornale. Non ha la
più pallida idea di quello che sta facendo. Tocca a noi salvarlo ogni giorno. Come direttore è una vera catastrofe.» L'altro rimase immobile, forse convinto di non aver sentito bene. Nella storia del giornale, nessun dipendente aveva mai detto niente del genere su un direttore responsabile. «Intende dire forse...» Schyman continuò a respirare superficialmente, senza distogliere lo sguardo. «Voi del consiglio d'amministrazione avrete di certo discusso della faccenda» continuò Schyman, alzandosi. «Tutte le querele, le sentenze sfavorevoli del garante per l'editoria, le tirature in diminuzione, la mancanza di affidabilità delle indagini di mercato.» «La congiuntura sfavorevole» lo interruppe Herman Wennergren. «L'aumentata concorrenza da parte dei canali televisivi e di Internet...» Schyman scosse la testa. «Certo, sono argomentazioni pertinenti, ma non la causa principale dei nostri problemi. Il "Concorrente" aumenta le tirature, le nostre calano.» «E, secondo lei, è colpa del direttore?» «Non solo, naturalmente. La responsabilità collettiva è importante. Ma "La Stampa della Sera" è un'organizzazione gerarchica, si basa su una leadership forte e ponderata. Sono convinto che, sulla lunga distanza, si tratti di un'organizzazione vincente, che permette di lavorare con la necessaria tranquillità. Ma solo se il vertice tiene.» Il presidente del consiglio d'amministrazione lo fissò, colto da qualcosa che il condirettore sperava fosse un'illuminazione e non scetticismo. I due uomini rimasero sulle loro. Alla fine Herman Wennergren abbassò gli occhi, piegò il suo giornale, lo infilò sotto il braccio e si diresse verso la porta a vetri. All'altezza di Anders Schyman si fermò. Quando parlò, la sua voce era bassa. «Nessun consiglio d'amministrazione ha mai cacciato un direttore da questo giornale. Il mio non sarà il primo a farlo.» Mariana von Berlitz era arrivata e se n'era andata, passandole davanti senza degnarla di uno sguardo. Annika non era riuscita a farsi avanti, non ce la faceva a incassare l'offesa che sapeva avrebbe comportato l'approccio. Il "Concorrente" riuscì invece a strapparle qualche frase. Annika le udì, dando per scontato che il collega non le avrebbe utilizzate. «In fondo anche quello è un modo per morire» commentò Mariana von Berlitz, con la voce che le tremava a causa di qualcosa che Annika non riusciva o voleva individuare. «Ci scommetto che ha organizzato tutto da sola, unicamente per finire di nuovo in prima pagina. Si vede che trovava che
fosse passato troppo tempo dall'ultima volta.» Il "Concorrente" le fece una seconda domanda, che Annika non sentì, ma la risposta stridula della donna le giunse udibilissima. «Stava lavorando a un documentario su se stessa, prodotto dalla sua stessa società. Ci si può spingere più in là di così quanto a narcisismo?» Poi la redattrice televisiva aveva aperto con il minitelecomando la sua Renault dotata di chiusura centralizzata e allarme, aveva gettato i bagagli sul sedile del passeggero ed era partita facendo schizzare la ghiaia. «Caspita!» esclamò Annika a voce alta, e il reporter del "Concorrente" abboccò. «Non aveva un'alta considerazione di Michelle Carlsson» constatò. Le si avvicinò, tirò fuori un pacchetto di sigarette schiacciato e glielo tese. Lei declinò educatamente l'offerta, lui prese una sigaretta. «Davvero una brutta storia.» Annika sospirò teatralmente. «Non che io fossi uno dei suoi fan, devo dire» continuò il giornalista «ma una morte così non la si augura a nessuno.» Scossero il capo. No, cavolo, non una pallottola in testa. Era davvero orribile. Rimasero fianco a fianco, alzando lo sguardo verso il castello in attesa del testimone successivo e dondolandosi sui talloni. Annika chiuse gli occhi, rivolse il viso al sole pallido, l'aria così leggera e rarefatta dopo la pioggia. «Perché quasi tutti detestano tanto i conduttori televisivi?» chiese. Il reporter sbatté le palpebre. «Li detestano? E chi?» Lei lo guardò. «Tu. Io. Mariana von Berlitz. L'intera redazione del mio giornale. Che cosa ci induce a farci delle opinioni così determinate su persone che non abbiamo mai conosciuto?» «Be', sono personaggi pubblici» rispose lui, insicuro, spegnendo la sigaretta ancora a metà. «Ma scusa» obiettò Annika «questo giustificherebbe il nostro odio?» «Più o meno è come con gli editorialisti della carta stampata. Nessuno li ama, nessuno li vuole, nessuno capisce perché ogni settimana possono scrivere cazzate con la loro foto di fianco al titolo. Eppure li leggiamo. La verità è che tutti noi aspiriamo al potere derivante dal fatto di poter far sentire la propria voce.» Lei lo fissò, interdetta di fronte alla rivelazione: il reporter del "Concorrente" non era affatto uno stupido. «Bosse» si presentò lui, tendendo la mano.
Annika arrossì lievemente, la strinse piano. «Arriva Bambi Rosenberg» le fece notare Bosse e, dimenticando ogni altra cosa, si diresse a corsa leggera verso la transennatura. Lo seguì con lo sguardo, su verso il castello. Una donnina minuta stava imboccando il ponte, trascinandosi dietro un baule gigantesco. I movimenti del corpo esprimevano rassegnazione, impotenza. La schiena esile era curva. La migliore amica di Michelle, pensò Annika andandole incontro. Si chiese che effetto le avrebbe fatto se la persona trovata nella sala regia fosse stata Anne. Poi scosse la testa, allontanando quell'idea. «Bambi!» chiamò il reporter del "Concorrente". «Bambi Rosenberg, posso farle qualche domanda?» La donna arrivò alla transennatura, si abbassò lentamente per passare sotto il nastro, si trascinò dietro il valigione. Aveva qualche difficoltà a camminare nella ghiaia con i sandali a tacco alto e barcollò. I capelli erano raccolti in una coda di cavallo, gli occhi iniettati di sangue dietro il trucco pesante. Quando vide la grande telecamera del canale nazionale, istintivamente le mani le corsero all'elastico: lo sfilò e liberò i riccioli biondi. «Sì» sussurrò a voce talmente bassa che Annika, più che udire, intuì la risposta. «Va bene.» «Come si sente in questo momento?» Gli occhi della donna si riempirono di nuovo di lacrime. Se le asciugò con l'indice, attenta a non rovinare il mascara. «È terribile» sussurrò. «È la cosa peggiore che mi sia mai capitata.» «Lei conosceva bene Michelle, vero?» chiese Bosse. La donna annuì, cercò un fazzoletto nella borsa, si soffiò il naso. «Era la mia migliore arnica.» Annika ci sentiva a malapena. Fece un passo avanti, evitò di presentarsi pensando al rapporto tra il giornale e la morta. «C'è qualcosa di particolare che vorrebbe dire di Michelle?» le chiese a voce bassa. La donna non la guardò, parve prendere la rincorsa. «Sono molte le persone che oggi dovrebbero farsi un esame di coscienza» cominciò, guardando senza vederle le chiome degli alberi. La potente telecamera della televisione nazionale ronzava nel vento, il giornalista del "Concorrente" aveva tirato fuori il suo registratore, Bertil Strand mise a fuoco l'inquadratura. Annika fissò affascinata la giovane donna. «Michelle era un essere umano genuinamente buono» continuò Bambi Rosenberg «e non ce ne sono tanti. Io la conoscevo, so che era così. Era in
buona fede, voleva rendere migliore il mondo. Aveva una responsabilità nei confronti delle giovani donne della Svezia di oggi, voleva essere un esempio, la dimostrazione che nella vita si poteva avere successo grazie alle proprie qualità e alla propria ambizione.» Tacque un attimo e inspirò profondamente. Annika si domandò quanto avesse riflettuto per mettere insieme il proprio discorso. «Ma la malevolenza che ha circondato Michelle nell'ultimo anno non ha davvero precedenti» riprese, ora guardandoli uno alla volta. Ad Annika parve che indugiasse più a lungo sul suo viso che su quello degli altri, e si sentì avvampare. «L'invidia e il livore che imperversavano all'interno del mondo giornalistico svedese erano volgari, al limite del disgustoso. Voi godevate nel farla a pezzi, ridevate dei suoi insuccessi e le auguravate tutto il male possibile. Adesso avete avuto quello che desideravate. Siete soddisfatti?» Le ultime parole si persero in un grido stridulo, poi non ci fu verso di trattenere le lacrime né di salvare il trucco. Con le guance solcate da rivoli di ombretto e mascara, Bambi Rosenberg si precipitò verso la sua cabriolet rossa, lasciando i giornalisti impietriti e a disagio. «Non ha tutti i torti» commentò Bosse, mentre la donna del canale televisivo nazionale alzava le spalle. «Si capisce il motivo per cui Bambi Rosenberg non avrà mai una parte in qualche produzione seria» disse; Bertil Strand e alcuni tecnici del suono si misero a ridere. «Cosa ti fa pensare che ne voglia una?» ribatté Annika senza rendersene conto. La troupe la guardò e la giornalista televisiva si girò dall'altra parte, sprezzante. «È come partire dal presupposto che io miri al tuo posto di lavoro» continuò Annika «solo perché tu sei convinta di essere meglio di me. La sai una cosa?» La reporter si voltò lentamente su se stessa, la fissò come se non credesse alle proprie orecchie. «Prego?» chiese. «Meglio fare la cassiera all'Ikea!» concluse lei, e prendendo blocco e matita si avviò verso il parcheggio per buttare giù il discorsetto di Bambi Rosenberg. «Una vera furbata» commentò Bertil Strand alle sue spalle. «È obbligatorio che ti renda odiosa a tutto il settore?» «Hai scattato qualche foto?» chiese lei fiaccamente. «Oppure la programmazione e l'organizzazione non erano sufficienti?»
«Che cazzo ti succede?» domandò il fotografo, con la voce gelida e uno sguardo di disapprovazione. La donna si accasciò sul muretto di fianco al parcheggio. Il fondo dei pantaloni si bagnò immediatamente, ma in quel momento non gliene importava nulla. «Non lo so» rispose a voce bassa, con un improvviso groppo in gola. «È tutto così orribile.» «Vedi di darti una regolata» le consigliò Bertil Strand. Anne entrò nella sala conferenze. Le parve che fosse diventata più piccola rispetto al giorno prima, con il soffitto più basso. L'ob-van era ancora nello stesso punto, appena fuori dalla finestra, e Anne si sentì di nuovo avvolgere da una sensazione sgradevole, l'insicurezza palpabile come il sudore alle mani. «Un po' meno assetata, oggi?» Il commissario Q si era cambiato d'abito: T-shirt invece della camicia sgargiante, pantaloni kaki al posto dei jeans. Anne si sedette, cercando di apparire serena. Il poliziotto accese di nuovo il registratore e sparò la sua tiritera per il protocollo: «Verbale dell'interrogatorio con Sapphane, Anne, tenuto da Q al castello di Yxtaholm, sala conferenze dell'ala nuova, sabato 23 giugno ore 12.55. Anne Sapphane viene sentita come teste informato dei fatti sull'assassinio di Michelle Carlsson. Interrogatorio numero tre». «C'è gente che è stata lasciata andare a casa» lo affrontò subito la donna non appena lui ebbe finito di parlare. «Vorrei tornare al punto in cui abbiamo interrotto l'interrogatorio ieri» disse calmo Q sfogliando alcune carte. «Perché io non posso andare? Perché devo restare? Sono sospettata di qualcosa?» «Se risponde alle mie domande nell'ordine in cui gliele faccio, forse alla fine anche lei potrà andare a casa.» «Ma lei ha veramente il diritto di tenermi qui?» Non riusciva a tenere a bada la voce, che le uscì troppo tagliente, troppo trasparente. «Torniamo alla lite nella scuderia...» Anne si alzò di scatto, facendo stridere la sedia sul parquet. «Cosa succede se adesso io me ne vado? Eh? Se prendo ed esco, potete trattenermi con la forza? Potete o no?» Il commissario Q non fece una piega. «Si sieda. Non è affatto divertente.
Mi racconti quello che è successo nella scuderia, invece.» Lei rimase in piedi, immobile, si mise a gridare. «Ma ve l'ho già detto!» «Sì, ma c'è un problema. Credo che lei menta.» Lei lo fissò, sentì il sudore colarle lungo la schiena, strinse le braccia al corpo, si accasciò sulla sedia. «Credo che lei ci stia tenendo nascosti dei particolari importanti. E non ho intenzione di lasciarla andare finché non avrà raccontato la verità, a costo di doverla arrestare.» Anne socchiuse i propri occhi sino a perforare quelli del commissario. «Lei sta bluffando.» L'uomo si strinse nelle spalle, si alzò, chiamò verso il corridoio. «Potete chiedere a Karin di venire?» Il panico le si diffuse in ogni parte del corpo. «Karin? E chi sarebbe Karin?» «Il pubblico ministero» rispose Q. «È su al castello.» «No!» esclamò Anne, rialzandosi e dirigendosi verso la porta. «Santo cielo, devo tornare a casa, ho Miranda, una bambina piccola, ha solo due anni, non posso...» Rimase in piedi, il panico simile a un buco nello stomaco, credette di essere sul punto di svenire di nuovo. Q aspettava con le braccia incrociate, il viso privo d'espressione. «Okay» sussurrò, e tornò tremante alla sedia. «Cos'è che vuole sapere?» Si insaccò nelle spalle, sentendo il soffitto premerle sulla nuca. Il suo interlocutore fece lentamente il giro del tavolo, si risedette. «La scuderia.» Anne chiuse gli occhi per qualche istante, respirando a bocca aperta. «È stato come ho detto, ci sono arrivata quando il primo litigio era già scoppiato.» «E chi era coinvolto?» «Michelle e Mariana. Erano entrambe piuttosto brille, e quando sono entrata stavano gridando una contro l'altra.» «Qual era l'argomento del litigio?» «Evidentemente era nato tutto da una faccenda che riguardava John Essex. A quanto ho capito Michelle era stata insieme a lui e Mariana è andata fuori di testa. Ma non ne sono sicura, è solo quello che ho sentito...» «Quando lei è entrata, John Essex si trovava nella stanza?» Anne scosse la testa, il poliziotto sospirò e indicò il microfono. «No» pronunciò lei protendendosi in avanti. «No, era in cucina, anche se in quel momento io non lo sapevo ancora.»
«Perché Mariana era così turbata dal fatto che Michelle Carlsson fosse stata insieme a John Essex?» L'interrogata sbuffò. «Mariana se la prendeva per qualsiasi cosa Michelle facesse. Era arrivata quasi al punto di sabotare le trasmissioni solo per metterle i bastoni tra le ruote.» «E Michelle come reagiva?» «Lei detestava Mariana, aveva anche tentato di farla sostituire da un'altra redattrice. La Zero, però, aveva tagliato il personale, sa, la situazione non era delle migliori, e Mariana era assunta a tempo indeterminato. Dovevamo prendere la gente che avevamo a disposizione. E questo non migliorava il loro rapporto.» «Nel momento in cui lei è entrata, che cosa si stavano gridando?» «Qualcosa riguardo a un contratto. Michelle era fuori di sé, stava urlando in falsetto, barcollava per la stanza come se fosse ubriaca fradicia...» Esitò. «Allora?» «E non indossava niente dalla vita in giù. L'effetto era davvero bizzarro. Girava per la stanza mezza nuda, e...» «Sì?» «Aveva la pistola in mano. Faceva una certa impressione, anche se, naturalmente, sapevamo che non era carica.» «Lei come faceva a saperlo?» Un portone di ferro si chiuse di scatto alle sue spalle, riecheggiando nei nervi e sulle punte delle dita. Le mancò il respiro. «Io... ecco... non lo so.» Il poliziotto la perforò con lo sguardo, occhi da pesce, poi lasciò cadere il discorso. «L'argomento del litigio?» Anne ritrovò il ritmo della respirazione, frugò nella memoria, si passò una mano sulla fronte. «Qualcosa a proposito di un contratto. Non so come sia cominciata la discussione, quando sono entrata era degenerata, in un certo senso. Michelle pareva non del tutto normale. Era... come dire... incoerente... Gridava che Mariana poteva essere soddisfatta adesso, quella sera erano tutti felici e contenti, avevano avuto quello che volevano, e che invece lei ormai era carne da macello, e roba del genere.» «Ha avuto l'impressione che la Carlsson fosse sbalestrata?» Anne rise e sospirò. «È il meno che si possa dire.» «Le chiedo di non riferire a nessuno di questa domanda» continuò Q «ma Michelle può essersi tolta la vita?» Anne boccheggiò, sentì che gli occhi le si sbarravano, poi avvertì un'on-
data di sollievo, talmente palpabile che per poco non si fece la pipì addosso. «Che si sia sparata?» sussurrò. Il commissario annuì. Si è sparata. Sì, non è stato nessuno di noi. È stata lei, è stata solo colpa sua. Noi non abbiamo niente a che vedere con questa faccenda. L'intuizione la colpì un secondo dopo, dura come un pugno nello stomaco. Allora la nostra colpa è ancora più grande. Chiuse gli occhi, rifletté. Michelle poteva aver... No. Alzò gli occhi sul poliziotto. «No. No. È stato qualcun altro.» Improvvisamente si sentì insicura. «Perché me lo chiede? Avete trovato una lettera?» La concentrazione del commissario la inchiodò allo schienale della sedia, il corpo si tese e s'irrigidì. «Ha visto altre persone tenere in mano la pistola?» Il silenzio si fece denso e greve, Anne mandò a forza ossigeno nei polmoni, i pensieri simili a lampi in preda al panico nella sua mente. «Mmh. Non lo so.» Cercò di guadagnare tempo. «Rifletta.» Un orologio ticchettava da qualche parte, la donna tentò di girare la testa per individuare la provenienza del suono, ma non vide niente. «Abbiamo trovato le sue impronte digitali sull'arma» la informò Q. «Me lo può spiegare?» Il cervello si bloccò, svuotato. Il sangue le defluì dalla testa, sentì che le labbra diventavano bianche. «Beva un po'» disse Q, spingendo un bicchiere verso di lei. Lei cercò di prenderlo, rovesciò un po' d'acqua, ci rinunciò. «Non sono stata io» sussurrò. «E allora chi è stato?» Scosse la testa, la gola affilata come vetro rotto. «Quando ha tenuto in mano l'arma?» «Nella sala delle riunioni dell'ala sud.» Le parole le tagliavano la gola. «Prima o dopo il litigio nella scuderia?» Anne chiuse gli occhi, sentì bruciare i condotti lacrimali. «Dopo, credo.» «Perché?» «Volevo sentire quanto pesava.» Si pentì non appena l'ebbe detto. Non reggeva.
«Quando ha visto l'arma l'ultima volta, a parte sul van, dopo l'assassinio?» Frugò tra le immagini archiviate nel cervello, rese sfocate e incoerenti dall'ubriachezza e dalla stanchezza, un album fotografico dai contorni sbiaditi e dalle emozioni confuse. «Sul tavolo della sala riunioni» affermò alla fine. «Ne è sicura?» «Credo di sì.» «Che ora poteva essere?» «Non lo so. Dopo la scuderia. Forse dopo il litigio tra Mariana e Bambi sulle pin up. Le due e mezzo, forse?» Incrociò lo sguardo freddo e distante del commissario Q. «E poi? Dov'è andata?» Lei si sforzò di ricordare. «Ho cercato di dormire un po', ma c'era un casino tale che mi sono alzata di nuovo.» «Quindi dopo le tre lei si trovava nella sua stanza dell'ala sud? Ne è certa?» Frugò tra i ricordi, annuì. Sì, doveva essere andata così, riuscì infine a respirare normalmente. «Può spiegare come mai lei è stata vista fuori dall'ob-van alle tre e quindici minuti?» Le pareti si avvicinarono. Anne si afferrò al ripiano della scrivania e tentò di mantenere un tono di voce stabile. «Cosa? Chi mi ha visto?» «Diverse persone, le dirò. Che cosa aveva da fare sul van alle tre di notte?» La testa si mosse da un lato all'altro. No, no, no. «Non mi ricordo.» La risposta, un bisbiglio. «Sì invece. Fino adesso ha ricordato molto bene.» Cercò ancora, in preda al panico. Oddio, cos'aveva fatto? Cos'aveva detto? Dov'era stata? «Io... volevo fare il bagno, forse?» «Sotto la pioggia scrosciante? Andiamo, se deve mentire, lo faccia con un minimo di eleganza.» Le parole trasudavano disprezzo. «Non me lo ricordo» ripeté sentendo salire il pianto. Alzò gli occhi, lasciò scorrere le lacrime. La voce, impastata e incerta, sgorgò dalla gola. «Non me lo ricordo! Dovete credermi! Ero piuttosto ubriaca, avrò sbagliato strada, dovevo salire in camera, evidentemente ho solo fatto un giro! Non sono stata io!»
A forza di aspettare, Annika era accaldata e irrequieta. La luce del sole, attraversando le chiome degli alberi, tracciava sul suolo chiazze nitide, l'aria era ferma. Le pecore, che si erano accalcate intorno ai giornalisti, puzzavano di lana e di escrementi. Si allontanò sia dalle bestie che dai colleghi, stranamente turbata dalla situazione. Dopo Mariana e Bambi, la parata dei testimoni si era bloccata. Gli altri giornalisti non parevano prendersela troppo e chiacchieravano, appoggiati a muretti e massi. Si avvicinò alla scuderia, abbassò la maniglia. Chiuso. Si sedette sui gradini, respirò, cercò di trovare un po' di refrigerio nel vento. Esitò un istante, poi tirò di nuovo fuori il cellulare. Nessun messaggio. Mandò giù la delusione. Non aveva tempo di telefonare, con i bambini e tutto. «Tu l'avevi mai conosciuta di persona?» Alzò lo sguardo, confusa, e venne abbagliata dal sole. Alzò una mano a ripararsi gli occhi e incontrò quelli di Bosse, il reporter del "Concorrente". «Mmh» fece, colta di sorpresa. Si rese conto di non saperlo. Abbassò la mano, si morse l'interno della guancia. Non si era imbattuta in Michelle Carlsson, al lavoro? O si trattava forse solo di qualcosa che Anne Sapphane le aveva raccontato, o ancora, che aveva visto alla tele? «No» rispose alla sagoma scura del collega. «Non mi pare. Ma mi vedo spesso con Anne Sapphane, una che lavora nella stessa società, ogni tanto vado su alla Zero. Mi pare quasi di conoscerla.» Bosse sospirò e si sedette, non invitato a farlo, accanto a lei, stendendo le gambe. «Capisco cosa intendi» cominciò. «Ho incontrato Karin Bellhorn alcune volte, a cene e in occasioni del genere, e anche lei mi ha parlato di Michelle e di come le riuscisse difficile gestire il proprio successo, di come tutto questo la esaurisse. Diceva che mancava d'equilibrio, a volte era irritabile e piagnucolona. E che le trasmissioni e l'attenzione la rendevano euforica.» «È quasi triste» commentò Annika «che il successo debba essere così importante.» Il reporter dell'altro giornale prese un bastoncino e si mise a disegnare sulla polvere del gradino di pietra. «Be', in fondo lo pensiamo anche noi. Siamo tutti contenti quando le persone famose hanno successo. Quasi quanto lo siamo nel momento in cui falliscono.» «Sta arrivando qualcuno» disse lei.
Si alzarono e, come a un segnale, i fotografi misero a fuoco apparecchiature e sguardo di falco, mentre i due reporter si allungavano a prendere blocco e matita. Stefan Axelsson era alto, dinoccolato, biondo, aveva la barba lunga leggermente brizzolata. Annika gli si avvicinò cautamente insieme agli altri. Vedendo che nessuno dei colleghi accennava a rivolgergli la parola, limitandosi a star lì a fissarlo, fece un passo avanti, si presentò e tentò di porgli una domanda non compromettente. «Lasciatemi in pace» sibilò lui, con la fronte madida e gli occhi rossi. «Lasciatela stare.» «Quello era Axelsson, vero?» chiese Bosse. «Pare che sia un vero stronzo» rispose Annika, guardando l'uomo che partiva con la sua Saab. «Bravissimo, però.» Il reporter del "Concorrente" annuì. Il polverone sollevato dalle ruote non si era ancora posato sulla strada quando la testimone successiva comparve lungo il viale. Barbara Hanson non aveva bisogno di presentazioni. Baciò Bertil Strand su entrambe le guance, si mise a parlare a voce alta e squillante del pessimo letto che le avevano affibbiato, di quanto fossero di classe i poliziotti, del tempo orribile che avevano avuto. «Santo cielo» disse il giornalista del "Concorrente". «Ma è sempre così?» Annika alzò brevemente gli occhi al cielo. Un minuto più tardi uscì Carl Wennergren. Annika lo vide da lontano. «Lascialo perdere» sussurrò a Bosse. «Ho cercato di parlare con lui ieri, ma non ha voluto dare nessuna informazione nemmeno a me, e pensa che in redazione siamo seduti a tre metri di distanza l'uno dall'altra.» «Ieri?» chiese il reporter, sorpreso. «E come hai fatto?» Lei si portò un dito alle labbra e sorrise. Carl Wennergren montò sulla sua BMW e partì senza che nessuno tentasse di parlargli. «Ecco il prossimo» disse Bosse indicando il castello. Annika riconobbe da lontano l'amministratore delegato di TV Plus anche se non l'aveva mai visto. Compariva spesso alle feste della gente famosa e promuoveva la sua emittente nella pubblicità. Highlander, l'immortale. Superò agilmente la transenna prima con una gamba e poi con l'altra. Capelli neri, abito inappuntabile, nessun bagaglio. Annika gli si avvicinò insieme agli altri giornalisti, sentì istintivamente che la situazione si sarebbe rivelata sgradevole.
L'uomo cercava di apparire sicuro di sé e rilassato, ma il suo sorriso non riusciva ad arrivare in fondo all'anima. Era pallido sotto l'abbronzatura, le linee intorno agli occhi rese profonde dall'insonnia. «Voglio dire innanzitutto che si tratta di un evento terribilmente tragico per TV Plus» dichiarò senza aspettare le domande. Il gruppetto di reporter e fotografi gli si raccolse intorno in silenzio, una sorta di conferenza stampa spontanea con le pecore che belavano a fianco. «L'intero canale, naturalmente, risentirà della terribile perdita di una delle nostre collaboratrici più apprezzate, Michelle Carlsson.» Armeggiò con un foglietto stropicciato che teneva in mano. «Personalmente» continuò «voglio dire che Michelle era una carissima amica, un'ottima amica, che apprezzavo per il suo grande... calore e per la sua immensa... professionalità.» Perse il filo, esitò, sollevò poi il foglio, lesse rapidamente per qualche secondo. Lo riabbassò, si passò la lingua sulle labbra e si fece coraggio. «La memoria di Michelle verrà onorata e preservata da TV Plus» disse con una voce che pareva rivolgersi ad alberi e uccelli. «La storia dimostrerà che è stata una delle grandi personalità del nostro tempo. La sua produzione continuerà a vivere, eredità delle nuove generazioni di spettatori e di operatori televisivi. È quest'eredità che ora tocca amministrare alla nostra emittente, e vi garantisco che prenderemo sul serio il nostro compito.» «Gesù» sussurrò Bosse ad Annika. «Tra poco gli spuntano le ali.» Lei si morse il labbro, la combinazione di parole pompose e aspetto fin troppo curato dell'uomo le faceva venire da ridere. «Come userete i programmi registrati qui nel corso della settimana?» chiese la giornalista della televisione nazionale. «Ecco qui una che ha chiare in mente le priorità» continuò il reporter del "Concorrente" nell'orecchio di Annika. «Innanzitutto l'aspetto più importante: scoprire cosa ne sarà dei programmi televisivi.» Una risata soffocata le gorgogliò su per la gola. Si voltò con entrambe le mani sulla bocca per nasconderla. Highlander, che aveva cominciato a rispondere, perse il filo e guardò in direzione di Annika. «È... cosa c'è di tanto divertente?» chiese con lo sguardo confuso. «Mi scusi» riuscì a dire lei. «Ho inghiottito la gomma da masticare.» L'ignobile bugia fece esplodere il collega in una risata silenziosa. Si girò rapidamente e si allontanò dal gruppetto di qualche passo. Annika alzò gli occhi verso le chiome degli alberi, vide i colori stagliarsi nitidi contro il cielo. Non c'era niente di reale, solo uno show, una pessima telenovela tra-
vestita da documentario. «Si tratta del programma di punta di TV Plus per quest'estate» rispose Highlander. Il suo abito era una silhouette argenta ta contro lo sfondo del lago. «Con questa produzione sfideremo le reti a diffusione terrestre, non solo quelle satellitari.» «Manderete in onda le trasmissioni registrate, e in questo caso, quando?» insistette la giornalista televisiva. Highlander si asciugò dal labbro superiore un sortile baffo di sudore. «Non posso risponderle oggi. Naturalmente dovrò prima conferire con la direzione del gruppo, a Londra, stabilendo le linee guida del percorso da seguire per onorare la memoria di Michelle. La messa in onda di Estate al castello ha naturalmente un suo ruolo nella nostra strategia, che dovrà essere pianificata e ponderata con estrema attenzione.» L'uomo abbassò di nuovo gli occhi, stropicciò il foglietto. Il sudore gli aveva imperlato tutto il viso, facendogli incollare alla fronte la frangia. Annika vide improvvisamente che l'uomo era mortalmente pallido e sotto pressione, quasi sul punto di scoppiare in lacrime. «Come si sente?» si udì chiedere. Lui alzò gli occhi senza fissare lo sguardo su nessuno in particolare. «Sono state giornate dure. Durissime. Tutti gli obiettivi futuri del nostro canale sono stati messi in discussione.» «La mia domanda era più che altro indirizzata a lei come persona. A come ha reagito all'assassinio della sua conduttrice durante la registrazione del programma.» Highlander appallottolò il foglietto, se lo ficcò nella tasca della giacca e si avviò a grandi passi verso la sua auto. I fotografi lo seguirono a breve distanza, inducendolo a mettersi quasi a correre. Annika rimase dov'era, lo guardò salire sul gippone, restare seduto, proteso sul volante. «Se secondo te quello stava male, guarda quest'altro» disse Bosse indicando un punto alle sue spalle. Un uomo basso e leggermente corpulento con i capelli radi stava imboccando il viale. La bocca semiaperta, le labbra lucide, si muoveva a scatti, quasi barcollando. Annika captò il suo senso di tragica disperazione, apparentemente sconfinata. «Poveraccio» disse il reporter accanto a lei. Sebastian Follin aveva delle lenti scure agganciate alla montatura metallica degli occhiali da vista, la pelle era opaca e grigia, piena di ombre. Lo videro avanzare lentamente verso il parcheggio, in qualche modo chiara-
mente inconsapevole del mondo circostante. I giornalisti lo lasciarono stare finché non ebbe raggiunto la sua auto. Quelli della televisione di stato lo interpellarono per primi. L'uomo non colse la domanda, si guardò intorno confuso, fissò spaventato i reporter e i fotografi. «Cosa? Che volete?» «Naturalmente sul giornale di domani parleremo di Michelle» disse Annika, facendosi avanti per presentarsi e stringendo la mano dell'uomo, che gli penzolava fredda e umida lungo il fianco. «Non riesco a credere... non riesco proprio a credere che lei non c'è più.» «Erano diversi anni che lavorava con Michelle, vero?» Annika percepiva la concentrazione degli altri giornalisti alle proprie spalle. Pendevano tutti dalle labbra tremanti dell'uomo. «Lei era mia. La mia prima cliente. Eravamo un team vincente. Sono stato io a crearla.» Annika annuì, cercò di catturare lo sguardo del manager dietro la superficie nera e lucida delle lenti, lo sentì scivolare via, verso il lago. «Come vi eravate conosciuti?» Sebastian Follin respirò rapidamente più volte, lo sguardo ancora sfuggente. «All'Ente Strade. L'Ente Strade di Växjö. Lavoravo lì come informatore e mi serviva un conferenziere per la presentazione di...» Smise di parlare, un filo di saliva gli scese dall'angolo della bocca sul mento. Annika avvertì l'imbarazzo risalire lungo la spina dorsale. «Le aveva affidato una presentazione?» L'uomo chinò rapidamente la testa, si asciugò la saliva dal mento con un gesto sorprendentemente rapido e strinse più forte la valigetta. «Era assolutamente incredibile, quella fu la miglior conferenza stampa che avessimo mai tenuto. Era spiritosa, intelligente, bella, quando parlava la ascoltavano tutti. Magica.» Annuì a conferma delle proprie parole. «Magica. Dopo le chiesi come fosse riuscita a essere così brillante, lei si limitò a ridere. Era così. Un talento naturale. Io la guidai in tutto quello che facemmo dopo.» «Come riuscì a trovarla?» chiese Annika. «Faceva la guida sul treno turistico di Gränna e stava alla reception della Gyllene Uttern. È stato... cinque anni fa.» «Quindi è da parecchio che lei è al suo fianco.» «Da sempre» rispose lui, guardandola per la prima volta da dietro le lenti. Annika ne intravide gli occhi, piccoli e chiari. «Aveva conoscenze nel settore televisivo?»
«La moglie di mio fratello lavorava alla Zero. Negoziai per lei il primo contratto di conduzione di un programma. Diventò immediatamente una star.» Annika annuì, si rese conto che era vero. «Quali altri clienti rappresenta?» chiese la giornalista della televisione nazionale. Sebastian Follin trasalì, alzò la testa e guardò nella sua direzione. «Prego?» «Lei fa il manager, no? Rappresenta solo personaggi dell'ambiente televisivo o ha anche altri datori di lavoro?» Il viso dell'uomo si contrasse, una rete di rughe si formò intorno alla bocca umida. «A che rete appartiene, lei?» chiese, la voce mutata, più stridula. La giornalista citò il nome del telegiornale a copertura nazionale per cui lavorava. «Con quella non collaboro» rispose l'uomo, per poi girare sui tacchi e aprire la portiera della sua auto sportiva americana. Uscendo dal parcheggio, per poco non andò a sbattere contro il muretto. Quando Torstensson entrò in redazione, aveva il viso pallido ma chiazzato di rosso. Si era tolto il costume tradizionale della sua regione infilandosi un paio di pantaloni della tuta e una maglia a collo alto. Come al solito, in mezzo ai computer e alle locandine aveva un'aria persa. Spaziò incerto con lo sguardo sui dipendenti. Schyman lo vide attraverso la vetrata del suo gabbiotto, debole e confuso, e fu colto dai dubbi e dalla compassione. Non posso, pensò. Non ci si comporta così con le persone. Spostò poi lo sguardo sul personale, redattori e reporter, fotografi e photo editor, revisori e correttori di bozze, capiredattori di giorno e di notte. Dubitava che il collega ne conoscesse i nomi e i ruoli. Il direttore responsabile lo vide attraverso il vetro e diresse i propri passi verso l'angolo con le mascelle serrate. «Adesso esigo una spiegazione. Cosa sta architettando?» Schyman si alzò dal proprio posto dietro la scrivania, passò davanti al direttore e richiuse la porta alle sue spalle. Torstensson appariva curvo, in quegli abiti cascanti, più piccolo di quando indossava le solite giacche sovradimensionate. «Sto cercando di far funzionare il giornale!» Si piazzò dando le spalle alla porta, costringendo l'altro a guardare verso la redazione, dove i giornalisti si scambiavano occhiate e sussurri.
«A che gioco stava giocando con il presidente del consiglio d'amministrazione? Era convinto che fossi stato io a decidere di sbattere nome e foto di quelle persone sul giornale.» Le sue labbra erano bianche e asciutte, parlava a fatica, come se lo sforzo gli provocasse sofferenza. Schyman osservò l'uomo per qualche secondo, cercando di valutare la sua volontà di combattere. «Avrebbe dovuto essere lei a prendere le decisioni in merito. Non è vero? Solo che non siamo riusciti a metterci in contatto con lei per tutta la giornata di ieri, pur avendo chiamato tutti i numeri disponibili. Lei non si è fatto vivo con nessuno della redazione, nonostante le decine di messaggi. Si è in qualche modo informato delle notizie del giorno, ieri, o non ha fatto nemmeno questo?» «Ma ero in ferie» si giustificò l'altro, con i lobi delle orecchie in fiamme. Il condirettore guardò il proprio superiore e si sentì invadere dallo stupore. L'incompetenza e l'irresponsabilità di quell'uomo erano davvero sconfinate. «Non si può continuare così. Il personale deve poter sentire che ha una direzione compatta a cui fare riferimento quando la situazione si fa difficile. Dobbiamo concordare una linea comune, sia nelle piccole che nelle grandi questioni.» Torstensson si passò la lingua sulle labbra. «Cosa intende dire?» Schyman gli girò intorno e andò a sedersi di nuovo sulla sua poltroncina. «Barbara Hanson si trovava a Yxtaholm durante l'ultima registrazione televisiva di Michelle Carlsson» lo informò fissandolo ostinatamente. «Mi sa spiegare come mai?» Tra le sopracciglia di Torstensson si formò una ruga, si voltò verso la scrivania di Schyman e incrociò le braccia. «Ha espresso il desiderio di occuparsi dell'evento. Si dà il caso che la cosa rientri nelle sue prerogative.» L'altro si sforzò di restare immobile e fissare Torstensson. «Ho proibito a Barbara Hanson di perseguitare quella giornalista in particolare, e lei lo sa.» «Lei non perseguita nessuno. Segue le mosse di un personaggio pubblico, queste cose le stelle della TV devono per forza sopportarle...» «Esistono dei limiti» ribatté Schyman. «Barbara li ha oltrepassati da tempo.» «Io non ne sono convinto» rispose il direttore responsabile. Schyman si sentì assalire da un'immediata, infinita stanchezza: la stessa spossante sensazione di disagio che nel corso degli ultimi giorni aveva provato più volte. Non ce la faccio, pensò. Me ne sbatto di tutto quanto.
«Barbara Hanson è una delle croniste più apprezzate e in vista del nostro quotidiano» continuò Torstensson. «È conosciuto per le sue pronte e spavalde annotazioni su molti VIP, segno distintivo di questo giornale...» «Non venga a insegnare a me qual è il segno distintivo di questo giornale» tagliò corto Schyman, improvvisamente furioso. «Barbara Hanson è una donna lavativa, viziata e piuttosto alcolizzata, ma fa parte della famiglia che detiene la maggioranza delle azioni del giornale ed è per questo che lei le permette di fare quel cazzo che le pare.» Il direttore boccheggiò, il poco sangue che ancora gli animava il viso defluì verso il basso. «Non può dire sul serio.» «Eppure ci esprimiamo a chiare lettere su tutti gli altri dipendenti, no? Hasse, quello dello sport, lei stesso l'ha definito il Beone. Annika Bengtzon è stata soprannominata l'Uxoricida. Forse che Barbara Hanson è più fragile degli altri?» «Non ho più intenzione di starla a sentire» disse il direttore con voce soffocata, voltandosi verso la porta. Schyman si alzò. «E adesso dove ha intenzione di andare? Non è che per caso potrebbe lasciare a Tore Brand, intanto che esce, un numero a cui è reperibile?» Osservò la sua schiena curva sotto il cotone sottile della maglia, vide la spina dorsale che si delineava come una catena di cime e valli. Le costole si sollevavano e abbassavano a ritmo con il respiro dell'uomo, esitante. Quando finalmente si voltò, il suo viso era irrigidito dalla collera. «Non vado da nessuna parte. Ho intenzione di starmene qui, stasera, tra i giornalisti.» Il condirettore fissò il proprio sguardo negli occhi dell'altro, cercò di interpretarne le motivazioni frugando sul fondo. Accetta la sfida, pensò. Non molla. Mi ero forse aspettato il contrario? «Può andare a casa» gli ordinò Torstensson aprendo la porta. «Ho delle carte da controllare» rispose lui. «Non c'è bisogno che lo faccia stasera.» «Mi sta ordinando di lasciare la redazione?» Si sedette pesantemente sulla poltroncina, si appoggiò allo schienale, intrecciò le mani dietro la nuca e fissò il suo interlocutore. Questi si richiuse la porta alle spalle senza una parola. Karin baciò Bosse, del "Concorrente", su entrambe le guance e, tenendo le sue mani tra le proprie, fece un cenno di saluto ad Annika. «Brutta storia» commentò il giornalista.
La direttrice di produzione era pallida, cerchi scuri sotto gli occhi. I capelli erano raccolti in una crocchia morbida sulla nuca, tenuta su da un pettinino di plastica. Golf lavorato a maglia munito di tasche, camicetta stropicciata, ampi pantaloni con un disegno esotico. «La cosa peggiore» confessò a bassa voce «è che si fiutava nell'aria. Sono state giornate terribili.» «C'è qualcosa che puoi raccontare?» chiese il reporter del "Concorrente", lanciando un'occhiata ad Annika. La direttrice di produzione si portò la borsetta davanti, frugò sul fondo, trovò un paio di occhiali da sole e un pacchetto di sigarette schiacciato. Inforcò le lenti, venne aiutata da Bosse con l'accendino, tirò una boccata e guardò verso il lago. «È bello qui, vero?» disse, l'alito quasi trasparente. Tutto il fumo pareva essere stato assorbito dalle pareti polmonari. I due giornalisti annuirono. Era davvero un posto splendido. Il vento aveva cominciato a soffiare, facendo tremolare le foglie degli alberi, mentre i raggi del sole s'interrompevano e riprendevano forma continuamente. Specchi argentati danzavano sul Långsjön, le pecore belavano. «Michelle mi faceva tanta pena» dichiarò lentamente, soffermandosi con lo sguardo sulla spiaggia opposta. «Non era mai stata tanto sotto pressione come durante questa registrazione.» «Era da parecchio che lavorava con Michelle?» domandò Annika, la bocca leggermente secca. La direttrice di produzione incuteva rispetto. Karin si gettò un'occhiata alle spalle, verso i due giornalisti. Teneva la sigaretta stretta fra due dita, vicinissima alla bocca. Fece un sorriso esausto. «Da quattro anni, anche se non continuativamente. Ho visto una stella nascere... e morire.» Guardò di nuovo verso il lago, immobile. «La celebrità trasforma le persone in strani modi» continuò. «È come un veleno, quando ci si è abituati si finisce per dipenderne. Una volta provata l'ebbrezza dei riflettori, si è capaci di qualsiasi cosa pur di averne ancora.» «Be', non proprio tutti» obiettò Annika. «In fondo sono in molti a rinunciare alla notorietà.» Altra occhiata oltre la spalla, accompagnata da un sorriso triste. «Non senza crisi d'astinenza. È difficile per tutti. La fama è come una ferita nell'anima, può rimarginarsi e scomparire, ma lascia una cicatrice. Tutti quelli che l'hanno avuta si grattano e si tormentano, non riescono a lasciarla stare.» «E Michelle aveva una cicatrice?» chiese Bosse.
Una lacrima scivolò giù dall'angolo esterno dell'occhio di Karin, che la lasciò scendere verso l'orecchio e la gola senza asciugarla. «Lei era tutta una ferita sanguinante» disse la direttrice di produzione a voce molto bassa «ma non scrivetelo sui giornali. Lasciate che mantenga un minimo di dignità.» Sia Annika che il collega del "Concorrente" annuirono in silenzio. «Cosa possiamo scrivere, allora?» domandò Bosse. Karin scosse via un po' di cenere dalla sigaretta, sospirò profondamente. «Sono state riprese molto caotiche, è giusto che lo sappiate. In parte a causa della pioggia, in effetti: quando si è tutti fradici, l'umore finisce sotto la suola delle scarpe. Ma la posta in gioco era alta, TV Plus ha investito un sacco di soldi e di prestigio nel progetto, e per Michelle la prospettiva era vincere o scomparire di scena.» La direttrice di produzione inspirò l'ultima voluta azzurrognola di fumo, buttò a terra il mozzicone e lo spense. «È stata straordinaria» disse in tono calmo, voltandosi verso di loro e sfilandosi gli occhiali da sole. «Ha superato se stessa. L'intera idea del programma era stata costruita intorno a lei, poteva usare tutta la sua gamma di registri e c'è riuscita benissimo. Se TV Plus deciderà di mandare in onda la serie di trasmissioni, i detrattori di Michelle dovranno ricacciarsi in gola le critiche. Aveva un'ampia competenza e una profonda conoscenza delle tecniche giornalistiche, e davanti alla telecamera la sua presenza era assoluta. Penso che sarebbe potuta crescere e avrebbe potuto aspirare a una carriera a livello internazionale...» Poi tacque, la voce incrinata. Chinò il capo. «Mi dispiace. È così terribile.» Annika gettò un'occhiata al reporter al suo fianco, si accorse che stava assorbendo la figura della direttrice di produzione, memorizzando parole ed espressioni. «Cos'è successo qui durante la notte?» domandò. «A quanto ho capito, su alla scuderia si è svolta una rissa tremenda.» La donna tirò fuori un'altra sigaretta, l'accese da sola, aspirò avidamente la nicotina. «Io non c'ero» disse, questa volta in tono più deciso. «Chi è stato a trovarla?» «Perché?» Annika alzò le spalle. Karin Bellhorn la guardò, gli occhi chiari e trasparenti, insondabili. Fumò per un po' prima di rispondere. «Io» rispose poi. «Insieme ad altri. La sua amica Anne, Sebastian. C'erano anche Bambi, e Mariana.» «E Gunnar» aggiunse Annika. «Dev'essere stato lui ad aprire il van...»
Karin annuì. «E Gunnar, naturalmente. È facile dimenticarsi di lui.» «Perché eravate così tanti?» La direttrice di produzione la guardò di nuovo, a lungo, poi si mise improvvisamente a ridere. «Che bella domanda. Perché così tanti... Mah, la cercavamo. Volevamo parlarle.» «Di cosa?» «Evidentemente ognuno aveva le sue buone ragioni.» Spense di nuovo la sigaretta, lasciando cadere questa volta il mozzicone nell'erba senza schiacciarlo. «Ci vediamo, Bosse» lo salutò lanciandogli un bacio con la mano e si avviò verso la sua auto. «E con questa fanno nove su undici» disse il reporter quando la donna ebbe avviato la sua Volvo e imboccato il viale d'uscita. «Restano Anne e la neonazista.» Bosse si voltò verso di lei con un nuovo scintillio negli occhi. «Oh, cazzo. Hannah è neonazista? Sul giornale di ieri non l'avete scritto.» Annika avrebbe voluto mordersi la lingua. Lui si accorse del suo disappunto e rise di cuore. «Tanto l'avrei scoperto lo stesso.» Quando la giovane donna comparve lungo il viale, Annika si rese conto che il reporter del "Concorrente" aveva ragione. Hannah Persson, di Katrineholm, non faceva mistero delle sue simpatie politiche. Aveva una croce uncinata tatuata sulla guancia. «Questa è fuori!» sussurrò Bosse. Annika socchiuse gli occhi verso il sole, tentando di studiare i lineamenti del viso della ragazza sotto i tatuaggi e il trucco nero fuliggine. Hannah, di Katrineholm... non dovrei riconoscerla? Poi, l'improvvisa coscienza dell'inesorabilità del tempo la invase. Aveva sette anni quando io ho finito il liceo alla Duveholmsskolan. È ancora una bambina. A differenza degli altri, non pareva affatto turbata dal proprio soggiorno al castello. Camminava a passo leggero, si guardava intorno incuriosita, ancora protetta dall'incapacità tutta adolescenziale di provare orrore di fronte alle conseguenze delle proprie esperienze. L'espressione del viso rivelava quasi un senso d'aspettativa, i movimenti erano scoordinati, come quelli di un cucciolo. Annika intravide un sorriso trattenuto quando la ragazza superò la transenna. Per qualche ragione, le provocò un vago senso di nausea.
«Come conosceva lei Michelle Carlsson?» fu la prima domanda della televisione nazionale. La ragazza si fermò, si tirò giù una manica, sorrise incerta alla telecamera a mezzo metro dal viso. Annika si avvicinò lentamente, vide che la neonazista aveva un livido sulla fronte e un graffio sul collo. «Ho partecipato al programma» rispose con una voce argentina da campanella di vetro, in totale contrasto con il suo aspetto. «Perché?» Il tono e l'atteggiamento della reporter televisiva rivelavano chiaramente lo scetticismo e la mancanza di rispetto che provava. Hannah Persson s'innervosì, si passò la lingua sulle labbra, tentò di mantenere il sorriso. «C'è stato un dibattito. Abbiamo discusso. Di femminismo, e roba del genere.» «Perché è stata trattenuta? È sospettata di qualcosa?» Domande fredde e brusche, il ronzio della telecamera in coro con quello delle vespe. Lei fece un mezzo passo indietro, l'operatore la seguì, il mento della ragazza prese a tremare. «Cosa... perché me lo chiede?» «È rimasta dentro più a lungo di tutti gli altri. Qui si è svolto un omicidio. Le è stato consegnato un avviso di garanzia?» Un'ombra oscurò il viso della ragazza, mise radici e rimase. Annika vide i suoi occhi trasformarsi, passando da una spensierata aspettativa alla sfida e all'aggressività. Quando parlò, la voce aveva cambiato timbro, facendosi roca e offesa. «Strega. Non ci voglio parlare, con te.» La reporter televisiva non arretrò, continuò a tendere il grande microfono verso la ragazza come un'arma. «Lei è affiliata a un'organizzazione neonazista?» La ragazza sollevò il mento e sporse in fuori le labbra, apparendo ancora più giovane. «Sono la segretaria della sezione locale dell'Unione Neonazisti» chiarì, la voce di nuovo più forte. Eccola lì, pensò Annika. L'etichetta. Adesso sì che si sente qualcuno. «Che ne pensa degli immigrati?» La ragazza spostò i piedi e li divaricò per essere più stabile. «Sono per il potere bianco e la razza bianca.» «Dunque ritiene che tutti gli immigrati debbano essere sbattuti fuori?» Gli occhi della ragazza guizzarono, rispecchiando un abisso scuro e distruttivo. Smettila adesso, pensò Annika. Quell'abisso si farà solo più profondo. «Ritengo che gli svedesi abbiano il diritto di godersi il proprio paese.»
«Pensa che si debbano uccidere gli immigrati? Michelle Carlsson era un'immigrata, no?» La telecamera ronzava, il buio penetrò a fondo negli occhi della ragazza. Quando rispose, la sua voce era dolce come il miele. «Davvero?» Poi si avviò, allontanandosi dalla telecamera, attraversò il capannello di fotografi e reporter, diretta alla propria auto. Annika andò rapidamente in direzione opposta, raggiunse la Fiat scassata oltrepassando il muretto e attraversando il parcheggio. «Come hai avuto la pistola?» sussurrò alla ragazza. Hannah Persson si bloccò con la chiave infilata nella portiera del conducente, alzò sorpresa lo sguardo su Annika. Per alcuni secondi gli occhi rimasero vuoti e privi d'espressione, poi si animarono, e tutto il suo viso s'illuminò. «Annika!» esclamò. «Annika Bengtzon! Sei quella di Hälleforsnäs!» Mollò la chiave e girò intorno alla macchina, agitando le braccia. «Come?» chiese lei. La neonazista rise. «È ovvio che so chi sei. Lo sanno tutti. Ho sentito dire che il tuo compagno ti ha lasciato.» Annika rimase muta, impietrita, lasciò che le parole la colpissero. La ragazza le si avvicinò, le si piazzò vicinissima; Annika fissò il graffio che aveva sul collo. «Sentì» sussurrò con la sua vocina. «Com'è uccidere qualcuno?» Si sentì mancare il respiro, boccheggiò come un pesce, fece istintivamente due passi indietro. Hannah Persson la seguì, gli occhi taglienti da predatore, adesso, i denti affilati, l'alito pesante. «Me lo racconti? Me lo sono sempre chiesta. È stato difficile? Cos'hai provato dopo?» Annika sbatté la schiena contro il muretto che divideva il parcheggio dal giardino della scuderia, fissò la ragazza. La rabbia arrivò come un lampo. «Ma sei fuori?» quasi gridò. «Hai qualche rotella fuori posto?» Il viso della neonazista assunse di nuovo l'espressione imbronciata di poco prima. «Non prendertela tanto, non volevo offenderti. Era solo una domanda.» La guardò in cagnesco e tornò alla propria auto. Annika rimase dov'era, il cuore che le pulsava in gola. I piedi avevano perso il contatto con il terreno. D'un tratto, Bosse era lì, preoccupato e chino su di lei. «Annika, cosa c'è?» Chiuse gli occhi per qualche secondo, respirando a bocca semiaperta,
tentò di ricomporre la realtà a brandelli. «Niente. Ho cercato di sapere qualcosa di più da quella, ma non ha tutte le rotelle a posto.» «Sta scendendo il commissario.» Annika alzò gli occhi sul reporter, vi lesse una premura autentica, nessun secondo fine né malevolenza. Abbassò gli occhi: se il "Concorrente" avesse perso una conferenza stampa, lei l'avrebbe vista come una vittoria. Si avviarono insieme verso il canale. Questa volta Q oltrepassò la transennatura, piazzandosi all'ombra di una grossa quercia. «Il primo giro d'interrogatori con i testimoni che si trovavano nel castello di Yxtaholm durante la notte tra il 21 e il 22 giugno è stato completato» annunciò, fissando con aria vigile il gruppetto di giornalisti. «Ci siamo fatti un'idea piuttosto precisa dei fatti svoltisi nella nottata. Per questo non abbiamo motivo di trattenere oltre i testimoni. Come avete potuto notare, se ne sono già andati quasi tutti.» Tutti eccetto Anne, pensò Annika, avvertendo immediatamente l'ansia come un sasso infuocato nello stomaco. «Dal punto di vista clinico, il momento della morte di Michelle Carlsson è stato fissato tra le due e le quattro del mattino» continuò il commissario. Il vento si fermò, scese il silenzio. «Poiché due testimoni distinti l'hanno vista fuori dal castello subito dopo le due e mezzo, l'arco di tempo può essere ulteriormente ristretto. Ci siamo dunque concentrati sugli spostamenti intorno al castello e nel parco tra le due e mezzo e le quattro del mattino.» Fece una breve pausa prima di riprendere. «Nel corso della notte il traffico da queste parti è stato piuttosto intenso. Sappiamo che un'auto ha percorso il viale subito dopo le tre. Sul veicolo viaggiavano due uomini, abbiamo identificato sia il conducente che il passeggero. Entrambi sono stati sentiti come persone informate dei fatti, nessuno dei due è indiziato.» I giornalisti, attenti, pendevano dalle sue labbra. «Come è già emerso su uno dei mass media qui rappresentati» disse Q guardando in faccia Annika «l'arma del delitto è una pistola portata a Yxtaholm da uno dei testimoni. Sul revolver sono state rilevate diverse impronte digitali, ma queste non forniscono un'indicazione univoca riguardo al colpevole.» «È vero che l'arma è stata rubata in un deposito dell'esercito?» chiese la giornalista dell'emittente nazionale. Q apparve autenticamente sorpreso. «L'esercito svedese non utilizza revolver. L'arma in questione è stata importata illegalmente nel paese.»
«Di che marca è?» chiese Bosse. «Una marca completamente sconosciuta al mercato svedese» rispose il poliziotto. «Il fatto è che si tratta di un assemblaggio fatto in casa, paese d'origine USA. Naturalmente continueremo a indagare sul modo in cui l'arma è giunta fin qui, ma per l'inchiesta non è pertinente.» «Avete degli indiziati?» Di nuovo la televisione nazionale. «Stiamo seguendo le indicazioni forniteci dalle prove e dalle dichiarazioni dei testimoni.» «Arresti in vista?» chiese Bosse. «Per il momento no, ma la situazione è in continua evoluzione. Abbiamo buone speranze di risolvere il caso.» «Dove si trova John Essex oggi?» La giornalista televisiva aveva gracchiato la domanda con voce mortalmente curiosa. «In tournée in Germania» rispose Q. «Credo che stasera suoni a Colonia. Altre domande?» «Durante la notte c'è stato altro traffico qui?» chiese Annika. «Automobili, barche, altri veicoli?» Gli occhi del poliziotto si socchiusero un pochino. «A quanto ne sappiamo noi, solo l'auto.» «Pensate che l'assassino sia uno dei dodici che si trovavano al castello?» riprese Annika, fregandosene del fatto che anche gli altri avrebbero udito la risposta. Il poliziotto sospirò e si appoggiò al tronco, frugando nel taschino in cerca del pacchetto di sigarette. «Naturalmente non lo si può escludere» disse, gli occhi lucidi. Annika si concentrò sullo sguardo, cercò di leggere dietro quell'azzurro brillante. Lo dice perché desidera che lo scriviamo e diffondiamo questa versione. Desidera che si sappia in giro che uno di quelli che erano al castello potrebbe essere l'assassino, perché gli torna utile. In che modo? Lui avvertì il suo sguardo indagatore, lo sostenne, si accese una sigaretta e aspirò una boccata. Inutile tentare di fare congetture, si rese conto Annika. O uno dei dodici è veramente l'assassino, e in questo caso Q intende farlo sentire insicuro, oppure è convinto che si tratti di una persona all'esterno, e il suo intento è cullarlo in una falsa tranquillità. Il poliziotto intuì il suo ragionamento. «Okay. Stiamo facendo le valigie per tornare su a Stoccolma. Da domani spero che sarà l'addetto stampa della polizia a portare avanti i contatti con voi.»
«Ma potrà ben dirci qualcosa di più!» implorò Bosse. Q si staccò dal tronco e si avviò verso la transennatura a passi lenti, tra il rassegnato e il fintamente sobrio. «Cazzo» fece il reporter del "Concorrente". «Quello non si sbottona.» «Be', l'auto e l'orario della morte erano una novità, almeno per me» disse Annika, e in quello stesso istante vide Anne uscire dall'ala sud, carica di bagagli. Il sollievo le scattò all'altezza dello stomaco. Mosse inconsciamente qualche passo verso la transennatura, alzò un braccio per salutare. Ma l'amica non la vedeva, lo sguardo inchiodato a terra, la schiena curva. Le borse parevano pesanti come piombo. «Vuoi che ti aiuti?» le chiese quando passò sotto il nastro a strisce, bianca in volto e bagnata di sudore. L'amica alzò gli occhi, la bocca socchiusa, lo sguardo spaventato. Emise un sospiro di sollievo, quasi un sorriso. «Pensavo che te ne fossi andata.» «Prima che la faccenda sia chiusa?» Annika la guardò. Era cambiata, qualcosa nel suo aspetto era mutato dalla domenica precedente, quando erano andate allo zoo con i bambini. I capelli opachi, nonostante la tinta recente, la pelle più trasparente, più sottile. Paura negli occhi, qualcosa di sfuggente nel lavorio delle spalle con le borse. «È stata dura?» chiese. Anne Sapphane non rispose, spaziò con lo sguardo sul parcheggio. «Come cazzo ci vado a casa?» La voce era sottile e atona. «Ho la macchina» disse Annika. «L'auto del giornale con cui è venuta Berit. Se vuoi stare in pace ti lascio giù alla stazione. Se invece ce la fai a venire con me a visitare la tomba di mia nonna, ti accompagno fino a casa.» Insieme portarono i bagagli all'auto, tra di loro un silenzio fragile. L'amica montò, chiuse la portiera, si coprì il viso con entrambe le mani. Annika andò da Bertil Strand che, rilassato, stava parlando con il tecnico del suono della troupe televisiva. Si piazzò di fianco al fotografo, senza però riuscire a ottenere la sua attenzione. «Abbiamo finito, vero?» lo interruppe lei alla fine. Bertil Strand si bloccò a metà di una risata, si voltò verso di lei. «Hai fretta di andare da qualche parte?» «Ci vediamo al giornale.» Lui la salutò con un cenno del capo, poi riprese la conversazione con il tecnico del suono. «Te ne vai?»
