EDMOND HAMILTON I SOLI CHE SI SCONTRANO (Crashing Suns, 1964) SOMMARIO Nota introduttiva I soli che si scontrano I ladri...
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EDMOND HAMILTON I SOLI CHE SI SCONTRANO (Crashing Suns, 1964) SOMMARIO Nota introduttiva I soli che si scontrano I ladri di stelle Il popolo della Nebulosa NOTA INTRODUTTIVA Guerre Stellari sembra ormai deciso a stabilire un caso limite e al tempo stesso record - se non altro per quanto riguarda gli incassi - nel campo della cinematografia e della fantascienza; dopo aver incuriosito, stupito o deluso gli spettatori e gli appassionati non solo specializzati, si sta ormai avviando verso una serena vecchiaia che, come per tutti i prodotti di rapida fruizione e di altrettanto rapido successo, può contare su una folta schiera di epigoni-imitatori. L'elemento più strano di questa mastodontica operazione, tuttavia, risiede nel fatto che la matrice narrativa di questo controverso successo non è affatto nuova o inedita per la fantascienza, ma conta bensì una cinquantina di anni sulle proprie spalle, risalendo alle origini stesse della più pura space opera che già negli anni '20 abbondava sulle riviste specializzate americane, e che anche da noi ebbe un discreto successo di pubblico a partire dagli anni '50. Si è trattato insomma di un ennesimo repechage, di un recupero abilmente confezionato con dovizia di effetti speciali, e la riprova è disponibile in questo stesso volumetto che propone alcune opere di un veterano della fantascienza, quell'Edmond Hamilton battezzato scherzosamente nella saggistica americana World-Wrecker e World-Saver, ovvero distruttore e salvatore del mondo, in un'antinomia che riassume esplicitamente i temi della sua prima produzione. Scomparso abbastanza recentemente, Hamilton dedicò davvero i suoi primi anni di scrittore alla fatica di porre il mondo dinanzi a qualche pericolo catastrofico e di salvarlo poi grazie all'intervento di qualche formidabile scienziato. In un'intervista del dicembre 1975, interrogato in proposito, Hamilton confessò: «I primi venti racconti che scrissi erano davvero tutti basati sulla distruzione della Terra, anche se all'ultimo momento il pericolo
veniva evitato. Credo che ciò derivasse dalla mia profonda insoddisfazione per il mondo che mi circondava». In questi «primi venti racconti» erano compresi anche quelli qui radunati, ovvero le prime tre avventure della «Pattuglia interstellare» pubblicate sulla rivista Weird Tales fra l'agosto 1928 e il maggio 1929. Siamo agli inizi della fantascienza intesa come «genere», e agli inizi della stessa space opera, o melodramma spaziale, che Hamilton contribuirà a diffondere in tutto il mondo. Grande ammiratore di Edgar Rice Burroughs, specialmente per quanto riguarda il tono avventuroso e popolare della sua produzione, Hamilton si consacra nella sua saga della «Pattuglia Interstellare» ad una fiduciosa esaltazione del ruolo individuale (genericamente sotto le specie del valoroso scienziato che si sacrifica verso la fine per la salvezza del genere umano) sotto il tiro incrociato di una catastrofe cosmica e di una malevola razza aliena che fonda le sue speranze di sopravvivenza sulla distruzionesfruttamento del nostro mondo. Le connotazioni scientifiche a questo proposito posseggono ancora il fascino discreto di un accostamento abbastanza ingenuo ai temi della scienza, e nei tre episodi che seguono si ha modo di gustarli nel loro giusto valore; dinanzi al sole rosso che si avvicina pericolosamente al nostro (in I soli che si scontrano), all'astro morto, «nero e spento», che cerca di rubare il calore del sole terrestre (in I ladri di stelle), e alla Nebulosa di Orione che minaccia di dare sfogo alla sua fiammeggiante contrazione verso il nostro sistema solare (in Il popolo della Nebulosa), si possono ritrovare antiche paure dell'uomo moderno trasformate nella stessa materia di medievali morality plays. Fra astronauti che incappano in «buchi nello spazio», in ingorghi di traffico spaziale, in pianeti (come Nettuno, l'ultimo del nostro sistema noto all'epoca della stesura di queste opere) ormai trasformali artificialmente in mondi adatti all'uomo, e in minacce che sfidano ogni legge scientifica a noi nota, si può ritrovare l'antichissima irrazionale paura del diverso uguale malvagio, e il tentativo di mantenere ad ogni costo un non meglio caratterizzato status quo. Gli stessi extraterrestri malvagi - perché ne esistono di buoni - sono connotati con l'orme quasi esoteriche, dagli uomini-globo rossastri del primo episodio ai «coni di carne nera» del secondo, fino alle «masse informi di carne bianchiccia» del terzo. Forse, in questa luce, si può meglio interpretare il senso di quanto Hamilton affermava in quell'intervista; l'insoddisfazione per il mondo che ci circonda può allora tramutarsi in una traslitterazione dei nostri timori in forme e ambiti che ancora non appartengono alla nostra esperienza diretta,
dando corpo ad una para-mitologia dell'ignoto parzialmente nuova o anticipatrice. Se poi, come nel ciclo della «Pattuglia Interstellare» di Hamilton, l'uomo si rivela padrone della sua parte di Universo, è ancor più logico che la sua visione antropocentrica del mondo consideri pericoli per lo più immaginari venuti a galla fra le nebbie del suo inconscio, come parziale risultato di un senso di colpa che - nel campo della fantascienza - fin dagli anni '20 sembrava deciso a mietere troppe vittime. GIANNI MONTANARI Parte prima. I SOLI CHE SI SCONTRANO. Capitolo I. Quando i pulsanti si abbassarono sotto la mia mani, la nostra astronave volò nello spazio più veloce del pensiero. Dopo un istante ci fu una terribile scossa, e l'astronave si impennò come una lucciola impazzita. Tutto nella calotta di comando, oblò e quadranti e strumenti insieme, sembrò rotearmi intorno a velocità folle, mentre io disperatamente stringevo la leva che ancora impugnavo. Fu un istante, e poi riuscii a rimetterla nella sua posizione normale, e subito l'astronave si calmò e riprese ad avanzare normalmente nel nulla. Emisi un profondo sospiro di sollievo. Sul pavimento del locale si aprì una porta scorrevole, e il volto sbalordito del grosso Hal Kur fissò su di me i grandi occhi spalancati. «Per la Forza Jan Tor!» esclamò. «Ancora un millimetro, e quella meteora avrebbe posto fine al nostro viaggio.» Mi voltai per un istante a guardarlo e risi: «La distanza non conta, quando si riesce a scampare.» «Bene, ricordati che la missione di Urano è finita,» mi disse. «Qual è la nostra rotta?» «Settantadue gradi in direzione del Sole, rotta B,» dissi, dopo una rapida occhiata ai quadranti. «Siamo a meno di quattrocentomila miglia dalla Terra, in questo momento,» aggiunsi, e indicai con un cenno la parete trasparente che si apriva sul vuoto, davanti a me. Hal Kur salì nell'angusta calotta di comando, mi venne accanto e insieme guardammo l'infinito. In quel momento il sole era a sinistra dell'astronave, e lo spazio davanti a noi era di un nero profondo, nel quale le stelle, le stelle fiammeggianti del-
lo spazio interplanetario, risplendevano come enormi gioielli. Proprio davanti a noi riluceva un piccolo globo dal dolce lucore nebuloso, che diventava lentamente più grande, man mano la nostra velocità ci portava verso di lui. Era la nostra destinazione, la minuscola Terra velata dalle nubi tempestose del suo cielo, il grembo materno di tutta la razza umana. Io che avevo trascorso gran parte della mia vita sui quattro colossi esterni, Giove e Saturno e Urano e Nettuno, trovavo quasi insignificante quel piccolo mondo accompagnato da una sola minuscola luna. Eppure sapevo che da esso era sgorgato l'incessante torrente della vita umana, la marea inarrestabile di pionieri che aveva sommerso tutti i mondi del sistema solare negli ultimi centomila anni. Gli uomini si erano diffusi di pianeta in pianeta, vincendo le forze ostili dei batteri sconosciuti e delle atmosfere irrespirabili e della gravità insopportabili, e ora la razza umana era padrona indiscussa degli otto pianeti che gravitavano intorno al Sole. Ed era da questa Terra, centomila anni nel passato, che erano partite le prime fragili scialuppe dello spazio, così insicure, prive di protezione, tanto contrastanti dai colossi meccanici che ora univano strettamente i mondi del sistema solare. D'un tratto le mie considerazioni furono interrotte da un ronzìo insistente che proveniva dal quadro di comando. «È il telestereo,» spiegai ad Hal Kur. «Occupati tu dei comandi.» Lui prese il mio posto, e io mi avvicinai al disco lattescente del telestereo, incastonato nel pavimento della cabina, e le mie dita sfiorarono un pulsante. Istantaneamente apparve sul disco, in piedi davanti a me, la figura di un uomo che indossava la veste bianca e azzurra del Supremo Consiglio, riprodotto fedelmente come se fosse presente, mentre in realtà la sua immagine non era che il prodotto di onde che avevano percorso prima di raggiungermi l'abisso dello spazio. Era possibile a quel modo comunicare istantaneamente, malgrado la distanza, e subito egli mi parlò. «Jan Tor, comandante dell'incrociatore 79388 della Pattuglia Interplanetaria,» mi disse, servendosi della solita forma ufficiale. «Ti parla il Supremo Consiglio della Lega dei Pianeti. Dovrai dirigerti alla maggiore velocità possibile verso la Terra, e appena arrivato presentarti al Consiglio, nella Sala dei Mondi. L'ordine è chiaro?» «L'ordine è chiaro e sarà obbedito,» risposi, servendomi della formula d'obbligo, e la figura sul disco si inchinò e scomparve. Parlai immediatamente nell'apparato di comunicazione generale dell'astronave. «Dirigiti alla massima velocità verso la Terra,» ordinai all'ingegnere che
rispose alla mia chiamata. «Apri tutti gli schermi di sinistra, e serviti di tutta l'attrazione solare, finché non ci troveremo a ventimila miglia dalla Terra; poi richiudili, e serviti dell'attrazione planetaria.» Quando mi ebbe assicurato che l'ordine sarebbe stato eseguito, mi rivolsi ad Hal Kur. «Dovremmo raggiungere la Terra fra un'ora,» gli dissi. «Anche se solo la Forza sa per quale motivo il Supremo Consiglio si è rivolto a un semplice comandante d'incrociatore!» La risata di Hal Kur fu cordiale e sincera. «Ecco una forma inusitata di modestia, da parte tua! Ti ho sentito molte volte esprimere l'idea che gli Otto Mondi sarebbero governati in maniera non certo disprezzabile, se Jan Tor fosse membro del Consiglio... e ora ti definisci "un semplice comandante d'incrociatore"!» Sparì di sotto, prima che avessi potuto esprimere in maniera più tangibile la mia disapprovazione. Quando la porta scorrevole si richiuse, udii ancora la sua risata vibrante, e sorrisi. A bordo dell'incrociatore nessuno avrebbe potuto permettersi una tale familiarità col comandante, ma Hal Kur, il grosso ingegnere, ben sapeva che i suoi trent'anni di servizio nella Pattuglia lo rendevano sotto molti aspetti un privilegiato. Quando la porta si chiuse sopra di lui, però, tutto il resto fu dimenticato, e la mia mente si concentrò sulla rotta dell'astronave. Era mia abitudine pilotare io stesso la mia astronave, quando era possibile, e ora mi trovavo solo nella piccola e rotonda cabina di pilotaggio, o calotta, situata in cima allo scafo dell'astronave, che ricordava la forma di un pesce. Era soltanto l'orgoglio, comunque, a impedirmi di chiamare qualcuno ad assistermi durante le operazioni di pilotaggio, perché ora il sole attirava l'astronave con forza irresistibile, e quando superammo il piccolo ciottolo argenteo della solitaria luna della Terra, uno sciame di meteore, vagabonde degli spazi, mi fece passare qualche momento d'ansia. Però alla fine superammo la zona pericolosa, e cominciammo a scendere in direzione della Terra a velocità decrescente, perché erano stati aperti gli schermi che consentivano all'attrazione planetaria di frenare la nostra caduta. Bastò allora premere un tasto perché un altro pilota venisse a sostituirmi ai comandi, e mentre scendevamo dolcemente verso il pianeta verde io rimasi a fissare la parete trasparente, seguendo il traffico di navi spaziali che ostacolava la nostra discesa. Sembrava infatti che metà delle navi del sistema solare si fossero radunate sotto e intorno a noi, così convulsa appariva l'ondata del traffico. C'erano delle enormi navi da carico, con gli scafi
lunghi un miglio carichi di tutte le risorse della Terra, che avrebbero raggiunto Urano e Nettuno. Delle navi passeggeri, aerodinamiche, lunghe e snelle, passavano come lampi accanto a noi, e le loro calotte trasparenti ci permettevano di scorgere i passeggeri che si affollavano sul ponte. Erano numerose pure le astronavi private, quasi tutte del classico colore bianco; e a quanto pareva, erano dirette verso lo spazio, per partecipare alla corsa annuale Giove-Marte. E, boe minuscole nell'indescrivibile confusione, si potevano scorgere di quando in quando le piccole astronavi di pattuglia della polizia della Terra, e riuscii perfino a scorgere lo scafo nero di due incrociatori della Pattuglia Interplanetaria, simili in tutto e per tutto alla nostra astronave, il modello più veloce delle strade del cielo. Finalmente, però, dopo avere attraversato lo strato più denso del traffico cosmico, compiendo giri viziosi e percorsi sinuosi, la nostra astronave si trovò nel cielo libero diretta dolcemente verso il suolo della Terra. In un panorama fatto di prati e di foreste, interrotto qua e là dai punti bianchi delle città, la superficie del giardino lussureggiante che era diventato il pianeta Terra ondeggiava come un grande mare increspato dalla brezza sotto la nostra astronave. Carezzammo le nuvole sopra uno degli oceani azzurri della Terra, un oceano che mi parve quasi un laghetto di montagna, perché i miei occhi erano ancora pieni della visione dei possenti oceani di Giove e dei grandi mari incastonati nelle gemme di ghiaccio di Nettuno; e poi, quando la nostra ombra si mosse di nuovo sulla terra, davanti a noi si ergeva come una torre la gigantesca cupola bianca della grande Sala dei Mondi, la sede del Supremo Consiglio, il centro da cui si governavano gli Otto Pianeti. Era una costruzione monolitica di un bianco abbagliante, e la curva della cupola si sollevava nell'aria fino a un'altezza di duemila piedi: si avventò incontro a noi, sempre più grande, mentre il verde della Terra passava sotto la nostra astronave a una velocità di sogno. In un istante vi fummo sopra, e l'astronave si abbassò dolcemente sul grande campo d'atterraggio quadrato che si stendeva al di là della cupola. Ci fermammo senza scosse, e subito io aprii il portello della calotta, e scesi veloce la scaletta che solcava il fianco dell'astronave. Subito corse incontro a me un giovane magro, che portava un paio di occhiali, e indossava la veste bordata di rosso degli Scienziati, figura quasi patetica che mi ricordava un gufo, che io fissai sbalordito per qualche istante. Poi il mio stupore passò, e io tesi le mani verso il giovane che mi correva incontro. «Sarto Sen!» esclamai. «Per la Forza, sono felice di vederti! Credevo tu
lavorassi nei laboratori di Venere.» Gli occhi del mio amico mi davano il benvenuto, ma per il momento egli non perse tempo in parole, e mi trascinò verso la porta interna del grande edificio. «Il Consiglio si raduna in questo momento,» mi spiegò in fretta, procedendo ancora più veloce. «Ho fatto in modo che il presidente Mur Dak aspettasse il tuo arrivo, prima di aprire la seduta.» «Ma che sta succedendo?» domandai, stupito. «Perché aspettare me?» «Comprenderai tra un istante,» rispose, serio in volto. «Ma ecco la Sala del Consiglio.» Avevamo percorso una ragnatela di corridoio dalle pareti bianche, e stavamo superando un grande portone dall'alta volta per entrare nella Sala del Consiglio. Avevo già visitato quel luogo... chi, negli Otto Mondi, non l'ha hai fatto una volta in vita sua?... e l'immensa sala circolare con il suo soffitto a cupola che pareva alto come il cielo non mi erano nuovi; ma ora vedevo quelle meraviglie come pochi avevano avuto il privilegio di vederle, piena degli ottocento membri del Consiglio riuniti in sessione plenaria. Intorno al seggio del presidente si incurvavano a semicerchio le interminabili file di poltrone, ciascuna occupata da un membro, e a cento per volta i membri del Supremo Consiglio erano radunati intorno al simbolo del mondo che essi rappresentavano, fosse il minuscolo Mercurio o il possente Giove. Sulla piattaforma che si levava al centro si ergeva la figura solitaria di Mur Dak, il presidente. Era evidente che, come mi aveva annunciato il mio amico, il Consiglio si era appena riunito, perché in quel momento Mur Dak non stava parlando, e si limitava a fissare con aria pensosa le silenziose file dei membri. Dopo un istante fummo al termine della corsia, in piedi sotto di lui, ed egli ci fece segno di occupare due posti vuoti, che parevano riservati per noi. Egli rispose al mio saluto con una semplice parola di benvenuto, e quando io sedetti al mio posto mi domandai, inorgoglito, che cosa avrebbe pensato Hal Kur se avesse visto il suo comandante prendere posto nel Supremo Consiglio. Poi questo pensiero mi uscì di mente, quando Mur Dak cominciò a parlare. «Uomini degli Otto Mondi,» disse lentamente, «ho radunato il Consiglio per la più grave delle ragioni. L'ho radunato perché è stato appena scoperto un pericolo che minaccia la civiltà, la stessa esistenza di tutta la nostra razza... un pericolo mortale che si avventa su di noi a velocità inimmaginabile, e che minaccia di distruggere questo sistema che costituisce tutto il no-
stro universo.» Fece una pausa, e un mormorio di sorpresa percorse come un brivido l'atmosfera della sala. Vidi allora che il volto magro e ascetico di Mur Dak era pallido e teso, e mi protesi in avanti, ansioso, in attesa. E dopo un istante il presidente riprese a parlare. «È necessario che io faccia un passo indietro,» disse lui. «Perché possiate comprendere la situazione che ci si para di fronte. Come sapete, il nostro sole e gli otto pianeti che gli ruotano intorno non sono immobili nello spazio. Il nostro sole, con la sua famiglia di mondi, ha continuato per eoni a muoversi nello spazio, alla velocità approssimativa di dodici miglia al secondo, attraverso la Via Lattea. Voi sapete anche che tutti gli altri soli, tutte le altre stelle, si muovono come il nostro nello spazio, alcuni a velocità inferiore, altri a velocità incredibilmente superiore. Nuovi soli fiammeggianti, soli rossi morenti, soli neri freddi, tutti corrono nell'immensità dello spazio seguendo la loro rotta, ciascuno verso il destino che gli è stato assegnato. «E in questa infinità di stelle saettanti si trova quella che noi chiamiamo Alto, quella grande stella rossa, quel sole morente, che si è avvicinato sempre più a noi con il trascorrere dei secoli, e che ora è la stella a noi più vicina. Le sue dimensioni sono appena superiori a quelle del nostro sole, e come voi tutti sapete, essa e il nostro sole corrono l'uno incontro all'altra, avvicinandosi di mille miglia al secondo, migliaia anzi, perché Alto percorre le vie del cielo a una velocità inimmaginabile. I nostri scienziati hanno calcolato che i due soli si sfioreranno tra un anno, e che poi proseguiranno la loro strada nel cosmo, allontanandosi per l'eternità. Nessuno ha creduto di ravvisare un pericolo in questo sorpasso ravvicinato, perché secondo i calcoli una distanza di sicurezza di miliardi di miglia avrebbe impedito danni più gravi. E se la stella Alto avesse proseguito nella sua rotta, nulla sarebbe accaduto. Ma ora è accaduta una cosa imprevedibile. «Circa otto settimane or sono l'Osservatorio Meridionale di Marte ha riferito che la stella Alto, nell'avvicinarsi, sembrava avere mutato lievemente il suo percorso, prendendo una curva che l'avrebbe portata ad avvicinarsi al sistema solare. Lo spostamento era trascurabile, ma qualsiasi mutamento di orbita da parte di una stella è una cosa assolutamente priva di precedenti, e così in queste otto settimane la stella è stata osservata in continuazione. E durante queste settimane gli effetti del suo spostamento orbitale sono diventati sempre più rilevanti. La stella ha sempre più deviato dalla rotta fino allora percorsa, finché ora non si è trovata a diversi milioni di miglia
di distanza dalla rotta prevista, e lo spostamento diviene più grande a ogni minuto. E questa mattina è giunto il momento cruciale. Perché stamattina ho ricevuto una comunicazione telestereo dalla Centrale delle Scienze Astronomiche di Venere, nella quale il direttore mi informava che gli effetti dello spostamento di Alto sarebbero stati per noi tragici. Perché invece di superarci a milioni e milioni di miglia, come avrebbe fatto, la stella ora si sta dirigendo proprio sul nostro sole. E il nostro sole le sta correndo incontro!» «È inutile che vi spieghi i risultati di questo stato di cose. I nostri astronomi hanno calcolato che tra meno di un anno il nostro sole e quell'astro morente si scontreranno, si immoleranno in un immane olocausto. E da questo olocausto verrà la distruzione dell'universo che noi conosciamo. Perché i pianeti del nostro sistema solare periranno come fiori in una fornace, in quel titanico olocausto di soli che si scontrano!» La voce di Mur Dak tacque, e nella grande cupola per un istante un silenzio di morte regnò sovrano. Penso che tutti noi, in quell'istante sospeso nel tempo, cercassimo con le nostre menti abbagliate di comprendere appieno i termini della condanna pronunciata dalla voce pacata di Mur Dak, di comprendere l'esistenza dell'immane pericolo che usciva come un proiettile dalle oscure pieghe dello spazio per scrivere con lettere di fiamma la parola fine all'esistenza dell'uomo. Allora, prima che dal grembo oscurò del silenzio potesse nascere il vagito della paura e della sorpresa, un solo membro del Consiglio si alzò in piedi, dal settore di Mercurio, e si rivolse direttamente a Mur Dak. «Per centomila anni,» disse la solitaria figura, «le razze hanno affrontato pericoli dopo pericoli, e li hanno superati, uno dopo l'altro. Ci siamo diffusi di mondo in mondo, abbiamo conquistato e trasformato e unito fino a trovarci padroni della nostra parte di Universo. E ora che questa nostra parte di universo è di fronte alla minaccia della distruzione, dovremo soltanto aspettare? Non possiamo fare dunque nulla, non c'è nessuna possibilità, anche remota, di evitare la nostra condanna?» Quando egli ebbe terminato, la tensione disumana che ci aveva paralizzato si ruppe, e un uragano di applausi si scatenò all'interno della grande cupola. Anch'io mi trovai in piedi con tutti gli altri, e urlai come un folle. Era la reazione inevitabile a quel momento di terrore, l'esplosione di quello spirito di conquista che aveva permesso agli uomini di superare tanti tremendi pericoli. Quando il clamore si fu spento, Mur Dak riprese la parola
continuando il suo discorso: «Non è mia intenzione aspettare che la morte si abbatta su di noi, senza avere prima tentato di evitarla,» ci disse. «E il destino ha messo nelle nostre mani, in questo momento, la possibilità di difenderci. Da tre anni Sarto Sen, uno dei nostri giovani scienziati più brillanti, ha lavorato su un grande problema, il problema di usare le vibrazioni cosmiche come forza propulsiva per trasportare la materia nello spazio. Un bastone che galleggia nell'acqua può essere sospinto per grandi distanze dal movimento delle onde; perché non potrebbe applicarsi lo stesso principio alla materia nello spazio, per mezzo delle onde, delle vibrazioni che percorrono l'infinito? Facendo degli esperimenti in questo campo Sarto. Sen è riuscito a fabbricare dei piccoli modelli che possono essere lanciati nello spazio, nell'infinito, per mezzo di vibrazioni create artificialmente, vibrazioni che possono venire prodotte a una frequenza pari a quella della luce, e che di conseguenza proiettano i modelli nello spazio a una velocità pari a quella della luce. «Basandosi su questo principio, Sarto Sen ha costruito un piccolo incrociatore, capace di ospitare dieci uomini, che può raggiungere la velocità della luce e che egli intendeva usare per l'esplorazione delle stelle più vicine. Fino a oggi, come sapete, non abbiamo potuto avventurarci fuori del sistema solare, perché neppure la più veloce delle nostre astronavi a schermi gravitazionali può percorrere più di qualche centinaio di migliaia di miglia all'ora, e a questa velocità occorrerebbero secoli per raggiungere la stella a noi più vicina. Ma con questa nuova astronave a vibrazioni un viaggio verso le stelle diventa una questione di settimane, invece che di secoli. «Alcune ore fa ho ordinato a Sarto Sen di portare il suo nuovo incrociatore qui, nella Sala dei Mondi, in piena efficienza, e mentre vi sto parlando esso si trova in uno dei numerosi campi di atterraggio che circondano la cupola, con a bordo un equipaggio di sei uomini pratici del suo funzionamento, e pronto a decollare per un viaggio di qualsiasi lunghezza. Ed è mio proposito mandare questo nuovo incrociatore, in questo stato di emergenza, verso la stella che si avvicina al nostro sole, verso Alto, a scoprire quali forze o quali circostanze hanno fatto deviare dalla rotta prestabilita l'astro morente. Sappiamo che queste forze, o queste circostanze, devono essere di carattere straordinario, per mutare la rotta di una stella; e se riusciremo a scoprire quali fenomeni sono la causa della deviazione dell'astro, allora avremo la possibilità di ripetere o rovesciare questi fenomeni, per
deviare la stella dalla rotta che ora segue, salvando così il nostro sistema solare.» Mur Dak fece una pausa, e ci fu un attimo di silenzio attonito nella grande sala. Perché l'audacia del suo proposito era inaudita, anche per noi che percorrevamo i margini del sistema solare a nostro piacimento. Era facile percorrere i confini del nostro sistema, come già da secoli si faceva, ma avventurarsi nello sterminato abisso che ci circondava, correre a velocità incredibile verso le stelle, e investigare con calma sul comportamento anomalo di un sole minaccioso, era un proposito capace di fare allibire anche il più audace di tutti noi. Ma solo per un momento, perché quando le nostre menti ebbero compreso in tutta la sua portata l'ampiezza del progetto, un altro applauso si levò dall'assemblea, un applauso che salì al cielo quando il presidente chiamò davanti a sé Sarto Sen e lo presentò ai membri del Supremo Consiglio. Poi, quando si fu ristabilito il silenzio, Mur Dak proseguì. «Allora l'astronave partirà immediatamente.» disse lui. «E rimane solo da scegliere un comandante per questa impresa. Sarto Sen e i suoi uomini si occuperanno delle operazioni di bordo, Certo, ma è necessario un capo per questa spedizione, un uomo d'azione capace di reagire subito e di prendere rapide decisioni. E ho già scelto quest'uomo, per sottoporlo alla vostra approvazione, un uomo che voi avrete già sentito nominare. Un uomo giovane di anni, che ha dedicato gran parte della sua vita alla Pattuglia Interplanetaria, e che due anni or sono si comportò valorosamente nella grande battaglia spaziale contro i pirati interplanetari di Giapeto: Jan Tor.» Giuro che fino all'ultimo secondo non avevo neppure lontanamente immaginato che Mur Dak stesse parlando di me, e quando egli si voltò a guardarmi, e pronunciò il mio nome, fui solo capace di fissarlo a bocca aperta. Però coloro che mi attorniavano mi fecero alzare in piedi, e dopo un istante un altro scrosciare di applausi delle centinaia di membri degli otto mondi mi colpì come una violenta scossa. Avanzai con passo malfermo verso il seggio presidenziale, sotto quell'approvazione scrosciante, e mi fermai davanti a Mur Dak, ancora attonito per la rapidità con la quale si erano svolti gli eventi. Il presidente sorrise ai membri dell'assemblea. «Non dovrò chiedervi, dunque, se approvate la mia scelta,» disse, e poi si rivolse a me, serio in volto. «Jan Tor,» mi disse, e la sua voce pacata si udì chiarissima nel silenzio che era caduto nella grande sala, «ti è affidato il comando di questa spedizione, nel momento più grave della nostra storia. Perché da questa spedizione e da te, che la comandi, dipende il destino
del nostro sistema solare. Il Supremo Consiglio ti ordina, perciò, di assumere il comando del nuovo incrociatore, e di dirigerti alla massima velocità verso la stella che si avvicina a noi, Alto, per scoprire il motivo della deviazione dell'astro e per accertare l'esistenza di qualsiasi mezzo possibile per farlo nuovamente deviare dalla sua rotta. L'ordine è chiaro?» Cinque minuti dopo stavo entrando, con al mio fianco Sarto Sen e Hal Kur, nel campo di atterraggio dove si trovava la nuova astronave, il cui scafo a forma di pesce riluceva alla luce del sole. Quando fummo più vicini si aprì un portello sul suo fianco, e da esso uscì per accoglierci uno dei sei ingegneri vestiti d'azzurro che componevano l'equipaggio dell'incrociatore. «Tutto è pronto per la partenza,» disse a Santo Sen, rispondendo alla domanda del mio amico, facendosi da parte per consentirci di entrare. Entrammo dal portello, e fummo nell'astronave. A sinistra, un portello aperto mi permise di vedere la piccola sala di ritrovo dell'astronave, al di là della quale si trovavano delle altre figure vestite d'azzurro, intorno al grande generatore di vibrazioni, rilucente e a forma di cono. Davanti a noi iniziava la scaletta interna, sulla quale salì per primo Sarto Sen. Dopo un istante raggiungemmo la calotta di comando dell'astronave, e immediatamente Sarto Sen occupò il suo posto, davanti ai comandi. Sfiorò un pulsante, e un campanello d'allarme suonò in tutta l'astronave. Si udì un rumore di passi affrettati, sotto di noi, e poi il rumore dei portelli a tenuta stagna che si chiudevano. Cominciò immediatamente il familiare ronzìo delle pompe dell'ossigeno, che iniziavano a depurare l'atmosfera e a immettere in continuazione nuovo ossigeno in quel piccolo guscio sigillato che avrebbe tra poco percorso gli spazi. Sarto Sen rimase immobile per un istante, guardò attraverso l'oblò, poi si piegò a schiacciare in rapida successione tre pulsanti. L'astronave fu percorsa da un ronzìo profondo e continuo, e ci fu un istante di ansiosa attesa. Poi si udì uno scatto, quando Sarto Sen girò un interruttore; si udì per un istante il sospiro del vento, e improvvisamente il campo d'atterraggio illuminato dal sole scomparve, sostituito dopo un attimo dalla profonda notte bruciante di stelle dello spazio interplanetario. Guardai per un attimo attraverso un altro oblò, ed ebbi la veloce e fuggevole visione di una sfera grigiastra roteante sotto di noi, che in pochi attimi divenne un puntolino opaco sul grande sfondo nero, e poi scomparve. Era la Terra, che svaniva dietro di noi mentre la nostra astronave si avventava a velocità divorante nel
gorgo infinito dello spazio. Ora stavamo attraversando la fascia degli asteroidi, oltre Marte, e continuammo ad avanzare, e a sinistra giganteggiò, l'immenso Giove, che divenne un grande occhio luminoso che si apriva ad accoglierci, mentre correvamo verso di lui, e che si richiudeva sonnolento alle nostre spalle, subito dopo. Il sole ormai era diventato una fiammella tremolante che rimpiccioliva a ogni respiro. Dopo un'ora, un altro mondo gigantesco ci passò accanto, a destra, il pianeta dei ghiacci eterni, Nettuno, l'ultimo degli Otto Mondi. Avevamo superato l'ultima frontiera del sistema solare, e ora ci lanciavamo nelle insondabili profondità abissali dello spazio, alla pazzesca velocità della luce, in una folle corsa per salvare l'universo che conoscevamo. Capitolo II. Un'ora dopo che avevamo lasciato il sistema solare Hal Kur e io eravamo ancora con Sarto Sen nella calotta di comando dell'incrociatore, e il nostro sguardo si fissava come il suo sull'indicibile panorama fatto di grappoli e grappoli di stelle che si stendeva intorno a noi. Il nostro sole era diventato un minuscolo punto di luce alle nostre spalle, ormai, una stella tra i milioni di astri che turbinavano e danzavano e ammiccavano nello spazio che ci avvolgeva. Perché qui, molto più che tra i pianeti, le stelle splendevano intorno a noi del loro vero splendore, senza che una di esse uscisse dalla massa delle sue compagne e ne attenuasse lo splendore. Uno sciame di punti luccicanti di fuoco, azzurri e verdi e bianchi e rossi e gialli, gremiva senza soluzione di continuità il nero spazio palpitante in ogni direzione, e si radunava come uno sciame di api in un alveare sulla nostra destra, dove si sviluppava sinuosa la stupenda cintura della Via Lattea. E ora davanti a noi riluceva un occhio solitario, un punto palpitante di un cupo fuoco rossastro. Era Alto, la stella dalla luce cupa e opaca che costituiva la nostra destinazione. Era con un senso d'incredulità che fissavo la stella rossa, perché sebbene i quadranti davanti a me mi assicurassero che stavamo dirigendoci verso di essa a una velocità che aveva raggiunto i duecentonovantamila chilometri al secondo, e continuava ad aumentare, solo il monotono ronzìo del vibratore mi diceva che ci stavamo muovendo, e che l'astronave non stava galleggiando immobile e perduta nel gorgo dell'infinito. Non si udiva il sibilo dell'aria, fuori, non si vedevano i pianeti, all'esterno, non c'erano segni di
riferimento dai quali l'occhio potesse misurare il terribile impeto della nostra corsa verso il nulla. Stavano correndo in un abisso la cui immensità faceva vacillare la mente, un vuoto interminabile nel quale le stelle galleggiavano e pulsavano come pulviscolo nell'aria della Terra, un abisso attraversato solo da meteore saettanti e da fiammeggianti comete che si apprestavano a ricevere la carenza e la luce di un sole, e, ora, da quella minuscola nave così fragile che l'uomo aveva lanciato. Se io ero frastornato dalla vastità che mi circondava e dalla mia piccolezza, Hal Kur lo era anche di più. Aveva percorso le mille rotte del sistema solare per molti anni della sua vita, e ora tutti i concetti che il tempo aveva consacrato e che l'abitudine aveva reso incrollabili nella sua mente erano stati incrinati, spezzati e sconvolti da questa minuscola astronave, priva di schermi gravitazionali, che dardeggiava di sole in sole spinta solo da invisibili vibrazioni. Vedevo i suoi occhi oscurati dall'ombra del dubbio, mentre il suo sguardo vagava tra i mille grappoli pulsanti di stelle di tutti i colori dello spettro, e dopo qualche tempo egli ci lasciò, e discese nello scafo dell'astronave, per rendersi conto personalmente delle forze che la spingevano. Quando egli se ne fu andato, mi misi subito al lavoro, per apprendere i segreti dei comandi e del funzionamento dell'astronave che mi era stata affidata. Le due ore seguenti le passai sotto la tutela di Sarto Sen, e al termine di questo periodo avevo già appreso i dati essenziali sul funzionamento dei comandi. Cera un apparecchio che regolava la frequenza delle vibrazioni generate dall'apparecchio a forma di cono che si trovava sotto di noi, permettendo di aumentare o decrescere la velocità a piacimento, e un quadrante con una leva che permettevano di dirigere l'astronave a qualsiasi angolazione, permettendo così il controllo della direzione da seguire. Il requisito essenziale per il controllo dell'astronave, come scoprii, era un controllo preciso e fermo dei due comandi, dato che bastava sfiorarne uno per mutare la velocità con rapidità inaudita, mentre bastava spostare lievemente l'altro per mandarci, a migliaia di miglia fuori della nostra rotta quasi istantaneamente. Dopo due ore, comunque, ero riuscito a impadronirmi delle regole essenziali per mantenere l'astronave sulla rotta senza mutamenti sensibili di posizione e di velocità e Sarto Sen si fidava abbastanza delle mie capacità da lasciarmi solo nella calotta di comando. Scomparve nella scaletta interna, per compiere una rapida ispezione del generatore, e io rimasi solo nella calotta di comando.
