STUART MacBRIDE IL COLLEZIONISTA DI BAMBINI (Cold Granite, 2005) A Fiona CAPITOLO 1 Per lui le cose morte avevano sempre...
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STUART MacBRIDE IL COLLEZIONISTA DI BAMBINI (Cold Granite, 2005) A Fiona CAPITOLO 1 Per lui le cose morte avevano sempre avuto qualcosa di speciale. La loro delicata freddezza. La loro pelle. L'odore pieno, dolciastro che emanavano nella putrefazione. Mentre tornavano a Dio. La cosa che aveva in mano era morta da poco. Poche ore fa era stata piena di vita. Era stata felice. Era stata sporca e lurida e impura... Ma adesso era pura. Delicatamente e con reverenza la sistemò sul mucchio delle altre cose. Cose che erano state tutte vive, che avevano gridato e giocato, sporche e luride e impure. Ma adesso stavano con Dio. Adesso avevano trovato la pace. Chiuse gli occhi e respirò profondamente, immergendosi negli odori. Alcuni freschi, altri più robusti. Ma tutti piacevoli. Guardando benevolmente la sua collezione pensò: questo deve essere l'odore che ti circonda quando sei Dio. Questo deve essere l'odore che ti circonda quando sei in paradiso. Circondato dai morti. Un sorriso gli apparve sulle labbra, spargendosi come il fuoco in un edificio in fiamme. Avrebbe dovuto prendere la medicina, ma non adesso. Non ancora. Non quando c'erano tante cose morte delle quali godere. CAPITOLO 2 Pioveva a dirotto. La pioggia scrosciava rumorosamente sulle pareti e sul tetto della tenda che la polizia aveva eretto sul luogo del delitto e nello spazio ristretto, unita al ronzio costante dei generatori portatili, rendeva la conversazione praticamente impossibile. A dire il vero, nessuno sembrava avere una gran voglia di chiacchierare, alla mezzanotte e un quarto di un lunedì mattina.
Specialmente con il corpo di David Reid steso lì, sul terreno gelido. A un'estremità della tenda sbilenca la polizia aveva recintato col nastro blu un tratto di fossato, lungo poco più di un metro. L'acqua, viscida e scura, luccicava sotto i riflettori. Il resto della tenda copriva una parte della sponda del fiume, con la giallastra erba invernale calpestata e imbrattata di fango. C'era un mucchio di gente. Quattro agenti dell'Aberdeen Identification Bureau con le loro tute cartacee bianche: due occupati nella ricerca di impronte digitali, con la polverina e il nastro adesivo, un terzo che scattava fotografie e il quarto che immortalava la scena con una videocamera. A questi andavano aggiunti un agente appena sfornato dall'Accademia di Polizia, il dottore della polizia, un sergente dall'aspetto di uno che aveva visto giorni migliori e l'ospite d'onore: il piccolo David Brookline Reid, di tre anni e nove mesi. Avevano dovuto tirarlo fuori dall'acqua del fossato, prima di poterne dichiarare la morte. Ma non ce n'era alcun dubbio: il povero piccolo era morto da molto tempo. Avevano steso il corpicino su un telo di plastica blu, esponendolo agli occhi del mondo, con addosso solo una maglietta degli "X-Men". La macchina fotografica scattò ancora, bruciando via i dettagli e i colori, col lampo del flash che lasciava un'impronta sulla retina dei presenti. Appartato in un angolo, il sergente Logan McRae chiuse gli occhi e cercò di pensare a cosa avrebbe detto alla madre del piccolo David Reid. Suo figlio era scomparso da tre mesi. Tre mesi senza notizie. Tre mesi sperando che glielo ritrovassero sano e salvo. Mentre invece il bambino giaceva morto in un fossato. Si passò una mano sul volto stanco, sentendo la barba ispida sotto le dita. Cristo, se almeno avesse avuto una sigaretta! E pensare che non avrebbe dovuto neanche essere qui! Tirò fuori l'orologio e imprecò sottovoce. Quattordici ore, da quando si era presentato in servizio ieri mattina. E gli avevano detto che avrebbe dovuto inserirsi in servizio gradualmente! Un'ondata di vento freddo entrò nella tenda: Logan diede un'occhiata alla figura che si affrettava via dalla pioggia. Il patologo era arrivato. La dottoressa Isobel MacAlister: trentatreenne, un metro e sessanta, brunetta, capelli a paggetto. Quando le baci l'interno delle cosce miagola come una gattina in amore. Era vestita di tutto punto, con giacca e pantaloni grigi, cappotto nero; il tutto alquanto ridicolizzato da un enorme paio di
stivaloni di gomma che le arrivavano alle ginocchia. Diede un'occhiata all'interno della tenda e s'irrigidì appena vide Logan. Un titubante sorriso le illuminò brevemente il volto, ma sbiadì subito. E non c'era da sorprendersi, visto l'aspetto di Logan. Barba lunga, borse sotto gli occhi, capelli spettinati e bagnati dalla pioggia. Isobel aprì la bocca e la richiuse subito. Nonostante il fragore della pioggia, il monotono rumore dei generatori diesel, la macchina fotografica che cliccava e si riavvolgeva col tipico ronzio, il silenzio all'interno della tenda era quasi palpabile. Fu il dottore a romperlo. «Merda!», urlò scuotendo un piede la cui scarpa era piena d'acqua. Isobel si diede un'aria professionale. «È stata dichiarata la morte?», chiese alzando la voce per farsi sentire al disopra dei rumori di fondo. Logan tirò un sospiro di sollievo. Il momento era passato. Il dottore soffocò uno sbadiglio e indicò il gonfio corpicino al centro della tenda. «Oh, sì. È morto, eccome!». Si infilò le mani nelle tasche e tirò su col naso. «E se vuoi la mia opinione, lo è stato per un bel po'. Almeno due mesi». Isobel annuì e sistemò la sua borsa sul telo, vicino al piccolo cadavere. «Credo che tu abbia ragione», rispose accovacciandosi e guardandolo da vicino. Si infilò un paio di guanti di latex e cominciò a tirar fuori i suoi strumenti di lavoro. Il dottore si dondolò avanti e indietro un paio di volte, con le scarpe che sguazzavano nel fango. «Allora io vado», disse. «Chiamami se hai bisogno di qualcosa, va bene?». Isobel gli promise che lo avrebbe fatto e il dottore, dopo un breve cenno di commiato, uscì dalla tenda nella notte piovosa. Logan guardò Isobel accovacciata e pensò a tutte le cose che si era proposto di dirle quando l'avrebbe rivista per la prima volta. Per rimettere tutto a posto. Per riparare ciò che era andato in frantumi il giorno che Angus Robertson era stato condannato a trent'anni. Ma non aveva mai immaginato di rivederla vicino al cadavere di un bambino di tre anni assassinato. E questo particolare, in un certo qual modo, metteva un freno alle cose. Invece le chiese: «Sei in grado di stabilire quando è morto?». Isobel sollevò lo sguardo dal corpicino in putrefazione e arrossì leggermente. «Il dottor Wilson non si sbagliava di molto», rispose senza guardarlo. «Due, forse tre mesi. Ne saprò di più dopo l'autopsia. Sappiamo chi è?» «David Reid. Ha quasi quattro anni», sospirò Logan. «È stato sulla lista
dei "Chi l'ha visto?" da agosto». «Povero piccolo», mormorò Isobel. Dalla borsa tirò fuori un microfonino munito di cuffia; ne controllò il funzionamento e se lo mise in testa. Inserì una cassetta vergine nel registratore e cominciò a esaminare il piccolo David Reid. L'una e mezza del mattino e la pioggia non dava alcun segno di smettere. Il sergente Logan McRae si riparava alla meglio sotto una quercia, mentre il flash del fotografo illuminava la tenda, facendo risaltare le silhouette degli uomini intorno sulla plastica blu, come un macabro gioco di ombre cinesi. Quattro potenti riflettori sfrigolavano sotto il diluvio, illuminando l'area intorno alla tenda con la loro luce bianca, fredda e cruda. I generatori continuavano col loro monotono rumore, avvolti nel fumo bluastro dei motori diesel. La pioggia fredda sibilava sul metallo rovente. Al di là del cerchio di luce era buio pesto. Due dei riflettori erano puntati dove il fossato emergeva dalla tenda. Le piogge di fine novembre lo avevano riempito e due sommozzatori della polizia, con le loro mute di neoprene blu, vi brancolavano dentro con l'acqua alla vita. Sforzandosi invano contro il vento e la pioggia, due agenti dell'IB cercavano di montare un'altra tenda sopra i sommozzatori nel tentativo di preservare altri indizi dalla tempesta. A meno di tre metri, il fiume Don scorreva silenzioso, scuro e pieno. Sotto la pioggia torrenziale piccoli punti luminosi si formavano sulla sua superficie, i riflessi dei fari sparivano e si riformavano. Se c'era una cosa che Aberdeen faceva per bene, era la pioggia. A monte il fiume aveva già rotto gli argini in una dozzina di punti, allagando le campagne circostanti e trasformando i campi in laghi. Qui ci si trovava a poco più di un chilometro dalla foce nel Mare del Nord e l'acqua scorreva veloce. Dall'altra parte del fiume, al di là di una radura con alberi spogli, si elevavano i palazzi del quartiere di Hayton. Cinque rettangoli, brulli e senza carattere, illuminati qui e lì da luci gialle e fredde, con la pioggia che li faceva apparire e sparire. Era una notte orrenda. Una squadra di ricerca messa insieme in fretta e furia, arrancava lungo la sponda del fiume, a monte e a valle, con potenti torce elettriche, a caccia di qualche indizio, anche se era ancora troppo buio per trovare qualcosa. Ma le foto avrebbero figurato bene sui giornali del mattino.
Con le mani in tasca e tirando su col naso Logan si girò a guardare sull'alto della scarpata, verso i riflettori delle squadre della televisione. Erano giunte lì poco dopo il suo arrivo, affamate di carne morta. I primi ad arrivare erano stati quelli della stampa locale, che ponevano domande a chiunque indossasse una divisa. Poi era arrivata l'artiglieria pesante: la BBC e l'ITV, con le loro telecamere e i loro presentatori, seri e con facce da circostanza. La Grampian Police aveva emesso il bollettino standard che era privo di qualsiasi informazione. Quindi Dio sa cosa trovassero da commentare. Logan volse loro le spalle e continuò a guardare le luci dei ricercatori che squarciavano il buio lungo la sponda del fiume. Questo non avrebbe dovuto essere il suo caso, non nel primo giorno del suo rientro in servizio. Ma della squadra del CID1 di Aberdeen, alcuni erano via per un corso di aggiornamento e il resto a ubriacarsi alla festa di pensionamento di uno di loro. Non c'era neanche un ispettore disponibile. L'ispettore McPherson, che avrebbe dovuto inserire gradualmente Logan nel suo lavoro, era impegnato altrove. In ospedale in effetti, dove gli stavano ricucendo la testa, dopo che qualcuno aveva cercato di decapitarlo con un coltello da cucina. Quindi ecco il povero sergente Logan McRae, impegnato a dirigere un'importante investigazione di omicidio, pregando Dio di non pasticciarla prima di poterla passare a chi di dovere. Bentornato, McRae. Il giovane agente uscì dalla tenda e sguazzando nel fango si unì a Logan sotto l'albero. A guardarlo si capiva subito che stava peggio di Logan. «Gesù», mormorò. Rabbrividì e si mise una sigaretta in bocca, come se fosse l'unica cosa che gli avrebbe impedito di andare in frantumi. Esitò un attimo e poi ne offrì una anche a Logan, che rifiutò. Il giovanotto si strinse nelle spalle; tirò fuori un accendino da una tasca della casacca e accese la sigaretta che nel buio spiccava come un carbone acceso. «Come primo giorno del rientro al lavoro non poteva andarle peggio, vero signore?». Una nuvoletta di fumo bianco si elevò dalla sigaretta; prima che il vento la soffiasse via Logan aspirò profondamente, inalando il fumo nei suoi polmoni malmessi. «Cosa dice Iso...», si trattenne in tempo. «Cosa dice la dottoressa MacAlister?». Nella tenda il flash del fotografo lampeggiò di nuovo, bloccando per un attimo le ombre dei presenti.
«Su per giù quello che ha detto il nostro dottore. Il bambino è stato strangolato con qualcosa. Ha detto che l'altra roba è probabilmente successa dopo». Logan chiuse gli occhi e cercò di non vedere mentalmente il corpo rigonfio del bambino. «Meno male», continuò il poliziotto, annuendo saggiamente, con l'estremità accesa della sigaretta che andava su e giù nel buio, come una piccola luce rossa. «Almeno era già morto quando è successo. È qualcosa di cui essere grati al cielo». Concraig Circle, 15 era ubicata in una delle nuove zone di Kingswells, un quartiere periferico a cinque minuti da Aberdeen, alla quale si avvicinava sempre più di anno in anno. Qui le case venivano descritte dalle agenzie immobiliari come "villette per dirigenti, dotate di personalità"; sembrava invece che fossero state costruite da qualcuno che avesse comprato una gran partita di mattoni ma che fosse totalmente sprovvisto di buon gusto edilizio. Il numero 15 era vicino all'entrata di una tortuosa stradina senza uscita, i giardini ancora troppo nuovi per essere poco più di un rettangolo d'erba con qualche arbusto lungo i lati. C'erano tante piante ancora con l'etichetta del garden center. Nonostante fossero quasi le due del mattino, dalle veneziane delle finestre del piano terra si intravedevano le luci ancora accese. Il sergente Logan MacRae era seduto nel posto del passeggero in una delle macchine del CID. Sospirò; che gli piacesse o no, era il responsabile delle investigazioni, e quindi toccava a lui dire alla madre di David Reid che suo figlio era morto. Ma aveva portato con sé due donne: l'agente Watson e un agente del servizio assistenza famiglie, per facilitarsi l'arduo compito. Almeno così non sarebbe stato il solo a soffrire. «Andiamo», disse dopo una breve pausa. «Più aspettiamo, più difficile diventa». Un uomo tarchiato, sui cinquant'anni, aprì la porta. Aveva un viso rossiccio, baffi, occhi iniettati di sangue e decisamente ostili. Diede un'occhiata alla divisa dell'agente Watson; a braccia conserte e senza muoversi dalla soglia, li aggredì verbalmente. «Ce ne avete messo del tempo! Era ora che voi brutti stronzi vi faceste vivi!». Non era l'accoglienza che Logan si aspettava. «Vorrei parlare con Miss Reid». «Davvero? Siete in ritardo! I giornalisti ci hanno telefonato un quarto
d'ora fa, chiedendoci una dichiarazione!». Alzava la voce con ogni parola, arrivando a urlare nel viso di Logan. «Avreste dovuto dirlo a noi per primi!». Si picchiò il petto con un pugno. «Siamo la sua famiglia!». Logan non riuscì a nascondere il suo disappunto. Come diavolo avevano fatto quelli della stampa a sapere che il corpo di David Reid era stato trovato? Come se la famiglia non stesse soffrendo abbastanza. «Mi dispiace, Mr...?» «Reid, Charles Reid». L'uomo incrociò di nuovo le braccia e assunse un atteggiamento ancor più bellicoso. «Sono il nonno di David». «Mr Reid, non so come abbia fatto la stampa a saperlo. Ma le prometto una cosa: chiunque sia stato sarà preso a calci da qui a Stonehaven». Tacque per un attimo. «E so anche che questa mia promessa non mette tutto a posto. Ma adesso ho bisogno di parlare con la madre di David». Per qualche istante Mr Reid lo guardò torvo. Dopodiché si fece da parte e, attraverso una porta a vetri, Logan intravide un soggiorno, pitturato in un giallo brioso. Su un divano rosso c'erano due donne: una che sembrava un carro armato con addosso un vestito a fiori; l'altra, invece, uno zombie. Il gruppo della polizia entrò, e la più giovane delle due donne non sembrò neanche accorgersi della loro presenza. Con sguardo spento continuò a guardare il televisore, dove i clowns tormentavano Dumbo. Logan guardò speranzoso l'agente del servizio assistenza famiglie, ma lei stava facendo il possibile per evitare di guardarlo. Logan respirò profondamente e chiese: «Miss Reid?». Nessuna reazione. Logan le si accovacciò davanti, bloccandole la vista del televisore. Ma lei continuò a guardare nel vuoto, come se lui non esistesse. «Miss Reid? Alice?». Non si mosse, ma l'altra donna lo guardò cupamente, con aria minacciosa. Aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto; le guance paffute erano bagnate di lacrime. «Come osate!», ringhiò. «Siete dei buoni a nulla, pezzi di mer...». L'uomo li aveva seguiti nel soggiorno. «Sheila!», gridò e la donna tacque subito. Logan si rivolse alla giovane donna sul divano, dall'aspetto comatoso. «Alice», disse. «Abbiamo trovato David». Sentendo il nome del figlio un piccolo bagliore le illuminò gli occhi. «David?». Le labbra si mossero impercettibilmente; più che pronunciata la parola fu esalata.
«Mi dispiace, Alice. È morto». «David...». «È stato assassinato». Ci fu un attimo di silenzio, poi l'uomo esplose: «Brutti bastardi! Aveva appena tre anni!». «Mi dispiace». Logan non seppe dire altro. «Ti dispiace? Ti dispiace?». Mr Reid lo affrontò, rosso in viso dalla rabbia. «Se voi brutti stronzi pezzi di merda vi foste dati da fare e lo aveste trovato quando è scomparso, adesso non sarebbe morto! Tre mesi!». L'agente del servizio assistenza cercò di calmarlo facendo dei gesti concilianti, ma Mr Reid la ignorò. Tremava dalla rabbia e aveva gli occhi pieni di lacrime. Scandendo le parole gridò: «Tre! - mesi! - d'inferno!». Logan alzò le braccia, cercando di placarlo. «Mr Reid, si calmi, per favore. Capisco quanto lei sia...». Il colpo colse Logan di sorpresa. Una mano grossa come un badile gli diede un pugno nello stomaco, proprio sulla cicatrice, mettendogli le budella a fuoco. Aprì la bocca per gridare, ma non aveva più fiato nei polmoni. Le ginocchia gli si piegarono. Una manaccia lo afferrò per il bavero della giacca e lo tirò su in piedi, mentre un altro pugno veniva tirato indietro, pronto a colpirlo e a ridurgli il volto in polpa. L'agente Watson gridò qualcosa, ma Logan non la sentì. Ci fu un rumore fragoroso, e la mano che lo reggeva lo lasciò andare. Logan crollò sul tappeto, piegandosi in due con lo stomaco in fiamme. Un urlo, e poi la voce di Watson che gridava a Mr Reid che gli avrebbe rotto il braccio se non si fosse calmato. Mr Reid urlò dal dolore. Il carro armato col vestito a fiori gridò: «Charlie! Fermati, in nome del cielo!». L'agente Watson disse qualcosa di poco corretto e tutti tacquero immediatamente. L'autopattuglia sfrecciava lungo Anderson Drive a sirene spiegate. Logan era seduto nel sedile del passeggero, grigio in volto, e sudava freddo. Si teneva le mani sullo stomaco e tremava dal dolore a ogni sussulto della macchina. Mr Charles Reid era seduto sul sedile posteriore, con la cintura di sicurezza sopra i polsi ammanettati. Non era più così bellicoso; anzi era deci-
samente impaurito. Continuava a ripetere: «Oddio, cosa ho fatto! Oddio, quanto mi dispiace!». L'agente Watson fermò la macchina davanti al Pronto Soccorso, in uno degli spazi riservati alle ambulanze. Aiutò delicatamente Logan a uscire dall'auto, come se fosse stato di vetro; si fermò brevemente solo per dire a Mr Reid: «Tenga le chiappe su quel sedile fino al mio ritorno altrimenti mi farò delle giarrettiere con le sue budella!». Per buona misura schiacciò il pulsante della chiusura centralizzata, chiudendolo in macchina. Arrivarono all'accettazione e Logan svenne. 1
CID: Criminal Investigation Department, Corpo di Polizia Investigativa (n.d.t.). CAPITOLO 3 Aberdeen, palazzo della Centrale della Grampian Police. Un edificio di sette piani, vetro e cemento armato, sormontato da antenne radio e apparecchiature per trasmissioni d'emergenza, leggermente fuori mano in fondo a Queen Street, proprio di fianco alla Sheriff Court. Dirimpetto c'è il grigio edificio in granito del Marischal College, vagamente somigliante a una torta nuziale. Dietro l'angolo c'è l'Arts Center, una specie di tempio in stile pseudo-romano eretto in epoca vittoriana. La Centrale di polizia era una testimonianza dell'amore che l'architetto nutriva per la le cose brutte. Ma era ubicata nelle vicinanze della Pretura, delle Camere di Consiglio dell'amministrazione comunale e di una dozzina di pub. Pub, chiese e pioggia. Tre cose che abbondavano ad Aberdeen. Il cielo era scuro e nuvoloso; le gialle lampade al sodio dell'illuminazione stradale davano alle prime ore del mattino un colorito itterico, come se le strade fossero malate. Pioveva; non c'era stata nessuna interruzione dalla sera prima e i goccioloni rimbalzavano sui marciapiedi lucidi. Gli autobus arrancavano per le strade, sollevando ondate di pioggia che inzuppavano chiunque avesse la sfortuna di trovarsi in giro in una mattinata come questa. Bestemmiando sottovoce Logan si strinse il cappotto con una mano e augurò una morte atroce a tutti quei bastardi che guidavano gli autobus. Aveva avuto una nottata bestiale; un pugno nelle budella, al quale avevano fatto seguito tre ore di visita medica da parte dei dottori del pronto soccor-
so. Gli avevano messo una fasciatura elastica, gli avevano dato una boccetta di antidolorifici e alle 5,15 lo avevano rimandato fuori, al freddo e nel diluvio. Ed era anche riuscito a dormire per un'ora intera. Entrò sguazzando nella Centrale e si presentò alla reception. Il suo appartamento era a meno di due minuti di cammino, ma era bagnato fradicio. Dall'altra parte del vetro un sergente che Logan non riconobbe sfoggiò il sorriso previsto dal regolamento e chiese: «Buongiorno, signore. In cosa posso esserle utile?». Logan sospirò. «Buongiorno, sergente. Dovevo presentarmi all'ispettore McPherson e...». Appena si rese conto che Logan non era un cittadino che chiedeva assistenza alle forze dell'ordine, il sorriso svanì dalle labbra del sergente. «Sarà molto difficile: si è preso una coltellata in testa». Mimò il gesto della coltellata e Logan cercò di non batter ciglio. «Lei è...», consultò un blocco notes sulla scrivania, sfogliando le pagine avanti e indietro fino a quando trovò quel che cercava, «il sergente McRae, giusto?». Logan annuì e gli mostrò il suo tesserino per conferma. «Va bene», disse il sergente, impassibile. «Si presenti all'ispettore Insch. Nella sala riunioni, che è stata adibita a centro investigazioni. L'ispettore darà le consegne alla sua squadra tra...», guardò l'orologio a muro, «da cinque minuti fa». Sorrise ancora. «E non gli piace chi arriva in ritardo». Logan arrivò alla riunione indetta per le 7,30 con dodici minuti di ritardo. La sala riunioni era piena di agenti di ambo i sessi, visibilmente seri e preoccupati. Cercò di entrare alla chetichella, chiudendo silenziosamente la porta, ma tutti si girarono verso lui. L'ispettore Insch, un omone calvo, con un doppiopetto nuovissimo, si interruppe e lo guardò male. Zoppicando leggermente Logan andò a sedersi su una sedia vuota in prima fila. «Come dicevo», continuò l'ispettore lanciandogli un'occhiata malevola, «la relazione preliminare del patologo indica che la morte è avvenuta circa tre mesi fa. Ed è difficile che ci sia ancora qualche indizio sulla scena di un crimine dopo tre mesi, specialmente in questo tempaccio. Ma questo non vuol dire che non lo cercheremo: voglio una ricerca accuratissima, a tutto campo, per un raggio di un chilometro da dove è stato trovato il cadavere». Nella sala si sentì un mugugno collettivo di sconforto. Un'area di due chilometri di diametro era enorme e le probabilità di trovare qualcosa erano praticamente nulle. Specialmente dopo tre mesi. E fuori pioveva ancora
a dirotto. Sarebbe stato un lavoraccio di merda. «So benissimo che è una rottura di palle», continuò l'ispettore Insch. Da una tasca della giacca tirò fuori una caramellina morbida; la guardò, ne soffiò via la peluria e se la mise in bocca. «Ma non importa. Qui si parla di un bambino di tre anni. E voglio prendere quel bastardo che lo ha ucciso. Non voglio stronzate. Mi sono spiegato?». Fece una pausa, quasi sfidando i presenti a sollevare qualche obiezione. «E parlando di stronzate; ieri sera qualcuno ha detto al "Press and Journal" che avevamo trovato il cadavere di David Reid». Mostrò ai presenti una copia dell'edizione di quel giorno; a grandi lettere il titolo diceva: Trovato cadavere di bambino assassinato! Si dividevano la prima pagina una fotografia di un sorridente David Reid e una della tenda eretta sul luogo dov'era stato trovato il cadavere, illuminata dall'interno dal flash del fotografo, con le sagome degli occupanti stagliate contro i teli della tenda. «I giornalisti hanno chiesto una dichiarazione alla madre del bambino», alzò la voce arrabbiatissimo, «prima che potessimo andare a dire alla povera donna che suo figlio era morto!». Sbatté il giornale sulla scrivania. Un rabbioso mormorio si levò dai presenti. «Vi dico una cosa: nei prossimi giorni sarete tutti interrogati da un ispettore della sezione Standard Professionali. Ma credetemi; a confronto con la mia, la loro caccia alla strega sarà una gita al mare. Quando scoprirò chi è stato a fare la soffiata ai giornalisti, lo appenderò al soffitto per i coglioni!». Si interruppe, guardando accigliato tutti i presenti. «Bene. Queste sono le consegne per oggi». Si appoggiò col sedere alla scrivania e cominciò a leggere i nomi: chi sarebbe andato a fare domande porta a porta, chi sarebbe andato al fiume, chi sarebbe rimasto in Centrale a gestire le telefonate. L'unico nome che non lesse fu quello del sergente Logan McRae. «Un'ultima cosa», disse Insch alzando le braccia come se stesse per benedire i suoi subalterni. «Vi ricordo che i biglietti per lo spettacolo natalizio di quest'anno sono già in vendita alla reception!». Gli agenti uscirono dalla sala riunioni; quelli destinati ai telefoni commiseravano con sarcasmo i poveri diavoli che avrebbero trascorso la giornata sotto la pioggia. Logan si sistemò in coda agli uscenti, sperando di riconoscere qualcuno. Un anno di assenza per malattia e non aveva ancora visto un volto a cui potesse dare un nome. L'ispettore si accorse di lui e gli fece cenno di avvicinarsi.
«Cosa è successo ieri sera?», gli chiese mentre l'ultimo agente usciva dalla stanza lasciandoli soli. Logan tirò fuori il blocco notes e cominciò a leggere: «Il corpo del bambino è stato scoperto alle 22,15 da un certo Duncan Nicholson...». «Non intendevo questo», lo interruppe Insch. Si appoggiò alla scrivania e incrociò le braccia. Con la sua corporatura, testa calva e vestito nuovo, sembrava un elegantissimo Buddha. Ma dall'aspetto cattivo. «L'agente Watson ti ha lasciato al pronto soccorso alle due di stamattina. Sei rientrato in servizio da meno di ventiquattr'ore e hai già passato una notte in ospedale; abbiamo il nonno di David Reid in cella in attesa di provvedimenti penali e per completare il tutto, ti presenti alla mia riunione in ritardo e zoppicante». Logan si spostò leggermente, palesemente a disagio. «Vede, signore; Mr Reid era piuttosto scosso. E non posso veramente fargliene una colpa. Se i giornalisti non fossero andati a dargli le brutte notiz...». L'ispettore Insch lo interruppe di nuovo. «Sergente, avresti dovuto lavorare per l'ispettore McPherson, vero?» «Be'... sì, signore». Insch annuì saggiamente, e tirò fuori un'altra caramellina morbida: se la mise in bocca senza ripulirla e cominciò a parlare masticandola. «E invece no. Fino a quando McPherson non si sarà completamente ricucito la testa, lavorerai per me». Logan cercò di non rendere troppo palese la sua delusione: McPherson era stato il suo capo per due anni, prima che Angus Robertson decidesse di usare come puntaspilli le sue budella piantandovi un coltello da caccia dalla lama di quindici centimetri. McPherson gli piaceva. Tutte le sue vecchie conoscenze lavoravano per McPherson. Dell'ispettore Insch sapeva solo che non sopportava gli idioti. E che per l'ispettore Insch tutti erano idioti. L'ispettore riappoggiò il sedere sulla scrivania e scrutò Logan da capo a piedi. «McRae, non avrai mica intenzione di tirare le cuoia mentre lavori per me?» «Spero proprio di no, signore». Insch annuì, chiuso in se stesso e distante. Un silenzio pesante si creò tra i due. Era uno dei trucchi del mestiere dell'ispettore: se crei una pausa nel corso di un interrogatorio, prima o poi l'individuo che stai interrogando dirà qualcosa, qualsiasi cosa, tanto per rompere il silenzio. Era incredibile quante cose gli interrogati si lasciavano sfuggire, cose che magari non a-
vrebbero voluto dire. E soprattutto che non avrebbero voluto far sapere all'ispettore Insch. Ma Logan rimaneva a bocca chiusa. Dopo qualche istante l'ispettore annuì. «Ho letto la tua cartella personale. McPherson dice che non sei una schiappa, quindi ti concederò il beneficio del dubbio. Ma se mi vai a finire di nuovo al pronto soccorso come hai fatto stanotte, esci dalla mia squadra. Chiaro?» «Sì, signore. Grazie». «Bene. Il tuo previsto inserimento graduale è pertanto cancellato, con effetto immediato. Non ho nessuna intenzione di perder tempo con quelle coglionate. O sei all'altezza dei compiti che ti affiderò o non lo sei. Basta così. L'autopsia avrà luogo tra un quarto d'ora e voglio che tu sia presente». Si spostò dalla scrivania e si frugò in tasca, cercando altre caramelline. «Io sarò in riunione dalle 8,15 fino alle 11,30. Mi informerai sull'autopsia quando ci rivedremo». Logan spostò lo sguardo verso la porta e di nuovo sull'ispettore. «Qualche obiezione, sergente?». Logan disse di no, mentendo. «Bene. Vista la tua recente visita al pronto soccorso, ho destinato l'agente Watson a essere il tuo angelo custode. Sarà qui alle 10,00. Non farti sorprendere da me senza di lei. Questa decisione non è discutibile. Chiaro?» «Sì, signore». Pensa, adesso gli davano anche la baby-sitter. «E adesso datti da fare». Logan era quasi uscito quando Insch aggiunse: «E cerca sempre di prendere Watson per il verso giusto. È vero che è una donna, ma non la chiamano "Braccio di ferro" per niente». La Centrale di Aberdeen della Grampian Police era grande abbastanza da avere il suo obitorio, che era situato un piano sottoterra, lontano dalla mensa del personale quel tanto che bastava a non far rivoltare lo stomaco ai commensali. Era una stanza spaziosa, bianca, pulitissima; lungo una parete c'erano i cassetti refrigerati per i cadaveri. Logan spinse le doppie porte ed entrò, con le scarpe bagnate che cigolavano sul pavimento. Un forte odore di antisettico permeava la stanza, quasi per coprire l'odore di morte. Era uno strano miscuglio di odori. Una fragranza che Logan aveva finito con l'associare alla donna che ora si trovava, da sola, vicina a una tavola da dissezione. La dottoressa Isobel MacAlister indossava la divisa da lavoro; camice
verde pisello da chirurgo, con un grembiule rosso di gomma, capelli sotto una cuffia verde. Senza make-up, per evitare la contaminazione del cadavere che stava per esaminare. Sentendo il rumore delle scarpe di Logan alzò gli occhi per vedere chi fosse. Logan si fermò e abbozzò un sorriso. «Ciao». Alzò una mano e quasi gli fece un cenno di saluto. «Ciao». Tornò a guardare il corpicino nudo steso sul tavolo. Il piccolo David Reid. «Non ho ancora cominciato. Sei qui in veste ufficiale?». Logan annuì, si schiarì la voce. «Non ho avuto modo di chiedertelo ieri sera», disse. «Come stai?». Non lo guardò, ma continuò ad allineare i brillanti strumenti chirurgici nel loro vassoio; l'acciaio inossidabile luccicava, sotto le potenti luci. «Oh...», sospirò e strinse le spalle. «Così così». Mise a posto uno scalpello. «E tu?». Anche Logan strinse le spalle. «Anch'io, più o meno». Il silenzio era palpabile. «Isobel, io...». In quel preciso istante le porte si spalancarono ed entrarono tre persone: Brian l'assistente di Isobel, un procuratore e un altro patologo, che era lì come osservatore. «Scusate il ritardo», esordì Brian, aggiustandosi i lunghi capelli. «Ma sapete come vanno per le lunghe le inchieste su incidenti mortali! Un'infinità di relazioni da preparare!». Fece un sorriso accattivante a Logan. «Salve sergente, che piacere rivederla!». Si fermò a stringergli la mano, prima di andarsi a mettere anche lui un grembiule di gomma rosso. Il patologo e il procuratore salutarono Logan con un cenno del capo, si scusarono con Isobel e si sistemarono per vederla lavorare. L'autopsia sarebbe stata effettuata da Isobel, da sola. L'altro patologo, un uomo grassoccio sulla cinquantina, calvo e con le orecchie piene di peli, era lì solo per confermare che le conclusioni di Isobel fossero corrette, come richiesto dalla legge scozzese. Non avrebbe osato contestarla; almeno non apertamente. Tanto lei aveva sempre ragione. «Bene», disse Isobel. «Sarà bene cominciare». Si mise in testa la cuffia col microfonino, ne controllò il funzionamento e cominciò con i preliminari dell'operazione. Con Logan che la guardava, cominciò a lavorare sul cadavere di David. Tre mesi in un fossato, coperto da un vecchio pezzo di truciolato, ne avevano reso la pelle quasi nera. L'intero corpicino era gonfio come un pallone; la decomposizione aveva operato la sua robusta magia. Piccole chiazze
bianche coprivano parti del corpo, là dove una muffa saprofita aveva attecchito. L'odore era cattivo, ma Logan sapeva che sarebbe diventato ancora più insopportabile. Vicino al corpo c'era un piccolo vassoio di acciaio inossidabile, nel quale Isobel depositava piccoli detriti e sostanze estranee man mano che le recuperava dal cadavere: erba, muschio, pezzettini di carta. Cose che erano rimaste attaccate al cadavere da quando era morto. Magari anche qualcosa che li avrebbe messi in grado di identificare l'assassino. «Oh oh...», disse Isobel improvvisamente, guardando nella bocca del bambino, che era rimasta aperta nello spasimo dell'ultimo grido. «Sembra che qui ci sia un ospite. Un insetto». Gentilmente, rovistò nella bocca di David con una pinzetta e per un istante Logan pensò che stesse per tirar fuori una farfalla, magari una "sfinge testa di morto". Ma la pinzetta emerse con un semplice onisco, ancora vivo e dimenantesi. Isobel guardò controluce il grigio insetto che agitava le sue zampette nell'aria. «Probabilmente gli si è infilato in bocca cercando qualcosa da mangiare», disse. «Non credo che ci dirà niente di utile, ma non si sa mai». Lo mise in un boccettino pieno di liquido preservante. Logan rabbrividì, osservando l'insetto che annegava lentamente. Un'ora e mezzo dopo Logan e Isobel erano al distributore di bevande calde, mentre Brian ricuciva il corpicino. Logan si sentiva decisamente male. Prima di oggi non era mai stato a guardare una sua ex che apriva con un bisturi il cadavere di un bambino su una tavola di dissezione. Pensava a quelle mani, efficienti e calme che tagliavano, estraevano, misuravano... passavano a Brian piccoli ritagli di organi interni che Brian poi metteva in fialette, etichettava e metteva via. Rabbrividì e Isobel s'interruppe per chiedergli cosa avesse. «Niente, solo un leggero raffreddore». Si sforzò di sorridere. «Dicevi?» «La morte è stata causata da strangolamento, probabilmente con un legaccio. Qualcosa di liscio e non molto spesso, come potrebbe essere un cavetto elettrico. Ci sono delle ecchimosi sulla schiena, tra le scapole; e delle contusioni e lacerazioni sulla fronte, sul naso e sulle guance. Secondo me l'assassino ha spinto il bambino a terra, faccia in giù, e gli si è inginocchiato addosso mentre lo strangolava». Parlava freddamente, come se aprire cadaveri di bambini fosse qualcosa che faceva ogni giorno. Per la prima volta Logan si rese conto che probabilmente era proprio così. «Non ho riscontrato la presenza di fluido seminale, ma dopo tutto questo tempo...», strinse le spalle. «Comunque, le lacerazioni dell'ano indicano che c'è stata
penetrazione». Logan fece una smorfia di raccapriccio e vuotò nella pattumiera il contenuto del suo bicchiere di plastica. Isobel si accorse del suo disagio. «Magra consolazione se vuoi, ma questo è accaduto "post mortem". All'atto della penetrazione il bambino era già morto». «Possibilità di un controllo del DNA?» «Improbabile. Le lacerazioni interne non sembrano causate da qualcosa di flessibile. Io mi azzarderei a dire che sono state causate da un corpo estraneo, piuttosto che dal pene dell'assassino. Magari un manico di scopa?». Logan chiuse gli occhi e bestemmiò sottovoce. Isobel si limitò a stringere le spalle. «Mi dispiace», disse. «I genitali di David sono stati tagliati dopo la morte usando un paio di cesoie da giardino, a lama curva. Non so quanto tempo dopo, ma abbastanza per aver fatto raggrumare il sangue. Probabilmente dopo il subentro del rigor mortis». Rimasero in silenzio per alcuni istanti, evitando di guardarsi. Isobel giocherellò col suo bicchiere di plastica. «Mi... mi dispiace...». Logan annuì. «Anche a me». E si allontanò. CAPITOLO 4 L'agente Watson lo stava aspettando alla reception. Era imbacuccata fino alle orecchie in un giaccone nero della polizia, imbottito, impermeabile e luccicante di pioggia. Aveva raccolto i capelli in uno chignon che aveva poi infilato sotto il berretto della divisa; e aveva il naso così rosso che sembrava lo stop di una moto. Lo vide avvicinarsi, mani in tasca, che pensava ancora all'autopsia, e gli sorrise. «Buongiorno, signore. Come va lo stomaco?». Logan si sforzò di sorridere, con l'odore del bambino morto ancora nelle narici. «Meglio, grazie. E tu?». Sorrise. «Lieta di essere tornata ai turni di giorno». Si guardò intorno, nella reception vuota. «E allora? Qual è il programma per oggi?». Logan guardò l'orologio. Quasi le dieci. Un'ora e mezzo prima che l'ispettore Insch uscisse dalla sua riunione. «Ti va di fare un giretto?».
Firmarono e ritirarono una vettura dal parco auto del CID. L'agente Watson guidò la vecchia e arrugginita Vauxall, con Logan al suo fianco. Avrebbero avuto appena il tempo di fare una puntatina attraverso la città fino al ponte sul Don, dove le squadre di ricercatori se la stavano godendo sotto la pioggia, cercando qualcosa che probabilmente non c'era più e forse non c'era mai stato. Mentre erano fermi a uno stop, un vecchio autobus attraversò la strada davanti a loro, spruzzando acqua sul loro parabrezza. Watson aveva i tergicristalli alla massima velocità; il monotono wheek-whonk della gomma sul parabrezza e il ronzio della ventola del riscaldamento erano gli unici rumori in macchina. Nessuno dei due aveva detto una parola da quando erano partiti dalla Centrale. Finalmente Logan ruppe il silenzio. «Ho detto al sergente di servizio di lasciar andare Charles Reid con una cauzione verbale». Watson annuì. «Immaginavo che sarebbe andata così». Si inserì dietro un 4x4 dall'aspetto molto costoso. «In effetti non era colpa sua». Watson strinse le spalle. «Non sta a me giudicare, signore. Ma lei è quello che quasi quasi ci lasciava la pelle». L'autista del 4x4, trazione integrale permanente, capace di superare tutte le asperità, ma che molto probabilmente non aveva mai viaggiato su niente di più sterrato dei tombini di Holburn Street, improvvisamente decise di svoltare a destra, inserendo l'indicatore di direzione all'ultimo secondo e fermandosi nel bel mezzo del crocevia. Watson frenò e riuscì a evitare il tamponamento, ma non riuscì a soffocare un paio di parolacce mentre cercava di inserirsi nell'altra corsia. «Uomini al volante...», borbottò prima di rendersi conto che Logan era in macchina con lei. «Scusi, signore». «Non ti preoccupare...». Ricadde nel silenzio, pensando a Charles Reid e alla corsa al pronto soccorso della sera prima. In effetti non era stata colpa di Mr Reid. Uno stronzo telefona a tua figlia e le chiede come si sente ora che il suo bambino di tre anni, scomparso da tre mesi, è stato trovato morto in un fossato. Quindi non c'era da sorprendersi che si fosse sfogato col primo bersaglio che gli era capitato a tiro. La colpa era di chi aveva fatto la soffiata al «Press and Journal». «Ho cambiato idea», disse a Watson. «Vediamo se riusciamo a trovare un giornalista, di quelli schifosi».
«The Press and Journal. L'informazione locale dal 1748». C'era scritto così, su ogni edizione. Ma lo stabile che il giornale condivideva con l'altro quotidiano dello stesso gruppo, l'«Evening Express», non aveva un aspetto così vetusto. Era una mostruosità di due piani in cemento armato e vetro, ubicato appena dietro la Lang Stracht. Lo si intravedeva al di là di una palizzata, tozzo e accovacciato, come un rottweiler imbronciato. Non essendovi accesso dalla strada principale, Watson imboccò una stradina laterale che attraversava una piccola zona industriale piuttosto dimessa, piena di rivenditori di auto usate e pullulante di auto parcheggiate in doppia fila. Arrivati all'entrata del parcheggio del giornale, la guardia al cancello notò l'uniforme dell'agente Watson e con un sorriso sdentato alzò subito la sbarra. Vicino alla porta girevole c'era una piastra di granito lucido sulla quale, a caratteri dorati, era scritto «Aberdeen Journals Ltd» e una piastra d'ottone che rivelava l'età del giornale: «Fondato da James Chalmers nel 1748...» bla bla bla. Logan non si preoccupò di leggere il resto. Le mura spoglie della reception erano pitturate in lilla. Una tabella in legno, con su i nomi dei dipendenti del giornale deceduti nella seconda guerra mondiale, era l'unico cenno di sfarzo nel monotono arredamento dell'ingresso. Logan si aspettava qualcosa più consono all'attività di un giornale: prime pagine incorniciate, premi ricevuti, attestati, fotografie di qualche giornalista. Invece sembrava che il giornale avesse appena traslocato lì da un'altra sede e non avesse ancora cominciato ad arredare i locali. Un pavimento in linoleum dai colori violenti e chiassosi, con quadrati in finto marmo blu incorniciati in un pattern in oro e rosa, e qualche vaso con delle piantine striminzite contribuivano all'aria dimessa dell'ambiente. L'addetta alla reception non era molto meglio: occhi con make-up rosa e capelli biondi senza vita. Emanava un forte odore di caramelle al mentolo e all'eucalipto. Li guardò con occhi appannati, mentre si soffiava il naso in un fazzoletto sgualcito. «Benvenuti all'Aberdeen Journals», disse con entusiasmo zero. «In cosa posso aiutarvi?». Logan tirò fuori il tesserino e glielo mise sotto il naso colante. «Sono il sergente McRae. Vorrei parlare con la persona che ieri sera ha telefonato alla signora Alice Reid». La ragazza esaminò il tesserino, guardò Logan, guardò l'agente Watson e sospirò. «Non ho la più pallida idea di chi possa essere stato»; s'interruppe per tirar su col naso. «Io sono qui solo il lunedì e mercoledì».
«Chi potrebbe saperlo?». La ragazza strinse le spalle e tirò ancora su col naso. Da una rastrelliera sul muro l'agente Watson tirò fuori una copia del giornale di quella mattina e la sbatté sul banco della reception. Trovato cadavere di bambino assassinato!; puntò il dito sulle parole «di Colin Miller». «E lui lo saprà?». La ragazza prese il giornale e lo guardò con occhi gonfi dal raffreddore. Il suo volto divenne improvvisamente dimesso: «Oh... lui». Accigliata, fece un numero al telefono. Dall'altoparlante una voce di donna rispose: «Sì?». Prese la cornetta e il suo accento passò rapidamente da costipato e gentile a costipato e sguaiato aberdoniano. «Lesley? Sono Sharon. Senti, c'è Superman?». Pausa. «Sì, c'è la polizia... non so, aspetta un attimo». Mise una mano sul microfono e guardò Logan, speranzosa. «Siete qui per arrestarlo?» chiese, tornata tutta gentile. Logan aprì la bocca, la richiuse. «Vogliamo solo fargli qualche domanda», finì col dire. «Oh...», Sharon sembrò delusa. «No», disse nella cornetta. «Non sono qui per arrestare il piccolo pezzo di merda». Continuò ad ascoltare, annuendo diverse volte e poi sorrise. «Aspetta che glielo chiedo». Sforzandosi di sembrare seducente fece gli occhi dolci a Logan e con la bocca a cuoricino gli chiese: «Se non siete qui per arrestarlo, potreste almeno dargli una strapazzata? Magari a suon di sberle?». Con un aria di complicità Watson ammiccò a Sharon. «Vedremo cosa si può fare. Dov'è?». Sharon indicò una porta sulla sinistra. «Non abbiate paura di mutilarlo». Sorrise e schiacciò il pulsante che sbloccava la porta. La redazione era come un enorme magazzino, ma con la moquette. Spazio aperto, con un paio di centinaia di scrivanie, ammucchiate e divise in tanti settori: notizie, servizi speciali, editoria, impaginazione... le mura erano pitturate nello stesso pallido lilla della reception e ugualmente spoglie. Non c'erano partizioni e le scrivanie sembravano traboccare l'una sull'altra. Montagne di scartoffie, post-it gialli e appunti scribacchiati che si propagavano da una scrivania all'altra come una valanga al rallentatore. Tante persone erano chine sulle tastiere dei loro computer, intente a preparare l'edizione dell'indomani. Oltre all'onnipresente ronzio dei computer e della fotocopiatrice, la sala stampa era stranamente silenziosa. Logan fermò la prima persona che gli venne a tiro. Un uomo di mezza età, pantaloni di velluto bruno a coste, camicia poco pulita e cravatta con
su le macchie di almeno tre delle cose che aveva mangiato a colazione. Quasi tutti i capelli gli avevano detto addio tanto tempo fa; ma lui stendeva sulla calvizie quei pochi che gli erano rimasti, illudendosi di coprirla. «Cerchiamo Colin Miller», disse Logan, mostrandogli il tesserino. «Davvero? Volete arrestarlo?» «Non ero venuto qui per questo», rispose Logan rimettendosi in tasca il tesserino, «ma ci sto facendo un pensierino. Perché me lo chiede?». L'anziano giornalista si tirò su i pantaloni e sorrise. «Nessun motivo». Pausa; due, tre, quattro... «Allora», disse Logan. «Dov'è?». Il vecchio gli strizzò l'occhio e girò la testa verso i gabinetti. Con parole cariche di allusioni disse: «Non ne ho la più pallida idea, sergente». Terminò dando un'occhiata esplicita verso la porta del gabinetto per uomini. Logan annuì. «Grazie, lei mi è stato di grande aiuto». «E invece no», rispose il giornalista. «Anzi, sono stato "vago e impreciso" da quel "vecchio rincoglionito" che sono». Mentre il vecchio tornava alla sua scrivania, Logan e Watson si diressero rapidamente al gabinetto uomini. Con gran sorpresa di Logan, Watson aprì la porta ed entrò nel locale, a mattonelle bianche e nere. Logan la seguì, scuotendo la testa. Watson gridò «Colin Miller?» e questo provocò un piccolo pandemonio tra gli uomini presenti. Tutti si affrettarono a tirarsi su le cerniere dei pantaloni e a sgattaiolare fuori dal gabinetto. Rimase solo un uomo. Basso, tarchiato, spalle larghe, ben pettinato e dall'aspetto muscoloso, con addosso un costoso vestito grigio scuro. Restò all'orinatoio, fischiettando un'arietta senza melodia e ondeggiando avanti e indietro. Watson lo guardò dalla testa ai piedi. «Colin Miller?», chiese ancora. Si girò e la guardò, con aria disinvolta. «Mi aiuteresti a scrollare questo coso?», le chiese strizzandole l'occhio; il suo accento indicò che veniva da Glasgow. Continuò: «Il mio dottore dice che non devo sollevare cose pesanti...». Watson fece una smorfia di compatimento e senza mezzi termini gli disse quel che pensava della sua richiesta di assistenza. Logan si intromise tra i due prima che Watson potesse dimostrare perché la chiamavano "Braccio di Ferro". Il giornalista sorrise compiaciuto alla sua battuta e si girò, tirandosi su la cerniera. Aveva un anello d'oro su quasi ogni dito e una catena d'oro al collo, sopra la cravatta e la camicia di seta.
«Mr Miller?», chiese Logan. «Sì, cosa volete, un autografo?». Pavoneggiandosi, si diresse al lavandino, spingendosi un po' in su le maniche e rivelando un pesante braccialetto d'oro a maglia larga al polso destro e un orologio grande come un frullatore su quello sinistro. Non c'era da sorprendersi che fosse muscoloso: per portare in giro tutta quella gioielleria doveva esserlo per forza. «Vogliamo parlarle di David Reid, il bambino di tre anni che...». «So chi è», interruppe Miller aprendo il rubinetto. «Ho fatto un servizio in prima pagina sul poveretto». Ghignò e si pompò del sapone liquido dal distributore. «Tremila parole di puro oro giornalistico. Vi dico una cosa: l'assassinio di un bambino è oro colato, credetemi. Un bastardo dal cervello bacato uccide un povero bambino e improvvisamente tutti muoiono dalla voglia di leggerne i particolari mentre fanno colazione. Merda, roba da non crederci». Logan riuscì a dire: «Ieri sera lei ha chiamato la famiglia», tenendo le mani in tasca per controllare la voglia sempre crescente di afferrarlo per il collo e sbattergli la faccia su un orinatoio. «Chi le ha detto che lo avevamo trovato?». Miller alzò la testa e sorrise all'immagine di Logan nello specchio sopra il lavandino. «Per certe cose non ci vuole mica un genio, ispettore...?». «Sergente», rispose Logan. «Sergente McRae, CID». Il giornalista strinse le spalle e azionò l'asciugatrice ad aria calda. «Appena sergente, eh?». Alzò la voce per farsi sentire sopra il rumore della ventola. «Non importa. Mi aiuti ad acciuffare lo stronzo che lo ha ucciso e farò in modo che lei sia promosso ispettore». «Io aiutare lei...?», inorridito Logan chiuse gli occhi e non vide altro che il naso rotto di Miller che sanguinava nell'orinatoio. «Chi le ha detto che avevamo trovato il cadavere di David Reid?», ripeté a denti stretti. Click. L'asciugatrice si fermò. «Gliel'ho detto: non c'è voluto un genio. La polizia trova il cadavere di un bambino, chi altro avrebbe potuto essere?» «Non avevamo detto che si trattava del cadavere di un bambino: questo particolare non era stato divulgato». «Davvero? Allora dev'essere stata una coincidenza». Logan gli si avvicinò, guardandolo torvo. «Chi - glielo - ha - detto?», chiese scandendo le parole. Miller sorrise e spinse in fuori i polsini della camicia controllando che ci fossero almeno due centimetri di polsino inamidato fuori da ogni manica
della giacca. «Avete mai sentito parlare di immunità giornalistica? Io non ho l'obbligo di rivelare le mie fonti d'informazione. E voi non potete costringermi a farlo!». Fece una pausa, cambiando tono. «Ma se quella bella poliziotta che è con lei volesse fare la Mata Hari con me, potrei cambiare idea... Quanto mi piacciono le donne in divisa!». Watson fece una smorfia e tirò fuori il suo manganello telescopico. Improvvisamente la porta del gabinetto si spalancò, facendo entrare un donnone dai capelli ricci che si fermò al centro della stanza con le mani sui fianchi e il fuoco negli occhi. «Cosa diavolo succede qui?», chiese guardando torva Logan e Watson. «Ho gran parte della redazione con i pantaloni bagnati di piscio!». Prima che qualcuno potesse rispondere si rivolse a Miller. «E come mai tu sei ancora qui? Tra mezz'ora c'è una conferenza stampa sul bambino morto! La stampa popolare si accaparrerà la storia. Guarda che questa fottutissima storia è nostra e voglio che lo rimanga!». «Mr Miller ci sta assistendo in una nostra indagine», disse Logan. «Voglio sapere chi gli ha detto che avevamo trov...». «Siete qui per arrestarlo?», lo interruppe la donna. Logan tardò un secondo, ma fu abbastanza. «No, lo sapevo. Tu!», puntò un dito a Miller. «Muovi le chiappe e corri alla conferenza stampa. Non ti pago per fare il cascamorto con le poliziotte nei gabinetti!». Miller sorrise e salutò l'astiosa donna. «Subito, capo!». Si girò verso Logan e gli sorrise, strizzando l'occhio. «Spiacente, ma devo andare. Il dovere mi chiama... sapete com'è». Fece un passo verso la porta ma Watson gli sbarrò il passo, manganello alla mano. «Signore?», chiese sperando di poterlo usare sulla testa di Miller. Logan guardò da lei al giornalista che sorrideva, sornione e compiaciuto e ancora a lei. «Lascialo andare», disse finalmente. «Continueremo la nostra chiacchierata un'altra volta, Mr Miller». Il giornalista ghignò. «Quando vuole». Fece il gesto di una pistola con la mano destra e sparò un colpo all'agente Watson. «Alla prossima, Sherlock Holmes». Fortunatamente Watson non reagì a questo sarcasmo. Tornati nel parcheggio, corsero alla loro macchina. Watson aprì la portiera, buttò il berretto sul sedile posteriore, si inserì al posto di guida, richiuse la portiera e bestemmiò.
Logan dovette ammettere che aveva ragione. Miller non avrebbe mai rivelato la sua fonte. E in un pistolotto durato dieci minuti, quella riccioluta megera (che era il suo editore) glielo aveva fatto capire senza mezzi termini. Era più probabile che l'Aberdeen Football Club vincesse la Premier League piuttosto che lei ordinasse a Miller di rivelare l'identità della sua fonte d'informazioni. Qualcuno bussò sul finestrino del passeggero. Logan sussultò e vide una facciona con un sorriso accattivante che si chinava verso di lui, tenendosi una copia dell'«Evening Express» sulla testa per non bagnarsi i pochi capelli. Era il giornalista che "non" gli aveva detto che lo schifosissimo Mr Miller si era nascosto nel gabinetto degli uomini. Aprì il finestrino. «Lei è Logan McRae!», disse l'uomo. «Lo sapevo! Sapevo di averla riconosciuta!». «Davvero?», borbottò McRae, affondando sempre più nel sedile. L'uomo annuì, felice della sua scoperta. «Io scrissi un articolo, vediamo... un anno fa? Eroico poliziotto accoltellato dal "Mostro di Mastrick"! Merda, quella fu una bella storia!». Infilò la mano destra nel finestrino aperto. «Martin Leslie, servizi speciali». Logan gliela strinse, sentendosi sempre più imbarazzato dall'incontro. «Chi l'avrebbe detto, Logan McRae...», continuò il giornalista. «È ispettore adesso?». Logan gli disse di no, che era ancora sergente e il vecchio reagì sdegnato. «Soltanto sergente? Dice sul serio? Brutti bastardi! Lei meritava la promozione! Quello stronzo di Angus Robertson era un bastardo sballato!...Ha saputo cosa gli hanno fatto gli altri detenuti a Peterhead? Gli hanno fatto l'appendicectomia col "fai da te"». Abbassò la voce. «Un cacciavite affilato, proprio nelle budella. Adesso gli tocca fare la cacca in un sacchetto...». Logan non rispose e il giornalista infilò la testa nel finestrino. «In quale indagine è impegnato adesso?», chiese. Logan continuò a guardare dritto davanti a se, alla grigia Lang Stracht. «Ma...», disse. «Veramente io...». «Se le interessa Colin Coglione», mormorò; si rese conto di ciò che aveva detto e si coprì la bocca con una mano. Guardò la Watson: «Mi scusi, agente... mi è scappata». Watson si strinse nelle spalle: lei stessa aveva dato a Miller epiteti ben peggiori. Leslie sorrise imbarazzato. «Allora... quel pezzo di merda è venuto a noi
dallo "Scottish Sun", convinto di essere un dono di Dio alla razza umana... ma ho sentito dire che al "Sun" lo avevano buttato fuori a calci nel sedere». Si rabbuiò in volto. «Vede sergente, c'è gente tra noi che crede ancora nell'etica professionale. Non si deve cercare di farsi belli facendo le scarpe a un collega! Non si telefona alla mamma di un bambino scomparso per dirle che è stato trovato morto, non prima che la polizia abbia comunicato la triste notizia! Ma quel bastardo è convinto che può farla franca ogni volta, basta che ne tiri fuori una storia». Fece una piccola pausa. «E come se non bastasse, la sua ortografia fa schifo!». Logan lo guardò attentamente. «Lei sa chi gli ha detto che avevamo trovato il cadavere?». Il vecchio giornalista scosse la testa. «No, davvero. Ma se vengo a saperlo, la chiamerò subito! Sarà un piacere fare le scarpe a lui, tanto per cambiare!». Logan annuì. «Bene, la ringrazio». Forzò un sorriso. «Ma adesso dobbiamo andare...». Watson uscì dal posto auto, lasciando il vecchio sotto la pioggia. «Dovrebbero farla ispettore!», gridò mentre la macchina si avvicinava all'uscita del parcheggio. «E subito!». Mentre si allontanavano Logan si sentì arrossire. «Quell'uomo ha ragione, signore», disse l'agente Watson, mentre Logan diventava color barbabietola. «Lei è d'esempio e d'ispirazione per tutti noi». CAPITOLO 5 Stavano tornando alla Centrale. Mentre si barcamenavano nel traffico di Anderson Drive, Logan cominciò a sentirsi meno imbarazzato. Quella strada era nata come una tangenziale, ma la città aveva continuato a straripare, espandendosi e riempiendo gli spazi vuoti con edifici di granito freddo e grigio. Adesso Anderson Drive era una bretella che attraversava la città e nelle ore di punta era stracolma di veicoli. Un incubo. Non aveva smesso di piovere e la gente di Aberdeen reagiva come al solito: c'erano quelli che andavano imbacuccati e incappucciati in giacconi impermeabili, con gli ombrelli controvento. E quelli che se la cavavano come potevano, infradiciandosi fino alle ossa. Tutti andavano in giro chiusi in se stessi e con espressioni tristi e cupe. All'arrivo della primavera si sarebbero sbarazzati dei pesanti indumenti in-
vernali e avrebbero ripreso a sorridere. Ma d'inverno l'intera città sembrava un'audizione per il cast di Un tranquillo weekend di paura. Logan guardava dal finestrino e osservava i passanti che tribolavano nel maltempo. Ecco una casalinga. Eccone un'altra, con bambini. Un tizio con un montgomery e uno stupido cappello. Un netturbino del comune, addetto alla rimozione dalle strade dei cadaveri di animali, con la sua pala e il bidone sul carrettino probabilmente pieno di animali morti. Un bambino con un sacchetto di plastica. Una donna con passeggino. Un uomo col kilt, mini per giunta. «Ma a cosa diavolo pensava stamattina quello là!», disse Logan mentre Watson andava avanti un altro metro. «Chi, Roadkill1? La mattina va a lavorare, prende su un gatto morto, fa pausa pranzo, prende su un cane morto...». «No, non lui», l'interruppe Logan. «Quel tipo nel kilt. Cosa fa, si alza e dice "Che bello, guarda che vento; metto su il mini kilt così mostro le chiappe a tutti"?». Come se lo avesse sentito, il vento sollevò il kilt dello scozzese, mostrando un paio di candide mutande. Watson sorrise, divertita. «Almeno ha le mutande pulite», disse sorpassando una Volvo blu. «Sua madre non dovrà temere di fare brutta figura se suo figlio sarà investito da un autobus». «Vero», commentò Logan. Si chinò verso il cruscotto e accese la radio, cercando di sintonizzarsi su Northsound, l'emittente commerciale di Aberdeen. Capì che ci era riuscito appena sentì uno spot pubblicitario per una ditta locale installatrice di doppi vetri. L'annuncio era stato registrato nello stretto dialetto aberdoniano e sembrava che fossero riusciti a pronunciare circa settemila parole in meno di sei secondi, il tutto con una stomachevole melodia in sottofondo. «Santo Cielo!», esclamò Watson incredula e inorridita: «Come fa ad ascoltare quelle porcherie?». Logan fece un gesto d'indifferenza. «È un'emittente locale. Mi piace». «Balle». Watson accelerò al semaforo prima che diventasse rosso. «La miglior emittente è Radio 1, della BBC. Questa Northsound è merda. E lei sa benissimo che non possiamo avere la radio accesa in macchina. Se per caso ci chiamasse la Centrale?». Logan indicò l'orologio del cruscotto. «Sono le undici, ora del giornale radio. Notizie del luogo per la gente del luogo. Conviene sempre essere al corrente di ciò che succede nella tua zona di lavoro».
Allo spot pubblicitario per i vetri termici fece seguito quello di un autosalone a Inverurie, registrato addirittura in "doric", il più incomprensibile tra i dialetti aberdoniani. Poi uno per il Balletto jugoslavo e uno per una nuova paninoteca a Inverbervie. E finalmente il giornale radio, che consisteva nelle solite banalità; ma qualcosa attirò l'attenzione di Logan. Si sporse in avanti e alzò il volume. «...questa mattina. Il processo di Gerald Cleaver continua all'Aberdeen Sheriff Court. Il cinquantaseienne, proveniente da Manchester, è accusato di violenza sessuale nei confronti di oltre venti bambini mentre lavorava come infermiere all'Aberdeen Children's Hospital. Una folla ostile lo ha atteso fuori del tribunale e quando è arrivato, strettamente scortato dalla polizia, lo ha accolto con gli insulti». «Spero che gli diano quel che si merita», commentò Watson, svoltando a un incrocio e accelerando giù per una stradina laterale. «A seguito della scoperta del cadavere del loro bambino di tre anni presso il fiume Don ieri sera, i genitori del piccolo David Reid sono stati inondati da messaggi di condoglianza e di solidarietà». Logan spense la radio. «Gerald Cleaver è un brutto pezzo di merda», disse guardando un ciclista che sorpassava un tassì e si girava bestemmiando per mostrare il medio della mano destra all'autista. «Ricordo che lo interrogai per gli omicidi con stupro a Mastrick. Non sospettavamo di lui, ma era sulla lista delle "persone dubbie", e quindi lo interrogammo comunque. Ricordo le sue mani; sembravano due rospi, tanto erano fredde e viscide. Continuava a toccarsi i genitali...». Rabbrividì solo a pensarci. «Ma stavolta lo incastrano per bene. Minimo quattordici anni a Peterhead». «Ben gli sta». La prigione di Peterhead. Lì venivano incarcerati i condannati per reati sessuali. Stupratori, pedofili, sadici, serial killer... gente come Angus Robertson. Gente che doveva essere protetta dai criminali perbene, quelli normali e, in un certo senso, rispettabili. Quelli che si divertivano a esercitare chirurgia sui perversi con dei bisturi fatti in casa. Risultato? Sacchetto da colostomia per il povero Angus Robertson. Logan non riusciva a sentirsi spiacente per lui. Chissà perché. L'agente disse qualcosa, ma Logan era troppo immerso nei suoi ricordi del mostro di Mastrick e non sentì. Dalla sua espressione si rese conto che Watson gli aveva fatto una domanda e decise di usare un intercalare che funzionava sempre. «In che senso?», chiese.
Watson lo guardò accigliata: «Come sarebbe a dire, in che senso? Cosa le ha detto il dottore del pronto soccorso ieri sera?». Logan grugnì e tirò fuori un boccettino di pillole, scuotendolo. «Una ogni quattro ore, dopo i pasti, da non prendere con alcool». Quella mattina ne aveva già prese tre. Watson inarcò le sopracciglia senza dir parola. Due minuti dopo parcheggiavano la loro auto al terzo piano del parcheggio dietro la Centrale, nello spazio riservato alle auto di pattuglia e a quelle del CID. L'uso del parcheggio era consentito solo agli alti gradi e alle macchine di servizio. Tutti gli altri dovevano arrangiarsi come potevano, il che significava parcheggiare sul Beach Boulevard, a cinque minuti di cammino dalla Centrale. Quando piove a catinelle, un ufficiale d'alto grado ha dei vantaggi non trascurabili. Trovarono l'ispettore Insch al centro investigazioni. Appoggiato alla scrivania, ascoltava un giovane agente che gli riferiva dei dati leggendoli da una tabella fermabloc. Le notizie dalle squadre dei ricercatori erano poco buone. Il corpo era stato abbandonato troppo tempo addietro e le condizioni meteorologiche erano orrende. Se, e solo per miracolo, un elemento che la scientifica avrebbe potuto analizzare fosse rimasto sulla scena del crimine per tre mesi, la pioggia delle ultime sei ore lo avrebbe portato via. Insch non disse una parola mentre l'agente gli leggeva la lista di dati, tutti negativi; rimase lì impassibile a mangiare le sue caramelline effervescenti. L'agente finì il suo rapporto e rimase in attesa di istruzioni da parte dell'ispettore; dopo una breve pausa Insch disse: «Informa le squadre di continuare ancora per un'ora. Se tra un'ora non abbiamo trovato niente, concluderemo la ricerca visiva». Gli offrì la bustina delle caramelle, ormai quasi vuota e l'agente ne prese una, visibilmente contento. Insch continuò. «Nessuno potrà mai accusarci di non aver tentato di trovar qualcosa». «Sì, signore», rispose l'agente, masticando la caramella. Insch licenziò il subalterno e fece avvicinare Logan e Watson. «Autopsia», chiese senza preamboli. Ascoltò il rapporto di Logan sulla profanazione del corpo del bambino esattamente come aveva ascoltato il rapporto dell'agente appena uscito. Impassibile. In silenzio. Continuando a riempirsi di caramelle. Finì la bustina di quelle effervescenti e ne tirò fuori una di morbide alla frutta. «Magnifico», borbottò quando Logan concluse il suo rapporto. «Quindi adesso abbiamo un serial killer pedofilo in giro per Aberdeen». «Non direi, signore», disse Watson accettando una caramella con su
scritto "Sherry". «Non è come se avessimo una serie di cadaveri; ne abbiamo uno solo. E l'assassino potrebbe anche non essere della zona». Insch si limitò a scuotere la testa. Logan prese una caramella al Porto e disse: «Il cadavere è rimasto lì per tre mesi senza essere scoperto. L'assassino c'è anche tornato, molto tempo dopo il subentro del rigor mortis e si è portato via un souvenir. Quindi sapeva che il posto dove lo aveva abbandonato era introvabile. E questo mi dice "del posto". Il fatto che sia tornato sulla scena e che abbia tagliato un pezzo del cadavere mi dice anche che questo ha un significato speciale per lui. Il nostro uomo non lo ha fatto d'impulso; ci avrà pensato a lungo. Quest'uomo agisce secondo una sua fantasia rituale. E lo farà ancora. Se non l'ha già fatto». Insch annuì. «Voglio la documentazione di tutti i casi di bambini scomparsi negli ultimi dodici mesi tirata fuori dall'archivio e ne voglio la lista sulla parete del centro. Non è da escludere che qualcuno di loro si sia imbattuto in questo bastardo». «Sì, signore». «Oh... e senti, McRae», disse l'ispettore piegando la bustina di caramelle e rimettendosela in tasca. «Ho ricevuto una telefonata dal "Press and Journal". Mi hanno detto che sei andato a trovarli e che hai bistrattato uno di loro». Logan annuì. «Colin Miller. Lavorava allo "Scottish Sun". È quello che...». «Ti avevo chiesto di andare a inimicarsi i giornali, sergente?», lo interruppe Insch. Logan chiuse la bocca, sorpreso. Dopo una breve pausa, rispose: «No, signore. Ma eravamo in zona e ho pensato...» «Sergente», lo interruppe ancora Insch, parlando lentamente. «Sono molto lieto che tu abbia pensato. È un buon segno. Pensare è una stimolante attività mentale, e sono molto contento quando vedo che i miei subalterni la mettono in atto». C'era un "Ma" grosso come una casa, e Logan ne sentiva l'arrivo. «Ma non tollero che chi lavora per me vada a rompere le palle alla stampa locale senza la mia autorizzazione. Vuoi sapere perché? Perché saremo senz'altro costretti a chiedere l'aiuto del pubblico. E se nel corso delle indagini uno di noi commette una gran cazzata, saremo costretti a riconoscere i nostri errori e a fare ammenda. Quindi sarà meglio tenersi amici quelli della stampa. Chiaro?». «Signore, stamattina lei ha detto che...».
«Stamattina ho detto che inchioderò chiunque abbia fatto la soffiata alla stampa. E lo farò. L'errore, se così vogliamo chiamarlo, è stato fatto da noi, non da qualcuno del giornale. Mi sono spiegato, sergente?». Logan capì che aveva sbagliato. Mentre Watson si guardava molto attentamente la punta delle scarpe, gli toccò dire. «Sì, signore. Mi dispiace, signore». «Bene». Insch prese un foglio dalla scrivania e lo diede all'adeguatamente rimproverato sergente McRae. «Le ricerche non hanno dato alcun frutto. Cosa che non mi sorprende. Ci sono dei sommozzatori che stanno facendo ricerche sul fondo del fiume, ma sono ricerche impossibili. Il fiume ha rotto gli argini in un milione di posti. Meno male che abbiamo trovato il corpo; ancora un paio di giorni e il fiume avrebbe inondato il fossato e whoosh...»; fece un gesto con la mano. «Il corpo di David Reid sarebbe finito nel mare del Nord. Prossima fermata, Norvegia. Non lo avremmo mai trovato». Soprappensiero Logan si picchiettava la relazione dell'autopsia sui denti, con gli occhi fissi su un punto della sala al di sopra della testa calva dell'ispettore Insch. «Secondo me c'è qualcosa che non quadra», disse rabbuiandosi in volto. «David Reid è rimasto lì per tre mesi. Ma se non lo avessero trovato prima dello straripare del fiume, non sarebbe mai stato trovato». Guardò l'ispettore. «Il fiume se lo porta a mare e la storia non arriva ai giornali. Niente pubblicità. L'assassino non potrà leggere la storia del suo successo. Non c'è reazione». Insch annuì. «Ottimo ragionamento, sergente. Manda qualcuno a prendere la persona che lo ha trovato...»; controllò i suoi appunti. «Mr Duncan Nicholson. Fallo portare qui e dagli una buona grigliata, non l'amichevole chiacchierata che gli hanno dato ieri sera. Se Nicholson ha qualche scheletro nell'armadio voglio che salti fuori». «Prendo una macchina per...». Prima che Logan potesse finire la frase, la porta del centro investigazioni si aprì d'improvviso e un agente entrò di corsa, fermandosi davanti all'ispettore. «Signore», riuscì a dire mentre cercava di riprendere fiato. «È scomparso un altro bambino». 1
Roadkill: soprannome dato a questo operatore della nettezza urbana in quanto raccoglie dalla strada carcasse di animali investiti dal traffico (n.d.t.).
CAPITOLO 6 La mamma di Richard Erskine era molto giovane, aveva qualche chilo di troppo, ed era estremamente agitata. Il soggiorno della sua casetta a schiera a Torry era pieno di fotografie incorniciate, tutte dello stesso soggetto: un sorridente Richard Erskine. Cinque anni. Biondo, incisivi leggermente storti, guance con fossette e occhiali piuttosto spessi. La vita del bambino era illustrata cronologicamente in quella stanza, dalla nascita fino a... Logan decise di non pensarci. Si chiamava Elizabeth, ventunenne, carina quanto basta se non tieni conto degli occhi gonfi. Guance rigate di mascara e naso rosso, lunghi capelli neri raccolti a coda. Andava avanti e indietro nella stanza, animata da chissà quale fonte di energia, mordendosi le unghie fino a farsi sanguinare le dita. «L'ha preso, vero?» continuava a ripetere con voce stridula e in preda al panico. «Ha preso il mio Richie! Lo ha preso e lo ha ucciso!». Logan scosse la testa. «Si calmi: non ne abbiamo ancora nessuna certezza. Suo figlio potrebbe semplicemente aver dimenticato l'ora». Tornò a guardare le fotografie sulla parete, cercando di trovarne una nella quale il bambino sembrasse spontaneamente felice. «Da quanto tempo è assente?». Smise di andare avanti e indietro e lo guardò. «Tre ore! L'ho già detto a lei!»; puntò un dito all'agente Watson. «Richie sa che io mi preoccupo per lui! Non farebbe mai tardi! Non si fermerebbe a bighellonare!». Con il labbro inferiore che le tremava e gli occhi pieni di lacrime, gli chiese: «Perché voi due non siete in giro a cercare il mio bambino?» «Signora, in questo momento abbiamo alcune autopattuglie e tanti agenti, tutti impegnati nella ricerca di suo figlio. Io voglio sapere esattamente cosa è successo stamattina. Quando è scomparso?». Mrs Erskine si asciugò gli occhi e il naso sulla manica. «Sarebbe... sarebbe dovuto tornare subito dai negozi. Lo avevo mandato a comprare del latte e un pacchetto di biscotti. Sarebbe dovuto ritornare subito!». Riprese ad andare avanti e indietro nel soggiorno. «A quali negozi è andato?» «A quelli dietro la scuola. Non sono molto lontani. Normalmente non lo mando mai fuori da solo, ma son dovuta restare in casa per forza! Aspettavo un tecnico che venisse ad aggiustarmi la lavatrice. Quando ho prenotato l'intervento non mi hanno potuto dare un'ora esatta. "In mattinata", mi
hanno detto. Se non fosse stato per questo intervento non lo avrei fatto uscire da solo!». Si morse il labbro e ricominciò a singhiozzare. «È colpa mia!». «Signora, ha qualche amica o vicina che potrebbe farle compagnia...». Watson gli indicò la cucina. Una donna anziana e dall'aspetto dimesso ne stava uscendo, portando un vassoio con due tazzoni di tè. Solo due. Niente tè per quelli della polizia; quelli della polizia dovevano darsi una mossa e andare a cercare il bambino. «Io dico che è una vergogna», disse la donna mettendo il vassoio sul tavolino, in cima a una catasta di Cosmopolitan. «Permettere che perversi del genere possano circolare liberamente per le strade! Dovrebbero metterli in prigione! Le prigioni ci sono!». Si riferiva evidentemente a Craiginches, una prigione non molto lontana da lì. Elisabeth Erskine accettò un tazzone di tè dalla sua amica. Le mani le tremavano così forte che del tè si rovesciò sul tappeto blu scuro. «Non avrebbe...», s'interruppe e tirò su col naso. «Non avrebbe per caso una sigaretta? Io ho smesso di fumare quando sono rimasta incinta con Richie...». «Mi dispiace, no», rispose Logan. «Anch'io ho dovuto smettere». Si girò e prese dalla mensola del caminetto una foto del bambino, quella che gli sembrava più recente. Un bambino che guardava seriamente la macchina fotografica. «Le dispiace se prendiamo questa foto?». Elisabeth scosse la testa e Logan la passò alla Watson. Cinque minuti dopo si trovavano nel piccolo giardino sul retro della villetta, a ripararsi dalla pioggia sotto una minuscola tettoia montata sulla porta. Sull'erba c'erano una decina di giocattoli di plastica, in colori brillanti. La pioggia li aveva lavati fino a renderli lucidi. Dall'altro lato della palizzata c'era un'altra schiera di villette, tetre e grigie. Torry non era il quartiere più brutto di Aberdeen, ma figurava tra i primi dieci. Qui si trovavano tutti gli stabilimenti per la lavorazione del pesce. Ogni settimana tonnellate di pesce bianco venivano scaricate per essere sventrate e trasformate in filetti. A mano. Un lavoro ben pagato, se riuscivi a sopportare il freddo e l'odore. Allineati lungo la strada c'erano enormi bidoni di plastica blu, pieni di teste e budella di pesce. Erano chiusi, ma questo e la pioggia sferzante non dissuadevano gli stormi di gabbiani che cercavano di portarsi via la testa di un merluzzo o una beccata di budella. «A cosa pensa?», chiese Watson, infilandosi le mani nelle tasche del giaccone per tenerle calde.
Logan si strinse le spalle, guardando una scavatrice giocattolo in plastica gialla, con la benna straripante d'acqua. «In casa... abbiamo guardato dappertutto?». Watson consultò i suoi appunti. «Siamo stati avvertiti alle 11,05. La madre era fuori di sé. La centrale ha inviato due agenti dalla stazione di polizia di Torry. Appena arrivati qui hanno effettuato un'accurata ricerca, dappertutto. Non è nell'armadietto della biancheria e neanche nel congelatore». «Bene». La scavatrice era troppo piccola per un bambino di cinque anni. Infatti, a giudicare dalle loro dimensioni, quasi tutti quei giocattoli sembravano del tipo dai-tre-anni-in-su. Forse Mrs Erskine non voleva che il suo bambino crescesse? «Pensa che lo abbia ucciso la madre?», chiese la Watson osservando Logan che guardava il giardino. «No, non credo. Ma se poi si scopre che è stata lei e noi non abbiamo esaminato questa possibilità... ti rendi conto? La stampa ci metterebbe in croce! Cosa sappiamo del padre?» «La vicina mi ha detto che è morto prima che il bambino nascesse». Logan annuì. Questa circostanza forse giustificava l'atteggiamento iperprotettivo della madre nei confronti del figlio. Forse voleva impedire che il figlio facesse la stessa fine del padre. «E a che punto siamo con le ricerche?» «Abbiamo telefonato ai suoi amici. Nessuno lo ha visto da domenica pomeriggio». «I suoi abiti? Il suo orsacchiotto preferito? Roba del genere?» «Non manca niente, signore. Quindi è da escludere che sia scappato di casa». Logan diede un'ultima occhiata ai giocattoli e rientrò in cucina. Tra poco sarebbe arrivato l'ispettore Insch per essere informato sul corso delle indagini. «Dimmi una cosa...», chiese a Watson, mentre passavano dalla cucina al corridoio che portava alla porta d'ingresso. «Tu hai già lavorato con Insch, vero?». Watson annuì. «Puoi spiegarmi il perché di questa sua mania?». Fece ripetutamente il gesto di mettersi una caramella in bocca. «Sta forse cercando di smettere di fumare?» «Non saprei, signore. Forse è una forma di dipendenza». S'interruppe, corrugando le ciglia. «O forse è semplicemente un bastardo, grosso e gras-
so». Logan non sapeva se ridere o mostrarsi arrabbiato. «Ma le garantisco una cosa», continuò Watson, «l'ispettore Insch è un detective molto, ma molto in gamba. E con lui si sbaglia una sola volta». Guarda caso, Logan aveva già raggiunto la stessa conclusione. «Capisco». Erano arrivati alla porta d'ingresso. Le pareti erano tappezzate di fotografie, proprio come il soggiorno. «Vai alla cartolibreria più vicina e fatti fare un centinaio di copie di quella fotografia e...». «Ci hanno già pensato quelli della stazione di Torry, signore. Ci sono quattro agenti che stanno chiedendo informazioni e distribuendo fotografie porta a porta, lungo la strada che Richard avrebbe fatto per andare ai negozi». Logan rimase colpito da quest'ultima iniziativa. «Non perdono certamente tempo», mormorò. «No, signore». «Bene, allora facciamo venire una dozzina di agenti a dar loro una mano». Tirò fuori il suo cellulare e stava cominciando a fare il numero della Centrale quando s'interruppe improvvisamente. «Oh oh...», mormorò. «Cosa c'è, signore?», chiese Watson. Un'auto si era fermata al marciapiede e ne era venuto fuori un uomo tarchiato, con un cappotto nero. Nel forte vento non riusciva ad aprire l'ombrello. Logan lo riconobbe subito. «Arrivano gli avvoltoi». Prese un ombrello dal portaombrelli dell'ingresso e uscì nella pioggia, fermandosi davanti alla porta, in cima ai pochi gradini che portavano alla strada. Aspettò che Colin Miller salisse i gradini con la pioggia che tambureggiava sull'ombrello. «Sergente!», esclamò Miller sorridendo. «Da quanto tempo non ci vediamo! È sempre accompagnato da quel bel tocco di ra...»; il sorriso divenne ancora più smagliante quando si accorse della presenza di Watson. «Agente! Parlavamo proprio di lei!». «Cosa vuole?», gli chiese Watson, con voce più fredda di quanto lo fosse il pomeriggio. «Il dovere prima del piacere, eh?». Dalla tasca del cappotto Miller tirò fuori un miniregistratore e lo puntò ai due poliziotti. «È scomparso un altro bambino. Potete dir...». Logan lo interruppe, accigliato. «Come fa a sapere che è scomparso un altro bambino?». Miller fece un cenno verso la strada battuta dalla pioggia. «Ci sono auto
della polizia che vanno in giro trasmettendo la descrizione del bambino dai loro altoparlanti. Come crede che abbia fatto a saperlo?». Logan cercò di nascondere l'imbarazzo che provava. Miller se ne accorse e gli strizzò l'occhio. «Ma non si preoccupi. Anche a me capita spesso di comportarmi come un idiota. Ma torniamo alla mia domanda»; puntò di nuovo il registratore a Logan. «C'è qualche nesso tra questa scomparsa e la recente scoperta del cadavere di...». «No comment». «Su, sergente!». Un'altra auto si era fermata dietro quella di Miller; sulle portiere c'era il logo della BBC Scozia. I mass media si sarebbero divertiti. Ieri era stato trovato il cadavere di un bambino; oggi ne era scomparso un altro. E tutti i giornalisti sarebbero arrivati alla stessa conclusione di Colin Miller. Logan vedeva già i titoli: Un'altra vittima del pedofilo? Alla Centrale il questore1 avrebbe avuto un infarto! Miller si girò a guardare dove stava guardando Logan. «E allora, mi può...». «Mi dispiace, Mr Miller. In questo momento non posso darle ulteriori informazioni. Dovrà aspettare il bollettino ufficiale». L'attesa non fu lunga. Cinque minuti dopo arrivò l'infangata Range Rover dell'ispettore Insch. Nel frattempo si era formato un nucleo di gente della stampa, radio e televisione, tutti sul marciapiede, a ripararsi con ombrelli. Proprio come a un funerale. Insch non uscì dall'auto; abbassò il finestrino e fece segno a Logan di avvicinarsi. Vedendolo andare verso la Range Rover quelli dei mass media si girarono, pronti a scattare e filmare. Col suo ombrello preso in prestito Logan si chinò verso il finestrino, cercando di non far caso alla puzza di cane bagnato che permeava l'interno del fuoristrada. «Bene, bene», mormorò l'ispettore vedendo le telecamere. «Credo che stasera saremo in TV». Si passò una mano sulla pelata. «Meno male che mi sono lavato i capelli». Logan forzò un sorriso. Il pugno che aveva preso la sera prima cominciava a farsi sentire; le cicatrici che gli si incrociavano nelle budella gli facevano male. «Allora», disse Insch. «Mi hanno autorizzato a rilasciare una dichiarazione ai mass media. Ma prima che io apra bocca, c'è qualcosa di nuovo che dovrei sapere, per evitare una figura di merda?». Logan strinse le spalle. «Da quel che abbiamo visto, sembra che la ma-
dre ci abbia detto la verità...». «Ma?» «Ma, non so. La madre tratta il bambino come se fosse di vetro. Non lo manda fuori da solo. Tutti i suoi giocattoli sono per un bambino di tre anni. Ho l'impressione che lo stia soffocando con le sue attenzioni». Insch arcò un sopracciglio e annuì lentamente. Rimase in silenzio. «Non sto dicendo che non è stato rapito», continuò Logan. «Però...». «Capisco», disse Insch, aggiustandosi la cravatta. In contrasto con la lurida e puzzolente Range Rover, Insch era elegantissimo; come al solito. «Ma se minimizziamo la cosa e poi trovano il bambino strangolato e col pisellino amputato, ci troveremo immersi nella merda fino alle orecchie». Improvvisamente il cellulare di Logan eruttò una cacofonia di fischi e cicalini. Era la Centrale di Queen Street. Avevano portato dentro Duncan Nicholson. «Cosa dici...? No, no», rispose Logan sorridendo. «No, sbattilo in una cella. E lascialo lì a rodersi le budella fino al mio arrivo». Quando Logan e Watson arrivarono alla Centrale, la ricerca era stata intensificata. L'ispettore Insch aveva più che triplicato i sei agenti che Logan aveva chiamato per assistenza e adesso impegnati nella ricerca erano più di quaranta, tra uomini e donne, oltre a quattro pastori tedeschi con i loro conduttori. Sotto l'incessante pioggia ispezionavano ogni giardino, edificio, capannone, siepe e fossato tra la casa di Richard e i negozi in Victoria Road. Il sergente alla reception informò Logan che Nicholson era stato messo nella cella più squallida e fredda della Centrale. Era lì da circa un'ora. Per prolungargli il piacere della detenzione temporanea, Logan e Watson andarono alla mensa per una scodella di minestra calda e una tazza di tè, prendendosela comoda, mentre Nicholson se ne stava da solo e preoccupato. «Bene», disse Logan quando ebbero finito. «Adesso tu lo vai a prendere, lo porti in una delle salette da interrogatorio e lo sottoponi alla routine "sguardo cupo e silenzioso". Io andrò a informarmi sulle ricerche e ti raggiungo tra quindici, venti minuti. Al mio arrivo dovrebbe essere già cotto». Watson si alzò: guardò desiderosa le leccornie nella vetrinetta dei dolci e scuotendo la testa andò a rattristare ancora di più la vita di Duncan Nicholson. Nel centro investigazioni Logan si fece dare le ultime informazioni da
un agente: le ricerche non avevano dato alcun frutto, e neanche le inchieste porta a porta. Comprò un'altra tazza di tè dal distributore automatico nel corridoio e la bevve lentamente, per far passare il tempo. Mandò giù un altra pillola e, trascorsi venti minuti, si diresse alla saletta "Interrogazione 2". La saletta era piccola e spartana, con le pareti in una brutta sfumatura di beige. Duncan Nicholson era seduto a un tavolino, di fronte a un'accigliata agente Watson. Nella saletta era vietato fumare; e questo divieto aumentava il disagio di Mr Nicholson. Aveva ridotto un foglio di carta praticamente a coriandoli, facendone un mucchietto sul tavolino. Sussultò all'ingresso di Logan, e ne caddero un po' per terra. «Mr Nicholson», disse Logan sedendosi al fianco di Watson. «Le chiedo scusa per averla fatta aspettare». Nicholson si spostò leggermente sulla sedia. Sul labbro superiore gli si vedevano delle perline di sudore. Doveva avere non più di trentadue anni, ma ne dimostrava quarantacinque. La testa era rasata e lucida, con appena qualche traccia di peluria e aveva almeno tre orecchini in ciascun orecchio. Il suo aspetto generale lo faceva sembrare assemblato su una linea di montaggio in fretta e furia, come se fosse stato il primo pezzo prodotto un lunedì mattina, prima che la fabbrica entrasse a pieno regime. «Mi hanno tenuto in cella per ore!», disse cercando di mostrarsi indignato. «Ore! Senza aver accesso a un bagno! Scoppiavo!». Logan si accigliò. «Oddio, questo mi dispiace. Niente gabinetto? Parlerò col sergente alla reception, non vogliamo causare fastidi del genere. Faremo in modo che non si verifichi più. Lei si è presentato a noi di sua spontanea volontà, vero?». Diede a Nicholson uno dei suoi sorrisi più accattivanti. «Comunque, adesso siamo qui e possiamo cominciare, no?». Nicholson annuì, sorridendo appena. Sentendosi meglio, sentendosi rassicurato. «Agente, per favore?». Logan passò a Watson due audiocassette ancora avvolte nel cellophane; lei le estrasse dalla custodia e le inserì nell'audioregistratore fissato al muro. Ripeté la procedura con due videocassette, dopodiché schiacciò il pulsante "Record". «Interrogatorio di Mr Duncan Nicholson», dichiarò aggiungendo la data, l'ora e i nomi dei presenti. Logan fece un altro ampio sorriso. «Allora, Mr Nicholson... o posso chiamarla Duncan e darle del tu?».
L'uomo dall'altra parte del tavolino diede un'occhiata alla videocamera fissa al muro, alle spalle di Logan. Dopo qualche istante annuì, movendo la testa rasata. «Allora Duncan... ieri sera hai trovato il corpo di David Reid, giusto?». Nicholson annuì di nuovo. Con un sorriso ancora più amichevole Logan disse: «Duncan, devi dire qualcosa. Sì o no. Il nastro non ti sente quando annuisci». Nicholson guardò di nuovo l'obiettivo della videocamera. «Già, ha ragione... scusi. Sì, sì, è vero. L'ho trovato ieri sera». «E cosa ci facevi da quelle parti a notte fonda, Duncan?». Nicholson strinse le spalle. «Stavo... stavo passeggiando. Sì, stavo facendo quattro passi. Avevo bisticciato con mia moglie ed ero uscito per una passeggiatina». «Lungo la sponda del fiume? In piena notte?». Il sorriso di Nicholson svanì. «Sì, sì... ci vado spesso, sapete? Faccio una passeggiata, penso in solitudine, sapete com'è?». Logan incrociò le braccia, assumendo la stessa posa di Watson. «Sei andato laggiù a pensare. E guarda caso, ti sei imbattuto nel cadavere assassinato di un bambino di tre anni». «Infatti... sì, sì. Io ho solo... Guardate che io...». «Ti è semplicemente capitato di inciampare sul corpo assassinato di un bambino di tre anni. In un fossato colmo d'acqua. Nascosto sotto una tavola di truciolato. Al buio. Mentre pioveva a catinelle». Come se stesse per dire qualcosa, Nicholson aprì e chiuse la bocca un paio di volte, ma non disse niente. Logan lasciò passare un paio di minuti. Nicholson diventava sempre più preoccupato e irrequieto. La sua pelata era ormai coperta da perline di sudore. «Avevo... avevo bevuto, sapete? E sono caduto. Per poco non mi sono rotto l'osso del collo, cadendo giù per la sponda». «Sei caduto giù per la sponda del fiume, mentre pioveva a catinelle; e nonostante questo, quando la polizia è arrivata sul posto, eri pulito come un soldino nuovo. Neanche un briciolo di fango addosso, Duncan. Uno che cade giù per la sponda di un fiume mentre piove a catinelle, si sporca di fango, non ti pare?». Nicholson si passò una mano sulla pelata, contropelo; nel silenzio della saletta si sentì il fruscio della leggera peluria. Cominciava a sudare sotto le ascelle.
«Mi sono... mi sono cambiato quando sono tornato a casa per chiamare voi». «Capisco». Logan tornò a sorridere. «Mi sai dire dov'eri il tredici agosto di quest'anno, tra le 14,30 e le 15,00?» «Non... non lo so». «Allora mi saprai dire dov'eri stamattina tra le 10,00 e le 11,00?». Nicholson spalancò gli occhi impaurito. «Stamattina? Come sarebbe a dire, stamattina? Io non ho ucciso nessuno!». «E chi ti ha accusato di aver ucciso qualcuno?». Logan si girò verso Watson. «Agente Watson, mi ha per caso sentito accusare Mr Nicholson di aver ucciso qualcuno?» «No, signore». Logan tirò fuori la lista dei bambini scomparsi negli ultimi tre anni e la posò sul tavolo tra loro due. «Dov'eri stamattina, Duncan?» «A casa, a guardare la TV». «E dov'eri...», si sporse in avanti, leggendo dalla lista, «il quindici marzo, tra le 18,00 e le 19,00? No? E dov'eri il ventisette maggio, tra le 16,30 e le 20,00?». Gli lesse tutte le date sulla lista, con Nicholson che sudava e borbottava le risposte. Non ricordava dov'era. Oppure era a casa. A guardare la TV. Soltanto Oprah Winfrey e Jerry Springer avrebbero potuto confermare che era a casa. Giunti in fondo alla lista, Logan lo guardò. «Bene, Duncan. Non mi pare che abbiamo fatto dei gran passi avanti, vero?» «Io non ho toccato neanche uno di quei bambini!». Logan reclinò nella sedia e adottò la routine del silenzio dell'ispettore Insch. «Non li ho toccati, vi dico! Sono stato io a venire da voi quando ho trovato quel bambino, giusto? Credete che lo avrei fatto se fossi stato io a ucciderlo? Non farei mai male a un bambino! Io amo i bambini!». Watson si accigliò e Logan lo guardò di traverso. «Non come state pensando, brutti stronzi! Io ho nipotini e nipotine, sapete? Non farei mai cose di quel genere!». «E allora torniamo all'inizio». Logan avvicinò la sedia al tavolo. «Perché stavi bighellonando lungo la sponda del Don, in piena notte, sotto un temporale?» «Ve l'ho detto... ero ubriaco...».
«Mi sai dire perché non ti credo, Duncan? Mi sai dire perché ho questa strana sensazione? Che quando arriverà il rapporto della scientifica avremo le prove del tuo coinvolgimento col cadavere del bambino?» «Non ho fatto niente!». Nicholson picchiò la mano sul tavolo, sparpagliando i coriandoli. «Le sue proteste non bastano, Mr Nicholson», rispose Logan ridiventando formale. «Si illude, se crede di farla franca raccontandoci un sacco di frottole. Penso proprio che ancora un po' di tempo in cella le farà un mondo di bene. Continueremo la nostra chiacchierata quando avrà deciso di dirci la verità. Interrogatorio terminato alle 13,26». Fece accompagnare Duncan Nicholson alla sua cella dall'agente Watson, e ne attese il ritorno nella saletta. «Cosa ne pensi?», le chiese quando lei ritornò. «Non credo sia stato lui, non mi sembra il tipo. E non è neanche capace di mentire in modo convincente». «Vero», concordò Logan. «Ma sta mentendo comunque. Non credo che fosse andato laggiù a farsi una passeggiatina notturna. Uno che si ubriaca non va bighellonando lungo il fiume in una notte temporalesca solo per passare il tempo. Nicholson è andato laggiù per una ragione; solo non sappiamo ancora quale». Il porto di Aberdeen scivolava via oltre i vetri dell'auto, triste e grigio. Attraccati ai moli c'erano alcuni battelli addetti al rifornimento delle piattaforme petrolifere, con la pioggia che offuscava l'allegro giallo e arancione dei loro scafi. Le luci erano già accese nella quasi oscurità del pomeriggio invernale. Le gru sollevavano i container dai camion e li scaricavano sulle navi. Logan e l'agente Watson stavano tornando a casa di Richard Erskine, a Torry. Una certa Mrs Brady aveva visto un bambino biondo con un giubbotto rosso e jeans in un prato dietro casa sua. Non era molto, ma era qualcosa. Era quasi l'ora del giornale radio delle 14,30 e Logan accese la radio, che stava trasmettendo una vecchia canzone dei Beatles. Non fu sorpreso nel sentire che l'elemento principale del giornale radio era la scomparsa di Richard. La voce dell'ispettore Insch tuonò dagli altoparlanti della radio, chiedendo agli ascoltatori di fornire alla polizia qualsiasi informazione che potesse essere utile nella ricerca del bambino. Insch aveva una predisposizione naturale per atteggiamenti drammatici, come ben sapeva chiunque lo
avesse visto in uno degli spettacoli che la sua filodrammatica dava per beneficenza nel periodo natalizio. Ma riuscì a controllare i suoi istinti istrionici col giornalista che gli poneva le ovvie domande sul caso: «Ispettore, crede che Richard sia stato rapito dallo stesso pedofilo che ha ucciso David Reid?» «In questo momento siamo impegnati nella ricerca di Richard, e speriamo di trovarlo sano e salvo. Prego chiunque abbia informazioni relative alla scomparsa del bambino di chiamare il nostro numero verde d'emergenza: zero ottocento, cinque, cinque, cinque, nove, nove, nove». «Grazie, ispettore. Altre notizie: il processo di Gerald Cleaver, il cinquantaseienne ex infermiere di Manchester continua oggi in condizioni praticamente blindate, in seguito a minacce di morte ricevute dall'avvocato difensore dell'accusato, Sandy Moir-Farquharson. Mr Moir-Farquharson ha rilasciato la seguente dichiarazione a Northsound radio...». «Speriamo che non si tratti solo di minacce campate in aria», commentò Logan, spegnendo la radio prima che l'avvocato cominciasse a parlare. Sandy Moir-Farquharson meritava tutte le minacce di morte che gli avrebbero fatto. Era stato lui, il viscido pezzo di merda, a chiedere la clemenza della corte per Angus Robertson. Ed era stato lui a sostenere che la colpa non era tutta del mostro di Mastrick. Il quale avrebbe ucciso tutte quelle donne solo perché avevano respinto con violenza i suoi approcci amorosi. E che quelle donne indossavano vestiti seducenti. E che praticamente lo avevano incoraggiato. Quando arrivarono a casa di Richard notarono che il numero di giornalisti e fotografi era quasi raddoppiato. La strada era piena di autovetture. C'erano persino un paio di furgoni per trasmissioni televisive dall'esterno. Watson fu costretta a parcheggiare lontano dalla loro destinazione e dovettero tornare indietro a piedi, riparandosi sotto l'ombrello dell'agente. Alla troupe della BBC Scozia si erano aggiunte quelle di Grampian TV, ITN e Sky News. Le potenti e crude luci dei loro riflettori toglievano il colore al granito degli edifici. Nessuno faceva caso alla pioggia invernale, nonostante venisse giù dai cielo freddissima e a catinelle. La biondona dal seno prosperoso di Channel Four News stava parlando alla telecamera, stando indietro quel tanto che bastava per inquadrare la casa e il resto dei giornalisti come sfondo. «...ci si deve chiedere se le attenzioni dei mass media sulla famiglia, in questo momento di dolore, siano veramente qualcosa di pubblico interesse. Quando le...».
Watson passò tra la telecamera e la donna, oscurandole il volto con l'ombrello. Qualcuno gridò «Taglia!». Mentre i tecnici e i giornalisti imprecavano furiosamente, Logan mormorò a Watson: «Lo hai fatto apposta». Watson si limitò a sorridere e si fece largo tra la folla che assediava l'ingresso. Logan la seguì, ignorando sia le domande e le richieste di dichiarazioni sia il borbottare di quelli che erano stati spinti da parte. Nel soggiorno c'erano la madre di Richard, la vecchia vicina di casa e un agente del Servizio Assistenza Famiglie. Nessuna traccia dell'ispettore Insch. Logan lasciò Watson nel soggiorno e andò in cucina, prendendo un Jaffa cake da un pacchetto aperto che era lì sul tavolo. Una porta vetrata a metà con vetri opachi dava accesso al giardino sul retro e tra i vetri Logan intravide la gran sagoma di un uomo. Ma non era Insch. Era un agente del CID, dall'aspetto scocciato e con qualche chilo di troppo, che stava fumando sotto la piccola tettoia. «Salve, signore», disse senza neanche cercare di tirarsi su o di spegnere la sigaretta. «Tempo di merda, eh?». Non era del posto: aveva l'accento di Newcastle. «Ci si abitua», rispose Logan. Uscì dalla cucina e si sistemò di fianco all'agente, cercando di inalare il fumo passivo. L'agente si tolse la sigaretta dalle labbra e s'infilò un dito in bocca, sfregando l'unghia tra i molari, come uno stuzzicadenti. «Non vedo come. Io sono abituato alla pioggia; ma questa non è pioggia! Questo è un diluvio! Pensa che continuerà fino al week-end?». Trovò ciò che si stava cercando tra i molari e con la punta del dito lo scagliò lontano. Logan guardò le nuvole, basse, grigie e cariche di pioggia. «Il weekend? Magari!». Scosse la testa e inalò un'altra boccata di fumo di seconda mano. «Questa è Aberdeen. Smetterà a marzo. Se siamo fortunati». «Balle!», disse una voce alle loro spalle, autorevole e profonda. Logan si girò e vide l'ispettore Insch, mani in tasca sulla soglia. «Non dargli retta, giovanotto; il sergente scherza». Insch uscì dalla cucina, inserendosi tra McRae e l'agente sullo stretto gradino. «Smetterà a marzo?». Insch si mise una caramella in bocca. «Marzo? Non dire bugie al giovanotto, sergente. Come hai detto poco fa, questa è Aberdeen». Sospirò e si rimise le mani in tasca. «Qui non smette mai di piovere».
Rimasero in silenzio, guardando la pioggia fare quel che la pioggia fa. «Comunque, signore» disse Logan dopo una lunga pausa. «Ho una buona notizia per lei. Mr Moir-Farquharson ha ricevuto diverse minacce di morte». Insch sorrise. «Lo spero proprio. Dio solo sa quante gliene ho mandate io!». «Sapeva che è l'avvocato difensore di Gerald Cleaver?». Insch sospirò: «Chissà perché non ne sono sorpreso? Comunque, questo è un problema per l'ispettore Steel. Il mio problema invece è: dov'è Richard Erskine?». 1
Nell'originale: Chief Constable (n.d.t.). CAPITOLO 7
Il cadavere fu trovato nella discarica di Nigg, a sud della città. A due minuti d'auto dalla casa di Richard Erskine. A trovarlo furono i ragazzi di una gita scolastica che aveva per tema L'ambiente e il riciclaggio. Erano arrivati alle 15,26 con un minibus, indossando giacconi impermeabili e stivaloni di gomma: avevano messo su le mascherine con l'elastico e dei guantoni da lavoro. Alle 15,37 avevano firmato il registro visitatori nel portacabin che fungeva da ufficio e si erano avventurati nella discarica. Facendosi strada tra un paesaggio di pannolini usati, bottiglie rotte, rifiuti di cucina e tutto quello che centinaia di migliaia di Aberdoniani buttavano via quotidianamente. Rebecca Johnston, otto anni, fu la prima ad accorgersene. Un piede sinistro che spuntava da una montagna di sacchi di plastica neri. Il cielo era pieno di gabbiani, enormi uccellacci che riempivano l'etere con le loro strida e si lanciavano in picchiata sui sacchi che avevano lacerato a beccate. Uno di loro beccava all'alluce del piede, facendolo sanguinare; era la prima cosa che Rebecca aveva notato. Alle 16,00 in punto chiamarono la polizia. Il fetore era insopportabile, anche in una giornata di pioggia e vento com'era oggi. Qui, su Doonies Hill, la pioggia era fredda e pungente. Tamburellava sul tettuccio della Vauxall che il forte vento scuoteva da parte a parte. Logan rabbrividiva, nonostante il riscaldamento fosse al massimo. Sia lui che Watson era bagnati fradici. I loro impermeabili, dotazione
delle forze di polizia, servivano a ben poco in quel maltempo. Avevano i pantaloni bagnati e le scarpe piene d'acqua e Dio solo sapeva cos'altro. I finestrini della Vauxall erano appannati, e la ventola non aveva alcun effetto. Quelli dell'Aberdeen Identification Bureau non erano ancora arrivati. Logan e Watson avevano steso sul cadavere una tenda provvisoria messa insieme con delle pattumiere e dei sacchi neri che si erano fatti dare da quelli della discarica. Sembrava che il vento se la volesse portare via da un momento all'altro, ma almeno offriva un lieve riparo dalla pioggia. «Ma dove diavolo sono?», chiese Logan pulendo una piccola area del parabrezza con un fazzolettino di carta. Mentre montavano la tenda il suo umore si era rapidamente deteriorato; l'effetto della pillola che aveva preso prima di interrogare Duncan Nicholson stava svanendo, facendogli sentire acute fitte dolorose a ogni movimento. Borbottando, ne prese una dalla bottiglietta e la inghiottì a secco. Poco dopo videro un furgone quasi bianco che a fari accesi si faceva strada tra le montagne di rifiuti. L'Identification Bureau era arrivato. «Era ora!», borbottò Watson. Uscirono dalla Vauxall e attesero nella pioggia pungente. Il furgone si avvicinava; alle sue spalle il Mare del Nord infuriava, grigio e spettrale; il gelido vento ululava, come aveva fatto da quando era partito dai freddi fiordi della Norvegia, senza aver toccato altre terre nel suo viaggio. Il furgone si fermò e un uomo diede un'occhiata nervosa al terreno putrido e fangoso, inondato dalla pioggia. «Esci pure, che non ti squaglierai!», gli gridò Logan. Era stanco, aveva freddo, non stava bene e non aveva voglia di prenderla alla lunga. Quattro persone, uomini e donne, uscirono di malavoglia dal furgone e si prepararono al loro lavoro. Cominciarono col montare i riflettori: avviarono i generatori e la zona fu inondata di luce. Tirarono giù la protezione provvisoria che Logan e Watson avevano montato sul cadavere, sostituendola con la loro tenda. Avevano appena finito di montarla, dandosi così un po' di protezione dalle intemperie, quando il dottor Wilson, il dottore della polizia, arrivò sulla scena. «Buonasera a tutti», mormorò, alzandosi il bavero del giaccone. Diede un'occhiata al pattume che avrebbe dovuto attraversare per arrivare alla tenda e sospirò. «Ho appena comprato queste scarpe! Pazienza...».
