È giunto un bambino appena l'altro giorno, È venuto al mondo nel solito modo. Harry Chapin, da Cat's in the Cradle di Sa...
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È giunto un bambino appena l'altro giorno, È venuto al mondo nel solito modo. Harry Chapin, da Cat's in the Cradle di Sandy & Harry Chapin 1 Gli elettrodomestici sono una pessima compagnia. E così, per Caitlin Bourke, la terza nevicata dell'inverno portò con sé una voglia di sole e il desiderio di non avere la pelle che si secca come pergamena. E la voglia di avere un bambino. In cucina, l'unico suono era il ronzio del frigorifero, così inutile con quelle condizioni atmosferiche: Caitlin avrebbe potuto tenere il latte sull'ampio terrazzo della camera da letto, le uova sul prato leggermente inclinato, il burro e il formaggio sul cofano della Range Rover parcheggiata sul vialetto di ghiaia. Nei sobborghi di Westbridge, quando fa freddo e non c'è nessun posto dove andare, gli elettrodomestici sono una pessima compagnia. Mentre nevicava e il freddo secco ottundeva i rumori della vita a tal punto che l'unico suono degno di nota nei sei acri della proprietà dei Bourke era il movimento frusciante degli alberi che si scrollavano di dosso il loro fardello invernale, il bisogno di avere un bambino la assalì con forza. Era puro egoismo, e lei se ne rendeva conto. Non v'era nulla di carnale nel suo desiderio di maternità, nessuna traccia della tenerezza con cui lei stessa era stata voluta da sua madre; piuttosto, il bisogno disperato di un altro essere vivente che occupasse lo spazio desolato di tutte quelle stanze. Caitlin si domandò come sarebbe stato. Uscire dalla cucina ed entrare in soggiorno sapendo che c'era un'altra stanza occupata, una voce in più, un'anima in più. Era questo ciò che voleva. Un'anima in più che le permettesse di non continuare ad ascoltare all'infinito la propria. In soggiorno, sulla mensola del caminetto, c'era una fotografia di suo marito. Un uomo alto e silenzioso con i capelli color sabbia, con grosse mani che amava congiungere dietro la schiena quando ascoltava, Paul Bourke non parlava mai, se non quando veniva interpellato: una qualità eccellente in un marito, secondo le mogli di Westbridge. Tuttavia, gli mancava qualcosa, una caratteristica che molte di loro richiedevano, e a cui la maggior parte dei mariti finiva per adempiere, a tempo debito: la capacità di procreare la generazione successiva. Lui dava la colpa alle tossine, alle discariche, agli impianti per l'energia nucleare, ai generatori elettrici ad alto voltaggio e alle vernici a base di piombo. Paul non era mai stato un ambientalista, fino al momento in cui il medico gli aveva detto che non poteva avere figli. Dopo quella notizia, aveva richiesto il pensionamento anticipato dal suo impiego come vicepresidente di una compagnia petrolchimica e si era messo in proprio - un'impresa ambientalista - cercando il modo di imbrigliare l'energia solare nei satelliti. Se non poteva mettere al mondo un figlio, immaginava Caitlin, allora avrebbe fatto da padre a un'impresa. E lui aveva fatto proprio questo, e con enorme successo. Caitlin ricordava ancora quel giorno nello studio del medico. Aveva preso un
valium, quella mattina, perché sapeva che quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbero scoperto chi di loro due era il responsabile della situazione. Caitlin aveva sperato di essere lei: Se posso essere io, allora fa' che sia così, perché io posso assumermi la responsabilità della cosa in un modo che Paul non sarebbe mai capace di fare, e Dio solo sa se voglio assumermela. Dio sa che voglio, perché allora avrei la consapevolezza, la certezza che mai avrei potuto sposare l'uomo giusto. Ma, quando il dottore li aveva ricevuti, Caitlin si era resa immediatamente conto di quale fosse la verità. Il dottore aveva cominciato a parlare lentamente, con un tono fin troppo professionale, e ciò non poteva significare altro che brutte notizie. E, se si trattava di brutte notizie, allora doveva essere Paul, perché un medico maschio avrebbe sicuramente pensato che quella, per definizione, fosse la peggiore di tutte le notizie possibili. Aveva sognato diverse volte il momento del parto. Ne aveva immaginato l'utilità. Lei stessa non era mai stata inutile. Ma, oh, l'utilità di un nuovo essere vivente... era innegabile. Aveva immaginato il suo bambino che scivolava fuori senza sforzo dalle sue gambe. Nei sogni, il dolore non compariva mai. Il bambino asessuato emergeva sempre completamente vestito, completamente istruito, e le parlava come nessun altro le aveva mai parlato prima. Dal soggiorno passò nel piccolo studio. Era una stanza umile, con due pareti rivestite di libri, comoda e ricolma dell'obbligatorietà dell'isolamento invernale. Era la sua stanza preferita. Tutte le altre - tante - erano sterili: non riusciva a immaginare una vita che vi cresceva. Ma lì, nello studio, era lì che immaginava se stessa allattare il bambino. Sul divano soffice, più comodo di quanto avrebbe mai potuto essere qualsiasi letto, si osservava a seno nudo, intenta a soddisfare la più grande delle piccole brame. Naturalmente, una delle stanze al piano di sopra sarebbe stata riservata per la culla e per le cose del bambino e per i colori pastello della tappezzeria che al momento si fosse rivelata più appropriata. E quello sarebbe stato il luogo dove si sarebbero accumulati i suoi giocattoli, in rapida successione, con il passare di ogni mese e di ogni compleanno e poi di ogni occasione possibile. Caitlin non aveva ancora scelto la stanza precisa. Sarebbe stata a destra o a sinistra della scalinata, e scegliere una o l'altra era come scegliere un bambino o una bambina, una scelta che non si poteva fare. Si sedette sul divano e ascoltò la casa. Pensò che il suono contribuisce in larga parte a caratterizzare una casa. Era un particolare che non si poteva assolutamente distinguere quando ci si entrava la prima volta insieme agli agenti immobiliari. Con tutti quei discorsi di rateizzazioni, di sistemi di smaltimento, tasse, integrità strutturale e regole di lottizzazione, non c'era davvero modo di udire i suoni della casa. Quella casa possedeva il silenzio rimuginante che poteva provocare disagio anche a piccole dosi e che, protratto nel tempo, poteva infilarsi sempre più nel profondo e ulcerare anche il più forte dei caratteri. In cucina, il frigorifero ronzava, soddisfatto di nutrirsi del torrente di energia elettrica che fluiva senza sforzo attraverso centinaia di prese, proveniente dai cavi all'esterno che si perdevano nel paesaggio freddo dell'inverno giù giù fino al gene-
ratore situato venticinque chilometri a sud di Kingsbridge. Il ronzio era in coro con il silenzio. E il silenzio era in coro con la leggera nevicata che, con graduale e inesorabile perseveranza, stava seppellendo le impronte mattutine dei passi di Paul sui gradini dell'ingresso. 2 A Northport non ci sono soldi. A Billy Crapshoot non importava. Ne avrebbe trovati un po' da qualche parte. Magari nel solito modo, con una pistola puntata al collo di qualcuno, nella loro automobile, quando stavano tornando a casa dal lavoro e venivano fermati da un semaforo rosso, preferibilmente alla fine di Morone Street, dove non c'è una sola vetrina piena e il sole d'inverno tramonta presto. Era facile procurarsi dei soldi in quel modo. Si fa così: aspetti al semaforo, ben vestito, aria raffinata. Individui la macchina con la portiera aperta - in media una ogni sei, di questi tempi - ti avvicini con calma, chiedi un'informazione sul lato del passeggero, afferri la maniglia, apri. Entri. Pistola con silenziatore puntata contro il collo - non alla testa, dove la canna può scivolare sui capelli, ma al collo, dove la puoi appoggiare contro la carne. Afferri le chiavi. Ti allunghi verso la maniglia della portiera del guidatore, la spalanchi, spingi il tremulo autista sulla strada. Un colpo alla testa. Metti la marcia e obbedisci a tutte le regole del codice stradale: niente eccesso di velocità. Soltanto una rapida svolta sulla Reynolds, poi sulla Quincy, nel garage di Macroy. Un rapido lavoro di vernice spray. Le targhe cambiate. E poi di nuovo fuori sulla Quincy, tre svolte e poi sulla Merritt Parkway in direzione nord, prendi la seconda uscita e poi a destra dopo la rampa. Il terzo magazzino. Sul retro per la consegna: cinquecento dollari. Era così che si trovavano i soldi a Northport. In un posto dove di soldi non ce n'erano, Crapshoot se la cavava bene. Aveva talento. Glielo dicevano tutti. Era stato soprannominato Crapshoot perché segnava il suo talento con la fortuna e il nomignolo aveva attecchito perché con lui aveva attecchito anche la fortuna. Era stato arrestato soltanto due volte, non aveva mai detto una sola parolaccia, era squisitamente educato. Un genio, pensava qualcun altro. E lui concedeva loro volentieri quella diagnosi. Ma soltanto in una giornata da mille dollari. E quella sarebbe stata una giornata da mille dollari. Nessun problema. Entrò al Dunkin' Donuts per un caffè. C’era Reg, che guardava i giornali e una bottiglia di gin alle dieci del mattino. « Reg, svegliati. » La sua testa era giù, appoggiata sul tavolo di formica. Crapshoot si avvicinò al banco e prese il suo caffè, leggero come sempre. Quello era il suo unico vizio. Non toccava mai droghe, e l'unica birra che aveva bevuto, anni prima, l'aveva fatto vomitare; e non aveva neppure lo stomaco per mangiare dolci. Era perfettamente in salute, e ne andava orgoglioso. Aveva fatto due volte il test TB e il risultato era stato negativo. La vita di Crapshoot era ordinata. Era un uomo di successo. Era un ladro d'automobili pulito e non ce n'erano molti, in giro. Era questo
ciò che passava per genio, a Northport: mani rapide che non tremavano per la dipendenza da qualche sostanza. Crapshoot aveva un piano di investimento. Scaricava mille dollari al mese in un conto corrente oltre il confine del Massachusetts, comprava azioni per mezzo di un broker. Era un tipo strano, sulla strada o da qualsiasi altra parte, ma gli piaceva così. Non pagava tasse per il suo lavoro, ma le pagava per la sua attività lecita di tassista, che lo occupava due giorni alla settimana. La vita era bella, per Crapshoot. Non scommetteva mai ai cavalli, non spendeva mai, non sprecava mai una parola o un'opportunità. Aveva l'aria pulita ed era ben educato, indossava completi che acquistava in botteghe di vestiti usati e portava sempre un fiore all'occhiello, un garofano rosa che teneva lì fino a che appassiva. Murray 's Flowers., il suo fioraio di fiducia, ordinava i garofani espressamente per lui, persino in pieno inverno. Quella era la vita di strada che Crapshoot conosceva. Ogni giorno passava davanti ai ragazzi fatti di crack, li conosceva tutti per nome. E loro conoscevano lui. Gli sbirri lo conoscevano per l'imbroglione che era, pensavano che fosse un magnaccia di second'ordine, ma non sapevano niente delle macchine. No, quella delle automobili era una cosa privata. Molto tempo prima aveva imparato che il modo migliore per fregare gli sbirri era dargli qualcosa che permettesse loro di etichettarti e poi entrare dalla porta posteriore. Funzionava così: pensavano che lui fosse un magnaccia, così lui parlava con le patetiche ragazzine in collant all'angolo tra la Wainright e la Main Street alle tre del mattino. Tutti pensavano che lui fosse il loro protettore. Le ragazze non ce l'avevano, ma apprezzavano le sue attenzioni, perché spesso lui dava loro una banconota da venti dollari in cambio di niente. In questo modo, gli sbirri passavano oltre. « Come ti va, Billy? Una notte tranquilla? » « Sì, Rudy. » Conosceva tutti i poliziotti per nome. « Bene, Billy. Fa' in modo che continui così. » Ma poi, un attimo dopo, lui era scomparso, nelle profondità di quella stessa notte, una notte tranquilla soltanto per coloro che non erano in grado di vedere. Il problema dei furti d'auto a Northport era grave. Ma c'erano in giro così tanti dilettanti che gli sbirri avevano la sensazione di essere vicini alla vittoria. Crapshoot lavorava con un'organizzazione, con dei professionisti, e le macchine erano già sulla strada per la Florida a nemmeno un'ora dalla presa. I dilettanti venivano beccati mentre i professionisti continuavano a prendere macchine. Crapshoot lavorava soltanto quando andava bene. Aspettava con pazienza che finissero i periodi duri, quando la polizia faceva gli straordinari. Conosceva ogni singola automobile senza contrassegni, ogni cambio di turno, era in grado di riconoscere ogni segnale che lasciasse intendere che qualcosa non andava per il verso giusto. Sarebbe stato difficile incastrare Crapshoot. Si stava guardando in giro, prendendo in considerazione l'idea di espandersi, magari mettendo su un'attività lecita. Magari nella ristorazione. « Dov'è Marty? » «Non c'è», disse il ragazzo al bancone. « Digli che Crapshoot vuole un pezzo del suo prossimo franchising. Digli che è
ora. » « Come? » «Tu di' soltanto a Marty che Crapshoot dice che è ora. » Quelli erano affari nello stile di Northport. A due isolati di distanza, i soldi delle automobili fluivano nel mercato della droga. Lì, invece, i soldi delle macchine finivano nei mutui fondiari e poi nel franchising della catena Dunkin' Donuts. La cosa possedeva una certa bellezza, pensò Crapshoot mentre tornava sul marciapiede. America. Faceva freddo. L'indomani avrebbe nevicato. Crapshoot sì abbottonò il soprabito. C'erano altre maniere per fare soldi sicuri, ma nessuno era sicuro come quello. Crapshoot era sempre in cerca di nuovi modi per riuscirci. Amava pensare che la sua non fosse avidità, ma appetito, brama. La pensava così: voglio quello che vogliono tutti gli altri qui a Northport, voglio tutto quello che non potrei mai avere. Ma loro, gli altri, sì accontentano del gin e di un po' di cristalli da fumare, lo ho bisogno di molto di più. Ho bisogno di cose che la gente nemmeno si immagina. Non riusciva a definire le proprie necessità nemmeno a se stesso. Ma quando una Mercedes o una Saab svoltavano l'angolo, con l'aria smarrita, ricca, senza una speranza, Crapshoot vedeva immediatamente un modo per esaudire i propri desideri. Faceva anche altre cose. La vita forniva così tante opportunità, e nessuno riusciva a vederne neanche la metà... tranne lui. Era proprio questo ciò che lo stupiva di più del mondo. Perché quando qualcuno vedeva ottantamila dollari di lamiera che avanzavano lentamente lungo la Morone Street non li riconosceva per quello che erano, un'opportunità? Non era sicuro di saperlo. Ma la cosa importante era rimanere in gioco, in ogni gioco, e fare soldi, e trovare nuovi giochi da giocare. Guarda quella roba, pensò raccogliendo un volantino dal marciapiede appena fuori dal Dunkin' Donuts. SI VENDE E SI COMPRA ORO. Quello era il tipo di operazione da banco dei pegni di quart'ordine che lui non approvava. Non era industria. Non c'era niente di creativo. Comprare e vendere. Spazzatura. Dalla parte opposta della strada, sei uomini erano raccolti intorno a un fuoco acceso in un bidone dell'immondizia. Crapshoot li oltrepassò. Li conosceva tutti e li salutò con un cenno della mano, sorridente, con dignità e statura, come potrebbe fare il Presidente passando in una stazioncina ferroviaria. E il paragone calzava, perché, anche se non era stato democraticamente eletto, lui era l'idolo degli uomini di strada, lì a Northport. Si diresse verso il suo ufficio, il deposito dei taxi sulla Barrow, dove il tipo che smistava le chiamate era suo amico. Essendo l'unico tassista a indossare un completo, Crapshoot si era guadagnato un certo rispetto e qualche sorrisetto, nell'ufficio. Andò sul retro, dove il suo amico gli lasciava usare una scrivania in cambio di un piccolo affitto. Era un bel posto, anonimo quanto basta. Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno: un po' di silenzio, un distributore di acqua fresca, un impianto di riscaldamento decente e una botola che conduceva a un'uscita posteriore di cui nemmeno l'addetto alle chiamate sospettava l'esistenza. Il fatto che una persona abbia sempre bisogno di due vie d'uscita in ogni luogo era una filosofia di vita profondamente radicata in lui. Aprì il giornale locale. Quello era il momento degli affari del mattino. Non era il
momento giusto per le automobili, questo Crapshoot lo sapeva benissimo. Il suo istinto non sbagliava mai, con gli sbirri. Lui lo chiamava il suo ottavo senso, essendo il suo sesto il senso del denaro e il settimo il senso del potere. « Che ne pensi, Billy? Ti va di lavorare, oggi? » Crapshoot sollevò lo sguardo sull'addetto alle chiamate, un uomo dall'aspetto malsano e bulboso con la pelle chiazzata di nicotina. Non si alzava mai dalla sua sedia vicino alla porta. Ma faceva bene il suo lavoro. Sapeva sempre dove si trovava ogni singolo taxi. Scacchi, amava definirlo. Un buon addetto alle chiamate deve sapere sempre dov'è ogni taxi, in ogni minuto. Saper fare il tuo lavoro, questo è l'unico modo, diceva sempre. « Niente per oggi, grazie. Ho degli affari da sistemare. » «Che c'è di nuovo, Billy? Anch'io ho delle cose in ballo. Devo avere a che fare con te, per esempio. » Ridacchiò. Una pessima battuta tra sé e sé era tutto quello che gli serviva per passare la giornata. Crapshoot uscì. Faceva freddo e la cosa sembrava ultraterrena, come se questo mondo non fosse già freddo abbastanza. Una macchina stava avanzando lungo la Barrow. Svoltò in Acorn Street. Ciò significava che Morone Street era la prossima meta. Ma quella sera Crapshoot aveva deciso di cambiare strada. A quel punto, sicuramente gli sbirri stavano tenendo d'occhio Morone Street. Avanzò di qualche passo. Niente sbirri. Non poteva lasciarla arrivare in Morone Street. E sapeva che non c'erano poliziotti in giro. Era un cambio di turno. Attraversò gioiosamente la strada e telefonò al garage. « Ho le dita appiccicose, amico. » Era la frase che usava per comunicare di avere un bersaglio. Gli piaceva moltissimo. Molto poetica. La poesia di tutte le cose, il profitto di tutte le cose. Quello era il suo mantra. In Morone Street, la macchina era lenta, incerta. Era una Jaguar verde. Crapshoot si guardò intorno in cerca di auto-civetta senza contrassegni, poi si spostò al suo angolo. Si aggiustò il garofano. Stava appassendo molto alla svelta. Entro un'ora ne avrebbe preso uno nuovo. Gli piacque ciò che vide. Al volante della Jaguar c'era un tizio dei sobborghi in cerca di una puttana. Probabilmente un onesto cittadino che veniva dagli onesti quartieri alti di West-bridge al di là del confine. Il che rendeva le cose molto più facili. Poteva persino farcela senza uccidere il tipo. Il John non sarebbe mai andato alla polizia: troppo imbarazzante spiegare che cosa era successo. Ma Crapshoot sapeva che avrebbe ucciso il tizio, anche se era probabilmente un padre di famiglia o stava per diventarlo. Dopotutto, Crapshoot era una persona prudente. Gli affari dovevano essere condotti come si deve. E quella era roba da professionisti. Gli affari erano affari e gli accordi erano accordi. Presto, nuovi accordi e nuove opportunità l'avrebbero interessato, e Crapshoot non vedeva l'ora. Il desiderio di espandersi continuava a stringergli il cuore, appena sotto il garofano. Qualcosa di nuovo, qualcosa di tremendo: possedere qualcuno, oltre che qualcosa. Quella era la truffa definitiva. Era uno scherzo, un gioco da ragazzi, fin troppo facile. Era persino troppo semplice, uccidere. Quello era il trucco più a buon
mercato di tutti. Un proiettile in testa non dimostrava nulla su chi era veramente il boss. Ma per possedere una vittima, per possederla davvero, avrebbe dovuto guardare più nel profondo. Nella loro anima... Si avvicinò alla macchina e tirò la maniglia. La serratura cedette con facilità. Magnifico, magnifico, pensò Crapshoot. Gli affari erano una bella cosa. 3 Perché non lo conosceva? Una volta, quando lei e Paul erano in vacanza in Nuova Scozia, si era fermata mentre riponeva i suoi effetti nell'armadio della camera dell'albergo. L'aveva guardato organizzare e disporre la sua biancheria, i suoi articoli da toilette, le sue riviste. Era sorprendente quanto fosse assurdo e fastidioso nel sottolineare la sua esigenza di sistemare e di mettere via tutto non appena arrivava da qualche parte. In vacanza, la routine era sempre quella: arrivare, registrarsi all'albergo, disfare le valigie, svestirsi, eiaculare dentro di lei con la rapidità della lingua di un serpente, appisolarsi. Ma in quel momento, mentre osservava i passi del suo rituale e focalizzava la propria attenzione su ciò che sapeva essere inevitabile, Caitlin si era resa conto di quanto si sentisse distante dall'attività di suo marito. I rituali di ogni persona sono tanto privati che la loro stessa privacy li rende atti di solitudine. L'aveva osservato riporre la cintura. E i suoi sigari. Quindi la vecchia radiolina portatile di cui non faceva mai a meno. Perché non lo conosceva? Lì, nel crepuscolo della Nuova Scozia, vicino alla riva del mare che non aveva mai conosciuto né visitato prima di allora, c'era un uomo con cui era sposata da cinque anni e che conosceva meno delle conchiglie che costellavano la spiaggia. Quando lui l'aveva accarezzata, più tardi quella sera, prima che scendessero a bere l'aperitivo davanti al fuoco, Caitlin si era ritratta da lui, rigida. Lui si era accorto a malapena della sua reticenza, masturbandosi silenziosamente accanto a lei in uno stato di semicoscienza fino a che non era venuto sulle lenzuola pulite dell'albergo. Poi aveva dormito fino a svegliarsi, affamato, un'ora più tardi. In quell'ora, lei era rimasta sdraiata accanto a lui osservandolo, la pelle giallastra come macchie di sigaretta, le labbra cerose sottili come fili di cotone. All'aperitivo, avevano incontrato una coppia della Nuova Zelanda. La moglie era giovane, e a Paul piaceva guardarla. Il marito era raffreddato e aveva gli occhi iniettati di sangue, e aveva un modo spiacevole di stare seduto di sbieco in modo che il suo grosso sedere gli scivolava via di sotto. Caitlin era subito entrata in confidenza con la moglie. Com'è possibile, aveva domandato, euforica per la birra forte a cui non era abituata, non appena erano rimaste sole, che tu riesca ad amarlo? La donna aveva annuito, quasi si aspettasse la domanda. Aveva roteato gli occhi e aveva rovesciato la testa all'indietro con una sicurezza di sé che Caitlin aveva trovato attraente. E le aveva detto qualcosa che Caitlin non aveva più dimenticato e che aveva addirittura tentato di riportare nel suo diario il giorno seguente, nonostante ormai fosse sobria e i ricordi fossero confusi:
Per me lui è quello che il padre è per tante altre ragazze. Eroico, patetico, un fallito, eppure l'unico uomo che ameranno mai. È ricco e mi sostiene. Mi compra tutto quello che voglio. E poi c'è il suo desiderio: mi guarda con una lussuria che non ha eguali. Apprezza il mio seno più di quanto lo apprezzi io. Mi supplica per qualsiasi cosa. E poi c'è il suo testamento, in cui mi lascia ogni cosa. E legale, vincolante, registrato su video di fronte a quattro testimoni. E scritto su un elegante foglio di pergamena. Nel testamento disconosce la sua stessa figlia. C'erano stati altri momenti di illuminazione, di introspezione, di filosofia, ma ciò che l'aveva realmente convinta della propria solitudine nel mondo era stato il giorno in cui lei e Paul avevano deciso di comprare una vasca per idromassaggio. Era un modello di lusso, rivestita di legno scuro e curata in ogni dettaglio. Era arrivata su un camion ed era stata calata con cautela nel suo posto nel solarium. Caitlin la guardava con sospetto. Associava le vasche per idromassaggio allo champagne e al sesso e alla California e a uno spinello di hashisc occasionale, ma non a Paul. Che cosa aveva intenzione di farci? Che cosa avevano intenzione di farci? Visualizzò Paul nella vasca, ma non riuscì a visualizzare se stessa accanto a lui. Lo immaginò tastare in cerca della sua gamba sott'acqua, ma lei non c'era. L'aveva capita male, l'aveva male interpretata, comprando la vasca per idromassaggio. Quella sera, quando Paul era tornato a casa, deliziato per l'installazione perfetta, si era messo immediatamente a riempire la vasca, osservando il vapore che si sollevava per appannare le vetrate del solarium. Poi, con una spontaneità che non si accordava né con la sua voce, né con il suo corpo nudo o con i suoi piedi troppo grossi, si era spogliato e aveva lasciato scivolare il suo corpo pallido nella vasca, gemendo di piacere. Caitlin non l'aveva mai visto tanto estatico, e il suono del suo piacere l'aveva addolorata. Non le era mai sembrato tanto felice, nemmeno insieme a lei, mentre lei non era mai stata felice in generale, con lui o senza di lui, almeno da quando riusciva a ricordare. Con l'acqua, il vapore e i fumi che si sollevavano pigramente nel salone, lui era a casa, e tranquillo. E lì, senza che lui sentisse il bisogno di farle un cenno come aveva fatto brevemente una volta, lei si era riscoperta molto, troppo sola. Si era chinata per sentire su di sé il calore setoso dell'acqua, aveva osservato le perle della schiuma che si raccoglievano in superficie, e si era sentita come se stesse annegando. E quasi l'aveva desiderato. Ma era rimasta in vita, qualcosa che le era sembrata una coincidenza più che una benedizione, come una luce al neon che lampeggia, lampeggia e continua a lampeggiare senza riuscire ad accendere i gas che le risiedono freddi all'interno. Per Caitlin c'era una sola via d'uscita, e lei la vedeva passare nei passeggini delle gelaterie a Darien, ornati da scarpette di lana a volte gialle e a volte azzurrine, a volte con le coperte racchiuse nelle piccole dita di un piccolo pugno serrato, spesso con un succhiotto che grondava saliva e prematura insoddisfazione; la notava nei negozi di barbiere in sella ai grandi cavalli di plastica che servivano da poltrone, con dolciumi multicolori nelle bocche come ricompense per la prima tosatura; una volta l'aveva notata, la sua via d'uscita, trascurata e malandata, abbandonata, sporca e malnutrita con un ginocchio sbucciato e gli emblemi dello squallore sul corpicino magro, ma era stato nei ghetti di Northport, dove Caitlin era rimasta bloccata dopo aver imboccato
l'uscita sbagliata della Merritt Parkway. E anche quello, anche quello le era sembrato una via d'uscita; in estate si presentava ai bordi delle piscine: ridendo, trottolando, entrando con uno spruzzo, tuffandosi in profondità per poi risalire in cerca d'aria con tutta l'urgenza dei suoi piccoli polmoni esausti. Un bambino, ecco la sua via d'uscita. Immaginava le ninnananne che avrebbe cantato se mai le fosse stata concessa la possibilità: cullanti, assolutamente indulgenti, malinconiche. Dopo tutto, non avrebbe cresciuto un bambino indipendente, bensì un bambino a lei completamente devoto, un bambino disperatamente bisognoso del suo amore quanto lei lo sarebbe stata della sua presenza. L'idea le procurava vertigini di eccitazione quando le sovveniva a questo modo, in technicolor, con tutti gli azzurri e i rosa pastello del regno dei bambini a fare da sfondo, costringendola a roteare su se stessa fino a crollare, e a stringersi il ventre con la speranza che si gonfiasse di concerto con la propria eccitazione. 4 Pagina dodici. C'era un piccolo annuncio pubblicitario che sollecitava donatori di sperma a cinquanta dollari il campione: ISTITUTO DI INSEMINOLOGIA. Quelli potevano essere soldi facili, pensò Crapshoot strappando accuratamente l'annuncio dal giornale. Stava per metterlo nel suo archivio per conservarlo, poi ci pensò meglio e lo lasciò sulla scrivania. Non aveva mai donato lo sperma. L'idea non lo solleticò immediatamente, ma qualcosa lo pizzicò - nello stesso punto - appena sotto il garofano ormai rigido, laddove immaginava fosse il suo cuore. Tornò a rivolgere la propria attenzione al giornale. Il giornale era il punto di partenza per la maggior parte dei suoi affari. Un affare funzionava così: in fondo alla pagine c'era un annuncio molto più grande che reclamizzava un rivenditore medio-grande di mobili di Hartford. Crapshoot studiò attentamente l'inserzione pubblicitaria: tipica, banale. Il modulo era grosso, una pagina intera, un'inserzione indubbiamente costosa. Telefonò al negozio e domandò il loro indirizzo e quale fosse la scelta che offrivano di divaniletto con fodera imbottita antimacchia. Poi chiese di parlare con il direttore e fece altre domande sugli stili, la gamma dei colori, gli accessori, i prezzi. Infine domandò informazioni su un piano di pagamento rateale, sulla possibilità di acquistare una carta di credito del negozio, chiese lumi sulle penali per il ritardato pagamento, sugli sconti per gli ordini consistenti e le modalità di consegna gratuita. Ringraziò educatamente il direttore. Era proprio il tipo di attività che faceva al caso suo: grande abbastanza da avere diversi dipendenti e troppe scartoffie, sufficientemente piccola per avere controlli raffazzonati e una sconveniente dose di di sorganizzazione. A quel punto, telefonò alla sezione piccola pubblicità del giornale locale, presentandosi come un uomo d'affari che si domandava se potesse permettersi un'inserzione a tutta pagina per promuovere la sua catena di negozi di accessori automobilistici. I prezzi partivano da milleduecento dollari per un annuncio monocolore di un solo giorno, gli disse la responsabile del servizio. Poteva pagare per l'inserzione entro una settimana, aspettando di avere più liquidi
in cassa? Non c'era problema. Solitamente, il giornale richiedeva soltanto un deposito del dieci per cento. In seguito gli avrebbero mandato la fattura per il saldo. Crapshoot riappese e cominciò a compilare la fattura. Aveva un blocchetto di bolle e di fatture commerciali che teneva chiuso nel cassetto della scrivania proprio a quello scopo. Inserì uno dei fogli in triplice copia nella vecchia macchina per scrivere elettrica e digitò quanto segue: Una pagina intera, un colore, un giorno di pubblicazione. $1200 Deposito, accreditato il 16 gennaio. Grazie. $ 120 Saldo dovuto. $1080 Batté a macchina l'indirizzo del negozio di mobili nel riquadro della fattura riservato a quello scopo e piegò il foglio in modo che l'indirizzo fosse visibile nella finestrella di plastica trasparente della busta commerciale. Inoltre, accluse una busta di ritorno, già indirizzata a una delle sue numerose caselle postali e affrancata con il francobollo giusto. Sei settimane più tardi, avrebbe controllato la casella postale, una casella temporanea a Stamford, e vi avrebbe trovato un assegno di milleduecento dollari intestato alla Eagle Media Group, l'attività commerciale fasulla di cui era l'unico proprietario sotto falso nome. A quel punto, avrebbe incassato l'assegno nella sua banca di Stamford, insieme agli altri sei o sette che avrebbe ricevuto da altri progetti simili, quindi avrebbe chiuso il conto e la casella postale nello stesso giorno e avrebbe ricominciato da qualche altra parte. Il negozio di mobili avrebbe scoperto l'errore soltanto diversi mesi più tardi, dopo l'arrivo della fattura vera e dopo una revisione dei conti. Presto Crapshoot si sarebbe messo in un altro campo di affari. Quello stava diventando sempre meno redditizio via via che passava il tempo e i suoi conti cominciavano a restringersi. Era sempre molto importante saper uscire da un ramo di affari al momento giusto. Tutto era un racket, pensava Crapshoot, una volta che conoscevi l'angolo giusto. Se soltanto gliene veniva offerta la possibilità, era in grado di fare affari con qualsiasi cosa. Vendere era vendere. Lui si faceva un punto d'orgoglio di poter vendere cose che non esistevano. Vendere una passività, un debito, a un negozio di mobili che non ne aveva: non era una truffa, era arte. La gloria insita nel vendere cose che non c'erano stava nel fatto che ciò che vendevi era un'idea - e questo, per Crapshoot, era semplicemente splendido. Le automobili andavano bene, e gli piaceva il brivido. Soldi facili. Alto rischio. Eccitazione che gli faceva fremere le budella. Non c'era niente come farsi un'automobile, perché la trasformavi nel suo alter ego tanto alla svelta da farti girare la testa. E poi se ne andava verso la Florida per il prepensionamento. Funzionava tutto come un orologio. E gli orologi hanno bisogno di essere caricati, per funzionare. Soldi. Crapshoot ne era innamorato. Banconote fresche di stampa, oppure usate e strausate. Oro scintillante, oppure opaco. Azioni di valore, o junk-bonds. Per lui, i soldi non erano elettrodomestici, o yacht di lusso che navigavano nei Caraibi. Il
denaro era ispirazione. Una meta. Un feticcio. Vendere era una questione di soldi, e il denaro significava esistere. Senza soldi, senza tanti soldi, lui non avrebbe potuto esistere. Dal momento che l'equazione era tanto semplice, anche il calcolo relativo non presentava difficoltà. Crapshoot avrebbe fatto i soldi, e i soldi avrebbero fatto lui. Innovazione umana. La poesia di quella frase gli era entrata nell'animo. Amava pensarci. Quando l'uomo aveva mandato il primo satellite fuori dal sistema solare, Crapshoot aveva pensato: È bellissimo, ma la vera bellezza risiede nel pensare a quanto, invece, sarà ordinario tra cent'anni. Crapshoot amava sognare nuove imprese e nuove avventure. Per lui, le due cose erano collegate. Denaro e pionieri. Sperimentazione e profitto. Anni prima, avrebbe voluto fornire il capitale di base per una compagnia biotecnologica. Con pochi cervelli e il suo rotolo di banconote, avrebbero potuto definire il nuovo confine del sapere. Quindi, se ne restava nella umile Northport e aspettava. 5 « I suoi spermatozoi sono come meduse. Hanno testa di rettile, sono brutti, deformi, insolenti, ingannevoli, malati. Sono, parlando francamente, biologicamente inadeguati. » Caitlin guardò Paul. Sarebbero state difficili da accettare, quelle parole. Ma era proprio per quello che si trovavano lì. Per abbeverarsi alla realtà dei fatti. Caitlin guardò suo marito, così inappuntabile nel suo completo di panno, così controllato negli atteggiamenti, così esteriormente immune a quel rimprovero rivolto ai suoi spermatozoi. Lei non voleva sentire quelle parole, non più di quanto lo volesse lui. Sentirti dire che tuo marito, l'uomo che hai scelto, è capace di ingravidare quanto lo sarebbe di allattare, non è certo piacevole. E primordialmente doloroso. Perché l'evoluzione ti dice di scegliere il più forte di maschi, il maschio che possiede non soltanto sperma, ma sperma sacro. La consapevolezza di aver fallito nella propria missione evolutiva equivale alla consapevolezza di aver fallito nel portare a compimento il piano ultimo: la propagazione della specie. E fallimento, puro e semplice fallimento. Il medico stava gesticolando dalla sua sedia, illustrando drammaticamente la condizione deforme degli spermatozoi di Paul con violenti affondi dell'indice levato. Dopotutto, era un guru della fertilità. Stando così le cose, era in grado di monopolizzare l'attenzione di coloro che erano senza figli. Caitlin guardò la targhetta di ottone posata sul ripiano della scrivania: Richard Dotterweich, MD, PhD - la serie di lettere che seguivano il nome quasi fertili loro stesse nella loro imponenza. « Nel loro stato normale, gli spermatozoi sono esseri eleganti e leggiadri. Vagano, nuotano, pulsano con la forza della vita. Hanno un unico scopo, e lo perseguono senza esitazione. Calano sull'ovulo femminile con entusiasmo irreprimibile. Uno spermatozoo sano è una benedizione di Dio - una coda, una testa, una dose salutare di gelatina genetica - l'inizio di tutti gli inizi. Uno spermatozoo sano è fantasia, è miracolo. Gli
spermatozoi in movimento sono il fenomeno umano più elegante: rapsodici, aggraziati, un vero balletto. « D'altra parte, spermatozoi con la coda arricciata, con teste multiple, ostinatamente indifferenti, con fisico malformato, insolita indolenza... questi spermatozoi sono inutili.» Dotterweich prese due provette dal cassetto della sua scrivania. I contenitori erano offuscati dalla consistenza viscosa dell'eiaculato. Sollevò le provette alla luce. «Voi ed io non siamo in grado di determinare la differenza tra questi due campioni. Ma, mentre uno è l'incarnazione del significato della vita, l'altro non ha alcun significato. » Paul balbettò leggermente, quindi parlò. « Dottor Dotterweich, sento l'impulso di scusarmi con lei, con il nostro bambino non nato, con Caitlin. Con qualcuno. » Dotterweich agitò la mano nell'aria. « Uno non può scusarsi per le proprie condizioni biologiche. Sarebbe come scusarsi per il colore dei propri occhi. Ma non interpreti male le mie parole. È di fragilità che stiamo parlando. La natura non perdona la fragilità. La fragilità viene emarginata, messa da parte, come fieno. » Il suo accento est-europeo conferiva un'enfasi particolare alla parola fragilità. Una qualche invisibile, simbolica dieresi era discesa sulla parola. «La natura non conosce misericordia. E come potrebbe? La natura non contempla la misericordia. Prevede soltanto la selezione naturale: selezionare soltanto i migliori e i più intelligenti nella massa, scegliere la bellezza tra l'accozzaglia di brutture che si aggrappa a questo mondo. Eppure, con la tecnologia, spesso riusciamo a trarla in inganno. Preserviamo la nostra povera batteria di geni e la trasmettiamo alla generazione successiva. « Prendete, per esempio, le cure a base di insulina per i diabetici. Senza iniezioni regolari di insulina, i diabetici gravi morirebbero di morte prematura prima di poter mettere al mondo dei figli. Con l'insulina, li manteniamo in vita abbastanza a lungo da procreare la generazione seguente. Ciò preserva i geni del diabete nel nostro patrimonio genetico. Stiamo conservando dei geni difettosi. Se volete, chiamatela de-evoluzione. « È possibile, ovviamente, ingannare la natura per il meglio. Adoperare gli stessi strumenti della natura contro di essa. Sì, esattamente. È tutt'altro che improbabile. È il presente. È ciò che facciamo qui nel nostro istituto. Selezioniamo soltanto gli spermatozoi migliori. Dotati di motilità superba. Idealmente equipaggiati per attaccare l'ovulo umano, per trasportare squisite informazioni cromosomiche, per plasmare la prossima generazione. In effetti, è vanto del nostro istituto affermare con certezza che il nostro materiale cromosomico è di prima qualità: programmato per l'intelligenza, la salute, persino la bellezza. » Per Caitlin, la predica di Dotterweich era vangelo. L'energia dell'uomo era motivante, il suo fervore procreativo irresistibile. In chiesa, da ragazzina, aveva ascoltato le parole del pastore nel primo anniversario della morte di sua madre e del suo canarino. Quel giorno, Caitlin aveva lasciato la casa per raccogliere dei fiori e si era imbattuta in una zolla di muschio alla base di un albero. Lì, semplicemente, giaceva un uccello morto. Dapprima, il pensiero di un uccellino che dormiva tanto profondamente in un posto così confortevole l'aveva divertita. Ma l'immobilità della cosa l'aveva turbata e, alla fine, Caitlin non era più sicura se gli uccellini poi dormissero davvero. L'eventualità della morte non gli era
nemmeno passata per la mente. Non si era mai imbattuta nella morte, prima. Tranne che nel vocabolario delle fiabe, la parola non sembrava reale. E forse non lo era. Ma, quando aveva spinto il corpicino con la punta della sua piccola scarpina da tennis bianca, l'uccellino si era spostato e poi era ricaduto nella posizione precedente. Com'era strano essere un corpo e non comportarsi come un corpo avrebbe dovuto: non avere nessun movimento autonomo, ma soltanto provocato dall'esterno. Suo padre, che andava a caccia per passatempo, le aveva tenuto la mano mentre le spiegava che l'uccellino non si sarebbe svegliato. Poi aveva scavato una piccola tomba e aveva permesso a Caitlin di riempirla e di incrociare due rametti sulla terra smossa. Caitlin aveva recitato una preghiera dietro invito di suo padre ed era tornata a casa a giocare. Soltanto quando una truce sensazione di gelo l'aveva afferrata, quella sera, aveva domandato a suo padre quando avrebbe potuto rivedere l'uccellino. E quando lui le aveva risposto mai, dicendole che l'uccellino aveva lasciato questo mondo per andare da un'altra parte, Caitlin gli aveva domandato se mamma e papà avrebbero mai fatto una cosa simile. Il papà e la mamma ti vogliono bene, tesoro. Non andranno da nessuna parte. Caitlin era corsa fuori a giocare. Un'ora dopo, sua madre era rimasta uccisa in uno scontro frontale con una macchina guidata da un ubriaco. Caitlin sapeva che sua madre aveva deciso di andarsene perché non voleva più bene al suo tesoro. Era fin troppo chiaro. Un anno dopo, in chiesa, nell'anniversario di entrambe le morti, il pastore le aveva confermato quell'idea: La vera essenza dell'uomo non è di questo mondo, ma appartiene a un luogo paradisiaco dove regna il bene, un luogo di redenzione. Una semplice ombra è ciò che risiede con noi sulla terra, badando alle cose di Dio qui. Quando la vera essenza dell'uomo viene richiamata, deve andare incontro al proprio dovere lassù. Soltanto lassù. Quella, per Caitlin, fu una delusione. L'idea di aver vissuto con la mera ombra di sua madre era bizzarra e orribile. Suo padre rimase in contatto con la morte. Continuò ad andare a caccia per molti anni. I suoi fucili erano molto importanti, per lui. Era solito insegnare a Caitlin l'uso appropriato delle armi e, quando lei crebbe, le insegnò a sparare. Caitlin ricordava suo padre, una volta, mentre caricava il fucile e le spiegava come funzionava la sicura, che le diceva: «Non abbassare mai questa leva fino a quando non sei pronta a fare fuoco. Togliere la sicura è come avere un bambino. Una volta che hai deciso di farlo, è molto meglio che tu sappia ciò che stai facendo. » Poi aveva puntato il fucile contro il bersaglio e aveva sparato. La concussione l'aveva sconvolta. Aveva sussultato insieme al fucile. «E stai attenta alle armi vicino alla gente. Ma, se devi sparare a un uomo, guardalo negli occhi quando premi il grilletto: non puoi sparare a un uomo che ha anche solo un briciolo di bontà nel cuore quando lo guardi negli occhi. » La carne e il sangue potevano ben poco sulla morte. Ciò nonostante, erano proprio la carne e il sangue l'argomento principale. Carne cellulare; sangue geneticamente combinato. Poche gocce di potente seme maschile infilate alla base di un ovulo
traslucido: vita, artificialmente realizzata. Sicuramente, nella carne e nel sangue che sarebbero cresciuti in vitro, fabbricati, ci sarebbe stato qualcosa di più resistente di ciò che emergeva dalla grazia disadorna della natura. Almeno in questo, Caitlin poteva sperare. Almeno questo, Dotterweich poteva - voleva - ottenerlo. «Eugenetica, forse. Perché no?» Dotterweich si alzò. La poltrona sospirò di sollievo. «L'alternativa è la degradazione di massa, una progenie pietosa. E per questo che lavoriamo sodo per raccogliere il meglio e preservare il meglio. E consegnare il meglio. A voi. Immagino che vorreste un figlio più forte, migliore di voi. Un figlio di prima qualità, equipaggiato per affrontare le avversità della vita, sia quelle noiose che quelle insidiose. Vostro figlio sarà eccellente. Lo vorreste forse diverso? » Paul sollevò umilmente lo sguardo. «Vogliamo un bambino. » «Naturalmente. Un bambino. Ma non un bambino, il bambino. Se lei fosse stato fornito di spermatozoi invidiabili, signor Bourke, lei e sua moglie avreste pigramente messo insieme un bambino del tipo che già abita normalmente questo pianeta: anacronistico, involuto, patetico nella propria fragilità... e difettoso, amaramente difettoso. Ma qui, ci siamo. Bene, bene. » Dotterweich picchiettò la mano sulla scrivania. «Qui, noi troviamo il perfetto complemento genetico al DNA di sua moglie. Noi, in realtà, facciamo ciò che la natura fa in modo imperfetto: colleghiamo i ceppi perfetti in felice comunione. E delizioso contemplarli. » Caitlin guardò Dotterweich. Quello scienziato pazzo avrebbe costruito il loro bambino, il loro piccolo Frankenstein privato. Com'era romantico. Romanticamente disperato. Com'era delizioso. C'era una macchia sul camice da laboratorio di Dotterweich, appena sotto il bottone di mezzo, appena sopra la linea incerta dei fianchi. Era una piccola macchiolina grigio-giallastra, e Caitlin si domandò se fosse sperma - il suo o quello di qualcun altro - o soltanto un po' di salsa del pranzo. In quel luogo, tutti i fluidi sembravano egualmente potenti e impotenti, egualmente in grado di essere importanti per la vita oppure no. Caitlin ricordava la prima volta che aveva assaggiato lo sperma. Diciottenne e ansiosa di imparare, si era posizionata tra le gambe del suo accompagnatore al ballo di fine anno e, semplicemente, aveva deciso di cominciare a leccare. Era preparata, quando alla fine aveva avviluppato il pene tra le labbra. C'era stata l'umiliazione di lui che le diceva di andarci piano con i denti. Ma al gusto salato, alla regione umida tra le cosce, al frenetico sussultare di piacere che aveva accompagnato l'eiaculazione e all'assoluta mancanza di godimento da parte sua, no, non era preparata affatto. L'emozione dominante era stata il sollievo, quando aveva riscontrato di non poter rimanere incinta via esofago. Quindi, la sua prima esperienza sessuale era stata un'esperienza di piacere nella sterilità. E, se il piacere non poteva venire in nessun altro modo, allora il piacere nel sollievo perpetuo della non procreazione le andava benissimo. Ora, la procreazione era la meta, e il piacere era secondario. Chi avrebbe potuto prevedere una vita sessuale tanto anormale per una ragazza così normale, pensava? O si trattava forse dell'essenza stessa della norma, la triste conferma di una società sterile, come Paul amava sottolineare?