Rimasto solo nel piccolo locale oscuro, con l'unico rumore del generatore e l'unica luce delle stelle, una luce che mi raggiungeva da un abisso interminabile di spazio e di anni e faceva risplendere débolmente i quadranti che si sviluppavano sotto le mie mani, fissai intensamente lo spazio che si stendeva davanti a me, pieno di soli che parevano gemme lontane, tra le quali era incastonato lo splendore rossastro di Alto, brillante come una fiamma vivente. Per un lungo periodo i miei occhi si fissarono sulla stella che era la nostra mèta, e poi il corso dei miei pensieri fu turbato dal rumore provocato da Sarto Sen, che stava risalendo. Mi voltai a metà per salutarlo, poi fui di nuovo concentrato sull'oblò, e i miei muscoli si irrigidirono. I miei occhi avevano già visto una piccola chiazza di oscurità profondissima davanti a me, una zona di nero assoluto che si espandeva rapidamente, crescendo di dimensioni, finché, in quello che parve un periodo di pochissimi secondi, non ebbe cancellato metà delle stelle che pulsavano nell'infinito. Per un istante quell'improvvisa apparizione mi paralizzò, e non feci alcun gesto, poi le mie mani corsero ai comandi. Udii il grido di Sarto Sen, dietro di me, e vidi l'oscurità davanti a noi, che oscurava quasi l'intero cielo. Un attimo dopo, prima che le mie mani avessero potuto muovere i comandi sui quali si erano posate, ogni luce svanì istantaneamente dalla calotta di comando, e ci trovammo immersi nell'oscurità più completa che mai avessi visto in vita mia. Nello stesso istante l'ormai familiare ronzìo del generatore tacque. Penso che l'istante che seguì fu quello che segnò il mio primo incontro con il terrore più assoluto. Ogni scintilla di luce era svanita, e il silenzio del generatore poteva significare soltanto che la nostra astronave stava andando ciecamente alla deriva in quella soffocante oscurità. Dallo scafo, sotto di noi, giunsero grida di paura e di sorpresa, e sentii che Sarto Sen si avvicinava e si impadroniva dei comandi. Poi, con accecante rapidità, le luci risplendettero di nuovo nella calotta di comando, e attraverso lo oblò la parete di stelle si disegnò nuovamente sullo sfondo dell'universo. Nello stesso momento, si udì di nuovo il profondo ronzìo del generatore. Sarto Sen si rivolse a me, pallidissimo in volto come io sentivo di essere. Istintivamente ci voltammo a guardare l'oblò dietro di noi, e vedemmo alle nostre spalle quella stupenda zona di tenebra dalla quale eravamo appena emersi. Era una zona vasta e dai contorni irregolari, nera come il pensiero non può immaginare, che diminuiva rapidamente di dimensioni, mentre la nostra velocità ci portava lontano da essa. Dopo un istante ritornò il punto che avevo scorto la prima volta, e poi svanì del tutto. E stavamo di nuovo
saettando immersi nella luce balenante e familiare delle stelle. Riuscii a ritrovare la voce. «In nome della Forza,» esclamai, «di che si trattava?» Sarto Sen scosse il capo, meditabondo. «Una zona senza luce,» disse, quasi tra sé. «E i nostri generatori?... neppure essi potevano funzionare all'interno di questa zona. Deve trattarsi di un buco, di un foro vuoto, nello spazio medesimo. Il mio stupore fu completo. «Un buco nello spazio?» Annuì subito. «Hai visto cosa è accaduto? La luce è una vibrazione dello spazio, e la luce non esisteva in quella zona. Anche il nostro vibratore si è fermato, perché non esisteva lo spazio, nel quale potere funzionare. Si è sempre pensato che l'etere colmasse tutto lo spazio, ma a quanto sembra esistono delle fosse, cavità spaziali, che provocano quelle sacche nere del cielo che hanno da sempre sconcertato gli astronomi. Se la nostra enorme velocità inerziale non ci avesse spinti attraverso la sacca, l'attrazione delle stelle ci avrebbe fatto lentamente rallentare, fino a imprigionarci in quel regno di tenebra fino alla fine del tempo.» Scossi il capo, incerto, perché quell'incredibile incidente mi aveva scosso profondamente. «Prendi i comandi,» gli dissi. «Le meteore per me sono un lavoro di tutti i giorni, ma le sacche nell'etere sono un po' troppo.» Lasciandolo a sorvegliare il volo dell'astronave, discesi nello scafo sottostante, dove gli ingegneri stavano ancora discutendo con Hal Kur sullo strano avvenimento che era accaduto. In poche parole spiegai loro la teoria di Sarto Sen, ed essi tornarono ai propri posti con lo stupore impresso sul volto. Entrai nel quartiere di ritrovo dell'astronave, mi sdraiai su una cuccetta e cercai di prendere sonno. Il sonno giunse abbastanza in fretta, ma con esso giunsero degli incubi tormentosi nei quali mi pareva di vagare dentro mari interminabili di oscurità, alla disperata e cieca ricerca di un passaggio verso la luce del giorno. Quando mi svegliai, circa sei ore dopo, la posizione dell'astronave sembrava quasi la stessa. Il ronzìo costante dei generatori, il volo sicuro e diritto, le legioni di stelle luminose intorno, tutto pareva uguale a prima. Ma quando risalii nella calotta di comando, per dare il cambio a Sarto Sen, vidi che Alto era già diventata più luminosa, e il suo livido splendore gettava
un velo tremulo sulle stelle più vicine. E durante le ore del mio turno nella calotta di comando, mi parve quasi che quell'occhio purpureo si espandesse nel cielo visibilmente, mentre la nostra astronave si avventava verso di esso. Però sapevo che questa impressione era dovuta soltanto a un'illusione ottica. Ma, quando i giorni si accumularono... giorni senz'alba e senza tramonto e senza sole, semplici numeri su di un quadrante... la rossa stella aumentò di splendore. Quando il ventesimo giorno di volo fu scomparso nella eterna notte dello spazio, Alto era già diventato un disco lunare, le cui fiamme morenti facevano impallidire gli stormi di stelle che la circondavano; perché metà del viaggio era dietro di noi, e l'astronave ora correva per coprire l'ultima metà del percorso. Erano giorni immobili, privi quasi di un solo fremito di vita. Per due volte avvistammo delle fosse spaziali, grandi buchi di tenebra simili a quello in cui eravamo penetrati, ma fummo tanto fortunati da evitarli, compiendo lunghe deviazioni di rotta per non doverne sfidare la assurda notte. E anche, una volta mi capitò di intravvedere per un istante una colossale sfera nera che ci passò vorticosamente accanto e quindi scomparve dietro di noi, dimenticata dalla nostra incredibile velocità. Fu solo uno sguardo che diedi a quell'oscuro vagabondo degli spazi, che poteva essere un pianeta errante o una stella spenta. E subito dopo la nostra astronave entrò in una tempesta di materia meteorica, là tra il nulla, dalla quale riuscimmo a uscire solo grazie all'abilità di Sarto Sen con i comandi. Furono comunque rari gli incidenti, e i nostri giorni trascorrevano uguali e monotoni, e a interromperne l'uniformità venivano soltanto le operazioni di manutenzione del generatore e i turni di guardia nella calotta di comando. E mentre il nostro volo proseguiva a bordo era subentrata una strana calma, un silenzio cupo che cresceva angoscioso in noi. Qualcosa del silenzio eterno e infinito attraverso il quale ci muovevamo, un'ignota forza uscita da quello sterminato abisso cosmico, sembrava essere penetrato nel più profondo delle nostre anime. E la nostra vita era diventata un sogno, e ancora più remota e irreale e di sogno era diventata la vita degli otto mondi che così lontano da noi rincorrevano il nulla intorno a una stella. Avevo quasi dimenticato lo scopo della nostra missione, e durante i miei turni di guardia i miei occhi si posavano sul disco rossastro quasi esclusivamente con curiosità. Giorno dopo giorno quel disco di fiamma divorava i cieli, finché a bordo tutto fu sommerso da torrenti di luce rossa, sanguigna, che si riversava dagli oblò. Allora, finalmente, la mia mente tornò a
pensare al compito che ci attendeva, perché erano trascorsi più di trenta giorni di viaggio, e tra noi e Alto si stendevano solo cento miliardi di miglia. Allora ordinai di diminuire la nostra velocità, e più lentamente l'astronave cominciò a scendere sul piano del grande sole, perché era mia intenzione assumere una posizione perpendicolare rispetto alla stella, e restare lassù, a qualche milione di miglia di distanza, e di servirci dei potentissimi telescopi-visori della calotta di comando per compiere le prime osservazioni. E così, nei due giorni che seguirono, il sole gigante, ai nostri occhi una sola fornace di fuoco rosso, scese a occupare il cielo sotto di noi, mentre la nostra astronave saliva. I nostri strumenti ci segnalarono che il calore di quella stella morente era infinitamente inferiore a quello sprigionato dal nostro sole. Malgrado ciò fu necessario coprire tutti gli oblò di speciali filtri luminosi, tanto era accecante lo splendore della stella. Raggiungemmo la nostra mèta dopo quaranta giorni dalla partenza. Insieme nella calotta di comando, Sarto Sen, Hal Kur e io osservammo dall'oblò circolare e periscopico situato in basso il rosso splendore dell'astro possente. Avevamo raggiunto una posizione a circa venti milioni di miglia dal sole e avevamo corretto la rotta, e ora volavamo sopra di esso a una velocità pari alla sua, come un insetto ronzante sopra un mondo. Sotto di noi si stendeva un oceano fluido di fiamme rossastre, che salivano in grandi lingue di fuoco, coprendo quasi completamente il nostro campo visivo. Fu in un riverente silenzio che guardammo quel tremendo mare di fuoco, sapendo che solo la forza del generatore ci impediva di cadere in quell'inferno. «E dovremmo investigare... laggiù!» disse Hal Kur, fissando le fiamme contorte. «Parlano di deviare quello!» Lo guardai, e nel mio cuore non c'era alcuna speranza. Poi, prima che potessi parlare, giunse un'improvvisa esclamazione di Sarto Sen, che mi fece segno di raggiungerlo. Stava osservando uno dei potenti oblò telescopici incorporati nella parete della calotta di comando, e quando lo raggiunsi egli mi indicò febbrilmente di guardare un punto oltre l'orlo del sole gigantesco. Guardai in quella direzione, cercando di distinguere qualcosa in quell'inferno di luce, e allora notai la cosa che aveva attratto la sua attenzione. Era un punto di luce grigiastra che si trovava accanto al sole rossastro, una piccola sfera opaca sospesa nello spazio a cento milioni di miglia dalla stella e che riaccompagnava nella sua corsa nello spazio.
«Un pianeta!» mormorai, ed egli annuì. Allora Hal Kur, che si era unito a noi, tese la mano, con un'esclamazione soffocata, e là, a tre volte la distanza del primo da Alto, era sospesa un'altra piccola sfera opaca. In pochi minuti, servendoci del potente telescopio, scoprimmo non meno di tredici mondi che giravano intorno al grande sole e lo accompagnavano nella sua incredibile corsa attraverso il cosmo. Quasi tutti seguivano orbite a miliardi di miglia dal loro sole, e nessuno degli altri era grande quanto il primo che avevamo scoperto, e che era pure il più interno. Fu verso questo pianeta che alla fine decidemmo di dirigerci; così, con Sarto Sen ai comandi, abbandonammo la nostra posizione sul grande sole, discendendo a velocità ridotta sul pianeta interno. Mentre ci avvicinavamo, il suo colore da grigio divenne rossastro, e mentre la nostra astronave divorava lo spazio, le sue misure apparenti aumentarono enormemente. Sarto Sen ridusse gradualmente la nostra velocità, e quando raggiungemmo un'altezza di poche centinaia di migliaia di chilometri dalla sua superficie stavamo già muovendoci molto lentamente. E dall'esterno, attraverso il sistema di comunicazione, giungeva il sibilo del vento, la prova del fatto che ci trovavamo di nuovo nell'atmosfera. Nessuno di noi notò questo fatto, comunque, perché la nostra attenzione era assorbita dalla scena sotto di noi. Bagnato dalla luce rossastra del sole si stendeva un mondo rossastro che giaceva sotto di noi, un mondo opaco le cui montagne, pianure e vallate erano dello stesso colore uniforme, sanguigno come la luce che lo bagnava, e i luoghi e i fiumi restituivano al cielo il riflesso di sangue che impregnava l'aria di quel mondo. E quando la nostra astronave si abbassò vedemmo che quella tinta sanguigna non era dovuta a un'illusione ottica, creata dai raggi della stella Alto, ma era naturale, perché tutta la vegetazione, i prati, i cespugli intricati, gli alberi contorti e sconosciuti, tutto conservava quel calore che era la caratteristica più saliente del pianeta. Per quando assurda e spettrale fosse la scena che si stendeva sotto di noi, pareva che non ci fossero segni di vita sulle grandi pianure e sulle impervie colline. Sarto Sen fece ancora abbassare l'astronave, poi la fece virare, volando a bassa quota su quel mondo straniero. Per diversi minuti, i nostri sguardi intenti non colsero alcun premio della nostra attenzione; e poi, molto lontano, una forma colossale nacque dalla luce rossastra, prendendo forma, mentre ci avvicinavamo, diventando un'immensa torre. E involontariamente ansimammo, quando i nostri occhi si resero conto dell'immensità delle sue dimensioni. Era fatta di quattro sottili colonne nere, ciascuna
spessa non più di cinquanta piedi, che nascevano dalla terra a intervalli di mezzo miglio, quattro possenti colonne che si lanciavano verso il rosso cielo per almeno diecimila piedi, incontrandosi e unendosi a quell'altezza, formando il sostegno di una piattaforma circolare, sulla quale vedemmo le forme di quelle che ci parvero macchine, e altre forme che si muovevano intorno a esse, sebbene, a causa dell'altezza, fosse impossibile distinguere se queste ultime fossero umane o meno. E poi, quando guardai la base della possente torre, la mia esclamazione attirò l'attenzione dei miei compagni. Perché intorno alla base della torre, disseminati nella pianura, sorgevano gli edifici di una città. Quegli edifici erano bassi, piatti e di forma assolutamente inconsueta, e le strade strette che li dividevano erano dello stesso colore nero della torre... nero, tutto nero, i tetti e le strade e le pareti, uniti da giardini scarlatti che formavano in quel nero una catena di macchie di sangue. E incombeva su tutto, con le sue quattro colonne che si alzavano cingendo la città in una morsa colossale, la possente torre che si innalzava nella luce rossastra. Sarto Sen guardò la piattaforma della torre, che si trovava sotto di noi, e le forme che si muovevano su quella piattaforma. «È incredibile!» esclamò. «Vedete? È abitato. E questo significa che il mutamento di rotta di Alto era...» Si interruppe; emise un grido soffocante. Una scintilla di intensa luce bianca era improvvisamente apparsa sulla piattaforma che si trovava sotto di noi, un raggio di luce accecante che si sollevò verso di noi, immergendo l'incrociatore nella sua luce irreale. E bruscamente la nostra astronave cominciò a cadere! Sarto Sen balzò ai comandi, e cominciò a manovrarli affannosamente. «Quel raggio!» esclamò. «Ci attrae... ci sta trascinando a terra!» La nostra astronave vibrava ora fin nelle sue fibre più riposte, con i generatori spinti al massimo; eppure stavamo sempre cadendo, verso la piattaforma. Vidi che Sarto Sen manovrava freneticamente i comandi, e udii un grido rauco di Hal Kur. Intorno a noi danzava un accecante mare di luce bianca, e attraverso gli oblò vidi che la piattaforma si avventava verso di noi a una velocità allucinante. Quella discesa da incubo continuò nel mare della bianca luce abbagliante, e la piattaforma si fece più vicina... sempre più vicina... finché non si udì uno schianto lacerante. Capitolo III.
Penso che nell'attimo che seguì lo schianto nessuno fece il minimo movimento, nella calotta di comando. Al momento della caduta l'accecante splendore del raggio si era spento, ed eravamo caduti al suolo, dove eravamo rimasti, immobili. Dopo un istante, però, riuscii faticosamente ad alzarmi in piedi. Udii delle grida dallo scafo dell'astronave, e il rumore di uno dei portelli a tenuta stagna che si apriva. Balzai verso l'oblò, giusto in tempo per vedere i nostri sei ingegneri riversarsi sulla piattaforma e guardarsi intorno con occhi spiritati. Aprii il portello della calotta di comando, per gridar loro di tornare indietro, e mentre lo facevo vidi che uno di loro si voltava e cercava di raggiungere l'astronave, come se qualcosa di terribile lo avesse spaventato. Gli altri stavano fissando intensamente la grande piattaforma, e in quel momento, prima che io potessi dar voce al grido che era salito alle mie labbra, il loro fato li colpì. Ci fu un veloce sospiro di vento, e dalla piattaforma balzò verso di loro una sottile sfera di fuoco rossastro, una sfera che toccò uno degli uomini e istantaneamente esplose in un mare di fiamme divoranti. La vampata infuriò per un istante, poi svanì. E dove si erano trovati i cinque uomini, rimase il nulla. Attonito, incredulo, esplorai lentamente con lo sguardo la superficie della grande piattaforma. Immense macchine sconosciute vi erano raggruppate, grandi e lucide strutture dall'aspetto completamente alieno. Al centro di questo gruppo di titani meccanici si ergeva il più grande di tutti, un grande cilindro di metallo alto più di cento piedi, montato su un solido piedistallo che puntava verso il cielo come un mostruoso telescopio. Ma non fu nessuna di queste cose ad attirare la mia attenzione, in quel primo istante di osservazione, mentre ancora il mio cuore era gelato dall'orrore. Furono le dodici, e più, grottesche e terribili forme che erano radunate all'altro capo della piattaforma, e mi guardavano a loro volta. Erano globi, globi di carne rossastra e dall'aspetto putrido, del diametro di una iarda, ciascuno sostenuto da sei zampe da insetto, lunghe non più di dodici pollici, e ciascuno in possesso di due piccoli arti corti e sottili, che servivano da braccia, e uscivano dal corpo globulare sui due lati opposti. E tra queste braccia, spostati lateralmente sulla superficie sferica, si trovavano gli unici due lineamenti... due occhi rotondi, neri, enormi, senza ciglia né pupille, e un cerchio di pelle più pallida che usciva e rientrava continuamente dalla massa della carne, durante la respirazione. Erano immobili e mi guardavano coi loro occhi inumani, e vidi che uno, un po' più avanti degli altri, stava tendendo verso di me un sottile disco di
metallo, dal quale, come subito immaginai, era uscito il fuoco mortale. Ma non riuscii ugualmente a compiere il minimo movimento, guardando dall'altra parte della piattaforma con l'orrore nel cuore. Udii una violenta esclamazione di Hal Kur, dietro di me, quando lui e Sarto Sen mi vennero accanto e videro con me. E in quel momento le creature cominciarono a emettere dei suoni... suoni gutturali, che parevano seguire uno schema fonetico... note basse, pulsanti, disturbanti, che sembravano uscire dalle membrane con le quali respiravano. Avanzarono verso di noi, con l'arma sempre puntata su di noi, e poi uno si fermò e ci fece segno di discendere sulla piattaforma. Ripeté il gesto, e il significato fu inequivocabile. Lentamente, scendemmo dalla calotta di comando, e discendendo la scaletta esterna della astronave, fummo sulla piattaforma. I nostri catturatori sembrarono prendere tempo, e io ne approfittai per dare una rapida occhiata alla nostra astronave. Risucchiata dal raggio di quelle strane creature, era caduta in una zona sgombra della piattaforma, senza subire danni gravi, almeno apparentemente: la costruzione era solida, e la caduta era stata breve. Il portello dello scafo era ancora aperto, e una dozzina di quelle strane creature vi stavano entrando, veloci come insetti, sulle loro zampe di ragno. Scomparirono all'interno, e dopo un istante furono di ritorno, spingendo davanti a loro l'ingegnere che era riuscito a rifugiarsi a bordo, puntandogli contro il micidiale disco. Quest'uomo, Nar Lon, era stato il capo dei sei ingegneri, e quando i suoi catturatori ce lo spinsero accanto, il suo volto era pallido di terrore. Scoprendo che anche noi eravamo vivi, però, sembrò ritrovare un po' di coraggio. La gorgogliante conversazione delle creature, che evidentemente ci riguardava direttamente, si interruppe, e una avanzò fino all'orlo della piattaforma, toccando una leva. Subito si aprì una sezione circolare del pavimento metallico, larga circa dieci piedi, che rivelò un pozzo oscuro e rotondo dello stesso diametro, il quale a quanto pareva sì stendeva in una delle quattro colonne che sostenevano la grande torre. In cima a questo pozzo era sospesa una piccola gabbia metallica quadrata, certo un ascensore, e subito noi quattro fummo spinti all'interno di essa, e due dei nostri catturatori entrarono nella gabbia con noi tenendo sempre puntati i loro micidiali dischi. Si udì lo scatto di un pulsante, poi un'improvvisa ventata, e subito la gabbia cominciò a discendere a velocità spaventosa. Passammo come un lampo nell'opprimente oscurità del pozzo, e poi la gabbia si fermò e una sezione di parete, davanti a essa, si aprì, lasciando passare un'ondata di viscida luce rossastra. Subito uscimmo, seguiti dalle due guardie.
Eravamo ai piedi di una possente colonna, quella che avevamo disceso, e ci trovavamo sul pavimento di una grande sala circolare dal soffitto piatto, nella quale entravano e uscivano file interminabili di creature sferiche. Al centro della sala, dietro di noi, sorgeva l'enorme colonna spessa cinquanta piedi, e saliva, inclinata, scomparendo nel soffitto della grande sala, duecento piedi più in alto. A parte la torreggiante colonna e la marea di creature che passava nella sala, il locale era spoglio e vuoto, illuminato soltanto da fenditure strettissime nelle pareti, che facevano entrare la luce rossastra e sanguigna. Sentii che Hal Kur dava voce al suo sbalordimento per la scala gigantesca sulla quale ogni cosa, su quel mondo, sembrava costruita, e poi giunse un ordine gutturale dai nostri guardiani, che ci indicarono una grande porta che si apriva nella parete davanti a noi. Obbedienti, avanzammo verso di essa. Attraversandola, ci trovammo in un lungo e stretto corridoio, apparentemente un passaggio dall'edificio che avevamo appena attraversato a un altro contiguo. C'erano delle finestre lungo le pareti, aperture circolari, e mentre percorrevamo il corridoio vidi fuori la città che avevamo scorto dall'alto, una visione di strade nere e di giardini rossi nei quali scorrevano fiumane di globi. Poi, prima che potessi vedere di più, il corridoio terminò ed entrammo in una grande anticamera, occupata da una dozzina di globi, che appena ci videro puntarono su di noi i loro dischi. Seguì una breve conversazione tra i nostri guardiani e gli occupanti del locale, poi questi ultimi si fecero da parte, permettendoci di passare, attraverso una piccola porta, in una stanza meno vasta. Le sue pareti erano coperte da quelli che parevano scaffali, pieni di modelli di macchine, tutte dall'aspetto ignoto. Al capo opposto della stanza si trovava un oggetto basso, simile a una scrivania, la cui superficie era coperta di altri modelli e da fogli bianchi di quella che pareva carta, coperta di disegni e di diagrammi, e dietro questa scrivania si trovava un altro globo, il più grosso di quelli che avevamo finora visto. Quando ci fermammo davanti a lui egli ci esaminò per un istante con i suoi gelidi occhi impassibili, poi parlò con "voce" più profonda alle due guardie. Queste risposero con un lungo discorso, e la creatura ci esaminò con maggiore attenzione. Nell'istante in cui ci eravamo fermati, avevo notato che Sarto Sen pareva assorbito dai modelli e dai fogli disegnati che si trovavano sulla scrivania. Quando la creatura dietro la scrivania tacque, Sarto Sen si fece avanti, raccolse uno dei fogli, e una matita metallica che si trovava accanto. Subito si mise a disegnare qualcosa che non riuscii a vedere, e terminato questo,
porse il foglio al mostro che si trovava dietro la scrivania. La creatura lo prese, lo esaminò attentamente, e poi sollevò lo sguardo su Sarto Sen, e anche su quei lineamenti impassibili e inumani mi parve di scorgere l'ombra della sorpresa. Il globo allora emise un breve ordine, e subito una delle guardie prese da parte Sarto Sen, mentre l'altra spinse Hal Kur, Nar Lon e me verso la porta. Quando uscimmo dalla stanza, mi voltai a guardare Sarto Sen, il quale, ancora sotto gli occhi vigili della sua guardia, era chino sulla scrivania, e stava disegnando con aria intenta. Fummo di nuovo nell'anticamera, nella quale si trovavano ancora i globi armati di prima. Invece di farci passare dal corridoio che avevamo percorso nel venire, fummo condotti, da una porta che si trovava dalla parte opposta, in un altro lungo corridoio, e finalmente la nostra guardia ci fece fermare davanti a una piccola porta che si apriva in esso. La guardia aprì la porta, ci indicò di entrare, e col mortale disco puntato su di noi l'obbedienza era l'unica nostra scelta, e così entrammo in una stanzetta cubica, dalle pareti solide, immersa in una penombra, perché la sola luce giungeva da alcune strette fessure aperte in una sola parete. Dietro di noi la porta si chiuse, ermeticamente. Eravamo prigionieri... prigionieri di un pianeta di una stella lontana. E ora, ripensandoci, mi pare che quei giorni di prigionia che seguirono siano stati i più terribili della mia vita. L'azione, qualsiasi sia, dà sempre un'ultima difesa dalla sofferenza mentale, e ciò che soffrimmo chiusi dalle pareti di quella cella fu peggio che un'agonia. Perché col passare di ogni giorno, di ogni ora, il sole sanguigno che brillava all'esterno si avvicinava al nostro di milioni di milioni di miglia. E noi, che soli nell'universo avevamo la possibilità di scoprire le cause della deviazione del sole rosso... eravamo prigionieri della città degli uomini-globo, impotenti, mentre il destino avanzava implacabile verso il nostro universo. Le ore seguirono le ore e i giorni seguirono i giorni, implacabili, e noi eravamo là, per giorni e ore che non potevamo misurare se non dai cicli ricorrenti di luce che ci raggiungevano dalle fessure della cella. Con ogni notte veniva il freddo, un freddo pungente che ci penetrava fino alle ossa, e malgrado lo splendore del sole morente, i giorni erano tutt'altro che caldi. La porta si apriva due volte al giorno, e una guardia cautamente ci gettava il nostro cibo, che consisteva di una mistura dal sapore di muschio di verdure cotte e di una bottiglia di acqua rossa, dal sapore disgustoso. Tra noi scambiammo poche frasi, che riguardavano quasi esclusivamen-
te la sorte di Sarto Sen. Non avevamo saputo più nulla di lui da quando lo avevamo lasciato, e non sapevamo neppure se il nostro amico fosse vivo o morto. Non potevamo immaginare quale sarebbe stato il nostro destino, e questo, invero, non ci interessava neppure tanto. Tra qualche mese avremmo incontrato la morte con tutto quel pianeta, quando Alto e il nostro sole si fossero incontrati in un olocausto di fiamma. Sopravvivere fino a quel giorno non importava molto. Poi, dieci giorni dopo la nostra cattura, giunse la prima novità a rompere la monotonia della nostra prigionia. La porta si aprì, e Sarto Sen entrò. Quando le guardie richiusero la porta dall'esterno, il mio amico si rivolse a me, col volto ansioso. «Stai bene, Jan Tor?» esclamò con voce rotta. «Mi hanno detto che non vi era stato fatto alcun male, ma ero preoccupato...» Fu questa frase a darmi la prima scossa. «Loro ti hanno detto?» domandai, incredulo. «Loro?» Lui annuì, e sostenne il mio sguardo. «I globi,» disse, semplicemente. Lo fissammo attoniti, ed egli si avvicinò alla porta, tentò di aprirla e non vi riuscì, e subito ritornò verso di noi. «I globi,» ripeté il mio amico. «Questi figli di Alto, queste creature dello spazio, che hanno deviato la rotta del loro sole per mandarlo a cozzare contro il nostro, distruggendo in un uragano di fiamma il nostro universo.» Alla nostra esclamazione di sorpresa egli tacque, e i suoi occhi pensosi sembrarono fissare una visione lontana di incubi e di paure. Quando parlò di nuovo, la sua voce uscì lenta, cupa, come se egli si fosse dimenticato della nostra presenza. «Ho scoperto quando siamo venuti qui per scoprire,» stava dicendo, «ho scoperto il motivo della deviazione di questa stella. Anche prima, già sospettavo... se una stella possiede dei pianeti, e questi mondi sono abitati... abitati da creature dalla scienza superiore, dai poteri divini... questi esseri non potrebbero fare uso della loro scienza per salvare se stessi dalla morte, anche se questo significasse la morte per un altro universo? E questo è quanto essi hanno fatto, come già sospettavo. «È stato questo sospetto a mettermi sulla pista giusta, quando siamo stati esaminati da uno dei capi degli uomini-globo. Avevo scorto sulla sua scrivania dei fogli sui quali erano tracciati dei disegni astronomici, e così presi a mia volta un foglio e vi tracciai un semplice disegno, che egli comprese immediatamente; un disegno che rappresentava due soli che si scontrano.
Questo lo ha convinto della mia scienza, della mia intelligenza, e così quando voi siete stati mandati in questa cella, egli mi ha trattenuto onde interrogarmi. E per ore e ore ho tracciato altri disegni, mentre a gesti lui mi interrogava, chiedendomi spiegazioni. È stata una comunicazione lenta e confusa, ma è stata una comunicazione, e gradualmente siamo riusciti a perfezionare un sistema di segni e diagrammi coi quali abbiamo potuto scambiarci delle idee. E nei giorni seguenti la nostra conversazione simbolica è continuata. «In questo modo lo ho informato del fatto che noi siamo visitatori provenienti da un'altra stella, ma la prudenza mi ha impedito di dirgli che eravamo figli del sole col quale presto Alto si Sarebbe scontrato. Invece, ho detto che la nostra provenienza era Sirio, e ho spiegato che eravamo venuti qui a bordo del nostro incrociatore a vibrazioni a scopo di studio. Evidentemente, il suo interesse era concentrato sull'incrociatore. Mi disse che gli scienziati del suo popolo lo stavano esaminando, e continuò a formularmi domande su domande a proposito del suo funzionamento e della sua costruzione. Perché, sebbene gli uomini-globo possiedano astronavi a schermi di energia, come i nostri modelli antiquati, con le quali possono viaggiare di pianeta in pianeta, essi non sono riusciti a costruire delle navi interstellari come la nostra. Perciò le domande, che ho evaso per quanto mi è stato possibile, mettendo in evidenza la faccenda della collisione stellare. Gli ho spiegato che i nostri astronomi erano stati in grado di prevederla. E come avevo immaginato, questo non lo ha sorpreso. Perché, come ha trovato modo di spiegarmi, la collisione era stata progettata dal suo popolo, per i suoi scopi. «Sembra che, per secoli, gli uomini-globo siano vissuti sui pianeti di Alto. Dapprima essi abitavano sul pianeta più esterno, a miliardi di miglia dalla stella, sul quale la vita era possibile a causa della titanica grandezza di Alto, ribollente di calore e di energia. Là avevano raggiunto una civiltà e una scienza di livello inimmaginabile. Ma col passare dei secoli, quel mondo esterno diventava sempre più freddo, dato che Alto, come tutte le stelle, stava lentamente ma irrevocabilmente raffreddandosi, stava morendo, e i suoi raggi non arrivavano più a scaldare quel mondo lontano. Alla fine venne un tempo in cui il pianeta degli uomini-globo diventò troppo freddo per permettere la vita, e allora gli scienziati si misero disperatamente al lavoro per trovare una soluzione. Spinti dalla necessità, essi inventarono gli schermi gravitazionali, e con essi costruirono le prime astronavi interplanetarie. Ne fabbricarono in grande numero, e a bordo di esse gli
uomini-globo migrarono in massa sul pianeta più vicino, che riceveva da Alto ancora abbastanza calore da rendere possibile la vita. Là si sistemarono, e là la loro civiltà progredì per altri secoli. «Ma lentamente, irrevocabilmente, il loro sole continuò a raffreddarsi e a morire, e con l'inevitabilità terribile e meccanica delle leggi naturali giunse il giorno in cui anche la loro nuova patria diventò troppo fredda per permettere la sopravvivenza. Questa volta, però, il rimedio era a portata di mano, e di nuovo avvenne una grande migrazione da quel mondo gelido a uno interno e più caldo. E così, col trascorrere dei secoli, sfuggirono all'estinzione migrando di pianeta in pianeta, avvicinandosi sempre di più al sole man mano che il sole moriva, avanzando sempre più verso le sue fiamme morenti. «Finalmente, però, dopo molti secoli, scese su di loro il fato che per tanto tempo essi avevano evitato. Alto continuava a spegnersi, a raffreddarsi, ed essi avevano ormai raggiunto il pianeta più interno, e non c'erano altri mondi sui quali fuggire. Ma tra poco tempo, secondo le loro misurazioni, il loro pianeta sarebbe diventato un mondo gelido e senza vita, perché il sole avrebbe continuato a spegnersi fino a diventare una delle tante stelle nere, morto e spento ed esausto, come quei relitti, quei tizzoni consunti che vagano nell'infinità dello spazio. Dunque pareva che stavolta non ci fosse via di scampo. «Ma a questo punto tra loro si formò un gruppo, che avanzò una proposta di colossali dimensioni. Questo gruppo diceva che Alto stava muovendosi verso un'altra stella, meno grande di Alto ma splendente di fiamma e di vita e di calore, e che le sarebbe passato accanto a una distanza minima entro poco tempo. Ma se, invece di passarsi accanto, i due soli si fossero incontrati, si fossero scontrati, quale sarebbe stato il risultato? Sarebbe stato, naturalmente, che la collisione avrebbe formato un nuovo sole al posto dei precedenti due... un sole enorme, titanico, fiammeggiante, il cui calore sarebbe stato sufficiente ad assicurare la vita su qualsiasi pianeta per un tempo lunghissimo. I pianeti interni di Alto, e inevitabilmente tutti i pianeti del sistema solare, sarebbero periti nell'immane olocausto, in quello scontro di giganti. Ma il pianeta più esterno di Alto, che ruotava in un'orbita a miliardi di miglia dal sole, si sarebbe salvato e avrebbe assunto una nuova orbita intorno all'immenso nuovo sole che dallo scontro sarebbe nato. E su questo pianeta gli uomini-globo avrebbero potuto esistere per migliaia e migliaia di anni, sostenuti dal calore della nuova stella. Era un piano perfetto, ed era necessario soltanto deviare il loro sole, Alto, dalla sua
rotta, di quel tanto che bastava a mandarlo a urtare contro l'altro sole, invece di passargli vicino. «Per fare questo, per deviare la loro stella dalla sua rotta, gli uominiglobo si servirono di un semplice principio fisico. Voi sapete che un corpo sferico ruotante, in movimento, cambia la sua direzione se la sua velocità rotatoria viene modificata. Una palla che corre su un tavolo liscio procederà in linea retta, se non ruota su se stessa. Ma se la palla gira su se stessa, nel procedere, il suo movimento avverrà in linea curva, e l'ampiezza e la direzione della curva dipenderà dall'ampiezza e dalla direzione del movimento rotatorio. Il loro sole, che aveva ruotato su se stesso alla stessa velocità per millenni, aveva seguito nello spazio la stessa immensa curva senza mai deviare. E così, concludeva questo gruppo di uomini-globo, se la velocità di rotazione del loro sole poteva venire aumentata di poco, la rotta avrebbe potuto essere modificata. «Il problema, a questo punto, era di aumentare la velocità di rotazione del loro sole, e per fare questo essi radunarono tutte le forze della loro scienza. Sulla loro città fu eretta una torre possente, e sulla sua grande piattaforma furono sistemate delle macchine che potevano emettere un raggio vibratorio di inconcepibile potenza, un raggio che poteva essere diretto a volontà servendosi del grande proiettore telescopico che gli uomini-globo avevano costruito. «Fatto questo, essi attesero il momento calcolato dai loro astronomi, poi puntarono il grande proiettore sul margine del loro sole, e il meccanismo entrò in azione. Questo era il momento cruciale di tutto il progetto, perché essi rischiavano la distruzione del loro universo. Era necessario che aumentassero la velocità di rotazione del loro sole di quel tanto che bastava, ma se l'aumento fosse stato maggiore del previsto, sarebbe stata la catastrofe, perché quando un sole ruota troppo velocemente si spezza e diventa una stella doppia. È questo processo, il processo di scissione, che ha formato le innumerevoli stelle doppie dell'universo, perché esse non erano altro che soli che ruotavano troppo velocemente, dividendosi in due, o esplodendo, e creando così una nova. E gli uomini-globo sapevano che sarebbe bastato un aumento appena superiore per condannare loro allo stesso destino. Fu con ansia infinita che essi videro il raggio affondare nel cielo, e colpire il sole, che cominciò a ruotare più in fretta; poi, dopo un tempo assai breve, il raggio fu spento. L'esperimento era stato coronato dal successo; perché la rotta del sole era stata deviata, sia pure leggermente: ma quella leggera deviazione sarebbe aumentata con il passare dei chilometri, e
tutto sarebbe terminato nello scontro titanico tra i due soli. Così il fine degli uomini-globo era stato raggiunto, ed essi si prepararono alla grande migrazione verso il pianeta più esterno di Alto, che sarebbe avvenuta subito prima dello scontro... e poi, siamo arrivati noi. «Siamo arrivati noi, e ora abbiamo scoperto ciò per cui siamo venuti, la ragione della deviazione di Alto. Perché è stata la scienza, e la volontà degli uomini-globo a deviare l'astro, che ora minaccia di distruzione gli Otto Mondi. Essi sono incalzati dalla morte, e per evitare il loro destino essi distruggono il nostro sole, i nostri pianeti, quello che per noi è il nostro universo!» Capitolo IV. Non ricordo che nessuno di noi abbia parlato, al termine del discorso di Sarto Sen. Eppure, sconvolti come eravamo da ciò che egli ci aveva detto, sapere era in un certo senso un sollievo. Per lo meno, avevamo scoperto cosa aveva deviato Alto dalla sua rotta, e se la scienza e l'intelligenza da sole avevano potuto provocare ciò, la scienza e l'intelligenza sarebbero stati capaci di rimediare. Quando dissi questo a Sarto Sen, il suo volto si rischiarò: «Hai ragione, Jan Tor!» esclamò lui. «C'è una speranza di salvezza! E come ha previsto Mur Dak, la salvezza è nelle nostre mani. Perché se riusciamo a fuggire di qui e a ritornare agli Otto Mondi, potremo tornare indietro con forze più ingenti a schiacciare questi uomini-globo, e a usare il loro proiettore di forza per deviare il loro sole dalla sua rotta attuale.» «Ma perché ritornare agli Otto Mondi?» domandò Hal Kur. «Perché non salire sulla piattaforma, se riusciamo a fuggire, e non usare noi stessi il protettore?» Sarto Sen scosse il capo. «Questo è impossibile,» disse al grosso ingegnere. «Se riusciremo mai a fuggire di qui, lo faremo di notte, perché di giorno le stanze e i corridoi esterni sono pieni di uomini-globo. E di notte non potremo fare nulla, perché Alto, il sole, non sarebbe nel cielo. Né potremmo attendere la sua levata, là sulla piattaforma, perché la nostra fuga sarebbe scoperta subito, e saremmo rapidamente sopraffatti. La nostra sola speranza è di uscire di qui di notte, raggiungere la piattaforma, e cercare di entrare nella nostra astronave. Se ce la faremo, potremo raggiungere il nostro sistema per ottenere l'aiuto necessario a distruggere questi uomini-globo.»
