JOHN RONALD REUEL TOLKIEN I FIGLI DI HÚRIN (Narn I Chîn Húrin. The Tale Of The Children Of Húrin, 2007) A Baillie Tolkie...
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JOHN RONALD REUEL TOLKIEN I FIGLI DI HÚRIN (Narn I Chîn Húrin. The Tale Of The Children Of Húrin, 2007) A Baillie Tolkien PREFAZIONE È innegabile: sono molto numerosi i lettori del Signore degli Anelli ai quali le leggende dei Tempi Remoti (così come sono state pubblicate, in varie versioni, nel Silmarillion, nei Racconti incompiuti e nella Storia della Terra di Mezzo) sono del tutto sconosciute. Tutt'al più, a essi è nota la loro nomea di narrazioni strane e inaccessibili per struttura e stile. Per questa ragione, da molto tempo pensavo che esistesse un buon motivo per offrire ai lettori la versione estesa della leggenda dei figli di Húrin e di presentarla come opera a sé stante, con una copertina tutta sua e con un minimo di intervento redazionale. L'obiettivo era una narrazione compiuta, esente da interruzioni e da lacune, purché ciò fosse possibile senza alterazioni del percorso narrativo e senza invenzioni arbitrarie, e malgrado lo stato di incompiutezza in cui mio padre lasciò alcune parti. Ho pensato: se la vicenda del destino di Túrin e Niënor, figli di Húrin e Morwen, potesse essere presentata in tale forma, si potrebbe aprire una finestra sullo scenario e sulla storia, che l'autore colloca in una sconosciuta Terra di Mezzo e disegna con tratti vividi e immediati, pur se i loro connotati ci fanno pensare che siano stati tramandati dai Tempi Remoti: le terre sommerse dell'Occidente, oltre i Monti Azzurri, dove Barbalbero camminò in gioventù; la vita di Túrin Turambar, nel Dor-lómin, Doriath, Nargothrond e la Foresta di Brethil. Perciò questo libro è destinato soprattutto a quei lettori che forse ricordano come la tana di Shelob era così orrendamente dura «da non poter essere forata da forza d'uomo; né Elfo o Nano potevano forgiare l'acciaio adatto a tale impresa e neppure la mano di Beren o di Túrin vi sarebbe riuscita»; o a quelli che rammentano come Elrond, conversando con Frodo a Gran Burrone, descriva Túrin come «uno dei potenti amici degli Elfi di un tempo» del quale, però, nulla più si sa. Quando mio padre era un giovanotto, negli anni della Prima Guerra Mondiale e assai prima che esistesse qualche accenno ai racconti dai quali
più tardi avrebbero preso forma le storie dello Hobbit o del Signore degli Anelli, egli cominciò a scrivere alcune narrazioni che raccolse con il titolo Il libro dei racconti perduti. Era il suo primo lavoro nell'ambito della letteratura d'invenzione. Un lavoro di una certa sostanza: è vero che egli lo lasciò incompiuto, ma nella raccolta ci sono quattordici storie complete. È nei Racconti perduti che apparvero per la prima volta, in un testo narrativo, gli Dei, o Valar; gli Elfi e gli Uomini come figli di Ilúvatar (il Creatore); Melkor-Morgoth il grande Nemico; i Balrog e gli Orchi; e le terre in cui i Racconti sono ambientati: Valinor, «terra degli Dei», al di là dell'oceano occidentale, e le «Grandi Terre» (poi chiamate «Terra di Mezzo», tra i mari dell'est e dell'ovest). Fra i Racconti perduti, ve ne erano tre più lunghi e più completi, e tutti e tre riguardano tanto gli Uomini quanto gli Elfi. Si tratta del Racconto di Tinúviel (che appare in forma breve nel Signore degli Anelli come la storia di Beren e Lúthien che Aragorn racconta agli hobbit sulla Vetta del Tempo; e che fu scritta da mio padre nel 1917), di Turambar e il Foalókë (Túrin Turambar e il Drago, certamente esistente già nel 1919, se non prima), e della Caduta di Gondolin (1916-17). Nel passaggio, spesso citato, di una lunga lettera in cui descrive il suo lavoro, scritta da mio padre nel 1951, tre anni prima della pubblicazione della Compagnia dell'Anello, egli racconta della sua iniziale ambizione: «Una volta (da parecchio tempo ormai ho abbassato la cresta) avevo in mente di creare un corpus di leggende più o meno collegate, che spaziasse dalla cosmogonia più ampia fino alla fiaba romantica, più terrena, e che traesse il suo splendore dallo sfondo più vasto... Alcuni dei racconti più vasti li avrei narrati interamente e ne avrei lasciati altri solo abbozzati e sistemati nello schema d'insieme». Alla luce di questa reminiscenza, che poi alla lontana era parte dell'idea di ciò che si sarebbe chiamato Il Silmarillion, alcuni dei racconti avrebbero dovuto essere narrati in una forma più completa; e, in realtà, in quella lettera del 1951, mio padre fece espresso riferimento alle tre storie che ho menzionato sopra come le più lunghe del Libro dei racconti perduti. Qui definì il racconto di Beren e Lúthien «la principale delle storie del Silmarillion», e di quest'ultima egli disse: «La storia è (ritengo che sia bella e potente) un romanzo eroico-fiabesco, comprensibile di per sé anche se si ha solo una vaga conoscenza generale dello sfondo. Ma costituisce anche un anello fondamentale del ciclo, che perderebbe il suo pieno significato se ne venisse estrapolata». «Ci sono altre storie,» continua «raccontate quasi altrettanto diffusamen-
te ed egualmente indipendenti, legate tuttavia alla storia generale» e sono: I Figli di Húrin e La caduta di Gondolin. Pertanto sembra indubbio, dalle stesse parole di mio padre, che se avesse potuto completare la narrazione nel modo desiderato, la sua idea era che i tre «Grandi Racconti» della Prima Era (Beren e Lúthien, I figli di Húrin e La caduta di Gondolin) fossero lavori sufficientemente completi in se stessi e che non richiedessero la conoscenza del grande corpus di leggende conosciuto con il titolo del Silmarillion. D'altro canto, come osserva mio padre nella stessa lettera, il racconto dei figli di Húrin è parte integrante della storia degli Elfi e degli Uomini della Prima Era, e ci sono necessariamente un gran numero di riferimenti a eventi e circostanze della storia più ampia. Sarebbe del tutto contrario alla concezione di questo libro appesantirne la lettura con una pletora di note contenenti informazioni su persone ed eventi, che sono, a dire il vero, di rado veramente importanti per il racconto. Ciò non di meno, potrebbe essere di aiuto ottenere qui e là un po' di assistenza. È per questo che nell'introduzione ho fornito un'esposizione sintetica del Beleriand e delle sue popolazioni sul finire della Prima Era, quando nacquero Túrin e Niënor; e, insieme con la mappa del Beleriand e delle terre del Nord, ho incluso una lista di tutti i nomi che ricorrono nel testo, corredata da concise indicazioni sulla genealogia semplificata di ciascuno. Alla fine del volume c'è un'Appendice in due parti: la prima concerne i tentativi di mio padre di arrivare a una forma definitiva per i tre racconti; la seconda dà ragguagli sulla composizione del testo che leggiamo in questo libro, e che differisce per vari aspetti dai Racconti incompiuti. Sono molto grato a mio figlio Adam Tolkien per il suo indispensabile aiuto nell'ordinare e presentare il materiale dell'Introduzione e dell'Appendice e per aver facilitato l'immissione del libro nello scoraggiante (per me) mondo della comunicazione elettronica. INTRODUZIONE La Terra di Mezzo e i Tempi Remoti Il personaggio di Túrin aveva un profondo significato per mio padre, il quale, in modo chiaro e immediato, riuscì a fare un ritratto vivo della sua fanciullezza, essenziale per l'insieme: la sua severità e mancanza di gaiez-
za, il suo senso di giustizia e la sua compassione; e anche un ritratto di Húrin, svelto, allegro e sanguigno, e di sua madre Morwen, riservata, coraggiosa e fiera; nonché della vita della famiglia nella fredda campagna del Dor-lómin durante gli anni, già ricolmi di paura, dopo che Morgoth ebbe rotto l'assedio di Angband, prima della nascita di Túrin. Ma tutto ciò succedeva nei Tempi Remoti, la Prima Era del mondo, in un tempo incredibilmente lontano. La profondità del tempo che questa storia raggiunge è espressa, in modo memorabile, in un passaggio del Signore degli Anelli. Al Gran Consiglio di Gran Burrone, Elrond parlò dell'Ultima Alleanza tra Elfi e Uomini e della sconfitta di Sauron al termine della Seconda Era, più di tremila anni prima: A questo punto Elrond si interruppe un attimo e sospirò. «Ricordo perfettamente lo splendore delle loro bandiere» disse. «Mi rammento la gloria dei Tempi Remoti e degli eserciti di Beleriand, dove tanti grandi principi e capitani si erano riuniti. Eppure non erano né in tal numero, né tanto splendenti come quando Thangorodrim fu distrutto, e gli Elfi credettero che il male fosse ucciso per sempre, ma non fu così.» «Voi ricordate?» disse Frodo, esprimendo ad alta voce per lo stupore il proprio pensiero. «Ma credevo,» balbettò allorché Elrond si volse verso di lui, «credevo che la caduta di Gil-galad fosse avvenuta in epoca molto lontana.» «Infatti è così» rispose gravemente Elrond. «Ma la mia memoria risale fino ai Tempi Remoti. Eärendil fu mio padre, che nacque a Gondolin prima della sua caduta; e mia madre fu Elwing, figlia di Dior, figlio di Lúthien di Doriath. Ho visto tre ere a ovest del mondo, molte sconfitte e molte vittorie inutili.» Circa seimila e cinquecento anni prima che il Consiglio di Elrond si tenesse a Gran Burrone, nacque Túrin a Dor-lómin, «nell'inverno dell'anno», come era riportato negli Annali del Beleriand, «con presagi di dolore». Ma la tragedia della sua vita non si comprende in nessun modo soltanto attraverso il ritratto del personaggio, giacché questi era condannato a vivere intrappolato in una maledizione di enorme e misterioso potere, la maledizione d'odio scagliata da Morgoth su Húrin, Morwen e i loro figli, poiché Húrin lo aveva sfidato e aveva rifiutato il suo volere. E Morgoth, il Nemico Nero, come poi venne chiamato, era stato in origine - per sua stessa
ammissione in presenza di Húrin quando questi fu fatto prigioniero e condotto al suo cospetto - «Melkor, il primo e il più potente dei Valar, che esisteva da prima del mondo.» Ora, permanentemente incarnato nella forma di un gigantesco, maestoso, ma terribile Re nel Nord-Ovest della Terra di Mezzo, egli era fisicamente presente nella sua enorme fortezza di Angband, l'Inferno di Ferro: il fumo nero che esalava dalle sommità delle Thangorodrim, le montagne che aveva eretto al di sopra di Angband, lo si poteva vedere da lontano tingere il cielo settentrionale. Si leggeva negli Annali del Beleriand che «i cancelli di Morgoth distavano solo centocinquanta leghe dal ponte di Menegroth: lontani, ma fin troppo vicini». Il riferimento è al ponte che conduceva alle abitazioni del Re elfo Thingol, che accolse Túrin e se ne occupò come fosse suo figlio. Si chiamavano Menegroth, le Mille Caverne, nel profondo sud e a est del Dor-lómin. Ma, così incarnato, Morgoth aveva paura. Mio padre scrisse di lui: «Mentre cresceva la sua cattiveria e promanava da sé il male che aveva concepito nella forma di menzogne e di creature perfide, il suo potere passava a loro e in loro veniva disperso; quindi Morgoth divenne sempre più legato alla terra, restio a uscir fuori dalla sua oscura roccaforte». Pertanto, quando Fingolfin, Re Supremo degli Elfi Noldor, cavalcò tutto solo fino ad Angband per sfidare Morgoth in combattimento, gridò presso i cancelli di Angband: «Vieni avanti, re codardo. Vieni a combattere con le tue stesse mani! Tu che dimori in una tana, brandisci incantesimi, menti e trami agguati, nemico degli Dèi e degli Elfi, vieni fuori! Così ch'io possa vedere il tuo vile volto». Allora, si dice che «Morgoth apparve, giacché non poteva rifiutare tale sfida dinanzi ai suoi capitani». Combatté con il grande martello Grond, che a ogni colpo apriva una grande fossa e schiacciò Fingolfin al suolo; ma questi, prima di morire, puntellò il grande piede di Morgoth a terra, «e nero sangue ne sgorgò, riempiendo le fosse di Grond. Morgoth fu fermato per sempre». E così pure quando Beren e Lúthien, sotto forma di lupo e di pipistrello, si inoltrarono fino alla sala più profonda di Angband, ove sedeva Morgoth, Lúthien fece su di lui un incantesimo; e, «all'improvviso questi cadde, al pari di una collina che scivola via come una valanga, e come un tuono precipitò dal suo trono bocconi sul pavimento dell'inferno. La corona di ferro rotolò dal suo capo rumorosamente». La maledizione di un simile essere, che può asserire: «L'ombra dei miei intenti si stende su Arda [la Terra] e tutto ciò che è in essa si piega lentamente ma sicuramente al mio volere», è diversa dalle maledizioni e dalle
imprecazioni di esseri dai poteri assai minori. Morgoth non «invoca» il male o le calamità su Húrin e sui suoi figli, non si «rivolge» a un potere superiore per fare da agente, giacché egli, «Signore dei destini di Arda», come si descrive a Húrin, intende portare alla rovina il suo nemico con la forza del proprio gigantesco volere. Quindi «progetta» il futuro di quelli che odia e arriva a dire a Húrin: «Su tutti coloro che ami il mio pensiero peserà come una nuvola di Rovina e li trascinerà in basso nell'oscurità e nella disperazione». Il tormento che aveva architettato per Húrin era questo: Hurin avrebbe dovuto «vedere con gli occhi di Morgoth». Mio padre diede una definizione di quello che ciò significava: se qualcuno fosse costretto a guardare nell'occhio di Morgoth, «vedrebbe» (o riceverebbe nella sua mente dalla mente di Morgoth) un'irresistibile visione di eventi, distorta dalla infinita malizia di Morgoth. E se in realtà chiunque poteva rifiutare il comando di Morgoth, Húrin non lo fece. Ciò era in parte dovuto, disse mio padre, al suo amore per i parenti, e la sua angosciosa ansia per loro gli fece desiderare di apprendere tutto quanto poteva di loro, a prescindere dalla fonte. In parte anche per orgoglio, poiché credeva di aver battuto Morgoth nella discussione e che avrebbe potuto «sfidare» lo sguardo di Morgoth, almeno riuscendo a mantenere il suo spirito critico e distinguere i fatti dalla malignità. Per tutta la vita di Túrin, dal momento della sua partenza dal Dor-lómin, e durante la vita di sua sorella Niënor che mai vide suo padre, questo fu il destino di Húrin, immobile sull'alto seggio delle Thangorodrim, mentre in lui cresceva l'asprezza ispirata dal suo tormentatore. Nel racconto di Túrin, che chiamò se stesso Turambar «Padrone del Destino», la maledizione di Morgoth sembra essere vista come un potere scatenato per produrre il male, alla ricerca delle sue vittime. Così viene detto che lo stesso Vala caduto temeva che «se la forza di Túrin fosse cresciuta eccessivamente, la sua maledizione su di lui si sarebbe spezzata e sarebbe così sfuggito al destino che gli aveva preparato» (p. 149). E più avanti, a Nargothrond, Túrin nasconde il suo vero nome, cosicché, quando Gwindor lo rivela, questi s'infuria: «Amico, mi hai fatto del male rivelando il mio vero nome: così hai attirato su di me la cattiva sorte alla quale cercavo di sottrarmi». Era stato Gwindor a raccontare a Túrin delle voci che aveva sentito ad Angband, dove lo stesso Gwindor era stato tenuto prigioniero, e cioè che Morgoth avesse fatto un incantesimo su Húrin e su tutti i suoi parenti. Ma adesso risponde all'ira di Túrin: «Il tuo destino è dentro di te e
non nel tuo nome». È così essenziale, ai fini della narrazione, questo complesso concetto, che mio padre propose perfino un titolo alternativo: Narn e'Rach Morgoth, Il Racconto della Maledizione di Morgoth. E la sua idea di essa è riflessa in queste parole: «Così terminò il racconto di Túrin lo sventurato; la peggiore delle opere di Morgoth fra gli Uomini nel mondo antico». Quando Barbalbero attraversò la foresta di Fangorn portando Merry e Pipino ciascuno nella piega del suo braccio, cantò loro di luoghi che aveva conosciuto in tempi remoti e degli alberi che ivi crescevano: Fra salici e prati a Tasarinan passeggiavo in Primavera. Ah! la vista e il profumo di Primavera a Nan-tasarion! Dicevo: «È bello!». Nei boschi di olmi d'Ossiriand erravo d'Estate. Ah! le luci e i suoni d'Estate fra i Sette Fiumi di Ossir! Pensavo ch'era ancor meglio. Ai faggi di Neldoreth giungevo infine in Autunno. Ah! il rosso e l'oro e il fremer di foglie d'Autunno a Taur-na-neldor! Colmava ogni mio desiderio. Sino ai pini degli altipiani di Dorthonion salivo d'Inverno. Ah! il vento e il bianco e il nero dei rami d'Inverno a Orod-na-Thôn! S'innalzava il mio canto nei cieli. E ora sommerse dall'onda son quelle terre. E io cammino attraverso Ambaróna, Tauremona e Aldalómë, Attraverso il mio territorio, il paese di Fangorn, Ove lunghe son le radici, E più fitti che foglie gli innumerevoli anni A Tauremornalómë. La memoria di Barbalbero - il più antico degli Ent, vecchio quanto le montagne - era davvero lunga. Ricordava le antiche foreste del grande paese del Beleriand, che fu distrutto durante i tumulti della Grande Battaglia alla fine della Prima Era. Il Grande Mare sommerse tutte le terre a occidente delle Montagne Azzurre, chiamate Ered Luin e Ered Lindon, cosicché la mappa che accompagna Il Silmarillion finisce a oriente con quella catena montuosa, mentre quella del Signore degli Anelli finisce a occidente con lo stesso sistema montuoso; e le terre costiere oltre le montagne, de-
nominate sulla mappa Forlindon e Harlindon (Lindon Nord e Lindon Sud) erano tutto ciò che rimaneva nella Terza Era del paese chiamato sia Ossiriand, Terra dei Sette Fiumi, sia Lindon, e Barbalbero una volta ne attraversò i boschi di olmi. E attraversò anche la grande pineta sulle alte terre di Dorthonion («Terra dei Pini»), che poi fu chiamata Taur-nu-Fuin, «la Foresta sotto la Notte», quando Morgoth la trasformò in «una regione di terrore e oscuro incanto, del vagare e della disperazione» (pp. 153-154). E giunse a Neldoreth, la foresta settentrionale di Doriath, reame di Thingol. Fu nel Beleriand e nelle terre a nord che il terribile destino di Túrin si compì; e, in verità, sia Dorthonion sia Doriath, che Barbalbero attraversò, furono determinanti nella sua vita. Venne al mondo in un tempo di guerre, sebbene egli fosse ancora un ragazzo, quando si combatté l'ultima e più grande battaglia delle guerre del Beleriand. Un breve resoconto di come andarono le cose chiarirà i possibili dubbi e i riferimenti cui si farà cenno nel racconto. A nord, i confini del Beleriand sembrano essere stati formati da Ered Wethrin, le Montagne dell'Ombra, oltre le quali si trovava il paese di Húrin, Dor-lómin, una parte dello Hithlum; mentre a est, il Beleriand si estendeva fino ai piedi delle Montagne Azzurre. Più a est si trovavano le terre che quasi non compaiono nella storia dei Tempi Remoti, ma le popolazioni che dettero forma alla storia vennero da oriente attraverso i passi delle Montagne Azzurre. Gli Elfi apparvero sulla terra nel lontanissimo oriente, accanto a un lago che si chiamava Cuiviénen, Acqua del Risveglio; e di lì furono invitati dai Valar a lasciare la Terra di Mezzo, e passarono sul Grande Mare per raggiungere il «Reame Benedetto» di Aman nell'occidente del mondo, la terra degli Dei. Coloro che accettarono l'invito furono guidati in una grande marcia attraverso la Terra di Mezzo dal Vala Oromë, il Cacciatore, e sono chiamati Eldar, gli Elfi del Grande Viaggio, gli Alti Elfi, diversi da quelli che, rifiutando l'invito, scelsero la Terra di Mezzo come loro terra e loro destino. Essi sono gli «Elfi minori», detti Avari, i Riluttanti. Ma non tutti gli Eldar, sebbene avessero attraversato le Montagne Azzurre, solcarono le acque del mare; e coloro che restarono nel Beleriand sono chiamati Sindar, gli Elfi Grigi. Il loro re supremo era Thingol (che significa «Mantogrigio»), che regnò da Menegroth, le Mille Caverne, a Doriath. E non tutti gli Eldar che attraversarono il Grande Mare rimasero nella terra dei Valar, giacché una delle loro grandi stirpi, i Noldor (i «Mae-
stri di Sapienza»), fece ritorno alla Terra di Mezzo, e sono chiamati gli Esiliati. Chi di loro scatenò la ribellione contro i Valar fu Fëanor, «Spirito di Fuoco»: era il figlio più grande di Finwë, capo dei Noldor durante il viaggio da Cuiviénen, ma che era ormai morto. Questo evento fondamentale nella storia degli Elfi fu brevemente raccontato da mio padre nell'Appendice A del Signore degli Anelli: Fëanor fu il più grande degli Eldar in arte e in scienza, ma anche il più orgoglioso e ostinato. Egli creò i Tre Gioielli, i Silmarilli, e infuse in essi lo splendore dei Due Alberi, Telperion e Laurelin, che davano luce alla terra dei Valar. Morgoth il Nemico bramava possedere i Gioielli e li rubò, distruggendo gli Alberi, e li portò nella Terra di Mezzo custodendoli nella sua grande fortezza di Thangorodrim [le montagne sopra Angband]. Contro il volere dei Valar, Fëanor abbandonò il Reame Benedetto e si recò in esilio nella Terra di Mezzo, portando con sé gran parte della sua gente; orgoglioso com'era, voleva riprendere i Gioielli a Morgoth con la forza. Seguì la disperata guerra degli Eldar e degli Edain contro Thangorodrim, ove furono alla fine completamente sconfitti. Fëanor fu ucciso in battaglia subito dopo il ritorno dei Noldor nella Terra di Mezzo, e i suoi sette figli possedevano vasti territori a est del Beleriand, tra Dorthonion (Taur-nu-Fuin) e le Montagne Azzurre; ma il loro potere fu distrutto nella terribile Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, che è descritta nei Figli di Húrin e, da allora, «i Figli di Fëanor vagarono come foglie al vento» (p. 60). Il secondo figlio di Finwë era Fingolfin, il fratellastro di Fëanor, il signore di tutti i Noldor; e questi, con suo figlio Fingon, governò nello Hithlum, che si stendeva a nord e a est della grande catena degli Ered Wethrin, le Montagne dell'Ombra. Fingolfin risiedeva a Mithrim, presso il grande lago dello stesso nome; mentre Fingon governava a Dor-lómin, a sud dello Hithlum. La loro fortezza principale era Barad Eithel (la Torre della Sorgente) a Eithel Sirion (Fonte di Sirion), dove il fiume Sirion nasceva dal versante orientale delle Montagne dell'Ombra: Sador, lo storpio domestico di Húrin e Morwen, prestò servizio lì come soldato, come disse a Túrin (pp. 39-40). Dopo la morte di Fingolfin in singolar tenzone con Morgoth, Fingon di-
venne il Re Supremo dei Noldor al suo posto. Túrin lo vide una volta, quando egli e «molti dei suoi signori avevano cavalcato per il Dor-lómin passando sul ponte di Nen Lalaith, in un luccichio bianco e argento» (p. 38). Il secondo figlio di Fingolfin era Turgon. All'inizio, dopo il ritorno dei Noldor, abitò nella casa chiamata Vinyamar, sul mare, nella regione di Nevrast, a ovest del Dor-lómin; ma, in gran segreto, costruì la città nascosta di Gondolin, situata su una collina in mezzo alla valle chiamata Tumladen, completamente chiusa dai Monti Cerchianti, a est del fiume Sirion. Quando Gondolin fu ultimata, dopo molti anni di duro lavoro, Turgon cambiò residenza e andò ad abitare con la sua gente, sia con i Noldor che con i Sindar, a Gondolin; e per secoli questo fortino elfico di grande bellezza fu conservato nella più profonda segretezza, la sua unica entrata ben celata e sorvegliata, così che nessun straniero potesse mai oltrepassarla; e Morgoth non riuscì a scoprire dove si trovasse. Almeno fino alla Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, quando Turgon emerse da Gondolin con il suo grande esercito, dopo più di trecentocinquanta anni. Il terzo figlio di Finwë, fratello di Fingolfin e fratellastro di Fëanor, era Finarfin. Questi non fece ritorno alla Terra di Mezzo, ma i suoi figli e sua figlia vennero con la schiera di Fingolfin e dei suoi figli. Il figlio più grande di Finarfin si chiamava Finrod e, ispirato dalla magnificenza e dalla bellezza di Menegroth nel Doriath, fondò la città fortezza sotterranea e fu chiamato Felagund, che significa «Signore delle Caverne» o «Scavatore di Caverne» nella lingua dei Nani. Le porte di Nargothrond si aprivano sulla gola dove il fiume Narog, nel Beleriand occidentale, attraversava le alte colline chiamate Taur-en-Faroth o Alto Faroth; ma il reame di Finrod si estendeva in lungo e in largo a est del fiume Sirion e a ovest del fiume Nenning che si univa al mare presso il porto di Eglarest. Ma Finrod fu ucciso nelle prigioni sotterranee di Sauron, il principale servo di Morgoth, e Orodreth, secondo figlio di Finarfin, prese la corona del Nargothrond: ciò avvenne nell'anno che seguì la nascita di Túrin a Dor-lómin. Gli altri figli di Finarfin, Angrod e Aegnor, vassalli del loro fratello Finrod, risiedevano nel Dorthonion che volgeva a nord sul vasto piano di Ardgalen. Galadriel, sorella di Finrod, risiedette a lungo a Doriath con Melian, la regina. Melian era una Maia, uno spirito di grande possanza che prese sembianze umane e abitò nelle foreste del Beleriand con Re Thingol: era la madre di Lúthien e antenata di Elrond. Non molto tempo prima del ritorno dei Noldor da Aman, quando i grandi eserciti scesero da Angband a sud ed
entrarono nel Beleriand, Melian (come si dice nel Silmarillion) «fece ricorso al proprio potere e cinse il dominio [le foreste di Neldoreth e di Region] tutto intorno con un invisibile muro d'ombra e smarrimento: la Cintura di Melian che nessuno in seguito poté oltrepassare contro la sua volontà o quella di Re Thingol, a meno di non essere dotato di un maggior potere di Melian la Maia». Da quel momento questa terra fu denominata Doriath, «la Terra della Cintura». Nel sessantesimo anno dal ritorno dei Noldor, ponendo fine a molti anni di pace, una grande schiera di Orchi scese da Angband, ma subì una sonora sconfitta e fu distrutta dai Noldor. Fu detta Dagor Aglareb, la Battaglia Gloriosa; ma i capi degli Elfi capirono l'avvertimento e cinsero d'assedio Angband per quasi quattrocento anni. Si diceva che gli Uomini (che gli Elfi chiamarono Atani, «i Secondi», e Hildor, «i Successivi») si fossero destati nel lontanissimo Oriente della Terra di Mezzo verso la fine dei Tempi Remoti; ma della loro preistoria gli Uomini che entrarono nel Beleriand nei giorni della Lunga Pace, quando Angband era sotto assedio e serrate erano le sue porte, non fecero mai menzione. Il capo di questi primi Uomini che attraversarono le Montagne Azzurre si chiamava Bëor il Vecchio; e a Finrod Felagund, re di Nargothrond, che fu il primo a incontrarli, Bëor dichiarò: «Una tenebra si stende dietro di noi e noi le abbiamo voltato le spalle; non desideriamo tornarvi neppure con il pensiero. I nostri cuori si sono volti all'Occidente ed è lì che pensiamo di trovare la Luce». Sador, il vecchio servitore di Húrin, parlò allo stesso modo a Túrin nella sua fanciullezza (p. 42). Ma più tardi si dirà che quando Morgoth apprese del destarsi degli Uomini, lasciò Angband per l'ultima volta e andò a Oriente; e che il primo Uomo a entrare nel Beleriand «si era pentito e ribellato contro l'Oscuro Signore e furono crudelmente braccati e oppressi da coloro che lo adoravano e dai suoi servitori». Questi Uomini appartenevano alle tre Casate, conosciute come la Casa di Bëor, la Casa di Hador e la Casa di Haleth. Il padre di Húrin, Galdor detto l'Alto, era della Casa di Hador, del quale era figlio. Ma sua madre era della Casa di Haleth, mentre Morwen, sua moglie, era della Casa di Bëor e parente di Beren. La gente delle tre Casate era detta Edam (la forma Sindarin di Atani) ed erano chiamati Amici degli Elfi. Hador abitava nello Hithlum e gli fu dato il dominio del Dor-lómin dal Re Fingolfin; la gente di Bëor si stabilì nel Dorthonion; e quella di Haleth a quel tempo dimorò nella Foresta di Bre-
thil. Al termine dell'Assedio di Angband, Uomini di tanti diversi generi giunsero dalle montagne; ci si riferiva a loro chiamandoli gli Esterling e alcuni di essi ebbero una parte importante nella storia di Túrin. L'Assedio di Angband terminò con una terribile rapidità (sebbene fosse stato a lungo preparato) in una notte di pieno inverno, 395 anni dopo il suo inizio. Morgoth sprigionò rivi di fuoco che scendevano giù dalle Thangorodrim e la grande pianura erbosa di Ard-galen che si stendeva a nord dell'altipiano del Dorthonion fu trasformata in una landa inaridita e desolata, più tardi conosciuta con il nuovo nome di Anfauglith, cioè Polvere Soffocante. Questo catastrofico assalto fu detto Dagor Bragollach, la Battaglia della Fiamma Improvvisa. Glaurung, Padre dei Draghi, emerse da Angband per la prima volta in piena possanza; vasti eserciti di Orchi si riversarono verso sud; i signori degli Elfi del Dorthonion furono uccisi, così come gran parte dei guerrieri della gente di Bëor. Il Re Fingolfin e suo figlio Fingon furono respinti assieme ai guerrieri dello Hithlum nella fortezza di Eithel Sirion, sul versante orientale delle Montagne dell'Ombra, e, nel difenderla, Hador Testadoro fu ucciso. Allora Galdor, padre di Húrin, divenne signore del Dor-lómin, giacché i torrenti di fuoco vennero fermati dalla barriera delle Montagne dell'Ombra, e lo Hithlum e il Dor-lómin rimasero inespugnati. Fu nell'anno successivo alla Bragollach che Fingolfin, nella furia della disperazione, cavalcò fino ad Angband e sfidò Morgoth. Due anni dopo, Húrin e Huron andarono a Gondolin. Dopo altri quattro anni, nel corso di un nuovo attacco allo Hithlum, il padre di Húrin, Galdor, venne ucciso nella fortezza di Eithel Sirion; Sador si trovava lì, come raccontò a Túrin (p. 40), e vide Húrin (allora un giovanotto ventunenne) «assumere il governo e il comando». Tutte queste cose erano fresche nella memoria a Dor-lómin quando nacque Túrin, nove anni dopo la Battaglia della Fiamma Improvvisa. NOTE SULLA PRONUNCIA La nota che segue intende semplicemente chiarire alcune delle questioni principali relative alla pronuncia dei nomi. Consonanti C ha sempre il suono di k, mai di s; pertanto Celebros si pronuncia «Ke-
lebros» e non «Selebros».1 CH ha sempre il suono eh dello scozzese loch o del tedesco buch, mai quello di ch dell'inglese church; ne sono esempi Anach, Narn i Chîn Húrin. DH è sempre usato per rappresentare la pronuncia sonora («morbida») del th inglese, cioè il th di then, non il th di thin. Ne sono esempi Glóredhel, Eledhwen, Maedhros. G ha sempre il suono della g inglese di get; per cui Region non si pronuncia come l'inglese region, e la prima sillaba di Ginglith si pronuncia come nell'inglese begin, non come in gin. 2 Vocali AI ha il suono dell'inglese eye; quindi, la seconda sillaba di Edain è come nell'inglese dine, non come Dane 3 AU ha il valore di ow nell'inglese town; così, la prima sillaba di Sauron è come l'inglese sour, e non sore.4 EI che ricorre, ad esempio, in Teiglin ha il suono dell'inglese grey. IE non va pronunciato come nell'inglese piece, ma con entrambe le vocali i ed e sonore e dette assieme; per cui si pronuncia Ni-enor e non «Neenor». AE che ricorre, ad esempio, in Aegnor e Nirnaeth, è una combinazione delle singole vocali a-e, ma ae può essere pronunciato allo stesso modo di AI. EA ed EO non formano dittongo, ma costituiscono due sillabe distinte; queste vengono scritte ëa ed ëo, come in Bëor, o all'inizio di nomi Eä, Eö, come in Eärendil. Ú nei nomi come Húrin e Túrin, si pronuncia come l'inglese oo; quindi 1
Né c ha mai il suono dolce, per il lettore italiano, di "Celebros". In inglese get si pronuncia "ghet"; region si pronuncia con la g morbida quindi differentemente da "Reghion" e da "Ereghion" di questo testo; begin si pronuncia "beghìn", laddove gin ha la g morbida cone nell'inglese region, quindi il suggerimento Ginglith si pronuncia "Ghinghlith". 3 In inglese eye si pronuncia "ai"; dine si pronuncia "dàin"; e Dane si pronuncia "Dèin": quindi il suggerimento Edain si pronuncia "Edàin". 4 In inglese town si pronuncia "taun"; owl si pronuncia "aul"; sour si pronuncia "sauar", e sore si pronuncia "sor": quindi Sauron si pronuncia così come è scritto. 2
«Toorm» e non «Tyoorin». 5 IR, UR davanti a una consonante (come in Círdan e Gurthang) non si debbono pronunciare come nell'inglese fir e fur, ma come in inglese eer e oor. 6 E al termine di un vocabolo è sempre pronunciata come una vocale distinta e in questo caso si scrive ë. Non è mai muta in mezzo a vocaboli quali Celebros e Menegroth. Le precedenti note sono prese, con qualche piccola modifica dovuta ai nomi qui presentati, dall'edizione 2004 del Silmarillion, pp. 369-371.
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Quindi, in italiano, "Turin" e non "Tiurin". Cioè in italiano si leggono come si scrivono: "Círdan" e "Gurthang".
I FIGLI DI HÚRIN
CAPITOLO I L'INFANZIA DI TÚRIN Hador Testadoro era un signore degli Edain, molto amato dagli Eldar. Egli rimase, finché ebbe vita, sotto la signoria di Fingolfin che gli assegnò vaste terre in quella regione dello Hithlum, che era detta Dor-lómin. Sua figlia Glóredhel sposò Haldir figlio di Halmir, Signore degli Uomini del Brethil; e durante la stessa cerimonia suo figlio Galdor l'Alto prese in moglie Hareth, la figlia di Halmir. Galdor e Hareth ebbero due figli, Húrin e Huor. Il primo era di tre anni maggiore del secondo, ma era di statura più bassa di altri uomini della sua stirpe; sotto questo profilo aveva preso da sua madre, ma per tutto il resto era simile a Hador suo nonno, robusto di corporatura e focoso di temperamento. Ma la fiamma in lui ardeva di continuo, e tenacissima era la sua volontà. Di tutti gli Uomini del Nord, era quello che meglio conosceva i propositi dei Noldor. Suo fratello Huor era alto, il più alto di tutti gli Edain, eccezion fatta per Tuor, suo figlio, e veloce nella corsa; se però il percorso era lungo e duro, Húrin era il primo a giungere alla meta, perché correva con altrettanta velocità all'inizio come alla fine della gara. Grande era l'amore che univa i due fratelli che in gioventù furono raramente divisi. Húrin sposò Morwen, figlia di Baragund figlio di Bregolas della Casa di Bëor, che era pertanto parente stretta di Beren il Monco. Morwen era alta, bruna di capelli, e per la luce dello sguardo e la bellezza del volto era detta Eledhwen, cioè Splendore degli Elfi; ma era di modi piuttosto rigidi e alte-
ri. Le pene toccate alla Casa di Bëor le rattristarono il cuore, poiché venne nel Dor-lómin dal Dorthonion da esule, dopo la rovina della Bragollach. Túrin era il nome del figlio maggiore di Húrin e Morwen, nato l'anno in cui Beren venne nel Doriath e vi trovò Lúthien Tinúviel, la figlia di Thingol. Morwen partorì a Húrin anche una figlia che fu chiamata Urwen, ma era detta anche Lalaith, vale a dire Riso, da tutti coloro che la conobbero durante la sua breve vita. Huor sposò Rían, cugina di Morwen, figlia di Belegund figlio di Bregolas. Duro fato aveva voluto che nascesse in giorni simili, perché era mite di cuore e non amava né caccia né guerra. Il suo amore andava agli alberi e ai fiori delle selve, ed era cantatrice e artefice di canti. Era sposata da soli due mesi con Huor, quando questi andò col fratello alla Nirnaeth Arnoediad, ed essa mai più lo rivide. Ma ora il racconto ritorna a Húrin e Huor nei giorni della loro gioventù. Si dice che per un po' di tempo i figli di Galdor abitassero nel Brethil e fossero allevati come figli dallo zio Haldir, secondo le usanze degli Uomini del Nord di quei tempi. Spesso si recarono in battaglia insieme con gli Uomini del Brethil contro gli Orchi che allora vessavano con ripetuti attacchi i confini settentrionali della loro terra. Húrin, sebbene solo diciassettenne, era forte, mentre Huor, più giovane di lui, era già alto quanto gli uomini più cresciuti di quella gente.
Una volta Húrin e Huor andarono con una compagnia di esploratori, ma subirono un'imboscata degli Orchi, si dispersero e furono inseguiti fino al Guado di Brithiac. Sarebbero stati catturati o uccisi se non fosse stato per il potere di Ulmo che era ancora forte sulle acque del Sirion. Si dice che una nebbia si levò dal fiume e li nascose allo sguardo dei loro nemici; ed essi fuggirono di là dal Brithiac e giunsero nel Dimbar. Lì vagarono con grandi privazioni tra le colline, ai piedi delle nude pareti del Crissaegrim, finché non si smarrirono negli inganni di quella landa e non seppero più da che parte proseguire, né come far ritorno. Quivi Thorondor li scorse e inviò due delle sue Aquile in loro aiuto; e queste li trasportarono in alto, al di là dei Monti Cerchianti, nella Valle segreta di Tumladen e la città nascosta di Gondolin, che nessun Uomo aveva ancora mai visto. Lì, Turgon il Re li ricevette cortesemente non appena seppe delle loro parentele, dato che Hador era un Amico degli Elfi e Ulmo, inoltre, aveva consigliato Turgon di trattare gentilmente i figli di quella Casa, dai quali aiuto gli sarebbe giunto al momento del bisogno. Húrin e Huor abitarono come ospiti nella casa del Re per ben quasi un anno. Si dice che durante quel tempo Húrin, la cui mente era veloce e viva, molto apprese della cultura degli Elfi e anche qualcosa delle idee e dei propositi del Re, giacché a Turgon piacquero assai i figli di Galdor e a lungo con loro egli conversò. Davvero avrebbe voluto tenerli con sé a Gondolin per semplice affetto e non solo per la sua legge secondo la quale nessun straniero, Elfo o Uomo che fosse, il quale trovasse la strada per il regno celato oppure avesse avvistato la città, poteva ripartirne, finché il Re non sospendesse l'isolamento e il popolo nascosto ne uscisse. Húrin e Huor, però, desideravano tornare fra i loro e aver parte nelle guerre e nelle sofferenze con cui adesso quelli erano alle prese. E Húrin disse a Turgon: «Signore, noi non siamo che Uomini mortali, diversi dagli Eldar. Questi possono attendere lunghi anni lo scontro con i loro nemici, anche se l'ora debba suonarne in un tempo remotissimo; per noi, invece, il tempo è breve, la nostra speranza e la nostra forza ben presto svaniscono. Inoltre, non siamo stati noi a trovare la via per Gondolin e, puoi credermi, non sappiamo esattamente dove si trovi questa città: vi siamo stati portati, impauriti e meravigliati, per le alte vie del cielo, e buona sorte ha voluto che i nostri occhi fossero velati». Allora Turgon cedette alla sua preghiera e disse: «Avete licenza di andarvene per la stessa via per la quale siete venuti, purché Thorondor lo voglia. Sono addolorato per la vostra partenza; ma può darsi che ci si in-
contri nuovamente, in un lasso di tempo breve secondo il computo degli Eldar». Però Maeglin, figlio della sorella del Re, il quale era potente a Gondolin, non era affatto dispiaciuto che se ne andassero, non solo perché li invidiava per il favore a loro concesso dal Re, ma anche perché non nutriva affetto per nessuno della stirpe degli Uomini; e disse a Húrin: «La grazia a te concessa dal Re è maggiore di quanto tu non creda; e qualcuno potrebbe domandarsi perché la legge è divenuta meno severa di un tempo per due bricconi figli di Uomini. Sarebbe più sicuro se non avessero altra scelta che dimorare qui come nostri servitori fino alla fine dei loro giorni». Replicò Húrin: «La grazia del Re è grande davvero; ma se la nostra parola non basta, ebbene, noi presteremo giuramento a te». E i fratelli giurarono di non rivelare mai i propositi di Turgon e di tenere segreto tutto ciò che avevano visto nel suo regno. Presero poi congedo e le Aquile scesero e li portarono via nottetempo, deponendoli nel Dor-lómin prima dell'alba. I loro si rallegrarono nel vederli, avendo messaggeri riportato dal Brethil la notizia che si erano perduti; ma i due non vollero nemmeno dire al loro padre dov'erano stati, a parte che le Aquile li avevano salvati e riportati a casa. Tuttavia, Galdor insistette: «Dunque, siete stati per un anno nelle selve? O le Aquile vi hanno ospitati nei loro nidi? Eppure avete trovato cibo e begli abiti, tant'è che siete riapparsi in veste di giovani principi, non certo di derelitti del bosco». E Húrin rispose: «Sii contento che siamo tornati, giacché ciò ci è stato concesso solo in cambio del giuramento di non parlare». Allora Galdor più non li interrogò, anche se sia lui che molti altri intuirono la verità, dato che sia il giuramento del silenzio che le Aquile facevano pensare a Turgon, considerarono gli Uomini. Così trascorsero i giorni e l'ombra della paura di Morgoth si allungò. Ma nell'anno quattrocentosessantanovesimo dopo il ritorno dei Noldor nella Terra di Mezzo, fra gli Elfi e gli Uomini la speranza rifiorì, che si era sparsa la voce delle imprese di Beren e Lúthien e dell'umiliazione di Morgoth sul suo stesso trono in Angband, né mancava chi sosteneva che Beren e Lúthien fossero ancora vivi o ritornati dai Morti. In quello stesso anno, i grandi disegni di Maedhros giunsero quasi a compimento, e con il rinascere delle forze degli Eldar e degli Edain l'avanzata di Morgoth venne bloccata e gli Orchi furono scacciati dal Beleriand. Allora alcuni presero a parlare di future vittorie e di vendicare la battaglia della Bragollach, laddove Maedhros avrebbe dovuto mettersi alla testa degli eserciti uniti, costringere
Morgoth sotto terra e sigillare le Porte di Angband. Ma i più prudenti erano ancora incerti, poiché temevano che Maedhros svelasse troppo presto la sua crescente forza, dando così a Morgoth il tempo di elaborare disegni contrari. «Sempre, ad Angband, verranno architettate nuove perfidie che né Uomini né Elfi potranno indovinare» dicevano costoro. E nell'autunno di quell'anno, a confermarne le parole, ecco giungere un vento cattivo dal Nord sotto plumbei cieli. Il Perfido Fiato, così fu chiamato, poiché era pestilenziale; e molti s'ammalarono e morirono alla fine dell'anno nelle contrade settentrionali confinanti con l'Anfauglith e per lo più si trattava di bambini o di giovinetti nelle case degli Uomini. Quell'anno, Túrin figlio di Húrin ne contava solo cinque, e sua sorella Urwen ne compì tre all'inizio della primavera. I suoi capelli erano come i gigli gialli tra l'erba quando correva per i campi, e il suo riso era come l'acqua dei lieti rivi che venivano cantando dai colli, frusciando accanto alle mura della casa di suo padre. Nen Lalaith era soprannominata, e così tutti i familiari chiamavano la bambina Lalaith, e i loro cuori erano gai quando essa era tra loro. Túrin però era meno amato di lei. Era bruno di capelli come sua madre, e prometteva lo stesso suo carattere; non era allegro, era laconico sebbene avesse appreso a parlare precocemente e sembrasse anzi maggiore dei suoi anni. Lento era Túrin a dimenticare ingiustizie o beffe; ma in lui era anche il fuoco di suo padre, ed egli poteva mostrarsi impetuoso e feroce. Ma era anche pronto alla pietà, e i dolori o la malinconia di creature viventi bastavano a muoverlo alle lacrime; e anche per questo era come suo padre, poiché Morwen era severa con gli altri come con se stessa. Túrin amava la madre che sempre gli rivolgeva parole franche ed esplicite; il padre però lo vedeva di rado, siccome Húrin era spesso lontano da casa, con l'esercito di Fingon che custodiva le frontiere orientali dello Hithlum e, quando tornava, la sua rapida favella, punteggiata di parole strane, battute e allusioni, sbalordiva e confondeva Túrin. In quel periodo, il suo cuore era tutto per la sorella Lalaith, con la quale però di rado giocava, più piacendogli osservarla non visto e guardarla procedere sull'erba o tra gli alberi, intenta a intonare quei canti che i figli degli Edain composero molto tempo fa, quando la lingua degli Elfi era ancora fresca sulle loro labbra. «Bella come una figlia di Elfi è Lalaith» disse Húrin a Morwen; «ma assai meno longeva, ahimè! E per questo forse più bella, magari più cara.» E Túrin, udendo queste parole, le meditò ma non gli riuscì di capirle, essen-
do che non aveva mai visto figli di Elfi. Nessuno degli Eldar in quel tempo viveva nelle terre di suo padre e una sola volta li aveva veduti, ed era stato quando Re Fingon e molti dei suoi signori avevano cavalcato per il Dorlómin, passando sul ponte di Nen Lalaith, in un luccichio bianco e argento. Ma, prima che l'anno terminasse, la verità delle parole di suo padre fu manifesta, che il Perfido Fiato penetrò nel Dor-lómin, e Túrin s'ammalò, e a lungo giacque in preda alla febbre e a cupi sogni. E quando ne guarì, poiché tale era il suo destino e la forza della vita che era in lui, chiese di Lalaith. Ma la sua nutrice gli rispose: «Non parlare più di Lalaith, figlio di Húrin; ma di tua sorella Urwen, devi chiedere a tua madre». E allorché Morwen venne a lui, Túrin le disse: «Non sono più malato, e voglio vedere Urwen; ma perché non devo più parlare di Lalaith?». «Perché Urwen è morta e il riso si è spento in questa casa» rispose la madre. «Tu però vivi, figlio di Morwen; e vive anche l'Avversario che ci ha fatto questo.» Non tentò di confortarlo più di quanto facesse con se stessa, poiché il proprio dolore lo affrontava in silenzio e con fermezza di cuore. Túrin però pianse apertamente e prese la sua arpa con l'intento di comporre un canto di cordoglio; ma non gli riuscì e spezzò l'arpa e, uscito di casa, levò la mano verso il Nord gridando: «Guastatore della Terra di Mezzo, possa io vederti faccia a faccia, e marchiarti come ha fatto il mio signore Fingolfin!». Ma nottetempo, solo, Túrin piangeva amaramente, sebbene in presenza di Morwen non pronunciasse mai più il nome della sorella. A un unico amico si rivolgeva in quel periodo, a lui parlando del suo dolore e di quanto vuota fosse la casa. Quell'amico si chiamava Sador, ed era un domestico al servizio di Húrin; era zoppo e tenuto in scarso conto. Era stato boscaiolo e per malasorte o per errore nel maneggiare la scure si era tagliato il piede destro, e la gamba mutila gli si era rattrappita; e Túrin lo chiamava Labadal, che vuol dire «saltellante», sebbene il soprannome non dispiacesse a Sador, essendo dettato da compassione e non da scherno. Sador operava nelle dipendenze a fabbricare o a riparare cose di poco valore di cui ci fosse necessità in casa, avendo egli una certa abilità nel lavorare il legno; e Túrin gli portava ciò che gli abbisognava perché non gli si stancasse la gamba, e a volte veniva in segreto da lui con un arnese o un pezzo di legno che trovava incustodito, se pensava che potesse servire all'amico. Sador allora sorrideva, ma gli diceva di rimettere il dono al suo posto; «Dai con generosità, ma dai solo del tuo» diceva. Ricompensava come poteva la gentilezza del fanciullo, intagliando per lui figure di uomini e animali; ma
Túrin soprattutto si deliziava ai racconti di Sador, che era stato giovane ai tempi della Bragollach e adesso amava indugiare sui brevi giorni della sua piena virilità, prima della mutilazione. «Fu una grande battaglia, così dicono, figlio di Húrin. Nel gran bisogno di quell'anno, anch'io venni richiamato dalle opere cui ero intento nella foresta; ma non sono stato alla Bragollach, altrimenti la mia ferita l'avrei ricevuta con più onore. Siamo infatti giunti troppo tardi, appena in tempo per riportare il feretro del vecchio signore, Hador, caduto con la guardia di Re Fingolfin. Sono andato soldato, dopo di allora, e sono stato a Eithel Sirion, la grande fortezza dei Re elfici, per lunghi anni, o almeno tali mi sembrano, perché dei successivi e monotoni c'è ben poco da ricordare. Mi trovavo a Eithel Sirion quando il Re Nero l'assalì, e Galdor padre di tuo padre ne era il comandante in vece del Re. Fu ucciso durante l'assalto; e ho visto tuo padre assumerne governo e comando, sebbene fosse appena giunto all'età virile. V'era un fuoco in lui che rendeva, così dicono, calda la spada che impugnava. Sotto la sua guida, abbiamo ricacciato gli Orchi nelle sabbie; e da quel giorno non hanno più osato farsi vedere. Ma, ahimè, il mio amore per la battaglia era saziato, poiché avevo visto abbastanza sangue versato e ferite; e mi feci congedare per tornare ai boschi ai quali agognavo; e lì mi sono ferito, poiché a un uomo che fugge la propria paura può capitare di scoprire che ha solo imboccato la scorciatoia per incontrarla.» Così Sador parlava a Túrin mentre questi cresceva, e Túrin prese a porre tante domande cui Sador aveva difficoltà a rispondere, ritenendo che altri più vicini al ragazzo avrebbero dovuto fargli scuola. E un giorno Túrin gli chiese: «Davvero Lalaith era simile a una figlia di Elfi, come ha detto mio padre? E che cosa intendeva, dicendo che era meno longeva?». «Molto simile» rispose Sador; «poiché nella prima giovinezza i figli degli Uomini e degli Elfi sembrano parenti stretti. Ma i figli degli Uomini crescono più rapidamente, e ben presto la loro giovinezza sfiorisce. Tale è il nostro destino.» Gli domandò allora Túrin: «Che cos'è il destino?». «Quanto a quello degli Uomini,» rispose Sador «devi chiederne a coloro che sono più sapienti di Labadal. Ma sappi che, come tutti possiamo notare, ben presto noi ci stanchiamo e moriamo; e, per sventura, molti trovano la morte persino prima del tempo. Gli Elfi invece non si stancano e non muoiono se non per grandi ferite. Da ferite e dolori che distruggerebbero gli Uomini, essi possono guarire; e v'è chi dice che, anche quando i loro
corpi sono corrotti, essi ritornano. Non così noi.» «Dunque, Lalaith tornerà?» volle sapere Túrin. «E dov'è andata?» «Non tornerà» replicò Sador. «Ma dove sia andata, nessuno lo sa. Io, per lo meno, no.» «Ed è sempre stato così? Oppure noi siamo vittime di una maledizione del Re malvagio, qualcosa di simile al Perfido Fiato?» «Lo ignoro. Alle nostre spalle si estende una tenebra, dalla quale pochi racconti sono venuti. Può darsi che i padri dei nostri padri avessero qualcosa da narrare, ma non l'hanno fatto. Dimenticati sono persino i loro nomi. I Monti stanno tra noi e la vita da cui essi sono venuti, fuggendo da che cosa nessuno lo sa.» «Avevano dunque paura?» domandò Túrin. «Può darsi» rispose Sador. «Non è escluso che fuggissero la paura della Tenebra, solo per ritrovarla qui di fronte a noi, e nessun altro luogo dove fuggire se non il mare.» «Noi non abbiamo più paura,» disse Túrin «per lo meno non tutti noi. Non ha paura mio padre, e io non ne avrò; o almeno, come mia madre, se avrò paura non lo darò a vedere.» Parve a Sador che gli occhi di Túrin non fossero quelli di un bambino, e si disse: «Il dolore è una dote per un animo duro». E ad alta voce: «Figlio di Húrin e Morwen, quale sarà il tuo cuore, Labadal non può indovinarlo. Ma di rado e a pochi tu mostrerai ciò che è in esso». Allora Túrin: «Forse è meglio non dire quel che si desidera se non si può averlo. Ma, Labadal, mi piacerebbe essere uno degli Eldar. E allora Lalaith potrebbe tornare, e io sarei ancora qui anche se la sua assenza dovesse durare a lungo. Andrò soldato con un Re degli Elfi appena ne avrò l'età, come hai fatto tu, Labadal». «Potrai imparare molto da loro» disse Sador, e sospirò. «Sono bella gente, gente meravigliosa, e hanno potere sul cuore degli Uomini. Pure, a volte penso che sarebbe stato meglio se mai li avessimo incontrati, ma avessimo proceduto lungo vie più umili. Che la loro sapienza è già antica, e sono fieri e tenaci. Alla loro luce, noi ci offuschiamo o bruciamo con troppo rapida fiamma, e il gravame della nostra sorte tanto più ci pesa». «Ma mio padre li ama» ribatté Túrin «e senza di loro non è felice. Dice che da loro abbiamo imparato quasi tutto ciò che sappiamo, così nobilitandoci; e dice anche che gli Uomini giunti di recente da oltre i Monti sono poco meglio degli Orchi.» «Ciò è vero» confermò Sador. «Almeno per alcuni di noi. Ma salire è fa-
ticoso, e dalle cime è facile precipitare.» A quel tempo, Túrin aveva quasi otto anni, ed era il mese di Gwaeron secondo il computo degli Edain, nell'anno che non può essere dimenticato. Già correvano voci fra gli anziani di una grande adunanza e raccolta di armi, di cui Túrin nulla udì, sebbene avesse notato che suo padre spesso lo fissava intensamente, come un uomo può guardare qualcosa che gli è cara e dalla quale deve separarsi. E Húrin, conoscendone il coraggio e la discrezione, sovente parlava con Morwen dei disegni del Re degli Elfi e di ciò che poteva accadere se fossero andati a segno o meno. Il suo cuore era acceso di speranza, e ben poco si preoccupava dell'esito della battaglia, non sembrandogli che nessuna forza nella Terra di Mezzo bastasse a rovesciare la possanza e lo splendore degli Eldar. «Hanno visto la Luce in Occidente» diceva «e alla fine la Tenebra dovrà sparire dai loro volti.» Morwen non lo contraddiceva, poiché in compagnia di Húrin ciò che si sperava sempre appariva come la cosa più probabile. Ma nel suo sangue era conoscenza di saggezza elfica, e a se stessa diceva: «Pure, non hanno forse lasciato la Luce e non ne sono ora esclusi? Può darsi che i Signori dell'Occidente li abbiano allontanati dai loro pensieri; e quindi, come possono, anche se sono i Primogeniti, vincere uno dei Poteri?». Neppure l'ombra di simili dubbi sembrava sfiorare Húrin Thalion; e tuttavia, un mattino della primavera di quell'anno si svegliò come dopo un sogno inquieto, e per tutto il giorno una nube ne offuscò la gaiezza; e la sera d'un tratto disse: «Quando sarò chiamato, Morwen Eledhwen, affiderò alle tue cure l'erede della Casa di Hador. Le vie degli Uomini sono brevi, e in esse molti sono gli eventi infausti persino in tempo di pace». «È sempre stato così» replicò lei. «Ma che cosa nascondono le tue parole?» «Prudenza, non dubbio» rispose Húrin; ma sembrava turbato. «Tuttavia, chi guardi in avanti non può rendersi conto che le cose non resteranno quali erano. Sarà un grande scontro, e una parte cadrà più in basso di quanto non sia ora. Se a cadere saranno i Re degli Elfi, andrà male per gli Edain; e noi siamo quelli che dimorano più vicini all'Avversario. Ma se le cose dovessero andar male, non sarò io a dirti: Non temere! Perché tu temi ciò che temere si deve, e null'altro; e la paura non ti sgomenta. Invece ti dico: Non aspettare! Io tornerò da te quando potrò, ma tu non aspettare! Vattene a sud il più presto possibile; io ti seguirò e ti ritroverò, dovessi cercarti da un capo all'altro del Beleriand.»
