I guerrieri della notte
«Soldati, non siate delusi per i recenti avvenimenti. Vi assicuro che in quel che è accaduto i...
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I guerrieri della notte
«Soldati, non siate delusi per i recenti avvenimenti. Vi assicuro che in quel che è accaduto i vantaggi sono pari agli svantaggi.» «Amici, coloro che vedete sono l’ultima barriera tra noi e la meta agognata per cui tanto abbiamo lottato. Dovremo, potendolo, mangiarceli vivi.» dall’Anabasi di Senofonte
4 luglio, ore 23.10 Sei guerrieri erano accovacciati nell’ombra di una tomba. Ansimavano per la lunga corsa. La luna brillava sopra di loro, illuminando gli spazi tra lapidi e sepolcri, ma le ombre erano nette e cupe. Facce grasse e benevole di cherubini alati sorridevano dai cornicioni della tomba. In lontananza si allungava da sud verso nordovest un denso banco di nubi sbiancate dalla luna, simili a una catena di monti. Il cimitero era su un’altura. Sotto di loro c’erano gruppi di lapidi, un’inferriata acuminata, l’autostrada, lo scintillio d’un corso d’acqua, la lenta china di un tappeto erboso, una fila di abitazioni a meno di un chilometro e, tra le case, la ferrovia soprelevata festosamente scossa dallo sferragliare di carrozze illuminate. Restarono in ascolto. Si sentiva solo il rumore del treno rimbalzare per la valle. Udirono anche il loro fiato corto mescolarsi col fruscio delle foglie. «Ci siamo tutti?» bisbigliò uno dei guerrieri. Gli altri sibilarono: «Ssss...» Si mossero silenziosamente scambiandosi occhiate sospettose, con l’eccezione di Hinton che si era trovato un nascondiglio nell’ombra nera dell’ingresso della tomba. Sedeva coi piedi levati contro un montante e la schiena curva appoggiata all’altro. «Adesso che si fa?» Presero tempo, si guardarono intorno, riprendendosi dalla corsa di poco prima. Attenti ad ogni rumore insolito, cercavano di indovinarne l’origine. C’erano altri guerrieri lì intorno? C’era la polizia? Pensavano a come traversare la valletta fino al treno. «Tutti?» «Zitto, zitto.» Poteva aggirarsi un custode.
Hinton si raggomitolò ancor più nell’ombra. Niente male, dove si era messo. Quasi si assopiva, protetto dalla presenza dei compagni tra lui e l’esterno. Era stanco. La corsa lo aveva sfinito. Aveva dormito male per due giorni, a causa della tensione. Se solo avesse potuto dormire un poco... Perché non si fermavano lì? Era un luogo riposante. La brezza era piacevole e l’erba mandava un buon odore. Da dietro la fila di case una scia di fuoco si arrampicò lentamente su nel cielo ed esplose in una rilucente bandiera americana. Il sorriso dei cherubini di pietra diventò malvagio nella luce abbagliante e nel chiaro improvviso quel luogo tetro mostrò per intero la sua atmosfera spettrale. Colti dalla luce, cambiarono posizione, ritraendosi, urtandosi, schiacciandosi contro il sepolcro, cercando ombre più dense. La bandiera si librò per qualche istante, fu raccolta dal vento e volò pigramente verso sud finché si dissolse in uno sciame di scintille a tre colori. Nell’ultimo lampo si accorsero che mancava Papà Arnold. Qualcuno mandò un gemito. Cominciarono a contarsi. «Io.» «Tonto.» «Bimbo.» «Junior.» «Dewey.» «Dov’è Hinton? Hanno preso anche Hinton?» «Sono qui.» Le ginocchia gli sfioravano il mento, le labbra gli toccavano le nocche. «Guarda Hinton, s’è quasi addormentato. Che forza!» disse Junior. Quell’Hinton. Era capace di dormire ovunque. Tonto cercò di mostrarsi assonnato, per far vedere che anche lui la prendeva con distacco. Ebbe l’idea di calarsi il cappello sugli occhi e si rese conto allora di non averlo. Imprecò e fece per uscire a cercarlo nella luce lunare. Un sibilo di rimprovero lo costrinse al suo posto. Risuonò in lontananza una serie di piccole esplosioni. Erano petardi, come una scarica di mitraglia. Da dove veniva quel rumore? Hinton serrò maggiormente gli occhi; premeva il mento contro le ginocchia; il pollice gli sali alla bocca, ma poi si grattò il naso con l’unghia. Qualcosa frusciò nell’erba. Restarono immobili. Non successe niente. Un animale, forse un topo. I topi mangiano i cadaveri. Il pensiero li fece star meglio; tutti conoscevano e capivano i topi. Hector disse: «Bisogna che aspettiamo qui un poco. Forse Papà Arnold ce la farà a raggiungerci...» «Come fa a sapere che siamo qui?» chiese Bimbo. «Se non viene, scendiamo fino al treno e andiamo a casa.» Junior si sporse in avanti, allungò il braccio nella zona illuminata dalla luna e si guardò il polso; era l’unico con l’orologio. «Il fratello qui dice che non è una buona idea. È quasi mezzanotte.» «E allora?» «E allora non si può stare in un cimitero dopo la mezzanotte», rispose Junior con una vena isterica nella voce. Lo sapevano tutti, cosa poteva accadere in un cimitero dopo la mezzanotte. Alcuni ci credevano; altri no. Ma a nessuno piaceva. A parte Hinton, che aveva nascosto la faccia premendosela nelle cosce. A lui andava bene di restare lì. Era tranquillo lì,
forse l’unico posto tranquillo in tutta la città. Troppo complicato saltar fuori, superare l’inferriata e attraversare a piedi tutta la valle fino al treno, allo scoperto. Risuonarono sorde esplosioni. «Dobbiamo battercela da qui. Saltano fuori e ci prendono», disse Junior. Stupidate, pensò Hinton. «Io devo cercare il mio cappello», disse Tonto. «Costa un mucchio.» «Dobbiamo filare. Saltano fuori dalle tombe. Tutti lo sanno, che saltano fuori.» «Aspettiamo qui per un po’», ribadì Hector. «Nessuno ti ha eletto Padre.» La voce di Junior era stridula, adesso. «Vuoi che ce la vediamo?» chiese Hector. Nessuna risposta. «Qualcuno deve fare il Padre, finché non arriviamo a casa. Intesi, allora. Aspettiamo. Ce ne andiamo prima delle dodici. C’è ancora tempo.» Aspettarono. Ascoltarono. Stettero attenti alla polizia, alle altre bande, al custode, mentre Hector metteva mentalmente a punto il piano per il rientro a casa.
4 luglio, ore 15.00-16.30 Cominciò nel pomeriggio. Sei Delancey Thrones giocavano a carte al circolo. Erano in uniforme estiva: calzoni stretti bianchi e maglietta rossa. Faceva un gran caldo. Era in apparenza un qualsiasi giorno d’estate, ma era anche il 4 luglio. Quando erano così, ridotti a giocare a carte per la noia, la polizia era all’erta e gli assistenti sociali dell’assessorato alla gioventù si mettevano a far domande, perché c’era il rischio che la situazione precipitasse e si arrivasse a una sortita. Fuori, in strada, i ragazzini già facevano scoppiare petardi. Loro sembravano costretti da un incantesimo in quella posizione, pareva che mai si sarebbero potuti muovere di lì, eccetto che per mettere giù una carta tentando la sorte, per imprecare, o per bestemmiare. In piedi, col ventre premuto contro le loro solide spalle, alcune ragazze li guardavano giocare. Si strofinavano lentamente, perché nessuno vedesse o sapesse. Tutti erano molto tesi perché Ismael, il Presidente, aveva proibito il sesso per una settimana. Bandiva sempre il sesso prima di una sortita. Voleva che i suoi s’incattivissero. Una radiolina urlava un rock distorto e angosciato a base di perduto amore, appuntamenti mancati, tradimenti, cuori insanguinati. La voce del disk jockey tra un disco e l’altro scandiva il trascorrere del tempo. Il circolo era stato a suo tempo una sala da ballo. C’era ancora un lampadario centrale di quelli che ruotano diffondendo luci romantiche e intermittenti sulle coppie che ballano. In fondo alla sala c’era un sedile da lustrascarpe a tre posti, piazzato su una pedana di legno. Sul sedile di destra, accanto all’ampia vetrata, c’era Ismael Rivera, gli occhiali scuri rivolti alla strada rumorosa e assolata. Ismael aveva il volto impassibile di un grande di Spagna, il colorito nero-viola di un africano puro e i sogni di un Alessandro, un Ciro, un Napoleone. Non si concedeva pensieri: solo un’attesa svuotata d’ogni movimento, con lo sguardo fisso sul freddo riflesso dei propri occhi nelle lenti azzurre.
Uno giocò una carta; una sedia scricchiolò; la carta cadde con un tonfo fiacco. Una delle ragazze, imprecò e ricevette una gomitata in una coscia dal suo compagno; aveva rivelato la debolezza della sua mano. Seduto sulla pedana, all’altezza del piede destro di Ismael, c’era il Consigliere di guerra. Era nervoso come sempre prima dell’azione, ma non c’era nessuno in città più freddo di lui una volta iniziatala. Il Segretario, l’uomo di Ismael, lanciava ripetute occhiate al quadrante nero del suo orologio, borbottando, dondolandosi a tempo con la musica. Arrivò un rumore da fuori. I giocatori levarono gli occhi verso la porta. Entrò un corriere che attraversò la lunga sala fino al Consigliere. Il Consigliere si sporse in avanti mentre i giocatori tornavano a badare alle carte, ostentando tranquillità e indifferenza. Il corriere si chinò e fece rapporto. Il messaggio fu soffocato dalle pulsazioni lamentose della radio. Il Consigliere annuì e alzò lo sguardo verso Ismael, il quale non necessariamente avrebbe guardato dalla sua parte. Il corriere se ne andò. La lancetta dei minuti dell’orologio elettrico alla parete procedeva lentamente, sospinta nella calura dai ritmi radiofonici. Nessuno guardava quell’orologio: era un punto d’onore non guardarlo. Sapevano che mancavano ancora parecchie ore al Momento. Altri uomini di Ismael entrarono e si sedettero qua e là nella sala. Uno di loro si mise a tamburellare con le dita sui bongo, non tanto forte da disturbare la trasmissione della radio, ma a un ritmo più incalzante, tanto da tirare un po’ su gli animi e far passare il tempo. Altre ragazze entrarono e presero posto accanto ai loro uomini. Nessuno parlava. Avevano tutti caldo, tutti cercavano di mostrarsi annoiati, come per dover far trascorrere un pomeriggio qualsiasi. C’etano ormai una trentina di Thrones nella sala e il caldo era più opprimente. Pigramente il giorno scivolò nel tardo pomeriggio. Aumentò l’afa con l’aumento delle esplosioni nelle strade. Qualcuno bussò. Era Mannie Bernstein, l’assistente sociale assegnato a loro dall’assessorato alla gioventù. Nessuno lo voleva lì, ma si sapeva che sarebbe venuto, così si erano preparati. La faccia tonda di Mannie sbucò da dietro la porta. Aspettò sull’ingresso, perché anche se proprio lui aveva ottenuto per loro il locale dall’associazione commercianti, anche se aveva fatto tanto per aiutarli, il protocollo restava rigido. Doveva aspettare d’essere invitato a entrare. Era solo una questione di amicizia e lui era sicuro di essersi guadagnato la loro. Ma toccava a loro l’iniziativa. Un’infrazione avrebbe provocato rancore; il loro orgoglio di adulti era fragile e vulnerabile. Mannie aspettò per parecchi lunghi secondi, mezzo minuto almeno. Gli era capitato altre volte; la sua attesa era affermazione della loro identità. Mannie sorrise: che mostrassero pure la loro ostilità. Non sapevano cosa fare e aspettavano un segnale da Ismael. Il sorriso di Mannie si irrigidì. Si mosse infine per girarsi e in quel mentre una voce gli disse: «Ehi, entra pure». L’assistente sociale non sapeva come Ismael avesse dato il segnale. Gli aveva tenuto gli occhi addosso e non aveva visto niente, eppure l’ordine era venuto dalla sedia da lustrascarpe sulla pedana in fondo ed era stato trasmesso fino alla porta. Mannie aveva la camicia bagnata di sudore. Entrò e cercò di sorridere. La gerarchia per cui l’invito a entrare era giunto fino a lui andava rispettata in via ascendente per i saluti. Mannie attraversò la sala, salutando i ragazzi e le loro compagne, finché fu al cospetto del trono. Ma, quando fu davanti al Presidente, si accorse che qualcosa non andava. Un minuscolo orecchino d’oro gli brillava contro il
nero della pelle liscia dandogli un che di esotico e minaccioso a dispetto della divisa estiva dell’Ivy League. «Ehilà, allora, come va?» salutò Mannie. Lui non rispose subito, altro indizio che qualcosa non andava, ma anche in questo caso il protocollo andava rispettato e Mannie non chiese spiegazioni. Si guardò intorno e riconobbe gli altri indizi: la tipica partita a carte, l’ostentata indifferenza, la noia apparente, gli sbadigli, un eccesso di effusioni da parte delle ragazze costrette all’astinenza, i bongo sommessi come lontani tamburi di guerra. Tornò a guardare Ismael. Il Segretario mosse la mano invitando Mannie a sedersi. Mannie si sistemò una sedia davanti alla pedana e si sedette inclinato all’indietro, in modo da vedere bene la faccia d’idolo di Ismael. Si mise a parlare, tanto per far breccia nell’indifferenza generale, sperando di intuire cosa ci fosse nell’aria. Ismael continuò a contemplare la strada, ma non voleva dire niente: Ismael non metteva mai nulla a fuoco. Il volume dei bongo era aumentato. Il Consigliere alzò la voce per rispondere a Mannie. Mannie andava particolarmente orgoglioso di Ismael, che rappresentava il maggior successo della sua carriera, il risultato più tangibile di sei anni di impegno sociale con i delinquenti. Ma quanti Ismael c’erano, in giro? Se fosse riuscito a mantenerlo in carreggiata per un annetto ancora, si sarebbe arrivati al diploma di media superiore e chissà, forse Ismael avrebbe persino preso in seria considerazione un corso universitario. Ismael infatti era stato la stella più brillante della scuola media locale, il genio ribelle dell’istituto Baruch Laporte Jr. In due anni di media superiore era stato l’argomento di conversazione, la disperazione e la spina nel fianco di ogni insegnante. Mannie aveva lavorato con costanza e lentezza, recuperandolo agli aspetti più costruttivi della vita, all’interesse per il lavoro, ai libri, al futuro e lo aveva persino avuto ospite nella propria casa. Mannie aveva incanalato le spinte egocentriche di Ismael verso percorsi socialmente accettabili. Ismael, naturalmente aveva tenuto saldamente in pugno il comando dei Delancey Thrones; il potere è troppo dolce perché lo si abbandoni facilmente. Ma era anche vero che i Delancey Thrones erano ormai quasi un circolo sociale. Tempo, pensava Mannie, bisogna dargli tempo. Sperava che Ismael non regredisse proprio ora, rovinando tutto. L’assistente sociale sondò cautamente l’atmosfera, senza mai esprimere domande dirette. Tutto faceva pensare a una sortita. Eppure non c’era un conflitto dichiarato con un altro esercito. Nulla aveva turbato la tregua che durava ormai da un anno, anche se qualche quotidiano aveva tentato di seminare zizzania pubblicando pettegolezzi falsi e oltraggiosi. Nessuno ci cascò. Mannie esaurì quanto si poteva dire sulle condizioni del tempo, sullo sport, i balli e il 4 luglio. Tanto sarebbe valso parlare a un muto o a un muro. Mannie riconosceva anche questo aspetto del suo ruolo. Lo indispettiva e doveva sforzarsi per non perdere la sua capacità di concentrazione. Pazienza, si ripeteva... Le labbra sottili di Ismael non si mossero. Conserva le forze in questo gran caldo, si disse Mannie. Verso le quattro meno dieci le ragazze cominciarono ad andarsene. Alle quattro erano rimasti solo i maschi. La voce concitata della radio annunciò: «...e ora, per tutti i ragazzi e le ragazze del club sociale e atletico Paradiso, ecco qui una manciata di soldi speciali... e sono los Beatles! Ragazzi...»
Nessuno decretò la fine della partita a carte. Finì e basta. Alcuni ragazzi si alzarono. Si allontanarono a gruppetti, con aria indifferente. Alle quattro e un quarto in sala erano rimasti Ismael, il Consigliere di guerra, l’uomo di Ismael, il Segretario e una muscolosa guardia appoggiata alla parete. Ismael si alzò. Il Segretario si rivolse a Mannie. «Si stacca, credo. Afa. Cinema.» «Ah, certo, chiaro, come no, buona idea. Non c’è posto migliore per rinfrescarsi un po’», rispose Mannie al Segretario e aspettò di essere invitato a seguirli. Nessuno fiatò. «Ho una mezza idea di organizzare una giterella in barca da fare insieme, tra una settimana o due», disse a Ismael. Dopo, dopo», rispose il Consigliere. Ismael attraversò la sala seguito dalla sua corte e usci, lasciando Mannie solo. Mannie non aveva scoperto nulla, Ismael non gli aveva neppure rivolto la parola. Andò alla latteria a cercare qualcuno dei ragazzi, qualcuno cui chiedere cosa stava succedendo. Non trovò nessuno di età compresa tra i quattordici e i vent’anni. Si fece dare una manciata di monetine al banco con cui chiamare per telefono gli assistenti sociali assegnati agli eserciti dei quartieri circostanti e la sede dell’assessorato. Forse qualcuno avrebbe saputo dirgli cosa succedeva. Un ragazzino fece scoppiare un petardo a pochi passi da lui, proprio mentre s’infilava nella cabina.
4 luglio, ore 19.00-22.30 Quando formò la sua Famiglia, i Dominatori di Coney Island, Arnold aveva in mente due slogan. Li aveva presi a prestito da manifesti affissi nei sottopassaggi della sotterranea. Uno diceva: «Dove finisce la vita familiare, comincia la delinquenza». L’altro era: «Siigli fratello». Se erano una famiglia, pensava Arnold, non potevano essere delinquenti. Così si elesse Padre di loro tutti. Il comandante in seconda fu Zio; gli altri diventarono fratelli. Erano più legati tra loro che ciascuno di loro alla propria famiglia. Questa Famiglia li liberava. L’abitazione che condividevano con i rispettivi genitori era, comunque e sempre, chiamata Galera. La ragazza di Arnold fu la Madre e le altre ragazze della cerchia più ristretta furono figlie-sorelle. I membri della cerchia più ampia ed esterna erano nipoti, cugini e cugine. Al momento dell’accettazione nella Famiglia, tutti prestavano un giuramento. Arnold aveva detto alla Famiglia che non voleva che girassero nei pressi della latteria, quel giorno. Dovevano andarci solo i plenipotenziari, cioè lui, Hector lo Zio, Bimbo il latore, Tonto il forzuto, Hinton l’artista, Dewey e Junior. Ma quelli della Famiglia avevano puntato i piedi pretendendo di andare a salutarli. Arnold non li aveva ancora educati bene: non gli ubbidivano ancora come a un Padre. Quando fu l’ora, se ne andarono con gran sollievo del padrone della latteria. La paura del padrone li divertiva. Minacciavano sempre di combinargli qualche guaio, perché percepivano il suo terrore. Così si sentivano più grandi. Tutti dovevano aver paura di loro; tutti prima o poi l’avrebbero avuta. I sette prescelti si erano carburati: due bicchieri di alcool a testa, tanto per tonificare lo spirito. L’ordine era giunto via radio. Era il disco dei Beatles. Attaccava proprio allora.
Uscirono. Erano in una ventina: Papà, Mamma, Zii e Zie, Figli, Figlie, Cugini e Cugine. I maschi indossavano camicie scozzesi blu col colletto abbottonato, attillatissimi pantaloni neri e cappelli di paglia a tesa stretta con i loro distintivi: il marchio della Mercedes-Benz, la stella a tre punte, difficilissima a trovarsi, fissata con spille da balia nell’officina della scuola. Il drappello dei prescelti aveva anche la giacca, tutti tranne Bimbo, che aveva con sé un impermeabile al cui interno erano assicurate due bottiglie di Seagram. I passanti, gli Altri, sgattaiolavano via al loro sopraggiungere, concedendo alla Famiglia ampio passo. I figli di Arnold erano dei duri e difendevano bravamente il loro territorio da qualsiasi Altro, sindacalista, sbirro o membro di altra banda. Non capitava spesso che fossero fuori in forze così presto. Passavano spavaldi e impettiti, invitando altri a seguirli. A loro si unì la banda della Famiglia, formata da due cugini muniti di radioline assordanti, per dare il tempo alla marcia. Arrivarono ai confini del loro territorio e si fermarono. Nessuno aveva tracciato una riga, come su una cartina geografica, e non c’erano guardie di frontiera visibili. Unico segno di confine erano la solita traccia di olio di motore lercio, la carta sporca, le strisce dei passaggi pedonali. Ma la frontiera era lì, percepibile come una guardiola di un custode con una sbarra bianca e rossa. Gli occhi del Lord Coloniale scoccarono nella loro direzione uno sguardo freddo e ostile, nonostante che quel giorno la Famiglia avesse un permesso di transito. Non si poteva fare a meno di avvertire la vecchia tensione che precedeva la battaglia. Sentivano un formicolio nella schiena; le spalle si curvavano istintivamente nella solita posa del «nessuno mi può fermare»; i muscoli addominali si contraevano; tutti sudavano e si tiravano giù sovente il cavallo dei calzoni troppo attillati all’inguine. Da un momento all’altro potevano essere colti da un lancio di mattoni dai tetti, assaliti all’improvviso da catene saettanti da portoni oscuri, abbattuti da mazze da baseball e lame veloci di coltello. I delegati s’infilarono la giacca; erano nuove e corte, giubbotti per la precisione, abbottonati dal collo alla vita. Se le sistemarono addosso, facendo roteare le spalle, tirandone i lembi inferiori, spazzolando via qualche granello di polvere, controllando ogni bottone e ogni fibbia. Le ragazze li aiutarono. Bimbo si accertò che le bottiglie fossero saldamente assicurate. I loro scomodi stivaletti col fianco elasticizzato scintillavano nel sole. I cappelli avevano un’inclinazione impertinente. Papà diede l’ordine: tutti si staccarono i distintivi dai cappelli e se li misero in tasca; non era il caso di lanciare sfide inopportune. Bimbo, latore, armiere e tesoriere, si guardò intorno. Non scorse divise azzurre di poliziotti e, per metà coperto dai membri della Famiglia, consegnò a Papà Arnold il pacchetto avvolto in carta da regalo. Era il loro regalo per Ismael. Arnold si infilò in tasca il pacchettino e la tasca si deformò. Tutti gli altri, la Mamma, i cugini, le sorelle e il resto del gruppo, si sparpagliarono per la via per non apparire troppo come un reparto militare e non rischiare di indurre al panico i Lord Coloniali, probabilmente già un poco agitati. Quello più vicino volle assolutamente toccare Arnold e dare una manata amichevole sulla schiena allo Zio Hector, che era il comandante. «Vai, Padre.» «Zio, vai tranquillo.»
«Non farti incastrare, fratello. Non ti fidare: non farti vender merda, non farti metter sotto, capito? Fai loro vedere chi siamo, ma bene.» Attraversarono la strada. Persino il fondo pareva cambiato: erano in territorio d’Altri. Il sole era altrettanto infuocato, faceva caldo da questa parte della via quanto dalla loro. Ma il pulviscolo nell’aria era differente qui, raspava la gola. La gente era la stessa che si incontrava dalla parte loro, ma c’era qualcosa di diverso. Le ombre nettamente delineate dai raggi feroci del sole pomeridiano aumentarono la loro sensazione d’essersi tuffati in una foresta oscura e misteriosa. In ogni luogo ignoto c’erano occhi fissi su di loro. Si guardarono alle spalle, dall’altra parte della strada, dove i loro uomini erano disposti a ventaglio, disinvolti e distaccati, ma pronti all’azione. Qualcuno si dondolava ai ritmi di una radiolina tascabile. Stavano tutti all’erta, nel caso comparissero i Lord nemici o piombassero su di loro le auto della polizia a sirena spiegata a interrompere tutto. Ma soprattutto i Dominatori si sorvegliavano l’un l’altro, in attesa di un primo segno di paura. Un emissario dei Lord Coloniali usci da un negozio e si fece avanti lentamente con un atteggiamento aperto e sereno per dimostrare che l’incontro doveva e voleva essere dignitoso, amichevole, tra pari. Un ragazzino fece scoppiare un nastro di petardi ed entrambi i capi trasalirono. Arnold sorrise. Il Primo dei Lord gli rispose sorridendo a sua volta. Si scambiarono una sigaretta e se l’accesero vicendevolmente. Arnold tirò fuori l’invito stampato di Ismael, il programma e il lasciapassare. Consegnò il tutto al Primo il quale disse educatamente che, cazzo, gli bastava la sua parola. Non era sempre così. Altri Lord si avvicinarono con le loro donne e si fermarono a osservare Arnold che cavava dalla tasca il pacchettino e lo consegnava a Zio Hector, investendolo del comando, perché lo stato era di tregua, ma insieme anche di guerra. Hector, dall’espressione glaciale e il corpo sottile e nervoso, prese il pacchetto con un cenno del capo ad Arnold. Decise di tenerlo in mano, in evidenza. Uno dei Lord Coloniali, Willie, uno psicopatico che non sapeva resistere all’impulso di stuzzicare, cominciò col dire: «Madre»... una parola pericolosa. «Muh... Muh... Muh...» e sorrise vedendo che Tonto stringeva istintivamente i pugni. «Che cazzo, dico, neanche un regalino per me?» disse piagnucolando per scherzo. Le ragazze strillarono. A Tonto si erano rizzati i capelli e i suoi pugni cominciarono a chiudersi e riaprirsi ritmicamente. Un luogotenente piantò la mano tesa nel fianco di Willie. «Non fa sul serio, va a ruota libera», disse, cercando però di far capire che l’amicizia non significava debolezza. Willie, non soddisfatto, disse: «No, non faccio sul serio, vado a ruota libera, io. Sentito cosa dice il consigliere guida? Dice che Willie disturba e bisogna aver pazienza». Ricevette un altro colpo. Tonto, che era permaloso e stupido, continuava a irrigidirsi e il movimento dei suoi pugni si trasmetteva lungo le braccia su fino alle spalle. Hector lo toccò con la punta dura del pacchetto e Tonto parve rilassarsi leggermente. Alcune delle donne dei Lord, attaccabrighe come sempre, fecero in loro direzione dei versacci, col viso stravolto da smorfie di odio antico. «Cazzo, così volete lasciarli passare? Come se niente fosse?» «Vi lasciate mettere sotto così?» «Guarda, guarda là; ti sta guardando con degli occhi!»
Evidentemente a loro non era stato detto niente. Uno dei Lord sferrò un manrovescio a una delle ragazze. «Buona, donna.» E con questo furono soddisfatte. Il Primo, con aria annoiata, disse: «Queste donne, sempre a far casino». Junior annuì in segno di assenso. Non potevano essere un gran che come uomini se non erano capaci di tenere a bada le proprie donne, ma non lo disse. I Dominatori disprezzavano i Lord perché li consideravano fiacchi combattenti; avevano tra le loro file psicopatici e bucaroli e le loro donne erano poco più che puttane. Restarono tutti sospesi per un secondo. La Famiglia di Arnold seguiva tutto dall’altro lato della strada. Il Primo fece loro un cenno, ma cosa significava? Andate? Venite? Restate? Arnold concluse che doveva voler dire «venite» e che avrebbero camminato in pace per la prima volta in due anni da che Arnold aveva fondato la Famiglia e delimitato con la forza il suo territorio. Zio Hector si mise a marciare. I fratelli e il Padre lo seguirono. Camminavano tranquilli, per dimostrare che erano in amicizia, ma lo facevano da uomini, composti, sempre pronti però all’azione. Erano sei lunghi isolati fino alla stazione, alla luce del giorno, né in forze né in azione di sortita. Videro parecchi uomini che potevano essere dei Lord Coloniali, ma nessuno ostacolò la loro marcia. La disciplina li aiutava a mantenere la calma e la compostezza. A pochi isolati a sinistra c’era il lungomare oltre il quale c’era la spiaggia, ma la maggioranza della gente se ne stava ormai andando, carica di attrezzatura da mare, anche se qualche ritardatario arrivava ora. Qualche coppia, ridendo allegramente, era diretta al luna park. Incrociarono un vecchio che camminava a fatica con un cestino di vimini in mano e una canna da pesca e Hector pensò che la canna sarebbe stata una buona arma. Sentivano musiche lontane, il rombo delle corse e, dalla spiaggia, la placida risacca e il brusio della folla. Pareva strano a Hinton che, in una giornata così calda e densa di pericoli come quella, la gente andasse a prendere il sole, a bere birra gelata, a mangiare hot dog e pannocchie imburrate, patatine e pesciolini fritti, senza altri problemi che quello di ritornare a casa su una linea della sotterranea iperaffollata da altri bagnanti; davvero erano ben lontani dalla realtà, fuori dal mondo. Era già stanco. Non rincasava da due giorni. Gli sarebbe piaciuto che fosse già Dopo: allora avrebbe potuto sonnecchiare nell’ombra sotto il molo di legno o riposare con una ragazza tra le braccia. Poi avrebbe voluto vedere, più tardi, i fuochi artificiali. Nient’altro. Tranquillo e nel buio; niente di più. Raggiunsero la stazione. Arnold e Hector discussero sulla opportunità di dividere il gruppo per non dar nell’occhio, mandando in città gli uomini su due treni diversi, ma non osarono. Chi avrebbe controllato Tonto? C’era bisogno di due uomini per tenerlo a bada e i due dovevano essere Capi. D’altronde ci sarebbe voluto un capo per ciascun gruppo e Tonto era troppo forte perché si potesse rinunciare a lui. Salirono i gradini della stazione in buon ordine; nessuno fece lo spiritoso. Nessuno spiccò un salto per toccare il soffitto, nessuno strappò i manifesti pubblicitari, nessuno scarabocchiò graffiti o firme. Sarebbe stato comunque compito di Hinton. Lui era l’Artista della Famiglia. Bimbo, il latore, acquistò quattordici biglietti, sette di andata e sette di ritorno. In stazione, Bimbo comperò gomma per tutti, perché stessero calmi a masticare aspettando il convoglio. Distribuì infine briciole prelevate dal grosso del
malloppo, sette dollari a testa, nel caso si fossero separati e avessero dovuto arrangiarsi a rincasare da soli. Nel Bronx, otto ragazzi, in maglione nonostante la calura e con un’espressione cattiva sulla faccia irlandese, presero l’autobus che attraversava la città. Infilarono le monete nella macchina e si spostarono verso il fondo che era vuoto. Si sedettero in silenzio. Il conducente si sentiva la nuca di ghiaccio. Aveva riconosciuto le basette lunghe e i capelli tagliati a spazzola. Punk. Guai in vista. Se ne sarebbero rimasti tranquilli per un po’, in silenzio, finché qualcuno di loro avesse visto qualcosa di divertente, e Dio solo sa cosa riusciva a divertire quegli animali. Allora ci sarebbe stato il primo colpetto di gomito. Poi tutti si sarebbero messi a guardare con interesse, a bisbigliare e finalmente a ridere. E sarebbero incominciati i guai. Alle volte si attaccavano al pulsante di prenotazione-fermata e non lo mollavano più. Quando l’autobus si fermava prendevano a saltare rumorosamente sulla piastra che apre automaticamente la porta posteriore. Si insultavano a vicenda, aprivano e chiudevano i finestrini rumorosamente. Poi accadeva che qualcuno protestasse, magari una signora anziana con la faccia da prugna secca, e a questo punto lui era costretto a intervenire, doveva fermare l’autobus e andare dietro a dir loro di piantarla, augurandosi che se non l’avessero ascoltato almeno non lo aggredissero. A volte capitava, sorprendentemente, che gli dessero retta. Altre volte lo insultavano con espressioni inimmaginabili. Ancora non gli era accaduto d’essere pestato, ma sapeva di colleghi che l’avevano vista brutta. Cercava di tenere gli occhi sulla strada e sui Punky Hoods contemporaneamente. Non poté fare a meno di essere in ansia, mentre guidava evitando veicoli e pedoni, preoccupato com’era per quel che sarebbe successo dietro alle sue spalle. I ragazzi non erano così, una volta. Quando era stato giovane lui i ragazzi erano dei duri, ma non erano cattivi. Nessuno finiva ammazzato, allora. Il mondo stava andando a catafascio. Se solo la polizia avesse messo in uso gli sfollagente. I Punk erano tranquilli. Uno continuava a incrociare le braccia, ficcandosi le mani sotto le ascelle come se avesse freddo. Un altro tormentava i bottoni del suo maglione facendo oscillare in continuazione una gamba, come per un tic incontrollabile. Un altro osservava il tramonto. Uno arrivò addirittura a spostarsi per lasciar passare un passeggero. E una volta tanto non si sdraiarono scompostamente sui sedili. Per mezz’ora l’autista attese l’inevitabile scoppio, ma non successe nulla. Quando l’autobus fu ormai a una delle ultime fermate, uno dei ragazzi premette il pulsante. Ora, pensò il conducente, e invece i ragazzi scesero senza far storie. Restarono fermi a chiacchierare tra loro, mentre l’autobus si allontanava. Forse si era sbagliato, pensò il conducente, forse erano solo compagni di scuola. Il ragazzino moccioso sedeva, molle e stupido, tra i due robusti caporali sul sedile posteriore della grossa Cadillac di suo padre. Quando erano andati a requisire il «carro» avevano pensato bene di portarsi dietro il figliò del padrone, che era uno schiavo allo stato brado, perché non volevano difficoltà, non proprio quella sera. Un po’ lo avevano costretto, un po’ lo avevano convinto, promettendogli una brillante carriera se si fosse offerto volontario. Il ragazzo era impressionato, ma si sforzava di
fare il muso duro per essere all’altezza dei guerrieri. Si vedeva la fatica che faceva per essere come loro, come i due che aveva ai lati, i due rannicchiati sul fondo della macchina e i tre seduti davanti. Sapeva però che lo lasciavano andare con loro solo perché lui aveva la lunga Cad nera di suo padre e perché permetteva loro di guidarla. Ma aveva paura. Anche lui sapeva cavarsela bene, al volante, ma la sua guida non somigliava nemmeno lontanamente a quella terrificante e spregiudicata del giovane che aveva adesso il volante. Il Generale, lanciando un’occhiata al sole sul litorale del Jersey, pensava che forse sarebbe stato opportuno buttar fuori lo schiavo prima che raggiungessero il luogo dell’incontro con Ismael. Il Generale si compiacque dell’effettaccio che facevano a bordo del carro, tirò fuori l’invito di Ismael, consultò l’orologio e il programma. Erano puntuali. Per la quinta volta il Generale rammentò al guidatore di star calmo, di guidare tranquillamente, perché se li fermavano, cazzo, li avrebbero schiaffati dentro, cazzo, e sai benissimo perché. Il guidatore disse che, cazzo, non era mica scemo, ma che le sue dita carezzavano la pelle nera del volante e che la punta del piede toccava leggermente il pedale dell’acceleratore e, disse, proprio non poteva farne a meno perché se ti veniva uno scatto, cazzo, quel pedale che bastava sfiorarlo ti tradiva subito e si capiva, perché era come se intorno tutto fosse immobile: il Generale lo capiva questo o no? Il Generale scrutò l’autista. Era forse gasato, fumato o carburato? Uno di quelli seduti dietro, preoccupato, chiese se poteva prendere il volante. Il Generale voleva sapere dall’autista se gli premeva tanto di buscarsi una randellata da un poliziotto, tra capo e collo, giusto per raddrizzargli il cervello. Questo voleva? Perché, appena fossero stati fermati dalla pula, era poco ma sicuro che si sarebbero beccati speciali carezze ai reni, al culo e sul dietro delle gambe, perché si sarebbero trovati di schiena a gambe larghe con le mani contro un muro o sull’auto. E allora? Non ce l’avevano sottomano una sgarzolina da far scappar via con il regalino per Ismael tra le gambe. Lo sapeva, lo sapeva, piagnucolò il guidatore, rallentando ancora. Perché non poteva divertirsi un po’ e guidare al contempo, insisté. Ansia, da dietro. Il Generale non rispose. Ma dei bulli, degli studenti tutti tirati a lucido, con i capelli doverosamente tagliati a spazzola, li raggiunsero e li superarono di gran carriera a bordo di un ammasso di ferraglie fiammeggianti e ammaccate. Contemplarono con interesse le linee sobrie della Caddy. Riconobbero gli avversari e strombazzarono, ridendo e sghignazzando per la forma nera e scintillante del Ferro di Detroit. Li insultarono con gli indici puntati e li sorpassarono. Qui non era questione di inseguirli, prenderli e fare a botte. Quei tipi sapevano come vanno i carri e la loro macchina passò tossendo, sussultando, ringhiando e si allontanò davanti a loro sulla West Side, minacciando di scomparire in lontananza oltre il ponte George Washington. Il guidatore non sopportò la sfida. Era questione di non farsi metter sotto. Così premette il pedale, cercando di mostrarsi indifferente, annoiato. Si disse: «Ah, sì. Sì birra, che cazzo...» e ridacchiò sommessamente. Il carro scattò con un rombo quasi impercettibile. Il guidatore lo avvertì: la potenza sviluppata dalla macchina gli veniva trasmessa alle dita in forma di emozionante formicolio. Tutti desideravano battere quella caffettiera variopinta e non poterono trattenersi dal cacciare un urlo, Generale
compreso. Sarebbe stato bello piantarli in asso, tanto per fargli vedere con chi avevano a che fare. Bella sorpresa, eh? Ansia era sporto in avanti e impugnava un volante immaginario con cui faceva brusche sterzate per curve a gomito di sua invenzione, imitando il rombo del motore con la gola. Dapprincipio la distanza che li separava si assestò, poi cominciò a diminuire man mano che i lati dell’autostrada, la massicciata e il fiume sfrecciavano di fianco a loro sempre più in fretta. Quelli rannicchiati sul fondo dovettero levare la testa per vedere come andava. E nonostante gli otto passeggeri a bordo il carro filava senza sforzo, carico di una potenza tremenda, tanto che il guidatore si sentiva un mondo intero tra le mani, una potenza che dalle mani gli entrava dentro e lo faceva sentire forte, fortissimo, più ancora del Generale. Poi il Generale tornò in sé e gridò al guidatore di mollare, mollare, mollare! Il guidatore protestò vivacemente... ma cazzo... e disse che sì, avrebbe rallentato, ma non poteva farlo tutto d’un colpo, perché non faceva bene alla macchina, e poi, se c’era qualcuno dietro... E per un emozionante secondo ancora il suo piede restò pigiato sul pedale strappando al motore un ultimo possente guizzo, prima della rinuncia, e ancora per qualche istante si prolungò l’esaltante sensazione fisica che l’aveva invaso. Il Generale si girò su un fianco, s’infilò la mano nella tasca della giacca e tirò fuori il pacchetto per Ismael. Calò l’oggetto con forza sull’anca del guidatore, dicendogli che la prossima volta l’avrebbe ricevuto... lui sapeva perfettamente dove. Aveva forse voglia di discutere con lui di gerarchia? Perché era pronto, il Generale, anche subito, a farlo parcheggiare in qualche luogo tranquillo e isolato dove mostrargli chi aveva il potere tra loro due. E il guidatore rallentò, ripromettendosi di divertirsi un po’ in un secondo tempo. Appena in tempo, perché dietro la curva successiva c’era la pula posteggiata ai lati dell’autostrada. I Tuttamerica si stavano buscando la loro multa da parte di un blu in casco, zuava e megastivali. La testa dei due di troppo scomparve all’istante sotto il filo del finestrino, mentre il guidatore immaginario frenava con stridore di labbra. Si chiesero che cosa sarebbe successo se fossero stati intercettati. Tutto dipendeva dalla loro capacità di non essere presi. Il poliziotto, girando l’angolo, per poco non finì addosso al gruppo. Erano in una decina. Erano comparsi emergendo dal crepuscolo, fuori luogo e brutali sotto le fronde degli alberi. Fiancheggiavano il prato venendogli incontro la notte. Che cosa ci facevano da quelle parti dei negri? Erano un gruppo integralista? Li avrebbe bastonati alla testa. Avevano tutti la medesima faccia ostile e lui stentava a distinguerli l’uno dall’altro eccetto che per la corporatura. Erano musulmani? La sinistra gli si strinse intorno all’impugnatura dello sfollagente. Erano una banda? Aveva letto che non valicavano mai i confini del loro quartiere; non riusciva a crederci. Questa era una banda di combattenti. Tentò di far loro credere che stava facendo roteare il bastone innocentemente. Non era tanto turbato dalla paura, quanto dalla barbara anarchia della situazione. Non aveva mai visto gruppi come questo in quel quartiere quasi suburbano. Legge e ordine avevano fallito, qui non erano mai arrivati. Poteva arrestarli per assemblea illegale? Perché erano lì? Gli alberi dietro di loro e dall’altra parte della via nascondevano forse altri della banda? Che intenzioni avevano? Erano lì per picchiare
i giovani di quel quartiere? O volevano sfondare le porte di casa e violentare le donne? Avevano in mente qualche attentato esplosivo con cui mandare all’aria le celebrazioni del 4 luglio? Tutti avevano parecchie piccole fibbie d’ottone sugli impermeabili e scarpe a punta. Si erano stirati i capelli che portavano cotonati, tenuti in ordine da larghe fasce nere e luccicanti. Cosa nascondevano sotto quei corti impermeabili neri: catene di bicicletta, rasoi, sacchi di mattoni, mazze da baseball? Serrò un po’ di più la mano intorno allo sfollagente. L’angustia del marciapiede li costrinse a incrociarlo come in parata, a due a due, in una spiacevole parodia di una formazione militare. L’agente fu quasi colto dal panico nel momento in cui si passò lo sfollagente nella destra, ma nessuno di loro ebbe esitazioni, nessuno lo insultò. Passarono marciando in silenzio, lo superarono senza nemmeno guardarlo. Lui cercò di guardarli negli occhi, per vedere di che cosa fossero fatti. Passarono e lui fece ogni sforzo per non girarsi a osservarli, sapendo che una sua mossa falsa, un gesto che li facesse montare in collera, avrebbe automaticamente fatto scattare quelle mani celate e armate di chissà cosa. Gli sarebbero stati addosso, l’avrebbero bastonato e preso a calci. Era sicuro di essere sorvegliato. Udiva Moro piedi, i passi che si allontanavano, l’eco metallica dei tacchi e delle punte rinforzate. Finché li avesse sentiti non avrebbe corso pericoli. Ma come poteva sapere se qualcuno di loro si era spostato di lato, sui prati erbosi? Gli parve un oltraggio, l’idea di quelle scarpe lustre che calcavano prati falciati di fresco. Strinse la destra intorno allo sfollagente. Il laccio gli si impigliò al polso sinistro. Era il momento di prepararsi. Diede uno strattone, sicuro che qualche oggetto contundente fosse già in volo diretto alla sua schiena o alla nuca. Il laccio passò, lo sfollagente era libero e poté manovrarlo per una presa più sicura. Non ce la fece più e girò la testa. Tutta la banda era ormai lontana. Continuavano a marciare in buon ordine, allontanandosi, finché gli fu difficile distinguerli nelle ombre più dense degli alberi. Guardò nella loro direzione. L’ultima cosa che vide fu l’ammiccare delle fibbie delle loro scarpe. Quando furono scomparsi s’incamminò lentamente dietro di loro battendosi lo sfollagente nel palmo sinistro. Si chiese se dovesse segnalare la loro presenza in campo, quando avesse telefonato in centrale. L’automobile a bordo della quale sedeva Ismael Rivera non era né vecchia né nuova, né grande, né piccola; non era certamente molto sportiva. Era stata portata con prudenza e abilità da Manhattan fin lì. Il tragitto fino al luogo prescelto non era lungo, ma loro erano partiti verso sud, per il ponte di Brooklyn e attraverso Brooklyn, e avevano imboccato la rete autostradale interna fino a Queens. Avevano preso le strade, secondarie, passando per le gallerie, per le soprelevate, oltre cimiteri dietro i quali si ergevano palazzi che sembravano sorgere dalle tombe, simili a mausolei immensi. Si fermarono in vari quartieri, ma brevemente, per un minuto al massimo. Un rapido scambio di istruzioni e via. Alle volte si limitavano a uno scambio di segnali con uno scout, senza fermarsi. La gente celebrava il Quattro; i botti aumentavano via via d’intensità. Il sole era alto, caldo e pesante. Il Consigliere di guerra diede un’occhiata a Ismael, annuì e disse: «Lo sapranno presto».