«Ma quando faremo il tentativo?» domandai, e il mio cuore batté più forte alla risposta di Sarto Sen. «Stanotte! Prima usciamo, meglio sarà. Tenteremo poche ore dopo il tramonto.» Proseguì, esponendoci il suo piano di fuga, e noi ascoltammo attentamente, mentre gli occhi del grosso Hal Kur splendevano per la prospettiva dell'azione. Il nostro piano era abbastanza semplice, ed era molto probabile che fallisse, questo lo sapevamo, ma era la nostra unica speranza. Non discutemmo neppure sul percorso da seguire dopo essere usciti dalla cella. Bisognava fuggire, e poi avere la fortuna di superare i mille ostacoli che si frapponevano tra noi e l'astronave. Le ore restanti di quel giorno furono le più lunghe di tutta la mia vita. La proiezione della luce solare sul pavimento sembrava spostarsi con infinita lentezza, mentre noi aspettavamo impaziente l'arrivo delle tenebre. Finalmente la luce si affievolì, scomparve, e il rosso sole morente affondò dietro l'orizzonte di quel pianeta gelido. Ora l'oscurità era scesa su quei mondo, e tra gli edifici della città cominciavano ad accendersi dei punticini di luce. Aspettammo ancora, finché i vaghi rumori attutiti che ci giungevano dall'esterno non si affievolirono e tacquero, e l'unico rumore era provocato dalla guardia che si trovava dietro la porta, che si muoveva, di quando in quando. Sarto Sen si alzò, facendoci segno di prepararci, e poi si gettò al suolo. In fondo alla cella Hal Kur e Nar Lon erano sdraiati, fingendo di dormire, con un mucchietto di stoffa tra loro, che di lontano pareva un'altra figura dormiente. Fatti questi preparativi, io mi avvicinai alla porta e mi fermai accanto a essa, da una parte, e il mio cuore batteva forte all'avvicinarsi del momento dell'azione. Tutto era pronto, e quando ne fu sicuro, Sarto Sen cominciò a recitare la sua parte. Giacendo al suolo emise un rantolo basso e profondo. Ci fu un istante di silenzio, poi un altro cupo lamento si udì, e io sentii un movimento soffocato all'esterno, provocato dalla guardia che si avvicinava a sentire. Sarto Sen emise un altro terribile lamento, e dopo un momento di sosta, si udì scattare il meccanismo della porta. Mi appiattii contro la parete, e dopo un istante la guardia apparve. Nell'oscurità, piegando il capo, distinsi la sagoma rotonda della guardia, che scrutava le tenebre della cella, stringendo il mortale disco. Si fermò per un istante sulla soglia, osservando le tre figure indistinte che giacevano contro la parete opposta; quindi, evidentemente soddisfatto, l'uomo-globo
tornò a fissare Sarto Sen, facendo contemporaneamente un passo avanti. E con un balzo felino fui su di lui. Di tutte le lotte della mia carriera, metto al primo posto quella che si svolse nell'oscurità tra me e l'uomo-globo, perché fu senza dubbio la più orribile. Ero balzato su di lui, deciso a fargli cadere il disco prima che potesse farne uso; e fortunatamente la forza d'urto del mio corpo riuscì a sortire l'intento. Le sue piccole braccia sottili si strinsero su di me con forza insospettata, però, mentre gli arti da insetto mi presero le gambe e mi fecero istantaneamente cadere al suolo. Rotolammo insieme per un istante, in un folle abbraccio, e io cercai di stringere quel corpo rotondo e levigato, e poi accadde una cosa il cui ricordo mi dà anche adesso la nausea. Perché quando le mie mani si strinsero, alla ricerca di un punto d'appiglio, su quel corpo freddo, viscido e sferico, il corpo improvvisamente cedette al mio peso, infrangendosi come una manciata d'acqua, e diffondendo sul pavimento una sostanza viscosa e gelatinosa che si sparse in una massa maleodorante. Sebbene il loro aspetto fosse solido, quelle creature erano come meduse. Mentre la nausea mi soffocava, mi alzai in piedi, fissando follemente gli altri, che erano corsi in mio aiuto. La guardia non aveva gridato, durante il combattimento, e il silenzio che ci circondava era immutato. Sarto Sen era già sulla porta, e scrutava il corridoio, e dopo un attimo fummo fuori della cella, e avanzammo rapidamente lungo il corridoio. Quando lasciammo la cella, però, colpii qualcosa col piede, e, chinandomi, vidi il disco che la guardia aveva lasciato cadere; lo presi e seguii gli altri. Il lungo corridoio, fiocamente illuminato da poche lampade rosse sistemate alle pareti a intervalli molto ampi, sembrava assolutamente deserto. Però, davanti, si vedeva una luce più intensa, e sapevamo che doveva trattarsi dell'anticamera delle guardie. Ci avvicinammo furtivamente, e finalmente ci nascondemmo dietro la porta aperta, allungando il capo per vedere l'interno dell'anticamera illuminata. In quel momento c'erano soltanto quattro uomini-globo, e tre di loro sembravano dormire, su una specie di lungo asse appoggiato al muro. L'altro, però, si muoveva avanti e indietro per la stanza, con il mortale disco stretto in pugno. Dovevamo attraversare la stanza per raggiungere il corridoio che portava nella grande colonna, eppure, tentare l'impresa sotto gli occhi di quella creatura avrebbe significato morire. Rimanemmo nascosti là dietro, incerti sul da farsi, per qualche istante,
chiedendoci se fosse stato prudente operare un tentativo diretto di attacco, quando la questione ci venne bruscamente tolta di mano. L'uomo-globo, girando nella stanza, era giunto a pochi piedi dalla porta dietro alla quale eravamo nascosti, e in quel preciso momento il silenzio fu interrotto da un suono che mi parve il tuono di un'esplosione. Hal Kur aveva starnutito. Nell'udire quel suono l'uomo-globo si girò e ci vide, ed emise un grido che destò immediatamente gli altri. Eravamo in forze pari, quattro contro quattro, e balzammo loro addosso prima che avessero potuto azionare i loro mortali dischi. Il momento che seguì fu caotico, fu un agitarsi di uomini e di corpi sferici nella piccola stanza, una babele di grida soffocate e di suoni gutturali. Stringendo disperatamente una delle viscide creature, cercando un punto d'appiglio che non trovavo, ebbi per un istante la visione di Hal Kur che sollevava in aria una delle guardie e la gettava al suolo, spezzandola come un uovo. Poi un colpo possente del mio avversario mi spedì a gambe levate. Riuscii ad alzarmi in piedi, e vidi che una guardia era a terra, morta e distrutta, e le altre tre ci erano sfuggite e si stavano ritirando, attraverso la porta dalla quale eravamo entrati. Bruscamente si fermarono, e il braccio di una si sollevò col disco puntato direttamente su di noi. In quel momento mi ricordai di qualcosa che avevo stretto nella mano durante tutta l'impresa, qualcosa arrotondato e sottile e duro, con un bottone da una parte. Istintivamente, senza affatto rifletterci, sollevai l'arma, la puntai sulle tre guardie, e schiacciai il bottone. Una piccola palla di fuoco rosa sembrò uscirmi di mano, galleggiò pigramente nell'aria e colpì il gruppo dei nostri avversari. Si vide uno scoppio di fiamme, un momento di inferno di fuoco rosso, e poi fiamme e guardie scomparvero. Mi voltai, e mi diressi con i miei amici verso la porta. Alle nostre spalle si levarono delle grida gutturali lontane, e si udì del movimento. La nostra fuga era stata scoperta. La nostra sola speranza era di raggiungere la grande colonna e l'ascensore prima che i nostri nemici avessero il tempo di prendere dei provvedimenti, e corremmo disperatamente, senza pronunciare parola. Le grida dietro di noi si avvicinarono rapidamente, e si udì, proveniente da un punto imprecisato, un rumore basso e profondo. Un allarme. Ma eravamo già nella grande sala, che era deserta, immersa in un'ombra diradata solo da vaghi punti di luce. Nell'oscurità si perdeva la grande colonna, e radunando le nostre forze corremmo verso di essa. La porta nella colonna era aperta, ed entrammo subito nella gabbia dell'ascensore. Le grida dei nostri inseguitori stavano aumentando d'inten-
sità. Disperatamente, armeggiai intorno ai pulsanti dell'ascensore, come avevo visto fare alle nostre guardie, quando eravamo stati catturati. Ci fu un momento di attesa angosciosa, e poi, proprio mentre i nostri inseguitori sembrarono, dai rumori, sul punto di entrare nella grande sala, un pulsante scattò sotto il mio dito e istantaneamente la gabbia partì come un razzo verso la piattaforma. Il viaggio fu brevissimo, poi la gabbia rallentò e si fermò. Ci trovammo nell'oscurità più assoluta, ma prima di aprire la sezione della piattaforma che si trovava su di noi, mormorai ai miei compagni: «Ci saranno delle guardie sulla piattaforma,» dissi. «Ma dobbiamo raggiungere subito l'astronave. Ci saranno delle altre gabbie-ascensori nelle altre colonne, e i nostri inseguitori saranno subito dietro di noi.» Pronunciando queste parole, toccai il pulsante più in alto, e immediatamente la parte superiore della gabbia si aprì. Per un istante restammo immobili, ma non giunse alcun rumore anormale, e silenziosamente uscimmo sulla piattaforma. Eravamo ai margini della piattaforma, che era parzialmente illuminata da pochi riflettori che riversavano una luce rossa e malata. Molto in basso, nell'oscurità, giaceva la città degli uomini-globo, riconoscibile soltanto dalle luci fioche che vi brillavano. Sopra di noi il cielo notturno gremito di stelle risplendenti si stendeva immenso, e al centro riuscii a distinguere l'astro giallo luminoso che era il sole degli Otto Mondi. E subito la mia attenzione tornò a concentrarsi sulla piattaforma, e, oltre i grandi e minacciosi meccanismi che vi torreggiavano, distinsi la lunga massa lucida del nostro incrociatore, che si trovava ancora nel punto in cui era caduto. Accanto a esso, un riflettore lo immergeva in un bagno di luce rossa, e sotto la luce erano riuniti tre uomini-globo, che stavano esaminando attentamente un piccolo meccanismo che si trovava al suolo. Per un istante mi domandai se quelle creature avevano scoperto il segreto dell'astronave interstellare, ma questo pensiero mi uscì subito di mente, quando cominciammo ad avanzare furtivamente verso di loro. Passammo accanto a un mucchio di grosse sbarre metalliche, e ciascuno di noi ne prese una, poi riprendemmo la nostra cauta avanzata. Dopo un istante ci trovammo a una dozzina di passi dagli ignari uomini-globo, e balzammo subito in piedi e li attaccammo stringendo le sbarre di ferro. Il nostro attacco fu così veloce e inatteso che i tre ebbero solo il tempo di voltarsi verso di noi, riuscendo a sollevare parzialmente i loro dischi, e poi le nostre mazze di ferro ebbero ridotto i loro corpi in una massa gelatinosa
che scorreva al suolo. Lasciammo cadere le nostre armi improvvisate, e balzammo verso l'incrociatore. La porta nello scafo era aperta, e subito fummo all'interno. Immediatamente Sarto Sen risalì la scaletta che portava nella calotta di comando, mentre Hal Kur e Nar Lon correvano verso il generatore. Mi fermai a chiudere il portello a tenuta stagna, la cui chiusura fece automaticamente entrare in funzione le pompe a ossigeno, e poi mi affrettai a salire la scaletta. Mentre salivo si udì il rumore familiare del generatore di vibrazioni, che entrava in azione. Quando fui nella calotta di comando, trovai Sarto Sen ai comandi. Mentre entravo nella calotta di comando, dall'esterno giunse un rumore metallico, e avvicinandomi all'oblò vidi una dozzina di nere figure sferiche riversarsi sulla piattaforma da un ascensore sistemato in un'altra colonna. Corsero verso di noi, udirono il ronzìo del generatore, e si fermarono bruscamente. I loro dischi si sollevarono, e dodici sfere di fuoco balzarono contro di noi. Ma era troppo tardi. Mentre le fiamme ci correvano incontro, si udirono degli scatti sul quadro di comando, mentre Sarto Sen li manovrava con mani esperte, ci fu il rumore del vento, e poi la rossa piattaforma e i suoi occupanti erano scomparsi alla nostra vista, e l'astronave stava volando di nuovo nell'immensità dello spazio. Capitolo V. Ricorderò sempre le settimane del nostro viaggio di ritorno come un periodo apparentemente eterno, durante il quale volammo nello spazio senza fine, combattendo la stanchezza e il desiderio di riposo. Infatti, adesso eravamo rimasti in quattro, e la manutenzione del generatore, da sola, richiedeva almeno due uomini, mentre uno doveva restare di guardia nella calotta di comando. Questo significava che ciascuno di noi poteva avere soltanto dei brevissimi intervalli di riposo, disseminati irregolarmente durante il volo nello spazio. Malgrado ciò, sono sicuro che non avremmo potuto ugualmente farcela, se non ci fosse stato con noi Nar Lon, perché lui era stato il capo degli ingegneri, e nessuno poteva raggiungere la sua scienza e la sua abilità, pari a quella di tre uomini. E così procedemmo nell'infinito, mentre Alto rimpiccioliva alle nostre spalle, e l'astro luminoso che era il nostro sole splendeva vivido davanti a noi. E durante le lunghe ore dei miei turni di guardia nella calotta di comando, i miei occhi passavano con uguale terrore dalla stella rossa alla
stella gialla, perché sapevo che a ogni istante questi due giganti dello spazio si avvicinavano al punto dell'incontro, verso la fine inesorabile degli Otto Mondi. Il generatore ronzava ininterrottamente, e la nostra astronave avanzava, alla massima velocità, attraversando l'abisso cosmico a una velocità di molto superiore a quella della luce. E certo dall'inizio del tempo mai ci fu viaggio più strano del nostro. Un viaggio da stella a stella, in un'astronave spinta da vibrazioni invisibili, con un equipaggio composto di quattro uomini stanchi e dagli occhi arrossati che dimenticavano l'immane fatica per portare nel sistema solare la notizia del fato che si stava avvicinando. Il nostro viaggio di andata era stato come un sogno, ma il viaggio di ritorno somigliava molto di più a un incubo torturante e interminabile. Però, alla fine, fummo al termine, e gradualmente diminuimmo la velocità per raggiungere il nostro sistema. Quando raggiungemmo i confini del sistema solare, e ricevemmo la prima chiamata telestereo da Nettuno, la nostra velocità era già a livelli semplicemente cosmici. Quando dichiarammo la nostra identità, comunque, fu emanato in tutto il sistema solare l'ordine perentorio di sgombrare tutte le rotte spaziali, in modo che potessimo dirigerci a tutta velocità verso la Terra senza il pericolo di una collisione. E così, finalmente, la nostra astronave si abbassò sulla torreggiante cupola della Sala dei Mondi, e scese nel campo di atterraggio dal quale eravamo partiti per il nostro fatale viaggio. Lottando contro la stanchezza che minacciava di sopraffarmi, uscii dall'incrociatore e avanzai barcollando fino a raggiungere le mani soccorrevoli di coloro che mi aspettavano, e cinque minuti dopo mi trovai sul podio di Mur Dak, di fronte al Consiglio che era stato frettolosamente radunato. In piedi, tremando lievemente a causa della terribile stanchezza, parlai a Mur Dak e al Consiglio, facendo un rapporto esauriente e conciso del nostro viaggio e della scoperta da noi compiuta. Quando ebbi terminato, e mi fui inchinato all'assemblea, e una poltrona ebbe accolto il mio corpo disfatto, un silenzio completo e mortale calò sulla grande sala, e poi si levò un sospiro, quando Mur Dak prese la parola. «Avete tutti udito il rapporto di Jan Tor,» disse, con la solita voce calma e pacata, «e ora sapete quale fato ci minaccia e quali possibilità ci rimangono di evitare il nostro destino. E adesso dovete prendere una decisione. Come sapete, durante le trascorse settimane i nostri scienziati hanno lavorato instancabilmente alla costruzione di molte centinaia di astronavi a vibrazione, come quella usata da Jan Tor per il suo viaggio. Presto, ormai,
queste astronavi saranno completate, e potranno essere da noi usate in uno di questi due modi. «Possiamo servircene per salvare una piccola parte del nostro popolo, dato che all'interno di esse alcune migliaia di uomini e donne possono salvarsi, fuggendo verso un'altra stella, lasciando però tutti gli altri a perire nello scontro dei due soli. Oppure possiamo usarle per combattere, invece di fuggire, dirigendoci a bordo di esse su quel pianeta di Alto, attaccando gli uomini-globo e usando il loro proiettore di forza nel tentativo di deviare Alto prima che ci possa distruggere. E questa è la decisione che dovete prendere, una decisione dalla quale dipende il destino della razza umana. È preferibile che pochi di noi si salvino, sicuramente, fuggendo in un altro sistema solare, e permettendo al sole rosso di distruggere il nostro universo, o è preferibile fare un ultimo disperato tentativo di deviare il sole rosso, e di salvare gli Otto Mondi?» E ci fu di nuovo una pausa di completo silenzio, un silenzio cupo e pesante, gravido del destino di un sistema stellare, il destino di due soli. E in quel momento la stanchezza vinse su di me la sua battaglia, e sebbene lottassi per tenere aperti gli occhi, le palpebre sembrarono pesare una tonnellata, e la mia mente affondava sempre più nell'abisso sterminato dell'oblìo. Vagamente, come da una distanza infinita, udii un'esplosione di grida giungere dal Consiglio radunato intorno a me. Poi, appena prima che l'incoscienza si impadronisse del tutto di me, il ruggito diminuì, e udii la voce di Mur Dak, vibrante. «Avete preso la vostra decisione,» stava dicendo. «E quando la flotta interstellare sarà completata, partiremo subito... per Alto!» Le tre settimane che trascorsero tra il nostro ritorno e la partenza della grande flotta furono senza dubbio le più ansiose della storia degli Otto Mondi. I nostri scienziati avevano calcolato che, se dovevamo salvare il nostro sistema, Alto doveva essere deviato dalla sua rotta entro cinquanta giorni, perché trascorso questo periodo sarebbe stato impossibile evitare un incontro, seppure limitato, ma sempre di conseguenze catastrofiche per i pianeti del sistema solare. Dovevamo raggiungere il proiettore sul pianeta di Alto e servircene prima della fine del cinquantesimo giorno, o sarebbe stato troppo tardi. Così, durante i primi venti giorni di quel periodo fatale, ogni altra attività era stata sospesa, nel sistema solare, e tutti gli sforzi erano stati concentrati sull'approntato delle navi interstellari. Ogni pianeta forniva il suo contributo per la flotta, e su ognuno degli Otto Mondi degli uomini faticavano
e lottavano contro la stanchezza nei laboratori e nei complessi industriali, mentre altri erano pronti a prendere il loro posto, se la fatica li avesse sopraffatti. Presto gli incrociatori, più di mille, furono quasi ultimati, e venivano forniti delle armi che i nostri scienziati avevano preparato per essi, un proiettore di mortali raggi azzurri che avevano la proprietà di stimolare una reazione atomica in ogni molecola della sostanza colpita, fino al punto di provocarne l'immediata scomparsa, dissolvendola negli atomi che la componevano. E nelle notti di otto pianeti, ora, gli uomini potevano vedere sulle loro teste, come una spada di Damocle sospesa nei cieli, l'occhio fiammeggiante di Alto, che cresceva, cresceva e irradiava una luce sanguigna sugli Otto Mondi, sospeso nei cieli come un grande sigillo di sangue. E sotto quel segno di morte il lavoro procedeva con furia pazzesca. E su tutti i nostri pianeti le risa alla luce del sole e la gioia e la libertà parevano cose perdute per sempre. Perché sopra gli Otto Mondi si stendeva l'ombra dell'immensa ala dell'angelo della paura... Un evento rimane nella mia memoria, uscito da quel tempo del terrore, un evento che occorse il terzo giorno dopo il nostro ritorno. Mur Dak ci aveva nuovamente radunati nella Sala dei Mondi, questa volta nel suo ufficio, e là, a nome del Consiglio, mi aveva formalmente offerto la carica di comandante in capo della grande flotta che si andava approntando. Nessuno avrebbe potuto ricevere un onore più grande, negli Otto Mondi, e io riuscii soltanto a balbettare qualche parola di ringraziamento. E poi il presidente si rivolse a Sarto Sen informandolo di averlo nominato comandante in seconda. Con nostra grande sorpresa, però, il mio amico non rispose, allontanandosi per un istante da noi e guardando da una finestra. Quando tornò ad affrontarci egli disse con voce calma: «Non posso accettare.» Lo guardammo attoniti, e Mur Dak domandò: «Qual è il motivo?» «Non posso dirlo... adesso,» replicò il mio amico, e lo Sbalordimento nelle nostre espressioni si accrebbe. Allora il volto di Mur Dak divenne una maschera inespressiva, e i suoi occhi lasciarono trasparire il disprezzo. «È dunque possibile che tu abbia paura?» domandò. Il volto di Sarto Sen fu pervaso da un improvviso rossore, ma egli non rispose, affrontando per un istante i nostri sguardi e poi voltandosi verso la porta. L'incantesimo di sorpresa che mi aveva avvinto fino a quel momento
si ruppe, e io corsi verso di lui, gli afferrai il braccio. «Sarto Sen!» gridai, e non fui in grado di pronunciare altre parole. Voltò il capo verso di me, e il suo volto si addolcì un poco, e poi bruscamente si voltò e uscì dalla porta, lasciandoci attoniti e immobili. Gli altri mi fissavano con una certa compassione, ma vedendo la mia espressione infelice non fecero commenti su ciò che era appena accaduto, e senza ulteriori osservazioni Hal Kur venne nominato mio comandante in seconda. Più tardi, nel corso della stessa giornata, venni a sapere che Sarto Sen, con Nar Lon e qualche altro assistente, era partito a bordo dell'astronave che avevamo pilotato su Alto, diretto ai suoi Laboratori di Venere. Se avessi avuto il tempo dalla mia parte, lo avrei seguito lassù, ma ormai gli incrociatori della flotta erano quasi pronti, e tutto il mio tempo fu assorbito dal compito di istruire i piloti che avrebbero dovuto guidarli. Fortunatamente i comandi erano semplici, sostanzialmente quasi uguali a quelli delle normali astronavi interplanetarie, così il tempo a nostra disposizione per l'istruzione dei piloti, scarsissimo com'era, si rivelò sufficiente. E così alla fine giunse il ventesimo giorno dal nostro ritorno, e quella notte la grande flotta partì per il suo viaggio fatale. Avevano deciso che i contingenti di ciascun pianeta sarebbero partiti singolarmente, radunandosi poi oltre l'orbita di Nettuno, e da quel punto sarebbe iniziato il viaggio verso Alto. E così quella notte il contingente della Terra partì, da una grande pianura che si stendeva dietro la Sala dei Mondi. Grandi folle, provenienti da tutti i punti della Terra, si erano radunate là per assistere alla nostra partenza... grandi folle silenziose che osservavano le nostre astronavi con i volti pensosi che riflettevano la consapevolezza del fatto che nelle nostre mani riposava la loro sola speranza di sopravvivenza. E alto sui loro capi l'occhio sanguigno di Alto, il sole che era la nostra mèta, risplendeva minaccioso. In piedi con Hal Kur e il mio pilota nella calotta di comando dell'ammiraglia, vidi la terra allontanarsi sotto di noi mentre il nostro volo iniziava, e la nostra velocità aumentava gradualmente. Quando il vecchio pianeta grigio fu scomparso il mio cuore vibrò al pensiero che questa volta Sarto Sen era rimasto indietro. E poi le altre astronavi si erano disposte in formazione, dietro di noi, e la nostra flotta stava volando attraverso il sistema solare, verso l'appuntamento oltre Nettuno. Quando raggiungemmo il punto d'incontro ci fermammo, sospesi a poche migliaia di miglia dai picchi aguzzi del mondo di ghiaccio. Aspettammo pochi minuti e poi una nube di punti neri apparve dietro di noi, avvicinandosi e prendendo forma e diven-
tando una formazione di astronavi che prese posto dietro di noi. Era la flotta di Marte, e fu seguita in rapida successione dalle flotte di Urano e di Venere. Dalla contorta superficie ghiacciata di Nettuno salì la flotta di quel pianeta, che prese posto nella formazione appena prima di quella dell'inanellato mondo di Saturno. Poi, insieme e ultimi, giunsero i due ultimi contingenti della grande flotta, un piccolo gruppo di astronavi proveniente dal minuscolo Mercurio, e la possente flotta di Giove. Sospesi ai confini dello spazio c'erano ora ben più di mille incrociatori, che rappresentavano tutte le forze degli Otto Mondi. Impartii un ordine via telestereo a tutta la flotta, e la possente armata assunse subito una formazione a triangolo, ampio mille miglia alla base, e al cui apice si trovava il mio incrociatore. Un altro ordine, e tutta la grande flotta si mosse all'unisono a velocità costante, una velocità che aumentò progressivamente mentre ci dirigevamo nello spazio verso la grande stella rossa. Le forze dell'uomo si erano radunate, e si avviavano all'ultima battaglia, rischiando tutto in un momento dal quale dipendevano la vita e la morte del nostro sistema solare. Ero accanto al mio pilota nella calotta di comando dell'ammiraglia, insieme a Hal Kur, e stavamo fissando l'immensità dello spazio, là dove il disco rosso di Alto ingrandiva a vista d'occhio. Era un grande fuoco che divampava nel cielo, perché per quattro lunghe settimane la nostra flotta aveva fatto udire il ronzìo dei suoi generatori nelle insondabili profondità spaziali. E ora, trentesimo giorno del nostro volo, eravamo in vista della mèta, e ci stavamo preparando alla calata sulla città degli uomini-globo. Il nostro piano era abbastanza semplice. Le nostre forze dovevano calare improvvisamente sulla città, e mentre gli uomini-globo sarebbero stati impegnati nell'opera di difesa dall'inatteso attacco, un gruppetto di astronavi avrebbe atterrato sulla grande piattaforma, prendendo possesso del proiettore ivi installato. I nostri scienziati avrebbero puntato il proiettore su Alto, nel tentativo di deviare la rotta di quel sole. Bisognava far presto, terribilmente presto, perché quello era il cinquantesimo giorno, il tempo limite concesso dai nostri scienziati; e se entro dieci ore non fossimo riusciti a compiere la nostra missione, secondo gli ultimi calcoli, Alto si sarebbe ugualmente avvicinato al sistema solare, tanto da fare entrare in collisione i suoi e i nostri pianeti e il nostro sole, provocando una catastrofe anche peggiore. Quindi, il nostro tempo era breve. E mentre stavamo piombando sul grande sole rosso, cominciai a dubita-
re del mio coraggio. L'inesplicabile defezione di Sarto Sen aveva già sconcertato la mia mente, e voltandomi indietro a guardare i piccoli punti di luce che erano l'unico segno visibile della nostra flotta nello spazio, sentii che la responsabilità del comando mi soffocava. Non saprei dire per quanto tempo rimasi là a meditare, ma alla fine fui risvegliato dal mio torpore da un'improvvisa esclamazione di Hal Kur. Il grosso ingegnere stava guardando la stella fiammeggiante dall'oblò telescopico della calotta di comando, quello frontale, e quando mi voltai vidi che il suo volto era la maschera dello sbalordimento. Mi fece segno di raggiungerlo, e io guardai con lui. Malgrado gli schermi che avevamo posto sugli oblò per difenderei dai raggi di Alto, lo splendore della stella morente era quasi insostenibile ma i miei occhi si accorsero quasi subito di quanto stava accadendo, e il cuore mi balzò in petto. Perché avevo visto, contro lo splendore scarlatto di Alto, uno sciame di scintille nere, che sembrava aumentare di dimensioni. Le guardammo senza fiato, e dopo qualche istante fummo sicuri del fatto che esse si avvicinavano a noi, e aumentavano velocemente di grandezza, mentre la nostra flotta si precipitava incontro a esse. E stavano assumendo una forma definitiva, scafi lucidi, lunghi, a forma di pesce... Hal Kur mi fissò, e i suoi occhi mandavano fiamme. «Sono astronavi!» gridò. «Astronavi interstellari, come le nostre! Quegli uomini-globo... possiedono le nostre stesse astronavi!» A questa esclamazione, una morsa terribile parve stringermi la gola. Le astronavi davanti a noi potevano venire solo da Alto, potevano essere occupate solo dagli uomini-globo dei pianeti di Alto. Mentre noi eravamo rimasti imprigionati, i loro scienziati avevano studiato il disegno del nostro incrociatore, lo avevano compreso e lo avevano riprodotto, e durante il nostro viaggio di ritorno avevano costruito una flotta di navi interstellari, immaginando che alla nostra fuga sarebbe seguito un attacco. E ora erano venuti a sostenere quell'attacco, là nell'abisso interstellare, e le due grandi flotte stavano per scontrarsi in una battaglia che si sarebbe svolta tra le stelle! Rimasi immobile per un istante, attonito, poi impartii al telestereo gli ordini. «Tutte le astronavi si preparino al combattimento,» annunciai, con la maggiore calma possibile. «Ridurre gradualmente la velocità a cento miglia orarie, mantenendo la stessa formazione fino a nuovo ordine.» Dallo scafo del mio incrociatore, sotto di me, giunse un rumore di passi
frettolosi, di ordini rauchi, di rumori metallici, mentre i lanciaraggi venivano messi in posizione. La nostra velocità stava diminuendo sensibilmente, e guardando dall'oblò vidi che anche le astronavi degli uomini-globo diminuivano la velocità, avanzando lentamente verso di noi, divise in due colonne. Sapevano, come noi, che a velocità interstellare sarebbe stato impossibile sostenere lo scontro, e desideravano una soluzione non meno di noi. Lentamente, sempre più lentamente, le due flotte si avvicinavano al loro punto d'incontro. Ora riuscivo a distinguere chiaramente gli incrociatori nemici che si stavano avvicinando, simili ai nostri ma più tozzi, con i piloti, gli uomini-globo, chiaramente visibili all'interno delle calotte di comando. Avanzavano direttamente contro di noi, come noi avanzavamo direttamente contro di loro. Poi, quando le due flotte ebbero quasi raggiunto il punto d'incontro, dagli incrociatori nemici partirono contro di noi miriadi di sfere della mortale luce rosata. Questo lo avevo immaginato, e nel momento in cui il nemico aprì il fuoco, lanciai un breve ordine nel telestereo. Istantaneamente la nostra formazione balzò in alto, mentre la flotta degli uomini-globo e le mortali palle di fuoco passavano sotto di noi, senza procurare alcun danno. E passando sopra di loro entrarono in azione i nostri raggi atomici, che distrussero completamente una dozzina di navi nemiche. Subito invertimmo la rotta, imitati dai nostri nemici, e le due flotte avanzarono nuovamente l'una sull'altra. E, nell'avvicinarsi di nuovo, lo spazio fu attraversato da sfere di fuoco rosato e da raggi di luce azzurrina, e io vidi le sfere di fuoco colpire degli incrociatori sotto e intorno a noi, incrociatori che svanirono in un rogo accecante, fatto di un fuoco che non era fuoco, perché nessuna fiamma avrebbe potuto esistere nelle immensità dello spazio. Nell'altra flotta, le navi nemiche si consumavano in una vampata azzurra di atomi, quando i nostri raggi le colpivano. Poi le due flotte si scontrarono e le navi si mescolarono, e la battaglia divenne un insieme di combattimenti individuali tra incrociatori, che roteavano e sparivano e si colpivano e cadevano là dove nulla esisteva, nell'abbraccio di mille stelle che osservavano impassibili dai vortici dell'infinito, e nuove stelle, fiamme rosa e atomi azzurri, si univano e si formavano ed esplodevano e scomparivano. Verso di noi avanzò un incrociatore nemico, ma quando il globo di fiamma balzò contro di noi, ci alzammo bruscamente, e nello stesso momento si udì il sibilo del lanciaraggi in funzione. Il raggio colpì la coda
dell'altra nave, che aveva virato con un attimo di ritardo, e dopo un istante la nave nemica fu un tizzone azzurro che scomparve nell'abisso del cosmo. Ma subito dopo due astronavi nemiche avanzarono dai lati opposti su di noi: virammo subito, lanciammo il raggio, che colpì la prima nave. Il pilota di questa non riuscì a fermarsi in tempo, e la nave, già in preda agli atomi impazziti, si scontrò con l'altra, e l'azzurra lebbra si estese anche a questa, e insieme le due carcasse sparirono nello spazio. Mentre questo accadeva, una sfera di fuoco sfiorò la coda della nostra astronave. L'astronave si impennò nello spazio, e vibrò terribilmente. Fummo sballottati all'interno della calotta di comando. Quando Hal Kur e io fummo riusciti a'd alzarci in piedi, il pilota giaceva immobile, privo di sensi, sul pavimento, e immediatamente io mi impadronii dei comandi. La violenta impennata ci aveva portati al di sopra della battaglia, che ora si stendeva sotto di noi come un torrente ribollente fatto di fiamme rosate e azzurre. E io feci discendere la nostra astronave, la riportai nel cuore della battaglia, e i raggi azzurri dei nostri lanciaraggi si affondavano tra le schiere nemiche. Una selvaggia gioia invase il mio corpo e la mia mente, la nuda gioia della battaglia che rimarrà sempre nel cuore dell'uomo, non importa quanti secoli di pace possano trascorrere, e io risi follemente mentre la mia astronave si alzava e si tuffava e girava e roteava come una lucciola impazzita là dove la battaglia era più aspra. Di tutte le battaglie della lunga storia dell'umanità, certo questa era la più gloriosa. Quale antica battaglia sulla terra, o sui mari, o perfino tra i pianeti, poteva eguagliare quell'olocausto incredibile celebrato nell'abisso interstellare, di fronte all'orbita sanguigna di un sole possente, e con in gioco il destino di un sistema solare? Ma in quel momento, mentre la mia astronave si librava sul grappolo di astronavi, vidi che gli incrociatori degli uomini-globo stavano scomparendo in numero sempre crescente, assaliti dai nostri raggi azzurri. Il nemico sembrò arrestarsi, ondeggiare per un istante, e poi tutti gli incrociatori degli uomini-globo cessarono di combattere, indietreggiarono di molte miglia, si raggrupparono e partirono a tutta velocità verso Alto. Il nemico era in fuga! Non ebbi bisogno di ordinare l'inseguimento, perché a quella vista le nostre navi partirono fameliche in caccia del nemico, con il mio incrociatore in testa. La nostra velocità aumentò notevolmente, finché le due flotte non corsero verso Alto più veloci della luce, e i nostri nemici erano quasi a
portata di mano, e conservavano quel loro vantaggio iniziale, minimo davvero, mentre i nostri generatori vibravano come non mai per colmare quell'abisso di spazio che ci divideva. Volavano velocissimi, più della luce, e la nostra flotta era subito dietro di loro, e ci dirigevamo verso il rosso sole che ingigantiva davanti a noi, e che già riempiva metà del cielo. Improvvisamente una macchia nera apparve contro quel sole, si ingrandì con rapidità incredibile, e dopo un istante le navi in fuga furono sparite all'interno della grande fossa cosmica che spalancava la sua bocca vorace davanti a noi. Le nostre astronavi non indugiarono, e ci tuffammo in quell'inferno fatto di tenebra, e il ronzìo dei generatori tacque per qualche istante d'incubo, poi fummo di nuovo nello spazio, nella luce abbagliante del sole rosso. E davanti a noi fuggivano i resti della flotta degli uomini-globo, diretti verso il loro sole. Subito dietro di loro eravamo noi, sopra il grande sole. Poi, proprio quando quasi tutta la nostra fletta fu sospesa su quella fornace, il ronzìo del nostro generatore si interruppe e tacque. E istantaneamente la nostra astronave cominciò a cadere, a cadere sulla fornace di Alto, in quell'oceano di fuoco che si stendeva a dieci milioni di miglia! Le navi della nostra flotta stavano cadendo con noi, come foglie portate dal vento, e io gridai e indicai qualcosa in alto, mentre la morte tendeva le sue dita di fiamma sotto di' noi. Lontano, lontano sopra di noi, era sospeso un piccolo gruppo di incrociatori dai quali scendevano grandi raggi di luce purpurea, scendevano su di noi, illuminavano le nostre astronavi di una livida luce sanguigna. «Ci hanno preso in trappola!» gridai, disperatamente. «Quelle astronavi... quel raggio purpureo... sta neutralizzando le vibrazioni dei nostri generatori... ci hanno condotti sopra il loro sole, e adesso stiamo cadendo...» Sotto di noi si apriva la grande voragine di fuoco che era Alto, che si stendeva da un orizzonte all'altro, con le sue lingue di fiamma che si sollevavano voraci verso di noi, con gorghi e voragini infernali che si aprivano in ogni momento su quella superficie in ebollizione. Malgrado il materiale isolante dell'astronave, il più resistente che fosse stato creato nell'universo, il calore stava crescendo, all'interno della calotta di comando. E la forza di gravità della stella tra poco avrebbe reso impossibile il ritorno, anche se i generatori fossero entrati nuovamente in funzione. E fu in quell'istante che io guardai di nuovo verso l'alto. Una dozzina di incrociatori, in coda alla flotta, erano sfuggiti alla trappola, deviando in tempo, e si erano subito avventati contro gli incrociatori nemici che ci tenevano avvinti con un'impal-