«Il Beleriand è vasto e inospitale per gli esuli» osservò Morwen. «Dove dovrò fuggire, con molti o con pochi?» Húrin allora rimase a riflettere per qualche istante in silenzio. «C'è la stirpe di mia madre nel Brethil» disse poi. «A volo d'aquila, sono una trentina di leghe.» «Se tempi così tristi dovessero davvero venire, quale soccorso si può sperare dagli Uomini?» domandò Morwen. «La Casa di Bëor è caduta. Se cade anche la grande Casa di Hador, in quali buchi dovrà strisciare la piccola gente di Haleth?» «Sono pochi e ignoranti» replicò Húrin «ma non dubitare del loro valore. C'è forse speranza altrove?» «Non parli di Gondolin» osservò Morwen. «No, perché quel nome non è mai uscito dalle mie labbra» ribatté Húrin. «È vero però quel che hai udito dire: sì, ci sono stato. Ma in verità ti dico una cosa che non ho detto e non dirò a nessun altro: non so dove si trovi.» «Però lo indovini, e con una certa precisione, penso» fece Morwen. «Può darsi» convenne Húrin. «Ma a meno che Turgon in persona non mi sciolga dal mio giuramento, non posso dire neppure a te quale sia la mia congettura; sicché, la tua cerca sarebbe vana. Ma, dovessi io parlare, per mia vergogna, giungeresti al massimo a una porta serrata, che, a meno che Turgon non scenda in guerra (e di questo non s'è udita parola, né lo si spera), nessuno vi entrerà.» «Sicché, se la tua stirpe non ha speranze, e i tuoi amici ti rinnegano» disse Morwen «non mi resta che fare di testa mia; e in questo momento m'è venuta l'idea del Doriath.» «Ti sei posta un alto obiettivo» disse Húrin. «Dici che sia troppo ambizioso?» replicò Morwen. «Ritengo infatti che, di tutte le difese, l'ultima a cedere sarà la Cintura di Melian; e nel Doriath la Casa di Bëor non sarà oggetto di disprezzo. Non sono forse parente del Re? Beren figlio di Barahir era, infatti, nipote di Bregor, come anche mio padre.» «Il mio cuore non propende per Thingol» replicò Húrin. «Da lui nessun aiuto verrà a Re Fingon; e ora so perché un'ombra cala sul mio spirito quando sento nominare il Doriath.» «Anche il mio cuore s'abbuia al nome del Brethil» replicò Morwen. E all'improvviso Húrin scoppiò a ridere e se ne uscì a dire: «Ce ne stiamo qui a discutere su cose che ci trascendono e di ombre uscite dal sogno. Le cose non andranno poi così male; e se anche, dovrai affidarti al tuo co-
raggio e al tuo buon senso. Fa' allora ciò che il tuo cuore ti detta; ma non agire frettolosamente. E se otterremo il nostro scopo, sappi che i Re degli Elfi sono decisi a restituire tutti i feudi della Casa di Bëor al loro erede; e quella sei tu, Morwen figlia di Baragund. Ampi domini dovremo allora possedere e una ricca eredità toccherà a nostro figlio. Senza far del male, nel Nord arriverà a possedere grandi ricchezze e sarà re tra gli Uomini». «Húrin Thalion» disse Morwen «penso che sia più giusto dire che tu guardi in alto, ma io temo di cadere in basso.» «Anche se fosse così, non dovresti aver timore» disse Húrin. Quella notte Túrin si svegliò a mezzo, e gli parve che la madre e il padre stessero accanto al suo letto, osservandolo alla luce delle candele che reggevano; ma i loro volti non li scorse. Il mattino del compleanno di Túrin, Húrin gli regalò un coltello forgiato dagli Elfi, e manico e fodero erano argentei e neri. Gli disse: «Erede della Casa di Hador, eccoti un dono per questa ricorrenza. Ma fai attenzione! È una lama affilatissima, e l'acciaio serve soltanto a coloro che sanno maneggiarlo. Ti taglierebbe la mano con la stessa facilità con la quale taglierebbe ogni altra cosa». E sollevò Túrin, lo mise in piedi su un tavolo, lo baciò e disse: «Già mi superi in statura, figlio di Morwen; ben presto sarai alto così sui tuoi stessi piedi. E quel giorno, possano molti temere la tua lama». Poi Túrin corse fuori e se ne andò solo, e in cuor suo c'era un calore simile a quello del sole sulla terra fredda, che sommuove la crescita. Ripeté a se stesso le parole del padre: «Erede della Casa di Hador»; ma anche altre parole gli tornavano alla mente: «Dai con generosità, ma dai solo del tuo». E andò da Sador e gridò: «Labadal, è il mio compleanno, il compleanno dell'erede della Casa di Hador! E ti ho portato un dono per celebrare questo giorno. Eccoti un coltello, proprio quello che ti occorre, capace di tagliare qualsiasi cosa tu voglia, sottile come un capello». Sador ne fu turbato, perché ben sapeva che Túrin aveva avuto il coltello in dono lui stesso; ma gli uomini ritengono che sia mal fatto rifiutare un dono liberamente dato, da qualsiasi mano provenga, e pertanto gli disse con voce grave: «Sei di una stirpe generosa Túrin, figlio di Húrin. Non ho fatto nulla che valga il tuo dono, e non posso sperare di far di meglio nei giorni che ancora mi restano; ma ciò che posso fare lo farò». E quando Sador sguainò il coltello, disse: «Questo, sì, che è un dono: una lama di elfico acciaio. A lungo mi è mancato questo contatto».
Ben presto Húrin notò che Túrin non portava il coltello, e gli chiese se per caso il suo avvertimento gliel'avesse fatto temere. Rispose Túrin: «No, ma il coltello l'ho dato a Sador, il legnaiolo». «Dunque, spregi il dono di tuo padre?» domandò Morwen; e Túrin rispose di nuovo: «No. Ma voglio bene a Sador, e ne provo compassione». E allora Húrin: «Tre doni ti era lecito dare, Túrin: amore, pietà e solo da ultimo il coltello». «Dubito però che Sador se lo meriti» disse Morwen. «È invalido per la sua imperizia ed è lento nei lavori, perché molto tempo lo spreca in futilità non richieste.» «Di lui abbi comunque compassione» intervenne Húrin. «Una mano onesta e un cuore sincero possono sbagliare taglio; e il dolore può essere più duro da reggere che se fosse opera di un nemico!» «Ma adesso dovrai attendere un'altra lama» osservò Morwen. «Così il dono sarà tale davvero e a farne le spese sarai tu.» Ciononostante, Túrin da allora s'avvide che Sador veniva trattato più gentilmente, ed era intento adesso a costruire un grande seggio per il signore che vi sedesse nella sua aula. Era un chiaro mattino, nel mese di Lothron, quando Túrin fu risvegliato da un improvviso suono di trombe; e, corso all'uscio, nel cortile scorse una gran ressa di uomini a piedi e a cavallo, armati di tutto punto come per la guerra. C'era anche Húrin, il quale parlò agli uomini e impartì ordini; e Túrin seppe così che quello stesso giorno avrebbero mosso alla volta di Barad Eithel. Erano armigeri e domestici di Húrin, ed erano stati convocati tutti gli uomini della sua terra. Alcuni di loro erano già partiti con Huor, fratello di suo padre; e molti altri si sarebbero uniti al Signore del Dorlómin strada facendo, per andare, seguendone lo stendardo, alla grande rivista del Re. Poi Morwen prese congedo da Húrin senza lacrime; e gli disse: «Custodirò tutto quanto hai lasciato in mani mie, ciò che è e ciò che sarà». E Húrin: «Addio, Signora del Dor-lómin; noi partiamo con maggiori speranze di quante ne abbiamo mai avute. Auguriamoci che a metà dell'inverno la festa sarà più allegra che in tutti i nostri anni precedenti, e che le farà seguito una primavera senza timori!». Poi si prese Túrin in spalla e gridò ai suoi uomini: «Che l'Erede della Casa di Hador veda il balenio delle vostre spade!». E il sole smagliò su cinquanta spade che balzavano dai foderi, e la corte risuonò del grido di battaglia degli Edain del Nord: «La-
cho caladi Drego morn! Fiammeggia Luce! Fuggi Notte!». Solo allora Húrin balzò in sella, e il suo dorato stendardo venne spiegato, e le trombe tornarono a squillare nel mattino; e così Húrin Thalion partì per la Nirnaeth Arnoediad. Ma Morwen e Túrin continuarono a stare sull'uscio, finché da molto lontano giunse loro, portato dal vento, debole, il richiamo di un unico corno: Húrin aveva superato la cresta del colle, oltre il quale più non poteva scorgere la sua casa.
CAPITOLO II LA BATTAGLIA DELLE INNUMEREVOLI LACRIME Molti canti sono intonati e molti racconti narrati dagli Elfi sulla Nirnaeth Arnoediad, la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, nella quale Fingon cadde e si spense il fiore degli Eldar. Se tutto si dovesse rinarrare, la vita di un uomo non basterebbe per udirlo. Perciò qui si narrerà solo degli accadimenti che riguardano il destino della Casa di Hador e dei figli di Húrin il Costante. Avendo raccolto alla fine tutta la forza che poteva, Maedhros scelse un giorno, il mattino di Mezz'estate. Quel giorno le trombe degli Eldar salutarono il Sole nascente e a oriente fu issato lo stendardo dei figli di Fëanor; a occidente quello di Fingon, Re dei Noldor. Allora Fingon scrutò l'orizzonte dalle mura di Eithel Sirion e il suo esercito era schierato nelle valli e nei boschi a est dell'Ered Wethrin, ben nascosto allo sguardo del Nemico; e constatò che era un assai grande esercito dato che tutti i Noldor dello Hithlum erano riuniti e con loro molti Elfi delle Falas di Nargothrond; e grande era pure il numero di Uomini. Sulla destra v'erano l'esercito di Dor-lómin e tutta la possanza di Húrin e Huor, suo fratello; a loro si erano uniti Haldir del Brethil, loro parente, con molti Uomini dei Boschi.
Fingon allora volse lo sguardo verso est e la sua vista elfica scorse in lontananza una nuvola di polvere e il bagliore dell'acciaio come stelle nella nebbia, e seppe che Maedhros si era mosso e ne fu felice. Poi guardò verso Thangorodrim e le vide avvolte da una cupa nuvola e fumo nero se ne levava. Seppe allora che Morgoth era montato in collera e che la loro sfida era stata raccolta. L'ombra del dubbio calò sul suo cuore. Ma in quel momento un grido si levò e il vento lo portò da sud di valle in valle ed Elfi e Uomini vociavano di meraviglia e gioia poiché, inaspettatamente e senza che lo si fosse spronato a farlo, Turgon aveva aperto le porte di Gondolin ed era giunto con un forte esercito di diecimila guerrieri rivestiti di lucenti cotte di maglia, con le loro lunghe spade e lance da sembrare una foresta. Allora, quando Fingon udì in lontananza la grande tromba di suo fratello Turgon, l'ombra che era calata su di lui si dissolse, il suo cuore ne fu sollevato e gridò forte: «Utulie 'n aurei Aiya Eldalië ar Atanatarni, utulie 'n aure! Il giorno è venuto! Ecco, popolo degli Eldar e Padri di Uomini, è giunto il giorno!». E tutti coloro che ne udirono la forte voce echeggiare tra i colli, risposero gridando: «Auta i lome! La notte sta per finire!». Di lì a poco la battaglia avrebbe avuto inizio, giacché Morgoth, ampiamente informato di ciò che veniva fatto e architettato dai suoi nemici, aveva preparato i suoi piani per l'ora dell'attacco. Già una gran schiera da Angband si stava portando verso lo Hithlum, mentre un'altra, più imponente, andava incontro a Maedhros per impedire l'unione degli eserciti dei re. E coloro che arrivarono contro Fingon erano tutti vestiti di bruno, sì da non mostrare il nudo acciaio: per questo erano già assai avanti sulle sabbie di Anfauglith quando la loro presenza fu segnalata. Allora i cuori dei Noldor s'infuocarono e i loro capitani volevano assalire gli avversari sulla piana; ma Fingon si dichiarò contrario. E disse: «State attenti all'astuzia di Morgoth, signori! La sua forza è sempre maggiore di quel che sembra e i suoi piani diversi da quello che appaiono. Non mostrate la vostra forza e lasciate che sia il nemico a sferrare il primo attacco sulle colline». Ed era nei piani dei re che Maedhros marciasse apertamente su Anfauglith con tutte la sua forza di Elfi, Uomini e Nani; e, come sperava, una volta suscitata la reazione delle schiere principali di Morgoth, Fingon sarebbe giunto dall'ovest, così da schiacciare tra incudine e martello la potenza di Morgoth e ridurla in pezzi. Il segnale doveva essere l'accensione di un grande faro nel Dorthonion. Ma il Capitano di Morgoth in occidente aveva ricevuto l'ordine di far uscire fuori Fingon dalle sue colline con qualunque mezzo. Ragion per cui
continuò la marcia sinché il fronte delle sue schiere fu attestato sulla riva del Sirion, dalle mura di Barad Eithel alla Palude di Serech, sì che gli avamposti di Fingon potevano guardare il nemico negli occhi. Tuttavia la sua sfida rimase senza risposta e gli Orchi, dopo un po', cessarono di lanciare insulti trovandosi di fronte nient'altro che mura silenziose e la minaccia nascosta tra le colline. Allora il Capitano di Morgoth fece partire dei cavalieri con insegne di parlamento e questi giunsero agli avamposti di Barad Eithel. Con loro trascinavano Gelmir, figlio di Guilin, un signore del Nargothrond che avevano catturato nella Bragollach e che avevano accecato. I loro araldi lo esibivano gridando: «Ne abbiamo molti altri come lui da noi, ma dovete fare in fretta se volete ritrovarli, perché ci occuperemo di loro quando torneremo». Poi tagliarono braccia e gambe a Gelmir e lì lo lasciarono. Sfortuna volle che in quel punto degli avamposti stesse Gwindor, figlio di Guilin, con molti altri del Nargothrond e, in verità, aveva marciato alla guerra con tutta la foga che aveva in corpo proprio per il dolore per la cattura di suo fratello. La sua ira lo infiammò, balzò in sella al suo cavallo e molti altri con lui; inseguirono gli araldi di Angband e li uccisero; tutta la gente del Nargothrond li seguì e penetrarono a fondo nello schieramento di Angband. A quella vista, l'esercito dei Noldor non seppe più trattenersi e Fingon si pose in capo l'elmo bianco, fece dar fiato alle trombe e tutte le armate s'avventarono da dietro le colline in un'improvvisa carica. Il barbaglio delle spade sguainate dei Noldor era simile a fuoco in una distesa di canne; così feroce e rapida fu la loro azione, che per poco i disegni di Morgoth non andarono in fumo. Prima che l'esercito, che egli aveva inviato a ovest per attirarli nella trappola, potesse ricevere rinforzi fu spazzato via e distrutto e gli stendardi di Fingon volarono sull'Anfauglith e furono piantati davanti alle mura di Angband. Sempre in prima linea nella battaglia era Gwindor e con lui gli Elfi del Nargothrond, e neppure ora si poté trattenerli: irruppero attraverso i cancelli esterni e uccisero i guardiani nei cortili stessi di Angband. Morgoth tremò sul suo trono nelle profondità, udendoli battere alle sue porte. Ma Gwindor rimase lì intrappolato e catturato vivo, mentre i suoi furono sterminati: Fingon non poté accorrere in loro aiuto. Inoltre, da molte porte segrete delle Thangorodrim, Morgoth aveva, infatti, fatto uscire gran parte delle sue forze che aveva tenuto di riserva e Fingon fu ricacciato dalle mura con gravi perdite. Allora, nella piana di Anfauglith ebbe inizio il quarto giorno di guerra,
cominciò lì la Nirnaeth Arnoediad, e nessun racconto può contenerne tutto il dolore. Di tutto ciò che accadde nella battaglia a oriente - la disfatta di Glaurung il drago da parte dei Nani di Belegost, il tradimento degli Esterling e la distruzione dell'esercito di Maedhros e la fuga dei figli di Fëanor qui più non si dice. A occidente, le schiere di Fingon ripiegarono sulle sabbie e lì caddero Haldir, figlio di Halmir, e gran parte degli Uomini del Brethil. Il quinto giorno, però, quando calò la notte ed erano ancora lungi dall'Ered Wethrin, ecco che gli eserciti di Angband circondarono quello di Fingon e combatterono finché non si fece giorno, incalzati sempre più da presso. La speranza rinacque al mattino, allorché si udirono i corni di Turgon che accorreva con il grosso delle forze di Gondolin; infatti questi erano rimasti di stanza a sud per guarnire i Passi del Sirion, e Turgon era riuscito a trattenere gran parte dei suoi da una carica avventata. Ora accorreva in aiuto di suo fratello e i Noldor di Gondolin erano forti, le loro file luccicanti come un fiume di acciaio al sole, che spada e bardatura dell'ultimo dei guerrieri di Turgon valeva ben più del riscatto di qualunque re tra gli Uomini. Ed ecco che la falange della guardia del Re irruppe tra i ranghi degli Orchi e Turgon si aprì un varco fino a raggiungere suo fratello. Si narra che, sebbene nel mezzo della battaglia, fu lieto l'incontro di Turgon con Húrin che stava al fianco di Fingon. Per un po', allora, le schiere di Angband furono respinte e Fingon iniziò di nuovo la ritirata. Ma, avendo disfatto Maedhros a oriente, Morgoth aveva forze da vendere e, prima ancora che Fingon e Turgon riuscissero a trovare rifugio dietro le colline, furono assaliti da una marea di nemici, di tre volte superiori per numero di tutte le forze che rimanevano loro. Gothmog, supremo comandante di Angband, era lì giunto e piantò un negro cuneo tra gli eserciti degli Elfi, accerchiando Re Fingon e respingendo Turgon e Húrin verso la Palude di Serech. Poi si volse contro Fingon e fu uno scontro terribile. Alla fine Fingon si trovò solo, con le sue guardie del corpo morte attorno a lui; e combatté con Gothmog, finché un altro Balrog lo prese alle spalle, imprigionandolo con un laccio d'acciaio. Allora Gothmog lo abbatté con la sua ascia nera e una fiamma bianca sprizzò dall'elmo di Fingon quando venne spaccato. Così cadde il Re dei Noldor e i nemici lo sfracellarono al suolo nella polvere con le loro mazze e il suo stendardo azzurro e argento gettarono e calpestarono nella pozza del suo sangue. Perduta era la battaglia; ma Húrin e Huor, e quel che rimaneva della Casa di Hador, resistevano ancora a piè fermo con Turgon di Gondolin; e le
schiere di Morgoth non riuscivano a impadronirsi dei Passi del Sirion. Allora Húrin parlò a Turgon e disse: «Vattene, signore, finché sei in tempo! Tu sei l'ultimo della Casa di Fingolfin e in te è riposta l'ultima speranza degli Eldar. Finché Gondolin resiste, il cuore di Morgoth conoscerà la paura». Rispose Turgon: «Ormai Gondolin non può più rimanere celata a lungo e, una volta scoperta, non potrà che cadere». Parlò dunque Huor e disse: «Eppure, se resiste ancora un po', ecco che dalla tua Casata verrà la speranza degli Elfi e degli Uomini. Questo è quel che ti dico, o signore, ora che sono al cospetto della morte: sebbene qui ci si debba separare per sempre e mai più rivedrò le tue bianche mura, da te e da me sorgerà una nuova stella. Addio!». Maeglin, figlio della sorella di Turgon, che era presente, udì quelle parole e non le dimenticò. Allora Turgon fece suo il consiglio di Húrin e Huor e diede ordine che i suoi eserciti ripiegassero verso i Passi del Sirion; e i suoi capitani, Ecthelion e Glorfindel, ne difendevano i fianchi a destra e a sinistra così che nessuno dei nemici potesse aggirarli, giacché l'unica strada in quella regione era angusta e passava lungo la riva occidentale del crescente rivo del Sirion. Ma gli Uomini del Dor-lómin fecero da retroguardia, come volevano Húrin e Huor: essi, infatti, non desideravano in cuor loro abbandonare le Terre Settentrionali e, se non potevano recuperare le proprie dimore, avrebbero resistito sino alla fine. Così avvenne che Turgon si aprì la strada verso sud finché, sempre protetto dalle forze di Húrin e Huor, si mise in salvo scendendo lungo il Sirion; scomparve tra i monti e si celò agli occhi di Morgoth. I fratelli, però, raccolsero attorno a loro quanti restavano degli Uomini della Casa di Hador e, arretrando passo dopo passo, giunsero al di là della Palude di Serech, avendo davanti a loro il rivo di Rivil. Quivi si fermarono senza più cedere. Fu allora che tutti gli eserciti di Angband mossero a schiere contro di loro e con i loro morti formarono un ponte e accerchiarono i superstiti dello Hithlum come una marea che cresce attorno a uno scoglio. Lì, mentre il sole calava a ovest e le ombre degli Ered Wethrin si facevano più scure, Huor cadde trafitto da una freccia avvelenata che lo raggiunse a un occhio, e tutti i prodi di Hador furono uccisi intorno a lui formando pile di corpi senza vita. Gli Orchi tagliarono loro le teste e le ammucchiarono come un tumulo d'oro nel tramonto. Ultimo superstite rimase Húrin, il quale gettò lo scudo e afferrò un'ascia
di un capitano degli Orchi e la brandì con entrambe le mani. Si cantava che l'arma fumasse del sangue nero delle guardie troll di Gothmog finché questa tutta si dissolse e, ogniqualvolta Húrin menava un colpo, gridava: «Aure entuluva! Il giorno risorgerà!». Settanta volte lanciò quel grido; ma lo presero vivo per ordine di Morgoth che pensava di fargli così più male che se lo avesse fatto uccidere. Allora gli Orchi afferrarono Húrin con le mani benché egli ne falciasse le braccia; ma di continuo altri ne sopraggiungevano, finché Húrin non cadde sepolto da tutti loro. Allora Gothmog lo legò e, schernendolo, lo trascinò ad Angband. Così terminò la Nirnaeth Arnoediad, mentre il sole tramontava di là dal mare. La notte calò nello Hithlum e dall'Occidente irruppe un vento di tempesta. Grande fu il trionfo di Morgoth, sebbene non tutti i suoi malefici propositi fossero stati ancora attuati. Un pensiero lo ossessionava profondamente e gli rovinava la vittoria: Turgon era sfuggito alla sua rete e di tutti i suoi nemici era quello che più desiderava catturare e distruggere in quanto Turgon, della potente Casa di Fingolfin, era adesso, a pieno diritto, Re di tutti i Noldor; e Morgoth temeva e odiava la Casa di Fingolfin perché lo avevano disprezzato a Valinor e godevano dell'amicizia di Ulmo, suo nemico; e a causa delle ferite che Fingolfin gli aveva inferto in battaglia. Ma più di tutti temeva Turgon perché in tempi antichi a Valinor l'occhio di questi l'aveva investito della sua luce e, ogniqualvolta gli si accostava, un'ombra nera gli scendeva nell'animo, preannuncio che, in un tempo ancora nascosto nel destino, da Turgon sarebbe venuta la sua rovina.
CAPITOLO III LE PAROLE DI HÚRIN E MORGOTH Ora, per ordine di Morgoth, gli Orchi, con grande fatica, raccolsero tutti i corpi senza vita dei loro nemici e, accumulandone equipaggiamenti e armi, eressero nel cuore della piana dell'Anfauglith un enorme tumulo che era come una collina visibile di lontano. Haudh-en-Ndengin, così la chiamarono gli Elfi. Ma l'erba vi crebbe alta e verde, ricoprendo di erba la collina, unica in tutto quel deserto; e nessuno dei servi di Morgoth calpestò in seguito la terra sotto la quale le spade degli Eldar e degli Edain si sgretolavano per la ruggine. Il reame di Fingon non c'era più e i Figli di Fëanor vagavano come foglie al vento. Nessuno degli Uomini della Casa di Hador aveva fatto ritorno nello Hithlum, né giunsero notizie della battaglia e del destino dei signori. Ma Morgoth inviò colà gli Uomini che erano sotto il suo dominio, gli scuri Esterling; li recluse in quella landa e proibì loro di uscirne. Questo è tutto quanto Morgoth diede loro delle ricche ricompense che aveva promesso per il tradimento di Maedhros: depredare e tormentare vecchi, donne e bambini della gente di Hador. Quelli che degli Eldar rimasero nello Hithlum, tutti coloro che non fuggirono nei boschi e sulle montagne, furono portati nelle miniere di Angband e divennero suoi schiavi. Ma gli Orchi andarono liberamente attraverso tutto il nord e premevano sempre a sud nel Beleriand. Là restavano ancora il Doriath e Nargothrond; ma Morgoth non dava a questi molta importanza, forse perché ben poco ne sapeva o perché il loro momento non era ancora giunto nei suoi piani malvagi. Ma il suo pensiero tornava sempre a Turgon.
Quindi Húrin fu portato al cospetto di Morgoth, perché questi sapeva, grazie alle proprie arti e spie, che Húrin godeva dell'amicizia del Re; e tentò d'intimidirlo con lo sguardo. Ma Húrin, pur sempre indomabile, sfidò Morgoth, il quale pertanto lo fece incatenare e sottoporre a lente torture; dopo un po' andò da lui e gli offrì di scegliere di andarsene libero dove volesse, oppure di avere i poteri e il grado del massimo tra i suoi comandanti, a patto che rivelasse dove Turgon aveva la propria fortezza e quant'altro sapeva delle intenzioni del Re. Ma Húrin il Costante se ne fece beffe dicendo: «Cieco sei, Morgoth Bauglir, e cieco sarai sempre, poiché vedi solo il buio. Ignori ciò che governa il cuore degli Uomini, e se lo sapessi non potresti dirlo. Ma stolto è colui che accetta quel che Morgoth offre. Perché ti prenderesti il premio per poi ritirare la promessa; e io avrei solo morte se ti dicessi quel che mi chiedi». Rise allora Morgoth e disse: «Ti capiterà di desiderare la morte da me quale una grazia». Così portò Húrin allo Haudh-en-Nirnaeth, che era stato appena eretto e vi stagnava sentore di morte; Morgoth mise Húrin in cima al tumulo e gli ordinò di volgere lo sguardo a ovest, verso lo Hithlum, e di pensare a sua moglie, a suo figlio e agli altri del suo sangue. «Perché ora essi sono nel mio regno» disse Morgoth «e alla mia mercé». «... Che a te manca» replicò Húrin. «Ma non arriverai da Turgon tramite loro. Essi infatti ne ignorano i segreti.» Allora Morgoth montò in collera e disse: «Ma posso mettere le mani su di te e la tua maledetta casa; e sarai spezzato per mio volere, fossi tu anche di acciaio». E prese una lunga spada che lì stava, e la spezzò sotto gli occhi di Húrin, che fu ferito al volto da una scheggia. Ma Húrin non batté ciglio. Allora Morgoth, puntando il lungo braccio in direzione del Dor-lómin, maledisse Húrin, Morwen e la loro discendenza, dicendo: «Ecco! L'ombra del mio pensiero sarà su di loro ovunque vadano, e il mio odio li perseguiterà sino ai limiti del mondo.» Ma Húrin ribatté: «Parli invano, perché non puoi vederli né dominarli da lontano: non finché conserverai quest'aspetto, e desidererai ancora di essere un Re visibile sulla terra». Al che Morgoth, volgendosi a Húrin, gli disse: «Stolto, piccolo tra gli Uomini, i quali sono gli ultimi ad avere la parola! Hai mai visto i Valar o misurato il potere di Manwë e Varda? Conosci la portata del loro pensiero? O credi forse che il loro pensiero sia su di te e che da lungi possano proteggerti?».
«Non lo so» rispose Húrin. «Ma potrebbe essere, se lo volessero, giacché il Re Antico non sarà detronizzato finché durerà Arda». «Sei tu che lo dici» disse Morgoth. «Sono io il Re Antico: Melkor, primo e più possente di tutti i Valar, che era prima del mondo e che l'ha creato. L'ombra del mio disegno si stende su Arda, e tutto quanto è in essa lentamente e sicuramente si piega alla mia volontà. Ma su tutti coloro che tu ami il mio pensiero graverà come una nube del Destino e li getterà nella tenebra e nella disperazione. Ovunque andranno, sarà male. Ogniqualvolta parleranno, le loro parole saranno foriere di cattivo consiglio. Qualsiasi cosa facciano, si rivolterà contro di loro. Moriranno in disperazione, maledicendo sia la vita che la morte.» Húrin però rispose: «Dimentichi forse a chi parli? Cose simili tu le hai dette molto tempo fa ai nostri padri; ma siamo sfuggiti alla tua ombra. E ora abbiamo contezza di te, perché abbiamo guardato i volti che hanno visto la Luce e udito le voci di coloro che hanno parlato con Manwë. Prima di Arda tu eri, ma anche altri; e non sei stato tu a crearla. Né sei il più possente, perché la tua forza l'hai sprecata su te stesso, e l'hai vanificata nel tuo proprio vuoto. E ora non sei altro che uno schiavo fuggiasco dei Valar, e la loro catena ancora t'attende». «Hai imparato a memoria la lezione dei tuoi padroni» fece Morgoth. «Ma è un infantile sapere che non ti sarà d'aiuto, ora che sono tutti fuggiti.» «Un'ultima cosa ti voglio dire, schiavo Morgoth,» disse Húrin «e non viene dalla sapienza degli Eldar, ma in questo momento stesso mi è stata posta nel cuore. Tu non sei il Signore degli Uomini, e non lo sarai anche se tutta Arda e Menel cadranno in tua balìa. Non potrai perseguitare coloro che ti rifiutano oltre i Cerchi del Mondo.» «Oltre i Cerchi del Mondo non li perseguiterò» convenne Morgoth. «Perché oltre i Cerchi del Mondo è il Nulla. Ma all'interno di essi non mi sfuggiranno finché non entreranno nel Nulla.» «Menti» ribatté Húrin. «Vedrai, e dovrai ammettere che non mento» disse Morgoth. E, riportato Húrin in Angband, lo mise su un seggio di pietra in un luogo elevato delle Thangorodrim, dal quale poteva scorgere lontana la terra dello Hithlum all'ovest e le contrade del Beleriand al sud. Lì fu avvinto dal potere di Morgoth, e Morgoth standogli accanto ancora lo maledì e lo coprì del proprio potere, sì che non potesse né allontanarsi da quel luogo né morire finché Morgoth non lo avesse liberato.
«Stattene qui seduto» gli disse «e guarda le contrade dove male e disperazione piomberanno su coloro che tu hai consegnato nelle mie mani. Che hai osato farti beffe di me, e hai messo in dubbio il potere di Melkor, Padrone dei destini di Arda. Pertanto, con i miei occhi vedrai, e con le mie orecchie udrai, e nulla ti sarà celato.»
CAPITOLO IV LA PARTENZA DI TÚRIN Tre uomini soltanto alla fine giunsero nel Brethil passando per Taur-nuFuin, una mala strada; e quando Glóredhel, figlia di Hador, seppe che Haldir era caduto, ne morì di dolore. Nel Dor-lómin non giunse nessuna notizia. Rían, moglie di Huor, fuggì, la mente sconvolta, nelle selve; fu però aiutata dagli Elfi Grigi del Mithrim, e quando suo figlio, Tuor, venne al mondo, essi se ne presero cura. Ma Rían andò allo Haudh-en-Nirnaeth, e vi giacque e vi morì. Morwen Eledhwen rimase nello Hithlum in silenzioso dolore. Suo figlio Túrin era appena nel nono anno di età, ed essa era nuovamente incinta. Infelici erano i suoi giorni. Gli Esterling giunsero nella contrada in gran numero, e trattavano crudelmente quelli di Hador, derubandoli di tutto ciò che possedevano e riducendoli in schiavitù. Portarono via quanti nelle patrie terre di Húrin erano in grado di lavorare o di servire a uno scopo, persino fanciulle e fanciulli, e i vecchi li uccisero oppure li indussero a morire di inedia. Ma non osarono mettere le mani sulla Signora del Dor-lómin né cacciarla di casa sua, che tra loro correva voce che era pericolosa, una strega che aveva commerci con i dèmoni bianchi. Così infatti chiamavano gli Elfi, che odiavano ma tanto più temevano. Per tale motivo anche paventavano ed evitavano i monti, tra i quali molti degli Eldar si erano rifugiati, soprattutto nel sud del paese; e dopo aver saccheggiato e devastato, gli Esterling si ritirarono verso nord. La casa di Húrin si trovava nella parte sud-orientale del Dor-lómin, e le montagne erano vicine; anzi, il Nen Lalaith sgorgava da una sorgente all'ombra dell'Amon Darthir, sul cui crinale
era un erto passo per il quale l'audace poteva superare gli Ered Wethrin e calare alle fonti del Glithui nel Beleriand. Ma non ne avevano contezza gli Esterling, né ancora Morgoth, giacché tutta quella contrada, finché la casa di Fingolfin resse, era al sicuro da lui e nessuno dei suoi servi ancora vi si era spinto. Morgoth confidava che gli Ered Wethrin fossero una muraglia insuperabile, sia per chi fuggisse dal nord che per chi volesse assalire dal sud, e in effetti non vi erano altre vie, per chi fosse privo di ali, tra la Serech e il remoto Occidente dove il Dor-lómin confinava col Nevrast. Accadde così che, dopo le prime incursioni, Morwen venisse lasciata in pace, sebbene uomini fossero in agguato nei boschi circostanti: era pericoloso spingersi lontano. Sotto il tetto di Morwen erano tuttora Sador il legnaiolo e qualche vecchio e vecchia, nonché Túrin, che Morwen si teneva sempre vicino, entro la cinta. Ma ben presto la dimora di Húrin decadde e, per quanto Morwen faticasse, era povera e si sarebbe ridotta alla fame, non fosse stato per l'aiuto che le veniva segretamente inviato da Aerin, una parente di Húrin, che un certo Brodda, uno degli Esterling, aveva costretto con la forza a diventare sua moglie: amara era l'elemosina per Morwen, che però accettava l'aiuto per amore di Túrin e del nascituro, e poiché, come diceva, era del suo che le tornava. Infatti quel Brodda si era impadronito della gente, dei beni e del bestiame delle terre di Húrin, portandoli nelle proprie dimore. Era un uomo coraggioso ma tenuto in poco conto dai suoi prima che venissero nello Hithlum; ragion per cui, bramoso di ricchezza, era pronto a mettere le mani su terre che altri del suo stampo sdegnavano. Morwen l'aveva vista una volta, quand'era giunto a cavallo dalle sue parti durante una scorreria. Ma poi era stato colto da grande paura: aveva avuto l'impressione di scorgere gli occhi implacabili di un demone bianco, ed era caduto in preda di mortale terrore all'idea che gliene venisse qualche male; né aveva messo a sacco la casa di Morwen e neppure scoperto Túrin, altrimenti la vita dell'erede del vero signore sarebbe stata di breve durata. Brodda ridusse in schiavitù le Teste di Paglia, come chiamava la gente di Hador, e li mise a costruire un'aula di legno nella contrada a nord della casa di Húrin; e i suoi schiavi erano ammassati come bestie in un recinto, ma mal custoditi. Tra loro, ancora si trovava qualcuno non sottomesso e pronto ad aiutare la Signora del Dor-lómin, sia pure a proprio rischio; e da costoro in segreto giungevano a Morwen notizie del paese, sebbene foriere di scarse speranze. Brodda però si prese Aerin come moglie, non già come schiava, essendo poche le donne tra il suo seguito, e nessuna paragonabile alle figlie degli Edain; ed egli sperava di crearsi una signoria in quella con-
trada, e di avere un erede che la reggesse dopo di lui. Di ciò che era accaduto e di ciò che poteva accadere nei giorni a venire, ben poco Morwen diceva a Túrin, il quale non osava turbarne il silenzio con domande. Allorché i primi Esterling erano penetrati nel Dor-lómin, aveva chiesto alla madre: «Quando tornerà mio padre per scacciare questi brutti ladroni? Perché non viene?». E Morwen: «Non lo so. Può darsi che sia stato ucciso oppure che sia prigioniero, o magari che sia stato costretto a fuggire lontano, e ancora non possa tornare passando tra i nemici che ci circondano». «In tal caso, penso che sia morto» disse Túrin, e in presenza della madre trattenne le lacrime. «Nessuno infatti potrebbe impedirgli di tornare ad aiutarci, se fosse vivo.» «Credo che nessuna delle cose che hai detto risponda al vero, figlio mio» replicò Morwen. Col passare del tempo, il cuore di Morwen si riempì di paura per il figlio Túrin, erede del Dor-lómin e del Ladros, poiché non vedeva per lui altra speranza che di diventare schiavo degli Esterling nel giro di pochi anni. Si ricordò allora di quel che lei e Húrin si erano detti, e ripensò al Doriath; e decise alla fine di mandar via Túrin in segreto, se avesse potuto, e di pregare Re Thingol di dargli rifugio. E mentre meditava su come fare, udì con chiarezza nella propria mente la voce di Húrin che le diceva: «Vattene in frettai Non aspettarmi!». Ma la nascita del figlio che aveva in seno era prossima, e la strada sarebbe stata difficile e perigliosa, e più questa andava minore la speranza di sopravvivere. E ancora una volta il suo cuore la ingannò con speranze immotivate; l'intimo suo pensiero le diceva che Húrin non era morto, e Morwen tendeva l'orecchio per coglierne il rumore dei passi nelle insonni veglie notturne, oppure si risvegliava persuasa di aver udito, in cortile, il nitrito di Arroch, il suo cavallo. Inoltre, sebbene desiderasse che suo figlio crescesse nelle aule di altri, come era uso a quel tempo, non era ancora disposta a umiliare il proprio orgoglio tanto da essere ospitata per elemosina, sia pure da un re. Ragion per cui la voce di Húrin, o meglio il ricordo della sua voce venne soffocato, e svolto il primo filo del destino di Túrin. L'autunno dell'Anno del Cordoglio fu alle porte prima che Morwen avesse preso una risoluzione, e allora dovette fare in fretta: breve era il tempo per il viaggio, e d'altra parte essa temeva che, a rimandarlo dopo l'in-
verno, Túrin venisse preso. Degli Esterling scorrazzavano intorno alla cinta, spiando la casa. Sicché, all'improvviso disse a Túrin: «Tuo padre non ritorna, per cui devi andare, e subito. È quello che lui vorrebbe». «Andare?» gridò Túrin. «E dove? Oltre i Monti?» «Sì,» rispose Morwen «oltre i Monti, verso sud. A sud: può darsi che là ci sia qualche speranza. Ma non ho detto noi, figlio mio. Tu devi andare, io invece restare.» «Non posso partire da solo!» ribatté Túrin. «Non intendo lasciarti. Perché non dovremmo andare insieme?» «Io non posso» rispose Morwen. «Ma tu non partirai da solo. Con te verranno Gethron e forse anche Grithnir.» «Non vuoi che venga con me Labadal?» domandò Túrin. «No, perché Sador è zoppo» disse Morwen «e la strada sarà difficile. E siccome tu sei mio figlio e i tempi sono tristi, non userò mezzi termini: lungo la via può attenderti la morte. L'anno sta per finire. Ma, se rimani, ti toccherà una fine peggiore: sarai schiavo. Se vuoi essere un uomo quando sarai in età adulta, farai come ti dico, e coraggiosamente.» «Ma ti lascerò sola con Sador e con il cieco Ragnir e le vecchie» osservò Túrin. «Non ha forse detto mio padre che io sono l'erede di Hador? E l'erede dovrebbe stare nella casa di Hador per difenderla. Ah, avessi ancora il mio coltello!» «L'erede dovrebbe restare, ma non può» replicò Morwen. «Un giorno però potrà ritornare. E ora fatti animo! Se la situazione dovesse peggiorare, ti seguirò, se mi sarà possibile.» «Ma come farai a trovarmi, sperduto nelle solitudini?» chiese Túrin; e d'un tratto il cuore gli venne meno ed egli apertamente pianse. «Se piagnucoli, altri ti troveranno prima» disse Morwen. «Io però so dove devi andare, e se ci arrivi e ci resti, io forse ti troverò. Ti mando infatti da Re Thingol nel Doriath. Non preferisci essere ospite di un re invece che schiavo?» «Non lo so» rispose Túrin. «Ignoro che cosa sia uno schiavo». «Ti mando via in modo che tu non debba impararlo» replicò Morwen. Poi, tenendo Túrin davanti a sé, lo guardò ben bene negli occhi, come se tentasse di leggervi un indovinello. «È duro, Túrin figlio mio,» disse alla fine «e duro non solo per te. È arduo per me, in questi mali giorni, decidere che cosa sia meglio per te. Ma agisco come ritengo giusto, altrimenti perché dovrei dividermi dalla cosa più cara che mi resta?» Altro non si dissero, e Túrin era addolorato e sconcertato. Il mattino do-
po andò da Sador, che avrebbe dovuto spaccare la legna per il fuoco, ed era scarsa perché non osavano uscire a cercarla nei boschi; in quel momento però, appoggiato alla stampella, era intento a guardare il grande seggio di Húrin, che, non finito, era stato riposto in un angolo. «Meglio farlo a pezzi,» disse «perché soltanto bisogni elementari possono essere soddisfatti di questi tempi.» «Aspetta a farlo» consigliò Túrin. «Può darsi che lui torni a casa, e allora sarà contento di vedere ciò che hai fabbricato per lui durante la sua assenza.» «Le false speranze sono più pericolose delle paure» ribatté Sador «e non ci riscalderanno quest'inverno.» Passò le dita sugli intagli del seggio e sospirò. «Ho sprecato il mio tempo» disse poi «anche se sono state ore piacevoli. Ma cose simili sono tutte di breve durata; e la gioia di farle è il loro unico vero fine, temo. E a questo punto, tanto vale che ti restituisca il dono.» Túrin tese la mano, e subito la ritrasse. «Un uomo non riprende indietro i propri doni» disse. «Ma siccome il coltello è mio, non posso darlo a chi voglio?» domandò Sador. «Sì,» convenne Túrin «a chiunque tranne che a me. Ma perché vorresti sbarazzartene?» «Non ho speranza di potermene servire per compiti degni» spiegò Sador. «Per Labadal nei giorni che verranno non ci sarà altro lavoro che fatica di schiavo.» «Che cos'è uno schiavo?» volle sapere Túrin. «Un uomo che è stato un uomo, ma che è trattato come una bestia» spiegò Sador. «Nutrito quel tanto da tenerlo in vita, tenuto in vita solo per sgobbare, e che sgobba solo per paura del dolore o della morte. E da questi ladroni possiamo avere dolore o morte semplicemente per il loro spasso. Ho udito dire che prendono alcuni dei più agili alla corsa e danno loro la caccia con i cani. Hanno imparato più rapidamente loro dagli Orchi che noi dal Popolo Chiaro.» «Adesso capisco meglio» disse Túrin. «È una vergogna che queste cose tu le debba apprendere così presto» riprese Sador; poi, notando la strana espressione di Túrin: «Ma che cosa hai capito?» «Ho capito perché mia madre vuole mandarmi via» e gli occhi si riempirono di lacrime.
«Ah» fece Sador, e tra sé soggiunse: «Ma perché aver tardato tanto?». Poi, ad alta voce: «Non mi sembra una notizia degna di lacrime. Ma non dovresti parlare con Labadal o con chiunque altro dei propositi di tua madre. Mura e recinti hanno orecchie, di questi tempi, orecchie che non crescono su teste oneste». «Ma devo pur parlarne con qualcuno!» protestò Túrin. «Ti ho detto sempre tutto. Non voglio lasciarti, Labadal. Non voglio lasciare questa casa né mia madre.» «Ma se non lo fai» disse Sador «ben presto sarà per sempre la fine della Casa di Hador, e questo devi capirlo. Labadal non desidera che tu te ne vada; ma Sador servo di Húrin sarà più felice quando il figlio di Húrin sarà fuori della portata degli Esterling. Su, su, non si può evitarlo: dobbiamo prendere congedo. E adesso, vuoi accettare il mio coltello come dono di addio?» «No!» rifiutò Túrin. «Mia madre dice che andrò dagli Elfi, dal Re del Doriath. E lì potrò avere altri oggetti come questo. Ma non potrò mandarti alcun dono, Labadal. Sarò lontano e solo.» E Túrin pianse; ma Sador gli disse: «Forza, dov'è il figlio di Húrin? Ricordo di averlo udito dire, non molto tempo fa: 'Andrò soldato di un Re degli Elfi non appena ne avrò l'età'». Allora Túrin frenò le lacrime e disse: «Bene, se tali sono state le parole del figlio di Húrin, a esse egli deve attenersi e partire. Ma se ho detto che voglio fare questo o quello, certo è che le cose appaiono assai diverse quand'è il momento. Ora non ne ho più voglia. Devo stare attento a non avere più sortite del genere». «Sì, sarebbe meglio» convenne Sador. «Accade che moltissimi insegnino e pochi imparino. Che vengano i giorni futuri. Oggi è più che sufficiente». Túrin dunque si preparò al viaggio e, preso congedo dalla madre, partì segretamente con i suoi due compagni. Ma quando questi lo esortarono a voltarsi a guardare per l'ultima volta la casa di suo padre, l'angoscia del distacco lo ferì come una spada, ed egli gridò: «Morwen, Morwen, quando ti rivedrò?». Morwen però, di sulla soglia, udì l'eco di quel grido tra i colli boscosi, e conficcò le unghie nello stipite dell'uscio tanto da ferirsi le dita. Fu quello il primo dei dolori di Túrin. All'inizio dell'anno successivo alla partenza di Túrin, Morwen diede alla luce una bambina, e la chiamò Niënor, ossia Cordoglio; ma quando nac-
que, Túrin era già molto lontano. Lunga e mala era la sua strada, perché il potere di Morgoth si stendeva per ampio tratto; però aveva per guide Gethron e Grithnir, che erano stati giovani ai tempi di Hador e, sebbene ormai anziani, erano ancora prodi e conoscevano bene le contrade perché in passato avevano sovente percorso il Beleriand. E così, con fortuna e coraggio superarono le Montagne dell'Ombra e, calati nella Valle del Sirion, penetrarono nella Foresta di Brethil; e alla fine, esausti e macilenti, raggiunsero i confini del Doriath. Ma qui restarono disorientati e avvolti dalle reti della Regina, e vagarono sperduti nei boschi senza sentieri, finché tutto il loro cibo fu esaurito. E furono vicini a morte, perché l'inverno calava gelido dal Nord; ma non così benigna era la sorte di Túrin. Mentre erano immersi nella disperazione, udirono un suono di corno. Beleg Arcoforte stava cacciando in quella zona, poiché dimorava proprio sulle frontiere del Doriath, e di quei tempi era il più grande abitante dei boschi. Udì le loro grida e accorse, e dopo che ebbe dato loro da mangiare e da bere apprese come si chiamavano e donde venivano, e ne provò meraviglia e pietà. E guardò con simpatia Túrin che aveva la bellezza di sua madre e gli occhi di suo padre ed era saldo e forte. «Che favore vorresti da Re Thingol?» chiese Beleg al ragazzo. «Vorrei essere uno dei suoi cavalieri per andare contro Morgoth e vendicare mio padre» rispose Túrin. «Forse sarà possibile quando gli anni ti avranno fatto più grande» assicurò Beleg. «Perché, sebbene tu sia ancora piccolo, hai l'aspetto di un uomo valente, degno di essere un figlio di Húrin il Costante, se ciò fosse possibile.» Il nome di Húrin era infatti tenuto in alto onore in tutte le terre degli Elfi. Ragion per cui, Beleg ben volentieri si offrì di far da guida ai viandanti e li condusse a un casino di caccia dove allora dimorava con altri cacciatori, e dove li ospitò mentre un messaggero si recava a Menegroth. E quando giunse notizia che Thingol e Melian erano disposti a ricevere il figlio di Húrin e i suoi accompagnatori, Beleg per vie segrete li condusse nel Regno Nascosto. Così Túrin giunse al grande ponte sull'Esgalduin e varcò le porte delle aule di Thingol; e fanciullo ancora contemplò le meraviglie di Menegroth che nessun uomo mortale aveva visto prima, salvo il solo Beren. Poi Gethron riferì il messaggio di Morwen a Thingol e Melian, e Thingol li accolse benevolmente, e si prese Túrin sulle ginocchia in onore di Húrin, il più possente degli uomini, e di Beren suo parente. E quanti assistevano se ne meravigliarono, poiché era segno che Thingol faceva di Túrin il suo figlio
adottivo; e a quel tempo non era cosa usuale da parte dei re, e tanto meno di un Signore degli Elfi con un Uomo. «Sapienza ti sarà data più di quanta non ne tocchi a Uomini mortali, e nelle tue mani saranno poste le armi degli Elfi. Tempo forse verrà in cui riconquisterai le terre di tuo padre nello Hithlum, ma per ora dimora qui in pace.» Cominciò così il soggiorno di Túrin nel Doriath. Con lui per qualche tempo restarono Gethron e Grithnir, i suoi accompagnatori, sebbene bramassero di ritornare dalla loro Signora nel Dor-lómin. Poi, età e malattia gravarono Grithnir, che rimase al fianco di Túrin fino alla morte; Gethron invece se ne andò, e Thingol inviò con lui una scorta che lo guidasse e proteggesse e che recasse notizie di Thingol a Morwen. Giunsero finalmente alla casa di Húrin, e quando Morwen seppe che Túrin era stato onorevolmente accolto nelle aule di Thingol, il suo dolore fu alleviato. E gli Elfi portarono anche ricchi doni da parte di Melian e l'invito a partire per il Doriath con gli inviati di Thingol. Melian infatti era saggia e previdente, e in tal modo sperava di allontanare il male che andava preparandosi nel pensiero di Morgoth. Morwen però non volle lasciare la sua casa, essendo ancora immutato il suo cuore e forte il suo orgoglio. Inoltre, Niënor era ancora un'infante: ragion per cui rinviò gli Elfi del Doriath con i propri ringraziamenti, dando loro in dono le ultime piccole cose d'oro che le restavano, nascondendo la propria povertà; e li pregò di riportare a Thingol l'Elmo di Hador. Túrin era in continua attesa del ritorno dei messaggeri di Thingol; e quando tornarono soli, fuggì nei boschi e pianse, perché sapeva dell'invito di Melian e aveva sperato che Morwen lo accettasse. Fu questo il secondo dolore di Túrin. Quando i messaggeri riportarono la risposta di Morwen, Melian fu mossa a pietà, poiché le lesse nella mente; e si rese conto che il destino da lei previsto non poteva essere facilmente scongiurato. L'Elmo di Hador fu rimesso nelle mani di Thingol. Era fatto di grigio acciaio con ornamenti aurei, e v'erano incise rune di vittoria: un potere era in esso, che proteggeva chiunque lo portasse da ferita o morte, poiché la spada che lo colpisse sarebbe andata in pezzi e il dardo ne sarebbe stato respinto. A forgiarlo era stato Telchar, il fabbro di Nogrod, le cui opere erano rinomate. L'elmo era munito di una visiera, a guisa di quelle che i Nani costruivano nelle loro fucine per proteggersi gli occhi, e chi lo indos-
sava metteva paura nel cuore di chi lo vedeva, ed era invulnerabile da frecce e fuoco. Sul cimiero era collocata, a sfida, un'immagine dorata della testa di Glaurung il Drago, essendo stato l'elmo fabbricato subito dopo che il Grande Verme era uscito dalle Porte di Morgoth. Più volte Hador, e dopo di lui Galdor, se n'era munito in guerra; e i cuori dell'esercito dello Hithlum esultavano quando lo vedevano torreggiare alto nel mezzo della battaglia, e i guerrieri gridavano: «Più vale il Drago del Dor-lómin che il Verme d'oro di Angband!». Húrin però non portava senza sforzo l'Elmo-di-Drago, e comunque non voleva servirsene, poiché diceva: «Preferisco mostrare ai nemici il mio vero volto». Ciononostante, annoverava l'elmo tra i massimi retaggi della sua Casa. Ora, Thingol aveva, in Menegroth, profonde armerie colme di gran dovizia d'armi: metalli forgiati a guisa di pelli di pesce e baluginanti come acqua alla luna; spade e asce, scudi ed elmi fabbricati da Telchar stesso o dal suo maestro Gamil Zirak il vecchio, o da artigiani elfici ancora più abili. Certi oggetti, infatti, li aveva ricevuti in dono, erano giunti da Valinor e a fabbricarli era stato Fëanor con la sua maestria, maggiore del quale in tutti i giorni del mondo non vi fu artigiano. Pure, Thingol accolse l'Elmo di Hador quasi che scarso fosse il suo tesoro, e disse, cortesemente grato: «Fiero sarebbe il capo che portasse quest'elmo, che è stato indossato dagli antenati di Húrin». Poi gli venne un'idea, a chiamò Túrin, e gli disse che Morwen aveva mandato al figlio una gran cosa, il retaggio dei suoi padri. «Ecco, prendi l'Elmo-di-Drago del Nord» gli disse «e quando suonerà l'ora portalo degnamente.» Ma Túrin era ancora troppo giovane per sollevare l'elmo, né vi fece troppo caso per via del dolore che gli attanagliava il cuore.
CAPITOLO V TÚRIN NEL DORIATH Negli anni della sua infanzia nel regno di Doriath, Túrin fu sotto la tutela di Melian, nonostante ella di rado lo vedesse. C'era però una fanciulla a nome Nellas che viveva nei boschi; e, per ordine di Melian, essa seguiva Túrin quando s'aggirava per la foresta, e spesso lo incontrava come per caso. Poi giocavano insieme, o camminavano mano nella mano, giacché egli crebbe velocemente, mentre lei non era altro che una ragazza della sua età e lo fu nel cuore per tutti i suoi anni elfici. Da Nellas, Túrin molto apprese circa le costumanze e le creature selvatiche del Doriath, ed essa gli insegnò a parlare il Sindarin al modo dell'Antico Regno, che era più vetusto e più cortese e più ricco di belle parole. Così, per un po' il suo animo fu sollevato, finché non ripiombò sotto il peso dell'ombra, e quell'amicizia trascorse come un mattino di primavera. Nellas infatti non andava a Menegroth e non amava neppure stare sotto i tetti di pietra; ragion per cui, passata che fu la fanciullezza di Túrin, e questi volse i pensieri alle imprese degli uomini, sempre meno frequentemente la vide, e alla fine più non la cercò. Lei tuttavia continuò a sorvegliarlo, ora però tenendosi nascosta. Per nove anni Túrin dimorò nelle aule di Menegroth, cuore e mente sempre protesi ai suoi, e a volte, per suo conforto, gliene giungevano notizie. Thingol infatti mandava messaggeri a Morwen ogniqualvolta poteva, e
Morwen ne inviava a sua volta al figlio; così Túrin seppe che la situazione di Morwen era migliorata e che sua sorella Niënor cresceva in bellezza, un fiore nel grigio Nord. E Túrin crebbe in statura fino a essere alto tra gli Uomini, e superava quella degli Elfi del Doriath, e la sua forza e il suo ardire erano celebri nel Regno di Thingol. In quegli anni molto apprese in fatto di antica sapienza, avidamente ascoltando le storie di giorni passati; e si fece pensoso e parco di parole. Sovente Beleg Arcoforte veniva a Menegroth a cercarlo e condurlo lontano con lui, insegnandogli a conoscere i boschi e l'arte del tiro con l'arco e, ciò che soprattutto amava, il maneggio della spada; ma meno abile era nelle attività manuali, perché fu lento a rendersi conto della propria forza e spesso gli capitava di guastare, con gesto eccessivo, ciò che aveva fatto. Anche per altri versi sembrava che la fortuna non gli fosse stata amica, sì che sovente ciò che progettava andava di traverso e ciò che desiderava non l'otteneva; e neppure l'amicizia se la guadagnava facilmente, poiché non era allegro e di rado rideva, e un'ombra oscurava la sua giovinezza. Ciò non toglie che fosse amato e stimato da coloro che lo conoscevano bene, ed era onorato quale figlio adottivo del Re. C'era però uno nel Doriath che per questo provava nei suoi confronti un astio che andò aumentando con l'avvicinarsi di Túrin all'età virile: Saeros era il suo nome. Ed era orgoglioso, e trattava con alterigia coloro che riteneva di condizione più bassa e meno degni di lui. Strinse amicizia con Daeron il menestrello, essendo anch'egli esperto nel canto; e non nutriva amore per gli Uomini, e tanto meno per qualsiasi parente di Beren il Monco. «Non è strano» diceva «che questa terra debba accogliere un altro ancora di quella trista razza? Forse che gli altri non hanno fatto danno abbastanza nel Doriath?» Ragion per cui guardava di traverso Túrin e ogni atto di questi, dicendone tutto il male possibile; ma astute erano le sue parole, e la sua malizia velata. Se s'imbatteva in Túrin da solo, gli parlava con alterigia dandogli a vedere il suo disprezzo; e Túrin finì per averne abbastanza di lui, sebbene a lungo replicasse alle male parole col silenzio, essendo Saeros grande tra quelli del Doriath e un consigliere del Re. Ma il silenzio di Túrin spiaceva a Saeros non meno delle sue parole. L'anno che Túrin ne compì diciassette, il suo dolore fu rinnovato; poiché da allora non gli giunsero più notizie da casa. Anno per anno, il potere di Morgoth era cresciuto e la sua ombra si stendeva adesso su tutto lo Hithlum. Indubbiamente molto sapeva dei fatti della stirpe di Húrin, e se per
qualche tempo l'aveva lasciata in pace, era perché i suoi disegni fossero compiuti; adesso però, per realizzare il suo proposito, sottopose ad attenta vigilanza tutti i passi delle Montagne dell'Ombra, sì che nessuno potesse né entrare né uscire dallo Hithlum se non rischiando molto, e gli Orchi scorrazzavano attorno alle sorgenti del Narog e del Teiglin e all'alto corso del Sirion. Accadde così che una volta i messaggeri di Thingol non facessero ritorno, e il Re non ne mandò altri. Era sempre stato restio a permettere che ci si allontanasse dalle frontiere vigilate, e con null'altro aveva mostrato il suo benvolere a Húrin e a quelli del suo sangue quanto col mandare suoi uomini da Morwen sulle pericolose strade del Dor-lómin. Túrin allora si sentì il cuore pesante, poiché non sapeva quale altra disgrazia stesse per accadere, e temeva che mala sorte fosse toccata a Morwen e Niënor; e per molti giorni restò silenzioso, a rimuginare sulla caduta della Casa di Hador e degli Uomini del Nord. Poi si levò e andò in cerca di Thingol; e lo trovò seduto con Melian ai piedi di Hírilon, la grande betulla di Menegroth. Thingol lo guardò meravigliato, vedendosi all'improvviso di fronte, in luogo del figlio adottivo, un Uomo e un estraneo, alto, bruno di capelli, che lo fissava con occhi cupi in un bianco viso, severo e altero; ma non proferì parola. «Cos'è che desideri, figlioccio?» disse Thingol, e indovinò che non avrebbe chiesto niente di piccolo. «Cotta, spada e scudo della mia statura, signore» rispose Túrin «e reclamerò seduta stante l'Elmo-di-Drago dei miei padri.» «Tutto questo lo puoi avere» disse Thingol «ma che bisogno ne hai ora di queste armi?» «Il bisogno di un uomo» replicò Túrin; «e di un figlio che ha un parente da ricordare. E ho bisogno anche di valorosi compagni in armi.» «Ti accoglierò tra i miei cavalieri della spada, che la spada sarà sempre la tua arma» disse Thingol. «Con loro potrai, se lo desideri, provarti in guerra sulle marche di frontiera.» Ma Túrin replicò: «Ben oltre le marche del Doriath mi spinge il cuore; anelo ad assalire l'Avversario più che a difendere le terre di frontiera». «Quand'è così, dovrai farlo da solo» rispose Thingol. «Il ruolo della mia gente nella guerra con Angband, sono io che lo stabilisco secondo il mio giudizio, Túrin figlio di Húrin. E per ora non intendo spedire nessuna schiera armata del Doriath, né prevedo di farlo.» «Tu però sei libero di andare dove vuoi, figlio di Morwen» intervenne
Melian. «La Cintura di Melian non ostacola coloro che passano con il nostro permesso.» «Sempreché saggio consiglio non ti trattenga» soggiunse Thingol. «Qual è il tuo parere, signore?» domandò Túrin. «Di un uomo hai l'apparente statura» rispose Thingol «ma ciononostante non sei ancora giunto alla piena virilità. Quando il tempo verrà, allora forse potrai ricordarti della tua stirpe; ma ben poca è la speranza che un uomo da solo possa fare, contro il Signore Tenebroso, più che aiutare i Signori degli Elfi nella loro opera di difesa, finché questa possa durare.» Disse allora Túrin: «Il mio parente Beren ha fatto di più». «Sì, Beren, e anche Lúthien» disse Melian. «Non così alto è il tuo destino, ritengo, Túrin figlio Morwen, sebbene la tua sorte sia intrecciata a quella del popolo elfico, nel bene come nel male. Guardati da te stesso, perché non te ne venga disgrazia.» Fece una pausa e riprese: «Va' adesso, figlio adottivo; e segui il consiglio del Re. Ma io non credo che tu dimorerai a lungo con noi nel Doriath una volta giunto all'età virile. Se nei giorni che verranno rammenterai le parole di Melian, sarà per il tuo bene: temi sia il calore che la freddezza del tuo cuore, e cerca di essere paziente se puoi». Túrin allora s'inchinò e prese congedo. E ben presto indossò l'Elmo-diDrago e prese le armi e andò nelle marche settentrionali unendosi ai guerrieri elfici che incessantemente vi guerreggiavano contro gli Orchi e tutti i servi e le creature di Morgoth. Così, sebbene da poco uscito di fanciullezza, la sua forza e il suo coraggio furono messi alla prova; e, memore dei torti inflitti alla sua stirpe, era sempre il primo in atti e audacia; e molte furono le ferite che gli toccarono per lancia, freccia o curve lame degli Orchi. Ma il suo destino gli risparmiò la morte; e per i boschi corse veloce, e si diffuse la notizia ben oltre il Doriath, che l'Elmo-di-Drago del Dor-lómin era ricomparso. Allora molti si meravigliarono e dissero: «Possibile che lo spirito di qualunque uomo faccia ritorno dalla morte, o invero Húrin dello Hithlum è evaso dalle segrete di Angband?». Uno solo era più valido di Túrin con le armi tra i custodi delle marche di Thingol, e costui era Beleg Arcoforte; e Beleg e Túrin erano compagni in ogni periglio, e insieme percorrevano in lungo e in largo i boschi selvaggi. Trascorsero così tre anni, durante i quali Túrin di rado venne alle aule di Thingol: né più si curava del proprio aspetto o abbigliamento, ma scarmigliati erano i suoi capelli, e la sua cotta coperta da un grigio mantello in-
sozzato dalle intemperie. Accadde però, durante la terza estate, Túrin essendo in età di vent'anni, che egli, desideroso di riposo e bisognoso di lavoro di fabbri per riparare le proprie armi, giungesse non visto una sera a Menegroth nell'aula. Thingol non era presente: stava nel bosco verde con Melian, cosa di cui a volte si deliziava nel pieno dell'estate. E Túrin distrattamente andò a un seggio, poiché era stanco e gravato di pensieri: e per sua mala sorte si sedette a un tavolo degli anziani del regno, e proprio al posto che di solito era di Saeros. Questi, entrato poco dopo, se ne risentì, persuaso che Túrin l'avesse fatto per alterigia e con l'intento di sfidarlo; né placata fu la sua ira dalla constatazione che Túrin non veniva rimproverato da quanti vi sedevano, ma anzi era il benvenuto tra loro. Per un po' dunque Saeros si finse dello stesso umore, e si sedette di fronte a Túrin, dall'altra parte del tavolo. «Di rado accade che il custode delle marche ci degni della sua compagnia» disse «e io sono ben lieto di cedergli il mio solito posto per la gioia di conversare con lui.» Ma Túrin, che stava conversando con Mablung il Cacciatore, replicò solamente con un secco: «Grazie». Saeros allora lo incalzò con le domande, chiedendogli notizie riguardo agli avvenimenti alle frontiere e alle sue imprese nelle selve; ma, sebbene belle fossero le parole, impossibile non accorgersi del suo tono di scherno. E Túrin ne fu infastidito, e si guardò attorno e conobbe l'amarezza dell'esilio; e, pur tra le luci e le risa delle aule elfiche, il suo pensiero corse a Beleg e alla vita che conducevano nei boschi, e ben più in là ancora, a Morwen nel Dor-lómin e alla casa di suo padre; ed egli si accigliò, poiché bui erano i suoi pensieri, e non diede risposta a Saeros. Al che, persuaso che a lui fosse diretto quell'aggrottar di ciglia, Saeros più non trattenne la propria collera ma tirò fuori un pettine d'oro e, gettandolo sul tavolo davanti a Túrin, gli disse: «Indubbiamente, Uomo dello Hithlum, sei venuto di fretta a questo tavolo, e ti si può scusare per il tuo mantello sdrucito: ma non è necessario che il capo tu lo tenga incolto come un cespuglio di rovi. E forse, se le tue orecchie non fossero coperte, udresti meglio ciò che ti si dice». Nulla disse Túrin, limitandosi a fissare Saeros, ma nelle scure pupille vi fu un guizzo. Saeros però non diede peso all'avvertimento, e restituì lo sguardo con disprezzo dicendo, sì che tutti lo udissero: «Se gli Uomini dello Hithlum sono così selvatici e villosi, come saranno le donne di quel paese? Se ne vanno forse come cerve, vestite solo del loro pelo?». Túrin allora afferrò una coppa e la scagliò in faccia a Saeros che cadde
all'indietro malamente ferito; e Túrin sguainò la spada, e gli sarebbe piombato sopra se non l'avesse trattenuto Mablung. Poi Saeros levandosi e sputando sangue sul tavolo farfugliò con il labbro spaccato: «Fino a quando terremo tra noi questo selvaggio dei boschi? Chi è che ha qui governo? La legge del Re è spietata con coloro che attentano ai suoi fidi nell'aula; e per coloro che sguainano spade, la messa al bando è la minore delle punizioni. Fuori dell'aula, se vuoi, ti posso rispondere, selvaggio!». Ma quando Túrin vide il sangue sul tavolo, la sua collera svanì; e, liberatosi dalla stretta di Mablung, senza una parola lasciò l'aula. Disse allora Mablung a Saeros: «Che cos'è che ti turba questa sera? Di quel che è accaduto, la colpa è tua, e può darsi che la legge del Re ritenga che un labbro spaccato sia una giusta replica alla tua provocazione». «Se quel cucciolo ha lagnanze, le sottoponga al giudizio del Re» replicò Saeros. «Ma sguainare la spada qui dentro non è giustificato da niente di simile. Fuori dell'aula, se il selvaggio tornasse a sguainarla, lo ammazzerò.» «Questo mi sembra meno certo,» osservò Mablung «ma chiunque resti ucciso sarà una mala azione, adeguata più ad Angband che al Doriath, e sarebbe fonte di altro male ancora. Invero ritengo che un'ombra del Nord sia giunta a sfiorarci questa sera. Sta' attento, Saeros, di non fare, nel tuo orgoglio, la volontà di Morgoth, e ricordati che appartieni agli Eldar.» «Non lo dimentico,» disse Saeros; ma non represse la sua ira e, nel corso della notte, crebbe il suo rancore a lenire la ferita. Il mattino, allorché Túrin lasciò Menegroth per far ritorno alle marche settentrionali, Saeros gli tese un'imboscata, piombandogli addosso dal nascondiglio con la spada sguainata e lo scudo imbracciato. Túrin però, avvezzo a star sul chi vive nelle selve, lo scorse con la coda dell'occhio e, balzato di fianco, sguainò velocemente la spada e affrontò l'avversario. «Morwen!» gridò «ecco, adesso il tuo schernitore pagherà per la sua beffa!» E infranse lo scudo di Saeros, e poi duellarono con lesti colpi di lama. Túrin però era cresciuto a lungo a dura scuola, ed era divenuto agile come qualsiasi Elfo, ma più forte. Ben presto ebbe la meglio e, ferito Saeros al braccio che reggeva la spada, lo ebbe alla propria mercé. Piantò allora il piede sull'arma che Saeros aveva lasciato cadere. «Saeros,» gli disse «c'è una lunga corsa che ti aspetta, e le vesti ti sarebbero d'impiccio; il pelo ti basterà.» E gettatolo immediatamente a terra, lo denudò, e Saeros avvertì la grande forza di Túrin e ne fu spaventato. Túrin però lo fece rialzare e quindi: «Corri, corri, schernitore di donne!» gridò. «Corri! E, a meno che
tu non vada veloce come un cervo, ti pungolerò da dietro.» E allora infilò la punta della spada nella natica di Saeros; e questi corse nella selva, invocando pazzamente aiuto; ma Túrin lo inseguiva come un cane, e ovunque corresse o scartasse, sempre la sua spada gli stava alle reni a spronarlo. Le grida di Saeros attrassero molti altri, e costoro si misero all'inseguimento, ma solo i più veloci potevano tenere il passo con i corridori. In testa a tutti era Mablung, ed era turbato poiché, se la provocazione gli era sembrata brutta cosa, «la perfidia che si sveglia al mattino farà la gioia di Morgoth questa sera»; ed era inoltre ritenuto offensivo mettere alla berlina uno del popolo degli Elfi, di propria iniziativa, senza che la questione fosse stata portata in giudizio. Nessuno in quel momento sapeva che Túrin era stato aggredito da Saeros con l'intento di ucciderlo. «Ferma, ferma, Túrin!» gridava Mablung. «È da Orchi dei boschi, quel che fai!» Ma Túrin replicò: «Sì, un'azione da Orchi nei boschi che risponde a parole da Orchi nell'aula!». E tornò a balzare all'inseguimento di Saeros, il quale, disperando in un qualsiasi aiuto e vedendosi la morte alle calcagna, continuò a correre ciecamente, finché giunse d'un tratto a uno strapiombo là dove un affluente dell'Esgalduin scorreva in un profondo crepaccio tra alte rocce, ed era troppo ampio persino per un cervo. Pure Saeros, in preda al terrore, rischiò il balzo; ma il piede gli mancò sulla riva opposta, e cadde all'indietro con un grido e si sfracellò su un grande masso nell'acqua. Così terminò la sua vita nel Doriath; e a lungo Mandos l'avrebbe trattenuto. Túrin stette a guardare il corpo che giaceva nell'acqua, e si disse: «Povero stolto! Da qui l'avrei lasciato tornare a Menegroth. Ecco che adesso mi ha caricato di una colpa immeritata». E si volse e fissò cupo Mablung e i suoi compagni, che l'avevano raggiunto e gli stavano accanto sull'orlo. E dopo un silenzio Mablung disse: «Ahimè! Ora però torna con noi, Túrin, poiché spetta al Re giudicare questi fatti». Túrin però: «Se il Re fosse giusto,» disse «mi giudicherebbe innocente. Ma non era costui uno dei suoi consiglieri? E perché un re giusto dovrebbe scegliersi come amico un cuore perfido? Abiuro la sua terra e il suo giudizio». «Parole sconsiderate, le tue» ribatté Mablung, sebbene in cuor suo provasse pietà per Túrin. «Non devi diventare un rinnegato. Ti invito a tornare con me come amico. E qui ci sono altri testimoni. Quando il Re saprà la verità, potrai sperare nel suo perdono.»