Adesso ammazzavano il tempo, circolando per vie tranquille dove abitazioni spaziose erano circondate da prati silenziosi. Si vedevano solo gli uccelli. Il Segretario disse: «Qui abita la gente più ricca del mondo». Ascoltarono la radio che mandava musica pachanga; se qualcosa fosse andato storto, l’annunciatore avrebbe trasmesso una richiesta. Presto sarebbe stato abbastanza buio da potersi dirigere al Bronx. Avrebbero attraversato la città fino al luogo convenuto per l’incontro, il Van Cortlandt Park. Ismael era seduto dietro, rilassato. Fumava una sigaretta. La sua faccia era immobile dietro le lenti dalla pesante montatura. Gli occhi erano invisibili. Eppure lui aveva visto tutto: le strade, i cimiteri, gli alberi, i bei palazzi, le acque del Long Island Sound e l’arco elegante del ponte che traversava quelle acque fino al Bronx. Il Consigliere era impegnato coi programmi. C’erano tante cose da tenere a mente alcune bande avevano avuto fifa; rappresentanti inaspettati avevano deciso di venire; era possibile assegnare a questi ultimi i posti precedentemente riservati ai rappresentanti che si erano ritirati? Continuava a consultare cartine topografiche e taccuini. Gli sarebbe piaciuto vantarsi di essere stato lui a pensare a tutto, ma non era andata così: proprio per questo lui era Consigliere, mentre Ismael era Presidente. Era così da quando erano insieme, da cinque anni ormai. Segretario era seduto accanto al guidatore. Si era lasciato andare alla contemplazione di quei panorami bellissimi e nuovi, aveva ammirato lo splendore della città, aveva sognato, sperato cose che un giorno avrebbe forse avuto, se solo gli fosse andato a segno qualche colpo. Certamente, aveva pensato, se avesse avuto successo il grande progetto di Ismael (e quando mai un progetto di Ismael non aveva successo?) chissà, forse ce l’avrebbe fatta. «Cazzo», sbottò, «così si vive. Una di quelle, voglio», e indicò una casa metà in legno davanti alla quale stavano passando in quel momento. Consigliere guardò Ismael, annuì e disse: «Dovrebbe venirti voglia di tirarci delle sassate». Segretario sapeva a cosa alludeva Ismael e si sentì montar dentro il rancore. Si vide a smontare la casa con le proprie mani e con odio. Contemporaneamente, però, si rammaricò che Ismael non l’avesse trovata invitante a sua volta e segretamente si abbandonò al suo sogno e si vide sobriamente vestito di indumenti freschissimi e costosi, a vagare pigramente in interni tipo TV, in una casa non ben definita, ma aristocratica. Parcheggiata davanti all’ingresso vedeva una macchina lunga lunga, scintillante e pesante, ricca di cromature. Avrebbe avuto una moglie slanciata ma con tette enormi, una bionda appesantita da grappoli di preziosi brillanti; sarebbe passata abbagliante in vestiti di sogno; avrebbe avuto molti figli, tutti maschi, perché non era lui forse un uomo, non aveva forse machismo? Comunque lei sarebbe rimasta sempre attraente, anche se plurimadre. Soldi dappertutto, poi, mazzi di biglietti e pietre preziose. Era tutto poco chiaro e molto soddisfacente. «Ma devi ammettere», disse Segretario a Ismael, «che quelli sanno vivere.» «E tu non potrai mai far più che guardare da fuori», rispose il Consigliere in vece del Presidente che sapeva come tener vivo in loro l’odio. Imboccarono la curva elegante della rampa che saliva, librandosi sopra le case, verso l’ingresso del ponte.
Il buio divenne più fitto. Si stavano adunando, giungendo ai capilinea delle linee di trasporti, convergendo sul Van Cortlandt Park. Arrivavano con la metropolitana, in macchina, con l’autobus. Alcuni giungevano a piedi. Rispettavano il programma di Ismael e seguivano le sue guide che indossavano calzoni bianco-latte ed erano appostate nei punti chiave. Evitavano gli ingressi ufficiali al parco. Se la polizia avesse notato un eccesso di calzoni bianchi... be’, faceva molto caldo e il bianco era il colore di moda, no? La polizia aveva abbastanza da fare per evitare che le celebrazioni del Quattro precipitassero nel disordine. Un ragazzo era già finito in ospedale perché gli erano scoppiati dei petardi in faccia ed era ancora molto presto. I guerrieri arrivavano da ogni parte della città, dal New Jersey e dal Westchester. Le guardie prendevano in consegna i drappelli e li guidavano per percorsi prescelti, su sentieri nascosti, attraverso la macchia fitta, nelle vallette tra le alture, tra un cespuglio e una siepe, ma sempre alla larga dai vialetti. Quando si sapeva che due bande erano in guerra tra loro, si sceglievano percorsi di avvicinamento il più lontani possibile l’uno dall’altro. I corrieri di Ismael scortavano le bande consegnandole agli uomini di collegamento snodati lungo le linee di comunicazione, guidandole nell’oscurità e nel fitto della vegetazione, dove si vedevano solo i calzoni bianchi degli uomini di Ismael. Percorrendo, un po’ a disagio, vie invisibili per campi neri, erano confortati dalla coscienza che tutt’intorno i plenipotenziari di quasi tutte le bande cittadine convergevano insieme con loro sul luogo dell’incontro. Benny lo scout, l’uomo di Ismael, era appostato ai bordi dell’autostrada che attraversava il parco in attesa dei segnali della guida che dall’altra parte della strada faceva da vedetta Segnalando le automobili in arrivo. Quando c’era una pausa nel traffico, la sentinella faceva il segnale con la torcia. Benny allora ordinava agli uomini in attesa di attraversare. Stava acquattato dietro a un cespuglio fitto, con lo sguardo fisso nel buio, in attesa del segnale. Dietro di lui stavano abbassati sei delegati dei Morningside Sporting Seraphs, potenti e micidiali, con un curriculum di guerra invidiabile. Le loro facce sembravano più bianche alla luce di un lampione posto sul ciglio della strada. Indossavano grandi berretti girati su un lato. Uno di loro, osservando la scia dei fuochi artificiali che fendevano l’oscurità tutt’intorno e ascoltando i botti, disse: «Sarebbe il momento giusto di venir giù ad ammazzare tutti e a sganciare la vecchia bomba A, eh? Bum! Cazzo, che godere! Nessuno se ne accorgerebbe». «Sei scemo, cazzo. Non vedi niente, capisci? Niente, Sei morto prima ancora che il bum finisca. Così, zac. Bu-morto-um. E forse prima ancora.» «E che mi frega? Gli starebbe bene. Tutte le madri la beccherebbero. Cioè, tutti, gli altri e noi, tutti nella stessa barca. Che godere. Cazzo, ma non ti piacerebbe vedere la vecchia bomba che va?» «Tu non la vedresti sicuro.» «Be’, forse per un secondo, che so? Che botto. Bum!» «Sai cosa sei, tu? Scemo.» La torcia mandò un lampo di luce dall’altro lato della strada. Benny diede l’ordine e i Seraphs si tuffarono in avanti, curvi e a zig zag, correndo all’impazzata, colla
schiena orizzontale e un gran lavoro di ginocchia, stringendo nella mano immaginari fucili, come soldati di un film. Attraversarono e si dileguarono nelle tenebre in due secondi. Benny attese d’essere raggiunto dal prossimo gruppo. Al di là del grosso cespuglio, alcuni veicoli passarono illuminando con gli abbaglianti la macchia di vegetazione. Arnold e la sua Famiglia furono guidati attraverso la zona buia. Arnold stava di retroguardia, all’erta, nell’eventualità di un’imboscata. Attraversarono un tratto fangoso con un gran rumore di piedi e di acqua; pochi giorni prima era piovuto. Hinton procedeva con cautela: dove avrebbe trovato il denaro per un paio di scarpe nuove? Tonto si proteggeva il cappello temendo i rami bassi. Hector continuava a pulirsi i vestiti. Questo posto era sconosciuto e faceva paura. L’effetto dell’alcool si stava esaurendo ed erano tutti sulle spine e irritabili. Il corriere li consegnò a Benny e tornò indietro a prendere il nuovo drappello. Benny si girò e scorse Hector. Ora, Benny aveva avuto dei guai con Hector, quando abitavano entrambi nel territorio di Ismael. Era stato parecchio tempo addietro, quando entrambi erano ragazzini di strada. Restò stupito vedendo Hector. Questi, dal canto suo, pensò di fargliela vedere con un corpo a corpo. Benny era un duro. Non cedeva niente a nessuno, eccetto che ai suoi ufficiali: con gli ufficiali i rapporti erano di disciplina e ubbidire non toglieva niente alla sua virilità. Ora comunque non era il momento e il luogo. Si fronteggiarono. Benny dovette distogliere gli occhi per vedere il segnale. Tonto, che era il più vicino, capi cosa stava succedendo e rise, reagendo con una smorfia divertita alla faccia perplessa di Benny. Ci fu l’attesa pausa nel flusso del traffico. Benny fece loro segno di passare. Hector non si mosse; sapeva che Tonto aveva visto. Papà Arnold usci per qualche passo sulla strada e tornò indietro. Tonto seguì attentamente gli sviluppi. «Cazzo. Fila», disse Benny a Hector. «Vuoi rovinare tutto? Vuoi farci venire addosso la pula?» Hector si avviò, ma Tonto gli posò una mano sulla spalla per trattenerlo. Così Hector disse: «Chi mi dice di filare? Nessuno dice a me di filare. Quando sono pronto io, filo». «Stai intralciando l’operazione», gli rispose Benny. Anche se Hector avesse scelto di rispondergli facendogli fare brutta figura di fronte agli altri, Benny aveva deciso di incassare. Ci sarebbe stato tempo più tardi, per pareggiare i conti. Lui era un uomo e l’esempio più chiaro lo dava adesso facendo fino in fondo il suo dovere come soldato dell’esercito di Ismael. Questa era la disciplina, a costo di farsi mettere sotto, se era necessario. Non avevano forse tutti sentito parlare di Ismael? Benny vide che ormai era troppo tardi per attraversare: il traffico aveva ripreso. Tonto si era portato al fianco di Benny e si stava mettendo in posizione. Arnold lo prese per un braccio. «Lascia che lo Zio se la veda da sé.» I fari rovesciarono gocciole di luce sui cespugli e qualche raggio filtrò chiazzando le loro facce di punti di luce che si alternavano alle ombre ovali e tremolanti delle foglioline. In lontananza scoppiarono dei petardi e una serie di sorde esplosioni corse lungo l’orizzonte. Hector e Benny guardarono verso l’alto. Hector aspettò, poi cominciò ad attraversare la strada, soddisfatto di aver ben difeso il proprio onore.
Benny lo prese per una manica ammonendolo a star fermo, ad aspettare il via. Lui lo guardò in faccia. Poi abbassò gli occhi sull’oltraggiosa mano che stringeva il tessuto della sua manica. Tornò a fissare Benny negli occhi. Tonto già saltellava sulle punte dei piedi, borbottando qualcosa che nessuno senti, qualcosa di animalesco, eccitato dall’imminenza del Momento. Bimbo si avvicinò, osservò attentamente la faccia di entrambi e aspettò. «Nessuno dice a quest’uomo di andare», disse Hector. «Ismael ti dice di andare», ribatté Bénny, evocando l’autorità massima, lasciando andare la manica di Hector e rimproverandosi per l’errore commesso. «Non dargli retta», disse Tonto. «Vai.» «Tu, piccolo, chiudi il becco», intervenne Arnold. «Lingua indietro. Zitto.» Dietro di loro arrivò un’altra colonna. Bimbo bisbigliò: «Non puoi fare niente adesso. Devi star calmo, cazzo». «Lo conosco», disse Hector. «Lui mi conosce.» «Ti conosco», disse Benny. «Chiacchiere. Andare, venire. Tutte balle. Via, cazzo», Tonto era agitato. Arnold colpì duro nelle sue costole con le dita tese. Tonto grugnì. «Un’altra volta, giusto?» disse Papà. Restarono immobili per tutto il tempo che richiedeva il senso dell’onore. Arnold sapeva che c’era il rischio di mandare all’aria tutta l’operazione e disse, con superiorità: «Bene, la sistemate dopo. Adesso si va». «Te la batti!» volle sapere Tonto. «È te che batto», gli rispose Arnold. E Dewey raccomandò a Tonto di piantarla e aspettare tranquillo. La vedetta sull’altro lato della strada lanciava segnalazioni frenetiche, preoccupata per il ritardo incomprensibile. Era già pronta a lanciare il razzo azzurro di pericolo, quando Benny, vedendo che il momento era buono, diede nuovamente l’ordine di partire. Il gruppo attraversò di corsa. Alla curva, in fondo, già erano apparsi i fari della prossima macchina in arrivo. Più giù videro altri gruppi attraversare di corsa come loro, veloci e ignoti. Scesero un pendio, passarono oltre la vedetta e incontrarono un altro scout in calzoni bianchi che li guidò attraverso il campo nero. Più avanti, un po’ più in alto, dove correva un altro viale, sfrecciavano i fari delle automobili. Raggiunsero il loro posto sulla spianata umida. Il cielo era ravvivato dai fuochi. Un razzo rosso salì lentamente dal centro del campo e restò sospeso nell’aria. Significava che c’erano tutti. La macchina di Ismael Rivera aveva compiuto il giro del dedalo di viali e vialetti del parco alla ricerca di un posto tra i veicoli in movimento. Era passata già due volte accanto al luogo dell’assemblea. Ismael aveva guardato da quella parte e non aveva visto altro che una distesa di tenebre nere e aveva pensato che era perfetto. Non si vedeva nessuno. Nessuno aveva acceso fiammiferi, perché lui aveva ordinato che non si fumasse. Ed era vanto della sua organizzazione il fatto che nessuno scout e nessun gruppo era stato scorto nell’attraversamento delle autostrade. Lui sapeva cosa cercare in quelle tenebre, eppure nemmeno lui vedeva niente. Si poteva far meglio?
Il guidatore superò le macchine che aveva intorno e s’infilò di slancio nell’oscurità. Era il terzo giro. Poco dopo i fari più vicini erano a mezzo chilometro. Circa mezzo chilometro più avanti un gruppo di lumini rossi si allontanava, danzando in formazione secondo i sobbalzi delle vetture. Scomparvero dietro una curva. La macchina di Ismael iniziò la curva e un attimo dopo i fari a tergo scomparvero. Ismael fece un cenno di capo al Consigliere di guerra. Consigliere passò parola al Segretario. Segretario comunicò con Autista. Autista accostò senza rallentare, mandando un segnale intermittente con gli abbaglianti. Una ventina di sentinelle sbucarono dall’oscurità scendendo sull’asfalto. Furono illuminate dai fari. Erano a una cinquantina di metri. La macchina frenò bruscamente, stridette, si bloccò; una delle sentinelle spalancò le portiere. Balzarono fuori in tre; l’automobile riparti con tale slancio che le ruote urtarono il marciapiede, persero contatto col fondo, lo ritrovarono, morsero l’asfalto e riguadagnarono l’attrito. I tre furono scortati lungo il terrapieno. Anche se apparentemente non contenevano altro che l’odore insolito e umidiccio della vegetazione, il brusio degli insetti e lo stropiccio dell’erba e delle foglie, Ismael sapeva che erano tutti presenti: un migliaio. Camminando, Ismael ascoltò i rapporti bisbigliati dagli scout. C’erano ambasciatori da quasi tutte le bande principali della città e dei sobborghi. Ismael fu condotto al suo posto. E cominciò.
4 luglio, ore 22.30-22.50 La festa del Quattro si avvicinava al suo culmine. Nonostante la proibizione dell’impiego di materiali esplosivi, tutt’intorno al parco salivano nel cielo i razzi dei fuochi artificiali, brillavano a cascata luci multicolori, in lontananza gli scoppi si succedevano come uno sbarramento di artiglieria. Qua e là, serie di petardi scoppiavano all’improvviso come scariche di mitraglia. Scintille e lapilli tremolavano come stelle. I razzi, esplodendo, disegnavano nel cielo migliaia di simboli patriottici: eroi della storia americana, presidenti (Washington luminoso verso occidente, Lincoln nebuloso verso meridione, Kennedy oscillante a nordest), vessilli della grande tradizione storica. La statua della Libertà fremeva in una corrente d’aria. Ismael era in piedi su un dosso, un mucchio di materiale per le riparazioni stradali, coperto dalla parte dei viali da un’alta siepe. Un anello di torce accese gli era stato sistemato all’intorno, in modo da illuminarlo. Il suo sguardo era duro, ma protetto dal colore azzurro delle lenti. Sentì gli occhi di tutti addosso. Ricordò una pubblicità, qualcosa che aveva a che vedere con delle torce elettriche che avevano salvato la vita a un uomo. A chi avrebbero salvato la vita questa sera? Sentì un mormorio alzarsi dalle tenebre, ma forse era stato solo un soffio di vento. Più distaccato e compassato degli altri, era lì, in piedi, elegante nei semplici indumenti dell’Ivy League; lui non amava i vestiti troppo attillati, l’eccesso di fibbie di cui si coprivano tutti gli altri. Anche il cappello lo portava accuratamente calzato sulla fronte e se non fosse stato per l’unico orecchino che gli brillava a un lobo,
sarebbe potuto passare per uno che fa pubblicità. Capivano, costoro, cosa aveva fatto lui? Loro aspettavano immersi nell’oscurità. Erano come racchiusi in lontananza dalle due file di lampioni dell’autostrada, dove le automobili sfrecciavano con un rombo sordo e appena percettibile, distinguendoli solo per i fasci dei fari che s’incrociavano su di loro. Più oltre c’erano i riquadri illuminati delle case. Qui invece c’era l’Uomo, con l’Idea, colui di cui si diceva avesse ventun completi di gran marca in guardaroba e altrettante paia di scarpe; era l’Uomo che vantava un arsenale sufficiente ad armare un battaglione. Chi non conosceva Ismael? Ismael sapeva di avere circa dieci minuti per rivolgere loro il Verbo. La loro attenzione non sarebbe durata molto più a lungo. Sentì il rumore di qualche mano che schiaffeggiava zanzare. Doveva rivolgersi a loro con semplicità, ma drammaticamente. Doveva sollecitare la loro reazione d’entusiasmo. Una volta che fosse riuscito in questo intento, i suoi uomini li avrebbero tenuti a lungo in quello stato d’animo. Aveva immaginato molte volte il grande momento, aveva pensato ripetutamente a tutto ciò che aveva da dire, aveva ripassato la sua parte, il modo in cui avrebbe instillato la sua sapienza in questo momento che era stato creato e voluto dall’Idea. Sebbene la sua faccia restasse come sempre impassibile, avvertiva dentro di sé il crescere del suo terribile potere. I suoi occhiali scuri erano come una maschera. Non osava esibirsi in un’orazione: loro erano costretti a sentirsi parlare addosso in continuazione e avevano imparato da tempo a non ascoltare. E poi la sua voce non era forte; anche se si fosse messo a gridare, non sarebbe riuscito a farsi sentire dall’altra parte del campo nero. Si era messo davanti allo specchio e aveva gesticolato e provato varie espressioni, ma sapeva di non avere la carica di un Castro. Doveva parlare con semplicità, perché la maggior parte di loro non era proprio brillante, in fretta, perché la maggior parte di loro non aveva pazienza. Quel che doveva dire, era da dirsi con veemenza, più col gesto che con la parola, perché doveva convincerli a trattenersi e ad ascoltare. Sapeva che si agitavano nell’oscurità, spaventati dal luogo sconosciuto, pronti all’azione, sempre nervosi quando si trovavano lontano dai rispettivi territori. A duecento metri Tonto continuava a cambiare posizione nel buio, chiedendosi seccato quando l’Uomo avrebbe cominciato, o se invece intendeva passar lì tutta la notte in bella mostra a esibire i suoi vestiti preziosi nella luce delle torce. Bimbo bisbigliava di aver pazienza e aspettare. Hinton il nervoso si agitava, incapace di trovarsi una posizione comoda, messo a disagio dall’atmosfera sinistra di quelle tenebre. Fino a quando avrebbe resistito? Era sul punto di lasciarsi prendere dal terrore e solo la presenza della Famiglia lì vicino lo aiutava a mascherare il suo stato d’animo. Ismael puntò l’indice verso le luci della città all’intorno e fece girare il braccio teso in un gesto accusatorio. Hector sussurrò: «Ascoltatelo». Ismael cominciò. Dapprincipio non sentirono niente e poterono solo seguire con gli occhi il movimento delle sue braccia. Ismael parlava. Parlava con le labbra socchiuse e la voce sommessa, come sempre faceva. Parlava ai tre corrieri seduti davanti a lui. Parlò all’oscurità brulicante e al rincorrersi dei fari e parlò alla città e ai fuochi d’artificio nella volta del cielo e ai
lumicini degli aerei di passaggio, sfidando tutti e nessuno. I tre corrieri sentirono le sue prime frasi, si girarono e passarono la comunicazione ad altri che diffusero a loro volta il Verbo, trasmettendolo, piano, sempre più lontano, nella notte. Ora non c’erano rumori di sorta. Ismael disse loro chi era. E loro già sapevano. Si era fatto avanti e aveva raccolto i resti di una banda in disfacimento che da dieci anni brancolava morente in un continuo avvicendamento di personale. Aveva la reputazione di grande combattente, di astuto stratega. Chi sapeva guidare meglio di lui un esercito? Aveva vinto e assimilato un gran numero di altre bande, si era conquistato alto onore e per i suoi aveva ottenuto la gloria. Poi aveva fatto dei suoi uomini dei mercenari e aveva dato il suo esercito a noleggio per aiutare altre bande nei loro scontri. Quale altro esercito aveva tanta esperienza quanto il suo? Quale altro esercito aveva altrettanta disciplina? Adesso, contando gli ausiliari, poteva schierare trecento uomini. C’era forse un altro esercito con miglior equipaggiamento e più fondi? Lo conoscevano. La sua faccia era lì e tutti la vedevano. Le larghe lenti azzurre erano una sfida rivolta a tutti e tutto. Nell’oscurità i presenti annuirono. Perché erano lì? Lui puntò di nuovo il dito e il braccio teso, girando lentamente in cima alla montagnola, e disse loro che erano lì riuniti a causa del Nemico. Ricordò il loro Nemico, gli Adulti, il mondo dell’Altro, cioè quelli che li mettevano sotto. Tribunali e prigioni e la galera-scuola e la galera-casa; i gestori di questi luoghi li mettevano sotto. I giornali li mettevano sotto. Gli uomini delle bande maggiori li mettevano sotto nel non ammetterli nei propri racket. Gli uomini che chiedevano troppo per tutto li mettevano sotto. Gli spacciatori che si aggiravano infidi ad agganciare il prossimo li mettevano sotto. Quelli che tenevano per sé tutte le cose buone del mondo lasciando a loro, nella miseria, la vita da due soldi, i sogni televisivi, le macchine di seconda mano vendute a prezzi esorbitanti, i vestiti dei grandi magazzini: tutte cose per le quali avrebbero dovuto spaccarsi la schiena per il resto dei loro giorni! Questi li mettevano sotto. E i peggiori erano quelli che si sforzavano di passare per loro amici: gli assistenti sociali, quelli dell’assessorato alla gioventù, gli insegnanti, tutti quelli che venivano a far da guida morale parlando di centri comunitari, organizzando feste da ballo e riunioni sportive e gite e letture, la Mobilitazione della gioventù, la Carriera, tutta questa merda; e poi la polizia indulgente, le belle promesse come quelle della chiesa... Tutti ricordavano chi era stato suo fratello maggiore, la sua fama di un tempo era ancora viva. E ora qualche apostolo dell’ultim’ora l’aveva agganciato; sua moglie sfornava un figlio all’anno e lui batteva le mani e agitava il culo a quelle merdate su Gesù e non fumava e si pentiva, lavorava come un cane e faceva sorrisi ebeti tutto il tempo. Era peggio del tè. Una guerra di poveri? Lui aveva la guerra giusta. Di nuovo fece il gesto accusatore, stendendo il pugno chiuso e il dito rigido in avanti e girando su se stesso in cima alla montagnola. Loro sapevano. Tutti annuirono. Disse loro che erano tutti perduti, perduti dall’inizio e perduti adesso, perduti per sempre, fino alla morte. Con un po’ di fortuna avrebbero fatto una fine veloce, altrimenti avrebbero tirato avanti circondati da figli schiamazzanti come i loro
genitori, per essere né più né meno che i pezzi della macchina del sistema. Alcuni di loro sarebbero rimasti degli emarginati, tossicomani e psicopatici e tutti loro sapevano cos’intendeva. Certamente qualcuno di loro sarebbe riuscito a diventare spacciatore o piazzista di polizze assicurative, ma anche queste erano solo parti della stessa macchina. Loro annuivano, capivano. O credevano di poter sfuggire al sistema rubando, facendosi strada in qualche racket? Non c’erano racket per loro e il lavoro duro non era ricompensato. Potevano solo sperare di accumulare una serie di furtarelli finché sarebbero stati pizzicati e buttati a trascorrere un terzo di vita Dentro. E, se non venivano freddati dalla polizia, ci avrebbero pensato i boss dei racket. Davvero pensavano di potercela fare? Ismael li batté sul tempo. E ricordò loro: se erano così forti e tenaci, dov’erano finiti ora i duri di un tempo? Dov’erano ora i loro fratelli maggiori e i loro eroi? Ma quanto più hombre è l’hombre nel suo gruppo rispetto all’uomo solo! Non potevano non saperlo. La maggioranza era d’accordo. Pochi testardi continuarono a scrollare la testa perché loro sapevano di avere dentro la forza per conquistarsi un nuovo e migliore destino. La strada se la sarebbero spianata a cazzotti, guidati dalla follia delle loro ambizioni o dalla superiorità della loro individualità: l’America non era forse piena di storie così? Anche adesso i cieli erano un grande affresco di ritratti di eroi che ce l’avevano fatta con le proprie mani, perché erano stati forti e violenti. Bastava un colpo di fortuna, niente più... Ma lui ricordò loro che erano speranze mal riposte, a meno che... gli avessero dato ascolto. Arnold saggiamente annuì e si dispiacque di non averci pensato lui stesso. Riteneva che sarebbe riuscito a convincere i propri figli. Junior torceva la bocca alle parole che gli riferiva il corriere. Non capiva e muoveva la testa con forza, convinto che erano solo chiacchiere; e poi non aveva voglia di continuare ad ascoltare. E Arnold gli diede un colpetto che era un ammonimento. Bimbo, il latore, aspettava, pronto ad assentire a tutto ciò che fosse stato approvato da Arnold e Hector. Hinton combatteva col suo terrore, riuscendo tuttavia a mostrarsi freddo e compassato non meno di Ismael, congelato nella pozza di luce al centro del campo nero. Tonto ascoltava le parole che gli erano riferite, cominciando a intravedere dove si stava andando a parare; capiva di trovarsi al cospetto dell’Uomo, del grande condottiero che tutti da sempre aspettavano. La sua faccia era un susseguirsi di smorfie eccitate. Hector, sempre timoroso di minacce che venissero dall’esterno e di cedimenti nella disciplina interna, ascoltava a metà, quasi senza udire, guardando ora i suoi, ora gli uomini degli altri gruppi, appena distinguibili nell’oscurità. Dewey teneva le orecchie aperte. Che cosa si poteva fare? chiese Ismael. Poi disse che in ogni momento erano pronti ventimila guerrieri fidati, quattromila contando anche gli affiliati regolari, sessantamila se si tenevano in conto anche tutti i non organizzati pronti allo scontro. Nell’insieme erano quattro divisioni. Si rendevano conto del significato implicito in tale cifra? Lui glielo disse. Con le donne si era a centomila. Centomila! E avevano i loro arsenali. E spiegò loro il grande sogno. Una banda avrebbe potuto un giorno comandare in città. Si rendevano conto di quanti fossero centomila uomini? C’erano soltanto ventimila poliziotti in città. Perché la forza più potente della città, costituita
da un esercito di centomila uomini, doveva farsi mettere sotto dal Nemico, l’Altro? Avrebbero potuto imporre tasse alla città, tasse ai sindacati della malavita. Cosa restava da fare? chiese Ismael, stendendo il palmo abbassato verso la vasta arena buia. Federazione, disse. Erano in centomila tra fratelli e sorelle. Prima di sentire mormorii di protesta disse loro: «Adesso siamo tutti fratelli e poco importa quel che avete da dire. Ci fanno credere che siamo tutti diversi, così ci azzuffiamo tra noi, divisi in bande di diverso colore, bande bianche, di portoricani, polacche, irlandesi, italiane, bande mau mau e bande naziste. Ma i pugni di ferro ci spaccano la testa agli uni come agli altri, quando ci trascinano ai posti di polizia. E quando il giudice ci guarda e ci dice riformatorio, o isola di Riker, o casa della gioventù o penitenziario, la sua sentenza è uguale per tutti. Ci trattano come se noi tutti avessimo la stessa madre e loro nostra madre ce la fottono e per questo siamo tutti fratelli». Il suo braccio scattò in avanti. Il pugno era chiuso. L’altra mano scese con decisione ad afferrare il braccio a metà, nel Gesto. Ismael si girò, più lentamente di prima, rivolgendo il Gesto al mondo intero. Per un momento si fusero tutti insieme. A duecento metri di distanza Junior avverti questa sensazione. Si sentì far parte di una grande massa confortante e per quell’attimo non provò più lo spavento di trovarsi in un luogo sconosciuto. Tonto s’immaginò i blu presi a calci e pugni nelle loro celle. Hector poté pensare in termini di plotoni, compagnie e battaglioni di uomini che si muovevano veloci sferrando attacchi improvvisi e micidiali. Hinton pensava che avrebbe potuto percorrere grandi distanze senza dover combattere. Bimbo sognava il comando. Dewey sperava che si giungesse alla fine delle attese oziose, da mattina a sera ad aspettare la notte, nella noia, nella noia perenne. Papà Arnold meditava su come avvicinarsi a Ismael. Gridarono e per quel momento Ismael li tenne nel pugno. Per un attimo furono un’unica grande bolla di forza e calore. Gridarono all’unisono, si alzarono e fecero il Gesto in ogni direzione. Ma poté durare solo un secondo: troppe cose incombevano su quella loro unione. Quel che Ismael stava dicendo finì confuso nelle ripetizioni, perché i corrieri del Verbo non ne capivano più portata e significato e per questo non era più importante dire e sentire con esattezza. I dissidenti non ne potevano più. C’erano bande che avevano troppa reputazione e altre che non ne avevano abbastanza. I nazisti odiavano il negro folle che teneva concione lassù. Le bande musulmane lo consideravano un traditore, un portoricano, e per questo in pratica un bianco, e quando mai ci si poteva fidare di un bianco? Tennero a bada il loro intimo rancore per un secondo soltanto e poi esplosero, perché conoscevano solo l’arma della violenza. Gli psicopatici non erano capaci di rispettare la disciplina, non sapevano adeguarsi al gruppo troppo a lungo, erano troppo irrequieti. Gli altri, per la maggior parte, non erano capaci di abbandonare le proprie ambizioni, il desiderio di emozioni, potere, donne, vestiti, macchine prestigiose e onori; alcuni di loro erano stati quasi riconquistati dal mondo, cominciavano a credere a come le cose erano in realtà e non osavano rinunciare al conforto della sensazione di appartenervi. Quelli che erano spaventati si ritraevano perché pareva loro quasi palpabile, al di là dei limiti del parco, la terrificante muraglia dell’opposizione, tutte quelle luci delle case, quei fuochi artificiali così
innocenti che scoppiavano con forza sfrecciando nell’aria; quelle erano solo le prime avvisaglie di quel che avrebbe potuto abbattere su di loro il mondo se avesse deciso di schiacciarli. Qualcuno colpì una zanzara; un guerriero sovreccitato equivocò il gesto e restituì il colpo. Si accese una rissa. Le bande ondeggiarono nell’oscurità. Molti dei presenti, non avendo bene in mano la situazione, accesero le torce per scrutare le tenebre. Un vortice di violenza si scatenò dilatandosi tutt’intorno. I gruppi si ricomposero in bande, sgretolando quel momento incantato di unità totale. Alcuni, sempre all’erta, sfilarono le cinture militari e si prepararono a sferzare, fibbia in fuori. Qualcuno ebbe a che dire sulla madre di qualcun altro. Alcuni di quelli armati strapparono la carta dei loro doni mostrando le pistole per sentirsi protetti. Le puntarono qua e là, ancora spaventati alla prospettiva di servirsene, sondando il buio. I focolai erano ancora isolati e i corrieri si davano da fare per sedare la violenza. Alcuni litigi furono placati subito, ma i corrieri dovettero restare sul posto per assicurarsi che l’Onore non fosse oltraggiato. Ogni mossa era considerata ostile e in ogni punto del campo scoppiavano incidenti. Padre Arnold richiamò a sé i suoi figli. I sette formarono un cerchio, faccia all’esterno. Tonto, come sempre, desiderava trasgredire gli ordini per precipitarsi nell’oscurità a menar botte; ma Arnold e Hector gli stavano vicino per tenerlo buono. Aspettarono che il rumore e l’agitazione si placassero, augurandosi di non dover intervenire. Qualcuno, non potendo più resistere, fece partire un colpo. Una foglia si staccò dalla siepe alle spalle di Ismael e cadde ondeggiando. Segretario cercò di far abbassare Ismael, ma questi, guerriero e condottiero, disdegnò il riparo. La sua faccia era composta. Il suo sorriso freddo era una sfida alla loro stupidità. Le lenti azzurre restavano fisse nell’oscurità in segno di scherno. Udì grida soffocate, i tonfi di qualche pugno e manifestò il suo disprezzo. Riteneva che la sua calma li avrebbe pacificati; dovevano ritornare in sé. Ma era già troppo tardi perché un uomo solo riuscisse a sedare tanta violenza. La rissa si era generalizzata; pace e organizzazione universale non erano più recuperabili in quelle tenebre violente. I figli di Arnold facevano muro, controllati da Hector. Qua e là c’erano altri gruppi che rifiutavano di rompere la tregua per gettarsi nel combattimento e sostenevano a piè fermo gli urti nell’oscurità. I guerrieri se la prendevano con gli uomini di Ismael, riconoscibili grazie ai loro calzoni. Alcuni dei più scalmanati, quelli che avevano rotto la tregua perché mai si erano fidati fin dall’inizio, quelli che erano invidiosi di Ismael, tiravano fuori le catene che tenevano nascoste intorno alla vita. C’erano più pistole di quel che avevano previsto. Tutti i regali furono liberati dai loro involucri di carta. Pezzi di carta colorata venivano illuminati dai lampi di luce. Alcuni, per scherzo, accesero dei petardi e li buttarono tra la folla. E forse qualcuno fece una soffiata. Forse fu un agente di polizia in motocicletta che aveva visto qualcosa. Oppure era stato qualche assistente sociale dell’assessorato alla gioventù che aveva intuito qualcosa. Oppure un guerriero spaventato, o una donna delle loro, presi dal panico, avevano spifferato tutto. E adesso stavano arrivando le macchine della polizia. Ci fu una prima sirena in lontananza. Qui però non era come in città, non c’erano luoghi sicuri dove rifugiarsi,
portoni in cui scomparire; c’era solo questo campo ignoto, c’era l’oscurità ovunque o, al di là, l’autostrada illuminata a giorno. La sirena era ormai vicina. Fecero eco altre sirene. Il suono era noto e arcinoto, udito tante altre volte, ma lo stesso paralizzante. Non sapevano dove scappare, da che parte. Solo gli uomini di Ismael conoscevano le uscite. Le luci rosse giravano a intermittenza sui tetti delle automobili. Le auto arrivavano da ogni parte puntando su di loro da ogni strada. Chi poteva averli traditi se non Ismael? Chi li aveva fatti venire lì, adunandoli in un luogo tanto vulnerabile? Così i doni, che erano una promessa di alleanza, trovarono un impiego ben diverso da quello prestabilito. Da ogni punto del campo le pistole furono puntate verso il cerchio illuminato e fecero fuoco. Data la distanza e data la gran confusione, solo due proiettili raggiunsero il bersaglio: il corpo di Ismael sussultò cascando all’indietro contro la siepe. Un foro non si poté individuare nel tessuto scuro dell’abito. L’altro proiettile gli mandò in frantumi una delle lenti azzurre, così che parve che la faccia di Ismael facesse un’improvvisa smorfia di disprezzo, prima che il suo corpo si accasciasse. Le torce che avevano illuminato la montagnola impallidirono nel momento in cui numerosi fari d’automobile e riflettori si concentrarono sul campo, da ogni parte. Come risvegliandosi da una vischiosa agonia, i loro corpi risposero con un moto inconsulto, scatenati da quell’inondazione di luce, in uno slancio di azione furibonda. Urti e colpi partirono in ogni direzione, non solo diretti ai nemici, ma anche agli amici, come se un gesto improvviso e violento potesse rendere meno atroce la paura. Erano sommersi dalla luce. Anche le bande più disciplinate ebbero degli ondeggiamenti. Alcune erano già in rotta. Tutti presero a correre e correndo si scontravano e si fermavano per picchiarsi. Alcuni correvano in circolo. La luce non li abbandonava. Sopraggiungevano altre auto della polizia che accorrevano sulla scena lungo i viali paralleli, sterzavano stridendo e puntavano verso il campo, si bloccavano e accendevano riflettori e abbaglianti. A un certo punto la luce diventò insopportabile; tutti si sentivano nudi in quel bagliore, si sentivano sommersi e lentamente i loro movimenti cominciarono a quietarsi. Si fermarono. Aspettarono. Un campo affollato di ragazzi ansimanti era illuminato a giorno. Tutti erano come paralizzati, incapaci di pensare ad altro che a quella luce che li aveva inchiodati e alla terrificante sponda di oscurità al di là del cerchio illuminato.
4 luglio, ore 22.45-23.10 Per un attimo tutti restarono immobili. Le luci intermittenti sul tetto delle automobili tingevano di rosso il bagliore. Il corpo di Ismael si accasciò lentamente, scomparendo alla vista dei più, come trascinato sul fondo del mare. Alcuni singhiozzavano. Il rumore dei loro singhiozzi si udì con sorprendente chiarezza nel profondo silenzio. Poi uno che aveva visto troppi film pensò di spaventare la polizia sparando qualche colpo, tentando il vecchio trucco di far esplodere un riflettore o un faro. I blu risposero con un avvertimento lanciato da una sirena. L’altro, evidentemente uno squilibrato, sentendosi protetto dalla massa dei compagni, non
poté fare a meno di dimostrare il suo coraggio e sparò di nuovo. Il proiettile raggiunse un vetro e fece saltare una lampada, ma non riuscì a far diminuire il gran riverbero. Questa volta i blu fecero partire una scarica di colpi come ammonimento, mirando alto sopra le loro teste. La sirena continuò a urlare. Un poliziotto colto dal panico, però, volendo sparare basso per intimorirli di più, sparò loro addosso e uno di loro, colpito, cacciò un urlo. Quell’urlo li mise in movimento. La massa parve gonfiarsi e improvvisamente si disgregò nella corsa. Alcuni partirono a schiere, prima in avanti, poi all’indietro, andando a urtare altri gruppi. Le bande si disfecero. Un guerriero teneva per un’estremità una grossa catena e con un ghigno da pazzo la faceva roteare in un cerchio argenteo di cinque metri di diametro. Per la maggior parte partirono nella direzione da cui pensavano d’essere arrivati. Alcuni andarono verso sud e si scontrarono con un reparto di polizia che stava attraversando un campo per assalirli dal fianco. Un piccolo gruppo, che aveva cercato di farsi varco verso ovest, in direzione della sotterranea di Broadway, si trovò davanti una schiera di poliziotti e una fila di macchine. Gli agenti li attaccarono martellandoli all’impazzata e respingendoli verso il centro del campo. Un megafono ripeteva: «State perfettamente immobili e non vi sarà fatto alcun male. State perfettamente immobili e non vi sarà fatto alcun male». Un altro megafono strillava: «In fila e mani in alto. In fila e mani in alto». Un gruppo puntò verso est. Passò in una zona fortemente illuminata, fu affrontato da un reparto di polizia e fu sconfitto, nonostante che qualcuno riuscisse a intrufolarsi tra le file del nemico e a fuggire nell’oscurità. Gli agenti non si presero la briga di seguirlo. Un altro gruppo finse la resa, poi, avvicinatosi agli agenti, caricò. Sennonché alcuni proiettili esplosi a breve distanza spezzarono la loro disciplina e li indussero a desistere. Frattanto sopraggiungevano altre macchine di pattuglia e dei cellulari. Nel cielo si susseguivano i fuochi artificiali. Alcuni automobilisti accostarono e smontarono dalle macchine. Gli agenti cercarono di allontanarli. Il traffico rallentava e cominciava a formarsi un ingorgo. Gli spettatori si accalcavano dietro le file di agenti per assistere allo spettacolo. Un musulmano con una benda stretta intorno al cranio, che veniva condotto ammanettato verso un cellulare, sospinto a manate brutali da un agente col grugno da mastino, vide gli spettatori con gli occhi sbarrati e perse la testa. Sfuggì all’agente e si buttò sulla folla, gridando perché era costretto a fare una simile figuraccia davanti a tutti. Scaraventò a terra una signora anziana e stava dando un morso a un altro curioso, quando l’agente lo colpì duramente facendolo stramazzare al suolo accanendosi poi su di lui a calci. Il musulmano levò da terra la faccia escoriata e sanguinante per sentire uno della folla che gridava: «Fagliela vedere a quel selvaggio». L’autista di Ismael pensò di avanzare con la macchina per prelevare il Capo. Non sapeva che Ismael era stato colpito. Travolse e uccise un Seraph che si era arreso, urtò un agente di polizia e andò ad arenarsi in un punto in cui il terreno era cedevole, sprofondando furiosamente sempre più finché i blu lo prelevarono di peso e lo bastonarono selvaggiamente al cranio. Un Delancey Throne, coi calzoni bianchi stracciati e i genitali fuori, stava urlando a un Toro di lasciarlo libero; si arrendeva, ma che tenesse giù le manacce! Fu buttato in malo modo sul cellulare.