Dietro di lei c'era Bosse del "Concorrente": alto, il sorriso sulle labbra. Lo guardò negli occhi, chiari e luminosi, fece istintivamente un passo indietro, allontanandosi dal suo calore. «Tra poco» rispose, senza sapere perché: avrebbe dovuto dire di sì, oppure che erano fatti tuoi. Il sorriso rimase, travolgendola in una danza che partiva dalla bocca dello stomaco e risaliva per la cassa toracica, facendole girare la testa. «Che ne dici di prendere una birra insieme una volta o l'altra, su a Stoccolma?» La reporter sbatté le palpebre. Quando parlò, non riconobbe la sua stessa voce, il cuore accelerò il suo ritmo. «Ma sì, perché no, si potrebbe fare...» «Ti telefono...» Annika si voltò e fuggì verso la macchina, la respirazione talmente superficiale da non giungere nemmeno alla laringe. Trovò Anne Sapphane che stava piangendo. Si sedette al posto di guida e la guardò, protesa in avanti, le mani su, verso il parabrezza, la fronte appoggiata al vano portaoggetti, le spalle scosse da crampi. L'inaspettato e scombussolante senso di vertigine si spense in pochi istanti. Appoggiò delicatamente una mano sulla schiena dell'amica. «È tutto a posto. Ormai il peggio è passato.» Thomas si alzò cautamente dal letto, la schiena rigida, e sistemò il lenzuolo sui bambini. Sperò che Kalle restasse asciutto durante il pisolino, non aveva voglia di lavare altra roba. Sulla porta si fermò a guardarli: la bambina così simile ad Annika, il maschietto il suo ritratto. I capelli simili a peluria venivano scomposti dalla brezza che penetrava attraverso le tende tirate, i corpi simili a piccole masse prive di contorni sotto il lenzuolo. Cercò disperatamente il senso d'affetto e l'orgoglio consueto, la conferma, ma senza riuscire ad afferrarli, sfuggenti. Sapeva il perché. Strinse le mascelle. Il dubbio. Valevano davvero... Sgattaiolò fuori, chiuse silenziosamente la porta, la corrente lo costrinse a tirare la maniglia per gli ultimi centimetri. Attraversò in punta di piedi l'ingresso, andò a prendere due sedie per bloccare l'accesso alla scala. «Holger?» chiamò piano rivolto alla cucina. «Mamma?» Nessuna risposta. Il sole era quasi cocente, il mare coperto di frammenti di specchio che abbagliavano gli occhi. Scese verso le rocce, lisce e smussate, percorse in
equilibrio il bagnasciuga e la vide troppo tardi. Era seduta sullo scoglio a qualche metro dalla riva, il loro posticino preferito, che gli sorrideva. «Ah, eccoti qua!» lo accolse Eleonor. «Gli altri si stavano chiedendo dove ti fossi cacciato.» Thomas si fermò e si schiarì la voce, arrabbiato per l'imbarazzo che provava. «Ho addormentato i bambini» le spiegò, sapendo che Annika l'avrebbe rimproverato, se l'avesse saputo. Non ci si doveva stendere accanto ai figli per farli addormentare, l'aveva letto nel Grande libro dei bambini: dovevano prendere sonno da soli, nel loro lettino. Eleonor batté la mano sul posto libero accanto a sé e senza riflettere lui ci si sedette, circondandola con il braccio sinistro come aveva sempre fatto prima, sentì la coscia nuda di lei bruciare contro la sua, il sangue che affluiva tutto all'inguine. «Gällnö dev'essere il paradiso sulla terra» disse la donna, guardando verso il mare a occhi socchiusi, inconsapevole dell'effetto che aveva su di lui. Era più morbida di come la ricordava, più alta, più rotonda. Immediatamente si rese conto che Annika era piccola e dura. «Non ti manca l'isola?» chiese lei, fissandolo negli occhi. Il diaframma gli si strinse, respirare gli costava fatica. Aveva letto nella frase un significato completamente diverso. «Forse» rispose. Lei spostò di nuovo lo sguardo sulla distesa d'acqua, si riparò gli occhi con la mano, scrutò in direzione di Hägerön. «Sono andati fin là a nuoto, quei matti. Li vedi?» Thomas finse di guardare, sul punto di svenire per la sua vicinanza. Eleonor sollevò il braccio e lo agitò, urtandolo per caso sul naso. Lui si portò la mano al viso, stupito dell'intensità del dolore. Lei rise. «È simpatico Martin, vero? Sono tanto felice, Thomas. Non sei contento per me?» L'uomo sbatté gli occhi per scacciare le lacrime provocate dalla botta, confuso e arrabbiato. «Ci siamo conosciuti alla cena di rappresentanza che la direzione della banca ha organizzato per i consulenti informatici incaricati di creare il nostro nuovo sistema di gestione. Martin è uno dei soci.» Thomas si toccò il naso con la mano. Niente sangue. «Non fare tante storie» lo prese in giro lei, rise di nuovo e saltò giù nell'acqua, tirandosi su ancora un po' gli shorts. Le onde le bagnarono le cosce, si mise a camminare cauta sui sassi taglienti del fondo.
«È venuto a stare nella villa?» chiese Thomas, nel quale si era improvvisamente risvegliato il senso del territorio. «No, ma abbiamo comprato insieme una barca a vela, è nel Torsviken.» «Ah, sì? Quale tipo di barca?» domandò lui, tentando di mostrarsi cortese. La donna allungò il collo, come faceva sempre quando era orgogliosa di qualcosa. «Una Beneteau Oceanis 36 CC Cli, del 2001, pozzetto centrale interamente attrezzato, generatore a vento, pannelli solari, argano gommone, strumentazione completa, rullafiocco e rullaranda, vela Albatrossegel più grande di quella originale, riscaldatore ad acqua. L'abbiamo presa usata, aveva fatto settecentocinquanta miglia nautiche, centoquaranta ore motore.» Thomas annuì, impressionato, cercando di nasconderlo. «Che motore ha?» «Un Volvo da trentotto cavalli. Un venti-quaranta.» «E quanto l'avete pagata?» Lei tornò sulla spiaggia, scosse via l'acqua dalle gambe, s'infilò i sandali, gli lanciò un'occhiata. «Te l'ho detto, era usata.» Thomas fece girare l'indice. «Dai, spara.» «Un milione e trecentomila corone.» Lui scoppiò nella risata che aveva pianificato a prescindere dalla risposta. «Uno e tre? Cazzo se vi siete fatti fregare.» La gioia di Eleonor si spense, scorrendole via dal corpo. Spinse indietro la testa, facendo comparire un piccolo doppio mento. «E poi» aggiunse Thomas «a te non è mai piaciuto andare in barca a vela.» Lei lo guardò, sprezzante, adesso. «Dipende con chi. Tu mi urlavi sempre dietro.» Non è affatto vero, eri tu che non volevi mai imparare. Ma le proteste gli morirono in gola. Eleonor gli voltò le spalle, si avviò lungo le rocce, verso la casa. Si rese conto subito che aveva ragione lei. Era sempre stato impaziente, arrabbiato quando le veniva il mal di mare, irritato dalla sua debolezza. La vide prendere qualcosa nella veranda, poi avviarsi a corsa leggera verso Hemfladen, agitare il braccio in direzione di alcune teste nell'acqua. La consapevolezza gli bruciava i polmoni. Non la merito.
Tore Brand bussò forte sulla porta di vetro. «Lei ha azionato il blocco per le telefonate in arrivo» ribatté in tono di rimprovero quando Schyman ebbe aperto. «Ne sono più che consapevole» rispose il condirettore. «Ho la polizia al telefono. Cercano lei.» Il portiere si girò e tornò all'ingresso senza attendere la risposta. Subito l'ansia attanagliò lo stomaco di Schyman, la stessa ansia che coglie tutti di sorpresa quando la polizia si presenta alla porta: la sensazione di non sapere cosa si è fatto di male, una ricerca febbrile e vana di ogni possibile scusa. Era una donna. «Telefono dal magazzino sequestri. Devo comunicarle che il pubblico ministero ha revocato il sequestro. Ce l'ha il numero?» Schyman si schiarì la voce. «Ci dev'essere un equivoco. Qui non c'è nessun tipo di materiale sequestrato.» «Certo che no, siamo noi ad averlo, e diverse sale piene, le dirò. Potete venire a fare il ritiro, adesso.» L'uomo si appoggiò allo schienale e si strofinò gli occhi. «Devo ammettere che non capisco.» «Secondo il codice di protocollo, il materiale sequestrato è relativo all'indagine per omicìdio al castello di Yxtaholm.» Fece frusciare un foglio. «Si tratta di una macchina fotografica priva di valore di prova per l'indagine. Il pubblico ministero ci tiene a far restituire tutti gli oggetti nel più breve tempo possibile. Non vogliamo che ci rimanga qui per tutta l'estate della roba che non ci serve.» «E la macchina sarebbe nostra?» «La devo invitare a ritirarla al più presto. Dovrete rivolgervi al piantone centrale in Bergsgatan 52, gli dite dove dovete andare e vi fate accompagnare al banco delle consegne, dove firmerete la ricevuta.» Il condirettore prese nota dell'indirizzo sul sottomano. «Siete sicuri che non vi serve più?» «Naturalmente abbiamo fatto una copia delle foto, nella misura in cui sono state ritenute pertinenti.» Lui ringraziò e riattaccò, infine chiese a Tore Brand di andare a recuperare al più presto la macchina fotografica. Venticinque minuti più tardi aveva in mano il materiale sequestrato: una busta di plastica contrassegnata da un codice interno, dal numero di protocollo e di serie e dal titolo dell'indagine. L'aprì, soppesò l'apparecchio nella mano: piccolo e compatto, pesante. Una macchina fotografica digitale, con
il contrassegno antifurto della "Stampa della Sera" sulla parte inferiore. Premette il pulsante d'accensione, e l'aggeggino si animò, emettendo un segnale acustico e mostrando la scritta HELLO in arancione sul display. Esaminò i pulsanti. Non aveva mai usato un affare del genere, ma aveva partecipato alla riunione in cui era stato deciso l'acquisto di un certo numero di apparecchi di quel tipo per la redazione. In realtà la differenza rispetto a una macchina fotografica tradizionale non era enorme, le foto venivano impresse su una memoria invece che su un rullino. L'aspetto positivo era che non c'era bisogno di svilupparle, bastava premere e guardare. Il display ebbe un guizzo e mostrò la prima foto in memoria. Una giovane donna che gli sembrava vagamente di conoscere come amica di Annika Bengtzon sorrideva verso di lui, gli occhi appannati e una birra in mano. Un uomo che non riconobbe mostrava la lingua all'obiettivo. Inquadratura successiva: Carl Wennergren in poltrona con i piedi su un tavolo. Continuò a premere, vedendo scorrere una dopo l'altra diverse immagini scattate a una festa. Stava per spegnere l'apparecchio quando trasalì. La foto numero diciassette ritraeva due persone che facevano sesso su un tavolo da pranzo, in una posizione che non poteva essere descritta se non come piuttosto spinta. Non c'era dubbio sui due soggetti: Michelle Carlsson e John Essex. Schyman li fissò incredulo per qualche secondo, per poi avanzare di uno scatto. La foto successiva era scura e sfocata, ma si vedeva ugualmente che la coppia aveva cambiato posizione. In quella dopo, Michelle penzolava dal bordo del tavolo, l'uomo in piedi, da dietro. Dovrei eccitarmi, pensò il condirettore, sorpreso della propria reazione nulla. In qualche modo, dovrei essere turbato. Scorse velocemente le ultime immagini impresse in memoria. Erano tutte sfocate e scure in misura variabile. Scattate di nascosto. Uno stipite bianco ogni tanto compariva sulla destra dell'inquadratura rivelando che il fotografo si era nascosto in una stanza o in un ripostiglio adiacente. Alla foto trentanove, improvvisamente entrava in campo un'altra figura umana, una sagoma scura nell'angolo superiore sinistro, mentre la coppia sul tavolo aveva di nuovo cambiato posizione. La sagoma si avvicinava nella foto quaranta, e alla quarantuno la si poteva identificare. Era Mariana von Berlitz, la ragazza di Carl Wennergren che aveva lavorato come sostituta del turno serale l'estate in cui Schyman aveva preso servizio al giornale. In mano teneva una grossa pistola. Il condirettore sentì che i capelli gli si rizzavano sulla nuca. Cazzo! Fu
costretto ad alzarsi in piedi, non riusciva a credere ai propri occhi. Il peso della macchina fotografica gli scottò improvvisamente le dita. Possibile che avesse in mano la soluzione dell'omicidio? Tremando leggermente premette ancora il pulsante, ritrovandosi a fissare l'amica brilla di Annika Bengtzon. Era tornato alla foto numero uno. Andò avanti e indietro alcune volte, si accertò di non aver saltato nessuna inquadratura. Spaziò con lo sguardo sulla redazione attraverso i vetri. Nessuno stava fissando dalla sua parte, erano tutti impegnati, per il bene del giornale, o forse per il proprio. Cosa doveva fare di quelle foto? La polizia le aveva valutate cóme prive di interesse per l'indagine... Sbagliato, si corresse. L'apparecchio in sé non aveva alcun valore per l'indagine, ma le foto erano state copiate. Poi la domanda scontata: chi le aveva scattate? A quanto ne sapeva, non era stato denunciato il furto di nessuna digitale, il che significava che il fotografo doveva essere uno dei dipendenti del giornale. In altre parole: Barbara Hanson o Carl Wennergren. Che cazzo doveva fare allora? L'appoggiò sulla scrivania davanti a sé, un blocco di esplosivo color metallo. Si dondolò un po' sulla poltroncina, concentrandosi sui profili lucidi dell'apparecchio e lasciando che l'ambiente circostante si sfocasse. Le foto erano uniche, probabilmente le ultime scattate a Michelle Carlsson in vita. Pubblicarle era escluso. Darle in pasto alla redazione sarebbe stato lo stesso che tappezzarci Sergels Torg. Cancellarle avrebbe costituito un crimine contro il più elementare senso giornalistico. Si appoggiò allo schienale e si posò una mano sugli occhi. Rimase in quella posizione finché la decisione non ebbe preso forma, si allungò rapidamente in avanti e prese l'apparecchio. Aprì il secondo cassetto della scrivania, la gettò in mezzo alle altre cianfrusaglie e chiuse a chiave. Il silenzio che seguì gli riecheggiò nella testa. L'avrebbe lasciata lì, per adesso non aveva più la forza di pensarci. Chiuse gli occhi per un istante, spostò lo sguardo verso la redazione finendo per posarlo su Torstensson. Il direttore responsabile si era seduto alla scrivania del caporedattore degli esteri. Aveva l'aria assente, un pesce fuor d'acqua. Questo non è il suo posto, pensò Schyman, sorprendendosi della certezza assoluta che quell'idea aveva risvegliato nel suo corpo.
Quando Annika strinse il volante, le sbiancarono le nocche. «Vuoi che guidi io?» chiese Anne Sapphane. Lei scosse la testa, fece spaziare lo sguardo sul lago la cui riva seguiva la strada come un gatto che corra dietro al padrone uscito per raccogliere funghi, ora a destra ora a sinistra, lontana e insieme vicina, compiendo curve e svolte immotivate ma sempre lì, pronta a tornare alla base. Si erano fermati alla Statoil a Flen e avevano comprato un mazzolino di fiori estivi avvolti nella plastica, trentanove corone e mezzo, avevano pagato la stanza del Loftet dall'altra parte della strada e poi imboccato la statale verso Mellösa e Hälleforsnäs. Il paesaggio era inondato dalla luce del sole, la vegetazione era quella, dolcissima, tipica d'inizio estate, prima che tutto diventi eccessivo, prima che i colori vengano cancellati da orge di clorofilla che conosce una sola sfumatura: la saturazione. Il silenzio, nell'auto, era greve ma pieno di calore, asciutto e amichevole. Il pianto di Anne era cessato, lasciandola con le giunture molli e il naso gonfio. Guardava fuori dal finestrino senza vedere, si lasciava cullare e guidare. Annika conosceva la strada e il paesaggio come se fossero impressi nel suo midollo: ogni curva, pietra, casa, scolpita giorno dopo giorno, sole e pioggia, arsura e neve. La strada per la scuola, il quadro di riferimento dell'infanzia, le pietre miliari. «Quand'è stata l'ultima volta che sei andata a farle visita?» le domandò l'amica, composta ma con la voce più leggera. Annika deglutì. «Troppo tempo fa. Quando aspettavo Ellen.» Svoltò verso Harpsund, superò il passaggio a livello e imboccò la salita in mezzo alle case dell'antico paesino con la chiesa in cima alla collina. Prese a sinistra davanti al cartello di divieto di sosta, parcheggiò di fianco alla siepe. Rimase seduta immobile a respirare per qualche secondo prima di afferrare i fiori, già avvizziti dalla calura, e uscire nel sole. La chiesa biancheggiava, abbagliante, in alto sulla sinistra, una coppia di vecchi muniti ciascuno del proprio bastone si spostava lentamente tra le tombe più antiche. La parte più recente del cimitero digradava verso il lago, circondata da siepi di sempreverde e betulle fruscianti. Lo scricchiolio della ghiaia echeggiava nel silenzio. Camminava cauta, quasi di soppiatto. Fece scorrere lo sguardo sulle lapidi, vecchi nomi autenticamente svedesi, i braccianti e i contadini della zona che non si erano mai chiamati altro che Andersson, Pettersson, Johansson, Eriksson. Davanti ai gradini esitò, in-
spirò profondamente tre volte, guardò il sole giocare al gatto e al topo con la spiaggia. È bello qui, nonna, pensò. Tu sì che stai bene. Scese i cinque gradini che portavano al settore successivo, girò a sinistra all'altezza degli annaffiatoi, dei vasi di plastica e dei bidoni, oltrepassò il soldato ventunenne caduto per il Nord libero sul fronte finlandese. La lapide in granito grigiorosso, lucido, le lettere dorate, Sofia Katarina, e il nonno di fianco. S'inginocchiò, l'erba morbida le inumidì subito le ginocchia. Mise giù i fiori senza toglierli dalla plastica, non si curò di andare a prendere l'acqua. Avresti pensato che ho fatto bene, rifletté. La voce riecheggiò dentro di lei, giovanile e cristallina come quando era in vita: "Un lavoro bisogna averlo, per potersi mantenere. Mai diventare dipendenti da un uomo per poter mettere in tavola da mangiare, hai capito, Annika? Trovati un buon lavoro!". «Ho avuto una bambina» sussurrò. «Adesso ho due figli.» Tacque la frase successiva. Non ti sarebbe andato a genio il fatto che non sono sposata. Cercò di pregare. Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno... ma la preghiera cessò, si spense, lasciando il fruscio delle betulle e il fremito dei giovani pioppi, il rimbombo lontano di un treno diretto a Eskilstuna. Mi manchi, nonna. Mi manchi ogni giorno. Ho bisogno di te, l'assenza del tuo amore è come un buco dentro di me. Il dolore e l'autocommiserazione le fecero salire agli occhi lacrime brucianti. Le ingoiò, decisa, si allontanò in fretta. «Hai tempo di fare una deviazione?» chiese risalendo in macchina. Anne chiuse gli occhi appoggiando la nuca al poggiatesta. «Io vado dove vai tu.» Lasciarono la chiesa, svoltarono a sinistra sulla strada che si snodava tra le casette di legno, passando vicinissime a muretti e fattorie, doppiando verande e trattori. Una volta fuori dal paesino, il nastro di bitume si snodava seguendo l'arcaica ondulazione dei prati e i confini delle proprietà. Piccoli poderi in legno rosso profilato di bianco si abbarbicavano al margine del bosco, vetri soffiati che scintillavano, fiori di lupino rosa e lilla a migliaia. All'altezza dell'ingresso della residenza estiva del primo ministro la foresta si richiuse su di loro, umida e scura. Poi l'apertura verso l'Harpsundsjön con la famosa barchetta in cui avevano remato i leader del mondo. Il grande palazzo,
un pastiche d'epoca carolina, si affacciava sulla strada. Le auto con i vetri affumicati e le guardie accanto al muro facevano capire che il primo ministro era lì. Annika rallentò, inspirò i profumi del parco. «Era qui che mia nonna faceva la governante.» Anne annuì senza parlare. Proseguirono lentamente lungo le curve di Granhed e il buio delle foreste intorno all'Hosjön. «Là in fondo c'è Lyckebo» disse la giornalista indicando il lago. Il contadino aveva sfoltito i cespugli e lo specchio d'acqua era visibile dalla strada. «Il piccolo podere della nonna. Anzi, di Harpsund, veramente. Lei l'aveva solo in affitto. Adesso la casa è diventata un capanno di caccia.» Si stavano avvicinando a Hälleforsnäs. Rallentò e sentì aumentare il ritmo cardiaco. «Dunque è qui che sei cresciuta» constatò l'amica rizzandosi a sedere sul sedile. Annika annuì, la gola stretta. Svoltò a sinistra verso la vecchia fabbrica, fuligginosa e arrugginita, con l'intonaco scrostato e lastre di masonite a coprire le finestre sventrate. Si fermò ai cancelli e al filo spinato, frugando con lo sguardo tra i rifiuti e le facciate cadenti. «L'altoforno?» chiese Anne. Annika annuì di nuovo e distolse lo sguardo. Non voleva vedere la ciminiera che un tempo sputava il fumo e il fuoco provenienti dal forno. Fissò l'asfalto, pieno di ferite e di toppe, i buchi sulla corsia ancora pieni d'acqua. Senza riflettere consapevolmente, scese dalla macchina, risalì di qualche passo lungo il pendio lasciando l'auto in folle. Un alito di vento portò con sé gas di scarico e odore di rifiuti industriali dimenticati. Le folate si fecero taglienti e soffocanti, ferendole gli occhi. Anne comparve alle sue spalle. Annika indicò un punto. «Tattarbacken. Lì abita la mia vecchia. E mia sorella.» Le case anonime, alte e strette, si ergevano sull'altura sovrastante. Erano edifici degli anni '40, rosso pino, contornati da erbacce e mobili da giardino in plastica, con vista sulla fabbrica. Il vento proseguì verso l'alto, accarezzò le facciate vuote e la vernice scrostata. Negli anni '60 quella zona brulicava di bambini, adesso invece gran parte delle abitazioni erano abbandonate, non si vedeva anima viva. Ascoltarono il vuoto. Da qualche parte era acceso un ventilatore. Musica, in lontananza.
«Dove abitavi?» Annika alzò lo sguardo verso le case immerse nel sole, gelide d'inverno, arroventate d'estate, inspirò profondamente e decise di lasciarsi avvolgere dal dolore. Ma il dolore non arrivò. Gettò un'occhiata al marciapiedi crepato sulla destra, l'avanzata dei soffioni lungo il bordo a sinistra dell'asfalto. «Andiamo» esclamò tornando di scatto verso l'auto. Ingranò la prima non appena Anne si sedette, imboccò la salita, ricordò di essere passata di lì nel periodo in cui aveva appena conosciuto Thomas, scoprendo che qualcun altro si era trasferito nel suo vecchio appartamento. Le tornò in mente la doppia emozione provata: sofferenza e sollievo. Qualcosa era ormai passato, un'altra persona si prendeva cura, adesso, di ciò che era stato suo. «Quello era il mio appartamento. Le finestre con i paralumi all'uncinetto» indicò, sentendosi colmare da un senso di irrealtà. Era davvero lei ad aver abitato lì, vissuto lì? Finestre lavate di fresco, vasi di fiori. Adesso quella quotidianità rappresentava la vita di qualcun altro, l'esistenza di qualcun altro. «Certo ho visto posti più divertenti» commentò Anne. Presero a destra oltrepassando la chiesa, giù verso il supermercato Konsum, dove c'erano alcune biciclette davanti all'entrata. Violette del pensiero e tageti si affollavano in grandi vasi accanto all'ingresso, tremolanti nella corrente e impegnati a gridare tutto il loro splendore prima che fosse troppo tardi. «Tua madre non lavora qui?» «Sì, almeno fino all'ultima volta che ci siamo sentite.» Attraversarono il paese, oltrepassando il campo di minigolf e l'ospizio, il negozio di lampadari e la stazione ferroviaria. Annika vide e ricordò. Le case addormentate e gli alberi ondeggianti, il calore emanato da pietra e asfalto. E poi la strada, quella immensa, che tagliava in due il paesino. Quanto l'aveva impaurita. Rimase colpita accorgendosi di come fosse stretta e corta in realtà. La statale. Attenta alle macchine sulla statale! Non aveva avuto il coraggio di attraversarla da sola fino a dieci anni. Anne aveva smesso di interessarsi al paesaggio, era appoggiata al finestrino laterale con gli occhi chiusi. Superarono il passaggio a livello dalle parti di Hållstakorset e, passate davanti agli Erlandsson, Annika ingranò la quarta.
Non appena fu scomparso dietro la macchina, il paesino cessò di esistere. Il fragile senso di preistoria incapsulata scoppiò come una bolla, dimenticato. Qualcos'altro cominciò a rodere e raschiare. Lui non aveva chiamato neanche una volta in tutta la giornata. Vagava nei luoghi della sua infanzia e non le rivolgeva nemmeno un pensiero. I bambini si costruivano i loro quadri di riferimento senza di lei. Era superflua. «Tu non vorresti sposarti con Mehmed?» chiese. Anne Sapphane alzò gli occhi, un'espressione stanca e vagamente sorpresa. «Sposarmi? Sei pazza? Perché dovrei?» «Avete fatto una figlia insieme, no?» «Ma dai, scusa, neanche conviviamo! Cos'è, tua nonna che aleggia nell'aria?» Annika tirò su completamente il finestrino. «Io voglio che ci sposiamo. Sul serio.» «E perché?» Alzò le spalle, frenò vedendo comparire un capriolo al margine del bosco, riaccelerò. «Per dimostrare che tra noi c'è un legame.» «Be', c'è lo stesso, no? Sono le malignità a irritarti?» «Forse.» Rimasero in silenzio, mentre il ventilatore diffondeva l'odore di automobile nuova. Intorno a loro la foresta, ridotta dalla velocità a una cortina verde uniforme, era fitta. «Com'è stato?» chiese Annika a voce bassa. L'amica guardò fuori dal finestrino per qualche secondo. «Orrendo» rispose alla fine. «Atroce, a essere sinceri.» «Qual è stata la cosa peggiore?» L'altra fissò lo sguardo fuori. «Il rimorso. L'impressione che fosse colpa mia. I sospetti.» Poi voltò la testa verso Annika e guardò il suo profilo. «Per un po' ho pensato che mi avrebbero arrestata. Che fossero convinti che fossi stata io.» La giornalista le gettò un'occhiata. «Perché lo pensavi?» Anne Sapphane inspirò profondamente, riempiendo i polmoni. «Sull'arma del delitto c'erano le mie impronte digitali.» «Ma dai. E come cazzo ci sono finite?» «Perché l'ho presa in mano, naturalmente. Anche se veramente l'hanno fatto anche tutti gli altri, o quasi.» La guardò senza abbassare gli occhi. «Non sono stata io, se è questo che
credi.» «Ma è naturale che non lo credo» rispose Annika. Raggiunsero Bäckåsen, svoltarono a destra verso la zona di Malmköping. «Mi è sembrato di capire che la registrazione delle trasmissioni sia stata pesantuccia.» Anne Sapphane deglutì. «Assistente di studio e addetta al casting. È umiliante. Avrei dovuto essere promossa in vista di quel programma, e invece sono stata retrocessa.» «Ma il perché lo sai» obiettò Annika. «Non aveva a che fare con te. È dipeso dai tagli.» «Ma io sono redattrice da anni. Il passo successivo dovrebbe essere direttore di produzione, non un'assistente di studio del cazzo. Avrei dovuto licenziarmi la primavera scorsa. Lo sai cosa mi toccherà fare per il resto della settimana? Contrassegnare tutte le cassette registrate, fare il time coding, le scritte in sovrimpressione e roba del genere. È allucinante. Per fortuna tutta quella merda è sotto sequestro.» «Devo comprare delle caramelle» annunciò Annika. «Ne vuoi anche tu?» Entrarono nell'area di servizio di Malrnkòping, acquistarono giornali, Coca-Cola e mezzo chilo di caramelle miste. «Credi che manderanno in onda le puntate?» domandò Annika quando imboccarono la strada per Strängnäs. «Immagino di sì» rispose l'amica, masticando furiosamente una caramella gommosa. «Vuoi che TV Plus butti nel cestino un'occasione d'oro come questa? Cos'ha detto Highlander?» «Che avrebbe dovuto conferire con la direzione del gruppo, a Londra, e mettere giù le linee guida del percorso da seguire per onorare la memoria di Michelle, eredità di generazioni future e altre menate del genere.» L'altra gemette, si passò una mano sui capelli. «Quante cagate dice, ha usato proprio il termine "conferire"? Ma se è soltanto un megafono, non può fare un passo senza il permesso di Londra. Lo sai, a proposito, che le aveva dato il benservito la sera prima che morisse?» Annika trasalì e fissò la sua compagna di viaggio. «Cosa? L'aveva licenziata?» La ruota destra finì fuori carreggiata, Annika riportò l'auto sull'asfalto. «Stai attenta. Be', era troppo vecchia, aveva compiuto trentaquattro anni lunedì scorso.»
Annika decelerò, spaventata dalla vicinanza del fosso. «Che ipocrita! "La nostra collaboratrice più apprezzata"! Porca puttana. Posso scriverlo?» «Non sulla base delle mie informazioni, sono solo di seconda mano. Ma vedi se riesci a fartelo confermare da qualche fonte.» Rimasero sedute in silenzio una di fianco all'altra, Annika con entrambe le mani che stringevano il volante e la bottiglia di Coca-Cola simile a un gelido pene eretto tra le cosce. Tra le cime degli alberi comparivano e sparivano i raggi obliqui del sole al tramonto, abbagliandole a tratti l'occhio sinistro. Spostò il parasole verso il finestrino laterale, gettò un'occhiata all'amica. Anne Sapphane aveva lo sguardo fisso sul paesaggio eppure rivolto dentro di sé. Annika riusciva a immaginare il filmato che le stava scorrendo sulla retina. «Mariana ha accennato a un documentario» sussurrò a voce bassa. «Ha detto che Michelle stava girando un film su se stessa, prodotto dalla società di sua proprietà. Ne sai qualcosa?» Anne Sapphane sbatté gli occhi ripetutamente. «Durante tutta la settimana ci sono stati diversi momenti di forte irritazione. La maggior parte di chi era lì trovava che avesse oltrepassato il limite ultimo del narcisismo. Chiunque avrebbe potuto fare un documentario su Michelle Carlsson, esclusa lei. Alcuni, non molti, però, non erano d'accordo. Sebastian Follin, naturalmente, e Bambi Rosenberg. Perché una persona conosciuta non dovrebbe poter sfruttare la propria notorietà? Perché sono sempre gli altri a poter approfittare della celebrità delle persone?» «È così che la pensi?» chiese Annika, socchiudendo gli occhi per difenderli dalla danza del sole. Anne Sapphane frugò nel sacchetto delle caramelle, scegliendo tra le liquirizie e le gommose alla Coca-Cola. «Fare un film celebrativo di se stessi è piuttosto ridicolo, in effetti. Da un punto di vista puramente giornalistico, una pellicola del genere non ha nessuna credibilità. Chi si accollerebbe gli aspetti critici?» «Ma veramente avrebbe realizzato il film personalmente? Oppure la cosa si limitava alla produzione da parte della sua società, utilizzando un direttore di produzione indipendente?» L'amica si mise in bocca una caramella, masticò per qualche istante. «Ha importanza?» domandò staccandosi con l'unghia dei frammenti di liquirizia dai denti. «Avrebbe realizzato e venduto un film su se stessa, guadagnato soldi sul fatto che era una vip. Concorderai con me che è un po' penoso.» Annika rallentò all'altezza del Björndammen per guardare la casetta in
legno rosso che fungeva da caffetteria e le persone che, interrotta la gita in auto, si erano fermate a bere un caffè e prendere un dolcetto in riva al lago. «Ma scusa, qual è in fin dei conti l'aspetto ridicolo? Se avesse avuto un direttore di produzione indipendente dal punto di vista giornalistico, in realtà, il fatto che la società di produzione fosse sua non costituiva un ostacolo. Immagina se la stessa regola valesse per tutti gli altri operatori del mondo della comunicazione: il settore non potrebbe mai scrivere di sé.» «Ma non è la stessa cosa» obiettò Anne. «E invece sì» insistette lei. «Prendi per esempio la famiglia proprietaria della "Stampa della Sera". Possiede anche la più importante rivista del settore, il principale canale televisivo, diverse stazioni radio e società che operano su Internet. Se il giornale dovesse chiudere, la televisione e la rivista di settore non dovrebbero occuparsi della cosa?» «Non capisci cosa intendo...» Lasciarono cadere l'argomento, il silenzio immediatamente più compatto. Annika armeggiò con la radio dell'auto, riuscendo a captare solo fruscii. «Questo Sebastian Follin» chiese poi. «Che tipo è?» L'amica si lasciò scappare una risatina, stanca e impalpabile, appoggiò il sacchetto di caramelle davanti ai piedi. «Oddio, fra tutte le persone insignificanti di questa terra...» Annika le gettò una rapida occhiata. «Ma scusa, pensavo che fosse lui a procurarle i contratti.» «Sebastian Follin era dipendente a tempo pieno di Michelle Carlsson in qualità di suo massimo fan. Il suo compito era quello di starsene lì in ogni occasione a sventolare una bandierina con la scritta MICHELLE IS THE BEST.» Con la mano agitò un immaginario gagliardetto. «Perché?» L'altra scosse la testa. «Michelle ne aveva bisogno, immagino. Le conferme non le bastavano mai. Il compito di Sebastian Follin era quello di aggiungerne continuamente.» Risero insieme, una risata breve e malinconica. «Quali erano gli altri VIP che aveva nella sua scuderia?» Anne sospirò e appoggiò la testa all'indietro. «Non saprei, non l'ho mai sentito fare altri nomi.» Dopo la fabbrica di Länna, Annika svoltò a destra, imboccando una scorciatoia stretta e tortuosa. «Hai mai conosciuto Michelle?» le domandò la sua compagna di viaggio.
Lei scosse la testa. «Non credo. Eppure è come se la conoscessi. Hai parlato così tanto, in questi anni. E poi, naturalmente, tutti gli articoli...» «Karin però l'hai conosciuta, vero? Karin Bellhorn. Alla festa di Natale. Cos'ha detto uscendo?» «Sembrava esausta, triste. Ha detto che la notorietà trasforma le persone in strani modi, che ingenera dipendenza come una droga. Una volta che ci si abitua alla luce dei riflettori, si fa qualsiasi cosa per rimanerci.» L'altra annuì. «Karin ne sa qualcosa. Negli anni '70 è stata anche lei conduttrice.» «Davvero? La Michelle Carlsson degli splendidi anni '70?» Anne abbozzò un sorriso. «Non proprio, ma ha avuto anche lei la sua dose di critiche e pettegolezzi, sulla stampa. A quell'epoca si chiamava Andersson, prima del matrimonio con il rocker inglese, Steven Bellhorn, e del trasferimento all'estero.» «Ah già. Ma divorziarono dopo un paio d'anni, no?» «Sì, lui scappò con una bionda ventitreenne. C'è gente che sostiene che Karin non abbia ancora superato il trauma. Cos'altro ha detto?» «Che la fama è come una ferita nell'anima, può rimarginarsi e scomparire ma lascia una cicatrice. Tutti quelli che l'hanno avuta si grattano e si tormentano, non riescono a lasciarla stare. Michelle era come una ferita sanguinante, ha detto. Lo era?» La sua interlocutrice non rispose, rimase in silenzio mentre imboccava l'autostrada. «Hai parlato con tutti?» chiese poi. «Anche la neonazista, Mariana, Wennergren, Stefan?» Annika deglutì. «La neonazista è fuori di testa. Sapeva chi ero. È stato maledettamente sgradevole.» «In che senso sapeva chi eri?» Respirò affannosamente, vide l'espressione del viso della ragazza davanti agli occhi. Un predatore con i denti scoperti. "Com'è uccidere qualcuno? Me lo racconti? Me lo sono sempre chiesta. È stato difficile? Cos'hai provato dopo?" «Ha detto che aveva sentito dire che Thomas mi aveva lasciata. Mariana e Wennergren se ne sono andati senza parlare. Anche Axelsson. Bambi Rosenberg ci ha recitato una scenetta, pareva sinceramente distrutta dal dolore.» «Sai, Michelle era il suo biglietto per le prime degli spettacoli» rispose Anne Sapphane. «È normale che la rimpianga.»
«Ma dai!» esclamò Annika. «Ormai li riceverà anche lei, gli inviti alle prime, no?» Anne guardò fuori dal finestrino, senza rispondere. Il traffico sull'autostrada era intenso e procedeva a scatti, per diversi chilometri si ritrovarono più o meno sempre di fianco una monovolume a bordo della quale viaggiava una famiglia. Una bimba sui due anni faceva continuamente ciao con la manina. «Gunnar Antonsson» riprese Annika quando si furono lasciate alle spalle la famiglia «lui non contava niente. No?» «In che senso?» «Karin ha detto che lo si dimenticava facilmente, e lui stesso pareva non annoverarsi tra i giornalisti.» «Be', è ovvio, lui fa l'autista e il tecnico, ma a me va a genio. Riesce davvero a tenere la situazione sotto controllo. Hai parlato con Stefan Axelsson?» «Ho tentato. Ma lui non ha voluto. Che cosa ne pensava di Michelle?» «Sono stati insieme» rispose Anne «per un breve periodo, un paio d'anni fa. Dopo, è diventato intrattabile e quasi sempre muto, con lei. Li hai visti tutti, gli altri?» «Tutti tranne John Essex.» «E allora, cosa pensi?» le domandò Anne. La reporter scosse la testa, restando in silenzio a lungo. «Non ne ho la più pallida idea» rispose alla fine. «Credi che sia stato qualcuno di noi?» Una pausa di un attimo. «Presumibilmente sì.» «Chi?» Scese il silenzio, le auto intorno a loro frenarono e si fermarono. Erano arrivate a Södertälje, nel punto in cui le autostrade provenienti da sud e da ovest convergevano. Le file si snodavano all'infinito in entrambe le direzioni. «Non sei stata tu» rispose Annika in mezzo ai gas di scarico. «E nemmeno Gunnar, credo. Ma potrebbe averlo fatto chiunque degli altri.» La redazione era illuminata a giorno. I redattori del turno serale, ancora pimpanti grazie al riposo pomeridiano, andavano a prendere il caffè, ridevano, telefonavano, giocavano a flipper ai computer, facevano un ultimo giretto senza meta prima che la notte li incatenasse a Quark Express e alla
difficile arte di far tornare il conto delle righe. Annika non vide capiredattori al banco. Anche il gabbiotto di Schyman era vuoto, evidentemente erano in riunione da qualche parte. Andò alla sua scrivania e tirò fuori il portatile. Appoggiò la fronte alle nocche e inspirò profondamente, poi ascoltò i messaggi in segreteria: niente; fece lo stesso con quella del cellulare: nessun messaggio. Secondo i piani iniziali, Thomas e i bambini sarebbero dovuti tornare il giorno successivo, con il giro pomeridiano del traghetto Cinderella, arrivando a Stoccolma subito prima delle sei. Sollevò il ricevitore del telefono che aveva sulla scrivania, compose il numero di cellulare del compagno. Solo la segreteria telefonica. Ascoltò la sua voce lontana, una pietra sul petto. Riattaccò senza dire niente, tirò fuori la rubrica con il numero dei suoceri sull'isola. Cercò di memorizzare la combinazione: strano che, con la memoria che si ritrovava, non riuscisse mai a ricordarselo. Mise di nuovo la mano sul ricevitore, la lasciò lì finché non sentì un formicolio alle dita. Sta camminando sulla spiaggia al tramonto, non sente la mia mancanza. Si alzò in fretta, andò alla macchinetta del caffè, allontanandosi dalle immagini di sole rosso su spiagge azzurre e prese un espresso ristretto. Bevve con la schiena appoggiata alla parete, fissando i contorni netti della redazione, circondata da suoni e risate. Tentò di scacciare, respirando, il senso pulsante di abbandono. "Questa non te la perdono. Fanculo." Strinse il bicchierino nella mano fino a romperlo, tagliandosi. Tornò al suo posto con lo sguardo incollato al pavimento. Cosa doveva scrivere? Si sedette con blocco e matita a strutturare il lavoro. Un articolo avrebbe naturalmente dovuto riguardare i fatti relativi alle ultime ore di vita di Michelle. Sospirò. Per come erano andate le cose, non era possibile descriverli senza offendere la defunta: era ubriaca fradicia, aveva gridato dietro ai suoi collaboratori, girato seminuda con una pistola in mano. Era stata licenziata, aveva liquidato il suo manager, perso il controllo. E tuttavia queste cose dovevano essere accennate, in qualche modo sapeva che erano importanti. La morte di Michelle Carlsson era una morte pubblica, così come lo era stata la sua vita, e lo scandalo sarebbe inesorabilmente trapelato. Anche se i giornali svedesi si fossero astenuti dalla tentazione di scavare nella merda, ci avrebbero pensato i tabloid inglesi, visto che era coinvolto John Essex.
Prese qualche appunto e proseguì. I litigi. I problemi all'interno della troupe durante le registrazioni. Quelli erano più facili da descrivere. La misteriosa macchina che risaliva il viale d'ingresso del castello nel periodo di tempo a cui era stato circoscritto il delitto, presumibilmente per andare a prendere John Essex: anche questa filava via liscia. I testimoni erano stati lasciati andare, ma con l'invito a restare a disposizione per eventuali ulteriori interrogatori. Questa parte presentava qualche difficoltà in più. Rosicchiò l'estremità della penna, riflettendo. Restava la frase enigmatica di Q sulla loro colpevolezza: ovviamente, non lo si poteva escludere. In realtà non significa niente, pensò Annika. O meglio, significa tutto e niente: potrebbe essere stato qualcuno di loro, oppure no. «Bengtzon!» Trasalì, alzando lo sguardo confusa. Il condirettore, in piedi sulla soglia del suo gabbiotto, le faceva cenno di avvicinarsi. Prese il blocco con lo schema e si avviò verso l'angolo della redazione. «Chiudi la porta» le ordinò Anders Schyman prendendo posto sulla sua poltroncina scricchiolante. Lo osservò. Il suo superiore aveva l'aria accaldata e stravolta. Il colletto era macchiato, gli occhi arrossati. «Non ho ancora discusso con Berit di tutto il materiale» esordì «ma ho cercato di strutturare quello che ho in mano per valutare come si può...» «Per queste cose, veditela con il caporedattore» la interruppe l'uomo, la voce sorda per la stanchezza. Annika si bloccò a metà di un gesto chiarificatore. Il condirettore era seduto con le mani davanti agli occhi. «È successo qualcosa?» Lui si protese di scatto in avanti, lasciando cadere gli avambracci sulla scrivania con un tonfo. «Sei in servizio, nella prima parte della settimana prossima?» Annika esitò, incerta. «Perché?» «Ci hai dato dentro per tutto il fine settimana, quando avevi pensato di prenderti le ferie compensative che ti spettano?» «Non appena potrò. Sarà un'intera settimana...» Il condirettore agitò una mano per interromperla, passandosi l'altra sulla fronte. «Può darsi che abbia bisogno del tuo aiuto lunedì, per una faccenda maledettamente delicata. Non dovrai dire niente a nessun altro della redazione, nemmeno a Berit.»
Sentì montare la sorpresa lungo la spina dorsale come anidride carbonica e si sedette, protesa in avanti. «Ma di che si tratta?» Guardò il suo superiore, cercò di capire cosa nascondeva dietro la barba incolta e gli occhi chiari. «Ma che razza di notizia è? Non ne sanno niente neanche i capiredattori?» «Non si tratta di una notizia» rispose Schyman. «È una questione privata per la quale ho bisogno di una mano.» Annika si appoggiò allo schienale, non sapeva cosa pensare. «Spero di avere ancora una famiglia, quando uscirò da questa storia. Se adesso mi tocca pure lavorare fuori orario per te personalmente, forse potresti...» «Lasciamo perdere» la interruppe Schyman. «Me la sbrigherò in qualche altro modo. Vai a scrivere i tuoi articoli.» Si chinò sulle proprie carte, a indicare che la conversazione era chiusa. Annika scrutò il proprio superiore. Aveva l'aria tesa, cerchi scuri sotto gli occhi, aloni di sudore sotto le ascelle. A volte aveva l'aria stanca, ma non in questo modo. «Cos'è successo?» chiese. «Niente» tagliò corto lui. Annika allungò il collo verso la redazione. La banda dei capiredattori era tornata, ma c'era anche qualcuno di nuovo, un omino in abiti sportivi che sfogliava un giornale. «Santo cielo. Torstensson è qui, nel giorno della festa di mezz'estate?» Lui non rispose, restò a fissare le proprie carte senza leggere. «Io non posso decidere da sola quando prendermi le ferie compensative» continuò Annika lentamente. «Adesso che Sjölander è a New York bisogna che concordi i miei turni con il caporedattore o con il condirettore. Se tu vuoi che io lunedì lavori, lunedì lavorerò.» Scese il silenzio. «Senti» riprese «ho un problema riguardo al materiale relativo a quest'omicidio. La mia migliore amica è una dei sospettati. La domanda è se la cosa può influenzare la mia imparzialità.» «In che senso?» Stanco e disinteressato. Lei esitò, abbassò gli occhi sulle dita che stringevano l'orlo della maglia. «Riuscirò davvero a occuparmi della faccenda in maniera obiettiva? E se poi è stata lei, cosa faccio?» Annika alzò gli occhi, incrociando lo sguardo del suo capo. «Due dei miei dipendenti sono sospettati» rispose rassegnato il condirettore. «Non posso rinunciare ad altri reporter.» «È che tutta questa storia ha un che di losco» confessò, accorgendosi da
sola di essere sfuggente. Schyman raddrizzò la schiena. «Ho anch'io dei vecchi conoscenti nel gruppo dei sospettati. Karin Bellhorn. Abbiamo lavorato insieme alla redazione della SVT per un breve periodo.» Annika sollevò istintivamente le sopracciglia. Possibile che Schyman fosse così vecchio? «E com'era?» Il condirettore si appoggiò pesantemente all'indietro, fissò la sua libreria. «Competente. Zelante. Affetta da una grave forma di gobbomania.» Annika sbatté gli occhi, perplessa. «Di che?» «Gobbomania. Dipendenza da telecamera. Per un certo periodo sono stato contagiato anch'io, ma ormai mi è quasi passata.» Batté pensoso la penna sul bordo della scrivania. «Giravano voci su di lei, un aneddoto riguardo agli ultimi giorni trascorsi in redazione. Non so quanto sia vero.» Stava ancora fissando la libreria, ma il suo sguardo era rivolto verso l'interno. Annika attese in silenzio. «Karin diffuse una lettera d'amore che il conduttore del programma aveva scritto a una praticante della redazione. A quell'epoca si dovevano registrare tutte le fotocopie che si facevano in ufficio e Karin era l'unica persona a essere stata lì la sera precedente. Il mattino dopo, la lettera d'amore era inserita nelle caselle della posta di tutti. Karin negò, ma, secondo le voci, non poteva essere stato nessun altro.» Annika buttò giù qualche appunto sul suo blocco. «E come andò a finire per il conduttore del programma?» «Un punto a suo favore.» «E per la praticante?» «Dovette andarsene quel giorno stesso.» Annika si alzò, irritata. «Naturale. Regole completamente diverse per le donne e per gli uomini. E non ci credo affatto a questa storia, girano sempre un sacco di balle sulle donne che riescono ad arrivare da qualche parte.» «Sei proprio una femminista...» commentò Schyman. Le parve di intuire una sfumatura d'ironia. «Ho semplicemente un cervello» rispose. Una volta che la porta di vetro si fu richiusa alle spalle di Annika Bengtzon, Anders Schyman tirò un sospiro di sollievo. Lei l'avrebbe fatto, senza domande. Naturalmente avrebbe capito come stavano le cose, ma non sarebbe andata a fare la spia. Per la prima volta in tutta la giornata, avvertì un moto di soddisfazione. Nonostante la sua angolosità e il suo brutto carattere, Annika Bengtzon era il cavallo giusto su cui puntare.
Si avvicinò alla porta, guardò verso la redazione e la scrivania a cui si era piazzato Torstensson, al centro della mischia eppure isolato. Le conversazioni gli passavano sopra la testa, di fianco. Schyman notò come le parole andassero da un redattore al caporedattore di notte e ritorno, dal photo editor al reporter, dal correttore di bozze al revisore, avanti e indietro come onde di un mare, apparentemente morbide e docili ma in realtà spietate. Nel bel mezzo di quel mare era seduto il direttore, simile a un palo piantato sul fondo, muto e rigido, un'altra materia. Non reagiva né alle risate né ai discorsi seri, non aveva nessun contributo da dare né alle discussioni grondanti adrenalina né a quelle complicate. Di tanto in tanto alzava gli occhi, ogni volta con lo stesso sguardo di chi non capisce. Appariva vulnerabile in maniera inaudita, e Schyman provò sincera compassione per lui. Forse può funzionare lo stesso, pensò. È incompetente, ecco tutto. È un bene che stanotte sia lì seduto, è un buon segno, forse vuole cominciare a collaborare. Esitò un attimo, poi chiuse a chiave la porta di vetro. Tornò alla sua scrivania, si sedette, aprì l'ultimo cassetto. Guardò l'interno, quasi vuoto. C'era solo la cartellina, rossa e consunta, le soluzioni d'emergenza, il suo laboratorio per una guerriglia etica e morale. Erano mesi che si trovava lì, ormai, persino anni, custodita come se contenesse batteri di antrace o iprite. La sua arma editoriale. Usare quelle cartucce sarebbe stato rischioso, forse letale. Se le avesse diffuse in pubblico il contagio avrebbe potuto colpire anche lui, proprio come le armi biologiche rischiano di attecchire su chi le scatena. Non è necessario che prenda una decisione stasera, pensò. Tirò fuori ugualmente la cartellina, la soppesò nella mano. Piuttosto leggera. L'appoggiò alla scrivania: nessun pericolo. Era entrando in contatto con altri giornalisti che poteva diventare rischiosa. Spinse da parte l'elastico e l'aletta di cartone si aprì, comparvero le fotocopie. Fece scorrere la punta delle dita sul primo foglio, ruvido, asciutto. I verbali delle riunioni del consiglio d'amministrazione degli ultimi tre anni. Naturalmente lui non avrebbe dovuto averli, e nemmeno prenderne visione. Non aveva accesso alla stanza dei bottoni della famiglia che deteneva la proprietà. Torstensson però sì. Come direttore responsabile partecipava alle riunioni in qualità di membro aggiunto. Non aveva dunque diritto di voto, ma
era lì per fare comunicazioni e intervenire nelle discussioni. Per questo riceveva una delle pochissime copie che venivano fatte dei verbali, che naturalmente si pensava fossero archiviate in un luogo inaccessibile. Non era così. Torstensson le infilava in una cartellina contrassegnata VERBALI CDA. Schyman l'aveva scoperto una sera, sul tardi, mentre stava andando a casa. Scendendo in garage aveva sentito improvvisamente il bisogno di urinare ed era entrato nel bagno più vicino. Uscendo si era reso conto di trovarsi di fronte al grande ufficio d'angolo del direttore. Senza riflettere, aveva fatto un passo avanti e abbassato la maniglia. Aperta. Era entrato nel buio, silenzioso, e si era richiuso la porta alle spalle. Per un'ora aveva perlustrato tutta la stanza. Ogni documento, giornale, cartellina, i canali della televisione. Nella libreria dietro la scrivania aveva trovato la cartella dei verbali. Senza nemmeno pensarci su li aveva fotocopiati tutti, insieme ad altre carte che poi aveva buttato via. I verbali, però, li aveva tenuti. Aveva anche preso l'abitudine di passare dall'ufficio del direttore le sere in cui aveva fatto tardi, il che accadeva spesso, trovando che per lo più, ma non sempre, la porta era chiusa a chiave. Le volte in cui riusciva a entrare passava in rassegna quello che gli sembrava di dover sapere, cioè quasi tutto. A questo punto aveva a propria disposizione tutti i documenti di qualche importanza per il futuro del giornale. Forse sono presuntuoso, pensò, sfogliando i verbali. Cosa mi fa pensare che la responsabilità ricada sulle mie spalle? Perché lo so, rispose a se stesso. Vedo. La mia specialità è osservare gli eventi e trarne le conseguenze. Per questo sono qui. Agire secondo le modalità che ritengo opportune è un mio maledetto dovere, anche se significa sfruttare il pubblico come arma. Tirò fuori i verbali che aveva contrassegnato. Erano solo due. Prima, la faccenda dell'appartamento. Durante una riunione risalente a un anno e mezzo addietro, Torstensson aveva chiesto il permesso di entrare a far parte del consiglio d'amministrazione dell'azienda di gestione immobiliare del partito. Secondo il verbale, gli altri membri del consiglio del giornale non avevano sollevato obiezioni. Il rappresentante sindacale, che era ammesso alle sedute in virtù del diritto stabilito dallo statuto, si era però pronunciato, cosa riportata in verbale, affermando che tale incarico era inopportuno per un editore. In qualità di difensore della libertà di parola e di coscienza critica dei detentori del potere, il direttore responsabile non avrebbe dovuto assumere un incarico politico di quel genere.
Dopo essersi impossessato di quel verbale, Anders Schyman aveva controllato i membri del consiglio d'amministrazione presso l'Anagrafe delle aziende. Torstensson aveva tranquillamente accettato il posto che gli era stato offerto, cosa che Schyman aveva annotato in matita a margine. Quasi un anno più tardi aveva ricevuto una telefonata da un'anziana signora in preda alla disperazione. In realtà aveva cercato il direttore Torstensson, ma visto che non era presente, la telefonata era stata passata a lui. Si era presentata con un cognome della piccola nobiltà e aveva raccontato, in maniera sconnessa, di aver abitato fino a poco tempo prima in un quadrilocale in Florgatan nel quartiere Òstermalm di Stoccolma, appartamento in cui lei e il marito erano andati a stare quando si erano sposati nel 1945, proprio alla fine della guerra. Comunque, il marito era morto, che dolore immenso, un dolore immenso, e adesso le avevano tolto anche l'appartamento, era stata costretta a traslocare, e anche questo era stato terribile. Il proprietario aveva fatto dei lavori e le aveva offerto un'altra sistemazione. Ma si poteva davvero agire in questo modo? Schyman aveva ascoltato, distratto e piuttosto irritato, finché la donna non aveva nominato la società che amministrava lo stabile. Il motivo per cui la donna aveva telefonato cercando del direttore Torstensson era che l'appartamento era stato assegnato a suo figlio, mentre lei era stata mandata a stare in un trilocale nel quartiere periferico di Skärholmen, dove non voleva stare, non ci voleva veramente stare, con tutti quegli stranieri, si sa come sono quelli, tutti terroristi violenti, e poi un'architettura talmente orrenda! Così era stata costretta a comprare un appartamentino a Östermalm, e secondo lei doveva pagarglielo l'azienda immobiliare. Schyman aveva fatto il terzo grado alla vecchietta, giungendo alla conclusione che aveva detto la verità. Il figlio di Torstensson era stato registrato all'anagrafe presso quell'indirizzo due mesi prima, il piano corrispondeva. Inoltre lo stabile sarebbe stato acquistato da un'associazione di residenti di recente istituzione, della quale il figlio di Torstensson risultava presidente del consiglio d'amministrazione. Questo sarebbe potuto bastare, ma non era così. Toccò le carte che aveva raccolto, le soppesò come armi. La vecchietta non era all'altezza, da un punto di vista giornalistico non teneva. Nessuno avrebbe provato compassione per una razzista borghese ricca sfondata, che avrebbe potuto benissimo andare a stare in affitto. Certo, da parte di Torstensson era moralmente dubbio dare la precedenza al figlio invece di rispettare le liste infinite a cui gli abitanti di Stoccolma si iscrivevano per ottenere un appartamento,
perché naturalmente non poteva che essere andata così. Ma c'era da chiedersi se il suo modo d'agire era stato sufficientemente illegale da provocare una condanna. Torstensson si sarebbe abbarbicato alla sua poltrona a ogni costo, e se non avesse dato le dimissioni spontaneamente o non fosse stato clamorosamente licenziato, la faccenda avrebbe solo danneggiato il giornale, invece di trasformarsi nel salvataggio di cui aveva bisogno. Doveva trovare qualcosa di peggio. Un modo per affondare Torstensson sarebbe stato naturalmente lasciare che il giornale prendesse una vera e propria cantonata, commettendo un errore clamoroso che potesse provocare una rivolta dell'intero paese nei confronti della testata. In una situazione del genere il consiglio d'amministrazione sarebbe stato costretto a prendere in considerazione una mozione di sfiducia, ma lui non sarebbe mai arrivato a tanto. Il suo compito era salvare il giornale, non decapitare Torstensson. La freccia doveva necessariamente colpire solo il direttore responsabile, il che rendeva più difficile la mira e richiedeva una maggiore precisione. Non voleva causare vittime civili. Inoltre, nel caso di una cantonata clamorosa, probabilmente avrebbe dovuto andarsene anche lui. Dunque tutto dipendeva dalla faccenda delle azioni, ed eventualmente da Annika Bengtzon. Tirò fuori i documenti in fondo alla cartellina: un verbale del consiglio d'amministrazione, un comunicato stampa e due ritagli della rivista "Gli affari della settimana''. Il primo ritaglio era una disamina del gruppo in mano alla famiglia proprietaria del giornale, con una mappatura delle varie società operanti nel settore delle telecomunicazioni e degli interessi incrociati che vigevano tra esse. Praticamente, in un modo o nell'altro tutte le società erano interdipendenti. Comprendevano ogni tipo di attività, da giornali, riviste, radio, televisione e Internet ad aziende di produzione industriale pura, tra cui quelle di assorbenti e pannoloni per bambini. Nel grafico che rappresentava le diramazioni del gruppo, il quotidiano "La Stampa della Sera" compariva sotto forma di mattonano azzurro. Era ancora lì, ma il giorno in cui la situazione economica fosse peggiorata sensibilmente, gli introiti pubblicitari sarebbero crollati, e allora la storia sarebbe finita. Poiché le tirature non accennavano ad aumentare, erano proprio le entrate relative alla pubblicità a mantenere il bilancio in nero. C'era il rischio che presto non esistesse più nessun mattonano azzurro. Lo sguardo di Schyman scorse rapidamente il grafico, fino all'angolo in
basso a destra e alla divisione nuovi media. Quel ritaglio risaliva all'epoca d'oro, il periodo in cui il futuro rappresentava la salvezza e le possibilità parevano infinite. C'era Global Future, la superba ammiraglia della famiglia nel mare della nuova epoca, la società di Internet che avrebbe dovuto occuparsi di tutti gli investimenti del gruppo in ambito digitale, con dei consulenti che avrebbero dovuto vendere se stessi sul mercato e costruire il futuro. Il quotidiano "La Stampa della Sera" era un mattonano azzurro anche nell'attività di Global Future. Da qualche parte, prima o poi, si sarebbe realizzato il grande sito del giornale, quello destinato a vincere la guerra del cyberspazio e traghettare "La Stampa della Sera" nel domani. Non era mai stato così. Il giornale aveva ancora in mano solo la sua squallida pagina web, qualche agenzia e i programmi della TV, mentre il "Concorrente" aveva costruito il portale più premiato di tutta Europa. Schyman sospirò profondamente, sentendo pulsare la stanchezza. Si appoggiò allo schienale, si strofinò gli occhi, cercò mentalmente di comporre il puzzle. Diverse società di proprietà della famiglia erano quotate in Borsa, e tra queste anche Global Future, quotazione che era risultata costosa e anche un po' forzata. La famiglia voleva cavalcare l'onda della tecnologia, avere un posto nella bolla di sapone che stava portando le borse mondiali a livelli fino a quel momento inimmaginabili. E perché no? Il mercato parlava e prendeva le sue decisioni, a prescindere da chi ascoltava. In un primo tempo, l'investimento aveva reso. All'inizio dell'avventura, Global Future si era rivelata una delle grandi comete della Borsa di Stoccolma. L'amministratore delegato della società era un giovane alquanto intraprendente con un passato politico all'interno del partito. Aveva tracciato le linee guida dell'evoluzione futura, compariva spesso in televisione e nei convegni e teneva conferenze sull'avvenire del mondo, su come si sarebbe trasformata la vita di tutti noi una volta che la banda larga fosse stata messa a punto e la casa virtuale fosse diventata la realtà. L'azienda non era però mai riuscita a chiudere in attivo. L'alto valore azionistico era una parte del futuro prospettato, quello che sulla lunga distanza avrebbe dato tanto a tutti. A differenza delle altre società basate in maggior misura su capitali di rischio, come boo.com e Framfab, a fare da garante per la stabilità di Global Future era la casa madre di proprietà della famiglia. Torstensson aveva toccato le vette della lirica. Aveva parlato con trasporto del futuro, promosso serie di articoli sulla nuova epoca, che già di
per sé avevano contribuito a far salire le quotazioni in Borsa delle società di Internet, Global Future compresa. Quanto a lui, Torstensson aveva partecipato personalmente fin dall'inizio, grazie a un generoso contratto a opzione, acquistando consistenti pacchetti azionari della società. Già questo modo di agire era, secondo Schyman, inopportuno, ma poiché la creazione e la manutenzione del sito del giornale sarebbero state affidate a Global Future, Torstensson si era salvato. Chi poteva biasimare il direttore di un giornale per il fatto di credere nei progetti che luì stesso promuoveva? Nel corso degli anni dominati dall'euforia da informatica e dall'isterismo borsistico, il direttore responsabile si era lasciato scappare in più di un'occasione quale fosse l'entità dei guadagni ottenuti entrando in Global Future fin dal debutto in Borsa. Schyman aveva calcolato che si aggirava intorno ai cinque milioni di corone, spiccioli considerando l'isterismo che dominava la Borsa ma molti soldi per i comuni mortali. Si sporse in avanti, tirò fuori il verbale della seduta del 27 giugno dell'anno precedente e si mise a giocherellare con uno degli angoli. Aveva letto quei fogli molte volte, riflettendo sul loro potenziale significato. Era il riassunto della riunione che aveva preceduto le ferie estive, quando il presidente del CdA aveva brevemente informato Torstensson che Global Future non avrebbe più contribuito alle attività del giornale in ambito digitale. Da quel momento in poi, ciascuna testata del gruppo avrebbe pagato i propri costi per quanto riguardava i nuovi mezzi di comunicazione. Dal rapporto di metà anno di Global Future, che sarebbe stato reso pubblico entro breve, ci si aspettava un risultato economico alquanto deludente. Schyman abbassò il verbale e tirò fuori il comunicato stampa datato 20 luglio. A dispetto dei pronostici e delle analisi precedenti, Global Future aveva chiuso ancora in perdita. Il fatto era che l'azienda aveva ottenuto il risultato peggiore dalla sua nascita, tanto che le perdite erano decisamente più alte rispetto ai rapporti trimestrali precedenti. Questo dato in sé non avrebbe dovuto allarmare il mercato, se non fosse stato per il sottile "ma" imposto dalla casa madre. Ciò che differenziava Global Future dalla corsa delle società basate su capitali a rischio era il fatto che la casa madre della famiglia aveva garantito l'erogazione di fondi all'azienda ma, ed era questo il punto sostanziale, solo se l'azienda avesse dimostrato di aver raggiunto un profitto in occasione del suo terzo rapporto semestrale. La parte più informata e consapevole del mercato aveva intuito il valore della riserva e venduto, il che ave-
va comportato, il giovedì 20 luglio dell'anno precedente, un crollo del ventotto per cento del valore azionario. Dalla quotazione massima di 412,50 corone, era sceso a 297, ed era solo l'inizio. Tre mesi più tardi la casa madre aveva reso noto che non sarebbero stati erogati altri fondi alla società in quanto il bilancio era clamorosamente in rosso. Nel corso dell'autunno il valore azionario era arrivato quasi a zero, per attestarsi, al primo dell'anno, sulle 59 corone. Questa drammatica vicenda non si differenziava da quella delle altre società di Internet. Alcune aziende avevano raggiunto un valore azionario che superava le mille corone, e dopo il crollo ce n'erano di quelle scese a ottanta centesimi. Non era la discesa vertiginosa a essere degna di nota: il problema era rappresentato dall'altro ritaglio della stessa rivista. O piuttosto la soluzione, pensò Anders Schyman, soffermandosi con lo sguardo sulla data: 27 febbraio di quell'anno. Scorse con gli occhi le lunghe tabelle riassuntive, file di potenti con accanto il relativo portafoglio azionario. Eccolo lì: Torstensson, direttore della "Stampa della Sera". Azioni: nessuna. Aveva venduto. L'estratto veniva dall'ultima pubblicazione ufficiale dell'Anagrafe titoli. A un certo punto, prima della fine dell'anno, il direttore responsabile si era sbarazzato di quasi diecimila azioni di Global Future. Restava da stabilire quando. Schyman era arrivato, con le sue ricerche, ad accertarsi che l'operazione non era stata denunciata all'Ispettorato fiscale. D'altra parte, non c'era motivo per cui dovesse esservi registrata. Torstensson non sottostava a tale obbligo. Tuttavia, Schyman non riusciva a scacciare quell'idea dalla sua testa. Torstensson aveva venduto le azioni troppo presto? Era un pensiero che lo rodeva da tempo, ma più in là non era riuscito ad andare. Presentarsi di persona all'Anagrafe titoli comportava l'esibizione di un documento e la messa a protocollo del suo numero di codice fiscale e carta d'identità. Avrebbe dunque lasciato una traccia, facile da seguire e interpretare. Qualcun altro doveva proseguire le ricerche, un reporter abituato a bazzicare per uffici. Con un gesto risoluto raccolse i documenti, li contò, li infilò nella cartellina, li mise nell'ultimo cassetto della scrivania, chiuse a chiave e tirò la maniglia per accertarsi che non si aprisse.
