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PETER STRAUB IL DRAGO DEL MALE (Floating Dragon, 1983) A Emma Sydney Valli Straub Ora tempo e luogo sono identici, Per sempre uniti. John Ashbery, Haunted Landscape Il diavolo è uno spirito stolto. Tutto quello che il diavolo sa è quanto tu gli racconti con quella tua boccaccia. Frederick K. Price INTRODUZIONE La morte di Stony Friedgood 1 1962-1963 Stony Baxter Friedgood considerava i suoi sporadici adulteri semplici avventure. Rimorchiare un uomo facendogli credere di essere lui il conquistatore rendeva più eccitante la sua vita, la riportava ai tempi in cui, ventenne, era studentessa a Scripps-Claremont. E poi quelle avventure non facevano che bene al suo matrimonio. Al college aveva abbindolato quattro ragazzi e solo uno di loro, un certo Leo Friedggod, iscritto al corso di specializzazione in matematica, aveva scoperto l'esistenza degli altri. Leo aveva trovato divertente la sua riservatezza e buffo il suo soprannome goliardico. Solo dopo alcuni mesi Stony aveva toccato con mano fino a che punto quell'aria divertita nascondesse una gran voglia. Lo aveva sposato dopo il conseguimento del diploma: niente corso di perfezionamento per Stony e fine degli studi per Leo, il quale si era tagliato la barba, aveva indossato giacca e cravatta e si era trovato un posto alla Telpro Corporation, che aveva un ufficio a Santa Monica.
2 1969 Tabby Smithfield crebbe fino all'età di cinque anni in un'enorme casa di pietra ad Hampstead, nel Connecticut, con due ettari di terreno ben curato attorno e impianto d'allarme al cancello principale. Le sedici case residenziali allineate lungo il Long Island Sound erano talmente imponenti da essere considerate meta turistica. Ogni giorno una mezza dozzina di automobili scendeva lungo Mount Avenue e guidatori e passeggeri si sporgevano dai finestrini per cogliere uno scorcio delle ville dietro i cancelli. Nella zona avevano ribattezzato Mount Avenue «il miglio d'oro», anche se il viale era lungo il doppio. Era la strada che in origine collegava Hillhaven, il sobborgo vittoriano di Patchin, ad Hampstead. Mount Avenue, su cui si affacciavano le prime aziende agricole di Hampstead e Hillhaven, era stata la principale arteria carrozzabile a nord di New Haven in tempi gloriosi ormai lontani. In queste ville prestigiose vivevano imprenditori con stabilimenti a Bridgeport o a Woodville, un medico, il titolare dello studio legale più importante della contea di Patchin, insieme con altri come loro, persone anziane che amavano la tranquillità e la privacy. I turisti avevano raramente la fortuna di vederli. Tuttavia, coloro che passando di lì nel 1969 avessero dato una rapida occhiata al di là dei cancelli aperti, sulla facciata grigia di pietra, forse avrebbero visto un uomo alto e bruno in tenuta bianca da tennis che giocava con un bambino. Forse sui gradini dell'ingresso avrebbero notato una bambinaia dall'aria inspiegabilmente tesa. E forse anche l'atteggiamento del bambino sarebbe apparso stonato, troppo teso, come se il piccolo Tabby Smithfield fosse consapevole di avere per compagno di giochi la persona sbagliata. Padre, figlio e bambinaia: la scena non è completa, manca una figura. 3 1964 La prima scappatella di Stony Friedgood dopo le nozze risaliva al 1964, con il marito di un'amica, un vicino che abitava una delle casette tutte u-
guali nella stessa via: era diverso da Leo perché era allegro e biondo, molto socievole, un bancario al primo impiego, e Leo parlava invariabilmente di lui con disprezzo. Quella relazione durò solo due mesi. Il viso delicato di Stony, incorniciato da lucenti capelli castani, diventò familiare ai frequentatori di gallerie d'arte e musei e in certi bar a certe ore del giorno. Considerandolo sotto un punto di vista opportunistico, che né i genitori di Stony né quelli di Leo avrebbero mai potuto capire, quello dei Friedgood era un matrimonio riuscito. All'epoca in cui Leo fu promosso per la seconda volta e trasferito agli uffici newyorkesi della Telpro, il reddito dei coniugi Friedgood era raddoppiato e Stony pesava solo mezzo chilogrammo più di quando era studentessa allo Scripps. Stony si lasciò alle spalle le sedute di yoga, un corso di alta cucina, quattro biglietti di una serie di concerti non ancora utilizzati e il ricordo di sei o sette uomini. Leo invece non si lasciò alle spalle nulla: la società per cui lavorava si era accollata le spese per il trasporto della sua barca a vela e delle otto casse che lui definiva la «mia cantina». 4 1968 Monty Smithfield, il nonno, era stata una presenza importante durante la prima infanzia di Tabby. Era Monty il primo a baciarlo quando rientrava dall'asilo e Monty, insieme con sua madre, l'aveva accompagnato dal parrucchiere per il primo taglio di capelli. Per i compleanni e a Natale Monty gli faceva regali meravigliosi, favolosi trenini elettrici, biciclette e addirittura un pony ospitato nelle scuderie di una scuola d'equitazione. Il pony gli fu donato in occasione del suo terzo compleanno, nell'agosto del 1968. Monty aveva organizzato una festa per venti bambini, con un'orchestra che suonava canzoni dei Beatles e melodie tratte da film di Disney e un brontosauro scolpito nel ghiaccio... allora Tabby aveva una gran passione per i dinosauri e purtroppo Monty Smithfield non poteva comperare a suo nipote un cucciolo di mostro. «Coraggio, Clark», gridò felice il vecchio quando il giardiniere portò il piccolo pony. «Metti tuo figlio in sella a questo bestione!» Ma Clark Smithfield si era ritirato nella sua camera da letto e in quel momento impugnava una vecchia racchetta Spaulding con la quale batteva una pallina contro la sontuosa testata cercando di scorticare la vernice da una delle volute di legno.
Come tutti i bambini, Tabby non aveva idea di che cosa facesse suo padre per guadagnarsi da vivere, né sospettava che fosse necessario guadagnarsi da vivere. Clark Smithfield rimaneva a casa quattro o cinque giorni ogni settimana e passava il tempo suonando i suoi dischi di rock nel soggiorno dell'ala a lui riservata nella grande villa e correndo a giocare a tennis ogni volta che poteva. Se qualcuno avesse chiesto a Tabby che cosa faceva suo padre, lui avrebbe risposto che giocava. Clark non lo aveva mai portato alla sede dell'azienda della quale era vicepresidente; ve lo condusse il nonno, per presentarlo alle segretarie annunciando loro che quello sarebbe stato il futuro presidente del consiglio di amministrazione della Smithfield System Inc. Prima di introdurre Tabby nella stanza del computer, il nonno aprì una porta e disse: «Per la cronaca, questo è l'ufficio di tuo padre». Era una stanzetta polverosa, con una scrivania quasi completamente spoglia e molte fotografie del padre di Tabby in occasione di tornei tennistici universitari; c'era anche un bersaglio per le freccette con la faccia di Richard Nixon, polveroso come tutto il resto. «Papà lavora qui?» domandò Tabby con candore e una delle segretarie soffocò un risolino. «Sì, lavora qui» insisté allora Tabby con veemenza. «Papà lavora qui. Guarda! Gioca a tennis qui!» Una smorfia di disgusto passò sul volto di Monty Smithfield. Durante il resto del giorno il vecchio non sorrise più. Ogni volta che il padre e il nonno si trovavano nella stessa stanza, durante le cene cui Clark era costretto a partecipare e quando Monty capitava nell'ala della casa occupata dal figlio, un'atmosfera quasi tangibile di antipatia raggelava l'aria. In quelle occasioni Tabby vedeva suo padre rimpicciolirsi fino a diventare un bambino poco più grande di lui. «Perché il nonno non ti piace?» aveva chiesto una volta a Clark che gli leggeva una fiaba prima di metterlo a dormire. «Oh, è troppo complicato per te», aveva sospirato Clark. Poi, soprattutto all'approssimarsi del suo quinto compleanno, Tabby li sentì litigare sempre più spesso. Clark e il padre bisticciavano a proposito della lunghezza dei capelli di Clark, delle sue aspirazioni come tennista (profondamente disprezzate dal nonno) e del suo atteggiamento. Clark e Monty Smithfield si tenevano normalmente a debita distanza, ma quando Monty decideva di dare una strigliata al figlio cominciavano a gridare: in sala da pranzo, nel soggiorno dell'uno o dell'altro, in corridoio, sul prato. Questi alterchi finivano invariabilmente con Clark che se ne andava infuriato. «Che cosa vorresti fare?» gli gridò Monty dopo un diverbio al quale a-
veva assistito Tabby. «Andartene di casa? Non te lo puoi permettere! Non troveresti mai un altro lavoro!» Tabby sbiancò in viso. Non aveva capito il significato delle parole, ma aveva percepito il tono astioso con cui erano state pronunciate. Quel giorno non parlò fino all'ora di cena. La moglie e la madre di Clark cercavano di conservare una parvenza di armonia tra le due famiglie. Monty voleva bene a Jean, la madre di Tabby, ed era grazie a Jean e alla madre che Clark conservava ancora il suo posto nella ditta. Forse, se Clark Smithfield fosse stato un venti per cento migliore come tennista, o anche un venti per cento peggiore, la situazione nella vecchia dimora di Mount Avenue si sarebbe appianata. O forse sarebbe bastato che fosse meno intransigente e suo padre meno rigido. Comunque Jean e la suocera, convinte che con il tempo Clark si sarebbe riconciliato con il suo lavoro e Monty con il proprio figlio, cercavano di tenere unite le famiglie. Resistevano, nonostante non sempre i loro rapporti fossero facili. Fino al primo avvenimento davvero terribile che sconvolse la vita di Tabby e della sua famiglia. 5 1975 I Friedgood, che sembravano una coppia modello, si trasferirono ad Hampstead, nella palazzina coloniale di proprietà di un costruttore, all'epoca in cui Tabby Smithfield aveva dieci anni e abitava con il padre e la matrigna nella Florida meridionale. Mentre Leo Friedgood faceva strada, Clark Smithfield esauriva gli ultimi spiccioli della sua già magra fortuna: lavorò come barista, lasciò quel posto per farsi assumere come piazzista alla Hollinsworth Vitreous, fu licenziato quando si ubriacò a bordo dello yacht di proprietà del presidente dell'azienda e vomitò sulle pantofole di stoffa del signor Robert Hollinsworth. Passò un altro breve periodo dietro il bancone di un bar e trovò quindi un posto come guardiano. Lavorava di notte e al termine di ogni giro di ispezione, tornato alla guardiola, si scolava un bicchiere. Dopo la prima moglie, gli era morta anche la madre: Agnes Smithfield era stata colpita da emorragia cerebrale in un caldo mattino di maggio mentre discuteva con il custode l'installazione di un giardino alla giapponese. Monty Smithfield aveva venduto la grande casa di Mount Avenue e si era trasferito, con la governante e la cuoca, in una casa che si chiamava «I
Quattro Focolari», in Hermitage Road, a cinque minuti di strada. La nuova proprietà di Hermitage Road si trovava a breve distanza dalla casa dei Friedgood, dietro due collinette boscose. Adesso Leo era vicepresidente di divisione alla Telpro e guadagnava quasi cinquantamila dollari l'anno; acquistava i suoi vestiti da Tripler, si era fatto crescere un paio di baffi folti e si era lasciato allungare i capelli. Pingue da sempre, era ingrassato di altri dieci chili nonostante una corsa quotidiana di un paio di chilometri e ora, con quello sguardo arrogante, i baffi e i capelli lunghi, aveva quell'aria un po' da pirata comune a molti dirigenti che si sentono predatori in una giungla popolata di predatori. Nel 1975, primo anno di residenza in Cannon Road ad Hampstead, Stony si iscrisse al New Neighbors, alla High Minds - un circolo intellettuale che discuteva di letteratura contemporanea -, alla Lega delle elettrici e a un corso di cucina, all'YMCA e alla biblioteca. Si sarebbe anche cercata un lavoro, ma Leo non voleva. Non le sarebbe dispiaciuto avere un figlio, ma Leo, memore di un'infanzia vissuta all'insegna delle prepotenze materne, dava in escandescenze quando lei tentava di intavolare il discorso. Lesse sull'Hampstead Gazette l'annuncio di un corso di yoga e ritirò la sua iscrizione al New Neighbors. Più tardi lasciò anche la High Minds e la Lega. L'Hampstead Gazette era un giornale bisettimanale, principale fonte di informazione per Stony su tutto quello che riguardava la sua nuova città. Dalle sue pagine apprese l'esistenza di un'associazione artistica femminile alla quale si iscrisse nella speranza di poter conoscere qualche pittore: uno dei suoi ragazzi californiani era stato un artista. E siccome lo desiderava, naturalmente accadde. Pat Dobbin era una celebrità locale, né particolarmente dotato, né del tutto scadente. Viveva da solo in una casetta nel bosco. Per mantenersi faceva illustrazioni indubbiamente migliori dei suoi dipinti. Una volta, mentre Leo era assente per motivi d'affari, Stony partecipò a una cena dell'associazione artistica in compagnia del pittore. Anche se in una piccola donna con i capelli rossi e armata di taccuino aveva riconosciuto Sarah Spry, responsabile della rubrica mondana della Gazette, non si aspettava certamente il trafiletto che trovò sul numero seguente: «Sarah ha visto: il brillante pittore e illustratore di Thistown PAT DOBBIN (non bastano le parole d'elogio per lui! Siete già passati alla Palmer Gallery a vedere i suoi nuovi e splendidi paesaggi marini astratti?) a una cena dell'associazione artistica femminile in elegante abito da sera e
a braccetto di una deliziosa donna del mistero. Chi è l'ignota bellezza, Pat? Confidalo all'amica Sarah.» Rientrato dal suo viaggio d'affari Leo lesse il trafiletto e domandò: «Ti sei divertita, venerdì sera, a quella cena dell'associazione artistica? Peccato che non abbia potuto venire con te». Nei suoi occhi brillava un lampo di ironia. 6 Novembre 1970 A differenza del marito, Jean Smithfield guidava con prudenza. Quando lasciavano il figlio a casa con i nonni per trascorrere una serata fuori, al ritorno insisteva sempre per mettersi al volante quando Clark superava il limite normale di due aperitivi prima di cena e di un paio di bicchieri di vino a tavola. Anche le sere in cui Clark non faceva che protestare contro suo padre o raccontava per l'ennesima volta vecchie partite di tennis, Jean guidava sopportando con pazienza le accuse di Clark sulla sua presunta relazione con il padre. Lui le diceva: «La verità è che quel vecchio avvoltoio a te piace! Ma ti rendi conto di quanto ne soffro? Cristo, certe volte ho persino l'impressione che ti metta la voglia addosso... Hai un debole per i capelli bianchi! Ti lasci incantare dal falso fascino di quel vecchiaccio». Quando era proprio malconcio Clark perdeva i sensi prima ancora di arrivare al cancello di casa. «Con Tabby non ce la farà mai», borbottava. «Non gli farà dimenticare che io esisto. Non trasformerà Tabby in figlio suo. Mai.» Jean faceva del suo meglio per ignorare le sue lamentele. Spesso pranzavano in un ristorante francese di Post Road, verso Patchin. Quella sera, verso la fine di novembre del 1970, Jean prese un dollaro dalla borsetta mentre usciva e si fermò dove il custode del parcheggio potesse vederla. «Sono in grado di guidare», bofonchiò Clark. «Non questa sera», rispose lei consegnando la banconota al giovane che era venuto a portarle la macchina. «Dovremmo avere una Mercedes, diamine», protestò Clark accomodandosi accanto al posto di guida. «È una questione di soldi», commentò lei. Jean uscì dal parcheggio dirigendosi verso Pigeon Lane, dove c'era il primo semaforo. «È tornato alla carica», brontolò Clark. «Vuole mandare Tabby all'acca-
demia. La scuola pubblica non basta per suo nipote.» «Anche tu sei stato all'accademia», gli ricordò Jean. «Perché mio padre se lo poteva permettere», strillò Clark. «Ma non capisci, dannazione? Sono io il padre di Tabby, dannazione, e...» Jean lo stava guardando e lo vide improvvisamente impallidire, lasciando la frase in sospeso. Clark non era più in collera o ubriaco. Era spaventato... Jean voltò di scatto la testa per guardare la strada e vide un'auto superare la linea bianca centrale e puntare verso di loro. Ghiaccio, pensò, una lastra di... «Spostati!» gridò Clark. Jean sterzò bruscamente verso destra. Un'altra vettura, che era uscita dal ristorante immediatamente dietro di loro, la tamponò allo spigolo sinistro del paraurti posteriore con tale violenza che a Jean sfuggì il volante di mano. L'auto, che prima di incontrare la lastra di ghiaccio procedeva a ottanta all'ora, le piombò nella portiera. Jean Smithfield cercò di dire «Tabby» prima di morire, ma la portiera le aveva sfondato il torace e non ne ebbe il tempo. Nella casa di Mount Avenue suo figlio si svegliò di soprassalto urlando. Il diciannovenne guidatore dell'auto rotolò nella strada e cercò di allontanarsi carponi sul fondo gelato. Sanguinava dalla testa. Clark Smithfield, rimasto incolume, lanciò un'occhiata alla moglie e si vomitò in grembo, poi uscì dalla macchina e cadde in ginocchio. Vide il ragazzo e gli gridò di fermarsi. Si rimise in piedi. Il ragazzo si fermò, seduto, a pochi metri dai resti della sua automobile, coperto di neve e di fanghiglia nera. Perdeva sangue dal naso. Clark riconobbe all'istante un ubriacone del suo stesso stampo. «Animale!» urlò. Tabby correva alla cieca per la stanza, sempre gridando, in cerca dell'interruttore della luce. Brancolava disorientato. Urtò contro il letto, scivolò su un tappeto, continuando a gridare. Pochi secondi dopo il nonno e la bambinaia erano nella sua stanza. La polizia di Hampstead impiegò dieci minuti per raggiungere il groviglio di lamiere in Post Road. 7 17 maggio 1980
Il 17 maggio 1980 il Drago arrivò nella contea di Patchin. Anzi, non vi arrivò, perché c'era sempre stato, ma decise di manifestarsi. Dopo dodici anni trascorsi a Londra, Richard e Laura Allbee erano appena giunti nella casa che avevano affittato in Fairytale Lane. Era quasi mezzogiorno, erano stanchi e confusi, disorientati dopo due giorni a New York, più disorientati ancora nel trovarsi all'improvviso nella situazione alla quale pensavano da mesi. Clark Smithfìeld si era trasferito con moglie e figlio nella vecchia casa coloniale in Hermitage Road, «I Quattro Focolari», solo da due settimane e stava già preparando l'inganno che avrebbe distrutto la fiducia di suo figlio in lui. Una donna piccola e graziosa di nome Patsy McCloud trascorreva gran parte della giornata leggendo War and Remembrance. E che cosa faceva Graham Williams, spoglia mortale di uno scrittore un tempo famoso? Quello che faceva ogni santo giorno di aprile e maggio, nel 1980. Si era alzato alle sette, aveva indossato gli abiti sul pigiama, aveva gettato acqua in direzione della sua faccia e si era seduto al tavolo con la testa fra le mani. Quando udì il furgone postale non si mosse. Era poco probabile che nella sua cassetta ci fosse qualcosa. Dopo una trentina di minuti di silente preghiera, scrisse una frase. Quindici minuti dopo concluse che era banale e la cancellò. Così passava solitamente le sue ore di veglia il signor Graham Williams. Gli Allbee fingevano di essere più felici di quanto in realtà fossero; il vecchio Williams fingeva con se stesso che prima o poi il suo libro avrebbe visto la luce. Patsy McCloud fingeva che da un momento all'altro si sarebbe alzata per fare qualcosa. La finzione di Leo Friedgood era la più semplice di tutte, perché non si trovava affatto a New York, bensì a una ventina di minuti da Hampstead, in uno stabilimento della Telpro, in una cittadina che si chiamava Woodville. E sua moglie aveva appena deciso di concedersi un'altra avventura. Stony trovò da parcheggiare vicino alla stazione, entrò nell'atmosfera vivace di un bar che si chiamava Franco's, occupò un tavolino vicino al banco e aprì un libro. Circa un quarto d'ora dopo un uomo le disse: «Permette?» e si sedette accanto. Era un uomo che lei conosceva, ma anche se rispettato ad Hampstead, nessuno degli uomini presenti in quel locale lo avrebbe riconosciuto. La sua professione lo teneva lontano dalle compagnie maschili. Affascinante, con l'aria vissuta, professionalmente discreto, era l'uomo perfetto per Stony. Poco dopo lasciarono insieme il bar e Stony, sulla sua Toyota, fece strada, superò il ponte sul fiume Nowhatan e scese lungo le strade nell'aria estiva.
8 Natale 1970 Dopo la sepoltura di Jean Smithfield, l'ultimo giorno di novembre del 1970, Clark restò a casa con Tabby per una settimana intera e una volta tanto suo padre non insisté perché si recasse in ufficio. Monty non se l'era nemmeno presa troppo quando Clark si era ubriacato a tal punto da non poter partecipare alle esequie. «Dovevo esserci io al volante», ripeteva spesso Clark. «Ma lei mi voleva proteggere, capisci? Volevo guidare io, ma lei voleva proteggermi.» Non toccò un bicchiere fino a Natale. Per Tabby il mondo era rimasto com'era diventato la sera della morte di sua madre, confuso, sconosciuto e buio. Il nonno lo aveva accompagnato alla camera ardente e gli aveva lasciato toccare la bara e in quel momento, davanti a Monty e ai vicini e a tutti i suoi parenti adulti, era successo qualcosa. Aveva visto. Aveva visto le tenebre tutt'attorno. Sapeva di essere in quella cassa con la mamma. Aveva lanciato un grido di cieco terrore e il nonno si era precipitato a sollevarlo da terra. «Sei un bravo bambino, Tabby, sei tanto caro», lo aveva rincuorato il nonno tenendolo stretto contro la morbida stoffa della sua giacca. «Andrà tutto bene, tesoro.» Tabby aveva sbattuto le palpebre e aveva girato la testa dall'altra parte per non vedere la bara. Era rimasto in silenzio durante il servizio funebre e quando erano tornati a casa lui e Monty avevano trovato Clark svenuto in poltrona davanti al televisore. Tabby si era raggomitolato in grembo a suo padre senza parlare e senza più muoversi. Dopo quei primi giorni Clark Smithfield andò a lavorare con suo padre per cinque giorni la settimana, fino a Natale. Occupò il suo ufficio, firmò carte, lesse relazioni, diede ordini e presenziò alle riunioni. Il sabato e la domenica scendeva con Tabby a scambiare palleggi sul campo di cemento; Tabby cercava di respingere le palline con la sua racchetta di dimensioni ridotte. Di pomeriggio uscivano a passeggiare nell'aria frizzante lungo Mount Avenue «La mamma è morta», affermava Tabby con la sua vocina infantile. «La mamma è morta e non tornerà più perché adesso è in paradiso.» Puntava il dito verso il cielo. «È lassù, papà.» Così Clark si rimetteva a piangere, ma questa volta per suo figlio, per quel coraggioso ragazzino con la mano levata verso il cielo e gli stivaletti con l'immagine di Snoopy.
Il giorno di Natale Monty, all'ora di cena, annunciò che aveva un altro regalo per Tabby, il più bello che gli avesse mai fatto. Seduto a capotavola, appariva calmo e anche fiero di sé. «Nessuno al mondo può fare miglior dono di una buona educazione», proclamò. Bevve un sorso di borgogna. «E perciò è con grande piacere che comunico a voi tutti che il signor Cathcart, preside della Greenbank Academy, ha accettato il trasferimento di Tabby dall'asilo in quella scuola alla ripresa delle lezioni in gennaio.» Sua moglie commentò: «Evviva». Clark fece per dire qualcosa, ma poi chiuse la bocca e Tabby parve confuso. «Così andrai alla scuola dirimpetto», riprese Monty. «Non è splendido, figliolo? E frequenterai lo stesso istituto dove siamo già stati tuo padre e io.» «Bene», disse Tabby guardando prima il nonno e poi il padre. «Comunque io sono contenta che questa questione sia risolta», intervenne la madre di Clark. «Non voglio prendere il tuo posto, Clark», dichiarò Monty. «Ci divideremo equamente il ruolo di educatore, ma ritengo mio dovere assicurare il meglio a tuo figlio.» «Così è sempre stato», brontolò Clark. Dopo cena si versò da bere per la prima volta dal giorno dei funerali di sua moglie. 9 17 maggio 1980 Stony aspettò che il suo compagno scendesse dall'altra macchina. Mancava un minuto alle sei. Leo, se fosse stato a casa, in quel momento sarebbe stato certamente seduto davanti al televisore nello studio, con un mazzo di scartoffie in grembo e un bicchiere sul tavolino accanto, in attesa del telegiornale da New York. L'uomo scese dall'auto e lanciò un'occhiata alla casa. «Carina», commentò. Una brezza leggera gli scompigliò lievemente i capelli. Il suo sguardo era gentile ma assente. Si abbottonò l'impermeabile sebbene non facesse freddo e non piovesse. «Non c'è a casa nessuno», affermò. Si avvicinò a Stony sulla ghiaia del vialetto e le toccò la mano. Si baciarono. 10
6 gennaio 1971 Alle undici del 6 gennaio 1971, il giorno prima che Tabby iniziasse a frequentare la nuova scuola, Clark Smithfield entrò dal cancello al volante dell'automobile di suo padre e si fermò davanti alla casa invece di parcheggiarla nella rimessa. Corse dentro, si guardò attorno e salì le scale facendo due gradini per volta. Udì le voci di Tabby e della bambinaia provenire dalla stanza del figlio e dolcemente spinse l'uscio. Il figlio gli rivolse un sorriso allegro. «Papà, papà, papà!» esclamò. «Un uomo e una donna si baciavano!» «Che cosa?» domandò alla ragazza. «Non saprei, signore. Lo sento adesso per la prima volta.» «Si baciavano, papà! Così!» E Tabby spinse le labbra in fuori muovendo la testolina bionda. Poi scoppiò in una gioiosa risata. «Sì», disse Clark. «Emily, puoi andare per un po'. Devo uscire con Tabby.» «Vuole che me ne vada?» domandò lei alzandosi dal pavimento cosparso di giocattoli. «Sì, per piacere, grazie», rispose Clark. «Staremo via un paio d'ore. Non preoccuparti.» «Va bene», replicò la ragazza. «Mi dai un bacio, Tabby?» chiese chinandosi verso di lui. «Si baciavano, papà», gridò Tabby allungando il collo per posare le labbra su quelle di Emily. Quando la bambinaia se ne fu andata Clark prese da uno scaffale una borsa verde, la sacca di Tabby, e cominciò a infilarvi dentro giocattoli e libri scelti a casaccio. «Ehi, che cosa fai, papà?» esclamò Tabby. «Ce ne andiamo a fare una gita», gli rispose Clark. «In aereo. Ti va? È una sorpresa.» «Una sorpresa per il nonno?» gridò Tabby. «Una sorpresa per noi.» Dall'armadio di Tabby prese una valigetta blu in cui sistemò biancheria intima, calzini, camicie e calzoni. «Abbiamo bisogno solo di qualche vestito per te e poi possiamo andare.» Per una decina di minuti Tabby sorvegliò la preparazione dei suoi bagagli assicurandosi che il padre non dimenticasse le sue magliette preferite. Quindi indossò il cappotto, i guanti di lana e il cappello. Da sotto il letto della sua stanza Clark prese la sua valigia. «Eccoci pronti, Tabby», disse
chinandosi verso il figlio. «Adesso scendiamo, usciamo e montiamo in macchina. Per questa volta non saluteremo Emily. Capito?» «Ma io ho già salutato Emily.» «Perfetto. E adesso zitti zitti.» «Zitti zitti», ripeté gridando Tabby e scesero le scale. Dalla cucina giungevano sommesse le voci di Emily e della governante. Clark aprì la porta e nella stanza penetrò la gelida aria di gennaio. Il terreno era coperto da un tappeto bianco di neve, qua e là segnato dalle impronte di scoiattoli e procioni. «Papà», bisbigliò Tabby. Clark si voltò a guardare una volta ancora l'atrio della casa, i marmi, i tappeti folti e i mobili pregiati, i grandi quadri di navi. «Papà.» «Che cosa c'è?» Chiuse la porta dietro di loro. «L'uomo era cattivo.» «Quale uomo, Tabby?» Tabby parve confuso per un momento, un'espressione che Clark ormai gli conosceva bene. «Lascia perdere, Tabby», gli disse. «Non ci sono uomini cattivi.» Gettò i bagagli sul sedile posteriore e varcò i cancelli della proprietà. Quando imboccarono l'autostrada Tabby gridò: «Andiamo a You Nork!» «Andiamo all'aeroporto, non ti ricordi?» «Oh, sì, l'aeroporto. A prendere l'aereo, per fare una sorpresa.» «Proprio così», confermò Clark e lanciò la macchina a cento all'ora. 11 17 maggio 1980 Quando Stony spinse la porta della camera, vide che l'uomo era già nel letto. Si puntellava la schiena con due guanciali. La sua pelle era molto bianca, spiccava sul rosa delle lenzuola. La sua faccia sembrava di gesso. Lei disse: «Vedo che non perdi tempo». «Tempo», ripeté l'uomo. «Non perdo mai tempo.» «Sei sicuro di stare bene?» I suoi indumenti erano sparsi per terra accanto al letto. Stony gli offrì il bicchiere, ma lui sembrò non accorgersene, gli occhi fissi in quelli di lei, così Stony posò il bicchiere sul comodino. «Sto bene davvero.» Stony si strinse nelle spalle, si sedette e si tolse le scarpe. «Sono già stato qui», affermò l'uomo.
Stony fece scivolare la sottana a terra. «Vuoi dire in questa casa? Prima che ci abitassimo noi? Conoscevi gli Allenby?» Lui scrollò la testa. «Sono già stato qui.» «Oh, tutti siamo già stati qui», ribatté Stony. «È più forte del football.» 12 17 maggio 1980 Da tempo sognavi e poi non più. Dormivi in un posto che non conoscevi e al risveglio eri qualcun altro. Avevi un bicchiere in mano e una donna ti guardava. Drago, il mondo era di nuovo tuo. 13 6 gennaio 1971 «Aereo», mormorò una sola volta Tabby con voce colma di meraviglia e poi restò in silenzio mentre l'automobile usciva da Hampstead, passava fra campi coltivati e case isolate, superava Norrington, i palazzi di uffici e i motel di Woodville con le loro insegne vivaci, sotto cavalcavia e davanti alla barriera di pedaggio, attraverso Kingsport fino alla contea di Westchester, dove l'autostrada diventava via via più sconnessa in vista di Queens. «Che cosa c'è?» domandò bruscamente suo padre mentre s'immetteva nello svincolo che portava a Long Island. Da qualche tempo il paesaggio circostante era diventato minaccioso. Dai colli ridenti e dal paesaggio sereno della contea di Patchin erano passati in una terra di alieni. Tabby sentì che lì c'era il mondo che aveva ucciso sua madre. «Non hai voglia di fare un viaggetto?» «No.» Il padre imprecò. Veicoli ricoperti di sporcizia avanzavano lungo la strada. «Voglio essere a casa», disse Tabby. «Da questo momento in poi avremo una casa nuova. Tutto sarà diverso, Tabby.» «Tutto è diverso, adesso.» «Non ho scelta, Tabs. Ho un lavoro nuovo.» Era la prima volta che diceva quella menzogna. Sarebbe diventata un'abitudine.
Clark lasciò l'automobile nella rimessa per i parcheggi prolungati. Ovunque incombevano blocchi grigi di cemento simili a tombe; anche l'aria era grigia e odorava di polvere e di lubrificante. Quando Tabby aprì la portiera per scendere vide una grande macchia sul cemento e pensò che fosse un essere vivente. Un grido roco rimbombò dal piano sottostante. Stranezze di un mondo privo di amore e di dolcezza. «Sbrigati, Tabby. Non ci posso far niente. Sono nervoso.» Tabby si sbrigò. Trotterellò al fianco del padre fino all'ascensore e si tenne al riparo delle sue gambe. L'ascensore piombò verso il basso. Collaudato. Certificato. In caso d'emergenza usare il telefono. «L'emergenza è arrivare all'aeroporto», commentò un tizio in stivali da cow boy e giacca di pelle. Una donna con una chioma leonina rise mostrando i denti sporchi di rossetto. Quando si accorse che Tabby la stava fissando, si diede una ravviata ai capelli e disse: «Carino». «Smettila di sognare a occhi aperti», lo redarguì Clark facendosi strada nell'aria fredda. Le porte si aprirono con un sibilo. Entrarono nel terminal. Clark posò la valigia sulla bilancia e tirò fuori una busta di plastica. «Non fumatori», spiegò. «Papà», mormorò Tabby. «Ti prego, papà.» «Che cosa? Che cosa c'è questa volta?» «Non abbiamo portato l'Uomo Ragno.» «Ne compreremo un altro.» «Ma io non voglio...» Clark lo afferrò per una mano e lo trascinò verso la scala mobile. Tabby mandò un grido di paura e disperazione perché in quel preciso istante il salone gremito gli era sembrato pieno di gente morta, cadaveri gettati qua e là, un uomo nudo coperto di brulicanti vermi bianchi. Quella visione durò un istante, meno di un secondo ed era già cancellata quando ancora la sua bocca lanciava quel grido. «Tabby», ripeté suo padre in tono più conciliante. «Ne compreremo uno nuovo.» «Mmm», mugolò Tabby, che non capiva che cosa gli fosse accaduto, ma sapeva che nella visione ,avuta un attimo prima ciò che l'aveva colpito era un ragazzo con gli abiti in fiamme. Perché quel ragazzo era lui. Luci accecanti, rosse e gialle, cancellarono la visione. Il bambino vacillò. I puntini luminosi ammiccavano. Suo padre si stava abbassando per sollevarlo da terra. Non erano più sul-
la scala mobile e gente frettolosa li sfiorava da ogni parte. «Ehi, Tabs», stava dicendo suo padre. «Stai bene? Vuoi un bicchiere d'acqua?» «No. Sto bene.» «Fra poco saremo su quel vecchio aereo. Ci faremo un bel viaggio e arriveremo in Florida. In Florida è bello perché fa caldo. Ci sarà il sole e le palme. Bei posti dove andare a nuotare e splendidi campi da tennis dove giocare. Sarà una grande vacanza.» Tabby guardò oltre la spalla di suo padre e vide un corridoio interminabile dove la gente procedeva quasi correndo, mentre altri erano trasportati su un nastro mobile. «Certo», mormorò. «Ne abbiamo bisogno, Tabby.» Il ragazzino annuì. «Hai mai visto le nuvole da sopra? Fra poco guarderemo giù e vedremo come sono fatte le nuvole.» Negli occhi di Tabby si accese un lampo di fugace interesse. Il padre si rialzò. Presero posto sul nastro mobile, mentre Tabby pensava a com'erano fatte le nuvole, al suo mondo sottosopra. Poi davanti a loro apparve un muro di luce, una parete di vetrate attraverso le quali filtrava un sole accecante. Davanti c'erano dei numeri giganteschi: 43, 44, 45. Molta gente era allineata davanti ai banchi. Borse da viaggio occupavano i posti a sedere nelle nicchie davanti alle vetrate. Individui in uniforme passavano impettiti sotto un'arcata nell'ombra. Tabby scorse una sagoma familiare, una fiammata di capelli d'argento. «Nonno!» 14 17 maggio 1980 Posasti con cautela il bicchiere e facesti cadere qualche goccia per terra. Guardasti la faccia della donna cambiare e, non senza tenerezza, la prendesti per il polso. 15 6 gennaio 1971 «Pensavo che avresti tentato una porcata simile», esclamò il vecchio.