I Dominatori di Arnold aspettarono, a ranghi compatti, tenuti a bada da Hector, disorientati dal riverbero e immobilizzati dalla doppia fila di macchine della polizia. Restarono immobili quando sentirono sparare; restarono immobili quando la massa si disgregò. Aspettavano l’ordine. Hector, freddo e pericoloso in quelle luci crudeli, esibendo tutto il suo coraggio, era fermo con la mano alzata, anche se Tonto si agitava per il desiderio di combattere; Junior sapeva quanto sarebbe stato facile mettersi semplicemente a correre. Passò un minuto. La confusione era generale. Quando Hector fu certo che tutte le forze di polizia erano ormai impegnate, fece loro cenno di avviarsi. Hector si mise alla testa del gruppo e Arnold in coda. S’incamminarono verso nord, verso la fila di cespugli contro i quali era caduto Ismael. Avanzando accelerarono il passo, stando curvi per metà, preparati a questa posizione negli addestramenti condotti da Papà Arnold e Zio Hector. Un altro megafono cominciò a lanciare ordini ai ragazzi gridando a quelli che cercavano di fuggire che la loro resistenza era inutile; furono tutti costretti alla resa. «Cazzo, che si corre a fare? Ci hanno presi», disse Hinton. «Figlio, non capisci niente. Niente chiacchiere. Giù la testa e va’ avanti», intimò da dietro la voce di Arnold. «Segui lo Zio.» Tonto procedeva a pugni chiusi, con le spalle curve, nella speranza che qualcuno, chiunque, gli si parasse davanti, o che qualche agente isolato gli venisse a tiro, tanto per scaricargli qualche colpo prima che tutti loro fossero catturati. Hinton si chiedeva se non sarebbe stato opportuno fermarsi con gli altri ad aspettare d’essere accerchiati. Lui pensava che la polizia li avrebbe certamente rilasciati: dove avrebbe trovato infatti celle in numero sufficiente da ospitare tanta gente? Un quarto megafono prese a lanciare ordini. I poliziotti gridavano in ogni direzione di fare attenzione ai gruppi che tentavano la fuga. Le voci si confondevano in un generale boato assordante in cui ogni parola perdeva significato e diventava un rumore. La Famiglia di Arnold proseguì verso nord, coperta per una parte della fuga dal grosso degli altri, fermi in attesa degli agenti. Arrivò alla siepe. Passò accanto a un gruppo di uomini di Ismael disposto a scudo intorno al corpo del loro capo caduto. Avrebbero voluto fermarsi a guardare, ma Hector gridò loro di continuare a camminare. Arnold, che chiudeva la fila, avrebbe dovuto mostrare più saggezza quando invece cedette alla tentazione di sostare per guardare la faccia di Ismael. Uno degli uomini di Ismael gli chiese che cosa credesse di guardare, poi, senza attendere risposta, diede il via a un pestaggio cui contribuirono anche gli altri. In un attimo Arnold fu a terra. Bimbo, che precedeva Arnold, non si accorse di niente per il gran baccano; aveva accelerato il passo per star dietro agli altri che si erano infilati in una macchia di cespugli scuri, oltre i confini della zona di luce accecante. Lì faceva più fresco. Fu un sollievo sottrarsi al bagliore delle lampade accese. Poterono muoversi più velocemente. I ramoscelli li frustavano alle ginocchia, ma intanto si allontanavano sempre più dal gran cerchio di luce. Sbucarono dai cespugli in fila dietro a Hector, di cui si vedeva appena il profilo grazie ai fari delle macchine dell’ingorgo formatosi al bivio poco distante. Arrivarono al terrapieno dove si congiungevano le due autostrade. Hector, stagliato contro la luce di un paio di fari, rilucente di lampade al mercurio, fece loro segno di star bassi. Non era il caso di aspettare. Hector diede l’ordine. Avrebbero caricato
passando tra le macchine ferme, dirigendosi verso sinistra, cioè a ovest, e tuffandosi nelle tenebre. Hector disse loro di non aver paura, di tenersi vicini e che, quando fossero giunti dall’altra parte della strada, si sarebbero presi per mano e insieme avrebbero affrontato l’oscurità. Hector sapeva vagamente di essere venuto da quella direzione. Comunque quel parco doveva pur finire da qualche parte e prima o poi sarebbero riusciti a uscire. Attraversarono di corsa l’autostrada e scesero per il terrapieno buttandosi nel buio. Frattanto gli automobilisti che li avevano visti passare di corsa si erano messi a pigiare insistentemente sui clacson per richiamare l’attenzione della polizia. La Famiglia, spaventata, accelerò l’andatura. Il fondo era bagnato e diventava molle dando loro l’impressione di trovarsi in una palude. Avevano visto eroi del cinema sprofondare nelle sabbie mobili. C’erano sabbie mobili anche lì? Sapevano tutti che, se avessero cominciato a sprofondare, la miglior cosa era di procurarsi un grosso ramo da posare a ponte sulla buca di sabbie mobili. Ma chi avrebbe avuto il coraggio di fermarsi? Le loro scarpe non erano adatte alla corsa, si stavano inzuppando e si rovinavano. Tonto voleva fermarsi per accendersi una sigaretta, ma Hector gliela fece volar via di mano con uno schiaffo. Era impazzito? Era proprio la parola che faceva infuriare Tonto e già gli veniva la voglia di fare a botte, ma la voce di Hector stava ora ripetendo di tenersi tutti per mano e di non perdere contatto. Tonto, se lo teneva vicino. Si allontanarono, per metà arrancando e per metà correndo, nel buio, dalla bolla di luce, senza sapere dove andassero, cambiando direzione da nord a ovest e poi a est, per ritrovarsi infine sperduti, su e giù per dossi erbosi sul terreno flaccido, affranti di fatica. Il brusio forte di grossi insetti li sorprese. Menarono manate alla cieca per sbarazzarsene. C’erano animali selvaggi da quelle parti? C’era pericolo di qualche fiera? Dei lupi? Certamente c’erano serpi. Ma di che genere? Come potevano saperlo? Forse pitoni, o serpenti a sonagli. Gracidavano le rane e i grilli strillavano con più acredine che i petardi. Dewey finì in una buca piena d’acqua e mandò un grido. Lo zittirono sibilando e gli si misero intorno, trascinandolo fuori. Dewey aveva avuto paura degli alligatori. Rami e arbusti, spinti in avanti dal passaggio dell’uno, schiaffeggiavano faccia o gambe di quello che seguiva. Tonto si ritrovò con la bocca piena di foglie bagnate. Hector per poco non strillò, finendo in una ragnatela; si mise a gesticolare freneticamente nel buio. Aveva sentito parlare di vedove nere e persino di ragni enormi, mangiatori di uomini; ma tenne la bocca chiusa e preservò la Faccia, riafferrando la mano di Tonto. Bimbo sentì che gli s’impigliava l’impermeabile e volle fermarsi per liberarlo, ma venne tirato avanti e un lembo dell’indumento si lacerò. Si tastò subito e constatò che le bottiglie erano ancora saldamente legate al loro posto. Parve loro di aver corso per chissà quanto tempo. Avevano una gran voglia di fermarsi a riposare, ma Hector non glielo permetteva. Stentavano a respirare, avvertivano fitte ai fianchi. Salirono a passo di carica per una china sassosa, scivolando, cadendo, rimettendosi in piedi. Junior si slacciò i pantaloni all’altezza del ginocchio. Arrivarono in cima e finalmente poterono correre su uno strato di terreno più solido. Il parco finì all’improvviso, con un marciapiede e una strada. Era una
strada lunga e tranquilla con filari di alberi robusti, poco traffico e solo qualche passante. Sull’altro lato della strada, oltre una cancellata appuntita, c’era un cimitero. Un autobus si avvicinava. Bimbo scorse in lontananza l’occhio rosso e intermittente di una macchina della polizia e si affrettò a indicarlo agli altri. Hector ebbe un’idea e fece loro un cenno. Si catapultarono dall’altra parte della strada, si arrampicarono sull’inferriata e saltarono nel cimitero. Muovendosi con circospezione, passarono tra le lapidi, finché furono invisibili dalla strada. Finalmente Hector diede loro il segnale della sosta, lasciandosi cadere sulle ginocchia. Anche gli altri si lasciarono andare a terra ansimanti, a riposare nell’ombra della grande tomba sul ciglio del pendio erboso.
4 luglio, ore 23.10-23.45 Junior era impaziente; stava passando troppo tempo. Tonto era rabbioso perché aveva perso il cappello e Junior lo innervosiva ancor più con le sue storie di fantasmi. Dewey era dubbioso: chissà se davvero c’erano cose che uscivano dalle tombe. Hector disse: «Ora ce ne stiamo qui buoni per qualche ora, poi, quando tutta la merda è defluita...» Ma Junior piagnucolò in tono spaventato: «Ma ve l’ho detto! Non possiamo stare qui! Le tombe potrebbero aprirsi e...» E tutti si fecero forza l’un l’altro stando vicini, senza tuttavia trovare conforto nella presenza dei compagni. Arnold forse li avrebbe soccorsi, perché Arnold era il Padre. Ma il Padre era disperso. Ci voleva circa un’ora, un’ora e mezzo, a seconda della frequenza dei convogli, per andare dalla cima del Bronx fino a Coney Island. Ma non se si sta acquattati nell’ombra di una tomba. Non se i piccoli e grassi cherubini di pietra del cornicione gonfiano le guance in un sorriso sempre più diabolico man mano che passano le ore e ci si avvicina a mezzanotte. E non se ogni agente in città è all’erta e ci sono blocchi dappertutto. Non se la tregua tra le bande cittadine è rotta e ogni organizzazione è in guerra con le altre. Coney Island era a più di venticinque chilometri; ma anche fossero stati duecentocinquanta era lo stesso, perché tutto il percorso da lì fino a casa era loro avverso. E se non c’era un piano, se la Famiglia si sgretolava perché mancava il Padre, a maggior ragione quella distanza sembrava infinita. Per questo Hinton, che non credeva negli spettri, non vedeva la necessità di abbandonare quel luogo così dolce e fresco, per attraversare un vasto spazio vuoto, esposti ai raggi della luna, fino alla stazione della metropolitana. C’era tempo. «Che cazzo, io me ne vado da solo», sbottò Tonto. «Non voglio restare in questo posto.» Si udirono nuovamente dei fruscii. C’era un custode. O erano agenti che si avvicinavano di soppiatto? No, gli agenti venivano giù caricando, senza nascondersi. C’era forse un’altra banda? Di chi era Patria quel territorio? Nessuno lo sapeva. «Be’, se avete paura dei fantasmi, ragazzi, andiamo ad aspettare in qualche altro posto», disse Hector mostrando indifferenza e un che di superiorità sprezzante, nella
speranza che gli altri non facessero gli scemi e accettassero di restare lì. Ma anche Bimbo disse di non voler restare. Quando Hector si rese conto di come stessero le cose, affrontando la situazione con mente razionale, disse che, d’accordo, avrebbe ristrutturato la Famiglia, avrebbero votato e sarebbero ripartiti come una Famiglia, perché se si fossero disuniti, be’... sapevano tutti che brutta fine facessero le bande. Ne convennero tutti. Junior disse: «Ma dobbiamo sbrigarci». Votarono. Non c’erano dubbi sul diritto di Hector a essere nominato Padre sostituto. Tonto avrebbe desiderato per sé la carica e votò per se stesso, guardandoli poi con astio. Tonto non fu nemmeno proposto per Zio, perché non si poteva mai sapere cosa avrebbe fatto. Il voto andò a Bimbo, che era posato, privo di immaginazione, equilibrato; uno che si aveva al fianco volentieri in caso di duello, di agguato o di sortita. Tonto fu terzo in gerarchia, come figlio maggiore, e questo lo soddisfece in certa misura; tenerlo in minor conto sarebbe stato come andare a caccia di guai. Aveva sedici anni, il più delle volte era un po’ carburato, ma era alto uno e ottanta e massiccio, largo, forte. Il secondo fratello l’avrebbe fatto Dewey; aveva diciassette anni ed era nella Famiglia da molto tempo e quindi era uomo fidato. Hinton fu il terzo fratello. Hinton era l’artista, perché aveva talento di caricaturista e sapeva scrivere con bei caratteri di sua invenzione. Aveva sempre con sé un magic marker, con cui lasciava la firma dei Dominatori dovunque andasse. Tutti lo ritenevano un po’ matto, perché, quando gli veniva il desiderio sfrenato di combattere, persino Tonto aveva un po’ timore di lui. Ma quello era il segreto di Hinton: scarso di forza e di cuore, sapeva di poter spaventare chiunque con i suoi accessi e per questo ogni tanto si lasciava andare a una mattana, per farsi rispettare. Junior fu il fratello minore. Era una specie di mascotte. Junior era ancora un bambino, ma con un gran cuore. Piaceva loro di indurlo a battersi con le mascotte di altre bande, perché era bello vedere i piccoli accapigliarsi. Non era Junior solo perché era il più giovane; si chiamava davvero Junior e in tasca si portava sempre qualche giornaletto arrotolato. Dopo le elezioni, Hector ordinò a Bimbo di far girare la bottiglia per un sorso celebrativo. Tonto ne bevve due perché era stizzito. per il cappello e per l’esito della votazione. Hector disse loro di fumare, ma di accendere i fiammiferi sotto la giacca perché non si vedesse la fiammella. Concesse loro di fumare solo una sigaretta. non di più, raccomandando loro di tenere le mani a coppa sulla brace e di tenere la sigaretta puntata verso il basso, mentre lui ragionava sul da farsi. Tonto era dell’opinione che si dovesse discutere del piano democraticamente, ma Hector gli ricordò che il Padre era lui e che il dovere degli altri era di obbedire. Tonto era in collera, ma non aggiunse altro. La cosa migliore era scendere per il pendio, scavalcare il muro di cinta, attraversare la strada, l’autostrada e il fiume, risalire il declivio erboso, arrivare oltre la fila delle case, prendere la metropolitana e tornare a casa. E questo era un sistema. Un’alternativa era di telefonare al loro assistente sociale, Wallie, dirgli che erano nei pasticci e farlo venire con l’automobile a prelevarli. Quella testa quadra di Wallie, spiegò Hector agli altri, cercava in ogni modo di accattivarsi l’amicizia dei Dominatori e per questo avrebbe pensato che era l’occasione propizia per fare un piacere alla Famiglia. Loro naturalmente non si sarebbero sentiti in debito con lui, perché Wallie era un Altro e tanto valeva servirsi di lui. Gli altri furono d’accordo.
Sarebbero scesi alla ferrovia e avrebbero chiamato Wallie. Se Wallie non avesse accettato, avrebbero preso la metropolitana per rincasare. Non sapevano con precisione dove si trovassero e non sapevano in che senso i convogli andassero in direzione del centro o della periferia. Junior era sempre più spazientito, perché il tempo passava e loro erano ancora lì. Fece loro fretta perché finissero le sigarette. Tonto chiese chi avesse il Potere. Nessuno di loro aveva il pacco? Nessuno. Padre Arnold aveva la calibro 22 da regalare a Ismael, ma probabilmente ormai Arnold si trovava a bordo del cellulare. Nessun altro era venuto armato, in obbedienza alle istruzioni contenute nel trattato di tregua. Ora la distanza che li separava da casa apparve più lunga ancora. Come avrebbero attraversato quel vasto territorio senza l’equipaggiamento necessario in caso di emergenza? E se la testa quadra dell’assessorato non fosse venuto, cosa avrebbero fatto? Hinton chiese perché non potessero trattenersi il ancora un po’, ma gli altri lo ignorarono. «Cazzo, avete visto Ismael? Non fa tanto lo sbruffone adesso. Ciaff, dritto in un occhio», commentò Tonto. Hector disse: «Ismael era un grande uomo con una grande idea». E chinò la testa in segno di rispetto. Tonto non era dello stesso avviso; secondo lui l’idea di Ismael non era un gran che; era persino banale. «Non dovremmo andare. Potrebbe arrivare Arnold», insisté Hinton. «Anche se ce la facesse a venir via, come vuoi che sappia dove siamo?» ribatté Hector. «Usa la testa.» Poi disse loro di tirar fuori le spille. Si sarebbero messi le insegne. Sarebbero entrati in azione compatti, da Famiglia. Hinton chiese se fosse opportuno aggirarsi per la città con le insegne in bella mostra a far sapere a tutto il mondo chi fossero e che cosa fossero. Hector si arrabbiò e ribadì che dovevano comportarsi da Famiglia e che a questo scopo dovevano indossare le insegne, altrimenti tanto valeva lasciar perdere tutto subito. Hector pensò che quel genere di obiezione era tipica di Hinton. Lui era ancora una recluta; era nel quartiere da poco e faceva parte della banda da otto mesi soltanto. Lo fissò, ma era nascosto nell’ombra. La faccia però riusciva a vedergliela. La faccia di Hinton era tranquilla, posata contro la pietra. La sua espressione era quasi annoiata, con gli occhi chiusi, le dita che carezzavano oziosamente il marmo. Hector pensò che forse gli mancava solo un po’ di senso della tradizione e di spirito di corpo. Sarebbe maturato col tempo. Tonto disse che Hinton aveva fifa, poteva anche star lì tutta notte e lasciarsi prendere da un’altra banda o dalla pula o, magari, i topi l’avrebbero scambiato per uno dei cadaveri e l’avrebbero finito loro. Hector spiegò a Tonto che non bisognava interpretare un consiglio come un segno di vigliaccheria e che non doveva insultare così il suo fratello più piccolo. Tonto rispose che era dispiaciuto, ma nella sua voce c’era una vena di scherno. Hector accettò le sue scuse per evitare screzi proprio in quel momento. Hinton ribadì che non era questione di aver più o meno fegato, ma che loro, l’Altro cioè, li avrebbero riconosciuti. «Non sei poi così famoso, figlie. Tu non sei Ismael.» «Ma andiamo in giro con le insegne di una banda.» «Come fanno a sapere che banda è?»
«Non è questo il punto, cazzo. Danno la caccia a tutte le bande in questo territorio. Dopo quel che è successo, adesso ti beccano se solo sei tra i quattordici e i vent’anni e hai un aspetto equivoco. E questa sera tutto è equivoco.» Hector ripeté che le insegne bisognava portarle e che se tra loro c’era qualcuno che non voleva obbedire, costui sarebbe tornato a casa da solo. Hinton capi che la discussione era chiusa. Tirarono fuori le spille e le consegnarono a Hector. Gli si inginocchiarono di fronte e Hector le puntò ai cappelli. Tonto era furibondo perché aveva perso il cappello e non voleva rovinare la giacca con la spilla, ma Dewey osservò che poteva mettersi un fazzoletto a mo’ di benda intorno alla testa e applicarvi la spilla. Hector si mise il distintivo sulla fronte; gli altri invece lateralmente. Hector, poi, disse loro che se quel balordo dell’assessorato non si fosse fatto vivo la loro azione sarebbe stata quella di un commando, perché tutte le tregue erano cadute e il casino era ricominciato, e forte, e la polizia era dappertutto e sarebbe stata loro addosso come niente e non c’era più da fidarsi nemmeno dei propri genitori. Tutti risero, perché era una vecchia battuta della Famiglia. Infine Hector ordinò a Hinton di lasciare la testimonianza del loro passaggio. Hinton tirò fuori il magic marker e appose la firma sulla tomba.: «Dominatori, LAMF, DTK». Poi disse a Junior: «Sarà in omaggio ai tuoi fantasmi». Il fronte delle nubi si era avvicinato. Hector batté un dito sulla spalla di Hinton. Questi, sapendo che Dewey stava montando la guardia, uscì dall’ombra già curvo. Scese lesto e furtivo per il pendio a scatti successivi e scomparve di nuovo nell’ombra. Poi toccò a Tonto.
4-5 luglio, ore 23.40-00.45 In fondo al pendio, vicino all’inferriata, le lapidi erano più fitte. Dewey disse: «Cazzo, qui li han messi giù come sardine». Hector diede a Junior il compito di fermarlo e Junior gli si avvicinò per dirgli: «Non parlare così». Continuarono a scendere. Junior trattenne a stento un’imprecazione quando dovette mettere un piede su una tomba per non perdere l’equilibrio. Il piede gli sprofondò un poco nella terra smossa di fresco. Restando curvi, potevano procedere coperti dalle lapidi senza dover saltare da un punto in ombra a un altro. Bimbo disse: «Guardate là». Nella luce debole della luna videro che qualcuno aveva tracciato la parola Spahis su alcune lapidi. Il cimitero terminava sopra una strada. C’era una caduta di circa quattro metri. Hector mandò Hinton a ispezionare la cancellata per trovare un punto da cui si potesse sgattaiolare fuori senza doversi arrampicare. Hinton veniva messo alla prova perché aveva detto di non voler indossare le insegne. Possibile che non si accorgessero che era un’imprudenza inaccettabile, pensava Hinton. Avanzò lungo l’ultima fila di lapidi, guardando oltre, verso l’inferriata e la strada. La luce della luna si rifletteva sulle rotaie di una ferrovia, faceva scintillare le increspature di un piccolo corso d’acqua e illuminava il viale e la distesa erbosa che saliva fino alle case. La
ferrovia soprelevata era poco più in là. Hinton aveva abitato in quei paraggi; la sua famiglia si trasferiva spesso e non restava in un posto più di un paio d’anni. Verso sinistra, a meno di un chilometro, c’era un ponte sul fiumiciattolo. Hinton non trovò un varco nell’inferriata. Sarebbero stati costretti a salire sul tratto di muro. Per la strada non passava nessuno e le automobili erano rare. Se fossero saltati giù dalla cima del muro, un automobilista di passaggio non avrebbe potuto notarli, appollaiati lassù. Trovò un luogo adatto all’arrampicata. Il salto da lì era più o meno tre volte l’altezza di un uomo, ma sembrava anche maggiore. Tornò a rapporto da Hector. Hinton condusse Hector e gli altri al luogo prescelto. «Ma perché così alto, cazzo? Ci romperemo la testa.» «Se saltiamo da un punto più basso, potrebbero vederci, Hector.» «Ma potremmo farci male. Non ce la facciamo fino a casa con qualche caviglia slogata. Trova un punto più basso. Più basso.» «Da come la vede questo figlio...» «Questo figlio vede male, niente da fare», lo interruppe Hector. «Va bene, Papà», disse Hinton irritato. «Il Padre è più saggio», intonò Hector. «Ho ragione?» Hinton non rispose. «Ho ragione!» Hinton annuì e sorrise. «Guardami quando ti rivolgo la parola.» Hinton guardò Hector. «Sorridi meglio.» E Hinton sorrise meglio. «Non farmi vedere i denti di dietro, quando sorridi, figlio.» Hinton modificò l’apertura del suo sorriso. Aspettarono un quarto d’ora; quando l’automobile di pattuglia fu passata, Hinton fu il primo ad andare. Hector lo stava ancora mettendo alla prova e lui sapeva che non avrebbe potuto mostrare alcun segno di paura o rancore. Non poteva certo rischiare d’essere lasciato indietro. Hinton fece di tutto per mantenere la calma, per mostrare a tutti che non era preoccupato. Non fu difficile salire sul muro: quante volte l’aveva già fatto, arrampicandosi su muri alti anche sei o sette metri? Si sistemò su una cornice spessa una decina di centimetri. Da lì il salto gli appariva eccessivo, anche se non era di più di quattro metri, perciò decise di non guardare, sapendo che quando si ha paura la cosa migliore è di pensarci solo dopo. In bilico sulla sporgenza, guardò dall’una e dall’altra parte della strada e aspettò che non ci fossero veicoli. Si girò dalla parte del cimitero: gli altri erano ben nascosti. Per un secondo tremò di spavento, pensando che fossero scappati. Ma non era uno sciocco e si riprese. Si abbassò, calandosi più che poté. Quando toccò terra, l’urto lo lasciò per un istante senza fiato e poco mancò che cadesse sulle ginocchia. Si tagliò la parte posteriore della scarpa destra che restò tenuta insieme dalla striscia di cuoio intorno alla caviglia. Si girò e attraversò di corsa la strada zoppicando per non perdere quanto gli restava della scarpa. Le cosce gli dolevano ancora per la lunga corsa. Si rifugiò nell’ombra degli alberi del marciapiede. Dietro agli alberi, in fondo a un pendio, c’era un grande serbatoio d’acqua con una densa ombra nera. Oltre il serbatoio, in fondo alla discesa, vicino al ruscello, vide le rotaie.
Hinton si voltò e vide Tonto in cima al muro pronto a spiccare il salto. Sbucò dall’oscurità e gli fece un cenno con la mano. Tonto non si calò neppure. Sorrise e si buttò giù, poi attraversò la strada con aria tronfia. Si ritrovarono fianco a fianco. Per ultimo saltò Junior. Saltò prima del segnale, per la paura. Gli altri ne risero. Atterrò sui palmi e si scorticò le mani. Un giornaletto a fumetti gli scivolò fuori dalla tasca. Gli si ruppe l’orologio sull’asfalto. Junior fece per attraversare di corsa la strada, ma gli altri gli indicarono il giornaletto perso. Si girò, scorse il giornaletto, esitò... e dovette tornare a prenderlo. Gli altri gli indicarono il cimitero e si misero a gridare che arrivavano i fantasmi e si divertirono un mondo alla sua corsa terrorizzata. Poi Hector dovette obbligarli a zittirsi. Partirono in direzione nord, verso il ponte, cercando di muoversi nell’ombra. La loro meta era più lontana di quel che avessero immaginato e dovettero camminare non poco per arrivare alla curva dove voltare a destra. Camminando, la scarpa rotta non infastidiva molto Hinton. Erano nella 233esima Est. Junior disse che erano parecchio lontani da casa. Hinton una volta aveva abitato nella 221esima, ma non ricordava se era stato nel Bronx, a Manhattan o nel Queens. Questo perché aveva abitato un po’ dappertutto. Hinton voleva sapere se non sarebbe stato meglio procedere separatamente. Hector ordinò che si muovessero in gruppo. Dopotutto, se la polizia li avesse fermati, be’... non stavano facendo niente... Ma Hinton sapeva che, tanto per cominciare, la Legge avrebbe preteso di vedere i loro documenti di identità e loro come avrebbero spiegato perché si trovavano così lontani da casa? Qui faceva più caldo, venuta a mancare l’arietta fresca del cimitero. Quando ebbero varcato il ponte e il parco e l’autostrada ed ebbero risalito il pendio, si trovarono davanti a villette a due piani e ad alti palazzi. Ancora pochi isolati e furono sotto la ferrovia soprelevata. La strada era deserta. Tutti i negozi erano sbarrati. C’era una cabina telefonica vicino a un chiosco per giornali. Hector disse che avrebbe telefonato a Wallie, l’assistente sociale. Bimbo chiese: «È da furbi? Dico, dopo questa sera non avranno voglia di avere a che fare con noi. Dico, cazzo, questa era grossa, troppo grossa, e adesso sanno che qualcosa da preoccuparsi ce l’hanno». Tonto riteneva sbagliato telefonare. «Che bisogno abbiamo di lui?» Ma Hinton riteneva che Wallie, l’assistente sociale da poco assegnato al loro gruppo, fosse un buon uomo. «Wallie se n’è sentite dire parecchie, ma non ha mai rotto le palle», osservò. Tonto insisté sostenendo che nessun assistente sociale era un buon uomo e che la Famiglia non aveva bisogno di loro. Hinton spiegò che, con tutti gli sbirri e tutti i guerrieri sul piede di guerra, con la probabilità che ci fossero posti di blocco e di controllo dappertutto e che i vari territori fossero sorvegliati da diversi contingenti armati fino ai denti, era più che certo che il loro ritorno a casa sarebbe stato un percorso di guerra, con l’aggravante che avrebbero potuto solo ricorrere ai pugni, dato che erano venuti senz’armi, eccetto che il Potere di Arnold, per il momento perduto. Dovevano attraversare un’intera città, per rincasare. Hinton era dell’opinione che gli altri non avessero compreso la gravità della loro situazione. Ma se ne sarebbero accorti. Non erano furbi, facevano i furbi, sostenevano un ruolo. Non era una vergogna essere furbi e prudenti come Arnold. Hector passava il tempo a
cercar di dimostrare che lui era più in gamba di Tonto, ma Tonto era il più forte, non gli si faceva mai fare apertamente brutta figura, non quando non si era in grado di difendersi. Non erano in molti quelli in grado di battere Tonto, perciò lo si sconfiggeva in altro modo, come faceva Arnold. Così Hinton si limitò a dire che dovevano telefonare per assicurarsi il ritorno senza pericoli. «Abbiamo bisogno di Wallie perché questo fratello minore qui non ha voglia di farsi due ore nell’afa puzzolente di una metropolitana. Ho stile, io, e mi piace stare comodo. E poi, come facciamo a riabilitarci se non gli diamo un’occasione per aiutarci a capire?» chiese Dewey. A Tonto queste parole piacquero. E Hinton aggiunse che Wallie era il loro uomo, praticamente ormai uno della banda, no? Adesso Hector si sentì certo di poter telefonare. Lasciò gli altri in un rifugio sicuro. Wallie non aveva la voce assonnata. Questo voleva dire che era già sveglio, quasi che si aspettasse la chiamata. Hector ne fu preoccupato. Wallie voleva sapere dov’erano. «Siamo nel Bronx», rispose Hector. «Hector, che cosa state facendo nel Bronx?» La comunicazione era molto disturbata. Hector si sentiva in pericolo, nudo, a far da bersaglio fermo nella luce della cabina. Fuori era tutto buio e lui era perfettamente visibile e si sentì un po’ meglio quando ebbe aperto la porta facendo spegnere la lampadina. Si chiese se tutti quei rumori significavano che la loro conversazione era intercettata. Aveva letto di queste intercettazioni sui giornali; c’erano rumori da cui si poteva capire che una conversazione era ascoltata, ma non ricordava più che tipo di rumori fossero. «Siamo fuori a prendere aria, ci è venuta voglia di andare a spasso a vedere la campagna stanotte, perché faceva troppo caldo e fa sempre più fresco al nord. Così siamo venuti al nord.» Non poteva essere un’intercettazione, come facevano a sapere che lui avrebbe chiamato proprio da quella cabina? «C’eravate anche voi là, nei disordini del parco? Ci siete immischiati anche voi, Hector? Dov’è Arnold?» Dunque già si sapeva della sortita al parco. Peccato. Non sapeva se dire a Wallie di Arnold. Il Padre, pensava Hector, era già probabilmente in qualche posto di polizia a rispondere alle solite venti domande che cominciavano con: «Perché hai...» Poi paff, col dorso della mano, e: «Guarda che noi non siamo quelle pappemolli dell’assessorato alla gioventù, coglione...» e poi paff, paff, paff, a pugni e sberle. Oppure l’avrebbero buttato in qualche cella comune dove avrebbe dovuto fare a botte per guadagnarsi un posto dove dormire. Hector decise di non parlare a Wallie. «Siamo sulla strada numero due, tre, tre, fuori verso i sobborghi. Allora, be’, ci piacerebbe vedere un po’ di città, mentre si torna a casa. Ti va di venirci a prendere?» No, non potevano in alcun modo prevedere che lui avrebbe chiamato proprio da lì. «Stai bene? Chi c’è lì con te? Ci sono gli altri con te?» chiese Wallie. «Fai troppe domande, Wallie. Mi pare proprio che non ci vuoi.» «Piantala di dire cazzate, Hector», ribatté seccamente Wallie. Hector sorrise: lo stavano tirando su bene, questo Wallie. «Sì, siamo in due o tre qui. Siamo alla 233esima e voglio sapere se vieni o no.» Si sentiva la gola arida. Voleva uscire al più presto dalla cabina.
«Duecentotrentatré e dove?» I suoi uomini, fuori, erano scomparsi nell’ombra. Hector non scorgeva nessuno. Una macchina della polizia passò in quel momento e Hector si voltò di schiena, ma non bruscamente, per non dar nell’occhio; non si girò del tutto, bensì quanto bastava perché dalla macchina non si vedesse il distintivo che gli brillava sul cappello. Si sentì addosso lo sguardo duro e insospettito degli agenti, ma in pratica lui era semplicemente uno che faceva una telefonata, in questo che cosa c’era di male? E la macchina passò oltre. Hector disse a Wallie: «È vicino alla soprelevata». «Ma come si chiama la strada?» «Fai troppe domande.» «Vuoi che venga o no?» «Ti ho chiamato io, no?» «E come faccio a venirti a prendere se non so dove siete?» «Eh, siamo vicino a un posto che si chiama White Plains Road.» «Ma come cavolo siete arrivati fino al buco del culo del Bronx? Voi ci eravate a quella sortita, vero? Qualcuno dei vostri è nei guai? Avete combinato qualche guaio? Alcuni ragazzi sono rimasti uccisi.» «No. Niente di grave. Non abbiamo fatto niente.» «Qualcuno è finito dentro?» O erano capaci di intercettare le telefonate da qualsiasi cabina a piacimento? «Cristo, piantala di far tutte queste domande! Qui siamo nei guai!» gridò Hector, salvo vergognarsi subito di aver confessato la sua ansia. Ma gliela avrebbe fatta pagare, a Wallie, per averlo costretto a esibire la sua debolezza. «Vengo. Non muovetevi. Qualcuno è ferito? Non muovetevi. Restate dove siete che arrivo. Un’oretta. Non muovetevi, capito? Se ci metto un po’ di più non spaventatevi. Arrivo.» «Sono tranquillo. Aspetto. Sbrigati, tesoro.» «Non muovetevi...» stava ancora dicendo Wallie quando Hector riattaccò. Sudava, quando usci dalla cabina. Tra un edificio e la ferrovia soprelevata vide il fronte delle nubi aggredire la luna e i cirri biancastri ingoiare la luce. Perché Wallie aveva detto che forse ci avrebbe messo un po’ di più? Perché dovevano aspettare ancora? «Il ragazzo arriva col pulmino turistico», annunciò Hector agli altri, passando per i loro nascondigli. Si erano sistemati in maniera da vedersi a vicenda. Un treno passò sulle loro teste diretto alla periferia, incrociando un altro treno diretto al centro. Aspettarono nel buio. Hector si trovò un posto da cui poteva vedere tutti gli altri nascondigli. Dopo un po’ usci dal suo e andò da Junior a chiedergli che ora fosse. L’orologio di Junior indicava le 23.41, ma non gli parve giusto. Ascoltarono con attenzione e non sentirono niente. L’orologio era fermo. Questo era un bel guaio per tutti. Quanto tempo era già passato? Tornò al suo nascondiglio. Si chiese quanto ci sarebbe voluto e cercò di escogitare un sistema per stabilire quanto tempo passava. Provò a contare, ma era troppo laborioso, così. Due dei suoi, Dewey e Junior, presero a gironzolare. Hector attraversò la strada per andare a dir loro di stare al coperto. Dewey chiese da quanto tempo aspettavano: ore, di certo. Era stufo. Quanto tempo ci sarebbe voluto, ancora? Junior disse che non si poteva pretendere che stessero
perfettamente immobili. E poi non c’era pula in giro. Hector insisté che la disciplina andava rispettata; di chi era la colpa, se non erano più tranquillamente nascosti nel cimitero? Junior se ne vergognò un poco. Hector ispezionò la tana di Hinton. Questi era seduto in un vicolo stretto e buio tra due negozi, con le ginocchia tirate al mento e gli occhi fissi sul muro che aveva davanti. Sopra di lui una scritta in vernice dorata luminescente annunciava che il territorio apparteneva ai Golden Janissaries. Hinton osservò: «Non sono un gran che, questi; usano vernice scadente». Hector non li aveva mai sentiti nominare. Chiese come andava. Hinton disse che andava. Tonto, nascosto nell’ingresso di un negozio, era stufo e aveva una gran voglia di andarsene: continuava a uscire dalla zona d’ombra. Lasciava il suo posto per andare a parlare ai fratelli. Hector gli ordinò di restare al suo posto. Bimbo venne a chiedere a Hinton quanto tempo secondo lui ci voleva per arrivare lì dall’abitazione di Wallie. Hinton rispose che non lo sapeva con precisione, ma certamente non ci voleva ancora molto. «Noi ci abbiamo messo più di un’ora a venir qui.» «In metropolitana, però.» «Be’, lui ha la macchina e può metterci metà del tempo.» «Non intendevo questo.» «Ma io dico che una macchina va veloce il doppio.» «Solo in teoria, perché non viaggia in linea d’aria. Stai tranquillo. Arriverà», e ricordò quel che aveva detto Wallie sull’eventualità che impiegasse un po’ di più del previsto. Disse allora a Bimbo di tirar fuori la bottiglia. Hector bevve un sorso. Bimbo bevve un sorso e fece il giro. E la bottiglia fu scolata. Bimbo però la fissò nuovamente dentro l’impermeabile: forse sarebbe loro tornata utile. Passò un altro convoglio. Passò circa mezz’ora. Arrivarono due coppie, coi ragazzi abbarbicati addosso alle ragazze, le mani a palpare le tette. Una coppia passò a labbra incollate e occhi chiusi. La Famiglia si divertì. Gli innamorati non sapevano d’essere osservati. Una ragazza aveva una radiolina che suonava soft rock. Ma Tonto volle per forza fare il furbo e usci ballando dall’ombra per passar loro vicino e rivolgere un’occhiata insolente alle ragazze. I ragazzi si allontanarono subito dalle loro ragazze per squadrarlo. Tonto barcollava. I ragazzi avrebbero voluto dargli quel che andava cercando, ma le loro compagne li trattennero. Le coppie lasciarono che si allontanasse senza provocarlo, mentre la Famiglia poté rallegrarsi di non essere dovuta uscire allo scoperto per difenderlo. Un giorno o l’altro, rifletté Hector, la Famiglia avrebbe lasciato che si prendesse quel che meritava, perché se le andava sempre a cercare. Tonto svoltò l’angolo e scomparve. I due ragazzi ripresero a camminare con le loro ragazze. Una teneva una mano su una natica del suo ragazzo e gliela stringeva. Questo eccitò la Famiglia. L’altro ragazzo continuava a voltare la testa per guardare nella direzione in cui era scomparso Tonto. Quel pagliaccio, pensò tra sé Hector. Avrebbe dovuto penalizzarlo, quando fossero tornati al loro territorio. E se Wallie fosse arrivato mentre lui era via? E se fosse piombata lì la pula? Il tempo passava lentissimo. Per un pezzo non arrivarono altri convogli. Che il servizio venisse sospeso dopo una cert’ora? Hector cominciò a chiedersi se non avesse commesso un errore, convocando Wallie. A quell’ora avrebbero potuto essere tutti a casa. E fino a che punto ci si poteva fidare di lui, o di qualunque Altro? Se
Wallie sapeva dov’erano... Proprio questa sera... C’era da sperare che l’Altro non reagisse a una sortita come quella? Come si poteva aver fiducia in Wallie? Poteva essere una trappola... e se qualcuno avesse passato una soffiata alla pula... Se gli sbirri fossero stati proprio lì dietro l’angolo... Se Tonto, ballando per la strada, fosse finito proprio tra le loro braccia? E i convogli andavano proprio verso il centro e appunto da quella parte si arrivava al loro territorio, alla Patria. Se fossero stati su un treno, avrebbero potuto verificare il percorso sulla cartina e vedere dove scendere per cambiare. Era così semplice. E adesso Tonto aveva richiamato l’attenzione su di loro. E se quei ragazzi fossero stati membri di qualche banda, degli Spahis, o di quegli altri, quei Janissaries, e fossero tornati indietro con i rinforzi? Una sirena della polizia echeggiò lontano e Hinton fu preso dall’ansia finché il suono non morì in lontananza. Perché Wallie aveva insistito tanto perché non si muovessero da lì? Era una trappola? No. Non è così che si comportano quei buffoni dell’assessorato. Ma se davvero ci fosse stato sotto un piano, se davvero avessero deciso di spazzarli via una volta per tutte, se avessero architettato una trappola per catturare tutti i capibanda, tutti i duri, nella stessa rete?... Be’, in quel caso, Ismael aveva sicuramente pagato per tutti. Adesso però si trattava di fare una retata di tutti gli altri che se l’erano cavata. Tonto tornò, ridendo. Andò al nascondiglio di Hector e disse che aveva fatto il giro dell’isolato e che aveva incrociato di nuovo le due coppiette. Non mi hanno nemmeno visto. Sono passato sotto il loro naso e non mi hanno visto. Sai, sono tutti lì seduti su un gradino, con la bava alla bocca e gli occhi chiusi. E c’è uno che le ha messo una mano dentro le mutande e le palpa la cosina. Dovremmo andare a soffiargli le donne.» «Torna al tuo posto e aspetta», gli ordinò Hector. «Ma, cazzo, non ci vuol niente», protestò Tonto. «Sono lì, dietro l’angolo. È questione di un attimo, zac, e gli soffiamo la figa. Poi si fila giù al prato, ce le sbattiamo e siamo qui prima ancora che Wallie arrivi. Glielo dobbiamo, a quelle stronzine, dobbiamo fargli sentire il vero uomo, no?» «Torna al tuo posto e aspetta, che abbiamo già abbastanza guai!» «Ah, senti, cazzo! Le portiamo via con noi. Questo si può fare. E se a quel Wallie, se a lui non gli va, noi gli soffiamo la macchina e via.» Hector disse a Tonto di togliersi dalla testa la ragazza e di andare a farsela sbollire nel suo nascondiglio. Tonto fece come Hector voleva, ma adesso era eccitato e gli andava ancora meno di prima. Aspettarono. Hector cominciò a credere sempre meno alla parola di Wallie, forse perché non bisognava mai credere alla parola di nessuno. E più l’attesa si prolungava, più gli pareva che i loro nascondigli fossero insicuri. Hector vide passare un’altra macchina della polizia, a un paio di isolati di distanza. Nell’altra direzione, a un isolato, passò a piedi un agente. Tutta la pula che si trovava in quei paraggi sembrava tranquilla e distratta, ma non si poteva mai dire: forse era una tattica di avvicinamento. Hector pensò che Arnold avrebbe aspettato e dato che adesso lui era il Padre, doveva agire con altrettanta saggezza e astuzia e soprattutto con calma. Le nuvole avevano cominciato a coprire la luna che restò visibile per poco ancora, offuscata da un velo che si andava addensando, e a un certo momento scomparve del
tutto. L’atmosfera si appesantì, diventando opprimente: la densità umida dell’aria si fece palpabile e Hector sentì un odore un po’ fumoso, forse di nebbia. Adesso aveva caldo e sudava; il sudore gli dava fastidio, ma preferì non togliersi la giacca per timore di doversi muovere velocemente da un momento all’altro. Un rivolo di sudore che gli colò lungo la colonna vertebrale lo fece trasalire. Si rese conto che da un po’ non sentiva scoppiare i fuochi artificiali. Era forse un segno che tutto il quartiere brulicava ormai di Legge? Hector si costrinse a pensare che tutto andava bene; Wallie era in ritardo a causa del traffico. D’altra parte, che traffico poteva esserci, a quell’ora di notte? Se Wallie li avesse traditi, doveva ormai essere trascorso giusto il tempo per preparare la retata, accerchiarli e intrappolarli. Dalla parte della periferia, in lontananza, sentì arrivare il debole rombo di un convoglio. Hector decise che avrebbero aspettato fino all’arrivo del treno successivo: per quell’ora Wallie doveva essere lì, se davvero veniva. Se Wallie non fosse arrivato prima d’allora, si poteva star certi che qualcosa era andato storto e se ne sarebbero andati. Passò la macchina di pattuglia e questa volta gli parve che fosse più vicina. O era un’altra macchina? Passarono degli adulti che non notarono niente, ma forse avevano fatto finta di non notare niente. C’era il pericolo di agenti in borghese? Quando il convoglio arrivò, Hector non poté resistere. Venne fuori e diede il segnale. Balzarono fuori anche gli altri e partirono di corsa. Salirono le scale a balzi, scavalcando con un salto i cancelletti di entrata tra le urla del bigliettaio che da dietro le sbarre della guardiola agitava loro contro il pugno. Si girarono indirizzandogli il Gesto. Il bigliettaio fece per uscire dal gabbiotto, ma Bimbo brandi la bottiglia vuota. Lui tornò subito a rifugiarsi nella sua gabbia, mettendo giù la testa. Salirono correndo una seconda rampa e arrivarono al convoglio nel momento in cui le porte si stavano chiudendo. Tonto si tuffò tra i battenti e li tenne aperti, ridendo. Gli altri gli sfilarono sotto le braccia tese per salire in carrozza. Hinton invece si fermò, cavò di tasca il magic marker, tornò sui suoi passi fino ai cartelloni pubblicitari e scrisse il nome della Famiglia, in grande, sopra alle scritte di altre bande. Mise anche un «abbasso» davanti alle firme dei Golden Janissaries e degli Spahis, tanto per non sbagliare. Quindi tornò alla carrozza e passò a sua volta sotto le braccia di Tonto, mentre dalla cabina di guida il conducente imprecava.
5 luglio, ore 00.45-1.30 Loro credevano che sarebbe stata solo questione di sorbirsi una noiosa gita a bordo di un treno vuoto. Qui di solito non c’era casino; le linee metropolitane erano territorio relativamente neutrale, qui c’era da stare attenti solo alla pula, si poteva persino sonnecchiare un po’. Sennonché il convoglio era affollato. C’era gente seduta e c’era molta gente in piedi. «Forse è quel turno di notte», sussurrò Dewey a Junior. Ma c’era qualcosa di strano in quei passeggeri. Non erano normali, erano un po’ sinistri, erano chissà cosa.
Ma cosa c’era? I battenti si chiusero. Erano sbagliati i vestiti, per cominciare, ma non tutti. E poi le facce, anche le facce erano sbagliate, ma non tutte: gli occhi sia di quelli in piedi sia di quelli seduti erano occhi di gente che aveva sonno, ma erano aperti, eppure erano chiusi. I Dominatori si mossero, in ranghi serrati. Furono investiti da sguardi folli, stralunati. Loro si strinsero l’uno all’altro, per tenere a distanza l’Altro. C’erano uomini attaccati ai montanti, o appesi alle maniglie; c’erano donne spettinate, che guardavano nel vuoto, sedute con le gambe distese e scomposte; c’era gente appoggiata ad altra gente, in gruppi di due o tre. Alcuni con gli occhi fissi nel vuoto; altri occhieggiando pagine di giornale; altri ancora curvi su fogli pieni di cifre, assorti, facendo segni con una matita e borbottando sommessamente. Alcuni sprecavano qualche secondo per osservare la Famiglia, quando venivano urtati, commentando la confusione da loro creata, e tornavano poi a occuparsi dei fatti loro, come se già avessero dimenticato d’essere stati disturbati. Quel luogo faceva venire i brividi ai membri della Famiglia. Guardarono nella carrozza dietro, ma era affollata anche quella. Cercarono di guardare come andava in quella davanti, ma c’era troppa gente in mezzo. Hector chiese a un ometto tarchiato, col naso schiacciato se il convoglio era diretto a Coney Island. L’ometto si girò lentamente, alzando gli occhi da un foglio coperto di parole stampate e numeri a matita. Parve distratto da qualcosa di tremendamente importante, confuso. Non mostrava di aver inteso le parole di Hector. Lo guardò in faccia, mise a fuoco lentamente, molto lentamente, e la sua espressione da morto diventò quasi viva e forse gli parve di riconoscere una faccia e si sforzò di pensare alla domanda che gli era stata rivolta, ma non ce la fece e in fondo non gliene importava niente. Hector ripeté la domanda. Questa volta l’Altro parve capire quel che si voleva da lui e scrollò la testa, non tanto in risposta alla domanda, ma perché rispondere era troppo faticoso. Non disse se sapeva o non sapeva. Distolse lo sguardo. Vicino a loro era seduta una donna che teneva la testa appoggiata a una mano. Il suo sguardo da matta era rivolto a loro. Ma lei era un’Altra Cosa, non li vedeva neppure. Loro erano molto perplessi. Si consultarono brevemente, cercando di farsi un’idea. Lì vicino due teste si piegarono insieme, coi capelli che si toccavano, su un foglio di tabelle, e presero a far calcoli attenti, mettendo un piccolo visto accanto a ogni cifra e con le labbra che si muovevano come in preghiera, emettendo un suono sommesso e del tutto inudibile nel rombo del convoglio in marcia. Poi, tutt’a un tratto, Hinton ebbe un’illuminazione: venivano dall’ippodromo. Norbert, l’uomo di sua madre, piazzava sempre sui cavalli soldi suoi, soldi dell’assegno assistenziale di sua madre, spiccioli tirati su qua e là, anche rubando, se necessario. Alonso, fratellastro di Hinton e tossicomane, aveva un po’ quella faccia lì dopo una cavalcata sul suo Cavallo personale. «Cazzo, ragazzi, questi qui sono drogati», disse agli altri. «E l’effetto è quasi finito. Sono giocatori di cavalli», e tutti gli altri capirono. Il fatto era che non avevano mai visto tanta gente inebetita tutta insieme e mai senza l’allibratore. «Stanno tornando dalla pista, è su a Yonkers. Trotto. E se sono come Norbert, stanno facendo i conti delle perdite della giornata e pensano a come tirare a campare domani.»