Poi si sedette appoggiandosi allo schienale e scrutò la redazione attraverso la parete di vetro, si dondolò un pochino sulla sedia, la mente più leggera di quanto non fosse stata per tutta la giornata. Aveva ancora tempo per decidere. DOMENICA 24 GIUGNO "Cari lettori, mettetevi comodi, perché tra poco ne sentirete delle belle. Eh sì, la mia festa di mezz'estate non sarebbe potuta andare peggio! Provate a immaginarvi la situazione: una indossa il vestito estivo e i sandali più eleganti che ha per partecipare a una trasmissione d'alto livello e cosa succede? Si sorbisce la registrazione in sé che, permettetemi l'espressione, è una pizza mostruosa, con la nostra Smorfiosetta che salta di qua e di là e finge di intervistare la gente. Poi finalmente è tutto finito e si tira un sospiro di sollievo. Si brinda con un po' di champagne per festeggiare di essere sopravvissuti... ed è allora che si scatena il finimondo! Mai visti tanti litigi e intrighi in una volta sola. Impossibile dormire, con tutta quella gente che grida e strilla. Ma il colpo di pistola non l'ho sentito, lo giuro! Eh sì, cari lettori, è andata proprio male come pensate: mi sono ritrovata nel bel mezzo dell'Omicidio dell'estate con la O maiuscola, per le iene di questo giornale. Michelle Carlsson, infatti, è stata uccisa in un camion sotto la finestra della mia camera. Pensate un po' come ci si sente. E neanche so cosa ci fosse andata a fare su quel camion... Magari aveva intenzione di mettersi alla guida e partire, il che non era certo una buona idea considerando quel che le avevo visto bere durante la serata. D'altra parte, forse non riusciva a dormire nemmeno lei: sia i cuscini che i materassi del castello erano davvero scomodissimi..." «Ma che cazzo è questa roba?» esclamò Anne, abbassando sulle coperte il giornale aperto che si stropicciò tutto. Mehmed si tolse pantaloni e boxer e s'infilò di nuovo sotto le coperte con la compagna. «Oggi Schyman avrà pane per i suoi denti» disse rannicchiandosi accanto a lei e cominciando a leccarle un capezzolo. Anne gli diede un colpetto sulla testa con la mano, e risollevò il giornale. «Che assurdità. È un articolo disgustoso. Come fanno a lasciare che questa stronza vada avanti in questo modo?» «È incomprensibile» concordò l'uomo con la bocca contro il suo seno. «No, dico sul serio. Scusa, non è diffamazione di persona deceduta?» «Difficile avere una condanna definitiva in merito» ribatté lui alzando la
testa e guardandola negli occhi. Lei gli accarezzò i capelli, neri e lucidi, seguì con il dito il profilo deciso del mento, si sentì invadere dal familiare desiderio pulsante. «Perché?» Lui lasciò che il dito gli scivolasse in bocca, mormorò: «Capitolo quinto sulla diffamazione, paragrafo quattro: "Ogni caso in cui l'arto lede la dignità dei discendenti o altresì, considerando il tempo trascorso dal decesso e le ulteriori circostanze, può essere ritenuto lesivo del rispetto dovuto al deceduto". Lei non aveva parenti, no?». «La madre prostituta in Lettonia» sussurrò Anne. Poi gli scivolò sotto e, senza frizione né sforzo, lui entrò in lei. Rimasero immobili a osservarsi, vertigine nei reciproci sguardi. «Oh, Dio» gemette lei sottovoce. Rovesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi, il peso di lui dappertutto nello stesso tempo. Gli venne incontro, brusca e morbida insieme. «Guadda mamma!» I loro movimenti impercettibili, quasi inavvertiti da loro stessi, si bloccarono all'istante. Anne sentì improvvisamente nelle narici l'odore penetrante di inchiostro da stampa, spalancò gli occhi e si ritrovò a fissare la foto a fianco dell'articolo di Annika Bengtzon. «Cosa c'è, amore?» chiese, spostando con la mano il giornale e alzando la testa dal materasso. «Mi leggi il libo?» le domandò la piccola di due anni, appoggiando un volume illustrato sulla schiena del padre. Mehmed abbassò la testa di fianco alla gola della compagna. Il respiro affannato s'infilò tra le lenzuola, facendole rizzare i capelli sulla nuca. «Non ora, la mamma e il papà si stanno riposando un po'.» «No, va bene» le disse lui all'orecchio, sottovoce. «È tutta la settimana che chiede di te. Riprendiamo più tardi.» Lei gli accarezzò la schiena e deglutì. «Hai fatto colazione, tesoro? Papà ti ha dato la pappa?» «Papà dato pappa» ripeté la bimba arrampicandosi sul letto matrimoniale. Mehmed scivolò fuori di lei, lasciandosi dietro un calore immenso, un desiderio languido. «Miranda» chiamò Anne Sapphane. «Miranda Izol, vieni a dare un bacino alla mamma.» La piccola, ricci neri e occhi scuri, le si rannicchiò accanto come un gattino infreddolito contro un termosifone. «Mamma. Mamma.»
Anne abbracciò la bambina e la cullò piano. «Sono stata via tanto tempo?» La piccola annuì. «Ma sei stata bene con il papà?» Nuovo cenno affermativo del capo. «Giochiamo alla tana?» Anne tirò su la coperta fino a coprire la sua testa e quella della piccola. Il buio le circondò, soffocante e denso di odori. Sentì il materasso ondeggiare quando le molle si sgravarono del peso di Mehmed, udì i suoi piedi nudi dirigersi verso la porta. «Caffè?» «Grazie, molto volentieri» rispose, la voce impastata. «Namo a casa?» Anne guardò il profilo della bimba raggomitolata vicino a lei, accarezzò la testolina, già bagnata di sudore. «Ma siamo a casa. A casa dal papà.» La bimba le si fece più vicina, si arrotolò intorno al ditino una ciocca dei suoi capelli. «Starai con il papà anche oggi, la mamma deve andare a lavorare, ma poi io e te ce ne torniamo a Lidingò, a casa. Ci vuoi andare? A casa dalla tua carrozzina per le bambole?» La piccola agitò le braccine per respirare e Anne rovesciò la coperta con un calcio. L'aria della camera da letto le investì il corpo come una folata gelida, umida e fredda. Rabbrividì. «Schyman mi ha cercato sul cellulare» la informò Mehmed entrando con la tazza di caffè. L'appoggiò sul comodino: latte, niente zucchero. La bimba saltò giù dal letto. Anne si tirò su appoggiandosi ai cuscini. «Cosa voleva?» chiese e prese la tazza, scaldandosi le mani sulla porcellana. L'uomo si sedette, le accarezzò il polpaccio. «Sapere fino a quando lavorerà la redazione in estate.» «Perché?» «Non ne ho idea, mi ha soltanto lasciato un messaggio. Buono?» Lei gli sorrise oltre il bordo della tazza. «Non sai se il giornale ha in ballo qualcosa di particolare?» chiese Mehmed. «E se anche fosse» rispose lei «perché Schyman dovrebbe venire a raccontarlo a te?» Mehmed Izol, conduttore e direttore della produzione del principale programma di approfondimento della rete nazionale, fece scorrere la mano
lungo la sua coscia. Berit gettò il giornale sulla scrivania di Annika. Aveva il fiatone e il viso arrossato. «L'hai letta la rubrica di Barbara?» Annika s'infilò in bocca l'ultimo boccone di un krapfen, si leccò le dita e sollevò il giornale. «"Eh sì, cari lettori, è andata proprio male come pensate: mi sono ritrovata nel bel mezzo dell'Omicidio dell'estate con la O maiuscola, per le iene di questo giornale..."» «Ma che cazzo!» esclamò Annika, mandando giù. «Chi è che ha accettato questa roba?» «Esattamente quel che mi chiedo io» mormorò Berit, sedendosi sulla scrivania della collega. Aveva ancora addosso la giacca impermeabile. «C'è qualcosa sotto. Altrimenti perché Torstensson è rimasto qui stanotte?» Annika si pulì la bocca con un tovagliolino usato. Pensò allo strano incarico personale affidatole da Schyman. «È stato un errore farla tornare a casa da Lisbona» disse Berit guardando nuovamente la rubrica di Barbara Hanson. «Almeno là non faceva danni.» «Ma scusa, a Lisbona non faceva proprio niente» obiettò lei «costava solo dei soldi.» Berit si alzò e si sfilò la giacca. «Può costare ancora più caro darle mano libera sulle colonne del giornale. Questa è diffamazione. Ma che ne pensi del resto?» Annika tirò fuori la sua copia della "Stampa della Sera", sfogliandola fino alle pagine della cronaca. Insieme a Jansson, il caporedattore di notte, lei e Berit ne avevano organizzato tutto il contenuto. Il direttore responsabile, Torstensson, era rimasto seduto lì accanto, assente e sfuggente, inducendoli a parlare a voce bassa e a trattenere i commenti più cinici. Il risultato ottenuto era più o meno quello che avevano impostato: le ultime ore di Michelle, le difficili riprese del programma, l'autista e il passeggero della misteriosa automobile, e poi il numero di equilibrismo sui sospettati, con il titolo La rete si stringe. Nelle pagine successive erano riportate le reazioni di buona parte del mondo dello spettacolo svedese, si parlava del futuro del settore televisivo, della possibilità che le puntate di Estate al castello venissero mandate in onda. Berit e Annika avevano passato in rassegna tutto il materiale, rivisto i rispettivi testi e firmato con entrambi i nomi
tutti gli articoli. «Non mi sembra male» commentò Annika. «Gira la pagina» le disse Berit. La pagina degli spettacoli aveva mandato alcuni operatori a Colonia, dove si era esibito John Essex. Erano riusciti a scattargli una foto mentre saliva sulla limousine fuori dall'hotel, ma non gli avevano strappato una dichiarazione. Annika esaminò la foto: la fretta dell'uomo, i visi confusi delle ragazzine intorno a lui, sfocati dalla distanza e dall'estasi, la foresta di mani tese fino allo spasimo, gli strilli silenziosi. Era un'immagine suggestiva, piena di luci e ombre, e tuttavia nitida e comunicativa. Le domande le sorsero spontanee alla mente. Come fa a resistere? Cosa compensa una vita così esposta? Che prezzo è disposto a pagare in realtà un essere umano per avere delle conferme? «Chi l'ha scattata?» chiese. «Uno nuovo, un sostituto agli spettacoli. Si chiama Henriksson. Hai trovato Q?» «Lo chiamo adesso.» Berit si alzò, prese giacca, giornale e borsa e andò al proprio posto, a qualche scrivania di distanza. Annika tirò fuori il "Concorrente", girò rapidamente le pagine dei commenti e della cultura, si soffermò sulla sei e la sette, vide la foto di lui. Bosse, serio, di qualche anno più giovane rispetto alla realtà, rispose al suo sguardo dalla pagina del giornale. Ricordò il calore provato, il senso di vertigine. Si riscosse e sollevò la cornetta, compose il numero che sapeva a memoria. Il commissario rispose. «Dov'era ieri?» domandò, accorgendosi da sola di quanto la sua voce suonasse indisponente. «Ho chiamato come una matta tutta la sera.» «Ho parecchio da fare. Cosa vuole?» Annika si grattò la testa, sfogliò i propri appunti, si rese conto di non essersi preparata. «L'indagine tecnica. Avete riscontrato un sacco di impronte digitali sull'arma del delitto, vero?» «L'ho già detto ieri.» Annika si morse il labbro. «Quante?» «Nessuna che possa essere ricollegata a un esecutore certo.» «Tutti? Tutti e dodici?»
Un istante di esitazione, fruscii e vento. «Tutti e tredici, a dire il vero...» Annika sbarrò gli occhi. «Anche Michelle? Può essersi sparata lei?» «L'idea, naturalmente, ci ha sfiorato» ammise lui asciutto «ma non c'è niente che sostenga quest'ipotesi. Niente lettere, niente chiacchiere suicide. Pensiamo che sia stato qualcun altro a premere il grilletto.» «Chi?» Q rise, quasi malinconico. «Lei parla prima di pensare.» La donna tacque, scorrendo con gli occhi i suoi appunti. «L'arma. Cosa ne sapete?» «Ho già spiegato ieri anche questo.» «Era un aggeggio grosso, pesante e scolpito. Antico?» «Nix. Nuovo di pacca.» «Dunque una copia. Di che?» «Non so. L'originale non era mortale. È stata potenziata in qualche modo. La ragazzina che la possedeva non è particolarmente collaborativa.» «Cosa dice?» «Niente. La ascolteremo di nuovo, è uscita adesso una pattuglia.» Annika sollevò le sopracciglia, prese nota. «Fermerete la neonazista?» «Sì.» «Omicidio?» «Detenzione illegale di armi. Non ci faccia su troppo polverone, però...» «Carcerazione?» «Non credo, ma non si sa mai.» Esitò un secondo, poi chiese. «È stato uno dei dodici, vero?» Il poliziotto non rispose. «Non sono stati né Anne Sapphane né Gunnar Antonsson» disse Annika. «Cosa crede, che abbia voglia di mettermi a giocare con lei ai dieci piccoli indiani?» L'ironia fu smorzata dalle pessime condizioni della linea. Annika non aveva intenzione di lasciarselo sfuggire. «Ieri ha detto che avete un'idea piuttosto precisa di ciò che si è verificato nel corso della serata e della nottata...» «Esatto.» «... e che qualcuno mente. Chi?» «Magari fosse così semplice. Tutti mentono su qualcosa. Per esempio, a sentir loro nessuno aveva tenuto in mano la pistola. Perché ha escluso la Sapphane e Antonsson?» «Lo vuole sapere veramente o vuole solo fare del sarcasmo?»
Lo sentì accendere una sigaretta, respirare, sospirare. «Spari» disse il commissario, soffiando fuori il fumo, una tempesta nel suo orecchio. «Conosco Anne» confessò Annika. «Lei non farebbe mai... eccetera eccetera. Gunnar Antonsson è troppo... per bene.» «Ah» fece il poliziotto, senza sforzarsi di nascondere il sarcasmo. «E chi altro possiamo depennare dalla lista dei sospetti?» «La neonazista. Non sa come ci si sente a uccidere, ma lo vorrebbe sapere.» «E lei come ci è arrivata?» La voce seria, adesso. «Cosa mi dà in cambio?» Il commissario tirò una boccata, espirò nel ricevitore, parve spostarsi da qualche parte. Ancora una tirata di nicotina, calcoli mentali. «È morta per il colpo alla testa» disse poi. «Nessun'altra ferita sul corpo e nessun segno di colluttazione nella sala regia. Ma c'era dello sperma nella vagina e delle secrezioni vaginali sull'arma del delitto. Perché pensa che Hannah Persson sia innocente?» La giornalista rimase impietrita sulla sedia, gelo sulla testa e sulla schiena. «Secrezioni vaginali sull'arma del delitto? È così che ha detto?» «Calcio, canna e grilletto. Non può averla avuta dentro tutta intera in una volta, anatomicamente non funziona, quindi qualcuno l'ha fatta entrare e uscire in diverse posizioni: o lei, o qualcun altro.» «Era... carica durante queste... evoluzioni?» «Per quanto possiamo giudicare, sì.» Si sentì rivoltare. La nausea le risalì dallo stomaco fino al petto, costringendola a sopprimere un singhiozzo. «Che orrore.» «Hannah Persson?» chiese Q. Chiuse gli occhi, si passò la mano sulla fronte, respirò a bocca aperta. «... onto?» domandò il poliziotto. «... cora lì?» Annika si schiarì la gola. «Mi ha beccato nel parcheggio e mi ha chiesto com'era uccidere qualcuno.» «Sapeva chi era lei?» «Perfettamente. Mi ha pregato di raccontarle, voleva sapere se era stato difficile, come ci si sentiva dopo. Ha detto che se l'era sempre domandato.» «Forse voleva confrontare le sue esperienze con le proprie.» «No» disse Annika. «Era curiosa. Non sapeva. Si era trastullata con l'idea di farlo ma non ne aveva mai avuto il coraggio. So che è così.» «Temo che le secrezioni vaginali siano difficili da utilizzare su un gior-
nale come "La Stampa della Sera"» cambiò discorso il commissario. «Tutta questione di formulazione» ribatté Annika, e subito dopo la linea s'interruppe. Rimase seduta con il ricevitore in mano per qualche secondo, respingendo il senso di nausea. «Com'è andata?» le gridò Berit. Annika riattaccò. «Andiamo a bere un caffè.» Bambi Rosenberg avanzava cauta lungo la salita che portava ai locali di Zero Television. La ghiaia appuntita rotolava e pungeva sotto le sottili suole di cuoio degli stivaletti, facendola barcollare. I jeans le stringevano la vita. Era ingrassata. Si fermò, muoversi le pesava. Le pesava respirare, le pesava esistere. Socchiuse gli occhi verso la fila di finestre al terzo piano, cercò di individuare quella di Michelle, ma delle nuvole chiare glielo impedirono. Adesso non c'era più nessuno che la capisse. Non fece in tempo a reagire. La certezza le martellò in gola e lì rimase, facendole venire voglia di vomitare. Era sola, di nuovo. Oh, Dio, c'era solo lei, un'altra volta. L'intimità era finita, adesso, spazzata via. Una folata di vento freddo l'avvolse all'altezza del ventre. Si strinse di più nella giacca di pelle. Come se la sarebbe cavata senza Michelle? Sarebbe diventato tutto come prima? Persa, indifesa, troppo vino, troppe mani sul corpo. Esattamente come prima. Affrettò il passo, inciampò. Il portoncino d'ingresso era pesante come il marmo, dovette puntare tutti e due i piedi. Un tacco perse la presa, dalla spalla le scivolò giù la tracolla della borsa che, sbattendo contro il ginocchio, si aprì. Il mascara, il lucidalabbra, una barretta di cioccolato e alcuni assorbenti sparsi rotolarono nella ghiaia, facendole venire le lacrime agli occhi. Cercò qualcosa con cui fermare il portoncino, senza trovare niente. Le toccò protendersi in avanti, con il sedere contro la porta, per tentare di raccogliere le sue cose. Un tampone era finito in una piccola pozzanghera, inzuppandosi d'acqua. Lo lasciò dov'era. In realtà a Bambi Rosenberg non era mai piaciuta Zero Television.
Prese l'ascensore, anche se avrebbe dovuto fare le scale. Avrebbe dovuto muoversi di più. La voce di Michelle simile a un'eco sotto le lampade al neon: "Non saltare il pranzo! Metti sottosopra il metabolismo. Butta via quelle patatine, solo amido e grassi. Sarà mica bella la buccia d'arancia sulle cosce, no?". Mise piede, esitante, nella redazione spoglia e deserta: computer e carte, polvere e macchie di caffè. Si fermò appena dopo la porta. Qualcuno doveva pur esserci, visto che era tutto aperto. Tese l'orecchio nel silenzio. Il condizionatore era acceso, soffiava aria e gelo, ma non si udiva altro. Si avviò rapida verso l'ufficio dell'amica. Vide la schiena non appena ebbe svoltato davanti alla sala riposo. Giacca grigia e corta, grasso ben distribuito. L'ondata di adrenalina le mise le ali ai piedi. «Che cosa stai facendo?» Follin alzò gli occhi, la fronte sudata, i capelli scompigliati per essere rimasto a lungo chino in avanti. «Ah, sei tu...» Si voltò di nuovo, continuando a tirare fuori delle carte dall'ultimo cassetto, l'archivio della conduttrice. Bambi Rosenberg si avvicinò alla scrivania, mise avanti le mani a proteggere il caos sul tavolo, passò davanti all'uomo. «Queste sono cose di Michelle! Cosa ne stai facendo?» «La polizia ha già passato tutto al setaccio, non c'era niente di valore per loro. Adesso è roba mia.» Lei abbassò gli occhi sulla calvizie incipiente dell'uomo. «Non lo è affatto!» esclamò. «Appartiene a Michelle, sono le sue cose private. Tu non hai niente a che vedere con questa roba.» Il manager si raddrizzò faticosamente, con la mano sinistra che sosteneva cautamente la zona lombare. «Ma tesoro» iniziò in tono di mite rimprovero e con le sopracciglia sollevate. «Si tratta di materiale di lavoro dell'azienda di Michelle, e come responsabile dei suoi affari è mio dovere assicurarmi che non cada nelle mani sbagliate.» «Ma non è vero! Lei non è tua. Non sei tu a dover avere le sue cose adesso che è morta.» Il viso dell'uomo si contrasse, il corpo si rattrappì, diventando ancora più compatto del solito. Un ciuffo di capelli gli ricadde negli occhi ridotti a due fessure dietro gli occhiali, le mani si sollevarono. «Sparisci» sibilò. «Fuori di qui. Sono io il responsabile, adesso.» Lei sbatté ripetutamente le palpebre, avvertì l'aggressività ma non l'assorbì. «Tu sei fuori. Non hai più niente a che vedere con Michelle. Lei ti
aveva licenziato giovedì.» Qualcosa nell'uomo cambiò: un gesto che rese più nitidi i suoi contorni, un tratto duro intorno alla bocca. «Cosa stai dicendo?» La voce ridotta a un sibilo. «Me l'ha confidato e mi ha riferito di averlo già comunicato anche a te, e un accordo verbale è valido...» Sebastian Follin era immobile, Bambi Rosenberg si vedeva riflessa nei suoi occhiali. Poi, all'improvviso, l'intuizione della portata di ciò che aveva appena pronunciato. Boccheggiò, fece un passo indietro. «Tu. Sei stato tu. Lei era tutta la tua vita, e te l'ha portata via. Se fosse sopravvissuta fino al mattino, saresti stato disoccupato. Ma adesso lei è morta, e tu pensi che rimarrà tua per sempre...» La spinta arrivò del tutto inattesa, la colpì alle spalle subito al di sopra delle ascelle, la fece cadere all'indietro con un grido. «Pazzo scatenato, cosa fai?» «Chiudi il becco!» tuonò Sebastian Follin, avventandosi su di lei: il suo corpo addosso, la testa contro il seno, le mani a stringerle la gola. Quel poco di presa che i tacchi erano riusciti a fare sulla moquette non bastò. Bambi Rosenberg crollò a terra, si morse la lingua sbattendo la testa contro la parete di vetro, il manager su di lei, boccheggiò in cerca di aria, sangue in bocca, riuscì a emettere uno strillo acuto. «Chiudi il becco, puttanella...» Oddio, muoio, ha ucciso Michelle e adesso uccide me, moriamo per mano dello stesso assassino... «Aiuto, è pazzo, mi sta uccidendo...» Improvvisamente riuscì a liberarsi un braccio, graffiò con le unghie finte il viso floscio dell'uomo, godendo della resistenza della pelle. «Si può sapere che diavolo state facendo?» Mariana von Berlitz era in piedi sulla soglia, un'espressione sconvolta sul viso. «Aiuto» riuscì a mormorare Bambi Rosenberg. «Sta cercando di strozzarmi.» La pressione sul suo corpo scomparve, lasciandola come sospesa. Sebastian Follin si rimise in piedi davanti a lei con sorprendente velocità, si lisciò i capelli, cercò di riprendere il controllo della situazione. «Mi ha accusato» disse, puntandole contro un dito. «La denuncerò per intimidazione! Mi ha minacciato!» Bambi Rosenberg scoppiò a piangere per lo shock e il dolore. Tastò con la mano in cerca di un appiglio per tirarsi su, non ne trovò. «Sta cercando di rubare le cose di Michelle. Digli che non può prenderle!» Vide Mariana von Berlitz muovere qualche passo incerto verso l'interno della stanza, girare intorno all'uomo in preda alla follia e raggiungere la
scrivania. «Da qui non dev'essere portato via niente. Tutto quanto si trova nei locali della redazione appartiene alla Zero Television.» Bambi Rosenberg si alzò sulle gambe malferme. Il manager aprì la bocca per ribattere, ma si accorse che gli faceva male la guancia, sollevò istintivamente la mano. «Sangue!» esclamò. «Sto sanguinando!» Protese in avanti la mano a dimostrazione delle sue parole, prima verso Bambi Rosenberg, poi verso Mariana. Bambi Rosenberg indietreggiò inconsapevolmente, vide che la redattrice la imitava. «Non dovrai portare via niente dai nostri locali» ripeté Mariana. «Sono io la responsabile qui dentro, e questa è proprietà dell'azienda.» La collera di Bambi Rosenberg tornò a infiammarsi, bianca e accecante. «Non è affatto vero» sentì gridare se stessa, accorgendosi che le tremavano le mani. «Nessuno di voi ha diritto di toccare le cose possedute da Michelle. Mi ha detto di occuparmi io di tutto, se le fosse accaduto qualcosa. So cosa devo fare. A voi non spetta niente!» L'uomo e la donna la fissarono con sguardi increduli, superiori, dubbiosi. «Tu?» le domandò Mariana von Berlitz. «E perché mai avrebbe dovuto chiederlo proprio a te, scusa?» Bambi Rosenberg guardò la donna, perplessa. Possibile che non capisse proprio niente? «E a chi altro avrebbe dovuto chiederlo?» «Il documentario, comunque, è mio» si intromise Sebastian Follin. «Il documentario di Michelle su se stessa è mio. E ho le carte che lo provano.» Mariana si raddrizzò e si rivolse al manager. «Ah, davvero? A quanto mi risulta è TV Plus a detenere i diritti.» Bambi Rosenberg passò con lo sguardo da uno all'altro, mentre la stanza cominciava a girarle intorno. «Nient'affatto» rispose Sebastian. «L'accordo non è firmato, e dunque la produzione ricade sotto il mio contratto di manager.» «Esiste una lettera d'intenti tra Michelle in persona e la direzione dell'emittente, e non si può certo prescindere da...» «Nella formulazione non c'è niente di giuridicamente vincolante...» Bambi Rosenberg fu costretta a sedersi. Si accasciò sulla poltroncina di Michelle, lasciando che il battibecco che le passava sopra la testa si assottigliasse e scomparisse. Lo prometto, pensò. Mi occuperò di te. Farò in modo che vada tutto come deve andare.
Quando entrò di soppiatto in redazione, in giacca ma senza pantaloni abbinati, Torstensson era pallido per la carenza di sonno. Del tutto inosservato, si fermò davanti al banco della cronaca, cercando con lo sguardo il posto a sedere più opportuno, oltre Chiodo che aveva la cornetta incollata all'orecchio e il revisore dei testi con il suo gioco al computer. Si diresse poi verso la poltroncina del redattore degli esteri, ai margini delle operazioni ma sufficientemente vicino per poter esercitare una certa influenza. Cos'è che lo fa andare avanti?, si chiese Schyman dal suo posto di osservazione nel gabbiotto di vetro. Non può essere la volontà editoriale, perché non ne possiede. La possibilità di influenzare il dibattito sociale, forse, o la posizione di potere nei confronti del pubblico. Le conferme da parte della famiglia proprietaria, il salario, le opportunità di una futura carriera politica, il riscontro all'interno del Rotary? Il direttore responsabile piazzò sulla scrivania alcuni giornali e una tazza da caffè in porcellana. Tirò indietro la sedia, si accomodò. Chiodo gli gettò un'occhiata, senza accennare a mettere giù il ricevitore né a togliere i piedi dalla scrivania. Schyman andò a sedersi al suo posto, compose il numero interno del redattore degli esteri, vide Torstensson trasalire quando il telefono squillò. «Potrebbe venire da me un attimo?» chiese al direttore. L'uomo ubbidì avvicinandosi a passo di sfida. «Cosa vuole?» Il direttore responsabile si era fermato sulla porta, diffidente e sulla difensiva. «Ho già ricevuto tre telefonate che promettono una querela per diffamazione, dopo l'uscita dell'edizione di oggi» lo avvertì Schyman sedendosi sulla propria scrivania. Torstensson incrociò le braccia. «In che senso?» «Lo sa benissimo» rispose il condirettore. «Io non sono d'accordo con la sua decisione, ma naturalmente la rispetto. Vuole telefonare lei ai parenti di Michelle Carlsson, o devo rinviarli direttamente al nostro rappresentante legale?» Gli tese alcuni bigliettini, ma il direttore non accennò a prenderli. «Non riuscirà a spaventarmi» sentenziò Torstensson. «La sua strategia mi è chiarissima.» L'altro lasciò cadere il braccio, sospirò udibilmente. «È molto spiacevole quando le cose vanno in questo modo.» «Sono d'accordo» disse Torstensson, girando sui tacchi e tornando al
banco della cronaca. Schyman lo guardò allontanarsi, l'imbottitura della giacca leggermente abbondante sulle spalle, i capelli radi sulla nuca. Che errore madornale, rifletté. E non si riferiva alla pubblicazione della rubrica di pessimo gusto di Barbara Hanson. Come fai ad accettare questa sfida senza informazioni né armi? Tornò al telefono e compose il numero interno di Annika Bengtzon. «Scendi in archivio» le ordinò quando la giornalista rispose. «Ti raggiungo tra qualche minuto.» Si risedette poi sulla sedia, aprì l'ultimo cassetto della scrivania, tirò fuori la cartellina rossa. La mise nella ventiquattrore, s'infilò la giacca, uscì dalla stanza e si diresse verso il garage. «Mi trovate sul cellulare, nel caso» disse oltrepassando Chiodo. «Esco a mangiare un boccone...» Il caporedattore sollevò il pollice. Schyman uscì dalla redazione attraverso l'ingresso principale, puntando verso il garage salutò Bertil Strand. Una volta che il fotografo fu entrato nell'edificio del giornale, cambiò direzione e si avviò verso l'ingresso esterno della mensa, l'aprì con la carta magnetica, prese l'ascensore fino al secondo piano. Il lungo corridoio era immerso in una penombra bluastra, debolmente illuminata da alcune lampade al neon in fondo. Annika Bengtzon aspettava con la schiena appoggiata alla parete di fianco all'ingresso dell'archivio. «La polizia arresterà la neonazi di Katrineholm» annunciò. «Andiamo a sederci nell'archivio fotografico» la invitò Schyman proseguendo verso la porta successiva. «Dov'è Carl Wennergren?» chiese la giornalista alle sue spalle. «È andato in ferie con una settimana d'anticipo?» «L'ho mandato a casa io. Una degli indiziati che vomita cazzate dalle nostre colonne mi basta e avanza.» «L'ho visto nella scuderia» confessò la reporter «nella sala devastata di cui ho scritto. Sembrava che stesse cercando qualcosa. Ti ha detto niente in proposito?» «Era una macchina fotografica» la informò Schyman. «La polizia l'ha già riconsegnata, non aveva niente a che fare con le indagini sull'omicidio.» Annika Bengtzon alzò rapidamente lo sguardo su di lui, quasi un po' delusa. L'odore di polvere e di acidi per lo sviluppo ormai evaporati li inve-
stì, un vento freddo proveniente dagli armadi metallici contenenti centinaia di migliaia di foto. La luce penetrava dalle finestre della parete in fondo, mettendo in controluce gli archivi, cassetti contrassegnati in modo che i non iniziati non potessero trovare niente. «La faccenda riguarda un sospetto di insider trading» esordì il condirettore sedendosi a un vecchio tavolo di legno sotto le finestre ed estraendo la cartellina rossa dalla ventiquattrore. La giornalista si sedette in silenzio di fronte a lui, attenta e perplessa. «La vendita di un grosso pacchetto di azioni informatiche nella seconda metà dell'anno scorso» proseguì Schyman sfilando l'elastico. «Voglio che tu scopra quando si è verificata con esattezza la vendita.» «Facile. Queste transazioni devono essere comunicate all'Ispettorato fiscale.» «In questo caso la faccenda è un po' più complessa» le spiegò l'uomo mostrandole il verbale, i ritagli e il comunicato stampa. «Riguarda una persona che non sottostava all'obbligo di comunicazione della vendita; in altre parole, non faceva parte né del consiglio d'amministrazione né del gruppo dirigente della società quotata in questione. Dunque il suo interesse finanziario nella società non è mai stato registrato.» «E il problema dove sta?» chiese la reporter. Il condirettore fissò lo sguardo nei suoi occhi attenti. Santo Dio, pensò, cosa sto facendo? Lei potrebbe mandarmi a fondo per questa roba. Basterebbe che si alzasse, se ne andasse di qui e facesse in modo di farmi licenziare prima di pranzo. Si sentì invadere dallo sconforto, quel nuovo senso di inerzia a cui stava cominciando ad abituarsi. «Non lo so.» Chiuse le palpebre, si appoggiò allo schienale e si strofinò gli occhi. «Non so se riesco a spiegarlo.» «Si tratta di Torstensson, vero?» disse Annika Bengtzon. «Sta mandando a rotoli il giornale e tu non sai come fermarlo. Hai in mano delle vecchie porcherie in cui vuoi che io vada a scavare?» Schyman tirò un lungo sospiro di sollievo che riecheggiò tra gli armadi di lamiera. «Non sei particolarmente propensa a usare perifrasi eufemistiche, vedo. Posso fidarmi di te?» «Dipende» rispose lei. Lui esitò un istante. «Hai ragione. Torstensson deve sparire. E non se ne andrà mai spontaneamente.» «E il consiglio d'amministrazione, scusa?» disse Annika. «Non possono rimuoverlo loro?»
Schyman scosse la testa. «Herman Wennergren è duro come il marmo. Se vogliamo disfarci del nostro direttore responsabile dobbiamo trascinarlo fuori noi.» «Come?» Le mostrò il verbale del 27 giugno dell'anno precedente, dove risultava che il consiglio d'amministrazione del quotidiano "La Stampa della Sera" era stato informato anticipatamente del contenuto del rapporto semestrale della società Global Future. Secondo il verbale, Torstensson era presente in qualità di consigliere aggiunto. A un certo punto dei sei mesi successivi il direttore responsabile aveva venduto le sue azioni. «Non è necessariamente un reato» osservò Annika Bengtzon. «No» ammise Schyman «ma potrebbe esserlo. Dipende da quando ha venduto. Se ha sfruttato le informazioni ricevute prima che la cosa fosse stata resa pubblica, significa che si è macchiato di insider trading.» «Pur non facendo parte del consiglio d'amministrazione della società?» «Se un tassista origlia una conversazione che si svolge sul sedile posteriore e la sfrutta per speculare in Borsa si rende colpevole di insider trading.» «Difficile da dimostrare» ammise la reporter, con una sfumatura acida nella voce. «Questo caso dovrebbe risultare più facile. Puoi controllarlo per me?» Lei lo osservò, una leggera diffidenza negli occhi. «Se trovo qualcosa, cosa devo farci? Ci scrivo su un articolo per l'edizione di domani?» L'altro non poté fare a meno di sorridere. «Non proprio. Basta che mi informi.» «Qual è la data fatidica?» «Il rapporto semestrale è stato reso pubblico il 20 luglio dell'anno scorso.» Annika estrasse una penna e un foglietto dalla tasca posteriore dei jeans e prese nota. «Qualsiasi vendita dopo il 27 giugno ma prima del 20 luglio comporta dunque che Torstensson avrebbe sfruttato le sue informazioni confidenziali sulla pessima redditività di Global Future» constatò. L'uomo sospirò, la stanchezza gli stava lacerando l'anima. «In realtà è anche peggio. Lui sapeva che la famiglia proprietaria del giornale si sarebbe tirata indietro, il che comportava che l'azienda sarebbe diventata praticamente priva di qualsiasi valore.» Annika scrisse ancora qualcosa e si infilò di nuovo il foglietto nella tasca. «Perché io?»
«Chi cerca lascia tracce» le rispose «e dunque non posso andarci personalmente.» «L'Anagrafe titoli» constatò la donna. «Registrano i visitatori, vero?» «Dovrai cominciare da lì, ma non credo che basterà. Ci sarà parecchio da scarpinare prima di arrivare in fondo.» «Perché proprio io?» Il condirettore si passò la lingua sulle labbra, scegliendo le parole. «Al giornale non sono molti i reporter in grado di scovare queste informazioni.» Annika Bengtzon si lasciò scappare un verso, tra la risata e uno sbuffo sprezzante. «E io sono la più facile da convincere.» Schyman abbozzò un sorriso. «Se lo pensi davvero, significa che hai una visione distorta di te stessa. Lo sai, il perché.» «No» ammise lei, alzandosi dalla sedia e spazzolandosi via la polvere dai pantaloni. «Dimmelo tu.» «Perché sei quella che ragiona in maniera più simile a me» disse Schyman. La reporter lasciò cadere per un attimo la maschera, permettendo a un senso di autentica sorpresa di tingere i tratti del suo viso. Poi recuperò il solito atteggiamento distante e canzonatorio. «Potrei interpretarlo come una critica alla mia integrità, o come il riconoscimento delle mie capacità. Opto per la seconda ipotesi. Immagino che i documenti voglia tenerli tu, no?» Lui la congedò con un gesto, la gola secca. Sulla soglia lei si voltò improvvisamente, così piccola ed esile nel riquadro della porta. «La macchina fotografica di Wennergren. Cosa ne è stato?» Immediatamente Anders Schyman vide il profilo lucido dell'apparecchio davanti a sé, ne avvertì il peso nella mano. «Sequestro, ma l'hanno già revocato.» Annika rimase dov'era, la mano sulla porta. «E adesso dov'è?» «Perché?» «C'erano delle foto?» Schyman si sentì invadere dal mutismo che aveva provato davanti alle foto del rapporto sessuale, la vergogna del guardone. Si alzò di scatto, scacciando il senso di disagio. «Sali prima tu. Poi vieni nel mio ufficio.» Annika vide Anders Schyman entrare dall'ingresso principale cinque
minuti più tardi. Lasciò che si togliesse la giacca, si sedesse e aprisse il giornale prima di alzarsi. Si avviò rapida verso il gabbiotto di vetro, bussò leggera alla porta. Lui le fece cenno di entrare. «Mi chiamo Bengtzon» si presentò, accostandosi la porta alle spalle. «Annika Bengtzon. Agitato, non mescolato. Ce l'hai qui la macchina?» Schyman la guardò, esitando. Annika sentì di avere la bocca secca. «Chiudi bene la porta» disse lui. Si protese in avanti, aprì con la chiave un cassetto della scrivania. Ne estrasse un apparecchio lucido, più simile a un walkman che a una macchina fotografica. L'accese con un blip, controllò che funzionasse, e poi la tese alla giornalista senza una parola. Il display era illuminato dall'interno. Anne Sapphane le sorrideva dalla macchina fotografica, alle sue spalle una chiara atmosfera da party. «Come faccio a scorrerle?» chiese e il condirettore le indicò il pulsante. Premette. Blip. La lingua di Follin. La reporter abbozzò una smorfia. Blip. Carl Wennergren, sghignazzante, nel salone della scuderia prima della devastazione. «Solo foto di ubriachi?» domandò gettando un'occhiata al suo capo. «Vai alla numero sedici o diciassette» rispose lui. Annika premette velocemente il pulsante. Blip, blip, blip. Udì se stessa trattenere il respiro, una fitta tra le cosce. Michelle Carlsson e John Essex, intenti a scopare sul tavolo della sala da pranzo. Gambe sode, cosce lucide, glutei bianchi. Fissò affascinata l'immagine per qualche secondo, premette poi il pulsante. Blip. Annika avvertì l'accelerazione del battito, il calore tra le gambe. Blip, blip. Con la bocca socchiusa continuò a scorrere le immagini, sempre più consapevole del pulsare del suo grembo. Alzò gli occhi su Schyman, vergognandosi della propria reazione. «Santo cielo» disse teatralmente. «Questa roba è allucinante.» «Continua» disse lui agitando una mano. Tentò di considerare le foto da una prospettiva diversa da quella dei protagonisti, che risultavano via via più sfocati e poco nitidi. Pareva che il fotografo avesse avuto qualche difficoltà a tenere fermo l'apparecchio. «Probabilmente era nascosto nella cucina» notò, spezzando l'atmosfera assurda in cui era sospesa. Schyman fece con la mano un gesto rotatorio. Quando arrivò alle ultime foto impresse in memoria trattenne di nuovo il respiro.
Mariana von Berlitz con l'arma del delitto in mano. «Gesù!» esclamò. «E cosa ne farai di queste?» Lui si alzò, le si avvicinò, prese l'apparecchio, lo spense, lo mise nel cassetto. Chiuse a chiave. «Non lo so. Le foto sono straordinarie, uniche. Devono essere utilizzate con estrema cautela.» Annika sentì che il mento le cadeva sul petto. «Non dirai sul serio?» disse sbattendo le palpebre. «Stai prendendo in considerazione la possibilità di pubblicarle?» Il condirettore si alzò. «Non lo so» rispose. «Non ho ancora deciso.» Annika si sentì pervadere da un senso di ribellione, un'ondata di indignazione le salì al volto. «Ma che cazzo!» gridò. «Non è un giornale porno, il nostro!» «Le foto presentano anche altre qualità» rispose lui rapidamente, facendo combaciare i polpastrelli delle dita. La donna, sconvolta, spalancò le braccia. «E quali? Non certo la messa a fuoco e la luce. Come puoi anche soltanto concepire un'idea del genere?» «Il momento... L'attimo. Le due stelle insieme, lei morta, adesso, lui sospetto omicida. In realtà sono assolutamente uniche.» Lei arretrò di due passi verso la porta. «Foto erotiche scattate di nascosto. Riesci a immaginare qualcosa che riesca a violare l'integrità più di così? Ti piacerebbe che qualcuno ne pubblicasse di simili su di te, dopo che sei stato ucciso?» Lo stava guardando attraverso un tunnel di stupore incredulo. Prima un incarico di spionaggio, tutt'altro che gradevole. Poi questo. «E Mariana? Cosa dice la polizia?» «Non lo so.» Pensieri e reazioni diverse si accavallarono nella sua mente per qualche istante. «Sentì» disse poi, aprendo la porta a metà e abbassando la voce. «In qualsiasi cosa tu sia coinvolto, vedi di non perdere il senso delle proporzioni.» Tornò al suo posto, accorgendosi che le tremavano le mani. Le persone ritratte nelle foto le danzavano sulla retina. Sesso, alcol, armi. Vergogna per la propria reazione. Si accasciò sulla poltroncina, alzò gli occhi e vide il condirettore spalancare la porta di botto e avviarsi verso Pelle Oscarsson al banco dei fotografi. «Puoi fare in modo di cancellare le immagini qui dentro?» gli sentì dire, notando con la coda dell'occhio che appoggiava l'apparecchio sulla scriva-
nia del photo editor. «Cosa?» chiese l'altro, lo sguardo inchiodato allo schermo davanti a sé, la voce mezzo impastata. Annika si alzò rapidamente, dirigendosi verso i bagni. «Ci sono dentro un sacco di foto inutili che non devono girare per la redazione» disse Schyman mentre lei passava, gettandole un'occhiata penetrante. Il photo editor alzò gli occhi, l'espressione leggermente assente. «Hai fretta? Sto sistemando questo grafico.» «Appena ti è possibile» rispose Schyman, gettandole un'altra occhiata, per poi tornare verso il proprio ufficio. Lei proseguì, muta e con le palme delle mani bagnate. «Caffè?» Anne Sapphane scosse la testa, e Sebastian Follin se ne versò un po' per sé in una tazza di plastica. Aveva due graffi sulla guancia, notò lei, ma la cosa non sembrava preoccuparlo. La disperazione che gli aveva letto negli occhi dopo l'omicidio stava scomparendo. Era invece evidente una gravità composta, un compito da svolgere, una memoria da preservare. Nella morte, le balenò nel cervello, così come in vita. «Il prossimo passo è molto importante» sussurrò l'uomo protendendosi confidenzialmente verso di lei. Il vapore che saliva dalla tazza gli appannò gli occhiali. La sua interlocutrice arretrò di un passo. «Cosa vuoi dire?» «Bisogna proteggere il marchio. Adesso saranno in molti a voler approfittare di Michelle Carlsson, ma il tutto dev'essere gestito con decoro e lungimiranza.» Anne lo osservò, incapace di assorbire il significato delle sue parole. «Ma ti senti?» esclamò, con voce troppo alta e troppo stridula. «Parli di lei come di un logotipo!» Il manager si afflosciò, il labbro inferiore tremante. «Ma io voglio solo agire nel modo migliore.» «Migliore per chi?» ribatté Anne, improvvisamente a disagio. Si girò, guardando oltre la parete di vetro della sala riposo, nella redazione. Karin Bellhorn era seduta sul divano di fianco alla sua scrivania, protesa in avanti a parlare con Mariana von Berlitz e Stefan. Si affrettò a raggiungerli, sentendo di essere impallidita. «Non riesco a superare la sensazione che sia tutta una messinscena» sta-
va dicendo Mariana von Berlitz agli altri due mentre la collega si avvicinava. «Da un momento all'altro partono i titoli di testa ed ecco che salta fuori lei, fresca di dieta e con un nuovo look. Ci pensate, che audience avrebbe?» Anne Sapphane la fissò incredula. «Non dirai sul serio.» «Perché, scusa?» ribatté Mariana. «Non dovrei forse riconoscere che mi sembra tutta una messinscena da candid camera?» Anne si accorse che la sua bocca parlava senza riuscire a impedirle di farlo. «Devi proprio continuare a ridicolizzarla anche adesso che è morta? Quanto la odiavi, in realtà, solo perché lei compariva sullo schermo e tu no?» L'altra impallidì inequivocabilmente. «Ma... che stai dicendo? Sei fuori?» Anne Sapphane sentì che l'attenzione dei presenti convergeva su di lei. Le sue parole erano rimaste sospese nell'aria, incredibilmente pronunciate proprio da lei, paralizzanti nella loro verità. Il sangue le affluì al viso dal petto e dal collo, infiammandole le guance. «Almeno abbi il coraggio delle tue idee. Sei sempre stata invidiosa di Michelle.» Mariana si era alzata in piedi, restando con la mano tremante appoggiata al bracciolo del divano. «Conosco Michelle Carlsson da molto più tempo di te» disse con la voce roca. «E una cosa devi avere ben chiara in testa: i miei dubbi nei suoi confronti si fondano su motivi completamente diversi da quelli che credi tu.» «Smettila di fingere. Non sono migliore di te nemmeno io. Sono anni che sono incazzata con Michelle perché lei aveva avuto quel posto e io no» confessò Anne. Ormai le parole le uscivano autonomamente dalla bocca. «Quanto a te, non ti avevano nemmeno preso in considerazione. È per questo che fai tanto la superiore nei miei confronti? Perché l'alternativa ero io?» «Ci sono cose molto più importanti che comparire in televisione» sentenziò Mariana von Berlitz sottolineando ogni parola e risedendosi. «Là fuori c'è l'eternità, e Michelle Carlsson non ha fatto altro in vita sua che impedire agli altri di trovare ciò che può dare un senso all'esistenza.» Anne non poté trattenere una risata sarcastica. «Ma Gesù santo! Perché, Michelle fregava i clienti a Dio?» L'altra scelse di ignorare la frase blasfema. «Trovo allucinante che siano sempre quelle come Michelle a essere lanciate come modelli per le giovani
donne. Cos'aveva fatto di buono? Da quando la conosco, ha soltanto trascinato altri nel fango con sé.» «Perché, il modello positivo saresti tu? Che spari sentenze sugli altri, solamente perché pensi di essere migliore? Perché sei nata in una tenuta aristocratica, o perché hai lo Spirito Santo dalla tua parte?» «Non sono io che giudico, è il Signore.» Le parole erano dure, ma gli occhi di Mariana von Berlitz esprimevano paura. Anne Sapphane sapeva di aver fatto centro, la verità aveva abbattuto il muro di sarcasmo. Il senso di ebbrezza aumentò d'intensità. «Qualsiasi cosa si dica di Dio, sarebbe valsa la pena di avere qualcuno dei suoi consulenti di PR dalla propria parte» mormorò, sull'orlo delle lacrime. «Potrei dire la stessa cosa di te» si intromise all'improvviso Stefan. «Tu reciti sempre la parte della donna liberata e aperta di vedute, ma in realtà sei più conservatrice di tutti noi.» La rabbia le salì agli occhi accecandola. «Che cazzo dici?» «Sbandieri a destra e a manca la tua relazione di coppia aperta con il tuo tipo, fai quella che condivide figlia e letto senza assumersi responsabilità, esponi te stessa in pubblico come una specie di modello, prestandoti al gioco delle riviste di pettegolezzi...» La crudezza dell'attacco abbatté una serie di argini nel cervello di Anne, facendole intuire qualcosa di cui fino ad allora non si era resa conto. «Oh, cazzo» disse, gli occhi sbarrati. «Sei invidioso anche tu, non solo di Mehmed che compare sullo schermo, ma anche di me perché sono uscita sull'inserto domenicale della "Stampa della Sera" come esempio delle nuove famiglie. Povero Stefan.» «Ma tu sei pazza» ribatté lui. «Io sto parlando di tutt'altro: senso del dovere e di responsabilità, coraggio di non tradire quando ci si trova...» «Eri innamorato di Michelle» mormorò Anne, avanzando di qualche passo verso di lui. «Volevi lasciare moglie e figli per andare a vivere con lei, ma Michelle ti ha riso in faccia, vero? In realtà lei voleva solo ottenere il rispetto da te, che smettessi di gettare merda su di lei in sala regia, e così ha usato l'unico metodo che conosceva: ha scopato con te, ti ha abbindolato per bene. Ma qualcosa è andato storto, vero? Tu ti sei preso una sbandata di quelle mai viste. Avevi fatto in tempo a mettere al corrente della cosa tua moglie? E lei cos'ha risposto?» L'uomo era impallidito, la fissava con gli occhi ridotti a due schegge di vetro. «È... non è andata affatto così...»
«Ah no? E allora da dove arriva tutta quest'acidità del cazzo, eh? Cos'è, non riesci a concedermi una foto a tre colonne sulla "Stampa della Sera"? O la posizione di conduttore a Mehmed? Guarda che è laureato in giurisprudenza e giornalista professionista, ha ricevuto il Gran Premio di Giornalismo, ben due volte, e sai bene quanto me che...» «Senti un po'!» gridò il direttore della fotografia, alzandosi con un'energia che la sua magrezza solitamente nascondeva. «Ti ho visto! Ti ho visto fuori dal camion alle tre e un quarto. Che cazzo ci facevi lì?» Lei rimase senza parole e senza fiato, fissando il suo interlocutore. «E tu allora dov'eri? Cosa ci facevi tu, lì?» chiese. La direttrice di produzione sollevò entrambe le mani. «Su, su» tentò di tranquillizzarli, la voce alta e autorevole. «Basta adesso. Diamoci una calmata. Non sappiamo più cosa stiamo dicendo. Spetta alla polizia scoprire cos'è successo. Di certo le cose non miglioreranno se cominciamo a darci la colpa e a sospettarci a vicenda. Siamo d'accordo almeno su questo?» Puntarono tutti lo sguardo in direzioni diverse: in basso, fuori dalla finestra, verso il soffitto, sulle pareti. «Oggi ce la prendiamo comoda, discutiamo della commemorazione di martedì e cerchiamo di suddividerci i compiti. Prima di tutto, c'è qualcuno che sente il bisogno di consultare uno psicologo? Un terapeuta? Frequentare un gruppo di crisi?» Tutto si fermò. Sebastian Follin sulla porta della sala riposo, abito grigio, caffè in mano, Mariana von Berlitz in piedi di fianco al divano in un abito provocatoriamente rosso, Stefan Axelsson in jeans e felpa, sudato sotto le ascelle, Anne Sapphane con il viso pallido ma striato di rosso. «Nessuno? Non c'è niente di cui vergognarsi. Io stessa pensavo di parlare con qualcuno...» La direttrice di produzione chiuse gli occhi un istante, si scostò i capelli dalla fronte in un gesto ricorrente e inconsapevole. Anne Sapphane, annebbiata da un'inebriante sete di verità, la scrutò per qualche istante. Si rese conto che Karin era truccata più pesantemente del solito, la pelle grigiastra coperta dal fondotinta. Le borse sotto gli occhi non potevano essere celate da nessun cosmetico al mondo. Sta proprio male, pensò. Probabilmente è quella che sta peggio di tutti. «Perché fingi che non sia successo niente?» L'altra deglutì, cercò di sorridere. «Veramente ho appena offerto aiuto a chi sente il bisogno di un sostegno...» «Ma smettila!» gridò lei, spalancando le braccia al punto che la tazza di
caffè di Sebastian Follin volò contro la parete di vetro. «Michelle è morta! È ridotta a pezzetti su un tavolaccio della medicina legale, e probabilmente è uno di noi che l'ha conciata così!» Il silenzio era assordante, l'aria di ghiaccio. L'odore del caffè cominciò a saturare la stanza. Quelle parole, pronunciate ora per la prima volta, erano ancora lì, sospese sotto il soffitto. "Chiunque. Uno di noi." «Come, avete cominciato senza di me?» Highlander arrivava dall'ascensore, lavato di fresco e con la ventiquattrore che dondolava allegramente. «Ho parlato con Londra, siamo d'accordo.» Sorrise, si accomodò su una poltroncina, appoggiò la borsa sulle ginocchia e l'aprì con due scatti sincronizzati. Ne estrasse alcune carte, la richiuse e ci piazzò sopra il fascio di documenti. «Cominciamo con un consistente programma di commemorazione per Michelle» iniziò, in tono concentrato ma leggero. «Sequenze dai diversi suoi programmi, ospiti che dicono delle cose, amici che raccontano del suo impegno in... be', in tutto quello che la impegnava. Si può ampliare a piacere, ci possono essere dei musicisti e degli attori, magari qualche poesia, o una breve rappresentazione. Solo pubblicità che Michelle avrebbe accettato. A proposito, Karin, cosa pensi di John Essex? Credi che verrebbe?» Quando l'amministratore delegato di TV Plus tacque, l'aria era satura di tensione. Il fondotinta non riusciva più a nascondere il colore del viso della direttrice di produzione. Gli sguardi scivolavano via, incapaci di incrociarsi. Le spalle rigide, le gole riarse. «Highlander» disse Karin senza forze «chi è che ha architettato tutto questo? Il Big Boss di Londra?» Il sorriso dell'amministratore delegato sfarfallò ma sopravvisse. «Voglio soltanto andare avanti. Fare un passo alla volta.» «Non così in fretta» replicò la direttrice di produzione alzandosi. Il suo corpaccione si avvicinò dondolando al superiore. «Abbiamo parlato un po', qui, di Michelle, di come la vedevamo, di cosa pensiamo. Tu cosa dici?» Il sorriso scomparve, lasciando il viso di Highlander inerme come il giorno prima. Il sudore gl'imperlò la fronte, facendogli appiccicare immediatamente la frangia alla pelle. «Di che?» «Di Michelle!» gli gettò in faccia Karin Bellhorn. «Datti una calmata» si alterò lui. «Voglio solo che tutto vada per il meglio.» «Aveva licenziato Michelle» annunciò la direttrice di produzione agli al-
tri, indicando Highlander e guardando uno per uno tutti i colleghi. «Le ha dato il benservito dopo l'ultima registrazione, e adesso finge che così non sia stato.» Mariana von Berlitz si alzò lentamente, lo sguardo fisso su Highlander. «È stato per questo. È stato perché Michelle avrebbe detto che voi...» «Taci!» gridò Highlander. Cercò di alzarsi, ma fu ostacolato dalla ventiquattrore sulle ginocchia. «Avrebbe detto che voi due eravate stati insieme» continuò Mariana, inarrestabile «e lo sappiamo tutti cosa ne sarebbe stato di te, in questo caso.» Scese di nuovo il silenzio, questa volta più compatto. Highlander era stato promosso amministratore delegato quando il suo predecessore aveva dovuto abbandonare in tutta fretta. Il motivo della rapida uscita di scena era stata una scopata, di cui tutti erano al corrente, con una delle conduttrici del canale nel corso di una cena natalizia. Anne Sapphane fissò i capelli unti dell'amministratore delegato, ne percepì l'angoscia, il terrore di fronte al congelamento che la sua posizione avrebbe subito. «È... è una menzogna» riuscì a balbettare Highlander. «Io non avevo mai... non avrei mai...» «Questo non ha nessuna importanza» lo interruppe Mariana con voce atona. «Avrebbe fatto la sua rivelazione su qualche giornale, e per te sarebbe finita.» L'umidità gocciolava sui vetri delle finestre in cucina. Sul fornello bollivano le patate per il pranzo domenicale. Nessuno si era ricordato di abbassare la piastra elettrica. Thomas si precipitò a farlo, come se quegli ultimi passi frettolosi potessero cambiare qualcosa. Spostò la pentola dal fuoco, tolse il coperchio. L'acqua era quasi completamente evaporata, le patate novelle sbriciolate si erano in parte attaccate al fondo. Imprecò piano tra i denti, in qualche modo la colpa sarebbe ricaduta su di lui. «Ma Thomas, cos'è successo qui?» La madre entrò zoppicando, appoggiandosi al bastone. Ecco, l'ennesima critica inespressa, adesso si è stancata troppo con i bambini. «Qualcuno ha messo su le patate e le ha lasciate lì» spiegò Thomas gettando nel compost quel che ne restava. «Ce ne sono altre?» «Ma così non saranno mai pronte in tempo per il pranzo» gemette la
madre sedendosi pesantemente al tavolo della cucina. «Puoi apparecchiare, Thomas?» «Certo» rispose. Poi infilò la testa nella dispensa, trovò un sacchetto di plastica pieno di patate dorate e terrose, le strofinò freneticamente sotto il rubinetto dell'acqua fredda e le gettò nella pentola. «Quanti siamo?» «Eleonor e Martin sono andati via, ma viene Sverker. Dove sono i bambini?» «Con Holger, alla barca.» «Ma come? Con Holger? Ce li hanno i giubbotti di salvataggio?» La sua mano si agitava ansiosa avanti e indietro. Thomas si costrinse a mantenere la calma. «Sì, mamma, adesso riposati. Quali piatti?» «Quelli delle Indie Orientali, in fondo è un pranzo estivo, no? Hai controllato l'arrosto nel forno? Deve rimanere sui settantacinque gradi, non di più.» «Sì, mamma...» Afferrò una presina, aprì lo sportello del forno, vide che il termometro per la carne segnava novantadue gradi. «Pronto!» Estrasse il termometro e lo sciacquò rapidamente sotto il rubinetto dell'acqua fredda. «Vuoi che prepari un po' di salsa?» «Sì, caro, e anche dell'insalata...» Pose la carne a raffreddarsi sul fornello spento. La parte bruciacchiata si poteva tagliare via. Mise un goccio d'acqua nella teglia, versò il fondo di cottura in una padella, aggiunse panna e maizena, diluì con brodo di manzo, insaporì con timo e aglio. «Sei diventato bravo a preparare da mangiare, Thomas» osservò la madre. «Veramente lo sono sempre stato» ribatté lui tirando fuori la verdura dal frigorifero. La donna non rispose, rimase a scrutarlo con occhi stanchi dal tavolo della cucina. «Mi piacerebbe poterti aiutare di più» mormorò mentre lui condiva l'insalata con l'olio d'oliva. «Tanto ormai ho quasi finito» rispose. «Sai cosa intendo dire.» L'uomo sospirò silenziosamente, mise giù la bottiglia dell'olio. «Mamma, guarda che io non ho bisogno di nulla. Non devo essere salvato.» L'anziana donna scosse lentamente la testa. «Thomas, quello che fa sempre tutto da solo. A volte mi chiedo se non ti senti l'acqua alla gola.» Lui sbatté l'aceto balsamico sul piano, sentì risvegliarsi l'adrenalina.