«Ma credevi davvero di passarla liscia?» Tabby si fermò, paralizzato, fra i due. «Puoi venire con me, Tabby», gli disse il nonno tendendogli la mano. «Ce ne torneremo a casa e dimenticheremo tutta questa storia.» «Che il diavolo ti porti», replicò Clark. «Resta dove sei, Tabby. Anzi, no, vai a sederti su una di quelle poltroncine laggiù.» «Resta qui, Tabby», ordinò il nonno. «Clark, ho pietà per te. Non so come hai fatto a pensare di farla franca.» «Smettila!» protestò Clark. Il vecchio si strinse nelle spalle. «Come vuoi. Comunque il ragazzo resta qui. Tu fai pure quello che ti pare.» «Vai a sederti laggiù, Tabby», ordinò Clark. Tabby sembrava incapace di muoversi. «Come sapevi che mi avresti trovato qui?» «Sembri un bambino. Non c'era niente di più facile che intuire quello che stavi architettando. Allora, Clark, sei pronto a rinunciare a questa ridicola trovata?» «Vai all'inferno. Non avrai mio figlio.» «Vieni con me, Tabby. Lasceremo a tuo padre il tempo di decidere quanto pazzo vuole essere.» Tabby prese la decisione da solo e scelse quella voce che gli dava sicurezza, la morbidezza del soprabito di cashmere e l'abito gessato. In quel modo credette di decidere per entrambi, per un presente che fosse come il passato. Più di così non chiedeva e non si aspettava. Fece un passo verso Monty Smithfield e udì suo padre gridare: «Tabby!» Il nonno si chinò a prenderlo per mano. «Lascia andare mio figlio», gridò suo padre. Tabby sentì il mondo sgretolarsi. «Lontano da lui, buono a nulla!» urlò il nonno e la sua anima, quella che gli sembrava fosse la sua anima, si divise in due. La mano di Monty si chiuse con forza attorno alla sua, tanto da strappargli un grido. «Lascia andare mio figlio», ringhiò Clark. «Vecchio bastardo.» Prese Tabby per l'altra mano e cercò di tirarlo a sé. Per un tempo che sembrò interminabile nessuno dei due lo lasciò andare. Tabby era così sconvolto e impaurito che non riuscì a emettere alcun suono. Padre e nonno lo tiravano per le braccia come se volessero squartarlo. Si rese conto vagamente della gente che si stava radunando attorno a loro. «Lascialo.» ringhiò il nonno con una voce che non era la sua. «Non puoi averlo, non puoi averlo», insisteva Clark. Dalle loro voci capì che lo avrebbero davvero squartato. «Pa-
pà, vedo qualcosa!» strillò. Vedeva. Vedeva qualcosa che sarebbe accaduto dopo nove anni, quattro mesi e undici giorni. 16 17 maggio 1980 Per un momento sospendesti la tua occupazione; avevi un testimone. Da Stony Baxter Friedgood uscì l'ultimo alito di vita. 17 6 gennaio 1971 «Vedo qualcosa, papà!» ripeté Tabby incapace di aggiungere altro. Sentì che il nonno aveva lasciato la presa. Quando aprì gli occhi vide un uomo alto in divisa blu che tratteneva il nonno per una spalla. Lui era in ginocchio davanti a suo padre a guardare imbambolato verso l'alto. Vedeva il pilota infuriato e il nonno e gli altri dietro di loro. La faccia del nonno era paonazza. «Vogliamo farla finita subito o vogliamo chiamare la polizia?» domandò il pilota. Tabby si alzò lentamente in piedi. «Ne ho abbastanza di te», affermò il nonno. «Sei un irresponsabile senza speranza. Vai. Che non ti veda mai più.» «Esattamente quello che intendevo fare», ribatté il padre con voce rotta. «Meriti tutto quello che ti tiri addosso. Ma mio nipote no. Questa è la tragedia. Lui pagherà per la tua stupidità.» «Finalmente qualcosa che non pagherai tu.» Il vecchio si liberò del pilota con una scrollata. «Se secondo te questa è una risposta, ho pietà di te.» «Tutto a posto?» domandò il pilota. «No», rispose Monty Smithfield. «Basta che se ne vada dall'aeroporto», dichiarò Clark, «poi sarà tutto a posto.» Una nota di trionfo trasparì dalla sua voce. Tabby indietreggiò e s'appoggiò a un portacenere pieno di sabbia. Vide il nonno rassettarsi il cappotto, voltarsi e incamminarsi lungo il corridoio.
«Quella vigliacca di Emily gli ha telefonato», commentò suo padre. Tabby si sentiva tremare le gambe. «Che cosa stavi dicendo? Che cosa vedevi?» Entrambi avevano gli occhi fissi sul vecchio che camminava lungo il corridoio con passo deciso, la schiena eretta. «Non so.» Sedettero in sala d'aspetto per venti minuti senza parlare. Di tanto in tanto qualcuno in uniforme veniva a dare loro un'occhiata, come sospettando che dopo tutto sarebbe stato più saggio chiamare la polizia. Quando il 727 fu in quota Clark Smithfield si slacciò la cintura di sicurezza e si voltò a sorridere al figlio. «Da questo momento in poi siamo una coppia di poveri diavoli.» PARTE PRIMA Insediamento Tali erano qui le cose di cui ora parliamo? William Shakespeare, Macbeth UNO Quello che Sarah non vide 1 17 maggio 1980: se aveste abitato nella contea di Patchin l'avreste definita una splendida giornata. Niente nubi, niente umidità a guastare una bella scampagnata quel sabato. Ci sarebbe stato un periodo di siccità, ma per ora l'erba era ancora verde. Al bar Franco's Pat Dobbin e gli amici bevevano qualche birra in compagnia prima di pranzo e guardando al di là dei vetri la stazione ferroviaria commiseravano i pendolari che osavano andare a lavorare a New York anche in un sabato come quello. Dobbin se ne andò prima dell'arrivo di Stony Friedgood. Voleva rimettersi a lavorare alle illustrazioni per un libro per bambini che si intitolava Le storie dell'aquilaorso. Bobby Fritz, giardiniere di quasi tutte le grandi tenute sopra Gravesend Beach, passava avanti e indietro sulla sua gigantesca falciatrice. Graham Williams cancellò una frase, la riscrisse e sorrise. Patsy McCloud prese il suo romanzo, uscì, si sedette su una sedia a sdraio e riprese a leggere sotto
il sole. Quando suo marito Les le passò davanti di corsa, nella sua tuta rossa da jogging, Patsy abbassò la testa e si concentrò sulla pagina e quando Les la vide appollaiata sul bordo della sedia con il collo chino come quello di uno strano uccello, le gridò: «A tavola, ragazza! A tavola! Datti da fare!» Patsy lesse fino alla fine del capitolo. Ci sarebbe voluta ancora mezz'ora prima che Les riapparisse in Charleston Road. Poi entrò in casa, non per preparare il sandwich di roastbeef con le cipolle che lui desiderava, ma per scrivere sul suo diario. Stiamo parlando infatti di persone che tenevano un diario. Graham Williams lo teneva e lo stesso faceva Richard Allbee da quando era dodicenne ed era uno dei protagonisti di C'è papà, una trasmissione che arrivava nelle case di milioni di americani grazie alla sponsorizzazione dei saponi Ivory, della pasta dentifricia Ipana e della casa automobilistica Ford. Richard non prese in mano la penna che dopo le dieci di sera, quando Laura era già a letto sfinita dopo avere disfatto i bagagli. Allora scrisse: «A casa. Ma questa non è "casa". Speriamo che lo diventi». Sinterruppe, guardò fuori della finestra l'infittirsi della notte e scrisse ancora: «Però è molto bello qui. Casa nueva, vida nueva». Se quel giorno, che fu l'ultimo per Stony Friedgood e il primo del soggiorno degli Allbee nella contea di Patchin, avessimo potuto guardare dall'alto Hampstead, nel Connecticut, avremmo subito notato l'abbondanza di alberi: soprattutto Greenbank, dove avrebbero abitato gli Allbee, sembrava una foresta. Lo Stretto s'incurvava fino a lambire il limite orientale della cittadina e lì c'erano due spiagge dorate: Sawtell Beach, vicino al Country Club, dove gran parte della gente va a fare il bagno e a prendere il sole, e Gravesend Beach, più piccola e un po' più pietrosa. Lì vengono i pescatori alle sei del mattino da giugno fino alla fine di settembre: è la spiaggia locale di Greenbank. La sovrasta, sulla cima dello strapiombo, la vecchia casa dei Van Horne. Lungo quello che dovrebbe essere il limite meridionale della cittadina scorre il fiume Nowhatan, largo sedici metri prima di restringersi all'altezza del parcheggio accanto al quartiere degli affari di Hampstead. In realtà l'abitato si estende per un altro paio di miglia a sud del fiume. Lo Yacht Club, con la fila di imbarcazioni ormeggiate, è situato nella curva dell'estuario dirimpetto al Country Club e alla sua piccola darsena. Per Hampstead passano i binari della Conrail, l'autostrada I-95 e la Post Road. Le tre arterie attraversano Hillhaven e Patchin, nonché Norrington e
Woodville in direzione di New York. Ma stando ad Hampstead è difficile immaginare che New York esista. Sul lato nord-occidentale si stendono placidi bacini idrici e laghetti artificiali. Le cime degli alberi gettano ombra sulle case e sulle strade, nascondendo anche le Mercedes, le Volvo, le Datsun, le Toyota e le Volkswagen che le percorrono. All'accendersi delle luci si nota l'imponente colonnato bianco della Congregational Church in Post Road, appena prima che la strada prosegua nel quartiere degli affari: un grande prato centrale circondato da una banca e da un edificio commerciale con un negozio di dischi, una sala di teatro, un bar-gelateria, un negozio di macrobiotica, un centro artigianale e una boutique dove si possono comperare giacche e cappelli di lana che costano il doppio che a Norrington e a Woodville. E più tardi, a sera inoltrata, quando Richard Allbee scrisse Che Dio aiuti tutti e due sul suo diario, avreste visto i fari e le luci intermittenti di due automobili di pattuglia che percorrevano Post Road, scendevano lungo l'alberata Sawtell Road, risalivano Greenbank Road e giungevano alla casa dei Friedgood dove tutte le finestre erano illuminate. Pochi secondi prima che arrivassero a destinazione una luce si spense negli uffici dell'Hampstead Gazette in Main Street, di fronte alla libreria. Sarah Spry aveva firmato il suo articolo per l'edizione di mercoledì e si apprestava a rincasare. I personaggi famosi, quelli quasi famosi e quelli ancora sconosciuti di Hampstead erano stati immortalati sulle pagine della Gazette. 2 Questo è uno stralcio dell'articolo di Sarah scritto per l'edizione di mercoledì: QUELLO CHE SARAH HA VISTO Thistown ci appare come un mutevole caleidoscopio di umori e sensazioni. Thistown ci regala ricordi e gioie e bellezze volubili. I nostri meravigliosi pittori, scrittori e musicisti ci fanno palpitare. Quanti di voi sanno che il celebre F. SCOTT FITZGERALD (quello di Gatsby) e la sua famiglia abitavano a un tiro di schioppo da Sawtell Beach, nella casa dei signori Fisher, sulla Bluefish Hill? O Che EUGENE O'NEILL, JOHN BARRYMORE e GEORGE S. KAUFMAN soggiornarono qui, sulle sponde dello Stretto di Long Island? Chiedete ad Ada Hoff, presso la nostra libre-
ria, e vi racconterà del giorno in cui il poeta W.H. AUDEN entrò ad acquistare un libro di cucina del thistowniano TOMMY BIGELOW. Non ho potuto fare a meno di sfogarmi, amici miei. Questa settimana, il mio povero cervellino si abbandona alle delizie di Thistown, ammira la nostra splendida e antica Main Street, le nostre maestose chiese, il nostro prezioso litorale e il nostro passato coloniale conservato in tante delle nostre abitazioni. E come mi diceva l'altro giorno il nostro giovane ammazzadraghi, l'affascinante avvocato ULICK BYRNE: non è grandioso vivere in un posto dove almeno due volte la settimana non succede assolutamente niente? Bando alle ciance, ora, perché so che volete sapere le novità. Sarah ha visto: Richard Allbee, il delizioso interprete di C'è papà (non lasciatevi sfuggire la replica televisiva e scoprirete quanto era carino), si stabilirà qui con la moglie Laura... uno dei miei nomi preferiti! Ti vedremo a teatro, Richard? (Purtroppo pare che non reciti più...) Sarah ha visto: Una lunga lettera dei nostri ex concittadini BUNNY e THAXTER BAINBRIDGE, che si sono incontrati a Los Carlos, in California, con JIX e PETE PETERS di Thistown, recatisi laggiù a trovare i nipoti... Una settimana poco movimentata per Sarah. 3 Per Leo Friedgood non ci sarebbero mai più state settimane poco movimentate, sebbene non ne fosse consapevole quando ricevette la telefonata allo Yacht Club quel sabato mattina. Il suo sloop, Juicy Lucy, era stato in acqua una sola settimana e Leo voleva riverniciare alcune delle rifiniture interne. Fu Bill Terry, ormeggiato lì accanto con la propria imbarcazione, a rispondere al telefono che squillava sul pontile. Lo chiamò: «È per te, Leo!» Leo esclamò: «Merda», posò il pennello e uscì svogliato per andare a rispondere. Sudava e il braccio destro gli doleva. Nonostante l'aria da pirata, Leo non era assolutamente un tipo atletico. La vecchia tuta, ormai un po' stretta, metteva in evidenza il ventre; i jeans stinti erano punteggiati di macchioline bianche. Aveva solo una gran voglia di scolarsi un'altra bottiglia di birra. «Sììì», disse nel microfono. La cornetta puzzava di sigarette. «Signor Friedgood?» chiese un'anonima voce femminile.
«Sono io.» «Sono la signora Winthrop, segretaria del generale Haugejas», esordì la donna e Leo avvertì un senso di gelo nello stomaco. Il generale Henry Haugejas: Leo lo aveva incontrato una sola volta a una riunione della Telpro, un bisteccone in flanella grigia con la faccia del colore di una sbarra di ferro in fonderia. Anche la faccia era una specie di bistecca. Era stato un eroe della guerra di Corea e dava l'impressione di averci provato gusto come per nessun'altra cosa al mondo; un individuo di indubbia e notevole forza fisica, dall'aria inflessibile e sprezzante. «Oh, sì», rispose Leo rimpiangendo di non essere già salpato nelle acque gelide. «Il generale Haugejas desidera che lei si rechi immediatamente nel nostro stabilimento di Woodville.» «Noi non abbiamo uno stabilimento a Woodville», obiettò Leo. Senza scomporsi la signora Winthrop ribatté: «L'abbiamo, se così dice il generale. Ne deduco che lei non sappia come arrivarci. Glielo spiego.» Seguì un elenco complesso di istruzioni che sembrava più adatto a confondere che a chiarire. «Il generale vuole che si trovi là fra trenta minuti», concluse. «Ehi, un momento», protestò Leo. «Non potrò farcela. Sono sulla mia barca. Mi devo cambiare. Non ho nemmeno i documenti. Non potrei mai entrare...» «All'ingresso sono stati avvertiti», lo interruppe lei e Leo avrebbe giurato che stava sorridendo. «Appena avrà controllato, deve chiamare il generale a questo numero.» Poi gli mitragliò un recapito telefonico che Leo non riconobbe. Lui lo ripeté e la segretaria riattaccò. A Woodville Leo si perse. Seguendo le istruzioni ricevute dalla segretaria si era ritrovato nei sobborghi poveri della cittadina, fra case in rovina, chioschi di benzina abbandonati e minuscoli bar davanti ai quali erano fermi uomini di colore. Leo aveva l'impressione che gli occhi di tutti fossero puntati su di lui e sulla sua macchina tirata a lucido. Girò a vuoto, senza riuscire più a raccapezzarsi nella serie di svolte a destra e a sinistra dettatagli dalla segretaria. Cominciò a sudare quando si rese conto che i trenta minuti concessigli dal generale erano scaduti. Per un po', da qualunque parte girasse, si ritrovò a fare la spola fra la superstrada e il Red Devil Lounge con la sua folla di clienti già tutti sbronzi. Percorrendo per la terza volta una squallida stradina, notò uno stretto
passaggio fra due fabbricati che in precedenza aveva scambiato per un vialetto d'accesso. Guardando meglio scorse un cancello di ferro davanti a un alto muro grigio. Con la coda dell'occhio vide infine una guardiola appena oltre il cancello. Fece retromarcia e si infilò nel vicolo, sentendosi maledettamente fuori posto. Per un secondo temette di avere sbagliato di nuovo ed ebbe un moto di collera. Una scritta sopra il cancello annunciava: «Woodville Solvent». Un guardiano in divisa uscì dalla guardiola e spalancò il cancello. Giunto alla sua altezza Leo abbassò il finestrino e chiese: «Scusi, dove si trova lo stabilimento della Telpro?» «Il signor Friedgood?» domandò il guardiano osservando con sospetto l'abbigliamento trasandato di Leo. «Sì?» «La vogliono alla Ricerca. È in ritardo.» «Dov'è la Ricerca?» Leo dovette frenare l'impulso di mandarlo all'inferno. Il guardiano, faccia rotonda e corpo altrettanto rotondo, puntò il dito in direzione di un ampio parcheggio deserto. I pochi veicoli erano vicini a una porta metallica che spiccava su un'alta e spoglia facciata. «Da quella parte.» Leo parcheggiò la sua Corvette di traverso. 4 Arrivato in cima alle scale di ferro, si vide venire incontro un uomo in giacca bianca, con i capelli color sabbia e i denti da coniglio. «Lei è l'uomo della Telpro? Il signor Friedgood?» Leo annuì. Si voltò verso il gruppetto di uomini e donne dal quale si era staccato poco prima l'individuo che lo aveva accolto. Anche gli altri indossavano una giacca bianca, sembravano medici. Poi il suo sguardo si posò su una serie di monitor. «Chi è lei?» chiese senza guardare. «Ted Wise, direttore della ricerca. Ma nessuno le ha detto niente?» Leo si sentì imbarazzato con la sua vecchia tuta e i jeans sporchi di vernice. Su uno dei monitor apparve la sua capigliatura incolta e la schiena, con il rotolo di grasso attorno alla vita. L'imbarazzo fece aumentare in lui la collera scoprendo di trovarsi in uno stabilimento della Telpro di cui ignorava l'esistenza. Si sistemò la camicia nei pantaloni. Gli venne il sospetto che il generale Haugejas lo avesse inviato allo stabilimento come
avrebbe spedito un sottotenente al di là del colle: perché era sacrificabile. «Sentite, il generale vuole che gli faccia un rapporto», disse Leo. «Smettetela perciò di preoccuparvi di quello che faccio e di quello che non so e mettetemi rapidamente al corrente di tutto.» Si era rivolto a tutti i presenti. I monitor erano allineati sopra una scrivania sulla quale c'erano una scheda-orario, un telefono e una penna. Davanti sedeva una giovane donna dall'aria ansiosa. Deglutì a vuoto quando lui le rivolse un'occhiata torva. A dire il vero tutto il gruppetto riunito in quell'atrio del secondo piano era nervoso come un branco di gatti. Anzi, peggio che nervoso. Mentre Ted Wise incespicava nelle parole, gli altri cinque, tre uomini e due donne, erano evidentemente in preda al panico. Erano immobili come pali e cercavano di controllarsi perché era arrivato lui. Sebbene poco sensibile, tuttavia Leo era un uomo intelligente e si accorse che facevano un grande sforzo: se si fossero lasciati andare, si sarebbero messi a rotolare sul pavimento come biglie. Quando Wise trovò il coraggio necessario a chiedergli un documento che provasse la sua identità, Leo ebbe la prima avvisaglia dell'entità del guaio che doveva affrontare. «Che cosa vuole?» replicò in tono aggressivo. «Solo come misura precauzionale, naturalmente.» Cercava di proteggersi. Proprio come il generale si era protetto spedendo Leo Friedgood in quell'ospedale psichiatrico. Nauseato, Leo si tolse il portafogli dalla tasca posteriore e mostrò a Wise la sua patente di guida. «Il generale mi ha prelevato di peso dalla mia barca», dichiarò. «Mi ha ordinato di occuparmi di questa cosa al più presto possibile. Mi spieghi di quale problema si tratta, poi andate tutti a prendervi un Valium o qualcosa del genere.» «Da questa parte, signor Friedgood», lo invitò Wise e il gruppo si aprì per lasciarli passare nella stanza attigua. «Lavoriamo in questo stabilimento dal 1978», spiegò Wise. «Quando la Woodville Solvent fallì, un paio di anni fa, il curatore vendette i fabbricati e il marchio alla Telpro.» «Già, già», borbottò Leo come se sapesse già tutto. «Ci vollero quasi sei mesi per apportare le necessarie modifiche. Una volta installati qui, abbiamo ripreso le ricerche iniziate nel Wyoming. Tutti noi, quelli che vede qui, lavoravamo in un altro laboratorio della Telpro. Finché non si dovette chiudere.»
«Perché qualcosa andò storto anche laggiù, vero?» Wise stava aprendo un'altra porta e sussultò a quella domanda. «Lavoravamo in una industria chimica e le tubature del sistema di scarico erano corrose. Un piccolo quantitativo dei nostri scarichi finì nel sistema idrico, non più di due parti per milione. Non fu un problema grave, le conseguenze negative furono di scarsa entità.» Leo sbirciò nella stanza oltre la porta. Incontrò lo sguardo imbronciato di alcune scimmie chiuse in gabbia. Fu assalito da un odore acre. «Sezione primati», spiegò Wise. «Dobbiamo attraversarla per raggiungere la zona di collaudo.» «Perché non mi dice chiaramente di che cosa vi occupate», replicò stancamente Leo. Naturalmente sapeva che la Telpro aveva certe commesse da parte del dipartimento della Difesa. Aveva visitato in passato settori dell'azienda che producevano armamenti. «Ma noi siamo del settore 'armi speciali'», rispose Wise fermandosi insieme con gli altri al centro della stanza piena di scimmie ingabbiate. Le «armi speciali» rappresentavano un settore alle dirette ed esclusive dipendenze del generale Haugejas e del suo stato maggiore. I cinque presenti erano due microbiologi, un medico, un chimico, e un assistente alla ricerca. Altri assistenti e tecnici di laboratorio venivano assunti in luogo. Da diciotto mesi lavoravano a un solo progetto. «Sul piano della fisica e della chimica si tratta di qualcosa di alquanto complesso, ma in parole povere diciamo che si tratta di un gas», spiegò Wise. «È inodore e invisibile, come l'ossido di carbonio, e si disperde molto facilmente nell'acqua. Non ha un nome, per il momento, ma in codice noi lo chiamiamo DRG. È un... be', diciamo che si tratta di un jolly. Abbiamo cercato di raffinarlo per migliorare il fattore di prevedibilità.» Il problema, come Leo avrebbe appreso di lì a poco, era appunto quello della prevedibilità. Pentagono e dipartimento della Difesa, erano entusiasti del DRG già ai tempi in cui era stato sintetizzato al MIT da un biochimico tedesco di nome Otto Bruckner, negli Anni Cinquanta. Bruckner non sapeva che cosa fare della sua invenzione e il governo era stato ben lieto di portargliela via. «Per molto tempo il progetto fu accantonato», raccontò Wise. «Il governo doveva ancora cercare di mettere a punto altri studi più semplici, tentativi che non hanno avuto successo. Verso la fine degli Anni Settanta si risvegliò l'interesse per il DRG. Da allora fu affidato a noi del settore 'armi speciali', con l'incarico di individuarne gli effetti. Abbiamo avviato un programma di modifiche - dall'ADG 1 e 2 fino al punto in cui
siamo arrivati adesso - ma gli effetti sono ancora molto differenziati. Ci sono persone che non ne vengono minimamente influenzate, anche se si tratta di una piccola minoranza. In certi casi l'inalazione è immediatamente letale. Effetti negativi e mortali rientrano in parametri accettabili, dal cinque all'otto per cento per ciascuno. Mi lasci inoltre aggiungere che gli agenti presenti in questo gas, quelli che provocano la morte istantanea, hanno durata relativamente breve. La vita di una popolazione esposta al DRG è in pericolo immediato per non più di venticinque minuti. È invece il ventaglio di effetti intermedi a preoccuparci. Ha sentito parlare degli esperimenti svolti dalle forze armate con l'LSD?» Leo annuì. «Naturalmente si tratta di un caso assolutamente deprecabile. Noi ci siamo sinceramente adoperati per scongiurare deviazioni in tal senso e comunque abbiamo istruzioni che ce lo proibiscono. Il DRG, originariamente ADG, provoca effetti ben più svariati dell'LSD e noi abbiamo lavorato esclusivamente per isolarne un tipo che riproduca con costanza un singolo effetto.» Adesso Wise sembrava più nervoso che mai. «Avevamo una vasta gamma di scelte. Alcuni degli effetti più impensabili impiegano mesi prima di manifestarsi. Lesioni cutanee, allucinazioni, pazzia pura e semplice, sindrome influenzale, mutamenti nella pigmentazione, persino narcotizzazione. Una certa percentuale di una popolazione sottoposta a trattamento presenterebbe i sintomi di una dose di sedativi leggeri. Potrebbero persino verificarsi casi di capacità telepatiche... La verità è che le variabili sono innumerevoli e a distanza di un anno e mezzo stiamo appena cominciando a orientarci.» «Okay», disse Leo. «Veniamo al dunque. Che cosa è successo?» «Barbara», chiamò Wise e venne avanti una giovane donna alta e bruna e con gli occhi gonfi che aprì un'altra porta. Leo vide una camera più piccola all'interno di una stanza. Era una specie di cabina con le pareti di vetro. Entrando nella stanza alle spalle di Barbara, percepì solo distrattamente la presenza di banconi da laboratorio, con alambicchi e bruciatori a gas. La sua attenzione era tutta concentrata sui tre corpi all'interno della cabina di vetro. I due più lontani da lui erano riversi sul pavimento nero. Avevano gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Avevano la tipica espressione innocente della morte. Wise tossì. La sua faccia era diventata rosa. «Le persone là dentro preparavano la camera per un'immissione di DRG-16.» Si passò le mani tremanti sulla faccia. «Quello più vicino alla parete è Frank Thorogood e quello
vicino a lui è Harvey Washington. Erano tecnici ricercatori. Thorogood era iscritto a un corso di specializzazione all'università di Patchin. Washington non aveva titoli di studio accademici. A lui erano affidate le mansioni più semplici. Uno di loro aveva l'incarico di collegare il serbatoio al vaporizzatore che a sua volta viene collegato alla maschera che vede per terra. Invece, per sbaglio, ha inserito il tubo nella presa che si trova immediatamente sotto il vaporizzatore, provocando un afflusso di DRG concentrato. Washington e Thorogood sono morti sul colpo.» Leo stava fissando con orrore il terzo cadavere nella cabina di vetro. Era talmente gonfio che a prima vista Leo aveva pensato fosse esploso. Una schiuma bianca gli ricopriva le mani. La testa, una specie di spugna bianca, sembrava stesse lentamente scivolando verso lo scarico che si trovava al centro del pavimento. Passò qualche istante prima che si accorgesse che quella specie di schiuma che un tempo era la pelle della vittima, si muoveva. Incapace di distogliere gli occhi vide la testa finire nello scarico. «Il terzo era Tom Gay, uno dei nostri migliori ricercatori, anche se lavorava qui da soli sei mesi.» La donna di nome Barbara si mise a piangere. Uno degli uomini la confortò cingendole le spalle. «Ha visto quali sono gli effetti delle lesioni. È morto solo pochi minuti prima del suo arrivo. Non abbiamo potuto fare altro che stare a guardarlo. Sapeva di non poter aprire la camera.» «Cristo», mormorò Leo scuotendosi dal suo immobilismo. «Che fine...» Wise non replicò. «Adesso si può entrare? Potete eliminare quella roba? Parliamoci chiaro, non mi importa del pasticcio in cui vi siete cacciati voi. Io là dentro non ci vado.» Si ficcò le mani in tasca. Vide ciuffi di capelli castani galleggiare nella schiuma. Si voltò dall'altra parte sentendosi rovesciare lo stomaco. «Si potrà entrare senza pericolo fra quindici minuti, almeno per quanto ne sappiamo.» «Allora entrerete voi.» La faccia di Wise assunse all'improvviso un preoccupante colore scarlatto. «Ho paura che questo non sia tutto. I dispositivi elimineranno più o meno ogni traccia di DRG-16.» «Sono sempre affari vostri.» «Quello che volevo dire è che Harvey Washington avrebbe sostituito i filtri delle prese esterne immediatamente dopo lo svuotamento della camera. Ma Bill Pierce, qui presente, ha messo in funzione i dispositivi prima di
rendersi conto che i filtri erano ancora nelle loro scatole d'imballaggio.» «Ma perché diavolo non lasciate sempre i filtri al loro posto?» Bill Pierce era più alto di Leo e aveva la corporatura di un giocatore di football, l'unico, fra i presenti, ad avere la barba. Rispose: «Non lo facciamo perché hanno un odore molto penetrante che si diffonde molto velocemente nella camera. L'odore nuoce agli esperimenti. Perciò sigillavamo la camera, facevamo le nostre osservazioni e dissezionavamo il soggetto mentre Harvey Washington installava i filtri. Poi mettevamo in funzione i dispositivi di circolazione.» Fissava Leo con uno sguardo in cui si leggeva senso di colpa e sfida. «Ma quando ho visto Tom Gay agitarsi là dentro, la mia reazione immediata è stata di eliminare il DRG dall'aria. Pensavo che se fossimo riusciti a introdurre velocemente aria fresca, avrei salvato almeno lui. Gli altri due erano caduti come birilli. Ho agito di riflesso, basandomi sulla nostra normale procedura». «E allora dov'è andata a finire quella robaccia?» sbottò Leo. «Piano, piano, lasciatemi indovinare. I dispositivi di circolazione la trasportano all'esterno. Questo è il succo del discorso, non è vero? Razza di imbecilli. Avete tranquillamente pompato questa schifezza nell'aria subito dopo che aveva ucciso tre uomini nella camera delle scimmie. Così in un secondo e mezzo ci ritroviamo con un milione di morti a Woodville. È così? È così?» Trasse un respiro. «E non è finita! Perché ci piomberanno anche addosso un milione di cause legali e... io dovrei tirarvi fuori da questo pasticcio.» Si batté le mani sulla fronte. «Signor Friedgood», intervenne Wise. «Abbiamo appena perso tre dei nostri colleghi. Bill ha agito in base alla procedura stabilita. I filtri sono sempre stati sistemati al loro posto per mesi e mesi.» «E secondo lei questa sarebbe una difesa?» ruggì Leo. «Pretendereste che mi sentissi dispiaciuto per voi?» «Sono desolato», si scusò Wise. «Siamo tutti sconvolti. Ma forse le cose non sono così gravi come lei immagina. Lasci che le spieghi.» Il tono di voce era di fiducia, ma Ted Wise continuava a essere l'uomo più terrorizzato che Leo avesse mai visto. 5 «Farò di meglio che scrivere un rapporto», stava dicendo Leo al generale mezz'ora più tardi. «Tirerò fuori tutti da questo pasticcio. La Telpro non comparirà mai. Tanto per cominciare questi geni sostengono che poiché il
DRG è uscito dal tetto del laboratorio, viaggerà per diverse miglia prima di depositarsi. Attualmente c'è una bella brezza, perciò il gas viaggerà parecchio. Potrebbe arrivare fino a Rhode Island. Se ci va bene potrebbe finire in Canada. Nessuno al mondo riuscirà mai a collegarlo alla Telpro. Con un po' di fortuna si depositerà sullo Stretto e ammazzerà qualche pesce. Se poi avessimo una bella pioggia durante la prossima settimana, saremmo a posto, perché l'acqua lo diluisce perfettamente. Per finire? In qualche posto imprecisato a nord di qui, si potrebbero verificare alcune morti quasi istantanee. Fra un mese o due alcuni cittadini di Patwucket o Stowe potrebbero dare segno di squilibrio mentale. Wise afferma che gli effetti sul cervello possono manifestarsi molto tempo dopo. In conclusione, nessuno può risalire a noi.» Ascoltò per qualche tempo la voce del generale. «Mesi. Così ha detto Wise.» Il generale parlò di nuovo. «Ce lo garantisce, signore.» Il generale replicò di nuovo. «Infatti. Il problema ora è risolvere la situazione qui. Ecco la mia idea. Me l'ha data uno di questi geni quando ha detto che il DRG è in un certo senso simile all'ossido di carbonio. Truccheremo le carte, ecco che cosa faremo. Per quanto se ne sa, questa è ancora la Woodville Solvent e tale dovrà apparire. Faremo una telefonata anonima alle emittenti televisive di New York. Chiameremo il Times, faremo venire quaggiù le forze dell'ordine e gli ispettori dell'ufficio di Igiene e daremo una bella ripulita in modo che questa sembri una fabbrica.» Pausa. Leo fissò le sei persone dall'altra parte della scrivania. «No, non diranno una parola. Annunceremo che lo stabilimento resta chiuso per accertamenti sui sistemi di sicurezza e lei potrà trasferire tutti da qualche altra parte e rimetterli al lavoro aspettando che questa storia venga dimenticata. Nel frattempo potremo andare a trovare Bruckner a Boston e vedere se ci può dare una mano. Questa porcheria l'ha inventata lui. Dovrebbe sapere che cosa farne.» Pausa. «Grazie, signore.» Riattaccò e si voltò verso gli scienziati. «Andiamo a dare un'occhiata alla vostra fornace. Nasconderemo questo pasticcio sotto gli occhi di tutti. Alcuni di voi appariranno al telegiornale delle undici di questa sera.»