pabile catena purpurea. Non si servirono dei raggi azzurri, quei valorosi piloti, ma vollero assicurarsi della distruzione del nemico sacrificando la propria vita, tuffandosi contro le navi nemiche in uno scontro mortale, e subito dopo i raggi purpurei svanirono, mentre i relitti sopra di noi cominciarono a cedere verso il sole come uno sciame di farfalle accecate da una lampada troppo bruciante. I nostri generatori, una volta svaniti i raggi, ripresero a ronzare, e le nostre astronavi, proprio all'ultimo momento, riuscirono a sottrarsi al terribile destino che ci era stato riservato. Sfrecciamo verso l'alto, e degli incrociatori nemici superstiti non c'era più nessuna traccia, e, senza curarmi della stanchezza, fissai il mio cronometro, e impartii un ordine a tutta la flotta. Eravamo rimasti in cinquecento, cinquecento incrociatori superstiti che si allontanarono dal sole rosso in direzione del piccolo pianeta che era la patria degli uomini-globo. Era grigiastro, da quella distanza, ma presto ritornò rossastro, mentre la distanza spariva tra noi e quella piccola sfera gelida sulla quale era riposto il destino dell'umanità. Io guardavo ansiosamente il cronometro, perché era rimasto soltanto un quarto d'ora di tempo, prima che qualsiasi nostro sforzo fosse risultato inutile. Le nostre astronavi scesero sul rosso pianeta come uno sciame di meteore, e si abbassarono sulla città degli uomini-globo, verso i tetti neri e le strade nere sui quali incombeva la possente torre. Mentre stavamo discendendo sulla torre, dal pianeta ci volò incontro una flotta di cinquanta navi stellari, quelle che erano sopravvissute alla tremenda battaglia cosmica. Si avventarono su di noi decise al sacrificio, e il minuto che seguì fu un caos di esplosioni e di combattimenti e di fiamme rosate e azzurre e di frammenti che discendevano come meteore sulla superficie del pianeta. Cinque minuti dopo l'inizio di quel disperato attacco, noi avevamo perduto più di cento astronavi, ma avevamo distrutto il nemico fino all'ultimo incrociatore, o almeno così pensavamo. E la mia ammiraglia e le poche astronavi prescelte stavano discendendo rapidamente sulla torreggiante piattaforma, dove si trovava il proiettore per raggiungere il quale avevamo combattuto un'incredibile battaglia. Stavamo abbassandoci, e la nostra velocità diminuiva mentre la mèta si avvicinava, sempre di più, sempre di più, e la piattaforma era vicina, sempre più vicina... Un grido di rabbia impotente percorse l'astronave, e nello stesso istante scorsi una massa nera che discendeva dal cielo e ci passava accanto, un incrociatore superstite degli uomini-globo che doveva essere rimasto in orbi-
ta intorno al pianeta fino all'ultimo istante. Ci passò accanto con velocità incredibile, poi rimase sospeso sulla piattaforma per un lungo istante di incubo. In quel momento torrenti di raggi azzurrini partirono dalle nostre navi, contro l'ultimo nemico, ma era troppo tardi, perché una pioggia di globi rosati si abbatté sulla piattaforma, e la colpì, con le quattro possenti colonne. L'incrociatore nemico svanì in una vampata azzurra, sotto i nostri raggi, ma dalle nostre gole uscì un grido di disperazione, quando vedemmo brillare le sfere di fuoco che avevano colpito la torre, che esplosero in una vampata che durò qualche istante e poi svanì; e la possente torre tremò, sembrò rattrappirsi, cadde in un torrente di metallo fuso e di frammenti sulla città. La torre era scomparsa. Il proiettore era stato distrutto. E le nostre astronavi rimasero sospese nell'aria, immobili, e i nostri uomini tacevano, come pure io tacevo, fissando dagli oblò il disastro, stolidamente, senza reagire. Avevamo perduto. Perché quando alla fine sollevai lo sguardo, vidi che la lancetta del cronometro aveva superato la decima ora. Anche se avessimo avuto un altro proiettore, sarebbe stato troppo tardi. Ormai nulla avrebbe potuto salvare gli Otto Mondi, ormai nulla avrebbe potuto impedire il titanico scontro che avrebbe cancellato il nostro sistema. L'uomo aveva rischiato la sua vita, il suo universo, in una grande partita... e aveva perduto. Improvvisamente Hal Kur sembrò impazzito, accanto a me nella calotta di comando. Soffocò, emise delle esclamazioni assolutamente incoerenti, levò una mano tremante verso il nostro oblò telescopico, in direzione del grande sole. Io non sollevai lo sguardo, ed egli mi afferrò il braccio, mi trascinò all'oblò, tremando violentemente, con gli occhi Sbarrati. Guardai. Proprio ai margini del grande sole c'era una macchia nera, una macchia nera e allungata che era sospesa immobile, e dalla quale partiva un raggio luminoso, che colpiva Alto. Per un istante non compresi, ma guardai attonito, cercando di capire quello che stavo osservando. Quella piccola scintilla nera... «Guarda!» stava urlando Hal Kur, come un pazzo. «È...» annaspò, barcollò... «È la nostra vecchia astronave! È Sarto Sen!» Sarto Sen! Quel nome esplose nella mia mente come un fuoco vivente. Quel raggio... lo stava manovrando sul margine di Alto, come avevano fatto gli uomini-globo... stava facendo ruotare il sole rosso più in fretta, più in fretta... «Ma è troppo tardi!» gridai, indicando con mano tremante il cronometro. Troppo tardi! Nulla avrebbe potuto deviare dalla sua rotta il grande sole,
impedendogli di distruggere gli Otto Mondi, ormai. Troppo... Mi fermai, e un pesante silenzio cadde tra di noi. E in quel silenzio, Hal Kur e io guardammo insieme, mentre la meraviglia scendeva sul nostro volto, uno stupore che nessun uomo aveva mai provato prima d'allora. Perché sul volto del grande sole rosso era apparsa una sottile linea nera, una linea che si ampliò, divenne più evidente, con il trascorrere dei secondi. E divenne un crepaccio, un sottile crepaccio, che divideva in due il grande sole rosso, un crepaccio che si stava allargando sempre più. Alto si stava spaccando in due! In due grandi emisferi, in due masse di fiamma scarlatta che si allontanava sempre di più tra di loro. Si spaccava in due, perché il raggio di Sarto Sen aveva aumentalo la velocità di rotazione della stella a tal punto che essa non poteva più restare un'unica massa. Accanto alle fiamme, con il raggio splendente in azione fino all'estremo istante, rimase sospeso il piccolo incrociatore, che poi svanì quando la metà di destra del sole, un oceano di fiamme divampanti, fu su di lui. Ma Sarto Sen aveva vinto! Le due metà del sole spezzato si stavano allontanando, divergendo tra di loro, per seguire le loro rotte opposte, allontanandosi dalle due parti, lentamente, maestosamente. Tra di esse, ora, splendeva la stella gialla che era il nostro sole, e il fato che lo aveva minacciato ora svaniva con le due metà di Alto che si allontanavano in opposte direzioni, si allontanavano l'una dall'altra, ed entrambe dal nostro sole. E sotto di noi, il pianeta rosso che era stato di Alto si avventò verso la metà di destra del grande sole spezzato, avvicinandosi sempre più e scomparendo, inghiottito dalla voragine di fuoco. Tutti i pianeti, uno dopo l'altro, vennero inghiottiti dalle due metà del sole, e finalmente i nostri incrociatori rimasero soli nello spazio vuoto, che si stendeva tra le due stelle che si allontanavano. Nel nostro incrociatore, in quel momento, e in tutte le astronavi vicine, e questo lo potevo immaginare si stava levando un coro di grida di gioia, di felicità folle e frenetica, e Hal Kur, accanto a me, urlava come un pazzo. L'uomo aveva vinto la più grande minaccia che si era presentata nel corso della sua storia, aveva spaccato un sole e distrutto un sistema stellare per salvarsi. Ma in quanto a me, in quel momento, ebbene, io sapevo soltanto che il mio amico era morto. Era notte quando il contingente residuo della nostra flotta giunse sulla Terra. Avevamo volato per lunghi giorni verso la nostra patria, fermandoci su tutti i pianeti per permettere a quei contingenti di distaccarsi da noi. E
non erano state molte le navi che erano ritornate sui mondi di partenza, delle centinaia che ne erano partite, eppure vennero accolte da folle osannanti, ebbre di felicità, come mai era accaduto nella nostra storia. Perché gli Otto Mondi erano impazziti di gioia. Così, finalmente, le dodici astronavi che erano le sole sopravvissute del contingente della Terra discesero sulla Sala dei Mondi. Luci splendide brillavano intorno a essa, e nelle grandi pianure verdi sembrava si fosse raccolta metà della popolazione terrestre, una folla imponente e festante. Le nostre astronavi discesero lentamente nella notte, e fu all'esterno della Sala dei Mondi che incontrammo Mur Dak e i membri del Consiglio. Il presidente fu il primo a stringermi la mano, e fu dalla sua voce che seppi come Sarto Sen aveva escogitato il modo di salvarci, riproducendo nei suoi laboratori il raggio di forza degli uomini-globo e partendo a bordo del nostro vecchio incrociatore con il proiettore, verso Alto, accompagnato da Nar Lon e dai suoi fedeli assistenti. Aveva portato a termine il suo piano mentre lo si accusava di codardia, come mi disse Mur Dak con volto tristissimo, perché egli aveva saputo che il suo piano lo avrebbe condotto alla morte e sapeva che avrei insistito per dividere il suo destino. Ma ora le grida della grande folla stavano diventando insistenti, e quelle grida chiamavano Jan Tor. I membri del Consiglio si stavano già avviando verso la Sala dei Mondi con i superstiti della flotta interstellare, e si presentarono alla folla, che li accolse con possenti applausi. Rimase solo Mur Dak con me e Hal Kur, e dopo un istante anche lui ci lasciò, facendoci promettere di raggiungerlo al più presto. Non potevo, in quel momento, affrontare quella marea di gente felice. Accanto a me, lo sapevo, ci sarebbe stata, invisibile a loro, l'ombra di un altro, l'ombra di un giovane magro, dagli occhiali spessi, al quale dovevamo tutto. Così rimasi nel silenzio del campo di atterraggio, guardando il cielo splendente di stupendi diamanti ancora una volta... guardando due scintille rosse, ormai molto lontane tra di loro, che luccicavano dalle infinite profondità dello spazio. Parve che una nebbia mi oscurasse la vista, impedendomi di vedere quelle due scintille rosse che stavo fissando. Accanto a me, allora, si udì la voce profonda di Hal Kur. «Lo so, Jan Tor,» mi stava dicendo. «Era anche mio amico.» Mi indicò gli incrociatori provati dalla grande battaglia, e poi fece un ampio gesto, che comprendeva tutto il cielo nel quale mille gioielli di fuoco pulsavano. «È stato da questa Terra che è partito il primo uomo, Jan Tor. Di pianeta
in pianeta, fino a conquistare un sistema. E ora che Sarto Sen ha salvato questo sistema, e ci ha dato questi incrociatori, fin dove arriverà l'uomo, mi chiedo? Lontano... lontano... sistema dopo sistema, stella dopo stella, costellazioni, nebulose... sempre più lontano...» Tacque, e rimase immobile accanto a me, una figura oscura ed eretta, col braccio sollevato in una promessa altera e ricca di promesse, fatta alle stelle vivide e pulsanti. Parte seconda. I LADRI DI STELLE Minuti, che trascorrevano e diventavano ore che passavano nell'infinito formando grappoli di secoli che danzavano tra i mille grappoli delle stelle della Galassia. E come sciami di stelle cadenti, le astronavi partivano di pianeta in pianeta, di stella in stella, di sistema in sistema, mondi silenziosi in una coltre di ghiaccio e mondi torridi in un torrente di luce, tra meteore e comete e planetoidi vagabondi, tra mille specie amiche e ostili. Per salvare l'uomo e dargli la chiave delle stelle era stato necessario spezzare il prodotto più titanico della natura, un sole. Da Canopo, la fulgida gemma dello spazio, alla rossa Betelgeuse, alla sanguigna Antares, alla tremolante Verga, sempre più avanti, verso il centro, verso i margini della Galassia. E sospesi nei confini di quell'isola cosmica, gli uomini scrutavano l'immenso abisso di vuoto che si stendeva oltre le stelle. Capitolo I. Quando salii sul ponte, il pilota di turno si voltò e mi salutò. «Alpha Centauri è davanti a noi, signore,» mi annunciò. «Compi una curva di trenta gradi,» gli dissi, «e diminuisci la velocità a ottanta unità luce, finché non avremo superato il sistema.» Immediatamente, egli passò le mani sui comandi, e avvicinandomi a lui vidi la spia rossa della velocità discendere, mentre l'astronave rallentava. Allora, guardando attraverso la parete telescopica della cabina, osservai lo spettacolo dello spazio interstellare, che si spostava lentamente man mano che l'astronave procedeva lungo la curva. Il ponte si trovava sulla cima dello scafo lungo, a forma di sigaro, della nostra astronave, e la finestra telescopica mostrava la bellezza dello spazio
interstellare in tutto il suo fulgore. Davanti a noi splendeva il sistema binario di Alpha Centauri, due soli possenti e fiammeggianti che col loro splendore facevano impallidire butti gli altri astri del cielo, allontanandosi lentamente da noi. Alla nostra destra lo spazio nerissimo era tempestato di gioielli fulgidissimi, i fuochi delle stelle pulsanti della galassia, tra i quali spiccavano lo splendore scarlatto di Betelgeuse e la limpida luce di Canopo e il violento biancore di Rigel. E proprio davanti a noi, ora, emerso dal fulgore della stella doppia che avevamo lasciato alle nostre spalle, pulsava la luce gialla del sole del nostro sistema. E io fissavo quell'astro giallo, verso il quale la nostra astronave volava ottanta volte più veloce della luce; ed erano trascorsi due anni da quando eravamo partiti di laggiù, per diventare membri della grande flotta della Federazione dei Mille Soli, che manteneva la pace tra le spirali della galassia. Ed eravamo andati lontano, con la Flotta, in quei due anni, avevamo percorso tutte le rotte della Via Lattea, annientando quei pirati spaziali che erano insorti contro l'ordine costituito, minacciando il commercio interstellare. E ora che un ordine inviato dalle autorità del nostro sistema natale ci richiamava in patria, era con ansia inesplicabile che stavamo fissando quell'astro giallo ancora così piccolo sullo sfondo del cielo, attendendo con desiderio il momento del ritorno. Le stelle che avevamo raggiunto, i popoli che le abitavano, quelli che ci erano stati amici, facendo parte della grande Federazione, e che malgrado la loro ospitalità eravamo stati felici di lasciare, ci dicevano che, benché ci fossimo abituati alle forme di vita aliene e disumane che abitavano le stelle, dagli strani cervelli viventi di Algol al popolo pennuto di Sirio, i loro mondi non erano mondi umani, non erano i piccoli pianeti familiari, gli Otto Mondi che ruotavano intorno al nostro sole, e verso i quali eravamo ora diretti a tutta velocità. Mentre pensavo a questo, di fronte all'oblò che mostrava la selvaggia bellezza di Alpha Centauri, ormai alle nostre spalle, il pilota manovrò i comandi, e la velocità tornò ad aumentare. Nel giro di pochi minuti la nostra astronave volò a più di mille unità-luce, grazie ai vibropropulsori che solo da pochi anni erano stati scoperti, e che permettevano di aumentare incredibilmente la velocità interstellare, un dono che la scienza di Sarto Sen, una figura ormai diventata leggenda, aveva offerto all'umanità. A questa incredibile velocità, possibile soltanto a pochissime astronavi, nella galassia, stavamo percorrendo milioni e milioni di miglia, nel nulla, a ogni secondo; malgrado ciò, la stella gialla, al centro dello schermo, sembrava uguale a prima.
Improvvisamente, la porta dietro di me si aprì e fece entrare la giovane Dal Nara, il secondo ufficiale di bordo, l'ultima discendente di una lunga dinastia di celebri piloti interstellari. La giovane mi sorrise e salutò. «Ancora dodici ore, signore, e poi saremo arrivati,» mi disse. Le sorrisi a mia volta. «Non ti dispiacerà forse essere di ritorno? Di ritrovarti davanti al nostro vecchio sole, vero?» domandai, e lei scosse il capo. «No! Può darsi che sia soltanto una capocchia di spillo, paragonato a Canopo e alle altre stelle, ma in tutta la Galassia non c'è nulla di uguale a esso. Mi domando, però, per quale motivo ci abbiano ordinato di abbandonare la flotta, così, senza ragione apparente.» Il mio volto si oscurò, e dissi, lentamente: «Non so. Per quanto mi risulta, mai una stella ha richiamato una delle sue astronavi nella flotta della Federazione, ma il motivo deve esistere...» «Ebbene,» disse lei allegramente, voltandosi per uscire. «Non importa il motivo, dato che si tratta di un viaggio a casa. L'equipaggio è più ansioso di me... stanno manovrando i generatori come se si trattasse di vita o di morte!» Risi, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, ma quando tornai a fissare l'oblò la domanda tornò ad affacciarsi alla mia mente, fastidiosa e imperiosa. Perché era davvero senza precedenti, il richiamo di un'astronave della Grande Flotta della Federazione. La Federazione comprendeva tutti i popoli della Galassia, e contava esclusivamente sulla flotta per mantenere l'ordine negli spazi interstellari, e la flotta era formata dalle astronavi fornite proporzionalmente da ogni stella. Solo uno stato di assoluta emergenza avrebbe indotto una stella a richiamare una delle sue astronavi, eppure il messaggio che ci aveva raggiunto aveva ordinato di ritornare nel sistema solare alla massima velocità consentitaci dai nostri generatori, e di presentarci alla Sezione della Scienza Astronomica, su Nettuno. C'era qualcosa dietro quell'ordine, e lo avremmo scoperto presto, perché ormai eravamo all'ultima tappa del nostro viaggio; e così, decisi di dimenticare il problema, per il momento. Con una inesplicabile insistenza, comunque, la domanda continuò a tormentarmi durante tutte le ore che seguirono, e quando finalmente, dodici ore dopo, fummo in vista del sistema solare, fu con aria assente che fissai la grande stella gialla che cominciava a occupare buona parte dello schermo. La nostra velocità diminuiva progressivamente, man mano ci avvicinavamo alla stella, e quando fummo a pochi milioni di chilometri
dall'ultimo avamposto del sistema solare, Nettuno, l'arrivo e la partenza di tutto il commercio interstellare del sistema, eravamo già al di sotto della velocità della luce. E quando superammo la luna di Nettuno sotto di noi si stese la marea del traffico spaziale. A cinquanta miglia dalla superficie, una cortina impenetrabile di metallo ribolliva... migliaia di grandi astronavi andavano e venivano e si fermavano. Era l'intrico metallico più impressionante del sistema solare, ed era il terrore di tutti i piloti giovani e inesperti. Da un orizzonte all'altro, le astronavi sembravano una massa unica, le cui singole unità venivano da tutti i punti della Galassia. Immensi mercantili di Betelgeuse, superbi incrociatori di Arcturus e Vega, astronavi con carichi di uranio e altri minerali radioattivi, provenienti dalle inesauribili miniere "calde" dei mondi di Antares, veloci e nere astronavi postali della lontana Deneb... tutte queste astronavi, e miriadi di altre, ruotavano, salivano e scendevano, in una grande massa che nascondeva il pianeta, in attesa del segnale da terra che permettesse l'atterraggio. E attraverso le poche brecce di quella massa si poteva scorgere il viluppo del traffico interplanetario, a quote meno proibitive, piccole astronavi velocissime che assicuravano a ogni istante i collegamenti tra gli Otto Pianeti, e le coincidenze con le grandi rotte interstellari; e quelle astronavi, grandissime, erano giocattoli in confronto delle titaniche navi interstellari che volavano sotto di noi. Quando il nostro incrociatore si abbassò, però, il traffico cessò, e ci fu fatto subito largo. Il simbolo della Federazione, disegnato sullo scafo della nostra astronave, era conosciuto e rispettato in ogni punto della Galassia, da Canopo a Formalhaut. Scendendo fulminei attraverso la breccia che si era improvvisamente aperta, ci avvicinammo alla superficie del pianeta, rimanemmo per un istante sospesi sopra la prodigiosa distesa di edifici bianchi e di giardini verdi, nell'atmosfera artificiale creata dagli uomini, poi riprendemmo a scendere verso l'edificio della Scienza Astronomica. E mentre stavamo per posarci al suolo, fui costretto a paragonare il paesaggio caldo e accogliente che si stendeva sotto di noi con il gelido deserto ricordato dai testi di storia, il desolato paesaggio di cristalli di ghiaccio che aveva regnato su quel mondo fino a duemila anni prima, quando era iniziata la titanica operazione di terraforming di tutti i pianeti, anche i più ostili, del sistema solare. L'immenso tetto dell'edificio, un vero e proprio astroporto, che ospitava decine e decine di astronavi, era sotto di noi, e dopo pochi istanti ci fermammo. Cinque minuti dopo, ero all'interno di un ascensore che mi portò all'ini-
zio di un corridoio dalle pareti bianche. Un addetto mi stava aspettando, e io lo seguii lungo tutto il corridoio, che terminava con una porta dalla volta altissima, una porta nera. L'addetto aprì la porta, mi fece passare, e la richiuse alle mie spalle. Mi trovai in una enorme sala dalle pareti d'avorio e dalla volta altissima, e la parete davanti a me si apriva sul caldo paesaggio dei giardini fioriti sottostanti, e lasciava entrare l'aria calda e profumata. C'era una scrivania, da una parte, e dietro la scrivania era seduto un uomo dai capelli brizzolati e dagli occhi penetranti, che si alzò e mi venne subito incontro. «Ran Rarak!» esclamò. «Sei venuto! Ti stiamo aspettando da due giorni!» «Siamo stati costretti a fermarci, nelle vicinanze di Aldebaran, per un guasto ai generatori,» mi giustificai, inchinandomi, perché avevo riconosciuto nell'uomo che mi parlava gli inconfondibili lineamenti di Horus Hol, direttore della Sezione della Scienza Astronomica. Lui mi fece un cenno, e io presi una sedia che si trovava vicino alla scrivania, e sedetti davanti a lui, mentre anche lui si sedeva al suo posto. Mi esaminò per un lungo istante, e poi parlò lentamente. «Ran Rarak,» mi disse. «Quando abbiamo richiamato nel sistema solare la tua astronave, devi certo esserti chiesto il perché. Ebbene, l'ordine è stato dato per una ragione che non abbiamo osato formulare in un messaggio interstellare, una ragione che, se fosse resa di dominio pubblico, farebbe piombare l'intero sistema solare nel panico!» Per un altro lungo istante tacque, guardandomi negli occhi, e poi proseguì. «Tu sai, Ran Rarak, che l'universo è composto di infinite nicchie dello spazio, all'interno delle quali si trovano grandi ammassi di soli, nubi di stelle che sono separati tra loro da miliardi di miliardi di anni luce di spazio vuoto. Tu sai anche che il nostro ammasso di soli, che noi chiamiamo Galassia, ha una forma rozzamente discoidale, e che il nostro sole è situato proprio ai margini di questo disco. Al di là di esso, si stende un immenso deserto spaziale, che ci separa dagli altri ammassi di stelle, o universiisola, e questo abisso di spazio è incommensurabile, tanto che nemmeno la più veloce delle nostre astronavi è mai riuscita ad affrontarlo, né da esso è giunto qualche essere intelligente di altre galassie. «Ma adesso, infine, qualcosa ha traversato questi abissi, li sta attraversando; tre settimane or sono i nostri astronomi hanno scoperto che una gi-
gantesca stella nera si avvicina alla nostra Galassia dalle profonde immensità dello spazio cosmico... un sole morto, titanico, che i nostri strumenti hanno misurato di dimensioni incredibili, dato che, seppure sia nero e spento, è più grande del più grande dei soli fiammeggianti della nostra Galassia, più grande di Canopo o di Antares o di Betelgeuse... una stella nera, morta, milioni di volte più grande del nostro sole... un gigantesco vagabondo uscito da qualche remota plaga dello spazio infinito, che si avventa verso la nostra Galassia a una velocità inconcepibile! «I calcoli dei nostri scienziati hanno mostrato che questa stella errante non penetrerà nella Galassia ma sfiorerà i suoi margini, e poi tornerà a tuffarsi nello spazio infinito, passando, ai margini, a nemmeno quindici miliardi di miglia dal nostro sole. Non c'è possibilità di collisione o di pericolo di alcun genere, perciò; e così, benché l'avvicinarsi della stella gigantesca sia noto ovunque, nel sistema solare, nessuno pensa che da essa possa giungere il benché minimo pericolo. Ma c'è qualcos'altro che è stato tenuto nascosto agli abitanti del sistema solare, e che è noto solo a pochi astronomi e ai responsabili delle sorti dei nostri popoli. E si tratta del fatto che, durante le ultime settimane, la rotta di questa stella vagante è cambiata: non più una linea retta, ma una curva che la porterà a passare, tra meno di dodici settimane, a tre miliardi di miglia dal nostro sole, invece di quindici! E quando questo immenso sole morto passerà così vicino al nostro sole, potrà verificarsi un solo risultato. Inevitabilmente, il nostro sole verrà preso dalla possente attrazione della stella nera, e verrà trascinato con tutti i suoi pianeti nelle profondità dello spazio intergalattico, in un viaggio senza ritorno!» Hurus Hol tacque, e posò su di me il suo sguardo, che era però remoto e impenetrabile. La mia mente vorticava per l'inattesa rivelazione, e sedevo rigido, silenzioso. Dopo qualche minuto Hurus Hol riprese a parlare. «Se tutti conoscessero questo fatto,» disse lentamente, «in tutto il sistema solare si diffonderebbe istantaneamente il panico, e per questo solo pochi eletti sono stati messi al corrente della minaccia. La fuga è impossibile, perché non ci sono astronavi sufficienti in tutta la Galassia per trasportare in salvo i miliardi di abitanti del sistema solare, nelle poche settimane che ci rimangono. Esiste una remota possibilità di salvezza... seguire l'esempio del leggendario Sarto Sen, che salvò l'umanità in un giorno lontano, con mezzi forse superiori a quelli che oggi possediamo... quando il grande sole Alto stava per scontrarsi col nostro. Possiamo cioè tentare di deviare la stella nera dalla sua rotta, facendo in modo che passi a una distanza di si-
curezza dal nostro sole, senza attirarlo con sé nello spazio intergalattico. È per questo motivo che vi abbiamo ordinato di ritornare. «Perché io intendo volare oltre i margini della Galassia, nello spazio infinito, verso la stella nera, portando tutti gli strumenti scientifici che potrebbero essere usati per deviarla dalla sua rotta. Nel corso dell'ultima settimana ho radunato tutti gli strumenti necessari alla spedizione, e ho radunato una forza di cinquanta navi interstellari che in questo momento si trovano sul tetto di questo edificio, con il loro equipaggio, pronte alla partenza. Si tratta solo di veloci astronavi postali, ed era consigliabile avere almeno un incrociatore da guerra, come nave ammiraglia della spedizione, e così la tua astronave è stata richiamata dalla flotta della Federazione. E, anche se intendo anch'io partecipare alla spedizione, naturalmente, intendo averti come comandante. «So, comunque, che hai trascorso due anni al servizio della flotta della Federazione; così, se tu lo desideri, un altro sarà designato al tuo posto. È una missione pericolosa... più pericolosa di quanto si possa immaginare. Ma il comando è tuo, se tu vuoi accettarlo.» Hurus Hal tacque, e mi osservò. Rimasi immobile per un attimo, poi mi alzai e mi avvicinai alla grande finestra aperta. Fuori si stendeva il viluppo verde e profumato dei giardini, e più oltre i bianchi tetti degli edifici, rischiarati dalla lontana luce del sole. Istintivamente, alzai gli occhi verso la fonte di quella luce spettrale... il sole, minuscolo, e debole e lontano... ma sempre il nostro sole. Lo fissai per un lungo istante, e poi mi rivolsi a Hurus Hol. «Accetto, signore,» gli dissi. Sì alzò e sorrise. «Lo sapevo,» disse, semplicemente; poi proseguì. «Tutto è pronto da molti giorni, Ran Rarak. Partiremo subito.» Dieci minuti dopo eravamo sul tetto dell'immenso edificio, e gli equipaggi delle cinquanta astronavi si affrettavano a occupare i loro posti, avvertiti dal segnale di allarme generale. Passarono altri cinque minuti, poi Hums Hol, Dal Nara e io osservammo dalla cabina di comando il tetto dell'edificio allontanarsi dapprima lentamente, poi con velocità crescente, sotto di noi. Dopo pochi secondi eravamo nello spazio, e le cinquanta astronavi avevano assunto la formazione di volo. Superata la marea del traffico interstellare, nella quale si era aperta un'ampia breccia per permetterci il passaggio, procedemmo verso l'abisso cosmico che ci attendeva.
Intorno a noi fiammeggiava ora lo spettacolo stupendo delle luminose stelle della Galassia, e dietro di noi i soli ammiccavano... ma davanti a noi si stendeva soltanto la oscurità... l'oscurità incredibile nella quale le nostre astronavi si tuffavano a velocità sempre più grande. Nettuno era svanito, e dietro di noi soltanto una scintilla gialla ci ricordava il nostro sistema solare. Avanti, sempre più avanti, oltre i confini della grande Galassia, nel vuoto senza luce, nelle profondità insondate dello spazio intergalattico, nel disperato tentativo di salvare il nostro sole. Capitolo II. Ventiquattro ore dopo la nostra partenza, mi trovavo sempre sul ponte, solo, o meglio, in compagnia della figura onnipresente e silenziosa del mio pilota, Nal Jak; e fissavo l'abisso dello spazio intergalattico che si stendeva intorno a me. Già tante ore avevamo trascorso fianco a fianco sul ponte, io e il mio pilota, a fissare la distesa dello spazio interstellare, dal ponte della nostra astronave, ma fino a ora mai i miei occhi avevano visto uno sterminato mare di tenebra come quello che si apriva davanti a noi. Sembrava davvero che la nostra astronave volasse in una zona nella quale la luce non esisteva, non era mai esistita né mai sarebbe esistita. Dietro di noi giaceva la Galassia che avevamo lasciato, un immenso sciame di rilucenti punti di luce, che si faceva lievemente più piccolo man mano che la distanza aumentava. E anche alla nostra destra, diverse minuscole macchie nebulose di luce interrompevano l'oscurità dello spazio; era difficile vederle, eppure si trattava di altre galassie, di altri titanici agglomerati di soli come il nostro... fiammeggianti roghi, stelle di bellezza inimmaginabile, che pure l'infinito abisso dello spazio che le separava rendeva minuscoli e quasi invisibili, e che forse il tempo aveva cancellato. A parte quelle piccole macchie nebulose, comunque, stavamo viaggiando in un'oscurità cosmica che, per la sua estensione e profondità, faceva agghiacciare l'animo. La nostra astronave pareva l'unica cosa in movimento, in quell'abisso di non-esistenza, noi sembravamo le uniche creature viventi. Dietro di noi, lo sapevo, la formazione delle nostre cinquanta astronavi ci seguiva, alla stessa velocità. Ma i cinquanta compagni di viaggio che componevano il nostro sciame di scure meteore erano invisibili, e, fissando il vuoto che ci attendeva, un terribile senso di solitudine mi colpì, pesante come una cappa di piombo. Improvvisamente, la porta si aprì, ed entrò Hurus Hol. Osservò il qua-
drante della velocità, e sollevò un sopracciglio, sorpreso. «Notevole,» disse, «se le altre astronavi riescono a tenere questo passo... e dovrebbero, dato che i loro motori sono stati revisionati per questa missione... dovremmo raggiungere la stella nera fra sei giorni.» Annuii, osservando pensosamente l'oscura distesa che ci attendeva. «Forse prima,» dissi; «la stella nera ci viene incontro a velocità fantastica, ricordalo. Noterai, sul posizionatore...» Ci avvicinammo insieme al posizionatore, un quadro metallico rettangolare di colore argenteo, appeso a una parete della cabina di comando, sul ponte. Si trattava dell'ausilio più efficace per la navigazione interstellare. Su di esso erano accuratamente riprodotte, per mezzo di raggi proiettati e riflessi, le posizioni e i progressi di tutti i corpi celesti che si trovavano nelle vicinanze dell'astronave. Osservammo attentamente lo strumento. Alla base del rettangolo rilucevano sul metallo dodici piccoli circoli luminosi, di dimensioni diverse, che rappresentavano i soli ai margini della Galassia, dietro di noi. Il più esterno era il disco giallo del nostro sole, e intorno a esso Hurus Hol aveva tracciato un circolo luminoso, che in scala si trovava a circa quattro miliardi di miglia dal corpo celeste. Secondo i calcoli, se la stella nera avesse superato quel circolo, la sua attrazione avrebbe inevitabilmente strappato alla Galassia il Sole con la sua corte di pianeti, trascinandolo nello spazio senza possibilità di ritorno; e così, quella linea rilucente rappresentava il limite pericoloso. E sul lato opposto del rettangolo, in continua e minacciosa avanzata verso il margine di pericolo, muoveva un circolo solitario nerissimo, un disco d'ebano grande cento volte il nostro sole, che si avvicinava ai margini della Galassia, percorrendo una grande curva. Hurus Hol guardò pensosamente il sinistro disco nero, e poi scosse il capo. «Quella stella nera si comporta in maniera davvero strana,» disse, lentamente. «La rotta curva che segue è contraria a tutte le leggi della natura e della meccanica celeste. Mi chiedo se...» Prima che potesse concludere, le parole gli morirono in gola. Perché in quel momento fummo travolti da un colpo terrificante, la nostra astronave cominciò a impennarsi e a vorticare follemente, sballottata come se una mano gigantesca la stesse martoriando. Dal Nara, il pilota, Hurus Hol e io fummo proiettati violentemente, al primo colpo, contro la parete della cabina, e quando cominciammo a vorticare mi aggrappai disperatamente a un quadro di comando. Attraverso l'oblò ebbi la fuggevole e folle visione dei
nostri cinquanta incrociatori che ruotavano pazzamente nello spazio, come foglie portate dal vento, e un'altra occhiata mi fece vedere lo scontro tra due di esse, uno scontro che portò alla distruzione immediata degli scafi e, certo, degli equipaggi. Allora, mentre l'astronave tornava a rovesciarsi, vidi che Hurus Hol strisciava verso i comandi, e subito cercai faticosamente di imitarlo. Ancora un istante, e posammo le mani sul quadro di comando, e lentamente riuscimmo a riprendere il controllo della nave. Ancora in balìa delle spaventose forze che si scatenavano all'esterno, la nostra astronave faticosamente riuscì a riprendere la sua posizione, e poi tornò improvvisamente a balzare avanti, e le forze che la trattenevano sembrarono lasciare la presa e sparire alle nostre spalle. Ci fu un attimo di panico, quando un'astronave si portò incredibilmente vicina alla nostra, scaraventata là dalla ciclopica forza che ci aveva avvinti, e ci passò a pochissimi millimetri, evitando miracolosamente la collisione. Poi il silenzio e l'immobilità dello spazio infinito ritornarono come erano spariti, e tutto fu come prima, e il ricordo mi fece tremare. Feci rallentare l'astronave, fino a fermarla, e allora ci fissammo con espressioni allucinate, contusi e ansimanti. Prima che potessimo parlare, la porta si aprì e Dal Nara, ferita leggermente alla fronte, entrò. «Cosa è accaduto?» domandò, portandosi alla fronte una mano tremante. «Ci ha afferrati come giocattoli... e le altre astronavi...» Prima che qualcuno di noi potesse risponderle, un campanello d'allarme suonò, e dall'apparecchio di comunicazione giunse la voce del nostro operatore. «Astronavi 27, 12, 19 e 44 distrutte da collisioni, signore,» annunciò, con voce tremante anch'egli. «Le altre riferiscono di essere rientrate in formazione di volo, dietro di noi, signore.» «Benissimo,» replicai. «Ordina di riprendere il volo normalmente tra tre minuti esatti.» Quando lasciai gli strumenti, sospirai profondamente. «Quattro astronavi distrutte in meno di un minuto,» dissi. «E per quale motivo?» «Da un vortice di correnti cosmiche, senza dubbio,» disse Hurus Hol. Lo fissammo attoniti, ed egli parlò in fretta. «Voi sapete che nell'etere si muovono delle correnti... questo è stato scoperto da secoli... correnti di forza, di gravità e di tensione, che nella Galassia si muovono sempre a una velocità assai inferiore, niente affatto pericolosa, ma che qui, nello spazio intergalattico, non devono risentire delle varie attrazioni stellari, e che quindi
si muovono a velocità e con forza inimmaginabili. A quanto sembra, siamo piombati proprio nel bel mezzo di un grande vortice, una specie di maelstrom cosmico. Siamo stati fortunati ad avere perduto soltanto quattro astronavi,» concluse con voce cupa. Scossi il capo. «Ho percorso la Galassia, da Sirio a Rigel,» dissi. «E non ho mai incontrato nulla del genere. Se ne troviamo un'altra...» La nostra inaudita esperienza mi aveva annientato, perché quando ci fummo curati le ferite e il volo fu proseguito un nuovo senso di paura si diffuse tra noi. E io fissavo ansiosamente il gorgo oscuro che ci inghiottiva, temendo che da un momento all'altro le forze scatenate dei vortici dell'infinito si chiudessero su di noi: e non avremmo potuto evitare il pericolo in alcun modo. Dovevamo andare avanti ciecamente, a tutta velocità, e affidarci alla fortuna per evitare incidenti; e ora cominciavo a comprendere quali fossero i pericoli che si ergevano tra noi e la nostra mèta. Le ore si snodarono nel silenzio, la paura lentamente allentò la sua morsa, perché non incontrammo altri mortali maelstrom del cosmo nel nostro procedere. Eppure, mentre il volo proseguiva, una nuova ansia venne a tormentarmi, perché con il trascorrere dei giorni altri miliardi di miglia di vuoto si aggiungevano a quelli già percorsi, e il sole nero si avvicinava, come un mitico segno del pericolo. E nell'andare i nostri occhi si fissavano sul posizionatore, sul ponte di comando, e sul posizionatore il disco nero come l'abisso del tempo della stella nera strisciava minaccioso verso di noi, e, soprattutto, verso le baluginanti staffette della Galassia tempestata di brillanti. E se non avessimo ottenuto il risultato che volevamo conseguire, da quella Galassia palpitante di mondi la stella nera avrebbe rubato un intero sistema solare. Se riuscivamo! Ma poteva riuscire la nostra disperata missione? Esistevano forze, nell'universo, capaci di deviare quel gigante nero dalla sua rotta, prima che rubasse una stella? Là dove il leggendario Sarto Sen era riuscito pagando con la sua vita e all'ultimo istante, potevamo riuscire noi, dopo tanti millenni? Man mano che le ore scorrevano e si accumulavano in una oscura pozza di eternità, i dubbi striscianti si impadronivano della mia mente. Ci eravamo gettati in un'impresa cieca e disperata, e ora vedevo quanto fosse esile il filo che ci legava alla speranza di salvezza. Anche Dal Nara provava quello che io provavo, e perfino Hurus Hol, mi pareva, anche se non ci scambiammo parole durante le lunghe ore trascorse insieme davanti all'oblò.