«Cosa vuoi dire?» «Niente» si affrettò a rispondere la madre. «È solo che mi sembra che tu abbia tanto da fare, con i bambini, la casa... A proposito, sai se ti confermeranno l'incarico, al lavoro?» Lui appoggiò le palme delle mani al bancone della cucina, avvertì il freddo dell'acciaio risalire lungo gli avambracci, respirò rapidamente. «No, ma può darsi che mi dicano qualcosa questa settimana.» «Ma scusa, non è strano che non si possano sapere queste cose in tempo?» esclamò la donna, turbata. «Voglio dire, bisogna pur pianificare un po' la propria vita, no? Soprattutto se si ha una famiglia.» In realtà, non avrebbe avuto motivo di arrabbiarsi. Le parole della madre potevano essere considerate premurose e sollecite, ma lui sapeva che non era così. «Se c'è qualcosa di cui non mi devo preoccupare» pronunciò in tono sostenuto mettendo la salsa in tavola «è la possibilità di restare disoccupato.» «Ma di cosa vivrete?» Le tremava la voce, che esprimeva molto più della paura di un'eventuale mancanza di introiti. «Mamma» rispose lui gentilmente «al massimo tornerò a fare il funzionario comunale. Non sarà la fine del mondo, che ne dici?» Sapeva che la madre desiderava più di ogni altra cosa vederlo di nuovo titolare di un posto fisso di quel tipo, soprattutto a Vaxholm, a occupare la posizione di funzionario di punta, quello che in realtà aveva in mano le risorse pubbliche. «Non crescono sugli alberi i posti di funzionario in comune» ribatté la donna. Lui rise. «Se sapessi quanti me ne hanno offerti!» «Non c'è bisogno che tu finga davanti a me.» Improvvisamente qualcosa si ruppe, l'argine che aveva trattenuto fino a quel momento le obiezioni ricacciate indietro a denti stretti cedette e Thomas si sentì investire da una furia cieca. Sbatté l'arrosto sul tavolo facendo saltare per aria i piatti, e le gridò sulla faccia: «Io sono contento della mia vita! Amo i miei bambini, amo Annika. Lei è una persona vera, cara mamma, non una fottuta frigida come Eleonor!». «Bada a come parli!» replicò la madre scioccata. «E perché dovrei?» gridò lui. «Tu non tieni mai chiusa quella boccaccia, spari cagate a destra e a manca come ti pare. Non ti accorgi di quanto ferisci Annika quando continui a tormentarla, a paragonarla a Eleonor? A confrontare il nostro appartamento con la villa, e le vacanze che facciamo?
Critichi i bambini, non sono all'altezza delle tue aspettative, vero? Certo, perché è Annika ad averli avuti, e non Eleonor! Ma la sai una cosa, mamma? Eleonor non ne voleva! Non ne voleva, di figli! Non sarei mai diventato padre, io, e tu non saresti mai diventata nonna...» Il viso della madre aveva perso colore, le guance erano grigiastre. Si portò una mano al cuore, tentò di alzarsi. «Credo... Credo sia meglio che vada a riposare un po'...» Lui l'afferrò a metà caduta, prendendola sotto le ascelle. «Holger!» urlò. «Holger!» «Ma che casino!» rispose il fratello dall'ingresso. Poi sbirciò nella cucina, colse la gravità della situazione e si precipitò ad aiutarlo. Insieme portarono la madre fino al divano del soggiorno. Sverker, il convivente di Holger, che era medico, si chinò su di lei, controllandole battito e respirazione. «Cos'è successo?» domandò. «Abbiamo... Abbiamo litigato» spiegò Thomas, improvvisamente esausto e in preda a un capogiro. La madre agitò una mano, poi le palpebre ebbero un fremito, dalle labbra le uscì un debole gemito. «Devi andarci piano con lei» consigliò Sverker, nella voce una critica malcelata. Thomas si diresse verso l'ingresso, superando i suoi bambini, e uscì nella pioggia. Il ricevitore era bagnato di sudore, tra una telefonata e l'altra Annika dovette asciugarsi l'orecchio. «Non era poco dotata, anzi. Irrequieta, forse, un tantino frenetica... Che sarebbe diventata nazista non l'avrei proprio mai detto.» Annika prendeva appunti, seguendo la descrizione di Hannah Persson che uno dei suoi professori delle medie le stava fornendo: la famiglia stabile, il fratello diventato skinhead, le difficoltà di concentrazione e di rapporti che avevano creato un baratro tra lei e le altre ragazzine. «Credo che avesse bisogno di essere notata» sentenziò il professore. «Cercava conferme e risposte. Insomma, ci sarà pur un motivo se dicono che, in mancanza di amore, si cerca di essere ammirati; in mancanza di ammirazione, rispettati; in mancanza di rispetto, temuti...» «Non è una scusa» commentò Annika. «No, ma forse è una spiegazione.» Gli ex compagni di classe erano più duri nella propria descrizione, le te-
lefonate si rivelarono sgradevoli. "Pallida" la definì qualcuno. "In cerca di continui contatti al punto da diventare adulatoria" altri. "Sola senza essere presa di mira dai compagni" e "affetta di mania di protagonismo ma incapace di trascinare un gruppo" altri ancora. «Deficiente» disse un ragazzo della sua classe. «Brutta come il peccato» commentò un conoscente. «Decisamente insopportabile» la descrisse una ragazza. Annika osservò la foto di classe della nona, l'unica vecchia foto della neonazista che la redazione fosse riuscita a trovare. Una ragazzina minuta, con la schiena curva, la bocca sogghignante sotto un paio di occhi impauriti. Confrontò la foto con quella scattata il giorno prima da Bertil Strand: nel giro di qualche anno il viso aveva assunto contorni definiti e carattere. Se non fosse stato per la croce uncinata che la sfigurava, avrebbe potuto essere bella. Schiena diritta, sguardo beffardo e profondo. Alla fine, da qualche parte un'identità l'ha trovata, pensò Annika. Qualsiasi cosa, pur di non essere una senza un posto dove andare. Programma individuale alla scuola superiore, peraltro non completato. Segretaria dell'Unione neonazisti di Katrineholm, iscritta all'anagrafe come residente presso la madre ma con ogni probabilità non domiciliata lì, apparentemente nessun legame sentimentale. In qualche modo era riuscita a procurarsi una copia di una pistola antica, prodotta negli USA. Berit, che aveva già concluso la sua panoramica sul neonazismo in Svezia, sopraggiunse leggendo a voce alta da un fax: «"TV Plus ha il piacere di invitarvi alla conferenza stampa di commemorazione di Michelle Carlsson, che si svolgerà martedì 26 giugno nella sala conferenze di Zero Television. Verrà data notizia riguardo alla messa in onda delle puntate di Estate al castello e dei futuri programmi relativi alla carriera giornalistica di Michelle Carlsson. L'evento verrà trasmesso in diretta da TV Plus"». Annika alzò gli occhi al cielo. «Ho parlato con il pubblico ministero» aggiunse la collega, abbassando il foglio. «Revocherà il sequestro dell'ob-van e di tutto il suo contenuto, telecamere, videocassette eccetera.» «Quando?» «Stasera o domani mattina.» «Forse dovrei andare a trovare il mio amico Gunnar Antonsson» mormorò Annika. L'altra annuì. «Andrai alla commemorazione?» La reporter si stirò e sbadigliò. «Ma sì, dai, ci vado io. Domani sei di ri-
poso?» La collega le sorrise con gli occhi stanchi, porgendole il fax. «Figurati! Parto stasera per Berlino, è ora che John Essex dica la sua. Non che riesca a capire come possa funzionare la cosa, visto che i tabloid inglesi hanno già fiutato la pista. Se non è stato messo sotto assedio prima, lo è di sicuro adesso.» Annika si protese in avanti, prese il foglio, guardò la collega, esitò per qualche secondo. «Puoi sempre usare la tattica del ricatto.» Berit la fissò. «Un'intervista, altrimenti scriviamo dove è stata infilata l'arma del delitto... Credi che sia stato lui a...» chiese Annika. Il silenzio rimase sospeso tra le due donne, macchiato dalla circostanza innominabile. «Hai sentito delle foto di Carl Wennergren, no?» domandò la reporter. Berit la guardò inebetita. «Di cosa stai parlando?» «Te l'ho detto, no, che Carl Wennergren cercava qualcosa nella scuderia. Era una macchina fotografica. Ho visto le foto. Michelle Carlsson e John Essex, ripresi da dietro, davanti, sopra, sotto...» «E quanti sanno di questa faccenda?» «Solo io e Schyman, credo.» Si guardarono, riflettendo. «Le sue fan vanno dai dodici anni in su» riprese Annika a voce bassa. «La parola "compromettente" è piuttosto blanda, volendo definire l'effetto di un'eventuale pubblicazione delle foto e delle informazioni sulla pistola.» «Ma questo giornale non farebbe mai...» «Già, però lui non lo sa» la interruppe l'amica. Nuovo silenzio. «Quando ha scattato le foto?» domandò Berit. «Nella scuderia. Di nascosto.» Berit annuì lentamente. Annika spinse indietro la poltroncina e appoggiò le gambe sulla scrivania. «Con chi ci vai?» «Mi trovo a Francoforte con Henriksson, quello nuovo...» Annika si appoggiò allo schienale e osservò la collega attraversare la redazione, sicura e diritta, calma e a suo agio. La vide scambiare qualche parola con Chiodo, dare una pacchetta sul braccio a Pelle, ridere e salutare Tore Brand uscendo. È sposata con lo stesso uomo da ventitré anni. Com'è possibile? Dove
trova, una donna, la pazienza e la sicurezza, la certezza di aver scelto bene? Dove attinge il coraggio di fidarsi dell'amore? Anne si diresse velocemente verso l'uscita. Voleva fuggire dalla redazione, lontano dalle chiacchiere di Karin. Si strinse nelle spalle per isolarsi dalla sua voce. Invano. «Anne? Puoi fermarti? Ci vorrà un attimo.» Si bloccò a metà di un passo, abbassò le spalle, gemette. Si voltò pesantemente, vide la direttrice di produzione farle cenno con la mano. Come lei, Mariana von Berlitz e Sebastian Follin erano diretti alla sala riposo. «Devo andare a casa» disse Anne. «Bisogna che passi a prendere Miranda all'asilo.» Pretesti. «Ne abbiamo fatto, di lavoro, oggi, non è vero?» esordì l'altra. «Tutta la stagione strutturata, la commemorazione pianificata, i comunicati stampa spediti... Trovo che la riunione sia stata fruttuosa.» L'altra non rispose, quindi decise di venire al punto. «Si tratta dei beni di Michelle» cominciò versandosi una tazza di caffè. Anne Sapphane si appoggiò ostentatamente allo stipite della porta più vicina all'uscita, senza sfilarsi la giacca impermeabile. La direttrice di produzione si accomodò sul ripiano del cucinotto, avviò il ventilatore e si accese una sigaretta. «Quando sono salita, stamattina, nell'ufficio di Michelle c'era un gran caos» continuò in tono di spiegazione, rivolta alla sua collaboratrice. «Perciò voglio che sappiate un paio di cose.» Mariana scostò una sedia dal tavolo e si accomodò. Follin armeggiava intorno alla caffettiera. «Per il momento, nell'ufficio di Michelle non deve essere toccato niente. Abbiamo contattato un legale per esaminare tutti i contratti e stabilire cosa appartiene a chi, i diritti, gli onorari in sospeso, sia per quanto riguarda ciò che non è stato mandato in onda, sia per ciò che lo è stato e per il materiale trasmesso in replica. Il legale passerà anche in rassegna le sue risorse private, controllerà l'eventuale esistenza di un testamento e stabilirà gli eredi.» «Perché dobbiamo pagare un avvocato per esaminare i suoi incasinati beni personali?» chiese Mariana, la voce ancora dura nonostante la stanchezza. Karin aspirò una lunga tirata dalla sigaretta e soffiò il fumo verso il ven-
tilatore. «Detrarremo i costi dal tuo stipendio» rispose con un sorriso esausto. L'altra storse la bocca. «Il documentario è mio, comunque» s'intromise Follin. «Lasciamo che sia il legale a stabilirlo» replicò la direttrice di produzione. Il manager si scolò d'un fiato la tazza di caffè, l'appoggiò sul bancone e prese la sua ventiquattrore. «Ho una riunione» annunciò avviandosi verso l'uscita. «Grazie di tutto.» Nessuno rispose. Anne si staccò dallo stipite per seguirlo verso l'uscita quando il cellulare di Karin Bellhorn squillò. «Aspettate un momento!» La direttrice di produzione richiamò a voce bassa Anne e Mariana, per poi guardare il display. «Devo rispondere a questa chiamata ma bisogna che vi parli di una cosa. Arrivo subito.» Scomparve verso la stanza riservata ai fumatori, con la sigaretta che si lasciava dietro una voluta azzurrina simile a un velo di seta. Il silenzio, nella sala riposo, divenne pesante. Anne Sapphane sospirò udibilmente, si sedette su un tavolo con il mento appoggiato alla mano. Mariana von Berlitz si concentrò nell'atto di lisciarsi la gonna rossa finché non riuscì più a trattenersi. «Sapessi che inferno ho avuto, con Michelle, in tutti questi anni» sbottò alla fine. L'altra non rispose, cercò di seguire con lo sguardo la voluta di seta finché non si dissolse. «Prima che arrivasse lei, al liceo avevamo parecchie iniziative molto ben avviate» continuò Mariana. «La gente s'impegnava in circoli musicali, compagnie teatrali, movimenti antialcolismo... Diversi partiti politici avevano delle sezioni giovanili nella scuola, e svolgevano attività anche alcune associazioni religiose. È stato con l'arrivo di Michelle che tutto ha cominciato a vacillare.» Anne gettò una rapida occhiata alla collega per poi cercare invano di individuare nuovamente il fumo azzurrino. «Cosa intendi dire? Che Michelle ha mandato a rotoli il tuo piccolo mondo perfetto?» «Il mio mondo, non l'ha mai minacciato. Ma c'erano molti altri che non avevano una fede altrettanto forte.» Anne sospirò udibilmente, allungò il collo, cercò di vedere attraverso il vetro cosa stava facendo Karin nella sala fumatori. «Cominciò a frequentare la sezione parallela quando eravamo in seconda» continuò la collega con una sfumatura nostalgica nella voce. «Michelle
Carlsson, quella che fumava e beveva e organizzava la discoteca in palestra. Per quanto ne so, è stata insieme ad almeno quattro ragazzi diversi nel giro di neanche due anni.» Anne alzò gli occhi al cielo. «Risparmiami. Non voglio stare a sentire questa roba.» Mariana raddrizzò la schiena, sugli zigomi le tornarono delle piccole macchie rosse. «Perché no? Non tolleri la verità? Prima della riunione mi pareva che t'interessasse parecchio. Michelle non aveva stile, classe, morale. Scorrazzava in mezzo agli studentelli informandoli in materia di preservativi e pillole anticoncezionali, aveva in generale una pessima influenza su tutti i primini. Le associazioni cominciarono a faticare a tenersi i loro membri, che preferivano andare in discoteca e frequentare bar e partite di hockey. Aveva cambiato tutte le norme che stabilivano ciò che era accettabile e rispettabile. Credo che sia pericoloso quando le persone come lei diventano troppo influenti.» Anne non riusciva più a stare seduta. «Senti» esclamò «adesso basta! Era una normalissima ragazzina, a sentirti pare che fosse l'anticristo in persona!» L'altra rimase seduta, raddrizzandosi appena. «Secondo me, è necessario che esista una scala di valori comune da preservare affinché la società possa continuare a esistere. Il fatto che Michelle venga presentata come un modello per altre donne è davvero insensato, anzi, pericoloso.» «Non ho intenzione di starti a sentire ancora nemmeno per un secondo» sbottò Anne Sapphane, chinandosi per prendere la borsa. Mariana von Berlitz si alzò in piedi. «Faresti bene a stare attenta anche tu. Insozzare Dio come hai fatto poco fa non ti fa certo bene.» La mente di Anne fu invasa dalla stessa collera di prima della riunione, una collera che spazzava via gli argini e metteva all'angolo il senso della realtà. «Vuoi dire che potrebbe farmi cadere in testa il cielo?» Fece un passo verso Mariana. «La sai una cosa? Mi fai veramente pena. Ti sei presa una bella fregatura. Il tuo Dio in realtà è solo Yahweh, l'antico dio ebraico. Lo sapevi che le leggende narrano che originariamente viveva in un vulcano? Era solo una delle tante divinità, maschili e femminili. L'unica differenza è che le altre sono state dimenticate, ora, e anche il vulcano.» «Non ne sarei tanto sicura!» «Yahweh è diventato Dio e Allah, il dio onnicomprensivo, perché serviva agli scopi degli uomini. Tutte le divinità femminili furono respinte, così le donne potevano essere schiavizzate. Nel nome del tuo dio ancestrale ci
sono state sottratte libertà, gioia e sessualità! E tu te ne vai in giro ad acclamarlo?» «Sta' attenta a quel che dici!» Ma lei era ancora furibonda. «Mi minacci? È questo che stai facendo? Tocca a me adesso, è di me che vuoi disfarti ora? È venuto il turno di far sparire dalla tua vista la prossima puttana senzadio?» Karin sbatté la porta della sala fumatori e si precipitò verso di loro con il cellulare in mano. «In realtà volevo soltanto pregarvi di cercare di andare d'accordo, d'ora in poi.» Anne si gettò la borsa sulla spalla e lasciò la redazione senza aggiungere una parola. Annika mise giù i piedi dalla scrivania, raccolse la sua roba, inviò l'articolo al server e s'infilò la giacca. «La squadra che monta stasera dovrà completare con i risultati dell'interrogatorio con la neonazista» disse a Chiodo riducendo appena la velocità del passo e puntando verso l'uscita. «Chiedi che controllino con la Centrale se nel corso della serata è successo qualcosa di nuovo nell'indagine. Mi trovi sul cellulare...» «Perché non risponde al telefono?» chiese Tore Brand con aria incavolata mentre lei entrava nell'ingresso. «Perché sono qui. Cosa c'è?» «Ha visite» la avvertì il portiere, indicando i divani. Annika ci mise qualche secondo a riconoscerlo. «Sebastian Follin, cosa posso fare per lei?» Il manager si alzò precipitosamente, si sistemò gli occhiali sul naso, tese la mano. Annika la prese esitando, ricordava la stretta sudaticcia. «Bene bene bene. Vorrei scambiare due chiacchiere con lei.» «Veramente sto uscendo» ribatté Annika, ritirando la mano. «Immagino che lei ci tenga moltissimo al fatto che ciò che esce sul giornale sia corretto. Così volevo raccontarle come stanno le cose esattamente.» Annika lo scrutò, incerta, senza sapere se essere contenta o scocciata dalla sua presenza. «Certamente. Possiamo sederci qui.» Si sfilò di nuovo la giacca, si sedette sul bordo del divano e con la coda dell'occhio vide Tore Brand aprire un giornale e tendere le orecchie. «Voglio innanzitutto informarla del fatto che da questo momento sono io a rappresentare gli interessi di Michelle Carlsson» cominciò il manager risedendosi. «Se avete qualche dubbio su qualsiasi cosa riguardi la sua produzione, anche postuma, è a me che dovrete rivolgervi.»
Annika tirò fuori educatamente blocco e penna, appoggiandoseli sulle ginocchia. «Come descriverebbe le riprese di Estate al castello?» chiese cambiando argomento. «Molto riuscite» rispose il manager «se non si considera il tempaccio, naturalmente. Questa tipologia di trasmissione ci calzava perfettamente, è in queste cose che siamo i migliori: ampio intrattenimento familiare con inserti di argomento serio e giornalistico. Non ci batte nessuno, nel campo.» Annika abbassò gli occhi, scegliendo le parole. «Dev'essere stato un duro colpo» mormorò esitante, aprendo il blocco. «Tremendo» confermò l'altro, asciugandosi la fronte con un fazzoletto. «Quando qualcuno che ci è vicino muore così all'improvviso è sempre uno shock, ma in questo caso ci sono altri aspetti, tante persone che vogliono approfittare della sua memoria. D'ora in poi tutelerò io i nostri diritti.» Annika drizzò le antenne e studiò l'uomo con maggiore attenzione. Gli occhi chiari brillavano di luce nuova, la pelle era rosea. Si era ripreso velocemente. «E perché proprio lei?» domandò. Lui sbatté gli occhi, sorpreso. «Perché siamo sempre stati un duo affiatato. Io sono il suo manager. Anzi, di più: eravamo intimi, gli unici amici che avessimo, reciprocamente. Eravamo un team, una coppia, noi due sempre e comunque. Non la tradirò adesso.» «Pensavo che la migliore amica di Michelle fosse Bambi Rosenberg» ribatté la giornalista. Lo sguardo dell'uomo mutò. Si protese rapidamente in avanti, fissando Annika negli occhi. Il suo alito, che sapeva di caffè, la colpì in viso. «Devo metterla in guardia nei confronti di Bambi Rosenberg» sussurrò il manager con gli occhi sbarrati. «Se dovesse cercare di contattarla, ricordi che è assolutamente inaffidabile. Assolutamente!» La donna si tirò indietro per evitare l'odore di caffè, ma non abbassò lo sguardo. «In che senso?» Sebastian la seguì, avvicinandosi ancora di più, e alzò la voce. «È incomprensibile che Michelle potesse frequentare una nullità come quella. Non avevano niente in comune. Michelle era un talento naturale, unica nel suo genere. Bambi Rosenberg è una siliconata di nessun valore che viveva della luce riflessa di Michelle. Ho cercato di parlargliene, ma lei non voleva ascoltarmi.» Annika arretrò verso lo schienale del divano, a disagio. «Mi è sembrato
di capire che ci sia stato un certo caos, quell'ultima sera al castello...» «Una piccola parassita, ecco cos'è. Una puttanella che non vuole mollare. Ma adesso il documentario è mio, solo mio. Carta canta.» La reporter fissò l'uomo, il senso di disagio sempre più forte. «Quale documentario? Quello che Michelle stava imbastendo su di sé?» «Non sono affatto sicuro di volerlo far mandare in onda a TV Plus. Ci sono molte altre parti in causa, ed è mio dovere occuparmi delle risorse di Michelle e negoziare le condizioni migliori per noi.» «Credevo che Michelle avesse chiuso il contratto che vi legava» gli fece notare Annika, aspettando la sua reazione, che non tardò ad arrivare. L'uomo si bloccò come se avesse ricevuto uno schiaffo: la bocca spalancata, boccheggiante, in cerca di una parola. «Se solo sapesse cos'ho passato» iniziò, la schiena rigida. «Michelle sapeva essere insopportabile. Un istante eravamo d'accordo su ogni particolare, e quello successivo cambiava idea, mandava tutto a gambe all'aria e mi toccava ricominciare da capo. Lunatica come una poppante, nessun senso di responsabilità, solo un sacco di pretese.» Si appoggiò allo schienale e d'un tratto si mise a imitarla, la voce in falsetto. «"Questo non mi va, Sebastian Follin. Quest'altro lo devi cambiare, Sebastian. Questa cosa non la reggo, Sebastian."» Si protese di nuovo in avanti. «E tutti i suoi uomini, poi. Toccava sempre a me mettere a posto le cose. In realtà sono l'unico a sapere.» Annika lo fissò, tentando di nascondere la sorpresa. «Okay. E allora, secondo lei, chi le ha sparato?» Il manager girò la testa, le luci al neon dell'ingresso gli si riflessero sugli occhiali, rendendolo simile a un insetto. Un telefono cominciò a squillare all'interno del gabbiotto del portiere, un suono insistente e testardo. Tore Brand non accennò a sollevare la cornetta, aspettava la risposta di Sebastian Follin. «Qualcuno che ne ha avuto abbastanza.» Raccolse in fretta soprabito e borsa, si alzò, scomparve a spalle curve verso la tromba delle scale. Il portiere si allungò verso il ricevitore. Durante il fine settimana l'appartamento non sì era pulito da solo. Annika raccolse i rifiuti e spalancò le finestre per creare corrente mentre scendeva a buttarli nel bidone in cortile. Le nebbie dell'ambiente del giornale cominciarono a diradarsi nella sua testa, il lavoro passò in secondo piano, l'impronta sudaticcia di Follin sulla mano si asciugò e scomparve dalla sua coscienza.
In cucina la farina lattea preparata il venerdì mattina si era incollata al pentolino. La sera prima aveva pensato di metterlo a bagno ma non aveva trovato la forza, non aveva voluto. Lasciò il caos al proprio destino, si fermò sulla soglia della camera dei bambini, cercò di trovare una base e un contesto in quello che vedeva: il lettino con le sponde di Ellen nell'angolo, quello di Kalle con la barriera asportabile sotto la finestra, l'odore dolciastro di pannoloni usati e farina lattea. Un vento umido attraversò la stanza, la porta della camera da letto sbatté nella corrente. Girò la testa, appoggiò la fronte allo stipite, respirò. Funzionerà, pensò. Deve funzionare. Si ricompose, spense il cervello: il lavoro era la parte più facile della vita. Un'ora dopo il più era sistemato. I giocattoli messi via, il bucato in lavatrice, l'aspirapolvere passato alla meglio, la lavastoviglie che ronzava con un tintinnio dovuto alla sovrabbondanza di piatti infilati alla rinfusa. Scese al minimarket, comprò latte, burro, uova, formaggio, verdura, cipolle, pane, pesce e roba in scatola, si accorse di non avere abbastanza soldi e dovette far mettere in conto. Mentre saliva l'ultima rampa di scale con i sacchetti della spesa sentì che oltre la porta il telefono stava squillando. Lasciò cadere tutto rompendo le uova e a malapena riuscì ad aprire la porta con le mani tremanti. «Posso passare un attimo da te?» risuonò la voce dall'altra parte del filo. Annika si sedette sul pavimento, appoggiò la fronte alla mano, le guance in fiamme per la delusione. «Certo che puoi» rispose ad Anne Sapphane. «Che voce triste, è successo qualcosa?» Cercò di ridere. «Pensavo che fosse Thomas.» «Sorry» si scusò l'amica. «Porto qualche biscottino.» Non si era fatto sentire neanche una volta in tutto il fine settimana. Annika non sapeva nemmeno quando pensava di tornare a casa. Il senso di fallimento le pulsava nel corpo, tutto il suo essere soffriva per la mancanza di comunicazione. La nostalgia dei bambini era come un dolore fisico all'altezza del ventre. Si alzò, mise via la spesa nel frigo, il corpo dolorante come se avesse fatto due ore di palestra. Preparò il caffè con gesti da sonnambula. Improvvisamente si ritrovò sulla retina l'immagine di Bosse, il reporter del "Concorrente", la sua benevolenza priva di ogni traccia di egoismo. Il suono del campanello interruppe quei pensieri.
Anne Sapphane le mise in mano il sacchetto della pasticceria e si accasciò sul divano, tremante ed esausta. «Mi sento come se avessi i postumi di una sbornia anche se non ho bevuto una goccia. È uno schifo.» Annika versò il caffè nelle tazze, mise sulla tavola il latte. «Abbiamo avuto una riunione, al lavoro» cominciò Anne allungandosi verso il latte. «Tutto ciò che è successo ha fatto venire a galla il peggio in ciascuno di noi.» Si sedettero una accanto all'altra sul divano, ciascuna con la propria tazza in mano, un senso di calore. «È stata dura?» chiese Annika, bevendo un sorso di caffè. Anne deglutì. «Mariana von Berlitz ha sempre avuto l'hobby della religione, ma prima di oggi non avevo mai capito quanto fosse dannatamente fondamentalista. Odiosa. Highlander ha lo stesso quoziente intellettuale e lo stesso tatto di un carro armato. Follin è fuori di testa. Karin si nasconde dietro una montagna di atteggiamenti da chioccia.» «Sebastian Follin è venuto in redazione» disse Annika «quando stavo per uscire. Non ho capito cosa volesse.» L'altra sbuffò sprezzante. «Assicurarsi una posizione. Far sapere al mondo che Michelle sopravvive grazie a lui.» Annika girò il cucchiaino nella tazza, guardò verso la finestra. La luce grigiastra della sera cancellava i colori. «Forse è stato qualcuno di voi.» Anne trattenne il fiato, un sospiro che rasentava il pianto. «Perché la gente uccide? Per trovare la forza di andare avanti?» Annika immerse il cucchiaino nel caffè. «Potere. La gente uccide per ottenere il potere, in un modo o nell'altro. Potere su un'altra persona, su una famiglia, il potere connesso all'influenza politica o al denaro... Il potere, movente di tutti i tempi.» «Gelosia. Invidia. Ingiustizie subite. Caino e Abele.» «Anche quella è una forma di sete di potere» disse Annika, lo sguardo perso nel grigiore al di là dei vetri. «Se non posso io, non potrai neanche tu. Privare qualcuno della vita è la forma più estrema di prevaricazione. Dopo, la discussione è chiusa.» «La discussione? Per Michelle si è spento lo schermo.» «Ti stavo raccontando che Follin è venuto su in redazione» disse cercando di ripescare il cucchiaino. «Gli ho chiesto chi le aveva sparato, mi ha risposto qualcuno che ne aveva avuto abbastanza. Chi potrebbe essere?» Anne alzò le spalle. «Tutti, direi.» «Lo sai che hanno arrestato la neonazi?»
«Quando?» «Stamattina. Ma non è stata lei.» «Ne sono convinta anch'io.» Rimasero in silenzio per qualche istante, Annika sentì la caffeina diffonderle calma e calore nelle ferite. «Ci sarai anche tu alla commemorazione, martedì?» chiese allungando le gambe sul tavolino da salotto e accomodandosi meglio tra i cuscini dello schienale. L'amica scosse la testa, poi bevve lentamente. «Stasera avremo in mano il materiale registrato che era stato sequestrato, devo cominciare a passarlo in rassegna e fare il time coding di tutta quella merda. Un lavoro da mandare in pappa il cervello, ci metterò diversi giorni.» Annika chiuse gli occhi, si strofinò la fronte. «Thomas non mi ha telefonato una sola volta da venerdì.» Anne prese un pasticcino, addentò mandorle e cioccolato. «Avresti voluto che lo facesse?» «Be', è chiaro.» «Ma hai lavorato ventiquattr'ore su ventiquattro. Avresti avuto il tempo di chiacchierare?» «Ma certo, scusa! Non so nemmeno a che ora torna a casa.» «Questa poi è decisamente una carognata. Cosa fa, ti tiene in sospeso in una specie di limbo?» Annika sospirò, appoggiò la tazza per terra. «Ma no. La colpa è mia. Non l'ho mai visto arrabbiato come venerdì.» L'altra smise di masticare, gli occhi sbarrati in un'espressione incredula. «Di' che stai scherzando.» «Su che?» Annika tentò di arretrare, spingendosi più in alto contro i cuscini del divano. «Non sarà certo colpa tua se Thomas si arrabbia! Che cazzo di colpa poi! Lui ha tutti i diritti di arrabbiarsi, ma questo non vuol dire che tu debba sentirti in colpa, no?» Spalle al muro, sconcerto totale. «Ma sicuro, scusa. Sono stata io a scatenare la sua rabbia.» Anne si protese in avanti, seria. «Devi smetterla con questa faccenda, mi fai venire i brividi. La sua vita emotiva non è sotto la tua responsabilità. Cos'è, questa cosa, il campionato mondiale di sadismo? Il campionato mondiale dei sensi di colpa?» Annika sentì che nella stanza mancava l'aria, trattenne il respiro. «Siamo responsabili l'uno dell'altra.»
«Non riesco a capire perché sei così incredibilmente condiscendente, quando si parla di Thomas. In tutte le altre situazioni, non guardi in faccia nessuno. Sei sempre stata così, quanto a rapporti con gli uomini?» Annika respirava a scatti. Tirò su le ginocchia al mento, stringendo forte le gambe. «Ecco, ora ti metti anche in posizione fetale» commentò Anne Sapphane. «Prendi un pasticcino, altrimenti mi scompari.» Tese un biscotto all'amica che lo prese meccanicamente, lo mise in bocca, lo masticò senza sentirne il sapore. «Cosa intendi dire parlando di condiscendenza?» chiese, mentre alcune briciole di mandorla le cadevano dalle labbra. «Dato che Thomas sopporta di vivere con te, devi sacrificare la tua vita a lui. Ti trasformi in un'ombra pallida, corri su e giù come una schiava e tappi tutte le falle. Sei stata a casa in maternità per un sacco di tempo, adesso che hai ricominciato a lavorare questa situazione non tiene più.» «Ma no» tentò l'altra, senza riuscire a mettere alcuna energia nella protesta «non è vero...» Anne spalancò le braccia. «Tu sei un affare, per lui, non lo capisci? Dovrebbe essere strafelice di averti catturato. Dovrebbe portarti fiori tutti i giorni, e poi baci ed esclamazioni di gioia e una bella scopata per dessert...» Annika sentì una risata gorgogliante risalirle dalla gola, il senso di calore ammorbidirle il corpo, le gambe scendere di nuovo sul pavimento. «Se lo dici tu...» «A proposito, sai per caso cosa sta macchinando Schyman?» Anne Sapphane si appoggiò allo schienale con un secondo dolcetto in mano. Annika sentì i muscoli tornare a irrigidirsi. «Perché me lo domandi?» «Ha chiamato Mehmed chiedendo fino a quando andranno avanti con il programma quest'estate.» Le tessere andarono al loro posto come le figurine di una slot machine, Annika ne udì persino il tintinnio nella testa. Sorrise. Quel furbastro. Dunque era così che aveva pensato di procedere. Schyman percepì la tensione della redazione sotto forma di elettricità nell'aria. Regnava un silenzio insolito, c'erano troppi uomini intorno a Chiodo. Gettò un'occhiata in quella direzione mentre si avviava verso il gabbiotto e notò che Carl Wennergren aveva respinto l'invito ad andare in ferie anticipate. Si sfilò la giacca, le diede una scossa prima di appenderla.
Pioveva di nuovo. Si sfilò le scarpe fradice, constatò che non ne aveva un paio di ricambio in ufficio. In un armadietto trovò le calze asciutte, meglio di niente. Poi osservò con maggiore attenzione il capannello intorno al banco della cronaca, i volti affascinati e allegri degli uomini. Solo Torstensson si distìngueva, parcheggiato com'era al posto del redattore degli esteri, intento a sfogliare stancamente una rivista straniera. Schyman sospirò, aprì la porta, si avviò da quella parte. Gli uomini lo guardarono, un che di esitante improvvisamente dipinto sul loro viso. «Wennergren ha cambiato settore» esordì il caporedattore con un sogghigno. «Si è dato alla fotografia porno. Adesso deve solo imparare a mettere a fuoco.» Gli altri ridacchiarono, gli occhi vagamente lucidi. «Gira lo schermo da questa parte» gli ordinò il condirettore. L'immagine sul computer era sfocata per la sottoesposizione, ma l'oggetto risultava chiarissimo: un uomo e una donna che si dedicavano a esercizi sessuali su un tavolo da pranzo. «Michelle Carlsson e John Essex» spiegò Chiodo. «Wennergren le ha scattate la sera prima che venisse uccisa.» L'eccitazione che traspariva dalla sua voce aveva una doppia origine: l'ultimo avamposto del giornalismo macabro diluito con una buona dose di sensualità. Il silenzio si fece tangibile, gli occhi erano rivolti ad Anders Schyman. Persino Torstensson smise di sfogliare, ma senza alzare gli occhi. Il condirettore cercò di classificare impressioni ed emozioni, valutò in fretta il grado di arrabbiatura adeguato. «Cosa ci fa quella foto nel computer del giornale?» chiese, la voce sotto controllo. «Non è nel computer» spiegò Chiodo. «Wennergren ha messo tutto su CD.» «Allora tira fuori il CD e dammelo.» «Non credo» ribatté Carl Wennergren. «È mio.» Il condirettore guardò il reporter: sorriso rilassato, capelli biondi e folti, spalle larghe. Era il modello dei maschi del giornale. Sentì che i colleghi si schieravano dalla parte di Chiodo e Wennergren. Senza saperlo spiegare, si rese conto che Torstensson faceva la stessa cosa. «Tira fuori il CD» ordinò Anders Schyman sottolineando ogni parola «prima che a qualcuno venga in mente di memorizzare le immagini sul server. Non voglio che questa merda entri nel sistema del giornale.»
Il silenzio si fece ancora più greve. «E perché no?» chiese Wennergren, il tono canzonatorio in superficie, ma con un sottofondo minaccioso. «Potremmo inserire questa roba in una pagina nascosta del nostro orrendo sito Internet, per poi trasmettere l'indirizzo a qualche hacker ben scelto. Per la prima volta il nostro dominio avrebbe più visitatori del "Concorrente", e nel giro di meno di due ore!» Gli angoli della bocca dei presenti cominciarono a tremare, le spalle di qualcuno presero a sussultare. Era questa l'idea che li aveva fatti ridere prima. «Devo tirarlo fuori io?» chiese Schyman calmo. Chiodo sospirò teatralmente, estrasse il CD dal computer, lo passò a Carl Wennergren. «Anche se in realtà questa sarebbe una faccenda da sottoporre al direttore responsabile» commentò il caporedattore provocatorio. Schyman smise di riflettere e si protese di scatto in avanti. «Stronzate» tuonò, piazzando entrambe le mani sul ripiano davanti al caporedattore. «Questo non è un maledetto giornalino pornografico, e se non lo sapevi tanto vale che te ne esca di qui all'istante!» Il fruscio delle pagine girate da Torstensson ruppe nervosamente il silenzio affilato. Chiodo si ritrovò con il mento sul petto, sbatté le palpebre ripetutamente. «Quanto la fai lunga.» Tirò giù i piedi dalla scrivania e si girò. «Wennergren» lo chiamò Schyman. «Nel mio ufficio.» Aspettò che il reporter si alzasse in piedi e si stirasse, per poi costringersi ad avviarsi a passo rilassato verso il gabbiotto. «Cosa ci fai qui?» chiese dopo aver chiuso la porta di vetro alle spalle del giornalista. «Scrivo un articolo sull'omicidio di Michelle Carlsson» rispose l'altro. La sua voce era più sottile, adesso, svuotata di ogni sarcasmo. Schyman gli si piazzò davanti, lo inchiodò con lo sguardo, fissandolo negli occhi chiari e sfuggenti. Il silenzio si fece più compatto. Carl Wennergren si strinse nelle spalle. «Perché, scusa?» disse alla fine. «Io ero lì, no? È uno scoop. E poi so delle cose che non sono venute fuori.» «Non scriverai nemmeno una riga» lo avvertì il condirettore, spiacevolmente consapevole di quanto la sua voce suonasse strozzata. «Finché sarai un testimone sottoposto a restrizioni nell'ambito di un'indagine per omicidio non sarai tu a occuparti di questo caso.» «Potrò ben scrivere della mia esperienza, no? Barbara lo ha fatto!» si lamentò il giovane.
Nel cervello di Anders Schyman scoccò una scintilla, dando fuoco al materiale infiammabile che, a causa della spossatezza, aveva assunto proporzioni gigantesche. «Ma cosa credi che sia, questo, un asilo nido?» tuonò in faccia al reporter. «Barbara l'ha fatto! Santo cielo!» Si portò le mani al viso, si girò, si accorse di aver perso il controllo e quindi anche l'autorità. Si costrinse a respirare e riflettere, guardò di nuovo il giornalista, notò che Wennergren aveva il naso e le guance pallide. «Sjölander si trova su un aereo sull'Atlantico» disse il condirettore con la voce impastata. «Domani potrà intervistarti sulla tua esperienza, come testimone, con le stesse identiche prerogative degli altri che erano al castello quella notte. Naturalmente, sei libero di decidere se sei disposto a parlare o meno. Quello che poi verrà stampato è una questione editoriale su cui tu non hai nessuna voce in capitolo. Mi sono spiegato?» Qualcosa, nello sguardo di Carl Wennergren, si era spezzato. C'era un'espressione, in fondo ai suoi occhi, che il condirettore non aveva mai visto prima. Un'illusione crollata, un'intuizione sulla vita che non l'aveva mai colpito prima. «Che cavolo d'intervista?» riuscì a domandare. «Il reporter della "Stampa della Sera" rivela tutto sulla notte dell'omicidio al castello» scandì l'altro improvvisamente esausto. Dovette sedersi. «Suona come se fossi una maledetta donnetta!» «Hai mai provato a contare quanti articoli hai scritto tu stesso nello stesso tono?» chiese Schyman. Il reporter si fermò sulla porta, la socchiuse, esitò. Alla fine si voltò con un gesto sprezzante e provocatorio. «Solo per informarti» disse guardando il condirettore «ho visto Barbara fuori dall'ob-van subito prima delle tre del mattino. Potrebbe benissimo essere stata lei ad assassinare Michelle. Devo dire anche questo nell'intervista?» «Quelle foto porno non devono più arrivare nelle vicinanze dei computer di questo giornale» sentenziò Schyman. L'altro uscì, richiuse silenziosamente l'uscio, scivolò verso il mare di scrivanie. Schyman prese i calzini bagnati in una mano e le forbici nell'altra. Poi, sotto il ripiano della scrivania, li tagliuzzò meticolosamente fino a ridurli in piccoli frammenti sfrangiati. Il primo pensiero di Annika, quando vide i bambini sulla porta, fu che i loro visi erano incredibilmente nitidi. Gli occhi di Kalle erano colmi della
dolcezza del ricongiungimento, quelli di Ellen segnati da un senso di rancore. I loro corpicini erano così caldi, duri e insieme morbidi, il loro profumo così intenso. Li cullò abbracciandoli entrambi, seduta sul pavimento dell'ingresso, gli occhi pieni di lacrime. «Mi dai una mano con i bagagli?» La voce di Thomas era tra l'implorante e lo spossato. Lei si affrettò a lasciar andare i figli, andò all'ascensore e trascinò in casa zaini, borsa con la roba da bagno, il passeggino, i sacchi a pelo e le coperte. «La cena è pronta, forse sarà un po' freddina» disse, chiudendo la porta d'ingresso e sentendosi sopraffare dalla situazione: i suoi bambini, appesi alle gambe, il compagno che tornava a casa, a casa da lei, alla loro vita comune. La cena risultò forzata, i piccoli erano esausti e in più Thomas evitava il suo sguardo. Una volta che Annika li ebbe messi a letto, lui sprofondò sul divano davanti a un film. Lei gli si sedette accanto, vicina eppure lontana. Solo quando si furono messi a letto, entrambi supini con lo sguardo puntato al soffitto, riuscì a parlare. «Com'è andata?» Lui deglutì. «Ovviamente si chiedevano come mai non c'eri anche tu.» «Come ha reagito tua madre?» «Non è una persona dalle vedute limitate» ribatté Thomas. «Accetta Sverker senza problemi, ne parla chiamandolo suo genero. Ammetterai che è una cosa piuttosto insolita. La gente intorno a loro chiacchiera, ma lei va sempre in giro a testa alta.» Annika sentì bruciare le lacrime roventi negli occhi e deglutì per ricacciarle indietro. «Lo so» sussurrò. «Non lo capisci che questo rende tutto molto più difficile? Non ha la puzza sotto il naso e nemmeno ha dei pregiudizi. Quella che non accetta sono io. Capisci come ci si sente?» Le lacrime si misero a scorrere, pesanti e salate, finendole nelle orecchie. «È soltanto delusa» rispose Thomas senza guardarla. «Eleonor era per lei la figlia che non era mai arrivata, si telefonano ancora diverse volte alla settimana. Ma il loro rapporto non ha niente a che vedere con te. Lascia che continuino.» «Le fai pena perché stai con me» mormorò Annika a voce bassa, fissando il soffitto. Thomas sbuffò, sprezzante. «Ma che cavoiate sono? È solo che lei ha altri valori, pensa che sia più fine abitare in una villa che in un appartamento, che il lavoro di funzionario comunale sia più importante di quello di
consulente sui sussidi sociali, e d'accordo, anche che i dirigenti di banca siano più chic dei reporter di un giornale del pomeriggio. Ma lascia che lo pensi, no? Viviamo in un paese libero, cazzo!» Si girò, voltandole le spalle. Lei rimase a fissargli il dorso, con le lacrime che scorrevano silenziose sul cuscino. «Voglio che ci sposiamo» sussurrò. Lui non rispose. «In chiesa» continuò «e avrò un vestito bianco, e i bambini ci faranno da paggetto e damigella...» Con un unico gesto Thomas sollevò le coperte, la schiena rigida nella penombra della notte estiva, e la lasciò ferita e assetata tra le lenzuola. «Thomas! Ti prego!» La sua voce lacerò la stanza, sottile e minuscola, in attesa di una risposta che non arrivò. Si liberò dalle lenzuola umide e arrotolate, lo seguì nel buio, vide accendersi il lampadario in cucina. Si piazzò sulla soglia, nuda e tremante. «Ti si vede dalla finestra» le fece notare lui in vestaglia, seduto al tavolo con un giornale. «Perché non vuoi sposarti con me?» Thomas la guardò, gli occhi vuoti. «Sono già stato sposato una volta. Credimi, non c'è nessuna differenza.» «Per me ci sarebbe.» «Perché?» chiese, spingendo indietro la sedia. «Perché così potresti far pubblicare una foto del matrimonio sul "Corriere di Katrineholm"?» Annika rimase dov'era, sbattendo gli occhi per scacciare quello schiaffo verbale. «Io farei qualsiasi cosa per te» mormorò in tono implorante. Lui si alzò, le si avvicinò, lo sguardo di ghiaccio e di fuoco nello stesso tempo. Annika arretrò, vide un'altra immagine, un altro volto sovrapporsi a quello del compagno. Sentì riecheggiare la propria voce: "Io farei qualsiasi cosa per te". L'aveva detto un'altra volta, esattamente le stesse parole, e quel volto le era venuto incontro, gli occhi brucianti di gelo. «Vuoi un anello d'oro? È questo che vuoi? Lo avrai, lo andiamo a comprare domani.» La donna si voltò, fuggì attraverso il buio, il panico simile a un fischio rabbioso nell'orecchio sinistro. «Annika.» La voce di Thomas la inseguiva, stanca e atona. «Annika, scusa. Vieni qui, paperella...» Le sue braccia intorno alle spalle, il suo fiato sul collo.
«Scusami, non volevo...» Gli occhi di Annika, spalancati e asciutti, lo sguardo di vetro fisso alla parete. Ho già udito queste parole. Ho già vissuto questa scena. Ho perdonato, e perdonato, e perdonato. Si divincolò, afferrò coperta e cuscino e si diresse verso la camera dei bambini. «Dove vai?» «Non sono cazzi tuoi.» LUNEDÌ 25 GIUGNO Il complesso che ospitava l'Anagrafe titoli si trovava lungo il vecchio viale frequentato da prostitute dietro Sergels Torg, un edificio di lamiera e vetro risalente agli anni '70, tutto specchi e pareti di cemento, firmato da un famoso designer. Annika si fermò appena dopo le porte e chiuse l'ombrello. Quell'atmosfera ambiziosamente ufficiale la metteva a disagio, era in contrasto stridente con la sua missione. Non era lì in qualità di giornalista, ma come spia, agente o forse traditrice. Leggermente nervosa, prese la scala mobile a sinistra. Al secondo piano si apriva un giardino artificiale: il soffitto di vetro sospeso venti metri più su, fontane a mosaico e pavimento di marmo, ponte pedonale con lampioni bianchi stilizzati costeggiato da uffici con i muri intonacati. Cercò di scacciare dagli occhi l'immagine surrealistica sbattendo le palpebre, senza successo. Fissò allora lo sguardo verso il soffitto di vetro, intuì le striature lasciate dalla pioggia, percepì l'umidità. È solo una normale verifica, non c'è motivo di prendersela tanto a cuore. La reception era a destra, subito dopo l'ingresso. Si identificò mantenendo il sorriso sulle labbra: scrisse nome, codice fiscale, numero di carta d'identità e data su un grosso registro. Mentre l'impiegata riportava i dati, Annika lesse i nomi di coloro che erano stati lì prima di lei. Riconobbe quello di un reporter della rivista "Affari della settimana''. «I computer qui a destra, prego. Mi dica pure se ha bisogno di aiuto.» Due schermi piatti della Philips ronzavano nel loro viaggio eterno nell'universo. Lasciò cadere giacca, borsa e ombrello sul pavimento tra le sedie. Premette ENTER e subito comparve una finestra con tre icone. Cliccò sulla scritta REGISTRI AZIONARI e si trovò davanti un modulo con alcuni spazi da riempire: emittente, numero di codice fiscale o di partita I-
VA, nome dell'azionista. Sotto emittente scrisse "Global Future", sotto azionista "Torstensson". Accanto alla prima finestra se ne aprì una seconda. Esito della ricerca: nessun risultato. «Scusi» disse Annika all'impiegata «avrei qualche domanda da porle riguardo alle modalità di ricerca.» La donna si protese verso un interfono e mormorò una frase che lei non capì. Rimase seduta a fissare lo schermo; tanto per passare il tempo inserì una richiesta per sapere quanti membri della famiglia proprietaria del suo giornale possedessero delle azioni del concorrente MTG. Tre risultati. Sorrise. «Mi sembra che stia andando bene» disse una voce maschile alle sue spalle. Il cuore le balzò nel petto: a causa della spessa moquette, non aveva sentito arrivare l'uomo. «Oh!» esclamò, presentandosi. «Può spiegarmi come funziona questa roba?» Lo sconosciuto le sorrise, un guizzo negli occhi la fece avvampare. «I registri azionari vengono aggiornati due volte all'anno» spiegò. «I dati che sta esaminando lei mostrano la ripartizione azionaria pubblica aggiornata al 31 dicembre dell'anno scorso.» La giornalista sbatté gli occhi ripetutamente. L'informazione che cercava non era sospetta, se non per l'uso che se ne voleva fare. «Come devo comportarmi» chiese «se voglio sapere esattamente quando qualcuno ha venduto una certa azione?» «Non si può» rispose lui, continuando a sorridere. «La contabilizzazione avviene ogni sei mesi.» «Dunque non lo sa nessuno?» insistette lei, sollevata ma scrupolosa. Le sarebbe piaciuto non poter andare oltre. «Veramente sì» ribatté lo sconosciuto «visto che registriamo tutti i passaggi di proprietà che superano le cinquecento azioni, qui all'anagrafe. Tre giorni lavorativi dopo la transazione i nostri registri recepiscono la variazione.» «Però questi registri non sono pubblici?» Gli occhi dell'uomo non la mollavano, parlando un linguaggio completamente diverso dal gergo burocratico che gli usciva dalla bocca. «Ese-
guiamo delle cosiddette "analisi AT": si tratta di un servizio attraverso il quale le società di controllo collegate e alcune emittenti straniere hanno la possibilità di analizzare la struttura societaria dell'azienda. Tra le altre cose, possono seguire le variazioni quotidiane dei proprietari direttamente registrati.» Annika abbassò gli occhi. «In pratica possono pagare per vedere chi compra e chi vende le loro azioni?» «Sì, possono seguire le registrazioni che avvengono qui.» «E io non posso acquistare questo servizio?» Gli lanciò un'occhiata e lo vide scuotere la testa. Fissò i suoi capelli folti, scese con lo sguardo alle spalle larghe e ai pantaloni color kaki. «Okay» ricominciò rivolta alle sue scarpe. «Mettiamo che io voglia sapere esattamente quando una certa persona ha venduto una certa azione l'estate o l'autunno scorso. Come devo fare?» Alzò di nuovo gli occhi verso di lui, timidamente, e rimase sorpresa dal calore che vi lesse. «Perché non lo chiede a quella persona?» Lei rispose al suo sorriso. «Sono una a cui piace scoprire le cose per conto proprio.» «Non ne dubito» rispose lui mettendo in mostra i denti, bianchi e irregolari. «Potrebbe sempre rivolgersi all'azienda in questione. Non credo che le rispondano, ma tentar non nuoce.» «E di chi devo chiedere?» «Provi con il responsabile degli affari societari, o l'IR, il referente per le cosiddette "investor relations". Anche se, spesso, molte aziende non hanno dei funzionari preposti a questi incarichi: è più facile che siano svolti da un normale impiegato amministrativo.» Annika si alzò, s'infilò la giacca impermeabile e prese borsa e ombrello, ritrovandosi troppo vicina a lui in quello spazio ristretto. «Grazie per l'aiuto» mormorò. «Di niente» replicò lui. «Se le serve qualcos'altro, mi chiami...» Lasciò la frase sospesa nell'aria, tese il proprio biglietto da visita, ma non si spostò per farla passare. Lei alzò lo sguardo, stranamente turbata dal suo interesse. Si costrinse a sbottare in una risatina per disfarsi di quella sensazione e prese il biglietto. «Nel caso mi faccio viva io.» Annika si trattenne sotto la tettoia sporgente che copriva l'ingresso, investita dai rumori della città: lo stridere delle gomme contro l'asfalto bagnato
di pioggia, il gorgoglio nei canali di scolo, il rombo dei motori. Infilò l'ombrello nella borsa e uscì sotto la pioggia, lasciando che le gocce tiepide le scendessero su viso e capelli mentre si affrettava verso la Stazione Centrale. I gas di scarico si stendevano sulle vie come un coperchio, grigio e tagliente, da cui era impossibile difendersi. Colta da un attacco di disgusto fermò un taxi, diede all'autista l'indirizzo di Zero Television e si appoggiò allo schienale di pelle del sedile posteriore. I finestrini appannati celavano le vie, risparmiandole quella vista squallida. Non devo per forza vivere in questo modo. Merito di meglio. Chiuse gli occhi, corpo e vestiti impregnati dell'odore dei bambini: quello di Ellen, asprigno di yogurt e farina lattea, quello più deciso di Kalle, al pane e formaggio. Le sue mani ricordavano il tocco dei loro capelli setosi, il calore delle loro guance. Li aveva portati lei all'asilo quella mattina. L'inserimento di Ellen era andato benissimo, meglio di quanto si fosse aspettata. Quello di Kalle, all'epoca, era stato più difficile. Quando aveva cominciato a frequentare era più grande della sorellina, più consapevole. Spesso le era capitato di restare fuori dalla porta dell'asilo a piangere mentre suo figlio, all'interno, faceva la stessa cosa. Scacciò quel ricordo. I bambini stavano bene. I servizi comunali di assistenza all'infanzia erano una risorsa a cui avrebbe voluto attingere lei stessa quando era piccola. Oggi sarebbe toccato a Thomas andarli a prendere, visto che li aveva portati lei. Cercavano di lasciare il meno possibile i figli all'asilo: andavano a prenderli preferibilmente verso le tre, mai dopo le quattro. Ciò significava che per lo più facevano gli straordinari nei giorni in cui non toccava a loro il ritiro, per recuperare quel tempo che veniva generalmente considerato come perso. Perso?, pensò, avvertendo l'assenza dei bambini come un dolore fisico. Aprì gli occhi, fissò la superficie grigio piombo di Riddarfjärden, ingoiò la nostalgia. Il tunnel della tangenziale sud estromise la luce grigia, Annika vide la roccia nera passarle veloce di fianco oltre il finestrino appannato. Ce la farò, pensò. Funzionerà. La società dove lavorava Anne si trovava in una zona industriale a sud della città, di fianco alla pista da sci di Hammarby, dove era in costruzione lo stadio olimpico. Annika pagò con la carta di credito e infilò la ricevuta nel portafogli, sperando che il giornale le rimborsasse la spesa. Davanti a lei c'era il cancello, il confine dell'area di proprietà della tele-
visione: alti edifici di cemento grigio che si perdevano nella foschia. A sinistra, delle costruzioni piatte simili ad hangar, il ricovero dei mezzi di regia mobile. Oltrepassò le piattaforme di carico e il pallet di legno, trovò l'apertura. Dentro erano parcheggiate file di veicoli con la stessa divisa, bianchi con logotipi a colori vivaci, tutti di dimensioni e modelli diversi. Due uomini erano intenti a caricare qualcosa su un furgone. Alzarono gli occhi su di lei per un attimo, Annika sollevò la mano per salutare. Quasi in fondo c'era il camion più lungo di tutti. Al coperto, e di fianco agli altri, l'ob-van numero cinque appariva assolutamente gigantesco. Si avvicinò cauta, i passi che riecheggiavano dal cemento fino al soffitto. Fuori c'erano montagne di attrezzature, in parte sistemate in casse color zinco contrassegnate SONY BVP 570, CAM B OB1, Camera support numero due. La parete sinistra era stata espansa, esattamente come a Yxtaholm, la stessa scaletta di metallo traforato conduceva nella sala regia. «Ehi, c'è nessuno? Gunnar?» Il responsabile operativo fece capolino con i suoi capelli grigi dal corridoio. Annika mise esitante un piede sulla scaletta e sorrise. «Buongiorno. Sono Annika Bengtzon, quella della stazione ferroviaria di Flen. Posso entrare?» L'uomo uscì dallo sgabuzzino in cui era stato fino a quel momento a lavorare, si asciugò le mani sui pantaloni, le andò incontro. «Certo, certo. Si accomodi.» Le tese la mano, una stretta decisa e calda. «Grazie del passaggio, a proposito. È arrivato un treno dopo un quarto d'ora.» Lei gli sorrise, fece poi scorrere lo sguardo lungo le pareti, alzò le sopracciglia. «Impressionante!» La nozione di veicolo era completamente scomparsa: ora si trovava all'interno di un edificio tecnologicamente avanzato, arredato con gusto, con un continuo e basso ronzio elettronico, un universo a parte di puntini luminosi e monitor sfarfallanti. Il viso dell'uomo si animò all'improvviso, riempiendosi di luce. «Vuole dare un'occhiata in giro?» Lei annuì, vergognandosi un po' della propria morbosa curiosità: dov'era? Erano state lavate via le tracce? «Qui c'è la regia video» le spiegò il responsabile operativo indicando u-
n'area a destra, i gesti animati. Oltrepassò una finestra con le tende su un lato e una grande centralina elettrica sull'altro, sbirciò nello stanzino, assentì fingendo di capire. «E qui cosa si fa?» Gunnar indicò con un ampio gesto schermi, manopole, tastiere. «Queste sono le CCU» spiegò. «Le Camera Control Unit su cui lavora il direttore della fotografia. Gestisce le telecamere, regola il diaframma, e così via.» Uscì dallo stanzino e proseguì aprendo una porta a destra. «La sala apparati.» Annika infilò la testa: fili, milioni di cavi. «Tutto in rack diciannove pollici. È il formato standard.» Dopo che la reporter fu uscita, chiuse la porta. Lo sguardo di lei si fermò sulla parete di fronte, coperta di mappe e schemi di collegamento. «La sala video» continuò il direttore operativo dalla zona successiva. «O sala editing, come si chiamerebbe in realtà. Qui si trovano le cassette digibeta e le betacam, i VHS per i log-tape e i nostri encoder...» Annika staccò gli occhi dai sottili segni rossi di collegamento. Gunnar Antonsson si affrettò a proseguire. «Quando abbiamo costruito il van, due anni fa, la registrazione su disco fisso era pura fantascienza» continuò. «Ora è realtà. Qualche mese fa abbiamo dovuto risistemare tutti gli armadi rack e mettere dappertutto encoder qua sotto.» Indicò uno spazio sotto lo stretto banco di postproduzione, si chinò e tirò su un cavo staccato. Annika si schiarì la voce. «Scusi, sa» chiese «ma cosa significa?» L'uomo, già diretto al reparto successivo, si fermò sorpreso. «L'editing. Qui si fa il montaggio del programma.» «Su che supporto?» insistette Annika. «Videocassette o computer?» «Lei non ha mai lavorato in televisione, vero?» chiese l'uomo, ammiccando. Annika tentò di sorridere. «No, mi limito alle lettere dell'alfabeto. Lavorare in un giornale è un po' più facile.» Lui si bloccò, la scrutò, soprappensiero, avvolse il cavo in una matassa rigida. «Perché scrivevate continuamente di Michelle?» Annika si sentì arrossire leggermente, ma si impose di mantenere lo sguardo limpido. «Era un personaggio pubblico interessante. Controverso e affascinante in una combinazione piuttosto inconsueta. È normale che i giornali volessero parlare di lei.» L'uomo aveva ancora la stessa espressione interrogativa. Mise giù la ma-
tassa. «Ma perché proprio lei doveva essere tanto più importante di tutti gli altri?» Annika emise un colpo di tosse, approfittandone per abbassare lo sguardo. «Semplice: Michelle vendeva. Non è che fosse poi tanto più importante, solo che da un punto di vista puramente commerciale funzionava. Più o meno come per TV Plus. Era una persona nelle cui vicende tutti potevano lasciarsi coinvolgere, una che saltava agli occhi, nel cosiddetto "villaggio globale". Era bella da guardare, da leggere...» Gunnar aprì una porta metallica, mise via il cavo. «Si registra tutto in qualità broadcasting» disse proseguendo verso l'interno del van «cioè su betacam, anzi, adesso digibeta. In pratica è una specie di videocassetta di un altro formato, di qualità superiore. In questa produzione abbiamo fatto funzionare quattro macchinari diversi in contemporanea, nel caso qualche cosa avesse creato problemi, tipo danneggiamento del nastro o roba del genere. Una rete di salvataggio, per capirci. Niente encoder, però, nessuna registrazione su disco fisso. I video normali, cioè i VHS, si usano solo per i log-tape.» Annika lo seguì, scrutandogli la nuca. Capelli radi e grigi. Taglio accurato. «A che servono i log-tape?» L'uomo sollevò un sopracciglio. «Uno va al conduttore: Michelle voleva sempre controllare com'era venuta, per esempio. Uno tocca al direttore di produzione e uno all'addetto al casting. Con i log-tape si fa a meno di duplicare dal formato betacam. Chi si occupa del montaggio del programma può accedere direttamente al time coding.» Annika spaziò con lo sguardo sulla parete ingombra di registratori, monitor e microfoni, decine di contrassegni gialli, VTR 08, VTR 07... Sentì che la confusione aumentava. «Caspita, quante cose di cui tenere conto.» «Eh già» concordò Gunnar, voltandole le spalle ed entrando nella zona di produzione vera e propria. Il corridoio sfociava in una sala regia simile a quelle che aveva visto in ufficio da Anne: un'intera parete coperta di monitor che ricevevano il segnale video delle diverse telecamere, e poi pulsanti, luci, manopole, microfoni, un grande schermo che mostrava l'immagine in uscita. Le pareti rivestite di tessuto azzurro e grigio, panche e pavimento in laminato grigio, legno dalle forme morbide di un colore che ricordava il ciliegio. Annika seguì le venature con un dito. «Era distesa tra la moviola e il banco della regia.»