Un'ora e mezzo dopo il suo arrivo allo stabilimento, Leo Friedgood sedeva su una cassa di legno nello scantinato a guardare Ted Wise e Bill Pierce al lavoro alla fornace. Due anonimi camion verdi di una base militare del New Jersey erano parcheggiati all'esterno dove una squadra di soldati caricava gabbie di scimmie, cassette metalliche, casse con attrezzature da laboratorio e scatole di classificatori. Quello che restava del corpo di Thomas Gay era stato chiuso in un sacco di plastica e rimosso. Due ore dopo Leo era in piedi davanti a una finestra e guardava un'automobile della CBS fermarsi a fianco di una macchina della polizia. La temperatura nell'ufficio superava i venticinque gradi. Ciascuno aveva imparato bene la propria parte. Leo tornò alla scrivania e chiamò l'ufficio della protezione ambientale, poi telefonò all'ufficio d'Igiene della contea di Patchin. In entrambe le conversazioni si presentò come Theodore Wise. Tornò quindi alla finestra e vide il direttore della ricerca e Bill Pierce lasciare lo stabilimento per affrontare l'interrogatorio. Dalla macchina della CBS scesero un uomo alto e magro in abito blu, cioè il reporter, un tecnico e un operatore armato di telecamera. Il reporter si avvicinò a Wise e al poliziotto. Quando un furgone audio attraversò i cancelli, Leo abbandonò la finestra per scendere di sotto. Nell'atrio trovò Barbara e due degli scienziati. Leo rivolse loro un sorriso, scese le scale e uscì. Il famoso reporter della CBS tese il microfono verso Bill Pierce. «È fondata la voce secondo la quale la tragedia è stata provocata da un avvelenamento da ossido di carbonio?» «Per quanto mi risulta...» cominciò Pierce. E andò avanti così per ore e ore. Quando finalmente la polizia ebbe concluso, era scesa la notte. E quando finalmente montò in macchina per tornare a casa Leo Friedgood si era quasi dimenticato dell'invisibile nuvola di DRG-16 che viaggiava trasportata dalle correnti aeree sopra la contea di Patchin. 6 Quando, alla fine, Ted Wise e Bill Pierce ruppero il silenzio, loro e un centinaio di giornali avrebbero incolpato quella nube quasi pensante di tutto quanto accadde ad Hampstead, Patchin, Old Sarum, Witchley, Redhill e King George, tranquille cittadine tra Norrington e New Haven. Ci sarebbero state inchieste, incriminazioni, petizioni, manifestazioni, querele. Ci sa-
rebbero stati discorsi ponderati e accorati. Purtroppo non era la verità perché la causa dell'imminente periodo di sconvolgimento non era la nube. Eri tu... tu che adesso te ne stai sdraiato sul letto, intontito e soddisfatto. Tu che dovevi cominciare per l'ennesima volta a scoprire te stesso. La tua storia, la storia di Hampstead... 7 Duecento anni fa Hampstead non esisteva; c'era solo Greenbank, un gruppo di fattorie con una chiesa sopra Gravesend Beach. Beachside Trail, l'attuale Mount Avenue, collegava Greenbank a Hillhaven e Patchin, della quale la prima era considerata una frazione. Così quando il generale Tryon scese da New Haven per radere al suolo Patchin e sbarcò sulla Punta Kendall nel 1779, inviò un piccolo distaccamento di soldati, non più di dieci o undici, giù per Beachside Trail per bruciare anche Greenbank. Gli uomini di Patchin spararono a casaccio da dietro gli steccati e le siepi con i loro Brown Besse; donne, bambini e animali cercarono rifugio sulla Fairlie Hill o nei boschi; alcuni restarono nella loro città, ragazzi e donne. Pare che uno o due esponenti della popolazione maschile abbiano partecipato all'azione. Il vicario di Patchin reverendo Eliot racconta: «Le squadre lavorarono con raccapricciante zelo, guidate da una o due persone nate e cresciute nei borghi vicini». Un ragazzino, uno dei nove caduti fu abbattuto con una fucilata sparata a così breve distanza che i suoi vestiti cominciarono a bruciare. Gli altri otto omicidi furono di responsabilità degli Jaeger, mercenari tedeschi, e di militari inglesi; l'assassinio del ragazzo invece non ebbe testimoni e perciò rimane un mistero. L'uccisione di quel ragazzo di tredici anni in quell'occasione è la seconda macchia nella storia della regione. Dieci anni più tardi George Washington, presidente dei tredici Stati Uniti venne in visita a Patchin. Scese per Beachside Trail e annotò sul suo diario di avere visto molti camini in piedi tra le rovine delle case incendiate. Per i duecento anni seguenti sul registro della parrocchia furono trascritti sempre gli stessi cognomi: Barr, Wakehouse, Jennings, Annabil, Williams, Winter, Allen, Kent, Moorman, Buddington, Smithfield, Sayre, Green, Tayler. Anche questi nomi risalgono a tempi addietro: i primi quattro agricoltori di Beachside Trail si stabilirono nella regione nel 1640 e si chiamavano Williams, Smyth, Green e Tayler. Nel 1645 li raggiunse un proprietario
terriero di nome Gideon Winter. La residenza di Mounty Smithfield in Mount Avenue sorgeva là dove un tempo c'era stata la fattoria di Gideon Winter. E alcuni di questi cognomi compaiono negli schedari penali di Hampstead. Nel 1841 un viaggiatore, accampatosi come uno zingaro nei boschi a ridosso dei campi di cipolle di Anthony Jennings, assassinò due bambini Sarah Allen e Thomas Moorman - e arrostì i loro corpicini in una fossa prima di essere catturato da una squadra di agricoltori guidati da Jennings. Alla luce delle torce lo trascinarono all'Hampstead Common (ora scomparso, tagliato nel mezzo da Post Road) e sotto gli occhi dello sceriffo gli misero una corda al collo e lo processarono per direttissima. Dalla sua elegante abitazione di Patchin giunse il giudice Thaddeus Barr in sella al suo cavallo. Indossava la toga e condannò l'uomo a morte: sapeva che non sarebbe mai riuscito a far trasferire l'assassino al tribunale della contea a Norrington. Interrogato da Barr, l'omicida si rifiutò di rivelare il suo nome, limitandosi a dichiarare: «Sono uno dei vostri, giudice». Dopo la sua morte, un uomo tra la folla riconobbe nell'impiccato un cugino un po' ritardato della famiglia Tayler, spedito da ragazzo a lavorare alla fattoria pubblica per i poveri. Nel 1898 Robertson Green, noto agli amici come «Principe», giovane ventiduenne che aveva abbandonato la scuola di teologia di New Haven e viveva in un alloggio separato nella grande casa di legno dei suoi genitori in Gravesend Avenue, fu processato e condannato per l'assassinio di una prostituta avvenuto a Woodville nella primavera di quell'anno. Durante il processo vennero alla luce alcuni particolari di «Principe» Green, abbastanza bizzarri da essere riportati dai rotocalchi di New York. Dopo il suo ritorno da New Haven, le sue abitudini si erano modificate: aveva preteso di dormire in una bara di quercia che aveva lui stesso ordinato da Bornley e Holland, i becchini di Hampstead. Teneva sempre tirate le tende di casa sua. Vestiva invariabilmente di nero. Faceva uso continuo di laudano, allora facilmente reperibile presso qualsiasi farmacista. Aveva cominciato a frequentare le prostitute di Norrington e Woodville fin dal suo ritorno (così si pensava ad Hampstead) e quattro di queste donne erano state straziate da un ignoto fra il maggio e il settembre 1897. Green non confessò mai la propria colpa per tali crimini, ma fu condannato a morte anche per essi, oltre che per l'assassinio della donna il cui cadavere era stato scoperto in un vicolo di Woodville. Il padre dichiarò che la mente di suo figlio era stata negativamente influenzata dai poeti decadenti Dowson e Swinburne. All'i-
nizio l'omicida era stato battezzato «lo squartatore del Connecticut», mentre in seguito, su altri giornali, fu definito lo «squartatore poeta». «C'erano giorni», dichiarò suo padre a un reporter, «in cui si comportava come se non sapesse nemmeno il nome mio e di sua madre.» Nel 1917, in Francia, la guerra praticamente legalizzò l'omicidio e ragazzi di nome Barr, Moorman e Buddington furono uccisi in trincea. I loro nomi sono sul monumento alla prima guerra mondiale eretto in Post Road, di fronte al Lobster House Restaurant. Per la statua del soldato posò Johnny Sayre, giovane snello e di bell'aspetto, in uniforme. Nel 1952 Johnny Sayre si tolse la vita con un'automatica calibro 45 sul prato che scende al molo dietro il Sawtell Country Club. Nessuno all'epoca capì perché il cinquantatreenne Johnny Sayre, che era stato avvocato e notabile importante in città, avesse deciso di porre fine ai suoi giorni. Quella mattina aveva disdetto i suoi appuntamenti. La sua segretaria riferì alla polizia che Sayre da giorni era distratto e irritabile. Bonnie Sayre riferì alla polizia che quella sera non aveva avuto voglia di scendere al club, ma John aveva insistito: due settimane prima avevano preso appuntamento con Graham Williams per festeggiare in anticipo il compleanno di John, dal momento che quel giorno si sarebbero trovati a Londra. La segretaria spiegò che aveva saltato il pranzo ed era rimasto in ufficio. Bonnie Sayre dichiarò che per cena aveva ordinato solo un'insalata. Poi, mentre gli altri bevevano insieme, John si era assentato con una scusa, era uscito e pochi minuti dopo avevano udito lo sparo, scambiandolo lì per lì per il tubo di scappamento di un'auto. Né a Bonnie né alla segretaria parve valesse la pena di riferire alla polizia che John Sayre aveva trascritto due nomi sul blocco accanto al telefono dell'ufficio, la mattina del giorno del suo suicidio. I nomi erano: Principe Green e Bates Krell. La segretaria, che abitava ad Hampstead soltanto da due anni, non conosceva quei nomi. Bonnie Sayre si ricordava solo vagamente dei crimini di cui era stato accusato Green. C'era una grande casa a Gravesend Avenue davanti alla quale a lei e a sua sorella era proibito soffermarsi. Lì vivevano due anziane persone che non uscivano mai. Erano l'ultimo ricordo di una vergogna, di una disgrazia, uno scandalo. Ma veniamo a Bates Krell... Quando Bonnie Sayre notò il nome sul blocco degli appunti, due giorni dopo la morte del marito, si sentì prendere da una strana sensazione di disagio. Bates Krell apparteneva alla generazione immediatamente precedente la sua, e successiva a quella di Principe Green. Aveva una barca per la
pesca delle aragoste che teneva ormeggiata nelle acque del Nowhatan, dove ora c'è la Spaulding Oil Company. Era stato un individuo scostante, forse pericoloso, un omone lurido con la barba e gli occhi gialli, che ingaggiava ragazzi per aiutarlo con le reti e li picchiava per la minima mancanza. Un giorno era scomparso. La sua barca era rimasta a lungo ormeggiata finché le autorità non la sequestrarono per metterla in vendita. Una storia un po' strana in seguito era circolata nella scuola frequentata da Bonnie. La storia di un marito, o un padre, che aveva ordinato a Bates Krell di lasciare la città, una storia di mogli e figlie che nottetempo salivano a bordo della sua barca... Ma perché suo marito aveva scritto quel nome prima di uccidersi? Principe Green, Bates Krell. La penna di John Sayre aveva quasi passato la carta da parte a parte. Ora non ci sono più pescherecci sul fiume. Adesso c'è la Spaulding Oil e c'è il Riverside Building che ospita studi dentistici e una compagnia di assicurazione; ci sono il Seagull Restaurant e il Blue Tern Bar, dove vanno gli adolescenti; c'è il Marine Restaurant e la sede dei seguaci della scientologia. Adesso nessuno conosce gli antichi cognomi di Hampstead. Adesso l'odioso antisemitismo degli Anni Venti e Trenta è scomparso, tanto che più di un quarto della cittadinanza è ebrea; adesso arrivano persone da New York, dall'Arizona e dal Texas; altre partono alla volta di Washington, della Virginia e della California. L'editore che ha comperato la casa dei Green non sa che ottant'anni prima le ragazze per bene avevano l'ordine dei genitori di affrettare il passo davanti alla grande casa di legno; né sa che nel suo studio un ragazzo dallo sguardo allucinato dormiva in una bara e sognava di viaggiare nel cielo sbattendo le ali come un gabbiano, la bocca e le mani macchiate di rosso. Adesso Hampstead ha un campeggio di caravan, accuratamente mimetizzato da uno schermo di alberi in Post Road, due furti con scasso all'ora, cinque cinematografi, due negozi di macrobiotica, più di una dozzina di negozi di alcolici, ventun treni quotidiani per New York. Tredici miliardari trascorrono almeno parte dell'anno ad Hampstead. Ci sono cinque banche e tre attori famosi. Una clinica psichiatrica privata con un efficace programma di riabilitazione per tossicodipendenti. Nel 1979 ad Hampstead ci furono due casi di violenza carnale e nessun omicidio. Fino al 1980 gli omicidi rimasero un fatto praticamente sconosciuto dai tempi di Robertson «Principe» Green, che aveva avuto il buon gusto di commettere i suoi cri-
mini a Woodville. Il primo omicidio del 1980 fu scoperto poco dopo le ventuno e quarantacinque del 17 maggio, quando il marito della vittima entrò nella sua camera da letto, e molto tempo sarebbe trascorso prima che qualcuno pensasse a Principe Green e Bates Krell o a John Sayre. 8 La nube pensante, alta alcune centinaia di metri sopra i tetti di Woodville e Norrington, precedeva Leo Friedgood verso Hampstead. Viaggiava senza fretta, senza meta. Quando un mulinello di vento ne allungava un'ala verso terra, la nube sfiorava vite scelte dal caso. Un neonato di sette giorni che dormiva vicino a una finestra aperta morì improvvisamente in quella calda notte di maggio: si irrigidì e cessò di respirare mentre i suoi genitori guardavano la televisione in una stanza del piano inferiore. Sei isolati più in là, - a Norrington, nella zona chiamata Cumberland Acres - un ragazzo di quattordici anni che passava lungo il marciapiede stramazzò dalla sua bicicletta e rimase immobile su un cumulo di ghiaia. Joseph Ricci, terza delle vittime accidentali del Drago, stava rientrando, molto più tardi del solito, nella sua casa di Stratford da un bar vicino agli uffici della Loewen & Loewen di Kingsport, lo studio commerciale presso il quale lavorava. Era un tragitto di circa un'ora, ma Joe Ricci era nato a Stratford e ancora non poteva permettersi una casa a Kingsport, una delle cittadine più care della contea di Patchin perché si trovava vicina a New York. Joe aveva ventotto anni. Aveva una moglie, Mary Louise, e un figlio di tre anni che da lui aveva preso i capelli neri e gli occhi di un azzurro intenso. Joe arrivò al primo dei due caselli di pedaggio che avrebbe incontrato prima di tornare a casa. Questo si trovava sul lato sud-occidentale di Hampstead; il successivo casello era poco prima dell'uscita. Joe abbassò il finestrino per consegnare all'addetto il biglietto. Erano le otto passate e lui aveva detto a Mary Louise che sarebbe appunto arrivato alle otto, mentre in realtà aveva ancora una buona mezz'ora di strada. Una vera seccatura perché gli dispiaceva non essere a casa all'ora in cui suo figlio andava a dormire. Tutta colpa del suo superiore, Tony Flippo, che gli aveva raccomandato di tenersi libero per lui quel sabato sera, sostenendo di avere cose importanti da discutere. Così Joe era tornato a Kingsport convinto di dover
parlare con Tony del loro progetto di aprire un proprio studio di consulenza. Invece Tony si era limitato a sfogarsi con Joe sul fallimento del suo matrimonio. Si era invaghito di Michelle Sparks, una delle dattilografe della ditta. Una serata persa. Joe Ricci lasciò il finestrino aperto e accelerò portandosi sulla corsia di sinistra. Altre due automobili filavano davanti a lui; nello specchietto vide una teoria di veicoli diretti verso nord-est. Senza capire perché si ritrovò a ricordare la sua ragazza del liceo. Poi, a un tratto, si ritrovò davanti a uno spettacolo incredibile. La prima impressione fu che la I-95 fosse ingombra di resti di veicoli semidistrutti, di persone coperte di sangue che avanzavano barcollando verso di lui; vide un enorme autocarro adagiato contro il guardrail, le luci lampeggianti di automobili della polizia e ambulanze. Quella visione sembrò sbucare dal nulla e per un momento fu incapace di respirare o pensare. Schiacciò fino in fondo il pedale del freno e sterzò bruscamente pensando che sarebbe riuscito a evitare l'impatto sfruttando la corsia d'emergenza. La testa gli ronzava e gli faceva male. Per una frazione di secondo si rese conto che le otturazioni gli vibravano nei denti e tuttavia, confuso da quel doloroso ronzio, seppe che niente di quello che stava vedendo poteva essere autentico. Tolse il piede dal freno e lo premette sull'acceleratore. L'unica cosa che voleva era lasciarsi alle spalle quella scena. La coda della sua automobile sbandò. Quando vide le sue mani, che stringevano il volante, si morsicò la lingua. Se la morsicò con violenza affondando i denti e facendola sanguinare. Aveva le mani coperte di vermi bianchi. Almeno fu quello che pensò vedendo quel fluido bianchiccio spandersi sulle dita e sul dorso delle mani. Joe aprì la bocca, ma non riuscì a gridare. La sua automobile stava piombando su un brulicare di luci. Suoni lugubri, stridori sinistri lo trapassarono. Il camion che lo seguiva e che da qualche secondo suonava il clacson con insistenza, urtò la fiancata della macchina e la mandò a schiantarsi contro il guardrail. Un'altra automobile tamponò il camion, s'incastrò sotto l'asse posteriore, e cominciò a bruciare lì sotto senza far rumore. Una Ford verde cominciò a rotolare come un tassello di domino e l'altra automobile che l'aveva tamponata andò a schiantarsi sul groviglio del camion sotto il quale bruciava la prima macchina. Quando finalmente chiusero il casello di Hampstead c'erano già otto morti. Quattro automobili, fra le quali quella di Joe Ricci, erano ridotte in
cenere. Agenti della polizia stradale e due funzionari della polizia di Hampstead fissavano impotenti il rogo e il fumo. Venti minuti dopo un carro attrezzi cominciò a separare le carcasse dei veicoli. Un poliziotto di Hampstead di nome Bobo Farnsworth sbirciò nel finestrino di una Le Baron distrutta e vide con stupore nient'altro che tappezzeria carbonizzata e un volante quasi del tutto fuso. Nessuna traccia di cadavere carbonizzato sul sedile devastato. Bobo aveva visto molti incidenti e sapeva perfettamente che a bordo di quella carcassa d'automobile ci doveva essere un corpo bruciato. Guardò meglio e scorse lo scintillio della fibbia di una cintura di sicurezza adagiata in un liquido nerastro vicino a una molla spuntata dal sedile. Mary Louise Ricci, che di tutto questo ancora non sapeva nulla, si addormentò sulla poltrona più comoda di casa Ricci proprio mentre Butch Cassidy e Sundance Kid facevano saltare in aria un treno e si alzavano dalla polvere boliviana in una pioggia di banconote. 9 Leo procedeva di una spanna ogni quindici minuti. La duplice fila di veicoli che si allungava dai due caselli rimasti in funzione, arrivava quasi a Norrington. Al di là della barriera di Hampstead vedeva di tanto in tanto balenare un lampo di luce rossa. Dunque c'era stato un brutto incidente. Alle nove, ancora a una cinquantina di macchine dal casello, accese la radio e la sintonizzò sulla stazione di Woodville. Ascoltò distrattamente qualche notizia di politica internazionale e di cronaca locale, drizzandosi a sedere e aumentando il volume solo quando udì le parole «Woodville Solvent». «L'insolita tragedia ha provocato la morte di due uomini, Frank Thorogood di Patchin e Harvey Washington di Woodville. Le indagini condotte dall'ufficio di Igiene hanno rivelato che la causa della morte è da attribuirsi ad avvelenamento da ossido di carbonio. Lo stabilimento è stato chiuso a tempo indeterminato per riparazioni e controlli dei sistemi di sicurezza.» A questo punto si udì la voce vibrante di tensione di Ted Wise che mentiva attraverso i suoi denti da coniglio. «Ci siamo resi conto del problema quando... è possibile che i nostri titolari decidano di porre fine...» Quella notizia giunse nuova a Leo: evidentemente, seguendo i consigli di Pierce, Wise aveva deciso furbescamente di far riferimento ai nostri titolari. Ma in questo non c'era niente di furbo. Wise era troppo sconvolto e riusciva a essere semplicemente stupido. Era comunque un'imprudenza che solamen-
te Leo avrebbe notato. Mentre il commentatore passava alle notizie meteorologiche e stradali, Leo sorrise quasi compiaciuto. Tutto il traffico fu convogliato in un'unica corsia. Un autoritario poliziotto agitava una torcia elettrica. C'erano segnali luminosi dappertutto, sul tetto delle automobili della polizia lampeggiavano luci blu, bianche e rosse. I carri attrezzi avevano portato via gran parte dei resti dei veicoli accartocciati, ma il grosso autocarro era ancora adagiato contro il guardrail. Le tre corsie chiuse dentro una fila di piccoli coni arancioni erano disseminate di frammenti di vetro, brandelli di copertoni, con un parafango ammaccato nel centro, simile a una grande V d'argento. Si era diffuso nell'aria un odore di metallo bruciato e gomma carbonizzata. Passando, Leo guardò dietro il poliziotto e vide i resti quasi irriconoscibili di un'automobile sotto l'autocarro. Aveva avuto la parte superiore dell'abitacolo tranciata via fino all'altezza delle manìglie. Dentro quel groviglio di lamiere c'era stato un essere umano. Stony, pensò Leo, e allora ricordò con orrore i due giovani riversi al suolo nella cabina di vetro, occhi e bocca spalancati. Di nuovo vide quella schiuma bianca scivolare verso lo scarico. Scrollò la testa per liberarsi da quelle visioni ricacciandole in qualche angolo oscuro della sua mente e tornò a guardare avanti. L'uscita 18 era a sole tre miglia. Le percorse a passo d'uomo, cercando di controllare la sua ansia. Razionalmente sapeva che non era successo niente a sua moglie. I suoi timori erano semplicemente la conseguenza di ciò che era stato costretto a fare allo stabilimento di Woodville e del terribile incidente sull'autostrada. Non era più così freddo e deciso come era stato costretto a essere a Woodville e adesso la sua coscienza aveva il sopravvento. Laggiù te la sei cavata, gli diceva, ma non scamperai altrettanto facilmente a questo. D'altronde il notiziario non gli aveva dimostrato che la sua strategia aveva funzionato? Ora la sua coscienza lo puniva per il successo. Andrà tutto bene, andrà tutto per il meglio... Ma di nuovo vide quei due, Washington e Thorogood, distesi sul fondo della cabina di vetro. Sgusciò fuori dalla coda, imboccò con un rombo la rampa dell'uscita e finse di fermarsi al segnale di stop. Percorse le strade di Hampstead. C'erano luci accese in molte delle grandi case, la vita domestica di ogni giorno scorreva tranquilla. Un uomo portava a spasso il cane, una donna grassa con una tuta arrancava pesantemente in Charleston Road. Sul suo angolo, un adolescente dall'aria sperduta stava sul ciglio del marciapiede a guardare il cielo come in cerca di un
punto di riferimento. Per un istante, meno di un istante, Leo ebbe l'impressione di conoscere quel ragazzo dai capelli biondi, basso di statura, con una maglietta da rugby a strisce e le maniche rimboccate. I fari della Corvette lo illuminarono per un attimo, il ragazzo sussultò indietreggiando e Leo svoltò in Cannon Road. Le case erano allineate lungo la salita, ciascuna con il proprio terreno attorno, non maestose come quelle di Hermitage Avenue, ma orgogliose lo stesso di essere considerate un buon investimento e di dare prova di un solido tenore di vita. In questo mondo tutti i bambini erano biondi, tutti i frigoriferi contenevano acqua minerale, in ogni ripostiglio c'erano tante paia di scarpette da corsa quanti erano i membri della famiglia. Quattro case più avanti, Leo vide l'automobile di Stony parcheggiata nel vialetto. Poi notò che tutte le finestre erano buie. L'automobile fuori e le luci spente: Leo sussultò vedendo quei primi segni di disordine. Sentì un brivido. Lasciò la macchina davanti a quella di sua moglie. Tornando verso la porta d'ingresso si fermò un attimo a guardarsi attorno. Quel ragazzo non era più all'angolo di Charleston Road. Nell'oscurità i grandi alberi si fondevano in una sola sagoma nera. Tutto era silenzio e tenebre. Il signor Leo Friedgood rientra a casa un sabato sera dopo un'encomiabile giornata lavorativa. Il signor Leo Friedgood contempla i suoi possedimenti. Sentì un senso di oppressione nel petto. Si voltò e raggiunse rapidamente la porta di casa. Non era chiusa a chiave. Dentro era più buio che fuori. Accese la luce dell'anticamera. «Stony!» chiamò. Nessuna risposta. «Stony?» Avanzò pensando ancora che ci fosse una spiegazione semplice e logica: era uscita a passeggiare, era andata a bere un bicchiere dai vicini. Ma Stony non era abituata a comportarsi così, non certo di notte. Leo accese le luci della sala da pranzo e vide il tavolo vuoto attorniato da solide seggiole di legno. «Stony?» La certezza che fosse accaduto qualcosa di terribile, che l'aveva sfiorato vedendo il disastro in autostrada, ebbe una conferma. Non ebbe il coraggio di andare in cucina. Okay. Veniamo al dunque. Che cosa è successo? Erano tutti là riuniti vicino a una stanza piena di scimmie imbronciate chiuse in gabbia. Leo spinse l'uscio della cucina. Una camera dentro una stanza, una struttura simile a una cabina di vetro, un pavimento di piastrelle... La muta presenza del fornello e del frigorifero gli balzò addosso nel buio
della cucina. Il pavimento di piastrelle rosse era un mare oscuro. Leo abbassò l'interruttore. Vide la bottiglia di Johnny Walker, unico oggetto fuori posto, vicino al lavello. Le sue dita la toccarono con delicatezza. Spinse la bottiglia nell'angolo. Lentamente Leo lasciò la cucina e tornò in sala da pranzo. Guardò su per le scale e passò in soggiorno. Lì c'erano divani e poltrone imbottite; un tavolo di vetro opaco. I colori erano attenuati, solo i raggi della luna filtravano dalla finestra. Un pendolo ticchettava rumorosamente nell'angolo. Entrando aveva visto subito che non c'era nessuno, tuttavia accese la lampada più vicina e la stanza tornò a vivere. In una piccola alcova c'erano scaffali di libri e uno scrittoio. Accese la lampada sul tavolo. Lo guardarono dalla parete diplomi incorniciati e una fotografia ricordo di quando era stato assunto alla Telpro. Naturalmente Stony non era in quell'angoletto. Titubante, Leo tornò nell'atrio, guardò su per le scale, chiamò di nuovo sua moglie e salì tre gradini, sbirciando nell'oscurità che aveva davanti. Si asciugò le mani sul petto. Poi afferrò il corrimano, arrivò al pianerottolo e accese la luce. La porta della sua camera da letto era chiusa. Arrivò alla porta e posò la mano sul pomolo d'ottone. Questa stanza è vuota, si disse. Non è successo niente, è tutto come prima. Quando aprirò la porta, saprò che non è successo niente e che Stony tornerà fra qualche minuto. Girò il pomolo e aprì la porta. Appena mise dentro la testa percepì l'odore del whisky. Le scarpe nere con il tacco basso erano sul pavimento accanto alla pila ordinata dei vestiti di Stony. Finalmente Leo percepì anche l'odore del sangue, che era molto forte. Guardò quello che c'era sul letto e poi si ritrovò fuori, sul pianerottolo, senza nemmeno essersi reso conto di avere lasciato la stanza. 10 Alle dieci meno dieci i fari di due automobili della polizia illuminarono le fronde dei viali alberati che portavano verso Greenbank e lo Stretto. Finito il suo articolo, Sarah Spry usciva dalla sede della Gazette pensando che quella domenica pomeriggio si sarebbe dovuta ricomporre l'intera prima pagina. Richard Allbee posò il suo diario, si svestì, si sdraiò sul materasso ad acqua del suo letto, toccò una spalla a Laura e scoprì che stava tremando. Graham Williams udì le sirene nella strada dietro la sua abitazione e si rigirò nel letto. Tabby Smithfield, ancora in giro, vide le auto-
mobili passare, inchiodato al terreno erboso davanti a un'ignota casa di Cannon Road, incapace di muoversi perché bloccato da un lontano ricordo improvvisamente riaffiorato. Patsy McCloud non udì le sirene e non vide le macchine. Come accadeva spesso, suo marito la stava picchiando, schiaffeggiandola con il palmo della mano aperto e il rumore, insieme con le grida di Patsy era tale da coprirne ogni altro. Il pestaggio continuò finché lei non diede più segni di resistenza e rimase semplicemente a testa china a proteggersi con le braccia alzate. Finalmente le percosse si ridussero a un susseguirsi di colpetti. «Lo sai che certe volte mi fai impazzire», le disse Les McCloud. «Adesso vai a lavarti la faccia, Cristo.» 11 Ancora alle prese con la polizia, Leo Friedgood perse il notiziario delle undici che riferiva il presunto suicidio avvenuto a Boston di uno scienziato del MIT di nome Otto Bruckner. Leo non sarebbe rimasto solo prima della mezzanotte inoltrata, quando prese una stanza al Colonial Motel in Post Road e dormì vestito, così imbottito di tranquillanti dal medico della polizia da non essere minimamente disturbato dal baccano che proveniva dalla discoteca nello scantinato del motel. Ma nel corso del notiziario locale Ted Wise recitò il suo pezzo, Pierce il suo e il noto reporter annunciò che tutte le autorità avevano attribuito la morte dei due tecnici alla fuoriuscita di ossido di carbonio da una fornace difettosa. Il noto reporter non perse l'occasione di ricordare al pubblico un analogo incidente avvenuto mesi addietro nel Bronx. Nell'edizione domenicale del New York Times apparve un lungo necrologio per il dottor Otto Bruckner. Vi erano riportati aneddoti sulla sua modestia e sulla sua proverbiale distrazione, un elenco dei premi ottenuti e il riconoscimento del ruolo da lui avuto nello sviluppo della biochimica moderna. Da morto il dottor Bruckner fu trattato con rispetto dal Times e gli fu riconosciuta più importanza di quanta lui stesso si sarebbe attribuita. Nel necrologio non fu fatta menzione delle sue ricerche sul DRG. Né sulle pagine del Times di quella domenica si parlò dell'assassinio di Stony Baxter Friedgood. Ci sarebbe stato solo un trafiletto sull'edizione di lunedì, ma Stony non sarebbe stata dimenticata così in fretta. La sua fotografia sarebbe riapparsa quattro volte sul giornale. Nelle tredici settimane seguenti, fino a luglio, altre sei persone sarebbero state assassinate con le
stesse modalità. Da allora tutte le notizie provenienti da quella zona della contea di Patchin furono discontinue e poco attendibili. DUE Gli Allbee 1 Per Richard Allbee la prima reale sensazione di essere tornato al suo paese natale giunse nella tarda nottata. Era nell'albergo dove, con Laura, aveva preso una stanza in attesa che fosse disponibile la casa di Fairytale Lane. Un cambio di residenza, come un divorzio o la perdita del coniuge, provoca angoscia e Richard quella sera non riusciva a prendere sonno. Aveva l'impressione di avere appena compiuto il più grave errore della sua vita. Innervosito, era passato in soggiorno per accendere il televisore e si era ritrovato faccia a faccia con il proprio passato. Un'emittente indipendente mandava in onda C'è papà, come accadeva ogni notte alle dodici e trenta a New York. In quasi tutte le metropoli americane i vecchi sceneggiati vengono riproposti almeno una volta al giorno su uno dei canali minori, per rallegrare tutti quegli utenti così fanatici da essere ancora davanti al televisore acceso dopo la mezzanotte o prima delle sei del mattino. C'è papà era un programma di punta, studiato per accontentare una certa fascia di utenti, ma Richard non lo aveva più visto dai tempi in cui era stato trasmesso la prima volta. A Londra il fatto che questo sceneggiato a puntate vecchio di trent'anni venisse replicato ancora era una divertente curiosità, ma nessuno a Londra lo aveva visto. Il programma era argomento di battute sagaci alle feste. «La mia immagine di ragazzino di dieci anni va ancora forte. Ma il fatto più importante è che mi pagano ancora. A dieci anni avevo un eccellente avvocato.» Ed era ancora più vero di quanto avesse potuto apprezzare all'epoca. Insieme con Carter Oldfield, unico sopravvissuto fra i protagonisti di allora e star dello sceneggiato, Richard riceveva e avrebbe ricevuto un assegno ogni mese, finché viveva. L'avvocato Phil Sawyer, che curava anche gli interessi di Carter Oldfield, aveva persuaso i genitori di Richard ad accettare una paga più bassa in cambio di una rendita che nemmeno lui stesso aveva previsto di così lunga durata. «Qui nessuno sa per quanto tempo lavoreranno, perciò facciamo in modo che il programma diventi un vitalizio per il ragazzo», era stata la sua frase vincente. Vitalizio era una
parola magica per le orecchie della signora Mary Allbee. Gli altri due principali protagonisti dello sceneggiato non avevano accettato il suggerimento di Sawyer. Mentre Richard dieci anni dopo l'archiviazione del programma aveva cominciato a ricevere l'assegno. Allora aveva ventiquattro anni e il denaro inaspettato gli aveva procurato una libertà di cui aveva un bisogno impellente. Arrivava puntualmente ogni mese e bastava a tenere a galla una giovane coppia che iniziava la sua vita matrimoniale. Richard aveva frequentato una scuola di architettura, aveva lavorato per due anni presso lo studio di un architetto, si era quindi trasferito in Inghilterra e aveva cercato di scrivere un romanzo, trovando finalmente il lavoro che lo soddisfaceva veramente. Per tre anni gli assegni mensili erano stati investiti invece che spesi: avevano concesso agli Allbee sette anni di viaggi senza preoccupazioni economiche. Dopo che si furono sistemati a Kensington, quegli assegni divennero quasi motivo d'imbarazzo, come un'abitudine giovanile dalla quale non ci si riesce a staccare. Richard aveva il suo lavoro, Laura era redattrice di una rivista femminile e quel rettangolo verde, che significava che C'è papà giungeva al suo ennesimo anno di repliche a Cleveland e a Little Rock, veniva semplicemente versato alla Lloyd's Bank dove lentamente e silenziosamente si moltiplicava. Puntate per una programmazione fiume della durata di sei anni, più di duecento in giro per tutti gli Stati Uniti, episodi che mostravano l'infanzia del piccolo e operoso Richard Allbee, completamente diversa da quella che aveva vissuto realmente. Nel mondo di C'è papà non esistevano problemi che non fossero divertenti e che non venissero risolti in trenta minuti da Ted Jameson, alias Carter Oldfield. Non c'era criminalità, non c'erano malattie, non c'era povertà, non c'era alcolismo: tutti i problemi erano nell'ambito ristretto dei compiti a casa, la ragazza del cuore, l'acquisto di qualche regalo di compleanno. Catturato da una specie di fascino dell'orrido, Richard si sedette sul divano davanti alla televisione. Aveva perso i primi cinque o sei minuti, perciò aveva perso anche la «battuta», grazie a Dio. La «battuta», la frase che il suo personaggio, Spunky Jameson, pronunciava in tre puntate su cinque e faceva pervenire in studio sacchi di biscotti, era diventata una maledizione. A quattordici anni pregava Dio di non doverla mai più sentire e ancora detestava i biscotti. I Jameson sedevano attorno al tavolo nella loro cucina di legno d'abete e formica e la bella Ruth Branden, ovvero Grace Jameson, era disperata per
avere ammaccato un parafango dell'auto di famiglia. Voleva farlo riparare prima di confessarlo a Ted. Nella confusione in cui si trovava, mise sale nel caffè di Ted e spolverò di zucchero l'arrosto. Ted assaggiò il caffè, fece una smorfia strizzando gli occhi e arricciando il naso, per poi inarcare un sopracciglio con aria interrogativa. «Ehi, che cosa c'è, papà?» domandò David Jameson, impersonato da Billy Bentley. «Questo caffè ha un sapore strano», rispose Carter Oldfield con aria perplessa e sconcertata. «Hai cambiato marca, cara?» E il piccolo Richard Allbee ridacchiò con preciso tempismo: lui sapeva del parafango ammaccato. Così era andata avanti più o meno per sei anni. Richard si trovò a pensare a ciò che era stato di loro quattro. Nessuno degli altri tre aveva ottenuto fama nel mondo del cinema. Ruth Branden, quella bella donna, una vera attrice professionista, aveva contratto un cancro alla mammella un anno dopo che il programma era stato sospeso. Una metastasi l'aveva uccisa nel giro di tre mesi. Carter Oldfield era l'unico a lavorare ancora per la televisione, grazie alla sua immagine di uomo saggio che aveva resistito alle numerose crisi di depressione e di abuso di alcolici. Ora appariva in uno short pubblicitario per una marca di succo d'arancia. Da castani i capelli erano diventati d'argento, ma per il resto era ancora quello di una volta. Richard sorrise ricordando in quante scene Carter Oldfield era stato costretto a tenere le mani in tasca perché gli tremavano. Tuttavia era sopravvissuto e Richard non poteva non pensare a lui con affetto. Non era l'amore con cui ricordava Ruth Branden, ma Carter era un attore certamente migliore di quanto venisse giudicato. Billy Bentley... rivedere Billy fu più doloroso che rivedere Ruth Branden. Ai tempi di C'è papà Richard Allbee era un ragazzo senza padre, senza fratelli o sorelle. Suo padre era sparito solo pochi giorni dopo la nascita del piccolo Richard. Per Richard, Billy Bentley era stato un idolo. Gli ricordava James Dean, con quell'aria sensibile e ribelle. Di due anni più vecchio di Richard, ne dimostrava almeno cinque di più, con quel viso largo e la frangia di capelli sulla fronte. Billy era stato un ottimo ballerino, sebbene autodidatta, e aveva un certo talento per la musica. Billy beveva birra, fumava sigarette, guidava un'automobile di sua proprietà e gridava battutine divertenti alle comparse femminili. Fino a quattordici anni era stato uno scapestrato innocente. La droga lo aveva rovinato. E aveva rovinato anche C'è papà. A un angolo di strada di Los Angeles aveva cercato di acquistare
due bustine di eroina da un investigatore della squadra narcotici. Aveva diciassette anni e ne dimostrava almeno venticinque. Lo sponsor pubblicitario aveva rinunciato allo sceneggiato e anche a Billy Bentley. Billy era finito in carcere per due anni. Tre volte aveva scritto a «suo fratello». Durante il secondo anno all'università Richard aveva letto che Billy, ormai ventiduenne, era stato arrestato di nuovo per una questione di droga. Era ancora Billy Bentley attore ed ex stella di «C'è papà». Quattro anni più tardi, nuovamente in libertà, aveva telefonato a Richard a New York: voleva produrre un film sulla droga e cercava finanziamenti. Nonostante le proteste di Laura Richard gli aveva spedito duemila dollari. Molto probabilmente erano finiti tutti in eroina. Ma Richard sentiva di doverglielo. Gli aveva voluto bene, lo aveva amato proprio come se fosse stato un suo vero fratello, tuttavia aveva rifiutato di lavorare con lui. Era accaduto a Parigi, dove Richard e Laura avevano soggiornato per sei mesi. Billy aveva telefonato nel cuore della notte, proponendo idee per il suo rilancio. «Ehi, ci sono tutti questi teatrini, adesso, tutta la costa orientale ne è invasa. Per noi è un giochetto. Farebbero carte false per averci. Ci basta trovare il copione giusto ed è fatta. E insieme andiamo forte... cavoli, praticamente ti ho allevato io!» Richard pensò all'ultima volta che aveva visto Billy: aveva guardato dietro i vetri di Horn e Hardart's, nella Quarantaduesima Strada Est, e lo aveva visto seduto a un tavolino, con quella faccia larga, ma senza più alcuna traccia dell'innocenza di un tempo. Indossava abiti usati, pantaloni di velluto e una giacca troppo larga procuratagli dall'esercito della salvezza. Aveva le guance piene di piccole cicatrici. Gli sembrò pericoloso, seduto a quel tavolino di Horn e Hardart's. «Ne sei fuori?» gli aveva domandato Richard. «Ehi, piantala, faccio il metadone. Posso venirne fuori in qualsiasi momento. Sono pronto a lavorare, Spunks. Facciamo qualcosa insieme. La gente ha una gran voglia di rivedere quella vecchia roba.» Richard aveva risposto di no e si era sentito un traditore. Durante il suo secondo anno di permanenza a Londra c'era stata un'altra telefonata notturna: Billy rimuginava ancora su quella sua idea dei teatrini. «Billy», aveva detto Richard, «ho recitato perché mia madre voleva vedere l'impronta del mio piede davanti al Teatro Cinese. E stato divertente, ma per me è acqua passata. Mi dispiace.» «Ho bisogno di te», aveva ribattuto Billy. «Come tu avevi bisogno di un
papà ai tempi del Pettirosso rosso, rosso.» «Ti manderò del denaro», aveva risposto Richard. «È quanto posso fare.» «Il denaro non è la stessa cosa», aveva concluso Billy riattaccando prima che Richard potesse chiedergli l'indirizzo. Non molto tempo dopo Richard aveva letto della sua morte su Newsweek. Era rimasto ucciso da un colpo di pistola nel corso di quella che la rivista definiva «una rissa per questioni di droga». A tutto questo pensò Richard mentre assisteva a quegli innocui venti minuti di C'è papà. Sapeva che l'indomani mattina Laura lo avrebbe ascoltato comprensiva e poi avrebbe commentato: «Billy non era sotto la tua responsabilità, zuccone. Non sei stato tu a rovinargli la vita. Lo ha fatto lui con le sue mani». Era vero, ma Laura non aveva sentito quella silenziosa preghiera, quella richiesta di aiuto, e non aveva risposto offrendo del denaro. Scusami, Billy, ma non posso salvarti la vita in questo momento, che cosa ne diresti di un assegno sostanzioso, invece? Benvenuto a casa, Richard. Spense il televisore quando apparvero i titoli di coda e udì i primi accordi del Pettirosso rosso, rosso. 2 Rivedersi bambino accanto a Billy Bentley risvegliò i ricordi di Richard che, la seconda notte trascorsa ad Hampstead, sognò di recitare nello sceneggiato. Insieme con Laura passò la domenica a sistemare gli abiti, ma solo quelli estivi però, dal momento che la casa di Fairytale Lane era stata affittata solo per due mesi. Ed era una fortuna. Ad Hampstead la percentuale di umidità era piuttosto alta e la casa non era fornita di aria condizionata. Il ventilatore rinfrescava la camera da letto, ma rombava come un motore di jet. L'enorme caminetto del soggiorno, per quanto immacolato, puzzava di ceneri. In cucina ci si muoveva con difficoltà. Le quattro camere da letto erano piccole e buie e le scale non molto sicure. Ogni volta che Richard si spostava su quell'odiato materasso ad acqua provocava un'onda rischiando di far rotolare Laura sul pavimento. In soggiorno un'ampia macchia di umidità faceva presagire che prima o poi il soffitto avrebbe ceduto. L'occhio esperto di Richard si era immediatamente reso conto che l'impianto elettrico doveva risalire a prima della seconda guerra. Un terzo degli infissi era marcio. Nel complesso quella ca-
sa era un ottimo banco di prova per Richard, restauratore di bellezze architettoniche. Aveva lavorato a una dozzina di edifici di notevoli dimensioni a Londra, cominciando da quello in cui aveva abitato, e si era così fatto un'ottima reputazione grazie alla precisione, all'attenzione e al buon gusto. Gli aveva procurato enorme soddisfazione riportare a nuova vita quelle malandate case in stile vittoriano ed edoardiano. Si era scoperto un incredibile talento nel recuperare e valorizzare edifici passati di moda. In pochi anni aveva raggiunto una notevole fama e gli erano stati dedicati due servizi su riviste specializzate. Le offerte di lavoro non erano mancate e quasi non riusciva a soddisfare tutti. Si augurava con tutto il cuore che l'America lo accogliesse con altrettanto entusiasmo. Già due coppie, una di Rhode Island e l'altra di Hillhaven, avevano chiesto la sua consulenza, e ciò lo aveva definitivamente convinto a trasferirsi di nuovo negli Stati Uniti. Nella decisione un ruolo importante l'aveva avuto l'imminente nascita di un figlio. Maschio o femmina, sarebbe stato americano o come un americano avrebbe parlato. Prima di concepire un figlio, non aveva mai sospettato che ciò potesse essere tanto importante. Suo figlio non avrebbe avuto l'accento di Kensington. Avrebbe avuto l'accento del Connecticut, dove erano nati i suoi genitori e anche quelli di Laura, dove erano nati anche lui e Laura, lo stesso giorno, a un anno di distanza. E poi gli riusciva più facile pensare di iscrivere Coso (unico nome di cui era attualmente provvisto il nascituro) in una scuola della contea di Patchin piuttosto che mandarlo in una comprehensive londinese. Maschio o femmina? Sarebbe stata una bambina, Richard ne era sicuro, e ne era felice. Poco prima che arrivassero gli addetti al trasloco, a Londra, aveva sognato di trovarsi nei giardini di Kensington, un giorno di cinque o sei anni dopo. Un bambino lo tirava per la mano e lui non voleva guardare per paura di mettersi a piangere di gioia. «Coso» cercava di trascinarlo verso il laghetto e lui lo seguiva inebriato di felicità. Alla fine aveva guardato e aveva visto una bambina piccola e vivace, con i capelli diritti e rossicci di Laura. Indossava un vestitino a fiori e un paio di scarpette nere. Si era sentito il cuore colmo di orgoglio e di amore e aveva singhiozzato. Sopraffatto dall'impeto di quelle emozioni si era svegliato. L'aveva vista ed era perfetta. Aveva conservato per giorni e giorni la serena gioia di quel sogno. Non aveva mai raccontato a Laura di avere visto la loro figlia in sogno.