Si avviò verso la tenda, con Logan e Watson al seguito. Uno della squadra dell'Identification Bureau, con una tabella fermabloc in mano, li fermò sulla soglia della tenda; li fece entrare solo dopo che ognuno di loro aveva firmato la lista dei presenti e continuò a guardarli sospettoso mentre i tre indossavano bianche tute cartacee. Nella tenda una gamba umana, dal ginocchio in giù, sporgeva dalla montagna di sacchi di pattume, come il braccio della Signora del Lago. Mancava solo l'Excalibur. Un altro della squadra stava filmando con una videocamera, registrando tutti i particolari della scena, mentre i suoi colleghi raccoglievano pattume dai sacchi vicini a quello della gamba e lo riponevano nei loro sacchetti di plastica. «Per favore?», disse il dottor Wilson porgendo la sua borsa all'agente Watson. Lei la prese e gliela resse in silenzio, mentre lui ne estraeva un paio di guanti di latex e li metteva su, come se fosse stato un chirurgo. «Allora, fatemi un po' di posto», chiese a quelli dell'IB, che si tirarono indietro e lo fecero avvicinare al mucchio dal quale sporgeva la gamba. Il dottore prese la caviglia con due dita, appena sotto il malleolo. «Niente battito. Delle due l'una. O questa è una gamba che è stata amputata dal resto del corpo, oppure la vittima è morta». Diede alla caviglia un leggero strattone, che spostò il pattume nel sacco e sollevò un mormorio di proteste da quelli dell'IB. Era la loro investigazione, santo cielo! «No. Questa gamba non è un arto amputato, bensì parte di un corpo. Pertanto dichiaro ufficialmente "morto" il corpo al quale essa appartiene». «Grazie, dottore», disse Logan, mentre il vecchio si raddrizzava e si puliva i guanti sui pantaloni. «Non c'è di che. Volete che resti qui fino all'arrivo del patologo e del Procuratore?». Logan scosse la testa. «Non vedo perché dobbiamo starcene tutti qui a gelarci le chiappe. Ma grazie comunque». Dieci minuti dopo un fotografo dell'IB entrò nella tenda. «Scusate il ritardo, ma hanno ripescato nella baia il cadavere di uno che ha deciso di fare il bagno e ha dimenticato di portarsi dietro le patelle delle ginocchia. Cristo, se fa freddo!». Dentro la tenda non era molto più caldo, ma almeno avevano un po' di riparo dalla pioggia. «Salve, Billy», disse Logan mentre il barbuto fotografo si preparava a indossare la tuta. Infilò in tasca una lunga sciarpa a strisce bianche e rosse,
alla quale fece seguito un pompom di lana rosso con su scritto in bianco a uncinetto "Forza Dons". Un tifoso dell'Aberdeen Football Club. Toltosi il berretto si rivelò completamente calvo. Sorpreso Logan gli chiese: «Che fine hanno fatto i tuoi capelli?». Billy fece una smorfia, indossando la tuta. «Non cominciare anche tu. E pensare che credevo che fossi morto!». Logan sorrise. «Sì, ma sono guarito». Il fotografo si pulì gli occhiali col fazzoletto e poi fece lo stesso con le lenti della macchina fotografica. «È stato spostato qualcosa?», chiese inserendo un rullino fresco nella macchina. «Il dottore ha dato un leggero strattone alla gamba; a parte quello, tutto è rimasto come è stato trovato». Billy inserì un enorme flash sulla sua macchina fotografica e gli diede un paio di colpetti fino a quando lo sentì emettere un sibilo. «Bene, allora. Fatemi posto...». La luce blu-bianca cominciò a lampeggiare nella tenda, seguita dal ronzio del riavvolgimento del film e dal sibilo del flash che si ricaricava. E ancora e ancora e ancora... Improvvisamente il cellulare di Logan squillò. Era Insch, che voleva essere aggiornato. «Mi dispiace, signore». Logan fu costretto ad alzare la voce per farsi sentire al disopra del rumore della pioggia. «Il patologo non è ancora arrivato, per cui non possiamo spostare il cadavere. E senza spostarlo non possiamo identificarlo». «Abbiamo ricevuto una telefonata anonima. Qualcuno ha visto un bambino dai connotati simili a quelli di Richard Erskine che saliva su un'auto familiare rossa». Logan guardò la gamba che spuntava dalla montagna di pattume. Quell'informazione era arrivata troppo tardi per salvare la vita del bambino. «Appena arriva il patologo fammi sapere qualcosa». «Sì, signore». Isobel MacAlister arrivò poco dopo. Sembrava che avesse appena preso parte a una sfilata di moda: impermeabile Burberry, giacca e pantaloni verde scuro, camicetta color crema a collo alto, delicati orecchini di perle, acconciatura artisticamente spettinata. Il solito paio di stivaloni di gomma, almeno tre numeri di troppo per lei... era così bella che ti sentivi male solo a guardarla.
Appena entrò nella tenda e vide Logan in un angolo Isobel s'irrigidì. Fece quasi un sorriso. Sistemò la sua borsa su un bidone e si diede subito da fare. «È stata dichiarata la morte?». Logan annuì, cercando di non farle capire quanto fosse sconvolto dalla sua presenza. «Mezz'ora fa, dal dottor Wilson». «Sono venuta appena mi è stato possibile», rispose lei risentita. «Ho tante altre cose da fare, sai?». Logan incassò il colpo, ma reagì. «Non volevo fare nessuna insinuazione», disse alzando le mani in un gesto riconciliante. «L'ho detto solo per farti sapere quando è stata dichiarata la morte. Solo per questo». Il cuore gli batteva nelle orecchie, al punto da coprire anche il fragore della pioggia. Lei lo guardò, con un'espressione fredda e indecifrabile. «Va bene...», disse dopo una pausa. Gli girò le spalle, coprì il suo elegantissimo vestito con la tuta cartacea; si mise in testa il microfonino, recitò il consueto chi, quando e dove e cominciò a esaminare il cadavere. «Abbiamo una gamba umana: sinistra, sporgente da un sacco di rifiuti dal ginocchio in giù. L'alluce mostra segni di lacerazione, probabilmente avvenuta dopo la morte...». «Un gabbiano glielo stava beccando», disse l'agente Watson, ricevendo un gelido sorriso per la sua assistenza. «Grazie, agente». Isobel continuò. «L'alluce mostra segni di un attacco predatorio da parte di un uccello marino di grandi dimensioni». Si chinò sulla gamba e a labbra strette cominciò a premere col pollice nella pianta del piede, toccando le dita con l'altra mano. «Per poter calcolare l'ora della morte dovrò estrarre il resto del corpo dal sacco». Fece un cenno a uno dell'IB e gli fece stendere un telo di plastica per terra. Dopodiché presero il sacco col corpo e lo stesero sul telo, mentre Billy continuava a fotografare. Isobel si chinò sul sacco dei rifiuti e con un coltello lo tagliò per lungo. I contenuti del sacco si sparsero sul telo, rivelando un corpo rannicchiato nella posizione fetale, tenuto così da nastro adesivo da imballaggio. Logan vide dei capelli biondi e rabbrividì. Da quel che ricordava i bambini morti sembravano più piccoli. Tra le strisce di nastro adesivo che l'avvolgevano, la pelle del cadavere aveva una delicata bianchezza, con delle zone violacee verso le spalle. Il poveretto era stato tanto tempo a testa in giù e il sangue era defluito nelle parti basse di quella posizione.
«Sappiamo chi è?», chiese Isobel esaminando il corpicino. «Richard Erskine», rispose Logan. «Un bambino di cinque anni». Isobel si girò di scatto e lo guardò, con un bisturi in una mano e una bustina di plastica nell'altra. «Non ha cinque anni. Ha dai tre ai quattro anni. E non è un bambino. È una bambina». Logan guardò il corpicino, ancora rannicchiato. «Ne sei sicura?». Isobel rimise il bisturi nella borsa e si rialzò lentamente. Lo guardò come se fosse un idiota e gli parlò con voce fredda e sibilante. «È probabile che le lauree in medicina dell'università di Edimburgo abbiano un valore accademico inferiore a quello che gli si attribuisce, ma una delle poche cose che ci hanno insegnato è la differenza tra maschietti e femminucce. In questo caso l'indizio determinante è stato l'assenza del pisellino». Logan stava per fare l'ovvia domanda, ma Isobel lo interruppe. «E non manca perché è stato rimosso, come nel caso di David Reid. Qui non c'è mai stato». Prese su la borsa. «Se vuoi sapere l'ora del decesso dovrai aspettare l'autopsia». Fece un cenno a quello dell'Identification Bureau che aveva steso il telo. «Lei: metta il corpo in una body-bag e lo faccia portare all'obitorio. Continuerò lì». Si sentì un leggero «Sì, dottore», e Isobel uscì con la sua borsa, lasciandosi dietro un gran freddo. L'uomo dell'IB attese che fosse abbastanza lontana e poi borbottò «Frigida stronza!». Logan le corse dietro, raggiungendola alla sua auto. «Isobel? Isobel, aspetta un attimo». Isobel puntò la chiave alla vettura e schiacciò il pulsante della chiusura centralizzata: gli indicatori lampeggiarono e il portabagagli si aprì. «Fino a quando non avrò il cadavere all'obitorio non potrò dirti altro». Poggiandosi su un piede si tolse uno stivale e lo mise in un cassone dall'interno rivestito di plastica, sostituendolo con uno stivaletto in camoscio. «Perché hai detto quelle spiritosaggini, poco fa?», le chiese Logan. «Spiritosaggini?». Cominciò a togliersi l'altro stivale, cercando di non sporcarsi le scarpe. «Ascolta, dovremo lavorare insieme, va bene?» «Me ne rendo conto», rispose lei, togliendosi la tuta cartacea, mettendola assieme agli stivali e chiudendo il portabagagli. «E per me non è un problema!». «Isobel...». Resta: «Cosa cercavi di fare, lì dentro davanti a tutti? Umiliarmi? Come
ti permetti di contestare la mia professionalità!». Aprì la porta, entrò in macchina e la richiuse, quasi sbattendogliela in faccia. «Isobel...». Abbassò il finestrino e lo guardò, avviando il motore. «Cosa?». Ma Logan non seppe cosa dire. Lo fissò ancora per qualche istante: inserì la marcia, fece una manovra d'inversione e si allontanò. Logan guardò le luci rosse che sparivano nella pioggia; bestemmiò sottovoce e tornò nella tenda. La bambina era rimasta dove l'aveva lasciata Isobel, con quelli dell'Identification Bureau che imprecavano sull'arroganza del patologo, piuttosto che mettere in atto le disposizioni ricevute. Logan sospirò e si chinò sul corpicino. La faccia della bambina era quasi totalmente nascosta dal nastro adesivo; le mani le erano state fasciate unite sul petto, come pure le ginocchia. Ma evidentemente il suo assassino aveva finito il nastro prima di poterle avvolgere le gambe. Ecco perché la gamba sinistra era uscita dal sacco ed era stati beccata dal gabbiano. Tirò fuori il cellulare e telefonò alla Centrale, chiedendo se qualcuno avesse denunciato la scomparsa di una bambina di tre-quattro anni. Nessuno. Bestemmiando sottovoce, chiamò Insch per dargli le brutte notizie. «Ispettore? Sì, sono McRae... no, signore», respirò profondamente. «Non è Richard Erskine». Dall'altra parte ci fu un silenzio profondo. Dopo qualche istante. «Sergente, sei sicuro?». Logan annuì, anche se sapeva che Insch non poteva vederlo. «Sì, signore. La vittima è una bambina, dai tre ai quattro anni, ma nessuno ne ha denunciato la scomparsa». Una sfilza di parolacce eruttò dal telefono. «Ho detto le stesse cose anch'io, signore». Quelli dell'IB mimarono il gesto di prendere su il corpo per portarlo all'obitorio, come per chiedergli l'autorizzazione a procedere; Logan annuì. Quello che aveva imprecato contro Isobel tirò fuori il cellulare e chiamò l'impresario di pompe funebri di turno. Non si trasporta il corpicino di una bambina in un vecchio furgone. «Credi che ci sia un nesso tra le due morti?», chiese Insch con un tono di speranza.
«Ne dubito, signore». Logan guardò mentre il corpicino veniva racchiuso in una body-bag fin troppo grande per lei. «La vittima è una bambina, non un maschietto. Lo smaltimento del corpo è avvenuto con modalità diverse: il corpo della bambina è stato avvolto in oltre due chilometri di nastro adesivo. Nessun segno di strangolamento. È probabile che abbia subito violenza sessuale, ma lo sapremo solo dopo l'autopsia». Insch bestemmiò ancora: «Voglio che l'autopsia sia fatta stasera, capito? Dillo al patologo. Non ho nessuna intenzione di passare la notte girandomi i pollici mentre i mass media vanno a ruota libera con le loro congetture! Stasera! Chiaro?». Logan annuì. Non se la sentiva di doverlo dire a Isobel. Nell'umore in cui l'aveva vista andar via, era più probabile che facesse l'autopsia a lui. «Sì, signore», rispose. «Falla ripulire e fotografare! Voglio che vengano stampati dei poster; tu l'hai vista questa bambina?» «Sì, signore». Due uomini dell'Identification Bureau presero la body-bag e la sistemarono in un angolo della tenda. Poi cominciarono a raccogliere il pattume del sacco che l'aveva contenuta, assicurandosi che tutto fosse correttamente etichettato e messo via. Bucce di banana, gusci d'uova, bottiglie di vino vuote... alla povera bambina non era stata neanche concessa la dignità di una tomba, di qualsiasi genere; era stata buttata via coi rifiuti di casa. Logan stava dicendo all'ispettore che lo avrebbe chiamato non appena avesse avuto ulteriori informazioni, quando fu interrotto dall'agente Watson che gridò: «Aspetta!». La vide lanciarsi in avanti, raccattando qualcosa dai rifiuti ancora sparsi sul telo di plastica. Era uno scontrino di cassa. Logan chiese all'ispettore di restare in linea, mentre Watson lisciava l'umido pezzo di carta. Era una ricevuta del grande supermercato Tesco di Danestone. Qualcuno aveva comprato dodici uova, una confezione di panna fresca, due bottiglie di cabernet sauvignon e delle pere avocado. E aveva pagato in contanti. Watson si fece sfuggire una parolaccia. «Speravo che avesse pagato con una carta di credito o con il Bancomat». «Saremmo stati veramente fortunati». Continuò a rigirare il pezzettino di carta. Uova, vino, panna fresca e pere avocado... ma notò qualcosa sullo scontrino che lo fece sorridere. «Cosa c'è, signore?», chiese Watson.
Logan alzò la ricevuta e le sorrise. «Signore», disse al telefono, «l'agente Watson ha trovato una ricevuta di un supermercato nel sacco dei rifiuti che conteneva il cadavere... no, signore, gli acquisti sono stati pagati in contanti». Se il sorriso di Logan fosse stato più largo, la faccia gli si sarebbe aperta in due. «Ma si è fatto accreditare i "punti fedeltà" sulla sua Clubcard». Se il traffico in South Anderson Drive era un incubo, le cose andavano ancora peggio in North Anderson Drive. Le auto procedevano a passo d'uomo, attaccate l'una all'altra. Ora di punta. Il procuratore era finalmente arrivato sulla scena, dandosi da fare. Aveva chiesto aggiornamenti sulle indagini, si era lagnato del fatto che due bambini fossero stati trovati morti in due giorni, aveva insinuato che il tutto era accaduto per colpa di Logan e con gran sollievo di tutti si era poi tolto dai piedi. Logan aspettò che lui e Watson fossero al sicuro nel bozzolo della loro auto, prima di elencare le cose che avrebbe voluto fare al procuratore con un cactus e un tubetto di vaselina. Per andare dalla discarica di Nigg al supermercato Tesco di Danestone ci misero più di un'ora. Il grande magazzino era situato in una posizione eccellente: non molto lontano dal fiume Don, a un tiro di schioppo dal vecchio stabilimento per la depurazione dei liquami, dal cimitero di Grove e dal mattatoio di Grampian Country. E non molto lontano da dove avevano trovato il cadavere di David Reid. Il supermercato era affollato, con tutti i lavoratori della vicina zona industriale che facevano la spesa, per lo più pasti pronti, da scaldare nel forno a microonde, e birra, per trascorrere la serata davanti al televisore. Vicino all'entrata c'era un banco con un cartello «Assistenza Clienti», gestito da un giovanotto dai capelli biondi raccolti in un codino. Logan gli chiese di chiamare il manager. Dopo un paio di minuti un omino calvo e con gli occhiali a mezza luna arrivò. Indossava la stessa uniforme del resto del personale: un cardigan blu. Ma sul cartellino appuntato al petto c'era scritto «Colin Branagan, Manager». «Posso esserle utile?». Logan tirò fuori il tesserino e glielo diede per esaminarlo. «Mr Branagan, abbiamo bisogno di informazioni su qualcuno che ha fatto degli acquisti qui da voi mercoledì scorso». Gli mostrò lo scontrino, che ora era protetto da una bustina di plastica. «Ha pagato in contanti, ma si è fatto ac-
creditare i punti fedeltà sulla Clubcard. Può darmi il nome e indirizzo del cliente dal numero della Clubcard?». Il manager prese la bustina trasparente e la esaminò, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Non credo di poterla assistere, sergente. Vede, dobbiamo attenerci alla legge sulla privacy. Non posso dare nomi e indirizzi dei nostri clienti al primo che me li chiede. Potremmo essere querelati». Gli restituì lo scontrino. «Mi dispiace, ma non posso», aggiunse. Logan abbassò la voce, quasi a un bisbiglio. «È importante, Mr Branagan. Stiamo investigando su un reato molto grave». Il manager si passò una mano sulla pelata. «Non saprei... dovrò chiedere il permesso alla direzione». «Benissimo. Andiamo a chiedere». La direzione disse spiacenti, ma no: se la polizia voleva informazioni sui dati dei loro clienti, dovevano fare una richiesta scritta, o farsi rilasciare un mandato dalla magistratura. L'azienda era costretta ad attenersi alla legge sulla privacy. E non potevano fare eccezione neanche per la polizia. Logan gli disse del corpo della bambina nel sacco dei rifiuti. La direzione cambiò subito idea. Cinque minuti dopo Logan usciva dal supermercato con in mano un foglio formato A4 con su stampato un nome, indirizzo e il totale dei punti accumulati da settembre. CAPITOLO 8 Norman Chalmers abitava in uno stabile di tre piani. La lunga strada a senso unico curvava a destra e si immetteva in Rosemount Place. I palazzi sporchi e grigi occultavano il cielo fino a ridurlo a una strisciolina di nuvole che riflettevano la luce giallastra dell'illuminazione stradale. C'erano auto parcheggiate sui due lati della strada, attaccate l'una all'altra. Ogni tanto le file di auto erano interrotte da enormi pattumiere comunali, incatenate in coppia, ognuna grande abbastanza da poter contenere i rifiuti settimanali di sei appartamenti. Con la pioggia che continuava a tamburellare sul tetto dell'auto l'agente Watson fece di nuovo la strada, cercando un posto per parcheggiare. Logan guardò i palazzi sfilare per la terza volta, ignaro del borbottare di Watson. Il numero diciassette non era diverso dagli altri casamenti. Tre piani di granito scarno, striato da decenni di ruggine delle grondaie in rovina. In tante finestre si intravedeva la luce da dietro le tende e il suono dei
televisori era udibile anche al di sopra dello scrosciare della pioggia. Entrarono nella strada per la quarta volta. Logan le disse di lasciar perdere e di parcheggiare in doppia fila di fronte all'appartamento di Chalmers. Watson uscì dall'auto e s'infilò tra due auto parcheggiate, con la pioggia che le rimbalzava sulla visiera del berretto. Logan la seguì e disse subito una parolaccia: aveva messo il piede in una pozzanghera. Si avvicinarono all'ingresso del casamento: un portone bruno scuro, coperto da tanti strati di pittura da averne obliterato le incisioni originali. Da una rottura nella grondaia alla loro sinistra l'acqua schizzava sul marciapiede. Watson schiacciò il pulsante di trasmissione sulla sua radio. «Pronti a intervenire?», chiese a bassa voce. «Affermativo. L'uscita dalla strada è sotto controllo». Logan diede un'occhiata e vide Bravo Sette Uno in posizione in fondo alla strada. Bravo Otto Uno confermò che anche loro erano in posizione, all'altra estremità della strada. La stazione di polizia di Bucksburn aveva dato a Logan l'assistenza di due auto e una manciata di agenti in divisa che conoscevano la zona. Una cosa era certa: gli agenti in auto stavano meglio di quelli a piedi. «Pronto a intervenire». Un'altra voce, fredda e infelice. L'agente Milligan o l'agente Barnett. Erano gli sfortunati. Per coprire il retro del numero diciassette i due poveri diavoli avevano dovuto scavalcare il muro di cinta dei giardini sul retro dello stabile. Al buio, nel fango e sotto la pioggia. «In posizione». Watson guardò Logan. Lo stabile non aveva il citofono, ma su ogni lato del portone c'erano tre campanelli. Sotto ogni campanello c'era una piccola etichetta col nome dell'occupante. «Norman Chalmers» era stato scritto con la biro su un pezzettino di carta e appiccicato con lo scotch sopra il nome del precedente inquilino. Ultimo piano a destra. Logan fece un passo indietro e diede un'occhiata alle finestre: le luci erano accese. «Bene. Si va». Si avvicinò ai pulsanti e suonò quello in mezzo, col nome "Anderson". Due minuti dopo la porta fu aperta da un uomo sui venticinque-trent'anni, dai lineamenti pesanti e dall'aspetto dimesso. Indossava un vestito da poco prezzo e una camicia gialla tutta stropicciata. Aveva un livido vistoso su uno zigomo. Impallidì appena vide l'uniforme dell'agente Watson.
«Mr Anderson?», chiese Logan facendosi avanti e mettendo il piede tra lo stipite e il portone. Non si sa mai. «Sono io». L'uomo aveva uno spiccato accento di Edimburgo, con le vocali che andavano su e giù. «C'è qualche problema?», aggiunse facendo un passo indietro nell'ingresso. Logan gli sorrise rassicurandolo. «Niente di cui lei debba preoccuparsi, signore», gli rispose seguendolo nell'ingresso. «Vogliamo parlare con uno dei suoi vicini, ma il suo campanello non funziona». Che era una bugia. Mr Anderson sorrise nervosamente. «Oh... Va bene... meglio così». Logan lo guardò. «Mi permetta di dirlo, ma quello è un gran brutto livido. Come se l'è fatto?». Anderson si toccò la faccia. «Sono andato a sbattere in una porta». Ma evitò di guardare Logan negli occhi mentre lo diceva. Lo seguirono su per le scale, ringraziandolo mentre lui si rinchiudeva nel suo appartamento al primo piano. «Era nervosissimo», disse Watson sentendo la porta che si chiudeva, il chiavistello che scorreva e la catenella di sicurezza che veniva inserita. «Avrà forse qualcosa da nascondere?». Logan annuì. «Abbiamo tutti qualcosa da nascondere. E hai visto quel livido? Sbattuto in una porta, col cavolo. Qualcuno gli ha dato un bel destro sul faccione, altro che porta!». Watson continuò a guardare la porta. «E ha paura di sporgere denuncia?» «Probabilmente. Ma sono cose che non ci riguardano». Le scale erano coperte da una moquette lisa e consunta, ma solo fino al primo piano. Il resto degli scalini di legno scricchiolava a ogni passo. Sul pianerottolo c'erano tre porte: quella dirimpetto alle scale conduceva all'attico condominiale e le altre due ai due appartamenti dell'ultimo piano. Norman Chalmers abitava in quello di destra. La porta era stata pitturata in blu scuro e un numero sei in ottone era stato avvitato sotto lo spioncino. L'agente Watson si appiattì contro il muro per non rendere visibile l'uniforme. Logan bussò leggermente, come avrebbe fatto un vicino che voleva farsi prestare della panna fresca o una pera avocado. Si sentì una porta interna che si apriva, il suono di un televisore e poi un chiavistello che veniva retratto. Una chiave che veniva girata nella serratura. La porta fu aperta da un uomo sui trent'anni dai capelli lunghi, naso stor-
to e una barbetta ben curata. «Salv...», fu l'unica cosa che riuscì a dire. Watson gli si lanciò addosso, gli afferrò un braccio e glielo girò dietro la schiena, in un modo non previsto nei movimenti naturali. «Cosa dia...». Lo spinse nell'appartamento. «Aaaaaaaaaaaa! Mi rompi il braccio!». Watson tirò fuori le manette. «Norman Chalmers?», gli chiese mettendogliele ai polsi. «Non ho fatto niente!». Logan entrò nel piccolo ingresso dell'appartamento, spingendo leggermente Watson e il suo prigioniero che continuava a dimenarsi, per poter chiudere la porta. Nel piccolo ingresso triangolare c'erano tre porte in pino, oltre a un passaggio aperto dal quale si accedeva a un cucinino. Il tutto dipinto in colori tanto sgargianti da far venire le lacrime agli occhi. «Allora, Mr Chalmers», disse Logan, aprendo una porta a caso e scoprendo un bagno in verde luminoso. «Perché non andiamo a sederci e a fare una chiacchierata?». Provò un'altra porta che rivelò un ampio soggiorno in arancione, con un divano in velluto marrone a coste, una stufetta a gas nel caminetto, un impianto stereo e un computer. Sulle pareti tanti poster di film e un'enorme rastrelliera carica di CD. «Che bella casa, Mr Chalmers. Posso chiamarla Norman e darle del tu?». Logan si sistemò sull'orrendo divano marrone; si accorse troppo tardi che era pieno di peli di gatto. Chalmers fremeva dalla rabbia, ammanettato con le mani dietro la schiena e con Watson che lo tratteneva, impedendogli qualsiasi movimento. «Cosa diavolo state facendo?». Logan sorrise, come un pescecane. «Una cosa alla volta, signore. Agente Watson, sia gentile e informi questo signore dei suoi diritti». «Mi state arrestando? Perché? Non ho fatto niente!». «Stia calmo, signore; non è il caso di urlare. Agente, proceda...». «Norman Chalmers», disse Watson, «la trattengo in detenzione provvisoria perché sospetto dell'omicidio di una bambina di quattro anni, non ancora identificata». «Cosa?». Chalmers dimenò le braccia ammanettate mentre Watson continuava a recitare quanto previsto dal regolamento; continuò a gridare che non aveva fatto niente e che stavano commettendo un grosso errore. Non aveva ucciso nessuno.
Logan lo fece sfogare; aspettò che si fosse calmato e poi gli fece vedere dei documenti debitamente firmati e autenticati. «Questo è il mandato di perquisizione per quest'appartamento. Sei stato poco furbo, Norman. Abbiamo trovato il corpo della bambina». «Ma io non ho fatto niente!». «Avresti dovuto usare un sacco pulito, Norman. Invece l'hai uccisa e l'hai buttata via col resto del pattume di casa. Ma non hai guardato se potesse esserci qualcosa di incriminante, vero?». Gli mise davanti agli occhi la bustina di plastica con dentro lo scontrino del supermercato. «Pere avocado, cabernet sauvignon, panna fresca e dodici uova. Hai per caso una Clubcard dei supermercati Tesco?». «Questo è pazzesco! Non ho ucciso nessuno!». L'agente Watson guardò il sedere di Chalmers: nella tasca posteriore dei pantaloni c'era un portafoglio. Nel quale, tra una carta di credito e la carta di appartenenza al locale videonoleggio, c'era una Tesco Clubcard. Il numero corrispondeva a quello dello scontrino. «Prenda il cappotto, Mr Chalmers. Andiamo a fare un giretto». Nella saletta "Interrogatorio 3" faceva caldo. Non c'erano finestre e la valvola del termosifone si era bloccata al massimo. Per cui erano costretti a sopportare il caldo e l'aria viziata. Presenti: sergente Logan McRae, agente Watson, Norman Chalmers, ispettore Insch. L'ispettore non aveva detto una parola da quando era entrato nella stanza. Era rimasto appoggiato alla parete, con una busta di caramelle alla liquirizia. Sudava. Mr Chalmers aveva deciso di non cooperare con la polizia. «Ve lo ripeto. Non apro bocca se non in presenza del mio avvocato!». Logan sospirò. Avevano già discusso questa richiesta di Chalmers diverse volte. «Norman», rispose, spazientendosi. «Avrai un avvocato alla fine dell'interrogatorio». «E invece voglio il mio avvocato adesso!». Stringendo i denti, Logan chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Li riaprì e disse: «Norman, ascoltami bene. Quelli della scientifica stanno esaminando il tuo appartamento minuziosamente. Troveranno le prove della presenza della bambina. Tu lo sai e io lo so. Se parli adesso, quando sarai davanti al giudice le cose si metteranno molto meglio per te». Norman Chalmers continuò a guardare avanti a sé senza rispondere.
«Ascolta, Norman; mettimi in condizione di poterti aiutare! Una bambina è morta e...». «Ma allora sei sordo! Voglio il mio fottutissimo avvocato!». Incrociò le braccia e si appoggiò allo schienale della sedia. «Conosco i miei diritti!». «I tuoi diritti?» «Sì, i miei diritti. Ho diritto a essere assistito da un avvocato. E voi non potete interrogarmi se non alla sua presenza». Un sorriso virtuoso gli increspò le labbra. L'ispettore Insch grugnì, ma Logan scoppiò a ridere. «Ti sbagli! Siamo in Scozia e puoi avere un avvocato solo quando noi avremo finito d'interrogarti. Non prima». «Voglio il mio avvocato!». «Oh, Cristo in cielo!» gridò Logan, buttando la cartella dell'investigazione sul tavolo. Ne vennero fuori diversi fogli e una foto. La foto di un corpicino avvolto in nastro adesivo. Norman Chalmers non la degnò di uno sguardo. L'ispettore Insch parlò per la prima volta. Nell'affollata saletta la sua voce rintronò come il brontolio di un tuono. «Chiamategli l'avvocato». «Come ha detto, signore?», reagì sorpresissimo Logan, girandosi di scatto verso l'ispettore. «Mi hai sentito, sergente. Chiamagli l'avvocato». Tre quarti d'ora dopo stavano ancora aspettando. Insch si mise in bocca un'altra caramella e la masticò rumorosamente. «Lo sta facendo apposta. Quel verme lo fa per farci imbestialire». La porta della saletta si aprì proprio mentre pronunciava queste ultime parole. «Come ha detto, ispettore?», chiese qualcuno dalla soglia; qualcuno che evidentemente aveva sentito gli ultimi commenti dell'ispettore Insch. L'avvocato di Norman Chalmers era arrivato. Logan si girò per vedere chi era e soffocò un'imprecazione. Era un signore alto e magro, con un cappotto e un doppiopetto costosissimi; camicia bianca, cravatta di seta blu e un atteggiamento serio e professionale. I capelli erano un po' più grigi dall'ultima volta che Logan lo aveva visto ma aveva sempre lo stesso sorriso irritante. Sorriso che Logan ben ricordava. Se lo era trovato di fronte quando l'avvocato lo aveva interrogato nel processo Robertson, cercando di convincere la giuria che la polizia aveva co-
struito l'evidenza contro il suo cliente e che in effetti la vera vittima era "il mostro di Mastrick", al secolo Angus Robertson. «Non si preoccupi, Mr Moir-Farquharson». Insch pronunciava il cognome così com'era scritto "Far-Quhar-Son" anziché il tradizionale "Facherson" perché sapeva di infastidirlo così facendo. «Parlavo di un altro vermiciattolo. È ben gentile da parte sua venirci a trovare». L'avvocato sospirò: si tolse il cappotto e lo appoggiò sullo schienale dell'unica sedia ancora disponibile nella saletta e andò a sedersi al fianco di Norman Chalmers. «La prego, ispettore; non mi dica che dobbiamo rifare questa tiritera tutte le volte che c'incontriamo». Tirò fuori dalla borsa un sottilissimo laptop e l'attivò. Il lieve ronzio del computer che si avviava era quasi impercettibile nell'affollata saletta. «Rifare cosa, Mr Far-Quhar-Son?». L'avvocato lo guardò male. «Sa benissimo cosa. Io sono qui per assistere il mio cliente, non per essere insultato da lei. Non mi costringa a sporgere un'altra denuncia per il suo comportamento ai suoi superiori». Insch si rabbuiò in viso e non disse nulla. «Allora», continuò l'avvocato destreggiandosi con la tastiera del computer. «Ho qui una copia delle accuse contestate al mio cliente. Prima di rilasciare una dichiarazione vorrei parlare con lui in privato». «Davvero?». Insch lasciò la sua postazione vicino alla porta e poggiò i pugni sul tavolo, chinandosi verso Chalmers e il suo avvocato. «E noi vorremmo chiedere al suo "cliente" perché ha ucciso una bambina di quattro anni e ne ha buttato via il corpo, assieme alla spazzatura!». Chalmers saltò su dalla sedia. «Non sono stato io! Volete ascoltarmi, brutti bastardi? Non ho fatto niente!». Sandy Moir-Farquharson appoggiò una mano sul braccio di Chalmers. «Stai calmo. Tu non devi dire assolutamente niente. Stattene seduto e lascia che sia io a parlare, va bene?». Chalmers guardò il suo avvocato che gli sorrise per rassicurarlo; annuì e lentamente si rimise a sedere. Insch non si era mosso. «Allora, ispettore», disse Moir-Farquharson. «Le ripeto; vorrei parlare col mio cliente in privato. Dopodiché saremo ben lied di assisterla nella sua indagine». «Questa non è la prassi», gli rispose Insch, buio in volto. «Lei non ha alcun diritto di accesso a questo stronzetto. La sua presenza qui è tollerata
solo come un gesto di cortesia». Si avvicinò all'avvocato fin quando i loro nasi quasi si toccarono. «Qui valgono le mie regole, non le sue». Moir-Farquharson gli sorrise con calma, per nulla turbato dall'aggressività dell'ispettore. «Conosco i capricci della legge scozzese, ispettore. Comunque, per una dimostrazione di buona fede, le chiedo di lasciarmi parlare col mio cliente in privato». «E se non glielo permetto?» «In tal caso staremo qui fino a quando ne saremo stufi. Oppure fino alla scadenza delle sei ore di detenzione provvisoria che le consente la legge. Decida lei». Insch lo guardò per alcuni attimi; si mise la busta delle caramelle in tasca e uscì dalla saletta, seguito da Logan e da Watson. Nel corridoio c'era più fresco, ma le parolacce fioccavano. Quando ebbe finito di maledire l'avvocato ai quattro venti, Insch disse a Watson di tenere d'occhio la porta della saletta, nel caso quei due avessero cercato di sgattaiolare alla chetichella. Watson si sentì scocciata dall'ordine appena ricevuto. Ma questo era ciò che ti spetta se sei una semplice agente in divisa. Sperava di superare presto gli esami per passare al CID, così un giorno sarebbe toccato a lei dire a qualcuno in divisa di piantonare porte chiuse. «A proposito, agente». Insch le si avvicinò con fare cospiratorio. «Hai fatto un bel lavoro investigativo, ricuperando quella ricevuta. Brava. Parlerò bene di te a chi di dovere». «Grazie, signore». Watson sorrise, soddisfatta e compiaciuta dell'encomio. Logan e l'ispettore la lasciarono di guardia e si recarono al centro investigazioni. «Perché proprio Farquharson!», imprecò Insch, appoggiandosi come al solito sull'orlo della scrivania. «Adesso non riusciremo a cavar fuori niente da Chalmers! E io devo essere in teatro per le prove tra venti minuti!». Sospirò: sapeva che non ce l'avrebbe fatta. «Dio ci protegga da avvocati del genere!». Sandy Moir-Farquharson era un avvocato di fama. In tutta la città non c'era un penalista par suo. La sua reputazione era tale da far impallidire qualsiasi procuratore che se lo trovasse contro. Per anni l'ufficio del Pubblico Ministero1 aveva tentato invano di farlo passare dalla loro parte, a essere l'accusa e metter dentro i criminali, invece di aiutarli a farla franca. Ma il viscido figlio di buona donna non ne voleva sapere. Era intento in una missione di prevenzione di errori giudiziari. Di protezione degli inno-
centi. E pronto a farsi intervistare da chiunque gli puntasse in faccia una telecamera o un microfono. Era un pericolo pubblico, un piantagrane. Suo malgrado, Logan dovette ammettere in cuor suo che se si fosse trovato in qualche megapasticcio sarebbe stato ben lieto di aver Sandy il Viscido come difensore. «E allora perché gli ha concesso di parlare con Chalmers in privato?» «Perché Chalmers non ci avrebbe detto niente. Almeno adesso sentiremo cosa ci dirà tramite il suo avvocato». «Credevo che Sandy il Tortuoso stesse difendendo Gerald Cleaver, il nostro caro molestatore di bambini». Insch fece spallucce e tirò fuori le caramelle. «Sappiamo tutti com'è Sandy. Il processo Cleaver durerà ancora una settimana, dieci giorni al massimo. Per cui Sandy ha bisogno di un nuovo caso per poter presentare la faccia davanti alle telecamere». L'ispettore offrì la busta di caramelle a Logan che ne prese una alla noce di cocco e liquirizia. «Quelli della scientifica troveranno qualcosa», disse Logan masticando. «La bambina è stata in quell'appartamento, ne sono certo. Nel sacco c'erano le bottiglie di vino vuote e altri resti di alimentari. Chalmers non avrebbe potuto metterla nel pattume da nessun'altra parte... a meno che non mangi e beva in un altro appartamento». Insch annuì, rovistando nella busta delle caramelle. «Telefona al Municipio, domattina. Chiedi se c'è un altro indirizzo registrato a nome suo. Non si sa mai». Trovò quel che cercava: una caramellona all'anice, e se la mise in bocca. «A proposito», continuò. «Alle 19,45 c'è l'autopsia...». S'interruppe, guardandosi le scarpe. «Mi chiedevo se non ti dispiacerebbe...». «Vuole che ci vada io?». «Io sono l'investigatore più alto in grado e quindi toccherebbe a me, ma...». Insch aveva una bambina su per giù della stessa età della vittima. Per cui, star lì a guardare il corpo di una bambina dell'età di sua figlia mentre la tagliavano come un quarto di vitello, sarebbe stata un'esperienza poco piacevole. Ma non sarebbe piaciuto neanche a Logan. Specialmente se l'autopsia fosse stata effettuata dalla dottoressa Isobel MacAlister. «Va bene, ci andrò io», disse cercando di non sospirare mentre lo diceva. «E comunque lei dovrebbe interrogare Chalmers... in qualità di investigatore di grado, no?» «Grazie», rispose Insch. In segno della sua stima offrì a Logan l'ultima caramella alla liquirizia.
Logan prese l'ascensore per andare all'obitorio, sperando che fosse la serata libera di Isobel. Magari sarebbe stato fortunato e gli sarebbe capitata una delle sue assistenti. Ma da come si stava comportando la dea bendata nei suoi confronti ne dubitava proprio. Quella sera l'obitorio era stranamente arioso e illuminato, con le luci che facevano splendere le tavole di dissezione e le celle frigorifere. C'era freddo, quasi quanto fuori. Nonostante il forte odore di disinfettante, il fetore di decomposizione del cadavere dell'autopsia della mattina permeava ancora l'aria. Il fetore di David Reid. Arrivò in tempo per assistere allo scarico del corpo della bambina dalla body-bag che era troppo grande per lei. Era ancora avvolta nel nastro adesivo, solo che adesso il nastro era coperto della polverina bianca per il prelievo delle impronte digitali. Il cuore gli cadde nelle budella. Al tavolo, a sorvegliare la sistemazione del cadavere c'era Isobel, non una delle sue assistenti. Indossava la sua uniforme da lavoro, il grembiule di gomma rossa ancora senza alcuna traccia di sangue. Il procuratore e il patologo d'osservazione erano già lì, con addosso dei camici, e parlavano del cadavere con Isobel che raccontava loro come e dove era stato trovato. Notò l'arrivo di Logan e non fece nulla per nascondere la sua noia. Si tirò giù la mascherina e gli chiese: «Credevo che l'ispettore Insch fosse l'investigatore responsabile per questo caso. Dov'è?» «Sta interrogando l'indiziato». Si rimise a posto la mascherina, mostrando tutta la sua scocciatura. «Non si è fatto vedere all'autopsia di David Reid e adesso non si prende la briga di presentarsi a questa. Non so neanche perché me la prendo così tanto...». Il suo scocciato borbottare si perse nel nulla. Montò il suo microfonino e cominciò con i preliminari. Il procuratore diede un'occhiata a Logan e scosse la testa; era ovviamente d'accordo con quanto Isobel aveva detto. Mentre Isobel stava elencando i presenti lo squillo del cellulare di Logan la interruppe: lo guardò arrabbiatissima. «Non permetto l'uso di cellulari nel corso delle mie autopsie!». Scusandosi profondamente Logan tirò fuori il cellulare e lo spense. Se fosse stato qualcosa d'importante, lo avrebbero richiamato. Ribollendo di rabbia Isobel concluse i preliminari. Prese una scintillante forbice in acciaio inossidabile e cominciò a tagliare il nastro adesivo che avvolgeva il corpicino della bambina, descrivendone le condizioni man
mano che veniva scoperto. Sotto l'adesivo la bambina era nuda. Una grossa ciocca di capelli era rimasta attaccata al nastro adesivo e si stava staccando dal cuoio capelluto. Isobel la staccò dal nastro con dell'acetone, il cui acuto odore si fece sentire al di sopra dell'odore di disinfettante e del fetore di decomposizione avviata. Ma almeno questo corpo non era stato in un fossato per tre mesi. Isobel rimise a posto le forbici e il suo assistente inserì i ritagli di nastro adesivo in una busta di plastica, etichettandola come prova. Il corpo della bambina era ancora curvo nella posizione rannicchiata del feto. Gentilmente, quasi con tenerezza, Isobel ne eliminò il rigor mortis dagli arti, muovendoli avanti e indietro fino a quando riuscì a stenderla sulla schiena. Come se stesse dormendo. Era una bambina di circa quattro anni, bionda, con qualche chilo di troppo, con diversi lividi sulle spalle e sulle cosce, contusioni che spiccavano contro il pallore della sua carnagione. Mentre Isobel lavorava, un fotografo che Logan non riconobbe cliccava in continuazione. «Ho bisogno di una buona inquadratura, testa e spalle», gli disse Logan. L'uomo annuì e inquadrò la fredda faccia del cadaverino. Flash, whirrr, flash, whirr. «C'è un profondo taglio tra la spalla sinistra e il braccio. Sembra che vada...». Isobel tirò il braccio, rivelando il taglio profondo. «...Sì, va fino all'osso». Toccò la parte tagliata con un dito inguantato. «È stata inflitta dopo la morte. Un colpo solo, con una lama piatta e tagliente, probabilmente una mannaia». Si avvicinò al taglio quasi fino a toccarlo col naso. Annusò e disse: «Nell'area del taglio c'è un forte odore di vomito»; stese una mano. «Passami le pinzette». L'assistente gliele passò e lei rovistò nel taglio, fino a estrarne qualcosa di grigio e cartilaginoso. «Nel taglio ci sono dei resti di cibo parzialmente digerito». Logan cercò di non visualizzare la scena. Non ci riuscì. «Stava cercando di farla a pezzi», disse. «Stava cercando di disfarsi del corpo». «E cosa te lo fa pensare?», gli chiese Isobel, con una mano leggermente appoggiata al petto della bambina. «I giornali parlano spesso di corpi fatti a pezzi. L'assassino vuole eliminare l'evidenza, quindi cerca di farla a pezzi con una mannaia da macellaio. Solo che non è così facile come ha immaginato. Ci prova, ma il tentati-
vo lo fa vomitare». La voce di Logan era spenta e monotona. «Allora l'avvolge in nastro adesivo, la infila nel sacco dell'immondizia e la mette nella pattumiera condominiale per farla portar via dai netturbini». Il procuratore rimase colpito da questa considerazione di Logan. «Ottima deduzione, sergente», disse. «Credo che lei abbia ragione». Si rivolse a Brian, l'assistente di Isobel, che stava mettendo i pezzettini recuperati dalla ferita in un tubicino di plastica. «Si assicuri che siano sottoposti alle analisi del DNA». Ignorandoli Isobel continuava nel suo lavoro. Aprì la bocca della bambina, le schiacciò la lingua con un apposito strumento e indietreggiò. «Sembra che abbia ingerito un liquido detersivo. Un bel po', infatti, a giudicare dalle condizioni della bocca. La pelle e i denti indicano contatto con un liquido corrosivo, probabilmente candeggina. Ne saprò di più quando esaminerò il contenuto dello stomaco». Con una mano chiuse la bocca della bambina, reggendole il capo con l'altra. «Oh oh...», fece segno al fotografo di avvicinarsi. «Fotografi la nuca. Il retro della testa ha subito un forte colpo». Cercò con le dita nella zona dove il cranio si unisce al collo. «È stato inflitto con un corpo contundente con uno spigolo». «Qualcosa come l'angolo di un tavolo?» suggerì Logan. Non gli piaceva la piega che stavano prendendo le cose. «No... qualcosa di acuto, solido, come l'orlo di un caminetto. O un mattone». «È stato il colpo che ha causato la morte?», chiese Logan. «Se non l'ha uccisa la candeggina che ha bevuto... per essere più precisa dovrò aprirle il cranio». Sul carrello degli strumenti c'era una sega per le ossa. Logan non voleva star lì a vedere quello che stava per succedere. Al diavolo l'ispettore Insch e la sua bambina. Avrebbe dovuto esserci lui a godersi lo spettacolo di un patologo che faceva a pezzi una bambina di quattro anni, non Logan. Isobel passò il bisturi da un orecchio all'altro, incidendo la pelle. Senza batter ciglio, inserì le dita nel taglio e tirò lo scalpo in avanti, come se si stesse togliendo una calza. Logan chiuse gli occhi cercando di non ascoltare il rumore della pelle che si staccava dalla sottostante struttura muscolare: il rumore di una lattuga che viene tagliata con le mani. Lo stridulo rumore della sega che lavorava sul cranio della bambina era insopportabile. Lo stomaco di Logan stava per cedere. E durante tutto questo Isobel mantenne la sua fredda e staccata profes-
sionalità, continuando a descrivere nel microfonino ciò che stava facendo. Logan si sentì ben lieto del fatto che loro due non stessero più insieme. Se lo fossero stati, non le avrebbe permesso di toccarlo. Non con quelle mani. Non dopo quello che le aveva visto fare. 1
Nell'originale: CPS, Crown Prosecution Service (n.d.t.). CAPITOLO 9
Fermo sotto la pensilina in cemento dell'ingresso alla Centrale di polizia, Logan contemplava i grigi e cupi edifici circostanti. Erano da poco passate le nove di sera; la pioggia non dava alcun segno di smettere e questa parte della città era quasi deserta. I negozi erano chiusi e non c'erano passanti. C'era gente nei pub e ci sarebbero rimasti fino all'orario di chiusura. Persino il piazzale davanti alla Sheriff Court era deserto. Anche la Centrale stava attraversando un periodo di relativa quiete. Quelli del turno di giorno erano smontati tempo fa e ora erano al pub a farsi una birra, oppure tra le braccia della persona amata. Oppure, come nel caso dell'ispettore Steel, tra le braccia della persona amata di qualcun altro. Quelli del secondo turno aspettavano lo scorrere delle prossime tre ore; mezzanotte, monta il turno di notte e si va a casa. L'aria era fresca e pulita, con qualche leggera traccia di fumi d'auto. Odore senz'altro più gradevole di quello di un cranio surriscaldato dalla lama di una sega. Non avrebbe mai più guardato nel cranio di un bambino. Tirò fuori una delle sue pillole dalla boccetta e la mandò giù. Il pugno ricevuto la sera prima si faceva ancora sentire. Respirando un'ultima boccata di aria fresca, Logan rabbrividì e rientrò nella Centrale. Il sergente dietro la vetrata della reception lo guardò a lungo: lo riconobbe e gli fece un gran sorriso di benvenuto. «Allora è vero! Logan McRae! Sei tornato! Avevo sentito dire che avresti ripreso servizio, ma non mi avevano detto quando!». Logan si sforzò di ricordare il nome dell'uomo; di mezza età, quasi calvo e con un maestoso paio di baffi, ma non ci riuscì. Baffone si girò e chiamò qualcuno alle sue spalle: «Gary! Gary! Vieni a vedere chi c'è!». Un omone con tanti chili di troppo e con una divisa che gli stava stretta sporse la testa dalla parete divisoria. Aveva un tazzone di tè in una mano e
un sandwich nell'altra. «Guarda», disse Baffone, indicando Logan. «È lui!». Logan sorrise imbarazzato. Chi diavolo erano questi due? E improvvisamente ricordò... «Eric! Non ti avevo riconosciuto!». Guardò la pelata del suo collega e chiese: «Ma cosa è successo ai capelli di voi tutti? Oggi pomeriggio ho visto Billy, calvo come una folaga!». Eric si carezzò i pochi capelli che gli restavano. «È un segno di virilità. Ma allora, come stai?». Big Gary sorrise a Logan, con briciole del sandwich che gli cadevano sul davanti dell'uniforme come forfora. «Sergente Logan McRae, di ritorno dal regno dei morti!». Eric annuì. «Già, proprio dal regno dei morti!». Big Gary tirò giù un sorso di tè. «Sei come quel tizio che resuscitò... come si chiamava, Eric: sai chi voglio dire? quello della Bibbia?» «Chi?», disse Eric. «Gesù Cristo?» «Ma no, idiota!», rispose Big Gary dandogli una gomitata. «Vuoi che non ricordi il nome di Gesù Cristo? No, quell'altro... un lebbroso o qualcosa del genere... quello che resuscita, sai?» «Lazzaro?», suggerì Logan cominciando ad allontanarsi. «Proprio lui!», rispose Gary. «Sì, Lazzaro. E ti chiameremo così: Lazzaro McRae!». L'ispettore Insch non era nel suo ufficio e neanche al centro investigazioni, quindi Logan andò a cercarlo nell'unico posto dove era sicuro di trovarlo: nella saletta dove lo aveva lasciato, "Interrogatorio 3". E infatti lo trovò lì, con l'agente Watson, Sandy il Viscido e Norman Chalmers. A giudicare dalla faccia dell'ispettore le cose non andavano molto bene. Logan gli chiese gentilmente se poteva parlargli e attese nel corridoio fino a quando Insch sospese la seduta. Quando uscì, la camicia dell'ispettore era madida di sudore. «Cristo, fa caldo lì dentro!», disse asciugandosi la faccia con un fazzoletto. «Autopsia?». Logan gli diede la cartella che aveva ricevuto da Isobel. «Risultati preliminari. Le conclusioni definitive arriveranno in settimana». Insch afferrò la cartella e cominciò a sfogliarne il contenuto. «I risultati sono abbastanza conclusivi», disse Logan. «David Reid è stato ucciso da qualcun altro. Il modus operandi è diverso, il metodo usato per disporre del cadavere è diverso e la vittima era una bambina anziché un bambino». «Merda». Più che pronunciarla Insch grugnì l'imprecazione. Era arrivato
alla lista delle "Probabili cause di morte". «E non hanno escluso una caduta», aggiunse Logan. Insch ripeté merda e si avviò lungo il corridoio. Raggiunto il distributore di bevande calde, inserì i numeri e porse a Logan un bicchiere di plastica pieno di un liquido bruno con su una specie di schiuma bianca. «Bene», disse. «Il che vuol dire che Chalmers è da escludere dagli indiziati per il delitto Reid». Logan annuì. «E abbiamo sempre un assassino in giro. Uno che insidia e uccide bambini». Insch si appoggiò al distributore. Si passò una mano sul volto. «E la candeggina?» «Versata dopo la morte: non ce n'era traccia né nello stomaco né nei polmoni. Probabilmente cercava di eliminare tracce di DNA». «C'è riuscito?». Logan fece spallucce. «Isobel non ha trovato tracce di sperma». Le spalle dell'ispettore si abbassarono, sconvolte. Guardò la cartella che aveva ancora in mano. «Come ha potuto fare una cosa del genere? Una bambina...». Logan tacque. Capì che l'ispettore pensava alla sua bambina, cercando di non accostare le due immagini. Finalmente Insch si raddrizzò e Logan gli rivide il fuoco negli occhi. «Inchioderemo i coglioni di questo bastardo Chalmers al muro!». «Ma la ferita alla testa? Voglio dire, se la bambina è caduta, se è stato un incidente...». «Lo incastreremo con altri capi d'accusa: mancata dichiarazione di un decesso, tentato occultamento di un cadavere, tentativo di sviare il corso della giustizia. Proveremo anche a incastrarlo per omicidio. Ma solo se riusciremo a convincere la giuria che è stato lui a spingerla e a farla cadere». «Pensa che ci crederanno?». Insch strinse le spalle, sorseggiando il suo caffellatte. «No. Ma val la pena di tentare. L'unica pecca in questo discorso è la mancanza di prove concrete, di qualcosa trovato dalla scientifica. Non siamo ancora certi che la bambina sia stata nell'appartamento di Chalmers. E non possiamo neanche dire che il posto sia stato oggetto di un "ripulisti" generale; da quanto mi dici, la camera da letto era un vero e proprio porcile. Chalmers continua a ripetere che non sa chi sia la bambina. Mai vista prima». «Che sorpresa. Cosa dice Sandy Serpente?».
Insch lanciò un'occhiata malevola verso la saletta. «Quello che dice sempre, quello stronzo», rispose asciugandosi il sudore dalla pelata. «Che non abbiamo prove». «E la ricevuta?» «Come prova non è granché. Potrebbe essere una coincidenza. Sandy infatti dice che la bambina potrebbe essere stata messa nel sacco dell'immondizia dopo che Chalmers lo aveva depositato nella pattumiera». Sospirò. «E purtroppo ha ragione. Se non riusciamo a trovare qualcosa di irrefutabile che colleghi Chalmers alla bambina siamo fregati. Davanti a una giuria Sandy Serpente ci ridurrebbe in briciole. E sempre supponendo che il procuratore intenda portare il caso davanti a una giuria. Cosa improbabile, a meno che non troviamo qualcosa di concreto...». Sollevò lo sguardo dal caffellatte. «Magari... Ha lasciato le sue impronte digitali sul nastro adesivo?» «Mi dispiace, signore. Pulitissimo». Qualcosa non quadrava. Perché prendersi la briga di cancellare le impronte digitali dal nastro adesivo e poi buttar via il cadavere in un sacco pieno del suo pattume? «Allora», disse Insch staccandosi dal distributore e guardando cupamente lungo il corridoio. «Credo proprio che dovremo ignorare la mancanza di prove concrete e tenere Mr Chalmers sotto chiave. Ma devo ammettere di non essere convinto che riusciremo ad appioppargli l'accusa»; s'interruppe e fece spallucce. «Il lato positivo è che Sandy Serpente sarà arrabbiatissimo: gli avremo tolto la possibilità di pavoneggiarsi di fronte a una giuria». «Pensa che un'altra minaccia di morte possa attenuare la sua delusione?». Insch sorrise: «Vedrò cosa posso fare». Norman Chalmers fu ufficialmente arrestato e rimandato in cella, per comparire davanti al magistrato il giorno dopo; Sandy Moir-Farquharson tornò nel suo studio; l'ispettore Insch andò alla prova generale del suo spettacolo. Logan e Watson andarono al pub. Prima che ne facessero un pub, l'Archibald Simpson's era stato una banca; e adesso lo spazioso salone era il bar principale. I rosoni ornati e gli alti cornicioni che adornavano il salone erano offuscati da una nuvola di fumo di sigarette, ma gli avventori erano più interessati a bere a buon mercato che ai dettagli architettonici. Il pub era vicinissimo alla Centrale e quindi frequentato da molti poli-
ziotti, quando smontavano dal servizio. Quella sera c'erano molti di quelli che avevano fatto parte delle squadre di ricerca. Avevano trascorso la giornata sotto la pioggia, alcuni a caccia di indizi sulle sponde del fiume Don, altri impegnati nella ricerca di Richard Erskine. Oggi avevano cercato un bambino scomparso; domani avrebbero cercato un cadavere. Tutti conoscevano le statistiche; se un bambino scomparso non veniva ritrovato entro sei ore, molto probabilmente era già morto. Proprio come il piccolo David Reid, o la piccola sconosciuta che ora giaceva all'obitorio con una lunga cicatrice a forma di Y sul torso, dove era stata aperta e i suoi organi erano stati estratti, esaminati, pesati; ne era stata tagliata una fettina, che a sua volta era stata messa in una fialetta, che era stata etichettata ed era diventata "prova". Avevano trascorso la prima parte della serata bevendo e discutendo animatamente dei bambini morti e scomparsi. Nella seconda parte della serata avevano continuato a bere e a lamentarsi della rottura di palle causata dall'investigazione della sezione Standard Professionali, che cercava di scoprire chi avesse fatto la soffiata alla stampa. Nel passato la sezione aveva avuto un altro nome: Reclami e Procedure Disciplinari. Cambiarlo non aveva contribuito granché ad aumentarne la popolarità. E nella terza parte avevano semplicemente bevuto, ubriacandosi solennemente. Uno degli agenti, del quale Logan non ricordava il nome, arrivò barcollando al tavolo con un vassoio pieno di boccali di birra. Il giovanotto aveva raggiunto il livello di ubriachezza nel quale ogni cosa sembra roba da ridere. Infatti rovesciò mezzo boccale di birra sui pantaloni di un barbuto collega del CID e fu preso da una incontenibile ridarella. Logan non aveva nessuna intenzione di assumere l'atteggiamento dell'adulto responsabile; prese il suo boccale e si diresse, con andatura non troppo stabile, verso le slot machine. C'era un gruppetto di agenti vicino a una macchinetta da quiz; sembrava si stessero divertendo. Logan li ignorò e andò oltre. L'agente Watson era da sola; giocava a una macchinetta. Luci che lampeggiavano, campanellini e cicalini che suonavano... in una mano teneva una bottiglia di Budweiser, mezza vuota e con l'altra schiacciava i pulsanti della macchinetta, facendo girare vorticosamente i rulli. «Mi sembri felice», le disse Logan mentre i rulli si fermavano a due limoni e un castello.
Non si girò neanche a guardarlo. «Insufficienza di prove!», disse. Schiacciò con rabbia il pulsante "Hold", ricevendone solo un'ancora. «Dobbiamo continuare a cercare», rispose Logan, mandando giù un'altra boccata di birra e sentendosi meglio, grazie alla sensazione di ebbrezza alcolica che cominciava a irradiarsi dalla testa. «Quelli della scientifica non hanno trovato niente nell'appartamento e...». «Quelli della scientifica non riuscirebbero a trovare merda in un pozzo nero», lo interruppe lei. «E lo scontrino?»; inserì altre monete nella macchinetta e diede una manata al pulsante "Go". Logan fece spallucce e Watson guardò i rulli che si erano fermati: limone, ancora, lingotto. «Sappiamo tutti che è stato lui!», disse facendo girare i rulli di nuovo. «E adesso ci tocca dimostrarlo. Ma non lo avremmo sotto chiave se non fosse stato per te». Logan cominciava a biascicare le parole e "sotto chiave" venne fuori come «Sciotto chiave», ma Watson non sembrò accorgersene. Si sporse in avanti e le toccò la spalla con un dito. «E trovare quello scontrino è stato un bel lavoro». Gli sembrò che lei sorridesse, mentre inseriva altre monete nella macchinetta. «I punti della Clubcard li ha scoperti lei, non io». Non tolse gli occhi dai rulli che giravano. «È vero. Ma io non li avrei trovati se tu non avessi trovato lo scontrino». Le fece un bel sorriso e bevve dell'altra birra. Watson si girò a guardarlo; vide che Logan non si reggeva molto bene sulle gambe. «Che fine ha fatto la regola che diceva "una quattro volte al giorno, da non prendersi con alcool?"». Logan le fece l'occhiolino. «Se tu non lo dici a nessuno, non lo dirò neanch'io». Gli sorrise: «Comincio a pensare che farle da baby-sitter sarà un lavoro a tempo pieno». Logan fece tintinnare il suo bicchiere contro la bottiglia di Watson. «L'idea mi piace! Salute!». CAPITOLO 10 Alle sei del mattino l'incessante biip-biip della sveglia elettronica svegliò Logan: i postumi della maxi sbornia della sera prima si fecero sentire subito. Seduto sulla sponda del letto si prese la testa tra le mani, sentendola pulsare a ogni battito. I gorgoglii e gli spasmi provenienti dal suo stomaco
presagivano poco di buono; stava per vomitare. Si alzò dal letto e barcollando uscì nel corridoio, dirigendosi al bagno. Perché aveva bevuto così tanto? Al pronto soccorso gli avevano sottolineato l'importanza di non ingerire alcool mentre prendeva le pillole che gli avevano dato... Dopo aver vomitato si appoggiò al lavandino e si chinò in avanti, fino a toccare le fredde mattonelle con la fronte, con l'aspro sapore della bile che gli permeava la bocca e le narici. Aprì un occhio quel tanto che bastava per vedere il boccale da una pinta sulla cisterna del water. C'era ancora, pieno a metà, il contenitore di pillole che gli avevano dato la prima volta che era uscito dall'ospedale, quando le cicatrici erano ancora fresche. Ebbe qualche difficoltà ad aprirne la chiusura a prova di bambino; riempì d'acqua il bicchiere, ne mandò giù un paio e barcollò sotto la doccia. Fatta la doccia non si sentì molto meglio; se non altro adesso non puzzava più come un incrocio tra una birreria e un portacenere. Uscì nel corridoio asciugandosi i capelli e sentì un leggero colpo di tosse alle sue spalle. Si girò di scatto, col cuore in gola e le mani contratte a pugni. L'agente Watson era sulla soglia della cucina con addosso una delle sue magliette e con in mano un forchettone da cucina. I capelli bruni, non più ristretti nel regolamentare chignon, le cadevano sciolti sulle spalle. Dall'orlo della maglietta spuntavano due gambe nude; due belle gambe nude. «Freddo, vero?», chiese Watson e Logan si rese improvvisamente conto che era uscito dalla doccia senza aver indossato l'accappatoio, con tutto in mostra. Arrossendo dalla testa ai piedi si coprì rapidamente i genitali con l'asciugamano. Il sorriso di Watson svanì e la vide inarcare le sopracciglia; gli stava guardando lo stomaco, dove le cicatrici si incrociavano come una cartina stradale. «È stato brutto?». Logan tossì, imbarazzato. «Be'... non è qualcosa che consiglierei», rispose. «Cioè... io...». «Lo vuole un bacon sandwich? Nel frigo non ci sono uova. In effetti non c'è un granché». Logan restò lì, con l'asciugamano sulla sua mascolinità, sentendosi imbarazzato da un'erezione incipiente. «Allora, glielo faccio o no?», chiese di nuovo Watson. «Cosa?... sì, grazie. Sì, sì, grazie».
Watson rientrò in cucina e Logan corse in camera da letto, sbattendo la porta dietro di sé. Santo cielo, ma quanto aveva bevuto ieri sera? Da non prendere con alcool! Possibile che non ricordasse niente? Non sapeva neanche il nome dell'agente Watson. Come aveva potuto andare a letto con qualcuno di cui non conosceva neanche il nome? Finì di asciugarsi con l'asciugamano, lo buttò in un angolo e cominciò a infilare i piedi ancora umidi in un paio di calze. Cosa diavolo aveva fatto? Lui era un sergente del CID e lei una semplice agente. Lavoravano insieme. Lui era il suo superiore! L'ispettore Insch avrebbe avuto un infarto se appena uno della sua squadra investigativa avesse preso a frequentare un agente-in-divisa! Saltellando su una gamba s'infilò i pantaloni, rendendosi poi conto che non si era messo le mutande; via i pantaloni. «Cosa diavolo hai fatto, idiota?», chiese alla sua immagine riflessa dallo specchio. «L'agente Watson lavora per te!». L'immagine lo guardò, e la costernazione si trasformò lentamente in un sorriso complice. «Sì, però... mica male, eh?», si rispose. McRae dovette ammettere che il Logan dello specchio aveva ragione. Watson era intelligente, carina... e capacissima di riempire di sberle chiunque s'illudesse di poterla far franca con lei. Insch glielo aveva detto: non la chiamano "Braccio di ferro" per niente! «Ossignore...». S'infilò una camicia bianca pulita e quasi si strangolò con una cravatta a fiori. Uscì nel corridoio e si fermò di colpo, prima di entrare in cucina. Come diavolo avrebbe dovuto comportarsi? Esser sincero e ammettere che non ricordava nulla? Fece una smorfia; questa opzione non sarebbe andata giù molto bene. Immagina: "Salve, mi dispiace ma non ricordo di aver fatto sesso con te. Ti è piaciuto? Sì? Bene, e allora dimmi una cosa: come ti chiami?". C'era un solo corso di azione da adottare: tieni la bocca chiusa e lascia che sia lei a fare la prima mossa. Respirò profondamente e si fermò sulla porta della cucina. In cucina c'era un forte odore di birra e bacon fritto. L'agente Watson, sculettando con le sue belle gambe in mostra, era ai fornelli intenta a friggere bacon. Logan stava per dirle qualcosa di carino, tanto per rompere il ghiaccio; ma sussultò, sentendo la voce di qualcuno alle sue spalle. «Urrrrrghhhhh... mi lasci passare, non riesco a stare in piedi». Logan si girò e si trovò davanti un giovanotto dall'aspetto malmesso e dagli occhi appannati, vestito casual, che si grattava le chiappe aspettando
che Logan si facesse da parte. «Scusa...», disse Logan, troppo sorpreso per poter dire altro; lo fece passare e lo vide crollare su una sedia. «Gnnnnnnn, la mia povera testa», disse il nuovo arrivato, prendendosela tra le mani e appoggiandola al tavolo. Watson si guardò alle spalle e vide Logan, vestito di tutto punto. «Si sieda», gli disse. Prese due fette di pane, ci mise in mezzo del bacon fritto e diede a Logan il suo bacon sandwich, mettendo dell'altro bacon in padella. «Ottimo... grazie», borbottò Logan. Il giovanotto con la sbornia da smaltire seduto dall'altra parte del tavolo aveva un aspetto vagamente familiare. Era uno di quelli che avevano fatto la ricerca sulla sponda del fiume? Quello che aveva rovesciato la birra sui pantaloni del collega nel pub ieri sera? Watson mise un altro bacon sandwich sul tavolo, stavolta davanti al giovane collega. «Non dovevi prenderti il fastidio di preparare la colazione», disse sorridendo Logan a Watson, che aveva messo le ultime fette di pancetta affumicata in padella. Una grossa nuvola di vapore si elevò dalla padella e lei agitò la paletta per dissiparla; goccioline del grasso di frittura caddero dall'utensile di plastica sulla superficie del banco della cucina. «Avrebbe preferito che la preparasse lui?», rispose lei puntando all'altro agente con la paletta. Se per caso il bacon sandwich non gli fosse andato giù, non sarebbe riuscito ad arrivare fino al bagno. «Non so come piace a lei, ma a me il bacon sandwich piace senza vomito». Un'altra faccia che Logan ricordava vagamente apparve sulla soglia della cucina. «Cristo, Steve», disse all'altro agente. «In che stato sei! Insch andrà in tilt se ti vede così!». S'interruppe quando vide Logan già vestito e apparentemente in tiro. «'Giorno, signore. Bella festa ieri sera. Grazie per averci ospitati». «Ma... di niente». Festa? L'ultimo arrivato sorrise. «Oooooh! Che gambe, Jackie! Gesù, bacon sandwich! Ce n'è uno anche per me?» «Questo è l'ultimo, ed è mio», rispose Watson prendendo altre due fette di pane e facendosi il sandwich. «Il bacon è finito. E io ho smesso di friggere, devo vestirmi». Prese una bottiglia di ketchup e se ne versò abbondantemente nel sandwich. «Avresti dovuto alzarti prima». La guardò con malcelata invidia mentre lei strappava un bel morso dal sandwich e masticava con gusto, con un bel sorriso sul viso impiastricciato
di ketchup. Ma l'uomo che Logan ancora non ricordava non era uno da arrendersi facilmente. Prese posto sull'unica sedia ancora libera; appoggiò i gomiti sul tavolo e si rivolse all'amico con voce preoccupata. «Santo cielo, Steve; ma hai proprio una brutta cera! Sei sicuro di voler mangiare quella roba?». Indicò il bacon sandwich ancora sul tavolo. «Mi sembra veramente unto e pieno di grasso». Watson aveva la bocca piena, ma riuscì lo stesso a farsi sentire. «Non dargli retta, Steve. Mangialo, che ti farà bene; ti sistemerà lo stomaco». «Proprio così», disse l'ancora innominato agente. «Metti quella roba nel tuo povero stomaco sconvolto e vedrai come starai subito meglio, Steve. Dopo tutto è solo un po' di maiale morto, messo in salamoia, affumicato e affettato, no? Fritto nel suo stesso grasso, unto e gocciolante. Proprio quello che ci vuole per rimettere in sesto uno stomaco sconvolto». Steve stava diventando grigio. «Non c'è niente di meglio di un po' di lardo per riassestarti lo stomaco...». L'ultimo arrivato non dovette dire altro; Steve si alzò dalla sedia e con una mano sulla bocca corse nel bagno. E mentre dalla cucina lo si sentiva in preda a violenti conati di vomito, il nuovo arrivato ghignò, prese il bacon sandwich e lo morse con voluttà. «Che goduria!», esclamò masticando, con un filo di unto che gli colava lungo il mento. «Simon Rennie, sei un gran bastardo!». Il non più innominato ma bastardo Simon Rennie strizzò l'occhio a Jackie Watson. «La legge della giungla». Leggermente scostato dal tavolo, Logan continuava a masticare il suo sandwich, cercando di ricordare cosa diavolo fosse successo la sera prima. Non ricordava nessuna festa. Ricordava di essere stato al pub e poi un vuoto. Non che ricordasse chiaramente quello che era successo al pub. Ma evidentemente c'era stata una festa e alcuni agenti erano finiti a casa sua. Non era difficile capire perché: il suo appartamento era in Marischal Street, a due minuti dalla Centrale di Queen Street. Ma non ricordava cosa era successo dopo che erano stati buttati fuori dal pub. Steve, l'agente che si stava rivoltando le budella nel bagno, aveva messo It's A Kinda Magic dei Queen sul jukebox, e quindi effettuato uno spogliarello integrale al ritmo della musica. Non che lo si potesse definire uno spogliarello eccitante; era troppo ubriaco e barcollante per dare anche una pallida idea di sensualità.
Il personale del bar aveva gentilmente chiesto a tutti loro di andarsene. Il che spiegava perché una buona metà della polizia di Aberdeen si trovasse ora o nella sua cucina a divorare bacon oppure nel suo bagno a vomitare l'anima. Ma non spiegava la presenza dell'agente Jackie Watson e delle sue belle gambe. «E allora?», le chiese mentre Watson dava un altro bel morso al suo sandwich: «Come mai sei finita di servizio in cucina?». Era una domanda neutra, che ne nascondeva un'altra: Abbiamo fatto sesso? Si pulì la bocca col retro della mano e fece spallucce. «Toccava a me. La prima volta che uno dorme a casa di qualcuno in comitiva, la mattina dopo gli tocca preparare la colazione». Logan annuì, come se la cosa fosse perfettamente normale. Era troppo presto e il cervello non gli andava ancora a pieni giri. Sorrise in modo ambiguo, come se sperasse di non esprimere niente di negativo su qualsiasi cosa potesse essere successa la sera prima. «Bene», disse alzandosi e mettendo gli avanzi del suo sandwich nella pattumiera. «Gente, io devo andare. Ci sarà una riunione nel centro investigazioni alle 7,30 precise e io ho degli appunti da preparare». Serio e ufficiale. Nessuno commentò e nessuno lo guardò. «Bene... quando uscite chiudete bene e... ci vediamo più tardi». Si fermò, sperando in un gesto, un cenno, da parte dell'agente Watson. No, Jackie! Non l'agente Watson: Jackie. Non ci fu. Era troppo occupata a mangiare. «Bene», ripeté indietreggiando verso la porta. «Ci vediamo più tardi». Fuori era ancora buio. Il sole a quest'ora del mattino lo si sarebbe visto tra cinque mesi, se non più tardi. La città cominciava a stiracchiarsi, mentre Logan percorreva Marischal Street verso Castlegate. I lampioni erano ancora accesi, come pure gli addobbi luminosi di Natale. Quest'anno il tema dell'addobbo era I dodici giorni di Natale1, vecchio tema favorito di Aberdeen, appeso da qui fino in fondo a Union Street. Logan sostò brevemente, inspirando la fredda aria del mattino. La pioggia pesante era stata sostituita da un pioggerella fine fine che sfocava leggermente le luci degli addobbi. Luci bianche come l'avorio risaltavano contro il grigiore del cielo, mettendo ancor più in mostra i lord che saltavano e i cigni che nuotavano, secondo i versi della popolare canzone natalizia. Le strade cominciavano a riempirsi di vetture. Le vetrine dei negozi di Union Street offrivano un contrastante miscuglio di gioie natalizie e di merce dozzinale. Al di sopra di esse il grigio granito si innalzava per tre e anche più piani, con le finestre buie: uffici non ancora aperti, appartamenti
con gente ancora a letto. La scena era illuminata dalle lampade al sodio dei lampioni e dalle luci bianche degli addobbi natalizi. Era quasi bello. Qualche volta la città gli ricordava perché continuasse ad abitarci. Da un negozietto aperto comprò un tetrapak di succo d'arancia e un paio di croissant ed entrò nella Centrale dalla porta sul retro. Nell'ingresso si scrollò la pioggerella dal cappotto e si diresse verso l'ascensore. Il sergente alla reception alzò gli occhi e... «Buon giorno, Lazzaro». Logan fece finta di non aver sentito. Un forte odore di caffè, birra e sbornie da smaltire permeava la sala riunioni. Logan fu sorpreso dall'alto numero di presenti. C'erano tutti, o così sembrava. Seduto in ultima fila c'era persino il vomitante spogliarellista Steve. A guardarlo, si vedeva che non stava bene. Logan, con in mano delle fotocopie della foto della bambina morta andò a sedersi il più avanti possibile, aspettando che l'ispettore Insch desse il via alla riunione. L'ispettore gli aveva chiesto di parlare ai presenti e dir loro quel poco che sapevano sul caso della bambina morta trovata il giorno prima alla discarica di Nigg. Alzò gli occhi dalle sue fotocopie e vide l'agente Watson, Jackie, che gli sorrideva. Ricambiò il sorriso. Era riuscito a superare la sensazione di panico che l'aveva preso quando aveva trovato la Watson nella sua cucina; e cominciava a trovare la situazione decisamente accettabile. Erano passati quattro mesi da quando lui e Isobel avevano deciso di andare ognuno per la propria strada e pensò che sarebbe stato bello avviare una relazione con un'altra donna. Alla fine della riunione avrebbe chiesto a Insch di assegnargli un altro angelo custode. Se non avessero più lavorato insieme nessuno avrebbe potuto trovare da ridire sul fatto che lui e l'agente Watson facessero coppia. Sorrise all'agente Jackie Watson, dalle belle gambe nascoste in un paio di pantaloni regolamentari. Lei gli restituì il sorriso. Gran bel posto il mondo. Improvvisamente Logan notò che tutti i presenti gli sorridevano, non solo Jackie Watson. «Quando è pronto, sergente». Si girò di scatto e vide Insch che lo guardava accigliato. «Signore?... Oh, sì. Grazie, signore». Lasciò il suo posto e si recò alla scrivania alla quale Insch era appoggiato, sperando di non sembrare così imbarazzato come si
sentiva. «Alle 16,00 di ieri pomeriggio una certa Angela Murray, insegnante di Studi Sociali alla Kincorth Academy, ha telefonato al 999 per segnalare la scoperta di un piede umano che fuoriusciva da un sacco di plastica nero nella discarica comunale di Nigg. Il piede è parte del corpo di una bambina di quattro anni, non identificata, i cui dati somatici sono: caucasica, capelli biondi e lunghi, occhi azzurri». Diede le fotocopie all'ultimo agente della prima fila, dicendogli di tenerne una e di passare il resto al suo vicino. Erano identiche: una foto del viso della bambina, fatta all'obitorio. Occhi chiusi, guance segnate dal nastro adesivo. «L'assassino ha cercato di fare a pezzi il corpo della vittima, ma non c'è riuscito; lo stomaco non gli ha retto». Si sentì un mormorio di disgusto dagli uomini e donne presenti. «Questo significa...», Logan fu costretto ad alzare la voce per farsi sentire. «Questo significa che probabilmente era la sua prima volta. Se avesse ucciso prima, forse ci sarebbe riuscito». Si era ristabilito il silenzio; Insch approvò annuendo. Logan fece circolare altre fotocopie. «Questa è la dichiarazione di Norman Chalmers. Lo abbiamo arrestato ieri sera come persona sospetta dell'omicidio, dopo che l'agente Watson ha trovato una prova che lo collega al sacco nel quale il corpo era stato messo e buttato via». Qualcuno le diede una pacca sulla spalla e l'agente Jackie Watson sorrise ai complimenti dei suoi colleghi. «Ma», continuò Logan, «abbiamo un problema. Quelli della scientifica non sono riusciti a trovare prove che la bambina sia mai stata nell'appartamento di Chalmers. Quindi: se non l'ha portata lì, dove l'avrà portata? Voglio che un gruppo investighi minuziosamente gli affari di Mr Chalmers. Se ha preso in affitto un box auto, visto che parcheggiare dove abita è praticamente impossibile. Se si prende cura della casa di qualche parente o amico che è andato all'estero o che è stato ricoverato in ospedale e gliene ha lasciato le chiavi. Se ha la possibilità di nascondere un corpo dove lavora, senza che nessuno se ne accorga». I presenti annuirono. «Altro gruppo; porta a porta in Rosemount. Chi era la bambina? Come ha fatto Chalmers ad avvicinarla?». Qualcuno nella terza fila alzò la mano e Logan gli puntò il dito. «Sì?» «Come mai la scomparsa della bambina non è stata ancora denunciata?». Logan annuì. «Ottima domanda. Una bambina di quattro anni, sparita da
almeno ventiquattr'ore e nessuno chiama la polizia? Strano, non vi pare? E questa...», fece distribuire delle altre fotocopie, «è una lista fornita dai Servizi Sociali, di tutte le famiglie di Aberdeen che hanno registrato all'anagrafe una bambina dell'età della vittima. Terzo gruppo, la vostra consegna è questa: voglio che andiate a trovare ogni famiglia su questa lista. E non venite via se non avete visto la bambina. Non prendiamo nessuno in parola, chiaro?» Silenzio. «Bene. Ecco le squadre.» Logan lesse i nomi dei componenti delle tre squadre di quattro agenti ciascuna e li avviò nelle loro indagini; il resto dei presenti attese mentre i dodici "volontari" lasciavano il centro. «Ascoltate», disse Insch. Non dovette alzare la voce per farsi sentire; appena aprì la bocca tutti ammutolirono. «Abbiamo avuto una segnalazione. Un bambino la cui descrizione corrisponde a quella di Richard Erskine è stato visto salire su una piccola auto familiare rossa. Altre persone dicono di aver visto spesso un'auto come quella nelle vicinanze della casa di Richard negli ultimi mesi. Molto probabilmente il nostro pervertito teneva d'occhio la zona. O forse cercava di cogliere il bambino da solo, visto che è quasi sempre accompagnato da sua madre». S'interruppe e guardò tutti i presenti, per assicurarsi che tutti stessero ascoltando attentamente. «Richard Erskine è ormai scomparso da ventidue ore. Anche se non è stato rapito da qualche pezzo di merda, ha poche probabilità di sopravvivere, date le condizioni meteorologiche. Ieri pioveva a dirotto e durante la notte la temperatura è scesa quasi a zero. Come ho detto, ha poche probabilità di farcela. Il che vuol dire che dobbiamo cercarlo più intensamente e più alla svelta. Gireremo questa città sottosopra se necessario, ma lo troveremo». La cupa determinazione dei presenti era palpabile. Insch lesse i nomi delle sue squadre investigative e si appoggiò alla scrivania mentre i presenti uscivano. Mentre Logan aspettava per ricevere le sue istruzioni, vide l'ispettore chiamare Steve lo spogliarellista e trattenerlo fino a quando tutti furono usciti. Cominciò a parlargli a voce così bassa che Logan non riuscì a sentire una parola; ma immaginava cosa gli stesse dicendo. La faccia di Steve passò da un rosso violaceo a un grigio funereo, che ben si univa alla sua espressione impaurita. «Bene», disse Insch al tremante giovanotto quando ebbe finito, indicandogli la porta con la testa. «Adesso aspetta fuori». Steve lo Stripper uscì mestamente dalla sala, come se fosse stato preso a schiaffi.
Quando Steve si chiuse la porta alle spalle, Insch fece cenno a Logan di avvicinarsi. «Stamattina ho un bel lavoretto per te. Roba facile facile», aggiunse estraendo dalla tasca una busta di acini d'uvetta ricoperti di cioccolato. Cercò invano di strapparne un angolo e finì per usare i denti. «Queste buste sembrano saldate...». Sputò l'angolino di plastica e infilò un dito nel buco che aveva appena fatto. «L'assessorato all'ambiente mi ha chiesto di dare protezione a uno dei loro funzionari». Logan cercò di soffocare un gemito di delusione. «Sta scherzando, signore?» «No. Devono consegnare un'ingiunzione a un cittadino e l'incaricato ha paura. È sicuro che la persona alla quale deve consegnare il documento lo ammazzerà e ha chiesto la protezione della polizia. Il questore...», fece un cenno con gli occhi verso il soffitto, per indicare l'ultimo piano della Centrale, «vuole che cooperiamo. Il che vuol dire che dobbiamo dare al comune tutta l'assistenza della quale hanno bisogno». Offrì la bustina dell'uvetta a Logan che rifiutò; quegli acini ricoperti di cioccolato sembravano cacca di topo. «Ma non è un compito per quelli in divisa?». Insch annuì e Logan avrebbe giurato di aver visto una scintilla di delizia nell'occhio dell'ispettore. «Sì, infatti lo è. Un agente in divisa fornirà la protezione necessaria. Ma ci sarai anche tu, a soprintendere l'operazione». Si versò dei chicchi di uvetta nel palmo della mano e se li buttò in bocca. «È uno dei privilegi del grado; ti viene affidata la supervisione dei tuoi subalterni». Ci fu una lunga pausa che Logan proprio non capì. «Bene», disse Insch indicandogli la porta. «Vai pure». Interrogandosi sul significato di questo strano incarico, Logan uscì dalla sala, lasciando l'ispettore Insch appoggiato alla scrivania con un sorriso malizioso sul volto. Tra non molto Logan avrebbe capito perché. L'agente Steve lo stava aspettando nel corridoio, con un'espressione preoccupata. Si era ripreso, ma non molto. Aveva ripreso un po' di colore, ma si vedeva chiaramente che stava male. Aveva gli occhi iniettati di sangue e aveva cercato di mascherare l'alcool sul suo alito con delle mentine extra strong, senza riuscirci. Lo guardò con aria dimessa. «Signore», disse con un sorriso mesto. «Penso sia meglio che guidi lei. Mi dispiace, signore». Logan aggrottò le sopracciglia, aprì la bocca e la richiuse. Chiaramente Steve era l'agente in divisa che gli toccava sorvegliare. Stavano scendendo in ascensore al piano terra quando Steve non resse
più e andò a pezzi. «Come diavolo ha fatto a saperlo?», si chiese, quasi singhiozzando. «Tutto! Sapeva tutto!». Logan cominciò a sentirsi un pezzo di ghiaccio nello stomaco «Tutto?». Allora l'ispettore sapeva che anche lui aveva preso la sbornia e che era andato a letto con l'agente Watson? L'agente Steve emise un lamento. «Sapeva che eravamo stati buttati fuori dal pub, sapeva che avevo fatto lo spogliarello...»; guardò Logan con occhi pietosamente rosa, come se fosse stato un coniglio in vivisezione. «Mi ha detto di considerarmi fortunato che non mi abbia licenziato! Oh, mio Dio...». Sembrava che Steve stesse per scoppiare in lacrime. Ma l'ascensore fece "ping" e si fermò nel parcheggio dove un paio di agenti in divisa stavano estraendo un capellone dall'aspetto poco raccomandabile dalla portiera posteriore di un'auto. L'individuo indossava solo un paio di jeans e una maglietta, copiosamente imbrattata dal sangue che gli colava dal naso. «Brutti stronzi pezzi di merda!», gridò lanciandosi verso Logan, ma l'agente che lo tratteneva non mollò la presa. «Quel figlio di puttana se l'è meritato!». Gli mancavano anche dei denti. «Mi dispiace, signore» disse l'agente che lo tratteneva. Logan gli disse di non preoccuparsi e si recò verso l'uscita del parcheggio seguito da Steve. Sarebbero potuti uscire dalla reception, ma non voleva che gli altri vedessero il giovane Steve in quelle condizioni. E gli uffici del comune erano a due passi; una passeggiata nell'aria fresca avrebbe fatto bene a entrambi. Fuori, dopo l'opprimente calore degli uffici della Centrale, la pioggerella era quasi ben accetta: aveva un effetto rinfrescante. Si fermarono sulla rampa di accesso che dal parcheggio scendeva al livello di strada, col viso alla pioggia, e rimasero così fino a quando un clacson li fece sussultare. L'autopattuglia la cui uscita Logan e Steve stavano bloccando, fece lampeggiare i fari. Logan fece un gesto di scusa e si fecero da parte. Passarono di fianco alla Centrale; davanti alla Sheriff Court, con striscioni e cartelli, si era già riunita una piccola folla che sperava di vedere Gerald Cleaver. E di poterlo impiccare al lampione più vicino. L'impaurito funzionario comunale li stava aspettando all'ingresso degli edifici del comune, spostandosi da un piede all'altro e guardando continuamente l'orologio, come se temesse che gli sarebbe scappato se lo avesse trascurato per più di trenta secondi. Diede un'occhiata preoccupata a Steve e stese la mano a Logan. «Mi dispiace avervi fatto aspettare», disse, anche se era stato lui ad aspettare loro.
Si presentarono, ma trenta secondi dopo Logan aveva già dimenticato il nome dell'uomo. «Allora, andiamo?». L'uomo si fermò, controllò il contenuto di una borsa di pelle, guardò l'ora e poi li condusse verso una Ford Fiesta che sembrava in attesa dell'estrema unzione. Logan si sistemò nel sedile del passeggero, al fianco di Mr Impaurito, e fece sedere Steve dietro l'autista, per due ragioni. Uno: non voleva che il funzionario dell'assessorato all'ambiente in missione pericolosa vedesse Steve nelle condizioni in cui era, e due: se a Steve fosse venuta di nuovo la voglia di vomitare non lo avrebbe fatto in testa a Logan. Attraversando la città Mr Impaurito continuò a lamentarsi di quanto fossero svantaggiati i dipendenti del Comune e del perché non poteva cambiare lavoro in quanto avrebbe perso tutte le indennità accumulate. Logan si disintonizzò da quella lagna e si immerse nei suoi pensieri, tornando a galla di tanto in tanto con qualche intercalare di circostanza, come «Dice davvero?», e «Ha perfettamente ragione». Mentre pensava, guardava dal finestrino lo sfilare delle strade grigie e brulle. L'ora di punta del mattino stava raggiungendo il punto in cui tutti coloro che sarebbero dovuti uscire di casa mezz'ora prima, cominciavano improvvisamente a rendersi conto che avrebbero fatto tardi. Ogni tanto si vedeva qualcuno con la sigaretta tra le labbra e il finestrino aperto. Fuori il fumo, dentro la pioggia. Logan li guardava con invidia. Aveva raggiunto la conclusione che con quel suo discorsetto sui privilegi del grado Insch aveva voluto mandargli un segnale. Qualcosa di poco piacevole. Si passò la mano sulla fronte, sentendo il pulsare del cervello. Non c'era da meravigliarsi che Insch avesse dato una strigliata all'agente Steve. Il giovane ubriacone avrebbe potuto imbarazzare seriamente l'intera forza di polizia. Vedeva già i titoli sui giornali: Poliziotto nudo mi ha mostrato il suo manganello! Fosse stato lui il superiore diretto di Steve, lo avrebbe strapazzato altrettanto bene. E fu in quel momento che la luce si accese nel cervello di Logan. Insch glielo aveva detto chiaro e tondo. «È uno dei privilegi del grado. Ti viene affidata la supervisione dei tuoi subalterni». Lui era un sergente del CID, Steve un semplice agente. Erano andati tutti a ubriacarsi e Logan non aveva fatto niente per impedire all'incauto Steve di andare altre i limiti della decenza e fare lo spogliarello. Logan gemette dalla rabbia. Questa era una punizione per lui tanto quanto lo era per Steve. Venticinque minuti dopo uscivano con qualche sforzo dall'auto di Mr
Impaurito, a poca distanza da un capannone rurale malmesso, in aperta campagna, appena alla periferia di Cults. La strada finiva lì, sommersa dal sottobosco. In fondo al sentiero una fatiscente fattoria appariva rabbuiata, con le mura grigie a lamentarsi sotto la pioggia incessante. Intorno c'erano altri edifici in rovina, in un desolato paesaggio di sterpaglie. Gli arbusti si intravedevano tra la vegetazione, fusti e foglie color ruggine sotto il cielo invernale. Due finestre sporgevano dal tetto d'ardesia, lanciando uno sguardo vuoto e ostile. Sulla porta in rosso sbiadito era dipinto in bianco un grande numero sei. Ogni edificio aveva il suo numero sulla porta. Le superfici, lucide di pioggia, riflettevano la grigia luce del giorno. «Accogliente», disse Logan, tentando di rompere il ghiaccio. E poi l'odore lo colpì. «Oh Gesù!», disse mettendosi una mano sulla bocca e sul naso. Era l'intenso, nauseante fetore della decomposizione. Di carne lasciata per troppo tempo al sole. Era l'odore della morte. 1
The twelve days of Christmas: una popolare e divertente canzone natalizia (non religiosa) che tutti cantano a Natale (n.d.t.). CAPITOLO 11 L'agente Steve fu preso da forti conati di vomito: corse dietro una siepe dove vomitò rumorosamente. «Ha visto, adesso?», disse l'incaricato del comune. «Ve lo avevo detto che era una cosa orrenda, o no? Ve lo avevo detto!». Logan annuì, anche se mentre Mr Impaurito guidava e parlava a ruota libera aveva solo fatto finta di ascoltarlo. «Abbiamo cominciato a ricevere segnalazioni sul cattivo odore già dallo scorso Natale. Abbiamo scritto tante lettere, senza ricevere risposta», continuò l'uomo stringendosi al petto la borsa di pelle. «E adesso il postino si rifiuta di consegnare la posta». «Chissà perché», ironizzò Logan. Questo spiegava perché il comune non aveva ricevuto risposta alle sue lettere. Lasciò l'agente a vomitare e cominciò a farsi strada nel sottobosco che bloccava il sentiero di accesso alla fattoria. «Andiamo a vedere se c'è qualcuno in casa». L'incaricato del comune lasciò che fosse Logan ad andare per primo. Ma che sorpresa. L'edificio principale della fattoria aveva visto tempi migliori. Sulle mura
di pietra si vedevano ancora tracce di pittura bianca; infisse c'erano delle staffe metalliche arrugginite, dove una volta erano stati appesi vasi. Ma questo in un passato molto lontano. Ora le cose erano ben diverse. L'erba cresceva persino nelle grondaie, bloccandone lo scarico, e la pioggia straripava dall'orlo. La porta non era stata pitturata da anni; le intemperie ne avevano tolto la vernice, riducendola a legno crudo e marcio. Un piccolo numero metallico era stato avvitato in alto, ma la ruggine e lo sporco lo avevano reso illeggibile. La maniglia non era di meglio. E sulla porta era stato pennellato il numero sei. Logan bussò, fece un passo indietro, e attese. E attese. E attese. E... «Oh, al diavolo!», imprecò. Lasciò stare la porta e con passo pesante cominciò a farsi strada nella sterpaglia che circondava lo stabile, e guardando in ogni finestra. Nella casa regnava un buio profondo. Attraverso i vetri sporchi si riusciva a malapena a distinguere le sagome di alcuni mobili. Fece il giro della casa e ritornò sul davanti. Nella sterpaglia si vedeva il sentiero che si era aperto passando. «Qui non c'è nessuno», disse. «Qui non c'è stato nessuno per mesi e mesi». Se ci avesse abitato qualcuno l'erba tra la strada e la porta sarebbe stata calpestata. Mr Impaurito guardò la casa, guardò Logan, guardò l'orologio, rovistò nella sua borsa e ne tirò fuori la sua tabella fermabloc. «No», disse leggendo da un foglio sulla tabella. «Questo stabile è la residenza di un certo Mr Bernard Philips». S'interruppe, in evidente imbarazzo, e si controllò i bottoni del cappotto, uno per uno, per assicurarsi che fossero abbottonati, dopodiché guardò ancora l'orologio. «Mr Philips è... Mr Philips è un dipendente del comune». Logan aprì la bocca e stava per dirgli qualcosa di poco piacevole, ma si trattenne in tempo. «Come sarebbe a dire "è un dipendente del comune"?», chiese. Con voluta lentezza gli pose l'ovvia domanda. «Se è un dipendente del comune, perché non gli avete consegnato l'ingiunzione quando si è presentato al lavoro stamattina?». L'incaricato del comune consultò ancora la sua tabella, evitando di guardare Logan negli occhi. E senza aprire bocca. «Oh, al diavolo!», imprecò di nuovo Logan. Alla fin fine importava ben poco. Ormai erano qui e quindi tanto valeva che facessero quello che erano venuti a fare. Cercando di sembrare calmo, chiese a Mr Impaurito. «Quindi Mr Philips è al suo posto di lavoro?».
Visibilmente nervoso, l'uomo scosse la testa. «Ha preso un giorno di ferie». Logan si massaggiò le tempie, cercando di ridurre le pulsazioni che sentiva nella testa. «Va bene. Allora, se Mr Philips abita qui...». «Abita qui!», confermò Mr Impaurito. «Se Mr Philips abita qui», continuò Logan ignorando l'interruzione, «non abita in questo stabile». Si girò a guardare il resto dei capannoni fatiscenti. Erano stati edificati nelle vicinanze dello stabile principale ma senza alcuna simmetria. Sulla porta di ogni capannone era stato dipinto un numero. «Andiamo a dare un'occhiata in quello là», disse indicando lo sgangherato capannone col numero uno sulla porta. Tanto valeva cominciare con ordine. Mentre si dirigevano al numero uno furono raggiunti dall'agente Steve, pallido e malfermo. Stava peggio di quando Logan l'aveva visto per la prima volta nel suo appartamento. Dovette ammettere che quando Insch dava una punizione a qualcuno, lo faceva come si deve. Più che pitturata, la porta del numero uno era stata imbrattata con una pittura verde da poco prezzo. Ce n'era sulla porta, sugli stipiti, sul muro; persino sull'erba ai loro piedi. Logan indicò la porta a Steve, che rabbrividiva con i postumi della crisi di vomito; Steve lo guardò inorridito. Qui il fetore era più forte che altrove. «Apri la porta, agente», gli ordinò Logan. Aveva deciso che non l'avrebbe aperta lui, visto che c'era un povero diavolo a cui poteva ordinare di farlo. Passò qualche attimo, ma poi Steve disse: «Sì, signore», e afferrò il maniglione della porta. Era una porta scorrevole piuttosto pesante, con le guide arrugginite e deformate. L'agente strinse i denti e tirò con quanta forza riuscì a racimolare dai suoi muscoli. La porta scricchiolò e si aprì, facendo uscire il più potente fetore nel quale Logan si fosse mai imbattuto. Tutti i presenti indietreggiarono. Una valanga di mosconi morti si scrollò dalla porta, cadendo ai loro piedi. Steve corse di nuovo dietro una siepe a vomitare. Nel passato il capannone era stato una stalla per bovini; lungo e basso, con le mura in granito e il tetto in tegole di ardesia. Il centro della stalla era attraversato da un passaggio rialzato rispetto ai lati e delimitato da una ringhiera alta fino alle ginocchia. Era l'unico spazio vuoto in tutta la stalla. Tutto il resto era occupato da una miriade di carcasse di piccoli animali in
putrefazione. I corpi, rigidi e contorti, erano ricoperti da una coltre di vermi bianchi. Logan fece tre passi indietro e corse nel prato a vomitare. Vomitando gli sembrava di ricevere altri pugni nel suo stomaco tartassato; ogni conato, un'ondata di dolore. I capannoni uno, due e tre erano pieni di carcasse di animali. Il numero tre non era ancora pieno come gli altri; c'erano ancora circa quattro metri di cemento libero, senza carcasse, ma il pavimento era coperto da una densa melma giallastra e mosconi morti. Quando avevano aperto il numero due, Logan aveva cambiato idea. L'ispettore Insch non era uno che puniva come si deve qualcuno che sgarrava; era un vero bastardo. Aprirono e controllarono l'interno di tutti i capannoni e lo stomaco di Logan reagiva male ogni volta che Steve apriva una porta. Dopo averle aperte tutte, si ritrovarono seduti su un muretto sbriciolato. Ma sopravento. Mani sulle ginocchia, respiravano dalla bocca. I capannoni erano pieni di carcasse di cani, gatti, ricci, gabbiani e anche un paio di cervi. Se da vivo aveva volato, camminato o strisciato, una volta morto era finito qui. Sembrava di essere entrati nell'arca di un necrofilo. Solo che di ogni animale ce n'erano tanti, molti più di due. «Cosa ne farete?», chiese Logan, sentendosi ancora la bile in bocca, nonostante diverse mentine extra strong di Steve. L'uomo del comune lo guardò, con gli occhi ancora rossi dal ripetuto vomitare. «Dovremo portarli via e bruciarli nell'inceneritore», rispose passandosi una mano sul volto. Rabbrividì. «Ci vorrà del tempo...». «Un'operazione per la quale non invidio quelli che...». Logan s'interruppe: qualcosa si muoveva in fondo al sentiero che dalla strada portava alla fattoria. Era un uomo in jeans scoloriti e una giacca a vento arancione. Camminava lungo la parte di strada asfaltata che portava al sentiero. A testa bassa, senza vedere altro che le sue scarpe. «Shhhhh!», bisbigliò Logan, afferrando l'uomo del comune e il bilioso agente Steve. «Steve, nasconditi là dietro», gli disse indicandogli il capannone col numero due. Guardò Steve che correva a mettersi dove gli aveva detto e prese Mr Impaurito per il braccio. «Adesso potrà consegnare la sua ingiunzione», gli disse. L'uomo dal giaccone arancione era giunto a meno di un paio di metri da
loro, quando finalmente alzò lo sguardo e li vide. Logan non ne aveva riconosciuto il nome, ma ne ricordava la faccia. Era Roadkill. Erano seduti su una specie di panca appena all'interno del capannone numero cinque. Roadkill, al secolo Mr Bernard Duncan Philips, ne aveva ricavato una specie di casa. Delle vecchie coperte, vecchi cappotti e sacchi di plastica erano accatastati in un angolo, chiaramente il suo letto. Sopra il letto c'era una specie di crocifisso fai-da-te, con un seminudo Action Man al posto del Cristo. Vicino al letto c'era un mucchio di barattoli di cibo vuoti e di cartoni di uova e una bomboletta blu di Calor Gas con relativo fornelletto da campeggio. Logan lo riconobbe: era uguale a quello che suo padre portava nella roulotte in tutte le vacanze di famiglia estive a Lossiemouth. Ora era acceso, faceva bollire dell'acqua per il tè. Roadkill, difficile pensare a lui come Bernard, era seduto su una traballante sedia di legno, e dava dei colpetti a una stufetta elettrica con un pezzo di ferro. Era una stufetta a due elementi, vecchia e ormai fuori uso. Ma sembrava che lui si divertisse, a picchiarla con quella sbarretta di ferro mentre canticchiava qualcosa che Logan non riusciva a identificare. Ora che Roadkill, in qualità di destinatario dell'ingiunzione del comune era rientrato al suo indirizzo, l'incaricato della consegna si era calmato. Gli aveva spiegato la situazione in termini chiari e facilmente comprensibili: gli animali morti dovevano essere portati via. «Bernard, sono sicuro che capisci», spiegò, picchiando col dito sulla sua tabella fermabloc. «Non puoi tenere animali morti in questi capannoni. Mettono a rischio la salute della gente. Ti piacerebbe se dei bambini cominciassero ad ammalarsi per colpa dei tuoi animali?». Roadkill fece spallucce e continuò a picchiettare la stufetta con la sua sbarretta. «Mamma si è ammalata», disse e Logan fu sorpreso dalla mancanza di un accento che indicasse la sua provenienza. Aveva sempre pensato che un dipendente del comune, incaricato di rimuovere carcasse di animali dalla strada, fosse "del posto". C'erano degli aberdoniani che parlavano in modo incomprensibile, ma non Roadkill. Era evidente che quell'uomo, ora seduto su una sedia traballante e che si trastullava con un pezzo di ferro e una stufetta elettrica, era istruito. «Si è ammalata e se n'è andata», continuò Roadkill, alzando lo sguardo per la prima volta da quando era arrivato. «Ora sta con Dio». Non era brutto, sotto tutto il sudiciume
e la barba; naso fine, occhi intelligenti, guance rosee per la vita all'aria aperta. Portalo dal barbiere, fagli fare un bel bagno, vestilo come si deve e non sfigurerà al Royal Northern Club, dove si pavoneggia l'élite della città, degustando costosi pranzi da cinque portate. «Lo so, Bernard, lo so», annuì l'uomo del comune sorridendogli per rincuorarlo. «Manderemo degli uomini domani per cominciare a sgombrare i capannoni, va bene?». Roadkill fece cadere la sbarretta di ferro sul pavimento di cemento. Il suono riverberò sulle pareti. «Sono le mie cose», disse quasi con le lacrime agli occhi. «Non potete portar via le mie cose! Sono mie». «Devono essere messe via, Bernard. Dobbiamo assicurarci che tu stia bene, no?» «Ma sono mie...». L'uomo del Comune si alzò, indicando a Logan e a Steve di fare lo stesso; la visita era terminata. «Mi dispiace, Bernard; mi dispiace veramente. La squadra dei netturbini sarà qui domattina alle 8,30 in punto. Se vuoi gli potrai dare una mano». «Le mie cose». «Eh, Bernard? Li aiuterai?» «Le mie cose morte... le mie cose speciali...». Tornarono in città con i finestrini aperti, cercando di smaltire l'odore della fattoria di Bernard Duncan Philips. Gli aveva impregnato i capelli e i vestiti, rancido e rivoltante. La pioggerella era diventata una pioggia pesante, ma i finestrini restavano aperti. Preferivano bagnarsi piuttosto che respirare nel fetore che loro stessi emanavano. Entrando in Holburn Street e facendosi strada nel traffico verso il municipio a St Nicholas House, l'uomo del comune disse: «Voi non ci crederete, ma Roadkill era un ragazzo molto intelligente. Si è laureato in Storia Medievale all'università di St Andrews. Almeno così mi dicono». Logan annuì. Lo aveva immaginato. «E cosa gli è successo?» «Schizofrenico». Alzò le spalle. «Prende farmaci». «In cura ma in libertà...» «Sì, perché non è considerato un elemento pericoloso», disse l'uomo del Comune, ma Logan notò il tremolio nella sua voce. Ecco perché aveva chiesto la protezione della polizia. Non sarà stato pericoloso, ma l'uomo del comune aveva paura di Roadkill. «E poi è molto coscienzioso nel suo lavoro».