Spesso, la notte, piangeva nello studio. Ma per quale motivo piangesse non lo sapeva. Aveva letto da qualche parte che gli scoppi di pianto improvvisi sono i segnali della depressione clinica. Ciò nonostante, la meraviglia di quelle lacrime senza scopo la ispirava. Era come se la sua vita fosse così cronicamente importante che qualcosa, alla fine, doveva cedere; qualche satellite in quella cosmologia di infelicità prima o poi sarebbe imploso, regalando la sua polverosa salvezza laggiù, al suo pianeta. E poi c'era Paul. Con i suoi occhi iniettati di sangue e la sua umiliazione e le sue patetiche scuse e il suo triste, tristissimo atteggiamento negli studi dei medici, Paul era fin troppo suo marito. Ma, dal momento che Caitlin lo conosceva poco e sperava che stesse meglio, sentiva il disperato bisogno di qualcos'altro. « Inizieremo così. Vi farò avere una lista di profili di anonimi donatori di sperma. Precisa in ogni minimo dettaglio. Banalità come, per esempio, il peso e l'altezza, il numero di scarpa. Ma anche informazioni importanti, come il background religioso, lo stato socioeconomico, l'istruzione, la salute ecc. E voi sceglierete. Ma fate attenzione! State scegliendo il vostro bambino. Noi effettueremo un controllo incrociato sui campioni che, secondo i nostri calcoli, si combinano perfettamente con le varie permutazioni del materiale genetico contenuto nell'ovulo della signora Bourke. Quindi, non dovrete preoccuparvi di questo aspetto. Naturalmente, si tratta di un procedimento altamente tecnologico. Una cosa che non potreste comunque realizzare da soli. « Una volta che avrete i profili, magari trenta o quaranta in tutto, ci informerete della vostra scelta, e prenderemo l'appuntamento per l'inseminazione, che in realtà è un processo molto semplice. Dovrete firmare diversi moduli legali e, a quel punto, osserveremo il fantastico avvenimento di un bambino a cui viene dato inizio. Naturalmente, terremo sotto controllo la gestazione in ogni suo aspetto. Eseguiremo degli esami tradizionali come l'amniocentesi e gli ultrasuoni. Infine, condurremo i nostri esami più selettivi per determinare con maggior precisione la salute del bambino. Se c'è un qualsiasi problema, lo scopriremo entro il primo trimestre. Se questo fosse il caso, l'eventuale decisione di un aborto, naturalmente, sarà soltanto vostra. Nei sei anni di attività di questa procedura, abbiamo avuto successi meravigliosi, in gran parte dovuti al fatto che il patrimonio genetico che abbiamo a disposizione viene controllato accuratamente fin dalle prime fasi. Affrontiamo grandi sforzi e spese enormi per reclutare sperma superbo quanto a qualità. « Avete qualche domanda? » Caitlin accavallò le gambe e si sfiorò una guancia con un dito. «Dottor Dotterweich, il cliente incontra mai il donatore? » Paul sembrava assonnato, esausto. Accavallò le gambe di concerto con sua moglie. Dotterweich fissava le colline fuori dalla finestra. Il cartello d'ingresso era parzialmente oscurato, ma le lettere erano ancora leggibili: ISTITUTO DI INSEMINOLOGIA in grossi caratteri neri. Una coltre grigiastra di neve vecchia aveva un'aria minacciosa e provocava pensieri preoccupanti per il viaggio di ritorno a casa. La notte minacciava di calare all'improvviso, e gli alberi ondeggiavano, sospinti da una raffica di vento che giungeva accompagnata da un gemito
sommesso. « Signora Bourke, se io dovessi prelevare i suoi ovuli uno alla volta e distribuirne centinaia alla popolazione per un progetto di procreazione controllata, lei vorrebbe forse che i riceventi, tutti, la incontrassero? » Caitlin ci pensò su. Si mise anch'ella a guardare fuori dalla finestra. Non c'era nulla di cui poter parlare. Soltanto la capricciosa atmosfera di un inverno del Connecticut e il profilo di Dotterweich, così sicuro di sé. «Non lo so.» « Ebbene, noi lo sappiamo, signora Bourke. Non vorrebbe, se lo lasci dire. E loro non vogliono. La vita deve emergere per conto proprio, senza le tradizionali, esagerate preoccupazioni di fedeltà biologica. Non conoscerete mai il donatore. Ed è molto meglio così. Perché Paul sarà il padre. Lui e nessun altro. E voi sarete una famiglia. Non ci sarà nessun altro a minacciare questa felice dinamica delle cose. » Tra le raffiche di vento si udì nuovamente un lieve sussurro. Caitlin ascoltò attentamente, ma il vento non le parlò. 6 Mezzo morto, sanguinante, l'uomo supplicava di essere risparmiato. Crapshoot ci pensò su. Un altro sparo sarebbe stato rischioso e il tempo stava scivolando via insieme allo sporco nei canaletti di scolo di Morone Street. Un minuto e mezzo al massimo per raggiungere il garage. Da quella distanza, un colpo alla testa avrebbe creato un bel po' di casino. Ma no, la strada. Non sarebbe rimasta vuota ancora a lungo. E qualcuno l'avrebbe visto. Crapshoot premette il grilletto. Un riflesso convulsivo, un sanguinare orribile, una condiscendenza verso la vita. Gli dedicò soltanto il pensiero di un secondo. Non di più. Era una Volvo, ma il modello più bello. Interni in pelle, autoradio, ottima accelerazione. Da Macroy, Crapshoot aprì il vano portaoggetti mentre i ragazzi verniciavano la macchina e si occupavano delle targhe. Una bambolina cadde dallo sportello. Una cosina simile a uno gnomo, brutta, con capelli arancio. Quindi era davvero un padre di famiglia quello che lo implorava inginocchiato sull'asfalto, con le braccia distese in una disperata invocazione. Be', i piccoli avrebbero dovuto crescere da soli. Era la legge della giungla. Crapshoot la condivideva appieno. Quanto erano comunque ridicole tutte quelle coccole che minavano la vera forza di un bambino: scuole private, indulgenza dei genitori, regali in ogni festività maggiore; Nike ultimo modello a dieci anni, corso intensivo di tennis in Florida a undici, sul divanetto dello strizzacervelli a dodici. La progressione era quella. Indeboliva, era avvilente. Crapshoot la disprezzava. La semplice idea della vita famigliare in quella cultura. Gli dava la nausea. Era tentato di avere un bambino soltanto per poterlo guidare, soltanto per potergli insegnare le vere cose del mondo, soltanto per guadagnare controllo su di lui, su qualcosa. Ma, per quello, avrebbe avuto bisogno di una madre. Perché no? Una madre da controllare allo stesso modo... una madre da controllare attraverso il bambino. Gli tornò in mente l'inserzione per donatori di sperma che teneva ripiegata nel portafogli.
E quella sensazione tornò dentro di lui, ma Crapshoot scoppiò a ridere e passò per errore con il rosso all'ultimo semaforo prima della Merritt Parkway. Una pattuglia della polizia gli si accodò e mise in funzione il lampeggiante nello specchietto retrovisore. Crapshoot fischiò. Bellissimo, fantastico. Per lui, quella era la decisione da prendere: era possibile che il furto della macchina non fosse stato ancora denunciato: quindi, accostare. Oppure seminare lo sbirro. Le targhe erano state cambiate e lui aveva i nuovi documenti di registrazione, ma il poliziotto l'avrebbe riconosciuto. Che accidenti di casino, disse a se stesso, ricordandosi della frase che sua nonna avrebbe pronunciato in un'occasione simile. Accostò appena a destra del viadotto, si aggiustò il colletto della camicia e sistemò il garofano all'occhiello. Se non ti è possibile fare il bravo, almeno sembralo. Era abbastanza in ordine. Uno sbirro, da solo, nell'auto-pattuglia. Crapshoot aspettò che lo sbirro abbassasse lo sguardo e cominciasse a inserire il numero di targa nel computer. Contò fino a tre. Poi inserì la retromarcia. L'impatto fu violento. Balzò giù dal lato del passeggero e corse sul viadotto fino in fondo, sul limitare del vecchio bacino idrico. Lì conosceva gli alberi e la topografia della città di baracche che, con il buio, si costellava di falò improvvisati. Faceva freddo. I polmoni gli dolevano per lo sforzo. Ma era libero. E la notte era il momento migliore. Si poteva essere veramente liberi soltanto di notte. Liberi dalla luce del sole, liberi dal brusio e dalla confusione del giorno. Liberi dalla sorveglianza della polizia. Entrò in una piccola macchia di cespugli che gli avrebbe fornito ampio riparo. Sul terreno c'erano dei preservativi usati e qualche scheggia di vetro, lattine di birra vuote e siringhe ipodermiche. Crapshoot rimase in osservazione per spiare l'arrivo dello sbirro. Niente. Probabilmente si stava ancora aggiustando il collo dopo la collisione. Scivolò silenziosamente lungo l'argine del bacino idrico fino a giungere agli ampi scalini che scendevano verso il Can-non Park. Una volta lì, salutò con un cenno gli spacciatori e tornò in Morone Street in tempo per vedere l'ambulanza e le macchine della polizia riunite in cerchio per portare via il padre di famiglia morto. Combinare un pasticcio simile. Forse stava perdendo il tocco. Abbassò gli occhi e si guardò le mani. Non tremavano, ma aveva le gambe stanche e gli girava la testa. Forse stava davvero perdendo il tocco. O il tempismo. Si avvicinò alla piccola folla che si era formata intorno all'ambulanza. L'Agente Tenley era lì. Crapshoot lo salutò allegramente. « Stai all'occhio, Billy. Non sono dell'umore. C'è stato un altro furto d'auto, qui. » « Mi rendo conto. Ho visto il sangue e le tracce dei pneumatici. » « Gesù, Billy, saresti un buon detective, lo sai? Ora vedi di sparire da qualche parte. » « Dimmi una cosa. » « Che vuoi sapere? » « Chi era? » « Non lo so. Un tipo di mezza età. » « Padre di famiglia? »
« Probabilmente. Perché? » « Oh, è una cosa triste, tutto qui. I bambini hanno bisogno dei genitori, non sei d'accordo? » L'agente Tenley non gli rispose. Arrivò la chiamata per la macchina, recuperata sulla Bigelow. Il guidatore era scomparso, nei boschi. Non c'era una sua descrizione. Sì, i bambini hanno bisogno dei genitori. Era una scena molto triste. Ma serviva ad allevare esseri umani più forti. Nessuna indulgenza, a Northport. Non c'era tempo per queste cose. Era il più audace dei nuovi mondi. Crapshoot si allontanò, dirigendosi verso il Dunkiri Donuts. Se quella doveva essere una giornata da mille dollari, avrebbe fatto meglio a darsi da fare. 7 Nello spazio oblungo della sua camera da letto, Caitlin decise di masturbarsi. Il letto era sfatto. Le lenzuola fresche, aggrovigliate. Caitlin cominciò con una canzone. Era qualcosa che canticchiò tra sé, un'ispirazione erotica. L'atto di svestirsi doveva essere cerimonioso, e le luci soffuse. Era giorno, ma Caitlin abbassò le tapparelle. Una volta aveva adoperato uno specchio, ma si era sentita troppo imbarazzata per guardarsi. A parte questo, la sua immaginazione, una proiezione di fascino senza pari, le forniva tutto l'abbandono di cui necessitava. Non c'era alcun bisogno di stimoli visivi. Si strofinò il cotone della maglietta contro i capezzoli per indurirli. I suoi seni erano piccoli, compatti, posizionati tradizionalmente, seconda misura. Da ragazzina, aveva tentato di farseli crescere con ardenti pensieri di germinazione. Senza speranza, li aveva osservati rimanere com'erano. Ora era orgogliosa della loro briosa lealtà. Possedeva un catalogo di fantasie. Attese che una di esse scendesse su di lei. Faceva tutto parte del cerimoniale, dei passi elaborati senza i quali non vi sarebbe stato orgasmo. Apparve: il sorprendente astratto di un uomo senza volto. Lui appoggiò la mano sul suo seno, nel punto in cui, pochi istanti prima, lei si era toccata. Lo shock del suo tocco le fece roteare gli occhi all'indietro. Lui la accarezzò, la svestì. Più e più volte. Poi, selvaggio nel suo proposito, eccolo dietro di lei a penetrarla. Caitlin divenne insensibile. Nella sua fantasia, cambiò il disegno della scena. Ora era la principessa delle Amazzoni, formalmente camuffata come prevedeva la sua missione, in succinti abiti da giungla. Il suo costume, ora lacerato e posato accanto a lei, evidenziava la devastazione che si conduceva da sé in una brama lenta e monotona. Più in alto, in superficie, veniva violentata e abusata. Ma per come si sentiva lei, in quel luogo ove risiedevano le sue fantasie e la sua conoscenza, lei era la principessa delle Amazzoni. La sua missione, come le era stato spiegato in quella notte senza luna che era venuta prima di tutte le altre notti senza luna, la conduceva al recupero degli spermatozoi, il più vibrante materiale genetico esistente, dal ricettacolo del più forte dei capoclan. Avrebbe riportato quell'impronta cromosomica alla tribù delle
Amazzoni e sarebbe stata salutata come un'eroina. Quella era la sua missione. L'insensibilità scomparve. Il momento dei momenti era su di lei. Annaspò di piacere. Nella stanza buia, il suo battito cardiaco la accompagnò. L'orologio digitale segnava le quattro e ventiquattro. Paul sarebbe tornato a casa di lì a poco. Caitlin si dedicò a rifare il letto. Un letto ben fatto e ordinato era importante, per Paul. 8 In quello, il giorno più corto dell'anno, Billy Crapshoot sentiva il freddo, persino nel suo taxi, persino mentre si masturbava. Quando l'alba e il tramonto sono così vicini da poter essere cuciti assieme con un punto croce, le cose sembrano squallide. I soldi erano pochi. Non c'erano in giro buone macchine. Troppi sbirri di pattuglia. Morone Street veniva tenuta d'occhio. La McKellan anche. E allora che altro c'era da fare? Crapshoot aveva preso i fazzoletti di carta dal cruscotto, aveva tirato fuori la rivista pornografica dal vano portaoggetti, aveva voltato le pagine fino alla sua fotografia preferita e si era fatto una sega. Una bionda formosa stava frustando un omino dall'aria intellettuale completamente nudo, a parte un paio di boxer e una cravatta. Crapshoot eiaculò nel giro di un minuto, e lo sperma colpì il cruscotto. Gli venne in mente che da qualche parte lì intorno poteva venire pagato per quel piccolo, triste rituale. A cinquanta dollari a botta, sarebbe stato felice di fare il lavoro. Ma ci aveva pensato e ripensato, e i cinquanta dollari sembravano essere la cosa meno importante. Donare un po' della sua prossima generazione per il bene comune. E poi... be'... poi rendere quel bene un po' meno comune e un po' più suo. Un piano vago cominciava a formarsi dentro la sua testa. Parcheggiò la macchina e andò a farsi un giro. Al semaforo, Sedge era al solito posto. Sedge era un tossico. Crapshoot gli diede un dollaro. Com'era diversa l'economia di quella gente al di fuori del crack e dentro il crack. Senza il cristallo, un dollaro poteva durare un giorno intero. Ma, per qualcuno sotto l'influenza della droga, i dollari avevano significato soltanto in relazione alla loro presenza. Era quello il trucco della dipendenza: faceva sì che i dollari non avessero un'anima a sé stante: niente storia, niente potere. Il valore dei soldi non aveva significato a Northport, dove l'unico scopo di qualsiasi investimento era quello di far trascorrere l'ora seguente. Crapshoot decise di andare a Stamford per cercare un cliente alla stazione ferroviaria. Quando l'atmosfera era troppo tranquilla e non c'erano soldi in giro, l'unica cosa da fare era andarsene a Stamford e raccattare una corsa dalla stazione a una delle grandi case dei sobborghi. Crapshoot si godeva il tragitto per la sua novità e per il panorama. Le belle case dei sobborghi e i sogni facevano bene all'anima, pensava Crapshoot. Era il primo ad ammettere il suo amore per quella parte del paesaggio americano. Gli piaceva guidare lentamente lungo le strade classicamente silenziose, oltrepassando gli alberi secolari, i lotti edificabili ben suddivisi. Era meglio in estate, quando le nude ossa della prosperità erano sfacciatamente visibili. Avrebbe ammirato un boschetto
qui, una veranda schermata là. Rispettava la quieta, solida ricchezza. Sicuro del fatto che le proprie abilità fossero la sua miniera d'oro, Crapshoot non era invidioso del successo altrui. Lo accoglieva come parte integrante della propria stessa ribollente economia. Ogni automobile in ogni vialetto era un pezzo potenziale dei suoi futuri possedimenti. Le banconote tappezzavano le strade. Chi avrebbe potuto dire che quella roba non fosse sua? Mentre guidava, non si curava affatto dei drammi umani che si svolgevano regolarmente là fuori. Ciò che bramava erano scorci di materialità. Non soltanto automobili: barche sui rimorchi, in posa per le breve odissee che le avrebbero portate sulla costa alla fine dell'autostrada; griglie da barbecue scintillanti e lucide, pronte per il rituale del Quattro Luglio; piscine elegantemente curate, dotate di ogni comfort; finestroni panoramici che fornivano viste delle tappezzerie interne e delle credenze; zerbini di benvenuto così accoglienti nella loro ordinarietà; tricicli fiammanti per una nuova generazione di ricchi; occasionali campi da tennis, impressionanti nel loro abbandono, in sontuosa attesa di qualcuno che vi giocasse. Sì, a Crapshoot piaceva quel mondo. Moltissimo. Non era insolito, per lui, stimare il valore delle proprietà mentre guidava, come un esattore delle tasse iper-zelante ossessionato dalla propria missione. Oppure, agente immobiliare reietto e fraudolento, calcolava le proprie lussuose provvigioni. A volte, in qualità di acquirente professionista, bussava a porte, poneva domande, visitava i terreni, richiedeva sconti e rateizzazioni e poi se ne andava. A Crapshoot piaceva ogni ruolo che consentisse l'accesso, la proprietà, una confortevole sensazione di trovarsi a casa. Entrò con il taxi nel parcheggio della stazione ferroviaria. Un uomo in soprabito con una cartella di pelle marrone gli fece cenno di fermarsi. Era chino contro il vento e i mulinelli. « Dove andiamo? » Crapshoot guardò il cliente nello specchietto retrovisore e si sistemò il garofano per metterlo in bella vista. Il cliente era più vecchio di lui, con gli occhiali appannati dal freddo. « 116 South Kenney.» « Non è un giorno da spiaggia, questo è poco ma sicuro. » Il cliente si tolse gli occhiali e si strofinò le mani per scaldarsi. « No. Non lo è proprio. » « Però io mi procuro fiori freschi in ogni stagione. Ha visto? » Il cliente annuì. «Io sono sempre in attività.» « E un bel modo di vedere le cose. Io ho sempre tentato di sentirmi così. Temo che il mio atteggiamento sia più passivo: ho la tendenza a cadere quando è tempo di cadere e poi di ricrescere quando la natura mi fornisce irrigazione abbondante. Ma, in realtà, di questi tempi le irrigazioni abbondanti sembrano arrivare sempre più tardi. Il medico dice che è tutto dovuto al fatto che ho il cuore debole, ma io so che è a causa di un'anima debole, un'anima dissolta dalla mancanza di disciplina. » Stavano svoltando nella South Kenney. Crapshoot rallentò e guardò nello specchietto. Bene, probabilmente il taschino della giacca. Difficile. Però è un bel tipo. Non c'è bisogno di spaccare teste. Gentilmente, gentilmente. « Che cosa fa per vivere? » domandò Crapshoot. « Sono un poeta. Un poeta decente. E lei? » «Be', ha due possibilità per indovinare. Può diventare ricco. » Crapshoot guardò il
poeta negli occhi nello specchietto. « Lei gioca d'azzardo? » Il poeta sorrise. « Ma certo. Per me, vincere va bene, perdere è okay. Non essere nel gioco: ecco, questa è l'unica cosa brutta. Credo che si possa dire che ciò fa di me un giocatore d'azzardo. » « Bene, allora. Metta i soldi dov'è la sua bocca. » Crapshoot lanciò un'occhiata allo specchietto retrovisore. Il poeta si toccò la tasca posteriore dei pantaloni con delicatezza, d'istinto. « Tengo i soldi vicino alla loro fonte di ispirazione. Quindi, molto bene, signore, qual è la sua missione nella vita? » Benissimo, benissimo. Tasca posteriore. Possiamo farlo alla maniera facile. « Provi a indovinare. Metta al lavoro quel cervello da poeta, che ne dice? » « Be', l'istinto di un detective direbbe che lei fa il tassista, amico mio. L'assurdità di un poeta, d'altro canto, potrebbe attribuirle qualsiasi occupazione. » « Lei è molto furbo, signor Poeta. Questo glielo concedo. Dove prende le idee per le sue poesie, comunque? » « Dicono che gli scrittori dovrebbero scrivere basandosi sull'esperienza. Io credo che le idee si limitino a passare, come lei e il suo taxi, per esempio. Ma l'esperienza è sicuramente il catalizzatore: come, in questo caso, alzare la mia mano per fermarla davanti alla stazione. Voglio dire, se non l'avessi fermata, lei non avrebbe accostato per farmi salire, no? Una cosa non può accadere senza l'altra. » « Rimarrebbe sorpreso nel sapere ciò che accade qua fuori. » « Sono sicuro di no. Ho visto tutto. O, almeno, la maggior parte di tutto. Mi chiamo Cornelius, Conan J. Cornelius. E lei, signor Tassista? » « Billy. » I mulinelli di vento e pioggia si erano fermati. Crapshoot spense il tergicristallo. « Lei è di Stamford? » « Oh, no. In realtà, sono un topo di città. Ma mi fermo qui per qualche giorno. Lo faccio, in inverno. Sa, un nevoso finesettimana nel Connecticut. Che cosa potrebbe essere meglio per l'anima? Il mio unico problema è che non guido. E ciò mi ha sempre reso molto difficile vivere in campagna. » « Ha figli? » « No. Ho le mie poesie. Mi creda, sono come bambini: malaccorte, immature, ribelli, sfacciate, troppo acute, irriverenti, e la mia più grande passione. » « Lei sembrerebbe una Bilancia. » « Davvero? » « Certo. Tutto onesto e formale. » « Davvero? » «Lasci che le faccia una domanda. Bisogna essere un uomo speciale per scrivere poesie? O è soltanto un caso? » chiese Crapshoot, accostando il taxi al 116 di South Kenney, una casa gialla in stile coloniale, piccola e di poche pretese rispetto ai canoni di Stamford. «È come ho sempre detto: ogni uomo è un poeta. Non devi fare altro che mettergli in mano una penna. Ma non bisogna dimenticarsi, prima, di portargli via ogni possibilità di una vita normale. » « Grazie davvero, signor Cornelius. »
Osservò il poeta riporre il portafogli nella tasca posteriore. Molto bene. Poi lasciò la macchina in marcia e saltò fuori per aprirgli la portiera. Cornelius guardò incuriosito il garofano e il completo impeccabile di Crapshoot, poi si chinò per recuperare la sua cartella di pelle. lo sono sempre in attività. Crapshoot spostò lentamente la macchina e osservò la portiera urtare delicatamente il cliente alla vita. L'aveva già fatto molte volte, prima: una rapida mano per sorreggere il cliente barcollante. «Cristo, mi dispiace. Non ho messo in folle. » « Oh, va bene, sono a posto. » Il cliente si raddrizzò sul marciapiede gelato. Crapshoot allungò una mano per aiutarlo. « Sono sopravvissuto a più di un inverno. Sono un tipo forte. Ceppo irlandese. » «Faccia attenzione», lo ammonì Crapshoot con uno sbuffo di condensa che gli usciva dalle labbra. «È il giorno più corto dell'anno. » «Accadono così tante cose nel giorno più corto dell'anno. E così poche in quello più lungo. Non crede anche lei? » Sulla via del ritorno, Crapshoot guardò le case oltre i finestrini. Era così tranquilla, quella zona, specialmente nelle giornate d'inverno. Rallentò per un bambino che attraversava la strada trainando una slitta. La slitta era rosso brillante, moderna, aerodinamicamente perfetta. Andare sulla slitta era pericoloso, pensò Crapshoot. Quel bambino avrebbe dovuto avere un casco. Sintonizzò la radio sulla stazione che trasmetteva vecchi successi e tambureggiò con le dita sul volante al ritmo della musica. Al semaforo rosso, prese un vecchio portafogli consunto dal taschino della giacca e fece scorrere l'indice sulla piega centrale. Una banconota da cinque. Niente. Un'altra banconota da cinque. Una patente di guida. Pezzetti di carta. Un poeta, che io sia dannato. Avrei dovuto saperlo. Dieci dollari per il suo nome. Tutto molto triste. Crapshoot lesse il nome a voce alta leggendolo sulla patente di guida: Conan J. Cornelius, 145 Blecker Street #6, New York, NY. Buttò via il portafogli e tenne le banconote e la patente. Che io sia dannato. Poeta morto di fame. Dieci dollari per il suo nome. Nemmeno una carta di credito. Tutto molto triste. Il bastardo si sbaglia: nel giorno più corto dell'anno, non succede niente. Ecco che cosa ne ricavi per aver tentato di essere gentile. Avrei dovuto seccarlo. 9 « Il sesso è costoso. Nel reame di ogni specie, il sesso ha un costo. Nella differenziazione dei due organi genitali, c'è un prezzo da pagare: all'energia, alla complessità, alle proteine. » Dotterweich allargò le braccia per enfatizzare le vie spendaccione della natura. «Le specie asessuate se la cavano molto meglio, in via generale. Il nostro interesse è rendere l'uomo asessuato, e la donna anche. Privi di sesso. Con una semplice provetta vi inseminiamo. Quanto è più efficiente! Il maschio può occuparsi di altri doveri biologici, prepararsi al nutrimento e all'approvvigionamento, mentre la femmina può concentrarsi sulla gestazione. Se Dio
fosse stato più visionario, anch'egli avrebbe disposto così. » Caitlin si sentiva più a proprio agio lì senza Paul. Ciò nonostante, l'evangelismo biologico di Dotterweich era stancante. Il suo unico scopo era di rimanere incinta. Ma i profili che Dotterweich aveva fornito erano tutt'altro che entusiasmanti. Non se ne faceva niente, lei, della sua scuderia di PhD di Yale o di ricchi professionisti. Inizialmente, uno dei profili l'aveva affascinata: un neurochirurgo che suonava il pianoforte aveva donato il proprio sperma per il semplice desiderio di trasmettere ad altri la pura perfezione genetica. L'arroganza di quell'ambizione l'aveva impressionata e disgustata al tempo stesso. Un medico brillante, un virtuoso del pianoforte; e suo figlio, o sua figlia, progenie di questo. L'arroganza in un bambino, però: poteva essere un male, alle feste di compleanno. L'idea di scegliere un bambino la intrigava non poco. Caitlin aveva già scelto un marito senza curarsi della procreazione di figli, e ora stava pagando per questo suo errore evolutivo. Ma poter scegliere ora, quando la scelta sarebbe stata del tutto priva di romanticismo - una scelta puramente biologica - era terrificante. Dotterweich guardò Caitlin e capì che cosa stava pensando. L'aveva già visto accadere. Come giovane donna, c'erano molte ragioni possibili per quella definitiva scelta di sposarsi: una passeggiata sulla spiaggia, amici, una carriera condivisa, una carriera ardentemente personale; o magari una dote priva di difetti, una strizzatina d'occhio cospiratoria, un fiore rosa; o, meglio ancora, poesie a mezzanotte, baci all'alba, un amore per Chopin, un odio per il giorno del Ringraziamento; e poi, amore meraviglioso, un terribile disprezzo per se stessa, sesso grandioso oppure, ancora, la bravura in cucina. I motivi per sposarsi erano numerosi quanto quelli per non farlo. Alla fine, tutti noi ci sposiamo per qualche altra ragione, non per quella che pensiamo. Come spettatori troppo ansiosi di fronte al trucco di un prestigiatore, i nostri pensieri seguono una falsa pista, l'ingannevole direzione, il falso bersaglio, il diversivo. Nel frattempo, i nostri sentimenti trovano la loro strada, pensava tristemente Dotterweich. Nella luce soffusa dello studio, Caitlin esaminava attentamente i profili che Dotterweich le aveva dato. Ognuno di essi comprendeva le caratteristiche fisiche, l'età del donatore, una breve storia medica, la professione e le ragioni per cui aveva donato il proprio sperma. Evidentemente assenti in ogni profilo erano quegli indicatori che avrebbero potuto fornire qualcosa di più di uno stereotipo: nome, indirizzo, preferenze, antipatie, passioni. Senza di questi, Caitlin si sentiva troppo lontana da quei futuri padri di suo figlio. L'anonimato, nel sesso, non l'aveva mai preoccupata più di tanto. Ma l'anonimato nella paternità: grevi dubbi cominciavano a tormentarla. L'anonimato della cosa era proprio ciò che la rendeva possibile, Caitlin se ne rendeva conto. Ma la consapevolezza di conoscere il padre soltanto sotto l'aspetto medico era un po' come conoscere se stessa sulla base della misura del suo ardore. Quindi, poteva essere un neurochirurgo episcopale della Johns Hopkins University con la passione del golf o, con altrettanta facilità, un manager italiano della IBM con una laurea in economia e una decisa tendenza all'ateismo. In un modo o nell'altro, il bambino o la bambina che fossero usciti dal suo utero l'avrebbero amata e
vezzeggiata. Quello era il punto. Ma, quando pensava al padre, pensava a qualcosa di più. Magari qualcuno senza una professione. Qualcuno che, semplicemente, era. Qualcuno che non si infilava un'uniforme e andava al lavoro come chiunque altro. In qualche modo, quando le professioni e le università e le scuole di medicina e i diplomi erano elencati lì, sulla carta, Caitlin perdeva ogni interesse. In quel momento, la persona in questione si trasformava in un pubblicitario o in un avvocato o in un mediatore e, improvvisamente, diveniva meno interessante. Dopo aver letto il loro profilo, Caitlin tentava di immaginare come sarebbe stato il primo appuntamento con ognuno di loro. C'era il ragioniere ebreo con un' anamnesi di colite cronica e il master in pedagogia che descriveva coscienziosamente il suo desiderio di aiutare qualcuno ad avere un bambino. Caitlin immaginò i tulipani vagamente appassiti che le avrebbe portato, il suo atteggiamento nervoso e i suoi tic, le sue scelte umili dal menu che evitavano studiatamente i cibi piccanti. L'immigrato russo con la laurea in fisica e la gotta occasionale l'avrebbe corteggiata con intelligenza incandescente e un disgusto arrogante per la sua naiveté americana. Poi l'attore, un uomo giovane con nessuna complicazione medica conosciuta e un diploma di Bennington, l'avrebbe portata fuori a mangiare costolette e poi nel suo piccolo appartamento-studio. Il docente di materie umanistiche con un sovraccarico di lauree e diplomi, un'allergia alla penicillina e un prolasso della valvola mitralica l'avrebbe chiamata due volte prima di trovare il coraggio di chiederle di uscire. E alla fine, con un drink in corpo e nient'altro da perdere, le avrebbe suggerito una scappata a New York per assistere a uno spettacolo off-Broadway e un whisky al Gramercy Park Hotel. Forse era sposato. Ma non aveva importanza. Potevano sempre prendere una stanza. Tutti quegli uomini erano padri possibili, con la loro serica, liquida potenzialità ingabbiata nelle fiale dell'Istituto di Inseminologia. Aveva pensato anche all'adozione. In quel modo, avrebbe potuto esaminare ogni cosa in anticipo: esaminare le piccole dita, le cartelle mediche, e poi andarsene con il bambino. Ma così i casi erano due: o ti prendevi un neonato dipendente dal crack, oppure pagavi per il privilegio di non prendertelo. E poi - poi - non ci sarebbe stato nulla di Caitlin Bourke, nulla della sua impronta genetica unica. Dotterweich parlò: « Alcune donne hanno la sensazione di non essere qualificate per compiere una scelta di questo genere, e che soltanto Dio lo sia. Ma lei è qualificata quanto Dio per prenderla, mi creda. Dio, in tutta la sua saggezza, non ha ritenuto opportuno di dare a lei e Paul l'opportunità di una nascita naturale. Di conseguenza, deve essere lei a rivendicare la responsabilità. Lei sceglierà qui il padre, e sceglierà un nuovo inizio. In ciò troverà redenzione, troverà un'opportunità di essere parte dell'invenzione biologica. Lei farà la sua scelta. « L'amore è universale. E lo sono anche i bambini. E lo è anche la maternità, e la paternità. Ciò che non è universale sono le combinazioni di queste cose. Vi sono altrettanti modi per dare la vita di quante sono le posizioni dell'amplesso. In sostanza, l'animo dotato di immaginazione possiede possibilità illimitate. E sarà lei a disegnare e a progettare questo spazio infinito. E io la aiuterò. Paul non può essere parte di
questo processo quanto vorrebbe. Ha fallito nel suo compito di fornirle una progenie. Prova vergogna. Io e lei comprendiamo questa vergogna. La capiamo. È orribile e profonda. Eppure, la scienza, l'illuminismo, l'ingenuità. Sono loro a subentrare quando l'umanità fallisce. E noi siamo parte di questo. » Caitlin ascoltava. Loro erano parte di questo, parte del grande mistero biologico che poteva ricavare la vita da un cucchiaino di liquido perlaceo e biancastro. Ciò nonostante, il mistero era spaventoso, la conclusione screziata di suspense. Un uomo, e poi un bambino, o una bambina. Pensa a ciò che può accadere, le disse una voce mentre usciva dallo studio di Dotterweich e scivolava dietro il volante della sua Range Rover. Pensa a ciò che può accadere. 10 Pareti bianche e spoglie possono rendere nervoso chiunque. Prendete per esempio un obitorio o un manicomio; prendete un ospedale, o una prigione. O una banca dello sperma. Billy Crapshoot si aggiustò la cravatta e il garofano e percorse il corridoio bianco. Un piccolo cartello nero gli indicò la strada verso la REGISTRAZIONE. Lo seguì. Tentò di calmarsi. Fantastico, meraviglioso. Qui dentro fanno bambini. Al banco c'era un uomo di bassa statura con il pizzetto e un farfallino. « Donazione? » Crapshoot annuì. «La prego, si accomodi laggiù.» L'ometto indicò un punto alla sua sinistra. Crapshoot si sedette sul soffice divano di pelle nella zona della reception. C'erano fotografie alle pareti, ognuna un'istantanea a colori venti per trenta di una famiglia allegra e felice. Alcune famiglie erano in vacanza, altre a casa. Ognuna di esse era la tipica famiglia nucleare: un marito, una moglie, un bambino, una bambina, a volte due. Tutti sorridevano e irradiavano salute e prosperità. Crapshoot non riusciva a trovare l'ispirazione per una famiglia propria nemmeno nei loro volti soddisfatti e gioiosi. Ma la sua eccitazione crebbe al pensiero di essere padre di un bambino. In modo anonimo. Ciò che davvero lo eccitava era il pensiero della povera madre, lasciata in balia delle proprie stesse domande e delle proprie tristi idee su chi lui fosse. Mentre lui la prendeva all'amo, lentamente, lentamente, con le sue storie, la sua identità presa a prestito. Se soltanto fossero riusciti a comprenderlo, gli uomini della strada l'avrebbero amato per questo! Era la truffa definitiva. Rimase seduto ad aspettare. Sfiorando il suo garofano, tentò di calmare il proprio battito cardiaco. L'ometto si alzò e fece un paio di passi verso di lui. «Un consulente per la donazione la raggiungerà al più presto. Posso portarle qualcosa mentre aspetta? » « Un bicchiere d'acqua sarebbe perfetto. » L'ometto gli indicò blandamente il contenitore di plastica trasparente. Crapshoot si servì da solo. Qualche minuto più tardi, una giovane signora uscì da una piccola porta in fondo al corridoio e lo chiamò. « Da questa parte, prego. » Nell'ufficio della donna c'erano altre fotografie di famiglie felici. In ogni sorriso c'era una sorta di menzogna, rifletté Crapshoot. Forse una menzogna sull'incesto, o
sulla tossicodipendenza, o sulla malattia. Spostò lo sguardo dalle fotografie alla donna, poi nuovamente alle fotografie. La donna sembrava troppo giovane per avere una famiglia sua. I suoi capelli ramati erano tagliati molto corti. Di tanto in tanto sorrideva, un sorriso lieve e dolce, appena accennato, che le corrugava gli angoli degli occhi. «Io sono Beth Sorensen. La prego, si metta comodo.» « Ha una famiglia sua? » Crapshoot si sedette. «No, in realtà no. Un giorno o l'altro.» La donna sorrise. « Lasci che le spieghi qual è la nostra politica prima che raccolga le informazioni necessarie sul suo conto. » Crapshoot accavallò educatamente le gambe e osservò lo sguardo di lei seguire la sua mano fino al garofano. Si aggiustò il fiore all'occhiello con delicatezza prima di sorridere amabilmente. « Bene. » Ancora quel sorriso. «Bene... quindi, noi siamo selettivi. E la nostra selettività richiede qualche passo di base, come per esempio farle un prelievo di sangue per stabilire eventuali rischi riguardanti la salute, un questionario personale, un controllo del suo background, varie visite e cose simili. È d'accordo? » « Oh, sì. » Crapshoot guardò la fotografia direttamente sopra la testa della donna. Un padre stava mostrando a suo figlio come pescare con la mosca. Il sole batteva sulle loro spalle. Il fiume scorreva tra le loro gambe. Sia il padre che il figlio avevano appena gettato la lenza. Era una scena tranquilla. Crapshoot giocherellò nuovamente con il garofano. « Che genere di cose controllate? » « Le cose più ovvie, più banali. Come, per esempio, se lei è conosciuto come drogato, se ha precedenti penali eccetera. Nulla che potrebbe sorprenderla, le assicuro. È solo che ci piace essere sicuri. » Crapshoot indicò la fotografìa. «Vede, quei ragazzi lì sulla parete. Non potrebbero avere dei precedenti penali. Si può capirlo soltanto guardandoli. Sono felici, una famiglia felice. » Rise. Beth Sorensen non si prese la briga di voltarsi. « Il nostro campo è proprio quello di creare famiglie felici. Quella è una delle tante di cui ci assumiamo il merito. Ora, se vuole dirmi il suo nome. » Estrasse un modulo bianco dal cassetto e prese una penna da una tazza sul ripiano della scrivania. « Il nome? » « Sì, prima il nome e l'occupazione. Poi lasceremo alcune delle domande più delicate alla sua autovalutazione scritta. Quindi? » Sollevò lo sguardo su di lui. Crapshoot le restituì lo sguardo e pensò per un istante, esercitando l'intonazione, preparandosi alla sua nuova identità. «Cornelius. Conan J. Cornelius.» Beth Sorensen cominciò a scrivere. Poi sollevò nuovamente lo sguardo. « Il poeta? » « Mi scusi? » Non aveva immaginato di dover recitare quella parte tanto presto. « Mi perdoni se glielo chiedo, ma lei è il poeta, il poeta Conan Cornelius? » Crapshoot la osservò sorridere. Ora più spontanea, meno professionale. Sorrise anche lui. Ampiamente. « Ma sì, sì. Sì, sono io. » Accavallò nuovamente le gambe, questa volta dall'altra parte.