Il sesto giorno del nostro volo calcolammo, servendoci del posizionatore e del cervello elettronico di bordo, di trovarci a meno di un miliardo di miglia dalla grande stella nera che ci attendeva, e riducemmo la nostra velocità a una semplice velocità di avvicinamento. I nostri strumenti cominciarono a cercare, nell'abisso di tenebra che ci circondava, la stella nera che era la nostra mèta. Nella cabina di comando, i nostri occhi si fissavano sulle tenebre, cercando di vedere quello che gli strumenti cercavano, e accanto a me Nal Jak, il pilota, restava in attesa dei miei ordini. Trascorsero i minuti, il nostro volo proseguì, e nulla apparve. Avevamo sbagliato la rotta? Avevamo... poi un campanello d'allarme suonò, e i folli pensieri che mi avevano tormentato per quei lunghi minuti si dissolsero, e Dal Nara emise un'esclamazione soffocata. Senza parlare, indicò un punto davanti a noi. Dapprima non vidi nulla, poi lentamente mi resi conto della presenza di un débole lucore, una specie di impalpabile cortina che occupava tutto il cielo, e la cui luminosità era tanto débole da essere difficilmente visibile a occhio nudo. Ma, rapidamente, mentre noi guardavamo, la luce divenne più intensa, e divenne un circolo luminescente che riempì quasi tutto il cielo. Impartii a voce bassa un ordine al pilota, che ridusse ulteriormente la velocità; e la luce continuò ad aumentare, man mano che avanzavamo. «Luce!» mormorò Hurus Hol. «Luce su una stella nera! È impossibile... eppure...» Impartii un altro ordine, e la nostra astronave si impennò e cominciò a salire, seguita dalle cinquanta navi che formavano la nostra flotta. E man mano che ci sollevavamo il circolo si trasformò in una sfera di luce... una immensa sfera dal debole lucore, di grandezza inconcepibile, che riempiva il cielo con la sua massa luminescente, che pareva lo spettro di un sole un tempo possente, e che si precipitava verso di noi, divorando lo spazio, mentre le nostre astronavi si innalzavano e restavano sospese su di essa. A cinquecentomila miglia di altezza, contemplammo l'inimmaginabile spettacolo che si offriva ai nostri sguardi. Perché, malgrado la nostra altezza, l'immenso globo si stendeva sotto di noi da un orizzonte all'altro, formando una sola distesa curva, che riluceva del vago e debole lucore spettrale di cui non potevamo immaginare l'origine. Non si trattava della luce del fuoco, o dei gas brucianti, perché il sole sotto di noi era davvero morto, anche se era davvero immenso. Si trattava di una luce fredda, una fosforescenza debole ma diffusa e stabile, dissimile
da qualsiasi luce che avessi mai visto. Guardammo perplessi lo spettacolo che ci veniva offerto, e poi, impartito un ordine al pilota, seguii la discesa della nostra astronave, seguita dalle altre cinquanta, verso la superficie del sole nero. Scendemmo verso la superficie, e improvvisamente sobbalzammo quando si udì un forte sibilo, proveniente dall'esterno. «Dell'aria!» gridai. «Questa stella nera possiede una atmosfera! E quella luce... guardate!» E indicai con mano tremante la superficie della stella nera. Mentre stavamo calando rapidamente, vedemmo all'ultimo istante che la debole luce che la illuminava non era artificiale né riflessa, ma luce propria, dato che tutta la superficie della stella nera riluceva della stessa fosforescenza, nelle valli e nelle pianure e nelle colline, tutte ugualmente rischiarate, della luminosità propria del materiale radioattivo. Un mondo rilucente, un mondo perennemente immerso in un bagno di fosforescenza fredda e biancastra, una sfera luminosa e titanica che si avventava negli abissi tenebrosi dello spazio intergalattico simile a una luna dal vago chiarore. E sulla superficie delle rilucenti pianure che si stendevano sotto di noi crescevano masse dense e contorte di piante nere e senza luce e senza foglie, alberi contorti e viluppi di bassi cespugli che erano del nero più profondo e spuntavano da quella terra fosforescente e si dipanavano seguendo disegni assurdi stagliandosi come creature d'incubo sullo sfondo di quel diffuso chiarore, stendendosi sulle pianure e sulle valli e sulle colline e formando un paesaggio infernale e del tutto alieno. E mentre la nostra astronave volava nell'atmosfera di quella Sfera rilucente, davanti a noi apparve una chiazza più luminosa, che divenne più grande e brillò di luce propria, più vivida di quella del suolo. Era una città. Una città i cui possenti edifici erano ciascuno una piramide tronca, che si sollevava nell'aria per migliaia di metri, una città in cui ogni edificio e ogni strada e ogni piazza riluceva della stessa fosforescenza che da quella titanica struttura veniva emanata. La grande città si stendeva per migliaia di chilometri, e più lontano apparivano le piramidi tronche di altre città. Ci guardammo l'un l'altro, pallidissimi. E allora, prima che qualcuno potesse parlare, Dal Nara, che stava ancora fissando l'oblò, emise un grido strozzato. «Guardate!» esclamò, e indicò gli edifici titanici della possente metropoli; e dalla cima tronca di ogni edificio comparivano e si sollevavano nel cielo orde di lunghe forme nere, un'orda di lunghi coni neri che venivano incontro a noi.
Gridai un ordine al pilota, e istantaneamente la nostra astronave si impennò e cominciò a risalire, mentre gli altri incrociatori imitavano il nostro esempio. Poi, da sotto il nostro incrociatore, salì verso di noi un piccolo cilindro di metallo che colpì un'astronave che si trovava proprio accanto alla nostra. Esplose istantaneamente in una grande fiammata accecante, che avvolse l'astronave che da essa era stata avvolta. E dai coni, sotto di noi, partirono miriadi di piccoli cilindri metallici, che colpirono molte delle nostre astronavi, fiammeggiando e svanendo con esse in grandi e silenziose esplosioni di luce. «Bombe spaziali!» gridai. «E la nostra è la sola astronave da guerra... le altre non hanno armi!» Mi voltai, gridai un altro ordine, e il nostro incrociatore si fermò di colpo e poi scese velocemente, tuffandosi decisamente verso lo sciame dei coni che ci stavano attaccando. E nella discesa ci sfiorarono dozzine di cilindri metallici, e poi, dai fianchi del nostro incrociatore, si sprigionarono i raggi verdi, i mortali raggi dissociatori delle astronavi della Federazione. I raggi colpirono una dozzina di coni, e i coni bruciarono di luce verde per un istante, e poi svanirono, mentre gli atomi singoli che li componevano si disperdevano nello spazio, non più uniti tra di loro. E la nostra astronave si trovò sotto gli attaccanti, si impennò e risalì, mentre i coni si infittivano per parare la nuova minaccia. Salimmo di nuovo, per vedere che i nostri sforzi erano stati vani, perché le ultime delle nostre astronavi, in alto, stavano avvampando in una fiamma senza fuoco. Restava uno solo dei nostri incrociatori, che volava disperatamente verso lo zenith mentre alle sue calcagna avanzavano implacabili almeno dieci coni. Riuscii a scorgere per un attimo la scena, poi tornammo a discendere per attaccare i coni, mentre intorno a noi le bombe cosmiche esplodevano. I nostri raggi seminarono nuovamente la distruzione tra gli attaccanti; e poi udii un grido di Hurus Hol, e mi voltai in tempo per vedere un grande cono solitario scendere su di noi a velocità incredibile. Gridai, ma era troppo tardi per evitare la collisione. Si udì uno schianto nella coda della nostra astronave; per un istante vorticammo follemente nell'aria, e poi cademmo come una meteora verso la pianura luminescente, che si stendeva a una dozzina di miglia sotto di noi. Capitolo III. Oggi penso che la nostra caduta fosse durata qualche minuto, ma allora
tutto mi parve svolgersi in un solo e folle istante. Ricordo confusamente che l'astronave parve vorticarmi attorno, e ricordo che la mia mano si aggrappò disperatamente ai comandi, in un ultimo tentativo quasi inconscio, poi ci fu uno schianto lacerante e improvviso, e io fui scaraventato contro una parete da una forza inarrestabile. Stordito dalla rapidità con la quale si erano svolti gli ultimi avvenimenti, rimasi immobile per diversi secondi, poi riuscii faticosamente a rimettermi in piedi. Hurus Hol e Dal Nara si stavano rialzando, e la giovane si affrettò a sparire, per dirigersi verso la sala macchine, ma il pilota Nal Jak restava immobile a terra, privo di sensi. Io mi piegai su di lui, e con i più antichi metodi empirici che si conoscano cercai di fargli riprendere i sensi. Poi ci rialzammo e ci guardammo intorno. A quanto pareva, la nostra astronave era a terra, ma piegata a un angolo impossibile. Attraverso l'oblò vedemmo che l'astronave era circondata da una macchia di alberi neri e senza foglie, sulla quale era caduta al termine del suo pazzo volo. Più tardi seppi che era stata la capacità di assorbimento dei colpi che possedevano quegli alberi, unita al mio ultimo e disperato tentativo ai comandi, a impedirci di sfracellarci al suolo. Nello scafo, sotto di noi, si udì il brusìo degli uomini dell'equipaggio, poi udii un'esclamazione improvvisa di Hurus Hol, che indicava l'oblò situato sul soffitto della cabina. Sollevai lo sguardo, e sobbalzai. Molto in alto, nel cielo, un gruppo di coni stava volando lentamente, in circolo, evidentemente alla ricerca di qualche traccia della nostra astronave. Ansimai, quando vidi che scendevano nella nostra direzione, e sospirai ansiosamente quando vidi che scendevano ancora, e il cuore sembrò esplodermi in petto quando vidi che si abbassavano ancora di più. Poi gridammo di sollievo, tutti insieme, quando dopo una breve sosta i coni si riunirono e si diressero verso l'orizzonte, lasciandoci al nostro destino, evidentemente sicuri della nostra distruzione. Partirono verso la città rilucente dalla quale erano scaturiti. Ci rialzammo in piedi, e la porta si aprì per fare entrare Dal Nara. Era ferita e sconvolta, come tutti noi, ma sul suo viso c'era un'espressione quasi trionfale. «Il cono che ci ha urtati ha danneggiato due dei vibratori di coda,» annunciò, «ma a parte questo, non ha fatto altri danni. E l'equipaggio sta bene, a parte un uomo con una spalla fratturata.» «Bene!» esclamai. «Non ci vorrà molto, per sostituire i vibratori danneggiati.»
Lei annuì. «Ho ordinato di sostituirli con due di riserva,» mi spiegò. «E poi, che faremo?» Ci pensai per un momento. «Nessuno degli altri incrociatori si è salvato, vero?» domandai. Dal Nara scosse lentamente il capo. «Penso proprio di no,» rispose. «Quasi tutti sono stati distrutti nei primi minuti. Ho visto l'astronave 16 tentare la fuga, dirigendosi verso la Galassia, ma era inseguita da diversi coni, e temo che non abbia potuto farcela.» La voce pacata di Hurus Hol parlò: «Allora noi soli possiamo tornare indietro, ad avvertire la Federazione di quanto sta accadendo qui,» annunciò. I suoi occhi si illuminarono. «Sappiamo due cose,» esclamò. «Sappiamo che la curva seguita dalla rotta di questa stella, che la porterà così vicina al nostro sole, al passaggio vicino alla Galassia, è contraria a tutte le leggi della meccanica celeste. E ora sappiamo che su questa stella nera, in queste città luminose, vivono delle creature che possiedono, a quanto pare, poteri e intelligenza superiori.» Il mio sguardo incontrò il suo. «Vuoi dire...» cominciai, ma lui mi interruppe subito. «Voglio dire che, secondo me, la risposta ai nostri quesiti si trova in quella città, e che è nella città che dobbiamo andare a cercare la risposta.» «Ma come?» domandai. «Se ci avviciniamo con l'astronave, ci distruggeranno.» «C'è un altro sistema,» disse Hurus Hol. «Possiamo lasciare nascosti qui l'astronave e l'equipaggio, e avvicinarci alla città a piedi... avvicinarci per quanto possibile... per sapere.» Penso che questa idea ci abbia spaventati tutti, sul momento, ma pensandoci nello spazio di un istante io conclusi che era la sola possibilità che ci si offriva, e decisi di tentare l'impresa. Dovevamo riportare alla Federazione delle informazioni valide, e così accettammo la proposta senza obiezioni, e cominciammo rapidamente a pianificare l'impresa. Dapprima decidemmo di andare noi tre soli, ma poi, per la insistenza di Dal Nara, decidemmo di portarla con noi, anche perché si trattava di una donna abile, intelligente e pronta. Seguendo il consiglio di Hurus Hol, dormimmo per un paio d'ore, poi facemmo una sostanziosa colazione, e controllammo le nostre armi, piccoli proiettori dei raggi dissociatori simili ai grandi cannoni a raggi che si trovavano sui fianchi della nostra astronave. I due vibratori danneggiati erano
già stati sostituiti, e, come ultima cosa, ordinai all'equipaggio di attendere il nostro ritorno, anche a lungo, senza abbandonare l'astronave, in nessun caso. Poi i portelli si aprirono davanti a noi, e uscimmo dall'astronave, pronti all'impresa. Il terreno sabbioso sul quale ci trovammo riluceva della debole fosforescenza bianca che avvolgeva in una coltre uniforme tutto quell'astro ormai spento, una luce spettrale che saliva a noi, invece di scendere dal cielo. E in questa luce le sagome contorte e aliene degli alberi senza foglie si protendevano verso il cielo tenebroso. Ci fermammo per un istante, e Hurus Hol si chinò a raccogliere un sasso rilucente, che esaminò attentamente per qualche minuto. «È radioattivo,» commentò poi, «il terreno, tutto ciò che ci circonda.» Poi si rialzò, si guardò intorno, e decisamente si avviò attraverso il viluppo di piante senza foglie nel quale era caduta la nostra astronave. Lo seguimmo in silenzio, in fila indiana, camminando sul suolo rilucente, sotto la volta pazzesca formata dai rami di quell'assurda vegetazione, finché finalmente non uscimmo dalla macchia di alberi e ci trovammo sulla distesa della grande pianura. I nostri occhi videro un paesaggio spettrale, un paesaggio di pianure fosforescenti e di valli poco profonde, interrotto di quando in quando da macchie di vegetazione nera, un mondo immerso in un eterno crepuscolo, il cui cielo era nero, punteggiato da rari punti di luce, quasi invisibili. Lontano, a più di due miglia da noi, una macchia di luce più intensa si stagliava contro il cielo nero, rivelando gli altissimi edifici della grande città, e noi ci avviammo senza fermarci laggiù, e camminammo sulla pianura lucente e salimmo delle basse colline e una volta incontrammo un ruscello che scorreva senza mormorare e le cui acque parevano un flusso vivo di luce spettrale. Dopo un'ora fummo a circa cinquecento piedi dai primi edifici piramidali della città, e ci nascondemmo in un avvallamento, fissando affascinati lo spettacolo che ci si offriva. La scena era piena di vita. Sulla massa degli alti edifici piramidali volavano sciami di coni neri, di tetto in tetto, mentre nelle strade si muovevano ordinatamente grandi folle di esseri, gli abitanti della città. E quando i nostri occhi videro queste creature, tutti fummo presi da un brivido di orrore e di repulsione, anche se nella Galassia numerose erano le forme di vita straniere che avevamo conosciuto nei nostri viaggi. Perché in quelle creature non c'era nulla di simile alle forme che la vita assumeva nei mondi che pulsavano nella Via Lattea, da Canopo ad Antares, da Vega ad Aldebaran, non c'era alcun punto di contatto che potesse
rendercele meno aliene e meno odiose. Immaginate un cono eretto di carne nera, del diametro di diversi piedi e di tre piedi e più di altezza, sostenuto da più di una dozzina di lunghi tentacoli lisci che uscivano dalla base... viscidi arti senza ossa che tenevano eretto il corpo del cono, e che servivano come braccia e come gambe. E verso la cima di questo cono c'erano i soli lineamenti, i piccoli orifizi sottili che erano le orecchie, e un solo occhio rotondo e bianco, posto tra di esse. Così era l'aspetto di quegli esseri, nere creature tentacolate, che si muovevano in file ordinate nelle strade e nelle piazze e tra gli edifici di quella grande città. Le guardammo attoniti, dal nostro nascondiglio. Uscire allo scoperto avrebbe significato sfidare la morte. Mi rivolsi a Hurus Hol, poi sobbalzai quando dalla città giunse una bassa e profonda nota musicale, un suono simile a un tuono che rotolò fino a noi dalle cime tronche delle piramidi. Si udì un'altra nota, e poi un'altra, finché parve che una dozzina di corni possenti stesse suonando da punti diversi della città, e poi il rumore cessò. Ma guardando, vedemmo che le grandi strade si vuotavano, improvvisamente, che le file di creature tentacolate sparivano all'interno degli edifici, che gli sciami di coni che volavano nel cielo si posavano sui tetti delle piramidi tronche. Dopo pochi minuti le strade furono vuote e deserte, e l'unico segno di vita della città era costituito dalla presenza di pochi coni che volavano su di essa, incessantemente. Sbalorditi, guardammo, e poi la risposta a questo interrogativo giunse immediata. «È il loro periodo di riposo!» esclamai. «La loro notte! Quelle cose devono riposare, devono dormire, come ogni creatura vivente, e siccome non esiste notte su questo mondo fosforescente quelle note devono dare il segnale d'inizio del loro periodo di riposo!» Hurus Hol balzò in piedi. «Può darsi che sia così, ed è una possibilità che ci si offre per raggiungere la città!» esclamò. Dopo un istante uscimmo dal nostro nascondiglio, e corremmo sulla distesa di terreno che ci separava dalla città. Dopo cinque minuti ci trovammo nelle strade deserte e rilucenti, e procedevamo addossati alle pareti degli edifici, per evitare di essere scoperti dai coni che volavano molto in alto. Hurus Hol ci guidò verso il centro della città, e mentre lo seguivamo frettolosamente, lui rispose alle mie domande: «Dobbiamo raggiungere il centro della città. Là si trova qualcosa che ho scorto dall'astronave, e se si tratta di quello che penso...»
Ora si era messo a correre, e noi lo imitammo. Io tremavo al pensiero di quello che sarebbe successo se gli edifici intorno a noi avessero improvvisamente lasciato uscire una folla di creature tentacolate. Poi Hurus Hol si fermò di colpo, e ci fece segno di nasconderci dietro l'angolo di una piramide. Davanti a noi, sulla strada, stava passando una mezza dozzina di creature tentacolate, che entrarono in un'apertura della grande piramide tronca che sorgeva davanti a loro. Rimanemmo nascosti per qualche istante, trattenendo il respiro, finché le cose furono entrate nell'edificio e la porta si chiuse dietro di loro. Immediatamente balzammo fuori e proseguimmo di corsa. Ci stavamo avvicinando al cuore della città, e la lunga strada rilucente che stavamo percorrendo sembrava terminare in un grande spiazzo. Mentre procedevamo, tra gli edifici torreggianti e luminescenti, cominciammo a udire un cupo suono martellante, una pulsazione dapprima debole e poi sempre più percettibile. Lo spiazzo, davanti a noi, sembrava sempre più grande, e superato l'ultimo edificio fummo davanti a esso, e guardammo, increduli. Non era una piazza, ma un pozzo... un pozzo circolare, profondo non più di cento piedi, ma del diametro di almeno un miglio, e noi ci trovammo proprio sul bordo. Il fondo era levigato e piatto, e sul fondo si trovava una quantità enorme di emisferi, ciascuno del diametro di cinquanta piedi, posati al suolo tanto da sembrare una serie di piccole cupole. Ciascuno degli emisferi emanava una certa luminosità, ma era luce differente da quella debole degli edifici e delle strade che ci circondavano, perché si trattava di un chiarore di un azzurro intenso che quasi accecava. Da quegli emisferi luminosi veniva il battito cupo che avevamo udito, e vedemmo anche, dalla parte opposta del pozzo, un cubicolo cilindrico, una costruzione di metallo che era sollevata a molti piedi di altezza da un piedistallo di metallo lucido, una specie di colonna. L'insieme ricordava una gabbia. E Hurus Hol indicò quella "gabbia", con occhi esultanti. «È il quadro di comando della cosa,» gridò lui. «E quegli emisferi brillanti... l'incredibile timone di questa stella nera... è tutto chiaro, ora! Tutto...» Si interruppe, di colpo, mentre Nal Jak balzava indietro e indicava il cielo. Per un momento avevamo dimenticato i coni che volavano sulla città, e adesso uno di questi stava scendendo direttamente su di noi. Ci voltammo, cominciammo a correre, e un attimo dopo una bomba cosmica esplose nel punto in cui ci eravamo trovati, bruciando in una fiam-
mata silenziosa. Cadde un'altra bomba, che esplose, più vicina, e allora mi voltai e puntai rabbiosamente il mio lanciaraggi contro il minaccioso cono. Il raggio colpì il nemico: lo strano cono rimase sospeso per un istante, poi cominciò a cadere, dissolvendosi. Ma ormai, dall'alto piovevano altri coni, mentre dagli edifici piramidali centinaia di creature tentacolate uscivano per affrontarci. Furono su di noi, ed erano uno sciame compatto e inarrestabile. Udii un grido di sfida di Dal Nara, accanto a me, il sibilare dei nostri raggi che si affondavano nella massa compatta di repellenti creature, operando una spaventosa distruzione, e poi l'orda fu su di noi. Per un folle istante ci fu una danza selvaggia di uomini e di creature tentacolate, di braccia umane e di viscidi tentacoli; poi no dei miei amici emise un grido di avvertimento, qualcosa di solido si abbatté sul mio capo con forza incredibile, e davanti a me tutto il mondo piombò nella notte. Capitolo IV. Tra le palpebre filtrava un vago chiarore, quando ripresi i sensi. Aprii gli occhi e cercai di rialzarmi, poi ricaddi, sopraffatto dalla debolezza. Mi guardai intorno, stordito. Giacevo in una stanzetta cubica, illuminata soltanto dalla luminescenza dei materiali che la componevano, una stanza la cui parete più lontana da me proseguiva verso l'alto, chiusa da una fitta serie di sbarre. Si trattava dell'unica apertura visibile. Mi voltai, e vidi una porta bassa di sbarre metalliche, oltre la quale si stendeva un lungo corridoio dalle pareti luminescenti. Poi tutto ciò fu nascosto improvvisamente dal volto carico d'ansietà di Hurus Hol, che si piegava sopra di me. «Sei sveglio, finalmente!» esclamò, con volto che esprimeva visibilmente il sollievo. «Mi riconosci, Ran Rarak?» Come risposta, cercai disperatamente di mettermi a sedere, aiutato dalle braccia di Dal Nara, che era apparsa accanto a me. Mi sentivo stranamente debole, esausto, e nella mia mente balenavano e si spegnevano fiamme d'inferno. «Dove siamo?» domandai, finalmente. «La lotta nella città... ricordo... ma adesso dove siamo? E dov'è Nal Jak?» I miei due amici distolsero lo sguardo, mentre io li osservavo ansiosamente. Poi Hurus Hol parlò con voce lenta e pacata. «Siamo prigionieri in questa piccola stanza, che si trova all'interno di una delle grandi piramidi della città luminosa,» mi disse. «E sei rimasto
incosciente in questo cubicolo per molte settimane, Ran Rarak.» «Settimane?» ansimai. Lui annuì. «Sono passate dieci settimane, da quando siamo stati catturati nella città,» mi disse. «E per tutto questo periodo sei rimasto a giacere qui, incosciente, a causa di quel colpo che hai ricevuto, e a volte deliravi e gridavi folli minacce, e a volte eri del tutto incosciente. E per tutto questo periodo la stella nera, questo mondo, ha proseguito la sua avanzata attraverso lo spazio intergalattico, in direzione della nostra Galassia, e del nostro sole, per rubare e condannare a morte il nostro sole. Ancora dieci giorni, e il punto critico sarà superato, e il nostro sole sarà strappato alla sua Galassia. E io, che sono riuscito a scoprire quali forze si celano dietro questa minaccia cosmica, sono qui, prigioniero. «Fu dopo che noi quattro fummo portati in questa cella, dopo la nostra cattura, che io sono stato chiamato di fronte ai nostri catturatori, davanti a un consiglio di queste strane creature tentacolate, composto, io credo, dai loro scienziati. Esaminarono me, i miei abiti, poi cercarono di comunicare con me. Non parlarono... comunicano tra di loro telepaticamente... ma riuscirono a comunicare con me proiettando delle immagini su una parete, immagini della loro stella nera, immagini della nostra Galassia, del nostro sole... immagine dopo immagine, finché io non cominciai a capire la loro intenzione, e la storia e gli scopi di questi strani esseri e del loro mondo ancora più strano. «Scoprii che per secoli, per eoni innumerevoli, il loro sole possente aveva brillato nell'immensità dello spazio, solo con i suoi numerosi pianeti, sui quali si è sviluppata questa razza di creature tentacolate. Il loro sole fiammeggiava ed era la vita, allora, e su quei pianeti la scienza aveva raggiunto limiti a noi ignoti, e la scienza aveva dato a questi esseri poteri divini, mentre il loro sistema procedeva nello spazio, stella solitaria e vagabonda, errante nelle profondità insondabili dello spazio intergalattico. Ma con il lento trascorrere dei millenni, il sole possente cominciò a raffreddarsi, e i suoi pianeti divennero sempre più freddi. Finalmente, la stella divenne così fredda che per ravvivare le sue fiamme morenti queste creature gettarono nella sua fornace uno dei pianeti, il più grande, strappandolo alla sua orbita e mandandolo a scontrarsi con la stella, in un olocausto di fuoco dal quale la vita tornò a sbocciare. E quando altri eoni furono passati e il sole ricominciò a raffreddarsi, essi seguirono lo stesso procedimento, alimentando il rogo morente con l'olocausto di un altro pianeta, e così fu at-
traverso le ère, ritardando quello che la natura aveva fissato, impedendo una morte con molte altre morti e molti altri roghi, finché alla fine di tutto questo non rimase che un solo pianeta. E il sole di queste creature stava di nuovo raffreddandosi, stava morendo, stava diventando una stella nera. «Riuscirono comunque a conservare un certo equilibrio per molti altri secoli, sull'unico pianeta rimasto, servendosi di titanici impianti di riscaldamento dell'atmosfera, finché a un certo punto il loro sole diventò una stella nera, raffreddandosi e solidificandosi a tal punto che sulla sua superficie era diventata possibile la vita. Quella superficie, a causa degli elementi radioattivi solidificati, e ormai innocui, che la componevano, splendeva di una luce pallida, e la razza delle creature tentacolate si diresse laggiù. La loro scienza suprema permise loro di creare sì, di creare una nuova atmosfera alla stella nera, e in questa operazione consumarono le energie del loro pianeta, che divenne un relitto cosmico che fu mandato a seguire la sua rotta solitaria nelle profondità del cosmo, perché a causa della sua diminuzione di massa la sua orbita era divenuta irregolare, e gli esseri tentacolati temevano che avesse potuto un giorno precipitare sulla stella nera, rivitalizzandola e distruggendo nel conseguente olocausto di fuoco tutto il loro titanico lavoro e la vita. Ma sulla superficie calda e luminescente di questa stella nera gli esseri tentacolati si diffusero e si moltiplicarono, costruendo le loro città dalla roccia di questo mondo, avvinghiati a esso mentre esso proseguiva la sua corsa nelle infinite distese dell'universo. «Ma alla fine, dopo millenni innumerevoli di questa esistenza, le creature tentacolate scoprirono di essere di nuovo minacciate di estinzione, dato che, obbedendo alle inesorabili leggi della natura, la loro stella nera si raffreddava sempre di più, il fuoco che ancora divampava all'interno di essa perdeva ogni forza, e non giungeva più a riscaldare la superficie, che diventava sempre più fredda. Entro pochi secoli, compresero le creature, i fuochi interni si sarebbero del tutto spenti per sempre, e il loro immenso mondo sarebbe diventato una gelida distesa desolata, a meno che non avessero trovato una soluzione. «A questo punto i loro astronomi scoprirono che la stella nera, che volava nello spazio infinito, sarebbe passata vicino a un grande ammasso stellare, una Galassia, entro breve tempo, e a una distanza di circa quindici miliardi di miglia. Sapevano di non poter invadere i mondi di quella Galassia, perché avevano scoperto che su di essi vivevano milioni di miliardi di abitanti, intelligenti, che sarebbero stati in grado di respingere qualsiasi tentativo di invasione. Era rimasto un solo espediente, perciò, e cioè il tentativo
di strappare un sole a quella Galassia, passandole accanto, di rubare una stella e di portarla con loro nello spazio, una stella che avrebbe ruotato intorno alla possente stella nera, fornendole il calore necessario. «Stabilirono di rubare un sole che si trovava al margine estremo della Galassia, il nostro. Se, come dicevano i calcoli, fossero passati a quindici miliardi di miglia da esso, non avrebbero potuto far nulla. Ma se riuscivano a deviare la rotta della stella nera, a farla passare a tre miliardi di miglia da quel sole, invece di quindici, allora la possente attrazione della stella nera avrebbe catturato quel sole e lo avrebbe trascinato con sé nello spazio. Anche i pianeti di quel sole sarebbero stati catturati, ma gli esseri tentacolati contavano di gettare quei pianeti nel sole, per aumentarne lo splendore e le dimensioni. Era necessario perciò un mezzo per deviare dalla sua rotta la stella nera, e per questo essi dovettero ricorrere agli immensi impianti gravitazionali dei quali si erano serviti per manipolare a loro piacimento le orbite dei pianeti di quel sistema. «Tu sai che è la forza di gravità, da sola, a tenere nella loro orbita i soli e i pianeti, e sai che la forza di gravità di qualsiasi corpo celeste si irradia in ogni direzione, e tende ad attirare gli oggetti di massa inferiore verso quel corpo celeste. Nello stesso modo, la Galassia irradia eternamente verso l'esterno la forza di gravità combinata di tutti i suoi soli e i suoi pianeti, forza che tende a equilibrarsi e ad annullarsi: l'attrazione sprigionata dalla Galassia è molto debole, e attira solo vagamente la stella nera. Ma se questa forza fosse stata aumentata artificialmente, la stella nera sarebbe stata attirata verso i margini della Galassia, passandole accanto. «E a questo servirono gli apparecchi di queste creature. In un pozzo poco profondo, nel cuore di una delle loro città... questa, per l'esattezza... essi sistemarono i condensatori gravitazionali, una massa di brillanti induttori di raggi che catturarono la forza di attrazione della Galassia, ingigantendola in modo che agisse sulla stella nera. Una volta raggiunta una distanza di tre miliardi di miglia dai margini della Galassia, queste creature pensano di spegnere i loro apparecchi, in modo di permettere alla stella nera di sfrecciare veloce accanto alla Galassia, e di perdersi nuovamente nelle immensità dello spazio, strappando però alla Via Lattea il nostro sole. Se i condensatori venissero disattivati prima di quel momento, però, la stella nera passerebbe a una distanza di sicurezza dal nostro sole, e scomparirebbe nelle tenebre dello spazio da sola, spegnendosi del tutto e causando l'estinzione delle creature che la popolano. Per questo motivo i condensatori, e la grande gabbia, che è appunto il centro di controllo dei condensatori, ven-
gono sorvegliati in continuazione dai coni, per evitare qualsiasi pericolo, anche il più remoto, di una disattivazione prima del momento più propizio. «E così le creature tentacolate hanno tenuto costantemente in funzione i loro apparecchi, e la stella nera si è sempre più avvicinata ai margini della Galassia. Nel nostro sistema solare, avevamo calcolato gli effetti di questa deviazione di rotta... per questo siamo venuti qui, e qui siamo stati catturati. E nelle settimane trascorse in questa cella, mentre tu eri incosciente o delirante, la stella nera si è avvicinata sempre di più ai margini della Via Lattea, verso il nostro sole. Tra dieci giorni il nostro sole sarà strappato alla Via Lattea, a meno che prima il grande condensatore non sia disattivato. Altri dieci giorni soltanto, e noi siamo qui, impotenti a evitare in qualsiasi modo la fine della nostra civiltà!» Ci fu un lungo silenzio, quando Hurus Hol ebbe terminato di parlare... un silenzio allucinante ed estenuante che io interruppi alla fine con una sola domanda. «Ma Nal Jak?...» domandai, e i volti dei miei due compagni divennero strani, e Dal Nara distolse lo sguardo. Alla fine, parlò Hurus Hol. «Accadde dopo che gli scienziati di questo popolo mi ebbero esaminato,» disse con voce dolce. «Essi portarono con loro Nal Jak, per esaminarlo. Penso che mi abbiano risparmiato, per il momento, a causa della mia scienza, apparentemente superiore, ma Nal Jak... lo hanno vivisezionato.» Ci fu un silenzio più lungo di prima, un silenzio nel quale la figura silenziosa e coraggiosa del mio pilota, il compagno di tutte le mie imprese nella Flotta, sembrò apparire davanti ai miei occhi, improvvisamente offuscati. Poi bruscamente scesi dalla piccola cuccetta sulla quale mi trovavo, mi aggrappai ai miei compagni per sostenermi, e avanzai con passo malfermo verso la piccola finestra sbarrata. Fuori, sotto di me, si stendeva la città del popolo della stella nera, una possente massa di edifici piramidali rilucenti, di strade piene di quelle figure nere e repellenti, e, in alto, lo sciamare dei minacciosi coni. Dalla nostra finestra la parete rilucente della piramide che ci rinchiudeva scendeva per cinquecento piedi verso il suolo, e saliva sopra di noi per più di mille piedi. E quando sollevai lo sguardo verso l'alto vidi, chiare e brillanti, molte stelle nel cielo... le stelle della mia Galassia, verso la quale la stella nera stava procedendo. E tra queste stelle luminose, la più vicina splendeva di luce vivida, spiccava nel cielo come un occhio caldo e invitante, ed era la più vicina di tutte, era gialla e splendente ed era il nostro Sole.