Non le aveva mai confessato nemmeno l'altro sogno. Mariti e mogli si dividono le responsabilità psicologiche della vita di coppia e a Richard toccava sostenere il lato ottimistico di quel difficile trasferimento. Laura invece poteva esprimere paure e dubbi di entrambi. Così fu Laura a chiedere: «Ma funzionerà davvero?» Erano usciti a passeggio, quella prima domenica, a perlustrare la zona. Gli Allbee erano scesi in fondo a Fairytale Lane, avevano attraversato un ponte ed erano giunti fra alberi immensi in un groviglio di rampicanti, seguiti per breve tempo da una rumorosa muta di cani ben pasciuti. Tutte le case sembravano gigantesche, disposte a notevole distanza l'una dall'altra. Dietro un filare di alberi era in azione una sega elettrica. «Sicuramente», rispose lui passandole un braccio attorno alle spalle. «All'inizio sarà un po' dura, ma faremo strada quaggiù. Ho già due clienti. È un buon segno.» «Sono vittima di un trauma culturale», dichiarò Laura. «Ma noi siamo cresciuti qui», le fece notare Richard. «Tu sei cresciuto a Los Angeles e io sono cresciuta a Chicago. Questo Stato assomiglia in tutto per tutto alla Lake Forest.» «Non può andare male.» Richard colse il lampo negli occhi di lei e aggiunse: «Oh, lo so che cosa vuoi dire». Erano nati lì, eppure quel luogo era loro estraneo. Il padre di Laura si era trasferito nell'Illinois, dove lei era cresciuta in una casa di città simile a quella che avevano occupato a Londra. Richard aveva abitato una serie di appartamenti e piccole case prese in affitto. La prima che aveva posseduto era quella acquistata con Laura. Erano abituati ai villini a schiera, ai negozi ai quali si arrivava in pochi minuti a piedi, al traffico frenetico, ai pub e ai parchi. Hampstead, che non era né città né campagna, aveva un aspetto irreale, anomalo. «Io credo che ci vorrà un paio d'anni», calcolò Richard, «ma alla fine ci troveremo bene in questo buffo posto.» «Io non sono affatto sicura che ci troveremo bene», obiettò Laura e lui, in silenzio, approvò. Furono salutati da un drappello di uomini in calzoncini e magliette macchiate di sudore che sbucarono a passo di corsa da dietro l'angolo. Uno dei particolari che avevano già notato era il culto della salute che regnava nella contea di Patchin. Non solo gli amanti del jogging passavano tutte le ore per Fairytale Lane, ma gli ultraforniti negozi di generi alimentari erano costantemente affollati di gente che stava per recarsi o ritornava
da una partita di tennis. Nel drugstore della zona si vendevano le più svariate marche di sigarette, ma Richard era l'unica persona a comperarle. Era effettivamente vero che stava attraversando una fase di trauma culturale. Dal macellaio, dove tutti i clienti sembravano novelli McEnroe, Laura non aveva riconosciuto i tagli della carne. La maggior parte dei cereali per la prima colazione era ricoperta da uno strato di zucchero. E persone sconosciute le rivolgevano la parola senza il minimo imbarazzo. «È morta mia sorella», aveva detto a Laura una donna che stava acquistando uno yogurt. «Così. È stramazzata a terra e naturalmente suo marito non ha mai cambiato un pannolino in vita sua.» «Che disgrazia!» aveva risposto Laura. Gli uomini la guardavano diritto negli occhi e le sorridevano mostrando dentature smaglianti. E quel loro sguardo allegro e un po' fisso sembrava sottintendere una certa intimità. A tutto questo si sarebbero abituati perché era necessario e perché in fondo erano particolari poco importanti e Richard sapeva che i primi giorni in America sembravano così difficili perché non si sentivano a casa propria come avrebbero dovuto. Quella sera gli Allbee andarono a coricarsi presto. Ogni tanto Laura sorrideva fra sé sentendo muoversi il bambino. Quella sera era particolarmente agitato e lei volle che il marito lo sentisse giocare alla cavallina. Così Richard si addormentò con la mano posata sul ventre prominente di Laura. Durante la notte sognò di essere nuovamente sul set di C'è papà. Non aveva dieci anni. Era adulto, aveva i suoi trentasei anni e stava pronunciando la battuta. Billy Bentley, adulto, sogghignava con quel viso scuro e butterato. «Non questa sera, caro», disse Ruth Branden uscendo dalla porta della cucina. «Non ricordi? C'è stato un orribile delitto. C'è qualcosa di terribile là fuori. Non riuscirei mai a fare i biscotti con questi pensieri.» «Ah, sì, mamma», ribatté lui. «Ora ricordo. Certo, fare i biscotti adesso sarebbe veramente fuori posto.» «Buuu! Buuu! Buuu!» ululò Billy Bentley. «C'è un assassino grosso e cattivo che adesso verrà a prenderti!» Una puntata su un assassino? C'era qualcosa che non quadrava. Gli sponsor non avrebbero mai permesso... «Ti salterà addosso sbucando dall'armadio.» Billy Bentley gli sorrise con malizia. «La porta si aprirà piano piano e lui verrà fuori con le braccia alzate, verrà verso di te...»
«David, per piacere», intervenne Ruth Branden. «Questo non è affatto bello.» «Papà mi è sembrato un po' strano, ultimamente», commentò Billy. «Quel vecchio leone ha bisogno di qualcosa che lo tiri su. Sarebbe ora che il dottore gli desse una pillolina per ridargli animo. Sarà già una fortuna se arriverà alla fine della stagione.» «Non ti permetterò di parlare in questo modo di tuo padre», lo rimproverò Ruth Branden restando perfettamente nel personaggio. Richard si rese conto in quel momento che non si trovavano sul set. Stavano mangiando nella sala da pranzo. Non c'erano le telecamere e le solite squadre di tecnici. «Ehi, mamma», disse. «Adesso voglio che andiate a letto», ordinò Ruth. «Chiudete la porta a chiave e assicuratevi che siano ben serrate anche le finestre.» «Ma non è...» «Di sopra», tuonò Ruth Branden e per un attimo il suo viso si trasformò in quello di una vecchia rugosa. «Subito di sopra e chiudete la porta a chiave!» La stanza aveva quattro pareti, eppure da qualche parte c'era una telecamera che stava registrando tutto. «Scena seconda», gridò una voce. «A posto.» Era in camera da letto. Pigiama. Notte. Modellini di aerei ingombravano la scrivania. Sopra il letto, fissato alla parete, c'era un gagliardetto con i colori del college. Quella era la camera da letto del set e lui adesso era davvero Spunky Jameson, perché era di nuovo nel suo corpo di ragazzino di dieci anni. Appoggiato alla parete, vicino all'antina dell'armadio a muro, c'era un paio di sci. Una racchetta da tennis nella sua custodia, tutte le solite cianfrusaglie di un ragazzo della sua età. Si toccò la faccia, si passò le mani fra i capelli tagliati a spazzola. Sì, tutto era a posto. Ricordava che cosa prevedeva il copione. Spunky va alla finestra, guarda fuori con ansia, si volta verso David. Richard andò alla finestra. Ricordava il panorama: la parete posteriore dello studio, pannelli rimasti inutilizzati, funi che pendevano dall'alto. Guardò fuori. Non vide il solito studio, ma una strada, i prati, lo steccato della casa di un vicino. Alla luce della luna i lampioni accesi illuminavano Maple Lane, una strada che non era mai esistita. Una Chevy del 1954 passò in quel momento fendendo il buio con i fari. Si voltò con la bocca arida. «Ehi», disse.
SPUNKY: Ehi. Laura dormiva sul materasso ad acqua, i capelli sparsi sul cuscino. Billy Bentley, i lineamenti a malapena distinguibili nell'oscurità, era sdraiato accanto a lei e gli sorrideva con aria saputa. Richard sapeva che Billy era nudo sotto il lenzuolo. «Buuu! Buuu! Buuu!», intonò Billy con una voce cattiva. «Una cosa malvagia viene verso di te.» Sbatte la porta d'ingresso. La porta d'ingresso sbatté. DAVID: Credo che sia arrivato, fratello. «Credo che sia arrivato, fratello», disse Billy. «Sei sicuro di avere chiuso a chiave?» Richard contemplava a bocca spalancata Billy Bentley nudo nel letto con Laura. C'era un'inequivocabile atmosfera di abbandono postcoitale. Laura sospirò, splendida e beatamente incosciente. «Gran donna, questa», commentò Billy e Richard sentì tutta la sua impotenza di fronte al corpo adulto di Billy Bentley. «Questa è una donna che ne ha da vendere, se mi capisci.» La mano piatta di Billy, nera nell'oscurità della stanza, accarezzò il fianco di Laura nascosto dal lenzuolo. «Ma se non ti secca che sia io a dirtelo, temo che al momento tu abbia un altro problemino, Spunks. Non sono molto sicuro che tu abbia veramente chiuso a chiave.» «La porta?» «Quella della camera da letto, Spunks. Ci sono brutte cose in agguato.» Richard udì rumori terribili venire dalle scale. Un oggetto pesante cadde con un suono di vetri infranti. Ruth Branden strillò. Un rumore pesante, malvagio, simile a quello di una scure che si abbatte ripetutamente sul legno. Ruth strillò di nuovo. Si udirono altri tonfi e le grida di Ruth cessarono all'improvviso. «Sarà meglio che alzi il culo», gli consigliò Billy. Qualcuno gridava di sotto. Richard andò alla porta e premette il pulsante del pomolo. «Papà ha perso la calma quando ha visto quella botta al parafango.» Billy gli sorrideva ancora e intanto accarezzava il fondo schiena di Laura. La porta della camera vibra. L'uscio tremò. La persona che si trovava dall'altra parte bussò una volta, poi un'altra. «Spunky, ehi, Spunky, fammi entrare.» Era la voce espressiva di Carter Oldfield, ma era spezzata e ansante. «Ho pagato io per questa casa, è mia. Fammi entrare, maledetto impiastro.» Era il tono strascicato del-
l'ubriaco. Non era la prima volta che Richard lo udiva. «Vai via», gridò e Billy Bentley ridacchiò dal letto. «Non dire a me di andare via!» ruggì Carter Oldfield. «Ho una cosetta da sistemare con te.» La scure cominciò a colpire la porta con violenza. Sussultando Richard si svegliò con il cuore in gola. L'orologio digitale sul comodino segnava le quattro e quattro minuti. Laura sospirò nel sonno, disturbata da Richard. La tappezzeria a strisce delle pareti, si illuminò per un momento, investita dal fascio di luce dei fari di un'automobile di passaggio. 3 Il lunedì mattina gli Allbee incontrarono l'agente immobiliare Ronnie Riggley nel suo ufficio in uno dei centri commerciali di Post Road. Ronnie era una bella donna prosperosa, originaria della California, con la risata pronta e corti capelli platinati. Aveva la grazia fisica e la sicurezza che resta per tutta la vita in certi ex atleti. Richard pensò che probabilmente era stata un'ottima nuotatrice o tuffatrice ai tempi del liceo. Era stata di grande aiuto per gli Allbee quando, con molta onestà, aveva consigliato loro la casa di Fairytale Lane che, nonostante i numerosi difetti, era certamente la più adatta tra tutte quelle che avevano esaminato in primavera. «Mettiamoci in pista.» Ronnie mostrò loro un elenco di indirizzi. «Ne visiteremo tre questa mattina, quindi andremo in qualche bel posticino a mangiare un boccone, poi ne vedremo altre due nel pomeriggio. Voglio che vi facciate un'idea di quello che offre Hampstead per la cifra che avete a disposizione.» Salirono sulla sua automobile, una Datsun blu con scritto «Ronni» sulla targa. «Spero che riusciate a dormire bene», commentò. «A volte è difficile in una casa nuova.» «Non molto bene, temo», rispose Laura da dietro. «Per via della risacca.» Ronnie scoppiò subito a ridere. «Oh, dannazione, me l'ero dimenticata. C'è un letto ad acqua in quella casa! Ma non pensate di riuscire ad abituarvi?» «Preferirei non doverlo fare», replicò Richard. «Il surf è una bella cosa, ma io voglio dormire...» Raccolse la prima scheda dal mazzetto che Ronnie aveva posato sul se-
dile fra loro. «Questa è la prima?» Ronnie annuì poi aggiunse: «Senta, mi sento un po' sciocca a chiederglielo, ma non posso farne a meno, potrebbe... cioè, sarebbe così gentile da dirla? Sa a che cosa mi riferisco». Voleva che lui pronunciasse la battuta. Richard scoccò un'occhiata a Laura che sogghignava dal sedile posteriore. «O proprio detesta le persone che glielo chiedono?» «Saranno almeno dieci anni che nessuno mi chiede di recitarla. E va bene. 'Ehi, mamma, voglio un piatto intero di biscotti!'» Entrambe le donne risero. «Certo... la mia voce è cambiata.» «Ma non era niente male, caro», lo consolò Laura. «Niente male? Fantastico!» esclamò Ronnie. «Non ho potuto farne a meno. Non riuscivo a credere che fosse lei. L'ho detto al mio ragazzo... sapete, Bobo, il poliziotto. Gli ho detto che vi portavo in giro a mostrarvi delle case e Bobo mi ha suggerito di chiederglielo. A volte, quando Bobo ha il turno serale e torna tardi, guardiamo insieme il suo programma. Lo fanno quasi tutte le sere, sa? Secondo me è meraviglioso che lei venga ad abitare ad Hampstead.» «Noi non la conosciamo molto», spiegò Richard. «Eravamo ancora lattanti quando ce ne siamo andati.» «Oh, vi piacerà stare qui. Succede sempre qualcosa. Il Natale passato, per esempio, alla grande festa organizzata per i nostri clienti, Jane Frobisher, che lavora con me, sapete che cosa ha detto a certe persone alle quali avevo appena venduto una casa? 'Vi siete appena trasferiti ad Hampstead? Oh, ma siete troppo giovani per divorziare!' «Dimenticavo... avete già saputo dell'assassinio?» esclamò all'improvviso interrompendo le loro risate. «Me lo ha raccontato Bobo. È successo sabato sera e quando Bobo è tornato alla centrale dopo il terribile incidente in autostrada, tutti non parlavano che di quello. Lasciamo perdere i commenti del tipo 'prezzo del peccato' e cose del genere, ma se ho capito bene la signora in questione è stata ridotta a cotolette dal suo amante mentre suo marito era fuori a lavorare.» Fu così che gli Allbee seppero di Stony Friedgood. «Madame Bovary nella contea di Patchin», commentò Laura. «Perciò c'è un'altra casa in vendita ad Hampstead», notò Richard. «Oh, ma non va bene per voi», si affrettò a dire Ronnie. «Conosco quella casa.»
4 Anche se durante il pranzo - consumato nello stesso ristorante francese che Clark e Jean Smithfield frequentavano un tempo - Ronnie Riggley raccontò troppi particolari sulla tragica morte di Stony Friedgood e nonostante tale descrizione avesse ricordato improvvisamente a Richard Allbee l'incubo in cui Carter Oldfield, impazzito, prendeva a colpi d'ascia la porta della camera da letto; sebbene nessuna delle case visitate fosse quella giusta (quelle meno costose erano talmente malconce che Richard, per sistemarle, avrebbe dovuto trascurare i suoi clienti), alla fine, dopo un martini ghiacciato e un ultimo bicchiere di eccellente vino della casa i tre scoprirono che stava nascendo tra loro un'amicizia tanto che Ronnie arrivò a proporre una cena a quattro, con Bobo, un giorno imprecisato della settimana successiva. «Allora sì che saprete tutti i segreti di Hampstead», aggiunse. «Bobo è al corrente di tutto. E poi è adorabile. Be', non sta a me dirlo. Io ne sono innamorata.» Fornì anche a Laura il nome di un buon dottore. «Tutte vanno dal dottor Van Horne», le assicurò. «È il miglior ginecologo della città. È estremamente sensibile, una qualità che apprezza chi, come me, si è affidata in passato a dei veri macellai. La tratterà come una regina.» Sorrise a Laura. «'Coso'. Che nome divertente! Coso Allbee, il bambino più sano della contea.» Laura tirò fuori un'agendina dalla borsetta e trascrisse: dottor Wren Van Horne, ginecologo. TRE Graham 1 L'istinto mi dice che è il momento di abbandonare le vesti del narratore che sa ciò che pensano e fanno i suoi personaggi in ogni momento e che mantiene un atteggiamento imparziale verso tutti. Il narratore sono io, Graham Williams. Chiamatemi Graham. Anzi, no! Chiamatemi signor Williams, a meno che la vostra età sia tale da potervi considerare miei coetanei, tenendo conto che io ho settantasei anni. Sono sopravvissuto a tutti i medici secondo i quali il bere e il fumo mi avrebbero portato a una morte
prematura e sono un vecchio eccentrico e scontroso. Il mio stomaco funziona ancora perfettamente. Ho dodici dei miei denti originali, il che mi pare notevole, e una complicata protesi che mi è costata un occhio della testa. Ho scritto tredici romanzi, solo tre dei quali autentiche stronzate, un tormentato resoconto del mio passato di alcolizzato e sette sceneggiature cinematografiche. Una di queste ha ancora il suo fascino quando viene replicata alla televisione. Glenda, con Mary Astor per protagonista e Gary Cooper e James Cagney nel ruolo dell'amante e del marito. Sono un fallito e un vigliacco. Da giovane ho imparato a disarmare i miei nemici andando al tappeto prima che qualcun altro potesse farlo. Purtroppo ormai non ho più nemici di cui parlare ed è un vero peccato. Battaglie che diventano storie antiche quando i tuoi nemici tirano le cuoia. Anche quella donnola sudaticcia del senatore del Wisconsin, che è stato una vera spina nel fianco per tutta la vita, se n'è andato all'altro mondo da un pezzo, insieme con tutti gli altri predatori di polli suoi degni compari. Sterling Hayden, quello sì che era un uomo. A lui potevo parlare. Il motivo per il quale esco allo scoperto e vi parlo così direttamente è che sono stato testimone di tutto quello che è accaduto in questa zona della contea di Patchin e il libro che stavo scrivendo si è trasformato in quello attuale. Quello che non sapevo ho dovuto inventarmelo, ma niente esclude che anche questi fatti siano realmente accaduti. Forse proprio nel modo in cui li ho descritti. Alla fine Richard Allbee mi disse: «Perché non ti metti a tavolino e non racconti tutta la storia?» Ed è quello che ho fatto. Gli amici mi hanno permesso di leggere i loro diari, dai quali ho tratto molto materiale per il mio racconto. 2 Ma per la maggior parte si tratta di cose che ho visto e udito, come vi ho già detto. Consideriamo ora il luogo in cui abitavo. La mia casa era sulla Beach Trail, a Greenbank, esattamente di fronte a quella del vecchio Sayre, acquistata poi dagli Allbee. «I Quattro Focolari», dove finì Tabby con il padre e la matrigna, è a due minuti, dalla parte della collina. Patsy e Les McCloud vivevano in una casa situata in diagonale rispetto alla mia, sul retro. Mount Avenue inizia proprio in fondo alla Beach Trail. Conoscevo superficialmente Monty Smithfield, e avevo conosciuto Stony Friedgood al tempo in cui frequentava il gruppo di appassionati di letteratura. (Dal tetto della mia casa avrei potuto lanciare un sasso nella finestra della camera da letto dove trovarono Stony; questo, vent'anni fa.) Quella settimana al
circolo si discuteva uno dei miei libri, Cuori contorti e Stony mi chiese se il marito, nel romanzo, si rendesse conto di essere lui a spingere la moglie a una relazione con il mio eroe. «Spingerla?» domandai. «Ma se decisero la riedizione tascabile di Cuori contorti perché qualcuno lo giudicò d'ispirazione femminista!» «Assurdo», aveva ribattuto Stony Friedgood. Gary Starbuck, il ladro di professione che giocò un ruolo minore in alcune delle nostre esistenze e che apparirà tra poche pagine, prese in affitto la vasta abitazione di Frazier Peters a due isolati da me e dopo la sua morte anch'io andai a contemplare la sua incredibile collezione di refurtiva, argenteria, televisori, quadri e mobili, prima che Bobo Farnsworth e gli altri poliziotti mettessero i sigilli. E conoscevo quel furfante di Pat Dobbin perché lo avevo visto crescere: suo padre era mio amico ai tempi delle bevute che poi descrissi in Tempi perduti. Io riuscii a venirne fuori, Dan Dobbin no. Comunque era più in gamba di suo figlio come illustratore. Ma c'era un particolare ben più importante, o almeno altrettanto importante: io non potevo guardare Mount Avenue senza vedere gli Jaeger arrivare di corsa con le fiaccole accese nel 1779; non potevo guardare la grande casa di Monty Smithfield senza vedere la baracca di legno che, in quello stesso punto, aveva costruito nel 1645 l'enigmatico Gideon Winter; io conoscevo quel posto, lo conosceva mio padre e lo conosceva il mio trisavolo. Quando guardavo un ragazzetto spensierato di nome Moorman o Green, un ragazzetto in jeans e giubbotto, rivedevo in lui il vecchio e coriaceo coltivatore di cipolle o il torvo fabbro ferraio che aveva portato il suo stesso nome e che gli aveva trasmesso un sedicesimo dei suoi cromosomi. 3 Ma al di là della mia conoscenza della struttura genetica dei ragazzi i cui cognomi si trovavano sulle più antiche lapidi del cimitero di Gravesend, io fui uno dei primi a vedere gli effetti immediati di quella che ho definito la nube pensante. Naturalmente all'epoca non riuscii a trovarvi alcuna spiegazione, né avevo la più pallida idea che una spiegazione potesse esistere. 4 Ho parlato di effetti. Due effetti. Mi imbattei nel primo di essi (il secondo mi si sarebbe rivelato di lì a dieci minuti) uscendo a passeggio sulla Be-
ach Trail, domenica mattina 18 maggio. Quasi sempre, la domenica, percorro Mount Avenue, giro a destra, passo davanti all'Accademia e imbocco la breve strada che porta a Gravesend Beach. Se mi capita di vederli, mando un saluto ad Harry e Babe Zimmer che, con il loro vecchio furgoncino, arrivano verso le otto o le nove del mattino per pescare dall'argine. Harry e Babe sono una coppia di ragazzini settantenni. Mi chiamano signor Williams. Poi me ne torno a casa. In tutto dovrei impiegarci non più di dieci minuti, ma in realtà mi ci vuole più di mezz'ora. Quella mattina non arrivai mai alla spiaggia. Ci fu una prima breve interruzione nella mia epica anabasi quando mi soffermai a ispezionare i più recenti danni apportati alla mia cassetta per le lettere, certe profonde ammaccature che considerai alla stregua di un tentativo di omicidio. Lo stupratore di cassette postali aveva evidentemente abbandonato le castagnole per passare ai corpi contundenti. Dopo l'ispezione ripresi il mio viaggio temerario. Nel momento in cui mi accingevo a lasciarmi alle spalle il giardino immacolato dell'ultima casa sul mio lato della Beach Trail, vidi un corpo nell'erba. Quel prato immacolato era opera di Bobby Fritz (Bobby conosceva ogni stelo, ogni albero, ogni fiore intorno a quelle case, all'infuori dei miseri vegetali del prato di casa mia), il corpo era quello di Charlie Antolini. Charlie sembrava più stecchito della mia cassetta per le lettere, così mi avventurai nel prato per andare a controllare da vicino. Charlie era un tipo caparbio sulla quarantina, erede della famiglia che possedeva la Lobster House e un paio di altri ristoranti delle contee di Patchin e di Westchester. Da ragazzino aveva fatto l'ambulante; quando aveva nove o dieci anni faceva il fattorino per l'edicola e mi portava il giornale. Già allora era un tipo dadi e bulloni, trascinato dal bisogno di guadagnare sempre più denaro. Finalmente aveva accumulato abbastanza da potersi permettere la grande casa di legno di Mount Avenue. Nella parte sbagliata, non sul versante dello Stretto, comunque sempre Mount Avenue. «Hai bisogno d'aiuto, Charlie?» domandai. Mi ero accorto subito che non era morto. Era immobile, ma i suoi occhi verdi erano aperti e sulle sue labbra aleggiava un sorrisetto. Non era però il tipico sorriso di Charlie Antolini. Era un sorriso quasi di beatitudine. Indossava un pigiama di seta celeste. «Guarda che qui ti scotti, Charlie», lo avvertii. «Salve, signor Williams.» Charlie non mi dava più del tu dal 1955. Secondo me riteneva che un
vecchio e scontroso scribacchino del mio stampo abbassasse il tono del vicinato. «Sei sicuro che vada tutto bene?» gli chiesi. «Benissimo, signor Williams», mi rispose rivolgendomi quel sorriso che nemmeno sua madre avrebbe riconosciuto. «Ti è venuta voglia di prendere un po' d'aria, eh? Ottima idea, Charlie. Fa bene ai polmoni. Perché non scendi in spiaggia con me a salutare Harry e Babe?» «Questa mattina mi sono svegliato in gran forma», disse lui. «Roba da non crederci. Sono uscito e mi sento ancora meglio. Troppo bene per andare a lavorare.» «Guarda che è domenica, Charlie. Nessuno va a lavorare di domenica.» Poi ricordai che probabilmente era atteso alla Lobster House a dare una mano al personale. «Già, domenica.» Io guardai in direzione della casa. Sua moglie faceva segnali alla finestra del soggiorno. «Penso che faresti bene a toglierti dal prato, Charlie», gli consigliai. «Florence mi sembra tutt'altro che contenta.» Fu allora che mi accorsi della sua cassetta delle lettere, di cui Charlie era molto orgoglioso. Di metallo come la mia, ma due volte più grande, era verniciata nella stessa sfumatura di verde della sua casa. Su quello sfondo verde Charlie aveva fatto dipingere un disegno floreale con viticci avviluppati alle grandi lettere rosse di Antolini. Ora quell'aggeggio era stato divelto dal paletto di sostegno e giaceva nel viale. Un lato della cassetta era stato sfondato e da sotto la vernice brillava l'alluminio. «Ehi, vedo che quei banditi che hanno distrutto la mia cassetta hanno fatto fuori anche la tua. Nel tuo caso direi che si tratta di decapitazione.» «Ma senti che sole!» disse Charlie. Flo Antolini continuava a gesticolare dietro la finestra, o per dirmi di togliermi dai piedi o per chiedermi di raccogliere Charlie e trasportarlo in casa. La seconda ipotesi era fuori discussione: Charlie pesava più di un quintale. Non sarei riuscito a sollevargli una gamba. Risposi a Flo con una alzata di spalle e mi infilai le mani in tasca dicendo: «Be', goditela» a Charlie e preparandomi a tornare sul marciapiede. Ci ero appena arrivato quando udii una donna strillare il nome di Charlie. «Signor Antolini! Signor Antolini!» «Ti conviene battere in ritirata, Charlie», ripetei pensando che una delle vicine avesse considerato riprovevole lo spettacolo che dava di sé sdraiato sullo splendido prato. Eravamo ad Hampstead, che diamine!
Poi vidi la donna avvicinarsi a noi di corsa. Evelyn Hughardt, moglie del dottor Hughardt. Indossava un vestito da casa rosa e aveva un paio di vaporose pantofoline rosa ai piedi. Era orribile. «Signor Antolini, la prego!» gridò mentre attraversava la strada senza nemmeno guardarsi attorno. Quando fu più vicina mi parve ancora più spaventosa. Normalmente era una bionda piacente, prosperosa e sana quanto Ronnie Riggley, dell'agenzia immobiliare. Era il tennis a tenerle in forma. Per poco non mi travolse correndo a inginocchiarsi nell'erba accanto a Charlie. Gli afferrò una mano e cercò di strattonarlo. «Si tratta del dottor Hughardt, mio marito», spiegò. «Oh, la prego, non so che cosa fare e lui si vergognerebbe tanto di me...» «Salute, Evvy», rispose Charlie con quel suo splendido sorriso. «La prego, signor Antolini, la prego, mi aiuti, venga.» «Ua», fece Charlie. «Troppo sole», spiegai io. «L'ha steso. Un vero peccato. Forse posso darle una mano io.» Quando mi guardò mi resi conto che non mi aveva notato fino a quel momento. Mi cancellò dalla sua visuale con un battito di ciglia e riprese a strattonare la zampaccia di Charlie. «Guardi che lui non può fare niente», ribadii io. «È appena rinato. Successe anche a un mio zio, nel 1913. Stramazzò a terra come un bue stanco. Ma sono lieto di offrirle i miei servigi.» Lei tirò per un'ultima volta la mano di Charlie, invano, quindi si decise a guardare verso di me. «La scongiuro, signor Williams», mi disse con voce tremante. «Mi aiuti con il dottore.» «Faccia strada», ribattei io e la seguii con una certa difficoltà. Lei era già alla porta e mi invitava con gesti frenetici a entrare, mentre io ero ancora in mezzo alla strada. 5 Norm Hughardt era quello che oggi definirebbero probabilmente un internista ed era anche un buon medico e un vero snob. Anche suo padre era stato così, del resto. Finché ero stato sulla cresta dell'onda il dottor Hughardt padre era stato lieto di ricevermi e consigliarmi di dimagrire, di cambiare le mie abitudini eccetera; ma quando ero caduto in disgrazia non era stato più altrettanto lieto. Norm era stato al liceo J.S. Mill dieci anni prima di Charlie Antolini, in seguito si era iscritto all'università della Vir-
ginia e alla scuola di medicina di Yale. Più o meno all'età di Charlie era tornato in Virginia per non so quale seminario e aveva conosciuto quella biondona, campionessa di tennis, che aveva poi portato con sé quaggiù. Esercitava insieme con il padre, ma dopo che il venerando genitore mi scaricò (per morire poco dopo) non mi volle più come paziente perché mi credeva comunista, una palla bella e buona. Resta il fatto che ad Hampstead era considerato il numero due nella sua professione, dopo Wren Van Horne, lo specialista che si occupa di una buona metà delle nostre care signore. Wren e io eravamo amici da tempo, ma come medico, purtroppo, lui non poteva servirmi gran che. Norm, che secondo me aveva ordinato a sua moglie di chiamarlo sempre dottor Hughardt, con la sua barbetta a punta e la zucca pelata degnava di attenzione solo chi era famoso o stava per diventarlo. Erano almeno vent'anni che non mi rivolgeva la parola. Sulla soglia, Evelyn mi stava sibilando non so che cosa. Era chiaro che, nonostante non avesse scelta, era imbarazzata all'idea di farmi entrare. Io ero il nipote di Stalin o qualcosa di simile e il mio abbigliamento non era certamente all'altezza della sua vestaglia rosa con pantofoline intonate. Indossavo un vecchio paio di scarpe da ginnastica, vecchi e sformati calzoni di tweed con le borse alle ginocchia e un pullover verde con i buchi ai gomiti. Inoltre non mi ero fatto la barba e comunque non mi rado quasi mai sotto il mento. Non voglio tagliarmi la gola. «Allora che cosa c'è, Evelyn?» le domandai. Nell'ingresso c'erano disegni incorniciati nei quali riconobbi la mano di una mezza dozzina di noti disegnatori di Hampstead e Hillhaven. Quello con la scritta «Spero che questo faccia più male a te che a me, auguri, Pat Dobbin» mostrava un omino pelato, con la barba a punta, che apriva la pancia a una caricatura di Dobbin, mentre un getto di banconote e monete usciva dalla ferita. Pat Dobbin si era ritratto così come probabilmente si vedeva nello specchio del mobiletto dei medicinali di casa sua: cioè più bello di quanto in realtà fosse. «La prego», mormorò lei. «Vengo sul retro, signor Williams. Il dottor Hughardt stava uscendo per andare a controllare l'innaffiatore automatico e... l'ho visto cadere...» Mi tirò per una manica del vecchio pullover per farmi fretta. «È caduto?» chiesi io. «Forse è inciampato?» Mi rispose con un gemito. «Evelyn, intanto chiama l'ambulanza», le consigliai. «Arriveranno in un batter d'occhio.» Questo lo sapevo per esperienza personale. Le dissi il numero. «Avverti che Norm è svenuto e dà loro l'indirizzo. Non c'è biso-
gno che mi accompagni. Sarò stato in questa casa un centinaio di volte.» Mentre uscivo sentii Evelyn comporre il numero al telefono. Mi fermai con il fiato corto. Il sole mi parve molto più caldo di quando mi ero fermato a ispezionare i danni alla mia cassetta delle lettere. Norm Hughardt era riverso al suolo. Poco più in là zampilli d'acqua innaffiavano gran parte del prato e il muro di mattoni rossi che delimitava il terreno. Su uno degli spruzzi sembrava galleggiare uno speranzoso piccolo arcobaleno. Tre degli ugelli, i più vicini, dovevano essere guasti. Norm aveva la faccia sprofondata nell'erba e le punte delle scarpe rivolte all'ingiù. Non somigliava affatto a Charlie Antolini e nemmeno a mio zio Hobart stramazzato a Fairlie Hill il giorno in cui aveva scoperto Gesù. Mi avvicinai. «Norm? Come ti senti?» Norm non rispose. Un infarto? Mi chinai faticosamente al suo fianco. Indossava un paio di calzoni blu con panciotto e senza giacca. La sua camicia era pulita e inamidata. Mi chinai per guardargli la faccia e vidi che aveva gli occhi aperti, fissi sull'erba. «Dannazione», mormorai spingendogli una spalla. La testa ricadde inerte di lato. Sotto il panciotto aveva un'elegante cravatta a strisce rosse e blu. Riuscii a farlo rotolare su un fianco, così si trovò a fissare gli occhi verso il cielo. «Norm, razza di bastardo», brontolai. «Svegliati.» Per l'ennesima volta mi domandai come potesse un fascista come lui farsi crescere un pizzetto alla Lenin. Posai l'orecchio contro il suo petto. Là dentro non si muoveva più niente, allora avvicinai la faccia alla sua bocca. Niente alito, solo odore di colonia e dentifricio. Gli pizzicai le narici e gli soffiai in bocca come si vede fare alla TV. Sudavo. Era terribile che un uomo tanto più giovane di me fosse morto. Ripetei il mio goffo tentativo di respirazione artificiale. «Che cosa sta facendo?» strepitò la moglie apparendo sulla soglia. «Del mio meglio, Evelyn», risposi. «Hai chiamato?» Lei deglutì e annuì. Poi si avvicinò svolazzante a me e a Norm. «Signor Williams», balbettò con affanno. «Crede che... crede che... crede...?» «È meglio aspettare l'arrivo degli infermieri.» «Mi sembra così normale», osservò lei e non era neanche sbagliato. «Aiutami a rialzarmi», la invitai allungando il braccio verso di lei. Restò a guardare la mia mano a bocca aperta, come se le avessi porto uno stronzo. «Tirami su, dannazione, Evelyn», insistei. Mi afferrò e riuscii a rimettermi in piedi. Restammo entrambi a contemplare Norm Hughardt con gli occhi spalancati verso il cielo. «È morto», sentenziò Evelyn.