«Rimuovere carcasse di animali dalle strade...». «E allora? Non possiamo lasciarli a decomporsi nelle strade, no? Voglio dire, non è così grave con conigli e ricci; le auto li riducono in poltiglia e i corvi e altri uccelli beccano via quello che resta. Ma cani e gatti... La gente telefona e reclama, se deve passare vicino al cadavere di un labrador in putrefazione quando va a prendere l'autobus per andare a lavorare la mattina!». Si fermò a un semaforo. «Non so come avremmo fatto senza Bernard. Prima che il suo inserimento nella comunità fosse approvato non avevamo trovato nessuno disposto a fare quel lavoro». Ripensandoci, Logan dovette ammettere che non aveva visto un animale morto nelle strade di Aberdeen da molto tempo. L'incaricato del comune li lasciò davanti alla Centrale, ringraziandoli per la loro protezione e assistenza; scusandosi per l'odore li salutò e se ne andò per la sua strada. Logan e Steve fecero di corsa il tratto dall'auto alla porta della Centrale; ma quando arrivarono nell'ingresso erano bagnati fradici. Il sergente alla reception li guardò mentre entravano, con le scarpe che lasciavano le loro impronte sul logo della Grampian Police inserito nel linoleum: un cardo sormontato da una corona con sotto il motto "Semper Vigilo". «Sergente McRae?», chiese, sporgendosi dalla sua sedia come un pappagallo incuriosito. «Sì?», rispose Logan, aspettandosi qualche battuta su "Lazzaro". Era sicuro che quei bastardi di Eric e Big Gary lo avevano già fatto sapere a tutta la Centrale. «L'ispettore Insch ha lasciato detto che saresti dovuto andare al centro investigazioni appena rientrato». Logan si guardò le scarpe piene d'acqua e il vestito bagnato fradicio. Non vedeva l'ora di fare una doccia calda e mettersi abiti asciutti. «Non è per caso qualcosa che può aspettare quindici, venti minuti?» Il sergente scosse la testa. «Assolutamente no. L'ispettore lo ha specificato senza mezzi termini. "Immediatamente", ha detto». Mentre l'agente Steve andava ad asciugarsi, Logan proseguì borbottando fino agli ascensori, schiacciando il pulsante con rabbia. Arrivato al terzo piano, si avviò verso la sala riunioni. Le pareti del corridoio erano già ricoperte di cartoline di auguri natalizi. Erano attaccate ai tabelloni, vicino ai poster che chiedevano «Hai visto questa donna?» e «Maltrattamento domestico... non ci sono scuse!» e robe del genere. Piccole oasi di gioia nel
deserto della tristezza e della sofferenza umana. Il centro investigazioni era affollato: tutti i presenti, uomini e donne, in uniforme o del CID, erano occupati ai telefoni o a controllare informazioni con colleghi. E al centro di tutta l'attività c'era l'ispettore Insch, appoggiato come al solito all'orlo della scrivania, e intento a guardare un agente che stava prendendo appunti, con la cornetta del telefono tra la spalla e l'orecchio. Era successo qualcosa. Logan si fece largo tra la folla e si presentò all'ispettore. «Cosa è successo?», chiese. Insch alzò una mano indicandogli di tacere; si chinò per leggere quel che aveva scritto l'agente. Evidentemente era qualcosa di poco importante perché sospirò, deluso. Si girò verso Logan e, inarcando un sopracciglio, gli chiese: «Hai fatto una nuotata?», chiese. «No, signore», rispose Logan, sentendo l'acqua che gli gocciolava giù nel collo. «Piove». L'ispettore fece spallucce. «Clima di Aberdeen. Ma non potevi cambiarti prima di venire qui a gocciolare su tutto il pavimento del mio centro investigazioni, che era bello e pulito?». Logan chiuse gli occhi e decise di ignorare la provocazione. «Il sergente alla reception mi ha detto che lei voleva vedermi con urgenza, signore». «Abbiamo perso un altro bambino». I vetri dell'auto si appannavano troppo rapidamente; il riscaldamento e la ventola, entrambe al massimo, non riuscivano migliorare la visibilità. Il mondo restava nascosto dai veli di condensa che si formavano sul parabrezza e sui finestrini. L'ispettore Insch era seduto nel sedile del passeggero, masticava come al solito, mentre Logan continuava a ripulire piccole aree del parabrezza: attraversavano la città diretti a Hazlehead, dove si era verificata l'ultima scomparsa. «Sai una cosa, sergente? Da quando sei rientrato in servizio abbiamo avuto: due rapimenti, una bambina morta, un bambino morto e un cadavere pescato nella baia con le rotule tagliate via a colpi di machete. Il tutto in tre giorni. Questo è un record, anche per Aberdeen». Tirò fuori dalla busta una caramella morbida a forma di pesciolino. «Sto cominciando a pensare che sei un menagramo». «Grazie, signore». «Tutti questi reati stanno mandando le mie statistiche a gambe all'aria»,
continuò Insch. «Quasi tutti i miei agenti sono impegnati nella ricerca di bambini scomparsi o a cercare di scoprire l'identità della bambina della discarica. Come posso risolvere tutti i casi di furto, le frodi e gli oltraggi al pudore se non ho più agenti in divisa?». Sospirò e offrì la busta a Logan. «No grazie, signore». «Credimi... i gradi hanno meno vantaggi di quanto si creda». Logan guardò l'ispettore. Per quanto ne sapesse, Insch non era un uomo che si autocommiserava. «Sarebbe a dire... come la supervisione dei subalterni, vero?». Un sorriso illuminò il faccione di Insch. «Ti è piaciuta la collezione di Roadkill?». Quindi lo sapeva. Sapeva che i capannoni erano pieni di carcasse in putrefazione. Lo aveva mandato lì apposta. «Non ho mai vomitato tanto in vita mia». «Come sta l'agente Jacobs?». Logan stava per chiedergli chi fosse l'agente Jacobs, ma si rese conto che l'ispettore parlava di Steve, lo spogliarellista ubriaco. «Non credo che riuscirà a dimenticare quello che gli è successo stamattina». Insch annuì. «Bene». Logan aspettava che l'ispettore aggiungesse qualcosa a quel breve commento: ma Insch si mise in bocca un'altra caramella e sorrise malignamente a se stesso. Hazlehead era alla periferia della città, a un tiro di schioppo dall'aperta campagna, dalla quale la Hazlehead Academy era separata solo dal crematorio. L'Academy aveva una pessima reputazione, per la violenza dei suoi alunni e per le sostanze stupefacenti che vi circolavano quasi liberamente. Ma la sua reputazione era decisamente migliore di quella di due altre scuole della zona, Powis e Sandilands; tutto sommato avrebbe potuto esser peggio. Logan fermò l'auto davanti a un palazzo, nei pressi della strada maestra. Non era alto come quelli in città, aveva appena sette piani, ed era circondato da alberi dall'aspetto spettrale. Quest'anno le foglie erano cadute tardi, rendendo scivolosi i marciapiedi e bloccando i tombini di scarico, causando la formazione di pantani agli orli della strada. «Hai un ombrello?», chiese Insch, dando un'occhiata alla pioggia. Logan ammise che ne aveva uno nel bagagliaio. L'ispettore lo fece uscire nella pioggia e glielo fece prendere. Uscì dall'auto solo quando Logan si fu mes-
so con l'ombrello aperto vicino alla portiera. «Questo è quel che io definisco un servizio coi fiocchi», ghignò Insch uscendo dall'auto. «Su, andiamo a parlare con la famiglia». Mr e Mrs Lumley occupavano un appartamento in uno degli angoli del palazzo. Con gran sorpresa di Logan gli ascensori non puzzavano di urina e non erano ricoperti di graffiti sgrammaticati. La porta dell'ascensore si aprì al piano su un corridoio ben illuminato, nel quale incontrarono un agente in divisa appoggiato alla parete e intento a pulirsi il naso. Appena vide l'ispettore si tirò su e salutò «Signore!», interrompendo la sua toilette nasale. «Da quanto tempo sei qui?», gli chiese Insch, dando un'occhiata alla porta dell'appartamento dei Lumley. «Da venti minuti, signore». C'era una piccola stazione di polizia a circa duecento metri dal palazzo. Poco più di due stanze, ma serviva allo scopo. «C'è qualcuno che sta andando porta a porta?». L'agente annuì. «Tre agenti, signore, dei quali uno donna. Un'autopattuglia è in giro a trasmettere una descrizione tramite l'altoparlante». «Quando è scomparso?». L'agente estrasse il suo blocchetto d'appunti e lo aprì alla pagina giusta. «La madre ha telefonato alle 10,13; il bambino stava giocando fuori...». «Con questo tempo?», lo interruppe Logan. «La madre dice che gli piace la pioggia. Si veste come Paddington Bear». «E va bene...», commentò Insch. «Ce n'è per tutti i gusti. Amici?» «Tutti a scuola». «Meno male che qualcuno ancora ci va. Avete telefonato alla scuola, in caso il bambino abbia deciso di andare a imparare qualcosa?» «Sì, signore. Abbiamo chiamato la scuola subito dopo aver chiamato i suoi amici. Non va a scuola da quasi dieci giorni». «Fantastico!», commentò Insch sospirando. «Va bene, fatti in là; andiamo a parlare con i genitori». L'interno dell'appartamento era dipinto in colori vivissimi, come la casa dove David Reid abitava prima che fosse rapito, strangolato, violentato e mutilato. C'erano fotografie sulle pareti, come in casa di Richard Erskine; un bambino di circa cinque anni, dall'aspetto trasandato, capelli rossi e un viso pieno di lentiggini. «Quella foto è stata fatta due mesi fa, alla festa del suo compleanno». Logan si girò. La donna che aveva parlato stava sulla soglia del soggior-
no ed era semplicemente uno schianto. Lunghi capelli rossi e ricci le cadevano sulle spalle, un piccolo nasino e grandi occhi verdi. Aveva pianto. Mentre li faceva entrare nel soggiorno, Logan si sforzò di non guardarle il seno prosperoso. «Lo avete trovato?», chiese un uomo dall'aspetto dimesso, con addosso una tuta blu e senza scarpe. «Dagli tempo, Jim, sono appena arrivati!», disse la donna, toccandogli un braccio. «Lei è il padre?», chiese Insch, appoggiandosi al bracciolo di un divano blu elettrico. «Patrigno», rispose l'uomo. «Suo padre era un bastardo». «Jim!». «Scusate. Suo padre e io non andiamo d'accordo». Logan cominciò a dare un'occhiata nel brioso soggiorno. Fingeva di guardare attentamente le foto sulle pareti, ma teneva d'occhio Jim il patrigno. Non sarebbe stata la prima volta che un figliastro era finito con l'esser vittima del nuovo uomo di sua mamma. Certi uomini si affezionavano ai figli della loro nuova compagna, e finivano con amarli come se fossero stati figli loro; altri invece li consideravano soltanto qualcosa che ricordava loro che non erano i primi. Che qualcun altro aveva scopato la donna che amavano. La gelosia è una cosa tremenda. Specialmente quando viene sfogata su un bambino di cinque anni. È vero che le foto sulle pareti davano l'impressione che loro tre stessero bene insieme e che fossero felici; ma è altrettanto vero che i bastardi che maltrattano i bambini non mettono le foto dei lividi, bruciature di sigaretta e ossa rotte in cornice sulle pareti del soggiorno. Logan fu particolarmente attratto da una foto fatta su una spiaggia dove faceva molto caldo, nella quale tutti erano in costume. Il fisico della madre era roba da lasciarti senza fiato, specialmente in un bikini verde bottiglia, nonostante la cicatrice che indicava un cesareo. «Corfù», spiegò Mrs Lumley. «Ogni anno Jim ci porta in qualche bel posto. L'anno scorso Corfù, quest'anno Malta. L'anno prossimo porteremo Peter in Florida a vedere Topolino...», si morse il labbro inferiore. «A Peter piace tanto Topolino... lui vuole... Oh, Gesù, per favore trovatelo!». E così dicendo si buttò tra le braccia del marito. Insch diede a Logan un'occhiata piena d'intesa. Logan annuì. «Mrs Lumley... e se io andassi a fare una bella tazza di tè per tutti noi? Mr Lumley per favore, vuol farmi vedere dove sono le tazze e tutte le altre cose?».
Mezz'ora dopo Insch e Logan erano all'ingresso del palazzo, a fissare la pioggia. «Cosa ne pensi?», chiese Insch tirando fuori la bustina di caramelline effervescenti. «Parliamo del patrigno?». Insch annuì. «Sembra sinceramente attaccato al bambino. Avrebbe dovuto sentire come continuava a dirmi che Peter avrebbe giocato per l'Aberdeen Football Club da grande! Non lo vedo come il patrigno maligno e cattivo». L'ispettore annuì di nuovo. Mentre Logan era in cucina a preparare il tè, lui aveva interrogato la madre, molto gentilmente. «Neanche io. Il bambino non è stato vittima di nessun "incidente" in casa, misteriose malattie o visite del medico». «Come mai non era a scuola oggi?» «Prepotenze. Un grassone lo maltratta solo perché ha i capelli rossi. La madre ha deciso di tenerlo in casa fino a quando la scuola prenderà provvedimenti nei confronti del prepotente. Ma non lo ha detto al marito. Ha paura che Jim faccia qualcosa di grave se venisse a sapere che qualcuno maltratta Peter». Insch si mise un'altra caramella in bocca e sospirò. «Due bambini scomparsi in due giorni», disse senza neanche cercare di nascondere la tristezza nella sua voce. «Cristo, spero vivamente che sia solo scappato di casa. Non voglio vedere un altro bambino all'obitorio». Sospirò di nuovo, e quasi sembrava che si stesse sgonfiando. «Li troveremo, signore», disse Logan con una certezza che veramente non sentiva. «Sì, li troveremo», rispose l'ispettore. Uscì dall'ingresso del palazzo e si avviò verso l'auto, senza aspettare che Logan aprisse l'ombrello. «Li troveremo, ma saranno morti». CAPITOLO 12 Logan e Insch rientrarono alla Centrale in silenzio. Il cielo era sempre più cupo, con nubi temporalesche che lo riempivano da un orizzonte all'altro, offuscando la luce del giorno e creando il buio alle due del pomeriggio. Le lampade al sodio dei lampioni cominciavano ad accendersi, e la loro luce gialla rendeva il pomeriggio ancor più buio. Insch aveva ragione: i bambini non sarebbero stati trovati vivi. Special-
mente se erano stati rapiti dalla stessa persona. Infatti Isobel aveva confermato che la violenza sessuale era avvenuta dopo la morte. Logan guidava lungo Anderson Drive come se avesse inserito il pilota automatico. Si consolò pensando che almeno Peter Lumley aveva conosciuto un po' del mondo: il povero Richard Erskine non aveva conosciuto altro che una madre iperprotettiva. Proprio non riusciva a immaginare Elisabeth Erskine con Richard a Corfù e a Malta e in Florida. Troppo pericoloso per il suo piccolo tesoro. Peter era fortunatissimo ad avere un patrigno che si prendeva così tanta cura di lui. «Sei stato interrogato dalla Santa Inquisizione?», gli chiese Insch mentre giravano alla rotonda in fondo a Queen Street. Al centro della rotonda c'era un'enorme statua della regina Vittoria seduta, su un gran basamento di granito. Qualcuno le aveva messo in testa un cono di plastica della segnaletica stradale. «Standard Professionali? No, non ancora». Logan fece una smorfia, pensando alla scocciatura dell'inevitabile incontro. Insch sospirò. «Sono stato interrogato stamattina. Una testa di cazzo dall'uniforme nuovissima, che non avrà mai fatto niente di poliziesco in vita sua, che viene a dire a me quanto sia importante scoprire chi ha passato l'informazione alla stampa. Come se non fossi in grado di capirlo da solo e avessi bisogno di lui che viene da fuori per dirmelo. Ma se prendo 'sto figlio di buona donna, gli...». Un furgone Ford tagliò loro la strada, costringendo Logan a una frenata d'emergenza e a un paio di parolacce. «Fermalo!», gridò Insch con gioia. Dare una strigliata a qualcuno li avrebbe fatti sentire meno depressi. Diedero alla donna alla guida del furgone una buona strapazzata, ordinandole di presentarsi la mattina dopo alle nove con tutti i suoi documenti. Non era granché, ma era qualcosa. Alla Centrale la sala riunioni era in trambusto. I telefoni suonavano in continuazione, dopo che la notizia era stata data da Northsound Radio e dal telegiornale dell'ora di pranzo. La storia era su tutte le reti TV e radio; Aberdeen era diventata il centro dell'attenzione di tutti i mass media. L'intera forza di polizia era sotto i riflettori. E se Insch non avesse risolto il caso alla svelta gli avrebbero dato la sua stessa testa per farlo giocare. Cominciarono col controllare gli avvistamenti dei due bambini scomparsi. Andavano investigati tutti, anche se la maggior parte non erano altro
che falsi allarmi. Ma non si sa mai. Uno specialista in Data Processing della polizia era impegnato nel raccogliere i dati di tutti gli avvistamenti e tutti gli interrogatori, luogo, ora e data inserendoli in HOLMES1, avviando il programma di controlli incrociati che sfornava pagine e pagine di richieste d'indagine generate automaticamente. Era una rottura di palle; ma c'era sempre la possibilità che saltasse fuori qualcosa. Dentro di sé, Logan sapeva che il tutto era una gran perdita di tempo, perché Peter Lumley era già morto. Non importa quante ben intenzionate vecchiette telefonassero per dire che lo avevano visto per le strade di Peterhead o di Stonehaven. Il bambino giaceva morto in qualche fossato, seminudo e violentato. Una funzionaria amministrativa della polizia, donna molto intelligente e molto magra, consegnò a Insch le ultime istruzioni che HOLMES aveva generato mentre lui e Logan erano fuori. L'ispettore le prese e cominciò a esaminarle rapidamente. «Questa è merda, e questa e quest'altra e questa ancora», continuò a dire buttando alle sue spalle quelle che non gli servivano. Il guaio era che ogni volta che HOLMES leggeva il nome di una persona in una dichiarazione o in un rapporto, immediatamente dava istruzioni per far interrogare quella persona. Se, nel corso di controlli porta a porta, una vecchietta avesse detto a un agente che al momento della sparizione del bambino stava dando da mangiare a Mr Tibbles (il suo gatto), HOLMES automaticamente chiedeva che Mr Tibbles fosse interrogato. «Questa no e questa nemmeno». Un altro paio di fogli volarono a terra. Quando finì di scartarli, ne era rimasta solo una manciata. Le consegnò alla donna ordinandole di avviarle subito. Lei lo salutò e se ne andò. Insch scrutò attentamente Logan. «Sai una cosa, sergente? Dal tuo aspetto direi che stai peggio di me». «Non ho niente da fare qui, signore». Insch appoggiò il sedere all'orlo della scrivania e cominciò a sfogliare una pila di rapporti. «Allora ecco come potrai renderti utile», disse passando i rapporti a Logan. «Quello stronzo di Norman Chalmers apparirà in corte oggi pomeriggio. Questi sono i risultati di indagini porta a porta fatte a Rosemount stamattina. Esaminali e cerca di scoprire chi era quella povera bambina, prima che quel bastardo venga rilasciato in libertà provvisoria su cauzione». Logan requisì una stanza vuota il più lontano possibile dal rumore e dal caos del centro investigazioni. Vide subito che i ragazzi in divisa avevano
svolto accuratamente il loro incarico; gli orari dei rapporti indicavano che avevano visitato qualche indirizzo più di una volta, per esser certi di aver parlato con tutti i residenti di Rosemount. Nessuno sapeva chi fosse la bambina. Nessuno l'aveva riconosciuta dalla fotografia fatta all'obitorio. Sembrava che la povera piccola non fosse mai esistita, fino a quando la sua gamba non era stata vista in un sacco di pattume alla discarica comunale. Logan andò all'ufficio cancelleria, si fece dare una cartina stradale di Aberdeen e l'attaccò alla parete del suo ufficio. Una di queste cartine era già stata affissa alla parete del centro investigazioni ed era già ricoperta di spilli con testine colorate, linee e piccole etichette autoadesive. Ma Logan ne voleva una tutta per sé. Inserì due spilli, uno alla discarica e l'altro all'indirizzo di Norman Chalmers in Rosemount: 17, Wallhill Crescent. Il sacco di plastica nel quale era stato trovato il cadavere della bambina proveniva dall'appartamento di Norman Chalmers: non c'era alcun dubbio. Ma, a parte l'immondizia, non c'era alcuna prova che lo collegasse alla vittima. Forse sarebbe potuto bastare per portare il caso davanti al giudice e alla giuria, ma un buon avvocato difensore - e Sandy Moir-Farquharson non era soltanto un buon avvocato; lo stronzetto era brillante - avrebbe ridotto i capi d'accusa a brandelli. «Bene», disse. Si appoggiò alla scrivania, a braccia conserte e studiò attentamente la cartina. C'era qualcosa che non quadrava col sacco dell'immondizia. Quando erano entrati nell'appartamento di Norman Chalmers per arrestarlo e si era seduto sul divano, si era accorto, ahimè troppo tardi, che il divano, come il resto dell'appartamento, era pieno di peli di gatto. Quella sera, mentre erano nel pub, aveva perso un sacco di tempo a ripulirsi il vestito, ma la giacca ne mostrava ancora le tracce. Se la bambina fosse stata nell'appartamento, Isobel avrebbe trovato tracce di peli di gatto durante l'autopsia. Quindi la bambina non era mai stata nell'appartamento di Chalmers. Di questo erano certi. E per questo Insch aveva voluto esaminare al microscopio la vita privata di Norman Chalmers, per vedere se c'era qualche altro posto dove avrebbe potuto portarla. Ma indagini condotte in questa direzione non avevano dato alcun risultato positivo. Se Norman Chalmers disponeva di un altro posto dove portare una bambina di quattro anni, non lo sapeva nessuno. «E se non fosse stato lui?», si chiese ad alta voce. «Se non fosse stato chi?», chiese una voce dalla soglia.
Era l'agente Wats... Jackie. «E se non fosse stato Norman a ucciderla?». Il volto di Watson s'indurì. «L'ha uccisa lui». Logan sospirò e si scostò dalla scrivania. Avrebbe dovuto immaginare che Watson non avrebbe accettato questa possibilità. Non aveva smesso di sperare che la ricevuta del supermercato fosse l'indizio chiave che avrebbe risolto il caso. «Esaminiamo quest'altra opzione: se non è stato Chalmers a ucciderla, è stato qualcun altro, giusto?». Watson alzò gli occhi al cielo, esasperata. Logan continuò. «Quindi, se è stato qualcun altro, deve essere stato qualcuno con accesso all'immondizia di Norman Chalmers». «Ma non dica eresie! Chi mai vorrebbe mettere le mani nel suo pattume?». Logan punto un dito alla cartina sulla parete. «Rosemount ha queste enormi pattumiere comunali in strada, nelle quali chiunque può mettere immondizia. Se l'assassino non è Chalmers, il corpo della bambina può essere stato messo nel suo sacco nero in uno solo di questi due posti: qui», indicò l'indirizzo di Chalmers, «oppure qui, alla discarica di Nigg. Ma uno che intende nascondere un cadavere alla discarica, non lo lascia con una gamba fuori dal sacco. A quale scopo?». Logan si picchiettò i denti con la biro. «Quindi il cadavere non è stato lasciato alla discarica. C'è arrivato sul camion della nettezza urbana ed è stato scaricato con la raccolta settimanale delle immondizie della zona. Il che vuol dire che è stato messo nel sacco quando questo era ancora nella pattumiera stradale». L'agente Watson non era ancora convinta. «L'appartamento di Chalmers mi pare ancora la soluzione più logica. Se non è stato lui a ucciderla, come mai la bambina si trova nel suo sacco dell'immondizia, insieme al resto del suo pattume?». Logan fece spallucce. Quello era il nocciolo della questione. «Perché mettiamo cose in sacchi?», chiese. «Per trasportarle più comodamente. Oppure per nasconderle più facilmente. Oppure...». Si girò verso la scrivania e cominciò a scartabellare tra le dichiarazioni ricevute dagli investigatori porta a porta. «Uno non si porta il cadavere di una bambina in macchina cercando una pattumiera nella quale buttarla», continuò mettendo tutte le dichiarazione in ordine progressivo, secondo il loro numero civico di Wallhill Crescent. «Se uno ha la macchina, se lo porta su per Garlogoie o dalle parti di New Deer, scava un fosso e ce lo mette dentro. Sono posti i-
solati, fuori mano. Passeranno anni, prima che qualcuno lo trovi. Se verrà mai trovato». «Allora... forse l'assassino si è lasciato prendere dal panico?». Logan annuì. «Esattamente. Sei preso dal panico e cerchi di liberarti del cadavere nel primo posto che trovi. E non vai guidando in giro in cerca di una pattumiera nella quale buttarlo. E c'è un'altra cosa strana. Era avvolta in nastro adesivo da imballaggio. Una piccola bambina, nuda, avvolta in adesivo da imballaggio? Non andrai molto lontano portandola in braccio o in spalla, non ti pare? Chiunque abbia scaricato il cadavere abita più vicino a questa pattumiera che a ogni altra nella strada». Divise il mucchietto di dichiarazioni in due; quelle rilasciate dagli inquilini dei numeri civici dal quindici al diciannove e le altre. Avevano quindi trenta appartamenti da investigare. «Mi faresti un favore?», chiese copiando i nomi degli occupanti dei trenta appartamenti. «Vai con questi nomi allo schedario criminale. Voglio sapere se qualcuno di questi è schedato. Anche se è solo per una violazione di sosta vietata. Qualsiasi cosa». L'agente Watson gli disse che era una totale perdita di tempo e che secondo lei Norman Chalmers era colpevole come il peccato. Ma prese la lista che Logan le diede e andò a controllare. Uscita lei, Logan andò a prendersi una tavoletta di cioccolato e un caffellatte dal distributore automatico, mangiucchiando mentre rileggeva tutte le dichiarazioni. Era convinto che qualcuno degli interrogati stesse mentendo. Era convinto che qualcuno sapesse chi era la bambina. Ed era altresì convinto che quel qualcuno fosse l'assassino, quello che aveva tentato di farne a pezzi il corpo e che aveva finito col buttarla via con l'immondizia. Chi? Ogni anno, oltre tremila persone sparivano nel nord-est della Scozia. Tremila denunce di Chi l'ha visto? ogni dodici mesi. E intanto qui c'era una bambina di quattro anni; sparita, secondo i risultati dell'autopsia, da almeno due giorni. E nessuno si era fatto avanti a denunciarne la scomparsa. Perché? Forse perché non c'era nessuno ad accorgersi della sua mancanza? Il suo cellulare trillò e interruppe il suo fantasticare. Schiacciò il pulsante e disse: «McRae». Era il sergente alla reception. Lo informava che all'ingresso qualcuno lo stava cercando.
Logan guardò i rapporti non ancora esaminati e bestemmiò sottovoce. «Va bene», rispose. «Sarò giù tra due minuti». Lasciò cadere il bicchiere di plastica e la stagnola della cioccolata nel cestino e scese alla reception. Qualcuno aveva alzato troppo il riscaldamento col risultato che con la pioggia torrenziale di fuori, tutte le finestre si erano appannate. Logan si avvicinò al banco, dove il sergente gli indicò un uomo nell'angolo. Era Colin Miller. Il giornalista di Glasgow, gioiello del «Press and Journal», stava esaminando gli avvisi di "Ricercato". Indossava un elegante impermeabile che gocciolava sulle mattonelle dell'ingresso: era intento a digitare i particolari dei manifestini in un piccolo notes elettronico. Miller lo sentì avvicinarsi e si girò. «Laz!» esclamò, stendendo la destra. «Piacere di rivederla! Mi piace come avete ridisegnato l'ingresso». Fece un cenno con la mano, indicando l'affollato ingresso con le finestre appannate. «Mi chiamo sergente del CID McRae. Non "Laz"». «Sì, lo so», rispose Miller strizzando l'occhio. «Ho fatto qualche ricerca, dopo il nostro incontro di ieri nel cesso del giornale. A proposito; quella poliziotta che era con lei è un bel bocconcino. Quella lì può "mettermi sotto" quando vuole... non so se mi spiego... eh, sergente?», facendogli di nuovo l'occhiolino. «Cosa vuole, Mr Miller?» «Io? Voglio semplicemente portarla a pranzo». «Sono le tre», disse Logan, ricordando che a parte una tavoletta di cioccolato, non aveva mangiato niente dopo il bacon sandwich dell'agente Watson. E lo aveva lasciato sull'erba, a casa di Roadkill. Moriva dalla fame. Miller strinse le spalle. «E allora?». Diede un'occhiata alla reception e abbassò la voce a un mormorio da cospiratore. «Potremmo aiutarci reciprocamente, sa? Si dà il caso che io abbia delle informazioni che potrebbero esserle utili». Si raddrizzò e sorrise. «Allora cosa dice? Ospite del giornale?». Logan ci stava pensando. Esistevano delle regole ben precise sull'accettazione di regali. La polizia moderna faceva grandi sforzi per evitare che qualcuno potesse accusarla di corruzione. E Colin Miller era l'ultima persona con la quale voleva passare del tempo. Ma aveva detto di avere delle informazioni. E Logan aveva fame... Accettò l'invito. «Prendo il cappotto». Trovarono un tavolo d'angolo in un piccolo ristorante nel Grassmarket.
Miller ordinò una bottiglia di Chardonnay e tagliatelle con merluzzo affumicato e peperoni, Logan invece preferì lasagne, bruschetta e un'insalata mista, accompagnando il tutto con acqua minerale. Appena seduti Logan prese del pane e del burro e cominciò a mangiare. «Cristo, Laz», disse Miller. «Non vi danno da mangiare, alla Centrale?» «Logan», disse Logan masticando. «Non "Laz". Logan». Miller reclinò nella sedia, sollevò il bicchiere e guardò i riflessi che la luce faceva nello Chardonnay. «Ma... come ho detto prima, ho chiesto in giro. Lazzaro è un bel soprannome per qualcuno che è ritornato dal regno dei morti». «Non sono tornato dal regno dei morti». «E invece a me risulta di sì. Stando alla sua cartella clinica, lei è stato "morto" per almeno cinque minuti». Logan si accigliò. «Come fa a sapere cosa c'è nella mia cartella clinica?». Miller fece spallucce. «Nel mio lavoro è comodo sapere, Laz. Per esempio, so che ieri avete trovato una bambina morta alla discarica di Nigg. E so che per questo reato avete già qualcuno sotto chiave. E so anche che lei e la dottoressa MacAlister facevate coppia». Logan s'irrigidì. Miller alzò una mano. «Calma, tigre! Come ho detto, "sapere cose" fa parte del mio lavoro». Il cameriere arrivò con i loro piatti e l'atmosfera si rasserenò alquanto. Logan non riusciva a essere arrabbiato e a mangiare nello stesso tempo. «Ha detto che aveva qualcosa per me», disse dopo una forchettata d'insalata. «Sì. Ieri avete ripescato nella baia il cadavere di un uomo al quale erano state tolte le rotule a colpi di machete». Logan studiò attentamente la forchettata di lasagne che stava per mettersi in bocca. La besciamella aveva la giusta consistenza; non troppo liquida e neanche troppo densa. «E allora?», chiese masticando. «E allora non sapete chi è. Mr Senzarotule». «E lei lo sa?». Miller mandò giù un sorso di Chardonnay. «Sì, lo so. Come ho detto, sapere cose fa parte del mio lavoro». Logan attese, ma Miller rimise giù il bicchiere e cominciò ad avvolgere tagliatelle sulla forchetta. «E allora, chi è?»
«Bene, sergente; come vede possiamo aiutarci reciprocamente. Lei sa delle cose che interessano me e io so delle cose che interessano lei. Lei dice a me le sue cose e io dico a lei le mie cose. E quando avremo finito la nostra reciproca confessione, saremo entrambi in grado di lavorare meglio». Logan posò la forchetta sul tavolo. Quando aveva accettato l'invito a pranzo sapeva che qualcosa del genere sarebbe successo. «Sa benissimo che non posso dirle niente». Spinse il piatto lontano da sé. «So che lei può dirmi molto di più di quello che dice al resto dei miei colleghi. So che lei mi può dare qualcosa di privilegiato. So che può farlo». «Ma io pensavo che lei avesse già qualcuno che le fornisse informazioni privilegiate». Ora che aveva smesso di mangiare Logan poteva concentrarsi sull'essere arrabbiato. Miller fece spallucce e avvolse un'altra forchettata di tagliatelle. «Sì, ma lei è in una posizione unica, Laz. Lei è proprio alla fonte. E prima di farsi venire un diavolo per capello, tenga semplicemente presente una cosa: questo è commercio. Questo è un baratto. Lei mi dà qualcosa, io le do qualcosa». Si mise in bocca le tagliatelle, masticò per qualche istante e continuò. «Quei bastardi dei suoi superiori avrebbero dovuto promuoverla ispettore, dopo aver preso quell'Angus Robertson. Quello stronzo uccide quindici donne e lei lo prende da solo? Merda, avrebbero dovuto darle una medaglia». Avvolse altre tagliatelle e striscioline di salmone. «Cosa le hanno dato, invece? Una manata sulla spalla. Ha ricevuto un encomio? Col cazzo!». Si chinò verso Logan, puntandogli la forchetta. «Ha mai pensato di scrivere un libro sul caso? Qualche casa editrice le darebbe un gran bell'acconto. Serial killer stupratore in giro per le strade della nostra città. L'assassino sembra imprendibile, è riuscito a evitare qualsiasi trappola che la polizia gli ha teso. E poi arriva Detective Sergeant Logan McRae! L'eroico sergente e il patologo ne scoprono l'identità, ma è McRae che lo affronta, da solo; lotta cruenta sul tetto di un palazzo, coltellate, sangue, ferite quasi mortali, arresto e condanna. L'assassino si prende trent'anni. Applausi e sipario». Mise in bocca la forchettata di tagliatelle che aveva avvolto. «Storia fantastica. Bisognerebbe muoversi alla svelta, il pubblico ha memoria corta. Ma io ho contatti, posso aiutarla. Merda, se lo merita!». Posò la forchetta sul piatto e tirò fuori dalla tasca della giacca un portafoglio. «Ecco qua», disse estraendone un biglietto da visita, in cartoncino
blu. «Lei chiami Phil e gli dica che la mando io. È il miglior agente editoriale sulla piazza di Londra. Le farà avere un contratto coi fiocchi da una casa editrice di prim'ordine. Glielo garantisco io». Mise il cartoncino sul tavolo tra loro due. «E a proposito, questo è gratis. Un gesto di buona fede». Logan lo ringraziò. Ma lasciò il cartoncino dov'era. «Quel che voglio sapere da lei», disse Miller riavvolgendo tagliatelle, «è come stanno andando le indagini su questi bambini. Il vostro fottutissimo ufficio stampa continua a darci le solite stronzate. Niente dettagli. Roba senza spessore». Logan annuì. Era una procedura standard. Se avessero dato ai mass media tutte le informazioni in loro possesso sull'andamento delle indagini, i giornali le avrebbero stampate e le televisioni avrebbero fatto delle ricostruzioni o ne avrebbero parlato ad nauseam in diretta. Col risultato che tutti gli squilibrati sotto il sole avrebbero cominciato a telefonare, dichiarando di essere il nuovo "Mostro di Mastrick" o qualsiasi altro soprannome la stampa avesse escogitato per l'uomo che rapiva, uccideva e mutilava bambini prima di violentarli. Se non avessero tenuto segrete certe cose non ci sarebbe stato modo di distinguere le telefonate attendibili da quelle fasulle. «Io so che il piccolo David Reid è stato strangolato», continuò Miller. Ma questo lo sapevano tutti. «E so anche che è stato violentato». E anche qui niente di segreto. «E so anche che lo stronzo psicopatico gli ha amputato il pisellino con una forbice». Logan si raddrizzò sulla sedia. «Come diavolo fa a sapere queste cose?». Miller fece di nuovo spallucce e mandò giù un altro sorso di Chardonnay. «Come le ho detto prima; sapere cose fa...». «...parte del suo lavoro», Logan completò la frase. «Sembra che lei non abbia alcun bisogno di me». «Ripeto; quel che voglio sapere da lei, è come procedono le investigazioni, Laz. Voglio sapere cosa state facendo per prendere questo stronzo». «Stiamo indagando in diverse direzioni». «Domenica un bambino morto, lunedì una bambina morta, e poi due bambini rapiti. Qui si parla di un serial killer a piede libero». «Non ci sono prove che dimostrino un nesso tra i casi». Miller reclinò nella sedia, sospirò e si versò un altro bicchiere di Chardonnay. «E va bene. Vedo che non si fida ancora di me e ben comprendo la sua reticenza. E allora, per dimostrarle la mia buona fede, le farò un fa-
vore. Quell'individuo senza le rotule che avete ripescato dalla baia, si chiamava George Stephenson, Geordie per i suoi amici». «Continui». «Era un picchiatore per Malk la Scure. Ne ha sentito parlare?». Logan ne aveva sentito parlare. Malk la Scure, al secolo Malcom McLennan. Un importatore di Edimburgo. Ma le merci importate da Mr McLennan non facevano parte dei legittimi traffici import-export, si trattava di armi, droga e prostitute lituane. Circa tre anni addietro aveva deciso di rientrare nella legalità, dedicandosi all'edilizia. La "Edil McLennan" aveva comprato enormi distese di terreno alla periferia di Edimburgo e le aveva riempite di casette unifamiliari. Recentemente aveva cominciato a fiutar l'aria nei pressi di Aberdeen, cercando di inserirsi in questa piazza dall'enorme potenziale e cercando di farlo prima che il mercato si svalorizzasse. Ma soprattutto facendo le scarpe ai costruttori del posto. Perché quando Malk la Scure si presentava su una piazza si faceva largo a gomitate. Era un uomo senza scrupoli e si comportava come tale, infrangendo continuamente le leggi che regolavano le operazioni del settore. E nessuno era mai riuscito a toccarlo con un dito. Non c'era riuscito il CID di Edimburgo, e neanche il CID di Aberdeen. Nessuno. «Allora», continuò Miller. «Sembra che Geordie fosse qui per fare in modo che Malkie ricevesse la licenza edilizia per il suo ultimo progetto: trecento case, in una striscia di verde tra qui e Kingswell. A colpi di bustarelle. Solo che a Geordie è capitato un incorruttibile funzionario dell'ufficio licenze edilizie». Miller si appoggiò allo schienale della sedia e annuì. «Sì, lo so... so cosa pensa. Ne rimasi sorpreso anch'io; un funzionario dell'ufficio licenze che non si lascia corrompere? Non credevo esistessero! Ma uno c'era, e per sua sfortuna è capitato a Geordie. Gli ha risposto "Vade retro, Satana!" e Geordie ha fatto proprio così». Alzò le mani e mimò una spinta. «Gli è andato dietro e il povero Cristo è stato "investito" dal bus 214 per Westhill. Splat!». Logan alzò un sopracciglio. Ricordava di aver letto da qualche parte la storia di un impiegato del comune che era stato investito da un bus, ma si era sempre parlato di un incidente. Adesso il povero diavolo era in rianimazione all'ospedale. I medici dubitavano che sarebbe riuscito a vedere Natale. Miller gli fece l'occhiolino. «Ma la storia diventa ancora più interessante», disse. «Corre voce che Geordie è un accanito scommettitore. Cavalli. Ha cominciato a fare delle grosse puntate con gli allibratori della zona,
spargendo soldi in giro come bruscolini. Ma non è molto fortunato. Ora gli allibratori di Aberdeen non saranno così... imprenditoriali, se vogliamo, come quelli giù al sud; ma non sono neanche Telly Tubbies. Quindi, poco tempo dopo, Geordie viene trovato a faccia in giù nella baia di Aberdeen, con le rotule tagliate via a colpi di machete». Miller mandò giù un sorso del suo Chardonnay e sorrise a Logan. «Allora; le ho dito delle buone informazioni o no?». Logan dovette ammettere che l'informazione valeva qualcosa. «Bene», disse Miller, mettendo i gomiti sul tavolo. «Adesso tocca a lei». Logan tornò a piedi alla Centrale, sentendosi come se qualcuno gli avesse messo in mano il biglietto vincente della lotteria nazionale. Aveva anche smesso di piovere, e riuscì a rientrare alla Centrale senza bagnarsi. Insch era al centro investigazioni, dava ordini e riceveva rapporti. Dall'aspetto generale dei presenti capì che le ricerche di Richard Erskine e di Peter Lumley non avevano dato risultati positivi. Il suo buon umore svanì, pensando a quei due poveri bambini, probabilmente morti. Non era i momento adatto per mostrarsi euforico. Riuscì ad afferrare l'ispettore e gli chiese chi stesse investigando sul caso di Mr Senzarotule «Perché?», chiese Insch, improvvisamente sospettoso. «Perché io ho qualche informazione sul caso». «Davvero?». Logan annuì e raccontò all'ispettore quello che Miller gli aveva detto a pranzo. Quando finì, Insch lo guardò attentamente. «Dove hai appreso queste informazioni?» «Da Colin Miller. Il giornalista del "Press and Journal". Quello che lei mi ha detto di non bistrattare». L'espressione di Insch divenne inscrutabile. «Io ti ho detto di non bistrattarlo. Non ti ho detto di andarci a letto insieme». «Cosa? Ma io non ho...». «Sergente: hai parlato altre volte con questo Colin Miller?» «Prima di ieri non lo avevo mai visto». Insch lo guardò, cupo in volto, adottando la sua routine. Aspettando che Logan si lasciasse sfuggire qualcosa di incriminante. «Guardi, signore», disse finalmente Logan, incapace di trattenersi. «È stato lui a venire da me. Se non mi crede, chieda pure alla reception. Mi ha detto che aveva qualcosa da dirmi che avrei trovato interessante».
«E...cosa gli ha dato in cambio?». Ci fu un'altra pausa, più pesante della prima. «Mi ha chiesto informazioni sulle indagini dei due bambini morti e dei due scomparsi». «E cosa gli hai detto?» «Gli ho detto che il rilascio di qualsiasi informazione avrebbe dovuto essere autorizzato da lei, signore». A questa risposta l'ispettore Insch sorrise. «Bravo giovanotto». Tirò fuori una busta di caramelle morbide e ne offrì una Logan. «Ma se mi accorgo che mi hai mentito, ti romperò in due». 1
HOLMES: Acronimo che ricorda il famoso investigatore e che sta per Home Office Large Major Enquiry System, Sistema centralizzato del Ministero dell'interno per grandi investigazioni (n.d.t.). CAPITOLO 13 Logan non si sentiva bene. Il pranzo offertogli da Miller gli era rimasto sullo stomaco. Sperava che Insch non si accorgesse che gli aveva mentito. Dopo che Miller gli aveva dato tutti i particolari su Mr Senzarotule si era sentito in obbligo e lo aveva aggiornato su come stavano andando le indagini sui bambini. Aveva agito in buona fede ed era convinto che stava facendo qualcosa di positivo; impostare un dialogo con un informatore ed entrare in buoni rapporti con la stampa locale. Ma Insch aveva reagito come se avesse venduto segreti al nemico. Logan gli aveva chiesto l'autorizzazione per dire a Miller ciò che gli aveva già detto; e Insch aveva acconsentito. Dio lo aiuti se l'ispettore avesse scoperto che lo scambio d'informazioni era avvenuto prima che lui lo avesse autorizzato. E Logan sperava che neanche l'ispettore del servizio Standard Professionali, davanti al quale si trovava, venisse a scoprire come erano andate le cose, cronologicamente. L'ispettore, in una divisa immacolata, con tutte le pieghe come da regolamento e i bottoni lucidissimi, lo stava interrogando in una saletta d'interrogatorio. Ispettore Napier: calvizie incipiente e un naso come un apribottiglie. Gli fece un sacco di domande sul suo ritorno al servizio, le sue capacità di recupero, la notorietà che aveva fatto seguito all'arresto di Angus Robertson e il suo pranzo con Colin Miller. Sorridendo e con fare sincero, Logan mentì spudoratamente. Dopo una mezz'oretta era tornato nel suo piccolo ufficio, guardando la
cartina sulla parete e massaggiandosi il petto, cercando di calmare il brucior di stomaco. E cercando di non pensare a un probabile licenziamento. Aveva ancora in tasca il biglietto da visita che Miller gli aveva dato. Forse Colin aveva ragione. Forse si meritava più di quanto aveva ricevuto. Forse avrebbe potuto scrivere un libro sul caso Robertson: «La cattura del "Mostro di Mastrick"». Non suonava neanche male... Mentre lui era a pranzo l'agente Watson gli aveva portato quel che le aveva chiesto, le fedine penali di tutti coloro che erano sulla lista. Logan le esaminò e rimase molto deluso: nessuno di loro aveva mai rapito, ucciso e infilato una bambina in un sacco di plastica. Ma Watson aveva fatto un'indagine accurata e precisa. Tutti quelli sulla lista erano stati suddivisi per età, con numero di telefono, luogo di nascita, numero di previdenza sociale, occupazione, indicando anche da quanto tempo abitavano all'attuale indirizzo. Non riusciva a immaginare come avesse fatto a ottenere tutti questi dati. Peccato che non servissero a niente. Rosemount era sempre stato un crogiolo di diverse culture, e questo era evidenziato dai luoghi di nascita delle persone sulla lista: Edimburgo, Glasgow, Aberdeen, Inverness, Newcastle... c'era persino una coppia che veniva dall'isola di Man. Roba esotica. Sospirando, ricominciò a leggere le dichiarazioni ottenute dagli investigatori porta a porta, in particolare quelle di quei residenti della strada che avrebbero usato le stesse pattumiere comunali usate dagli inquilini del numero civico diciassette. Leggeva una dichiarazione e leggeva i relativi dati anagrafici forniti dall'agente Watson, cercando di farsi un'immagine della persona interrogata. Non era facile: quando qualcuno rilasciava una dichiarazione a un agente in divisa, questa veniva trascritta nella forma prevista dal regolamento, un linguaggio che lui definiva "investighese" e che era lontanissimo da come parlava veramente la gente. Questo sì che era esotico. «Mi accingevo a recarmi al mio posto di lavoro», lesse ad alta voce, «avendo precedentemente rimosso dalla mia cucina un sacco contenente un assortimento di rifiuti vari e depositato lo stesso nell'apposito contenitore condominiale davanti al mio portone d'ingresso...». Chi diavolo vuoi che parli così? La gente normale "va a lavorare"; "accingere a recarsi al posto di lavoro" era qualcosa che forse solo i poliziotti in divisa facevano. Riguardò la prima pagina della dichiarazione per vedere chi era stato così maltrattato in dialettica. Il nome era vagamente familiare: un inquilino del numero diciassette. Anderson... Logan sorrise ricordandolo. Era l'uomo
il cui campanello avevano suonato, per poter entrare senza che Norman Chalmers lo sapesse. Quello che l'agente Watson aveva sospettato di avere qualcosa da nascondere. Secondo le informazioni supplementari che Watson aveva raccolto, Mr Cameron Anderson aveva venticinque anni, più o meno, e veniva da Edimburgo, il che spiegava perché si chiamasse Cameron. Lavorava per un'azienda di ingegneria, che costruiva veicoli con comando a distanza per l'industria petrolifera. Chissà perché, ma Logan riusciva a immaginare il nervoso Mr Anderson che giocava con piccoli sottomarini comandati a distanza. Il prossimo nome sulla lista non offriva granché a livello d'indizi e neanche quello seguente. Ma li esaminò tutti, attentamente. Se il nome dell'assassino fosse stato tra questi nomi non sarebbe di certo saltato fuori da solo. Alla fine Logan mise l'ultima dichiarazione in cima alle altre e si stiracchiò, facendo uno sbadiglio che sembrò aprirgli la faccia in due, ma che si concluse con un ruttino, appena udibile. Erano le 18,45 e aveva passato gran parte della giornata su queste dichiarazioni; era ora di andare a casa. Nel corridoio lo stabile era quieto e silenzioso. Quasi tutto il lavoro amministrativo veniva fatto durante il giorno e quando il personale amministrativo andava a casa, il silenzio era quasi palpabile. Logan passò dal centro investigazioni per vedere se c'erano novità. Nel centro c'erano quattro agenti in divisa: due che rispondevano al telefono e gli altri due intenti ad archiviare i rapporti generati dal turno precedente. Non fu sorpreso nell'apprendere che le indagini avevano avuto lo stesso successo che aveva avuto lui. Zero. Nessuna traccia di Richard Erskine, nessuna traccia di Peter Lumley e nessuno si era fatto avanti per identificare la bambina che giaceva in un frigorifero giù nell'obitorio. «Lazzaro, sei ancora qui?». Logan si girò e si trovò davanti Big Gary, con due tazzoni di tè in una mano e un pacchetto di biscotti nell'altra. L'omone fece un cenno con la testa verso gli ascensori. «C'è qualcuno nell'ingresso che vuole parlare con il responsabile delle indagini sui bambini scomparsi. Credevo che foste andati via tutti». «Chi è?», chiese Logan. «Dice di essere il patrigno di uno dei bambini scomparsi». Logan non riuscì a controllare un mugugno. Non perché non volesse ve-
dere il poveraccio; ma perché voleva cercare l'agente Watson e scoprire se avessero fatto l'amore la sera prima. E se sì... le andava il bis? «Va bene, vengo giù a parlargli». Il patrigno di Peter Lumley andava avanti e indietro nell'ingresso. Si era tolto la tuta e aveva un vecchio paio di jeans e una giacca lisa che non lo avrebbe protetto da uno starnuto, figurarsi da una bufera. «Mr Lumley?». L'uomo si girò di scatto. «Perché hanno smesso di cercarlo?». Era pallido in viso; il suo pallore era accentuato dalla barba di un paio di giorni. «Peter è ancora lì fuori! Perché hanno smesso di cercarlo?». Logan lo portò in una delle salette adiacenti l'ingresso. Lumley era bagnato e rabbrividiva. «Perché hanno smesso di cercarlo?», continuava a ripetere. «Lo hanno cercato tutto il giorno, Mr Lumley. E adesso c'è troppo buio perché si possa vedere qualcosa... perché non va a casa?». Lumley scosse la testa, facendosi cadere piccole goccioline di pioggia dai capelli. «Devo trovarlo! Ha solo cinque anni!». Si lasciò andare lentamente in una delle sedie di plastica gialla. Il cellulare di Logan squillò; lo tirò fuori, lo spense e se lo rimise in tasca, senza neanche controllare chi stesse chiamando. «Mi scusi. Come sta la madre?» «Sheila?». Un leggero sorriso gli increspò brevemente le labbra. «Il dottore le ha dato qualcosa. Peter è il mondo per lei». Logan annuì. «Mi rendo conto che probabilmente lei non vorrà pensare a questo aspetto della situazione», disse scegliendo con cura le parole. «Ma il padre di Peter... sa che suo figlio è scomparso?». La faccia di Lumley si rabbuiò. «Quello stronzo? Cha vada al diavolo!». «Mr Lumley, il padre del bambino ha il diritto di sapere...». «Diritto? Quello stronzo?». Si passò una mano sul viso, sconvolto. «Sa cosa ha fatto quello stronzo? È scappato giù nel Surrey con una puttanella dal suo ufficio e ha lasciato Sheila e Peter senza l'ombra di un soldo! Diritto? Glielo darei io il diritto a quel pezzo di merda! Sa cosa manda a Peter per il suo compleanno? Niente! Neanche una cartolina di auguri! Ecco cosa gli manda! Niente! Perché quello è il bene che gli vuole! Brutto stronzo pezzo di merda...». «Va bene, lasciamo perdere il padre, mi dispiace». Si alzò. «Guardi, faremo in modo che tutte le autopattuglie tengano gli occhi aperti per Peter.
Per stasera lei non può fare altro. Vada a casa, si riposi. Alle prime luci di domattina riprenderemo le ricerche». Il patrigno di Peter Lumley si prese la testa tra le mani. «Mi ascolti, vada a casa», gli ripeté Logan dolcemente. Mise una mano sulla spalla dell'uomo e sentì che i brividi erano diventati singhiozzi; singhiozzava in silenzio. «Andiamo, su... l'accompagno a casa». Logan firmò per un'altra auto del parco macchine del CID, un'altra Vauxall, malridotta e sporca. Mr Lumley non aprì bocca per l'intera durata del viaggio, da Queen Street a Hazlehead. Rimase seduto al posto del passeggero, guardando dal finestrino, cercando un bambino di cinque anni. Anche l'uomo più cinico al mondo, con un cuore di pietra, non avrebbe potuto fare a meno di notare quanto quest'uomo amasse il suo figliastro. Logan si chiese se il padre di Richard Erskine fosse anche lui fuori al buio e nel maltempo a cercare suo figlio. Ma poi ricordò che il povero diavolo era morto prima della nascita del figlio. Aggrottò la fronte, mentre prendeva la rotonda dalla quale si accedeva a Hazlehead. Qualcosa lo turbava; qualcosa non quadrava. Ripensandoci, capì cosa lo preoccupava: in tutto il tempo che erano stati a casa di Richard Erskine, nessuno aveva mai parlato del padre del bambino. Tutte le foto sulle pareti erano del bambino scomparso e delle sua iperprotettiva madre. Sarebbe stato legittimo supporre che avrebbe potuto esserci almeno una foto del caro scomparso papà. Logan non ne conosceva neanche il nome. Logan fece scendere Mr Lumley davanti al suo palazzo. Non se la sentì di dire «non si preoccupi, Mr Lumley; troveremo Peter sano e salvo» quando era certo al cento per cento che il bambino era già morto. Quindi tacque, limitandosi a fare qualche vago gesto rassicurante e tornò indietro. Appena poté, tirò fuori il cellulare, lo riaccese e chiamò il centro investigazioni. Rispose una poliziotta che gli sembrò alquanto agitata. «Sì?» «Sono il sergente McRae», rispose Logan, dirigendosi verso il centro. «Novità?». Ci fu una pausa e poi: «Mi dispiace, signore, ma quegli stronzi dei mass media stanno telefonando in continuazione. Mi hanno chiamato tutti: la BBC, l'ITV, Northsound, i giornali...». A Logan non piacque come stavano andando le cose. «Perché mai?», chiese. «Quello stronzo di Sandy Serpente ha parlato a ruota libera con chiun-
que avesse un microfono in mano. Ha cominciato col dire che siamo degli incompetenti e che stiamo cercando di appioppare tutti gli omicidi al suo cliente perché non abbiamo la più pallida idea di come condurre le indagini. Dice che questo è un altro caso alla Judith Corbert». Logan sospirò. Ne avevano trovato solo l'anulare sinistro, con la fede nuziale e in tribunale Mr Sandy Moir-Farquharson aveva ridotto a brandelli i capi d'accusa del procuratore. Il marito l'aveva fatta franca, ma tutti sapevano che era stato lui a farla fuori. Sandy lo Scivoloso si era beccato un mega-assegno, era andato su tre talk-show in diretta e su una puntata del programma della BBC Crime Special. Non solo, ma tre abilissimi poliziotti erano stati dati in pasto ai giornalisti. Roba di sette anni fa; ma Sandy Serpente continuava a esumare quel caso e a sbatterlo in faccia alla polizia a ogni occasione. Logan svoltò in Anderson Drive, andando verso Torry. Dov'era scomparso Richard Erskine. «Sì», continuò al telefono. «Quello è proprio lo stile di Sandy. Cosa hai detto agli avvoltoi?» «Che andassero a dar via il culo e chiamassero l'ufficio stampa». Logan annuì sorridendo. «Brava, hai fatto bene. Ascolta, ho bisogno di un favore. Dovresti darmi un'informazione dal caso Erskine. Conosciamo il nome del padre del bambino?» «Attenda...». Lo mise in attesa e Logan dovette ascoltare qualcuno che massacrava Come on baby, light my fire. Dopo alcuni istanti la voce dell'agente ritornò in linea. «No, signore... non abbiamo il nome del padre; ma dagli appunti presi in occasione della prima visita risulta che il padre sia morto prima della nascita del bambino. Perché?» «Niente, grazie comunque», rispose Logan. «Ascolta; io sarò a casa degli Erskine tra pochi minuti. La collega del servizio assistenza famiglie è ancora lì?». Sapeva che sarebbe stata una poliziotta: una madre sconvolta per la scomparsa del figlio ha bisogno di una donna per compagnia. «Sì, signore». «Bene; chiamala e dille di aspettarmi fuori dalla porta tra...», diede un'occhiata per vedere dove si trovava, «due minuti». Lo stava aspettando e lo guardò mentre cercava di parcheggiare l'auto in uno spazio ristretto. Dopo un paio di tentativi la lasciò con una ruota sul marciapiede e, abbottonandosi il cappotto contro la pioggia, salì i pochi gradini che dalla strada portavano alla porta d'ingresso. L'agente gli andò
incontro con un ombrello e Logan ci s'infilò sotto. «Buona sera, signore. Novità?» «Volevo chiederti se hai sentito parlare del pa...». La luce bianca e improvvisa di un flash lo interruppe. «Chi diavolo è?», disse girandosi di scatto. Dall'altra parte della strada c'era una BMW, alquanto malmessa, col finestrino passeggero aperto. «Credo che siano quelli del "Daily Mail". L'hanno vista arrivare e credono che stia succedendo qualcosa», disse l'agente riparandolo con l'ombrello. «Se poi riescono a congetturare un po' di merda da allegare alla foto, domani lei è in prima pagina». Logan girò le spalle alla BMW; se avessero scattato altre foto l'unica cosa che avrebbero preso sarebbe stata la sua schiena. «Ascolta», chiese all'agente. «Hai sentito parlare del padre del bambino?». Fece spallucce. «So solo che è morto. E che era un vero bastardo, secondo la vicina di casa». «Perché? La picchiava? La tradiva?» «Non saprei. Quella vecchia strega lo fa sembrare come Adolf Hitler, ma senza l'avvincente personalità». «Bell'elemento!». L'unica cosa che era cambiata all'interno della casa degli Erskine era la qualità dell'aria. Le pareti erano ancora ricoperte dalle fotografie di madre e figlio, la carta da parati era ancora stomachevole, ma l'aria era satura di fumo di sigarette. Nel soggiorno Mrs Erskine era seduta sul divano; tra le mani aveva un bicchiere di vetro intagliato con dentro un liquido incolore, e una sigaretta accesa le pendeva dalle labbra. Sul tavolinetto da caffè una bottiglia di vodka era quasi vuota. La sua amica, la vicina della porta accanto, quella che non offriva il tè ai poliziotti, era appollaiata in una poltrona, e allungava il collo per vedere chi stesse arrivando. Quando vide Logan, gli occhi maligni le brillarono, sperando che fosse portatore di cattive notizie. Non c'è niente di meglio che le disgrazie degli altri per rallegrarti e farti dimenticare le tue. Logan andò a sedersi sul divano vicino a Mrs Erskine. Lei lo guardò con occhi spenti e due centimetri di cenere le caddero dalla sigaretta sul cardigan. «È morto, vero? Il mio piccolo Richard è morto?». Il troppo piangere e la troppa vodka le avevano lasciato gli occhi rossi e paffuti. Sembrava che
nelle ultime dieci ore fosse invecchiata di dieci anni. La vicina si chinò in avanti, quasi speranzosa di ascoltare le brutte notizie. «Non lo sappiamo ancora», rispose Logan. «Ma devo farle un paio di domande. Va bene?». Mrs Erskine annuì, mandandosi giù nei polmoni un'altra ondata di nicotina e di catrame. «Le devo chiedere del padre di Richard». S'irrigidì sul divano, come se avesse preso una scossa da mille volt. «Richard non ha un padre!». «Quel bastardo non ha voluto sposarla», aggiunse la vicina con gusto. Non era una notizia di cui godere come l'annuncio della morte del bambino; ma per sparlare con malignità era una buona alternativa. «L'ha messa incinta quando aveva appena quindici anni e poi non ha voluto sposarla. Pezzo di merda!». «Sì», continuò la nubile Mrs Erskine facendosi un altro sorso di vodka. «Era proprio un pezzo di merda!». «Però», aggiunse la vecchia mormorando con l'aria di chi sta per svelare un segreto, «insiste nel voler vedere il bambino! Le pare giusto? Non vuole riconoscere il bambino ma vuole portarlo a Duthie Park a tirar calci al pallone!». Si sporse in avanti e versò un'altra abbondante porzione di vodka nel bicchiere della ragazza. «Dovrebbe esserci una legge che vieti cose del genere!». Logan si girò di scatto. «Come sarebbe a dire "vuole vedere il bambino"?» «Io non lo faccio avvicinare al mio soldatino», rispose Mrs Erskine, portandosi il bicchiere alle labbra con mano tremula e mandandone giù metà del contenuto. «Lui gli manda regalini e cartoline d'auguri e lettere, ma io butto tutto nella spazzatura». «Ma se ci aveva detto che era morto». Mrs Erskine lo guardò, perplessa. «Io non ho detto nulla del genere». «Tanto vale che sia morto, per il bene che fa!», intervenne la vicina compiaciuta. E Logan capì come era scaturito l'equivoco. L'agente Watson gli aveva detto che il padre di Richard era morto perché così le aveva detto quell'acida megera della vicina di casa. «Capisco», rispose lentamente Logan, sforzandosi di restar calmo. «Ed è stato informato della scomparsa di suo figlio?». Era la seconda volta nel giro di un'ora che faceva la stessa domanda. E sapeva già la risposta.
«Non sono affari suoi!», gridò la vicina, con voce malefica e rabbiosa. «Ha perso i suoi diritti quando si è rifiutato di riconoscere il bambino. Immagini lei quel povero bambino! Figlio di N.N. per il resto dei suoi giorni! Comunque adesso lo saprà senz'altro», continuò indicando una copia del «Sun» sul tappeto, dove a grandi lettere si leggeva: Il pedofilo colpisce ancora!. Logan chiuse gli occhi e respirò profondamente, cercando di star calmo. La vecchia strega gli stava facendo perdere le staffe. «Mrs... Miss Erskine, deve dirmi il nome del padre di Richard». «Perché?». La vecchia si alzò di scatto. Adesso si atteggiava a nobile difensore dei diritti della povera diavola, mezza sbronza sul divano. «Sono cose che non lo riguardano! Non ne ha nessun diritto!». Logan si girò verso lei. «Si sieda e stia zitta!», le intimò. Restò a bocca aperta. «Come... come si permette? Non le permetto di parlarmi così!». «Se lei non si siede e chiude quella sua bocca sacrilega, chiederò all'agente qui presente di portarla giù alla Centrale e imputarla per aver fornito false informazioni! Chiaro?». Andò a sedersi e chiuse la bocca. «Miss Erskine, mi deve dare l'informazione che le ho chiesto». La madre di Richard vuotò il bicchiere e si alzò barcollando. Andò a un mobile con scaffali e cominciò a rovistare in un cassetto, facendo cadere fotografie e fogli di carta sul tappeto. «Eccola!», esclamò trionfante, mostrando una copertina con un bordo dorato in rilievo; la cartellina con la fotografia fatta a scuola. La diede a Logan come se le scottasse in mano. Dentro c'era la fotografia di un ragazzo, sui quattordici anni o poco più. Aveva un enorme paio di sopracciglia ed era leggermente strabico, ma era impossibile non notare la somiglianza col bambino scomparso. In un angolo della foto c'era la dedica: «Alla mia adorata Elisabeth, ti amerò per sempre, Darren. X X X.», scritto in una grafia giovanile e artificialmente nitida. Una dichiarazione piuttosto pesante per qualcuno ancora in pubertà. «Era il suo ragazzo a scuola?», chiese Logan, esaminando la cartellina. In un angolo sul retro c'erano due etichette autoadesive; una dorata col nome, indirizzo e numero di telefono del fotografo e un'altra bianca che diceva: «Darren Caldwell: terzo livello, Ferryhill Academy». «Era un bastardo!», s'intromise ancora la vecchia, godendosi ogni sillaba.
«Sa dove abita?», chiese Logan. «Da quel che ho sentito dire pare che abbia preso su baracca e burattini e sia andato ad abitare a Dundee!». La vicina si mise un'altra sigaretta in bocca e l'accese, tirando con forza, facendo brillare in rosso vivo l'estremità accesa e mandando fuori il fumo dal naso. «Dundee!», ripeté con disgusto. Continuò: «Quel bastardo non vedeva l'ora di andarsene, vero? Guardate un po'; qui c'è il suo bambino che cresce senza padre e lui alza le chiappe e se ne va a Dundee appena può». Tirò giù un'altra boccata di fumo. «Dovrebbe esserci una legge che vieti queste cose!». Logan non le fece notare che, visto che Darren Caldwell non aveva la possibilità di vedere suo figlio, non faceva alcuna differenza dove fosse andato ad abitare. Si limitò a chiedere a Miss Erskine se poteva tenersi la foto. «Per quel che mi riguarda può anche bruciarla», gli rispose lei. Logan salutò e le lasciò. Pioveva ancora a dirotto e la BMW era ancora parcheggiata dall'altra parte della strada. A testa bassa Logan corse alla sua auto; entrò, mise in moto, inserì il riscaldamento al massimo e ritornò alla Centrale. Fuori dell'edificio in vetro e cemento armato c'erano le telecamere di diverse emittenti TV, ognuna delle quali puntava al suo giornalista che, con aria seria e di circostanza, esprimeva commenti seri e pesanti sulle capacità investigative della Grampian Police. L'agente con la quale aveva parlato prima al telefono aveva ragione: Sandy il Viscido aveva veramente stuzzicato un vespaio. Logan parcheggiò l'auto nel parcheggio sul retro della Centrale e si recò al centro investigazioni, evitando di passare dalla reception. Ora il centro era un alveare di attività. Ma adesso l'attività era centrata intorno a una poliziotta dall'aspetto sconvolto che, stringendosi una tabella fermabloc al petto, cercava di farsi dare informazioni dai quattro agenti in servizio, impegnatissimi a rispondere ai telefoni che squillavano in continuazione. Come vide entrare Logan il viso le si illuminò. Adesso c'era qualcuno che poteva dirle come stavano le cose e col quale dividere lo stress. «Sergente...», cominciò. Ma Logan alzò una mano, afferrando un telefono che non squillava. «Un attimo», le disse facendo il numero della banca dati. All'altro capo del telefono, qualcuno rispose quasi subito. «Ho bisogno di un controllo auto su un certo Darren Caldwell», disse
facendo un rapido calcolo mentale. Darren aveva messo incinta Elisabeth quando lei aveva quindici anni; aggiungi nove mesi per la gravidanza, più i cinque anni di Richard. Supponendo che lui e lei fossero nella stessa classe quando il loro "eterno amore" era diventato carnale, adesso Darren dovrebbe avere ventuno, ventidue anni. «Ha ventuno o ventidue anni e sembra che viva a Dundee». Annuì man mano che l'agente della banca dati gli rileggeva i dati per conferma. «Esattamente. Tra quanto potrai farmi sapere qualcosa? Sì? bene, resto in linea». L'agente dell'ufficio stampa gli stava davanti. Sembrava che qualcuno le avesse messo un'aringa viva nei pantaloni. «Quelli dei media ci stanno massacrando!», sibilò mentre Logan aspettava la risposta al telefono. «Quel vile stronzetto di un bastardo di un avvocato ci sta facendo a pezzi!». Aveva un faccino florido, rosso come una barbabietola per lo stress del momento. «Possiamo fare qualche dichiarazione? Dir loro qualcosa? Qualsiasi cosa? Qualcosa che faccia sembrare che stiamo ottenendo qualche risultato?». Logan mise una mano sulla cornetta e le disse che le loro indagini si stavano svolgendo lungo diverse piste. «Non mi dica quelle cazzate!». Stava per esplodere. «Quelle sono le palle che gli dico quando non sappiamo neanche da che parte cominciare a guardare! Non posso dirgli quelle stronzate!». «Guarda che io non posso inventarmi un arresto dal nul... Sì?». L'agente della banca dati lo richiamava. «Sì, ho quindici Darren Caldwell nel nord est. Però uno solo abita a Dundee, e ha quasi quarant'anni». Logan bestemmiò. «Un attimo... ho un Darren Caldwell, ventun anni, che abita in Portlethen». «Portlethen?». Era un piccolo centro a circa otto chilometri da Aberdeen, verso sud. «Sì; ha una Renault Clio rosso scuro. Vuole il numero di targa?». Logan disse sì; chiuse gli occhi e ringraziò Dio: qualcosa cominciava ad andare per il verso giusto. Qualcuno aveva visto un bambino dai connotati simili a quelli di Richard entrare in una piccola familiare rossa. Scrisse il numero di targa e l'indirizzo su un foglietto, ringraziò l'agente della banca dati e sorrise all'agitata addetta stampa. «Cosa c'è?», chiese lei speranzosa. «Ha qualche novità?» «Speriamo di arrestare qualcuno tra non molto», rispose Logan uscendo dal centro.
«Chi? Chi? Chi spera di arrestare?», gli chiese correndogli dietro. Ma Logan era già andato via. CAPITOLO 14 L'agente che Logan aveva afferrato nello spogliatoio guidava l'auto del CID a una velocità oltre il limite, puntando verso sud. Logan era seduto nel sedile del passeggero, e osservava la buia campagna che sfrecciava oltre i finestrini. Sul sedile posteriore c'erano altri due agenti, un uomo e una donna. C'era poco traffico e pochi minuti dopo guidavano lentamente davanti all'indirizzo che Logan aveva ricevuto dalla banca dati. Era un bungalow di recente costruzione nella parte sud di Portlethen, in un complesso residenziale in fase di sviluppo, con tanti identici bungalow. Davanti al bungalow c'era un piccolo giardino, con striminzite piante di rose tutt'intorno. A qualcuna era rimasto ancora qualche petalo; gli altri erano stati staccati dalla pioggia. Il bungalow non aveva box: solo un posto auto con accesso dalla strada, di fianco al giardino. Il posto auto era occupato da una Renault Clio rosso scuro. Logan disse all'agente di parcheggiare la loro auto dietro l'angolo. «Allora, ascoltatemi bene», cominciò mentre si sganciava la cintura di sicurezza. «Questo non è un intervento da gestire con mano pesante. Voi due andate sul retro e bloccate l'uscita posteriore; informatemi quando sarete in posizione e noi suoneremo il campanello. Se cerca di tagliare la corda dal retro, non lasciatevelo scappare». Si girò verso la poliziotta sul sedile posteriore; le cicatrici sul suo stomaco si fecero sentire, ma riuscì a soffocare un gemito di dolore: «Tu verrai con me; ma voglio che ti appiattisca contro il muro quando suonerò il campanello. Non voglio che Caldwell veda agenti di polizia sull'uscio di casa sua, potrebbe avere una reazione inaspettata. E non voglio che questo intervento diventi un assedio, va bene?». Tutti annuirono. Uscirono dall'auto. C'era freddo. La pioggia pesante si era tramutata in una pioggerella gelata che pungeva come aghi di ghiaccio. I due agenti andarono a prendere posizione sul retro. Nel bungalow c'erano un paio di luci accese e si sentiva un televisore. Si sentì lo scarico di un water e Logan stese la mano per il pulsante del campanello. Non ci arrivò in tempo; il suo cellulare squillò e lui lo prese imprecando
sottovoce. «McRae», mormorò. «Cosa diavolo sta succedendo?». Era l'ispettore Insch. «Posso richiamarla, signore?», chiese bisbigliando Logan. «No, porca miseria, mi parli adesso! Ho appena ricevuto una telefonata dalla Centrale. Mi dicono che hai requisito tre agenti in divisa e sei andato ad arrestare qualcuno. Cosa diavolo sta succedendo?». Logan sentì della musica e degli applausi. «Merda», disse Insch. «Devo andare in scena. Sergente, ti consiglio di avere una buona spiegazione per il tuo comportamento, altrimenti...». Si sentì una voce di donna, insistente e Insch che rispondeva: «Vengo, vengo!». E la linea cadde. L'agente lo aspettava sulla soglia con le spalle al muro e fuori vista. «Stava per andare in scena», spiegò Logan rimettendosi in tasca il cellulare. «Va bene, andiamo avanti. Se tutto va come spero andremo a trovarlo al bar dopo lo spettacolo e a gli daremo le buone notizie. Tanto per cambiare». Suonò il campanello. Si sentirono delle parolacce dal bagno. Se non altro avevano conferma della presenza di qualcuno in casa. Logan suonò di nuovo il campanello. «Vengo, vengo! Diavolo, datemi il tempo!». Dopo circa un minuto si accese la luce nell'ingresso e si sentì una chiave che veniva girata nella serratura. La porta si aprì di un palmo e la faccia di un uomo si inserì nella spazio. «Sì?», disse. «Darren?», chiese Logan. Il volto dell'uomo si rabbuiò. Aveva folte sopracciglia sovrastanti due occhi che guardavano in direzioni diverse. Anche se più vecchio di cinque anni e rotti rispetto alla fotografia scolastica, Darren Caldwell non era cambiato granché. Mascella più larga e capigliatura tagliata con stile, invece del taglio fatto dalla mamma, ma era senz'ombra di dubbio la stessa persona. «Sì?», ripeté Darren; e Logan diede alla porta un forte spintone. Il giovanotto indietreggiò barcollando, urtò contro un tavolinetto nell'ingresso e finì steso lungo per terra. Logan e l'agente entrarono, chiudendosi dietro la porta. Logan scosse la testa. «Dovrebbe montare una catenella di sicurezza a quella porta, Mr Caldwell. Così diventerebbe più difficile entrare senza il suo permesso. Non si sa mai chi c'è là fuori». Il giovanotto si alzò in piedi, stringendo i pugni. «Chi siete?»
«Lei ha una bella casa, Mr Caldwell», disse Logan. Fece inserire l'agente tra lui e Darren, onde evitare la possibilità di violenza. «Non le dispiacerà se diamo un'occhiata in giro, vero?». «Non potete farlo!». «Ma sì che possiamo», rispose Logan, estraendo il mandato di perquisizione e sventolandoglielo in faccia. «Allora... da dove cominciamo?». All'interno il bungalow era molto più piccolo di quanto lo sembrasse dall'esterno. Una camera matrimoniale, col letto a due piazze coperto da una coperta grigio-gialla; una parete con una specchiera e delle mensole piene di vasetti di creme idratanti e prodotti simili. Una cameretta con un lettino a una piazza messo per lungo contro il muro, e una piccola scrivania con un computer. Vicino al letto un poster di un donnino seminudo. Molto osé. Nel bagno un set di sanitari nel più stomachevole verde avocado che Logan avesse mai visto e una cucina grande abbastanza da contenere loro tre, ma solo se fossero rimasti fermi e con le braccia lungo i fianchi. Nel soggiorno, un televisore widescreen e un enorme divano verde cedro. Nessun segno del bambino. «Dov'è lui?», chiese Logan, rovistando negli armadietti in cucina. Darren guardò a sinistra e a destra, quasi simultaneamente, e poi chiese: «Dov'è chi?». Logan chiuse la porta dell'armadietto, sbattendola. «Sa benissimo chi, Mr Caldwell. Dov'è Richard Erskine? Suo figlio? Cosa ne ha fatto?» «Non ne ho fatto niente. Sono mesi che non lo vedo»; abbassò la testa. «La madre me lo impedisce». «L'hanno vista, Darren. Tante persone hanno notato la sua auto». Logan provò a guardare fuori dai vetri della cucina, ma vide solo se stesso riflesso nel vetro. «Io... io andavo con l'auto da quelle parti. Per cercare di vederlo, magari quando era fuori a giocare, sapete? Ma lei non lo fa uscire. Non lo fa crescere come gli altri bambini». Logan spense la luce, facendo buio assoluto in cucina. Dal buio riusciva a vedere il giardino sul retro della casa. I due poliziotti che aveva mandato a coprire quella possibile scappatoia erano lì, intirizziti sotto la pioggia. In un angolo del giardino c'era un casotto. Sorridendo, Logan riaccese la luce. «Andiamo», disse prendendo Darren per un braccio. «Andiamo a dare un'occhiata al casotto in giardino».
Ma Richard Erskine non era lì. Un tagliaerba elettrico, un sacco di concime, un paio di palette, cesoie da giardino e nient'altro. «Merda». Erano nel soggiorno, bevevano un tè che sembrava piscio. Il soggiorno era affollato; due agenti bagnati fradici, la loro collega, Darren Caldwell e Logan McRae. Il padrone di casa era seduto sul divano, sempre più sconsolato. «Darren, dov'è?», gli chiese di nuovo Logan. «Prima o poi ce lo dovrà dire, sa. Tanto vale che ce lo dica adesso!». Darren li guardò male. «Non l'ho visto. Non ho la più pallida idea di cosa state parlando». «Allora», disse Logan sedendosi sul bracciolo del divano. «Mi sa dire dov'era ieri mattina alle 10,00?». Darren sospirò drammaticamente. «A lavorare, dove volete che fossi!». «Può dimostrarlo?». Darren si illuminò in volto. «Porco cane se posso! Ecco qua!». Prese il telefono dal tavolinetto e lo diede a Logan; tirò fuori le Pagine Gialle della zona da uno scaffale. «Lavoro al Broadstane Garage», disse cercando la pagina giusta. La trovò e passò il libro a Logan. «Ecco qua! Telefoni pure! Chieda di Ewan. È il mio capo. Gli chieda dov'ero». Prendendo il telefono e le Pagine Gialle Logan fu preso da un forte dubbio. E se Darren stesse dicendo la verità? Il Broadstane Garage aveva un annuncio in un riquadro: un omino con una chiave inglese, un bullone e un dado, tutti sorridenti. L'annuncio diceva «Aperto 24 ore», quindi Logan fece il numero. Il telefono suonò e suonò e suonò ancora: Logan stava per riattaccare quando un vocione gli urlò nell'orecchio: «Broadstane Garage!». «Buona sera», disse Logan quando l'udito gli ritornò. «Parlo con Ewan?» «Chi è lei?» «Sono il sergente Logan McRae della Grampian Police. Lei è il datore di lavoro di Darren Caldwell?». La voce all'altra estremità del filo divenne immediatamente sospettosa. «E se lo fossi? Cosa ha fatto?» «Mi può dire dov'era Mr Caldwell tra le 9,00 e le 11,00 di ieri mattina?». Darren si era seduto sul divano col suo tazzone di tè e sorrideva compiaciuto. Logan si sentì prendere da una sensazione di timore.
«Era qui, mi aiutava a riparare l'impianto elettrico di una Volvo. Perché?» «Ne è sicuro?». Ci fu una breve pausa e poi. «Certo che ne sono sicuro! Io ero qui! Se Darren fosse stato da qualche altra parte me ne sarei accorto! Ma adesso, mi vuol dire cosa sta succedendo?». Logan riuscì a liberarsi di lui in cinque minuti. Mise giù il telefono e cercò di nascondere la sua delusione. «Mr Caldwell, sembra che le dobbiamo delle scuse». «Porca miseria, se mi dovete delle scuse!». Darren si alzò e puntò alla porta. «E ora perché non vi togliete dalle palle e andate a cercare mio figlio?». Fu così gentile da sbattergli la porta alle spalle. Tornarono mestamente alla Vauxall. Tutta questa strada per niente. E adesso non aveva buone notizie per l'ispettore Insch. E neanche una giustificazione per il suo operato. Sperava solo che lo spettacolo teatrale nel quale Insch appariva fosse andato bene. Magari sarebbe uscito dal teatro di buonumore e non gli avrebbe morso le chiappe. Entrarono nell'auto. L'agente avviò il motore e i finestrini si appannarono subito. Inserì la ventola, ma il parabrezza si sbrinava molto lentamente. Rimasero lì fermi, aspettando che la visibilità migliorasse. «Sergente, crede che l'alibi di Darren sia valido?», chiese uno degli agenti. Logan fece spallucce. «Il garage è aperto; andremo a darci un'occhiata sulla via del ritorno». Ma Logan già sapeva che l'alibi non era fasullo. Darren non avrebbe potuto rapire suo figlio mentre il bambino stava andando a un negozio per del latte e dei biscotti. Ma ne era stato così certo! La ventola riuscì a sbrinare il parabrezza quel tanto da consentire di ripartire. L'agente accese i fari e si avviarono. Fecero una manovra d'inversione nella stradina e tornarono verso la strada maestra. Logan vide passare il bungalow di Darren Caldwell. Ci aveva creduto! Mentre attraversavano Portlethen, dirigendosi verso la superstrada che li avrebbe riportati ad Aberdeen, Logan vide le luci di un supermercato e un superstore per il fai-da-te. Al supermercato ci sarebbe stato del vino. E in questo momento di depressione Logan pensò che tornare a casa con una buona bottiglia di vino non sarebbe stata una cattiva idea. Chiese all'agente alla guida di fare una piccola deviazione.
Mentre gli altri lo aspettavano in macchina, Logan fece un rapido giro tra gli scaffali, mettendo patatine, noccioline e cipolline sott'aceto nel cestino. Erano usciti di buona lena dalla Centrale, sperando di trovare il bambino sano e salvo e sperando di tornare alla Centrale come eroi. Invece tornavano a mani vuote, con Logan che si sentiva un idiota. Mise una bottiglia di Shiraz nel cestino e si accorse che l'aveva messa sulle patatine, riducendole in briciole. Senza farsi notare tornò allo scaffale delle patatine e sostituì le sue briciole, al gusto sale e aceto con un altro pacchetto. Provò a immaginare Darren Caldwell, in quel piccolo bungalow, senza poter vedere il suo bambino, e che guidava per le strade di Torry cercando di vederlo di sfuggita. Povero diavolo. Logan non aveva bambini. C'era stato un momento preoccupante, quando una sua ragazza gli aveva detto che era in ritardo di quindici giorni; ma grazie al cielo tutto si era risolto per il meglio. Poteva solo immaginare il tormento di avere un figlio e di essere totalmente estromesso dalla sua vita. C'erano solo due casse aperte: una gestita da una ragazza dal viso pieno di brufoli, l'altra da un uomo anziano dalla faccia rattrappita e dalle mani tremolanti. Sia l'una che l'altro sembravano programmati a muoversi con una sola velocità: lentamente. La donna che lo precedeva nella fila aveva comprato un vasto assortimento di pasti pronti, da scaldare nel forno a microonde: curry e chips, pizza e chips, pollo chowmein e chips, hamburger e chips, lasagne e chips; nel suo carrello non c'era un singolo pezzo di frutta o di verdura. Ma in compenso c'erano sei bottiglie giganti di Diet Coke e un gateau al cioccolato. Quindi, tutto in regola. Mentre il vecchietto passava i pasti pronti sul lettore automatico, Logan attese il suo turno dando un'occhiata in giro. Tutti i negozietti - il calzolaio, il fotografo, la tintoria e uno che vendeva grotteschi clown di vetro e statuine in porcellana - erano chiusi e al buio, con le inferriate tirate giù. Chiunque, anche in caso di vita o di morte, avesse avuto bisogno di una statuina di un cagnolino scozzese che suonava la cornamusa sarebbe dovuto tornare domani. La donna dei pasti pronti cominciò a metterli in borse di plastica e Logan fece un passo avanti. Da qualche parte si sentivano le note della sigla di un programma televisivo per bambini. Logan vide una signora anziana vicina a una di quelle macchinette per far divertire i bambini; una locomotiva in plastica blu che
dondolava lentamente avanti e indietro, facendo «chuff-chuff». La signora sorrideva e batteva il piede in sintonia con la musica della sigla del programma televisivo per bambini Thomas the Tank. Quando la macchinetta si fermò e la musica finì la nonna aprì la borsa, tirò fuori il portamonete e cercò, ahimè senza trovarne, altri spiccioli per farla andare di nuovo. Una bambina molto delusa scese da Thomas the Tank; diede la manina alla nonna e si allontanò, girandosi indietro ogni tanto e lanciando occhiate nostalgiche all'allegro faccione dipinto sul davanti della locomotiva. «...mettere in borsa?» «Hmm?». Logan si risvegliò. L'uomo della cassa gli stava chiedendo qualcosa. «La sua spesa. Vuole che qualcuno gliela metta in busta?». «Cosa? No, no grazie». Logan mise il vino, patatine e tutto il resto in una busta di plastica e uscì nel parcheggio. Pensò che avrebbe dovuto comprare qualche lattina di birra per quei poveri diavoli che aveva trascinato fin qui; ma se ne era ricordato troppo tardi. Sentì qualcuno che rideva; si voltò e vide la bambina dell'altalena che saltava ridendo in una pozzanghera, mentre la nonna batteva le mani a tempo con i suoi salti. Si fermò a osservare la scena, riflettendo e accigliandosi. Se era vietato a Darren Caldwell di vedere suo figlio, era molto probabile che fosse vietato anche ai nonni del bambino. Tutti perdenti... E le camere da letto? La matrimoniale non sembrava la camera nella quale dormisse un uomo di ventidue anni. Specialmente con tutti quei vasetti di creme idratanti e roba simile. Molto più probabile che Darren dormisse nella cameretta col poster della donnina seminuda e il computer. Tornò di corsa alla Vauxall; entrò e si mise tra i piedi la borsa del supermercato. Si girò verso gli occupanti e sorridendo chiese: «Vi va di fare un'altra visita a Mr Caldwell?» La Renault Clio rosso scura era ancora dove l'avevano vista la prima volta. Ma adesso, parcheggiata in strada davanti al bungalow, con due ruote sul marciapiede, c'era una Volvo blu. Solo al vederla Logan sorrise da un orecchio all'altro. «Parcheggia dove hai parcheggiato poco fa. Voi due, al retro come prima». Aspettò un paio di minuti per farli mettere in posizione; si avvicinò alla
porta d'ingresso e suonò il campanello. Darren Caldwell aprì la porta. In un attimo cambiò espressione diverse volte: da fastidio a panico e poi a rabbia. «Buona sera, Darren», disse Logan, mettendo il piede tra la porta e lo stipite. «Le dispiace se entriamo di nuovo?» «Cosa diavolo volete adesso?» «Darren?». Era una voce di donna, dai toni alti e leggermente tremolante. «Darren! Ci sono dei poliziotti nel giardino dietro casa!». Darren guardò alla porta della cucina aperta e di nuovo a Logan. «Darren!», di nuovo la donna. «Cosa facciamo?». Le spalle del giovanotto crollarono. «Non è niente, mamma. Perché non fai bollire dell'acqua per il tè?». Si fece da parte e fece entrare Logan e la poliziotta. Nel soggiorno c'erano diverse borse di plastica; Logan ne aprì una. Conteneva indumenti nuovi da bambino. Una donna di circa cinquant'anni uscì dalla cucina. Aveva uno strofinaccio in mano e se lo stringeva al petto, facendoselo passare tra le dita, come una corona del rosario. «Darren?», chiese ancora. «È tutto ok, mamma. È troppo tardi». Crollò sull'orrendo divano verde cedro. «Lo porterete via, vero?». Logan segnalò all'agente di bloccare l'uscita del soggiorno. «Dov'è», gli chiese. «Non è giusto!», urlò la donna scuotendo lo strofinaccio in faccia a Logan. C'erano stampati degli agnellini. «Perché non posso vedere il mio nipotino? Perché non può stare con suo padre?» «Mrs Caldwell...», provò Logan ma lei lo interruppe. «La piccola stronza lo ha portato via e non ci permette di vederlo! È il mio nipotino e non me lo fa vedere! Quale madre farebbe una cosa del genere, eh? Quale madre non permette a un bambino di vedere suo padre? Non merita di tenerlo!». «Dov'è, Darren?», chiese ancora Logan. «Non dirgli niente, Darren!». Scuotendo la testa Darren indicò la porta della cameretta. «Si è appena addormentato», mormorò sconfitto. Parlò così piano che Logan fece fatica a sentirlo. La poliziotta fece un cenno con la testa verso la porta della cameretta e interrogò Logan con gli occhi; Logan annuì. Andò e tornò dopo qualche minuto tenendo per mano un bambino con addosso un pigiama giallo e
blu. Aveva gli occhi pieni di sonno e guardava sconcertato i presenti. «Vieni, Richard», disse Logan. «È ora di andare a casa». CAPITOLO 15 Davanti al bungalow di Darren Caldwell c'era un'auto della polizia, fari spenti e motore che girava al minimo. In casa, uno degli agenti requisiti alla Centrale da Logan stava leggendo a Darren i suoi diritti prima di arrestarlo, mentre la madre singhiozzava sul sofà. E il piccolo Richard Erskine dormiva profondamente. Sospirando, Logan uscì di casa nella pioggerella. Erano in troppi, nel soggiorno; e cominciava a compatire il povero Darren. Era poco più di un ragazzo e aveva soltanto voluto vedere il suo bambino. Magari tenerlo qualche giorno a casa sua. Voleva vederlo crescere. E invece si sarebbe trovato con una fedina penale imbrattata; e molto probabilmente sarebbe anche stato diffidato dall'avvicinarsi a suo figlio. Il respiro di Logan si tramutava in nuvolette di nebbia. La temperatura scendeva. Non aveva ancora deciso quali provvedimenti prendere nei confronti del datore di lavoro di Darren. Gli aveva fornito un falso alibi, il che corrispondeva a sviare il corso della giustizia. Non che adesso facesse alcuna differenza: avevano trovato il bambino. Alibi o no, Darren era stato preso con le mani nel sacco. Ciononostante, sviare il corso della giustizia era un reato non da poco... Si mise le mani in tasca e guardò per la strada. Case silenziose, tendine tirate, qualcuna che ogni tanto si spostava; vicini ficcanaso che cercavano di scoprire cosa stesse succedendo in casa Caldwell. Un'ammonizione? Oppure un verbale? Rabbrividì e si accinse a tornare in casa. Diede un'ultima occhiata al piccolo giardino con le sue rose striminzite, alla Renault Clio, alla Volvo blu. D'impulso, tirò fuori il suo cellulare e compose il numero del Broadstane Garage, ricordandolo. Cinque minuti dopo si trovava con Darren in cucina, avendo mandato gli altri agenti a bere il loro tè nel soggiorno. Darren si era appoggiato al lavandino, con le spalle curve, guardando al buio del giardino al di là della sua immagine riflessa nel vetro. «Andrò in prigione, vero?». La domanda venne fuori come un bisbiglio. «Darren, sei sicuro di non voler cambiare la tua deposizione?». Darren scosse la testa, sguardo a terra. «No, l'ho fatto e ne pagherò le
conseguenze». Si passò una mano sul volto e tirò su col naso. «Sono stato io; l'ho preso io». Logan si appoggiò al muro di fronte a Darren. «So che non sei stato tu». «Sono stato io!». «Tu eri al lavoro. La Volvo che stavi riparando era quella di tua madre. Ho chiamato il garage e ho controllato il numero di targa. Tu le hai prestato la tua Clio. È stata lei a prendere tuo figlio, non tu». «Sono stato io! Ve lo ripeto, sono stato io!». Logan non rispose; il silenzio tra loro due divenne sempre sempre più intenso. Nel soggiorno qualcuno aveva acceso il televisore, la sottile parete divisoria non ne attutiva completamente il rumore. «Darren, sei sicuro di voler fare questo?». Darren annuì. Tornarono alla Centrale in silenzio, con Darren Caldwell che guardava il passar delle case dal finestrino. Logan lo consegnò al sergente addetto alla custodia, osservando mentre le tasche di Darren venivano vuotate e il loro contenuto messo in un vassoio blu, il tutto ben elencato e firmato, assieme alla cinghia dei pantaloni e i lacci delle scarpe. Sul volto di Darren si vedevano perline di sudore, e aveva gli occhi pieni di lacrime. Logan cercò di non sentirsi in colpa. Nel silenzio della Centrale Logan si recò alla reception. Big Gary era al telefono. «No, signore, no... giusto. Ha ragione... sono sicuro che non è stato piacevole... tutto sui pantaloni, dice?... Sì, sì, sto prendendo nota di tutto ciò che lei mi dice...». E invece no. Stava disegnando un uomo in doppiopetto che veniva investito da un'auto della polizia guidata da un omone sorridente. L'omone che guidava somigliava a Big Gary e l'uomo in doppiopetto somigliava al penalista amato da tutti quelli della Centrale. La vignetta fece sorridere Logan. Si appoggiò all'orlo della scrivania e ascoltò il resto della conversazione. «Oh, sì... ha perfettamente ragione... sì, sono d'accordo... Peccato, peccato... no, non credo, signore». Scarabocchiò "Stronzo pieno di boria" sul foglio e lo accentuò con delle freccette che puntavano all'uomo in doppiopetto. «Sì, signore... darò disposizioni affinché tutte le nostre autopattuglie cerchino il colpevole. Lo farò subito... appena finita questa telefonata. Sì, signore. Buona notte, signore». Continuò, mettendo a posto la cornetta:
«Appena il sindaco viene qui a fare dei pompini gratis». Logan prese il blocco notes di Gary ed esaminò il disegno. «Gary... non sapevo che tu fossi un vignettista». Gary sorrise. «Sandy Scivoloso: qualcuno gli ha rovesciato addosso un secchio di sangue, lo ha chiamato "brutto bastardo, amico degli stupratori" ed è sparito». «Quanto mi dispiace!». «A proposito, ci sono dei messaggi per te; un certo Mr Lumley. Nelle ultime due ore avrà chiamato sei volte. Voleva sapere se abbiamo trovato suo figlio. Il povero diavolo era sconvolto». Logan sospirò. Le squadre avevano concluso il turno: non c'era niente che potesse fare fino all'indomani. «Hai rintracciato l'ispettore Insch?», chiese. Gary scosse la testa, facendo ciondolare il doppio mento. «Impossibile». Controllò l'orologio e continuò: «Lo spettacolo finisce tra cinque minuti e all'ispettore non piace essere disturbato quando è in scena. Ti ho mai raccontato di quella volta che...». Big Gary fu interrotto dall'improvviso sbatacchiare della porta della reception: l'ispettore Insch entrò come una furia, una folata rossa e oro, con le babbucce che gli cigolavano sulle mattonelle della reception. «McRae!» urlò, col volto arrabbiatissimo sotto uno spesso strato di cerone. Aveva una mosca di barbetta finta e un enorme paio di baffoni finti. Si tolse il tutto con un solo strappo. Il cerone sul volto gli terminava a una riga sulla fronte, dove portava il turbante. Le luci dell'ingresso gli rendevano ancor più lucida la pelata. Logan si tirò sull'attenti. Aprì la bocca per chiedergli com'era andato lo spettacolo ma l'ispettore Insch lo anticipò. «Sergente, a quale fottutissimo e infernale giochetto credi di giocare?». Si tolse gli orecchini a molla e li sbatté sulla scrivania. «Chi ti ha autorizzato a requis...». «Richard Erskine», lo interruppe Logan. «Lo abbiamo trovato». Sotto il cerone, tutta la rabbia che l'ispettore aveva in volto svanì. «Cosa?» «Non è morto. Lo abbiamo trovato». «Mi stai contando frottole?» «No, signore. Lo abbiamo trovato. La madre lo sta portando qui. Tra venti minuti ci sarà una conferenza stampa». Fece un passo indietro ed esaminò il costume rosso e oro da "cattivo" dell'ispettore. «Vestito così sarà uno schianto in televisione».
Il mercoledì cominciò presto per Logan McRae. Il telefono squillava già, alle 5,45. Ancora pieno di sonno, Logan uscì da sotto il piumone e spense la sveglia. Ma lo squillo continuò. Guardò l'ora, disse un paio di parolacce e si ricoprì col piumone, fregandosi la faccia con una mano, cercando di svegliarsi. Il telefono continuò a squillare. «Vaffan...», borbottò. Lo squillare continuò. Logan si trascinò nel soggiorno, afferrò la cornetta e: «Chi è?», urlò. «Sergente, devo dire che ha proprio delle belle maniere al telefono», rispose una voce che Logan riconobbe dal suo accento di Glasgow. «Mi apre la porta o no? Mi sto gelando le palle qua fuori!». «Cosa?». Il campanello all'ingresso fece din-don e Logan bestemmiò ancora. «Aspetti», borbottò nel telefono prima di rimetterlo a posto e barcollando uscì dal suo appartamento, giù per le scale del piccolo condominio e aprì il portoncino d'ingresso. Fuori era ancora buio pesto, ma non pioveva. Invece tutto era coperto da una sottile patina di ghiaccio, che rifletteva le gialle luci dell'illuminazione stradale. Colin Miller era sul gradino dell'ingresso, con un cellulare in una mano e una borsa di plastica nell'altra. Come al solito, vestito impeccabilmente: doppiopetto grigio scuro e cappotto nero. «Cristo, se fa freddo!», le parole vennero fuori in nuvolette di vapore. «Allora; mi fa entrare o mi fa gelare qui?». Alzò la borsa di plastica. «Ho portato la colazione». Logan sbirciò nel buio della strada. «Miller, sa che ore sono?» «Sì. E adesso mi lasci entrare, prima che questa merda si raffreddi». Si sedettero al tavolo in cucina, Logan tornando lentamente tra i vivi mentre Miller, dopo aver acceso il gas sotto il bollitore dell'acqua, tirava fuori dai pensili sopra il lavandino tazze, piattini e tutto il necessario per la colazione. «Ha del caffè?», chiese a Logan. «Dico... vero caffè?», chiudendo un'anta e aprendone un'altra. «No, solo liofilizzato». Miller sospirò e scosse la testa. «Questa è una dispensa da terzo mondo... E va bene, farò uno sforzo e berrò quella porcheria...». Prese due tazzoni e ci mise dentro il caffè e lo zucchero. Tirò fuori un tetrapak aperto di latte parzialmente scremato dal frigorifero e lo annusò con sospetto: si accertò che non fosse andato a male e lo mise sul tavolo assieme a una va-
schetta di burro pronto da spalmare. «Non sapevo cosa prendesse lei a colazione e quindi ho portato brioches, salsicce in sfoglia, pasticcio di carne e Aberdeen rowie1. A proposito: noi due finiremo con l'avere contatti sempre più frequenti. Penso che potremmo cominciare a darci del tu. Cosa dici?». Logan fece un cenno d'assenso. Mise una mano nella borsa e ne tirò fuori una rowie; l'aprì, la spalmò di burro e l'addentò con gusto, mugolando dal piacere. «Proprio non capisco come tu possa mangiare quelle porcherie», disse Miller. Versò l'acqua bollente nei tazzoni, vi aggiunse il latte e ne porse uno a Logan. «Sai cosa c'è dentro?». Logan annuì. «Rowie? Farina, grasso, sale». «No, non grasso: strutto. Solo un Aberdoniano poteva inventare un panino che sembra merda di mucca. In quel coso che stai mangiando c'è mezza tonnellata di sale e mezza tonnellata di grasso animale saturo! E poi vi chiedete perché morite tutti d'infarto a cinquant'anni!». Tirò fuori una brioche dalla borsa e ne ruppe un pezzo. Lo spalmò di burro e marmellata e lo intinse nel caffellatte. «Da che pulpito!», rispose Logan. «E voi di Glasgow che avete inventato la pizza fritta?» «È vero... siamo pari». Logan aspettò che Miller ripetesse la manovra con un altro pezzo di brioche; aspettò che avesse la bocca piena e gli chiese perché lo aveva tirato giù dal letto a quest'ora ingrata. «Perché? È forse vietato per un amico andare a trovare un altro amico per fare colazione insieme? È un gesto sociale!». «E poi?». Il giornalista fece spallucce. «Sei stato bravo ieri sera». Mise la mano nella borsa e ne tirò fuori un'altra brioche e una copia del giorno del «Press and Journal». In prima pagina c'era una foto della conferenza stampa: Eroico poliziotto trova bambino scomparso diceva il titolo a grandi lettere. «Hai trovato quel bambino tutto da solo. Come hai fatto?». Logan prese una tartina alla carne dalla borsa, e notò che era ancora calda. L'addentò, cospargendo il giornale con briciole di sfoglia, mangiando e leggendo allo stesso tempo. Dovette ammetterlo: era un buon articolo. Non c'era granché come dati di fatto, ma Miller era riuscito a usare i pochi dati che aveva, inserendoli abilmente nell'articolo e rendendolo così più interessante. Non era difficile capire perché Colin Miller fosse il golden boy
del «Press and Journal». Era riuscito a inserire nell'articolo anche un breve riassunto della cattura del mostro di Mastrick, per far sapere a tutti che il sergente Logan McRae era ben degno del titolo di "Eroico poliziotto". «Sono sorpreso», disse Logan quand'ebbe finito di leggere. Miller sorrise, aspettandosi un complimento. «Non c'è neanche un errore di grammatica o di ortografia». «Spiritoso!». «E allora? Perché sei qui?». Miller appoggiò i gomiti sul tavolo, con le mani intorno al suo tazzone di caffè. «Logan, sai benissimo perché: voglio quelle cose che non avete detto. Voglio l'esclusiva. Questa roba...», toccò con l'indice la foto sulla prima pagina del giornale, «ha vita corta. Durerà oggi, domani e poi... puff! Nessuno se ne ricorderà più. Il bambino è stato trovato sano e salvo, ed era stato il padre a portarlo via. Roba domestica. Niente sangue e budella. Niente roba da scioccare i lettori. Se il bambino fosse stato trovato morto la storia sarebbe andata avanti per settimane. Ma come stanno le cose, dopodomani nessuno vorrà più saperne». «Piuttosto cinico». Miller strinse le spalle. «Dì quel che vuoi, ma è così». «È per questo che sei antipatico a tutti i tuoi colleghi?». Il giornalista non batté ciglio. Si mise in bocca un altro pezzo di pane e cominciò a masticare. «Sai com'è... a nessuno piace uno sveglio, qualcuno che mette in evidenza la loro incapacità». Si sforzò di parlare con accento aberdoniano «non fai il gioco di squadra!»; «quassù facciamo le cose diversamente!»; «continua così e ti butto fuori!». Lo so, non piaccio a tanta gente, ma sapessi quanto mi dispiace! Intanto stampano quel che scrivo, giusto? Da quando sono qua ho avuto più prime pagine io che quei vecchi rimbambiti hanno avuto in tutte le loro vite!». Logan sorrise a se stesso. Lo aveva punto nel vivo. «Allora», disse Miller mandando giù l'ultimo morso dell'ultima brioche. «Mi dici come hai fatto a trovare il bambino?» «Ma neanche...! Sono già stato sottoposto a un interrogatorio di terzo grado da quelli degli Standard Professionali, che stanno cercando di scoprire chi ti ha fatto la soffiata sul ritrovamento del cadavere di David Reid! Se scoprono che do informazioni alla stampa senza previa autorizzazione mi spelleranno vivo». «Come hai fatto ieri?», chiese Miller con aria innocente. Logan si limitò a guardarlo.