Túrin però era stanco delle aule degli Elfi e temeva di essere incarcerato; e disse a Mablung: «Respingo il tuo invito. Per nessuna ragione implorerò il perdono di Re Thingol; e me ne andrò dove la sua condanna non possa raggiungermi. Hai due sole scelte: lasciarmi andare libero o uccidermi, se questo è conforme alla vostra legge. Perché siete troppo pochi per prendermi vivo». Quelli gli lessero negli occhi che diceva il vero e lo lasciarono andare, anche perché Mablung disse: «Una morte è abbastanza». «Non l'ho voluta io, ma non me ne dolgo» replicò Túrin. «Che Mandos lo giudichi equamente; e se mai ritorni alle terre dov'è vissuto, che si dimostri più saggio. Addio!» «Vattene libero,» disse Mablung «dato che questo è il tuo desiderio. Ma dire bene sarebbe vano se te ne andassi così. Un'ombra è sopra di te. E se dovessimo incontrarci di nuovo, mi auguro che non sia più scura di oggi». Túrin non rispose, ma li lasciò e se ne andò di fretta, nessuno sapeva dove. Si dice che, non avendo Túrin fatto ritorno alle marche settentrionali del Doriath, e poiché non se ne avevano notizie, Beleg Arcoforte si recò di persona a Menegroth per cercarlo; e con cuore pesante accolse la nuova delle gesta e della fuga di Túrin. Poco dopo, Thingol e Melian rientrarono nelle loro aule, dato che l'estate era sul morire; e quando al Re fu riportato l'accaduto, disse: «Questo è un affare serio e voglio sentirne l'intero resoconto. Sebbene Saeros, mio consigliere, sia stato ucciso, e Túrin, il mio figlioccio, sia fuggito, domani mi siederò sul seggio del giudizio, e ascolterò tutti di nuovo nel giusto ordine, prima di pronunciarmi.» Il giorno seguente il Re si sedette in trono nella sua corte e intorno a lui erano tutti i signori e consiglieri del Doriath. Allora molti testimoni furono ascoltati e tra questi Mablung parlò più chiaro di tutti e, non appena ebbe riferito della disputa al tavolo, sembrò al Re che il cuore di Mablung pendesse per Túrin. «Parli da amico di Túrin figlio di Húrin?» disse Thingol. «Lo ero, ma ho amato la verità di più e più a lungo» rispose Mablung. «Ascoltami sino in fondo, signore!» Ogni cosa fu allora riferita e soppesata, comprese le parole di addio di Túrin; e alla fine Thingol fece udire un sospiro e guardò coloro che sedevano davanti a lui; poi disse:
«Ahimè, vedo un'ombra sui vostri volti. Come mai si è intrufolata nel mio regno? La cattiveria è all'opera qui. Ritenevo Saeros fedele e saggio; ma se fosse in vita, assaggerebbe la mia collera, perché mala cosa era la sua provocazione, e lo ritengo responsabile di tutto quanto è accaduto nell'aula. Per questo, Túrin ha il mio perdono. Ma l'aver coperto Saeros di vergogna e averlo aizzato a morte sono stati torti maggiori dell'offesa, e su questi fatti non posso transigere. Essi rivelano un cuore duro e altero». Poi Thingol restò a lungo silenzioso, e finalmente riprese a parlare con tono triste: «Costui è un ingrato figlio adottivo e un Uomo troppo superbo per la sua condizione. Come potrei io dare asilo a chi spregia me e la mia legge, o perdonare chi non vuole pentirsi? Ragion per cui bandirò Túrin figlio di Húrin dal regno del Doriath. Se cercasse di entrarvi, sia tradotto in giudizio al mio cospetto; e, finché non si prostri ai miei piedi chiedendo la grazia, non sarà più mio figlio. Se qualcuno ritiene che questi racconti non siano veritieri, che parli ora!». Si fece silenzio nella sala, e Thingol levò la mano a pronunciare la sentenza, ma proprio in quella entrò correndo Beleg e gridò: «Signore, posso ancora parlare?». «Giungi in ritardo» rispose Thingol. «Non sei stato forse convocato insieme a tutti gli altri?» «Vero, signore,» replicò Beleg «ma ho perso tempo a cercare qualcuno che conosco, e adesso posso addurre un testimone che andrebbe ascoltato prima che tu pronunci la sentenza.» «Sono stati convocati tutti coloro che avevano qualcosa da dire» ribatté il Re. «Che cosa ha da dire, costui, che pesi più delle parole di quanti ho già udito?» «Lo giudicherai quando l'avrai sentito» insistette Beleg. «Concedimi questo, se mai ho meritato la tua grazia.» «Te lo concedo» accondiscese Thingol. E Beleg uscì, e rientrò traendo per mano la fanciulla Nellas, colei che abitava nei boschi e mai veniva a Menegroth; e Nellas era intimorita sia dalla grande sala con le colonne e il soffitto di pietra, sia dai molti occhi che la scrutavano. E avendola Thingol invitata a parlare, così disse: «Signore, ero appollaiata su un albero»; ma, a questo punto, per soggezione del Re la parola venne meno e tacque. Sorrise allora il Re e disse: «Anche altri hanno fatto lo stesso, ma non hanno sentito il bisogno di venirmelo a dire». «Anche altri, certo» convenne la fanciulla, incoraggiata dal suo sorriso.
«Anche Lúthien! E a lei pensavo stamani e a Beren l'Uomo.» A questo Thingol non replicò né più sorrise, ma attese che Nellas riprendesse il suo dire. «Perché Túrin mi ha ricordato Beren» riprese finalmente lei. «Sono parenti, a quanto mi dicono, ed è una parentela che può constatare chiunque li osservi da vicino.» A questo punto Thingol si spazientì. «Può essere» sbottò. «Ma Túrin figlio di Húrin se n'è andato a mio scorno, e tu più non lo vedrai per leggergli in faccia la parentela. Perché adesso pronuncerò la mia sentenza.» «Re signore!» gridò allora Nellas «sopportami e lasciami prima parlare. Stavo sull'albero, e seguivo con lo sguardo Túrin che se ne andava; e ho visto Saeros sbucare dalla selva con spada e scudo e gettarsi su Túrin alla sprovvista.» Vi fu un mormorio nella sala, e il Re levò la mano e disse: «Mi porti notizie più gravi di quanto mi aspettassi. Bada bene a quel che dici, essendo questa una corte di giustizia». «È quel che m'ha detto Beleg» replicò Nellas «ed è appunto per questo che ho osato venir qui: per evitare che Túrin sia ingiustamente punito. Egli è coraggioso ma è misericordioso. Hanno duellato, signore, quei due, finché Túrin non ha privato Saeros dello scudo e della spada; ma non l'ha ucciso. Sicché, non credo che a conti fatti ne volesse la morte. E se Saeros è stato messo alla berlina, era perché la vergogna se la meritava.» «Il giudizio spetta a me» le ricordò Thingol. «Ma ciò che hai detto avrà il suo peso.» Interrogò poi minuziosamente la fanciulla; e alla fine, rivolto a Mablung, disse: «Mi sembra strano che Túrin non t'abbia detto nulla di tutto questo». «Pure non l'ha fatto» rispose Mablung. «E se ne avesse parlato, diverse sarebbero state le parole che gli ho rivolto al momento del congedo.» «E diversa ora sarebbe la mia sentenza» disse Thingol. «Uditemi! La colpa che si possa attribuire a Túrin io la perdono, poiché ritengo che gli sia stato fatto torto provocandolo. E siccome, come egli stesso ha detto, ad abusare di lui è stato uno del mio consiglio, non dovrà implorare perdono, ma manderò a cercarlo ovunque lo si possa trovare; e lo riaccoglierò onorevolmente nelle mie aule.» Ma, pronunciata che fu la sentenza, ecco Nellas scoppiare in lacrime. «E dove lo si potrà trovare?» diceva. «Ha abbandonato la nostra terra, e il mondo è vasto.» «Lo si cercherà» assicurò Thingol.
Poi si levò, e Beleg condusse Nellas via da Menegroth, e le disse: «Non piangere, che se Túrin è vivo o vaga lontano, io lo ritroverò, anche se tutti gli altri dovessero fallire». Il giorno successivo Beleg venne al cospetto di Thingol e Melian, e il Re gli disse: «Consigliami, Beleg, poiché sono afflitto. Ho preso il figlio di Húrin per mio figlio, e tale egli resterà, a meno che Húrin stesso non ritorni dalle ombre per reclamare il suo. Non vorrei che si dica che Túrin è stato cacciato ingiustamente nelle selve, e ben volentieri lo rivedrei, perché molto lo amo». «Lasciami andare signore» disse Beleg «e per tuo conto, se potrò, riparerò a questo male. Un uomo di tal valore non dovrebbe correre via verso il nulla. Il Doriath ha bisogno di lui e ce ne sarà ancor più bisogno in futuro. Inoltre, io gli voglio molto bene.» Allora Thingol disse a Beleg: «Ora spero davvero che tu lo ritrovi! Vai con la mia benedizione e, se lo trovi, proteggilo e guidalo come puoi. Beleg Cúthalion, per lungo tempo sei stato in prima linea a difesa del Doriath e per le molte gesta di valore e saggezza ti sei guadagnato la mia riconoscenza. Tra tutte le tue azioni la più grande sarà quella di ritrovare Túrin. E al momento della tua partenza chiedimi pure qualunque cosa in cambio e non te la negherò». Rispose Beleg: «Ti chiedo allora una spada di valore, giacché gli Orchi sono troppi e troppo vicini ora per il solo arco, e la lama che posseggo non può nulla contro la loro armatura». «Scegli fra tutto quello che ho» disse Thingol «ad eccezione della mia Aranrúth.» Allora Beleg scelse Anglachel; era una spada di grande fama e si chiamava così perché era fatta di ferro caduto dal cielo come una stella fulgente; poteva fendere tutto il ferro cavato dalla terra. Solamente un'altra spada nella Terra di Mezzo le era pari ma non entrerà in questo racconto sebbene provenisse dalla stessa roccia e fosse fatta dallo stesso fabbro: questi era Eöl, l'Elfo Scuro, che prese in moglie Aredhel la sorella di Turgon. Questi diede a Thingol la Anglachel come compenso, ma lo fece controvoglia, perché lo lasciasse abitare a Nan Elmoth; ma l'altra spada, Anguirel, sua pari, la tenne per sé finché non gli fu rubata da Maeglin, suo figlio. Quando Thingol volse l'elsa di Anglachel verso Beleg, Melian guardò la lama e disse:
«C'è malizia in questa spada. Il cuore del fabbro che la forgiò ancora vi abita e quel cuore era scuro. Non amerà la mano di colui che servirà, né rimarrà con te a lungo.» «Finché potrò, comunque, la userò» disse Beleg; e, ringraziando il Re, prese la spada e partì. E in lungo e in largo per il Beleriand invano cercò notizie di Túrin, affrontando molti pericoli; e trascorse quell'inverno e la primavera successiva.
CAPITOLO VI TÚRIN FRA I FUORILEGGE E qui il racconto ritorna a Túrin il quale, credendosi un fuorilegge perseguito dal Re, non si ricongiunse con Beleg nelle marche settentrionali del Doriath, ma se ne andò a ovest e, uscito in segreto dal Reame Sorvegliato, si addentrò nelle selve a sud del Teiglin. Quivi, prima della Nirnaeth, molti Uomini avevano dimorato in sparse fattorie; erano per lo più della gente di Haleth, ma non avevano signori e vivevano sia di caccia che di agricoltura, allevando maiali nelle alberete e dissodando radure nella foresta, che recintavano a difesa dei selvatici. Ma adesso erano per lo più periti o fuggiti nel Brethil, e su tutta la regione gravava la paura degli Orchi e dei fuorilegge. Che in quel tempo di devastazione Uomini senza casa e disperati si sbandavano: superstiti di battaglie e sconfitte, e le terre erano desolate; e alcuni erano Uomini costretti nelle selve da male azioni. Costoro cacciavano e raccoglievano quel cibo che trovavano; ma d'inverno, quando la fame li assaliva, erano da temersi come lupi, e Gaurwaith, Uomini-lupo, erano appunto detti da coloro che ancora difendevano le proprie case. Una sessantina di codesti Uomini si era riunita in banda, vagando per i boschi di là dalle marche occidentali del Doriath; ed erano odiati poco meno degli Orchi, essendo fra loro alcuni reietti duri di cuore, che nutrivano livore per i loro simili. Il più sinistro era un tale di nome Andróg, fuggito dal Dor-
lómin per aver sgozzato una donna; e anche altri provenivano da quella contrada: l'anziano Algund, il più vecchio della compagnia, superstite della Nirnaeth, e Forweg, così almeno diceva di chiamarsi, il capo della banda, un tale dai capelli biondi e inquieti occhi scintillanti, grande e audace che, però, si era assai allontanato dalle vie degli Edain care al popolo di Hador. Ma poteva ancora essere saggio e generoso, a volte; ed era il comandante della compagnia. I fuorilegge erano ridotti a una cinquantina, falcidiati da privazioni e risse; erano ormai diffidenti e, fossero in movimento o in riposo, avevano sempre attorno esploratori o scolte; in tal modo ben presto seppero di Túrin quando questi prese ad aggirarsi nei loro recessi. Ne seguirono le tracce, stringendogli un cerchio intorno; e all'improvviso, come Túrin sbucò in una radura presso un corso d'acqua, si ritrovò in una cerchia di uomini con archi tesi e spade sguainate. Si arrestò ma non mostrò paura. «Chi siete?» domandò. «Pensavo che solo gli Orchi tendessero agguati agli Uomini, ma vedo che mi sono sbagliato.» «È uno sbaglio di cui puoi pentirti,» replicò Forweg «poiché questi sono i nostri recessi, e non permettiamo ad altri Uomini di aggirarvisi. Le loro vite sono nostre, a meno che non possano riscattarle.» Rise allora Túrin. «Nessun riscatto avrete da me» disse «che sono un reietto e un fuorilegge. Potete perquisirmi una volta che sia morto, ma vi costerà caro constatare la verità delle mie parole.» Ciò non toglie che la sua fine sembrasse prossima, poiché molte erano le frecce incoccate in attesa dell'ordine del capo; e, sebbene Túrin indossasse una cotta elfica sotto la tunica e il mantello grigio, qualcuna avrebbe trovato un percorso mortale. Nessuno dei suoi avversari era tanto vicino da permettergli di assalirlo, la spada in pugno. Túrin però, scorgendo delle pietre ai margini della corrente ai suoi piedi, si chinò ratto, e in quel preciso istante uno degli uomini, irritato dalle sue parole, lasciò partire una freccia. La quale però passò sopra il capo di Túrin, e questi con uno scatto lanciò un sasso all'arciere con grande forza e mira precisa; e quegli piombò a terra con il cranio fracassato. «Da vivo vi potrei essere di maggior aiuto che quel disgraziato» disse Túrin; e, rivolto a Forweg, soggiunse: «Se sei il comandante, non dovresti permettere ai tuoi uomini di tirare senza tuo ordine». «Non lo permetto infatti» replicò Forweg. «Mi sembra che sia stato castigato con sufficiente rapidità. Prenderò te in sua vece, a patto che tu ti mostri più obbediente.»
«Lo farò,» disse Túrin «a patto che tu sia il capo, e in tutto ciò che pertiene a un comandante. Ma la scelta di un nuovo uomo nella compagnia ritengo non sia solo del capo. Le voci di tutti dovrebbero essere ascoltate. C'è qualcuno qui che non gradisce la mia presenza?» Due dei fuorilegge allora insorsero e uno di essi era amico del caduto. Ulrad, si chiamava costui. «Strano modo, questo di entrare a far parte di una confraternita» commentò. «Uccidere uno degli uomini migliori!» «Ero stato provocato» replicò Túrin. «Ma fatevi avanti! Reggerò il confronto con voi due, con le armi o con la sola forza delle braccia, e allora vedrete se sono atto o meno a sostituire uno dei vostri uomini migliori.» E avanzò verso di loro; ma Ulrad arretrò, rifiutando lo scontro. L'altro abbassò l'arco, squadrando Túrin da capo a piedi: e costui era Andróg del Dor-lómin. Si piantò davanti a Túrin e lo squadrò dall'alto in basso. «No» disse alla fine e scuotendo la testa. «Non sono, come tutti sanno, un codardo; ma non sono alla tua altezza, e nessuno qui lo è, ritengo. Puoi unirti a noi, per quanto mi riguarda. Ma c'è una strana luce nei tuoi occhi: tu sei un uomo pericoloso. Come ti chiami?» «Neithan l'Offeso, così mi chiamano» rispose Túrin, e Neithan fu in seguito il suo nome tra i fuorilegge; ma, se raccontò loro di aver subito ingiustizia (e a chiunque affermasse lo stesso fu sempre fin troppo pronto a prestare orecchio), null'altro volle rivelare circa la sua vita o la patria. Pure, quelli si avvidero che era decaduto da condizione elevata e che, sebbene non avesse altro che le proprie armi, queste però erano state forgiate da fabbri elfici. Ben presto Túrin si guadagnò il loro rispetto, poiché era forte e valoroso e nelle selve mostrava maggiore abilità di loro, che riponevano fiducia in lui che non era avido e poco si curava di se stesso; ma anche lo temevano per via delle sue collere improvvise, di cui di rado comprendevano i motivi. Nel Doriath, Túrin non poteva o, per orgoglio, non voleva tornare; a Nargothrond, dopo la caduta di Felagund, a nessuno era lecito metter piede. Né egli si degnava di andare tra la piccola gente di Haleth nel Brethil; e non osava recarsi nel Dor-lómin che era strettamente vigilato, e nessuno in quel periodo poteva, da solo, così egli riteneva, superare i passi delle Montagne dell'Ombra. Ragion per cui Túrin dimorò con i fuorilegge, poiché la compagnia di uomini qualsiasi rendeva più facilmente tollerabili i disagi delle selve; e siccome desiderava vivere e non poteva essere sempre in conflitto con loro, ben poco fece per impedirne le male azioni. Pure, a volte pietà e vergogna si ridestavano in lui, e allora Túrin era pericoloso nella sua collera. Così visse sino alla fine dell'anno e per tutto l'inverno tra
fame e penuria, finché giunse Fremito seguito da una bella primavera. Ora, nei boschi del Teiglin, come s'è detto, c'era ancora qualche fattoria di Uomini, gente ardita e vigile, sebbene ormai scarsi di numero. Costoro non amavano affatto i Gaurwaith, e ben poca pietà provavano per loro, pure durante il crudo inverno deponevano, in luoghi in cui quelli lo trovassero, il poco cibo di cui potevano privarsi, sperando così di evitare l'attacco della banda di affamati. Ma minore era la gratitudine che ne ricevevano dai fuorilegge che non da bestie e uccelli, e a salvarli erano più che altro i loro cani e i loro recinti. Ogni fattoria infatti attorno al terreno dissodato aveva alte siepi, e la casa era difesa da un fossato e da una palizzata; e sentieri collegavano le varie dimore, e gli Uomini potevano invocare aiuto e soccorso a suon di corno. Ma, venuta la primavera, era pericoloso per i Gaurwaith aggirarsi così vicino alle case degli Uomini dei Boschi, che potevano radunarsi e dar loro la caccia; e Túrin si meravigliava quindi che Forweg non li guidasse altrove. C'erano più cibo e più selvaggina, e minori pericoli, più lontano, a sud, dove non restavano Uomini. Poi, un giorno Túrin notò che Forweg e con lui Andróg suo amico, erano assenti; chiese dove fossero e i suoi compagni risero. «Per faccende loro, penso» rispose Ulrad. «Ma tra poco torneranno, e allora ce ne andremo. E in fretta, forse: perché saremo fortunati se non si tireranno dietro gli sciami d'api.» Il sole splendeva e le foglie nuove erano verdi; e Túrin provò ripugnanza per lo squallido accampamento dei fuorilegge e si addentrò da solo nella foresta. Senza volerlo, si rammentò del Regno Nascosto, e gli parve di udire i nomi dei fiori del Doriath quali echi di un'antica lingua quasi dimenticata. All'improvviso, però, sentì grida, e da un fitto di noccioli uscì correndo una giovane, le vesti stracciate dai rovi, in preda a grande paura, e la donna incespicando cadde ansimante a terra. E Túrin, lanciatosi verso il folto con la spada sguainata, abbatté un uomo balzato fuori dai noccioli all'inseguimento; e solo mentre lo colpiva, si rese conto trattarsi di Forweg. Ma mentre fissava stupefatto il sangue che macchiava l'erba, ecco sbucare Andróg che a sua volta si arrestò sgomento. «Male hai fatto, Neithan» gridò sfoderando la spada. Ma Túrin si era calmato e domandò ad Andróg: «Dove dunque sono gli Orchi? Li hai lasciati dietro di te per correre in aiuto di costei?». «Orchi?» fece Andróg. «Stolto! E tu ti dici un fuorilegge. I fuorilegge non conoscono altra legge al di fuori del loro bisogno. Pensa ai fatti tuoi,
Neithan, e lascia noi altri pensare ai nostri.» «È quel che voglio» replicò Túrin. «Ma oggi i nostri sentieri si sono incrociati. Questa donna la lascerai a me o raggiungerai Forweg.» Andróg rise. «Se proprio lo desideri, sia fatta la tua volontà» disse. «Non pretendo di tenerti testa da solo; ma può darsi che i tuoi compagni se la prendano a male per il tuo assassinio.» La donna allora si levò in piedi e posò la mano sul braccio di Túrin. Guardò il sangue e guardò Túrin, e nel suo sguardo era gioia. «Uccidilo, signore!» esortò. «Uccidi anche lui! E poi vieni con me. Se gli porti i loro capi, Larnach mio padre non ne sarà dispiaciuto. Ricompenserà bene che gli porta due 'teste di lupo'.» Túrin però chiese ad Andróg: «È lontana la sua casa?». «Un miglio circa» fu la risposta. «Una fattoria fortificata laggiù. Era uscita dalla cinta.» «Vattene in fretta» ingiunse Túrin alla donna. «E dì a tuo padre di custodirti meglio. Ma io non taglierò la testa dei miei compagni per guadagnarmi il favore suo o di chiunque altro.» Quindi rinfoderò la spada e, rivolto ad Andróg: «Andiamo. È tempo di tornare. Ma se desideri seppellire il tuo comandante devi farlo da solo. E sbrigati, perché può darsi che diano l'allarme. E porta con te le sue armi!». La donna si avviò attraverso il bosco e si girò a guardare molte volte prima che il fitto del bosco la nascondesse. Poi Túrin se ne andò senza aggiungere altro, e Andróg lo seguì con lo sguardo, corrugando la fronte come chi cerchi di risolvere un enigma. Tornato all'accampamento dei fuorilegge, Túrin ve li trovò inquieti e a disagio; da troppo tempo infatti erano in quel luogo, nei pressi di fattorie ben vigilate, e levavano la voce contro Forweg. «Corre rischi a spese nostre» dicevano. «E può capitare che altri paghino per i suoi sollazzi.» «Quand'è così sceglietevi un nuovo capo!» disse Túrin, piantandosi loro dinanzi. «Forweg non può più guidarvi, poiché è morto.» «E tu come lo sai?» domandò Ulrad. «Sei andato a saccheggiare lo stesso alveare? Le api l'hanno forse punto?» «No» rispose Túrin. «È bastata un'unica puntura. L'ho ucciso io. Ma ho risparmiato Andróg, che tra poco sarà di ritorno.» Poi riferì loro quant'era accaduto, rimproverando coloro che commettessero azioni simili; e mentre ancora parlava, ecco tornare Andróg con le armi di Forweg, il quale gridò: «Ehi, Neithan! Non hanno dato l'allarme. Forse quella spera d'incontrarti
nuovamente». «Se ti permetti di scherzare con me» ribatté Túrin «mi pentirò di averle rifiutato la tua testa. E adesso, racconta la tua e sii breve.» Allora Andróg riferì con sufficiente precisione quanto era accaduto. «Che cosa andasse cercando Neithan da quelle parti non lo so» soggiunse. «Non quello che facevamo noi, a quanto pare. Perché, quando sono giunto sul posto aveva già ammazzato Forweg. Cosa questa che piaceva molto alla donna la quale gli ha offerto di andare con lei, portando le nostre teste come dono nuziale. Ma lui non l'ha voluta e l'ha mandata via; sicché, non riesco a capire che cosa avesse contro il comandante. M'ha lasciato la testa sulle spalle, e gliene sono grato, anche se molto perplesso.» «Quand'è così, rifiuto la tua affermazione di appartenere al popolo di Hador» lo interruppe Túrin. «Tu sei piuttosto della schiera di Uldor il Maledetto, e dovresti metterti al servizio di Angband. Ma adesso statemi ad ascoltare» gridò rivolto a tutti i presenti. «Queste sono le mie proposte. Dovete farmi vostro capo al posto di Forweg, oppure lasciarmi andare. Io governerò d'ora in poi questa confraternita o la pianterò in asso. Se invece volete uccidermi, fatevi sotto! Vi affronterò tutti fino alla mia morte - o alla vostra.» Molti allora diedero mano alle armi, ma Andróg gridò: «No! La zucca che Neithan ha risparmiato non è senza sale. Se combattiamo, più di uno di noi morirà inutilmente prima che riusciamo a uccidere il migliore di quanti siamo». Rise e proseguì: «È andata allo stesso modo quando si è unito a noi. Neithan uccide per farsi spazio. E quello che si è dimostrato utile una volta, può darsi che lo sia ancora, e forse Neithan può condurci a sorte migliore che non sia di aggirarci attorno alle concimaie di altri uomini». E il vecchio Algund disse: «Il migliore di quanti siamo, già. C'è stato un tempo in cui avremmo fatto lo stesso, se avessimo osato. Ma molto abbiamo dimenticato. Può darsi che Neithan alla fine ci riconduca in patria». Al che, sorse in Túrin il pensiero che magari, a partire da quella sparuta banda, poteva costruirsi una libera signoria tutta sua. Ma guardò Algund e Andróg e fece: «Patria, hai detto? Alte e fredde s'interpongono le Montagne dell'Ombra, dietro le quali sta la gente di Uldor, e tutt'attorno le legioni di Angband. Se questo non vi sgomenta, sette volte sette uomini, ebbene, posso condurvi, sì, in direzione della patria. Ma fin dove giungeremo prima di morire?». Tutti rimasero silenziosi e allora Túrin riprese: «Mi accettate per vostro capo? Se sì, per prima cosa vi condurrò nelle selve, lungi dalle case degli
Uomini. Può darsi che lì ci sia riservata sorte migliore, oppure no; ma, almeno, minore sarà l'odio che ci attireremo da quelli della nostra razza». E tutti coloro che appartenevano al popolo di Hador gli si strinsero attorno, e lo scelsero per proprio comandante; e gli altri, sia pure con minor entusiasmo, acconsentirono. E subito Túrin li condusse via da quella contrada. Molti erano stati i messaggeri mandati da Thingol alla ricerca di Túrin nel Doriath e nelle terre vicine ai confini; ma nell'anno della sua fuga invano batterono il paese, perché nessuno sapeva o poteva supporre che fosse con i fuorilegge nemici degli Uomini e, giunto l'inverno, fecero tutti ritorno dal Re, salvo Beleg il quale, come gli altri se ne furono andati, proseguì da solo. Ma nel Dimbar e lungo le marche settentrionali del Doriath le cose erano andate male. L'Elmo-di-Drago non si era più fatto vedere in battaglia, e anche di Arcoforte si sentiva la mancanza; e i servi di Morgoth avevano ripreso animo, crescendo di continuo in numero e audacia. Venne e passò l'inverno, e con la primavera i loro assalti ripresero: il Dimbar fu travolto, e gli uomini del Brethil erano in preda alla paura perché la perfidia adesso s'aggirava lungo tutte le frontiere, salvo le meridionali. Quasi un anno era trascorso dacché Túrin era fuggito, e ancora Beleg lo cercava, con sempre minore speranza. Nei suoi vagabondaggi verso nord, giunse ai Guadi del Teiglin, e quivi, udite cattive nuove di un'ulteriore incursione di Orchi a partire da Taur-nu-Fuin, tornò sui suoi passi e caso volle che capitasse alle dimore degli Uomini dei Boschi poco dopo che Túrin si era dipartito dalla contrada. Ed ebbe sentore di uno strano episodio che vi si riferiva. Un Uomo alto e imponente, o forse, dicevano certuni, un guerriero Elfo, era comparso nei boschi e aveva ucciso uno dei Gaurwaith e salvato la figlia di Larnach da quelli inseguita. «Fierissimo egli era,» riferì a Beleg la figlia di Larnach «con occhi accesi che a stento si degnavano di guardarmi. Pure, chiamava i suoi compagni gli Uomini-lupo, e si è rifiutato di ucciderne un altro giunto sul posto, uno che ne conosceva il nome. Neithan, così l'ha chiamato.» «Sei in grado di chiarire quest'arcano?» domandò Larnach all'Elfo. «Ahimè, sì» rispose Beleg. «Colui del quale parlate è un Uomo che conosco.» Né altro volle dire di Túrin agli Uomini dei Boschi; ma li mise in guardia contro il pericolo che andava addensandosi al Nord. «Ben presto gli Orchi caleranno a far preda in questa contrada, in numero esorbitante perché voi possiate resistere» avvertì. «Entro quest'anno vi toccherà rinun-
ciare alla vostra libertà o alle vostre vite. Andate nel Brethil finché siete in tempo!» Poi Beleg riprese in fretta il cammino, cercando le tane dei fuorilegge e segni dai quali arguire dove si fossero diretti. Ben presto li trovò. Ma Túrin aveva ormai un vantaggio di parecchi giorni, e si muoveva rapidamente poiché temeva l'inseguimento degli Uomini dei Boschi e faceva ricorso a tutte le arti in cui era esperto per eludere o sviare chiunque tentasse di stare alle sue calcagna. Guidò i suoi uomini verso occidente, lontano dagli Uomini dei Boschi e dai confini del Doriath, finché giunsero al confine settentrionale delle grandi alture che si ergevano tra le Valli del Sirion e del Narog. Non vi era terra più secca e la foresta cessava d'un tratto sull'orlo di un costone. Sotto si poteva scorgere l'antica Strada Meridionale che saliva dai Guadi del Teiglin per passare lungo i piedi orientali della brughiera nel suo percorso per Nargothrond. Lì vissero i fuorilegge per un periodo con circospezione, fermandosi di rado due volte nello stesso luogo, e ben poche erano le tracce che lasciavano del loro passaggio o delle loro tappe. E accadde così che persino Beleg li inseguisse invano. Guidato da segni che sapeva interpretare o da voci di passaggio di Uomini da parte di creature selvatiche con cui era in grado di parlare, spesso giungeva vicino ai fuorilegge, ma poi sempre ne trovava la tana deserta, poiché quelli mettevano sentinelle tutt'attorno giorno e notte, e al sentore di qualcuno che fosse giunto nei pressi prontamente levavano il campo, e via. «Ahimè» gridava Beleg. «Troppo bene ho insegnato a questo figlio d'Uomini la maestria nel bosco e nel campo! Vien fatto quasi di pensare che questa sia una banda elfica.» Ma dal canto loro i fuorilegge si resero conto di essere tallonati da un inseguitore instancabile, che non riuscivano a vedere e neppure a scrollarsi di dosso; e si fecero inquieti. Non molto dopo, come Beleg aveva temuto, gli Orchi varcarono il Brithiach e, avendo urtato contro la resistenza di tutte le forze che poterono essere radunate da Handir del Brethil, deviarono a sud oltre i Guadi del Teiglin, in cerca di bottino. Molti degli Uomini dei Boschi avevano accettato il consiglio di Beleg, mandando donne e figli a chiedere asilo nel Brethil; e le une e gli altri con la scorta la scamparono, superando i Guadi in tempo: ma gli armati che si mossero più tardi furono affrontati dagli Orchi, ed ebbero la peggio. Pochi s'aprirono un varco e pervennero nel Brethil, molti invece furono uccisi o catturati; e gli Orchi proseguirono verso le loro fattorie, che saccheggiarono e diedero alle fiamme. Poi d'un subito
volsero a occidente, cercando la strada, poiché ormai desideravano tornare al più presto a nord con il bottino e i prigionieri. Ma gli esploratori dei fuorilegge ben presto ne ebbero contezza; e, sebbene poco si curassero dei prigionieri, il sacco subito dagli Uomini dei Boschi fece crescere la loro bramosia. A Túrin sembrò pericoloso rivelarsi agli Orchi prima che se ne conoscesse il numero; ma i fuorilegge non vollero dargli retta, che molte erano le cose di cui avevano penuria nelle selve, e già alcuni di essi si rammaricavano di averlo per capo. Ragion per cui, elettosi a solo compagno un certo Orleg, Túrin uscì a spiare gli Orchi; e, affidato il comando della banda ad Andróg, lo incaricò di stare rintanato e nascosto mentre loro due erano assenti. Ora, la schiera degli Orchi era ben maggiore del gruppo dei fuorilegge, ma i primi si trovavano in contrade nelle quali di rado osavano metter piede, e sapevano anche che oltre la strada si stendeva Talath Dirnen, la Piana Sorvegliata, su cui vigilavano esploratori e spie di Nargothrond; e, timorosi del pericolo, andavano cauti, e i loro esploratori strisciavano tra gli alberi d'ambo i lati della direttrice di marcia. Fu così che Túrin e Orleg vennero scoperti, tre esploratori essendo incappati in loro che stavano celati; e, sebbene due ne spacciassero, il terzo se la svignò e correndo gridava Golug! Golug! Era questo un nome con cui quelli designavano i Noldor; e d'un subito la foresta si riempì di Orchi che, in silenzio e in caccia, la battevano in lungo e in largo. Túrin allora, avvedutosi che c'erano ben poche speranze di scamparla, pensò per lo meno d'ingannarli e di allontanarli dal nascondiglio dei suoi uomini; e, resosi conto, dal grido di Golug! che quelli temevano le spie di Nargothrond, con Orleg fuggì verso ovest. Subito iniziò l'inseguimento finché, per quanto giri e deviazioni tentassero, furono sospinti fuori dalla foresta; e qui furono avvistati e, mentre tentavano di attraversare la strada, Orleg fu abbattuto da molte frecce. Túrin invece fu salvato dalla sua elfica cotta, e solo fuggì nelle selve al di là; e grazie alla sua velocità e abilità, seminò gli avversari, penetrando a lungo in contrade che gli erano ignote. Gli Orchi allora, temendo che gli Elfi del Nargothrond intervenissero, sgozzarono i loro prigionieri e in fretta ripiegarono verso nord. Ora, passati che furono tre giorni, e ancora Túrin e Orleg non erano riapparsi, alcuni dei fuorilegge espressero il desiderio di dipartirsi dalla grotta in cui stavano nascosti. Ma Andróg fu di parere contrario. E nel pieno della discussione, ecco d'un tratto una figura grigia piantarsi loro dinan-
zi. Beleg li aveva finalmente trovati. Avanzò disarmato, esibendo i palmi delle mani; i fuorilegge però balzarono in piedi impauriti, e Andróg, scivolatogli alle spalle, gli lanciò un cappio e lo strinse, sì da imprigionarne le braccia. «Se non desiderate ospiti, dovreste vigilare meglio» disse Beleg. «Perché mi accogliete a questo modo? Vengo da amico e cerco soltanto un amico. Neithan, così ho udito che lo chiamate.» «Non è qui» rispose Ulrad. «Ma, a meno che tu non ci abbia spiato a lungo, come fai a sapere quel nome?» «A lungo ci ha spiati» intervenne Andróg. «È lui l'ombra che ci tallonava. Ma forse riusciremo a conoscerne i propositi veri.» Sul che ordinò agli uomini di legare Beleg a un albero accanto alla grotta; e quando fu ben bene avvinto mani e piedi, lo interrogarono, ma a tutte le loro domande una sola era la risposta data da Beleg: «Sono stato amico di quel Neithan dacché l'ho incontrato per la prima volta nei boschi, ed era allora solo un ragazzo. A indurmi a cercarlo è null'altro che affetto, e gli porto buone notizie». «Uccidiamolo, così ci sbarazzeremo dello spione» propose Andróg incollerito. E sogguardò il grande arco di Beleg e lo bramò, essendo lui un arciere. Ma altri di più buon cuore respinsero la proposta e Algund gli disse: «Può darsi che il capo ritorni, e allora ti pentiresti se venisse a sapere che l'hai derubato insieme di un amico e di buone notizie». «Io non credo al racconto di quest'Elfo» insistette Andróg. «Questi è una spia del Re del Doriath. Ma, se invero è latore di notizie, ebbene, le dica a noi: e noi giudicheremo se sono sufficienti per lasciarlo in vita.» «Aspetterò il vostro capo» disse Beleg. «Te ne starai lì finché ti deciderai a parlare» ribatté Andróg. E così, su istigazione di Andróg, lasciarono Beleg legato all'albero senza cibo né acqua, mentre loro lì accanto mangiavano e bevevano; ma Beleg non disse loro null'altro. Passati così due giorni e due notti, i fuorilegge s'innervosirono e impaurirono, e non vedevano l'ora di andarsene; e la maggior parte di essi era adesso pronta a uccidere l'Elfo. Al calar della notte, eccoli tutti raccolti intorno a lui, e Ulrad venne con un tizzone acceso all'imboccatura della grotta. Ma proprio in quella Túrin ritornò. Giungendo silenzioso com'era sua abitudine, stette nell'ombra dietro la cerchia degli uomini e, alla luce del tizzone, scorse il volto emaciato di Beleg. Allora fu colpito come da una freccia, e come per un improvviso disgelo lacrime a lungo trattenute gli riempirono gli occhi. Balzò fuori e corse al-
l'albero. «Beleg! Beleg!» gridava. «Come sei giunto fin qui? E perché te ne stai legato?» E subito tagliò i lacci che imprigionavano l'amico, e Beleg gli cadde tra le braccia. Quando Túrin udì ciò che gli uomini avevano da dire, ne fu indignato e addolorato; dapprima però prestò attenzione solo a Beleg. E, mentre lo accudiva con tutta l'arte in suo possesso, ripensava alla sua vita nelle selve, e la sua collera si rivolse contro se stesso. Infatti, sovente stranieri erano stati uccisi se sorpresi accanto alle tane dei fuorilegge o da questi attesi al varco, né lui l'aveva impedito; e sovente egli stesso aveva parlato male di Re Thingol e degli Elfi Grigi, sicché anche sua era la colpa se venivano trattati come nemici. E quindi fu con amarezza che disse agli altri: «Siete stati crudeli, e crudeli senza necessità. Mai finora abbiamo tormentato un prigioniero; ma a indurci a una simile opera da Orchi è stata la vita che conduciamo. Senza legge e infruttuose sono state le nostre gesta, poiché abbiamo servito solo noi stessi, fomentando l'odio nei nostri cuori». Ribatté tuttavia Andróg: «E chi dovremmo servire se non noi stessi? Chi dovremmo amare, visto che tutti ci odiano?». «Almeno le mie mani non saranno più levate contro Elfi o Uomini» disse Túrin. «Angband ha sufficienti servi. E, se altri non vogliono pronunciare il mio stesso voto, me ne andrò da solo.» Allora Beleg riaprì gli occhi e sollevò il capo. «Non da solo!» disse. «Ora finalmente ti posso riferire le notizie di cui sono latore. Non sei un fuorilegge, e Neithan non è nome che ti si addica. Sei stato assolto dalle imputazioni che ti erano state mosse. Un anno intero ti abbiamo cercato, per riportarti all'onore e al servizio del Re. Per troppo tempo l'Elmo-di-Drago è stato assente.» Túrin però non mostrò gioia alla notizia, e stette a lungo in silenzio, che alle parole di Beleg un'ombra gli era calata addosso. «Lasciamo passare questa notte» disse alla fine. «Poi deciderò. Ma comunque vada, domani dovremo abbandonare questa tana, perché non tutti quelli che ci cercano ci vogliono bene.» «Anzi, nessuno» borbottò Andróg, guardando di sbieco Beleg. Il mattino, Beleg, prontamente rimessosi dalle sue sofferenze, come accadeva agli antichi Elfi, tirò da parte Túrin. «M'aspettavo maggior gioia alle mie notizie» gli disse. «Di certo ora farai ritorno nel Doriath, vero?» E implorò Túrin di tentarlo con ogni mezzo;
ma, più lo esortava, più Túrin si mostrava riluttante, ancorché interrogasse minuziosamente Beleg circa il giudizio di Thingol; e Beleg gli riferì tutto ciò che sapeva, e alla fine Túrin chiese: «Dunque Mablung mi si è mostrato amico quale un tempo appariva?». «Direi piuttosto amico della verità» rispose Beleg «e a conti fatti è stata questa la cosa migliore. Ma perché, Túrin, non gli hai detto dell'aggressione di Saeros? Ben diversamente allora sarebbero andate le cose. E porteresti» soggiunse con un'occhiata agli uomini stravaccati all'imboccatura della grotta «ancora alto il tuo elmo, e non saresti caduto così in basso.» «Può darsi, se questo lo chiami cadere in basso,» replicò Túrin «può darsi. Ma così è andata; e le parole mi sono rimaste chiuse in gola. Ho letto rimprovero, negli occhi di Mablung, senza che me ne chiedesse ragione, per un atto che non avevo commesso. Fiero era il mio cuore d'Uomo, come ha detto il Re degli Elfi. E tale è ancora, Beleg Cúthalion. Né ancora sopporta che io ritorni in Menegroth e mi attiri sguardi di pietà e perdono, come un ragazzino scapestrato e pentito. Dovrei essere io a concedere, non già a ricevere, perdono. E non sono più un ragazzo, bensì un uomo, secondo quel che è tipico della mia razza; e un uomo tenace per mia sorte.» Beleg ne fu turbato e domandò: «E allora, che intendi fare?». «Andarmene libero» rispose Túrin. «È questo l'augurio di Mablung al momento del nostro distacco. La grazia di Thingol non si estenderebbe, temo, a questi che mi sono stati compagni nella caduta; e d'altro canto, non desidero adesso dipartirmi da loro, se essi non desiderano farlo da me. A modo mio li amo, un poco persino il peggiore tra essi. Sono della mia stessa razza, e in ciascuno c'è un seme di bene che potrebbe crescere. Ritengo che vorranno restare con me.» «Tu vedi le cose con occhi diversi dai miei» osservò Beleg. «Se tenti di svezzarli dal male, si distaccheranno da te. Dubito di loro, e di uno soprattutto.» «Come può un Elfo giudicare gli Uomini?» chiese Túrin. «Così come giudica tutte le azioni, da chiunque commesse» rispose Beleg, ma altro non soggiunse, né parlò della perfidia di Andróg, alla quale si dovevano principalmente i tormenti toccatigli, e ciò perché, avvedutosi dello stato d'animo di Túrin, temeva di non essere creduto e di guastare la loro antica amicizia, sospingendo Túrin sulla cattiva strada. «Andartene libero, tu dici, amico Túrin» disse invece. «Che cosa intendi con questo?» «Che guiderò i miei uomini e farò guerra a modo mio» spiegò Túrin.
«Ma in una cosa almeno il mio cuore è mutato: mi pento di ogni ferita da me inferta salvo quelle toccate per mano mia all'Avversario di Uomini ed Elfi. E te più di ogni altro vorrei avere al mio fianco. Resta con me!» «Se lo facessi, a guidarmi sarebbe amore, non già saggezza» replicò Beleg. «Il cuore mi dice che dovremmo tornare nel Doriath. In qualunque altro luogo vi è un'ombra ad attenderci.» «Ciononostante, non ci andrò» ribatté Túrin. «Ahimè!» replicò Beleg. «Ma come un padre amorevole che acconsente al desiderio di suo figlio contro le proprie previsioni, mi arrendo al tuo volere. Se me lo chiedi, resterò.» «Va benissimo!» disse Túrin. E allora d'improvviso si fece silenzioso, come se egli stesso fosse consapevole dell'ombra, e lottò con il suo orgoglio che non lo faceva tornare sui propri passi. Per un bel po' sedette meditando tristemente sugli anni trascorsi. Ritornando improvvisamente alla realtà, guardò Beleg e disse: «La fanciulla elfica che hai nominato, sebbene non ricordo come: le debbo molto per la sua pronta testimonianza; ma non riesco a ricordarla. Perché si trovava sul mio cammino?» Allora Beleg gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Davvero, perché?» disse. «Túrin hai sempre vissuto con il tuo cuore e metà della tua mente rivolti da un'altra parte? Quand'eri ragazzo solevi passeggiare con Nellas nei boschi.» «È stato tanto tempo fa» disse Túrin. «O, almeno, lontanissima mi sembra la mia infanzia, e una nebbia la copre, salvo soltanto il ricordo della casa di mio padre del Dor-lómin. Ma perché avrei dovuto scorrazzare con una fanciulla elfica?» «Forse per imparare quel che poteva insegnarti» rispose Beleg. «Se non altro alcune parole elfiche, i nomi dei fiori dei boschi: quei nomi almeno non li hai mai dimenticati. Ahimè, figlio di Uomini! Altri dolori si danno nella Terra di Mezzo che non siano i tuoi, e ferite che nessuna arma ha inferto. Invero comincio a pensare che Elfi e Uomini non dovrebbero mai incontrarsi né mescolarsi». Nulla disse Túrin, ma a lungo fissò Beleg in volto, come se volesse così svelare l'enigma delle sue parole. Ma Nellas del Doriath mai più lo rivide, e l'ombra di Túrin se ne andò da lei. Ora Beleg e Túrin passarono a parlare di altre questioni e dibatterono sul luogo dove dovessero abitare. «Torniamo a Dimbar, nelle marche del Nord, dove un tempo camminavamo insieme!» disse Beleg trepidante. «C'è bisogno di noi lì, giacché gli Orchi hanno ultimamente trovato una
strada fuori Taur-nu-Fuin attraverso il Guado di Anach.» «Non lo ricordo» disse Túrin. «No, non ci siamo mai spinti così lontano dai confini,» disse Beleg «ma tu hai visto i picchi del Crissaegrim in lontananza e a est di questi le scure pareti del Gorgoroth. Anach si trova tra questi, sopra le alte fonti del fiume Mindeb: una via difficile e pericolosa; ma sono in molti a percorrerla adesso e Dimbar, che era in pace, sta cadendo sotto la Mano Nera e gli Uomini del Brethil sono in pericolo. Ti dico, andiamo a Dimbar!» «No, non tornerò sui miei passi in vita mia» replicò Túrin. «Né poss'io tornare facilmente a Dimbar ora. Sirion si trova in mezzo, senza ponti né guadi, sotto il Brithiach, lontano verso nord; è pericoloso attraversarlo. Eccetto che nel Doriath, ma io non passerò per il Doriath approfittando del permesso e del perdono di Thingol.» «Ti sei detto uomo duro, Túrin. Ed è vero, se quel che volevi dire era testardo. Ora è il mio turno. Andrò, col tuo permesso, non appena potrò e ti dirò addio. Se vuoi avere davvero al tuo fianco l'Arcoforte, cercami a Dimbar.» E Túrin più non disse. Il giorno seguente Beleg si preparò a partire e Túrin andò con lui alla distanza di un tiro d'arco nel campo, senza parlare. «È il momento dell'addio, allora, figlio di Húrin?» disse Beleg. «Se davvero vuoi mantenere la parola e stare al mio fianco» rispose Túrin «cercami allora ad Amon Rûdh!» Così parlò essendo condannato, ma ignaro di ciò che lo aspettava. «Allora, questo è il nostro ultimo addio.» «Forse è meglio così» rispose Beleg e andò per la sua strada. Si dice che Beleg tornò a Menegroth e si presentò a Thingol e Melian, raccontò loro tutto quel che era accaduto, eccetto il cattivo trattamento riservatogli dai compagni di Túrin. Allora Thingol sospirando disse: «Mi sono assunto la paternità di Húrin e non si può trasformarla per amore o odio, a meno che lo stesso Húrin il Valoroso non faccia ritorno. Cos'altro vuole che io faccia?». Ma Melian disse: «Ora, Cúthalion, avrai da me un regalo per il tuo aiuto e per il tuo onore, giacché non v'è nessuno più degno cui darlo». E gli diede una provvista di lembas, il pan di via degli Elfi, avvolto in foglie d'argento; e i lacci che lo legavano erano sigillati al nodo con il sigillo della Regina, un dischetto di cera bianca dalla forma di fiore di Telperion e, secondo le usanze degli Eldalië, il possesso e la distribuzione di questo cibo apparteneva alla sola Regina. «Questo pan di via, Beleg,» dis-
se «ti sarà di aiuto nel viaggio e nell'inverno e aiuterà anche chi tu vorrai. E io affido a te ora il compito di amministrarlo in mia vece.» In null'altro Melian mostrò maggior favori a Túrin che con questo regalo, poiché mai prima avevano gli Eldar consentito agli Uomini di usare questo pan di via e di rado lo fecero nuovamente. Allora Beleg partì da Menegroth e tornò alle marche settentrionali dove aveva i suoi alloggiamenti e molti amici; ma quando giunse l'inverno e la guerra fu placata, all'improvviso i suoi compagni sentirono la mancanza di Beleg e questi mai più tornò da loro.
CAPITOLO VII DI MÎM IL NANO Ora il Racconto si volge a Mîm il Nanerottolo. I piccoli Nani sono da tempo dimenticati e Mîm ne è stato l'ultimo rappresentante. Poco si sapeva di loro persino nei tempi antichi. Tanto tempo fa, gli Elfi del Beleriand li chiamavano Nibin-nogrim, anche se i piccoli Nani non li amavano; infatti, non amavano che se stessi. E se è vero che odiavano e temevano gli Orchi, odiavano anche gli Eldar e gli Esuli in particolar modo, giacché i Noldor sostenevano - avevano loro rubato le terre e le case. Il Nargothrond era stato fondato ed iniziato a scavare dai piccoli Nani, ben prima che Finrod Felagund giungesse dal Mare. Alcuni sostenevano che essi fossero i Nani che erano stati banditi dalle città naniche dell'oriente nei tempi antichi. Ben prima del ritorno di Morgoth avevano vagato verso occidente. Essendo senza un capo e pochi di numero, fu per loro difficile trovare un giacimento di metalli e si ridusse la loro capacità di fabbri nonché la scorta di armi; si diedero ai furti e divennero più piccoli di statura dei loro parenti orientali, piegati nelle spalle com'erano nel dare passi veloci e furtivi. Ma, come tutti gli appartenenti alla razza dei Nani, erano ben più forti di quanto la loro statura facesse presagire, ed erano in grado di aggrapparsi alla vita anche nelle grandi difficoltà. Ora, però, si erano andati riducendo in numero fino a scomparire dalla Terra di Mezzo, tutti tranne Mîm e i suoi due figli; e Mîm era vecchio persino come Nano, vecchio e dimenticato.