« E fantastico. Mi dispiace richiamare l'attenzione su questo particolare. Solitamente, non abbiamo persone come lei, qui. Tutto qui. Voglio dire, abbiamo persone meravigliose. Ma... è davvero un onore. Amo molto il suo lavoro. Ho letto una delle sue poesie proprio l'altro giorno. Quella citata nella recensione del libro. Quella che si intitola, oddio... Compassione del cavallo castrato, credo. Mi è piaciuta moltissimo. » Sorrise di nuovo. Poi corrugò la fronte in tutta serietà. « Ha inteso quella poesia come un commento sul rapporto uomo-donna? » Crapshoot sorrise di nuovo. «Be'...» La donna agitò una mano. «Mi dispiace. Non mi risponda. So che ai poeti non piace che gli vengano fatte domande stupide sul significato delle loro poesie. Si dimentichi quello che ho detto. Dovrei veramente essere più professionale. Questa è soltanto la mia seconda settimana. » Scrisse il nome, lentamente e con cura, nello spazio apposito sul modulo bianco: Conan J. Cornelius. « Oh, la prego, non si scusi. Sono abituato. La poesia è un gioco di indovinelli, sa. » Guardò nuovamente la fotografia. « Un gioco di indovinelli sempre in attività. Lei è libera di chiedere ciò che vuole. » Beth Sorensen arrossì leggermente e sorrise di nuovo. « Okay? » disse lui rivolgendole il più sollecito dei suoi sorrisi. « Okay. Bene, ora la lascerò solo per rispondere a queste domande. La prego di ricordare di essere completamente sincero, signor Cornelius. Siamo assolutamente discreti con le informazioni che riceviamo. La sua privacy non verrà compromessa in alcun modo. » « Grazie. » Crapshoot reclinò il capo, proprio come avrebbe fatto un donatore preoccupato. «Com'è che verrà protetta la mia privacy? Voglio dire, dove verrà archiviato il mio nome, per esempio? » « Oh, è una cosa molto sicura. Non deve preoccuparsi. Vede quello? » Indicò con un'unghia dipinta di rosso il numero di cinque cifre sulla sommità del modulo. « Quello è il suo numero di codice. Soltanto il dottor Dotterweich, il direttore della clinica, possiede i nomi e gli indirizzi che corrispondono a questi numeri. E li tiene nel suo ufficio, in un armadio chiuso a chiave. E quello è l'unico posto in cui esistono. Fuori da lì, e in qualsiasi altro luogo, i suoi spermatozoi vengono identificati soltanto da un numero. » «E la ricevente... è così che la chiamate? Come viene protetta la sua identità? » « Oh, allo stesso modo. Gli esami di laboratorio e gli interventi vengono condotti sulla base di un codice simile al suo. Soltanto il dottor Dotterweich possiede il vero nome della donna interessata. » Beth Sorensen mostrò la sua preoccupazione professionale con una fronte pesantemente corrugata. « Il dottor Dotterweich è molto attento alla riservatezza. Nemmeno il personale può accedere ai suoi archivi se non in circostanze del tutto eccezionali», disse obliquamente. «Il dottor Dotterweich tiene tutte le liste sotto chiave. Ed è lì che restano. » Si alzò in piedi. «Tornerò tra poco. La prego di continuare e di compilare il questionario. » Per prima cosa, Crapshoot prese nota del suo numero di codice, affidandolo alla sua buona memoria. Poi dedicò la propria attenzione al modulo: sei pagine battute a macchina, con diverse righe lasciate in bianco per ogni risposta. Guardò la prima
domanda. Descriva i motivi che l'hanno spinta a donare il suo sperma. Per favore, sia sincero e conciso. La sua risposta verrà resa disponibile ai clienti per assisterli nella loro selezione del donatore. Crapshoot inumidì la penna con il labbro inferiore. Ahhhh. Allora era lì che veniva fatta la scelta. Se avesse scritto « potere » sarebbe stato perfettamente sincero e assolutamente conciso. Ma essere sincero e conciso non sembrava tanto interessante. E, in un certo qual modo, del tutto stupido. La domanda sollecitava candore, ma lo voleva davvero? C'erano così tante persone che domandavano candore con le dita incrociate dietro la schiena, senza volerlo realmente. Non c'era nulla di magico nell'onestà. Era facile e diretta. Pensò al detto favorito di suo nonno: Se dici sempre la verità, avrai meno cose da dover ricordare. Ma poi la domanda gli salì fin quasi alle labbra, la domanda che fin da bambino aveva avuto così spesso la tentazione di porre in replica: Ma se hai una memoria eccellente, che vantaggio può esserci nella verità? Riusciva a vedere ben pochi vantaggi, nella verità. Raramente la verità era più interessante delle bugie. La verità era sempre e comunque bidimensionale: blanda, anonima, bianca e nera. Mentre le menzogne... be', erano qualcosa di bello, qualcosa da contemplare. La verità l'aveva fatto sempre sentire a disagio. Ma una buona frottola, una storia, un racconto inventato erano in grado di flettere e di riattivare la sua mente. Una classica bugia era la migliore di tutte le finzioni. Il commercio regolare era un fiasco: tasse, budget, bilanci, tutti elementi di una realtà noiosa. Ma, nel gioco dell'inganno in cui Crapshoot si muoveva, lui era l'unico speculatore. Nulla poteva sottrargli il suo dominio. Non c'erano i ritmi, i flussi e riflussi che costituivano il normale ciclo degli affari. No, c'era un impeto, uno slancio scintillante che dapprima esitava e sussultava e quindi esplodeva nel suo portafogli e lo rendeva ricco. Crapshoot detestava il mondo regolare, gli affari regolari, i lavori regolari, i soldi regolari. La realtà. La verità. E, cosa più importante, lì la verità non lo avrebbe portato a nulla. Quella sarebbe stata la sua prima e più importante comunicazione con quell'anima anonima e silenziosamente disperata che se ne stava seduta ad aspettare un bambino. Per sceglierlo, avrebbe avuto bisogno di romanticismo, di poesia, di una speranza a dispetto della disperazione. E lui era preparato. Come Conan J. Cornelius, poteva fornire tutte quelle cose, e anche di più. La seduzione era semplice, più semplice che in qualunque altra occasione gli fosse mai capitata. Perché, dal momento che lei non lo conosceva, lui avrebbe potuto essere chiunque e qualsiasi cosa. Sentì il tormento, e il tormento lo ispirò. L'avrebbe presa all'amo - ora, subito - con quelle parole. Appoggiò la penna al foglio e scrisse: Per amore della poesia. Ecco. Quella era sicuramente una frase concisa, e sincera quanto potevano sperare che fosse. Ed era destinata a essere efficace. La lesse a voce alta: « Per amore della poesia. » Non era sicuro di ciò che aveva
voluto dire con quella frase, ma certo suonava bene. Ed era meno prosaica di potere. La lesse ancora e ancora, alimentando la propria crescente soddisfazione. 11 «Ma non mi dire! » « Ti assicuro. » « È vero. » « Stai scherzando!. » « Non sto scherzando affatto. » «Be'... » « Scusatemi. » I cocktail party erano come gli obitori, pensò Caitlin, versando un altro calice di Còtes-du-Rhóne per gli ospiti: così tanta gente, così pochi con cui valesse la pena di parlare. Serena la raggiunse e la prese per un gomito: « Allora, quand'è che l'hai deciso? » «Oh, e così adesso ci credi? » «Ascoltami, tesoro, penso che sia grandioso, davvero. Versamene un po'.» Serena la intrappolò in un angolo e abbassò la voce per dare l'illusione della discrezione. « Dovrai andare a letto con quel tipo oppure lo fanno in provetta? » Caitlin versò il vino, rovesciandone non proprio inavvertitamente qualche goccia sulla mano e sulla manica della camicetta bianca di Serena. « Se c'è un uomo da scopare, Serena, non preoccuparti. Te lo farò sapere immediatamente. » Nell'atrio di ingresso, vide Paul. Stava tenendo banco con un gruppo di ospiti, una vodka on the rocks in una mano e un gesticolare pedante nell'altra. Caitlin tornò in cucina ad aiutare Rosita, la domestica dominicana, a sistemare le ostriche agli spinaci e la trota affumicata sul pane tostato. Nel regno di perfezione di Caitlin gli spiaci dovevano essere imbiancati esattamente e il pane tostato il giusto, né un secondo di più, né uno di meno. Il cibo funzionava sempre, se si possedevano un po' di istinto, un po' di pazienza e molti soldi. Le regole erano così determinanti e confortanti. Caitlin catalogò mentalmente le sue preferite: l'olio freddo nella padella calda, la regola dei dieci minuti per ungere l'arrosto, i polpastrelli ripiegati sotto il palmo quando si affetta. Quelle erano regole di vita. Ma non rendevano la vita minimamente più facile. Una volta, Caitlin aveva osato immaginare una vita perfetta insieme a Paul. Quel cocktail party ne sarebbe stato parte. Ma, quando gli ospiti se ne fossero andati e lei fosse rimasta a pulire insieme a Rosita, non sarebbe rimasto nulla per distrarla, una serie di stanze fredde, mozziconi di sigaretta nel water, nient'altro per arrivare oltre il tramonto. « Posso aiutare? » Era Annette, una discendente del Mayflower di Darien. Era giovane, per essere una divorziata, ma non per essere madre. « Serena me l'ha detto. E meraviglioso. Penso che la facilità con cui può essere fatto di questi tempi sia affascinante. » « Grazie, Annette. » Caitlin consegnò il vassoio delle ostriche a Rosita affinché lo portasse in soggiorno. « Qui ci sono i tovaglioli. Sta' attenta alla guarnizione. » « Voglio dire, guarda me. Io ho avuto i miei due, e mi dispiace di non averne avuti di più. I bambini sono il sale della vita. » Abbassò il tono di voce. « Come farai a
scegliere l'uomo? » « È complicato. » « Di sicuro non complicato come il vecchio metodo in cui il tipo con cui sei sposata dev'essere anche il padre dei tuoi figli. E guarda che dico sul serio. » «E complicato, credimi.» «Oh, sì. Non ne dubito. Quando ho sposato Philip, sai, ero già... » « Lo so. Incinta. » Caitlin prese una bottiglia di acqua minerale dal frigorifero e se ne versò un bicchiere. « Esattamente. E te lo dico io, non mi sono curata minimamente delle occhiate della gente, al matrimonio. » « Ma non tutti lo sapevano. » « Certo che no, stupida. Ma io ero orgogliosa di avere un bambino dentro di me. Era una cosa meravigliosa. Qualcosina di extra. Quando crescono, poi. La cosa è diversa. Li ho tirati su bene. Ma Tad è un ribelle e un farabutto, e a volte riesce a essere veramente cattivo, proprio come suo padre. No, anche peggio di suo padre. Il che, lascia che te lo dica, non è poco. E Cameron, oddio, il piccolo Cameron. A volte penso che abbia bisogno di più cose di quante il mondo possa offrirgli. Sai cosa voglio dire? » « Non proprio. » Caitlin tentò di sistemare un po' la cucina con uno straccio per i piatti e un flacone di Svelto, per stemperare il casino del party in un ragionevole disordine suburbano e, cosa più importante, per restare lontana dall'accozzaglia di ospiti ancora per qualche minuto. «E tutto è dovuto alla mancanza di buoni soldati come me e te. Marciamo nella maternità dando fiato alle nostre trombe e con la nostra armatura ben salda addosso. E a che cosa ci serve questa armatura? Ci fa affogare nelle paludi della loro adolescenza. Quando ci pensi, ti rendi conto che non siamo equipaggiate per affrontarla. » « Molto drammatico, non trovi? » Caitlin stava asciugando il marmo dei piani di lavoro. Aveva già sentito molte volte la teoria di Annette sui buoni soldatini. La metafora non era cambiata molto nel corso degli anni. Se non che, a volte, i genitoricavalieri affogavano in un pantano o in un fiume invece che in una palude. L'adolescenza era sempre rappresentata da un corso o da uno specchio d'acqua, però: e loro, le madri, annegavano sempre a causa delle proprie armature. « Non ci sono stati forniti gli accessori giusti per fronteggiarla. Te lo posso giurare. Un giorno capirai che cosa voglio dire: quando il tuo bambino si trasformerà in un uomo o in una donna. Cambiano. In peggio. E una tragedia, davvero. «A volte, quando vedo un bambino che attraversa la strada in città, un bambino piccolo e innocente ancora privo di preoccupazioni e di brutture, immagino ciò che accadrà nel giro di pochi anni: gli orecchini, il taglio di capelli alla moicana, le droghe e le ragazze. Dio, non è nemmeno alla moda portare l'orecchino, di questi tempi. Immagino la palude dell'adolescenza che inghiotte quel povero bambino, e poi tutte noi. A volte vedo Tad, e a volte Cameron. E a volte vedo semplicemente me stessa. Voglio dire, nemmeno io sono stata un angelo. » Annette rise. Caitlin si unì alla sua risata. Stava riponendo i piatti da portata nella lavastoviglie. « In un certo
senso è crudele. La gente guarda i dittatori, i tiranni, gli uomini malvagi e si chiede sempre, ma che razza di bambino sarà stato quella bestia! Io ci penso molto, a questa cosa. Voglio dire, anche Mussolini è stato un bambino. Quando tenti di visualizzarlo, è strano. Non voglio dire che molti dei nostri figli finiranno per diventare dei macellai. Però, E tragico, davvero. Se guardi negli occhi di qualsiasi bambino, riesci a vedere l'inizio del male. » Quell'ultima frase attirò l'attenzione di Caitlin; al contrario delle altre, che l'avevano spronata a pulire più vigorosamente e ad ascoltare con meno trasporto. « Davvero? Che cosa vuoi dire? » « Voglio dire, guardati in giro. In realtà, un tempo la cosa mi turbava, quando ho avuto Tad. Era il bambino più carino e svelto del mondo. Era gentile, un bravo bambino davvero. Piangeva pochissimo. E poi mangiava con tanto appetito. Ma una volta, quando aveva più o meno otto mesi, l'avevo appena preso dalla tata e l'avevo mandata via per la sua serata libera e Philip è rimasto a lavorare fino a tardi e io e lui eravamo soli... » Caitlin aveva chiuso lo sportello della lavastoviglie e ora era sull'attenti, bevendo la sua acqua minerale e ascoltando la storia di Annette. « Continua. » « E io l'ho guardato negli occhi. » Annette tacque. Il suo volto era decisamente pallido. « Sì? » « E, come dicevo, l'ho guardato negli occhi. E, sai, un attimo prima erano così carini e intelligenti e scintillanti e pieni di amore per me. » « E? » « E, quando ho guardato di nuovo, erano vuoti. » « Come? » « Erano vuoti. Non c'era anima, là dentro. Te lo giuro, non c'era anima. Il mio bambino era senza anima. » Annette si tamponò rapidamente una lacrima all'angolo di un occhio. Caitlin ascoltava in silenzio, con orrore. Aveva un po' di nausea per aver assaggiato tutto il cibo e il vino e poi aver ascoltato la narrazione. Ma non aveva mai visto Annette tanto sincera. « E così, be', naturalmente, ho pensato di essere impazzita per un momento, o qualcosa del genere. E così ho guardato di nuovo e, grazie a Dio, ecco che c'era quel barlume, esattamente lì dove avrebbe dovuto essere. Ma l'espressione sul faccino di Tad era un sorriso. E quel sorriso sembrava dirmi: Sono capace di recitare la parte del bimbetto tenero e sorridente, sta a vedere. E così sono scoppiata a piangere lì, al momento, mentre il mio bambino sorrideva. E, più io piangevo, più lui sorrideva. Non mi sono mai sentita tanto sola in vita mia. Il giorno dopo, il mio analista mi ha detto che era lo stress dovuto a tutte le nuove responsabilità di cui mi ero fatta carico. Philip mi disse che avevo visto troppe volte Rosemary's Baby. Comunque sia, dopo quell'episodio, non ho più tenuto Tad in braccio e non l'ho più guardato dritto negli occhi. Semplicemente, non potevo. » « È orribile. » Annette parve sorpresa e cambiò marcia, avvicinandosi altezzosamente al frigorifero per versarsi un po' di acqua minerale. « Cristo. Non è orribile », disse, imbarazzata per la propria franchezza. « È la maternità. Lo vedrai, maledizione. E
così che stanno le cose. Non è poi tanto strano, in realtà, quando ci pensi. » « Mi dispiace. » «Ascolta le mie lamentele. Al diavolo quel vino, Caitlin, dove nascondi il tuo scotch?» Caitlin le indicò il soggiorno e Annette fece per allontanarsi. « Be', che io sia stramaledetto se questa non è... » Paul entrò dall'estremità opposta della cucina, ormai decisamente sbronzo, con la camicia fuori dai pantaloni e il bicchiere di vodka vuoto, cullato dal suo polso molle nell'incavo tra la spalla e il pettorale sinistro, una scorza solitaria di lime che scivolava viscosa lungo la base del bicchiere come un disco sul ghiaccio di una partita di hockey. Il suo volto era incattivito, la bocca resa molle dall'alcool, la fronte contorta per la rabbia. «... la futura mamma bionica con le sue due ovaie perfettamente funzionanti! » « Paul, siediti. » Caitlin pescò nella dispensa una scatola di crackers e ne versò un po' in una ciotola. «Ecco, mangia qualcosa. » «No, non voglio. Voglio chiederti... se sei tu che lo stavi dicendo... voglio dire perché...» Agitò l'indice libero verso Caitlin, ma finì con il rimproverare il pavimento. «Perché, ecco, perché esattamente, sono un fenomeno da baraccone senza...» Il bicchiere cadde a terra, spaccandosi in quattro o cinque pezzi. Il lime si sparse sul linoleum. «Guarda qui. Non sono nemmeno capace di tenere in mano il mio liquore. » Paul scoppiò a ridere e si chinò barcollando nel tentativo di raccogliere i vetri. « Lascia. Lo faccio io », disse Caitlin, entrando nel ripostiglio per recuperare la scopa e la paletta, maledicendosi furiosa per essersi confidata con una persona come Serena. «Oh, no... in qualcosa sono bravo. » Quando tornò, c'era del sangue sulla mano di Paul e una smorfia sogghignante sulla sua faccia. « Adesso ti porto di sopra. » Nel buio della camera da letto, come in un utero, Caitlin rimboccò le coperte sul corpo di Paul e si mise al lavoro per pulire la ferita. Era lunga un buon centimetro e mezzo e abbastanza profonda da continuare a sanguinare. La pulì con del disinfettante e poi la avvolse delicatamente con una garza, mentre lui gemeva terribilmente per l'alcool e il disagio. Poi Caitlin gli tolse le scarpe e i calzini e si sedette accanto a lui. Ben presto, Paul si rese conto della sua presenza e cominciò a fissarla. I suoi occhi erano azzurri e fermi, la loro pronta chiarezza leggermente incupita dalla vodka. « Ti voglio. » La afferrò con la mano sana e le strappò leggermente la camicetta. « Smettila. Dormi. » Paul scattò. Nella goffaggine dei suoi sforzi, caddero entrambi sul pavimento, e la garza gli scivolò dalla mano. Caitlin sentì il sapore del sangue in bocca e le coperte le caddero addosso. Lui le si mise sopra, immobilizzandola contro il tappeto berbero. Goffamente e dolorosamente, si mise al lavoro per spogliarla, imprecando ripetutamente e divincolandosi come un salmone nel tentativo di far scivolare i pantaloni oltre le ginocchia. Incapace di sganciarle il reggiseno, strattonò l'elastico e abbassò una delle coppe, che rimase a premere contro la sua carne come una terza
mammella infelice. Poi si dedicò alle sue mutande, scostandole di lato nel corso delle sue futili manipolazioni. Arrendendosi, si tolse le proprie e, con ancor meno successo, tentò di infilarsi a forza dentro di lei. Premette con concentrazione assoluta, e Caitlin si accorse che ansimava per lo sforzo. E udì il rumore degli ospiti al piano di sotto che se ne andavano. Dopo un istante, il respiro di Paul si fece più regolare e Caitlin si rese conto che si era addormentato. Scivolò via da un lato, gli mise un cuscino sotto la testa e ricoprì il suo corpo seminudo con le coperte cadute. Mentre Paul russava, Caitlin gli riavvolse la benda di garza intorno alla ferita e pensò al suo bambino. 12 Crapshoot entrò nel deposito dei taxi sulla Barrow pensando alle piramidi. Essendo appena passato dall'ufficio postale, lasciò cadere sulla scrivania la sua collezione settimanale di buste. Più tardi, avrebbe separato dal resto gli assegni per rispedirli a una banca nel Delaware. Nel frattempo, si sedette a contemplare una nuova truffa della piramide. Con la macchina per scrivere carica, si sedette per comporre: Cara Signora/Caro Signore, Sicuramente non Vi sorprenderete nel venire a conoscenza che il Vostro Consulente Personale della Catalyst ìnvestments, dopo accurate ricerche e altrettanto accurate valutazioni dei rischi, ha individuato una nuova serie di scelte sagge e dinamiche di investimento per il Vostro portfolio. Come in passato, queste selezioni vengono prescelte dal nostro unico e brevettato programma algoritmico di selezione degli investimenti che, nella sua storia ormai quinquennale, ha ottenuto un ritorno medio superiore dell'8% rispetto all'Indice S&P 500. A causa della natura selettiva ed esclusiva di questo investimento, i pagamenti minimi sono normalmente ristretti alla somma di 500 dollari. Ciò nonostante, alla luce della Vostra buona relazione con la nostra azienda, l'importo minimo di cui sopra è stato temporaneamente derogato per darVi la possibilità di contribuire con appena 200 dollari al Vostro investimento iniziale. Qui accluse troverete le istruzioni necessarie. Ringraziando Vi per la vostra continua fiducia, colgo l'occasione per porgerVi i miei migliori saluti. R.K. Thayer-Bock III Vice Presidente della Divisione Investimenti Privati Trionfante, Crapshoot tolse la lettera dalla macchina per scrivere e caricò la vecchia Xerox traballante nell'angolo con molti fogli di carta intestata dall'aspetto generico su cui era stampigliato PYRAMID CORPORATION. Nel corso dell'ultimo anno, la Pyramid Corporation era stata molte cose diverse per molte persone diverse. Alla fine di maggio, mentre le giornate si facevano più lunghe, era stata una compagnia biotecnologica rampante che sollecitava denaro da investire in una jointventure; in agosto, nel caldo ottundente di quei giorni da cani, si era trasformata in
una piccola agenzia di consulenza specializzata nel fornire indicazioni su come immettere nuovi prodotti nell'emergente mercato russo; in dicembre, mentre i fili argentati comparivano sugli alberi di natale e cadeva la prima neve, si era mutata in un'agenzia di collocamento che prometteva di trovare lavoro ai potenziali interessati in cambio di una modesta tariffa di cinquanta dollari; e ora, in febbraio, mentre la neve si trasformava in una coltre permanente, si era trovata una nuova e lucrosa occupazione come agenzia di brokeraggio finanziario. Nel giro di qualche settimana, al sopraggiungere del disgelo, avrebbe dovuto reinvestire i proventi e, audace, si sarebbe lanciata in qualche altro mercato. Crapshoot si mise a firmare le lettere fotocopiate, ancora calde dell'eccitazione duplicatoria della Xerox, con una arzigogolata calligrafia dove la T di Thayer si sollevava in drammatici svolazzi usurpando quasi il posto che spettava al trattino separatore del doppio cognome. Poi prese dalla sua valigetta un mucchietto di prospetti dall'aria ufficiale che aveva raccolto scrivendo a diverse agenzie di brokeraggio, un modulo di istruzioni, documenti finanziari egualmente irrilevanti ma dall'aria professionale stampati in caratteri piccoli, e mise insieme l'intera collezione. Ogni pacchetto venne ripiegato e accuratamente sistemato in buste pre-affrancate intestate con il logo discreto della Pyramid Corporation e uno dei suoi ultimi indirizzi di casella postale. Dopo aver leccato e sigillato le buste con un'autocompiacente smanacciata, le mise da parte per compilare in seguito gli spazi relativi agli indirizzi con nomi selezionati dagli elenchi telefonici delle aree suburbane della California. Contò centocinque solleciti. La sua esperienza gli diceva che ciò avrebbe portato approssimativamente a uno o due assegni di risposta. Nei giorni seguenti avrebbe spedito altre centinaia di buste simili, aumentando così il ritorno totale. A quel punto, Crapshoot avrebbe adoperato i soldi delle prime spedizioni per inviare assegni ai primi clienti, insieme a lettere di congratulazioni che esaltavano la stupefacente e gratificante rendita trimestrale del cento per cento dei loro investimenti, esortandoli a inviare al più presto altra liquidità al fine di trarre il maggior vantaggio possibile dalla congiuntura favorevole. Qualche settimana più tardi avrebbe ripetuto l'intera procedura, ma la seconda lettera di congratulazioni avrebbe affermato che, a causa di una domanda senza precedenti, l'investimento minimo era stato innalzato considerevolmente, a cinquemila dollari. La lettera, in toni sussurrati e zelanti, avrebbe insistito sul fatto che, nonostante quella fosse una somma comprensibilmente alta per l'investitore medio, l'azienda era certa che i ricavi avrebbero seguitato a fluire allo stesso ritmo esaltante degli ultimi mesi. I clienti venivano spronati a decidere alla svelta. A questo punto, Crapshoot riusciva sempre a strappare qualcosa di grosso. Molti investitori avrebbero esitato di fronte alla cifra; alcuni, sospettosi, non avrebbero nemmeno risposto. Ma c'era sempre una vecchia pensionata che inviava i suoi risparmi di una vita, cinquemila dollari o, in una buona giornata, addirittura venticinquemila. Allora Crapshoot sarebbe uscito rapidamente dal ramo della consulenza finanziaria: avrebbe chiuso il conto corrente e la casella postale e si sarebbe dedicato a qualche nuovo affare. Rilesse la lettera originale e ammirò la sua semplice, abile eloquenza: l'ingegnosa indicazione che la Pyramid Corporation avesse in qualche modo fatto affari con la
controparte in precedenza, o che in ogni caso la controparte avesse finito con il risultare fortunatamente sulla loro mailing list privata; il contentino finale nell'accenno ai buoni rapporti fittizi del cliente fittizio con la corrispondente agenzia finanziaria fittizia; il tatto con cui era stato sottolineato l'investimento minimo; e, infine, la grandiosità della firma, completata su ogni copia dallo svolazzo della calligrafia che gratificava il nome di Thayer-Bock, un perfetto ibrido aristocratico di genealogia bostoniana e olandese progettato per ispirare fiducia in ogni potenziale investitore. « Altre lettere d'amore, Billy? » « Naturalmente. » L'addetto alle chiamate stava facendo una pausa, sorseggiando caffè da una tazza di plastica e roteando pigramente sulla sua poltroncina in vinile. « A chi, Billy? Tu non hai amanti. » Una risatina. « Affari, sai com'è », disse pacatamente Crapshoot, aggiustandosi il garofano all'occhiello. « Lo so, affari. Non venire a dirlo a me. Come quei fottuti tassisti di oggi. Gli dico che non c'è niente perché non c'è niente. Non perché mi diverto a dirglielo. E che altro? Poi, quando ricevo una chiamata e cerco di passarla fuori, mi sento dire da quel figlio di puttana bastardo di un haitiano, Toby, che non sa nemmeno la strada per arrivare alla stazione. E poi, ci crederesti mai, Romeo buca una gomma sulla fottuta Merritt mentre sta andando a prendere il cliente? Te lo dico io, Billy, tutto quello che dev'esserci non c'è, e quello che non deve esserci c'è. Mi capisci? » « Ti capisco sì. » « Vuoi lavorare, stasera? Più tardi ci sarà movimento. » « No. » « Oh, be', immagino che tu sia pieno. Quando è stata l'ultima volta che hai fatto un turno, a proposito? » « Nove giorni fa. » « D'accordo. Ci vediamo. » Crapshoot annuì. Quando passò davanti a lui per uscire, l'addetto alle chiamate lo prese per un gomito. « L'affitto? » Crapshoot si trasse di tasca un rotolo di banconote, ne prese due biglietti da venti e li buttò sulla scrivania dell'uomo. Poi si ripulì accuratamente la manica della giacca: « Non mettermi le mani addosso. » L'addetto alle chiamate sorrise, poi smise nervosamente di sorridere. I due si fissarono per un lungo istante, seri in volto, finché Crapshoot sorrise: il suo sorriso ampio e generoso. « Ci vediamo. Non fare quella faccia scura. » Era una giornata di sole, nonostante il freddo. Crapshoot si abbottonò il soprabito fino al collo e uscì in strada. Imbucò la pila di lettere nella cassetta più vicina e frugò nella valigetta per prendere la sua posta personale. Al Dunkin' Donuts, occupò un tavolo vicino alla vetrina e si sedette per aprire la posta: sei assegni da commercianti a cui aveva inviato fatture fasulle soltanto poche settimane prima; un biglietto di auguri di compleanno - in ritardo di cinque giorni - da parte di sua madre; un biglietto
che era arrivato alla sua casella postale di Stamford, battuto a macchina su carta da lettera di classe con un logo in cima al foglio che diceva: Istituto di Inseminologia « II Miglior Inizio » Sig. Conan J. Cornelius Casella Postale 1657 Stamford, Connecticut 09871 Caro Signor Cornelius, Siamo lieti di averla come donatore nel nostro programma. E per merito di generosi sponsor come Lei che l'Istituto di Inseminologia è in grado di offrire a famiglie affettuose l'opportunità di avere dei bambini. Siamo onorati di avere un donatore tanto stimato nel nostro programma. 1 nostri sforzi sono mirati a ottenere persone di qualità come Lei affinché la prossima generazione sia una generazione felice, talentuosa e produttiva. La prego di non dubitare che proteggeremo la Sua privacy e il Suo anonimato con la massima attenzione e discrezione. Inoltre, La prego di contattarci per qualsiasi dubbio o domanda. Con i miei migliori saluti. Richard Dottenveich, MD, PhD Direttore Clinico Crapshoot finì il suo caffè e mandò la lettera a raggiungere la tazza di plastica nel cestino. Bene, bene. Conan J. Cornelius. Il nome gli piaceva. Era distinto, altezzoso e sofisticato - e al tempo stesso mascolino, insolito e ritmico - un bel nome per il suo poetico alter ego. Stava cominciando a sentire l'ispirazione di scrivere due o tre poesie, in effetti. Non sarebbe stata una cosa troppo difficile. Aveva sempre pensato di essere un artista, sicuramente un genio. Soltanto una penna e un foglio di carta. Che vita facile potrebbe essere, pensò. Che vita facile davvero. 13 L'idea di avere un bambino - senza Paul, con un altro uomo - cresceva in lei. Aveva in sé il fascino della vendetta. E nessuno avrebbe potuto dire che lei non meritasse una piccola rivalsa. Sì, un bambino senza di lui era ciò che lei voleva, in ogni modo. Un bambino con qualcun altro. Furiosa con se stessa, Caitlin rammentò quella sera a Miami, la sera del loro primo anniversario di matrimonio, quella sera, e la debole idiozia con cui aveva desiderato la prima volta un figlio. A South Beach, con il sole, la luna, l'acqua scintillante e le ragazze, Paul aveva guardato soltanto le ragazze. Avevano camminato su quel lungomare, là dove la sabbia si sfiora con i ristoranti di lusso e dove i bar sono aperti fino alle tre del mattino; là dove il neon si accoppia con l'art déco per concepire ostentazione. Lì avevano passeggiato tra le modelle e i cubani e i pensionati. Ma erano state principalmente le modelle a restare in mente a Caitlin. Il luogo sembrava sospeso nel pulviscolo pastello di uno sfoggio di moda permanente. Ragazze diciottenni, ventenni, con volti di squisitezza europea e corpi
che facevano voltare ogni uomo. Paul incluso. Caitlin si era accorta di aver tentato di mantenere un volto impassibile per scoraggiare le opportunità tremende che si presentavano a ogni angolo di strada. Aveva atteso, ridacchiando tra sé, preparandosi al momento in cui la debolezza di lui avrebbe preso il sopravvento. E, quando ciò era accaduto, lei era lì con la sua memoria fotografica ad archiviare ogni cosa. Era una bionda, prevedibilmente, con gambe che arrivavano su su allo strato di ozono, un sorriso impertinente, il seno molto impertinente e uno sguardo al tempo stesso stuzzicante e freddo che aveva fatto venire la pelle d'oca a Caitlin. Aveva guardato Paul da mezzo isolato di distanza e Paul era a malapena in grado di controllarsi. Aveva inciampato sul marciapiede, poi aveva tentato di attutire l'imbarazzo schiarendosi la gola, aveva finito con lo sputarsi sul labbro da cui poi aveva rimosso la saliva con la manica della camicia di lino e infine aveva starnutito sulla stessa manica e aveva scosso la testa per la frustrazione. « Cosa c'è che non va, tesoro? » gli aveva domandato Caitlin con il suo miglior sorriso. «Niente. L'aria. È fredda.» « Ma ci sono trenta gradi. » « Sì, ma c'è brezza. » « Brezza tropicale. » « Esatto. Che ne dici di bere qualcosa? » Bere qualcosa. Quella le era sembrata una buona idea. Un margarita per gelare la gola. Nel bar dell'albergo art déco più vicino, sugli sgabelli dai cuscini imbottiti color porpora, senza traccia del suono dell'oceano e con il mambo che usciva ad alto volume dagli altoparlanti nascosti, avevano tentato di parlare. Ma il rumore era assordante e Paul aveva cominciato a guardarsi pigramente intorno in cerca di altre opportunità. Arrivavano da ogni direzione, in tutti i colori, di tutte le nazionalità, ma con un aspetto fisico uniforme: snello-modella. South Miami Beach si era ricostruita trasformandosi in una mecca della moda, e i fotografi arrivavano da ogni parte del mondo per ritrarre quei perfetti simboli statuari di tutto ciò che c'era di bello ed eccitante in America. Caitlin aveva tentato di prendere la mano di Paul tra le sue, ma ciò apparentemente non aveva fatto altro che incrementare, come il joystick di un videogame, il suo movimento e la sua attività. « Che cosa stai cercando? » gli aveva domandato infine. « Il cameriere. » « Quale? Quello con la minigonna di venti centimetri o quello con i capelli tinti di biondo? » « Quello con il conto », aveva risposto lui brusco dopo aver tossito un paio di volte. In quel momento, Caitlin si era resa conto che il sapore di South Beach era il sesso. Se guardavi il menu, il pesce spada era stagionato con salsa cilantro, il salmone con lo zenzero, il tonno con il lime. Ma la specialità non pubblicizzata della casa era il sesso - come piatto secondario, antipasto o dessert. Non che ci fosse nulla di sbagliato, in tutto ciò. Ma sarebbe stato bello, per Caitlin, sperimentarlo. Il sesso era ovunque. Sicuramente era sulla spiaggia, dove le modelle si occupavano delle loro carnagioni immacolate sotto ombrelloni multicolori, fingendo noncuranza. Oppure
nei bar, dove il sesso si attardava, avvolto in pantaloni elasticizzati e scivolante su rollerblades, in perenne locomozione, in cerca di qualcosa o di qualcuno. O ancora nelle stanze d'albergo, dove accadevano sicuramente cose di ogni genere. Quella mattina, dopo quattro giornate di sole, Caitlin aveva osservato la propria immagine riflessa. Le linee dell'abbronzatura avevano cominciato a gratificarla come una nuova mano di vernice e la sua pelle aveva un aspetto elastico, meraviglioso. Perché Paul non l'ha apprezzata? Aveva un bell'aspetto, pensava Caitlin. Non era grandiosa, ma era sicuramente bella. O forse no. Il sesso era ovunque, a South Beach. Caitlin non si sentiva parte di esso. Non che lo volesse, in realtà, non esattamente. Improbabile. La meschinità della cosa non la impressionava. Tutt'altro. La posa. Il flirt. Era disdicevole. Ma il sesso era ovunque. Paul si era abbeverato alla fonte dell'energia e l'aveva lasciata sola. Lei non voleva gli sguardi degli uomini che si spalancavano a qualsiasi cosa che inavvertitamente ancheggiava nella loro direzione. Voleva soltanto l'attenzione di Paul. Almeno per un istante. E il sesso era ovunque. Quando passava una ragazza giovane, Paul non poteva fare a meno di lanciarle un'occhiata voltandosi a guardare -di tanto in tanto, casualmente - per controllare la prospettiva. Caitlin lo sorprendeva ogni volta. E lui copriva le sue tracce timidamente, facendo commenti sulle ristrutturazioni degli stabilimenti balneari e sui negozi. Ma doveva esserci qualcosa di più del sesso. «Sei consapevole della poesia che ti sta intorno?» gli aveva domandato Caitlin a un certo punto. « Come? » « Voglio dire, quella ragazza aveva un bel culo, ma credi che sia consapevole della poesia delle cose? » « Che cosa intendi dire? » Ancora una volta, un agglomerato di distrazioni era passato alla loro sinistra. E poi alla loro destra. « Voglio dire questo. È soltanto per il loro aspetto? Oppure vuoi davvero conoscerle? » « Caitlin, non posso fare a meno di guardare. Non significa nulla. » Si erano fermati per guardare la vetrina di un gioielliere. Braccialetti d'oro. Gemme scintillanti. Barlumi preziosi. Altri oggetti del desiderio. Molto tentatori, e molto costosi. Come qualsiasi altra cosa a South Beach. « Che cosa possono offrirti? Davvero? » « Si può sapere di che diavolo stai parlando? Non ho in mente niente. Non mi stanno offrendo niente. Quelle ragazze sono modelle strapagate. Non potrebbe importargli di meno di me, o di te. » « Non è quello che ti ho chiesto. Voglio sapere, se offrissero qualcosa, in che cosa consisterebbe la loro offerta? »
Paul aveva scosso la testa, frustrato. « Non ho idea di che cosa stai dicendo. Ascolta, preferisci tornare all'albergo oppure vuoi bere ancora qualcosa? » Quindi, nemmeno Paul aveva idea della poesia delle cose. Un anno di matrimonio e nessuna consapevolezza dell'importanza di tutto. Guardando nella vetrina del negozio tutto quell'oro e tutti quei gioielli, Caitlin aveva deglutito a vuoto l'aria che le era sfuggita dai polmoni per la delusione. «Voglio un bambino.» Paul si era voltato verso di lei. « Come? » « Un bambino. È questo ciò che voglio. » Paul aveva sorriso goffamente. « Che ne dici di un braccialetto di diamanti, invece? » Caitlin sfiorò il braccialetto di diamanti al complimento. « Grazie. Mio marito me l'ha comprato come regalo per il nostro primo anniversario di matrimonio. » « Non sto esagerando, le assicuro. È uno dei braccialetti più belli che io abbia mai visto. È semplicemente meraviglioso. Suo marito deve amarla moltissimo. » « È soltanto ricco », sorrise Caitlin. « Ehi, non ci sputi sopra», disse la segretaria. « Ehi. Le sembra forse che io lo faccia? » Caitlin le mostrò le mani riccamente ingioiellate. Molti carati. Molti, molti scintillii. « E ricco. Ma è uno stupido, davvero. Uno stupido ricco, ma sempre uno stupido. E mi dispiace molto per lui. » La segretaria distolse lo sguardo, imbarazzata. « Chiamerò il dottore e gli dirò che lei è qui. Ha un appuntamento? » Caitlin scosse la testa. Dotterweich sorrise meccanicamente quando lei entrò nello studio. « Deve dirmi qualcosa? » « Sì, ho scelto il mio uomo. » Dotterweich sorrise di nuovo. «Molto bene. Ora, conosce il compito che ci attende? Torni a casa e si faccia una bella dormita. Lasci che questa scelta le filtri nell'animo, lasci che si depositi nei suoi sentieri neurali. E poi si sveglierà e vedrà se la pensa ancora allo stesso modo. A quel punto, se sarà ancora dell'idea, tornerà qui domani e me lo dirà. La natura ha bisogno di tempo, e questo è il meno che lei possa fare per compiacerla. Ci dorma sopra. » Caitlin avvertì una fitta di impazienza, ma apprezzò la prudenza del medico. Sembrava un buon consiglio. « Non cambierò idea», disse per metterlo alla prova. « Lo so. Ci dorma sopra comunque. » Dormirci sopra, pensò Caitlin mentre usciva dallo studio. Si rese conto di essere rimasta addormentata per molto tempo. 14 A Crapshoot non piacevano le biblioteche. Il silenzio soffocante di così tanti libri, così tanti di essi condannati a non essere mai letti, gli pesava addosso. Le biblioteche pubbliche erano le peggiori, pensava, con la loro clientela fatta di pensionati e di barboni, il loro arredamento degli anni
Sessanta e il loro odore stantio. La mancanza di vita e di commercio nelle biblioteche lo annoiava. Non c'era azione. Era un luogo in cui la gente viveva le proprie vite attraverso le pagine di una rivista o la costa di un bestseller. Crapshoot non rispettava nulla di tutto questo. Non i cataloghi a schede con la loro ampiezza supponente e intimidatoria, non le vecchie bibliotecarie volontarie con i loro consigli utili e zelanti, non lo scricchiolio delle scarpe sulle piastrelle di linoleum dei corridoi, non la sensazione di stanchezza e frustrazione che provava quando era costretto a cercare qualcosa in uno di quei luoghi. Per lo meno, era venuto alla sede di Westbridge. Immaginava che possedesse una collezione più ampia di quella della biblioteca di Northport, che era stata chiusa per tutti i giorni della settimana tranne due a causa di tagli di bilancio. «Mi scusi, sarebbe così gentile da dirmi dove potrei trovare una raccolta delle poesie di Conan J. Cornelius? » domandò in un sussurro da biblioteca. La bibliotecaria era seduta alla sua scrivania, intenta a sbucciare accuratamente una banana. Sollevò lo sguardo oltre le lenti degli occhiali da lettura sull'uomo ben vestito che le stava sorridendo, che modi educati, un bellissimo garofano all'occhiello, e un ovvio interesse per la poesia. Decise che era degno dei suoi migliori sforzi. Depose la banana su un tovagliolo e si alzò in piedi. «Be', è molto semplice», rispose mentre girava intorno alla scrivania per cominciare la ricerca nelle schede dei cataloghi. Crapshoot fece un passo indietro, sollevato all'impazienza della donna di trovare il libro per lui. Detestava essere lasciato da solo a fare quel genere di cose. « Non dobbiamo fare altro che guardare nel catalogo degli autori qui, sotto... qual era il nome del poeta, mi scusi? » « Cornelius. Conan J. Cornelius », disse a bassa voce. « Contemporaneo? » Crapshoot ci pensò su per un attimo, sorpreso dalla domanda. « Sì. » «Ah, ecco. Beckett. Benson, hmmm, Canterbury, Cum-mings, oh sì, hmmm, eccolo qui... Cornelius, Conan J. Ora vediamo. Abbiamo soltanto una raccolta di sue poesie, un libro intitolato Sulla collina incolta. E questo quello che le interessa? » « Questo andrà benissimo. » La bibliotecaria lo condusse in una piccola nicchia un poco discosta dalla sala di lettura principale. Dopo una rapida ricerca, prese un sottile volume rilegato dalla copertina verde avvolta nella consueta protezione di plastica delle biblioteche e glielo porse. « Buona lettura. » Sorrise. « Grazie », le sorrise Crapshoot di rimando. Si rigirò il libro tra le mani. Sulla quarta di copertina c'era un piccolo primo piano in bianco e nero di un uomo dall'aria distinta che portava un paio di occhiali, appoggiato contro quello che sembrava essere un albero. Si trattava indubbiamente dello stesso uomo che aveva fermato il suo taxi non molto tempo prima. Crapshoot lesse la quarta di copertina. In questo, il suo quarto volume di poesie, Conan J. Cornelius esplora le sue preoccupazioni familiari - perdita, infedeltà, lealtà elusive e rinascita spirituale - con
la sua vena lirica caratteristica e affascinante. Poi lesse la frase di una recensione sulla copertina: Portatore di un nuovo immaginario poetico, genio costante quanto audace, i versi di Cornelius, aperta reminiscenza di Gerard Manley Hopkins e Dylan Thomas, offrono agli animi assetati la pozione della redenzione letteraria. « The Sun Literary Supplement » Non c'era biografia. Crapshoot si sedette rigidamente a uno dei tavoli di lettura della biblioteca e passò in rassegna i titoli delle poesie sulla pagina dell'indice. Poi aprì il libro sulla poesia che gli aveva dato il titolo: Andai sulla collina incolta lasciando la ragione alle spalle fantasticando sulla vegetazione, malsana e diabolica in disparte, a una certa distanza, vicino - a me. In Omero non ho trovato alcuna risposta e così la collina incolta mi ha sostenuto. Guardando forzatamente, sfiorando il pascolo, parti di me si lasciano andare. Tuoi guardare anche tu, aveva detto. Gli credetti. Nemmeno Dio mi ha riconosciuto il merito di stare a guardare la collina incolta. Andai in cima alla collina incolta per trovare ciò che una volta era mio. No! Udii. E non lo feci. Finché il coraggio si aggrappò a me. In cima alla collina incolta, dissi. La crescita, a una certa distanza, in disparte. Invece. Crapshoot fissò la pagina, sbalordito. Per lui la poesia non aveva alcun senso. Sarebbe stata difficile da riconoscere come poesia non fosse stato per le rime occasionali e per la sistemazione delle righe, una sopra l'altra in frastagliata permanenza sulla pagina. Ne rilesse varie parti, sussurrandole a se stesso. Un genio costante quanto audace. Non riusciva a distinguere nessun genio in agguato tra quelle righe. Il fatto che quelle farneticazioni idiote potessero essere erroneamente attribuite al genio lo irritava profondamente. Poi, improvvisamente, rise. Ma naturalmente. Una truffa. Non poteva fare altro che ammirare la portata dell'imbroglio: così tante pagine, rilegate in un volume acclamato dalla critica, un libro venduto per dodici dollari e novantacinque e che si era guadagnato così tante lodi. Improvvisamente, era gratificante osservare un esempio tanto distante e insolito della sua visione del mondo proprio lì in biblioteca. Non gli era mai passato per la mente: una truffa poetica. Rise di nuovo. Molto astuto. Avrebbe dovuto investigare. Soppesando delicatamente il libro nella mano sinistra, come volesse misurarne il peso, si domandò quante copie
avesse venduto. Sicuramente ogni biblioteca, ogni università ne possedeva una. Qual era il margine di profitto? Scarso, probabilmente. Ma era comunque ammirevole. Una tale, sfacciata arte dell'imbroglio. E lui aveva borseggiato Cornelius, rubandogli il portafogli, senza nemmeno rendersi conto che, a sua volta, quell'uomo stava borseggiando il mondo. Scelse di leggere un'altra poesia con un titolo che lo intrigava per la propria stessa ciarlataneria, Movimento in Movimento. Era perfetto. Una vera masturbazione, pensò: Movimento in Movimento È. Che altro possiamo dire di questa tautologia? Non ho trovato movimento in alcun altro modo Se non nelle stanze di sopra, sotto, dentro, fuori Nella mia vecchia casa sulla vecchia strada Dove mamma è stata venduta. Perché l'ho venduta? Domandi finché non ti viene risposto. Incoraggiato fui, ti dico questo. Ha raggiunto un buon prezzo al mercato. Segnalo! Mi ha implorato di non farlo. Ma il mercato è il mercato, l'uomo delle tasse, che gioia! Movimento in movimento, Con o con me. Ancora una volta, più brevemente però, la marea di un'orribile confusione tentò di affogarlo. Ma ancora una volta Crapshoot rise alla ricorrente assurdità di ogni riga. Una tale sfacciata noncuranza verso il significato, pensò mentre guardava nuovamente i versi. Era affascinante. Il commercio viveva persino lì, nella biblioteca. « Posso prenderlo a prestito, per favore? » domandò al banco dei prestiti, con il più ampio dei sorrisi. « Mi dispiace, questo volume è della nostra sezione di consultazione. Non può uscire dalla biblioteca. » « Oh, è un vero peccato », disse Crapshoot. In bagno, rimosse la piccola banda elettromagnetica strappandola via dal risvolto di copertina. Poi sistemò il libro tra la cintura e la schiena muscolosa. Si rimise la giacca e il soprabito, sistemò il garofano, si lisciò i capelli all'indietro, aprì la porta del bagno e se ne andò. Oltrepassò con sicurezza il banco dei prestiti, passò attraverso il metal detector e si ritrovò fuori, nella fredda aria del mattino. Aveva risposto al cenno di saluto della bibliotecaria che l'aveva aiutato. Truffe grandi e piccole. Entrò nel suo taxi, mise in moto e se ne andò. 15
« Questo qui. » Dotterweich abbassò lo sguardo sul portfolio che Caitlin gli aveva passato. « Questo? » « Sì. » « Saggia scelta. » Dotterweich studiò le carte, borbottando tra sé a bassa voce. « Quando cominciamo? » «Oh, molto presto. Abbiamo le donazioni a portata di mano. Dovremo eseguire qualche analisi chimica preliminare, l'analisi del DNA... e poi... be'...» Dotterweich allungò la sua enorme mano sulla scrivania per coprire quella di Caitlin. « Faremo un bambino. » Rise. Nella pastosità del suo accento europeo, la procedura sembrava calda, piena di speranze, facile. « Se posso domandare, che cosa l'ha attratta in special modo in questo profilo? » Era stata soltanto una frase a caso, Caitlin lo sapeva. Ma detestava l'idea di ammetterlo, specialmente di fronte a quel veterano della frontiera scientifica. Ricordò la sera prima, quando aveva preso in esame l'ultimo gruppo di profili, nello studio. Paul non aveva prestato alcuna attenzione alla cosa. Negli ultimi tempi non se ne era preoccupato minimamente. Sei tu quella che verrà riempita, quindi scegli tu, aveva detto un giorno mentre usciva per andare al lavoro. Dalle prediche di Dotterweich, il suo risentimento non accennava a diminuire. Mentre la mezzanotte si avvicinava sempre più, Caitlin aveva sparso i nuovi profili sul tappeto, quasi stesse disponendo ai propri piedi i suoi pretendenti. Uno dopo l'altro, aveva letto le minime informazioni nella speranza di raccogliere un barlume di perfezione paterna. Com'era possibile scegliere un padre basandosi su cose come l'occupazione, il peso corporeo o il livello di colesterolo nel sangue? Aveva preso in considerazione l'ipotesi di buttare i profili giù dalle scale per vedere quale riusciva ad arrivare più lontano. Aveva consultato ancora e ancora le limitate informazioni a sua disposizione. Una sua amica le aveva suggerito di effettuare un'accurata analisi astrologica di ognuno dei donatori. Un'altra le aveva proposto la chiromanzia. Erano opzioni valide quanto le altre, Caitlin lo sapeva. Ma quale? Anche se hai tutte le intenzioni di abbandonare te stessa ai confini di una fede, devi comunque sapere quale fede scegliere. Poteva lasciare la sua decisione nelle mani del fato, della fortuna - di Dio? No, era una decisione troppo importante. Ciò di cui sapeva di avere bisogno era un po' di ispirazione. Era rimasta sbalordita dalla stupidità dei profili. Le persone avevano così poco da offrire. In cerca di quell'ispirazione che le necessitava, aveva guardato una delle domande più insinuanti presenti sul modulo: Descriva i motivi che la spingono a donare i suoi spermatozoi, ha preghiamo di essere sincero e conciso. Le risposte erano varie, ma in ogni caso noiose: Amo i bambini. Non era una spiegazione del perché l'uomo avrebbe voluto donare i suoi bambini potenziali a qualcun altro. Per il progresso della scienza. La scienza è la nuova frontiera. Voglio essere parte
di questa ricerca. Così clinico. Sembrava una delle prediche di Dotterweich. Forse era Dotterweich. Senza dubbio il vecchio si era masturbato in una tazzina, prima o poi. La cosa gli avrebbe fatto risparmiare qualche soldo. Per guadagnare. Per lo meno, quella era una risposta onesta. Forse la più sincera di tutte. Ma voleva forse che quelle fossero le due parole che avrebbe portato a casa con sé insieme al suo bambino? Per fare della mia vita qualcosa di degno. Troppo patetica. Per compiacere Dio. Troppo fanatica. Voglio aiutare gli altri, e contemporaneamente aiutare me stesso. Mi piacerebbe dare il dono della vita a una madre che altrimenti non potrebbe sperimentarlo. Sono sensibile allo stesso modo alle preoccupazioni dei genitori e dei bambini. [C'era una freccia, e la risposta continuava sul retro della pagina.] C'è qualcosa di molto triste in una coppia a cui piacerebbe avere un figlio in casa, ma che non può averlo. Mi piacerebbe aiutare quella coppia. E terribile che Dio abbia garantito ad alcuni il diritto di avere dei bambini e ad altri no. Sto cercando di riequilibrare le cose. Penso di essere un uomo migliore, per questo. In realtà, so, di essere un uomo migliore per questa mia decisione. A parte il fatto che era prolissa e ridicola, quella risposta non seguiva le indicazioni, che pregavano il donatore di essere conciso. L'uomo che l'aveva scritta non doveva essere troppo intelligente. Meglio lasciar perdere. Quello era l'ultimo gruppo. Se Papà non era tra quelli, allora non era da nessuna parte. Ma che cosa stava cercando veramente? Che cosa si aspettava che una persona potesse dire di tanto profondo in un questionario che, fondamentalmente, era stupido? Forse avrebbe fatto meglio a soprassedere e a lasciare che fosse Dotterweich a prendere la decisione al posto suo, basandosi su criteri puramente biologici. Il medico si era offerto di farlo diverse volte, le aveva fatto addirittura pressioni in tal senso, ma Caitlin aveva insistito per avere il controllo della cosa. In un certo qual modo, una decisione biologica la attirava non poco. Un approccio eugenetico al suo bambino, e perché no? In effetti, lei voleva il bambino più sano, il più intelligente, il più amabile, il meglio educato. Quale genitore non l'avrebbe voluto? Era un desiderio naturale. Ciò nonostante, la diligenza di Dotterweich, i suoi dossier - la sua determinazione darwinista -erano stati per lei un deterrente. Doveva esserci una sensazione, magari soltanto il vapore di qualcosa che lei avrebbe potuto distillare da quelle risposte per forza di cose limitate. Aveva dato inizio all'esame dell'ultima pila. Aveva preso un profilo a caso. Ancora una volta, la domanda: Descriva i motivi che la spingono a donare i suoi spermatozoi, la preghiamo di essere sincero e conciso. La risposta l'aveva sinceramente sorpresa: Per amore della poesia. Quella sì che era interessante. Che cosa voleva dire, esattamente? Caitlin non era
sicura di saperlo, ma la frase le era piaciuta immediatamente. Sì, per amore della poesia. Il perché doveva essere quello. La risposta era al tempo stesso misteriosa, mistica e spirituale. E sinceramente profonda. Perché lei stessa non l'aveva colto prima? C'era una poesia essenziale, nella totalità di quel processo. Senza di essa, non c'era scopo. Nulla. Poesia. Sì. Quello era lo scopo. Si era immediatamente dedicata alla lettura delle altre parti del profilo. Professione: Poeta. Be', tutt'altro che sorprendente. Le superficialità fisiche sembravano ordinarie, accettabili. Religione: Cattolica. E allora? In un modo o nell'altro, la cosa non le era mai importata. E così, quello sarebbe stato il padre dei suoi figli: un poeta cattolico. Magari un poeta irlandese. Il suo cuore aveva danzato al romanticismo dell'idea. Era corsa di sopra per dirlo a Paul, ma poi aveva deciso di non farlo. Lui non avrebbe fatto altro che risentirsi per il suo entusiasmo. Quella notte non era riuscita a dormire, aspettando il momento in cui sarebbe andata da Dotterweich. « Una frase. » « Una frase? » « Soltanto una. » « Quale, se posso chiedere? » « Dove spiega i motivi che l'hanno spinto a donare lo sperma, dice: Per amore della poesia. » Dotterweich si accigliò e guardò nuovamente il profilo del donatore. « Capisco. Sì. Molto bene. » Guardò ancora una volta il profilo e corrugò la fronte. Mentre Caitlin restava seduta sulla poltroncina di fronte a lui, Dotterweich si alzò e si avvicinò al suo archivio. Nonostante fosse relativamente contento della scelta, non approvava i motivi che l'avevano spinta a prenderla. No, non li approvava affatto. Per amore della poesia. Come poteva quella risposta essere la base di una decisione logica? Forse avrebbe fatto meglio a togliere del tutto dal questionano una domanda tanto aperta. La risposta era del tutto inutile ai fini della valutazione, assolutamente non scientifica. L'aveva inclusa nel modulo soltanto come concessione per i clienti che desideravano quel tipo di affiliazione emotiva con il donatore. Ma quella risposta, in particolare, lo preoccupava. Per amore della poesia. L'incontrollabilità di quelle parole, la vuota cadenza dell'intelligenza priva di disciplina scientifica. Scosse lentamente la testa. Aveva previsto che Caitlin Bourke avrebbe preso la sua decisione con un simile, insolito squilibrio. Aveva perorato con fervore la possibilità di trovare il giusto corrispondente sulla base di pure inclinazioni genetiche. Ma Caitlin Bourke era stata molto determinata. Dotterweich aprì il cassetto dell'archivio e recuperò la lista dei codici che collegavano il numero di ogni donatore a un nome e a un indirizzo reali. Dopo aver localizzato il numero del profilo selezionato da Caitlin Bourke, scorse rapidamente la pagina: Conan J. Cornelius. Ma sì, naturalmente. Ora ricordava il nome. Una dello staff aveva detto che era un poeta famoso. Dotterweich aveva mandato a Cornelius una lettera in cui lo assicurava dell'inviolabilità della sua privacy. Be', forse non era poi così male. A un poeta, dopotutto, una simile risposta doveva essere permessa. E, a quanto pareva, Cornelius era un poeta di una certa fama. Buon materiale genetico.