La reporter ritirò la mano, seguì lo sguardo dell'uomo sul pavimento. Si erano fermati nello stretto passaggio tra il banco di produzione anteriore e quello posteriore, davanti alla postazione del direttore della fotografia. Proprio in quel punto nel pavimento c'era una botola, maniglia e listelli cromati. «Il banco della regia e... cosa?» L'uomo raddrizzò la schiena e appoggiò la mano al banco posteriore. «Il tecnico che si occupa della moviola durante le partite di hockey sta seduto qui, e così noi diciamo semplicemente moviola. Il banco anteriore è chiamato regia, lì sta seduta tutta la squadra: il mixer video, il direttore della fotografia, la segretaria di edizione, il grafico...» «Da che parte era girata?» Gunnar appoggiò le mani sui fianchi e cominciò a dondolarsi sui calcagni. «La testa rivolta verso la parete» rispose poi con un cenno del capo verso il muro più corto. «Le gambe qui, ai due lati della botola. Le braccia in alto, così.» Sollevò le mani come i gangster nei film quando arriva la polizia. «La testa, o meglio, quello che ne restava, era appoggiata ai listelli del pavimento laggiù...» Lasciò ricadere le braccia e si diresse verso la zona in fondo al van. «Qui c'è la regia audio. La consolle mixer è da questa parte, poi ci sono i patch panel, novantasei canali in doppi layer. Di conseguenza la capacità è doppia rispetto a quanto si vede sulla consolle vera e propria, è tutto digitale...» Gunnar Antonsson indicava e mostrava ogni cosa con la ricchezza di particolari tipica di chi è scioccato. Annika lo seguiva, la bocca secca, archiviando nella memoria parole sparse: patch panel, canali, digitale. «I ricevitori diversity per i radio-microfoni sono là, il sistema di comunicazione attraverso il quale il van mantiene il contatto con quelli fuori, i cameraman, i cronisti eccetera...» L'uomo smise di parlare. Erano arrivati all'angolo più buio del mezzo. «È un momento difficile?» gli chiese lei con voce sommessa. L'altro abbassò gli occhi sul pavimento, passandosi la palma della mano sui capelli. «Be', sì» ammise. «Una sensazione strana. Viene da chiedersi... viene da chiedersi se qualcosa rimane...» Tacque, alzò gli occhi lanciandole una rapida occhiata. «Se qualcosa di Michelle è rimasto qui dentro?» «È stato pulito tutto con estrema cura» mormorò lui rapidamente, facendo un passo indietro.
«Credo che dipenda da lei» ribatté la donna. «Se lei lo desidera, penso che Michelle rimanga volentieri. Se invece vuole essere lasciato in pace, sono convinta che rispetterà il suo desiderio.» «Michelle si trovava bene sul van. Per me può fermarsi.» Annika sorrise. «Allora vuol dire che durante il viaggio in Danimarca avrà compagnia. Quando parte?» Antonsson sospirò, sollevato. «Domani dopo pranzo. Pensavo di partecipare alla commemorazione, poi mi muovo.» Guardò l'orologio, si passò una mano sullo stomaco. «È l'ora del caffè. Vuole farmi compagnia?» Annika sorrise. Thomas esitò davanti all'ufficio del dirigente, le mani sudate. Il colletto della camicia gli dava fastidio. Durante gli ultimi anni all'Unione dei Comuni Svedesi aveva perso l'abitudine di indossare la cravatta, ma oggi se n'era messa una, dimenticandosi di quanto fosse scomoda da portare. Tese in silenzio l'orecchio dietro la porta. Non si udivano voci dall'interno? Si rese conto che non era proprio il caso di restare lì a origliare, poteva arrivare qualcuno. Alzò la mano e bussò deciso sul pannello di betulla. L'invito a entrare fu brusco e sorpreso. Thomas aprì la porta, fu investito dall'odore di caffè e dolcetti, impallidì. «Cosa vuole?» Il dirigente del settore assistenza sociale era in riunione con il responsabile della contrattazione e il dirigente del settore sviluppo, la segretaria stava prendendo appunti. Tutti alzarono gli occhi su di lui. Sorpresi. «Scusate» disse lui «non sapevo...» Tutti, eccetto il suo diretto superiore, riabbassarono lo sguardo sulle loro carte, evitando di condividere il suo imbarazzo. «Deve parlarmi di qualcosa di particolare?» Il tono era secco e sbrigativo. «Niente di urgente» rispose Thomas richiudendosi piano l'uscio alle spalle. Rimase poi in piedi in corridoio, al nono piano, con il viso sempre più accaldato. Aveva commesso un errore. Quando la direzione avesse preso una decisione riguardo a lui, ne sarebbe stato informato. Non poteva forzarli a deliberare in merito andando a chiedere se c'erano novità. Non aveva avuto ancora reazioni riguardo alla sua disamina sulla que-
stione dei sussidi sociali, ma poiché il progetto era stato più volte ampliato, immaginava che fossero soddisfatti del suo lavoro. Tre anni e mezzo aveva dedicato alla miseria, agli stenti, ai debiti, all'emarginazione, studiando i metodi attraverso i quali tutti questi fenomeni potevano essere ridotti con risorse sempre più striminzite. Con il suo lavoro si era reso meritevole di un ruolo di maggior prestigio. Si era qualificato per occuparsi della questione del decentramento regionale. A quanto ne sapeva, per l'incarico di svolgere l'indagine sui futuri sviluppi delle competenze regionali in Svezia erano in ballo lui e una donna dell'Unione dei Consigli Regionali Svedesi che si interessava della questione da tre anni. Dal punto di vista dell'esperienza professionale, lei godeva di un vantaggio gigantesco, ma lui conosceva l'Unione dei Comuni, ed era già lì a disposizione. Un'anziana impiegata di un altro settore spuntò in fondo al corridoio, e Thomas si affrettò ad avviarsi nella direzione opposta, tornando nel proprio ufficio. Tremante, si accasciò sulla sua poltroncina, facendo cigolare le rotelle quando si avvicinò al ripiano della scrivania. Il suo sguardo fu catturato da un diagramma attaccato con una graffetta a una sottile relazione di valutazione. In realtà non aveva ancora del tutto completato l'ultimo rapporto interinale, ma la cosa non lo preoccupava. Se la direzione non gli avesse affidato un altro incarico, che rimanesse pure lì con un'analisi mozza. Se invece gli avessero offerto la possibilità di continuare, ci avrebbe lavorato parallelamente. Raccolse le carte sulla scrivania, le infilò in un raccoglitore blu, e lo sistemò nella libreria alle sue spalle. Si guardò intorno nella stanza: mensole di legno biondo di betulla, tipico stile scandinavo, tappeto blu scuro su parquet di frassino. Forse quelli sarebbero stati i suoi ultimi giorni lì. Il suo incarico scadeva il 30 giugno, quel venerdì, in pratica. Inspirò profondamente, lottò contro il senso di vertigine, il risucchio verso il basso. Si scostò i capelli dalla fronte, raccogliendosi intorno a ciò che avrebbe dovuto affrontare. Non che lì dentro ci fosse molto da mettere via, in caso di trasloco. Il materiale su cui aveva lavorato, pensava di portarselo via, a meno che qualcuno non gli chiedesse il contrario. Le piante sulla finestra erano dell'Unione dei Comuni, così come i mobili, i quadri, i computer e il resto dell'attrezzatura. Il fatto era che nel suo ufficio non aveva portato nemmeno un oggetto personale. Non aveva disegni dei bambini attaccati alle pareti, nessuna cartolina, nemmeno una foto di Annika e dei figli.
Cosa gli restava, in realtà, senza il suo lavoro? La sua vita era cambiata fin nel minimo particolare dopo quel giorno di quasi tre anni e mezzo prima, quando Annika era venuto a prenderlo nella villa di Vaxholm. Seguirla non era stata una decisione consapevole, solo la strada più facile. Lei gli aveva offerto una via di fuga e lui l'aveva colta, si era gettato a capofitto nell'ignoto, e tutto per scappare. Non era andato verso qualcosa, solo via da qualcos'altro. Non era giusto nei confronti di Annika, e soprattutto era ingiusto nei confronti di Eleonor. L'idea dell'altro, quello che aveva preso il suo posto accanto a sua moglie, era insostenibile. "Martin è uno dei soci. Non sei contento per me? Sono tanto felice, Thomas." Inspirò profondamente più volte, aggrappandosi al ripiano della scrivania. Se non gli rimaneva neanche il lavoro, cosa gli restava? Il suo sguardo triste si spostò fuori dalla finestra, oltre il cimitero mezzo sommerso: file di croci e lapidi grigie tra cui scorrevano rivoletti d'acqua piovana. Nel petto gli pulsava l'autocommiserazione. Non era così che avevo immaginato la mia vita. «Ecco a lei la posta!» Thomas trasalì al richiamo allegro del portiere. «Siamo al rush finale, ormai» disse l'uomo in tono entusiasta tendendogli un sottile fascio di buste. «Venerdì si va in vacanza. Anche lei, vero?» «Anch'io, sì» rispose Thomas, con la bocca secca, prendendo le lettere. Il portiere scomparve con la stessa velocità con cui era arrivato, lasciandolo paralizzato dal mucchietto di buste marroncine. Meccanicamente prese il tagliacarte, aprì la prima, contenente delle informazioni che aveva richiesto al comune di Pajala riguardo all'applicazione delle norme in materia di sussidi sociali. Poi un notiziario interno con l'invito a partecipare al torneo di bocce che si sarebbe svolto venerdì nel parco di Humlegården. La busta paga, identica a tutti gli altri mesi. Infine una lettera più spessa, più patinata. La voltò. Gli era stata rispedita dal comune di Vaxholm, dove era stata originariamente indirizzata. Nell'angolo in alto a sinistra troneggiava un grosso logotipo, IG, seguito da una fila di caratteri asiatici e sotto: INSTTTUTE FOR GLOBAL ECONOMICS. Soppesò la busta nella mano, ne valutò lo spessore, un centimetro abbondante.
Con un unico gesto strappò la busta con il dito, ignorando il tagliacarte. Sulla scrivania si sparse una serie di piccole brochure in inglese. The International Next Generation Leaders' Forum was established by the Institute for Global Economics and the Korea Foundation with the main purpose of providing an opportunity for international next generation leaders to meet their counterparts from all over the world to get acquainted with each other for their future cooperation... Lasciò andare la brochure, riprese a sfogliare. Facing New Challenges - Luncheon Address at the 4th International Next Generation Leaders' Forum, Seoul, South Korea. Ma che diavolo... Poi trovò la lettera. "Dear Mr Samuelsson" lesse e gli occhi volarono sul foglio. L'Istituto aveva l'onore di invitarlo in qualità di delegato svedese al quarto forum internazionale dei leader della nuova generazione che si sarebbe svolto a Seoul, in Corea del Sud, dal 2 al 12 settembre di quell'anno. Da ciascuno dei sedici paesi occidentali coinvolti era stato scelto un rappresentante, insieme a sedici giovani partecipanti sudcoreani che occupavano posizioni di rilievo nella società. L'Istituto e la Korea Foundation avrebbero coperto i costi di viaggio, vitto e alloggio e quelli relativi ai seminari, ai viaggi di studio e alle visite a fabbriche modello. Purtroppo il tempo stringeva, e dunque era pregato di confermare la propria presenza entro il 26 giugno. Thomas abbassò la pagina. Che fosse uno scherzo? Passò rapidamente in rassegna il resto dei fogli, e in fondo trovò la spiegazione scritta a mano. Naturale. Kim Sung-Joon, l'attaccante nella sua squadra di Åkersberga. SungJoon, il figlio dell'ambasciatore sudcoreano che giocava a hockey sul ghiaccio. In qualità di capitano, Thomas aveva fatto in modo che gli venisse assegnato un posto nella squadra. Fissò le lettere tremolanti.
Ma certo, cazzo, Kim Sung-Joon! Se l'era dimenticato. Evidentemente, però, il coreano non aveva dimenticato lui. Thomas puntò lo sguardo sul cimitero, frugò nella memoria, lasciò cadere il foglio. Sung-Joon, un ragazzo basso e allegro con un gran sorriso e degli occhi che, quando rideva, si riducevano a fessure. Si erano frequentati piuttosto assiduamente per qualche anno. Era stato Thomas a fargli prendere la prima sbornia. L'ambasciatore era montato su tutte le furie e gli aveva proibito di frequentare suo figlio, naturalmente senza risultato. Una volta che la carriera diplomatica del padre era volta al termine, l'intera famiglia Kim era tornata in Corea del Sud, e il giovane aveva trovato lavoro nell'ente organizzatore dei giochi olimpici del 1988. Avevano mantenuto i contatti fino a sette, otto anni prima. Thomas prese di nuovo la lettera, proseguì nella lettura del testo scritto in uno svedese sorprendentemente corretto. Ora Sung-Joon era sottosegretario di stato presso il ministero dello Sport di Seoul. Era stato lui a proporre Thomas come rappresentante svedese per questo quarto simposio internazionale rivolto ai leader della nuova generazione. Quanto a lui, avrebbe fatto parte del gruppo dei sedici coreani, e sperava che in questo modo potessero trovare il tempo di stare un po' insieme e parlare dei vecchi tempi. Thomas girò la lettera, il retro era in bianco. Passò in rassegna il resto dei fogli, lo schema proposto relativo a orari degli aerei e partenze, un programma preliminare per le dieci giornate, la descrizione dei dress codes per i diversi eventi, business attire for meetings, casual attire for tours, no jeans at Panmunjom. Visite alle fabbriche della Hyundai e della Samsung, i tunnel sotto la zona demilitarizzata all'altezza del trentottesimo parallelo, l'incontro con il presidente coreano, il pranzo con il ministro delle Finanze, la cena con il ministro della Difesa, le conferenze di una serie di professori universitari e di un premio Nobel. Non è possibile, pensò Thomas, sentendo che aveva bisogno d'aria. Si alzò, prese i buoni pasto, fuggì verso la pioggia. Stava aspettando l'ascensore quando la porta dell'ufficio del dirigente si aprì e i tre funzionari sfilarono fuori. Il suo capo lo vide, s'interruppe nel bel mezzo di una risata confidenziale insieme agli altri. «Ah, eccola» disse il dirigente a voce alta. «Cosa voleva dirmi?» Lui raddrizzò le spalle, frugò in una tasca in cerca di qualcosa che non
aveva, impostò la voce in un tono calmo e di ragguaglio. «Solo un'informazione. Sono stato scelto come rappresentante svedese a un simposio internazionale sulla leadership a Seoul, che si svolgerà quest'autunno. Significa che sarò via per le prime due settimane di settembre. Può darsi che la cosa non vi riguardi più, trattandosi di quest'autunno, ma volevo informarla in merito.» Il gruppo si era bloccato, gli occhi gli si erano incollati addosso. «Un simposio sulla leadership? E cosa sarebbe?» Il capo aveva smesso di ridere, la bocca semiaperta. «Fourth International Next Generation Leaders' Forum» rispose Thomas. «È organizzato dall'Institute for Global Economics e dalla Korea Foundation. Mai sentiti nominare?» L'ascensore emise un pling, le porte si aprirono silenziosamente, Thomas salì. «Scendete?» chiese al gruppo di dirigenti. I tre scossero la testa, Thomas fece un gesto di saluto con la destra, le porte si richiusero. Quando la cabina si mosse si appoggiò con la testa alla parete. Cazzarola, pensò. Questa sì che era bella. La montagna di sacchi neri da immondizia arrivava quasi al soffitto, sbarrando l'ingresso della sala postproduzione come una trincea. «Sei qui?» chiamò Annika a voce bassa, cercando di trovare un varco attraverso cui sbirciare all'interno. La risposta le arrivò sotto forma di un gemito da dietro la montagna. «Vai a destra, c'è un passaggio dietro il rack con i monitor» le spiegò Anne. Annika depose giacca e borsa sulla soglia, scavalcando poi cauta cavi e fili. L'aria nella stanza era quella secca e crepitante tipica del montaggio, sommata all'elettricità statica della moquette che le faceva sollevare i capelli. La penombra era polverosa e grigia, la luce, quella di schermi e lampade a basso consumo energetico, bluastra e sfarfallante. «Cosa sarebbe questa roba?» chiese Annika con un gesto verso i sacchi da spazzatura. «Il materiale registrato che era stato messo sotto sequestro. Ti rendi conto? La polizia ha riconsegnato tutto in un casino indescrivibile.» Annika abbassò gli occhi sul sacco mezzo pieno ai piedi dell'amica. Nastri in formati diversi erano mescolati a stampe di scalette di lavoro e a una buona dose di altre cartacce. «Cosa devi fare?»
«Catalogare, classificare, archiviare. Devo fare il time coding di tutte le videocassette in modo che si possa procedere al montaggio delle trasmissioni, e c'è da sbrigarsi. In realtà non sarà reso pubblico fino a domani, ma la messa in onda comincerà sabato, come previsto originariamente.» «Ma non l'hanno neanche sepolta» commentò Annika. «Dillo al Big Boss a Londra» rispose l'altra, premendo EJECT sull'unità portatile di postproduzione accanto alle sue ginocchia, per poi estrarre con la destra la cassetta e infilarne immediatamente un'altra con la sinistra. Mentre la macchina la caricava, Anne fece in tempo a compilare un'etichetta autoadesiva da archivio, a imprimerla sul dorso del nastro e infilarlo in una cassa. Un attimo dopo lo schermo sfarfallò, Michelle Carlsson comparve imperiosamente sul monitor davanti a loro. Entrambe s'irrigidirono, colpite dalla nitidezza dell'immagine. La donna ora morta era tesa, pronta, evidentemente intenta ad ascoltare qualcosa che le veniva comunicato nell'auricolare. «No, prima voglio le anarchiche» disse nel collarino a qualcuno in sala regia, rispondendo a una domanda che probabilmente era impressa su qualche altro nastro in qualche altro sacco sparso per la stanza. La conduttrice rimase immobile, in ascolto. Una truccatrice comparve sullo schermo, osservò Michelle da una distanza di dieci centimetri, ma l'altra non si accorse neanche di lei, ascoltando con concentrazione assoluta le istruzioni che le venivano date all'orecchio. «Prima le anarchiche, poi la nazista, primo piano, la telecamera da sinistra in modo che la croce uncinata riempia lo schermo.» La truccatrice tamponò la fronte della donna con un batuffolo rosa, prese un pennello, ritoccò un sopracciglio, si ritirò. «Okay» annuì la conduttrice, mimò un ringraziamento alla truccatrice scomparsa, sollevò una mano a salutare qualcuno, si sistemò l'auricolare nell'orecchio. Si girò poi di novanta gradi e fissò priva d'espressione la telecamera, lo sguardo completamente svuotato. Annika fissò gli occhi della donna, annullati, avvertì un nodo allo stomaco. In fondo a quegli occhi non c'era felicità, né soddisfazione. Nessuna presenza attiva nella vita, solo angoscia e ambizione. Poi Michelle annuì di nuovo, fece un passo indietro e accese la propria luce interiore. La trasformazione fu immediata, straordinaria e radicale. Il viso mutò completamente, gli occhi si animarono, scintillanti, brillanti, dallo schermo cominciò a uscire un fluido caldo, che investì Annika e Anne come un abbraccio, inducendole a sorridere.
«Benvenuti a Estate al castello» disse Michelle Carlsson, la voce calda come miele, capelli come seta, occhi di cristallo. «Questa sera ci incontriamo per l'ultima volta al castello di Yxtaholm, in Sörmland, con ospiti, musicisti e...» S'irrigidì, si portò la mano all'orecchio, il calore si spense. «Okay. Uno due, uno due, adesso si sente? Uno due?» «Che cassetta è questa?» chiese Annika. «Probabilmente le riprese della due, l'ultima sera» rispose Anne premendo il pulsante dell'avanzamento veloce. L'audio si trasformò in un cicaleccio da Paperino, sullo schermo comparvero due righe, le persone si muovevano come attori di un film muto a velocità raddoppiata. Annika rimase immobile, osservando affascinata il caleidoscopio della realtà. «Sì» confermò Anne Sapphane dopo qualche minuto dall'inizio della ripresa vera e propria. «È la telecamera numero due.» Aumentò ulteriormente la velocità, facendo comparire sette linee sullo schermo al posto delle due di prima, l'audio si appiattì su una tonalità alta, al limite della percezione. Mentre la cassetta procedeva, Anne si sporse verso quella successiva, ne soppesò in mano due, ne scelse una. Tirò fuori di nuovo le etichette da archivio, aspettò a spalle curve che il nastro arrivasse alla fine. Tre Michelle cominciarono a parlare e a ridere contemporaneamente su tre monitor. Sullo sfondo, ospiti e tecnici fissavano affascinati la stella della TV. La conduttrice sorrideva, splendeva, aggrottava le sopracciglia mentre ascoltava, accoglieva e congedava. Le telecamere la seguivano da vicino, ogni movimento era importante, ogni espressione aveva un significato. «È incredibile quanto tutto questo abbia tanto fascino» disse Annika. «In fondo c'è già tutto nella Bibbia» rispose Anne, giocherellando con le etichette. «Quarto capitolo del primo libro del Pentateuco.» Annika, che era al corrente dell'assidua frequentazione dell'amica al catechismo domenicale della Fondazione Evangelica di Pitholm, aspettò in silenzio che continuasse. «Il desiderio di essere ammirati» proseguì infatti l'altra «è fondamentale per gli esseri umani. Il fatto di non ricevere l'apprezzamento e i riconoscimenti che ci meritiamo ci distrugge. Non riusciamo a sopportarlo.» «Ci risiamo con la storia di Caino e Abele?» «Il primo movente documentato di un omicidio nella storia mondiale» confermò Anne.
«Guarda che io non è che sia molto ferrata in materia.» Anne si sfilò le scarpe con un calcio. «Caino era diventato coltivatore, Abele pastore. Ciascuno dei due offrì un sacrificio al Signore: Caino portò i frutti della terra, Abele l'agnello primogenito del suo gregge. Ma Dio vide solo il sacrificio del secondo, mentre ignorò quello del primo.» «In altre parole, il Signore era un capo maledettamente scarso, dal punto di vista pedagogico» commentò Annika. «Esatto. E secondo la Bibbia Caino fu molto irritato di essere stato ignorato, e il suo volto era abbattuto. Dio, quel vecchio sadico, chiese a Caino qualcosa del tipo: "Perché sei così irritato, e perché il tuo volto è così abbattuto? Se agisci bene, lo terrai alto, ma se non agisci bene, il peccato è in agguato dietro l'angolo. Tu tendi verso il peccato, ma dovresti dominarlo".» «Che carogna. Prima sostiene di aver creato tutti gli uomini uguali, a sua immagine e somiglianza, poi pone condizioni diverse per ciascuno, e alla fine fa predicozzi quando reagiamo alle sue ingiustizie.» «Abele ebbe modo di essere ammirato» riprese Anne «mentre Caino avrebbe dovuto adattarsi a restare dietro le quinte e fare buon viso a cattivo gioco.» «Ad Abele andavano tutti i meriti, e Caino si doveva sciroppare i lavori faticosi senza protestare» constatò Annika. «Il resto della storia lo conosci anche tu» disse Anne diretta a un sacco a fianco dei dischi fissi. «Caino attirò con l'inganno Abele nel deserto e gli fece la festa, no?» «Più o meno» confermò l'altra dal fondo del sacco. «Mi tieni queste cassette, per favore? Grazie. Ma Dio aveva visto tutto, evidentemente aveva piazzato da qualche parte una telecamera, e sapeva cos'aveva combinato Caino.» «E che punizione gli diede?» «Caino perse il lavoro, non poté più coltivare i campi. Ramingo e fuggiasco, dovette restare sulla terra» concluse Anne e si accasciò di nuovo sulla sedia. «Ma devi guardare tutto quanto?» chiese Annika. «Non proprio, però devo verificare il contenuto di tutte le cassette, classificarle e controllare che non ci sia qualche problema tecnico.» Le immagini sparirono, per una decina di secondi regnò l'oscurità, poi la cassetta uscì. L'amica sospirò, cambiò nastro con la fulminea precisione di prima, lo contrassegnò e lo mise al suo posto.
«A Dio non importava il risultato del lavoro di Caino» disse Annika lentamente. «Be', innegabilmente gli agnellini sono più carini del grano» commentò Anne. «Caino però sgobbava come un deficiente nei campi, arava e seminava, ripuliva dalle erbacce e mieteva» replicò Annika, vedendosi davanti il campo pietroso. «Abele invece se ne stava steso con un filo d'erba in bocca mentre le pecore si accoppiavano e partorivano agnelli. E tuttavia era il lavoro del fratello minore ad apparire. Caino non è riuscito ad accettarlo.» «Sullo schermo di Dio Abele la faceva da padrone, mentre Caino no» mormorò Anne. «È davvero incredibile» ripeté Annika per la seconda volta «che tutto questo coinvolga così tanto. Ti va di venire a mangiare con me?» Anne fece una smorfia. «No, ma magari un caffè me lo prendo. Se lo metti su nella sala riposo io arrivo, devo solo...» Annika uscì dallo studio, inspirando avidamente l'aria più fresca del corridoio. Andò nella sala riposo, accese la caffettiera americana. La sala riposo con cucinotto era in realtà solo un locale tramezzato in vetro al centro del vecchio capannone che era stato riconvertito a redazione della Zero Television. Una parete era occupata da mobili laminati bianchi da cucina: fornelli, frigo, lavello e macchinetta per il caffè. L'odore stantio di unto rivelava che la ventilazione non funzionava troppo bene. Oltre la parete di vetro si vedevano scrivanie, computer, telefoni, qualche divano, spazi tra un tavolo e l'altro più ristretti che alla "Stampa della Sera", e poi donne più giovani e più belle. Il loro compito consisteva soprattutto nel cercare di convincere la gente a intervenire in qualità di ospiti nei diversi programmi della società: un continuo telefonare, blandire, mercanteggiare per indurre persone di prestigio a venire a dibattere nei loro talk show invece che in quelli di altri, i VIP più cari al pubblico a farsi umiliare dai loro intervistatori invece che da quelli degli altri, i musicisti più in voga a pubblicizzare il loro nuovo disco durante i loro programmi invece che in quelli degli altri, preferibilmente con l'esclusiva. Uno dei conduttori del canale, Annika lo sapeva, il re ufficioso dei talk show, accettava solo ospiti con l'esclusiva. Il VIP non doveva comparire in televisione in altri contesti per l'intera stagione: l'accordo era quello, prendere o lasciare, se si voleva comparire a fianco del migliore bisognava pagare, e lì c'erano le donne che si occupavano della faccenda, che rastrellavano la pista, chiamavano dentro i cavalli da circo...
«Oh, che bello!» esclamò Karin con trasporto, avventandosi sul bricco della caffettiera elettrica. «Dovremmo procurarci un distributore automatico di caffè, ma non viene mai buono come quando lo si prepara così, vero?» Corse allo scolapiatti, prese due tazze, ne porse una ad Annika. «Devi vederti con Anne?» chiese la direttrice di produzione versando il caffè. «Solo per un breve spuntino» rispose la reporter, guardandosi intorno in cerca del latte. «Continuano a telefonare giornalisti» riprese Karin senza distogliere gli occhi da lei. «Non sono in molti ad avere libero accesso all'intera scuderia di presunti assassini.» Annika avvertì lo sguardo della donna, bruciante, estraneo. Si sentì improvvisamente a disagio. «Vuoi che me ne vada?» Karin Bellhorn bevve, appoggiata al bancone della cucina, le braccia incrociate sulla pancia voluminosa, sospirò, improvvisamente accasciata e stanca. «No no, non per me, almeno.» Annika tentò di sorridere, cercando qualche argomento di conversazione, a disagio. «Lo sai?» chiese improvvisamente la direttrice di produzione. «Tu sei una che si nota.» Non c'era nessuna civetteria nelle parole della donna, eppure Annika abbassò gli occhi, sentendo un calore pulsante alle guance. «È strana» continuò l'altra «questa cosa che fa in modo che alcune persone si notino e altre no. In una certa misura è una questione di bellezza, ma non solo. Michelle, per esempio, non era dotata di una bellezza classica, ma non ho mai visto nessuno che bucasse lo schermo come lei.» La giornalista annuì, pensando alla cassetta appena vista nella saletta di postproduzione e alla reazione avuta quando Michelle aveva acceso la luce interiore, animandosi in modo così assoluto. «È vero che erano tutti invidiosi di lei?» chiese Annika. Karin Bellhorn la guardò sorpresa. «C'è invidia e invidia... È un concetto relativo. Tutti coloro che non sono soddisfatti di quello che hanno desiderano avere di più. E questo vale anche per la notorietà.» «E perché la notorietà è così desiderabile?» sondò Annika. Karin Bellhorn sbottò in una risatina. «E me lo chiedi proprio tu che lavori in un giornale?» Appoggiò la tazza accanto al lavello. «Li conosci, no, i principi della notorietà?» La reporter scosse la testa. «La celebrità dà potere. Più si è famosi, più si è potenti, più spazio si oc-
cupa. Tutto è riconducibile alla lotta per il territorio, alla scelta del partner con cui accoppiarsi.» Annika si accorse di essere rimasta di sasso. «È davvero così semplice?» chiese perplessa di fronte all'ingenua brutalità delle parole della direttrice di produzione. Karin Bellhorn alzò le spalle, tentò di sorridere. «In realtà non siamo andati molto più avanti dei dinosauri.» Abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Io sono stata conduttrice in TV, lo sapevi?» Annika annuì, esitante. «Un programma d'intrattenimento?» «Il primo della televisione svedese. Facevo anche parte del consiglio di redazione. A quell'epoca doveva essere tutto bello e democratico, e io venivo calpestata ogni giorno. Tutti gli argomenti che proponevo venivano respinti, quelli che venivano realizzati erano quelli degli uomini.» Fece un sorriso triste. «Sai com'è, le cose cambiano meno di quanto crediamo.» «Ma poi tu andasti all'estero, no?» Karin Bellhorn sollevò il mento. «Mi sposai con Steven, e da quel momento in poi ebbi tutta l'attenzione che ci si possa augurare. Non aveva solo risvolti positivi, però. Credo che qui nessuno abbia mai capito lo status di cui godeva Steven in Inghilterra. I tabloid sostavano sotto la finestra della nostra camera da letto notte e giorno.» Qualcosa, nella voce della direttrice di produzione, fece rizzare le orecchie ad Annika. Le parole erano critiche, ma il tono rivelava un orgoglio represso. «Dev'essere stato tremendamente stressante.» Karin Bellhorn sospirò, sollevò rapidamente le sopracciglia, sbottò in una risatina. «Essere famosi come lo eravamo noi è qualcosa di veramente speciale. Ogni notorietà dev'essere amministrata, anche quella buona. È difficile riuscire a concludere qualcosa quando ci si ritrova costantemente sul giornale o sulle locandine. C'è come una frattura. Certi aspetti della persona vengono sparsi dappertutto, si diventa di dominio pubblico, si appartiene un po' a tutti. È una cosa che logora, non so come spiegarlo altrimenti, è come se alcune parti della propria identità fossero staccate a brani e sparse al vento. Ricomporsi e realizzare qualcosa in una situazione del genere è difficilissimo.» Annika frugò con lo sguardo in cerca di Anne Sapphane senza vederla da nessuna parte. «Michelle ha dovuto subire un sacco di attacchi dai mass
media. Dev'essere stato tremendo.» Karin Bellhorn pescò un pacchetto di sigarette dall'interno del golf, ne palpò pensosa il contenuto. «Bisogna riuscire a vedere i pettegolezzi e le voci maligne per quel che sono veramente: intrattenimento. Quello che per uno, in quanto persona, rappresenta un'ingiustizia insormontabile, per tutti gli altri è solo un momento di fuga dalla realtà nella sala d'aspetto della parrucchiera. Bisogna mantenere le distanze, anche se naturalmente i pettegolezzi possono causare dolore. Soprattutto quando coinvolgono le persone vicine. La famiglia è il tallone d'Achille di tutte le persone famose. Ogni colpo che arriva in quel punto è fatale.» «La famiglia è anche la scusa più abusata per battersela da un interessamento troppo invadente» osservò Annika. «Mah...» Karin Bellhorn infilò una sigaretta tra le labbra. «In realtà non è vero. Qualsiasi interessamento negativo colpisce sempre la famiglia. C'è sempre una vecchia madre o un povero figlio che soffre, e dunque in quelli che tu definisci pretesti c'è invariabilmente un fondo di verità. Vuoi dell'altro caffè?» Lei scosse la testa. «Vieni con me nella sala fumatori» la invitò Karin facendo strada attraverso la redazione. Annika la seguì fino a una stanza impregnata di fumo con vista sullo stadio Victoria in costruzione. «Pensi che lo finiranno in tempo?» chiese Annika accennando con la testa all'impianto olimpico. «Certo» sbottò Karin Bellhorn aspirando il fumo con un'intensità da far fischiare i bronchi. «Mancano ancora tre anni.» Annika tacque, incerta sugli scopi della direttrice di produzione e sul proprio ruolo: da ospite indesiderata a confidente nel giro di otto minuti e sette secondi. Guardò il profilo della direttrice di produzione, i solchi intorno alla bocca, le dita macchiate di nicotina che tormentavano il mento. La luce grigiastra che penetrava dalla finestra conferiva alla sua pelle una sfumatura irreale. «Ti piace il tuo lavoro?» chiese. Karin alzò le spalle, mantenendo lo sguardo fisso su un punto lontano. «Tentiamo di realizzare qualcosa di buono. Cerchiamo di presentare la società secondo una prospettiva femminile, e non è poco.» «Per quanto questo debba avvenire alle condizioni del mercato?» chiese Annika.
«Be', di questo dobbiamo solo rallegrarci, nonostante tutto» si compiacque Karin, spegnendo la sigaretta in un portacenere pieno di sabbia. «Altrimenti non si sarebbero mai potuti mettere in piedi dei programmi rivolti a un pubblico giovane e femminile. Bisogna catturare i consumatori prima che abbiano compiuto trent'anni: dopo, non si cambiano più né abitudini né modelli d'acquisto. Le donne si occupano di gran parte della spesa familiare, per questo le pubblicità televisive si rivolgono a loro. Guarda soltanto la televisione di stato: è una norma che li caratterizza in pieno.» Annika sorrise: nel corso dell'ultimo anno gli uomini bianchi eterosessuali di mezz'età dotati di automobile e reddito avevano cominciato a essere definiti e ridotti a una categoria, il che li aveva irritati. Erano abituati a stabilire loro i confini di ciò che era umano, e il fatto di essere improvvisamente catalogati come categoria a parte li offendeva. «Vero» ammise. «D'altra parte, i programmi commerciali esistono solo per riempire gli intervalli tra una serie di réclame e l'altra.» «Non importa» rispose la direttrice di produzione. «Finché avremo la possibilità di utilizzare in modo sensato il tempo che abbiamo, lo faremo. Tra l'altro questo crea dei posti di lavoro per delle donne, sia davanti che dietro la telecamera.» «A quanto ho capito, non è che fili sempre tutto liscio» constatò Annika. «Il rapporto tra Mariana e Michelle non era dei migliori, no?» «Pessimo.» L'altra spense la sigaretta e ne accese immediatamente un'altra. «Veramente dei peggiori. Mariana era arrivata qui prima di Michelle, non è mai riuscita a tollerare che a lei fosse stato assegnato un ruolo di quel livello.» «Dunque Mariana era invidiosa?» La direttrice di produzione inspirò profondamente e alzò lo sguardo verso il soffitto fuligginoso per qualche istante. «Rancorosa, più che altro» rispose lentamente, annuendo alle sue stesse parole. «Mariana insistette per essere messa alla prova sullo schermo alcune volte, ma constatò lei stessa che non funzionava. In realtà non fu un trauma per lei. La cosa che la urtava era il fatto che Michelle avesse tanta voce in capitolo sui programmi. Come conduttrice, Michelle poteva naturalmente cambiare la sceneggiatura o chiedere al direttore di produzione di modificare la scaletta. Mariana riteneva che Michelle non avesse la competenza e l'esperienza necessarie per gestire questo tipo di potere.» «Era vero?» La donna inspirò la nicotina con un impeto tale da consumare diversi
centimetri della sigaretta. «No» mormorò a voce bassa. «Per nulla. Michelle era un talento naturale, quanto a tempi ed effetti. Mariana invece non vale una cicca, manca totalmente di sensibilità.» Annika tentò di allontanare un po' di fumo con la mano. «E di Stefan Axelsson cosa mi dici?» La direttrice di produzione le lanciò un'occhiata. «Non so molto di lui, è un free lance.» «Ma ha lavorato quasi esclusivamente per la Zero negli ultimi quattro anni.» Karin Bellhorn alzò le spalle e la reporter cambiò argomento. «E Sebastian Follin?» L'altra si sedette su una poltroncina a braccioli, appoggiò il mento a una mano. «Sebastian lavorava come consulente all'Ente Strade di Växjö quando decise di dedicare la propria vita a rendere famosa Michelle Carlsson. Non desiderava nient'altro. Una volta raggiunto l'obiettivo, per Michelle, naturalmente, divenne una grottesca palla al piede. Si portava addosso un debito impronunciato nei suoi confronti. Nonostante tutti i soldi che lei gli dava, lui voleva sempre qualcosa di più: doveva avere lei. Voleva trovarsi al suo fianco sotto le luci della ribalta. Sebastian non si considerava un manager, ma un prolungamento di Michelle, una parte di lei.» «Aveva qualche rotella fuori posto?» «Nient'affatto. È proprio questo che voglio dire. Le persone famose possono avere quell'effetto su chi hanno intorno, soprattutto se li conoscevano da prima di raggiungere la notorietà. Se un gruppo avvia un progetto insieme, c'è sempre un terribile logorio quando uno di loro raggiunge la massa critica.» Annika sbatté gli occhi, confusa. «Massa critica?» La direttrice di produzione sorrise di nuovo, tenendo in equilibrio la sigaretta tra le labbra. «Quando uno sfonda» spiegò «ottiene riconoscimenti, trionfo di pubblico. Gli esempi migliori si trovano nella musica pop, la banda di garage che fa la gavetta da anni e improvvisamente raggiunge il successo, e il cantante diventa una star. Molto spesso si dividono, e questo dipende dai meccanismi della celebrità.» Annika rispose al sorriso. «Più si è famosi, più si è potenti, più spazio si occupa.» Karin annuì. «Una ripartizione impari.» «Chi altri rappresentava?»
La direttrice di produzione tirò una boccata e aspettò in silenzio mentre la nicotina veniva assorbita. «Nessuno» rispose nel fumo che si stava diradando. «All'inizio fingeva, ma la cosa si è esaurita da sola abbastanza rapidamente. Devo essere più esplicita? Non aveva nessuna voglia di evolversi, di portare avanti la sua attività, gli interessava solo brillare.» La reporter arrossì un po', cambiò binario. «Cos'è accaduto in realtà l'ultima sera? Per quale motivo si è infuriato tanto su nella scuderia?» Gli occhi di Karin Bellhorn ebbero un guizzo. Spense la seconda sigaretta e si alzò. «Tu cosa sai in proposito?» Lei ebbe un attimo di esitazione. «Ho visto il casino. È stato a causa di Michelle e John Essex?» La donna boccheggiò, il colore le defluì dal viso, dalla fronte al mento. Appoggiò una mano alla parete per sostenersi. «Cosa? Cosa?» Annika fece un passo avanti, terrorizzata da quella reazione. «Cosa c'è, hai bisogno di aiuto? Devo andare a chiamare qualcuno?» La direttrice di produzione fissò Annika per qualche istante, poi chiuse gli occhi, lentamente riprese colore. «Un abbassamento di pressione. Scusa. Cos'hai chiesto?» «Ho motivo di credere che Michelle sia stata insieme a John Essex l'ultima notte al castello. È possibile che Sebastian Follin si sia ingelosito?» Karin chiuse gli occhi, si portò una mano alla fronte. «Ho trovato Sebastian in mezzo al casino, dopo. Era seduto sul pavimento e piangeva a dirotto, annichilito.» «A causa di John Essex?» L'altra scosse la testa, sospirò, guardò Annika con occhi lucidi. «Michelle aveva troncato il contratto che li legava. Non lo voleva più avere come manager. Lui non era in grado di gestire la situazione, la sua vita era andata in pezzi. Bisogna capirlo.» «Capire? Perché?» «Perdere le luci della ribalta, il suo posto nella vita pubblica. Privato del suo territorio, escluso. Chi era lui, senza Michelle Carlsson?» «Ma una cosa del genere può realmente portare una persona a una tale disperazione?» Il corpo di Karin fu scosso da una risata fragorosa, talmente concitata e sguaiata che la sua interlocutrice arretrò. «Non ne hai idea» rispose la direttrice di produzione, poi si scostò dalla parete e uscì dalla camera a gas.
Annika rimase lì, seguendola a lungo con lo sguardo attraverso il vetro e respirando l'odore stantio della stanza. Nella sala fumatori si rispecchiava qualcosa del corpo informe della donna: i tendaggi anacronistici, la trasandatezza. Le persone si comportano in modo strano sotto stress e dopo uno shock, pensò Annika. Poi intravide Anne davanti alla sala riposo. «Dov'eri finita?» le chiese l'amica versando l'ultimo goccio di caffè in una tazza gialla a pois. «Karin aveva voglia di parlare.» Anne le annusò i vestiti. «Credevo che le sarebbe venuto un infarto» disse Annika guardando a disagio in direzione degli ascensori. «È sempre così?» «Ieri eravamo al limite dello psicotico tutti quanti. Senti, io devo continuare, questa settimana ho io Miranda...» Annika andò a prendere la giacca impermeabile e la borsa, avviandosi a passo lento verso l'uscita. Scese accompagnata dallo sferragliare dell'ascensore, il cervello sovraccarico di impressioni eppure stranamente vuoto, nessun pensiero coerente, solo una massa informe, parole che le danzavano nella mente. La hall era piena di gente ma Berit capì subito chi era l'organizzatore della tournée di John Essex. Stava in piedi accanto al camino e batteva un piede impaziente, facendo dondolare dalla mano una bottiglia di acqua minerale francese. Abito italiano che tirava un po' sulla pancia. Le creazioni di Armani erano fatte per gli atleti, non per gli uomini d'affari. Si affrettò nella sua direzione, ma l'uomo scelse di non vederla. «Molto gentile ad accordarmi questo incontro» disse lei, porgendogli la mano e sorridendo amabilmente. L'altro si voltò, con un viso che esprimeva senza alcun pudore un misto di irritazione e disprezzo. Scorse rapidamente con gli occhi il suo corpo di donna di mezz'età e la valutò pari a zero come essere umano. «Non capisco a cosa serva tutto questo» sbottò puntando lo sguardo verso l'uscita, già pronto ad andarsene. Berit sollevò il mento: capiva che l'organizzatore della tournée cercava di minare la sua autostima scartandola da subito come pensabile oggetto sessuale. «Possiamo sederci da qualche parte per parlare indisturbati?» chiese.
Lui non rispose, limitandosi ad accomodarsi sul divano in pelle accanto al camino e ad appoggiare la bottìglia d'acqua sul pavimento. Berit girò intorno a un gruppo di uomini d'affari tedeschi e gli si accomodò accanto. Appoggiò sul tavolino di vetro davanti a loro una sottile cartellina di cartone rosa e la lasciò chiusa. Le persone passavano accanto al divano con le voci abbassate e le ventiquattrore oscillanti. «Io lavoro in un quotidiano, un tabloid, che si trova in una fase negativa» esordì Berit. «Le tirature scendono, gli introiti della pubblicità diminuiscono, le risorse si riducono, il che porta a dimissioni tra il personale e a un peggioramento dal punto di vista della qualità giornalistica. La direzione del giornale ci tiene moltissimo a invertire questa tendenza.» L'organizzatore della tournée si agitava sulla poltrona, del tutto disinteressato alle condizioni in cui versava un tabloid del cavolo dalle parti del Polo Nord. «Per questo» continuò Berit seria «è molto importante che discutiamo in modo approfondito della situazione. Tengo molto al fatto che ci si occupi con professionalità di ogni dettaglio.» L'uomo guardò il proprio orologio da polso. «A essere sincero non capisco perché la mia assistente abbia insistito per farmi venire a quest'incontro.» Accennò nuovamente ad alzarsi. Berit si costrinse a restare seduta e ad apparire calmissima. «Perché ha capito la necessità di esaminare le conseguenze derivanti dal materiale in possesso del mio giornale.» L'organizzatore della tournée si fermò a mezz'aria, con il sedere a qualche decimetro dal divano di pelle. Solo in quel momento vide Berit per davvero: evidentemente aveva avvertito la ferrea stretta intorno ai testicoli. Si abbassò lentamente verso l'imbottitura. «Naturalmente non vogliamo danneggiare in alcun modo il signor Essex» continuò lei con sincerità, inclinando la testa di lato. «Al contrario. Vogliamo solo descrivere ai nostri lettori l'impressione che ha ricavato dalla notte al castello di Yxtaholm.» «Lo escludo» obiettò l'uomo. «John è in piena tournée mondiale, non ha tempo per queste cose. Ormai ci siamo lasciati alle spalle quel brutto affare.» Berit lo studiò, le sue mani punteggiate da chiazze brune e il viso lampadato. Frugò nel profondo di se stessa in cerca di qualche senso di colpa o di vergogna per ciò che stava per fare. Non ne trovò nemmeno uno. «Peccato, perché né noi né la polizia svedese l'abbiamo fatto. E come le ho già
spiegato è dovere del mio giornale nei confronti dei lettori informarli degli sviluppi degli eventi di interesse pubblico. Nei confronti dei proprietari, il mio quotidiano ha obblighi del tutto diversi, in particolare la redditività. Non siamo in condizioni di scartare del materiale di alto valore commerciale per pura bontà.» Il suo interlocutore sbatté gli occhi ripetutamente, incredulo ma attento, mentre lei prese la cartellina rosa e la soppesò sulla mano. «Il mio giornale è in possesso di foto che ritraggono John Essex insieme alla conduttrice morta» disse facendo dondolare appena la cartellina con le mani. «E allora?» chiese l'uomo. «Sono piuttosto sensazionali...» Lo fissò negli occhi. Lui gettò una rapida occhiata intorno e si protese in avanti, non particolarmente scosso. L'alito sapeva di sigaro. «Intende dire che si tratta di una scopata? Queste cose siamo in grado di gestirle. Che John si sbatta le belle donne non è una novità.» «Ma questa è solo una parte del nostro materiale. Abbiamo anche un rapporto della polizia riguardo alle rilevazioni sull'arma del delitto.» All'improvviso l'uomo si spaventò. La sua spina dorsale s'irrigidì, lo sguardo parve ritrarsi. «Non è stato John a spararle.» Berit alzò le spalle. «Può darsi, ma ha usato il revolver carico per altri scopi.» Lasciò che le parole venissero assorbite, vide il gettone cadere nella fessura giusta all'interno del cervello dell'organizzatore della tournée. «Sesso spinto?» chiese a voce molto bassa. «Più spinto di così sarebbe difficile» rispose Berit allo stesso volume di voce. «E si è certi che sia stato lui?» «Impronte digitali dappertutto, sulle secrezioni vaginali. Calcio, canna, grilletto...» L'uomo alzò una mano per fermarla, si appoggiò al basso schienale del divano, seguì con lo sguardo una coppia in luna di miele che attraversava la hall. «Questo non è il posto giusto per discutere di questioni del genere» mormorò. «È stato lei a sceglierlo» rispose Berit pregustando la vittoria. La pioggia aveva smesso di cadere, lasciando il terreno freddo e bagnato. Lungo la discesa asfaltata che portava al cancello colava una poltiglia fangosa. «Annika! Annika Bengtzon!» Quando udì il richiamo alle sue spalle era già arrivata alla fermata del-
l'autobus davanti agli uffici della televisione. Una donna stava percorrendo la discesa sguazzando nella poltiglia fangosa, tentando di correre sui precari tacchi alti degli stivaletti. Quando fu più vicina, Annika riconobbe Bambi Rosenberg, con gli occhi incavati sotto il trucco. «Che fortuna che sia riuscita a vederla» disse la donna barcollando ansimante fino a lei. «È vero che terranno una commemorazione di Michelle su alla Zero Television, domani?» Era sconvolta. Il labbro inferiore le tremava, aveva del rossetto sui denti. «Sì, per quanto ne so» rispose la reporter fissando lo sguardo negli occhi sfuggenti della donna. «Ma è una cosa tremenda, tremenda! Possono farlo, così, senza problemi? Non dovrebbero avere un'autorizzazione?» Qualcosa la tormentava: si torceva le mani, le passava sui capelli, spostava il peso da un piede all'altro. «Non direi» rispose Annika. «In fondo era una loro collaboratrice.» «Una trovata pubblicitaria di pessimo gusto, ecco cosa intendono mettere in piedi. TV Plus e Sebastian l'hanno maltrattata e sfruttata da viva, e adesso vogliono succhiarle quel che rimane da morta.» Le pupille di Bambi Rosenberg erano dilatate, tanto da occupare quasi l'intera iride. Si leccava le labbra, si tormentava il viso. «Be', non era proprio così» obiettò Annika. «La televisione e Sebastian Follin in realtà sono stati i presupposti per la sua grandezza.» L'attrice le si fece vicinissima, l'alito acre. «L'unica cosa che faceva Michelle era cercare di essere all'altezza delle aspettative della gente. Nessuno le chiedeva cosa voleva, quali erano in realtà le sue aspirazioni.» «Dunque l'hanno costretta a diventare una stella della TV?» Annika percepì il senso di superiorità nella propria voce. «Certo che no» ribatté Bambi Rosenberg. «Michelle era più che consapevole delle proprie azioni, e di tanto in tanto probabilmente pensava di aver fatto la scelta giusta. Ma seguendo un ragionamento puramente logico si può indurre se stessi a fare qualsiasi cosa. "Questa è la cosa migliore per me, perché divento famosa e celebre e amata e ricca, e questo dev'essere il meglio della vita." No?» «Lei intende dire che è una menzogna?» L'attrice represse un singhiozzo. «Ovvio. Le persone sono l'unica cosa che conta: l'amore e i rapporti.» Annika sentì montare alla testa l'irritazione, le labbra le s'incresparono in
una smorfia. Si rese conto di essere irrazionale. Che diritto aveva di giudicare come scontati luoghi comuni le verità di Bambi Rosenberg? «Come ha conosciuto Michelle?» chiese cercando di soffocare la propria presunzione. La giovane donna rispose con voce atona. «Alla Playa de las Americas. Eravamo in vacanza da sole, tutte e due, io però ero partita una settimana prima. Mi pareva che Michelle fosse una persona gentile, ma anche molto triste.» Bambi Rosenberg si fermò, alzò gli occhi su Annika. «È stato prima che diventasse famosa.» Annika annuì, tentando di apparire incoraggiante. «E siete diventate amiche?» Bambi Rosenberg annuì. «Avevamo gli stessi sogni, in un certo senso: volevamo che la nostra vita avesse un senso. Quando siamo tornate a casa, Michelle è stata assunta alla Zero, mentre io ho avuto un contratto come modella. In pratica si può dire che abbiamo proceduto di pari passo.» «E allora, che tipo era lei, in realtà?» «Una donna buonissima, voleva davvero aiutare chi si trovava in difficoltà. Non riusciva a vedere in TV un bambino che faceva pena senza mettersi a piangere. Firmava tutti gli appelli a favore dei piccoli profughi rifugiati in Svezia, e lo facevo anch'io.» Alleluia, pensò Annika, e decise di mettere l'attrice con le spalle al muro. «Ah, e quindi le ha fatto molto piacere quando Michelle è diventata famosissima mentre lei non era altro che un'attrice di soap opera, vero?» Gli occhi di Bambi Rosenberg si spalancarono. «Ma è ovvio! Più che piacere! Michelle era una giornalista, io faccio l'attrice. A me non piacciono la politica e quelle cose lì, mi piace interpretare i sentimenti delle persone. E poi io e lei ci aiutavamo a vicenda.» «Michelle aveva bisogno di aiuto? Da lei?» «Michelle aveva bisogno di molto aiuto, aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lei. Che l'ascoltasse, che parlasse di cose normali. Spesso mi telefonava alle quattro del mattino, quando non riusciva a dormire. In quei momenti aveva bisogno di parlare, perché era tanto sola. Adesso sono io a essere sola.» Bambi Rosenberg tirò fuori un fazzoletto dalla tasca interna della giacca, si soffiò il naso, si diresse barcollando fino alla panca sotto la pensilina della fermata. La reporter si guardò intorno, tese le orecchie verso la zona industriale.
Nessun autobus in arrivo. «In fondo lei era celebre, amata e ricca» disse andando a sedersi sulla panchina accanto e dando un calcio a un dente di leone che era spuntato attraverso l'asfalto. «Ma il resto, ce l'aveva? L'amore, le relazioni?» «Solo per brevi periodi» rispose Bambi Rosenberg, gettando all'indietro i capelli e rimettendo in tasca il fazzoletto. «Gli amici erano un tasto delicato. Diverse sue amiche l'avevano abbandonata quando era diventata una conduttrice televisiva, mettendosi a spararle addosso e a parlare male di lei, per pura invidia. Una volta diventata una stella, alcune sono tornate indietro, facendole un sacco di moine per riprendere i contatti... Naturalmente lei ha tagliato i ponti. E di quelle venute dopo, non si fidava completamente.» L'attrice smise di parlare, rimanendo seduta immobile e fissando, senza vederlo, lo stadio in costruzione. «E gli uomini?» chiese la reporter. Il petto di Bambi Rosenberg si sollevò e riabbassò in un sospiro inconsapevole. «Si prendeva tutti quelli che voleva.» Alzò gli occhi su Annika, troppo mascara sulle ciglia. «Naturale. A Michelle bastava chiudere gli occhi e indicarne uno. Ma l'unico che voleva davvero, non poteva averlo.» «Perché?» La domanda le era salita alle labbra prima che riuscisse a riflettere. Si morse l'interno della guancia, rendendosi conto che in realtà voleva saperlo. Sentì che gli occhi le brillavano di curiosità. «Era sposato e aveva dei figli. Stefan Axelsson, sa, il direttore della fotografia: erano stati insieme per un breve periodo qualche anno fa, prima che Michelle raggiungesse il successo vero e proprio. Per lei è stato davvero terribile.» Annika sbatté gli occhi, si rivide davanti l'uomo rabbioso, ne riudì la voce: "Lasciatemi in pace, lasciatela stare". Dunque in quelle parole si nascondeva qualcosa, aveva voluto proteggerla anche nella morte. «Lui l'amava?» Bambi Rosenberg non rispose, gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Dietro il silenzio Annika percepì il rombo di un autobus di linea in arrivo. «Anch'io sono stata insieme a un uomo sposato, una volta» confessò, cercando di far proseguire la conversazione. «Davvero?» domandò Bambi Rosenberg, rivolgendo verso di lei lo sguardo e spalancando ancora di più gli occhi. «E com'è andata a finire?» «Sono rimasta incinta e sono andata a vivere con lui» rispose lei, avvertendo una sfumatura d'orgoglio nella propria voce.
«Siete sposati?» Il senso di superiorità fu cancellato all'istante. «No, ma oggi abbiamo due figli.» «Anche Michelle era rimasta incinta» continuò l'attrice, guardando di nuovo verso il cantiere. «Stefan andò su tutte le furie, si mise a gridare che doveva abortire. Lei pianse per due settimane, e poi lo fece. Il giorno dopo lui si pentì, tornò da lei, disse che aveva rivelato tutto a sua moglie, che voleva vivere con lei e con il bambino. Ma era troppo tardi, era tutto troppo tardi per loro. Non funzionò. Michelle non riuscì mai a riprendersi.» Annika vide l'autobus accostare dietro la testa ben pettinata della sua interlocutrice. «Che cosa terribile» mormorò. «Non capisco cos'abbia fatto di male Michelle per meritarsi una vita così di merda» disse l'attrice. L'autobus si fermò, traboccante di gente, e Annika salì. Si fece strada a fatica in mezzo a passeggini e borse della spesa, trovò un posto sulla ruota posteriore, vide Bambi Rosenberg rimpicciolirsi, mentre l'autobus si allontanava. La zona industriale era priva di colori, si ergeva grigia come il fango dalla terra. Chiuse gli occhi per qualche istante, il ventre traboccante di lacrime, e subito le venne la nausea. Che incredibile infelicità. Che assurda ingiustizia. La frase dell'attrice le riecheggiava nella testa. "Non capisco cos'abbia fatto di male Michelle per meritarsi una vita così di merda." Avrebbe potuto avere un bambino, un uomo che l'amava, una famiglia. Poi, l'improvvisa intuizione: esattamente ciò che ho io. Spalancò gli occhi, ricacciando indietro le lacrime salate e sentimentali. Il bus si fermò ancora, un grasso signore con un berretto a visiera e una mantella di tela cerata si fece strada verso la parte posteriore, sedendosi accanto ad Annika. Lei si tirò la giacca addosso, spostò lo sguardo fuori dal finestrino. Il vento spazzava la pioggia verso il suo lato dell'autobus, tracciando sul vetro disegni psichedelici fatti di sporcizia e di fuliggine. Il tizio accanto a lei sbuffava e tossiva, si schiariva la voce. Annika si strinse nella giacca. Chiuse gli occhi, vide le strisce lasciate dalla pioggia danzare come in negativo all'interno delle palpebre. L'autista girò verso Gullmarsplan. «Scusi» domandò il tizio con invadenza. «Posso chiederle una cosa?» L'autobus accelerò davanti a un semaforo giallo, Annika dovette reggersi
al sedile davanti per non essere spinta contro l'uomo seduto di fianco. «Certo» rispose, guardandolo con espressione sorpresa non appena il mezzo tornò a raddrizzarsi. «Lei non è quella che compare spesso in TV?» disse l'uomo, sfoderando un largo sorriso con i denti gialli. Annika cercò di contraccambiare il sorriso, tenendosi forte a causa di un'improvvisa frenata nel punto in cui Johanneshovbron confluiva in Nynäsvägen. «Deve aver sbagliato persona.» «Ma guardi che la riconosco» insistette l'uomo. «La si vede sempre seduta sul divano in quel talk show di donne...» Annika trattenne il respiro, guardando fuori, in direzione di Gullmarsplan. «Mi spiace» disse, tirando su la borsa per far capire che doveva scendere. Il sorriso dell'uomo si spense. Borbottò qualcosa d'incomprensibile, spostò le gambe di un millimetro facendole capire che lei doveva scavalcarlo. La rabbia, immediata e violenta, le invase il cervello. «Ma che cazzo ti credi? Spostati e fammi passare» sbottò a voce alta e aggressiva. L'uomo spalancò gli occhi, atterrito, e si alzò per puro stupore. Annika scese dalle porte posteriori, uscendo nel vento e nel freddo. Una folata le afferrò la giacca, s'insinuò sotto la maglia, le bagnò la pancia. La lasciò giocare lì per un po', sentì che le veniva la pelle d'oca. Alzò gli occhi verso la facciata di vetro della stazione della metropolitana, la costruzione rossa in acciaio che reggeva la tettoia trasparente sulle porte d'ingresso. Non aveva voglia di entrare. Non voleva salire al giornale. Si avviò invece verso l'edicola, si mise al riparo, tirò fuori il cellulare. Chiamò la Telia e ottenne il numero di Global Future, respirò profondamente mentre gli squilli si susseguivano. «Vorrei parlare con il responsabile delle relazioni con gli azionisti» disse alla centralinista. «Non ne abbiamo più» rispose la donna. La reporter si spostò per lasciar uscire una donna con il deambulatore. «Di che cosa?» chiese guardandosi intorno in cerca di un posto migliore per telefonare. «Di azionisti o di responsabili?» La ragazza si mise a ridere. «Nessuno dei due.» Alla sua destra, davanti al negozio di macrobiotica, c'era una scala che scendeva. «E l'amministratore delegato?»
«È stato licenziato la settimana scorsa.» Fece qualche passo veloce fino alla scala, corse giù, si fermò sul pianerottolo per ripararsi dalla pioggia. «È rimasta solo lei, in tutta l'azienda?» chiese. «Praticamente sì. Cosa vuole sapere?» C'era puzza di piscio e di cemento umido. Annika deglutì, prese la rincorsa. «Ho una domanda sulle vostre analisi AT, sa, l'Anagrafe titoli...» «Adesso me ne occupo io» rispose la donna. «Questo le dà l'idea di quanto sia scesa l'incombenza nella scala delle priorità... Le notizie che ci arrivano non sono particolarmente positive, per così dire.» Allontanò con un calcio alcune lattine di Coca-Cola schiacciate e una confezione vuota di yogurt da bere, guardò verso i binari poco più sotto. «Quanto vale oggi un'azione?» «L'ultima volta che ho controllato la quotazione, cioè mezz'ora fa, eravamo a 38,50.» «Un vero schifo, o sbaglio?» chiese Annika. La ragazza all'altro capo del filo rise di nuovo, triste. «Lei non è una maga della finanza, vero?» Un treno si fermò al binario, i freni stridenti. «Esatto» ammise la reporter. «Io non sono una investitrice esperta, ma ci sono altri che fingono di esserlo. Tipo quelli che portano le aziende come la vostra sull'orlo del baratro. Sto svolgendo delle indagini su una cosa di questo genere.» «Cosa sta cercando di sapere?» chiese la centralinista, nonché responsabile delle relazioni con gli azionisti e del resto della società. I pendolari dei sobborghi meridionali della città le sfilarono davanti: una massa di umidità e grigiore che si affrettava a uscire dai vagoni di metallo blu. Volse loro le spalle. «La data di un certo passaggio di mano» sussurrò. «Non posso rilasciare questo tipo di informazioni» rispose la ragazza. «Lo so. E non ho intenzione di chiederle di farlo. Pensavo semplicemente di dirglielo io e così, se vuole, lei controlla se i conti tornano.» All'altro capo del filo scese il silenzio. Un treno della metropolitana accostò sferragliando da qualche parte alla sua destra, facendo vibrare il cemento. «Di che si tratta?» «Di insider trading, ma non da parte di qualcuno all'interno del vostro consiglio d'amministrazione o della direzione.»