«Così sembrerebbe», ammisi. «Che peccato! Non ha neanche un segno addosso.» Fu un commento forse indelicato. Evelyn Hughardt si allontanò da me, si strinse le braccia attorno al busto e rientrò in casa. Forse aveva udito il campanello, perché pochi secondi dopo tornò con le mie vecchie conoscenze della squadra di pronto soccorso. Quando mi videro si irrigidirono. «Di nuovo lei?» mi apostrofò quello con i baffoni, mentre il poliziotto che li aveva accompagnati scrollava la testa. Questi era un energumeno di nome Tommy «Tartaruga» Tunk, il peggiore sbirro di tutto il contingente di Hampstead. Gli mancavano solo un paio di mesi alla pensione e aveva la pancia delle dimensioni di un tricheco quasi adulto. Ma non aveva perso il vizio di menare le mani. «Io non c'entro, Tartaruga», chiarii. «Apri gli occhi.» Mi succede talvolta di chiamare il pronto soccorso quando mi vengono le fitte al petto. Frattanto gli infermieri stavano già prestando le prime cure a Norm Hughardt con quell'apparecchiatura che spero non debbano mai usare per me. Tartaruga si stancò di cercare di stendermi con gli occhi e andò a strapazzare la vedova. Io rimasi a guardare i ragazzi che collegavano Norm a uno di quegli aggeggi che somigliano a batterie per autocarri. Norm ebbe un sussulto, ma niente di più. «È andato», dichiarò quello con i baffi. Poi si voltò verso di me e osservò: «E già il secondo questa mattina e anche l'altra squadra ne ha beccato uno. Ha idea di che cosa diavolo stia succedendo?» «Tre attacchi cardiaci?» «E chi lo sa», sbottò lui mandando uno dei colleghi all'ambulanza a prendere la barella e la coperta. Io mi avvicinai a Tartaruga e a Evelyn. Tartaruga le stava chiedendo se ci fosse stato un battibecco tra loro prima che il dottore uscisse in giardino. Guardò me con aria torva, quindi tornò a Evelyn. «No», rispose lei. «Okay, e lei che cosa ci fa qui?» ruggì Tartaruga. «Questa signora ha chiesto il mio aiuto. Sono venuto, ho guardato Norm e le ho detto di chiamare il pronto soccorso. Passavo di qui.» «Mi sta dicendo che...» Non terminò la frase. Sapevo che in qualche modo aveva avuto l'intenzione di offendermi. Mi rivolse un sorriso da scimmione. «Io le faccio paura, non è vero? Lo so, Williams.» «Signor Williams», lo corressi.
«E so perché. Lei ha fifa. Nato e cresciuto fifone. Signor Williams.» «Fandonie», ribattei. «Arnvederci, Evelyn. Sono veramente desolato per quanto è accaduto. Se hai bisogno di qualcosa, non fare complimenti.» Lei sbatté le palpebre. Avrei voluto abbracciarla. Tartaruga mi avrebbe probabilmente steso accusandomi di tentativo di stupro. Attraversai lentamente la casa e uscii dalla porta principale. Charlie Antolini era ancora beatamente sdraiato sul prato. Accanto a lui era accovacciata Flo, che piagnucolava e parlava a raffica. Attraversai la strada. «Norm Hughardt ha reso l'anima a Dio nel giardino di casa sua», annunciai. «Un peccato davvero. Bisogno d'aiuto?» La mia era una spacconata bella e buona. Ero io ad avere un maledetto bisogno di mettermi sdraiato. «Non vuole alzarsi», mi spiegò Flo. «Non riesco a farlo tornare in casa, signor Williams.» «Come va, Charlie?» «Stupendamente.» «È ora di rientrare, adesso. Fra poco pioverà.» «Va bene», rispose lui e alzò le braccia verso di noi come un bambino. Io lo presi per una mano e Flo per l'altra. Per poco non ci trascinò giù, ma Flo puntò i talloni e tenne in piedi anche me. «Che meraviglia!» esclamò beato Charlie. «Non l'avevo mai fatto.» Flo mi ringraziò e si avviò con Charlie verso casa. Lui continuava a fermarsi per ammirare l'erba e gli asfodeli, ma pazientemente lei riuscì a chiuderlo in casa. Le tende si riaccostarono. Tartaruga ripartì con un virile boato della sua macchina. Gli infermieri stavano uscendo in quel momento trasportando Norm Hughardt sulla barella. Guardai dall'una e dall'altra parte di Mount Avenue e nella mente vidi venire di corsa verso di me una folla di Jaeger e di giubbe rosse, armati di moschetti e torce. Vidi la bufera, le saette di quella notte. Le grandi case erano in fiamme. Fra i mercenari tedeschi e i soldati britannici c'era anche un'altra persona, quella alla quale aveva accennato il reverendo Andrew Eliot... una persona nata e cresciuta a Greenbank. (Il reverendo Eliot, uomo per bene, aveva protetto uno dei suoi.) Quasi vedevo la sua faccia. Somigliava molto a me. Laggiù c'era un ragazzino morto: un ragazzino vero, anche se in quel momento ancora non lo sapevo. L'ambulanza sfrecciò accanto a me spezzando l'incantesimo. Mi voltai e tornai verso casa.
6 Supponiamo che la nube pensante fosse nata ad Hampstead invece che a Woodville. Supponiamo anche che il dottor Wise sapesse quel che si diceva. La nostra cittadina conta circa venticinquemila anime. Se la percentuale di morti istantanee fosse oscillata tra il cinque e l'otto per cento, sabato sera avremmo dovuto contare fra i milleduecentocinquanta e i duemila cadaveri. Avremmo avuto le strade ingombre di morti. Invece fra il sabato notte e la domenica mattina solo cinque persone morirono ad Hampstead. L'attenzione di tutti si concentrò sull'omicidio di Stony Friedgood, soprattutto dopo che se ne verificò un altro analogo. E tutti persero così di vista il quadro generale. La persona più anziana che morì in quelle ore fu un uomo della mia età, un commerciante in pensione che abitava in Gravesend Road. Il più giovane fu un bambino di sette anni e ciò mi turba. Un bambino non dovrebbe mai morire per cause del genere. Poteva trattarsi benissimo di Tabby Smithfield. I genitori del ragazzo si erano trasferiti qui da non più di un anno e mezzo. Oltre al bambino e al commerciante c'era anche una mia amica. Lo seppi non appena rincasai. Stava squillando il telefono. Era Harry Zimmer. Mi annunciava che Babe era morta. Aveva un piccolo enfisema, ma non era stato quello a ucciderla. Erano appena scesi dal loro camioncino quando lei si era accasciata al suolo: stramazzata a terra nel parcheggio di Gravesend Beach. Non era una tragedia? Harry piangeva. «Volevo che lei lo sapesse, signor Williams. Babe diceva sempre che lei era un vero gentiluomo.» Io risposi con le solite frasi di circostanza. Diavolo! Non posso più scrivere come vorrei. Il vecchio Tartaruga aveva ragione, sono un fifone. Questo è un modo ben strampalato di scrivere un libro. Perciò credo che adesso parlerò degli Allbee che comperano la casa sull'altro lato della strada e di come fanno conoscenza con Patsy McCloud. Presto torneremo a Tabby, quindi vi racconterò di Gary Starbuck, il ladro, della piccola banda nella quale quasi per poco non entrò Tabby e delle storie che Pat Dobbin stava illustrando. Credetemi, è tutto pertinente. Poi arriveremo a quella parte che non mi fa certo piacere scrivere. Volevo bene a Wren Van Horne. Era più giovane di me di soli otto anni ed eravamo cresciuti insieme. Ma volevo bene anche a Babe Zimmer, cara vecchia signora che credeva io fossi un vero gentiluomo.
Se da bambino fossi stato come Tabby, non avrei fatto questa fine. QUATTRO Rievocazioni 1 «Non è stato il marito», confidò Ronnie Riggley agli Allbee quel mercoledì mattina, uscendo dai grandi magazzini. «C'era qualcosa di strano nella vita di quella signora. Non voglio dire che fosse la donnina allegra della città, ma senza dubbio dispensava i suoi favori. Secondo Bobo suo marito ne era al corrente. Sabato era da Franco's, dove ha incontrato un tizio. Non si sono trattenuti a lungo e nessuno dei balordi che si trovava nel locale ha riconosciuto l'uomo.» «Sarà stato uno di fuori», azzardò Laura. «Può darsi, ma diciamo sempre così ad Hampstead.» Ronnie rise. «Se vanno a rubare a casa di qualcuno, il che accade spesso e sovente, subito si dice che il ladro veniva da Norrington o da Bridgeport. Comunque resta il fatto che i tizi del bar hanno guardato Stony, senza degnare l'uomo di un'occhiata. Bobo dice che hanno almeno cinque descrizioni diverse dell'assassino. Potrebbe essere un uomo biondo sui quaranta o un sessantenne con i capelli bianchi. L'unica cosa su cui sono tutti d'accordo è che non era un frequentatore abituale del bar. Ma non c'è dubbio che qualcuno ha riconosciuto Stony. Forse non faccio bene a raccontarvi queste cose prima ancora che vi siate insediati qui, ma è evidente che alcune mogli di dirigenti del posto frequentano Franco's. Chissà che cosa pensano di trovarci? Boscaioli? Probabilmente sarò un tipo troppo quadrato, ma confesso che sembra tutto senza senso.» «Non si può escludere che sia stato il marito», fece notare Laura, «hai detto che sapeva delle sue scappatelle.» «Oh, lui ha un alibi», rispose Ronnie. «Il nostro caro Leo Friedgood è rimasto a Woodville per tutto il pomeriggio. Lavora per non so quale gigantesca società e non solo ci sono almeno un paio di persone che possono giurare che si trovava laggiù, ma ha addirittura parlato due volte per telefono con il generale Haugejas.» «Henry Haugejas?» esclamò Richard stupito. «Quello che era in Corea?» «Perché, ce n'è forse un altro?» ribatté Ronnie. «L'incrollabile. Uno della
polizia gli ha parlato di persona. Ha detto a Bobo che per tutto il tempo che è stato al telefono con lui non ha potuto fare a meno di stare sull'attenti.» «Un tipo come pochi», commentò Richard. «Gira ancora armato.» «Un paio di anni fa ha fatto fuori un rapinatore», gli ricordò Ronnie. «Ma ve lo immaginate? In piena New York.» Rise. «Ora andiamo a visitare una casa con quattro camere da letto, proprio al confine tra Hampstead e Old Sarum. Molto caratteristica. Poi sarà la volta di una casa di Greenbank. Ho la netta sensazione che lì faremo centro.» 2 Richard dovette ammettere che Ronnie stava veramente facendo del suo meglio per soddisfare le loro esigenze, nonostante il mercato immobiliare carissimo e una congiuntura economica che pretendeva sui mutui tassi iperbolici. «Old Sarum è una zona più rurale di Hampstead», spiegò Ronnie, ma non sarebbe stato necessario dal momento che avevano percorso quasi un miglio senza vedere fabbricati. «A molta gente piace così.» Laura reagì con un mormorio dal sedile posteriore. «Purtroppo la proprietaria si farà trovare in casa. Non ho capito bene che cosa sia successo, ma si intuiva che ci teneva a restare. È vedova.» Raggiunsero finalmente un vialetto d'accesso invaso dagli sterpi. La casa era un cottage al quale diversi proprietari avevano aggiunto nuovi locali. Su un box costruito di recente era stato eretto uno studio con ampie vetrate. Il basso edificio era situato sul pendio di un colle boscoso che sembrava essersi ramificato come un'edera verso la cima. «Ma il prezzo sarà accessibile?» chiese Laura. «La signora Bamberger ha fretta di vendere», rispose Ronnie mentre insieme con i suoi clienti scendeva dalla macchina. «Tra un paio di settimane va in Florida. Mi è sembrato che valesse la pena dare un'occhiata.» Con aria di scusa aggiunse: «Ma temo che vi riempirà la testa con le sue chiacchiere». La signora Bamberger, un'anziana e rotonda matrona in tailleur pantalone blu scuro, li accolse sulla soglia. Aveva una catenella al collo da cui pendeva un paio di occhiali con montatura d'oro. «Salve, signora Riggley», disse a Ronnie. «I signori Allbee? Vi prego, accomodatevi e fate come se foste a casa vostra.» Come Ronnie aveva predetto, la signora Bamberger li accompagnò in
giro per la sua abitazione descrivendone caratteristiche e arredamento, decisamente eccentrico. I locali erano zeppi di mobili antichi e massicci, tanto che Richard ebbe qualche difficoltà a calcolarne la reale ampiezza. Alcune delle stanze erano comunicanti, così che passando dall'una all'altra si aveva l'impressione di percorrere le carrozze di un treno. Intanto la signora Bamberger parlava e parlava e alla fine, con aria orgogliosa, presentò ai visitatori lo studio costruito sul box. «Questa è l'unica parte che abbiamo aggiunto noi», spiegò. «Non c'è niente di meglio se si vuole venire a spiare gli animali. Persino gli uccelli. Poiché questo locale è separato dagli altri, si può rimanere qui nella stagione fredda senza sprecare denaro riscaldando il resto della casa.» «Molto intelligente», commentò Richard pensando alla traversata per arrivare in cucina. «Probabilmente vi piacerebbe se fosse così anche il resto della casa», aggiunse la signora Bamberger. «Di solito è quello che i giovani pensano. A me e a mio marito piacevano i vecchi cottage, con i soffitti bassi e quella loro atmosfera tutta particolare. A noi ricordava Miss Marple.» Richard sorrise. In effetti, con un bel letto di paglia si sarebbe trasformato in un tipico cottage inglese, come quelli descritti nei romanzi di Agatha Christie. «Non avete altro da chiedere alla signora Bamberger sulla casa?» intervenne Ronnie. Gli Allbee si scambiarono un'occhiata. Battiamocela. «Naturalmente io ho troppa immaginazione», riprese la signora Bamberger. «È quello che mi diceva sempre mio marito. Ma c'è qualcosa che so e che non è frutto della mia immaginazione. Lei è Richard Allbee, non è vero?» «Sì», rispose Richard. Ci siamo, pensò. «E nato ad Hampstead alla fine della guerra e poi si è trasferito in California prima di cominciare a frequentare la scuola?» Perplesso, Richard annuì. «Allora io conoscevo suo padre», concluse la Bamberger. Richard restò a bocca aperta. «Io non l'ho mai conosciuto», riuscì a borbottare. «Sembra che i neonati non gli andassero molto a genio.» La signora Bamberger lo stava fissando con uno sguardo molto intenso. All'improvviso gli ricordò una sua insegnante dell'ultimo anno delle elementari. «Perché non avrebbe mai dovuto sposarsi. È così. Era un bell'uomo, le assomigliava. Non era molto alto, proprio come lei, ed era molto
educato. Ma Michael Allbee era anche un farfallone. Incapace di mettere radici.» Richard si sentì mancare il terreno sotto i piedi. Sapeva che avrebbe ricordato per sempre quei momenti, che sarebbero rimasti scolpiti in eterno nella sua memoria: quella donna grassa davanti a una libreria in una stanza con una parete di vetro. Allora io conoscevo suo padre. Michael Allbee. Era la prima volta che sentiva il nome di battesimo del suo genitore. «Che cos'altro mi sa dire?» domandò. «Era molto dotato per i lavori manuali. Lo è anche lei?» «Sì, anch'io.» «Ed era assolutamente affascinante. Abitava non lontano da qui. Veniva ad aiutare quando c'era qualcosa da riparare e a dare una mano con il prato. C'è il suo zampino in molte case di questa città. Poi sposò Mary Green e smise di venire e ci mancò poco che a mio marito si spezzasse il cuore. Avevamo intenzione di aiutarlo perché si iscrivesse all'università, ma così poté contare sul patrimonio dei Green e non ebbe più bisogno di noi.» Sorrise a Richard. «Sotto molti aspetti era una brava persona. Niente di cui vergognarsi. Non si è sposato per interesse. Non era quel tipo d'uomo.» «Restaurava le vecchie case?» chiese Richard, incapace di crederci. «Era certamente la sua occupazione principale. Mio marito ha sempre sostenuto che sarebbe potuto essere un ottimo architetto. Ma anche un costruttore, qualsiasi cosa in quel campo.» «Sa se è ancora vivo?» La donna scrollò la testa. «Non ne ho idea. Era una di quelle persone che non spreca mai un solo minuto a pensare al futuro, perciò può darsi che sia ancora vivo. Oggi dovrebbe avere poco più di sessant'anni.» Da qualche parte c'era un uomo con i capelli bianchi e con la sua stessa faccia che comperava il giornale o falciava l'erba del prato. O fumava la pipa sulla tolda di un mercantile o dormiva in una baracca su qualche spiaggia. «Sua madre è ancora viva?» volle sapere la signora Bamberger. «No. È morta sei anni fa.» «Mary aveva nerbo. Scommetto che l'ha mandato a lavorare. Sicuramente aveva paura che lei avesse ereditato quell'inclinazione all'irresponsabilità.» «Sì. Sì, andai a lavorare.» «Ottima idea, quella di tornare qui», osservò la signora. «Per parte di madre lei vanta antenati residenti qui già agli albori di questa comunità. Fu
un suo trisavolo, con un paio di altri suoi amici, a fondarla nel 1645. Josiah Green. Uno dei primi agricoltori fermatisi a Greenbank. Il suo è puro sangue di Hampstead. Sangue di Greenbank. È da lì che abbiamo cominciato.» «Ma lei come fa a saperlo?» «Conosco questa città meglio di chiunque altro, a parte il vecchio Graham Williams e Stanley Crane, quello della biblioteca. E può darsi che ne sappia quasi quanto loro. L'ho studiata, signor Allbee. So tutto di quegli agricoltori di Greenbank. Quel tipo scaltro di nome Gideon Winter si fermò qui e si prese quasi tutte le loro terre. Ho qualche idea sul conto di quell'individuo, ma sicuramente a lei non interessa. Lei sta cercando una casa e non avrà voglia di ascoltare una vecchia che blatera tutto il giorno.» «No», si schermì Richard. «No, si sbaglia. Io, ehm...» La signora Bamberger drizzò le spalle. «Ha intenzione di comperare la mia casa?» «Be', bisognerebbe discuterne, ci sono molti fattori...» Lei continuò a fissarlo negli occhi. «No», concluse Richard. «Allora la comprerà qualcun altro. Vi riaccompagno alla vostra macchina.» Mentre teneva la portiera aperta per loro, aggiunse rivolta a Richard: «Suo padre aveva molto da offrire, spero che lei abbia altrettanto, giovanotto». Quando furono in salvo nell'abitacolo della Ford di Ronnie, Laura domandò: «Come ti senti?» «Non saprei. Sono contento di essere venuto, ma sono, come dire, sbalordito.» «Torniamo in città a bere qualcosa o a mangiare un boccone», propose Ronnie. «Ho l'impressione che ne abbiate bisogno.» Richard annuì. Un attimo prima di riemergere sulla strada Ronnie chiese: «Volete che vada su dall'altra parte? Così Richard può vedere dove abitava suo padre. Ci sono solo due case da questa parte. Deve essere stata una di quelle». «No», rispose Richard. «No, grazie. Torniamo in città.» 3 Fu così che gli Allbee giunsero a Greenbank e alla Beach Trail. Ci arri-
varono sulla scia di una rivelazione e acquistarono la prima casa che videro. «Credo che questa vi piacerà», affermò Ronnie accompagnandoli in Sawtell Road. Al semaforo svoltarono a destra, in Greenbank Road. «Appartiene a un'altra vedova, Bonnie Sayre. Ha traslocato la settimana scorsa e la casa è in vendita solo da un paio di giorni. Quattro stanze, soggiorno, uno splendido studio per Richard. Caminetto in soggiorno e nello studio. E c'è anche una bella veranda. La casa fu costruita attorno al 1870 dalla famiglia Sayre e non è mai stata messa in vendita prima. Ora il figlio è in Arizona e sua madre è andata a vivere con lui.» Attraversò il ponte che scavalcava la I-95 e poi il piccolo cavalcavia a schiena d'asino che passava sopra la ferrovia. «E Greenbank è una zona un po' speciale, con tanto di prefisso e ufficio postale. Il più antico agglomerato di Hampstead. Ma questo lo sapete. Non è escluso che abbia preso il nome da uno dei vostri antenati.» «Mia madre non parlava mai molto di Hampstead», ricordò Richard. «Tutto quello che so è che ci siamo nati io e mio padre. E anche i genitori di Laura.» «Davvero?» esclamò Ronnie deliziata. «Allora è proprio un ritorno a casa, il vostro. Oh, guardate a destra. Quella casa grande sullo Stretto è del dottor Van Horne. Adesso siamo in Mount Avenue. Lo chiamano il 'miglio d'oro'.» «Quanto costerebbe un posto come quello?» domandò Richard. La casa del dottor Van Horne, tutta bianca, a tre piani, sembrava un albergo. La facciata dava direttamente sull'ultimo tratto della Gravesend Beach. Un lungo viale privato serpeggiava in una tenuta che sembrava un parco. «Direi che siamo nell'ordine degli ottocentomila dollari. Senza il campo da tennis o la piscina.» «Non possiamo permetterci di vivere in questa zona», dichiarò Laura. «Ma casa Sayre costa meno», ribatté Ronnie. «Ha due difetti. No, non cominciate a lamentarvi subito. Il primo è che ha il lato posteriore rivolto verso la strada. Evidentemente il Sayre che la costruì amava avere davanti la foresta che c'era un tempo.» «E il secondo guaio?» volle sapere Laura. «Be', la signora Sayre è vissuta sola per molto tempo. Così si teneva compagnia con i gatti. Credo che ne abbia raccolti un centinaio. La chiamavano 'quella dei gatti'.» «Oh, no», gemette Laura.
«Non ci sono più», la tranquillizzò Ronnie. «Ma ne sono rimaste le tracce. Per voi è una fortuna! Se non fosse stato per quei gatti la casa sarebbe già stata venduta lunedì. Il visitatore scappò via alla prima zaffata.» «È davvero così tragico?» «Un tanfo!» rise Ronnie. «So come risolvere il problema», affermò semplicemente Richard. «Vino bianco, aceto e soda. E poi una cisterna di acqua e sapone.» Presero la Beach Trail. Ronnie sapeva perché le finestre di casa Hughardt erano tutte oscurate, ma non lo disse agli Allbee. Charlie Antolini, ancora troppo felice per andare a lavorare, li salutò con la mano dall'altalena della sua veranda. Incrociarono un vecchio trasandato in scarpe da ginnastica nere, berretto e pullover nero. Il vecchio stava arrancando faticosamente verso casa, ormai all'ultimo tratto della sua passeggiata quotidiana. Non lo notarono, ma lui, uomo curioso, notò loro. Vidi tua madre, Coso. Saresti stato un bel bambino. 4 Uno o due secondi dopo gli Allbee vedevano la loro casa per la prima volta. 5 Dal diario di Richard Allbee: Siamo di nuovo proprietari di una casa o, per meglio dire, lo saremo appena avrò ottenuto un mutuo. Per ora abbiamo firmato i documenti e abbiamo versato il primo assegno, oggi pomeriggio nell'ufficio di Ronnie. C'è forse qualcuno che si sente davvero sicuro di sé quando acquista una casa? Questa casa mi piace. Entrando, io e Laura abbiamo avuto un attimo di telepatia coniugale e all'unisono abbiamo esclamato: «È questa!» Io credo che Laura ci si troverà benissimo e questo rende tutto il resto di secondaria importanza. È una casa in stile Secondo Impero: mansarda, abbaini, pilastri ai lati della porta, numerosi ornamenti di pregio. Molto vicino al tipo di casa che io e Laura speravamo di trovare, pur temendo di non potercela permettere. Il lato posteriore, quello che dà verso la strada, è alquanto anonimo, ma la facciata è davvero notevole e anche la vista verso i giardini è stupenda. Mi sento più che soddisfatto e quando penso al futuro, il nostro
futuro, mi sembra che la vecchia casa Sayre sarà il luogo più adatto per crescere i nostri figli. Locali ampi, tanto spazio attorno, una mansarda da trasformare in stanza dei giochi... che fortuna sfacciata! Un paio di sere fa avevo chiesto a Dio di aiutarci e ho idea che l'abbia fatto. Oggi ho acquistato una casa e un padre; a lui non posso fare a meno di pensare costantemente. Michael Allbee. Sono sicuro che è ancora vivo e ora mi chiedo se abbia lavorato anche alla vecchia casa Sayre all'epoca in cui viveva ad Hampstead. Se davvero era una specie di carpentiere indipendente, non è da escludere. Forse la fortuna ci ha veramente baciati in fronte e a poco a poco le nostre preoccupazioni e le nostre difficoltà scompariranno. Forse smetterò anche di sognare di Billy Bentley. Dopo tutte queste notizie liete, preferirei non menzionare il sogno che ho fatto la notte scorsa, ma giusto per aver qualcosa di cui sorridere fra qualche anno, lo descriverò: mi trovavo in un soggiorno di una casa a me sconosciuta. Era una stanza spoglia. Aspettavo qualcosa. Fuori c'era un violento temporale. Dalla finestra vidi una persona sul prato e guardando meglio mi accorsi che si trattava di Billy Bentley. In quel preciso istante lui si voltò a guardare verso di me. Mi fece paura. Non saprei come altrimenti descrivere la sensazione che provai di fronte al suo ghigno feroce. La pioggia gli aveva appiccicato i lunghi capelli al cranio. Mi parve la personificazione della cattiva sorte, della sventura imminente. Il cielo tuonava e un fulmine andò a scaricarsi nel terreno accanto a lui. Billy sapeva che io volevo tenerlo lontano dalla casa e in effetti ciò mi parve all'improvviso di importanza vitale. Era necessario che lo lasciassi là fuori, nella tempesta. Preso dall'agitazione cominciai ad aggirarmi per quella stanza vuota e, quando mi svegliai, a stento riuscii a dominare il desiderio di scendere a vedere se avevo chiuso a chiave. Ma adesso basta. Appena sistemata la faccenda andrò a Rhode Island a cercare un costruttore per il lavoro che mi è stato commissionato laggiù. Ho un paio di idee... 6 La Telpro aveva concesso a Leo Friedgood una settimana di di libertà e lui ne aveva chiesta una seconda promettendo di ripresentarsi in ufficio lunedì, 2 giugno. Costretto alla fine ad ammettere di essere stato al corrente delle numero-
se relazioni extraconiugali della moglie, si era sentito decisamente umiliato. Gli agenti, all'inizio molto comprensivi con lui, gli avevano poi chiaramente manifestato il loro disprezzo. Un poliziotto, che gli altri chiamavano Tartaruga, a un certo punto, verso il terzo o il quarto giorno di interrogatori, aveva fatto schioccare le labbra con aria eloquente. Quello zoticone, esprimeva un'opinione condivisa da colleghi e altri funzionari e ciò angustiava profondamente Leo. Lui si considerava uomo di successo, mentre loro non lo erano (dal punto di vista di Leo nessun poliziotto poteva essere un uomo di successo). In tasse sulla proprietà e rate di mutuo lui pagava più di quanto loro guadagnassero in un anno. Il suo ruolo nella società era certamente più importante del loro. L'orologio che portava al polso valeva un terzo del loro salario, l'automobile che guidava almeno tre quarti. Ma tutto questo, che contava molto per Leo, sembrava privo di valore per gli agenti che lo interrogavano. Così la consapevolezza del loro disprezzo insieme con il sincero dolore per la perdita di Stony lo spingevano a restare a casa, incapace di rimettersi a lavorare. Per la prima volta in vita sua Leo cominciò a bere ogni sera. Si scaldava qualche surgelato o carbonizzava hamburger alla griglia e saccheggiava la cantina sprecando ottimi vini per quelle immangiabili vivande. E prima di cena aveva già scolato numerosi bicchieri di whisky. Con un goulash gommoso e troppo salato in un vassoietto di carta d'alluminio tracannava una bottiglia di Brane-Cantenac del 1972 mentre il televisore trasmetteva soporifere idiozie. Una buona metà di queste cene finiva di solito nella spazzatura, quindi Leo si buttava sul whisky di malto o il cognac fino a perdere i sensi. Un giorno trovò un liquore israeliano a base di cioccolato e in due serate scolò la bottiglia. Non riusciva a piangere, come se lo spettacolo del corpo mutilato di Stony nel loro letto gli avesse inaridito per sempre gli occhi. Talvolta metteva un disco e girava per il soggiorno strascicando i piedi in un ballo solitario, gli occhi chiusi, il bicchiere fra le dita, fingendo di essere uno sconosciuto che ballava con sua moglie. Ma a tuo marito non dà fastidio che tu ti comporti così? Fastidio? Lui ci prova gusto. Dormiva nella stanza degli ospiti. Se riusciva a raggiungere il letto prima di stramazzare privo di sensi, si portava dietro un bicchiere. Due volte, risvegliandosi la mattina, fu assalito da un orribile odore, odore di morte, che esalava da un bicchiere ancora mezzo pieno e perfettamente in bilico sul suo petto.
C'era una larga macchia, ancora umida, sulla giacca a vento beige che puzzava di distilleria e camposanto. La televisione era ancora accesa. «Oh, Cristo», mormorò. Testa, bocca, stomaco, era tutto sottosopra. Era atteso alla centrale di polizia fra tre ore. Probabilmente si sarebbe trovato di nuovo faccia a faccia con la smorfia di disgusto di Tartaruga Turk. Si alzò alla svelta dal letto, spense il televisore e andò in bagno. Vomitò, sentendosi bruciare lo stomaco. Si infilò sotto un getto d'acqua bollente. A tentoni trovò il sapone. Si ricoprì di schiuma il petto, il ventre, i testicoli. L'olezzo della notte passata scivolò verso lo scarico. Si insaponò di nuovo, più abbondantemente, cominciando a sentirsi più o meno come nei giorni precedenti. Si abbandonò sotto il getto della doccia. Per un istante dimenticò Tartaruga Turk, Stony, il generale Haugejas, la Woodville Solvent, il DRG. Quando chiuse il rubinetto della doccia si accorse delle macchie sulle mani. Le guardò senza capire, ricordando solo vagamente che l'apparizione di macchie bianche sulle mani significava qualcosa di importante. Poi rammentò quello che era successo al corpo di Tom Gay. «Ehi», esclamò afferrando un asciugamano. Si deterse rapidamente, goffamente, tentando di tenere sempre le mani in vista. Blue jeans, polo, scarpe da barca. Si leccò le macchie ed ebbe una sensazione di viscido. Si sfregò il dorso delle mani sui jeans. Ora alcune delle macchie erano rosate, come minuscole bocche. Con orrore vide ricomparire lentamente il bianco. «Oh, mio Dio», mormorò. Era come se la sua mente fosse rimasta congelata dal contatto di un filo di ghiaccio che gli saliva dal ventre. Il panico gli richiamò alla memoria l'immagine di un'automobile in fiamme, incastrata sotto un autocarro, e poi quella dei tre cadaveri nella cabina di vetro. «Oh, Dio! Oh, Dio!» Il telefono squillò quattro volte alle sue spalle, poi tacque. Leo continuò a osservare il dorso delle mani, posate sulla giacca spiegazzata. Quante macchie c'erano? Dieci in tutto? Sulla sinistra formavano un ovale irregolare dalla base del pollice alla base del mignolo; sulla destra si aprivano a ventaglio verso il polso. Ne toccò una con l'indice sollevando una piccola quantità di materia viscida. Rabbrividì. Stava per cadere in preda al panico e si mise a passeggiare per la camera da letto, tenendo le mani davanti a sé. Sul cassettone c'era una manciata di monete, scatolette di fiammiferi, stecche per colletti di camicia, cinture arrotolate, un paio di giarrettiere, un temperino svizzero regalatogli da Stony anni addietro. Prese il coltello e si
sedette sul letto. Tirò fuori la lama più piccola, con la quale grattò una delle macchie. La materia bianca si accumulò sulla lama e all'istante sulla mano ne apparve dell'altra. Grattò di nuovo e ottenne lo stesso risultato. Quasi freneticamente si infilò la punta della piccola lama nelle carni, incidendo la macchia che aveva alla base del mignolo. Rigirò la lama. Sentì una fitta di dolore tollerabile: una goccia di sangue riempì la minuscola cavità. Si tamponò con un lembo di fazzoletto e vide che l'emorragia era già finita. Al centro della ferita rossa c'era un puntino bianco. Corse in bagno a esaminarsi la faccia allo specchio. Ragnatele di rughe e borse scure sotto gli occhi, ma nessuna macchia bianca. Si strappò di dosso la camicia e si tirò giù i jeans. C'era una macchiolina appena sopra l'osso della spalla sinistra; un'altra spiccava sul braccio sinistro. Erano le muche. Con perfetta chiarezza Leo vide l'ammasso bianco che era stato la testa di Tom Gay scivolare sul pavimento verso lo scarico. Ma quello era accaduto istantaneamente. Forse quelle poche macchie che aveva sul corpo non avevano niente a che vedere con il destino toccato a Tom Gay. Un'infezione? Provò a spremere quella che aveva sul braccio sinistro. Una traccia di sangue apparve nel biancore, ma l'effetto non lo illuminò. Nudo, Leo tornò in camera da letto e prese i fiammiferi dal cassettone. Si sedette alla scrivania, accese un fiammifero e avvicinò la fiamma a una delle macchie della mano sinistra. Rabbrividì per il dolore. «Le brucio via tutte», disse a se stesso. Accese un altro fiammifero e avvicinò la fiammella a tre altre macchie. Cominciò a sudare mentre con un altro fiammifero bruciava l'ultima macchia della mano sinistra. Avvertì odore di carne bruciata. Adesso sentiva un dolore lancinante alla mano. Con una smorfia tornò in bagno e mise la mano sotto l'acqua fredda. Quando il dolore si fu attenuato avvolse la mano ferita in un asciugamano e si sedette sul bordo della vasca. Porcellana fredda sotto le natiche. Chiuse gli occhi. La testa gli ruotava. Sentiva in bocca sapore di bile e il residuo acido del whisky bevuto. Gli sembrò che il pavimento girasse, come la sua testa. Più tardi si fece coraggio e tolse l'asciugamano. Il dorso della mano sinistra gli apparve mostruoso ed estraneo. Numerose vesciche spiccavano sulla carne annerita o arrossata e da ciascuna colava un fluido trasparente. Leo chiuse di nuovo gli occhi. Non aveva visto niente di bianco. Dopo qualche istante si alzò per bendarsi la mano e tornare ai fiammiferi.