Rimise la cartelletta al suo posto e tornò a voltarsi verso Caitlin, che ora lo stava fissando, in attesa di una risposta. Dotterweich poteva vedere la preoccupazione che le nuotava nello sguardo. La signora Bourke non stava dormendo molto, ultimamente. Avrebbe fatto meglio a essere prudente: non c'era alcun bisogno di allarmare una cliente. « Sotto ogni aspetto, ha fatto una scelta eccellente. Questo donatore, credo di poterglielo dire con relativa sicurezza senza mettere a repentaglio il suo anonimato », abbassò la voce per svelare il segreto, « è un poeta che gode di alta considerazione. Un uomo di non poco successo. Un vero talento. E molto sofisticato. Credo che insegni in qualche università prestigiosa », aggiunse senza basi concrete, pensando che una bugia innocente di tanto in tanto, per innalzare la sicurezza di un cliente, fosse permessa. « Questo donatore è di prima qualità. L'abbiamo esaminato molto attentamente. Lei non ha nulla da temere. È un vero intellettuale, e un artista. » « Sono contenta di sentirlo. All'inizio pensavo che lei fosse perplesso. » « Assolutamente no. » « E adesso? » « Mi prenderò cura personalmente del lavoro preliminare in laboratorio. Poi ci metteremo in contatto. » Dotterweich sorrise. « Non vedrò l'ora di sentirla, allora. » Quando Caitlin se ne fu andata, Dotterweich guardò fuori dalla finestra. Gli alberi si inchinavano al peso dell'inverno. Quel pomeriggio aveva nevicato ancora, e dieci centimetri di neve fresca erano aggrappati ai prati gelati e ai letti dei fiumi ghiacciati. Era già un inverno record per le precipitazioni atmosferiche. Il mondo stava mettendo alla prova i suoi abitanti, pensò Dotterweich. In quella stagione, ogni creatura, piccola e grande, veniva selezionata naturalmente per sviluppare la capacità di resistere al freddo. Immaginò gli orsi che, centocinquanta chilometri in direzione nord-ovest, se ne stavano rintanati negli incavi delle colline nell'ibernazione invernale. Ammirava così tanto il concetto. Che splendido adattamento era rimuovere interamente se stessi dal mondo, rallentare tutte le funzioni metaboliche fino a giungere quasi al punto della non-esistenza. Brillante. Madre natura era brillante. Anche gli umani avrebbero fatto bene a seguire l'esempio degli orsi. Dotterweich chiuse gli occhi e si immaginò l'isolamento del fianco innevato di una collina. Per amore della poesia, pensò ancora una volta. Quella frase lo colpiva come un modo crudo di pensare. Tipicamente umano, tipicamente autodistruttivo. Pericoloso. La gente avrebbe fatto meglio a imparare qualcosa dalla natura, che era l'unico, vero poeta. E, mentre una parte di lui rimaneva nel mondo, infastidita da quella considerazione sulla natura umana, il resto di lui respirava profondamente al ritmo lento di un letargo immaginato. 16 Non aveva mai pensato che potesse essere tanto difficile. Crapshoot chinò la testa sul foglio di carta e imprecò. Poi puntò la penna e ricominciò da capo:
Il legame è chiaro In questa inseminazione Il tempo è vicino Per questa Cristo. Era difficile. Consultò nuovamente Sulla collina incolta e poi lanciò un'occhiata speranzosa al dizionario dei sinonimi che aveva vicino al gomito. Qualcosa gli sarebbe venuto in mente. Il trucco non stava nel non prendere la cosa troppo sul serio, nell'immaginare di essere Cornelius, nel truffare le parole convincendole a uscire da lui. Il trucco era comunicare il messaggio che aveva bisogno di comunicare. Quella era una cosa che il vero Cornelius non era costretto ad affrontare. « Ti va di lavorare, Billy? » Crapshoot non rispose. Stava per produrre una buona rima. « Eh? Ti va? » Gesù, l'aveva persa. « Che cosa? » « Lavorare? Ti va? Cato è ammalato e Mark sta facendo un lavoro a Foxwoods. » « No grazie. » « Che stai facendo? Lettere d'amore? » Crapshoot sorrise. «No. Poesie d'amore.» L'addetto alle chiamate sghignazzò. «Vai così, Billy.» Forse il trucco stava nel non preoccuparsi delle rime. Così era molto più facile. Era evidente che Cornelius non se ne preoccupava, in realtà. Ma Crapshoot era abituato a visualizzare un problema e ad affrontarlo alla svelta. Quella cosa si stava rivelando fin troppo frustrante. Consultò nuovamente il dizionario, in cerca di un sinonimo di inseminazione. Non ce n'erano. La poesia era ovviamente un imbroglio. Di quello ne era assolutamente sicuro. Ma perché era tanto difficile mettere qualche riga sulla carta? Che casino. Che impresa poco redditizia. Immaginava Cornelius che lavorava come uno schiavo su pagine e pagine e pagine. E poi tutto quello che otteneva era un piccolo libriccino insignificante. Crapshoot sfogliò le pagine con disdegno. Una tale stupidità. Aveva sentito dire che il governo finanziava cose come quella. Stupidi. Avrebbe dovuto mettercisi, prima o poi. Era importante mantenere lo scopo ultimo a portata di mano. Una bella poesia? Di quello non gli importava un accidente. Quello che voleva, invece, era una bella truffa - il mezzo per raggiungere un fine - parole che valevano soltanto per ciò che potevano ottenere nel mondo reale. La truffa avrebbe riguardato il possesso. Crapshoot voleva possedere quella donna - chiunque fosse - e il suo bambino. Immaginò il suo solitario, disperato aggrapparsi alla sua ultima grande speranza. Ricordò cupamente le storie di sua madre, che aveva tentato disperatamente per anni di avere lui, con biblica tenacia. Aveva pianto ogni notte nella speranza di riuscirci. E poi, finalmente, un giorno, lui era emerso: nulla di simile a ciò che lei aveva immaginato. Immaginò beatamente quanto sola dovesse sentirsi una donna che ha bisogno di un
figlio. E, necessariamente, suo marito doveva aver tradito le sue aspettative. Era per quello che aveva fatto tutta quella strada, fino alla banca dello sperma, tutta quella strada per trovare il suo bambino. Con un po' di sperma vero che potesse fare il lavoro. Il pensiero di inseminarla per mezzo dell'anonimato di una provetta di laboratorio lo eccitava. Poteva possederla. Lei e il suo bambino. Facendo da padre al suo bambino, avrebbe potuto possederli entrambi. Ma doveva essere fatto nel modo giusto. Con le parole giuste. Con le poesie giuste. Con l'identità giusta. L'eccitazione cominciò a stringerlo in una morsa. La sensazione gli torturò il cuore, appena sotto il garofano. La sua mano si abbassò sul lino che gli ricopriva l'inguine, sotto il quale poteva sentire la sua erezione crescere e crescere. Se la massaggiò furtivamente. « Sicuro che non ti va di lavorare, Billy? » Crapshoot inarcò la schiena e fissò l'addetto alle chiamate. « Ti ho detto che ho da fare. » L'uomo represse la risatina che gli danzava sulle labbra e tornò alla radio. Crapshoot sentì qualcosa che ribolliva dentro di lui. Fece una croce su ciò che aveva scritto, chiuse brevemente gli occhi per schiarirsi le idee e bilanciò nuovamente la penna: Per amore della poesia Un punto nel tempo Non per denaro, o amore, o una qualsiasi porzione di carne. Guardò le parole che aveva appena scritto. Ora, quello sì che era il tipo di cosa che voleva. Si erano scritte da sole. Non ci aveva pensato. Le rilesse, dapprima lentamente, poi ancora e ancora, sempre più veloce. Non male, pensò. Dicevano qualcosa. E erano sue. Per di più, davano la sensazione di essere una poesia. Era orgoglioso di loro. Erano adeguatamente misteriose: prive di senso e perfettamente chiare al tempo stesso. Pura poesia. Crapshoot rise. Aveva sempre saputo di essere un poeta nato. Ora era evidente. Che truffa, pensò. C'era qualcosa di egualmente grandioso in ogni ruolo. Come tassista, non era meno completo che come poeta. E come uomo d'affari era esattamente la stessa cosa. Il mondo era suo, di questo era assolutamente certo. Sono sempre in attività. 17 Lievi cambiamenti nella topografia portano a paesaggi completamente differenti. Quando una casa viene costruita sul fianco di una collina dove fino a quel momento non c'erano stati che alberi, sopraggiunge un cambiamento che è più grande della casa in sé. Quando una duna di sabbia sulla spiaggia viene spazzata via dalla risacca, lasciando soltanto vaghe tracce di sé, un'occhiata da lontano mette insieme un'immagine differente che potrebbe anche declamare meno di una spiaggia. Piccoli dettagli possono edificare un grosso dramma. Le medicine potenti arrivano in piccole
dosi. In effetti, gli scienziati hanno lottato con la possibilità che, più piccola è la dose, più grande è la potenza. Così, almeno, credono gli omeopati. Nella guarigione, come in tutte le cose, poco significa molto. Fa parte dell'alternarsi delle stagioni la presenza di segnali che, qua e là, ti fanno capire che presto il mondo sarà un luogo completamente diverso: l'animale spia la propria ombra, l'odore del suolo assume un'intensità robusta, un pezzo di ghiaccio si rompe e va alla deriva, portato dalla corrente. In quel giorno di marzo, in cui la primavera accennava a se stessa con il sole, Caitlin Bourke se ne rese conto per gradi, e capì che il sole sarebbe stato magico. Perché quel giorno scivolò fuori dalla porta in uno stato tutt'altro che caratteristico, uno stato la cui presenza veniva segnalata semplicemente da piccole variazioni chimiche, minuscoli processi corporei, infinitesime alchimie di scala ancor più irrilevanti. Quella mattina, dopo essersi svegliata, non aveva notato alcun cambiamento nel proprio fisico. Ma il suo umore era cambiato come la faglia della California. E Caitlin si era sentita felice, addirittura gioiosa. Era incinta. Nonostante immaginasse il bambino dentro di sé, sapeva che era soltanto una possibilità, non un essere vivente. Ma, nel profondo del suo animo, sapeva di aver concepito. C'era qualcosa di diverso. Qualcosa di ormonale. Non c'era il minimo dubbio. Era incinta. Nonostante avvertisse la pesantezza e la sensibilità del seno che normalmente segnalavano l'avvicinarsi delle mestruazioni, la lieve nausea che aveva inspiegabilmente accompagnato la prima ombra di appetito annunciava qualcosa d'altro. Era incinta. Giorni prima, Dotterweich le aveva detto di aspettarsi il peggio. Il tecnico le aveva dato un sedativo, e poi il campione di seme era stato impiantato. L'operazione, con il suo stile clinico, era stata per nulla drammatica. La procedura aveva richiesto un po' di tempo. Persino allora, sulla strada di casa, un'ora dopo, aveva saputo di essere incinta. Paul l'aveva accompagnata a casa in macchina. Aveva sorriso per tutto il tragitto, coraggiosamente. Lei gli aveva tenuto la mano per incoraggiarlo. Era facile essere generosa, perché sentiva la felicità crescerle dentro, un'emozione inattesa che l'aveva sorpresa fin nel fulcro del suo essere. La gravidanza, qualcosa che aveva sempre sognato, la sorprese quando arrivò. Non con il suo tempismo - Caitlin se lo aspettava - ma con il suo essere minuscola e immensa al tempo stesso. Tutto d'un tratto lì, nel suo ventre, c'era niente e tutto; un puntino eppure un mondo; una preghiera e al tempo stesso una liberazione. Saldamente piantato nel rivestimento carico di sangue del suo utero, banchettando al nutrimento inviato da un'infinità di vasi, c'era un ovulo fertilizzato: non ancora qualcosa, ma comunque già tutto. Quando quella mattina provò le sensazioni che la spinsero a uscire di casa per sentire sulla pelle il sottile intiepidirsi dell'aria, dimenticò il giubbotto e camminò gioiosamente nella neve. Il pensiero che adesso era responsabile della vita di due
esseri la sospinse lungo la strada. Lì si raccolse in preghiera. Quando lo chiamò per dargli la buona notizia, Paul parve compiaciuto. Il suo risentimento si sciolse e si trasformò in eccitazione alla prospettiva di avere un vero bambino in casa. Ma, quando tornò più presto del solito, mise in dubbio la realtà dei fatti: « Come fai a saperlo? » « Perché lo so e basta. » « Ma come? Spiegamelo. » « Non posso. » « Tu provaci. » « Ci ho provato. Non mi hai ascoltato. » « Provaci ancora. » E via così, fino a notte, fino a quando non furono esausti e quasi crollarono l'una nelle braccia dell'altro soltanto perché non avevano più le energie per fare altrimenti. La mattina dopo, davanti al tè e ai biscotti, Caitlin parlò eccitata dei suoi progetti: l'arredatore di interni, i nuovi mobili; i vestiti da comprare; la prima festa di compleanno; la coperta che avrebbe fatto all'uncinetto. « Ma non sappiamo ancora se è un bambino o una bambina», protestò Paul. « Non abbiamo bisogno di saperlo. Prenderò ogni cosa sia in azzurro che in rosa», ribatté Caitlin. E così andò avanti, per tutta la settimana, con il lancio di spedizioni di shopping, la stesura di piani di arredamento, la prenotazione di visite mediche, i colloqui con le baby-sitter e la lettura di libri sul parto e la gravidanza. Era un vortice di eccitazione e di speranza: la costruzione di un futuro. Quando domandò al commesso del negozio di consegnarle la poltroncina di malacca con entrambi i cuscini, sia rosa che azzurro, Caitlin si rese conto che, fino a quel momento, non aveva mai dovuto pianificare nulla di tanto complicato. Del suo matrimonio si era fatta carico sua madre, dagli inviti fino alla luna di miele, tutto accuratamente orchestrato per essere perfetto, almeno per i genitori. Ma quella era una cosa tutta sua. Non le sembrava che fosse un simbolo di maturità, quanto piuttosto la magia per cui aveva tanto pregato: non una progressione naturale, ma qualcosa di progressivamente innaturale. Un giorno, stanca dopo una lunga giornata di shopping, Caitlin si sedette su una panchina di legno al centro del pittoresco quartiere commerciale di Westbridge. Dopo qualche tempo, una bambina, che non doveva avere più di otto anni, si sedette accanto a lei. « Sto aspettando la mamma », spiegò mentre incrociava le gambe fasciate da una tuta da ginnastica sulla panchina. Caitlin la guardò. « Sai che anch'io sono una mamma? » « Non hai l'aria di una mamma », si affrettò a rispondere la bambina, con sicurezza consumata e occhio critico. « Eppure lo sono. » « E allora dov'è il tuo bambino? » «Proprio qui. » Caitlin appoggiò il palmo della mano sul piano ancora piatto del suo stomaco.
« Non c'è posto lì, per un bambino », rispose la bambina con forza. « Ascolta. » Caitlin le fece cenno di appoggiare l'orecchio contro di lei. La bambina obbedì, per udire i mormorii della vita. « Qui non c'è niente», pronunciò dopo un doveroso istante di ascolto. « Oh, no. Ascolta attentamente. » Ma a quel punto arrivò la madre, e la bambina si allontanò trotterellando. Quando finalmente era arrivato il risultato del test di gravidanza, era tanto superfluo quanto positivo. Caitlin era già abituata da tempo a essere madre. Immaginava la sensibilità dell'anima che abitava dentro di lei, concepita com'era stata nel nome della poesia. Era strano non conoscere il padre se non per poche righe scritte su un questionario. In diversi momenti della giornata, Caitlin si sforzava di immaginarlo: la sua conformazione fisica, il suo portamento. Era sorpresa del fatto che la cosa la interessasse così tanto. Dopotutto, Dotterweich le aveva spiegato che Paul sarebbe stato il padre del bambino, e in effetti sarebbe stato proprio così. Ma, allora, che cos'era quell'altra persona? Soltanto una goccia di sperma su un cucchiaino? O un donatore, triste e malinconico come il suo ruolo? Oppure anche un padre, con i suoi sentimenti e i suoi desideri? Non le ci volle molto prima di iniziare a sognare scenari per il suo stato attuale. Era chiaro che quell'uomo fosse un essere più elevato, consumato dall'amore e dalla creazione della poesia. Ma gli interessavano i bambini? Forse no, se non come astrazioni. Oppure era un poeta con già una grande famiglia, tanto fertile che la sua fertilità poteva soltanto riversarsi nel vaso di una sconosciuta? A volte, se lo immaginava come un genio tragico, incapace di relazionarsi con il mondo, un genio che donava il suo sperma in modo da avere almeno una progenie poetica, determinato a convogliare il proprio valore artistico verso la nuova generazione. A volte, tutte quelle ipotesi immaginane la ossessionavano. Immaginare qualcuno che si trova realmente nel regno della fantasia è un'indulgenza priva di conseguenze. Ma immaginare qualcosa che risiede realmente dentro di te, che si è insediato completamente nelle tue viscere con l'importanza di un organo vitale, può essere spaventoso; le conseguenze sono fin troppo irresistibili. Come l'orrore della malattia, non è qualcosa a cui si può sfuggire. Ovunque vai, insieme a te vengono il tumore al seno o la prostata ingrossata o gli attacchi epilettici. Quando si ha a che fare con qualsiasi altro genere di problema, c'è sempre un posto dove nascondersi: si può balzare nei rovi del capitolo undici per evitare la bancarotta; oppure spostarsi sulla West Coast per sfuggire ai parenti del New England; o precipitarsi nelle braccia di un altro uomo per dimenticare quello che ti ha fatto del male. Ma dove puoi andare per abbandonare il tuo linfoma? Se non nel regno della preghiera, dove? Per Caitlin, la gravidanza era orribilmente simile. Nonostante la gioia che aveva provato all'iniziale consapevolezza del concepimento, a volte veniva piagata da sensazioni a cui non osava dar voce: che il bambino che portava in grembo non fosse realmente suo ma di qualcun altro - un qualcun altro che lei non conosceva, uno straniero. Magari un mostro. Non c'era modo di evitare le due persone nuove che aveva dentro di sé: il suo bambino e il precursore del suo bambino. A quella prospettiva, Caitlin poteva passare nel breve volgere di un secondo dalla calma alla
frenesia. Di notte, il dubbio cresceva dentro di lei, per poi assottigliarsi soltanto con la luminosità del giorno. Ma l'incertezza dell'essere dentro di lei era complessa quanto la sua personalità era solita farla diventare. Non poteva fare a meno di essere alla mercé della piena forza della sua impulsiva immaginazione. Il dolore di perdere le viti immaginarie risiedeva nello stringersi corrispondente delle viti che la imprigionavano. In special modo, la preoccupava un incidente che le era accaduto il giorno prima dell'inseminazione artificiale. Era andata a dormire presto, in vista della visita medica. Era mezza addormentata quando, un'ora più tardi, Paul era scivolato silenziosamente sotto le coperte. Caitlin aveva sentito la sua mano cercarle insolitamente le cosce. Nel suo tocco duro c'era qualcosa di disperato e di doloroso. Caitlin aveva tentato di voltarsi e di dormire, ma lui era scivolato sopra di lei e le aveva sollevato la camicia da notte, respirando in rapidi ansiti. Poco dopo era entrato in lei. «Che cosa stai facendo? » aveva immaginato di domandargli «Sicuro come l'inferno che ti scopo io prima che lo faccia quella provetta», le aveva risposto lui nella sua immaginazione. Ma lei aveva sopportato l'amplesso arido e silenzioso fino a quando lui non era rotolato via. Poi, stanca e dolorante, si era concentrata sull'impresa di addormentarsi. Tre giorni dopo, nello studio di Dotterweich, quarantott'ore dopo essere stata inseminata, Caitlin disse di sentirsi ancora dolorante. « Può essere causato dalla procedura. Il dolore scomparirà presto. Non c'è nulla di cui aver paura », rispose lui. « Non è stata la procedura. » «Oh?» « E stato il sesso la notte prima dell'inseminazione. Paul voleva farlo. » Dotterweich rise. «Capisco. Non è insolito. Molte coppie desiderano mescolare il proprio atto sessuale al concepimento artificiale, almeno nella loro psiche. In questo modo, possono sentirsi responsabili. Specialmente i mariti. Bisogna aspettarselo. Forse è salutare psicologicamente. » Dotterweich strinse le mani a pugno e le scosse con forza. « La potenza della spinta evolutiva è sempre presente. È meglio arrendervisi. In questo modo, Paul si sentirà più a proprio agio con il suo bambino, signora Bourke. Potrà rivendicarlo mentalmente come proprio. » Si rilassò e incrociò le braccia sul petto. « Un padre, come le ho detto, è un'entità riproduttiva che tenta disperatamente, a volte selvaggiamente, di spargere il proprio seme nella generazione successiva. Il fatto che Paul si sia sentito severamente minacciato da un sostituto biochimico, da una creatura della tecnologia - da una provetta, se preferisce - è perfettamente comprensibile. Il suo atto sessuale dell'altra notte è stata una rivendicazione del suo scopo biologico. Nella sua mente, ora può fingere di essere il padre. In effetti, con la sua scelta di tempi, potrebbe essere il padre. » Caitlin stava ascoltando soltanto a metà, ormai abituata allo stile professorale di Dotterweich e nel contempo pensando alla nascita gloriosa che la attendeva, considerando gioiosamente la felicità che avrebbe provato quando l'avrebbero informata ufficialmente che era incinta. Ma, nell'udire le ultime parole di
Dotterweich, drizzò le orecchie. « Che cosa ha detto? » Dotterweich rise di nuovo. « Ho detto che è buffo perché, con la sua scelta di tempi - sto parlando dell'altra notte - alla fine, il bambino potrebbe essere davvero suo. » Caitlin era impallidita. «Com'è possibile? Ma se è sterile! » « Naturalmente. Ma non è completamente sterile. Voglio dire, le sue percentuali il conteggio degli spermatozoi vitali - sono basse. E non è mai riuscito a ingravidarla. Ma ciò non vuol dire che non possieda uno spermatozoo sano, da qualche parte. È possibile che riesca a metterla incinta. Non è facile. Ma, se lei mi avesse chiesto, può farlo? Avrei dovuto dirle che sì, è possibile. » A quella notizia, Caitlin aveva avvertito uno strano, spiacevole pizzicore. « Ma come potremo mai sapere chi è il vero padre? » « Be', potremmo eseguire degli esami di paternità. Ma credo che lei lo saprà. » Dotterweich le strizzò l'occhio. « Le madri lo sanno sempre. E un altro istinto evolutivo. Il più primordiale degli istinti. Essere consapevole del proprio protettore. Lei lo saprà, signora Bourke. E a quel punto, forse, sarà molto fortunata e il bambino si rivelerà essere di Paul. » Vedendo il pallore di Caitlin, Dotterweich si rese conto che non avrebbe dovuto dirglielo. Era una sua politica quella di non discutere mai quella possibilità con i pazienti, per non correre il rischio che cominciassero a pensare che avrebbero dovuto insistere nel provare naturalmente, anche se potevano volerci anni e non vi era nessuna certezza del risultato finale. Anche se non disse più nulla e si affrettò a lasciare lo studio, Caitlin stava rimuginando su quella notizia inattesa. Il pensiero che ora, dopo tutta quell'emotività, il suo bambino potesse essere di Paul la sconvolgeva. Non perché avevano speso tutti quei soldi e tutto quel tempo a caccia di un donatore. E non perché lei aveva la sensazione che Dotterweich fosse stato più che disonesto per come aveva tenuto loro celata quell'informazione fino a quel momento. Ma perché non voleva che quel bambino fosse di Paul. Per lei, ora, il bambino era una fantasia. La fantasia di un'altra vita che valeva la pena di essere vissuta. Con un altro uomo, se non nella realtà, almeno nell'immaginazione. Un'impronta genetica esterna a tutto ciò che lei conosceva che al tempo stesso la spaventava, la emozionava e la ispirava. Non poteva più tornare a un'interpretazione più prosaica di ciò che le stava accadendo: un bambino così simile a tanti altri; un bambino generato da Paul. Non ne era degno. I suoi geni non erano degni di essere trasmessi. Sulla strada di casa, guidò a casaccio e passò un incrocio, ignorando un segnale di stop e finendo quasi per scontrarsi con una Mercedes. No, non sarà di Paul, pensò infine. Come aveva detto Dotterweich, le madri lo sapevano sempre. E Caitlin si convinse enfaticamente - come se non potesse essere altrimenti - che quel bambino non sarebbe stato di Paul. Ciò nonostante, mentre entrava nel vialetto d'accesso ricoperto di ghiaia, lottando per sentire i brontolii impercettibili di ciò che stava iniziando dentro di lei, dovette ammettere con se stessa che non ne era affatto sicura.
18 Prese il piccolo foglietto di carta, ora impreziosito dalla sua calligrafia florida e precisa, e con un sogghigno succinto come i suoi versi, lesse: Per amore della poesia. Non per denaro, o amore, o una qualsiasi porzione di carne. Il tuo bambino troverà la sua strada verso il mondo. Sigillò la pagina in una busta affrancata e la lasciò sulla scrivania. Poi entrò nel taxi e si godette il ronfare stanco del motore e il suono languido della musica di sottofondo alla radio. Non gli ci volle molto per raggiungere la clinica - il traffico era lieve dopo la mezzanotte - e poco dopo era di fronte alle porte a vetri, con in mano i suoi arnesi da scasso. Stava ancora sorridendo: sorrideva alla facilità di ogni cosa, all'aplomb con cui poteva permettersi di stare lì fermo a contemplare il proprio crimine, quel crimine, più orribile di qualsiasi altro, un crimine per mezzo del quale avrebbe rubato la mente di una donna, la sua identità e le sue speranze. In quel momento, l'ultimo istante dell'anonimato della donna, sentì quella sensazione familiare che gli raggiungeva il cuore, segnale della sua eccitazione. Nel giro di pochi minuti avrebbe conosciuto il suo nome e il suo indirizzo. Nel breve volgere di qualche minuto avrebbe dato un volto a quella disperazione amorfa che sapeva essere in agguato da qualche parte in una di quelle ricche abitazioni dei sobborghi, sperando di avere un figlio. Scassinò con facilità la serratura e andò al tastierino numerico dell'allarme, dove digitò il codice di sicurezza come aveva fatto già mille volte. Lo fece con la stessa autorità con cui l'aveva fatto la segretaria quella mattina, mentre lui, scrutandola attraverso le lenti di un binocolo di precisione accuratamente puntate, era rimasto seduto nel suo taxi a memorizzare i numeri che la donna aveva premuto. Poi trovò la strada per lo studio di Dotterweich e scassinò anche quella serratura. Gli armadietti metallici dell'archivio erano lì ad attenderlo. Si meravigliò dell'assoluta mancanza di sicurezza fornita a una collezione tanto impressionante di destini umani. Non c'erano videocamere, non c'erano sensori di movimento. Soltanto serrature e allarmi. E le serrature e gli allarmi non sarebbero riusciti a fermare nessuno; di sicuro non lui. Soltanto serrature e allarmi tra lui e la privacy tanto necessaria di qualcun altro, tra di lui e il volto di tutta quella disperazione. Più tardi, al deposito dei taxi, con l'eccitazione che gli montava dentro minacciando di traboccare all'esterno, tornò a prendere la busta là dove l'aveva lasciata. Sembrava tristemente desolata senza un indirizzo, e Crapshoot si sedette per porvi rimedio. Lo copiò dalla memoria recente sulla superficie bianca della busta, scrivendo lentamente a dispetto del proprio entusiasmo, con gusto, immaginando la futura madre nell'atto di aprirla: Sig.ra Caitlin Bourke 15 Stepping Hill Koad Westbridge, Connecticut 05455
Ecco fatto. Il tempismo sarebbe stato perfetto. E che busta elegante aveva scelto per quel compito, il tipo di busta che adoperava per tutte le sue importanti transazioni d'affari. La carta migliore per la migliore delle intenzioni. La mano di Crapshoot vagò verso il basso, verso il lino che gli ricopriva l'inguine, e sentì una viscosità calda che stava filtrando attraverso il tessuto. Raccolse un poco di quell'umidore e lo strofinò sulla busta appena al di sotto dell'indirizzo. Sì, la carta migliore per la migliore delle intenzioni. 19 Soltanto una brava spogliarellista poteva competere con il richiamo giornaliero della posta, per la sua promessa galante e la corrispondente delusione. Ogni giorno, Caitlin attendeva la possibilità di uscire di casa per avvicinarsi alla cassetta nera scintillante posta alla fine del vialetto per recuperare la nuova posta. Sentiva sempre un'eccitazione vagamente attutita nel corso di quella breve passeggiata, una sensazione quasi sessuale che raggiungeva il suo apice nell'istante in cui abbassava la bandierina della casella e, aprendola, vedeva il mucchietto di buste. Mentre tornava verso casa, registrava la parata delle novità dolorosamente non magiche: bollette, solleciti, cartoline da parte di conoscenti, bollettini di conto corrente prestampati. Quello che sperava di trovare nella posta del mattino la eludeva sempre, sia mentalmente che sotto il timbro postale. Caitlin non sapeva - nemmeno nella propria immaginazione - che cosa fosse. Molte persone speravano di trovare la notizia di una vincita alla lotteria, ma a Caitlin quel genere di cose non interessava: il denaro non le era mai mancato. Non poteva più illudersi, quindi, che la ricchezza potesse risolvere ogni problema. A volte, si convinceva che il suo desiderio fosse per una lettera da parte di un'amica sincera che le avrebbe abbellito la giornata. Ma poi, nelle pieghe di quella lettera, trovava ben poche cose che potessero trasformare la realtà: qualche aneddoto che la faceva ridere, pettegolezzi, qualche emozione genuina che non faceva altro che accrescere significativamente l'intensità del silenzio delle molte stanze a sua disposizione. Una volta, nella cassetta aveva trovato la lettera di un suo vecchio amante. Dopo aver visto il mittente, si era sentita intrigata. Ansiosa, aveva aperto delicatamente la busta con il suo sottile tagliacarte d'argento. Poi aveva tirato fuori due pezzi di carta lucida - le due metà della fotografia acclusa, lacerate dalla sua stessa mano avventata - un uomo familiare (ancora bello nello smoking) in una metà, e la sua bella moglie nell'altra. Nella nota di accompagnamento si scusava per non averla invitata al matrimonio, anche se immaginava che lei potesse capire. Lei capiva. Quello stesso giorno era arrivato un pacchetto della Federal Express. Solitamente, le cose di quel tipo erano per suo marito, ma quello era indirizzato a lei. Caitlin si era affrettata ad aprirlo. All'interno, con suo grande disappunto, c'era la carta di credito sostitutiva dell'American Express che aveva ordinato. Quel pomeriggio aveva portato la carta con sé a fare shopping. Aveva speso più di tremila dollari. Dopotutto, non c'era nessun limite prefissato né al suo credito, né alla sua disperazione.