«Cazzo, ma vanno così lontano per puntare? Perché non vanno alla sala corse del loro quartiere?» chiese Dewey. «Se sono come Norbert, ci vanno», disse loro Hinton. «Due piste, galoppo di giorno e trotto di sera, un allibratore e forse due, tre numeri al giorno, secondo quel che dicono loro i sogni, e una partitina ai dadi o a carte di primo mattino. Lui ci gode, Norbert, ragazzi.» «Be’, poco ma sicuro che hanno una faccia dell’Altro Mondo», bisbigliò Junior e la Famiglia rivolse ai passeggeri sguardi sprezzanti: loro non erano schiavi di nessuna abitudine. Il treno fece sosta a una stazioncina, alla 225esima Strada. Dove diamine era? Hector ordinò a Junior, il lettore, di andare a controllare la cartina per sapere dove si trovassero, dove stessero andando e come si facesse ad arrivare a Coney Island. Junior passò tra i due uomini che avevano i vestiti sporchi d’unto e puzzolenti d’aglio. Faceva caldo e le prese d’aria cigolavano senza eliminare né afa né odore. Fece capolino da dietro la testa di una donna con la faccia rugosa di una scimmia. Lei aveva un cappello di paglia ornato di fiori; finti e indossava un vestito stampato a fiori, luridi; sul naso aveva occhialini a pinza. Junior ebbe l’impressione di sentire l’odore di piscia secca. Lei guardò verso il soffitto e la testa le dondolò in cima al collo ossuto a tempo con il rollio del treno; la sua mano però reggeva saldamente una tabella di risultati i cui margini venivano; riempiti a matita da una serie infinita di piccoli segni. La donna non guardava nemmeno quel che stava facendo e parlava da sola con un sorrisetto esaltato. La Famiglia riconobbe il sorriso; del drogato quando sì ripromette il buco. Dewey andò a mettersi accanto a Junior e studiò la donna. I suoi occhi ingranditi dalle lenti guardarono direttamente verso Dewey che li fissò per qualche secondo attraverso i propri occhiali. Gli altri non poterono trattenersi dal ridere, a vedere quello scambio a otto occhi, sebbene la donna per la verità non vedesse nemmeno Dewey. Dewey, dal canto suo, fece un inchino, ma lei non vide niente. Dewey allora le mosse una mano davanti alla faccia. Gli altri risero e Bimbo nascose la faccia contro la spalla di Tonto perché non era gentile ridere in faccia a una donna anziana. Dewey prese a fare smorfie, ma lei aveva davanti agli occhi solo il suo personale e segreto futuro. «Ragazzi, guardate la duchessa. Pensa: “Ne metto due su Goalong e Goalong vince e me ne paga quarantacinque, poi metto tutto su Comeonin e Comeonin vince”. E lei ci viaggia forte, sul mio ronzino. Solo che il suo è un viaggio diverso», disse Hinton. Dewey si stancò di giocare, e tornò indietro. Junior aveva i suoi problemi con la carta topografica. Aveva consultato piante della città già prima d’allora, ma questa era troppo diversa. Era astratta, come se i contorni si fossero consumati. Non riusciva a interpretarne i profili ed era sicuro che i rapporti fossero sbagliati; sembrava piuttosto un brutto diagramma. Dov’era Coney Island? Dopo un po’ trovò il punto in cui si erano nascosti e individuò anche la destinazione desiderata. Se gli fosse stato concesso il tempo necessario pensava di poter rintracciare i percorsi, seguendo lentamente col dito le linee della metropolitana stampate in colori diversi. Per il momento aveva capito che si trovavano sulla linea contrassegnata con IRT. Arrivarono a un’altra stazione. Nessuno sali e nessuno smontò.
Tonto vide «quello che tutti prendono a calci»: era rotondetto, palpebre pesanti sugli occhi e un’espressione leggermente da mongoloide. Aveva labbra pallide e carnose, chiuse su un lavorio di mascelle, quasi che si stesse masticando i denti davanti. Il suo berretto era troppo largo e gli sfiorava le sopracciglia. Tonto richiamò l’attenzione degli altri e con un gesto mostrò loro lo scemo. Tutti risero. Junior era sempre alle prese con la mappa. Arrivato al centro, aveva capito che si trovavano sulla ferrovia sbagliata. Dovevano cambiare da qualche parte o non sarebbero mai arrivati a destinazione. Ma dove cambiare? Tutte le linee si incontravano nel centro cittadino e lì c’era un vero groviglio da cui riemergevano, ciascuna diretta al proprio capolinea; ma Junior non riusciva a seguirne i tracciati. Spostò gli indici lentamente lungo le linee, cercando un punto di congiunzione, ma i sobbalzi del treno gli facevano perdere il segno. Doveva sbrigarsi per non passare da scemo agli occhi della Famiglia. La faccia sotto di lui era alzata e gli parlava. Era un’Altra Cosa, tant’è vero che non scandiva delle parole, ma emetteva dei suoni. Lui borbottò: «Come, signora?» alla duchessa che puzzava di piscia, ma lei continuò a emettere suoni e lui finì coll’esserne spaventato. Guardò la Famiglia, in attesa a ranghi compatti poco distante. Tutti lo tenevano d’occhio e lui temeva che lo deridessero. Junior aveva fama di gran lettore, perciò abbandonò la mappa prima di averci capito qualcosa e a gomitate tornò indietro. Hector gli chiese se avesse trovato il percorso e lui rispose che, ovviamente, l’aveva trovato e che, ovviamente, sapeva esattamente cosa fare: confessare la verità gli avrebbe fatto perdere la faccia. Il treno cominciò a rallentare e si fermò dove non c’era una stazione. Si mosse un poco, riguadagnò velocità, quasi facendo perdere loro l’equilibrio, quindi si fermò di nuovo bruscamente. Nessuno parve accorgersene, oltre alla Famiglia. L’Altro era ancora immerso nella sua beatitudine, come Hinton ben sapeva, e faceva i suoi conti, cercando di farli tornare con la fantasia, visto che nella realtà non tornavano, perché i conti non mentono mai, vero? Nuovi numeri davano loro i risultati della prossima volta; servivano a dir loro cosa avessero sbagliato la volta prima. Ma se con la logica e i calcoli ce la si faceva... Hinton sapeva tutto questo: nessuno di loro tornava a casa con la limousine. Norbert, il ragazzo di sua madre, arrivava sempre al verde e diceva a Minnie come avrebbe vinto se soltanto... e poi gliele suonava perché lei gli rispondeva e gli diceva che avrebbe dovuto vincere, ma... Hinton sapeva tutto questo. C’erano ancora razzi che scoppiavano in cielo. I giocatori non si giravano nemmeno a guardare. La loro celebrazione l’avevano messa in scena all’ippodromo e le sole scintille che davano loro emozione erano quelle provocate dagli zoccoli dei puledri. Le loro esplosioni erano sempre riservate al futuro, posto che i conti tornassero, quando non ci sarebbe stato nessun «se non fosse stato per...» Hinton sapeva tutto questo. Dewey gli diede un colpetto e puntò il dito. «Il professore», disse Guardarono un uomo anziano col cappello macchiato, il colletto rigido, la cravatta a strisce, la giacca sbottonata col bavero di velluto, nonostante il caldo. Aveva la testa appoggiata sulle mani nodose, serrate attorno al manico dell’ombrello. «Ma come cazzo si fa a conciarsi così?» sbottò Dewey. «Guarda che testa.»
Il treno si fermò di nuovo. Il motore sotto i loro piedi sussultava e rombava; i ventilatori erano in funzione, ma intanto faceva sempre più caldo perché non facevano entrare l’aria fresca in vettura. I guerrieri avevano i vestiti sporchi inzuppati di sudore. Guardarono il buio circostante. «Perché ci fermiamo qui?» chiese Tonto. «Già, perché paghiamo tutte quelle tasse?» chiese Dewey. «Mi prendi in giro?» «No, fratello maggiore», si scusò subito Dewey, ma con ironia. «Ma tu il grosso del malloppo lo prendi dalla tua famiglia, cioè dico, dai tuoi secondini, no?» «Mah, ho anche altri mezzi.» «Ma il grosso te lo danno i tuoi vecchi alla galera, no?» «E allora?» chiese in tono minaccioso Tonto. «Allora loro pagano le tasse e quello è denaro tassato, quello che ti danno, e tu hai il diritto a un servizio di prima classe. Non è la verità? Chiedi a tuo Padre. Non ho ragione, Papà Hector?» Hector parve riflettere. «Hai ragione.» «Io non l’avevo mai vista a questo modo.» «Non direi mai puttanate a mio fratello», disse Dewey. Hinton annuì gravemente; Hector voltò la testa dall’altra parte e sorrise contemplando il professore. Il treno era ormai fermo da cinque minuti e loro cominciavano a innervosirsi. Forse era stata passata parola. Forse la rete era tesa. Stavano forse controllando tutti i convogli con l’intenzione di sorprendere i guerrieri fuggiti dal parco. Erano passate più di due ore dalla sortita al parco, ma era possibile che fossero ancora in giro a dar loro la caccia. Hinton pensò di nuovo che, se si fossero tolte le insegne e si fossero dispersi per il treno, nessuno li avrebbe notati. Ma questa volta non disse niente: non voleva sentirsi rimproverare. I drogati non si accorsero di nulla. Loro erano già stati messi sotto ed erano annegati nelle loro perdite, nel vuoto delle loro tasche. Ma loro, i Duri, pensando a cosa forse li aspettava alla prossima stazione, considerarono la loro posizione e cosa fare se... «Qual è la prossima fermata, Junior? Dove siamo, cazzo?» «Non so bene.» Hector gli rivolse l’occhiata gelida che aveva cercato di evitargli poco prima. Il treno riprese a muoversi lentissimamente, fermandosi e ripartendo, facendo loro perdere l’equilibrio ora in avanti, ora indietro, insieme con tutti gli Altri. Gli Altri, inebetiti, si lasciavano strapazzare dai sussulti del treno perché non importava loro niente di quel che succedeva. La Famiglia invece resisteva, a gambe divaricate, perché loro avevano orgoglio. Dewey non poteva distogliere gli occhi dalla duchessa sotto la mappa. Era seccato per il modo in cui lei alzava la testa e parlava, con quell’aria lamentosa, come se Iddio non avesse mantenuto le promesse. Una donna grossa, che indossava una giacca a scacchi da uomo, con una faccia grassa e molle, occhi e naso come bottoni, si ficcò un dolce oblungo in bocca facendo cadere pezzi di cioccolato sul giornale. Tonto non riusciva a non guardare il mongoloide dal cappello nero e diede un colpo a Junior perché guardasse anche lui. Possibile che quel Tonto non si rendesse conto della propria forza? E Junior si girò a guardare, con una mezza smorfia di dolore.
Il treno ripartì molto lentamente. Cominciarono a passare tra le luci lampeggianti di un tratto dove c’erano lavori in corso. Alcuni operai che lavoravano ai binari sospesero il lavoro aspettando che il convoglio fosse passato. Il convoglio avanzò prudentemente. Gru imponenti incombevano ai lati della ferrovia. Si sentiva il baccano metallico della ribattitura dei bulloni. Le fiammate dei saldatori producevano nubi di fumo acre. Le facce dei manovali erano sinistre nelle luci intermittenti. Nessuna di quelle facce restava ferma a lungo. Cambiavano di dimensione, ondeggiavano nell’aria, parevano sbirciare con cattiveria nei finestrini, occhieggiavano e sorridevano con scherno. Il treno arrivò scricchiolando alla stazione. Un altoparlante stava già urlando loro addosso qualcosa che, al momento, non aveva alcun senso. Diceva loro cosa dovevano fare in un tono perentorio, di comando. Cosa stavano dicendo? Hector temette che ci fosse un blocco. Forse quegli operai erano agenti in borghese. Le porte si aprirono e le parole amplificate arrivarono a loro con maggior chiarezza. Si avvertiva che la ferrovia era interrotta per riparazioni, bisognava cambiare, c’erano autobus in attesa. Dall’altra parte del tratto interrotto c’era un convoglio che aspettava, altrimenti si poteva cambiar linea. Il nome della stazione non aveva alcun senso, per loro, dato che non ne conoscevano il numero. Possibile che non ci fossero indicazioni più precise sulla zona della città? Gli Altri, inebetiti come sonnambuli si alzavano e si dirigevano alla porta da cui defluivano come se già sapessero tutto o se non gliene importasse niente. Se il nemico avesse avuto in mente un agguato, secondo Hector gli sarebbe bastato di tenersi al coperto dietro quella massa di addormentati finché la Famiglia gli fosse stata a tiro. Forse conveniva restare a bordo. Ma anche qui sarebbero stati presi. Oppure sarebbero stati costretti a tornare da dove erano appena venuti. La mano di Dewey sali al cappello a toccare l’insegna; altri avevano avuto la medesima idea e anche Bimbo rivolse a Hector un’occhiata interrogativa. Hector aggrottò la fronte e la mano di Dewey si limitò a riaggiustare la spilla, raddrizzandola. Smontarono dal treno. Tutti si dirigevano dalla stessa parte. La folla si ammassava all’uscita. Le porte del treno si richiusero dietro di loro e, che gli piacesse e no, la Famiglia restò intrappolata. Avanzarono lentamente. L’altoparlante emanava ordini con frasi del tutto incomprensibili. Procedettero in un fruscio di piedi strascicati. La Famiglia fu accerchiata dalla folla. Veniva sospinta in avanti, chiusa da ogni lato. I sonnambuli cominciarono ad agitarsi man mano che tornavano in vita. Accelerarono l’andatura. Più avanti, verso l’uscita, anche se solo Tonto era abbastanza alto per vedere distintamente cosa c’era, pareva serpeggiare nella folla un’animazione maggiore; gli spintoni lì erano più violenti e le parole e le esclamazioni rimbalzavano più forte. La massa doveva infilarsi attraverso due uscite anguste, dove si passava uno alla volta. Nessuno si era ancora accorto della Famiglia. «Andiamocene di qui», gridò Tonto e la Famiglia cercò di sfondare a mo’ di falange. Quella massa di addormentati procedeva come in un sogno facendo ancora calcoli su fogli immaginari, col volto indecifrabile per la scarsezza delle luci, fiacche e tremule, sulla banchina. Per un po’ i Dominatori riuscirono a procedere più speditamente in formazione compatta. Ma l’ondata di confusione che c’era all’uscita della stazione li raggiunse.
Le persone che si trovavano intorno alla Famiglia presero a spingere con maggior forza. Non c’era vento e il caldo era terribile. Tutti volevano andarsene al più presto. La gente era esasperata, qualcuno gridava: «Perché non vanno?» Altri spingevano: «Via, via, avanti!» La Famiglia reagì a queste intolleranze innervosendosi ancor più. Non si capiva niente, non si poteva avanzare velocemente come avrebbero desiderato; più il tempo passava più aumentava il rischio che una squadra di blu piombasse loro addosso. Poi, dai tetti degli edifici accanto alla stazione, fecero capolino le teste di un gruppo di ragazzini che dalla balaustra cominciarono a gridare loro parolacce, insultandoli in spagnolo e in inglese, imitando il belare delle pecore. Poi passarono a versacci di ogni genere, accompagnati da un lancio di petardi. Dalla folla si levarono imprecazioni al loro indirizzo. Per fortuna, dato che quella pioggia di petardi scendeva da un’altezza di quattro piani, non ci furono esplosioni in prossimità del bersaglio. Frattanto, però, la folla che si trovava alle spalle della Famiglia s’era fatta sotto, spaventata dal lancio di petardi, e premeva la Famiglia da tergo. La Famiglia era sbatacchiata qua e là. Facendo pressione con spalle e gomiti protesi, con Tonto davanti a far da rostro, ripresero l’avanzata, riuscendo ad accelerare. Stretti l’uno all’altro, trovarono conforto nell’appartenere a un nucleo, nella sensazione di una fusione in un unico corpo che speronava e scindeva la massa eterogenea dell’Altro. Arrivarono all’altezza del mongoloide, del professore e della duchessa, che furono spinti brutalmente in avanti. Adesso cominciavano tutti a vociferare. Gli occhi del mongoloide erano dilatati e la sua espressione da scemo era peggiorata. Col copricapo che gli traballava sulla testa, senza però cadere, avanzava buttandosi di là e di qua, sorridendo ogni volta che urtava qualcuno. Urtò il professore, che stava spiluccando un sandwich e che si ritrovò con la cena schiacciata sul naso. Il professore si mise a urlare, sputando briciole dalla bocca. Lo scemo urtò Tonto, che cercò di restituirgli il colpo senza poter liberare il braccio. I Dominatori non riuscirono ad avanzare per più di un metro, dopodiché tutti quanti andarono a sbattere contro una muraglia umana che urlava e spingeva senza ragione. Subìto l’urto, l’Altro rise di rabbia. L’eccitazione passava e ripassava come un’onda e la folla che avevano alle spalle fu loro addosso, schiacciandoli. Junior, che si trovava dietro gli altri, cercò di voltarsi con Bimbo per affrontare la pressione di faccia, ma, sorpreso di profilo, per poco non fu buttato a terra. Hinton, impotente, fu preso dalla corrente e trasportato per un po’, con le gambe che nemmeno toccavano terra. Anche Tonto cominciava a preoccuparsi. Man mano che si avvicinavano alle uscite la follia della folla pareva aumentare. Tutti erano schiacciati e le poche mani rimaste libere si agitavano stupidamente. Il baccano era assordante. Tutti dovevano passare dal gabbiotto e ricevere il biglietto con cui salire sull’altro treno. Nessuno avrebbe potuto servirsi del prossimo convoglio senza il biglietto. Ora, al culmine della sua interpretazione, il vecchio bigliettaio con la visiera di celluloide buttò la testa all’indietro e guardò dall’alto in basso la folla, come a voler decidere a quali tra le molte mani che gesticolavano nell’apertura sotto la sua griglia dare più credito. Poi cominciò a distribuire i biglietti a colpi secchi e sprezzanti, racchiuso nel sicuro della sua gabbia, del tutto invulnerabile alle grida e agli strilli di tutte quelle facce che aveva davanti.
La faccia del mongoloide era contratta e un rivolo di saliva gli scendeva dall’angolo della bocca sul mento. Era riuscito chissà come a mettere una mano intorno alla duchessa, che tossiva. La faccia irsuta del professore era stravolta in un grido possente. Stava urlando qualcosa tipo «Comportiamoci da esseri umani. Manteniamo un attimo di dignità. Siamo civili», mentre il baccano rimbalzava per tutta la stazione e il vecchio dietro la griglia, per mostrare che aveva in pugno la situazione e che sapeva dominarsi, non udiva più neppure le grida che gli indirizzavano e nemmeno sorrideva di trionfo. Hector capi che era praticamente inutile cercare di procurarsi i biglietti. Erano tutti impazziti e la situazione era spaventosa. Gridò ai figli di girarsi per deviare senza preoccuparsi della guardiola. Stentarono però a liberarsi dalla morsa della folla. Tonto, preso dal panico, si guadagnò uno spazio a suon di cazzotti. Seguito dagli altri, arrivò ai cancelletti. Tutti passarono oltre e attaccarono rumorosamente le scale, allontanando a spintoni la gente che intralciava la loro fuga. Una voce imprecò contro di loro. In strada c’era una moltitudine in coda, vicino a una fila di autobus che avrebbe trasportato i passeggeri fino al punto in cui il servizio ferroviario riprendeva. C’erano dei soldati che oziavano vicino a una drogheria e a un chiosco di giornali. Si godevano lo spettacolo. Videro la Famiglia che scendeva e, dal modo in cui la loro espressione si congelò, la Famiglia si rese subito conto che erano all’erta: era Nemico sul loro territorio. Erano solo tre soldati, perciò non attaccarono, anche se uno di loro si mosse. Costui si allontanò distrattamente, camminando disinvoltamente per pochi passi e scomparendo all’improvviso nell’oscurità. Hector sapeva cosa voleva dire: rinforzi. Gli altri due restarono lì, sul chi vive, ma tranquilli, perché avevano fegato. I Dominatori non sapevano dove fossero, non sapevano a chi appartenesse il territorio. Sapevano di essere in pericolo. Ormai tutte le tregue in città erano sospese e loro erano stati individuati perché erano in uniforme e indossavano le insegne. Hector convocò Junior e chiese: «Dico, dove cazzo si va adesso?» «Non lo so.» «Tu dovevi controllare le stazioni.» «Non sapevo che ci saremmo fermati cosi.» «Da che parte si va?» «Non lo so.» «Con te me la vedo dopo.» Hector decise che si sarebbero allontanati all’istante, seguendo la soprelevata. Non potevano aspettare un autobus perché, così facendo, sarebbero rimasti esposti per troppo tempo al Nemico, bloccati in quella coda lunga un isolato. Non c’era di che fidarsi, a star lì. I soldati stavano probabilmente accorrendo. Hector decise che doveva parlamentare per ottenere un permesso di passaggio.
5 luglio, ore 1.30-2.30 Faceva ancora più caldo, in strada. Le case, tutte in fila bloccavano l’aria sui lati e la struttura della soprelevata ne impediva la circolazione in verticale. Ovunque scoppiavano petardi e il rumore giungeva fino a loro percorrendo vicoli bui: ogni tanto scoppiava dell’esplosivo più potente. I due soldati fermi davanti alla drogheria erano in gran tenuta, con le mollette ai calzoni, camicia a strisce colorate e scarpe alte ornate di bottoni di perla. In testa avevano il cappello di paglia a tesa larga dei padroni delle piantagioni. Li tenevano molto calati sulla faccia e dovevano alzare parecchio il mento per vedere i loro interlocutori. Hector pensò che dovevano essere sbarcati di fresco dalla loro isola madre. Si augurava che parlassero abbastanza bene l’inglese perché né lui, né Bimbo né Tonto parlavano abbastanza bene lo spagnolo; loro erano nati lì e non erano così stupidi da girare con le mollette ai calzoni. «Guardate lì un branco di miras freschi freschi di ovile», bisbigliò Hector ai suoi. I miras li fissavano con freddezza perché i Dominatori avevano le uniformi stropicciate e logorate dalla battaglia. Gli indigenos li fissavano come a chiedersi chi fossero quegli stranieri straccioni che si permettevano di invadere il loro territorio senza un lasciapassare e senza parlamentare. Si squadravano dall’alto in basso, ciascuno preoccupato di mantenere un’espressione di profonda gravità. Bimbo sorvegliava Tonto perché non combinasse guai, ma anche Tonto sapeva quand’era il caso di dar prova di cervello invece che di coraggio. L’Altro, in coda agli autobus, non si accorse di nulla. Mentre si squadravano, una ragazza usci dalla drogheria e si avvicinò ai due miras. Indossava una gonna a pieghe che le arrivava a metà tra ginocchia e terra promessa, calze scure e scarpe di cuoio rosso con fibbia di ottone che le coprivano le caviglie e i cui tacchi a spillo le mettevano in evidenza i muscoli dei polpacci. La camicetta a fiori le arrivava alla vita, era senza maniche e le lasciava scoperta una fascia di pelle bruna sul ventre. La ragazza era truccata: aveva occhi grandi eccessivamente marcati di nero, labbra coperte di rossetto bianco e lucido e sopracciglia ridisegnate in archi ampi all’insù. Le ciglia erano probabilmente false, troppo lunghe e incrostate di nero. Aveva la pelle bruna, eppure gli occhi erano grigi. La Famiglia avvertì quasi immediatamente quella sensazione di formicolio. Tutti però fecero attenzione a mascherarla. La ragazza aveva in testa un foulard bianco, con scritto SOUVENIR DI PUERTO RICO, che le nascondeva i grossi bigodini. Hector avanzò da solo per parlamentare e il più piccolo dei due miras si staccò dal chiosco in legno come se ciò richiedesse un notevole sforzo. Un cigarillo gli pendeva dal labbro e i pollici li teneva infilati nella cintura, con le spalle ricurve e i gomiti spinti un tantino in avanti. Avanzò stancamente verso Hector e i due si incontrarono a metà tra drogheria e Famiglia. Si confrontarono studiandosi reciprocamente le uniformi e ciascuno pensò dell’altro che era scarso. Entrambi però non rinunciarono alla maschera. Hector parlò per primo; non poteva permettersi di perder tempo col vecchio gioco di aspettare per vedere chi dei due avrebbe rinunciato al suo prestigio attaccando per primo. Si trovavano in territorio nemico e bisognava scendere a patti. Hector spiegò: erano stati costretti ad abbandonare il treno a causa dei lavori in corso;
stavano attraversando in direzione Brooklyn; non era il caso di venire ai ferri corti. I Dominatori rientravano dalla grande Assemblea e tutti sapevano della grande riunione di Ismael. Chiedevano il permesso di attraversare quel territorio fino al prossimo treno, dovunque esso fosse, pacificamente. C’era una tregua in tutta la città, non è vero? Hector non disse che i suoi uomini non erano armati. L’altro tirò un paio di lunghe boccate al cigarillo e, scrutandone la punta, diede a Hector una lunga occhiata attraverso gli sbuffi di fumo. Hector notò che aveva le basette lunghe. Poi il mira, con un forte accento sudafricano, disse che non sapeva niente di una tregua cittadina; non sapeva niente di un’assemblea di bande. Se c’era stata, allora perché la sua banda dei Borinquenos non era stata invitata? Forse che i capi ritenevano che i suoi uomini non avessero abbastanza machismo? Hector si accorse di aver commesso un’imprudenza parlandogli dell’assemblea e disse che tutti li conoscevano, ma che l’assemblea non poteva interessare a loro in primo luogo ed era stata un tragico fallimento in secondo. Dietro al piccolo capo, la ragazza guardava con sufficienza i Dominatori, come a voler decidere fino a che punto fossero veri uomini. Anche se quella faccia, quelle gambe, quel poco di ventre scoperto eccitavano Hector non poco, il Padre riconobbe in lei l’attaccabrighe: una puttana. Negoziarono per un poco a proposito del lasciapassare. Il piccolo capo disse che non sapeva se poteva permettere alla Famiglia di attraversare il suo territorio. In effetti la questione andava discussa in consiglio. Parlarono brevemente della propria reputazione, delle bande con cui erano associati, delle affiliazioni tra quartiere, di conoscenze prestigiose. Ma anche se Dominatori e Borinquenos non avevano mai sentito parlare gli uni degli altri, entrambi si preoccuparono di prendere atto della grande reputazione dell’altro. Tirarono fuori ritagli di giornale. Quelli di Hector erano del Daily News e quelli del piccolo capo erano del La Prensa. I trafiletti riportavano le gesta e le sortite delle due bande. Si vantarono entrambi dei contingenti che erano in grado di mettere in campo. Hector disse che loro avevano un assistente sociale dell’assessorato. Il Borinqueno dovette ammettere che loro non ne avevano ancora uno, ma che stavano facendo un gran casino e che prima o poi l’avrebbero meritato. Hector si affrettò a osservare che all’assessorato erano sovraccarichi d: lavoro, avevano poco personale e che tanta ignoranza era dovuta a miopia e non a una volontà di offendere. La ragazza masticava una gomma e fumava una sigaretta, guardando freddamente in direzione dei due parlamentari, osservando la Famiglia, girandosi di tanto in tanto a parlare a voce bassa all’altro Borinqueno con movimenti bruschi, per far sollevare la minigonna e mostrare così il punto in cui le calze rivoltate alla estremità superiore le segnavano le cosce. Fece qualche passo di danza. Il rumore dei suoi tacchi a spillo sul marciapiede li innervosì. Hector offrì una sigaretta al suo avversario. Il Borinqueno l’accettò e questo era buon segno. Confrontarono la loro reputazione e si diedero reciprocamente credito d’essere guerrieri coraggiosi. I due parlamentari si rilassarono un po’, ma la Famiglia non capiva perché ci volesse tanto per raggiungere un accordo. Forse venivano trattenuti lì a lungo perché arrivassero in tempo i rinforzi? Bimbo tossì due volte per dare il tempo a Hector. La ragazza entrò nella drogheria e ne uscì con una Coca. Se la, ficcò voluttuosamente in bocca applicando sensualmente le labbra intorno al collo
della bottiglia che poi sollevò verso l’alto, un po’ di lato, per non smettere di guardarli in quel suo modo, così strafottente. Bimbo sorvegliava Tonto, ma Tonto non faceva niente, dando prova di forza d’animo. Il piccolo capo decise che il permesso poteva venir concesso, fintantoché i Dominatori fossero venuti in pace. Hector alzò i palmi delle mani a dita distese. Il Borinqueno disse allora a Hector che dovevano seguire la struttura della soprelevata per altre due o tre fermate, non ricordava più esattamente quante; avrebbero visto gli autobus parcheggiati in corrispondenza della fermata da cui riprendeva il servizio ferroviario. Ma la ragazza s’era stufata. Aveva gironzolato tutto il giorno da quelle parti e non era successo niente di interessante. Sì, qualcuno le aveva portato del vino. A una cert’ora era andata via con uno di loro a spassarsela, ma la giornata nel complesso era stata fiacca e adesso aveva mal di testa perché le erano venuti i postumi della sbornia. Sbadigliò, ma era troppo presto per tornare a casa. C’era da divertirsi davvero a far saltar petardi? Bah, robaccia da poppanti. Gli invasori le sembravano interessanti, quasi veri uomini. Ora, se fosse riuscita a smuovere un po’ le acque, chissà... Lei aveva di che vantarsi del proprio potere, e non poco, dato che degli eserciti si combattevano per lei. Si avvicinò al piccolo capo e tutti capirono subito che arrivavano i guai. Hector si augurò che il piccolo capo avesse tanto controllo da mantenere la calma. Anche il piccolo capo sapeva che cosa stava per succedere e decise che non ci sarebbero stati guai. Il fatto è che non sarebbe servito a niente: erano in difetto numerico, perché i rinforzi non erano ancora arrivati. Forse Chuchu non riusciva a trovare nessuno a quell’ora di notte o forse erano tutti fuori a divertirsi coi petardi. La ragazza guardò Hector dalla testa ai piedi, si girò leggermente, sollevò la bottiglia di Coca, applicò le labbra al collo della bottiglia e fece tintinnare i denti contro il vetro. Questa sfrontataggine imbarazzò i due parlamentari, ma il piccolo capo non ebbe il buon senso, o la forza, di fermarla subito. Hector le avrebbe appioppato un manrovescio. Lei si girò e contemplò gli abiti sporchi dei membri della Famiglia con quel disprezzo che voleva dire: «Vediamo, su». Il Borinqueno, che riteneva di avere il controllo della situazione, si irritò senza nemmeno sapere perché. Hector distolse cautamente lo sguardo e ne approfittò per lanciare un’occhiata alla Famiglia. Nessuno si era mosso, nemmeno Tonto. Il piccolo capo disse alla Famiglia che si sbrigassero, che si avviassero. Li avvertì che avrebbero dovuto attraversare un tratto di territorio largo un isolato che era oggetto di controversia coi Castro Stompers e che dall’altra parte si sarebbero ritrovati in territorio Borinqueno. Dovevano tuttavia guardarsi dai Masai di Jackson Street due isolati prima di arrivare alla stazione. Stavano per andarsene quando la ragazza indicò il cappello di Hector dicendo: «Dove hai trovato quella spilla?» Hector rispose che se l’era fatta fare. Lei disse che gliene sarebbe piaciuta una. Hector rispose che avevano solo un Segno a testa. «Che vuol dire?» «È l’insegna della nostra Famiglia.» «Non ne ho mai vista una così. Mi piacerebbe averne una.»
«Non ne abbiamo di riserva.» «Dammi la tua.» «Non posso. Questa è l’insegna dei nostri uomini e io sono il capo.» «Allora prendine una da uno dei tuoi.» «Piantala, puttana», disse il piccolo capo. «Non sto facendo niente di male. Ma senti un po’, vuoi che questi qui se ne passino tutti impettiti per casa nostra con le insegne addosso? È un insulto.» «Tu vai in cerca di una menata. Piantala.» «Non faccio niente di male. Ma se si sa in giro che hai fatto passare attraverso il territorio un esercito senza consultarti, che figura farai? Cosa penseranno gli altri di te? Gli Stomper e i Masai verranno qui a piallarti.» «Tu ne vuoi una.» La puttana sorrise. Batté i tacchi e fece roteare la gonnella bianca scoprendo nuovamente l’estremità superiore delle calze. «Bell’uomo, sei.» «Basta», disse il piccolo capo. «Non rompere.» «Hai solo fifa!» e chiuse le labbra intorno al collo della bottiglia gonfiando le guance due o tre volte. Occhieggiò la Famiglia da sotto le lunghe ciglia nere. Il piccolo capo fece il gesto di mollarle un manrovescio. Lei gli porse la faccia, con la bottiglia sotto, sporgendo il mento perché lui la colpisse. Ma lui non lo fece. Qualsiasi Dominatore l’avrebbe sistemata. «D’accordo», disse il piccolo capo. «Non starò al tuo gioco e tu non avrai la tua spilla, ma ti farò vedere che Jesus Mendez non è un fifone. Tu», disse a Hector. «Toglietevi quelle spille e attraverserete questa patria senza problemi. Vi daremo persino una scorta, ma non potete passare in parata.» «Le spille sono i nostri distintivi e non significano che siamo in guerra. Servono solo per dirvi chi siamo.» «Voi passate in borghese e va tutto bene. Se passate come soldati, non va bene. Vi siamo addosso. Tiratevi via quelle spille. Non le vogliamo noi, ma lei ha ragione, non potete passare con le insegne sul nostro territorio.» «Vuoi che sia lei a far politica a1 tuo posto e per te?» Il piccolo capo si arrabbiò. Faceva caldo e lui non aveva voglia di star lì tutta la notte a chiacchierare. Era nervoso perché non arrivavano i rinforzi. «Sentimi bene, nessuna donna guida questo esercito. I Borinquenos sono tutti uomini e tutti forti e abbiamo un mucchio così di sortite a nostro credito. Puoi chiedere a chi vuoi in questo quartiere. Ma che figura ci facciamo davanti al nemico se vi lasciamo marciare attraverso il nostro territorio? Ci metterebbero sotto, ci riderebbero dietro e sarebbe la guerra.» Hinton pensava che forse sarebbe stata una buona idea togliere quelle spille e di uguale avviso era Dewey. Non dissero nulla. Ma l’atteggiamento del piccolo capo era seccante. Quel modo in cui quella puttana continuava a mettersi in posa, sculettando, era la prova che qui era lei a condurre il gioco. Hector non osava interferire. Se la Famiglia l’avesse avuta per le mani giusto per due minuti, le avrebbero fatto vedere chi impugna il manico. Restavano lì, fermi, in quel caldo. Sopra di loro il treno ripartì con un rombo metallico a marcia indietro. Non dissero più niente finché non tornò il silenzio. Nei vicoli scoppiavano petardi a
ripetizione. Era semplice, rifletté Hector: una lezioncina al piccolo capo e una fuga precipitosa, portandosi dietro anche la troietta. Poteva funzionare. Ma chissà cos’aveva addosso quella lì. Forse, e sembrava proprio il tipo di farlo, era armata per conto del suo uomo: una lama tra le tette, una pistola legata tra le gambe. Hector disse: «E vaffanculo, cazzo. Non siamo barboni. Siamo guerrieri. Noi passiamo. Passiamo in pace e questo ficcatelo bene in testa. Ma i Dominatori di Coney Island sono una Famiglia che marcia con le insegne in vista. Voglio dire che noi non ci tiriamo indietro solo perché una puttanella dell’ultim’ora con le chiappe all’aria...» Il piccolo capo si voltò, piantando Hector in asso e tornando alla drogheria. Hector vide che era il momento di partire. «Ricordati. Noi passiamo in pace», gli gridò. «Bello», disse la troietta a Hector, «perché non mi regali quella spilla e io ti faccio filare tutto liscio?» «Fottiti», disse lui. «Non sono una puttana! Ti faccio vedere io chi resta fottuto qua, stronzo.» Hector si voltò e fece cenno alla Famiglia di partire in direzione del centro, lungo i pilastri della soprelevata. Percorsero un isolato, attraversando la strada e attaccarono il secondo isolato quando scorsero che l’altro Borinqueno e la ragazza li stavano seguendo. Hector diede ordine di accelerare l’andatura. Avevano paura. Percorsero un altro mezzo isolato, poi Hector alzò la mano e bloccò la colonna. L’inseguitore e la puttana si fermarono a loro volta. Andarono ad aspettare accanto alla vetrina più vicina. La Famiglia era a disagio. Continuavano a tirarsi gli abiti che avevano addosso, fradici di sudore e sempre appiccicati all’inguine o penetrati tra le natiche. Adesso erano spaventati e i loro movimenti si erano fatti nervosi e impazienti. Stavano quasi per mettersi a correre. «Bene, ragazzi», disse loro Hector. «Se è ciò che vogliono, da questo momento in poi siamo in guerra e se ci saltano addosso ne facciamo frittate.» «Cazzo, come vorrei avere l’artiglieria», osservò Junior. «Inutile perdersi in sogni», disse Hector. «Noi volevamo passare in pace, lo sapete tutti che volevamo pace.» Gli altri dissero: «Sì». «Ma loro non hanno voluto.» «No», dissero tutti. «Non ci lasciano mai in pace, ci stanno sempre dietro: non si può nemmeno respirare.» Gli altri dissero: «È vero». Cominciavano ad arrabbiarsi. «Ci abbiamo provato e riprovato e loro non ci lasciano in pace.» «Non c’è pace», dissero loro. «Bimbo!» Bimbo, il latore, si avvicinò. Sapeva cosa Hector volesse da lui. Cavò di tasca una scatoletta rossa. La scatoletta, rivestita di morbida pelle, era tempestata di pezzettini di vetro che brillavano come diamanti. Bimbo l’aprì. Dentro c’erano sigarette nere con la cima bianca. Fecero circolo. Bimbo scelse sei sigarette che consegnò a Hector. Hector se ne mise una in bocca e Bimbo gliel’accese. Hector inalò, trattenne il fumo,
poi lo soffiò fuori, mentre tutti dicevano: «Aaaah». Poi staccò la brace con le dita sotto l’occhio vigile degli altri. Ma non fece smorfie. Gli altri annuirono. Infine s’infilò il mozzicone, con l’estremità all’insù, nella fascia del cappello. Allora Bimbo gli consegnò la seconda bottiglia di whisky e lui bevve. Poi Hector si mise in bocca anche le altre sigarette e Bimbo gliele accese. Lui ne restituì quattro a Bimbo. Continuò a fumare la quinta. Bimbo gli s’inginocchiò davanti, prese da lui la sigaretta e disse: «Questo fratello servirà la sua Famiglia fino alla morte». Tolse con le dita la brace e si sistemò anche lui il mozzicone nella fascia del cappello. Quindi bevve un sorso. Tonto, il cui senso delle tradizioni faceva a pugni con la solita impazienza, disse: «Dico, cazzo, sbrighiamoci che tra un momento ci sono addosso». Ma gli altri gli diedero un’occhiataccia perché quello era un momento importante. Bimbo prese la terza sigaretta, tirò una boccata e toccò Tonto. Tonto si inginocchiò davanti a Bimbo che gli consegnò la sigaretta da fumare. Tonto recitò le parole di rito, si mise la sigaretta all’orecchio e bevve il sorso. Adesso cominciavano a sentirsi meglio, più forti e tranquilli, mentre la loro paura si tramutava in collera. Presero a saltellare sulla pianta dei piedi, tanto per caricarsi. Gli altri figli completarono il giro rituale, mettendo poi i mozziconi sul cappello. Man mano che ciascuno giurava di servire la Famiglia fino alla morte, sentiva crescere sempre più forte lo spirito della lotta che li univa e li fondeva. Ubriacati dall’esaltazione, avvertendo la potenza dello spirito di corpo, Padre, Zio, fratelli-figli diventavano una cosa sola, perché avevano fumato ciascuno dalle labbra dell’altro, perché erano una banda-persona-Famiglia, erano fratelli di sangue ed erano pronti a resistere a qualsiasi fottuto Altro di tutto questo fottuto mondo. Hector, a voce alta, disse con furia: «Veniamo qui e vogliamo pace e non siamo dei rossi che vengono a metterli sotto e loro ci fanno la guerra solo per quella troia». E gli altri dissero: «Sì». «E adesso noi passiamo come un reparto in guerra, anche se vogliamo la pace. Tutti sanno che noi volevamo la pace. Ormai è tardi.» «Sì! Noi volevamo la pace», gridarono gli altri. La bottiglia era vuota e Bimbo la scagliò verso l’inseguitore: la sgualdrinella sussultò. La bottiglia tracciò un arco e brillò nell’aria, ma andò in frantumi prima di raggiungere il bersaglio. La ragazza e il piccolo capo scavalcarono con un balzo i frammenti di vetro e corsero giù per la via. La Famiglia ripartì a passo lento, capo e fratelli, e ciascuno sapeva esattamente che cosa fare. Coi muscoli tesi e il corpo contratto, le braccia che mostravano bicipite e tricipite, i pugni chiusi, con le spalle contratte e le ginocchia flesse, il busto inclinato in avanti, avanzavano con ogni senso all’erta. Considerarono l’opportunità di imboccare una delle vie secondarie per proseguire parallelamente alla strada principale fino alla stazione. Ma le vie secondarie erano strette e se i Borinquenos avevano un carro li avrebbero assaliti in un vicolo dove non si poteva sapere se avrebbero trovato in tempo un portone in cui rifugiarsi. Se fossero stati assaliti dai tetti con un lancio di molotov, bastava mettersi al centro della strada, sotto i pilastri della soprelevata, dove sarebbero stati al sicuro. Junior lo scout usci dal gruppo di corsa e avanzò di un isolato. Nessuno glielo aveva ordinato: lo sapeva da sé. Hinton restò indietro di un altro isolato, a far da retroguardia. L’esploratore e la
retroguardia procedettero sui lati opposti della via perché la loro ricognizione coprisse un’area più vasta possibile. La troietta e il pedinatore non mollavano. Quelli della Famiglia scorgevano la macchia bianca della camicetta comparire e scomparire in corrispondenza di ogni lampione. Partì una raffica di petardi alla loro sinistra. Sussultarono, colti alla sprovvista. A testa bassa, col cuore che batteva forte, sentirono il sudore sgorgare dai pori a fiotti. Un vento dolce e caldo li investì a un tratto in piena faccia, prendendoli in una corrente di aria umida. Resistettero. L’occhio della Famiglia scrutava febbrilmente le tenebre a caccia di ogni oggetto che potesse servir da arma nel caso di un improvviso attacco. Se l’esercito avversario avesse attaccato da bordo di un carro o in forze, la Famiglia sarebbe stata forse costretta a precipitarsi su una cassetta antincendio per azionare l’allarme. Allora sarebbero arrivati polizia e vigili del fuoco a salvarli: naturalmente quella era l’ultima delle risorse. Procedevano così tenendo d’occhio le luci arancione che segnalavano la presenza dei punti di allarme antincendio. La Famiglia guardava anche le antenne delle automobili che erano ottimi fioretti; c’erano bidoni di rifiuti dappertutto, i cui coperchi avrebbero fatto da scudo. Era inutile correre: nessuno sapeva per quanto avrebbe dovuto correre e non era il caso di perdere la faccia di fronte al Nemico. L’avanguardia non segnalò niente di sospetto; la retroguardia avvertì che il pedinamento proseguiva. La Famiglia era impacciata per il sudore. Il vento era appiccicoso. La pesantezza dell’aria odorava di Nemico vicino. Il vento li aggrediva con la polvere e le cartacce. La tensione cominciava a indebolire i loro muscoli. Ogni volta che un’auto passava qualcuno aveva un sussulto e tutti si sforzavano di esaminare bene l’interno dell’abitacolo. Erano molto attenti ad ogni passante, ma ce n’erano pochi, mentre a loro avrebbe fatto comodo la folla. Passarono accanto a un palazzo. C’era mobilia fracassata, in strada. La Famiglia era perplessa. Poteva essere un deposito di munizioni. C’erano tavoli cui potevano agevolmente togliere le gambe; molle di divano a far da frusta; nascondigli preziosi nelle imbottiture delle poltrone in cui riporre armi da fuoco; coperchi e recipienti pieni di cocci di Coca e sassi, lampadine fulminate, pezzi di tubo e raccordi idraulici, lampade di ferro dai profili taglienti, mattoni e stracci inzuppati di petrolio da lanciare accesi dai tetti. Sarebbe stato facile per il nemico appostarsi nei portoni, saltare fuori e correre all’arsenale dove non c’era nulla che la polizia potesse definire «arma». La Famiglia sarebbe passata di corsa sotto un fuoco incrociato. No. Lì le case erano molto vecchie e c’erano buoni motivi perché gli abitanti volessero liberarsi di vecchi mobili. Inoltre la strada molto larga non era adatta a un’imboscata. Non sarebbe stato facile bloccarne le uscite. La via poteva essere controllata dai tetti, però, ma era altrettanto vero che la polizia poteva approfittare facilmente delle maggiori forze a disposizione per bloccare tutto il campo di battaglia e arrestare entrambi gli eserciti coinvolti. Tonto ruppe la formazione, corse verso il mucchio di oggetti e mobili e cercò di strappare la gamba di un tavolo. Hector gli gridò di lasciar perdere e di non scordarsi che erano ancora in pace. «Non dare una buona occasione ai Borinquenos», gli disse. «Dico, cazzo, non ti fidi mica di loro!» lo rimproverò Tonto. «Per ora la Famiglia non farà mosse.»