Dopo la partenza di Beleg (che ebbe luogo la seconda estate dopo la fuga di Túrin nel Doriath), le cose si misero male per i fuorilegge. Piovve fuori stagione, e Orchi in maggior numero di prima calarono dal Nord e oltre il Teiglin, seguendo l'antica Strada Meridionale, infestando tutti i boschi lungo i confini occidentali del Doriath. Non si davano né requie né sicurezza, e la compagnia era più spesso cacciata che non cacciatrice. Una notte, mentre stavano acquattati nel buio senza fuoco, Túrin rifletté sulla propria esistenza, e gli parve che avrebbe potuto essere ben migliore. «Devo trovare un rifugio sicuro» si disse «e provvedere a difendermi dall'inverno e dalla fame.» Ma non sapeva dove volgersi. E il giorno dopo condusse altrove i suoi uomini, più lontano che mai dal Teiglin e dalle marche settentrionali del Doriath. Dopo tre giorni di cammino, fecero sosta al margine meridionale dei boschi della Valle del Sirion. Quivi il suolo era più arido e più nudo, come prendeva a salire verso le brughiere. Ben presto accadde che, mentre la luce di un grigio giorno di pioggia si affievoliva, e Túrin e i suoi uomini se ne stavano al riparo di una macchia di agrifogli; e al di là si spalancava una distesa senz'alberi, costellata di numerosi grandi massi sparpagliati o ammucchiati; e tutto era silenzio, a eccezione del gocciolio della pioggia dalle foglie; ecco, che all'improvviso una sentinella lanciò un richiamo e, balzati in piedi, scorsero tre figure incappucciate, ammantate di grigio, che procedevano furtive tra i massi. Erano cariche ognuna di un gran sacco, e ciò non pertanto, andavano svelte. Túrin gridò loro di fermarsi, e gli uomini corsero a dar loro la caccia come cani; ma quelli tirarono dritto e, per quante frecce scagliasse Andróg, due svanirono nel crepuscolo. Uno rimase indietro, fosse più lento o più pesantemente gravato; e ben presto fu catturato e gettato a terra, e trattenuto da molte dure mani, per quanto si dibattesse e mordesse come una bestia. Accorse però Túrin, che rimbrottò gli uomini: «Che vi succede?» chiese. «Perché tanto accanimento? È vecchio e piccolo, e che male volete che vi faccia?» «Morde» rispose Andróg, mostrando la mano insanguinata. «È un Orco della razza degli Orchi. Ammazzalo». «Altro non merita, per aver deluso le nostre speranze» disse un altro che aveva aperto il sacco. «Qui non ci sono che radici e pietruzze». «No,» decise Túrin «è barbuto. Penso sia solo un Nano. Fatelo alzare, e che parli.»
Fu così che Mîm entrò nel Racconto dei Figli di Húrin. Si mise egli infatti in ginocchio davanti a Túrin e implorò di aver salva la vita. «Sono vecchio e povero» disse. «Soltanto un Nano, come tu hai detto, e non un Orco. Mîm, così mi chiamo. Non lo permettere che mi uccidano, signore, senza nessun motivo, come farebbero gli Orchi.» Túrin allora in cuor suo ne provò compassione, ma disse: «Povero sembri, Mîm, sebbene sia insolito in un Nano; ma noi, ritengo, siamo più poveri ancora: Uomini senza casa e senza amici. Se ti dicessi che noi non risparmiamo nessuno solo per pietà, nel gran bisogno che ci attanaglia, che cosa sei disposto a offrire in riscatto?». «Non so che cosa tu desideri, signore» rispose Mîm prudente. «In questo momento ben poco» disse Túrin, volgendo amareggiato lo sguardo all'intorno, gli occhi velati dalla pioggia. «Un luogo sicuro in cui dormire fuori dall'umidità dei boschi. E senza dubbio tu ne hai uno.» «Ce l'ho» assicurò Mîm «ma non posso cederlo in riscatto. Sono troppo vecchio per dormire all'aperto.» «Non hai bisogno d'invecchiare ancora» intervenne Andróg, levando un coltello con la mano non ferita. «Io te lo posso risparmiare.» «Signore!» gridò Mîm terrorizzato aggrappandosi alle ginocchia di Túrin. «Se perdo la vita, tu perderai il ricovero, perché senza Mîm non lo troveresti. Non posso cederlo, ma lo condividerò. C'è più spazio in esso di quanto ve ne fosse un tempo, perché tanti se ne sono andati per sempre.» E prese a piangere. «Ti risparmio la vita, Mîm» assicurò Túrin. «Almeno finché arriviamo alla sua tana» soggiunse Andróg. Ma Túrin, a questi rivolto, disse: «Se Mîm ci porta a casa sua senza trucchi, e la casa ci piace, ebbene, la sua vita sarà riscattata; e non sarà ucciso da nessuno dei miei seguaci. Lo giuro». Allora Mîm baciò le ginocchia di Túrin, dicendo: «Mîm sarà tuo amico, signore. Dapprima ho pensato che tu fossi un Elfo, giudicando dalle tue parole e dal suono della tua voce; ma se sei un Uomo, meglio. Mîm non ama gli Elfi». «Dov'è dunque questa tua casa?» insistette Andróg. «Dev'essere bella davvero, perché Andróg la condivida con un Nano. Perché ad Andróg i Nani non vanno a genio. La sua gente non conserva buoni ricordi di quella razza dell'Est.» «Hanno lasciato ricordi peggiori di se stessi dietro di loro» replicò Mîm.
«Giudicherai la mia casa quando la vedrai. Ma avrete bisogno di luce strada facendo, voi Uomini dal passo incerto. Torno subito e vi conduco.» Quindi si alzò e prese il suo sacco. «Eh, no» fece Andróg. «Non lo permetterai, vero capo? Questo mascalzone non lo rivedresti mai più.» «Si fa buio» osservò Túrin. «Che ci lasci un pegno. Ci terremo il tuo sacco e il suo contenuto, che ne dici, Mîm?» A queste parole, però, il Nano tornò a gettarsi in ginocchio tutto agitato. «Se Mîm non avesse intenzione di ritornare, non lo farebbe certo per un vecchio sacco pieno di radici» gemette. «Ritorno di sicuro. Lasciatemi andare!» «Non ne ho nessuna intenzione» disse Túrin. «Se non vuoi separarti dal tuo sacco, resterai con esso. Una notte sotto il fogliame ti indurrà forse ad avere a tua volta compassione di noi.» Ma notò, e altri con lui, che Mîm annetteva maggior valore al suo carico di quanto questo non sembrasse averne a prima vista. Condussero il vecchio Nano al loro triste accampamento, e andando Mîm borbottava in una strana lingua che sembrava carica di antichi odi; ma quando legarono le sue gambe, d'un tratto s'azzittì. E coloro che gli facevano la guardia lo videro starsene seduto per tutta la notte, silenzioso e immobile come un sasso, salvo per gli occhi insonni che balenavano come se vagassero nell'oscurità. Prima che facesse giorno la pioggia cessò, e un vento sommosse i rami. Venne l'alba, più chiara di molti giorni passati, e zefiri del Sud aprirono un cielo pallidamente limpido dalla parte del sole nascente. Mîm continuò a starsene seduto immobile, tanto da sembrare morto, che adesso le sue pesanti palpebre erano serrate, e la luce del mattino lo rivelava avvizzito e raggrinzito dall'età. Túrin gli si piantò davanti a scrutarlo. «Adesso c'è abbastanza luce» constatò. Allora Mîm riaprì gli occhi e indicò i lacci che lo avvinghiavano; e, liberatone, parlò con tono irato: «Mettetevi bene in testa questo, stolti» disse. «Non legate mai un Nano! Lui non lo perdonerà mai. Non ho voglia di morire, ma per ciò che avete fatto il mio cuore fiammeggia. Mi pento della promessa fattavi.» «Io invece no» disse Túrin. «Adesso ci condurrai a casa tua, e per intanto non si parlerà di morte. Perché questa è la mia volontà.» Fissò bene il Nano negli occhi, e Mîm non seppe reggerne lo sguardo; pochi del resto
erano in grado di sfidare lo sguardo di Túrin, volendolo o trascinati dalla collera che fossero. E ben presto, eccolo distogliere il suo e alzarsi dicendo: «Seguimi, signore». «Benone» commentò Túrin. «Ma una cosa voglio dirti ormai: capisco il tuo orgoglio. Magari morirai, ma non sarai rimesso in ceppi.» «Non lo sarò» disse Mîm. «Ma ora venite!» E così li ricondusse al luogo dov'era stato catturato e indicò l'ovest. «Lì è casa mia!» disse. «Dovete averla vista più volte, penso, perché è alta. Sharbhund la chiamavamo prima che gli Elfi cambiassero tutti i nomi.» S'avvidero allora che indicava l'Amon Rûdh, la Collina Calva, la cui cima nuda dominava per molte leghe d'intorno le selve. «Sì, l'abbiamo vista, ma mai ci siamo avvicinati!» disse Andróg. «Infatti, può esserci ricovero sicuro, o acqua o quant'altro ci occorre? Secondo me, qui gatta ci cova. Si son mai visti uomini nascondersi sulla cima di un colle?»
«Veder lontano può esser più sicuro che starsene acquattati» fece Túrin. «Dall'Amon Rûdh, lo sguardo spazia per ampio tratto. Bene, Mîm, verrò a vedere che cos'hai da offrirci. Quanto ci vorrà a noi, uomini dal passo incerto, per arrivarvi?» «Tutta la giornata fino al tramonto» rispose Mîm. La banda si mise in marcia verso occidente, Túrin in testa con Mîm al suo fianco. Procedettero cauti una volta usciti dai boschi, ma la contrada era vuota e silente. Superarono il pietrame rotolato ai piedi del colle, quindi iniziarono l'ascesa di questo; l'Amon Rûdh infatti si levava al margine orientale delle alte brughiere tra le Valli del Sirion e del Narog, e la sua vetta sovrastava ancora di mille piedi e più la landa sassosa alla base. Lungo il versante orientale, il terreno accidentato saliva lentamente tra ciuffi di betulle, sorbi e antichi rovi radicati nella roccia. Più in là, sulla brughiera e nelle pendici più basse dell'Amon Rûdh, crescevano macchie di aeglos; ma la sua erta cima grigia era nuda, a parte il rosso seregon che ammantava la pietra. Mentre il pomeriggio finiva, i fuorilegge giunsero ai piedi dell'altura. Erano venuti, seguendo Mîm, da nord, e la luce del sole al tramonto illuminava la cima dell'Amon Rûdh, e il seregon era tutto in fiore. «Guardate! C'è sangue sulla cima del colle» disse Andróg. «Non ancora» fece Túrin. Il sole calava e la luce veniva meno nelle bassure. Ora il colle torreggiava alto di fronte a loro che si chiedevano quale necessità vi fosse di una guida per raggiungere una meta così visibile. Ma andando dietro Mîm, quando affrontarono gli ultimi, erti pendii, s'avvidero che il Nano batteva un sentiero secondo segni segreti o antica abitudine. Ora infatti procedeva a zigzag; e, guardando di lato, i fuorilegge s'avvedevano che a destra e a manca si spalancavano buie vallicelle e burroni, oppure che il terreno era una scoscesa pietraia con crepacci e buche mascherate da rovi e cespugli spinosi, che, senza una guida per trovare la strada, avrebbero dovuto faticare arrampicandosi per giorni e giorni. Alla fine pervennero a un terreno ancor più scosceso ma meno aspro. Passarono sotto l'ombra di vecchi sorbi, penetrando tra filari di aeglos dai lunghi fusti: una semioscurità piena di un dolce odore. Poi all'improvviso, si trovarono di fronte a una parete di roccia liscia e ripida, che torreggiava alta quaranta piedi, forse, e il crepuscolo oscurava il cielo al di sopra rendendo incerto il loro passo. «È questo l'uscio di casa tua?» chiese Túrin. «Già, dicono che i Nani a-
mino le pietre.» E s'accostò vieppiù a Mîm, per timore che facesse loro qualche tiro. «Non l'uscio della casa, ma il cancello del recinto» precisò Mîm. Quindi volse a destra al piede della rupe, per fermarsi d'un tratto dopo venti passi; e Túrin notò, aperto da mani o dalle intemperie, un crepaccio, siffatto che le due facce si sovrapponevano e l'apertura s'insinuava verso sinistra ed era mascherata da lunghe piante rampicanti radicate nei crepacci sovrastanti, tra le quali però nel buio saliva un ripido sentiero pietroso. Acqua ne gocciava, e dentro era umido. Uno a uno vi entrarono. All'interno, il sentiero volgeva a destra e quindi a sud, e li menò, attraverso un folto di rovi, su una verde spianata, lungo la quale proseguiva sparendo nelle tenebre. Erano giunti alla casa di Mîm, Bar-en-Nibin-noeg, di cui restava memoria solo in antichi racconti del Doriath e del Nargothrond e che nessun Uomo aveva mai visto. Ma la notte stava scendendo, stelle s'accendevano a oriente, e così non poterono vedere come fosse conformato quello strano luogo. L'Amon Rûdh era coronato da una grande roccia simile a un erto cappuccio di sasso, piatto e nudo in cima. A nord ne aggettava una sporgenza invisibile dal basso, poiché dietro di essa la vetta si levava a guisa di muro e verso ovest e a est ne piombavano giù lisce rocce. Solo da nord, la direzione da cui erano venuti, la si poteva raggiungere agevolmente a patto di conoscere la strada. Dal cancello, vi conduceva un sentiero, ben presto penetrando in un boschetto di betulle nane crescenti intorno a una limpida pozza in un bacino scavato nella roccia. La pozza era alimentata da una sorgente che sgorgava al piede della parete retrostante, e mediante un canaletto l'acqua ne defluiva come un lucente filo, precipitando dal margine occidentale della sporgenza. Dietro la quinta di alberi, tra due alti contrafforti rocciosi, si apriva una grotta. Sembrava poco profonda sotto un arco basso e irregolare; ma era stata allargata e scavata per ampio tratto dentro il colle dalle lente mani dei Nanerottoli, nei lunghi anni in cui vi avevano dimorato, indisturbati dagli Elfi Grigi dei boschi. Nel fitto crepuscolo, Mîm li condusse oltre la pozza, dove ora le deboli stelle si riflettevano tra le ombre dei rami di betulla. All'imboccatura della grotta si volse e accennò un inchino a Túrin. «Entra» lo invitò «nella Baren-Danwedh, la Casa del Riscatto, perché d'ora in poi così sarà chiamata.» «Può darsi» rispose Túrin. «Prima, però, voglio dare un'occhiata.» Quindi entrò con Mîm, e gli altri, vedendo che non aveva paura, lo seguirono, compreso Andróg che più di tutti diffidava del Nano. Subito furono
immersi in una nera oscurità; ma Mîm batté le mani, e un lumino apparve da dietro un angolo: da un passaggio in fondo all'ingresso avanzava un altro Nano reggendo una piccola torcia. «Ah, dev'essere quello che mi son lasciato sfuggire» disse Andróg. Ma Mîm scambiò frettolose parole con l'altro nel loro aspro linguaggio, e poi, apparentemente turbato o furibondo per ciò che aveva udito, infilò di corsa il passaggio e scomparve. Andróg allora propose di seguirlo. «Attacchiamoli per primi» disse. «Deve essercene un intero alveare, ma in compenso sono piccoli.» «Secondo me sono solo tre» replicò Túrin, e s'avviò, guidando i fuorilegge che avanzavano tentando le scabre pareti. Il corridoio più e più volte piegò di qua e di là con bruschi angoli; ma alla fine comparve una pallida luce e giunsero in una sala, angusta ma alta, debolmente rischiarata da lanterne che pendevano, appese a catenelle, dalle ombre del soffitto. Mîm non era lì, ma se ne udiva la voce, e da questa guidato, Túrin giunse alla soglia di una camera alla quale si accedeva dalla sala. E Túrin lo vide inginocchiato sul pavimento, e accanto a lui, in silenzio, stava il Nano con la torcia; ma su un giaciglio di pietra lungo la parete opposta, un altro era disteso. «Khîm Khîm Khîm!» gemeva il vecchio Nano strappandosi la barba. «Non tutte le tue frecce sono andate a vuoto» disse Túrin ad Andróg. «Questo tuttavia può rivelarsi un tiro sbagliato. Sei troppo pronto a scoccare; ma può darsi che tu non viva tanto a lungo da imparare la saggezza.» Allontanandosi dagli altri, Túrin entrò in punta di piedi e si fermò dietro il Nano rivolgendogli queste parole: «Qual è il problema, maestro?» disse. «Conosco un po' l'arte della guarigione. Posso esserti d'aiuto?» Mîm volse il capo, e nei suoi occhi era un rosso bagliore. «No, se non puoi far tornare indietro il tempo e poi tagliare le mani crudeli dei tuoi uomini» rispose. «Ecco qui mio figlio trafitto da una freccia. Ormai non può più parlare. È morto al tramonto. I vostri legacci mi hanno impedito di curarlo.» Una volta ancora la pietà, a lungo soffocata, sgorgò nel cuore di Túrin come acqua da roccia. «Ahimè,»disse al Nano «se potessi la richiamerei, quella freccia. Ora sì che questa ben merita il nome di Bar-en-Danwedh, Casa del Riscatto. Perché, che noi vi dimoriamo o meno, mi riterrò tuo debitore; e se mai riuscirò ad accumulare ricchezze, ti verserò un danwedh di oro pesante per tuo figlio in segno di dolore, sebbene certo più non posso rallegrare il tuo cuore.» Allora Mîm si levò e a lungo guardò Túrin. «Ti ho sentito» disse poi.
«Le tue parole sono quelle di un signore di Nani del tempo che fu; e me ne meraviglio. Adesso il mio cuore si è placato, ancorché non sia lieto. Il mio riscatto dunque lo pagherò: se vuoi, puoi dimorare qui. Una cosa però voglio aggiungere: colui che ha scoccato la freccia spezzi il suo arco e le altre sue frecce, e le deponga ai piedi di mio figlio; né mai più maneggerà freccia né arco. Se lo farà, ne morrà. Questa è la maledizione che getto su di lui.» All'udire quelle parole, Andróg impallidì; e, sebbene assai a malincuore, spezzò l'arco e le frecce e li depose ai piedi del Nano morto. Ma, uscendo dalla camera, guardò storto Mîm e borbottò: «La maledizione di un Nano mai si spegne, a quel che dicono: ma anche quella di un Uomo può giungere a segno. Che possa costui morire con un dardo in gola». Trascorsero la notte nella sala, poco dormendo per via dei gemiti di Mîm e di Ibun, l'altro suo figlio. Quando i pianti cessarono, non poterono dirlo; ma, nell'ora in cui finalmente si destarono, i Nani erano partiti e la camera chiusa con una pietra. Il tempo s'era rimesso al bello, e al sole del mattino i fuorilegge si lavarono alla pozza e prepararono il poco cibo che avevano con loro; e mentre mangiavano riapparve Mîm. Questi s'inchinò a Túrin e disse: «Se n'è andato, e tutto è compiuto. Ora giace con i suoi padri. Dedichiamoci alla vita che ci resta, per quanto brevi possano essere i giorni che abbiamo davanti. Ti piace la casa di Mîm? Il riscatto è stato pagato e accettato?» «Sì» confermò Túrin. «Allora è tutto tuo, puoi disporre la tua dimora qui come vuoi, con questa sola limitazione: che la camera che è chiusa nessuno la riapra salvo me». «Ti abbiamo sentito» rispose Túrin. «Quanto alla nostra vita qui, siamo al sicuro, o almeno così sembra. Ma ci occorrono cibo e altre cose ancora. Come faremo a uscire e, più ancora, come faremo a rientrare?» Inquieti, udirono Mîm ridacchiare chioccio. «Temete forse di aver seguito un ragno nel centro della sua tela?» domandò il Nano. «Mîm non mangia uomini! E un ragno ben difficilmente potrebbe vedersela con trenta vespe alla volta. Guardate, voi siete armati, e io sono qui a mani nude. No, dobbiamo dividere, voi e io: casa, cibo e fuoco, e magari altri vantaggi ancora. La casa penso che la custodirete e ne terrete il segreto per il vostro stesso bene, anche sapendo come fare a entrarvi e uscirne. Col tempo lo imparerete, ma intanto dovrà guidarvi Mîm o Ibun suo figlio.»
Ne convenne Túrin e ringraziò Mîm, e gli uomini si mostrarono per lo più soddisfatti perché, al sole del mattino, mentre ancora durava l'estate, quello sembrava un luogo ideale. Il solo Andróg era scontento. «Più presto impareremo a entrare e uscire, e meglio sarà» disse. «Mai prima abbiamo avuto un prigioniero che potesse condizionare le nostre mosse.» Quel giorno si riposarono, pulendo le armi e rammendando i panni; avevano infatti cibo ancora per un giorno o due, e Mîm ne aggiunse dell'altro. Prestò loro tre grandi paioli e di che accendere; e se ne uscì con un sacco. «Roba da poco» disse. «Non vale la pena rubarla. Null'altro che radici selvatiche.» Ma, cotte, queste si rivelarono buone da mangiare, di sapore simile al pane; e i fuorilegge ne furono lieti, perché da un pezzo non assaporavano il pane, salvo quello che riuscivano a rubare. «Gli Elfi selvaggi non le conoscono; gli Elfi Grigi non sanno trovarle; gli orgogliosi d'oltremare sono troppo orgogliosi per scavare» spiegò Mîm. «Come si chiamano?» domandò Túrin. Mîm gli scoccò un'occhiata di traverso. «Non hanno nome, salvo che in lingua nanica, che noi non insegniamo» rispose. «E non riveliamo agli Uomini come si fa a trovarle, perché gli Uomini sono bramosi e spreconi, e non cesserebbero di raccoglierle se non dopo aver dato fondo a tutte le piante, mentre ora passano loro accanto mentre s'aggirano per le selve. Altro da me non saprai; ma del mio bottino puoi approfittare finché parli onestamente e né spii né rubi.» E di nuovo fece udire la sua risatina chioccia. «Queste radici sono preziosissime» riprese. «Più dell'oro durante l'inverno di carestia, perché possono essere immagazzinate come le noci di uno scoiattolo, e già stiamo costituendo la nostra scorta, cogliendo le prime mature. Ma voi siete sciocchi, se credete che non fossi disposto a separarmi da un piccolo carico neppure per salvarmi la vita.» «Ho capito» disse Ulrad, che al momento della cattura di Mîm aveva guardato nel sacco. «Eppure non volevi separartene, e le tue parole non fanno che meravigliarmi ulteriormente.» Mîm si volse a guardarlo rabbuiato. «Tu sei uno di quegli sciocchi che la primavera non rimpiangerebbe se perisse d'inverno» ribatté. «Avevo dato la mia parola, e dovevo tornare, volente o nolente, con o senza sacco, e che un uomo senza legge e infedele la pensi come vuole! Ma a me non va di essere separato dal mio con la forza dal malvagio, si tratti anche solo di un laccio di scarpa. Ricordo bene che le tue mani erano quelle che mi hanno legato, e m'hanno trattenuto sì che non potessi ancora parlare con mio fi-
glio. Sempre, quando distribuirò il pane della terra traendolo dal mio magazzino, tu ne sarai escluso, e se ne mangi, mangerai di quello dei tuoi compagni, non perché io te l'abbia dato.» Allora Mîm se ne andò, ma Ulrad, che aveva perso il coraggio di fronte alla collera di questi, parlò dietro le sue spalle dicendo: «Belle parole! Ciò non toglie che il vecchio mascalzone avesse anche altro nel sacco, di forma simile, ma più duro e pesante. Può darsi che ci siano altre cose, nelle selve, oltre al pane della terra, cose che gli Elfi non hanno trovato e di cui gli Uomini non debbono sapere». «Può essere» convenne Túrin. «E tuttavia, il Nano ha detto la verità su un punto almeno, quando ti ha dato dello sciocco. Perché devi dire apertamente ciò che pensi? Il silenzio, se le parole gentili ti restano in gola, servirà meglio ai nostri scopi.» Il giorno trascorse tranquillo, senza che nessuno dei fuorilegge mostrasse desiderio di allontanarsi. Túrin passeggiò a lungo sul verde prato sopra la sporgenza rocciosa, da un margine all'altro; e spinse lo sguardo a est, a ovest e a nord, chiedendosi fin dove potesse spaziare la vista nell'aria limpida. Guardò verso nord, e scorse la Foresta di Brethil che saliva verde attorno all'Amon Obel, e a quella volta il suo sguardo era di continuo richiamato, non sapeva perché: il suo cuore infatti era attratto piuttosto dal nord-ovest dove, una lega dopo l'altra, ai margini del cielo, gli pareva d'intravedere le Montagne dell'Ombra e i confini della sua patria. La sera, però, Túrin volse lo sguardo all'occaso dove il sole scendeva rosso tra le foschie delle coste lontane, e la Valle del Narog giaceva immersa nelle ombre intermedie. Così cominciò la dimora di Túrin figlio di Húrin nelle aule di Mîm nella Bar-en-Danwedh, la Casa del Riscatto. Per parecchio tempo ai fuorilegge andò proprio come volevano. Il cibo non mancava, erano ben riparati, stavano al caldo e all'asciutto, lo spazio era più che sufficiente. Constatarono che le grotte avrebbero potuto ospitare cento o più persone all'occorrenza. Più avanti si apriva una sala minore, con un camino su un lato, dal quale partiva una canna fumaria che, attraversata la roccia, terminava con un orifizio, accuratamente nascosto in un crepaccio sul fianco dell'altura. C'erano anche molte altre camere, che si aprivano sulle sale o sui corridoi tra esse, alcune destinate ad abitazione, altre adibite a officine e magazzini. Più arti di loro conosceva Mîm e possedeva molti recipienti e forzieri di pietra e legno che apparivano antichis-
simi. Adesso, però, gran parte delle camere erano deserte: nelle armerie erano appese ascie e altri strumenti di guerra arrugginiti e polverosi, gli scaffali e gli armadi erano vuoti e le fucine spente. Eccetto una: una piccola stanza che s'apriva sulla sala interna ove si trovava un focolare che sfogava nella stessa canna fumaria del camino della sala. A volte Mîm lavorava qui senza però consentire mai ad altri di stare lì. E nulla rivelò di una scala nascosta che conduceva dalla sua casa alla cima piatta dell'Amon Rûdh. Andróg la scoprì per caso quando, affamato, si mise alla ricerca delle provviste di cibo di Mîm e si perse nelle grotte; ma tenne per sé la scoperta. Durante il resto di quell'anno non compirono altre incursioni e, se si dedicavano alla caccia o alla raccolta di cibo, per lo più lo facevano in piccoli gruppi. Per molto tempo, però, riuscì loro difficile ritrovare la strada e, a parte Túrin, non più di sei dei suoi uomini riuscirono a tanto. Però, visto che i più abili di loro potevano tornare al nascondiglio anche senza l'aiuto di Mîm, misero una sentinella al crepaccio della parete nord, giorno e notte. Dal sud, non si aspettavano nemici, né c'era il rischio che qualcuno scalasse l'Amon Rûdh da quel lato. Ma di giorno c'era quasi sempre un'altra sentinella di guardia sulla vetta, così da controllare tutto il territorio all'orizzonte. Per quanto fossero ripidi i fianchi del colle, si poteva salire in vetta grazie a dei rozzi gradini intagliati nel fianco dell'altura a est dell'entrata della caverna, sui quali gli uomini potevano inerpicarsi senza aiuto. Così l'anno trascorse, senza scontri né allarmi. Ma, con il passare dei giorni, la pozza divenne grigia e fredda e spoglie si fecero le betulle; tornarono anche le forti piogge, per cui dovettero rimanere più spesso al coperto. E fu così che si stancarono ben presto del buio nelle viscere dell'altura e della penombra delle sale; e a gran parte di loro sembrò che la vita potesse essere migliore se non l'avessero dovuta condividere con Mîm. Troppo spesso questi sbucava da qualche anfratto o soglia ombrosa quando lo credevano altrove. E, quando si avvicinava, il disagio calava sulla loro conversazione. Presero l'abitudine di parlare tra loro sempre sottovoce. Eppure, anche se a loro sembrava strano, per Túrin non era così. Anzi, questi diventava ogni giorno più amico del vecchio Nano e sempre più di buon grado ne ascoltava i consigli. Durante il successivo inverno, molte furono le ore che trascorse con Mîm, ascoltando i suoi insegnamenti e i racconti della sua vita; né Túrin lo redarguiva al sentirlo parlar male degli Eldar. Dal parte sua, Mîm ne sembrava piuttosto compiaciuto e mostrava grande attaccamento a Túrin, che era l'unico ammesso a volte nella sua fucina, dove parlavano a bassa voce.
Ma al finire dell'autunno, l'inverno si fece davvero sentire. Prima del periodo natalizio, la neve scese dal nord più abbondante di quanto non ne avessero mai vista nelle valli del fiume. In quel tempo, e sempre più con l'aumentare del potere di Angband, gli inverni si fecero più rigidi nel Beleriand. L'Amon Rûdh era sotto una fitta coltre di neve e solo i più arditi avevano il coraggio di andare in giro. Alcuni si ammalarono e tutti sentivano i morsi della fame. Nella debole luce di un giorno d'inverno, apparve all'improvviso tra loro un Uomo, così sembrò, grande e corpulento, avvolto da un candido manto con cappuccio. Aveva eluso la sorveglianza e si era accostato al fuoco senza proferire parola. Come i presenti balzarono in piedi impauriti, quegli, ridendo, si tirò indietro il cappuccio. Riconobbero allora in lui Beleg Arcoforte. Sotto la sua ampia cappa portava un grosso fardello nel quale recava molte cose per aiutare gli uomini. E fu così che Beleg tornò da Túrin, arrendendosi all'affetto piuttosto che alla saggezza. Túrin ne fu davvero lieto, perché spesso si era pentito della sua testardaggine; e ora i desideri del suo cuore erano esauditi senza che questi dovesse umiliarsi o dovesse cedere. Ma se Túrin era felice, altrettanto non si può dire di Andróg né di qualcun altro della sua compagnia. Sembrò loro che Beleg e il loro comandante si fossero dati appuntamento e che questi lo avesse a loro tenuto nascosto. Andróg li osservava sospettoso mentre i due in conversazione sedevano in disparte. Beleg aveva portato con sé l'Elmo di Hador ritenendo che forse sarebbe valso a indurre Túrin a guardare un po' più in là di quell'esistenza nelle selve, a capo di una misera banda. E nel tirar fuori l'elmo, disse a Túrin: «Questo è tuo: te l'ho riportato. Mi è stato affidato nelle marche settentrionali; ma non credo che sia stato dimenticato». Al che Túrin: «Quasi. Ma non succederà più». E sedette in silenzio e assorto nei suoi pensieri guardava lontano finché, all'improvviso, non scorse il luccichio di qualcos'altro che Beleg teneva in mano. Era il regalo di Melian e le foglie d'argento rosseggiavano alla luce del fuoco; e quando Túrin scorse il sigillo, il suo sguardo si rabbuiò: «Che hai lì?» domandò. «Il più gran dono che chi ti ama può darti» rispose Beleg. «Questo è il lembas in Elidh, il pan di via degli Eldar, che nessun uomo ha mai assaggiato.» «L'elmo dei miei padri lo accetto ben volentieri dalle tue mani, ma non voglio doni dal Doriath» disse Túrin. «Quand'è così, rimanda indietro la tua spada e le tue armi» replicò Be-
leg. «E rimanda indietro anche gli insegnamenti e l'educazione che hai ricevuto da ragazzo. Lascia che i tuoi uomini, che (tu dici) esserti stati fedeli, muoiano nel deserto per soddisfare i tuoi capricci! E poi, questo viatico era un dono fatto a me, non già a te, e io posso farne quel che voglio. Non mangiarlo se ti va di traverso; ma altri può darsi che siano più affamati e meno orgogliosi.» Gli occhi di Túrin dardeggiavano, ma quando incontrarono il volto di Beleg, il fuoco che era in essi si spense e tornarono grigi e questi disse con un filo di voce, difficile a udirsi: «Mi chiedo, amico, se ti degnerai di tornare da un tale screanzato. Da te prenderò qualunque cosa, anche i rimproveri. D'ora in poi mi consiglierai in tutto, a eccezione della strada per il Doriath».
CAPITOLO VIII LA TERRA DELL'ARCO E DELL'ELMO Nei giorni che seguirono, Beleg molto si prodigò per il bene della compagnia. Coloro che erano feriti o malati furono da lui curati e prontamente guarirono, giacché a quei tempi gli Elfi Grigi erano ancora gente superiore, possedevano un grande potere sulle vie della vita e su tutte le cose viventi; e, sebbene fossero meno abili e sapienti degli Esiliati da Valinor, possedevano molte arti che non erano alla portata degli Uomini. Inoltre, Beleg l'Arciere era tenuto in grande considerazione dalla gente del Doriath: era forte e resistente, lungimirante e previdente e, al bisogno, valoroso in battaglia, potendo contare non solo sulla sua veloce freccia, ma anche sulla sua grande spada Anglachel. Ma l'odio crebbe sempre più nel cuore di Mîm, che odiava tutti gli Elfi, e, come si racconta, era geloso dell'affetto che Túrin nutriva per Beleg. Passato l'inverno, con la primavera i fuorilegge ebbero ben presto lavoro ben più duro da fare. La potenza di Morgoth fu mobilitata. Ma chi poteva misurare l'ampiezza dei suoi disegni, di colui che era stato Melkor, possente tra gli Ainur del Grande Canto, e adesso se ne stava, tenebroso signore, sullo scuro trono al Nord, valutando, nella sua perfidia, tutte le notizie che gli giungevano da spie o traditori, vedendo con gli occhi della sua mente e compenetrando molto di più nelle azioni e nelle intenzioni dei suoi nemici, anche più di quanto non paventasse il più prudente tra loro, a eccezione di Melian la Regina? A lei sovente si spingeva il suo pensiero, ma ne era frustrato. In quell'anno, allora, volse la sua malvagità alle terre a ovest del Sirion, dove ancora un potere gli si opponeva. Gondolin era ancora in piedi, ma era nascosta. Nel Doriath, lo sapeva, non poteva ancora entrare. Più in là si
trovava il Nargothrond per il quale nessuno dei suoi servi aveva ancora scoperto la strada, persino il nome faceva loro paura. Lì la gente di Finrod viveva in celata forza. E ben lontano dal Sud, di là dai bianchi boschi di betulle del Nimbrethil, dalle coste di Arvernien e dalle Bocche del Sirion, giunsero voci circa i Porti delle Navi. Lì non poteva arrivare prima di far cadere tutto il resto. Così ora gli Orchi scesero dal Nord in grandissimo numero. Giunsero attraverso l'Anach e il Dimbar fu conquistato e tutte le marche settentrionali del Doriath ne furono infestate. Lungo l'antica strada, che passava attraverso la lunga gola del Sirion, superata l'isola dove un tempo si levava la Minas Tirith di Finrod, e più avanti attraverso la contrada tra il Malduin e il Sirion e lungo i margini del Brethil giunsero fino ai Guadi del Teiglin. Di lì la via proseguiva verso la Piana Sorvegliata; e poi ai piedi degli altipiani controllati dall'Amon Rûdh, e giù giù dentro la valle del Narog arrivava infine al Nargothrond. Ma gli Orchi non la percorsero per lungo tratto, almeno per il momento, perché nelle selve dimorava adesso un terrore che vi si celava e, sulla collina rossa, erano occhi vigilanti di cui non erano stati avvertiti. Quella primavera, Túrin si era rimesso in capo l'Elmo di Hador e Beleg ne era felice. Al principio la loro compagnia contava meno di cinquanta uomini, ma il saper vivere e cacciare nei boschi di Beleg e il valore di Túrin li facevano sembrare un esercito agli occhi dei loro nemici. Gli esploratori degli Orchi erano stati messi in fuga, i loro accampamenti spiati e se si radunavano per marciare in forza in qualche luogo stretto, da dietro le rocce o dall'ombra degli alberi sbucavano l'Elmo-di-Drago e i suoi uomini, alti e fieri. Ben presto, al solo suono del corno sulle colline, i loro capitani perdevano coraggio e gli Orchi se ne scappavano prima che una freccia venisse scagliata o una spada fosse sguainata. Si è narrato che quando Mîm cedette la sua dimora nascosta sull'Amon Rûdh a Túrin e alla sua compagnia, chiese che colui che aveva scagliato la freccia che aveva ucciso suo figlio rompesse il suo arco e le sue frecce e li ponesse ai piedi di Khîm: quell'uomo era Andróg. E fu così che davvero controvoglia Andróg fece come richiesto da Mîm. E per di più, Mîm dichiarò che Andróg non doveva mai più portare arco e frecce; e gettò su di lui la maledizione che se lo avesse comunque fatto, quel tipo di arma gli avrebbe dato la morte. Ora, nella primavera di quell'anno, Andróg, a dispetto della maledizione
di Mîm, prese di nuovo in mano un arco in una uscita dalla Bar-enDanwedh; e fu così che fu colpito da una freccia avvelenata degli Orchi e fu riportato indietro moribondo e in preda al dolore. Ma Beleg guarì la sua ferita e, per questo, l'odio di Mîm per Beleg crebbe ulteriormente perché così facendo aveva vanificato la sua maledizione; ma disse «tornerà a mordere». Quell'anno per tutto il Beleriand, tra i boschi e lungo i fiumi, per i passi e di là dalle alture, si sussurrava che l'Elmo e l'Arco caduti nel Dimbar (così si pensava) si fossero risollevati contro ogni speranza. E quindi accadde che molti, sia Elfi che Uomini, che erano senza capi, spodestati ma non piegati, coloro che rimanevano dopo le battaglie e le sconfitte e le terre ridotte alla desolazione, ripresero coraggio e si recarono in cerca dei Due Capitani, sebbene non si sapesse dove fosse la loro fortezza. Túrin accoglieva volentieri tutti coloro che venivano a lui, ma, su consiglio di Beleg, non ammetteva nessun nuovo arrivato al suo rifugio sull'Amon Rûdh (che adesso era chiamato Echad i Sedryn: Campo dei Fedeli); la strada per giungervi la conoscevano solo quelli della Vecchia Compagnia e nessun altro vi era ammesso. Ma tutt'attorno furono costruiti altri accampamenti e forti ben vigilati: nella foresta a est come sugli altipiani, tra le paludi a sud, dalla Methed-en-glad («la fine del bosco») al Bar-erib, qualche lega a sud dell'Amon Rûdh, in quella che un tempo era terra fertile tra il Narog e le Paludi del Sirion. Da tutti questi luoghi gli uomini potevano vedere la sommità dell'Amon Rûdh e, tramite segnali, ricevere notizie e comandi. Così, prima della fine dell'estate, i seguaci di Túrin erano diventati una forza cospicua e il potere di Angband venne respinto. Ne giunse notizia anche nel Nargothrond dove molti divennero impazienti perché sostenevano che, se un bandito poteva far tanto danno al Nemico, che cosa non avrebbe mai potuto il Signore di Narog? Però Orodreth, re di Nargothrond, non era disposto a cambiare parere. In ogni cosa seguiva Thingol, con il quale scambiava messaggi per vie segrete; ed era un saggio signore, essendo la sua saggezza propria di coloro che hanno cura soprattutto del proprio popolo, e nutriva il desiderio di conservarne più a lungo la vita e i beni nonostante le brame del Nord. Ragion per cui, non consentì a nessuno della sua gente di andare da Túrin e inviò a questi messaggeri per comunicargli che, qualsiasi cosa facesse o progettasse nel corso della sua guerra, non doveva metter piede nella terra del Nargothrond, né spingere gli Orchi verso questa. Ma offrì ai Due Capitani aiuti di altro genere che non fossero
di braccia, qualora ne avessero bisogno (e si ritiene che vi fosse indotto da Thingol e Melian). Allora Morgoth ritirò la mano, quantunque frequenti fossero gli attacchi simulati, cosicché i ribelli potessero acquistare eccessiva fiducia dalle facili vittorie. E fu davvero così e Túrin diede il nome di Dor-Cúarthol a tutto il territorio fra il Teiglin e la marca occidentale del Doriath; e, rivendicando per sé la signoria di questo, si cambiò il nome in Garthol, il Terribile Elmo; e il suo cuore tornò a esultare. Ma a Beleg sembrò ora che l'Elmo avesse avuto su Túrin un effetto diverso da quello sperato; e aspettava con animo turbato quello che il futuro avrebbe portato. Un giorno, mentre l'estate stava scorrendo via, Beleg e Túrin stavano seduti nell'Echad, riposandosi dopo tanto litigare e marciare, e Túrin disse a Beleg: «Perché sei triste e pensieroso? Forse che non tutto va per il meglio da quando sei tornato da me? Forse che i miei propositi non si sono rivelati validi?». E Beleg: «Tutto va per il meglio. I nostri nemici sono ancora in preda alla sorpresa e alla paura. E altri giorni felici ci aspettano, almeno per un po'». Al che Túrin: «E poi?». «L'inverno» replicò Beleg «e poi un altro anno, per quelli che sopravviveranno.» «E poi?» «E poi l'ira di Angband. Abbiamo scottato la punta delle dita della Mano Nera, niente di più. Ma non si ritirerà.» «Non è forse l'ira di Angband il nostro scopo e la nostra delizia?» disse Túrin. «Cos'altro vorresti ch'io facessi?» Rispose Beleg: «Lo sai benissimo; ma di quella via mi hai proibito di parlarti. Adesso però ascoltami: il re o il comandante di un grande esercito ha varie necessità. Deve disporre di un nascondiglio sicuro, e deve avere ricchezze e molta gente la cui opera non consista nel guerreggiare. Ma con il numero cresce il fabbisogno di cibo, superiore a quanto non possano fornirne le selve ai cacciatori. E così va in fumo la segretezza. Amon Rûdh è un luogo per pochi: ha occhi e orecchie. Ma è isolato e visibile da lontano. E non occorrono chissà quali forze per stringerlo d'assedio, a meno che non vi sia un esercito a difenderlo, più grande di quello di cui disponiamo e di cui potremo mai disporre». «Ciò non toglie che io voglia essere comandante del mio esercito» disse Túrin «e se dev'essere ch'io cada, cadrò. Qui mi trovo sul sentiero di Mor-
goth e finché sarò qui Morgoth non potrà servirsi della Strada Meridionale.» Racconti dell'Elmo-di-Drago nella terra a ovest del Sirion giunsero presto alle orecchie di Morgoth e quegli rise giacché ora Túrin tornava a rivelarglisi, dopo che a lungo lo aveva perso nell'ombra e sotto i veli di Melian. Ma cominciò a temere che, se la forza di Túrin fosse cresciuta eccessivamente, la sua maledizione su di lui si sarebbe spezzata e sarebbe così sfuggito al destino che gli aveva preparato; oppure avrebbe potuto rifugiarsi nel Doriath e così lo avrebbe perso di vista di nuovo. Quindi ora aveva in mente di catturarlo e di affliggerlo anche, come suo padre, di tormentarlo e renderlo suo schiavo. Beleg aveva visto giusto quando disse a Túrin che non avevano altro che scottato le dita della Mano Nera e che non si sarebbe fermata. Ma Morgoth non svelò i suoi piani e per il momento si accontentò d'inviare i suoi migliori esploratori e ben presto Amon Rûdh fu chiuso in un cerchio di spie, che si annidavano insospettate nella landa senza fare alcuna mossa contro le bande di uomini che entravano e uscivano. Ma Mîm si era accorto della presenza degli Orchi nella terra dell'Amon Rûdh e l'odio che portava a Beleg lo spinse ora con il cuore ottenebrato a una malvagia decisione. Un giorno sul finire dell'anno disse agli uomini a Bar-en-Danwedh che si sarebbe recato con suo figlio Ibun a raccogliere radici per la provvista invernale; ma il vero scopo era di cercare i servi di Morgoth e di guidarli al nascondiglio di Túrin. 7 Ciò non di meno, tentò d'imporre certe condizioni agli Orchi, che gli risero in faccia. Ma Mîm disse loro che ne sapevano ben poco se pensavano che avrebbero potuto ottenere qualcosa da un Nanerottolo con la tortura. Allora gli chiesero quali fossero le condizioni e Mîm fece le sue richieste: la ricompensa l'avrebbe voluta in ferro per il peso di ogni uomo che avrebbero catturato o ucciso, ma per Túrin e Beleg voleva l'equivalente in oro. Inoltre, la casa di Mîm, una volta liberata di Túrin e della compagnia, sarebbe dovuta tornare a lui e che lo si sarebbe dovuto lasciare in pace; e che Beleg fosse lasciato lì legato che ci avrebbe pensato lui stesso; e Túrin fosse lasciato andare libero. A queste condizioni, gli emissari di Morgoth acconsentirono immedia7
Ma si dice in un altro racconto che Mîm non incontrò gli Orchi deliberatamente. Sarebbe stata invece la cattura di suo figlio da parte di questi e la minaccia della tortura che lo avrebbero indotto al tradimento.
tamente, non avendo alcuna intenzione di onorare né la prima né la seconda. Il comandante degli Orchi pensò che il destino di Beleg potesse pure essere abbandonato nelle mani di Mîm; ma quanto a lasciare che Túrin andasse via libero, «vivo ad Angband» erano i suoi ordini. Nel concordare le condizioni, insistette che tenessero Ibun in ostaggio. E fu allora che Mîm si spaventò e cercò di ritirarsi dall'iniziativa oppure scappare. Ma gli Orchi avevano in mano suo figlio, così Mîm fu costretto a guidarli al Baren-Danwedh e fu così che la Casa del Riscatto venne tradita. Si narra che la massa rocciosa che costituiva la corona o cappuccio dell'Amon Rûdh fosse sopra liscia o piatta, ma per quanto fossero ripidi i suoi fianchi, gli uomini potevano raggiungere la sommità arrampicandosi su una scala intagliata nella roccia che portava su dalla terrazza di fronte all'entrata della casa di Mîm. Sulla sommità erano di guardia delle sentinelle e dovevano avvertire se si avvicinassero dei nemici. Ma gli Orchi, guidati da Mîm, giunsero al livello della terrazza di fronte alle porte e Beleg e Túrin furono ricacciati all'entrata del Bar-en-Danwedh. Alcuni degli uomini che cercarono di arrampicarsi sugli scalini nella roccia furono uccisi dalle frecce degli Orchi. Túrin e Beleg, ritiratisi nella grotta, fecero rotolare un grande masso davanti al passaggio. Alle strette, Andróg rivelò loro l'esistenza di una scala nascosta che portava alla sommità dell'Amon Rûdh che si dice lui avesse scoperta quando si era perso in giro per le grotte. Allora Túrin e Beleg con molti altri dei loro uomini salirono per quella scala e uscirono sulla sommità, sorprendendo quei pochi Orchi che già si trovavano lì avendo percorso il sentiero esterno, e lì buttarono giù nel precipizio. Per un po' riuscirono a tener a bada gli Orchi che si arrampicavano sulle rocce, ma non v'era rifugio sulla nuda cima e molti vennero colpiti dal basso. Il più valoroso fu Andróg, che cadde ferito a morte da una freccia in cima alla scala esterna. Allora Túrin e Beleg, insieme a dieci degli uomini rimasti, ripiegarono verso il centro della sommità dov'era un masso eretto e, formando un cerchio attorno a questo, si difesero finché non caddero tutti uccisi, salvo Beleg e Túrin che furono intrappolati nelle reti degli Orchi. Túrin fu legato e portato via; anche Beleg, che era ferito, fu legato, ma posto in terra con i polsi e le caviglie legati a dei puntelli di ferro infissi nella roccia. Ora, avendo gli Orchi scoperto la scala segreta, lasciarono la sommità ed entrarono a Bar-en-Danwedh che lordarono e devastarono. Non trovarono Mîm, che si aggirava non visto per le grotte. Quando lasciarono Amon Rûdh, Mîm riapparve sulla sommità e, direttosi dove giaceva Beleg in
ceppi, esultava malignamente mentre affilava un coltello. Ma Mîm e Beleg non erano gli unici esseri in vita su quella altura di pietra. Andróg, sebbene ferito mortalmente, strisciò tra i cadaveri verso di loro e, afferrata una spada, la scagliò contro il Nano. Terrorizzato Mîm si precipitò giù dal colle e sparì: corse giù per il ripido e difficile sentiero delle capre che però conosceva. Ma Andróg, raccolte tutte le forze rimastegli, slegò i polsi e i piedi di Beleg liberandolo e, morendo, disse: «Le mie ferite sono troppo profonde perché tu le possa guarire».
CAPITOLO IX LA MORTE DI BELEG Beleg cercò Túrin fra i morti onde dargli sepoltura; ma non riuscì a trovare il suo corpo. Allora si rese conto che il figlio di Húrin era ancora vivo ed era stato tratto ad Angband; ma rimase di necessità a Bar-en-Danwedh finché le sue ferite non furono guarite. Con scarse speranze si dipartì cercando di trovare tracce degli Orchi e le rinvenne presso i Guadi del Teiglin. Lì si erano divisi, alcuni passando lungo i bordi della Foresta di Brethil verso il Guado di Brithiach, altri andandosene a occidente. E sembrò ovvio a Beleg che avrebbe dovuto seguire quelli che erano andati a gran velocità ad Angband, attraverso il Passo di Anach. Perciò marciò senza sosta attraverso Dimbar e su per il Passo di Anach nell'Ered Gorgoroth, le Montagne del Terrore, e così fino agli altipiani di Taur-nu-Fuin, la Foresta sotto la Notte, una regione di terrore e oscuro incanto, del vagare e della disperazione. Sorpreso dal calar della notte in quella malefica terra, successe che Beleg scorse una piccola luce tra gli alberi e, andando verso questa, trovò un Elfo che giaceva addormentato sotto un grande albero morto: accanto alla testa c'era una lampada dalla quale era scivolata via la copertura. Allora Beleg svegliò il dormiente e gli diede del lembas; poi gli chiese quale sorte lo avesse condotto in quel terribile luogo. E questi si disse Gwindor, figlio di Guilin. Addolorato Beleg lo guardò, giacché Gwindor non era che l'ombra, curva e impaurita, del sembiante e degli atti di un tempo quando, alla Batta-
glia delle Innumerevoli Lacrime, quel signore di Nargothrond s'era spinto fino alle porte stesse di Angband e lì era stato catturato. Ma dei Noldor che Morgoth catturava, pochi venivano messi a morte, a ragione della loro abilità nel forgiare e ricercare metalli e gemme; e Gwindor non fu ucciso, ma messo a lavorare nelle miniere del Nord. Questi Noldor possedevano molte delle lampade fëanoriane, che erano dei cristalli sospesi in una reticella, sempre risplendenti di una luce interna azzurra, meravigliosi per trovare la strada nel buio della notte o nelle gallerie; di queste lampade essi stessi non conoscevano il segreto. Molti degli Elfi riuscirono a trovare così la strada per scappare dalle oscure miniere. Ma Gwindor ricevette una spada da uno che lavorava nelle fucine e si rivoltò all'improvviso contro una delle guardie. Scappò, ma ci rimise una mano; e ora giaceva esausto sotto i grandi pini della Taur-nu-Fuin. Da Gwindor, Beleg apprese che la piccola compagnia di Orchi avanti a loro e dalla quale si era nascosto, non aveva prigionieri e andava di gran volata: si trattava forse di un'avanguardia che recava notizie ad Angband. A queste nuove Beleg si disperò, giacché aveva pensato che le tracce che aveva visto svoltare a occidente dopo i Passi del Teiglin fossero quelle di una schiera più grande che, alla maniera degli Orchi, era andata razziando il territorio, saccheggiando e cercando cibo e che questa potesse ora far ritorno a Angband attraverso la «Terra Stretta», la lunga gola del Siríon, molto più a ovest. Se fosse stato così, la sua unica speranza sarebbe stata quella di tornare al Guado di Brithiac per poi proseguire a nord verso il Tol Sirion. Si era ben poco soffermato su questo, quando sentirono il rumore di una grande guarnigione che attraversava la foresta da sud. Nascosti tra i rami di un albero, osservarono i servi di Morgoth passare: si muovevano lentamente, carichi di bottino e prigionieri, ed erano circondati da lupi. E videro Túrin con le mani in catene che veniva spinto avanti a frustate. Allora Beleg gli raccontò dello scopo del suo viaggio nella Taur-nu-Fuin e Gwindor cercò di dissuaderlo, dicendo che non avrebbe potuto far altro che raggiungere Túrin per poi subire con lui le afflizioni che lo attendevano. Ma Beleg non aveva intenzione di abbandonare Túrin e, pur disperandosi, fece rinascere la speranza nel cuore di Gwindor; e insieme proseguirono seguendo gli Orchi finché non giunsero fuori dalla foresta, sulle alte pendici che scendono verso le nude dune di Anfauglith. Lì, in vista delle cime delle Thangorodrim, gli Orchi piantarono il loro accampamento in una piccola valle spoglia e posero tutt'attorno lupi a far da sentinella. Fecero baldoria e gozzovigliarono con il loro bottino e, dopo aver tormentato i
loro prigionieri, molti di loro caddero, ubriachi, addormentati. A quel punto la luce del giorno andava affievolendosi finché non fu buio pesto. Una gran tempesta avanzava dall'occidente e un tuono rombò in lontananza, mentre Beleg e Gwindor avanzavano strisciando verso la valletta. Quando all'accampamento tutti furono addormentati, Beleg prese il suo arco e, nell'oscurità, fulminò quattro dei lupi di guardia sul lato meridionale, uno a uno e in silenzio. Quindi, con grandissimo rischio, penetrarono nel campo e trovarono Túrin incatenato mani e piedi a un albero secco. I coltelli che gli erano stati lanciati contro dai suoi tormentatori erano infitti tutt'attorno a lui nel tronco, ma egli era incolume; e sembrava tramortito da un innaturale stordimento o sprofondato in un sonno d'infinita stanchezza. Allora Beleg e Gwindor tagliarono i lacci che lo tenevano legato all'albero e trasportarono Túrin fuori dal campo. Ma era eccessivamente pesante per trascinarlo troppo lontano e non riuscirono a portarlo più in là di un boschetto di rovi, in alto sulle pendici sopra l'accampamento. Quivi lo deposero al suolo; ed ecco ormai la tempesta farsi più vicina e i fulmini lampeggiavano sulle Thangorodrim. Beleg trasse la sua spada Anglachel e con essa tagliò i lacci che impedivano Túrin; ma il fato era più forte quel giorno e volle che la lama di Eöl l'Elfo Scuro gli scivolasse mentre la maneggiava, ferendo Túrin al piede. Ridestandosi in preda a un eccesso di rabbia e paura, e scorgendo uno chino su di lui con una lama snudata in pugno, Túrin balzò in piedi con un forte grido, credendo che gli Orchi fossero tornati a tormentarlo e, lottando con quegli nel buio, s'impadronì di Anglachel e trafisse Beleg Cúthalion, credendolo un avversario. Ma, quando si tirò su, scoprendosi libero e pronto a vender cara la pelle ai suoi immaginari nemici, ecco che su di loro si accese accecante la luce di una saetta e, a quel chiarore, riconobbe il volto di Beleg. Túrin restò impietrito e silenzioso al cospetto di quella morte atroce, consapevole di ciò che aveva fatto; e così terribile era il suo volto rischiarato dai lampi che a sprazzi illuminavano il cielo intorno a loro, che Gwindor s'appiattì al suolo senza più osare levare lo sguardo. Ecco però che nell'accampamento sottostante gli Orchi si svegliarono, sia per il temporale che per il grido lanciato da Túrin, e scoprirono che questi era fuggito; ma non si misero in cerca di lui giacché erano in preda al terrore per il tuono che proveniva dall'occidente e credevano che fosse stato inviato contro di loro dai Grandi Nemici di là dal Mare. Poi si levò il vento e una furiosa pioggia cadde e torrenti si rovesciarono giù dalle alture di Taur-nu-Fuin. Sebbene Gwindor gridasse a Túrin avvertendolo dell'e-
norme pericolo, quegli non gli rispose e rimase seduto, immobile e incapace persino di piangere accanto al corpo di Beleg Cúthalion che giaceva nella buia foresta ucciso per sua mano, sebbene avesse questi tagliato a lui i lacci di servaggio che lo immobilizzavano. Quando venne il mattino, la tempesta era passata proseguendo verso oriente sul Lothlann e il sole autunnale s'alzava rosso e splendente; ma gli Orchi lo odiavano quasi quanto i tuoni e, credendo che Túrin fosse fuggito assai lontano da quel luogo e che ogni traccia ne fosse stata dilavata, se ne andarono in fretta, ansiosi di far ritorno ad Angband. Gwindor li scorse marciare verso nord sulle sabbie fumiganti dell'Anfauglith. Così accadde che fecero ritorno da Morgoth a mani vuote, lasciandosi dietro il figlio di Húrin, che sedeva, impazzito, privo di senno, sulle pendici della Taur-nuFuin, gravato da una pena più pesante delle loro catene. Poi Gwindor riuscì a scuotere Túrin perché lo aiutasse a seppellire Beleg e Túrin si levò come un sonnambulo; insieme deposero Beleg in una fossa poco profonda e misero accanto a lui Belthronding, il suo grande arco fatto di nero legno di tasso. Ma la terribile spada Anglachel, quella Gwindor la prese, dicendo esser meglio che servisse a trar vendetta dei servi di Morgoth anziché giacere inutilizzata sottoterra; e prese anche il lembas di Melian per trarne energia nelle selve. Così finì Beleg Arcoforte, il più fedele degli amici, il massimo in destrezza di tutti coloro che trovavano ricetto nei boschi del Beleriand nei Tempi Remoti, e per mano di colui che più aveva amato; e quel dolore era inciso sul volto di Túrin e mai più si cancellò. Ma coraggio e forza erano rinati nell'Elfo di Nargothrond e, lasciandosi alle spalle la Taur-nu-Fuin, condusse via, lontano, Túrin. Neppure una volta, mentre insieme vagavano per lunghi e affannosi sentieri, Túrin parlò e andava come chi sia svuotato di desideri e di intenti, mentre l'anno volgeva al termine e l'inverno calava sulle terre settentrionali. Ma Gwindor gli era sempre accanto, a proteggerlo e a guidarlo; e così passarono a ovest, di là dal Sirion, e giunsero infine al Bel Laghetto e a Eithel Ivrin, le sorgenti dalle quali nasceva il Narog, ai piedi delle Montagne dell'Ombra. Allora Gwindor parlò a Túrin dicendogli: «Svegliati, Túrin figlio di Húrin! Sul Lago di Ivrin il riso è perenne. È alimentato da cristalline fonti inesauribili e lo protegge da ogni contaminazione Ulmo, Signore delle Acque, che in tempi antichi ne ha plasmato la bellezza». Allora Túrin s'inginocchiò e bevve di quell'acqua. D'un tratto si gettò a terra, le sue lacrime
finalmente si sciolsero ed egli fu guarito dalla sua follia. Lì compose un canto in onore di Beleg, che intitolò Laer Cú Beleg, cioè Canto del Grande Arco, intonandolo ad alta voce, incurante del pericolo. E Gwindor affidò alle sue mani la spada Anglachel e Túrin s'avvide ch'era pesante e forte e dotata di grande potere; solo che la lama era nera e smussata e ottuso il filo. Disse allora Gwindor: «Questa è davvero una strana lama, ben diversa da qualunque altra lama da me vista nella Terra di Mezzo. Si duole per Beleg proprio come fai tu. Ma confortati perché io faccio ritorno nel Nargothrond della Casa di Finarfin, dove vidi la luce e abitai prima del mio dolore. E tu verrai con me, guarirai e ti rinnoverai». «Ma tu, chi sei?» disse Túrin. «Un Elfo ramingo, uno schiavo fuggiasco, che Beleg ha incontrato e confortato» rispose Gwindor. «Eppure, un tempo io ero Gwindor, figlio di Guilin, un signore del Nargothrond, finché andai alla Nirnaeth Arnoediad e venni tratto schiavo ad Angband.» «Dunque, hai visto Húrin, figlio di Galdor, il guerriero del Dor-lómin?» chiese Túrin. «No, non l'ho visto personalmente» rispose Gwindor «ma di lui si dice ad Angband che continui a sfidare Morgoth e che questi abbia lanciato una maledizione su di lui e su tutta la sua stirpe.» «Ci credo davvero» disse Túrin. Poi si alzarono e, partiti da Eithel Ivrin, si avviarono verso sud lungo le rive del Narog, finché furono catturati da esploratori degli Elfi e condotti come prigionieri nella rocca nascosta. E fu così che Túrin giunse nel Nargothrond.