Quindi oggi, come sempre, all'avviso del postino, Caitlin si attendeva, senza alcuna buona ragione per farlo, qualcosa al di fuori dell'ordinario. Se si fosse trattato soltanto di pubblicità del supermercato e di bollette, ne sarebbe - come sempre - rimasta sorpresa. Ma quel giorno era diverso, disse a se stessa mentre camminava sulla ghiaia del vialetto. Infilò la mano nella cassetta e ne prese un'unica busta. La carta della busta era delicata - pelle di cipolla - di un tipo che non vedeva da anni. Nonostante non vi fosse l'indirizzo del mittente, il suo nome era scritto con una calligrafia nitida e precisa, elegante. Nella busta c'era un solo foglio, e Caitlin lo dispiegò lentamente sul tavolo della cucina. C'erano poche parole, e quelle parole la resero perplessa. Caitlin le lesse più volte, ancora e ancora: Per amore della poesia. Non per denaro, o amore, o una qualsiasi porzione di carne. Il tuo bambino troverà la sua strada verso il mondo. Sembrava essere una breve poesia, come un haiku, del tipo che lei era solita scribacchiare frettolosamente sulla copertina interna del suo raccoglitore quando si annoiava troppo durante le lezioni al college. Non si rese conto fino a quando non ebbe percorso quasi tutto il vialetto che quelle parole non potevano aver trovato per errore la via della sua cassetta della posta. Per amore della poesia. Si afferrò il ventre e fece una smorfia. Dotterweich fu il primo pensiero che le venne in mente. Quel bastardo, stronzo grassone. Era quella la sua idea di uno scherzo? O forse era soltanto un altro sperimento scientifico? Corse al telefono in cucina. « Sì, mi passi il dottor Dotterweich, per favore. Sono Caitlin Bourke. » Una breve pausa di silenzio. « Salve, signora Bourke, sono Dotterweich. Come si sente? » « E stato lei a mandare questo biglietto? » Un'altra pausa. « Quale biglietto? » « Questa poesia. » « Certo che no. » « Allora è stato lui. » « Quale poesia, signora Bourke? » « Gliela leggo. Aspetti solo un secondo. Ecco: Per amore della poesia. Non per denaro, o amore, o una qualsiasi porzione di carne. Il tuo bambino troverà la sua strada verso il mondo. » « Signora Bourke, si sieda. » « Non sono seduta. Mi dica che cos'è questa storia. »
« Signora Bourke, lei attualmente è sottoposta a una notevole quantità di stress. Ora non vorrà certo disturbare la sua gravidanza agitandosi troppo, vero? La prego, si sieda e tenti di rilassarsi. » « Io sono rilassata. » « Signora Bourke, suo marito è a casa? » « Certo che no. Non è mai a casa. » « Signora Bourke, mi ascolti. Noi tutti incontriamo delle inevitabili difficoltà per adattarci ai rigori psicologici della gravidanza. Scoprirà che le fantasie sul donatore sono molto naturali - persino prevedibili. Fantasticare su simili comunicazioni, addirittura desiderarle... C'è un processo di transfert, di connessione biologica che tenta di imporre se stesso nell'ambito degli interventi umani. E perfettamente naturale. Ma cerchi di non lasciarsi trasportare troppo. Vi si arrenda, in qualche modo - vi indugi quel tanto che basta, magari - ma non oltrepassi il confine. Può essere dannoso, pericoloso. » « Si può sapere di che cosa sta parlando? » « Sto parlando di quello che per lei è un periodo molto emotivo: l'instaurarsi della consapevolezza di avere dentro di lei l'impronta genetica di un altro uomo, la vita e i sogni di un altro uomo. Ma li faccia suoi, signora Bourke, perché sono suoi, a questo punto. È normale provare un certo tipo di... » « Non me lo sto inventando. Non so di che cosa sta parlando. Ho ricevuto questa poesia con la posta di oggi, indirizzata a me. Gliela manderò per fax, così potrà vedere. » « Signora Bourke. La prego. Non c'è bisogno di faxare niente. La prego. Faccia un respiro profondo. » « È un biglietto scritto - una poesia - indirizzato a me. Non me lo sto immaginando. Lo sto tenendo proprio qui, nella mia mano, d'accordo? Gesù...» « Signora Bourke. La prego. Si calmi. Faccia un respiro profondo. » Una pausa. « Bene. Ora, signora Bourke, se posso chiederlo, chi è il mittente di questa poesia? » «Non c'è scritto. È il...» « D'accordo. Adesso la prego, signora Bourke, so quanto tutto questo è difficile per lei. Io... » Caitlin sbatté il ricevitore sulla forcella e corse fuori di casa, in fondo al vialetto e poi in strada per vedere se il camioncino della posta era ancora nei dintorni. Non c'era niente. Era scesa una leggera nebbia, e non c'erano automobili. Soltanto il moto ondeggiante dei rami degli alberi sopra di lei e il lieve sussurro del vento che cominciava a soffiare. Una volta tornata in camera da letto, Caitlin si sedette sulla spessa moquette e si aprì la poesia sulle ginocchia. Annusò la carta, la tenne alta in controluce, esaminò attentamente la scrittura - il tutto per riuscire a capire, da quelle misure rudi, l'identità del mittente. Il suo donatore le aveva scritto. Quello era evidente. Ma come? E perché? C'era dignità, in quelle righe. Era una poesia - e una bella poesia, se per questo,
decise. Si alzò e andò al suo tavolino da toilette, dove trovò una copia del questionario del donatore. Rilesse la frase: Per amore della poesia. Sì, lui le aveva scritto. Ed era ora, davvero. Sicuramente Dotterweich non capiva. Lei era stata curiosa. E, ora che ci pensava, stava aspettando qualcosa di simile. E lui le aveva letto nei pensieri. Sì, lei lo stava aspettando. Su questo non c'era il minimo dubbio. Improvvisamente, la logica era innegabile. Cominciò a immaginare la sua identità, la sua personalità, i suoi lineamenti. Ma poi non osò. Col tempo. C'erano quasi nove mesi perché potessero imparare a conoscersi. Nove lunghi mesi. 20 Ricordava quando, da piccolo, aveva provato le scarpe con i tacchi e il negligé di sua madre e si era sentito subito una bambina. Inizialmente, quella trasformazione tanto improvvisa l'aveva allarmato. Ma in essa c'era il potere. Con il tempo, Crapshoot aveva scoperto di essere grato per i metodi e i talenti camaleontici che gli permettevano di essere chiunque o qualsiasi cosa volesse essere, ogni qual volta e per qualsiasi motivo volesse esserla. Negli ultimi tempi, era un poeta. E soltanto la mera finzione di certe cose aveva fatto sì che ciò si avverasse: una nuova inclinazione del capo, una nuova cantilena nei pensieri; una penna nel taschino, un taccuino tra le mani. I sostegni erano molto semplici, in realtà. Come in ogni truffa, il soffitto era basso. Essere un poeta significava osservare. Fermarsi per vedere ciò che non aveva mai visto. Si era trasformato in un artista. Ma, principalmente, in un artiste. E, istintivamente, sapeva che il segreto di ogni artista risiede nell'essere solo. Una solitudine a cui non era estraneo. E quindi era predisposto. Poiché la più grande sfida, per il principiante, era sentire uno scopo per le proprie giornate quando l'unico scopo che si presenta è la pagina vuota. Ma ciò che realmente lo ispirava, deliziava, spronava e tentava era la promessa di un po' di freddo, concreto denaro. Ora Crapshoot trascorreva la maggior parte delle sue mattine al deposito dei taxi, scrivendo. Era diventato via via sempre più facile costruire una poesia. Con un dizionario da una parte e un dizionario dei sinonimi dall'altra, era ben equipaggiato. Quel giorno stava lavorando a un capolavoro, e si fermava soltanto di tanto in tanto per prendere un sorso del suo caffè. Il caffè aveva comunque un sapore amaro, amaro come la malinconia. E le immagini che sceglieva di cucire in versi erano assolutamente deprimenti. Occasionalmente, aveva la sensazione di aver trovato un altro punto di attacco, una nuova avventura per i vagabondaggi della sua mente. Quello che realmente deliziava i suoi sensi, però, era la promessa che quelle poesie anticipavano: la promessa di un'anima da prendere all'amo, da intrappolare, da sfruttare e da torturare; e da possedere. Perché ogni immagine, di ogni verso, di ogni distico e di ogni rima serbava al
proprio interno una visione del suo bersaglio: una donna sola, che si imbarcava nell'impresa dell'infanzia, con la sua impronta genetica, l'eredità del suo seme. Il fatto che lui fosse in completo controllo di quel destino lo eccitava. Sapeva così tanto del fato di quella donna, ma lei sapeva così poco del suo. Il codice della sua biologia si era insinuato nel grembo di lei. Ma il tocco di lei, il suo profumo, le sue labbra, gli erano ancora sconosciuti. Ma, ovviamente, la seduzione si muove con lentezza, e la seduzione per mezzo della poesia è la più lenta di tutte. È prudente, melliflua e indiretta. Ma, quando colpisce, colpisce duro. Ed era proprio su quella durezza che Crapshoot contava. Sollevò la penna e scarabocchiò un altro verso: Tu e io Poesia in movimento Un legame biologico. Le nostre identità meri sussurri Soltanto dopo il calar del buio. Nonostante fosse compiaciuto per la mancanza di sforzo con cui aveva creato quelle parole, si scoprì preoccupato del loro effetto. Lei le avrebbe apprezzate? Avrebbe pianto? Si sarebbe resa conto del significato dei suoi progetti? Ne sarebbe rimasta spaventata, commossa, ferita, deliziata? Crapshoot sperava in un amalgama di queste emozioni. Qualcosa di mai sentito fino a quel momento. Indescrivibile. Sapeva che i migliori giochi di confidenza sono il risultato di un equivoco. Un gioco è sempre un gioco. E la poesia era soltanto un altro di quelli. Come organizzatore del gioco delle tre carte, aveva imparato l'importanza dell'ambiguità. Nei giochi che era solito dirigere, a Central Park, nel centro commerciale, in primavera all'inizio della sera - quando i gonzi uscivano allo scoperto - la mano era sempre sua. Come? Facile. Poniamo una piacevole serata, venticinque gradi di temperatura, tempo da felpa ora del tramonto. E i pedoni che si accalcavano a imbuto nel centro commerciale, oltrepassando la Halfshell fino alla sua postazione, appena prima dell'uscita del parco. Un padre o una madre di famiglia, un bambino o un adolescente. Ognuno di essi, a turno, arrivava al suo tavolo e scommetteva su una mano. All'inizio guardavano e basta, sedotti dall'intimità del tavolino pieghevole, fissando le carte che volavano in tutte le direzioni. Tutti conoscono le regole del gioco delle tre carte. Il segreto sta proprio qui. Perché una conoscenza intima delle regole ti porta a sentire una falsa sicurezza in te stesso. E, quando le regole sono così semplici, per definizione, il gioco non può mai esserlo. Tu hai due re neri - picche e fiori - e una regina di cuori, e l'idea è quella di mescolare le tue carte con la velocità di un fulmine e di ingannare lo spettatore affinché non possa mai dire con certezza dove si trova alla fine la regina. Quando finisce, sfidi lo spettatore a indicarla. Ma lo spettatore non è mai in grado di farlo. Ciò che un tempo era rosso adesso è nero. Ciò che un tempo era nero ora è rosso sangue. Il trucco sta tutto nel confondere la disposizione delle carte. C'è soltanto una regola, era solito dire Crapshoot, nel gioco delle tre carte: fai in
modo che il gonzo si senta speciale. Era quella la chiave del gioco. Della maggior parte dei giochi. O, almeno, nei giochi truffaldini. In un giorno poco movimentato, verso il tramonto, quando tutti gli altri se ne erano già andati, un giovane si era avvicinato al tavolino - due scatole di cartone messe una sopra l'altra - e gli aveva chiesto se poteva giocare. Crapshoot si era aggiustato il garofano e aveva sorriso. « I giochi con le carte sono per gli adulti, giovanotto. Non lo sai? » «Me la cavo bene, con le carte. Come un qualsiasi adulto. » «Be', vedremo», aveva risposto Crapshoot, mescolando le carte e facendole girare il più rapidamente possibile, in un vortice frenetico. Poi aveva rallentato di proposito, mostrando un po' di rosso qua e là, attirando lo sguardo del ragazzo verso il basso e poi agitando bruscamente la mano sopra le carte silenziose. « Dov'è la regina di cuori? » Il ragazzo, vestito con un dolcevita a strisce blu e con un ciuffo di capelli castani, aveva indicato con sicumera la carta di mezzo. Crapshoot aveva schioccato la lingua, fingendosi sorpreso, e aveva rovesciato la carta con la punta di un'unghia. «Che io sia dannato, giovanotto. Ecco la regina di cuori che hai spiato con il tuo occhio di falco. Ma questo è perché non c'erano soldi in ballo. Sotto la pressione di una mano vera, non ce la faresti. » Per rispondere alla sfida, il ragazzo si era frugato in tasca e aveva tirato fuori una banconota cincischiata. « Questa volta facciamo cinque dollari. » Crapshoot gli aveva rivolto un'occhiata di disapprovazione. « Tua madre non ti ha mai detto che non si deve giocare d'azzardo? Adesso metti via quei soldi, da bravo. » « Mia madre è morta », aveva risposto il ragazzo in tono semplice, casuale. « Be', allora tuo padre deve averti detto qualcosa sul gioco d'azzardo...» « Mio padre vive lontano. Vivo con mia nonna. » « E adesso dov'è tua nonna? » «È a casa a guardare la televisione, a Bwooklyn», aveva detto lui, mangiandosi la R. «Un giovanotto come te non dovrebbe giocare d'azzardo. Adesso sparisci. » « Vincerò. » « Se ne sei così sicuro, allora proviamoci ancora una volta senza soldi, d'accordo? Vediamo se tu hai quel tocco speciale. » « D'accordo. » Crapshoot aveva mescolato nuovamente le carte, questa volta torcendole, girandole e intersecandole - sovrapponendo trucco a trucco - e infine gli aveva fatto un altro regalo mostrandogli un barlume di rosso giusto un attimo prima di fermarsi. « Ebbene? » Il ragazzo aveva scelto la regina ancora una volta. « Qui. Facile. » « Sei bravo, giovanotto. Comunque, io non accetto scommesse da cinque dollari. Quindi smamma. » Il ragazzo si era frugato di nuovo in tasca e aveva tirato fuori un'altra banconota, «Questi sono altri venti.» Crapshoot aveva guardato il biglietto di banca stropicciato. « Come ti chiami,
giovanotto? » « Kyle. » Crapshoot gli aveva battuto delicatamente una mano sulla spalla. « Io sono Billy. E un piacere conoscerti, Kyle. Ti dirò una cosa. Ti lascerò scommettere i tuoi venticinque dollari. Ma: se perdi, devi promettermi che ti comporterai come un adulto e non ti metterai a piangere. » L'aveva guardato con severità. «Promesso?» « Promesso. » Era la promessa di una persona che, non vedendone la necessità, non prende il proprio voto tanto sul serio. « Lo devi giurare sulla tomba di tua madre. » Il ragazzino aveva abbassato lo sguardo. «Lo giuro sulla tomba di mia madre. » « Benissimo. Adesso metti i tuoi venticinque dollari qui, vicino alle carte, come un adulto. Bene. Adesso guarda le carte. Tieni d'occhio la regina di cuori. » « Okay. » Crapshoot aveva cominciato a mescolare lentamente, mostrando un po' di rosso di tanto in tanto, poi aveva accelerato in una furia maligna, mostrando l'ultimo lampo rossastro e poi, altrettanto rapidamente, sparandolo invisibile sulla sinistra, laddove non avrebbe dovuto essere. « Allora? » Il ragazzino aveva indicato la carta dalla parte opposta. « Qui. » «Devi mettere i soldi dove hai messo la tua parola, Kyle. La stagione invernale è finita. Questa è la serie A. Metti le banconote sulla carta. » « D'accordo. » Il ragazzino aveva stirato il biglietto da venti e quello da cinque e li aveva messi sulla carta. Crapshoot l'aveva girata e, con la stessa rapidità, si era infilato i soldi nella tasca dei pantaloni. Sul ripiano di cartone della scatola, il re di picche se ne stava a faccia in su. « Kyle, te l'avevo detto di osservare attentamente. Queste regine rosse volano via come spiriti della notte. » Una lacrima, silenziosa, aveva cominciato a formarsi all'angolo dell'occhio del ragazzino. Crapshoot l'aveva osservata farsi sempre più grande. « Ricorda la tua promessa, giovanotto », aveva detto, prendendo i soldi e le carte, scalciando le scatole di cartone da un lato e allontanandosi nell'oscurità della sera. Sigillò la poesia in una busta. Il suo taxi partì al primo colpo. Era arrivata la primavera e, anche se lì a Northport non c'erano fiori, finalmente c'era il tepore del sole giovane. Le strade secondarie per Westbridge erano ancora umide per la breve pioggia che era caduta quella mattina, e Crapshoot le affrontò con prudenza. Dopo un tragitto di venti minuti, giunse a un semaforo rosso. Una grossa Mercedes rossa con una bionda ben conservata sulla quarantina al volante si fermò accanto a lui, segnalando con la freccia il suo imminente ingresso nel quartiere di Westbridge. La cosa lo tentò non poco, ma Crapshoot si scrollò l'idea di dosso con una stretta di spalle: non era altro che un presagio di piani ben più ambiziosi. Adoperò il semaforo rosso come un'opportunità per rimuovere la sua macchina fotografica dal vano portaoggetti e controllare le regolazioni. Poi si orientò e richiamò alla mente la strada da seguire. Sorrise. Aveva una memoria eccellente.
Proprio come doveva essere. Dopo tre viaggi di preparazione, non aveva scuse per non conoscere bene quelle strade di Westbridge: una svolta sulla Stepping Ridge Road, poi a sinistra sulla maestosa Yeoman's Way fiancheggiata da grosse querce, tenersi sulla sinistra alla biforcazione, avanti per mezzo miglio nella vallata simile a una gola. La cassetta della posta era piacevolmente appollaiata su un paletto, come un grosso uccello in attesa del banchetto quotidiano, e per l'occasionale rigurgito. Crapshoot si guardò intorno, osservando gli alberi e il silenzio. Abbassò il finestrino e aprì attentamente la cassetta. C'erano quattro lettere: tre circolari pubblicitarie e un biglietto indirizzato su carta intestata. Crapshoot prese quest'ultimo. Era indirizzato meticolosamente, con calligrafia nitida e tondeggiante, al 15 di Stepping Hill Road, Westbridge, CT. Dal vano portaoggetti del suo taxi prese un'altra lettera - indirizzata in modo simile dalla stessa mano - che aveva preso a prestito la settimana prima e che, da allora, aveva letto, fotocopiato e meticolosamente risigillato, e la sistemò nella cassetta insieme all'altra sua missiva. Poi chiuse la cassetta, fece una cinquantina di metri in retromarcia, accostò a un lato della strada e uscì. A piedi, con la macchina fotografica in mano, entrò nella boscaglia - facendo attenzione a non sporcarsi il vestito con i rami ancora umidi di pioggia - e si diresse verso la casa. Quando fu ben posizionato sulla sommità di una bassa collinetta che forniva un ottimo punto di osservazione oltre gli alberi e negli angoli della grande casa, si inginocchiò. Adoperò il teleobiettivo per osservare i particolari della costruzione e li annotò meticolosamente nella memoria prima di scattare una foto a ognuno di essi. Poi fotografò la Range Rover nel vialetto, il terrazzo deserto, la porta principale. La veranda sul retro, fuori dalla cucina, dove le luci di sicurezza non arrivavano. Era il tipo di casa in cui non gli sarebbe necessariamente importato di vivere. Fece una rapida analisi del terreno circostante, della sistemazione, delle condizioni della casa, della sua estensione, della metratura e dell'esposizione, stimandone infine il valore in poco più di un milione di dollari. Era un'ampia casa coloniale bianca in stile olandese con aggiunte più recenti su entrambi i lati. Le tegole e la porta principale erano color verde cupo. Un vialetto d'accesso circolare, ricoperto di ghiaia, circondava un agglomerato simmetrico di cespugli di conifere. Una meridiana era incastonata al centro, registrando silenziosamente il movimento delle ombre. Lei era in casa, da qualche parte. Per oggi era abbastanza, pensò Crapshoot, tornando verso il suo taxi. Sulla strada, lanciò un'occhiata alla cassetta della posta e pensò alla sua poesia che attendeva all'interno: ora era una regina di cuori. Ma che cosa sarebbe stata quando lei, così fiduciosa, avrebbe allungato la mano per prenderla? 21 «Gin! » gridò Serena buttando le carte sul tavolo. «Tre regine e una scala di cuori. » «La mano è tua», disse Caitlin, fingendo disappunto. Aggiunse le proprie carte a
quelle di Serena. « Non avrei dovuto mescolare. Porto sfortuna a me stessa. » « Non lo facciamo forse tutti? » disse Serena inarcando le sopracciglia. « Voglio dire, il punto è proprio questo. Ho portato sfortuna a me stessa fin da quando riesco a ricordare. E dopo due bicchieri di vino, tesoro, sono le peggiore iettatrice che tu abbia mai visto. » Quello era vero, pensò Caitlin. L'unica cosa era che di bicchiere ne bastava mezzo. « Dove va Kent questa sera? » «Fuori», disse Serena, facendo roteare gli occhi. Accavallò le gambe e abbassò lo sguardo. « Non lo so. Fuori, a bere con i ragazzi... con le ragazze. Non potrebbe fregarmene di meno, in realtà.» Caitlin guardò da un'altra parte. Anche Paul era fuori, a Tucson per affari. « Un altro bicchiere? » Serena sollevò il calice vuoto verso la luce. « Ti dispiacerebbe? » Caitlin le versò il vino. « E tu, ragazzina? » « Lo sai che non posso. » «Ah, già, ma certo. Il bambino. Ascoltami, dolcezza, io ho ubriacato i miei piccolini fino all'incoscienza quando mi stavano nell'utero, eppure sono venuti fuori con due braccia e due gambe. Non puoi permettere a quei dottori di farti il lavaggio del cervello. Devi continuare a divertirti. » Serena si sporse in avanti e appoggiò una mano sul ginocchio di Caitlin. Il bambino. Serena aveva pronunciato quella parola con una tale mancanza di senso materno che Caitlin si appoggiò la mano sul ventre per un impulso di compensazione. I contorni del crepuscolo imminente si proiettavano nella luce del sole, lungo le pareti bianche, oltre la bottiglia di Pouilly-Fuissé per finire sul tavolo di mogano. « Allora, chi è il padre? » domandò Serena, reclinandosi sul lungo divano bianco. « Chi è il padre? » replicò Caitlin per prendere tempo, senza sapere con certezza quanto avesse intenzione di svelare. « Sì, chi ti sei scopata? » domandò Serena con gli occhi sgranati e un sorriso dentato. « O dovrei dire chi ti ha sbattuto, tesoro? È stata la provetta, eh? Ma dai... non vergognarti. Non lo dirò a nessuno. » Caitlin considerò la propria situazione imbarazzante. Che strano che qualcuno le avesse fatto proprio quella domanda. Chi era il padre di suo figlio? I lievi movimenti che avvertiva nel proprio ventre sembravano anticipare in qualche modo la risposta fino a quando, sporgendosi in avanti, avrebbe attutito la sensazione. Le nausee regolari - anch'esse sembravano anticipare la risposta. Ma la domanda restava. La tensione di qualcosa che cresceva dentro di lei cedeva alla flessibilità della sua immaginazione. La promessa del bambino era più reale di qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua. Eppure, in essa c'era qualcosa di irreale, di terrificante, anche. Il mistero della gravidanza è tale da privarti del tutto della tua autoindulgenza. Tutt'a un tratto, le esigenze e le funzioni corporee esistono per due persone: per due persone batte il cuore, si espandono i polmoni, si dilatano i vasi sanguigni, lo stomaco digerisce, l'appetito desidera. Il corpo non soddisfa più se stesso. C'è la responsabilità di un altro
corpo. E, insieme a questa responsabilità, arriva la paura. Caitlin non si era mai curata di nessuno se non di se stessa. Ora, però, il suo corpo non le lasciava alternative. Il suo destino era legato a filo doppio con un altro destino. E, a quanto pareva, negli ultimi tempi anche con un terzo. Ricordava la natura fredda e clinica della procedura di inseminazione e le occhiate di supervisione del dottor Dotterweich. Ma non le era mai venuto in mente che in quel momento - l'istante preciso in cui gli spermatozoi erano stati introdotti nel suo utero, come le numerose Buick dei pendolari nel Lincoln Tunnel - un terzo qualcuno, il padre biologico, sarebbe stato seduto dietro le quinte, in posa per una drammatica entrata in scena. Romanticismo per mezzo della posta. E per mezzo del suo utero. Ma Serena non era la persona giusta con cui confidarsi. Caitlin lo sentiva a livello istintivo. C'era qualcosa, nella stessa esperienza di Serena nell'educazione e la crescita dei figli, che si frapponeva tra loro. E c'era qualcosa, qualcosa su una migliore amica che non capisce mai davvero, allo stesso modo in cui l'antifurto di un'automobile non allarma mai nessuno, fondamentalmente; allo stesso modo in cui una riunione familiare non riesce mai, di fatto, a riunire nessuno. « Non ne ho idea. » Serena batté le mani. « Non ne hai idea? ! » « Proprio così. » «Be', ma com'è possibile... non averne idea, voglio dire. Cristo, è come se tu fossi stata violentata o qualcosa del genere. Proprio come se un tizio fosse entrato in un bar e ti avesse strappato di dosso le mutande e il reggiseno e poi ti avesse sbattuta. È una cosa orribile, Caitlin. Dovresti scriverla nel tuo diario o qualcosa del genere. » « Non è come dici tu. » Serena batté nuovamente le mani. «Comunque sia... non ha importanza. » Abbassò la voce. « Che ne dici di qualcosa di assolutamente oltraggioso? » Caitlin fece una smorfia. «Oh, ti prego! » Serena finì il bicchiere di vino, la testa arrovesciata all'indietro. « Ti prego, non ti mettere a fare la mammina con me - almeno non ancora. Non puoi dirmi di no. Non te lo permetterò. » «Che cosa hai in mente, Serena?» Caitlin considerò le possibilità. L'anno prima era stata cocaina sul freddo cuoio dei sedili di una limousine che correva lungo la West Side Highway. L'anno prima ancora era stato cantare canzoni di Natale per la strada con indosso le pellicce e nient'altro e con in corpo troppo zabaione e troppa poca vergogna. Una volta si era trattato di raccattare ragazzi del college in un locale del posto. E poi c'era stato corrompere i poliziotti dopo aver bevuto tre bottiglie di vino ed essere state sorprese a più di centodieci chilometri orari sulle stradine secondarie di Westbridge. « Questo. » Serena le porse un pezzo stropicciato di giornale. « Corpo sodo. Look raffinato. Muscoli d'acciaio. Soltanto per signore. Costoso. Tempo di risposta venticinque minuti. Servizio in tutta la Contea di Fairfield. 8642122 », lesse esitante Caitlin. « Sembra fantastico, no? » « Sembra un gigolò. »
« Chiamo io o chiami tu? » « Perché non telefoni tu, Serena. Io vado a letto. » Serena la afferrò per un braccio. « Che cosa ti ho detto? Non sei ancora una mamma. Divertiti un po'. Vedremo se questo tizio è all'altezza di due bambole di Westbridge. » Gli occhi di Serena erano vitrei per il vino e per l'immagine di quell'intenzione. « Oppure lo faremo soltanto danzare per noi. Uno schiavo ballerino con muscoli d'acciaio. È abbastanza sicuro, no? Metterò Madonna sullo stereo e lo costringeremo a esibirsi. Quanto ti piacerebbe vedere l'espressione sulla faccia di Paul quando rientra a casa e vede che cosa sta succedendo? Paul Bourke che se ne sta lì in quell'angolo con il suo completo color cachi di Brooks Brothers... e il nostro raffinato muscoli d'acciaio in perizoma all'angolo opposto. Che ne dici, Caitlin? » « Te l'ho detto, tu chiama pure. Io vado a letto. » Quella sera, prima di scivolare sotto le coperte, Caitlin prese il foglietto che aveva nascosto sotto la federa e lesse di nuovo le parole che aveva già commentato mentalmente così tante volte: Tu e io. Poesia in movimento Un legame biologico. Le nostre identità meri sussurri Soltanto dopo il calar del buio. Quei sussurri ora erano parte di lei, mentre si infilava felicemente sotto il piumino d'oca e si godeva l'oscurità della sua camera da letto e il solitario monocolo di luce gettato dalla lampada che illuminava la sua lettura. Senza Paul, lo spazio sembrava tanto aperto, il letto immenso, le lenzuola fresche e invitanti, ma al tempo stesso profondamente deserte. Rilesse quelle parole ancora e ancora, sentendo la loro risonanza mentre rotolavano in lei, il loro significato privo di restrizioni, inalterato, assolutamente potente. Non aveva mai sospettato che delle semplici parole potessero avere un simile effetto su di lei. Soltanto cinque righe. Ma cinque righe che celebravano le trasformazioni biologiche che le nutrivano il ventre, cinque righe che ne erano la fonte vera e propria. Poco dopo, con il foglietto ancora stretto nella mano e la lampada che ancora gettava ombre negli angoli più remoti del suo letto, Caitlin si addormentò. La mattina dopo scese assonnata al piano di sotto all'odore di un bricco di caffè fresco che ribolliva. Serena era ai fornelli, badando pigramente a qualche fetta di pane tostato. Un giovane, bello, non più che ventenne, era seduto al tavolo, i riccioli scuri felicemente spettinati, la muscolatura ben definita intuibile anche sotto l'accappatoio di spugna di Paul. Le rivolse un sorriso assurdo. « Caitlin, questo è Troy, Troy ti presento Caitlin. Questa è casa sua », disse Serena, i residui fumosi della notte precedente ancora aggrappati a ogni sua parola. Caitlin annuì e si sedette di fronte a due fette di pane tostato bruciacchiato insieme a Serena e Troy. Una famiglia felice.
22 Mostrò loro le fotografie: seni, biancheria intima, labbra in technicolor. «Ha diciott'anni. È a malapena legale. E quest'altra... è una ballerina, è perfetta insieme all'altra. Fanno l'amore tra loro. E lo faranno con voi...» « Quanto? » domandò quello calvo. Crapshoot si accigliò. Detestava le domande troppo rudi e dirette. E quella era una domanda rude. Si aggiustò il garofano e la cravatta. Essere ben vestiti era essenziale, per quel genere di operazione. « Per caso vi è capitato di sentire la frase il momento della vostra vita? Questo sarà quel momento. Per tutti e due. » Crapshoot sorrise magnanimo dall'altra estremità del sedile della Cadillac. Era buio, e i fari delle altre automobili abbagliavano periodicamente lo specchietto retrovisore. Avrebbe dovuto tenerli sulla corda per un po'. I suoi pensieri si spostarono sulla sua preda più importante: dov'era lei in quel preciso momento? Quali erano i suoi pensieri? E riguardavano lui? Aveva ricevuto le sue lettere? Immaginare una qualsiasi risposta a quelle domande non faceva altro che stimolare ulteriormente la sua curiosità. Il semplice fatto di porsi le domande lo stuzzicava e Crapshoot provò nuovamente quella sensazione, ora più cruda nella sua crescente lussuria. Tornò a rivolgere la propria attenzione alla lussuria assai meno interessante alle sue spalle. L'altro uomo parlò. Aveva una bocca che, con la sua forma e lentezza ovale, si muoveva in uno sbadiglio perpetuo. « Ti ha chiesto quanto. » Crapshoot strizzò l'occhio. « Mille. » « Per la notte? » Era importante condurre la trattativa in modo duro e poi concedere qualcosa. Fai in modo che il gonzo si senta speciale. Crapshoot sorrise tra sé alla circolarità di ogni cosa. Le regole di base sono sempre valide. Era quella la magia. E in una notte come quella, quando gli sbirri erano padroni della strada e i colpi d'arma da fuoco erano troppo pericolosi, dovevi essere creativo. « Per un'ora. Entrambe le ragazze. » Quello calvo scoppiò a ridere e buttò le fotografie sul sedile. « Scendi. » Ma fu lo sbadigliatore che rimase nel gioco. « Che ne dici di cinquecento? » « Mille per tutt'e due. Per loro non vale la pena prendere di meno. Posso fare due ore, però. » Quello calvo allungò il collo per scambiare un'occhiata con lo sbadigliatore. Poi annuì. « Andata. Mille dollari per le due ragazze per due ore. Adesso dove andiamo? » Crapshoot raccolse le fotografie e parlò lentamente: « La bellezza di Stella è che è assolutamente espansiva e ansiosa di compiacere. Il suo unico scopo è di soddisfare i vostri bisogni », disse in tono malinconico, tenendo la foto bene in vista a beneficio dello sbadigliatore. Era lo sbadigliatore a condurre il gioco. Era lui il gonzo esperto. Quindi, ora lo spettacolo doveva essere rivolto a lui. «La bellezza di Amber è che è uno scorpione, e voi sapete bene come sono le diciottenni dello scorpione, insaziabili
e sensuali, gentili e generose. E nata così poco tempo fa. Magari potrete insegnarle qualcosina... » « Dove? » « Al Nightcap Inn. Le ho messe in una stanza lì. È un posto pulito, liquori a disposizione. Se volete davvero festeggiare, posso darvi un po' di cocaina per un piccolo extra. Tutte le amenità. Perfetto. Le ragazze sono tutte e due lì in questo preciso momento, con la loro biancheria sexy, e aspettano voi... » « Andiamo. » « Ma... prima devo sapere se fate sul serio. Fatemi vedere i soldi. » «Te li daremo all'albergo. » « Benissimo. » Dieci minuti dopo, posteggiarono nel parcheggio dell'albergo. Quello era il momento bello: quando era necessario accelerare il passo come il ritmo di una samba. Doveva innervosirli, fargli sudare le mani. Con le mani sudate, avrebbero avuto troppa fretta di concludere l'affare, e avrebbero fatto scivolare via le banconote dai loro portafogli con irrisoria facilità. Crapshoot amava quella parte del gioco. Quello era il test definitivo delle sue abilità prive di scrupoli. Creare qualcosa dal nulla. Avrebbe fatto la stessa cosa con Caitlin: creare qualcosa tra di loro laddove in precedenza non esisteva alcun legame. Era alchimia, pura e semplice. Lo sperma era stato d'aiuto, naturalmente. Essere il padre del bambino voleva dire essere parte della vita di lei. Forse era roba da poco, ma a Crapshoot piaceva moltissimo ugualmente. Sapeva che Caitlin si sarebbe sentita speciale molto presto, come un gonzo qualsiasi. Ma lei sarebbe stata sua per sempre. « Ora. Per venti dollari extra vi guarderò la macchina finché non avrete finito. Non si può mai sapere, in questo quartiere. E un'altra cosa: i poliziotti in borghese tengono d'occhio questo parcheggio, principalmente in cerca di spacciatori, quindi muovetevi alla svelta. Non esitate. Prendete gli ascensori sul retro dell'atrio. Avete capito? » Si voltò verso lo sbadigliatore, che aveva lo sguardo nervoso. Perfetto. « Adesso voi mi date i soldi e io vi do il numero della stanza. » Quello calvo sembrava esitante. « Muovetevi. Starsene cinque minuti fermi in questo parcheggio è la cosa più sbagliata da fare, attira il genere sbagliato di attenzione. » Crapshoot indicò una Ford LTD parcheggiata poco lontano. «Quella è un'autopattuglia senza contrassegni. Non preoccupatevi: sono qui per la droga, ma... Okay. Adesso i soldi...» Il calvo tirò fuori alcuni pezzi da cento dal suo portafogli e li contò, con le mani che gli tremavano leggermente. Dieci. Uno sopra l'altro. Crapshoot ripiegò rapidamente le banconote, ricontandole come un croupier di blackjack al tavolo da cinque dollari. Nove. « Me ne hai dato uno in meno, furbastro. » Ora il calvo era visibilmente nervoso. Si frugò in tasca e prese un'altra banconota. «Ecco qui. Quel è il numero di quella cazzo di stanza? » « Trecentoquattordici. Capito bene? Terzo piano, usciti dall'ascensore a sinistra, bussate una volta - poi due volte -avete capito? » I due annuirono. « E altri venti perché vi tengo d'occhio la macchina. Ricordate? » « Non ho pezzi da venti. »
«Be'... » Il calvo tirò fuori un'altra banconota da cento. «Curala bene », disse, più per calmare il proprio orgoglio per aver concluso un buon affare che per reale preoccupazione. « Benissimo. Ora, chiamatele per nome - Stella, Amber -quando vengono alla porta. Ricordatevelo. Se vi dimenticate i nomi, non vi apriranno. Tutto chiaro? » « Chiarissimo. » Il calvo fece per uscire dalla macchina. « E un'altra cosa. Cento dollari per gli uomini della sicurezza dell'albergo. Non vorrete certo essere beccati, no? » Un'altra banconota passò di mano. « Benissimo. Adesso state sicuri: vi divertirete. Se non mi vedete parcheggiato qui di fronte quando uscite, fate il giro e andate in Francis Street, da quel lato. Io vi aspetterò nell'ombra vicino al cassonetto dell'immondizia. » I due uscirono dalla Cadillac e si incamminarono verso le porte dell'albergo. Poi il calvo si voltò per tornare indietro. Maledizione, e adesso che cosa c'è? II calvo si sporse nel finestrino e sorrise. « Come facciamo a sapere che queste ragazze saranno quelle delle fotografie? » Bene, quella era una preoccupazione che poteva gestire. « Se non sono loro, tornate giù. » « E? » « E vi restituisco i soldi. » « E... se nel frattempo te ne sei andato con i soldi e la macchina? Che facciamo allora? » La grande domanda. Non erano nervosi abbastanza, quello era chiaro. Sarebbe andato a vedere il loro bluff. « D'accordo. Parcheggiate la macchina voi stessi. Verrò di sopra con voi. » Il calvo sorrise. Ora sembrava rassicurato. «Lascia perdere. Ci vediamo tra un paio d'ore. Ricordati solo di una cosa: se non ci sei, ti vengo a cercare. » Crapshoot si limitò a sorridere con grazia. « Passate le ore più belle della vostra vita. » Il calvo raggiunse lo sbadigliatore di fronte agli ascensori nell'atrio e premette il pulsante di chiamata. Crapshoot li osservò entrare nell'ascensore, diretti verso il niente. Poi uscì lentamente dal parcheggio e guardò l'orologio. Sulla strada di ritorno verso il centro di Northport, cercò il segnale del garage. Suddivise i propri nervi ottici in tre gruppi: uno per il segnale, un altro per lo specchietto retrovisore e il terzo per la strada. La sua mente si attardò sulla gloriosa truffa-con-spogliarello che aveva appena eseguito. In un certo senso, si era preoccupato quando il calvo aveva creato qualche problema. Ma la proprietà essenziale di ogni truffa era la sua malleabilità intrinseca, il modo in cui si contorceva per adattarsi al tipo particolare di fiducia del gonzo di turno. E anche meglio era quando si adattava a una mancanza di fiducia, come un comico che si adatta alla mancanza di risate del pubblico e la volge a proprio vantaggio. Un vero professionista sapeva sempre come prendersi gioco di quel silenzio, come vol-