7 Dal diario di Richard Allbee: Abbiamo ottenuto il mutuo dalla banca a un tasso che, dati i tempi, si può considerare quasi ragionevole. Abbiamo telefonato a Ronnie, che si è congratulata con noi, e abbiamo celebrato stappando una bottiglia di champagne. Dunque è fatta: siamo nella terra dei nostri avi. Purtroppo non sono riuscito a liberarmi dell'ossessione di C'è papà. Adesso ho capito perché mi succede: perché sono tornato nel luogo in cui viveva Michael Allbee e ho riportato alla luce tante cose su di lui che erano seppellite dentro di me, senza che io ne fossi consapevole. C'è papà. Qui. Non può essere che così. Questo non mi libera però da quegli incubi con Carter Oldfield che assale la porta con un'ascia e il povero Billy fuori nella pioggia. Billy a letto con Laura. Billy che viene verso la finestra con l'intenzione di entrare. Il tema è sempre quello: caos, violenza, disordine di fuori e io che devo in ogni modo impedire loro di entrare in casa. Forse è per Laura che mi preoccupo, non per me. Aspettare un bambino in un luogo sconosciuto... può farti sentire a disagio. Ma non sogno Laura in pericolo. A meno che Laura sia la casa dei miei sogni... ma non saprei. È un corso di pensieri che non mi porta da nessuna parte. Comunque ho notato che ultimamente è spesso sull'orlo delle lacrime, quando parliamo dice che ha nostalgia di Londra e dei posti che frequentavamo quando eravamo laggiù. Ecco, non avrei voluto scrivere di lei in questi termini, ma ormai l'ho fatto. L'altro giorno ci siamo recati in uno dei grandi magazzini di Post Road. Eravamo carichi di pacchi e pacchetti e stavamo raggiungendo la nostra automobile. Ho casualmente girato gli occhi verso un piccolo bar e Laura mi ha chiesto: «Che cosa c'è?» Non le ho risposto. Non le ho detto che per un secondo, guardando attraverso il vetro, avevo visto Carter Oldfield, Ruth Branden e Billy seduti a uno dei tavolini in fondo. Li avevo visti perfettamente. Sarei stato in grado di descrivere come erano vestiti. Billy aveva quei suoi abiti da barbone, un berretto di tweed in testa e... mi guardava. E la sua espressione era... di trionfo. Puro e semplice trionfo. Appena ebbi scrollato la testa i tre si trasformarono in ciò che in realtà erano: tre adolescenti. Uno di loro mi stava fissando, ma devo ammettere che anch'io stavo fissando lui, con un'espressione certamente un po' strana. Così ci siamo scambiati un'occhiata e io ho avuto la certezza che quel ra-
gazzo, un tipo smilzo con i capelli biondi, mi conosceva, o almeno credeva di conoscermi. Gliel'ho letto in faccia. Ma ho visto anche che era spaventato. Poi uno degli altri due, quello con addosso la tuta, gli diede una forchettata alla mano, così lui distolse gli occhi dai miei. Spero di non sognare stanotte. 8 Dal diario di Richard Allbee: Belle giornate, nottate terribili. Il mio inconscio non è riuscito a liberarsi da quegli incubi assurdi su Carter Oldfield e Billy Bentley. Evidentemente sono ancora preoccupato per gli effetti di questo trasferimento e per il retaggio di Michael Allbee, il quale probabilmente non si diede mai pensiero per problemi di questo genere. Ho conosciuto la famosa Sarah Spry, incontrata dal droghiere. Mi ha detto: «Allbee. Richard Allbee. Tale e quale. Avevo intenzione di chiamarla. Spero che abbia visto il suo nome nella mia rubrica». È sulla cinquantina, piccolina ed energica, con un paio di occhialoni e capelli più rossi di quelli di Laura. Sapeva che stavamo acquistando la casa di Sayre. «John Sayre si uccise, lo sa?» Poi ha aggiunto: «Gran brava persona. Si capisce che la povera Bonnie abbia cominciato a dare i numeri dopo la sua morte. Quando vorrà concedermi un'intervista? Spero non appena sarete nella casa nuova». Non è tipo da accettare scuse, così sarò intervistato il giorno del trasloco. Mezz'ora, mi ha promesso, soprattutto perché non esiste al mondo persona tanto interessante da meritare più di trenta minuti del suo tempo. Quello che non mi ha confessato è che a lei basta mezz'ora per spremere chiunque. Ma spero che l'intervista serva a procurarmi lavoro. Per domenica sera siamo invitati in una casa molto vicino a quella in cui andiamo ad abitare. Ha organizzato tutto Ronnie Riggley. I nostri ospiti si chiamano McCallum o McClaren, non ricordo. Anche loro hanno comperato tramite Ronnie. Finalmente potremo conoscere Bobo. Adesso due piccoli incidenti. Ieri notte la nostra cassetta per le lettere, in Fairytale Lane, è stata ridotta in poltiglia. Abbiamo sentito il rumore verso le dieci e ci siamo alquanto spaventati. Sono corso fuori e ho visto una macchina nera allontanarsi. Oltre alla cassetta i vandali hanno anche rotto una mezza dozzina di picchetti dello steccato, spaccati proprio a metà. Devono avere usato una mazza da baseball o qualcosa del genere. È strano come anche un atto di violenza di poco conto come questo possa farti star
male. Se non altro perché implica la minaccia di doverne subire altri in futuro. Comunque dovrò riparare lo steccato e comperare una cassetta nuova. Ho lasciato la notizia peggiore per ultima. C'è stato un altro omicidio. Ieri, venerdì 13. Anche questa volta una donna è stato uccisa in casa sua. Ronnie conosceva tutti i particolari, decisamente cruenti. Pare non si siano trovati segni di scasso. La vittima era in cucina, più o meno sventrata. Si chiamava Hester Goodall, quarant'anni suonati, molto occupata in iniziative parrocchiali. Questa volta non ci sono sospetti di abitudini equivoche. I figli erano a scuola e il marito era fuori città. I Goodall vivono vicino al Country Club e Sawtell Beach, secondo quello che ci ha detto Ronnie. Chiunque sia stato, spero lo catturino al più presto. 9 Da Mount Avenue gli Allbee svoltarono nella Beach Trail, superarono Cannon Road, contemplarono con orgoglio la loro nuova casa, girarono in Charleston Road e trovarono il numero tre esattamente dove Ronnie aveva detto che era: una palazzina di due piani con rivestimento di assi color marrone e un praticello accanto a una vecchia recinzione. La macchina di Ronnie era già lì. Una magnolia che sporgeva sul vialetto aveva lasciato cadere un tappeto di petali rosa su erba e asfalto che Richard e Laura calpestavano smontando dalla loro auto. «Ronnie ti ha raccontato niente dei McCallister?» «Si chiamano McCloud», lo corresse Laura. «Patsy e Les McCloud. Ronnie ha venduto loro questa casa e dice che sono 'molto simpatici'. Possiamo solo sperare che abbia ragione. Mi pare di aver capito che Les McCloud è un dirigente e che con sua moglie si è trasferito spesso da una città all'altra.» «Tipico di quelli della contea di Patchin», osservò Richard mentre suonava il campanello. Venne un gigante ad aprire la porta. Ampio e smagliante sorriso, baffi ispidi e folti capelli ricciuti: dimostrava non più di venticinque anni. «Eccovi», li salutò. «Accomodatevi, accomodatevi.» «Signor McCloud?» Il gigante rise afferrando la mano di Richard. «Ma no. Io sono Bobo Farnsworth, il poliziotto del quartiere. Les è in cucina e Patsy e la mia ragazza sono di là.» Ci fece passare in un angusto vestibolo. «Tu devi essere Richard, il divo della televisione. E se ricordo bene tu sei Laura.» Richard
concluse che quell'uomo era il tipo adatto per Ronnie Riggley. «Se tu sei il poliziotto di quartiere, mi sento già più tranquillo», scherzò Richard. Bobo rise di nuovo invitandoli verso le scale. «Prendo delle pillole per crescere.» Richard fu il primo a entrare in soggiorno: lungo divano a strisce porpora e blu, scintillante tavolino nero e moquette azzurro intenso. Da dietro una porta una voce gridò: «È Dick Allbee? Arrivo subito!» Entrò un uomo di una spanna più basso di Bobo Farnsworth, che gli porse una mano bagnata. Aveva capelli color sabbia tagliati a spazzola e una faccia rotonda di quelle che sembrano sempre abbronzate. «Patsy!» urlò. «C'è Dick Allbee!» La mano fredda e umida si chiuse e Les McCloud avvicinò il naso a tre dita dalla faccia di Richard, che avvertì un forte odore di alcool e giudicò un po' eccessivo il cameratismo del suo ospite. «Quel tuo teleromanzo era uno schianto! Come mi è piaciuto! Patsy!» gridò Les voltandosi indietro. «Provo molto rispetto per quello che riuscite a fare voi, sai? Io sono Les McCloud, benvenuti, benvenuti. Già conosciuto lo sbirro? Bene bene. E questa deve essere la tua frau. Piacere di conoscerti, Laura. Splendido. Patsy arriverà a momenti, così potrete parlare da donna a donna. Ehi, Dick, come sei in tiro!» Les era molto informale, con un semplice pullover rosa su pantaloni sportivi. «Togliti la cravatta, Dick. O ti chiamano forse Dickie?» «Richard.» «Uno vale l'altro.» Finalmente McCloud lasciò la mano di Richard. «Stavo appunto mettendo cubetti di ghiaccio nei bicchieri. Che cosa ti va? E tu, Laura? Io preparo i migliori martini di tutto il Connecticut.» «Per me niente», rispose Laura e «solo una birra» fu quanto ottenne da Richard. «In quel niente ci vuoi un'oliva o una scorza di limone? Lavori anche tu in teatro. Laura?» «No, io...» «Due astemi questa sera. Che cosa fate per eliminare le scorie? Barchetta o racchetta?» Guardava ancora Richard con una cordialità così aggressiva da sembrare ostilità. «Né una né l'altra», rispose Richard. «Non abbiamo una barca e da molto non giochiamo più a tennis.» «Che sollievo», esclamò Patsy McCloud e gli Allbee si voltarono verso
di lei. Accanto all'esuberante e matronale Ronnie Riggley appariva fragile, con le spalle magre nude, enormi occhi castani, i capelli lisci e alquanto disordinati. I suoi lineamenti erano regolari e delicati. Pieghe quasi invisibili le apparivano agli angoli della bocca quando sorrideva. Il suo sorriso metteva in mostra piccoli denti bianchi lievemente irregolari. «Adesso siate così gentili da dirmi che non siete dei patiti del jogging. Io sono Patsy McCloud. Benvenuti, Richard e Laura.» La sua stretta di mano fu rapida e aggraziata. «Io non corro e Laura non può», rispose Richard. «Andiamo, chi non può correre?» intervenne Les. «Una donna incinta», ribatté Patsy. «Almeno, credo non sia opportuno. Avete altri figli?» L'intuito di Patsy mise Laura a proprio agio. «No, questo è il primo.» Les si ritirò in cucina e Ronnie salutò gli Allbee baciandoli. «Sono così contenta che vi trasferiate qui.» «Grazie.» «Voi è da molto che abitate qui?» domandò Richard. «Da due anni. Prima siamo stati a Los Angeles per un anno e prima ancora in Inghilterra. Les ha avuto molto successo.» Quell'ultima osservazione suonò ambigua alle orecchie di Richard, come se Patsy volesse prendere le distanze dai viaggi e dalla carriera del marito. «Abitavamo a Belgravia», continuò Patsy. «Les detestava quel posto. Non vedeva l'ora di tornare qui. Detestava in generale tutta l'Inghilterra e io non ero in grado di discutere con lui.» Strinse le dita affusolate attorno al vetro spesso del bicchiere che aveva in mano. «Avevo appena abortito.» Persino Bobo Farnsworth parve momentaneamente disorientato. Les ritornò con la birra per Richard e subito disse: «Che mortorio. Scommetto che Patsy ha detto qualcosa. Mia moglie ha una dote speciale per distruggere l'allegria di una comitiva. Hai forse raccontato qualcosa di triste ai nostri cari amici, bambina?» Il suo viso era eccessivamente colorito e Richard si rese finalmente conto che quell'uomo era già ubriaco. La serata sarebbe stata una tortura. «Allora fallo adesso, tesoro, che cosa ne dici?» Patsy annuì distrattamente. Les McCloud si voltò e rivolse un sorriso feroce a Richard. «Ehi, Dick, sii gentile, ripeti quella tua battuta: Ehi, mamma, voglio un piatto intero di biscotti.» «Ehi, mamma, voglio un piatto intero di biscotti», disse Richard ringraziando mentalmente Ronnie Riggley, che rise.
«Presto fatto», esclamò Les correndo in cucina. Tornò con una terrina piena di biscotti. «Coraggio, prendine uno. Li ho comperati per te.» «Oh, no», gemette Bobo Farnsworth. Richard dovette accettarne uno e lo fece scivolare nella tasca. Chiaramente seccata Patsy McCloud domandò: «Avete voglia di subire il solito giro della casa?» La serata si trascinò così, fra fettuccine scotte e braciole d'agnello crude. Les McCloud bevve costantemente e Bobo Farnsworth riuscì quasi a salvare la situazione con il suo incrollabile buon umore, bevendo coca cola, mangiando a dismisura e raccontando episodi divertenti sulla polizia. Poi Patsy McCloud fece una smorfia quando Les, per non essere da meno, raccontò una barzelletta oscena. «Va bene, va bene, non vi piacciono le barzellette», commentò Les. «E a me non piace come lavora la polizia. Perché non beccate quel tizio che va in giro ad ammazzare le donne? Non è per questo che siete pagati? Invece di essere qui a tavola, dovresti essere fuori a dare la caccia ai delinquenti.» «E ce ne sono anche parecchi, qui in giro, Les», replicò Bobo. «Ci stiamo lavorando.» «Ehi, perché non andiamo fuori in barca il prossimo fine settimana?» propose Les. «Ci troveremo bene insieme. Andiamo a fare un giro e mia moglie potrà fare il suo trucchetto.» Patsy abbassò gli occhi sul piatto. «Non vi vuole dire che cos'è. Neanche a me lo lascia dire.» «Io non faccio trucchi», replicò Patsy visibilmente imbarazzata. «Il suo trucco è che è un'indovina», insisté Les sorridendo come se avesse detto qualcosa di divertente. «Dick, tu e Patsy avete qualcosa in comune. Ronnie non ha per caso detto che la tua famiglia è una di quelle che ha fondato questa comunità? Bene, anche la famiglia di Patsy. Lei è una Tayler. Sono venuti a stare qui quando non esisteva ancora un mercato immobiliare. Ma non è per questo che è veggente. Sentite. Quando eravamo all'università Patsy riusciva a predire esattamente il voto che avrei preso agli esami! E un paio di volte ha indovinato anche il punteggio di partite di football.» Erano tutti immobili al loro posto. «C'è stato nessuno nelle vostre famiglie capace di trucchetti del genere? Tu lo sai fare, Dick?» Lo sconcerto di Patsy McCloud si stava trasformando in disperazione. Era impallidita, smarrita. I suoi enormi occhi castani lanciarono una supplica a Richard. Lui temette che stesse per svenire o per lanciare un grido d'angoscia... era come se suo marito l'avesse picchiata.
A un tratto Richard capì che era proprio così. Les l'aveva picchiata. Quello era il vero significato della scena. Les McCloud picchiava sua moglie e la povera Patsy glielo lasciava fare. Poi ebbe un altro pensiero, anzi, un'immagine. Il viso disperato di Patsy gli richiamò alla memoria quello di un ragazzo adolescente che lo guardava attraverso la vetrina di un locale di Post Road. «Chi tace acconsente. Un altro indovino fra i nostri yankee», esclamò allegramente Les McCloud. Doveva correre immediatamente ai ripari e così Richard si affrettò a negare. «Non proprio», disse. «Niente del genere, no.» «Che cosa, allora?» «Allora devi farti vedere dallo strizzacervelli di Patsy», gli consigliò Les. «Il buon vecchio dottor Lauterbach. Oppure andare a prendere aria fresca sul campo da golf. Giochi a golf, vero?» «Vogliate scusarmi, ma sono molto stanca», intervenne Patsy. Le sue dita affusolate tremavano vistosamente. I suoi occhi incontrarono solo quelli di Richard che anche questa volta vi lesse una muta supplica. Non giudicateci da questo. Non siamo sempre così. «Vi prego di restare. Non voglio guastare la festa.» Rivolse un breve sorriso a tutti e se ne andò. Les si mosse, come se volesse fermarla, ma Bobo intercettò la sua mano. «Devo scappare anch'io, Les. Ho il turno di notte.» Così furono tutti in piedi, a scambiarsi falsi sorrisi come quello di Patsy, cercando di avviarsi verso le scale senza dare troppo nell'occhio. «Ci rivediamo, eh? Forse non avrei dovuto... Be', in vino veritas, mi capite. Venite pure quando volete. E andremo a fare una bella gita in barca.» «Senz'altro», rispose Richard. «Appena avremo sistemato la nostra casa. Mi aspettano parecchi fine settimana di lavoro.» Finalmente furono al di là della soglia. Nessuno parlò finché non furono alle automobili. Ronnie bisbigliò: «Dio mio, non so come farmi perdonare di avervi cacciati in questo guaio. Mi erano sempre sembrati così simpatici. Non so che cosa gli sia preso. È stato terribile». «Che cosa ne dite di rivederci noi quattro», chiese Bobo. «Diavolo, non avevo mai capito quell'individuo. Non sapevo che fosse un sadico.» «Sì», rispose Richard. «Sì, vediamoci ancora. È un vero sadico. Quella povera donna...» «Non ha che da andarsene», brontolò Laura. «Andiamo a casa, per piacere.» Ronnie partì prima di loro e Laura si strinse a Richard sul sedile anterio-
re della loro automobile. «Non lo sopporto, non lo sopporto», gemette, «quell'uomo, quel grasso carnivoro. E questa è la gente con la quale dovremo vivere? Richard, che orrore! Non lo sopporto.» «Nemmeno io.» «Voglio fare l'amore. Torniamo al più presto possibile a quel nostro terribile letto.» 10 Così, in quella dolce serata di Hampstead nel Connecticut, almeno due coppie si rilassarono nel migliore dei modi. Mentre il ventottenne Bobo Farnsworth faceva una doccia prima di recarsi al lavoro, Ronnie Riggley si toglieva i vestiti per fargli compagnia sotto il getto di acqua calda. Ridacchiava e Bobo salutò il suo arrivo con una allegra risata. Più tardi Bobo andò a lavorare, felice e soddisfatto. Nella camera da letto di Fairytale Lane gli Allbee si spogliarono insieme, ma sui lati opposti del letto, come fanno le persone sposate. «La picchia, vero?» «Credo di sì.» «Le ho visto un livido sul braccio quando le è scivolata la spallina. La picchia sulle braccia così nessuno se ne accorge.» «Chissà, forse a lei piace», commentò Richard e subito si sentì un traditore. Nel dirlo, già sapeva che era falso, crudelmente falso. Laura era immobile come un totem tribale, i capelli sciolti sulla schiena, i seni turgidi, il ventre morbido e prominente sotto la pelle tesa in un reticolo di venuzze azzurre. Richard non aveva mai immaginato che una donna incinta potesse diventare così sessualmente attraente. Raggiunto il suo scopo, la Natura ricompensava i suoi servitori con la propria moneta. Ma il viso di Laura era quasi teso come quello di Patsy McCloud. Quando furono sul letto lei gli si aggrappò al collo con tanta forza da fargli male. «Non voglio perderti, Richard.» «Non mi perderai, se non mi soffochi», replicò lui ridendo. «Devi proprio andare a Providence?» «Solo per un paio di giorni. Vuoi venire anche tu?» «Per stare poi seduta in una camera d'albergo mentre tu parli di malta e mattoni con qualche costruttore?» «Lo devo fare.»
«Resterò qui. Ma mi mancherai.» «Oh, mio Dio», mugolò lui sentendosi in quel momento incapace di separarsi da sua moglie per più di un minuto. Le baciò un capezzolo, solleticandolo con la lingua; le leccò il lato inferiore di un seno. Trovò una dolcezza deliziosa sulla sua pelle. «Sai che odio questo posto, vero? Lo detesto. Ma amo te, Richard. Non ti voglio perdere e quell'uomo... Che posto orribile è questo! Voglio riavere i miei amici.» Fremente, lui la tenne fra le braccia. Il corpo di Laura era una fornace, una stufa accesa. «Adoro stare a letto con te», mormorò lei. Le dita di Richard scivolarono dolcemente sul ventre di Laura. «Scusami, piccolo», mormorò. Lui riusciva ancora a penetrarla, adagiato con lei sul fianco, faccia a faccia, in un tenero abbraccio. Gemettero insieme, soddisfatti, mentre il letto ondeggiava pericolosamente. «Quanto sei gentile! Hai persino detto che saresti andato fuori con lui in barca.» «Preferisco stare qui, nella tua barca.» Silenzio per qualche minuto. Piacere intenso, profondo: un piacere così forte da sfiorare la soglia del dolore. «Smetti di avere quegli incubi», gli sussurrò Laura all'orecchio. «Non smettere questo, smetti solo di avere gli incubi. Mi fanno paura.» Alcune ore più tardi Richard si svegliò. Si sentiva pulito e rinfrescato nello spirito. Con cautela ritirò il braccio da sotto la spalla di Laura, le baciò la schiena e percepì sapore di sale e chiodi di garofano. Sprofondò serenamente nel sonno. Niente incubi: mai più quei brutti incubi. Non di notte. 11 Graham Il mio diario personale mi rammenta che avevo giudicato quella domenica sera pacifica, persino noiosa. Avevo buttato giù qualche pagina e dopo un sonnellino mi ero reso conto di non avere centrato il problema, cioè rappresentare l'incontro fra una donna e il suo futuro amante mettendo in rilievo sotterranee correnti erotiche. Correnti di altro genere, tutt'altro che erotiche, attraversavano Hampstead. I bar erano aperti fino all'una. Tabby Smithfield era in giro con i suoi
nuovi amici. Bobo Farnsworth pattugliava allegramente le strade, deciso a fare un bel gesto. Gary Starbuck aveva già rubato in una casa di Redcoat Lane e si accingeva a visitarne un'altra. Il dottor Wren Van Horne, mio vecchio amico, era rimasto sveglio fino a tarda ora nella sua residenza e valutava l'opportunità di acquistare uno specchio per riempire una parete del soggiorno. Charlie Antolini sorrideva beatamente alle stelle dalla sua amaca, mentre la moglie piangeva in camera da letto. Quella notte dal cielo cominciarono a piombare uccelli morti. Nella mia immaginazione spettrali mercenari tedeschi scendevano lungo Mount Avenue, disabitata e deserta. Fra loro c'era un uomo al quale la mia mente attribuì la faccia piatta e irsuta di Bates Krell, il pescatore di aragoste che, così si diceva, se l'era svignata. In realtà non se l'era svignata. Ero stato io a ucciderlo con una spada. E Joe Kletzka, capo della polizia a quei tempi, lo sapeva. Non aveva creduto a una sola parola di quel che gli avevo raccontato, non coscientemente almeno, ma aveva certamente creduto che Bates Krell fosse responsabile della scomparsa di quattro donne e aveva visto le macchie di sangue sul peschereccio quando io gliele avevo mostrate. Presto un'altra persona avrebbe saputo di me e di Bates Krell. Tabby Smithfield. Lo avrebbe saputo perché lo vide, così come io ora vedo Greenbank messa a ferro e fuoco dagli uomini del generale Tryon. Mentalmente. Tabby lo vide la prima volta che mi incontrò, sul tardi di quella domenica. In parole povere mi riconobbe e questo ce la fece fare addosso dalla fifa a tutti e due. Svegliatevi, svegliatevi, addormentati. Addormentati. Non parlo di Tabby, anche se sarei pronto ancora adesso a mollargli un ceffone per aver tenuto la bocca chiusa sui fratelli Norman. CINQUE Gli Smithfield e i McCloud 1 Skippy Peters aveva dato i numeri, ecco il problema, anche se, in effetti, bisogna ammettere che era sempre stato un po' svitato. In prima media si era depilato le sopracciglia disegnandosene di nuove con il lucido da scarpe: aveva persino parlato per telefono con Dicky e Bruce Norman, i gemelli di quella nutrita e irregolare famiglia che abitava al parcheggio delle case mobili gestito dal signor Norman, e aveva cercato di persuaderli a fare lo stesso. Il giorno dopo i gemelli Norman (che non avevano accolto il
suggerimento di Skippy) si erano presentati a scuola con le sopracciglia intatte e si erano spanciati dal gran ridere quando l'insegnante aveva rispedito Skippy a casa. Quando frequentava la scuola media accanto alla J. S. Mill, Skippy Peters era stato sorpreso a masturbarsi nel locale delle docce dall'insegnante di ginnastica, che era andato a controllare perché ci impiegasse tanto. Era stato sospeso per due settimane. Il primo giorno di scuola alle superiori si era esibito subito crollando a terra nell'angolo del parcheggio dove gli studenti più grandi andavano a fumare, l''angolo del cancro', e fingendo di avere la bava alla bocca. Una volta aveva cercato di farsi tatuare al fondo schiena lo stemma dei marines, ma era stato buttato fuori a calci dalla bottega. I gemelli Norman apprezzavano Skippy soprattutto per la sua disponibilità a fare tutto quello che loro suggerivano. A quindici anni, sempre al J. S. Mill, i gemelli pesavano più di un quintale ciascuno e portavano lunghi capelli neri sciolti sulle spalle. Avevano facce rotonde con guance gonfie e giallicce. Se non fosse stato per gli occhi dall'espressione furba, sarebbero sembrati due ritardati. Avevano comunque una faccia da delinquenti nati. Fin dalla più tenera infanzia i gemelli erano stati incolpati, quasi sempre giustamente, di ogni grana verificatasi nelle vicinanze. Abitavano da soli in un carrozzone abbandonato in fondo a un vialetto invaso dalle erbacce, a una certa distanza dal caravan nel quale i genitori e quattro sorelle conducevano la loro vita chiassosa ed equivoca. Qualche volta andavano a pranzo nel caravan dei genitori. Più spesso al Burger King o al Wendy. La sera uscivano a bordo della vecchia Oldsmobile nera da loro stessi restaurata e si fermavano a costringere gli studenti del college a comprare birra per loro conto. Tutti i baristi e i buttafuori li conoscevano e non li avrebbero mai fatti entrare. Dall'abitacolo della loro automobile sogghignavano al passaggio di Bobo Farnsworth o di qualche altro poliziotto, perché per loro tutti i poliziotti erano scemi, tranne Tartaruga Turk che una volta era riuscito a spaventare Bruce Norman sollevandolo da terra e minacciando di buttarlo giù dal ponte. I gemelli Norman detestavano Tartaruga Turk, Nessuno si fidava di Dicky e Bruce, che attiravano su di sé i sospetti come i pugili attirano i lividi, perciò tornava loro utile un tipo come Skip Peters. Figlio di genitori agiati, giramondo e lontani, Skippy era un emarginato che almeno sembrava normale. Così i gemelli gli presentavano una lista di articoli da rubare e con soddisfazione lo vedevano tornare dalle sue scorribande con il doppio di quello che gli avevano ordinato. Skippy Peters
sembrava così onesto e anche così nervoso che quando lo coglievano sul fatto i negozianti provavano pietà per lui e lo mandavano via con una ramanzina. Ma verso la fine di maggio l'eccentrico e volonteroso strumento dei gemelli Norman cominciò a dar segni di follia. Durante la lezione di geometria, un martedì, Skippy si alzò dal suo posto dell'ultima fila e si mise a gridare al professor Nord: «Scemo! Razza di imbecille! Stai sbagliando tutto!» L'insegnante si voltò, in preda al terrore e alla collera. «Siediti, Peters. Che cosa sto sbagliando?» «Il problema, sacco di segatura. Ma non ti accorgi che l'angolo è... è...» A questo punto scoppiò in singhiozzi. Il professor Nord gli diede il permesso di allontanarsi dall'aula. Il corridoio, fra una lezione e l'altra, Skippy aspettò i gemelli Norman. «Ehi», lo apostrofò Bruce, «ma che cosa ti succede?» Skippy era più pallido del solito e aveva gli occhi iniettati di sangue. «Che tu sei un maiale senza cervello, ecco che cosa mi succede. Fammi moltiplicare due numeri a caso.» «Che cosa?» «Avanti, scegli due numeri.» «Quattrocentosessantotto e tremilanovecentoquarantadue.» «Un milioneottocentoquarantaquattromilaottocentocinquantasei.» Brace lo colpì subito sotto l'orecchio e lo mandò a sbattere contro una fila di armadietti. Sicuramente i gemelli Norman si consultarono. Quando, il giorno dopo, Ji e Pete Peters tolsero Skippy dal J. S. Mill per inviarlo in una casa di cura provvista di campo da golf, palestra, piscina coperta e scoperta, i gemelli devono essersi a lungo scambiati opinioni sul ragazzo nuovo: Tabby Smithfield. L'avranno fatto sicuramente riempiendosi la bocca di cioccolatini, passandosi spinelli, scolando birra e guardando la televisione, valutandone la potenziale utilità. Avevano un piano. Il venerdì in cui Francis Leary, prete di Chicago in vacanza, entrava nella lussuosa cucina di sua sorella e, in preda allo choc e al terrore, lasciava cadere in un lago di sangue la pesante borsa piena di generi alimentari, Tabby Smithfield sobbalzò, colto alla sprovvista, quando un bicchiere di plastica di Pepsi Cola gli fu posato bruscamente davanti da una mano unta. «Ehi, ragazzo nuovo», disse una voce sopra di lui, «hai sete?» Tabby sollevò gli occhi e rimase senza parole. I due esseri più pericolosi della sua classe gli sorridevano con le loro facce mostruose. Posarono i lo-
ro vassoi sul tavolo e si sedettero al suo fianco. «Io sono Bruce e lui è Dicky», esordì uno dei due. «Coraggio, bevi, offriamo noi. Siamo quelli del comitato di benvenuto.» Mentre il prato di casa Goodall si riempiva di gente e Bobo Farnsworth tentava contemporaneamente di impedire a Tartaruga Turk di tirare un cazzotto a un agente e di accompagnare i due figli dei Goodall, in preda a una crisi isterica, in casa di uno dei vicini, Tabby Smithfield sedeva nell'ultima fila, nell'aula di storia. Dicky e Bruce Norman gli erano a fianco, come una coppia di enormi cani da guardia. «Raccontagli di Skippy e delle sopracciglia», bisbigliò Bruce a Dicky. Entrambi puzzavano di birra. Per Tabby era una reminiscenza. 2 I rapporti tra Clark e Monty Smithfield si erano andati rasserenando sul finire degli Anni Settanta. Grazie a Tabby. Sebbene Monty, dopo la scena all'aeroporto, avesse giurato a se stesso che avrebbe considerato suo figlio come morto, certamente non poteva fingere di non avere più un nipote. Sognava Tabby, molte volte andava a sedere nella stanza che era stata del nipotino a guardare i suoi giocattoli. Alla fine aveva cominciato a pentirsi della propria intransigenza: forse non avrebbe dovuto disprezzare la passione di Clark per il tennis; forse non avrebbe dovuto pretendere che il figlio lavorasse nella sua società; forse avrebbe dovuto lasciargli fare di testa sua. E forse l'errore più grave lo aveva commesso regalando metà della casa a Clark e Jean, con l'inevitabile conseguenza di venire troppo spesso ai. ferri corti con lui. Dopo un paio di mesi contattò alcuni vecchi amici e compagni di scuola di Clark, assicurando che non intendeva intromettersi nella vita del figlio e che l'unico suo desiderio era potergli mandare del denaro di tanto in tanto. Qualcuno ebbe pietà di lui e alla fine ebbe la gioia di poter spedire un assegno e gli auguri a Tabby per il suo compleanno. Due settimane dopo ricevette una lettera di ringraziamento scritta da Tabby. In occasione del compleanno di Clark, Monty inviò al loro indirizzo di Fort Lauderdale un assegno di mille dollari, ma la lettera gli fu restituita ancora sigillata. Così Monty prese l'abitudine di spedire un piccolo assegno a Tabby ogni mese e Tabby in cambio lo avvertiva ogni volta che traslocavano, il che avveniva di sovente. Per il suo ottavo compleanno mandò
al nonno una sua fotografia da Key West: un Tabby Smithfield abbronzato e a piedi scalzi in cima a un pontile. Capelli schiariti dal sole e sguardo perplesso. Poco dopo l'undicesimo compleanno di Tabby e relativa fotografia del festeggiato su una sedia di vimini, proveniente da Orlando, Monty ricevette una comunicazione quasi telegrafica da Clark che gli annunciava l'acquisizione di una nuova nuora. Si chiamava Sherri Stillwell Smithfield. Sherri e Clark erano sposati da un mese. Avendo ormai imparato la lezione, quasta volta Monty prese tempo. Scrisse una lettera di congratulazioni e accluse un assegno generoso, che non fu restituito. Due settimane dopo aver ricevuto conferma dell'incasso dalla sua banca, Monty comunicò finalmente per telefono con suo figlio. A Clark disse: «Voglio che tu sappia una cosa. Quando me ne andrò ti lascerò questa casa. Sarà tua. E se vorrai tornare qui per viverci con Tabby e tua moglie per me va benissimo». Durante tutti quegli anni, la vita di Tabby era stata più strana di quanto i gemelli Norman avrebbero mai sospettato. Con il padre aveva vissuto in camere ammobiliate, appartamenti olezzanti di birra sopra taverne di basso rango, alberghetti di infimo ordine dove i due cucinavano su uno scaldavivande e scacciavano gli scarafaggi dal tavolo; in un periodo più nero erano addirittura vissuti per una settimana nella vecchia automobile di Clark. Tabby aveva conosciuto molti ragazzi che promettevano di crescere proprio come i gemelli Norman: violenza, stupidità e astuzia non erano una novità per lui. Aveva visto suo padre precipitare pericolosamente nell'alcolismo e uscirne quasi del tutto; aveva visto suo padre finire per breve tempo in carcere per un ignoto reato; a dieci anni gli era capitato, per la prima volta, di concludere un anno scolastico nella medesima scuola in cui l'aveva cominciato. Una volta aveva visto suo padre rosso in viso e con l'aria trionfante: aveva sparso sul tavolo della cucina tremila dollari vinti giocando a tennis. Aveva visto morire due uomini, uno accoltellato in un bar dove Clark lavorava, l'altro ferito a morte con una pistolettata nel corso di una rissa in strada. E una volta, aprendo la porta del bagno senza prima bussare, aveva sorpreso un amico di suo padre, un travestito di Key West che si chiamava Poche o Poach, seduto sulla tazza a iniettarsi eroina nel braccio. A quattordici anni sapeva elencare a memoria dodici diversi indirizzi presso i quali aveva abitato con suo padre.