«Va bene, va bene», continuò Miller, raccogliendo i resti della colazione dal tavolo. «Ho capito. Quid pro quo, ci stai?» «Mi devi dire chi ti dà queste informazioni». «Logan, sai benissimo che non te lo dirò». Mise nel frigorifero il latte e il burro. «A proposito. Quelle informazioni che ti ho dato ieri... sono servite a qualcosa?» «Sì... stiamo indagando», mentì Logan. Il fottutissimo cadavere nella baia! Mr Senzarotule! Dopo la strigliata ricevuta dall'ispettore Insch per aver parlato alla stampa, Logan aveva completamente dimenticato di andare a riferire all'ispettore responsabile delle indagini su Mr Senzarotule! «Va bene, tu adesso ti vai a fare una chiacchierata col tuo ispettore e gli chiedi il permesso di dirmi quel che voglio sapere; e io ti dirò cosa ho scoperto sugli ultimi movimenti di George Stephenson. Baratto equo, non ti pare?». Dal portafoglio tirò fuori un biglietto da visita fresco di stampa e lo mise sul tavolo. «Hai tempo fino alle 16,30. Bambino scomparso: come lo ha trovato il nostro eroico poliziotto. Dopodomani non sarà più notizia. Chiamami quando sei pronto». 1
Specialità scozzese simile, per consistenza, al croissant (n.d.t.). CAPITOLO 16
Ormai era tardi per tornarsene a letto; borbottando, Logan fece una doccia e fece a piedi il tratto di strada fino alla Centrale di polizia. C'era un sottile strato di ghiaccio sui marciapiedi e sulle strade e come al solito il comune non aveva mandato fuori gli automezzi per spargere sabbia. Ma almeno aveva smesso di piovere. Il cielo era grigio e plumbeo; tra un paio d'ore il sole avrebbe tentato di fare capolino tra le nuvole. Quando entrò dall'ingresso principale, la Centrale era silenziosa come una tomba. Non c'era alcun segno dell'esercito di mass media che si era accampato lì ieri sera. Restavano solo le innumerevoli cicche sul marciapiedi, come vermi congelati. Mentre Logan andava verso gli ascensori, Big Gary lo salutò con un caloroso «'Giorno, Lazzaro!». Logan non se la sentiva di attaccar bottone; si limitò a rispondere: «Buon giorno, Gary». «Ascolta», disse Gary, dopo essersi guardato intorno per assicurarsi che non ci fosse nessun altro nei paraggi. «Hai sentito l'ultima? L'ispettore
Steel ha fatto un'altra conquista! Un'altra moglie!». Incuriosito, Logan si fermò. «La moglie di chi, stavolta?», chiese. «La moglie di Andy Thompson, quello della contabilità». Logan fece una smorfia. «Ahia! Non una gran che!». Big Gary sollevò le sopracciglia. «Dici? Io l'ho sempre considerata una donna piuttosto piacente; anzi, quasi quasi io...». «Sergente?». Una testa calva con un gran paio di baffi spuntò dalla partizione che separava il banco della reception dall'ufficio del retro. Era Eric, l'altra metà del duo "Eric e Big Gary". «Vorrei parlarti un attimo; ti dispiace accomodarti nel mio ufficio?». Nella voce di Eric non c'era la minima traccia di calore. Perplesso, Logan lo seguì nel retro, oltre lo specchio doppio. L'ufficio era colmo di schedari, scatoloni pieni di incartamenti, dei computer e un lungo tavolo ricoperto in formica e pieno di cestini per lo smistamento di documenti. Logan ebbe la sensazione che qualcosa di spiacevole stava per accadere. Appoggiò il sedere al tavolo di formica, nella posa dell'ispettore Insch e chiese: «Cosa c'è, Eric?». Eric si posizionò di fronte a Logan e incrociò le braccia. «Duncan Nicholson, ecco cosa c'è!». Logan continuò a guardarlo senza capire; Eric sospirò, esasperato. «Hai mandato un paio di poliziotti a prenderlo e portarlo qui per interrogarlo! Ricordi?». Nessuna reazione. «È quello che ha trovato il cadavere sulla riva del Don!». «Oh!», disse Logan. «Quello là». «Sì, quello là. È in una cella di detenzione temporanea da lunedì pomeriggio». Eric controllò l'orologio. «Quarantatré ore! Devi imputargli un capo d'accusa o rilasciarlo!». Logan chiuse gli occhi e bestemmiò sottovoce. Aveva completamente dimenticato l'esistenza di Duncan Nicholson. «Quarantatré ore?». Il limite massimo era sei ore! «Sì. Quarantatré ore». Eric incrociò le braccia e lasciò che Logan cuocesse nel suo brodo per un po'. La giornata cominciava da cani. Quando gli parve che Logan avesse sofferto abbastanza: «L'ho rilasciato io lunedì sera», disse Eric. «Non c'erano i presupposti per trattenerlo più a lungo. Infatti, lo avevamo già tenuto più di quanto avremmo dovuto». «Lunedì?». Due giorni fa! «Perché non mi hai chiamato?» «Ci abbiamo provato! Una dozzina di volte! Il tuo cellulare era spento. Abbiamo tentato anche ieri sera. Se tu fai portar dentro persone sospette
per interrogarle, devi seguire l'operazione fino in fondo. Non puoi lasciarle lì, dimenticartene e lasciare a noi il compito di sbrogliare la matassa! Non siamo la tua balia!». Logan bestemmiò sottovoce. Aveva spento il telefono durante l'autopsia della bambina senza nome. «Eric... sono veramente spiacente». Eric annuì. «Va bene. Ho sistemato tutto. Ho fatto in modo che niente appaia nel registro movimenti. A tutti gli effetti non è successo niente di illegale. Duncan Nicholson si è presentato a noi volontariamente, è stato trattenuto per un po', è stato rilasciato. Ma che non si verifichi più, chiaro?». Logan annuì. «Grazie, Eric». Andando verso il piccolo ufficio che aveva requisito il giorno prima, prese un caffellatte dal distributore automatico. Nella Centrale cominciava a vedersi un certo movimento, man mano che il primo turno entrava in servizio. Chiuse la porta e sprofondò nella sedia dietro la scrivania, guardando la cartina sulla parete dirimpetto, ma senza vedere le strade e i fiumi. Duncan Nicholson. Aveva dimenticato di averlo mandato di nuovo in cella per tenerlo ancora un po' sui carboni ardenti. Chinò la testa sulla scrivania fin quando la fronte posava sulla pila di dichiarazioni. «Bastardo», mormorò. «Bastardo, bastardo, bastardo...». Qualcuno bussò alla porta e si rialzò di scatto. Il foglio in cima alla pila volò a terra. Mentre si chinava per prenderlo, sentendo una fitta allo stomaco, la porta si aprì e l'agente Watson entrò. «Buongiorno, signore», disse. Ma vedendo l'espressione sul volto di Logan si rabbuiò. «Sta male?». Logan forzò un sorriso e tornò a sedersi. «Mai stato meglio, grazie», mentì. «Come mai sei qui così presto?» «Stamattina devo comparire in Corte; ieri pomeriggio ho arrestato un tizio che si masturbava nello spogliatoio donne alla piscina di Hazlehead». «Senz'altro un bravo ragazzo». Watson gli sorrise e Logan si sentì meglio. «Non vedo l'ora di presentarlo a mia mamma», disse. «Guardi, devo andare: è anche un testimone per l'accusa nel processo di Gerald Cleaver... violenze sessuali, ricorda? Bene, mi è stato ordinato di non perderlo di vista. Ma ero venuta per dirle che siamo tutti felicissimi che lei abbia trovato quel bambino». Logan sorrise a sua volta. «È stato un lavoro di squadra». «Balle, lavoro di squadra! Guardi, stasera alcuni di noi andremo a bere
qualcosa per celebrare. Saremmo lietissimi di averla con noi. Cosa dice?». Logan non poteva pensare a qualcosa che gli sarebbe piaciuto di più. Recandosi verso il centro investigazioni si sentiva già molto meglio. L'agente Jackie Watson voleva uscire con lui di nuovo. No, veramente voleva che lui uscisse con lei e i suoi amici. Ma era quasi la stessa cosa, no? Sì, forse, ma non proprio... e poi non avevano ancora parlato di quello che era successo un paio di notti prima. E continuava a chiamarlo "signore". Ma se è per questo lui continuava a chiamarla "agente". Un nome non molto romantico. Aprì la porta del centro e fu accolto da applausi scroscianti. Arrossendo come una carota, Logan andò a sedersi al suo solito posto, in prima fila. «Va bene, va bene, calmatevi», disse l'ispettore Insch alzando una mano per ottenere silenzio. Lentamente i presenti smisero di applaudire. «Signore e signori», continuò quando tutti tacquero. «Come ben sapete ieri sera il sergente McRae ha restituito il piccolo Richard Erskine alle braccia della madre, dopo averlo rintracciato a casa della nonna». S'interruppe e sorrise a Logan. «È il tuo momento, sergente. Su, in piedi». Arrossendo ancora, Logan si alzò e si girò verso la sala. Gli applausi ripresero. Insch alzò di nuovo la mano e nel silenzio che seguì disse. «Guardatelo bene: questo è un vero poliziotto». Logan tornò alla sua sedia sentendosi lieto, imbarazzato e inorridito allo stesso tempo. «Abbiamo trovato Richard Erskine», continuò Insch prendendo una cartella dalla scrivania ed estraendone una fotografia di 20 x 15 cm. Era la fotografia di un ragazzo dai capelli rossi, lentiggini e un sorriso nel quale mancava qualche dente. «Ma Peter Lumley non è stato ancora trovato. Non credo che lo troveremo a letto a casa di sua nonna; il padre del bambino forse non sa neanche che suo figlio è scomparso. Sembra che viva giù nel Surrey. Ma voglio che questa opzione venga controllata, non si sa mai». Insch estrasse un'altra foto dalla cartella. E questa non era tanto piacevole all'occhio. Un volto pieno di vesciche, gonfio, nero e maculato da bianca muffa fungosa, con la bocca irrigidita nello spasimo dell'ultimo grido, del grido emesso morendo. Era una foto di David Reid. «Se non lo troviamo, e alla svelta anche, Peter Lumley finirà così. Voglio allargare l'area di ricerca. Tre squadre: il campo da golf di Hazlehead, il maneggio e campi limitrofi, il parco. Ogni cespuglio, ogni anfratto, ogni mucchio di letame, non voglio che si tralasci niente». Cominciò a leggere
nomi. Quando Insch finì con l'assegnazione degli incarichi e tutti i presenti uscirono, Logan lo aggiornò sulla bambina trovata alla discarica. Non ci volle molto. «E allora? Un tuo parere?», chiese Insch, appoggiandosi alla scrivania e frugandosi nelle tasche per qualcosa di dolce. Logan riuscì a evitare una scrollata di spalle. «Non possiamo mettere in atto una ricostruzione; non sappiamo cosa indossasse la bambina prima che qualcuno la mettesse nel sacco del pattume e non ci permettono di ricreare l'atto di sbarazzamento. Ma la foto della bambina è su tutti i giornali. Forse ci frutterà qualcosa». La sola cosa buona risultante dalla macabra reputazione di Aberdeen "la capitale scozzese dei bambini morti", era il fatto che tutti i giornali nazionali avevano fatto a gara per pubblicare la foto della bambina in prima pagina. Insch aveva trovato una vecchia mentina e se la mise in bocca. «Continua pure su quella falsariga. Da qualche parte ci deve essere qualcuno che sa chi sia la piccola. Ieri Norman Chalmers è comparso in corte per quindici minuti: rimandato in custodia senza libertà su cauzione. Ma il procuratore non è soddisfatto; se non gli diamo qualcosa di più solido sarà costretto a rilasciarlo». «Sono sicuro che troveremo qualcosa, signore». «Bene. Il questore è molto preoccupato per questi bambini scomparsi. Non figuriamo bene. I colleghi della Lothian and Borders Police si sono fatti vivi e ci hanno "offerto la loro assistenza". Ci hanno anche mandato un profilo psicologico preliminare». Tirò fuori dalla cartella quattro fogli pinzati insieme, con il logo della Lothian and Borders Police ben visibile sulla prima pagina. «Se non ci diamo una mossa quelli di Edimburgo assumeranno il controllo delle indagini. E noi finiremo con la reputazione di piccoli idioti di provincia capaci solo di scopare le pecore». «Guarda guarda...», commentò Logan. «E cosa dice questo profilo psicologico?» «Le solite stronzate». Insch lesse rapidamente le varie pagine. «Bla bla bla "indizi rilevati sulla scena del reato" bla bla bla "patologia della vittima" bla bla bla». S'interruppe, con un sorriso sarcastico. «Eccoci qua. "... l'assassino è, con ogni probabilità, un maschio, caucasico, tra i venti e i trent'anni, che vive da solo o con sua madre. Probabilmente intelligente, ma con scarsi risultati scolastici. Di conseguenza avrà un lavoro manuale e di poco conto, ma che lo porta in contatto con bambini"».
Logan annuì. Era un profilo standard che copriva qualsiasi eventualità. «Questa ti piacerà», disse Insch. Assunse una voce da professore, «"...l'assassino non riesce a formare rapporti con donne; ed è probabile che nel passato abbia sofferto di patologie mentali...". Patologie mentali! Ma è ovvio!». Il sorriso gli svanì dalle labbra. «È chiaro che questo stronzo ha problemi mentali: uccide bambini!». Fece una palla del profilo psicologico e la lanciò a pallonetto nel cestino vicino alla porta. La palla colpì il muro e rotolò fino alla seconda fila di sedie. Insch grugnì, disgustato per la sua mira. «Comunque», continuò girandosi verso Logan, «sembra che l'ispettore McPherson resterà fuori servizio per almeno un mese. Trentasette punti per tenergli insieme la testa. Pensa che bello. Non c'è niente di meglio di un pazzoide con un coltello da cucina per farti fare un paio di settimane a casa davanti alla TV». Sospirò, senza accorgersi dell'aria amareggiata di Logan. «Il che vuol dire che devo risolvere anche i suoi casi, oltre ai miei. Quattro furti con scasso, tre rapine a mano armata, due stupri con violenza e una pernice in un fottutissimo pero, come dice la canzone». Puntò un dito verso Logan. «Il che vuol dire...», ripeté, «che delego il caso della bambina della discarica a te». «Ma, signore...». Insch alzò le mani. «Sì, lo so che un è caso difficile, ma io ho fin troppo da fare con i casi di David Reid e di Peter Lumley. Forse non c'è neanche un nesso tra i due; ma il questore non vuole che ci sia un pedofilo serial killer alla larga, che prende bambini ogni volta che gli tira la mazza. Tutti gli altri ispettori sono oberati di lavoro, ma tu hai trovato Richard Erskine da solo e la stampa è convinta che il sole splenda dal buco del tuo culo. Quindi la bambina del pattume è tua». «Sì, signore». Lo stomaco di Logan già dava segni di instabilità. «Va bene», disse Insch staccandosi dalla scrivania. «Datti da fare; io vado a vedere che genere di Muppets ho ereditato da McPherson». L'ufficio di Logan lo stava aspettando, come se sapesse che era lui il responsabile del caso. Sulla scrivania c'era una copia della foto della bambina, uguale a quelle rilasciate ai mass media. Quella fatta all'obitorio, ritoccata in modo da non farla sembrare così... morta. Da viva dev'essere stata carina. Una bambina di quattro anni, bionda, capelli lunghi fino alle spalle che le incorniciavano il volto. Nasino leggermente all'insù. Faccino rotondo, guance floride. Il referto del patologo diceva che aveva occhi bluverdi, ma nella foto aveva gli occhi chiusi. Guardare negli occhi di bambi-
ni morti non piace a nessuno. Prese la foto e l'attaccò alla parete, vicino alla cartina di Aberdeen. La reazione all'appello per informazioni lanciato tramite la stampa era stata quasi nulla. Nessuno sapeva chi fosse la bambina. Molto probabilmente ci sarebbe stata una reazione diversa stasera, quando la foto della piccola sarebbe stata trasmessa dalla TV. Avrebbero telefonato a centinaia; persone che credevano di rendersi utili dando alla polizia un'infinità di informazioni inutili. Passò due ore a leggere le dichiarazioni, per l'ennesima volta, senza cavare un ragno dal buco. Ma Logan era sicuro che la risposta era lì. La persona che aveva messo il cadavere della bambina nel sacco di plastica abitava nelle immediate vicinanze della pattumiera. Il caffè nel suo tazzone era diventato freddo e imbevibile. Sbadigliò e stese le braccia, per sgranchirsi dalla vita in su. Non stava concludendo niente. E non aveva ancora parlato con l'ispettore responsabile per le indagini di Mr Senzarotule. Forse era giunto il momento di fare un break? L'ufficio dell'ispettore Steel era un piano più su. C'era una moquette azzurra un po' lisa e mobili che avevano visto tempi migliori. Sulla parete un segno con su scritto, in lettere rosse «No smoking», ma l'ispettore Steel sembrava fregarsene. Era seduta alla scrivania, con la finestra alle sue spalle leggermente aperta, per far uscire il fumo della sigaretta che stava fumando. L'ispettore Steel stava all'ispettore Insch come Stanlio a Ohio. Lui era grasso, lei era magra. Lui era calvo, lei sembrava che avesse un Cairn terrier attaccato in testa con del nastro adesivo. Si diceva che avesse solo quarantadue anni, ma ne dimostrava di più. Fumatrice accanita, aveva una faccia piena di rughe, lasciate da innumerevoli sigarette fumate una dopo l'altra. Indossava un completo giacca e pantaloni dei grandi magazzini Marts and Spencer in grigio cenere, forse per nascondere la cenere della sigaretta che aveva perennemente tra le labbra. Ma la camicetta granata ne era abbondantemente cosparsa. Difficile immaginarla come la più grande sciupafemmine nella Centrale. Aveva un cellulare tra la spalla e l'orecchio e ci stava parlando dentro, sputando le parole da un angolo della bocca, per non disturbare la sigaretta che si trovava all'altro angolo. «No, no...», stava dicendo con voce dura e distaccata. «Ascoltami bene: se non consegni entro la data stabilita io ti ritaglio un altro buco del culo, chiaro? No, ne me ne frega niente di quello che hai da fare e per chi... Se non mi consegni la roba prima di venerdì, vai
a finire nel mio libro nero e allora saranno cavoli amari... Cosa? Ci puoi scommettere le chiappe!». Alzò gli occhi e vide Logan in piedi sulla soglia; gli fece cenno di entrare e gli indicò una sedia. «Sì... sì, così va meglio. Era certa che avremmo trovato una soluzione. Venerdì. Ciao». Richiuse il cellulare e sorrise malignamente. «Stronzi. Per montarmi una cucina, che palle! Dagli un dito e ti pisciano addosso!». Prese un pacchetto di king-size e lo mostrò a Logan, scuotendolo. «Sigaretta?». Logan rifiutò e lei gli sorrise. «No? Hai ragione; è una schifosissima abitudine». Ne tirò fuori una e l'accese da quella che stava fumando, schiacciando il mozzicone nel portacenere sulla scrivania. Si appoggiò allo schienale della sedia e tirando sulla sigaretta chiese: «Allora, Mr Eroico Poliziotto; cosa posso fare per te?» «Il suo cadavere della baia, Mr Senzarotule». Inarcò un sopracciglio «Ti ascolto». «Credo si tratti di George Stephenson, soprannome "Geordie". Era un picchiatore per Malcom McLennan...». «Malk la Scure? Merda, non sapevo che avesse interessi da queste parti». «Sembra che Geordie sia stato mandato quassù per concludere un affare con un funzionario dell'ufficio licenze edilizie: bustarella per trecento villette in una zona verde. Il funzionario ha rifiutato e Geordie lo ha spinto sotto un bus». «Non ti credo», rispose lei sorpresa, al punto da togliersi la sigaretta dalla bocca. «Un funzionario dell'ufficio licenze che ha respinto una bustarella?». Logan fece spallucce. «Inoltre, sembra che all'amico Geordie piacessero i cavalli. Solo che la dea bendata non gli è amica. Col risultato che lui si è indebitato con alcuni degli allibratori locali per grosse cifre». L'ispettore Steel si riappoggiò allo schienale della sedia e guardò Logan. «Guarda guarda, Malcom McLennan. E tu... dove hai appreso tutto questo?» «Da un giornalista del "Press and Journal". Colin Miller». Steel inalò profondamente dalla sigaretta facendone brillare l'estremità accesa. Esaminò attentamente Logan continuando ad aspirare e mandando il fumo fuori dal naso, fino ad avere la testa avvolta in una nuvola di fumo bluastro. «Insch mi dice che stai indagando sul caso della bambina della discarica». «Sì, signora».
«Mi dice anche che non sei un coglione». «Grazie, signora». Ma non era sicuro se l'ispettore Steel avesse inteso fargli un complimento. «Non ringraziare me. In questo lavoro, quando un subalterno non è un coglione, lo si nota subito. E quindi gli si danno da fare cose importanti». Gli sorrise tra la nuvola di fumo e Logan sentì un freddo nella spina dorsale. «Io e Insch... abbiamo parlato di te». «Davvero?». Logan cominciò ad avere la sensazione che qualcosa di spiacevole stesse per accadere. «Oggi è la tua giornata, Mr Eroico Poliziotto. Avrai la possibilità di brillare ancora una volta». CAPITOLO 17 Logan andò subito dall'ispettore Insch che, appollaiato sull'orlo della scrivania come un enorme avvoltoio, lo ascoltò con calma, mentre Logan si lamentava del fatto che l'ispettore Steel gli aveva affibbiato il caso del "senza rotule". Logan era solo un sergente! Non era in grado di indagare su due casi simultaneamente! Insch lo lasciò sfogare; quando finì gli disse che stavano attraversando tutti un momento difficile e che era ora che la smettesse di fare la primadonna. «Come vanno le indagini sulla bambina della discarica?». Logan fece spallucce. «L'appello in TV è stato trasmesso ieri sera e abbiamo ricevuto tante segnalazioni, sulle quali dovremo indagare. Una signora anziana ci ha telefonato per dirci che potevamo sospendere le ricerche perché la piccola "Tiffany" stava giocando nel suo giardino», scosse la testa. «Vecchia rimbambita... ma ho dodici agenti in divisa che stanno indagando sulle segnalazioni». «Quindi non hai niente da fare; stai solo aspettando che le indagini sulle segnalazioni diano qualche frutto?». Logan arrossì e dovette ammettere che sì, in effetti era libero. «E allora? Perché non cominci a indagare su Geordie Stephenson?» «Veramente... ci sarebbero i telefoni e...». «Metti un agente in divisa a rispondere alle telefonate». Insch incrociò le braccia e si riappoggiò alla scrivania. «E poi... e poi...». Logan s'interruppe, facendo gesti sconsolati con le braccia. Non riusciva a tirar fuori quello che avrebbe voluto veramente dire «Ho paura di fare qualche grave errore e pasticciare l'operazione!».
«E poi niente», lo interruppe Insch. «Ti ridò l'agente Watson. Non le ho dato nessun compito nelle mie indagini. Appena finisce in tribunale stamattina te la puoi riprendere». Logan capì che era sconfitto. «Allora, cosa aspetti?». L'ispettore si staccò dalla scrivania e tirò fuori un mezzo cilindretto di mentine Polo. Se ne mise una in bocca, riavvolse la stagnola e lanciò il resto a Logan, come un mini candelotto di dinamite. «Consideralo un regalo di Natale. Anticipato. Adesso, fuori dalle palle e al lavoro». I colleghi della Lothian and Borders furono felicissimi nell'apprendere che Logan aveva un cadavere all'obitorio che avrebbe potuto essere Geordie Stephenson. Ma prima di celebrare con torta e champagne volevano essere certi che lo stecchito nel frigorifero dell'obitorio della Centrale della Grampian Police fosse veramente il picchiatore del loro Mr McLennan. Quindi gli mandarono via e-mail tutto ciò che avevano su Geordie: impronte digitali, fedina penale, e una bella fotografia della quale Logan fece fare dodici copie a colori. Geordie aveva una faccia dai lineamenti pesanti, una folta capigliatura e baffetti da pornostar. Proprio la faccia che ci vuole quando vai a riscuotere soldi con minacce. Da morto era alquanto ammaccato e malmesso ma era senza ombra di dubbio l'uomo che era stato pescato nella baia senza le rotule. E come se non bastasse, le impronte digitali erano identiche. Logan telefonò ai colleghi della Lothian and Borders per dar loro le buone notizie: Geordie Stephenson stava adesso riscuotendo debiti nell'aldilà. Promisero a Logan che gli avrebbero mandato una fetta di torta. Ora che il suo Mr Senzarotule era stato identificato senza ombra di dubbio, a Logan non restava altro che scoprirne l'assassino. E Logan era pronto a scommettere che la morte di Geordie era in qualche modo collegata alle sue scommesse. Quindi bisognava cominciare a fare il giro degli allibratori di Aberdeen. Sventolargli in faccia la foto di Geordie e coglierne le reazioni, Tornò al piccolo ufficio che adesso era diventato il suo centro investigazioni, per controllare che funzionasse. Come consigliatogli da Insch, aveva requisito un agente per rispondere al telefono e coordinare il lavoro degli agenti che andavano porta a porta. Era una donna dall'aspetto intelligente; lo aggiornò sullo stato delle indagini in tre secondi; zero risultati. Promise di chiamarlo al cellulare appena avesse avuto qualcosa di positivo da co-
municargli. Ora non gli restava altro che prelevare l'agente Watson dalla Sheriff Court e darsi da fare. Era seduta nell'aula principale, fissava un giovanotto, alto, massiccio e dal viso butterato che stava testimoniando nel processo Cleaver. Alzò lo sguardo e sorrise a Logan che prese posto a fianco a lei. «Come sta andando?», bisbigliò Logan. «Ci sta arrivando». Il ragazzone che stava testimoniando avrà avuto ventun anni, non di più. Sotto le luci dell'aula sudava vistosamente. Non era grasso, ma aveva una grossa struttura ossea. Un mascellone, mani come badili, braccia lunghe. Il vestito grigio che indossava e che gli era stato prestato dall'ufficio del pubblico ministero per renderlo più presentabile e più attendibile come testimone gli stava stretto. A ogni suo movimento le cuciture andavano sotto sforzo; i capelli, di un biondo sporco, non avevano visto un pettine da chissà quando ed era molto agitato, si muoveva continuamente mentre parlava dei suoi incontri con Gerald Cleaver. Un ragazzo di undici anni, continuamente picchiato e maltrattato da un padre ubriacone. Una volta era stato picchiato tanto brutalmente che avevano dovuto ricoverarlo per tre settimane nell'Aberdeen Children's Hospital. E lì era caduto dalla padella nella brace. Gerald Cleaver, responsabile del reparto, trattava i piccoli pazienti affidati alle sue cure in un modo tutto particolare. E lo aveva trattato alla sua maniera, mentre il bambino era trattenuto da cinghie nel suo lettino, facendogli fare cose che avrebbero fatto arrossire una porno star. Il pubblico ministero lo stava interrogando dolcemente, con molto tatto, aiutandolo a rispondere anche quando il ragazzone era in lacrime. Mentre il teste deponeva, Logan osservava la giuria e l'imputato. I quindici della giuria, uomini e donne, erano visibilmente scossi da quanto stavano ascoltando. Ma la faccia di Gerald Cleaver sembrava un enorme pezzo di burro; senza alcuna espressione. Il pubblico ministero ringraziò il teste per il coraggio dimostrato nella sua testimonianza e lo passò all'avvocato difensore. «Adesso comincia lo spettacolo», mormorò Watson con voce disgustata, vedendo Sandy il Viscido alzarsi con studiata lentezza e con quel fare sornione e compiaciuto. L'avvocato diede un affettuoso colpetto sulla spalla del suo cliente e si avvicinò alla giuria, con quel sorriso che Logan ben ricordava. Si appoggiò al banco e sorridendo ai quindici lì riuniti, cominciò
a interrogare il testimone. «Martin», gli chiese senza neanche girarsi a guardarlo, «questa non è la prima volta che lei si trova in quest'aula, vero?». Il pubblico ministero balzò in piedi come se qualcuno gli avesse improvvisamente mandato mille volt di corrente su per le chiappe. «Obiezione! Il passato del teste non ha nulla a che vedere col caso sotto processo!». «Vostro onore, voglio semplicemente esporre la veridicità e l'affidabilità del teste». Il giudice li guardò entrambi attraverso il suo pince-nez, e dopo qualche secondo si pronunciò: «Continui pure». «Grazie, vostro onore», disse il Serpente. «Martin, lei è stato in quest'aula ben trentotto volte, vero? Furto con scasso, aggressione violenta, molte volte per possesso di sostanze stupefacenti, una volta per possesso a scopo di spaccio, poi taccheggio, incendio doloso, esibizionismo indecente». Fece una pausa drammatica. «Quando lei aveva quattordici anni tentò di fare sesso con una minorenne e quando la sfortunata ragazza lo respinse lei la picchiò con tanta violenza che alla poveretta dovettero dare quarantatré punti di sutura per rimetterle a posto la faccia. E non potrà mai essere madre. E appena ieri lei è stato sorpreso mentre si masturbava nello spogliatoio per donne...». «Obiezione, vostro onore!». E continuò così per altri venti minuti. Con molta calma Sandy Serpente ridusse il teste dell'accusa a brandelli; nel corso del suo controesame il giovane Martin fu ridotto a un rottame, rosso in volto, imprecante e singhiozzante. Tutte le umiliazioni alle quali Gerald Cleaver lo aveva sottomesso furono spiegate alla giuria come il frutto della fantasia malata e turbata di un bambino che disperatamente cercava di attrarre attenzione su di sé. Fino al momento in cui Martin cercò di lanciarsi addosso all'avvocato. «Stronzo, ti ammazzo!». Fortunatamente fu trattenuto. Sandy Moir-Farquharson lo guardò: scosse la testa con tristezza e rilasciò il teste. Mentre andavano alle celle Watson bestemmiò profusamente; ma riprese il suo buon umore quando Logan le riferì il suo nuovo incarico. «L'ispettore Insch vuole che mi occupi del caso di Geordie Stephenson: Mr Senzarotule», le disse mentre percorrevano il lungo corridoio che portava dall'aula numero uno alle celle. «Gli ho detto che avrei avuto bisogno di aiuto e Insch mi ha assegnato te. Ha detto che mi saresti stata di grande
aiuto». Watson sorrise, compiaciuta del complimento, senza sapere che Logan se lo era inventato sui due piedi. Martin Strichen era stato portato giù nelle celle direttamente dall'aula. Quando Logan e Watson arrivarono lì lo trovarono seduto sul sottile pagliericcio, piangendo con la testa tra le mani. La cucitura sulla schiena della giacca che indossava sembrava scoppiare da un momento all'altro. Guardandolo, Logan non sapeva cosa pensarne. Che un bambino debba essere sottoposto al tipo di violenza sessuale che Gerald Cleaver aveva inflitto alle sue vittime era una cosa orrenda. Nonostante questo, non poteva dimenticare le parole di Sandy Serpente. Quella lunga lista di reati. Martin Strichen era una piccola pezza da piedi. Ma questo non significava che non avesse sofferto per causa di Gerald Cleaver. Watson firmò per la presa in consegna di Martin Strichen e lo condussero, ammanettato e frignante all'uscita sul retro dove c'era il parcheggio e l'auto che Logan aveva ritirato dal parco del CID. Mentre Martin entrava nell'auto, con Watson che gli teneva giù la testa per evitare che si facesse male sull'arco della portiera, lo sentirono dire: «Aveva quattordici anni». «Cosa?», gli chiese Watson avvicinandosi e guardandolo negli occhi. «La ragazza. Sia lei che io avevamo quattordici anni. Lei ci stava, ma io non ci riuscivo. Non la forzai... proprio non ci riuscivo». Le lacrime gli colavano dagli occhi senza che lui tentasse di asciugarseli. «Alza le braccia», gli chiese Watson, per potergli allacciare la cintura di sicurezza. Non si sa mai. Non voleva che la Grampian Police finisse querelata per danni morali e materiali nel caso di un incidente. Lo sentì bisbigliare: «Non smetteva di ridere...». Scaricarono il loro passeggero alla prigione di Craiginches. Espletata la procedura di riconsegna del prigioniero furono liberi di indagare sul caso dell'ispettore Steel. Logan e Watson visitarono una miriade di piccoli allibratori nelle zone meno salubri di Aberdeen, facendo vedere al personale la foto di Geordie Stephenson e ricevendo solo scosse di testa e scena muta. Non visitarono le agenzie dei grandi operatori del settore - William Hill e Ladbrokes - non davano l'impressione di essere operatori che sfasciano a colpi di machete le ginocchia di qualcuno che non paga i suoi debiti. Ma il Turf and Track in Sandilands era proprio quel tipo di operatore. Negli anni sessanta, prima di diventare una sala corse, il Turf and Track
era stata una panetteria. Ma quelli erano tempi nei quali la zona aveva avuto un po' più classe. Non tanta di più: quanto bastava per poter camminare per le strade di sera. Adesso la sala corse era parte di un blocco di quattro attività commerciali, altrettanto dimesse e malandate. Erano tutte ricoperte da graffiti, avevano tutte robuste griglie metalliche alle vetrine ed erano state tutte oggetto di rapina a mano armata e furto con scasso, molte volte. Tutte, meno il Turf and Track, che, a memoria d'uomo aveva subito una sola rapina. Questo perché i fratelli McLeod avevano braccato l'incauto individuo che un giorno era entrato armato di fucile a canne mozze nel Turf and Track, all'epoca gestito dal loro padre. Lo avevano preso e lo avevano torturato a morte con accendini a gas e pinze a nasello. Almeno così si diceva in giro. I negozi erano circondati da un'infinità di case popolari; palazzine di tre e quattro piani in cemento tirate su in fretta e furia e lasciate lì a marcire. Chi era senza casa, senza soldi e senza grandi pretese finiva qui. Al fianco del Turf and Track c'era un fruttivendolo. Sulla porta c'era un poster del viso sorridente e lentigginoso di Peter Lumley con la dicitura «Chi l'ha visto?». Qualche cretino armato di pennarello ci aveva aggiunto baffi, occhiali e più sotto "La Susanna lo prende nel culo". Sulla porta del Turf and Track non c'era nessun poster; dall'esterno si vedevano solo vetri scuri e un cartello di plastica verde e giallo. Logan spinse la porta ed entrò. L'interno era ancora più deprimente dell'esterno. L'aria era densa di fumo, sigarette di trinciato forte fatte a mano, al quale si aggiungeva l'odore di cane bagnato. Poche sedie in plastica gialla; per terra un linoleum sporco e appiccicoso, pieno di bruciature di sigaretta e in più punti liso fino al sottostante cemento dal continuo passaggio. Infissi in legno così impregnati di fumo che sembrava gocciolassero nicotina. Un banco divideva il locale in due, separando gli scommettitori dalla gestione, dalle casse e dalla porta dell'ufficio in fondo alla sala. C'era un vecchio, seduto in un angolo. Ai suoi piedi, un pastore tedesco i cui peli grigi sul muso ne indicavano l'anzianità. Il vecchio aveva in mano una lattina di birra e stava guardando un televisore dove dei levrieri inseguivano una finta lepre su una pista di sabbia. Logan fu sorpreso di vedere un pensionato lì dentro. Era convinto che avessero tutti paura di venir fuori da soli. Ma poi il vecchio tolse gli occhi dal televisore per esaminare i nuovi arrivati. Aveva il collo pieno di tatuaggi: fiamme e teschi. L'occhio destro bianco, opaco e senza vita. Logan si senti strattonare la manica e Watson gli bisbigliò nell'orecchio: «Ma quello non è...». Ancor prima che potesse fini-
re la domanda il vecchio urlò: «Mr McLeod! Ci sono due pezzi di merda della polizia qui per lei!». «Dai, Dougie, non essere scortese», disse Logan facendo un passo verso il vecchio. In un istante il cane fu in piedi, mostrava i denti e ringhiava minacciosamente, con la saliva che gli gocciolava dai denti rotti e mancanti. Logan si fermò di colpo. Il cane era vecchio e quasi sdentato, ma era cattivo abbastanza da impaurirlo. Nessuno si mosse. Il cane continuava a ringhiare, il vecchio a guardarli con cattiveria e Logan cominciava a chiedersi se non avrebbe dovuto correre e mettersi in salvo da qualche parte. Dopo pochi attimi un faccione si sporse dalla porta dell'ufficio. «Dougie, cosa ti ho sempre detto per quel tuo cane di merda?». Il vecchio sorrise, mostrando una dentiera sporchissima. «Mi avete detto che se fossero entrati quegli stronzi della polizia il cane era libero di sbranarli». McLeod si accigliò; poi un sorriso gli aprì il faccione in due. «Hai ragione. Te lo avevo detto». Avrà avuto trent'anni meno di Dougie, ma il vecchio lo chiamava "Mr McLeod". Simon McLeod aveva ereditato i lineamenti rozzi e volgari di suo padre; dal suo orecchio sinistro mancava un pezzo, opera di un Rottweiler chiamato "Killer" la cui testa imbalsamata ora adornava l'ufficio sul retro. «Allora, cosa volete voi stronzi?», chiese appoggiando le sue enormi braccia sul banco. Logan tirò fuori la foto a colori di Geordie e gliela mostrò. «Lo riconosce?», chiese. «Vaffanculo». Senza neanche guardare la foto. «Bella proposta, ma per questa volta lascio stare»; gli sbatté la foto sul banco. «Ricominciamo; lo riconosce?» «Mai visto». «Era un poco di buono di Edimburgo. Era venuto qui a fare un lavoro per Malk la Scure. Ha fatto delle scommesse in giro; ha perso e non ha pagato». La faccia di Simon McLeod si accigliò. «Noi non abbiamo clienti che non pagano i loro conti. La direzione non lo permette». «Lo guardi bene, Mr McLeod. È sicuro di non riconoscerlo? È finito nella baia di Aberdeen, dopo che qualcuno gli aveva tolto le rotule». Simon spalancò gli occhi in sorpresa e si diede una manata sulla bocca. «Oh, quello? Cristo, ora che mi hai detto questo altro particolare, mi sem-
bra di ricordare di avergli tolto le rotule a colpi di machete e di averlo buttato nella baia! Cristo, ma perché non me l'hai chiesto prima? Ma sì che l'ho ucciso io! Già, proprio così! L'ho ucciso e l'ho buttato in mare e sono anche così stupido da non saper dire bugie a degli stupidi poliziotti di merda che vengono in bottega a farmi domande stupide». Logan si morse la lingua e contò fino a cinque: «Lo riconosce?» «Vaffanculo e portati quella stronza via con te. La vostra puzza sta dando fastidio a Winchester»; indicò il cane che non aveva smesso di ringhiare. «E anche se lo riconoscessi preferirei mangiare merda dal culo di una puttana che dirlo a te». «Dov'è suo fratello Colin?». «Dov'è mio fratello sono cazzi miei, ecco dov'è. Ora ti togli dalle palle o no?». Logan si rese conto che non c'era più niente che potessero concludere al Turf and Track e si avviò verso la porta. L'aveva quasi raggiunta quando ricordò qualcosa. «A colpi di machete», disse aggrottando la fronte. «Come faceva a sapere che le ginocchia gli erano state tagliate a colpi di machete? Io ho solo detto che qualcuno gliele aveva tolte». McLeod non fece una piega. Ridendo rispose: «Brava, Miss Marple. Quando qualcuno finisce nella baia senza ginocchia come c'è finito lui, c'è dietro un messaggio. E non è un buon messaggio se c'è ancora qualcuno che non capisce. Ora tutti in città sanno che non è consigliabile fare quello che ha fatto quel pezzo di merda. E adesso togliti dalle palle». Si fermarono nel piazzale antistante il Turf and Track. Le nuvole si rincorrevano nel cielo e c'era ancora un po' di sole. Pensieroso, Logan guardò un paio di borse di plastica che si inseguivano nel piazzale, spinte dal vento. Watson si appoggiò alla ringhiera metallica davanti allo stabile. «E adesso?». Logan strinse le spalle. «Sapevo che avremmo fatto un buco nell'acqua con i McLeod. Avremmo potuto portar dentro qualche loro cliente, ma tu lo vedi Dougie che crolla e svuota le budella?» «Non le sue budella, no». «E allora mostreremo la foto di Geordie a tutti i negozianti della zona. Non si sa mai. Se non parliamo dei McLeod può darsi che qualcuno ci dica qualcosa». Il proprietario di una cucina cinese per pasti da asporto, uno di Liverpo-
ol, non riconobbe la foto, come non la riconobbero i suoi due dipendenti, aberdoniani. Il videonoleggio aveva chiuso battenti anni fa, ma le finestre erano ancora piene di poster reclamizzanti film di successo. L'ultimo negozio dei quattro era un miscuglio di attività: giornalaio e fruttivendolo, con licenza per la vendita di alcolici e superalcoolici. Alla vista dell'uniforme di Watson il proprietario fu preso da un improvviso attacco di laringite: ma riuscì a vendere a Logan un pacchetto di mentine extra strong. Tornarono in strada; il cielo era diventato cupo e plumbeo, oscurando quel poco di luce del giorno che ancora si vedeva. I primi goccioloni cominciavano a cadere. Dopo pochi istanti si aprirono le cateratte e il diluvio cominciò, proprio mentre Logan e Watson si avvicinavano alla loro auto. Fecero gli ultimi metri di corsa; entrarono nella Vauxall, Watson avviò il motore e fece andare la ventola per sbrinare i vetri che si erano appannati subito. Rimasero seduti lì, gustando le mentine che Logan aveva comprato e guardando i pochi passanti che entravano nei negozietti per un chicken chowmein pomeridiano o per acquistare l'ultimo numero di qualche rivista mensile di sadomasochismo. Simon McLeod aveva le mani in qualcosa di losco. In effetti i fratelli McLeod avevano sempre le mani in qualcosa di losco. Il guaio era che nessuno riusciva mai a provarlo. Facevano parte della vecchia scuola; quella nella quale le lezioni venivano insegnate a martellate. E nessuno vedeva, sentiva o sapeva niente. Nessuno parlava. Mai. «E adesso? Dove andiamo?». Logan strinse le spalle. «Proviamo un altro allibratore. Chi è il prossimo sulla lista?». L'agente Watson inserì la retromarcia e uscì dal posto dove aveva parcheggiato; accese i fari e nei fasci di luce la pioggia cadente si tramutò in lame argentate. Erano quasi usciti dal piazzale quando improvvisamente una vecchia e arrugginita familiare verde apparve da un'altra stradina e tagliò loro la strada. Watson inchiodò i freni e gridò «Merda!». Visto che l'autista aveva parcheggiato davanti al Turf and Track, Watson abbassò il finestrino e gli lanciò una sfilza di parolacce. Per lo più erano parolacce relative al fondoschiena dell'autista e allo scarpone di Watson. Improvvisamente si fermò a metà parola. «Oh, Gesummaria!... mi dispiace, signore!». Logan corrugò un sopracciglio. Watson arrossì. «Signore, avevo dimenticato che c'era anche lei in macchina. Mi dispiace».
Logan pensò a quanto Insch gli aveva detto a proposito dei vantaggi del grado. Non poteva lasciar correre. Santa pace, Watson era in divisa! E se l'incidente fosse finito sui giornali? «Ti sembra che un agente, in uniforme e donna tra l'altro, che si sporge dal finestrino dell'auto e si lascia sfuggire una serie di parolacce da far impallidire uno scaricatore di porto, aiuti la reputazione delle forze di polizia?» «Non ci ho pensato, signore». «Jackie», continuò Logan. «Quando ti comporti così, fai sembrare tutti noi degli idioti. E non fai bella figura con chi ti vede o con chi lo viene a sapere da terzi. E metti anche in pericolo il tuo lavoro». Watson arrossì ancor più intensamente. «Io... mi dispiace». Contò fino a dieci mentre lei cuoceva nel suo brodo. Aveva sperato di fare una bella figura con le sue spiritosaggini e con le sue capacità di deduzione. Di apparire un grand'uomo di mondo ai suoi occhi. Il genere di grand'uomo col quale si va a letto due volte. Non aveva voluto darle una strapazzata. Anche se le avrebbe volentieri dato una strapazzata di tutt'altro genere... «Andiamo», continuò, sfoggiando un sorriso amichevole. «Se tu non lo dirai a nessuno, non lo dirò neanch'io». «Grazie, signore», rispose lei, senza guardarlo e inserendo la marcia. CAPITOLO 18 Mentre continuavano a indagare sul resto degli allibratori sulla lista di Logan, l'atmosfera nell'auto non andò oltre il minimo della cortesia e a quanto dettato dalle buone maniere. L'agente Watson continuò a chiamarlo "signore" e a rispondere alle sue domande, senza mai dire qualcosa che non fosse direttamente pertinente al caso sul quale stavano indagando. Un pomeriggio di merda. Continuarono la loro monotona tiritera; esci dalla macchina, entra in sala corse, tira fuori la foto, mostrala al titolare, «hai mai visto quest'uomo?», «no». Molte volte il «no» era accompagnato da un gratuito «...e vaffanculo»; altre volte non era pronunciato, ma lo sentivi lo stesso nell'aria. Il "vaffa" c'era sempre. Meno che nell'agenzia "J. Stewart and son, allibratori in Mastrick dal 1974". Lì furono ricevuti e trattati col massimo della cortesia, al punto da insospettire entrambi. «Cristo, che strano!» disse Logan mentre tornavano alla loro Vauxall. «Guarda...», continuò, «ci sorridono ancora!», indicando una donna dalle
dimensioni notevoli e con i capelli grigi raccolti in un chignon sulla cima del cranio, che li salutava con la mano. «A me è sembrata una persona abbastanza perbene», rispose Watson mentre uscivano dal parcheggio. Erano le prime parole che aveva detto per più di un'ora. «Tu non conoscevi mamma Stewart?», le chiese Logan mentre tornavano alla Centrale. Quando lei non rispose, decise di interpretare il suo silenzio come un "no". «Io l'ho arrestato, anni addietro», continuò Logan, mentre imboccavano la Lang Stracht, l'ampia strada farcita di corsie preferenziali per bus e strani incroci stradali, con spartitraffico e passaggi pedonali. «Pornografia; vendeva riviste e videocassette pornografiche ai ragazzini, dal retro di una vecchia Ford Anglia. Mica roba pesante, niente animali e porcherie del genere. Normalissimo hard-core sex, made in Germany...»; fece una smorfia di disgusto. «La maggior parte dei bambini di Mastrick sul sesso la sapeva più lunga del loro insegnante di biologia. Il nostro intervento fu chiesto quando una bambina di otto anni chiese a sua madre se sarebbe rimasta incinta se un suo amichetto le avesse infilato la mano nella farfallina». Un lieve sorriso increspò le labbra dell'agente Watson. L'edificio del «Press and Journal» passò alla loro sinistra e a Logan scappò un gesto di stizza. Con la smania e voglia di fare che lo aveva preso da quando gli era stata affidata l'indagine sulla bambina della discarica aveva completamente dimenticato la visita di Colin Miller di stamattina. Il giornalista gli aveva chiesto un'esclusiva sull'andamento delle indagini e Logan non ne aveva ancora parlato all'ispettore. E Miller aveva anche detto di avere ulteriori informazioni sul caso di Geordie Stephenson. Tirò fuori il cellulare per chiamare Insch e aveva appena inserito le prime due cifre del numero quando una voce gracchiò dall'altoparlante della radio. Qualcuno aveva picchiato Roadkill. Non avevano voluto fargli tanto male; almeno così dissero i capibanda, interrogati dalla polizia e dalla stampa. Volevano solo accertarsi che i loro bambini non venissero toccati. Era giusto, no? Quello che non era giusto era che un uomo come lui, un adulto, bighellonasse davanti all'uscita della scuola, diamine! E non era neanche la prima volta che lo avevano visto lì. Era stato visto tanti pomeriggi, proprio all'ora d'uscita dei bambini. E sapevano che era un po' sballato. Tutti sapevano che gli mancava un venerdì. E puzzava. Non era giusto. E allora avevano pensato di strapazzarlo un po'.
Avevano voluto solo dargli una strigliatina, così, perché gli servisse come avvertimento, ma poi si erano lasciati prendere la mano e allora... Però c'erano dei bambini scomparsi! Bambini proprio come quelli che andavano alla scuola elementare di Garthdee. Proprio come i loro bambini. Però se quelli della polizia non l'avessero presa così alla lunga e fossero arrivati prima, le cose non sarebbero andate così male. Se fossero arrivati quando erano stati chiamati, niente di tutto questo sarebbe accaduto. Quindi, ripensandoci, era colpa della polizia. L'uomo che era seduto dall'altra parte del tavolo nella saletta d'interrogatorio, aveva visto giorni migliori. Ieri, per esempio. Che era l'ultima volta che Logan aveva visto Roadkill, al secolo Bernard Duncan Philips. Lo aveva visto piuttosto malmesso e trasandato allora; ma almeno non aveva il naso che sembrava fosse stato preso a martellate. Aveva il volto pieno di lividi e un occhio chiuso, gonfio e paonazzo. Su una guancia la barba era pulita e ispida, dove quelli del pronto soccorso gli avevano lavato via il sangue. Aveva un labbro gonfio come un salsicciotto; e faceva una smorfia di dolore ogni volta che sorrideva. Il che, fortunatamente, non accadeva molto spesso. Le accuse rivolte a Roadkill da parte dei "preoccupati genitori" che lo avevano strapazzato erano troppo serie per poterle ignorare. Per cui, appena rilasciato dal pronto soccorso, era stato portato dentro. Il profilo psicologico elaborato dalla Lothian and Borders Police gli calzava a pennello: bianco, maschio, tra i venti e i trent'anni, problemi di salute mentale, lavoro umile, niente ragazze, vive da solo. L'unico errore nella loro descrizione era l'affermazione «...probabilmente intelligente, ma con scarsi risultati scolastici». E invece Roadkill aveva una laurea in storia medioevale. Ma, come aveva aggiunto Insch, non gli era stata di grande aiuto. Era stato un interrogatorio lungo, difficile e tortuoso. A volte sembrava che Roadkill stesse per dire qualcosa che avesse capo e coda; ma improvvisamente ricominciava a borbottare senza senso, sempre dondolandosi avanti e indietro sulla sedia. E siccome Roadkill era mentalmente malato avevano dovuto far venire, come richiesto dalla legge, un "adulto responsabile" a tutela dei suoi diritti. Un assistente sociale era stato fatto venire dalla prigione di Craiginches, e ora sedeva al suo fianco mentre lui borbottava, si dondolava e impestava la saletta col suo fetore. La puzza era insopportabile. Un insieme di "Eau de animale putrefatto" e "Odore corporeo pour homme". Roadkill aveva bisogno di un buon bagno, ma subito. Non appena se ne era presentata l'opportunità, l'ispettore
Insch aveva tagliato la corda, lasciando Logan e l'assistente sociale a soffrire mentre lui andava a controllare la veridicità della deposizione rilasciata. Logan si spostò sulla sedia e si meravigliò che per l'ennesima volta l'ispettore si fosse volatilizzato. «Bernard, vuoi un'altra tazza di tè?», chiese. Bernard non rispose. Si limitò a piegare un foglio di carta in due e poi a piegarlo ancora e poi ancora. «Tè, Bernard? Ne vuoi?», ripeté la domanda. Piega il foglio. Piegalo ancora. E ancora. Logan sprofondò sulla sedia e rovesciò la testa all'indietro, fino a guardare le piastrelle di polistirolo del soffitto, di un grigio sporco. Sembravano la superficie lunare. Dio, che noia. Ed erano quasi le sei! Avrebbe dovuto incontrarsi con la Watson per andare a bere qualcosa. Piega. Piega. Ripiega. Logan e l'assistente sociale parlarono per un po' delle ultime partite dell'Aberdeen Football Club e ricaddero nuovamente in un profondo silenzio. Piega, piega, ripiega. Alle 18,23 l'ispettore aprì la porta e chiese a Logan di uscire nel corridoio. «Sei riuscito a tirarne fuori qualcosa?», gli chiese, quando erano fuori entrambi. «Solo una gran puzza», rispose Logan. Insch si mise una caramellina morbida in bocca e la masticò pensoso. «In effetti la sua deposizione è veritiera. Il furgone del comune lo lascia ogni giorno allo stesso posto poco prima delle quattro. Sono anni che fanno così. Roadkill prende l'autobus delle 16,22 per Peterculter. Non è stato difficile trovare un autista che si ricordasse di lui, la sua puzza non si dimentica facilmente». «E la fermata dell'autobus si trova...». «Proprio davanti alla Garthdee Primary School. Pare che andasse a scuola lì, prima che il cervello gli andasse in tilt. Probabilmente il ripetitivo tran-tran lo rassicura». «E i cosiddetti "genitori preoccupati"... si sono presi la briga di chiedergli perché era lì ogni pomeriggio?». Insch grugnì e si mise in bocca un'altra caramellina. «Col cavolo che glielo hanno chiesto! Hanno solo visto un povero diavolo malmesso e trasandato che emanava uno strano odore e che aspetta davanti alla scuola dei loro bambini e hanno deciso di dargli una strigliata. Roadkill non è il no-
stro uomo». E quindi rientrarono nella fetida saletta. «È sicuro di non voler aggiungere niente a quanto ci ha già detto, Mr Philips?», chiese l'ispettore accomodandosi al tavolino. Roadkill non aveva niente da aggiungere. «Bene», continuò l'ispettore. «Allora le farà piacere sapere che siamo riusciti a corroborare la sua versione dei fatti. Lei è stato vittima di un'aggressione, ma dovevamo assicurarci che le accuse che sono state fatte nei suoi confronti fossero infondate, va bene?» Piega, piega, ripiega. «Ho chiesto al comune che da ora in poi lei venga lasciato più avanti, non vicino alla scuola. Le persone che l'hanno aggredita non sono molto intelligenti e potrebbero riprovarci». Silenzio. «Abbiamo i nomi dei suoi aggressori, Mr Philips». Non era stato difficile; quei cretini erano stati fieri di dare le loro generalità. Capirai, avevano tolto dalle strade un pedofilo! Avevano salvato chissà quanti ragazzini da chissà quale orrenda fine! Che avessero commesso una violenta aggressione non sembrava preoccuparli. «Vorrei che lei facesse una dichiarazione, così potremo sporgere denuncia contro i suoi aggressori». Logan riconobbe il segnale e tirò fuori il suo blocchetto, per prendere la deposizione di Roadkill. Piega, piega, ripiega. La carta si era ormai consumata lungo le pieghe; un pezzetto si staccò e cadde per terra. Roadkill lo guardò incuriosito. «Mr Philips? Mi può dire cosa è successo?». Molto attentamente Roadkill raccattò il pezzo di carta da terra e se lo mise davanti, allineandolo perfettamente con gli angoli del tavolo. E ricominciò a piegare il foglio. Insch sospirò. «E va bene. E se invece lo scrive il sergente e lei lo firma? Le va bene così?» «Ho bisogno della mia medicina». «Mi scusi?» «Medicina. È l'ora della mia medicina». Con gli occhi Insch interrogò Logan che strinse le spalle e disse: «Probabilmente degli antidolorifici che gli hanno dato al pronto soccorso». Roadkill smise di piegare il foglio di carta e mise le mani sul tavolo.
«Non sono antidolorifici. Medicina. Devo prendere la mia medicina. Altrimenti non mi fanno andare a lavorare domani. Mi hanno scritto una lettera. Devo prendere la medicina altrimenti non mi faranno andare a lavorare». «È una cosa di pochi minuti, Mr Philips. Magari poss...». «Niente deposizione. Niente minuti. Medicina». «Ma...». «Se non mi arrestate, o se non mi imputate un capo d'accusa, non potete trattenermi qui. Non potete costringermi a sporgere denuncia». Era la cosa più lucida che Logan gli avesse mai sentito dire. Roadkill rabbrividì, stringendosi le braccia. «Per favore. Voglio solo andare a casa e prendere la mia medicina». Logan guardò il povero diavolo che avevano davanti, livido e malconcio e mise giù la penna. Roadkill aveva ragione. Non potevano costringerlo a sporgere denuncia contro le persone che gli avevano fatto un occhio nero, rotto un labbro, allentato tre denti, incrinato una costola e preso più volte a calci nelle palle. Ma dopotutto erano le sue palle. Se Roadkill non voleva che quelli che gliele avevano prese a calci fossero puniti, affari suoi. Ma la Grampian Police non aveva nessuna intenzione di rimetterlo in strada in un batter d'occhio. Quei cretini magari lo stavano aspettando da qualche parte. E forse anche la stampa: Banda di eroici genitori cattura il mostro dei bambini! No, "banda" era forse un po' pesante. Pedofilo catturato da genitori! Sì, così andava meglio. «Ne è sicuro, Mr Philips?», chiese Insch. Roadkill si limitò ad annuire. «E va bene. In tal caso le farò restituire ciò che le è stato temporaneamente sequestrato e il qui presente sergente McRae la porterà a casa». Logan bestemmiò sottovoce. L'assistente sociale fu ben lieto di non aver ricevuto l'incarico. Sorridendo da un orecchio all'altro strinse la mano a Logan e si tolse dai piedi. Mentre Bernard Duncan Philips firmava per la restituzione di quanto gli era stato sequestrato, l'ispettore Insch cercò di ingraziarsi Logan, offrendogli una caramella alla frutta. Non sarebbe tornato prima delle 20,00, o delle 19,30 se gli andava bene. Forse avrebbe dovuto dire a Jackie che avrebbe fatto tardi, sperando che lo aspettasse. Ma a giudicare da come si era comportata con lui nel pomeriggio, non ci sperava proprio. «Allora... Roadkill non è il nostro uomo, vero?», disse accettando malvolentieri la caramella.
«No, è solo un povero sballato che puzza». Lo guardarono mentre il povero diavolo si chinava adorosamente per infilarsi i lacci nelle scarpe. «Bene... io devo andare», disse Insch dopo un paio di minuti. «Il sipario va su tra un'ora e mezza». Diede un colpetto di saluto sulla spalla di Logan e girò i tacchi, fischiettando il preludio. «In bocca al lupo, signore», gli disse Logan mentre l'ispettore si allontanava. «Grazie, sergente», rispose allegramente Insch facendogli "ciao" con la mano, senza neanche girarsi. «No, dico sul serio», continuò Logan. «Spero che il lupo ti mangi almeno una gamba!». Ma prima di dirlo per sfogare la sua rabbia aspettò che l'ispettore fosse uscito e che la porta fosse chiusa. Quando finalmente Roadkill fu pronto per essere riportato a casa, Logan si stampò un sorriso sul volto e lo accompagnò nel parcheggio sul retro. Mentre stava firmando per un'altra auto un agente lo agguantò: «Il sergente alla reception dice che ci sono state due telefonate per lei, da un certo Mr Lumley». Logan si lasciò sfuggire un'imprecazione sottovoce. Queste chiamate avrebbero dovuto essere gestite dall'agente del servizio assistenza famiglie assegnato al caso Lumley. Lui aveva già troppo da fare. Ma si sentì subito in colpa. Il figlio di quel poveraccio era sparito; il minimo che potesse fare era richiamarlo. Si massaggiò la fronte, sentendo un mal di testa in arrivo. «Digli che lo richiamerò appena torno, va bene?». Uscirono dal retro. I riflettori di tante troupe televisive illuminavano a giorno l'ingresso della Centrale. Ce n'erano a dozzine. Prima di sera la faccia di Roadkill sarebbe stata vista in tutto il paese. E innocente o no, all'ora di colazione di domattina metà del paese ne avrebbe conosciuto il nome. «Non sarebbe una cattiva idea se lei si prendesse un paio di settimane di ferie... per lasciare che quegli idioti dimentichino la faccenda». Roadkill teneva le mani sulla cintura di sicurezza e ogni tanto gli dava un leggero strattone, come per assicurarsi che fosse ancora allacciata. «Devo lavorare. Un uomo che non lavora non ha alcuno scopo nella vita. Il lavoro ci definisce. Senza definizione non esistiamo». Logan aggrottò le sopracciglia «Va bene...», disse. L'uomo non era solo uno schizofrenico; era matto. «Lei dice "va bene" troppo spesso».
Logan aprì la bocca per rispondergli; ci ripensò e la richiuse. Non era proprio il caso di litigare con un matto. Se ne avesse avuto voglia sarebbe potuto andare a casa a parlare con sua madre. Quindi continuò a guidare nella pioggerella che stava diminuendo. Quando arrivarono alla fattoria di Roadkill alla periferia di Cults aveva smesso di piovere. Andò con l'auto su per il sentiero fino a dove possibile. I netturbini del comune avevano già iniziato il lavoro di rimozione delle carcasse. Nelle vicinanze del capannone numero uno c'erano due grandi contenitori metallici, gialli e grandi quanto un minibus dalla pittura graffiata e scalfita. Erano chiusi con degli enormi catenacci. Come se a qualcuno potesse venire voglia di forzarli per accedere alle putrefacenti carcasse di animali che c'erano dentro. Roadkill singhiozzò leggermente e Logan capì il perché dei catenacci; tutto sommato erano un'ottima idea. «Le mie bellissime, bellissime cose morte...». Roadkill piangeva; le lacrime gli scorrevano copiose sul volto. «Gli hai dato una mano?», chiese Logan, indicando i contenitori. Roadkill scosse la testa, coi lunghi capelli che sembravano una tenda funerea. Parlò con voce bassa e addolorata. «Come avrei potuto? Aiutare i Visigoti nel saccheggio di Roma?». Uscì dall'auto e s'incamminò verso il capannone. Durante la manovra d'inversione i fari dell'auto di Logan illuminarono l'interno del capannone, le cui porte erano state lasciate aperte. Le cataste di carcasse erano sparite e i fari illuminavano il nudo pavimento di cemento. Uno vuoto, due da svuotare. Lasciò Roadkill che singhiozzava davanti al capannone vuoto. CAPITOLO 19 La serata non andò proprio come Logan aveva sperato. Quando arrivò al pub, l'agente Watson era ancora lì ma mostrava ancora i segni del rimprovero ricevuto. O forse era lui che si portava dietro l'alone del fetore di Roadkill? Eppure era tornato in Centrale con i finestrini aperti. «Oh, dolce fetor che non abbandona!». Watson si limitò a parlare all'agente Simon bastardo Rennie e a un'altra poliziotta che Logan non conosceva. Nessuno fu scortese con lui ma nessuno si sforzò per fargli capire che la sua presenza era gradita. E questa avrebbe dovuto essere una piccola intima celebrazione! Aveva trovato Richard Erskine. Vivo!
Dopo un paio di boccali di birra Logan decise di tornarsene a casa, passando per il più vicino "Fish and Chips", pesce e patate fritte da asporto. Non si accorse della Mercedes grigio scura parcheggiata davanti al suo portone d'ingresso. Non vide l'uomo dai lineamenti duri che ne venne fuori e si mise un paio di guanti di pelle nera. E non lo vide schiacciarsi le nocche delle dita, impegnato com'era con la sua cena a base di pesce in una mano e a cercare le chiavi di casa con l'altra. «Non mi hai chiamato». Per poco a Logan non scappò di mano la cena. Logan si girò di scatto e vide Colin Miller, a braccia conserte, appoggiato alla costosa vettura col respiro che si tramutava in nebbiolina. «Eravamo rimasti d'accordo che mi avresti chiamato per le 16,30. Non mi hai chiamato». Logan imprecò sottovoce. Aveva voluto parlare all'ispettore Insch della richiesta di esclusiva di Colin Miller, ma non c'era riuscito o se n'era dimenticato. «Sì, ma sai com'è...», riuscì a dire dopo una lunga pausa. «Ne ho parlato all'ispettore Insch, e lui ha detto che non gli sembrava... opportuno». Era una spudorata bugia, ma Miller non lo sapeva. Almeno mentendo gli avrebbe fatto capire che ci aveva provato. «Non è opportuno, eh?» «Vedi, l'ispettore ritiene che questa settimana io abbia già avuto abbastanza pubblicità. Bugia per bugia, era il caso di mentire fino in fondo. «Sai com'è...», ripeté facendo spallucce. «Non è il caso, eh?», Miller fece una smorfia. «Gli mostrerò io qualcosa di fottutissimamente opportuno. Glielo do io il caso!». Tirò fuori un palmtop e ci scrisse sopra qualcosa con la penna magnetica. La mattina dopo cominciò con una dozzina di incidenti stradali, fortunatamente non fatali. Il tutto da attribuire ai pochi centimetri di neve caduti durante la notte. Verso le 8,30 i cieli erano plumbei e le nuvole così basse da poterle toccare. Piccoli fiocchi di neve cadevano sulla Granite City, sciogliendosi appena toccavano la strada o il marciapiede. Ma c'era neve nell'aria. Se ne sentiva quasi l'odore, un qualcosa di metallico che anticipava una forte nevicata. Il «Press and Journal» di quella mattina era arrivato sullo zerbino di Logan come una lapide. Ma non era il suo funerale. Al centro della prima pagina c'era una foto dell'ispettore Insch nel suo costume rosso e giallo da "cattivo" della pantomima. Era una delle foto fatte per pubblicizzare lo
spettacolo e Insch si era messo in posa con la sua più diabolica espressione. Ispettore del CID fa il pagliaccio in pantomima mentre i nostri bambini muoiono!, proclamava la testata a tutta pagina. «Oh Dio». Sotto la testata, a caratteri minori: È più importante la pantomima o la cattura del pedofilo in agguato nelle nostre strade? Colin Miller colpisce ancora. Appoggiato al lavandino Logan lesse come «il nostro eroico sergente Logan McRae è andato in giro a cercare il piccolo Richard Erskine, mentre l'ispettore marionetta va come un idiota sul palcoscenico». E il resto dell'articolo andava di male in peggio. Miller aveva veramente tirato fuori tutti i coltelli per massacrare Insch. Aveva ridotto un abilissimo e capacissimo ispettore al livello di un insensibile bastardo. C'era persino una dichiarazione del commissario capo che «...si trattava di una faccenda molto seria che sarebbe stata investigata molto accuratamente». «Oh Dio». Dipendente del comune aggredito da genitori preoccupati era a pagina due. Alla riunione del mattino Insch era di umore nero e tutti i presenti fecero del loro meglio per assicurarsi di non dire o fare qualcosa che lo avrebbe fatto esplodere. Oggi non era la giornata per commettere errori. Finita la riunione Logan sgattaiolò al suo piccolo ufficio, sforzandosi di non mostrare il senso di colpa che sentiva. Oggi aveva una sola agente: quella del telefono. Tutti gli altri agenti sarebbero stati impegnati nella ricerca del piccolo Peter Lumley. Qualcuno aveva infilato un petardo acceso tra le chiappe dell'ispettore e lui aveva deciso di condividere l'esperienza. Quindi oggi c'era Logan, l'agente al telefono e una lista di possibili nomi. La squadra che aveva indagato sui registri dei servizi sociali, non aveva trovato niente di positivo. Tutte le bambine registrate erano state viste. Una bambina aveva un vistoso livido perché «era andata a sbattere contro una porta» e un'altra «era caduta giù per le scale, dopo essersi scottata col ferro da stiro», ma erano tutte vive. Alcuni genitori erano stati denunciati. Ma questa non era la sola cosa di cui Logan doveva preoccuparsi: assistere l'ispettore Steel nel caso di Geordie Stephenson comportava un'equa distribuzione dei compiti con l'ispettore Steel a fumare innumerevoli sigarette e Logan a fare tutto il lavoro.
Sulla parete del suo ufficio c'era una nuova mappa di Aberdeen, ricoperta di spilli a testine colorate che indicavano ogni allibratore in città. Erano di tre colori: blu, per quelli che non avrebbero sfasciato le ginocchia a chi non pagava i debiti, e verdi per quelli che lo avrebbero fatto. C'erano solo due spilli rossi: uno era sul Turf and Track, l'altro sulla baia di Aberdeen, da dove era stato ripescato il corpo di Geordie Stephenson, la cui foto da morto era affissa alla parete a fianco alla mappa. Non era un granché da guardare, specialmente ora che era morto. La folta capigliatura gli si era appiattita sul cranio e i baffetti da pornostar spiccavano, in macabro contrasto con il pallore cereo della pelle. Logan fu preso da una strana sensazione: guardando la foto del morto immaginò di averlo visto da qualche parte. Stando alle informazioni ricevute dalla Lothian and Borders Police, Geordie Stephenson aveva un passato di criminalità che risaliva ai tempi della sua gioventù. Per lo più reati di violenza. Poi riscossione debiti per piccoli usurai, e i soliti furti con scasso. Questo record di criminalità s'interrompeva quando aveva cominciato a lavorare per Malk la Scure; da quel giorno non era mai stato arrestato. Malcom McLennan ci teneva; non voleva che i suoi dipendenti finissero in gattabuia. «Facciamo progressi?», chiese una voce dalla soglia: era l'ispettore Steel, appoggiata allo stipite, con le mani nelle tasche dei pantaloni. La camicetta granata, "a pois" di cenere di sigaretta, era stata sostituita da un'altra in seta color oro. Le borse sotto gli occhi erano di un rosso violaceo. «Non un granché», rispose Logan appoggiandosi alla scrivania e offrendo una sedia all'ispettore. Lei vi si lasciò cadere con un sospiro e una piccola scorreggia, che Logan fece finta di non sentire. «Sentiamo». «Allora...», Logan indicò la mappa. «Abbiamo visitato tutti gli allibratori marcati in verde. Quello», indicò lo spillo rosso, «è il Turf and Track». «Simon e Colin McLeod. Due bravissimi ragazzi». «Ma non bravi come la loro clientela. Abbiamo incontrato uno dei loro clienti abituali: Dougie MacDuff». «Cosa? Merda! Mi stai prendendo per i coglioni?», tirò fuori un pacchetto di sigarette, tanto sgualcito che sembrava ci si fosse seduta sopra. «Dirty Doug, Dougie the Dog...». Estrasse una sigaretta appiattita dal pacchetto. «Come altro lo chiamavano?» «Desperate Doug?»
«Esatto. Desperate Doug. Quando soffocò a morte quel tale infilandogli in bocca un numero arrotolato di "Dandy". Ma tu eri ancora in pannolini, sergente... diavolo, che bei tempi!». Scosse la testa. «Ma credevo che Dougie fosse morto!». «È uscito da Barlinnie tre mesi fa, dopo essersi fatto quattro anni per aver reso invalido il titolare di un deposito di laterizi a colpi di cacciavite». «Alla sua età? Caro il mio vecchio Desperate Dougie!». Si mise la sigaretta in bocca e stava per accenderla quando l'agente telefonista diede un colpetto di tosse pieno d'intesa e indicò il cartello «No smoking» sulla parete. L'ispettore fece spallucce e si rimise la sigaretta in tasca. «E come sta Dougie adesso?» «Vecchio e pieno di rughe». «Peccato. Ai suoi tempi era un bell'uomo, un vero lady-killer... e magari ne avrà anche fatta fuori qualcuna, ma non siamo mai riusciti a provarlo». Si lasciò prendere dalle memorie e sembrò trasportata nel passato. Dopo un po' sospirò e ritornò al presente. «Quindi credi che i fratelli McLeod siano "papabili"?». Logan annuì. Aveva letto le loro cartelle. Togliere le rotule a qualcuno a colpi di machete era qualcosa che sarebbero stati capacissimi di fare. I fratelli McLeod avevano sempre gestito la riscossione dei loro crediti in prima persona. «Il problema sarà provare che siano stati loro. Ovviamente nessuno dei due ammetterà di aver ucciso Geordie e di averlo buttato nella baia. Ci serve un testimone... o prove della scientifica». Steel si tirò su dalla sedia e si lasciò sfuggire un lungo sbadiglio. «Sono distrutta, ho scopato tutta la notte», disse facendo l'occhiolino a Logan. «Chiedi a quelli della scientifica di fare tutti i test di cui dispongono. E vai a dare un'altra occhiata alla salma. È ancora all'obitorio». Logan s'irrigidì. Avrebbe dovuto parlare di nuovo con Isobel. L'ispettore notò la sua reazione; gli mise sulla spalla una mano dalle dita ingiallite dalla nicotina. «Lo so, non sarà facile... specialmente adesso che la tua ex si è messa con qualcun altro. Ma fregatene della patologa, hai un lavoro da fare». Logan aprì e chiuse la bocca. Non sapeva che Isobel facesse già coppia con qualcun altro. Non così presto. E non mentre lui era ancora da solo. L'ispettore infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, tirando fuori l'appiattito pacchetto di sigarette. «Devo andare. Muoio dalla voglia di una sigaretta. Oh, e se vedi l'ispettore Insch, digli che mi è piaciuta la sua foto nel "Press and Journal" di stamattina...»; strizzò l'occhio a Logan. «Molto
sexy!». L'ispettore Insch non aveva un aspetto molto sexy quando Logan lo incontrò; usciva dall'ascensore che scendeva dai piani alti. Il che voleva dire che era stato chiamato a rapporto. La giacca del suo doppiopetto aveva chiazze di sudore sotto le ascelle e nella schiena. «Signore», lo salutò Logan, evitando di guardarlo negli occhi. «Vogliono che io smetta con la pantomima natalizia». La voce di Insch era quasi un mormorio. Un senso di colpa corse su per la schiena di Logan, fino ad andarsi a sedere sulla sua testa, come un cartello che diceva "È colpa mia! Sono stato io!". «Il commissario capo ritiene che questa mia attività non è favorevole all'immagine che la Grampian Police desidera presentare. Dice che non si può permettere di ricevere questa pubblicità negativa mentre sono in corso indagini su gravi reati, e quindi... Polizia o pantomima». Sembrava un palloncino che si stesse sgonfiando lentamente. Questo non era l'Insch al quale Logan era avvezzo. Ed era tutta colpa sua. «Da quanti anni faccio la pantomima di Natale? Dodici, tredici? Mai un problema...». «Signore, magari se ne dimenticheranno...». Logan tentò di consolarlo. «Sa com'è, quando saremo a bocce ferme. Di questi tempi l'anno prossimo nessuno ricorderà più niente». Insch annuì, ma non ne sembrò convinto. «Forse», mormorò. Si passò le mani sul volto. «Gesù, come faccio a dire a Annie che stasera non posso andare in scena?» «Mi dispiace, signore», disse Logan. Insch forzò un sorriso. «McRae, non è colpa tua. È colpa di quel bastardo di Miller». Il sorriso si tramutò in una smorfia di rabbia. «Quando lo vedi digli che gli staccherò la testa e gli farò una pisciata nel buco della gola». L'obitorio era silenzioso, a parte il ronzio dei condizionatori e dei compressori delle celle frigorifere. Dopo le autopsie i cadaveri erano stati riordinati e messi via; i tavoli di dissezione apparivano vuoti e lucenti sotto le potenti luci. Nell'ampia sala non c'erano né morti né vivi. Lentamente Logan si avvicinò alla parete contenente le celle refrigerate. Lesse i nomi sui cartellini di ogni cassetto, cercando quello di George Stephenson. Si soffermò a un cassetto con un cartello sul quale c'era scritto
«Bambina, caucasica, non identificata, di circa 4 anni»; con la mano sulla fredda maniglia disse: «Mi dispiace, piccola». Era l'unica cosa che potesse dire. Continuò a leggere i cartellini. Non c'era nessuna traccia di un George Stephenson, ma c'era un cartello con su scritto «Uomo, caucasico, sconosciuto, di circa 35 anni». Evidentemente l'ispettore Steel non aveva informato l'obitorio che lo sconosciuto era stato identificato. Un altro compito per Logan. Tirò il chiavistello e aprì il cassetto. Sulla fredda superficie del cassetto c'era una body-bag di plastica bianca. Logan strinse i denti e tirò la cerniera. La testa e le spalle che gli apparvero erano identiche alla foto sulla parete del suo ufficio. Ma l'originale era più raggrinzito, come se qualcuno ne avesse tirato giù la faccia dalla fronte per poter aprire il cranio con un seghetto per estrarne il cervello. La pelle era pallida e cerea, con diverse zone paonazze dove il sangue si era fermato e congelato dopo la morte. E sulla tempia sinistra c'era un livido che nella foto Logan aveva creduto fosse un'ombra. Ma il meglio era ancora nascosto. Tirò giù la cerniera fino in fondo, fino a esporre un corpo che già da vivo aveva visto tempi migliori. Secondo i dati forniti dalla Lothian and Borders Police, Geordie da giovane era stato un fanatico del fitness. Uno che teneva molto al suo aspetto fisico. Ma il corpo dell'uomo che stava guardando aveva la pancetta; braccia e spalle più grasse che muscolose. Anche senza il pallore della morte la sua carnagione avrebbe avuto un colore sbiadito. Bianco latte, con qualche neo e tanti brufoli. E niente rotule. Entrambe le gambe avevano buchi dagli orli irregolari e frastagliati, proprio dove avrebbero dovuto esserci le rotule. Intorno ai giunti la carne era lacera, con le ossa giallastre che spuntavano dove i colpi di machete erano stati inflitti. Chiunque avesse fatto questo lavoro non era certo un artista col bisturi. Questa era chirurgia a colpi d'arma bianca. Tanto entusiasmo e zero abilità. Logan esaminò il resto del corpo. Le caviglie e i polsi mostravano i segni di legacci. Lividi color porpora, pelle lacerata: i segni inconfondibili di una lotta. Logan soppresse una smorfia di orrore. Da quel che aveva visto concluse che Geordie era vivo e ben legato mentre uno dei fratelli McLeod gli aveva tagliato via le rotule. Colpo dopo colpo. E George Stephenson non era certo un piccoletto: nonostante fosse legato avrebbe reagito, non sarebbe rimasto immobile. Quindi dovevano essere stati entrambi i fratelli
McLeod: Colin e Simon. Uno a tenerlo fermo, e l'altro che lavorava col machete. C'erano altri segni. Contusioni, graffi, escoriazioni e un segno che sembrava lasciato da un morso, oltre ai danni causati dall'aver passato la notte nella baia. Logan non aveva ancora letto i risultati dell'autopsia, ma riconobbe il segno del morso. Si avvicinò e lo esaminò più da vicino. Piccole piaghe color porpora nella pelle bianca. Irregolari, come se mancasse qualche dente. Sapeva tante cose sui fratelli McLeod; che erano crudeli e feroci, ma dubitava che avessero l'abitudine di infierire a morsi sulle loro vittime. Almeno Simon. Ma Colin? Qualcosa non quadrava con quel ragazzo e lo sapevano tutti. Da quando aveva impalato un gatto vivo sulle aguzze sbarre dell'inferriata che circondava Union Terrace Gardens a quando aveva defecato sulla lapide della tomba di sua nonna. E gli mancavano dei denti, in seguito a una violentissima lite in un karaoke bar. Avrebbe chiesto ai colleghi della scientifica di fare un'impronta del morso e l'avrebbe confrontata con la cartella dentale di Colin McLeod. Dietro di sé sentì sbattere la porta d'ingresso dell'obitorio; si raddrizzò girandosi e vide Isobel che discuteva con Brian, il suo assistente. Lui le stava dicendo qualcosa; concluse facendo un ampio gesto con le mani. Isobel tirò indietro la testa, ridendo di gusto. Oh, Brian sei così spiritoso col tuo nasone e i tuoi lunghi capelli da ragazzina. Era questo il "qualcun altro" di cui l'ispettore Steel gli aveva parlato? Anche se aveva lo stomaco pieno di punti di sutura e di cicatrici Logan avrebbe potuto ridurre Brian a carne macinata in due minuti, e senza neanche togliersi il cappotto. Appena lo vide vicino al cadavere di Geordie Stephenson Isobel smise di ridere. Arrossì leggermente e riuscì a dire: «Ciao». «Ho un nome per questo cadavere», disse Logan con una voce fredda quanto il corpo di Geordie. «Ah... va bene». Guardò lui, guardò il cadavere che Logan non aveva ancora richiuso nella body-bag. Con un gesto indicò il suo assistente. «Dai pure tutti i dati a Brian». Un sorriso forzato e se ne andò. Brian si face dare i dati di George Stephenson da Logan e li scrisse in un piccolo block-notes, con Logan che faceva fatica a mantenersi cortese. Questo piccolo pezzo di merda di un capellone si stava scopando Isobel? E lei faceva tutti quei piccoli mugolii? per lui? Brian finì di scrivere e si rimise penna e blocchetto in tasca. Si rivolse a
Logan. «Sergente, visto che è qui, ho qualcosa da darle». Per un attimo Logan pensò che stesse per tirar fuori un paio di mutandine di Isobel: Brian invece si recò a una scrivania in un angolo della sala mortuaria e dal cestello marcato «Posta in uscita» prese una busta formato A4 e gliela consegnò, dicendo: «Analisi del sangue sulla bambina sconosciuta. C'è qualcosa di interessante». Mentre lui andava a rimettere a posto il corpo di Geordie Stephenson, Logan diede un'occhiata preliminare al contenuto della busta. Brian non scherzava. Era roba molto interessante. All'ora di pranzo nella mensa non si parlava d'altro. Sarebbero state chieste le dimissioni dell'ispettore Insch. Logan era da solo a un tavolo appartato. Le lasagne che stava mangiando avevano il sapore di carta bagnata. Improvvisamente il chiacchierare nella sala mensa si affievolì e tutti ammutolirono, guardando nei loro piatti. Logan alzò gli occhi e vide l'ispettore Insch che si faceva servire il suo solito menu al banco del self service: minestrone, cotoletta con patate fritte, macedonia di frutta. «Ossignore», mormorò Logan sottovoce, «fa che si vada a sedere da qualche altra parte...». Invece Insch diede un'occhiata nella sala, vide Logan al suo tavolo da solo e andò direttamente lì, col vassoio. «Buon appetito, signore», disse Logan spingendo da parte il suo piatto di lasagne, finito a metà. Con sua grande sorpresa Insch rispose con una specie di grugnito e attaccò voracemente il minestrone. Dopodiché passò subito alla cotoletta e alle patate fritte, dopo averle cosparse abbondantemente di ketchup. Logan si sentì un idiota, seduto lì mentre Insch mangiava, ma capì che alzarsi e andarsene sarebbe sembrato scortese. Tanto per far qualcosa cominciò a pasticciare con la forchetta gli avanzi delle sue lasagne. «Ho ricevuto il referto delle analisi del sangue della bambina della discarica», disse dopo una pausa. «Era piena di antidolorifici. Temazepan, per lo più». Insch aggrottò le sopracciglia. «Però non abbastanza da ucciderla. Cioè, non è morta per un'overdose di temazepan, ma pare che lo stesse prendendo da un po' di tempo. Quelli del laboratorio pensano che qualcuno glielo facesse prendere per tenerla... rintontita. Malleabile». Insch si mise in bocca l'ultimo pezzo di cotoletta e usò l'ultima patatina
per ripulire il ketchup dal piatto. Se la mise in bocca e masticò pensoso. «Interessante», commentò dopo qualche minuto. «C'è dell'altro?» «Aveva avuto la tubercolosi». «Cominciamo ad avere qualche indizio». Insch mise il piatto della cotoletta su quello del minestrone e si mise davanti la macedonia. «Nel Regno Unito ci sono pochissimi posti dove è ancora possibile prendere la tubercolosi. È una malattia che i medici curanti devono segnalare alle autorità sanitarie non appena la riscontrano in un paziente. Telefona a tutte le unità sanitarie regionali. Se la bambina aveva avuto la TBC, sarà stata schedata». Riempì un cucchiaio di macedonia e lo avviò verso la bocca, fermandosi prima di imboccarlo: «Era ora che avessimo un po' di fortuna!». Logan non aprì bocca. CAPITOLO 20 Matthew Oswald aveva cominciato a lavorare quando aveva finito l'istruzione d'obbligo sei mesi prima, con risultati non molto brillanti e con gran delusione di sua madre. Suo padre non se ne fregò granché. Sapeva appena leggere e scrivere e questo non gli aveva portato gran male nella vita, no? Quindi Matthew prese il suo lunchbox e andò a lavorare per la nettezza urbana della municipalità di Aberdeen. La vita di un netturbino non era poi così grama come si poteva pensare. Lavoravi all'aperto, i tuoi colleghi erano un piacere, la paga era discreta e nessuno moriva se facevi uno sbaglio. E da quando il comune aveva dato ai residenti le pattumiere con le ruote non c'era niente di pesante da alzare. Non come ai vecchi tempi, come era solito dire Jamey, l'autista del loro furgone. Quindi, tutto sommato, la vita era bella. Qualche risparmio in banca, ottimi amici sul lavoro e una nuova ragazza che non gli diceva "smettila" ogni volta che lui le metteva le mani sotto la camicetta. E poi gli si presentò la possibilità di fare un po' di straordinario. Avrebbe voluto dire no, ma qualche baiocco in più gli avrebbe permesso di pagarsi l'abbonamento allo stadio dell'Aberdeen Football Club, la sua grande passione. E questo spiegava perché adesso indossava una tuta blu di plastica, stivaloni di gomma neri, guantoni neri, paraocchi di plastica e una mascherina sulla bocca. L'unica zona di pelle scoperta era una striscia sulla fronte, dove l'orlo elasticizzato del cappuccio della tuta non arrivava. Sembrava un personaggio di X-Files e sudava come un porco.
La pioggerella che cadeva dal cielo plumbeo non aveva alcun effetto sul sudore che gli colava lungo la schiena e gli finiva nelle mutande. Ma nessuno gli avrebbe fatto togliere la fottutissima tuta, non con quello da cui doveva proteggersi. Imprecando, sollevò la pala ad altezza di spalla e riversò un'altra palata di carcasse putrefatte nell'enorme contenitore. Tutto puzzava di morte. Ne sentiva il fetore anche attraverso la mascherina. Carne putrefatta. Vomito. Ieri aveva vomitato la colazione e i due sandwich che aveva mangiato a pranzo. Ma non oggi. Oggi era riuscito a mantenere i cornflakes della colazione al loro posto. Tutto il giorno ieri. E tutto il giorno oggi. E da quanto ne restava forse anche tutto il giorno domani. A spalare animali morti e putrefatti. Quello stronzo di proprietario della fattoria stava lì a guardarli, sulla soglia del capannone che avevano vuotato ieri. Non si preoccupava della pioggia: se ne stava lì, con addosso un lurido paio di braghe e un cencioso maglione, guardando con tristezza mentre gli portavano via la sua perversa collezione di animali. Stamattina Matthew aveva dato un'occhiata al giornale di suo padre. Ieri alcuni genitori in Garthdee avevano picchiato il tizio degli animali, perché lo avevano visto nei paraggi della scuola frequentata dai loro bambini. La faccia del tizio era tutta una serie di lividi. Gli sta bene allo stronzo, pensò Matthew. Pala in spalla, tornò verso il capannone per un'altra spalata di carcasse putrefatte. Avevano spalato quasi la metà di questo capannone. Uno e mezzo svuotato; uno e mezzo da svuotare. Dopodiché una bella doccia, l'abbonamento allo stadio e una sbronzata con i suoi amici. Finito questo lavoro avrebbe preso un sbornia solennissima. Trastullandosi con questi pensieri Matthew spinse la pala nel mucchio, che si scomponeva mentre lui lavorava. Cani, gatti, gabbiani, corvi e il diavolo sa cos'altro scivolavano l'uno sull'altro. Strinse i denti e affondò la pala e sollevò. E così vide la cosa. Aprì la bocca per dire qualcosa, per chiamare l'incaricato del comune, un tipo nervoso che era al controllo dell'operazione e per dirgli cosa aveva trovato. Ma l'unica cosa che gli uscì dalla bocca fu un urlo acutissimo. Lasciò cadere la pala piena di cose morte e scappò fuori; scivolando, cadendo; si strappò la mascherina e vomitò i suoi cornflakes nella neve. Logan aveva parcheggiato l'auto dall'altra parte della strada, dirimpetto
al Turf and Track, e osservava la sala corse con un binocolo. Il clima era orrendo. La leggera fioccherellata che aveva visto in mattinata si era fermata per un po' e poi si era tramutata in una vera e propria tormenta. Fiocchi di neve grandi come uova fritte cadevano dal cielo, plumbeo e freddo, che prometteva poco di buono. Era già buio. Aveva telefonato a tutte le unità sanitarie regionali del paese, chiedendo informazioni su tutte le bambine che avevano avuto in cura per tubercolosi negli ultimi quattro anni. Si sentiva ottimista, come lo era stato l'ispettore Insch; questo dovrebbe essere un lavoro investigativo facile facile. La bambina aveva avuto la tubercolosi ma stava guarendo: quindi aveva ricevuto le cure necessarie. Il che voleva dire che qualche unità sanitaria regionale aveva ricevuto la segnalazione dal medico curante della piccola. La segnalazione sarebbe stata schedata. Avrebbero saputo chi era, e da chi era stata curata. E ne avrebbero dato il nome a Logan. Tombola. La sigla musicale di uno spot pubblicitario finì e il disc-jockey annunciò il giornale radio del pomeriggio. Logan si mise un'altra mentina in bocca e alzò leggermente il volume della radio. Nel processo di Gerald Cleaver, il cinquantaseienne proveniente da Manchester, imputato di violenza sessuale mentre era alle dipendenze dell'Aberdeen Children's Hospital in qualità di infermiere, le arringhe finali dell'accusa e della difesa sono previste per domani. Nel corso di quasi tre settimane la giuria ha ascoltato diversi testimoni, alcuni dei quali hanno deposto in maniera estremamente descrittiva e sconvolgente. Il ritiro della giuria in camera di deliberazione è previsto per domani sera. La polizia ha intensificato le misure di sicurezza in seguito a diverse minacce di morte nei confronti di Gerald Cleaver. L'avvocato difensore di Cleaver, Mr Moir-Farquharson, lui stesso oggetto di minacce di morte durante il processo, è stato vittima di un'aggressione due sere fa, quando uno sconosciuto gli ha rovesciato addosso un secchio di sangue di maiale. Logan si lasciò sfuggire un Urrà! e picchiò il pugno nell'aria. «Non mi lascerò intimidire dai gesti di una piccola e male informata minoranza»; questo era Sandy Serpente. «Dobbiamo assicurarci che giustizia sia fatta e che...». Logan non lo ascoltò; coprì le sue parole con sonorissi-
me pernacchie. Dall'altra parte della strada c'era del movimento. Si tirò su nel sedile e si portò il binocolo agli occhi. La porta del Turf and Track si era aperta: Desperate Doug mise fuori la testa, diede un'occhiata al tempaccio che imperversava e rientrò prontamente. Pochi istanti dopo Winchester, il vecchio pastore tedesco che ieri aveva dimostrato una gran voglia di tirar via un pezzo di carne da uno dei polpacci di Logan, venne messo alla porta senza tante cerimonie. Il cane cercò di tornare dentro al caldo, ma Desperate Doug lo minacciò col bastone, quel tanto che bastò per chiudergli la porta in faccia. Winchester restò davanti alla porta della sala corse, con la neve che gli si scioglieva addosso appena lo investiva; quando vide che la porta non si apriva, scese i quattro gradini e cominciò a gironzolare nel parcheggio. Annusò tutti i lampioni, lasciando una pisciatina su alcuni e ignorando altri; dopodiché si aggobbì su se stesso e depositò un mucchietto di cacca fumante nel centro del parcheggio. Fatti i suoi bisogni, tornò al Turf and Track e cominciò ad abbaiare fino a quando Desperate Doug aprì la porta per farlo entrare. Ma appena entrato, Winchester si fece una maxi scrollata proprio davanti a lui, investendogli le gambe con un mini uragano. Logan, che aveva seguito la scenetta attraverso il binocolo, sentì molta simpatia per il cane. Si risistemò nel sedile e si fece inondare dalla musica della radio. Una station wagon verde e arrugginita gli passò di fianco, girò a destra verso la piccola fila di negozi e si fermò nel da poco merdato parcheggio. Era la stessa auto contro la quale l'agente Watson aveva scagliato tutti quegli improperi. Logan non poté fare a meno di sospirare. Aveva ricominciato a pensare a lei come l'agente Watson. Non più Jackie dalle belle gambe. E tutto perché l'aveva rimproverata per aver detto parolacce all'autista di quella carretta motorizzata. L'autista della Volvo si girò verso il sedile posteriore, prese su qualcosa e per poco non andò a gambe all'aria uscendo dall'auto, con un sacchetto di plastica in mano. Si diresse verso la sala corse. Aveva il bavero del giaccone rialzato e si teneva un giornale sulla pelata, per proteggersi dalla neve. Slittando e scivolando andò su per la rampa d'accesso per disabili. Logan si rabbuiò in viso e gli puntò addosso il binocolo, mentre l'uomo spingeva la porta d'ingresso del Turf and Track. Aveva le orecchie piene di piercing e un'aria spaventata che lo rese immediatamente riconoscibile: Duncan Nicholson. Lo stesso Duncan Nicholson a cui era capitato di im-
battersi nel cadavere di un bambino assassinato di tre anni. In un fossato colmo d'acqua, nascosto sotto una tavola di truciolato, al buio, sotto la pioggia. «E cosa ci fai qui, brutta pezza da piedi?», si chiese Logan sottovoce. Mastrick non era la zona di Nicholson. Lui abitava a Ponte sul Don, dall'altra parte della città. Tanta strada da fare, specialmente in una giornata come questa. E poi c'era la borsa di plastica. O quel che c'era dentro. «Mi chiedo se...». Ma quel che Logan si stava chiedendo fu interrotto dall'improvviso gracchiare della radio della polizia. Avevano trovato un altro cadavere. Quando Logan arrivò alla fattoria di Roadkill, alla periferia di Cults, era già buio. Il cancello d'accesso era aperto e lì vicino c'era un'autopattuglia parcheggiata, con dentro un paio di agenti dall'aspetto non molto allegro e appena visibili dai finestrini appannati. Erano lì per bloccare l'accesso alla fattoria ai non addetti ai lavori. Logan parcheggiò vicino a loro e abbassò il finestrino; l'autista dell'autopattuglia fece lo stesso. «Buona sera, signore». «Allora?» «C'è qui l'ispettore Insch, e anche il Procuratore. Il nostro dottore è appena arrivato. Quelli dell'Identification Bureau sono bloccati nel traffico. E ci sono sei netturbini del comune in uno dei capannoni. Siamo dovuti intervenire per evitare che linciassero il proprietario della fattoria». «Roadkill?» «Sì. È nella fattoria, assieme all'ispettore Insch. L'ispettore non lo molla fin quando non sarà stata dichiarata la morte del cadavere trovato». Logan annuì e cominciò a tirar su il vetro; la neve cominciava a invadere l'auto. «Signore», chiese l'agente alla guida dell'autopattuglia. «È vero che lo avevamo in custodia ieri sera e che lo abbiamo lasciato andare?». Logan si sentì gelare il cuore. Venendo qui da Mastrick non aveva pensato ad altro. Avevano rilasciato Roadkill senza imputargli un capo d'accusa e adesso era morto un altro bambino. E lui gli aveva anche dato un passaggio. La nevicata continuava. Logan guidò lungo il sentiero fino alla fattoria di Roadkill. I fari dell'auto illuminarono brevemente i capannoni, con le
porte spalancate. Il nastro blu della polizia sbarrava il vano della porta del capannone numero due. Quello che stavano svuotando oggi. Logan parcheggiò la sua auto dietro quella del dottore di servizio. C'era anche un'altra autopattuglia, vuota. I suoi occupanti erano impegnati a ricevere deposizioni dai netturbini che avevano trovato il cadavere. Che avevano cercato di fare a pezzi Roadkill. L'unica auto non parcheggiata vicino ai contenitori delle carcasse era la Range Rover dell'ispettore Insch. Grazie alla trazione integrale era l'unica in grado di arrivare fino alla fattoria, nonostante la neve che copriva il sentiero di accesso. Era abbandonata davanti alla fattoria. Da una finestra del piano terra, si intravedeva un barlume. Logan guardò dal capannone col nastro blu della polizia alla fattoria. Non se la sentiva di tornare in quell'ambiente fatiscente e permeato da quel fetore. Ma prima o poi sarebbe dovuto intervenire, quindi... Spense i fari e uscì dall'auto. Il freddo intenso e il buio profondo lo colpirono; riaprì la portiera dell'auto e cercò una torcia elettrica nel vano portaoggetti. Nel prenderla, lo sguardo gli cadde su un pacco di poster di Peter Lumley. Signore, fa che sia lui, pensò. Fa che sia lui e non un altro povero ragazzo. Non un altro ancora. La torcia faceva appena luce per vedere dove metteva i piedi. La neve copriva buche e fossi del sentiero, e andare avanti non era facile. Ma, un passo dopo l'altro arrivò al capannone numero due. Dentro il fetore era orrendo, ma non così forte come quel primo giorno, quando aveva ordinato all'agente Steve di aprire la pesante porta. Il vento portava via un po' dell'odore, ma nonostante questo Logan si sentì male. Tirò fuori un fazzoletto e si coprì la bocca e il naso. Metà delle carcasse era stata portata via e il pavimento in cemento era reso scivoloso dalla melma e dal liquame dei corpi in decomposizione. Il dottor Wilson, nella regolamentare tuta bianca cartacea, era accovacciato vicino alla pila di carcasse, con la borsa aperta appoggiata su un telo di plastica. Logan indossò una tuta bianca. «Salve, dottore», disse, movendosi con molta cautela sul pavimento scivoloso del capannone. Il dottore si girò. Una mascherina bianca gli copriva parte della faccia. «Come mai questo genere di interventi capita sempre quando sono in servizio io?» «Sarà fortuna», scherzò Logan. La battuta era forzata, ma il dottore riuscì a sorridere, anche sotto la mascherina.
Gli indicò la borsa e Logan prese una mascherina e un paio di guanti di latex. Con la maschera il fetore svanì, sostituito da un forte odore di mentolo, che gli fece lacrimare gli occhi. «Vicks VapoRub», disse il dottore. «Un vecchio trucco della patologia. Copre tutti i peccati». «Cosa abbiamo, dottore?». Signore, fa che sia Peter Lumley. «Difficile dirlo: il cadavere è troppo decomposto». Il dottore si spostò per prendere qualcosa dalla borsa e Logan vide per la prima volta ciò che aveva fatto correre Matthew Oswald a vomitare i suoi cornflakes nella neve. La testa di un bambino sporgeva dalla massa di carcasse. Non aveva più faccia; solo il teschio e qualche brandello di cartilagine era visibile attraverso il liquame che lo copriva. «Oh, Signore!». Lo stomaco di Logan cominciò a sussultare. «Non so ancora se si tratta di un maschietto o di una bambina. Ve lo potrò dire solo quando il cadavere sarà stato estratto ed esaminato per bene». Logan guardò il macabro spettacolo; le occhiaie vuote, le mascelle aperte, i denti sporgenti dalle putride gengive. Qualche ciocca di capelli restava attaccata a un pezzo di cuoio capelluto, ancora aderente al cranio. Due piccoli fermagli rosa restavano attaccati ai pochi capelli. Fermagli alla Barbie. «È una bambina», disse Logan alzandosi. Non ce la faceva più. «Andiamo, dottore. Dichiarala pure morta e lascia il resto al patologo». «Sì, tutto sommato hai ragione. Poverina...». Logan restò qualche attimo nella neve, col volto al vento, per farsi togliere il fetore che lo aveva invaso. Ma la nausea restava. Rabbrividendo guardò il dottore che usciva dal capannone e si recava alla sua auto. Entrò, chiuse la porta e tirò fuori le sigarette. Tre secondi dopo, il dottor Wilson era avvolto in una nuvola di fumo. "Beato chi può!", pensò Logan con invidia. Girò le spalle e si fece strada nella tormenta, dirigendosi alla fattoria. Il fascio di luce della torcia illuminava il sentiero ricoperto di neve. Dopo una decina di passi aveva i pantaloni bagnati fino alle ginocchia e le scarpe piene di acqua gelata. Quando arrivò alla porta del cottage tremava dal freddo, il ritmico clack-clack-clack dei suoi denti in contrappunto ai suoi brividi. Dalla finestra della cucina si intravedeva una debole luce di candela, ma Logan non riuscì a distinguere nessuna sagoma attraverso il vetro sporco. Non si preoccupò di bussare; diede uno spintone alla porta ed entrò. All'in-
terno la casa era ancora più fatiscente di quanto si aspettasse. Disabitato da chissà quanti anni, il cottage era tutto ricoperto di muffa. Illuminò l'ingresso, dove c'era ancora qualche brandello di carta da parati sulle pareti e qualche vecchio mobile. Anche l'intonaco era caduto in molti punti, ed era stato rimpiazzato da muffa. Alla scala che portava al piano di sopra mancavano dei gradini e un gradino era rotto nel mezzo, con i due pezzi ancora sporgenti dai lati. Ma su una parete c'era ancora qualche fotografia. Logan pulì un po' di polvere dal vetro di una foto e il volto di una donna dall'aspetto felice gli sorrise. Ripulì ancora e apparve anche il volto di un ragazzino, vestito a nuovo e ben pettinato che sorrideva al fotografo. La somiglianza tra i due volti era notevole: Bernard Duncan Philips e sua madre in tempi migliori. Prima che Bernard cominciasse a collezionare cose morte. Prima che trovassero il corpo di una bambina nel capannone numero due. La cucina era buia e umida. Lungo le pareti c'erano tante scatole di cartone, una sopra l'altra, alle quali l'umidità aveva fatto perdere la forma. La muffa copriva le pareti, e dava al piccolo ambiente un odore di desolazione. Al centro della stanza c'era un traballante tavolo da cucina e due sedie, forse ancora più traballanti. Roadkill, al secolo Bernard Duncan Philips, con qualche livido in più del giorno prima e col naso incrostato di sangue, era seduto su una delle sedie. L'ispettore Insch era appoggiato al lavandino. Tra i due, un piccolo candelabro sul tavolo dava un po' di luce. C'erano candele soltanto in due delle cinque braccia, ed erano poco più che moccoli. Nessuno aprì bocca all'ingresso di Logan. Il volto dell'ispettore Insch sembrava scolpito nella pietra, mentre guardava cupo l'uomo che aveva davanti. Senz'altro stava pensando a quello che aveva pensato Logan. Ieri lo avevano avuto in custodia e lo avevano lasciato andare; e oggi gli avevano trovato un cadavere in casa. «Ho mandato a casa il dottor Wilson», disse Logan con voce malferma. «Cosa ci ha detto?», chiese Insch, senza togliere lo sguardo da Roadkill. «Probabilmente si tratta di una bambina. Non ne conosciamo ancora l'età. È morta molto tempo fa, forse anni». Insch annuì e Logan ne immaginò il sollievo. Se la bambina era morta anni fa il fatto che loro avessero lasciato andare Roadkill ieri sera non faceva nessuna differenza. Nessuno era morto per causa loro. «Il qui presente Mr Philips si rifiuta di rispondere. Vero, Mr Philips? Lei non mi vuol dire chi è la bambina, e neanche quando l'ha uccisa. Non le
pare strano che adesso ci troviamo ad avere due bambine morte? Ed è ancora più strano quando pensi che abbiamo uno stronzo malato di mente che va in giro ammazzando bambini e infilandogli robe nel culetto. E che taglia i pisellini». Logan si accigliò. David Reid era stato trovato morto e mutilato in un fosso dall'altra parte della città. A Roadkill invece piaceva conservare le sue cose morte. Non avrebbe lasciato un trofeo del genere all'aperto. «Sai una cosa, Bernard?», disse Logan cercando di fare il buon poliziotto. «Potremmo fare in modo che il tutto diventi più facile per te. Basta che tu ci dici che cosa è successo. Con parole tue. Sono sicuro che non volevi che andasse a finire così, vero?». Roadkill cadde in avanti, fino a poggiare la testa sul tavolo. «Com'è successo, Bernard? È stato un incidente? Qualcosa che... è avvenuto... così?» «Me le stanno portando via. Tutte le mie bellissime cose morte». Insch picchiò il suo pugnaccio sul tavolo, facendo sussultare Roadkill e traballare il candelabro. Gocce di cera calda si sparsero sul tavolo. Bernard Duncan Philips lentamente riappoggiò la testa sul tavolo coprendosela con le braccia. «Tu finirai in prigione. Mi senti? Finirai nella prigione di Peterhead, con tutti quegli altri bastardi malati nel cervello come te. Con i pedofili, gli stupratori, gli assassini. E lì sarai la puttana di qualcuno, lo sai? Lì troverai il tuo grande amore nella persona di qualche brutto peloso scimmione, te lo assicuro io! Se non cominci a parlare farò in modo che tu venga messo in cella col più lurido e perverso stupraculi che hanno lassù!». Con questa sfuriata e con le minacce sperava di vedere una reazione, che non ci fu. Nel silenzio che seguì la sfuriata di Insch, Logan cominciò a sentire una lieve melodia; Roadkill canticchiava a bocca chiusa un inno religioso. La cucina fu illuminata dai fari del furgone dell'Identification Bureau che arrancava slittando e sbandando su per il sentiero; si fermò davanti al capannone numero due. Era seguito da un'altra auto, un affare slanciato e costoso che tribolava su per il sentiero. Quando arrivò all'altezza dei capannoni, i tecnici dell'IB avevano cominciato a scaricare le loro attrezzature dal tepore del furgone allo squallore del capannone. Dall'auto sportiva uscì Isobel. Logan sospirò. «Sono arrivati», disse all'ispettore. «L'IB e il patologo». La guardò tirarsi su il bavero del cappotto e andare al bagagliaio dell'auto. Indossava un lungo cappotto color cammello sul suo vestito marrone chiaro. Sostituì i suoi stivali italiani in pelle con
i soliti stivaloni in gomma e arrancò nella neve verso il capannone. Dopo trenta secondi ne venne fuori di corsa, ansimante e piegata in due. Cercando di soffocare i conati di vomito. Logan non poté fare a meno di sorridere; Isobel non voleva sembrare una comune mortale di fronte alla plebe dell'IB. Insch si staccò dal lavandino e tirò fuori un paio di manette. «Andiamo, Philips. In piedi». Logan osservò il povero sbrindellato mentre veniva informato dei suoi diritti e i polsi gli venivano ammanettati dietro la schiena. Insch lo prese per un braccio e lo portò fuori. Rimasto solo, Logan soffiò sulle candele e li seguì. CAPITOLO 21 Questa volta "l'adulto responsabile" chiamato alla tutela dei diritti di Roadkill era un omino dimesso sui cinquant'anni, quasi calvo e con un ridicolo paio di baffetti. Lloyd Turner; un ex insegnante della Hazlehead Academy, da poco vedovo e che cercava qualcosa da fare per non stare in casa da solo. Era seduto vicino a Bernard Duncan Philips, di fronte alle cupe espressioni dell'ispettore Insch e del sergente McRae. Nella saletta c'era puzza. Non la solita e inesplicabile puzza di piedi, ma il forte e stantio fetore di sporco, di sudore e di animali putrefatti che emanava da Roadkill. I lividi che gli aveva visto la sera prima si erano trasformati in una sinfonia di colori, dal violaceo al verde, su tutta la faccia, nascosti fin sotto la barba. Teneva le mani sul tavolo, sporche, con le unghie nere. L'unica cosa pulita di Roadkill era la tuta bianca cartacea che indossava e che gli era stata data da quelli dell'IB, quando gli avevano tolto gli stracci che aveva indosso per farli esaminare dalla scientifica. Logan e Insch avevano interrogato Roadkill per tre ore, senza cavare un ragno dal buco. L'unica cosa che continuava a dire era che qualcuno gli stava portando via le sue preziose cose morte. Avevano provato a prenderlo con le buone, ci avevano provato con le cattive; avevano provato a farlo parlare con l'ex insegnante coi baffetti, per spiegargli la gravità della situazione: niente. L'ispettore Insch si risistemò sulla sedia, facendola scricchiolare. «Bene», disse sospirando. «Riproviamo ancora una volta, va bene?». Tutti i presenti fecero una smorfia di disappunto, eccetto Roadkill che continuò a canticchiare a bocca chiusa lo stesso inno religioso. Logan sta-
va per impazzire. L'insegnante alzò una mano. «Mi dispiace, ispettore. Credo che sia evidente che Bernard non è in condizione di essere interrogato». Diede un'occhiata al povero puzzolente che aveva al fianco. «Conosciamo il suo stato mentale. Ha bisogno di aiuto, non di prigione». Insch si fece avanti con la sedia. «E i bambini che giacciono morti all'obitorio hanno bisogno di essere protetti e di trovarsi nella sicurezza delle loro case, non di essere uccisi da un perverso sballato!». Incrociò le braccia mettendo sotto sforzo le cuciture della camicia e sembrando ancora più imponente. «Voglio che mi dica dov'è Peter Lumley e quanti altri bambini ha fatto fuori». «Ispettore, mi rendo conto che lei sta facendo il suo lavoro, ma ripeto, Bernard non è in condizione di rispondere alle sue domande. Basta guardarlo!». Lo guardarono. Le mani di Bernard si muovevano sul tavolino come uccellini con un'ala rotta, il suo sguardo era spento e distante. Non era neanche nella stanza. Logan diede un'occhiata all'orologio a parete. Erano le 19,22. Era passata l'ora in cui Roadkill aveva cominciato a chiedere la sua medicina il giorno precedente. «Signore», disse a Insch, «potrei parlarle un attimo nel corridoio?». Andarono alla macchinetta delle bevande calde, tra tante facce con palese interesse verso il loro lavoro. Ormai la notizia si era sparsa per tutta la Centrale, alla radio e probabilmente sul telegiornale della sera: l'ammazzabimbi di Aberdeen era sottochiave. Ora c'era solo da farlo confessare. «Cosa mi vuoi dire, sergente?», chiese Insch, pigiando i bottoni per caffellatte, doppio zucchero. «Signore, stasera non tireremo fuori niente da Roadkill. È uno schizofrenico. Deve prendere la sua medicina. Anche se riuscissimo a ottenere una confessione, in tribunale il suo difensore la farebbe a brandelli. Un sospetto con malattie mentali, al quale viene rifiutato accesso alle sue medicine, e che confessa dopo tre ore di interrogatorio? Lei, cosa farebbe?». Insch soffiò nel suo caffellatte e ne mandò giù un sorso. Quando parlò lo fece con voce stanca. «Hai perfettamente ragione». Appoggiò il caffellatte su una mensolina e cominciò a frugarsi nelle tasche per qualcosa di dolce. Finì con l'accettare una delle mentine extra strong di McRae. «Grazie», disse, mettendosela in bocca. «Da un'ora penso la stessa cosa anch'io. Solo che non volevo lasciarlo andare. Non si sa mai», sospirò;
«non si sa mai; Peter Lumley potrebbe essere ancora vivo». Più che una speranza, era un desiderio. Peter Lumley era morto, e lo sapevano entrambi. Non ne era stato trovato ancora il cadavere, ma era morto. «Niente d'interessante sulla scena del reato?», chiese Logan. «Cioè?» «La bambina che abbiamo trovato morta potrebbe non essere la sola». E adesso c'era la cosa che gli aveva dato tanto da pensare. «E poi c'è David Reid. Era stato abbandonato. Il modus operandi non collima. Roadkill conserva i corpi. Non avrebbe lasciato il cadavere di David fuori all'aperto per tutto quel tempo». «Forse gli piacciono parzialmente decomposti, prima che li metta via». «E allora, se è stato lui, ha tagliato i genitali di David Reid. Probabile che siano alla fattoria». Insch si arrabbiò. «Merda. Ci toccherà esaminare tutte le carcasse che ha lì. Il proverbiale ago nel pagliaio». Si massaggiò la faccia con le manacce. «Bene», disse. Respirò profondamente e si raddrizzò. La voce aveva riacquistato il suo timbro autoritario. «Quest'indagine sarà dura da portare avanti, ma dovremo farlo, non c'è alternativa. Se non riusciamo a ottenere una confessione da Philips, dovremo collegarlo ai cadaveri e partire da lì. Abbiamo trovato la bambina nel suo capannone: fatto irrefutabile. E ci dev'essere qualcosa che lo collega a David Reid e a Peter Lumley. Manda fuori una dozzina di agenti in divisa a fare domande nei luoghi dove i bambini sono stati visti l'ultima volta. Trovami un testimone. Non ci lasceremo sfuggire quel bastardo un'altra volta». Quella notte i sogni di Logan furono pieni di bambini in decomposizione. Correvano nell'appartamento, volevano giocare. Uno era seduto per terra nel soggiorno, con la pelle che gli si staccava un pezzo alla volta e cadeva sul parquet. Giocava con un vecchio xilofono che Logan aveva avuto in regalo quando aveva compiuto quattro anni. Clink clank clonk, una cacofonia di suoni che somigliava più allo squillare di un telefono che a musica. E fu così che si svegliò. Si alzò e barcollò fino al soggiorno; afferrò il telefono e «Cosa c'è!». «Buon Natale anche a te». Colin Miller. «Santo cielo!». Logan cercò di svegliarsi massaggiandosi la faccia. «Sono le sei e mezza! Sei sempre così mattiniero?»