La Famiglia si sentiva meglio. Non erano più sulle spine e la tensione era quella normale dello stato di guerra. Dividevano i rumori che udivano in innocui e pericolosi. Il vento dava loro fastidio. Giunsero alla stazione di Freeman Street, ma era bloccata e dovettero proseguire. Hinton aveva abitato da quelle parti una volta, ma ormai non riconosceva più il quartiere. La Famiglia sperava che il territorio dei Borinquenos finisse lì, ma i segni tracciati a gesso sui muri annunciavano che si trovavano ancora nel cuore del territorio nemico. Passò un autobus carico dei reduci dall’ippodromo e di passeggeri della metropolitana. Tonto indicò agli altri il professore. Pareva che stesse tenendo ancora il suo discorso a un pubblico che non lo ascoltava. Hector ebbe un’idea. Potevano catturare il Borinqueno da tenere come ostaggio. O, meglio ancora, potevano rilasciarlo subito, dimostrando così che le loro intenzioni erano onorevoli; la puttana non l’avrebbero nemmeno toccata: qualunque cosa le avessero fatto, anche la più innocente, lei avrebbe sostenuto che l’avevano palpata e insultata, macchiando l’onore stesso dei Borinquenos. D’altra parte non potevano fermarsi a predisporre l’agguato, dovendo mantenere il passo della battaglia e restare bene all’erta. Come intrappolare il pedinatore, allora? Arrivati al territorio vicino avrebbero potuto modificare la strategia a questo scopo. Ma dov’era quel benedetto confine? Passarono davanti a un gruppo di uomini in canottiera seduti davanti a una casa. C’erano ragazzini che giocavano nella strada. Gli adulti avevano portato fuori sedie e casse e si erano messi a giocare a bridge. Un filo elettrico pendeva dall’appartamento del piano terreno per dare corrente a due lampadine sul tavolo da gioco. C’era un bambino piccolo che dormiva in carrozzina. Uno dei giocatori tamburellava con una mano e teneva le carte con l’altra. Gli uomini sospesero il gioco quando passò la Famiglia. I giocatori osservarono i Dominatori, attenti però a non esprimere giudizi azzardati con l’espressione del volto. La radio trasmetteva musica pachanga a rallegrare la partita: tamburi, bongos e campanacci echeggiavano distintamente nella strada piuttosto silenziosa. Dopo il loro passaggio i giocatori si scambiarono frasi sommesse. Aspettarono l’attacco. La tensione ridiventò acuta; i muscoli dolevano; l’eccesso di concentrazione prolungata annebbiava i loro sensi. Scrutarono nella notte densa di pericoli. Il vento cadde e la polvere si posò. Il silenzio era totale, le esplosioni sporadiche. L’aria era quasi palpabile. Camicie e giacche erano di nuovo appesantite dal sudore. Ora, passati oltre un’altra stazione chiusa, i rumori che avevano imparato a riconoscere come non ostili ridiventarono sospetti. Un’esplosione che somigliava molto allo schianto di una molotov seguito dal tonfo con cui la benzina s’infiammava, li fece trasalire. Qualcuno aveva cominciato a tirar loro addosso. Dewey si chinò per buttarsi a terra, ma si accorse in tempo che era solo un’ennesima catena di petardi. Sprovvisti di armi da fuoco, senza coltelli, temevano ai non essere in grado di procurarsi in tempo armi difensive quando avessero dovuto reggere a un attacco. Se poi gli attaccanti fossero sopraggiunti in automobile, tutto era perduto. Dal modo in cui la testa del capo si muoveva bruscamente, per sorvegliare i fianchi della colonna, si capiva che anche lui non era per niente tranquillo. Se si fosse messo a correre, avrebbero tutti ceduto al panico. Hector doveva assolutamente tirarli fuori
da quel guaio. Non sapevano quanta strada dovevano ancora percorrere. Finestre misteriose, aperte e nere, li guardavano dai palazzi circostanti. Un cecchino che si fosse annidato in quegli spazi bui avrebbe potuto tirar loro addosso in tutta tranquillità. Non era una delle solite azioni in un territorio nemico tradizionale, uno di quelli limitrofi che conoscevano bene quanto il proprio grazie alle ripetute ricognizioni. In tal caso, se necessario, erano svariate le vie possibili per il ritorno a casa. E poi, se inseguiti, una volta fuggiti, milioni erano i luoghi noti in cui rifugiarsi e nascondersi. Ma qui, che cosa si poteva fare? Finalmente Hector ebbe un piano. Passò parola a Bimbo, Tonto e Dewey. Bimbo scomparve momentaneamente per riferire a Hinton. Contemporaneamente Dewey risali la strada per avvertire Junior. La camicetta bianca della ragazza s’intravedeva ancora in lontananza. Forse il pedinatore avrebbe anche desistito, ma c’era da scommettere che la troietta lo incalzava facendogli una testa casi sull’onore e la vergogna; Hector sapeva che si era ormai messa in testa di avere quella spilla. Bimbo e Junior tornarono. La pattuglia raddoppiò l’andatura. Hector, Bimbo, Tonto e Dewey acceleravano il passo mentre Hinton rallentava leggermente. La distanza dagli inseguitori aumentò. Andò ancor meglio quando la struttura della soprelevata svoltò perché la ferrovia lasciava il Southern Boulevard per proseguire lungo la Westchester Avenue. Non appena dietro l’angolo, la pattuglia si aprì a ventaglio e gli uomini si infilarono negli androni di alcuni negozi. Passò Hinton che raggiunse Junior, il quale aveva rallentato appositamente. Qualche minuto dopo la sgualdrinella e il Borinqueno furono all’altezza della trappola. Appena i due furono oltre il luogo dell’imboscata, Junior e Hinton si voltarono e caricarono. I due inseguitori si girarono a loro volta per scappare, ma in quel momento gli altri quattro Dominatori sbucarono dall’ombra, li accerchiarono e li catturarono. Il pedinatore era abbastanza furbo da star fermo, mentre la ragazza si agitava, divincolandosi, urlando ogni sorta di insulti, e Dewey, ridendo e mostrando i denti, disse alla moda dei giapponesi nella seconda guerra mondiale: «Ah, capitano Cuol di Leone, solpleso?» La ragazza prese a strillare forte e Tonto, che la teneva prigioniera, la premette la mano sulla bocca. Hector le disse: «Se continui a strillare ti diamo noi una buona ragione per farlo. Stai ferma, davanti a questa Famiglia, capito?» E lei smise di agitarsi. Allora Hector disse loro che non voleva fare la guerra, se lo erano messi in testa si o no? E la sgualdrinella replicò che non c’era bisogno di far guerre. Bastava che le regalassero una spilla senza tante storie. Il pedinatore le disse di chiudere il becco e lei gli diede dello scemo perché s’era lasciato giocare così stupidamente. Hector cercò di chiarire di nuovo il concetto e chiese se avessero o no intenzione di passar parola agli altri che loro passavano in pace, o se la Famiglia doveva per forza trascinarseli dietro in ostaggio. Tonto voleva prendersi il cappello del Borinqueno, ma Hector non glielo concesse. Il pedinatore disse che, per conte suo, potevano passare in pace: avrebbe riferito. La ragazza gli chiese che razza di uomo era se sì arrendeva a quegli straccioni. Sostenne che il pedinatore doveva chiedere una resa dei conti seduta stante. Il pedinatore le disse di chiudere la bocca perché, se non chiudeva subito quella bocca di scimmia, l’avrebbe ficcato in un guaio. Lei non alzava più la voce, ma continuava a ingiuriarli e a dir loro che erano straccioni e mezzi uomini e
che, se volevano tornare a casa tutti d’un pezzo, dovevano lasciarla libera all’istante e regalarle una spilla. La Famiglia le assegnò la Gran Risata. Le dissero che era un peccato che non ci fosse il tempo di mostrarle che servizio facevano loro alle troiette con la lingua lunga. Dovevano comunque ammettere, in base anche a una lunga esperienza, che questa qui non era affatto spaventata. Cuore ne aveva a bizzeffe, assai più del pedinatore che se ne stava zitto. Perquisirono il pedinatore e gli trovarono addosso una lama che gli requisirono come bottino di guerra. Volevano perquisire anche lei, ma videro l’espressione del pedinatore Non era opportuno incendiare l’atmosfera. Vollero sapere dal pedinatore quanti soldati stavano per arrivare, se c’erano dei carri, da che parte sarebbero giunti. Ma il pedinatore fece appello all’onore rifiutandosi di rispondere. Contemplò la Famiglia con la freddezza dello spagnolo e questo lì irritò. La miglior cosa sarebbe stata impartirgli una lezione facendolo a fette col suo stesso coltello. Ma non ne valeva la pena. La sgualdrina urlava insulti, al singolare e al plurale, ma soprattutto apostrofava in malo modo il pedinatore. Lei gli diede del castrato, del cazzo moscio, del mongoloide e lui non sudava per il caldo ma per l’odio. Non appena le avesse rimesso le mani addosso, tutti sapevano che le avrebbe dato una lezione, ma una vera, per avergli fatto fare una figura simile agli occhi della Famiglia. La Famiglia disprezzava questi Borinquenos, perché nessuno di loro era capace di tenere a bada queste loro stronze di femmine. Poi Bimbo ebbe l’idea: e se quella era una messinscena per far loro perdere del tempo? Era ora di ripartire, di rimettersi in marcia per uscire da quel territorio pericoloso. Bimbo avvisò gli altri. Hector fece un segno ai carcerieri che lasciarono andare il pedinatore. Hector disse: «Fila, amigo, e di’ loro solo che passiamo in pace». Junior andò a rimettersi in posizione. La sgualdrina imprecò e l’inseguitore fece per tirarla via di lì, ma lei si liberò della sua mano, gli tirò un ceffone e spiccò un salto per strappare la spilla a Tonto. Tonto si spostò di poco e lei saltò a vuoto. La Famiglia si mise in marcia e, mentre Hinton riprendeva la sua posizione di retroguardia, Tonto disse: «Se la vuoi tanto, questa spilla, donna, puoi venire con noi. Dico, noi siamo uomini, l’abbiamo fatta vedere a tutti, noi siamo i più forti in questa gran città. Tutti conoscono i Dominatori. Ti dico che puoi essere una sorella, per noi. Ti va?» Ma quello naturalmente era proprio il discorso sbagliato da farsi. Il pedinatore rivolse loro un’occhiata che in altre circostanze gli sarebbe costata una slamettata, o un foro di pistola o una catenata in faccia. Persino Bimbo il prudente avrebbe desiderato strappargli dalla faccia quell’irritante strafottenza spagnola. Ma Hector li trattenne. «Tu», disse alla ragazza, «vattene.» Lei non si mosse. Sorrise a Hector e gli disse: «Che ti succede, Chico? Non sei abbastanza hombre per me?» Ma Hector si dominava ed era abituato a sentirsi apostrofare: non rispose. Diede il segnale col braccio e gli altri si mossero. «Me la dai la spilla?» chiese la sgualdrina a Tonto. Tonto disse di sì. Lei disse che sarebbe venuta via con loro. Il pedinatore le disse che cosa le sarebbe successo se ci
avesse provato e lei rispose che non credeva proprio che sarebbe tornata in quel territorio di mezze tacche e di capponi e andò dietro alla Famiglia. Percorsero un isolato, questa volta più speditamente e disinvoltamente, ma dopo poco arrivò la notizia che il pedinatore era ancora alle loro calcagna e la tensione aumentò nuovamente. La ragazza disse di non preoccuparsi perché non c’erano molti Borinquenos nei paraggi, quella notte. Per lo più se n’erano andati in giro a fare i fuochi, chissà dove, ed erano tutti sparsi dappertutto e lei dubitava che potessero metterne insieme più di cinque o sei. Comunque sia, erano ormai nelle vicinanze del confine. C’erano muri sui quali i Castro Stompers e i Borinquenos si insultavano a vicenda con scritte a gessetti colorati. C’erano anche dichiarazioni delle Lesbos di Intervale Avenue che sostenevano d’essere più forti e virili dei maschi. Dopo altri due isolati Borinquenos, entrarono in un nuovo territorio. La puttanella disse che c’era una tregua tra i Borinquenos e i Masai di Jackson Street. Di lì a poco sarebbero arrivati alla stazione dove c’era un treno in servizio. «Non lasciatevi fregare da questi Masai», disse la sgualdrinella, «perché i Borinquenos li hanno messi sotto.» Dewey le scoccò un’occhiataccia. Tonto ripeté che lei poteva diventare una sorella, ma lei lo, guardò male. Allora lui le spiegò cosa voleva dire essere una sorella e lei sorrise e disse che sì, le andava bene, fratello, ma solo se lui le avesse regalato la sua spilla per dimostrarle che le voleva bene, da fratello a sorella. E di questo risero. Hector sperava solo che non andasse con loro allo scopo di seminar zizzania. Ormai erano quasi fuori, ma i muscoli non si decontraevano più e il corpo restava curvo e i pugni chiusi e faceva troppo caldo e loro avevano una gran voglia di spaccare tutto per sfogarsi, per sciogliersi i muscoli, per liberare la tensione accumulata senza che ci fosse lotta. Bimbo sentì lo sguardo della ragazza su di sé e pensò bene di sferrare un pugno a un cartello stradale. Il sorrisetto della ragazza lo ricompensò. Tonto, ingelosito, s’irrigidì cercando qualcosa di ancor più grosso da colpire, per rimediare alla sua furia. Doveva fargliela vedere a quella lì, doveva farle vedere che era all’altezza della sua arroganza, Junior continuava a girarsi per guardarla. Hinton era di dietro, a chiudere la colonna. Dewey teneva il broncio, in disparte, ancora rabbioso. Hector stava attento: una donna era sempre un problema. C’era da aspettarselo, che sarebbe stato Tonto a cominciare. Forse lei gli aveva strizzato l’occhio. Tonto corrugò la fronte, guardando Hector in malo modo, e attirò vicino a sé la ragazza. Non c’era altro da fare che sbarazzarsi di lei al più presto. Hector segnalò con rabbia a Junior e Hinton di stare attenti. Ma non sapeva come liberarsi di lei, perché Tonto si sarebbe opposto. Forse gli conveniva mollarli tutti e due. La prossima stazione era a pochi isolati di distanza. Da quella stazione avrebbero potuto prendere un treno per casa. Un passante li fissò per un istante. Tonto, col braccio intorno al collo della troietta, si staccò da lei e si avvicinò al passante, lo prese per un braccio, lo costrinse a girarsi e gli disse: «Che hai da guardare?» Il passante disse: «Toglimi le mani di dosso, stronzo». Era grosso, col collo taurino, uno di quelli che usano le mani per guadagnarsi da vivere e usano le mani anche nelle bettole di periferia.
«Come ti permetti di guardare così mia sorella?» volle sapere Tonto. Gli si era messo di fronte. Gli altri, eccitati dallo scambio di battute, stavano accerchiando lo sconosciuto. «Dico, non vi lascerete insultare da questo straccione! Offende il mio onore!» urlò la ragazza. Hinton stava sopraggiungendo e Junior tornava sui suoi passi. «Voialtri stronzi credete d’essere i padroni della strada. Fuori dalle balle.» «Con chi credi di parlare?» lo apostrofò Hector. E lui si mosse all’improvviso, cercando di spezzare l’assedio. Tirò un pugno a Tonto. Tonto, colpito al torace, indietreggiò. Qualcuno gridò. Tutti gli furono addosso all’istante. Lui cercò di retrocedere fino al muro, ma era accerchiato. Bimbo aveva tirato fuori la bottiglia vuota che calò sulla testa della vittima. Mancò il bersaglio e lo colpì solo con il polso. Così la bottiglia gli scappò di mano e si schiantò sul marciapiede. Si sentì prendere a calci agli stinchi. Dopo aver atterrato l’uomo a cazzotti, cominciarono a prenderlo a calci. La troietta ballava, strillava: «Dai, dai, dai, dai!» Loro si sentirono eccitare dalla nota stridula della sua voce. Adesso non erano più aggrappati all’uomo. Erano in piedi e lo prendevano a calci o gli saltavano col peso del corpo sulle braccia e sulle gambe. L’uomo cercava di sfuggire e loro si arrabbiavano e scalciavano più forte, allo stomaco, ai fianchi e alle gambe. L’uomo restò immobile. Loro persero la testa e si chinarono per prenderlo a pugni allo stomaco, alla faccia e all’inguine. L’uomo si rivoltò. La maglia che indossava era intrisa dal sangue prodotto dai cocci di vetro. Lo presero a calci alla testa e lo picchiarono alle spalle e alla schiena e dappertutto, mentre lui rotolava di nuovo supino. E la voce della ragazza era sempre più stridula e forte e diventò un grido protratto sul ritmo del suo isterico saltellare. Finalmente il coltello comparve nella mano di Bimbo. Tonto e Dewey si piantarono coi piedi sulle mani dell’uomo, inchiodandogliele contro il marciapiede e Bimbo colpì. L’uomo gridò. Il suo corpo ebbe un sussulto violento. I piedi sulle mani lo mantennero fermo al suo posto. Il grido dell’uomo li eccitò ancor più. Bimbo estrasse il coltello e l’uomo mosse la testa da una parte e dall’altra. Aveva la faccia ferita dal vetro; aveva il naso rotto. Aveva sangue che gli colava dalla bocca. Bimbo gridò: «Presa!» Lanciò il coltello in aria e con la lama rivolta verso il basso. Il coltello si librò per un attimo. La mano di Tonto scattò in avanti e si chiuse sull’impugnatura dell’arma che ridiscendeva senza arrestarne la caduta. E colpì. L’uomo si spostò leggermente e la lama gli affondò nel fianco, a destra del cuore. La sgualdrinella gridò di nuovo. Teneva gli occhi semichiusi e la bocca spalancata. Ormai ansimava, tra uno strillo e l’altro. Gesticolava e gridava: «Io, io, io, adesso a me, a me, anch’io!» E Tonto, estratto il coltello, lo lanciò in aria e Hector lo afferrò al volo e lo calò, freddamente, nella faccia dell’uomo e la pelle della guancia tagliata si slabbrò. La puttanella urlò e Hector estrasse la lama e lanciò il coltello alto nell’aria e questa volta Junior l’acchiappò al volo e lo calò e colpì l’uomo che cercava di liberarsi dai piedi che gli bloccavano le mani. Junior lo colpì all’anca e lanciò il coltello e la ragazza ne seguì la salita nel cielo buio e vide la luce debole dei lampioni riflettersi sulla lama e sul sangue e cercò di saltare in alto per prenderlo lei, allungando il braccio tra gli uomini, invano. Questa volta l’afferrò Dewey che lo calò sul corpo e lo affondò nel cuore dell’uomo e l’uomo gemette e il gemito fu lungo e rimase sospeso e questo li eccitò
molto. La ragazza stava dicendo: «Datemi il coltello, datemi il coltello». Ma Dewey lo lanciò in aria e disse: «A te» a Hinton e Hinton lo afferrò al volo e lo piantò nel corpo. La troietta era appoggiata al muro, con le gambe spalancate per tenersi in equilibrio e il ventre che le si alzava e abbassava, gli occhi brillanti e grandi, la bocca aperta in un sorriso ansimante. Tonto disse: «Ehi, guardate la sorellina». E la prese e la spinse giù sul marciapiede. Lei disse, debolmente: «No. Basta. Ne ho abbastanza...» Tonto, tenendola per le spalle, la sgambettò e l’atterrò, poi le tirò su la gonna e le strappò via le mutande e glielo ficcò subito dentro mentre lei diceva sommessamente: «No, no, te l’ho detto, ne ho avuto abbastanza». Gli altri fecero circolo all’intorno e si presero l’un l’altro per il collo e restarono a guardare e cominciarono a dare il ritmo battendo i piedi. Lei si agitava e continuava a dire che non ne poteva più, ma intanto cominciava a godere mentre gli altri aumentavano il ritmo. Tonto finì in fretta, si rialzò e gli altri seguirono, uno dopo l’altro, mentre i compagni restavano all’intorno a tenere il ritmo col battere dei piedi. Hinton le fu sopra per ultimo e ormai la faccia della ragazza era rigida e i suoi occhi non vedevano più niente e lei era quasi svenuta per la gioia, era al massimo del massimo e Hinton le guardò la faccia e quasi ne fu spaventato perché lei era come trasfigurata, pareva matta. Hinton si adeguò al ritmo conigliesco, ma non provava praticamente niente, mentre pompava come un forsennato per non perdere il ritmo dei piedi. Visto che non succedeva niente, fece finta di venire, glielo tirò fuori, si rialzò e subito erano tutti pronti a ripartire. Bimbo, il latore, s’inginocchiò su di lei, le mise la mano sotto il risvolto di una calza e ripulì la lama tra pollice e indice. Partirono di corsa lasciando la ragazza per terra. Percorsero l’ultimo isolato fino alla stazione e salirono di corsa le scale. Bimbo fece i biglietti per tutti e chiese informazioni. Il bigliettaio disse loro di cambiare per Coney Island alla 42esima Strada. Notarono che era sospettoso e che temeva un’aggressione. Uscirono sulla banchina. Non c’erano convogli in attesa. Andarono allora in fondo alla banchina per guardar giù. Da lì si vedeva il cadavere nella strada. Si vedevano anche la gonna bianca e le anche nude e il ventre e le cosce scoperte della troietta: era ancora lì, con la nuca posata sul cadavere. Con i gomiti sulla ringhiera stettero a guardare. Lei non si mosse per cinque minuti. Poi si voltò su un fianco. Lentamente si mise in piedi e barcollò. Restò così per un istante, sistemandosi la sottana. Disse qualcosa. Dapprincipio loro non capirono le sue parole, poi la voce della ragazza giunse, debole, fino alle loro orecchie. Stava imprecando contro di loro e la sua voce diventava via via più forte e distinta. Agitò il pugno chiuso in direzione del centro cittadino. Lasciò ricadere il braccio. Smise di gridare. Si voltò lentamente, partì di corsa, si dominò, s’incamminò, eretta, a un passo sempre più veloce, verso la parte da cui erano venuti. «Cazzo», disse Tonto. «Dovevamo portarcela dietro. Non era niente male.»
5 luglio, ore 2.30-3.00 Erano appoggiati alla ringhiera, sotto le lampade della stazione, ad aspettare il treno. Ciondolavano più di prima perché erano affranti dalla stanchezza. La loro espressione era vuota, lo sguardo fisso; Tonto aveva la bocca aperta e gli occhi semichiusi. Sbadigliò. Hector disse: «Adesso sanno che tipo di uomini siamo. Nessuno batte i Dominatori», e sbadigliò. Tonto disse: «Io dico ancora che dovevamo portarcela dietro, quella». «Che cazzo, era solo una troietta. Dico, qualsiasi ragazza così... Queste donne, solo col sangue si soddisfano», e Bimbo sorrise. Junior ridacchiò. Dewey aveva cominciato uno sbadiglio che si trasformò in una risatina sommessa e isterica. Non poté trattenersi e Junior cominciò a ridere e Tonto si unì agli altri. Di lì a poco ridevano tutti a crepapelle, piangendo persino. Hinton dovette sedersi per terra, tanto era debole. Le risa si smorzarono. Qualcuno riattaccò, seguito dagli altri. Dopo un po’ smisero lentamente di ridere perché ormai erano troppo deboli per continuare. «Le beccherà quando torna a casa, le faranno proprio un bel servizio», osservò Dewey. «Cazzo, non starei a penar tanto per quella», disse Hector. «Proprio per niente. Se l’è cercata.» «Già. Dico, con quel cuore che si ritrova, ci scommettete che ora di domani li ha di nuovo tutti al suo guinzaglio? Ah, quella sa badare a sé, quella. Comunque, non era male», disse Tonto. «Be’, cazzo», fece Dewey, ridendo di nuovo. «Era come, come dire, cazzo, dico, era come se nemmeno sapesse che gliel’avevi messo dentro.» «Ha bofonchiato un po’ quando l’ho presa. Sapeva chi aveva dentro», disse Tonto. «No, cazzo, è stato Junior a farla gridare, non tu. Non è vero, Junior? Non è vero?» E Junior rise. «Stai dicendo che non sono un uomo, fratellino?» chiese Tonto. «Ho detto forse questo?» «Non ha detto così, Tonto.» «Ho sentito che cosa ha detto. E ogni volta che pensi che non sono un uomo, be’, ho sempre un bel modo per dimostrartelo e tu sai come, vero?» disse Tonto con la faccia torva. «Non è il caso di prendersela. Il fratellino parla per parlare.» «Prendersela? Chi se la prende? Solo che non mi va di essere menato in giro.» «Menarti in giro? Chi ti mena in giro? Solo che io l’ho sentita...» ma non finì la frase quando vide che Hector gli faceva cenno di lasciar perdere. Ma ormai Tonto era furioso. «Vi faccio vedere io chi è un uomo», disse e si aprì la cerniera dei calzoni. «Ce l’hai più grosso, tu? Chi ce l’ha più grosso?» Dewey emise un’esclamazione di disgusto per la stupidità di Tonto. «Che cazzo, non è così che si dimostra di essere il migliore. Le dimensioni non vogliono dir niente, lo sanno tutti.» «E come sarebbe che la grossezza non conta? Che cosa, allora?»
«È la maniera come chiavi, non è la grossezza che conta. Non ho ragione, Junior? Non è vero, Hinton? Dico che ci sono altri modi per giudicarlo, tutti lo sanno. Zio Bimbo, ti chiedo, cosa conta, la grossezza?» Bimbo, che non voleva immischiarsi, si strinse nelle spalle dicendo: «Non lo so. Io so solo che a me piace. Solo questo conta, che cazzo. A me piace. E alla mia donna piace anche a lei. A noi piace. La grossezza, quella lì la lasciamo a qualcun altro, che mi frega? Lei ci gode e me lo dice che ci gode e per questo io mi sento Uomo». «No, ma io dico così per discutere. Dico che la grossezza non significa niente, proprio niente.» «Ah, tu sei così furbo e parli tanto e, dimmi, il tuo è grosso come questo? Eh?» gridò Tonto. «Te l’ho detto.» «Be’, che cosa?» «Ci sono altri modi per giudicare.» «Come, avanti, mostrami come.» «Be’, con una donna, che qui non abbiamo, e questo è un modo. Un altro modo è chi piscia più lungo. Quello è un buon segno, di solito.» «Quando vuoi, quando vuoi, anche subito.» Tonto si portò al limite della banchina e orinò. Il getto di orina fece arco fino alla ringhiera. «Eccoti servito e adesso vediamo se mi batti!» «Be’, non so se è il caso. Dico, stai violando la legge, questo lo sai, no? Adesso viene la pula e ti preleva e ti schiaffa dentro, sissignore. E vedrai che avrai tutto il tempo di pisciare quanto ti pare, specie quando ti spiccicheranno la mazza tua con la mazza loro.» «Cazzo, tu mi hai insultato e ora ti rimangi quel che hai detto o te la vedi con me.» Così fecero la gara. Tolto Tonto, tutti gli altri si allinearono sul bordo della banchina e orinarono in direzione delle rotaie. Vinse Hinton che riuscì a orinare più lontano di tutti, sfiorando la terza ringhiera. Tonto protestò, sostenendo che Hinton aveva le punte dei piedi oltre il ciglio. Arrivò gente, ma si tenne alla larga dalla Famiglia, restando in fondo al marciapiede. Avevano tutti paura di questi Fratelli e la loro reazione era emozionante. Hector si stancò del litigio e mandò Bimbo a comperare roba dolce per tutti. Cominciava ad avere fame. Bimbo tornò con sei sbarre di cioccolato che Hector ripose nella tasca della giacca. «Oh, cazzo, lì si sciolgono», disse Dewey, ma Hector non gli diede retta. La discussione era chiusa, così restarono appoggiati alla ringhiera senza parlare. Erano persino troppo stanchi per preoccuparsi della polizia o della possibilità che la troietta tornasse con i rinforzi. Dewey dovette sedersi per terra. Aveva uno strappo sul dietro della giacca. Stettero a osservare la gente che veniva ad affollare il marciapiede, sbadigliando. Dewey si era quasi assopito. Cercarono di tenersi su prendendosi in giro, ma nessuno aveva riserve di energia. Dopo un quarto d’ora un treno entrò lentamente in stazione. Una massa di passeggeri si accalcò per salirvi, un po’ com’era successo all’altra stazione, ma con minor foga. La Famiglia sali in una carrozza e trovò da sedere. Cinque si sedettero su un lato e Hector si sedette da solo di fronte a loro. Restarono seduti a sbadigliare e aspettare. Il treno non partiva. Cominciarono a mugolare di disappunto. Junior tirò fuori il giornalino a fumetti e si
mise a leggere; non capiva bene le parole, quando non erano scritte in grande, ma gli bastava di seguire l’azione guardando le vignette. Era una storia di soldati antichi, greci, eroi che dovevano tornare a casa superando molti ostacoli, ma che alla fine ce la facevano. Gli era tanto piaciuta, che ormai era la terza volta che la leggeva. Faceva caldo, in carrozza, e c’era un odore di isolante bruciato. Alcune prese d’aria erano rotte e dai finestrini non entrava vento. Fuori, al di sopra della linea dei tetti, i lampi dei petardi erano sempre meno frequenti. Hector tirò fuori di tasca un cioccolato. Gli altri aspettarono guardandolo, impazienti, tutti tranne Junior che era curvo sul suo giornaletto. Dewey fece un po’ il buffone, battendo le mani e facendo il verso della foca. Tonto era fermo, a braccia conserte: avrebbe avuto il cioccolato. Due o tre passeggeri, seduti all’altra estremità della carrozza, li guardavano con ansia, non riuscendo a decidere se erano o no pericolosi. La Famiglia controllò che non li osservassero in modo oltraggioso. Loro erano gente con una reputazione, artefici di imprese di grande portata, specialmente quella sera; per questo provavano grande orgoglio, sapendo d’essere osservati con rispetto. Hector mangiò il primo cioccolato. Gli altri lo supplicavano con lo sguardo. Dewey fece pender fuori la lingua come un cane. Hector masticò molto lentamente, per far vedere che lui era il Padre. Si mise la mano in tasca e tirò fuori il secondo cioccolato. Era molle. Lui lo tenne in vista. Gli altri lo guardarono. Lui sorrise. Junior leggeva il giornaletto. Gli occhi di Tonto erano vacui, trasognati, fissi sul cioccolato. Ma lui non vedeva il cioccolato: si rovistava una narice, in profondità, col grosso indice, e vedeva solo la troietta. Bimbo gli diede un colpetto perché stesse più attento. Hector infilò il dito nella carta bianca e fece sporgere lentamente dall’altra parte la sbarra di cioccolato ancora avvolta nella stagnola. Gli altri ne risero, mentre Hector faceva la faccia affettata del culo. Dewey stette al gioco, si alzò con le mani sulle anche e fece il frocio, fingendo che la sbarra fosse l’ambito premio. Allungò la mano per afferrarlo, ma Hector lo spostò fuori della sua portata e gli schiaffeggiò il polso. Dewey aumentò le smorfie, pregando e supplicando Hector, facendo i versi ansimanti del cane, mentre gli altri si davano gomitate e ridevano. Anche Junior dovette alzare la faccia da una vignetta in cui gli eroi greci sorridevano vedendo finalmente il Mare. Il Mare. Dewey alzò gli occhi oltre la testa di Hector, fingendo di aver visto dei fuochi artificiali. Gridò: «Cazzo, guarda quello!» Hector si girò. Lestamente Dewey sfilò il cioccolato dalla carta, riguadagnò con un balzo il suo sedile e con un sorriso malizioso si nascose il cioccolato dietro la schiena. Quando Hector si voltò di nuovo e si accorse di quel che era successo, tutti risero di lui. Dewey si mise a battere i piedi e a darsi pacche sulle cosce. Hector dovette ridere, ma si vedeva che era seccato, così Dewey gli restituì il cioccolato. Hector tolse la carta stagnola. Tutti si protesero verso di lui. Hector scherzò dicendo: «Questa si chiama circoncisione», e questo li fece ridere di nuovo. Poi Hector staccò un pezzo di cioccolato e finse di volerselo mangiare. Gli altri gemettero. Lui fissò Tonto e invece lanciò a Bimbo. Bimbo prese il pezzetto senza spostarsi. Aprì il palmo della mano e se lo lasciò cadere proprio lì, elegantemente. Ottenne mormorii di ammirazione. Hector staccò un altro pezzo di cioccolato e,
guardando Hinton, lo buttò a Tonto. Tonto cercò di prenderlo con disinvoltura, ma dovette alzarsi dal sedile e lo prese per un pelo. Qualcuno rise della sua goffaggine. Tonto si girò all’istante e tutti lo guardarono con indifferenza. Hector, che sapeva chi aveva riso, sorrise. Le porte del treno si chiusero. Il pezzetto successivo toccò a Dewey. Passò da una fila di sedili all’altra. Il treno ebbe un sobbalzo e ripartì lentamente. Il pezzo di cioccolato cadde sul giornaletto a fumetti e scivolò per terra. Risero tutti. Hinton si affrettò a raccoglierlo, ma lo tenne con cautela come fosse contaminato. Lo lanciò verso Dewey. Dewey urlò e si scansò respingendolo alla sinistra. Il pezzo di cioccolato volò in direzione di Bimbo. Bimbo scappò come se fosse stato aggredito da un orribile insetto. Il pezzo passò oltre, verso Tonto che gesticolò goffamente, mancandolo. Il cioccolato lo colpì. Tonto cercò di sbarazzarsene, come se fosse infuocato. Il cioccolato cadde di nuovo per terra. Tonto si mise una mano in tasca cercando il fazzoletto, scordandosi di esserselo messo intorno alla testa per fissarvi la spilla della Famiglia. Allora si pulì con le mani. Poi strappò un pezzo a una pagina del giornaletto di Junior e si ripulì macchie invisibili dalle dita. Non si curò affatto del grido di Junior. Hinton scalciò il pezzo di cioccolato di nuovo verso Tonto. Tonto lo evitò con un salto. Hinton andò a recuperare la pallottola di carta strappata al giornaletto e la distese. C’era la vignetta degli eroi che arrivavano al mare. Si chinò, raccolse il pezzetto di cioccolato con la carta e andò da Tonto, con il cioccolato nelle mani. Si inchinò e glielo offri in regalo, quasi toccandolo con la fronte. Tonto si ritrasse. «Non avvicinarti», disse. E Hinton: «Ma perché, fratello maggiore? Tieni la nostra città pulita. Prendi». E avvicinò di più il cioccolato a Tonto che si ritrasse ancora. Junior sorrideva, ma teneva la testa dritta e seguiva la scena con la coda dell’occhio. Bisognava stare attenti a come si sorrideva, con Tonto. Tonto disse: «Non voglio quella roba, portala via». «Ma te la manda Dewey. È Dewey, il tuo fratello minore, che te la offre. Viene da Dewey.» «Toglimi quella roba di torno. Buttala via, se no ti faccio... ti schiaccio. In guardia.» Hinton si girò a guardare Hector. Hector smise di sorridere e fece la faccia seria. C’erano alcuni passeggeri che sorridevano; Hector pensò che non ci fosse niente di male. «Non lo vuol prendere, papà, faglielo prendere, papà», gridò Hinton. «Non lo vuole», gridò di rimando Hector, stringendosi nelle spalle. Dewey si avvicinò a Hinton, si chinò e scrutò il pezzo di cioccolato. Disse: «Polvere. Qualche pelo. Una macchiolina di fango. Una caccola di naso. Pochissimo sputo. Guarda da te», disse e lo prese e lo passò a Junior, posandoglielo sul giornaletto. Junior badò bene a non toccare il cioccolato. Se lo avvicinò alla faccia e lo esaminò attentamente. «Non è molto sporco», disse a Dewey. «Non è così sporco, Tonto», gridò poi.
«Piantatela! Attenti a voi, non rompetemi le balle!» ringhiò Tonto a pugni chiusi. Guardò verso Hector. Hector si preoccupò di tenere la bocca chiusa, di far la faccia seria e di giudicare la situazione con imparzialità. Il treno entrò lentamente in galleria. Il caldo diventò più opprimente. Il vento che entrava dai finestrini era torrido, umido, pieno di strani rumori e odori. Il puzzo delle guarnizioni bruciate permeava ogni cosa. Era un insulto al naso e faceva loro lacrimare gli occhi. I ventilatori sibilavano sollevando polvere da terra. Il treno si fermò. Molti passeggeri salirono. Rivolsero alla Famiglia quello sguardo, riconoscendo subito con chi avevano a che fare, e cercarono di stare alla larga. Sapendo di essere osservati, accentuarono la recita, come se ci fossero solo loro al mondo. Le porte si chiusero. Il treno cercò di ripartire, ebbe qualche sobbalzo, ma restò dov’era, col motore che vibrava sotto i loro piedi. Cominciarono a temere di dover cambiare di nuovo. Finalmente il treno si mosse e loro poterono riprendere la loro commedia. Hinton alzò il pezzo di giornale con dentro il cioccolato. Tonto glielo fece saltare dalla mano. «Che stronzo, sporchi tutto. È un reato. Lo capisci, possono darti la multa. Ora, tu non vuoi prendere una multa, no?» Tonto lo fissava con la sua stolta espressione da toro, come preparandosi a muggire. Il trucco era di vedere fin dove potevano spingersi prendendolo in giro prima che lui reagisse. Hinton e Dewey voltarono la testa dall’altra parte, come se avessero perso interesse nel gioco. Tonto si sedette. Il treno passò in una galleria dove c’erano lavori in corso. Tonto si girò a guardare fuori e Hinton gli posò in grembo il pezzo di carta con dentro il cioccolato, ma così lievemente che lui nemmeno se ne accorse. Tonto si voltò poco dopo senza accorgersi di quel che gli avevano fatto. Junior dovette nascondere la faccia nel suo giornaletto per non far vedere che stava ridendo. Quando il treno arrivò alla fermata, il pezzo di cioccolato cadde per terra e solo allora Tonto si accorse di quel che gli avevano fatto. Risero tutti, eccetto Hector che riuscì a nascondere il suo stato d’animo sotto la maschera imparziale del capo. Tonto capì che gli avevano fatto fare una figuraccia. Si alzò con la faccia furiosa, mentre decideva chi pestare per primo. Gli altri cercarono di mantenere un’espressione innocente, ma Bimbo ridacchiò involontariamente. Tonto gli si piazzò davanti, si prese la sigaretta da dietro l’orecchio e la tenne orizzontale nelle mani, a pochi centimetri dagli occhi di Bimbo. Sgretolò la sigaretta, lasciò cadere il tabacco davanti ai piedi di Bimbo e lo schiacciò per terra sotto la scarpa. Si girò e si allontanò. In fondo alla carrozza si mise a guardar fuori del finestrino, volgendo la schiena alla Famiglia, dopo aver praticamente detto al suo superiore, suo Zio, e anche a tutti gli altri, che andassero a farsi fottere. Bimbo non sapeva che pesci pigliare. Si strinse nelle spalle. In altre circostanze un gesto come quello avrebbe richiesto una punizione di gruppo e tutta la Famiglia si sarebbe accanita sul colpevole. Bimbo restò al suo posto, perplesso, e guardò Hector e aspettò la reazione del Padre. Hector vide che la cosa era seria e bisognava trovare una soluzione. Si alzò e andò da Tonto. Gli posò un braccio sulla spalla. Gli altri videro che cercava di parlargli. Tonto si liberò con un gestaccio. Hector batté amichevolmente la mano sulla sua spalla e gli offrì del cioccolato. Tonto si voltò dall’altra parte incrociando le braccia sul petto. Hector gli si mise davanti, lo prese per un braccio e gli parlò. Cercò di calmarlo, guardando in direzione della Famiglia, ma parlandogli nell’orecchio. Gli
altri videro che Hector rideva senza farsi vedere da lui. Ogni volta che Tonto voltava gli occhi verso di lui con aria sospettosa, Hector faceva subito la faccia seria. D’un tratto Tonto annuì con la testa, si girò, tornò dalla Famiglia. Hector gli venne dietro, accarezzandolo come per calmare un animale, per placare i suoi istinti selvaggi. Erano tutti preoccupati, sapendo di cosa fosse capace Tonto. Gli altri passeggeri sorridevano, divertiti dallo spettacolo. Tonto si fermò davanti a uno di loro e si piantò le mani sulle anche come a dire: «Cosa c’è da ridere?» Il passeggero smise subito di sorridere. Il treno entrò in un’altra stazione e altra gente sali e scese. La carrozza si riempiva. Ripartito il treno, Tonto tornò dalla Famiglia. Hector lo seguì. Tonto si fermò davanti a Hinton e questo significava che Hector aveva scelto Hinton per la punizione. Hinton sapeva che era a causa di quel che aveva detto quella sera sulle insegne. Non appena li ebbe di fronte, Hinton fece la faccia grave, perché non era più uno scherzo. Ma se Tonto gli avesse messo una mano addosso, lui era pronto. Tutti aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto quel selvaggio perché lui non si curava di nulla e non c’era niente che non potesse fare. Questo Hinton l’aveva imparato già da tempo. Tonto tolse la sigaretta di guerra dalla fascia del cappello di Hinton. A quel gesto, Hinton reagì mettendosi la mano nella tasca della giacca ed estraendo una bustina di fiammiferi. Strappò subito un fiammifero e lo tenne in mano, pronto ad accenderlo. Tonto si mise alle labbra la sigaretta di guerra di Hinton e Hinton gliel’accese all’istante. Tonto tirò un paio di boccate, soffiando sdegnosamente il fumo verso l’alto. Poi staccò la brace, la lasciò cadere per terra e la schiacciò sotto il piede, facendo ruotare la suola. I bei tratti regolari del volto di Hinton erano umidi e le labbra gli rilucevano. Ma non avrebbe dato a Tonto la soddisfazione di fare una smorfia, anche se l’insulto subito dal fratello maggiore era stato grave. D’altronde Tonto aveva dei diritti, perché era il terzo e veniva subito dopo Hector e Bimbo. Hinton sperava che la sua fosse l’espressione giusta. Nessuno sorrise e nessuno lo prese in giro, anche se ne avevano il diritto. Tonto rimise quanto restava della sigaretta di guerra nella fascia del cappello di Hinton, sporcandogli deliberatamente la falda col tabacco. Hector diede a Tonto un’altra sigaretta di guerra e Tonto la portò a Bimbo. Bimbo non lo punì e si limitò a rimettergli la sigaretta all’orecchio. Tonto si girò verso Hinton e si vide bene che non era soddisfatto. Ma Hector era già pronto. Propose un gioco per vedere chi era il più Uomo del gruppo. Si giocava a «fifa» e la gara si faceva sporgendo la testa dal finestrino; quello che fosse andato più vicino col naso alla parete della galleria dal treno in corsa avrebbe dato prova di essere «il più duro». Ne furono entusiasti, specialmente Tonto che trovava un’ennesima occasione per far vedere agli altri che lui era sempre e comunque il migliore in tutto e non solo perché era il più grosso e perché nessun altro aveva un cuore come il suo, ma anche perché lui aveva i cojones quadri! Scordò Hinton nel momento stesso in cui rivolse la sua attenzione al finestrino. Tutti parteciparono eccetto Hector, il giudice, e Junior, il lettore di fumetti. Hinton vinse la gara. Lui doveva vincere. I suoi capelli ispidi toccarono il muro della galleria. Mostrò agli altri una macchia grigiastra: aveva una ciocca di capelli
rotti e imbiancati dal contatto con la parete della galleria. Tutti ammisero che era una grande dimostrazione di coraggio, perché Hinton aveva i capelli molto corti. Junior aveva seguito sul suo giornalino l’avventura dei greci guardando le figure. Avevano dovuto combattere a ogni piè sospinto, ma ormai erano vicini a casa. Quegli eroi greci erano indubbiamente i più duri in un mondo di duri. Erano ammirevoli, pensò Junior, tuttavia non avrebbe voluto essere nei loro panni, nonostante che invidiasse loro tante avventure. Sospirò, poi tornò alla prima pagina mentre il treno sfrecciava per una galleria rimbombante e l’oscurità rumorosa si surriscaldava.