Oggi penso che fosse stata la visione di quella stella gialla solitaria che ingigantiva al centro del cielo a rendere cupe e disperate più di quanto avrebbero dovuto essere le lunghe ore che trascorremmo impotenti in quella piccola cella. Oltre la città, il nostro incrociatore si trovava nascosto nella foresta nera, e se fossimo riusciti a fuggire avremmo potuto portare l'allarme nella Federazione, ma la fuga era impossibile. E così, per lunghi, eterni giorni, giorni che potevamo misurare soltanto servendoci dei nostri orologi, una stolida coltre di disperazione gravò sulle nostre menti e le avviluppò in una pigra cortina di impotente frustrazione. Le mie forze ritornarono rapidamente, sebbene lo strano cibo che i nostri catturatori ci fornivano una volta al giorno fosse quasi immangiabile. Ma con lo scorrere dei giorni, il morale si abbassava sempre di più, e tra noi la conversazione divenne quasi non esistente, perché il fato che incombeva sul nostro sole era come una cappa di piombo che ci imprigionava e ci impediva di pensare. Il nostro tempo monotono era interrotto soltanto dal rombare del corno, una volta ogni ventiquattro ore, il corno che segnalava l'inizio del periodo di riposo delle creature tentacolate. Alla fine, però, ci risvegliammo bruscamente da questo incubo, scoprendo che dal mio risveglio erano già trascorsi nove giorni, e che quello che iniziava era l'ultimo giorno prima del furto del nostro sole. Allora, finalmente, l'apatia mi abbandonò completamente, e noi picchiammo contro le pareti della nostra cella, come pazzi, cercando uno sfogo all'ira impotente che ci pervadeva. E allora, con stupefacente tempismo, giunse il mezzo della nostra fuga. Per molte ore dai piani superiori del grande edificio in cui eravamo rinchiusi era giunto il martellare di strumenti metallici, e un grande numero di esseri tentacolati era passato davanti alla porta sbarrata della nostra cella, portando strumenti e attrezzi per alimentare il misterioso lavoro che si svolgeva di sopra. A quel punto eravamo riusciti ad ignorare quasi completamente l'accaduto, ma a un tratto si udì un improvviso clangore metallico all'esterno; guardammo dalla porta, e vedemmo che una delle creature che passavano nel corridoio aveva lasciato cadere una grossa bobina di catena metallica sul pavimento, ed era passata senza accorgersi di averla perduta. Dopo un istante fummo alla porta e protendemmo le mani attraverso le sbarre verso la bobina, ma malgrado i nostri sforzi, restava sempre qualche millimetro tra la punta delle nostre dita e il frustrante rotolo di metallo caduto al suolo. Lo guardammo per qualche istante, temendo che la creatura che lo aveva lasciato cadere ritornasse da un momento all'altro, e poi Dal
Nara, grazie a un'ispirazione improvvisa, si sdraiò al suolo, allungando le gambe oltre le sbarre. Dopo un attimo il suo piede si trovava sulla bobina, e dopo un altro istante la catena metallica era dentro la cella, e noi la stavamo esaminando. Scoprimmo che, sebbene fosse grossa come il mio mignolo, la catena era di un'incredibile solidità, e quando stimammo approssimativamente la sua lunghezza, scoprimmo che sarebbe stata sufficiente a calarci dalla finestra fino in istrada. Nascondemmo subito la catena in un angolo della cella, e attendemmo con impazienza il periodo di riposo, durante il quale avremmo potuto lavorare senza temere di essere interrotti. Finalmente, dopo quello che ci parve un periodo interminabile, i grandi corni suonarono a distesa nella città, e rapidamente le strade si vuotarono, i rumori all'interno del nostro edificio si quietarono finché non ci fu un silenzio completo, a parte il ronzìo diffuso dei pochi coni che pattugliavano il cielo sopra i grandi condensatori di gravità, e il ronzìo più profondo degli stessi condensatori, in lontananza. Subito ci mettemmo a lavorare sulle sbarre della finestra. Freneticamente cominciammo a scalzare il muro alla base di una delle sbarre metalliche, servendoci dei pochi frammenti metallici che avevamo a disposizione, ma dopo due ore d'i lavoro avevamo appena scalfito la pietra luminescente. Dopo un'altra ora, avevamo messo a nudo la estremità della sbarra, ma ormai sapevamo che tra pochi minuti il periodo di riposo sarebbe terminato, e la folla ordinata si sarebbe riversata nelle strade, rendendo impossibile qualsiasi tentativo di fuga. Lavorammo furiosamente, madidi di sudore, e finalmente, quando i nostri orologi mostrarono che ci restava appena mezz'ora di tempo, rinunciai a martellare la pietra, e avvolsi la catena intorno alla sbarra che eravamo riusciti a scoprire parzialmente. Poi, ritornando al suolo, ci appoggiammo alla parete, e tirammo con tutte le nostre forze. Tirammo per un momento carico di tensione, mentre la sbarra resisteva, poi cedette di colpo, e cadde al suolo, con un fragore che ci parve assordante. Ci fermammo, sudati e ansimanti, e ascoltammo: nessun rumore di allarme. Allora ci alzammo e assicurammo saldamente la catena a una delle sbarre superstiti. Calammo allora la catena dalla finestra, che si allungò lungo il fianco della piramide, fino a sfiorare la superficie luminescente della strada deserta. Feci immediatamente segno a Hurus Hol di calarsi per primo, e dopo un attimo lui passò attraverso le sbarre rimaste, e cominciò a calarsi al suolo, lentamente, servendosi degli anelli come punto di forza
per le mani. Dal Nara lo seguì subito, e io la imitai a mia volta, e strisciando come mosche ci calammo lungo la parete levigata della piramide. Ormai ero a dieci piedi dalla finestra, a venti, a trenta, e guardando verso il basso vidi la strada, a cinquecento piedi, cinquecento piedi che sembravano cinquemila. Poi udii un rumore improvviso sopra di me, e sollevai il capo, e la paura più terribile che mai io abbia provato si impadronì di me in quel momento. Perché, sulla finestra che avevamo appena lasciato, trenta piedi più in alto, una delle creature tentacolate si stava protendendo verso il basso. Era stata attirata nella cella senza dubbio dal rumore della sbarra caduta, e ora il suo occhio bianco e cerchiato di rosso era fisso su di me. Udii il mormorio d'orrore dei miei due compagni, sotto di me, e per un istante rimanemmo sospesi, immobili, alla catena che dondolava impercettibilmente nel vuoto, a centinaia di piedi di distanza dalla strada luminescente che sembrava attirarci di sotto. Allora la creatura sollevò uno dei suoi tentacoli, stringendo uno strumento metallico, che abbatté con forza sulla catena che era tesa sul bordo della finestra. Colpì di nuovo, e di nuovo. Stava tagliando la catena! Capitolo V. Per diversi secondi rimasi immobile, e poi quando lo strumento della creature si abbatté nuovamente sulla catena, il rumore mi riscosse. «Continuate a scendere!» gridai. I miei compagni non obbedirono, comunque, ma risalirono la catena con me, sebbene solo io e Dal Nara potessimo raggiungere la creatura orribile della stella nera. Salii disperatamente verso la finestra e verso la creatura che si trovava a venti piedi di distanza. Lo strumento che stringeva in mano piombò altre tre volte sulla catena, mentre io salivo, e io aspettavo ogni volta che la catena si tagliasse e ci facesse precipitare verso la strada e la morte, ma la catena resistette, e prima che la creatura potesse vibrare un altro colpo fui sulla finestra e attaccai l'essere tentacolato. Mentre cercavo di salire, i tentacoli neri si tesero e afferrarono Dal Nara e me, mentre un altro tentacolo si sollevò, stringendo l'attrezzo di metallo, per abbatterlo sulla mia testa. Prima che il colpo potesse raggiungermi, però, ero riuscito ad allungare la mano destra, stringendo la catena con la sinistra, e avevo afferrato il corpo della creatura, attirandola fuori prima che avesse il tempo di resistere. Mentre facevo questo allentai la presa, così
rimanemmo entrambi sospesi a qualche piede di distanza dal bordo della finestra, entrambi appesi alla sottile catena ed entrambi impegnati in una lotta assurda, io che mi servivo del pugno e la creatura che si serviva dell'attrezzo metallico. Rimanemmo sospesi per un istante, ondeggiando a centinaia di piedi dal suolo luminescente, e poi un tentacolo della creatura si avviluppò con mossa serpentina intorno al mio collo, e strinse, soffocandomi. Restando appeso in posizione precaria, con una mano sola, alla catena, colpii ciecamente col pugno destro, ma la stretta si accentuò e io sentii di perdere i sensi. Poi, con un ultimo e disperato sforzo, strinsi la catena con entrambe le mani, compii una giravolta da acrobata, e colpii coi piedi. Il calcio colpì direttamente il mio repellente avversario, gli fece perdere la stretta e mollare la catena, poi sentii uno strattone al collo, resistetti e fui libero, mentre una forma nera passava accanto a me e a Dal Nara, rimbalzava contro la parete della piramide, e poi si sfracellava al suolo, cinquecento piedi sotto di noi. Appeso, stordito, abbassai lo sguardo, e vidi che Hurus Hol aveva raggiunto la fine della catena ed era già sulla strada, e ci aspettava. Sollevando lo sguardo, vidi che i colpi della creatura avevano quasi reciso uno degli anelli della catena, ma non c'era tempo per ripararlo; così, pregando che resistesse ancora per qualche istante, Dal Nara e io cominciammo a scendere, cercando di affrettarci. La catena metallica ci martoriò le mani, durante la discesa, e una volta mi parve che la catena cedesse sotto il nostro peso. Sollevai lo sguardo, ansiosamente, poi guardai in basso, e vidi che Hurus Hol ci stava facendo ampi cenni di incoraggiamento. Scendemmo faticosamente, senza osare di sollevare nuovamente lo sguardo, senza osare di abbassarlo, senza sapere quanto distava da noi la strada. Scendemmo e scendemmo e poi ci fu un altro cedimento della catena, questa volta percettibile, e poi dondolammo per un istante, e poi cademmo, cademmo per pochi attimi... per ritrovarci illesi al suolo, che distava appena un paio di metri, dove Hurus Hol ci aspettava. Dopo qualche istante, ci rialzammo. «Usciamo dalla città!» esclamò Hurus Hol. «Non potremo mai raggiungere i condensatori a piedi... ma a bordo dell'incrociatore potremo forse farcela. E ci rimangono pochi minuti, prima della fine del periodo di riposo!» Corremmo per la strada, attraverso piazze e strade circondate dalle pos-
senti piramidi luminescenti, nascondendoci quando i coni di pattuglia ci passavano sopra, e poi continuando nella nostra corsa disperata. Sapevo che, da un momento all'altro, il grande corno avrebbe potuto dare il segnale della fine del periodo di riposo, e allora migliaia e migliaia di esseri tentacolati, una folla ordinata e inarrestabile come uno sciame d'api, si sarebbe riversata nelle strade, e la nostra unica speranza era di fuggire dalla città prima che questo accadesse. Finalmente, ci trovammo a correre lungo la strada che avevamo percorso per entrare nella città, e davanti a noi vedemmo la fine della strada, e più oltre la rilucente pianura e i contorni della foresta nera dalla quale eravamo venuti. E ci trovammo a correre nella grande pianura, a un quarto di miglio dalla città, a mezzo miglio, a un miglio... Bruscamente, di lontano, giunse il profondo richiamo del corno, che segnalava la fine del periodo di riposo, e riportava nelle strade il popolo tentacolato della città. Ormai era questione di minuti, poi la nostra fuga sarebbe stata scoperta, e noi corremmo con tutte le nostre forze, ascoltando, aspettando da un momento all'altro l'allarme. E l'allarme fu dato. Ci trovavamo a mezzo miglio dalla foresta nera dove era nascosto il nostro incrociatore, quando un fragore di tuono si diffuse sulla pianura, proveniente dalla città, un tuono fatto di note discordanti e altissime. Voltandoci, vedemmo sciami e sciami di coni neri che si sollevavano dalle cime tronche degli edifici a forma di piramide, e cominciavano a percorrere dei circoli dapprima stretti, poi sempre più ampi, che li portavano oltre i confini della città, sulla pianura, verso di noi. «Avanti!» esclamò Hurus Hol. «È la nostra ultima speranza... raggiungere l'incrociatore!» Inciampando, ansimanti, con le ultime forze che ci erano rimaste, corremmo e corremmo sulla roccia e sul suolo luminescenti, verso i margini della nera foresta contorta che interrompeva a circa un quarto di miglio il panorama spettrale della stella nera. Allora, improvvisamente, Hurus Hol inciampò e cadde. Mi fermai, mi voltai verso di lui, poi tornai a voltarmi quando Dal Nara emise un grido strozzato, puntando il braccio verso l'alto. Eravamo stati visti dai coni e due di essi stavano discendendo contro di noi. Restammo immobili per un istante, mentre i grandi coni scendevano su di noi, aspettando la morte che si sarebbe abbattuta ineluttabilmente su di noi. Poi, improvvisamente, una grande sagoma nera torreggiò nell'aria so-
pra di noi, proveniente dalla foresta nera, e dalla forma scaturirono dei raggi di luce verde, i raggi brillanti dei proiettori della Flotta, e i raggi dissociatori colpirono e vaporizzarono i due coni che discendevano minacciosi su di noi. E la possente forma che era scaturita dal nulla a salvarci si abbassò e vedemmo che si trattava del nostro incrociatore. Si posò sofficemente al suolo, e noi entrammo dal portello che si apriva davanti a noi, barcollando, esausti. Mentre mi dirigevo con le ultime forze che mi restavano verso il ponte, il terzo ufficiale mi stava gridando nelle orecchie: «Vi abbiamo visti dalla foresta. Siamo venuti a prendervi...» Ma ormai mi trovavo sul ponte, nella cabina di comando, e sostituii bruscamente il pilota, mettendomi al suo posto e facendo sollevare l'astronave. Hurus Hol era di fianco a me, ora, e indicava il grande posizionatore e mi gridava qualcosa. Sollevai lo sguardo, e rimasi gelato dall'orrore. Perché il grande disco nero che si trovava sul posizionatore era ormai a pochi millimetri dalla luminosa linea del pericolo. «I condensatori!» gridai. «Dobbiamo raggiungere la cabina di controllo... disattivare i condensatori! È la nostra unica speranza!» Stavamo volando a tutta velocità verso la città luminosa, ora, e davanti a noi un grande sciame di coni neri si stava radunando per affrontarci, mentre dalle più diverse direzioni venivano altri sciami minacciosi, per attaccarci. Allora la porta si aprì ed entrò Dal Nara. «I lanciaraggi di bordo sono inservibili!» mi gridò. «Hanno usato le ultime cariche!» A quel grido le mie mani tremarono, e l'astronave rallentò e si fermò. Il silenzio cadde profondo su di noi, e cadde su tutto l'incrociatore, ed era il silenzio della disperazione, il silenzio di chi ha giocato l'ultima carta e ha perduto. Avevamo fallito. La nostra astronave era immobile nel cielo nero rischiarato solo dalla spettrale luminescenza di quel mondo d'incubo, senz'armi e impotente, mentre da ogni parte scaturivano sciami di coni neri, che tra pochi istanti si sarebbero chiusi su di noi e ci avrebbero distrutto, a dozzine, a centinaia, neri messaggeri di morte, mentre sul posizionatore la stella nera si avvicinava implacabilmente al margine del pericolo. Avevamo fallito, e la morte stava per raggiungerci. E gli sciami neri dei coni erano vicinissimi, ormai, e rallentavano, come se temessero qualcosa da noi, rallentavano ma continuavano ad avvicinarsi sempre di più, mentre noi li aspettavamo, gelati e storditi dalla disperazione di quell'ultima beffa. Si avvicinavano...
Un grido di esultanza scaturì improvvisamente da un punto imprecisato dell'incrociatore, seguito da una babele di voci, e poi Dal Nara si mise a gridare come una pazza, accanto a me, e indicò il grande oblò, che mostrava una forma lunga e nera che stava scendendo dal cielo verso di noi, mentre più in alto si trovava uno sciame di innumerevoli altre forme nere, più grandi e possenti, lunghe e nere e maestose. «È la nostra astronave!» stava gridando Dal Nara. «L'astronave 16! Sono riusciti a fuggire, a raggiungere la Galassia... e guarda laggiù... dietro di loro... c'è la flotta, la flotta della Federazione!» Il cuore mi batteva più forte per l'esultanza, ora, e il mio sguardo vedeva le stelle, e vedeva la pioggia di meteore che scendeva dal cielo, scendeva dietro la rilucente astronave, ed era uno sciame di cinquemila astronavi, le astronavi da guerra della flotta della Federazione. La flotta! Tutto il potenziale bellico della Galassia, incrociatori di Antares e di Sirio e di Regolo e di Spica, gli strumenti della Pattuglia della Via Lattea, gli strumenti della pace, i miei compagni di tanti viaggi da Arturo a Deneb, i compagni di mille battaglie! Stavano radunandosi, discendevano, torreggiavano sulle orde dei coni, come falchi che studiavano la preda, e poi scesero su di essi, insieme. La battaglia esplose violenta nell'aria, una battaglia fatta di raggi verdi e di esplosioni azzurre e di astronavi distrutte. Il nostro incrociatore, senz'armi, rimase immobile al centro di quel caos, mentre intorno a noi i possenti incrociatori della Galassia e i lunghi coni neri degli esseri tentacolati si scontravano e si distruggevano in fiammate silenziose e abbaglianti. Dai punti più lontani della stella nera giungevano altre miriadi di coni neri, come rinforzo, e si gettavano selvaggiamente nella battaglia, per essere distrutti dai terribili raggi degli incrociatori della Galassia, riuscendo a volte a speronarne uno, distruggendolo in un estremo sacrificio. Ma i coni svanirono uno dopo l'altro, rapidamente, sotto i raggi verdi. Allora Hurus Hol mi venne accanto, e gridò, indicando la città sotto di noi. «I condensatori!» Laggiù, la luce azzurrina brillava ancora. «La stella nera... guarda!» Indicò il posizionatore, e io, seguendo il suo sguardo, vidi che la stella nera quasi sfiorava la linea del pericolo. C'era ancora uno spazio esiguo, che si stava lentamente colmando. Guardai fuori, vidi la battaglia che infuriava intorno a noi, e i grandi incrociatori della Federazione stavano distruggendo a centinaia i coni, trasformando in un massacro quella che era
stata una battaglia, ma senza pensare ai generatori, di cui i nostri soccorritori non conoscevano l'esistenza. Sotto di noi, a mezzo miglio, si trovavano i condensatori, e la gabbia che costituiva la cabina di comando, e con una sola scarica dei raggi verdi, tutto quell'apparato sarebbe stato distrutto per sempre. Ma noi eravamo senz'armi, assolutamente impotenti! La soluzione disperata balenò nella mia mente, e io schiacciai il pulsante che si trovava davanti a me, e la nostra astronave discese come una furia verso i condensatori, e verso la gabbia rialzata. Scendemmo come una palla di cannone, inarrestabile e micidiale. «Tenetevi forte!» gridai nell'intercom. «Ho deciso di speronare la cabina di comando!» E incontro ci salivano gli azzurri emisferi del pozzo, la grande colonna e la gabbia sopraelevata, e tutto vorticando ci venne incontro mentre noi scendevamo a velocità folle. Uno schianto improvviso... e una terribile scossa fece roteare il nostro incrociatore, che colpì in pieno la gabbia metallica, strappandola dalla colonna che la sosteneva e mandandola a sfracellarsi al suolo. Manovrai disperatamente i comandi, la nostra astronave si impennò, sembrò sul punto di sfracellarsi a sua volta, passò a pochi centimetri da terra, poi si fermò e tornò a sollevarsi. Eravamo in salvo, e stavamo guardando in basso. Sotto di noi le radiazioni accecanti degli emisferi si erano improvvisamente spente. La grande battaglia, sopra e intorno a noi, si era calmata, e gli ultimi coni si dissolvevano sotto gli implacabili raggi verdi della nostra flotta. Ci voltammo verso il posizionatore, all'unisono, col cuore in gola. Guardammo ansiosamente. Su di esso il disco cupo della stella nera stava avanzando lentamente verso la linea del pericolo, e rallentava visibilmente, ma procedeva ancora... Avevamo perduto, all'ultimo istante? Il disco nero, quasi immobile, stava già per sfiorare la linea luminosa che circondava il nostro sole, separato da essa da uno spazio quasi impercettibile. Guardammo per un istante, mentre il margine della stella nera quasi sfiorava la linea, e in quel momento si decideva il destino di un sole. E poi un grido di gioia mi uscì dalle labbra. Perché lo spazio sottilissimo stava aumentando! Il disco nero stava allontanandosi, la sua rotta si stava curvando verso l'esterno, lontano dal nostro sole e dalla Galassia, dirigendosi verso le oscure profondità dello spazio dalle quali la stella nera era giunta per rubare una stella. Si allontanava... e alla fine sapemmo di avere vinto. E anche gli occupanti delle astronavi della possente flotta che si stendeva sopra di noi lo seppero, per mezzo dei loro posizionatori. Si stavano ra-
dunando intorno a noi, immobili, e noi ci unimmo alla flotta, e la stella nera si allontanò da noi verso le tenebre dello spazio, finché non fu che un immenso, titanico disco illuminato da un vago chiarore lunare che si stagliava sullo sfondo nero di un cielo senza stelle, mentre dall'altra parte sfolgoravano le stelle della nostra Galassia, e la stella nera portava con sé le luminose città del popolo tentacolato e milioni e milioni di quelle creature, in un viaggio che non avrebbe avuto ritorno. E sul ponte, circondati da tutte le astronavi della flotta, noi tre seguimmo l'allontanarsi della stella nera, poi ci voltammo a guardare la nostra stella gialla, grande e luminosa e benigna, quella stella gialla intorno alla quale ruotavano otto piccoli mondi, la nostra patria. Fu allora che Dal Nara indicò con la mano tremante la stella gialla, e sembrò sul punto di mettersi a piangere. «Il sole!» gridò. «Il sole! Il buon vecchio sole, che abbiamo salvato lottando! Il nostro sole, fino alla fine del tempo!» Capitolo VI. Fu di notte, una settimana più tardi, che Dal Nara e io ci congedammo da Hurus Hol, fermi sul tetto dello stesso grande edificio di Nettuno sul quale era iniziata la nostra impresa, tanto tempo prima. In quella settimana avevamo saputo come l'unico superstite di quell'incrociatore, l'astronave 16, fosse riuscito a liberarsi dai coni inseguitori e a dirigersi verso la Galassia per dare l'allarme. Avevamo saputo in quale modo la possente flotta della Federazione fosse partita da Antares, attraversando tutta la Galassia, in risposta all'allarme, dirigendosi verso la stella nera e raggiungendola appena in tempo per salvare la nostra astronave, e il nostro sole. Sarebbe inutile descrivere gli onori che ci furono tributati in quella settimana. Nel sistema solare non ci sarebbe stato rifiutato nulla, a Hurus Hol, a Dal Nara e a me, bastava che lo avessimo chiesto; ma Hurus Hol chiedeva solo di proseguire i suoi studi, mentre Dal Nara e io chiedevamo soltanto di proseguire col nostro incrociatore il servizio nella flotta della Federazione. Il sistema solare era e sarebbe stato per sempre la nostra patria, ma né io né Dal Nara saremmo mai stati capaci di abbandonare la grande flotta interstellare, di sottrarci al magico incanto di una Galassia fatta di stelle, di balzi di sole, di lunghe ore silenziose nella notte cosmica, alla luce tremolante degli astri. Saremmo stati figli delle stelle, lei e io, fino alla fine dei nostri giorni. E così ora, pronti a unirci alla flotta, eravamo sul tetto del grande edifi-
cio, e dietro di noi si stagliava la nera sagoma possente del nostro incrociatore, e sopra di noi si stendevano le palpitanti stelle della Galassia. Nelle strade sotto di noi c'erano delle altre luci, calde di vita, e folle festanti stavano ancora celebrando la salvezza dei loro mondi. E Hurus Hol mi stava parlando, commosso come mai lo avevo visto prima. «Se Nal Jak fosse qui...» cominciò, e tacemmo tutti per un lungo minuto. Poi egli ci tese le mani, e noi le stringemmo, dirigendoci verso il portello dell'incrociatore. Quando il portello si chiuse dietro di noi, salimmo sul ponte, e di là vedemmo il tetto del grande edificio allontanarsi sotto di noi, mentre le stelle sul nostro capo sembravano farsi più vicine. Le luci illuminarono per un istante la figura oscura di Hurus Hol, poi tutto svanì. E il mondo sotto di noi divenne una piccola sfera e poi scomparve nella notte, e tutto il sistema solare si ridusse a una semplice scintilla gialla sfavillante sullo sfondo dell'universo. Poi intorno al nostro incrociatore ci fu solo il silenzio, l'eterna notte dello spazio infinito... la notte, e i grappoli immutabili e sfolgoranti delle stelle fiammeggianti della Galassia. Parte terza. IL POPOLO DELLA NEBULOSA A sinistra, in una notte senza fine, brillava sempre la grande fiamma di Rigel, simile a una gemma sfavillante sospesa nell'infinito, mentre a destra lo splendore rosso di Betelgeuse emanava un richiamo che si perdeva nella notte del tempo. Vega era azzurra e sfolgorante, e i soli gemelli di Castore splendevano di luce calda e dorata, e tutti i grandi soli della Galassia avviluppavano i mondi che creature intelligenti avevano dominato, e che una flotta, la più potente mai concepita, manteneva in pace. Le comete percorrevano le vie dell'infinito e si accendevano quando si avvicinavano a un sole, e risplendevano della sua luce. E oltre lo spazio della Galassia si stendevano le insondabili profondità dell'abisso intergalattico, dal quale, nel corso dei millenni, a volte giungevano sciami di meteore, a volte stelle nere, e sempre il nulla. Il tempo passava e la spirale della Galassia ruotava e le creature intelligenti si diffondevano sempre di più di mondo in mondo. E dalla matrice che aveva generato quel ribollire di vita, la materia continuava a uscire e a espandersi, senza fine e senza principio.
Nel cosmo la luce e le tenebre si fondevano. E così pure nella matrice che lo aveva generato. Capitolo I. Davanti ai comandi, accanto a me, il silenzioso pilota sollevò brevemente la mano per indicarmi un punto oltre l'oblò della cabina di comando. «Finalmente, Canopo,» mi disse, e io annuii. Guardammo insieme, in silenzio. Davanti a noi, intorno a noi, si stendeva il meraviglioso panorama dello spazio interstellare, che noi conoscevamo bene, ma che era sempre nuovo ai nostri occhi, in quello sterminato abisso nero costellato dai punti palpitanti dei soli. La luce sanguigna di Antares, il pallido verde della grande Sirio, la luce calda e dorata di Capella, fiammeggiavano insieme nel firmamento che ci avvolgeva come splendide gemme di luce viva. E proprio davanti a noi brillava un occhio che faceva impallidire tutte le altre stelle, un titanico sole bianco abbagliante il cui disco fiammeggiante sembrava cancellare tutto il cielo davanti a noi, la possente stella Canopo, la più grande di tutte le titaniche stelle della Galassia. Benché vi fossi stato già numerose volte, contemplai con ammirata reverenza la grande stella bianca, mentre la nostra astronave volava incontro a essa. La sua titanica massa era superiore a quella di tutto il nostro sistema solare, era più grande milioni di volte la stella sotto la cui luce io ero nato, era di gran lunga la più bella tra le gemme che costellavano il nero spazio della Galassia. Era giusto, evidentemente, che su Canopo fosse stata fondata la sede del grande Consiglio dei Mille Soli, di cui ero membro anch'io, rappresentante del nostro piccolo sistema solare nel potente consesso in cui erano rappresentate tutte le creature intelligenti di ogni pianeta abitato della Via Lattea. In un silenzio pensoso guardai il grande sole che ci attendeva, e in quei momenti nessun suono turbò la pace della cabina di comando, sul ponte, tranne il ronzìo soffocato dei generatori dell'astronave, il grande dono dello scienziato Sarto Sen, le cui vibrazioni ci spingevano nell'etere a velocità mille volte superiori a quella della luce. Poi, contro lo splendore della grande stella bianca, apparve un punto nero, minuscolo dapprima, che poi aumentò gradatamente di dimensioni man mano che ci avvicinavamo a esso. Intorno a esso, oltre, stavano apparendo degli altri punticini neri, che col procedere della nostra avanzata si trasformavano in dischi, in globi, in
grandi pianeti roteanti che percorrevano le loro eterne orbite intorno alla gigante bianca che dava luce e calore al sistema. Ed era verso il pianeta più grande e più vicino alla stella che ci dirigevamo, verso la sede del grande Consiglio, che costituiva la mèta ultima del nostro andare. Sotto di noi vidi il grande pianeta diventare una vasta distesa color rame. La nostra velocità era diminuita, e dopo avere attraversato lo strato superiore dell'atmosfera, un vero e proprio sciame di astronavi di ogni tipo, ci dirigemmo verso la superficie. Intorno a noi sciamavano le grandi astronavi della Galassia, che arrivavano e partivano a ogni istante, attirate da Canopo, il centro e la capitale del nostro universo. Lunghi mercantili di Spica, carichi degli strani prodotti di quei mondi, lussuose astronavi passeggeri provenienti da Regolo e da Altair, piene di turisti ansiosi di vedere per la prima volta Canopo; piccole astronavi velocissime provenienti dai mondi dell'ammasso di Hercules; mercantili che non battevano bandiera di nessun mondo, ma vagavano senza fine per tutta la Galassia, di stella in stella, con lo scafo striato dai segni di mille meteore e di mille atterraggi di fortuna; e qua e là, tra gli sciami di astronavi straniere, si potevano vedere delle astronavi umane, provenienti dal sistema solare periferico che era anche il nostro. Noi scendemmo verso la superficie del grande pianeta, e migliaia di astronavi ci circondavano. Man mano che ci avvicinavamo alla superficie, però, il traffico veniva incanalato secondo precise direttrici, e ci trovammo in un'atmosfera più libera. Alla luce dell'immenso sole giallo che brillava nel cielo, il paesaggio era chiaramente distinguibile, un paesaggio fatto di grandi pianure e di colline ondulate, un pianeta simile a un giardino, un immenso giardino, nel quale si alternavano i grandi prati e i boschi. Disseminate sulla superficie di questo paradiso, a grandi intervalli, sorgevano le città, bianche e abbaglianti sotto la luce di Canopo, e noi volammo sulle alte torri e sulle larghe strade, rallentando sempre di più. Poi, molto lontano, all'orizzonte, apparve un'immensa guglia solitaria, sullo sfondo del cielo, e avvicinandoci vedemmo che si trattava di un'altissima torre, dalla base di due chilometri quadrati, alta diecimila piedi. Intorno alla torre si sviluppava un semicerchio di edifici, grandi anch'essi ma simili a giocattoli se confrontati con il gigantesco palazzo che li dominava. E la nostra astronave discese sul campo d'atterraggio che si trovava alla base della torre, perché quella stupenda costruzione era la sede del grande Consiglio dei Mille Soli. Scendemmo verso la base della torre, passammo sui grandi edifici colla-
terali che ospitavano i diversi uffici del governo della Galassia, e ci posammo dolcemente al suolo, a cento piedi dalla torre. Poi i portelli dell'astronave si aprirono, e un attimo dopo uscii, e mi avviai verso la grande torre. Attraversai l'altissima porta, e percorsi il lungo corridoio che portava a una serie di porte che si aprirono automaticamente al mio passaggio. Un minuto dopo mi trovai nella Sala del Consiglio. Come sempre, fui costretto a fermarmi un istante, appena entrato, per un moto involontario di stupore che quel luogo mi provocava ogni volta. Si trattava di un'immensa sala circolare, grande quasi come l'intera base della torre. Il circolo era a forma di conca, e al centro della conca si trovava il seggio del Presidente del Consiglio. E intorno alla piattaforma c'erano migliaia e migliaia di posti, ciascuno occupato in quel momento dai membri del grande Consiglio. Tra queste migliaia di membri c'erano creature provenienti da tutti i punti della Galassia, scelti come me a rappresentare il loro mondo in quella grande assemblea. Erano creature completamente aliene, provenienti fin dagli angoli più remoti della Via Lattea... creature di Aldebaran, uominitartaruga d'ella razza anfibia che abitava i pianeti di quella stella; esseri lenti e pelosi dei pianeti di Betelgeuse, la stella che si stava lentamente spegnendo; enormi ottopodi di Vega; uomini-insetto, invertebrati di Procione; strani esseri-pipistrello dalle ali nere, provenienti dagli spettrali mondi di Deneb; tutti insieme, radunati in quella vasta assemblea, forme di vita che differivano tra loro completamente, dal punto di vista fisico, ma che erano capaci di unirsi e di comprendersi grazie al dono a tutti comune, l'intelligenza. Dopo un minuto raggiunsi il mio posto, e sedetti guardando la nera piattaforma che sorgeva al centro della sala, e sulla quale si trovava il presidente del Consiglio. Era una figura abbastanza strana, perché apparteneva alla razza di Canopo, nativa del sistema di quella stella bianca, una testa enorme e inumana con un solo occhio fisso, senza tronco, sorretto da arti déboli e gracili. Era immobile al centro della sala, e osservava col suo occhio impenetrabile i membri dell'assemblea. Dopo un altro minuto tutti furono ai loro posti, e il silenzio regnò nella sala, mentre il Presidente cominciava a parlare, nella lingua universale della Galassia, con la sua voce strana e modulata, ingigantita dai grandi altoparlanti che si trovavano in tutti i punti della sala. «Membri del Consiglio,» disse, «ho convocato questa assemblea, vi ho
riuniti qui su Canopo, ciascuno dalla sua stella nativa, perché devo sottoporvi una questione della massima importanza. Vi ho riuniti qui perché è sorto un problema dal quale dipende la vita della Galassia... il pericolo più grande e più terribile, in verità, che mai abbia minacciato il nostro universo! «Nel passato altri pericoli, altri problemi sono sorti davanti a noi, e tutti sono stati risolti, per mezzo delle nostre forze riunite e della nostra scienza, e con la nostra scienza abbiamo esercitato un potere sempre più forte sulla materia inanimata che compone la nostra Galassia. Abbiamo salvato pianeti e popoli dall'estinzione, trasferendoli dai loro soli morenti a nuovi soli fiammeggianti. Siamo riusciti a distruggere alcune delle grandi comete che seminavano la distruzione nella Galassia. Siamo perfino riusciti a mutare il corso dei soli, per evitare collisioni cosmiche le quali avrebbero turbato l'equilibrio della Via Lattea, distruggendo mondi e mondi. Potrebbe dunque sembrare che le nostre forze riunite, le forze di tutta la Galassia, siano così forti da sfidare e dominare tutte le cose. Ma non è così. Una sola cosa, in tutta la Galassia, rimane al di là dei nostri poteri e della nostra scienza, che sono niente al suo confronto. E questa cosa è la nebulosa. «Una nebulosa è la cosa più grande del nostro universo, e senza dubbio la più misteriosa. È una gigantesca massa di gas luminoso che si stende per migliaia e migliaia di anni-luce nello spazio, e la sua massa risplende nel cosmo come una nube di gas in fiamme. In confronto a essa, tutti i soli della Galassia non sono che una scintilla in confronto a un grande fuoco perenne. Qua e là nella Galassia si trovano questi grandi misteri cosmici, queste fiammeggianti nebulose, e la più possente di tutte è quella che noi chiamiamo la Nebulosa di Orione quel gigantesco globo di gas infiammato che misura molti anni-luce di diametro, e splende divampando al centro della Galassia. Sappiamo che la grande nebulosa sta lentamente restringendosi, che attraverso gli eoni produrrà nuove stelle fiammeggianti e scomparirà, ma quale sta la sua composizione, quali misteri possa nascondere, nessuno lo ha mai saputo, perché qualsiasi astronave osasse penetrarvi sarebbe distrutta dal grande rogo prima di giungere appena vicina, e tutto il traffico interstellare si svolge a distanza prudenziale da quell'ammasso divampante. Siccome sappiamo che è inaccessibile, non abbiamo mai considerato con particolare attenzione la grande nebulosa, né la considereremmo ora, se da poco i nostri scienziati non avessero scoperto qualcosa in essa che sembra preannunciare la fine del nostro universo. «Come ho detto, questa nebulosa, questo gigantesco rogo di gas, si trova
praticamente immobile nello spazio, nel cuore della Galassia. Alcune settimane fa, però, i nostri astronomi hanno scoperto che la grande sfera fiammeggiante della nebulosa aveva cominciato lentamente a ruotare, a muoversi sul suo asse, e che col passare dei giorni questo moto di rotazione era sempre aumentato. Da allora per settimane i nostri astronomi hanno seguito il fenomeno, e il moto di rotazione è sempre aumentato, finché adesso la nebulosa è giunta a ruotare a velocità incredibile, una velocità che aumenta tuttora. E questa rotazione accelerata della grande nebulosa dovrebbe portare, inevitabilmente, alla distruzione della nostra Galassia. «Perché i nostri scienziati hanno calcolato che entro due settimane a partire da oggi, la velocità di rotazione della nebulosa avrà raggiunto il punto critico, e che tutte le parti che la compongono raggiungeranno la velocità di fuga. La nebulosa si disintegrerà, le sue gigantesche masse di gas incandescenti si spanderanno in ogni direzione. E queste enormi nubi di gas incandescente, volando per tutta la Galassia, il nostro universo, distruggeranno inesorabilmente migliaia di soli e di pianeti, bruciando completamente i pianeti, trasformando i soli in masse nebulose di gas incandescenti che a loro volta si diffonderanno per la Via Lattea, distruggendo l'equilibrio gravitazionale di tutta la Galassia, finché non ci sarà un caos assoluto di soli che si scontrano e al posto della Galassia che conosciamo non ci sarà un'unica sfera di materiale gassoso incandescente, pieno di frammenti organici rapidamente vaporizzati, e allora la nostra civiltà scomparirà per sempre, e sarà cancellato perfino il ricordo!» Il presidente del Consiglio fece una breve pausa, e in quel momento il silenzio regnò sovrano nella grande sala, un silenzio innaturale, terribile, assoluto. Vidi i membri del Consiglio intorno a me tradire la loro interna emozione, protendersi in avanti, ansiosi, e quando il presidente riprese a parlare, le sue parole echeggiarono nella grande sala in un'atmosfera di tensione mortale. «Per quanto sia terribile questa minaccia,» disse il presidente, «dobbiamo affrontarla. Fuggire è impossibile: ditemi voi, dove dovremmo fuggire? Abbiamo una sola possibilità di salvezza per la nostra Galassia. Dobbiamo arrestare la rotazione della nebulosa prima che il poco tempo che ci è rimasto sia trascorso, prima che si verifichi questo cataclisma cosmico. Una forza, o delle forze, di natura assolutamente eccezionale, hanno dato il via a questa rotazione, e se riusciamo a raggiungere la nebulosa, e a scoprire la natura di queste forze, potremo passare al contrattacco, potremo cercare con la nostra scienza di arrestare la rotazione della nebulosa e d'i sal-
vare i nostro soli e i nostri mondi. «Naturalmente è impossibile per qualsiasi nave interstellare tentare ciò, dato che qualsiasi astronave sarebbe istantaneamente distrutta dal terribile calore della nebulosa. Però, voi sapete che i nostri scienziati, qui su Canopo, da molto tempo sono impegnati nella costruzione di un nuovo materiale resistente al calore, capace di sopportare temperature capaci di distruggere qualsiasi cosa. I nostri scienziati sono partiti dal principio che la resistenza al calore dipenda dalla struttura atomica. Per esempio, l'acciaio resiste al calore e al fuoco più del legno, perché La sua struttura atomica, ovvero la disposizione dei suoi atomi, è più stabile, meno soggetta al cedimento. E seguendo questo principio i nostri scienziati hanno realizzato una nuova lega metallica, la cui struttura atomica è infinitamente più stabile di quella di qualsiasi materiale esistente in natura o realizzato artificialmente prima d'ora, e che è capace di resistere a temperature incredibili. «È stato costruito un incrociatore interstellare, composto esclusivamente di questo metallo refrattario, un incrociatore capace di penetrare in regioni che distruggerebbero istantaneamente qualsiasi altra astronave. L'incrociatore era stato progettato per esplorare le corone solari, ma quando si è verificato lo stato di emergenza, ho ordinato di condurlo nel Palazzo del Consiglio, pronto alla partenza. Perché intendo servirmi di questo incrociatore per raggiungere la nebulosa, avvicinarmi all'aureola fiammeggiante che la circonda, cosa impossibile ad altri, e compiere un estremo sforzo per scoprire quale sia la causa del fenomeno e quali misure sia possibile prendere per difenderci. L'incrociatore è piccolo, e allo stato attuale può ospitare solo tre persone, tre creature che avranno nelle mani le sorti del nostro universo. E intendo scegliere ora questi tre, scegliergli tra voi, considerando creature la cui esperienza interstellare e il loro passato valore diano le più ampie garanzie per il successo di questa pericolosa e vitale impresa.» Fece un'altra pausa, e un mormorio di eccitazione passò attraverso l'assemblea, un'improvvisa babele di mille voci dai toni e dalle sfumature e dagli accenti diversi, un mormorio che si quietò non appena il presidente parlò di nuovo. «Sar Than di Arcturus!» Quando pronunciò quel nome, una figura si alzò dall'assemblea, alla mia sinistra, un corpo bulboso sorretto da quattro robusti tentacoli muscolosi che servivano come braccia e come gambe, sormontato da una grossa testa rotonda senza collo, con due occhi intelligenti e vivaci, e una stretta fessura al posto della bocca. Dopo un istante di incertezza, l'arturiano abbando-
nò il suo posto e percorse la corsia verso la piattaforma centrale. La voce del presidente pronunciò un altro nome. «Jor Dahat di Capella!» Davanti a me si alzò un'altra figura, la figura di uno degli strani uominipianta di Capella, del popolo che si era evoluto fino a raggiungere altissime vette di scienza e di potenza partendo dalle più umili forme di vita vegetali di quei pianeti; il suo corpo era un cilindro eretto di carne liscia e fibrosa, sostenuto da due corte gambe tozze, con un paio di arti superiori possenti, e una testa conica, con un volto che aveva due occhi dalle pupille verdi, delle piccole orecchie e una bocca quasi umana. Dopo un istante, anche lui si avviò verso la piattaforma, mentre la sala era percorsa da un fremito di eccitazione; e fu allora che il presidente pronunciò il terzo nome. «Ker Kal, di Sol-828!» Per un istante rimasi seduto, stordito, incredulo, e le parole del presidente mi ronzavano in testa implacabilmente, poi fui assalito da uno scoppio di grida intorno a me, sentii di alzarmi in piedi e di avviarmi verso la piattaforma, in stato di sonnambulismo, circondato dal clamore assordante che si stava levando dall'assemblea, e vagamente avvertii le cose che mi circondavano, le creature di Arcturus e di Capella vicino a me, il presidente del Consiglio sulla piattaforma... poi vidi che il presidente zittiva l'assemblea, e il clamore svanì, e mi ritrovai immerso in un silenzio carico d'attesa. Allora il presidente parlò di nuovo, e questa volta si rivolse a noi. «Sar Than, Jor Dahat e Ker Kal,» ci disse, «siete stati scelti per andare dove soltanto in tre possono andare, avvicinarvi alla nebulosa e compiere un estremo tentativo di scoprire e combattere la forzi, o le forze, che hanno causato il cataclisma che ci minaccia. Il vostro incrociatore è pronto e voi partirete subito, e per voi non ho ordini, non ho istruzioni, non ho consigli. Vi dico solo questo: se fallirete in questa missione, dove il fallimento pare quasi inevitabile, la nostra Galassia avrà trovato la sua ultima ora, i miliardi di miliardi di creature che la popolano troveranno la morte, la civiltà che abbiamo costruito in milioni di anni sarà distrutta. Ma se riuscirete, se scoprirete quali forze hanno causato la rotazione della grande nebulosa, e sarete capaci di arrestare questa rotazione, allora i vostri nomi non moriranno, finché un solo abitante della Galassia vivrà. Perché in questo caso voi avrete compiuto quello che nessuno prima di voi ha fatto né ha sognato di fare, avrete arrestato con le vostre mani un gigantesco cataclisma cosmico, avrete salvato un universo dalla morte!»