Il treno si fermò, il flusso di persone si arrestò, nella testa di Annika prese posto un silenzio fischiante. «Quando?» chiese la donna. «Subito prima del catastrofico rapporto semestrale dell'anno scorso...» «... uscito il 20 luglio, lo so. Chi?» Annika inspirò silenziosamente, un autobus diretto a Tyresö venne messo in moto subito sopra di lei. «Un uomo di nome Torstensson.» Si chinò sul telefono. «Un pacchetto piuttosto ingente, 9200 azioni.» «Aspetti un attimo.» L'ultima frase, un sussurro. Annika alzò gli occhi sulla scala, graffiti e condutture elettriche che correvano all'interno di strutture in acciaio le ricordarono mostri tratti da un video-incubo dei Pink Floyd. Il vento soffiava delle melodie attraverso i tubi cavi d'acciaio, facendo cantare le condutture. Ascoltò, trattenendo il respiro. «9200 azioni» risuonò la voce della donna dall'altra parte dell'apparecchio «eccole qui.» Annika chiuse gli occhi, sentì impennarsi il ritmo cardiaco. «Che giorno?» «Il 24 luglio .» Lasciò cadere il mento sul petto, strinse forte gli occhi, sentì stridere i molari uno contro l'altro. «Okay. Grazie mille.» «Non dirà niente, vero?» «Che me l'ha riferito lei? Mai e poi mai.» Chiuse la telefonata, guardò verso la piazza, camion dei rifiuti e TIR, una corrente metallica diretta verso il centro. Inspirò profondamente tre volte e chiamò Schyman. «È andata buca. Secondo l'analisi dell'Anagrafe titoli, Torstensson ha venduto il suo intero pacchetto il 24 luglio. Quattro giorni dopo il rapporto semestrale.» Il silenzio invase il ricevitore, Annika guardò il telefono. «Pronto?» «Ne sei sicura?» «Più sicura di così non si può.» «Okay, grazie.» La delusione del condirettore le faceva scottare il cellulare nella mano. «Mi dispiace» borbottò, stranamente vergognosa. «Va bene così.» Schyman riattaccò. Lei chiuse la conversazione, sentì bruciare le guance. Perché si accollava il fallimento del suo capo?
Si vide davanti il viso di Anne Sapphane, la sorpresa dell'amica davanti alla sua incapacità di farsi valere nei confronti degli uomini che aveva intorno. Che il condirettore rientrasse nella categoria? Il loro rapporto poteva definirsi stretto? Scacciò quell'idea e passò alla telefonata successiva, rilassandosi nella concentrazione che un colloquio con Q inevitabilmente comportava. «Hannah Persson è registrata all'anagrafe presso sua madre, a Malmö» disse quando il commissario rispose. «Però non abita lì, ma da qualche parte a Katrineholm. È stato lì che siete andati a prenderla, vero?» «Cos'è questo, un quiz?» Annika ignorò le sue proteste. «Pare che non le siano rimasti molti amici d'infanzia, dunque immagino che abiti con qualche altro nazista. Giusto?» Lo sentì ridacchiare. «Continui.» «Abita insieme ad altri nazisti in un appartamento...» «Mmh» la interruppe lui «non esattamente.» Annika si appoggiò con la mano contro la parete di cemento, scoprendo troppo tardi che qualcuno aveva appiccicato una presa di tabacco proprio lì. «Merda» imprecò, staccandosi schifata quella robaccia dalle dita. «Cosa?» «Non in un appartamento, ma quasi. Abita insieme ad alcuni nazisti in un locale da qualche parte... abita nella sede di un'associazione nazista!» «Tombola! Ma a quanto ci risulta è sola.» Lei rivolse un sorriso spento al telefono. «Okay. Vediamo... Dove si trova un posto del genere...» Chiuse gli occhi e pensò intensamente. «Non ci sono troppi posti a Katrineholm che possano ospitare una sede nazista senza che si noti. A occhio e croce direi Nävertorp, se non fosse per tutti gli immigrati che ci abitano: non credo che ci si troverebbero bene, e gli abitanti del posto non li lascerebbero in pace, quindi piuttosto da qualche parte a Öster. Sì, nella zona di Öster, ci sono?» «Non conosco la denominazione dei diversi quartieri.» «Öster si trova verso l'ospedale, seminterrati squallidi e strani negozi di videonoleggio. Una volta, quando lavoravo al giornale locale, ho notato che c'era pure un sexy shop. Ci sto andando vicino?» Lui le diede l'indirizzo. «Che si trova a Öster» concluse Annika, con un sorrisone. «Grazie.» Chiuse la conversazione, percepì nuovamente l'odore di piscio e di cemento, venne invasa dalla delusione di Schyman e sentì il desiderio di po-
terlo aiutare. Nella testa del condirettore le imprecazioni si susseguivano senza tregua. Che cantonata madornale. Il 24 luglio, quattro giorni dopo la pubblicazione del rapporto. Torstensson aveva aspettato, quel bastardo non aveva agito illegalmente. Le maledizioni sfrigolavano come olio sulle braci ardenti, dando origine a innominabili cattiverie che avevano come protagonista il direttore responsabile: troppo cretino per capire di cosa stava parlando il consiglio d'amministrazione; troppo incapace per usare l'informazione ricevuta in un'operazione di insider trading; troppo codardo per fare il grande salto; troppo leale per tradire; troppo onesto, forse, per commettere un reato. La conclusione a cui era giunto lo costrinse ad alzarsi, e a camminare. Faticava a respirare. Cos'aveva combinato? Quali energie aveva messo in moto, e fino a che punto era arrivato? E adesso, sarebbe stato costretto a dare le dimissioni? Guardò fuori attraverso la porta a vetri chiusa, oltre la quale galleggiava la redazione, un organismo che aveva bisogno di sostegno, nutrimento e potature. Torstensson era l'uomo sbagliato, o forse era lui stesso l'abbaglio ambulante della situazione? Sfidare il direttore responsabile era stato un errore. Oddio, ora si rendeva conto fino in fondo di quanto avesse puntato su quella cartellina all'antrace. Non aveva nient'altro su cui basarsi: né il potere sulla redazione, né l'incarico conferitogli dal consiglio d'amministrazione. Solo cattiveria, abuso di potere e gioco basso. Aveva un'unica arma da usare, ed era lo sputtanamento pubblico. Adesso le munizioni erano venute meno, si erano dileguate nel silenzio seguito alla telefonata di Annika Bengtzon. Era disarmato, fuori gioco, con le braghe calate alle caviglie. Strinse i pugni, vide Chiodo parlare al telefono, i piedi sulla scrivania, un pacchetto di sigarette in mano. Ma che me ne frega? Basta mollare, lasciare che questa nave di merda vada a fondo. In realtà non è un problema mio, posso trovare di nuovo qualcosa in TV, entrare in qualche consiglio d'amministrazione, darmi al settore informatico. Si rannicchiò, sentì la tela della camicia tirare sulla spina dorsale. Era finita. Finita e basta. Non poteva restare al suo posto, tanto valeva accettarlo. Non un giorno di più sotto Torstensson, non un giorno di più di frustrazione e animosità. In realtà non era una cosa da rimandare.
Tornò alla sua poltrona, l'aria era difficile da respirare. La fronte gli s'imperlò di sudore, le mani tremavano. Tirò fuori il suo contratto d'assunzione, lesse i paragrafi sei e sette. Poteva andarsene oggi stesso, uscire e non tornare mai più, appellandosi semplicemente al fatto che voleva avviare un'attività in concorrenza con quella del giornale: l'avrebbero buttato fuori chiudendo la porta a chiave, e il periodo passato alla "Stampa della Sera" non sarebbe stato che una parentesi, una breve nota a piè di pagina. Si sorprese a chiedersi cos'avrebbero detto di lui, quali aggettivi avrebbero descritto la sua persona e il suo modo d'agire. Impulsivo. Musone. Presuntuoso, forse. Incompetente. Decisamente incompetente, in passato si erano molto divertiti a martellargli nella testa i termini tecnici della stampa. Restio a delegare, propenso ai favoritismi, come quella Bengtzon... Quando il telefono squillò saltò sulla sedia, ormai era quasi arrivato agli annunci mortuari. «Senti» lo assalì Annika Bengtzon «mi è venuta in mente una cosa. Secondo l'AT, le azioni sono passate di proprietà il 24 luglio.» Silenzio assoluto nella stanza, Schyman si sbottonò il colletto e lo allentò. «Me l'hai già detto» rispose, portandosi una mano alla fronte. «Così ho telefonato per verificare la cosa con un tizio che ho conosciuto stamattina, e mi ha confermato ciò che pensavo.» Si sentirono delle scariche, poi un mezzo che passava sferragliando. «E cioè?» chiese Schyman con un filo di voce. «All'Anagrafe titoli ci vogliono tre giorni per registrare un passaggio di proprietà.» Si accasciò, chiamando a raccolta le forze per non piazzarsi lungo disteso sulla scrivania. «Non cambia niente. Questo ci porta comunque solo al 21.» «Tre giorni lavorativi» ribatté la reporter. «Il 24 luglio era un lunedì. La vendita vera e propria ha avuto luogo il mercoledì della settimana precedente.» Il tempo si fermò, il silenzio dilagò stendendosi sul mondo intero, lasciando un'eco fischiante nella testa del condirettore. Schyman alzò gli occhi, guardò verso la redazione. «Il che significa...» «... che Torstensson ha venduto le sue azioni il 19 luglio, il giorno prima della pubblicazione del rapporto semestrale» concluse Annika Bengtzon. «Senti, ho avuto l'indirizzo della neonazi e pensavo di cercare di rintrac-
ciarla. Ti va bene?» La capacità di deduzione era annullata, il cervello non era collegato. «Il 19? Il 19 luglio? Sul serio?» «Yes. Era periodo di vacanza, il che potrebbe aver ritardato ulteriormente la registrazione di qualche giorno, ma la vendita vera e propria non può essere avvenuta dopo il 19 luglio.» Il sollievo gli si riversò in corpo come una cascata rumoreggiante, facendolo boccheggiare. «Ne sei certissima?» «Al cento per cento. E per la neonazi?» «Cosa?» «Posso andare dalla Persson a Katrineholm? È stata rilasciata stamattina. Ci si mette solo cinquantasei minuti con il Pendolino. Così, per fare una chiacchierata sulla vita e la morte.» L'avrebbe spedita anche alle Hawaii. «Vai.» Nel silenzio, si sentì invadere da una gioia che minacciava di farlo esplodere. Quel bastardo! Pensava di essere furbo, oppure era stato solo tanto codardo da esitare fino all'ultimo? Probabilmente non l'avrebbe mai scoperto. Si allungò verso il telefono e compose il numero diretto del direttore di produzione e conduttore del programma di approfondimento giornalistico della SVT, quello in cui i politici eletti venivano messi sotto esame e i potenti che abusavano della loro posizione venivano cotti a fuoco lento. «Mehmed? Ciao, sì, tutto bene, davvero maledetta questa faccenda di Michelle Carlsson... No, non è per questo che ti ho cercato, avrei una cosa per te. Possiamo vederci? Tra mezz'ora?» Fece un rapido gesto con il braccio sinistro, scattante, adesso, e gettò un'occhiata all'orologio da polso. «Perfetto.» Anne Sapphane sospirò profondamente ancora una volta. Come cazzo avrebbe potuto passare in rassegna quella montagna di merda prima del fine settimana? Anche facendo andare tutte le cassette al FAST FORWARD, ci sarebbe voluto più tempo del numero di ore contenuto in una settimana. Una betacam arrivò alla fine, Anne finì di compilare l'etichetta, cambiò cassetta al volo. E con Miranda a casa non poteva passare lì le notti. Premette PLAY sulla cassetta successiva, il master della seconda puntata
della serie, una delle peggiori. Michelle era passabile, ma gli ospiti non erano all'altezza. Constatato di quale registrazione si trattava, premette il pulsante dell'avanzamento veloce finché non udì frusciare il nastro. Guardò con occhi da sonnambula le figure che saltellavano sullo schermo, ascoltò le voci fischiare in falsetto, al limite della percezione umana. Non valeva la pena di mettersi a fare lagne, lo sapeva. Si trovava talmente in basso nella piramide gerarchica da essere considerata totalmente e immediatamente sostituibile. Se avesse fiatato sull'impossibilità del compito affidatole, nella prossima produzione non ci sarebbe stato posto per lei. Con Michelle, la situazione era tutt'altra. Aveva sempre imposto le più strambe condizioni e tutti le avevano accettate, piegando la schiena e leccandole i piedi. Michelle non sopportava quello sfondo verde, si sentiva soffocare, le toglieva l'aria. Voleva qualcosa di più leggero, azzurro, magari, o giallo... Lo sfondo veniva cambiato, e Michelle si ritrovava un altro nemico per la vita, lo scenografo. Toc toc. Alzò gli occhi sorpresa. Sulla porta c'era Gunnar, che faceva capolino con la testa al di sopra dei sacchi. «Ehi, ciao» disse Anne. «Entra, se ci riesci...» La testa grigia dell'uomo passò dietro i monitor, e quando entrò nella saletta di postproduzione aveva il viso rosso per lo sforzo. «Ah, e così sei stata tu a ritrovarti qua.» «Già. Pensi che riuscirò mai a finire?» «Prima o poi si finisce sempre» rispose lui, sedendosi su un armadietto d'archivio. «L'importante è fare tutto per bene.» Anne sorrise, esausta e con gli occhi rossi. La scrupolosità era una caratteristica che l'accomunava a Gunnar, l'uomo che non tralasciava mai niente. «Sai, mi è venuto un dubbio.» Qualcosa nella sua voce la indusse a riscuotersi. Lo osservò con maggiore attenzione: le ombre sotto gli occhi, la pelle screpolata sulle guance. «Quando mi avete svegliato...» cominciò e la donna capì immediatamente a quale risveglio si riferiva, quello che avrebbe sempre portato dentro di sé. «... chi è stato a bussare alla porta?» L'adrenalina le esplose nel cervello, preparando il corpo alla fuga e alla difesa. «Io, perché?» L'uomo non si accorse della sua preoccupazione, preso com'era dalla
propria insicurezza. «Sai per caso se la mia porta non era chiusa a chiave?» La cassetta inserita nella macchina arrivò alla fine, cominciò a riavvolgersi. Il parlottio da Paperino cessò, sostituito dal fruscio elettronico. Anne sentì il proprio battito cardiaco accelerare. «Boh, non saprei. Perché te lo chiedi?» Gunnar Antonsson cambiò posizione, passandosi nervosamente le mani sui capelli. «È che mi sento tanto in colpa. So per certo di aver chiuso a chiave il van alla sera, lo faccio sempre e l'ho fatto anche giovedì scorso, ne sono sicuro. Ma non so se ho chiuso a chiave la porta della mia camera. A volte evito di farlo a causa del rischio d'incendio, e in questo caso ho lasciato via libera...» Le parole oppressive dell'uomo la calmarono: non era con lei che ce l'aveva, piuttosto voleva vederci chiaro nel proprio ruolo. «Ma Gunnar» iniziò sporgendosi in avanti e mettendogli la mano su un ginocchio «non devi ragionare in questo modo...» «E invece sì» tagliò corto lui. «Qualcuno è entrato in camera mia durante la notte e ha rubato la chiave del van. Se ho lasciato aperta la porta della mia camera, è stata tutta colpa mia.» «Ma no» obiettò Anne «non può essere stato così. Sei stato tu ad aprire la porta. Eri il solo ad avere le chiavi, e si trovavano nella tasca dei tuoi pantaloni, come sempre.» L'uomo scosse la testa, rapido, con gli occhi pieni di lacrime. «No» sussurrò. «Non erano affatto al posto giusto. Erano nella destra.» Anne lo fissò, coinvolta dalla sua disperazione. «Cosa?» «Nella tasca destra, io le metto sempre nella sinistra. Qualcuno le ha prese, e poi le ha rimesse a posto pensando che non lo avrei notato. Per questo ti sto chiedendo se ti ricordi se la porta era aperta o chiusa a chiave.» Anne Sapphane chiuse gli occhi, frugò tra i propri ricordi offuscati dall'alcol. Stava bussando alla porta di Gunnar, forte: erano giunti tutti alla conclusione che Michelle doveva essersi nascosta in qualche modo sul van, l'unico posto che non avevano controllato. Ricordò la propria irritazione, la propria sete di vendetta: adesso, porca puttana, era ora che Michelle venisse messa davanti alle sue responsabilità. Aveva bussato alla porta della stanza e gridato "Gunnar, alzati" per sovrastare il suo russare sonoro, poi aveva provato ad abbassare la maniglia, la porta si era aperta, dentro c'era un odore cattivo, sudore e aria viziata, il corpo informe dell'uomo sotto la coperta leggera.
«Sì» disse a voce bassa «la porta era aperta.» Gunnar sospirò pesantemente, ma era sollevato. «Ho capito.» Si alzò, le diede una pacchetta leggera sulla spalla. «Sei una brava ragazza, Anne.» Dopodiché si dileguò nella stessa direzione da cui era arrivato. La via era lunga, diritta, piatta, fiancheggiata da edifici a tre piani di standard variabili, risalenti agli anni '40 e '50. Mattoni giallini, intonaco grigio, balconi con la balaustra metallica. Lottò contro il vento, bagnato e puzzolente di petrolio, oltrepassò un meccanico, un negozio di antenne paraboliche, un solarium con le veneziane abbassate, un'associazione di appassionati di modellismo, una palestra di karatè. Il cortile che doveva ospitare la sede dell'associazione neonazista sembrava uguale a tutti gli altri: garage con i basculanti metallici, un grosso cassonetto, un ferro per battere i tappeti e dei preriscaldatori per auto, betulle potate fino al tronco, asfalto rattoppato. Una scaletta portava giù a una porta di metallo grigio. Annika mise cauta un piede sul cemento irregolare, bussò piuttosto forte alla porta del seminterrato. Nessuna risposta. Abbassò la maniglia, tirò a sé la porta. Si aprì. Dal buio là dentro proveniva della musica, una registrazione pessima di un hard metal frenetico. Un giovane rauco gridava di lottare contro il sistema, lottare contro il sistema, lottare contro il sistema, raderlo al suolo, bruciarlo dalle fondamenta, i politici non lavorano per la gente, fanno solo i propri interessi, ce lo mettono nel culo a tutti. Avanzò nella penombra, avvertendo nel ventre le vibrazioni del basso, proseguì a tentoni attraverso un corridoio polveroso, un forte odore di muffa. Più avanti, sulla sinistra, una porta socchiusa che lasciava uscire un riquadro di luce e onde sonore. Era di metallo, verniciata di nero, gelida sotto le sue dita. Il cigolio quando la spalancò sovrastò la musica del potere ai bianchi, inducendo la giovane donna che si trovava nella stanza a bloccarsi nel bel mezzo di un gesto. Annika entrò nella stanza e incrociò il suo sguardo, nero come lo spazio, il corpo paralizzato sulla difensiva. «Posso entrare?» gridò Annika al di sopra della musica. Hannah Persson si rianimò, si girò e spense lo stereo. Il silenzio lasciò un'eco rimbombante nel locale. «Cosa vuoi?» chiese, di nuovo con lo sguardo di un animale predatore. Aveva pianto: il bianco degli occhi era lucido, le palpebre gonfie. «Soltanto parlare» spiegò la reporter.
«Di che?» L'animosità era troppo forzata per essere reale. Annika avanzò nella stanza, si guardò intorno: finestre chiuse con assi chiodate, manifesti di propaganda razzista sulle pareti. «Un po' di tutto. Di te, del perché sei nazista, com'è stato essere chiusa in prigione, quel che è successo a Yxtaholm.» «E perché dovrei venirlo a raccontare a te?» La giornalista le si piazzò davanti e sostenne il suo sguardo, constatò che probabilmente aveva bevuto. «Tu avevi delle domande per me» disse calma. «Vuoi ancora avere una risposta?» Lo sguardo della ragazza si fece sfuggente. Arretrò di due passi. «Di che parli?» Annika distolse lo sguardo da lei, si avvicinò a una mensola occupata da alcuni volumi sottili, prese Il destino degli angeli. Il testo in quarta di copertina poneva domande immense: una razza, il popolo nordico, ha il diritto di esistere, di vivere? Ha diritto di pretendere le condizioni necessarie alla sua esistenza? «L'hai letto questo?» chiese Annika sollevando il libro. Non ottenne risposta, ne prese un altro. Il trattato della razza, stesso autore, dalle note in fondo si deduceva che era un appello per i diritti della razza, la conservazione della razza e l'indipendenza della razza. «Quello è un libro profondamente filosofico» disse Hannah Persson. «In che senso?» «Espone ciò che accade quando una razza viene sottoposta a condizioni di vita tali da poter portare solo al suo progressivo annientamento.» Il suo viso si era animato, sulle guance avevano preso forma due chiazze rosse. Si voltò verso Annika, lucida nella sua ebbrezza. «E a che conclusioni giunge?» chiese Annika. «Che non possiamo sottrarci al dovere di scegliere. Noi popolo nordico abbiamo il diritto di prendere coscienza dei caratteri unici della nostra razza? Il diritto di prendere coscienza della bellezza fisica e spirituale che andrà perduta per l'eternità se veniamo privati delle condizioni necessarie alla nostra sopravvivenza?» Annika rimase di sasso di fronte a quel razzismo privo di travestimenti, fu colpita in pieno viso dal marciume del ragionamento come da un alito stantio. «Immagino che questo libro risponda di sì.» La neonazista sorrise, di nuovo con l'espressione da animale predatore, si accorse della sua reazione agghiacciata. «Nel bel mezzo di una cultura e
di una dottrina morale dominante che rispondono di no» disse avvicinandosi e prendendole il libro. «Non hai riflettuto, per caso, su come mai il libro e la società abbiano due risposte diverse?» Hannah Persson sfogliò pensosa, reverente, ancora con un sorriso forzato sulle labbra. Scelse di rispondere leggendo un brano: «"Per una serie di sventurate ragioni, dall'altruismo al sacrificio di sé, fino a una dannosa obiettività che antepone gli interessi non vitali di altri agli interessi vitali della propria etnia, il popolo nordico getta letteralmente via la propria ricchezza: la sua cultura e civiltà, il suo benessere materiale e, soprattutto, la ricchezza naturale dei propri tratti genetici unici, fisici e mentali, estetici e spirituali"». Chiuse il libro e sostenne lo sguardo di Annika. «Discutere di queste cose è considerato amorale» spiegò. «I nordeuropei che ci provano vengono demonizzati e definiti malvagi. In tutto il Nord il sistema mediatico, politico e culturale agisce attivamente contro gli interessi vitali del popolo nordico. Una quantità di persone ignoranti, come te, per esempio, collabora a un processo di autoannientamento che neanche riesce a capire.» «Come sei arrivata a queste conclusioni?» chiese l'altra affascinata. La ragazza alzò le spalle, tornando a essere un'adolescente imbronciata. «Ho un cervello, anche se nessuno lo crede. So pensare con la mia testa. Dopotutto è quello che s'impara nella nostra scuola di merda, ma quando poi uno lo ammette, tutti s'incazzano. Dobbiamo trarre le nostre conclusioni, ma solo finché sono identiche a quelle di tutti gli altri.» «Ma perché proprio il nazismo?» «È colpa di una di quei sopravvissuti» rispose lei, la voce sottile e rauca. Si diresse verso la parete e si sedette su un materasso. «Quella vecchia ciabatta era venuta a parlare e a mostrare quelle foto in bianco e nero dei campi di concentramento, e naturalmente erano terribili. Tutte le ragazze eccetto me piangevano, anche se veramente era tutto molto confuso. Non sono riuscita a capire nemmeno cosa c'entrava lei con tutta quella faccenda. Poi doveva esserci un dibattito e la cosa è proceduta molto faticosamente, finché un gruppo di patrioti in prima fila non ha cominciato a mettere in discussione alcuni dei dati che lei aveva fornito.» Si sistemò meglio contro la parete, portò le ginocchia al petto, cinse le gambe con le braccia e ci appoggiò sopra il mento. «L'avevano chiamata ''Settimana della democrazia" a scuola, e avremmo dovuto ascoltare quella sopravvissuta per imparare, ma quando i patrioti hanno cominciato a fare
domande il preside ha interrotto la discussione e li ha mandati fuori. Che razza di democrazia è questa?» La neonazista iniziò a dondolarsi a scatti avanti e indietro sul materasso. «E la sai una cosa? Poi "Il Corriere di Katrineholm" ha scritto che i patrioti avevano scatenato un tumulto durante il dibattito, mentre non era vero niente! Il giornale mentiva! Io ero lì, non c'è stato nessun tumulto, cercavano solo di discutere, ma non gli è stato permesso!» Aveva gli occhi spalancati, colmi di ingenua indignazione. «I... i patrioti frequentavano la scuola?» «Era un incontro pubblico nell'aula magna, c'era un sacco di altra gente.» Annika risistemò sulla mensola il volume profondamente filosofico, scorse gli altri titoli: La caduta degli Dei, Sturm 33, La nostra Patria e la sua difesa. «Leggi molto?» chiese. «Abbastanza. Solo che certi libri costano tanto. Non è che li si trovi proprio in edizione tascabile in edicola...» Hannah Persson ridacchiò come per scusarsi, questa volta senza maschera da belva feroce. «Tu mi hai fatto una domanda, nel parcheggio» ripeté Annika, con la mano che tremava leggermente ma senza esitazioni: aveva deciso, ormai. Gli occhi della neonazista ebbero un guizzo. «Me ne ricordo.» «Ho ucciso il mio fidanzato. Con un tubo di ferro. Lui ha perso l'equilibrio ed è caduto in un altoforno.» Lo sguardo della ragazza era mutato, facendosi aperto e diretto. «Perché l'hai fatto?» domandò, con la stessa voce infantile e cristallina di quando era uscita dalle transenne di Yxtaholm. «Perché altrimenti lui avrebbe ucciso me» rispose Annika. «O lui, o io.» Deglutì faticosamente. «O forse, in realtà» aggiunse «è stato perché lui aveva ucciso il mio gatto.» La neonazista sbatté gli occhi, la croce uncinata sulla guancia ebbe un fremito. «Che carogna! Aveva ucciso il tuo gatto?» «L'aveva sventrato. Si chiamava Whiskas.» «Ma perché?» Hannah era turbata, adesso, la voce non reggeva la tensione. «Perché lui si era strofinato contro la sua gamba. O perché io lo amavo. O forse solo perché gli si è messo tra i piedi, non so. Sven non aveva bisogno di una buona ragione per essere violento, voleva solo il potere. Se non
glielo si dava, se lo prendeva.» La ragazza annuì, deglutì. «I dominatori hanno sempre agito così, opprimendo i più deboli. E dopo, come ti sei sentita?» Annika tentò di calmare la respirazione. «Assente, all'inizio. Non capivo quello che avevo... Poi sono caduta nella disperazione, per mesi, sono riuscita a sopravvivere a stento. Dopo un anno o poco più mi sono sentita solo vuota. Il mondo era in bianco e nero, in un certo modo. Privo di senso.» «Te ne sei mai pentita?» La giornalista la fissò nei suoi occhi limpidi e venne sopraffatta dallo stesso senso di nausea che l'aveva colta nel parcheggio di Yxtaholm. «Ogni giorno. Ogni giorno da allora, e ogni giorno finché vivrò.» «Ma gli oppressi devono potersi difendere.» «Tu ti riconosci in loro? Negli oppressi?» La risposta giunse immediata e brevissima. «Certo.» «In che senso?» Il corpo della ragazza si rannicchiò, rimpicciolendo. «Perché ti sei procurata una pistola?» chiese Annika. Lo sguardo della neonazista incrociò il suo, ancora limpido ma improvvisamente carico d'angoscia. Aprì la bocca per rispondere, ma si trattenne. Annika insistette. «Chi volevi uccidere?» Gli occhi di Hannah Persson si riempirono di lacrime, il labbro inferiore rientrò nella bocca, facendola somigliare a una bambina. «Nessuno» sussurrò. «Nessuno? Ti sei procurata un'arma, ma non c'era nessuno che volessi far fuori?» La risposta fu un bisbiglio. «Solo me stessa.» Annika la fissò, ammutolita. La ragazza piangeva, il mento contro il petto, i capelli sulle ginocchia. Quando i sussulti delle spalle cessarono il suo viso era stravolto, immaturo e vissuto nello stesso tempo. «L'inverno scorso ho partecipato a una fiaccolata» mormorò. «Era per un ragazzo assassinato da un gruppo di stranieri, un pomeriggio c'eravamo raccolti alla stazione ferroviaria per dimostrare la nostra solidarietà e il nostro rispetto.» Raddrizzò la schiena, si asciugò goffamente qualche lacrima, alzò gli occhi verso la finestra chiusa dalle assi, negli occhi le guizzò la fiamma della fiaccola. «Non avevamo né bandiere né striscioni, solo fiaccole e candele. Tutti i gruppi nazionali sostenevano la manifestazione e avevano sul luogo dei funzionari, era stato organizzato così bene, in modo
dignitoso e bello. Camminavamo insieme, tutti, in testa i parenti del ragazzo, abbiamo messo giù i fiori e le candele, era così triste, ho pianto tutto il tempo, e contemporaneamente era bellissimo, riesci a capirlo?» Alzò lo sguardo su Annika, con le lacrime che le scorrevano sulle guance. «Stavamo piangendo il nostro patriota, tutti insieme, riesci a capire quanto fosse intensa quell'emozione?» Lei annuì, la gola secca, si schiarì la voce. «Sì, capisco. E tu volevi che facessero la stessa cosa per te?» La ragazza abbassò le palpebre, si accasciò e si mise a piangere con la facilità di chi è leggermente ubriaco. «Dove l'hai trovata l'arma?» chiese con delicatezza la reporter dopo qualche minuto. «L'ho ordinata attraverso i Soldiers of Fortune. È il revolver del loro anniversario, venticinque anni di lotta per la libertà, anche se naturalmente è rielaborata. L'arma originale era solo decorativa.» «E come sei riuscita a farla entrare in Svezia?» «Non sono stata io. È stata la posta. Posta prioritaria internazionale, sulla busta c'era scritto CONTIENE CD.» «L'hai detto alla polizia?» La ragazza esitò, poi annuì. «Sono una spiona.» «Ma va'» obiettò Annika. «È stata la posta, no? Gli sta bene, a quelli.» Hannah Persson si lasciò scappare una risatina e si asciugò le lacrime. «Allora, cos'è successo veramente là al castello?» La ragazza scosse sprezzante la testa. «Guarda» cominciò con il tono di superiorità di chi è addentro al problema «non sono molte le cose che corrispondono a quello che è uscito sui giornali. Erano tutti ubriachi fradici e hanno litigato di brutto. Michelle Carlsson girava senza vestiti e scopava con quella pop star dove le capitava, la gente piangeva e si picchiava, e di tutto questo sui giornali non è uscito niente.» «Non sempre si scrive tutto quel che succede.» «Perché, se è vero?» «Si tiene conto dell'integrità delle persone.» «Ma dell'integrità dei patrioti non ve ne frega niente. Di noi scrivete cattiverie appena potete, e mentite anche.» Le parole le erano sgorgate dal profondo, ma mancavano di aggressività. Annika riuscì a sorridere. «Allora racconta com'è andata, tu che lo sai.» «Tutto quanto?» «Dall'inizio. Come ha fatto la redazione di Estate al castello a contattar-
ti?» La giovane si arrotolò una ciocca di capelli tra il pollice e il medio. «Un messaggio di posta elettronica al nostro sito. Sono io a occuparmene, e così ho risposto. Volevano qualcuno in grado di discutere con un anarchico in un programma televisivo. Così avevano scritto, poi però non hanno mantenuto le promesse. Non erano uno ma due, due femministe anarchiche, il tipo peggiore...» «Com'era l'atmosfera quando sei arrivata?» «Erano tutti piuttosto stressati. E bagnati, anche, pioveva di brutto. Mi hanno truccato, però non sulle guance, volevano che si vedesse il tatuaggio.» La neonazista sorrise, il sogghigno soddisfatto di una bimba. «C'era anche quel tipo, la pop star. John Essex: l'ho visto su al castello, in una stanza al secondo piano.» «Cosa ci facevi lì?» Il suo viso si fece rosso intenso. «Mi guardavo solo un po' intorno.» Annika annuì. Probabilmente aveva cercato qualcosa da rubare. «È stato emozionante comparire in televisione?» Lei alzò le spalle. «Avrei dovuto saperlo. Non volevano un dibattito democratico, puntavano solo a farci venire alle mani. E quelle lesbiche mi sono saltate addosso subito, guarda qui...» Sollevò il mento, e la reporter esaminò educatamente l'escoriazione quasi rimarginata. «È successo un casino del diavolo, la gente è arrivata da tutte le direzioni, hanno dovuto interrompere le riprese.» Da quanto poteva capire Annika, la ragazza sembrava piuttosto soddisfatta del proprio contributo alla trasmissione. «A che ora avete finito?» «Alle otto e mezzo, più o meno. Sono andati via tutti tranne io, perché non potevo partire insieme alle anarchiche. Poi nessuno ha obiettato sul fatto che mi fossi fermata.» «Tutti gli altri se ne sono andati?» «Tranne la pop star. La sua band e gli altri sì, ma lui aveva puntato Michelle Carlsson ed è rimasto. C'era da mangiare, e anche alcolici. E al piano di sopra piatti sopraffini. Mi ci sono abbuffata.» «Anche gli altri?» «Alcuni. I cameraman e i microfonisti erano seduti tutti insieme a una delle tavole lunghe. Hanno mangiato per un pezzo, e poi se ne sono andati. Ne è rimasto uno, piccolo e squadrato, con la camicia scozzese. Dopo si è seduto a guardare la tele in una delle ali, e quando la gente intorno si è
messa a fare casino è andato su tutte le furie perché non riusciva a sentire quello che dicevano in quella stupida trasmissione...» «Michelle Carlsson l'hai vista?» «Certo. C'era anche lei, ma non ha mangiato niente, ha soltanto bevuto. Era suscettibile, sconvolta, litigava con tutti.» «Con chi?» «Prima con una delle ragazze che lavorava alla trasmissione, Anne. Hanno discusso di soldi, di stipendi, chi si meritava di guadagnare di più. Se è giusto fare un sacco di soldi grazie alla Borsa, una noia mortale. Alla fine l'altra si è incazzata di brutto, ha gridato che Michelle era un'avida, per un attimo ho creduto che sarebbero venute alle mani.» La neonazista continuò ad arrotolare la ciocca, lo sguardo perso. Nel silenzio, le sensazioni di quella sera piena di lacerazioni si trasferirono nella sede dell'Associazione nazista. «Poi c'è stata la giornalista, quella vecchia, era già ubriaca durante le riprese e aveva dato della smorfiosa a Michelle. Ho visto Michelle che le si avvicinava e le sibilava sulla faccia...» Si alzò in piedi, si allontanò di qualche passo dal materasso. Si fermò, le spalle curve, e alzò gli occhi da sotto la frangia. «"Sei una vecchia carampana grassa e alcolizzata e vivi di rendita grazie alla tua famiglia di spocchiosi"» la imitò. Poi raddrizzò la schiena. «La vecchia è andata fuori di testa, le ha lanciato una bottiglia di vino mancandola di qualche centimetro. Poi si è scolata tre drink uno dopo l'altro e si è addormentata sul divano.» «E Michelle cos'ha fatto?» chiese Annika, completamente coinvolta nella rappresentazione, tanto che vedeva la sala da pranzo davanti agli occhi. «È uscita, seguita da John Essex. Sono andati nella sala comune dell'ala in cui si trovavano le camere, e si sono messi a pomiciare su una poltrona. Poi sono arrivati tutti gli altri, e anche il vecchio che voleva guardare la tele. Michelle e Essex se ne sono andati. Il vecchio si è arrabbiato di brutto e ha cominciato a rompere finché tutti si sono stufati, e siamo tornati al castello.» «Quando hai tirato fuori la pistola?» La ragazza la guardò timidamente, esitò. «Più o meno allora, mi sa. Sono andata a prenderla in macchina e ho lasciato che la toccassero. Erano tutti parecchio interessati. Ho cercato di parlare un po' del patriottismo, ma non c'era nessuno che mi ascoltasse. Poi il personale voleva chiudere a chiave il castello, e così siamo andati alla vecchia scuderia.»
«Chi c'era?» Hannah Persson alzò le spalle. «Non saprei, sia maschi che femmine, forse sei o otto persone. Erano tutti sbronzi, Michelle Carlsson più di ogni altro. Non faceva che gridare, rideva sguaiatamente, si è messa a piangere più volte. Una delle ragazze gliene ha dette quattro, era quella che ha un nome nobile. Ha gridato che Michelle teneva soltanto al proprio successo e pensava di essere chissà chi, e che era del tutto insensibile alle persone che le stavano intorno.» Annika vide nella propria mente la scuderia, Mariana e Michelle, ubriache e logorate dal lavoro. «"Io sono arrivata prima di te"» continuò Hannah Persson, imitando ora la redattrice. «"Tu capiti sempre per caso, senza saper fare niente, e pretendi lo stesso di essere rispettata. L'unica cosa che sai fare è avanzare pretese, e vieni assecondata solo perché ti metti in mostra. Ma in realtà non sei niente, solo apparenza, una bambola di carta. Siamo noi a darti significato e contenuto, e tu non fai che usarci per i tuoi scopi egoistici."» «E Michelle cosa le ha risposto?» «Che lei non aveva idea di come fosse la realtà, che non avrebbe mai capito quanto era difficile la sua vita, a quali pressioni fosse sottoposta. L'altra le ha risposto per le rime, e alla fine Michelle ha gridato che era una stronza invidiosa e che poteva andare a farsi fottere.» Sogghignò. «Come ha reagito il resto della banda?» «L'altra ragazza, Anne, era d'accordo con la nobile.» Imitò l'espressione del viso di Anne. «"Ti ho insegnato tutto, ai tempi di Harem, ma quando sei diventata conduttrice io per te ho smesso di esìstere. Mi hai sfruttata e poi mi hai gettata via, e questo non te lo perdono."» «Non c'era nessuno che difendesse Michelle?» «La bionda, quella di Promesse tradite, com'è che si chiama?» «Bambi Rosenberg.» «Esatto. Lo guardi spesso?» Annika scosse la testa. «Io prima lo guardavo, però qui non ho la televisione. Secondo me, Bambi è un'attrice bravissima.» E pure ariana, pensò la reporter, ma non disse niente. «Bambi l'ha difesa davanti agli altri, ma poi ho visto che piangeva.» Hannah Persson si sedette di nuovo, si accasciò con una luce assente negli occhi. Annika attese, vide delle ombre rincorrersi in quello sguardo. «Credo che Bambi avesse avuto in prestito qualcosa da Michelle. Soldi, o qualcosa di grosso, comunque. "Non riuscirò mai a ripa-
garti" ha detto. "Vuol dire che venderai" ha risposto Michelle. Sì sono messe a litigare, a gridare "Brutta strega spilorcia" e cose del genere, e alla fine Bambi è corsa fuori.» La nazista raddrizzò la schiena. «E poi l'uomo, quello alto, con i capelli un po' grigi. Lui ha difeso Michelle, però più tardi, quando era scomparsa e volevano andare a cercarla...» «Quand'è che è scomparsa?» «Dopo che il pazzo aveva devastato la sala da pranzo. Erano tutti terribilmente agitati, se ne stavano a capannelli a spararsi merda addosso, e continuavano a bere. Come dei patrioti, quasi...» Si lasciò scappare un'altra risatina. «Chi aveva la pistola?» La ragazza abbassò gli angoli della bocca e si morse il labbro inferiore, riflettendo. «L'ho vista fuori dalla scuderia. Ce l'aveva quel tipo, il manager.» Annika sentì i capelli rizzarsi sulla nuca, costrinse la voce a restare calma. «Quando, e cosa ci faceva?» «Era in piedi sotto la pioggia, davanti alla finestra della sala da pranzo, e stava guardando dentro.» «E la pistola?» La nazista alzò le sopracciglia, con aria di sufficienza. «Veramente è un revolver. La teneva in mano, ma a quel punto la nobile gli si è avvicinata e gliel'ha presa. Poi è entrata nell'edificio, ha parlato con qualcuno là dentro, e alla fine il manager è entrato e ha fatto a pezzi tutto quanto.» La reporter la osservò. Finalmente cominciava ad avere un'idea di come si era svolta la serata. «E quell'auto? Chi c'era dentro?» «Sono venuti a prendere Essex, era ubriaco fradicio.» «Hai detto che gli altri cercavano Michelle. Perché?» «Si sono radunati nella cucina di una delle due ali. La grassona... come si chiama?» «Karin, è direttrice di produzione.» «Be', la grassona ha raccontato una cosa successa quando Michelle era stata nominata conduttrice. Dovevano fare un provino sia con Michelle che con Anne, evidentemente la scelta era tra loro due. Il problema fu che Anne arrivò alla registrazione con un'ora di ritardo, e così non poté né prepararsi né farsi truccare.» Annika annuì, ricordava la frustrazione rabbiosa di Anne per l'errore, i suoi pianti e le imprecazioni contro l'idiota che le aveva comunicato l'ora
sbagliata. «Ma questo non aveva niente a che fare con Michelle, no?» «E invece sì. La grassona l'ha raccontato ad Anne proprio quella sera, com'erano andate veramente le cose. Era stata Michelle a mettere il biglietto con l'ora e il posto nella casella di Anne, e la cicciona ha detto che l'aveva fatto di proposito, per togliersela dai piedi. Anne è andata su tutte le furie, si è messa a piangere e ha cominciato a urlare che avrebbe strozzato quella brutta puttana...» Hannah Persson scoppiò in una risata nervosa. Annika la fissò inebetita. «Ha detto davvero così?» La ragazza annuì. «Erano tutti d'accordo sul fatto che Michelle dovesse essere punita, non ce n'era uno che non fosse incazzato per qualche motivo. Poi sono andati fuori a cercarla, e alla fine l'hanno anche trovata...» Quando l'immagine di Michelle Carlsson si presentò sulla retina di entrambe le donne, il silenzio nella sede del circolo nazista si fece compatto. Le ombre parvero allungarsi, facendo rabbrividire Annika. Le pareti divennero incombenti, le croci uncinate le graffiavano la pelle. Un'auto accelerò fuori dalle finestre chiuse con le assi, passò poco al di sopra della sua testa, facendo vibrare il cemento. D'un tratto sentì che era troppo. Non avrebbe potuto fermarsi lì un secondo di più. «Ti va bene se scrivo un breve articolo su di te per l'edizione di domani?» chiese, alzandosi e prendendo la borsa dal pavimento. Gli occhi di Hannah si fecero grandi e soli. «Te ne vai?» «Devo tornare a casa, ho due figli piccoli» disse Annika, sentendo d'un tratto la nostalgia come una coltellata al petto. «Ma tornerai?» chiese la nazista. Il suo viso era pieno di aspettativa, come quello di un bambino, lo sguardo terso e ingenuo. Le ombre provocate dalla pessima illuminazione facevano sembrare iridescente la sua pelle. «No» rispose la reporter a voce bassa «credo di no.» Hannah Persson si alzò, gli occhi mutarono, si ridussero a fessure, si fecero bui. «Perché sei venuta?» Annika fece un passo avanti, la guardò negli occhi. «Non devi vivere così per forza. Potresti trovare un lavoro e un appartamento vero se solo...» «Non dirmi cosa devo fare!» L'urlo fece fischiare le orecchie ad Annika. Arretrò di alcuni passi, sbat-
tendo il tallone contro lo stipite della porta, colta di sorpresa dall'aggressività di quel grido. Hannah si era rannicchiata, i denti scoperti, di nuovo lo sguardo da predatore. «Ho il diritto di vivere dove cazzo mi pare e di pensare quel che cazzo mi pare. Vaffanculo, tu e le tue maledette caramelle di moralismo! Fuori! Fuori!» Prese un libro, uno dei tanti scritti propagandistici, lo lanciò in direzione della testa di Annika. Lei lo scansò, aprì la porta, imboccò inciampando il corridoio, fuggì lungo la scala. La musica irruppe di nuovo nel locale, inseguendola. "Lottare contro il sistema, lottare contro il sistema." Annika sbatté il portone d'ingresso per fermarla, percependo solo il pulsare del basso attraverso la leggera vibrazione del cemento. Rimase per qualche secondo per strada a riprendere fiato, vide una debole luce filtrare attraverso le fessure delle assi che chiudevano le finestre del seminterrato. Che faccia come le pare, pensò Annika. La responsabilità della sua vita tocca a lei, così come la mia tocca a me. Alcune gocce di pioggia le caddero sulla nuca. Si strinse nelle spalle e girò sui tacchi. Si avviò lentamente verso la stazione, oppressa da emozioni contrastanti. Le tendenze autodistruttive di Hannah Persson, scelte consapevolmente agli occhi di altri, e inesorabilmente irrinunciabili per lei... Come poteva essere così cieca di fronte alle possibilità che le si aprivano davanti? Perché proprio lei era finita al di fuori dei confini stabiliti dalla società per essere socialmente accettati? Quali esperienze sono così tremende da indurre un essere umano a scegliere spontaneamente l'emarginazione? Annika tossì, indugiò davanti alla riflessione successiva. Anne Sapphane aveva mancato la grande occasione della sua vita a causa di Michelle. Quali reazioni poteva aver scatenato l'aver appreso queste circostanze? Di getto, Anne aveva parlato di strozzarla. Quanto era intenso il bisogno di vendicarsi? Abbastanza per passare dalle parole all'azione, prendere un'arma e premere il grilletto? Annika si scosse, aumentò il passo. Non era possibile, assolutamente no. Chiuse gli occhi, lasciò che l'urto del tallone a ogni passo si propagasse in tutto il corpo. No, non Anne. Mai. I confini e i tabù degli esseri umani variavano da un'epoca e una cultura all'altra, ma uccidere qualcuno per invidia o vendetta era inevitabilmente
proibito. Non avrebbe mai potuto farlo, pensò Annika, quasi come uno scongiuro. Il cellulare squillò. Esitò, sicura che fosse Anne: la telepatia faceva sì che si pensassero e telefonassero a vicenda contemporaneamente. Guardò incredula il display acceso: era un numero che non riconosceva. «Pronto? Annika? Sono Bosse.» Lei guardò verso la strada, priva di ombre, frugò nella memoria con un panico improvviso. «Chi?» «Bosse, del "Concorrente". Come va?» Annika trattenne il fiato, sentì il sangue affluire al viso, mentre Anne si allontanava bruscamente. «Bene, grazie» disse, con le gambe che tremavano. «E tu?» «Sai, mi sono messo d'accordo con alcuni amici per andare a prendere una birra dopo il lavoro. Ecco, mi chiedevo soltanto... avresti voglia di venire?» Il respiro si arrestò, la bocca rimase aperta, il silenzio si dilatò. Sì! Voglio bere una birra, ridere ed essere notata, discutere di locandine e di Michelle Carlsson e di quegli idioti di Studio Sex, ascoltare vecchi aneddoti giornalistici e interventi sulla situazione politica mondiale, voglio guardare in fondo a degli occhi che mi danno calore, voglio sentirmi vicina, voglio esserci anch'io! Voglio divertirmi! «Mi spiace» disse, laconica. «Devo... andare a casa.» Deglutì a fatica, qualcosa di caldo le inondò il corpo, qualcosa di vivo, di sprizzante. «Ah, va bene.» La voce all'apparecchio non riuscì a nascondere la delusione. Annika strinse forte le labbra, scacciò la sensazione gioiosa. «Okay» riprese Bosse «in questo caso... Sarà per un'altra volta, magari?» Lei chiuse gli occhi, sentì che si riempivano di lacrime. «Temo che non sarà possibile...» sussurrò. «Ah. Va bene. È solo che... quando mi hai risposto sembravi così contenta...» Scese il silenzio, un silenzio denso e snervante. «Mi dispiace» disse lei alla fine. «Adesso devo andare.» «Okay. Stammi bene.» Annika chiuse la conversazione. Fissò lo sguardo sulla via, drittissima e senza fine. Le gocce di pioggia si
erano infittite, adesso, prima di arrivare al treno si sarebbe bagnata come un pulcino. Tirò su il cappuccio della giacca e si mise a correre. Thomas si sedette esausto al tavolo della cucina con un cognac e il giornale. Nella testa gli ronzavano voci e pensieri, e per farli tacere tracannò il liquido nel bicchiere a lunghi sorsi. Corea del Sud, Fourth International Next Generation Leaders' Forum. Già, cazzo, era stato scelto come leader della nuova generazione. Nella sua testa, la voce più realistica protestò immediatamente: SungJoon voleva ricordare i vecchi tempi, tutto lì. Aprì la rivista, si strofinò gli occhi, le righe in inglese gli saltellavano intorno come conigli. Dal 2 al 12 settembre. Ci sarebbe andato, che Annika provasse pure a impedirglielo. Voltò pagina, irritato, cercò di leggere l'articolo successivo. «Ho paura.» Thomas alzò gli occhi dal giornale, il bambino era in piedi sulla soglia, la coperta e l'orsacchiotto tra le braccia, il dito in bocca. Si sentì avvolgere da una rassegnazione infinita. «Dai, tesoro. Adesso devi andare a letto. Ne abbiamo già parlato.» «Ma ho un po' di paura.» Thomas lottò per qualche istante con la propria stanchezza, cedette. «Ti ho già messo a letto tre volte, Kalle. Adesso torni nel tuo letto. Forza, vai.» Riabbassò con fare dimostrativo gli occhi sul giornale. «Voglio la mamma. Dov'è la mamma?» L'uomo rimase con lo sguardo incollato alla rivista. «Kalle. Ora basta. Abbiamo guardato diverse volte sotto il letto, non c'è proprio niente. Vai a letto.» Il bambino arretrò, le ombre si richiusero sul riquadro buio della porta della cucina. Thomas appoggiò la fronte alle mani, curvò la schiena, tese l'orecchio verso l'ingresso. Silenzio, grigio e freddo. L'amministratore aveva deciso per la sospensione del riscaldamento per l'estate, l'umidità generata dalla pioggia s'insinuava in ogni angolo. Irritato, gettò da parte il giornale. Ecco cosa voleva dire abitare in un condominio di merda, non si aveva voce in capitolo, un burocrate del cazzo se ne stava lì a decidere se si doveva aver freddo o no. Se almeno l'ap-
partamento fosse stato di loro proprietà avrebbe potuto far parte del consiglio condominiale e contribuire a prendere le decisioni, e invece no, gli toccava adattarsi a ciò che stabiliva il comune, che gestiva gli appartamenti. Finì il cognac, si alzò, andò a prendere la bottiglia nella credenza e se ne versò un altro. Sembrava impossibile che dei bambini potessero sfinire una persona a quel modo. Si appoggiò al bancone della cucina, fece roteare il liquido nel bicchiere di vetro infrangibile. Forse era per questo che non era riuscito a lavorare quanto avrebbe dovuto, prosciugato com'era di energia e di tempo. Senza i bambini, forse a quell'ora avrebbe già avuto un altro incarico dall'Unione dei Comuni, sarebbe stato a buon punto dell'indagine sulla questione del decentramento regionale. Forse lo avrebbero voluto tenere, se avesse potuto investire più energie nel lavoro. Un rumore proveniente dall'ingresso lo fece irrigidire. Si tirò su, andò alla porta, l'aprì e accese la luce. Il bambino era in un angolo, piangeva sussultando, gli occhi dilatati dalla stanchezza e dal rancore. Le emozioni che lo assalirono erano fosche e contrastanti. «Ma... cosa ci fai qui?» Represse l'irritazione nella propria voce, chiamò a raccolta la pazienza. Si avvicinò al bimbo e si chinò. Il piccolo si girò contro il muro. «Senti, Kalle, adesso devi dormire per poter avere la forza di alzarti domani. Lo sai, no?» Appoggiò la mano sulla spalla rotonda, ma il bambino si ritrasse, scosso dai singhiozzi. «Stupido. Voglio la ma-mamma.» «Okay» sbottò Thomas, prendendo in braccio il bambino. «Ora basta.» Il piccolo emise un urlo, il corpo teso come un arco, si mise a tirargli i capelli. «Smettila subito!» gridò Thomas a sua volta, si strappò la mano del figlio dalla testa, sentì una pioggia di capelli scendere sul viso. «Ahiiiiii!» gridò il bambino, mollando calci e pugni. Una corrente improvvisa indusse Thomas a fermarsi. Annika era in piedi nell'ingresso, una sagoma scura sullo sfondo illuminato a giorno del pianerottolo.
«Cosa state facendo?» chiese, a voce bassa, richiudendo la porta d'ingresso. «Non si addormenta!» gridò Thomas, mettendo sul pavimento il bambino. Kalle lasciò cadere orsacchiotto e copertina e si lanciò verso la madre. Thomas la vide mollare giacca e borsa sul pavimento, inginocchiarsi a braccia aperte e stringere a sé il figlio. Rimase lì a cullarlo, mormorando dolcemente, dopo qualche istante il pianto del piccolo cessò. Ancora qualche secondo, e il bambino ridacchiava, una risata cristallina simile a un cinguettio che con Thomas non condivideva mai. Annika si unì alla risata, calma e silenziosa, gli fece una carezza sui capelli. «Adesso ti accompagno a letto e addormentiamo insieme il tuo orsacchiotto. Dov'è andato a finire?» Il bambino puntò il dito in direzione di Thomas, imbronciato. Annika lo fissò dritto negli occhi mentre andava a raccogliere i giochi del bambino, li prese senza distogliere lo sguardo accusatore. «Tu lo vizi» continuò Thomas. «Chiudi il becco» rispose Annika, a voce bassa e a denti stretti. Lui serrò le mascelle, sentì avvampare le guance. Ma lei si era già dileguata nella stanza dei bambini, stava sussurrando e giocando con il piccolo. Tornò in cucina, fece fuori il cognac, ne versò dell'altro. «Molto maturo, come comportamento» commentò Annika entrando in cucina e vedendolo scolarsi il bicchiere. «Perfetto. Bevi pure, che subito diventa tutto molto meglio.» Prese un bicchiere, lo riempì d'acqua del rubinetto, si sedette al tavolo della cucina. «Lo sai che ore sono?» chiese lui. Annika bevve senza rispondere. «Ti sembra l'ora di tornare? Hai idea di quanto mi è costato occuparmi io di tutto? Come osi scaricare sulle mie spalle tutto questo?» «Smettila» lo zittì, la voce completamente svuotata. «Di fare cosa?» chiese lui, bevendo quel che restava del cognac, che gli andò di traverso. «Cosa dovrei smettere di fare, esattamente? Di prendermi cura dei tuoi figli? Della tua casa? Della tua biancheria sporca?» Annika mise giù il bicchiere di colpo, l'acqua schizzò sul tavolo. «Adesso la smetti, per favore!» esclamò andandogli vicinissima. «Hai tutto e non fai che lamentarti. Che ne diresti di sollevare lo sguardo appena un centimetro sopra la tua autocommiserazione?»
«Cos'è che vuoi, eh?» domandò lui, a voce decisamente troppo alta. «Che smetta di lavorare e ti serva a tempo pieno? Forse otterrai quello che desideri prima di quanto tu creda. Sono fottuto, fottuto in ogni senso.» «Dio santo, quanto sei infantile!» ribatté lei, lo sguardo furibondo e sprezzante. «Abbiamo messo al mondo due figli, e come genitori, cazzo, siamo tenuti a fare in modo che crescano in condizioni accettabili. Smettila di provare compassione per te stesso per il fatto che non abiti più nella tua villona del cazzo in riva al mare! Adesso abiti qui, va bene, e allora vedi di far buon viso a cattivo gioco. Cresci, porca puttana!» Thomas fece due passi indietro, urtò con la schiena contro il bancone. «Non venire a dirmi cosa devo fare!» Lei lo incalzò, avanzando di due passi. «E chi altri dovrebbe farlo, se non io?» gridò. «Tu sei talmente incapace di prendere qualsiasi forma di decisione! Come cazzo fai a fare il capoprogetto al lavoro, me lo dici? È tutto così terribilmente faticoso per te! Sei un pigro, per non dire uno scansafatiche!» Lui la spinse via, si diresse verso l'ingresso. «Non ho intenzione di starti a sentire.» «Benissimo!» gli gridò dietro lei. «Corri via, scappa da tutto quanto, vai pure a cercarti qualcuno che ti massaggi il tuo maledetto ego!» Thomas uscì incespicando dalla stanza, s'infilò con dita tremanti impermeabile e stivali. Sbatté la porta con un colpo. MARTEDÌ 26 GIUGNO La redazione riposava azzurrina e trasparente nella luce del mattino. Il banco della cronaca, lasciato da quelli del turno di notte, pulsava come un organismo autonomo, svuotato di creature vive ma vibrante di sedie appena scostate, schermi sfarfallanti, penne che rotolavano verso il bordo del ripiano e il pavimento. Probabilmente i cavalieri della notte erano seduti nella caffetteria della distribuzione due piani più sotto, su di giri e con gli occhi rossi, davanti a birre e tè, impegnati a ricacciare l'adrenalina nei guardaroba più bui del cervello. Quelli del turno mattutino erano seduti in disparte, concentrati e muti, settantacinque minuti alla prossima andata in stampa, un'eternità e mezzo, tutto il tempo del mondo. Anders Schyman osservò la scena, se la nascose nell'anima. Forse non
l'avrebbe mai più rivista. Entrò nel suo ufficio, appoggiò la tazza del caffè sulla scrivania, gettò accanto la prima edizione della giornata, quella della provincia. Era ancora umida di stampa, uscita com'era dalle rotatorie solo una mezz'ora prima. Arrivava sempre al lavoro sul presto. Le alternative erano due: restare in coda per decine di chilometri lungo l'autostrada da Nacka oppure immettersi nella corsia riservata agli autobus e accumulare multe, preavvisi e, alla fine, il ritiro della patente. Questa mattina non percepiva la solita insulsaggine dello squallore di quell'ambiente, l'aria era carica d'elettricità invece che di quotidianità, e lui sapeva perché. È sempre facile svegliarsi e affrontare una guerra. La pace è molto più banale. Si sedette, schiena e gambe leggere, aprì il giornale, si mise a leggere con entusiasmo frenetico. La prima pagina era straordinaria, con un coinvolgente primo piano di un John Essex affranto e senza trucco, scattato in una camera d'albergo a Berlino il pomeriggio precedente. Il simbolo della musica pop parlava a Berit Hamrin della "Stampa della Sera" della propria amicizia con l'assassinata stella della TV Michelle Carlsson, di ciò che era accaduto durante la notte fatale e di come aveva vissuto gli interrogatori della polizia svedese. Davvero fantastico. L'articolo di fondo riguardava una questione relativa ai diritti dei consumatori. Era stato scritto prima del fine settimana di mezz'estate come pezzo di riserva, ma l'omicidio di Michelle Carlsson ne aveva fatto rimandare la pubblicazione. L'articolo completo, da qualche parte nelle pagine interne, riguardava i farmaci pericolosi, e ne riportava l'intera lista. L'articolista pretendeva che si prendessero misure serie nei confronti del cinismo dell'industria farmaceutica, ma il testo non era granché. Si strinse nelle spalle, irrequieto, continuò a sfogliare. Le pagine della cultura contenevano una riflessione di ottimo livello sul futuro dei media televisivi, andava dritto al cuore del problema, con un'analisi vivace e ponderata tracciata da uno degli editorialisti del giornale. La sei e la sette riportavano l'intervista con la pop star. Quelli dello spettacolo avevano cercato di farla spostare verso il fondo, sotto la loro intestazione, ma Chiodo aveva tenuto duro. Schyman sorrise, accarezzò le righe. "Michelle Carlsson era una donna meravigliosa" diceva John Essex alla
"Stampa della Sera". "Ci siamo conosciuti solo una sera, ma ci siamo subito sentiti vicini. Aveva un intelletto vivace e brillante, siamo andati immediatamente d'accordo. La sua morte è una grave perdita, sia per me personalmente sia per il pubblico televisivo europeo. Aveva ancora molto da dare." "Lei pensava che la vostra amicizia avrebbe potuto proseguire nel tempo, dopo il vostro primo incontro?" "Avrei voluto conoscere meglio Michelle. Sono poche le persone che mi capiscono al volo, e lei era una di queste. Ci siamo scambiati delle opinioni profonde fin dall'inizio, e non è una cosa che mi capiti spesso. Inoltre era bellissima, nella mia vita ho conosciuto poche donne alla sua altezza, e dire che di ragazze ne ho viste parecchie..." Il mondo intero avrebbe copiato l'intervista e acquistato le foto. Quando aveva chiesto a Berit come era riuscita a indurre l'uomo a parlare, lei aveva solo citato Il Padrino, parlando di un'offerta che non si poteva rifiutare, e lui non aveva insistito. Schyman bevve cauto un sorso del caffè ancora bollente preso al distributore automatico, girò pagina e si trovò a guardare Carl Wennergren che posava davanti al castello di Yxtaholm. Il reporter della "Stampa della Sera" parlava di come aveva vissuto la tragedia che aveva scosso la Svezia dei VIP. L'aveva scritto Sjölander, e a dire la verità si notava che era ancora un po' annebbiato dal jetlag. L'articolo non era certo da premio Pulitzer, ma almeno la cosa era uscita sul giornale. Schyman sfogliò ancora, si soffermò sul testo di Annika Bengtzon sulla neonazista di Katrineholm che abitava in uno squallido seminterrato. L'irrequietezza svanì, e il condirettore venne assorbito dalla descrizione della giovane donna, le sue opinioni e il suo passato, la seguì nella notte al castello, vide danzare le ombre. Dopo, sbatté gli occhi più volte, si sedette. Ottimo pezzo, ben scritto, proporzionato, con la prospettiva giusta. Perfetto. Seguiva un resoconto della situazione delle indagini, costruito sulle informazioni della polizia, sulle osservazioni di un professore di criminologia e sul commento di uno degli avvocati difensori più noti del paese. Le indagini di questo tipo si basavano su un puzzle in cui giocavano due ingredienti diversi: le deposizioni dei testimoni oculari e gli indizi tecnici, si diceva nell'articolo. Nel caso in oggetto le testimonianze erano definite dalla polizia contraddittorie e incomplete, forse perché le persone in questione erano ubriache, logorate dalle intense giornate di lavoro o desiderose di proteggere se stes-
se per ragioni che non avevano nulla a che vedere con le indagini. In ogni caso, appariva sempre più chiaro che l'assassino doveva essere uno dei dodici che avevano trascorso la notte al castello. La polizia era convinta che la soluzione si trovava da qualche parte nel materiale, ma per il momento non si poteva ancora parlare né di fermi, né di arresti, né di incriminazioni. Il silenzio della polizia non era indicativo di uno stallo nell'attività, assicurava il criminologo, ma piuttosto del contrario. Il tempo lavorava sempre contro gli interessi della polizia in un'indagine di questo tipo, e per questo la concentrazione, in questura, era totale. L'avvocato difensore sottolineava l'importanza di un serio lavoro alla base prima che si passasse a eventuali arresti. A meno che non si arrivasse a una confessione spontanea, una futura incriminazione si sarebbe probabilmente basata su una catena indiziaria di testimonianze, la cui credibilità avrebbe dovuto essere verificata dalle prove. Il condirettore sospirò. Qualcosa, nel testo leggermente vago, lo induceva a pensare che la soluzione del crimine fosse più lontana di quanto non si volesse ammettere. Le due pagine successive erano dominate dalla questione di protezione dei consumatori riguardante i farmaci. Era stata schematizzata in maniera ambiziosa, con diagrammi esaurienti e un caso interessante di una giovane madre morta a causa di alcune pillole per il mal di testa vendibili senza ricetta medica. Il titolo nella pagina interna era cristallino e provocatorio: L'analgesico mortale. Sarebbe stato perfetto persino per essere cantato in una melodia tipica da réclame. Schyman sorrise, non si accorse di Torstensson finché non udì bussare alla porta di vetro. «C'è qui la televisione» disse il direttore, con lo sguardo leggermente annebbiato dall'ora mattutina. Alzando gli occhi dal giornale, Schyman si costrinse a mantenere sul viso l'espressione più neutra che gli riusciva. «Di già? Non dovevano arrivare alle otto?» Il direttore responsabile si accarezzò il mento rasato di fresco e si aggiustò la cravatta. «Stanno sistemando le telecamere nel mio ufficio.» «Hanno detto di che si tratta?» Il direttore spostò il peso da un piede all'altro con impazienza. «No, e desidererei chiudere la cosa in fretta. Io sarei in ferie, in realtà.» «Ma era con lei che volevano parlare» disse Schyman, fingendo di fare storie «e allora perché devo esserci anch'io?»