«Avete trovato un altro cadavere». Logan si avvicinò alla finestra e sbirciò dalle tendine, cercando la costosa auto di Colin. Non la vide. Il che significava che almeno gli sarebbe stata risparmiata la scocciatura di una visita dell'allegro giornalista. «E allora?». Ci fu una pausa dall'altra parte del filo. «E avete arrestato Bernard Philips. Roadkill». Logan rimase di stucco. «Come diavolo fai a saperlo?». Nel bollettino emesso dall'ufficio stampa della Centrale non c'era alcun dato che potesse far identificare l'arrestato, solo la consueta dichiarazione: «Una persona sospetta è stata arrestata e il relativo rapporto inviato al Procuratore...». «Lo sai come: fa parte del mio lavoro. Poverina, lasciata lì a marcire tra tutte quelle carcasse di animali... Laz, voglio il trattamento preferenziale. Ricordati bene, io so cose su Geordie Stephenson che tu ancora non sai. Barattiamo e ne usciamo vincenti entrambi». Logan non riusciva a credere a quel che stava sentendo: «Hai una faccia di ghisa, a chiedere informazioni dopo quello che hai fatto all'ispettore Insch ieri!». «Laz... si tratta di "business". Lui ti aveva strapazzato e io l'ho tirato giù un paio di tacche. Ma ho forse scritto qualcosa di male nei tuoi confronti? No, vero?» «Non stiamo parlando di me». «Ah, capisco. Lealtà. Lodevole virtù in un rappresentante della legge». «Gli hai fatto fare la figura di un idiota». «Allora ti faccio una proposta: io lascio stare il cattivo della pantomima e noi due ci facciamo una chiacchierata a colazione, va bene?» «Sai benissimo che non posso. Non posso dirti niente senza l'autorizzazione dell'ispettore, va bene?». Ci fu un'altra pausa. «Laz, dovresti stare molto attento a quello che fai con la tua lealtà. Capitano volte che ti può fare più male che bene». «Cosa diavolo vorresti dire?» «Leggi il giornale di stamattina, Laz. E capirai quanto ti può far comodo avere un amico in sala stampa». Click. Logan rimise a posto la cornetta e rimase nel soggiorno, rabbrividendo. Di tornare a letto non se ne parlava neanche. Doveva sapere cos'altro aveva combinato Colin Miller. Cosa c'era sul giornale. Erano le 6,30. La sua copia del giornale non sarebbe arrivata prima di
un'ora. Si vestì e uscì, nella neve che gli arrivava fino alle caviglie, per andare fino a Castlegate, dove sapeva che c'era un negozio che apriva molto presto. Era un negozietto, uno di quelli che provano a vendere di tutto. Gli scaffali erano di pieni di una vasta gamma di prodotti: libri, pentolini, padelle, lampadine, fagioli in scatola... Logan vide quello che cercava in un pacco per terra: i giornali, ancora avvolti nella busta di plastica per tenerli all'asciutto. Il titolare del negozio, un omone con una barbetta grigia, un dente d'oro e al quale mancavano tre dita alla mano sinistra grugnì un "buongiorno" mentre si abbassava a tagliare lo spago che legava il pacco dei giornali. «Buon Dio nel cielo!», disse prendendo un giornale, aprendolo e tenendolo in modo che Logan ne vedesse la prima pagina. «Avevano preso lo stronzo e lo hanno lasciato andare! Roba da matti!». In prima pagina c'erano quattro fotografie: David Reid, Peter Lumley, l'ispettore Insch e Bernard Duncan Philips. Roadkill era leggermente sfocato, fotografato chissà quando, mentre raccoglieva con la pala un coniglio schiacciato, col suo carrettino vicino. I due ragazzi sorridevano dalla classica foto ricordo della scuola. L'ispettore Insch indossava il costume del "cattivo" della pantomima. Le quattro fotografie erano sormontate da una testata da urlo: La casa degli orrori! Bambina morta trovata in una catasta di animali putrefatti! E più sotto: Assassino rilasciato dalla polizia solo poche ore prima. Colin Miller colpisce ancora. «Banda di pagliacci, ecco cosa sono i nostri poliziotti. Ma le dico una cosa: datemi quello stronzo per cinque minuti... io ho nipotini di quell'età». Logan pagò il giornale e uscì senza dir parola. Aveva ricominciato a nevicare. I fiocchi di neve cadevano dal cielo plumbeo e le nubi basse riflettevano la luce gialla dell'illuminazione stradale. Per tutta la Union Street le luci dei dodici giorni di Natale brillavano e luccicavano, ma Logan non li notò; si era fermato davanti al negozietto per leggere alla luce della vetrina. C'era un articolo su Roadkill che ne descriveva il passato; la schizofrenia, i due anni trascorsi a Cornhill, la madre morta, la raccolta di carcasse. Miller era anche riuscito a parlare con alcuni dei genitori che lo avevano picchiato davanti alla scuola. Le citazioni erano indignate e piene di orgoglio per il loro operato. La polizia li aveva trattati come criminali solo per aver aggredito quello sballato, mentre lui aveva una bambina morta sotto
la sua catasta di animali morti! Logan fece una smorfia quando lesse la parte dell'articolo che narrava come la polizia avesse avuto Roadkill in custodia e come l'ispettore Insch (recentemente visto pavoneggiarsi a teatro in pantomima mentre bambini venivano rapiti, assassinati e violentati) ne avesse ordinato il rilascio. Nonostante il nostro eroico sergente Logan "Lazzaro" McRae gli avesse consigliato di non rilasciarlo. Logan emise un gemito di sconforto. Fottutissimo Colin Miller! Probabilmente pensava di fargli un favore, facendolo passare per la voce della ragionevolezza, ma Insch sarebbe esploso. Dal come Miller aveva impostato l'articolo, sembrava che Logan fosse andato al «Press and Journal» a dargli la soffiata. Come se avesse voluto accoltellare l'ispettore Insch alle spalle. Quando Logan arrivò alla Centrale vide che il patrigno di Peter Lumley lo stava aspettando. Aveva l'aspetto di uno che non ha dormito per un mese e il suo alito avrebbe fatto cagliare la carta da parati: birra vecchia e whisky. Aveva letto il giornale. Sapeva che la polizia aveva arrestato qualcuno. Logan lo portò in una saletta appartata e lo fece sfogare, mentre l'uomo inveiva e farneticava. Roadkill sapeva dov'era suo figlio! La polizia doveva farlo confessare! E se non erano capaci loro lo avrebbe fatto lui! Dovevano trovare Peter! Lentamente Logan lo calmò, spiegandogli che l'uomo che avevano arrestato probabilmente non aveva niente a che fare con la sparizione di suo figlio. Che la polizia stava facendo tutto il possibile per trovarlo. Che avrebbe fatto meglio a tornarsene a casa. E fu solo la grande stanchezza sentita che gli fece accettare un passaggio in un'autopattuglia. All'inizio della giornata Logan si sentiva già da cani. Sentiva un nodo allo stomaco e non erano le cicatrici. Alle otto e mezza Insch non si era ancora visto. Tirava aria da bufera di merda; e Logan vi si sarebbe trovato proprio al centro. L'assegnazione delle consegne passò alla svelta, con Logan che diede gli incarichi e stabilì le squadre. Una squadra avrebbe dovuto indagare ogni abitazione entro un miglio dall'ultimo avvistamento dei bambini, prima e dopo la loro morte. Avevano visto quest'uomo, Roadkill, bighellonare in zona? Un'altra avrebbe dovuto fare ricerche in tutti gli archivi: sanitari, scolastici e quant'altro, per qualsiasi riferimento, diretto o indiretto, a Ber-
nard Duncan Philips, alias Roadkill. E l'ultima, la più numerosa, avrebbe avuto il lavoro più ingrato: cercare, pezzo per pezzo in una tonnellata di carcasse putrefatte, i genitali amputati di David Reid. Questo non era più un lavoro per la nettezza urbana o la sanità del comune: questa era un'indagine su un assassinio. Nessuno chiese dove fosse l'ispettore Insch o parlò della prima pagina del «Press and Journal» di quella mattina. Ma Logan sapeva che tutti l'avevano letta. E sentiva che nella stanza serpeggiava una corrente di ostilità nei suoi confronti. Tutti avevano raggiunto la conclusione che Logan aveva dato la soffiata alla stampa e accoltellato Insch nelle spalle. L'agente Watson non lo guardò neanche in faccia. Al termine della riunione e con ognuno al compito assegnato, Logan andò dall'ispettore Steel. La trovò nel suo ufficio, seduta con i piedi sulla scrivania, l'eterna sigaretta in bocca e un tazzone di caffè in una mano. Una copia del famigerato giornale copriva le scartoffie sulla sua scrivania. Logan bussò ed entrò e lei lo salutò alzando il tazzone. «Buon giorno, Lazzaro», disse. «Stai cercando un'altra vittima?» «Non ho fatto niente! Capisco che sembra così, ma non ho fatto niente!». «Sì, sì... Chiudi la porta e metti le chiappe su quella sedia». Gli mostrò la sedia dall'altra parte della scrivania. Logan fece come gli era stato detto e rifiutò l'offerta di una sigaretta. «Se sei andato alla stampa con questa roba», indicò il giornale, «una delle due: o sei un gran coglione, tanto da essere incapace di respirare senza supervisione, oppure sei ambizioso e con gran voglia di far carriera. Sei ambizioso, Mr Eroico Poliziotto?» «Cosa?» «Lazarus, so che non sei stupido», disse agitando la sigaretta nell'aria. «So che ti rendi perfettamente conto che parlare in questi termini a quelli della stampa, prima o poi torna a morderti le chiappe. Ma un articolo del genere potrebbe distruggere la carriera dell'ispettore Insch. Per cui, con lui fuori dai piedi e la stampa dalla tua parte saresti fatto su misura per il posto di ispettore. La truppa ti odierà, ma se riesci a sopportare l'astio dei primi tempi, tutto si sistemerà e sarai ben avviato sulla scala gerarchica. Prossimo gradino, ispettore capo». Gli fece anche un saluto. «Giuro che non ho parlato a nessuno! Sono stato io a consigliare all'ispettore Insch di mandare Roadkill a casa, visto che non avevamo niente da imputargli. Gli ho persino dato un passaggio a casa!».
«E allora com'è che questo giornalista ti accarezza le chiappe con una mano e sculaccia Insch con l'altra?» «Io... io... non lo so». Bugiardo. «Lui crede che siamo amici. Io gli ho parlato solo cinque o sei volte. E l'ispettore Insch ha approvato ogni parola». Megabugiardo. «Non credo che l'ispettore gli sia simpatico». Questo almeno era vero. «Posso capire che non gli piaccia. Insch non piace a molta gente. A me? A me piace. È un omone, con delle gran chiappe. Chiappe come quelle, ti vien voglia di morderle». Logan cercò di non immaginare la scena. L'ispettore Steel tirò un'altra boccata di fumo dalla sigaretta e fece uscire il fumo sibilando, con le labbra che abbozzavano un sorriso. «Gli hai parlato?» «A chi... all'ispettore Insch?». Logan abbassò la testa. «No, non ancora». «Hmm... stamattina è arrivato presto. Ho visto il suo fuoristrada nel parcheggio. Starà probabilmente covando una vendetta con i pezzi grossi, e ti farà trasferire ai Gorbals». Si appoggiò alla sedia sorridendo e Logan non capì se stesse scherzando o dicendo sul serio. «Veramente io... io speravo che magari lei avrebbe potuto parlargli...». Lo interruppe, col sorriso che si tramutò in una risata. «Vuoi che gli chieda se gli piaci?». Logan si sentì arrossire. Sapeva com'era l'ispettore Steel. Ed era veramente venuto a trovarla sperando di trovare qualcuno che credesse alla sua versione dei fatti? Forse era veramente incapace di respirare senza supervisione. «Mi dispiace averla disturbata», disse alzandosi e dirigendosi verso la porta. «Sarà bene che torni al mio lavoro». Lo fermò quando era arrivato alla porta, mano sulla maniglia. «Sarà arrabbiatissimo. Magari non con te, magari con questo tizio Miller, ma sarà arrabbiatissimo comunque. Preparati per una strigliata. E se si rifiuta di ascoltare la tua versione, pensa al binomio frittata e uova: non si può far l'una senza rompere le altre. Solo perché non sei stato te a creare questo pasticcio, non vuol dire che non potresti trarne vantaggio». «Trarne vantaggio?» «L'ambizione, caro Mr Eroico Poliziotto. Volente o nolente tu potresti finire ugualmente al posto di Insch. Magari non ti piacerà come si sono svolte le cose, ma potresti trovarti con le spalline da ispettore». Accese un'altra sigaretta dalla cicca di quella che aveva appena finito. La cicca finì nel tazzone del caffè. Gli fece l'occhiolino. «Facci un pensierino».
Logan ci pensò. Dall'ufficio di Steel al suo. L'agente era come al solito al telefono, a ricevere dichiarazioni da innumerevoli cittadini. Da quando l'arresto di Roadkill era stato annunciato in televisione e sulla stampa, ognuno si sentiva in dovere di fornire una dichiarazione. La bambina assassinata, agente? Ma certo. L'ho vista con i miei occhi salire su un furgone della nettezza urbana del comune. Assieme a questo brutto ceffo sui giornali... Gli enti sanitari regionali avevano cominciato a rispondere alle sue richieste di informazioni su bambine che avessero contratto TBC negli ultimi quattro anni. Non aveva ancora molti nomi, ma col passar della giornata l'elenco sarebbe diventato più lungo. Logan diede un'occhiata all'elenco, alcuni dei nomi erano già stati cancellati dall'agente nel suo ufficio. Erano interessati solo a bambine che adesso avrebbero tra i tre anni e mezzo e i cinque anni. Era sicuro che a fine giornata avrebbero saputo il nome della loro piccola innominata. Si aspettava la telefonata; nonostante questo, quando arrivò le budella gli si attorcigliarono. Presentarsi all'ufficio del commissario capo. Subito. E va bene, si disse. Andiamo e facciamola finita. A farsi mordere le chiappe per qualcosa che non aveva fatto. A parte aver mentito a Colin Miller. E all'ispettore Insch. «Vado a fare un giretto», disse alla sua telefonista. «Non so se e quando tornerò». L'ufficio del commissario era una fornace. Logan fu fatto stare in piedi, con le mani dietro la schiena. L'ispettore Insch era seduto in una poltrona di finta pelle e anche di finta comodità. Quando Logan entrò non lo guardò. Ma l'ispettore Napier, della sezione Standard Professionali, lo guardò come se Logan fosse stato un esperimento scientifico mal riuscito. Dietro la scrivania sedeva un uomo dall'aspetto profondamente serio, dal cranio a forma di proiettile e pochissimi capelli. Indossava la divisa regolamentare, tutta abbottonata. Non un buon segno. «Sergente McRae». La voce, stentorea e profonda, riempì la stanza di presagio. «Lei sa perché l'abbiamo chiamata». Non era una domanda, ma un'affermazione; sulla scrivania c'era una copia dell'odierno «Press and Journal», perfettamente allineata agli altri oggetti. «Sì, signore». «Ha qualcosa da dire?». Stavano per licenziarlo. Rientrato da appena sei giorni e lo avrebbero buttato fuori. Avrebbe dovuto mantenere un profilo più basso e stare anco-
ra un po' di tempo in malattia. Addio pensione. «Sì, signore. Voglio che si sappia che l'ispettore Insch ha sempre potuto contare sul mio assoluto e totale supporto. Non ho dato questa storia a Colin Miller, come non ho detto a nessuno che non ero d'accordo con l'ispettore Insch circa la sua decisione di rimettere in libertà Road... Mr Philips. Perché in quel momento era la decisione giusta». Il commissario si appoggiò allo schienale della sedia, gomiti sui braccioli e unì la punta delle dita davanti al suo faccione. «Ma lei ha parlato con questo Miller, vero sergente?» «Sì, signore. Mi ha telefonato alle sei e mezza stamattina, chiedendomi informazioni sull'arresto di Mr Philips». L'ispettore Insch quasi saltò fuori dalla sua sedia. «Come diavolo faceva a sapere che avevamo arrestato Roadkill? A parte noi, non lo sapeva nessuno! Vi dico, quest'uo...». Il commissario fece un gesto con la mano e Insch s'interruppe. «Quando gli ho chiesto come faceva a saperlo», continuò Logan, parlando come un poliziotto chiamato a testimoniare in tribunale, «mi ha risposto con uno dei suoi soliti cliché, che sapere certe cose faceva parte del suo lavoro. E questa non è la prima volta che Miller ha ricevuto informazioni privilegiate. Sapeva che avevamo trovato il cadavere di David Reid. Come sapeva che l'assassino lo aveva violentato e mutilato. E sapeva anche che il cadavere della bambina era decomposto. Ha una talpa in Centrale». Il commissario inarcò un sopracciglio, ma non proferì parola. La tecnica d'interrogatorio brevettata dall'ispettore Insch. Ma questa volta Logan non aveva voglia di giochetti e di strategie. «E non sono io! È da escludere nel modo più assoluto che io abbia potuto dire a un giornalista che non ero d'accordo con la decisione di un mio superiore di rilasciare un sospetto! Miller vuole un amico all'interno della Centrale e crede che può trovarne uno in me "dandomi una mano"! Pensa solo alle vendite del giornale!». Il commissario continuò a tacere. «Signore, se lei vuole le mie dimissioni...». «Sergente, questa non è una udienza disciplinare. Se lo fosse stata lei sarebbe stato assistito da un rappresentate del sindacato». Fece una pausa di alcuni secondi; diede un'occhiata a Insch e a Napier e si rivolse nuovamente a Logan. «Si accomodi e attenda nel corridoio mentre noi discutiamo questa faccenda a fondo. La chiameremo quando avremo raggiunto una decisione».
Logan si sentì come se qualcuno gli avesse versato una caraffa di acqua gelata nelle budella. «Sì, signore». Uscì dalla stanza a testa alta e a spalle erette, chiudendosi dietro la porta. Lo avrebbero licenziato. Oppure lo avrebbero trasferito lontano da Aberdeen. Avrebbero trovato un angolo dimenticato da Dio e dagli uomini nella parte più a nord della Scozia e ce lo avrebbero mandato, a finire i suoi giorni facendo il poliziotto di paese, magari a occuparsi delle relazioni con la scuola. Dopo un'attesa che a Logan sembrò interminabile, l'ispettore Napier uscì a richiamarlo. Logan si presentò sull'attenti davanti alla scrivania del commissario e attese il colpo di mannaia. «Sergente», disse il commissario prendendo il giornale, piegandolo in due e facendolo cadere nel cestino della cartaccia, dietro la scrivania. «Sarà lieto di sapere che le crediamo». Logan non poté fare a meno di notare l'espressione dispiaciuta sul volto dell'ispettore Napier. Evidentemente a qualcuno il verdetto non piaceva. Il commissario si riappoggiò allo schienale ed esaminò Logan. «L'ispettore Insch mi dice che lei è un buon poliziotto. E me lo conferma l'ispettore Steel. Mi dicono che lei non è qualcuno che parlerebbe alla stampa di questo genere di cose. Io rispetto il parere dei miei ufficiali. Se mi dicono che lei non è un...» fece una pausa, accompagnandola con un sorriso. «Se loro mi dicono che lei non avrebbe parlato alla stampa senza previa autorizzazione, sono disposto a crederlo. Nonostante questo...». Logan si preparò alla notifica del suo trasferimento a chissà dove. «Non possiamo lasciar passare inosservata una faccenda del genere. Io potrò dire al mondo intero che siamo in pieno, totale e assoluto supporto dell'ispettore Insch. Che è l'assoluta verità, non parole per la stampa. Ma questo non farà dimenticare l'intera vicenda. Presenta troppi aspetti negativi. La pantomima, il rilascio di Mr Philips meno di ventiquattr'ore prima della scoperta di un cadavere a casa sua...». Alzò una mano, per far tacere l'ispettore Insch prima che questi potesse aprir bocca. «Personalmente non sono del parere che l'ispettore abbia fatto qualcosa di redarguibile. Ma queste storie sono molto nocive alla reputazione della polizia. Inizialmente le storia di Miller era stata strombazzata soltanto sui quotidiani locali. Ma ora le seconde edizioni di tutti i quotidiani nazionali hanno pubblicato una versione alquanto rimaneggiata della storia di Miller. "Sun", "Daily Mail", "Mirror", "Indipendent", "Guardian", "Scotsman"... diavolo, perfino "The Times"! Tutti, indistintamente, che narrano al mondo quanto siano incompetenti quelli della Grampian Police». Si ricompose nella sedia, riaggiu-
standosi l'uniforme. «La polizia di Lothian and Borders ha ritelefonato ancora al questore. Hanno detto che hanno del personale molto esperto in questo genere di indagini. Sarebbero ben lieti se gli consentissimo di "assisterci"». Fece una smorfia di disgusto. «Dobbiamo far vedere che stiamo prendendo provvedimenti. Il pubblico ulula per la testa di qualcuno; ma io non sono disposto a dar loro quella dell'ispettore Insch». Sospirò profondamente. «C'è un'altra cosa che possiamo fare; metterci con questo Colin Miller. Sembra che lei gli sia simpatico, sergente. Voglio che lei gli si avvicini, che gli parli. Se lo faccia amico». Logan guardò Insch di soppiatto; la sua espressione prometteva poco di buono. Napier sembrava pronto a esplodere. «Signore?» «Se questo problema con la stampa continua, non avremo alternativa. L'ispettore Insch sarà sospeso a stipendio pieno, e un'indagine sarà effettuata sul suo operato. E saremo costretti ad accettare l'assistenza della Lothian and Borders Police, passando a loro le indagini in corso». «Ma... ma, signore: non è giusto!». Guardò da Insch al sovrintendente. «L'ispettore Insch è il più qualificato per queste indagini! E quel che è successo non è colpa sua!». L'uomo dietro la scrivania annuì e sorrise all'ispettore Insch. «Aveva ragione, ispettore. Lealtà. Bene, sergente. Facciamo in modo che quanto ho appena ipotizzato non avvenga. Voglio bloccare questo stillicidio. Voglio che la talpa venga scoperta. Chiunque abbia fornito informazioni privilegiate a Miller, voglio che venga portato allo scoperto». Insch grugnì. «Non si preoccupi, signore. Quando avrò trovato il colpevole, le assicuro che non parlerà più a nessuno!». Napier s'irrigidì sulla sedia. «Ma si assicuri di restare nei termini della legalità, ispettore», disse chiaramente infastidito dall'appropriazione da parte di Insch della sua competenza per le indagini sulla talpa. «Voglio che ci sia un'udienza disciplinare e un'espulsione dai ranghi. Senza attenuanti. Ma anche senza prendere scorciatoie. Chiaro?». Insch annuì, ma gli occhi gli spiccavano nel faccione come due carboni ardenti. Il commissario capo sorrise a tutti. «Benissimo. Faremo in modo che questo momento imbarazzante sia presto alle nostre spalle. Ci serve una condanna. Philips è sottochiave e sappiamo che l'assassino è lui. Dobbiamo solo trovare qualche testimone e l'evidenza della scientifica. E le vostre indagini sono ben avviate». Si alzò, segnalando il termine della riunione.
«Vedrete», continuò come commiato. «Tra due settimane sarà tutta acqua passata e saremo tornati alla normalità. Tutto sarà perfetto». Si sbagliava. CAPITOLO 22 L'ispettore Insch e Logan tornarono al centro investigazioni con Insch che borbottava e bestemmiava sottovoce. Non era per niente soddisfatto. Logan capì che non aveva accettato la proposta del commissario capo di avvicinarsi a Colin Miller. Il giornalista lo aveva ridicolizzato agli occhi del paese e Insch avrebbe voluto svitargli le palle, altro che mandargli il suo sergente a prenderlo sottobraccio. «Guardi che io non ho parlato a Miller, signore». «No?» «No. E sono sicuro che è per questo che l'ha fatto. Prima la faccenda della pantomima e poi la storia del rilascio di Roadkill. Io non gli direi niente, senza la sua autorizzazione». Insch tacque. Tirò fuori un pacchetto di caramelline morbide e se ne mise un paio in bocca. Non offrì la busta a Logan. «Ascolti, signore. Non crede sia il caso di rilasciare una dichiarazione? Voglio dire, il cadavere era stato lì da anni. Rimettere o no Roadkill in libertà dopo che era stato picchiato non avrebbe cambiato nulla». Erano arrivati al centro e Insch si fermò. «Le cose non sono così semplici, sergente. Mi hanno preso per le chiappe e non molleranno tanto facilmente. E poi hai sentito il commissario capo: se questa solfa continua, mi tolgono le indagini e le passano a quelli della Lothian and Borders». «Non volevo che le cose finissero così, signore». Un lieve sorriso passò rapidamente sulle labbra dell'ispettore Insch. «Lo so», rispose. Offrì il pacchetto di caramelline a Logan, che ne prese una verde. Aveva il sapore di un soldo d'argento. Insch sospirò. «Non ti preoccupare. Parlerò con le truppe. Gli dirò io che non sei un topo di fogna». Ma Logan continuò a sentirsi tale. «Ascoltatemi bene!», disse Insch agli impegnatissimi agenti presenti, che ammutolirono appena notarono la sua presenza. «Avrete tutti visto la mia foto sul giornale di stamattina. Mercoledì sera io ho rilasciato Roadkill e il giorno dopo il cadavere di una bambina viene trovato nella sua raccolta di carcasse. Per cui sono stato definito un gran paraculo, incompetente per giunta, a cui piace travestirsi da pagliaccio invece di dedicarsi alla lotta
contro il crimine. E avrete anche letto che il sergente McRae mi sconsigliò di rilasciare Roadkill, ma, da perfetto idiota, non gli ho dato retta». Un rabbioso mormorio si levò tra i presenti, messi subito a tacere da un gesto di Insch. Ma le occhiate malefiche continuarono. «So benissimo che voi tutti siete convinti che il sergente McRae sia un sacco di merda, ma vi consiglio di cambiare idea, e subito. Il sergente McRae non ha parlato ai giornalisti. Chiaro? Se vengo a sapere che qualcuno di voi gli ha reso la vita difficile...». Si passò l'indice orizzontalmente sul pomo d'Adamo. «Adesso, rimettete le chiappe al lavoro e riferite quanto vi ho detto al resto del turno. Questa indagine prosegue e arresteremo lo stronzo». Le dieci e mezza e l'autopsia era in corso. Nonostante Logan si tenesse il più lontano possibile dalla tavola di dissezione e la ventola d'aspirazione stesse andando al massimo, l'odore era insopportabile. Quando quelli dell'IB avevano cercato di sollevarlo dalla catasta di carcasse nel capannone, i gas della decomposizione avevano praticamente fatto esplodere il cadavere. Avevano dovuto raccoglierne le interiora dal pavimento del capannone. Tutti i presenti all'autopsia indossavano tute cartacee bianche, copriscarpe in plastica, guanti di latex e mascherine. Ma questa volta la maschera di Logan non era stata impregnata di spray al mentolo. Isobel si muoveva lungo il tavolo, toccando il cadavere con un dito doppiamente inguantato e dettando informazioni dettagliate e metodiche nel suo microfonino. Il nuovo moroso - Brian - le correva dietro come un cucciolo innamorato, da quel capellone di merda che era. L'assenza dell'ispettore Insch era di nuovo ben visibile, aveva sfruttato il senso di colpa di Logan per mandarlo all'autopsia in vece sua, mentre il procuratore e il patologo d'appoggio erano presenti. Ma tutti il più lontano possibile dal corpo putrefatto. Era impossibile stabilire se la bambina fosse stata strangolata come era successo a David Reid. La pelle della gola era troppo decomposta, piena di piccoli vermi bianchi, e qualcosa aveva rosicchiato la carne: un topo, o forse una volpe o chissà cos'altro. Le voce di Isobel perse il timbro fermo e risoluto che la caratterizzava; divenne tremula e la fronte le si imperlò di sudore freddo. Sollevò delicatamente gli organi interni dalla borsa di plastica nella quale erano stati spalati e cercò di individuare cosa aveva in mano. Logan era sicuro che non sarebbe più riuscito a togliersi questo odore
dalle narici. Quello dell'autopsia di David Reid era stato pesante, ma questo era cento volte peggio. «Conclusioni preliminari», cominciò Isobel quando tutto fu finito e cominciò a lavarsi le mani con la spazzola. «Quattro costole rotte, e segni di un forte trauma cranico. Un'anca rotta, una gamba rotta. Aveva cinque anni, bionda. Ci sono due otturazioni nei molari». Ancora sapone, e giù a sfregare e sfregare con la spazzola. Sembrava che Isobel volesse pulirsi fino all'osso. Logan non l'aveva mai vista così scossa e turbata dal suo lavoro. «Difficile stabilirlo con esattezza per via della decomposizione, ma io direi che è morta tra i dodici e i diciotto mesi fa». Rabbrividì. «Per poterlo dire con maggior certezza, dovrò fare dei test in laboratorio». Gentilmente Logan le posò una mano sulla spalla. «Mi dispiace», disse. Non sapeva perché. Perché la loro relazione era finita? Perché non avevano più niente in comune una volta messo via Angus Robertson? Perché lei aveva dovuto soffrire quel che aveva sofferto sul terrazzo in cima a quel palazzo? Perché lui non era arrivato a lei prima che... Perché aveva dovuto squartare il corpo putrefatto di una bambina come un tacchino? Lei gli sorrise con tristezza; aveva gli occhi pieni di lacrime. Per un attimo erano di nuovo insieme, legati dalla tenerezza del momento. E poi Brian, il suo assistente, rovinò tutto. «Mi scusi, dottore, c'è una telefonata per lei. L'ho fatta trasferire in ufficio». L'attimo era svanito; e anche Isobel. Mentre Logan attraversava la città per recarsi alla fattoria di Roadkill, il povero diavolo veniva sottoposto a valutazioni psichiatriche. Era certo che Bernard Duncan Philips sarebbe stato trovato incapace di essere sottoposto a processo. Roadkill era un caso critico e lo sapevano tutti. E doveva pur esserlo, per aver tenuto tre capannoni pieni degli animali morti che aveva tirato su dalla strada. Oltre alla bambina morta. Ne sentiva ancora l'odore. Logan abbassò il finestrino dell'auto quanto più possibile; fiocchi di neve entravano e si scioglievano nell'aria calda delle ventole. Il ricordo di questa autopsia sarebbe rimasto con lui per molto, molto tempo. Rabbrividì e alzò il riscaldamento al massimo. La forte nevicata stava bloccando il traffico. Le automobili slittavano e sbandavano lungo tutta South Anderson Drive, alcune finivano sul marciapiede, altre per traverso in mezzo alla strada. La Vauxall del parco macchine del CID, piena di brufoli di ruggine, non dava problemi. Più avanti vedeva la luce gialla lampeggiante di un automezzo che spar-
geva sale e sabbia su due corsie. Le macchine che lo seguivano si tenevano a debita distanza, cercando di non farsi graffiare la carrozzeria. «Meglio tardi che mai». «Mi scusi, signore?». Logan non conosceva il giovane agente alla guida dell'auto. Avrebbe preferito avere l'agente Watson, ma Insch non gliel'aveva assegnata. Aveva preferito mandargli il nuovo giovanotto in quanto lo aveva ritenuto meno suscettibile di infastidirlo con commenti fuori luogo sulla storia del giornale. E poi stamattina l'agente Watson era di nuovo in tribunale col "masturbatore dello spogliatoio". La volta scorsa era stato portato lì come teste nel processo di Gerald Cleaver; questa volta era l'imputato. E il suo processo non sarebbe durato molto tempo: Watson lo aveva colto in flagrante, nello spogliatoio donne della piscina, che si masturbava a tutto andare. Lo avrebbero portato in aula, reo confesso, si sarebbe dichiarato colpevole con circostanze attenuanti, avrebbe implorato la clemenza della corte, sarebbe stato condannato a un servizio nella comunità e sarebbe tornato a casa in tempo per il tè. Magari con un arresto e processo a suo merito la Watson sarebbe stata meno gelida nei suoi confronti? Ci misero il doppio del solito per arrivare alla periferia di Cults e alla fattoria di Roadkill. La visibilità si era ridotta a meno di cinquanta metri; nevicava alla grande. All'inizio del sentiero che portava alla fattoria c'era un gruppetto di giornalisti e di telecronisti, che rabbrividivano e starnutivano nel freddo. Due agenti, ben imbottiti sotto i loro cappotti impermeabili e fluorescenti, erano di guardia, per tenere lontani quelli della stampa. La neve si era ammucchiata sulle visiere dei loro berretti, dando loro un aspetto quasi festivo. Ma bastava guardarli in faccia per rendersi conto di quanto fosse falsa questa immagine. Avevano freddo, erano tristi e avevano le palle piene dei giornalisti che continuavano a puntargli dei microfoni in faccia e a fargli domande. E che li costringevano a restare fuori dal caldo e dall'asciutto della loro auto. La stradina era piena di auto e di furgoni. La BBC, Sky News, ITN, CNN: c'erano tutti, con i loro riflettori che illuminavano a giorno il tetro e cupo paesaggio. All'arrivo di Logan tutti interruppero quel che stavano facendo e si lanciarono su di lui come un branco di piranha affamati. Logan, attorniato dal branco che infilava microfoni nel finestrino aperto, si comportò come gli aveva consigliato Insch: tenne la bocca chiusa.
«Sergente, è vero che questo caso è stato passato a lei?» «Sergente McRae! Si giri di qua! È vero che l'ispettore Insch è stato sospeso?» «Bernard Philips: ha già ucciso altre volte o è questa la prima?» «Sapevate che era mentalmente instabile prima della scoperta del cadavere?». Ce n'erano altre, ma si perdevano nella cacofonia della miriade di voci. L'agente guidò la macchina lentamente, facendosi strada tra la folla e lungo il sentiero, fino al cancello chiuso: e lì Logan sentì la voce che si aspettava. «Laz, era ora! Mi si sono gelate le palle qua fuori!». Colin Miller, guance e naso rosso, in un lungo cappotto, stivaloni imbottiti, berretto di pelliccia. Molto alla russa. «Sali in macchina». Colin entrò in macchina e un altro uomo, similarmente intabarrato entrò dall'altra portiera. Logan si girò di scatto, e ricevette il solito segnale dalle sue cicatrici. «Laz, ti presento Jerry. È il mio fotografo». Il fotografo si tolse il guantone da neve e porse la mano a Logan. Logan non la prese. «Mi dispiace, Jerry. Ma il patto era chiaro. Un uomo solo. La polizia rilascerà le foto ufficiali, e saranno le uniche a circolare. Tu dovrai restare qui». Colin sfoggiò il sorriso più amichevole del suo repertorio. «Dai, Laz, Jerry è un bravo ragazzo. Non fotograferà niente di macabro, vero Jerry?». Jerry fu colto in contropiede da questa domanda, e dalla sua espressione confusa Logan capì che Jerry era lì per fotografare proprio i particolari più macabri della scena. «Spiacente, Colin. Tu e solo tu». «Merda». Colin si tolse il cappello e ne scosse la neve sul tappetino dell'auto. «Scendi, Jerry. Tornatene in macchina: c'è un termos di caffellatte sotto il sedile. Non mangiare tutti i biscotti allo zenzero». Bestemmiando sottovoce il fotografo scese dall'auto, tornando verso i giornalisti, nella neve cadente. «Bene», disse Logan mentre si avvicinavano alla fattoria. «Mettiamo le cose in chiaro. Noi manteniamo i diritti editoriali su ogni storia. Noi forniamo le fotografie. E se c'è qualcosa che noi non vogliamo che tu pubblichi perché potrebbe compromettere il corso delle indagini, tu non la pubblichi». «E io ricevo l'esclusiva. Voi non date a nessun'altro quello che date a
me». Miller aveva un sorriso osceno sul volto. Logan annuì. «E se dici mezza parola di male sull'ispettore Insch, morirai per mano mia». Ridendo Miller alzò ambedue le mani in una specie di resa. «Wow, tigre! Va bene. Non infierirò sul cattivo della pantomima. D'accordo». «Agli agenti in servizio sulla scena del crimine è stato detto di rispondere alle tue domande. Purché siano pertinenti». «Quella tua agente... quella che ti accompagnava l'altro giorno; ci sarà anche lei?» «No». Miller scosse la testa, rattristato. «Peccato. Avevo una domanda molto impertinente da porle». Cominciarono con l'indossare tute di protezione biologica, con maschere antigas. Con Logan alla guida cominciarono l'ispezione. Capannone numero uno: vuoto eccetto la melma e il liquame che coprivano ancora il pavimento in cemento. Capannone numero due: e fu qui che Miller ebbe il suo primo assaggio del fetore. Diventò stranamente quieto, mentre esaminavano la catasta. Anche dopo averne trasferito la metà ai contenitori, il numero di animali era incredibile. Cani, gatti, tassi, gabbiani, piccioni, corvi, conigli, qualche cervo. Se era morto sulle strade di Aberdeen, era finito qui. A putrefarsi lentamente. Un vuoto nel mucchio era circondato con il nastro blu della polizia. Lì era stata trovata la bambina. «Cristo, Laz», disse Miller, con la voce attutita dalla maschera antigas. «È qualcosa di spaventoso!». «A dir poco!». Trovarono la squadra di ricerca nel capannone numero tre. Indossavano tute di protezione blu come le loro e stavano spostando le carcasse con le mani. Una per una le prendevano, le mettevano su un tavolo per esaminarle e poi le ammucchiavano da un'altra parte per metterle nei contenitori. «Perché questo capannone?», chiese Miller. «Come mai non stanno vuotando il capannone dov'è stata trovata la bambina?» «Philips aveva numerato i capannoni, da uno a cinque. Il cottage era il numero sei. Evidentemente intendeva riempirli tutti, uno alla volta». Due agenti presero dalla catasta un incrocio rognoso di spaniel-labrador e lo portarono sul tavolo.
«Questo è il capannone che aveva riempito a metà. Se ha preso Peter Lumley, lo troveremo qui». Logan vide Miller che si accigliava, dietro le lenti protettive di plastica. «Se state cercando un altro bambino, perché lo cercate così? Perché esaminate tutte le carcasse una per una? Fareste prima a buttar fuori la roba fino a quando lo trovate, no?» «Perché non sappiamo se Peter Lumley è intero o se è stato mutilato. E manca ancora un pezzettino di David Reid». Miller guardò la catasta di carcasse e agli agenti che le prendevano con le mani inguantate, una per una. «Signore Iddio! Cercate il suo pisellino? In mezzo a tutta questa roba? Merda, ma vi meritate una medaglia! Oppure di farvi esaminare il cervello!». Un altro coniglio fu messo sul tavolo, esaminato e aggiunto alla catasta da metter via nei contenitori. «Merda...». Fuori la neve spinta dal vento si stava ammucchiando sul fianco di uno dei contenitori. Il coperchio ne aveva già su una bella coltre. Mentre un'altra spalata di carcasse veniva messa in un contenitore Logan fu colto da un dubbio atroce. Non era facile correre nella neve con tuta e stivaloni, ma Logan raggiunse l'agente proprio mentre lui, anzi lei; difficile dirlo, così ricoperti, rovesciava l'ultimo gabbiano dalla sua pala. «Aspetta», disse. «Dove avete messo il contenuto originale dei contenitori?». L'agente lo guardò, come se fosse un matto, mentre la neve vorticava intorno a loro. «Quale contenuto?», chiese. «La squadra del comune aveva cominciato a spalare le carcasse; è stato trovato il corpo della bambina e poi siamo intervenuti noi. Avete esaminato i corpi che avevano messo via loro?». L'agente capì cosa voleva dire Logan. «Merda!». Dalla rabbia buttò la pala nella neve. «Merda, merda, e ancora merda!». Respirò profondamente e disse: «Signore, non ci abbiamo pensato. Abbiamo cominciato a spalare le carcasse e nessuno ha pensato di esaminare quelle che erano già state messe via». Le caddero le spalle e Logan capì come doveva sentirsi. «Andiamo, allora. Vuoteremo questo contenitore nel capannone numero uno e ne esamineremo il contenuto un pezzo alla volta. Dividetevi in due gruppi. Un gruppo continua nel capannone numero tre e l'altro setaccerà questi altri contenitori». Che divertimento. «Lo dirò io al resto della squadra». Perché no? si chiese. Gli sono già antipatico; tanto vale dargliene motivo. La squadra la prese male. L'unica cosa che attenuò la loro delusione nel
dover ripassare le carcasse già spalate fu la disponibilità di Logan che si dichiarò pronto a dar loro una mano, almeno per un po' di tempo. E Logan passò così il suo pomeriggio. Miller, benedetto lui, non fu da meno: prese una pala e cominciò a darci dentro insieme agli altri. Adesso lo spaniel-labrador era in cima alla catasta: ultimo dentro, primo fuori. Lentamente smaltirono il contenuto del cassone. Logan era convinto di aver esaminato lo stesso coniglio putrefatto trenta volte quando sentì le urla. Qualcuno uscì correndo dal capannone numero tre stringendosi una mano al petto. Scivolò sulla neve e cadde all'indietro. Le urla cessarono per un istante mentre il caduto riprendeva fiato. Gli altri membri delle squadre abbandonarono le loro carcasse e corsero verso di lui. Logan fu il primo ad arrivargli vicino, proprio mentre il povero diavolo ricominciava a urlare. Dallo spesso guanto dell'agente usciva sangue, attraverso una netta incisione nel palmo. La vittima si tirò via la maschera e le lenti protettive di plastica. Era l'agente Steve. Ignorando coloro che gli dicevano di calmarsi continuò a gridare, mentre si strappava il guanto dalla mano ferita. Aveva un buco nel palmo, proprio nella parte carnosa tra il pollice e l'indice. Il sangue ne veniva fuori copiosamente, pulsando; gli colava lungo la mano e nella neve. «Cosa hai fatto?». L'agente Steve non smetteva di urlare, e allora qualcuno gli diede una sberla. Non ne era certo, ma a Logan sembrò che fosse l'agente Simon bastardo Rennie. «Steve!», gridò Simon preparandosi a dargliene un'altra se necessario. «Calmati! Cosa è successo?». Steve aveva gli occhi fuori dalle orbite, guardava ora la mano ora il capannone. «Un ratto!». Qualcuno riuscì a togliersi la cintura dei pantaloni da sotto la tuta e l'avvolse al polso di Steve, stringendo forte. «Gesù, Steve», disse Simon bastardo Rennie esaminando la ferita nella mano del suo amico. «Dev'essere stato bello grosso!». «Grosso? Era una fottutissima pantegana! Grossa come un Rottweiler! Cristo se fa male!». Riempirono di neve una busta di plastica e ci misero dentro la mano sanguinante di Steve, cercando di non notare la neve che diventava prima rosa e piano piano rossa. Logan avvolse il tutto in una tuta bianca e incari-
cò l'agente Rennie di accompagnare il suo amico all'ospedale, autorizzando l'uso di luci e sirene. Fianco a fianco, Logan e Miller stettero a guardare mentre l'autopattuglia faceva una manovra d'inversione slittando e sbandando nella neve ora già bella alta e si allontanava a sirene spiegate. «E allora, dimmi», gli chiese Logan quando l'auto non si vedeva né sentiva. «Ti è piaciuto il tuo primo giorno in polizia?». CAPITOLO 23 Logan rimase alla fattoria quanto più a lungo poté, a dare una mano esaminando carcasse col resto della squadra. Nonostante la protezione della tuta, stivali, guantoni e quant'altro, si sentiva sporco. Non solo: dopo il morso del ratto tutti avevano paura, non volevano finire come Steve al pronto soccorso per punture antirabbia e antitetano. A un certo punto dovette arrendersi e smettere. Aveva un sacco di lavoro che lo aspettava in Centrale. Lasciarono un cadaverico Colin Miller al cancello della fattoria. Era pallidissimo: dichiarò solennemente che sarebbe andato a casa e avrebbe scolato una bottiglia di vino. Dopodiché sarebbe andato sotto la doccia e armato di spazzola si sarebbe strigliato la pelle fino a farla sanguinare. Il gruppo di reporter e telecronisti all'ingresso del sentiero si era assottigliato; erano rimasti in pochi, nelle loro auto, con i motori accesi, riscaldamento e ventole al massimo. Appena avvistarono Logan saltarono fuori dalle loro auto. Un secco «no comment» fu l'unica risposta alle loro domande. Quando arrivò al centro l'ispettore Insch non c'era. Farsi aggiornare sugli ultimi sviluppi delle indagini fu un'esperienza da dimenticare. Anche dopo il discorso liberatorio dell'ispettore una cosa era ben chiara: la truppa era convinta che Logan fosse merda in doppiopetto. Nessuno disse niente, ma le sue domande ricevettero risposte brevi e concise. Prima squadra, indagini porta a porta. Il loro «Avete visto quest'uomo?», aveva generato il solito minestrone di risposte. Sì, Roadkill era stato visto parlare ai ragazzi; no, non lo avevano visto; sì, lo avevano visto. La stazione di polizia di Hazlehead aveva persino montato un posto di blocco, per chiedere ai guidatori se avessero notato qualcosa uscendo ed entrando in città. Forse non avrebbe dato nessun'esito, ma valeva la pena di tentare. Seconda squadra, la vita presente e passata di Bernard Duncan Philips.
Qui la sorte era stata un po' più magnanima. Sulla scrivania dell'ispettore Insch c'era una gran busta contenente tutto ciò che si sapeva su Roadkill. Logan si appoggiò all'orlo della scrivania e diede un'occhiata a fotocopie, fax e stampati contenuti nella busta. Si fermò quando arrivò al referto sulla morte della madre di Roadkill. Cinque anni fa le era stato diagnosticato un tumore all'intestino. Stava male da molto tempo e non era autosufficiente. Bernard era tornato dall'università di Saint Andrews, dove stava completando gli studi per il suo dottorato, per curare la madre malata. Il loro medico curante aveva consigliato il ricovero in ospedale per accertamenti, ma lei aveva rifiutato. Bernard aveva preso le difese della madre e lo aveva cacciato via dalla fattoria minacciandolo con una scure. Quella era stata la prima manifestazione di instabilità mentale. Qualche tempo dopo la donna fu trovata da suo fratello in cucina, svenuta. Lui la convinse ad andare in ospedale. Accertamenti, analisi, radiografie e bingo: tumore intestinale. Provarono a curarla, ma era ormai troppo tardi. A febbraio il tumore era arrivato alle ossa. E a maggio era morta. Non in ospedale, ma nel suo letto. Bernard se la tenne in casa, morta, per due mesi. Un'assistente sociale era andata alla fattoria per vedere come stava Bernard, ormai schedato come mentalmente instabile. L'odore l'aveva fermata alla porta del cottage. Quindi Bernard si fece due anni nell'ospedale di Cornhill, l'unico ospedale ad Aberdeen per i malati mentali. Reagì bene al trattamento medico e alle medicine che prendeva, per cui fu rimesso nella comunità. Che tradotto in parole laiche significava che l'ospedale aveva bisogno del letto occupato da Bernard per darlo a qualche altro povero diavolo. E Bernard si buttò a capofitto nel lavoro: raschiare carcasse di animali morti dalle strade, per la Municipalità di Aberdeen. Il che spiegava molte cose. Logan non aveva bisogno di un aggiornamento sul lavoro della terza squadra: si era aggiornato in prima persona. Aveva visto che il loro ingrato lavoro procedeva lentamente e fargliene rifare una parte non era stato piacevole. Ma almeno adesso sapevano che avevano esaminato tutto minuziosamente. Di questo passo sarebbero riusciti a setacciare e spalare i tre capannoni non prima di lunedì. Ma solo se il commissario capo avesse autorizzato lo straordinario. Il mini centro investigazioni di Logan era vuoto. Il risultato delle analisi di laboratorio sui resti di cibo trovati nel taglio sul corpo dalla bambina era
arrivato. Il DNA era diverso da quello di Norman Chalmers. E la scientifica non aveva trovato niente. L'unico nesso tra lui e la bambina era la ricevuta del supermercato. Prova poco solida. E quindi avevano dovuto lasciarlo andare. Fortunatamente aveva avuto il buon senso di andarsene alla chetichella, senza attirare l'attenzione dei mass media. Ma certamente con gran dispiacere del suo avvocato. Sulla scrivania di Logan c'era un elenco degli avvistamenti del giorno. Diede un'occhiata, ma con molto scetticismo. La maggior parte erano frutto di fantasia. C'era anche una lista di tutte le bambine sotto i quattro anni malate di TBC nel Regno Unito. Non era una lista molto lunga: appena cinque nomi, con relativi indirizzi. Logan prese la cornetta e cominciò a telefonare. Poco dopo le sei l'ispettore Insch si affacciò sulla soglia e gli chiese se aveva un minuto. Aveva un'espressione strana sul viso e Logan pensò subito a cattive notizie; mise una mano sulla cornetta e gli bisbigliò che avrebbe finito tra un minuto. Dall'altra parte del filo c'era un agente della polizia di Birmingham che si trovava in casa dell'ultima bambina sulla lista di Logan. Sì, era ancora viva... ma lo sapeva il sergente che la bambina era di origine africana? No, Logan non lo sapeva. Quindi non la bambina bianca che giaceva in un cassetto dell'obitorio. «Grazie per l'assistenza, agente». Logan mise giù la cornetta e tracciò una riga sull'ultimo nome. «Sfortunati», disse all'ispettore che cominciò a spulciare tra le carte sulla scrivania di Logan. «Tutte le bambine nel gruppo di età che ci riguarda sono vive e vegete». «Sa cosa vuol dire, no?», disse Insch. Stava sfogliando le dichiarazioni selezionate da Logan in quanto raccolte più vicino alla pattumiera comunale situata davanti all'indirizzo di Norman Chalmers. «Se la nostra bambina ha avuto la TBC ed è stata curata, non era nel Regno Unito. È una...». «...straniera!», finì Logan per lui e prendendosi la testa tra le mani. C'erano centinaia di posti al mondo dove la TBC era ancora endemica: gran parte dell'ex Unione Sovietica, la Lituania, tutte le nazioni africane, l'Oriente, l'America... e tanti posti non avevano neanche schedari medici nazionali. Improvvisamente il pagliaio era diventato molto più grande. «Vuoi una buona notizia?», chiese Insch. Dalla voce non sembrava per niente contento.
«Dica pure». «Abbiamo identificato il cadavere trovato nel capannone di Roadkill». «Di già?». Insch annuì e rimise sul tavolo le dichiarazioni, non nell'ordine in cui le aveva prese. «Abbiamo fatto una ricerca su tutte le persone scomparse negli ultimi due anni e abbiamo controllato le loro schede dentistiche. Si chiama Lorna Henderson e ha quattro anni e mezzo. La madre ne aveva denunciato la scomparsa. Tornavano a casa in auto da Banchory. Avevano bisticciato. La bambina continuava a frignare per il pony. Voleva che i genitori le comprassero un pony. Esasperata la madre le disse: "Se non la smetti con questa storia del pony ti faccio tornare a casa a piedi"». Logan annuì. Una forma di ricatto che qualche volta tutte le mamme avevano messo in atto. Sua madre l'aveva addirittura fatto a suo padre. «Solo che Lorna vuole il pony, ma lo vuole di brutto». Insch tirò fuori una bustina di caramelline effervescenti; ma invece di aprirla restò lì con la bustina in mano, guardandola pensoso. «E non smette di frignare. Allora sua madre mette in atto la sua minaccia. Ferma la macchina, fa scendere Lorna e se ne va. Non molto lontano, solo dietro la curva. Sei o settecento metri. Si ferma e aspetta Lorna: ma la bambina non arriva». «Come diavolo ha potuto lasciare per strada una bambina di quattro anni?». Questa considerazione di Logan strappò una risatina all'ispettore; ma senza allegria. «Sergente, parli come uno che non ha bambini e ti capisco. Ti dico una cosa: appena i piccoli mostri imparano a parlare, parlano non stop fino a quando entrano in funzione gli ormoni e diventano teenagers. Da quel momento non riuscirai a cavarne fuori una parola. Ma quando un mostriciattolo di quattro anni, maschio o femmina che sia, vuole qualcosa, è capace di piangere, frignare, urlare e pestare i piedi ad infinitum. Quel giorno i nervi della madre hanno ceduto e ha messo in atto la sua minaccia; e non ha più visto sua figlia». E non l'avrebbe rivista neanche adesso che l'avevano ritrovata. Le avrebbero ridato il corpo per la sepoltura in una bara chiusa. Non avrebbero permesso a nessuno di vederne il contenuto. «È stata informata? Che abbiamo trovato la figlia?». Insch grugnì e si rimise il pacchetto di caramelle in tasca. «Non ancora. Ci sto andando adesso. Per dirle che ha permesso a quel bastardo sballato mentale di mettere la mani su sua figlia, picchiarla a morte e nasconderne il cadavere in una catasta di carcasse di animali».
Benvenuto all'inferno. «Mi porto dietro l'agente Watson», disse Insch. «Vuoi venire?». La voce cercava di essere frivola, senza riuscirvi. L'ispettore era giù di giri. Cosa poco sorprendente, vista la settimana che avevano avuto. Aveva pensato di usare l'agente Watson come uno specchietto per le allodole con Logan; come una carota in divisa. Non sapeva che Logan non vedeva l'ora di ritrovarsi insieme all'agente Watson. Anche se andare a dire a una madre che la figlia scomparsa era morta non era un compito al quale aspirasse; ma l'ispettore sembrava bisognoso di supporto morale. «Vengo, ma solo se dopo andiamo a bere qualcosa». Parcheggiarono la Range Rover dell'ispettore Insch al marciapiede di una stradina piena di piccole utilitarie Fiat e Renault, tutte con i tettucci ricoperti di neve, sulle quali il fuoristrada torreggiava. Il viaggio si era svolto in silenzio, a parte le coccole che l'agente del servizio assistenza famiglie aveva rivolto al puzzolente spaniel bianco e nero nel vano bagagli del fuoristrada. La zona era alquanto ben messa; qualche albero, qua e là un po' di prato. Arrampicandosi sul tetto si sarebbero potuti vedere i campi circostanti. La casa era l'ultima di una schiera di villette unifamiliari, ben tenute, tutte rifinite in harling bianco, la tipica rifinitura muraria scozzese, che sotto l'illuminazione stradale le faceva brillare più della neve. La bufera si era calmata e ora solo qualche fiocco cadeva lentamente. Con l'ispettore Insch in testa si recarono alla porta d'ingresso, con la neve che arrivava alle caviglie. Insch suonò il campanello e le note di un carillon echeggiarono in casa. Due minuti dopo la porta fu aperta da una donna dall'aspetto infastidito e inumidito. Avrà avuto tra i quaranta e i cinquant'anni e indossava un accappatoio rosa. Non aveva trucco e i capelli bagnati le incorniciavano il viso. L'irritazione sul suo volto svanì quando notò l'uniforme dell'agente Watson. «Mrs Henderson?» «Oh mio Dio...». Afferrò i bordi dell'accappatoio stringendolo alla gola. Impallidì. «Si tratta di Kevin, vero? È morto? Oh mio Dio...». «Kevin?», chiese Insch sorpreso. «Kevin, mio marito». Fece un passo indietro nel piccolo ingresso, tutta agitata. «Oh Dio...». «Mrs Henderson, suo marito non è morto. Siamo...». «Oh, Dio sia lodato!». Con un sospiro di sollievo li fece entrare in un
soggiorno con carta da parati a strisce rosa e rosa intenso alle pareti. «Scusate il disordine... di solito faccio i lavori di casa la domenica, ma ho fatto un doppio turno all'ospedale». S'interruppe e diede un'occhiata in giro nel soggiorno; spostò una divisa da infermiera dal divano all'asse da stiro. La mezza bottiglia di gin fu rapidamente riposta nella credenza. Sul caminetto c'era un finto quadro in olio, di quelli fatti dai fotografi: un uomo, una donna e una bambina bionda. Un marito, una moglie e una bambina assassinata. «Veramente Kevin non abita qui adesso... si è preso una pausa»; s'interruppe, «da quando è scomparsa nostra figlia». «Ah. E siamo qui appunto per questo, Mrs Henderson». A gesti li invitò ad accomodarsi su un divano color cioccolata, piuttosto bitorzoluto. «Siete qui perché Kevin non abita con me? Ma è solo una cosa temporanea!». Insch tirò fuori una busta di plastica trasparente dalla tasca. Dentro c'erano due fermaglietti rosa per capelli. «Mrs Henderson, riconosce questi oggetti?». Prese la bustina, guardò i fermaglietti, riguardò l'ispettore e impallidì di nuovo. «Oddio, questi erano di Lorna! I suoi fermaglietti favoriti, di Barbie! Li metteva sempre, non sarebbe uscita di casa senza averli in testa. Dove li avete trovati?» «Mrs Henderson, abbiamo trovato Lorna». «L'avete trovata? Oh Dio...». «Mrs Henderson, mi dispiace. È morta». Sembrò che qualcosa le fosse scattato dentro. Si alzò d'improvviso dicendo: «Tè. Ci vuole del tè. Tè, caldo e dolce». Corse in cucina, con l'accappatoio che le svolazzava alle ginocchia. La trovarono che singhiozzava, appoggiata al lavandino. Dieci minuti dopo erano di nuovo nel soggiorno; Insch e Logan sul divano, Watson in una delle poltrone e Mrs Henderson nell'altra, con l'agente del servizio assistenza famiglie seduta sul bracciolo, mano sulla spalla, a mormorarle parole di conforto. Logan aveva fatto il tè; la teiera troneggiava sul tavolino, adorno di copie della rivista «Cosmopolitan». Tutti avevano una tazza, ma nessuno stava bevendo. «È tutta colpa mia», disse Mrs Henderson, che sembrava essersi rimpicciolita di due taglie. L'accappatoio rosa l'avvolgeva come una toga. «Se solo le avessimo comprato quel maledetto pony...». L'ispettore Insch si mosse sul divano, leggermente a disagio. «Mrs Hen-
derson, mi dispiace doverle chiedere questo, ma devo farle delle domande su quando Lorna è scomparsa». «Non ho mai smesso di crederci, sapete? Che sarebbe tornata. Era solo scappata di casa. Un giorno sarebbe entrata da quella porta e tutto sarebbe tornato normale». Guardò nella sua tazza di tè. «Kevin invece non ce l'ha fatta. Continuava ad accusarmi. Ogni giorno. "È tutta maledettissima colpa tua!", mi diceva. Aveva ragione. Era colpa mia. Poi ha... ha conosciuto questa donna, al supermercato dove lavora». Sospirò. «Ma non l'ama! Lo fa solo per punire me... lei non ha tette. Come può un uomo amare una donna senza tette? Lo sta facendo solo per punire me. Tornerà. Tornerà, vedrete. Uno di questi giorni entrerà da quella porta e tutto sarà come prima». Sprofondò di nuovo nel suo silenzio, masticandosi l'interno di una guancia. «Mrs Henderson, la sera che Lorna scomparve... ha notato qualcosa in strada? Altre vetture?». Alzò gli occhi. «Cosa? Non ricordo... era tanto tempo fa ed ero così arrabbiata con lei! Perché non le abbiamo comprato quel maledetto pony?» «Ricorda se ha visto qualche furgone, qualche camion?» «No, non ricordo. Ne discutemmo già all'epoca!». «Ha visto per caso un netturbino col carrettino?». Rimase immobile per un secondo. «Cosa sta cercando di dire?». L'ispettore non aprì bocca. Mrs Henderson lo guardò fisso per alcuni attimi e balzò in piedi. «Voglio vederla!», gridò. Molto lentamente Insch posò la sua tazza e piattino sul tappeto. «Mrs Henderson, mi dispiace, ma non sarà possibile», rispose. «È mia figlia! Voglio vederla!». «Lorna è morta molto tempo fa, Mrs Henderson. È meglio che lei non la veda. La prego, mi creda. È meglio che lei la ricordi com'era». In piedi davanti a lui seduto, Mrs Henderson lo guardò dall'alto in basso. «Quando l'avete trovata? Quando avete trovato Lorna?» «Ieri». «Mio Dio!», si tappò la bocca con una mano. «È stato lui, vero? L'uomo sui giornali! L'ha uccisa e l'ha sepolta sotto tutte quelle carcasse!». «Si calmi, Mrs Henderson. Lo abbiamo in custodia. Non scapperà, glielo assicuro». «Quello sporco bastardo!». Lanciò la sua tazza contro la parete: si frantumò, lasciando una macchia di tè sulla carta da parati. «Ha preso la mia bambina!».
Il viaggio di ritorno fu silenzioso quanto lo era stato quello d'andata. L'agente del servizio assistenza famiglie aveva chiamato una vicina per fare compagnia a Mrs Henderson, che scoppiò in lacrime quando vide la vicina, grossa e dall'aspetto preoccupato. Le avevano lasciate entrambe singhiozzanti sul sofà ed erano usciti alla chetichella. Le strade erano quasi vuote: la neve teneva tutti in casa, eccetto gli addetti allo spargimento di sale e sabbia. Erano le otto. Nel passare la rotonda di Hazlehead intravidero una persona dall'aspetto familiare. Era il patrigno di Peter Lumley che girovagava per le strade, bagnato fradicio, chiamando il figlio. Logan lo guardò fino a che non rimase ben indietro. E aveva ancora da ricevere la triste visita della polizia. Quando sarebbero andati a dirgli che avevano trovato il cadavere di suo figlio. Insch chiamò la Centrale e ottenne l'indirizzo di Mr Henderson. Abitava in un appartamento nella parte meno salubre di Rosemount, con la sua compagna dal seno piatto. La dolorosa scena di poco prima si ripeté. Solo che questa volta non ci furono dichiarazioni di auto colpevolezza. Questa volta tutta la colpa era diretta a quella stupida vacca di sua moglie. La sua amica piangeva sul divano, mentre lui inveiva, farneticava e bestemmiava. Questo comportamento non era da lui, diceva la donna. Di solito era un uomo gentile e pacato. E poi di nuovo alla Centrale. «Diavolo, che giornata divertente!», esclamò Insch. Sembrava esausto, mentre andava verso l'ascensore. Schiacciò il pulsante di chiamata; la porta si aprì subito e l'ispettore entrò nell'ascensore. «Voi due», disse a Logan e Watson, «andate a cambiarvi e ci rivediamo qui tra cinque minuti. Ho un paio di moduli da compilare e poi vi porto al pub. Offro io». L'agente Watson guardò prima Logan poi l'ispettore. Sembrava stesse cercando una scusa per trovarsi altrove. Ma prima che potesse dire qualcosa le porte scorrevoli dell'ascensore si richiusero portando via l'ispettore. Logan respirò profondamente. «Guarda», disse all'agente Watson, «se preferisci non venire, capisco. Dirò all'ispettore che avevi già un impegno». «Allora vuole proprio liberarsi di me?». Sorpreso, Logan alzò un sopracciglio. «No... no, anzi. Io pensavo... cioè, dopo tutta quella roba nel giornale... voglio dire». Puntò un dito verso se
stesso: «Mr pezzo di merda?». Watson sorrise. «Col dovuto rispetto, signore, ma lei a volte può essere un vero e proprio idiota, sa? Guardi che io ho conosciuto Miller, e so che è una mezza sega». Il sorriso svanì, rimpiazzato da un'espressione di cruccio. «Io pensavo che lei non mi volesse più tra i piedi, dopo che avevo detto tutte quelle parolacce a quel tipo...». Logan sorrise da un orecchio all'altro. «Tutt'altro! No, va tutto bene! Cioè, le parolacce non andavano bene»; il sorriso di Watson svanì e Logan ebbe paura di aver sbagliato di nuovo. «Ma questo non c'entra. Io ho piacere di averti tra i piedi e voglio che tu venga con noi stasera. Specialmente visto che paga l'ispettore». Si fermò per un attimo. «Cioè, non che io non vorrei che tu venissi se fossi io a pagare, ma... voglio dire...». Chiuse la bocca, per impedire che ne venissero fuori altre stupidaggini. Lo guardò per un attimo. «Bene», disse. «Vado a cambiarmi e ci vediamo in reception». Vedendola allontanarsi Logan era convinto che stesse ridendo e ridendo di lui. Restò fermo nel corridoio, arrossendo vivamente. Alla reception Big Gary si stava preparando a un altro turno di notte. Salutò Logan con un sorriso e gli fece cenno di avvicinarsi. «Lazzaro, ho piacere di vedere che ti vien dato il credito che meriti!». Logan aggrottò la fronte: Big Gary tirò fuori una copia dell'«Evening Express», il quotidiano della sera dello stesso gruppo del «Press and Journal». In prima pagina c'era una fotografia di persone in tute blu di gomma che rimuovevano a mano carcasse di animali. La fattoria degli orrori: i nostri gagliardi poliziotti cercano prove. «Lascia che indovini», Logan sospirò. «Colin Miller?». Era stato veloce. Gary si toccò un lato del naso con un indice. «Esatto, Mr Eroico Poliziotto». «Gary, appena avrò un grado superiore al tuo, ti rimando là fuori...»; fece un cenno con la testa verso la porta, «a fare il poliziotto di quartiere». Gary gli strizzò l'occhio. «Ma nel frattempo dovrai sopportarmi. Lo vuoi un biscotto?». Gli porse un pacchetto di McVitie's Digestive Biscuits e sorridendo Logan ne prese uno. «Cos'altro dice Mr Miller?». Gary gonfiò il petto e si atteggiò a pubblico declamatore. «Bla bla bla, neve e ghiaccio e maltempo bla bla bla», con voce Shakesperiana, «cazzate infiorate su come sono coraggiosi i nostri poliziotti, a scavare "in una orrenda e agghiacciante miniera di morte". Bla bla bla in cerca delle prove
che metteranno sotto chiave questo mostro che insidia i nostri bambini. Qui c'è un pezzo che ti piacerà. "Il nostro eroico poliziotto sergente Logan 'Lazzaro' McRae non si è sdegnato di aiutare la sua squadra a esaminare le carcasse una per una". Sembra che tu abbia anche salvato la vita dell'agente Steve Jacobs quando un enorme ratto lo ha assalito. Dio la benedica, signore!». Gary abbozzò un saluto. «Ma se ha fatto tutto l'agente Rennie! Io ho solo dato disposizioni per farlo portare in ospedale». «Ah, ma se non ci fosse stato lei signore, con la sua guida risoluta e le sue decisioni di comando, non ci avrebbe pensato nessuno, signore!». Si asciugò un'immaginaria lacrima da un occhio. «Lei è una continua ispirazione per tutti noi, lo è davvero, signore». «Quanto sei odioso!», gli disse Logan, sorridendo. A vederla in borghese era più facile pensare all'agente Watson come "Jackie". L'austero nero della divisa era stato sostituito da un paio di jeans e da una felpa rossa, con i riccioli bruni che le cadevano sulle spalle. Arrivò in reception infilandosi un giaccone imbottito. Uno di loro sarebbe stato vestito per neve, pensò Logan, che indossava ancora il suo vestito da lavoro. Non si cambiava alla Centrale. Abitando dietro l'angolo non ne vedeva la necessità. Arrivata al banco fece un sorriso a Gary e gli scroccò un biscotto, addentandolo con gusto. Logan attese che avesse la bocca piena e le chiese: «Come se l'è cavata il tuo prigioniero stamattina?». Sgranocchiando e masticando borbottò che era stato condannato a quarantadue ore di servizio comunitario, da scontare come al solito col reparto "Parchi e giardini" del comune. Oltre all'essere schedato per reati sessuali. «Come sarebbe a dire "come al solito"?». Watson fece spallucce. «Sembra che ogni volta che viene condannato a un numero di ore di servizio comunitario, gli fanno sempre scontare la pena al "Parchi e giardini". Piantare fiori, estirpare gramigna, riparare siepi e robe del genere». Mandò giù il boccone. «Ha fatto pena al giudice, specialmente dopo che aveva testimoniato nel caso di Gerald Cleaver. Ha raccontato la storia della sua vita, ma questa volta senza Sandy Serpente che cercava di sminuirla a una fantasia della sua immaginazione bacata. Devo ammettere che ha fatto pena anche a me. Ci pensate? Padre violento, madre sempre ubriaca: e quando vai in ospedale per le sberle che hai preso da tuo padre, ti ritrovi Gerald stronzo Cleaver che ti mette le mani addosso
sotto le lenzuola e ti fa fare cose». Tacquero tutti, pensando al flaccido infermiere con un debole per i ragazzini. «Sapete una cosa?», disse Big Gary. «Se non fosse stato per Roadkill io sarei stato pronto a scommettere su Cleaver per i bambini morti». «Impossibile! Quando è sparito Peter Lumley, Cleaver era sotto chiave!». Gary rimase scosso per un attimo. «Avrebbe... avrebbe potuto avere un complice!». «E poi era uno sporcaccione, non un assassino», continuò Jackie, pulendosi briciole di biscotto dalla felpa rossa. «A Cleaver piacevano vivi». Logan fece una smorfia di disgusto. Non era un bel quadro da immaginare, ma l'agente Watson aveva ragione. Ma Big Gary non era disposto ad arrendersi facilmente. «Forse non gli si rizza più? E li uccide per questo!». «Rimane sempre il fatto che per gli ultimi mesi è stato in mani nostre. No, non è lui». «Non sto dicendo che è stato lui. Sto dicendo che avrebbe potuto essere lui!». Fece una smorfia. «E pensare che vi ho fatto mangiare i miei biscotti! Ingrati stronzi che non siete altro!». CAPITOLO 24 Andarono al pub. Una tira l'altra, dopo due o tre birre decisero di andare a mangiare un piatto al curry in un ristorante indiano lì vicino, che ovviamente accompagnarono con altrettante birre. Quando Logan diede la buonanotte all'ispettore Insch e all'agente Watson, si sentiva in pace col mondo. E anche se la presenza dell'ispettore gli aveva impedito di portare avanti il discorso avviato alcune sere prima con la Watson, Logan aveva la sensazione che se Insch non ci fosse stato, avrebbe concluso qualcosa. Ma alle quattro e mezzo del mattino, quando si alzò e andò barcollando in cucina per bere l'equivalente in acqua del suo peso corporeo, prima di riaddormentarsi con un senso di nausea, l'intera faccenda non aveva alcuna importanza. Quando Logan arrivò in Centrale la mattina dopo, il referto dell'autopsia di Lorna Henderson era sulla scrivania dell'ispettore Insch. Erano le sette: e nonostante fosse un sabato mattina, Insch era già alla scrivania, anche se
meno lustro del solito. Lorna Henderson era deceduta in seguito a un forte trauma. Le costole rotte le avevano schiacciato il polmone sinistro, l'impatto alla tempia sinistra le aveva rotto il cranio e il colpo al retro della testa aveva concluso l'operazione. La gamba era rotta poco sopra il ginocchio. Una bambina di quattro anni, picchiata a morte. Roadkill si era proprio lasciato scappare la mano. «Crede che riusciremo a cavare fuori qualcosa da Roadkill?», chiese Logan, girando le foto del cadavere di Lorna a faccia in giù, così da non doverle guardare ancora. Insch sbuffò. «Non credo proprio. Ma non importa. Abbiamo abbastanza prove, non credo riuscirà a farla franca. Neanche Sandy il Viscido riuscirà a farlo assolvere. Mr Philips passerà il resto dei suoi giorni nella prigione di Peterhead, assieme a tutti quegli altri merdoni perversi». Tirò fuori un pacchetto di caramelline e ne offrì a tutti i presenti. Fatto questo, cominciò a ingozzarsi con quelle che restavano. «Sergente, intendi portare Miller alla fattoria anche oggi?», chiese Insch. Pronunciò il nome Miller come se stesse descrivendo un fetore. «No», rispose Logan con un sorriso. «Non so perché, ma non sembra che ne abbia una gran voglia». La spedizione del giorno prima era stata più che sufficiente per il giornalista. Il «Press and Journal» del giorno parlava della polizia in termini molto lusinghieri. Sulla stessa falsariga dell'«Evening Express», ma con commenti editoriali più approfonditi. Se non altro avevano lasciato stare l'ispettore Insch. «E come vanno le indagini sul tuo Mr Senzarotule?» «Procedono. Lentamente, ma procedono». «L'ispettore Steel mi dice che sospetti i fratelli McLeod». Logan annuì. «È il loro tipo di gioco. Intervento diretto e brutale». Insch quasi sorrise. «Quei due somigliano tanto al loro padre. Riuscirai a incastrarli?» «Sto facendo del mio meglio. Ho chiesto alla scientifica di fare tutti gli esami possibili e immaginabili sugli indumenti che il cadavere aveva addosso quando lo hanno pescato. Spero che trovino qualcosa. E magari uno dei loro clienti ci dirà qualcosa...». Si fermò, ricordando Duncan Nicholson che correva verso il Turf and Track. Insch si mise una caramellina verde in bocca. «Non ci conterei. Credi che ci sia qualcuno così stupido da fare la spia ai fratelli McLeod? Lo fa-
rebbero a pezzi!». «Cosa?», Logan si era lasciato trasportare, pensando a Duncan Nicholson e alla sua borsa di plastica, ma le parole dell'ispettore lo riportarono alla realtà. «Sì... sì, ha ragione. Molto probabilmente. Ma Simon McLeod ha detto che l'intera operazione portava con sé un messaggio. Un avvertimento. E che adesso tutti in città ne conoscevano il significato». «Tutti in città, eh?». Insch masticava, perplesso. «E allora come mai io non ne ho saputo niente?» «Non saprei. Ma spero che Miller possa colmare qualche lacuna». Era mezzogiorno e Logan aveva davanti un bel piatto di brasato alla birra, patate lesse e mangetout. Il Principe di Galles era un pub all'antica, con pannelli di legno alle pareti e birra di qualità; il basso soffitto era ingiallito da generazioni di fumatori di sigarette. Era pieno di uomini costretti dalle mogli o fidanzate a fare la spesa del sabato mattina, che ora si godevano la ricompensa: una pinta di birra fresca e un pacchetto di patatine, al gusto di cocktail di gamberetti. Il pub aveva tanti séparé, isolati su tre lati e col davanti su un corridoio. Logan e Miller erano seduti in uno di questi séparé, vicino alla finestra. Non che la vista fosse granché: l'altro lato di un vicoletto, un alto edificio in granito, grigio e cupo, bagnato dalla pioggia gelida. «E allora?», chiese Miller, prendendo un mangetout con la forchetta. «Ha confessato, il bastardo?». Logan masticò lentamente un morso di brasato, assaporandone il ricco sapore e si pentì di non aver ordinato una pinta di birra per accompagnarlo; ma agli occhi del questore una bevuta in servizio era l'equivalente di una violenza carnale a una pecora e quindi aveva ordinato una pinta di succo d'arancia e limone. «Stiamo indagando». Le parole vennero fuori alquanto attutite dal brasato. «Inchiodategli le chiappe al muro, brutto perverso bastardo». Miller non era in servizio, quindi poteva bere. E per accompagnare il suo saumonencroùte non aveva ordinato una pinta di Dark Island, ma del Sémillon Chardonnay, freddo. Logan lo guardò mandar giù un sorsetto di vino e sorrise. A onor del vero, Miller era uno strano elemento, e cominciava a essergli simpatico. Anche se era arrivato a un pelo dal far licenziare l'ispettore Insch. La sua vistosa eleganza, la gioielleria, i croissant, i vini pregiati; tutto contribuiva a renderlo stravagante, a dir poco. Logan aspettò che Colin avesse la bocca piena di salmone e pasta sfoglia
e gli chiese: «E allora? Cosa mi racconti su George Stephenson?» «Mmmph...». Alcune briciole di sfoglia gli caddero sulla camicia. «Cosa vuoi sapere?» «Dimmi tu», rispose Logan. «Mi avevi detto che avevi informazioni delle quali io non ero ancora al corrente». Miller sorrise, facendo cadere altre briciole. «T'interesserebbe sapere l'ultimo posto dove è stato visto vivo?». Logan tirò a indovinare: «Scommetterei... al Turf and Track. Mi sbaglio?». Il sorriso di Miller diventò serio e dimostrò quanto fosse impressionato dalla risposta di Logan. «Già, al Turf and Track. Proprio lì». Logan sapeva di essere sulla strada giusta. Ora aveva bisogno di prove. «Uno dei fratelli McLeod mi ha detto che "adesso tutti sanno quanto sia pericoloso fare quello che ha fatto Geordie". Hai qualche particolare?». Miller giocherellò col bicchiere del vino, facendolo brillare alla luce e cogliendone i riflessi dorati. «Sai che era indebitato con gli allibratori della zona? E per un bel po' di grana?» «Me lo avevi detto, ma non mi avevi detto la cifra. Quanto?» «Duecentocinquantamila seicentoquarantadue sterline». Adesso toccò a Logan essere impressionato. Era una cifra enorme. «Ma allora, perché lo hanno fatto fuori? Perché non si sono limitati a rompergli una gamba? Da morto non può pagare i suoi debiti, no? Senza contare che hanno sciupato un uomo di Malk la Scure. E ho sentito dire che a Malk non piace questo genere di cose; che la considera un'offesa personale». «Sì, è rischioso. Se elimini uno dei suoi giannizzeri, Malkie ti salta addosso come una tonnellata di merda. A meno che non ne abbia autorizzato lui l'eliminazione». A Logan cadde il cuore nelle budella. L'ultima cosa che ci voleva ad Aberdeen era una serie di omicidi all'occhio per occhio. Una faida di bande rivali nella Granite City. Pensa che divertimento. «E allora perché lo hanno ucciso?». Miller sospirò e posò le posate sul tavolo. Parlò a voce bassa e lentamente. «Lo hanno ucciso perché tutti sappiano che non si fa quello che ha fatto Geordie». «Cosa diavolo vuol dire? Non parlare in rebus!». «Vuol dire...». Miller si guardò intorno. Un piccolo corridoio portava al bar. Tutti i presenti stavano chiacchierando, bevendo, mangiando e rallegrandosi di essere fuori dal tempaccio. Nessuno era minimamente interes-
sato alla loro presenza. «Ascolta, tu sai per chi lavorava Geordie, vero? E sai anche che non è un uomo al quale rompi le palle due volte, chiaro? Magari una volta ti può andar bene, ma fallo arrabbiare una seconda volta e sei arrivato al fine corsa, va bene?» «Colin, abbiamo già parlato di questo!». «Sì, è vero...». Miller era veramente a disagio. «Sai come sono finito nella bellissima Aberdeen?». Indicò con la forchetta il tempo schifoso che imperversava. «Ti sei mai chiesto come mai ho lasciato un bel posto allo "Scottish Sun" per venire in questo cesso dove non smette mai di piovere?». Abbassò la voce, per evitare che qualcuno lo sentisse definire Aberdeen un cesso. «Adesso te lo dico. Droga. Droga e puttane». Logan alzò un sopracciglio. Miller fece una smorfia di esasperazione. «Non per me, brutto stronzo! Stavo facendo un servizio sul crack che arriva a Glasgow da Edimburgo. La importavano dall'Europa dell'Est dentro le mignotte. Sai come, no? Il sacchetto di plastica infilato su per la topa. Fallo quando sono in mestruazione e i cani antidroga non l'annusano. E anche se dovessero annusare qualcosa, quando si va a vedere e si vedono i tamponi imbrattati, tutti sono troppo imbarazzati per investigare oltre». Mandò giù un altro sorso di vino. «E se sapessi quanta cocaina puoi infilare nella topa di una lituana saresti sorpreso. Tanta, ma tanta». «E cosa c'entra Geordie con questo?» «Ci arriverò. Allora, ti dicevo, io stavo facendo il mio lavoro di giornalista, alla Clark Kent: scavando qua e là e scoprendo tanti altarini. Salta fuori tanta sporcizia e io scrivo grandi articoli. Ti dico, sto ricevendo candidature per premi a destra, sinistra e al centro. Giornalista Investigativo dell'anno, offerte di contratti per libri e grande notorietà. Solo che a un certo punto ho scoperto chi gestisce tutta l'operazione. Ho scoperto il nome. The big man! Quello che importa tutte queste mignotte imbottite di droga, via aerea, nel nostro paese». «Lascia che indovini: Malcom McLennan». «Questi due gorilla mi prendono per le braccia in Sauchiehall Street. In pieno giorno! Mi spingono in questo macchinone nero e molto gentilmente mi chiedono di lasciar perdere questa storia, come se fosse un topo di fogna radioattivo! Se mi sono care le mie dita. E le mie gambe». «E hai mollato?»
«Altro che mollato!», Miller vuotò il bicchiere. «Non voglio che qualche sporco bastardo mi tagli le dita con una mannaia da macellaio». Rabbrividì. «Malk la Scure ha sparso la voce in giro e prima che si possa dire buongiorno io sono senza lavoro. Non solo, ma non c'era un giornale in zona disposto ad assumermi, neanche come fattorino». Sospirò. «Ed eccomi qua. Ma non fraintendermi; Aberdeen non è poi un posto così malvagio. Ho un buon lavoro, un bel po' di spazio in prima pagina, una bella macchina, un bell'appartamento; ho conosciuto una bella donna... prendo un po' meno soldi, ma poi... e sono ancora vivo». Logan reclinò nella sedia e esaminò attentamente l'uomo che aveva di fronte. Doppiopetto su misura, i ninnoli d'oro, la cravatta di seta. Anche in un sabato aberdoniano con pioggia torrenziale. «Questo spiega perché non ho letto niente sui giornali a proposito di Geordie che viene pescato nella baia senza le rotule? Se pubblichi qualcosa hai paura che Malk la Scure venga a saperlo?» «Se io metto di nuovo i suoi affari in prima pagina posso dire addio ai miei dieci amichetti», disse Colin alzando le mani e agitando le dieci dita con gli anelli che luccicavano nelle luci del pub. «No, uomo avvisato... Me ne sto a bocca chiusa». «Ma allora, perché lo stai dicendo a me?». Miller fece spallucce. «Solo perché sono un giornalista non vuol dire che sono un essere senza principi morali. Non sono mica un avvocato o roba del genere. Ho una coscienza sociale. Ti sto dando queste informazioni per metterti in grado di acciuffare l'assassino. E mantengo un basso profilo, così non perdo le dita. Al momento del processo, sarai da solo: io me andrò in Dordogna. Due settimane di vini francesi e di ottima cucina. Da me non saprà niente nessuno». «Ma tu sai chi è stato, vero?». Colin finì il suo vino. «No», rispose con un sorriso sbilenco. «Ma se lo scopro tu sarai il primo a saperlo. Ma ti dico anche che non sto cercando di scoprirlo. Ho qualcosa di meno pericoloso in pentola». «Cioè?» Ma Miller si limitò a sorridere, enigmatico. «Lo leggerai tra non molto. E adesso devo andare». Si alzò e s'infilò il cappotto. «Ho un appuntamento con questo tizio del "Telegraph". Sembra che voglia un articolo a quattro pagine da mettere nel supplemento a colori di domani. Alla ricerca dei morti: la cattura del mostro di Aberdeen. Roba di alta classe». Danestone era stata un'area campestre, come lo erano state molte delle
aree che circondavano Aberdeen, ma aveva resistito all'invasione edilizia più a lungo delle altre. Per cui, quando i suoi verdi prati furono invasi dai costruttori con le loro ruspe, la regola predominante fu «costruirle alla svelta e una vicina all'altra». Qui non erano state usate le tegole in ardesia e i grigi blocchi di granito; qui abbondavano tegole curve in terracotta e harling color farina d'avena; e le planimetrie stradali abbondavano in stradine senza uscita e piccole diramazioni. Proprio come qualsiasi altro anonimo quartiere periferico. Ma a differenza del centro di Aberdeen, dove i casamenti e gli alti edifici in granito riducevano la luce del sole a qualche ora al giorno, a Danestone il sole splendeva in abbondanza; l'intero rione era ubicato sul dolce pendio di una collina esposto a sud, lungo le sponde del fiume Don. L'unica pecca era la presenza del mattatoio, alcune cartiere e uno stabilimento per la depurazione dei liquami. Ma nella vita non si può avere tutto. Purché il vento non soffiasse dall'ovest, tutto era perfetto. E oggi il vento non soffiava dall'ovest. Ululava dall'est, direttamente dal Mare del Nord, e portava con sé una gelida pioggia. Logan rabbrividì e richiuse il finestrino. Aveva parcheggiato poco più in là di una casetta con un piccolo giardino. Lui e un calvo agente del CID che lo accompagnava erano lì da un'ora e non avevano ancora visto la persona per la quale erano in appostamento. «Ma dove diavolo è?», chiese l'agente. Da quando erano partiti dalla Centrale non aveva fatto altro che mugugnare sul tempo, sul lavorare di sabato, la pioggia fredda; aveva fame, aveva freddo. E la vescica gli si stava riempiendo. Logan sospirò e cercò di mantenersi calmo. Se Nicholson non fosse arrivato alla svelta i giornali di domani avrebbero annunciato a tutta pagina: Agente lagnoso strozzato con i suoi genitali in auto parcheggiata! Stava cominciando a chiedersi quale onorificenza avrebbe ricevuto per aver liberato la razza umana da questa lagna quando una nota e tartassata Volvo verde, piena di ruggine, sorpassò la loro auto. L'autista la parcheggiò a metà sul marciapiede e si girò per prendere qualcosa dal sedile posteriore. «Andiamo», disse Logan. Uscì dall'auto e borbottando l'agente lo seguì. Arrivarono alla Volvo mentre Nicholson ne stava uscendo, con due borse di plastica in mano. Vedendo Logan impallidì. «Salve, Mr Nicholson», disse Logan con un sorriso, mentre la gelida pioggia gli colava sul collo. «Le dispiace se diamo un'occhiata in quelle borse?»
«Borse?». La pioggia scivolava sulla pelata di Nicholson. Cercò di nascondere le borse dietro la schiena. «Quali borse?». L'agente fece un passo avanti e ringhiò, dall'asciutto del cappuccio del suo giaccone: «Ti faccio vedere io quali borse!». «Oh, queste?», le rimise in vista. «La spesa. Sono stato a fare la spesa. Al Tesco. E ora scusate, ma devo and...». Logan non si mosse. «Sono borse dell'Asda, Mr Nicholson. Non Tesco». Nicholson guardò da Logan all'altro agente. «Io... io riciclo le mie borse. Dobbiamo fare qualcosa per l'ambiente, no?». L'agente fece un altro passo avanti. «Te lo do io l'ambiente, brutto...». «Basta così, agente», disse Logan. «Sono sicuro che anche Mr Nicholson vuol togliersi dalla pioggia. Perché non andiamo in casa, Mr Nicholson? A meno che non preferisca venire alla Centrale, dove c'è caldo e asciutto. Potremmo darle un passaggio». Due minuti dopo erano seduti in un cucinino, ascoltando il bollitore. La casa era carina anche se molto piccola. Alle pareti, carta da parati con bordi e fregi; sul pavimento una costosa moquette verde oliva e tanti dipinti a olio, prodotti in massa. Non un libro in vista. «Ma che bella casa», disse Logan guardando Nicholson. Testa pelata, tatuaggi e tanto metallo nelle orecchie da attivare tutti i metal detector da qui a Dundee. «L'ha decorata lei stesso?». Nicholson borbottò qualcosa a proposito di sua moglie, che prendeva lo spunto dai programmi di arredamento alla TV. Tutto era coordinato: bollitore, tostapane, frullatore, forno e mattonelle. Tutto in verde. Sembrava di esser seduti all'interno di un gigantesco peperone verde. Le due borse di plastica erano sul tavolino. «Allora, Mr Nicholson, vogliamo darci un'occhiata?». Logan guardò dentro la prima e, con sua grande sorpresa vide una pacchetto di bacon e una lattina di fagioli. Guardò nell'altra e vide dei pacchetti di patatine e qualche pacco di biscotti al cioccolato. Buio in volto le rovesciò sul tavolo. E in fondo a una c'erano due spesse buste commerciali. Gli venne un sorriso. «E queste cosa sono?» «Mai viste prima!». Adesso non era pioggia, sul volto di Nicholson: era sudore. Logan si mise un paio di guanti di latex e prese una delle buste; puzzava di fumo di sigaretta. Si rivolse a Nicholson. «Vuol dichiarare qualcosa prima che la apro?»
«Io sono solo il postino! Non so cosa c'è dentro... non sono mie!». Logan ne rovesciò il contenuto sul tavolo. Fotografie. Donne che stendevano il bucato, donne che si preparavano per andare a letto. Ma la maggior parte erano foto di bambini. A scuola. A giocare in giardino. Uno sul sedile posteriore di un'auto, impaurito. Tutto si sarebbe aspettato Logan, fuorché questo. Sul retro di ogni fotografia c'era un nome diverso. Senza indirizzo, solo un nome. «Cosa diavolo è questa roba?». «Ve l'ho detto: non so cosa contengono le buste!». La voce era sempre più agitata. «Io sono solo il postino!». L'agente gli mise una mano sulla spalla e lo spinse giù, rimettendolo a sedere. «Brutto sporcaccione! Pezzo di merda!». Prese una foto dal mucchio; la foto di un bambino seduto nella sabbia che giocava con un coniglietto di peluche. «È così che lo hai trovato? Così? Hai fotografato David Reid? E hai deciso che te lo volevi fare? Brutto verme di merda!». «Non è così! Non è per niente così!». «Mr Duncan Nicholson, la trattengo in detenzione provvisoria in quanto sospetto di omicidio». Logan si alzò; guardando le facce di quei bambini si sentiva male. «Agente, leggigli i suoi diritti». La casa era affollata. C'erano quattro tecnici dell'Identification Bureau, l'operatore del video, il fotografo, Logan, l'agente del CID e due agenti in divisa; ma ci stavano. Nessuno voleva aspettare fuori al freddo e nella pioggia. Il contenuto delle due buste era stato etichettato e catalogato. La seconda busta non conteneva fotografie: era invece piena di soldi e di piccoli gioielli. Al piano di sopra, di fronte al bagno, c'era un ripostiglio. Largo un metro e mezzo, profondo un metro, grande abbastanza da farci stare un computer, una stampante a colori e uno sgabello da bar. E un chiavistello che funzionava solo dall'interno. C'erano scaffali di CD, registrati in casa, tutti etichettati e datati; sotto il banco del computer c'erano scatole di stampe su carta fotografica lucida. Donne e bambini, ma per lo più bambini. In camera da letto trovarono una macchina fotografica digitale di alta qualità. Si sentì un rumore dal piano terra, e tutti tacquero. Un cigolio. E la porta d'ingresso si aprì. «Dunky? Mi dai una ma... e chi diavolo è lei?».
Logan guardò di sotto e vide una donna in avanzato stato di gravidanza, con addosso un cappotto di pelle nero e con tante borse di plastica, che guardava incredula tutti quei poliziotti in casa sua. «Dov'è Duncan? Cosa avete fatto a mio marito, brutti bastardi?». CAPITOLO 25 La notizia arrivò via radio, mentre Logan stava rientrando alla Centrale. Il processo di Gerald Cleaver era arrivato al verdetto, dopo essere stato sotto i riflettori dei media per quattro settimane. «Assolto? Come hanno potuto trovarlo non colpevole?», chiese Logan sorpreso, mentre l'agente del CID parcheggiava la loro auto nel parcheggio della Centrale. «Quello stronzo di Sandy Serpente», fu la risposta. Sandy MoirFarquharson aveva colpito ancora. Consegnarono l'auto e si affrettarono al centro investigazioni. La sala era piena di agenti in uniforme, molti dei quali erano bagnati fradici. «Ascoltate bene!». Era il questore, venuto a parlare alle truppe. «C'è un sacco di gente arrabbiata fuori per strada». Altro che un sacco! Una moltitudine enorme di persone aveva seguito il processo sin dall'inizio, per dimostrare con tabelloni e striscioni davanti al tribunale. Avevano aspettato per giorni, sperando di vedere Gerald Cleaver condannato all'ergastolo, da scontare nella prigione Peterhead. Assolverlo e rimetterlo in libertà era paragonabile all'accendere un petardo e infilarselo nelle braghe. Durante il processo la polizia si era limitata a mantenere una presenza minima fuori dal tribunale, al solo fine di mantenere l'ordine pubblico; ma adesso le cose erano ben diverse e il capo della polizia non era disposto a correre rischi. «Aberdeen è sotto gli occhi del mondo», disse assumendo una posa drammatica. «Ogni giorno che passa il movimento antipedofilo aumenta in intensità. E giustamente. Ma non possiamo permettere che alcuni individui usino la protezione dei nostri figli come pretesto per violenze. Voglio che il tutto sia gestito pacatamente. Questo non è un caso da scudi antisommossa. Questo è un caso di polizia-nella-comunità. Chiaro?». Molti dei presenti annuirono. «Sarete lì fuori a rappresentare il concetto dell'ordine di questa fiera città. Fate in modo che tutti sappiano che per la città di Aberdeen l'osservanza della legge e il rispetto dell'ordine pubblico sono due concetti della
massima importanza!». Fece una pausa, quasi si aspettasse un applauso, e poi passò la parola all'ispettore Steel, che assegnò a ognuno i propri compiti. Sembrava stressata. Era l'ispettore responsabile per il caso Cleaver. Logan non era in uniforme, quindi il suo nome non era sulla lista, come pure il resto del CID, ma uscì con gli altri, soffermandosi a guardare la folla arrabbiata che protestava fuori dell'edificio della Sheriff Court. La folla era più grande di quanto Logan si aspettasse; circa cinquecento persone occupavano il piazzale antistante l'edificio, l'ampia scalinata di accesso e straripavano nel parcheggio, pieno di cartelli «Riservato». Troupe televisive s'intravedevano qua e là tra la folla, come piccole oasi di calma nell'agitato mare di facce e cartelloni. «Abbasso il demone Cleaver!». «La mannaia per Cleaver!». «Bastardo! Perverso!». «Incarceratelo a vita!». «Morte al pedofilo!». Logan fece una smorfia leggendo l'ultimo tabellone. Niente di peggio di qualche stupido animato da una furia retta e virtuosa e con la folla dalla sua parte. L'ultima volta che s'era manifestato questo genere di fervore, erano state prese a sassate le finestre degli ambulatori di tre pediatri. Le cose cominciavano a mettersi male. La folla gridava slogan di disappunto e parole poco lusinghiere all'edificio della Sheriff Court: uomini, donne, genitori e nonni, tutti raccolti insieme, che ululavano per il sangue di Gerald Cleaver. Mancavano solo i forconi e le torce accese. E improvvisamente la folla ammutolì. L'enorme porta vetrata si aprì e ne venne fuori Mr Sandy MoirFarquharson. Gerald Cleaver non era con lui: la Grampian Police non lo avrebbe rimesso in libertà con quella protesta in corso, anche se erano convinti della sua colpevolezza. Sandy il Viscido sorrise alla folla come se avesse visto vecchi amici. Questo era il suo momento. Le telecamere di tutto il mondo erano lì. Oggi sarebbe apparso su un palcoscenico mondiale. Fu subito circondato da una foresta di microfoni. Incurante della pioggia Logan si avvicinò, spinto dalla curiosità, fino a udire le parole dell'avvocato. «Signore e signori», cominciò Moir-Farquharson, tirando fuori dei fogli
di carta da una tasca della giacca, «in questo momento il mio cliente non è disponibile per commenti sul processo, ma mi ha chiesto di leggere questa dichiarazione». Si schiarì la gola e spinse il petto in fuori. «"Desidero ringraziare tutti per le loro gentili parole di supporto durante questa dolorosa vicenda. Io ho sempre dichiarato la mia innocenza e oggi la brava gente di Aberdeen l'ha confermata"». A queste parole il silenzio venne interrotto da un rabbioso mormorio. «Cristo», mormorò un agente in divisa che stava a fianco di Logan. «Non potevano tappargli la bocca?» «"E adesso che..."». Sandy Serpente dovette alzare la voce per farsi sentire. «"E adesso che il mio buon nome è stato scagionato da ogni accusa, io..."». Non riuscì a dire altro. Un giovanottone uscì dalla folla, si fece largo a spintoni tra i giornalisti e diede un pugno all'avvocato. Proprio sul naso. Sandy Serpente barcollò all'indietro e cadde. Dalla folla si levarono grida di assenso. Alcuni agenti in divisa apparvero dal nulla e afferrarono il trasandato aggressore, prima che potesse infierire a calci sull'avvocato. Aiutarono un sanguinante Moir-Farquharson a rialzarsi e lo fecero rientrare nella Sheriff Court seguito dal suo aggressore, saldamente tenuto per le braccia. Nella successiva mezz'ora non accadde nulla, eccetto la gelida pioggia. Un po' alla volta la folla si disperse; alcuni nei vicini bar, la maggior parte a casa. Rimase solo uno sparuto gruppetto di dimostranti che non fecero gran caso a un minibus con i vetri neri che si inseriva nella via principale, dirigendosi verso il centro della città. Gerald Cleaver era libero. Rientrato in Centrale Logan si accodò a una lunga fila di agenti infreddoliti e bagnati, uomini e donne, al self service della mensa, dove il personale di cucina scodellava minestrone caldo. Il questore era lì in persona, vicino alle posate, stringeva la mano a tutti congratulandosi con loro per essere riusciti a disinnescare una situazione potenzialmente molto esplosiva. Logan accettò la scodella di minestrone e la stretta di mano con pari magnanimità e andò a sedersi vicino a una finestra. Il minestrone era caldo, saporito e denso; e molto più utile della stretta di mano. Ed era gratis. Un raggiante ispettore Insch venne a sedersi al suo stesso tavolo, tra due agenti bagnati fradici. Sorrise a tutto e tutti. «In pieno naso!», disse dopo qualche attimo. «Bang! Glielo ha schiacciato!». Sorrise ancora e cominciò
a mandar giù cucchiaiate di minestrone. «Whap!». Mise giù il cucchiaio. «L'avete visto? Lo stronzetto si presenta davanti alle telecamere a spifferare le sue stronzate e qualcuno va lì e gliene appiccica uno sul muso. Bang!». Si pestò il pugno nella mano aperta con tale vigore che l'agente che gli era vicino sussultò e si rovesciò un cucchiaio di minestrone addosso. «Scusa, figliolo», disse Insch passandogli un tovagliolo di carta. «In pieno naso!». Il sorriso divenne ancora più vasto. «Sarà sul telegiornale di stasera. Lo registrerò; e se qualche volta sarò un po' giù di corda...»; puntò un immaginario telecomando a un televisore e schiacciò un bottone. «Bang! Proprio nel grugno!». Sospirò felice. «In giorni come questi mi sento ben lieto di essermi arruolato in polizia». «Come l'ha presa l'ispettore Steel?» «Hmm? Oh...», il sorriso dell'ispettore si attenuò. «È ben contenta dell'incidente del pugno, ma è arrabbiata nera che abbiano rimesso quel perverso in libertà». Scosse la testa. «Dopo tutto quello che ha fatto per convincere le vittime a testimoniare... i poveri diavoli hanno dovuto dire al mondo intero quello che Cleaver gli aveva fatto: Sandy Serpente li umilia, e Cleaver esce libero. Tutto quel lavoro per niente». Non ci furono commenti. Tutti si concentrarono sulle loro scodelle. «Vuoi andarlo a vedere?», chiese Insch a Logan. «Chi, Cleaver?» «No, l'eroe del momento!». Mise le mani nella classica posa pugilistica. «Colui che vola come una farfalla e punge come una vespa!». Logan sorrise. «Perché no?». Nel corridoio che portava alle celle si era formata una piccola folla. Tutti chiacchieravano sorridenti. Con quattro grida l'ispettore Insch li rimandò tutti ai loro posti. Ma non sapevano che comportarsi così era poco serio? Volevano che la gente credesse si potesse andare in giro dando pugni sui nasi a dritta e a manca? Imbarazzati, i presenti si dispersero subito, lasciando davanti alla porta blu Insch, Logan e il sergente addetto alla custodia. Con un gessetto il sergente stava scrivendo un nome sulla lavagnetta a fianco alla porta e Logan si accigliò. Quel nome non gli era nuovo, ma non ricordava perché. «Sergente, le dispiace se facciamo una visitina al suo ospite?», chiese Insch. «No, signore, si accomodi. È lei il responsabile delle indagini?» «Lo spero proprio!», rispose Insch ridendo. La cella era piccola, ma senza essere intima: linoleum marrone per terra,
pareti crema pallido e una panca lunga tutta una parete. L'unica luce veniva da due finestrini con vetri spessi e opachi, alti su una parete. C'era odor di sudore. L'occupante della cella era sdraiato sulla panca, raccolto nella classica posizione del feto. Si lamentava sottovoce. «Grazie, sergente», disse Insch. «Ci lasci pure». «Sì, signore». Uscendo il sergente fece l'occhiolino a Logan. «Ma fatemi sapere se Mohammed Ali vi dà fastidio». La porta della cella si chiuse e Insch andò a sedersi sulla panca vicino al corpo raccolto del prigioniero. «Mr Strichen? O posso chiamarla Martin? Darle del tu?». La figura supina si mosse leggermente. «Martin? Sai perché sei qui?». La voce dell'ispettore Insch era sorprendentemente calda e amichevole. Logan non lo aveva mai sentito usare quel tono di voce, specialmente con una persona sospetta. Lentamente Martin Strichen si alzò e si mise a sedere, con le calze che lasciavano impronte di sudore sul linoleum. Gli avevano confiscato lacci, cintura e tutto ciò che avrebbe potuto rappresentare un pericolo. Era enorme; non grasso, semplicemente grosso. Braccia, gambe, mani, mascella. Quando arrivò alla faccia butterata, Logan ricordò dove lo aveva visto prima: era il tizio che l'agente Watson aveva sorpreso a masturbarsi nello spogliatoio donne della piscina, e che lui stesso aveva riaccompagnato alla prigione di Craiginches. Uno dei testimoni del caso Cleaver. E capì perché aveva rifilato una sberla a Sandy Scivoloso. «Lo hanno lasciato andare», bisbigliò Martin. «Lo so, Martin, lo so. Non avrebbero dovuto, ma lo hanno fatto». «È stato lui a farlo rimettere in libertà». Insch annuì. «Ed è per questo che tu hai picchiato Mr MoirFarquharson?». Un borbottio indistinto. «Martin, scriverò una breve dichiarazione e poi tu la firmerai, va bene?» «Lo hanno lasciato andare». Gentilmente Insch fece rivivere quel pomeriggio a Martin, con gran delizia quando arrivarono al momento del pugno. Logan annotava il tutto. Era un'ammissione di colpevolezza, ma Insch la impostò come se fosse stata tutta colpa di Sandy Serpente. E in effetti lo era. Martin la firmò e Insch lo rilasciò dalla custodia temporanea. «Hai dove stare?», gli chiese Insch mentre lo accompagnavano all'uscita.