Capitolo II. La porta della piccola cabina di pilotaggio si aprì, e voltandomi vidi entrare i miei due compagni. L'arturiano e il capelliano mi vennero accanto, e io indicai con un cenno del capo il grande oblò che occupava un'intera parete. «Tra due ore ci saremo,» dissi. Fianco a fianco, guardammo lo spettacolo che ci si offriva. Ancora una volta, intorno a noi si stendeva l'abisso nero dello spazio, spruzzato dalia rugiada tremolante di mille soli. Dietro di noi, molto lontano, splendeva la gigantesca stella bianca che era Canopo, ridotta ormai a un punto candido, e alla nostra destra i grandi soli gemelli di Castore e Polluce fissavano la notte senza giorno, e molto, molto lontano, un minuscolo punticino giallo di luce era quanto potevo vedere del sole del mio sistema. Dietro, sopra, sotto, intorno a noi splendevano le stelle del cielo, ma davanti all'astronave si poteva vedere un grande cerchio di luce solitario che riempiva il cielo, titanico, incommensurabile, ed era la nostra mèta, la possente nebulosa. Avevamo visto allargarsi il possente disco di fiamma nel cielo per dieci giorni, mentre a tutta velocità ci dirigevamo verso di esso, nell'incrociatore refrattario che ci era stato fornito dal Consiglio. Erano passati giorni e giorni, durante i quali i nostri generatori avevano ronzato ininterrottamente, proiettandoci attraverso lo spazio a una velocità raggiungibile soltanto da un'astronave che portava sul fianco l'emblema della Pattuglia dello Spazio, la forza che manteneva la pace in tutta la Galassia, e i cui incrociatori si muovevano tra le stelle quasi alla velocità del pensiero... e malgrado ciò i giorni erano passati lenti, carichi d'ansia e d'angoscia, giorni monotoni e snervanti, di veglia solitaria nella cabina di pilotaggio con un universo, che forse non avrebbe avuto un domani, davanti agli occhi. Avanti e avanti e avanti e i soli passavano accanto a noi e stelle apparivano e scomparivano nelle pieghe del cosmo e le meteore ci passavano vicine e le comete nere che attendevano il calore di una stella per risplendere in tutta la loro bellezza ci sfioravano. Molte volte avevamo corretto la rotta, quando i nostri segnalatori, precisi al microsecondo, ci avevano avvertiti della presenza sulla nostra rotta di qualche grande sciame di meteore, frammenti provenienti da regioni sconosciute dello spazio e del tempo, e altre volte avevamo evitato l'avvicinarsi di qualche minacciosa stella nera: ma la nostra direzione era rimasta immutata, e la grande nebulosa si avvi-
cinava sempre di più. E giorno dopo giorno la distanza diminuiva e il circolo di luce aumentava, e finalmente giungemmo in vista della fine del nostro viaggio, e cominciammo a percorrere a velocità diminuita gii ultimi miliardi di miglia che ci dividevano dalla mèta. E ora, avvicinandoci alla fiammeggiante massa della nebulosa, la vedemmo per la prima volta in tutto il suo autentico splendore. Era un'immensa sfera di luce pulsante, di gas incandescenti, e fiammeggiava davanti a noi simile a un sole di dimensioni inconcepibili, riempiva il cielo da un orizzonte all'altro, e stordiva con la sua incredibile grandezza. Dal grande globo di fuoco si sollevavano e si protendevano lingue di fiamma, di gas incandescente, enormi prominenze di lunghezza incalcolabile, che uscivano dalla grande sfera roteante. Perché la sfera, la nebulosa, stava ruotando. Lo vedemmo bene, misurando l'entità della rotazione dalla posizione delle lingue di fiamma che dalla nebulosa si sollevavano, e sebbene il movimento ci paresse lento, a causa delle enormi dimensioni della nebulosa, sapevamo che in realtà era terribilmente rapido. Rimanemmo in silenzio nella piccola cabina di pilotaggio a guardare, e molto tempo passò, mentre i nostri volti erano illuminati dallo splendore della nebulosa. E finalmente Sar Than, il più vicino a me, parlò. «Adesso capisco perché nessuna nave interstellare ha mai tentato di avvicinarsi alla nebulosa,» disse, senza distogliere lo sguardo dalla gigantesca massa che splendeva davanti a noi. Fui d'accordo con l'arturiano. «Solo la nostra astronave può permettersi di avvicinarsi tanto,» dissi. «La temperatura esterna è inconcepibile, adesso. Siamo dove nessuno è mai arrivato.» Indicai un termometro che segnava la temperatura esterna. «Ma quanto possiamo avvicinarci?» domandò Jor Dahat. «Quanto calore può sopportare la nostra astronave?» «Diverse migliaia di gradi,» dissi, rispondendo alla ultima domanda dell'uomo-pianta. «E possiamo arrivare a poche migliaia di miglia dalla nebulosa senza pericolo, penso. Ma se andassimo troppo oltre, se ci capitasse di immergerci tra le fiamme della nebulosa, saremmo perduti, perché neppure la nostra astronave potrebbe sopportare per molti minuti il terribile calore allo stato puro. Possiamo però sorvolare la superficie della nebulosa senza pericolo.» «Pensi di sorvolare la nebulosa per scoprire la causa della sua rotazione?» mi domandò l'essere di Capella, e io annuii. «Sì. Dovrebbero esistere delle grandi correnti spaziali, di natura scono-
sciuta, e sarebbe questa la causa dell'improvvisa rotazione. O forse, altre forze delle quali non sappiamo nulla. Se riuscissimo a scoprire la causa della rotazione, avremmo almeno una possibilità...» Poi tacqui, senza terminare la frase, e fissai pensoso le fiamme furiose che si agitavano davanti a noi. Mentre la nostra astronave avanzava lentamente verso quel possente oceano di gas incandescenti, l'ago del nostro misuratore della temperatura esterna saliva implacabilmente, sebbene l'interno della nostra astronave fosse appena leggermente più caldo del solito, a causa del materiale estremamente refrattario di cui era composto l'incrociatore. Stavamo entrando in una fornace che avrebbe distrutto qualsiasi altra sostanza, trasformandola in gas che si sarebbero aggiunti alla grande massa della nebulosa, e questo pensiero ci rese taciturni. E il cielo davanti a noi, una solida parete di fiamma, sembrò impennarsi, mentre l'astronave si sollevava; e dopo pochi minuti ci trovammo in posizione parallela alla nebulosa, e cominciammo ad abbassarci, con prudenza. Sempre rallentando, discendemmo sulla nebulosa, fino a immobilizzarci a circa mille miglia dalla fiammeggiante superficie di gas incandescenti, ed eravamo un atomo minuscolo, in confronto all'immenso universo di fuoco che stavamo sfidando. Quel mare di fuoco era percorso da correnti e da ondate, correnti che in alcuni punti si riunivano e formavano vortici e turbini inconcepibili, mentre sulla superficie, a intervalli, si sollevavano le grandi lingue di fiamma che raggiungevano un'altezza enorme, come geiser di gas incandescente, torreggiavano per un istante nello spazio, poi ricadevano come una titanica cascata di fuoco sulla superficie dalla quale erano scaturite. Noi che sorvolavamo quell'inferno di fuoco pensammo per un istante che nell'universo tutto fosse scomparso, e il fuoco, l'elemento primo, avesse vinto la sua battaglia, e solo il fuoco fosse padrone dell'universo intero. Sospesi lassù, all'interno del nostro piccolo incrociatore, guardammo l'inferno, e nei nostri occhi lo stupore si mescolava all'ammirazione. Il termometro esterno aveva raggiunto limiti incredibili, e neppure un'immaginazione sfrenata avrebbe potuto immaginare quale fosse la temperatura tra quelle fiamme ruggenti. Ma non c'erano tracce sulle cause della rotazione della nebulosa, perché i nostri strumenti non avevano registrato la presenza di correnti cosmiche di alcun tipo, né la presenza di altri fenomeni, di qualsiasi natura, che uscissero dalla normalità. E, abbassando lo
sguardo, tutti noi provammo la medesima sensazione: nessuno al mondo e nulla nell'universo avrebbe potuto influire su quella grande nebulosa, sulla cosa più grande e più possente che esistesse nell'universo intero. Finalmente, mi rivolsi agli altri. «Qui non c'è nulla,» annunciai. «Nulla che ci indichi una sola causa possibile della rotazione della nebulosa. Dobbiamo andare avanti, sorvolare la superficie...» Parlando, mi misi ai comandi e feci per abbassare un pulsante, ma fui costretto a voltarmi bruscamente, quando mi giunse un grido improvviso da Sar Than, che si trovava davanti all'oblò. «Guardate!» stava gridando l'arturiano, indicando lo oblò. «Sotto di noi... guardate!» Abbassai lo sguardo, e vidi qualcosa che mi fece gelare il sangue. Proprio sotto di noi stava improvvisamente sgorgando una delle immense lingue di fiamma, che usciva dalla superficie della nebulosa, direttamente verso di noi, una gigantesca lingua di fuoco in confronto alla quale la nostra astronave era soltanto un atomo. Gridai, balzai ai comandi, ma era troppo tardi. L'astronave fu avvolta da un'ondata di fiamma, che ci avviluppò completamente, e noi fummo scaraventati bruscamente contro le pareti, e l'astronave sembrò impazzita, si impennò e ruotò su se stessa come una foglia morta presa dal vortice di un tornado, completamente in balìa dell'inferno di fuoco che se ne era impadronito. Tutt'intorno a noi ruggivano le fiamme poderose che ci avevano imprigionato, e noi fummo gettati al suolo, e giacemmo contusi, e sentii che la nostra astronave stava affondando, trascinata dal risucchio di fiamma che stava rientrando nella grande nebulosa. Lottai per rimettermi in piedi, mentre la cabina di pilotaggio vorticava follemente intorno a me, e attraverso le fiamme vidi, dall'oblò, la superficie della nebulosa che ci veniva incontro, con i suoi vortici di fuoco, senza che noi potessimo far nulla per sottrarci al nostro destino. Poi un altro sobbalzo mi mandò nuovamente a gambe levate, e attraverso le pareti dell'astronave mi giunse un tremendo ruggito, così assordante che la mia mente cominciò a vorticare anch'essa, sopraffatta, e dall'oblò era visibile soltanto una muraglia di fiamma, solida come il cemento, e il nostro incrociatore fu preda di almeno una dozzina di forze diverse. E lentamente una scintilla di luce mi penetrò nella mente, e compresi quanto ci era accaduto, e il mio grido riuscì a sopraffare il ruggito della fiamme. «La nebulosa!» gridai. «La corrente che ci ha afferrato ci ha trascinati
nella nebulosa!» Tutt'intorno a noi si stendeva ora un'ininterrotta cortina di fuoco, il cui calore penetrava perfino le pareti refrattarie della nostra astronave. Rapidamente, l'atmosfera della piccola cabina di pilotaggio si stava arroventando, diventava soffocante, e le pareti erano già roventi. Sapevo che l'astronave non avrebbe potuto sopportare per molti altri minuti quell'infernale calore, eppure ogni istante ci portava sempre più a penetrare nella nebulosa, e il vortice che ci risucchiava ci faceva procedere a velocità inaudita. In balia delle possenti correnti che infuriavano nelle profondità della nebulosa, stavamo sempre più penetrando in quell'universo di fuoco, e l'incendio immane divampava intorno a noi, come il tuono dell'apocalisse, terrificante, assordante, spaventoso, un clamore cosmico e intollerabile che univa in sé tutti i suoni più tremendi dell'universo inanimato. Sprofondammo in quell'abisso ruggente, vorticando come una farfalla impazzita, e sempre più le fiamme ci tenevano prigionieri, e il momento della nostra morte si avvicinava a ogni istante. L'atmosfera era diventata soffocante, quasi irrespirabile, e le pareti sprigionavano un calore intollerabile. Chiamai a raccolta le ultime forze, e un centimetro dopo l'altro faticosamente arrancai verso i comandi. Li raggiunsi, e allora aprii i generatori alla massima potenza, e vi riuscii, ma era inutile: in balìa delle titaniche forze della nebulosa, il nostro incrociatore non poteva far altro che sprofondare, sprofondare sempre di più verso la distruzione. E, quando un altro violento sobbalzo mi catapultò di nuovo verso la parete, dove si trovavano i miei due compagni, e cercai di respirare, ma sembrava che nei miei polmoni entrasse del fuoco liquido, e le tenere dell'incoscienza sembravano l'unico rifugio accettabile, di fronte all'incalzare di quell'universo di luce... E mentre l'incoscienza mi afferrava come un gorgo, sentii dall'interno dell'astronave un crepitìo, e mi resi conto che le pareti cominciavano a cedere. La loro struttura stabilissima avrebbe resistito per un altro minuto, forse... o forse per qualche secondo... i rumori si ripeterono, e io tremai, e la morte era a un passo da noi, e il fuoco della nebulosa che ci circondava presto avrebbe avuto la sua preda. Ancora un minuto... Ma accadde qualcosa. Improvvisamente, il tuono che ci circondava si attenuò, scomparve, e nello stesso istante la nostra astronave si raddrizzò, riprese a volare stabilmente, e i generatori ronzarono come sempre. Lentamente, sollevai il capo, poi spalancai gli occhi, del tutto sbalordito. L'incendio che si era sviluppato fuori dell'oblò, il terribile oceano di fiamma che ci aveva avviluppati, era svanito, e stavamo nuovamente volando nello
spazio libero. E anche Jor Dahat aveva visto quello che avevo visto io, e stava rialzandosi. «Siamo fuori della nebulosa!» gridò. «Quella corrente deve averci riportati alla superficie... di nuovo nello spazio...» Si avvicinò all'oblò e guardò avidamente, mentre io cercavo a mia volta di rimettermi in piedi. E quando vi riuscii, vidi che sul suo volto inumano si era formata una espressione di meraviglia, e lo udii mormorare una sommessa esclamazione di stupore. Poi Sar Than e io fummo in piedi, e andammo a vedere all'oblò, e vedemmo. La mia prima impressione fu quella della presenza di un immenso spazio, una distesa enorme di spazio che si stendeva all'infinito, e nella quale stava volando la nostra astronave. E poi vidi, con improvvisa meraviglia e reverenza, che quello spazio non era lo spazio senza confini che conoscevamo, ma era limitato, limitato da una titanica cortina di fiamma che lo racchiudeva da ogni parte. Sopra e sotto e davanti e dietro di noi si stendeva quella possente muraglia di fuoco, un colossale involucro di fuoco che racchiudeva l'immenso spazio nel quale volava il nostro incrociatore, uno spazio abbastanza vasto da racchiudere una dozzina di sistemi solari come il mio. Attoniti, guardammo quell'immensa distesa spaziale racchiusa dalle fiamme, e poi gridai, colpito da un'improvvisa comprensione. «Siamo all'interno della nebulosa!» gridai. «È concava! Questo grande spazio aperto si trova all'interno di essa, e la terribile corrente ci ha portati qui!» Era dunque questa la spiegazione. Senza che nessuno lo sospettasse, in tutta la Galassia, la nebulosa era cava, il gigantesco globo di gas incandescente celava nel suo cuore questo enorme spazio libero, uno spazio enorme per i nostri occhi, ma piccolo, paragonato allo spessore del grande involucro di fuoco che lo racchiudeva. E attraverso quel mare di fuoco le correnti della nebulosa ci avevano portati laggiù, dalla superficie esterna fino a quello spazio aperto che si stendeva all'interno, e di cui nessuno aveva mai sognato l'esistenza, e che per primi nella storia della Galassia noi potevamo vedere. Mentre noi guardavamo, il nostro incrociatore stava avanzando in quello spazio immenso, allontanandosi dalla parete di fiamma dalla quale eravamo usciti. E mentre l'astronave avanzava anche Sar Than gridò, e indicò qualcosa davanti a noi. Là, nero contro le fiammeggianti pareti della nebulosa che si stendevano lontano, c'era un punticino, un punticino che in-
grandiva fino a diventare una macchia che a sua volta diventò un globo nero, mentre la nostra velocità ci portava avanti, e il globo era immobile al centro di quello spazio che si stendeva nel cuore della nebulosa. Stavamo dirigendoci verso di esso, e Jor Dahat emise un'imprecazione soffocata, alla vista del grande globo nero. «Un pianeta!» mormorò. «Un pianeta, qui... all'interno della nebulosa!» I miei occhi erano fissi sul pianeta, e lentamente annuii, ma non risposi, mentre l'astronave procedeva verso l'oggetto della nostra attenzione, la sfera nera che ci veniva incontro. E avvicinandoci vedemmo che il pianeta era di dimensioni titaniche, più grande di qualsiasi pianeta della Galassia, e che, sospeso là, al centro della nebulosa, ruotava lentamente, alla stessa velocità della nebulosa. Era sospeso, nero e possente, mentre intorno a esso, a milioni e milioni di miglia, splendevano le fiamme della nebulosa che lo racchiudeva. Noi avanzammo, e durante quel periodo nessuno di noi parlò, e nella cabina di pilotaggio si udì soltanto il sommesso ronzìo dei generatori. Credo che tutti noi, in quel momento di stupore, avessimo subito compreso che in quel mondo nero e immenso si trovava la risposta del problema che dovevamo risolvere, e osservammo l'avvicinarsi del pianeta in un silenzio carico di tensione. Diventava sempre più grande, sempre più grande. La nostra velocità era diminuita, e continuai a diminuirla, seguendo una normale rotta di avvicinamento planetario. Ci mettemmo in orbita intorno al pianeta nero, e poi. lentamente, cominciammo ad abbassarci. E scendendo osservammo che l'ago del nostro misuratore atmosferico stava salendo: questo dimostrava che il pianeta nero possedeva un'atmosfera. Poi dimenticammo tutto il resto, quando i nostri occhi videro lo scenario che si stendeva sotto di noi. Probabilmente, tutti noi aspettavamo di vedere delle tracce di vita, di vita intelligente, città o edifici o macchine. Ma non c'era niente di tutto questo. Sotto di noi si stendeva soltanto una pianura piatta e nera, che si stendeva da un orizzonte all'altro, senza colline e senza valli e senza corsi d'acqua, a perdita d'occhio, così piatta da apparire innaturale. E, avvicinandoci, la sorpresa aumentò rapidamente, e quando ci trovammo immobili a cento piedi dalla superficie di quel mondo, lo sbalordimento ci strappò delle esclamazioni soffocate. Perché, vista da vicino, la superficie di quel grande pianeta era incredibilmente piatta e levigala, proprio come era sembrata dall'alto, era una pianura lucida e piatta priva di depressioni e di alture, neppure di misure trascurabili; era una distesa levigata e incredibilmente strana di nero metallo, che si stendeva in ogni direzione fino all'orizzonte,
ricoprendo quel colossale pianeta. Ci guardammo l'un l'altro, strabiliati, e poi tornammo a guardare la superficie levigata di quel mondo. Su quella superficie non erano visibili aperture, né crepe, né saldature: niente di niente, solo il metallo levigato. Poi, con decisione improvvisa, abbassai una leva, e l'astronave decisione improvvisa, abbassai una leva, e l'astronave quella pianura senza fine. Volammo con estrema lentezza, senza perdere d'occhio la superficie di quel mondo, alla ricerca di un particolare, di un segno, di una traccia, di un minimo appiglio che potesse farci comprendere qualcosa della misteriosa struttura di quel mondo. E miglio dopo miglio, la pianura si stendeva sotto di noi, immobile e immutabile come il tempo. Poi, guardando avanti, socchiusi improvvisamente gli occhi, e sollevai la mano per richiamare l'attenzione dei miei compagni. Davanti a noi, molto lontano, avevo scorto un'apertura nella superficie rilucente, che, mentre il nostro incrociatore avanzava, diventava un grande pozzo circolare. Ci avvicinammo sempre di più, e guardammo, ansiosamente. Il pozzo era di dimensioni gigantesche, la sua apertura era di almeno cinque miglia di diametro, e dal centro di essa saliva verso il cielo un raggio di pallida e spettrale luce bianca, tanto pallida da essere faticosamente visibile, un raggio bianco e livido che saliva a immergersi, a quanto pareva, nelle fiamme della nebulosa che si stendeva in alto, a incalcolabile distanza. Ormai eravamo vicinissimi a quel pallido raggio, stavamo già sorvolando i margini del pozzo. Vidi per un attimo le pareti circolari del pozzo, che si immergeva per miglia e miglia nelle profondità del pianeta, e vidi qualcosa, in quelle profondità, che brillava come una grande stella bianca fatta di luce, e allora Jor Dahat emise improvvisamente un grido d'angoscia, indicando il raggio livido che si innalzava nel cielo proprio davanti a noi. «Quel raggio!» gridò. «Non è fatto di luce... è fatto di forza! La nebulosa... ferma l'astronave!» A quel grido la mia mano si posò sulla leva di arresto, ma con un attimo di ritardo. Prima che riuscissi ad azionarla, prima che potessi rallentare o fermare l'astronave, avevamo raggiunto il pallido raggio bianco. Un istante dopo, ci fu un colpo tremendo, come se avessimo urtato una parete solidissima; la nostra astronave roteò follemente nell'aria per un attimo, e poi vorticando precipitò nell'abisso del grande pozzo. Capitolo III.
Ora ricordo soltanto, di quel folle tuffo nel buio, la cabina di pilotaggio che vorticava intorno a me, e il muggito del vento, all'esterno, che ci raggiungeva attraverso le pareti, un vento provocato dalla velocità della nostra caduta. Il colpo aveva fatto tacere i nostri generatori: dopo un istante, riuscii a raggiungere i comandi, e dopo un altro secondo mi giunse il ronzìo dei generatori; ma un istante dopo ci fu un colpo lacerante, e il nostro incrociatore, dopo un sobbalzo, si fermò sul fondo del pozzo. Rimanemmo immobili per un istante, e in quell'istante udii dei suoni, all'esterno, dei suoni soffocati che raggiungevano a stento la cabina di pilotaggio, suoni che sembravano provocati da passi soffici e veloci. Il secondo colpo aveva nuovamente interrotto il ronzìo dei generatori, ma senza dubbio la mia azione, fatta all'ultimo istante, ci aveva salvati, impedendoci di morire sfracellati sul fondo di quell'abisso. Riuscii ad alzarmi in piedi, raggiunsi i comandi, e aprii il portello della cabina di comando. Un soffio di aria pura e tiepida penetrò nella cabina, e subito dopo io e i miei compagni guardammo fuori, ancora storditi. Il nostro incrociatore era fermo sul fondo del grande pozzo, una grande spianata circolare di metallo levigato, cinque miglia di diametro, racchiusa dalle pareti circolari che si innalzavano apparentemente all'infinito. Sul fondo del pozzo regnava un perpetuo crepuscolo rugginoso, ma il fondo era ricoperto di miriadi di grandi macchine, meccanismi rilucenti ed enigmatici che coprivano interamente la superficie, eccezion fatta per una piccola zona libera, sulla quale, ai margini, si trovava il nostro incrociatore. Da ognuna delle macchine usciva un sottile cavo tubolare, e tutti questi cavi, che erano migliaia, si univano a formare uno spesso cavo metallico che scompariva in un grosso oggetto che si trovava al centro dello spazio libero. L'oggetto era un cilindro massiccio di metallo, alto non più di cinquanta piedi, ma con un diametro di almeno mille piedi, e in esso scompariva il cavo nero, mentre dalla sua sommità usciva una grande luce bianca che riusciva parzialmente a dissipare le tenebre che regnavano sul fondo del pozzo. Era dalla sommità del cilindro che usciva il grande raggio livido, un tentacolo di luce fioca che andava a perdersi nello spazio, fino a raggiungere la nebulosa. I nostri occhi non si fissarono subito sul grande cilindro, o sul campionario di macchine, bensì sulle forme, sulle creature che si erano radunate intorno al nostro incrociatore, e ci stavano davanti. Erano creature di incredibile orrore, aliene e appartenenti all'incubo, e questo balzava ai nostri occhi, anche se noi tre eravamo di razze e di forme diverse. Ciascuna di
quelle creature era semplicemente una massa informe di carne bianchiccia, una massa della grossezza di diversi piedi, una cosa informe di pelle putrida, senza arti né lineamenti di alcun genere. L'unica caratteristica era una macchia nera e rotonda che si trovava al centro del loro repellente corpo. Ce n'erano almeno una dozzina, intorno all'astronave, una dozzina di masse informi di carne posate sulla levigata superficie che ci circondava, ciascuna con la sua macchia nera sul corpo, rivolta su di noi come un assurdo occhio... e una strana sensazione ci disse che proprio di un occhio si trattava, e che quell'occhio era fisso su di noi. Guardammo paralizzati dall'orrore, e una di quelle masse si mosse improvvisamente verso di noi, scivolando sul metallo levigato. Strisciò informe come un serpente, aggiungendo repulsione a quella che già stavamo provando, e la massa di carne si raggrinziva e si dilatava, biancastra e oscena, avvicinandosi a noi. Si fermò proprio sotto di noi, e ci fu un istante di silenzio carico di tensione, mentre l'intera scena si imprimeva indelebilmente nella mia mente... il grande pozzo dalle pareti di metallo, il raggio spettrale che si alzava sopra di noi, l'allucinante massa biancastra che avevamo di fronte. Poi dalla creatura che si trovava sotto di noi uscì un lungo arto biancastro, un arto che uscì dalla carne del suo... corpo... come lo pseudopodo di una medusa, e si sollevò rapidamente verso di noi. Quella visione fu sufficiente a rompere l'incantesimo di orrore che ci aveva trattenuti, e con uri grido strozzato feci un passo indietro, e corsi verso i comandi per fare uscire la nostra astronave da quell'abisso di orrore. Ma in quel momento udii un grido di orrore uscire dalle labbra dei miei compagni, e voltandomi vidi una dozzina di pseudopodi entrare dall'apertura della cabina, seguiti subito dopo da sei orribili creature che penetrarono nell'astronave. Sentii una sostanza fredda e gelatinosa passarmi sul corpo, stringermi il collo e la vita, e cercai di lottare contro quella carne cedevole e fredda, e poi lo pseudopodo strinse le mie braccia, e io fui trascinato verso il portello. Un istante dopo ero già stato trascinato al suolo, e la stretta mi aveva abbandonato. Rimasi al suolo, ansimante, coi miei compagni, mentre i nostri catturatori ci osservavano. Diverse creature stringevano con i loro pseudopodi una piccola scatola di metallo nero, e la puntavano contro di noi: uno degli abitanti della nebulosa la puntò, a scopo dimostrativo, su un piccolo ammasso di rottami metallici, che si trovava a poca distanza, e schiacciò un pulsante che si trovava su un lato della cassetta. Dall'oggetto si sprigionò una lingua di quello che pareva fumo azzurrino, che raggiunse
l'ammasso di rottami, e quando lo ebbe sfiorato, il metallo cominciò a liquefarsi e a scomparire, come zucchero nell'acqua, e dopo un istante non ne fu rimasta la minima traccia. Il significato era chiarissimo, e con una mezza dozzina di quegli oggetti mortali puntati su di noi, fummo dissuasi dal tentare di compiere un'azione di forza per raggiungere l'incrociatore. La prima di quelle creature cominciò a subire una rapidissima serie di trasformazioni, e il suo corpo assunse mille forme diverse, con una rapidità simile a quella del pensiero. Dopo un istante i cambiamenti cessarono, ma tre delle creature avanzarono verso di noi, come obbedendo a un rapido ordine. Più tardi scoprii quello che avevo soltanto sospettato sul momento, e cioè che quelle creature comunicavano tra di loro mediante velocissimi cambiamenti di forma, e che ogni cambiamento, anche minimo, aveva lo stesso significato di un'espressione fonetica nella nostra lingua. I tre che erano venuti verso di noi stringevano la micidiale arma. Si misero uno davanti a noi, gli altri due alle spalle. Poi fecero cenni eloquenti, con il loro pseudopodo, verso sinistra, e dopo un attimo di esitazione ci dirigemmo da quella parte, lungo i margini dello spazio aperto. Oltrepassammo le macchine torreggianti, e i miei occhi si mantennero fissi sul grande cilindro il cui raggio spettrale andava a colpire, a miliardi di miglia di distanza, l'involucro di fiamma della nebulosa. Nel crepuscolo che regnava in quel regno di terrore, vidi che in tutto il fondo del pozzo c'erano si e no un paio di dozzine di quelle straordinarie creature, e la loro scarsità numerica non mancò di incuriosirmi. Poi le mie considerazioni furono bruscamente interrotte, quando le nostre guardie ci fecero cenno di arrestarci, a diverse centinaia di metri dal nostro incrociatore. Davanti a noi si apriva una nera apertura circolare nel suolo levigato, un piccolo pozzo del diametro di una decina di piedi, le cui pareti scomparivano nell'oscurità. Mentre stavamo guardando, uno dei nostri catturatori si avvicinò al pozzo e bruscamente scomparve all'interno di esso. Ci avvicinammo, e vedemmo che stava discendendo lungo le pareti del pozzo, servendosi di pioli metallici che uscivano da quelle pareti, e che la creatura stringeva agevolmente con i suoi pseudopodi. Gli altri due guardiani ci fecero un segno inequivocabile, sollevando le loro armi e indicandoci il pozzo. Non avevamo possibilità di scelta, e una ribellione sarebbe stata l'equivalente di un suicidio, così dopo un momento di involontaria esitazione, scavalcai il bordo del pozzo e strinsi il primo piolo, cercando quello successivo col piede. Cominciai a scendere cautamente, e alle mie spalle Jor Dahat e l'uomo-pianta Sar Than, che era avvantaggiato dai suoi quattro
poderosi arti prensili, seguirono il mio esempio. Poi anche le due guardie discesero dietro di noi, e insieme scendemmo verso le tenebre. Oggi penso che, di tutti i viaggi nell'universo che il servizio nella Pattuglia dello Spazio mi ha imposto, quella discesa nelle tenebre sia stato il più strano. Uomo-pianta e umano e arturiano, tre esseri differenti provenienti da tre lontanissime stelle, uniti soltanto dall'intelligenza e dalla volontà di salvare la nostra Galassia e la nostra comune civiltà, discendemmo quella strana scala e penetrammo nelle oscure profondità di quell'incredibile mondo che sorgeva nel cuore della fiammeggiante nebulosa, sorvegliati, sopra e sotto, da esseri informi che sprigionavano orrore. Scendemmo e scendemmo, andando a tentoni nell'oscurità, scendemmo finché, in fondo, non apparve una debole traccia di luce bianca. La luce aumentò progressivamente, e finalmente vedemmo che stavamo avvicinandoci al fondo del pozzo, che splendeva di luce propria. Dopo qualche altro istante, scendemmo dall'ultimo piolo e ci trovammo sul fondo, sul fondo circondato da pareti di metallo, su una delle quali si apriva una porta dalla quale usciva la luce bianca. Poi di nuovo ci disponemmo tra le guardie, e fummo condotti lungo un corridoio fiocamente illuminato da alcuni globi luminosi appesi al soffitto. Durante il tragitto, mi domandai a quanti chilometri di profondità ci avessero condotti. Poi la mia attenzione fu richiamata da un ronzìo basso e persistente, che veniva dal fondo del corridoio, e da una luce più forte. Davanti a noi si trovava la fine del corridoio, un quadrato di bianca luce abbagliante. Lo raggiungemmo, lo oltrepassammo, poi ci fermammo di colpo, sbalorditi fino all'incredulità. Sotto di noi si stendeva un grande spazio aperto, una caverna, di dimensioni gigantesche, con il pavimento e le pareti e la volta di metallo nero e levigato, illuminata vividamente da dozzine di grandi globi luminosi. Quella grande caverna si stendeva per migliaia e migliaia di metri, e dopo il silenzio e l'oscurità che avevamo incontrato finora, la scena fatta di luce e di frenetica attività che ci si era parata dinnanzi ci stordì. Sul pavimento della grande caverna si trovavano lunghe file di macchine, i cui scopi non potevamo neppure immaginare, masse incredibilmente complicate di ruote e di leve e di spirali e di cavi, tutte in azione, con un ronzìo continuo e penetrante che dava un'impressione di potenza incancellabile. Intorno alle macchine si trovavano sciami di creature informi della nebulosa. Alcune macchine sembravano destinate alla ventilazione, da esse
si diramavano grandi tubazioni che sparivano nella volta della caverna; da altre macchine uscivano torrenti di metallo fuso, che si solidificava immediatamente e veniva tagliato a forma di ruota, di sbarra, e secondo mille altre forme incomprensibili; altre macchine sembravano collegate ai grandi globi di luce; e ce n'erano alcune che somigliavano a grosse tartarughe di metallo, che si muovevano sul pavimento della caverna, protendendo grosse braccia che stringevano sbarre metalliche e le trasportavano altrove. Rimanemmo a fissare quella scena di sorprendente attività per un solo momento, prima che le nostre guardie ci facessero cenno di proseguire, attraversando la caverna. Marciammo tra le grandi macchine torreggianti, i cui informi sorveglianti sembrarono non prestare alcuna attenzione al nostro passaggio. Davanti e intorno a noi si muovevano le grandi tartarughe metalliche, coi loro carichi, e il ronzìo da esse prodotto si aggiungeva al costante ronzìo che regnava nella caverna: solo le informi creature della nebulosa osservavano il più completo silenzio. E avanzando vidi che le altre pareti della caverna avevano delle porte che si aprivano su corridoi e su altre caverne illuminate, che riuscii a intravvedere a malapena; era uno scenario possente e incredibile, una successione di caverne luminose che faceva tremare anche la fantasia più accesa. E, andando avanti, vedemmo altri pozzi sul pavimento, simili a quello dal quale eravamo discesi, e sciami di informi creature della nebulosa salivano e scendevano per questi passaggi. Il mondo sotterraneo era un fremito perenne e continuo di attività. Finalmente, fummo dall'altra parte della grande caverna, ed entrammo nel relativo silenzio di un altro corridoio, e lo percorremmo finché le guardie non ci fecero segno di entrare da una porta laterale. Ci trovammo in una grande sala, certo molto più piccola delle grandi caverne che si stendevano senza soluzione di continuità nel sottosuolo di quel misterioso pianeta, e, diversamente da esse, immersa nel silenzio, senza macchine ronzanti né operatori presi dalla loro frenetica attività. Il grande salone che misurava mezzo chilometro era quasi completamente vuoto, a parte una bassa piattaforma, che sorgeva dalla parte opposta. Fu laggiù che i nostri catturatori ci condussero. Avvicinandoci, vedemmo che da entrambi i lati della piattaforma si trovava una doppia fila di guardie, ciascuna armata dell'arma mortale che avevamo visto all'opera, mentre sulla piattaforma si trovavano dieci delle creature della nebulosa. Tra queste, nove erano uguali a quelle che avevamo già visto prima, ed erano allineate da una parte. La decima, però, si
trovava in una posizione centrale, di fronte alle altre, somigliava a esse solo per la sua informe struttura, ma era almeno cinque volte più grossa di tutte le altre che avevamo visto finora, una enorme massa di carne biancastra che si trovava sulla piattaforma e ci osservava con quell'incredibile occhio nero, mentre noi ci stavamo avvicinando. Immaginai subito, vedendo la sua posizione e le sue dimensioni eccezionali, che quella creatura occupasse una posizione di preminenza nella società degli esseri della nebulosa. Perché, benché il suo aspetto fosse orribile e alieno, da quella creatura si sprigionava un'indefinibile aura di maestà e di forza, una dignità che era veramente regale, e che trascendeva le forme e ogni possibile differenza. Ci fermammo davanti alla piattaforma, e la prima delle nostre guardie si fece avanti, e la sua massa di carne cominciò a tremolare e a contrarsi. Senza dubbio stava spiegando come era avvenuta la nostra cattura, e quando ebbe terminato, la grande creatura sulla piattaforma ci contemplò per molto tempo, immobile. Poi il suo corpo cominciò a contrarsi rapidamente, e subito una delle nove creature che si trovavano dietro lo straordinario essere scivolò dalla piattaforma e scomparve attraverso una porta laterale, riapparendo dopo pochi secondi stringendo nello pseudopodo che aveva emanato un complicato strumento. Era una piccola cassetta nera dalla quale si diramavano dei filamenti sottili che terminavano in due piastre metalliche. Sistemò una delle piastre sul corpo del grande re della nebulosa (così lo battezzai subito), e la piastra sembrò aderire perfettamente alla carne biancastra del sovrano. Poi, dopo un istante di sosta, la creatura strisciò verso Jor Dahat, con l'altra piastra. L'uomo-pianta arretrò involontariamente, ma le due guardie sollevarono le loro armi, ed egli dovette arrendersi, e permettere alla creatura di sistemare l'altra piastra sulla sua fronte, dove aderì immediatamente. Fatto questo, la creatura ritornò alla cassetta nera, e sfiorò una serie di pulsanti che si trovavano su di essa. Immediatamente, un suono lamentoso uscì dalla cassetta, mentre sulla sua superficie si accese un globo di accecante luce azzurrina. Il grande re della nebulosa, sulla piattaforma, non si mosse, né si mosse Jor Dahat, la cui espressione divenne vacua e indecisa. Il meccanismo ronzò per diversi minuti, e poi, a un veloce ordine del mostro che si trovava sulla piattaforma, lo strumento fu spento. Il re della nebulosa sembrò attendere per qualche secondo, poi impartì un altro ordine silenzioso, e questa volta la creatura che manovrava la macchina schiacciò una diversa sequenza di bottoni,