«Se si tratta di critiche relative all'impostazione editoriale, non ho nessuna intenzione di coprire personalmente i suoi errori» rispose Torstensson secco. «D'ora in poi dovrà assumersene lei la responsabilità.» Poi girò sui tacchi e attraversò la redazione, con le spalline troppo larghe che oscillavano simili a boe su un lago estivo. Non riguarda nessuna impostazione editoriale, pensò Anders Schyman. Si passò una mano sulla fronte, spinse la sedia contro la scrivania e si guardò intorno. Poi uscì, lasciandosi la porta aperta alle spalle. Thomas sì aggrappò allo stipite, la cucina gli girava intorno. «C'è del caffè?» «Nel bricco» rispose Annika in tono neutro, senza alzare gli occhi dal giornale, un cucchiaio in una mano, un tovagliolino nell'altra. I bambini erano seduti di fianco a lei, uno per lato: Kalle stava mangiando una fetta di pane con il formaggio, Ellen aveva un cucchiaio in mano e lo yogurt su tutto il faccino. D'un tratto si rese conto che la sua compagna era sempre lì, quando lui si alzava, con i bambini vestiti e nutriti, il caffè pronto e i giornali davanti. Si avvicinò barcollando al pensile, prese una tazza e si accorse che la mano gli tremava. Non era abituato a bere nelle sere dei giorni feriali. «A che ora sei tornato ieri sera?» chiese lei, ancora senza sollevare lo sguardo. «Tardi» rispose, versandosi il caffè. «Dove sei stato?» Questa volta alzò gli occhi, sguardo profondo come un abisso, dolore, rabbia e delusione. Thomas pulì leccandolo un cucchiaino piuttosto usato e mescolò la bevanda. «In un pub qui vicino.» Lei annuì e abbassò di nuovo gli occhi sul giornale. «Scusami» mormorò lui. «Non potresti sederti?» chiese Annika, gettando un'occhiata al posto di fronte. «Mamma, ho finito» disse Kalle alla sua destra. A sinistra, Ellen spinse via il cucchiaio. «Okay, vai a pulirti la bocca e poi ti lavi i denti.» Con un gesto meccanico sollevò Ellen dal seggiolone, le pulì viso e mani, la mise seduta per terra accanto a sé. Ellen cominciò a seguire il fratello maggiore con la speciale tecnica di gattonamento che aveva ideato, un pie-
de sotto il sedere. «Tra poco camminerà» commentò Thomas in tono allegro da padre orgoglioso, e si sedette. La luce del mattino cadeva sulla donna seduta di fronte a lui, la sua donna, raggi impietosi che ne mettevano a nudo la stanchezza. «Scusami» ripeté, appoggiando una mano sulla sua. Lei non si sottrasse a quel contatto, ma evitò il suo sguardo implorante. «L'altra sera mi hai spaventato...» Lui abbassò gli occhi sul tavolo, non rispose. «Non è solo quello che hai detto» continuò lei «ma la mia reazione. Sto girando su me stessa come ho sempre fatto, mi sono rapportata a te come facevo con Sven...» «Smettila!» esclamò Thomas con trasporto, alzando gli occhi su di lei. «Non paragonarmi a lui.» «E invece sì» sbottò Annika incrociando il suo sguardo, l'espressione decisa, come la voce. «Non perché vi somigliate voi, ma perché io sono uguale a prima. Sono la stessa, non ho imparato un cazzo. Ho strisciato ai tuoi piedi, ho piegato la schiena e chiesto scusa. Non è colpa di tua madre se non mi ha accettato. Sono io che ho provato compassione per te perché hai scelto me. Non ho mai ritenuto me stessa all'altezza della situazione.» Bevve un sorso di succo d'arancia, con la mano che tremava. «Ma adesso ho chiuso. O mi scegli sul serio, oppure lasciamo perdere tutto.» Lui la guardò, incredulo, le spalle curve. «Come? Come dovrei farlo, scusa?» «Ci sposiamo. Ci sposiamo in chiesa con tutta la mascherata, i parenti e tutti gli amici che abbiamo mai avuto, poi affittiamo un locale e prendiamo l'orchestra e balliamo fino all'alba. Un matrimonio vero e proprio con la foto sul "Corriere di Katrineholm".» Thomas si raddrizzò, si appoggiò allo schienale, alzò gli occhi al cielo. «Ti aggrappi a dettagli insignificanti. La chiesa e la festa non sono niente.» Lei guardò fuori dalla finestra, verso il cortile interno con le rastrelliere delle biciclette e lo sgabuzzino dell'immondizia. «Be', le cose stanno così.» Ritirò la mano. «Pronto? Alide?» Bambi Rosenberg tese le orecchie oltre il fruscio della linea, intuì la presenza all'altro capo del filo, sembrava tutto molto più lontano di quanto non fosse in realtà. Un debole gemito si sovrappose alle scariche, denso di cattivi presagi.
«Alide, come va? Stava dormendo?» Qualcosa che somigliava a un singhiozzo scivolò a ovest superando il Baltico, lungo la costa lettone, oltre Saremaa, Gotska Sandön, per giungere in Svezia nei pressi di Landsort e percorrere i fili della Telia fino a Solna. «No» sussurrò la lettone. «Ero sveglia.» Bambi Rosenberg tirò un sospiro di sollievo. Dalla voce, Alide pareva sobria. Magari con qualche strascico di sbornia, ma in sé. «È tutto fatto, adesso. Ho incontrato l'avvocato ieri pomeriggio, abbiamo passato in rassegna tutte le carte e le altre cose.» L'altra non rispose e l'attrice intuì il pianto attraverso il silenzio. Si accasciò sul tavolino dell'ingresso, alzò gli occhi verso il soffitto, ricacciò indietro le proprie lacrime. «Non deve essere triste» la consolò con voce soffocata. «Mi sente, Alide? Dobbiamo essere forti, adesso.» «Mi manca» confessò la donna nel suo inglese stentato. «Mi è mancata tutta la vita, e adesso è troppo tardi.» Bambi Rosenberg cedette, chiuse gli occhi, lasciò scorrere le lacrime. «Lo so» sussurrò. «Lo sapeva anche Michelle. Ma lei aveva perdonato, Alide, aveva perdonato. Lo sa, vero?» Un profondo sospiro lungo la linea, forse un accenno di sollievo. Bambi Rosenberg fissò lo sguardo sulla tappezzeria, contenta di quella mezza bugia. Michelle aveva perdonato sua madre, ma non era mai riuscita a elaborare il dolore dell'abbandono. «Cosa dice la polizia?» chiese Alide Carlsson. «Hanno arrestato qualcuno?» Bambi Rosenberg scosse la testa, rivolta alla parete dell'ingresso. «No. Non capisco perché ci mettano tanto.» «Hai saputo qualcosa del funerale?» «Non mi hanno ancora fatto sapere la data, ci vorrà qualche settimana. Oggi il canale manda in onda una commemorazione, la registrerò, così la potrà vedere quando viene qui.» «Non voglio dormire nell'appartamento di Michelle» sussurrò la donna, le parole appena percepibili dietro i fruscii. L'attrice si asciugò il viso con il dorso della mano sinistra. «Può stare da me, lo sa. Basta che mi chiami, e io vengo a prenderla al traghetto.» Rimasero in silenzio qualche istante, costruendo un ponte di affetto sul mare. «Sai qualcosa di come andrà a finire?» chiese alla fine la madre di Michelle. «Con i versamenti mensili, intendo dire.»
«Non ne avrà più bisogno» rispose Bambi Rosenberg. «Non c'è nessun testamento. L'eredità è sua. L'appartamento, la società con tutti i diritti, i mobili e i gioielli. Lei è la sua unica erede.» Quando rispose, la donna aveva la voce stanchissima. «Michelle non avrebbe voluto. Non me lo merito.» «E invece sì» replicò Bambi Rosenberg, attingendo al suo repertorio di attrice per dare enfasi alle sue parole. «Michelle voleva che la sua vita scorresse tranquilla, lo sa. Altrimenti non avrebbe mai cominciato a inviarle il denaro. Voleva che stesse bene. Il fatto che ripartisse i versamenti mensilmente significava solo che non voleva che lei facesse fuori tutto in una volta. Lo ricorda anche lei come andavano le cose, a quell'epoca...» «Una parte spetta a te» sbottò Alide decisa. Bambi Rosenberg si sentì avvampare il viso, fu lieta che nessuno la vedesse. «Non le avevo ancora ripagato il prestito per l'operazione al seno. Non mi spetta niente, davvero.» «Tu hai fatto quello che avrei dovuto fare io» insistette la madre. «Mi accerterò che tu abbia la tua parte, fidati di me.» Le parole scatenarono in lei un senso inebriante di déjà vu, facendola scoppiare in lacrime di nuovo. «No!» Scosse la testa. Riconosceva quelle promesse, sapeva che sarebbero state seguite dalla delusione. «Lei non è mia madre, Alide, non deve fare niente per me. Ma mi chiami quando arriva, ci vediamo.» Una volta riattaccato il ricevitore, Bambi Rosenberg si accasciò sul pavimento, si rannicchiò in posizione fetale e si addormentò. Mehmed aveva sistemato Torstensson sulla sua poltroncina dirigenziale, il dipinto di Anders Zorn sullo sfondo. Schyman si piazzò sulla porta, osservò la scena, cercò di determinare lo status dell'intervista dall'attrezzatura predisposta. Fece scorrere lentamente lo sguardo sulle persone nella stanza, impegnate a sistemare cavi, fili, cuffie, microfoni, gli schermi per l'ottimizzazione della luce. Due cameraman, un tecnico del suono, e poi il conduttore: un investimento consistente. Una delle due telecamere era puntata sul direttore del giornale, l'altra era mobile e si sarebbe concentrata su Mehmed. Dunque si presumeva che Torstensson sarebbe rimasto seduto al suo posto, mentre il conduttore del programma si sarebbe spostato nella stanza. Okay. Il direttore stava già cominciando a sudare sotto la luce del grande riflettore. In realtà non era del tutto necessario, ma i fari surriscaldati che feri-
vano gli occhi andavano sempre benone, quando qualcuno doveva essere inchiodato. Torstensson si divincolava sulla sedia, si schiariva la voce, passandosi senza sosta la mano sui capelli e urtando il microfono appuntato al bavero della giacca. Schyman intuì come si sarebbe svolta la faccenda. Il problema di Mehmed era riuscire a far riconoscere a Torstensson che aveva venduto le azioni il 19 luglio, il giorno prima del catastrofico rapporto semestrale di Global Future. Per questo avrebbe prima impostato il tutto su qualcos'altro, qualcosa che già sapeva, probabilmente il momento in cui l'informazione riservata aveva raggiunto le orecchie di Torstensson, e in che modo. La data della vendita in sé sarebbe rimasta scontata per tutto il tempo, e se il direttore non fosse riuscito a cavarsi d'impaccio avrebbe finito per impegolarsi in un groviglio di pretesti. «Per quanto riguarda l'impostazione editoriale, io non sono l'unico a...» esordì Torstensson, senza che nessuno lo degnasse di uno sguardo. Schyman si accorse che l'allestimento tecnico era pronto, si chiuse la porta alle spalle, si piazzò di fianco a uno dei due cameraman. «Allora» disse Mehmed Izol «si parte?» L'abile conduttore prese posto su una sedia al centro dell'ufficio, a circa un metro dall'oggetto dell'intervista, accavallò le gambe, con le mani appoggiate sulle ginocchia. «Direttore» cominciò «qual è la posizione della "Stampa della Sera" nei confronti dei reati di tipo economico?» Torstensson si mise comodo sulla sedia, si schiarì la voce. In un piccolo monitor ai piedi del fotografo, Schyman vide la giovane donna nuda di Zorn sospesa poco sopra l'orecchio sinistro del direttore. «Il crimine, in ogni sua forma, è un abominio in qualsiasi democrazia» rispose l'intervistato. «Indagare e portare alla luce i reati commessi da persone di ogni classe sociale è uno dei principali compiti dei mass media.» Guarda un po', pensò Schyman. E io che credevo che rientrasse fra i compiti della polizia. Incrociò le braccia, costrinse il battito cardiaco a rallentare. Se c'era qualcuno in grado di riuscire nell'operazione, quello era Mehmed. La parete di sacconi nella sala postproduzione di Anne si era leggermente abbassata. «Entra che ti faccio sentire cos'ho trovato!» esclamò Anne dietro il mu-
ro. Annika aggirò le montagne di VHS, silenziosa ed esitante. L'insicurezza le aveva fatto venire le gambe molli e tremolanti. «All'inizio ho pensato che fosse una roba vecchia, visto che non ci sono le immagini» continuò l'amica alzando il volume. «Ascolta!» La reporter le si fermò dietro, inspirò l'aria secca ed elettrica, starnutì a causa della polvere. Poi ascoltò una cassetta infilata nell'apparecchio ai piedi di Anne: scariche statiche, fruscii di sottofondo, e dietro tutto quanto dei gemiti, dei sospiri. «Cos'è questa roba?» «Non so» rispose l'altra con la testa infilata in un sacco di fianco a lei. «Ma c'è solo l'audio?» chiese Annika. «Già. È un quarto d'ora che l'ascolto, ormai. Pare qualcuno che scopa.» Anne raddrizzò la schiena, rossa in viso per il sangue andato alla testa, stringendo in mano una pila di cassette. «È qualcosa della registrazione di Estate al castello, presumibilmente dell'ultima sera.» Infilò il nastro in un altro apparecchio, uno di quelli per le betacam. Il monitor lampeggiò, mostrando poi gli esterni impregnati di pioggia di Yxtaholm. Le persone della cassetta con il solo audio continuarono a fare l'amore mentre sulla betacam veniva bilanciata la luce e veniva provato il suono. «Senti» cominciò Annika «c'è una cosa che devo chiederti.» «Cosa?» domandò Anne, mettendo la cassetta in avanzamento veloce. La giornalista deglutì, abbassò gli occhi sulla nuca dell'amica e sui suoi capelli spettinati. «È vero che Michelle ti ha dato l'orario sbagliato per il provino?» Il collo s'irrigidì, le spalle si contrassero. Anne si voltò e la fissò a bocca spalancata. «Chi l'ha detto?» «È vero? Ha sabotato lei la tua audizione?» L'amica la fissò per qualche secondo, poi si rigirò di scatto, cambiò cassetta nel registratore. Dalla macchina ai suoi piedi continuarono a provenire gemiti e sospiri. «Non lo so. Karin Bellhorn sostiene che è andata così. Non capisco perché dovrebbe mentire su una cosa del genere.» Abbassò sulle ginocchia l'etichetta, spostò lo sguardo oltre i sacchi di plastica. «D'altra parte, non capisco nemmeno perché non me l'abbia mai detto prima.» Le gettò una rapida occhiata oltre la spalla. «Dunque, non lo so» concluse. «Perché?» La domanda rimase sospesa a mezz'aria. «Corrisponde al vero che tu... hai minacciato di strozzare Michelle,
quando sei venuta a saperlo?» La voce di Annika era leggermente impastata. Anne si tirò indietro. «Ah, ecco. Dunque ti stai chiedendo se l'ho uccisa io?» Si voltò di nuovo, alzò gli occhi su Annika sostenendo calma il suo sguardo. Lei deglutì udibilmente. «No, non è questo, è che a me non l'hai raccontato. È stato un po' strano venire a saperlo da qualcun altro.» Anne abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «All'inizio me n'ero dimenticata, veramente. Poi me ne sono vergognata, immagino.» Alzò di nuovo gli occhi. «Il fatto è che quasi tutti hanno provato l'impulso di uccidere Michelle, a un certo momento di quella serata.» Si guardarono, Annika si rese conto che era vero. Il silenzio teso nella stanza fu colmato dai gemiti della cassetta, e quando tutt'a un tratto s'interruppero, le due amiche trasalirono. Un fruscio, come portato da un'improvvisa corrente d'aria, passò attraverso gli altoparlanti, e una bassa voce maschile riempì la stanza. "Did someone come?" Il fruscio continuò, leggere scariche statiche. "No, noone, come on..." I rumori dell'accoppiamento tornarono a farsi sentire: bisbigli e risatine, gemiti e sospiri. «Avevano parlato anche prima?» chiese Annika perplessa. Anne scosse la testa, il viso pallido. «Potrebbero essere Michelle e John Essex?» chiese ancora la giornalista. Anne esitò, poi annuì. «All'inizio c'erano un sacco di comunicazioni interne, sai... chiacchiere da sala regia, cinque secondi, camera uno, sigla, passa alla due... tra l'altro, Michelle ha presentato John, quindi è la sera giusta.» «Chi ha registrato questa roba?» L'altra trasse alcuni respiri profondi, scosse la testa. «Non ne ho idea. La cassetta era nel casino di log-tape in formato VHS, ma nel programma non rivestono alcun ruolo.» La coppia sul nastro continuò a gemere, sospirare e gridare. Annika rimase dov'era, ascoltò i rumori, ma dopo un po' Anne premette FAST FORWARD e i suoni si trasformarono in un cinguettio paperinesco, scopata ad alta velocità. Annika deglutì, il cuore in gola.
«Qui devono aver parlato di nuovo» notò Anne, riavvolgendo il nastro. «Come sta andando?» Il viso di Karin Bellhorn fece capolino al di sopra dei sacchi neri. Anne premette lo STOP sulla cassetta della scopata e alzò il volume dell'altro apparecchio. La direttrice di produzione aveva la fronte aggrottata, le sopracciglia sollevate come se fosse in punta di piedi. Quando vide Annika, il suo sguardo si fece gelido. «E tu cosa ci fai qui?» Lei tentò di sorridere. «La commemorazione» spiegò. «Pensavo...» Ma Karin aveva già perso interesse per lei. «Hai rintracciato tutto il materiale del centouno e del centodue?» «Più o meno» rispose Anne, la testa di nuovo infilata nel sacco. «Delle cassette che ho trovato ho già fatto tutto il rime coding, mi sembra che siano pronte per il montaggio.» «Puoi occupartene tu?» chiese la direttrice di produzione, la voce rauca per lo stress e le sigarette. «Non potresti anche prepararmi uno schizzo, scrivermi i codici di ingresso e di uscita, e mettermi tutto sulla scrivania prima di andare a casa, oggi?» Annika notò che l'amica serrava le mascelle. «Mi resta parecchio da...» «Fregatene, quello lo puoi fare la settimana prossima. Tanto la scaletta la conosci, metti da parte le cassette che servono per l'editing definitivo. Sei proprio gentile, grazie.» Dopodiché girò sui tacchi e scomparve prima che l'altra facesse in tempo a formulare la sua protesta. «Maledetta strega» sibilò una volta che i passi pesanti della direttrice di produzione si furono persi lungo il corridoio, lacrime di rabbia negli occhi. «Mi toccherà restare qui dentro per quel che resta dell'estate. Quella maledetta commemorazione me la posso anche scordare.» Annika sì divincolò, a disagio, capendo di essere di troppo. Prese la borsa. «Senti, vado a fare un giro.» Anne Sapphane si chinò e tirò fuori la cassetta con la scopata. «È tutto così maledettamente ingiusto! Quest'azienda mi tratta come se fossi una...» Si asciugò velocemente il viso bagnato. «Prendi questa» disse tendendo la cassetta all'amica. «Scendi da Gunnar e chiedigli cos'è, chi l'ha registrata, dove e perché.» Annika afferrò il nastro, lo mise nella borsa e si fece strada tra i monitor per uscire.
Thomas riconobbe la camminata lungo la spessa moquette, allo stesso tempo saltellante e pesante. Aprì rapidamente il primo cassetto della scrivania, gettò sul ripiano alcune cartelline, valutò la distanza dei passi, tre secondi, due, uno... «Può venire un attimo dal dirigente?» Lui alzò gli occhi, sorpreso, impegnato. La segretaria si appoggiò con una mano allo stipite, le labbra tese in una smorfia provocata dalle solette nelle scarpe. Thomas sorrise. «Certo.» Radunò le cartelline, ne scambiò di posto due, le infilò nel cassetto, chiuse a chiave. Poi seguì la schiena della segretaria lungo il corridoio, attraversando l'ingresso, superando la sala riposo per raggiungere l'ufficio d'angolo. «Caffè?» chiese la donna tenendogli aperta la porta. «Sì, grazie. Con un po' di latte, per favore.» Deglutì, guardò nella stanza. C'erano tutti e cinque i dirigenti di settore, e anche il responsabile della contrattazione e il direttore, in fila, seduti al lato opposto del tavolo delle riunioni. I postumi della sbornia gli pulsavano sulla fronte, rendendo i suoi gesti leggermente angolosi. Scostò una sedia, si sedette, si appoggiò allo schienale, un debole fischio nelle orecchie. Studiò i sette dirigenti davanti a sé: i loro sguardi erano indefinibili, sfuggenti, puntati sul piano e sulle pareti. L'intuizione fu immediata e cristallina. Non gli avrebbero dato l'incarico. Sarebbe toccato alla tipa dell'Unione dei Consigli Regionali. «Thomas» esordì il responsabile della contrattazione, seduto a capotavola «vorremmo innanzitutto farle sapere che siamo molto soddisfatti del lavoro che ha svolto sulle norme relative ai sussidi sociali.» Lui allacciò le mani sulle ginocchia, si accorse che erano fredde e umidicce. «Come lei sa, è da un po' che stiamo prendendo in esame i possibili approcci alla questione regionale» continuò il responsabile della contrattazione, gettando una rapida occhiata intorno al tavolo. «Si tratta di un tema piuttosto scottante per noi dell'Unione dei Comuni, dato che abbiamo sempre sostenuto di non essere interessati: la nostra posizione, fin dall'inizio, è stata che non c'era alcuna ragione di parlare di sviluppo regionale, ma solo comunale. Ora, l'evoluzione è stata diversa da quella prevista, e nel giro di
poco tempo dobbiamo fare in modo che sembri che la questione sia stata sulla nostra agenda da sempre. La cosa richiede un certo equilibrismo politico, per così dire.» Thomas si protese in avanti, appoggiò le mani allacciate sul tavolo, fece un cenno di ringraziamento alla segretaria che gli appoggiò davanti il caffè. «Ecco» cominciò, rendendosi conto che non avrebbe potuto berne nemmeno una goccia a causa del tremore alle mani. «Sono del tutto consapevole della delicatezza dell'incarico. Ho riflettuto parecchio su come si potrebbe aggirare il problema, e avrei una proposta.» I dirigenti lo guardarono per la prima volta da quando aveva preso posto al tavolo, il volto apertamente sorpreso. «Ora che la questione è diventata così attuale, bisogna veramente che l'Unione dei Comuni non si lasci sfuggire di mano l'iniziativa. Non si può dire che abbiamo applaudito i tentativi realizzati in Scania di un parlamento regionale e neppure la fusione con la regione di Västra Götaland, ma d'altra parte non abbiamo nemmeno preso una posizione nettamente contraria, e dunque secondo me non ci troviamo in una situazione disperata. Tuttavia, proprio per questo è assolutamente indispensabile che d'ora in poi assumiamo una posizione chiara e netta, un approccio esplicito che permei trasversalmente tutte le altre nostre attività e sia saldamente ancorata politicamente.» Il responsabile della contrattazione lo osservò, in attesa della continuazione. «E quale sarebbe il suo ragionamento?» Lo stanno chiedendo a me. L'iniziativa è nelle mie mani, e loro ascoltano, balenò nella testa di Thomas. «Credo che dobbiamo prendere sul serio quest'evoluzione.» Si riappoggiò allo schienale e lasciò cadere le mani in grembo. «Per l'Unione dei Comuni non si tratta solo di una questione estetica, d'ora in poi sarà una realtà estremamente concreta. L'influenza delle regioni aumenterà esponenzialmente, e noi dovremmo adattarci a quest'evoluzione. La mia proposta è che portiamo avanti la questione regionale insieme all'Unione dei Consigli Regionali, una vera e propria joint venture in cui lo sviluppo regionale si situa effettivamente al primo posto, naturalmente di pari passo con le prerogative comunali...» La voce s'incrinò, Thomas aveva la gola secca. Il silenzio nella sala conferenze fremeva d'elettricità. Il responsabile della contrattazione si schiarì la gola. «Sotto quale settore dovrebbe ricadere questa... joint venture, secondo lei?»
«Il settore sviluppo, naturalmente. Non ci deve essere contrapposizione tra lo sviluppo comunale e quello regionale. Da questo momento in poi si tratta di due indirizzi che, nella politica dell'Unione dei Comuni, procedono di pari passo come gemelli siamesi, interdipendenti e capaci di sostenersi a vicenda.» Diversi dirigenti di settore annuirono d'istinto. Parole sante. «Ma come si riuscirebbe a far accettare a organizzazioni e autorità la nostra nuova linea?» chiese il responsabile del settore assistenza sociale. «Non è nuova» rispose pronto Thomas. «Al contrario. L'Unione dei Comuni ha sempre mantenuto la stessa linea sulla questione regionale, ma d'ora in poi la porteremo avanti in modo molto più chiaro ed energico.» Il silenzio intorno al tavolo, carico di aspettative e di dubbi, lo fece sudare sotto le ascelle. «Pubblicazioni» riprese alzando la voce al punto da farla arrochire. «Una serie di pamphlet informativi rilegati, le risposte pronte per tutti coloro che si occupano della questione regionale: storia, ricerca, valutazione, analisi. Grandi seminari e dibattiti aperti, serie di conferenze, sostegno a modelli di sviluppo che partano dalla dimensione locale. L'Unione dei Comuni si porta in testa, stabilisce l'ordine del giorno, e tutti gli altri ci seguiranno...» «E lei sarebbe disposto ad accollarsi un incarico del genere?» chiese il responsabile della contrattazione. Thomas si schiarì silenziosamente la voce prima di rispondere. «È l'incarico più stimolante che potrei immaginare per me, in questo momento.» Il dirigente del settore sviluppo si protese in avanti, un guizzo di interesse nello sguardo. Con una impostazione come quella il suo settore poteva ottenere un significativo apporto di risorse, per non parlare dell'incremento di influenza e prestigio. «Una proposta interessante» esordì, per essere subito interrotto dal responsabile della contrattazione, che si rivolse di nuovo a Thomas. «Ha famiglia, abita qui in città?» «Una moglie» rispose pronto tentando di sorridere calmo «due figli che frequentano il nido comunale, appartamento in affitto a Kungsholmen. Il mio curriculum professionale si è svolto prevalentemente a Vaxholm, sette anni all'interno del settore comunale che ha portato avanti riorganizzazione e privatizzazioni.» Smise di parlare: non riusciva più a continuare, colto com'era stato dall'improvvisa sensazione di essere una puttana in vetrina in Thailandia. Si vantava di un appartamento che detestava, si allargava citando il nido su
cui aveva sempre nutrito dubbi, condendo il tutto con il comune che aveva lasciato e tradito. Abbassò gli occhi sul tavolo. «La sua proposta è interessante» disse il responsabile della contrattazione. «Ne discuteremo e le faremo sapere al più presto possibile, forse addirittura oggi stesso.» L'udienza nell'ufficio dirigenziale era chiusa. Si alzò, rigido, per poco la sedia dietro di lui non si ribaltò. La segretaria l'afferrò al volo, con l'altra mano prese la tazza di caffè ancora piena. Thomas si voltò, si avviò verso la porta, le ginocchia molli, una sola formula in testa. Giorno del giudizio. Gunnar fece passare la cinghia intorno alla sedia, diede uno strattone e l'agganciò in modo che restasse bloccata. Si stirò, si massaggiò la zona lombare, lasciò che lo sguardo gli desse la conferma rituale. Le casse zincate chiuse e assicurate, la pulsantiera in standby, i mobili fissati. L'ob-van numero cinque era praticamente pronto per il decollo. Doveva essere spento l'interruttore elettrico e l'espansione laterale andava richiusa idraulicamente, poi si poteva partire per la Danimarca. Si sistemò il colletto della camicia, si passò una mano sui capelli, sentendo improwisamente il cuore leggero. Fuori c'era vento, brezze vivaci che gli avrebbero fatto danzare intorno il paesaggio durante l'attraversamento della Svezia. Aria fredda, quasi come in autunno sebbene non fosse neanche arrivata l'estate, e l'autunno era la sua stagione preferita. Stava andando verso l'uscita quando sulla porta fece capolino un viso, occhi grandi e belli, istintivamente sorrise. Era quella ragazza del giornale che si era tanto interessata agli aspetti tecnici del van, Annika Bengtzon. «In partenza per il continente?» gli chiese. Gunnar si lisciò i pantaloni. «Già, finalmente si parte.» «Che bello poter sfrecciare via così, e basta» commentò lei. Lui la scrutò, la ragazza pareva infervorata e un po' ansimante. Qualcosa in lei gli tornava familiare, irradiava un che di noto che però non riusciva a precisare. «Posso esserle utile in qualche modo?» La reporter esitò, arrossendo leggermente. «In realtà è Anne che mi ha mandato qui, sta facendo il time coding e non ce la fa a venire personalmente.» «Me la saluti tanto...» disse Gunnar. «Ho qui una cassetta» riprese Annika Bengtzon fissando il proprio
sguardo in quello dell'uomo «una di quelle che vanno bene per i videoregistratori normali, contiene un sacco di sproloqui tecnici risalenti all'ultimo giorno di riprese a Yxtaholm. Lei sa di cosa si tratta?» «Entri» la invitò lui con un gesto della mano. «Sproloqui tecnici? Cosa intende dire?» Annika Bengtzon salì, si mise a frugare in una grossa borsa. Bella, sexy, seno prosperoso. Gunnar Antonsson avvertì un bruciore all'inguine. «Non saprei, esattamente» rispose lei leggermente imbarazzata. «Io non l'ho sentita, ma Anne mi ha riferito che qualcuno diceva: "Attenzione, cinque secondi, telecamera, sigla, pronti per la ripresa...".» «Le comunicazioni interne. È così che ci si parla al banco della regia. Ho già chiuso e assicurato l'attrezzatura, ma se vuole posso accendere uno dei VHS e ascoltarla.» Annika rimase dov'era, spostò il peso da un piede all'altro, esitando a consegnargli la cassetta. «Cosa vorrebbe sapere, esattamente?» chiese il responsabile operativo con delicatezza. La giornalista aveva un'aria talmente preoccupata che si sentì a disagio, colto dalla sgradevole sensazione di non aver capito qualcosa d'essenziale. «Chi ha registrato la cassetta, dove e perché.» «Capita abbastanza spesso che si realizzino delle produzioni sui diversi programmi, e per queste evenienze registriamo sempre i dialoghi della comunicazione interna» spiegò calmo. «In che senso?» «Per esempio, abbiamo messo in piedi un programma particolare sul Festival europeo della canzone, e per poter illustrare il lavoro che si svolge dietro le quinte bisognava fare ricorso al sonoro tra la sala regia e il personale nell'area di ripresa, gli ordini del direttore della fotografia ai diversi cameraman, i dialoghi al banco della regia, insomma, tutto quello che non si sente mai quando si guarda lo schermo. L'audio effettivo del programma è compreso, ma in sottofondo.» «Ed è una cosa che fate con una certa frequenza?» Gunnar si passò una mano sui capelli, più calmo, adesso. Era una giornalista, una razza di curiosi, quella, e lui ci sapeva fare. «L'abbiamo fatto con Chi vuol essere milionario, e poi in occasione di qualche gran gala, un paio di documentari...» «Michelle!» esclamò la giornalista sbarrando gli occhi. «Michelle le ha chiesto di registrare la comunicazione interna dell'ultima puntata di Estate
al castello per il proprio documentario!» Lui avvampò. «Sono partito un po' in ritardo, ma solo per colpa di un'interruzione dell'audio nella sala in cui suonavano i musicisti.» «Cosa?» «Michelle voleva avere su cassetta l'intera trasmissione, ma ho mancato la sigla d'apertura. Me n'ero dimenticato, ora che ci penso.» Gunnar si divincolò, a disagio, sentendo che la schiena gli si imperlava di sudore. «In realtà non era un servizio ordinato in maniera ufficiale, ma non avevo nemmeno intenzione di fatturarlo. Ho solo avviato la cassetta, punto e basta. Non volevo farmi pagare...» La giornalista sollevò le mani per interromperlo. «Ma certo, lo capisco benissimo. Solo che, vede, su questa cassetta è rimasta incisa una conversazione, proprio alla fine. Com'è possibile che sia finita lì?» Il responsabile operativo dell'ob-van scrutò la giovane donna, si accorse di quanto fosse concentrata. Dunque era per questo che era venuta. Il senso di disagio aumentò. «Cosa intende dire?» Arretrò di un passo, accorgendosi da solo di prendere le distanze. Annika Bengtzon lo seguì, facendo a sua volta un passo avanti. «Alla fine della cassetta ci sono delle persone che si parlano» insistette, infervorata. «Mi chiedevo se era in grado di spiegarmi com'è possibile che la conversazione sia stata registrata qui sopra.» Qualcosa, nello sguardo di lei, lo indusse ad arretrare ancora. «Non è possibile. Il set era stato completamente smantellato. Tutti i microfoni, le telecamere e gli apparecchi per la comunicazione erano stati messi via. Dev'essere qualche rimasuglio di una vecchia registrazione.» Lei lo fissò intensamente. «Quando ha avviato la cassetta?» Gunnar chiuse gli occhi per un istante, risentì nella mente il richiamo del tecnico del suono, sette minuti prima dell'inizio delle riprese: "Interruzione del collegamento con la sala musica, Gunnar, Gunnar!". Aveva mollato tutto ed era arrivato sul posto il più rapidamente possibile, insieme erano riusciti a individuare un cavo andato in corto circuito lungo il viale d'ingresso. Poi si era affrettato a tornare nel van, bagnato e di cattivo umore. «Dodici minuti dopo l'inizio delle riprese ho inserito una cassetta VHS in uno dei registratori per i log-tape, l'ho messa in lung run e l'ho fatta partire.» «Alle 19.12. E poi non l'ha più spenta?» L'uomo deglutì udibilmente, frugò nella memoria. «Evidentemente no. Si ferma automaticamente dopo otto ore.»
Annika Bengtzon calcolò rapidamente, gli occhi spalancati. «Gli ultimi minuti della cassetta risalgono dunque alle tre appena passate! Com'è possibile che quelle voci siano rimaste impresse sul nastro?» Lo stava fissando, interessata e presa dalle proprie riflessioni. Il sollievo gli tolse il peso dallo stomaco: non aveva fatto nulla di male, quella ragazza era evidentemente solo interessata alla soluzione tecnica del suo problema. Si girò, tornò verso la sala regia, la consolle con le manopole, i pulsanti, le prese, le spie, i microfoni e i monitor. Il suo sguardo spaziò sulla parete, la fronte si aggrottò, si sentiva la nuca umida di sudore. «Non è possibile. Dev'esserci un errore. Era tutto spento, avevamo messo via tutto. Non c'era niente che potesse captare un suono, da nessuna parte. L'elettricità era stata interrotta, le batterie erano tutte in carica.» «Ma la corrente, sul van, era accesa, no?» chiese Annika. «La cassetta girava.» Lui le gettò un'occhiata, non era scema, la ragazza. Si passò una mano sulla guancia e sul mento ben rasato. In quel momento il suo sguardo si fermò su una piccola spia rossa al centro della grande parete, fece un passo avanti sbattendo con la coscia contro il tavolo, allungò il dito. «La vede quella?» «Cosa?» chiese la donna. Gunnar la osservò fissare la fila di spie rosse, verdi e spente. «L'interfono è in posizione on!» Si voltò lentamente, lei era vicinissima. «Ma certo. L'interfono era sull'on e l'audio era in entrata. In effetti, succede sempre. A volte si sentono commenti davvero imbarazzanti, glielo dico io...» Annika sbatté gli occhi, confusa, si passò la lingua sulle labbra. «Vede tutti i microfoni sul banco della regia? Il personale in sala regia li usa quando deve comunicare con chi è nell'area di ripresa. Per poter parlare bisogna premere questo pulsantino...» Si chinò nuovamente in avanti e le mostrò un interruttore nero che a malapena raggiungeva il centimetro di diametro, di fianco a uno dei microfoni. «... e allora l'audio passa al comando generale, e tutti possono sentire il dialogo. Quando si smette di parlare, si lascia andare l'interruttore e il contatto s'interrompe.» Si raddrizzò, ignorando il dolore ai lombi. «Tuttavia, il microfono del direttore della fotografia è sempre acceso. Lui parla senza interruzione, e tutti devono sentire quello che dice. Dopo le riprese, in teoria bisognerebbe spegnerlo, ma lo si fa piuttosto raramente, e
vengono fuori i commenti più improbabili.» «Su che cosa?» Gunnar divaricò leggermente le gambe. «I direttori della fotografia spesso si lasciano andare di brutto, dopo le riprese, dicono la loro riguardo a ospiti cretini, cameraman imbranati, conduttori ridicoli, insomma, di tutto e di più. A volte è parecchio imbarazzante. Stefan sa essere davvero perfido. Ha detto cose terribili su tutti.» «Ma allora, per concludere, cos'è che è stato registrato su questa cassetta?» «L'unica cosa che può essere rimasta incisa sul nastro a quell'ora è la comunicazione interna dalla postazione del direttore della fotografia nella sala regia.» «Qualcosa che si è svolto qui dentro, subito dopo le tre di mattina della vigilia di mezz'estate?» Gunnar annuì, muto. «Grazie mille per il suo aiuto» disse Annika, girò sui tacchi e si affrettò a scendere dal van. L'uomo la guardò allontanarsi, ascoltando il silenzio che si era lasciata dietro, si scrutò dentro alla ricerca della sensazione che aveva suscitato in lui. Quando la individuò, avvertì un brivido lungo la spina dorsale. Quella donna gli ricordava Michelle Carlsson. La bonaccia che regnava quella mattina era inusuale. Sussurri più intensi del solito, le teste vicine, gli occhi sbarrati. Tutti sapevano che stava per accadere qualcosa, ma non cosa. Tutti avevano ben chiaro il fatto che Torstensson era stato intervistato quella mattina presto, ma nessuno aveva idea del perché. Ogni dipendente della "Stampa della Sera", dal primo all'ultimo, era stato informato con un sussurro del fatto che il direttore responsabile era chiuso a chiave nel suo ufficio e rifiutava di prendere le telefonate, mentre vedevano tutti che il condirettore era seduto a leggere i giornali nel suo gabbiotto di vetro, apparentemente tranquillissimo, e avevano tutti sentito dire che il presidente del consiglio d'amministrazione, Herman Wennergren, era in arrivo. Anders Schyman era seduto, immobile e senza forze, sulla sua poltroncina. Stava pesantemente appoggiato allo schienale, un giornale davanti in modo da apparire intento a leggere. Aveva l'intestino in subbuglio, era già andato in bagno dieci volte da quando era arrivato.
Diede la quinta occhiata all'orologio in un quarto d'ora. Ormai non c'era più niente da fare. Qualche effetto, il suo antrace, doveva pur averlo, a lui non restava che pregare e sperare che fosse quello giusto. D'un tratto il telefono squillò, un segnale interno insistente e fastidioso che quasi lo fece sobbalzare sulla sedia. «È qui» lo informò il portiere, riattaccando senza attendere la risposta. Il condirettore abbassò lentamente il ricevitore, spaziò con lo sguardo sulla redazione, aspettando di scorgere il presidente del consiglio d'amministrazione. Vide invece arrivare Carl Wennergren, il figlio, più agile e veloce del padre. Puntava dritto nella sua direzione. Schyman chinò il capo sul giornale, si mise a respirare a bocca semiaperta. I colpi alla porta furono rapidi e duri. Invitò il reporter a entrare con un gesto distratto. «Cos'hai fatto a Torstensson?» chiese il giovane, gli occhi ridotti a due fessure di gelo azzurro. «Chiedimi invece cos'ha fatto Torstensson» rispose calmo il condirettore voltando pagina. «Cosa vuoi?» «Esattamente quello che hai sempre sognato» rispose Carl Wennergren estraendo una busta dalla tasca interna della giacca. «Mi licenzio, con effetto immediato.» Schyman sentì il battito cardiaco aumentare, pregò in silenzio che la voce non lo tradisse. Lasciò la busta sulla scrivania, non la guardò, non accennò a prenderla in mano. «Perché?» chiese, la voce calma e controllata. L'altro non fu altrettanto abile nel mantenere la maschera: aveva la fronte sudata, la mano che aveva gettato la busta tremava leggermente. «Lo sai benissimo» replicò, in tono aggressivo e insieme trattenuto. «No, dimmelo tu.» Alzò gli occhi sul reporter biondo, alto e con le spalle larghe. Se mi salta addosso, non ho speranze, pensò improvvisamente. «Tu non hai alcun rispetto di me come reporter. Ti tieni stretti i tuoi cocchi, come la Bengtzon, per esempio. Sei un codardo nelle valutazioni morali che dai. Manchi completamente di competenza in materia di carta stampata. Vuoi che continui? Semplicemente, non ho più voglia di starmene qui a farmi umiliare da te.» Quando smise di parlare, il mento gli tremava. Il significato nascosto dietro le parole del giornalista causò un formicolio alle mani e ai piedi di Anders Schyman. Si licenzia perché sarò nominato io, pensò. Dio santo, non vuole restare perché io diventerò il direttore
responsabile del giornale. Ho vinto, perdio, è finita! Boccheggiò, si portò per un breve istante le mani al viso, si ricompose. Puoi sbagliarti, si disse. Può significare qualsiasi cosa. «Carl, tu sei un reporter coraggioso e intraprendente. A volte agisci con troppa fretta, la tua capacità di giudizio non sempre è delle migliori, ma se sei disposto a...» «No! Non ho più nessuna voglia di stare alle tue dipendenze. Oggi pomeriggio stesso libererò la mia scrivania.» Gli voltò dimostrativamente le spalle. «Un momento» disse Schyman, la voce quasi strascicata. «Secondo il contratto, devi dare un preavviso di almeno due mesi, forse tre. Prima di lasciarti andare voglio rivedere il tuo contratto d'assunzione.» Il giovane reporter si voltò di nuovo, un sorriso di trionfo sulle labbra. «Passo alla concorrenza. Non puoi costringermi a lavorare adesso che ho già firmato il contratto con un'altra azienda.» «Dipende da che azienda è...» Il direttore si appoggiò allo schienale, che scricchiolò. Carl sollevò il mento e lo fissò alzando le sopracciglia. «Sarò il nuovo amministratore delegato di Global Future.» Schyman proruppe in una risata fragorosa, talmente convulsa che dovette reggersi alla sedia per non cadere. Dio santo, che assurda ironia della sorte, non poteva essere vero! L'altro perse tutta la sua baldanza, sbatté gli occhi più volte e si passò la lingua sulle labbra. «Cosa c'è di tanto divertente?» «Credevo che Global Future fosse stata smantellata» spiegò il direttore alzandosi. «Nient'affatto. L'azienda verrà ristrutturata, la rileverò io stesso dalla famiglia proprietaria. Ho un ottimo piano per rimetterla in sesto.» «Bene. Allora potrai continuare a lavorare qui finché lo prevede il contratto. Global Future non svolge attività in concorrenza con "La Stampa della Sera".» «Vuoi solo mettermi i bastoni tra le ruote!» esclamò il reporter, lo sguardo spiritato. «Lo fai solo per tenermi qui!» Si voltò per uscire di corsa dal gabbiotto di vetro, ritrovandosi davanti suo padre, sulla porta. «Schyman non vuole lasciarmi andare» sbottò con un indice accusatore puntato sul condirettore. «È sempre spiacevole quando delle persone dotate come te decidono di dare le dimissioni» replicò questi, forzando la voce al massimo. «Ma se
non riusciremo a trovare un accordo per farti rimanere, naturalmente rispettiamo la tua decisione di dedicarti alla tua azienda.» Il reporter espirò con forza, esprimendo disprezzo e incredulità. «Che leccaculo di merda che sei.» Poi girò intorno a suo padre e attraversò la redazione. Herman Wennergren chiuse goffamente la porta a vetri scorrevole, curvo e grave. Anders Schyman fu costretto a sedersi, le gambe non lo reggevano più. «Il direttore Torstensson ha chiesto di parlarmi» disse il presidente del consiglio d'amministrazione, la testa bassa, il volto rosso e cascante. «È molto preoccupato per alcune informazioni giunte all'orecchio della televisione.» Il direttore annuì debolmente. «C'ero anch'io, stamattina. È stato decisamente imbarazzante.» L'altro si piazzò davanti al condirettore e abbassò su di lui uno sguardo da aquila. «Non verrò mai a sapere come lei sia riuscito a organizzare tutto questo, ma voglio che sappia una cosa: io so che dietro c'è lei.» Schyman sostenne lo sguardo, un'espressione muta e neutra sul viso, il cervello paralizzato. Devo fare qualcosa. Devo dire qualcosa. Devo reagire. Adesso. Chiamò a raccolta tutte le energie, si alzò con un agile scatto, spalancando contemporaneamente le braccia. «Naturalmente, non so di cosa stia parlando.» Il presidente del consiglio d'amministrazione fece un passo avanti, socchiuse gli occhi e sibilò: «Lei è uno stronzo, perfido e malevolo». «Io sono esattamente quel che ci vuole per questo giornale» rispose Schyman. Quando raggiunse lo stanzino polveroso di Anne, Annika aveva il fiatone. «Cos'ha detto Gunnar?» «Il microfono del direttore della fotografia era acceso» ansimò. «Un logtape ha registrato la comunicazione interna per il documentario di Michelle su se stessa fino alle 3.12 del mattino.» Tirò fuori la cassetta, il corpo ridotto a gelatina. Anne alzò gli occhi dal proprio monitor. «Il microfono del direttore della fotografia, sulla consolle della regia? Ma... è proprio di fianco a...» Annika annuì, improvvisamente sull'orlo delle lacrime. «Cazzo.» Incrociò lo sguardo dell'amica, rendendosi conto che pensavano la stessa
cosa. Le passò la cassetta, la vide inserire e riavvolgere per qualche secondo il nastro. L'audio tornò esattamente nel momento della corrente d'aria. "Did someone come?" Era la voce maschile, un sussurro. "No, noone, come on..." Poi di nuovo i bisbigli, le risatine, i gemiti, i sospiri. Anne abbassò il volume al minimo. Annika si sentì avvampare le guance, un pulsare imbarazzante all'altezza del grembo. «Non dovremmo ascoltare questa roba. Dovremmo telefonare alla polizia.» Anne annuì. Ascoltarono ancora un istante, indecise sul da farsi. Poi si udì improvvisamente la voce maschile sussurrare di nuovo, qualcosa come "... someone is in the bus..." Silenzio, scariche, fruscii, Anne e Annika si guardarono con la bocca aperta, gli occhi lucidi. Poi una voce femminile, a una certa distanza. "Your manager is here." «C'è qualcun altro sul van con Michelle» sussurrò Anne, gli occhi sbarrati. "What?" Rumori sul pavimento, mormorii e risatine. "John, they're here to pick you up, your manager and the driver." "Tell them I'm busy." Risatina, qualcuno che beveva, un rutto. "It's very late. I really think you should go now." Risatina isterica, borbottio maschile. "How long has she been here?" Poi di nuovo la voce femminile, adesso in falsetto. "You know, I must ask you to leave now!" La voce maschile, impastata dall'alcol. "What's the matter with this bitch?" Risata stridula e acuta, la voce femminile si fece più alta e più chiara, avvicinandosi al microfono. "What did you call me?" Un'altra voce femminile. "Don't bother, let her watch if she wants..." "What's her problem?" Qualcosa produsse un tintinnio, un mormorio salì e diminuì di volume, altri rumori. "This is a production area, not a bedroom. It's in the middle of the night and I want both of you out of here. Now!"
Annika si sentì sconvolgere lo stomaco dall'improvvisa intuizione. Aveva riconosciuto di chi era la voce. «Karin» disse. «È Karin Bellhorn.» "What's wrong with you?" "This is outrageous! I'm here to let you know that your car is here, and you insult me! Do I have to call security to get you out? " "Ma che security, qui non c'è nessuna security!" «È la voce di Michelle» mormorò Annika. Il nastro continuò a svolgersi. Uno schianto, qualcosa che cadeva a terra, di nuovo la voce maschile. "Is she always like this?" "Well yeah, now you know what I mean?" Risatine di nuovo, l'uomo disse qualcosa di incomprensibile. La donna che doveva essere Karin Bellhorn cominciò a gridare. "Get out! Get out!" Anne Sapphane annuì, il viso pallidissimo. «Telefona a Q.» Un altro schianto, un grido, sbattere di oggetti e vento. "John! Wait!" "Cosa fai, gli corri dietro? Datti una regolata. La smetti o no di umiliarti?" In sottofondo, la voce maschile in allontanamento, sul punto di spegnersi. "... fucking crazy bitches..." "Stronza! Perché l'hai mandato via?" "Ricomponiti..." "... e che cosa ci fai qui, perché sei venuta?" «È lei» riconobbe Anne a voce bassa. «Vai a telefonare. Adesso.» Si guardarono, osservando il proprio terrore riflesso l'una nel viso dell'altra. La giornalista si alzò, stranamente priva di peso, scivolò in corridoio senza sfiorare il pavimento. I tecnici stavano preparando per la trasmissione in sala conferenze, erano arrivati alcuni giornalisti che si stavano sfilando la giacca. Annika si bloccò, indietreggiò e aprì un'uscita di emergenza. Si ritrovò su una scala a chiocciola, il vento fischiava a folate, sussurrando melodie nei fori e nelle fessure del metallo. «Non ho tempo» esordì Q quando finalmente rispose. «È stata Karin Bellhorn» esclamò Annika. «Anne Sapphane ha trovato una cassetta che lo dimostra.» Per qualche secondo scese il silenzio.
«Ne è sicura?» «Non l'ho sentita fino in fondo, ma Karin era sul van.» «Che cassetta è?» «La comunicazione interna sul van è rimasta accesa tutta la sera, il microfono del direttore della fotografia non era stato spento.» «Cosa vi fa credere che sia stata Karin Bellhorn?» «Ha fatto una litigata paurosa con Michelle subito prima delle tre di notte.» «Dev'essere stato subito prima dell'omicidio. Si sente un colpo di pistola?» La reporter tacque, confusa e imbarazzata. «Non lo so, non l'ho sentita fino in fondo. A voi Karin cos'ha detto?» «L'abbiamo interrogata, dato che John ci ha riferito che era salita sul van. Lei ammette di esserci andata, ma sostiene di esserne uscita ben prima delle tre, e di avere però visto Anne Sapphane lì fuori mentre tornava verso la sua stanza.» Annika trattenne il fiato. «Non è vero. Non... non può essere stata Anne.» La voce di Q era decisamente asciutta. «Abbiamo circoscritto i sospetti a tre persone: Karin, Anne, John. Tra loro, Anne è stata la più difficoltosa da gestire durante gli interrogatori, quella che ha eluso le domande e ha mentito di più. Inoltre ha mostrato una serie di sintomi fisici piuttosto pesanti, sudava e sveniva, insomma, ha fatto un sacco di scene.» «Ma lei è ipocondriaca, pensa sempre di essere in punto di morte» ribatté Annika, tremante e con la voce strozzata. «Lei crede che io proteggerei un'assassina?» Il poliziotto non rispose, lasciò sospeso nell'aria il proprio scetticismo. «Cosa dice Karin?» domandò la giornalista. «Che è venuta a chiamare Essex e che sono usciti dal van insieme.» «E lui?» «Non ricorda bene. In generale, è stato di un'arroganza insopportabile. Lei intende dire che Karin Bellhorn è ancora sul van con Michelle dopo che Essex se n'è andato?» «Questo è chiarissimo.» Q rimase in silenzio per qualche istante. «Dove la trovo, la cassetta?» «Zero Television. Ci sono anch'io in questo momento. Stanno per partire con una specie di commemorazione abbinata a una conferenza stampa su Michelle Carlsson. Cominciano tra pochi minuti.»
«Karin è lì?» «L'ho vista mezz'ora fa.» Q riattaccò. Annika rimase dov'era per qualche minuto, lasciò che il vento le soffiasse tra i capelli, sentì la tensione pulsare alla bocca dello stomaco, dura come il ferro. Il cimitero era inondato dal sole privo di calore. I rami degli alberi si piegavano nella tempesta di vento, le foglie ondeggiavano e danzavano. Thomas era in piedi alla finestra, paralizzato dopo la riunione della mattina. Aveva saltato il pranzo, bevuto tre lattine di Coca-Cola e una bottiglietta d'acqua minerale, i visceri annodati dalle speranze e dai dubbi. Come aveva fatto a diventare così incapace di vivere? Perché non riusciva ad attribuire a ciò che era unico e totalizzante il valore che meritava? Cosa l'aveva reso così cieco da impedirgli di vedere Annika e i bambini per quello che erano? E come mai improvvisamente Eleonor era diventata l'incarnazione della sua donna ideale? Chiuse gli occhi, si massaggiò la radice del naso, si costrinse a ricordare. La sua voce impotente ("Thomas, non so come si fa a registrare con il video, mi aiuti? Che tasto devo premere?"), la sua riluttanza ad andare in barca ("mi viene il mal di mare"), e viaggiare all'estero ("da casa nostra ci godiamo il panorama più bello che ci sia"), e far figli ("con tutti i nostri impegni nella vita di società? Ma per favore, Thomas!"). «Possiamo entrare?» Thomas si girò di scatto, colto con i pensieri persi in sogni a occhi aperti. «Ho anch'io la stessa vista» disse il responsabile della contrattazione accennando con il capo alla finestra. «Anche se io sto un po' più in alto. Bella, vero? E un po' malinconica.» Thomas si scostò i capelli portandoli all'indietro, indicò le due poltroncine per i visitatori. Si sedettero tutti e tre, il responsabile della contrattazione e il dirigente del settore sviluppo dalla parte opposta della scrivania. «Il suo ragionamento di stamattina è stato molto interessante» esordì il primo. «Ne abbiamo discusso brevemente tra di noi, e abbiamo concordato di portarlo all'attenzione del consiglio d'amministrazione.» «Mi sono messo in contatto, privatamente, con l'Unione dei Consigli Regionali» aggiunse il dirigente del settore sviluppo «e di primo acchito sembrano decisamente interessati. Pare che la sua proposta possa filare li-
scia come l'olio.» Thomas mise le mani tremanti sotto la scrivania. «Non possiamo ancora ufficializzare la cosa» spiegò il responsabile della contrattazione «ma per come la vediamo noi, il suo coinvolgimento potrebbe comportare un incarico della durata di quattro anni. Il suo ufficio si troverebbe due piani più sotto, nel settore sviluppo, ma naturalmente dovrà trascorrere parecchio tempo anche all'Unione dei Consigli Regionali. La nostra proposta sarebbe un'assunzione a tempo indeterminato presso l'Unione dei Comuni, e il giorno in cui lo studio sulla questione regionale sarà completo, passerà a un altro incarico. Le interesserebbe un accordo di questo genere?» Aprì la bocca in un sorriso. Thomas si leccò rapidamente le labbra, schiarendosi la voce. «Io... vorrei dire soltanto... Ma certo. Naturalmente. Fantastico.» Scoppiò in una breve risata fragorosa, interrompendosi subito e i due uomini al lato opposto della scrivania sorrisero. «Sono davvero lieto» si congratulò il responsabile della contrattazione «di avere a bordo un uomo come lei. Lei è ben ancorato nella realtà, è scrupoloso e impegnato, vive la stessa vita delle persone di cui deve occuparsi. Personalmente, credo che sia uno dei presupposti per avere successo in questo settore. Inoltre abbiamo intuito che il suo lavoro ha riscosso interesse a livello internazionale. A essere sinceri, non avevamo una soluzione pronta per tenerla con noi, e se avessimo dovuto lasciarla andare l'avremmo fatto con rammarico. Questo accordo pare a tutti noi il più opportuno.» «Quando si partirà?» chiese Thomas. «Dopo l'estate. Dobbiamo far passare la cosa attraverso i politici, ma intanto lei potrà cominciare piantando i paletti delle linee direttive della nostra strategia. Quando l'impianto sarà strutturato, organizzeremo una conferenza stampa coi fiocchi. In questo modo, chiunque sia mai stato sfiorato dalla faccenda in tutta la Svezia saprà chi porterà avanti la questione d'ora in poi.» Il responsabile della contrattazione gli porse la mano, Thomas si asciugò rapidamente la propria sui pantaloni e la prese. Dopo la stretta con i due dirigenti, era cosa fatta. «E così andrà in Corea» disse il dirigente di settore, impressionato. «Dal 2 al 12 settembre» rispose lui, appoggiandosi allo schienale soddisfatto. Annika entrò nella sala conferenze dal retro, trovandosi davanti un muro compatto di giacche nere. Alle sue spalle la porta si richiuse ermeticamen-
te, uno degli uomini davanti fece un passo indietro pestandole il piede, senza quasi notare le sue tremolanti proteste. Dandosi la spinta, si mise a saltellare per vedere qualcosa, ma invano, gli uomini fecero all'unisono un altro passo indietro. Il panico crebbe insieme alla sensazione di non riuscire a respirare. Doveva uscire, prendere aria. Si spostò lungo la parete, finché non raggiunse una finestra non apribile. Appoggiandosi contro un termosifone, si issò sul davanzale e ci si sistemò sopra. Non sarebbe stata una posizione comoda. Si girò, appoggiò il sedere al vetro, tenendosi contro il telaio. La sala conferenze brulicava di gente. Faceva già un gran caldo, l'aria era pesante per la carenza di ossigeno. Una certa quantità di fiori bianchi aveva creato nella stanza una sorta di coperchio profumato che avvolgeva i presenti rendendoli ebbri. Dalla sua nicchia, Annika ondeggiò cercando di farsi un'idea della situazione. Tre telecamere: una accanto al palco, una di fianco all'entrata sul lato opposto della sala, e una sotto il soffitto, in fondo. I cavi s'insinuavano come serpenti lungo le pareti e sotto le suole delle scarpe, i microfoni spuntavano come periscopi al di sopra della marea umana. Sul palco, un leggio, altri fiori, appeso al soffitto un grande monitor. Tecnici, cameraman, addetti al suono e alle luci si facevano strada sgomitando in mezzo alla ressa, parlavano attraverso microfoni invisibili e ascoltavano auricolari. Sul palco anche quattro sedie, gli unici posti a sedere in tutta la sala. Annika aveva il sole in un occhio. Lo socchiuse, cercando di distinguere i tratti dei visi tra i presenti. Le erano quasi tutti familiari. Quelli che non conosceva personalmente si ritrovavano sulle pagine gossip delle riviste scandalistiche: VIP della TV e giornalisti, attori e musicisti, attirati in quel luogo dal lavoro, dalla curiosità o da un sincero dolore. L'atmosfera era elettrica e densa, il mormorio della folla sordo e compatto. Era stato distribuito del materiale. Annika scrutò dall'alto i fogli tra le mani di alcuni uomini sotto di lei, pareva che ci fossero dei comunicati stampa e un programma. Alcuni usavano la cartellina come ventaglio. Annika si guardò intorno, tenendosi così forte da farsi imbiancare le nocche. Constatò che Anne Sapphane non c'era. Sul palco, a un'estremità della sala, vide Highlander. Si sforzava di apparire composto e serio, vestito in abito nero e cravatta argentata, pareva che gli avessero messo del fondotinta scuro sul viso. Di fianco a lui c'era Karin
Bellhorn, le teste vicinissime, stavano sussurrando. L'insistenza dei gesti della direttrice di produzione lasciava intendere che il direttore del canale televisivo non capiva, aveva bisogno di ricevere istruzioni e di essere guidato. Il vestitone nero a tenda le ondeggiava intorno, i fili d'oro intessuti che brillavano. Annika vide che era molto truccata, e che aveva i capelli raccolti. «Un minuto!» gridò l'assistente di studio. Highlander alzò una mano come per protestare, congedando la direttrice di produzione con un gesto. Frugò nervosamente tra alcune carte, si avvicinò al microfono, contò fino a tre, ricevette il pollice alzato da un tecnico del suono che guardava dall'altra parte, verso la sala regia. Le telecamere si misero a ronzare piano, diffondendo un inquinamento elettronico che faceva pizzicare la pelle. Il calore aumentava implacabile, Annika si passò la manica sulla fronte. Poi udì la voce di Barbara Hanson, stridula e con una sfumatura di ubriachezza: «Dio che caldo, possibile che si debba per forza stare in piedi tutto il tempo, si può sapere che razza di evento è questo?». Al lato opposto della sala scorse per un attimo Carl Wennergren, grave e rosso in viso, che conduceva deciso Mariana von Berlitz per il gomito. In fondo vide Stefan Axelsson, le braccia conserte, bianco in volto. Naturalmente c'era anche Follin, che aveva un'incombenza da sbrigare sotto il palco, stava sussurrando qualche parola a Highlander. «Trenta secondi.» Karin Bellhorn si ritirò, posizionandosi a destra del palco. Bambi Rosenberg si era piazzata appena sotto Highlander, e piangeva già al punto che le si vedevano sussultare le spalle. Gunnar Antonsson aveva preso posto accanto alla porta, un'espressione vagamente confusa sul viso, pronto alla fuga. C'erano tutti, tranne John Essex, la neonazista e Anne. I giornalisti dei quotidiani si accalcavano appena sotto il palco: Bertil Strand, Sjölander. Quando vide il fotografo del "Concorrente", Annika aguzzò la vista, Bosse non c'era. Mandò giù la delusione. «Quindici.» La gamba sinistra di Annika cominciò a tremare, la nicchia della finestra era troppo piccola. Si guardò intorno in cerca di un altro posto, non ne trovò, si appoggiò contro il termosifone. Alzò gli occhi sul grande schermo a sinistra di Highlander, cercò di spostare il peso sull'altro piede. «Sette, sei, cinque, quattro...»