5 luglio, ore 3.00-3.10 Il convoglio su cui viaggiavano arrivò alla 96esima Strada. Si fermò e le porte si aprirono. Il convoglio aspettò. Tutto andò storto. La stazione della 96esima è un nodo ferroviario. Si incrociano il locale accelerato della 242esima Broadway e l’espresso della Ima Avenue. Ci sono due marciapiedi ai quali sostano accelerato ed espresso, a fianco a fianco. Quando l’accelerato arriva per primo, prolunga la sosta in attesa dell’espresso. Siccome questa volta era arrivato per primo l’espresso, toccava all’espresso aspettare la coincidenza. Accelerato ed espresso raramente arrivavano contemporaneamente. C’è un sottopassaggio che collega i marciapiedi, sul versante nord della stazione. Sul lato sud ci sono delle scale salendo le quali si esce dalla stazione. In fondo, invece, bisogna prima scendere una rampa di scale, percorrere il sottopassaggio e infine salire le scale all’altra estremità. Siccome a quel nodo ferroviario si incrociano quattro linee, c’è sempre molta gente. E siccome c’è molta gente, talvolta scoppiano delle risse. Così ci sono più agenti del solito in servizio d’ordine pubblico. Faceva ancora più caldo, dato che salivano colonne di aria bollente dai motori del treno in attesa. I membri della Famiglia erano sfiniti, troppo stanchi e troppo scomodi per riuscire a prender sonno sulla plastica appiccicosa dei sedili. Stavano seduti, impazienti, ad aspettare che il convoglio ripartisse, troppo stanchi persino per protestare. Un gran cartellone pubblicitario a quattro colori annunciava che quel simbolo rettangolare era il marchio della Chase-Manhattan Bank, il vostro marchio di fiducia e che erano le tre del mattino. Che bello, se fossero stati già in Times Square, dove si cambiava per Coney Island. Che bello, se quella brutta gita fosse giunta ormai al termine. Che bello essere a casa a dormire, anche se la casa era la Galera. Dewey aveva il prurito perché era stato punto dalle zanzare. Junior si grattava sudore rappreso. Ormai era questione di tener duro. Hector sonnecchiava, davanti alla sua Famiglia, con le spalle rivolte al marciapiede. Tutti avevano gli occhi quasi chiusi, eccetto Junior, che leggeva i fumetti. Un agente passò davanti alla porta aperta e lanciò un’occhiata nella loro direzione. Loro quasi non se ne accorsero, ma Junior, con la coda dell’occhio, scorse il blu del Nemico e commise un errore, dando a Hinton un colpetto di avvertimento col gomito. Hinton trasmise meccanicamente l’allarme. L’agente vide il segnale che passava dall’uno all’altro. Il suo passo ebbe un attimo di incertezza. Tuttavia proseguì
ancora un poco, prima di fermarsi a guardarli da un finestrino. Hinton fece un segno a Hector con gli occhi. Hector si girò e cercò di individuare il blu attraverso il vetro sporco. Tonto aveva già incurvato minacciosamente le spalle. Dewey mise le mani in grembo, come un bravo bambino a scuola. Una mano di Bimbo scese verso l’inguine sudato, a spostare la fastidiosa cucitura dei pantaloni. Il poliziotto scomparve. La sua faccia riapparve alla porta in fondo alla carrozza. Li osservava da lontano. Sapeva qualcosa? Stava ancora cercando quelli che avevano preso parte all’assemblea del parco? Sapevano... Avevano trovato il cadavere? La ragazza aveva parlato? Bella scema sarebbe stata, visto che c’era dentro fino al collo anche lei. Ma anche così, come facevano a sapere chi dovevano cercare? Le spille! Stavano già dando la caccia alla Famiglia? Qualcuno era già al corrente? Ormai si poteva solo star buoni in attesa che la situazione esplodesse o si raffreddasse di nuovo. Che venissero, allora, che si facessero avanti e li interrogassero. «Chi siete? Ecco...» pensarono quelli della Famiglia, preparandosi la storia... «Nessuno, non siamo proprio nessuno, solo sei ragazzi in giro in una notte troppo calda, agente.» «Be’, dove siete stati di bello?» «Ah, un po’ di qui, un po’ di là, in periferia e in centro. Siamo stati in giro, insomma. Non c’è niente di male, agente, vero?» «Niente di male, figliolo», avrebbe detto l’agente nel ruolo della «brava Legge», del «blu amico di tutti i ragazzi» del «buon angelo custode tutta pappa e ciccia». «Ma ditemi bene... potete fidarvi di me... Dove?» «Un po’ dappertutto, un po’ dappertutto.» «Di dove siete? Siete una banda?» «No, no, niente banda, siamo di un circolo sociale, agente.» «A che scuola andate? Qual è il vostro territorio?» «Territorio. Territorio? Come sarebbe, agente?» «Dove abitate. Fatemi vedere le carte d’identità. E tu (a Tonto), mi pare che sei abbastanza vecchio per la leva. Fa’ vedere i documenti.» «Ma sono ancora un bambino.» «Perché siete finiti così lontano da casa?» «Ma, agente, siamo solo usciti a fare un giretto. Wallie, il nostro assistente sociale dell’assessorato alla gioventù, è sempre lì che ci spinge a uscire dal quartiere, dall’ambiente. Continua a dire che dobbiamo uscire, allargare i nostri orizzonti.» «Ah, davvero? Avete un assistente sociale? E non siete una banda? Vediamo un po’, per caso avete avuto qualcosa a che fare con i disordini che ci sono stati in periferia qualche ora fa?» Se i disordini erano avvenuti già da qualche ora e la polizia era ancora in giro a cercare, la cosa era seria. Ma non potevano ancora sapere di quel bastardo ucciso, vero? Era ancora troppo presto ed era successo troppo lontano da lì. «Siamo solo in gita turistica, agente, non stiamo facendo niente.» «In gita turistica alle tre del mattino? In gita turistica in metropolitana? Ragazzi, ditemi qualcosa perché ci possa credere.» «Be’, c’è stata questa faccenda del treno sbagliato...» La tensione aumentava.
«No, no, non così», avrebbe detto l’agente, «cerchiamo di farlo a modo mio. Dico, non voglio offendervi, giovanotti, ma io penso che voi capirete i miei sospetti, con quelle cose terribili che si sentono dire sulla delinquenza giovanile di questi tempi.» «Certo che capiamo, è assolutamente normale, agente...» Adesso erano all’erta. «Sì, non sarebbe meglio», avrebbe detto il poliziotto, «dico, non sarebbe meglio che andassimo tutti insieme un attimino lì fuori? Voi, buoni buoni, vi mettete contro la panchina con le mani dietro la schiena, i piedi ben indietro e belli distanti, così non mi potete aggredire, e io vi do una passatina ai vestiti e...» Il coltello! Chi ha il coltello! Chi ha quel fottuto coltello? Il pensiero li colpì come un fulmine. Si scambiarono occhiate febbrili. Hector strizzò l’occhio. Bimbo si alzò, andò alla porta aperta e dalla soglia guardò il marciapiede. C’erano alcune persone in attesa. Una donna aveva posato a terra le sue sporte e si rinfrescava il seno tirando all’infuori il tessuto del vestito con la mano e con l’altra sventolandosi con una copia del Daily News. Bimbo si appoggiò allo stipite, mezzo dentro e mezzo fuori, di profilo, come se stesse ammazzando il tempo, ma in modo da guardare dentro e fuori contemporaneamente. All’esterno scorse l’agente che gli dava le spalle. Lo sbirro aveva proseguito per altre due carrozze. Ficcava di tanto in tanto la testa nel treno, mostrandosi indifferente, attento a non far mosse sospette. Ma qualcosa lo indusse a voltarsi. Bimbo si ritirò subito, ma non prima d’esser visto. Tornò al centro della carrozza e cercò di guardare da quella carrozza in quelle più avanti, attraverso i finestrini, per vedere se il piedipiatti stesse ancora occhieggiando dalla loro parte. Non vide niente. Tornò a far capolino dalla porta. L’agente era immobile con le mani sui fianchi e lo sfollagente che gli penzolava dal polso. Lo fissò diritto negli occhi. Bimbo cercò di trasformare la sua espressione in quella della persona oziosa, girando la testa lentamente, come se fosse intento a contemplare la stazione con interesse. I suoi occhi non videro assolutamente nulla, né le persone, né altro. La sua attenzione era tutta rivolta al piedipiatti che continuava a fissarlo per niente ingannato dalla sua recita. Adesso qualcosa non andava. Hinton si alzò e si trasferì nella parte anteriore della carrozza, da dove cercò di guardare nelle carrozze antistanti. Dewey invece si spostò sul lato posteriore, a guardare dietro. Tonto era al centro e guardava dall’altra parte dei binari, verso il marciapiede opposto, ad assicurarsi che non arrivassero sbirri anche da lì. Stava arrivando l’altro convoglio. Hector e Junior erano seduti. Hector tirò fuori una monetina, si alzò e uscì. Si prese una confezione di gomma da masticare, prelevandola disinvoltamente dal distributore automatico, e tornò in carrozza. Sapeva d’essere osservato. Cominciò a chiedersi se non sarebbe stata una buona idea togliersi quelle spille. Era troppo facile riconoscerli, così. Sennonché l’idea lo disturbava e finì col rinunciarvi. Continuò però a pensare di comportarsi scioccamente. L’accelerato si fermò a fianco dell’espresso. La gente cominciò a uscirne, per trasferirsi sull’espresso. Hector si tolse il cappello e mise la testa fuori. A quattro carrozze di distanza l’agente era ancora al suo posto e li fissava, ora definitivamente insospettito. Quando la gente gli passava davanti, spostava la testa di qua e di là per non perderli mai di vista.
Hector tornò dentro. Le porte cominciarono a chiudersi. Hector fece il segnale. Tonto fece un passo avanti e bloccò una porta. Hinton, sul lato anteriore, vide l’agente che entrava nel vagone e segnalò la mossa agli altri. Tutti corsero fuori, passando sotto il braccio di Tonto. La porta si chiuse alle loro spalle. E risero tutti di gusto, per aver giocato quella testa di cazzo di un piedipiatti. Ma quello sbirro doveva aver dato l’allarme in qualche modo, perché, anche se lui era stato giocato bellamente e si era ritrovato solo a bordo del treno in partenza, già un suo collega arrivava trotterellando nella loro direzione, simile a un piccolo pagliaccio blu che uno qualsiasi di loro avrebbe schiacciato da solo agevolmente, ma non per questo meno pericoloso perché era la Legge. La Famiglia reagì. Tutti si girarono e scattarono. Il poliziotto, vista la manovra, accelerò il passo. Hinton, che era il più veloce, era già in testa. Correndo a quella velocità non fu in grado di imboccare il sottopassaggio. Così continuò a correre fino in fondo al marciapiede, balzò giù sulle rotaie e imboccò invece la galleria in direzione della periferia, ma sui binari del convoglio diretto al centro. Dewey e Junior corsero all’estremità nord, scesero la rampa di scale del sottopassaggio, a tre, quattro, cinque gradini per volta, girarono a sinistra, andando quasi a sbattere contro la parete del corridoio, e scomparvero. Hector, Tonto e Bimbo correvano insieme e nello stesso senso. Arrivati in fondo, seguendo quello che aveva fatto Hector, balzarono sui binari, attraversarono verso destra passando al di là dei pilastri di ferro, ben attenti a non toccare coi piedi le rotaie. Si issarono sulla banchina del treno diretto al centro, ripartirono di corsa percorrendo il marciapiede fino all’estremità sud, direzione centro, imboccarono le scale e salirono in strada.
5 luglio, ore 3.10-3.35 Hinton si tuffò nelle tenebre. Correva, il più velocemente possibile, saltando da traversina a traversina, senza quasi vedere dove stesse andando, allontanandosi dalla stazione, dalle luci dei marciapiedi, dalla polizia. Il tacco della scarpa destra gli fu strappato da una traversina. Continuò a correre. Davanti non vedeva praticamente nulla. Il cuore gli batteva sempre più forte. Presto si trovò senza fiato, quasi rantolava e gli doleva il fianco destro. Negli occhi sentiva le pulsazioni del battito cardiaco. La vista gli diventò insicura, imprecisa e le luci della galleria gli si frastagliavano davanti. Passò in corsa oltre una luce verde e una luce azzurra e continuò per un altro centinaio di metri, prima di doversi fermare. Si girò a guardarsi alle spalle. Era solo. Gli altri non l’avevano seguito. Scorgeva le luci della stazione della 96esima. Erano più lontane di quel che s’era aspettato. Cos’era stato dei compagni? Attese, respirando affannosamente, cercando di riprendere fiato. Se l’avevano seguito, ormai dovevano essere lì. Non c’era nessuno. Che fare? Doveva tornare indietro? Era come buttarsi volontariamente tra le braccia dei blu che certamente avevano ormai invaso la stazione. Li conosceva bene, i piedipiatti, arrivavano in massa solo quando era ormai tardi. Doveva aspettare lì per un po’ e poi tornare indietro o doveva proseguire
fino alla prossima stazione? Le tenebre lo spaventavano. E se fosse arrivato un treno improvvisamente e fosse stato travolto? Dov’era la terza rotaia? Ma aveva più paura della polizia. Poteva star lì, starsene buono e dormire, non andar mai più via. No, che non poteva; si incamminò, zoppicando a causa della scarpa rotta e perché doveva ad ogni passo saltare da traversina a traversina. Continuava a fermarsi e mettersi in ascolto. Il buco nella calza destra si allargava e l’alluce cominciava a strofinarsi contro il cuoio. Lui ascoltava. Sentiva il suo respiro contratto distorto dall’eco della galleria. C’era una sorta di rombo sommesso e continuo, ma gli sembrava troppo debole perché fosse il rombo di un treno in arrivo. Cos’era allora? Qualcosa sgocciolava. C’erano fruscii. Topi? A quelli era abituato. C’erano sempre topi dove aveva abitato. Rallentò. C’erano nicchie a forma di bara e dipinte di bianco sui lati. Si sarebbe rifugiato lì, se fosse arrivato un treno. Sudava ancora per la corsa, ma almeno qui era fresco e camminare non era troppo spiacevole. Dopo un po’ l’aria fredda cominciò a trasformarsi in qualcosa di denso che sentiva sulla pelle e a quel punto fu sicuro che stesse succedendo qualcosa, ma non seppe capire cosa. In un certo senso aveva l’impressione di trovarsi in un luogo stregato. Sciocchezze. Scemenze come quelle che diceva Junior. Rise. L’eco di quella risata lo sorprese. Era così diversa che per un attimo nemmeno capì che razza di suono fosse. Continuò a camminare. Si girò. Vedeva ancora la stazione. Quanto ancora, alla stazione successiva? Non ricordava quanto avesse impiegato il treno da una stazione all’altra. Concluse che non poteva essere molto lontano. Man mano che procedeva, la galleria era più buia e il freddo aumentava. Il rombo costante cresceva, non tanto di volume, non come se un convoglio gli venisse incontro, ma come se tutta la terra vibrasse, facendo rumori sinistri. E se gli agenti l’avessero visto imboccare la galleria? Se avessero dato l’allarme e altri lo stessero già aspettando all’uscita dall’altra parte? Era stupido proseguire? Tutta quella camminata per cadere nelle loro mani appena fosse uscito? Come lo avrebbero deriso! Bella figura avrebbe fatto. Poteva fermarsi, aspettare, dormire un po’. No, non era molto sicuro di poterlo fare. Si domandava cosa fosse successo agli altri. Forse erano riusciti a scappare, ma non avevano visto in che direzione era andato lui. Forse credevano che lui fosse stato catturato. Quel pensiero gli fece cedere le ginocchia, lo fece sentire abbastanza stanco da aver voglia di sdraiarsi. Si toccò la spilla e la sigaretta che aveva sul cappello e pensò, no, Papà Hector non lo avrebbe mai permesso. Se erano in fuga, certamente l’avrebbero aspettato da qualche parte. Dove, per esempio? Certo non alla stazione della 96esima. Alla 42esima, dove si cambiava per Coney Island. E proseguì. Ma se erano stati catturati tutti, allora era un grosso guaio. Era veramente solo. Avrebbero portato la Famiglia al posto di polizia e lì li avrebbero menati, li avrebbero costretti a dare nomi e indirizzi, avrebbero scoperto tutta l’operazione, avrebbero scoperto che lui mancava all’appello e forse avrebbero scoperto anche l’uccisione di quell’uomo. Quando lui fosse arrivato a casa li avrebbe trovati ad aspettarlo, come era già successo più di una volta al suo fratellastro Alonso. Più semplice allora tornare indietro e consegnarsi. Sarebbe stata un’attenuante a suo favore, ma non proprio virile. L’avrebbero preso in giro, gli avrebbero dato del traditore e si sarebbe trovato espulso dalla banda, solo, e, se fosse stato solo, sarebbe stato un perdente per
tutta la vita. Già gli era costato non poco entrare nella banda e diventare un fratellofiglio. Non poteva mandar tutto a monte. Continuò. Qualcosa gli colpì il cappello. Pipistrelli! C’erano sempre pipistrelli nelle grotte e nelle gallerie, lo sapevano tutti. Vampiri! Succhiasangue! Alzò gli occhi. Strillò: ce n’erano a grappoli. L’eco del suo grido rimbalzò da una parte all’altra, morendo lentamente, come il verso stridulo di milioni di pipistrelli. Si inginocchiò sulla traversina, terrorizzato, incapace di proseguire. Non fu aggredito. Aspettò. D’un tratto si mise in piedi e partì di corsa. I pipistrelli non gli si precipitarono sulla schiena. Si fermò, di nuovo senza fiato, e alzò gli occhi con la mano sulla faccia. Vide delle stalattiti che pendevano, gesso che si sgretolava. Si tolse il cappello. C’era una grossa macchia dove era gocciolata dell’acqua sporca. Forse la galleria si apriva in una caverna. Scrollò la testa per liberarsi di tanti timori e riprese a camminare a passo veloce. Doveva assolutamente proseguire e mantenere la calma. Presto sarebbe arrivato all’altra stazione. Avrebbe preso un treno. e avrebbe continuato fin dove si cambiava. Lì avrebbe ritrovato la Famiglia. Pulì il cappello. La spilla si era spostata leggermente e lui cercò di riaggiustarla. Riprese il cammino, respirando a fondo per mantenere il controllo di sé. Caviglia e alluce gli facevano male a causa della scarpa rotta. Poco più avanti, vide le rotaie curvare e scomparire, scintillando debolmente nelle tenebre. Lì la galleria sarebbe stata ancora più buia, molto più di prima, dato che le luci della stazione sarebbero scomparse alle sue spalle. E se un treno stava arrivando proprio allora e lui non l’udiva per colpa di quella curva? Doveva proseguire o fermarsi? Si girò a metà. Le luci della stazione della 96esima erano molto lontane, appena visibili, una specie di grappolo allegro e festoso, vibrante come scintille. Si era spinto molto avanti, ormai, e si vedevano le luci laterali che illuminavano la galleria per congiungersi in lontananza. Dunque, considerò Hinton, la stazione non poteva essere molto lontana e probabilmente si trovava appena dietro a quella curva. Ma restò per un po’ fermo, impaurito, perché non se la sentiva di proseguire: aveva paura di abbandonare per sempre le luci della vecchia stazione. Si stava comportando da stupido. Si comportava da moccioso. Doveva semplicemente camminare fino alla prossima stazione. Non era possibile che ci fosse un treno in arrivo perché l’avrebbe sentito. Riparti. La curva era più lunga di quel che aveva creduto. Piano piano s’inoltrò. Continuava a girarsi a guardare in direzione della stazione della 96esima. Inciampò. Cadde sulle mani. Si rialzò e riprese il cammino. Dopo poco tutte le luci erano scomparse. Si sentiva molto solo in quella oscurità più densa che mai, come mai gli era capitato. Man mano che proseguiva le tenebre si chiudevano intorno a lui. Vide un barlume di luce, più avanti. Cercando di mantenersi vicino ai pilastri centrali, avanzò. Passò oltre un gabbiotto vetrato sulla destra, dalla parte della linea che andava verso la periferia. C’erano alcuni uomini in tuta che giocavano a carte, seduti intorno a un tavolo. C’erano delle lattine di birra, sul tavolo. Il luogo sembrava fresco e piacevole. Incespicò e fece rumore. S’immobilizzò dietro a un pilastro, ma nessuno aveva sentito niente, visto che nessuno si era girato a guardare. Lui quasi sperava che si accorgessero di lui, che lo invitassero lì e gli offrissero della birra. No,
non era una buona idea, pensò poi, perché erano tutti bianchi, erano l’Altro. Anche se quel luogo sembrava accogliente, come faceva a essere sicuro? Si costrinse a proseguire e si lasciò la luce alle spalle. Le rotaie ronzavano. Lo sgocciolio diventò più forte e intenso e sembrava uno scroscio. Il freddo si fece più intenso sulla sua faccia. Stava arrivando un treno? La sua solitudine crebbe; mai si era sentito tanto solo, mai si era sentito tanto tagliato fuori. Si accumulavano piccoli rumori, fondendosi in una sorta di mormorio costante che gli teneva dietro. Dovette dirsi che le sue paure erano sciocche, non come la paura di un vero uomo. La sua non era paura del reale, era paura di quel che non c’è, come quella dei bambini. Era una paura da Junior. Mentre lui doveva essere un uomo forte, come Arnold, Hector, Bimbo, Tonto, Dewey, Ismael. Loro non avevano mai paura. Ricordò con una punta di orgoglio che lui non si era lasciato impressionare da tutte quelle chiacchiere su fantasmi e spiriti, al cimitero. No, non era come Junior, lui! Ormai doveva essere in prossimità della stazione. Per quanto ancora doveva arrancare, prima di arrivarci? Cercò di affrettare il passo. Il rumore dei suoi passi era moltiplicato dalle pareti. Ebbe a un tratto l’impressione d’essere in compagnia di un reparto di soldati. Si fermò una frazione di secondo dopo. Tutto fu silenzio, eccetto che per quel ronzio continuo. Ebbe la sensazione che una gran massa di gente si fosse fermata con lui. Ascoltò, ma non sentì respirare altri che se stesso. Si mosse e la massa di gente si mosse con lui. Si fece forza. Doveva mantenere l’ordine, la disciplina e pensare a quel che doveva fare poi, pensare per esempio a dove e quando ritrovarsi con gli altri. E poi, pensò tra sé per tirarsi su il morale, si trovava probabilmente nel luogo più fresco di tutta la città. Si costrinse a ridere, ma si trattenne. Se avesse riso, qualcuno avrebbe potuto udirlo. Allora sorrise. Tentò di rasserenarsi pensando agli occhi stralunati della Famiglia quando avesse detto loro: «Ragazzi, lasciate che vi dica dove sono stato e cosa ho fatto». Si udì un rombo che riempi la galleria. Si girò a guardare. Arrivava un convoglio diretto verso la periferia. Il convoglio era piombato in galleria facendo vibrare le pareti, scatenando una gara di echi assordanti tutt’intorno. Hinton si buttò in una nicchia. Era puerile, si rimproverò. Il treno passava sull’altra linea e, se fosse passato sulle rotaie che lui percorreva, sarebbe rimasto ucciso prima ancora di avere avuto il tempo di spaventarsi. Si sporse a guardare i finestrini illuminati passare a ritmo indiavolato dietro i pilastri. C’era gente seduta, nel convoglio. Vedeva la nuca delle loro teste. Si mise a correre dietro il treno urlando, ma nessuno si girò a guardare. Il treno ben presto svanì nel buio. Smise di correre e riprese il suo cammino. Un momento, c’era qualcosa, qualcuno. Pensò di mettersi a cantare, ma gli venivano in mente solo le melodie lamentose di un inno di una messa rock’n’roll e anche questo era puerile. E poi, se davvero c’erano i piedipiatti ad aspettarlo poco più avanti, a che scopo annunciare loro il suo imminente arrivo? E chi credeva a queste fesserie della religione? Sua madre perdeva sempre tempo con i suoi inni sacri, ma solo quando voleva qualcosa da qualcuno. Gli venne in mente un’altra cosa. E se non stesse affatto procedendo nella direzione in cui andavano quand’erano sul convoglio? Se avesse inavvertitamente svoltato in una galleria laterale che andava avanti così per sempre o si ramificava in
un dedalo di altre gallerie senz’uscita? Sarebbe rimasto lì per sempre, solo, in quelle tenebre. A parte i topi, naturalmente. Ce n’erano. Li sentiva. E a parte anche... A parte quel qualcos’altro che continuava a muoversi, si muoveva sempre quando lui si muoveva e si fermava sempre quando si fermava lui. Passò sotto una luce azzurra. Lì tutto era azzurro. Che cosa significava una luce azzurra? Lui conosceva le luci rosse, verdi e gialle. La pelle della sua mano era sinistra, vecchia, coperta di sudore blu. Si chiese che effetto avrebbe fatto la gente con la pelle blu. Come dei morti, pensò, come gente non proprio viva viva. Dunque forse lui era morto ed era diventato blu. La curva non finiva mai e lui temette d’essere tornato, chissà come, indietro e di camminare in circolo. Era possibile? Corse per qualche passo. Restò subito senza fiato. Come mai così presto? C’era forse del gas? Qualche gas velenoso, segreto e impercettibile? L’odore era strano, i rumori erano più chiari. Forse c’erano eserciti di topi, lì sotto, e quello era il loro territorio. Forse anch’essi combattevano in bande. Forse si stavano ammassando per sorprenderlo e aggredirlo in massa. Non aveva un posto dove nascondersi. Udì singhiozzare. Il suono del pianto si moltiplicò provenendo da ogni parte, finché tutto il mondo fu soverchiato da un coro di singulti. Ma chi piangeva? Restò immobile. Si mise a piangere lui, allora, e gridò e aspettò d’esser preso. E se strillava finalmente sarebbe finita, perché la COSA avrebbe saputo dove attaccare e gli sarebbe stata addosso in un baleno. Si mise a correre, scivolò, cadde, si rialzò, riprese trotterellando. Quel coro di singhiozzi e gemiti gli teneva dietro ad ogni passo ed era ormai un suono di scherno, che riempiva la galleria di risate sferzanti e folli e insieme di gemiti strazianti. E il suono che non poteva trattenere nei polmoni lo smascherava di fronte al mordo come un poppante e un vigliacco. Che cosa avrebbe fatto Papà Arnold? Che cosa avrebbe fatto Hector al suo posto? Lui era un uomo, si disse. Un uomo! Non aveva al suo attivo molte sortite, non aveva dato prova del suo valore? Non si era ubriacato, forse? Non aveva forse mantenuto la freddezza? Non aveva forse rubato senza farsi prendere? Non aveva scopato quella troietta? Non aveva fatto fuori quell’uomo? Era dunque il tipo da sciogliersi così facilmente? Non aveva imparato da tempo che a far così ci si fa ridere dietro, anche dalla propria madre o da quel bastardo di Norbert, il ragazzo di sua madre? È meglio a questo mondo asciugarsi le lacrime prima ancora che sgorghino dagli occhi e soffocare singhiozzi e pianti prima che scaturiscano dalla gola. Altrimenti ti mettono sotto. Ma la COSA non mollava e non prendeva forma. Non c’era nessuno lì. Non c’era niente. C’era solo nero e lui ne era parte e lui era più solo che mai. Adesso si sentì come un neonato e pianse come un neonato, come non si era mai concesso di fare. Si udì e si ripromise che, non appena avesse ritrovato il fiato, avrebbe riso di sé, perché mai un Dominatore si era comportato così. E se, per esempio, gli altri fossero fuggiti e fossero dietro di lui e si stessero avvicinando di soppiatto e lo stessero osservando per metterlo alla prova, come avevano fatto quando lui era entrato a far parte della banda? Questo pensiero lo indusse a dominarsi. Si voltò a guardarsi alle spalle. Gridò: «Andiamo, lo so che siete lì. Venite fuori. Stavo scherzando!» Trattenne il fiato e ascoltò. Non sentì nient’altro che fruscii, rombi e ronzii. Non vide altro che alcuni grossi insetti d’acqua scorrazzare nelle zone illuminate.
Borbottò: «Merda, merda, merda!» E si arrabbiò, si infuriò e si mise a urlare, imprecando contro la Famiglia per quel che gli stavano facendo. Poi si strappò il cappello dalla testa e lo buttò per terra, lo calpestò, schiacciando la spilla e si avvicinò alla parete e scrisse col dito nello sporco rappreso: «Hinton D. caga sui Dominatori, sul Padre e sulla Madre e su tutti i suoi fratelli». E pensò: va bene, mi ficco in una nicchia e aspetto. Non sapeva cosa avrebbe aspettato, ma avrebbe aspettato. Si sarebbe rannicchiato e avrebbe posato la testa sulle ginocchia e avrebbe aspettato che la pula, o la Famiglia, o quella COSA venissero a prenderlo. Avrebbe aspettato perché erano giorni e giorni che non se ne stava in pace da qualche parte. Ma quel che aveva appena fatto lo spaventò, perché si sentiva così completamente tagliato fuori. Era come se la Famiglia sapesse e lui sarebbe stato espulso per sempre. Riprese il cappello, cercò di ridargli una forma accettabile, trovò la spilla, la staccò, la ripulì, la rimise a posto. Raddrizzò la sigaretta di guerra danneggiata. Cancellò quel che aveva scritto sul muro con un colpo di manica, tirò fuori il magic marker e scrisse invece il nome della sua Famiglia, perché si sapesse che non c’era luogo in tutta la città, nemmeno in quella galleria, dove la Famiglia non fosse passata. Risollevato, poté riprendere il suo cammino. Poco dopo, svoltando di nuovo, trovò la stazione. Rallentò e procedette furtivamente, facendo capolino per assicurarsi che non ci fossero poliziotti sulla banchina e che nessuno stesse guardando dalla sua parte. Quando fu sicuro che le poche persone in attesa non avevano notato niente, sali la scaletta e si trovò sul marciapiede della stazione della 110ma Strada. Ora doveva solo raggiungere la fermata di Times Square per salire sul treno di Coney Island. Li avrebbe ritrovato il resto della Famiglia. Se erano riusciti a scappare, certamente quello sarebbe stato il luogo del ricongiungimento, ne era più che sicuro. Era imbarazzato, si vergognava di sé. Gli era capitata un’esperienza che non capiva bene. Era contento di non essere stato visto, ma aveva la sensazione di avere tutto scritto sulla faccia e sugli abiti e che tutti, guardandolo, capissero e sapessero. Si chiese quanti tra gli altri avrebbero saputo fare quel che aveva fatto lui, attraversando da solo quelle tenebre terribili. Non si sentì confortato dalla risposta che si diede. Poco dopo arrivò il treno diretto al centro e lui lo prese. Nella luce forte della carrozza, specchiandosi in un finestrino, vide che aveva gli abiti sporchi d’acqua e fango. Non si sedette subito. Gli mancava tutto il tallone della calza destra e intorno alla caviglia aveva un’abrasione sulla pelle. La scarpa gli stava insieme per miracolo, grazie a una fascia logora di cuoio. Per camminare era costretto a tenere l’alluce piegato. Aveva un palmo graffiato e insanguinato ed entrambe le mani sporche. Si tolse il cappello. Anche il cappello era macchiato. L’insegna non splendeva più come prima e la sigaretta era rotta in un punto da cui briciole di tabacco gli erano cadute sulla testa. Ricordò cosa gli aveva fatto Tonto. Si domandò se Tonto avrebbe avuto il fegato di attraversare quelle tenebre. Si disse che certamente l’avrebbe avuto, perché Tonto era forte. Non c’era niente di meglio al mondo che essere come Tonto. Hinton si sedette. Si appoggiò allo schienale, infelice, scomodo, non osando addormentarsi per paura di perdere la sua fermata.
5 luglio, ore 3.10-3.35 Dewey e Junior si precipitarono giù per la rampa. In fondo svoltarono a destra, imboccando un corto sottopassaggio che puzzava di orina. Dopo un’altra rampa di scale voltarono di nuovo a destra, poi salirono altre scale in cima alle quali si ritrovarono sul marciapiede. Da dietro giungeva il rumore dei passi in corsa di Hector, Bimbo e Tonto. Dall’altra parte dei binari, sulla linea per il centro, il convoglio era ripartito. L’inseguitore era lento e maldestro. Loro lo vedevano e solo per miracolo lui non scorse loro. C’era un treno in attesa sulla linea per la periferia. Balzarono a bordo e si sedettero lontano dalle porte, dando di schiena ai finestrini, curvi per non essere riconosciuti da fuori. Si guardarono bene dal girare la testa. Junior tirò fuori il giornaletto e cominciò a leggere cercando di dare l’impressione che stesse leggendo da ore. Non vedeva niente e non riuscì ad andar oltre una vignetta in cui un guerriero greco alzava la lancia per piantarla nella gola di un nemico vestito di pelli. Aspettava di veder comparire da un momento all’altro i piedi piatti e neri dello sbirro. Dewey strinse le labbra come per fischiare, ma non emise alcun suono. Restò immobile a soffiar fuori aria. Teneva le mani giunte, come uno scolaretto, ma se le torceva, se le ripuliva nervosamente staccando con l’unghia pezzetti di luridume, intrecciando le dita per un attimo prima di ricominciare a pizzicarsi. Dov’erano gli altri? Forse in una delle altre carrozze di quel convoglio. Le porte si chiusero e il treno si mosse. Non sapevano dove stessero andando e non osavano alzare gli occhi per leggere il nome della destinazione. Dovevano sforzarsi di non far niente per un po’. Erano sicuri che di lì a poco sarebbe ricomparso Hector. Il treno si fermò alla stazione successiva, alla 103esima Strada. Junior si domandava se fossero arrivati con quella linea. Poi si fermarono alla 110ma, Junior era più confuso che mai. La fermata successiva era alla 116esima e Junior capi che erano su una linea diversa. Ma la terza fermata era quella della 125esima. Sapevano d’essere passati da quella strada diretti verso il centro, poco prima, ma questa volta si trovavano all’aperto, su una soprelevata. Erano disorientati. Abbandonarono il loro posto per percorrere il treno alla ricerca dei compagni. Dovettero invece constatare che erano rimasti soli. Forse che gli altri erano stati catturati? Si sedettero e pensarono al da farsi. Dewey riteneva opportuno proseguire per un po’ e poi tornare indietro. Sapevano di dover cambiare per Coney Island in Times Square. Avrebbero proseguito, poi sarebbero scesi e ripartiti in direzione del centro. Si sarebbero riuniti agli altri prima di prendere il treno per Coney Island. Avrebbero aspettato un po’; se gli altri non si fossero fatti vivi, avrebbero concluso che erano stati catturati. A quel punto, sarebbero rincasati da soli. Restarono buoni per un po’. Per il momento erano al sicuro e Junior poté concentrarsi nella lettura. Girò la pagina, dimenticò quel che aveva letto un momento prima e tornò alla vignetta in cui il guerriero greco dal possente torace avvicinava la punta della sua lancia al ventre del nemico. Junior vide se stesso nell’atto di puntare l’arma sul ventre del piedipiatti nemico, un toro in armatura blu con l’elmo di ferro e lo scudo con lo stemma della città di New York. Gli eroi greci salivano su una collina e il nemico li
aspettava sulla cima. Era armato di pietre e di tronchi da incendiare e far rotolare giù. Il capo dei greci, un uomo sempre all’altezza della situazione, imponente nell’elmo d’oro dalla folta criniera, cercava di parlamentare coi capi delle selvagge tribù montane, ma costoro non volevano trattare. E l’eroe diceva allora che loro erano venuti in pace e che desideravano passare in pace, che non si sarebbero insediati e che se fossero stati attaccati, avrebbero risposto duramente. Se li avessero attaccati, sarebbe stata solo colpa loro. Junior alzò gli occhi e vide che erano alla 137esima Strada. Diede un colpetto a Dewey come a chiedergli se dovevano scendere. Dewey non gli fu d’aiuto. Era suo fratello maggiore e toccava a lui prendere la decisione, ma si limitò a dire a Junior di leggere il suo giornaletto, mentre cercava di risolvere il problema. Junior cercò di richiamare la sua attenzione sul giornaletto, ma Dewey fece una smorfia e gli rivolse un’occhiata di disprezzo da dietro le lenti dei suoi grossi occhiali. «Lance! E chi usa le lance? Dico, Powerman, o Atom-man, quelli fan saltare le braccia a un uomo con una scarica di raggi cosmici, cose così. O i Rocket che con un pugno ti aprono un buco così in pancia, grosso come un melone. Lance? Cazzate!» E si voltò dall’altra parte. Junior chiese se non fosse meglio metter via le sigarette di guerra e le spille. Dewey era indeciso e non disse nulla. Sapevano che forse la loro situazione era disperata. E se fossero stati individuati? Finalmente Dewey disse che se l’avessero fatto e non fosse successo niente... Era meglio non scordare com’era stato messo sotto Hinton. Quelle spille erano il marchio della Famiglia e loro dovevano sempre affrontare il nemico, e anche soccombere, con l’insegna in vista, perché le insegne dimostravano che erano uniti. Togliersi le spille voleva dire mancar di cuore, ridursi come bambini piangini che non san correre i loro rischi; voleva dire rinunciare alle affiliazioni importanti. Dovevano tener duro, se volevano essere veri uomini. Junior annuì. Era lo stesso per i greci con i loro elmi dalla lunga criniera. Che bello, se la Famiglia avesse adottato elmi così. Junior era d’accordo con lui e spiegò che diceva tanto per dire e che non c’erano dubbi sul suo patriottismo. Dewey pensava che Junior aveva solo quattordici anni e che perciò non avrebbe passato guai seri se fosse stato preso. Junior lo sapeva. Lui invece aveva sedici anni, ma che importava? Che cosa potevano provare a suo carico? Non erano loro ad avere il coltello. «Che cosa sanno?» domandò Dewey. «Dico, che cazzo, che cosa sanno?» «Niente», disse Junior. «lo dicevo per dire.» Si sentirono un po’ meglio, dopo aver deciso di tenere le insegne in vista. Era la dimostrazione che erano veri uomini e, più ancora, veri uomini in pericolo e che tenevano fede alla loro reputazione e che la loro reputazione si fondava, tra l’altro, sull’uccisione di un uomo. «Guarda qui», disse Junior a Dewey. «Roba da bambini», commentò Dewey, ma, non avendo di meglio da fare, lanciò qualche altra occhiata alle vignette. Insieme seguirono la storia. I greci attraversarono i deserti, valicarono i monti, marciarono nella pioggia e nella neve continuando a combattere. Il disegnatore era in gamba perché l’argento delle lance brillava davvero e il rosso del sangue risaltava nettamente.
5 luglio, ore 3.10-3.35 Hector e Tonto scavalcarono la barriera con un volteggio. Bimbo vi passò sotto. Salirono le scale a due, tre gradini per volta e uscirono all’angola tra la 93esima e Broadway. Scegliendo la via più facile, girarono a destra e scesero verso il fiume Hudson, sebbene non avessero idea di dove fossero o dove andassero. Passando scorsero sui muri scritte a gesso coi nomi delle bande di quel territorio, ma non si fermarono a leggere. Bimbo si voltò a guardare se erano inseguiti dal poliziotto. Non vide nessuno. Non correvano, perché correndo avrebbero richiamato su di loro la Legge. Traversata la strada, Tonto si tolse il fazzoletto, buttò via la sigaretta di guerra, fece un fagottino con dentro la spilla e se lo ficcò in tasca. Hector volle sapere cosa credeva di fare. «Me la tolgo, che cazzo, ecco che faccio. Non sono mica scemo», rispose Tonto a Hector. «Non puoi.» «Credi che me ne vada in giro a farmi vedere da tutti, così mi incastrano? Credi che abbia voglia di andare in giro a dire: “Ehi, piedipiatti, ecco qui Tonto, prendetemi pure e schiaffatemi dentro”. Credi che voglia andare in giro con l’insegna, così le bande di questo territorio ci menano di brutto? No, cazzo, no, no!» Aveva la faccia buia. Stava arrabbiandosi. «Calma, ragazzo, calma, figlio», disse Hector. «Sono calmissimo. Chi dice che non sono calmo? Sono di ghiaccio, io.» «Mi pareva che avessimo giurato. Noi siamo una Famiglia, siamo un reparto in guerra, ci muoviamo insieme, come una pattuglia in guerra.» «Ma non serve a niente farci pubblicità tosi. Può costarci caro!» «Chi dà gli ordini qui? Chi è il gran Saggio?» Le sue parole di rimprovero non fecero effetto. «Hector...» cominciò Tonto. «Chiamami Padre, capito?» «Cazzo, non voglio litigare, ma stai un po’ attento: non passeranno dieci minuti che ce li avremo tutti addosso. Dico che lo sanno, cazzo! Sanno tutto di questa sera. E ci sono occhi da tutte le parti. Già mi hanno beccato una volta. Cosa credi, che sia da ridere, Padre? Sono stanco di essere menato di qui e di là e voglio tornare in patria.» Hector si accorse che Tonto si gasava parlando. Era inutile cercar di ragionare e spiegargli che se erano inseguiti non era né per le spille, né per la sortita, né per lo stupro. In effetti non c’era la sicurezza assoluta: forse era stato dato davvero l’allarme. Bimbo guardò la faccia dell’uno e la faccia dell’altro, per vedere chi avesse vinto e per questo Hector capi che doveva ribadire l’ordine se non voleva perdere autorità. Attraversarono la strada e si trovarono ai margini di un parco. Erano su un dosso. Più avanti, oltre il parco, le automobili si incrociavano sulla West Side Highway.