«Sto con mia madre. Il giudice ha detto che devo stare lì, fino a quando non avrò fatto le mie ore di servizio comunitario». Le spalle gli si abbassarono ancora di più. Insch lo prese per un gomito. «Piove ancora. Se vuoi ti faccio accompagnare da una delle nostre auto. Ti va?». Martin Strichen rabbrividì. «Mia madre ha detto che se vede un'altra auto della polizia davanti a casa mi ammazzerà». «Va bene, come vuoi». Insch gli tese la mano e Martin gliela strinse, avvolgendola nel suo badile. «E ascolta, Martin», disse l'ispettore guardandolo negli occhi. «Grazie». Insch e Logan restarono alla finestra guardando Martin che si allontanava nella pioggerella. Erano appena le quattro ed era già buio. «Quando stava deponendo nel caso Cleaver», disse Logan. «Martin ha giurato che avrebbe ucciso Moir-Farquharson». «Davvero?», chiese Insch pensoso. «Pensa che ci proverà?». L'ispettore sfoggiò uno dei suoi maxi sorrisi. «Speriamo!». Ma non c'erano sorrisi nella saletta interrogatorio 3. Era affollatissima: l'ispettore Insch, il sergente McRae, una poliziotta e Mr Duncan Nicholson. Le audio cassette giravano nel registratore e la spia rossa della videocamera lampeggiava. L'ispettore Insch si chinò verso Nicholson e gli fece un bel sorriso. Il tipo di sorriso che un coccodrillo fa a un cucciolo di cerbiatto con una gamba rotta. «Perché non confessa, Mr Nicholson?», gli chiese. «Così ci risparmiamo un sacco di fastidi. Basta che lei ammetta il tutto e ci dica cosa ha fatto col corpo di Peter Lumley». Nicholson si limitò a passarsi una mano sulla pelata, asciugandosi il sudore. Non aveva un bell'aspetto; a braccia conserte, ma tremava e sudava. Continuava a guardare da Insch a Logan alla porta. L'ispettore tirò fuori da una busta di plastica la foto di un bambino su un triciclo. La foto era stata fatta nel giardino dietro una casa; s'intravedeva una corda con un asciugamano e un paio di jeans. Insch ne lesse il nome sul retro. «Allora, Mr Nicholson. Vuole dirmi chi è Luke Geddes?». Nervosamente Nicholson s'inumidì le labbra e continuò a guardare i suoi interrogatori, dall'uno all'altro. Ma non la foto del bambino. «È una delle sue vittime, Nicholson? Il prossimo sulla lista? Da rapire, uccidere e violentare? No? E allora, mi dica chi è questo...». Insch tirò fuori un'altra foto, un bambino nella sua divisa di scuola, che camminava da
solo. «Le stimola la memoria? O le stimola qualcos'altro? Le viene duro, eh?». Tirò fuori un'altra foto. «E questo?». Un bambino, seduto sul sedile posteriore di un'auto, impaurito. «È la sua auto? A me sembra una Volvo». «Non ho fatto niente!». «Col cazzo, non hai fatto niente! Sei un pezzo di merda d'un bugiardo e io ti manderò in galera fino a quando ci muori dentro». Nicholson deglutì a fatica. «Abbiamo altre fotografie», intervenne Logan. «Le vuol vedere, Mr Nicholson?». Aprì una cartelletta e gli fece vedere le foto dell'autopsia di David Reid. «Oh, Dio...». Nicholson divenne grigio in volto. «Lei ricorda David Reid, vero Mr Nicholson? Il bambino di tre anni che lei ha rapito, strangolato e violentato?» «No!». «Ma sì che lo ricorda! C'è persino tornato a prendersene un pezzettino! Con le cesoie da giardino, no?» «No! Dio, no! Non è vero! Io l'ho solo trovato! Non l'ho neanche toccato!». Si aggrappò all'orlo del tavolo come se stesse per cadere. «Non ho fatto niente, vi dico!». «Non ti credo, Duncan». Insch sfoggiò ancora il suo sorriso da coccodrillo. «Sei un bugiardo di merda e io ti farò mettere al fresco. E quando sarai su a Peterhead ti accorgerai cosa succede a stronzi come te. Stronzi che si divertono con i bambini». «Non ho fatto niente!». Nicholson piangeva. «Ve lo giuro! Non ho fatto niente!». Dopo mezz'ora l'ispettore sospese l'interrogatorio adducendo come pretesto la necessità di un "intervallo biologico". Lasciarono Nicholson con l'agente e si recarono al centro. Nicholson era ridotto male. Insch lo aveva impaurito al punto che tremava, singhiozzava e continuava a protestare la sua innocenza. Ma l'ispettore voleva lasciarlo cuocere nel suo brodo per un po'. Logan e Insch passarono il tempo bevendo caffè, mangiando caramelle e discutendo della bambina che avevano trovato nel capannone di Roadkill. Le squadre erano tornate alla fattoria, passando al setaccio tutte le carcasse, senza trovare un fico secco. Logan aprì la cartelletta e ne estrasse la foto di David Reid. Un bambino dall'aspetto felice, con gli incisivi leggermente storti e una massa di capelli
che resisteva a tutti gli sforzi del pettine per metterli in ordine. Ben diversa dalla faccia gonfia, scura e putrefatta delle altre foto. «Crede ancora che sia stato lui?», chiese all'ispettore. «Roadkill?». Insch fece spallucce e si mise una caramella in bocca. «Adesso sembra di no, vero? Non adesso che abbiamo preso quest'altro stronzo con la sua collezione di foto di ragazzini! Magari fa parte di una catena di pedofili». Fece una smorfia di disgusto. «Mi vengono i brividi solo a pensarci! Un gruppo di pedofili, lì fuori, a piede libero!». «Però nessuno dei bambini nelle foto di Nicholson è nudo. Non c'è niente di osceno». Insch sollevò un sopracciglio. «Credi che si tratti solo di foto artistiche?» «No, lei sa cosa intendo dire. Non sono foto pornografiche. È preoccupante, è anche sinistro, ma non è porno». «Può darsi che a Nicholson piaccia guardarseli così, vestiti. Oppure fa parte del suo sistema di selezione. Tieni d'occhio un gruppo di bambini, fai qualche foto, e scegli il vincitore della selezione». Fece una pistola con la mano e sparò un colpo a un bersaglio immaginario. «E così si trova a farsi la pornografia di prima mano. Pronta e subito». Logan non ne era convinto, ma preferì tacere. Un agente si affacciò sulla porta e disse che un certo Mr MoirFarquaharson voleva vedere l'ispettore. E non si sarebbe mosso da lì, rompendo le palle a tutti, fino a quando l'ispettore non lo avesse ricevuto. Insch ci pensò su un attimo, stringendo le labbra preoccupato; poi disse all'agente di far accomodare Sandy Serpente in una saletta. «Cosa crede che voglia?», chiese Logan. Insch ghignò. «Lamentarsi di qualcosa forse? E chi se ne frega? Avremo l'opportunità di divertirci alle spalle di quello stronzo mentre lui soffre». Si fregò le mani. «A volte, Logan ragazzo mio, Dio ci sorride». Sandy Moir-Farquharson li aspettava in una saletta al pianterreno. Non sembrava molto contento. Aveva un cerottino sul naso, che ora era leggermente storto e cerchi neri sotto gli occhi. Con un po' di fortuna quei cerchi si sarebbero trasformati in due magnifici occhi neri. Aveva messo la sua ventiquattr'ore sul tavolo e ci tamburellava le dita sopra, con impazienza. Quando Insch e Logan entrarono, li guardò con un'espressione che prometteva niente di buono. «Mr "Far-Quar-Son"», disse l'ispettore. «Che piacere vederla in ottime condizioni di salute».
Sandy Serpente fece una smorfia. «Lo avete lasciato andare», disse con voce bassa e minacciosa. «Esattamente. Ha rilasciato una deposizione ed è stato rilasciato su cauzione. Deve ripresentarsi qui lunedì alle 16,00». «Mi ha rotto il naso!». Le parole furono puntuate da pugni sul tavolino. «Non è cosa poi tanto grave, Mr Far-Quar-Son. Infatti le dà un aspetto da maschiaccio, da duro. Non le pare, sergente?». Logan riuscì a non ridere e disse sì. Sandy aggrottò la fronte; non sapeva se dicevano sul serio o se lo stavano prendendo per i fondelli. «Davvero?», finì col dire. «Sì», confermò Insch impassibile. «Infatti credo che avrebbero dovuto romperle il naso molto tempo fa». L'avvocato fece una smorfia di rabbia. «Sapete che ho ricevuto minacce di morte? E che mi hanno rovesciato addosso un secchio di sangue?» «Sì». «E che questo Martin Strichen ha precedenti penali per aggressione violenta?» «Mr Far-Quar-Son, quando lei è stato aggredito col secchio di sangue, Mr Strichen era in prigione. E abbiamo analizzato le minacce da lei ricevute. Sono state spedite da quattro persone diverse e nessuna mostra il timbro postale della prigione di Craiginches». Sorrise. «Ma se lo desidera potremmo metterla dentro in custodia protettiva. Ho delle belle celle nel seminterrato. Qualche quadretto, un po' di fiori e sarà come casa!». Una smorfia silenziosa fu l'unica risposta. Insch sorrise da un orecchio all'altro. «Bene, Mr Far-Quar-Son, adesso dobbiamo andare a occuparci di cose serie». Si alzò e fece cenno a Logan di fare altrettanto. «Ma se qualcuno dovesse portare a termine una di quelle minacce di morte, non esiti a chiamarmi. Il sergente Logan l'accompagnerà all'uscita». Sorrise al sergente. «Stai ben attento che non si metta niente in tasca uscendo; sappiamo come sono questi avvocati». Logan accompagnò l'avvocato fino all'ingresso. «Sa una cosa, sergente?», disse Sandy, guardando la pioggia che imperversava senza tregua. «Anch'io ho bambini. Da come parla quel grasso bastardo, si potrebbe pensare che io ci goda a rimettere dei perversi in libertà». Logan corrugò un sopracciglio. «Lei ha fatto assolvere Gerald Cleaver». «No», rispose l'avvocato abbottonandosi il cappotto. «Sì, che lo ha fatto assolvere! Lei ha ridotto l'accusa a brandelli!».
Moir-Farquaharson si girò e guardò fisso Logan. «Se il caso che voi avete presentato fosse stato solido e ben impostato, non avrei potuto neanche scalfirlo. Non sono stato io a far assolvere Gerald Cleaver: siete stati voi». «Ma...». «E ora mi scusi sergente, ma ho altro da fare». Tornati nella saletta d'interrogatorio trovarono Nicholson agitatissimo. Sembrava che qualcuno gli avesse infilato un cavo dell'alta tensione tra le chiappe. La sua camicia era madida di sudore, e gli occhi si muovevano in continuazione, mai soffermandosi su qualcuno o qualcosa per più di qualche secondo. Logan andò a sedersi vicino al registratore audio e lo accese. «Voglio... voglio protezione!», disse Nicholson, ancor prima che Logan avesse potuto avviare la registrazione. «A Craiginches dovresti essere abbastanza al sicuro, non credi?», chiese Insch. «Almeno fino a quando andrai a Peterhead». «No... voglio protezione, come la danno alle spie nei film... da qualche parte». Si passò le mani sul volto. «Se vengono a sapere che ho parlato, quelli mi ammazzano!». Il labbro inferiore cominciò a tremargli e Logan temette che avrebbe ripreso a piangere. Insch tirò fuori il suo pacchetto di caramelline morbide effervescenti e se ne mise un paio in bocca. «Non faccio promesse», disse con la bocca piena di dinosauri alla fragola e all'arancia. «Sergente, comincia la registrazione». Nicholson abbassò la testa, guardandosi le mani che gli tremavano. «Io... ho fatto dei lavori per degli allibratori e per degli usurai». La voce gli tremò e dovette respirare profondamente un paio di volte prima di continuare. «Sono una specie di ricercatore del controllo debiti. Seguo gente che non può o non vuol pagare. Li fotografo, loro e le loro famiglie. Stampo le foto a casa e le do ai creditori, che le usano per costringerli a pagare, come minacce, sapete?». Insch arricciò le labbra. «I tuoi genitori devono essere molto fieri di te». Una lacrima cadde lungo la guancia di Nicholson e se l'asciugò con la manica. «Fare fotografie alla gente non è illegale! Ed è tutto ciò che ho fatto! Nient'altro! Non ho toccato bambini!». L'ispettore Insch grugnì. «Coglionate! E speri che io ci creda!». Si chinò in avanti, poggiando i suoi pugnacci sul tavolo. «Io invece voglio sapere cosa facevi in un fossato a Ponte sul Don col corpo mutilato di un bambino
di tre anni. E voglio anche sapere come mai avevi una busta piena di contanti e di gioielli». Si alzò. «Sei il pezzo di merda più schifoso che abbia mai visto, Nicholson. Meriti di esser messo via per il resto dei tuoi schifosissimi giorni. Puoi star qui e mentire finché vuoi: ma io parlerò col Procuratore e gliela conterò in modo che lui sarà ben lieto di inchiodarti le chiappe al muro. Interrogatorio sospeso alle...». «Sono scivolato!». Nicholson era in lacrime, chiaramente preso dal panico. «Credetemi! Sono scivolato!». Logan sospirò. «Questa ce l'hai già raccontata. Ma non ci hai detto cosa ci facevi lì!». «Stavo... stavo facendo un colpo». Nicholson guardò Logan negli occhi e Logan capì che avevano fatto breccia nelle sue difese. «Continua». «Stavo facendo un colpo. Una vecchietta, vedova. Tiene dei soldi in casa, un po' di argenteria, qualche gioiello». «E tu l'hai pelata?». Nicholson scosse la testa, facendo cadere delle lacrime sul tavolo in formica. «No, non ho potuto. Avevo bevuto, e mi ero fatto anche qualche spinello, sapete? Andato troppo in là per poter fare un colpo con scasso. Ma tenevo la refurtiva dei colpi precedenti nascosta sotto un albero. Per tenerla fuori di casa, in caso voi foste venuti con un mandato. E volevo contarla. Diluviava. Ero un po' sballato. Sono scivolato giù per la riva... cinque, sei metri? Al buio, nella pioggia. Mi sono rotto la giacca, i jeans e quasi mi rompevo la testa contro una roccia. Sono finito in un fosso». La voce adesso era poco più di un borbottio. «Ho provato ad alzarmi, facendo leva su questo tavolone di truciolato, ma non era fisso. Si è mosso e ho visto questa cosa che si muoveva nell'acqua». Cominciò a singhiozzare. «Dapprima ho pensato che fosse un cane; un bull terrier o qualcosa del genere, sapete? Perché la cosa è tutta nera. Comunque, sono riuscito ad alzarmi e sto per andar via da lì, quando vedo questa cosa che luccica nella pioggia. Sembrava una catenina d'argento o roba simile...», rabbrividì. «Ho pensato che fosse qualcosa di mio. Ero così sballato che ho pensato facesse parte del mio bottino. Vado per prenderla e la cosa si gira. Ed è un bambino morto. E io comincio a urlare e urlo e urlo...». Logan si chinò in avanti. «E poi?» «Son venuto via da lì il più presto possibile. Subito a casa. Sotto la doccia, cercando di lavarmi quell'acqua lurida di dosso. E ho chiamato voi». E questo è stato il mio ingresso sulla scena pensò Logan. «E quella cosa
che avevi visto?» «Cosa?» «La cosa luccicante che avevi visto sul corpo. Cos'era e dov'è?» «Solo un frammento di carta stagnola». Insch lo guardò con saette negli occhi. «Voglio i nomi di tutti i poveri diavoli che hai derubato. E voglio la refurtiva. Tutta!». Guardò le fotografie sul tavolino. «E voglio i nomi degli allibratori e degli usurai per i quali fai le fotografie. E se una di queste persone nelle foto ha subito del male, anche se è solo caduta dalla bicicletta, ti incriminerò per concorso in aggressione. Capito?». Nicholson si prese la testa tra le mani. «Bene», disse Insch sfoggiando un sorriso pieno di gratitudine. «Mr Nicholson, la ringrazio per averci assistito nelle nostre indagini. Sergente McRae, sia gentile e accompagni il nostro ospite in cella. Veda se riesce a fargliene assegnare una con vista a sud e un balcone». Nicholson pianse fino alle celle. CAPITOLO 26 Il referto preliminare della scientifica arrivò poco dopo le sei, e non era granché. Non c'era niente che collegasse Duncan Nicholson a David Reid, a parte il fatto che era stato lui a ritrovarne il corpo. E aveva un alibi a tenuta stagna per l'ora della scomparsa di Peter Lumley. Insch aveva mandato due agenti al punto dove Nicholson diceva di aver nascosto il bottino di tanti furti, ed erano tornati col bagagliaio dell'autopattuglia pieno di refurtiva. Sembrava proprio che Nicholson stesse dicendo la verità. Il che significava che tutte le scommesse tornavano su Roadkill. Ma Logan non era ancora convinto. Proprio non riusciva a immaginarlo come un pedofilo assassino, anche se aveva conservato una bambina morta in uno dei suoi capannoni. A un certo punto Insch decise di chiudere bottega. «È ora di andare a casa», disse. «Gli indiziati sono sottochiave; e lunedì saranno ancora qui». «Lunedì?». Insch annuì. «Sì, sergente. Lunedì. Quindi sei autorizzato a goderti la domenica. Rispetta la festività religiosa. Vai allo stadio, bevi birra, mangia patatine, divertiti». Gli fece un sorriso sornione. «Magari porti a cena qualche bella poliziotta?». Logan arrossì, ma non disse niente.
«Comunque, fai quello che ti pare e piace, ma io non voglio vederti qui prima di lunedì mattina». Quando Logan lasciò la Centrale aveva smesso di piovere. Il sergente della reception gli passò tre messaggi ricevuti dal patrigno di Peter Lumley, che sperava ancora che avrebbero potuto trovare suo figlio. Logan cercò di dirgli qualche tenue bugia, che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, ma non ci riuscì. Gli promise che lo avrebbe chiamato appena avrebbe saputo qualcosa. C'era ben poco che potesse fare. La serata era passata dal freddo al gelido. Una sottile patina di gelo già copriva i marciapiedi, facendoli luccicare. Camminando in Union Street il respiro gli si gelava intorno, avvolgendolo come in una nebbia. Roba del Baltico. Per un sabato sera le strade erano stranamente silenziose. E Logan non aveva nessuna voglia di tornare al suo appartamento vuoto. Non ancora. Quindi andò all'Archibald Simpson's. Il pub era affollato da gruppi di giovani con caraffe di cocktail, che cercavano di tenersi caldi ubriacandosi il più possibile nel minor tempo possibile. All'ora di chiusura ci sarebbero state delle gran vomitate, delle gran scazzottate; e per qualcuno, la notte in cella. O forse al pronto soccorso. «Oh, poter essere ancora giovani e stupidi!», borbottò Logan, cercando di farsi strada tra la folla verso il bancone. I brani di conversazione che gli capitò di ascoltare erano prevedibili. C'era chi si vantava di quanto si fosse sessualmente distrutto la sera prima e quanto di più lo sarebbe stato domattina. Ma al di là delle spacconate sulle sbornie e sulle capacità sessuali c'era un altro tema: Gerald Cleaver l'aveva fatta franca. Logan si appoggiò al banco del bar, aspettando di essere servito da uno degli australiani dall'aspetto sdrucito, e ascoltò un grassone in una camicia gialla fluorescente che la contava a un tizio magrolino e barbuto in maglietta e panciotto. Cleaver era una merda. Come aveva potuto la polizia fare un pasticcio tale da permettere al pedofilo di farla franca? Era ovvio che Cleaver era colpevole, specialmente con tutti questi bambini che venivano trovati morti. Ed ecco che la polizia ti rimetteva in libertà un noto pedofilo! Il grasso e il magro non erano i soli a criticare l'operato della polizia. Logan riusciva a sentire la stessa storia da più parti. Ma questa gente non sapeva che i poliziotti che smontavano venivano qui? Molti del turno di giorno sarebbero stati qui, a farsi una birra alla fine del turno. A lamentarsi
anche loro dell'assoluzione di Gerald Cleaver. A spendere un po' di quello straordinario che si stavano guadagnando. Quando finalmente riuscì a essere servito, Logan prese la sua pinta di Stella e fece un giretto nell'enorme locale, per vedere se c'era qualcuno che conoscesse abbastanza da poterci fare quattro chiacchiere insieme. Sorrise e salutò con un gesto della mano un gruppo di giovani agenti, riuscendo a malapena a riconoscerli in borghese. In un angolo riconobbe una persona ben nota, avvolta in una nuvola di fumo e circondata da un triste gruppetto di sergenti e di agenti. La donna rovesciò la testa all'indietro e mandò un'altra nuvola di fumo verso il soffitto. Nel riabbassare la testa vide Logan e gli sorrise. Logan ebbe un attimo di sconforto: lo aveva visto e quindi doveva andare da lei. Un agente del CID si fece un po' da parte per far posto a Logan e al suo boccale al tavolino. Al di sopra delle loro teste un televisore borbottava in sordina, pubblicità locale per stazioni di servizio, fish and chips e vetri termici. «Lazzaro», biascicò l'ispettore Steel emettendo una nuvola di fumo. «Come stai, Lazzaro? Sei già arrivato a ispettore capo?». Forse non avrebbe dovuto sedersi lì. Avrebbe dovuto comprare una pizza da asporto e andare a casa. Cercò di sembrare faceto. «Non ancora. Forse lunedì». «Lunedì?». L'ispettore rise di gusto, dondolando avanti e indietro e facendo cadere la cenere della sua sigaretta sul vestito dell'agente che si era spostato per fare posto a Logan. «Forse lunedì! Buona questa, mi piace!». Diede un'occhiata al tavolino pieno di bicchieri e si rabbuiò in volto. «Da bere!», esclamò. Mise una mano in una tasca della giacca e ne tirò fuori un portafoglio di pelle, che consegnò al più vicino giovanotto. «Agente, vai a prendere da bere! Qui si muore di sete!». «Sì, signora». «Whisky per tutti!». Diede una manata sul tavolino. «Doppia dose!». Il giovane agente si avviò verso il bar, col portafoglio dell'ispettore in mano. Lei si avvicinò a Logan e con fare cospiratorio gli mormorò all'orecchio: «Secondo me quel ragazzo è un po' ubriaco». Gli sorrise e si riappoggiò allo schienale. «Sai una cosa? Con Insch strapazzato per Roadkill e la pantomima, e con Cleaver libero ci sarà senz'altro almeno un posto di ispettore disponibile!».
Logan non seppe cosa dire, ma la faccia dell'ispettore si rabbuiò. «Scusami, Lazzaro. Ho avuto una giornata bestiale». Buttò la sigaretta sul parquet e la schiacciò col piede. «Non è colpa sua se Cleaver è tornato a piede libero. Caso mai colpa di quello stronzo di Sandy Serpente». «Sono d'accordo e ci bevo su!», disse l'ispettore mandando giù un doppio whisky in un sorso solo. Un agente del CID che Logan sembrò riconoscere era seduto dall'altro lato del tavolo e guardava la televisione. «Sta arrivando!», gridò. Logan e Steel si girarono verso il televisore, mentre i titoli di apertura del telegiornale si succedevano sullo schermo e ogni agente nel pub, uomo o donna, si girava verso il televisore più vicino. Una donna, meno attraente di quanto avrebbe potuto essere, stava parlando alla telecamera, seduta a una scrivania. Il volume del televisore non era abbastanza alto da poter seguire quello che stava dicendo, ma una foto di Gerald Cleaver apparve alle sue spalle. Poi la scena cambiò in un'inquadratura dell'esterno della Sheriff Court. La folla agitava striscioni e cartelloni e d'improvviso una donna sui quarant'anni invase lo schermo mettendo sotto l'obiettivo della macchina da presa il suo cartellone che diceva «Morte al pedofilo!»; per circa quindici secondi urlò qualcosa all'obiettivo senza che una parola fosse sentita nell'affollato pub, prima di essere sostituita sullo schermo dalle porte della Sheriff Court che si aprivano. «Arriva!», annunciò l'ispettore Steel con gusto. Sandy Moir-Farquharson apparve in cima sullo scalone d'accesso e cominciò a leggere la dichiarazione del suo cliente. La telecamera fece un primo piano, appena in tempo per inquadrare uno dei dimostranti che usciva dalla folla e tirava un cazzotto in faccia a Sandy Serpente. Un boato di evviva echeggiò nel pub. Riapparve la faccia seria e preoccupata della presentatrice del telegiornale; disse alcune parole e poi la scena venne riproposta ai telespettatori. Un altro enorme boato. E poi qualcosa sulle condizioni di traffico sulla strada Dyce-Newmacher e tutti tornarono felici e contenti ai loro bicchieri. L'ispettore Steel aveva un sorriso beato sul viso. Mandò giù un altro whisky e chiese a Logan. «Hai mai visto qualcosa di così bello?». Logan dovette ammettere che era qualcosa di spettacolare. «Sai una cosa?», chiese Steel accendendo un'altra sigaretta. «Mi piace-
rebbe stringere la mano a quel ragazzo. Diavolo, sarei anche capace di essere etero per una sera! Una star!». Logan cercò di non immaginare un amplesso tra Martin Strichen e l'ispettore Steel. Non ci riuscì. Per distrarsi diede un'altra occhiata al televisore, che adesso mostrava a tutto schermo una foto di Peter Lumley, scomparso da martedì scorso. Poi uno scorcio della fattoria di Roadkill. E poi una conferenza stampa, col questore serio e preoccupato. Con le immagini che gli si susseguivano davanti agli occhi, il buon umore di cui Logan aveva goduto fino a poco prima, si dileguò lentamente. Peter giaceva morto da qualche parte e Logan non riusciva a scuotersi di dosso la sensazione che ancora non avevano preso il responsabile. Nonostante quel che pensava Insch. Il telegiornale era finito e adesso sullo schermo si susseguivano spot pubblicitari. Un garage a Bieldside, un negozio di moda femminile a Rosemount e uno spot sulla sicurezza stradale. Logan guardò affascinato un'auto che frenava ma non riusciva a evitare l'impatto con il ragazzino che stava attraversando la strada. Più che un ragazzino era un bambino. La griglia del cofano e il paraurti anteriore lo investivano nel fianco, facendolo piroettare a gambe all'aria, picchiando la testa contro il metallo del cofano motore prima di volare oltre l'auto e atterrare sull'asfalto. Era fatto in slow motion, ogni impatto orrendamente chiaro e coreografato. La frase «Rallenta, non uccidere un bambino», lampeggiava sullo schermo. Con un'espressione addolorata sul volto Logan continuò a guardare lo schermo. «Figlio d'un cane». Si erano sbagliati. Riuscì a radunarli tutti all'obitorio per le otto: l'ispettore Insch, il sergente Logan e la patologa dottor Isobel MacAlister. L'ispettore non sembrava molto felice di essere stato chiamato da casa per tornare in Centrale; ma Isobel lo sembrava ancora meno, tutta in ghingheri com'era, con un lungo abito da sera nero con scollatura bassa. Non che a Logan fosse concesso di posare gli occhi su quella pelle esposta; Isobel aveva indossato un giaccone d'un vividissimo arancione per non congelare nella gelida atmosfera dell'obitorio. Mani in tasca per tenerle calde, si rivolse a Logan: «Spero che sia una cosa importante». L'avevano rintracciata a teatro; e l'occhiata che diede a Logan gli fece capire che niente poteva essere più importante di una serata col suo nuovo moroso alla rappresentazione de La Bohème della Scottish
National Opera. Insch indossava un paio di jeans e una felpa. Era la prima volta che Logan lo vedeva senza il solito doppiopetto, a parte il costume da "cattivo" della pantomima. Fece una smorfia, mentre Logan offriva ancora una volta le sue profonde scuse per averli fatti andare lì di sabato sera. «Allora», cominciò Logan, andando al cassetto refrigerato che conteneva i resti della bambina trovata nel capannone di Roadkill. Strinse i denti e lo aprì, facendo subito un passo indietro, spinto dal fetore, più forte dell'odore di antisettico che permeava la sala. «Allora», ripeté cercando di respirare solo dalla bocca, «sappiamo che la morte della bambina è stata causata da un forte trauma...». «Ma questo lo sappiamo già!», scattò Isobel. «L'ho già dichiarato nel mio referto sull'autopsia. Le fratture sul davanti e sul retro del cranio avranno causato gravi danni al cervello e quindi la morte». «Lo so», disse Logan tirando fuori dalla cartella le radiografie e mostrandole contro luce. «Vedete questo?» «Costole rotte», continuò Isobel con i fulmini negli occhi. «Sergente, mi ha per caso tirato fuori dal teatro per portarmi qui e dirmi cose che avevo già detto io a lei?». Le ultime parole erano cariche di veleno. Logan sospirò. «Ascolti, dottore; tutti noi abbiamo pensato che le ferite fossero state causate dalle percosse che Roadkill avrebbe inflitto alla poveretta...». «Le ferite mostrano segni simili a quelli causati da percosse. E avevo detto anche questo. Quanto tempo ancora dobbiamo sprecare su questo incidente? Aveva detto di essere in possesso di altre prove!». Logan respirò profondamente e mise le radiografie una in fila all'altra, in modo che formassero lo scheletro completo di un bambino. Gamba, anca, costole rotte, cranio fratturato. L'immagine completa così formata superava di poco il metro d'altezza. Logan s'inginocchiò e tenne l'immagine dello scheletro in modo che i piedi toccassero per terra. «Guardate le costole», disse. «Guardate come sono lontane da terra». Sia Insch che Isobel guardarono, senza capire dove volesse arrivare Logan. «E allora?» «E se le ferite non fossero state causate da percosse?» «Non dica scemenze!», reagì Isobel. «È stata picchiata a morte!». «Guardate come sono lontane le costole da terra», ripeté Logan. Silenzio completo.
«Autovettura», disse Logan, movendo le radiografie come una macabra marionetta. «Il primo punto d'impatto è l'anca». Girò le radiografie, facendole ruotare in senso orario. «Poi le costole impattano con la parte anteriore del cofano, dove c'è la griglia, per intenderci». Girò ancora la bambina delle radiografie, piegandole la testa verso destra. «Dopodiché la parte sinistra del cranio impatta col cofano. L'auto inchioda i freni». Raddrizzò le radiografie rigirandole verso il pavimento della sala. «La bambina cade a terra, la gamba destra si rompe, il retro della testa si sfonda quando impatta con l'asfalto». Stese le radiografie sul pavimento dell'obitorio. Insch e Isobel lo guardarono per un minuto pieno; poi Insch chiese: «E allora, come mai è finita nella camera degli orrori di Roadkill?» «Bernard Duncan Philips, alias Roadkill, arriva sul posto con pala e carrettino e fa il suo lavoro». Insch lo guardò inorridito, come se Logan avesse preso il corpo della bambina dal cassetto refrigerato e ci si fosse messo a ballare insieme. «È una bambina morta! Non un coniglio!». «Per lui è la stessa cosa». Logan guardò il contenuto del cassetto, sentendosi un peso nel petto. «È solo una cosa morta raccolta dalla strada. Era nel capannone numero due. Aveva già riempito il primo». Insch rimase a bocca aperta. Guardò Logan. Guardò Isobel. E guardò le radiografie sparse per terra. Riuscì solo a mormorare: «Brutto bastardo». Isobel era rimasta taciturna, mani nelle tasche del suo soprabito, e con un'espressione poco felice in volto. «E allora?», chiese Logan. Isobel si raddrizzò e si eresse a tutta la sua altezza, per darsi un contegno. Con una voce che sembrava varechina congelata ammise che le ferite riscontrate sul cadavere erano conformi con lo scenario appena descritto. Che era impossibile stabilire l'ordine di sequenza in cui le ferite erano avvenute, data l'avanzata decomposizione del cadavere. Che le ferite erano apparse consone con i risultati di percosse. Che nelle circostanze lei aveva espresso il miglior parere possibile, date le condizioni del cadavere. Che non era una chiaroveggente. «Brutto bastardo», ripeté Insch. «Non è stato lui», disse Logan chiudendo il cassetto refrigerato. «Siamo tornati agli inizi delle indagini. Punto e a capo». Il cosiddetto "adulto responsabile" di Bernard Duncan Philips arrivò alla Centrale dopo un'ora e mezza di affannose telefonate. Era Lloyd Turner,
l'ex insegnante. Sembrava qualcosa che il gatto ti ha portato in casa e l'alito sapeva fortemente di menta, come se avesse bevuto da solo e non voleva che qualcuno se ne accorgesse. Si diede da fare con le sue scartoffie mentre Logan avviava l'audioregistratore e recitava le formalità preliminari. L'ispettore Insch, che ora indossava il vestito di scorta avviò l'interrogatorio. «Bernard, vogliamo che tu ci parli della bambina morta». Roadkill guardò da una parte all'altra della stanza e l'ex insegnante sospirò esasperato. «Ispettore, abbiamo già parlato di questo. Bernard non sta bene. Ha bisogno di cure, non di prigione». Insch aggrottò la fronte. Parlando con voce pacata e lentamente, chiese: «L'hai trovata, vero Bernard?». Lloyd Turner sobbalzò nella sedia. «Trovata?», chiese sorpreso all'uomo fetido e malmesso che gli stava seduto a fianco. «È vero, Bernard? L'hai trovata?». Roadkill si mosse sulla sedia, guardandosi le mani. Piccole macchie rosse gli coprivano le dita come dei parassiti. La pelle intorno alle unghie era tutta rosicchiata, dove si era mangiucchiato le dita. Cominciò a parlare, a bassa voce e senza alzare la testa. «In strada. Trovata per strada. Tre ricci, due corvi, un gabbiano, un gatto a pelo corto, due gatti a pelo lungo, bianchi e neri, una bambina, nove conigli, un cerbiatto maschio...». Gli vennero le lacrime agli occhi e la voce gli s'indurì. «Le mie bellissime cose morte...». Una lacrima gli cadde sulla guancia e gli finì nella barba. Insch incrociò le braccia e si riappoggiò allo schienale della sedia. «E allora hai portato la bambina morta alla tua "collezione"». «Sempre a casa. Porto sempre a casa». Tirò su col naso. «Sono cose che non si possono buttar via come immondizia. Non le cose morte. Non le cose che erano vive, che avevano la vita dentro di loro». E con quelle parole Logan fu costretto a pensare a una gamba che protrudeva da un sacco d'immondizia alla discarica comunale. «Hai visto altro quando la hai presa su, Bernard? Un'auto, un furgone, un camion... qualcosa?». Roadkill scosse la testa. «No. Solo la bambina morta, al margine della strada. Tutta rotta e sanguinante e ancora calda». Logan rabbrividì. «Era viva, Bernard? Era ancora viva quando l'hai trovata?». Roadkill appoggiò il corpo al tavolo, posandosi la testa sulle braccia. «A volte le cose vengono investite e non muoiono subito. A volte aspettano
che venga io e le guardi morire». «Oh Cristo». Riportarono Roadkill in cella e si ritrovarono nella saletta: Insch, Logan e Turner. «Si rende conto che dovrà lasciarlo andare?» «Col cazzo che lo lascio andare!». L'ex insegnante sospirò e si risistemò sulla sedia. «Le uniche accuse che potete contestargli sono: omissione di denuncia d'incidente stradale e occultamento illecita di cadavere». Si passò una mano sul viso. «E sappiamo tutti che il pubblico ministero non vorrà farne un caso da portare a processo. Un referto psichiatrico e il tutto si blocca. Non ha fatto niente di male. Almeno non secondo i suoi parametri. La bambina era solo un altro cadavere trovato sulla strada. E lui stava facendo il suo lavoro». Logan dovette sforzarsi per non annuire; all'ispettore il gesto non sarebbe piaciuto. Insch digrignò i denti e guardò fisso l'ex insegnante che si strinse nelle spalle. «Mi dispiace, ma è innocente. E se lei non lo rilascia, io vado a parlare ai mass media. Ce n'è ancora un bel po' là fuori e la storia andrà in onda con i primi telegiornali di domattina». Insch non voleva cedere. «Non possiamo lasciarlo andare. Se lo rilasciamo qualche malintenzionato lo farà a pezzi». «Allora ammette che non ha motivo per trattenerlo in detenzione?». C'era qualcosa di decisamente paternalistico nel modo in cui Turner pronunciò la frase, come se fosse tornato a insegnare e Insch fosse stato sorpreso a nascondersi dietro la tettoia delle biciclette. L'ispettore fece una smorfia. «Ascolti, bellezza. Qui le domande le faccio io, non lei». Si cercò in tasca una caramella ma non ne trovò. «Con Cleaver a piede libero i buoni, i bravi e gli stupidi della comunità sono all'erta per qualcuno che sia anche leggermente sospetto. Il suo assistito aveva una bambina morta in casa. Per cui sarà in testa alla loro lista». «E allora dovrete dargli protezione. Parleremo alla stampa. Gli faremo capire che Bernard è innocente. E che voi avete deciso di non contestargli nessun capo d'accusa». Logan intervenne. «Non abbiamo deciso nulla del genere! È ancora accusato di aver nascosto il cadavere!». «Sergente...», adesso Turner trattava lui con condiscendenza, «deve capire come funzionano queste cose. Se cercate di portare queste accuse in corte, finirete col perdere. Il procuratore non gradirà fare un'altra figurac-
cia. Ne ha già fatta una col caso Cleaver. Mr Philips uscirà libero. La domanda da porsi è questa: quanti soldi dei contribuenti siete disposti a sprecare per perdere?». Logan e Insch si trovarono nel centro investigazioni, contemplando l'attività frenetica che si stava svolgendo davanti alla Centrale. Mr Turner era stato di parola; stava parlando a tutte le telecamere, godendosi il suo momento di fama. Dicendo al mondo che Bernard Duncan Philips era stato assolto da ogni accusa, e che il sistema funzionava. L'ex insegnante aveva avuto ragione. Il procuratore non aveva voluto toccare il caso neanche con un bastone. E il questore era stato altrettanto contrario. Quindi Roadkill era stato trasferito a un indirizzo protetto, dalle parti di Summerhill. «Cosa ne pensa?», chiese Logan vedendo un'altra troupe televisiva che si univa al gruppo. Erano quasi le undici, ma continuavano ad arrivare. Insch fece una smorfia ai giornalisti lì sotto. «Sono incastrato, ecco cosa penso. Prima la storia della pantomima, poi Cleaver la fa franca dopo dodici anni di violenza sessuale su bambini e adesso Roadkill è libero. Quanto tempo lo abbiamo tenuto in custodia? Quarantott'ore? Magari anche sessanta. Mi mangeranno vivo...». «Perché non parliamo anche noi ai mass media? Io potrei farmi una chiacchierata con Miller. Chiedergli di presentare il nostro caso». Insch si fece scappare una risatina. «Giornalista provinciale salva la carriera di un ispettore di polizia?». Scosse la testa. «Non la vedo a buon fine...». «Però vale la pena di tentare!». Insch fu costretto ad ammettere che non aveva nulla da perdere. «Dopo tutto», continuò Logan, «abbiamo appena impedito l'esecuzione di un grave errore giudiziario. E questo dovrà avere un certo valore agli occhi del pubblico!». «È vero. Dovrebbe». Le spalle dell'ispettore si abbassarono e la sua voce sembrò triste. «Ma se non è Roadkill e se non è Nicholson, lì fuori c'è ancora un killer che insidia i nostri ragazzini. E non abbiamo la più pallida idea di chi possa essere». CAPITOLO 27 Quando Logan si alzò e andò a mettersi sotto la doccia, la domenica
bussava alle finestre del suo appartamento con le gelide mani di una nevicata. La neve cadeva in piccoli fiocchi gelati, spinta in tutte le direzioni da un vento vorticoso. Faceva freddo, c'era buio e non sarebbe stato il giorno di riposo che gli era stato promesso. Indossò un vestito grigio che rispecchiava il suo umore e se la prese comoda nel tepore dell'appartamento, cercando di rimandare sempre più in là il momento in cui sarebbe dovuto uscire in quel tempo schifoso. E il telefono squillò: l'impareggiabile Colin Miller, per la sua esclusiva. Borbottando, Logan scese le scale del piccolo condominio. Aprì il portone d'ingresso e mezza tonnellata di ghiaccio volante cercò di entrare. I gelidi fiocchi di neve lo attaccarono colpendogli le mani e la faccia scoperte. Una domenica buia come la coscienza di un avvocato. L'elegante auto di Miller lo aspettava al marciapiede, con la luce di cortesia accesa, musica classica udibile dai finestrini chiusi e con Colin che leggeva un giornale aperto sul volante. Logan sbatacchiò il portoncino d'ingresso, fregandosene del resto dei condomini. Perché avrebbe dovuto essere lui l'unico a doversi alzare all'alba in una giornataccia come questa? Slittando e scivolando arrivò al lato passeggero dell'auto e aprì la portiera. «Occhio al sedile! È in pelle!», gli gridò Colin, per farsi sentire al di sopra del volume dello stereo. Lo abbassò leggermente, mentre i fiocchi di neve sul cappotto di Logan si scioglievano al tepore dell'interno dell'auto. «Niente croissant stamattina?», chiese Logan asciugandosi i capelli con un fazzolettino di carta. «Ti sbagli se credi che ti lascerei riempire di briciole la mia bella macchina. Tutt'al più, se questa intervista va bene, ti porto a colazione da McDonald, va bene?». Logan gli disse che piuttosto avrebbe mangiato merda fritta. «E come mai ti puoi permettere una macchina di questo genere? Ho sempre creduto che voi giornalisti viveste in penuria». Miller fece spallucce e si avviò. «Be'... roba lunga. Feci un favore a un tizio tempo addietro. Non pubblicai una storia...». Logan alzò un sopracciglio, ma Miller non continuò. A quest'ora di domenica mattina il traffico non era intenso, ma la neve riduceva a passo d'uomo la velocità di quel poco che c'era. Miller sistemò il suo macchinone dietro un furgone che una volta era stato bianco. Il tetto era coperto da due palmi di neve gelata e le fiancate da tre dita di sporco,
nel quale qualche spiritoso aveva scritto «Se solo mia moglie fosse così sporcacciona!» e «Lavami». Le scritte brillavano nei fari di Miller, mentre si dirigevano verso Summerhill. La casa sorvegliata non era diversa dalle altre nella strada; una semplice casetta unifamiliare con un po' di giardino sul davanti, sepolto sotto una profonda coltre di neve. Al centro c'era un piccolo salice dall'aspetto mesto, carico com'era di neve e ghiaccioli. «Bene», disse Miller, parcheggiando dietro a una Renault tartassata. «Andiamo a farci questa esclusiva». L'atteggiamento di Miller nei confronti di Roadkill era radicalmente cambiato da quando Logan gli aveva parlato dell'incidente stradale. Bernard Duncan Philips non era più uno stronzo da inchiodare al muro per i coglioni. Adesso era diventato una vittima della cultura "usa e getta" della società in cui viviamo, secondo la quale i malati di mente potevano essere rilasciati nella comunità ad arrangiarsi da soli. Bernard Duncan Philips fu svegliato da un agente in borghese che lo accompagnò giù a parlare col giornalista. Miller intervistava bene; aveva dei bei modi, che mettevano il soggetto a suo agio, al tempo stesso facendolo sentire importante. Un piccolo registratore girava silenziosamente su un tavolinetto da caffè che aveva visto tempi migliori. Cominciarono con la sua scintillante carriera scolastica, rovinata dalla malattia di sua madre; parlarono delicatamente di quando era stato colpito da malattia mentale e della morte di sua madre. Tutta roba della quale Logan era già a conoscenza, quindi non fece gran caso a quel che veniva detto e si limitò a bere tè e a contare le rose sulla carta da parati. E poi i fiocchi. E poi le strisce. Fu solo quando Miller cominciò a parlare di Lorna Henderson che Logan cominciò ad ascoltare. Ma, per quanto fosse bravo e capace, Miller non riusciva a tirar fuori da Roadkill più di quanto lui avesse già detto all'ispettore Insch. E Roadkill cominciava ad agitarsi. Non era giusto. Erano le sue cose morte. E gliele stavano portando via. «Su, su, Bernard», disse l'agente con fare materno e versando altro tè nei tazzoni dei presenti. «Non è il caso di arrabbiarsi, ti pare?» «Le mie cose. Mi stanno rubando le mie cose!». Si alzò in piedi di scatto, facendo cadere un piatto di biscotti ricoperti di cioccolata: guardò Logan con occhi sbarrati. «Tu sei un poliziotto! Stanno rubando le mie cose!». Logan cercò di non sospirare dall'esasperazione. «Devono portarle via, Bernard. Ti ricordi che siamo venuti con quel signore del comune? Perché
fanno ammalare la gente. Come la tua mamma, ricordi?». Roadkill digrignò i denti e chiuse gli occhi strizzandoli. Si puntò i pugni alle tempie. «Voglio andare a casa! Sono le mie cose!». L'agente posò la teiera sul tavolino e gli parlò con voce suadente per calmarlo, come se il povero Roadkill fosse un bambino con un ginocchio sbucciato. «Su, Bernard, sta bravo, non ti agitare...», al tempo stesso carezzandogli un braccio. La voce della donna cominciava ad avere l'effetto desiderato. «Va tutto bene. Tutto si metterà a posto. Tu starai bene qui con noi. Ti proteggeremo, faremo in modo che non ti succeda niente». Lentamente, con incertezza, Bernard Duncan Philips andò a sedersi sull'orlo del divano, sbriciolando uno dei biscotti con la scarpa sinistra. Ma l'intervista continuò male. Nonostante la bravura di Colin Miller e la cura con la quale formulava le domande, Roadkill era sempre più agitato. E continuava a dire e ripetere la stessa parole: voleva andare a casa, gli stavano rubando le sue cose. La spiaggia di Aberdeen era gelida e desolata. Il mare del nord infuriava, grigio e cupo, tra le folate di neve. Onde dal colore del granito, che s'infrangevano nel cemento del lungomare, con il loro fragore punteggiavano l'ululare della bufera, mandando spruzzi d'acqua sei, sette metri nell'aria, dove il vento la sbatteva contro le vetrine dei negozi della passeggiata. Stamattina la maggior parte dei negozi non aveva aperto. Non si prevedeva un grande afflusso di gente per i negozi turistici, sale giochi e gelaterie. Ma Miller e Logan stavano bene: al caldo, seduti a un tavolo dell'Inversnecky Café, divorando sandwich di bacon affumicato e bevendo caffè forte. «Mattinata sprecata», commentò Miller tirando fuori dal suo sandwich una gommosa striscia di grasso del bacon. «Dovresti essere tu a pagarmi la colazione, invece del contrario». «Quell'intervista ti avrà detto qualcosa!», ribatté Logan. «Più che detto, mi ha confermato qualcosa. Che Roadkill è totalmente sballato. Fuso. Me lo ha detto forte e chiaro, ma si sapeva già, no?» «Appunto. Non ti sto chiedendo granché», disse Logan. «Solo qualcosa che faccia sapere a tutti che non è stato lui a uccidere la bambina e che quindi abbiamo dovuto lasciarlo andare». Miller diede un gran morso al suo sandwich e masticò pensoso. «I tuoi capi devono essere in preda al panico se ti mandano a chiedermi un lavoro di cosmetica».
Logan aprì e chiuse la bocca. Ma Miller gli sorrise e gli fece l'occhiolino. «Logan, non ti preoccupare. È qualcosa che posso fare. Gli darò il tocco magico di Colin "Mida" Miller. Pubblicheremo una foto delle radiografie in prima pagina. Farò fare ai ragazzi della grafica una serie di disegni della dinamica dell'incidente sullo stile "Bambina investita da Volvo" e tutto si sistema. Però sarà roba che uscirà domani. Hai visto il telegiornale stamattina? Hanno fatto una strage! Il tuo pantomimante ispettore Insch sarà stato destituito prima che i giornali raggiungano le edicole. Ha lasciato libero Roadkill. Due volte». «Roadkill non ha ucciso quella bambina». «Laz, questo non conta. Il pubblico vede tutti questi reati; bambino nel fossato, bambina nell'immondizia, bambini che spariscono a sinistra e a destra, Cleaver che è rimesso in libertà, anche se io e te sappiamo che è colpevole. E adesso anche Roadkill». Diede un altro morso al suo sandwich. «E per loro è colpevole». «Ma non è stato lui!». «Ora come ora la verità conta ben poco. Lo sai anche tu». Suo malgrado Logan fu costretto ad ammettere che era proprio così. Continuarono a mangiare in silenzio. «Come va l'altra tua storia?», chiese Logan dopo qualche minuto. «Quale storia?» «Ieri mi hai detto che non toccavi la storia di Geordie Senzarotule perché avevi qualcosa di meno pericoloso in pentola». Colin mandò giù un sorso di caffè. «Ah, sì. Quella». Guardò la neve che cadeva e le onde che s'infrangevano sul lungomare. «Non molto bene», rispose. Ricadde nel suo silenzio. Logan lasciò che la pausa continuasse per un po', aspettando che i particolari seguissero spontaneamente. Quando vide che il silenzio di Miller non accennava a interrompersi, chiese: «E allora? Di cosa si trattava?» «Hmm?». Miller fu richiamato dai pensieri che stava seguendo e si guardò intorno. «Ah, già. C'è questa voce in giro. Sembra che ci sia qualcuno sulla piazza disposto a comprare qualcosa di speciale. Roba che non molti vendono». «Droga?». Il giornalista scosse la testa. «No. Merce viva». «Come sarebbe a dire? Bestiame? Maiali, mucche, galline?» «Non quel tipo di merce viva». Logan si appoggiò allo schienale della sedia e osservò il giornalista. Il
viso di Colin, solitamente un libro aperto, era serio e preoccupato. «E che genere di merce viva vorrebbe acquistare questo fantomatico compratore?». Colin fece spallucce. «Difficile venire a saperlo. Nessuno lo dice. O forse nessuno lo sa. E quel poco che si sente in giro non ha molto senso. Forse una donna, un uomo, bambino, bambina...». «Ma non si possono comprare persone!». Miller diede a Logan un'occhiata che era un misto di disprezzo e di compassione. «Ma da dove vieni? Ma dove vivi? Certo che puoi comprare persone! Vatti a fare un giretto nelle strade giuste di Edimburgo e potrai comprare tutto ciò che ti serve. Armi, droga... e donne se vuoi». Si chinò in avanti e bisbigliò all'orecchio di Logan: «Ti avevo detto o no che Malk la Scure importa donne dalla Lituania? Cosa credi che ne faccia?». «Ma... io pensavo che le mettesse in strada...». «Anche. Ma più che altro le vende. Per quelle leggermente sciupate ti fa uno sconto». L'incredulità dimostrata da Logan gli fece emettere un sospiro di esasperazione. «Ascolta; nella maggior parte dei casi i compratori sono i magnaccia. Una delle tue baldracche muore per overdose, quindi tu vai al Cash and Carry di Malkie e ne compri un'altra. Una puttana lituana, come nuova, in offerta speciale». «Cristo!». «La maggior parte di queste povere diavole non parla neanche l'inglese. Vengono comprate, assuefatte alla "vita", sfruttate al massimo e quando non piacciono più ai clienti abbandonate a se stesse». Tacquero entrambi. Gli unici suoni udibili erano il sibilo del vapore dalla macchina del caffè e, attutiti dai doppi vetri termici, i rumori della bufera che imperversava fuori. Logan non sarebbe tornato in ufficio. Almeno così aveva deciso, quando Miller lo lasciò al Castlegate. Sarebbe passato da Oddbins per un paio di bottiglie di vino, qualche lattina di birra e avrebbe passato il resto della domenica nel caldo dell'appartamento. Un libro, del vino e qualcosa da asporto per cena. E invece si trovò nell'ingresso della Centrale, con la neve sciolta che gli colava di dosso sul linoleum. Come al solito c'erano tanti messaggi dal patrigno di Peter Lumley. Lo-
gan si sforzò di non pensarci. Era domenica e non doveva neanche trovarsi lì. E non se la sentiva di affrontare un'altra di quelle angosciose telefonate. Quindi andò a sedersi alla sua scrivania, guardando la foto di Geordie Stephenson sulla parete dirimpetto, cercando di leggere qualcosa in quegli occhi morti. La storia che Miller gli aveva raccontato sulle donne vendute e comprate lo aveva fatto pensare. Qualcuno ad Aberdeen voleva comprare una donna, ed ecco qui Geordie, l'agente di uno dei maggiori importatori di carne umana viva nel paese, su ad Aberdeen per affari. Magari non lo stesso genere di affari - edilizia, invece di prostituzione - ciò nonostante... «Hai veramente fatto un pasticcio, eh Geordie?», disse alla foto dell'obitorio. «Sei venuto su da Edimburgo per fare un lavoretto e sei finito a faccia in giù nella baia con le ginocchia tolte a colpi di machete. Non sei neanche riuscito a corrompere un funzionario dell'ufficio licenze edilizie. E chissà se hai detto al tuo boss che qui c'era qualcuno disposto a comprarsi una donna. In contanti. Senza fare domande». Il referto dell'autopsia di Geordie era ancora sulla sua scrivania. Con tutto quello che era successo ultimamente non aveva neanche avuto il tempo di aprirlo. Prese la cartelletta e stava cominciando a leggere i vari documenti che conteneva quando il suo cellulare squillò. «McRae», rispose. «Sergente?». Era l'ispettore Insch. «Da dove mi parli?» «Dalla Centrale». «Logan, ma non hai casa? Non ti avevo detto di goderti la domenica? Di portare fuori qualche bella poliziotta e farla divertire?». Logan sorrise. «Sì, signore. Mi dispiace, signore». «Comunque sia, adesso è troppo tardi». «Signore?» «Muovi le chiappe e portati su a Seaton Park. Mi hanno appena informato che Peter Lumley è stato trovato». Il cuore gli sprofondò nelle budella. «Capisco». «Io sarò lì tra... Dio, c'è una bufera qua fuori. Diciamo mezz'ora. Anzi facciamo quaranta minuti. Mantieni un basso profilo: niente luci blu, niente sirene, capito?» «Sì, signore». D'estate Seaton Park era un bel posto: ampi prati, alberi vetusti, il padiglione della banda. La gente faceva picnic sull'erba, tirava calci al pallone,
faceva l'amore sotto le siepi. Dopo il tramonto c'erano degli scippi. Era vicinissimo alla residenza degli studenti dell'università di Aberdeen, quindi c'era sempre una continua presenza di nuovi arrivi con soldi in tasca e ignari del pericolo. Oggi sembrava una scena dal Dottor Zivago. La bufera non dava alcun segno di voler smettere e la neve continuava a cadere, coprendo tutto e tutti. Logan stava attraversando un prato del parco, seguito da un agente imbacuccato come un eschimese, che lo usava come paravento. La loro meta era il piccolo edificio dei gabinetti pubblici che erano chiusi durante l'inverno; chiunque fosse stato preso da un'improvvisa necessità biologica avrebbe dovuto arrangiarsi dietro una siepe. Arrivati allo stabile si recarono sul retro, al riparo dal vento tagliente, dove c'era l'ingresso del gabinetto per donne. La porta era socchiusa, il legno scheggiato e rotto dove un catenaccio avrebbe dovuto tenerla chiusa. Invece il grosso catenaccio d'ottone pendeva, chiuso e inefficace, dal gancio. Logan spinse la porta ed entrò nel gabinetto donne. Sembrava che facesse più freddo dentro che fuori. C'erano due agenti in divisa che tenevano d'occhio tre bambini ben imbacuccati, tra i sei e i dieci anni, che sembravano annoiati ed eccitati alternativamente. Uno degli agenti fece un gesto con la mano. «La terza porta», disse. Logan annuì e andò a dare un'occhiata. Peter Lumley non era più vivo. Logan lo capì appena aprì la porta, pitturata in nero. Il bambino giaceva per terra, rannicchiato vicino alla tazza del water, come se la stesse coccolando. Nella fredda luce i capelli rossi erano smorti e il loro colore era più tenue, le lentiggini quasi indistinguibili contro la cerea pelle. La maglietta del bambino era tirata su e gli copriva la faccia e le braccia, lasciando scoperta la pelle della schiena e dello stomaco esposta. Non indossava altro. «Povero figliolo...». Logan aggrottò la fronte, guardando il corpo del bambino senza avvicinarsi per non contaminare la scena. Peter Lumley non era come il bambino che avevano trovato nel fossato. Peter Lumley era ancora anatomicamente intatto. Il gabinetto cominciava a essere affollato. Insch era arrivato imprecando e rosso in viso poco dopo il dottore di servizio e l'Identification Bureau. I
tecnici dell'IB erano arrivati in borghese, come da istruzioni, e avevano lasciato il loro furgone bianco con tutte le attrezzature nel parcheggio di fianco alla cattedrale di San Macario, dove non avrebbe dato nell'occhio. Mentre Insch batteva i piedi per scuotersi la neve dagli stivali, quelli dell'IB cominciarono a infilarsi le solite tute bianche, rabbrividendo nell'aria gelida e lamentandosi del freddo. «Allora?», chiese Insch al dottore, che si stava togliendo la tuta e cercava di lavarsi le mani in uno dei lavandini. «Il povero ragazzo è morto. Non so da quanto. È praticamente ghiaccio solido. Un clima come questo intensifica la rigidità del rigor mortis». «Causa della morte?». Il dottore si asciugò le mani sul vello all'interno del suo giaccone. «Dovrà farselo confermare dalla regina del ghiaccio, ma a me sembra sia stato strangolato con un legaccio». «Come l'altra volta». Insch sospirò e abbassò la voce per non farsi sentire dai tre bambini. «Segni di violenza sessuale?». Il dottore annuì e Insch sospirò di nuovo. «Bene». Il dottore s'imbacuccò, tirò su baveri, cerniere, cappucci e quant'altro c'era sul suo giaccone multistrato. «Se non avete più bisogno di me io mi tolgo dai piedi e vado da qualche parte dove non fa così freddo. Come la Siberia». Essendo stata dichiarata la morte, i tecnici dell'IB cominciarono a raccogliere tutto ciò che potesse essere usato come prove e a spargere la polverina per le impronte digitali. Il fotografo fotografava e l'operatore video registrava. Ma il cadavere fu lasciato dov'era stato trovato. Nessuno voleva incorrere nell'ira del patologo; da quando Logan era tornato in servizio, Isobel si era fatta una reputazione. «Una settimana oggi, vero?», gli chiese Insch, mentre lui e Logan guardavano i tecnici dell'IB intenti nel loro lavoro. Logan ammise che lo era. Insch tirò fuori il solito pacchetto di caramelle e le offrì in giro. «E che gran settimana che è stata», continuò masticando. «Sergente, perché non ti prendi un paio di settimane di ferie? Tanto per far tornare le statistiche ai livelli di norma?» «Spiritoso...», rispose Logan. Si mise le mani in tasca e cercò di non pensare alla reazione del patrigno di Peter Lumley quando lo avrebbero informato della morte del bambino. Insch diede un'occhiata ai tre bambini nell'angolo. Nell'affollato gabinetto per donne stavano lentamente diventando blu. Con un cenno della testa
nella loro direzione, chiese a Logan. «E quelli là?». Logan fece spallucce. «Dicono che stavano facendo pupazzi di neve. Uno di loro voleva fare la pipì, così sono entrati qui dentro e hanno trovato il cadavere». Li guardò meglio: due bambine, di otto e dieci anni e un maschietto di sei. Fratello e sorelle. Avevano tutti lo stesso nasino all'insù e gli stessi occhi bruni. «Poveri bambini», disse Insch. «Le palle di mia nonna, poveri bambini!», rispose Logan. «Come crede che siano entrati qui? Hanno fatto saltare il gancio del catenaccio con un cacciavite. Un'autopattuglia che stava attraversando il parco li ha colti in flagrante...». Indicò i due agenti. «Se questi due non li avessero presi in tempo sarebbero scappati». Insch rifletté su quanto Logan aveva appena detto. «Un'autopattuglia? Di passaggio in Seaton Park? Con questo tempo?». Guardò i due agenti, aggrottando la fronte. «Non ti pare strano?» Logan fece ancora spallucce. «Così dicono». «Hmmm...». Sotto lo sguardo scrutatore di Insch, gli agenti erano palesemente a disagio. Dopo una breve pausa, l'ispettore chiese a Logan: «Credi che qualcuno abbia visto l'assassino abbandonare qui il corpo?» «No; non lo credo proprio». Insch annuì. «Neanche io». «Perché il corpo non è stato abbandonato: è stato semplicemente depositato, immagazzinato», continuò Logan. «Per entrare i bambini hanno dovuto perpetrare uno scasso. La porta era chiusa con tanto di catenaccio e il cadavere dentro. Il che vuol dire che il catenaccio è stato messo dall'assassino. Perché era convinto che il cadavere sarebbe stato al sicuro. Pronto per il suo ritorno, quando ne avesse avuto voglia. Non ha ancora rivendicato questo suo trofeo». Un sorriso mefistofelico increspò le labbra dell'ispettore Insch. «E questo significa che tornerà! E che avremo la possibilità di acciuffarlo!». E in quel momento arrivò il dottor Isobel MacAlister. Entrò nel gabinetto in un pessimo umore, avvolta in un pesante cappotto in maglia, sbattendo i piedi per terra e scuotendo la neve. Si fermò sulla porta e diede un'occhiata in giro; la faccia le si allungò ancora di più quando vide Logan. Era chiaro che Logan non le era gradito; non solo le aveva rovinato la serata a teatro la sera prima, ma aveva anche dimostrato che lei si era sbagliata nel
dichiarare la bambina morta in seguito a percosse. E Isobel non sbagliava mai. «Ispettore», disse isolando completamente l'uomo col quale nel passato era solita andare a letto. «Vogliamo fare una cosa alla svelta?». L'ispettore indicò la porta dietro la quale si trovava il cadavere e Isobel andò a esaminarlo, con i suoi stivaloni che facevano flip-flap mentre camminava. «Mi sbaglio», mormorò Insch, «o adesso qui dentro c'è più freddo?». Quella sera andarono a portare la penosa notizia ai genitori di Peter Lumley. Mr e Mrs Lumley non dissero una parola.. Come videro entrare Logan e l'ispettore, capirono subito. Rimasero seduti in silenzio sul divano, tenendosi per mano, mentre Insch pronunciava le tristi parole. Senza aprir bocca Mr Lumley si alzò, prese la giacca dall'attaccapanni e uscì. La moglie lo guardò uscire; appena sentì la porta che si chiudeva alle sue spalle scoppiò in lacrime. L'agente del servizio assistenza famiglie si precipitò ad abbracciarla e a offrirle una spalla sulla quale piangere. L'ispettore Insch e Logan se ne andarono alla chetichella. CAPITOLO 28 Il piano era molto semplice. Chiunque andasse o venisse dalla scena del crimine, lo avrebbe fatto senza dar nell'occhio. Il catenaccio era stato riattaccato alla porta e solo un numero ristretto di persone si sarebbe recato al gabinetto. Il cadavere sarebbe stato rimosso in segreto e un paio di agenti sarebbero rimasti di guardia. Ma lo avrebbero fatto dal tepore e dal sicuro di un'autopattuglia parcheggiata fuori mano, e con libera visuale dell'ingresso ai gabinetti donne. La nevicata aveva coperto tutte le impronte lasciate dalla visita della polizia, livellando il tutto in un candido manto e non c'era alcun segno che indicasse che qualcuno era stato lì. I tre bambini che avevano scoperto il cadavere non sarebbero stati denunciati per scasso e vandalismo; solo una strigliata verbale, purché stessero zitti e non dicessero a nessuno della macabra scoperta. Nessuno doveva sapere che il cadavere di Peter Lumley era stato trovato. L'assassino sarebbe tornato con le sue forbici per prendersi il suo souvenir e gli agenti lo avrebbero arrestato. Perfetto, no? L'articolo cosmetico di Miller sulla tragica vita di Bernard Duncan Philips, alias Roadkill, figurava a pagina quattro, assieme a un pezzo sui trat-
tori moderni e una vendita di beneficenza. E nonostante fosse sepolto all'interno del giornale, era un buon articolo. Miller aveva trasformato Roadkill in un personaggio per il quale bisognava provare compassione e i cui problemi mentali erano stati causati dalla morte della madre. Un uomo intelligente, abbandonato dalla società e che cercava disperatamente di capire la confusione del mondo che lo circondava. Era di grande aiuto nello spiegare al pubblico che la Grampian Police lo aveva rilasciato sapendo quel che faceva. E se quello fosse stato l'unico articolo che Miller aveva scritto per il «Press and Journal» quella mattina, tutti in Centrale sarebbero stati felicissimi. Il secondo articolo di Miller era in prima pagina, a tutta pagina, con una testata a caratteri cubitali: L'assassino dei bambini colpisce ancora! E più sotto: Cadavere di bambino trovato in gabinetto pubblico. «Come diavolo lo ha saputo?», tuonò l'ispettore Insch, picchiando un pugno sul tavolo e facendo sussultare tutti i presenti nel centro investigazioni. Il piano per cogliere in flagrante l'assassino quando sarebbe tornato per il suo trofeo era andato a gambe all'aria. La scoperta del cadavere era descritta nei minimi particolari sulla prima pagina del «Press and Journal». «Questa era la miglior opportunità che abbiamo mai avuto di acciuffare questo stronzo prima che uccida un altro bambino!». Insch era su tutte le furie; afferrò il giornale e mostrò la testata ai presenti. «Lo avremmo preso! Adesso qualche altro bambino farà la stessa brutta fine solo perché qualche stupido bastardo non è stato capace di tenere la bocca chiusa!». Con disgusto lanciò il giornale verso i presenti; fece un volo a spirale nell'aria, esplodendo in una miriade di pagine quando colpì il muro in fondo alla sala. Alle spalle dell'ispettore Insch c'era l'ispettore Napier, in divisa, con un'espressione sul volto che lo faceva sembrare il Macabro Mietitore, coi capelli rossi. Non diceva niente; si limitava a guardare accigliato tutti i presenti, mentre l'ispettore Insch si scatenava. «Vi dico cosa farò», disse Insch tirando fuori il portafoglio. Lo aprì e ne estrasse una manciata di banconote. «La prima persona che viene da me con un nome, prende questi soldi». Mise le banconote sulla scrivania. Ci fu un attimo di silenzio. Logan tirò fuori il suo portafoglio e aggiunse le sue banconote a quelle dell'ispettore Insch. E questo scatenò una reazione a catena. Si avvicinarono tutti; agenti del
CID, in divisa, uomini e donne; e tutti aggiunsero le loro banconote. Alla fine, sulla scrivania c'era un bel gruzzolo. Non era una gran somma, come una taglia, ma era stata offerta di cuore. «Molto bello», disse Insch con un sorriso asciutto. «Ma non sappiamo ancora chi è il chiacchierone». Li guardò mentre tornavano ai loro posti; si vedeva che era orgoglioso di loro. L'espressione dell'ispettore Napier era invece più maligna: scrutava tutti i presenti cercando di scoprire un'espressione di colpevolezza. E guardava Logan un po' troppo spesso. «Bene», disse Insch. «Delle due l'una: o qui dentro c'è un bastardo di un bugiardo che crede di farla franca semplicemente mettendo soldi nel piatto, o la talpa di Miller lavora per qualcun altro. Spero che sia la seconda opzione». Il sorriso gli svanì dal volto. «Perché se la talpa fa parte di questa squadra, lo metterò in croce con queste mani». Si appoggiò all'orlo della scrivania. «Sergente McRae, passi le consegne». Logan lesse la lista di nomi, mandando squadre a fare una ricerca nel parco. Altre squadre in una ricerca porta a porta nelle vicinanze del parco, a chiedere se avessero visto qualcuno mentre cercava di nascondere il cadavere. E il resto a far seguito alle numerose telefonate che arrivavano costantemente alla Centrale da parte di cittadini preoccupati. I telefoni avevano cominciato a squillare appena si era saputo che Roadkill era stato rilasciato. Improvvisamente tutti ricordavano di aver visto il suo carrettino nelle vicinanze dei luoghi dove erano scomparsi i bambini. La riunione giunse al termine e tutti uscirono, per recarsi al compito assegnato, con facce desolate come il clima che imperversava fuori. Uscendo diedero un'occhiata ai soldi sulla scrivania. In sala rimasero solo Insch, Napier e Logan. Insch prese i soldi dal tavolo e li mise in una busta. Con un pennarello ci scrisse sopra «Taglia». «Qualche sospetto?». Logan si strinse nelle spalle. «Forse qualcuno dell'IB? Hanno avuto accesso a tutti i cadaveri». Napier sollevò un sopracciglio. «Sergente, il fatto che tutti i membri della sua squadra si siano messi la mano in tasca non li scagiona dai sospetti. La talpa potrebbe essere ognuno di loro». Pronunciò le ultime parole guardando direttamente Logan. «Ognuno di loro». Insch ci pensò su un attimo, con un'espressione cupa e distante sul volto. «Avremmo potuto prenderlo», disse poi sigillando la busta. «Avremmo te-
nuto il cesso sotto sorveglianza e lui sarebbe tornato». Logan annuì. Avrebbero potuto prenderlo. Ma Napier continuava a guardarlo. «Comunque», disse Insch mettendosi la busta in una tasca interna della giacca. «Lei ci scuserà, ispettore, ma alle 9,00 c'è l'autopsia e non vogliamo arrivare tardi. L'ex amica del cuore del sergente McRae si farebbe delle giarrettiere con le nostre budella». Giù nel seminterrato Logan e l'ispettore trovarono Isobel MacAlister con un gruppetto di spettatori. L'amico del cuore del momento, il capellone Brian, che correva tutt'intorno nel suo consueto effeminato e deficiente modo di fare. Tre studenti di medicina, blocknotes alla mano, pendevano dalle labbra di Isobel per imparare come macellare il cadavere di un bambino di quattro anni. Isobel salutò con un breve «Salve» l'ispettore. Logan fu totalmente ignorato. Il corpo nudo di Peter Lumley giaceva al centro del tavolo di dissezione, pallido, cereo e tanto, tanto morto. Gli studenti prendevano appunti, Brian sorrideva a dritta e a manca, e Isobel tagliava, estraeva, esaminava e pesava. Era esattamente la stessa storia di David Reid, ma senza l'avanzata decomposizione e senza la mutilazione genitale. Strangolato con qualche forma di cordame, probabilmente in una guaina di plastica. Qualcosa di rigido inserito nel corpo dopo la morte. Un altro bambino all'obitorio. Dopo l'autopsia Logan tornò nel suo ufficio nauseato e depresso. Non c'era nessuno. Solo la faccia di Geordie Stephenson che lo fissava dal muro. Due casi da risolvere. E nessun progresso in entrambi. Sulla scrivania c'era una spessa busta dalla scientifica nel suo cestino "In arrivo". Era indirizzata «Al sergente Lazzaro McRae». «Manica di stronzi». Sprofondò in una sedia e aprì la busta. Conteneva il referto della scientifica nel quale tutte le parole facilmente comprensibili erano sostituite da mezza tonnellata di gergo indecifrabile. E una protesi dentale, in resina color crema. Logan tirò fuori la dentiera dalla busta e la osservò attentamente. Qualcuno alla scientifica aveva fatto uno sbaglio. Aveva chiesto un'impronta dei denti che avevano inflitto il morso trovato sul corpo di Geordie, sperando che combaciasse con i denti di Colin McLeod. Ma la protesi che gli aveva mandato la scientifica avrebbe combaciato con i denti di Colin
McLeod solo se lui fosse stato un lupo mannaro. Con qualche dente in meno... Con una crescente sensazione di timore Logan prese il referto dell'autopsia di Geordie, che non era ancora riuscito a leggere e gli diede una rapida scorsa. Il paragrafo sui segni del morso era chiaro e preciso. Chiuse gli occhi e imprecò. Cinque minuti più tardi usciva di corsa dalla Centrale, tirandosi dietro una perplessa agente Watson. Il Turf and Track non era cambiato per niente dalla loro ultima visita: malmesso e poco accogliente. I fiocchi di neve non gli avevano di certo dato un aspetto natalizio; anzi, il piccolo agglomerato di negozi sembrava più tetro che mai. L'agente Watson fermò l'auto nel parcheggio di fronte e rimasero in macchina osservando il vento che faceva vorticare la neve, aspettando che l'autopattuglia Quebec Tre Uno fosse in posizione sul retro della sala corse. Non era la loro zona di pattugliamento, ma erano liberi. Qualcuno bussò sul finestrino e Logan fece un salto nel sedile. C'era un uomo, dall'aspetto nervoso, con sull'avambraccio una protezione in cuoio ben imbottita. Logan abbassò il finestrino. «Allora... questo pastore tedesco... è grosso?». Dalla faccia si capiva che sperava che non lo fosse. Logan tirò fuori dalla tasca la dentiera e la mostrò all'addestratore dell'unità cinofila, che non ne rimase per niente contento. «Vedo... grosso, con tanti denti». Sospirò. «Roba pericolosa». Logan si ricordò dei peli grigi sul muso del cane. «Magra consolazione, ma se la fa sentire meglio, il cane è piuttosto vecchio». «Ahh...», disse l'addestratore, sempre più depresso. «Grosso, con tanti denti e in più... esperto». Aveva con sé una lunga asta con un cappio in plastica a un'estremità e se la picchiò leggermente in testa un paio di volte, mandando leggeri spruzzi d'acqua attraverso il finestrino aperto. Dalla radio dell'auto venne la conferma: Quebec Tre Uno era in posizione e pronta. Era ora di muoversi. Logan uscì dall'auto. L'agente Watson arrivò per prima al Turf and Track, appiattendosi al muro di fianco alla porta, manganello pronto, proprio come nei film. Mani in tasca, leggermente chinato in avanti per resistere al vento gelido che gli arrossiva le orecchie, Logan la seguì, e dietro di lui, borbottando e scivolando, i due addestratori.
Quando arrivarono alla porta della sala corse, gli addestratori imitarono l'agente Watson, appiattendosi contro il muro, stringendo le loro lunghe aste da accalappiacani. Logan li guardò e scosse la testa. «Gente, questo non è un episodio di Starsky and Hutch!», disse, aprendo con calma la porta e facendone uscire una cacofonia di suoni. La puzza di cane bagnato e sigarette fatte a mano con trinciato forte lo colpì appena varcò la soglia. Gli ci vollero un paio di secondi perché gli occhi si abituassero alla penombra. Un paio di televisori, uno in ogni angolo della sala sopra il lungo bancone mostravano la stessa corsa di cani, col volume altissimo. Quattro uomini sedevano sull'orlo dei sedili di plastica, guardando gli schermi e urlando incitazioni, come se i cani sui quali avevano scommesso potessero sentirli. «Dai, brutto stronzo addormentato! Corri!». Desperate Doug non c'era. Ma il suo pastore tedesco era sdraiato per terra, vicino a una stufetta elettrica a tre sbarre, la lingua fuori dalla bocca e col pelo che gli si asciugava al calore, emettendo vapore acqueo. Un colpo di vento entrò dalla porta che Logan non aveva chiuso, portando con sé fiocchi di neve e scuotendo i poster sulle pareti. Senza neanche girare la testa un omone vestito come un barbone nel suo giorno di festa gridò: «Chiudi la fottutissima porta!». Il vento agitò il lungo pelo del cane addormentato e le sue zampe si agitarono leggermente, come se stesse sognando di inseguire qualcosa. Qualcosa di saporito: un coniglio, o un poliziotto. Watson e i due agenti con le aste seguirono Logan all'interno chiudendosi dietro la porta. Guardarono l'addormentato pastore tedesco come se fosse una bomba inesplosa. Leccandosi le labbra nervosamente uno dei due addestratori abbassò il cappio della sua asta all'altezza del mucchio di pelo e si mosse lentamente in avanti. Se fossero riusciti ad accalappiarlo mentre dormiva, probabilmente non avrebbe morso nessuno. Con l'attenzione di tutti i presenti centrata sulla corsa si avvicinò sempre più, fino a quando il cappio era a una decina di centimetri dal muso del cane. Sul televisore un levriero col camiciotto giallo attraversò il traguardo, qualche centimetro avanti a un altro col camiciotto blu. Due degli scommettitori fecero un balzo di gioia e colpirono l'aria col pugno. Gli altri due imprecarono e strapparono gli scontrini della loro puntata. Le orecchie del cane si agitarono all'improvviso rumore e alzò la testa.
Per un secondo guardò l'uomo con l'asta e il cappio. L'uomo emise un grido e si lanciò in avanti. Ma non fu abbastanza veloce. Il cane balzò in piedi e cominciò ad abbaiare furiosamente, mentre l'estremità dell'asta colpiva la stufetta elettrica, rompendo una delle tre sbarre. Tutti i presenti si girarono a guardare il cane. E notarono i quattro poliziotti. «Cosa diavolo...». Adesso i quattro erano tutti in piedi. Mani a pugno e tatuaggi in mostra. Mostravano i denti, proprio come il cane di Desperate Doug. Si sentì un rumore all'altra estremità della stanza e la porta che dava all'ufficio sul retro si spalancò. Simon McLeod apparve sulla soglia, apparentemente infastidito dall'improvviso frastuono. L'espressione infastidita si tramutò rapidamente in rabbia. «Non vogliamo grane», gridò Logan, alzando la voce per farsi sentire al di sopra dell'abbaiare del cane. «Vogliamo solo parlare con Dougie MacDuff». Simon allungò una mano e spense la luce. La stanza divenne improvvisamente buia, la sola luce dei televisori a delineare le sagome dei presenti. Il primo a emettere un urlo di dolore fu uno dei due addestratori cinofili. Ci fu un rumore improvviso, un grugnito e il suono di qualcuno che crollava a terra. Un pugno volò rasente la testa di Logan; riuscì a evitarlo abbassandosi, e rispondendo con un altro pugno. Ebbe la breve sensazione di pelle e ossa che si rompevano sotto le nocche del suo pugno, un grido soffocato, qualcosa che gli bagnò la guancia e un altro crollo. Sperò solo di non aver atterrato l'agente Watson! Il cane continuava ad abbaiare furiosamente. Il televisore stava descrivendo la prossima corsa e l'inserimento dei levrieri nelle gabbie di partenza. Un'asta metallica colpì Logan alla schiena; cadde in avanti, inciampando in un corpo supino e finì steso per terra. Per un attimo un piede si posò vicino alla sua testa e poi sparì. Una luce bianca illuminò la scena e Logan girò la testa in tempo per vedere una silhouette stagliata contro la neve cadente e l'illuminazione stradale. La persona fece cadere la borsa di plastica che portava: quattro lattine di birra e una bottiglia di whisky caddero sul linoleum sporco. La poca luce rivelò quello che era successo nella stanza. Uno degli addestratori giaceva a terra, col cane che gli stava mordendo selvaggiamente l'avambraccio coperto dall'imbottitura protettiva. L'agente Watson aveva il
naso sanguinante e teneva un uomo in una presa da lotta libera che lo immobilizzava. L'altro addestratore era tenuto fermo da un altro dei quattro presenti mentre un altro lo prendeva a pugni nello stomaco. E Logan era stravaccato su un uomo con una tuta blu con una vistosa e sanguinante finestra dove una volta c'erano stati degli incisivi. La persona che aveva aperto la porta, ma che era rimasta sulla soglia, si girò e scappò. Desperate Doug! Logan si tirò su imprecando e stava per lanciarsi all'inseguimento del vecchio, quando una mano gli afferrò una caviglia, facendolo cadere sul duro pavimento. Le cicatrici nello stomaco gli fecero vedere le stelle. La stretta sulla caviglia divenne più forte e un'altra mano lo prese per la gamba. Ansimando dal dolore Logan mise la mano sulla bottiglia di whisky. La brandì come una clava e roteò il braccio. Colpì la testa del suo aggressore con un colpo secco; e le mani che lo attanagliavano mollarono la presa. Con uno sforzo si rialzò e barcollò fino all'uscita. Si sentiva come se qualcuno gli avesse iniettato benzina nello stomaco e l'avesse accesa. Col poco fiato che gli restava riuscì a estrarre il cellulare e a chiedere l'intervento immediato di Quebec Tre Uno nella sala corse. Si appoggiò alla ringhiera che separava i negozi dal parcheggio; Desperate Doug aveva tagliato la corda, ma non era più un ventenne e non poteva essere andato molto lontano. A sinistra: solo una strada vuota e auto parcheggiate, che si intravedevano appena nella neve cadente. A destra: una fila di casamenti in cemento e mattoni, altre auto parcheggiate e qualcuno che scompariva in uno dei tetri e anonimi palazzi. Logan prese fiato e si lanciò all'inseguimento della persona che aveva appena visto. Quebec Tre Uno stava entrando ad alta velocità nel parcheggio, con sirene spiegate e luci blu rotanti. Il vento e la neve punsero Logan in viso come aghi di ghiaccio, ma Logan continuò nonostante il dolore. Il marciapiedi era pericoloso: scivoloso per il ghiaccio che vi si era formato, si rischiava di andare a gambe all'aria. Fece il sentiero che portava al palazzo nel quale si era infilato Doug, salì i pochi gradini e si lanciò nel portone. L'ingresso era quieto e freddo. Sulle pareti c'erano macchie dove qualcuno aveva orinato vicino alle porte dei suoi vicini. L'odore di urina, acido e pungente, permeava l'ingresso. Logan si fermò di colpo, col fiatone e gli occhi che gli bruciavano per
l'urina nell'aria. Doug si sarebbe potuto nascondere in uno di questi appartamenti. O magari su per le scale. Diede un'occhiata in giro; Doug non c'era. Ma la porta del retro era accostata. «Inferno boia», imprecò Logan, lanciandosi di nuovo fuori nella neve. Gli edifici, di tre e quattro piani, erano sistemati in modo che tra l'uno e l'altro, posti di fronte, c'era una piccola area verde, con tralicci e corde per stendere il bucato. Che non era molto verde, anche in piena estate. Ma adesso si vedevano impronte fresche nella neve, che andavano all'edificio di fronte. Logan attraversò lo spazio tra i due edifici: entrò in quello dirimpetto, ne attraversò l'ingresso e uscì dal retro. Un'altra strada e un'altra linea di casamenti. Poco lontano si sentì sbattere una porta e Logan attraversò la strada di corsa; entrò nell'altro edificio, attraversò l'ingresso e uscì dall'altra parte. Solo che ora non c'era un altro edificio dirimpetto: c'era solo una staccionata in rete metallica alta due metri che separava l'area verde da una striscia di terra incolta, oltre la quale si intravedeva una zona industriale e un paio di palazzi: Tillydrone. Desperate Doug MacDuff stava scavalcando l'alta sommità della rete metallica. «Fermati!», gridò Logan fermandosi alla staccionata, in tempo per vedere Doug che spariva nella neve cadente. «Ma chi sei, Houdini?», borbottò a se stesso. Cominciò ad arrampicarsi su per la rete metallica. Ne raggiunse la sommità e capì come aveva fatto Desperate Doug a sparire così rapidamente. La staccionata separava il quartiere di Sandilands e la linea ferroviaria che usciva dalla città dirigendosi a nord; nascosto dalla brughiera e dai cespugli c'era un profondo, largo avvallamento artificiale, in fondo al quale correvano le rotaie. Doug si era lasciato scivolare giù per la ripida scarpata. Adesso il vecchio non correva più così rapidamente. Aveva rallentato, riducendo la corsa a un trotterellare traballante, premendosi un braccio sul torace, mentre cercava di avanzare lungo le rotaie. Logan si lasciò cadere dall'altra parte. Cadde pesantemente e non fece in tempo ad alzarsi: la forza di gravità intervenne e lo fece scivolare giù per la scarpata in caduta libera, strisciando nella sterpaglia e tra gli arbusti. Arrivò in fondo all'avvallamento e si fermò tra la ghiaia. Lanciò un urlo di dolore: una mano gli sanguinava copiosamente da un vistoso taglio e la testa gli rintronava dai colpi presi durante la scivolata. Ma più forte di ogni altro era il dolore lancinante che gli era esploso nello stomaco. Era passato
un anno; e Angus Robertson, il mostro di Mastrick lo faceva ancora soffrire. Le alte scarpate della ferrovia davano protezione dal vento: qui la neve non cadeva vorticosamente, ma lentamente, nell'aria calma. Logan rimase sdraiato per terra lamentandosi, incapace di rialzarsi, con la neve che gli si posava addosso. Ma vedeva perfettamente Desperate Doug: lo vide girarsi e darsi un'occhiata alle spalle. Il vecchio notò subito che il poliziotto che lo aveva inseguito giaceva sanguinante vicino alle rotaie. Si fermò e si girò a guardare Logan, ansimando e col respiro che gli si congelava in nuvolette. Dopo alcuni attimi per riprendere fiato, cominciò ad avvicinarsi a Logan lungo la ferrovia. Mise la mano in tasca e ne tirò fuori qualcosa che luccicò. Qualcosa di appuntito. Il sangue di Logan sembrò tramutarsi in acqua gelata. «Oh, Dio mio...». Cercò di girarsi su un fianco per alzarsi prima che Desperate Doug arrivasse da lui: ma il dolore che sentiva nelle budella era lancinante, anche con la morte che gli si avvicinava lentamente. «Non era necessario che tu mi venissi dietro», la voce di Doug veniva fuori in brevi spasimi. «Bastava che tu ti fossi impicciato dei fottutissimi affari tuoi. Adesso mi toccherà insegnarti una lezione, Mr maiale!». Gli mostrò l'oggetto luccicante: era un coltello Stanley per il fai-da-te, con la lama tutta fuori. «Oh, Dio, no...». Stava accadendo un'altra volta! «Sai una cosa? A me piace molto il bacon». La faccia di Doug era rossa e raggrinzita, piena di vasi capillari rotti, il suo occhio morto bianco come la neve, il suo sorriso malefico abbrunito dalla nicotina. «Però, per essere buono, il bacon va tagliato molto sottile, sai?» «Non farlo...». Logan cercò disperatamente di rialzarsi. «Comincerai a piangere, brutto maiale? A frignare come un bambino? Diavolo, potrei chiamarti frignone! Ti farà un male boia!». «Non farlo... ti prego! Non fare quello che hai in mente...». «No?». Doug rise, e la risata si tramutò in un forte attacco di tosse, seguito da sputo scuro e sanguigno. «E cosa», disse quando riuscì a riprendere fiato, «cosa avrei da perdere, eh? Ho un tumore, Mr Maiale. All'ospedale un omino mi ha dato un anno, forse due. E saranno anni di merda. E voi brutti bastardi mi siete alle costole, vero?». Logan strinse i denti e riuscì a spingersi in ginocchio; ma Doug gli mise un piede nella schiena e spinse: Logan crollò col petto a terra urlando dal
dolore. «Voi bastardi mi siete alle costole e mi metterete sotto chiave un'altra volta. Solo che questa volta non ne verrò fuori vivo. Non con questo stronzo di tumore che mi mangia i polmoni e le ossa. Quindi cosa vuoi che mi facciano, se ti faccio a fettine? Io sarò morto prima che il giudice emetta la sentenza! Cosa vuoi che sia un morto in più!». Lamentandosi Logan riuscì a girarsi con la schiena a terra, sentendo la neve che gli cadeva sul viso. Fallo parlare. Continua a farlo parlare e spera che arrivi qualcuno. Uno di quelli di Quebec Tre Uno. O magari l'agente Watson. Chiunque. Signore Iddio, fa che arrivi qualcuno! «È per questo... è per questo che hai ucciso Geordie Stephenson?». Doug scoppiò a ridere. «Ma cosa credi? Che adesso stiamo qui a farci una chiacchieratina e io confesserò ogni cosa? Fallo parlare e il vecchio rimbambito svuoterà il sacco?». Scosse la testa. «Tu guardi troppa televisione, Mr Maiale. Le uniche budella che svuoterò saranno le tue». Con un ghigno satanico gli agitò il coltello sotto gli occhi. Logan gli diede un calcio in un ginocchio. Con tutta la forza che riuscì a metterci. Si sentì un crack e Doug crollò a terra, lasciando cadere il coltello. Si teneva con le mani il ginocchio fracassato e urlava dal dolore: «Maledetto stronzo!». A denti stretti e col respiro ridotto a un sibilo, Logan si girò su un fianco e scalciò ancora, colpendo il vecchio su un lato della testa, aprendogli un taglio di una decina di centimetri. Doug grugnì, portandosi le mani alla testa e coprendosi lo scalpo sanguinante. Logan gli diede un altro calcio in testa: due dita di Doug si ruppero sotto il colpo. «Bastardooooo!». Sarà stato vecchio e indebolito dal tumore, ma Douglas MacDuff si era fatto una reputazione di uomo violento nelle più dure prigioni della Scozia. E se l'era fatta a suon di pugni e coltellate. Stringendo i denti si tirò indietro, fuori dal tiro dei piedi del supino Logan, quel tanto che bastava per potersi alzare. E una volta in piedi gli si lanciò addosso, afferrandolo alla gola con le mani ingiallite dalla nicotina e stringendo, stringendo con un ghigno sul volto che sembrava indicare quanto ci godesse a strangolare un odiato sergente del CID. Logan afferrò le mani che gli attanagliavano la gola, cercando di aprirle con le poche forze che gli restavano, ma Desperate Doug lo teneva in una morsa d'acciaio. Quel poco che vedeva ancora del mondo si stava tingendo di rosso e gli fischiavano le orecchie, con la pressione che gli cresceva nel-
la testa. Staccò una mano dalle mani di Doug, la strinse a pugno e roteandolo diede un colpo nella faccia del vecchio. Con un grugnito di dolore Doug accusò il colpo, ma non allentò la presa sulla gola di Logan. Stringendo i denti Logan gli diede un altro pugno e poi un altro e poi un altro ancora. I pugni di Logan causavano lesioni alla faccia di Doug, facendone spruzzare sangue che tingeva la neve di rosa. Lottava per la vita; tirò ancora pugni alla testa di Logan, rompendogli la mascella e chiudendogli l'occhio morto. Picchiando come un automa, mentre il mondo svaniva in una coltre di nebbia scura. Ancora e ancora e ancora... finché le mani di Doug allentarono la presa e il vecchio si afflosciò, rotolando sanguinante nella neve. CAPITOLO 29 Douglas MacDuff fu portato al pronto soccorso e ricoverato subito in una saletta di cura. Sembrava la morte in barella. La sua faccia, già raggrinzita e segnata dagli anni, era piena di lividi. Respirava a fatica, con rantoli più che sospiri. Da quando lo avevano preso su non aveva ripreso conoscenza; e nell'ambulanza che lo portava all'Aberdeen Royal Infirmary era rimasto immobile e sanguinante. Da quando Logan e Desperate Doug erano stati raccolti dalla scarpata sulla ferrovia i barellieri non avevano rivolto la parola al sergente. Da quando avevano appreso che era stato lui a pestare il vecchietto. Rabbrividì, mentre un'infermiera collegava Desperate Doug a svariati monitor e apparecchiature, con una serie di cicalini elettronici che segnavano il battito cardiaco e varie altre funzioni del vecchio. L'infermiera alzò lo sguardo e vide Logan immobile ai piedi del letto. «Mi dispiace ma lei non può stare qui», gli disse sbottonando la camicia di Doug. «È stato conciato piuttosto male». «Lo so», rispose Logan, omettendo di dirle che era stato lui a conciarlo così: parlava con voce rauca e dolorante. «Lei è un parente?», chiese l'infermiera, mentre con fare preoccupato e mani esperte toglieva la camicia al vecchio. «No, sono un poliziotto. Sergente del CID McRae». Interruppe quel che stava facendo; con un'espressione dura in volto disse: «Spero che riusciate ad arrestare quel bastardo che ha fatto questo e a metterlo in gattabuia per sempre! Picchiare un vecchio!». Arrivò il dottore. Un uomo basso e calvo, con una tabella fermabloc e
un'espressione stressata. Che Logan fosse un rappresentante della legge non gli fece né caldo né freddo; voleva tutti fuori dalla stanza, per poter fare la sua diagnosi. «Si chiama Douglas MacDuff», disse Logan cercando di rendere la sua rauca voce il più normale possibile. «È altamente indiziato in un'indagine di omicidio. Riteniamo anche che sia molto pericoloso». L'infermiera si allontanò dal letto, asciugandosi le mani sul davanti del suo camice blu: i suoi guanti di latex fecero uno strano rumore sulla stoffa del camice. Logan si toccò delicatamente la gola. «Assegnerò un agente a sorvegliarlo», disse ingoiando a fatica. L'infermiera gli sorrise; il dottore aveva già cominciato a toccare e a palpare il corpo di Desperate Doug. Sospirò e andò a occuparsi di un altro paziente. Logan diede le disposizioni del caso per avviare la sorveglianza del vecchio e decise di lasciare l'ospedale. Nel corridoio per poco non si scontrò con un'altra infermiera che spingeva un carrello pieno di medicine. Si girò per scusarsi e si trovò di fronte una faccia conosciuta. Ma questa volta la madre di Lorna Henderson aveva un vistoso occhio nero. Aveva cercato di mascherarlo con tre dita di trucco, ma il livido restava visibilissimo. «Mrs Henderson», chiese Logan guardandole l'occhio, «come sta?». Con un gesto esitante si portò la mano all'occhio e forzò un sorriso. «Bene, grazie», rispose con voce tremante. «Anzi, benissimo. E lei?» «Mrs Henderson, qualcuno l'ha picchiata?». Si riaggiustò il camice blu e disse no. Era andata a sbattere in una porta. Tutto qui. Un incidente. Cose che succedono. Logan le diede uno dei silenzi brevettati dall'ispettore Insch. Il sorriso forzato svanì lentamente. «L'altra sera Kevin è venuto a casa. Aveva bevuto». Con dita tremanti si toccò la targhettina col nome che aveva sul petto, senza guardare Logan negli occhi. «Credevo che fosse tornato per me, che avesse lasciato quella bagascia senza tette. Invece era venuto a dirmi che Lorna era morta per colpa mia, che non avrei dovuto farla scendere dall'auto. Che ero stata io a ucciderla...». Alzò gli occhi, con le lacrime che glieli facevano scintillare alla luce delle lampade fluorescenti. «Io ho cercato di fargli capire che avremmo potuto superare la disgrazia insieme, aiutarci a vicenda. Gli ho detto che lo amavo ancora, e che sapevo che lui amava me». Un gocciolone di lacrima le cadde sulla guancia, lo asciugò con la mano. «Lui si è arrabbiato e ha cominciato a urlare più forte.