CAPITOLO X TÚRIN NEL NARGOTHROND Dapprima il suo popolo stesso non riconobbe Gwindor, che se n'era andato giovane e forte e adesso tornava con l'aspetto di uno invecchiato tra Uomini mortali, e ciò a causa dei tormenti e delle fatiche cui era stato sottoposto; ed era anche stato mutilato. Ma Finduilas figlia di Orodreth, il Re, lo riconobbe e gli diede il benvenuto, poiché lo aveva amato, anzi erano addirittura sposi promessi prima della Nirnaeth; e Gwindor amava di lei la bellezza a tal punto da chiamarla Faelivrin, cioè il barbagliare del sole sugli Stagni d'Ivrin. Così Gwindor giunse a casa e, grazie a lui, Túrin fu accolto perché Gwindor disse trattarsi di un uomo valoroso, caro amico di Beleg Cúthalion del Doriath. Ma quando Gwindor stava per svelarne il nome, Túrin lo trattenne dicendo: «Io sono Agarwaen, figlio di Umarth (che significa Macchiato di Sangue, figlio di Malasorte), e sono un cacciatore dei boschi». Sebbene gli Elfi avessero capito che aveva preso questi nomi a cau-
sa dell'uccisione del suo amico (non conoscendo altre motivazioni), non gli posero altre domande. La spada Anglachel venne riforgiata per lui da abili fabbri del Nargothrond e, sebbene i margini fossero rimasti anneriti, balenavano pure di pallido fuoco. E Túrin stesso divenne noto nel Nargothrond con il nome di Mormegil, vale a dire Spada Nera, per i racconti delle sue gesta con quell'arma. Ma Túrin chiamò la spada Gurthang, Ferro di Morte. Per la sua prodezza e destrezza nelle guerre contro gli Orchi, Túrin guadagnò i favori di Orodreth e fu ammesso nel suo consiglio. Ora, però, a Túrin non andava il modo di condurre la guerra da parte degli Elfi del Nargothrond, tutta imboscate, azioni furtive, frecce scoccate di nascosto, e premette affinché lo abbandonassero a favore dell'uso della loro forza per attaccare i servi del Nemico in campo aperto e poi inseguirli. Ma, in seno al consiglio del Re, Gwindor espresse opinioni contrarie a quelle di Túrin sulla questione, argomentando che, essendo stato ad Angband e avendo visto il potere di Morgoth, si era fatto un'idea dei suoi piani. «Piccole vittorie a lungo andare si mostreranno vane» disse. «Infatti, così Morgoth verrà a sapere dove trovare i più audaci dei suoi nemici e raccoglierà forze sufficienti a sterminarli. Tutta la potenza degli Elfi e degli Edain uniti è bastata appena a trattenerlo e a garantire la pausa di un assedio; lunga, invero, ma lunga soltanto finché Morgoth non ha colto l'occasione per rompere il cerchio; e mai più un'alleanza del genere potrà realizzarsi. Ormai, solo nel segreto risiede la speranza: finché non giungano i Valar.» «I Valar!» esclamò Túrin. «Vi hanno abbandonato e disprezzano gli Uomini. A che serve guardare a occidente, al di là del mare sconfinato? Uno solo è il Vala con cui abbiamo a che fare ed è Morgoth; e se alla fine non riusciremo a vincerlo, per lo meno potremo fargli del male e ostacolarlo. Una vittoria è una vittoria, per piccola che sia, né vale solo per ciò che consegue. Essa, infatti, reca anche vantaggi giacché, se nulla si fa per fermare Morgoth, tutto il Beleriand cadrà sotto la sua ombra prima di quanto crediate, e allora a uno a uno Morgoth vi spingerà come fumo fuori dai vostri focolari. E allora? Allora, uno sparuto residuo fuggirà a sud e a ovest, per acquattarsi sulle rive del mare, preso tra Morgoth e Osse. Meglio, allora, assicurarsi un periodo di gloria, per quanto breve sia, perché non per questo la fine sarà peggiore. Tu parli di segretezza e dici che in essa risiede l'unica speranza. Ma anche se si potessero tendere imboscate e sorprendere ogni esploratore e spia di Morgoth, non uno escluso, in modo che nessuno porti notizie ad Angband, questo gli basterebbe per sapere che sei
vivo e per intuire dove sei. E un'altra cosa io dico: sebbene gli uomini godano di breve vita rispetto a quella concessa agli Elfi, meglio per loro gettarla in battaglia che fuggire o sottomettersi. La sfida di Húrin Thalion è una grande impresa; e, anche se Morgoth ne uccide l'autore, non può impedire che il fatto sia avvenuto. Perfino i Signori dell'Occidente lo faranno oggetto di onore; e forse che questo non è scritto nella storia di Arda, che né Morgoth né Manwë possono cancellare?» «Parli di cose elevate» replicò Gwindor «ed è evidente che hai vissuto tra gli Eldar. Ma sei ottenebrato se metti sullo stesso piano Morgoth e Manwë; o parli dei Valar come dei nemici degli Elfi e degli Uomini; i Valar, invece, nulla e nessuno tengono in spregio, tanto meno i figli di Ilúvatar. Né conosci tutte le speranze degli Eldar. Tra noi ha corso una profezia secondo la quale un giorno un messaggero della Terra di Mezzo giungerà, di là dalle ombre, a Valinor, e Manwë gli presterà ascolto e Mandos si addolcirà. In vista di quel momento, non dobbiamo forse cercare di conservare il seme dei Noldor, nonché quello degli Edain? E adesso Círdan dimora nel Sud e vi costruisce navi. Ma che ne sai tu di navi, che ne sai tu del mare? Tu pensi a te stesso e alla tua gloria e ci esorti tutti a fare lo stesso. Ma noi dobbiamo pensare ad altri e non solo a noi stessi, dato che non tutti possono combattere e cadere e costoro dobbiamo preservarli dalla guerra e dalla rovina finché possiamo.» «E allora, mandateli alle vostre navi, finché siete in tempo» disse Túrin. «Non vogliono separarsi da noi» ribatté Gwindor «anche ammettendo che Círdan riesca a sostentarli. Dobbiamo restare uniti finché possiamo, e non corteggiare la morte.» «A tutto ciò ho già dato risposta» replicò Túrin. «Valida difesa dei confini e duri colpi prima che il nemico si raduni: in questo risiede per voi la migliore speranza di restare uniti. E coloro di cui tu parli amano forse i codardi che se ne stanno nei boschi, sempre in caccia come lupi, o preferiscono che uno si metta l'elmo e imbracci lo scudo istoriato e ricacci i nemici, anche se questi sono più numerosi del suo esercito? Per lo meno, questo non è il caso delle donne degli Edain, le quali non hanno certo trattenuto gli uomini dalla Nirnaeth Arnoediad.» «Ma le loro sofferenze sono state maggiori di quanto non sarebbe accaduto se quella battaglia non avesse avuto luogo.» E Túrin acquistò sempre più i favori di Orodreth e divenne consigliere capo del Re, il quale gli sottoponeva ogni questione per avere i suoi pareri.
Fu così che in quei giorni gli Elfi del Nargothrond abbandonarono la loro segretezza e si accumulò una gran quantità di armi. Su consiglio di Túrin, poi, i Noldor costruirono un enorme ponte sul Narog, davanti alle porte di Felagund, in modo che i loro eserciti potessero passare di là più rapidamente, dato che adesso la guerra era principalmente a est del Narog, nella Piana Sorvegliata. Come marca settentrionale, Nargothrond comprendeva la «Terra Controversa» vicino alle sorgenti del Ginglith, il Narog e i margini dei Boschi di Núath. Tra Nenning e Narog non si videro Orchi. A est del Narog, il loro regno arrivava al Teiglin e ai confini della Brughiera del Nibin-noeg. Gwindor cadde in disgrazia perché non era più pronto alla battaglia e la sua forza era minima. In più, spesso provava dolore al suo arto sinistro menomato. Mentre Túrin era giovane e solo ora stava raggiungendo la sua piena virilità. E sembrava, a vederlo, tale e quale il figlio di Morwen Eledhwen: alto, capelli scuri e pallida pelle, occhi grigi e sul suo volto una bellezza maggiore di chiunque altro fra gli Uomini mortali nei Tempi Remoti. Il suo linguaggio e il suo portamento erano degni dell'antico reame del Doriath e, persino tra gli Elfi, avrebbe potuto essere scambiato a prima vista per uno delle grandi casate dei Noldor. Così valoroso era Túrin e così eccezionalmente abile nel maneggiare le armi, specialmente la spada e lo scudo, che gli Elfi dicevano che non sarebbe mai stato ucciso, se non per disdetta o a causa di una freccia malefica scoccata da lontano. Gli fecero allora dono di una cotta da Nano che lo difendesse; e, tetro e feroce, egli cercò e trovò negli arsenali una maschera da Nano completamente dorata, se ne rivestì in battaglia e alla sua vista i nemici fuggivano. Ora che tutto andava come lui voleva, e tutto andava bene, e aveva lavoro da fare secondo il suo cuore, e persino onore in esso, Túrin era sempre gentile e meno cupo di un tempo, così che quasi tutti i cuori battevano per lui; e molti lo chiamavano Adanedhel, cioè Uomo-Elfo. Ma più di tutti Finduilas, la figlia di Orodreth, il cui cuore sobbalzava ogniqualvolta questi le si avvicinava o si trovava nella sala. Finduilas aveva i capelli d'oro come tutti quelli della Casa di Finarfin e Túrin cominciò a trarre piacere dalla sua vista e dalla sua compagnia, poiché ella gli rammentava la sua stirpe e le donne del Dor-lómin che erano nella casa di suo padre. Dapprima s'incontrò con lei solo in presenza di Gwindor; ma ben presto lei cercò di vederlo da solo e a volte le riuscì, anche se sembrava sempre che avvenisse per caso. E gli domandava degli Edain, pochi dei quali, e raramente, aveva visto e lo interrogava sul suo paese e sulla sua stirpe.
E Túrin le parlava liberamente di queste cose, pur non nominando mai la contrada dov'era nato, né alcuno della sua stirpe; e una volta le disse: «Avevo una sorella, Lalaith, così almeno io la chiamavo; e tu me la ricordi. Ma Lalaith era una bambina, un fiore giallo tra l'erba verde di primavera; e se fosse sopravvissuta, forse sarebbe ora oppressa dal dolore. Ma tu sei regale e simile a un albero dorato. Vorrei avere una sorella così bella». «Tu sei regale» disse lei «proprio come i signori del popolo di Fingolfin. Vorrei avere un fratello valoroso come te. E non credo che Agarwaen sia il tuo nome, né ti si addice, Adanedhel. Io ti chiamerò Thurin, il Segreto.» Al che Túrin sobbalzò e disse: «Non è il mio nome; e io non sono un re, poiché i nostri re appartengono agli Eldar, e io tale non sono». Ora Túrin si avvide che l'amicizia di Gwindor si andava raffreddando; constatò anche che, se dapprima il ricordo dell'orrore e della sofferenza di Angband aveva cominciato ad affievolirsi in lui, sembrava adesso che stesse risprofondando nella preoccupazione e nel dolore. E pensò che forse era afflitto perché si opponeva alle sue idee e perché su di lui l'aveva avuta vinta. Non desiderava che le cose andassero così perché voleva bene a Gwindor quale sua guida e guaritore e per lui provava pietà. Ma in quei giorni anche la radiosità di Finduilas si appannò, i suoi passi si fecero lenti, il suo volto mesto; e Túrin, avvedutosene, sospettò che le parole di Gwindor le avessero messo paura per quel che poteva accadere. In verità, l'animo di Finduilas era diviso: teneva in gran conto Gwindor e provava pietà per lui e non desiderava affatto aggiungere altra sofferenza; ma, pur non volendo, giorno per giorno cresceva il suo amore per Túrin e pensava a Beren e a Lúthien. Túrin, però, non era come Beren! Non la spregiava, anzi era felice in sua compagnia; ma ben sapeva che il suo non era amore del tipo da lei sperato. La mente e il cuore di Túrin erano altrove, sulle rive di fiumi, in primavere trascorse da tempo. Túrin allora parlò a Finduilas e le disse: «Non lasciarti spaventare dalle parole di Gwindor, che ha sofferto nelle tenebre di Angband. E per uno valoroso come lui è assai duro essere mutilato e infiacchito a quel modo. Ha bisogno di conforto e di lungo tempo per guarire». «Lo so bene» disse lei. «Ma noi gli assicureremo il tempo che gli occorre!» disse Túrin. «Il Nargothrond resisterà! Mai più Morgoth il Vile uscirà da Angband e dovrà affidarsi completamente ai suoi servi: così afferma Melian del Doriath. I servi sono le dita delle sue mani; quelle dita noi le colpiremo e le mozze-
remo, finché non ritiri le grinfie. Il Nargothrond resisterà!» «Forse» fece lei. «Resisterà se ne sarete capaci. Ma bada a te, Thurin; il mio cuore è pesante quando tu vai in battaglia perché temo che il Nargothrond sia di te privato.» Poi Túrin andò a cercare Gwindor e gli disse: «Gwindor, amico caro, stai ripiombando nella tristezza; non lasciarti andare! La tua guarigione avverrà, infatti, nelle case della tua stirpe e alla luce di Finduilas». Allora Gwindor fissò Túrin, senza proferire parola, e il suo volto era rabbuiato. «Perché mi guardi a quel modo?» domandò Túrin. «Spesso è accaduto, in questi ultimi tempi, che i tuoi occhi mi abbiano lanciato strani sguardi. Ti ho forse offeso? Mi sono opposto alle tue idee, ma un uomo deve dire ciò che pensa, né nascondere la verità o celare ciò in cui crede per motivi personali. Vorrei che fossimo dello stesso avviso perché ti sono largamente debitore e non lo dimenticherò mai.» «Davvero?» chiese Gwindor. «Eppure le tue azioni e i tuoi pareri hanno trasformato la mia casa e la mia stirpe. La tua ombra si stende su di loro. Perché dovrei essere lieto dal momento che tutto ho perduto per cederlo a te?» Ma Túrin non comprese queste parole e non fece altro che pensare che Gwindor gli fosse ostile per il posto che occupava nel cuore e nei propositi del Re. Ma quando Túrin se ne fu andato, Gwindor rimase seduto immerso in funesti pensieri e maledì Morgoth che poteva così infliggere dolore ai suoi nemici in qualunque luogo essi potessero fuggire. Poi disse: «E infine, ora, credo a quel che ho sentito dire ad Angband: che Morgoth ha maledetto Húrin e tutta la sua stirpe». Andò a cercare Finduilas e le disse: «Tristezza e dubbio ti assalgono. Troppo spesso, ormai, non ci incontriamo e comincio a pensare che tu mi stia evitando. Dato che tu non mi riveli il perché, debbo tentare d'indovinarlo. Figlia della Casa di Finarfin, che non vi sia rancore tra noi; infatti, sebbene Morgoth mi abbia rovinato l'esistenza io continuo ad amarti. Ma va' dove ti porta l'amore, giacché io sono diventato inadatto a sposarti. E né la mia prodezza, né le mie idee sono più tenuti in considerazione». Allora Finduilas pianse. «Non versare ancora lacrime!» disse Gwindor. «Ma fa' attenzione che non te ne sia dato motivo per farlo. Non si confà ai Figli Maggiori di Ilúvatar contrarre matrimonio con i Minori; né è cosa
saggia poiché essi vivono poco e ben presto trapassano, lasciando chi li sposa in vedovanza finché duri il mondo. E, d'alto canto, il destino non lo permette, se non una o due volte e per ragioni troppo alte perché si riesca a penetrarle. Ma quest'Uomo non è Beren, anche se è come lui bello e coraggioso. Una cattiva sorte è invero su di lui, davvero cattiva. Non farla tua! E, se lo farai, ricordati che il tuo amore ti tradirà arrecandoti amarezza e morte. Dammi dunque ascolto! Per quanto egli sia davvero un agarwaen figlio di úmarth, il suo vero nome è Túrin, figlio di Húrin che Morgoth tiene prigioniero ad Angband e di cui ha maledetto la stirpe. E non dubitare del potere di Morgoth Bauglir. Non è forse inciso sulla mia persona?» Allora Finduilas si levò e il suo aspetto era davvero regale. «Il tuo sguardo è offuscato, Gwindor» disse. «Evidentemente non vedi o non comprendi che cosa è accaduto. Devo ora subire la duplice vergogna per rivelarti la verità? Perché io ti amo, Gwindor, e mi vergogno di non amarti di più, ma sono stata presa da un amore ancora più grande, al quale non so sottrarmi. Non l'ho cercato. A lungo ho cercato di soffocarlo. Ma se io ho pietà delle tue ferite, tu abbi pietà di me. Túrin non mi ama, né mi amerà.» «Dici questo» replicò Gwindor «per evitare il biasimo a colui che tu ami. Perché viene a cercarti e a lungo se ne sta con te e sempre ne ritorna rallegrato?» «Perché anche lui ha bisogno di conforto» rispose Finduilas «ed è lontano dai suoi. Ambedue avete le vostre esigenze. Ma che ne è di Finduilas? Non è abbastanza che io debba confessarti di non essere amata e, per giunta, sentirmi dire da te che parlo così per ingannare?» «No. Una donna in casi del genere difficilmente s'inganna» disse Gwindor «e non sono molti coloro i quali negherebbero di essere amati, se invece lo sono.» «Se qualcuno di noi tre è infedele, quella sono io: non però per mia volontà. Ma che ne è della vostra sorte e delle notizie da Angband? Notizie di morte e distruzione? L'Adanedhel gode di grande fama nel Mondo e la sua statura può darsi che in futuro eguagli quella di Morgoth.» «È orgoglioso» osservò Gwindor. «Ma anche misericordioso» fece Finduilas. «Non è ancora ben desto, ma la pietà può sempre toccarne il cuore ed egli mai la negherà. La pietà potrebbe rimanere sempre l'unica chiave. Ma per me non ne prova. Nutre per me rispetto, quasi che fossi sua madre e una regina!» E forse Finduilas diceva il vero, lei che vedeva le cose con gli acuti oc-
chi degli Eldar. Ed ecco che Túrin, all'oscuro di ciò che era avvenuto tra Gwindor e Finduilas, man mano che lei si faceva più triste, le si mostrava più gentile. Ma un giorno Finduilas disse: «Túrin Adanedhel, perché m'hai nascosto il tuo vero nome? Forse, se avessi saputo chi eri, ti avrei tenuto in minor conto, ma avrei meglio compreso il tuo dolore». «Che vuoi dire?» chiese Túrin. «Chi credi che io sia?» «Túrin figlio di Húrin Thalion, Comandante del Nord.» Ora, quando Túrin ebbe appreso da Finduilas quant'era accaduto, montò in collera e disse a Gwindor: «Io ti voglio molto bene perché mi hai salvato e per avermi tenuto al sicuro. Ma ecco che tu, amico, mi hai fatto del male rivelando il mio vero nome: così hai attirato su di me la cattiva sorte alla quale cercavo di sottrarmi». Ma Gwindor replicò: «Il cattivo destino è dentro di te, non nel tuo nome». In quell'intervallo di sollievo e speranza, quando, grazie alle gesta di Mormegil la potenza di Morgoth venne arginata a ovest del Sirion, Morwen finalmente fuggì dal Dor-lómin con Niënor sua figlia e si avventurò in un lungo viaggio verso la dimora di Thingol. Lì nuovo dolore l'attendeva perché constatò che Túrin se n'era andato e dal Doriath nessuna notizia era giunta da quando l'Elmo-di-Drago era scomparso dalle contrade a ovest del Sirion. Ma Morwen rimase nel Doriath con Niënor, entrambe ospiti di Thingol e Melian e trattate con grande onore.
CAPITOLO XI LA CADUTA DI NARGOTHROND Trascorsi cinque anni da quando Túrin era giunto nel Nargothrond, nella primavera di quell'anno, giunsero due Elfi, che si chiamavano Gelmir e Arminas ed erano della gente di Finarfin; questi si dissero latori di un'ambasciata per il Signore del Nargothrond. Túrin a quel tempo comandava tutte le forze del Nargothrond e si occupava di tutte le questioni di guerra. Era davvero divenuto duro e fiero e ordinava ogni cosa a suo piacimento o come riteneva giusto. I due Elfi furono portati al suo cospetto, ma Gelmir disse: «Noi vorremmo parlare con Orodreth, figlio di Finarfin». Giunto che fu Orodreth, Gelmir gli disse: «Signore noi eravamo della schiera di Angrod e abbiamo a lungo vagato dopo la Nirnaeth; di recente, però, siamo stati tra i seguaci di Círdan alle Bocche del Sirion. E un giorno Círdan ci ha convocati e ci ha ingiunto di venire da te perché Ulmo in persona, Signore delle Acque, gli era apparso per ammonirlo del grande pericolo che minaccia il Nargothrond». Orodreth era, però, diffidente e domandò: «E allora, come mai provenite dal Nord? O avevate per caso altri incarichi?». Rispose allora Arminas: «Sì, signore. Fin dalla Nirnaeth ho cercato il Regno Nascosto di Turgon, senza però trovarlo; e in questa ricerca, temo, ho perduto molto tempo e ho trascurato la commissione che avevo da farti.
Círdan, infatti, ci ha mandati lungo la costa per nave, per ragioni di sicurezza e perché facessimo in fretta; così abbiamo preso terra a Drengist. Ma tra i marinai ve n'erano che in anni passati son giunti a sud quali messaggeri di Turgon e mi è parso di capire, dai loro cauti accenni, che forse Turgon risiede ancora nel Nord invece che nel Sud, come molti sostengono. Noi però non abbiamo trovato alcun segno né conferma di ciò che cercavamo». «Perché cercate Turgon?» disse Orodreth. «Perché si dice che il suo regno resisterà più a lungo di ogni altro a Morgoth» rispose Arminas. E tali parole sembrarono a Orodreth di cattivo presagio e ne restò turbato. «Quand'è così, non indugiate nel Nargothrond» disse «perché qui notizie di Turgon non ne avrete. E non ho bisogno di nessuno che mi dica che il Nargothrond è in pericolo.» «Non adirarti, signore,» disse Gelmir «se alle tue domande rispondiamo con sincerità. Aggiungo che la nostra deviazione nel venire da te non è stata infruttuosa perché ci siamo spinti più in là di quanto non facciano i tuoi esploratori più avanzati: abbiamo attraversato il Dor-lómin e tutte le contrade ai piedi degli Ered Wethrin; siamo poi andati a esplorare il Passo del Sirion, spiando le vie del Nemico. In quelle regioni è in corso un grande raduno di Orchi e perfide creature, e un esercito si sta raccogliendo attorno all'isola di Sauron.» «Lo so» intervenne Túrin. «Le vostre notizie sono superate. Se il messaggio di Círdan doveva servire a qualcosa, prima doveva giungere.» «Per lo meno lo udrai adesso, signore» gli disse Gelmir. «Ascolta allora le parole del Signore delle Acque il quale ha così parlato a Círdan il Carpentiere: 'Il male del Nord ha contaminato le sorgenti del Sirion e il mio potere si ritira dalle dita delle acque scorrenti. Ma cosa ben peggiore sta per accadere: dì, pertanto, al signore del Nargothrond: serra le porte della fortezza e non uscirne. Getta le pietre del tuo orgoglio nel fiume fragoroso, sì che nessuna strisciante sciagura riesca a scovare l'uscio'.» Queste parole sembrarono oscure a Orodreth, il quale, come sempre, si rivolse per consiglio a Túrin che però, non fidandosi dei messaggeri, disse con tono sprezzante: «E che ne sa Círdan delle nostre guerre, lui che vive vicino al Nemico? Che il marinaio si occupi delle sue navi! Invero, però, se il Signore delle Acque volesse mandarci consiglio, che parli più chiaro. Altrimenti a qualcuno addestrato alla guerra sembrerebbe nel nostro caso più opportuno raccogliere le proprie forze e andare coraggiosamente incontro ai nemici, prima che si avvicinino troppo».
Allora Gelmir s'inchinò a Orodreth e disse: «Ho parlato come mi era stato ordinato, signore» e si allontanò. Arminas, però, chiese a Túrin: «Sei davvero della Casa di Hador, come ho udito dire?». «Qui sono chiamato Agarwaen, la Spada Nera del Nargothrond» rispose Túrin. «Ti occupi assai, mi sembra, di segreti, amico Arminas. Ed è un bene che il segreto di Turgon ti sia celato, altrimenti ben presto si verrebbe a sapere ad Angband. Il nome di un uomo è di sua proprietà e se il figlio di Húrin venisse a sapere che l'hai tradito mentre voleva restare nascosto, allora possa Morgoth prenderti e bruciarti la lingua!» E Arminas restò sgomento per la nera collera di Túrin. Ma Gelmir disse: «Non sarà tradito da noi, Agarwaen. Non siamo noi forse a consiglio a porte chiuse per cui si può parlare più liberamente? E se Arminas ti ha rivolto quella domanda, penso sia perché a tutti coloro che dimorano sulle rive del Mare è noto che Ulmo nutre grande affetto per la Casa di Hador e v'è chi dice che Húrin e suo fratello Huor un tempo siano andati nel Reame Nascosto». «Se così fosse, Húrin non ne avrebbe parlato con nessuno, grande o piccolo che fosse, e, men che meno, a suo figlio bambino» ribatté Túrin. «Ragion per cui Arminas me l'ha chiesto nella speranza di sapere qualcosa di Turgon. Io diffido dei messaggeri ingannevoli.» «Risparmiati la diffidenza!» insorse Arminas. «Gelmir mi ha frainteso. T'ho fatto quella domanda perché dubitavo di ciò che qui sembra sia opinione diffusa. Ben poco infatti tu somigli a quelli del sangue di Hador, quale che sia il tuo nome.» «E tu che ne sai di loro?» domandò Túrin. «Húrin io l'ho visto,» rispose Arminas «e i suoi padri prima di lui. E nei deserti del Dor-lómin ho incontrato Tuor, figlio di Huor, fratello di Húrin; ed egli somiglia ai suoi padri, mentre tu no.» «Può darsi,» replicò Túrin «sebbene di Tuor non abbia mai sentito finora parlare. Ma che la mia testa sia bruna o dorata, non me ne vergogno di certo. Non sono certo io il primo figlio che riprende dalla madre. E discendo da Morwen Eledhwen della Casa di Bëor e sono consanguineo di Beren Camlost.» «Non intendevo riferirmi alla differenza tra il nero e l'oro» riprese Arminas. «Ma al fatto che altri della Casa di Hador si comportano diversamente, e Tuor fra loro. Infatti, essi si mostrano cortesi e prestano orecchio ai buoni consigli, nutrono rispetto per i Signori dell'Occidente. Tu invece, per ciò che vedo, ti affidi solo a quello che ti detta la tua saggezza o, maga-
ri, solo la tua spada. E parli con tono arrogante. E io ti dico, Agarwaen Mormegil, che, se fai così, ben diversa sarà la tua sorte da quella cui uno delle Case di Hador e di Bëor potrebbe aspirare.» «E diversa è sempre stata» ribatté Túrin. «E se, come sembra, devo essere oggetto dell'odio di Morgoth a causa del valore di mio padre, devo dunque sopportare anche gli insulti e i cattivi presagi di un fuggiasco, per quanto si proclami di stirpe regale? Ascolta il mio consiglio: tornatene alle sicure coste sul mare.» Gelmir e Arminas allora se ne andarono, tornando al Sud; ma, nonostante le ingiurie di Túrin, ben volentieri avrebbero partecipato alla battaglia accanto a quelli della loro stirpe, e se se ne andarono fu solo perché Círdan aveva ingiunto loro, su comando di Ulmo, di riportargli notizie di Nargothrond e della loro missione presso Orodreth. E quest'ultimo restò assai turbato dalle parole dei messaggeri, ma ancor più indignato dal contegno di Túrin, e per nessuna ragione volle ascoltare i loro consigli, tanto menò accettare che il grande ponte fosse abbattuto. Così, almeno in questo le parole di Ulmo furono correttamente interpretate. Poco tempo dopo la partenza dei messaggeri, Handir, signore del Brethil, venne ucciso allorché gli Orchi ne invasero la contrada, cercando di assicurarsi i Guadi del Teiglin in vista di un ulteriore avanzamento. Handir li affrontò in battaglia, ma gli Uomini del Brethil ebbero la peggio e furono ricacciati nei loro boschi. Gli Orchi non li inseguirono perché, per il momento, il loro scopo era stato raggiunto. E continuarono a radunare le loro forze al Passo del Sirion. Nell'autunno di quell'anno, scelto il momento opportuno, Morgoth lanciò contro la gente del Narog il grande esercito che a lungo aveva preparato; e Glaurung, il Padre dei Draghi, venne per Anfauglith e di lì penetrò nel bacino settentrionale del Sirion, facendo molti danni. All'ombra degli Ered Wethrin, alla testa di un grande esercito di Orchi, contaminò la Eithel Ivrin e poi entrò nel regno del Nargothrond e arse la Talath Dirmen, la Piana Sorvegliata, tra il Narog e il Teiglin. Allora i guerrieri del Nargothrond gli uscirono incontro e, quel giorno, alto e terribile sembrò Túrin; e il morale di tutto l'esercito fu sollevato alla vista di Túrin che cavalcava alla destra di Orodreth. Ma l'esercito di Morgoth era ben maggiore di quanto gli esploratori avessero riferito e nessuno, salvo Túrin, protetto dalla sua maschera da Nano, poté reggere il confronto con Glaurung. Gli Elfi furono respinti e sconfitti sul campo di Tumhalad; e
lì tutto l'orgoglio dell'esercito di Nargothrond svanì. Orodreth, il Re, cadde nelle prime file e Gwindor, figlio di Guilin, fu ferito a morte. Ma Túrin volò in suo soccorso e tutti fuggirono davanti a lui; ed egli trasse Gwindor fuori dalla mischia e, rifugiatosi in un bosco, lo depose sull'erba. Allora Gwindor disse a Túrin: «Ora siamo pari! Ma l'aiuto che un tempo ti diedi è stato sfortunato e vano è il tuo; il mio corpo è, infatti, deturpato in modo inguaribile e io devo lasciare la Terra di Mezzo. E, sebbene io ti voglia molto bene, figlio di Húrin, pure mi rammarico di averti un giorno sottratto agli Orchi. Non fosse infatti per la tua prodezza e il tuo orgoglio, ancora godrei di amore e di vita e il Nargothrond ancora resisterebbe. Ora, se mi vuoi bene, lasciami! Affrettati a far ritorno a Nargothrond e salva Finduilas. E questo ancora voglio dirti: lei sola s'interpone fra te e la tua sorte. Se tu venissi meno a Finduilas, la sorte non mancherà di piombarti addosso. Addio!». Allora Túrin si precipitò a Nargothrond, raccogliendo tutti gli sbandati che trovava strada facendo; e, mentre marciavano, le foglie cadevano dagli alberi strappate da un vento impetuoso, poiché l'autunno già lasciava il posto a un terribile inverno. Ma Glaurung e il suo esercito di Orchi erano di fronte a lui a causa del soccorso prestato a Gwindor e sopraggiunsero all'improvviso, prima che quelli che erano di guardia sulla sinistra si rendessero conto di quanto era successo sul campo di Tumhalad. Quel giorno il ponte che Túrin aveva fatto in modo che venisse costruito si rivelò una disgrazia; poiché era grande e ben costruito non si poteva facilmente abbattere. Sicché il nemico superò senza difficoltà il profondo fiume e Glaurung, con tutte le sue spire di fuoco, si avventò contro le porte di Felagund, abbattendole ed entrò. E quando Túrin sopravvenne, lo spaventoso saccheggio di Nargothrond era praticamente compiuto. Gli Orchi avevano ucciso o portato via tutti quanti si opponevano loro in armi e ormai stavano depredando le grandi aule e camere, rubando e distruggendo; ma le fanciulle e le donne che non erano bruciate né morte, le avevano radunate sui terrapieni davanti alle porte con l'intento di ridurle in schiavitù, al servizio di Morgoth. Nel bel mezzo di cotanta rovina e desolazione, sopraggiunse Túrin e nessuno poté né volle resistergli perché abbatté chiunque gli si parasse davanti, e superò il ponte e si aprì un varco verso le prigioniere. E adesso era lì da solo, poiché i pochi che l'avevano seguito gli avevano girato le spalle. E proprio in quel momento Glaurung uscì dalle porte sventrate di Felagund e si piantò alle spalle, fra Túrin e il ponte. E all'improvvi-
so parlò grazie allo spirito malefico ch'era in lui e disse: «Salve, figlio di Húrin. Che bell'incontro!». Allora Túrin gli balzò davanti mulinando la spada e la lama di Gurthang splendeva come fosse in fiamme. Ma Glaurung trattenne il suo sbuffo infuocato e spalancò i suoi occhi da serpente, piantandoli su Túrin. Senza alcun timore, Túrin gli guardò dritto dentro e levò la sua spada. Ma, immediatamente, cadde sotto il terribile incantesimo del drago e rimase immobile come un sasso. Restarono così immobili a lungo, in silenzio davanti alle porte di Felagund. Poi Glaurung tornò a parlare, beffandosi di Túrin, e disse: «Perverse sono state tutte le tue azioni, figlio di Húrin; ingrato figlio adottivo, bandito, assassino del tuo amico, ladro d'amore, usurpatore di Nargothrond, comandante sconsiderato, traditore del tuo stesso sangue. Come schiave tua madre e tua sorella vivono nel Dor-lómin, in miseria e indigenza. Tu sei vestito come un principe, ma loro son coperte di stracci. Per te si struggono, ma tu non te ne curi. Ben lieto può essere tuo padre di avere un figlio simile: e lo saprà!». E Túrin, sotto l'incantesimo di Glaurung, rimase ad ascoltare queste parole e si vide, come in uno specchio, deformato da maligne arti, e detestò ciò che vide. Mentre era ancora trattenuto dagli occhi di Glaurung, in preda a tormentosi pensieri e incapace di muoversi, a un segnale del Drago, gli Orchi portarono via le prigioniere radunate e, passando accanto a Túrin, superarono il ponte. Tra loro v'era Finduilas, che protese le braccia verso Túrin e lo chiamò per nome. Ma finché le grida di questa e i gemiti delle prigioniere non si furono spenti lungo la strada che portava a nord, Glaurung non liberò Túrin dall'incantesimo e questi, per quanto cercasse di tapparsi le orecchie, continuò sempre a udire quella voce che lo ossessionava. Ed ecco che all'improvviso Glaurung distolse lo sguardo e attese; e Túrin ricominciò lentamente a muoversi, come qualcuno che si risvegli da un orribile sogno. Tornato in sé, con un forte grido balzò sul drago. Ma Glaurung, ridendo, disse: «Se proprio vuoi che ti uccida, lo farò ben volentieri. Ma di scarso aiuto sarà la tua morte per Morwen e Niënor. Non hai fatto caso alle grida della donna degli Elfi. Allora vuoi anche rinnegare i tuoi legami di sangue?». Ma Túrin, brandita la spada, mirò agli occhi del drago. E Glaurung, ritraendosi rapidamente, torreggiò sopra di lui e disse: «No, non si può dire che tu non sia valoroso più di chiunque altro io abbia mai incontrato. E chi dice che noi non onoriamo il valore dei nemici, mente. Ecco! Ti offro la libertà. Va' dai tuoi se ci riesci. E se Elfo o Uomo resterà per narrare di
queste giornate, di certo parleranno di te con disprezzo, se disdegni il dono che ti faccio». Allora Túrin, ancora sbigottito dallo sguardo del drago, quasi stesse trattando con un avversario capace di muoversi a pietà, credette alle parole di Glaurung e, voltandogli le spalle, imboccò di corsa il ponte. Ma, mentre andava, Glaurung gli disse con una voce terribile: «Affrettati, figlio di Húrin, corri nel Dor-lómin! Altrimenti gli Orchi anche questa volta potrebbero arrivare prima di te. E, se indugi per cercare Finduilas, mai rivedrai Morwen e mai, proprio mai, Niënor tua sorella; ed esse ti malediranno». Ma Túrin imboccò la strada del nord e Glaurung rise di nuovo, poiché ancora una volta aveva portato a termine l'incarico che gli aveva dato il suo Padrone. Poi si dedicò ai suoi piaceri e con il suo fiato di fiamme bruciò ogni cosa attorno a lui. Così facendo, disperse e mise in fuga tutti gli Orchi intenti al saccheggio e impedì loro d'impadronirsi persino delle cose più insignificanti. Il ponte poi ruppe e ne gettò le macerie tra la schiuma del Narog. Essendo, così, al sicuro, raccolse tutti i tesori e le ricchezze di Felagund e, fattone un gran mucchio nella stanza più interna, vi si distese sopra per riposare un po'. Intanto Túrin correva lungo le vie che portavano a Nord, per contrade ormai desolate tra il Narog e il Teiglin, e il Funesto Inverno gli andò incontro, giacché quell'anno la neve scese prima che l'autunno fosse terminato e la primavera giunse tardi e fredda. Mentre andava, gli pareva sempre di udire le grida di Finduilas che ne invocava il nome, per boschi e colline, e grande era la sua angoscia. Ma il suo cuore ribolliva per le menzogne di Glaurung e, avendo sempre davanti agli occhi l'immagine degli Orchi intenti a bruciare la casa di Húrin e a tormentare Morwen e Niënor, proseguì per la sua strada, senza mai deviare.
CAPITOLO XII IL RITORNO DI TÚRIN NEL DOR-LÓMIN Alla fine, esausto per la lunga strada percorsa tanto in fretta (che aveva coperto senza riposarsi quaranta leghe e più), Túrin giunse con il primo ghiaccio dell'inverno agli Stagni di Ivrin, dove in precedenza aveva bevuto l'acqua guaritrice. Ora però non erano che un pantano gelato, e non poté più dissetarvisi. Da lì giunse ai passi del Dor-lómin; e la neve scendeva inesorabile dal Nord, e le strade erano perigliose e fredde. Sebbene ventitré anni fossero trascorsi da quando aveva calcato quel sentiero, esso gli stava impresso nel cuore, tale era la pena che aveva provata a ogni passo dipartendosi da Morwen. Così alla fine ritornò alla terra della sua infanzia. Era nuda e tetra; e la gente era poca e rozza, e parlavano l'aspra lingua degli Esterling, e l'antica favella era divenuta quella dei servi o dei nemici. Ragion per cui Túrin procedeva cauto, incappucciato e silenzioso, e giunse alla fine alla casa che cercava. Era vuota e buia, nessuno vi abitava, poiché Morwen se n'era andata e Brodda l'Intruso (colui che aveva preso in moglie con la forza Aerin, parente di Húrin) l'aveva saccheggiata, impadronendosi di tutto quanto le era rimasto in fatto di beni e di servi. La casa di Brodda era vicinissima a quella di Húrin, e lì si diresse Túrin, sfinito dall'errare e dal dolore, implorando ricovero; e gli fu concesso, perché in parte le antiche, più gentili maniere di un tempo, vi erano mantenute da Aerin. Gli fu dato uno sgabello accanto al fuoco tra i servi e qualche vagabondo quasi altrettanto tetro e sfinito dal cammino; ed egli chiese notizie della contrada. Al che sulla compagnia calò il silenzio, e alcuni se ne andarono in fretta
guardando storto lo straniero. Ma un vecchio vagabondo con la stampella disse: «Se proprio devi parlare l'antica lingua, messere, fallo a voce bassa e non chiedere notizie. Vuoi forse essere battuto come un furfante o impiccato come spia? Perché puoi essere l'uno e l'altro, stando al tuo aspetto. Ciò vuol semplicemente dire» soggiunse, avvicinandosi e parlando all'orecchio di Túrin «una delle gentili persone di un tempo giunte con Hador nei giorni d'oro, prima che sulle teste crescessero peli di lupo. Alcuni qui sono di quel genere, benché adesso ridotti mendicanti e schiavi, e non fosse per dama Aerin non avrebbero né questo fuoco né questa brodaglia. Di dove sei, e che notizie vorresti?». «C'era una dama di nome Morwen» rispose Túrin «e molto tempo fa sono vissuto nella sua casa. Qui sono giunto dopo lungo peregrinare, sperando di ricevere il benvenuto, ma non ci sono né fuoco né abitanti ora.» «E non ci sono stati per tutto questo lungo anno e prima ancora» replicò il vecchio. «Ma scarsi erano sia il fuoco che gli abitanti, in quella casa, dopo la guerra mortale; perché Morwen apparteneva all'antica gente e, come indubbiamente tu sai, era la vedova del nostro signore, Húrin figlio di Galdor. Non hanno tuttavia osato metterle le mani addosso perché ne avevano paura, ed era fiera e bella come una regina prima che il dolore la consumasse. Strega, la chiamavano, e le stavano alla larga. Strega: cioè, nella nuova lingua, semplicemente 'amica degli Elfi'. Derubata, però, l'hanno. E sovente lei e sua figlia sarebbero state ridotte alla fame, non fosse stato per dama Aerin che le aiutava in segreto, così si dice, e spesso per questo fu battuta da quello zotico di Brodda, suo marito per forza.» «Ed è trascorso più di questo lungo anno?» domandò Túrin. «Sono morte o ridotte in schiavitù? Oppure gli Orchi hanno assalito Morwen?» «Non lo si sa per certo» rispose il vecchio. «Ma Morwen se n'è andata con sua figlia, e quel Brodda l'ha depredata e spogliata di quanto le restava. Non un cane è rimasto, e i suoi pochi domestici sono stati fatti schiavi, salvo alcuni che si sono dati alla mendicità, come ho fatto io. L'ho servita per molti anni, come prima ho servito il grande Padrone, io Sador Piedemonco: una maledetta ascia nei boschi, tanto tempo fa, altrimenti giacerei sul Grande Tumulo. Ben ricordo il giorno in cui il figlio di Húrin se n'è andato, e come poi piangeva; e lei pure quando lui fu lontano. Dicono che il ragazzo se ne sia andato nel Regno Nascosto.» Quindi il vecchio frenò la lingua, e guardò Túrin dubbioso. «Sono vecchio e straparlo, maestro» soggiunse. «Non farci caso! Ma, per piacevole che sia parlare la vecchia lingua con uno che la conosce bene, come ai
giorni che furono, i tempi sono grami, e bisogna essere prudenti. Non tutti coloro che parlano la bella lingua hanno il cuore limpido.» «Vero» convenne Túrin. «Il mio cuore è triste. Ma se temi che io sia una spia del Nord o dell'Est, vuol dire che hai poco più sale in zucca di quanto ne avevi tanto tempo fa, Sador Labadal.» Il vecchio lo guardò sbalordito; e fu tremando che parlò, dicendo: «Usciamo di qui, fuori fa più freddo ma si è più al sicuro. Tu parli troppo forte, e io troppo, per una sala di Esterling». Come furono in cortile, il vecchio afferrò Túrin per il mantello. «Molto tempo fa hai abitato in quella casa, affermi. Túrin, mio signore, perché sei tornato? Finalmente gli occhi mi si sono aperti, e le orecchie anche: hai la voce di tuo padre. E il solo Túrin da ragazzo mi chiamava con quel nome, Labadal. E non lo faceva per malignità: in quei giorni eravamo grandi amici. Che cosa cerchi qui, adesso? Pochi siamo rimasti; vecchi e senza armi. Più felici quelli del Grande Tumulo.» «Non sono venuto col proposito di dar battaglia,» rispose Túrin «sebbene le tue parole abbiano ridestato in me quel desiderio, Labadal. Ma esso deve attendere. Sono venuto a cercare dama Morwen e Niënor. Che cosa sai dirmene, in breve?» «Ben poco, mio signore» rispose Sador. «Se ne sono andate in segreto. Si sussurrava tra noi che fossero state chiamate dal Sire Túrin, perché noi non dubitavamo che nel corso degli anni fosse divenuto grande, un re o un signore in qualche contrada del Sud. Ma sembra che così non sia.» «Non è così» confermò Túrin. «Un signore, ero, ed ero in una contrada del Sud, sebbene oggi sia un vagabondo. Ma io non le ho chiamate.» «Quand'è così, non so che dirti» riprese Sador. «Ma sono certo che dama Aerin lo saprà, lei che conosceva tutti i propositi di tua madre.» «E come posso giungere da lei?» «Questo non lo so. Può costarle molto caro essere sorpresa a sussurrare a un uscio con un miserabile vagabondo del popolo calpestato, posto che un messaggio le possa arrivare. E un mendicante del tuo stampo non può certo attraversare la sala diretto alla tavola dei signori, senza che gli Esterling lo prendano e lo percuotano o peggio ancora.» Incollerito, Túrin gridò: «Non posso percorrere la sala di Brodda, e quelli mi percuoteranno? Sta' un po' a vedere!». Allora entrò nella sala, gettò indietro il cappuccio e, scostando tutti coloro che gli si paravano dinanzi, si avviò alla tavola alla quale sedevano il padrone di casa, sua moglie e altri nobili Esterling. Qualcuno corse a met-
tergli le mani addosso, ma egli lo gettò a terra gridando: «Nessuno governa questa casa, o è un covo di Orchi? Dov'è il padrone?». Si levò allora Brodda infuriato. «Governo io questa casa» disse. Ma senza dargli il tempo di soggiungere altro, Túrin gridò: «Quand'è così, non hai imparato la cortesia che regnava in questo paese prima di te. È adesso costumanza degli uomini lasciare che i tirapiedi maltrattino i parenti delle proprie mogli? Tale io sono, e ho una commissione per dama Aerin. Posso venire liberamente, o devo farlo a modo mio?». «Vieni!» fece Brodda, accigliandosi; e Aerin impallidì. Allora Túrin s'accostò alla tavola padronale, si piantò lì davanti e s'inchinò. «Ti chiedo scusa, dama Aerin,» disse «per il disturbo che ti reco; ma la mia commissione non può attendere e mi ha condotto da lungi. Cerco Morwen, Signora del Dor-lómin e Niënor sua figlia. Ma la sua casa è vuota e saccheggiata. Che puoi dirmene?» «Nulla» disse Aerin fortemente intimorita, perché Brodda la scrutava attentamente. «Questo non lo credo» ribatté Túrin. Balzò allora in piedi Brodda, rosso di ebbra collera. «Adesso basta!» urlò. «Dovrò tollerare che mia moglie sia contraddetta al mio cospetto da un mendicante che parla la lingua dei servi? Non c'è nessuna Signora del Dorlómin. E per quanto riguarda Morwen, era della razza degli schiavi, ed è fuggita come fanno gli schiavi. Tu fa' lo stesso, e in fretta, o ti faccio appendere a un albero!» Allora Túrin gli balzò addosso, e trasse la sua nera spada e afferrò Brodda per i capelli, tirandogli indietro la testa. «Che nessuno si muova» disse «o la sua testa lascerà le spalle! Dama Aerin, ti chiedo scusa un'altra volta, se ho pensato che questo zotico t'abbia mai fatto altro che del male. Ma adesso parla, e non deludermi! Non sono io forse Túrin, Signore del Dorlómin? Devo ordinartelo?» «Ordinamelo» rispose lei. «Chi ha saccheggiato la casa di Morwen?» «Brodda» rispose la donna. «Quando è fuggita Morwen, e per dove?» «Un anno e tre mesi fa» rispose Aerin. «Mastro Brodda e altri Intrusi dell'Est l'hanno brutalmente maltrattata. Molto tempo fa era stata chiamata nel Regno Nascosto, e finalmente è partita. Infatti, le contrade intermedie per un certo tempo sono state libere dal male grazie alla prodezza della Spada Nera del paese meridionale, così dicono almeno; ma anche questo è
finito. Sperava di trovare suo figlio ad attenderla. Ma se tu sei qua, temo che tutto sia andato storto.» E Túrin rise amaramente. «Storto? Storto?» gridò. «Sì, sempre storto: storto come Morgoth!» E all'improvviso una nera collera lo scosse, perché gli occhi gli si erano aperti e l'incantesimo di Glaurung allentò l'ultima presa, e Túrin si rese conto delle menzogne con le quali era stato ingannato. «Dunque mi hanno gabbato, inducendomi a venir qui per morire disonorato, io che avrei per lo meno potuto perire valorosamente davanti alle porte di Nargothrond?» E dalla notte fuori dell'aula gli parve che gli giungessero le grida di Finduilas. «Ma non sarò il primo a morire qui dentro!» urlò. E afferrato Brodda, con la forza datagli dalla grande angoscia e ira, lo levò alto e lo scosse come se fosse un cane. «Morwen appartiene alla razza degli schiavi, hai detto? Tu, rampollo di vermi, ladro, schiavo di schiavi!» E così dicendo scagliò Brodda oltre il tavolo, addosso a un Esterling levatosi per assalire Túrin. Nella caduta, Brodda si spezzò il collo; e Túrin gli balzò dietro, e uccise tre altri che cercavano di scansarsi perché in quel momento senz'armi. Gran tumulto si alzò nella sala. Gli Esterling che vi stavano avrebbero voluto dare addosso a Túrin, ma molti altri vi erano radunati dell'antico popolo del Dor-lómin; a lungo erano stati servi sottomessi, ma eccoli ora levarsi con grida ribelli. E ben presto fu grande battaglia nella sala, e sebbene gli schiavi avessero soltanto coltelli da scalco e poco altro con cui difendersi da daghe e spade, molti furono ben presto uccisi d'ambo i lati, prima che Túrin, balzato nella mischia, spacciasse l'ultimo degli Esterling superstite. Quindi si fermò, appoggiato a una colonna, e il fuoco della sua ira era ormai cenere. Ma il vecchio Sador andò da lui e gli abbracciò le ginocchia, poiché era ferito a morte. «Tre volte sette anni e più, è stato lungo attendere questa ora» disse. «Ma adesso va', va', signore, e non tornare se non con maggiori forze. Leveranno il paese contro di te. Molti può darsi siano fuggiti dalla sala. Va', o morirai qui. Addio!» E scivolò a terra e morì. «Ha detto la verità dei morenti» intervenne Aerin. «Quel che volevi, l'hai saputo. E adesso vattene in fretta! Ma per prima cosa va' da Morwen e confortala, altrimenti mi sarà difficile perdonare il disastro che hai provocato qua dentro. Perché, per mala che fosse la mia vita, con la tua violenza m'hai arrecato morte. Gli Intrusi questa notte si vendicheranno di quanto è accaduto. Impulsivi sono i tuoi atti, figlio di Húrin, quasi tu fossi ancora il bambino che conoscevo.»
«E fiacco è il tuo cuore, Aerin figlia di Indor, come quando io ti chiamavo zia, e bastava un cane feroce a spaventarti» ribatté Túrin. «Eri fatta per un mondo più gentile. Ma adesso vieni via. Ti porterò da Morwen.» «La neve copre fitta la terra, ma più fitta ancora è sul mio capo» rispose lei. «Con te nelle selve morirei non meno rapidamente che per mano dei crudeli Esterling. Non puoi riparare al danno che hai fatto. Vattene! Restando, non faresti che peggiorare le cose e derubare inutilmente Morwen. Va', t'imploro.» Túrin allora le rivolse un profondo inchino e lasciò la sala di Brodda; ma tutti i ribelli che ne avevano la forza lo seguirono. Fuggirono verso i monti, perché alcuni di loro conoscevano bene i sentieri delle solitudini e benedicevano la neve che, cadendo dietro di loro, ne cancellava le tracce. Così, sebbene subito la caccia avesse preso il via, con molti uomini e cani e fra nitriti di cavalli, riuscirono a sottrarsene tra le alture meridionali. Quivi, guardandosi indietro videro, remota nella piana che avevano lasciata, una luce rossa. «Quelli hanno dato fuoco alla sala» constatò Túrin. «A che scopo, poi?» «Quelli? Nossignore: lei, secondo me» disse uno che aveva nome Asgon. «Accade spesso che uomini d'arme equivochino sulla pazienza e la dolcezza. Dama Aerin ha fatto molto bene a noialtri con suo grave pericolo. Il suo cuore era forte, ma la pazienza a lungo andare finisce.» Orbene, alcuni dei più robusti, capaci di sopportare l'inverno, rimasero con Túrin e, per sentieri insoliti, lo condussero a un rifugio montano, una grotta nota a banditi e fuggiaschi, dove era un deposito di cibo. Lì attesero che la nevicata cessasse, quindi, rifocillatolo, lo condussero a un passo scarsamente usato da cui si accedeva a sud, alla Valle del Sirion, dove la neve non era caduta. Arrivati dall'altra parte, si congedarono. «Addio, Signore del Dor-lómin» disse Asgon. «Ma non dimenticarti di noi. Ormai saremo uomini braccati; e la Stirpe del Lupo si mostrerà ancora più crudele dopo che tu sei comparso. Vattene dunque, e non tornare, se non con forze sufficienti per liberarci. Addio!»
CAPITOLO XIII L'ARRIVO DI TÚRIN NEL BRETHIL E Túrin calò verso il Sirion, e il suo animo era lacerato, poiché gli sembrava che, se prima aveva due amare scelte, adesso erano tre, e il suo popolo oppresso faceva appello a lui, ed egli non aveva arrecato altro che maggiori sofferenze. Un unico conforto aveva, e cioè che senza dubbio Morwen e Niënor da un pezzo erano giunte nel Doriath, e che solo grazie alla prodezza della Spada Nera del Nargothrond avevano trovato la strada sgombra. E tra sé disse: «In quale miglior luogo avrei potuto condurle, se fossi giunto prima? Se la Cintura di Melian è infranta, allora tutto è finito. No, meglio che le cose stiano così; perché, con la mia collera e la mia impulsività, ovunque io vada porto disgrazia. Che Melian le ospiti! E per un po' le lascerò in pace senza che la mia ombra gravi loro addosso». Ma a questo punto troppo tardi Túrin si mise alla ricerca di Finduilas, battendo in lungo e in largo i boschi sotto le pendici degli Ered Wethrin, selvatico e cauto come una bestia, mettendosi all'agguato lungo tutte le strade che andavano a nord verso il Passo del Sirion. Troppo tardi, giacché tutte le tracce erano state cancellate dalle piogge e dalle nevi. Accadde però così che Túrin, calando verso il Teiglin, s'imbattesse in alcuni del popolo di Haleth venuti dalla Foresta di Brethil. Costoro erano ridotti a ben pochi a causa della guerra che conducevano contro il Piccolo Popolo, e
per lo più dimoravano in segreto entro un recinto sull'Amon Obel, nel cuore della foresta. Ephel Brandir, così era detto il luogo, essendo che Brandir figlio di Handir era adesso il loro signore da quando suo padre era stato ucciso. E Brandir non era uomo di guerra, zoppo com'era per avere avuta una gamba spezzata per un incidente in giovane età, e inoltre di modi gentili, amante più del legno che del metallo e della conoscenza delle cose che crescono in terra più di ogni altro sapere. Ma alcuni degli abitanti dei boschi ancora davano la caccia agli Orchi ai loro confini. E fu così che Túrin, giungendo sul posto, udì il frastuono di una mischia. Corse a quella volta e, sbirciando cauto tra gli alberi, scorse un pugno di uomini che, accerchiati da Orchi, si difendevano alla disperata, le schiene a un gruppo d'alberi che sorgeva al margine di una radura; gli Orchi però erano in gran numero e gli assaliti avevano poca speranza di scampo, a meno di ricevere aiuto. Sicché, nascosto nel sottobosco, Túrin levò un gran rumore di passi e rami rotti, e gridò a gran voce, come se fosse alla testa di molti: «Avanti, eccoli qui! Seguitemi! Fuori, e ammazziamoli!». Al che molti degli Orchi si volsero sgomenti, ed ecco balzar fuori Túrin, facendo cenno come a uomini che lo seguissero, e in pugno aveva Gurthang, il cui taglio baluginava come fiamma. Troppo ben nota era quella lama agli Orchi, e prima ancora che fosse loro addosso molti si dispersero e fuggirono. Allora gli abitanti dei boschi si unirono a Túrin, e insieme respinsero i nemici al fiume: pochi riuscirono a superarlo. Alla fine, si fermarono sulla riva, e Dorlas, il capo degli abitanti dei boschi, disse: «Sei veloce nella caccia, signore; ma i tuoi uomini sono lenti a seguirti». «Ah,» replicò Túrin «noialtri corriamo tutti assieme come un unico uomo e non ci separiamo mai.» Risero allora gli uomini del Brethil, e dissero: «Be', uno così ne vale molti. E ti siamo assai grati. Ma tu chi sei, e che cerchi da queste parti?». «Non faccio che occuparmi dei fatti miei, che consistono nell'ammazzare Orchi» spiegò Túrin. «E dimoro dove ho da fare. Io sono il Selvaggio dei Boschi.» «Vieni allora a stare con noi» proposero quelli. «Noi infatti dimoriamo nei boschi e abbiamo bisogno di gente del tuo stampo. Sarai il benvenuto!» Allora Túrin lanciò loro una strana occhiata e chiese: «C'è dunque ancora qualcuno disposto a sopportare che io ne oscuri la soglia? Amici, io però ho ancora una dolorosa missione da compiere: trovare Finduilas, figlia di
Orodreth di Nargothrond, o per lo meno averne notizie. Ahimè, molte settimane sono passate da quando è stata catturata nel Nargothrond, ma io devo continuare a cercarla». Quelli allora lo guardarono con compassione, e Dorlas disse: «Non cercarla più. Devi sapere infatti che una schiera di Orchi è venuta dal Nargothrond ai Guadi del Teiglin, e a lungo li abbiamo tenuti d'occhio: procedevano molto lentamente a causa del gran numero di prigionieri che conducevano con sé. Abbiamo allora pensato di dare il nostro piccolo contributo alla guerra, e abbiamo teso un'imboscata agli Orchi con tutti gli arcieri che siamo riusciti a radunare, nella speranza di salvare qualche prigioniero. Ma, ahimè!, non appena si son visti assalire, gli abominevoli Orchi hanno sgozzato prima le donne tra i loro prigionieri, e la figlia di Orodreth l'hanno inchiodata a un albero con una lancia». Pareva che Túrin avesse ricevuto un colpo mortale. «Come lo sapete?» domandò. «Perché lei mi ha parlato prima di morire» rispose Dorlas. «Ci guardava come se cercasse qualcuno che aspettava, e ha detto: 'Mormegil. Dite al Mormegil che Finduilas è qui'. E altro non ha detto. Ma, a causa delle sue ultime parole, l'abbiamo seppellita dov'è morta. Giace in un tumulo sulla riva del Teiglin. Quest'è accaduto un mese fa.» «Conducetemi là» chiese Túrin, ed essi lo portarono a un poggio non lungi dai Guadi del Teiglin. Quivi egli si lasciò cadere, e una tenebra gli piombò addosso, sì che quelli pensarono che fosse morto. E Dorlas l'osservò mentre era al suolo, e quindi, rivolto ai suoi, disse: «Troppo tardi! Triste caso! Vedete, qui giace il Mormegil in persona, il grande capitano di Nargothrond. Avremmo dovuto riconoscerlo dalla spada, come hanno fatto gli Orchi». Infatti la fama della Spada Nera del Sud si era ampiamente diffusa, giungendo sin nelle profondità della foresta. Lo sollevarono dunque reverenti e lo portarono nell'Ephel Brandir; e Brandir, uscito loro incontro, si meravigliò vedendoli venire con un cataletto. Scostò la coperta, e scorse il volto di Túrin figlio di Húrin; e una buia ombra gli scese sul cuore. «O crudele gente di Haleth» gridò. «Perché avete respinto la morte di costui? A gran fatica avete portato qui l'estremo flagello del nostro popolo.» Ma gli Uomini dei Boschi replicarono: «No, questi è il Mormegil del Nargothrond, un possente uccisore di Orchi, che ci sarà di grande aiuto se sopravvive. E anche se così non fosse, dovremmo noi lasciare un uomo
abbattuto dal dolore abbandonato come una carogna sulla via?». «Non potevate certo farlo» convenne Brandir. «Sorte non ha voluto che così fosse.» E portò Túrin in casa sua e lo curò con solerzia. Ma quando finalmente Túrin si liberò della sua cupezza, la primavera stava tornando; e, riaprendo gli occhi, scorse le verdi gemme illuminate dal sole. E allora in lui si risvegliò il coraggio della Casa di Hador, e si levò e disse in cuor suo: «Tutti i miei giorni passati sono stati scuri e pieni di malvagità. Ma un nuovo giorno è venuto. Qui starò in pace, rinunciando al nome e alla stirpe, e così facendo mi lascerò alle spalle la mia ombra, o per lo meno non la proietterò su coloro che amo». Assunse pertanto un nuovo nome, chiamandosi Turambar, che in Alto Elfico significa Padrone del Destino; e dimorò tra gli abitanti dei boschi, e da essi era amato, e li pregò di dimenticare il suo vecchio nome e di annoverarlo tra i nativi del Brethil. Pure, cambiando nome non per questo poteva mutare completamente il proprio carattere né dimenticare del tutto i vecchi rancori nei confronti dei servi di Morgoth; e usciva a caccia di Orchi con pochi che la pensavano come lui, sebbene la cosa dispiacesse a Brandir. Questi infatti avrebbe preferito preservare il proprio popolo grazie al silenzio e alla segretezza. «Il Mormegil non è più,» diceva Brandir «ma badate che il valore di Turambar non attiri sul Brethil una nuova vendetta!» Ragion per cui Turambar depose la nera spada, non portandola più con sé in battaglia, e usando piuttosto arco e lancia. Ma non permetteva agli Orchi di servirsi dei Guadi del Teiglin né di avvicinarsi al tumulo dov'era sepolta Finduilas. Haudh-en-Elleth, così era chiamato, cioè Tumulo della Fanciulla Elfica, e ben presto gli Orchi impararono a temere quel luogo, e ne stavano alla larga. E Dorlas disse a Turambar: «Hai rinunciato al nome, ma continui a essere la Spada Nera; e non risponde forse al vero la voce che lo diceva figlio di Húrin del Dor-lómin, Signore della Casa di Hador?». Rispose Turambar: «Così ho udito dire. Ma non spargere la voce, ti prego, se mi sei amico».