Poi era arrivata Sherri Stillwell e tutto era cambiato. Era una bionda dall'aria decisa, di origine cubana, cinque anni più giovane di Clark. Figlia di un texano, spesso lontano da casa per lunghi periodi, aveva aiutato la madre a crescere tre fratelli minori: le piacevano i bambini. Aveva conservato molto della mentalità texana e quando era andata a vivere con Clark aveva subito insistito perché Tabby stesse a casa con lei la sera a fare i compiti invece di scendere a bighellonare per le strade. Aveva cominciato a occuparsi della contabilità di Clark, buttando fuori di casa, senza tanti complimenti, personaggi dalla dubbia reputazione, come Poche, e si era fatta promettere da Clark che non le avrebbe mai mentito. «Tesoro, il mio primo marito mi ha rimpinzato tanto di bugie che credevo che nel cielo nuotassero i pesci. Mi è bastato una volta. Se fai lo scemo con altre donne, mi dici chi è e sistemo tutto io. Solo una cosa voglio, che tu sia sincero con me. Raccontami una bugia, una sola, e non mi vedi più.» Con quei capelli ossigenati e gli occhi neri Sherri non era certo il tipo di donna all'altezza della casa di Mount Avenue, ma Monty certamente avrebbe riconosciuto e apprezzato la sua buona fede. Grazie a lei Clark aveva un lavoro dignitoso come piazzista. All'epoca erano a Orlando e avevano cominciato a mettere da parte qualche soldo. Con l'assegno inviato loro come regalo di nozze da Monty avevano acquistato un'automobile nuova e alcuni mobili. Era stata proprio Sherri a convincere Clark a telefonare a suo padre. Durante quegli anni Tabby era riuscito a dimenticare, almeno in parte, le disavventure che avevano preceduto e accompagnato la sua partenza dal Connecticut. Pensava a sua madre, ma evitava di soffermarsi sull'immagine dell'interno della sua bara, quella che lo aveva improvvisamente assalito poco prima dei funerali. Le strane visioni che aveva avuto all'aeroporto, conseguenza di un momento di panico, erano molto più difficili da cancellare. Della sua vita nel Connecticut ricordava soprattutto certi particolari: la facciata della casa in cui abitava, il suo pony e i numerosi giocattoli meccanici, l'abbigliamento e l'aspetto di suo nonno. All'inizio dell'età puberale era stato colpito alla testa nel corso di una partita di baseball, a scuola. Rimasto tramortito, si era risvegliato sull'erba circondato da una folla di gente china su di lui e in quell'attimo aveva ricordato di avere visto un uomo che affondava un coltello nel corpo di una donna, una visione che aveva il sapore del dejà vu. Un insegnante inginocchiato accanto a lui ripeteva: «Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!» Li per lì non aveva riconosciuto né l'insegnante né i ragazzi che lo attorniavano. Due persone nude su un letto,
una delle quali si dibatteva immersa nel proprio sangue? Con la mente ottenebrata da una spaventosa emicrania aveva rivisto per intero la scena e di nuovo aveva avuto la sensazione di essere stato presente e di avere veduto tutto con i propri occhi. «Oh mio Dio», aveva esclamato nuovamente l'insegnante e all'improvviso Tabby aveva ricordato come si chiamava. Quell'inquietante visione era svanita. «Come ti senti?» gli aveva chiesto l'insegnante. «Mio padre ha detto che non esistono gli uomini cattivi», aveva risposto Tabby. 3 Solo in altre due occasioni, durante il soggiorno in Florida, Tabby Smithfield dimostrò di essere forse qualcosa di più del normale e tranquillo ragazzino che sembrava, figlio di un barista nomade. Il primo episodio ebbe luogo dopo l'acquisto della piccola casa a Orlando. Vi si erano trasferiti proprio quella mattina e Sherri trafficava avanti e indietro dal soggiorno alla cucina cercando di non mostrare quanto fosse soddisfatta. Il caravan era ancora davanti alla casa, -Staccato perché Clark era andato al lavoro con l'automobile, e casse e scatoloni erano sparsi dappertutto. Sherri aspettava la consegna di un letto nuovo. Tabby aveva trovato il suo Monopoli in una delle scale e stava giocando da solo sul pavimento nudo della sua nuova camera da letto. C'erano quattro Tabby e quando uno di loro lanciava i dadi, gli altri speravano che andasse a finire dove c'era qualche loro albergo. Tabby II stava vincendo, mentre Tabby III aveva imboccato una serie di imprevisti negativi. Sherri aveva fatto capolino nella camera, aveva visto che cosa stava facendo e aveva commentato: «Giuro che un bambino strano come te non l'avevo mai visto». Poi era di nuovo scomparsa. Rumori di cassetti, di scatole che venivano aperte furiosamente. «Maledizione», gridò Sherri dal soggiorno. «Non riesco a trovarlo!» Toccava in quel momento a Tabby IV, bravo e prudente, non avventato come Tabby II o sfortunato come Tabby III, con ottime probabilità di superare Tabby II e già in vista della vittoria finale. Gridò di rimando: «Hai bisogno d'aiuto?» «Non lo trovo!» starnazzò Sherri, quasi isterica. Tabby si rese conto che traslocare rende nervosi. E subito dopo capì qualcos'altro. A dire il vero
l'intuizione fu di Tabby III, quello sfortunato. Sherri aveva lasciato da qualche parte il suo portafogli e adesso stava diventando matta perché prevedeva di dover dare una mancia agli uomini che avrebbero consegnato il letto e non aveva denaro a portata di mano. Tabby capì tutto ciò in un istante, quindi, proprio come se Tabby III, quello rimasto con pochi spiccioli di denaro finto, si fosse sporto in avanti per bisbigliargli qualcosa all'orecchio, vide: vide Sherri togliere il portafogli dalla sua voluminosa borsetta e, senza pensarci, posarlo sul frigorifero. Tabby non si soffermò su questa visione, né si chiese da dove venisse. Posò i dadi e andò in soggiorno, dove Sherri girava a vuoto con le mani fra i capelli. «Il tuo portafogli è sul frigorifero», le disse. «Stai scherzando?» ribatté Sherri partendo al trotto in direzione della cucina. Tornò pochi istanti dopo con il portafogli in mano e un sorriso di gratitudine per Tabby. «Sei un genio, ragazzo mio», si complimentò. «E adesso dimmi che fine ha fatto quel braccialettino che ho perso quando avevo sedici anni.» «Va bene», rispose Tabby. «Cadde dietro lo schienale del sedile posteriore della macchina di tuo cugino Hector. Era una Dodge del '49. Rimase là dietro per molto tempo, ma quando Hector vendette la macchina come ferro vecchio, il tizio che la comprò lo trovò quando smontò i sedili.» Tutte quelle informazioni giungevano da Tabby III. «Lo regalò alla sua bambina, che lo perse a una festa, poi scomparve in un tombino...» S'interruppe perché Tabby III aveva appena avuto una visione molto particolareggiata di Sherri a sedici anni, senza camicia e reggiseno. Aveva i capelli neri come gli occhi. Sherri lo fissava a bocca aperta. «Mio cugino Hector? Gesù santissimo! Ma ti ho mai parlato di lui?» Squillò il campanello dell'ingresso. «Sono arrivati. E grazie, Tabby, stavo diventando pazza.» Si girò, ma non prima di avergli lanciato un'occhiata perplessa e quasi spaventata. Il secondo episodio si verificò tre anni dopo, nel marzo del 1980, giusto un mese prima che tornassero ad Hampstead. Monty Smithfield era morto di infarto e il suo avvocato aveva scritto a Clark per comunicargli che era proprietario dei «Quattro Focolari». Clark avrebbe voluto partire immediatamente; Sherri non avrebbe voluto partire affatto. Ne era nato un litigio. A parte la casa, c'era anche un enorme patrimonio, centinaia di migliaia di dollari. «E il tuo lavoro?» aveva chiesto Sherri. «Che se lo tengano. Ne troverò un altro ad Hampstead. Non avrò nemmeno bisogno di un lavoro per chissà quanto tempo.»
«Non voglio trasferirmi al nord.» «Vuoi restare qui? In questa catapecchia?» «Non saprei come comportarmi. Mi troverei fuori luogo. Non avrei amici. Voglio restare qui, a casa mia.» Clark aveva ricominciato a bere e durante quelle discussioni era ubriaco. Come già era accaduto a Mount Avenue, non andava a lavorare per almeno due giorni ogni settimana. Anche per questo avevano litigato. «Casa tua è dove ti porto io», aveva gridato Clark. «Ah, è così! Dunque io sono un oggetto che ti porti dietro in valigia!» Tutte le volte che Sherri era in collera, il suo accento spagnolo diventava più evidente. Tabby era sgattaiolato fuori per non sentirli. Aveva camminato sul prato invaso dalle erbacce. Improvvisamente la voce di Sherri si era levata, acuta, alle sue spalle e un vetro era andato in frantumi. Fu allora che accadde di nuovo. Era in un altro posto. Per la prima volta capì che stava guardando nel futuro, che vedeva quello che sarebbe avvenuto. Era notte e la temperatura era lievemente più bassa di ora. Il litigio era cessato e senza guardarsi alle spalle Tabby fu certo che anche la sua casa non c'era più. Davanti a lui c'erano alberi grandi e scuri che lasciavano spazio al congiungersi di due strade. Tra gli alberi filtrava la luce di alcune grandi case. Sapeva che quello che vedeva non era realtà. Un tempo aveva conosciuto quel luogo. Lì era accaduto qualcosa di brutto. Vennero verso di lui i fari bassi di un veicolo. Pochi attimi dopo l'avevano raggiunto e gli accecavano gli occhi. 4 Si ritrovò proprio lì, sei settimane più tardi, la sera del 17 maggio. Suo padre sosteneva di avere già trovato un lavoro: ne parlava la sera quando rincasava, bevendo in continuazione. Sherri era ingrassata per la malinconia. Odiava il Connecticut. Tabby sapeva che gli abitanti di Hampstead la guardavano con disprezzo e rimprovero. Due volte Tabby arrivò davanti ai cancelli di Mount Avenue, a contemplare la vecchia casa di suo nonno. Si sentiva spinto da una sensazione di immanenza. Doveva succedere qualcosa, si doveva stabilire un misterioso contatto. A scuola era silenzioso e apatico, per metà convinto che la sua vita vera fosse altrove, nelle vie tranquille di Greenbank, di notte, dove c'era la cosa. Quel sabato Tabby si sentiva tormentato dalla certezza che «qualcosa» stesse per accadere. Ancora non sapeva che cosa, ma ne sentiva il peso su Hampstead, come un cumulo di nubi temporalesche. Per l'ansia non riuscì
a mangiare il suo tramezzino per colazione, né a leggere un libro o guardare un film alla TV. Clark gli aveva proposto: «Con una bella giornata come questa perché non ce ne andiamo fuori a giocare a tennis?» Tabby, con il pensiero fisso altrove, si era dimostrato alquanto maldestro. Aveva lasciato cadere le palline, le aveva lanciate a casaccio. «Stai attento!» aveva continuato a gridargli suo padre che, alla fine, aveva smesso di giocare, disgustato. Tabby aveva camminato per miglia, fino alla Sawtell Beach, dove aveva acquistato un hot dog al chiosco e si era soffermato a guardare la faccia delle persone che oziavano nel sole. Succederà a te? Sarai tu a farlo? Era tornato verso Greenbank Road adagio, sbirciando la faccia della gente nei veicoli di passaggio. All'una si era seduto in Gravesend Beach e si era addormentato: sogni vividi, con grida d'aiuto, in un ritmo serrato. Quando si era svegliato si era trovato davanti alla casa di Van Horne, bianca e lucente in cima all'altura, sopra il frangiflutti di cemento. Gli era sfuggito un gemito. Sarebbe accaduto e lui non avrebbe potuto fare niente per evitarlo. I gabbiani svolazzanti sul mare increspato lanciavano grida simili a quelle che aveva udito nel sonno. Si era trascinato fino a casa. Dopo cena era uscito di nuovo. Questa volta non aveva puntato verso Mount Avenue, infilandosi invece nel piccolo dedalo di strade dell'entroterra. Charleston Road, Hermitage, Beach Trail, Gravesend Avenue; Cannon Road. Guardava dentro le finestre e scrutava le persone. Lo sorpassò una macchina di pattuglia che invertì la marcia per controllarlo una seconda volta. Lo incrociò una donna che correva e gli riuscì ai mandarle un saluto. A poco a poco si fece buio. Mentre risaliva per la terza volta Charleston Road fu colto da un capogiro e da un senso di nausea. Sentiva odore di morte, penetrante come se avesse un cadavere davanti ai piedi, e per un secondo ricordò un tafferuglio in una taverna di Fort Myers, un uomo che ne accoltellava un altro: era successo, lo percepì perfettamente, e subito dopo fu travolto da un susseguirsi di immagini troppo rapide e incoerenti per poterne cogliere il senso. Una tuta da ginnastica con la scritta «tieni duro», un ragazzo che cadeva dalla bicicletta in un mucchio di ghiaia, un enorme autocarro adagiato su un fianco. Una donna che chiedeva aiuto con un pigolio da uccellino. La cosa. La cosa stava avvenendo o era avvenuta dietro di lui. Tabby vacillò, si voltò e ripercorse correndo Charleston Road... si trovò su un angolo, ai margini di una macchia di vecchie querce, con i fanali di un'auto-
mobile puntati su di lui. Guardò verso Cannon Road. C'era una casa. Finestre buie. Era successo là. I fari dell'automobile lo illuminarono per un momento, poi una Corvette scomparve dietro l'angolo. Per un attimo Tabby scorse l'espressione disperata dell'uomo alla guida. Si trovava là dove quella sensazione di immanenza l'aveva condotto, nel luogo dove si era visto settimane prima. Tabby non riuscì a muoversi finché non passarono rombando le auto della polizia. Allora indietreggiò e scappò di corsa fra gli alberi e le case, raggiungendo la strada successiva. In salita, continuò a correre fino in fondo a Hermitage Road: era a casa. Una volta entrato udì il padre e Sherri nella loro stanza. Stavano facendo l'amore, freneticamente. 5 «A volte Skippy metteva la testa nelle cassette per le lettere», raccontò Bruce Norman. «Per vedere se le castagnole erano partite. Ha rischiato di farsi saltare la testa un paio di volte, quel dritto!» Tabby Smithfield, ormai amico intimo dei gemelli Norman, era seduto in mezzo a loro a bordo del vecchio macinino arrugginito al parcheggio del Blue Tern. Era domenica sera 31 maggio, ed erano le dieci e trenta. All'inizio si era sentito vagamente intimorito da loro, ma poi Tabby aveva finito per concludere che i gemelli non erano altro che due monelli, non particolarmente pericolosi. Rubavano nei negozi, compivano atti di vandalismo, fumavano erba e adoravano l'heavy metal music. «Comunque l'abbiamo smessa con le castagnole», riprese Bruce, «adesso siamo passati al 'devastatore'.» Accarezzò l'impugnatura di una mazza da baseball rivestita con nastro adesivo. «Fa anche un rumore migliore... più sincero. Si parte in macchina, si tira una bella botta con il devastatore e la cassetta si accartoccia che è un piacere. Ba-ang! Ti piacerebbe fare un giretto con noi più tardi?» «Va bene», rispose Tabby, «verrò a fare un giretto.» Dick si drizzo a sedere, sbirciò nello specchietto retrovisore e gemette. «Bobo il clown.» Tutti e tre nascosero le lattine di birra sul pavimento, dietro le gambe. Un attimo dopo una macchina della polizia si accostò alla loro. Ne scese Bobo, che si avvicinò al finestrino sogghignando. «Guarda, guarda, i gemellini. Non dovreste essere a letto a quest'ora?» «Come dice lei, agente Farnsworth.»
«E chi è il vostro nuovo amico? Mi sembra troppo normale per legare con voi.» Tabby fornì le sue generalità e il poliziotto lo fissò con amichevole e distaccato riguardo. «Coraggio, adesso è ora che ve ne andiate. Io vado a controllare al bar e quando esco non voglio rivedere la vostra macchina qui. Ma vi dirò una cosa. Mi dispiace proprio che abbiate compiuto sedici anni.» «È un guaio diventare vecchi», commentò Bruce. Bobo diede una pacca al tetto della loro automobile e se ne andò. Appena il poliziotto fu distante Bruce scolò la sua lattina e aprì la portiera per passare sul sedile anteriore. «Quel fottuto», ringhiò mentre girava la chiave. «Testa di cazzo.» Ruttò rumorosamente. «Facciamoci un giro, prima. Dicky, perché intanto tu non ti accordi con Tabs?» «Hai mai sentito parlare di un tizio che si chiama Gary Starbuck?» chiese Dicky con un tono un po' brusco. 6 Era possibile che Clark Smithfield, se non Tabby, si fosse effettivamente imbattuto in Gary Starbuck a Key West, all'inizio degli Anni Settanta. Gary Starbuck era cresciuto alla scuola del padre, il quale gli aveva spiegato che per tenersi alla larga dalle prigioni era necessario spostarsi continuamente: sfruttare per un po' una città, quindi prendere il volo e trasferirsi almeno a cinquecento miglia di distanza. Così, sulle orme del genitore, Starbuck viveva di furti a Key West quando Clark vi lavorava al No Name Bar. Giunto ad Hampstead aveva preso in affitto un caravan al campeggio di Post Road. I gemelli avevano visto il suo anonimo furgone grigio parcheggiato accanto al caravan giorno dopo giorno; a volte scompariva durante il fine settimana, quasi sempre di notte. Così, più o meno mentre Starbuck trovava una casa in affitto, Bruce e Dicky decidevano di andare a dare un'occhiata al caravan e al furgone. Bruce salì nel furgone mentre Starbuck dormiva. All'interno era pulito quanto all'esterno: pulito e vuoto. Ma Bruce guardò anche nel cassettino del cruscotto e notò che il libretto di circolazione californiano era intestato a un nome diverso da quello che Starbuck aveva dato per affittare il caravan. «Qui sotto c'è qualcosa di interessante, Dicky», disse al fratello. La sera seguente penetrarono nel caravan servendosi di una delle chiavi di riserva.
Era anche meglio di quanto avessero immaginato: televisori, argenteria, interi guardaroba... e una mezza dozzina di scatole per scarpe piene di soldi. «Ehi, questo è uno che fa sul serio», commentò Bruce impressionato. Il giorno dopo, tornati da scuola, tornarono a visitare il caravan. Suonarono il campanello. L'uomo che venne ad aprire li guardò con sospetto. Bruce disse: «Signor Starbuck? Cioè, voglio dire signor Sutter?» Quando se ne andarono, portavano con sé un televisore nuovo e un sacchetto pieno di ottima erba messicana. Gary Starbuck non aveva dimenticato un altro dei consigli di suo padre: «Quando ti trovi dei soci, anche soci che non vorresti, trattali con giustizia. Un socio è sempre un socio, anche quando non è gradito, e prima o poi un po' di buona educazione ti servirà a evitare la galera». Era sicuro che avrebbe trovato il modo di utilizzare i gemelli Norman. 7 PatsyMcCloud era ossessionata da una paura senza limiti che, persino la sera della disastrosa cena con gli Allbee e Ronnie Riggley, le aveva fatto trascurare tutte le altre piccole paure. A sette anni i suoi genitori l'avevano accompagnata in un ospedale per malattie mentali dov'era ricoverata nonna Tayler. I suoi genitori andavano a trovarla due o tre volte l'anno, ma per Patsy era la prima visita. Nell'ambiente sinistro della clinica, con le sbarre alle finestre come se fosse una prigione, aveva temuto per qualche istante che fosse tutto un trucco, che i suoi genitori avessero l'intenzione di abbandonarla in quel posto! C'erano persino pastelli sui tavoli e rudimentali disegni infantili appesi alle pareti. Poi era apparsa la nonna, accompagnata da due infermieri. Parlava fra sé. La prima impressione di Patsy era stata che la nonna fosse la persona più vecchia che avesse mai visto; la seconda che fosse intonata all'ambiente. I suoi capelli bianchi erano radi, i suoi occhi vitrei. Lunghi peli bianchi spuntavano dal mento. Non aveva badato ai genitori di Patsy e aveva tenuto la testa abbassata, continuando a borbottare, immobile sulla seggiola sulla quale l'avevano sistemata gli infermieri. «Abbiamo portato Patsy», le aveva detto suo padre. «Ricordi che ci chiedevi di lei? Volevi tanto vederla, mamma Tayler.» Il padre si era lasciato sfuggire un gemito e si era girato dall'altra parte. Patsy aveva continuato a fissare il viso indecifrabile della vecchia donna. «Non saluti la tua nipotina, mamma Tayler?»
La vecchia aveva colto Patsy di sorpresa mettendosi a brontolare: «C'è un uomo impiccato dietro la sua casa. Dondola appeso a una corda. Tutte quelle fatture, fatture, fatture. Lo troveranno la prossima settimana, mi pare. Hai portato la ragazza di Danny?» E gli occhi pallidi e vitrei si erano sollevati a incontrare lo sguardo di Patsy. «Povera bambina», aveva detto la nonna. «Un'altra. Così graziosa. Non le piace qui, vero? Crede che la lasceranno con me. Povera bambina. Lo troveranno la prossima settimana, piccola?» I suoi occhi pallidi le erano sembrati leggermente meno vacui in quel momento e allora Patsy aveva visto l'uomo impiccato al ramo di un albero: attraverso una finestra si vedeva una scrivania coperta di carte. «Non so», aveva risposto sbigottita. «Ti vorrò bene se vivrai con me», aveva affermato nonna Tayler. Poi il colloquio era stato bruscamente interrotto. Il padre l'aveva sollevata di peso e l'aveva portata all'automobile. Dieci minuti dopo erano stati raggiunti dalla mamma. Di riportarla a trovare nonna Tayler non se ne era mai più parlato. Due giorni dopo Patsy aveva chiesto a suo padre se avessero trovato quell'uomo. Il padre non aveva capito a che cosa alludesse. Patsy aveva capito che suo padre provava profonda vergogna e collera, per sé e per lei. Aveva ricordato l'osservazione di nonna Tayler. Povera bambina. Un'altra. Quando gli occhi della vecchia avevano finalmente incontrato i suoi si era sentita trasparente come vetro. In quegli occhi aveva visto una disperazione profonda e una comprensione che si spingeva oltre la morte. L'unica differenza tra Patsy e la nonna era che nonna Tayler era migliore. Prima della pubertà Patsy era stata in grado di spostare piccoli oggetti su un tavolo, accendere luci e aprire porte semplicemente immaginando questi fenomeni nella mente e desiderando che si realizzassero. Questa capacità era il suo segreto, il suo segreto più importante. Aveva capito all'istante che nonna Tayler era in grado di fare molto di più, che, se avesse voluto, nonna Tayler avrebbe potuto far crollare le pareti della clinica e andarsene libera. Ma nonna Tayler non voleva. Per Patsy, quella vecchia con quell'espressione svagata e quelle doti di preveggenza era l'immagine inesorabile del suo stesso futuro. Con l'arrivo delle prime mestruazioni perse la capacità di spostare oggetti. Così, di punto in bianco: diventando donna aveva perso i suoi poteri. Per quasi un anno era stata come tutte le altre ragazze che conosceva e se
ne era rallegrata. Poi nella loro classe era arrivata una ragazza nuova. Marylin Foreman era una insignificante ragazzetta con gli occhiali, capelli opachi e senza peli sulla lingua. Nel momento stesso in cui Marilyn Foreman era apparsa sulla soglia, Patsy aveva saputo. E nello stesso modo Marilyn l'aveva riconosciuta. Quella ragazza era stata un fatto ineluttabile: Marilyn era il suo destino, come lo era stato la nonna. Durante l'intervallo la ragazza l'aveva avvicinata smascherandola. «Tu che cosa sai fare? Io vedo cose che poi succedono sempre.» «Lasciami in pace», aveva replicato Patsy, ma poco convinta. Patsy era rimasta passiva di fronte alla consapevolezza che Marilyn Foreman avrebbe allontanto da lei tutte le altre amicizie. «Succederà», aveva dichiarato Marilyn con la sua voce strascicata. «Succederà anche a te. Lo so.» Sebbene fra di loro non ci fosse affetto perché la nuova ragazza non ne esigeva, erano diventate tanto intime da cominciare a somigliarsi, una via di mezzo tra l'avvenenza di Patsy e l'aspetto insignificante di Marylin. A volte Patsy si sorprendeva a parlare con la voce di Marilyn. I Taylor non capivano perché la loro figlia, così attraente e ricercata, si lasciasse tanto influenzare dalla scialba Marilyn Foreman. Insieme viaggiavano, come diceva Marilyn. Si sedevano vicine, all'ora di sera quando avrebbero dovuto fare i compiti, si prendevano per mano e chiudevano gli occhi. Patsy avvertiva invariabilmente un doloroso fremito di paura, per metà gradevole quando le loro menti si fondevano e vibravano verso l'alto. Viaggiando vedevano strani paesaggi, colori roventi; non sapevano mai in anticipo che cosa avrebbero visto. Poteva trattarsi di persone che pranzavano al ristorante o un loro compagno di classe che passeggiava in Sawtell Beach. Una volta aveva visto due dei loro insegnanti, non sposati, che facevano l'amore sul pavimento di una stanza vuota. Un'altra volta avevano riconosciuto il professore del laboratorio di J. S. Mill nel folto del sottobosco, nudo e disteso sul corpo di un ragazzo che apparteneva alla squadra di football del liceo. «Che schifo!», aveva commentato Marilyn. Ma in generale Marilyn non manifestava emozioni per ciò che vedevano durante i loro viaggi. C'era però una visione che sembrava collocarsi nel passato e che proprio per tale motivo, risultava insolita. Le due ragazze avevano visto una strada, chiaramente identificata in Riverfront Avenue, ma senza la compagnia petrolifera e i palazzi degli uffici. Ai moli erano ormeggiate barche da pesca, corte e tozze; c'erano anche vecchie automobili ferme su un terrapieno er-
boso che ormai da tempo era stato trasformato in parcheggio. Su una delle barche un uomo barbuto con un berretto di lana versava vino in una tazza da caffè e in un bicchiere. Una donna in abito di seta era appoggiata al parapetto dell'imbarcazione. «C'è qualcosa che non va», aveva detto Marilyn. «Non mi piace.» Aveva subito cercato di staccare la mano da quella di Patsy che, invece, gliel'aveva stretta con maggior forza. Quell'immagine era per lei e anche se fosse stata terribile non avrebbe permesso a Marilyn Foreman di cancellarla. E sapeva che sarebbe stata terribile. L'uomo barbuto aveva sorriso alla donna e aveva avviato il motore. Scoppiettando, la barca era scesa lungo il fiume, puntando lentamente verso il mare aperto. L'uomo aveva abbracciato la donna, fingendo di ballare con lei. Si dondolava, spostando i piedi; la donna gli stava aggrappata addosso e rideva. A Patsy il pescatore era sembrato bello, ma rozzo e volgare. «Cattivo», aveva mormorato Marilyn. Sorridendo, l'uomo aveva cominciato ad accarezzare il collo della donna con le sue grosse dita a spatola. Poi aveva serrato le mani e aveva premuto i pollici nel collo della donna. I suoi occhi scintillavano crudeli. Si era curvato su di lei, rovesciandola sulla tolda luccicante. I loro corpi avevano lottato rotolando finché l'uomo aveva sollevato la testa della donna e l'aveva sbattuta contro la tolda. Tutti i suoi movimenti erano concentrati e violenti. Marilyn aveva cominciato a tremare. Quando la donna aveva smesso di muoversi, l'uomo aveva preso un rotolo d'incerata da uno stipetto e ve l'aveva avvolta. Dopo averla buttata ancora viva nel Nowhatan, aveva finito il vino. Un senso di repulsione aveva invaso Patsy. Appena l'immagine del pescatore si era trasformata in quella di un altro sconosciuto, in doppiopetto e fermo sulla spiaggia del country club, aveva lasciato andare la mano di Marilyn. Sentiva che quelle scene di morte e di violenza si sarebbero ripetute ogni volta che lei le avesse evocate. Lo troveranno la prossima settimana, piccola? Dopo che i Foreman si furono trasferiti a Tulsa, Patsy non aveva più cercato di compiere viaggi da sola. Al college aveva seguito le fasi del lungo dramma dell'assassinio di Kennedy trasmesse dal televisore dell'abitazione di Les. A volte aveva stupito Les predicendogli con esattezza il voto che avrebbe preso a un esame. Se faceva sogni profetici li teneva per sé. Già Les la chiamava «Yankee delle paludi». Dopo il matrimonio, avvenuto nel 1964, avevano abitato ad Hartford, a New York City, Chicago, Londra e Los Angeles, prima di tornare finalmente a New York. Avevano acquistato la casa ad Hampstead e Les faceva la spola con New York dove, diceva lui, «andava a cuocersi il culo». Ormai non parlavano più di questioni
personali, anzi, Les non le rivolgeva quasi mai la parola. Aveva cominciato a picchiarla a Chicago, dopo che alla migliore valutazione di rendimento mai ottenuta in vita sua era seguita la prima promozione veramente importante. 8 Les non picchiò Patsy quella domenica sera; scortese e ubriaco le disse che a confronto di Ronnie Riggley e di Laura Allbee non era una donna. Girò per la casa scolando una bottiglia mentre Patsy si rifugiava in camera da letto. Di tanto in tanto lo sentiva inveire brontolando contro «quelle checche di artisti»; quando lo udì salire le scale per venire a coricarsi, Patsy si chiuse nella camera degli ospiti dove aveva sistemato scaffali per libri, uno scrittoio e un divano-letto. Sullo scaffale più alto c'era un minuscolo televisore in bianco e nero e lo accese per vedere un film mentre aspettava che Les si fosse addormentato profondamente. A mezzanotte e mezzo si risvegliò di soprassalto per il fracasso proveniente dall'esterno. Il rumore aveva svegliato anche Les e Patsy lo udì muoversi nel buio della camera da letto. Sbatté una porta. Lo chiamò per nome, ma invece di una risposta udì sbattere anche la porta dell'ingresso. Guardò fuori della finestra. Alla luce gialla delle lampade notturne vide una vecchia macchina nera e arrugginita che svoltava a forte andatura l'angolo di Charleston Road. Un secondo più tardi scorse Les che, in ciabatte e accappatoio, correva dietro l'automobile. Impugnava una pistola. Conosceva Les abbastanza bene per sapere che se non ci fosse stata la visita di Richard Allbee e Bobo Farnsworth, Les avrebbe lasciato la pistola al suo posto. Ma l'età e la prestanza dell'uno e la notorietà dell'altro lo avevano provocato. Così Patsy corse all'inseguimento del marito. Sotto un lampione un passerotto morente sbatteva pateticamente le ali sulla griglia di un tombino. In un altro momento si sarebbe fermata, ma udendo la sirena della polizia, dietro l'angolo davanti a lei, lasciò il passero e corse da quella parte. All'angolo dove Charleston Road incrocia la Beach Trail c'era un secondo lampione ed esattamente sotto di esso, con gli occhi fissi su di lei, c'era una bambina con gli occhiali e i capelli castani. Patsy pensò che era troppo tardi perché una bambina fosse ancora in giro, ma poi ebbe l'impressione di conoscerla. Preoccupata com'era per Les, continuò a correre fino all'altezza del lampione. Un'automobile della polizia sostava su uno dei vialetti
d'accesso della Beach Trail, quello della casa subito dietro la sua. Un poliziotto era in piedi vicino a un vecchio curvo e a uno smilzo adolescente e Les era accovacciato davanti a loro con la pistola puntata. «Oh, mio Dio», ansimò Patsy. Les era impazzito e stava per sparare a qualcuno. A meno che il poliziotto avesse aperto il fuoco prima di lui. Allora si accorse che la bambina sotto il lampione era Marilyn Foreman. Involontariamente distolse gli occhi da suo marito e guardò la bambina. Marilyn Foreman, con il fiocco al collo, le calze bianche arrotolate e la sua indomabile faccia pallida. Marilyn era in piedi nella luce e non proiettava ombra. «No», gemette Patsy. «Non è...» Marilyn aprì la bocca e parlò, ma non emise alcun suono. Patsy udì la detonazione, fortissima nel silenzio della via. 9 «Gary Starbuck è un 'pro'», confidò Dicky Norman a Tabby in Bridge Road, mentre attraversavano il Nowhatan. «È uno che fa sul serio. E nessuno conosce il suo vero nome oltre a noi. Ragazzi, quello è uno che non se la fa sotto.» «Che cos'è un pro?» I gemelli sghignazzarono. «È un professionista», spiegò Bruce. «Ripulisce le case. Cavoli, dopo che si è spazzata una casa lui restano solo le termiti. Scommetto che Gary Starbuck fa in un anno più soldi di chiunque da queste parti. Scommetto che è un fottuto milionario.» «Oh», fece Tabby. «E noi ci mettiamo con lui», si vantò Dicky. «No, io no», si precipitò a chiarire Tabby. «Oh, ma non questa sera. Stasera usiamo il 'devastatore'. A Greenbank. Abbiamo cronometrato il piano. Arriviamo a Greenbank dieci minuti dopo che quello stupido di Bobo il clown è ripartito verso Post Road. Lo teniamo in pugno; quel babbeo. Conosciamo ogni sua mossa. Stasera gli faremo fare la figura del perfetto imbecille.» «Ma non avete appena fracassato alcune cassette a Greenbank?» domandò Tabby, che aveva visto con i propri occhi il risultato delle incursioni dei gemelli. «Sì, ma questa volta è per Bobo», rispose Dicky battendosi la mazza contro il palmo della mano. «E poi si può andare a fare due chiacchiere con Gary Starbuck. Sempre che tu non debba tornare a casa, picco-
lino.» «Ho paura di sì.» «Ci pensiamo più tardi», intervenne Brace. «Io non vado a rubare in casa altrui e non voglio conoscere gente che lo fa», insisté Tabby che per il nervosismo rischiava di passare per una femminuccia. «E non ho nemmeno una gran voglia di andare a fracassare le cassette dei miei vicini.» Dicky gli diede un colpetto alla testa. «Ehi, buono.» «Sono i miei vicini!» «Ehi, sono i suoi vicini, cazzo!» sbottò Brace. Dicky abbassò il finestrino e mentre la macchina usciva in accelerazione da una curva sporse il braccio armato di mazza. Una cassetta per le lettere si staccò dal paletto con uno schianto simile a quello di un collo che si spezza. Dicky mandò un grido di trionfo: «Beccata!» «Ehi, non vogliamo farti fare niente di speciale», riprese Brace. «Siamo solo amici, no?» «Sì.» «Fammi capire. Non mi sembri tanto amichevole», lo accusò Dicky riprendendo a battersi la mazza contro il palmo. «Rubare non rientra nelle mie attività», dichiarò Tabby. «È questo che intendo dire.» «Guarda che i rischi li corre tutti lui», gli fece notare Brace. «Non siamo così scemi.» Tabby restò zitto. «Eccone un'altra», annunciò Dicky. Erano vicini ai cancelli della Greenbank Academy. Sporse la mazza dal finestrino mentre Brace rallentava. Alzò il braccio armato e lo calò con forza sulla cassetta. Si udì un fragore metallico e Dicky ululò nuovamente mentre Brace riaccelerava. Quando imboccarono la Beach Trail Tabby protestò: «Ragazzi, piano, qui ci abito io». «Tabs, cominci a scocciare», ribatté Dicky. Perché sono qui? si domandò Tabby all'improvviso. Solo perché questi due bifolchi mi hanno offerto una coca? «Forse vi sembrerà una pazzia», disse, «ma avete mai pensato di fare i poliziotti? Scommetto che sareste due sbirri in gamba.» «Merda», imprecarono all'unisono Dicky e Brace. «Non paga, Tabs, non paga. Gli sbirri di Hampstead vivono tutti a Norrington, lo sai?» «La prossima la becchi tu, Tabs», ordinò Dicky. Percorrevano senza me-
ta Cannon Road e non videro l'automobile di Bobo Farnsworth ferma sul vialetto della casa di Leo Friedgood. Leo aveva smesso di accendere le luci del giardino. «Sai che cosa mi piacerebbe fare davvero?» divagò Brace. «Mi piacerebbe far fuori uno veramente importante, un giorno. Per esempio il presidente, o John Denver. Mi piacerebbe essere il primo che tenta di far fuori John Denver.» Dicky spinse la mazza contro il petto di Tabby. «Portati sull'altro lato della strada, Brace.» «La mia no», affermò Tabby quando capì dove si stava dirigendo Brace. «Neanche a parlarne.» «Che palle!» «Ehi, okay.» Brace entrò in Charleston Road e sterzò per portarsi sul lato sbagliato della strada. «Questa è per te, Tabs.» In preda a collera e disperazione, Tabby mise la mazza fuori dal finestrino reggendola con entrambe le mani per l'impugnatura ricoperta di nastro adesivo. Non gli era mai capitato di fare una cosa così controvoglia. La mazza colpì la cassetta con forza terrificante e per poco non sfuggì dalle mani di Tabby. «Bravo!» sospirò Brace. «Ce l'hai fatta.» Dicky si congratulò con una pacca sulla schiena. Gli facevano male le braccia per il contraccolpo. Brace accelerò. «Ancora una. Ma prima ti dirò che cosa vogliamo fare. Hai presente il parcheggio che c'è davanti al ristprante? Quello con quella grande insegna tutt'intorno?» «Ehi, c'è uno che ci corre dietro», esclamò Dicky divertito. «Crede di poterci prendere il numero di targa. Deve essere saltato fuori dal letto.» Tabby si voltò e vide un uomo in pigiama che arrancava dietro la loro macchina. «Ciao, ciao», salutò Brace piombando a tutta velocità sulla Beach Trail. Allungò il braccio dietro e Dicky gli mise la mazza nella mano. «Sentite, sono quasi a casa», intervenne ansioso Tabby. «Perché non mi...» Brace attraversò in diagonale la strada e scalzò una cassetta dal suo paletto. Mentre la cassetta cadeva a terra udirono la sirena della polizia provenire dalla parte di Cannon Road. «Fatemi scendere», li pregò Tabby.