E poi mi ha... me lo meritavo! È tutta colpa mia! Non tornerà più da me!». Con le lacrime che le scorrevano sulle guance abbandonò il carrello e corse via. Logan la guardò sparire oltre la porta in fondo al corridoio e sospirò. L'agente Watson lo aspettava in sala d'attesa, con la testa all'indietro e tenendosi una manciata di fazzolettini di carta sul naso. Che era rossissimo. «Come va col naso?», le chiese sedendosi al suo fianco e cercando di non tremare. «Fa bale», rispose lei guardandolo con la coda dell'occhio senza muovere la testa. «Albeno non credo che sia roddo». Logan fece spallucce e se ne pentì subito. «Come stanno gli altri?», chiese con una voce che sembrò il gracidare di un rospo. L'agente Watson indicò in fondo al corridoio alle salette di cura. «Sdanno condrollando le cosdole di uno dei cinofili. Gli aldri, duddi bene». Abbozzò un sorriso, che si tramutò in una smorfia di dolore. «Ooww... qualguno alla sala gorse ha berso i dendi davandi». Lo guardò attentamente, mentre Logan si massaggiava la gola. «E lei, sergende?». Logan abbassò il colletto della camicia, mostrandole il collo in tutta la sua gloria. L'agente Watson fece un'altra smorfia di dolore, ma questa volta era stato lo spettacolo del collo di Logan a causarla. Le impronte delle dita di Desperate Doug spiccavano, rosse e porporee contro la pelle pallida. Le impronte più grosse erano ai lati della trachea, ove i pollici del vecchio avevano cercato di strozzarlo. «Gesù, ba cosa è successo?» «Sono caduto e non riuscivo ad alzarmi». Logan riprese a massaggiarsi la gola. «Mr MacDuff voleva rendere permanente la situazione nella quale mi trovavo». Ripensò al brillare della lama e rabbrividì. «Quel vecchio basdardo!». Logan quasi sorrise; era bello avere qualcuno dalla tua parte. Tanto per cambiare. Ma l'ispettore Insch non fu ugualmente comprensivo. Quando tornarono alla Centrale, Logan con un altro boccettino di pillole e Watson con la conferma che il suo bel nasino non era rotto, il sergente alla reception gli passò il messaggio, forte e chiaro: Logan dall'ispettore Insch, subito! Lo trovò nel suo ufficio, spalle alla porta e mani dietro la schiena che
guardava dalla finestra la neve cadente. Lo sentì entrare, ma non si girò. «Cosa diavolo credevi di fare?», gli chiese senza preamboli. Logan si massaggiò la gola dolorante e rispose che stava cercando di arrestare l'assassino di George Stephenson. Insch sospirò, esasperato. «Sergente, hai picchiato un vecchio e lo hai conciato male. L'ospedale lo dichiara in gravi condizioni. E se muore? Immagini le testate dei giornali di domattina? Poliziotto picchia a morte un vecchietto. A cosa diavolo stavi pensando?». Logan cercò di schiarirsi la gola e se ne pentì. «Pensavo... pensavo a difendermi». Insch si girò di scatto, rosso in viso. «Il regolamento, in casi di attacco alla persona, consente un uso moderato di forza fisica. Non consente di picchiare a morte vecch...»; s'interruppe quando vide la gola piena di lividi di Logan. «Cosa ti è successo? L'agente Watson è stata presa da una frenesia di succhiotti?» «Mr MacDuff ha cercato di strangolarmi, signore». «Ed è per questo che lo hai picchiato?». Logan annuì, con una smorfia di dolore. «Era l'unico modo di fermarlo». Mise la mano in tasca, tirò fuori una busta di plastica e la posò sulla scrivania dell'ispettore. Nella busta c'era un coltello Stanley. «Mi avrebbe fatto a fettine con questo coltello». Insch prese il coltello e lo esaminò, senza estrarlo dalla busta. «Fa piacere vedere che c'è ancora qualcuno che lavora come ai vecchi tempi». Guardò Logan dritto negli occhi. «Con molta probabilità sarai sospeso dal servizio mentre questa incresciosa vicenda verrà investigata. Se Desperate Doug decide di sporgere denuncia...», si strinse nelle spalle, «sai meglio di me quanto siamo messi male adesso. Non vogliamo altra pubblicità negativa». «Mi avrebbe ucciso...». «Hai picchiato un vecchietto e lo hai ridotto in fin di vita. Perché tu lo abbia fatto conta poco. Il pubblico la vedrà così. Brutalità della polizia». Logan non credeva alle proprie orecchie. «Quindi lei mi mette là fuori ad asciugare come uno strofinaccio?» «Sergente, io non sto facendo un bel niente. Napier e Standard Professionali me lo impediscono. Ho le mani legate. E l'intera vicenda non è più di mia competenza». Logan era solo nel suo ufficio, al buio. Con le sue scartoffie, una tazza di
caffè che si era raffreddato e mezzo pacchetto di cioccolatini Maltesers. Cercando di non tremare. Il coltello. Si passò una mano sul volto. Da un bel po' non pensava più a quella notte. Quella notte, sul terrazzo in cima a quel palazzo, semisvenuto, con Angus Robertson che infieriva sul suo corpo con quel coltello da caccia... Desperate Doug MacDuff gliel'aveva fatta rivivere, in tutto il suo orrore. Aveva compilato tutti i moduli del caso, spiegando perché aveva mandato un vecchio all'ospedale. Aveva passato una lietissima ora e mezza con l'ispettore Napier che lo aveva trattato come qualcosa di ripugnante, gli aveva fatto un sacco di domande e gli aveva fatto capire quali sarebbero state le conseguenze del suo comportamento. Ora doveva solo aspettare che gli dicessero che era sospeso dal servizio. Era rientrato in servizio da una settimana e la sua carriera era già andata a gambe all'aria! E non era neanche colpa sua! Sospirando, guardò la foto di Geordie Stephenson. Il peggio era che sarebbe stato difficilissimo rimandare a giudizio Desperate Doug per l'assassinio di Geordie. La giuria avrebbe visto solo un povero vecchietto, brutalmente picchiato e incastrato dalla polizia per l'assassinio di un malvivente di Edimburgo. Ma quel poveretto non avrebbe potuto uccidere nessuno! Era così debole e fragile! Il procuratore se ne sarebbe tenuto alla larga. Logan abbassò la testa, fino a posare la fronte sulle carte che aveva sulla scrivania. «Merda», disse picchiando la testa sul tavolo. «Merda, merda, merda...». Lo squillo del suo cellulare lo interruppe. Lo tirò fuori e se lo portò all'orecchio. «McRae», disse senza entusiasmo. «Sergente McRae? Sono l'agente Kelly, Alice Kelly; ci siamo conosciuti ieri mattina, ricorda? Alla casa protetta? Dove tenevamo Mr Philips?». Logan ricordò; l'agente in borghese con tanti anelli alle dita che aveva fatto e servito il tè e calmato Roadkill. «Salve», disse. Improvvisamente si raddrizzò sulla sedia. «Come sarebbe a dire, "tenevate" Mr Philips? Dov'è andato?» «Già, infatti». Seguì una pausa imbarazzata. «L'agente Harris si è assentato per pochi minuti per andare a comprare del latte mentre io stavo facendo la doccia e...». «Non mi dica che è scappato!». «No, non credo che sia scappato, sergente. Magari è solo uscito a fare
quattro passi. Sono sicura che ritornerà appena farà buio...». Logan guardò l'orologio: erano le tre e mezza ed era già buio. «Lo avete cercato?» «L'agente Harris è fuori adesso e lo sta cercando. Io sono rimasta qui in caso dovesse tornare». Per disperazione Logan picchiò la testa sul tavolo, forte stavolta. «Qualcosa che non va?» «Non ritornerà». Pronunciò queste parole a denti stretti. «Avete informato la sala operativa della sua scomparsa?». Ci fu un'altra pausa imbarazzata. «Oh, santo cielo!», esclamò Logan. «Glielo dirò io». «Vuole che faccia qualcosa?». Da quel gentiluomo che era preferì tacere. Dieci minuti dopo tutte le autopattuglie di Aberdeen erano state informate della scomparsa di Roadkill e di tenere gli occhi aperti. Ma non ci voleva molto per indovinare dove sarebbe andato. Sarebbe tornato alla sua fattoria e ai suoi capannoni pieni di animali morti. Da Summerhill a Cults c'era un bel po' di strada da fare, specialmente con la neve che fioccava. Ma Roadkill era abituato a lunghe camminate, spingendo il suo piccolo obitorio su rotelle, lungo le strade, viottole e stradine della città. Per raccogliere animali morti. Ma Bernard Duncan Philips non ci arrivò. Lo trovarono tre ore e mezza dopo nel boschetto di Hazlehead, in una pozza di sangue che si congelava lentamente. Il boschetto, con gli alberi ricoperti di neve, sembrava qualcosa tirato fuori da una favola. Una stradina tortuosa attraversava il centro del parco e Logan guidava cautamente, a bassa velocità, cercando di evitare che una slittata gli facesse schiantare la macchina contro un albero. Due chilometri e mezzo più avanti nel boschetto c'era un rozzo parcheggio, niente asfalto, solo terra battuta resa compatta da anni e anni di uso, nascosta sotto la neve. Al centro, un solo grande faggio nel suo aspetto invernale, circondato da alcuni agenti di polizia col fiato che fumava nell'aria pungente, senza niente da fare. Solo gelarsi le palle. Logan fermò l'auto vicino al sudicio furgone dell'IB, spense il motore e si inoltrò sulla neve compattata e scivolosa. L'aria fredda lo colpì come uno schiaffo in piena faccia. Rabbrividì e si avviò alla tenda sulla scena del crimine, sperando che lì dentro fosse più caldo. Ma non lo era. Sulla neve
c'erano tanti spruzzi di sangue, intorno a una gran pozza che si era ormai congelata. Impronte di piedi dappertutto, vicine a una depressione nella neve, a sagoma d'uomo. Roadkill si era steso su un fianco, dissanguandosi lentamente nella neve. Logan prese un braccio del fotografo. Era Billy, il calvo tifoso dell'Aberdeen Football Club che aveva fatto le fotografie alla discarica. Aveva in testa lo stesso pompom rosso e bianco. «Dov'è il cadavere?» «Al pronto soccorso». «Cosa?» «Non è morto». Il fotografo guardò la macchia rossa nella neve e poi Logan. «Ma non vivrà a lungo». Ed ecco Logan all'Aberdeen Royal Infirmary per la seconda volta quel giorno. Bernard Duncan Philips era stato ricoverato con trauma cranico, costole rotte, braccia rotte, una gamba rotta, dita fratturate e lesioni interne, causate da calci nello stomaco. Lo avevano portato subito in sala operatoria, ma stavolta la banda aveva fatto un lavoro coi fiocchi. Dubitavano che sarebbe sopravvissuto. Logan rimase all'ospedale, ma solo perché non sapeva dove andare. Non voleva tornare alla Centrale per farsi dire che era scattata la sua sospensione. E se fosse restato lì, col cellulare spento, avrebbe potuto illudersi che non sarebbe successo. Quattro ore dopo un'infermiera dall'aspetto preoccupato lo venne a prendere e lo portò al centro rianimazione. Il dottore che aveva curato Desperate Doug era vicino al letto di Roadkill e leggeva la cartella medica. «Come sta?», chiese Logan. Il dottore alzò gli occhi dalla tabella. «Ancora lei?». Logan guardò l'esanime e bendatissimo Roadkill. «Sta davvero così male come sembra?» «Oddio...», ci fu un lungo sospiro. «Ha subito lesioni al cervello. Non ne conosciamo ancora l'entità. Per adesso è in una condizione abbastanza stabile». Restarono a guardare Roadkill che respirava laboriosamente. «Se la caverà?». Il dottore si strinse nelle spalle. «Credo che siamo arrivati in tempo a fermare l'emorragia interna. Ma una cosa è certa: gli hanno maciullato i testicoli. Vivrà, ma non potrà avere bambini». Longan fece una smorfia, quasi sentendo il dolore. «E l'uomo che ho
portato qui prima quest'oggi? Mr MacDuff?» «Non sta bene...». Scosse la testa. «Non sta per niente bene». «Ma starà bene? Vivrà?» «Mi dispiace ma non posso rispondere alla sua domanda. Privacy. Dovrà chiederlo a Mr MacDuff». «Va bene, lo farò». Il dottore scosse nuovamente la testa. «Ma non stasera. È molto vecchio e oggi ha avuto una giornata difficile. È quasi mezzanotte: lo lasci dormire». Alzò i suoi occhi tristi e guardò Logan. «Mi creda, sergente; non scapperà». Logan uscì dal pronto soccorso proprio mentre stava arrivando un'ambulanza con le luci lampeggianti. Aveva smesso di nevicare e la coltre di nuvole che lo aveva offuscato stava sparendo dal cielo, lasciando una cupola nera, le stelle appena visibili attraverso l'inquinamento della città. Si recò alla sua auto; aprì la portiera e si mise al volante, subito annebbiando il parabrezza col suo respiro. Tirò fuori il cellulare e lo riaccese. Dubitava che qualcuno lo chiamasse adesso, ma era ora di affrontare la realtà. C'erano cinque messaggi. Quattro da Colin Miller, che disperatamente voleva sapere cosa fosse successo a Roadkill. Ma uno era dall'agente Jackie Watson. Se per caso lui non aveva niente da fare, cioè, se gli andava, ma lei avrebbe capito se non gli andava, di andare al cinema, o magari non un film, anche soltanto andare a bere qualcosa, visto che era stata una giornata bestiale... e se ne aveva voglia, cioè, se gli andava di fare qualcosa magari le avrebbe potuto fare uno squillo? Il messaggio era arrivato alle 20,00. Proprio mentre lui stava aspettando che Roadkill uscisse dalla sala operatoria. Compose il numero del cellulare dell'agente Watson; è vero che era tardi, passata la mezzanotte, ma magari non troppo tardi... Sentì il telefono che squillava a vuoto. Fino a quando una voce metallica lo informò che il numero che stava chiamando non era disponibile, per favore provare più tardi. Per la seconda volta quel giorno si lasciò sfuggire una sfilza di oscenità, sottolineandole dando testate contro qualcosa. Il volante emetteva degli strani cigolii, ogni volta che picchiava la fronte contro la plastica. Era stata proprio una brutta giornata. Quando il parabrezza si sbrinò, fece per uscire dal parcheggio dell'ospe-
dale accelerando e facendo slittare le ruote. Era arrabbiatissimo; accelerò e inchiodò i freni, e sentì che la parte posteriore dell'auto aveva deciso di sorpassare quella anteriore. Schiacciò l'acceleratore a tavoletta e sterzò verso la slittata, forzando l'auto in deparrage e riportandola nella direzione voluta, uscendo dal parcheggio e inserendosi nella strada maestra. Un furgone era fermo al semaforo poco più avanti; per un attimo gli venne la voglia di accelerare e andarcisi a schiantare contro. Ma non lo fece. Si limitò a borbottare un paio di parolacce sottovoce, e ridusse la sua velocità. Lo squillo del cellulare nella tasca della giacca lo fece sussultare. Jackie! L'agente Watson che lo richiamava! Tirò fuori il telefono e se lo portò all'orecchio. «Prooonto!», rispose cercando di sembrare il più gioviale possibile. «Laz? Sei tu?». Era Colin Miller. «Laz, sono ore che cerco di rintracciarti, vecchio briccone!». Logan, cellulare all'orecchio, aspettava il cambio luci al semaforo. «Lo so. Ho letto i messaggi che hai lasciato». «Hanno picchiato Roadkill! Lo hanno lasciato in fin di vita! Hai sentito? Cosa è successo? Dai, dammi la storia!». Logan disse no. «Come? Dai Laz, siamo amici, no? Ci aiutiamo a vicenda, no?». Logan guardò fuori, nella notte fredda e buia. «Dopo quello che hai fatto? Non sei un amico!». Ci furono alcuni attimi di silenzio. «Dopo che ho fatto che cosa? Di cosa stai parlando? Ho lasciato stare il tuo grande attore di filodrammatica, ti ho fatto l'articolo di cosmetica che mi avevi chiesto... cosa diavolo vuoi ancora?». Il semaforo passò al verde e il furgone si allontanò, lasciando Logan fermo. «Hai detto al mondo intero che avevamo trovato il cadavere di Peter Lumley!». «E allora? Lo avevate trovato, no?». «L'assassino sarebbe tornato dove lo aveva nascosto. Sarebbe tornato e l'avremmo preso!». «Cosa?» «Aveva nascosto il corpo del bambino. E ci sarebbe ritornato. Ma siccome tu hai vomitato la fottutissima storia in prima pagina, l'assassino sa, e non ci tornerà. È ancora a piede libero e tu hai rovinato la miglior opportunità che avevamo di acciuffare il bastardo! Il prossimo bambino che spari-
rà, sarà per colpa tua, chiaro? Lo avremmo preso!». Un altro silenzio, stavolta più lungo e più pregno. Quando Miller parlò lo fece con voce bassa e appena udibile. «Gesù, Laz, non lo sapevo. Avessi saputo, non ne avrei pubblicato una sola parola. Sono veramente dispiaciuto». E la cosa strana era che Colin sembrava veramente dispiaciuto. Logan respirò profondamente e inserì la prima. «Mi devi dire chi ti passa queste informazioni». «Sai che non te lo posso dire, Laz! Non posso!». Logan scosse la testa e partì dal semaforo, tornando verso la città. «Ascolta, Laz; io ho quasi finito qui. Vogliamo incontrarci per bere qualcosa? Ci sono ancora dei posti aperti, dalle parti del porto. Offro io». Logan gli rispose che non se la sentiva e riattaccò. C'era poco traffico. Rientrato in città, parcheggiò vicino casa sua e fece le scale lentamente. L'appartamento era gelido, quindi accese il riscaldamento e si buttò in una poltrona, al buio. A guardare le luci che vedeva dalla finestra e a commiserarsi. Cercando di non pensare al coltello. La spia della sua segreteria telefonica lampeggiava, indicando che c'erano messaggi. Ma erano tutti di Colin Miller. Niente da parte di Jackie Watson, che annunciasse che lo stava aspettando indossando un négligé e con una bottiglia di champagne in ghiaccio. E magari qualcosa da mettere sotto i denti? Lo stomaco di Logan si fece sentire con un lungo borbottio. Era quasi l'una del mattino e non aveva mangiato niente dall'ora di colazione, a parte la mezza tavoletta di cioccolato e i soliti antidolorifici. In cucina trovò solo un pacchetto di biscotti e una bottiglia di vino rosso. Aprì entrambi; si versò un bicchiere di vino, si mise in bocca un biscotto ricoperto di cioccolata e se ne tornò nel soggiorno a commiserarsi. «Da non prendere con alcol», disse brindando alla sua immagine riflessa nella finestra del soggiorno. Era a metà del secondo bicchiere quando il campanello d'ingresso suonò. Imprecando si alzò e andò alla finestra. Da lì vide un'auto di lusso parcheggiata dall'altra parte della strada e la riconobbe subito. Colin Miller. Il giornalista era davanti all'ingresso, con un'espressione pentita sul viso e due borse di plastica piene. «Cosa vuoi?», gli chiese Logan.
«Lo so, lo so... sei arrabbiatissimo con me; ma ti giuro che non l'ho fatto apposta. Se solo avessi saputo... ti giuro che non avrei scritto una sola parola. Sono spiacente, veramente spiacente...». Con un sorriso di scusa alzò le borse. «Pace?». Si sistemarono in cucina. Il rosso di Logan andò a far compagnia al fresco chardonnay di Miller e a una serie di contenitori di plastica dai quali emanava l'odore esotico e pungente della cucina tailandese. «Conosco il proprietario», disse Colin mettendosi una bella porzione di gamberetti al curry sul piatto. «Gli feci un paio di favori, quando abitava a Glasgow. E so che è aperto fino alle prime ore del mattino». Logan dovette ammettere che le pietanze che Miller aveva portato erano di ottima qualità. «E tu ti sei scomodato a quest'ora, con questo tempaccio, per offrirmi una cena alla tailandese?» «Strano che tu debba farmi questa domanda», rispose Miller, mettendo altra roba sul piatto. «Perché vedi, io mi trovo... di fronte a un dilemma, diciamo». Logan si bloccò, con un pezzo di pollo alla tailandese sulla forchetta e a metà strada tra il piatto e la bocca. «Lo sapevo!». «Buono, tigre!». Miller sorrise. «Il mio dilemma morale è questo: ho una storia per le mani, ed è una storia di prim'ordine; ma è anche una storia che rovinerà la carriera di qualcuno». Logan sollevò un sopracciglio. «Visto quello che hai fatto all'ispettore Insch, mi sorprende il fatto che tu abbia avuto qualche scrupolo!». «Sì, su questo hai ragione. Ma c'è una differenza: si da il caso che la persona che questa storia rovinerebbe mi è simpatica». Logan si mise in bocca il pezzo di petto di pollo e masticò con gusto. «E allora? Cos'è questa storia?» «Eroico Poliziotto picchia a morte vecchio pensionato». CAPITOLO 30 Quando Logan andò a lavorare quel martedì mattina, cercò di evitare gli sguardi di tutti. Nessuno gli rivolse la parola, ma sentiva le occhiate nella schiena, le parole bisbigliate che lo seguivano nel palazzo fino al briefing dell'ispettore Insch. Aveva dormito malissimo, un sonno pieno di incubi, pieno di palazzi, cieli in fiamme e coltelli che brillavano. E la faccia di Angus Robertson che lo guardava maligno e malefico, mentre gli bucherellava lo stomaco.
L'ispettore Insch era al solito posto, col sedere appoggiato alla scrivania e con la pelata che luccicava sotto la luce dei neon fluorescenti. Quando Logan entrò non gli diede neanche un'occhiata; continuò a togliere la stagnola da un tubetto di sherbet al doppio gusto. Lentamente, cercando di non sporcarsi il vestito nero con la dolce polverina effervescente rossa e arancione. Arrossendo come una barbabietola, Logan andò a sedersi al suo solito posto, in prima fila. L'ispettore non fece alcun cenno all'articolo di quella mattina nel «Press and Journal». Quello che riempiva tutta la prima pagina, con fotografie, e con un articolo di fondo più lungo del solito a pagina dodici. Invece parlò a tutti dell'aggressione subita da Roadkill. E di come le squadre che avevano fatto ricerche nel parco fossero riuscite solo a prendersi un raffreddore. Dopodiché diede ai presenti le loro consegne e concluse la riunione. Logan fu uno dei primi ad alzarsi e a cercare di arrivare alla porta, ma Insch non aveva nessuna intenzione di farselo sfuggire. «Sergente», lo chiamò, con una voce che sembrava sciroppo. «Sia gentile, attenda». E quindi Logan dovette starsene alla porta mentre tutti gli passavano davanti, guardando dappertutto meno che lui. Altro che forche caudine! Anche l'agente Watson evitò di guardalo. Ma forse era meglio così; si sentiva già male e avrebbe finito col sentirsi peggio. Uscito l'ultimo agente e chiusa la porta, Insch tirò fuori una copia del giornale di quella mattina e la sbatté sulla scrivania. «Lazarus resuscitò dai morti, vero sergente?», chiese l'ispettore. «Bene, io non sono religioso, ma sembra che la tua carriera abbia goduto dello stesso miracolo». Gli fece vedere la testata della prima pagina. «Arrestato vecchio pensionato assassino: eroico poliziotto lotta per la vita!» con una bella foto di Desperate Doug al momento della condanna per aver reso invalido il titolare di un deposito di laterizi. Col suo occhio morto, il suo ghigno criminale e tutti i suoi tatuaggi, non era certo l'immagine del nonno benevolo. Miller aveva richiamato tutti i favori di cui era in credito al giornale per bloccare la prima pagina e sostituirla con questa. Anche perché come notizia valeva molto di più di «Avviata in grande stile la raccolta di fondi per Tillydrone!». «L'ispettore Napier sta sputando chiodi». Gli sorrise. «Quindi, visto che non sarai licenziato, l'ispettore Steel vuole che tu muova le chiappe e che ti rechi all'ospedale per farti rilasciare una deposizione da Desperate Doug». «Io? Perché non lei?». Di solito gli indiziati di assassinio non venivano interrogati da un sergente, a meno che non ci fosse un ispettore presente.
«Perché sì. Ha detto qualcosa a proposito di "...tenere un cane e fare lei la guardia". E ora datti da fare». Logan ritirò un'altra Vauxall e l'agente Watson. Jackie non disse neanche una parola mentre uscivano dal parcheggio dietro la Centrale. Solo quando ne furono ben lontani, scoppiò a ridere. «C'è poco da ridere», disse Logan. La risata si spense subito. «Scusi, signore». Silenzio. Watson prese la strada per Rosemount. Il buon tempo teneva, cieli blu si intravedevano tra gli edifici in granito. «Signore», disse lei improvvisamente. S'interruppe, si schiarì la gola e riprese. «Signore, a proposito di quel messaggio che ho lasciato sulla sua segreteria ieri sera». Il battito cardiaco di Logan accelerò improvvisamente. «Vede, signore», disse Watson mentre si sistemava dietro a un bus. «Dopo averlo lasciato ci ho ripensato e mi sono resa conto che avrebbe potuto essere male interpretato, cioè, voglio dire, quando lei non ha richiamato, insomma, ho pensato che forse, magari lei si fosse offeso, e allora, voglio dire...». L'aveva detta tutta d'un fiato. Il sorriso si gelò sulle labbra di Logan. Watson stava facendo marcia indietro. Cercava di dirgli che era stato un errore. Ma le doveva una spiegazione. «Ero all'ospedale. Lì non è permesso tenere i cellulari accesi. E ho ascoltato il tuo messaggio a mezzanotte passata. Ho provato a chiamarti, ma il tuo cellulare era spento...». «Oh...», disse lei. «Già», disse lui. E per un po' nessuno dei due disse più niente. Il sole picchiava sul parabrezza dell'auto scaldandone l'interno e trasformandola in un forno a microonde a quattro ruote. Al successivo incrocio il bus girò a sinistra e Watson girò a destra. Le case erano addobbate per Natale: dalle finestre si intravedevano alberi di Natale, luci intorno alle porte, gnomi e ghirlande. Su una casa c'era anche una renna di plastica col naso rosso elettrificato e lampeggiante. Buon gusto. Guardando le case coperte di neve e l'atmosfera natalizia che emanavano, Logan pensò al suo appartamento, nudo e spoglio. Non aveva ricevuto neanche una cartolina d'auguri. Era forse il caso di comprare un albero?
L'anno scorso non ne aveva avuto bisogno. Aveva passato il Natale nell'enorme casa di Isobel, con i suoi due alberi veri davanti casa, addobbati entrambi con lampadine multicolore. Niente famiglia, solo loro due. L'anatra arrosto comprata da Marks and Spencer. Isobel non voleva sprecare tempo ai fornelli. Avevano passato tutta la mattinata a fare l'amore. E probabilmente quest'anno sarebbe dovuto andare a passar Natale dai suoi genitori. I quali avrebbero avuto l'intera famiglia a casa. Qualche piccola lite, amarezze, sorrisi forzati, bere, giocare a Monopoli... Dall'auto vide la sagoma di un uomo, che a spalle curve e testa bassa camminava sul marciapiede ricoperto di neve; lo riconobbe. Jim Lumley, il patrigno di Peter. «Ferma un attimo», disse a Watson, che si accostò al marciapiede. Logan uscì nella frizzante aria gelida e andò dietro all'uomo. «Mr Lumley?», gli chiese toccandolo sulla spalla. Jim Lumley si girò. Aveva gli occhi e il naso rossi. Barba di diversi giorni, spettinato e malmesso. Per qualche istante guardò Logan senza neanche vederlo: poi lo riconobbe e qualcosa scattò nella sua memoria. «È morto», disse. «È morto, ed è colpa mia». «Mr Lumley, non è colpa sua. Lei sta bene?» Era una domanda stupida, ma Logan non poté fare a meno di fargliela. Era ovvio che l'uomo non stava bene. Il suo amato bambino era stato rapito, ucciso e violentato da un pedofilo. E lui stava morendo dentro. «Possiamo darle un passaggio a casa?». Qualcosa che una volta era passato per un sorriso, sfiorò il volto di Jim Lumley. «Mi piace camminare». Fece un gesto con la mano, indicando i marciapiedi coperti di neve e le strade infangate dalla poltiglia nevosa. «In cerca di Peter». Gli occhi gli si riempirono di lacrime che cominciarono a cadergli sulle guance arrossate. «Lo avete lasciato andare!». «Lasciato chi...». Passò qualche secondo prima che Logan si rendesse conto che parlava di Roadkill. «Mr Lumley, quell'uomo era...». «Devo andare», Lumley si girò e cominciò a correre, scivolando e slittando sulla neve gelata. Sospirando, Logan lo guardò andare e ritornò in macchina. «Un suo amico?», gli chiese Watson. «È il padre del bambino che abbiamo trovato nei gabinetti del parco». «Poveraccio!». Logan non rispose. Parcheggiarono l'auto in uno spazio con un cartello che diceva «Persona-
le ospedaliero» e si recarono all'ingresso principale. Il lobby era largo e spazioso; in un angolo c'era il banco semicircolare della reception e Logan chiese dove avrebbe potuto trovare Mr MacDuff. Due minuti dopo si facevano strada lungo un corridoio ricoperto di linoleum. Desperate Doug era in una stanza privata, sorvegliato da un giovane agente che stava leggendo un libro e che appena vide Logan sobbalzò e cercò di nasconderlo. «Va bene, agente», disse Logan. «Non lo dirò a nessuno. Vai a prendere dei caffè per noi tre e poi potrai tornare alle tue avventure poliziesche». Visibilmente sollevato il giovanotto si recò allo spaccio. Nella stanza di Desperate Doug c'era molto caldo, col sole che inondava la stanza dalla finestra. Un televisore, alto nell'angolo dirimpetto al letto era acceso ma col volume a zero. L'occupante della stanza era appoggiato a diversi cuscini e aveva un aspetto decisamente cadaverico. Il lato destro della faccia era pieno di lividi e il suo occhio morto era gonfio e chiuso. Ma anche con il gonfiore Desperate Doug sembrava emaciato. Era difficile credere che questo era l'uomo che ieri era quasi riuscito a ucciderlo a mani nude. «Buon giorno, Dougie», disse Logan prendendo una delle sedie dalla parete e sedendosi vicino al letto. Il paziente non diede neanche segno di riconoscere la presenza di Logan. Continuò a guardare lo schermo silente. Logan guardò l'agente Watson e con un cenno della testa le indicò il televisore. L'agente prese il telecomando e spense il televisore. «Stavo guardando quel programma!», bisbigliò Doug. Le parole gli uscirono di bocca rauche e sibilanti e per la prima volta Logan notò la dentiera in un bicchiere sul comodino. «Per l'amor del cielo, Dougie, rimettiti i denti in bocca! Sembri una tartaruga!». «Vaffanculo», gli rispose Doug, ma senza la solita veemenza. Logan sorrise. «Bene. E ora che ci siamo scambiati i convenevoli, direi che possiamo parlare di cose serie, no? Dougie, tu hai ucciso George "Geordie" Stephenson». «Coglionate». «Dai, Dougie. Abbiamo tutta l'evidenza scientifica che ci serve. L'impronta dei denti del tuo cane combacia perfettamente con i segni del morso sulle gambe di Geordie. Le rotule gli sono state tagliate con un machete! E questo è un lavoro firmato Doug MacDuff! Com'è andata? I fratelli McLe-
od lo hanno tenuto giù mentre tu lavoravi col machete?». Doug fece una smorfia. «Allora Dougie; non vorrai mica dirmi che hai tenuto fermo un bestione di un picchiatore come Geordie tutto da solo? Mentre gli portavi via le ginocchia? Quanti anni hai: novanta, vero?». Logan si sistemò sulla sedia e poggiò un piede su una sbarra del letto. «Adesso ti dico come penso siano andate le cose, va bene? E tu interrompimi se sbaglio qualcosa». In piedi in un angolo l'agente Watson prendeva appunti, cercando di non essere invadente. «Allora. Geordie Stephenson viene quassù da Edimburgo, pieno di boria e intento a concludere alcuni affari. E mentre si trova qui gli viene voglia di fare qualche puntatina sui cavalli. Quindi comincia a fare il giro degli allibratori, perdendo alla grande. E non può coprire le sue perdite. E questo è un atteggiamento che non piace ai gestori del Turf and Track». Logan fece una pausa. «Doug, quanto ti hanno dato per spaccarlo? L'equivalente di una settimana di pensione? Due? Un mese? Spero che sia stata una bella cifra, perché Geordie Stephenson lavorava per Malk la Scure. E quando verrà a sapere che hai fatto fuori uno dei suoi ti spellerà da vivo». Là bocca sdentata di Dougie abbozzò un sorriso. «Sei così pieno di merda», disse a Logan. «Credi davvero? Però ho visto i rimasugli di alcuni lavori fatti dai tirapiedi di Malkie; braccia, gambe, e perché no, coglioni... per te si mette male, Dougie». Gli strizzò l'occhio. «Ma se tu ci racconti tutto ciò che sai su Simon e Colin McLeod e sui loro metodi di riscossione crediti, io farò in modo che tu venga messo al sicuro da qualche parte dove Malkie non ti potrà mettere le mani addosso». A queste parole Doug cominciò a ridere. Logan si rabbuiò in viso. «Cosa?» «Non hai la più pallid...». La parola fu interrotta da un colpo di tosse, secca e asciutta, che scosse il corpo del vecchio. «Non hai la più pallida idea...». Ancora tosse, più profonda stavolta. «Non hai...». Tosse. «Non hai la più pallida idea di cosa stai parlando...». Stavolta l'attacco di tosse fu più violento; l'intero corpo di Doug sussultava nel letto, e si coprì la bocca con un'esile mano. Finalmente ricadde sui cuscini, asciugandosi la mano sul pigiama. Lasciò una macchia nerastra e rossa. «Proprio non capisci niente, Mr Maiale». «Vuoi che faccia venire il dottore?», chiese Logan. Il vecchio fece una risatina, che lo fece tossire ancora. «Spreco di tem-
po», bisbigliò. «Uno di quei coglioni mi ha visitato stamattina. Te l'ho detto, Mr Maiale; ho un tumore. Solo che non è più un anno o due. Il dottore adesso dice che si tratta di un mese». Si diede un colpo sul petto con una mano sporca di sangue. «Un tumore bello grosso». Nel silenzio che seguì e nella luce del sole che inondava la stanza, le particelle di polvere sembravano scintille d'oro. «E adesso... toglietevi dai coglioni e lasciatemi morire in pace». Bernard Duncan Philips non aveva una cameretta privata. Era nell'unità di rianimazione, dove c'erano due letti. Il suo lettino era circondato da una miriade di apparecchi che monitoravano le sue condizioni. Logan e Watson si fermarono sulla soglia della saletta, sorseggiando il tiepido caffellatte dal sapore di plastica che l'agente aveva portato. Desperate Doug non era stato qualcosa di bello da vedere, ma Roadkill era ancora peggio. Un insieme di fasciature, separate da lividi. Dall'ultima volta che Logan lo aveva visto gli avevano ingessato ambedue le braccia e una delle gambe. Come un personaggio di una vignetta umoristica. La maschera dell'ossigeno era stata sostituita da un tubicino con un cappuccetto di plastica sul naso, con dei nastrini che gli passavano dietro le orecchie e cerottati sul viso, per impedire che si staccasse. «Posso assistervi?». Era una donna, piccola di statura e vestita da infermiera: pantaloni blu chiaro e una camicetta a maniche corte, con un orologio da infermiera agganciato alla camicetta, sul seno sinistro. «Come sta?». L'infermiera lo scrutò. «Siete suoi parenti?» «No, polizia». «Guarda guarda». «Come sta?». L'infermiera prese la tabella dalla spalliera del letto di Roadkill e la consultò. «Sta molto meglio di quanto pensavamo. L'intervento chirurgico è andato bene e stamattina ha ripreso conoscenza per circa un'ora». Sorrise. «Ha sorpreso un po' tutti. Io avevo scommesso su "coma". Ma sapete com'è; qualcuna la vinci, qualcuna la perdi». Fu l'ultima volta che Logan vide Roadkill vivo. L'ispettore Steel non fu per niente sorpresa dall'esito della visita di Lo-
gan a Desperate Doug. Continuò a fare anelli di fumo, reclinata nella poltrona, piedi sulla scrivania. Logan si agitò sulla sedia dall'altra parte della scrivania. «Signora, spero che non le dispiaccia questa domanda; perché non è andata lei a interrogarlo?». Gli fece un sorriso languido. «Io e Dougie ci conosciamo da molto tempo. Quando io ero da poco arruolata e lui era nel suo pieno vigore...». Il sorriso divenne una smorfia; «diciamo che abbiamo avuto... una lite». «E adesso... cosa facciamo?». Sospirò, mandando fumo verso il soffitto. «Andiamo dal procuratore e gli diamo l'evidenza della scientifica. Lui la legge e dice "ce n'è a sufficienza per istruire un processo contro Desperate Doug" e noi diciamo "benissimo". E poi arriva l'avvocato difensore di Dougie e dice "il mio cliente tirerà le cuoia in meno di un mese" e il procuratore dice "in qual caso tutto va a puttane". A che scopo sprecare i soldi?». S'infilò un'unghia scalfita tra i denti, ne tirò fuori qualcosa e lo guardò per qualche istante, prima di lanciarla lontano col dito. «Doug sarà morto prima che il processo arrivi davanti al giudice. Quindi... lasciamolo morire in pace». Divenne seria per un istante e guardò Logan. «Hai controllato col dottore? Voglio dire, è vero che sta morendo? Non è che ti sta prendendo per i fondelli?» «Ho controllato. Sta morendo davvero». Annuì, con l'estremità accesa della sigaretta che andava su e giù nella semi oscurità. «Povero Doug», si lasciò scappare. Logan non riuscì a provare neanche un briciolo di simpatia per il vecchio, ma non disse niente. Tornato nel suo ufficio, tirò giù le foto di Geordie dalla parete. Quella dell'obitorio e quella ricevuta dalla Lothian and Borders Police. Con Desperate Doug MacDuff in fin di vita, l'omicidio di Geordie Stephenson non sarebbe stato imputato a nessuno. Ma Geordie non aveva moglie, non aveva figli, fratelli, sorelle. Era solo al mondo. E nessuno si sarebbe fatto avanti a reclamarne il corpo. Nessuno avrebbe sentito la mancanza dell'emissario di Malk la Scure. Nessuno forse, eccetto Malk la Scure. E cosa avrebbe potuto fare a Dougie? Tra un mese il vecchio sarebbe morto. E la morte sarebbe stata dolorosa, glielo aveva detto il dottore. L'unica cosa che Malkie avrebbe potuto fare sarebbe stato accelerarne la fine, e Doug lo sapeva. Forse era per questo che si era messo a ridere quando Logan gli aveva parlato della vendetta di Malkie. Ma a questo punto importava pochis-
simo. Aggiunse alla cartella di Geordie tutto ciò che aveva sulla scrivania e relativo al caso, inclusa la sua relazione sull'accaduto del giorno precedente. Ci sarebbero state altre piccole formalità burocratiche da espletare per completare l'operazione, ma a parte questo il caso era ormai chiuso. Evasa questa pratica, l'unica cosa che restava nell'ufficio di Logan era la bambina sconosciuta. La sua foto continuava a guardarlo con occhi spenti. Un caso chiuso, uno da chiudere. Logan andò a sedersi alla scrivania e cominciò a spulciare le dichiarazioni di tutti coloro che abitavano nelle immediate vicinanze della pattumiera condominiale. Uno di loro aveva ucciso la bambina, l'aveva spogliata, aveva provato a farla a pezzi. Non c'era riuscito. Allora l'aveva avvolta in nastro adesivo, messa in un sacco d'immondizia e l'aveva buttata via nella pattumiera. E se non era stato Norman Chalmers... chi era stato? CAPITOLO 31 Il tramonto tingeva il cielo sopra Rosemount di vivide sfumature di arancio e scarlatto; ma dalla strada, bordata com'era su entrambi i lati da grigi edifici di tre piani, se ne intravedeva solo una striscia iridescente. Qui e lì qualche lampione dava segni di vita, con la lampada al sodio che lampeggiava prima di accendersi e dava agli edifici una tinta itterica. Non erano ancora le cinque. La dea bendata li aveva assistiti: l'agente Watson era riuscita a trovare un posto per parcheggiare la loro auto proprio dirimpetto alla palazzina dove abitava Norman Chalmers. La pattumiera condominiale era situata davanti al portoncino d'ingresso. Era un contenitore piatto sui lati, alto poco più di un metro, nero e incatenato a un paletto. E la bambina era stata depositata qui. E i netturbini l'avevano presa da qui, per portarla alla discarica, assieme al resto del pattume. La scientifica aveva esaminato la pattumiera minuziosamente e avevano raggiunto una sola conclusione: uno dei condomini del numero diciassette leggeva riviste sadomasochistiche. «Quante palazzine dobbiamo visitare?», chiese Watson, appoggiando al volante la cartella contenente le dichiarazioni già rilasciate. «Cominciamo al centro con il numero diciassette, poi tre per ogni lato, sei appartamenti in ognuna...». «Quarantadue appartamenti? Ci metteremo una vita!».
«E poi ci sono quelle sull'altro lato della strada». Watson guardò le palazzine e poi guardò Logan. «Ma non possiamo delegare questo lavoro a quelli in divisa?». Logan sorrise. «Tu sei in divisa, ricordi?» «Sì, ma le sto facendo da autista. Ci vorrà una vita!». «Più stiamo seduti qui, più tempo ci metteremo». Cominciarono dalla palazzina dove abitava Chalmers. Piano terra, appartamento a sinistra: una vecchietta dallo sguardo sfuggente, capelli color giallo urina e con l'alito che sapeva di sherry. Aprì la porta solo quando Logan mise il suo tesserino nella buca delle lettere e dopo aver telefonato alla Centrale per assicurarsi che Logan non fosse uno di questi pedofili dei quali aveva sentito parlare. Logan non le fece notare che era a circa novant'anni di distanza dall'obiettivo di quel tipo di criminale. Piano terra, appartamento a destra: quattro studenti, due dei quali ancora a letto. E nessuno dei quali aveva visto o sentito niente. Troppo presi dallo studio. «Palle», disse Watson. «Fascista», disse lo studente. Primo piano, a sinistra: zitella con occhialoni e dentoni. No, non aveva visto o sentito nessuno, ma era una cosa spaventosa, vero? Primo piano, a destra: nessuno in casa. Ultimo piano, a sinistra: ragazza madre e bambino di tre anni. Un altro caso di visto niente, sentito niente e detto niente. Logan ebbe la sensazione che se anche fosse stato commesso un regicidio nel suo bagno mentre lei stava facendo la doccia, avrebbe lo stesso giurato di non aver visto nulla. Ultimo piano, a destra: Norman Chalmers. La sua storia non era cambiata, e loro non avevano alcun diritto di bistrattarlo così. Avrebbe chiamato il suo avvocato. E di nuovo in strada. «Allora», disse Logan mettendosi le mani in tasca per tenerle calde. «Sei birilli abbattuti, settantotto ancora in piedi». Watson emise un lamento. «Coraggio», disse Logan sorridendole. «Se sarai brava, ma veramente brava, quando avremo finito ti porto al pub». Gli sorrise, rinfrancata dall'incoraggiamento ricevuto. Logan stava per aggiungere un invito a cena, quando vide la sua immagine riflessa nel parabrezza della loro auto. C'era buio e non era possibile distinguere i dettagli dell'edificio alle sue spalle; ma sul vetro scuro le finestre brillavano come occhi di gatto. Tutte. Si girò e guardò la palazzina. Tutte le finestre sul davanti dello stabile
erano illuminate. Anche quella dell'appartamento del primo piano a destra, dove sembrava che non ci fosse nessuno in casa. Mentre guardavano, un volto apparve alla finestra, osservando giù in strada. Per una frazione di secondo i loro sguardi s'incontrarono, e poi la faccia sparì, con un'espressione terrorizzata. Era una faccia che Logan ricordava. «Guarda guarda...». Logan prese l'agente Watson per il gomito. «Sembra che ci siamo trovati un altro partecipante al concorso». Tornati dentro, l'agente Watson picchiò sulla porta dell'appartamento. «Apri! Sappiamo che sei in casa! Ti abbiamo visto!». Logan si era appoggiato alla balaustra delle scale e la guardò mentre lei picchiava sulla porta, pitturata in nero. Aveva con sé le dichiarazioni rilasciate agli agenti delle indagini porta a porta e stava cercando quella rilasciata dall'occupante di quell'appartamento: numero diciassette, primo piano, a destra... un certo Mr Cameron Anderson. Che veniva da Edimburgo e costruiva piccoli veicoli subacquei con comando a distanza per l'industria petrolifera. L'agente Watson continuò a schiacciare il pulsante del campanello e a bussare con l'altra mano. «Se non apri la porta, la butto giù!». Tutto questo rumore sul pianerottolo del primo piano e nessuno si fece vivo dagli altri appartamenti per vedere cosa stava succedendo. Bei vicini. Dopo due minuti la porta era ancora chiusa. Logan cominciava a esser preso da una sensazione che gli piaceva poco. «Buttala giù», ordinò a Watson. «Cosa?», disse Watson girandosi e bisbigliando. «Non abbiamo un mandato! Non possiamo tirar giù la porta! Io stavo bluffando!». «Buttala giù. Adesso!». L'agente Watson fece un passo indietro e picchiò con forza la pianta del piede destro contro la porta, appena sotto la serratura. Con un gran frastuono la porta si spalancò, sbatacchiando contro la parete dell'ingresso e tornando indietro, scuotendo i quadri alle pareti. Si precipitarono nell'appartamento; Watson nel soggiorno e Logan nella camera da letto. Vuote entrambe. Come nell'appartamento di Chalmers al piano superiore, non c'era porta sulla cucina, che comunque era vuota. Restava il bagno, ed era chiuso dall'interno. Logan scosse la maniglia e picchiò col palmo della mano sulla porta. «Mr Anderson?». Dall'interno si udì un singhiozzo e il suono di acqua che scorreva da un rubinetto aperto.
«Merda». Provò ancora una volta e poi ordinò a Watson di fare il bis. Il calcio dell'agente quasi tirò giù la porta dai battenti. Il locale era pieno di vapore acqueo che si riversò nell'ingresso. L'interno del bagno era parzialmente rivestito in legno, come una sauna, e i sanitari erano di un orribile color avocado. Il bagno era molto piccolo, tanto che la vasca da bagno ne occupava un'intera parete; di fronte c'era la tazza del water. Sulla vasca c'era una tendina della doccia, tirata. Logan la spalancò e si trovò davanti un uomo, vestito, in ginocchio nella vasca che si stava riempiendo d'acqua calda e che con un rasoio usa-e-getta rotto cercava di tagliarsi i polsi. Portarono Mr Anderson direttamente al pronto soccorso, senza aspettare l'ambulanza. L'ospedale era a cinque minuti d'auto. Gli avvolsero i polsi in asciugamani e gli infilarono le mani in borse di plastica trovate in cucina, per evitare che spargesse sangue all'interno dell'auto. Nel suo tentativo di suicidarsi Cameron Anderson non era stato molto bravo. I tagli alle vene erano superficiali, non solo: ma aveva anche tagliato per traverso anziché per lungo. Aveva solo bisogno di qualche punto di sutura e una notte sotto osservazione. Logan sorrise quando l'infermiera glielo disse e le confermò che Mr Anderson avrebbe avuto tutta l'osservazione di cui aveva bisogno in una cella alla Centrale. Lei lo guardò come se fosse qualcosa che aveva appena schiacciato con un piede. «Come diavolo può dire una cosa del genere?», gli chiese. «Quel poveretto ha appena tentato di togliersi la vita!». «È indiziato in un'indagine di omicidio e...», cominciò Logan quando l'infermiera lo interruppe. «Adesso so chi è lei! Lei è quello che è venuto qui ieri. Quello che ha picchiato quel povero vecchio!». «Non mi faccia perdere altro tempo. Dov'è?». L'infermiera incrociò le braccia e gli si mise davanti a gambe divaricate. «Se non se ne va subito, chiamerò gli agenti della sicurezza». «Come vuole. Poi vedremo come se la caverà da un'accusa di intralcio alle forze dell'ordine. Va bene?». Le passò di fianco e si diresse verso la fila di lettini, separati da tendine. Identificò quello di Anderson dal piagnucolio con l'accento edimburghese che ne veniva fuori. L'uomo era seduto sull'orlo del letto, si dondolava avanti e indietro, piangendo, parole mozze che si inframmezzavano ai singhiozzi. Logan
spinse da parte la tendina e andò a sedersi su una sedia di plastica nera dirimpetto al letto. L'agente Watson lo seguì e si piazzò in un angolo, blocchetto alla mano. «Ci si rivede, Mr Anderson», iniziò Logan con fare amichevole. «O posso chiamarla Cameron? E darle del tu?». Anderson non alzò gli occhi. Una piccola macchia di sangue si era formata sulla fasciatura del suo polso sinistro. Continuava a fissarla, incapace di distogliere lo sguardo. «Cameron, c'è qualcosa che mi ha lasciato un po' perplesso», continuò Logan. «Vedi, c'era questo tizio che è venuto quassù da Edimburgo ed è finito nella baia. Abbiamo messo la sua foto sui giornali e abbiamo attaccato poster della sua faccia dappertutto, ma non si è fatto avanti nessuno. Sembra che a nessuno piacesse il modo in cui le sua ginocchia erano state tagliate a colpi di machete». Alla parola "tagliate" Anderson sussultò. "Machete" gli fece emettere un gemito. «Quello che mi ha lasciato perplesso, Cameron, è che tu non ti sei fatto sentire. Non ci hai chiamato. Ma devi aver visto la sua foto: era sui giornali, in televisione e dappertutto». Logan tirò fuori dalla tasca un rettangolo di carta e lo spiegò. Era una fotografia di George Stephenson da vivo. Se l'era portata dietro da quando avevano fatto il giro degli allibratori più pericolosi di Aberdeen. La mise davanti agli occhi di Anderson. «Lo riconosci, vero?». Anderson guardò rapidamente la foto e tornò a guardarsi la fasciatura sul polso sinistro. Ma in quella rapidissima occhiata, Logan capì che non si era sbagliato. Cameron Anderson e Geordie Stephenson. Non avevano lo stesso cognome, ma avevano gli stessi lineamenti pesanti, la stessa folta capigliatura. L'unica cosa che mancava erano i baffetti da pornostar. Anderson bisbigliò qualcosa di inintelligibile. Logan mise la foto per terra, in modo che gli occhi di Geordie fissassero l'uomo sul letto. «Perché hai cercato di suicidarti, Cameron?» «Credevo che lei fosse quell'altro». Le parole furono mormorate più che pronunciate, ma almeno questa volta erano udibili. «Quell'altro, chi?». Anderson rabbrividì. «L'altro. Il vecchio». «Descrivimelo». «Vecchio, grigio». Fece dei gesti con le mani, come se volesse graffiarsi la gola. «Tatuaggi alla gola. Un occhio morto, tutto bianco, come un uovo
in camicia». Logan si appoggiò allo schienale della sedia. «E perché lui, Cameron? Cosa avrebbe potuto volere da te?» «Geordie era mio fratello. Il vecchio... lo...». Si portò una mano alla bocca e cominciò a mordersi le unghie. «Venne all'appartamento. Disse a Geordie che aveva un messaggio per lui. Da parte di Mr McLennan». «Mr McLennan? Malk la Scure?». Logan si fece più avanti con la sedia. «Cosa diceva il messaggio?» «Io lo feci entrare e lui colpì Geordie con qualcosa. E poi cominciò a prenderlo a calci mentre era per terra». Occhi gonfi di lacrime guardarono Logan, imploranti. Le lacrime cominciarono a cadergli giù per le guance. «Provai a fermarlo, ma lui mi diede un pugno...». Questo spiegava il brutto livido che gli avevano visto quando li aveva fatti entrare nella palazzina. «Cosa diceva il messaggio, Cameron?». Il messaggio misterioso che, secondo Simon McLeod tutti ad Aberdeen conoscevano. Tutti meno quelli della polizia. «Mi sputò addosso...». Singhiozzò, e il naso cominciò a colargli. «Si portò via Geordie dall'appartamento e disse che sarebbe tornato per me! E io credevo che lei fosse il vecchio!». Logan guardò l'uomo che aveva di fronte, seduto sull'orlo del lettino a dondolare avanti e indietro, occhi piangenti e naso colante. Mentiva. Aveva guardato dalla finestra e aveva visto Logan e l'agente Watson in strada. Quindi sapeva che era la polizia e non Desperate Doug che era tornato per farlo fuori. «Cosa diceva il messaggio?». Cameron agitò una mano vagamente nell'aria, rendendo la macchia rossa sulla fasciatura ancora più grande. «Non lo so! Aveva detto solo che sarebbe tornato!». «E la bambina?», chiese Logan. Anderson reagì come se Logan gli avesse dato una sberla. Gli ci vollero dieci secondi buoni per riprendersi abbastanza da chiedere: «Bambina?» «La bambina, Cameron», continuò Logan. «Quella che è finita morta nel sacco dell'immondizia del tuo vicino, quello che abita di sopra a te. Ricordi? Un agente di polizia è venuto a trovarti e tu gli hai rilasciato una dichiarazione». Anderson si morse il labbro ed evitò di guardare Logan. Non riuscirono a fargli dire altro. Rimasero lì in silenzio, fino all'arrivo di un paio di agenti che venivano a prelevarlo.
L'agente addetto alla sorveglianza di Desperate Doug MacDuff era arrivato a metà del suo romanzo quando Logan e l'agente Watson arrivarono alla porta. Si annoiava a morte. L'unica cosa che alleviava il suo tedio erano le infermiere, con le quali si divertiva a fare il cascamorto. Logan lo spedì a prendere altri caffè. La stanza di Doug era immersa in penombra; l'unica luce veniva dal televisore acceso. Le immagini sullo schermo, in continuo movimento, generavano giochi di ombre nella stanzetta. Il volume, come prima, era abbassato del tutto e gli unici rumori venivano dal condizionatore d'aria e dal costante ronzio degli apparecchi di monitoraggio. Questi rumori facevano da sottofondo all'affannoso e sibilante respiro di Desperate Doug, che giaceva pallido e inerte, appoggiato a una catasta di cuscini, e fissava lo schermo silenzioso. Logan avvicinò una sedia al letto, ci si mise comodo e: «Buona sera, Dougie», disse con un sorriso nella voce. «Ti ho portato dell'uva». Poggiò un sacchetto di carta vicino ai piedi del vecchio. Dougie fece una smorfia e continuò a guardare il televisore. «Ho appena finito di parlare con qualcuno. È stata una chiacchierata molto interessante. Abbiamo parlato di te». Stese la mano e staccò un chicco d'uva dal grappolo nel sacchetto. Nella penombra verdastra della stanza gli sembrò una piccola emorroide andata in cancrena. «Ti ha indicato come l'autore dell'aggressione e assassinio del fu Geordie Stephenson. Ti ha visto farlo! Pensa te! Prima avevamo solo la prova della scientifica e adesso abbiamo anche un testimone oculare!». Nessuna reazione. Logan prese un altro chicco d'uva. «Questo testimone dice che tu hai anche ucciso la bambina». Non era vero, ma non si sa mai. «Quella che abbiamo trovato nel sacco dell'immondizia». Queste parole riuscirono distogliere l'attenzione di Dougie dal televisore. Si riaggiustò sui cuscini e guardò Logan col suo unico occhio. «Piccolo stronzo!». Il silenzio divenne sempre più carico. Alla luce spettrale del televisore Desperate Doug sembrava scheletrico, con le guance rinsecchite e le orbite cerchiate di scuro. La dentiera era sempre nel bicchiere. «Perché l'hai uccisa, Dougie?» «Sai una cosa?», disse il vecchio, con una voce che sembrava ghiaia e vetro rotto. «Ai miei tempi ero uno stallone. Un vero cavallo da monta. Le donne facevano la fila per farsi scopare da Dougie. Ma erano donne. Vere donne. Non come quei perversi».
Logan guardò Doug che superò un attacco di tosse che lo lasciò spossato. «Vengo a sapere che Geordie sta con questo suo fratellastro mezzo ricchione in Rosemount. E vado a trovarli. A fargli visita. Geordie prova a fare il duro con me, perché lui è il bullo venuto su da Edimburgo e io sono vecchio e rincoglionito. "Fuori dalle palle, nonno, se no ti rompo il deambulatore..."». Un sorriso sdentato si tramutò in una risata che a sua volta generò un altro attacco di tosse. Dougie si lasciò cadere sui cuscini, respirando a fatica. «Così io gli ho dato una strapazzata. Proprio lì nel soggiorno. E il suo fratellastro, questo ricchione, esce dalla stanza da letto con addosso una vestaglia rosa. E lì per lì non ci faccio gran caso, forse stava per fare un bagno, magari con la schiuma profumata o cazzate del genere. Ma sento il pianto di un bambino». Scosse la testa al ricordo. «Il ricchione mi si mette davanti e comicia a urlare: "Come si permette! Lei non può entrare in casa mia e comportarsi così!", mi dice. Come se io me ne fregassi granché. Ma continuo a sentire questo pianto di bambino, e allora voglio andare a vedere di cosa si tratta, ma la signorina in vestaglia rosa non si toglie dai piedi. "Lei non ha alcun diritto...", comincia col dirmi». Picchiò un pugno nel palmo dell'altra mano. «Bang. In camera da letto c'è questa bambina. Nuda, a parte un berrettino di Topolino, sai? Di quelli con le orecchie grosse». Guardò Logan per un cenno di assenso, ma Logan era troppo scioccato da quello che stava sentendo. «Mi trovo davanti questa bambina nuda e questo bastardo nel soggiorno, quasi nudo anche lui». Fece una smorfia al ricordo. «E allora sono tornato di là e ho menato anche lui. Perverso d'un bastardo». Logan si riprese da quanto aveva appena sentito. «Cosa ne è stato della bambina?», chiese. Desperate Doug MacDuff abbassò gli occhi e si guardò le mani. Poggiate sulla coperta, come artigli raggrinziti. L'artrite cominciava a trasformargli le nocche in fonti di dolore. «Sì... la bambina... entra proprio mentre sto dando al ricchione la strapazzata che si merita. Ed è straniera. Tedesca o norvegese o chissà dove. E mi guarda con questi occhioni bruni, e piange, e dice queste porcherie "io ti faccio pompino, io ti do culetto...". E continua a ripeterle...». Il vecchio fu preso da un improvviso tremito e da un altro attacco di tosse. Quando finalmente riprese fiato era più bianco delle lenzuola sulle quali giaceva. «Si era... si era attaccata alla mia gamba e piangeva e diceva quelle cose, tutta nuda e lacrimante e continuava a dirmi io ti do culetto... io le ho dato una spinta per staccarmela di dosso...». Gli
calò la voce. «Cadde contro il caminetto. Bang. Con la testa sul gradino di mattoni». Stavolta il silenzio era palpabile. Doug si era perso nei suoi ricordi, Logan e l'agente Watson cercavano disperatamente di accettare quello che il vecchio gli aveva detto. Fu Doug a rompere il silenzio. «Allora io ho preso su Geordie e me lo sono portato in un posto tranquillo e gli ho fatto quello che sapete, a quello stronzo. Avreste dovuto sentire come urlava mentre gli sfasciavo le ginocchia! Sporco bastardo...». Logan si schiarì la gola. «E come mai hai lasciato vivo suo fratello?». Doug lo guardò, con un'espressione che esprimeva profonda tristezza. «Avevo un lavoro da portare a termine, un messaggio da consegnare. Sarei tornato il giorno dopo. E gli avrei fatto vedere cosa succede a bastardi perversi come lui. E glielo avrei spiegato col mio coltello Stanley. Ma quando sono tornato c'eravate voi maiali dappertutto. E il giorno dopo e il giorno dopo ancora...». Logan annuì. I primi agenti che Doug aveva visto devono essere stati quelli della sua squadra, mentre arrestavano Norman Chalmers. E nei giorni seguenti quelli che facevano indagini porta a porta, cercando testimoni. Mentre Desperate Doug era lì in agguato, ad osservarli. «Sono stato lì come un idiota, nella pioggia e nella neve, beccandomi una polmonite da affiancare al tumore». Sprofondò di nuovo nel silenzio, rivivendo chissà quali momenti della sua vita. Logan si alzò. «C'è solo una cosa che vorrei sapere. Cosa diceva il messaggio?» «Il messaggio?». Un sorriso illuminò brevemente il viso di Dougie. «Il messaggio diceva "Non derubare il tuo padrone"». CAPITOLO 32 L'aria nella saletta d'interrogatorio era pesante. Il termosifone continuava a emanare calore e la finestra dai vetri opachi non faceva entrare aria fresca. Una forte puzza di piedi e di sudore riempiva la stanza, mentre Cameron Anderson sedeva da una parte del tavolino e mentiva. Logan e l'ispettore Insch sedevano dall'altra parte del tavolino e lo ascoltavano con facce impassibili, mentre Cameron continuava a incolpare Desperate Doug MacDuff per tutto ciò che era successo. Lui non aveva niente a che fare con la morte della bambina. «Allora», disse Insch, braccia conserte sul suo ampio torace, «ci stai di-
cendo che la bambina è venuta lì col vecchio». Cameron gli rispose con un sorriso accattivante. «Esattamente». «Desperate Doug, un uomo che ha ucciso dozzine di persone, che brutalizza persone a pagamento viene a casa tua per portarsi via tuo fratello e tagliargli le ginocchia a colpi di machete e si porta con sé una bambina di quattro anni? Era per caso la settimana "Nonni, portatevi un nipotino al lavoro"?». Cameron si leccò le labbra. «Posso solo dirvi quello che è successo», ripeté per circa la ventesima volta. Stava gestendo bene l'interrogatorio, come se non fosse il primo. Come se fosse stato interrogato altre volte. Solo che non era schedato, non era mai stato arrestato. «Cosa molto strana», disse Insch. Tirò fuori un pacchetto di caramelline morbide, ne offrì una a Logan, se ne mise una in bocca e rimise il pacchetto in tasca. «Vedi, Dougie dice che quando è arrivato all'appartamento tu eri in camera da letto con la bambina e che non indossavi niente sotto la vestaglia. Dice che te la stavi scopando». «Douglas MacDuff mente». «Ma allora, se mente, come mai la bambina è morta?» «L'ha spinta, è caduta e ha picchiato la testa contro il caminetto». Era l'unica parte della storia di Cameron che aveva un riscontro nella versione data da Dougie. «E come mai è finita nel sacco dell'immondizia del tuo vicino di casa?» «Il vecchio l'ha avvolta in nastro adesivo e l'ha messa nel sacco». «Dougie dice che sei stato tu a farlo». «Mente». «Davvero...», commentò Insch, respirando a denti stretti e facendo una delle sue lunghe pause. Ci aveva già provato un paio di volte, ma Cameron non era stupido come sembrava. Continuava a tacere. Insch si appoggiò sul tavolino e si chinò in avanti. «Vuoi veramente farci credere che è stato Desperate Doug a sbarazzarsi del corpo della bambina? Ma pensi che un uomo come Doug, che taglia via le rotule di tuo fratello, non sia capace di fare a pezzi il cadavere di una bambina?». Cameron ebbe un leggero sussulto, ma non disse parola. «Vedi, sappiamo che hai provato a farla a pezzi, ma non ci sei riuscito, vero? Ti ha fatto star male. E hai vomitato. Solo che un po' del tuo vomito è finito nel taglio che avevi fatto». Insch sorrise come un squalo. «Sapevi che possiamo risalire al DNA dal vomito? Lo abbiamo già fatto analizzare e ora non ci resta altro che confrontarlo col tuo e sei incastrato».
Improvvisamente la compostezza che Cameron aveva dimostrato fino a quel momento, ebbe un tentennamento. «Io... io...». Si guardò intorno, agitato, come se stesse cercando una via di scampo, o forse un'altra ispirazione. E poi la calma ritornò. «Non... non vi ho detto tutta la verità», disse tornato in controllo delle sue emozioni. «Che sorpresa». Cameron preferì ignorare la battuta sarcastica. «Stavo cercando di proteggere la reputazione di mio fratello». Insch sorrise. «Quale? La reputazione da violento sacco di merda?». Cameron ignorò anche questa e continuò. «Geordie si presentò a casa mia quindici giorni fa: disse che era venuto su per affari e mi chiese se potevo ospitarlo. Aveva con sé una bambina, la bambina della sua amica. Se ne stava prendendo cura, mentre la madre era in vacanza a Ibiza. Io non sospettai niente, ma la sera che Geordie fu ucciso io arrivai a casa e trovai lui e la bambina nudi a letto. Litigammo. Io lo volevo fuori di casa mia. Lo minacciai, gli dissi che avrei chiamato la polizia». Cameron si guardò le mani, come se ci fosse scritta la storia. «In quel momento il vecchio bussò alla porta. Andai ad aprire e mi disse che aveva un messaggio per Geordie, così lo feci entrare. Lui e Geordie erano nel soggiorno e io andai in camera da letto per vedere se la bambina stava bene, per assicurarmi che Geordie non le avesse fatto del male... improvvisamente c'è questo gran fracasso dal soggiorno: vado a vedere e Geordie è per terra, piegato in due. Il vecchio gli sta dando dei calci e Geordie urla dal dolore. Ho cercato di fermarlo, ma quel vecchio era come una belva! E poi... dalla camera da letto viene fuori la bambina e afferra la gamba del vecchio. Lui...». La voce gli morì in gola. «Lui la spinse via e lei cadde all'indietro, picchiando la testa sul gradino del caminetto. Andai lì per prenderla, per darle assistenza, ma era già morta. Allora il vecchio rivolse a me la sua ira». Rabbrividì. «Aveva... aveva questo coltello e voleva che la facessi a pezzi. Disse che se non lo avessi fatto, avrebbe fatto me a pezzi... non potevo farlo. Ci ho provato ma non ho potuto». Cameron abbassò la testa e raccontò come Doug lo avesse picchiato. Come lo avesse costretto ad avvolgere il corpo della bambina in nastro adesivo e gliel'avesse fatta mettere in un sacco nero da immondizia. Cameron non ne aveva, ma il giorno dopo era il giorno della raccolta settimanale dell'immondizia e aveva visto un sacco nero quasi vuoto sul pianerottolo, davanti all'appartamento di Norman Chalmers. Lo aveva preso, ci aveva messo dentro la bambina e lo aveva portato giù, mettendolo nella pattumiera condominiale e coprendolo con altri sacchi. Il vecchio gli aveva
detto che adesso lui era un complice e che se avesse detto a qualcuno cosa era successo la polizia lo avrebbe messo dentro. «Che storia affascinante!», commentò Insch. «Poi mi minacciò di morte se avessi detto a qualcuno cosa era successo. E quella fu l'ultima volta che vidi lui, mio fratello e la bambina». Quando Cameron finì, nessuno parlò; l'unico rumore era il gentile ronzio dell'audio registratore. «Se Geordie era tuo fratello, come mai avete cognomi diversi?». Cameron si mosse sul sedile, chiaramente a disagio. «Madri diverse. Geordie era figlio della prima moglie di mio padre. Divorziarono e Geordie fu allevato col cognome nubile di sua madre. Mio padre si risposò e io nacqui sei anni dopo». Di nuovo silenzio, rotto questa volta da Logan. «E se ti dicessi che abbiamo trovato liquido seminale in bocca alla bambina?». Cameron impallidì. «Vuoi scommettere che avrà il tuo DNA? Questa è una prova che non potrai attribuire al vecchio!». Sembrava che Cameron avesse avuto una mazzata in fronte. La bocca gli si apriva e chiudeva, come a un pesce fuor d'acqua. E Insch era altrettanto scosso. Nessuno parlava. «Sergente», disse alla fine Insch, «vorrei parlarti. Ti dispiace uscire per un attimo nel corridoio, per favore?». L'interrogatorio fu sospeso e i due investigatori uscirono, lasciando Cameron sotto l'occhio vigile dell'agente di guardia. Insch guardò Logan con un'espressione arrabbiatissima. «Perché non mi è stato detto che avevamo trovato sperma nella bocca della bambina?», chiese con voce bassa e adirata. «Perché non ce n'era», rispose Logan sorridendo. «Ma Cameron non lo sa». «Sei uno sporco bastardo di un imbroglione, sergente McRae», disse Insch, con la smorfia di rabbia che si aprì in un sorriso pieno di orgoglio quasi paterno. «Hai visto l'espressione di Anderson quando glielo hai detto? Sono sicuro che ha le braghe piene di merda!». Logan stava per rispondergli quando un'agente dall'aria preoccupata si avvicinò per parlargli di Roadkill. Dall'ospedale un dottore aveva chiamato il numero di emergenza. Qualcuno lo aveva fatto fuori. Insch bestemmiò e si passò una delle sue manacce sul viso. «E doveva essere sotto sorveglianza in una casa protetta! E nonostante questo si fa
picchiare, ricoverare in ospedale e poi riesce a farsi ammazzare!». Si appoggiò al muro, sconvolto. «Dacci cinque minuti», disse all'agente, e rientrò nella saletta, seguito da Logan. Vedendoli entrare Cameron Anderson alzò la testa di scatto e li guardò con aria preoccupata. Insch invece lo guardò come se fosse una macchia di qualcosa di poco piacevole. «Questo interrogatorio termina ufficialmente e riprenderà alle nove di domattina. L'agente ti scorterà alla tua cella». Si appoggiò pesantemente con le nocche sul tavolo e si chinò in avanti, così vicino al viso di Cameron che poteva sentire l'odore di paura nel sudore del giovanotto. «E sarà bene che cominci ad abituarti a dormire in una cella», disse al tremante Cameron che lo guardava con occhi spalancati, «perché ci dormirai per i prossimi venti anni!». Presero la lurida Range Rover dell'ispettore. I vetri laterali erano lerci, ma dall'interno; dove il suo cane aveva leccato e sporcato col naso. Insch li portò per le strade innevate di Rosemount. Guardando cupamente fuori dal finestrino, Logan osservava gli edifici in granito che passavano, pensando a Roadkill e anche alla conversazione che aveva avuto con l'agente Watson mentre passavano per questa stessa strada. Come Insch girò un angolo, dirigendosi verso l'ospedale, qualcosa attraversò la mente di Logan. Guardò le case ai lati della strada: una renna di plastica, con tanto di naso al neon, rosso e lampeggiante, gli ricordò qualcosa. Era qui che avevano visto il patrigno di Peter Lumley, girovagante per le strade, cercando il suo bambino. Anche se sapeva che il suo bambino era morto... L'ispettore inserì l'indicatore di direzione per svoltare in Westburn Road. «Hai una faccia come il culo di un maiale. Qualcosa ti preoccupa?». Logan scosse la testa, pensando ancora a quel poveraccio, che vagava nella neve cadente piegato dal vento, con i pantaloni bagnati fino al ginocchio. «Qualcosa... non so. Magari non è niente». All'interno dell'ospedale c'era molto caldo. I termostati erano quasi al massimo per combattere il freddo esterno e trasformavano l'interno in una serra. La stanza che Bernard Duncan Philips alias Roadkill aveva condiviso con un altro paziente non era diversa dà come l'avevano vista prima: solo più affollata. C'era la squadra dell'IB, un fotografo, Insch e Logan, tutti vestiti in tute bianche cartacee, come se facessero tutti parte di un corpo di ballo.
L'altro letto dell'unità di rianimazione era vuoto; un'infermiera sui quarant'anni e con gli occhi pieni di lacrime disse a Logan che l'altro paziente era morto quel pomeriggio. Il fegato aveva ceduto. Mentre il fotografo scattava fotografie, accompagnato dal click e dal sibilo di ricarica del suo flash, Logan diede un'occhiata al cadavere di Roadkill. Era stravaccato di traverso sul letto, un braccio ingessato che pendeva sul linoleum e il gocciolio di sangue che si stava lentamente coagulando sulle punte delle dita. La fasciatura sulla testa era rossa intorno agli occhi e alla bocca; e quella sul torace era così satura di sangue da essere quasi nera. «Ma non c'era un agente a sorvegliarlo? Dov'è andato a finire?». Insch era di umore nero. Nel corridoio un agente in divisa, piuttosto imbarazzato, alzò la mano e spiegò che c'era stata una rissa al pronto soccorso; due ubriachi e un buttafuori si erano dati botte da orbi. Le infermiere impaurite lo avevano chiamato per assisterle. Insch strinse le mascelle e lentamente contò fino a dieci. «Suppongo che la morte è stata dichiarata?», chiese quando finì di contare. L'agente disse no, e questo scatenò la rabbia dell'ispettore. «Siamo in un ospedale, porco diavolo! E negli ospedali ci sono dottori! Va a chiamare uno di quei pigri fannulloni; che venga qui a dichiarare ufficialmente che il loro paziente è morto!». Mentre aspettavano uno dei pigri fannulloni Insch e Logan diedero un'occhiata al cadavere da quanto più vicino possibile, ma senza toccare nulla. «Pugnalato», disse Insch guardando attentamente le piccole incisioni rettangolari nelle fasciature. «Cosa ti sembra?», chiese a Logan. «Qualcosa con la punta a scalpello. O forse un cacciavite. Uno stiletto? Forbici?». L'ispettore si accovacciò per terra, guardando sotto il letto, sperando di trovarvi un coltello. Ma l'unica cosa che vide era dell'altro sangue. Mentre l'ispettore cercava l'arma del delitto, Logan esaminò attentamente il cadavere. Le ferite erano identiche, non più di quindici millimetri in lunghezza e due millimetri di larghezza, tutte sulla parte sinistra del corpo. L'assassino era stato preso da un attacco di furia, le pugnalate tante e furiose. Chiuse gli occhi e cercò di immaginare la scena. Roadkill privo di sensi, l'assassino sul lato sinistro del letto, il lato più distante dalla porta. I colpi uno dopo l'altro, e ancora e ancora. Logan aprì gli occhi e fece un passo indietro, leggermente nauseato. C'e-
ra sangue dappertutto. Non solo sul letto e sul cadavere, ma anche sulla parete. Girò la testa all'indietro e osservò macchioline di sangue sulle piastrelle quadrate di polistirolo del finto plafond. Alla fine della sua sfuriata col pugnale, l'artefice di questo delitto avrebbe dovuto somigliare a qualche personaggio di un film d'orrore. Qualcuno da non dimenticare facilmente. Questa non era un'aggressione violenta a caso. E neanche violenza da parte di una squadra di protettori presuntuosi. Questa era vendetta. «Cosa succede? Perché sono stata chiamata qui?». La voce era stressata e irritata, proprio come chi aveva detto quelle parole; una dottoressa, bene in corpo, camice bianco, stetoscopio al collo. Logan alzò le mani in un gesto di scusa e si scostò dal letto. «Dottore, lei deve dichiarare ufficialmente la morte, altrimenti non possiamo toccare il cadavere». Lo guardò sdegnata. «Certo che è morto!», rispose. «Vede questo?», indicò il cartellino d'identità spillato sul suo camice. «C'è scritto "dottore". E questo significa che riconosco un morto quando lo vedo!». L'ispettore Insch si avvicinò, tirò fuori il suo tesserino e lo mise sotto il naso del dottore. «E lei vede questo? C'è scritto "Ispettore, polizia investigativa". E questo significa che io le chiedo di comportarsi come una persona adulta. Senza prendersela con i miei subalterni per i problemi che l'assillano, chiaro?». Lo guardò accigliata, senza dire niente. Lentamente i lineamenti del viso le si ammorbidirono. «Mi dispiace», disse. «È stata una giornata bestiale». Insch annuì. «Magra consolazione, ma capisco benissimo come si sente». Fece un passo indietro e indicò il cadavere. «È in grado di darci un'idea circa l'ora della morte?» «Domanda facile. Tra le 20,45 e le 22,15». Insch fu colpito da questa precisione. «Non ci capita spesso di ricevere stime così precise, addirittura al quarto d'ora». Il dottore gli sorrise. «I pazienti vengono controllati periodicamente. Quelle sono le ore degli ultimi controlli. Alle 20,45 era vivo. Alle 22,15 era morto». L'ispettore la ringraziò e lei stava per rispondergli, quando il suo cercapersone emise una serie di squilli. Lo tirò fuori, lesse il messaggio, imprecò e fatte delle rapide scuse, si allontanò. Logan continuò a guardare il cadavere insanguinato di Bernard Duncan Philips. C'era qualcosa che lo lasciava perplesso, ma non riusciva a isolar-
la, tra le tante cose che gli giravano in testa. E improvvisamente ci riuscì. «Lumley», disse. «Cosa?», chiese Insch, guardandolo come se gli fosse spuntata un'altra testa. «Il patrigno di Peter Lumley, ricorda? Continua a gironzolare da queste parti. L'ultima volta che l'ho visto veniva via dall'ospedale. Ha sempre incolpato Roadkill per la morte di suo figlio». «E allora?». Logan guardò dall'ispettore al corpo insanguinato sul letto. «Sembra che sia riuscito a vendicarsi». CAPITOLO 33 Era quasi mezzanotte. Hazlehead era fredda e buia. Qui la neve era più densa e più alta di quanto lo fosse in centro città, con gli alberi che spiccavano come le schede a macchia d'inchiostro del test Rorschach. Le luci gialle dell'illuminazione stradale e quelle blu lampeggianti delle auto della polizia contribuivano a creare uno scenario quasi irreale. La maggior parte delle finestre del palazzo erano buie, ma qui e lì qualche tendina si spostava: qualche residente che si chiedeva cosa volesse la polizia a quest'ora. La polizia voleva Jim Lumley. L'appartamento dei Lumley era totalmente diverso dall'ultima volta che Logan e Insch erano stati lì. Adesso sembrava un porcile. Sul tappeto del soggiorno erano ammucchiati contenitori di pasti da asporto e lattine vuote di birra. Tutte le foto incorniciate erano state tolte dalle pareti del resto dell'appartamento e appese nel soggiorno: un enorme collage della vita di Peter Lumley. Insch suonò il campanello; e quando Jim Lumley aprì la porta, si spinse dentro, seguito da Logan e da un paio di agenti in divisa. Jim non oppose alcuna resistenza a questa intrusione. Rimase lì, con addosso la sua lurida tuta, con la barba lunga di giorni, spettinato e malmesso. «Se cercate Sheila, non c'è», disse lasciandosi cadere sul divano. «Se n'è andata due giorni fa... è andata da sua madre». Sganciò una lattina di Special dal suo collarino di plastica e l'aprì. «Non siamo qui per vedere Sheila, Mr Lumley», disse Insch. «Siamo qui per lei». Lo straccione annuì e tirò giù un altro sorso. «Roadkill», mormorò senza neanche asciugare la birra che gli colava dal mento. «Sì, Roadkill», confermò Logan sedendosi all'altra estremità del divano.
«È morto». Jim Lumley annuì lentamente e continuò a fissare la lattina di birra che teneva in mano. «Ci vuol dire com'è andata, Mr Lumley?». Lumley alzò la testa e vuotò la lattina; la schiuma gli colò dai lati della bocca e sulla tuta lercia. «Non c'è molto da dire...», disse stringendosi nelle spalle. «Andavo in giro, cercando Peter, e improvvisamente me lo sono trovato davanti. Proprio come la sua foto sui giornali». Prese un'altra lattina di birra, ma Insch gliela tolse di mano prima che potesse aprirla. L'ispettore disse ai due agenti in divisa di cercare l'arma del delitto nell'appartamento. Lumley prese un cuscino dal divano e se lo strinse al petto, come una borsa dell'acqua calda. «L'ho visto e l'ho seguito nel boschetto». «Nel boschetto?». Logan si era aspettato qualcosa di diverso, ma l'ispettore gli diede un'occhiata, facendolo tacere. «Camminava come se non fosse successo niente. Come se Peter non fosse morto!». Lumley diventò rosso in volto. «L'ho afferrato... volevo solo parlargli. Dirgli che era un essere abietto...». Si morse il labbro e guardò il cuscino che aveva in mano. «Ha cominciato a urlare e gli ho dato un pugno. Solo per farlo tacere. Ma poi... poi non sono riuscito a fermarmi. Ho continuato a picchiare e picchiare...». Gesù, pensò Logan; e noi abbiamo pensato che era stato aggredito da una banda, mentre era un uomo solo! «E poi... poi ha ricominciato a nevicare. Avevo freddo. Mi sono lavato il sangue dalla faccia e dalle mani con la neve e sono tornato a casa». Si strinse nelle spalle. «Ho detto a Sheila quello che era successo e lei ha fatto le valigie e se n'è andata». Una lacrima gli scese dall'occhio. Tirò su col naso e cercò di bere dalla lattina vuota che aveva poggiato per terra. «Sono un mostro... proprio come lui...». Guardò nella lattina vuota, vedendoci solo tenebre profonde. «È morto allora?», chiese schiacciando la lattina vuota. Insch e Logan si scambiarono un'occhiata. «Certo che è morto», disse Insch. «Qualcuno lo ha trasformato in un colabrodo». Un sorriso, amaro e triste, increspò le labbra di Jim Lumley. «Ben gli sta». Fuori nevicava. La coltre di nuvole era così bassa che il riflesso dei lampioni la illuminava dal basso, facendola sembrare gialla. Due agenti ave-
vano preso Jim Lumley e lo avevano messo in macchina per portarlo alla Centrale. «Bene», disse Insch col respiro che si trasformava in nuvolette. «L'uomo era sbagliato, ma il movente era giusto». Mostrò un pacchetto di caramelle a Logan che scosse la testa. Insch ne tirò fuori una manciata e se le mise in bocca una alla volta mentre tornavano alla sua infangata Range Rover. «Crede che lo condanneranno?», chiese Logan mentre l'ispettore avviava il motore e inseriva riscaldamento e ventole al massimo. «Penso proprio di sì. Però è un peccato che non sia stato lui a ucciderlo. Così noi avremmo concluso il caso». «Torniamo all'ospedale?», chiese Logan. «Ospedale?». Insch diede un'occhiata all'orologio del cruscotto. «È quasi l'una del mattino! Mia moglie m'impiccherà!». La signora Insch non era molto contenta quando suo marito faceva le ore piccole. «Ho lasciato agenti in divisa a prendere dichiarazioni: le controlleremo in mattinata. E sono quasi tutti a letto». Insch lo accompagnò al suo appartamento; prima di entrare, Logan si soffermò sul marciapiede, guardando l'auto dell'ispettore che si allontanava. Entrò in casa e vide subito che la spia della sua segreteria telefonica lampeggiava. Per un attimo pensò che fosse l'agente Jackie Watson; era invece Colin Miller che aveva saputo dell'assassinio di Roadkill e voleva un aggiornamento in esclusiva. Con un grugnito Logan schiacciò il pulsante "Cancella" e andò a letto. Mercoledì, e la giornata cominciò come voleva continuare. Logan stava uscendo dalla doccia; il telefono squillò, ma non fece in tempo a rispondere prima dell'inserimento della segreteria telefonica. Un'altra telefonata di Miller che chiedeva a Logan di vuotare il sacco. Logan non prese neanche su la cornetta; lasciò il giornalista a parlare da solo e andò in cucina a farsi del tè e del pane tostato. Uscendo dall'appartamento si fermò brevemente per cancellare il messaggio di Miller senza neanche ascoltarlo. Dubitava che quella fosse l'ultima telefonata che avrebbe ricevuto dal giornalista quest'oggi. La riunione del mattino fu una cosa molto contenuta, con Insch che sbadigliando fece un riassunto degli eventi della sera prima, all'ospedale e nella saletta d'interrogazione numero tre. L'ordine del giorno era ricerca d'informazioni porta a porta. Di nuovo. Finita la riunione Logan rimase nel centro, mentre tutti uscivano. Riuscì
a scambiare un sorriso con l'agente Watson mentre lei si recava a interrogare dottori, infermiere e pazienti. Doveva ancora pagarle da bere. Insch si era sistemato al suo solito posto, appoggiato alla scrivania. Si frugava nelle tasche per qualcosa di dolce, ma finì la ricerca a mani vuote. «Credevo di avere delle caramelle...», borbottò quando Logan si avvicinò e gli chiese cosa avesse in programma per quella mattina. Avendo concluso a mani vuote la ricerca per qualcosa di dolce, Insch gli disse di far portare Anderson Cameron in una saletta d'interrogazione e lasciarlo lì per un po'. «Conosci la routine: il sospetto al tavolino sotto il vigile sguardo di un agente in piedi vicino alla porta che lo guarda, fisso e taciturno. Si prenderà un po' di strizza nelle chiappe». Alle nove Insch e Logan andarono alla numero tre, dove faceva molto caldo e dove Cameron Anderson aveva atteso per quasi un'ora, sotto lo sguardo ostile di un agente in divisa. Come Insch aveva previsto, sembrava seduto su carboni roventi. «Mr Anderson», cominciò Insch con una voce totalmente priva di calore umano mentre si sedevano per l'interrogatorio, «ben gentile da parte sua trovare tempo per noi, con tutti i suoi impegni!». Cameron sembrava impaurito e anche esausto, come se avesse passato la notte insonne a piangere. «Presumo», continuò l'ispettore, mettendosi una caramella morbida in bocca, «che lei abbia architettato una nuova e miracolosa interpretazione per ciò che accadde quella sera. Magari l'intervento di qualche extraterrestre?». Cameron aveva poggiato le braccia sul tavolo e le mani gli tremavano leggermente. «Geordie e io ci siamo conosciuti quando io avevo dieci anni. Sua madre morì di un tumore al seno e lui venne a vivere con noi». Parlava con voce tremula. «Era più grande di me...». La voce divenne un mormorio, tanto che Logan dovette chiedergli di alzare la voce per la registrazione audio. «Geordie mi fece delle cose. Lui...». Cominciò a piangere. Si morse il labbro e cominciò a parlare di suo fratello. Geordie era venuto su da Edimburgo tre settimane prima. Doveva fare degli affari per conto del suo capo. C'era di mezzo anche una licenza edilizia. Spendeva come se i soldi non avessero valore. Forti scommesse. Solo che non vinceva. Poi l'affare della licenza edilizia non andò in porto e Geordie aveva speso tutti i soldi della bustarella, quindi provò con le minacce. E poi fu costretto a lasciare la città alla svelta. «Ha spinto un funzionario dell'ufficio licenze sotto un bus», disse Insch.
«Versa in gravi condizioni all'Aberdeen Royal Infirmary col cranio sfasciato e il bacino a pezzi. Morirà». Cameron continuò la sua storia, senza neanche alzare gli occhi. «Dopo una settimana Geordie tornò. Disse che il suo boss voleva sapere che fine avevano fatto i soldi. Non li aveva e ogni giorno venivano uomini degli allibratori a casa mia a cercarlo. Lo portarono via. Tornò il giorno dopo e orinava sangue». Rabbrividì, con occhi lucenti. «Ma Geordie aveva un piano. Disse che qualcuno cercava qualcosa di speciale. Qualcosa che lui era in grado di fornire». Logan aguzzò le orecchie e si fece avanti sulla sedia. Anche Colin Miller aveva detto qualcosa del genere. Che qualcuno voleva comprare della merce viva. «Non lo vidi per un paio di giorni. Poi tornò all'appartamento e aveva con sé questo valigione, e dentro c'era questa bambina. Era narcotizzata. Disse... disse che era la soluzione a tutti i nostri problemi. L'avrebbe venduta a quest'uomo e col ricavato avrebbe pagato gli allibratori e restituito i soldi della bustarella al suo boss. Nessuno avrebbe notato la sparizione della bambina». «Come si chiamava la bambina?», chiese Logan. Nell'oppressivo calore della saletta la voce era gelida. Cameron scosse la testa, con gli occhi pieni di lacrime. «Non lo so... non lo so. Era straniera. Russa o qualcosa di simile. Sua madre era una prostituta in Edimburgo, importata apposta. Solo che era morta di overdose e la bambina era... come dire, superflua...». Tirò su col naso. «Geordie l'aveva portata via prima che qualcun altro venisse a rivendicarla». «Quindi tu e tuo fratello avreste venduto una bambina di quattro anni a qualche bastardo perverso?», chiese Insch con malcelata rabbia. Era diventato rosso in viso, e gli occhi gli brillavano come due diamanti neri. «Non io! Io non c'entravo! Era lui! Era sempre e solamente lui...». Insch lo guardò malefico, ma non aggiunse altro. «La bambina non parlava inglese, quindi lui le insegnò a dire cose... sapete cosa». Si prese la testa tra le mani tremolanti. «Porcherie. Senza dirle cosa significavano». «E così tu l'hai violentata. Prima le hai insegnato a dire "Prendi mio culetto" e poi glielo hai preso, vero?» «No! No! Non potevamo...». Arrossì. «Geordie disse che doveva essere... sapete... vergine». Logan fece una smorfia di disgusto. «Quindi tu glielo hai messo in boc-
ca?» «Era stata un'idea di Geordie! Fu lui a farmelo fare!». Cameron piangeva. «Solo una volta. L'ho fatto solo una volta! Fu quella sera quando venne il vecchio. Stava picchiando Geordie e io ho cercato di fermarlo. Poi è uscita la bambina; si è impaurita e ha cominciato a dire quelle cose che Geordie le aveva insegnato. Si era aggrappata al vecchio e lui l'ha spinta; è caduta e ha picchiato la testa contro il gradino del caminetto ed è morta». Guardò Insch con occhi imploranti. Ma lo sguardo di Insch rimase gelido e implacabile. «Il vecchio mi disse che avrebbe ucciso Geordie e poi sarebbe tornato per me!». Si asciugò le lacrime con la manica, ma altre sgorgarono. «Dovevo liberarmi di lei! Era lì per terra, vicino al caminetto, nuda e morta. Ho provato a farla a pezzi, ma non ci sono riuscito. Era... era...». Rabbrividì e si asciugò di nuovo gli occhi. «Quindi l'ho avvolta in nastro adesivo. Le ho versato della candeggina in bocca per... per... sapete... per lasciarla pulita». «E hai cercato un sacco nero nel quale metterla». Cameron annuì e una lacrima gli cadde sulla deposizione che stringeva tra le mani. «E poi l'hai buttata nella pattumiera con l'immondizia». «Sì... mi dispiace. Mi dispiace tanto...». Dopo aver firmato la dichiarazione, nella quale ammetteva di aver violentato una bambina di quattro anni, Cameron Anderson fu riportato in cella, per comparire davanti al magistrato della Sheriff Court la mattina dopo. Non ci furono celebrazioni. Dopo la sua macabra confessione, nessuno ne aveva voglia. Tornato nel suo ufficio Logan sospirò e tolse la foto della bambina dalla parete. Si sentiva come svuotato. La cattura dell'uomo che l'aveva violentata e poi si era disfatto di lei come se fosse soltanto pattume di casa lo aveva fatto sentire sporco per associazione. Si vergognava di appartenere alla razza umana. Insch si appoggiò all'orlo della scrivania e aiutò Logan a sistemare le dichiarazioni raccolte nel corso delle indagini. «Credi che riusciremo mai a sapere chi fosse?». Logan si fregò il viso con le mani, sentendo la ruvidità della barba. «Ne dubito». «Poco importa», disse Insch, mettendo le dichiarazioni nella cartella del caso e lasciandosi sfuggire un lungo sbadiglio. «Abbiamo altre cose in
pentola di cui preoccuparci». Roadkill. Per andare all'ospedale presero un'auto del parco vetture del CID, con l'agente Watson alla guida. L'Aberdeen Royal Infirmary era più indaffarata del solito; arrivarono mentre veniva servito il pasto di mezzodì: lesso, con patate lesse e verza bollita. Superarono un inserviente che spingeva il carrello del pasto, lasciandosi dietro la scia dell'odore di verza cotta. «Se dovessi essere ricoverato in ospedale, rammentami di optare per il reparto solventi», mormorò Insch a Logan, arricciando il naso. In una saletta vuota riunirono tutti gli agenti in divisa che avevano raccolto deposizioni da pazienti e personale per farsi aggiornare sulle loro indagini. Non c'era molto che valesse la pena di scrutinare, ma lo fecero comunque, ringraziando tutti per i loro sforzi. Nessuno aveva visto o sentito niente. Avevano anche esaminato le cassette video della TV a circuito chiuso: nessuno era scappato dall'ospedale con gli abiti imbrattati di sangue. L'ispettore fece loro un discorsetto di circostanza e li rimandò ai loro posti di lavoro. Rimasero solo loro tre. «Voi due datevi da fare: io voglio andare a parlare con quel dottore di ieri sera». Si allontanò, frugandosi nelle tasche. «Da dove vuole cominciare?», chiese l'agente Watson. Logan pensò alle belle gambe di Jackie Watson e dal come spuntavano bene da sotto una sua maglietta in cucina. «Io...» disse, decidendo che quello non era né il luogo né il momento. «Perché non andiamo a dare un'occhiata alle videocassette della sorveglianza? Vediamo se c'è qualcosa che potrebbe essere sfuggito a un primo controllo». «Signorsì», scherzò lei. Facendogli anche un salutino. Logan cercò di non pensare all'agente Watson mentre attraversavano l'ospedale per recarsi alla centrale di sorveglianza, ma non ci riuscì. «Sono ancora in debito con te», riuscì a dirle, prendendo il coraggio a due mani quando arrivarono all'ascensore. «Non ti ho portata al pub, come ti avevo promesso ieri sera». Watson annuì. «Non me ne ero dimenticata, signore». «Bene». Schiacciò il pulsante del piano. Per darsi un'aria disinvolta, si appoggiò al passamano all'interno dell'ascensore. «Facciamo stasera?» «Stasera?».
Logan si sentì arrossire. «Voglio dire... se hai da fare, fa niente... magari qualche altra sera...». Cretino. L'ascensore si fermò. «Stasera va benissimo», rispose lei sorridendogli. Logan era troppo contento per poter dire qualcosa: aveva paura di impappinarsi. Uscirono dall'ascensore e andarono alla centrale. Era una stanza piccola e compatta. Un lungo bancone, con tanti piccoli televisori sulla parete. Alcuni videoregistratori giravano in silenzio, registrando tutto ciò che stava succedendo nell'ospedale. Il tutto era monitorato da un giovanotto dai capelli ossigenati e dalla faccia piena di brufoli che indossava la divisa dell'agenzia di sicurezza privata in servizio all'ospedale, completa di berretto con visiera. Sembrava uno stronzetto col cappello. Il giovanotto spiegò che nella stanza dove era stato assassinato Roadkill non c'era una telecamera. Le telecamere erano nei corridoi principali, al pronto soccorso e a tutte le uscite. Qualcuno dei reparti dov'erano ricoverati i pazienti aveva la telecamera, ma la legge sulla privacy rendeva difficile il registrare pazienti mentre venivano curati. C'erano diverse videocassette registrate la sera prima, e gli agenti le avevano già viste, ma se Logan voleva rivederle, si accomodi pure. In quel momento il cellulare di Logan squillò; nella piccola stanza sembrò la tromba del giudizio universale. L'agente di sorveglianza lo guardò severamente. «I telefoni cellulari devono essere spenti!». Logan chiese scusa, dicendo che sarebbe stata una cosa brevissima. Era ancora Miller. «Laz! Cominciavo a pensare che forse eri sparito dalla faccia della terra!». Logan girò le spalle al giovanotto con la divisa color merda marrone. «Colin, sono piuttosto preso. È urgente?» «Dipende dal tuo punto di vista. Ti trovi per caso vicino a un televisore?» «Cosa?» «Televisore. Un coso quadrato, con uno schermo, ci si vede la gente e le partite di calcio e...». «So cos'è un televisore». «Bene; se ne hai uno a portata di mano, accendilo e guarda la Grampian TV. Ciao». «È possibile ricevere i programmi TV su questi schermi?», chiese Logan allo stronzetto della sorveglianza. Il brufoloso disse no, ma Logan avrebbe potuto provare una delle stanze
lungo il corridoio. Tre minuti dopo si trovavano di fronte a uno schermo sul quale sbrodolava una soap opera americana. Nel letto alle loro spalle una paziente ottuagenaria con i capelli tinti in rosso russava, con la dentiera nel bicchiere. «Davvero, Adelaide», diceva un abbronzatissimo biondone dallo stomaco piatto e dai denti perfetti. «Stai dicendo che quella bambina è figlia mia?». Musichetta drammatica, primo piano di una truccatissima brunetta col seno pneumatico, pubblicità. Montascale. Patatine. Sapone in polvere. E poi la faccia di Gerald Cleaver riempì lo schermo; indossava un cardigan ed era seduto in una poltrona in pelle dallo schienale alto, che lo faceva sembrare integro e distinto. Hanno cercato di farmi passare per un mostro!, diceva. Altra inquadratura di Cleaver che portava a spasso un labrador. Questa volta diceva: Mi hanno accusato di orrendi reati che non ho commesso!. E poi l'inquadratura finale, questa volta seduto sul muretto di una stradina di campagna, con un'espressione sincera e addolorata. Leggete la storia del mio anno d'inferno, solo nel «News of the World»! «Ossignore!», esclamò Logan mentre il logo del giornale appariva sullo schermo. «Ci mancava solo questa!». CAPITOLO 34 Imprecando sottovoce e criticando il giornale che aveva dato soldi a Gerald Cleaver per la sua storia, Logan e Watson tornarono alla centrale di sorveglianza. Il giovanotto con un i brufoli nell'uniforme color merda marrone stava uscendo di corsa, raddrizzandosi il berretto mentre correva. «Problemi?», gli chiese Watson. «Ho notato un taccheggiatore allo spaccio! Rubava dei Mars!», rispose correndo lungo il corridoio. Lo videro sparire dietro l'angolo e precipitarsi giù per le scale, ansioso di raggiungere la scena del reato. Watson sorrise compiaciuta. «Come se la passano gli altri...». Un altro agente, un uomo tarchiato sui cinquant'anni con la pelata coperta dai capelli del retro pettinati in avanti e sopracciglia come un terrier, aveva preso il posto del brufolato. Stava bevendo a canna da una bottiglia di hucozade e leggendo una copia del giornale di quella mattina. "L'AMMAZZA-BAMBINI PUGNALATO A MORTE!" diceva la prima pagina. Quando Logan e Watson gli spiegarono lo scopo della loro visita, grugnì e
mostrò loro la pila di videocassette. Si sistemarono a un tavolinetto con un videoregistratore e cominciarono a riguardare le videocassette. Gli agenti che erano stati qui prima avevano facilitato il loro compito, avvolgendole in avanzamento rapido al momento dell'assassinio di Roadkill. Logan e Watson se le guardarono tutte, mentre l'addetto alla sicurezza se ne stava lì a leggere il giornale, bevendo la sua hucozade e succhiando tra i denti. Sui nastri le persone si muovevano a scatti, perché le telecamere registravano un'inquadratura ogni tre o quattro secondi, facendo sembrare il tutto come un cartone animato canadese sperimentale. I volti non erano perfettamente messi a fuoco, ma era possibile riconoscerli quando si avvicinavano alla telecamera. Dopo una mezz'ora Logan aveva riconosciuto una manciata di persone tra le centinaia di facce che erano passate sullo schermo del suo monitor: il dottore che aveva in cura Desperate Doug, l'infermiera che gli aveva dato del mostro per aver picchiato un povero vecchio, il giovane agente addetto alla sorveglianza del geriatrico picchiatore, la dottoressa che aveva ufficialmente dichiarato la morte di Roadkill ieri sera, il dottore che aveva passato sette ore a ricucirgli le budella un anno fa e l'infermiera Henderson, occhio nero ben visibile sullo schermo, mentre camminava lungo il corridoio "in borghese"; jeans, maglione da rugby e scarpe da ginnastica, un borsone sulla spalla. Watson si fece sfuggire un lungo sbadiglio e stese le braccia per sgranchirle. «Quante altre cassette?», chiese Logan. «Scusi, signore», rispose lei ricomponendosi. «Solo due cassette delle uscite e poi avremo finito». Logan ne inserì una nel videoregistratore. Un ingresso laterale dell'ospedale. Tante facce che passavano parlando, ridendo o che abbassavano la testa per affrontare il vento pungente. Niente di sospetto. L'ultima era l'accettazione del pronto soccorso. E qui il nastro registrava a velocità normale, per registrare i frequenti casi di violenza e comportamento antisociale causati da ubriachezza. Qui Logan riconobbe diverse facce; tanta gente che aveva arrestato. Persone che avevano urinato negli androni di palazzi, ladruncoli, vandali. Un individuo era stato arrestato per essersi "dato goduria" nei giardini di Union Terrace con una bottiglia di vino. Ma tutta roba di ordinaria amministrazione. Eccetto la rissa che era scoppiata all'improvviso, quando due ubriachi si erano lanciati contro un enorme buttafuori con un braccio fasciato e appeso al collo. Urla, sedie capovolte, sangue. Infermiere spaven-
tate che cercavano di separare i facinorosi. E poi l'improvviso arrivo sfocato di un agente di polizia che metteva fine alla lite con tre buone spruzzate del potente gas CS. Seguivano le immagini dei tre che si contorcevano per terra, urlando. Ma nessun segno dell'assassino di Roadkill. Logan si appoggiò allo schienale della sedia e si fregò gli occhi. L'incidente era avvenuto alle 22,20. L'agente era rimasto al pronto soccorso per assicurarsi che tutti fossero ancora vivi: 22,25. Il giovane ed eroico agente accetta una tazza di tè dalle riconoscenti infermiere, dopodiché ritorna al suo posto di sorveglianza, alla porta della stanza di Roadkill: 22,30... Logan cominciava a essere stufo: queste videocassette non avrebbero rivelato niente. E improvvisamente l'infermiera Henderson riappare sullo schermo, occhio nero sempre visibilissimo. Logan aggrottò la fronte e mise il registratore in "Pausa". «Cosa c'è?», chiese Watson strizzando gli occhi allo schermo. «Noti niente di strano?». La Watson confessò che non vedeva niente di strano. Logan le indicò l'infermiera Henderson, col suo borsone. «Indossa l'uniforme da infermiera». «E allora?» «Sull'altro nastro era in borghese». «Vuol dire che si è cambiata». «Però ha ancora il borsone con sé. Se si è cambiata, perché non ha lo lasciato nel suo armadietto?» «Forse qui non hanno gli armadietti». Logan chiese all'anziano addetto alla sorveglianza se c'erano armadietti negli spogliatoi delle infermiere». «Sì», rispose lui; «ma se lei crede che le farò vedere una videocassetta delle infermiere che si spogliano, si sbaglia di grosso!». «Stiamo indagando su un assassinio!». «Non m'interessa. Non le farò vedere filmini di infermiere nude o in sottoveste». Logan si stava adirando. «Ascolta, giovanotto...». Gli sorrise, facendogli capire che stava scherzando. «Non ci sono telecamere nello spogliatoio delle infermiere. Abbiamo provato, ma la direzione dell'ospedale non lo ha permesso, dicendo che ci avrebbe distratti dal nostro lavoro. Peccato... mi sarei arricchito, vendendo quelle videocassette!».
Il centro amministrativo dell'ospedale era più piacevole della parte dove venivano curati i malati. Qui non c'era linoleum e odore di antisettico, ma moquette e aria fresca. Logan venne ricevuto da una ragazza ossigenata e dall'accento irlandese che si dimostrò molto disponibile. Sfoggiando tutto lo charme di cui era capace, la convinse a darle informazioni sui turni della sera prima. «Ecco qua», disse la ragazza, indicando uno schermo pieno di cifre e date. «Infermiera Michelle Henderson. Ieri sera ha fatto doppio turno. È smontata alle 21,30». «21,30? Grazie, grazie mille, è stata di grande aiuto». Gli sorrise, lietissima di aver potuto aiutarlo. Se c'era qualcos'altro che avrebbe potuto fare per lui... non esiti, mi chiami. A qualsiasi ora. Gli diede anche il suo biglietto da visita. Per sua fortuna Logan non vide l'espressione dell'agente Watson mentre l'accettava. «E allora?», gli chiese mentre scendevano al piano terra in ascensore. «La Henderson smonta alle 21,30. Alle 21,50 la vediamo con addosso jeans e felpa; si è cambiata ed è pronta per andare a casa. Alle 22,30 è di nuovo in divisa da infermiera e sta lasciando l'ospedale». Watson aprì la bocca per dire qualcosa, ma Logan continuò, con una nota di trionfo nella voce. «Cercavamo qualcuno coperto di spruzzi di sangue: invece Mrs Henderson si è cambiata ed è uscita da lì come se non fosse successo niente». Requisirono due agenti dalla squadra che stava facendo le solite ricerche e chiamarono la Centrale. Quando ricevette la chiamata l'ispettore era nerissimo. Sembrava che qualcuno gli avesse massaggiato le chiappe con degli attizzatoi arroventati. «Dove diavolo ti sei cacciato?», chiese prima che Logan potesse dire mezza parola. «È un'ora che cerco di chiamarti!». «Sono ancora all'ospedale, signore. Tutti i cellulari devono essersi spenti...». Veramente lo aveva spento per evitare che Colin Miller lo richiamasse. «Non m'importa dei telefoni! È scomparso un altro bambino!». Logan si sentì cadere il cuore nelle budella. «Oh, no...». «Oh sì, invece. Muovi le chiappe e corri al Duthie Park, al padiglione dei Winter Gardens. Sto richiamando tutte le squadre. Il tempo peggiora e la neve coprirà qualsiasi traccia ancora visibile. Questa emergenza ha la precedenza su tutto!». «Signore, stavo andando ad arrestare l'infermiera Michelle Hender-
son...». «Chi?» «La madre di Lorna Henderson. La bambina che abbiamo trovato nel capannone di Roadkill. Era all'ospedale ieri sera e secondo lei la morte della figlia e lo sfascio del suo matrimonio sono attribuibili a Roadkill. Quindi c'è motivo e occasione. Anche il procuratore è d'accordo e ha emesso i mandati di cattura e di perquisizione». Ci fu un attimo di silenzio dall'altra parte del filo, seguito dal suono attutito di un'altra agitata conversazione; Insch con la mano sulla cornetta, che strigliava qualcun altro. Poi tornò in linea. «Va bene». Dal tono di voce sembrava che stesse per pestare qualcuno. «Valla a prendere, sbattila dentro e vieni subito qui. Roadkill non diventerà più morto di quanto sia già. Ma questo bambino potrebbe essere ancora vivo». Aspettavano nella neve che copriva l'ultimo gradino, mentre Logan suonava il pulsante del campanello e il carillon di "Greensleeves" suonava per la quarta volta. L'agente Watson, col respiro che nell'aria gelida diventava nebbiolina e con le guance rosee e il nasino rosso, gli chiese se voleva che buttasse giù la porta. Alle loro spalle i due agenti prelevati dalla squadra di ricerca all'ospedale mormorarono il loro assenso. Qualsiasi soluzione, pur di togliersi dal freddo. Stava per darle l'assenso quando la porta si aprì uno spiraglio, e si intravide il volto dell'infermiera Michelle Henderson. Da come erano messi i suoi capelli sembrava che uno scimpanzé ci avesse dormito dentro. «Sì?», chiese, con la catenella di sicurezza ancora inserita e con l'alito che sapeva di gin. «Apra la porta, Mrs Henderson». Logan le fece vedere il suo tesserino. «Sono sicuro che si ricorda di noi. Vogliamo parlare con lei a proposito di ciò che è successo ieri sera». Si morse le labbra e guardò i suoi quattro visitatori, come cornacchie nere nella neve cadente. «No», disse. «Non posso. Mi sto preparando per andare a lavorare». Provò a chiudere la porta, ma l'agente Watson aveva già messo il piede nell'apertura. «O lei apre la porta o io la butto giù», le disse. «Non potete fare una cosa del genere!», gridò Mrs Henderson allarmata, stringendosi l'accappatoio al collo. Logan annuì e tirò fuori un foglio di carta, facendoglielo vedere. «Possiamo. Ma non ce ne sarà bisogno. Apra la porta».
Li fece entrare. Fu come entrare in un forno. L'appartamento era molto più ordinato di come lo avevano visto alla loro ultima visita. Aveva passato l'aspirapolvere, spolverato i mobili, le riviste «Cosmopolitan» erano in ordine sul tavolinetto del soggiorno. Sprofondò in una delle poltrone, tirandosi su le ginocchia fin sotto il mento, come un bambino. L'accappatoio le si aprì, e quando Logan andò a sedersi di fronte a lei, cercò di non ammirare il paesaggio. «Michelle, sa perché siamo qui, vero?». Evitò di guardarlo. Logan fece la pausa dell'ispettore Insch. «Devo... devo prepararmi per andare a lavorare», disse, ma senza fare alcun tentativo per alzarsi. Restò lì, con le ginocchia raccolte sotto il mento e le braccia attorno alle gambe. «Dove ha messo l'arma, Mrs Henderson?» «Margaret non può lasciare prima del mio arrivo, quindi non posso far tardi. Margaret deve prendere un bambino all'asilo...». Logan guardò gli agenti; fece loro un cenno con la testa e i due si allontanarono, per fare una rapida ispezione preliminare. «Si era sporcata gli abiti di sangue, vero?». Trasalì, ma non proferì parola. «Aveva deciso di vendicarsi per quello che aveva fatto a sua figlia?», chiese Logan. Ancora silenzio. «Mrs Henderson, è stata registrata sui video di sorveglianza dell'ospedale». Continuò a fissare un punto sulla moquette sul quale non aveva passato l'aspirapolvere. «Signore?». Logan alzò lo sguardo e vide uno degli agenti sulla soglia del soggiorno tenendo stretti alcuni capi di vestiario. C'erano un paio di jeans, un maglione da rugby, un paio di calze e uno di scarpe da ginnastica, tutte rese quasi bianche dalla candeggina. «Ho trovato questa roba in cucina, su un termosifone. È ancora umida». «Mrs Henderson?». Silenzio. Logan sospirò. «Michelle Henderson, la dichiaro in arresto per l'omicidio di Bernard Duncan Philips».
Duthie Park era un parco ben curato sulla sponda nord del fiume Dee, con tanto di laghetto perle anatre, palco per la banda e un'imitazione dell'obelisco di Cleopatra. Era un posto molto frequentato da genitori con bambini, per le zone alberate e per gli ampi spazi aperti che offriva. E mostrava segni di vita anche coperto da trenta centimetri di neve; qua e là si vedevano pupazzi di neve, immobili e silenti guardiani, signori di tutto ciò che sorvegliavano. Il bambino scomparso si chiamava Jamie McCreath e avrebbe compiuto quattro anni tra due settimane, l'antivigilia di Natale. Era venuto al parco con sua madre, una donna sconvolta sui venticinque anni, dai lunghi capelli del colore di foglie d'autunno e un cappellino pompom con un tassello dorato in cima. Era seduta su una panchina nel padiglione dei Winter Gardens e piangeva, stravolta; al suo fianco un'altra donna con un bambino nel passeggino stava facendo del suo meglio per confortarla. Il padiglione dei Winter Gardens, un'enorme struttura vittoriana in acciaio pitturato bianco che reggeva tonnellate di vetro e che proteggeva i cactus e le palme dalla neve e dal gelo di fuori, era pieno di agenti in divisa. Logan trovò l'ispettore Insch su un ponticello che collegava le due sponde di un laghetto pieno di pesci rossi color oro e rame. «Signore?» Insch girò appena la testa. «Ce ne hai messo del tempo!», borbottò, scuro in viso e con un'espressione che lo faceva sembrare grosso e impotente. Logan decise di non reagire alla provocazione. «Mrs Henderson non parla. Ma su un termosifone abbiamo trovato tutti gli indumenti che indossava. Lavati e candeggiati al punto da ridurli in brandelli». «Identification Bureau?», chiese Insch. «Ho chiesto loro di esaminare accuratamente la lavatrice e la cucina. Quegli indumenti saranno stati saturi di sangue. Ne troveremo qualche traccia». L'ispettore annuì, perso nei suoi pensieri. «Almeno abbiamo qualcosa in mano», disse dopo qualche istante. «Mi ha telefonato il questore: questo è l'ultimo bambino che scompare. Quattro dei migliori detective della Lothian and Borders Police sono per strada in questo momento». Logan emise un gemito di sconforto. Ci mancava anche questa. «Già», disse Insch. «Vengono a insegnare a noi poveri poliziotti di provincia come si fanno le cose». «Cosa è successo?». L'ispettore fece spallucce. «Tanta pubblicità e pochissimo progresso».