Gli ultimi tre secondi prima della messa in onda furono segnalati dall'assistente di studio con le dita. Partì una sigla, dagli altoparlanti appena sotto il soffitto cominciò a diffondersi sui presenti una musica enfatica, le pareti e i vetri delle finestre si misero a vibrare. Annika rimase immediatamente e violentemente turbata, avvertendo un senso di oppressione al petto che la costrinse a respirare in modo superficiale e veloce a bocca aperta per reprimere il pianto. I singhiozzi di Bambi Rosenberg sotto il palco sì fecero ancora più udibili, stridendo terribilmente con il languore della musica. Quando venne lentamente sfumata, Highlander entrò nel cerchio luminoso dei riflettori puntati sul leggio. «Cari amici» esordì in tono serio «colleghi, collaboratori e... be', amici. A nome di TV Plus desidero darvi il benvenuto a questa commemorazione, che intendiamo dedicare alla nostra cara amica e preziosa collaboratrice Michelle Carlsson, cogliendo contemporaneamente l'occasione per informarvi sulle modalità con cui TV Plus intende rendere indelebile il suo ricordo.» Annika deglutì, l'atmosfera sentimentale creata dalla musica era già stata spazzata via, sostituita dall'irritazione. «Continueremo a lavorare nello spirito di Michelle, così come sappiamo che avrebbe apprezzato. Siamo anche molto orgogliosi di presentare la nostra nuova e più stretta collaborazione con Sebastian Follin, il miglior amico e collega di Michelle Carlsson, che passerà alla nostra emittente a tempo pieno per occuparsi unicamente della sua memoria.» Il manager avanzò sul palco, illuminato da una luce interiore, e spalancò le braccia per accogliere l'acclamazione del pubblico. Gli applausi sparsi lo fecero arrossire. «Per questo oggi abbiamo deciso di mandare in onda integralmente l'ultima serie di trasmissioni condotte dalla nostra Michelle» continuò Highlander. «La prima puntata di Estate al castello verrà trasmessa sabato, esattamente com'era previsto fin dall'inizio.» Annika spaziò con lo sguardo sul pubblico, cercando di interpretarne le reazioni. Neutro. Sulle sue. Leggermente turbato. Follin rimase sul bordo del palco accanto a Highlander, con i punti luminosi dei riflettori che gli si riverberavano sulle lenti degli occhiali. Ha vinto, pensò Annika. Ne sta uscendo vittorioso. «Le puntate verranno mandate in onda nell'ordine in cui sono state registrate, con le modalità previste in origine. Ci ritroveremo davanti Michelle
Carlsson come avrebbe voluto lei, nel suo ruolo professionale, in una produzione in cui lei stessa si era impegnata a fondo.» Il silenzio si fece più compatto. Il pubblico aspettava, le telecamere ronzavano. Highlander si schiarì la voce. «Voglio sottolineare che si tratta di una decisione estremamente ponderata. La direzione dell'emittente ha discusso della cosa in modo molto approfondito con il personale della produzione e, soprattutto, con il qui presente Sebastian Follin. La decisione è stata unanime e senza alcuna riserva. Michelle stessa aveva lanciato l'iniziativa del programma, avendo fatto presente il desiderio di ampliare il proprio repertorio qui presso TV Plus, e naturalmente noi avevamo accolto la sua proposta a braccia aperte.» Un giornalista vicino alla porta lasciò il locale, Highlander se ne accorse e perse per un attimo il filo. «Siamo molto orgogliosi della trasmissione» riprese a voce più alta di prima. Voleva arrivare in fondo alla sala, raggiungere anche quelli che non intendevano ascoltare. «Siamo fermamente convinti che questo è ciò che Michelle avrebbe desiderato. Non avrebbe voluto veder finire nel cestino la sua ultima produzione, rendere vano il suo ultimo lavoro. È per lei che abbiamo preso questa decisione.» «E io sono il re di Danimarca» sussurrò ai suoi colleghi uno degli uomini in piedi sotto Annika. «Be', in parte ha ragione» disse un altro. «Credo che Michelle avrebbe voluto che il programma venisse mandato in onda.» «Va be'» ammise il primo «ma non due settimane prima del funerale. Un minimo di decenza si può esigere anche da un'emittente televisiva.» «Fin da ora» continuò Highlander dal palco «cominceranno le ricerche per individuare chi potrà succedere degnamente a Michelle Carlsson, una conduttrice in grado di portare avanti il suo talk show tutto al femminile nel suo stesso spirito. È un compito arduo per tutti noi, ma sappiamo che Michelle non avrebbe voluto veder colare a picco la sua creazione, il programma che lei aveva reso uno dei più seguiti dell'universo satellitare.» «Ma che la smettano, adesso» sbottò il terzo uomo ai piedi di Annika. Un attimo dopo lei scorse Q accanto alla porta. Il respiro le si bloccò, voleva chiamarlo, stava per cadere. Il commissario si fece strada fino al palco, mormorando qualche parola di scusa man mano che la gente si spostava sorpresa. Lo seguivano tre poliziotti in uniforme, silenziosi e rigidi. L'atmosfera nella sala mutò, si fece
irrequieta, mormorii e fruscii di scarpe. «E adesso» continuò Highlander, che non si era reso conto della turbolenza nella sala «voglio cedere la parola all'amico e collaboratore più intimo di Michelle, Sebastian Follin...» Anne fissò il monitor con le immagini in uscita, vide Sebastian avanzare sul palco, la fronte lucida per il riverbero dei riflettori. La telecamera zumò sul suo viso, piccoli fremiti intorno alla bocca, febbre da palcoscenico e aspettative. I movimenti della testa erano determinati dalla gravità del momento, ma gli occhi vivevano dell'ardore scatenato solo dal coinvolgimento più totale. L'uomo si schiarì la gola, aprì un foglio, si sistemò meglio gli occhiali sul naso, si sporse verso il microfono, e in quel momento l'immagine alla televisione si mise a sfarfallare. Follin alzò gli occhi sul pubblico, lo sguardo sfuggente. "Cari amici..." cominciò, ma la telecamera aveva già lasciato il suo viso per puntare sulla sala. La diretta era gestita dalla sala regia di fianco alla stanza di postproduzione di Anne. Il direttore della fotografia, un free lance, cambiò telecamera e la prospettiva mutò. Anne vide improvvisamente Annika, accoccolata nella nicchia di una finestra, spasmodicamente aggrappata al telaio. Sembrava che il volume delle voci fosse aumentato là dentro: turbamento, scompiglio, cosa stava succedendo? Ai piedi di Anne una cassetta si fermò, lei sentì lo scatto ma decise di ignorarla. Subentrò la telecamera numero tre, una panoramica dell'intera sala conferenze sullo schermo. Le persone, una massa scura con qualche testa che emergeva qui e là, qualcuno che fendeva la ressa. Era Q. Cazzo, era arrivato. Anne si sporse verso il monitor, il calore dallo stomaco le diffuse un senso di sollievo nel corpo. Era arrivato Q, presto tutto sarebbe finito. Fissò lo sguardo sullo schermo. Stefan in fondo, Mariana e Carl Wennergren erano lì, e poi Karin Bellhorn sul lato destro del palco. Il direttore della fotografia ripassò alla uno che riprendeva il palco e il leggio, nello stesso istante Follin scomparve dallo schermo. Anne serrò le mascelle, vergognandosi pur non avendone motivo. Che trasmissione assurdamente incasinata, davvero pessima. "Allora..." disse qualcuno che aveva il microfono collegato all'audio in uscita, probabilmente Highlander. "E adesso che facciamo?"
Di nuovo subentrò la telecamera tre, con la panoramica. Q si stava dirigendo verso Karin Bellhorn, tre poliziotti dietro di lei. Lui le disse qualcosa, la reazione della direttrice di produzione fu immediata e aggressiva. Sollevò entrambe le mani, Anne carpì la sua voce al di sopra dei fruscii e dei rumori di sottofondo. "Perché? Con quale motivazione?" Il commissario diede una risposta che non si sentì, Karin Bellhorn indietreggiò di un passo. "Mai e poi mai!" gridò. "Non ci penso proprio!" Si voltò dalla parte opposta della polizia, in fuga. Anne Sapphane fissò lo schermo con le guance in fiamme. La due zumò la nuca di Karin Bellhorn, il pettine di plastica che teneva raccolti i capelli ondeggiò in direzione dell'uscita. I presenti, gli occhi spalancati, le fecero spazio, sbattendo confusi le palpebre al suo passaggio, fissando i poliziotti e poi la telecamera. Uno degli agenti raggiunse la direttrice di produzione, le afferrò l'avambraccio, borbottò qualcosa. La donna girò su se stessa, colpì il poliziotto che venne proiettato verso la telecamera, la massa di persone si tirò indietro. "Si calmi!" risuonò la voce di Q da qualche parte dietro la due, dura e controllata. "Calmarmi?" urlò Karin Bellhorn rivolta allo schermo, con il microfono della telecamera che assorbiva ogni respiro. "Mi incriminate per omicidio e io dovrei calmarmi?" Anne percepì il brusio che attraversò la folla. Intorno alla direttrice di produzione lo spazio libero si allargò, la gente si ritrasse ancora di più. "Non sono stata io!" gridò, lo sguardo rivolto al pubblico, adesso. "Non c'entro niente, lo giuro. È stata Anne Sapphane, la nostra addetta al casting, l'ho vista io! L'ho vista andare verso il van, e poi ho sentito lo sparo!" Anne si sentì mancare il pavimento sotto i piedi, si rese conto che stava cadendo senza poterlo impedire. Le mancava l'ossigeno, non riusciva a respirare. Gli occhi impauriti di Karin Bellhorn si spostarono da un punto all'altro. Si passò la lingua sulle labbra e una mano nei capelli. Non è vero, sentì riecheggiare nella propria testa Anne. Stai mentendo, non sono stata io. "È stata lei!" urlò ancora la direttrice di produzione, la voce fece stridere il microfono. Nella sala regnava il silenzio più assoluto, sia lo schermo che l'edificio trattenevano il respiro.
"Odiava Michelle perché aveva avuto il posto di conduttrice, mentre lei non ci era riuscita. Era... era così. Non... non la poteva soffrire!" Anne lottò per respirare e rimettersi dritta, le parole le riecheggiavano dai piedi al ventre, al cervello. "Infatti lei... lei non è qui! Ecco, vedete?" Sulle labbra secche della direttrice di produzione prese forma un sorriso trionfante e tremulo. "Anne odiava Michelle al punto da non intervenire neanche alla sua commemorazione!" La furia improvvisa, simile a un lampo bianco e accecante, illuminò la stretta saletta di postproduzione lacerando la paralisi e ogni remora. Arme si alzò, tremante in tutto il corpo, la bocca arida. Con uno sforzo controllò il respiro che minacciava di andare in iperventilazione, si concentrò sullo schema dei collegamenti e i cavi della consolle audio. Aveva partecipato all'installazione delle attrezzature tecniche della Zero Television, e a grandi linee ne conosceva lo schema. Chiuse gli occhi, rifletté alla velocità del lampo. Poteva funzionare. Si gettò sul pavimento, argento vivo nei movimenti, s'infilò dietro la consolle della regia, spostò due fili dal mixer video al cavetto a quattro. Poi tornò strisciando al suo posto, rapida e senza fiato, prese il log-tape senza etichetta e caricò il VHS. Premette PLAY, si alzò e mise al massimo la manopola del sistema interno di altoparlanti della Zero Television. Il silènzio seguito alle parole della direttrice di produzione era assordante, nessuno respirava, il cuore di Annika si era fermato. Barcollò sul suo davanzale, il sudore alle mani le rendeva difficile tenersi su. Buon Dio, pensò, non posso lasciare che nessuno ribatta a quest'affermazione. Cosa devo fare? Cosa devo dire? «Dunque» disse Highlander avviandosi verso il leggio al margine del palco. «Si è trattato di un fuori programma, inaspettato e spontaneo, all'interno della nostra commemorazione. Se adesso volessimo cercare di ricomporci un pochino...» L'immagine sul monitor sfarfallò e fu sostituita da uno schermo grigio. La sala fu percorsa da un brusio eccitato, dal sistema di altoparlanti si riversarono fruscii e rumori. Poi una voce, nitida e familiare al punto da risultare spettrale, simile a uno spirito che aleggiasse nella sala. "Ma che security, qui non c'è nessuna security!"
"Is she always like this?" "Well yeah, now you know what I mean?" I presenti in sala s'irrigidirono, bloccati nei movimenti nell'istante in cui Michelle aveva cominciato a parlare. Annika, pur non capendo come potesse essere accaduto, afferrò al volo. Si guardò intorno per cogliere le diverse reazioni: Stefan pallido come un cadavere, apparentemente sul punto di svenire, Mariana e Carl Wennergren con gli occhi sbarrati e la bocca aperta, Gunnar Antonsson sulle sue, Karin Bellhorn paonazza per il panico. "Get out! Get out!" stava gridando dagli altoparlanti. Q si guardò intorno, senza capire da dove provenissero le voci. Il poliziotto accanto a lui lasciò andare Karin Bellhorn. Schianti. Grida. Rumori. "John! Wait!" "Cosa fai, gli corri dietro? Datti una regolata. La smetti o no di umiliarti?" La paralisi cessò, i presenti si fissarono senza capire, cercando una risposta negli occhi di chi stava loro intorno, invano. "... fucking crazy bitches..." "Stronza! Perché l'hai mandato via?" "Ricomponiti..." "... e che cosa ci fai qui, perché sei venuta?" Nella sala si scatenò un mormorio, che si mescolò ad alcune parole incomprensibili del nastro. "Michelle, ti comporti come una sgualdrina. Devi pensare alla tua reputazione. Quando si è famosi come lo sei tu non si può agire in questo modo, la gente non vorrà più saperne di te..." Lo sguardo di tutti corse a Karin Bellhorn, ancora in piedi pietrificata, paralizzata. Una risatina ebbra dagli altoparlanti, in crescendo, isterica. "Di che stai ridendo?" La risata fragorosa di Michelle riempì la sala intera, riverberandosi su pareti e pavimento e scuotendo il diaframma dei presenti. "Cosa c'è di tanto divertente?" "Tu, ecco cosa. Che stronzata. Che senso ha raggiungere il successo, se poi uno non può fare quello che gli pare?" "Io sono responsabile di un ingente numero di collaboratori, e il fatto che abbiano di che sfamarsi dipende da te. Devi stare attenta a come ti
comporti.» Seguì uno schianto che fece sussultare il pubblico. "Non venire a dirmi quello che devo e non devo fare." La voce isterica, fuori di sé. "Tutti qui a rimproverarmi, pensate di potermi girare la chiavetta sulla schiena e che poi io sia esattamente come avete deciso che devo essere. Ma cosa vi credete? Che sia un maledetto robot? Io esisto, chiaro? E adesso non ce la faccio più. Non le reggo più tutte le vostre pretese e le vostre aspettative di merda, Highlander può licenziarmi quanto gli pare, io me ne sarei andata lo stesso, perché non ce la faccio più!" Gli sguardi si spostarono da Karin al direttore dell'emittente. Sulle guance gli erano comparse due chiazze rosse e brucianti. L'uomo si affrettò ad avvicinarsi a uno dei tecnici del suono e a sussurrargli qualcosa. Non era difficile intuire cosa, pensò Annika: che cazzo è questa roba, e da dove arriva? "Mocciosa viziata" stava dicendo Karin Bellhorn sulla cassetta, la voce leggermente impastata. "Ti autocompatisci, vero? Eh?" Il tecnico del suono si fece strada attraverso la ressa, scomparendo nel corridoio. "Per tutta la mia vita professionale ho fatto da schiava a gente come te" continuò la voce della direttrice di produzione "idioti egocentrici che non fanno altro che scorrazzare qua e là a provare emozioni. Sono io quella che si deve sobbarcare tutta la competenza, sono io a dover sbrigare tutto il lavoro, mentre quelli come te vengono lodati e incensati. Lo capisci quanto sono incredibilmente stufa di tutto questo?" Le persone nella sala si muovevano senza interruzione, ora, sussurravano turbate, gli occhi grandi come lanterne. Uno dei poliziotti andò a piazzarsi sulla porta, sbarrando la via di fuga a Karin Bellhorn. "Ci sono persone che si meritano l'apprezzamento degli altri" stava rispondendo Michelle "e altre che non lo meritano." Fruscii sul nastro, breve respiro. "Cosa intendi dire? Io ho avuto apprezzamenti, sono trent'anni che lavoro in questo settore e non sono mai stata disoccupata, e poi sono stata sposata con... Lui avrebbe potuto avere chi voleva, e..." Nella sala conferenze, Karin Bellhorn voltò le spalle al pubblico. Sul nastro Michelle Carlsson scoppiò di nuovo in una gran risata. "È il grande trionfo della tua vita, vero? Il fatto di aver conquistato una pop star inglese? Ma la sai una cosa? Lo sai cosa va in giro a dire di te?"
Di nuovo la risata. "Ridi, ridi pure" replicò la direttrice di produzione, la voce carica di disprezzo ferito. "Steven mi amava davvero. Quanto a te, ti vogliono scopare e basta." Scese il silenzio, per un attimo Annika pensò che il nastro fosse finito. Incrociò lo sguardo di Bambi Rosenberg, gli occhi rossi di trucco ormai sciolto, sbarrati e disperati. La cattiveria stava sospesa come un sipario nella sala, evidentemente Michelle era rimasta senza parole. Quando tornò l'audio, era Karin a parlare di nuovo. "Io saprei fare il tuo lavoro anche domani. Ma tu non sarai mai capace di fare il mio." Gli altoparlanti diffusero un verso sprezzante. "Ti voglio rivelare una cosa" disse Michelle "sono stata io a far sì che potessi rimanere durante questa produzione. Highlander voleva sostituirti, ma io ho insistito perché restassi, solo che si è dimostrato un grosso errore. Tu non sei più all'altezza. Quella che fai è una televisione da pensionati. Ritieni di essere tu quella che fa funzionare tutto, quando invece gli altri devono continuamente tappare le falle che lasci in giro." Qualcosa, nella voce della conduttrice, aveva indotto la massa di persone a tacere. C'era una nuova durezza, un che di impietoso e duro come l'acciaio, una volontà di ferire e annientare. Anche la Karin Bellhorn sulla cassetta aveva percepito la stessa cosa. "Tutte sciocchezze" mormorò. "Come, scusa? Vuoi dirmi che nemmeno te ne accorgi? Sei una maledetta mummia che non ha ancora capito che è venuto il momento di cedere il passo." "Non ho nessuna intenzione di stare ad ascoltarti!" "Te ne stai seduta in redazione sul tuo culone di cemento e fai correre la gente, sai tutto e puoi tutto. Credi persino di poter comparire sullo schermo." "Michelle, taci!" "Perché pensi che venga alle registrazioni anche quando ho la febbre a quaranta? Perché altrimenti ti ci piazzi tu, al mio posto!" Di nuovo la risata fragorosa, isterica ed ebbra. "Non lo capisci quanto sei patetica?" "Non sai quello che dici." "Tenti di ringiovanirti e di fare la fighetta quando in realtà sei completamente tagliata fuori, e tutta la tua amarezza la riversi su quelli che sono arrivati al successo, come me..."
"Attenta a quello che dici!" "Lo sai che Steven va in giro a raccontare delle spugnette che usi al posto dei tamponi e di quanto gli faceva schifo la cosa? Lo sanno tutti, e tutti ne ridono..." "Attenta, brutta..." "Me l'ha raccontato John, mi ha anche detto che hai cercato di fartelo, me ne sono accorta anch'io, l'hanno visto tutti." "Adesso chiudi quella boccaccia!" "Hai tentato di portartelo a letto e l'unica cosa a cui lui riusciva a pensare eri tu che sciacquavi le tue spugnette sanguinolente..." Lo sparo riecheggiò tra le pareti, inatteso, fece tappare le orecchie ad Annika, riecheggiò come un tuono dagli altoparlanti, facendo sussultare istintivamente la massa di persone. Gunnar era ancora sulla porta, lo sguardo sfuggente e incredulo. Karin Bellhorn si era voltata e aveva fissato gli occhi sull'apparecchio sfarfallante. Nell'eco dello sparo si udiva respirare qualcuno, un ansimare asmatico. "Michelle?" Fruscii, scariche. "Michelle? Oddio, Michelle! Oh, no!" Un tonfo sordo, qualcosa che atterrava su una moquette. L'ansimare di qualcuno in iperventilazione, una persona in movimento. Poi una corrente d'aria, il fischio del vento, e infine il silenzio. Annika rimase dov'era, lo sparo che le riecheggiava nelle orecchie. Gli sguardi si spostarono dal monitor a Highlander, poi a Karin Bellhorn, paonazza e sudata. Gunnar Antonsson raddrizzò la schiena, girò sui tacchi e uscì. Barbara Hanson bisbigliava eccitata con le persone intorno a lei. Mariana von Berlitz si appoggiò distrutta al braccio di Carl Wennergren, apertamente in lacrime. Quando gli sguardi divennero troppi e troppo impietosi Karin Bellhorn fece inconsapevolmente un passo indietro, sbattendo con i talloni contro il muro. «Cosa?» sbottò la direttrice di produzione. «Credete a questa roba?» Bambi Rosenberg, rossa in viso e bianca intorno alla bocca, gli occhi che mandavano lampi, le gridò: «Che il diavolo ti porti, maledetta assassina!». Uno dei poliziotti afferrò rapidamente la donna, tenendola ferma. Follin rimase accanto al leggio, stringendo convulsamente il proprio discorso, in preda alla confusione. Highlander compose un lungo numero sul cellulare,
probabilmente un telefono di Londra, e si piazzò in un angolo del palco. Stefan Axelsson aveva chinato la testa e piangeva al punto che gli sussultavano le spalle. Annika puntò lo sguardo su Karin, aveva intuito ma non capito fino in fondo. Non aveva compreso quel flusso di energia, sebbene l'avesse avvolta per tutto il tempo. «Santo cielo!» esclamò la direttrice di produzione guardandosi intorno, braccata, il viso infiammato. «È tutta una messinscena, non lo capite? È stata lei, Anne Sapphane, ha fatto un montaggio, lo sapete tutti come si fa, no...» La nuova consapevolezza di Annika fece scattare il suo innato senso di giustizia: quella brutta stronza dava la colpa ad Anne, che non era lì! La sala perse i suoi contorni, rimase solo la direttrice di produzione vestita di nero, appiattita contro il muro. «Ma è assurdo!» stava gridando questa al lato opposto dell'eternità. «Perché avrei dovuto voler uccidere Michelle?» Annika si appoggiò contro il termosifone, spalancò le dita delle mani, lasciò che la propria voce riecheggiasse tra le pareti. «Caino e Abele» disse, la voce inaspettatamente chiara. «Il movente più antico della storia del mondo.» Le teste si voltarono, sguardi stupiti. Annika li intuì senza vederli, li percepì senza curarsene. Sapeva che quei visi erano aperti e neutri, ogni confine spazzato via, pronti a ricevere qualsiasi impressione. Karin Bellhorn si sporse in avanti, gli occhi bui, aggressivi. Stava lottando per la propria vita. «Intendi dire che avrei ucciso qualcuno per pura invidia?» Il silenzio in sala era totale, la massa di persone tratteneva il respiro. Il ronzio elettronico delle telecamere saturava la stanza tra una frase e l'altra, i riflettori scaldavano i visi, il profumo dei fiori era soffocante. «Assolutamente no» rispose Annika, la voce veniva da lontano. «È una cosa molto più grossa di così.» «Non sai di cosa stai parlando!» gridò Karin Bellhorn. Annika chiuse gli occhi per un istante, trovò la sua verità. «Se non si crede nel proprio valore, si diventa l'espressione delle proprie azioni. E se nessuno si accorge delle azioni che si fanno si diventa doppiamente invisibili. Più si tenta di gridare e di agitarsi per farsi notare, più si diventa irritanti, alla stregua di una mosca, e nello stesso tempo è qualcun altro a essere udito, a essere preso sul serio, qualcuno che forse non lo merita...» «Tu sei pazza!»
La voce della direttrice di produzione s'incrinò, ma quella di Annika continuò a risuonare in tutta la sala. «Karin, tu hai riflettuto sui meccanismi della celebrità più di chiunque altro. Credo che tu ne abbia avuto abbastanza. Tutti vedevano Michelle Carlsson, ma nessuno vedeva te.» Inchiodò con lo sguardo gli occhi della sua interlocutrice dalla parte opposta della sala, al di sopra della testa dei convenuti. «Io ti capisco, Karin» disse Annika. «So perché l'hai fatto. Capisco anche Caino. Se si rimane invisibili troppo a lungo, non si esiste più come persone. Alla fine si fa qualsiasi cosa per essere visibili.» L'altra sbatté gli occhi e barcollò. «La pistola era sul pavimento» continuò la reporter. «L'hai presa, era viscida, non hai capito perché.» La direttrice di produzione non rispose. Ansimava, i bronchi fischiavano. Annika chiuse gli occhi un istante, lasciò che la consapevolezza la investisse, la percepì attraverso le braccia e il tronco. «Hai sollevato la pistola. Non sentivi alcun peso, solo il freddo del metallo. Era priva di gravità, un prolungamento del tuo braccio.» Karin Bellhorn cercò di replicare, senza riuscirci. «Michelle era lì, ha continuato a parlare finché tu non sei andata in frantumi, sapevi che se avesse continuato saresti morta.» La direttrice di produzione la fissava, la bocca aperta. «O lei o te. Ed è stato così facile premere il grilletto, quasi non te ne sei accorta. L'hai guardata negli occhi quando è stata scaraventata all'indietro, e ti sei accorta che non aveva afferrato. È morta senza capire.» L'altra era diventata bianca in volto, lottava per respirare. «Poi sono venuti lo schianto e il rinculo, e il tuo cervello si è svuotato completamente. Hai capito subito, e sapevi che era andato tutto storto. Vero, Karin?» sussurrò Annika al di sopra del profumo dei fiori. «Volevo solo farla stare zitta» disse Karin Bellhorn. Anne Sapphane fissò l'amica sul monitor, arrampicata sulla nicchia della finestra, lo spostamento dei volti del mare di persone: da Karin, verso Annika. Il sole alle spalle, l'effetto controluce che rendeva il contorno del suo corpo simile a una bordatura d'oro cangiante. I capelli trasparenti, illuminati di luce propria. Inspirò profondamente, si rese conto del crampo allo stomaco che si sta-
va lentamente dissolvendo. Si accorse che però le gambe cominciavano a tremarle, si sedette piano in mezzo ai sacchi neri, respirando superficialmente. Si ritrovò immersa nella sensazione di aver evitato il baratro quando già si trovava in caduta libera. «Che cazzo stai facendo?» Highlander torreggiava al di sopra dell'ammasso di materiale sequestrato e poi restituito. Il viso sporco di trucco, confusione e rabbia, la cravatta argentata di traverso. La donna tentò di rispondere, non trovò la voce, si schiarì la gola. Abbassò gli occhi sul pavimento, sentì salire le lacrime. «Non sono stata io» sussurrò. «Non ci provare» rispose lui, la voce carica di collera. «I tecnici hanno controllato tutte le fonti sonore in sala regia, hai fatto un collegamento bypassando la postproduzione e mettendoci la comunicazione interna.» Lei alzò lo sguardo, appannato dalle lacrime. «Non sono stata io a spararle. Sono passata fuori dal van per cercarla, ma non sono stata io a farlo.» Chinò il capo, piangendo sulle proprie ginocchia. Udì dei passi che si avvicinavano in corridoio, si premette il dorso della mano sul naso, cercò di ricomporsi. Asciugò lacrime e muco, si pulì la mano sui jeans, si alzò barcollando. Sulla soglia, dietro i sacchi, si stava stretti. Vide la testa di Q ondeggiare impaziente. «Dobbiamo spostare questa roba.» «Piano! Fate attenzione!» disse Highlander. I sacchi furono sollevati e spostati, finendo nel corridoio. Il commissario era davanti a lei, pallido e con un'espressione grave. «Annika sostiene che lei ha trovato un log-tape con la registrazione della comunicazione interna che è rimasta accesa sul van durante la notte del delitto.» Anne sentì montare il panico nuovamente, diffondersi nel corpo dallo stomaco giù verso le gambe e su verso le spalle. Deglutì, annuì. «La conversazione che abbiamo potuto udire tutti nella sala conferenze era quella della cassetta, immagino.» Nuovo cenno del capo. «I tecnici hanno constatato che la cassetta è stata mandata in onda da questa stanza. Presumo che lei abbia qualcosa a che vedere con la faccenda.» Anne tentò di respirare, si chinò, estrasse il VHS dal riproduttore, lo porse a Q.
«Dal punto di vista dell'indagine, non è stata una gran pensata» commentò il commissario, le mascelle rigide. «Mi dispiace» si scusò lei. Abbassò gli occhi a terra, si sentì bruciare addosso gli occhi dell'uomo. Il poliziotto lasciò cadere la cassetta in una busta trasparente. «Ne riparleremo!» disse uscendo dalla stanza. Highlander era rimasto dietro i monitor. Si guardò intorno nel caos di carte e cassette, si aggiustò la cravatta argentata. Sospirò, si passò una mano sulla fronte, parve voler dire qualcosa ma si bloccò. Si voltò per uscire. Con lo sguardo puntato sulla sua nuca, Anne si rese improvvisamente conto di ciò che era ormai scontato. «Non abbiamo più un direttore di produzione. Come faremo a mettere insieme una trasmissione entro sabato?» L'uomo si girò di scatto, la fissò con il panico assoluto negli occhi, si passò ripetutamente la lingua sulle labbra con i pensieri che si accavallavano come lampi dietro le sue iridi. «Dio santo. Cosa facciamo?» «Ho trovato quasi tutto il materiale» mormorò Anne, la voce spenta. «Posso preparare una copia lavoro con i tempi di entrata e di uscita, raccogliere tutto quello che serve e...» «Puoi benissimo montare il programma» concluse Highlander. «Sei in grado di farlo.» Anne inspirò rapidamente, si sedette, del tutto impreparata. Si rese conto che l'occasione era lì, in quel momento, e presto sarebbe svanita. «Stipendio da direttore di produzione e auto aziendale» disse in fretta. Non avrebbero mai più potuto permettersi di retrocederla di nuovo. Il direttore dell'emittente rimase con lo sguardo incollato a lei, per poi esalare un sospiro sprezzante. «Karin mi ha sempre messo in guardia nei tuoi confronti, mi diceva che avresti cercato di scavalcarla non appena ne avessi avuto la possibilità. Ha fatto benissimo a tenerti sotto. Come puoi sfruttare una situazione del genere?» «Senti chi parla!» rispose lei. Annika si fermò nella luce intensa, trattenendosi nel risucchio delle porte della "Stampa della Sera" che chiudevano dentro l'aria condizionata e la polvere cartacea alle sue spalle. Il sollievo fu simile a una cascata che le scrosciasse attraverso le membra. Otto giorni di ferie compensative. Tirò un lungo sospiro, sbatté gli occhi contro il sole, ne avvertì il calore. Si rese conto che il vento si era calmato, aveva spazzato via la bassa pres-
sione proveniente dall'Atlantico e aperto le porte al caldo dalla Russia. Si sfilò la felpa, lasciò che l'estate le accarezzasse pelle e capelli. Si mise la borsa in spalla e si avviò lentamente verso Rålambshovsparken. Inspirò i vapori dell'asfalto surriscaldato, i primi di quell'anno, fu costretta a sorridere. La natura, resa isterica dal desiderio, le rispose con un'esplosione di profumi e colori. Alle sue spalle, il giornale e Michelle Carlsson svanirono in una foschia confusa. La redazione era ancora immersa nel vuoto, Torstensson chiuso nel suo ufficio, Schyman visibilmente distratto. Giravano voci di una convocazione straordinaria del consiglio d'amministrazione. Non aveva potuto scrivere un articolo sulla commemorazione, avendo avuto una parte attiva nella diretta. Sjölander l'aveva però intervistata, cosa insolita ma importante. Una delle domande era stata perché aveva fatto a Karin Bellhorn un interrogatorio di terzo grado da un lato all'altro della sala. "Perché conoscevo le risposte" aveva detto lei. "E volevo che anche tutti gli altri potessero conoscerle." Era una verità, e Anne gliene aveva fornita una seconda. "Grazie" le aveva sussurrato nel corridoio dietro la sala conferenze. "Mi hai salvato dal destino di restare per sempre un'assassina nella coscienza della gente. Non importa chi l'ha fatto davvero, le persone si sarebbero soltanto ricordate questo: 'Mmh, Anne Sapphane, non è quella che alla televisione è stata additata come omicida?'." Riddarfjärden scintillava come uno specchio ridotto in mille frammenti, vivo e ondeggiante, inducendola a frugare nella borsa in cerca degli occhiali scuri. Non li trovò. Seguì il sentiero lungo la riva, la testa leggera che le girava appena, tanto che inciampò in un barboncino. Q era un po' incavolato, ma non tanto come lei aveva temuto. Una confessione pubblica non ci stava mai male, anche se giuridicamente non poteva essere considerata vincolante. Nei primi interrogatori Karin Bellhorn aveva cominciato a parlare di un colpo accidentale, per giunta senza premeditazione, il che non stava in piedi. "C'è dentro fino al collo" aveva detto Q dal suo cellulare scassato, quando era già in questura. "In un modo o nell'altro finirà dietro le sbarre." Attraversò Kungsholmstorg, superò la sede della polizia, alzò velocemente la testa verso la prigione di Kronoberg nella parte più alta del complesso. Si chiese dove avessero messo Karin. Quell'idea le fece tremare le
gambe, un senso di freddo all'altezza della testa. Dal petto le risalì un pensiero oscuro, deglutì con forza, lo represse. Aumentò l'andatura, lasciando che i tacchi battessero sull'asfalto, che la brezza le giocasse tra i capelli. I bambini erano fuori, nel cortile dell'asilo: Ellen nel recinto della sabbia, in maglietta, pannolone e cappellino. Kalle saliva sullo scivolo, a piedi nudi, su di giri. Li vide contemporaneamente, all'istante, solo loro due, così chiari e netti nei contorni. Corse incontro ai suoi figli, lasciandosi travolgere dalla loro gioia spontanea di rivederla. Li strinse, cullandoli, si mise a baciare le loro manine sabbiose e le loro guance sporche di moccio. Informò il personale che i bambini sarebbero rimasti a casa per il resto della settimana, e probabilmente anche quella successiva, poi si avviò lentamente lungo il lato soleggiato di Scheelegatan verso la Konsum. Ellen era silenziosa e stanca, si raggomitolò nel passeggino con il pollice in bocca, Kalle parlava senza interruzione, ma presto avrebbe superato la soglia della stanchezza diventando piagnucoloso. Annika camminava senza sfiorare il terreno, sospesa in quella presenza totale dei figli e del caldo estivo. Nella frescura del minimarket acquistò petti di pollo e latte di cocco, gelati confezionati e birra. Poi fece un rally fino a casa, in Hantverkargatan, con Kalle che strillava di gioia in piedi sul predellino attaccato al passeggino. Riuscì a mantenere intatta la sensazione di beatitudine finché Kalle non rovesciò sul pavimento la salsa per il pesce ed Ellen fece la cacca. Quando Thomas infilò la chiave nel buco della serratura s'irrigidì, l'ultima traccia di gioia fu spazzata via. I bambini avevano mangiato, Ellen dormiva già, Kalle era in pigiama. Gettò una rapida occhiata alla cucina, esaminò i bambini, poi si costrinse a smettere. Non spettava a lui giudicare né lei né lo stato della casa, e non toccava a lei offrirgliene l'opportunità. Quando il compagno entrò Annika era in cucina, vide intorno a lui frammenti delle sue stesse emozioni. L'uomo le baciò la bocca con le labbra fredde. «Adesso sentirai» le disse. «Ho un sacco di cose da raccontarti.» «Anch'io...» Thomas si voltò, prese Kalle e lo sollevò verso il soffitto. Annika lesse al figlio una storiella sull'orsetto Bamse mentre Thomas mangiava del pollo cinese scaldato nel microonde, la ricetta con chili e coriandolo che le aveva insegnato lui. Sistemò l'orsacchiotto accanto a Kalle, gli diede il bacio della buonanotte, gli fece una carezza sulla guancia. Andò nella stanza della televisione, svuotata nell'anima e nel corpo, la-
sciò che il vento proveniente dalla finestra aperta le accarezzasse le braccia nude. Si sedette accanto al compagno, armato di patatine e telecomando, inspirò l'odore della città d'estate. Betulle e fuliggine, lillà e smog. I rumori scomposti e diffusi, un'auto faceva in tempo a passare e allontanarsi prima che ne sopraggiungesse un'altra, suoni più chiari e nitidi del solito. Alla TV, Magnus Härenstam dava risposte e i partecipanti facevano domande. Annika appoggiò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. «Mi hanno dato il posto» annunciò Thomas. Lei lo guardò, sorrise. «Te l'avevo detto io: se hanno un po' di cervello, prendono te.» «Non ero troppo sicuro che ce l'avessero.» «Congratulazioni. Prima Seoul, poi questo. Come ci sei riuscito?» «Ho fatto come hai detto tu, ho tirato fuori l'idea delle brochure rilegate e il fatto che dovevamo indurre tutti a credere che l'avessimo sempre pensata così.» Annika sollevò le sopracciglia, sorpresa. «Pensavo che la ritenessi un'idea del cavolo.» L'uomo continuò a fissare lo schermo della televisione, una sfumatura leggermente più intensa sul viso. «Però non ho affermato, come te, che dipendeva tutto da come veniva presentata la cosa.» Annika gli rimase seduta accanto, guardando senza vedere, ascoltando senza sentire. Inspirava la sua vicinanza, abitava nel suo calore. Subito dopo le sette e mezzo Thomas cambiò canale. Avevano perso la sigla e i titoli del telegiornale, si trovarono davanti il primo servizio già iniziato. Era inquadrato l'interno dell'ufficio del direttore Torstensson. Annika si rizzò a sedere sul divano, si protese in avanti. L'uomo era in primo piano e stava sudando, alle sue spalle un quadro raffigurante una donna nuda. "Direttore Torstensson" stava chiedendo Mehmed Izol fuori campo "qual è la posizione della 'Stampa della Sera' nei confronti dei reati di tipo economico?" Torstensson si schiarì la voce. "Il crimine, in ogni sua forma, è un abominio in qualsiasi democrazia. Indagare e portare alla luce i reati commessi da persone di ogni classe sociale è uno dei principali compiti dei mass media." «Toh, pensavo che spettasse alla polizia» commentò Annika in tono ironico.
"Che cosa ne pensa, a livello puramente personale, di chi, per esempio, si rende colpevole di insider trading?" Il direttore si passò la lingua sulle labbra e cercò una posizione più comoda sulla poltroncina. "Ogni tipo di crimine deve essere preso in esame" rispose, gli occhi sbarrati. "È il presupposto di ogni..." "La mia domanda non era esattamente questa" lo interruppe Mehmed calmo. "Ho chiesto la sua opinione personale." Torstensson tacque, sudato. "Perché?" "Ho ricevuto un'informazione secondo cui lei conosceva in anticipo i dati riportati dal rapporto semestrale dell'azienda informatica Global Future pubblicato il 20 luglio dell'anno scorso." La testa di Annika fu colta dalle vertigini. Santo cielo, ecco, adesso lo dice. Torstensson deglutì con uno sforzo e scosse la testa. "No" rispose. "Assolutamente falso." "Invece sì" insistette Mehmed. "Le informazioni provengono da fonte sicura. Dato che lei ha venduto il suo intero pacchetto di azioni il 19 luglio, si è reso colpevole di insider trading." Lei fissò il volto sudato del direttore responsabile, riuscendo a malapena a respirare. I suoi occhi si spalancarono ancora di più, Annika vi vide balenare dentro pensieri disparati e montare il panico. "Lo escludo nel modo più assoluto" dichiarò. "Non ne avevo idea." "E come mai, allora, ha venduto tutte le sue azioni, 9200, proprio il 19 luglio, il giorno prima della pubblicazione del rapporto?" L'intervistato scosse la testa. "Una pura coincidenza. Era da tempo che pensavo di sbarazzarmene." "Il 19 luglio, un mercoledì, lei ha venduto le sue 9200 azioni di Global Future a una quotazione di 412,50 per un totale di 3.795.000 corone. Il giorno dopo, giovedì 20 luglio, è uscito il rapporto semestrale, e le azioni sono scese del ventotto per cento, toccando le 297 corone. Per lo stesso pacchetto lei avrebbe quindi ottenuto 2.732.400 corone, non è vero?" Mentre Mehmed parlava, il viso di Torstensson esprimeva emozioni contrastanti, dubbio e terrore. Quando rispose, la sua voce era strozzata e sprezzante. "Bisogna saper vendere al momento giusto. È così che funziona la Borsa." «Che pessimo perdente» commentò Thomas. "Vendendo il 19 invece del 20 luglio, lei ha guadagnato un milione di corone" osservò Mehmed.
"Spiccioli" ribatté Torstensson. "Non credo che i suoi lettori siano della stessa opinione. Nel corso dell'autunno successivo, inoltre, la casa madre ha comunicato che non aveva intenzione di finanziare ulteriormente la società, cosa che ha portato la quotazione delle azioni pressoché a zero. E anche di questo lei era informato." "Questa è diffamazione!" esclamò il direttore, facendo per alzarsi. "Il primo dell'anno un'azione di Global Future valeva 59 corone, adesso è scesa a 37. Oggi, le sue azioni avrebbero avuto un valore di 340.000 corone. Con la sua operazione di insider trading, lei ha guadagnato oltre tre milioni di corone." "Non ho più intenzione di stare a sentire!" L'intervistato era talmente turbato da non riuscire quasi a parlare. In quell'istante l'inquadratura cambiò. Dopo essere stata incollata sul viso di Torstensson, la telecamera mostrò Mehmed che si alzava dalla sua poltroncina, girava rapidamente intorno al tavolo riunioni e si avvicinava alla libreria. Un'altra telecamera fece una rapida panoramica, cavi dappertutto e alcune persone. «Schyman!» esclamò Annika indicando lo schermo. «L'ho visto, era dietro il cameraman. L'hai visto anche tu?» Thomas le fece segno di tacere. "Ecco" disse Mehmed indicando un raccoglitore nella libreria di Torstensson. "Qui ci sono i verbali delle riunioni del consiglio d'amministrazione della 'Stampa della Sera', vero?" "Come osa?" esclamò Torstensson alzandosi. "Se prova a toccare quel raccoglitore la denuncerò per violazione di domicilio!" «Wow» commentò Annika. «Certo che è un esperto in fatto di denominazione dei reati.» Mehmed infilò la mano dentro la giacca nera di jeans e ne estrasse un foglio piegato in due. "Non sarà necessario" disse. "Ho una copia del verbale della seduta del CdA del 27 giugno dell'anno scorso, da cui emerge, da un lato, che lei era presente, dall'altro che le viene fatta questa comunicazione. Vorrei che lei commentasse questo fatto." Torstensson era in piedi in mezzo alla stanza, ondeggiante. "Che commentassi cosa?" "Cos'ha pensato, cos'ha sentito? Cosa l'ha indotta a mettere a repentaglio tutto ciò che aveva costruito per guadagnare velocemente un milione su un
pacchetto di azioni?" Il direttore si strappò il microfono dal bavero della giacca, lo calpestò con un piede e uscì dall'ufficio. «Santo cielo» esultò Thomas. «Che bomba. È in gamba Mehmed! Come diavolo l'avrà saputo?» Lei deglutì, sudata. Il giornalista in studio ricomparve sullo schermo, completando il servizio. "Il direttore responsabile del quotidiano 'La Stampa della Sera', Torstensson, ha dato oggi le dimissioni dopo la nostra intervista, durante la quale è stata svelata la sua operazione di insider trading. La squadra anticrimine di Stoccolma specializzata in reati di tipo economico sta ora esaminando il caso. Una riunione straordinaria del consiglio d'amministrazione del giornale ha nominato stasera nuovo direttore responsabile Anders Schyman, in passato collaboratore di SVT. Ne saprete di più durante il nostro approfondimento in diretta, subito dopo il telegiornale." Dopodiché passò alla notizia successiva. «Che storia» commentò Thomas guardando la compagna. «Queste cose non le capirò mai, come fate a venire a sapere sempre tutto?» Annika lo zittì, un nuovo servizio riempì lo schermo. La sala conferenze di Zero Television, lo sparo che riecheggiava tra le pareti, panoramica oscillante sul pubblico, il volto paonazzo di Karin Bellhorn. "Santo cielo!" esclamò la donna. "È tutta una messinscena, non lo capite?" Interruzione, poi Annika udì la propria voce, lontana ma nitida: "Caino e Abele. Il movente più antico della storia del mondo". Primo piano della direttrice di produzione, protesa in avanti, aggressiva. "Intendi dire che avrei ucciso qualcuno per pura invidia?" Immagine traballante, poi lei stessa inquadrata, sul davanzale della finestra. «Ma...» esclamò Thomas con la bocca piena di patatine. «Quella sei tu!» "Assolutamente no" disse l'Annika della TV. "È una cosa molto più grossa di così." «Spegni» disse lei a bassa voce. «Perché?» "Non sai di cosa stai parlando!" gridò Karin dallo schermo. «Per favore.» Lui spense. «È sgradevole guardare se stessi?» Annika annuì. «Karin ha confessato, è stata lei a ucciderla.»
«Tu lo sapevi?» Annika si appoggiò allo schienale. «Per un po' ho creduto che fosse stata Anne.» Rimasero seduti immersi nei rumori dell'estate, assorbendone profumi e luci. Thomas prese la sua mano tra le proprie, ne baciò il palmo. «Perdonami» sussurrò. «Lo dico sul serio.» Lei non rispose, abbassò gli occhi sulle proprie cosce. «Mi sono comportato...» cominciò lui, per poi deglutire e cercare le parole «... male. Ho dubitato di me stesso.» «Di noi» lo corresse Annika, gettandogli un'occhiata e accorgendosi del suo turbamento. «No, di più. Di tutto, di cosa dovevo fare della mia vita.» La lunga frangia gli cadde sugli occhi, Annika vide la propria mano scostargliela. Incrociò poi il suo sguardo, scuro e impaurito. «Ma io ho già scelto» continuò Thomas «anche se non l'avevo capito. Ho scelto te e i bambini, vi ho scelto quasi quattro anni fa. Se vuoi sposarti, se per te è importante, lo facciamo.» Lei scosse la testa. «No. Voglio che lo desideri tu.» «Lo desidero, ma non con tutta la mascherata. L'ho già fatto una volta, mi è bastato.» Lei lo guardò, annuì. «Ci si può sposare all'ambasciata di Svezia a Seoul. Ho parlato con loro, c'è già un appuntamento fissato per noi il dieci settembre.» Annika si rizzò a sedere sul divano, sbatté gli occhi. «Ma io non posso venire a Seoul. Il lavoro, e... chi si occuperà dei bambini?» «I miei genitori.» «Vorranno farlo?» «Che vogliano o non vogliano, sono i loro nipoti. E per il lavoro non ci sono problemi, il presidente degli Stati Uniti sarà lì in visita ufficiale dal dodici, potrai far parte della stampa accreditata quando visiterà Panmunjom e il ponte del Non Ritorno al trentottesimo parallelo, in vista dei negoziati a quattro di Pechino...» La donna scosse la testa, un sorriso vagamente malinconico sulle labbra. «Suona fin troppo bene, ma il giornale non mi manderebbe mai in Corea per lavoro.» «Ti dirò che ho telefonato a Schyman e l'ho coinvolto nella mia cospirazione. Mi ha risposto che potevi andare anche alle Hawaii, se volevi. Deve proprio considerarti una reporter coi fiocchi e i controfiocchi.»
Lei sbatté gli occhi, comprese il contesto, rifletté qualche secondo. Il suo capo voleva ripagarle il debito. Un posto di direttore responsabile in cambio di un matrimonio. Si alzò di scatto. «Vuoi un'altra birra?» Lui l'attirò a sé, la baciò. «Dimmi di sì. Lo voglio.» Il telefono squillò, lei si divincolò dall'abbraccio, andò in cucina, prese una lattina dal frigo. Ascoltò il ronzio ritmato della lavastoviglie, i rumori del cortile attraverso la finestra aperta, ventilatori, grida di bambini, un allarme antifurto. Chiuse gli occhi, qui e ora, oggi. «Annika! È per te!» Inspirò più volte, tornò in soggiorno. «Annika Bengtzon?» La voce all'apparecchio le era familiare, ma non riusciva a collocarla. «Ci siamo visti più volte in questi ultimi giorni, prima a Yxtaholm e poi durante la diretta di oggi.» Era Highlander. «Telefoni al giornale» tagliò corto lei, gettando un'occhiata a Thomas. «Non ho scritto niente sulla cerimonia. Se ha qualcosa da aggiungere dovrà parlare con il caporedattore di notte.» «No, no, non è per questo che la chiamo» ribatté il direttore dell'emittente. «Ecco, vede, i capi di Londra hanno visto la registrazione della trasmissione di oggi, forse l'ha vista anche lei?» Annika si schiarì silenziosamente la gola. «Be', solo un pezzetto.» «Devo dirle che sono rimasti molto colpiti. Non accade spesso di veder risaltare in questo modo un talento così autentico.» «Cosa?» domandò lei, portandosi una mano alla fronte. «Come lei sa, stiamo cercando una conduttrice che succeda a Michelle Carlsson, qualcuno che possa prendere il suo posto e portare avanti nel suo spirito il suo talk show tutto al femminile. Vorremmo che facesse un provino per il posto di conduttrice, che ne pensa?» «Chi? Io?» Highlander inspirò paziente. «Riteniamo che lei abbia un notevole carisma. Buca lo schermo, ha una presenza totale. Non ha mai riflettuto sulla possibilità di cambiare indirizzo professionale?» Annika si passò la mano sulla fronte, boccheggiò come un pesce, guardò Thomas che la osservava dall'angolo opposto del divano, sbattendo gli occhi sorpreso. «Cos'è, uno scherzo?» riuscì a chiedere alla fine. «Assolutamente no. Partiamo con la programmazione autunnale il dieci settembre, per cui abbiamo una certa fretta per le audizioni e il contratto.
Lei com'è messa, ce l'ha già un manager per caso?» «Ehm... veramente no» ammise Annika, sentendo aumentare la confusione. «In questo caso le raccomanderei Sebastian Follin, che in questo momento ha tempo, dopo... be'...» Lasciò che quella possibilità le scorresse dentro, si fece cullare dalla dolcezza della prospettiva. Conduttrice. Televisione. Prime. Soldi. Società di produzione di sua proprietà. Carriera internazionale. Meccanismi della celebrità, raggiungimento della massa critica. «Mi dispiace» mormorò con lo sguardo inchiodato a quello di Thomas. «Non è possibile. Il dieci settembre mi sposo.» Highlander fece una risatina forzata nel ricevitore. «Be', queste cose si fanno rapidamente. Ci starà dentro anche un programma televisivo.» «All'ambasciata di Svezia a Seoul» disse Annika. Anders Schyman si voltò, il petto traboccante, lasciandosi alle spalle il gabbiotto. Richiuse la porta di vetro, ascoltando inconsapevolmente il risucchio del listello di gomma: chiuso, sigillato, finito. Passato. Concluso. Vinto. Inspirò, un lungo sospiro, polmoni troppo stretti, pieni di sollievo, resti di inquietudine usata e trattenuta. Aveva avuto quel che voleva. Assolutamente sì. Espirò. La mattina dopo i facchini avrebbero messo via le sue cose e le avrebbero trasferite nell'ufficio d'angolo con vista sull'ambasciata russa. Lasciò cadere il mazzo di chiavi nella tasca interna, ne sentì il peso ondeggiante contro le costole, alzò gli occhi verso il banco della cronaca e sostenne lo sguardo della redazione. Lo sguardo di tutti. Si avviò, leggermente proteso in avanti e a passi trattenuti, verso l'uscita. Redattori e reporter, grafici e photo editor, fotografi e centralinisti, tutto quell'organismo pulsante seguiva i suoi movimenti con occhi nuovi. «Abbiamo cambiato il colophon» lo avvertì Jansson che si trovava sulla
porta della sala fumatori, il braccio all'interno della stanzetta con il fumo della sigaretta che si snodava come un serpente verso il ventilatore sul soffitto. Anders Schyman, direttore responsabile, annuì brevemente. «Telefonerò per fare il punto verso mezzanotte.» «Difficile che ci sia qualche variazione, ormai» rispose il caporedattore di notte, aspirò una boccata, soffiò invano verso l'interno della sala. «Metteremo l'omicidio di Michelle sulla locandina e in prima, l'intervista di Barbara Hanson a te al centro, i commenti sull'insider trading di Torstensson al posto dell'articolo di fondo.» Nuovo cenno d'assenso, una mano sollevata per salutare. Pressione costante sul petto. Quando passò, Tore Brand stava fissando lo schermo azzurrino della televisione. TV Plus, notò, una nuova replica della commemorazione di Michelle Carlsson. Mi chiedo per quanto tempo vivrà la sua memoria, gli balenò nel cervello. La misura della sua reale grandezza, quell'unità che si calcola in decenni e secoli. Gli immortali. Michelle Carlsson era una di loro? A quell'idea assurda si lasciò scappare una risatina, un breve suono che riecheggiò contro le piastrelle del pianerottolo. Imboccò le scale, due gradini alla volta. Le porte scorrevoli lo lasciarono uscire nella tarda serata estiva, dorata e fresca. L'auto gli diede il benvenuto con il linguaggio elettronico tutto suo: "L'allarme è stato disconnesso, prego, accomodati, mettiti la cintura, altrimenti te la ricordo io". I più grandi rimangono più a lungo, pensò. Sono quelli che vincono il gioco del potere e si occupano di scrivere la storia. Gli inventori, coloro che cambiano i presupposti della vita per le generazioni future. I dittatori e gli oppressori che vivono per sempre nell'odio. I buoni leader che costruiscono benessere e miti. Le donne, le più belle in assoluto che sono amate dagli eroi e cantate da poeti morti. Attraversò lentamente la città: asfalto, ubriachi e neon. Sopravvivo, pensò. Immortale, almeno stanotte. Tangenziale sud, niente code, autostrada verso Nacka. Uscita di Saltsjöbaden. Poi, finalmente, ecco davanti a lui il mare, scintillante ed eterno.
RINGRAZIAMENTI Questo libro è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a persone reali è puramente casuale. Nemmeno il giornale "La Stampa della Sera", la società di produzione Zero o l'emittente TV Plus esistono realmente. Sono tutte ispirate a una serie di organizzazioni esistenti, ma in questo romanzo sono essenzialmente creazioni proprie dell'autrice. In alcune occasioni, ricorrendo alla libertà di cui godono gli autori, ho variato particolari, soluzioni e vie rispetto ai luoghi e agli edifici che si trovano nella realtà. Vorrei anche ringraziare le persone che si sono rese disponibili a rispondere alle mie domande. Eccole: Anders Carsfeldt, tecnico addetto alle riprese mobili, cameraman e roccia di TV4, per la visita di studio e le spiegazioni relative agli ob-van e alla tecnologia televisiva. Team Jelbe Production per avermi permesso di salire sui suoi van ed esaminarli. Tutto il personale del castello di Yxtaholm in Södermanland, in particolare il gestore del ristorante, Patrik Arneke, per la fantastica accoglienza e le pazienti informazioni fornitemi. Bengt Wingqvist, capo della squadra anticrimine di Stoccolma, per la sua competenza e le informazioni che mi ha dato riguardo alle indagini indiziarie della polizia. Tor Petrell, ispettore di polizia di Stoccolma, per le informazioni sui metodi di lavoro e di interrogatorio della polizia. Gunnela Bauer, infermiera e proprietaria di un negozio a Gällnö, per le informazioni sull'isola e sulla sua storia. Henrik Olsson, avvocato dello studio associato Peter Althin e soci, per l'aiuto fornitomi sulle questioni giuridiche e relative alla libertà di stampa. Per Hultengård, giurista presso l'Associazione della Stampa Svedese, per le spiegazioni e le discussioni intorno alla teoria relativa alla responsabilità editoriale in ambito giornalistico. Sakari Pitkänen, direttore responsabile del quotidiano "Metro", per le discussioni intorno ai doveri e ai diritti morali dei direttori di testata. Mikael Aspeborg, ammnistratore delegato di OTW Television e mio ma-
rito, per l'aiuto nei dettagli pratici relativi alle produzioni televisive. Peter Svensson, capo ufficio stampa del quartier generale della Difesa, per le informazioni riguardo all'arsenale dell'esercito. David Lagercrantz, scrittore e collega, per le discussioni sul mercato borsistico. Nils Liliedahl, responsabile per il controllo dei flussi informativi della Borsa di Stoccolma, per l'aiuto fornitomi riguardo agli scenari dell'insider trading e i modi per portarlo alla luce. Peter Sving, direttore generale dell'Anagrafe titoli di Stoccolma, per le informazioni sui registri e sulle analisi dell'AT. Anna Borné, Mattias Boström, Cherie Fusser, Madeleine Lawass e Anna Carin Sigling di Piratförlaget per un lavoro di squadra sempre proficuo. Lotta Byqvist, la mia collaboratrice e addetta stampa: senza di te, morirei. Karin Kihlberg che riesce ancora a far funzionare tutto. Bengt Nordin, il mio fantastico agente, che ha accompagnato Annika nel mondo. Sigge Sigfridsson, editore e giornalista, che ha reso possibile tutto questo. Lotta Snickare, responsabile dello sviluppo dirigenziale alla Föreningssparbanken, per le consultazioni e l'ispirazione. Jonas Gummesson, direttore di TV4, che risponde alle domande più strane in qualsiasi momento. Jenny Nordin, la mia creativa redattrice web, che rifornisce costantemente lizamarklund.net di materiale. Astrid Sivander e Arne Öström per il lavoro di correzione bozze e impaginazione. Karolina Olsson, Fredrik Hjerling e Mi Johansson per il trucco, le foto, la progettazione e il layout della copertina. Johanne Hildebrandt, giornalista, scrittrice e buona amica, per le discussioni, le critiche testuali e il sostegno nel bene e nel male. Ann-Marie Skarp, il mio straordinario editore, per la sua infinita competenza e per la sua imbattibile sensibilità linguistica. Per ultimo e soprattutto come sempre: la drammaturga Tove Alsterdal, che mi segue passo per passo durante il viaggio, legge, critica, analizza e incoraggia. Senza di te non verrebbe fuori neanche un libro! Grazie a tutti!
Gli eventuali errori che fossero ancora presenti sono, com'è ovvio, da attribuire soltanto a me. FINE