«Avrai ragione, ma non è questo il modo», disse a Tonto. «Ci sono i modi adatti per esprimere la propria opinione...» «Non abbiamo tempo per un dibattito...» «Ne parliamo più tardi, mi hai capito, figlio?» e sottolineò col tono della voce quel «figlio». «Ti capisco, Padre», rispose Tonto accentuando la parola «Padre». «Ti capisco benissimo. Dico, tu sei un uomo e io sono un uomo. Io conosco te e tu conosci me. D’accordo. Ci ragioniamo dopo.» Hector si girò e superò volteggiando il basso recinto che racchiudeva l’aiuola. Avanzò di pochi passi e si voltò di nuovo. «Va bene, allora, figli, toglietevi le insegne», disse agli altri. Bimbo seguì Hector, ma Tonto restò dov’era. Bimbo si girò a guardarlo e Tonto si strinse nelle spalle e si voltò dall’altra parte. Bimbo si inginocchiò davanti a Hector. Si sentiva sciocco, visto che era il solo. Hector gli sfilò la sigaretta dalla fascia del cappello e la ripose nell’astuccio rosso. Si tolse la propria e mise via anche quella. «Via la spilla», disse poi a Bimbo. Bimbo era un po’ imbarazzato, ma alzò le spalle. Hector staccò la spilla dal cappello di Bimbo, poi si tolse il cappello a sua volta e sfilò la stella a tre punte della Mercedes-Benz. Le spille, le mise in tasca. Tornarono da Tonto che aveva un’aria indifferente e sprezzante ed era dispiaciuto per aver sollevato la questione. Non aveva creduto che avrebbe patito tanto. Naturalmente non sarebbe successo se lui fosse stato il Padre. D’altronde lui non aveva quell’intelligenza pronta, non aveva talento, lui non era in gamba come Hector e Arnold e comunque quello non era né il momento né il luogo di rivendicare a sé la Paternità. Per assumere il comando avrebbe dovuto combattere e uno scontro avrebbe richiamato la polizia. Entrarono tutti nel parco dirigendosi verso sud, più che altro perché in quella direzione si era incamminato Hector. Avevano perso l’unità ed erano solo tre persone qualsiasi, tre uomini senza poteri speciali. Si sentivano spaesati, scompagnati, in certo senso si sentivano denudati, come tre che si conoscessero per caso e vestissero all’incirca allo stesso modo. Non parlavano. Oltre l’autostrada c’era il fiume Hudson, un nastro ampio e brulicante di puntini luminosi, e c’erano le ombre delle Palisades sull’acqua e c’era l’argine con la sua fila di lampioni. A sinistra si vedevano alti palazzi, lungo il Drive. Scoppiavano ancora, stancamente, gli ultimi petardi. Scoppiettavano razzi difettosi. Hector disse che avrebbero proseguito verso sud, avrebbero tagliato nella direzione da cui erano venuti, avrebbero preso un treno e si sarebbero ricongiunti con gli altri a Times Square, ammesso che i compagni non fossero già stati catturati. Ogni decina di metri c’era una panchina sotto un lampione. Non c’era nessuno a sedere nel parco: il luogo sembrava deserto. Lei era seduta poco più avanti. La panca era coperta da cespugli, verso il fiume, ma la siepe non era tanto alta da impedirle di vedere il cielo. Era un po’ brilla e semiaddormentata. Dondolava, assopendosi e risvegliandosi. Aveva visto scoppiare grandi fuochi artificiali nel cielo, aveva visto sbocciare fiori di fuoco, efflorescenze di fiamma, lingue di fuoco come foglie. Lei non era del tutto sicura che nel cielo ci fosse davvero qualcosa, perché aveva le lenti bifocali da lettura, cerchiate d’argento,
e forse le vampate che sbocciavano nel cielo erano frutto della sua immaginazione, distorsioni imprevedibili create dagli occhiali. Comunque, era stato un Quattro luglio meraviglioso. Ogni tanto si diceva che era tardi, molto tardi, e che doveva affrettarsi a rincasare, se non voleva che stessero in pensiero per lei. Ricordò, ancora una volta, che era il Quattro, il glorioso Quattro, lo splendido, fantastico Quattro, l’ubriaco Quattro. Non che lei fosse ubriaca, perché aveva bevuto solo pochi bicchieri all’ospedale dov’era infermiera; aveva bevuto davvero pochissimo, poi, senza sapere come, si era ritrovata su quella panchina del Riverside Drive Park a farsi passare la sbornia, a schiarirsi le idee. La brezza che saliva dal fiume si fermava contro la siepe, perciò dove lei era seduta l’aria era immobile. Si sentiva l’odore dell’acqua di mare e delle alghe e della nafta delle chiatte e dei rifiuti dell’oceano. Pensò vagamente di andare a sedersi su un’altra panchina, dove ci fosse un po’ di venticello, dove non ci fossero cespugli intorno, dove una donna potesse rinfrescarsi la faccia infiammata e godere del fresco. Ma ogni volta che stava per alzarsi si rendeva conto che lo sforzo era eccessivo. Le gambe non la reggevano, la borsetta era troppo pesante. Forse era il suo stipendio settimanale, a pesare, forse la bottiglietta di whisky medicinale. Rise sommessamente e il fremito del suo corpo fece scricchiolare la panchina. Era una donna molto grossa. Fu Bimbo il primo a scorgerla. Avvertì Hector. Nella luce del lampione la videro dondolare a occhi chiusi. Gli occhiali le erano scivolati in avanti sul naso piatto. Aveva sulle labbra un sorriso stupido. Teneva le ginocchia disunite, ma le richiudeva ogni tanto e le riapriva, come se stesse filando. Scrollava anche la testa continuando a sorridere non si sa a cosa. Videro che aveva polpacci voluminosi, ma anche caviglie sottili, quasi ossute. La sottana le era risalita a metà delle cosce rivestite dalle calze bianche. Il berrettino da infermiera, fissato con una molletta ai capelli biondi o bianchi (di questo non erano molto sicuri), le pendeva sulla fronte. Il corpo di Tonto era già in tensione. Avvertiva la sensazione nei pantaloni attillati. Si guardò subito in giro e non vide nessuno. Bimbo, che lo conosceva bene, già lo guardava e sorrideva compiaciuto. Bastava fargli vedere tanto così di pelle, pensava, e Tonto era bell’e che partito. Per questo non aveva una ragazza fissa. Hector invece restò serio. La situazione non gli piaceva affatto. Tonto precedette gli altri. Sostarono tutti e tre davanti all’infermiera, che non parve accorgersene. Tonto si inginocchiò per sbirciarle sotto la sottana. Si rialzò e agitò la mano su e giù. Hector scrollò la testa in segno di diniego. Bimbo guardò prima l’uno e poi l’altro. Confabularono a voce bassa. Hector disse che secondo lui era una scemenza e poi chi la voleva una vecchia che poteva essere sua madre? «È che ce l’ho duro e me lo sento cantare nelle mutande. Devo farlo, subito, assolutamente», ribatté Tonto. «Ma non ne hai mai abbastanza. Calmo. Non abbiamo già abbastanza guai? Calmo.» «Calmo, calmo, calmo», scimmiottò Tonto. «Per te è facile dirlo. Tu hai una donna sempre calda, quando ti viene voglia.» Bimbo disse: «Cazzo, questa vecchia prugna, dovrebbe essere già a casa. E se sta qui vuol dire che se lo cerca, se se ne sta qui fuori. Non lo sa, lei, che questi parchi non sono un luogo sicuro dopo il tramonto?»
E Tonto disse: «Se lo cerca eccome e l’ha trovato buono!» «Lascia perdere», sbottò Hector. «Ora, cazzo. Ora! Non puoi farmi rinunciare», disse Tonto. «Se tu vuoi andare, fai pure. Io me la scopo, e di brutto!» Lei aprì gli occhi e scorse appena i tre che h: stavano davanti. Uomini. Ragazzi. Giovanotti. Solo quello in mezzo aveva un barlume di luce sulla faccia. Era perché stava più dritto degli altri. Le piacque quella maniera di stare impettito. Guardando da sopra le lenti, vide che aveva una bella faccia e aveva bei capelli biondi che gli uscivano in riccioli da sotto il cappello buttato all’indietro. «Sei bellino», disse a Hector. «Proprio bellino.» Scrollò la testa e chiuse gli occhi. «Signora, si sente bene?» le chiese Hector. «E hai una voce bellina, molto dolce», disse lei. Aprì gli occhi e sorrise a quello di mezzo. Questa volta notò i suoi amici. Avevano la pelle più scura, gli altri due. Quello basso e tarchiato era di color bruno e aveva i baffi un po’ ispidi e una faccia da indiano. L’altro era grande e grosso, scuro, brutto, una faccia di negro. Bimbo diede un colpetto a Hector. Hector scrollò il capo e fece un passo perché voleva andar via. Tonto non si mosse. Hector capi subito come sarebbe andata a finire. Sapeva che Tonto, arrivato a quel punto di esaltazione, era inarrestabile. Gli si poteva sparare senza che se ne accorgesse. Piuttosto che rischiare di perdere di nuovo la faccia, Hector decise di batterlo sul tempo. «Be’», disse, «la Famiglia che scopa insieme sta sempre insieme.» Bimbo lo trovò divertente. «Non qui», disse Hector agli altri due. Tonto si sistemò il membro eretto all’inguine, perché non gli desse fastidio. «Signora, ha bisogno di aiuto?» chiese educatamente Hector, attirandola nel tranello. Lei aprì gli occhi e contemplò il bel ragazzo nel mezzo. Carezzò il legno della panchina annuendo e gli disse di sedere accanto a lei. Hector le rivolse il suo affascinante e fugace sorriso. Era sempre distinto, lui, non faceva mai paura alle donne, lui, non gli veniva mai quella faccia stupida e vogliosa che veniva a Tonto. Anche lui cominciava a eccitarsi vagamente. Prese posto accanto alla donna e Tonto le si sedette dall’altra parte. Bimbo girò intorno alla panchina e le si mise dietro. Lei passò un braccio intorno a Hector e gli disse: «Sai, ho due nipotini, io, uno più bellino dell’altro, e tu me li ricordi». Lo attirò a sé abbassandogli leggermente la testa. Aveva un braccio carnoso e il muscolo faceva volume intorno all’orlo stretto della manica. Se lo sentì, forte, alla guancia. Il corpo della donna era caldo e Hector fu sorpreso della gran forza che percepiva. Tonto le posò una mano sulla coscia, poco sopra il ginocchio, e le tastò la carne. Lei se ne accorse, guardò giù, e vide la mano scura sul bianco della calza e disse: «Togli quella mano, che razza di donna credi che io sia?» Bimbo, dietro di loro, sorrideva. Tonto non tolse la mano e fece invece scivolare le dita all’interno della coscia. Lei si voltò verso Hector e, senza guardarlo, disse a Tonto: «Toglimi di dosso quella mano, tu».
«Signora, sta bene? Signora, ha bisogno d’aiuto?» chiese Tonto, cercando di imitare i modi accattivanti di Hector. «Scommetto che piaci a tutte le ragazze, tu, bello come sei», disse lei a Hector, tenendolo per il collo. Hector cominciava a sentir male al collo. «Te le fai le ragazzine, vero, tesoro? Un bocconcino come te!» A Hector non piaceva di sentirsi controllato. Gli dava fastidio l’odore di alcool che lei aveva nel fiato; da presso si vedeva che era anche più vecchia di quel che avessero pensato. Si ritrasse. Tonto le passò l’altro braccio intorno alla vita e cercò di prenderle una mammella. Bimbo era curvo su di lei e cercava di sbirciarle nella scollatura dell’uniforme. Lei si drizzò a sedere improvvisamente e fece dei movimenti con una mano, come a liberarsi da qualche insetto. D’un tratto si alzò in piedi, senza mollare Hector, il quale fu costretto ad alzarsi in piedi con lei. «Togliti, negro», disse a Tonto. Lui restò seduto, colto alla sprovvista. Vedendola in piedi si accorsero che era una donna enorme, più alta di Tonto di una spanna e molto più corpulenta. Bimbo rise. Tonto si alzò lentamente con l’intenzione di romperle la faccia per l’insulto subìto. Lui era americano, un portoricano di discendenza spagnola. Lei si voltò verso Hector, trattenendolo ancora per il collo, e gli disse: «Vieni, bellezza, andiamo da qualche parte dove possiamo star soli e mi puoi raccontare tutte le tue avventure con le tue fringuelline». E ridacchiò compiaciuta, ma vacillò, ritrovò l’equilibrio appoggiandosi a Hector e, così facendo, per poco non lo buttò a terra. Lo trascinò per qualche passo lungo il vialetto, poi deviò per l’aiuola. Passarono tra i cespugli alla ricerca di un angolo appartato. Tonto fece un cenno con la testa a Hector, per dirgli di stare al gioco. Anche Bimbo annui. Lo seguirono. La donna camminava sulle gambe malferme. Le sue scarpe si stagliavano bianche sul prato scuro. Si appoggiava a Hector e contemporaneamente se lo tirava contro, sempre più vicino. Aveva il corpo caldo. Gli accarezzò il braccio snello e muscoloso, tastandolo sotto la giacca con carezze sempre più voluttuose, mentre continuava a ripetere che era bello. Si avvicinavano a una macchia d’erba. Bimbo e Tonto li seguivano guardandosi intorno per assicurarsi che non vi fosse nessun altro nel parco. Sorridevano, senza nemmeno sapere che sorridevano. Bastava allontanarsi un poco dal vialetto e poi l’avrebbero scopata. Le avrebbero fatto vedere loro. Le avrebbero fatto vedere chi fosse il negro, le avrebbero fatto vedere che uomini fossero, alla vecchia troia. Arrivarono in una radura riparata. Bimbo e Tonto si separarono e si avvicinarono alla coppia venendo da angoli diversi. Tonto era deciso ad averla per primo. Hector, che per la verità non la voleva affatto, sentì che stavano arrivando e si girò a fronteggiarla. Immobile, lasciò che lei gli accarezzasse il torace. La donna gli stava dicendo che non era una bella cosa avere a che fare con ragazzine così giovani. Lei lo sapeva, perché lei era un’infermiera. Adesso erano puttane e avevano le malattie e avevano la mente bacata e facevano cose tremende, e lui le faceva quelle cose, quelle cose sporche alla francese, con quelle puttanelle malate, era già un uomo, lui? Hector disse che era un uomo, conservando un’espressione impassibile, e aggiunse che aveva fegato e che aveva anche tutto il resto di cui aveva bisogno. Lei rispose che
certamente lui era un uomo e che era anche proprio carino, ma che non le importava niente del suo fegato e rise e rise. Allora Hector si arrabbiò, sicuro com’era che quella bagascia ridesse di lui. Ma lei lo tirò improvvisamente a sé e lo imprigionò tra le braccia, soffocandogli quasi la faccia nella scollatura che odorava di talco. Se lo strofinò addosso e lui non riusciva a liberarsi e ben poco avrebbe potuto farle, anche se avesse voluto. Cercò allora di divincolarsi, perché lui era l’uomo ed è l’uomo che fa le cose, non la donna. Ondate di calore scaturivano dal corpo della donna e la sua faccia brillava di sudore. Adesso sembrava più giovane. Hector non aveva mai sentito un tal calore scaturire da un corpo umano. Lei gli prese le mani tra le sue e se le passò sulle grosse mammelle e lui cercò di liberarsi, ma lei era troppo forte. La donna continuava a dirgli com’era bello per un giovane come lui fare delle cose con una donna matura ed esperta come lei. Con una mano lo teneva contro di sé, mentre con l’altra lo accarezzava sulla schiena, dalla nuca fin sotto le natiche, dove lo strizzava e quasi gli faceva male, perché la sua mano era così grossa e possente da contenere tutta una natica come se fosse di un bambino. La borsa l’aveva appesa a quel polso e ad ogni movimento di va e vieni gliela sbatteva contro le vertebre. Intanto se lo schiacciava contro, ritmicamente, e sempre più vacillava, colpendolo, e lui sentiva di essere duro ed eretto e la sensazione gli dava fastidio nei calzoni attillati, ma non riusciva a divincolarsi per tirarlo fuori e farle vedere che hombre era. Lei aveva già perso la testa e non lo mollava e in lui crescevano collera e frustrazione, perché era mezzo strangolato e sudava ed era coperto del sudore di lei. Tonto era dietro l’infermiera, sulla destra, e i suoi occhi erano piccoli, malvagi, quasi da ubriaco, nella faccia congelata in un ghigno di desiderio. Bimbo era sull’altro fianco, con un’espressione da mezzo idiota. Tonto fece segno a Hector di liberarsi. Hector, sempre più furioso, si chiese chi fosse Tonto da permettersi di fare segnali a lui. Non c’era una gerarchia da rispettare? Non si andava dal Padre giù fino all’ultimo dei figli? Così fece finta di provarci gusto e premette le labbra contro quelle di lei e prese a muoversi ritmicamente andando su e giù e rischiando di cadere. Tonto passò loro intorno e prese Hector per una spalla per tirarlo via. Bimbo ridacchiava. Continuavano a spostarsi nella penombra, incespicando sul terreno irregolare. Le tenebre non erano assolute perché c’erano troppi lampioni in giro e poi c’erano le luci delle case sull’altura e il riverbero del fiume. Lei borbottava a Hector paroline d’amore mentre cercava di cambiar posizione perché non erano ben coordinati. Hector provava repulsione per il sudore e il calore che sgorgavano dal suo corpo. Ora l’odore del talco era più acre e a esso si mescolavano odori di ospedale, dato che lei era infermiera, e il puzzo dell’alcool. Bimbo era convinto che lei avesse dell’alcool in borsetta e già cercava di afferrargliela. Lei avverti la strattonata, abbandonò improvvisamente Hector e si voltò verso Bimbo. Lui si chinò evitando il colpo e rise divertito. Frattanto Hector era indietreggiato. Lei si girò verso di lui e gli disse: «Tesoro, perché non cacci via questi musi neri?» Poi cercò di riagguantarlo. Tonto, già carico, avanzò così impetuosamente che più niente lo avrebbe fermato, nessun appello alla lealtà o ai doveri della gerarchia, nessuna distinzione tra bene e male. Il bene, sentiva, lo avrebbe provato solo quando glielo avesse schiaffato dentro. Si calò la cerniera dei
calzoni e afferrò la donna. Lei cercò di sfuggirgli, ma ormai le erano addosso in tre e la sospingevano e le tiravano i vestiti e le facevano saltare i bottoni. Bimbo la sgambettò, Hector s’incaricò di bloccarle le braccia e Tonto si preparò a montarla, tenendola, accarezzandola, cercando di sistemarlesi tra le gambe. Lei da una parte era seccata, dall’altra ne aveva voglia, perché ormai il suo bisogno di sesso si era mischiato all’ubriachezza e lei si sentiva ubriaca di voglia. Così si lasciò buttar giù dai ragazzi e planò dolcemente di schiena nell’erba soffice. Tirò subito su le gambe, aprendole, e rise leggermente e disse: «Senza strappare, carino, senza strappare», e le sue braccia si allungarono ad abbracciare Tonto come mai nessuna donna l’aveva abbracciato, una mano sul bavero della giacca a strattonare e l’altra mano che gli tirava giù con veemenza i calzoni. Hector era seduto a gambe incrociate col pene in mano pronto a farsi sotto non appena Tonto avesse finito. Bimbo era sdraiato con la faccia a pochi centimetri da quella dell’infermiera e da quella di Tonto e li teneva d’occhio. Anche lui aveva il pene fuori. Con la schiena arcuata si sfregava il membro nell’erba fresca di rugiada. Tonto e l’infermiera stavano per farcela. Lei, con le grosse gambe spalancate, cercava di sottrarsi al fagotto della sua stessa biancheria intima perché il ragazzo potesse sistemarsi meglio, ma lui si agitava scompostamente e lei rideva sommessamente sentendo, nei fumi dell’alcool, che forse non avrebbe funzionato, ma che comunque ormai era così eccitata e bramosa che certamente se li sarebbe fatti tutti e tre e poi tutti e tre di nuovo e poi... poi, forse, le sarebbe bastato. Sennonché Bimbo non poté trattenersi. Gli venne in mente che forse lei aveva denaro e qualcosa da bere in borsa. Con la testa appoggiata a una mano, allungò l’altro braccio per tirare a sé la borsetta appesa ancora alla spalla di lei. Fece scattare la serratura, ma lei udì il rumore e andò in bestia. Tirò immediatamente indietro la borsetta mettendosi all’improvviso su un fianco e facendo quasi cadere Tonto. Gridò: «Lascia stare quella borsa, ladro!» Tonto, brutalmente bloccato sul più bello, si drizzò su una mano e la colpì alla faccia con l’altra per farla star ferma. Lei si girò e sollevò di scatto un ginocchio affondandoglielo nel fianco e facendolo rotolare giù. Poi si mise a sedere e fece partire un manrovescio che colse Tonto in piena faccia. Lui cadde all’indietro, rintronato. Lei cercava di mettersi in piedi, quando Bimbo si tuffò. Lei si alzò lo stesso con Bimbo che le pendeva dietro la schiena, dalle spalle. Poi con una tremenda scrollata del corpo se ne sbarazzò. A Hector venne da ridere, ma in quel mentre lei si girò dalla sua parte e gli fece arrivare una borsettata che lo mandò a gambe levate. Contemporaneamente esplose in una tirata stridula e assordante a proposito di una donna che non poteva mai stare tranquilla da nessuna parte, perché c’erano questi delinquenti, questi negri, questi stranieri, che non rispettavano l’età, non rispettavano la maternità, non rispettavano i capelli grigi, non avevano alcun pudore. Loro restarono interdetti per qualche istante, succubi, come bambini colti in fallo, sotto quello sguardo di fuoco. Quasi rincularono, ma la voce dell’infermiera si fece più acuta e loro ritennero che non potevano lasciarsi metter sotto così, non da una donna. Tonto cercò di colpirla alla bocca per farla star zitta. Nella penombra sbagliò mira e lei cadde in ginocchio e si rimise a gridare: «Aiuto», con una voce più forte dei botti di quel giorno festivo, una voce che certamente si sentiva sull’altra sponda
dell’Hudson: se c’era pula in giro, non c’era speranza che non udissero le urla di quella bagascia impazzita. Hector si rimise in piedi. Bimbo si stava alzando e Tonto stava cercando l’equilibrio perso momentaneamente nello slancio di poco prima. Lei fece roteare la borsa e colse Bimbo in piena faccia. Dal naso gli usci sangue che gli colò sui baffi. Lui perse la testa e si rovistò nelle tasche, alla ricerca del coltello. Quella vecchia baldracca! Come si permetteva di fare una cosa simile a un uomo come lui, fargli colare sangue dal naso! Lei era di nuovo in piedi, con l’uniforme sbottonata e scomposta, le mutande stracciate intorno alla vita, una voluminosa mammella caduta fuori dal reggiseno. Mentre faceva roteare la borsa, urlava, a tempo con ogni rotazione: «Aiuto», a gran voce. Hector cercò di trascinar via Tonto. Tonto ‘non si era ancora tirato su i calzoni e voleva saltarle addosso. Lei stava a gambe divaricate, ben piantata per terra. In quel momento Bimbo l’assalì da dietro con l’intenzione di piantarle la lama nel corpo e farle assaggiare qualcosa di concreto. Proprio in quel mentre la borsa saettò nell’aria e lo colpì all’orecchio ributtandolo per terra. Bimbo perse il coltello nell’erba e rimase carponi a cercarlo sotto una scarica di calci. «Aiuto!» urlava lei con il berretto che le sobbalzava sulla testa grigia, attaccato com’era con un’unica molletta. «Aiuto!» gridava lei tanto da svegliare i morti. Hector si lanciò, a testa bassa, ma la mano aperta della donna gli schiacciò il muso. Hector stramazzò. «Aiuto!» continuava a strillare lei. Capirono che era ora di battersela. Hector si allontanò da lei strisciando, si rimise in piedi e cercò di scappare. Gridò agli altri di seguirlo. Bimbo le passò intorno standole alla larga e agitando il pugno e corse dietro a Hector. Tonto invece non desisteva. Lei gli si fece incontro. Lui fece per ghermirla. Lei lo schiaffeggiò, una, due volte, urlando: «Aiuto!» in continuazione, senza fermarsi. Lo fece cadere. Tonto incespicò nei calzoni arrotolati intorno alle caviglie. Cercò di sottrarsi a lei camminando carponi. «Aiuto!» muggì lei, scalciandolo con la scarpa bianca. «Allo stupro! Mi violentano!» «Ti ammazzo! Ti ammazzo!» strillò allora Tonto sopraffatto dalla scarica di colpi. La donna gli danzava intorno, colpendolo a suon di calci al fondo della schiena nuda, gesticolando, con la mammella che saltava su e giù. Dall’alto gli calava addosso borsettate. Gli altri tornarono indietro e la colpirono. Lei accusò la botta e rimase momentaneamente senza fiato. Strillò ancora un aiuto che le venne fuori muto. Hector e Bimbo presero Tonto e lo aiutarono a rimettersi in piedi. Partirono di corsa. Lei ritrovò il fiato e riprese a urlare come una forsennata. Aveva perso gli occhiali nella colluttazione e correva dietro a ombre indistinte. Bimbo e Hector precedevano Tonto. Non potevano certo star lì ad aspettare la pula. Tonto saltellava, cercando invano di mettersi a correre, mentre maldestramente si sforzava di ritirare su i calzoni, desideroso ormai solo di fuggire alla tempesta. Non ce la fece. La pula aveva sentito e le loro macchine erano arrivate da due versanti. Bimbo e Hector andarono a sbattere contro un blu che paralizzò Bimbo nel pieno dello slancio con lo sfollagente puntato a baionetta. Bimbo si piegò in due, crollò sulle mani e le ginocchia e prese a vomitare. La mano libera del poliziotto scattò nell’aria, fece saltare il cappello dalla testa di Hector e si chiuse su un’abbondante ciocca di capelli.
A Hector, bloccato così di colpo nella sua corsa, per poco non schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. I piedi gli scivolarono in avanti. Rimase immobile sulle punte, sollevato per i capelli dalla mano spietata. Una macchina della polizia era salita sul prato, arrivando da dietro. Un agente balzò a terra e catturò Tonto, colpendolo duramente sul sedere nudo con la canna della pistola. Lo obbligò a star fermo, con le mani sulla testa e i pantaloni ancora arrotolati alle caviglie. «Tirati su le brache», gl’intimò il poliziotto. Tonto si chinò. Un altro agente gli sferrò un calcio e lui cadde in avanti. Un terzo agente lo tirò su per un braccio e lo scaraventò contro gli altri due. Erano sopraggiunte altre automobili che ora illuminavano la zona con i fari. Il parco brulicava di divise azzurre. Chiesero alla donna cos’era successo. Lei era un mare di lacrime. La mano tremante stringeva pudicamente i lembi dell’uniforme. Raccontò che era uscita a prendere una boccata d’aria ed era stata assalita da questi maniaci sessuali. Possibile che non una donna, nemmeno una madre, una nonna, potesse circolare in pace in quella città? Non si fermavano proprio davanti a niente, quelle bestie? Il poliziotto avverti il puzzo del liquore dalla sua bocca, ma al vedere Tonto lì, con quella faccia, s’infuriò e le manifestò comprensione con un sorriso e una pacca amichevole sulla spalla. Poi le disse: «Su, su, è tutto finito». Loro avrebbero ricevuto quel che meritavano. Bimbo e Tonto non dissero nulla. Sapevano che era inutile. Hector invece volle spiegare che era stata lei ad adescarli e questo mandò così in bestia uno dei poliziotti che Hector si ritrovò con la bocca sanguinante, privo di un dente e col naso rotto in men che non si dica. Uno degli agenti disse in tono mansueto di lasciarlo stare, ma gli altri erano furibondi: ragazzi che assalivano una donna come quella. Così li presero a schiaffi ancora per un po’, nel sospingerli verso le automobili. Loro non aprirono bocca. Partirono così per il posto di polizia dove sarebbe stato. molto peggio.
5 luglio, ore 3.45-4.30 «Ma che bella spilla hai», tubò la vocetta all’orecchio di Hinton. Era come buttar fango sull’insegna del guerriero: miele schifoso. Vide la checca con la coda dell’occhio e proseguì. Sempre a rompere le scatole, quelli. Di lì a poco avrebbe preso il treno. Se non avesse ritrovato la Famiglia, sarebbe tornato a casa da solo. Probabilmente tutti gli altri erano stati presi e restava solo lui a piede libero. Oppure non era riuscito a ricongiungersi a loro e gli altri erano già a casa. Certo non poteva restare lì, con quelli sempre in giro come mosche. Girava passando da una galleria all’altra, da un sottopassaggio all’altro, per il grande complesso sotterraneo di Times Square guardandosi intorno, cercando di decifrare i cartelli con le indicazioni. Non era difficile perdersi lì dentro. C’erano quattro linee in quella stazione. C’erano stanze segrete, lunghi corridoi piastrellati. Chissà se quella checca era la stessa che lo aveva invitato ad andare con lui già due volte, quella stessa sera. Si chiese se non sarebbe stato meglio togliersi quella spilla. No, perché era la sua insegna e stava a dire a tutti che lui non era come l’Altro. Lui ne andava fiero. Tuttavia doveva anche
esser prudente, perché c’era pula dappertutto. C’erano ovunque coppie di agenti muniti di sfollagente. C’erano gli agenti in borghese che arrivavano di soppiatto e ti incastravano. Chissà, forse anche la checca era un agente a caccia di arresti. Era arrivato lì dalla 110ma senza intoppi. Era sceso alla fermata giusta e aveva chiesto da che parte sarebbe arrivato il BMT per Coney Island. Gli avevano spiegato a quale marciapiede andare. Lui ci era andato e non vi aveva trovato alcun membro della Famiglia. Aveva sostato per qualche tempo sulla banchina deserta cercando di non farsi troppo notare. Passati alcuni convogli, aveva avuto la netta sensazione d’essere scrutato con,sospetto da un agente. La Famiglia non s’era vista. Siccome aveva fame, si era riempito le tasche ai distributori automatici. Aveva mangiato una quindicina di cioccolatini e dolci al sapore di frutta, con le noci. Aveva mandato giù due Coche in bicchieri di carta per digerire i dolci. Poi era rimasto senza spiccioli. Il chiosco sul marciapiede era chiuso e lui non aveva potuto cambiare. Si era seduto, si era alzato, era andato a zonzo zoppicando per i guai al piede e alla scarpa destra. Aveva passeggiato inutilmente da un capo all’altro del marciapiede, guardandosi intorno, sempre sul chi vive. Forse la Famiglia c’era. Forse lo stavano osservando e lui non li vedeva perché loro erano nascosti dietro i pilastri, dietro i chioschi, o chissà dove. Una banda di ragazzi, quasi una turba, gli era passata accanto rivolgendogli una brutta occhiata. Scarsi di disciplina e senza stile, aveva pensato Hinton, veri straccioni. Lui aveva guardato dall’altra parte perché gli sembravano pericolosi. Erano Qualcos’Altro, tutti, dal primo all’ultimo, pronti a prender fuoco e, se solo avessero sospettato un’ombra di disprezzo da parte sua, gli sarebbero stati addosso. Ora faceva sempre più caldo e la situazione era sempre più spinosa e lui non riusciva più a star fermo. Sudava ed era impacciato nei movimenti perché gli indumenti gli si erano appiccicati addosso. Sentiva il suo odore. L’aria si muoveva solo al passaggio di un convoglio. Dopo un po’ quell’afa gli provocò un prurito insopportabile. Prese a ballare. Qualcuno ebbe la bella pensata di far esplodere una fila di petardi in fondo al marciapiede e la gente si mise a correre urlando. Arrivò un reparto di polizia a passo di carica e lui dovette battersela al più presto, perché quelli avrebbero incastrato chiunque avesse l’aria appena sospetta. Non poteva correre per via della scarpa rotta e del tallone sanguinante. Procedette pertanto a passi brevi, zoppicando, augurandosi che la scarpa non gli cascasse via, perché non poteva andarsene in giro in calze. Sali una rampa di scale, svoltò, percorse un sottopassaggio piastrellato e si trovò in un vicolo cieco in cui si apriva una porta con scritto sopra: donne. La porta era solo socchiusa e lui s’infilò lì per nascondersi. Il luogo era affollato. C’era gente di ogni genere, uomini e donne, bambini, omosessuali di entrambi i sessi, giovani e vecchi. L’aria era appesantita da un aroma dolciastro che lui riconobbe subito: marijuana. Alonso ne fumava prima di andare a spassarsela. Qualcuno aveva una radiolina che suonava quella strana musica primitiva, con quel battere tribale e i coretti in falsetto, quella cosa che sembrava venir dalla giungla. Comunque lì dentro, forse grazie alle pareti piastrellate, faceva meno caldo che fuori. Tutti sembravano venire da chissà dove, dall’Altro Mondo. Hinton non si raccapezzava. Non era solo per com’erano vestiti. Non osava
esaminarli attentamente, perché loro avrebbero potuto leggere dell’offesa nel suo sguardo e allora... C’era un tipo grande e grosso appoggiato alla parete. Era un bruto alto un paio di metri, largo e massiccio, con un’espressione sulla faccia che stava a dire che nessuno poteva trovarlo antipatico. Pareva sbucato dal passato, con una giacca di pelle nera decorata con stelle e foglie e spille. In testa aveva un berretto a visiera, da fattorino. Aveva stivaloni da macchinista e basette bionde che gli scendevano fin sotto le orecchie a sventola. Indossava blue jeans fuori moda e dalle tasche della giacca gli sporgevano dei guanti. Nessuno si conciava più così, pensò Hinton, ma quello era troppo grosso perché lui rischiasse di farglielo notare. Accanto a lui c’era un ragazzetto sorridente, vestito di nero. Impiegò qualche istante per rendersi conto che era una ragazza. Si girarono tutti a guardarlo quando entrò, ma nessuno disse nulla. Si udirono grugniti, mugolii, sdilinquimenti, ansiti; un miscuglio di suoni costante, come di macchinario. Ogni tanto scrosciava uno sciacquone e si udiva un grido, vuoi di dolore, vuoi di piacere, che risultava sordo tra quelle mura. Hinton avanzò di qualche passo ancora, come se fosse capitato lì volontariamente. Aveva paura, ma non cambiò faccia, perché se avesse mostrato il suo disagio se li sarebbe tirati addosso. «Eccone uno», disse una voce. Qualcuno rispose: «Oh, be’, gli farà bene». Il gigante si staccò dalla parete di piastrelle e gli venne incontro. Lo prese per un gomito e lo guidò lungo la fila di gabinetti. Il primo aveva la porta aperta. Dentro c’era seduta una ragazza negra, nuda. Era seduta sulla tazza a gambe incrociate, un gomito puntato sul ginocchio e la faccia, che le andava su e giù perché masticava gomma, posata sulla mano. Poi c’erano cinque o sei porte chiuse. Il gigante condusse Hinton a un gabinetto occupato da una ragazzina bianca dall’aspetto stanco. Era ossuta, le si vedevano le costole. Era quasi senza fiato. Nei capelli biondi erano visibili le tracce del nero originale. Sorrise alzandosi. Aveva i peli del pube platinati. Indossava mutandoni aperti in lamé d’oro. La mano del gigante si aprì. L’omaccione disse: «Tre». Hinton si frugò in tasca e tirò fuori esattamente tre dollari, perché esibirne di più sarebbe stato solo sciocco. Anche se non ne aveva voglia, non si sarebbe tirato indietro e mai e poi mai avrebbe dato loro motivo di pensare che non era abbastanza uomo. Una mano lo spinse in avanti. La porta gli si chiuse alle spalle. Era quasi buio. Ci fu un armeggiare. Si avvicinarono l’uno all’altra. C’era un’afa opprimente. Orina era stata versata dappertutto. Lui si sentiva un groppo in gola. Le scarpe scivolavano sul fondo viscido. Girò la testa di lato e vide i vestiti della ragazza che pendevano da un gancio. Lei disse qualcosa, ansimando e terminando con un gemito. Lui avverti una sorta di capogiro. I loro piedi si muovevano sul fondo viscido. Pensò che c’era il rischio di capovolgersi. Quand’ebbero finito, lei si staccò da lui, si sedette sul water e cominciò a staccare carta igienica con cui si ripulì. Lui non era proprio sicuro di quel che era successo. Si girò per andarsene. Lei lo tirò per un lembo della giacca. Hinton tornò indietro. La ragazza sorrise con la bocca storta. Gli tirò su la cerniera dei pantaloni, gli diede un colpetto alla patta e gli disse: «Non puoi mica uscire così
combinato, là fuori», sorridendo come una casalinga stile TV che saluta il marito alla mattina. Lui avrebbe voluto dire qualcosa, ma faceva troppo caldo e c’era troppa puzza e non sapeva cosa dire, sapendo solo che se avesse aperto bocca si sarebbe messo a piangere. Cercò l’uscio a tentoni, girò la maniglia e uscì. Il gigante era appoggiato al muro dirimpetto. Lo fissò per bene. Lui si girò con l’intenzione di allontanarsi. La piccola ragazza quasi-ragazzo gli chiese se gli andava di mandar giù un sorso o se voleva dell’erba, qualcosa per tenersi su. Ma l’avevano tentato più volte in passato e lui sapeva dove si andava a finire. Si era messi fuori, perché la Famiglia non tollerava i drogati. Come ci si poteva fidare di qualcuno con il vizio? Lui aveva ben visto cosa succedeva: era accaduto al suo fratellastro Alonso, no? Hinton spostò la spalla per passar oltre e la voce diventò più aspra, un paio di ottave più bassa della sua. Gli chiese se aveva voglia di litigare. Lui non rispose e proseguì. Proprio in quel momento una checca, che sembrava quasi normale, si era fatta avanti e gli aveva chiesto: «Come ti chiami?» Lui non gli aveva dato retta, ma l’altro gli era andato dietro ed era uscito con lui. Fuori si sentì di nuovo libero. L’omosessuale gli chiese di nuovo: «Come ti chiami?» Lui disse: «Hinton». «Bello», disse la checca. «Pelle come cioccolato e occhi grigi. Cioccolato al latte Hinton.» Ma Hinton stette sulle sue imboccando varie gallerie e si scrollò l’altro di torno, infilandosi in un cancelletto e salendo una rampa di scale. Lì c’erano un mucchio di svitati dalla faccia stranita. Erano seduti sui gradini come un pubblico in poltrona che guarda uno spettacolo. Tutti guardavano in avanti. Hinton provò il desiderio di girarsi a vedere cosa c’era. Non poteva retrocedere, perciò si sforzò di passar loro in mezzo e s’issò sulla punta dei piedi, temendo di calpestare qualcuno, o di perdere la scarpa e di doverla cercare, nel qual caso lo avrebbero tirato giù e lo avrebbero costretto a star lì con loro. Finalmente era in strada, libero. Non sapeva dove si trovava. Capi d’essere a un isolato da Broadway, riconoscibile per lo sfolgorare delle luci. S’incamminò da quella parte perché contava di trovare certamente un ingresso della sotterranea, là in fondo. Fuori l’aria era quasi altrettanto calda, solo che invece che di piscia, puzzava di gas di scarico. Gli tremavano un po’ le ginocchia. Sudava moltissimo e aveva ancora fame e sete. Giunse all’angolo tra la 42esima e Broadway e girò a sinistra, verso le luci. La miriade di insegne di locali notturni e di cinematografi, insieme con la gran folla a spasso per il viale, surriscaldavano l’atmosfera già canicolare. Arrivò a una bancarella dove si vendeva cibo e l’odore del grasso fritto gli stimolò ancor più l’appetito. Caramelle e cioccolatini non erano serviti a niente. Si fermò a ordinare un hot dog e un’aranciata. Il primo morso gli fece colare saliva dalla bocca. Lo stomaco gli si contrasse con una vampata di bruciore. Non mangiava che dolci da quel mattino; in tutto il resto della giornata gli era capitato solo di mandar giù un piatto di fagioli lessi e freddi a casa di un cugino della Famiglia. Finì la salsiccia e sorseggiò l’aranciata contemplando il viale. La gente procedeva nei due sensi. Poco importava che fosse tardi, quasi le quattro del mattino, forse più tardi ancora.
Indugiò a riflettere pigramente. Una volta aveva abitato da quelle parti, a pochi isolati da lì, vicino alla Nona o Decima Avenue, ma era troppo piccolo allora perché potesse ricordarsene bene, ora. Il suo fratellastro Alonso abitava in quella zona, adesso. Alonso diceva che quella strada non era un territorio. Alonso sosteneva che lì erano in gamba, più in gamba di tutti. Hinton non aveva quell’impressione. Non c’erano guerrieri in giro. Erano tutti strambi, erano Qualcos’Altro. Passarono drappelli di qualche banda. Ragazzine in foulard e minigonna percorrevano il corso seguite da sbandati vogliosi che giravano in gruppetti urlando e arrancando nell’afa e nel proprio morbo. Echeggiavano qua e là botti. Qui si celebrava ancora. Hinton finì l’aranciata e si sentì più insoddisfatto di prima. Ordinò un hamburger e un succo d’uva. Il gestore gli disse: «Fammi il piacere di ordinare tutto in un colpo. Non vorrai che continui a servir te tutta notte, eh?» Hinton avrebbe desiderato dirgliene quattro. Non aveva forse steso il suo uomo, lui? Non aveva una reputazione, adesso? D’altra parte ricordava la galleria della sotterranea e se ne vergognava. Ma chi sapeva quel che gli era successo là dentro, si domandava. Lui era l’unico a sapere. Divorò l’hamburger e bevve il succo e pensò che se la Famiglia fosse stata al suo fianco quello schiavo non avrebbe osato parlargli a quel modo, perché loro l’avrebbero fatto a pezzi e avrebbero annegato quella pappamolla nella sua stessa aranciata: eccome, se lo avrebbero fatto! Sapeva però che non poteva rispondergli da solo. Non ancora. Su piedi come alucce svolazzavano regalmente invertiti dalla maschera incipriata. Passavano sculettando con un agitar di spalle e un ondeggiare di lembi di camicie sbottonate; avevano i capelli tinti e gli occhi truccati pesantemente. Marinai dal sorriso maligno li seguivano e si vedeva che avevano brutte intenzioni; si sapeva che, non appena li avessero raggiunti, avrebbero impartito loro una bella lezione. Be’, neanche a Hinton piacevano gli invertiti e ricordò allora il bisbiglio che lo aveva invitato poco prima. Era così che ti facevano diventare, se riuscivano ad adescarti. Finì l’hamburger e s’incamminò per la via. Passò davanti a un chiosco di giornali. Un titolo diceva di una ripresa di esperimenti con ordigni nucleari. Passò vicino alle bische di pokerino dove si giocava tutta notte. C’erano ragazzi annoiati dappertutto, in attesa che succedesse qualcosa. Conosceva bene quel genere di attesa. Nelle vetrine bambole hula macrocefale agitavano sederi elettrici. Migliaia di orologi svizzeri da due dollari e novantanove centesimi segnavano ore diverse. Uccellini dalla sete eterna pucciavano il lungo becco dentro un bicchiere e bevevano graziosamente. Hinton pensò di acquistarne uno. Grandi bambole vestite di chiffon e con gli occhi innocenti guardavano fisse in avanti, incuranti di quel che vedevano. Un rotolo di fil di ferro rotolava avanti e indietro sotto un avviso con scritto: «Moto perpetuo. Com’è possibile?» C’erano appese file di carte da gioco con donne dalle gran tette nude. Hinton vide molti barboni e un gran numero di mendicanti. Lo spaventavano, costoro, perché avevano la faccia strana e distorta e il corpo disarticolato. Facevano orrore. Un ragazzo, non molto più giovane di lui, gli chiese: «Mister, mi dai un soldo che mi trovo un posto per dormire?» Hinton non rispose e l’altro gli gridò: «E vaffanculo», ma senza rancore, più per dovere che altro. Si allontanò. C’erano turisti in giro, che non si accorgevano mai di niente. Si riconoscevano dallo sguardo un po’
strabiliato, per il modo in cui giravano la testa in continuazione e per il fatto che loro dovevano vedere tutto eppure non vedevano niente e per questo sembravano matti anche loro. Una ragazza grassa, coi capelli color arancione tirati su a forma di alveare, girava annunciando il suo prezzo con l’aria di chi è soddisfatto di sé. Era perché era grassa, pensò Hinton, non come la ragazzina dell’orinatoio. C’erano poliziotti in giro, con lo sfollagente in rotazione, sempre all’erta; ma disposti a vedere solo quel che volevano. Anche in questo non c’era niente di nuovo, rifletté Hinton: era sempre così, dovunque si andasse. E vedeva gli spacciatori che giravano col loro bagaglio di sogni e pattugliavano la strada e lui sapeva che da loro si comperava di tutto, anche viaggi insospettabili, di cui mai aveva sentito parlare. Ma lui non avrebbe fatto la fine di Alonso. Arrivò in fondo all’isolato, alla Nona Avenue, svoltò a destra, attraversò la 42esima Strada e tornò verso Broadway. Dovette fermarsi a mangiare qualche trancio di pizza e a bere succo d’ananas perché gli era tornata la fame. Quand’ebbe finito riprese il cammino. Passò davanti ad alcuni cinematografi e guardò i titoli e le fotografie nelle vetrine alle pareti. C’era un cinema dove facevano film porno tutta notte. Pensò per un attimo di entrare, ma temeva di perdere l’appuntamento con la Famiglia. Passò vicino a una latteria aperta ed entrò a bere un bicchiere di latte. Non ne fu affatto soddisfatto, perciò bevve anche una cioccolata al malto. Sarebbe finito senza soldi di lì a poco, ma non sapeva che cosa farci; doveva pur mangiare. Tirò fuori i soldi per contarli. Un vecchiaccio con occhi come fessure e la bocca senza denti gli fece una faccia affamata e Hinton si affrettò a riporre il denaro. Era sicuro di averne ancora a sufficienza. La fame aumentava. Proseguì, entrò da un tabaccaio e si comperò un sigaro scadente e qualche caramella. Si accese il sigaro e fumò, succhiò una caramella e usci a passeggiare ancora un po’. Scese infine nella sotterranea. Arrivò alla zona degli svaghi e si fermò a una bancarella dove vendevano da mangiare. Comperò patate fritte, knish e succo di papaya per mandar giù il tutto. Mentre mangiava posò il sigaro sul banco. Un jukebox suonava motivi di successo a ripetizione, ma lui non riuscì a comprenderne le parole per il gran rumore, lo sferragliare dei treni, i colpi di fucile al tirassegno, i suoni, i rumori e i sibili dei baracconi. Lui masticava e si dondolava a tempo con la musica. Quand’ebbe finito, si girò per prendere il sigaro e non lo trovò più. Qualcuno glielo aveva rubato. Andò al chiosco dei giornali a guardare le maggiorate in copertina. Ma il giornalaio lo fissò con aria insospettita, perciò comperò qualche manciata di cioccolatini e caramelle alla frutta che si ficcò in tasca. Un quotidiano scriveva di uno che aveva chiesto il divorzio da una famosa attrice accusandola di adulterio; c’era una figura a piena pagina di una splendida bionda dal sorriso innocente. Andò in giro a guardare i giochi. Scorse un movimento sospetto con la coda dell’occhio, si girò e vide uno dall’aspetto sudicio e dall’aria stravolta che gli teneva dietro. Guardò meglio e vide che era lui, Hinton. Si riconobbe per la spilla. Restò per un attimo sorpreso, pensando che fosse uno di quegli strani specchi che distorcono l’immagine. Ma non lo era. Si era ridotto così per tutto quel che gli era capitato durante la notte, il viaggio, la lunga corsa, la sortita; per questo aveva gli abiti strappati e sporchi. Per forza gli Altri lo guardavano come se fosse uno schiavo, uno di quella moltitudine di schiavi che aveva incrociato negli ultimi minuti. Restò a
guardarsi e si drizzò finché ritrovò in quello specchio un guerriero, un Dominatore, un membro della Famiglia. Solo allora riprese a gironzolare. Sparò con un mitragliatore a delle luci lampeggianti che volevano essere giapponesi e tedeschi. Sparò a una luce che sfrecciava ammiccando su un pannello e che rappresentava un aereo in cielo. Accanto a lui c’era un altoparlante da cui giungeva il crepitare delle mitragliatrici e il rombo dei caccia, ma le imitazioni erano scarse, distanti e confuse, per nulla emozionanti, anche se lui ne aveva abbattuti parecchi totalizzando un buon punteggio. La mano non gli era tremata mai. Se ne andò a spasso succhiando i cioccolatini, chiedendosi come mai avesse sempre appetito. Non poteva smettere di mangiare. Erano in molti a squadrarlo, a guardarlo come per decidere se era pane per i loro denti. Lui non osava fermarsi a lungo in nessun posto, ma badava bene a mantenere un’aria di indifferenza, pacata, sicura di sé, nonostante il modo in cui era vestito e com’era conciato: doveva mostrare che lui era un predatore e non una preda. Loro lo fissavano e gli guardavano la spilla. Lui sapeva che quella spilla era una specie di invito allo scontro. Tutti capivano che appartenevi a qualcuno, a qualcosa, che non eri uno qualsiasi. Questo li faceva arrabbiare e veniva loro voglia di darti una lezione per ridurti come loro. Lui non poteva staccarsi la spilla perché sarebbe divenuto come l’Altro. Oltrepassò un baraccone. In fondo a uno stretto corridoio c’era un tizio che lo guardava. Hinton si fermò a osservare. Il cowboy era alto un metro e ottanta, aveva spalle larghe e teneva le braccia discoste dai fianchi nella classica posizione del duello western. Aveva una faccia giovane, virile e da persona perbene. Aveva occhi azzurri e innocenti e il cappello calato sugli occhi; indossava una camicia a scacchi blu con bordura bianca, un foulard di seta scarlatta al collo, un enorme cappello bianco. Nelle fondine ai fianchi aveva un paio di 45 enormi e minacciose. Aveva anche la stella. Era uno sceriffo. Lo sceriffo era a tre metri circa dal banco e un cartello diceva: MISURATEVI COL PIÙ VELOCE PISTOLERO DEL WEST. SOLO 10 CENT. Tutt’intorno allo sceriffo era dipinta una cittadina. La via principale era ostruita dalla sua presenza. La luce, dall’alto, illuminava la scena come raggi di sole. Il colore giallo della cittadina evocava l’atmosfera surriscaldata di una giornata torrida del profondo West. Dietro allo sceriffo c’era del verde, fresco, invitante. Davanti allo sceriffo c’era una ringhiera con appesa una cassettina per le monete. Accanto alla cassetta c’era un cinturone rigido e curvato all’infuori, così lo sfidante, prendendo posizione, se lo trovava intorno alla vita, quasi che se lo fosse allacciato davvero. Dal cinturone pendevano due fondine con pistole collegate elettricamente. Hinton rifletté, succhiando una caramella alla frutta. Sentiva l’odore di caffè bruciato. Le onde di calore che salivano dai fornelli erano simili alle onde che salgono dalle rocce cotte dalla canicola o dalle assi delle baracche del West a mezzodì. Dietro allo sceriffo, invece, c’era ombra e frescura; là c’era il saloon e si poteva bere qualcosa e riposare in pace. Il manichino lo fissava. Gli occhi azzurri erano privi di vita e pareva vedessero dappertutto. Se fosse stato vivo sarebbe stato uno sceriffo imbattibile, pensava Hinton, ben più pericoloso di qualsiasi sbirro cittadino, a dispetto dell’espressione bonaria.