«No, dicevo qui». Logan indicò la vasta distesa di piante sotto il tetto vetrato del padiglione. «Come è scomparso il bambino?» «Ah... bene». Si raddrizzò e indicò l'entrata, seminascosta dietro una macchia di vegetazione tropicale. «Madre e bambino entrano nel padiglione alle 11,55. Al piccolo Jamie non piace la gabbia degli uccelli tropicali, lo spaventano; ma gli piacciono i pesciolini. Quindi viene qui e si siede sul ponticello e guarda i pesciolini che nuotano nel laghetto. La madre vede un'amica, la saluta e si mettono a chiacchierare. Parlano per circa quindici minuti e quando si gira Jamie è scomparso. Allora comincia a cercarlo, affannosamente». Con la mano indicò il sentiero che circondava il laghetto. «Introvabile. Però ha letto i giornali e visto la TV; viene presa dal panico e comincia a urlare. L'amica telefona al 999 col suo cellulare ed eccoci qua». Si fece ricadere la mano al fianco. «Abbiamo quattro squadre nel padiglione che stanno guardando dappertutto, sotto ogni cespuglio, ogni ponte, ogni deposito materiali. Dappertutto. Altre due squadre sono là fuori», inclinò la testa verso l'esterno del padiglione. «Stanno arrivando rinforzi, che destineremo alle ricerche nel parco». Logan annuì. «Cosa pensa lei, signore?». Lentamente Insch appoggiò i gomiti sul parapetto del ponticello di legno, col viso preoccupato, guardando i pesciolini che nuotavano nel sottostante laghetto. «Vorrei tanto pensare che si è solo allontanato, annoiato; o che sta costruendo un pupazzo di neve da qualche parte... ma dentro di me? Penso proprio che lo ha preso». Sospirò. «Lo ha preso e lo ucciderà». CAPITOLO 35 Insch fece trasferire il centro investigazioni a Duthie Park. Era una roulotte, attrezzata per questi eventi, con «Grampian Polke» scritto sull'esterno. All'interno una piccola area era stata delimitata per eventuali interrogatori. Il resto dello spazio era preso da un paio di scrivanie, un forno a microonde e un bollitore elettrico. Che andava nonstop. Riempiendo lo spazio con nuvole di vapore. La fortuna non sorrideva alle squadre di ricerca. La neve che cadeva colmava ogni impronta, ogni avvallatura, e il vento la spazzava dappertutto, rendendo tutto bianco e uniforme. Logan era seduto alla scrivania vicina alla porta, così da ricevere un'ondata di freddo ogni volta che qualcuno entrava nella roulotte e si fermava sulla soglia, picchiando i piedi per scuotere la neve. Stava lavorando con un laptop, esaminando la lunga lista dei molestatori sessuali schedati. Se la
fortuna avesse improvvisamente deciso di dargli una mano, avrebbe trovato qualcuno che abitava nelle vicinanze del parco, al punto da usarlo come tenuta di caccia per le sue nefande attività. Ma era un "se" troppo grosso; gli altri due corpi erano stati trovati dall'altra parte della città. Uno sulle sponde del Don, l'altro in Seaton Park. Entrambi a un tiro di schioppo dal fiume che attraversava un terzo della città, la parte più a nord. «E se dovessimo cercare un altro uomo?», chiese facendo alzare la testa di scatto all'ispettore Insch, che stava esaminando delle dichiarazioni. «Non pensarci nemmeno!», abbaiò. «Un perverso bastardo che rapisce bambini è più che sufficiente!». Logan rabbrividì all'aprirsi della porta e un agente in divisa entrò. Andò subito a farsi una tazza di tè: la povera ragazza moriva dal freddo. Logan continuò con la sua lista di perversi, pedofili e stupratori. Ce n'erano due che abitavano in Ferryhill, un'area che confinava con Duthie Park, ma erano stati schedati per stupro a donne ventenni. Logan dubitava che fossero capaci di rapire, uccidere e violentare ragazzini di quattro anni, ma mandò un paio di autopattuglie a controllare. Non si sa mai. I rapporti negativi dei perlustratori continuavano ad accumularsi sulla scrivania dell'ispettore. Insch aveva abbandonato ogni speranza di trovarlo nel padiglione e aveva mandato tutti nel parco. Gli occhi di Logan riconobbero un nome: Douglas MacDuff, Desperate Doug. Non era schedato per violenza o molestie sessuali; si trovava sulla lista solo perché sospetto di alcuni stupri avvenuti oltre venti e passa anni fa. E riconosceva tanti altri nomi solo perché aveva spulciato la stessa lista la settimana scorsa, quando stava cercando persone sospette che avrebbero potuto rapire il piccolo David Reid o Peter Lumley. Si sentiva venire un mal di testa. L'ormai familiare dolore cominciava a prenderlo tra gli occhi. Causato dallo stare in una corrente d'aria a guardare lo schermo del laptop. Senza alcun risultato. Era difficile credere che era solo mercoledì e che era rientrato in servizio undici giorni fa. Undici giorni senza un break. Con buona pace dell'inserimento graduale che avrebbe dovuto osservare. Imprecò sottovoce, e si massaggiò il setto nasale, cercando di alleviare il dolore. Quando riaprì gli occhi si trovò davanti un altro nome ben conosciuto: Martin Strichen, 25 Howesbank Avenue. L'uomo capace di atterrare viscidi avvocati bastardi con un colpo solo. E Sandy Serpente aveva avuto la sfacciataggine di dire che Gerald Cleaver si trovava in libertà per l'incapacità della polizia... Logan non seppe trattenere un sorriso, rivivendo men-
talmente la scena del pugno. Bang. Proprio sul naso. Insch alzò gli occhi dal rapporto della gelatissima agente. «E cosa ci sarebbe da ridere?» chiese con un'espressione sul volto che faceva capire che, date le circostanze, c'era ben poco da ridere. «Niente, signore; stavo solo pensando al pugno che Viscido Sandy si è preso sul naso». Da arcigno il viso di Insch divenne sorridente. «Bang!», disse picchiando un pugno nel palmo della mano. «Ho registrato la scena su video. Devo cercare qualcuno che me lo trasferisca su CD, così lo userò come screensaver sul mio computer. Bang!». Logan sorrise e tornò a concentrarsi sul suo laptop; sulla lista c'erano ancora tanti nomi da esaminare. Dieci minuti dopo si era messo davanti a una grande carta stradale di Aberdeen, plastificata e montata sul muro di fondo della roulotte. C'era un segno rosso sui luoghi dove i bambini erano scomparsi e blu dove i cadaveri erano stati ritrovati. E c'era anche un cerchio rosso su Duthie Park. «E allora?», chiese Insch, dopo che Logan era stato lì fermo per cinque minuti. «Hmm? Niente, pensavo alla coincidenza dei parchi: abbiamo trovato Peter Lumley in Seaton Park e Jamie McCreath è scomparso in Duthie Park...». Logan prese un pennarello e cominciò a picchiettarselo contro i denti. «E allora?», ripeté Insch con toni di crescente impazienza nella voce. «Ma niente parchi in David Reid». Con voce esasperata Insch chiese a Logan su cosa diavolo stesse farneticando. «Ma...», rispose Logan toccando la pianta stradale col pennarello. «David Reid è scomparso nelle vicinanze della sala giochi, giù verso la spiaggia ed è stato ritrovato dalle parti di Ponte sul Don. Niente parchi». «Abbiamo già discusso questi particolari!», abbaiò Insch. «Sì, ma in quel momento avevamo solo due scomparse; non abbastanza da poter vedere un modus operandi...». La porta si aprì, facendo entrare una mini bufera e l'agente Watson. La richiuse e picchiò i piedi sul linoleum, scuotendone una nevicata in miniatura. «Cielo, ma si gela là fuori!», disse col nasino rosso come una ciliegia, le guance rosee come due mele e le labbra livide come due striscioline di fegato. Insch guardò da Logan a Watson a Logan. Noncurante dell'espressione
dell'ispettore l'agente Watson mise le mani guantate sul bollitore per scaldarsi. «Ci deve essere qualcosa», disse Logan, guardando la carta stradale e picchiettandosi il pennarello sui denti. «Qualcosa che non riusciamo a vedere. Che questo bambino sia diverso?». S'interruppe per qualche istante. «O forse non è per niente diverso... tutti questi posti hanno qualcosa in comune...». La luce della speranza brillò negli occhi dell'ispettore. «Cioè?». Logan si strinse nelle spalle. «...Non lo so. So solo che c'è qualcosa ma non riesco ad afferrarlo». E qui l'ispettore Insch andò su tutte le furie. Picchiò un gran pugno sul tavolo con una tale forza che quasi lo spezzò in due, sparpagliando i fogli che c'erano sopra e chiedendo a quale fottutissimo perditempo di gioco McRae stesse giocando; era scomparso un altro bambino e lui era capace solo di starsene lì a giocherellare e a parlare in rebus. Era diventato rosso come una barbabietola e i vetri della roulotte vibravano, mentre lui strigliava il primo obiettivo che gli si era presentato davanti da quando Jamie McCreath era scomparso. Dovette venire a galla per prendere aria. «Io direi...», azzardò l'agente Watson nella breve pausa. «Diresti cosa?», tuonò l'ispettore verso lei, con una tale veemenza da farle fare un passo indietro, sempre tenendo stretto il bollitore elettrico. «Un nesso ci sarebbe: la manutenzione di questi luoghi viene effettuata dalla municipalità?». Logan si girò a riguardare la pianta stradale. Watson aveva ragione. La manutenzione di tutti i luoghi segnati veniva effettuata dal reparto "Parchi e giardini" del comune. Di fianco al palazzo dell'appartamento dei Lumley c'era un gran prato. E la spiaggia dalla quale David Reid era scomparso lo scorso agosto era proprietà del demanio. Come lo era l'argine del fiume dove era stato ritrovato. La classica lampadina si accese nella testa di Logan. «Martin Strichen», disse puntando allo schermo del laptop col pennarello. «È schedato per reati sessuali. Viene sempre condannato a servizio comunitario e glielo fanno scontare sempre al "Parchi e giardini" del comune». Toccò la carta stradale con un dito, sbavando il cerchietto che aveva tracciato su Seaton Park. «Ecco come sapeva che i gabinetti pubblici sarebbero stati chiusi fino a primavera!». Watson scosse la testa. «Ma, signore... Strichen è stato schedato per reati
sessuali perché si masturbava in uno spogliatoio per donne, non per aver molestato bambini». Insch annuì il suo accordo, ma Logan non si lasciò sviare. «Ma era lo spogliatoio di una piscina, vero? E chi portano le madri in piscina? I loro bambini, maschietti e femminucce! E i maschietti sono troppo piccoli per essere lasciati soli nello spogliatoio degli uomini, quindi le madri li tengono con loro! Bambine nude e...». «...bambini nudi!», finì Insch. «Brutto bastardo! Andiamolo a prendere. Voglio quello stronzo di Strichen e lo voglio adesso!». Coprirono il tratto da Duthie Park a Middlesfield a luci lampeggianti e sirene spiegate, spegnendole solo quando furono nelle vicinanze della casa di Martin Strichen. Non volevano annunciare il loro arrivo. 25 Howesbank Avenue era una delle tante casette a schiera in una lunga e curva strada nella parte nord-ovest di Middlesfield. Alle spalle della lunga schiera di case in harling bianco c'era solo una striscia di terreno incolto e pieno di sterpaglia, oltre la quale s'intravedeva una cava di granito abbandonata. Dopo la cava si scendeva lungo una ripida scarpata che portava a Bucksburn, le sue cartiere e il macello dei polli d'allevamento. Nello spazio aperto, sul retro delle case, il vento ululava, sollevando la neve e facendola girare vorticosamente in tutte le direzioni. Si attaccava alle mura delle case, facendole sembrare avvolte in bambagia. Le luci di tanti alberi di Natale lampeggiavano nelle buie finestre. E qui e lì qualcuno aveva cercato di riprodurre l'effetto delle vecchie finestre all'inglese, con nastro isolante nero e neve dalla bomboletta. Buon gusto. Watson parcheggiò dietro l'angolo, dove l'auto non poteva essere vista dalla casa. Insch, Logan, Watson e un agente in divisa che Logan continuava a identificare col nome di Simon bastardo Rennie uscirono dall'auto. Il procuratore aveva approvato l'emissione di un mandato di cattura per Martin Strichen in tre minuti. «Allora, ascoltate», disse Insch guardando la casa, che era l'unica nella strada a non avere un albero di Natale lampeggiante nella finestra. «Watson, Rennie; voi due andate sul retro. Da lì non entra e non esce nessuno, chiaro?». Mostrò loro il cellulare. «Fatemi uno squillo quando siete in posizione. Noi entreremo dal davanti». I due in divisa si recarono alla postazione che era stata loro assegnata, piegandosi in due contro il forte vento. Insch guardò Logan con occhio preoccupato. «Te la senti?», gli chiese. «Signore?»
«Sarai all'altezza della situazione se le cose si mettono male? Non vorrei che tu tiri le cuoia durante l'operazione!». Logan scosse la testa. Le bufera gli faceva sentire un bruciore ai lobi delle orecchie. «Non si preoccupi per me, signore» rispose, col vento gelido che gli portava via il respiro ancor prima che potesse nebulizzarsi. «Mi nasconderò dietro di lei». «Bene», rispose Insch con un sorriso. «Ma scansati se vedi che sto per caderti addosso». Il cellulare in tasca all'ispettore diede un singolo squillo: Watson e Rennie erano al loro posto. La porta d'ingresso del numero 25 non aveva visto pennello e pittura da anni. Quel poco di vernice blu che ci restava sopra si stava pelando, rivelando legno grigio gonfio di umidità. Dai due vetri opachi della porta si intravedeva un ingresso buio. Insch suonò il campanello. Dopo trenta secondi ci riprovò. E dopo trenta secondi ancora. «Vengo, vengo! Cos'è tutta questa furia!». Alla voce fece seguito luce da una porta che si apriva, forse la cucina. Un'ombra si proiettò lungo l'ingresso, borbottando e imprecando sotto voce, ma non per questo inudibile. «Chi è?». Era una voce di donna, resa rauca da anni di alcool e tabacco e con tutto il calore di un Rottweiler. «Polizia». Seguì una pausa. «Cos'ha fatto quel bastardo?», chiese la donna, senza aprire la porta. «Per favore, apra la porta». «Lo stronzetto non c'è». L'ispettore stava per perdere le staffe. «Apra questa porta e subito!», abbaiò. Ci fu un girar di chiavi e chiavistelli. La porta si aprì di uno spiraglio. La faccia che si intravide era vecchia, dura e rugosa, con una sigaretta che pendeva da un angolo della bocca. «Ve l'ho detto, non c'è. Tornate più tardi». Insch la pensava diversamente. Si eresse in tutta la sua statura, appoggiò il suo considerevole peso sulla porta e spinse. La donna dall'altra parte barcollò all'indietro e Insch varcò la soglia. «Non potete entrare senza un mandato! Conosco i miei diritti!». Insch scosse la testa; andò oltre la donna, entrò in cucina e aprì la porta
del retro, facendo entrare Watson e Rennie. Insch tornò verso la donna e le si mise davanti. «Chi è lei?», le chiese. Sembrava vestita per la prossima era glaciale: due maglioni, una gonna che sembrava un duvet, calzettoni di lana e pantofole foderate in pelo. Dio solo sa quando era stata dal parrucchiere l'ultima volta: dallo stile della sua acconciatura si poteva ipotizzare una visita negli anni Cinquanta e poi mai più. Teneva i capelli sporchi e bisunti, con mollette e forcine, sotto una retina marrone. Incrociò le braccia, tirandosi su il flaccido seno. «Se ha un mandato, c'è scritto sopra». «Troppa televisione...», borbottò Insch, tirando fuori il mandato di cattura e sventolandoglielo sotto il naso. «Dov'è?» «Non lo so!». Fece due passi all'indietro, verso lo squallido soggiorno. «Non sono la sua custode!». L'ispettore fece un passo avanti, rosso in viso e la donna indietreggiò impaurita. Logan intervenne allentando la tensione. «Quando lo ha visto l'ultima volta?». La donna si girò verso di lui. «Stamattina. Quando è andato a fare le sue ore per la comunità. Quello stronzo continua a fare lavoro per la comunità. Perverso che non è altro. Ma trovarsi un lavoro vero e proprio? No, non ne è capace! Troppo preso a spararsele negli spogliatoi delle donne!». «Va bene», continuò Logan. «Ma dove sta lavorando oggi?» «E cosa ne so io? Il bastardo telefona ogni mattina e gli dicono dove deve andare». «Sì, ma chi chiama?» «Il comune!». La risposta fu quasi sputata. «E dove sennò? Il numero è sul tavolino nell'ingresso». Nell'ingresso c'era un tavolinetto poco più grande di un francobollo con su un sudicio telefono cordless e un blocchetto per messaggi. Sotto la base del telefono c'era una lettera, sulla quale si riconosceva il logo della municipalità di Aberdeen: tre torri, bordate da qualcosa che forse voleva essere una ghirlanda ma che somigliava a filo spinato, su uno scudo sostenuto da due leopardi rampanti. Roba regale. Era la notifica del servizio comunitario di Martin Strichen da parte del reparto "Parchi e giardini". Logan tirò fuori il cellulare, chiamò il numero indicato sulla lettera e parlò col funzionario responsabile per la distribuzione del lavoro. Finita la telefonata si girò verso l'ispettore. «Provi a indovinare dove lavorava oggi?»
«Duthie Park?» «Bingo». Riuscirono a tirar fuori dalla madre di Martin la marca e targa dell'auto del figlio. Nel frattempo Rennie e Watson perquisivano la casa. Dopo pochi minuti Watson tornò, scura in volto e con in mano un sacchetto di plastica trasparente contenente un paio di cesoie da giardino. Mrs Strichen si rivelò molto più disponibile a fornire informazioni su suo figlio quando le dissero cosa aveva fatto il suo piccolo. Sperava proprio che lo mettessero al fresco per sempre. Se lo meritava, disse. Era sempre stato un poco di buono. Si pentiva di non averlo strangolato alla nascita. O forse sarebbe stato meglio ucciderlo mentre lo aveva ancora in grembo, con una di quelle grucce di fil di ferro. Dio solo sapeva quanto gin e quanto whisky avesse bevuto per far fuori il bastardello quando ne era gravida. «Bene», disse Insch, mentre la donna andò al piano di sopra al bagno. «Dubito che il nostro torni qui, tra le braccia amorevoli della madre, tenerissima donna com'è lei. Specialmente dopo che avremo dato i suoi dati e connotati ai mass media. Ma non si sa mai. Watson, Rennie; voi due restate qui, con la Malefica Megera di Middlesfield. State lontani dalle finestre. Non voglio che si sappia che voi siete in casa. Se Martin torna a casa, chiamate per assistenza. Affrontatelo solo se le condizioni lo permettono». Watson lo guardò incredula. «Ma, signore! Non tornerà qui, lo sappiamo. Non mi lasci qui! L'agente Rennie è più che sufficiente per tener d'occhio la situazione qui!». Rennie roteò gli occhi al cielo e sbuffò. «Grazie, collega!». Watson lo guardò male. «Sai bene cosa intendo. Signore, io posso esservi d'aiuto, posso...». Insch la interruppe. «Ascolta, agente Watson», disse. «Tu sei uno dei miei agenti più preziosi. Ho un profondo rispetto per le tue capacità professionali. Quello che non ho è il tempo da perdere stando qui a massaggiare il tuo ego. E quindi tu starai qui a gestire questo lato dell'operazione. Se Strichen dovesse tornare voglio che qui ci sia qualcuno in grado di stenderlo». L'agente Rennie sembrò offeso, ma saggiamente tenne la bocca chiusa. Insch si riabbottonò il cappotto. «Sergente, andiamo». E così dicendo uscirono. Watson li guardò uscire, molto delusa.
L'agente Simon bastardo Rennie le si avvicinò. «Agente Watson», le disse adottando l'accento di un frignante bambino americano. «Tu sei così forte e così speciale... mi proteggerai se dovesse tornare l'uomo cattivo?». Riuscì anche a battere le palpebre. «Simon, a volte sei proprio un idiota!». Si diresse in cucina per fare una tazza di tè. Simon la lasciò allontanare qualche passo e poi le corse dietro, frignando. «Non lasciarmi solo! Ho tanta paura!». Tornati nell'auto, Logan avviò il riscaldamento e attese che il parabrezza ridiventasse trasparente. «È sicuro di quanto ha disposto?», chiese all'ispettore, che aveva trovato un cilindro aperto di caramelle in una tasca del cappotto ed era occupatissimo a tirarne via la peluria che vi si era formata. «Hmm?» chiese, mettendosene una rossa in bocca e offrendo il pacchetto a Logan. La caramella in vista era verde e pulita. «Voglio dire», rispose Logan prendendo la caramella offerta e mettendosela in bocca, «e se Strichen dovesse tornare?». Insch fece spallucce. «Non la chiamano "Braccio di ferro" per niente. Se dovessi mettere altri agenti in divisa in zona, Strichen se ne accorgerebbe e scapperebbe. Questa è un'operazione che dobbiamo gestire molto attentamente. Farò appostare un paio di auto civette con agenti in borghese nella strada. Se dovesse tornare lo vedranno. Ma sono più propenso a credere che si dirigerà a uno dei suoi nascondigli, dove ha lavorato per il comune. E anche se dovesse tornare a casa, dubito che rappresenti un pericolo per Watson. Non ha precedenti per violenza fisica». «Ha steso Sandy Serpente!». Insch annuì, con un sorriso sornione. «Almeno una cosa buona nella sua vita l'ha fatta. Ma adesso noi due abbiamo cose ben più importanti a cui pensare. Torniamo in Centrale». Puntò una manaccia nella direzione della centrale. Logan inserì la marcia e partì, lasciandosi alle spalle il numero 25 di Howesbank Avenue e l'agente Watson. CAPITOLO 36 Tutte le autopattuglie in città tenevano gli occhi aperti per Martin Strichen. Conoscevano i particolari della sua tartassata Ford Fiesta. La scientifica aveva trovato tracce di sangue sulle cesoie da giardino: era dello stesso gruppo di David Reid. Se Strichen fosse stato in giro da qualche parte,
lo avrebbero certo trovato. Quattro ore e quarantacinque minuti dalla sparizione del bambino. Tornati in Centrale l'ispettore Insch e il sergente McRae erano impegnati in uno spreco di tempo. Da Edimburgo erano arrivati i cervelloni della Lothian and Borders Police: due sergenti (CID), entrambi in eleganti vestiti blu, con camicie e cravatte in tinta, un ispettore (CID) con una faccia come un portacenere e uno psicologo che insisteva nel farsi chiamare "dottor" Bushel. Questo ispettore aveva diretto due casi con un serial killer e aveva arrestato il colpevole in entrambi i casi. Il primo, dopo che sei studenti erano stati trovati strangolati sul Carlton Hill, verso la parte est di Princes Street. Il secondo dopo un lungo assedio nel centro storico. Niente superstiti: questa volta tre passanti e un agente erano passati a miglior vita. Logan concluse che come dimostrazione di abilità personale non fosse granché. Il nuovo ispettore ascoltò con freddezza la relazione che Insch gli fece sul caso in corso. Interruppe Insch un paio di volte per porgli domande molto pertinenti. Che non fosse un idiota lo si capì subito. E fu colpito dal fatto che Insch e Logan fossero riusciti a scoprire l'assassino dopo la scoperta di appena due cadaveri. Il dottor Bushel invece era così compiaciuto da rendersi stomachevole. Martin Strichen era proprio come il profilo che lui aveva tracciato. Quello che diceva che «l'assassino è una persona con problemi mentali eccetera». Non si rese conto, o fece finta di non rendersi conto, che il profilo da lui fornito non era servito a niente per l'identificazione di Strichen. «E questo è dove ci troviamo adesso», concluse Insch, facendo un gesto di "ta-da!" con la mano e indicando il centro investigazioni. Il collega di Edimburgo annuì. «Sembra che voi non abbiate alcun bisogno di aiuto da noi», disse con voce bassa, con appena una traccia di accento di sud Fife. «Avete identificato il vostro uomo, avete le squadre in strada per la cattura. Non vi resta altro che aspettare. Prima o poi si farà vivo». "Prima o poi" non andava bene all'ispettore Insch. Prima o poi significava che Jamie McCreath sarebbe andato sulla lista dei morti. Il dottore si alzò e andò a esaminare le foto scattate alle scene dei reati, attaccate al gran tabellone di sughero su una parete del centro investigazioni. Ogni tanto si lasciava sfuggire un criptico «Hmm...» e «Vedo...». «Dottore», chiese l'ispettore. «Può azzardare un'ipotesi su dove si farà vivo?».
Lo psicologo si girò sorridendo, con la luce che si rifletteva sui suoi occhiali rotondi. «Quest'uomo non ha fretta», disse. «Se la prenderà comoda. Non dimentichiamo che sta facendo qualcosa che ha pianificato e programmato da molto tempo». Logan diede all'ispettore Insch un'occhiata eloquente. «Non crede», disse rivolgendosi al dottore e scegliendo attentamente le parole, «che il comportamento del nostro uomo sia la reazione a eventi recenti? Come il classico colpo di martelletto al ginocchio?». Il dottor Bushel lo guardò come se fosse un bambino mentalmente ritardato, ma uno col quale era disposto a essere condiscendente. «Si spieghi». «Strichen è stato violentato da Gerald Cleaver quando aveva undici anni. Sabato scorso Gerald Cleaver è stato dichiarato innocente. Il giorno dopo abbiamo trovato il cadavere di Peter Lumley, prima che Strichen potesse tornare per mutilarlo. Oggi la televisione è piena di annunci che pubblicizzano la storia venduta da Cleaver a un giornale. Strichen non riesce a gestire gli eventi e va in tilt». Il dottore sorrise con condiscendenza. «La sua è una teoria interessante», disse. «Ma il profano spesso interpreta male i segni. Qui ci sono dei segni, dei pattern, che solo l'occhio di un esperto può notare. Strichen è un criminale molto organizzato. Cerca di evitare con gran cura che i resti delle sue vittime vengano scoperti. Ha un profondo senso del rituale, in un mondo di fantasia, e i suoi rituali gli impongono di agire secondo un suo codice ben definito. Se non lo fa non è altro che un altro mostro che insidia bambini. Vede...», continuò, lanciato a ruota libera, «Strichen si vergogna di quello che fa...», disse indicando una foto dell'inguine di David Reid, scattata dopo l'autopsia. «Finge che il bambino non sia un maschietto, rimuovendone i genitali. Ripete a se stesso che il reato che sta commettendo è meno nefando, in quanto non sta violentando un maschietto». Si tolse gli occhiali e se li pulì con l'estremità della cravatta. «No, Martin Strichen vuole essere in grado di giustificare le sue azioni, anche se solo a se stesso. Ha i suoi rituali e li osserverà. Farà le cose con calma». Logan tacque, fino a quando l'ispettore accompagnò gli ospiti alla mensa. Quando tornò ed erano soli si sfogò. «Che gran coglionate!». Insch annuì, rovistandosi nelle tasche per l'ennesima volta. «Sarà. Ma con le sue coglionate quell'uomo ha contribuito a far mettere al fresco quattro criminali, recidivi, tre dei quali assassini. Non sa come trattare le persone che gli stanno intorno, ma è molto esperto». Logan sospirò. «E adesso? Cosa facciamo?».
Insch smise di rovistare per qualcosa che non c'era; affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e si appoggiò col sedere alla scrivania. «Adesso?», rispose. «Adesso non possiamo far altro che aspettare e sperare che la fortuna ci sorrida». In piena estate la vista dalle finestre sul retro: una striscia di terreno incolto, ma verde comunque, con qualche macchia di arbusti qua e là, carezzata dal sole, con vista fino all'orizzonte e con la grigia spianata di Bucksburn nascosta dalla ripida scarpata della cava. In condizioni ideali, e se le cartiere di Bucksburn non stavano riempiendo l'aria di nuvole di vapore saturo di strani odori chimici, i pendii collinari, i campi e i boschi sull'altra sponda del Don splendevano come gioielli. Un paradiso bucolico, lontano dai rumori del traffico della superstrada che attraversava la vallata sottostante. Ma adesso niente di tutto questo era visibile. La nevicata era diventata una bufera; e dalla finestra di una stanza al piano superiore l'agente Watson non riusciva a vedere oltre la staccionata del giardino sul retro. Sospirò, e girate le spalle alla bufera che imperversava, tornò al piano terra. La madre di Martin Strichen era rannicchiata in una poltrona dalla festosa copertura in rose e papaveri. Una sigaretta le pendeva da un angolo della bocca e tanti mozziconi già erano nel portacenere che aveva vicino. Il televisore era acceso: trasmettevano una soap opera. Watson le odiava, ma piacevano al Simon Bastardo Rennie. Era lì sul divano a rose e papaveri e fissava rapito lo schermo, mandando giù tazze di tè, una dopo l'altra. Sul tavolinetto da caffè c'era un pacchetto di Jaffa cakes, quasi vuoto. La Watson prese gli ultimi due e andò a sistemarsi vicino alla stufetta elettrica a due sbarre, decisa a scaldarsi, anche se i suoi pantaloni avessero preso fuoco. In quella casa si gelava. Come gesto di riguardo ai suoi ospiti Mrs Strichen aveva acceso la stufetta ma non senza lamentarsi vivamente. L'elettricità costa, sapete? E lei non ce la faceva a sbarcare il lunario, con quel bastardo che non portava un soldo in casa. Il figlio di Mrs Duncan, giù nella strada, quello sì che era un ragazzo in gamba! Era uno spacciatore; portava a casa dei gran soldi e andavano in vacanza all'estero due volte all'anno. È vero che adesso stava scontando tre anni a Craiginches per possesso con spaccio, ma almeno ci provava, no? Quando il retro dei suoi pantaloni diventò insopportabilmente caldo, l'agente Watson andò in cucina a far bollire l'acqua per fare il tè. Ancora. Innumerevoli tazze di tè erano l'unico modo di scaldarsi un po' in quella ca-
sa-frigorifero. La cucina non era molto grande; appena un quadrato di linoleum con un tavolo al centro e piani di lavoro lungo le pareti. Il tutto ingiallito dalla nicotina. Watson prese tre tazzoni dall'asciugatoio e li sbatté sul tavolo, senza fregarsene se li avesse sbeccati. Tre bustine di tè. Acqua bollente. Zucchero. Ma solo latte per due. «Merda», le scappò. Ma voleva il suo tè, aveva troppo freddo. L'agente Rennie avrebbe dovuto prenderlo senza latte. Portò le tazze nel soggiorno e ne mise giù due sul tavolinetto. Mrs Strichen afferrò la sua senza neanche bisbigliare un grazie. L'agente Rennie cominciò «Oh, che bel...», prima di accorgersi che non c'era latte nella sua. Rivolse alla collega uno sguardo implorante, da cucciolo smarrito. «Lascia perdere le smancerie», gli rispose lei. «Non c'è più latte». Rennie guardò il liquido nerastro nel suo tazzone. «Ne sei sicura?» «Neanche una goccia». «La volete smettere? Sto cercando di seguire questo programma!», sibilò Mrs Strichen mandando fuori una nuvola di fumo dai denti stretti. Sullo schermo un attore con un testone e la barba stava guardando la TV e bevendo una tazza di tè. L'agente Rennie diede un'altra occhiata alla sua tazza. «E se ne andassi a comprare una bottiglia?», propose. «Magari anche dei biscotti?». Specialmente ora che la Watson aveva mangiato gli ultimi Jaffa cakes. «Insch ci ha detto di aspettare qui», rispose lei sospirando. «Sì, ma sappiamo che Martin non tornerà a casa. E ci metterò... cinque, dieci minuti al massimo? C'è questo negozietto all'angolo...». Mrs Strichen questa volta arrivò anche a togliersi la sigaretta dalle labbra. «La finite o no?». Passarono dal soggiorno all'ingresso. «Ascolta, sarò velocissimo. E sono sicuro che tu sei capacissima di stenderlo da sola, se dovesse venire! E non dimenticare che ci sono due delle nostre civette in strada». «Lo so, lo so...». Diede un'occhiata nel soggiorno, dove la luce del televisore illuminava la sinistra faccia di Mrs Strichen. «Ma non mi piace trasgredire gli ordini dell'ispettore». «Se tu non lo dirai a nessuno, non lo dirò neanch'io». L'agente Rennie afferrò un cappottone dall'attaccapanni nell'ingresso. Puzzava di patate fritte, ma gli avrebbe dato un po' di protezione. «Me lo dai un bacino per buona fortuna?» «Neanche se tu fossi l'ultimo uomo in terra». Lo spinse verso la porta.
«E compra anche delle patatine. Al gusto di sale e aceto». «Sì, signora, capo, boss». Abbozzò un saluto e uscì. La porta si chiuse alle spalle dell'agente Rennie e l'agente Watson tornò nel soggiorno a bere il suo tè e a guardare la pizza che la TV stava trasmettendo. L'elenco degli edifici affidati alla manutenzione del reparto "Parchi e giardini" della municipalità della città di Aberdeen, in qualità di proprietari o di affittuari, era enorme. L'avevano ricevuto a mezzo fax da un dipendente, per niente contento di essere stato richiamato in ufficio alle 18,45. Ognuno di questi edifici doveva essere visitato e perquisito: il dottor Bushel era stato inflessibile; era convintissimo che Strichen avrebbe portato il bambino in uno di questi posti. Logan non si scomodò neanche per fargli notare quanto fosse ovvia la sua deduzione. Ma le probabilità di scegliere l'edificio giusto dalla lista erano, a dir poco, tenui. Il bambino non sarebbe stato trovato in tempo. Jamie McCreath non avrebbe festeggiato il suo quarto compleanno. Cercando di ridurre la lista a dimensioni più accettabili, Logan chiese all'impiegato di indicargli quegli edifici nei quali Martin Strichen aveva scontato le sue ore di lavoro per la comunità. E questa lista risultò lunga quasi quanto la prima. Strichen aveva cominciato a mettersi nei pasticci all'età di undici anni. Cioè, da quando Gerald Cleaver gli aveva messo le mani addosso. Martin aveva scontato il suo tempo raccogliendo foglie morte, potando siepi, spruzzando diserbante e sbloccando gabinetti intasati in quasi tutti i parchi della città. Partendo in ordine cronologico inverso Logan avviò le ricerche cominciando dai posti nei quali Martin Strichen aveva prestato servizio recentemente. Dopodiché avrebbero continuato a ritroso nell'elenco. Se la dea bendata avesse dato loro una mano avrebbero trovato il bambino prima che Martin gli facesse del male. Ma in cuor suo Logan sapeva che non sarebbe andata così. Martin Strichen sarebbe stato trovato tra un paio di giorni, dalle parti di Stonehaven o Dundee. Di certo non sarebbe rimasto ad Aberdeen. Specialmente adesso che la sua foto era su tutti i giornali, in TV, e i suoi dati e connotati trasmessi per radio. Lo avrebbero preso e prima o poi lui li avrebbe accompagnati dove aveva nascosto il cadavere del bambino assassinato. «Come vanno le cose?».
Logan alzò gli occhi e vide l'ispettore Insch sulla soglia del suo piccolo ufficio. Nel centro investigazioni circolava troppa psicologia per i gusti di Logan; e la quiete del suo piccolo ufficio gli aveva permesso di organizzare le squadre per le ricerche. «La ricerca è avviata». Insch annuì e passò a Logan un tazzone di caffellatte. «Non mi sembri pieno di speranza», disse, appoggiandosi alla scrivania e dando un'occhiata alla lista dei possibili luoghi di ricerca. Logan ammise di non esserlo. «Non c'è più altro da fare. Le squadre hanno i loro ordini; sanno dove devono recarsi e qual è il prossimo luogo di ricerca. Adesso o lo trovano o non lo trovano». «Ma tu vorresti essere là fuori con loro, vero?» «Perché, lei no?». L'ispettore sorrise, un sorriso triste. «Sì... sì che vorrei essere là fuori. Purtroppo devo fare da babysitter ai nostri illustri ospiti di Edimburgo. Uno dei privilegi del grado». Si staccò dalla scrivania e diede una pacca di commiato alla spalla di Logan. «Ma tu sei solo un sergente». Gli strizzò l'occhio. «Datti una mossa e vai con le squadre di ricerca». Logan firmò per una Vauxall dal parco auto del CID e uscì dal parcheggio. Era buio; erano quasi le 19,00. Il traffico del mercoledì sera era leggero, la maggior parte della gente era andata direttamente a casa dal lavoro e il tempo inclemente li aveva tenuti là. Solo una manciata di imprudenti andavano da un pub all'altro, sotto le luci degli addobbi natalizi. Col diminuire dell'intensità del traffico la neve stava conquistando terreno. Come Logan si allontanava dalla Centrale, l'asfalto nero e lucido del centro città diventava grigio e poi bianco. Andava in giro senza una destinazione precisa; guidava solo per avere qualcosa da fare. Un altro paio di occhi che cercavano l'auto di Martin Strichen. Andò su per Rosemount, fece un giretto dalle parti di Victoria Park e le strade circostanti, senza mai uscire dall'auto. Con la neve che vorticava a centoquaranta chilometri all'ora e la temperatura sotto zero, Martin Strichen non avrebbe parcheggiato molto lontano dalla sua destinazione. Specialmente tirandosi dietro un bambino. Non c'era alcun segno della lebbrosa Ford Fiesta di Martin nelle vicinanze di Victoria Park, quindi Logan provò Westburn Park. Era più vasto, con tante stradine e vialetti che lo attraversavano in tutte direzioni. Logan guidava lentamente nella bufera che imperversava, cercando di scoprire
dove Martin avrebbe potuto nascondere la sua auto. Niente. Si prospettava una notte lunga. L'agente Watson continuava a guardare dalla finestra della cucina che dava sul retro della casa. Il vento alzava la neve che si era appena posata e la riportava in aria, facendola girare a mulinelli nei piccoli giardini delimitati da staccionate. L'agente Rennie era uscito da un quarto d'ora e da quel momento la noia dell'attesa si era trasformata in preoccupazione. Non era preoccupata dalla possibilità di un improvviso e imprevisto ritorno di Martin Strichen; come aveva detto Simon Bastardo Rennie, lei sarebbe stata in grado di immobilizzarlo. Modestia a parte, si sentiva capace di far vedere i sorci verdi a più d'uno che volesse provarci. Il soprannome del quale era segretamente orgogliosa, se l'era conquistato sul campo. No, era preoccupata per... non sapeva neanche lei chi o cosa la preoccupasse. Forse perché era stata tagliata fuori dalle indagini e lasciata qui ad affrontare un «non si sa mai»? Avrebbe voluto essere lì fuori, con gli altri, in prima linea. Non qui, a guardare soap opera e bere tè. Sospirò e spense la luce della cucina, guardando la neve. Sussultò quando sentì il click; proveniva dalla porta d'ingresso. Rabbrividì. Era tornato! Quel cretino era tornato a casa come se non fosse successo niente. Sorrise a se stessa e passò dalla cucina buia nell'altrettanto buio ingresso. La maniglia della porta scricchiolò e lei si preparò all'attacco. La porta si aprì e Watson afferrò l'uomo che stava entrando, sbilanciandolo e facendogli perdere l'equilibrio. Lo scaraventò con forza per terra e gli si buttò addosso, con la destra stretta a pugno. L'uomo gridò e si parò la faccia con le mani. «Aaaaaaa!». Era Simon Bastardo Rennie. «Oh...», disse la Watson, rilassando la destra e accovacciandosi vicina al collega. «Scusa, Simon!». «Cristo, Jackie!», rispose lui, ancora stordito dalla caduta. «Se volevi rompermi le ossa, bastava che tu me lo chiedessi!». «Pensavo che tu fossi qualcun altro». Si alzò. «Ti ho fatto male?» «Credo che dovrò cambiarmi le mutande, ma a parte quello, no». Gli chiese ancora scusa, lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò in cucina con la borsa della spesa. «Ho preso anche tre brodini liofilizzati», disse vuotando il contenuto del
sacchetto di plastica sul tavolo. «Cosa preferisci: pollo con funghi, manzo al pomodoro o curry?». Watson scelse il pollo, Rennie il curry: la megera Mrs Strichen avrebbe dovuto accontentarsi di quel che era rimasto. Mentre i tre brodini si ricostituivano in tre tazzoni di acqua bollente, l'agente Rennie raccontò a Watson quel che aveva scoperto andando al negozio. Una delle auto civetta era parcheggiata all'ingresso della strada, proprio dirimpetto al negozio dove lui era andato per rifornimenti, e aveva parlato per un paio di minuti con gli occupanti. Erano della stazione di Bucksburn e non erano per niente lieti della loro consegna, che ritenevano una perdita di tempo. Strichen non sarebbe tornato! Ma se fosse tornato lo avrebbero strapazzato un po', per averli fatti stare al freddo a girarsi i pollici. «Ti hanno detto come sta andando la ricerca?», chiese la Watson mentre rimescolava il suo brodino. «Zero. Tanti posti da perquisire e neanche la più pallida idea di dove potrebbe essere». Watson sospirò, guardando la neve dalla finestra. «Sarà una notte lunga». «Non mi preoccupa», rispose Rennie con un'espressione compiaciuta. «La vecchia ha tante puntate della mia soap opera preferita registrate su videocassetta». L'agente Watson emise un gemito. Chi aveva detto che peggio di così non poteva andare? La Ford Fiesta di Martin Strichen non era in Wesburn Park. E Logan si chiese, non per la prima volta, se Martin non avesse addirittura preso la strada che portava fuori da Aberdeen. Ormai doveva sapere che aveva la polizia alle calcagna. Da quando aveva lasciato la Centrale Logan aveva sentito almeno una dozzina di appelli e richieste di informazioni alla radio. Se lui fosse stato Martin Strichen a quest'ora sarebbe stato a metà strada per Dundee. Continuò a girare, ma dirigendosi sempre più verso la periferia della città. Ogni tanto incontrava un'autopattuglia proveniente dalla direzione opposta, che lo cercava per le strade, come stava facendo lui. Forse era il caso di andare a dare un'occhiata dalle parti di Hazlehead? O magari Mastrick? Ma sapeva che contava ben poco dove fosse andato a cercarlo. Il piccolo Jamie McCreath era quasi certamente già morto. Sospirando, svoltò in North Anderson Drive.
Il suo cellulare si fece sentire e Logan si fermò sul ciglio della strada, urtando il marciapiede con la ruota anteriore sinistra. «McRae». «Laz, carissimo! Come stai?». Fottutissimo Colin Miller. «Di cosa hai bisogno, Colin?», rispose con un pesante sospiro. «Ho ascoltato la radio, ho letto i bollettini rilasciati dal vostro ufficio stampa. Cosa succede?». Un pesante autotreno con rimorchio passò, mandando un'onda di neve e fango alta due metri a infrangersi lungo la fiancata dell'auto. Logan guardò le luci rosse di posizione che rimpicciolivano in lontananza. «Sai benissimo cosa succede! Hai pubblicato la tua fottutissima storia e ci hai tolto la miglior possibilità che avevamo di catturare questo bastardo!». Logan sapeva benissimo che Colin lo aveva fatto senza sapere che la polizia intendeva tendere una trappola all'assassino, ma ora come ora non gliene fregava un tubo. Era stanco, frustrato e aveva bisogno di qualcuno a cui urlare la propria rabbia. «Ha rapito un altro bambino solo perché tu hai voluto dire al mondo intero che avevamo trovato un altro...». La voce diventò un bisbiglio e poi silenzio. Aveva finalmente visto una cosa che era sempre stata davanti ai suoi occhi. «Merda!», urlò picchiando la mano sul volante. «Merdamerdamerdamerda!». «Cristo, Laz, sta calmo! Cosa è successo?». Logan strinse i denti e picchiò ancora il volante. «Laz, stai avendo un infarto o cosa?» «Quando muore qualcuno tu sei sempre uno dei primi a saperlo, vero? Sei sempre uno dei primi a sapere quando troviamo il cadavere di un altro bambino». Laz scosse la testa nell'amara delusione della scoperta, proprio mentre un altro autotreno transitava, scuotendo l'auto al suo passaggio. «Laz?» «Isobel». Dall'altra parte ci fu un lungo silenzio. «È la tua talpa, vero? Frugava e scopriva, poi ti portava preziose informazioni per aiutarti a vendere i tuoi stronzissimi giornali di merda!». Adesso urlava. «Quanto la paghi? Quanto valeva la vita di Jamie McCreath?» «Non è andata così... è successo che... io...». Ci fu una pausa. Quando tornò, la voce di Colin era molto fievole. «Vedi... delle volte lei viene a casa mia e mi parla della sua giornata».
Logan guardò il suo cellulare come se improvvisamente gli avesse scorreggiato in faccia. «Cosa?», chiese. Un sospiro. «Io e Isobel siamo... vedi, lei fa un lavoro di merda. Sente il bisogno di qualcuno col quale condividere gli alti e bassi del suo lavoro. Non sapevamo che sarebbe finita così... te lo giuro! Noi...». Logan chiuse il cellulare con uno scatto. Avrebbe dovuto accorgersene. Era chiaro come il sole. Il teatro, gli abiti eleganti, l'auto sportiva, le cene. Era Miller. Il "qualcun altro" di Isobel era lui e non Brian il capellone. Seduto in macchina, da solo, al buio, nella neve, Logan chiuse gli occhi e bestemmiò. Se Watson avesse dovuto guardare un'altra soap opera si sarebbe strappata i capelli. E adesso la vecchia aveva cominciato a guardare episodi registrati, che aveva già visto chissà quante volte. Non c'era stato verso di convincerla a guardare i programmi della sera. Soap opera e basta. Persone tristi con vite tristissime. Che si muovevano come automi in un continuo e tristissimo sfoggio di miseria. Cielo, che noia. E in tutta la casa non c'era un solo libro. E quindi l'unico diversivo era il videoregistratore e le soap opera registrate. Tornò in cucina e mise il suo contenitore di brodino nella pattumiera, senza neanche accendere la luce. Che spreco di tempo e di persone! «Jackie? Già che sei lì, la fai una tazza di tè?» «Sei abituato a farti servire?» «A me col latte e due di zucchero, per favore». Borbottando riempì il bollitore elettrico e inserì la spina. «L'ultimo tè l'ho fatto io», disse tornata nel soggiorno. «Adesso tocca a te». Rennie la guardò inorridito. «Ma mi perderò l'inizio della prossima puntata di Emmerdale!». «È registrata, idiota! Come puoi perdere l'inizio di qualcosa che è registrato? Metti il registratore in pausa e vai a fare il tè!». Dalla sua poltrona Mrs Strichen schiacciò un'altro mozzicone di sigaretta nel portacenere. «Ma voi due non smettete mai di litigare?», chiese tirando fuori le sigarette e l'accendino. «Sembrate due ragazzini!». Watson guardò Rennie. «Vuoi il tè? Fattelo». Si girò e si avviò su per le scale. «Dove vai?», chiese Rennie. «In bagno. A fare pipì, se proprio vuoi saperlo», rispose, fermandosi a metà scala.
L'agente Rennie alzò le mani. «Va bene, va bene... farò io il tè. Diamine, quante storie per una tazza di tè!». Si alzò dal divano e prese su i tazzoni vuoti. Con un sorriso compiaciuto l'agente Watson continuò su per le scale. Non sentì la porta sul retro che si apriva. CAPITOLO 37 Il water aveva uno di quegli sciacquoni. Nonostante ripetuti tentativi con la maniglia, quello scarico sembrava stregato. Come facessero gli Strichen a farlo funzionare Dio solo sa. Watson si era seduta sull'orlo della vasca da bagno, continuava ad abbassare la maniglia, con forza, lentamente, in tutti i modi possibili e immaginabili. Alzò il coperchio e diede un'occhiata nella tazza; i suoi sforzi erano riusciti mandar giù la carta. Quel che restava era ormai così diluito da non essere notato. Il bagno era un congelatore, come il resto della casa. Rabbrividendo si lavò le mani; diede un'occhiata all'unico asciugamano appeso dietro la porta, una volta bianco, ora grigio e decise di asciugarsi le mani sui pantaloni. Quando aprì la porta vide che sul buio pianerottolo c'era qualcuno; sussultò e fece un passo indietro d'istinto. Strichen era tornato! Sempre d'istinto tirò indietro la mano destra a pugno e gli si lanciò contro, riuscendo a sviare la direzione del suo attacco all'ultima frazione di secondo, quando il cervello registrò quello che gli occhi avevano identificato. Non Martin Strichen; sua madre, con occhi sbarrati dal terrore. Rimasero lì per qualche istante, entrambe col cuore che galoppava, mentre si riprendevano dallo spavento. «Non faccia così!», disse la Watson abbassando il pugno al fianco. «Fammi passare», disse la madre di Martin, con voce leggermente tremola e guardandola come se fosse scappata da un manicomio. «Mi sta scoppiando la vescica!». Le passò davanti, tenendosi il cardigan chiuso con una mano e una copia dell'«Evening Espress» nell'altra. «Il tuo moroso se la sta prendendo comoda per fare una fottutissima tazza di tè!». Sbatacchiò la porta, lasciando la Watson sul pianerottolo, al buio. «Che brava donna!», mormorò l'agente. «E poi ci si chiede come mai suo figlio è un mostro!». Scese le scale, pensando alla promessa di Logan, di pagarle da bere. Sarebbe stato preferibile a un'altra tazza di tè. Entrò nel soggiorno e si buttò sul divano. Le immagini d'apertura di Emmerdale erano ferme sul televiso-
re, col registratore in "Pausa". Ma com'erano carini quei due, ad aspettare che lei tornasse per avviare l'inizio del nastro! Volevano che soffrisse dall'inizio. «Datti una mossa, Simon!», gridò girando la testa verso la porta aperta del soggiorno. «Quanto ti ci vuole per fare una tazza di tè? È così difficile? Bustina, acqua, latte, zucchero. Non ci vuole una laurea!». Riappoggiò la schiena al divano; ma dopo qualche istante si rialzò borbottando. «È proprio vero che certe cose le devono fare le donne! Uomini, buoni a nulla!». Entrò in cucina. «Non sei neanche capa...». C'era un corpo steso per terra in cucina. Era l'agente Rennie. «Merda!». Cercò di afferrare la piccola ricetrasmittente affibbiata sulla spalla sinistra. E il mondo esplose in una fantasia di fuochi d'artificio gialli e neri. L'orologio su una parete della cucina le disse che era rimasta priva di sensi per non più di cinque minuti. Dolorante, cercò di mettersi a sedere, ma le braccia e le gambe non le funzionavano. La cucina le roteò intorno e ricadde per terra. Chiuse gli occhi e si sentì immediatamente peggio. Sentiva in bocca un sapore sgradevole, ma non riusciva a sputarlo via. Qualcuno le aveva messo uno strofinaccio annodato in bocca. Lo stesso qualcuno che le aveva legato le braccia dietro la schiena e legato insieme le caviglie. Si rovesciò sulla schiena, facendo girare vorticosamente la cucina. Rimase immobile per qualche attimo, e lentamente tutto tornò immobile. Si girò con cautela, in modo da avere la testa verso la porta sul retro e lontana dal soggiorno. L'agente Rennie giaceva per terra a faccia in giù, pallido e privo di sensi. Era legato come lei, e aveva i capelli sporchi di sangue. Dal piano superiore venne il suono di ripetuti tentativi di vuotare la cisterna del water. Si girò dall'altra parte e questa volta la cucina le roteò intorno solo per qualche secondo. La cisterna non aveva ancora scaricato il suo contenuto; si sentiva la maniglia che veniva azionata ripetutamente. Vicino alla pattumiera c'era un grosso borsone. Sulle cuciture c'era ancora della neve. Cercò di schiacciare il pulsante "Trasmetti" sulla sua radiolina col mento. Era ancora affibbiata alla spallina sinistra del suo maglione, ma non riusciva a schiacciarlo.
Improvvisamente un paio di gambe entrò in cucina. Indossavano pesanti calzettoni di lana ed erano avvolte da una spessa gonna. La Watson alzò lo sguardo e si vide davanti Mrs Strichen. La donna aveva un'espressione spaventata; alla vista dei due agenti, uno dei quali privo di sensi, legati e stesi per terra, cominciò a muovere le labbra senza che ne venisse fuori alcun suono. Poi si girò e, mani sui fianchi, cominciò a urlare. «Martin! Martin!». La voce sembrava quella di un rinoceronte arrabbiato. «Cosa diavolo stai facendo, brutto bastardo?». Una sagoma s'inserì nel campo visivo della Watson. Distesa com'era sul pavimento riuscì a vedere il fianco di un uomo, con una struttura ossea più grande del normale, con mani grosse e continuamente agitate. Come le ali di un uccellino catturato in una rete. «Mamma...». «Non cercare di fare il cocco di mamma, brutto bastardo. Cosa diavolo hai fatto?», chiese indicando i due corpi legati e imbavagliati per terra. «Io non...». «Hai ripreso a molestare i bambini, vero eh? Ancora?». Cominciò a puntargli il petto con l'indice della destra. «Mi hai fatto venire la polizia in casa, brutto bastardo! Mi fai vomitare! Se tuo padre fosse vivo ti prenderebbe a cinghiate, brutto perverso di un bastardo!». «Mamma, io...». «Tu non sei mai stato niente! Solo una sanguisuga! Eri un verme che mi succhiava dal seno!». Martin fece un passo indietro. «Mamma, non dire...». «Non ti ho mai voluto! Sei stato un grande sbaglio! Mi senti? Tu sei stato un orrendo brutto schifoso fottuto sbaglio!». Watson vide le gambe muoversi: Martin voltò le spalle alla madre e si recò verso il soggiorno. Ma la madre non intendeva mollare. Gli corse dietro, chiamandolo con un'infinità di parolacce, con la sua voce rauca e stridente. «E non voltarmi le spalle, brutto stronzo! Due anni! Mi senti? Due anni! Tuo padre era stato dentro due anni quando ho avuto te! Hai rovinato tutto! Come sempre! Da quel buono a nulla che sei!». «Non dire...». Le parole furono dette a bassa voce ma la Watson percepì la minaccia che contenevano. Che sfuggì alla madre di Martin. «Mi fai schifo!», urlò. «Palpare i bambini! Sporco, schifoso verme! Se tuo padre fosse vivo...». «Cosa? Cosa? Se mio padre fosse vivo cosa farebbe?», la interruppe
Martin. Voce tonante, carica di rabbia. «Ti riempirebbe di sberle! Sberle e calci! Ti ridurrebbe in poltiglia! Ecco cosa farebbe!». Nel soggiorno qualcosa cadde a terra, frantumandosi. Forse un vaso o una caraffa. Approfittando del rumore l'agente Watson rannicchiò le gambe e spinse, avanzando lungo il pavimento della cucina come un bruco. Dirigendosi verso l'ingresso e il telefono sul tavolinetto. «Quello che è successo è tutta colpa sua!». «Non incolpare tuo padre per quello che sei, brutto schifosissimo vermiciattolo!». La moquette del corridoio era piuttosto ruvida; la Watson sentiva che le graffiava le guance. Nel soggiorno qualcos'altro andò a frantumarsi contro una parete. «Guarda cosa mi ha fatto! Lui!». Nella voce di Martin si sentiva anche il pianto, ma non riusciva a mascherare la rabbia. «Mi ha mandato in ospedale! Ed è stato lui a darmi a quel... a quel... Cleaver! Ogni notte! Ogni notte!». «Non ti permettere di parlare così di tuo padre!». «Ogni notte! Gerald Cleaver mi ha usato ogni notte! Avevo undici anni!». L'agente aveva raggiunto il tavolinetto col telefono, sulla parte dell'ingresso coperta dal coprimoquette di plastica. «Sei un piccolo pezzo di merda! Bastardo! Ecco cosa sei! Sei un bastardo, schifoso!». Si sentì il rumore di uno schiaffo, pelle contro pelle, seguito da un attimo di silenzio. L'agente Watson cercò di dare un'occhiata nel soggiorno, ma riuscì a vedere solo ombre sulla parete. Martin Strichen era accovacciato per terra con una mano sulla guancia, con sua madre che lo sovrastava. La Watson strisciò ancora più avanti e arrivò al tavolinetto del telefono. Ora riusciva a vedere nel soggiorno e anche nel piccolo tinello adiacente. Una catasta di indumenti da stirare era sistemata su una sedia, vicino a un'asse da stiro. E proprio lì vicino Mrs Strichen tirò un'altra sberla a suo figlio. «Sei un verme! Uno schifosissimo verme!». E le sberle punteggiavano ogni parola. Watson diede al tavolinetto una spinta con la spalla; le urla del soggior-
no coprirono il rumore. La cornetta del cordless barcollò sulla sua base una, due volte e poi cadde silenziosamente sul foglio di plastica che copriva la moquette. «Avrei dovuto strangolarti quando sei nato!». L'agente riuscì a prendere la cornetta tra le mani e seguendone i tasti con la punta di un dito, compose il 999. Lanciò un'occhiata verso il soggiorno; nessuno stava guardando dalla sua parte. Non riusciva a sentire il segnale di chiamata, tanto era il baccano che Mrs Strichen stava facendo mentre urlava e picchiava suo figlio. Ma riuscì a mettere la cornetta per terra e ci si poggiò sopra, con la bocca sopra i forellini del microfono. «Emergenza: quale servizio desidera?». Provò a dire qualcosa, ma ne venne fuori solo un suono strozzato. «Non ho capito; le dispiace ripetere?». In preda al panico la Watson provò ancora. «Questo è il numero dei servizi d'emergenza». La voce dell'operatore aveva perso i toni amichevoli con i quali aveva risposto. «Chi lo usa come sta facendo lei è punibile nei termini della legge!». Tutto ciò che la Watson poté fare era ripetere i grugniti di prima. «Basta così. Segnalerò l'infrazione a chi di dovere. Buona sera». No! No! Jackie voleva che rintracciassero l'origine della telefonata e mandassero aiuti! La comunicazione fu interrotta. Arrabbiatissima, si girò in modo da rimettere le mani sulla cornetta e schiacciare il 9 tre volte. Il colpo, quando lo sentì, fu soffice e spugnoso. Si girò verso il soggiorno e dalla porta aperta vide Mrs Strichen che barcollava verso il divano, pallida come la neve che cadeva fuori casa. Dietro di lei c'era Martin, col ferro da stiro in mano, e con un'espressione stranamente calma e serena sul volto. Sua madre inciampò, si aggrappò ai cuscini del divano per supporto; Martin le si pose dietro e fece compiere alla mano che reggeva il ferro da stiro un arco che si concluse quando il ferro colpì la base del cranio della vecchia, facendola crollare come un sacco di patate. Watson ebbe paura. Rabbrividì e riuscì a comporre nuovamente il 999. Una mano di Mrs Strichen si stese tremando verso il divano, cercando un appiglio. Suo figlio tenne il ferro da stiro vicino al petto e con l'altra mano tirò il cordone elettrico. Con un sorriso sardonico si abbassò sul corpo inerte di sua madre e le avvolse il cordone attorno al collo. Un piede
della madre picchiò una, due, tre volte contro la base del divano, mentre lui la strangolava. Stringendo i denti l'agente Watson afferrò la cornetta e tornò strisciando in cucina. Piangeva, con impotenza e commiserazione che si mescolavano al terrore causato dall'aver assistito alla brutale uccisione di un altro essere umano. E alla consapevolezza che lei sarebbe stata la prossima a morire. Respirò profondamente tra i muti singhiozzi; chiuse gli occhi e cercò di ricordare il numero del cellulare del sergente McRae. Dal soggiorno proveniva il rumore, sempre più fievole, del piede di Mrs Strichen contro il divano. Il dito di Jackie riuscì a comporre il numero di Logan sulla tastiera della cornetta del cordless e ripeté gli stessi movimenti che aveva fatto poco prima, quando aveva chiamato il 999, per mettere la cornetta a terra e appoggiarci su la bocca. Su, sergente, rispondi! «McRae». Urlò; ma lo straccio che aveva in bocca attutì il suo urlo, riducendolo a un miagolio. «Sì? Chi parla?». No! No! Doveva sentirla! Perché non sentiva? «Miller, sei tu?». Urlò ancora, stavolta urlando parolacce alla sua stupidità. Possibile che non capisse che era lei? E che era in pericolo? L'ombra di Martin Strichen cadde in cucina. Watson alzò gli occhi e lo vide sulla soglia della porta. Aveva ancora il ferro da stiro in mano, sporco di sangue e con qualche ciocca di capelli attaccata alla superficie liscia. Vide anche che aveva delle macchioline di sangue sulla destra del viso butterato. La guardò, con un'espressione quasi di rimprovero, poi le tolse la cornetta dalle mani e se la portò all'orecchio. Per una decina di secondi ascoltò la voce di Logan che chiedeva chi stesse chiamando il suo cellulare. Poi, con calma, schiacciò il pulsantino rosso e interruppe la comunicazione. Da un cassetto della credenza in cucina tirò fuori un paio di forbici che scintillarono nella cruda luce del tubo fluorescente. Guardò Jackie sorridendo. Snip, snip, snip, fecero le forbici. «È ora di fare le cose per bene...». Logan guardò il cellulare che aveva in mano e imprecò. Come se non
avesse abbastanza grane! Schiacciò il pulsante che faceva riapparire sullo schermo il numero dell'ultima chiamata ricevuta; lo guardò ma non lo riconobbe. Scuotendo la testa schiacciò il pulsante "Richiama" e attese, ascoltando il telefono che squillava, squillava senza nessuno che rispondesse. Bene, si disse, adesso t'insegno io a rompermi le palle. Si fermò, scrisse il numero su un foglietto e chiamò la Centrale, chiedendo di dargli nome e indirizzo del numero. Ci vollero circa cinque minuti, ma finalmente la Centrale lo richiamò con i dati richiesti: Mrs Agnes Strichen, 25 Howesbank Avenue, Aberdeen...». Logan urlò «Merda!», e mise l'acceleratore a tavoletta, facendo slittare la Vauxall sulla neve e il ghiaccio. «Ascolta!», disse all'operatore radio della Centrale. «L'ispettore Insch ha due auto civetta in postazione a Middlefield. Le voglio a quell'indirizzo, subito!». Quando Logan arrivò a casa degli Strichen le due auto erano già parcheggiate per traverso davanti al numero 25. Il vento era calato e adesso la neve cadeva verticalmente. Schiacciò il pedale del freno e l'auto slittò, fermandosi solo quando urtò l'orlo del marciapiede. Uscì dall'auto; correndo, slittando e scivolando arrivò al numero 25 ed entrò. La porta era accostata; evidentemente gli agenti appena giunti l'avevano aperta a calci, non ricevendo risposta dall'interno. Mrs Strichen giaceva nel soggiorno, a faccia in giù, col retro della testa sfondato e con grosse linee rossastre sulla gola. Dalla cucina provenivano voci agitate; Logan vi si precipitò e vide due agenti in divisa, uno chino sul corpo di un uomo supino, l'altro che parlava nella sua radiolina. «Ripeto: abbiamo un agente ferito!». Logan si diede una rapida occhiata intorno. Vicino alla pattumiera notò un mucchietto di stoffa. Nel frattempo un terzo agente si precipitò in cucina, affannato. «Abbiamo guardato in tutta la casa; non c'è nessuno!». Logan esaminò attentamente il mucchietto di stoffa. C'erano i resti di un paio di pantaloni neri. E sotto, anche loro tagliati, i resti di un maglione nero e di una camicetta bianca, entrambi con passanti sulle spalle, nei quali venivano infilate le spalline della divisa. Si girò, sentendo arrivare di corsa il quarto cane da guardia dell'ispettore Insch. «Dov'è l'agente Watson?», chiese. «Non c'è nessun altro in casa, signore». «Merda!», esclamò Logan balzando in piedi. «Voi due», disse agli ultimi arrivati, «fuori, sul davanti. Ha con sé l'agente Watson. Guardate dap-
pertutto, ogni porta aperta, ovunque si possa essere nascosto!». Esitarono un attimo, guardando il loro collega privo di sensi per terra. «Muovetevi!», gridò Logan. Scapparono. «Come sta?», chiese all'agente chino sul corpo di Simon Rennie. «Ha preso un brutto colpo dietro la testa. Respira, ma è messo male». Logan annuì e aprì la porta del retro, facendo entrare un'ondata di aria fredda. «Resta qui con lui», disse. Rivolgendosi all'altro agente. «Tu, vieni con me!». Nel giardino sul retro la neve arrivava alle ginocchia. Il vento l'aveva spinta contro i muri delle case e le staccionate dei giardini, ma si distingueva un sentiero che si perdeva nel buio. «Merda». Stringendo i denti Logan si addentrò nel buio e nella neve. CAPITOLO 38 Era poco più di un baracchino. Una piccola casupola, con mura in mattoni, vicino alla strada che portava alla cava di granito. Da bambino ci veniva a giocare. Più che giocare, veniva a nascondersi. Nascondersi dal padre. Nascondersi dal mondo. La parete di granito grigio della cava era appena visibile nella neve cadente. A suo tempo la cava era stata sfruttata lasciando le pareti perpendicolari, creando un avvallamento, che era poi diventato un laghetto, profondo e pericoloso. Anche in piena estate l'acqua del lago era fredda e scura; copriva un'intricata rete di piante acquatiche e carrelli di supermercato. Non ci nuotava nessuno. Non dagli anni Cinquanta, quando due ragazzi ci erano annegati dentro. Era un posto stregato. Un posto da morti. Proprio come piaceva a lui. La polizia non avrebbe dovuto essere a casa sua! Non era giusto! Non avrebbero dovuto essere lì... Continuò ad avanzare nella neve che gli arrivava alle caviglie, verso il baracchino della cava, respirando affannosamente. Erano pesanti, le spalle gli facevano male sotto il carico. Ma ne sarebbe valsa la pena. Era una brava ragazza, non aveva opposto resistenza. Martin le aveva dato solo un calcio in testa e da quel momento era stata quieta e brava. Senza neanche un mormorio, mentre lui le tagliava gli abiti di dosso. Con mani tremanti le aveva toccato la pelle; fresca e soffice, mentre lui continuava a tagliare, lasciandola in mutandine e reggiseno. Ma ebbe paura
della reazione che provò al vederla così; un dolore fisico. E poi il telefono cominciò a squillare. Squilla e squilla e squilla, mentre lui se la caricava in spalla, prendeva il suo borsone e usciva dalla porta del retro. Stavano arrivando. Per lui. La porta del baracchino era chiusa con un pesante lucchetto di bronzo; vicino c'era un cartello con un avviso «Attenzione - Pericolo di crollo Vietato l'ingresso». Grugnì e fece un passo indietro. Diede un calcio a piede piatto sulla porta, proprio sotto il gancio del catenaccio. La porta assorbì il colpo, flettendosi sotto l'impatto, ma senza cedere. Gli diede un altro calcio e un altro ancora. Al terzo colpo il legno nel quale il gancio del catenaccio era avvitato non resse e la porta si spalancò, col rumore dei calci che echeggiava sulle pareti della cava. Nel baracchino c'era freddo e buio, con l'odore di ratti e topi attutito da anni di polvere. Posò il borsone per terra e si scaricò la donna dalle spalle, poggiandola per terra sul pavimento in cemento. La candida pelle della ragazza spiccava contro il grigio del cemento e Martin rabbrividì. Immaginò che fosse il freddo, ma sapeva benissimo che invece era lei a farlo rabbrividire. Riprese il borsone e glielo mise vicino. Sapeva che dopo si sarebbe sentito male, forse avrebbe anche vomitato, fino a quando gli sarebbero rimaste solo bile e vergogna. Ma quello era per dopo. Per adesso c'era solo il sangue che gli pulsava rabbiosamente, fino a fargli sentire il battito del cuore nelle orecchie. Si chinò sul borsone e con dita intirizzite dal freddo tirò la cerniera. «Ciao!», disse. Nel borsone il piccolo Jamie McCreath aprì gli occhi e cominciò a urlare. Le impronte stavano diventando sempre meno visibili, man mano che la neve cadente le ricopriva, livellando il tutto. Logan si fermò, guardandosi intorno, nel buio che lo circondava. Le tracce lo avevano portato fin qui, via dalla casa e nel buio profondo. E ora le tracce erano svanite. Bestemmiò. L'agente che aveva con lui gli si avvicinò, respirando affannosamente. «E adesso, signore?». Logan diede un'altra occhiata alla zona, cercando di indovinare da quale parte Martin Strichen fosse andato, portando con sé l'agente Watson. Porco
diavolo! Glielo aveva detto all'ispettore Insch, che bisognava lasciare più di due agenti a casa di Martin! «Separiamoci», disse all'agente. «Dobbiamo coprire più terreno possibile». «Da quale parte vuole che vada?» «Non m'importa! Ma trovala!». Tirò fuori il cellulare, mentre l'agente si allontanava lateralmente. «Sono il sergente McRae», disse alla donna che rispose al telefono. «Dove sono i miei rinforzi?» «Attenda un attimo...». Logan attese, guardandosi intorno. Sembrava che qualcuno, con una gigantesca gomma da disegno, avesse cancellato il mondo, lasciando solo un'immensa spianata bianca, sotto un cielo leggermente sfumato di giallo. «Sergente? L'ispettore Insch dice che stanno arrivando. E che alcuni agenti della stazione di Bucksburn dovrebbero essere con lei tra due minuti». In lontananza, attutite dalla neve cadente, si sentivano le sirene delle autopattuglia. Logan continuò ad andare avanti, in una direzione diversa da quella presa dall'agente. I pantaloni gli si stavano inzuppando d'acqua, appesantendogli le gambe e rallentando il suo cammino. Respirava affannosamente, sbuffando come una vaporiera, e al pari di una vaporiera era circondato da una nuvoletta di vapore causata dal respiro che gli si condensava intorno appena esalava. Il suo banco di nebbia personalizzato. Più avanti andava, più si sentiva preso da una sensazione di sgomento. Sapeva che sarebbe stato impossibile trovare Martin Strichen in questa bufera di neve. Magari con i cani. Forse avrebbe dovuto aspettare l'unità cinofila? Ma sapeva anche che non sarebbe stato capace di aspettare senza fare niente. Il terreno saliva leggermente e si inerpicò lungo la lieve scarpata ansimando e con la neve che gli arrivava alle ginocchia. E improvvisamente si trovò alla sommità della salita, col cuore che gli era balzato in gola e le budella che gli si stringevano. Il terreno era scomparso! Era arrivato all'orlo del precipizio e solo per miracolo non vi era cascato dentro, mulinando le braccia per mantenere l'equilibrio, già con un piede nel vuoto. Fece un paio di passi indietro e poi avanzò di nuovo, lentamente, per accertare il pericolo appena scampato. Si trovava sull'orlo di uno degli scavi. Un ampio baratro, a tre quarti di cerchio, con un laghetto sul fondo. La neve cadente intensificava la sensa-
zione di vertigine che cominciava a sentire. Da dove si trovava al livello dell'acqua saranno stati circa venti metri. Il cuore gli galoppava furiosamente, spingendogli il sangue nelle vene e facendogli ronzare le orecchie. In fondo alla parete dello scavo, non molto lontano dalla riva del laghetto si intravedeva una piccola costruzione; da una finestrella Logan vide un lieve barlume di luce, che durò solo pochi secondi, prima di girarsi altrove. Logan si girò e cominciò a correre. La torcia elettrica non dava certamente un'atmosfera intima al baracchino. Il piccolo cono di luce, quasi sbiadito, faceva sembrare le ombre ancora più tetre. Con un lamento l'agente Watson riuscì ad aprire un occhio. Le sembrava di avere la testa imbottita di bambagia che bruciava lentamente. Sentiva la faccia fredda e appiccicosa. Aveva freddo. Tutto il suo corpo era congelato. Fu presa da un brivido, che la scosse tutta, facendole pulsare la testa. Tutto era offuscato; riusciva a mettere a fuoco qualcosa di quello che la circondava, solo per vederlo svanire subito dopo. Ricordava che stava facendo qualcosa. Qualcosa di importante... Ma perché aveva così freddo? «Sei sveglia?». Era la voce di un uomo. Nervosa, quasi timida. Tremante. E subito ricordò tutto. Cercò di alzarsi in piedi, ma era ancora legata mani e piedi. Lo scossone del tentativo di alzarsi fece girare vorticosamente la stanza. Chiuse gli occhi tenendoli strizzati e lentamente esalò il respiro tra i denti stretti. Un po' alla volta il pulsare che sentiva nelle tempie sparì. Quando aprì gli occhi aveva davanti il volto preoccupato di Martin Strichen. «Scusami...», disse spostandole i capelli dal volto con una mano tremante. «Non volevo colpirti. Ma non avevo altra scelta. Non volevo farti del male. Stai bene?». Imbavagliata e con lo straccio in bocca, Watson poté solo emettere una specie di miagolio. «Bene», disse Martin che non aveva capito la sfilza di parolacce che lei gli aveva appena lanciato. «Bene». Si alzò e le girò le spalle. Si chinò sul borsone che la Watson aveva visto in cucina e cominciò a canticchiare una canzoncina da bambini. Carezzando qualcosa nel borsone. L'agente Watson si guardò intorno cercando qualcosa da poter usare co-
me arma. Il baracchino era stato un ufficio, ai tempi dell'attività della cava. Su una parete c'era una rastrelliera metallica che una volta aveva contenuto le schede di presenza degli operai, e su un'altra un calendario di donne nude, ricoperto di muffa. Niente mobili, solo pareti ricoperte da graffiti e un pavimento in cemento. Fu presa da un altro brivido. Ma come mai aveva così freddo? Solo allora si accorse che era quasi nuda. «Non devi aver paura, piccolo», disse Martin con tenerezza. Dal borsone si sentì un singhiozzo e il sangue della Watson si gelò nelle vene. Jamie McCreath era ancora vivo. Avrebbe assistito all'uccisione di un bambino da parte di un perverso! Racimolò tutte le forze di cui poteva disporre e cercò di forzare i legami che la immobilizzavano. Non c'era un centimetro di gioco nelle legature. Le braccia e le gambe le tremavano per lo sforzo, ma era solo riuscita a far sì che le corde mordessero più profondamente nella pelle. «Per te non sarà come è stato per me», mormorava Martin intanto, carezzando il bambino nel borsone e parlandogli con toni tranquillizzanti. «Io ho dovuto vivere tutta la mia vita nel ricordo di quello che Gerald Cleaver mi ha fatto... tu invece non sentirai niente». Watson sentiva il pianto nella voce di Martin. «Tu sarai al sicuro». Si contorse sulla schiena, rabbrividendo al contatto della pelle col pavimento gelido. Martin tirò fuori il bambino dal borsone e lo mise a sedere per terra vicino alla Watson. Jamie era ancora vestito come la mamma lo aveva portato al Duthie Park: tutina imbottita e berrettino di lana. Aveva occhi enormi, spaventati e gonfi di lacrime e il nasino che gli colava. Tremava tutto e singhiozzava. Martin frugò ancora nel borsone e ne tirò fuori un pezzo di cavo elettrico. Con mano esperta fece un doppio nodo a entrambe le estremità. Mise un nodo nel palmo della mano sinistra e si avvolse il cavo due volte intorno al pugno. Fece lo stesso con l'altra mano: tirò per verificarne la fermezza e annuì a se stesso, quasi come per congratularsi per un lavoro ben fatto. Con occhi tristi guardò la Watson che si dimenava nei legami che la immobilizzavano. «Quando avrò finito, sarà tutto perfetto», le disse. «Ho solo bisogno di...», arrossì, «sai com'è... di eccitarmi. Poi sarà tutto normale. Io e te faremo sesso... e tutto sarà perfetto. Non avrò più bisogno di... di questo». Si morse il labbro e diede uno strattone al cavo. «Ritornerò nor-
male e tutto sarà bello, tutto sarà normale». Respirò profondamente, fece un cappio col cavo che teneva tra i pugni. Un cappio grande abbastanza per la testa di Jamie McCreath. Il bambino emise un gemito di terrore; continuava a guardare l'agente Watson che si dimenava, cercando di liberarsi. Martin si avvicinò al bambino, chinandosi col cavo in mano, canticchiando una filastrocca da bambini. Con uno sforzo sovrumano la Watson lanciò le gambe in aria e si appoggiò all'indietro sulle braccia, arcuando la schiena in modo da trovarsi quasi verticale, ma a testa in giù. Martin sollevò lo sguardo dal piccolo Jamie che era accovacciato al fianco dell'agente; la canzoncina gli morì sulle labbra vedendola allargare le ginocchia quanto più poteva e girandosi verso lui quel tanto che bastava per avvinghiargli il collo con le gambe e stringere quanto più poteva. Martin non ebbe il tempo di evitare la presa; il terrore all'inaspettata reazione gli si lesse sul volto. La Watson si sforzò di incrociare le caviglie, sinistra sulla destra, per poter stringere con più forza e rompergli la trachea. Le mani di Martin erano imbrigliate nel cavo: cercò di allentare la presa delle gambe di Jackie picchiando sull'interno delle cosce, ma senza effetto. Con un grugnito di trionfo la Watson riuscì a incrociare le caviglie. Ora che aveva una miglior presa poteva stringere con più forza. Vide con soddisfazione la faccia di Martin che diventava color porpora. Avrebbe mollato solo quando il perverso sarebbe morto. In preda alla disperazione, Martin riuscì a liberarsi dal cavo che si era avvolto intorno a entrambi i pugni, dimenandosi, graffiando e tirando pugni a tutto ciò che gli capitava a tiro. Cominciò a tirar pugni nell'addome dell'agente. Nonostante il dolore che le esplodeva nello stomaco, la Watson chiuse gli occhi e tenne duro, continuando a stringere. Martin le diede un morso in una coscia, poco sopra il ginocchio. Morse con tutta la sua forza, sentendosi il sangue in bocca; agitava la testa, cercando di staccare un brandello di carne. Jackie urlò dal dolore, ma Martin strinse ancora di più i denti, continuando a tirar pugni. Uno la colpì nei reni e Jackie si afflosciò. Martin si liberò dalla presa di Jackie in pochi secondi e barcollò all'indietro, fermandosi solo quando urtò nella parete opposta. Aveva il mento sporco di sangue e con le mani si massaggiava la gola, cercando dispera-
tamente di riprender fiato. «Sei... sei come tutti gli altri!», gridò, con voce rauca e cruda. Jamie McCreath cominciò a piangere, un pianto accompagnato da alte grida, l'eco delle quali rimbalzava dalle nude pareti. «Sta zitto!». Martin si rialzò e barcollando andò dal bambino. Lo prese per le braccia, sollevandolo da terra. «Sta zitto! Sta zitto! Zitto, ti dico!». Ma queste grida lo fecero solo gridare più forte. Con una smorfia di rabbia Martin gli diede un manrovescio, duro e secco, spaccandogli un labbro e facendolo sanguinare dal naso. Seguì un attimo di silenzio. «Oh, no... Dio, Dio, no...». Martin rimise Jamie a terra, terrorizzato. Fissò il bambino che piangeva, e si guardò le mani, strofinandole con movimenti convulsi, come se volesse toglierne la forza che aveva fatto male a Jamie. «Mi dispiace! Non volevo farti...». Stese la mano, come per fargli una carezza, ma Jamie, occhi sbarrati dalla paura, si tirò indietro, coprendosi la faccia con le manine inguantate. Nella pallida luce della torcia Strichen guardò accigliato l'agente Watson, che giaceva su un fianco, respirando à fatica, col sangue che colava dai morsi nelle cosce. «Questo è avvenuto per colpa tua!». Sputò il sapore di sangue che aveva in bocca sul pavimento. «Mi hai costretto a fargli male!». Uno scarpone colpì Jackie allo stomaco, quasi sollevandola da terra. Soffocò un grido, mentre dolori lancinanti le torturavano l'addome. «Sei come tutti gli altri!». Un altro calcio, questa volta alle costole. Martin adesso era isterico; urlava come un ossesso. «Tutto sarebbe stato perfetto! Hai rovinato tutto!». La porta si spalancò con fragore. Logan si precipitò all'interno del baracchino. Nel pallido cono di luce della torcia sul pavimento vide tutto: l'agente Watson, seminuda e supina per terra, occhi chiusi dal dolore; Jamie McCreath, rannicchiato in un angolo, con il viso coperto di sangue; e Martin Strichen, che tirava indietro il piede per dare un altro calcio alla Watson. Strichen si bloccò di colpo, proprio mentre Logan gli saltava addosso, catapultando entrambi nella parete di fondo. Un pugno gli passò vicinissimo a un orecchio. Logan non aveva nessuna intenzione di lottare lealmente
e quindi mirò direttamente al basso ventre di Martin, dandogli un paio di pugni nei genitali. L'omone indietreggiò, senza fiato. Con le mani si coprì il basso ventre, impallidendo dal dolore. Dopo qualche secondo si vomitò addosso. Logan non aspettò che finisse; lo tirò per i capelli, fino a fargli picchiare la testa nel muro. Martin colpì la parete con un sordo rumore, e con un impatto così forte da far staccare dal gancio il calendario ammuffito con le donnine. Barcollò all'indietro, col sangue che gli colava sul viso e Logan lo afferrò per un braccio, torcendoglielo dietro la schiena. Un gomito, enorme e osseo, colpì Logan proprio sotto le costole, riempiendogli lo stomaco di dolore. Col fiato che gli mancava, cadde per terra. Strichen barcollò nella stanzetta. Con un grugnito si passò una mano sul volto, pulendosi il sangue. Poi, con un movimento improvviso, afferrò Jamie McCreath con una mano, il borsone con l'altra e si precipitò fuori, nella neve cadente. Logan riuscì ad alzarsi in piedi. Restò fermo per un attimo, cercando di riprender fiato, e aspettando che le sue sconvolte budella gli si rimettessero a posto. Dopo un po' riuscì ad arrivare alla porta. Si fermò sulla soglia. Non poteva lasciare la Watson in quelle condizioni. Barcollò verso dove lei giaceva, illuminata dalla torcia per terra. Sullo stomaco e sulla parte superiore delle cosce cominciavano ad apparire le prime ecchimosi e, all'interno di una coscia, il sangue colava copiosamente da un paio di morsi. Le sciolse le mani e nell'aiutarla a sedersi sentì le costole che le si muovevano sotto la pelle. «Come stai?», le chiese togliendole il bavaglio. Questo aveva lasciato profondi segni rossastri intorno alla bocca. Jackie sputò il pezzo di straccio che aveva in bocca e tossì, con una smorfia di dolore. Si toccò le costole rotte. «Vai!», sibilò coi denti stretti dal dolore. «Vai a prendere quel bastardo...». Logan si tolse il cappotto, glielo posò sulle spalle nude e barcollando uscì nella neve. Tutto intorno alla cava si vedevano le luci delle torce degli agenti e si sentiva l'abbaiare dei cani. Dal lato sud avanzavano altri agenti muniti di torce, chiudendo la morsa. Una cinquantina di metri più avanti la sagoma di un uomo si fermò. Strichen. Si girò, brancolando col bambino, cercando qualche luogo verso cui correre, con la faccia illuminata dalla torcia.
«Fermati, Martin», gli disse Logan, avanzando a fatica nella neve e tenendosi una mano sullo stomaco dolorante. «È finita. Non hai più dove nasconderti. La tua foto è su tutti i giornali, il tuo nome è sulla bocca di tutti. Siamo alla fine». Martin si girò di nuovo, impaurito. «No!», gridò cercando disperatamente una via d'uscita. «No! Mi manderanno in prigione!». A Logan sembrò che questo fosse ovvio e glielo disse. «Hai ucciso dei bambini, Martin. Li hai uccisi e li hai violentati. Hai mutilato i loro corpi. Dove credi che ti avrebbero mandato? In un villaggio turistico?» «Mi faranno del male!». Adesso Strichen piangeva, con i singhiozzi che si tramutavano in nuvolette. «Come ha fatto lui! Come ha fatto Cleaver!». «Martin, fermati. È finita...». Il piccolo Jamie, che Martin teneva per la vita sottobraccio, cominciò ad agitarsi e a tirar calci, urlando a più non posso. Strichen lasciò cadere il borsone per sistemarsi meglio il bambino, ma il piccolo, dimenandosi come un'anguilla, gli scappò di mano e cadde nella neve. Logan corse in avanti. Strichen tirò fuori un coltello. Logan si fermò di colpo. La lama scintillò e qualcosa gli si strinse nelle budella. «Non andrò in prigione!». Martin urlava adesso, con gli occhi che guardavano da Logan al cerchio di torce, sempre più vicino. Inosservato, il piccolo Jamie McCreath si alzò e cominciò a correre. «No!». Martin si girò in tempo per vedere il bambino che correva per quanto glielo permettevano le sue gambine. Solo che non correva verso le torce degli agenti. Verso l'abbaiare dei cani. Correva verso il lago. Martin gli corse dietro, con la lama in mano, urlando. «Fermati! Torna indietro! È pericoloso!». Stringendo i denti contro il dolore Logan lo seguì, ma aveva un bel po' di distacco da recuperare. Martin inciampò in un avvallo nascosto dalla neve e cadde lungo steso a faccia in giù. Si rialzò e riprese l'inseguimento, ma il bambino aveva aumentato il vantaggio. Correva verso lo scavo, verso la riva del lago. Improvvisamente Jamie si fermò, slittando. Era andato fin dove poteva. Avanti c'era solo acqua scura. Si girò indietro con la paura che gli si leggeva sul volto. «È pericoloso!», gridò Martin correndogli dietro. Ma Martin pesava molto più di un bambino. Il ghiaccio che sosteneva
Jamie non avrebbe potuto sostenere i quasi cento chili di Martin Strichen. Si sentì un rumore improvviso, come un colpo di pistola e Martin si fermò, con le braccia aperte, senza muoversi. Un altro colpo e stavolta Martin urlò terrorizzato. A circa quattro metri di distanza, Jamie McCreath lo guardava impaurito. Il ghiaccio cedette con un boato, un buco grande come un furgone gli si aprì sotto i piedi e Martin Strichen sparì. Giù. Con l'acqua nera che coprì le sue urla. Incuriosito, Jamie si avvicinò nel ghiaccio e guardò nel buco. Martin Strichen non riaffiorò. CAPITOLO 39 Logan restò lì, nella neve che continuava a cadere, guardando le luci lampeggianti dell'ambulanza che si allontanavano. Stavano portando via l'agente Watson: commozione cerebrale, ipotermia, ecchimosi e lividi in abbondanza e un paio di costole rotte. Per i morsi ricevuti le avrebbero fatto un'iniezione antitetanica. Ma niente di grave, come gli aveva detto il paramedico. Specialmente di fronte a quello che sarebbe potuto succedere... Logan aprì la portiera dell'auto che aveva svincolato dal parcheggio della Centrale. Avviò il motore e inserì il riscaldamento al massimo. Si chinò in avanti, appoggiò la testa sul volante e si lasciò sfuggire un lamento. L'agente Jackie Watson e il piccolo Jamie McCreath stavano andando in ospedale e Simon bastardo Rennie era già lì. Ma Martin Strichen era morto, come anche sua madre. Alzò gli occhi in tempo per vedere l'arrivo di una elegante auto sportiva. Due gambe, lunghe ed elegantemente calzate uscirono dal posto di guida. Il patologo era arrivato. Il cuore di Logan andò ancora più in fondo. Isobel MacAlister indossava un completo invernale in pelle di cammello e pelliccia. Sembrava uscita da un film di James Bond. E quel che è peggio, le stava benissimo. Si aggiustò una ciocca ribelle sotto il cappuccio di pelliccia, andò al portabagagli e ne estrasse la sua borsa di lavoro. Isobel e Miller. Amanti. Se Logan avesse deciso di denunciarla agli Standard Professionali la mattina dopo, quella faccia acida dal pel di carota dell'ispettore Napier l'a-
vrebbe buttata fuori prima che qualcuno potesse dire "comportamento gravemente scorretto". E così Napier non avrebbe più sospettato lui. Logan continuò a guardare la casa degli Strichen. La carriera di Isobel sarebbe stata rovinata. Nessuna forza di polizia in tutto il Regno Unito l'avrebbe impiegata. Cosa aveva detto Miller? Che Isobel voleva solo qualcuno col quale parlare dei problemi della giornata... qualcuno che le offrisse una spalla sulla quale piangere, se necessario. Proprio come aveva fatto Logan, ai vecchi tempi. E adesso l'unico modo in cui Logan avrebbe sentito le mani di Isobel sul suo corpo, sarebbe stato quando sarebbe finito all'obitorio, con un etichetta legata all'alluce destro. «Bella immagine», si disse. Il parabrezza si era sbrinato. Inserì la marcia e si allontanò dal marciapiede. C'era poco traffico, mentre si dirigeva verso North Anderson Drive. Solo qualche taxi e qualche autoarticolato, che facevano solchi profondi nel nevischio e sollevavano grandi ondate di spruzzi, che i fari dell'auto di Logan illuminavano con un effetto pirotecnico. La radio della polizia continuava a dare informazioni su quanto era successo: Strichen era morto! Jamie era stato ritrovato sano e salvo! E Jackie Watson era stata trovata in reggiseno e mutandine! Con una smorfia, spense la radio. Solo che il silenzio era peggio del rumore. Il silenzio lo faceva pensare, gli faceva girare per la testa tanti "e se...". E se fosse andato verso sinistra anziché verso destra? E se fosse arrivato cinque minuti più tardi? E se non si fosse fermato quando Martin aveva tirato fuori il coltello? E se fosse riuscito a bloccarlo prima che... Se, se, se... Decise di non pensarci. Accese la radio dell'auto, girando la manopola del sintonizzatore fino a quando la dolce voce di un DJ della Northsound si sentì dagli altoparlanti. Un piccolo segno che il mondo era ancora dove avrebbe dovuto essere. Picchiettando le dita a tempo con la musica sentì che la tensione gli si scaricava lentamente dalle spalle. Forse era meglio che le cose fossero andate così. Che Martin Strichen fosse morto. Meglio morto che dietro le sbarre della prigione di Peterhead, dove un detenuto su tre era un altro Gerald Cleaver. Ma Logan sapeva che avrebbe sofferto di incubi. Svoltò dalla North Anderson Drive e prese una strada che gli avrebbe fatto attraversare la parte nord della città.
Da quelle parti le strade erano deserte: la neve, i globi di luci gialla dell'illuminazione stradale e lui. La musica trasmessa dalla radio finì e ci fu una pausa di circa dieci secondi. E seguì il giornale radio, seguito a sua volta dai dati e connotati di Martin Strichen, con l'annunciatore che invitava chiunque lo avvistasse a chiamare la polizia e a non tentare di affrontarlo da solo, in quanto pericoloso. Nonostante fosse morto, qualcuno lo cercava ancora. Quando Logan arrivò in Queen Street l'orologio si avvicinava allegramente alle 22,30. Abbandonò l'auto sul retro e con passo stanco entrò nella Centrale. Fu subito colpito dal silenzio che regnava nell'ingresso. Sembrava che l'edificio fosse stato abbandonato da tutti. Si chiese dove fossero andati, ma poi decise di non preoccuparsene. Voleva solo qualcosa di caldo. Caffè. Tè. Qualsiasi cosa, purché fosse calda. Avrebbe aspettato una mezz'oretta e poi avrebbe telefonato all'ospedale, per chiedere notizie sull'agente Watson. Aveva quasi attraversato l'area della reception quando qualcuno alle sue spalle lo chiamò. «Lazarus!». Era Big Gary, con in mano il solito biscotto, le cui briciole si spargevano sul banco della reception. Sfoggiava un sorriso così ampio da poterci infilare un attaccapanni per traverso. Il suo collega, impegnato al telefono dietro il vetro divisorio, alzò gli occhi e gli fece il gesto del pollice dritto, sorridendo. Big Gary uscì dalla porticina laterale e strinse Logan in un abbraccio che lo lasciò senza fiato. «Lazarus, sei un mostro!». Per quanto piacevole fosse il riconoscimento, le cicatrici allo stomaco di Logan cominciarono a farsi sentire. «Grazie, ma basta! Basta, ti prego...». Big Gary lo lasciò e fece un passo indietro, sorridendo con un orgoglio quasi paterno. Ma il sorriso svanì quando vide la smorfia di dolore sul volto di Logan. «Oh Dio... ti ho fatto male?». Logan lo allontanò con un gesto, chiudendo gli occhi, stringendo i denti e respirando lentamente, come gli avevano insegnato all'ospedale. Dentro, fuori, dentro, fuori... «Lazarus, sei un eroe. Vero, Eric?». Il responsabile della reception, libero dal telefono, disse che sì, Logan era veramente un eroe.
«Dove sono tutti gli altri?», chiese Logan cambiando discorso. «La porta a fianco». Fece un cenno con la testa, indicando il pub. «Il questore paga da bere a tutti! Abbiamo cercato di contattarti via radio un sacco di volte!». «Oh...», disse Logan sorridendo, senza che aveva spento la radio. «Sarà meglio che vada anche tu, Lazarus», disse Big Gary, avvicinandosi come se stesse per prendere Logan in un'altra presa di lotta grecoromana. Logan fece un passo indietro e disse che sì, ci sarebbe andato. Per un mercoledì sera l'Archibald Simpson's era affollatissimo. Ovunque Logan guardasse c'erano agenti in divisa e non, uomini e donne, tutti intenti a scolarsi l'equivalente del loro peso corporeo. C'era una bella atmosfera; sembrava la sera di San Silvestro. Solo che nessuno si stava prendendo a botte. Appena Logan entrò nel pub un boato di saluto e di applausi fece tremare i vetri. Poi tutti intonarono un coro di Perché è un bravo ragazzo, ma con le parole della versione stadio, più sconce e pastose. Abbracci, pacche sulla schiena, strette di mano, baci dalle donne e anche da qualche uomo, a seconda di quanto avesse bevuto. Logan riuscì a farsi strada, fino a un angolo della sala dove c'era un po' più calma. Vide l'ispettore Insch e andò a sedersi al suo tavolo. L'ispettore gli fece un sorriso da un orecchio all'altro e gli diede una pacca nella schiena che lo piegò quasi in due. Al tavolo c'era anche il contingente di Edimburgo. L'ispettore e i suoi sergenti sorrisero e si congratularono con Logan; ma il sorriso dello psicologo era talmente teso e forzato da sembrare appiccicato. «Il questore ha detto che stasera paga lui!», sorrise Insch. «Mostra il tuo tesserino al bar e tutto è gratis!». Prese il suo boccale e mandò giù mezza pinta tutta d'un colpo. Logan si guardò intorno, osservando i presenti, il meglio della Grampian Police. Per il questore sarebbe stata una serata costosissima. CAPITOLO 40 Giovedì mattina e nella Centrale della Grampian Police regnava un'atmosfera piuttosto pacata. E non era difficile immaginarne il perché. Il novantacinque per cento dei presenti stava smaltendo la sbornia della sera
prima. Nessuno conosceva l'importo del conto, ma doveva essere enorme. Dopo le birre, e le red bull con vodka, tutti avevano cominciato a bere tequila. In effetti il pub avrebbe dovuto chiudere tre ore prima di quando l'ultimo avventore era uscito barcollando nella neve. Ma chi avrebbe denunciato il titolare del pub per aver venduto alcolici oltre l'ora di chiusura prevista dalla legge? Tre quarti della polizia di Aberdeen erano lì dentro! A ordinare a gran voce cedro e sale. Logan andò al lavoro stringendo i denti: aveva fatto colazione con una tazza di tè e antidolorifici. Non avrebbe potuto mandar giù nessun alimento solido. La mattinata era cominciata con cieli azzurri e un venticello pungente che aveva coperto la neve della sera prima con una sottile coltre di ghiaccio. Una conferenza stampa era stata indetta per le 9,30 e Logan avrebbe preferito andare dal dentista. Si sentiva come se qualcuno gli fosse entrato in testa e stesse cercando di spingergli il cervello fuori dalle orecchie. I suoi occhi, normalmente di un bell'azzurro cristallino, sembravano qualcosa tirato fuori dal film Le spose di Dracula. Quando entrò nel centro investigazioni, ci fu un altro applauso, più pacato stavolta, ma non meno sentito. Li ringraziò con un gesto e andò a sedersi al suo solito posto. L'ispettore Insch chiese silenzio e cominciò il briefing. Contro tutte le leggi della natura l'ispettore era in splendida forma. Questo era l'uomo che aveva ordinato Drambuie flambé alle due del mattino! Non c'era più giustizia! Insch diede una dettagliata descrizione degli eventi della sera prima, che i presenti punteggiarono con applausi. Dopodiché si tornò al lavoro normale: squadre di ricerca, ricerche, indagini porta a porta... Usciti tutti Logan si trovò da solo con l'ispettore Insch. «Allora», disse il grassone, appoggiandosi alla scrivania e tirando fuori un pacchetto intatto di caramelline morbide. «Come ti senti?» «A parte la gran fanfara che mi sta tirando fuori dalla testa a suon di calci merda di sette colori, mi sento abbastanza bene». «Bene». Insch tacque, impegnato a strappare il cellophane del pacchetto. «Stamattina alle 6,15 i sommozzatori hanno trovato il corpo di Martin Strichen. Era impigliato nelle alghe del lago, sotto il ghiaccio». Logan rimase impassibile. «Capisco». «E voglio essere io a dirtelo; riceverai un encomio ufficiale». Logan non se la sentì di guardare l'ispettore negli occhi. «Ma Strichen è
morto». Insch sospirò. «Sì, è morto. Come pure sua madre. Ma Jamie McCreath è vivo, e così pure l'agente Watson. E non ci saranno altri bambini sulle fredde tavole dell'obitorio, almeno non per mano di Strichen». Appoggiò una mano grossa come un badile sulla spalla di Logan. «E tutto per merito tuo». La conferenza stampa era come un mercato del bestiame; giornalisti che urlavano domande, flash che lampeggiavano, presentatori televisivi che commentavano alla telecamera... Logan sopportò il tutto con quanta buona grazia riuscì a racimolare. Quando la conferenza finì, Colin Miller lo stava aspettando, indugiando in fondo alla sala, chiaramente a disagio. Gli disse quanto era stato bravo nel trovare il bambino sano e salvo. E come tutti erano fieri di lui. Gli passò una copia del giornale di quella mattina, con la testata a tutta pagina Eroico poliziotto cattura l'assassino dei bambini! E più sotto Jamie restituito alle braccia della madre sano e salvo! (Vedi servizio fotografico da pagina 3 a pagina 6). Si morse il labbro e respirò profondamente. «E adesso?», chiese. Logan sapeva che Miller non stava parlando del caso. Si era posto anche lui la stessa domanda, tutta la mattinata. Da quando era entrato n Centrale e non era andato dall'ispettore Napier e i suoi giannizzeri lei reparto Standard Professionali. Se avesse denunciato Isobel l'avrebbe rovinata. E d'altra parte se avesse taciuto sarebbe potuto succedere di nuovo; un'indagine avrebbe potuto essere compromessa, l'opportunità di arrestare un assassino prima che avesse ucciso ancora sarebbe stata persa. Logan sospirò. Poteva fare solo una cosa. Si girò verso Miller. «E adesso ti dico io cosa succede. Tu mi riferisci tutto ciò che ti dice, parola per parola, prima di stamparlo. E io ti dico cosa puoi e cosa non puoi stampare. Al primo sgarro, alla prima parola non autorizzata da me che esce sul tuo giornale, vado direttamente dal procuratore e Isobel verrà letteralmente trascinata nel fango. Prosecuzione criminale. Galera. Sarà rovinata. Va bene?». Miller lo guardò dritto negli occhi, impassibile. «Va bene. Patti chiari». Fece spallucce. «Era convinta che tu l'avresti denunciata. Mi ha detto che non ti saresti lasciato sfuggire l'occasione di vendicarti». Logan forzò un sorriso. «Forse, ma si sbagliava. Spero che sarete felici insieme». Non se la sentì di guardare Miller negli occhi. Uscito Colin Miller, Logan si fermò nell'ingresso, guardando dalle gran-
di porte a vetro la neve che cadeva lentamente. Non avendo niente di urgente tra le mani, si lasciò cadere in una delle poltroncine della reception e reclinò la testa all'indietro sullo schienale. Jackie sarebbe guarita presto. Sarebbe andata a trovarla quel pomeriggio, con un bel mazzo di fiori, una scatola di cioccolatini e un invito a cena. E magari... da cosa nasce cosa? Sorridendo al pensiero, stiracchiò le braccia sbadigliando, proprio mentre un uomo dall'aspetto tarchiato, sui cinquant'anni e con una barbetta ben curata, spinse la porta vetrata dell'ingresso e si recò direttamente al banco della reception. «Salve», disse agitandosi come se avesse le pulci. «Vorrei parlare a un vostro detective, quello dal nome biblico». Il sergente di turno puntò la sua biro verso Logan. «Detective biblico, seduto là in fondo». L'uomo si diresse verso Logan, con passo incerto, forse a causa dei tanti whisky che aveva bevuto per farsi coraggio. «È lei il detective dal nome biblico?», chiese con voce stridula e un po' biascicante. Suo malgrado Logan ammise di esserlo. L'uomo si raddrizzò; con la schiena dritta come un fuso e il mento per aria disse. «L'ho uccisa io», con le parole che gli venivano fuori staccate e ben scandite. «L'ho uccisa io e sono qui per soffrirne le conseguenze». Logan si passò una mano sulla fronte. Proprio quel che gli mancava: un altro caso da risolvere. «Chi ha ucciso?», chiese cercando di non sembrare troppo scocciato, ma senza riuscirci. «La bambina. Quella che hanno trovato nel capannone...». La voce divenne tremula e Logan vide che l'uomo aveva gli occhi e il naso rossi dal piangere. «Avevo bevuto...». Rabbrividì, perso nel passato. «Non l'avevo vista... e ho pensato... dopo tanto tempo... quando avete arrestato quell'uomo, pensavo che tutto sarebbe stato dimenticato. Ma lo hanno ucciso, vero? È stato ucciso per colpa mia...». Si passò una mano sul viso e cominciò a piangere. Questo era l'uomo che aveva ucciso Lorna Henderson. La causa della morte di Bernard Duncan Philips. L'uomo che aveva costretto l'infermiera Henderson a uccidere. Sospirando, Logan si alzò. Un altro caso risolto. Un'altra vita rovinata. RINGRAZIAMENTI
Questo libro è pura fantasia. I pochi dati di fatto che contiene mi sono stati forniti da persone che hanno risposto a una miriade di domande apparentemente senza senso. Per cui ringrazio i sergenti Jacky Davidson e Matt MacKay della Grampian Police per la loro assistenza sulle procedure di polizia ad Aberdeen; la dottoressa Ishbel Hunter, dirigente del reparto di Patologia anatomica del Royal Infirmary di Aberdeen per i suoi grafici consigli sulle autopsie; Brian Dickson, responsabile per la sicurezza al «Press and Journal» per avermi fatto da guida nel tour. Devo porgere un ringraziamento particolare al mio agente Philip Patterson per aver mellifluamente convinto le simpatiche Jane Johnson e Sarah Hodgson della casa editrice Harper Collins a pubblicare questo libro. E alle magnifiche Lucy Vanderbilt, Andrea Joyce e al resto del team per aver portato a termine un ottimo lavoro sui diritti internazionali. E anche ad Andrea Best, Kelly Ragland e Saskia van Iperen per averlo seguito. Grazie a James Oswald per le informazioni iniziali e a Mark Hayward, il mio primo agente a Marjacq, prima che li lasciasse per diventare un ispettore del fisco, che mi consigliò di piantarla di scrivere quelle porcherie di fantascienza e di provare a scrivere un libro su un serial killer. Ma più di tutti, grazie a quella birbanteria di mia moglie, Fiona: per le innumerevoli tazze di tè, per i suoi consigli sulla grammatica e sull'ortografia; per aver rifiutato di leggere il libro in caso non le piacesse e per avermi sopportato tutti questi anni. E per concludere: Aberdeen non è così brutta come la si dipinge. Credetemi... FINE