e il globo splendette di luce gialla. Mentre questo accadeva, vidi stringersi gli occhi di Jor Dahat, e il suo corpo reagì come se fosse stato percorso da una scossa elettrica. Il suo atteggiamento, mentre la macchina ronzava, era quello dell'uomo che ascolta delle cose incredibili, e il suo volto si trasformò in una maschera gelata dall'orrore. Poi bruscamente egli emise un grido strozzato, si strappò dal corpo la piastra metallica, e, prima che qualcuno potesse indovinare le sue intenzioni, o fermarlo, si gettò urlando come un folle contro il re della nebulosa. Capitolo IV. Il momento che seguì rimane impresso nella mia memoria come un momento di azione velocissima. Il fatto che il folle attacco di Jor Dahat fosse del tutto inaspettato fu quello che lo salvò, perché prima che le guardie potessero fare fuoco, egli fu sulla piattaforma, e, avvinghiato alla creatura d'incubo che vi si trovava sopra, aveva iniziato una lotta selvaggia. Istantaneamente Sar Than e io balzammo al suo fianco, e vedemmo che una dozzina di pseudopodi si stavano formando sulla grossa massa di carne contro la quale combatteva l'uomo-pianta, avvolgendo il nostro amico con terribile forza. Poi, prima che potessimo raggiungerlo, fummo fermati dalle guardie. Lottammo per pochi istanti contro la spietata stretta di quegli arti pieni di forza, poi cedemmo, vedendo che delle altre guardie avevano preso Jor Dahat e lo avevano fatto discendere dalla piattaforma, strappandolo al suo avversario. Poi, ansimanti e sconvolti, fronteggiammo di nuovi i nostri catturatori, mentre dalla piattaforma il grande re della nebulosa seguiva le nostre mosse come se nulla fosse accaduto. Attesi la morte immediata, ma essa non venne: forse il re della nebulosa preferiva serbare la sua vendetta, o forse la sua mente era così aliena che neppure il desiderio di vendetta vi era presente. In ogni modo, non ordinò di ucciderci subito. Il suo corpo si contrasse di nuovo, e quando si fu fermato, una mezza dozzina di guardie ci circondò e ci fece attraversare di nuovo la grande sala, riportandoci nel corridoio esterno. Invece di farci percorrere a ritroso il tragitto che avevamo seguito all'andata, le guardie ci condussero nella direzione opposta. Percorremmo almeno mille piedi, poi il corridoio si allargò, mentre sul pavimento, sui due lati, vedemmo dei grandi fori neri, pozzi rotondi come quello che avevamo
disceso per giungere in quel regno delle tenebre. Sulle pareti di questi pozzi, però, non c'erano pioli, e vedemmo che la loro profondità era minima: variava dai venticinque ai trenta piedi. Mentre ci stavamo chiedendo lo scopo di quelle fosse, le nostre guardie ci fecero bruscamente cenno di fermarci davanti a una di esse, e poi, estraendo una scaletta metallica pieghevole da un ripostiglio nella parete, l'abbassarono fino a toccare il fondo della fossa, e ci fecero perentoriamente segno di scendere. Scendemmo lentamente, e quando fummo sul fondo, la scaletta fu subito ritirata. Poi le guardie sparirono, e sentimmo che si allontanavano strisciando lungo il corridoio. Ne era rimasta una soltanto, evidentemente a sorvegliarci, e questa cominciò a strisciare intorno all'apertura del pozzo, senza fermarsi un solo istante. Ci guardammo l'un l'altro in silenzio, e poi osservammo la nostra strana cella. Nella penombra che giungeva dal corridoio, appariva assolutamente a prova di evasione: non c'erano appigli sulle sue pareti levigate e perpendicolari. Neppure le strane creature della nebulosa avrebbero potuto fuggire da quelle celle, che, a quanto pareva, erano state create appositamente per loro: così, le nostre possibilità si riducevano a zero. Senza parlare, ci gettammo al suolo, e per diversi minuti tra noi regnò il silenzio, interrotto soltanto dal fruscio prodotto dalla guardia che strisciava incessantemente intorno all'imboccatura circolare della nostra prigione. Finalmente, il silenzio fu rotto dalla voce di Jor Dahat, che stava fissando cupamente le pareti. «Siamo prigionieri qui,» disse lentamente. «Tra tutti i luoghi possibili, proprio nell'unico dal quale non c'è possibilità di fuga.» Scossi il capo. «Sembra la fine,» ammisi, con voce debole. «Non possiamo fuggire di qui, e anche se potessimo, ormai non avremmo più tempo per compiere la nostra missione.» L'uomo-pianta annuì, osservando l'orologio che portava al polso. «Abbiamo altre dodici ore,» disse, «prima della fine... prima che la nebulosa esploda, prima del cataclisma cosmico che ridurrà il nostro universo, la nostra Galassia, a un inferno di fuoco. E queste cose, i nostri catturatori, queste informi creature della nebulosa, responsabili della esplosione, del cataclisma...» Lo fissammo, sbalorditi, e lui tacque per un minuto, poi riprese a parlare, lentamente. «Lo so,» disse, con voce cupa. «Nella sala del re della nebulosa ho ap-
preso... quello che dovevamo sapere. Avete visto la macchina, avete visto quelle piastre che sono state applicate al re e a me? Bene, quella macchina serve alla trasmissione del pensiero, capace di trasferire quelle vibrazioni del cervello, o dell'organo che ne fa le veci, che noi chiamiamo pensiero, sotto forma di immagini mentali, a un'altra mente. Quando la macchina è stata azionata per la prima volta, la mia mente è diventata completamente vuota, ho quasi perduto i sensi. Sono rimasto immobile, in piedi, e la mia scienza, i miei ricordi, le mie idee, venivano succhiate da quel mostro come l'acqua da un pozzo, che in quei pochi istanti deve avere appreso tutto ciò che io so dell'universo esterno, quello che si stende intorno alla nebulosa, e tutti i nostri progetti, e la nostra missione. E poi, dietro suo ordine, la popolarità della macchina è stata invertita, e pensieri, immagini, si sono riversati dal suo al mio cervello. «Deve avere trasmesso i suoi pensieri per un puro desiderio di spaventarmi e di sopraffarmi. Nel momento in cui la macchina è stata riaccesa, mi resi conto della presenza, nella mia mente, di pensieri, immagini, idee che non mi appartenevano, di una nuova scienza che sgorgava nella mia mente. Molte cose erano prive di significato, oscure: certi concetti che per noi non hanno equivalenti; ma seppi abbastanza per scoprire quale fosse la parte di quelle creature nel cataclisma che presto ci distruggerà, e quali fossero i motivi che li spingevano a distruggere l'equilibrio della nebulosa. «Seppi, senza ombra di dubbio, che questo grande spazio vuoto all'interno della nebulosa si è formato perché la massa più densa, all'interno della nebulosa, si è contratta prima della massa esterna. Come sapete, tutte le nebulose si contraggono con il trascorrere del tempo, i loro gas incandescenti si solidificano e formano nuove stelle fiammeggianti, e questo è il ciclo stellare, che dura milioni di anni, da gas incandescente di nebulosa a sole fiammeggiante a stella nera. Questa grande nebulosa cominciò a seguire il ciclo normale, ma, a causa delle sue enormi dimensioni, il nucleo interno, più denso, si è solidificato e contratto con rapidità maggiore di quella della massa esterna, e ha formato, con il trascorrere dei millenni, un grande mondo solido, mentre la parte esterna era sempre composta di gas incandescente. Questo mondo solido cominciò a ruotare al centro dell'enorme spazio un tempo occupato dai gas che si erano contratti per formarlo, e questo mondo era illuminato e riscaldato dalle fiamme della nebulosa che lo circondavano da ogni parte, isolato dal resto dell'universo dalle stesse fiamme che gli avevano dato la vita. «Perciò, questo mondo ha ricevuto luce e calore in abbondanza, e col
trascorrere del tempo la vita aveva iniziato il suo ciclo, forme di vita primitive che si sono evolute seguendo la solita scala evolutiva sotto forma di migliaia di specie, tra le quali gli informi esseri che abbiamo visto erano la specie più intelligente. Col trascorrere del tempo le creature che conosciamo si sono impadronite di questo mondo, hanno eliminato le altre forme di vita, e hanno sviluppato una loro scienza, che ha raggiunto vette sempre più alte, mentre nell'universo esterno nessuno sospettava della loro esistenza. Per tutta la Galassia volavano gli incrociatori della Pattuglia della Federazione dei Mille Soli, ma nessuno ha mai immaginato che esistesse questa strana razza al centro della grande nebulosa, una razza in possesso di una scienza progredita fino all'inverosimile. «Ma lentamente, inesorabilmente, la distruzione strisciava implacabile verso questa razza. Come ho detto, tutte le nebulose si contraggono, sempre, e questa continuava a contrarsi, a rimpicciolire, e l'involucro di fiamma si avvicinava sempre di più al mondo nero che ruotava nei cuore di essa. Il calore aumentava di anno in anno, e la vita diventava sempre più difficile per queste creature, abituate a temperature più sopportabili. Dovevano sfuggire al calore, o perire, e dato che non potevano fuggire nello spazio esterno, a causa della sterminata cortina di fiamma che sbarrava loro la strada, fecero l'unica cosa possibile, scavarono delle grandi caverne nelle profondità del loro mondo, e discesero in queste caverne, per sopravvivere. Racchiusero l'intera superficie del loro mondo in uno schermo metallico refrattario, e discesero a migliaia nella fitta rete di caverne situate a enorme profondità, riprendendo a vivere nel buio e lontane dal calore mortale sprigionato dalla nebulosa. «Passarono i millenni e queste creature continuarono a vivere negli abissi del loro mondo, ma la nebulosa continuava a contrarsi, si chiudeva su di loro, nel ciclo implacabile e immenso che rappresenta la legge inesorabile della natura in tutto l'universo. I fuochi della nebulosa avanzarono spietati verso il pianeta nero, verso il mondo schermato di queste assurde creature, finché esse compresero che presto le fiamme si sarebbero rinchiuse su quel mondo e l'avrebbero distrutto, bruciando in un rogo apocalittico la loro civiltà, a meno che esse non fossero state in grado di trovare una soluzione. Così impiegarono tutte le loro forze nella ricerca di una soluzione al problema, che era di drammatica urgenza, e finalmente scoprirono un sistema per sfuggire al loro fato, un sistema che avrebbe richiesto tutte le loro forze e tutta la loro scienza. «Sulla superficie del loro mondo ricoperto di metallo essi scavarono un
grande pozzo dalle pareti metalliche, e sul fondo di questo pozzo ammassarono macchine e strumenti capaci di generare un raggio atomico di terrificante potenza. Da ciascuna delle macchine partiva un cavo che convogliava tutta l'energia sprigionata in un cavo centrale, che si immergeva nel grande apparecchio cilindrico che abbiamo visto al nostro arrivo, il quale generava il raggio di cui ho parlato. Il raggio parte da questo pianeta, e raggiunge la nebulosa, nella quale si immerge. Avete visto che il grande mondo sul quale ci troviamo, qui, nel cuore della nebulosa, sta ruotando su se stesso, e lo scopo del popolo della nebulosa era quello di usare il grande raggio come un mozzo tra loro e la nebulosa, un mozzo che trasmettesse la rotazione del loro mondo all'intera nebulosa, facendole raggiungere la medesima velocità. E il piano si rivelò fondato su solide basi, perché dopo l'accensione del grande raggio, la nebulosa ha cominciato a muoversi lentamente, a ruotare, aumentando progressivamente la sua velocità sotto la possente spinta del grande raggio. «Quando la nebulosa avesse raggiunto un certo tasso di rotazione, le creature della nebulosa sapevano che, una volta raggiunto il punto critico, la rotazione sarebbe stata troppo rapida per mantenere l'equilibrio tra le diverse parti della grande massa fiammeggiante, ed essa si sarebbe spezzata, disintegrata, le sue parti avrebbero raggiunto la velocità di fuga, disperdendosi nella Galassia in tutte le direzioni. Questo avrebbe eliminato ogni pericolo per il popolo della nebulosa, che avrebbe allora potuto vivere nelle caverne del suo mondo, al centro della Galassia, servendosi di luce e calore artificiali. Loro, trovandosi al centro dell'esplosione, non sarebbero stati danneggiati. Ma gli esseri della nebulosa sapevano anche che, una volta messo in azione il raggio, avrebbero dovuto mantenerlo costantemente in funzione, fino al termine del loro piano, perché se la rotazione fosse stata rallentata prima del raggiungimento del punto critico, se il grande raggio fosse stato spento, la grande e possente nebulosa roteante non avrebbe sopportato la brusca cessazione di spinta, e avrebbe dato il via a un'implosione, contraendosi più rapidamente del previsto, distruggendo immediatamente il mondo al centro di essa. Per questo motivo le grandi macchine che si trovano sul fondo del pozzo e generano il raggio sono completamente automatiche, e per la loro manutenzione sono necessari pochi supervisori. «Sono stati i supervisori a catturarci, quando siamo caduti nel pozzo, dopo esserci scontrati col grande raggio. E una volta condotti qui, una volta conosciuto il terribile piano di queste creature, decise a distruggere una
Galassia per salvarsi, ho perduto la ragione, e sono balzato sul re della nebulosa, senza pensare alle conseguenze del mio gesto. E adesso anche voi sapete quello che io ho saputo, quello che era l'obiettivo della nostra missione. Ma abbiamo avuto la risposta troppo tardi, ormai, perché tra dodici ore la rotazione della nebulosa avrà raggiunto il punto critico, e dopo poche ore le masse incandescenti della nebulosa percorreranno la Galassia a velocità folle, e la Via Lattea ritornerà al caos primigenio, e la nostra civiltà, i nostri soli, i nostri mondi, saranno cancellati per sempre dalla faccia dell'Universo!» Quando Jor Dahat ebbe cessato di parlare, il silenzio che cadde su di noi fu carico d'ansia e di angoscia. Dall'alto giungeva il fruscio prodotto dalla guardia, che percorreva il corridoio fiocamente illuminato, e vagamente, dalle lontane caverne, ci giungeva il ronzìo delle grandi macchine. Finalmente, come in sogno, sentii che la mia voce rompeva il silenzio. «Dodici ore,» dissi, lentamente. «Dodici ore... prima della fine.» Poi tacqui a mia volta, e in silenzio, impotenti, ci osservammo l'un l'altro. Nelle ore che seguirono lo stesso silenzio mortale gravò su di noi, un silenzio magnificato dall'atroce fato che incalzava la Galassia, un silenzio che stordiva come il tuono dell'Apocalisse. Anche oggi quella scena mi pare un quadro statico, immerso in una luce crepuscolare... i nostri volti vagamente distinguibili nella penombra che regnava sul fondo del pozzo, il lontano ronzìo delle grandi macchine, l'incessante fruscio della guardia. Le ore passarono e noi restammo fermi, immoti, immersi in un silenzio disperato. Finalmente la stanchezza mi vinse, e mi addormentai: fu un sonno breve e popolato dagli incubi, visioni di orrore che la mia mente aveva vissuto, e che mi perseguitavano anche in quella breve pausa di riposo, prima della fine. Quando riaprii gli occhi, sentii che Jor Dahat mi stava scuotendo. Era accanto a me, e quando vide che ero sveglio, mi disse: «Sar Than ha un piano. Ci è rimasta un'ora, ma lui crede che ci sia una possibilità di fuga... una possibilità su un milione. Se potessimo...» Mi avvicinai all'arturiano, e ascoltammo in un silenzio teso il suo piano di fuga dalla prigione. La possibilità sembrava esile, e anche se riuscivamo a fuggire da quella fossa, la prospettiva che ci si presentava era la morte, ma ci trovammo d'accordo nel decidere che era meglio affrontare la morte piuttosto che marcire fino alla fine dei nostri giorni in quella strana cella.
Così, appoggiandoci alle pareti, aspettammo che la guardia passasse vicino alla nostra fossa. Dopo un istante la guardia passò, e il suo corpo mostruoso apparve, in alto, mentre il cerchio nero dell'occhio guardava come al solito se tutto fosse in ordine. Poi la guardia continuò a discendere il corridoio, e scomparve, e subito balzammo in piedi. Subito Jor Dahat si appoggiò alla parete, in piedi, con le gambe larghe. Allora Sar Than si arrampicò sul corpo dell'uomo-pianta, finché due dei suoi quattro arti furono appoggiati sulle spalle di Jor Dahat, il quale afferrò gli arti dell'arturiano con le sue mani possenti, e li sollevò il più in alto possibile, tenendo sollevato l'arturiano grazie alla sua enorme forza muscolare. Con gli altri due arti Sar Than cercò di arrivare il più in alto possibile, e faticosamente io mi arrampicai sulle spalle dell'uomo-pianta, mi strinsi all'arturiano e gli salii sulle spalle, ed egli mi afferrò i piedi e mi sollevò per quando possibile. Soffocai a stento un grido di trionfo: le mie mani arrivarono proprio sul bordo della fossa, e là, in quella posizione, attendemmo il ritorno della guardia. Passò forse un minuto, non di più, ma in quella incomoda posizione, con i muscoli tesi allo spasimo, ci parve che trascorresse un secolo. Udii il fruscio della guardia avvicinarsi, ma la stretta dell'arturiano divenne meno sicura, e i muscoli dell'uomo-pianta sembravano incapaci di sorreggere ancora il nostro peso combinato. Sapevo che i miei due compagni avrebbero potuto resistere appena per un altro secondo, e allora, proprio mentre le forze dell'arturiano stavano per cedere, la guardia raggiunse il bordo della fossa, e si fermò, come al solito, proprio dove mi trovavo io, per guardare sul fondo. Un attimo dopo sollevai le mani, con un ultimo sforzo, e strinsi la guardia, e poi tutti e quattro cademmo nel pozzo, portando la guardia con noi. Cadendo, sentii l'arma cadere al suolo, di sopra, e capii che la guardia l'aveva perduta, ma quando raggiungemmo il fondo del pozzo la creatura ci aveva già afferrati emanando una dozzina di pseudopodi, che uscivano con rapidità fulminea dall'informe massa del suo corpo. Allora cominciò una folle battaglia sul fondo del pozzo, allucinante, silenziosa e mortale. La cosa non poteva gridare per chiedere aiuto, ma per qualche minuto pensammo che avrebbe potuto sconfiggerci da sola, tanto erano veloci gli pseudopodi che si formavano all'improvviso davanti a noi e ci stringevano e ci soffocavano. Noi colpivamo e stringevamo, ma sembravano non esserci punti vulnerabili nella cosa, e, anche a causa della nostra stanchezza,
l'esito della lotta rimase per qualche tempo estremamente incerto. Udii che Sar Than emetteva un grido, afferrato da uno pseudopodo, e un altro pseudopodo mi colpì, poi vidi che Jor Dahat improvvisamente riusciva a stringere due pseudopodi, e tirava con furia selvaggia, letteralmente spezzando in due l'orribile cosa, servendosi di quei due punti di appoggio. Si udì uno strappo soffocato, e poi la cosa cadde al suolo, ormai ridotta a una massa informe di carne viscida. Ci guardammo l'un l'altro per un istante, ansanti, poi senza parlare balzammo verso la parete, e Jon Dahat si preparò a ripetere quanto avevamo fatto prima. Dopo un attimo ebbe sollevato l'arturiano, e dopo un altro istante Sar Than mi sollevava fino al bordo del pozzo. Andai a tentoni per qualche istante, poi riuscii ad afferrare il metallo. Con uno sforzo inumano riuscii a sollevarmi, e caddi sul pavimento del corridoio, ansante e quasi privo di sensi, poi balzai in piedi e balzai verso il ripostiglio nel quale si trovava la scaletta metallica. Frugai per un secondo, ed emisi un sospiro di sollievo quando le mie mani incontrarono il metallo. Fu questione di un attimo calare la scaletta, poi i miei compagni e io fummo di nuovo insieme, e ci guardammo ansiosamente intorno. Il lungo corridoio fiocamente illuminato era deserto, per il momento, sebbene in lontananza potessimo vedere le chiazze di luce bianca che indicavano la presenza delle grandi caverne. Quella era la strada che dovevamo seguire: così corremmo lungo il corridoio, finché raggiungemmo l'ultimo degli strani pozzi-cella, e ci ritrovammo nel punto in cui il corridoio tornava a restringersi. E allora ci fermammo di colpo, gelati: perché a nemmeno cento iarde di distanza delle guardie erano improvvisamente uscite da una porta, e stavano strisciando proprio verso di noi! Capitolo V. Per un istante ci parve di vedere la morte, e restammo immobili, paralizzati dal terrore. Finora le guardie non ci avevano notato, almeno così pareva, forse a causa della fioca luce del corridoio, ma si avvicinavano a ogni istante e tra qualche secondo saremmo stati scoperti e uccisi. Allora, prima che ci fossimo ripresi dallo stupore, Sar Than ci spinse verso l'ultima cellapozzo, che avevamo appena superato. «Giù!» esclamò. «Giù, finché siamo in tempo!» Comprendemmo che la sua idea era la nostra unica speranza, e subito ci calammo nell'oscurità della cella-pozzo, tenendoci sospesi con le mani sul
bordo. Non avevamo agito troppo in fretta, questo è certo: perché pochi attimi dopo udimmo il fruscio delle guardie che passavano davanti a noi, lungo il corridoio, oltre il nostro nascondiglio. Mentre passavano rimanemmo in ansiosa attesa, sperando contro ogni ragionevole speranza che le guardie non notassero le nostre mani sul bordo della fossa, né l'assenza della guardia che doveva sorvegliarci. Fu un intenso momento di angoscia, e poi le guardie passarono oltre. Rimanemmo sospesi per qualche altro secondo, con i muscoli doloranti, poi ritornammo sul pavimento del corridoio, e corremmo verso il quadrato di luce bianca che si vedeva in lontananza. Corremmo e corremmo, superando delle porte aperte lungo le pareti, attraverso le quali scorgemmo delle grandi sale e altri corridoi tortuosi che si diramavano in mille direzioni, e ovunque non vedemmo nessuno. Pochi istanti dopo, fummo alla fine del corridoio, e ci trovammo a fissare l'enorme caverna illuminata vividamente, una caverna viva e rumorosa, vibrante della medesima attività frenetica che avevamo visto al nostro arrivo. Avventurarci in quel grande spazio aperto, pieno di creature informi e di macchine, significava la morte immediata, eppure dovevamo attraversare la caverna, per raggiungere il pozzo che conduceva verso l'alto. Allora, mentre stavamo esitando, emisi un'esclamazione soffocata e indicai qualcosa che si trovava nell'ombra, accanto a noi, qualcosa di grosso e rotondo che giaceva all'imboccatura del corridoio, nell'ombra, e che rifletteva debolmente la luce crepuscolare che filtrava dalla caverna. Raggiungemmo subito la cosa, e scoprimmo che si trattava di una delle grandi macchine simili a tartarughe, che percorrevano la grande caverna con i loro carichi. Questa però era vuota, e la porta del suo "guscio" mostrava l'interno di esso, vuoto. «È la nostra salvezza!» dissi. «C'è spazio per tutti e tre!» Dopo un istante fummo all'interno della macchina, stretti l'uno all'altro nell'esiguo spazio, e chiudemmo la porta. Scoprii che una sottile fessura che circondava il "guscio" ci permetteva di guardare fuori, e che c'era un piccolo quadro di comando, illuminato debolmente. Rapidamente schiacciai i pulsanti, seguendo una serie di combinazioni, e poco dopo giunse il ronzìo del motore che si avviava, e la "tartaruga" uscì dall'ombra e cominciò a percorrere la grande caverna, guidata dalla mia mano che aveva presto compreso le funzioni dei comandi, in verità molto semplici. Il nostro veicolo ronzante avanzò nella caverna, e noi rimanemmo uniti, ansiosi, mentre le grandi macchine ci passavano accanto, e la "tartaruga" si
dirigeva verso il corridoio che si apriva dalla parte opposta. Le creature della nebulosa, indaffarate com'erano, non prestarono la minima attenzione alla macchina, che si mescolava alle altre decine e decine di macchine simili che percorrevano la caverna. Col cuore che batteva più forte, per il nostro successo, attraversammo la grande apertura che immetter va nel corridoio immerso in un perenne crepuscolo. Quando fummo sulla soglia, trattenemmo il respiro, per una collisione con un'altra delle macchine semoventi, ma quest'ultima si allontanò subito dopo, e dopo un altro istante fummo nella penombra del corridoio, portati dalla macchina verso il pozzo che portava in alto. Raggiungemmo la fine del corridoio, uscimmo dalla macchina e raggiungemmo il fondo del pozzo. L'uomo-pianta cominciò a salire subito, seguito dall'arturiano, e io chiudevo la fila. Salimmo faticosamente, cercando di affrettarci, mettendo ogni nostra energia nello sforzo, perché sapevamo che ci restavano ben pochi minuti per agire. Poi, improvvisamente, abbassai lo sguardo ed emisi un'esclamazione soffocata: sul fondo del pozzo, a cento piedi di distanza da noi... c'erano le masse biancastre di due creature della nebulosa, che ci stavano guardando. Rimanemmo per un istante immobili, mentre i due orribili esseri guardavano in alto, e poi vidi una di esse che scompariva in direzione del corridoio, certo per andare a dare l'allarme. L'altra ci guardò per qualche altro istante e poi, con nostro sommo orrore, cominciò a salire rapidamente verso di noi. Ora mi pare che, di tutta quell'allucinante discesa nelle viscere del mondo della nebulosa, quel momento fu per noi il più terribile. Issandoci di piolo in piolo, facendo appello a tutte le nostre forze, salimmo la scala, in un'oscurità impossibile a descriversi. Nell'oscurità, sotto di me, sapevo che stava salendo l'oscena cosa di un altro mondo, e sapevo che per una creatura del genere la risalita di una scala creata appositamente per la sua forma di vita era un gioco da ragazzi. Eppure, spinto dalla forza della disperazione, salii come nessun uomo avrebbe potuto salire, e percorsi dieci piedi, cento, altri cento, e in quel momento fui preso da una speranza: forse la creatura aveva rinunciato al proposito di inseguirci. Poi, sopra di noi, distinsi una macchia di luce debole, e seppi che avevamo quasi raggiunto la nostra mèta. E nello stesso istante sentii una stretta alle ginocchia, e uno pseudopodo possente mi afferrò, e capii che la creatura mi aveva raggiunto.
Gridai, senza volerlo, quando sentii che i miei piedi venivano strappati dal piolo sul quale si erano trovati, e rimasi sospeso per le mani, mentre la creatura sotto di me stringeva con grande forza, attirandomi verso il basso. Doveva avere messo tutte le sue forze in quell'azione, e sentivo che le mie mani cominciavano a cedere, e quando avessi perduto anche quel punto d'appoggio, la creatura mi avrebbe mollato e mi avrebbe lasciato cadere lungo il pozzo, per trovare la morte sul fondo. In un silenzio mortale cercai di resistere, e poi una mano lasciò la presa, l'altra cominciò a scivolare sul piolo, la mia forza di volontà cominciò a indebolirsi... Poi qualcuno mi passò accanto, proveniente dall'alto, e abbassai lo sguardo e vidi nella fioca luce Sar Than, che si sosteneva a un piolo con uno dei suoi possenti arti, mentre gli altri tre afferravano la creatura della nebulosa. Istantaneamente, la stretta che mi attirava verso il basso si allentò, ci fu una rapida lotta sotto di me, e poi vidi che Sar Than scaraventava nel vuoto il corpo informe della creatura, che precipitò verso il fondo. Un attimo dopo Sar Than venne accanto a me e mi aiutò a riprendermi, finché fui in grado di riprendere l'ascesa con la mie forze. Soltanto l'arturiano, con i suoi quattro arti, poteva affrontare una di quelle creature nel terribile pozzo. Riprendemmo a salire, facendo appello alle nostre ultime forze, e il piccolo circolo di luce sopra di noi divenne più grande e sembrò invitarci. Sapevamo che sotto di noi era stato dato l'allarme, e tra pochi istanti un'orda di creature della nebulosa avrebbe cominciato a salire per inseguirci. E avevamo pochissimi minuti a disposizione per agire, e con uno sforzo inumano riuscimmo ad aumentare ancora la nostra velocità: tra pochi istanti avremmo raggiunto rimboccatura del pozzo. Jor Dahat, sopra di noi, fu il primo a raggiungere la apertura del pozzo, e vidi che l'uomo-pianta sollevava il capo prudentemente, e si guardava intorno, poi ci faceva segno di salire. Silenziosamente lo raggiungemmo, e dopo un attimo fummo sul pavimento levigato della strana sala. La scena era immutata, intorno a noi si levavano le grandi pareti del pozzo, le macchine possenti, il poderoso cilindro e lo spazio libero ai margini del quale si trovava tuttora il nostro incrociatore, al di sopra del quale si immergeva nel cielo il livido raggio bianco. Una mezza dozzina di creature della nebulosa erano radunate intorno al cilindro, e i loro corpi si contraevano nel loro strano linguaggio, ma il loro assurdo occhio non era fisso su di noi. Dopo un attimo Jol Dahat strisciò silenziosamente verso una catasta di
strumenti e attrezzi, e ritornò con tre pesanti oggetti di metallo, simili ad asce, dal lungo manico e dalla grande lama. Silenziosamente, distribuì le armi, e poi senza parlare strisciammo verso le creature della nebulosa, strisciammo silenziosamente, e solo una volta io sollevai lo sguardo, e vidi le fiamme lontane della nebulosa, sapendo che tra pochi minuti quelle fiamme avrebbero propagato un incendio apocalittico a tutta la nostra Galassia. Strinsi la mia arma, e strisciammo insieme nel crepuscolo lividi di quel mondo, e poi, bruscamente, una delle creature si voltò e ci vide. Prima che potesse voltarsi ad avvertire i suoi compagni, prima che potesse fare qualsiasi cosa, balzammo in piedi e raggiungemmo l'orribile essere con le asce sollevate. Raggiungemmo subito anche le altre creature, e calammo con la forza della disperazione le nostre asce, e quando ci fermammo al suolo si trovavano solo delle masse informi di carne morta. Ci guardammo intorno, ma sembrava che non ci fossero altre creature in vista. Intorno a noi si levavano solo le grandi pareti, e le macchine, e il cilindro dal quale si sprigionava il terribile raggio. Ci dirigemmo verso il cilindro, poi ci fermammo. Una mezza dozzina di pseudopodi era apparsa sull'imboccatura del pozzo che conduceva nel regno sotterraneo: erano certo i primi inseguitori. Jor Dahat gridò, correndo verso il pozzo con l'arturiano: «Taglia il cavo, Ker Kal! Il cavo che entra nel cilindro... noi cerchiamo di trattenere le creature!» Vidi che raggiungevano l'imboccatura del pozzo, proprio mentre un'orda di inseguitori stava cercando di uscirne, e le asce dei miei compagni mulinarono selvaggiamente. Balzai verso il cavo di metallo nero che si immergeva nel cilindro, trasmettendo l'energia delle macchine che tenevano in funzione il raggio. Sollevai la mia ascia, la calai sul cavo con tutte le mie forze, ma il grosso cavo fu soltanto scalfito. Colpii e colpii e colpii ancora, con tutte le mie forze, mentre dall'imboccatura del pozzo sentivo i rumori del massacro e della battaglia. Sentii il sibilo dei mortali raggi di fumo delle creature, ma sapevo che, manovrate all'interno del pozzo, le armi non potevano colpire i miei amici che aspettavano sui bordi e uccidevano tutte le creature che cercavano di uscire. Colpii con forza inumana lo spesso cavo di metallo nero, e i miei colpi producevano lentamente il loro effetto. Stavano passando gli ultimi minuti, e come un automa senz'anima io continuai a calare colpo dopo colpo, e in quel momento c'eravamo soltanto io e il cavo, che sembrava irridermi, resistendo fino all'ultimo. Ero arrivato a metà, e sentivo che, con qualche al-
tro colpo, l'avrei tagliato completamente. Mentre la speranza si faceva strada nella mia mente, mi giunse un grido di Jor Dahat, e scorsi con la coda dell'occhio un'ondata impetuosa e inarrestabile di creature della nebulosa uscire dal pozzo e respingere i miei compagni verso di me; poi gli pseudopodi si sollevarono, con le loro armi mortali, e la morte si avvicinò a noi. La scena parve per un istante immobile, come un terribile quadro scolpito nell'eternità. Poi, con un grido selvaggio, sollevai l'ascia al di sopra della mia testa, la feci roteare per un istante e poi la calai, con forza inumana, sul cavo già quasi reciso, e fu un colpo selvaggio che spezzò il cavo metallico come un coltello recide un fragile spago. Ci fu un lampo di luce, quando il cavo si spezzò, e poi la livida luce bianca, alla sommità del cilindro, si spense, e il grande raggio svanì. Un istante dopo cadde il silenzio, un silenzio terribile e spaventoso, nel quale noi e tutte le creature della nebulosa che erano intorno a noi sollevammo lo sguardo verso le fiamme della possente nebulosa, che splendeva lontana nell'immensità dello spazio. Quel terribile silenzio regnò per diversi secondi, che diventarono minuti, e poi vidi che gli esseri informi lasciavano cadere le loro armi, e vidi che cominciavano a strisciare freneticamente intorno, presi da un folle terrore, e udii un grido di Jor Dahat, che si trovava vicino a me. «La nebulosa!» gridò con voce rauca, indicando il cielo. «La nebulosa... si sta colmando!» Sollevai lo sguardo, attonito, e vidi le grandi fiamme muoversi, lentamente, maestosamente, titanicamente, abbassandosi verso di noi, verso il mondo della nebulosa, e la nebulosa si stava colmando, stava riempiendo il grande spazio vuoto che si era formato all'interno di essa all'inizio del tempo. Poi caddi al suolo, e vagamente sentii che le braccia dei miei amici mi sollevavano, mi trascinavano sul pavimento, tra le orde impazzite degli esseri della nebulosa che ormai non badavano più a noi, mi trascinavano verso l'incrociatore, e sentii che l'incrociatore si sollevava, con l'uomo-pianta ai comandi, saliva il grande pozzo verso la superficie, mentre le fiamme della nebulosa stringevano la loro morsa su di noi. Poi si udì un ruggito tonante delle fiamme scatenate intorno a noi, un turbine di correnti di fuoco, che ci avviluppò mentre noi ci tuffavamo disperatamente nel cuore della nebulosa. Il ruggito delle fiamme mi giunse sempre più fioco, mentre i sensi mi stavano abbandonando, ma poi, prima di perdere conoscenza, sentii che il ruggito era cessato, che ci stavamo
muovendo di nuovo nello spazio. Con un ultimo sforzo mi sollevai fino all'oblò, e guardai, con i miei compagni, il terribile oceano di fiamme ribollenti che si stendeva maestoso sotto di noi, vidi che le fiamme impazzite si contraevano, che la massa della nebulosa si stava riducendo. Poi dalla grande nebulosa uscì una singola lingua di fuoco, altissima, immensa, che sembrava provocata da una titanica conflagrazione, una grande lingua di fuoco che torreggiò verso le stelle, e poi si fermò un attimo, si abbassò, ricadde, e morì. Era sempre la fine del mondo nel cuore della nebulosa. Capitolo VI. Fu più di due settimane dopo che, con tutte le migliaia di membri del grande Consiglio dei Mille Soli, uscimmo dalla enorme torre per incontrare la notte stellata. Quelle migliaia di creature stavano ancora gridando per l'entusiasmo, perché solo da poche ore la nostra astronave era discesa dall'abisso dello spazio sulla capitale della Galassia, per trovare un'accoglienza che non aveva precedenti nella storia dell'universo. E ora che finalmente la tumultuosa riunione del Consiglio si era conclusa, e ciascuno dei membri era pronto a partire verso il suo sole natale, gli applausi e le grida che ci circondavano erano raddoppiati. Finalmente dalle tenebre scese un grande incrociatore interstellare, si fermò, e i membri di Antares vi entrarono e scomparvero nella notte stellata. Dalle stelle scese un'altra astronave, la creatura di Rigel che aveva gridato fino a quel momento la sua selvaggia gioia per la salvezza della Galassia vi entrò, e scomparve nelle tenebre. Uno per uno, li vedemmo partire, vedemmo le grandi astronavi tuffarsi nell'oscurità, dirigendosi verso la Stella Polare e Fomalhaut e Algol, iniziando i lunghi viaggi di ritorno verso soli ai margini della Galassia. Se ne andarono uno per uno, finché di tutti i membri restammo solo noi tre, con i tre incrociatori che ci attendevano per riportarci alle nostre stelle. Allora indugiammo, e per un comune impulso sollevammo lo sguardo. Nello spazio splendevano soli a migliaia, punti di luce vivida in una distesa nera e tenebrosa. Guardammo per diversi minuti, e guardammo tre soli che erano molto distanti tra loro, nel cielo... lo stupendo splendore giallo della grande Capella, a sinistra, la luce sanguigna di Arcturus, a destra, e tra di loro, sulle nostre teste, una piccola stella gialla, quella minuscola scintilla di luce verso la quale gli occhi e i cuori degli uomini si sarebbero
rivolti fino alla fine del tempo, anche quando essi avessero raggiunto i confini dell'universo. Guardammo ancora per un istante, poi Jor Dahat sollevò la mano, indicando un'altra stella, bassa sull'orizzonte, che risplendeva ai confini del cielo. «Guardate,» disse, piano. «La nebulosa.» Silenziosamente la fissammo per un lungo momento, un momento in cui il nostro pensiero varcò i confini dello spazio e del tempo e ritornò laggiù, verso quel possente regno di fuoco là dove avevamo lottato per salvare la nostra Galassia, nell'incredibile mondo al centro della nebulosa, che noi avevamo condannato per sempre. Poi, in silenzio, ci stringemmo la mano, e ci voltammo verso i nostri incrociatori, che ci stavano aspettando. Poi anche gli incrociatori scomparvero nell'oscurità, allontanandosi da Canopo, ancora una volta circondati dall'abisso dello spazio, nell'eterno silenzio dell'infinito immutabile, ciascuno verso la sua stella. FINE