Ma Hinton conosceva bene il gioco. Lui aveva visto il Duello, lo Scontro Alla Pari, ne vedeva da quand’era in fasce. Ne aveva visti al cinema, nelle strade, nei cinegiornali; se ne parlava a scuola; lui stesso ne aveva fatti a migliaia. Ci voleva solo una monetina per dar vita allo sceriffo. Naturalmente i proiettili non erano veri, il rischio non era autentico, si disse Hinton. Ciò nonostante... Hinton si frugò in tasca, trovò la moneta da dieci cent e andò ad appoggiare il ventre al cinturone. Lasciò cadere la moneta nella cassetta. Gli occhi dello sceriffo si accesero; la sua faccia diventò minacciosa. Era vivo. Le lampade mandarono luce più violenta e la pittura stanca diventò più reale e insopportabile e il quartiere del paese, che lo sceriffo ostruiva con la propria presenza, parve più invitante di prima. La ferocia del riverbero cominciò a offuscare lo sceriffo, come quando si guarda in controluce. Lo sceriffo disse: «Io sono la legge in questo paese e sono qui per proteggerlo. Se credi che un verme come te può venir qui a fare il bello e il cattivo tempo, sappi che hai sbagliato di grosso, perché prima devi passare sul mio cadavere». Quelle parole seccarono Hinton, perché il tono era arrogante, perché si sentiva insultato prima ancora di aver mosso un dito. «Adesso conto fino a tre e al tre tu devi essere già sparito da qui, ma se sei ancora qui ti conviene far vedere di cosa sei capace. Tira fuori le pistole e tira indietro il cane e quando ti dico di sparare spara. Vedremo chi vince il duello in tre colpi.» «Sei pronto?» chiese lo sceriffo. Poi a voce più alta e sprezzante: «Non c’è posto per gente come te nelle strade di El Dorado. Qui si rispetta la legge e così vogliamo che sia sempre. Fila via, straccione, o ti schiaffo dentro. Non vuoi andare? Va bene, allora. Uno. Due. Tre». E le braccia dello sceriffo scesero a estrarre le pistole dalle fondine. Le pistole salirono a spianarsi contro Hinton. Gli occhi del manichino lampeggiarono. Hinton fissò lo sguardo su quelle canne. Bastava quella vista a fargli provare un brivido. Per poco non si girò per darsi alla fuga. Per un secondo dimenticò di estrarre e armare. «Fuoco!» disse lo sceriffo. Hinton estrasse, armò i cani, ma le pistole dello sceriffo avevano già sparato prima che lui fosse a metà dell’operazione. Hinton fece una smorfia e sparò a sua volta. Si udirono gli echi dei proiettili. La voce dello sceriffo stava dicendo: «Ti ho beccato, verme, ti ho fatto fuori. Che cosa? Vuoi un’altra lezione? Preparati a estrarre di nuovo». Le braccia stavano ridiscendendo a infilare le pistole nelle fondine. Anche Hinton ripose le pistole e si curvò, preparandosi a sparare di nuovo. La gente si era fermata a guardare. Hinton non ci badò, concentrandosi su quel che doveva fare, attento ad ogni mossa dello sceriffo. Gli occhi collerici e gelidi dello sceriffo cercavano di sopraffare Hinton, ma lui tenne testa al suo sguardo. L’accento strascicato lo apostrofò di nuovo. Hinton premette le labbra: non si sarebbe fatto metter sotto. Lo sceriffo disse, «Ora!» Hinton estrasse, armò, sparò e sperò che la pallottola gli avesse squarciato il cuore. In tal caso il corpo dello sceriffo avrebbe avuto un sussulto all’indietro e il torace gli si sarebbe aperto e dal cuore dell’uomo che l’aveva insultato sarebbe sgorgato un fiotto di sangue. Si udì nuovamente l’eco della sparatoria. La voce dello sceriffo schernì Hinton di nuovo, annunciandogli che non ce l’aveva fatta nemmeno questa volta. Aveva ancora un colpo a disposizione.
Hinton ripose le pistole nelle fondine. Il suo corpo era teso, adesso. Dimenticò il caldo, dimenticò la stanchezza, dimenticò il piede dolorante. Si calò il cappello sulla fronte, si toccò la spilla, raddrizzò la sigaretta di guerra, curvò le spalle, una, due volte, e si risistemò i calzoni umidi di sudore sui testicoli. Vedeva le facce distorte, tutt’intorno, gli occhi che brillavano, la gente desiderosa di vederlo soccombere. Un tipo grande e grosso faceva commenti. Un nugolo di bambini alienati lo osservavano. Lui li scorgeva con la coda dell’occhio. Si chinò in avanti. Al comando estrasse, armò il cane e sparò. I proiettili sibilarono e riecheggiarono gli spari. Chi era più veloce di Hinton? La voce arrogante dello sceriffo gli stava dicendo di abbandonare la città, di alzare i tacchi, perché aveva perso per sempre. Hinton si raddrizzò. Aveva i muscoli induriti dalla tensione. Naturalmente. Ti truffavano sempre. Ti mettevano sempre sotto e uno doveva pure dare loro una lezione, ma di buono, di brutto, perdio. Ma non c’era speranza, se si stava al loro gioco. A malincuore ripose le pistole nelle fondine. Le pistole erano pesanti e appaganti e gli dispiaceva di doversene separare. Avrebbe voluto che fossero vere: allora si che gli avrebbe fatto vedere. Si rovistò in tasca e tirò fuori i cioccolatini con le uvette. Buttò la testa indietro e si ficcò tutto il contenuto della confezione nella bocca. Si allontanò camminando lentamente, masticando. Pensò che fosse ora di tornare al marciapiede della stazione a vedere se era arrivata la Famiglia. Occhieggiò distrattamente nei baracconi, nella zona dei bigliardini. L’Altro scorazzava qua e là e non vedeva niente. Passò nuovamente davanti al chiosco dove aveva comperato i cioccolatini e le caramelle. C’erano titoli che parlavano di un omicidio alla maniera delle bande. Un altro giornale parlava dei gravi disordini in periferia in cui erano rimasti coinvolti migliaia di giovani. Voltò la pagina per continuare la lettura, ma ci voleva troppo tempo per capirci qualcosa. Il giornalaio gli disse di lasciar stare il giornale se non intendeva acquistarlo. Hinton sbadigliò e pensò se comperare altre caramelle. Un ragazzino di sette anni gli si fece incontro e gli chiese qualche centesimo, ma lui lo ignorò. Passò davanti a una vetrina con fotografie di ragazze nude a grandezza naturale e si fermò a guardarle. Sotto c’erano pile di polverose riviste di astrologia, a cinque centesimi l’una. Sua madre consultava sempre l’oroscopo per sapere cosa sarebbe andato bene e cosa sarebbe andato male, ogni giorno, così sapeva che cosa le conveniva fare e che cosa doveva evitare. Hinton non credeva a queste cose. Norbert diceva sempre che se avesse conosciuto il futuro, Dio sa quante volte avrebbe vinto alle corse. Un sogno cretino. Hinton tornò a guardare le ragazze nude e contemplò le loro mammelle grosse di carta lucida. Il ragazzino gli si avvicinò di nuovo e gli chiese qualche spicciolo per poter andare a casa. Hinton abbassò lo sguardo e vide che aveva un’espressione da furbetto. Decise che non aveva nessun bisogno di soldi per tornare a casa: lui era già a casa, qui. Il ragazzino, vista l’espressione scettica di Hinton, cambiò tattica e disse che per la verità voleva qualche spicciolo per bere qualcosa. Hinton scrollò la testa. Il ragazzo fece qualche smorfia e si agitò e disse che voleva soldi per la dose. Hinton scrollò la testa. Allora il ragazzino lo guardò e gli contemplò la spilla al cappello e volle sapere se Hinton ci stava ad andare con lui, perché per un dollaro gli avrebbe fatto tutto quel che voleva. Hinton stava per mollargli un ceffone, ma scorse uno di quei matti che lo teneva d’occhio aspettando solo l’occasione per intervenire. Allora
si girò e se ne andò. Tornò dallo sceriffo sotto le luci accecanti, in mezzo alla strada polverosa. Lui l’aspettava. Hinton fece cadere un’altra moneta da dieci centesimi nella cassettina, sfidò di nuovo lo sceriffo e perse di nuovo. Be’, pensò, abbandonando di nuovo la città, c’era da aspettarselo, perché lo sceriffo barava. Tutti lo sapevano. Si sfregò le mani che gli facevano male per aver dovuto stringere il calcio nodoso delle pistole. Mangiò altri dolci, poi mangiò un altro hot dog e patate fritte e sostò, appoggiato al banco del baracchino, a sorseggiare tè freddo con sette cucchiai abbondanti di zucchero e masticò del cioccolato. Sembrava che stesse contemplando la gente che passava. In realtà scrutava l’odioso sceriffo. Nessun altro ci si provava. Era perché tutti sapevano che c’era il trucco. Gli venne un’idea. Finì di mangiare e andò a giocare di nuovo. Hinton il ferito, Hinton il battuto, Hinton lo stanco, Hinton lo sradicato, Hinton l’emarginato, Hinton: sfidava di nuovo la città e il suo sceriffo, combatteva per la sua Famiglia, combatteva per la Spilla, combatteva per se stesso. Mentre lo sceriffo lo apostrofava a male parole vantandosi della propria reputazione (perché lui aveva fatto fuori almeno un migliaio di sporchi fuorilegge), Hinton estrasse le pistole e armò i cani. Quando lo sceriffo diede l’ordine, lui sparò una frazione di secondo in anticipo. Questa volta ci fu un urlo di dolore, poi l’altoparlante ammise d’esser stato colpito. Ma c’erano ancora due possibilità e avrebbe vinto chi avesse sparato per primo due volte su tre. Il manichino si era forse inclinato leggermente su un fianco? C’era forse del sangue che sgorgava da un foro nella spalla e colava a macchiargli la bella camicia western? Non c’era forse un’espressione di dolore su quella faccia impassibile? Vedeva forse delinearsi una smorfia? Le pistole di Hinton erano armate. Aspettò il segnale di estrarre con le pistole già in pugno. Vinse il secondo round. La pistola gli sobbalzò nella mano sputando fuoco in anticipo sullo sceriffo. La canna vomitò piombo bollente. Lo sceriffo si accartocciò. C’era o no un nuovo buco aperto nella sua carne? Il grido di dolore fu salutato da un sorriso di trionfo di Hinton. Il ragazzino gli tirò un lembo della giacca chiedendogli di nuovo qualche spicciolo. Hinton calò nella fondina la pistola fumante, si frugò in tasca, trovò una moneta e la consegnò al ragazzino. Quindi si preparò per il terzo colpo. Vinse anche questa volta, cogliendolo in un occhio. Ora, stanchissimo, Hinton si raddrizzò lentamente a dispetto delle ferite. Respirò a lungo. Adesso si sentiva... un uomo. Aveva affrontato e battuto lo sceriffo. Avrebbe vinto di nuovo, ma ebbe il buonsenso di riporre le pistole, sebbene avesse vinto un giro gratuito. Si girò e si allontanò dalla zona dei divertimenti. Era ora di andare a vedere se era arrivata la Famiglia. L’omosessuale ci provò di nuovo e lui per un attimo ci ragionò. Sarebbe potuto andare con lui, spassarsela un po’, stenderlo e prendergli i soldi. Ma la checca non era proprio magra: era un tipo grosso con l’aria di chi sa badare a se stesso. Quel suo modo di fare supplichevole nascondeva ben altro. Tirò avanti, acquistò un biglietto nuovo e fu sul marciapiede. In un angolo c’era una coppia, ma Hinton non seppe dire se erano uomini o donne perché erano nascosti sotto un impermeabile allargato a fare qualcosa. Poco importava loro che ci fosse altra gente intorno. C’era anche un piedipiatti, nei paraggi, che non vedeva niente.
Dewey e Junior erano già arrivati. Si guardavano intorno nervosamente, pronti a darsi alla fuga. Chiesero dove fossero finiti gli altri. Hinton non lo sapeva. Si erano separati e dispersi tutti. Disse loro che sarebbero tornati a casa col prossimo convoglio per Coney Island. Erano tutti un po’ a disagio, si sentivano abbandonati, ma erano contenti di tornare a casa, in fondo. Lui s’incaricò di dare gli ordini, perché adesso si sentiva bene, si sentiva forte. Loro accettarono i suoi ordini, contenti di declinare ogni responsabilità. Avvertivano la sua rinnovata forza e si sentivano sotto di lui, nonostante che Dewey, per esempio, fosse gerarchicamente un fratello maggiore per Hinton. Quando il loro treno arrivò, salirono e si sedettero. Hinton si assopì. Junior aprì il giornaletto. Gli occhi gli si chiudevano, ma lui, anche se ormai conosceva la storia, si sforzava di tenerli aperti per ricominciare a leggere da capo.
5 luglio, ore 4.30-5.20 Tornando verso casa, li colse la spossatezza che diede loro un po’ di tranquillità. Ma non era ancora finita. Il treno, come sempre a quell’ora, era lento. Si era inoltrato in Brooklyn. Dewey, seduto tra Hinton e Junior, si addormentò. Erano seduti in un angolo sotto uno di quei manifesti pubblicitari in cui una bella donna si china su un ragazzino e quasi lo bacia sulla bocca. Era la pubblicità di una tintura per capelli. La Famiglia riusciva sempre a divertirsi con quel manifesto. Hinton si appisolava in continuazione. Junior era di nuovo immerso nella lettura ed era arrivato al punto in cui c’era stata la battaglia davanti a Babilonia e il capo dei ribelli era stato trucidato e gli eroi greci dovevano decidere cosa fare. Due coppie montarono sul treno, due biondi coi capelli a spazzola in compagnia di ragazze con occhi di bambola. Erano vestiti bene, da sera, di ritorno da un ballo o da un ricevimento. Erano giovani ben piantati, tipo giocatori di rugby. Rivolsero un’occhiataccia ai tre guerrieri, anche se loro non avevano fatto niente. Hinton ne ebbe un vago sentore e si risvegliò immediatamente, come frustrato da quello sguardo freddo e sprezzante. Che diritto avevano quegli «integrati» di guardarli a quel modo? Cosa aveva fatto loro la Famiglia? Stavano badando ai fatti propri, no? Le due coppie presero posto davanti a loro. Le ragazze appoggiarono la testa sulla spalla dei propri ragazzi e chiusero gli occhi. I ragazzi continuarono a contemplare con sufficienza i guerrieri stanchi e sembravano all’erta e pronti al peggio. Perché? si chiese Hinton. Non avevano alcuna intenzione di far nulla. Al momento volevano solo dormire. Hinton osservò le ragazze da sotto le palpebre quasi completamente abbassate. Avevano quell’aspetto innocentello e pulito dell’adolescente ideale che sta per trasformarsi in giovane donna perbene, di quelle che si vedono sempre in televisione e che sempre si sognano. Ogni tanto se ne vedevano anche a scuola, ma non spesso. Una era bionda, aveva il naso sottile e leggermente all’insù, tanto da sollevarle un po’ il labbro superiore. Teneva le lunghe gambe debitamente serrate. Un tipo proprio perbene. Sarebbe stato bello avere una ragazza. Sarebbe stato bello
lasciare la Famiglia, piantarla di battersi. Hinton si sentì ancora più stanco. Forse una ragazza se la sarebbe trovata, magari non proprio come questa, bionda e non proprio bionda, bianca e non proprio bianca. Una di pelle chiara coi capelli lunghi. Una ragazza innocente, dolce, che venisse da qualche altro quartiere della città, una che si vestisse bene, una ragazza bella e snella, una di quelle con la testa sulle spalle, da sposare... e metter su famiglia. Si sarebbe trovato un lavoro, avrebbe avuto la sua occasione. Certo che una ragazza così da sposare avrebbe sollecitato la sua ambizione. Avrebbe avuto una casa propria e un cane. Avrebbe dato la scalata al mondo e sarebbe diventato... di questo non era molto sicuro. Qualcosa dietro una scrivania, un dirigente, uno che dà ordini agli altri, perché lui sarebbe stato certamente un uomo in gamba, un uomo importante, molto importante, e non si diventava certo importanti a suon di scontri armati. Sarebbe stato lì a diramare ordini, fai così, cosà, chiamami questo, avverti quello, compra questo, o quello, versa tot, dai qui che firmo... e avrebbe parlato all’interfono con la segretaria... Tutti si sarebbero inchinati al suo passaggio e lui avrebbe esercitato il controllo alla maniera dei gangster moderni, senza sporcarsi le mani, senza violenza. La sua mente vagava distrattamente dietro a questi sogni. Poi il sogno si delineò con maggior chiarezza e Hinton fissò lo sguardo davanti a sé pur non vedendo niente. Dewey era scivolato leggermente verso il basso e gli si era appoggiato a una spalla. Hinton studiò il manifesto pubblicitario. La giovane donna aveva un viso dolce e attraente, ma era irraggiungibile, una madre da sogno. Alzò la mano per accarezzare la fotografia. Seguì con tenerezza la linea della guancia e del mento della donna e quasi gli pareva di aver sotto le dita carne viva e non carta. Sospirò e si appoggiò all’indietro e i suoi occhi tornarono a posarsi sui due ragazzi che lo stavano osservando con un mezzo sorriso. Lui non reagì a quello sguardo, perché altrimenti avrebbe dovuto prendere atto del loro messaggio, avrebbe dovuto concludere che era una sfida e allora ci sarebbe stato un pestaggio, e nessuno di loro tre era armato. Di questi tempi non ci si può fidare nemmeno degli «integrati»: sicuramente avevano addosso una lama di mezza spanna almeno, lo sapevano tutti. Siccome loro non lo prendevano apertamente in giro, lui lasciò perdere e finse di dormire e dopo cinque o sei fermate le due coppie lasciarono il treno. Nello scendere si girarono per rivolgere alla Famiglia uno sguardo di sdegno, che Hinton finse di non vedere. Lui capi allora che non avrebbe mai realizzato il suo sogno, non così. Ma ci sarebbe arrivato in un altro modo. Che vadano a farsi fottere, pensò. Avenue J. Bene. Avrebbe tenuto a mente il nome della stazione e un giorno, un giorno o l’altro, sarebbe venuto lì con i suoi per una scorribanda e sarebbe andato a scovarli, perché come si permettevano, loro, di prendere in giro la Famiglia? Era irritato e non riusciva a riprendere sonno. Gli occhi di Junior invece si chiudevano e la sua testa ciondolava sulle pagine del giornaletto. Hinton si alzò bruscamente. La collera gli aveva guastato il riposo. Alzandosi urtò la testa di Dewey. Dewey e Junior lo guardavano. Lui passeggiava per la carrozza avanti e indietro. Quanto avrebbe voluto dare una lezione a quei bastardi. Quando furono alla fermata giusta, scesero. Restava loro da percorrere a piedi qualche isolato sul territorio dei Lord Coloniali, prima d’essere in patria. Era quasi l’alba. Non avrebbero trovato nessuno in piedi a quell’ora. Hinton si domandava se i
plenipotenziari dei Lord Coloniali fossero già rientrati dall’Assemblea. Gli altri lo seguivano arrancando nel dormiveglia, mentre Hinton, ora sorretto dal rancore, camminava spedito. Aveva voglia di fare qualcosa. Gli venne la grande idea. Diede una scrollata a Junior e un colpo di gomito a Dewey e, indicando la sigaretta che portavano alla fascia del cappello, disse loro: «Noi siamo un reparto in guerra e come un reparto in guerra finiremo, intesi? Dobbiamo fare un ultimo colpo». «Cazzo, te lo fai da te il colpo, io sono troppo stanco», piagnucolò Dewey. Junior lo fissava con l’aria stupefatta. Hinton disse loro: «Ragazzi, dobbiamo farlo, se non vogliamo perdere la faccia». Adesso? È tutta notte che siamo in piedi. Ti ha dato di volta il cervello. Sei in tilt, tu. Stai diventando qualcos’altro, come quel Willie, cazzo.» Ma Hinton cominciò a parlare e ricordò loro che aveva perso il nucleo stesso del loro esercito. Il nemico lo avrebbe saputo e allora sarebbero stati loro addosso e li avrebbero menati, li avrebbero messi sotto, li avrebbero ridicolizzati, a meno che la Famiglia colpisse per prima, a far loro vedere chi erano. Ora, subito! Un’azione dimostrativa. La Famiglia era forte, molto più forte di prima. Chi credevano di essere, quelle femminucce? La Famiglia sarebbe piombata loro addosso e li avrebbe spazzati via una volta per tutte. Loro non se l’aspettavano di certo. Dewey cercò di opporsi, ma Hinton si era scaldato e il rancore che gli faceva vibrare la voce stava ormai risvegliando anche gli altri due. Hinton ricordò loro le vecchie offese, parlò degli oltraggi che avrebbero subito in futuro, ricordò loro le lotte territoriali, predisse cosa sarebbe accaduto e spiegò come un’azione immediata avrebbe consolidato la loro reputazione. Tutti avrebbero saputo e le altre bande li avrebbero rispettati e sarebbero venute a negoziare e a stipulare alleanze con i Dominatori. Dovevano farlo, ora e per sempre. Ma, soprattutto, dovevano farlo perché sarebbe stato del tutto inaspettato. Ma c’è una tregua, cazzo», protestò Dewey. «Merda, cazzo, tutte cagate! Lo sai anche tu. La tregua è stata rotta questa notte e adesso vale meno che merda. Ciascuno deve badare a se stesso e adesso è il momento. Ora! Vi dico che domani è già troppo tardi.» Frattanto se li tirava dietro al trotto. Strapparono due antenne d’automobile da usare come fruste. Trovarono tra i rifiuti una sedia rotta e la smontarono, recuperandone le gambe per usarle come mazze. Penetrarono nel cuore del territorio dei Lord Coloniali. I Lord Coloniali abitavano per la maggior parte nelle case di un quartiere popolare amministrato dal comune. La Famiglia piombò tra le abitazioni nella fioca luce dell’alba, a caccia di uno o due Lord, o di qualcuna delle loro donne. Non trovarono nessuno. Mentre Junior, nel campo-giochi, era appeso a una struttura metallica e Dewey correva dentro dei tubi di cemento, Hinton entrò nel vivo del suo progetto. Era in un prato, al centro di un circolo di palazzi di quattordici piani. Il Primo dei Lord Coloniali abitava lì. Hinton si mise a urlare, sfidandolo a scendere, sfidandolo a un duello da uomo a uomo. Insultò tutti quelli che avevano a che fare con lui, alleati e parenti. La voce di Hinton si levava stentorea salendo nel cielo che lentamente si rischiarava, rimbalzando contro i caseggiati altissimi da cui tornava un’eco acuta e squillante.
Nessuno venne giù. Più c’era silenzio, più forte Hinton urlava, ma non successe nulla. Niente di niente. Hinton tenne duro per un po’ sentendo che Junior e Dewey avevano un grande rispetto per lui. Capiva di avere ormai consolidato la sua reputazione. Si girò, infine, e gli altri lo seguirono per i campi di pallamano. Tirò fuori il magic marker. I Lord Coloniali avevano distribuito la loro firma in ogni angolo di muro. Hinton scrisse che i Dominatori erano stati lì a cagare sui Lord Coloniali le cui madri erano tutte, dalla prima all’ultima, delle puttane. Non c’era uomo tra i Lord che non fosse un bastardo. Poi, in piedi sulle spalle di Junior e Dewey, disegnò una figura, molto in alto. La disegnò bene, con pochi tratti precisi, assai chiara, perché non era lui forse l’artista della Famiglia? Disegnò dunque la figura di una donna che succhiava il membro di un uomo. Sotto l’uomo scrisse: «Padre dei Dominatori», sotto la donna: «Madre dei Lord». Poi, lì accanto, disegnò una donna violentata da un gigante con un membro enorme e sotto il gigante scrisse: «Dominatori» e sotto la donna: «Donne dei Lord». La faccia della donna era orrenda e sotto vi erano tutti i nomi delle ragazze dei Lord che vennero in mente a Hinton. Lui disegnò poi molti omuncoli che stavano intorno a guardare con la lingua fuori e li chiamò: Lord». Ordinò la carica. Corsero per le vie del quartiere popolare agitando antenne e mazze, facendo squilli di tromba, insultando i Lord, sfidandoli a uscire e combattere, violando il loro sacro territorio. Nessuno venne fuori. Hinton aveva mal di gola a furia di urlare. Diede l’ordine di proseguire a passo di marcia. Poco dopo lasciarono il territorio nemico.
5 luglio, ore 5.20-6.00 Prima di tornare a casa, Hinton condusse Junior e Dewey verso la spiaggia. Gli altri lo seguivano, perché ormai lui era il Padre. Dal mare giungeva nella loro direzione la brezza del mattino. Faceva ancora caldo, ma l’aria era più fresca. Sopra le case il cielo era già chiaro, ma nelle strade c’era ancora oscurità. Si diressero verso il lungomare. Quando arrivarono all’ultimo isolato, Hinton li fermò prima di attraversare la strada. Con la mano alzata sostò a guardarsi intorno. Non c’era che un camion della nettezza urbana che macinava rifiuti, più giallo della luce gialla dell’alba. La luce dei lampioni stava diminuendo e aveva riflessi azzurrognoli. Hinton fece il gesto del condottiero con la mano. Attraversarono la strada, all’erta, attenti. In fondo alla via c’era un blu che dava loro le spalle. Ormai erano sul loro territorio e tutto era tremendamente familiare e trasmetteva loro una sensazione di profondo conforto. Conoscevano il loro territorio fino agli estremi confini; sei isolati corti per quattro lunghi. Per attraversarlo impiegavano poco tempo. Ne conoscevano ogni mattone, ogni macchia, ogni cartello stradale, ogni scalfittura di pallottola nel cemento dei marciapiedi, ogni nascondiglio. Era come conoscere a menadito uno spazio infinito di libertà infinita in cui non poteva annidarsi minaccia alcuna. Non c’era altro territorio così vasto in tutta la città. Se ne riempirono l’anima, dall’asfalto screpolato ai tralicci dell’otto volante che si vedevano alti dietro le case.
Eccolo, il loro territorio, così accogliente dopo la lunga nottata. Erano in prossimità del lungomare. Hinton sentì l’odore del vento freddo del mare e camminò più speditamente, perché era eccitato e felice. Gli altri gli tennero dietro. Hinton si mise a correre e gli altri corsero dietro di lui. Hinton si mise a gridare. Niente di articolato, gridava, lasciando che la sua gola scegliesse suoni a caso. Corsero dunque ridendo stupidamente, incapaci di controllarsi. Mentre correva, Hinton si domandava se quella era la grande sensazione di essere un vero uomo. Era così che ci si sentiva quando si era un capo, un Padre? Salì di corsa gli scalini di legno del lungomare. Gli altri gli corsero dietro. I loro passi facevano cantare le assi, come in un ritmo di musica. C’erano poche persone a spasso sul lungomare che da una parte e dall’altra scompariva nei bagliori rossi del primo mattino. Stavano arrivando alcuni pescatori a buttare le prime lenze. Più lontano una famigliuola, carica di asciugamani e di borse, attraversò il tratto di tavole di legno alla conquista di un pezzetto di spiaggia. Il sole del mattino era una palla rossa nella foschia, sulla destra. Davanti a loro c’erano la sabbia sporca e l’acqua chiazzata di rosso, tranquilla malgrado la brezza. Hinton urlò: «L’oceano!» Gli altri urlarono: «L’oceano, l’oceano!» e risero istericamente. Hinton scese di corsa la scaletta fino alla spiaggia, corse all’acqua, virò bruscamente verso sinistra, scivolò, sfiorò l’onda della risacca e sentì l’acqua che entrava nella scarpa martoriata. Era gelida e gli bruciò la carne viva dei tagli, ma subito dopo era già piacevole e fresca. Immerse la mano escoriata nell’acqua e scrollò gocce di mare nell’aria. Si misero a correre. Non smettevano di ridere e facevano fatica a impedire che la gioia sfociasse in un eccesso infantile di convulsioni. Si misero a ululare. Alcuni gabbiani si alzarono in volo al loro avvicinarsi; il vento sollevava pezzi di carta. La sabbia si levava scalzata dai loro piedi in corsa. Il vento che veniva dal mare era fresco, quasi freddo, e finalmente l’aria calda e stantia che li aveva oppressi tutta notte come una cappa fu spazzata via e parve loro di sbucare fuori da una massa densa e vischiosa. Ogni passo era più leggero, perché l’ilarità li sollevava dal suolo e quasi li faceva volare e la stanchezza era scomparsa. Hinton non era più seccato per essersi rovinato le scarpe italiane. Come gli sembrava lontana l’avventura del parco, come se non fosse successa quel giorno, nemmeno quella settimana... quasi che non fosse successa mai. L’agonia delle scarpe iniziata al parco era ormai quasi conclusa. Dove sarebbe andato a pescarli altri quindici dollari, per un paio di scarpe nuove come quelle? Non gliene fregava niente. Niente di niente. Dewey fece una capriola e la sua spilla mandò un lampo. Ci provò anche Junior e la sigaretta di guerra gli si sfilò dal cappello. Lui la raccolse e stava per rimetterla sul cappello quando gli venne un’idea. Si girò e corse da Hinton. S’inginocchiò e gliela consegnò. Hinton la prese, la tenne in mano per un secondo poi se la mise tra le labbra. Junior gliel’accese. Hinton tirò una, due boccate, col volto impassibile, truce. Si lasciò uscire lentamente il fumo dalla bocca e dal naso. Il fumo fu catturato dalla brezza che lo portò via e lo disperse. Poi staccò la brace dalla sigaretta e la rimise alla fascia del cappello di Junior. Dewey annuiva, osservandoli. Poi Dewey e Junior si tolsero le sigarette di guerra dal cappello e le consegnarono a Hinton, il quale le
ripose in un pacchetto mezzo vuoto che aveva in tasca. Non erano più un reparto in armi. Hinton si girò e tornò indietro. Gli altri lo seguirono. Era inteso ormai: Hinton era il Padre. Camminarono lungo la spiaggia per un po’, poi svoltarono verso le case in direzione delle loro abitazioni. Erano quasi le sei e la spiaggia era tutta illuminata dal sole. Nelle vie invece le ombre erano ancora fitte e scure. Il vento che veniva dal mare sollevava polvere calda dalle strade. Qui il vento era salmastro e sapeva di alghe rancide e strappava odore di vecchiume dalle case, odore aspro di legno vecchio dai capannoni, olezzo di rifiuti dagli scarichi. Arrivarono alla latteria che era il loro punto d’incontro. C’erano alcune ragazze sedute sulla cassa di legno di fianco al chiosco. Era tutta notte che aspettavano. Erano le donne di Hector, di Bimbo, di Dewey e di Junior che subito dissero loro che Arnold era rientrato da qualche ora. Arnold aveva raccontato tutto e aveva detto che Ismael era scomparso e che nessuno aveva idea di dove fosse finito. Loro riferirono alle donne di Hector e Bimbo quel poco che sapevano dei loro uomini. Le ragazze annuirono senza perdere la calma, si accesero una sigaretta e soffiarono fumo dal naso. Poi strinsero la mano agli altri e si alzarono. La ragazza di Bimbo si mise a piangere. La ragazza di Hector la cinse con il braccio, sorreggendola. Dewey e Junior si avviarono a braccetto delle loro donne. Hinton aspettò che tutti fossero scomparsi, poi s’incamminò verso la Galera. I due lati della strada erano ancora prigionieri delle ombre del primo mattino. Molte delle case erano vecchie e di legno, cadenti. Stavano su solo perché si appoggiavano l’una all’altra. Hinton pensava che non sarebbe stato Padre, dopotutto, se non avesse affrontato Arnold. Si vedeva a mettere sotto Arnold, perché lui l’aveva schiattato, il suo uomo, e aveva ben guidato una sortita! Gli sarebbe piaciuto avere anche lui una ragazza ad aspettarlo, come gli altri, una ragazza che avrebbe assistito al suo duello con Arnold, un duello simile a quello sostenuto con lo sceriffo. Lei si sarebbe innamorata di lui. Vide di nuovo l’immagine vaga di una ragazza. Si vide a conquistarla, ad andar con lei come gli altri. Si immaginò a far l’amore con lei, non in modo sporco, no, in un altro modo, pulito... dignitoso. Se si fosse trovato una donna, sapeva che non gli sarebbe più importato molto di essere anche Padre, perché quando si ha quel che più si desidera, a che serve prendersela tanto? Non ne sarebbe più valsa la pena. Per ora, almeno, si era conquistato la sua reputazione. Ora sapevano che era un uomo e che sapeva essere un capo, anche se non sempre sceglieva di combattere... e certo non lo avrebbe fatto per conquistarsi il dominio della Famiglia. Non era stato forse lui a ricondurre a casa i superstiti? Arnold non l’aveva fatto. E Hector, Bimbo, Tonto, loro non erano stati capaci di tornare a casa. Riteneva le sue gesta sufficienti a fare di lui un uomo importante nel territorio, meritevole probabilmente della carica di Zio. Allora avrebbe potuto avere la ragazza fissa e avrebbe smesso di andare con quelle con cui vanno tutti. Era arrivato alla Galera. Il suo appartamento si trovava in una costruzione di mattoni di quattro piani. Lui abitava all’ultimo piano. Era stato il dipartimento dell’assistenza sociale a trovargli la casa, come sempre, ed era il ventesimo posto in cui abitava da che era nato, cinque posti in più degli anni che aveva. La maggior parte
delle lampadine dell’ingresso erano guaste. La rampa di scale era scostata dalle pareti. Alonso diceva che era una scala volante. Si fermò, appena entrato, e restò in ascolto. Dovevano aver preso Hector, Bimbo e Tonto, e c’era il pericolo che avessero parlato. Forse erano venuti degli sbirri ad aspettarlo. Non sentì altro che quella vecchia pazza ebrea che si aggirava al piano terreno. Ma già, quella non dormiva mai, parlava da sola. Era una strega. Bisognava starci attenti, perché aveva un occhio di vetro e un artiglio per mano e diceva parole tremende. Alcuni, come sua madre, sostenevano che sapesse mandare il malocchio. Ma lui non credeva a queste cose. Aspettò. Non sentì nulla. Decise di correre il rischio e cominciò a salire le scale. Era stanco morto. L’unico rumore che udiva era lo scricchiolare degli scalini della Galera, così faticosi. All’ultimo piano c’erano quattro appartamenti, due a destra e due a sinistra. Al centro c’erano due cessi, uno per ogni due appartamenti. Prima d’entrare andò al gabinetto. Lui defecava sempre a mezz’aria per non toccare il sedile. Oggi non ce la fece per la stanchezza. Le pareti, anche se era troppo buio per vederle, ora, erano coperte d’iscrizioni. Durante il periodo in cui avevano abitato lì, lui, i suoi fratelli e le sue sorelle vi avevano aggiunto parole nuove. Al suo entrare gli scarafaggi si immobilizzarono sulle pareti. Il rumore della sua orina era scrosciante, ma familiare e pacificante. Svuotandosi provò un senso di tranquillità che gli prendeva il corpo. Appoggiò una tempia al muro e per poco non si addormentò. Quand’ebbe finito, uscì ed entrò nella sua cella. Non c’era lampadina, all’ingresso, e accese un fiammifero. Accanto alla sua porta scrisse: «Norbert fottuto» sotto una fila lunghissima di altri «Norbert fottuto». Aprì la porta ed era già in cucina. C’era uno stanzino sulla destra. Era buio pesto. Lì dentro dormivano tre dei suoi fratelli minori e una sorella minore. Nessuno si mosse nell’oscurità. In cucina c’era una pila di indumenti per terra; c’erano pentole con dentro cibo cotto e freddo sul fornello, c’erano lattine vuote di birra dappertutto, c’erano barattoli di cibarie, pieni a metà, che sua madre aveva scordato di riporre, e piatti sporchi sul tavolo, nello scolapiatti e nel lavandino. Attraversò la cucina. Le mosche si alzarono quando lui spostò l’aria stagnante. Il neonato piangeva nella carrozzina. Hinton fece dondolare la carrozzina un paio di volte e prosegui. Entrò nella stanza successiva, che era una sala da pranzo e una camera da letto. C’era luce che usciva dalla porta aperta della stanza di fronte. Sua madre, Minnie, grassa e sudata nell’aria puzzolente di piscia di neonato, si faceva montare dal suo uomo, Norbert, che da un paio d’anni stava spesso a casa loro. Al passaggio di Hinton, le loro facce guardarono nella sua direzione, senza vederlo. La faccia grassa e tonda di Minnie era piena di piacere, solo che sembrava che la torturassero e lei emetteva gridolini striduli. Anche Norbert aveva la faccia rotonda, ma Hinton non riuscì a vedergliela bene. Hinton sapeva che lui stava sorridendo. Ma il suo non era un vero sorriso. Norbert emetteva strani suoni come se esortasse un cavallo ad avvicinarsi. Il letto mandava un cigolio monotono che era una testimonianza di piacere carnale. «Fila via o ti concio per le feste», disse Norbert, ma lo diceva sempre. «Dove sei stato? avevo così paura», disse Minnie e poi strillò, chiuse gli occhi e gemette.
Hinton passò nell’altra stanza. Lì c’era più chiaro. Dai vetri polverosi entrava un po’ di luce. Alonso e la sua sorella maggiore era insieme sul divano aperto a letto. Alonso non veniva a casa da due settimane. Erano sdraiati nudi sotto un lenzuolo. Lei dormiva sulla schiena con la bocca aperta e gli occhi semichiusi. Alonso teneva la testa appoggiata a una mano. Stava fissando le tenebre dalla parte in cui Norbert e sua madre facevano all’amore. L’altra mano pendeva oltre la sponda del letto con le dita sul bongo, perché Alonso non andava mai in giro senza il suo bongo, che gli dava il ritmo. Con le dita teneva il tempo dei cigolii del letto. Hinton guardò Alonso e sentì insieme il cigolio del letto, il pianto del bimbo, gli ansiti di Norbert, gli urletti di sua madre e il tamburellare sordo del bongo. Alonso non guardò nemmeno Hinton, ma la sua faccia magica aveva quel sorriso che lo rendeva così odioso. Era il sorriso di chi ha tutte le risposte, di chi ha visto tutto, di chi ritiene che qualsiasi cosa tu faccia è una scemenza, una cosa puerile e inutile. Be’, che ti vuoi aspettare da un drogato? Hinton lo guardò con odio. Incapace, però, di trattenere il desiderio di far sapere ad Alonso cosa avesse fatto quella notte, disse: «Cazzo, lo sai cos’è successo stanotte? Lo sai dove sono stato? Sai cos’ho fatto?» e si inginocchiò accanto al bongo, vicino ad Alonso, per raccontargli tutto. Minnie. Norbert. Tic Toc. Come sempre», disse Alonso. Hinton cominciò a raccontargli della sua nottata. «Jim, hai giocato a fare il soldato. Quando imparerai? Quando la smetterai di andare in giro a fare a cazzotti, quando la pianterai di far bambinate?» E Hinton, come tante volte in passato, cercò di spiegare ad Alonso della Famiglia e di quel che significava e di tutto quello che avevano fatto quella notte. Ma Alonso continuava a sorridere e niente per lui aveva alcun valore e lo guardava con quel sorriso e basta. «Jim, non raccontarmi queste balle, lo sai che non mi frega niente. Le ho già passate tutte, io. Accetta un consiglio. C’è una cosa sola e la cosa sola è il buco. Adesso, mio caro. Nient’altro conta. Fatti i buchi tuoi, fatteli perché devi capire che a nessuno gliene frega un cazzo e ti metteranno sotto, alla fine, Jim, e l’unica parola d’ordine della vita è Adesso! Non quelle cazzate di fratelli e sorelle e le tue scemenze e le tue menate, Jim, solo Adesso, perché tutto finisce in venti minuti, poi non c’è più niente e vengono e ti mettono sotto e sotto ti tengono. Adesso, mio caro.» Era la solita vecchia storia, cui Hinton non sapeva come controbattere. Non poteva dire ad Alonso che era solo un drogato, senza nessuno, e che il suo era un modo orrendo di esistere e che lui non poteva capire cosa significasse avere una Famiglia. Lui sorrideva con quel suo sorriso e quando aveva quell’espressione stampata addosso non c’era niente da fare. Hinton glielo raccontò lo stesso. Le dita di Alonso continuarono a tenere il tempo. Hinton vide una bolla di saliva gonfiarsi all’angolo della bocca della sorella e gocce di sudore che le rotolavano dalle mammelle. Quand’ebbe finito di raccontare, il sorriso di Alonso non era cambiato affatto e Hinton era sicuro che il vuoto di Alonso era senza fondo. Si alzò. Il neonato piangeva ancora, ma Norbert e Minnie avevano finito. Hinton riattraversò la loro stanza ed entrò in cucina. Fece dondolare la carrozzina. Il neonato smise di piangere per un secondo. Lui si guardò intorno, andò a sbirciare dentro una
padella sul fornello e trovò patate fritte. Ne prese una e la ficcò nella bocca del neonato. Il piccolo smise di frignare e si mise a ciucciare. Lui tornò nella stanza di Minnie. I due erano sdraiati, con le guance grasse premute insieme, e sorridevano e nella luce sembravano due cherubini che si riposavano prima della prossima monta. Passò accanto ad Alonso, girò intorno al letto e aprì la finestra. Scavalcò il davanzale, salì sulle scale antincendio e si sedette con la schiena contro il muro. Lì si vedeva tutto il vicolo dietro al caseggiato. La luce era calda, densa e uniforme e si riversava negli spazi tra le case come olio bollente. Gli alberi dei cortili retrostanti erano accasciati per il caldo e le foglie erano opache di polvere. Hinton sollevò le ginocchia, sempre più su, richiudendo il suo corpo piegato in due. Allora si afferrò le caviglie con la testa premuta contro le rotule e gli occhi fissi verso gli alberi, oltre le corde per il bucato, verso il mare che non poteva vedere perché c’era un albergo. Poco dopo scivolò su un fianco, la testa appoggiata sul cappello schiacciato, e restò rannicchiato, con gli occhi fissi, il pollice in bocca, e si addormentò.
FINE