CAPITOLO XIV IL VIAGGIO VERSO NARGOTHROND DI MORWEN E NIËNOR Quando il Crudele Inverno si attenuò, nel Doriath giunsero nuove notizie del Nargothrond. Alcuni infatti che erano sfuggiti al saccheggio, sopravvivendo all'inverno nelle selve, alla fine giunsero a cercare rifugio da Thingol, e i custodi delle marche li portarono dal Re. E qualcuno tra loro disse che tutti i nemici si erano ritirati a nord, e altri che Glaurung ancora dimorava nelle aule di Felagund; e altri ancora che il Mormegil era stato ucciso, oppure che il Drago aveva gettato un incantesimo su di lui che ancora rimaneva lassù, tramutato in sasso. Tutti però affermarono che, prima della fine, era noto nel Nargothrond con il nome di Spada Nera null'altri che Túrin figlio di Húrin del Dor-lómin. Grandi allora furono la paura e il dolore di Morwen e Niënor, e la prima disse: «Diffondere siffatti dubbi è opera di Morgoth! Come fare a sapere la verità, e conoscere davvero magari quel che di peggio può toccarci?». Ora, Thingol stesso desiderava grandemente di conoscere meglio la sorte di Nargothrond, e già aveva in mente di mandare qualcuno che vi si recasse in segreto, e d'altro canto riteneva che Túrin fosse stato davvero ucciso o che nulla si potesse fare per salvarlo, e paventava il momento in cui Morwen l'avrebbe saputo per certo. Le disse pertanto: «È un'impresa peri-
colosa, Signora del Dor-lómin, e bisogna ben ponderarla. Dubbi del genere possono invero essere l'opera di Morgoth, intesi a indurci a passi avventati». Ma Morwen, che era fuori di senno, gridò: «Passi avventati, signore? Se mio figlio si nasconde affamato nei boschi, se langue in ceppi, se il suo corpo giace insepolto, che io sia avventata! Voglio andarlo a cercare senza perdere un istante». «Signora del Dor-lómin,» ribatté Thingol «questo di certo il figlio di Húrin non lo vorrebbe. Ti riterrebbe più al sicuro qui che in ogni altra terra che ancora resta: qui, sotto la protezione di Melian. Per amore di Húrin e di Túrin, non ti lascerò vagabondare negli oscuri pericoli di questi tempi.» «Non hai trattenuto Túrin dal pericolo, me però vorresti trattenere da lui» gridò Morwen. «Sotto la protezione di Melian! Sì, prigioniera della Cintura. A lungo ho esitato prima di superarla, e adesso me ne pento.» «No, Signora del Dor-lómin,» fece Thingol «se dici questo, sappi che la Cintura è aperta. Liberamente sei giunta, e sei libera di restare o di andartene.» Parlò allora Melian che fino a quel momento era rimasta in silenzio. «Non andartene, Morwen. Hai detto il vero: questo dubbio è opera di Morgoth. Se te ne vai, è per sua volontà.» «La paura di Morgoth non mi tratterrà dal richiamo del mio sangue» ribatté Morwen. «Ma se temi per me, signore, manda con me qualcuno dei tuoi.» «Su di te non ho autorità,» rispose Thingol «ma sulla mia gente esercito il comando. E li mando dove mi sembra opportuno.» Morwen null'altro disse, ma pianse e se ne andò dal cospetto del Re. Thingol si sentiva il cuore gonfio, sembrandogli che Morwen fosse impazzita; e chiese a Melian se non potesse trattenerla con i suoi poteri. «Posso far molto per impedire che il male entri» rispose Melian. «Ma nulla per impedire di andarsene a coloro che lo vogliono. È cosa che spetta a te. Se Morwen va trattenuta, fallo con la forza. Ma può darsi che questo le sconvolga del tutto la mente.» E Morwen andò da Niënor e le disse: «Addio, figlia di Húrin. Vado a cercare mio figlio, o almeno notizie attendibili sul suo conto, poiché nessuno qui vuol far nulla, se non starsene con le mani in mano finché sia troppo tardi. Resta qui e aspetta, forse ritornerò». Niënor allora, in preda a paura e disperazione, cercò di dissuaderla, ma
Morwen nulla rispose e si ritirò nella sua stanza; e il mattino dopo, montata a cavallo, se ne andò. Ora, Thingol aveva ordinato che nessuno la fermasse né desse l'impressione di sorvegliarla. Ma, non appena Morwen fu partita, raccolse una schiera dei più arditi e più abili tra i custodi delle marche, e li affidò al comando di Mablung. «Seguila immantinente,» gli disse «ma fa' in modo che non si accorga di te. Se però, una volta che sia nelle selve, un pericolo la minacci, mostrati a lei; e se si rifiuta di tornare, difendila meglio che puoi. Vorrei però che alcuni di voi si spingessero più avanti possibile, apprendendo tutto quello che c'è da sapere.» Accadde così che Thingol inviasse una schiera più numerosa di quanto non avesse avuto intenzione di fare inizialmente, e tra loro erano dieci cavalieri con muta di cavalli. Seguirono le tracce di Morwen, la quale si diresse a sud, attraversando il Region, e giunse così alle rive del Sirion, sopra gli Stagni del Crepuscolo; qui si arrestò, perché il Sirion era ampio e veloce, né Morwen conosceva la via. Pertanto, adesso ai suoi custodi convenne mostrarsi; e Morwen chiese: «Thingol intende trattenermi? Oppure s'è deciso in ritardo a mandarmi quell'aiuto che mi aveva negato?». «Una cosa e l'altra» rispose Mablung. «Non vuoi tornare?» «No!» rispose Morwen. «Quand'è così, devo aiutarti,» riprese Mablung «sebbene lo faccia a malincuore. Ampio e profondo in questo punto è il Sirion, e per bestia o uomo è pericoloso passarlo a nuoto.» «Allora portatemi sull'altra riva per la strada che usano gli Elfi, quale che sia» pretese Morwen. «Altrimenti, tenterò di passarlo a nuoto.» Mablung allora la portò sulle rive orientali degli Stagni del Crepuscolo dove, dentro insenature e fra le canne, erano nascoste e sorvegliate imbarcazioni. Era per mezzo di queste infatti che messaggeri collegavano Thingol e la sua gente nel Nargothrond. Attesero fino a ora tarda nella notte stellata, e varcarono il fiume tra le bianche nebbie prima dell'alba. E anche quando il sole sorse rosso da dietro i Monti Azzurri, e un forte vento si levò a disperdere le brume, le guardie proseguirono il cammino sulla riva occidentale, lasciandosi alle spalle la Cintura di Melian. Erano alti Elfi del Doriath, vestiti di grigio e con mantelli che ne coprivano le cotte. Dall'approdo, Morwen stette a guardarli mentre passavano in silenzio, e all'improvviso lanciò un grido, indicando l'ultimo della fila. «Da dove viene costui?» chiese. «Eravate tre volte dieci quando mi ave-
te raggiunta. E a riva siete giunti in tre volte dieci più uno.» Gli altri allora si volsero, e s'avvidero che il sole splendeva su una chioma bionda: si trattava infatti di Niënor, il cui cappuccio era stato tirato indietro dal vento. Ci si rese così conto che aveva seguito il gruppo, unendosi ai cavalieri nel buio, prima che superassero il fiume. Ne rimasero sgomenti, e più di tutti Morwen. «Torna indietro, torna indietro! Te lo ordino!» gridò. «Se la moglie di Húrin può partire, respingendo ogni consiglio, seguendo il richiamo del suo sangue,» replicò Niënor «lo stesso può fare la figlia di Húrin. Cordoglio, mi ha chiamata, ma non intendo piangere da sola il padre, il fratello e la madre. Di loro, te sola ho conosciuto, e ti amo più di chiunque altro. E niente di ciò che tu non temi io temo.» In effetti, né il suo volto né il suo portamento esprimevano paura. Appariva alta e forte, che di grande statura erano quelli della Casa di Hador e, vestita a mo' degli Elfi, si confondeva con i componenti la scorta, essendo più bassa solo dei più imponenti fra loro. «Che intendi fare?» chiese Morwen. «Andare dove vai tu» affermò Niënor. «Ti offro un'unica scelta: ricondurmi indietro e riportarmi sana e salva da Melian, non essendo saggio respingere il consiglio; oppure sapere che, se lo fai tu, anche io andrò ad affrontare il pericolo.» Niënor infatti era venuta soprattutto nella speranza che, indottavi dal timore e dall'affetto per lei, la madre tornasse; e l'animo di Morwen era invero lacerato. «Una cosa è respingere un consiglio» disse. «Ma ben diverso è rifiutarsi a un ordine di tua madre. Torna indietro!» «No» replicò Niënor. «Non sono più una bambina. Ho una volontà mia e so quel che faccio, anche se finora non ti ho mai contrastata. Verrò con te. Preferirei il Doriath per rispetto di coloro che lo governano; ma, in caso contrario, verso occidente! A dire il vero, se una di noi due deve proseguire, quella dovrei essere io che sono nel pieno delle mie forze.» Morwen allora lesse, nei grigi occhi di Niënor, la tenacia di Húrin; ed esitò, e d'altra parte non seppe vincere il proprio orgoglio; e, nonostante le belle parole, non voleva far la figura di una ricondotta indietro dalla figlia perché vecchia e instupidita. «Proseguirò come ho deciso di fare» disse dunque. «Vieni anche tu, ma contro la mia volontà.» «E così sia» concluse Niënor. Disse allora Mablung ai suoi compagni: «Di certo, è per mancanza di
buon senso, non di coraggio, che la gente di Húrin trascina gli altri nei guai! Lo stesso vale per Túrin, anche se così non accadeva con i suoi antenati. Ma eccoli ora tutti condannati, e la cosa non mi piace. Temo più questa missione affidataci dal Re che non la caccia al Lupo. Che fare?». Morwen però, che giunta sulla riva s'avvicinava, udì le sue ultime parole. «Quello che il Re ha ordinato» gli rispose. «Cercare notizie di Nargothrond e di Túrin. È per questo che siamo venuti.» «Ma la strada è ancora lunga e pericolosa» osservò Mablung. «Se volete proseguire, dovete entrambe andare in sella e restare tra i cavalieri, senza allontanarvene di un passo.» E così accadde che per tutto il giorno proseguissero lentamente e cautamente uscendo dalla zona delle canne e dei salici bassi e giungendo ai boschi grigi che coprivano tanta parte della piana meridionale prima del Nargothrond. Per tutta la giornata andarono sempre a ovest, senza scorgere altro che desolazione, e senza nulla udire: le terre infatti erano silenziose, e Mablung aveva l'impressione di una minaccia incombente. Quella stessa strada l'aveva percorsa, anni prima, Beren, e allora i boschi erano pieni degli occhi nascosti dei cacciatori; ora invece, tutta la gente se n'era andata dalle rive del Narog, e pareva che gli Orchi non si spingessero ancora tanto a sud. Quella notte s'accamparono nella grigia foresta, senza fuoco né lume. Continuarono così per altri due giorni, e la sera del terzo da quando avevano lasciato il Sirion, superata la piana, furono vicini alla sponda orientale del Narog. Allora, di una tale inquietudine fu preda Mablung, che implorò Morwen di non proseguire oltre. Lei però rise e disse: «Sarai lieto di sbarazzarti tra poco di noi, come sembra probabile. Ma dovrai sopportarci ancora un po'. Siamo ormai troppo vicine per tornare, impaurite, sui nostri passi». Esclamò allora Mablung: «Siete tutt'e due pazze e temerarie. Voi non aiutate ma anzi ostacolate la raccolta di notizie. E adesso ascoltatemi bene! Ho avuto ordine di non fermarvi con la forza, ma anche di vigilare su di voi nei limiti del possibile. In questa situazione, un'unica cosa posso fare, e sarà di custodirvi. Domani vi condurrò sull'Amon Ethir, la Collina delle Spie, che non è lontana; e là ve ne resterete sotto buona scorta, né proseguirete finché ad avere qui il comando sono io». Ora, l'Amon Ethir era un tumulo grande quanto un colle, che molto tempo prima Felagund aveva fatto erigere con un grande lavoro nella piana
davanti alle sue Porte, a una lega a est del Narog. Era ricoperto di alberi salvo che sulla sommità, donde lo sguardo spaziava ampiamente in tutte le direzioni, e si vedevano le strade che portavano al grande ponte del Nargothrond e le terre tutt'attorno. Giunsero al colle il mattino tardi, salendovi da est. Poi, volgendo lo sguardo verso l'Alto Faroth, bruno e nudo oltre il fiume, Mablung scorse, con la sua elfica vista, le terrazze di Nargothrond sulla ripida sponda occidentale; e un minuscolo buco nero sul versante del colle erano le spalancate Porte di Felagund. Ma non udì suono né scoprì traccia di nemici, e neppure segno alcuno del Drago, salvo le tracce di fuoco attorno alle porte, da lui lasciate il giorno del saccheggio. Tutto era quieto sotto il pallido sole. Pertanto Mablung, come aveva detto, comandò a dieci suoi cavalieri di trattenere Morwen e Niënor sulla cima del colle, restandovi finché egli non fosse tornato, tranne che in caso di grave pericolo: e se questo si fosse profilato, i cavalieri dovevano, circondando Morwen e Niënor, fuggire il più rapidamente possibile a est, verso il Doriath, inviando uno di loro a recare notizie e chiedere aiuto. Con il resto della scorta, Mablung scese poi dal colle; e, giunti sui campi a ovest dell'Amon Ethir, dove gli alberi erano radi, si dispersero, procedendo ciascuno per proprio conto, con prudente decisione, verso le rive del Narog. Mablung si teneva al centro, diretto al ponte, e, giunto che fu all'estremità di esso, lo trovò crollato; e il fiume, profondamente incassato, era ingrossato dalle piogge cadute molto più a nord, e schiumando e rombando correva veloce tra i sassi. Ma lì stava Glaurung, nell'ombra, all'ingresso dell'ampia galleria che conduceva all'interno delle Porte in rovina, e da un pezzo s'era avveduto delle spie, anche se ben pochi occhi della Terra di Mezzo le avrebbero scorte. Ma lo sguardo dei suoi occhi spietati era più acuto di quello delle aquile e giungeva più lontano di quello degli Elfi; e si era avveduto anche che alcuni erano rimasti indietro e se ne stavano sulla cima nuda dell'Amon Ethir. E così, mentre Mablung strisciava tra le rocce, cercando il modo di guadare il fiume tumultuoso passando sulle pietre del ponte crollato, improvvisamente Glaurung s'avventò fuori con un gran getto di fuoco, scivolando nel fiume. Ed ecco che s'udì un immane sibilo ed enormi vapori si levarono, e Mablung e i suoi guerrieri, acquattati nei pressi, furono sommersi da un vapore accecante e da un immondo fetore; e la maggior parte di loro fuggì, cercando di orientarsi alla meno peggio, in direzione della Collina delle Spie. Ma, mentre Glaurung varcava il Narog, Mablung
si scansò e si appiattì sotto una roccia, dove rimase, sembrandogli che la sua missione non fosse ancora compiuta. Se infatti ora sapeva che Glaurung dimorava nel Nargothrond, aveva avuto anche ordine di sapere, se possibile, come stavano le cose con il figlio di Húrin. E, nella fermezza del suo cuore, si propose pertanto di varcare il fiume non appena Glaurung se ne fosse andato, per recarsi a esplorare le aule di Felagund. Pensava infatti che tutto il possibile fosse stato fatto per la salvezza di Morwen e Niënor: ci si sarebbe di certo accorti di Glaurung, e ormai i cavalieri dovevano essere in corsa alla volta del Doriath. Glaurung dunque superò Mablung, vasta forma nella nebbia; e procedeva in fretta, poiché era un enorme Verme, e tuttavia agile. E scomparso che fu, Mablung guadò il Narog con grave rischio; ma coloro che vigilavano sull'Amon Ethir s'avvidero del Drago, e ne furono sgomenti. Subito ordinarono a Morwen e Niënor di balzare in sella senza discutere, preparandosi a fuggire verso est, secondo gli ordini ricevuti. Ma, nel momento in cui, scesi dal colle, giungevano alla piana, ecco un vento maligno spingere verso di loro gli immani vapori, con un lezzo al quale nessun cavallo poteva reggere. E, accecati dalla nebbia, resi folli di terrore dal sentore di drago, i cavalli s'imbizzarrirono e presero a correre alla disperata di qua e di là; e le sentinelle furono disperse, e cozzarono ferendosi contro gli alberi, invano cercandosi a vicenda. I nitriti dei cavalli e le grida dei cavalieri giunsero all'orecchio di Glaurung, il quale assai se ne rallegrò. Uno dei guerrieri elfici, che nella nebbia era alle prese con il suo destriero, vide passargli accanto dama Morwen, una forma grigia su un corsiero impazzito; ma sparì nella nebbia, gridando «Niënor», né più la videro. E mentre il cieco terrore s'impadroniva dei cavalieri, il destriero di Niënor, correndo all'impazzata, incespicò, sbalzandola di sella. Niënor cadde sull'erba e restò incolume; ma, rialzatasi, si ritrovò sola, sperduta nella nebbia, senza più né cavallo né compagni. Il cuore però non le venne meno, ed essa rifletté con calma; e le parve vano muovere alla volta di queste o quelle grida, che si levavano tutt'intorno a lei, sia pure sempre più deboli. Le parve più opportuno ritornare al colle, dove senza dubbio Mablung sarebbe a sua volta tornato prima di andarsene, non fosse che per assicurarsi che nessuno dei suoi v'era rimasto. E così, procedendo a caso, ritrovò il colle, che in effetti era vicinissimo, e sentì il terreno salire sotto i suoi piedi; e lentamente ripercorse il sentiero che conduceva alla cima sul versante orientale. E più saliva, più la nebbia si diradava, finché si ritrovò in pieno sole, sulla nuda sommità. Avanzò di
qualche passo e guardò verso ovest. E lì, proprio di fronte a lei, era la grande testa di Glaurung, giuntovi in quella dall'altra parte; e prima di esserne consapevole, i suoi occhi s'imbatterono in quelli dello spirito immondo, ed erano terribili, pieni del funesto spirito di Morgoth suo padrone. Niënor allora lottò contro Glaurung, poiché forti erano la sua volontà e il suo cuore; ma egli le oppose tutto il suo potere. «Che vai cercando?» le domandò; e, costretta a rispondere, Niënor disse: «Sto semplicemente cercando un certo Túrin che un tempo ha dimorato qui. Ma forse è morto». «Non lo so» fece Glaurung. «Era rimasto qui a difendere le donne e i deboli; ma quando io sono venuto li ha abbandonati ed è fuggito. Un millantatore, ma anche un pusillanime, a quel che sembra. Perché cerchi uno così?» «Menti» ribatté Niënor. «I figli di Húrin per lo meno non sono vili. Non ti temiamo.» Rise allora Glaurung, perché così facendo la figlia di Húrin era esposta alla sua perfidia. «Vuol dire che siete stolti tutti e due, tu e tuo fratello» disse. «E inutili saranno le vostre vanterie. Perché io sono Glaurung.» Poi ne attirò lo sguardo, e la volontà di Niënor cedette. E le parve che il sole sbiadisse, e tutto attorno a lei si oscurasse; e lentamente una grande tenebra le calò addosso, e in essa v'era il vuoto; nulla più sapeva, nulla più udiva, nulla più ricordava. A lungo Mablung esplorò le aule di Nargothrond, per quanto glielo permettessero il buio e il fetore. Ma non vi trovò creatura vivente: nulla si muoveva tra le ossa, nessuno rispose alle sue grida. Alla fine, oppresso dall'orrore del luogo, e temendo il ritorno di Glaurung, tornò alle Porte. Il sole stava tramontando, e le ombre del Faroth alle sue spalle si proiettavano scure sulle terrazze e sul fiume in piena ai loro piedi; ma laggiù lontano, alla base dell'Amon Ethir, gli parve di scorgere la mala forma del Drago. Più faticoso e periglioso fu il ritorno di là dal Narog per Mablung pungolato dalla fretta e dal timore; e aveva appena toccato la riva orientale, e scivolava di lato sotto l'argine, quand'ecco avvicinarsi Glaurung. Adesso, però, questi era lento e cauto, perché i fuochi in lui si erano attenuati: grande era il potere cui aveva dato fondo, e adesso aveva bisogno di riposarsi e dormire al buio. E così serpeggiò nelle acque e scivolò verso le Porte come un'enorme biscia color cenere, insozzando il suolo con il ventre. Ma prima di sparire, si volse a guardare verso est, e da lui uscì la risata di Morgoth, debole ma orribile, quale un'eco di perfidia che venisse da
buie profondità lontane. E poi se ne udì la voce, fredda e bassa: «Te ne stai come un sorcio sotto l'argine, Mablung il possente! Male hai condotto la missione di Thingol. Affrettati al colle e vedrai che ne è stato di coloro che ti erano affidati!». Poi Glaurung penetrò nella tana, e il sole tramontò, e grigia la sera scese, e fredda sulla terra. Mablung tornò di corsa all'Amon Ethir, e mentre saliva le stelle spuntarono a oriente. E sul loro sfondo vide immobile, nera, una figura che sembrava di pietra. Così stava Niënor, e nulla udì di ciò che egli diceva, nulla gli rispose. Ma quando alla fine Mablung la prese per mano, si mosse e si lasciò condurre; e se egli la teneva a quel modo, lei lo seguiva, ma se la lasciava andare si fermava. Grande fu allora il dolore e lo stupore di Mablung; ma non gli restava altra scelta di condurre a quel modo Niënor per tutta la lunga strada verso est, senza aiuto né compagnia. E così andavano, camminando come trasognati, per la piana ammantata dalla notte. E quando spuntò il mattino, Niënor incespicò, cadde e rimase immobile. E Mablung le si sedette accanto disperato. «Non per nulla temevo questa missione» si disse. «Ed essa sarà la mia ultima, a quel che sembra. Insieme a quest'infelice figlia di Uomini, perirò nella desolazione, e il mio nome sarà oggetto di dileggio nel Doriath, sempreché del nostro destino si sappia qualcosa. Tutti gli altri, è chiaro, sono stati uccisi, e lei sola risparmiata, ma non certo misericordiosamente.» Vennero così ritrovati da tre sbandati fuggiti dal Narog all'arrivo di Glaurung e che, dopo lungo peregrinare, diradatasi la nebbia, erano tornati al colle; e, vistolo deserto, avevano ripreso la via di casa. La speranza allora rinacque in Mablung; e si rimisero insieme in cammino, volgendo a nord e a est, non essendovi strada per ritornare al Doriath dal sud e, in seguito alla caduta di Nargothrond, ai custodi del traghetto era proibito di portare chiunque sulla riva opposta, a meno che non provenisse dall'interno. Lento fu il loro cammino, come potrebbe essere di chi porti un debole bambino. Ma, mentre s'avvicinavano al Doriath, un po' alla volta le forze tornarono a Niënor, che un'ora dopo l'altra proseguiva obbediente, sempre condotta per mano. Ma nulla vedevano i suoi occhi sbarrati, le sue orecchie non udivano suono, le sue labbra non pronunciavano parole. E finalmente, dopo molti giorni, furono nei pressi del confine occidentale del Doriath, un po' a sud del Teiglin. Intendevano infatti superare le barriere della piccola contrada di Thingol di là dal Sirion, giungendo così al
ponte custodito nei pressi della confluenza dell'Esgalduin. Quivi fecero tappa; e distesero Niënor su un letto d'erba, e Niënor chiuse gli occhi come fino a quel momento non aveva fatto, e parve che dormisse. Allora anche gli Elfi si riposarono, e la stanchezza li rese noncuranti. Accadde così che venissero assaliti di sorpresa da una banda di Orchi in caccia, di quelle che ormai scorrazzavano liberamente nella regione, osando persino avvicinarsi alle barriere del Doriath. Nel pieno della mischia, d'un subito Niënor balzò dal giaciglio d'erba, come chi si ridesti dal sonno a un allarme notturno, e con un grido fuggì nella foresta. Si volsero allora gli Orchi a inseguirla, e dietro gli Elfi. Ma uno strano mutamento si verificò in Niënor, che tutti li distanziò, fuggendo come una cerva tra gli alberi, i capelli svolazzanti nel vento della corsa. Ben presto Mablung e i suoi compagni raggiunsero gli Orchi, e tutti li uccisero a uno a uno, continuando poi l'inseguimento. Ma ormai Niënor era scomparsa, quasi fosse un fantasma; e non la si rivide né se ne trovò più traccia, ancorché per molti giorni la cercassero. Alla fine Mablung tornò nel Doriath, curvo sotto il peso del dolore e della vergogna. «Trovati un nuovo capo dei tuoi cacciatori, signore,» disse al Re «perché io sono disonorato.» E Melian allora: «Non è vero, Mablung, hai fatto tutto ciò che potevi, e nessun altro tra i servi del Re avrebbe potuto fare altrettanto. Ma sfortuna ha voluto che ti trovassi alle prese con un potere troppo grande per te: troppo grande, anzi, per tutti coloro che oggi vivono nella Terra di Mezzo». «Ti ho spedito alla ricerca di notizie, e le hai raccolte» soggiunse Thingol. «Non è colpa tua se coloro ai quali esse soprattutto interessano sono ormai lontani. Triste invero è la fine di tutti i familiari di Húrin, ma non è a te che ne va attribuita la colpa.» Ora, infatti, non soltanto l'insensata Niënor si era persa nelle selve, ma anche Morwen era scomparsa. Né allora né in seguito notizie certe sul suo destino giunsero nel Doriath o nel Dor-lómin. Mablung però non volle darsi pace, e con una piccola compagnia tornò nelle solitudini e per tre anni si spinse lontano, dagli Ered Wethrin alle Bocche del Sirion, in cerca di segni delle disperse o di voci sul loro conto.
CAPITOLO XV NIËNOR NEL BRETHIL Quanto a Niënor, essa corse per il bosco, e all'orecchio le giungevano le grida degli inseguitori; e si stracciò le vesti e le gettò correndo, sì che restò nuda; e per tutto quel giorno continuò a correre, come una bestia braccata fino a che non le scoppi il cuore, e che non osi né fermarsi né tirare il fiato. Ma la sera, all'improvviso, la follia le passò. Rimase immobile per un istante, come meravigliata, e quindi, in un accesso di totale sfinimento, cadde come folgorata in un fitto di felci. E lì, tra le vecchie piante e i nuovi getti della primavera, ristette e dormì, indifferente a tutto. Il mattino si svegliò e si allietò della luce come chi apra gli occhi alla vita; e ogni cosa che vedeva le sembrava nuova e strana, e ne ignorava il nome perché dietro di lei si estendeva solo una vuota tenebra, attraverso la quale non le giungeva memoria di nulla da lei conosciuto, né eco di parola che fosse. Un'ombra di paura, ecco tutto ciò che rammentava, e pertanto stava sul chi vive, continuamente alla ricerca di nascondigli: s'arrampicava sugli alberi o s'infrattava, veloce come uno scoiattolo o una volpe, se un suono o un'ombra la spaventavano; e di là a lungo stava a spiare tra le foglie, prima di decidersi a uscirne. E così fu che, continuando per la via che aveva iniziato di corsa, giunse al fiume Teiglin dove placò la propria sete; ma cibo non ne trovò, né sapeva dove cercarne, ed era affamata e infreddolita. E poiché gli alberi di là
dall'acqua sembravano più fitti e più bui (e lo erano davvero, essendo quello il margine della Foresta di Brethil), si decise a superare il fiume e, giunta a un verde tumulo, vi si lasciò cadere: era sfinita, e aveva l'impressione che la tenebra che aveva alle spalle stesse per ripiombarle addosso e che il sole si oscurasse. In effetti si trattava di una nera tempesta che proveniva da sud, carica di lampi e di pioggia torrenziale; e lei se ne stette lì, rannicchiata nel terrore del tuono, e la nera pioggia ne frustava la nudità; rimase a guardare senza proferir parola come un animale selvatico in trappola. Ora accadde che certi abitanti dei boschi del Brethil proprio in quell'ora passassero di lì, reduci da un'incursione contro Orchi, affrettandosi verso un vicino ricovero oltre i Guadi del Teiglin; e alla gran luce di un fulmine scorsero lo Haudh-en-Elleth rischiarato come da una bianca fiamma. Allora Turambar, che guidava il gruppo, sussultò e si coprì gli occhi tremante, poiché gli era sembrato di vedere, abbandonato sulla tomba di Finduilas, il fantasma di una fanciulla uccisa. Ma uno dei suoi uomini corse al tumulo e gli gridò: «Vieni, signore! C'è una giovane donna, ed è viva!». E Turambar, accorso, la sollevò, e acqua le gocciava dai capelli zuppi, ma questa chiuse gli occhi percorsa da un brivido, senz'altre reazioni. Allora, meravigliato di vederla così nuda, Turambar le gettò addosso il mantello e la portò al capanno dei cacciatori nel bosco. Ivi accesero un fuoco, l'avvolsero in coperte, e lei riaprì gli occhi e li scrutò; e quando il suo sguardo si posò su Turambar, il volto le si illuminò, ed essa tese la mano verso di lui, perché le sembrò di aver trovato finalmente uno che aveva cercato nelle tenebre, e ne fu confortata. E Turambar le prese la mano, sorrise e disse: «Orsù, signora, non vuoi dirci il tuo nome e qual è la tua gente, e che cosa ti è accaduto?». Allora quella scosse il capo, e nulla disse, ma prese a piangere; e quelli la lasciarono in pace finché non ebbe mangiato avidamente quel po' di cibo che poterono darle. E mangiato che ebbe, sospirò e tornò a posare la mano in quelle di Turambar; e questi disse: «Con noi sei al sicuro. Qui puoi riposarti questa notte, e domattina ti condurremo alle nostre case nell'alta foresta. Vorremmo però sapere il tuo nome e la tua gente, sì che magari la si possa trovare e recare loro tue notizie. Non vuoi dircelo?». Ma di nuovo essa non rispose e pianse. «Non tormentarti!» la esortò Turambar. «Può darsi che il racconto ti sia ancora troppo triste per farcelo. Ma io ti darò un nome, ti chiamerò Níniel, Fanciulla in Lacrime.» E a quel nome essa levò lo sguardo e scosse il capo,
ma ripeté: «Níniel». E fu la prima parola che pronunciò dopo la tenebra in cui era stata immersa, e da allora fu il suo nome tra gli Uomini dei Boschi. Il mattino condussero Níniel alla volta dell'Ephel Brandir, e la strada saliva ripida fino a un luogo in cui bisognava superare la corrente vorticosa del Celebros. Quivi era stato costruito un ponte di legno, al di sotto del quale le acque precipitavano da un margine di sasso consunto e ricadevano per una serie di schiumanti rapide in una conca scavata nella roccia; e l'aria era piena di vapore simile a pioggia. Un vasto prato si stendeva sopra la cascata, e vi crescevano betulle, ma dal ponte lo sguardo spaziava ampiamente sulle gole del Teiglin distante un paio di miglia a occidente. Lì l'aria era sempre fresca, e d'estate i viandanti vi sostavano e bevevano l'acqua fredda. Dimrost, la Scala Piovosa, erano chiamate quelle rapide, ma dopo quel giorno furono dette Nen Girith, Acqua Rabbrividente; giacché Turambar e i suoi uomini vi si fermarono, ma non appena Níniel giunse si fece fredda e tremante, né essi poterono riscaldarla o confortarla. S'affrettarono pertanto a riprendere il cammino; ma, prima che giungessero all'Ephel Brandir, Níniel già vaneggiava in preda alla febbre. A lungo giacque malata, e Brandir fece ricorso a tutta la propria abilità per curarla, e le mogli degli Uomini dei Boschi la accudivano notte e giorno. Ma soltanto quando Turambar le era vicino se ne stava tranquilla o dormiva senza gemere; e questo fu notato da quanti la osservassero; durante tutto il suo stato febbrile, per quanto sovente apparisse sconvolta, mai pronunciò una parola in qualsivoglia lingua degli Elfi o degli Uomini. E allorché la salute lentamente le tornò, ed essa riprese a camminare e a mangiare, ecco che le donne del Brethil dovettero insegnarle a parlare, parola per parola, come si fa con un bambino. Ma ella fu rapida ad apprendere, e ne gioiva come chi ritrovi tesori grandi e piccoli andati smarriti; e quando finalmente ne seppe abbastanza da poter parlare con gli amici, eccola chiedere: «Come chiamate questo? Perché nella mia tenebra l'ho dimenticato». E quando fu nuovamente in condizioni di muoversi da sola, prese ad andare in casa di Brandir, poiché era desiderosissima di conoscere i nomi di tutte le creature viventi, e Brandir molto sapeva in proposito; e insieme passeggiavano per gli orti e le radure. E Brandir se ne innamorò; e riacquistate le forze, questa gli porgeva il braccio per sorreggerlo, zoppo com'era, e lo chiamava suo fratello. Ma il cuore l'aveva dato a Turambar, e solo quando lo vedeva sorrideva, e solo quand'egli si mostrava allegro essa rideva.
Una sera del dorato autunno sedevano assieme, e il sole incendiava il fianco della collina e le case dell'Ephel Brandir, e profondo era il silenzio. Allora gli disse Níniel: «Di tutto e tutti ho chiesto ormai il nome, salvo il tuo. Come ti chiami?». Ed egli: «Turambar». Allora Níniel tacque come se ascoltasse un'eco, poi disse: «E significa qualcosa, o è solo un nome proprio?». «Significa Signore dell'Ombra Scura. Perché anch'io, Níniel, ho avuto la mia tenebra, in cui le cose care si sono perdute; ora però l'ho superata, penso.» «E anche tu ne sei fuggito correndo fino a giungere a questi bei boschi?» domandò Níniel. «E quando ti sei sottratto a essa, Turambar?» «Sì,» le rispose «per molti anni sono fuggito. E mi sono sottratto a essa quando tu l'hai fatto. Perché era buio quando sei venuta, Níniel, ma da quel momento la luce è tornata. E mi sembra che ciò che a lungo e invano ho cercato mi sia giunto.» E nel crepuscolo, tornato alla sua casa, si disse: «Haudh-en-Elleth! Dal verde tumulo Níniel è venuta. È forse un segno, ma come interpretarlo?». Ora, la stagione dorata finì trasformandosi in un mite inverno, e fu un altro anno luminoso. Era pace nel Brethil, e gli abitanti dei boschi stavano tranquilli e non si allontanavano di molto, né giungevano loro notizie dalle contrade circostanti. Infatti gli Orchi, che in quel tempo si spingevano a sud, verso il buio regno di Glaurung, o venivano mandati a spiare le frontiere del Doriath, evitavano i Guadi del Teiglin, procedendo verso ovest ben al di là del fiume. E ormai Níniel era completamente guarita e s'era fatta bella e forte; e Turambar non seppe più resistere e la chiese in moglie. Níniel ne fu lieta; ma quando Brandir lo seppe si sentì stringere il cuore e le disse: «Non aver fretta! Non credermi scortese se ti consiglio di attendere». «Nulla di ciò che tu fai è scortese» replicò lei. «Ma allora perché mi dai questo consiglio, saggio fratello?» E lui: «Saggio fratello? Zoppo fratello, piuttosto, non amato e non amabile. Non lo so di preciso. Pure, su quell'uomo grava un'ombra, e io ho paura». «Gravava un'ombra» precisò Níniel. «Lui stesso me l'ha detto. Ma a essa si è sottratto, come ho fatto io. E non è forse degno di amore? Sebbene ora sia in pace, non è stato un tempo il più grande dei comandanti, di fronte al
quale tutti i nemici fuggivano al solo vederlo?» «Chi te l'ha detto?» domandò Brandir. «Dorlas. Non ha forse detto il vero?» «Ha detto il vero» ammise Brandir, ma ne era dispiaciuto perché Dorlas era il capo della brigata che voleva far guerra agli Orchi. E Brandir continuava a escogitare motivi per ritardare la decisione di Níniel, e disse dunque: «Il vero, ma non l'intera verità; devi sapere infatti che era il Capitano di Nargothrond, e prima era sceso dal Nord e, a quanto si dice, era figlio di Húrin del Dor-lómin della bellicosa Casa di Hador». E Brandir, avvedutosi dell'ombra che a quel nome le era passata sul volto, equivocò e soggiunse: «Invero, Níniel, hai ben ragione di pensare che un uomo del genere ben presto tornerà alla guerra, magari lungi da questa terra. E in tal caso, come potrai reggere? Sta' dunque attenta, perché prevedo che, se Turambar torna alle battaglie, ad avere il sopravvento sarà, non lui, bensì l'Ombra». «Reggerei,» replicò Níniel «ma maritata meglio che nubile. E può darsi che una moglie riesca più facilmente a trattenerlo e a tenere lontana l'Ombra.» Era però turbata dalle parole di Brandir, e pregò Turambar di attendere ancora un poco. Ed egli ne fu meravigliato e avvilito: ma quando seppe da Níniel che era stato Brandir a consigliarle di attendere, ne fu irritato. Giunse la primavera, ed egli disse a Níniel: «Il tempo passa. Abbiamo atteso, ma ora non voglio aspettare dell'altro. Fai come il cuore ti detta, Níniel carissima, ma tieni presente che io ho di fronte a me una scelta: tornare a guerreggiare nelle selve, oppure sposarti e mai più partire in battaglia, salvo che per difendere te, se un male assalisse casa nostra». Allora lei ne fu felice e gli diede parola, e a mezza estate si sposarono; e gli Uomini dei Boschi fecero grande festa, e donarono loro una bella casa che avevano costruito sull'Amon Obel. Quivi Turambar e Níniel vissero felici, ma Brandir era turbato, e l'ombra che gli gravava sul cuore s'infittì.
CAPITOLO XVI L'ARRIVO DI GLAURUNG Ora il potere e la perfidia di Glaurung crebbero rapidamente, ed egli s'ingrassò, e convocò a sé Orchi, e governò quale un Re drago, e tutto quello che era stato il Regno di Nargothrond fu sotto il suo dominio. E prima che l'anno finisse, terzo della dimora di Turambar tra gli Uomini dei Boschi, prese ad assalirne la contrada che per un periodo aveva avuto pace: perché invero era ben noto a Glaurung e al suo padrone che nel Brethil ancora aveva dimora un resto di uomini liberi, gli ultimi delle Tre Casate che sfidavano il potere del Nord. E questo non erano disposti a tollerarlo, essendo proposito di Morgoth di sottomettere tutto il Beleriand e di non lasciarne angolo inesplorato, così che in nessuna tana o nascondiglio fosse chi non era suo schiavo. E dunque, o che Glaurung indovinasse dove Túrin era celato, o che (come certuni sostengono) Túrin per tutto il tempo si fosse davvero sottratto all'occhio del Male ond'era perseguitato, poco importa. Perché alla fin fine i consigli di Brandir dovevano rivelarsi vani, e due scelte soltanto si offrivano a Turambar: starsene con le mani in mano fino a essere trovato e perseguitato come un ratto; o uscire al più presto a dar battaglia, e così rivelarsi.
Ma quando giunsero all'Ephel Brandir le prime notizie della calata degli Orchi, non andò in guerra e cedette alle preghiere di Níniel. Disse infatti questa: «Le nostre case non sono ancora assalite, e certo ti ricordi le tue parole. Dicono che gli Orchi non siano molti, e Dorlas mi ha detto che, prima che tu venissi, incursioni del genere erano tutt'altro che rare, e gli abitanti dei boschi dovevano respingerle». Gli Uomini dei Boschi, però soccombettero perché quegli Orchi erano di una razza feroce, crudeli e astuti, ed erano calati col preciso scopo d'invadere la Foresta di Brethil, non già, come prima, per superarne i limiti diretti poi ad altre imprese, né per cacciare in piccole bande. Sicché, Dorlas e i suoi furono respinti con perdite, e gli Orchi, superato il Teiglin, scorrazzarono in lungo e in largo nei boschi. E Dorlas andò da Turambar, gli esibì le proprie ferite e gli disse: «Vedi, signore, è venuta l'ora in cui la miseria ci piomba addosso dopo una pace illusoria, come io prevedevo. Non avevi tu chiesto di essere considerato uno del nostro popolo, non già uno straniero? E questa minaccia non riguarda anche te? Che le nostre case non rimarranno celate agli Orchi se essi penetrano vieppiù nella nostra terra». Si levò dunque Turambar e ridiede mano alla spada Gurthang e salì in battaglia; e quando gli Uomini dei Boschi lo appresero, assai si rianimarono e gli si radunarono attorno, tanto che poté contare su una forza di molte centinaia. Allora batterono la foresta uccidendo tutti gli Orchi che vi si aggiravano e appiccandoli agli alberi presso i Guadi del Teiglin. E quando una nuova schiera ne mosse contro di loro, la sorpresero in un'imboscata, e gli Orchi, sopraffatti sia dal numero degli abitanti dei boschi sia dal terrore della riapparsa Spada Nera, furono messi in fuga e uccisi in gran numero. Gli uomini eressero poi grandi pire e a mucchi vi bruciarono i cadaveri dei militi di Morgoth, e il fumo della loro vendetta salì nero al cielo, e il vento lo portò all'ovest. E pochi furono gli Orchi che tornarono vivi nel Nargothrond con tali notizie. Allora Glaurung fu preda di grande collera, e tuttavia ancora per qualche tempo rimase immobile, a riflettere su quanto aveva udito. Così l'inverno passò tranquillo, e gli uomini dicevano: «Grande è la Spada Nera del Brethil, tant'è che tutti i nostri nemici sono vinti». E Níniel ne era confortata e gioiva della nomea di Turambar; questi però se ne stava pensieroso, e in cuor suo diceva: «Il dado è tratto. Ora ecco che viene la prova, nella quale il mio vanto avrà conferma o sarà affatto smentito. Più non fuggirò. Voglio essere davvero Turambar, e con la mia volontà e prodezza sopraffare la mia sorte - o cadere. Ma, che io cada o rimanga in piedi, Glaurung almeno lo voglio uccidere».
Ciononostante era inquieto, e inviò uomini coraggiosi a esplorare lontano. Perché, sebbene senza dirlo esplicitamente, egli adesso faceva a modo suo, come se fosse lui il Signore del Brethil, e nessuno prestava orecchio a Brandir. Venne, ricca di speranze, la primavera, e gli uomini cantavano lavorando. Ma quella primavera Níniel concepì, e si fece pallida e smunta, e la sua felicità era offuscata. E ben presto giunsero strane voci dagli uomini che si erano spinti lontano, oltre il Teiglin, di un vasto incendio laggiù nei boschi sulla piana verso il Nargothrond, e ci si chiedeva di che cosa si trattasse. Non passò molto che giunsero altre notizie: che gli incendi procedevano verso il Nord, e che era Glaurung stesso ad appiccarli. Aveva infatti lasciato il Nargothrond, ed era intento a chissà quali imprese. Allora dissero i più insensati e speranzosi: «Il suo esercito è distrutto, e ora finalmente il Verme è rinsavito e torna là donde è venuto». E altri: «Speriamo che passi alla larga da noi». Turambar però non nutriva speranze del genere, ben sapendo che Glaurung veniva a cercare proprio lui. Sicché, pur nascondendo il proprio pensiero a cagione di Níniel, sempre, giorno e notte, rifletteva sul da farsi; e la primavera declinò nell'estate. Giorno venne in cui due uomini tornarono dall'Ephel Brandir in preda al terrore, poiché avevano visto il Grande Verme in persona. «Invero, signore,» dissero a Turambar «ora s'avvicina al Teiglin, e non devia. Giaceva nel bel mezzo di un grande incendio, e tutt'attorno a lui gli alberi fumavano. Il fetore che ne emana è difficile da sopportare. E per tutte le lunghe leghe sino al Nargothrond si stende la sua immonda caligine, in una linea, ci sembra, che senza spostamento alcuno punta dritta su di noi. Che possiamo fare?» «Ben poco,» rispose Turambar «ma su quel poco ho già riflettuto. Le notizie di cui siete latori m'infondono più speranza che timori; perché, se davvero procede diritto, come voi dite, e se non intende deviare, ho un progetto per cuori arditi.» Gli uomini si stupirono poiché al momento null'altro aggiunse; ma la sua fermezza ridiede loro animo. Ora, ecco come si presentava il corso del Teiglin. Al pari del Narog, veloce scendeva dagli Ered Wethrin, dapprima però tra vaste rive, finché, oltre i Guadi, ingrossato da altri rivi, si scavava il letto ai piedi dell'altipiano coperto dalla Foresta di Brethil, e poi correva in profonde gole, le cui ripide pareti erano simili a mura di roccia, e imprigionate al fondo le acque
fluivano con grande violenza e frastuono. E proprio sulla strada di Glaurung si apriva una di queste gole, nient'affatto la più profonda, sì però la più angusta, esattamente a nord della confluenza del Celebros. Turambar pertanto mandò tre uomini arditi a vigilare dall'orlo del burrone i movimenti del Drago; quanto a lui, intendeva spingersi sino all'alta cascata di Nen Girith, dove rapide gli sarebbero giunte le notizie e donde egli stesso avrebbe potuto spaziare con lo sguardo sulle contrade. Prima, però, radunò gli abitanti dei boschi dell'Ephel Brandir, e così parlò loro: «Uomini del Brethil, un pericolo mortale ci minaccia, e solo un grande ardire varrà a stornarlo. Ma, in questa necessità, un gran numero sarebbe di scarso profitto. Dobbiamo usare l'astuzia e sperare nella buona sorte. Se salissimo contro il Drago con tutte le nostre forze, come contro un esercito di Orchi, non faremmo che esporci tutti alla morte, lasciando così senza difesa le nostre spose e i nostri cari. Io dico pertanto che voi dovrete rimanere qui, preparando la fuga, poiché, se Glaurung arriva, vi converrà abbandonare questo luogo e disperdervi più che potete; e così facendo, alcuni la scamperanno e sopravviveranno. È certo infatti che, potendolo, egli distruggerà questo luogo e quant'altro gli capiti sott'occhio. Poi, però, qui non sosterà. Tutti i suoi tesori si trovano a Nargothrond, dove sono le profonde aule nelle quali può vivere al sicuro, e crescere». Ne furono sgomenti gli uomini, ed erano del tutto scoraggiati, poiché confidavano in Turambar e s'erano aspettati parole più ottimistiche. Egli però soggiunse: «No, questa è l'eventualità peggiore, ed essa non si verificherà se il mio progetto e il mio destino sono buoni. Io non credo infatti che codesto Drago sia invincibile, sebbene anno per anno cresca in forza e in perfidia. Di lui so qualcosa. Il suo potere risiede più nel malo spirito che lo abita che non nella forza del suo corpo, per grande che esso sia. Udite infatti quanto mi è stato raccontato da uno che ha combattuto l'anno della Nirnaeth, quando io e gran parte di coloro che mi stanno ad ascoltare eravamo ancora bambini. Su quel campo i Nani gli tennero testa, e Azaghâl di Belegost gli inferse una ferita così profonda, che il Verme fuggì ad Angband. Ma ecco qui una spina più tagliente e lunga del coltello di Azaghâl». E Turambar sguainò Gurthang e se la fece roteare sopra il capo, e agli astanti parve che una fiamma dalla mano di Turambar balzasse in aria per molti piedi. E allora levarono un gran grido: «La Spina Nera del Brethil!». «La Spina Nera del Brethil» confermò Turambar. «E ben dovrebbe temerla. Sappiate infatti che la sorte di codesto Drago (e, dicono, di tutta la
sua stirpe) vuole che, per grande che sia la sua corazza di corno, dura più del ferro, sotto deve accontentarsi di un ventre di serpe. E pertanto, uomini del Brethil, io ora intendo cercare il ventre di Glaurung, e con ogni mezzo possibile. Chi vuol venire con me? Ho bisogno solo di poche braccia forti e cuori ancora più forti.» Allora si fece avanti Dorlas e disse: «Verrò con te, signore, poiché ho sempre preferito andare incontro al nemico che attenderlo». Ma nessun altro rispose all'appello, poiché gravava su di loro la paura di Glaurung, e il racconto degli esploratori che l'avevano visto, essendo corso di bocca in bocca, via via cresceva. Gridò allora Dorlas: «Ascoltatemi, uomini del Brethil! Ormai è manifesto che, per i mali dei tempi nostri, vani erano i consigli di Brandir. Non c'è scampo nel tenersi nascosti. Nessuno di voi vuol prendere il posto del figlio di Handir, sì che la Casa di Haleth non sia coperta di vergogna?». Così Brandir, che sedeva sull'alto seggio del signore dell'assemblea, ma nessuno gli badava, fu umiliato, e il cuore gli si riempì di amarezza perché Turambar non rimproverò Dorlas. Ecco però levarsi un certo Hunthor, parente di Brandir, il quale disse: «Male fai, Dorlas, a parlare così a vergogna del tuo signore, le cui membra per mala sorte non possono fare ciò che il suo cuore vorrebbe. Bada, a te può accadere il contrario! E come si può affermare che i suoi consigli fossero vani, se mai sono stati ascoltati? Tu, suo vassallo, non li hai mai tenuti in conto. E io ti dico che Glaurung adesso ci viene addosso, come prima ha fatto con Nargothrond, perché i nostri atti ci hanno tradito, proprio come Brandir temeva. Ma poiché questa disgrazia è ormai realtà, col tuo permesso, figlio di Handir, io andrò a dar man forte alla Casa di Haleth». Disse allora Turambar: «Tre sono sufficienti. Porterò voi due con me. Ma, signore, io non ti disprezzo. Come vedi, dobbiamo fare in fretta, e il compito che ci attende richiede salde membra. Penso che il tuo posto sia con il tuo popolo, poiché sei saggio e sei un taumaturgo. E può darsi che tra poco qui ci sia bisogno di saggezza e di arte medica». Ma quelle parole, per quanto dette con buone intenzioni, non fecero che amareggiare vieppiù Brandir, il quale disse a Hunthor. «Va' dunque, ma non con il mio consenso. Perché un'ombra grava su quest'uomo, ed egli ti condurrà a perdizione». Ora Turambar non vedeva l'ora di partire: ma quando andò da Níniel per prenderne congedo, lei gli si aggrappò piangendo a calde lacrime. «Non partire Turambar, t'imploro» diceva. «Non sfidare l'Ombra da cui sei fuggito. No, no, continua a fuggire e portami con te, lontano da qui!»
«Níniel carissima,» replicò Turambar «non possiamo fuggire ancora, tu e io. Siamo inchiodati a questa terra. E anche se me ne andassi, abbandonando il popolo che ci è stato amico, non potrei certo portarti nelle selve inabitate, a morte tua e di nostro figlio. Un centinaio di leghe ci separano dalla prima terra che sia fuori dalla portata dell'Ombra. Ma fatti animo, Níniel. Questo infatti ti dico: né tu né io saremo uccisi da codesto Drago, e neppure da qualsiasi nemico del Nord.» Níniel allora cessò di piangere e rimase in silenzio, ma freddo fu il suo bacio di congedo. Poi Turambar, accompagnato da Dorlas e da Hunthor, mosse in gran fretta verso Nen Girith, e vi giunsero che il sole stava tramontando e le ombre allungandosi; mentre i due ultimi esploratori erano lì ad attenderli. «Non arrivi certo troppo presto, signore» dissero costoro. «Il Drago infatti ha continuato la sua avanzata, e già quando noi siamo partiti aveva raggiunto il margine del Teiglin, e fiammeggiava di là dall'acqua. Si muove sempre di notte, e dunque c'è da attendere il suo assalto prima dell'alba di domani.» Turambar volse lo sguardo alle cascate del Celebros, e vide il sole calare e nere spire di fumo levarsi dalle rive del fiume. «Non c'è tempo da perdere» disse. «Ma queste sono buone notizie. Temevo infatti che deviasse; e se si fosse spostato più a nord, muovendo verso i Guadi e quindi verso la vecchia strada nella piana, la speranza sarebbe stata vana. Ma ecco invece che l'orgoglio e la malizia che lo animano lo spingono a precipitarsi in avanti.» Pure, già mentre parlava, tra sé rifletteva e si diceva: «Ma può davvero essere che uno così malvagio e feroce eviti i Guadi, proprio come gli Orchi? Haudh-en-Elleth! Che Finduilas continui a interporsi tra me e il mio destino?». Poi, rivolto ai compagni: «Questo è dunque il compito al quale dobbiamo assolvere. Ci conviene però aspettare ancora un po', perché il troppo presto in questo caso sarebbe sbagliato come il troppo tardi. Quando si farà buio, ci caleremo, in gran segreto, al Teiglin. Attenti, però. Le orecchie di Glaurung sono sensibili quanto i suoi occhi, i quali sono mortiferi. Se senza farci notare raggiungeremo il fiume, dovremo proseguire in fondo alla gola, guadare la corrente e così giungere sulla direttrice che il Drago seguirà muovendosi». «Ma come potrà superare la gola?» chiese Dorlas. «Per agile che sia, è pur sempre un gran Drago, e come farà a calare lungo una parete e a risalire l'altra, quando una parte di lui si troverà ad ascendere prima che l'altra sia discesa del tutto? E se di tanto è capace, a che ci varrà trovarci nella
vorticosa acqua al di sotto?» «Forse è in grado di farlo,» rispose Turambar «e in tal caso ci andrà male. Ma io spero, da ciò che di lui sappiamo, e stando al luogo in cui ora si trova, che il suo proposito sia un altro. È giunto al margine della Cabeden-Aras che, come tu stesso riferisci, una volta un cervo superò d'un balzo fuggendo ai cacciatori di Haleth. E Glaurung è ormai tanto grande che, a mio parere, tenterà di scagliare se stesso al di là. È tutta qui la nostra speranza, e in essa dobbiamo confidare.» A queste parole Dorlas si sentì mancare il cuore, lui che meglio di ogni altro conosceva la terra del Brethil tutta quanta, e la Cabed-en-Aras era davvero un luogo triste. Il suo fianco orientale era una liscia parete di una quarantina di piedi, nuda ma coronata in cima di alberi, e sul lato opposto la riva era un po' meno scoscesa e alta, rivestita di alberi e cespugli ricadenti, e tra l'una e l'altra l'acqua scorreva impetuosa tra rocce; e, se è vero che un uomo coraggioso e dal piede saldo avrebbe potuto guadarlo di giorno, era pericoloso farlo di notte. Ma quello era il parere di Turambar, ed era inutile contraddirlo. Si misero quindi in marcia all'imbrunire, ma non subito alla volta del Drago, bensì prendendo dapprima il sentiero per i Guadi e, a poca distanza da questi, volgendo a sud per un sentiero più stretto e addentrandosi, nella luce incerta, nei boschi sopra il Teiglin. A mano a mano che s'avvicinavano alla Cabed-en-Aras, procedendo passo passo, sovente fermandosi per tendere l'orecchio, più forte si facevano il puzzo di bruciato e un fetore che dava loro la nausea. Tutto però era immerso in un mortale silenzio, senza un alito di vento. Davanti a loro, a oriente, tremolavano le prime stelle, e contro l'ultima luce in occidente si levavano, diritte e non oscillanti, deboli spire di fumo. Andatosene Turambar, Níniel rimase muta come pietra; ma Brandir venne a lei e le disse: «Níniel, non temere il peggio finché non avvenga. Ma non ti avevo consigliato di attendere?». «È vero» rispose lei. «Ma ormai, a che mi varrebbe? L'amore infatti può esserci e far soffrire anche se non si è sposati.» «Questo lo so» convenne Brandir. «Ma il matrimonio non è stato senza frutto.» «È da due mesi che ho concepito» replicò Níniel. «Ma non per questo è più difficile da reggere la paura di una possibile perdita. Non ti capisco.» «Né io capisco me stesso» replicò Brandir. «Ma questo non attenua i
miei timori!» «Bel conforto che sai dare!» insorse lei. «Comunque, Brandir, amico mio, sappi che, sposata o no, madre o nubile, la mia angoscia è insopportabile. Il Padrone del Destino è andato a sfidare la sua sorte lontano da qui, e come potrei io rimanere in attesa di uno stillicidio di notizie, buone o cattive che siano? Questa notte forse si scontrerà con il Drago, e come potrei rimanere in piedi o seduta o trascorrere altrimenti queste ore spaventose?» «Non te lo so dire, so solo che in qualche modo le ore devono passare, per te e per le mogli di coloro che sono andati con lui.» «Che facciano come comanda loro il cuore» esclamò Níniel. «Quanto a me, partirò. Tra me e il pericolo del mio signore non devono interporsi le miglia. Voglio andare incontro alle notizie!» A tali parole, l'angoscia di Brandir divenne insopportabile, ed egli gridò: «Non lo farai se posso impedirtelo, altrimenti renderesti vano qualsiasi proposito. Le miglia che s'interpongono possono significare il tempo di mettersi in salvo, dovessero le cose andar male». «Se le cose vanno male, non fuggirò» ribatté Níniel. «E ormai la tua saggezza è vana, e non mi tratterrà.» E si presentò alla gente ancora raccolta sullo spiazzo dell'Ephel e gridò: «Uomini del Brethil! Non intendo restare qua in attesa. Se il mio signore fallisce, allora ogni speranza sarà vana. La vostra terra e i vostri boschi saranno carbonizzati, le vostre case ridotte in cenere, e nessuno, dico nessuno la scamperà. E quindi, perché indugiare qui? Io ora vado incontro alle notizie e alla sorte, quale che sia, di cui sono latrici. Quelli che come me la pensano, mi seguano!» Molti si mostrarono allora desiderosi di andare con lei: le mogli di Dorlas e di Hunthor perché quelli che amavano avevano seguito Turambar; altri mossi da pietà per Níniel e dal desiderio di darle prova di amicizia; e molti di più attratti dalla fama stessa del Drago, che il loro era ardire o follia (poiché non sapevano abbastanza del male) e pensavano di poter assistere a fatti strani e gloriosi. Tale infatti era la statura che nelle loro fantasie aveva assunto la Spada Nera, da far ritenere a ben pochi che persino Glaurung potesse vincerla. Si misero pertanto subito in marcia in gran numero, verso un pericolo che non comprendevano; e, poiché non si concessero riposo, alla fine giunsero, stanchi, mentre la notte scendeva, alla Nen Girith, da dove poco prima Turambar si era dipartito. Ma la notte è una fredda consigliera, e molti adesso erano stupiti della loro stessa impul-
sività; e allorché, dagli esploratori rimasti sul posto, seppero quanto vicino fosse ormai Glaurung, e quale il disperato proposito di Turambar, sentirono gelo nel cuore e non osarono andare oltre. V'era chi volgeva sguardi ansiosi alla Cabed-en-Aras, ma nulla scorgeva, nulla udiva salvo la fredda voce delle cascate. E Níniel sedeva in disparte, colta da un irrefrenabile tremito. Partita Níniel con quanti l'avevano seguita, Brandir così parlò ai rimasti: «Vedete quanto mi si spregia, e come il mio parere sia ignorato! Che Turambar sia vostro signore anche di nome, dato che già si è impadronito della mia autorità. Qui infatti io rinuncio sia alla signoria che al popolo. E che nessuno più mi venga a cercare per avere da me consigli o cure». E spezzò il suo bastone di comando. Tra sé disse: «Ormai null'altro mi resta, salvo l'amore per Níniel. E quindi, ovunque lei vada, per saggezza o follia, anch'io devo andare. In quest'ora buia, impossibile qualsiasi previsione; può darsi però che possa preservarla da qualche disgrazia, se le sto accanto». Cinse pertanto una corta spada, come di rado in precedenza, prese la gruccia e, quanto più in fretta possibile, uscì dalla porta dell'Ephel, zoppicando dietro gli altri per il lungo sentiero che portava alla marca occidentale del Brethil.