gerlo a proprio vantaggio, rendendo divertente ciò che non lo era affatto. E non c'era niente di meglio, nel mondo delle truffe e dei raggiri, pensava Crapshoot, di venire sfidato con tanta determinazione da un animo cinico. Quando avevi di fronte un animo cinico, dovevi lavorare duramente per attirare quella gloriosa, speciale attenzione che tanto spesso aveva come risultato la riuscita finale. Proprio come un comico con un pubblico lento doveva lavorare tutta la sera per ottenere una risata. Ecco il segnale: un falò in un bidone dell'immondizia a Tannery Square. Quindi quella notte erano pronti a mettere le macchine sul ponte. Crapshoot guidò metodicamente, prima a destra, poi a sinistra, il sottopassaggio e finalmente dentro l'officina. Lasciò l'automobile per la riverniciatura e il cambio delle targhe e andò a prendere i soldi. Dieci minuti dopo era seduto nel buio del deposito dei taxi. Spinse via il calderone di cenere fredda che era appoggiato sul ripiano dopo una giornata di lavoro. Gli aveva detto un sacco di volte di non fumare vicino alla sua scrivania. Dopo aver preso un foglio di elegante carta da lettera dal cassetto, si mise a riflettere sul compito che doveva portare a termine quella notte. Improvvisamente, si sentiva ansioso. Il suo spirito poetico avrebbe dovuto essere rifornito di fresca linfa, perché era stanco per la giornata di lavoro. La realtà di essere un poeta gli gravava intorno come l'odore stantio del fumo di sigaretta. Uno era costretto a trovare nuove immagini ogni giorno, da qualche parte. Persino quelle prive di senso, le immagini idiote, quelle risibili. Nei primi turni se l'era cavata bene. Sentiva che i suoi versi erano ben scelti, il ritmo chiaro e brillante, l'impatto sentito. Ma la pigrizia minacciava di prendere il sopravvento. Cominciò: Parole speciali, forme, figure, Un nuovo inizio giace in attesa... Ma quelle parole gli sovvennero con difficoltà. Doveva andare a casa e dormire sul lavoro di quella sera. Frugò nel cassetto e prese il libro di poesie di Cornelius, alle cui pagine aveva già fatto le orecchie. Magari un po' di ispirazione. Lo aprì a una pagina a caso. Aveva avuto intenzione di dipendere solo da se stesso un po' più a lungo, ma perché sforzarsi di lavorare con il proprio stanco linguaggio? Voleva corteggiarla con i propri termini, le proprie immagini, le proprie parole, le proprie rime. Ma per quale motivo faticare tanto? Le parole del poeta avrebbero parlato altrettanto bene di lui. E indossare l'identità del poeta era come indossare i suoi bei lineamenti raffinati e maturi, divenire un cantore famoso. E, trasformandosi in un cantore famoso, avrebbe corteggiato la leggiadra dama. Era un piano antico, inebriante. E sarebbe andato bene come qualsiasi altra cosa fosse riuscito a concepire. E ora avrebbe rivendicato come propri, per il suo gioco, i versi di un poeta famoso! Perché no? Se c'era una cosa più facile che truffare il mondo con la poesia, era truffare il mondo con la poesia di qualcun altro. Come giocare a poker con soldi falsi: i rischi si riducevano, il guadagno
aumentava. Poi, però, un'urgenza improvvisa a fare da sé prese possesso di lui. Se era in grado di fare qualsiasi cosa, allora perché non questo? Se era in grado di perpetrare qualsiasi raggiro, allora di sicuro poteva gestire il più semplice di tutti: poche parole raggruppate allo scopo di alterare le emozioni di qualcun altro. Era abituato a interpretare una parte. Era abituato a variare il proprio accento, alle barbe finte e ai documenti falsi. La poesia era tutto ciò e, al tempo stesso, era meno di tutto ciò: nient'altro che qualche sillaba zuccherosa scarabocchiata su una pagina per adescare un'ignara credulona. Ispirato dal silenzio del deposito dei taxi, rimase in ascolto del proprio battito cardiaco. Le sue pulsazioni, ancora tambureggianti dall'ultimo raggiro, rintoccavano come la campana di una chiesa in una parrocchia vicina. Che cosa aveva detto il poeta? Scrivi basandoti sull'esperienza? Le idee non fanno altro che passare, aveva detto, come un taxi in una notte d'inverno. Crapshoot sollevò la penna e scarabocchiò qualche verso. Sulla pagina bianca, sembravano buoni come qualsiasi cosa avesse letto nel grande libro di poesie di Conan J. Cornelius. Rilesse con piacere l'ultima riga: Porta a una lealtà tanto sincera. Poi, d'impulso, aggiunse: Io sogno un figlio. E tu, la sera? Crapshoot sorrise alla rima finale. Altri poeti avrebbero fatto meglio a imparare da lui, pensò mentre passeggiava verso la buca delle lettere. Genio, puro genio. Il tipo di genio che passava sempre inosservato. Fino a quando l'amore, per quanto malriposto, non lo reclamava per sé. 23 « Il dottor Dotterweich la riceverà subito. » « Grazie. » Caitlin si alzò e si diresse verso lo studio ormai familiare. La porta si aprì e una mano la condusse verso una delle poltrone dall'alto schienale riservate agli ospiti. « È bello vederla, signora Bourke. Vedo che stiamo arrivando a qualcosa», disse Dotterweich con un sorriso, annuendo in direzione del suo ventre leggermente rigonfio. « Ha buon occhio, dottore. Paul se n'è accorto per la prima volta ieri sera. Ed ero senza camicia. » « Ho lo sguardo allenato. Lo sguardo di un medico. Suo marito ha lo sguardo dell'amore. E, come lei sa molto bene, l'amore spesso è cieco. E molto triste, la miopia dell'emozione sincera. In confronto, la scienza riesce a vedere molto lontano. Eppure, c'è qualcosa che deve essere detto sulla lente vecchio-stile del sentimento. »
« Suppongo di sì. » « Signora Bourke, lei è sempre molto paziente nell'ascoltare le mie tirate incoerenti. » « Proprio vero», disse lei con l'esatto accento di Dotterweich. « E mantiene un buon senso dell'umorismo. Meraviglioso. Non esiste terapia migliore per avere un bambino sano. » «Un bambino?» « Sì. » « Non può essere più specifico? » « E sicura di volerlo sapere? » «È per questo che sono qui.» La sua pazienza nei confronti di Dotterweich e delle sue farneticazioni si era quasi esaurita. O nei confronti del suo tono pomposo e pedante. Delle sue teorie supponenti. Delle sue prediche. Di tutto. Voleva soltanto sapere. Voleva soltanto sapere: per lei e, soprattutto, per il padre. Portava sempre con sé le sue poesie, ora, e aveva creato un piccolo album. Alcune poesie erano finite lì. Altre erano finite sulla parete dello studio per beneaugurio. «Benissimo, allora, signora Bourke. » Dotterweich abbassò lo sguardo sulla sua cartella per controllare un'ultima volta il risultato della sua scoperta. « Lei è la gestante di uno splendido, sano, meraviglioso bambino: un maschio. » Caitlin chiuse gli occhi e sentì la gioia espandersi dentro di lei in progressione geometrica. Conoscere il sesso del nascituro era sapere tante cose in più. Sapere che era un maschio era sapere che era umano. E sapere che era umano era conoscere ciò che risiedeva dentro di lei. Non un animale. Non una mostruosità. Non un errore biologico. Ma un essere umano. Un amico. Un figlio, suo figlio. Il figlio di lui. 24 Anche se non aveva mai avuto un appuntamento, sapeva che cosa richiedeva la seduzione. Aveva visto i film. Aveva persino sorseggiato del vino rosso. Questa volta, Crapshoot scelse sei diverse poesie. Poi le imbucò. Accluse una nota: Le ho scritte per te - e per noi -per tutti e tre. La seduzione è convincere qualcuno che sei ciò che non sei. Quella era la semplice equazione che tenne a mente mentre guidava. Un appuntamento era uno spettacolo. Ogni attore recitava, convincendo l'altro di essere di fronte a una persona migliore di quanto non fosse in realtà. Lui sarebbe stato un poeta famoso, soltanto per non esserlo. Qualcun altro avrebbe potuto essere soave o raffinatamente bonario, soltanto per trasformarsi in un essere rude al mero suono delle campane del matrimonio. L'elemento della seduzione lo eccitava profondamente. Ma, mentre si avvicinava al semaforo rosso, scoprì che la seduzione seguiva lo stupro: lui l'aveva penetrata - per
mezzo di una provetta, magari - ma il fatto non cambiava: l'aveva comunque penetrata. E, se lei l'avesse conosciuto davvero, se avesse conosciuto la sua mente e le sue predilezioni, non avrebbe mai acconsentito. Quindi si trattava di stupro, alla fine. E di uno stupro molto high-tech. Uno stupro in provetta. Crapshoot scoppiò a ridere. Uno stupro in provetta. Aveva superato se stesso. Si ricordò della puttana di Northport che era stata gettata nelle acque dell'Essex River. Crapshoot stava passando vicino alla riva proprio quando la polizia aveva rinvenuto il corpo. Il busto della donna, un tempo umano, era malamente mutilato e soltanto il groviglio scomposto che imitava vagamente la struttura delle membra dava un'idea di ciò che era stata un tempo. Crapshoot era sceso dal suo taxi per guardare gli infermieri caricare i resti nell'ambulanza. Aveva sentito un poliziotto dire che probabilmente era stata violentata, poi uccisa e infine mutilata. Una cosa così primitiva, aveva pensato Crapshoot: lo stupro era terminato con l'omicidio, e la mutilazione era un tentativo disperato di infliggere altro dolore, persino dopo la morte. Una simile rabbia, così mal diretta. Perché, per stuprare realmente, per mutilare davvero, era necessario mantenere il corpo in vita, mantenere il battito cardiaco, provocare vera agonia a un vero essere umano. Al semaforo rosso guardò nello specchietto retrovisore. Non aveva l'aria di uno stupratore. Non sembrava nemmeno un uomo dall'animo crudele. Sono sempre in attività. Sì, stava interpretando una parte, d'accordo. Rise di nuovo. Ah, se lei avesse interpretato la propria! 25 Oggi l'avrebbe incontrata. Ne aveva abbastanza delle poesie. La costruzione delle parole era tediosa. C'era qualcosa di così splendidamente certo, di facile, in un taglio fatale alla giugulare, in un portafogli rubato, in un lavoro ben fatto. Quella sensazione torturante nei pressi del garofano compariva sempre più spesso. E lui si appoggiava leggermente la mano appena al di sotto del fiore per allentare la sua insistenza. L'intossicazione del potere su un altro essere umano era il fattore scatenante. Forse era la paternità. Non era mai stato padre, prima. La paternità. Forse si trattava di quello. Oggi l'avrebbe incontrata. Stava pensando questo mentre guidava lungo la Merritt Parkway, godendosi la brezza primaverile. In primavera, il Connecticut lo chiamava a sé. Con una certa qual brama indistinta, Crapshoot notava le variazioni botaniche, la magia del disgelo, la maniera in cui la musica della sua autoradio suonava meglio con i finestrini abbassati. La primavera lo faceva sentire in vena di compere. Andiamo a fare shopping, disse tra sé, con la Range Rover che manteneva una velocità costante di ottanta chilometri orari davanti a lui. Era carina, pensò. Con l'arrivo della primavera, il suo ventre si era gonfiato. Non in modo tanto evidente da far sì che chiunque potesse accorgersene senza guardare attentamente, è vero... ma lui non era chiunque. Caitlin aveva un aspetto sano, materno, almeno per lui. Si era tagliata i capelli biondi a caschetto. Nella Range
Rover, sospesa al di sopra delle automobili intorno a lei, Caitlin Bourke sembrava felice. L'uscita. La rampa. Il girotondo della curva quasi infinita. La svolta verso il centro commerciale. Andiamo a fare shopping. Crapshoot attese in silenzio, contando le persone che entravano, i negozi, i minuti, i dollari che aveva in tasca. Poi Caitlin emerse dal negozio di giocattoli Toy Park reggendo grandi sacchetti contenenti ogni genere di gioco. Gli oggetti fuoriuscivano in modo sublime dalle borse: Crapshoot immaginò i giocattoli, gli animaletti di peluche, le bambole Barbie e Ken e tutto ciò che poteva comprare la felicità di un bambino. La osservò lottare con le borse, i giocattoli, le alte pile di divertimento. Il mondo di un bambino era di una tale semplicità, pensò Crapshoot. Un orsacchiotto, un triciclo, un puzzle: ognuna di quelle cose poteva generare un mondo per se stessa, un luogo di fascino, una pozione magica per l'immaginazione. Gioia. Ma le cose che rendevano felice un genitore erano tanto complicate: il risultato di perfetti allineamenti ormonali, di un tenue equilibrio emotivo, di turgide passioni. Caitlin, per esempio, aveva bisogno di un bambino per essere felice. Crapshoot pensò alla complessità che un'ordinazione tanto impegnativa richiedeva: la corrispondenza genetica, le divisioni cellulari, lo sviluppo neurale, la dose giusta di questo e di quello in un preciso momento. Sembrava impossibile. Mentre lui, Crapshoot, aveva bisogno di così poco. Nelle sue richieste era simile a un bambino: denaro, potere, un pochino di crudeltà. E Caitlin l'avrebbe reso felice. A partire da oggi. Una famiglia felice che si incontrava per la prima volta. Non in modo tradizionale, naturalmente. La tradizione avrebbe dovuto aspettare. Guidò accanto alla Range Rover e si guardò intorno. In quel mare di automobili e di voglia di comprare nessuno sembrava essersi accorto di lui. Ma poi una donna tentò di fermarlo e Crapshoot accese la luce di fuori servizio, dubitando che potesse vedersi in tutto quel sole. La donna si allontanò con le sue borse e si diresse verso il telefono pubblico, e Crap-shoot tornò a rilassarsi. Parcheggiò poco distante e si avvicinò alla Range Rover di Caitlin. Dopo aver lanciato una rapida occhiata in giro, aprì il cofano e scollegò i fili della batteria. Richiuse il cofano, tornò al suo taxi e rimase in attesa. Una Barbie, un Ken - semplicità - le piccole cose della vita... Si aggiustò il garofano ancora una volta: quello era un giorno importante. 26 Fermandosi nel parcheggio con le due borse che la tiravano verso il basso con la stessa forza da entrambi i lati, Caitlin per un istante non riuscì a ricordare dove avesse messo la macchina. C'erano così tante Range Rover nel Connecticut, a quei tempi, ed erano tutte verdi. Poi ricordò la direzione approssimativa e si incamminò da quella
parte. La luce del sole era accecante, e il riflesso di decine di tetti di automobile gli avvolgeva la testa come un caleidoscopio suburbano multicolore. Era contenta della giornata e dei suoi acquisti. Sapere che lui sarebbe stato un maschietto significava sapere cosa fare. Adesso aveva la sensazione di sapere tutto ciò di cui avrebbe mai avuto bisogno. Quei giocattoli, quei vestiti, quell'amore, quella maternità. Comprare i giocattoli era divertente. I corridoi tra gli scaffali del negozio, così pieni di promesse, si erano confusi l'uno con l'altro. C'erano così tante cose che Caitlin riusciva a immaginare di dargli. Quanto l'avrebbe fatta sentire felice dargli tante cose. Caricò il peso felice dei sacchetti sulla Range Rover e girò la chiavetta di accensione. Il motorino d'avviamento gemette e Caitlin provò di nuovo. E poi ancora. Il gemito dell'automobile si confuse con il suo. Sospirò, frustrata. Non aveva mai avuto quel problema e si raddrizzò a sedere nel sedile confortevole, maledicendosi per non aver fatto installare nella macchina un telefono cellulare. Controllò i fari, ma l'interruttore era nella posizione giusta. Si guardò intorno in cerca di un segnale di salvezza. C'era una cabina telefonica dalla parte opposta del parcheggio. Avrebbe chiamato l'automobilclub; era socia. Paul le aveva detto molte volte che telefonare all'automobilclub le avrebbe procurato in men che non si dica un carro attrezzi e un passaggio nel luogo in cui era diretta. Cercò il numero di telefono nella sua agendina tascabile e rimase colpita da un istante di autocommiserazione che coincise con il fremito del bambino dentro di lei. Non aveva importanza ciò che diceva Paul di quelle cose. Paul le aveva sempre dato il consiglio: telefona all'automobilclub, ecco che cosa devi fare. Le sembrava quasi di poter sentire il tono irritante che gli saliva nella voce quando era sicuro di qualcosa di banale. Ma il bambino non poteva guardare a Paul. Il bambino avrebbe guardato a lei. Dopotutto, lei doveva proteggerlo. Cercò più rapidamente nella borsetta. Non le piaceva affatto la sensazione di trovarsi in un centro commerciale e di non essere in grado di andarsene. No, il bambino non poteva guardare a Paul. Paul non c'entrava nulla con il bambino, non più di quell'autista di taxi che le stava facendo cenno d; abbassare il finestrino. Caitlin tentò di aprirlo, ma poi rise di sé: il cristallo elettrico era morto come il resto della Range Rover. Aprì la portiera di qualche centimetro. « Sì? » « Ha problemi con la batteria? » « Credo di sì. » Guardò l'uomo seduto diritto dietro il volante del taxi. Era vestito in modo insolito. Caitlin non potè fare a meno di notare il completo stirato a puntino, il fiore all'occhiello, i gesti fin troppo formali e la voce impostata. « Sì, credo di essere passato vicino alla sua jeep poco fa. Aveva lasciato le luci accese. » « Oh, non credo. Ho controllato...» « Naturalmente, ha controllato l'interruttore. Nelle Range Rover, le luci automatiche non funzionano molto bene, si accendono e poi non si spengono. Non è colpa sua. Ho visto molte di queste macchine britanniche, ed è così che funziona. Naturalmente posso portarla io dove vuole andare, sempre che non sia troppo
lontano. A una stazione di servizio o a un'officina con il carro attrezzi. Non le farò pagare la corsa. Ho simpatia per i viaggiatori in difficoltà. » Le rivolse un sorriso espansivo, e Caitlin si sentì subito meglio. Così sarebbe stato molto più facile che telefonare all'automobilclub e aspettare per chissà quanto tempo. Poteva farsi dare un passaggio fino a un carro attrezzi e poi, semplicemente, mandarli indietro al centro commerciale a prendere la macchina. Ma se si fosse trattato soltanto della batteria... « Non potrebbe semplicemente aiutarmi a farla partire? Voglio dire, ha i cavi? Così sarebbe molto più facile. E sarò felice di pagarla per il disturbo. Diciamo venti dollari? » Il tassista parve deluso. Rimase seduto in silenzio per un istante, tentando evidentemente di ricordare se aveva i cavi per la batteria, poi aprì la portiera e si avvicinò al finestrino. Sorrise di nuovo. Aveva un sorriso elettrico. Un sorriso che rivelava una chiostra di denti grossi e bianchi. Ma c'era qualcosa di vagamente innaturale in quel sorriso. Qualcosa - non qualcosa di finto - di troppo sincero. «Ci proverò, senza dubbio. Mi dimentico sempre di avere i cavi nel bagagliaio. E non le farò pagare assolutamente nulla. » Si affrettò a sollevare il palmo della mano per rintuzzare qualsiasi protesta possibile. « Ora, come le ho già detto, una donna in difficoltà, e una madre in attesa, per giunta. » Caitlin abbassò immediatamente lo sguardo. Non si era resa conto che fosse già tanto evidente. Sapeva che il suo ventre si era ingrossato, ma essere subito identificata come madre a quel modo... Be', avrebbe dovuto esserne orgogliosa, ora che era accaduto. « Sì, ormai non manca molto. » Rise. « Stavo facendo un po' di acquisti. Giocattoli e cose del genere. E divertente fare scorta in anticipo. » Che commento disdicevole, se non fosse stata incinta. Era una regola d'oro, quella di non domandare mai a una donna se era incinta, se non eri assolutamente sicuro che lo fosse. Una frase del genere poteva portare a un momento di serio imbarazzo... « Naturalmente. » La voce dell'uomo era tutto ciò che riusciva a seguire, ora che lui aveva aperto il cofano e aveva allungato i cavi all'interno, piegandosi per aggiustare i collegamenti. Caitlin si sorprese a preoccuparsi che potesse macchiarsi il vestito. Era strano che fosse vestito in modo tanto formale. Guardò la portiera del taxi NORTHPORT TAXI - forse avevano delle regole molto rigide per i loro autisti. O forse l'uomo stava andando a un matrimonio. Si accorse che non stava pensando nel modo giusto: un'ondata di nausea le passò nello stomaco, e Caitlin chiuse gli occhi per combatterla. « Bene, credo di averli collegati nel modo giusto», disse l'uomo. «Perché non prova a mettere in moto? » Caitlin provò l'accensione. L'automobile si mise in moto senza esitazioni. Il ronzio tranquillo del motore straniero fu il benvenuto. « Grazie », disse. « E un vero sollievo. » Si frugò nella borsetta per prendere una banconota da venti dollari. Era giusto. Ma l'uomo era già al finestrino, scuotendo la testa. « Ora sarebbe davvero ineducato, non trova, dopo che le ho detto quanto sono sensibile agli automobilisti in difficoltà. » « È stato molto gentile da parte sua », disse Caitlin imbarazzata, appoggiando il portafogli sul sedile del passeggero. «Be', allora grazie. Grazie tante davvero.» Aspettò che l'uomo togliesse la mano dalla portiera per poterla finalmente
chiudere. Ma la mano rimase lì, sfiorando la gomma che correva lungo la sommità dell'intelaiatura del finestrino. « È un bambino o una bambina? » Sembrava una domanda strana, dato che la maggior parte delle persone solitamente non lo sa e, nonostante lei lo sapesse, tutt'a un tratto scoprì di non volerglielo dire. « Non lo so. E meglio che sia una sorpresa. » Lui sorrise. Caitlin rimase turbata da quel sorriso. Era come se lui sapesse che stava mentendo. Venne assalita da un'altra ondata di nausea, seguita da un lieve brivido. Sperava di non sentirsi male. Era ora di andare a casa. « Non è contenta di essere sul punto di partorire? » domandò lui, spegnendo il sorriso. « Voglio dire, è una bella sensazione, immagino. Emozionante. Non è così facile restare incinta, di questi tempi. È fortunata a essere fertile. Cerchi di trarne il meglio. Ci sono molte preoccupazioni, là fuori nel mondo, lo so. Ci sono tante cose da cui proteggere i bambini, al giorno d'oggi. Vede, capisco che cosa sta passando. Anch'io sono...» « Mi scusi. » Era ora di andare. Non voleva essere scortese, ma non si sentiva affatto bene e non aveva tempo di parlare con uno sconosciuto, né di intrattenere strane conversazioni nel parcheggio di un centro commerciale. Era abbastanza facile sopportare le pene sociali più intollerabili, se ci si sentiva bene. Ma, con una buona dose di nausea, anche il più piccolo scambio di parole si trasformava in un'impresa. Caitlin studiò il volto dell'uomo. Era accigliato. Ora, insieme alla nausea, avvertì anche un vago senso di colpa. Quell'uomo era chiaramente solo. « Non mi sento bene. E mi aspetta un lungo tragitto prima di arrivare a casa. La ringrazio moltissimo per il suo aiuto. » Ancora quel sorriso fin troppo sincero. « Non le ci vorrà molto per arrivare a Westbridge di sabato, al massimo un quarto d'ora. » « Già, grazie ancora. » Chiuse la portiera e si immise nelle corsie di uscita del parcheggio, mescolandosi rapidamente con le altre automobili. Provò un senso di sollievo. Non era sicura del perché. Mentre procedeva sulla rampa e poi sull'autostrada, aprì il finestrino e lasciò che l'aria fresca entrasse insieme al sole, sfiorandole la guancia. Sentì la nausea che se ne andava. Era bello essere sull'autostrada e spostarsi rapidamente dopo tutto quel tempo passato immobile. Il traffico era leggero. L'uomo aveva ragione... Non le ci vorrà molto per arrivare a Westbridge di sabato, al massimo un quarto d'ora... Ricordò il vestito, il sorriso, il fiore all'occhiello. Era una persona strana... non le ci vorrà molto per arrivare a Westbridge... Come faceva a sapere che lei veniva da Westbridge? Inclinò il capo, come per ascoltare un rumore in lontananza. Immagino che non sia troppo difficile immaginare che una Range Rover da queste parti sia diretta a Westbridge, pensò, avvertendo un senso di imbarazzata nudità per essere stata inquadrata tanto facilmente per la sua ricchezza. Quella sensazione strana rimase in lei per qualche minuto, ma alla fine Caitlin riguadagnò la precedente euforia per i suoi acquisti, e quell'euforia le scacciò dalla mente ogni ricordo del tassista. 21
Era tornato a scuola. La scuola l'aveva sempre annoiato: le sciocchezze degli insegnanti che parlavano da dietro una cattedra ammuffita, le regole e i regolamenti che non permettevano a nessuno di fare qualcosa che valesse la pena di fare. Aveva sempre marinato la scuola, però, quindi i suoi ricordi non potevano essere considerati affidabili. La maggior parte delle sue idee sulla scuola proveniva dalla televisione che guardava mentre la stava marinando. Quindi, con una fitta improvvisa di giustizia feroce, Crapshoot decise che non sarebbe stato affatto leale per lui giudicare. Ma quella scuola sarebbe stata diversa. Non era mai stato in una scuola di parto e non aveva idea del curriculum. Immaginava che si trattasse di qualche consiglio sul parto e sull'allevamento dei figli, seguito da qualche predica sulla vita familiare. Comunque, era pronto per qualsiasi cosa fosse arrivata: era sempre ansioso di affrontare nuove esperienze. Era sempre in attività. E, ovviamente, lei sarebbe stata lì. Poche mamme erano già entrate nella stanza, prendendo piccoli materassi da una pila accanto alla parete posteriore e riunendoli in cerchio al centro della sala. Un padre arrivò alle calcagna di sua moglie e si sedette accanto a lei, con l'aria stanca per la giornata di lavoro, a disagio e ben consapevole dei propri vestiti da ufficio. Crapshoot ridacchiò tra sé: non sarebbe stato l'unico a indossare un completo. Provò immediatamente disprezzo per quel futuro padre bancario di classe media che era stato trascinato in quel posto dalla sua mogliettina dominante. Quell'uomo dispiaciuto avrebbe dissodato il suolo della carriera per la sua famiglia come un servo della gleba russo e avrebbe sviluppato ulcera e glaucoma all'ombra del loro potentato. E poi sarebbe morto, lasciando dietro di sé un'eredità non più imponente della sua pensione e delle sue pantofole verdine. Una donna matroneggiante che Crapshoot immaginò essere l'insegnante prese posto con aria neutrale a capo del cerchio, contrassegnando la propria autorità soltanto dal modo in cui si sedette, assolutamente sicura di sé, in stile yoga, sorvegliando la stanza con le orecchie tese e gli occhi chiusi. Caitlin non si vedeva ancora. Crapshoot si domandò come si sarebbe vestita. Sapeva che l'immagine che si era fatto di lei dopo l'incontro fuori dal Toy Park era incompleta. Il primo incontro ravvicinato non presenta mai un quadro completo. Aveva dei problemi nel visualizzare la curva della sua gravidanza, la silhouette del ventre che indicava la forma della nuova generazione. Ed era quello ciò che voleva vedere. Nella luce brillante e rinvigorente di quel breve incontro, in lui era germinata un'emozione oscura. Aveva guardato il ventre e si era reso conto che lì albergava qualcosa di suo. In un impeto di brama di possesso, aveva deciso che avrebbe avuto la sua proprietà. Dopotutto, la proprietà era la proprietà, e quella era sua. Non era certo il tipo di persona che si separa da ciò che è suo. Fino a quel momento, negli esseri viventi - nella carne e nel sangue - non aveva mai visto nulla che desiderasse veramente avere. Tutti i suoi desideri erano inanimati: una scintillante automobile nuova, un portafogli pieno, una casa di cinque locali, o il luccichio dell'oro. L'unica cosa organica nel mezzo dei suoi desideri era il garofano fresco che se ne stava solitamente appollaiato sulla soglia del suo cuore, dove quel giorno la sensazione
torturante, come ormai accadeva praticamente ogni giorno, lo tormentava senza misericordia. Ma avrebbe avuto ciò che era suo di diritto. Una donna alla sua sinistra gli fece cenno di avvicinarsi e di sedersi sul materassino. « Non abbia paura di sedersi nel cerchio. Davvero. Non mordiamo mica. L'istruttrice, Alexa, è molto gentile e molto comprensiva», disse la donna; la sua gravidanza che sembrava orribilmente grossa in contrasto con la corporatura minuta. Crapshoot scese dal piccolo sgabello e si sedette sul materassino accanto alla sproporzionata futura mammina. «Vedo che è appena uscito dal lavoro», gli disse lei, indicando il suo vestito. « Molti papà lo fanno, e ovviamente anche le mamme, quindi non si formalizzi per questo, d'accordo? Sua moglie è qui? » «No, voglio dire, non siamo sposati. E lei non è qui. A quanto pare, sono una specie di rappresentante eletto. » Esibì il suo sorriso più ampio. « Oh, va benissimo. Abbiamo molte coppie non tradizionali, qui. Io stessa sono single. E vengono anche tanti padri, di solito. » Si guardò intorno nella stanza con un'ombra di disappunto. « I lunedì sono difficili, per i padri. E al lunedì che specifichiamo i nostri rimpianti. Gli uomini hanno delle difficoltà a esprimere i loro rimpianti a voce alta. » « Capisco. » La sua attenzione stava vagando, ora, soffermandosi su Caitlin e il bambino e chiedendosi per quale motivo non fosse ancora arrivata. Intercettando la sua posta, sapeva che si era iscritta a quel corso. Non aveva immaginato che fosse il tipo di donna che arriva tardi. Dentro di lui nacque un disprezzo sempre crescente per la donna al suo fianco. Continuava a parlare di scempiaggini come se nulla fosse. Poi Caitlin arrivò. Era evidentemente incinta, e Crapshoot avvertì un senso di possessività afferrargli lo stomaco mentre la osservava sedersi a gambe incrociate a quattro posti di distanza alla sua destra. La sua visuale era leggermente oscurata. Caitlin sorrise alle altre persone disposte in cerchio: era evidente che le conosceva di vista, se non addirittura per nome. Quando posò lo sguardo su di lui sorrise, ma a disagio, come se fosse dispiaciuta di non riuscire a ricordare un volto che le era familiare. Crapshoot la fissò, mentre nel suo cuore cresceva quella sensazione torturante, e si domandò se si ricordava di lui, ma la rapidità con cui focalizzò la propria attenzione sul resto del gruppo gli fece capire che così non era. «Respiriamo profondamente», cominciò Alexa, portando i palmi delle mani davanti a sé sul piano immaginario dei volti che aveva di fronte e cominciando una lunga inspirazione. Crapshoot non partecipò, ma osservò gli altri, compreso il padre inconcludente, eseguire l'esercìzio. Immaginò la debolezza con cui avrebbero allevato i loro pargoli, preparandoli alla vita con un bagaglio di istruzioni stupide, coccolando le loro peggiori indulgenze, fornendo loro una possibilità esigua di sopravvivere nel nuovo mondo. Guardare la moltitudine di palmi levati di fronte a lui era come guardare le mani vuote di mille mendicanti storpi, tutti che lo supplicavano di un'elemosina di qualche tipo. Quello era il genere di cultura che Crapshoot disprezzava. La donna alla sua sinistra gli sfiorò il gomito per rimproverarlo. Crapshoot si
ritrasse istintivamente, nascondendo la pistola nascosta sotto l'ascella dal suo tocco. «Deve fare la respirazione», sussurrò la donna. «Senza la respirazione, non ci sarà nient'altro. La chiave è la respirazione. Libera la tensione di tutti i giorni e permette alla circolazione di aprirsi. E da lì può ottenere la consapevolezza di ciò che la circonda. Da lì può rilassarsi a sufficienza per dichiarare a voce alta i suoi rimpianti, e ciò porta onestà e schiettezza. E questa onestà... questa onestà è ciò che più di ogni altra cosa aiuterà il bambino. » Crapshoot decise di ignorarla. Qualcuno aveva abbassato le luci e ora il cerchio assomigliava a una seduta. Avrebbe preferito un poco di rituale pagano: un po' di sangue dall'utero, un falò nel mezzo, il sacrificio di un bambino ai margini. Ma una seduta. Rise tra sé al pensiero: levare i vivi dagli uteri. Era appropriato. Avrebbero potuto tranquillamente essere i morti. Quelle crescite sventurate che riposavano in quei rigonfi ventri materni non erano più equipaggiate per il mondo di quanto non lo fossero gli spiriti dell'aldilà. Crapshoot non aveva alcun interesse in nessuno di loro. Tranne uno... Guardò Caitlin, gli occhi chiusi, i palmi protesi, il ventre disteso. Lì, almeno, c'era qualcosa di speciale. Qualcosa che apparteneva a lui. La voce di Alexa interruppe i suoi pensieri: «E lentamente, aprite lentamente, lentamente... okay. » Tutti aprirono gli occhi, ma le luci rimasero soffuse. « Oggi è lunedì. Quindi è il momento dei rimpianti. Per i nuovi arrivati, questo è un modo per far sì che il bambino venga al mondo sgombro dai nostri difetti. Dichiariamo i nostri rimpianti affinché il bambino non debba mai farlo. Tutti noi arriviamo a questo punto della nostra vita con dei rimpianti, e per essere onesti fino in fondo dobbiamo condividerli con gli altri. Non è onesto far finta che la nascita sia perfetta. » Guardò il soffitto. « La sola cosa onesta è essere consci delle nostre debolezze. » « Perché non cominci tu? » iniziò con una madre attempata che era ancora magra come un chiodo. « Vorresti iniziare tu, Melanie? » Melanie sembrava compiaciuta che le fosse stato chiesto di farlo. Crapshoot le rivolse un sogghigno minaccioso. La donna abbassò lo sguardo e parlò borbottando rivolta alla moquette. « Continuo a rimpiangere ciò che rimpiangevo la settimana scorsa: aver aspettato così tanto per partorire. Non è che ho avuto molti problemi. Fortunatamente, siamo stati in grado di concepire così. » Fece schioccare le dita, ma erano troppo deboli per generare un suono. Qualcuno ridacchiò. Alexa le rivolse un sorriso di incoraggiamento. Melanie continuò, ma la sua voce era ancora più sottile e Crapshoot dovette sforzarsi per udire le parole a malapena comprensibili. Era penoso, pensò, ascoltare quella spazzatura. Avrebbero fatto meglio tutte quante a passare una notte sulla strada, guardando in faccia la realtà. « E stata una benedizione. Ma io ho quarantanni », la sua voce cominciava a incrinarsi. Le lacrime cominciarono a sgorgare. «E non so in che stato di salute sarò quando si diplomerà al college, quando si sposerà. Riuscirò mai a vedere i suoi nipotini? » «Quindi dichiara il tuo rimpianto», intervenne Alexa. La donna lottò contro le lacrime, che ora le ricadevano liberamente sulle guance. Una mano scorporata le offrì un fazzoletto. « Il mio rimpianto è di aver iniziato troppo tardi... » La diga si ruppe, ora il fazzoletto era inutile.
Rimasero tutti seduti in silenzio nella relativa oscurità, assorbendo i suoi singhiozzi. Crapshoot ascoltò attentamente. Spesso, il suono del dolore di qualcun altro era per lui un conforto. Amava il rumore del calcio della sua pistola che rompeva una mascella. O la paura agonizzante nella disperazione di una voce che lo implorava di avere pietà. Il dolore faceva parte della vita. Il dolore faceva parte del mondo del commercio: non poteva esistere il piacere del trionfo senza il corrispondente dolore della sconfitta di qualcun altro. Un dollaro in più nelle mani di qualcuno era un dollaro in meno nelle mani di qualcun altro. Quando i tesori cambiano proprietario, uno soffre, l'altro gode. L'economia, in realtà, è tutta qui. I pirati la conoscono come chiunque altro. E il suono del dolore di un'altra persona, Crapshoot lo amava come il tintinnio delle monete nella tasca dei suoi pantaloni. «E tu, Caitlin? Quali sono i tuoi rimpianti?» Alexa attese pazientemente mentre Caitlin raccoglieva le idee. Che cosa poteva avere da rimpiangere? pensò Crapshoot, fissando il volto che si era leggermente smagrito per la solitudine e la fatica. Stava per avere suo figlio, dopotutto. « Rimpiango di aver fatto del male a Paul », cominciò, le parole esitanti nella gola secca. Una mano le porse un bicchiere d'acqua. « Grazie. Voglio dire, questo non è il suo bambino, e mi chiedo che dolore possa essere per lui. » Esitò, come se fosse sul punto di pronunciare una confessione, e chiuse gli occhi per il disagio. Alexa annuì un cenno di comprensione che annunciava la sua conoscenza dell'intera situazione - e raddrizzò la schiena, attenta. « Sento un'intimità con il vero padre, e me ne dispiace. Mi sento in colpa, per questo. Non conosco il vero padre del mio bambino, ma sento di conoscerlo. » Si indicò il ventre. « C'è qualcosa, qui, che mi dice che lo conosco. E non voglio davvero ferire Paul. Lui non è mai stato un buon marito, ma avrebbe potuto essere un buon padre. Adesso immagino che non sarà neanche questo. Mi dispiace per lui. » Non pianse. La sua voce si incrinò, ma le lacrime non vennero. Crapshoot ammirò la sua robustezza. Quale forza di volontà serviva per discutere quell'argomento in mezzo a quegli sconosciuti. E di fronte a lui. « È difficile. È un bastardo e io sono qui da sola con me stessa e con il mio bambino. A volte penso che sia tutto un grosso errore. » Poi sorrise: « Però amo questo bambino. Ed è tutto mio da amare. » Alexa si allungò per sfiorare la mano di Caitlin. Il padre insignificante emise un sospiro di comprensione. Crapshoot strinse i pugni in preda a un muto furore. Non era tutto suo da amare. Era, più che di chiunque altro, suo. L'ingratitudine infernale di coloro che prendevano il cibo e si allontanavano senza ringraziare la mano che li aveva nutriti. Come i barboni che vivevano del sussidio, senza guadagnarsi da vivere e maledicendo lo stato, Caitlin se ne stava lì seduta ed etichettava il proprio ventre come una sua proprietà esclusiva. « E tu? Tu sei nuovo del gruppo, vero? Se ti senti a tuo agio, ti prego di unirti a noi. » Crapshoot sollevò lo sguardo. Alexa stava parlando con lui. Ora Caitlin guardò dalla sua parte e Crapshoot credette di notare un vago riconoscimento nel modo in cui si strinse al cerchio formato dagli altri.