CAPITOLO XVII LA MORTE DI GLAURUNG Alla fine, mentre la notte gravava fitta sulla terra, Turambar e i suoi compagni giunsero alla Cabed-en-Aras, e furono lieti del gran rumore prodotto dalle acque, poiché esso, se minacciava pericolo in basso, copriva però ogni altro suono. Dorlas li condusse un po' lontano dal sentiero, verso sud, dove per un crepaccio si calarono alla base dello strapiombo; lì però il cuore gli venne meno, il fiume essendo irto di rocce e grandi massi, tra i quali l'acqua correva furiosa, e sembrava che arrotasse i denti. «È la via sicura per la morte» disse Dorlas. «È l'unica via per la morte o la vita,» ribatté Turambar «e l'indugio non varrà a renderla meno pericolosa. E quindi, seguitemi!» E prese ad avanzare per primo e, fosse abilità, ardimento o sorte benigna, giunse sull'altra riva, e nella tenebra fitta si volse per vedere chi gli veniva dietro. Accanto a lui, una forma scura. «Dorlas?» chiese. «No, sono io, Hunthor» rispose questi. «Dorlas non ce l'ha fatta. Un uomo infatti può amare la guerra e tuttavia temere molte cose. Penso che sia rimasto a tremare sulla riva; e che possa vergognarsi per le parole che ha rivolto al mio parente.» Allora Turambar e Hunthor si riposarono qualche istante, ma ben presto il freddo della notte li fece rabbrividire, essendo che entrambi erano bagna-
ti da capo a piedi, e cominciarono a cercare un sentiero lungo la corrente in direzione nord, verso il punto dov'era Glaurung. La gola si faceva sempre più buia e più stretta, e procedendo a tentoni scorsero un balenio sopra di loro, come di fuoco che covasse, e udirono il russare del Grande Verme immerso in vigile sonno. S'ingegnarono allora di salire la scarpata per giungere proprio sotto il bordo, su ciò basando tutta la loro speranza di colpire il nemico dov'era indifeso. Ma talmente immondo era adesso il fetore, che ne erano storditi, e salivano scivolando, aggrappandosi agli alberi, e vomitando, nella loro miseria dimentichi di ogni paura salvo quella di precipitare nelle fauci del Teiglin. Disse allora Turambar a Hunthor: «Invano sprechiamo le nostre ormai deboli forze. Perché, accertatici del punto in cui il Drago passerà, sarà inutile arrampicarsi». «Ma quando lo sapremo» osservò Hunthor «ci mancherà il tempo di cercare il modo di risalire dall'abisso.» «Vero» ammise Turambar. «Ma dove tutto è affidato al caso, nel caso conviene fidare.» Si fermarono quindi e attesero, e dal buio della gola videro salire una bianca stella lungo la sottile striscia di cielo; e poi lentamente Turambar sprofondò in un sogno, nel quale tutta la sua volontà era tesa a restare avvinghiato, sebbene una nera marea ne succhiasse e straziasse le membra. All'improvviso fu un gran rumore, e le pareti dell'abisso tremarono ed echeggiarono. Turambar sobbalzò e disse a Hunthor: «Si muove. È giunta l'ora. E colpisci a fondo, perché adesso due devono colpire per tre». E Glaurung iniziò così il proprio assalto contro il Brethil. Tutto andò secondo le speranze di Turambar. Il Drago infatti scivolò, lento e greve, fino all'orlo del burrone, senza deviare, accingendosi a scattare di là dall'abisso con le grandi zampe anteriori, per poi trascinarsi dietro il resto del corpo. E il terrore giunse con lui; perché il Drago non iniziò l'attraversamento esattamente al di sopra dei due acquattati, ma un po' più a nord, e Turambar e Hunthor ne scorsero la sagoma del capo contro le stelle; e le fauci del Drago si spalancarono, ed egli aveva sette lingue di fuoco. Poi emise una vampata, sicché il burrone si riempì di rossa luce e di nere ombre fuggenti tra le rocce; e davanti a lui gli alberi si seccarono ed esalarono in fumo, e massi piombarono nel fiume. Allora il Drago si scagliò in avanti e s'aggrappò al dirupo opposto con i possenti artigli, cominciando a tirarsi dall'altra parte. Ora sì che occorreva essere audaci e veloci, perché, sebbene Turambar e
Hunthor fossero sfuggiti alla vampa, non essendosi trovati sulla direttrice di Glaurung, pure dovevano ancora farglisi sotto prima che passasse al di là, pena altrimenti il fallimento di tutte le loro speranze. Incurante del pericolo, Turambar s'inerpicò lungo il dirupo per giungere sotto di lui; ma lì, così mortiferi erano il calore e il puzzo, che barcollò e sarebbe caduto se Hunthor, il quale bravamente lo seguiva, non l'avesse afferrato per un braccio e sorretto. «Saldo è il tuo cuore!» disse Turambar. «Felice è stata la scelta di te come compagno.» Ma, mentre così parlava, un gran masso precipitò dall'alto e colpì Hunthor al capo, scagliandolo nelle acque, e così finì uno che certo non contava tra i meno valorosi della Casa di Haleth. Esclamò allora Turambar: «Ahimè, porta male procedere nella mia ombra! Perché ho cercato aiuto? Adesso sei solo, Padrone del Destino, come avresti dovuto sapere che non poteva non essere. E da solo ora vinci!». Raccolse quindi le proprie energie, facendo appello a tutto il suo odio per il Drago e il suo Padrone, e gli parve d'un tratto di trovare nel cuore e nel corpo una forza che mai aveva avuto prima; e ascese il dirupo, pietra dopo pietra, radice dopo radice, fino ad afferrarsi a un alberello che spuntava poco sotto il bordo dell'abisso, e le cui radici erano ancora salde, benché la cima ne fosse arsa. E mentre si appollaiava all'incrocio di due rami, l'addome del Drago fu esattamente sopra di lui, per il peso calando fin quasi sul suo capo, prima che il mostro potesse risollevarlo. Pallido e grinzoso era il ventre, e fradicio di un umore grigio al quale aderiva ogni sorta di sudiciume; e ne emanava tanfo di morte. Trasse allora Turambar la Spada Nera di Beleg e l'avventò all'insù con tutta la forza del suo braccio e del suo odio, e la lama mortale, lunga e bramosa, penetrò nel ventre sino all'elsa. Allora Glaurung, avvertendo le fitte della morte, lanciò un urlo tale che tutti i boschi ne furono scossi e le sentinelle alla Nen Girith ne rimasero sgomente. Turambar vacillò come sotto un colpo, e scivolò in basso, e la spada gli fu strappata di mano e restò infitta nel ventre del Drago giacché Glaurung, in un immane spasmo, inarcò tutta la sua massa tremante e la scagliò oltre il burrone, e lì, sull'altra sponda, si contorse urlando, agitando la coda e dibattendosi nell'agonia, devastando tutt'attorno a sé per ampio tratto, e lì infine rimase, tra fumo e rovina, immobile. Turambar stava aggrappato alle radici dell'albero, intontito e quasi sopraffatto. Ma lottando con se stesso si riprese e un po' scivolando e un po' arrampicandosi, calò al fiume, e ancora osò la perigliosa traversata, e stri-
sciando adesso su mani e piedi, aggrappandosi, accecato dagli spruzzi, risalì stancamente la ripa per il crepaccio lungo il quale erano discesi. Giunse così finalmente al Drago morente, e guardò il nemico abbattuto senza pietà, e ne gioì. Lì giaceva adesso Glaurung, le fauci spalancate, ma spenti erano tutti i suoi fuochi, chiusi i suoi occhi perfidi. Se ne stava abbandonato quant'era lungo, rotolato sul fianco, l'impugnatura di Gurthang sporgendogli dal ventre. Allora il cuore si gonfiò in petto a Turambar e, sebbene il Drago ancora respirasse, egli volle recuperare la spada che, se prima gli era cara, adesso valeva per lui tutti i tesori di Nargothrond. Veritiere si erano dimostrate le parole pronunciate mentre veniva forgiata, che nulla e nessuno, grande o piccolo, sarebbe sopravvissuto una volta trafittone. Sul ventre del suo nemico posò dunque il piede e, afferrata l'impugnatura di Gurthang, esercitò tutta la propria forza per estrarla. E gridò, facendosi beffe delle parole pronunciate da Glaurung a Nargothrond: «Salve, Verme di Morgoth! Ben ritrovato! Crepa, adesso, e che ti abbia la tenebra. Così Túrin figlio di Húrin si è vendicato». Strappò a forza poi la spada, e come lo fece ecco che un fiotto di sangue nero sgorgò dalla ferita, schizzandogli sulla mano, e la carne ne fu bruciata dal veleno, sì che Turambar gridò forte per il dolore. Al che Glaurung si mosse e riaprì gli occhi malevoli, e guardò il suo uccisore con tanta perfidia che a Turambar parve di essere stato colpito da una freccia; e per questo e per il dolore alla mano cadde svenuto, e giacque come morto accanto al Drago, al suo fianco la spada. Ora, le urla di Glaurung giunsero alle orecchie di quanti erano alla Nen Girith, riempiendoli di terrore; e quando le sentinelle scorsero da lontano la devastazione e l'incendio provocati dal Drago negli spasmi dell'agonia, credettero che stesse calpestando e sterminando coloro che l'avevano assalito. E allora s'augurarono che le miglia che li separavano fossero più lunghe; pure non osarono abbandonare l'altura su cui si erano radunati, memori delle parole di Turambar, secondo cui, se a spuntarla fosse stato Glaurung, si sarebbe precipitato per prima cosa sull'Ephel Brandir. Attesero dunque, intimoriti, di scorgere segni dei suoi movimenti, ma nessuno fu così ardito da andare a cercare notizie sul luogo dello scontro. E Níniel sedeva affatto immobile, salvo per il tremito che la scuoteva senza che potesse controllarlo; perché, all'udire la voce di Glaurung, il cuore le si era serrato e aveva sentito la tenebra ripiombarle addosso. Così la trovò Brandir, giunto per ultimo, lentamente e a fatica, al ponte
sopra il Celebros: tutta la lunga strada l'aveva percorsa da solo, zoppicando, appoggiandosi alla gruccia, e da casa sua erano almeno cinque leghe. A spronarlo era stato il timore per Níniel, ma le notizie che gli furono date non erano peggiori di quanto avesse temuto. «Il Drago ha passato il fiume» gli dissero gli uomini «e la Spada Nera è certamente morta, e così quelli che l'hanno seguita.» Brandir si accostò allora a Níniel e ne indovinò l'angoscia, e molto se ne angustiò; ma non poté impedirsi di pensare: «La Spada Nera è morta, e Níniel viva». E rabbrividì, poiché d'un tratto gli parve che facesse freddo, lì, accanto alle acque della Nen Girith; e gettò il suo mantello sulle spalle di Níniel, senza però trovare nulla da dire; né lei aprì bocca. Il tempo passava, e Brandir continuava a starle accanto in silenzio, affondando lo sguardo nella notte e tendendo l'orecchio. Ma nulla riusciva a vedere e non gli giungeva suono che non fosse quello delle acque che precipitavano dalla cascata del Nen Girith. E si disse: «Di sicuro Glaurung se n'è andato e si è addentrato nel Brethil». Ma più non provava pietà per la sua gente, quegli stolti che s'erano fatti beffe dei suoi consigli e che l'avevano spregiato. «Che il Drago vada all'Amon Obel, e ci sarà così il tempo di fuggire, di condurre in salvo Níniel.» Dove, non lo sapeva, lui che mai era uscito dal Brethil. Alla fine si chinò a toccare il braccio di Níniel, e le disse: «Il tempo passa, Níniel. Vieni! È ora di andare. Se me lo concedi, ti porto via con me». Lei allora si alzò in silenzio, lo prese per mano e, varcato il ponte, si avviarono per il sentiero che conduceva ai Guadi del Teiglin. E quanti li videro andare come ombre nel buio, non li riconobbero né se ne curarono. Avevano percorso un tratto di strada fra gli alberi silenti, allorché la luna sorse dietro l'Amon Obel, e le radure della foresta si colmarono di grigia luce. Si fermò allora Níniel e chiese a Brandir: «È questa la strada?». E lui: «Ma quale strada? Tutte le nostre speranze nel Brethil sono morte, e non abbiamo strada che non sia fuggire il Drago e andarcene lontano da lui finché siamo ancora in tempo». Níniel lo guardò meravigliata e insistette: «Ma non ti sei offerto di portarmi da lui? Volevi forse ingannarmi? La Spada Nera è il mio amato e mio marito, e solo per trovarlo ti ho seguito. Che ti credevi? Ora fa' come vuoi, ma io devo affrettarmi». E anche se Brandir rimase per un istante sbalordito, già lei s'allontanava; ed egli le gridò dietro: «Aspetta, Níniel! Non andare da sola! Non sai che cosa ti potrebbe capitare! Vengo con te!». Ma lei non gli fece caso, e an-
dava come se dentro le bruciasse il sangue che prima era stato freddo; e, per quanto Brandir si sforzasse di tenerle dietro, ben presto Níniel scomparve alla vista. Allora Brandir maledisse il proprio destino e la propria debolezza, ma non per questo tornò sui suoi passi. Ormai la luna saliva in cielo ed era quasi piena, e quando Níniel dall'altura giunse in riva al fiume, le parve di rammentarsi quella contrada, e ne ebbe paura. Era infatti giunta ai Guadi del Teiglin, e dinanzi a lei, pallida al chiaro di luna, si levava l'Haudh-en-Elleth, con un'ombra nera che la traversava; e da quel poggio spirava un gran terrore. Níniel allora si volse con un grido e fuggì a sud lungo il fiume, e correndo gettò il mantello, quasi a sbarazzarsi dell'oscurità che l'avvinghiava; e siccome sotto era vestita tutta di bianco, passando tra gli alberi splendeva alla luce della luna. E così Brandir, ancora sul pendio, la scorse e s'avviò per tagliarle il passo, sempreché lo potesse; e, per caso imboccato lo stretto sentiero seguito da Turambar, quello che, lasciata la strada più battuta, calava rapido verso sud e il fiume, rieccolo finalmente vicinissimo a lei. Ma, per quanto si sgolasse, Níniel non gli diede retta oppure non lo udì, e ancora una volta scomparve; e in tal modo ambedue andarono avvicinandosi ai boschi tra la Cabed-en-Aras e il luogo in cui agonizzava Glaurung. La luna veleggiava nel cielo meridionale sgombro di nuvole, e spandeva una luce fredda e chiara. Giunta al margine della rovina provocata da Glaurung, Níniel ne scorse il corpo disteso, il ventre grigio nel chiarore; e accanto a lui, un uomo. Dimentica allora di ogni timore, corse per la fumante devastazione e giunse da Turambar, il quale era caduto sul fianco, la spada sotto di lui, il volto pallido come un cadavere nella luce lunare. Allora gli si gettò sopra piangendo e baciandolo; le parve che respirasse debolmente, ma la credette l'illusione di una falsa speranza, poiché Turambar era freddo, non si muoveva, non le dava risposta. E carezzandolo, Níniel s'avvide che aveva la mano annerita come se fosse stata bruciata, e la lavò con le lacrime e, strappandosi un lembo dell'abito, gliela fasciò. Ma Turambar continuò a restare immobile, e Níniel ancora lo baciò, gridando: «Turambar, Turambar, ritorna! Ascoltami! Svegliati! Sono Níniel. Il Drago è morto, è morto, e accanto a te ci sono io sola». Ma, da Turambar, nessuna risposta. La udì gridare Brandir, giunto intanto al margine della rovina; e fece per avviarsi alla sua volta, ma si fermò e ristette immobile. Perché, alle grida di Níniel, Glaurung ebbe un ultimo sussulto, il suo corpo fu percorso da un fremito; e il Drago socchiuse gli occhi malvagi, che balenarono alla luna, e
ansimando parlò e disse: «Salve, Niënor figlia di Húrin. Ci rivediamo, finalmente. Mi congratulo con te che hai trovato tuo fratello. E ora sappi chi è: uno che colpisce nell'ombra, sleale con i nemici, infido con gli amici, e una maledizione per tutti i suoi, questi è Túrin figlio di Húrin! Ma la peggiore delle sue azioni, la sentirai in te stessa.» E Niënor restò seduta, stordita, ma Glaurung morì. E come spirò, il velo della sua perfidia cadde da lei, e tutti i ricordi le tornarono nitidi, giorno dopo giorno, senza che mancasse nulla di tutto ciò che le era accaduto da quando era crollata sull'Haudh-en-Eileth. E tremò in tutto il corpo di orrore e angoscia. Brandir però, che aveva udito le parole del Drago, ne era rimasto annientato, e si appoggiò contro il tronco di un albero. Ed ecco all'improvviso Niënor balzare in piedi e stare, pallida come un fantasma, nella luce della luna, e guardando Túrin gridava: «Addio, due volte amato! A Túrin Turambar turún' ambartanen: Padrone del Destino e dal Destino dominato. Ah, felice tu che sei morto!». Quindi, fuori di sé dal dolore e dall'orrore, corse pazzamente via da quel luogo e Brandir dietro, zoppicando e gridando: «Aspetta, aspetta, Níniel!». Un istante lei si fermò, volgendosi a guardare con occhi sbarrati. «Aspettare?» urlò. «Aspettare? Sempre questo, il tuo consiglio? Ah, t'avessi dato retta! Ma ormai è troppo tardi. E ormai più non voglio aspettare nella Terra di Mezzo.» E corse via veloce davanti a lui. Giunse all'orlo della Cabed-en-Aras, e quivi si fermò fissando l'acqua fragorosa e urlando: «Acqua, acqua! Prendi adesso Níniel Niënor, figlia di Húrin, Cordoglio, Cordoglio figlia di Morwen! Prendimi e portami al mare!». E così dicendo si gettò giù: un lampo bianco inghiottito dal nero abisso, un grido perduto nel fragore del fiume. Le acque del Teiglin continuarono a scorrere, ma Cabed-en-Aras non fu più: Cabed Naermarth, fu da allora chiamata dagli uomini, poiché nessun cervo più provò a saltarla, e ogni essere vivente la evitò. E non v'era uomo che volesse calpestarne le rive. L'ultimo degli uomini ad affondare lo sguardo nella sua tenebra fu Brandir figlio di Handir; ed egli se ne distolse orripilato, poiché s'era sentito mancare il cuore, e sebbene ormai odiasse la propria esistenza non poté darsi lì la morte che desiderava. Quindi il suo pensiero si rivolse a Túrin Turambar, ed egli gridò: «Ti odio o ti compiango? Ma tu sei morto. Non devo alcuna riconoscenza a te che mi hai preso
tutto ciò che avevo o volevo avere. La mia gente però ti è debitrice, ed è giusto che da me sappiano come sono andate le cose». E prese a zoppicare alla volta di Nen Girith, evitando il luogo del Drago con un brivido; e, risalito il ripido sentiero, s'imbatté in un tale che spiava tra gli alberi e che al vederlo si ritrasse; ma al raggio della luna, Brandir lo riconobbe. «Ah, Dorlas!» chiamò. «Quali notizie porti? Come ne sei uscito vivo? E dov'è il mio parente?» «Non lo so» rispose Dorlas scontroso. «Questa sì che è strana» fece Brandir. «Se proprio vuoi saperlo,» riprese Dorlas «la Spada Nera pretendeva che guadassimo le rapide del Teiglin al buio. Ti sembra strano che io non me la sia sentita? Con un'ascia in pugno sono meglio di tanti altri, ma non ho il piede caprino, io.» «Sicché, hanno affrontato il Drago da soli?» chiese Brandir. «Ma che cosa hai fatto quando lui ha ripassato il fiume? Potevi almeno stargli vicino e vedere quel che accadeva.» Dorlas però non rispose, limitandosi a fissare Brandir con occhi di odio. E allora Brandir comprese, all'improvviso rendendosi conto che quell'uomo aveva abbandonato i suoi compagni e che, schiacciato dalla vergogna, si era nascosto nei boschi. «Vergogna a te, Dorlas!» gli disse. «Tu sei l'artefice delle nostre disgrazie, perché sei stato tu a istigare la Spada Nera, ad attirare su di noi il Drago, a mettermi alla berlina, a trascinare Hunthor alla morte, e poi scappi e ti rintani nei boschi!» E mentre così parlava, un altro pensiero gli attraversò la mente, e in preda all'ira soggiunse: «Perché non hai portato notizie? Era il minimo che potessi fare per riscattarti. Se l'avessi fatto, dama Níniel non avrebbe dovuto andarle a cercare da sola, non sarebbe stato necessario che vedesse il Drago e forse ora sarebbe viva. Dorlas, ti odio!». «Tieniti il tuo odio!» ribatté Dorlas. «È altrettanto vano dei tuoi consigli. Per quanto mi riguarda, gli Orchi sarebbero potuti venire ad appenderti nel tuo giardino come uno spaventapasseri. Codardo sarai tu!» E, così dicendo, la vergogna accendendone vieppiù la collera, fece per sferrare un gran colpo a Brandir, e così ebbe fine la sua esistenza, prima che l'espressione di stupore ne lasciasse gli occhi: perché Brandir, tratta la spada, l'aveva colpito a morte. Poi, per un istante, Brandir rimase immobile, tremante, nauseato dal sangue; e, gettata la spada, si volse e riprese il cammino, piegato sulla gruccia.
Giunse alla Nen Girith che la pallida luna era tramontata e già la notte volgeva al termine; il mattino s'annunciava a oriente. La gente che ancora se ne stava rannicchiata accanto al ponte lo vide venire a guisa di grigia ombra nell'alba, e vi fu chi meravigliato gli diede una voce: «Dove sei stato? L'hai vista? Dama Níniel se n'è andata». «Sì, se n'è andata» rispose Brandir. «Andata, andata, e non tornerà più! Io però sono venuto a portarvi notizie. Ascolta, popolo del Brethil, e dì se mai si è udito racconto simile a questo. Il Drago è morto, ma morto è anche Turambar al suo fianco. E sono buone notizie: sì, ambedue sono buone.» Mormorò allora la gente sorpresa da quel discorso, e alcuni lo dissero impazzito; ma Brandir tornò a levare la voce: «Ascoltatemi sino in fondo! Anche Níniel è morta, Níniel la bella che voi amavate, che io più di ogni altro amavo. Si è gettata giù dal Salto del Cervo, e le fauci del Teiglin l'hanno inghiottita. Se n'è andata, odiando la luce del giorno. Perché questo ha appreso prima di fuggire: che entrambi erano figli di Húrin, sorella e fratello. Mormegil, egli era chiamato, e Turambar il nome che si era dato, nascondendo il proprio passato: Túrin figlio di Húrin. Níniel, noi la chiamavamo, ignorandone il passato. Ed era Niënor, figlia di Húrin. Nel Brethil essi hanno portato l'ombra del loro oscuro destino. Qui la loro sorte è piombata, e questa terra mai più sarà libera dal dolore. Non la si chiami più Brethil, e neppure terra degli Halethrim, bensì Sarch nia Hín Húrin, Tomba dei Figli di Húrin!». Allora, sebbene quelli ancora non comprendessero come tanto male potesse essere accaduto, presero a piangere, e alcuni dissero: «Nel Teiglin è una tomba per Níniel, la beneamata, una tomba vi sarà per Turambar, il più valente degli uomini. Non lasciamo che il nostro liberatore giaccia abbandonato sotto il cielo. Andiamo da lui».
CAPITOLO XVIII LA MORTE DI TÚRIN Ora, mentre Níniel fuggiva, Túrin si destò, e gli parve che, dalla profonda oscurità in cui era immerso, gliene giungesse, remoto, il richiamo; ma morto Glaurung, il nero mancamento lo lasciò, ed egli tornò a respirare a fondo, e sospirò, e sprofondò in un sonno di enorme stanchezza. Ma prima dell'alba scese un freddo tagliente, ed egli si agitò nel sonno, l'elsa di Gurthang gli premette contro il fianco, e d'un tratto Túrin riaprì gli occhi. La notte se ne andava, nell'aria era il respiro del mattino; ed egli balzò in piedi, memore della sua vittoria e del bruciore del veleno sulla sua mano. Se la portò agli occhi, la guardò, se ne stupì: era fasciata con un lembo di bianca tela ancora umido, né più gli doleva; e Túrin si chiese: «Perché qualcuno ha sentito il bisogno di medicarmi a questo modo, per poi abbandonarmi qui, al freddo, tra devastazione e il fetore di Drago? Che strane cose sono accadute?». Chiamò allora forte, ma non venne risposta. Attorno a lui tutto nero e tetro, e c'era sentore di morte. Si levò a raccogliere la spada, ed era intatta, nient'affatto offuscato il bagliore del taglio. «Immondo era il veleno di Glaurung,» disse «ma tu, Gurthang, sei più forte di me! Non c'è sangue che tu non beva. Tua è la vittoria. Ma adesso vieni! Devo cercare aiuto. Spossato è il mio corpo, e nelle ossa un fremito di gelo.» Volse le spalle a Glaurung e lo lasciò lì a imputridire; ma, mentre s'al-
lontanava, ogni passo gli riusciva più pesante, e Túrin pensò: «Forse alla Nen Girith troverò uno degli esploratori che mi aspetta. Ah, fossi io subito a casa mia, a sentire la carezza gentile delle mani di Níniel, ben curato da Brandir!». E così alla fine, procedendo stancamente, appoggiandosi a Gurthang, giunse alla Nen Girith nella grigia luce del giorno nascente, e comparve davanti al popolo proprio mentre uomini s'accingevano ad andare a cercare il corpo. Quelli allora arretrarono terrorizzati, credendolo uno spettro senza requie, e le donne gemettero e si coprirono gli occhi. Ma Túrin disse: «No, non piangete, ma rallegratevi! Guardate, non sono forse io vivo? E non ho forse ucciso il Drago che tanto temevate?». Ed ecco che quelli, voltisi a Brandir, gridarono: «Stolto! False erano le tue notizie, secondo le quali Turambar era morto. Non s'era già detto che sei pazzo?» Brandir però era sgomento, e fissava Túrin, gli occhi sgranati per la paura, senza riuscire a proferir parola. Gli disse Túrin: «Dunque, sei stato tu che sei venuto laggiù e mi hai medicato la mano? Certo, però, che ben poco vale la tua arte, se non sai distinguere deliquio da morte». Quindi, rivolto al popolo: «Non parlate così di lui, stolti voi tutti. Chi di voi avrebbe saputo far di meglio? Per lo meno, Brandir ha avuto il coraggio di venire al luogo della battaglia, mentre voi ve ne state qua a piagnucolare! E ora su, figlio di Handir! C'è ancora altro che voglio sapere. Perché sei qui, e con te tutta questa gente che ho lasciato nell'Ephel? Possibile, visto che affronto il pericolo per amor vostro, che non mi si presti ascolto appena ho voltato le spalle? E dov'è Níniel? Posso almeno sperare che non l'abbiate portata qui con voi, ma lasciata dove volevo che restasse, in casa mia, con uomini degni di tal nome a custodirla?». E, come nessuno gli dava risposta: «Orsù, ditemi dov'è Níniel?» gridò. «Lei è la prima che voglio vedere e la prima cui voglio raccontare delle mie gesta nella notte». Ma quelli volsero la faccia altrove, e Brandir si decise finalmente a dire: «Níniel non è qui». «Bene, allora» disse Túrin. «Vuol dire che andrò a casa. Non c'è un cavallo che mi ci porti? Meglio ancora sarebbe un cataletto. Mi sento venir meno dalla stanchezza.» «No, no» disse Brandir in preda all'angoscia. «La tua casa è vuota. Níniel non è là. È morta.» Ma una delle donne, la moglie di Dorlas, che poco amava Brandir, levò
una voce stridula a dire: «Non prestargli attenzione, signore! Gli ha dato di volta il cervello. È arrivato dicendo che tu eri morto e sostenendo che era una buona notizia. Tu invece sei vivo. E allora, perché dovrebbe essere vera questa faccenda di Níniel, che sarebbe morta, e che altro ancora?». Túrin allora si fece addosso a Brandir. «Dunque,» gridò «la mia morte era una buona notizia? Sì, sempre mi hai invidiato Níniel, questo lo sapevo. Adesso è morta, tu dici. E che altro? Che menzogne hai macchinato nella tua malizia, Piedezoppo? Vorresti forse ucciderci con sporche parole, poiché altre armi non sai maneggiare?» Allora la collera scacciò la pietà dal cuore di Brandir, il quale gridò: «Pazzo, io? No, pazzo sei tu, Spada Nera della nera sorte! E con te anche questo stupido popolo. Io non mento! Níniel è morta, morta, morta! Cercala nel Teiglin!». E Túrin ristette, silenzioso e freddo. «Come fai a saperlo?» disse debolmente. «Come l'hai potuto inventare?» «Lo so perché l'ho vista saltare giù» rispose Brandir. «Ma a causarlo sei stato tu. Da te è fuggita, Túrin figlio di Húrin, e si è gettata nella Cabeden-Aras, per non doverti più rivedere. Níniel, Níniel? Macché: Niënor figlia di Húrin!» Allora Túrin lo afferrò e lo scosse, perché in quelle parole aveva udito il passo del suo destino che lo aveva raggiunto ma, in preda a furia e orrore, il suo cuore riluttava come una bestia che, ferita a morte, prima di morire voglia ferire a sua volta chiunque le sia vicino. «Sì, sono Túrin figlio di Húrin» gridò. «Devi averlo capito già molto tempo fa. Ma nulla sai di Niënor mia sorella. Nulla! Essa dimora nel Regno Nascosto ed è al sicuro. È una menzogna escogitata dalla tua mente abbietta, allo scopo di far perdere il senno a mia moglie e adesso a me. Diavolo di uno zoppo: vuoi dunque spingerci entrambi alla morte?» Ma Brandir se ne liberò con uno strattone. «Giù le mani!» gli disse. «Smettila di vaneggiare. Colei che tu chiami tua moglie è venuta da te e ti ha curato, e tu non hai risposto al suo richiamo. Uno però l'ha fatto: Glaurung il Drago, che ritengo vi abbia stregati entrambi per vostra disgrazia. E così ha detto prima di crepare: 'Niënor figlia di Húrin, ecco qui tuo fratello: sleale con i nemici, infido con gli amici, e una maledizione per tutti i suoi, Túrin figlio di Húrin'.» E d'un tratto Brandir fu scosso da una folle risata. «Sul letto di morte, corre voce che gli uomini dicano il vero» blaterò. «E persino un Drago lo fa, a quanto pare! Túrin figlio di Húrin, una maledizione per tutti quelli del tuo sangue e per chiunque ti dia ricovero!»
Allora Túrin diede mano a Gurthang, e una luce feroce era nei suoi occhi. «E che dire allora di te, Piedezoppo?» domandò, parlando lentamente. «Chi le ha detto in segreto, alle mie spalle, il mio vero nome? Chi l'ha esposta alla perfidia del Drago? Chi le era vicino e l'ha lasciata morire? E chi è venuto qui per svelare in gran fretta quest'orrore? Chi adesso se la gode della mia disgrazia? Gli uomini dicono la verità prima della morte? E allora, affrettati a dirla adesso.»
Allora Brandir, letta in volto a Túrin la propria sentenza di morte, restò immobile senza sgomentarsi, sebbene non avesse altra arma che la gruccia, e disse: «Tutto quanto è accaduto sarebbe un lungo racconto, e io sono stanco di te. Ma tu mi calunni, figlio di Húrin. Forse che Glaurung ti ha calunniato? Se mi uccidi, tutti si renderanno conto che non l'ha fatto. Ma non ho paura di morire, perché così potrò andare a cercare Níniel che amavo, e chissà che non la ritrovi oltre il mare». «Cercare Níniel!» urlò Túrin. «No, Glaurung troverai, e insieme macchinerete menzogne. Dormirai con il Verme, il compagno dell'anima tua, e nella stessa tenebra marcirai!» Poi levò Gurthang e la calò su Brandir, uccidendolo. Ma il popolo distolse lo sguardo da quell'atto, e quando Túrin se ne andò dalla Nen Girith, fuggirono da lui terrorizzati. E Túrin s'aggirò per le selve come chi è fuor di senno, ora maledicendo la Terra di Mezzo e la vita tutta degli Uomini, ora chiamando Níniel. Ma quando finalmente la follia e il dolore lo abbandonarono, a lungo stette seduto, a meditare sulle sue azioni, e udì se stesso gridare: «Ella dimora nel Regno Nascosto, ed è al sicuro!». E pensò che ora, sebbene la sua esistenza fosse tutta una rovina, lì doveva andare, essendo che le menzogne di Glaurung lo avevano sempre fuorviato. Si alzò dunque e si recò ai Guadi del Teiglin, e passando presso lo Haudh-en-Elleth gridò: «Caro ho pagato, Finduilas, il fatto di aver dato retta al Drago. Inviami tu un consiglio». Ma mentre così gridava vide dodici cacciatori bene armati che superavano i Guadi, ed erano Elfi; e come gli furono più vicini, ne riconobbe uno, ed era Mablung, capocaccia di Thingol. E Mablung lo salutò dicendogli: «Túrin! Finalmente ci incontriamo. Ti cercavo e sono lieto di rivederti vivo, per quanto gli anni ti siano stati pesanti». «Pesanti!» replicò Túrin. «Sì, come i piedi di Morgoth. Ma se sei lieto di rivedermi vivo, sei l'unico ormai nella Terra di Mezzo. E dunque, perché?» «Perché eri tenuto in grande onore tra di noi;» rispose Mablung «e sebbene tu sia sfuggito a molti pericoli, fino all'ultimo ho temuto per te. Ho assistito all'uscita di Glaurung, e pensavo che avesse assolto al suo malo compitò e stesse tornando dal suo Padrone. Invece, si è diretto verso il Brethil, e in pari tempo ho appreso, da viandanti, che la Spada Nera del Nargothrond era riapparsa da quelle parti, e che gli Orchi evitavano i confini come la morte. Allora mi sono sentito prendere da paura e ho detto: 'Ahimè, ecco che Glaurung va dove i suoi Orchi non osano, a cercare Túrin'. Per questo sono giunto qui al più presto possibile per avvertirti e aiutarti.»
«Presto, ma non presto abbastanza» disse Túrin. «Glaurung è morto.» Allora gli Elfi lo guardarono meravigliati, ed esclamarono: «Tu hai ucciso il Grande Verme! Per sempre lodato sarà il tuo nome tra Elfi e Uomini!». «Non me ne curo» ribatté Túrin. «Perché anche il mio cuore è ucciso. Ma, visto che venite dal Doriath, datemi notizie dei miei. Nel Dor-lómin ho saputo che mia madre e mia sorella erano fuggite nel Regno Nascosto.» Muti stettero gli Elfi, ma alla fine Mablung parlò e disse: «Così hanno fatto invero, l'anno prima della venuta del Drago. E, ahimè, adesso non sono più là!». Allora il cuore di Túrin sobbalzò, poiché aveva uditi i passi della sorte che l'avrebbe perseguitato sino alla fine. «Continua!» gridò. «E in fretta!» «Si sono addentrate nelle selve per cercarti» riprese Mablung. «Era contrario a ogni buon senso, ma hanno voluto partire per Nargothrond quando si è risaputo che la Spada Nera eri tu; e Glaurung era uscito dalla tana, e tutti gli uomini della loro scorta si sono dispersi. Da quel giorno, più nessuno ha visto Morwen; quanto a Niënor, ottenebrata da un incantesimo, è fuggita a nord, nei boschi, come una cerva selvaggia, e si è perduta.» Allora, con stupore degli Elfi, Túrin diede in una risata fragorosa e stridula. «Non è forse, un bello scherzo?» gridò. «Oh, la bella Niënor! Sicché, dal Doriath è corsa verso il Drago, e dal Drago sarebbe venuta a me. Troppa grazia! Bruna come una bacca, era, e scuri i suoi capelli; piccola ed esile come un bambino elfo, impossibile sbagliarsi.» Ne restò sbalordito Mablung, che rispose: «No, ti sbagli. Non era così, tua sorella. Era alta, gli occhi azzurri, i capelli d'oro fino, la versione femminile di Húrin suo padre. Non puoi averla vista!». «Come, Mablung, non potevo?» gridò Túrin. «E perché no? Ah, già, io sono cieco. Non lo sapevi? Cieco, cieco, e fin dall'infanzia brancolo nella nebbia scura di Morgoth! E quindi lasciami! Vattene, vattene, torna nel Doriath, e che l'inverno lo inaridisca. Maledizione a Menegroth! E maledetta la tua cerca! Non mi mancava che questo! E ora scende la notte!» E fuggì da loro veloce come il vento, lasciandoli pieni di stupore e paura. Disse Mablung: «Dev'essere successo qualcosa di strano e spaventoso che noi ignoriamo. Seguiamolo e aiutiamolo, se possiamo: perché ora è pazzo e insensato». Ma Túrin ben presto li distanziò, e giunse alla Cabed-en-Aras, e lì s'arrestò; udì il fragore dell'acqua e constatò che tutti gli alberi, vicini e lontani, erano rinsecchiti, e che le foglie ne cadevano tristemente, come se l'inver-
no fosse sopraggiunto nei primi giorni d'estate. «Cabed-en-Aras, Cabed Naeramarth!» gridò. «Non voglio insozzare le tue acque che hanno lavato Níniel. Perché male sono state tutte le mie azioni, e l'ultima è la peggiore.» Poi sguainata la spada disse: «Salve, Gurthang, Ferro di Morte, tu sola mi rimani! Ma quale signore leale conosci tu, salvo la mano che t'impugna? Nessun sangue ti ripugna! Vuoi bere anche quello di Túrin Turambar? Vuoi uccidermi in fretta?». E dalla lama uscì in risposta una fredda voce: «Sì, voglio bere il tuo sangue, per modo che possa dimenticare il sangue di Beleg mio padrone, e il sangue di Brandir, ucciso ingiustamente. Ti ammazzerò in fretta». Allora Túrin piantò l'impugnatura in terra e si gettò sulla punta di Gurthang, e la nera lama si prese la sua vita. Giunse Mablung, guardò l'orrenda massa di Glaurung che giaceva morto, guardò Túrin e ne fu addolorato, pensando a Húrin quale lo aveva visto alla Nirnaeth Arnoediad e all'atroce sorte di quelli del suo sangue. E, mentre gli Elfi così stavano, uomini scesero dalla Nen Girith per andare a guardare il Drago, e quando s'avvidero della fine toccata all'esistenza di Túrin, piansero e gli Elfi appresero infine la ragione delle parole di Túrin e ne furono sgomenti. Allora Mablung commentò amaramente: «Anch'io son stato coinvolto nella sorte dei figli di Húrin, ed è così accaduto che con le parole uccidessi uno che amavo». Sollevarono poi il corpo di Túrin, e s'avvidero che la sua spada si era spezzata. E così finì tutto ciò che possedeva. Col lavoro di molte mani raccolsero legname ed eressero un'alta pira e fecero un gran fuoco, distruggendo il corpo del Drago, finché non ne rimase che nera cenere, e le ossa le polverizzarono, e il sito del rogo da allora rimase nudo e sterile. Túrin, invece, lo inumarono in un alto tumulo là dove era caduto, e accanto gli misero le schegge di Gurthang. E quando tutto fu compiuto, e i menestrelli di Elfi e Uomini ebbero intonato un lamento, raccontando il valore di Turambar e la bellezza di Níniel, un gran masso grigio venne posto sul tumulo, e su di esso gli Elfi incisero con le rune del Doriath: TÚRIN TURAMBAR DAGNIR GLAURUNGA e sotto scrissero:
NIËNOR NÍNIEL Ma lei lì non era, né mai si seppe dove le fredde acque del Teiglin l'avessero portata. Così finisce il Racconto dei Figli di Húrin, il più lungo di tutti i «lai» del Beleriand. Dopo la morte di Túrin e Niënor, Morgoth liberò Húrin dalla schiavitù per perseguire i suoi scopi malefici. Nel suo vagare, raggiunse la Foresta di Brethil e uscì durante la sera dai Guadi del Teiglin nel luogo in cui era stato bruciato Glaurung e dove vi era una grande pietra sull'orlo del Cabed-Naeramarth. Di ciò che avvenne lì qui si racconta. Ma Húrin non guardò la pietra poiché sapeva che cosa c'era scritto, e i suoi occhi avevano notato che non era solo. Seduta all'ombra del masso vi era una figura umana piegata sulle ginocchia. Sembrava che si trattasse di qualche vagabondo senza tetto, fiaccato dall'età, troppo logorato per prestare attenzione al suo arrivo; ma i suoi stracci erano quel che rimaneva di un abito di donna. Húrin rimase lì in silenzio mentre lei tirò indietro il suo cappuccio sbrindellato e lentamente sollevò il volto, sconvolto e affamato come un lupo a lungo cacciato. Aveva i capelli grigi, un naso appuntito e denti rotti e con la mano ossuta afferrò il mantello sul suo petto. Ma all'improvviso i suoi occhi incontrarono quelli di Húrin e questi la riconobbe. Sebbene essi fossero ora inselvatichiti e pieni di paura, una luce ancora emanava da loro, dura a morire: la luce elfica che molto tempo prima le aveva guadagnato il suo nome, Eledhwen, la più orgogliosa delle donne mortali nei tempi remoti. E Húrin gridò: «Eledhwen! Eledhwen!», e colei che aveva chiamato si alzò e avanzò incespicando. Húrin la prese tra le sue braccia. Ella disse: «Sei arrivato finalmente. A lungo ti ho atteso». Egli replicò: «La strada era scura e io sono arrivato come ho potuto». Ed ella: «Ma è tardi, troppo tardi. Sono perduti». Ed egli disse: «Lo so, ma tu non sei persa». «Quasi» rispose lei. «Sono completamente sfinita. Me ne andrò con il sole. Loro sono perduti.» E si aggrappò al mantello di lui «C'è rimasto poco tempo» continuò «se sai qualcosa, dimmelo! Come ella l'ha trovato?» Ma Húrin non rispose e sedette accanto alla pietra con Morwen nelle sue
braccia; più non proferirono parola. Il sole tramontò e Morwen sospirando strinse la mano di lui e rimase immobile. Allora Húrin seppe che era morta.
GENEALOGIE Bregor
Barahir
Bregolas
Lúthten = Berem Belegund Baragund Tinúvie il Monco figlia di Thingol Rian = Huor Morwen = Húrin del Dor-lómin Eledhwen del Dor-lómin Dior Idril = Tuor Figlia di Turgon Elwing
Túrin
Urwen
Niënor
Eärendil
Elrond Di Gran Burrone
La Casa di Bëor
Finwë'
Fëonor
Sette figli
Fingolfin
Fingon
Turgori
Finarfin
Aredhel Finrod Orodreth Angrod Galadriel = Eòl Aegnor L'ELfo Scuro
Tuor = Idril Della Casa di Hador
Maeglin
Finduilas
Eärendil Elrond di Gran Burrone
I principi del Noldor
APPENDICE (1) L'EVOLUZIONE DEI GRANDI RACCONTI Queste storie, correlate fra loro ma indipendenti, da molto tempo erano emerse dalla lunga e complessa storia di Valar, Elfi e Uomini a Valinor e nelle Grandi Terre; e negli anni che seguirono l'abbandono dei Racconti perduti prima di completarli, mio padre interruppe la composizione in prosa e cominciò a lavorare un lungo poema dal titolo Túrin figlio di Húrin e Glórund il Drago, più tardi cambiato nella versione rivista nei Figli di Húrin. Ciò avveniva all'inizio degli anni Venti quando aveva degli incarichi all'Università di Leeds. Per questo poema impiegò l'antico metro allitterativo inglese (sul tipo del Beowulf e di altra poesia anglosassone) imponendo all'inglese moderno gli schemi rigorosi di accenti e «rime iniziali» osservati dagli antichi poeti: un abilità nella quale raggiunse un alto grado di maestria, in molte modalità diverse, dal dialogo drammatico del Ritorno di Beorhtnoth all'elegia per gli uomini caduti nella battaglia dei Campi del Pelennor. Il poema allitterativo I Figli di Húrin era di gran lunga il più ampio dei suoi poemi in questo metro, oltre duemila versi; e lo concepì in scala così abbondante che, sebbene fosse arrivato non più avanti nella narrazione dell'assalto del Drago a Nargothrond, lo abbandonò. Con tanto altro del Racconto perduto ancora da scrivere, il poema avrebbe necessitato su questa scala di molte altre migliaia di versi; mentre una seconda versione, abbandonata un momento precedente nella narrazione, è di circa il doppio la lunghezza della prima versione fino a quel punto. In quella parte della leggenda dei Figli di Húrin che mio padre raggiunse nel poema allitterativo, la vecchia storia del Libro dei racconti perduti veniva sostanzialmente ampliata ed elaborata. Soprattutto, era a quel punto che emergeva la grande città fortezza sotterranea di Nargothrond e le vaste terre del suo dominio (elemento centrale non solo nella leggenda di Túrin e Niënor, ma nell'intera storia dei Tempi Remoti della Terra di Mezzo), con una descrizione dei terreni coltivati dagli Elfi del Nargothrond che fornisce una rara suggestione delle «arti di pace» nel mondo antico, essendo queste descrizioni poche e molto distanziate. Arrivando a sud lungo il fiume Narog, Túrin e il suo compagno (Gwindor nel testo di questo libro) trovarono le terre vicino all'entrata di Nargothrond, secondo ogni apparenza, deserte:
... essi giunsero in una terra lavorata con cura; attraverso il bosco in boccio e linde lande viaggiarono e svuotati di gente videro i pascoli, le pasture e i prati di Narog gli arati campi dagli alberi avvolti tra le colline e il fiume. Le zappe abbandonate lì gettate nei campi e scale cadute nell'erba alta dei rigogliosi orti; ogni albero lì la sua chioma intricata girava e segretamente li osservava, e le orecchie della mossa erba ascoltavano; e seppure splendesse il sol di mezzodì su terra e foglie, infreddolite avevano le membra. Così i due viandanti giunsero alle porte di Nargothrond, nella gola del Narog: ripidi erano i forti margini dei colli sovrastanti le rapide acque; lì, avvolta dagli alberi, una terrazza splendente ampia e tortuosa, resa liscia dal tempo, sagomata di fronte alle pendici scoscese. Le porte oscure e gigantesche erano incise nel fianco della collina; enormi i loro legni e i pilastri e gli stipiti di pesante pietra. Catturati dagli Elfi, vennero trascinati attraverso il portale che si chiuse dietro di loro: Salda e sonora sui suoi grandi cardini la porta gigantesca con gran fragore sbatté chiudendosi come scoppio di tuono, e spaventosa eco nei vuoti corridoi corse e rombò sotto sconosciute volte; il chiarore calò. Li condussero poi giù per lunghi e tortuosi passaggi nel buio, le guardie guidavano i loro incerti passi, finché la fioca fiamma delle infuocate torce
sfarfallò di fronte a loro, discontinui discorsi come di molte voci in consiglio accalcate ascoltarono mentre s'affrettavano. Alta appariva la volta. Data un'improvvisa svolta, stupiti stettero scorgendo un solenne silente simposio, ove centinaia tacevano nel grande crepuscolo e sotto discoste cupole oscure li aspettavano silenziosi. Ma nel testo dei Figli di Húrin non ci viene detto più di così (p. 160): Poi si alzarono e, partiti da Eithel Ivrin, si avviarono verso sud lungo le rive del Narog, finché furono catturati da esploratori degli Elfi e condotti come prigionieri nella rocca nascosta. E fu così che Túrin giunse nel Nargothrond. Come è accaduto tutto ciò? Cercherò qui di rispondere a questa domanda. Sembra certo, di fatto, che tutto quanto mio padre scrisse del suo poema allitterativo su Túrin lo fece a Leeds, abbandonandolo alla fine del 1924 o all'inizio del 1925; ma perché lo abbia fatto non si sa. Quello cui si dedicò, però, non è un mistero: nell'estate del 1925 s'imbarcò nella creazione di un nuovo poema con una metrica completamente differente, in distici octosillabici in rima, intitolato Il Lai di Leithian «liberazione dalla schiavitù». Così riprese un altro dei racconti che, anni dopo, nel 1951, come ho già evidenziato, descrisse come del tutto compiuto, a sé stante, sebbene collegato alla «storia generale»; infatti, il tema del Lai di Leithian è la leggenda di Beren e Lúthien. Lavorò a questo secondo lungo poema per sei anni e poi lo abbandonò nel settembre 1931, avendo scritto più di 4000 versi. Come succede per l'allitterativo I Figli di Húrin, che a esso seguì e di cui prese il posto, questo poema rappresenta un sostanziale passo avanti nell'evoluzione della leggenda, a partire dall'originale Racconto perduto di Beren e Lúthien. Mentre Il Lai di Leithian era in lavorazione, nel 1926, egli scrisse una Breve esposizione della mitologia, espressamente rivolta a R.W. Reynolds, che era stato suo insegnante alla King Edward School di Birmingham, «per spiegargli la tela di fondo della versione allitterativa di Túrin e il Drago». Questo breve manoscritto, che stampato raggiunge le venti pagine circa, era dichiaratamente redatto come una sinossi, al tempo presente e in stile
sintetico. Eppure, si trattava di un punto di partenza delle successive versioni del Silmarillion (sebbene il nome non fosse ancora stato dato). Ma, mentre l'intera creazione mitologica era già in questo testo, il racconto di Túrin conserva, evidentemente, la sua posizione di preminenza; in realtà, il titolo nel manoscritto è Breve esposizione della mitologia con speciale riferimento ai «Figli di Húrin», mantenendo così lo scopo per cui era stato scritto. Nel 1930 seguì un lavoro molto più sostanzioso, il Quenta Noldorinwa (la Storia dei Noldor, giacché la storia degli Elfi Noldorin è il tema centrale del Silmarillion). Questo derivava direttamente dalla Breve esposizione e, mentre ampliava di molto il precedente testo utilizzando una scrittura più rifinita, mio padre, ciononostante, considerava ancora il Quenta un lavoro di sintesi, un sommario di creazioni narrative ben più ricche, come è, a ogni modo, chiaramente dimostrato dal sottotitolo che gli diede, nel quale dichiarava trattarsi di «una breve storia [dei Noldor] derivata dal Libro dei racconti perduti». Si deve tener presente che, a quel tempo, il Quenta rappresentava (anche se solo attraverso una scarna struttura) il «mondo immaginario» di mio padre nella sua totalità. Non si trattava della storia della Prima Era, come divenne più tardi, poiché non v'erano ancora né la Seconda né la Terza Era; non c'era Númenor, né gli Hobbit, e naturalmente non v'era alcun Anello. La storia terminava con la Grande Battaglia nella quale Morgoth veniva finalmente sconfitto dagli altri Dei (i Valar), e da loro «spinto attraverso la Porta della Notte Senza Tempo dentro il Vuoto, oltre le Mura del Mondo»; e mio padre scrisse alla fine del Quenta: «Questa è la fine dei racconti dei giorni precedenti a quelli nelle regioni settentrionali del mondo occidentale». Pertanto, sembrerebbe strano davvero che il Quenta del 1930 fosse, ciò non di meno, l'unico testo completo (dopo la Breve esposizione) del Silmarillion che egli avesse mai scritto. Ma, come spesso accadeva, le pressioni esterne ebbero il loro effetto sull'evoluzione di questo lavoro. Il Quenta fu seguito più tardi, negli anni Trenta, da una nuova versione in un bel manoscritto, che recava finalmente il titolo Quenta Silmarillion, storia dei Silmaril. Questo era, o sarebbe stato, molto più lungo del precedente Quenta Noldorinwa, ma la creazione del lavoro essenzialmente come sintesi dei miti e delle leggende (essi stessi di natura e portata completamente differenti se raccontati in toto) non era affatto persa e viene di nuovo definita nel titolo: «Il Quenta Silmarillion... Si tratta di una breve storia tratta da molti racconti più vecchi, giacché tutta la materia che con-
tiene era vecchia e ci sono ancora gli Eldar dell'Occidente, raccontati in modo più esteso in altre storie e canzoni». Sembra per lo meno probabile che l'idea di mio padre del Silmarillion derivasse in effetti dal fatto che ciò che può essere chiamata la «fase Quenta» del lavoro negli anni Trenta iniziò con una sinossi condensata che aveva uno scopo particolare, ma che poi venne ampliata e raffinata in stadi successivi finché non perse il carattere della sinossi, conservando però, della forma originale, una caratteristica «uniformità» di tono. Ho scritto altrove che «la compendiosa o schematica forma del Silmarillion, con le sue allusioni all'età della poesia e alle 'leggende', evoca fortemente un senso di 'racconti non raccontati', persino quando questi vengono raccontati; la 'distanza' non viene mai persa. Non v'è urgenza narrativa, né pressione o timore dell'evento immediato o sconosciuto. Non si percepiscono, in realtà, i Silmaril come succede con l'Anello». Ciononostante, il Quenta Silmarillion in questa forma, come si scoprì poi, ebbe all'improvviso la sua fine decisiva nel 1937. Lo Hobbit fu pubblicato da George Alien e Unwin il 21 settembre di quell'anno e, non molto tempo dopo, su invito dell'editore, mio padre inviò diversi dei suoi manoscritti che furono consegnati a Londra il 15 novembre 1937. Tra questi vi era il Quenta Silmarillion fino a dove arrivava in quel momento, terminando nel bel mezzo di una frase a piè di pagina. Ma, mentre non l'aveva più tra le mani, mio padre continuò la sua narrazione in forma di abbozzo sino ad arrivare alla fuga di Túrin dal Doriath e alla sua scelta di vita da bandito: Superando i confini del regno, raccolse attorno a sé una compagnia di gente così raminga e disperata che poteva incontrarsi in quei brutti giorni mentre si aggirava nel bosco, e le loro mani si volgevano contro tutti quelli che attraversavano il loro cammino, fossero essi Elfi, Uomini o Orchi. Questo è il precedente del passaggio che si trova in questo libro alla pagina 98 all'inizio di «Túrin fra i fuorilegge». Mio padre era arrivato fino a queste parole quando il Quenta Silmarillion e gli altri manoscritti gli furono restituiti; e tre giorni dopo, il 19 dicembre 1937, egli scrisse ad Alien e Unwin: «Ho completato il primo capitolo di una nuova storia sugli Hobbit: 'Una festa a lungo attesa'». È stato a questo punto che la tradizione ininterrotta e in itinere del Silmarillion nella
sintesi stile Quenta giunse al termine, arrestato nel bel mezzo della partenza di Túrin dal Doriath. La successiva storia da quel punto in poi rimase, negli anni a seguire, nella forma semplice, compressa e ancora da sviluppare del Quenta del 1930, congelato così com'era, mentre le grandi strutture della Seconda e Terza Era emersero con la scrittura del Signore degli Anelli. Ma quella ulteriore storia era di fondamentale importanza nelle antiche leggende, poiché i racconti conclusivi (derivanti dall'originale Libro dei racconti perduti) narravano della disastrosa storia di Húrin, padre di Túrin, dopo che Morgoth lo aveva liberato, e della rovina dei regni elfici del Nargothrond, Doriath e Gondolin, dei quali Gimli cantò nelle miniere di Moria molte migliaia di anni dopo. Il mondo era bello, alte le montagne nei Tempi Remoti prima della caduta di potenti re nel Nargothrond e a Gondolin, che ora oltre i Mari Occidentali hanno cessato di esistere... E questo sarebbe stata la corona e il completamento del tutto: il destino degli Elfi Noldorin nella lunga lotta contro il potere di Morgoth, e i ruoli che Húrin e Túrin ebbero in quella storia; per finire con il racconto di Eärendil che fuggì dalle rovine in fiamme di Gondolin. Quando, molti anni più tardi, nei primi anni Cinquanta, Il Signore degli Anelli fu terminato, mio padre si dedicò con energia e fiducia alla «Materia dei Tempi Remoti», adesso divenuta la «Prima Era», e negli anni immediatamente successivi rispolverò molti vecchi manoscritti che da tempo giacevano da parte. Occupandosi del Silmarillion, mio padre riprese il bel manoscritto del Quenta Silmarillion con correzioni e aggiunte; ma quella revisione cessò nel 1951, prima che arrivasse al punto della storia di Túrin dove il Quenta Silmarillion fu abbandonato nel 1937 con l'avvento della «nuova storia degli Hobbit». Iniziò una revisione del Lai di Leithian (il poema in rima che racconta la storia di Beren e interrotto nel 1931) che presto divenne quasi un nuovo poema, di ben più grande perfezione; ma ciò andò scemando e venne infine abbandonato. S'imbarcò in quello che sarebbe diventato una lunga saga
di Beren e Lúthien in prosa, basata soprattutto sulla forma riscritta del Lai; ma anche questa fu abbandonata. Dunque il suo desiderio, che realizzò in successivi tentativi, di dare al primo dei «grandi racconti» un rilievo maggiore non riuscì mai a concretizzarlo. E da allora riprese anche il «grande racconto» della caduta di Gondolin, ancora esistente soltanto nel Racconto perduto di trentacinque anni prima e nelle poche pagine a esso dedicate nel Quenta Noldorinwa del 1930. Questa sarebbe stata la presentazione, quando era al massimo della sua potenza creativa, sotto il profilo narrativo e nei relativi aspetti, dello straordinario racconto che aveva letto alla Essay Society del suo college di Oxford nel 1920, e che rimase, nel corso di tutta la vita, un elemento vitale nella sua immaginazione dei Tempi Remoti. Lo speciale collegamento con il racconto di Túrin sta nei fratelli Húrin, padre di Túrin, e Huor, padre di Tuor. Húrin e Huor in giovinezza erano entrati nella città elfica di Gondolin, nascosta all'interno di una cerchia di alte montagne, come si dice nei Figli di Húrin (p. 33); e più avanti, nella Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, si incontrarono di nuovo con Turgon, Re di Gondolin, che disse loro (p. 51): «Ormai Gondolin non può più rimanere celata a lungo e, una volta scoperta, non potrà che cadere». E Huor replicò: «Eppure, se resiste ancora un po', ecco che dalla tua Casata verrà la speranza degli Elfi e degli Uomini. Questo è quel che ti dico, o signore, ora che sono al cospetto della morte: sebbene qui ci si debba separare per sempre e mai più rivedrò le tue bianche mura, da te e da me sorgerà una nuova stella». Questa profezia si avverò quando Tuor, primo cugino di Túrin, giunse a Gondolin e sposò Idril, figlia di Turgon; e il loro figlio fu Eärendil, la «nuova stella», «speranza degli Elfi e degli Uomini», che fuggì da Gondolin. Nella saga in prosa di quella che sarebbe stata La Caduta di Gondolin, iniziata probabilmente nel 1951, mio padre raccontò il viaggio di Tuor e del suo compagno elfico Voronwë, che lo guidò; e lungo la strada, da soli nelle selve, udirono un grido nel bosco: E mentre aspettavano uno venne fuori da dietro gli alberi e videro trattarsi di un uomo alto, armato, in nero, con una lunga spada sguainata; ed essi erano meravigliati, giacché anche la lama della spada era nera, ma il taglio baluginava ed era freddo.