« Lo farò, grazie. » Crapshoot si sentiva profondamente consapevole del proprio ruolo. Ora avrebbe interpretato il bravo padre in attesa: sensibile, espansivo, contrito, felice. Era una vera e propria sfida. Perché, nonostante fosse davvero un padre in attesa, non era minimamente contrito. Era pieno di odio, che gli occhi fissi su di lui aumentavano ancora di più. Ma il gioco era suo, adesso. Era nel suo elemento. Quello era il modo in cui iniziavano tutte le grandi truffe: con un pizzico di odio, un pizzico di fortuna, e uno scintillio nello sguardo. Sono sempre in attività. « Rimpiango di non essere venuto prima in questo gruppo molto, molto importante. » Ci furono mormorii di approvazione e di consenso. Con l'abilità di un oratore veterano, Crapshoot attese che si riformasse un silenzio solenne. «La madre del mio bambino è una donna meravigliosa: generosa, gentile, forte. Lei è qui in spirito, ne sono certo. Rimpiango di non essere il padre che dovrei essere. Spero di assumere un ruolo via via più importante con il passare del tempo. È per questo motivo che sono venuto qui. » Guardò direttamente Caitlin, ma lei aveva gli occhi bassi. Il padre insignificante sorrise. La donna alla sua sinistra gli sfiorò con affetto l'avambraccio. Alexa disse in tono stucchevole: «Grazie. Ti diamo il benvenuto nel gruppo. » Quando l'incontro si sciolse, Crapshoot tentò di intercettare Caitlin nell'atrio. Lei uscì immediatamente, e Crapshoot accelerò il passo per raggiungerla. Voleva vederla da vicino. Aveva persino provato il desiderio di toccarle il ventre, di toccare ciò che era suo. Ma lei era molto veloce nonostante il suo nuovo peso, e la donna alla sua sinistra lo bloccò quando raggiunsero l'ascensore. « Davvero, non devi rimpiangere di non essere arrivato qui prima. Hai preso la decisione giusta, venendo questa sera. Non si perde mai tempo insieme a gente a cui importa di te. » Gli aveva messo nuovamente la mano sul gomito e la lasciò lì mentre osservavano l'ascensore affollato che si chiudeva su Caitlin e sul suo bambino e sugli altri. Crapshoot incontrò lo sguardo di Caitlin proprio un attimo prima che le porte si chiudessero. «Prenderemo il prossimo. Sai come dicono: ci sarà sempre un altro autobus. » Crapshoot fissò il volto rotondetto della donna. Era la faccia di una madre, con il luminoso ottimismo di quei mesi e la pazienza di centinaia di altri. «Ti ringrazio per la tua gentilezza. » «Ti prego», sembrava deliziata per la sua risposta incoraggiante. « Non c'è bisogno di ringraziare, davvero. Qui non è questione di ringraziare. Qui si tratta di essere genitori, qualcosa di molto più grande di noi. » Crapshoot notò il suo elegante girocollo di giada, oltremodo lussuoso per un corso di preparazione al parto. Sembrava vero. All'anulare portava un diamante decisamente massiccio. Crapshoot seppe cosa doveva fare anche prima di vederli. « Mi sembra di averti sentito dire che sei single? » « Ah, questo », disse lei, allungando orgogliosamente la mano. «È un anello per il voto che ho fatto con me stessa. Ho pensato che fosse importante marcare il voto della mia dedizione - al mio bambino, voglio dire - con una sorta di simbolo. Immagino che sia una specie di matrimonio. » Entrarono nell'ascensore. Quando la porta si chiuse, si ritrovarono soli. Nella cabina,
una luce al neon lampeggiò, lasciandoli al buio. La donna sollevò lo sguardo su Crapshoot e assunse un'espressione come se l'avesse visto per la prima volta, e si stava accorgendo del vestito stirato, del garofano e di quello strano, divertito sorriso. Crapshoot si godette quell'occhiata: in essa c'era una certa paura, la paura di aver commesso un errore di calcolo, o di aver lasciato qualcosa completamente fuori dall'equazione. Quello sguardo gli ricordò gli occhi di ogni vittima quando la realtà della truffa comincia a farsi finalmente chiara: gli occhi della vittima di un furto d'auto quando compare la pistola, gli occhi di un gonzo del gioco delle tre carte quando la regina rossa non salta fuori. L'ascensore si muoveva lentamente e, per un istante, la cabina venne pervasa dalla bizzarra sensazione che potevano anche essere bloccati. Si guardarono l'un l'altro, e la donna distolse lo sguardo per prima. Quando l'ascensore cominciò finalmente a scendere, Crapshoot la sentì riprendere a respirare, sollevata. Le porte si aprirono e la donna uscì per prima. Gli augurò una rapida buonasera e si diresse verso la sua macchina nel parcheggio buio. Crapshoot fece in modo di salutarla con enfasi di fronte alla disattenta guardia di sicurezza. Poi si diresse verso il suo taxi, che era parcheggiato sulla strada principale, mentre lei si incamminava in direzione opposta verso il parcheggio. Non appena raggiunse la strada, tornò indietro lungo il vicolo che correva intorno all'edificio e riemerse nel parcheggio dalla parte opposta. A quel punto, tutti se ne erano andati e il parcheggio abbandonato era pervaso da una silenziosa desolazione, con soltanto la Mercedes di lei lasciata sull'asfalto fresco. La donna si muoveva rapidamente. Poi si guardò una volta alle spalle, inciampando quasi su una lattina vuota, e lui era proprio dietro di lei. Lei lo guardò come se lui potesse essersi dimenticato qualcosa, ma il suo sguardo indagatore si trasformò in una smorfia quando avvertì la presenza di un'equazione fuori equilibrio. Donna astuta, pensò Crapshoot. Il parcheggio era vuoto e la sua ultima occhiata concluse l'affare: era senza ombra di dubbio lo sguardo di una vittima quando ormai il raggiro è evidente. Lui si stava mettendo i guanti. Non c'era via d'uscita, dopo quello sguardo. Crapshoot la raggiunse proprio mentre stava infilando la chiave nella portiera. Sono sempre in attività. La sua mano scattò in avanti come una cometa e la colpì al volto con il calcio della pistola e lei cadde a terra. Crapshoot soffocò lo strillo con la mano guantata, ma lei era ancora con lui, pienamente cosciente, e lo fissava con gli occhi sgranati da una paura stordita. Gli scivolò la mano e lei strillò con una voce zoppa che si udì a malapena sopra il frastuono della vicina uscita dell'autostrada. « Il, il bambino... ti prego... il mio bambino », ma lui sollevò alta la pistola e la calò con forza medioevale, spaccandole la base del collo contro l'asfalto. Non poteva correre nessun rischio, con quella donna. Si allontanò dal corpo e si rese conto di essersi macchiato di sangue la giacca. Dopo essersi rimproverato per la propria disattenzione, entrò nel suo taxi e lo guidò fino a sotto l'autostrada e poi nel parcheggio della stazione ferroviaria, dove nessuno l'avrebbe notato finché non fosse tornato a prenderlo la mattina seguente. Poi tornò rapidamente alla Mercedes. Ora era tutto quieto. Accese la macchina, poi uscì di nuovo e osservò il grosso busto della donna. Si tolse la giacca, la cravatta, la fondina della pistola, la camicia. Diede un possente, violentissimo calcio al ventre rigonfio. Poi prese un sacchetto di plastica dal
bagagliaio e si impegnò sull'asfalto con il sacchetto e un coltello. Era un lavoro incasinato, e sarebbe stato costretto a sbarazzarsi anche dei pantaloni. Mentre si allontanava al volante della Mercedes, ammirò le sue dita abili e pensò con piacere al proprio trofeo. Potenzialmente, ogni cosa era di sua proprietà: era soltanto questione di rivendicarla. 28 « Questa è una follia! » « Forse. » « Forse?! Merda! Questo è assolutamente folle! » « Siediti, Serena. Ti preparerò qualcosa da bere. » « Bene. Ne ho bisogno. » Guardò l'orologio. « Anche se è soltanto mezzogiorno. E tu, tesoro, hai bisogno di qualcosa di molto più forte di un semplice liquore. » Caitlin si allontanò per prendere il whisky e Serena guardò le pareti dello studio: poesie appiccicate lì, righe e righe di versi, le parole che si profilavano instabili, a testimonianza di qualcosa di molto bizzarro. Caitlin tornò con i bicchieri. « Mi rendono felice. » « Ci scommetto. Paul ne sa qualcosa? » « No. Non entra mai qui. E, se anche lo facesse, non saprebbe nemmeno che cosa pensare. Immagino di averle appese in parte per dispetto. Sto quasi aspettando che lui dica qualcosa. » « E lui chi è, esattamente? » «Non lo so, ma sicuramente è una persona speciale... dotata di talento... una persona sensibile.» « È chiaramente un pazzo. » « Ho letto e riletto ogni parola che mi ha mandato. Capisce lo spirito della cosa. Paul non è in grado nemmeno di comprendere la filosofia di un biscotto della fortuna. Che altra scelta ho? » Serena rimase seduta a sorseggiare il suo whisky. « Potresti anche darti una calmata. » « Serena, lui parla di me, parla del nostro bambino, della speranza, della magia, della poesia. Non capisci? Questa potrebbe essere la mia unica possibilità. » « E adesso che cosa stai dicendo? Hai intenzione di scappare via con questo poeta?! » Caitlin non si era aspettata sul serio che Serena potesse capire. Non che lei stessa ci riuscisse molto, in realtà. Ma Serena aveva chiaramente male interpretato la cosa. Non era una relazione come quella che intendeva lei. Era cerebrale, ultraterrena. Per lei, le poesie erano una vita di uscita. In ogni verso c'era una risposta. Nella raccolta c'era una preghiera. Nel lavoro completo c'era una rivelazione. L'intimità che sentiva nei confronti di quel padre misterioso era simile all'intimità che sentiva con il suo bambino similmente misterioso. Con i movimenti nel suo ventre che, negli ultimi tempi, si erano fatti tanto palpabili da anticipare qualcosa di assolutamente originale. Fare ogni cosa, compiere ogni gesto, insieme a un'altra
anima, l'aveva resa dapprima timorosa, come se il minimo passo falso non avrebbe condannato soltanto una persona, ma due; ma poi la promessa di un altro essere che la aiutasse, qualcuno che potesse assumersi la responsabilità della magia che viveva dentro di lei, aveva trasformato quella paura in forza. Caitlin aveva letto le sue parole. Il modo in cui lui sapeva mettere insieme le parole esprimeva alla perfezione i sentimenti. Di notte, quando la casa era silenziosa, aveva preso l'abitudine di chiudersi a chiave nello studio per analizzare un verso. Quando lo leggeva, sentiva la sua voce leggere - una voce ferma e autoritaria che riempiva la grande casa di immagini eteree. C'era un'armonia tra il ritmo del suo utero e le poesie. Si rese conto che lui le era ancora assolutamente anonimo. Un nome, forse, avrebbe fatto la differenza. Ma si trattava anche di altre cose, piccole cose che intrigavano: che cosa gli piaceva per colazione, o che cosa guardava alla tivù, se la guardava. Tentava di immaginare ciò che faceva lui mentre scriveva: se fumava la pipa (come spesso aveva visualizzato) o se si limitava a bere caffè forte, o magari un bagno dopo, o una doccia prima. Mentre leggeva le sue espressioni di redenzione accuratamente cesellate, si domandò anche che cosa pensava di lei, che cosa voleva esprimerle e comunicarle, che cosa voleva dal loro bambino. Una volta si scoprì a speculare sulle sue storie d'amore passate, ma poi aveva scacciato subito quel pensiero, bollandolo come infantile: che cosa le importava delle sue avventure passate; lei non stava cercando un compagno, ma uno stallone. C'era qualcosa di primordiale in quella relazione, proprio come suggeriva Dotterweich. Caitlin sentiva un romanticismo puro che derivava dalla connessione biologica. Se l'avesse incontrato in un appuntamento al buio in un bistrot di Parigi, sicuramente l'avrebbe detestato, l'avrebbe trovato presuntuoso, assorbito da se stesso, paternalistico. Se lui l'avesse viscidamente approcciata in un piano-bar, lei si sarebbe sentita nauseata, sporca, desiderata per i motivi sbagliati. Se avesse seguito una lezione con lui come professore, avrebbe disdegnato la sua arroganza. Ma il fatto che lui avesse saltato a pie pari quelle forme tristemente moderne di interazione sociale e si fosse iniettato nel suo utero come pura biologia - con assoluto anonimato garantiva che sarebbe riuscito a trovare una via per raggiungerle il cuore. Caitlin ammise con se stessa che la fantasia era contenuta nella vaghezza. Non conoscere le sue predilezioni, i suoi gusti, le sue stranezze - neanche il suo nome - era più divertente che conoscerle. Non avere idea di che odore avesse la sua pelle a letto o del ritmo del suo respiro durante l'orgasmo era una beata ignoranza. Non conoscere i lineamenti del suo volto o il suo drink preferito del dopocena era causa di un'eccitazione miracolosa. Priva di consapevolezza del caos della sua routine mattutina o del cupo torpore dei suoi sonnellini pomeridiani, si scoprì maggiormente attratta da lui. Senza avere idea se lui lasciasse o meno il suo dentifricio a coagulare sui lati del lavandino o se invece lo sciacquasse meticolosamente nello scarico dopo essersi lavato i denti, stava sperimentando un'insaziabile affinità con il suo spirito. Si sentiva innegabilmente attratta verso la sua fumosa irraggiungibilità e la sua mancanza di fisicità. Non conoscendolo, lo amava. L'anonimato l'aveva sempre eccitata. Da adolescente, aveva una fantasia ricorrente
che aveva luogo su un transatlantico. Dopo che i suoi genitori l'avevano rinchiusa nella sua cabina ed erano andati a bere qualcosa nel salone, lei scivolava nel letto e rimaneva in attesa. Ben presto, la stanza si faceva improvvisamente buia e lei sentiva il tocco delicato delle mani che le risalivano sotto la camicia da notte. Il suo amante era gentile, delicato, agile, forte e invisibile. Le sue mani erano particolarmente adatte al compito e il suo respiro era a ritmo con quello di lei. Dopo un po' di tempo, non avrebbe saputo dire esattamente quanto, lui se ne andava e lei scivolava nel sonno. A cena, la sera dopo, mentre gli ospiti si sedevano galanti ai tavoli della cena e si intrattenevano in sofisticate conversazioni, lei si domandava quale dei molti begli uomini presenti fosse il suo amante segreto. Sapeva che lui era lì, da qualche parte nella sala da pranzo, da qualche parte intento a cenare, da qualche parte a pianificare la sua prossima visita. L'identificazione risultava impossibile e lei si rassegnava nuovamente all'intrigo notturno e aspettava rispettosamente che le luci si spegnessero. Notte dopo notte, lo schema si ripeteva, con lei che non riusciva mai ad avvicinarsi alla sua identità, e lui che mai le si rivelava alla luce del giorno. Quella era una fantasia che si basava sull'anonimato. Ciò nonostante, lei doveva sapere che lui era presente da qualche parte sulla nave. Se immaginava la sua fantasia a riva e si visualizzava a attendere di notte in una casa che il suo amante si introducesse furtivamente dalla finestra, l'eccitazione scompariva, stemperandosi in paura e disgusto. Ciò che la eccitava era lo spazio contenuto, la consapevolezza che lui era lì, l'impossibilità di scoprirlo e di trovarlo. Ogni ambientazione che supportasse il medesimo, singolare miscuglio di sicurezza e anonimato, era in grado di sollevare in lei lo stesso grado di passione. Con lui c'era una simile dipendenza dall'anonimato, un affidarsi al non sapere che serviva da ispirazione. Leggendo le sue poesie, Caitlin otteneva l'effetto desiderato. Attraverso le poesie era in grado di attraversare il suo mondo ma non il suo spazio, riusciva a sondare i suoi pensieri celestiali ma mai le sue abitudini mondane, poteva conoscerlo completamente e insieme non conoscerlo affatto. «Ti ho detto, hai intenzione di cercare di capire chi è? Hai intenzione di fuggire con questo tipo? » Serena si tolse le scarpe con il tacco, affondò nei morbidi cuscini del divano e tenne il bicchiere di whisky in alto come Lady Libertà. Caitlin guardò Serena. Altri due whisky e avrebbe capito perfettamente. Il che era anche peggio: una fantasia costruita intorno alla bottiglia o intorno a una provetta? « Certo che no.» « E allora cosa? Che cos'è tutta questa storia? » « Non lo so. » « Tu non lo sai? » « Non lo so. » E, nonostante non lo sapesse, sentiva che, proprio come in una fantasia, avrebbe saputo cosa fare quando le luci si fossero infine spente. « Come puoi non saperlo? » « E come potrei? Qui non stiamo parlando di qualcosa di reale. Queste cose non le insegnano a scuola, o all'altare. Non ho la minima idea di che cosa stia succedendo. Ma non sono mai stata così interessata in vita mia. A nessuno. »
« E io, tesoro? » scherzò civettuola Serena, succhiandosi una goccia di whisky dalla punta di un dito. « Non sono mai stata molto interessata a te, Serena. » « Né io a te, amante », disse Serena, che ora stava entrando nella sua sbronza di mezzogiorno. « Sai una cosa? Direi che sei una romantica dispiaciuta. » « Serena, ho rinunciato alle favole molto tempo fa. Questa è una cosa che va oltre. » « Oh, è una favola, d'accordo. Ma io, se fossi in te, starei attenta. Sai che cosa dicono delle favole? Che sono davvero molto, molto spaventose, storie orribili e sanguinarie che parlano del male e di follia. Davvero non per bambini. » « Quello che fa davvero paura è che a volte si avverano », rispose Caitlin chiudendo gli occhi. 29 Come un perito a una vendita immobiliare, fece un inventario metodico. Ma gli odori della casa non erano lo stantio residuo della morte e di una vita vissuta; invece, sentì una vita che stava per esserlo. Nell'atrio di ingresso, dove fece attenzione a non lasciare tracce di terra, Crapshoot notò gli ampi pezzi in mogano e i dipinti originali. Nonostante fosse buio e la sua conoscenza della pittura fosse limitata, aveva la sensazione che le cornici contenessero ampi quadri a olio di una certa fama. Sicuramente erano più che stampe. Immaginò che fossero Vecchi Maestri, convinto che simili dipinti richiedessero simili cornici maestose. Avendo avuto qualche problema con il sistema d'allarme, si prese un po' di tempo per assicurarsi che fosse disattivato prima di raccogliere i propri attrezzi e rimetterli nella piccola sacca di tela. Poi lasciò che i suoi occhi si adattassero alla luce fioca. Le scale erano riccamente ornate da un lungo tappeto, immenso, che raggiungeva l'ammezzato in stile voluttuoso e poi saliva fino al secondo piano. Altri dipinti costeggiavano quello spazio e tentarono il suo occhio avido, ma Crapshoot controllò la rudezza di quell'impulso e pensò a possedimenti ben più grandiosi. Invece di dirigersi sulle scale, passò a sinistra in soggiorno, uno spazio sontuoso arredato con gusto moderno al centro del quale spiccava un pianoforte a coda. C'erano ampie sculture intricate di ottone e terracotta e grandi vasi di gigli dappertutto. Crapshoot sorrise. Il sogno di un agente immobiliare. D'impulso, cominciò a registrare ogni articolo con l'occhio della mente, più per un oscuro e nodoso piacere che per una qualsiasi praticità concreta. Etichettare mentalmente ogni pezzo era il preludio al possesso. Con il tempo, tutto avrebbe potuto essere suo: i dipinti, la casa, le sculture. Poteva rimuovere la loro proprietà all'istante, per mezzo del furto o dell'arte, mentre loro avrebbero continuato ad aggrapparsi a principi legali che definivano il diritto di proprietà, inutili nozioni astratte di che cosa appartiene a chi. Ma lui voleva ancora di più. Oltre il soggiorno c'era un piccolo studio, più caldo e personale della stanza
precedente. Una singola lampada con un paralume di carta di riso era stata lasciata accesa, e la luce gettava ombre che colavano lungo le pareti ricoperte da librerie. Trascorsero diversi secondi, passati a osservare la scelta di libri e gli svariati oggetti personali: fotografie assemblate in cornici, un lavoro a maglia azzurro lasciato in tutta fretta sul divano, una scarpa solitaria abbandonata in un angolo, prima che Crapshoot notasse la decorazione che aggraziava la parete opposta. Si avvicinò alle pagine appese al muro con semplice curiosità inquisitoria, ma dopo aver letto un frammento e aver riconosciuto alcune delle lettere che aveva mandato, frammiste a fotocopie di poesie, allargò le labbra in un sorriso di apprezzamento. Lì, sulla parete dello studio, c'era il suo potere, e Crapshoot lo fissò come si poteva fissare un assembramento di ricchezze. Fai in modo che il gonzo si senta speciale. L'aveva fatta sentire speciale davvero. Tanto speciale che lì, sulle sue pareti, aveva sistemato lui come una reliquia del ruolo che stava interpretando. L'effetto di tutto ciò sul suo ego non fu piccolo e Crapshoot non riuscì a fare a meno di roteare su se stesso in una vertigine di piacere mentre guardava di nuovo le poesie e le lettere. Si fermò a leggere e trovò un frammento di se stesso: Tu e io Poesia in movimento Un legame biologico. Le nostre identità meri sussurri Soltanto dopo il calar del buio. Come l'immagine della regina rossa che barbaglia senza speranza nel mazzo, quelle lettere e quelle poesie preannunciavano una grande sorpresa. La distanza tra l'illusione - la regina rossa che si presenta a intervalli regolari, scivolando apparentemente nel posto giusto al momento giusto - e la realtà - la regina rossa che emerge tristemente camuffata da fante di picche - era tanto immensa che Crapshoot fu costretto a ridacchiare tra sé. Fai in modo che il gonzo si senta speciale. E lei si sentiva tanto speciale. Era evidente. Era entrato nella sua casa, quella notte, per catalogare i suoi possedimenti, la sua ricchezza, i suoi mezzi, la sua anima e il suo spirito. E per vedere dove la sua ultima proprietà, la testolina neonata, avrebbe riposato. Ma aveva avuto molto di più: un catalogo dei suoi desideri. Quello era il vero trofeo: sapere di avercela fatta. Quando si era avvicinato alla casa, poco prima in quella fertile notte di giugno, con l'aria della sera di Westbridge che fluttuava sulla ali della promessa di opulenza in quel modo che soltanto le sere d'estate nei sobborghi ricchi possono avere, si era mosso con estrema prudenza ed estremo silenzio. Accovacciato in silenzio nel boschetto di alberi che fungeva da confine per il giardino anteriore, aveva atteso pazientemente, senza necessariamente aspettarsi qualcosa. Crapshoot aveva letto che il Ballo Annuale di Westbridge avrebbe avuto luogo quella sera al Westbridge Repertory Theater. Aveva correttamente giocato d'azzardo sulla presa di quel
particolare appuntamento sociale per permettersi una visita indisturbata nella casa dei Bourke. E quando l'opportunità si era presentata sotto forma di Caitlin che usciva di casa elegantemente abbigliata con un abito da sera pre-maman che le metteva in risalto il ventre ora visibilmente rigonfio e Paul al seguito, Crapshoot si era finalmente concesso di respirare. E poi aveva atteso che la Range Rover accompagnasse la coppia sulla ghiaia del vialetto e poi sulla strada principale. Soltanto allora si era avvicinato alla casa, tenendo ben presente tutto ciò che doveva riuscire a fare in un periodo di tempo tanto limitato. Ora che ci era riuscito e si trovava in piedi di fronte alla mensola interiore della fissazione privata di lei, non sentì altro che l'incremento della propria avidità. Per quale motivo non avere quella casa con tutto ciò che conteneva? Possedeva già lei con tutti i diritti: la sua mente, le sue passioni, le sue predilezioni. Gli sembrava semplicemente logico andare al piano di sopra e provarsi tutti i vestiti di suo marito, rilassarsi in un bagno di schiuma, versarsi un poco di vino, guardare la televisione. Avrebbe potuto prepararsi una cena leggera in cucina, oppure limitarsi a danzare allegramente sulle piastrelle spagnole del pavimento. E, se ne avesse sentito l'inclinazione, avrebbe potuto saggiare le acque di colonia sul ripiano di marmo del bagno o accendere un fuoco nel camino del soggiorno. Mentre saliva al piano di sopra, etichettò e catalogò ciò che vedeva con maggior convinzione: quel quadro, quell'urna, la pendola del nonno sul pianerottolo, un'armatura nell'atrio al piano superiore. Maledisse la propria incapacità di etichettare ogni oggetto con il suo esatto valore in dollari. Schematizzare le ricchezze e ridurle a una somma amica gli avrebbe dato un grande piacere. Comunque, si accontentò di abbeverarsi in quella sensazione generale di prosperità. Una prosperità che presto sarebbe stata sua. Alla fine del corridoio del piano superiore entrò in una stanza più piccola delle altre. Una semplice sedia a dondolo con un cuscino ricamato in azzurro giaceva innaturalmente immobile in un angolo. Alla luce della sua piccola torcia elettrica, riuscì a distinguere la tinta azzurra della carta da parati e i giocattoli pronti a dondolare al primo stimolo. Poster brillanti dai colori pastello erano appesi a intervalli appropriati lungo la parete: qualcosa con degli elefanti, un altro che ritraeva Curious George. Un coniglietto di peluche e diversi suoi amici erano annidati confortevolmente in un angolo della stanza. Il pavimento in parquet era ornato da un tappeto spesso che raffigurava le lettere dell'alfabeto in colori sgargianti. Un tavolino per il cambio dei pannolini era sistemato accanto alla sedia a dondolo. Mancava qualcosa. Quell'assenza lo lasciò perplesso finché non si rese conto che non c'era un luogo dove dormire: sicuramente una culla sarebbe presto comparsa nello spazio vuoto al di sotto dei giocattoli mobili. Crapshoot si aggiustò il garofano e sorrise. E così, quella era la futura casa del bimbo-re. Il miserabile distillato del suo sciatto sperma avrebbe dormito lì! Il suo figlio illegittimo avrebbe gozzovigliato con Curious George e con quella bestia di coniglio! Che paradiso! Pensare alla sua progenie - al suo maledetto strato di schiuma genetica - che si sdraiava lì, in una culla, felicemente, senza l'ombra di una preoccupazione! Su quel tavolino sarebbero stati cambiati i suoi regali pannolini. Su
quella sedia a dondolo i suoi lamenti sarebbero stati messi a tacere con una poppata. Con quei giocattoli mobili, i suoi sensi di neonato sarebbero stati stimolati e divertiti. E tutto ciò fino a quando non sarebbe stato reclamato dal suo proprietario. Crapshoot trovava un immenso piacere in tutto questo. Lì, nella piccola stanza dai grandi progetti, si sarebbe riposata la più grande delle sue proprietà. I quadri e le urne e la pendola del nonno non erano nulla in confronto a quella, la sua più grande presa su di lei: il bambino. Il suo bambino. Crapshoot avvertì nuovamente la sensazione familiare di struggimento nel cuore e la pulsazione nel suo inguine. Si sdraiò sulla schiena nel luogo designato per la culla, direttamente sotto la giostra appesa che dondolava delicatamente. Si fece scivolare una mano sul davanti dei pantaloni, abbassò la cerniera e la infilò all'interno. Dopo poco, sentì il proprio corpo sussultare di piacere. Nel buio della stanza del bambino, senza la luce della sua torcia elettrica, c'era una tenebra che abbandonava la pareti e i giocattoli e i poster, una tenebra che faceva il paio con la sua anima. 30 Una bambina teneva in mano un quarto di dollaro con cura; camminò con piccoli passi infantili fino alla macchina e tirò la leva di alluminio. Un clangore metallico segnalò l'arrivo della pallina di gomma da masticare e la bambina la recuperò rapidamente per infilarsela in bocca. Caitlin osservò il minuscolo rituale con interesse e si domandò vagamente dove fosse la madre della piccola. Ma in quel momento la madre arrivò urlando: « Ti avevo detto di no prima di cena! » e sospinse la figlia fuori dal negozio in un'automobile in attesa. Quello era il genere di madre che lei non voleva essere, pensò Caitlin osservando la macchina che si allontanava velocemente dal parcheggio per immettersi nel traffico suburbano. Gomme da masticare dopo cena, i compiti prima della televisione, lava i piatti, rifai il letto, lavati i denti. Quelle erano le cose su cui Caitlin non voleva fare prediche. Aveva avuto già abbastanza noia e routine nella sua vita. Il suo bambino non avrebbe dovuto soffrirne. Passione, amore, poesia: quelle erano le cose che, invece, avrebbero guidato suo figlio. Caitlin, stimolata dall'assembramento di forme e di colori, oltrepassò la fila di culle. Nonostante vi fossero culle dal design interessante - alcune all'avanguardia, altre alla moda, altre industriali - Caitlin sapeva di desiderare la pura tradizione: una normale culla bianca che avrebbe potuto affollare di cuscini divertenti e animali di peluche. Si fermò di fronte a una che corrispondeva alla sua immagine, con l'unica differenza di essere azzurra, e tentò di visualizzare suo figlio lì dentro, sazio e soddisfatto, che si raggomitolava comodamente in un angolo. « Le interessa questa? » Caitlin rispose alla voce profonda da venditore senza nemmeno voltarsi. « Forse, ma in realtà la voleva bianca. Immagino che abbiate lo stesso modello in bianco, no? »
«Oh, io non lavoro qui», rispose la voce. «Sono un futuro genitore: sto soltanto facendo acquisti come lei. Anch'io stavo pensando proprio a questa, in bianco. » Caitlin si voltò. Era un uomo alto e sicuro con indosso un completo. Un garofano gli spuntava sull'attenti dal taschino della giacca. Sembrava esserle familiare, ma non riusciva a ricordare dove l'avesse già visto. Sembrava fuori luogo lì, nel negozio di arredamento per bambini, così bizzarro con il suo fiore e il suo completo esageratamente formale. « Mi sembra di averla già vista... » disse. Poi lui sorrise, e quel sorriso le fece scattare qualcosa: « Il taxi, quel giorno, il suo taxi. Ha fatto ripartire la mia jeep. È così, non è vero? » Strinse la mano in segno di trionfo e schioccò le dita. L'uomo scoppiò a ridere. Una risata tranquilla. « Ricordo anch'io. Era andata a comprare dei giocattoli quel giorno, credo. » Si voltò per guardarla direttamente. « Aveva comprato dei giocattoli, vero? » « Sì. » « E sa un'altra cosa? Credo che lei fosse al corso di preparazione al parto a cui sono andato una volta. » « All'Holbrook Center? » «Proprio lì! » « È bello da parte sua essere venuto. Tutti i padri dovrebbero farlo. Ma non molti lo fanno », disse Caitlin. Lui rise di nuovo. La risata gli uscì con facilità, ma con una facilità da palcoscenico. A Caitlin venne in mente l'ospite di uno spettacolo a premi o un attore di soap-opera a fine carriera. Ma l'uomo era molto pulito, raffinato. Non riusciva proprio a ricordarlo al corso di preparazione al parto. Ma non stava mai molto attenta, lì, e da quando c'era stata la tragedia aveva smesso di andarci. « Ci è andato ultimamente? Non so se ha sentito di Claudia. Forse l'avrà letto sui giornali...» « No, non seguo le notizie. » L'uomo si aggiustò il garofano e guardò Caitlin negli occhi. « E non conosco nessuna Claudia. Che cosa è successo? » « Una donna minuta, incinta, molto gentile. É stata brutalmente assalita e uccisa nel parcheggio dell'Holbrook. Dicono che sia stata macellata. Che il suo bambino sia stato... » La voce di Caitlin si incrinò leggermente, e lei decise di non continuare. Non conosceva Claudia, in realtà, ma c'era una sorta di cameratismo tra i frequentatori regolari del corso. Caitlin aveva pianto per ore quando aveva sentito dell'aggressione. E aveva pianto ancor di più quando aveva immaginato il bambino che doveva ancora nascere strappato dall'utero della madre. Puzzava di politica e di teologia decidere da sé se il feto fosse un giovane essere umano oppure soltanto un suo precursore biologico. Ciò nonostante, Caitlin provava dolore per una giovane anima che non aveva avuto mai il tempo di realizzarsi. E sussultava al terrore di quel crimine orribile. « È una tragedia, certo. » L'uomo sembrava perso nei suoi pensieri, ma per nulla turbato, ascoltando la notizia come fosse l'indice Dow Jones in un giorno di stanca azionaria. Poi, però, nei suoi occhi comparve un'ombra di tristezza. Caitlin guardò la persona strana che aveva di fronte, con il garofano, lo sguardo improvvisamente comprensivo, e il vestito che, solo ora se ne rendeva conto, era un po' più che liso. Era davvero insolito per essere un autista di taxi, qualsiasi cosa ciò
significasse. « Quando partorirà sua moglie? » « Eh? » Sembrava nuovamente perso nei suoi pensieri, ora. «Ah, il parto.» Lo sguardo comprensivo scomparve e il comportamento da palcoscenico ne prese il posto. « Be', non siamo sposati », disse in tono preciso. « Ma aspettiamo la nascita tra un mese. » Guardò l'orologio come se ciò potesse fornirgli il giorno esatto. « Un mese. » Entrambi si voltarono a guardare la culla. «Anch'io dovrei tra un mese. » « È molto eccitata. » «Anch'io sono eccitata, ma ho paura. » « Anche lei ha paura. » « Io sono felicissima. L'ho sognato per tanto tempo. » « Lei è felicissima. Questo è stato sempre anche il suo sogno. » « Inizialmente c'era un problema di sterilità. Lo sperma di lui, be'... » « Anche questo mi suona familiare », disse lui con un tono di voce molto tenero, malinconico. Caitlin si interruppe, ammirando la sua sincerità. Naturalmente, anche lei aveva parlato con franchezza. Ma sentire un uomo parlare tanto apertamente dei suoi problemi la colpì. Per quanti sforzi facesse, non riusciva proprio a immaginare Paul che diceva le stesse cose. Si guardò intorno nel grande spazio del negozio. Un venditore trotterellava in uno dei corridoi; da qualche parte, un registratore di cassa stava stampando una ricevuta; un altro bambino stava facendo un tentativo con la macchinetta per le gomme da masticare. L'uomo indicò il suo ventre. «C'è qualcosa di simile, proprio lì. » Caitlin abbassò lo sguardo e si osservò come se lui le avesse indicato una macchia di ketchup sul vestito. Le venne in mente che una gravidanza era molto simile a un'altra, un fenomeno facilmente riconoscibile, che possedeva certe caratteristiche standard. Ma, per i genitori, c'era molto poco in una gravidanza che assomigliasse a un'altra. Una gravidanza era clinica e simile fino a che non era tua. Allora si trasformava in un elemento assolutamente unico, con proprietà fisiche tutte sue. « Non sono sicura che la madre sarebbe d'accordo », disse Caitlin con un sorriso. « Be', questa è una domanda interessante. » « È molto carino da parte sua fare tutto questo lavoro, andare a comprare la culla e tutto il resto. » « Questo è il genere di cose che mi piace. Sa, fare progetti per il piccolo. Comprare tutte le cianfrusaglie che mi posso permettere. Che cosa potrebbe esserci di più divertente? Davvero non vedo l'ora. Sono sui carboni ardenti, ecco cosa. E così ogni acquisto è come se mi avvicinasse di un passo al momento. » Avvicinò il pollice e l'indice a formare il segno di una piccola quantità. « So che cosa vuol dire. Io mi sento come se potessi svenire un milione di volte al giorno. Sono pronta, però. Non sono mai stata tanto agitata, ma sono pronta. » « Io lo vedo come un dono prezioso. Immagino che lei si senta allo stesso modo. » « Sì », rispose Caitlin in tono sognante. « Ecco perché l'orrore di un bambino che viene strappato dall'utero materno a quel
modo. Mi fa star male. Vomitare », disse lui. « Già. » « A proposito, sa che lei mi ricorda molto lei? » « Chi? » « La madre del mio bambino. » « Ah. » Erano nuovamente girati entrambi verso la culla, con lo sguardo rivolto verso il basso, e Caitlin non potè fare a meno di pensare a una coppia di sposini novelli che guardavano le cascate del Niagara. E, come se fossero realmente là a fissare quell'abisso di onde esplosive, si sentì afferrare dalla morsa spiacevole della vertigine. Qualche istante prima non aveva menzionato ciò che era accaduto a Claudia, o forse sì? Non aveva parlato del massacro, o di quello che era successo al bambino. Strappato dall'utero materno. O forse sì? Ora non riusciva più nemmeno a esserne sicura. Tentò di pensare. Ma era troppo stancante. Era ovvio che ne avesse parlato. Lui lo sapeva. Come avrebbe potuto saperlo altrimenti? Era tutto sui giornali. Ma lui aveva detto che non leggeva i giornali, vero? Caitlin si sentì andare alla deriva, stordita: la vertigine. Si sentì sul punto di svenire. Negli ultimi tempi, le capitava sempre più spesso. Aveva l'immagine di una porta di ascensore che si chiudeva sulla faccia di Claudia, come in un incubo. E un volto accanto a quello della donna che non riusciva a riconoscere. Ma lei gliel'aveva detto. Ora ricordava. Glielo aveva detto. Doveva averglielo detto. Sì, l'aveva fatto. « Si sente bene? » Lui la stava fissando con una sincera espressione di preoccupazione. « È pallida. » Caitlin sentì il sangue che le ritornava insieme alle forze. «Sì, sto bene. Ho avuto un breve capogiro. Ora è meglio che vada. Questa gravidanza, sa. Per me è tutto nuovo. » «Be', è stato bello vederla.» « Sì. » «Mi ricorda davvero lei...» disse lui con un sorriso obliquo. Ma Caitlin non lo vide e non lo sentì. Era già fuori dalla porta. Mentre se ne andava, lui era dentro accanto alla macchinetta che distribuiva le gomme da masticare, e la guardava. La stava guardando con un'immobilità da statua, come se la stesse osservando da tanto, tantissimo tempo. 31 La chimica era una parte così importante della vita, pensò Crapshoot mentre colpiva con il calcio della pistola l'uomo di mezza età con la barba e lo gettava sul marciapiede. Prendiamo le impronte digitali, per esempio, che avrebbero potuto essere spolverate e trasformate in una condanna se lui non avesse indossato guanti da chirurgo usa e getta e non avesse preso la precauzione extra di avvolgersi ogni
polpastrello con del nastro isolante. Prendiamo il sangue che ora rivestiva la pelle nera dei sedili della Mercedes e che sarebbe stato rimosso con un detersivo speciale progettato per non danneggiare la finitura. Prendiamo la rivoluzionaria vernice ad asciugatura rapida che, proprio mentre ci stava pensando, veniva applicata all'automobile per trasformarla da argento a verde. Prendiamo il seme che aveva donato. Dieci minuti più tardi emerse sulla Barrow Street per udire le sirene e vedere le autopattuglie che svoltavano l'angolo a gran velocità. Abbassò lo sguardo e si controllò meticolosamente il vestito: immacolato. Ora, quello sì che era il modo di fare. Si tolse i frammenti di nastro isolante dai polpastrelli, uno dopo l'altro, e li lasciò cadere nella grata di un tombino. Cominciò a scendere una lieve pioggerellina, e Crapshoot decise di prendersi qualcosa da mangiare. Al Dunkin' Donuts era tutto tranquillo. La notizia non era ancora arrivata. Reg stava dormendo, e il barista stava pulendo una macchia di caffè dal pavimento di piastrelle sporche. « Dov'è Marty? » « Non c'è, è passato mezzogiorno », rispose il barista, chinandosi per tirare via dai tentacoli dello spazzettone un pezzo non meglio identificabile di spazzatura imbevuta di caffè. « Hai sentito le sirene? Dev'esserci stata un'altra aggressione con furto d'auto. » « No, non le ho sentite. » Il ragazzo del bar mentiva sempre. Crapshoot sapeva che Marty era sul retro a studiare le quote delle corse e che le sirene erano state tanto forti che ci era mancato poco che svegliassero Reg. Crapshoot sentì l'impulso di sbattere il ragazzino del bar contro la vetrina delle ciambelle, di far sanguinare senza pietà un'altra faccia come aveva fatto soltanto pochi minuti prima là fuori, ma non era mai stato il tipo d'uomo che agisce di impulso e, invece di colpirlo, andò lentamente dietro il bancone per servirsi da solo un caffè e una ciambella. Con il caffè in una mano e una ciambella calda in un sacchettino di carta appoggiato contro il fianco, mise in moto il taxi e si diresse verso Westbridge. Stava architettando il suo esperimento di chimica privato. Come un irrequieto giovane studente di scienze che ha appena scoperto che si può provocare una piccola esplosione con pochi semplici ingredienti casalinghi, ridacchiò per l'eccitazione. Quando l'aveva osservata attraverso l'aspra luce del sole, quel pomeriggio nel parcheggio, Crapshoot si era reso conto di possedere una parte di lei; e, quando le aveva parlato nel negozio di mobili per l'infanzia, aveva avuto la sensazione che quel suo possesso cresceva di giorno in giorno. E che Caitlin Bourke, seduta nella sicurezza della sua Range Rover e dei suoi acquisti, non ne aveva la minima idea. Allora come adesso, la scoperta lo stuzzicava e Crapshoot avvertì quella sensazione dentro il petto che rivelava la sua eccitazione. Ricordava le parole che gocciolavano lentamente dalla punta della penna, il verso giusto per il bigliettino sul regalo per il bagnetto del bambino. Non si preoccupava dell'arte, o dei sentimenti, ma soltanto dei risultati. Voleva parole che amplificassero la solitudine di Caitlin mentre se ne stava seduta in quelle troppe stanze a
contemplare il suo bambino. Ed era il suo bambino. Suo. Crapshoot non aveva mai avuto un bambino e non aveva idea di come ci si potesse sentire, ma era sicuro che ogni qual volta c'era qualcosa che era potenzialmente suo, lui lottava per salvaguardarlo come un pitbull intorno al suo osso. Le strade verso Westbridge gli rammentavano un nastro bagnato. E i nastri gli facevano venire in mente il regalo splendidamente impacchettato che giaceva tranquillamente nel bagagliaio. Aveva pensato a lungo e intensamente per trovare il regalo più adatto per la festa di Caitlin. Il tipo di cose che vendevano da Toy Park era troppo pedestre, per i suoi gusti. Una bambola Barbie... un Ken. Sì, certo, potevano rendere felice il bambino medio. Ma quello era il suo bambino, e quella era la madre di suo figlio. Sicuramente avrebbe dovuto trovare qualcosa di straordinario - qualcosa che sarebbe stato ricordato. Non avrebbe mai sopportato di essere un padre che faceva meno che lasciare il suo segno sul mondo. Era difficile, però, immaginare il regalo giusto per chiunque, figuriamoci per Caitlin. Crapshoot aveva sempre pensato che i contanti fossero il regalo migliore: denaro contante per permettere la massima libertà. Chi poteva desiderare sul serio tutti quei vestiti che non erano mai della misura giusta? Quegli orribili ninnoli che finivano immancabilmente nella prossima vendita di beneficenza? L'articolo del catalogo di acquisti per corrispondenza che veniva restituito il giorno seguente? Era più sicuro mandare del denaro. Tutti lo apprezzavano. Ma il denaro non era unico. Una banconota da cento dollari assomigliava a tutte le altre. Sarebbe stata dimenticata con la scomparsa dell'ultimo penny. Per lasciare un segno, dovevi lasciare un memento, qualcosa che avesse un ricordo. I ricordi - per lo meno finché erano tali - non scomparivano. L'ispirazione gli era venuta mentre osservava un gruppo di bambini che giocava con trasporto davanti a una scuola. Erano così sicuri dei loro corpi, benedetti dalla mancanza di consapevolezza della propria fragilità, ondeggiando da una parte all'altra mentre si arrampicavano sulla sommità dei quadri svedesi e balzavano giù di nuovo. Crapshoot aveva visualizzato quei giovani corpi, ancora non formati, nell'utero, intenti a lottare per il nutrimento e arrampicandosi, anche allora, per sollevare una gamba. E poi, settimane dopo, in quella sera particolare, aveva saputo che cosa prendere a Caitlin. Nella casa dei Bourke c'era qualche luce accesa e Crapshoot vide le macchine nel vialetto parcheggiate placidamente accanto alla Range Rover. Rimase seduto nell'oscurità del suo taxi e perse un po' di bava sulla sua ciambella glassata. Se avesse potuto osservare attraverso una lente di ingrandimento, avrebbe visto una vera e propria reazione a catena al lavoro: gli enzimi catalizzatori della saliva che separavano i carboidrati, abbassando lo sforzo necessario per i naturali processi di disintegrazione. Ecco che cosa c'era di meraviglioso nei catalizzatori, pensò Crapshoot. Rendevano la vita un po' più facile. Il resto veniva lasciato alla natura. Una parte così grande della scienza era in realtà non artificiale, soltanto un aiuto e un
favoreggiamento del puramente naturale. Così poco sforzo, così grandi risultati. Un esperimento ben condotto, come un frammento di saliva, tanto semplice e tanto naturale: sufficiente a perforare il cervello e a districarlo. Andò al bagagliaio e lo aprì per prendere il pacchetto. Era avvolto elegantemente in carta da regalo. Nastri gialli e rossi e azzurri erano infiocchettati perfettamente intorno ai lati, per poi ricadere in tutto il loro splendore dalla sommità. La carta da regalo era festosa e allegra, con forme geometriche disposte in un disegno gioiosamente ricorrente. Crapshoot lo guardò con ammirazione. Aspettò. Non era abituato a fare regali. Doveva ammettere che il vecchio detto era accurato: era una bella sensazione dare invece di ricevere sempre. 32 «C'è qualcos'altro per te qui fuori, Caitlin! » Jackie stava sorridendo di fronte alla porta principale, cappellino bianco, guance rosse, capelli tinti di biondo. Jackie Jergens era l'erede di una fortuna industriale ed era la zarina sociale di Clinton Oaks, il quartiere più esclusivo di Westbridge. «È splendidamente impacchettato. Dev'essere brutto. I regali più noiosi arrivano sempre nei pacchetti migliori. » Caitlin rimase sul divano del soggiorno. Non era quello che voleva fare in quel momento: aprire un altro regalo. Nonostante, o forse a causa di quello, l'eccitazione di strappare centinaia di nastri, era esausta e non voleva più avere a che fare con un altro regalo almeno fino a Natale. « Potresti farmi un favore e portarlo dentro, Jackie? » « Ma certo, cara. » Jackie arrivò tenendo tra le mani una scatola impacchettata magnificamente. La debolezza giunse di nuovo e Caitlin si permise di lasciarsi andare contro lo schienale imbottito del divano. Jackie stava piegando la scatola da una parte e dall'altra, tentando di indovinarne il contenuto. « Lo metterò qui sulla mensola del caminetto. È un pacchetto degno di una mostra, se mai ne è esistito uno. Magari è da parte di Reynold. Fossi in te non lo aprirei nemmeno. Lascialo lì a fare bella mostra di sé. Ragazzi, che paradiso dei bambini sta diventando questa casa. E tutto pronto. » Un'espressione di panico le fece voltare la testa di scatto. « Non che tu sia pronta, Caitlin. L'ultima cosa che vuoi fare è di entrare in travaglio troppo presto. » Era stata una giornata stancante. Caitlin non aveva mai immaginato che ricevere così tanti regali sarebbe stata una simile fatica. Un'accozzaglia di carte diverse e di materiali da imballaggio la circondava come le macerie dopo una rivolta. Vestitini da neonato di ogni foggia attendevano impazienti di essere adoperati. Praticamente tutto era di taglia grande, giusto per un bambino di quattro anni. Tutti avevano evitato i capi piccoli da neonato, pensando che a quelli ci avrebbe pensato qualcun altro. Alla fine, la cascata di tutine e di pigiamini e di maglioncini giaceva ovunque come le vestigia incorporee di un'altra generazione. Serena arrivò dalla cucina, tenendosi un bicchiere vuoto di whisky davanti a un occhio come un monocolo. « Maledizione, c'è odore di chiuso qui, Caitlin. Dev'essere tutta quell'aria calda di ragazze che spettegolano e fanno regali. Mi dà la nausea. E per questo che non ti ho portato niente. »
«Non volevo che ti disturbassi», disse Caitlin. Era vero che c'era qualcosa di vacuo e di avvilente nel ricevimento per la nascita di un bambino. Era qualcosa di arcaico riunire un gruppo di donne e scambiarsi regali mentre i rispettivi mariti erano fuori a giocare a golf. Ma faceva parte della routine della nascita in una città come quella, qualcosa che ci si aspettava non meno delle visite mediche regolari e degli auguri dei vicini di casa. « Ricordo quando Melanie ha partorito troppo presto e la bambina è rimasta nell'incubatrice per due mesi», continuò Jackie, incurante delle altre conversazioni intorno a lei. « Non riusciva nemmeno a tenerla. La povera piccola pesava un chilo e mezzo. Mio Dio, proprio il chilo e mezzo che dovrei perdere io. E pensare che era tutto quello che quella piccola aveva addosso! Ti fa piangere. Ma Dio provvede sempre. Oh, apriamo questo regalo, okay Caitlin? Il regalo della staffa. Vuoi che lo apra io? » Caitlin annuì. « Voi fatevi il regalo della staffa. Io mi farò il proverbiale bicchiere », disse Serena, scomparendo di nuovo in cucina. « E così il padre è un poeta », disse Jackie, abbassando la voce in tono confidenziale. « Me l'ha detto Serena », aggiunse in risposta alla domanda che si aspettava. « Ma non preoccuparti. Non lo dirò a nessuno. » Si sedette sul divano aprendo l'ultimo regalo, svolgendo la carta e piegandola accuratamente quasi avesse intenzione di conservarla per la prima festività. Quella maniera di aprire i regali aveva sempre infastidito Caitlin. I regali avrebbero dovuto essere spontanei e divertenti. Non tanto deliberati. Non c'era da meravigliarsi che Jackie trovasse così brutti i regali meglio confezionati. Era troppo occupata a scartarli. Pensò di dire: « Ti prego, tienitelo davvero per te, Jackie », ma l'idea che Jackie potesse mantenere un segreto era ancora più assurda di ripiegare la carta da regalo in piccoli quadratini. Quel commento la fece pensare a cosa stesse facendo lui in quel momento: magari stava scrivendo furiosamente o pensando appassionatamente, con le spalle incurvate su un umile tavolo di cucina o con i piedi regalmente adagiati su un'ottomana. L'idea che lui stesse creando poesia mentre lei creava suo figlio la rincuorava. E l'idea che il lavoro della vita di lui avesse luogo in un mondo diverso dal suo, separato dalle occasioni sociali e dai regali insignificanti, faceva sì che le sue emozioni si dilatassero. Alcune regioni della sua coscienza erano consapevoli del fatto che lui era là fuori, pensando in qualche modo a lei e al loro bambino. Caitlin pensò al futuro: una grigia mattina d'autunno, il tè a bollire in cucina, un bambino nel seggiolone. E il silenzio della casa non più assordante. « Incredibile! » esclamò Jackie. « Che cosa? » domandò Caitlin. « Dimmi un po' se non è un'altra tutina », disse Jackie, togliendo l'abito dalla scatola e sistemandolo di fronte a Caitlin. « Che cosa ti avevo detto, cara? La scatola più bella, il regalo più noioso. Ed è da parte di... » esitò, prendendo il bigliettino da sotto la pila di carte da regalo. « ... George e Ellen Grover. Che coppia di bugiardi
ipocriti che sono. Lo sai che in questo preciso momento stanno parlando male di noi, vero? » « Esatto. Almeno noi non lo facciamo mai. » Un grido ubriaco di touché arrivò dalla cucina. Il sole stava tramontando, e lunghe ombre prendevano vita sulla parete opposta. «Vuoi che ci fermiamo un po', Caitlin? Si sta facendo buio. » « Grazie, ma va bene così, Jackie. Sono una ragazza grande, adesso. » Quando arrivò il buio, Jackie e Serena se ne erano andate e Caitlin era sola ad aspettare che Paul tornasse dalla sua cena al club. L'attesa l'aveva calmata mentre il crepuscolo si insinuava nelle finestre portando con sé la tranquillità che le aveva finalmente permesso di riposare. L'oscurità era arrivata alla svelta e la calma era diventata solitaria. Era in momenti come quello che il pensiero di ciò che aveva dentro di sé la salvava. Ma c'erano ancora i dubbi. A volte, la vertigine la preoccupava. La nausea mattutina era normale, all'inizio, ma perché adesso? Eppure, la preoccupazione era nulla in confronto alla felicità. Nessuno poteva portarle via il suo bambino. Faceva parte di lei. Fece prudentemente il giro della casa e decise che si sarebbe occupata di riordinare il giorno seguente. Un milione di grilli cantavano nell'oscurità all'esterno. Caitlin premette il volto contro il vetro dell'ampia porta scorrevole del soggiorno. Era come uno specchio a un senso: guardare in una notte suburbana come quella significava non vedere nulla tranne se stessa. Con le luci della casa accese, non c'era modo di sondare l'oscurità degli alberi. Qualunque cosa fosse là fuori, era invisibile. All'inizio, quando si erano trasferiti in quella casa, la cosa l'aveva terrorizzata. Aveva ordinato immediatamente pesanti tendaggi per celare quello che, da fuori, doveva apparire come un'esposizione di un magazzino di arredamento. Paul aveva ordinato un paio di riflettori per illuminare il terreno circostante, ma i raggi di luce raggiungevano soltanto le aree limitate delle porte e del vialetto d'accesso, spingendosi nell'oscurità soltanto per pochi metri. Il buio era profondo e impenetrabile. A esercitare il proprio richiamo su di lei non era la realtà concreta dei ladri o dei malviventi, ma paure assai più primordiali e impronunciabili. Una casa suburbana immersa in sei acri di bosco come quella era molto solitaria, la notte. Ricordava un'amica che le aveva detto che tutto ciò che doveva fare un criminale era tagliare i fili del telefono e mettere fuori uso l'allarme, e poi la casa sarebbe stata isolata come un capanno di frontiera. Pensando a queste cose, sobbalzò quando suonarono alla porta. Che Paul si fosse dimenticato le chiavi era assolutamente sorprendente, così domandò chi era, dicendo a se stessa che la sua paura era semplicemente ridicola. Fissò la catenella di sicurezza sotto la serratura. « Sono io, Billy, il tassista, il padre del corso di preparazione al parto. Le ho soltanto portato un regalo per il suo ricevimento. Sono un po' in ritardo, lo so. » Caitlin aprì la porta di una decina di centimetri, in modo che la catenella fosse ben tesa. Sbirciò oltre lo stipite e lo guardò negli occhi: lo stesso vestito, accuratamente stirato; il garofano, leggermente appassito; gli occhi, ora amichevoli. Nelle sue mani c'era un grosso regalo impacchettato con cura. « È molto gentile da parte sua. »
Lui attese un istante per educazione. « Le dispiace aprirmi la porta? » E poi: « È stata Alexa a dirmi del ricevimento. Mi ha dato il suo indirizzo. Una donna simpatica. Le ho detto che volevo farle una sorpresa. Mi dispiace di essere arrivato così tardi. Non vorrebbe farmi entrare? » Era imbarazzante tenere un vicino fuori dalla porta a quel modo, ma quando era buio Caitlin non apriva la porta a nessuno. Come il più saldo dei dieci comandamenti, l'editto che esortava a non aprire la porta agli sconosciuti di notte gravava pesantemente sul suo cuore. « Lo so che è tardi, ma non sono uno sconosciuto », disse lui con il suo ampio sorriso. « Dopotutto, noi iscritti al corso di preparazione dobbiamo restare uniti. » Rise in modo poco convincente. Fu proprio quella risata a dare inizio a tutto? Lo vide attraverso i dieci centimetri di porta aperta e la sua testa era incorniciata dal legno come una sottile icona religiosa. Poi, improvvisamente, ebbe un lampo di memoria: la porta di un ascensore che si chiudeva sul viso di Claudia quella sera, e un'altra faccia accanto alla sua, la sua faccia, sottilmente incorniciata proprio come in quel momento. Fu in quell'attimo supplementare, in quel lento secondo che vide la faccia di lui come se la stesse vedendo per la prima volta. Vide le pupille dilatarsi, la bocca cadere in una smorfia. « Non voglio turbarla. Fa benissimo a essere prudente. Pensi a cosa può succederle, da sola in questi boschi quando c'è buio. Nessuno udrebbe mai un grido, per quanto forte possa essere, un po' come nel parcheggio la sera del corso di preparazione. Mi limiterò a lasciare qui questo regalo per te e me ne andrò. » Caitlin non rispose, ma rimase a guardarlo mentre si chinava e lasciava che il pacchetto scivolasse sul pavimento lastricato della veranda. Era immobile, incapace anche soltanto di chiudere la porta, aspettando che lui si voltasse e se ne andasse. Un istante si trasformò in un'ora. Caitlin si scoprì a drizzare le orecchie nella speranza di udire il rumore della macchina di Paul, ma c'era soltanto il suono dei grilli. Lui si raddrizzò, si lisciò le maniche della giacca e si sistemò il garofano. « Davvero, adesso me ne vado. Vedrai, il regalo ti piacerà. » Poi aggiunse; « A Claudia sarebbe piaciuto. » Sorrise. E Caitlin vide chiaramente che quel sorriso era un sorriso malsano. « Capirai che io e te ci conosciamo meglio di quanto pensi. Avresti dovuto lasciarmi entrare. » Caitlin si sentì sul punto di pronunciare la parola perché, ma poi la voce annegò da qualche parte dentro di lei. Detto questo, lui si voltò e si allontanò a passi bruschi dalla veranda, poi lungo il vialetto e infine nella notte. E Caitlin, prima ancora di aprire la scatola, seppe che l'avrebbe aperta. E seppe che cosa ci avrebbe trovato. 33 Crapshoot rimase accovacciato dietro la cortina di alberi vicino alla casa e aspettò il grido. Era abituato ad aspettare, ormai, ma non avrebbe dovuto aspettare a lungo: magari un secondo o due. Si voltò a guardare e vide le luci della casa che danzavano con gioia come un albero di Natale appena decorato, e l'ombra della sagoma incinta sulla veranda.