Quegli era Túrin, che correva via dal saccheggio di Nargothrond (p. 183); ma Tuor e Voronwë non gli parlarono quando questi passò e «non sapevano che Nargothrond era caduta e che questi era Túrin, figlio di Húrin, la Spada Nera. Perciò, solo per un momento, e mai poi in seguito, il cammino di questi due parenti, Túrin e Tuor, s'intrecciò». Nel nuovo racconto di Gondolin, mio padre portò Tuor sulla sommità dei Monti Cerchianti dal quale l'occhio poteva scorgere la piana fino alla Città Nascosta; e lì, mestamente, si fermò e non andò oltre. E così, anche nella Caduta di Gondolin, non riuscì nel suo scopo; e non ritroviamo più avanti né Nargothrond né Gondolin. Ho detto da qualche altra parte che «con il completamento della grande 'intrusione' e l'avvio del Signore degli Anelli, sembra che mio padre sia ritornato ai Tempi Remoti con il desiderio di riprendere su scala ben più vasta quello che aveva iniziato nel Libro dei racconti perduti. Il completamento del Quenta Silmarillion rimase soltanto un obiettivo; ma i 'grandi racconti', ampiamente sviluppati rispetto alla loro forma originale, dai quali i successivi capitoli avrebbero dovuto derivare, non gli riuscirono mai». Questi commenti sono veri anche per quanto riguarda il «grande racconto» intitolato I Figli di Húrin; ma in questo caso mio padre fece molto di più, anche se non gli riuscì mai di condurre una parte sostanziale della successiva e ben più ampia versione alla forma conclusiva e finita. Al contempo, mentre si occupava del Lai di Leithian e della Caduta di Gondolin, iniziò il suo nuovo lavoro sui Figli di Húrin, non con l'infanzia di Túrin, ma con la seconda parte della storia che culmina con la sua vicenda disastrosa dopo la distruzione di Nargothrond. È il testo contenuto nel presente libro dal «Ritorno di Túrin nel Dor-lómin» (p. 184 e segg.) fino alla sua morte. Perché mio padre abbia proceduto in questo modo, così inusuale rispetto alla sua abitudine di iniziare sempre dal principio, non so spiegarlo. Ma in questo caso, lasciò anche tra le sue carte una massa di scritti posteriori ma non datati riguardanti la storia dalla nascita di Túrin al sacco di Nargothrond, con una grande elaborazione delle vecchie versioni e un dilatarsi della narrazione del tutto sconosciuto in precedenza. La gran parte del suo lavoro, se non tutto, appartiene al periodo successivo alla pubblicazione del Signore degli Anelli. In quegli anni I Figli di Húrin divenne per lui la storia dominante della fine dei Tempi Remoti, e per un lungo periodo dedicò a essa tutti i suoi pensieri. Ma trovò difficile a quel punto imporre una precisa struttura alla narrazione, mentre il racconto
cresceva per la complessità del personaggio e degli eventi; e invero in un lungo passaggio la storia è contenuta in un mosaico di abbozzi scollegati e di frammenti di trama. Ma I Figli di Húrin, nella sua forma ultima, è il principale racconto della Terra di Mezzo narrato dopo la conclusione del Signore degli Anelli; e la vita e la morte di Túrin sono dipinte con pennellate convincenti e con una immediatezza che raramente si riscontra tra le genti della Terra di Mezzo. Per questo motivo ho tentato nel presente volume, dopo aver a lungo studiato i manoscritti, di comporre un testo che fornisca un racconto ininterrotto dall'inizio alla fine, senza l'introduzione di qualsivoglia elemento che non fosse autentico nella sua concezione. (2) COMPOSIZIONE DEL TESTO Nei Racconti incompiuti, pubblicati più di un quarto di secolo fa, ho presentato un testo parziale della lunga versione di questo racconto conosciuto come il Narn, dal titolo in elfico Narn i Chîn Húrin, il Racconto dei Figli di Húrin. Ma quello non era che un elemento di un grosso libro dal contenuto vario e il testo era molto incompleto dal punto di vista dello scopo generale e della natura del libro stesso. Infatti avevo omesso diversi passaggi sostanziali (e uno di loro era molto lungo) dove il testo del Narn e quello della versione assai più breve nel Silmarillion sono parecchio simili, o dove ho deciso che nessun «lungo» testo diverso poteva essere fornito. Pertanto, la forma del Narn in questo libro differisce da quella dei Racconti incompiuti in molti aspetti, alcuni dei quali derivanti dal ben più approfondito studio che, dopo la pubblicazione di quel libro, ho compiuto sul formidabile complesso di manoscritti. Ciò mi ha portato a conclusioni differenti circa le relazioni e la sequenza di alcuni testi, soprattutto nell'evoluzione estremamente confusa della leggenda nel periodo di «Túrin fra i fuorilegge». Qui di seguito vi è una descrizione e viene data una spiegazione della composizione di questo nuovo testo dei Figli di Húrin. Un importante elemento in tutto ciò è il particolare status del Silmarillion pubblicato, giacché, come ho già menzionato nella prima parte di questa Appendice, mio padre aveva abbandonato il Quenta Silmarillion al punto in cui si trovava (Túrin diventa un bandito dopo la sua fuga dal Doriath) quando iniziò Il Signore degli Anelli nel 1937. Nel formare la narra-
zione per il lavoro pubblicato ho fatto largo uso degli Annali del Beleriand, originariamente un «Racconto degli Anni», ma che in versioni successive crebbe e si sviluppò in una narrazione annalistica in parallelo con i successivi manoscritti del Silmarillion e che si diffuse fino alla liberazione di Húrin da parte di Morgoth dopo le morti di Túrin e di Niënor. Quindi, il primo passaggio che ho omesso nella versione del Narn i Chîn Húrin nei Racconti incompiuti (p. 86 e nota 1, p. 206)8 è il resoconto del soggiorno di Húrin e Huor a Gondolin durante la loro giovinezza. E ho fatto questo semplicemente perché il racconto è contenuto nel Silmarillion (pp. 191-193)*. Ma mio padre ne scrisse in realtà due versioni: una era intesa espressamente per l'apertura del Narn, ma era in gran parte basata su un passaggio degli Annali del Beleriand e, davvero, ne differisce ben poco. Nel Silmarillion ho usato entrambi i testi, qui la versione del Narn. Il secondo passaggio che ho omesso dal Narn nei Racconti incompiuti (p. 97 e nota 2, p. 206) è il racconto della Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, un'omissione dovuta ai medesimi motivi. Anche in questo caso mio padre ne scrisse due versioni, una negli Annali, e una seconda, assai più tarda, ma con il testo degli Annali ben presente, e in realtà per la maggior parte quasi uguale. Questa seconda versione della grande battaglia era, di nuovo, intesa espressamente come elemento costitutivo del Narn (il testo è intitolato Narn II, cioè la seconda sezione del Narn) ed esordisce così (p. 51 nel presente testo): «Qui si narrerà solo degli accadimenti che riguardano il destino della Casa di Hador e dei figli di Húrin il Costante». E nel far questo, mio padre conservò del racconto degli Annali solo la descrizione della «battaglia a occidente» e la distruzione dell'esercito di Fingon; e, per mezzo di questa semplificazione e riduzione della storia, alterò il corso della battaglia come raccontata negli Annali. Nel Silmarillion io, naturalmente, ho seguito gli Annali, sebbene abbia mutuato qualcosa dalla versione del Narn; ma in questo libro mi sono attenuto al testo che mio padre ritenne adeguato per il Narn nel suo insieme. Da «Túrin nel Doriath» in poi il nuovo testo è parecchio cambiato rispetto a quello dei Racconti incompiuti. Vi è qui un tipo di scrittura, in larga parte molto irregolare, che riguarda gli stessi elementi della narrazione in vari stadi dell'elaborazione, ed essendo questa la situazione è possibile, ovviamente, avere diverse opinioni su come il materiale originario debba 8
Da qui in avanti ci si riferisce per i Racconti incompiuti all'edizione Bompiani del 2001 e per il Silmarillion all'edizione Bompiani del 2004. (NdR)
essere trattato. Sono arrivato a pensare che, quando ho messo insieme il testo dei Racconti incompiuti, io abbia concesso a me stesso più libertà redazionale di quanta non ne fosse necessaria. In questo libro ho ripreso in mano i manoscritti originali e ricostruito il testo, in molte parti (generalmente davvero secondarie) reinserendo le parole originali, introducendo frasi o brevi passaggi che non si sarebbe dovuto omettere, correggendo alcuni errori e operando scelte differenti tra gli scritti originali. Per quanto attiene alla struttura della narrazione di quel periodo della vita di Túrin, dalla sua fuga dal Doriath alla tana dei fuorilegge sull'Amon Rûdh, mio padre aveva in mente certi «elementi» narrativi: il processo a Túrin dinanzi a Thingol; i regali di Thingol e Melian a Beleg; il maltrattamento di Beleg da parte dei fuorilegge in assenza di Túrin; gli incontri di Túrin e Beleg. Metteva questi «elementi» in relazione tra loro e inseriva passaggi di dialogo in contesti differenti; ma trovò difficile comporli in una «trama» prefissata, «per scoprire quel che in realtà era successo». Ma ora mi sembra chiaro, dopo aver compiuto ulteriori studi, che mio padre avesse raggiunto una struttura e una sequenza soddisfacenti per questa parte della storia prima di abbandonarla. Inoltre, la narrazione in forma assai ridotta che ho messo insieme per il Silmarillion edito è conforme a questa, con una differenza. Nei Racconti incompiuti vi è un terzo vuoto nella narrazione a p. 138: la storia s'interrompe al punto in cui Beleg, avendo finalmente ritrovato Túrin tra i fuorilegge, non riesce a persuaderlo a tornare nel Doriath (pp. 116-119 nel nuovo testo) e non riprende fino al punto in cui i fuorilegge incontrano i Nanerottoli. Qui ho di nuovo fatto riferimento al Silmarillion per riempire il vuoto, notando che lì segue nella storia l'addio di Beleg a Túrin e il suo ritorno a Menegroth «dove ricevette la spada Anglachel da Thingol e il lembas da Melian». Ma è in effetti dimostrabile che mio padre scartò questo, giacché «quello che in realtà successe» fu che Thingol diede Anglachel a Beleg dopo il processo di Túrin, quando Beleg andò la prima volta in cerca di lui. Nel testo del presente volume, quindi, il dono della spada è inserito in quel punto (p. 96) e non vi è lì alcuna menzione del lembas in regalo. In un passaggio successivo, quando Beleg fa ritorno a Menegroth, non vi è, naturalmente, alcun riferimento ad Anglachel nel nuovo testo, ma solo al dono di Melian. A questo punto è opportuno notare che ho omesso due passaggi, inclusi nei Racconti incompiuti, ma che sono parentetici rispetto alla narrazione. Si tratta della storia di come l'Elmo di Drago giunse nelle mani di Hador
del Dor-lómin (p. 110) e le origini di Saeros (p. 112). Sembra certo, per inciso, che mio padre avesse bocciato il nome Saeros e lo avesse sostituito con Orgol che, per un «accidente linguistico» coincide con l'anglosassone orgol, orgel, cioè «orgoglio». Però sembra ora troppo tardi per togliere Saeros. La maggiore lacuna nella narrazione nei Racconti incompiuti (p. 149), viene colmata nel nuovo testo da pagina 143 a pagina 183, alla fine del capitolo su «Mîm il Nano» e nei seguenti «La Terra dell'Arco e dell'Elmo», «La morte di Beleg», «Túrin nel Nargothrond» e «La caduta di Nargothrond». C'è una complessa relazione in questa parte della «saga di Túrin» tra i manoscritti originali, la storia così come è raccontata nel Silmarillion, le pagine scollegate raccolte nell'appendice al Narn nei Racconti incompiuti e il nuovo testo in questo volume. Ho sempre pensato che fosse intenzione generale di mio padre, a tempo debito, quando avesse con soddisfazione realizzato il «grande racconto» di Túrin, derivare da questo una forma ben più breve della storia in quella che si potrebbe chiamare «la modalità Silmarillion». Ma, naturalmente, ciò non avvenne. Così io, ormai più di trenta anni fa, ho assunto lo strano compito di cercare di simulare quello che lui non fece: la scrittura di una «versione Silmarillion» dell'ultimissima forma della storia, facendola derivare, però, dai materiali eterogenei della «versione lunga» del Narn. Si tratta del capitolo 21 nel Silmarillion pubblicato. Pertanto il testo di questo libro, che riempie la lunga lacuna nella storia narrata nei Racconti incompiuti, deriva dagli stessi materiali originali, come nel corrispondente passaggio del Silmarillion (pp. 238-273), ma sono usati in ciascun caso con uno scopo diverso e, nel nuovo testo, con una maggiore conoscenza del labirinto di abbozzi e note e della loro sequenza. Molto dei manoscritti originali che era stato omesso o compresso nel Silmarillion rimane disponibile; ma dove non c'era nulla da aggiungere alla «versione Silmarillion» (come nel racconto della morte di Beleg, derivato dagli Annali del Beleriand), quella narrazione è stata semplicemente ripetuta. Così, anche se ho dovuto introdurre passaggi di raccordo qua e là nel mettere insieme differenti stesure, non vi è alcun elemento estraneo «inventato», di nessun tipo, benché minimo, nel testo lungo di questo volume. Si tratta, comunque di un testo artificiale e non potrebbe essere altrimenti, soprattutto perché questo grande corpus di manoscritti rappresenta una
evoluzione continua della storia stessa. Bozze di stesure, fondamentali per la formazione di una narrazione ininterrotta, potrebbero, infatti, risalire a uno stadio anteriore. Per dare un esempio di un punto ideato precedentemente, il testo originario dell'episodio dell'arrivo della banda di Túrin sulla collina di Amon Rûdh, la dimora che ivi trovarono e la vita che lì condussero, nonché l'effimero successo della terra del Dor-Cúarthol, venne scritto prima che vi fosse alcuna ombra dei Nanerottoli; eppure una descrizione ben definita della casa di Mîm sotto la cima del monte appare prima di Mîm stesso. Per quanto riguarda il resto della storia, dal ritorno di Túrin nel Dorlómin, di cui esiste la stesura definitiva di mio padre, ci sono, naturalmente, ben poche differenze rispetto al testo dei Racconti incompiuti. Ma in due dettagli nel racconto dell'attacco contro Glaurung a Cabed-en-Aras ho cambiato le parole originali e devo spiegarne il perché. Il primo cambiamento riguarda la geografia. Vi si dice (p. 234) che Túrin e i suoi compagni, quando in quella serata fatidica si misero in viaggio dalla Nen Girith, non andarono dritti incontro al Drago, che giaceva sul lato più lontano della forra, ma imboccarono dapprima il sentiero che portava ai Guadi del Teiglin e «poi, prima di arrivare troppo in là, girarono verso sud prendendo un sentiero stretto» e attraversarono il bosco sopra il fiume, verso Cabed-en-Aras. Mentre si avvicinavano, nel testo originale di questo passaggio si legge: «le prime stelle brillavano a est, dietro di loro». Quando preparai il testo per i Racconti incompiuti, non mi resi conto che non poteva essere così, dato che non si stavano certo muovendo in direzione ovest, bensì est, o sud-est, lontano dai Guadi, e le prime stelle a est dovevano trovarsi davanti a loro e non dietro di loro. Nell'analizzare questo in The War of the Jewels 9 , mi feci convincere dall'idea che il «sentiero stretto» diretto a sud in realtà poi voltasse a occidente per raggiungere il Teiglin. Ma ora ciò mi sembra improbabile, perché non avrebbe motivo nella narrazione, e che la soluzione più semplice sia quella di correggere «dietro di loro» con «davanti a loro», come ho fatto nel nuovo testo. Lo schizzo di mappa che ho disegnato nei Racconti incompiuti (p. 209) per illustrare il territorio non è, infatti, ben orientato. E, come si vede dalla mappa del Beleriand di mio padre, e come riprodotto nella mia mappa per 9
* J.R.R. Tolkien, The History of Middle-earth (11). The War of the Jewels, a cura di Christopher Tolkien, HarperCollins, Londra, 1994, p. 157. (NdR)
Il Silmarillion, l'Amon Obel era quasi a est dei Guadi del Teiglin («la luna sorse dietro l'Amon Obel», in questo testo a p. 245), e il Teiglin scorreva a sud-est o a sud-sud est nelle gole. Adesso ho ridisegnato la mappa e ho anche inserito il luogo approssimativo dove doveva trovarsi il Cabed-en-Aras (si dice, in questo testo a p. 228, che «proprio sulla strada di Glaurung si apriva una di queste gole, nient'affatto la più profonda, sì però la più angusta, esattamente a nord della confluenza del Celebros»). Il secondo cambiamento riguarda l'episodio dell'uccisione di Glaurung. Di questo ne esistono un abbozzo e una stesura finale. Nell'abbozzo, Túrin e i suoi compagni si arrampicarono su per il lato più lontano del precipizio finché giunsero sotto il ciglio; rimasero lì mentre trascorreva la notte e Túrin «lottò con i sogni neri di terrore in cui tutta la sua volontà serviva per tenersi aggrappato e resistere».
Quando si fece giorno, Glaurung si preparò ad attraversare in un punto «molti passi in direzione nord»; così Túrin dovette scendere giù nel letto del fiume e poi risalire di nuovo il dirupo per arrivare sotto la pancia del Drago. Nella versione finale (in questo testo pp. 239-240), Túrin e Hunthor si trovavano solo poco in alto sul lato più lontano quando Túrin disse che stavano sprecando le loro forze per salire in quel momento, visto che anco-
ra non sapevano dove Glaurung sarebbe passato per attraversare; «si fermarono quindi e attesero». Non si dice se essi scesero da dove si trovavano quando smisero di arrampicarsi, e il passaggio relativo al sogno di Túrin in cui «tutta la sua volontà era tesa a restare avvinghiato» riappare come nella stesura dell'abbozzo. Ma nella revisione non v'era bisogno che questi rimanessero aggrappati: essi avrebbero potuto e certamente sarebbero scesi giù e sarebbero rimasti lì ad attendere. Infatti, questo è quel che fecero: viene detto nel testo finale (Racconti incompiuti, p. 190) che non si trovavano proprio sul cammino di Glaurung e che Túrin «s'inerpicò lungo la riva per giungere sotto di lui». Sembra allora che la storia finale conservi un tratto non necessario della stesura precedente. Per questioni di congruenza, ho così cambiato il testo (pp. 240-241) «non stando proprio sulla direttrice di Glaurung» con «non essendosi trovati sulla direttrice di Glaurung»; e «s'inerpicò lungo la riva» con «s'inerpicò lungo il dirupo». Si tratta veramente di piccoli dettagli, ma chiariscono quelle che sono forse le scene meglio visualizzabili dei Tempi Remoti, e uno degli eventi più importanti. INDICE DEI NOMI DEL RACCONTO DEI FIGLI DI HÚRIN I nomi che appaiono nella mappa del Beleriand sono seguiti dall'asterisco *. Adanedhel «Uomo-Elfo», appellativo dato a Túrin nel Nargothrond. Aeriti Parente di Húrin nel Dor-lómin, presa in moglie da Brodda l'Esterling. Agarwaen «Macchiato di Sangue», appellativo che Túrin si attribuì quando arrivò nel Nargothrond. Ainur «Coloro che sono Santi», i primi esseri creati da Ilúvatar, che era prima del Mondo: i Valar e i Maiar («spiriti dello stesso ordine dei Valar, ma di livello inferiore»). Algund Uomo del Dor-lómin, membro della banda di fuorilegge cui si unì Túrin. Alto Faroth* Alture a ovest del fiume Narog sopra Nargothrond; anche dette il Faroth. Anton Darthir* Una cima nella catena degli Ered Wethrin a sud del Dorlómin.
Amon Ethir «La Collina delle Spie», un grande tumulo eretto da Finrod Felagund, una lega a est del Nargothrond. Amon Obel* Una collina al centro della Foresta di Brethil sulla quale fu innalzato l'Ephel Brandir. Amon Rûdh* «La Collina Calva», un'altura isolata nelle terre a sud del Brethil, residenza di Mîm. Anach* Passo per il quale si scendeva dalla Taur-nu-Fuin al limite occidentale degli Ered Gorgoroth. Andróg Uomo del Dor-lómin, un capo del gruppo dei fuorilegge cui si unì Túrin. Anfauglith* «Polvere Soffocante», la grande piana a nord della Taur-nuFuin, un tempo erbosa e chiamata Ardgalen, ma trasformata in deserto da Morgoth nella Battaglia della Fiamma Improvvisa. Angband La grande fortezza di Morgoth a nord-ovest della Terra di Mezzo. Anglachel La spada di Beleg, dono di Thingol; dopo essere stata riforgiata per Túrin fu chiamata Gurthang. Angrod Terzo figlio di Finarfin, ucciso nella Dagor Bragollach. Anguirel Spada di Eöl. Anno del Cordoglio L'anno della Nirnaeth Arnoediad. Aranrúth «Collera del Re», spada di Thingol. Arcoforte Nome di Beleg; vedi Cúthalion Arda La Terra. Aredhel Sorella di Turgon, moglie di Eöl. Arminas Elfo Noldorin che andò con Gelmir nel Nargothrond per avvertire Orodreth del pericolo. Arroch Cavallo di Húrin. Arvernien* Le regioni costiere del Beleriand a ovest delle Bocche del Sirion; nominate nella canzone di Bilbo a Gran Burrone. Asgon Uomo del Dor-lómin che aiutò Túrin a fuggire dopo l'uccisione di Brodda. Avversario Morgoth Azaghâl Signore dei Nani di Belegost. Barad Eithel «Torre del Pozzo», fortezza dei Noldor sull'Eithel Sirion. Baragund Padre di Morwen; cugino di Beren. Barahir Padre di Beren; fratello di Bregolas. Bar-en-Danwedh «Casa del Riscatto», nome dato da Mîm alla sua casa. Bar-en-Nibin-noeg «Casa dei Nanerottoli» sull'Amon Rûdh.
Bar Erib Una roccaforte del Dor-Cúarthol a sud dell'Amon Rûdh. Battaglia delle Innumerevoli Lacrime Vedi Nirnaeth Arnoediad. Bauglir «Il Costrittore», nome dato a Morgoth. Beleg Elfo del Doriath, un grande arciere; amico e compagno di Túrin. Detto Cúthalion «Arcoforte». Belegost «Granrocca», una delle due città dei Nani nelle Montagne Azzurre. Belegund Padre di Rían; fratello di Baragund. Beleriand Terre a ovest delle Montagne Azzurre nei Tempi Remoti. Belthronding Arco di Beleg. Bëor Capo dei primi Uomini che entrarono nel Beleriand; capostipite della Casa di Bëor, una delle tre Casate degli Edain. Beren Uomo della Casa di Bëor, amante di Lúthien, che staccò un Silmaril dalla corona di Morgoth; chiamato «Monco» e Camlost «Manovuota». Bragollach Vedi Dagor Bragollach. Brandir Signore del Popolo di Haleth nel Brethil all'epoca dell'arrivo di Túrin; figlio di Handir. Bregolas Padre di Baragund; nonno di Morwen. Bregor Padre di Barahir e Bregolas. Brethil* Foresta tra i fiumi Teiglin e Sirion; Uomini del Brethil, il popolo di Haleth. Brithiach* Guado del Sirion a nord della Foresta di Brethil. Brodda Un Esterling nello Hithlum dopo la Nirnaeth Arnoediad. Cabed-en-Aras «Il Salto del Cervo», profonda gola del fiume Teiglin dove Túrin uccise Glaurung. Cabed Naeramarth «Il Salto dell'Atroce Destino», nome dato alla Cabed-en-Aras dopo che Niënor si precipitò dai suoi dirupi. Casa di Hador Una delle Casate degli Edain. Celebros Corso d'acqua del Brethil che precipita nel Teiglin presso i Guadi. Cintura di Melian Vedi Melian. Círdan Chiamato «Il Carpentiere»; signore delle Falas; quando i Porti furono distrutti, dopo la Nirnaeth Arnoediad, fuggì a sud nell'Isola di Baiar. Collina delle Spie Vedi Anton Ethir. Crissaegrim* I picchi montani a sud di Gondolin, dove erano i nidi di
Thorondor. Cúthalion «Arcoforte», nome di Beleg. Daeron Menestrello del Doriath. Dagor Bragollach (anche la Bragollach) La Battaglia della Fiamma Improvvisa in cui Morgoth pose fine all'Assedio di Angband. Dama del Dor-lómin Morwen. Dimbar * La terra tra i fiumi Sirion e Mindeb. Dimrost «La Scala Piovosa», le cascate del Celebros nella Foresta di Brethil, in seguito dette Nen Girith. Dor-Cúarthol «Terra dell'Arco e dell'Elmo», nome dato al paese difeso da Túrin e Beleg dal loro covo nell'Amon Rûdh. Doriath * Il regno di Thingol e Melian nelle foreste di Neldoreth e Region, con capitale Menegroth sul fiume Esgalduin. Dorlas Un uomo importante del Popolo di Haleth nella Foresta di Brethil. Dor-lómin * Regione a sud dello Hithlum assegnata dal Re Fingolfin come feudo alla Casa di Hador; patria di Húrin e Morwen. Dorthonion * «Terra dei Pini», i grandi altipiani boscosi ai confini settentrionali del Beleriand, in seguito chiamata Taur-nu-Fuin. Drengist * Lungo fiordo del mare che penetrava negli Ered Lómin, le Montagne Echeggianti. Echad i Sedryn (anche l'Echad) «Campo dei Fedeli», nome dato al rifugio di Mîm sull'Amon Rûdh. Ecthelion Signore Elfo di Gondolin. Edain (singolare Adan) Gli Uomini delle Tre Casate degli Amici degli Elfi. Eithel Ivrin * «Fonte dell'Ivrin», le sorgenti del fiume Narog sotto gli Ered Wethrin. Eithel Sirion * «Fonte del Sirion», sul versante orientale degli Ered Wethrin; la fortezza dei Noldor in quel luogo, anche detta Barad Eithel. Eldalië Il popolo degli Elfi, equivalente di Eldar. Eldar Gli Elfi del Grande Viaggio dall'Oriente al Beleriand. Eledhwen Nome di Morwen, «Splendore degli Elfi». Elfi Grigi I Sindar, nome dato agli Eldar che rimasero nel Beleriand e non attraversarono il Grande Mare per andare a Occidente. Eöl Detto «Elfo Scuro», un grande fabbro che visse nella Nan Elmoth; forgiò la spada Anglachel; padre di Maeglin.
Ephel Brandir «Il Recinto di Brandir», che circondava le dimore degli Uomini del Brethil sull'Amon Obel; anche detto l'Ephel. Ered Gorgoroth * «Montagne del Terrore», i vasti precipizi sui quali la Taurnu-Fuin si stendeva verso sud; anche Gorgoroth. Ered Lómin * «Monti Echeggianti» costituenti la barriera occidentale dello Hithlum. Ered Luin «Montagne Azzurre», «Monti Azzurri». Ered Wethrin «Montagne dell'Ombra», la grande catena che delimitava lo Hithlum a est e a sud. Esgalduin * Il fiume del Doriath, che separava le foreste di Neldoreth e Region e confluiva nel Sirion. Esiliati I Noldor che si ribellarono ai Valar e ritornarono nella Terra di Mezzo. Esterling Tribù di Uomini che giunsero nel Beleriand provenienti da est dopo la Dagor Bragollach. Faelivrin Nome dato a Finduilas da Gwindor. Falas * Le coste occidentali del Beleriand. Fëanor Figlio maggiore di Finwë, il primo capo dei Noldor; fratellastro di Fingolfin; artefice dei Silmaril; capo dei Noldor nella ribellione contro i Valar, ma ucciso in battaglia subito dopo il suo ritorno nella Terra di Mezzo. Vedi Figli di Fëanor. Felagund «Scavatore di caverne», nome dato a Re Finrod dopo che si fu stabilito nel Nargothrond e spesso usato da solo. Figli di Fëanor Vedi Fëanor. I sette figli ebbero le terre del Beleriand orientale. Figli di Ilúvatar Elfi e Uomini. Figli Minori, Figli più Giovani Uomini. Vedi Figli di Ilúvatar. Finarfin Terzo figlio di Finwë, fratello di Fingolfin e fratellastro di Fëanor; padre di Finrod Felagund e di Galadriel. Finarfin non fece ritorno alla Terra di Mezzo. Finduilas Figlia di Orodreth, secondo Re di Nargothrond. Fingolfin Secondo figlio di Finwë, il primo capo dei Noldor; Re Supremo dei Noldor, dimorava nello Hithlum; padre di Fingon e Turgon. Fingon Figlio maggiore del Re Fingolfin, e Re Supremo dei Noldor dopo la sua morte. Finrod Figlio di Finarfin; fondatore e re del Nargothrond, fratello di Orodreth e Galadriel; spesso chiamato Felagund.
Forweg Uomo del Dor-lómin, capo del gruppo di fuorilegge cui si unì Túrin. Galdor l'Alto Figlio di Hador Testadoro; padre di Húrin e Huor; ucciso all'Eithel Sirion. Gamil Zirak Fabbro Nano, maestro di Telchar di Nogrod. Gaurwaith «Uomini-lupo», la banda di fuorilegge alla quale Túrin si unì nei boschi oltre i confini occidentali del Doriath. Gelmir (1) Elfo del Nargothrond, fratello di Gwindor. Gelmir (2) Elfo Noldorin che con Arminas giunse a Nargothrond per avvertire Orodreth del pericolo. Gethron Uno dei compagni di Túrin nel viaggio per il Doriath. Ginglith * Fiume che sfocia nel Narog sopra Nargothrond. Glaurung «Padre dei Draghi», il primo dei Draghi di Morgoth. Glithui Fiume originario dagli Ered Wethrin e tributario del Teiglin a nord dell'immissione del Malduin. Glóredhel Figlia di Hador, sorella di Galdor, il padre di Húrin; moglie di Haldir del Brethil. Glorfindel Signore Elfo di Gondolin. Gondolin * La città segreta del Re Turgon. Gorgoroth Vedi Ered Gorgoroth. Gorthol «Elmo Terribile», nome assunto da Túrin nella terra di Dor Cúarthol. Gothmog Signore dei Balrog; uccisore del Re Fingon. Grande Canto La musica degli Ainur con la quale il Mondo fu iniziato. Grande Tumulo Vedi Haudb-en-Nirnaeth. Grithnir Uno dei compagni di Túrin nel viaggio verso il Doriath, dove morì. Guadi del Teiglin * Guadi dove la vecchia Strada Meridionale attraversava il Teiglin in direzione del Nargothrond. Guilin Elfo del Nargothrond, padre di Gwindor e Gelmir. Gurthang «Ferro di Morte», il nome che Túrin diede alla spada Anglachel dopo che questa fu riforgiata a Nargothrond. Gwaeron «Il mese ventoso», marzo. Gwindor Elfo del Nargothrond, amò Finduilas; compagno di Túrin. Hador Testadoro Amico degli Elfi, signore del Dor-lómin, vassallo di Re Fingolfin; padre di Galdor padre di Húrin e Huor; ucciso all'Eithel Si-
rion durante la Dagor Bragollach. Haldir Figlio di Halmir del Brethil; sposò Glóredhel figlia di Hador del Dor-lómin. Haleth Detta Dama Haleth, che divenne capo della seconda Casa degli Edam, gli Halethrim o Popolo di Haleth, che abitavano nella Foresta di Brethil. Halmir Signore degli Uomini del Brethil. Handir del Brethil Figlio di Haldir e Glóredhel; padre di Brandir. Hareth Figlia di Halmir del Brethil, moglie di Galdor del Dor-lómin; madre di Húrin. Haudh-en-Elleth «Il Tumulo della Fanciulla Elfica» vicino ai Guadi del Teiglin, in cui Finduilas fu seppellita. Haudh-en-Ndengin Nome elfico di Haudh-en-Nirnaeth. Haudh-en-Nirnaeth «Il Tumulo delle Lacrime» nel deserto di Anfauglith. Hirilorn La grande betulla a tre tronchi nella Foresta di Neldoreth. Hithlum * «Terra di Bruma», regione settentrionale limitata dalle Montagne dell'Ombra. Hunthor Uomo del Dor-lómin, compagno di Túrin nell'assalto a Glaurung. Huor fratello di Húrin; padre di Tuor padre di Eärendil; ucciso nella Battaglia delle Innumerevoli Lacrime. Húrin Signore del Dor-lómin, marito di Morwen e padre di Túrin e Niënor; detto Thalion, «il Costante». Ibun Uno dei figli di Mîm il Nanerottolo. Ilúvatar «Padre di Tutto». Indor Uomo del Dor-lómin, padre di Aerin. Innumerevoli Lacrime La battaglia di Nirnaeth Arnoediad. Isola di Sauron Tol Sirion. Ivrin * Il lago e le cascate ai piedi degli Ered Wethrin da cui nasceva il fiume Narog. Khîm Uno dei figli di Mîm il Nanerottolo, ucciso da una freccia di Andróg. Labadal Nome che Túrin diede a Sador. Ladros * Le terre al nord-est del Dorthonion che furono cedute dai Re
Noldorin agli Uomini della Casa di Bëor. Lalaith «Riso», «Risata», nome dato a Urwen. Larnach Uomo dei Boschi nelle terre a sud del Teiglin. Lothlann Una grande pianura a est del Dorthonion (Taur-nu-Fuin). Lothron Il quinto mese. Lúthien Figlia di Thingol e Melian, che dopo la morte di Beren scelse di diventare mortale come questi e di condividerne il destino. Chiamata Tinúviel, «Figlia del crepuscolo», usignolo. Mablung Elfo del Doriath, primo capitano di Thingol, amico di Túrin; detto «Il Cacciatore». Maedhros Figlio maggiore di Fëanor, ebbe le terre a oriente oltre il Dorthonion. Maeglin Figlio di Eöl «l'Elfo Scuro» e Aredhel, sorella di Turgon; traditore di Gondolin. Maliuin * Un tributario del Teiglin. Mandos Un Vala: il Giudice e Custode delle Case dei Morti a Valinor. Manwë Il Capo dei Valar; chiamato l'Antico Re. Melian Una Maia (vedi Ainur); Regina e moglie del Re Thingol nel Doriath; intorno al Doriath ella pose un'invisibile barriera di protezione, la Cintura di Melian; madre di Lúthien. Melkor Il nome in Quenya di Morgoth. Menegroth * «Le Mille Caverne», «Le Mille Grotte», le aule di Thingol e Melian sul fiume Esgalduin nel Doriath. Menel Il Cielo, il Firmamento, regione delle stelle. Methed-en-glad «Fine del Bosco», una fortezza del Dor Cúarthol sul limitare della foresta a sud del Teiglin. Mîm Il Nanerottolo, la cui casa era sull'Amon Rûdh. Minas Tirith «Torre di Guardia», costruita da Finrod Felagund su Tol Sirion. Mindeb* Un tributario del Sirion, fra Dimbar e la Foresta di Neldoreth. Mithrinr* La regione sud-orientale dello Hithlum, separata dal Dorlómin dalle Montagne di Mithrim. Montagne Azzurre, Monti Azzurri La grande catena montagnosa (chiamata Ered Luin e Ered Lindon) fra il Beleriand e l'Eriador nei Tempi Remoti. Monti Cerchianti Le montagne attorno a Tumladen, la vallata di Gondolin.
Monti Echeggianti Vedi Ered Lómin. Monti Ombrosi, Montagne dell'Ombra Vedi Ered Wethrin. Morgoth Il grande Vala ribelle, in origine il più possente delle Potenze; chiamato il Nemico, l'Oscuro Signore, il Re Nero, Bauglir. Mormegil «Spada Nera», nome dato a Túrin nel Nargothrond. Morwen Figlia di Baragund della Casa di Bëor; moglie di Húrin e madre di Túrin e Niënor; chiamata Eledhwen «Splendore degli Elfi» e Dama del Dor-lómin. Nan Elmoth * Una foresta nel Beleriand orientale; dimora di Eöl. Nanerottoli Una razza di Nani della Terra di Mezzo dei quali Mîm e i suoi due figli erano gli ultimi superstiti. Nargothrond * «La grande fortezza sotterranea sul fiume Narog», fondata da Finrod Felagund, distrutta da Glaurung; anche il reame di Nargothrond che si estendeva a est e a ovest del fiume. Narog * Il fiume principale del Beleriand occidentale, originario dell'Ivrin e affluente del Sirion vicino alle bocche. Gente di Narog, gli Elfi del Nargothrond. Neithan «L'Offeso», nome che Túrin stesso si diede quando era tra i banditi. Nellas Elfo del Doriath, amica di Túrin fin da bambino. Nemico Morgoth. Nen Girith «Acqua Rabbrividente», nome dato a Dimrost, la cascata del Celebros nel Brethil. Nen Lalaith Ruscello che nasceva sotto l'Amon Darthir, un picco degli Ered Wethrin, e che fluiva vicino alla casa di Húrin nel Dor-lómin. Nenning * Fiume del Beleriand occidentale, alla cui foce sorgeva il Porto di Eglarest. Nevrast * Regione a ovest del Dor-lómin, oltre i Monti Echeggianti* (Ered Lómin). Nibin-noeg, Nibin-nogrim I Nanerottoli. Niënor «Cordoglio», figlia di Húrin e Morwen, e sorella di Túrin; vedi Níniel. Nimbrethil * Boschi di betulle nell'Arvernien; menzionati nella canzone di Bilbo a Gran Burrone. Níniel «Fanciulla in Lacrime», nome che Túrin diede a Niënor nel Brethil. Nirnaeth Arnoediad La Battaglia delle Innumerevoli Lacrime, anche det-
ta la Nirnaeth. Nogrod Una delle due città dei Nani nei Monti Azzurri. Noldor La seconda delle schiere degli Eldar che intrapresero il Grande Viaggio dall'Oriente al Beleriand; gli «Elfi Profondi», i «Maestri delle Tradizioni». Núath, Boschi di * Boschi che si estendevano a ovest dal corso superiore del fiume Narog. Orleg Un uomo della banda di fuorilegge di Túrin. Orodreth Re del Nargothrond dopo la morte di suo fratello Finrod Felagund; padre di Finduilas. Osse Un Maia (vedi Ainur); vassallo di Ulmo, Signore delle Acque. Piana Sorvegliata * Vedi Talath Dirnen. Potenze, Le, i Poteri I Valar. Ragnir Servo cieco nella casa di Húrin nel Dor-lómin. Re Nero Morgoth. Reame Sorvegliato Doriath. Region * La foresta meridionale del Doriath. Regno Nascosto Nome dato sia a Gondolin, sia al Doriath. Rían Cugina di Morwen; moglie di Huor, fratello di Húrin; madre di Tuor. Rivil * Corso d'acqua che scendeva dal Dorthonion fino a unirsi al Sirion nella Palude di Serech. Sador Falegname, attendente di Húrin nel Dor-lómin e amico di Túrin quando era bambino e dal quale veniva chiamato Labadal. Saeros Elfo del Doriath, un consigliere di Thingol, ostile a Túrin. Salto del Cervo Vedi Cabed-en-Aras. Selvaggio dei Boschi Nome assunto da Túrin appena giunse tra gli Uomini del Brethil. Serech* La grande palude a nord del Passo del Sirion, dove il fiume Rivil scorreva proveniente dal Dorthonion. Sharbhund Nome nanico dell'Amon Rûdh. Signore delle Acque Il Vala Ulmo. Signore Oscuro Morgoth. Signori dell'Occidente I Valar. Sindarin degli Elfi Grigi, lingua elfica del Beleriand. Vedi Elfi Grigi.
Sirion* Il Grande Fiume del Beleriand, nasceva dalla Eithel Sirion. Spada Nera Nome di Túrin nel Nargothrond; anche la spada stessa. Vedi Mormegil. Stagni del Crepuscolo* Regione di paludi e stagni alla confluenza dell'Aros con il Sirion. Strada Meridionale L'antica strada da Tol Sirion a Nargothrond presso i Guadi del Teiglin. Talath Dirnen* «La Piana Sorvegliata», a nord di Nargothrond. Taur-nu-Fuin* «Foresta sotto la Notte», più tardi chiamata Dorthonion. Teiglin* Un tributario del Sirion che nasceva dalle Montagne dell'Ombra e scorreva attraverso la Foresta di Brethil. Vedi Guadi del Teiglin. Telchar Rinomato fabbro di Nogrod. Telperion L'Albero Bianco, il più antico dei Due Alberi che davano la luce a Valinor. Terra del Recinto Doriath. Teste di Paglia Nome dato al Popolo di Hador dagli Esterling nello Hithlum. Thangorodrim «Montagne della Tirannia», erette da Morgoth sopra Angband. Thingol «Mantogrigio», Re del Doriath, signore supremo degli Elfi Grigi (Sindar); sposato con Melian la Maia; padre di Lúthien. Thorondor «Re delle Aquile» (cfr. Il Ritorno del Re, VI, 4: «il vecchio Thorondor, che costruì i suoi nidi sulle inaccessibili vette dei Monti Cerchiami quando la Terra di Mezzo era giovane»). Thurin «Il Segreto», nome dato a Túrin da Finduilas. Tol Sirion* Isola nel fiume al Passo del Sirion sulla quale Finrod eresse la torre di Minas Tirith; fu poi conquistata da Sauron. Tre Casate (degli Edain) Le Casate di Bëor, Haleth e Hador. Tumhalad * Valle nel Beleriand occidentale tra i fiumi Ginglith e Narog dove l'esercito del Nargothrond venne sconfitto. Tumladen «La Valle Larga», la valle nascosta nei Monti Cerchianti dove sorgeva la città di Gondolin. Tuor Figlio di Huor e Rían; cugino di Túrin e padre di Eärendil. Turambar «Padrone del Destino», nome assunto da Túrin tra gli Uomini del Brethil. Turgori Secondo figlio del Re Fingolfin e fratello di Fingon; fondatore e re di Gondolin.
Túrin Figlio di Húrin e Morwen, oggetto principale del lai intitolato Narn i Chîn Húrin. Per i suoi altri nomi si veda Neithan, Gorthol, Agarwaen, Thurin, Adanedhel, Mormegil (Spada Nera), Selvaggio dei Boschi, Turambar. Uldor il Maledetto Un capo degli Esterling ucciso nella Battaglia delle Innumerevoli Lacrime. Ulmo Uno dei grandi Valar, «Signore delle Acque». Ulrad Un componente del gruppo dei fuorilegge cui si unì Túrin. Úmarth «Malasorte», nome fittizio che Túrin diede a suo padre nel Nargothrond. Uomini dei Boschi Abitanti dei boschi a sud del Teiglin, perseguitati dai Gaurwaith. Uomini-lupo Vedi Gaurwaith. Urwen Figlia di Húrin e Morwen che morì bambina; chiamata Lalaith, «Riso». Valar «Le Potenze», i grandi spiriti che entrarono nel Mondo all'inizio del tempo. Valinor La terra dei Valar nell'Occidente, oltre il Grande Mare. Varda La più grande delle regine dei Valar, consorte di Manwë. NOTA SULLA MAPPA Questa mappa è basata principalmente su quella pubblicata nel Silmarillion, che a sua volta è derivata dalla carta che mio padre disegnò negli anni Trenta e che mai sostituì, anzi la usò per tutte le sue opere successive. Le rappresentazioni formali, e ovviamente molto selettive, di montagne, colline e foreste sono eseguite sul modello del suo stile. In questo nuovo disegno ho introdotto certe differenze, intese a semplificarlo e a renderlo più direttamente applicabile al Racconto dei figli di Húrin. Quindi la mappa non si estende a est fino a includere l'Ossiriand e i Monti Azzurri e certe caratteristiche geografiche sono state omesse; inoltre (tranne alcune eccezioni) solo i nomi che ricorrono nel testo sono riportati nella mappa. Christopher Tolkien
POSTFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA di Gianfranco de Turris «Aure entuluvo! Il giorno risorgerà!» (Húrin al termine della Battaglia delle Innumerevoli Lacrime) «Se Turambar torna alla battaglia,» ad avere il sopravvento sarà, non lui, bensì l'Ombra. (Brandir, Signore del Brethil) La storia della Terra di Mezzo non è un ininterrotto confronto tra Bene e Male, come in genere banalmente si afferma: piuttosto, tutto «è per lo più legato alla Caduta, alla Morte e alla Macchina», come invece scrive J.R.R. Tolkien a Milton Waldman alla fine del 1951. In base alle sue successive spiegazioni di quel che per lui significano queste tre parole, noi possiamo legittimamente sostenere che se un ininterrotto confronto c'è nel mondo immaginario tolkieniano, esso è fra Potere temporale negativo (inteso come brama di possesso, pervertimento di ogni valore, dominio violento su corpi e menti, sopraffazione, menzogna) e Autorità spirituale positiva (intesa come legittimo e condiviso imperio di Potenze divine e di loro creature - Elfi e Uomini - che da esse lo ricevono e ne traggono a loro volta legittimazione, e che a esse fanno riferimento). Una storia lunga migliaia e migliaia di anni che il nostro professore divise in tre Ere, ognuna delle quali si conclude con un epico, titanico scontro fra il primo, impersonato dal Vala ribelle Melkor, che si è «incarnato» in Morgoth, e in seguito dal suo più potente servo, Sauron, e la seconda, impersonata dai Figli di Ilúvatar, Elfi e Uomini, comunque da coloro che non si sono convertiti alla brama di potere e di male che avanza con l'Ombra: la Guerra dell'Ira o Grande Battaglia, la Guerra dell'Ultima Alleanza, la Guerra dell'Anello. Ogni volta l'Avversario, l'Oscuro Signore, viene sconfitto e ricacciato nei suoi confini e addirittura al di là delle Mura del Mondo, ma ogni volta all'inizio dell'Era successiva, pian piano riprende forza e vigore. È, dunque, una visione ciclica della storia che Tolkien propone (della Quarta Era, quella della «dominazione degli Uomini», essendo in corso, per ora nulla si può dire, an-
che perché, come spiega Tolkien sempre a Waldman, in essa il Male è multiforme dato che la precedente Terza Era è l'ultimo periodo «in cui il Male prende forma in una singola figura»). A ogni apice di tenebra inizia il suo declino, e a ogni picco di luce inizia il suo tramonto. Mentre tutto sappiamo della Terza Era grazie a Lo Hobbit e a Il Signore degli Anelli, assai poco si sa della Prima Era, eccezion fatta dei brani inseriti nel Silmarillion o nei Racconti incompiuti. E così, se della Seconda e Terza Era lo stesso Tolkien ha redatto una cronologia dettagliata (vedi l'Appendice B del Signore degli Anelli, Bompiani 2003, pp. 1168-1187), della Prima esiste solo una comunque utilissima cronologia degli eventi compilata dagli autori del Dizionario dell'universo di J.R.R. Tolkien, Bompiani 2003, pp. 82-90). Ora, con quella che potrebbe essere forse la sua ultima opera di «ricostruzione» editoriale, Christopher Tolkien (classe 1924) ce ne offre una significativa ed emozionante «finestra», come lui stesso la definisce. Certo I Figli di Húrin, ammette, è un «testo artificiale», perché, spiega, «questo corpus di manoscritti rappresenta una evoluzione continua della storia». Però, aggiunge ancora, a differenza di quanto è avvenuto in precedenza (ad esempio nella versione inserita nei Racconti incompiuti), qui «non c'è alcun elemento estraneo 'inventato', di nessun tipo, benché minimo». Dunque, nonostante che vi si narri di una singola vicenda all'interno della storia complessiva della Prima Era, I Figli di Húrin ne è la più significativa, insieme a quelle di Beren e Lúthien e di Gondolin, non soltanto perché è fra le prime scritte dal men che trentenne Tolkien fra il 1917 e il 1919, ma perché ripresa in più occasioni - quindi con una intenzione di continuità - negli anni Trenta e Cinquanta. Essa, insieme alle altre due citate, fa parte di vicende «indipendenti» e significative, quelle cui l'autore teneva di più: accennava infatti nella citata lettera a Waldman riferendosi al racconto di Beren: «La storia è (ritengo che sia bella e piena di potenza) un romanzo eroico-fiabesco, comprensibile di per sé anche se si ha solo una vaga conoscenza generale dello sfondo». Vale a dire, una narrazione autonoma, quindi meritevole di essere conosciuta nella sua interezza, sia quella sia ovviamente le altre due. Un «romanzo eroico-fiabesco» è la definizione che dà il suo autore di questo tipo di Grandi Storie (come le chiama Christopher Tolkien), il che vuol dire in sintesi: epico. Ma allora anche I Figli di Húrin essendo pur esso una Grande Storia, lo è, ma di un eroismo, di una favolosità e di un'epicità assai diversi da quelli cui il lettore de Lo Hobbit e del Signore degli
Anelli è stato da decenni abituato: il racconto di una maledizione infernale e dei suoi ineluttabili effetti, anche perché i protagonisti non fanno assolutamente nulla per cercare di sfuggirli, anzi, indirizzandosi verso l'inevitabile conclusione trascinati dal loro carattere. Una storia fosca e quasi senza speranza, un'atmosfera da tragedia classica, dove giocano le coincidenze, le fatalità, gli scherzi del destino, gli equivoci e le incomprensioni. Tutto farà sì che le cose vadano come Morgoth aveva deciso, come aveva predestinato nel futuro. Perché? Per vendicarsi di Húrin. E che cosa aveva fatto Húrin? Semplicemente non aveva ceduto alle lusinghe del Nemico: «lo aveva sfidato e rifiutato il suo potere» dopo un titanico scontro verbale. Cose insopportabili e inammissibili per chi si riteneva onnipotente, creatore e signore di Arda, ed era quindi abituato a possedere tutto, i corpi, i pensieri, le azioni, i sogni e le anime. E qual è la maledizione che Melkor/Morgoth lancia contro Húrin, Morwen e la loro discendenza? «L'ombra del mio pensiero sarà su di loro ovunque vadano, e il mio odio li perseguiterà sino ai limiti del mondo. (...) Ovunque andranno sarà male. Ogniqualvolta parleranno, le loro parole saranno foriere di cattivo consiglio. Qualsiasi cosa facciano, si rivolterà contro di loro. Moriranno in disperazione, maledicendo sia la vita che la morte.» Mentre Húrin, impotente, assisterà a questa nemesi attraverso gli occhi di Melkor/Morgoth, vale a dire attraverso gli occhi del Male stesso... Perseguitati, senza saperlo, da una maledizione di tal fatta, avverrà proprio così per le parole e gli atti di Morwen, di Túrin e di Niënor. Una concatenazione ininterrotta di disastri accompagnerà le loro decisioni, le loro azioni, i loro consigli e avvertimenti: susciteranno equivoci e fraintendimenti, uccideranno senza volerlo (o volendolo) amici e innocenti, trascineranno nella rovina chi è loro vicino, nei momenti cruciali faranno scelte e prenderanno vie sempre sbagliate. Una frase di Mablung, l'Elfo detto «il Cacciatore», riassume bene la situazione: «Di certo, è per mancanza di buon senso, non di coraggio, che la gente di Húrin trascina gli altri nei guai!». Infine, sotto l'incantesimo di Glaurung, il Padre dei Draghi, compiranno l'atto finale che li porterà alla disperazione e alla perdita consapevole della vita: infrangeranno uno dei più forti tabù dell'umanità sin da quando essa si è aperta alla ragione. In una mescolanza di echi shakespeariani (Giulietta e Romeo) e sofoclei (Edipo), gli esseri umani sembrano burattini nelle mani del Fato, verso cui
nulla possono neppure gli Dèi. Ad esso non si sfugge, e tutto quel che si cerca di fare per evitarlo, al contrario ne accresce la potenza e ne rafforza la predestinazione. E predestinato da una maledizione del Vala decaduto e dedito al male, Túrin la consolida con il proprio carattere: certo coraggioso e, quando vuole, altruista e disinteressato, ma anche tenace, duro, testardo, screanzato, presuntuoso, e soprattutto di un orgoglio così smisurato da velargli gli occhi e il giudizio. E questo lo perderà definitivamente. Come gli dice Gwindor: «Il tuo destino è dentro di te e non nel tuo nome»... E gli ricorda Melian, la Maia: «Guardati da te stesso, perché non te ne venga disgrazia». Come si legge nel Signore degli Anelli, questa storia si colloca ben 6500 anni prima della guerra dei popoli della Terra di Mezzo contro Sauron, in un tempo durissimo, in un'epoca ferrea, che il giovane Tolkien degli anni Dieci prima e il maturo Tolkien degli anni Cinquanta poi descrive con tono scabro, asciutto, a tratti solenne e vaticinante, ma allo stesso tempo vigoroso, evocativo, pieno di emozione e suggestione, specie nei capitoli finali che raggiungono un sapore di epopea mitologica ricordando allo stesso tempo quella nibelungica, quella finlandese e quella greca. Nella citata lettera a Waldman, Tolkien spiega infatti che Túrin è «una figura che si potrebbe dire derivi da elementi di Sigfrido, Edipo e dal finnico Kullervo». In questo che possiamo, bene o male, definire il suo esordio narrativo i simboli portano però in evidenza quasi esclusivamente il loro aspetto negativo, come se quell'epoca disperata e tenebrosa lì descritta avesse capovolto o distorto ogni valore: la spada non è più il «prolungamento dell'Io», un simbolo di luce, ma un'arma assetata di sangue e di anime, spesso di color nero, che si rivolta contro il suo possessore («C'è malizia in questa spada» intuisce Melian); il Drago non è un simbolo di saggezza e di sapere arcano, ma è il Grande Verme, creatura di Morgoth, suo emissario, che parla con la sua stessa voce, simbolo del sottosuolo, del fuoco ctonio, dell'interiorità oscura e malata; Túrin non è un eroe solare, ma è un personaggio spezzato, un uomo diviso a metà, fra Ombra e Luce, dove la prima ha alla fine il sopravvento sulla seconda, certo per la maledizione dell'Avversario, ma anche perché essa fa leva e si sovrappone, potenziandoli, ai suoi difetti personali, prima di tutto l'orgoglio, come si è detto. Se Melkor, ora «un gigantesco, maestoso, ma terribile Re del Nord-Ovest della Terra di Mezzo», cioè Morgoth, come scrive Tolkien «divenne sempre più legato alla terra» e divise il suo potere malefico con le creature al suo servizio, lo stesso accade a Túrin: legato alle sue passioni non riesce a deviare dalla strada
che gli ha preparato nel futuro il Vala ribelle e decaduto, il «Signore di questo mondo» (Satana è definito così nei Vangeli). Si prova quasi l'angosciante sensazione che il libero arbitrio non esista, nonostante che Túrin abbia scelto come suo nome, alla fine, quello di Turambar, cioè Padrone del Destino, e che prima di avviarsi alla sua impresa definitiva dica a se stesso: «Voglio essere davvero Turambar, e con la mia volontà e prodezza sopraffare la mia sorte - o cadere». Ma sono proprio le sue mosse per evitare la sorte che ne provocano il verificarsi. Infine, soprattutto la cosiddetta «eucatastrofe» fiabesca, la conclusione in positivo e consolatoria per il lettore (la «Consolazione del Lieto fine»), che verrà teorizzata nel saggio-conferenza Sulle fiabe (1939), è ancora di là da venire: la conclusione è qui invece cupa e disperata, la maledizione si compie, la famiglia di Húrin viene distrutta, anzi si autodistrugge (il che è ancora peggio). Si può ben dire che questa sia la visione di un mondo preda totalmente del Male condizionante, in cui ogni valore è appannato o stravolto, che il professor Tolkien lanciava come un monito sin da quando aveva cominciato a scrivere a matita sui suoi quadernetti il Libro dei racconti perduti nelle trincee francesi della Grande Guerra e negli ospedali inglesi al ritorno da quella sconvolgente esperienza che distrusse e pervertì molti miti della Vecchia Europa. Roma, luglio 2007 UNA NOTA di Quirino Principe Da più di mezzo secolo esiste il «caso Tolkien»: una singolarità che si è rivelata unica e irriducibile a generi e categorie, malgrado i numerosi tentativi di regolarizzarla e storicizzarla facendola rientrare in un ragionevole percorso della letteratura occidentale, oppure di sottoporla a una valutazione riduttiva (come vorrebbero alcune ideologie avverse ai grandi simboli e alle visioni archetipiche), oppure di annetterla a confortevoli, collaudate e presunte verità (come vorrebbe oggi la rumorosa interpretazione «cristiana» di Tolkien). Il lascito tolkieniano non si adatta ad alcuna esegesi critica di natura storicistica, sociologica, religiosa, né a un qualsiasi inquadramento nella storia degli stili. È un lascito, per così dire, metastorico, e per-
ciò anche, sia detto in modo definitivo, metapolitico. Viene meno, in tale prospettiva, anche l'oziosa discussione sulla qualità dello stile, che anni or sono, quando apparvero i tre film di Peter Jackson, indusse un critico letterario italiano a un incauto paragone tra Tolkien e Céline. Forse proprio questa strana natura dell'opera tolkieniana nel suo insieme, nei suoi aspetti d'invenzione narrativa ma anche di creatività linguisticofilologica e pittorico-grafica, ha dato linfa alla nascita e diffusione di una sorta di società esoterica: quella dei fedeli di Tolkien per i quali gli Hobbit, Frodo, Eowyn, Aragorn, Arwen, la Terra di Mezzo, sono divenuti quasi termini di auto-identificazione. Ed è oramai evidente anche un altro fenomeno, propriamente letterario: nel corso dell'ultimo cinquantennio è gradualmente venuta meno ogni gerarchia d'importanza e di primarietà tra i testi maggiori (Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli, il postumo Silmarillion) e quelli cosiddetti minori. Ogni appassionato e competente lettore di Tolkien sa che ogni libro dell'immensa saga è integrante e mai secondario rispetto agli altri. Ciò vale anche per Il figli di Húrin, probabilmente (ma possiamo sperare in una futura smentita?) l'ultimo dono che l'invenzione assoluta dell'autore, sapientemente amministrata dai suoi eredi dopo il 1973, possa ancora trasmetterci. Per chi abbia scoperto con meraviglia e gioia Il Signore degli Anelli, sia nel 1970 al tempo della prima edizione italiana, sia in anni recenti, ogni nuovo titolo tolkieniano ha sempre aggiunto spazio e risonanza interiore e reminiscenze e profondità alla memoria di quella prima lettura. I figli di Húrin è un libro che riafferma questa funzione. La vicenda qui narrata è smisuratamente anteriore agli anni intorno al 1420 della Terza Era della Terra di Mezzo in cui si colloca la vicenda del Signore degli Anelli: una catena di generazioni e di ere, migliaia d'anni. Si sprofonda a ritroso nella preistoria, e se la vicenda di Bilbo, di Frodo e di Aragorn è un mito, qui approdiamo al mito del mito. Qui si narra della genealogia di Hador, da cui discendono gli eroi del Dor-lómin; di Galdor che dalla sposa Hareth ha due figli maschi, Húrin e Huor; della tragica Battaglia delle Innumerevoli Lacrime; della tenebrosa presenza di un orrore il cui nome è in origine Melkor e sarà in futuro Morgoth e infine Sauron; delle nozze di Húrin e Morwen e del destino di Túrin loro figlio, la cui morte epica e amarissima dopo che egli avrà sconfitto il mostruoso Glaurung precede la raggelante conclusione del libro, nella quale il vecchio Húrin ritroverà dopo lungo tempo la vecchia sposa Morwen soltanto per vederla morire pochi istanti dopo averla stretta tra le sue braccia. Lasciata l'ultima pagina dei Figli di
Húrin, il lettore potrà ritornare alla rilettura del Signore degli Anelli scoprendo nuove e prima inavvertite vie d'accesso.
FINE