La scena gli fece venire in mente quando aspettava che un'automobile svoltasse in Morone Street. In lui c'era la stessa sensazione di potere e l'eccitazione della caccia. Aspettò come aveva aspettato allora: aveva teso la trappola, aveva eseguito la propria crudeltà, stava aspettando soltanto che facesse effetto. Il suo esperimento. Quando il primo strillo lacerò la notte persino oltre le sue previsioni, annuì in un gesto di comprensione. Era come versare acido sulla ferita più profonda. E poi ci fu un secondo strillo ancora più orribile del primo: agghiacciante, prolungato, posseduto dall'orrore che lui aveva coltivato. Si incamminò verso il suo taxi con l'ausilio della sua torcia elettrica e iniziò il lungo viaggio verso casa. 34 C'erano delle voci, ma Caitlin non voleva sentirle. Sentirle voleva dire soltanto dover tornare da loro. Seppellì la testa nel cuscino, cercando di allontanare il ricordo. Ma lì le voci non se ne andavano. Udì nuovamente quella di Paul. Rassicurante, calma, seria. Ecco, ecco, dormi ancora un poco. Sapeva che doveva essere forte. Stavano aspettando tutti che lei fosse forte. Lei stessa lo stava aspettando. Forse quello di cui aveva bisogno, invece, era un altro po' di valium. Ecco, ecco, torna a dormire. Sentì la mano di Paul che le accarezzava il braccio, il tocco di un uomo. Vide Serena in piedi in fondo alla stanza e poi la vide avvicinarsi. Serena le prese l'altra mano e sorrise. Avanti, bambolina, dormi un po' per mamma Serena. Abbassò lo sguardo sul suo ventre e ricordò. Strillò. « Rilassati, tesoro. Rilassati e dormi. Il bambino sta bene. Il dottor Lynch ti ha visitata, e il dottor Dotterweich sarà qui tra poco. E il bambino sta bene. Stai andando benissimo, tesoro, stai andando benissimo. » Non riusciva a distinguere le altre voci. Guardò oltre la stanza, nel corridoio. C'era l'uniforme blu di un poliziotto. C'era della gente vestita di scuro. Troppe persone. Li vedeva passare nel riquadro della porta della camera da letto. E la memoria cominciò nuovamente a trascinarla: una faccia in una cornice, l'ascensore che si chiude, la faccia di Claudia, la faccia di lui - poi smise. L'oscurità arrivò per proteggerla, impedendole di andare oltre. Dotterweich fissava la casa dei Bourke. Era ampia e confortevole come le case di molti suoi clienti. Un bel posto per allevare un figlio. Nell'oscurità circostante, era sorprendentemente luminosa. La casa aveva un'aria normale e serena, fatta eccezione per le macchine della polizia parcheggiate di fronte. Aveva previsto che ci sarebbe stato qualche problema, con i Bourke. Sapeva che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto. Era stato impossibile, per lui,
descrivere quella sensazione, ma l'aveva sempre saputo. C'era sempre il rischio, quando tentavi di ingannare l'evoluzione, di incorrere nelle ire della biologia. Biologia. Nessuna madre natura. Nessun Dio. Nessuna strega che cuoceva occhi di pipistrello e lanciava incantesimi. La scienza era più sottile. L'evoluzione era imperiosa nella sua complessità e nella sua bellezza. Ma, per ingannarla, si correvano dei rischi. La biologia conosceva se stessa più di chiunque altro. I cromosomi erano programmati per uno scopo. Non si lasciavano ingannare tanto facilmente. C'erano dei rischi. « Dottor Dotterweich? » L'uomo gli mostrò un tesserino di riconoscimento. Era un tenente di polizia in borghese con la faccia butterata. « Sì, sono io. » Si inchinò leggermente, con servilismo europeo. « La signora Bourke sta riposando nella stanza al piano di sopra.» Indicò con un cenno l'ampia scalinata. « Prima che vada da lei, vorrei farle rapidamente qualche domanda. » « Sarò più che felice di aiutarla, signore. Dopo aver visitato la mia paziente. » Il tenente gli fece cenno di salire. « Come vuole. La aspetterò qui. » Nella camera da letto, Paul Bourke si stava occupando diligentemente di sua moglie, accarezzandole la mano senza sosta. Una donna con i capelli scompigliati e lo sguardo sospettoso era seduta su un'ottomana di vimini in un angolo della stanza. Paul si voltò. « Salve, dottore. Sono contento di vederla. Adesso sta dormendo. » « Bene. Il sonno è la cosa migliore. » « Il nostro medico di fiducia è venuto poco fa. Ha detto che il bambino sta bene. Grazie a Dio il... » Dotterweich sollevò il palmo massiccio. « Non parliamone. Controllerò io stesso il bambino. Il bambino starà bene. Ora, se volete scusarmi, ho intenzione di visitare la signora Bourke per qualche minuto, da solo. » Si sedette accanto al letto e, mentre aspettava che gli altri se ne andassero, appoggiò le dita sul polso di Caitlin per controllare le sue pulsazioni. Quando la porta si chiuse, domandò: « Signora Bourke, come si sente? » Le palpebre sfarfallarono, poi si aprirono. « Sto bene, dottor Dotterweich. » « Lo so. Ha un aspetto sano e forte », mentì. « Il bambino starà bene. Ha avuto soltanto un brutto spavento. Paul mi ha detto tutto al telefono. Non deve parlarne. Questo individuo malato verrà preso dalla polizia. Quindi lei non deve preoccuparsi. Mi hanno detto che la polizia sa chi è. È una specie di criminale professionista di Northport. » « Quello che le hanno detto non è tutto. » « Oh? » Caitlin cominciò a tossire; il suo viso divenne ancora più pallido. « Si rilassi. Qualsiasi cosa sia, possiamo gestirla. » Caitlin frugò sotto le coperte. « Questo », disse porgendogli un piccolo bigliettino, « era insieme a quella cosa. L'ho tenuto nascosto alla polizia, l'ho tenuto nascosto a Paul. Lo terrei nascosto anche a me stessa, se potessi. » Dotterweich prese il biglietto e lesse le quattro parole:
Per amore della poesia. Quando le lesse, capì che avrebbe ricordato quel momento per sempre. Era uno di quei momenti in cui la forza della realizzazione, così ineluttabile, non lascia dubbi che ciò che si è visto non verrà mai dimenticato. Aveva sempre insegnato a se stesso a guardarsi dalle emozioni, a ricordarsi sempre i principi della scienza e della ragione. La vita era troppo complicata per poter fare diversamente. Ma la malsanità umana era sempre intervenuta. La condizione umana era tale che la vera devianza non rientrava nel disegno dell'evoluzione. Spesso si era domandato quale fosse la natura della devianza e quale ruolo rivestisse nel piano della biologia. Non era ancora riuscito a trovare una risposta soddisfacente. « Capisco », rispose semplicemente. Ricordava fin troppo bene quella frase. Ricordava addirittura la calligrafia sul modulo. Ricordava le preoccupazioni di Caitlin riguardo le lettere che aveva ricevuto, preoccupazioni che lui non aveva preso in considerazione. « Mi dispiace. » Per un lungo istante, non riuscì a pensare a nient'altro da dire. « Dev'esserci qualche errore... » cominciò senza convinzione. Ma le parole suonavano troppo vuote. Caitlin si sollevò a sedere sul letto. Era forte e determinata. La voce le tremava, ma era salda nel suo significato: « Devo sapere se è lui il padre. Se lo è, devo abortire immediatamente. » Dotterweich si ritrovò a rispondere meccanicamente: « È nell'ultimo mese, signora Bourke. La legalità di un... » « Non me ne importa un accidente di quello che è legale e di quello che non lo è. » Si sostenne sui gomiti, gli occhi rosati, le labbra che le tremavano di rabbia. « La sua stupida clinica, ecco che cosa è illegale. Le sue prediche folli, ecco che cosa è illegale. Le sue stupide convinzioni, le sue lezioni bizzarre, le sue... » Ma la sua furia si era esaurita. Ricadde sul cuscino e sospirò. « La prego, signora Bourke, si sdrai e cerchi di rilassarsi. Capisco davvero il grande dolore che sta provando. Risolverò io la situazione. Posso effettuare degli esami di paternità su Paul per vedere se lui è, be', il padre, e poi... Speriamo. Speriamo che quella, quella bestia, non lo sia e... » Scoprì che la sua abilità con le parole stava svanendo. « C'è poco tempo, però. Il bambino potrebbe nascere da un momento all'altro, sinceramente. » Caitlin rimase immobile, in silenzio, guardandolo. Dotterweich si abbandonò al suo rimprovero e annuì. Lei aveva tutti i diritti di odiarlo fino alla fine dei suoi giorni. Ma lui non sapeva se doveva dare la colpa a se stesso o alla biologia. O a qualche altro aspetto dell'umana condizione. C'era sempre la possibilità che un donatore non fosse ciò che diceva di essere al momento della compilazione del modulo. Ma immaginare un simile orrore: uno psicopatico che desidera trasmettere il proprio seme e poi tormentare gli inermi. Era un anatema contro tutto ciò che aveva imparato. Le fondamenta delle sue convinzioni si stavano spaccando lentamente dentro il suo silenzio. Era come se si fosse affidato per troppo tempo al lato puramente biologico. Quello patologico l'aveva completamente ignorato. « Non le do la colpa », disse infine Caitlin.
« Lei ha tutti i diritti per farlo. Mi assumo tutte le responsabilità, legali, morali. Glielo dico ora, e lo ripeterò in qualsiasi momento. » « La prego, non do la colpa a lei. Non posso dare la colpa a lei, e sono troppo stanca per darla a me stessa. Sono stanca di tutte le emozioni. Darei la colpa al cielo, se avessi la fede. Ma, dal momento che mi manca anche quella, voglio soltanto essere forte. Voglio soltanto sapere se lui è il padre. Questo è tutto ciò che ho bisogno di sapere. Se lui è il padre, allora devo distruggere il bambino. Se il padre è Paul, allora lo terrò. » « Può dare la colpa a chiunque se la prenda. E, in questo caso, posso benissimo essere io. E la soluzione più sana. Risolveremo questa situazione. Vuole dirlo lei alla polizia, o preferisce che lo faccia io? » « Prima lo dirò a Paul. E poi lo dirò alla polizia. » Dotterweich scosse tristemente la testa. « La vita non è fatta per i mansueti, né questa vita né nessun'altra. Grazie al cielo, lei non è mansueta, signora Bourke. » « A volte, dottor Dotterweich, lei parla più come un sacerdote che come un medico. » « Ho sempre tenuto in scarsa considerazione la religione. Ma chi può negare che ci sono momenti in cui un po' di fede sarebbe utile? » « Mi faccia sapere... » « Lo farò. Ora dorma. » Dotterweich si voltò per uscire. C'era qualcosa, nell'abbandonare quella stanza, che gli ricordava la sensazione che si ha quando si abbandona una veglia funebre, e in quel momento si sentì molto simile a un prete. C'erano occasioni in cui i ruoli del medico e del sacerdote si fondevano necessariamente. Quello era uno di quei momenti. Incontrò il poliziotto butterato al piano di sotto. « È pronto? » gli domandò l'agente. « Sì. » « Ha sentito parlare del sospetto che ha macellato il feto e l'ha portato qui? Un criminale conosciuto che opera nella zona di Northport? » « Ho sentito. » « Già. Qual è il legame, dottore? » « Qual è il legame? » « Tra la signora Bourke e il sospettato. » Il poliziotto lo fissò. La polizia aveva un modo tutto particolare di guardarti. Ti fissavano da un'angolazione calcolata, come se pensassero di poter estirpare la verità da un punto tra la cornea e l'iride. Nel suo paese natio, aveva imparato a trascorrere il minor tempo possibile con la polizia. E in America, aveva imparato tutt'altro che il contrario. Ma non stava nemmeno tentando di nascondere la verità. Ciò nonostante, lo sguardo del poliziotto era impietoso. « E stato lei a occuparsi dell'inseminazione artificiale della signora Bourke, non è vero? » « Sì. » « Ed è andato tutto bene? » « Sì. » « E chi è il donatore? » « La signora Bourke ve lo dirà non appena l'avrà detto a suo marito. » Dotterweich
guardò Paul Bourke che vagava senza meta in soggiorno cercando qualcosa da fare. Provò compassione e una sorta di disprezzo per il signor Bourke: conosceva così poco di sua moglie. E ora sarebbe stato costretto ad apprendere l'orrore degli orrori. La strada verso la sua automobile era buia, e a un certo punto Dotterweich inciampò. Il buio era minaccioso. Permise a se stesso di immaginare la scena di qualche ora prima, quando Caitlin Bourke, sola in casa, si era alzata per ricevere una consegna crudele. Rabbrividì al pensiero. Era straziante vedere la malattia dell'umanità. Nonostante i suoi enormi passi avanti, l'evoluzione faceva sempre un passo indietro. Indietro verso una notte profonda come quella in cui lui stava camminando. Caitlin Bourke era seduta sul letto ad aspettare l'alba. Paul sarebbe salito tra poco. La maggior parte dei poliziotti se ne sarebbe andata. Un'autopattuglia sarebbe rimasta a proteggerli fino all'arresto. Tutto si svolgeva come sul palcoscenico di un grande teatro in cui lei non recitava più. Desiderava ardentemente di poter tornare al giorno prima, quando ancora era salvaguardata dalla speranza. Abbassò lo sguardo sul proprio ventre, ma non permise a se stessa di speculare sulle possibilità. Lentamente, il panico montò dentro di lei fino a farle sentire l'impulso di gridare, ma poi ricordò che doveva essere forte. Avrebbe dovuto essere in grado di capire chi era il padre del bambino. Sicuramente una madre doveva essere in grado di dirlo. Sicuramente tutte le teorie di Dotterweich dicevano la stessa cosa. Le madri erano in grado di sentirlo prima degli esami di paternità. Così come, prima dell'avvento dei calcolatori, le persone sapevano fare le somme. E come, prima dei fax, la gente poteva aspettare un paio di giorni. Avrebbe dovuto saperlo. Disse una preghiera per saperlo e cadde addormentata, con una parte di lei che sperava di non svegliarsi mai più. 35 « L'affitto, Billy. » L'addetto alle chiamate sollevò un braccio, poi ci ripensò. Crapshoot provava un disprezzo infinito per le maniere rudi dell'addetto alle chiamate. Gli buttò i due biglietti da venti e si diresse verso la porta. « Billy, dovresti darmi più di quaranta dollari, questo mese. L'affitto è aumentato. Sai come vanno le cose. » L'uomo aprì la sua scatola di cibo cinese e si infilò in bocca mezzo involtino. « Che c'è che non va? Gli scacchi non vanno tanto bene, negli ultimi tempi? » indagò Crapshoot. « Oh, no. Il mio gioco è okay. È il tuo gioco quello che ha bisogno di una sistematina. » « Eh? » « Oggi sono venuti gli sbirri. Mi hanno fatto qualche domanda. Volevano sapere se lavoravi ancora qui e dove potevano trovarti. Non mi sono lasciato preoccupare. Fino a quando non mi hanno chiesto di te e di una ragazza morta. Allora ho cominciato a parlare di baseball - sai com'è - per cambiare discorso. Agli sbirri non è piaciuto. E sai una cosa, Billy, mi sono scocciato anch'io di parlare di baseball. La prossima volta che passano da queste parti, potrei anche essere costretto a parlare di quello di cui
vogliono parlare. » L'addetto alle chiamate sorrise. Un filo di carne di maiale gli penzolava dai denti davanti. Estorsione. Ora quella era una cosa sofisticata, per l'addetto alle chiamate, un uomo che Crapshoot aveva sempre immaginato soddisfatto di riscuotere il suo misero affitto e le tariffe dei taxi come un ipernutrito, compiacente contadino bavarese in un lento pomeriggio domenicale. Quel cambiamento improvviso nei suoi metodi meritava rispetto. Forse l'addetto alle chiamate era un vero giocatore di scacchi, un uomo di mondo, dalle molte mosse a disposizione, con le regine rosse infilate nelle maniche lerce della camicia e una gazza ladra nascosta nel sottopancia. Crapshoot, come avrebbe fatto ogni uomo d'affari, giunse rapidamente a una decisione ben ponderata. « Puoi parlare di baseball o di cricket o anche di scacchi, se vuoi. Oppure puoi parlare di me. Ma, se parli di me, allora i tuoi giorni di giocatore di scacchi sono finiti. Hai mai sentito parlare dello scaccomatto? Una volta che ti avrò tagliato la gola da parte a parte, userò le tue grasse dita delle mani come pedoni e le tue ancora più grasse dita dei piedi come alfieri. E poi, quel baccello tarchiato che chiami pene... È una tua scelta. » L'addetto alle chiamate sembrava nervoso, ma non per la minaccia. Stava guardando da un'altra parte con la coda dell'occhio. Stava succedendo qualcosa. Crapshoot girò sui tacchi e finse di tornare alla sua scrivania. Poi scivolò verso l'armadietto dietro il serbatoio dell'acqua potabile e sollevò la botola della cantina. Si calò nello spazio fresco e polveroso e avanzò lungo l'angusto passaggio. E non un secondo troppo presto. Le grida dei poliziotti riempirono la stanza di sopra. E così, alla fine l'addetto alle chiamate era davvero un giocatore. Gli aveva teso una trappola. Ma Crapshoot era stato troppo veloce. Tutte le grandi cose si riducevano a quello, pensò, all'adrenalina che gli impazzava nell'inguine come se gliene avessero iniettata una dose con una siringa. Io sono sempre in attività. Non pensava che la polizia lo incastrasse così presto. Ora sarebbe stato costretto a nascondersi prima di quanto si fosse aspettato. Ma era ben preparato. Corse lungo il passaggio, spogliandosi fino a rimanere in pantaloni e canottiera e spingendo gli altri vestiti in una tubazione aperta. Buttò via la fondina e tenne la pistola in mano. Più tardi si sarebbe procurato un travestimento. La sua reputazione sulla strada era così impeccabile che trovare un nascondiglio sarebbe stato relativamente facile. Alla fine del cunicolo, abbatté con una spallata le assi di legno e uscì in un vicolo secondario. Lo attraversò di corsa, dirigendosi verso una pila di immondizia abbandonata. Si alzò in piedi in cima alla pila di sacchi e poi discese verso la Acorn. Una rapida puntata alla fine dell'isolato e vide due autopattuglie prive di contrassegni parcheggiate di fronte al posteggio dei taxi. Questo significava che avevano almeno sei uomini in borghese a tener d'occhio la facciata. A quel punto, sicuramente avevano già scoperto la botola. Ma non lui. Si diresse verso l'officina di Macroy per procurarsi una macchina. Doveva lasciare la città e fare le sue mosse. Il gioco doveva continuare. Quella era la partita più grande che avesse mai giocato, e non si passa la mano quando hai ancora in tuo possesso la regina rossa.
Si fermò in una cabina telefonica poco lontano dalla Merritt e fece la telefonata. Lei rispose al terzo squillo. 36 Uno squillo. Due squilli... Caitlin sapeva che era lui. « Pronto? » disse, cercando di mantenere sotto controllo il tono di voce. « Non riagganciare », disse la voce raspante. Caitlin sentì immediatamente la nausea. Se avesse telefonato, avrebbe dovuto parlare con lui, aveva detto la polizia. Doveva tenerlo in linea - almeno per due minuti - abbastanza a lungo per permettere loro di localizzare la chiamata. Paul era seduto di fronte a lei sul divano, gli occhi fissi sul pavimento. Aveva fissato il pavimento fin da quando lei glielo aveva detto. Aveva ancora la testa tra le mani, accanto al suo quarto whisky posato sul tavolino da caffè. Di tanto in tanto, sollevava lo sguardo e le guardava il ventre come se non l'avesse mai visto prima. E forse non l'aveva mai visto davvero. Caitlin guardava fuori dalla finestra, gli occhi fissi sull'autopattuglia parcheggiata nel vialetto d'accesso. La faceva sentire un po' più sicura. « La polizia non può aiutarti », disse lui. Allora in qualche modo la stava tenendo d'occhio, anche allora. Doveva tenerla d'occhio da dentro il suo utero, dall'interno della sua anima. Caitlin ebbe un conato di vomito. La sua voce continuò a parlare, ferma e crudele: « Ho composto una nuova poesia per te. Dopotutto, sei la madre di mio figlio. Ho consegnato i miei versi alla memoria. Non sono tanto belli. Ma vanno dritti al punto. Credo proprio che ti piaceranno. Ti dispiace se li leggo? » Caitlin non rispose. Per quanti sforzi facesse, non riusciva a trovare la voce. «D'accordo, allora. Ora inizio: Che cosa sono quei tonfi che senti di notte? Sono io, nel tuo utero, la tenebra nella luce. Quale possibilità hai di fuggire? Nessuna, lo vivo dentro di te: uno stupro in provetta. » Caitlin cominciò a piangere, le lacrime che si era ripromessa di non dargli sgorgarono comunque. Pianse mentre Paul gemeva sommessamente nell'angolo. Ma lui non si lasciò intimidire dalle sue lacrime, la cantilena sdolcinata della sua voce amplificata dal registratore della polizia: «Ho scandagliato il tuo essere con una falsa identità. Il tuo bambino, ora mio, per amore della... » Ma Caitlin sbatté giù il telefono. Si rifiutava di udire quell'ultimo verso familiare. Il dolore non allentava la presa. Non riusciva ad abbassare lo sguardo su di sé, non riusciva a toccare la forma del suo ventre senza avvertire una repulsione tremenda per
ciò che risiedeva dentro di lei, e un profondo senso di colpa per i suoi stessi sentimenti. Si alzò dal divano. Non era facile alzarsi, ora che la gravidanza era così avanzata. Salì le scale con passo incerto, cieca ai suoi stessi movimenti. In camera da letto, si ritrovò a barcollare nel buio, inciampando sugli asciugamani e poi intorno al letto fino all'armadio. Si sedette sul tappeto ai piedi dell'armadio e pianse per un lungo minuto. Poi sollevò una mano e prese un appendiabiti di fil di ferro. Sollevò il suo abito premaman e si tastò sotto le mutande. La vita era molto fragile, pensò, immaginando se stessa raddrizzare la curvatura dell'appendino e poi cominciare a infilarsi dentro il freddo metallo. Si immaginò spingere verso l'alto, un po' più in alto ancora. Arrivò il dolore e lei fece una smorfia, ma non sentì nulla. Ancora un po' più in alto. Si immaginò di sanguinare. Ma era il sangue sbagliato. Stava soltanto facendo del male a se stessa. Immaginò di premere sempre più a fondo. Il metallo freddo dentro di lei: era quasi rassicurante. Sentì una mano sulla sua spalla. « Che cosa stai facendo? » le domandò Paul, togliendole l'appendino dalle dita. «Perché non ti sdrai sul letto? » Caitlin si mise di buon grado sotto alle lenzuola tiepide. Paul le si avvicinò e le accarezzò gentilmente la fronte. Dopo un istante, disse: « Capisco quanto sia difficile. » «Voglio uccidere me. Non il bambino. » « Lo so. » Sapeva che Paul teneva una pistola carica nel cassetto del comodino, sotto una sciarpa all'uncinetto. Fantasticò di adoperarla dopo, quando la casa fosse tornata a essere tranquilla. Sperò che Paul la lasciasse sola per poterla usare. Divenne un'immagine ricorrente nella sua mente: la pistola nella sua bocca, lo sparo, e poi nulla, sollievo dalla vita. Ma che cosa sarebbe accaduto se non fosse riuscita a farlo bene? «Adesso dormo», disse. « Bene. » Paul andò in bagno e fece scorrere l'acqua, mentre lei osservava con occhi vitrei le ombre danzare sul soffitto. Lui tornò e si sdraiò sul letto accanto a lei. « C'è stato un momento, non troppo tempo fa, in cui ho sperato che non fosse tuo figlio. » « Sì, lo so », disse lui pacatamente. « Lo sai? » « E lo capisco anche. » Caitlin vide il proprio destino nelle ombre. « Tornerà, sai. Tornerà per il suo bambino. Me lo sento. » Un'idea le nacque nella mente. « No », disse lui, mettendole una mano sulla bocca. « Non tornerà mai più qui. » « No », ribatté lei. « Tornerà. » E sapeva - con la stessa certezza con cui sapeva che i movimenti nel suo ventre significavano la presenza di un altro essere vivente sapeva di non sbagliarsi. 37 Il nastro d'asfalto della strada cantava per lui. Era infervorato dalla sua missione. L'aria soffiava con forza dai finestrini e Crapshoot fissava dritto davanti a sé, le mani serrate sul volante, ansioso di
raggiungere la rampa di uscita di Westbridge. Ci sarebbero voluti soltanto tre minuti dal primo semaforo. Ormai aveva cronometrato il tragitto diverse volte e avrebbe potuto trovare la strada a occhi chiusi. Sapeva di doversi aspettare la polizia. E, sapendolo, sapeva anche cosa fare. Non aveva mai percepito la polizia come qualcosa di più di un problema minore. Io sono sempre in attività. L'uscita arrivò. Crapshoot fermò la macchina e ascoltò gli alberi: a quell'ora c'era silenzio, ed era ancora buio. C'era il suono dei grilli, ma poco altro. Ricordò gli strilli laceranti di quella notte e sentì nuovamente quella stretta al cuore. Continuò a guidare nelle prime luci del mattino di Westbridge. 38 Aveva la pistola in grembo. Era seduta sul divano in soggiorno con la pistola, e aspettava. L'avrebbe usata presto. Stava aspettando l'alba. Paul si era addormentato alla svelta e lei era scesa in soggiorno poco più tardi. Era seduta, nelle prime ore del mattino, ormai abituata all'assenza di luce, passando un dito su e giù sulla canna della pistola. Suo padre le aveva insegnato bene. All'epoca non era stata male, come tiratrice. E, da breve distanza, era decisamente brava. Seduta, aspettava. Canticchiò una nenia tra sé e sé per un po' e poi si disse, come si era già detta molte volte: Se posso sparargli quando lo guarderò negli occhi, allora non può essere il padre, perché non potrei mai sparare al padre del mio bamhino. Se posso sparargli quando lo guarderò negli occhi, allora non può essere il padre, perché non potrei mai sparare al padre del mio bamhino... Continuò a ripeterselo all'infinito. Era come un incanto religioso, le parole di Dio, oltre che le sue. Era sicura che quella sarebbe stata la prova. Tolse la sicura e ricordò le parole di suo padre sullo spiazzo freddo del poligono negli anni successivi alla morte di sua madre: « Non abbassare mai la sicura fino a che non sei pronta a sparare. Togliere la sicura è come avere un bambino. Una volta che lo fai, è meglio che tu sappia che cosa stai facendo. E fa' attenzione alle armi vicino alla gente. Ma, se devi sparare a un uomo, guardalo negli occhi quando premi il grilletto: non puoi sparare a un uomo che ha anche solo un barlume di bontà nell'animo quando lo guardi negli occhi. » Se posso sparargli quando lo guarderò negli occhi, allora non può essere il padre, perché non potrei mai sparare al padre del mio bambino. Se posso sparargli quando lo guarderò negli occhi, allora non può essere il padre, perché non potrei mai sparare al padre del mio bambino... Poco dopo, udì dei passi all'esterno. Erano deboli, attutiti, ma Caitlin sapeva di averli uditi. Strisciò fino alla finestra sul retro e cadde in ginocchio, il ventre rigonfio premuto contro il vetro. Rimase in ascolto. Quando fosse arrivato, Caitlin sapeva che sarebbe arrivato rapido e silenzioso. Avrebbe evitato la facciata anteriore della casa dove c'era la macchina della polizia. Sarebbe entrato da qualche parte su quel lato,
lungo il lato posteriore della casa, dove gli alberi fornivano un'ottima copertura e dove la luce dei riflettori della casa non riusciva ad arrivare. Aveva pensato di spiegarlo alla polizia, ma poi si era resa conto che, qualsiasi cosa avesse detto loro, non sarebbe servita a nulla: lui avrebbe comunque trovato il modo. Ma non era più spaventata. Anzi, attendeva con ansia il momento in cui avrebbe saputo. Voleva che lui arrivasse, voleva che scalasse la collina sul retro, che adoperasse la copertura offerta dagli alberi, che evitasse la luce aspra dei riflettori, che ingannasse la polizia, che scassinasse la porta per entrare, che entrasse in soggiorno, che la affrontasse faccia a faccia. Perché così... Se posso sparargli quando lo guarderò negli occhi, allora non può essere il padre, perché non potrei mai sparare al padre del mio bambino. Se posso sparargli quando lo guarderò negli occhi, allora non può essere il padre, perché non potrei mai sparare al padre del mio bambino... Una strana sensazione di euforia le passò in corpo come una saetta e poi evaporò come una dose troppo debole di Demerol nelle vene. Quello era il momento in cui avrebbe finalmente saputo. Nel bene e nel male, la tensione sarebbe finita. Lei avrebbe saputo. Scrutò l'oscurità in cerca di un segnale. Con l'alba incombente, una traccia di colore stava iniziando a mostrarsi tra gli alberi. Lui sarebbe arrivato prima del sorgere del sole. Non sarebbe venuto di giorno. Succede sempre, pensò Caitlin, che quando stai aspettando qualcuno e scruti l'orizzonte alla tua sinistra, lui arriva da destra. Se te lo immaginavi vestito di rosso, allora arriva vestito di nero. Se te lo immaginavi in un taxi, si presenta a piedi. Quindi Caitlin, mentre lo cercava con lo sguardo oltre il declivio, tra gli alberi, sul retro della casa, capì che sarebbe arrivato seguendo qualche altro sentiero. A sottolineare il suo pensiero ci fu il rumore debole di una lastra di vetro che si rompeva e cadeva in cucina. Caitlin sapeva che era la cucina perché il rumore del vetro che cadeva su quel pavimento era particolare. L'aveva udito molto volte. A quel punto, come in un incubo, i pensieri cominciarono ad arrivarle lentamente. Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe stata la cucina: la cucina era lontana dalle luci, dalla polizia, ma anche dal sole nascente. Te li immagini che arrivano da sinistra, e Loro arrivano da destra. Il terrore andava e veniva. Caitlin venne lasciata con una fredda ansia. La sua mano cominciò a sussultare incontrollabilmente, un minuscolo tic involontario che Caitlin lottò per ignorare, mentre sollevava l'arma e la metteva in posizione tenendola con entrambe le mani proprio come le aveva insegnato suo padre. Si sedette nuovamente sul divano, osservando la nicchia dove il soggiorno incontrava la sala da pranzo, aspettando che lui emergesse dal buio. Si domandò se Paul stesse dormendo, e per quanto avrebbe seguitato a farlo. Sperava che dormisse. Dio, fai che dorma durante tutto questo, disse con un filo di voce. Lui era arrivato. Caitlin guardò lungo la canna della pistola e lo vide all'altra estremità. Era entrato in silenzio, e ora si era accorto di lei. Caitlin immaginava che sarebbe venuto con il suo vestito stirato, un garofano nel taschino, ma indossava soltanto una T-shirt e un paio di pantaloni. Sembrava l'ombra di se stesso, meno imponente, fatta eccezione
per il lungo coltello che teneva nella mano destra. Sorrise. « Vedo che mi stavi aspettando », le disse. « Scusa il mio abbigliamento. » Caitlin fissò la canna della pistola. Non riusciva a vedergli gli occhi, ma sapeva che, quando fosse avanzato di un passo, oltre la colonna e nel soggiorno, sarebbe riuscita a vederglieli con chiarezza. Lottò con se stessa per riuscire a tener ferma la pistola. Il tic non accennava a fermarsi. « Ti suggerisco di mettere giù quella pistola. Sai bene anche tu che non la userai », disse lui. Se posso sparargli quando lo guarderò negli occhi, allora non può essere il padre, perché non potrei mai sparare al padre del mio bambino. « Diciamocelo chiaro », continuò lui. « Lì tu hai una mia proprietà. » Si avvicinò di un passo. « Tu puoi anche non saperlo, ma io sono sempre in attività. » Sorrise, lo stesso sorriso malsano. Fece un altro passo ed entrò nella luce. Caitlin non ebbe la consapevolezza della pistola che sparava, ma soltanto della propria reazione agli spari: la vibrazione che le attraversava il corpo, il dolore alla spalla, il tic nella sua mano che finalmente si placava. Epilogo Lo strillo di un bambino nel buio, come un colpo di pistola nei sobborghi, non passa inosservato. Quella tonalità particolare che può innalzarsi sopra qualsiasi altra cosa e far digrignare i denti di un genitore è il suono più irresistibile esistente in natura. E bandirlo con un succhiotto o con un sorriso, o un pannolino asciutto o un saltello sul ginocchio è l'unica scelta. E poi c'è il suono della risata che viene dopo averlo calmato, come una sinfonia alla radio dopo una scarica di elettricità statica. E poi, dopo, quel silenzio particolare, quando il bambino dorme e tornano gli altri rumori. Quei rumori, tutti, nessuno escluso, erano un conforto per Caitlin, e lei amava gli strilli quanto amava le coccole. C'erano delle volte, alle tre del mattino, quando Paul dormiva profondamente, in cui lei non era ansiosa di occuparsi del bambino. Ma poi la sensazione che ci fosse qualcuno di cui occuparsi germogliava gioiosamente in lei, e si alzava alacremente, fedele alla propria missione, percorrendo il corridoio per raggiungere un luogo in cui c'era bisogno di lei. La nuova casa era una benedizione, per lei. La trovava calda e invitante. Era più piccola dell'altra, anche se era ancora a Westbridge. C'erano molti posti lì dove c'era bisogno di lei, specialmente nella stanza del bambino. Fissava suo figlio, Paul Bourke Jr, e posava una mano di madre sulla fronte per confortare il suo richiamo notturno. Quando lo guardava e vedeva l'azzurro vivace del suo pigiammo, e l'azzurro più vivo ed elegante dei suoi occhi lucidi, sapeva di trovarsi nel migliore dei luoghi possibili. Lui era così compatto, un anno di vita, stava appena cominciando a imparare a camminare un poco, con passettini barcollanti che lo portavano un passo avanti e due passi indietro. E ora era un bambino, con sguardi diabolici e occhiate maliziose e birichine e desideri forti che lo portavano ben al di là dell'utero. C'erano state preoccupazioni, quando succhiava ancora il latte a nove mesi e
sembrava impossibile da svezzare, tanto comodo era con il suo capezzolo, tanto avido era del calore mammario. Eppure, lei assecondava ben volentieri i suoi desideri e li esortava persino, con disappunto di Paul, e così aveva continuato ad allattarlo per un altro mese e poi un altro ancora. Che il suo succhiare fosse tanto urgente non la preoccupava. Avere quell'altra bocca tanto occupata e così dipendente le regalava una sensazione continua di meraviglia. Caitlin non riuscì mai ad amare Paul come marito, ma lo amava come padre ed entrambi sentivano quel tipo di intimità che deriva dagli orrori condivisi. Lui veniva chiamato « pepa » e spesso si faceva rosso in volto per quel suo nuovo nome, leggermente imbarazzato dalla propria fortuna e sicuramente grato che fosse rivolto a lui. Paul era sempre presente con regali e vestiti di ogni sorta ed era pronto a correre in un negozio per una compera improvvisa appena prima di tornare a casa dal lavoro. I suoi occhi si accendevano nel momento appena precedente alla consegna dei regali, vagamente nervoso per le reazioni di Caitlin e di Paul Jr e poi assolutamente compiaciuto per i sorrisi che riceveva immancabilmente. Dotterweich inviò gentilmente un biglietto di auguri per celebrare il primo anno di Paul Jr sulla terra: Soltanto un biglietto per celebrare un anno di vita del vostro dono biologico. Auguro a lei e a Paul tutto il meglio sempre. Nessun'altra coppia di genitori lo merita più di voi. Il giorno, non molto tempo dopo il parto, che Dotterweich li aveva convocati nel suo studio per svelare i risultati ufficiali degli esami di paternità, Paul aveva tambureggiato in silenzio sul volante mentre guidava verso la clinica. Caitlin era seduta di dietro, accanto al sedile del bambino, confortando Paul Jr e pensando tra sé che la cosa non aveva più importanza: quando guardava il bambino, vedeva qualcuno che amava. Niente di più, niente di meno. Non riusciva nemmeno a immaginare di potersi sentire in un altro modo. Un cambiamento era occorso in lei, con la stessa improvvisa subitaneità del suo concepimento, un cambiamento che rivelava un amore incondizionato. Quando Dotterweich disse loro che i risultati dimostravano definitivamente che Paul era il padre del bambino, le lacrime felici erano sgorgate liberamente. Nel suo caso, non si era trattato più di sollievo, ma della fine dell'attesa. C'era stata così tanta attesa, e poi l'attesa del pronunciamento scientifico: quella era stata la più difficile. Intuitivamente, Caitlin conosceva la risposta fin da quella terribile notte, ma la freddezza della scienza poteva sempre rovesciare quello che per lei era l'istinto della maternità. Caitlin guardò la moquette dello studio e ripetè tra sé molte volte Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo. Poi lei e Paul si erano abbracciati brevemente prima di ringraziare Dotterweich e tornare a casa. Quel pomeriggio avevano festeggiato entrambi insieme a Paul Jr, tutti e tre raggomitolati nel lettone. Si erano coccolati e avevano dormicchiato e avevano recitato preghiere di ringraziamento. Al calare della sera, Caitlin aveva camminato nella nuova casa e aveva apprezzato i suoi rumori, colmi dei mormorii della vita.
Caitlin aveva continuato ad avere incubi per un po', incubi che inizialmente la obbligavano a giacere sveglia a fissare il soffitto in uno stato di impaurita paralisi. A volte scendeva al piano inferiore e telefonava a Serena, che era sempre sveglia a bere qualcosa o a divertirsi. Ma, gradatamente, gli incubi si erano fatti sempre più rari e, finalmente, si erano ritirati nell'oblio del sonno normale. Era la settimana prima del primo compleanno del bambino. Dotterweich era seduto alla sua scrivania e stava scrivendo il biglietto d'auguri. Era sempre stata sua consuetudine scrivere un biglietto a ogni coppia di genitori al primo compleanno del bambino per augurargli buona fortuna per il futuro. Con i Bourke, però, la compilazione del biglietto rivestiva un'importanza particolare, ma Dotterweich non conosceva le parole che avrebbero potuto trasmettere i suoi sentimenti nel modo più appropriato. Si accontentò delle consuete banalità e mise il biglietto nella cassetta della posta in uscita affinché venisse imbucato il giorno seguente. La sua ultima corrispondenza. Nel suo studio, le scatole erano impilate contro le pareti, gli archivi erano in attesa di essere rimossi e bruciati. Gli elenchi di nomi e di identità, di donatori e riceventi, numeri e indirizzi, avrebbero finalmente trovato il vero anonimato. Fuori dalla finestra dello studio, il mondo sembrava crudele. Dotterweich osservò il vento frustare i rami degli alberi e poi morire, la sua rabbia improvvisamente spenta. La natura era così manchevole. Sognava un giorno di perfetto equilibrio naturale, con ogni creatura che viveva e moriva appagata e in salute, e ogni progenie un dono e una promessa. Un giorno o l'altro, sussurrò tra sé. Dotterweich toccò il posacenere sulla scrivania dove, mesi prima, aveva bruciato i risultati dell'esame di paternità. Quando aveva scoperto che Paul non era il padre del bambino, aveva capito immediatamente che non l'avrebbe mai detto a Caitlin. Lei pensava di sapere, e in quei pensieri era soddisfatta. Per lei, l'intuizione era la conoscenza. Fino a non molto tempo prima, la mancanza di scienza nei suoi processi di pensiero l'avrebbe turbato. Ora, invece, era grato per lo spirito umano che le dava la forza. Si era rifiutato di essere la persona incaricata di disturbare la sua felicità. Aveva imparato che la felicità era più importante della biologia. E Caitlin e Paul avevano trovato la felicità. E la felicità era qualcosa che non osava manomettere. Non era stato senza preoccupazione per il suo stesso destino o per la sua reputazione che le aveva mentito. Stava rinunciando comunque all'affare della fertilità. Non vendeva la clinica. Semplicemente la abbandonava. Aveva perso la fede. Per lui, fede era una parola comunque strana. La fede era per i religiosi. Ma Dotterweich, pensandoci, sorrise. Caitlin gli aveva detto che parlava come un sacerdote. Forse era proprio quella, la sua vocazione finale. Non lo sapeva. Spense le luci e uscì dallo studio per l'ultima volta. Un sabato mattina, Caitlin era inginocchiata sulla moquette del soggiorno e aspettava il suo bambino. Ora Paul Jr camminava, ancora instabile, ma con una giovane determinazione che lo sospingeva. Caitlin attese pazientemente. Avrebbe potuto aspettare per sempre, se necessario. Paul Jr partì in un accenno di corsa. Sembrò inciampare, poi riacquistò l'equilibrio. Poi si diresse verso sua madre in una
specie di caduta libera. Caitlin allungò le braccia e lo afferrò: per abbracciarlo, per prenderlo, per soccorrerlo. Guardò oltre il suo sorriso e lo guardò negli occhi. Erano grandi e intelligenti. E, se in loro non c'era un'anima, Caitlin non lo sapeva. Era il suo bambino. Bastardo, forse. Ma suo.