«Gesù!» gridò Dicky. «Fila!» «Ehi, è come con Skippy», disse con calma Brace a suo fratello. «Mettiamolo giù.» Dicky spinse Tabby verso la portiera. «Fai finta di niente», gli sibilò. «Andrà tutto bene. Tu fai finta di niente.» Tabby aprì la portiera e scese trenta secondi prima che Bobo Farnsworth svoltasse sulla Beach Trail a sirena spiegata e luci lampeggianti. Dietro Bobo, di corsa, arrivò Les McCloud agitando la pistola e urlando a squarciagola terribili parolacce. 10 A Greenbank, come in quasi tutta Hampstead, erano poche le luci accese nelle abitazioni. I giardini erano invece illuminati come set cinematografici, per tenere lontani i malintenzionati. Bobo Farnsworth vide le luci accese in due stanze diverse al primo piano di casa McCloud. Patsy e Les si tenevano a debita distanza. Imboccò Cannon Road e dall'angolo vide che in casa Friedgood le luci del giardino erano tutte spente, mentre le finestre del soggiorno e della sala da pranzo erano illuminate. Insonnia. E Leo aveva anche dimenticato di accostare le tende. Se non era ubriaco fradicio, probabilmente avrebbe gradito una visita. Così Bobo lasciò la macchina vicino agli alberi, nel vialetto d'accesso, e suonò al suo campanello. Friedgood non rispose e Bobo suonò di nuovo. «Chi è?» chiese una voce roca da dietro l'uscio. «Sono l'agente Farnsworth. Ero di pattuglia e ho pensato di venire a vedere se aveva bisogno di qualcosa.» Friedgood non rispose. «Ha voglia di scambiare due chiacchiere?» «Se ne vada.» «E sicuro di stare bene, signor Friedgood?» Le tende delle finestre furono accostate e Bobo udì strani rumori, gemiti e sospiri. «Apra la porta, signor Friedgood. Lasci che le dia una mano.» «Crede di potermi aiutare? Apra lei.» Così Bobo aprì la porta e quasi subito sentì odore di carne bruciata. Friedgood si stava dirigendo verso il soggiorno, alla sua sinistra. Bobo si stupì che avesse il cappello in testa. Friedgood spense le luci del soggiorno
prima di voltarsi. Per prima cosa Bobo vide che aveva gli occhi nascosti dietro un paio di occhialoni scuri. Il cappello era calcato sulla fronte e aveva i guanti alle mani. Una metà della faccia gli parve gonfia e distorta. L'altra metà, dagli occhiali fin dentro il colletto della camicia, era rossa come una bistecca cruda. I baffoni erano scomparsi. «Stia indietro», gli intimò Friedgood. Aveva le labbra bianche. «Ho una cosa. Non si avvicini più di così.» «Chi è il suo medico curante?» riuscì a domandargli Bobo. Friedgood alzò la mano destra e se la passò sul lato rosso della faccia. Nonostante la penombra Bobo si accorse che il guanto era rimasto insanguinato. Era come se Friedgood soffrisse di un gravissimo caso di acne e avesse cercato di porvi rimedio staccandosi la pelle dalla faccia, oppure bruciandosela. «Il medico non serve», ribatté Friedgood indietreggiando nell'ombra. «Soddisfatto? Adesso se ne vada. Non voglio la sua compagnia.» Bobo continuò a scrutare Friedgood: il lato sinistro della faccia, quello gonfio, era bianco come le sue labbra. La guancia pareva muoversi indipendentemente, come un topo che freme nel sonno. «Si tolga cappello e occhiali», gli ordinò Bobo. «Dio mio, non ho mai visto niente di simile.» Udì una specie di esplosione all'esterno e per un attimo gli si fermò il cuore. Friedgood ridacchiò. Passò rombando un'automobile. «È meglio che vada», disse Bobo. «Un'altra cassetta per le lettere. Ma se posso aiutarla in qualche modo...» «Mi lasci in pace», ripeté Friedgood. «Non può far niente per me. Se ne vada.» Bobo si voltò e uscì quasi correndo, sentendosi accapponare la pelle. Mentre saliva in macchina vide che Friedgood aveva spento tutte le luci di casa. Per un momento rivide quell'uomo nell'oscurità della grande casa, la sua pelle devastata e fosforescente... Mentre si guardava attorno, alla ricerca di auto sospette, notò con la coda dell'occhio la vistosa ammaccatura nella cassetta di Les McCloud. Mentre passava davanti alla casa l'uscio principale si spalancò e, illuminato da un fascio di luce, vide Les uscire. Evidentemente per ispezionare il danno. Poi udì di nuovo l'inconfondibile rumore di un'altra cassetta demolita. Azionò la sirena e si lanciò sulla Beach Trail. Scorse un movimento, un isolato più avanti, ma non vide automobili. Di fronte a una vecchia casa c'era una cassetta contorta che era rotolata in
mezzo alla strada. Un ragazzo si stava chinando per raccoglierla. Alzò la testa udendo la sirena e guardò nella direzione di Bobo, senza fuggire. Tornò verso il paletto con la cassetta ammaccata. Bobo accostò, spense le luci e la sirena e scese dalla macchina. «Ehi, figliolo», disse al ragazzo. «Non hai visto per caso un'automobile passare di qui? Hai visto chi è stato?» Il ragazzo scrollò la testa e Bobo gli si avvicinò. «Ma io ti ho visto poco fa, eri con i Norman.» «Sì», confermò Tabby. «Abito in Hermitage Road. Ho trovato questa cassetta nella strada.» «Non perdete tempo a rimetterla sul paletto», gridò una voce proveniente dalla casa. Tabby e Bobo si voltarono e videro un vecchio ingobbito che avanzava lentamente attraverso il prato immerso nell'oscurità. Indossava una casacca grigia e un paio di ampi calzoni bianchi. «Se la rimettessi su, qualche disgraziato verrebbe a ridurmela in uno stato anche peggiore. Questa volta gli hanno dato una bella botta. L'ultima volta, non l'avevano staccata dal paletto.» Bobo si accorse che il ragazzo sussultava e sgranava gli occhi come se avesse riconosciuto il vecchio, come se fosse qualche personaggio famoso, forse un divo del cinema. Allora lo guardò meglio anche lui. No, non era un divo del cinema. Una leggera peluria color argento gli ricopriva il collo e la parte inferiore del mento; la sua faccia era solcata da profonde rughe, le guance incavate. Occhi vivaci sotto sopracciglia rade e scomposte. I capelli bianchi gli ricadevano in disordine dietro le grandi orecchie, come una ghirlanda attorno al cranio pelato e lentigginoso. La sua faccia era avvizzita ma autoritaria. Quel vecchio era qualcuno, concluse all'istante Bobo, pur non avendolo riconosciuto. Il vecchio osservò l'espressione attonita del ragazzo, quindi rivolse uno sguardo divertito a Bobo. «Il mio nome è Graham Williams. Non credo che questo ragazzo sia il famoso killer di cassette per le lettere, no? È così, ragazzo? Saresti tu il Ramon Mercador delle cassette?» Né Bobo né Tabby riconobbero il nome dell'assassino di Leon Trotsky, ma il nome del vecchio suscitò qualcosa nella memoria di Bobo. «Williams... ho sentito parlare di lei.» «Di me può chiedere a Tartaruga», replicò il vecchio. «Le racconterà un sacco di balle. Trenta o quarant'anni fa sono venuto ai ferri corti con un paio di puzzole che si chiamavano Nixon e McCarthy. Un altro branco di puzzole pretendeva che deponessi davanti a una commissione d'inchiesta e
per poco...» Grida provenienti dalla strada impedirono a Bobo di spiegargli che aveva sentito fare il suo nome da quelli del pronto soccorso. Tutti e tre guardarono verso la strada. Un uomo stava arrivando di corsa, in pantofole e con un accappatoio svolazzante. «Fermi tutti!» urlava. «Vi ho beccati!» Lo sguardo attonito di Tabby si posò di nuovo sul vecchio e gli bisbigliò qualcosa che Bobo non afferrò, ma che parve far trasalire Williams. Il vecchio indietreggiò e ispezionò il ragazzo. «Tu sei il nipote di Monty Smithfield? Quello che chiamano Tabby?» «Su una barca», disse Tabby. «Fermati dove sei, Les», gridò Bobo, senza neppure cercare un nesso logico in quello scambio di parole. «Non è il caso di agitarsi tanto.» In quel momento Bobo si accorse della pistola e alzò il braccio sinistro per distrarre Les mentre con la mano destra apriva la sua fondina. «Hai visto una macchina, Les?» gli domandò in tono pacato. «Togliti di mezzo e lascia la pistola nella fondina», gli intimò Les. Adesso camminava, ansimando per la lunga corsa. «Sei sbronzo, Les, metti via quella pistola.» «Vai all'inferno», replicò Les pronto a sparare, le braccia distese in avanti e le ginocchia lievemente flesse. «Quel moccioso ha distrutto un oggetto di mia proprietà.» «Guarda che ti sbagli», lo ammonì Bobo. Dietro la spalla di Les scorse Patsy giungere da Charleston Road. Gli sembrò confusa e la vide fermarsi a fissare un lampione con aria rapita e attonita, esattamente come il ragazzo guardava Graham Williams. «E quella è Patsy Tayler», annunciò il vecchio. «Ha la tipica faccia ossuta dei Tayler. Non può far gettare la pistola a quell'uomo?» «Stai proteggendo un vandalo!» strillò Les. «Les», lo richiamò all'ordine Bobo, «sei ammattito? Se non butti quella pistola dovrò spararti.» «Togliti di mezzo!» Graham Williams si mise davanti a Tabby. «Dietro di te c'è tua moglie», disse cercando di distrarlo. Ci fu un lampo e la pistola produsse un rumore più forte di un colpo di tosse, più debole di uno schiocco di tuono. Les girò su se stesso dopo avere fatto fuoco con la pistola che ora penzolava dalla mano inerte. Patsy stava correndo verso di lui.
Bobo aveva alzato la sua calibro 44 e stava prendendo di mira la schiena di Les McCloud. Era contento che non fosse la prima volta che si trovava a dover sparare in servizio. Les McCloud dondolava come fosse sui trampoli. «No! No!» continuò a gridare Patsy correndo. La pistola scivolò dalla mano di Les e cadde per terra con un rumore metallico. Un secondo dopo Les si accasciò a sedere come un bambino, le gambe distese in avanti. Bobo udì il vecchio Williams emettere un lungo sospiro e rapidamente controllò che lui e il ragazzo fossero rimasti incolumi. Williams cingeva con un braccio le spalle del ragazzo. «Restate qui», ordinò e si incamminò verso Les e Patsy. Udiva i singhiozzi d'ira di Les. Si chinò per raccogliere la pistola. Una calibro 22 a canna corta. «Ho puntato alto, bastardo», ringhiò Les. Poi si voltò verso la moglie. «Sparisci, Patsy, non ti voglio vedere.» «Santo Dio, dovrei schiaffarti dentro», gli disse Bobo. «Ma che cosa credevi di fare? Potresti finire in galera per una cosa simile! Quanti anni credi che diano per tentato omicidio? Quindici, venti?» «Proteggevo la mia proprietà.» Les stava ancora piangendo. Strinse gli occhi. «Razza di idiota», lo apostrofò Bobo. Poi, rivolto a Patsy: «Credi di farcela? Vuoi che lo metta sotto chiave per questa notte?» Patsy scrollò la testa. Sembrava sconvolta e terrorizzata, ma decisa. Una brava donna, pensò Bobo, troppo brava per questo disgraziato. «Lo riaccompagno a casa, Bobo», mormorò lei. «Ti prego.» «No, non voglio», protestò Les, sempre seduto in mezzo alla strada con le gambe distese in avanti. Patsy allungò il braccio verso Les, ma lui la scacciò. «Te ne vai a casa buono buono», disse Bobo infilandogli le mani sotto le ascelle e issandolo in piedi. «Passa alla centrale fra un paio di giorni a riprenderti la pistola. E voglio vedere il tuo porto d'armi.» «Ce l'ho», brontolò Les. «Se non avessi appena cenato a casa tua ti saresti beccato una multa per abuso d'arma da fuoco. Come minimo.» «Ho mirato alto, sopra la tua testa.» Les barcollò, quindi si drizzò assumendo l'atteggiamento tipico dell'ubriaco abituale. «Con questo aggeggio è più pericoloso che se avessi mirato a me», replicò Bobo. «Vattene a casa.» Les avanzò di qualche passo e quando Patsy cercò di prenderlo per un
braccio e sorreggerlo reagì con insofferenza. «Lascialo andare», le disse Bobo. «Gesù, è la prima volta che uno mi spara addosso e non ho nemmeno la soddisfazione di un arresto.» Fissò il viso tirato di Patsy. «Come stai?» le chiese. «Non molto bene», rispose lei. «C'è bisogno di chiederlo?» «Dagli mezz'ora. Forse è meglio che per questa notte tu dorma nell'altra stanza.» Patsy annuì. «C'è nessuno qui che ha una tazza di caffè?» SEI Ancora Graham 1 «Lei ha ucciso un uomo», ecco ciò che mi aveva bisbigliato Tabby mentre quel pazzo di Les McCloud ci urlava di stare fermi. Fortunatamente quel gigante di poliziotto non aveva sentito, ma comunque non credo che mi avrebbe messo dentro. Avevo allora guardato meglio il ragazzo. Era il nipote del vecchio Monty. Avevo riconosciuto in lui qualcosa dei Tabb, occhi grandi e capelli biondi, ma molto di più degli Smithfield. «Su una barca», aveva detto il ragazzo. E io avevo capito. Aveva il dono. Intendo quel dono che non rende mai felice nessuno, che sconvolge la vita di certe persone. Il ragazzo aveva visto me e Bates Krell sul peschereccio quella notte del 1924, come fosse la scena di un film, e aveva cominciato a tremare. L'ultima persona altrettanto dotata che avevo conosciuto era stata la vecchia Josephine Tayler, quella che avevano chiuso in manicomio prima che compisse quarant'anni. Certe persone hanno il dono solo per un paio di minuti e poi passano il resto della vita a chiedersi che cosa sia mai successo (come era capitato a me dopo avere incontrato Bates Krell), mentre altri se lo portano dietro fino alla tomba. Non mi piacerebbe essere uno di questi. Posso affermare di ricordare quasi tutto quello che mi è successo, ma ci sono cose che, a ripensarle, mi danno le vertigini e mi tolgono il fiato. Per esempio il mio incontro con Bates Krell e tutto ciò che riguarda quell'individuo, compreso, naturalmente, quel pomeriggio sulla sua barca. Il fatto che quel ragazzino lo avesse visto guardandomi, mi spaventò molto più della pistola di Les
McCloud. Fu allora che vidi Patsy Tayler, la moglie di Les, venire barcollando verso di noi. Lì per lì pensai che fosse alticcia, dal momento che suo marito era chiaramente ubriaco. Ma un secondo più tardi capii. Mi accorsi che era sobria e che stava vedendo qualcosa che noi non potevamo vedere. Era come il giovane Smithfield. Nella famiglia Tayler il dono aveva saltato una generazione ed era passato direttamente da Josephine a sua nipote. Anche quella rivelazione mi spaventò. Forse se Tabby non avesse accennato a quell'episodio del mio passato avrei continuato a pensare che la Tayler fosse brilla come suo marito, ma lui mi aveva visto uccidere un uomo, capite? E dicendomelo mi aveva riportato a un'epoca della mia vita durante la quale anch'io ero «diverso». Guardai prima Tabby e poi Patsy e mi resi conto di quanto fossero simili. Per un secondo ebbi l'impressione di vedere due negativi fotografici, due persone che erano chiare dove sarebbero dovute essere scure e scure dove sarebbero dovute essere chiare. Provai pietà, affetto e paura: paura perché intuivo che l'apparizione di due persone come loro o, meglio, di quelle due persone in particolare, proprio lì, in quel momento, era presagio di accadimenti funesti. Non avevo bisogno di sapere niente di Ted Wise e del DRG-16 per prevederlo. Guarda caso, con perfetto tempismo, il mondo mi comunicò in quel momento che avevo ragione. Nessuno se ne accorse, perché guardavano tutti quel poveraccio di Les con la sua scacciacani. Ma io alzai gli occhi e vidi un uccello piombare giù dal cielo. Morto. Cadde nel mio prato, non lontano dal paletto della mia cassetta per le lettere, un piccolo mucchietto di penne. «Togliti di mezzo!» stava gridando Les. Io mi piazzai davanti a Tabby. Pensai che se dovevano accadere cose così terribili preferivo morire, farla finita come quell'uccello caduto dal cielo. Il mio gesto fu dettato da pura e semplice vigliaccheria e non me ne vergogno. Cercai persino di distrarre Les gridandogli che dietro di lui c'era sua moglie. Quando il colpo partì mi resi conto che Les non stava mirando a niente. Aveva puntato la sua scacciacani molto al di sopra delle nostre teste. Poi avevo temuto che quel grosso poliziotto, Bobo, si facesse prendere dal panico e stendesse Les. Ma Bobo si mantenne calmo. Infatti aveva sfoderato la pistola, ma solo per assicurarsi che Les McCloud non cercasse di colpire sua moglie. Tenni un braccio sulle spalle del ragazzo mentre Bobo andava a confabulare con i McCloud. Il ragazzo tremava, sia per ciò che aveva visto, sia
per Les. «Tu sei una persona speciale, Tabby», gli dissi. «Avremo tutti bisogno di te.» «Sono stato io a fracassare quella cassetta», confessò. «Non la sua. Quella di quell'uomo.» «Su questo ti conviene tenere la bocca chiusa», gli consigliai. «E anche su quell'altra storia. Ti racconterò tutto e capirai che fu necessario.» «È accaduto», ripeté Tabby come per confermarlo a se stesso. «E proprio su quella barca.» Si staccò dal mio braccio e mi fissò con un'espressione diffidente e sospettosa che avrei preferito non vedergli. Avrei dato un braccio per questo. «Certo che è accaduto. Te l'ho confermato anch'io.» Poi dovetti chiudere il becco perché stavano arrivando Bobo e Patsy. Guardai il povero uccello stecchito sul mio prato e non so per quale ragione ripensai a Babe Zimmer e alla voce strozzata di Harry che mi annunciava la sua morte per telefono. Poi gli sguardi di Patsy Tayler e Tabby si incrociarono. Patsy disse qualcosa, chiese una tazza di caffè, come per dimostrare che non c'era niente di straordinario nello spettacolo di suo marito in pigiama che agitava una pistola in mezzo alla strada. E guardò nella nostra direzione, ma quasi non si accorse nemmeno della mia presenza. I suoi occhi restarono inchiodati su Tabby. Si immobilizzò. Riconobbi l'espressione del suo viso. L'aveva anche sua nonna, di tanto in tanto, quando entrava in un negozio e si paralizzava vedendo qualcuno che sarebbe morto di attacco alle coronarie nel giro di un paio di settimane. Tabby incassò senza scomporsi. Tanto era forte. Nulla avviene per caso, tutto è collegato, e allora rividi me stesso mentre rovesciavo il corpo di Norm Hughardt nel giardino dietro casa sua; vidi Charlie Antolini rivolgermi un sorriso calmo di innocente felicità. Ah, merda, pensai. Bobo naturalmente credette che Patsy stesse reagendo a quanto era appena avvenuto e cercò di farla avvicinare a noi, dandole qualche colpetto affettuoso sulle spalle. Voleva liberarsi di lei. I fisici hanno ragione: c'è incertezza ma non casualità. «Potrebbe essere così gentile da occuparsi della signora per una mezzoretta?» mi domandò Bobo. «Vorrei mettere le mani su quelli che hanno fracassato...» Con un gesto indicò la mia povera cassetta per le lettere. «C'è del caffè sul fornello», dissi io. «Buono e forte. Ci penserò io a mandare a casa il ragazzo, agente.»
Patsy guardava per terra, probabilmente per assicurarsi che non le si aprisse un baratro sotto i piedi. «Di' a Les di passare da noi con il suo porto d'armi», le rammentò Bobo e lei annuì, continuando a fissare Tabby. Cinsi le spalle di entrambi mentre ci incamminavamo verso casa. Patsy era poco più alta di Tabby e mi parve di avvertire il pulsare del sangue sotto la sua pelle. Incombevo su di loro come un preistorico rettile alato. 2 Cinque minuti dopo armeggiavo nella mia cucina comportandomi come un vecchio un po' rimbambito che non riesce neppure a trovare tre tazze pulite. Per la verità ero un vecchio rimbambito che aveva avvertito l'onda d'urto provocata dall'incontro fra Patsy Tayler McCloud e James Tabb Smithfield e che ancora la udiva echeggiare in cucina. Non mi sarei stupito se i piatti avessero tintinnato sulla rastrelliera e le tazze avessero ruotato attorno ai rispettivi ganci, tanto violente erano le vibrazioni emanate da quei due, muti e nervosi, appollaiati sulle seggiole della mia cucina. Dopo tutto quello che l'uno aveva visto nell'altro, non riuscivano più a parlare. Non avrebbero saputo da che parte cominciare. Erano come due vecchi amanti che decine di anni prima avessero mandato all'aria i loro matrimoni, abbandonando i figli e lasciando dietro di sé un mare di pettegolezzi e di critiche; o due generali che in passato avessero insieme ordinato un massacro. Temo di essermi lasciato un po' prendere la mano. Distolsi lo sguardo da loro in parte per vergogna... e in parte per un certo senso di colpa. Avevano imparato a reprimere e a nascondere la loro diversità. Ora ciascuno aveva di fronte chi poteva vedere dietro la maschera. Erano se stessi. Ed era assai più difficile per Patsy che per Tabby. Poi venne il momento in cui non potei più sopportarlo. «Tanto vale parlare», esordii avvicinandomi con tre tazze alla caffettiera sul fornello. Si agitarono sulle sedie e finsero un grande interesse per le venature del legno del mio tavolo. Servii il caffè a entrambi. Tabby borbottò un ringraziamento e Patsy si limitò a un lieve cenno con la testa. «Voi due sapete che siete diversi», continuai. «E se non volete parlarne davanti a me non c'è niente di male. Io comunque ne so qualcosa, almeno quanto basta per riconoscerlo quando lo vedo.» Tabby mi fissò allarmato, mentre Patsy contemplava con aria assorta la sua tazza. «E ho conosciuto tua nonna, Patsy. Ricordo com'era e che cosa sapeva fare, sebbene il no-
vanta per cento delle persone di questa città credesse che fosse solo una donna molto bella con una rotella fuori posto.» Allora Patsy alzò gli occhi verso di me. «Era attraente? Io non l'ho mai conosciuta prima che... ehm... prima.» «Attraente quanto lo sei tu ora», le risposi. «E scelse di abbandonare questo mondo, in un certo senso. Nessuno la costrinse. Fu lei a voler andare là, fu una libera scelta. Credo che avesse visto troppe mostruosità intorno a sé e che fosse giunta alla conclusione che ne aveva abbastanza.» Non avrei potuto scegliere un vocabolo più azzeccato. Lei stessa se ne era appena servita per le pagine del suo diario. «Mostruosità, sì», ripeté Patsy quasi rilassandosi per la prima volta. I piatti avrebbero smesso di tintinnare, le tazze avrebbero smesso di ruotare. «Credo di essermi abituata alle mostruosità.» Lanciò un'occhiata interrogativa al ragazzo, rivolgendogli una muta domanda, timidamente. Penso che quella fu la prima volta in vent'anni che Patsy trovava conforto nel condividere con qualcuno il suo segreto. Ma Tabby scrollò la testa e replicò: «Credo di poter dire la stessa cosa, da quand'ero molto piccolo. Una volta. Forse due. Non ricordo bene». «Magari tre», lo corressi. «Non dimenticare me e Bates Krell sulla barca.» Tabby deglutì e Patsy continuò a lanciargli occhiate come se temesse che stesse per prendere fuoco. «Allora, che cosa hai visto?» le domandai. Colta alla sprovvista, Patsy sollevò la testa. «Ha detto di avere conosciuto mia nonna. Lei che cosa vedeva?» «Sapeva quando una persona stava per morire», le risposi francamente. «Almeno, così mi era parso di capire.» «Voglio andare a casa», disse Tabby. «Tu vedi la gente morire?» gli chiese Patsy quasi bisbigliando. «Come sarebbe? Una volta ho visto un uomo pugnalato in un bar dove lavorava mio padre.» «Così Clark faceva il barista. Deve essere stato un bel rospo da ingoiare per Monty», commentai. «Ma sai che cosa intendeva dire, Tabby. Ti è mai successo di vederlo prima che accadesse?» Annuì con riluttanza. «E va bene, se proprio volete saperlo. Ho visto qualcosa quando avevo cinque anni. Era quella donna, quella signora Friedgood, nel momento in cui veniva assassinata.» «Hai visto chi l'ha uccisa?» gli domandai, cercando di mantenere la cal-
ma. Ero stanco morto e mi faceva male il torace: cominciavo a rendermi conto che davanti a noi si stavano schiudendo le porte dell'inimmaginabile. «Più o meno.» Continuai a fissarlo mentre beveva piccoli sorsi di caffè. «È stato molto tempo fa.» Poi, con tutto il rancore di un quindicenne, concluse: «Ma lei che cosa ne capisce?» Per un secondo pensai che si sarebbe messo a piangere, pensai che fosse tornato al momento della scenata di suo padre e del nonno all'aeroporto; ma non voleva mostrare la sua debolezza. Ebbi un'altra dimostrazione del suo rancore. «Non c'è niente di peggio. Pensa che sia divertente avere visioni del genere?» Patsy, in silenzio, faceva cenni affermativi con la testa. La signora Friedgood aveva probabilmente pensato che qualcosa di peggiore ci fosse. Fui lì lì per dirlo, ma non ne ebbi il cuore. L'atmosfera in cucina era straordinaria. Patsy e Tabby si erano finalmente uniti, anche se contro di me. Si erano trovati; potevano ammettere con se stessi di essersi trovati, con tutto quello che ne conseguiva. «Ha ragione», confermò Patsy prendendo una mano di Tabby. «In un certo senso.» «È questo che pensa? Tutto quello che sa? Sa che cosa si .prova quando si pensa, quando si è sicuri, di essere sul punto di impazzire?» «L'ho saputo quando ho visto Bates Krell per la prima volta», risposi. «E quando, al Country Club di Sawtell, insieme con la moglie di John Sayre ho trovato John morto nell'erba con una pistola ancora in pugno.» Avrebbero potuto farmi piangere in quel momento, con la loro bellezza e la loro certezza. «Vi racconterò tutta questa storia, perché devo farlo. Ci sono cose che entrambi dovete sapere.» «Perché?» chiese Tabby. L'appoggio di Patsy lo rendeva quasi aggressivo. «Perché?» feci eco io in tono mite. «Per un motivo, perché Johnny Sayre era un uomo coraggioso e una persona onesta. È giusto che voi sappiate quale, secondo me, è la vera storia del suo suicidio. E anche perché noi tre siamo legati dal filo indissolubile della storia, un argomento di cui sono esperto, almeno per quanto riguarda la nostra città.» Gli sorrisi. «Potrei raccontartela, ma preferisco mostrartela.» «Mostrarmela?» «Ti va di fare una breve passeggiata? Anche tu, Patsy. Non impiegheremo più di cinque minuti, nonostante il mio passo.» «A quella casa non ci vado», affermò Tabby. Sbatté le palpebre quando
si accorse che non capivo che cosa intendesse. «A casa Friedgood.» «No.» Avevo capito. Era già stato costretto a vederla una volta. Il giorno dell'omicidio? Durante l'omicidio? In quel momento cominciai a provare paura per lui e anche per Patsy. E per me. Io credevo a Tabby, ma non potevo essere certo che lui avrebbe creduto alla storia pazzesca che gli avrei raccontato; senza contare che più che una storia era un insieme di spunti e intuizioni. «Immagino che non abbiate mai sentito parlare del Drago?» Mi fissarono con aria perplessa. «E immagino che tu non sappia che il tuo nome non è sempre stato Smithfield», dissi rivolto a Tabby. Lui fece un cenno di diniego, incredulo. «Vado a procurarmi una pila», dissi allora. 3 Quella che volgarmente avevo chiamato pila era in effetti una «torcia», come mi avrebbe fatto notare Richard Allbee leggendo queste pagine. E la mia pesante torcia elettrica per i casi di emergenza brillava certamente non meno di una torcia di fuoco mentre scendevamo lungo la Beach Trail verso Mount Avenue nel cuore della notte. Io pensavo ad altre torce che avevano illuminato la stessa strada, ma i miei due compagni no: mi precedevano impazienti, cercando di costringermi ad accelerare il passo, probabilmente perché non vedevano l'ora di potersene tornare a casa. All'angolo udii il rumore della risacca sulla spiaggia di Gravesend Beach. «Siamo quasi arrivati», li rassicurai. Improvvisamente mi sentivo ringiovanito, il torace aveva smesso di farmi male, la schiena mi si era raddrizzata abbastanza da ricordarmi che effetto faceva sentirsi giovani. Ne avrei avuto bisogno, se tutto quello che credevo era vero. «Il Drago aveva un nome», spiegai mentre costeggiavamo l'alto muro di pietra verso l'Accademia. In una densa macchia di mirto verde cupo la mia torcia trovò la targa di bronzo fissata nel granito. Sulla prima riga c'era scritto: «Beachside Trail». «Questa targa è stata messa qui cinque o sei anni fa dall'associazione degli storici. Naturalmente nessuno si ferma a leggerla e, tutto sommato, è un bene dal momento che racconta solo un decimo della storia vera. Ma leggete i nomi. Leggeteli a voce alta.» Patsy lesse in silenzio la scritta che ricordava che quello era il luogo del primo insediamento e quando arrivò ai nomi degli agricoltori li lesse ad al-
ta voce: «Ebenezer Williams, Roger Smyth, Josiah Green e Benjamin Tayler». «Perfetto», dissi io. «Tu sei una Tayler, io sono un Williams e Tabby è uno Smyth. Cambiarono il cognome verso il 1880, quando uno Smyth acquistò tutto questo terreno. Probabilmente pensava che Smithfield suonasse meglio. Suo nipote vendette tutto dopo la guerra civile e successivamente i Vanderbilt acquistarono il terreno ed edificarono lo stabile che adesso ospita la scuola, ma il nome è rimasto.» «E allora?» «Noi siamo gli ultimi esponenti di queste famiglie, tanto per cominciare. È importante. Ora io ho l'impressione che in questa città si trovi attualmente anche l'ultimo discendente dei Green...» «Sì, è così», mi confermò Patsy. «Questa sera ho cenato con lui e sua moglie. Richard Allbee. Ha appena acquistato la casa di fronte alla sua.» «Ha figli?» «Sua moglie è incinta», rispose Patsy. Erano quelli che avevo visto fermarsi a casa Sayre. «Ma c'è un altro nome», disse Tabby chinandosi per leggere le lettere in rilievo. «È...» «È il Drago», lo precedetti. «È così che lo chiamavano.» Tabby lesse a voce alta tutta la frase: «Nel 1645 un quinto fattore di nome Gideon Winter si unì a questi uomini». «Io mi chiedo se abbiano usato di proposito queste parole», commentai, «ma ciò sarebbe come presupporre che Gideon Winter non fosse un uomo, mentre immagino che dovesse esserlo, almeno sotto molti aspetti. Nato come gli altri, più ambizioso della media o forse soltanto più avido. Be', non 'soltanto' questo.» Guardando l'oscurità che avvolgeva tutto intorno a noi, pensai con rammarico a tutte le cose che non sapevo di Gideon Winter e a quelle che mai avrei saputo. Spensi la mia grossa torcia. Il mare si infrangeva contro le spiagge private sotto la scogliera, dall'altro lato delle case. «Due anni dopo l'arrivo di Gideon Winter», raccontai, «quasi tutti i raccolti andarono perduti. Non risulta che si vendette bestiame, quindi penso che gran parte del bestiame morì.» Patsy e Tabby erano lievemente illuminati da tergo dal lampione che si trovava all'entrata di Gravesend Beach. A causa della bruma la notte era abbastanza fredda. Ancora non avevano capito. «Nel giro di tre anni morirono anche quasi tutti i bambini. La prima chiesa era in collina. Si chiamava allora Clapboard Hill e adesso non ha
più un nome. È là che furono sepolti i bambini. Dovrebbe essere molto vicino a dove si trova adesso la tua casa, in Hermitage Road. A quei tempi le famiglie erano numerose. Era normale che ci fossero da cinque a otto figli. Ma nel 1648 le nostre famiglie dovevano ritenersi fortunate se ne avevano ancora uno o due sopravvissuti. E Gideon Winter era proprietario di quasi tutta Greenbank. Lui non aveva figli, o meglio, almeno nessuno che fosse legittimo. Questo è quanto non hanno scritto sulla targa e forse non successe mai. Forse l'ho ricavato io lavorando troppo di fantasia su scarne registrazioni negli archivi della parrocchia. Ma Winter si appropriò veramente di quasi tutte queste terre. Ed è vero che lo chiamavano il Drago. Questo è scritto sui libri.» Mi sentivo di nuovo sfinito. Il mio ringiovanimento era stato di breve durata. Respiravo a fatica e avevo voglia di sedermi. «Che fine fece Gideon Winter?» chiese Patsy. «Credo che lo uccisero, alla fine», risposi. «Credo che avessero concluso che non era un uomo, ma il demonio e che per questo lo abbiano ucciso.» No, non volevo soltanto sedermi, volevo andare a letto. Venticinque anni prima mi sarei cavato di tasca una fiaschetta e mi sarei bevuto due sorsi di buon cognac. «Ma non fu quello il crimine, quello vero. Quella fu solo la reazione di un gruppo di agricoltori superstiziosi e quasi analfabeti. Il vero crimine fu quello che la loro vittima perpetrò contro di loro.» «Ma come si può fare una cosa del genere? Come si può provocare una moria di animali, o rovinare i raccolti? E far morire i bambini?» domandò Tabby. Dalla voce non mi parve particolarmente colpito, tuttavia mi resi conto che aveva perso la sua aria aggressiva ed era interessato quasi tanto da credermi. «Spero che non saremo mai costretti a scoprirlo», gli dissi. «E non credo nemmeno che sia possibile. Noi siamo gente del ventesimo secolo. Loro erano gente della metà del diciassettesimo e abitavano ai margini di una foresta interminabile. Credevano nella magia, nelle streghe e nei demoni.» Gli diedi un secondo di tempo per meditare su queste parole. «Ma veniamo ora a qualche fatto. Patsy, quando vi siete trasferiti qui tu e tuo marito? Otto, nove mesi fa?» Lei annuì. «E tuo nonno, Tabby, è morto circa tre mesi fa, quindi voi siete ai 'Quattro Focolari' da sei settimane.» Anche lui annuì. «E il figlio di Mary Green è arrivato ad Hampstead solo pochi giorni fa, se non sbaglio. Williams, Smyth, Tayler, Green. I loro discendenti si ritrovano tutti qui per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale. I Tayler abitavano a New York. Il nonno di Tabby visse a New York prima di trasferire la Smithfield Systems a Woodville nel 1950. Nessun
membro della famiglia Green ha abitato nei pressi di Greenbank dal 1940 o '45, non ricordo più bene, quando Mary andò in California. Williams, Smyth, Tayler, Green. Siamo di nuovo qui. Questo posto è nostro, non vedete? In un certo senso è magia anche questa.» «E se noi siamo tornati, lei intende dire...» cominciò Patsy. «Per l'appunto. Se noi siamo qui, forse c'è anche lui. Perché non si tratta solo del fatto che voi siete tornati, ma di 'come' siete di nuovo qui. Capite ciò che voglio dire?» «Questa mi pare una follia», osservò Tabby. «Sono d'accordo, ragazzo. Quando incontrai Bates Krell vissi un'esperienza davvero bizzarra. Ebbi la sensazione di vedere un diavolo, eppure sono agnostico. Ho sempre ritenuto la politica mille volte più interessante della teologia.» Ci incamminammo nel buio verso Beach Trail. Non ebbi il coraggio di accendere di nuovo la torcia. Era folle, come aveva detto Tabby, ma con i lampioni che risalivano Mount Avenue illuminando alberi giganteschi sui due lati della strada, quasi tornavo nel mondo che stavo cercando di evocare a loro beneficio. Un mondo abitato da pochi poveri agricoltori, ai margini di una vasta foresta. Patsy e Tabby continuavano a scambiarsi di nascosto occhiate furtive. Enormi ali nere erano spiegate sopra noi tutti. Così pensavo, pur sperando che così non fosse. Quella era la notte in cui i gemelli Norman si incontrarono con Gary Starbuck al parcheggio di un ristorante di Post Road per stendere il loro piano; tre notti prima che un poliziotto di Hampstead di nome Royce Griffen si sparasse a bordo della sua macchina. Ci fermammo davanti alla mia casa. Sospirai. L'impresa, le due imprese, sembravano impossibili. «Ci rivedremo ancora una volta? Parlatene, fate come preferite, ma io penso che faremmo bene a vederci di nuovo. Tabby, forse tu potresti fare in modo di contattare Richard Allbee. Potrebbe servire a convincerti se...» Indicai Patsy con la testa. «Allora?» Di malavoglia accettarono. Nell'oscurità ciascuno si incamminò verso la propria abitazione. 4 A ripensarci, che cosa avrei potuto raccontare? Un essere che uccise animali e bambini tre secoli fa adesso sta assassinando donne in questo angolino del Connecticut? E questo stesso essere era un pescatore di aragoste nel 1924, quando lo vidi sull'altra riva del Nowhatan e per poco non svenni
perché ebbi la sensazione di avere visto la faccia del Male? E che qualcuno che forse addirittura conoscevamo, qualcuno che girava liberamente per Hampstead, aveva oggi quella medesima faccia? Non esageriamo, mi avrebbe detto Tabby e non avrei potuto biasimarlo. Specialmente dopo che avevo sostenuto con lui e Patsy che noi tre e Richard Allbee lo avevamo reso più forte per il semplice fatto di essere tutti riuniti a Greenbank. E avevo fatto capire che Gideon Winter era solo una parte della follia che ci stava piombando addosso. Svegliatevi, avrei dovuto dire, svegliatevi addormentati, ma al momento ancora non sapevo. SETTE Il Drago e lo specchio 1 Non molto tempo dopo che Graham Williams ebbe rivelato la sua teoria a Patsy McCloud e a Tabby Smithfield, più o meno all'epoca in cui il dottor Van Horne curiosava nei negozi di antiquariato della contea di Patchin alla ricerca dello specchio giusto da appendere in quello spazio vuoto che gli era rimasto sulla parete, Pat Dobbin cominciò a preoccuparsi per certe macchie bianche che gli erano apparse sulle spalle, sul petto e sulle braccia, tanto che martedì 3 giugno andò dal suo medico. Ci andò perché non voleva che quelle macchioline bianche gli si diffondessero anche sul viso. La visita del medico non fu molto soddisfacente e Dobbin se ne tornò a casa senza prescrizioni e con un appuntamento allo Yale Medical Centre di New Haven. Vi si recò due giorni più tardi, ancora convinto che al suo medico personale fosse sfuggita qualche semplicissima spiegazione. Mentre entrava nel vasto e moderno edificio dell'ospedale si sentiva ancora perfettamente sano e robusto. Sapeva di doverci restare per tre giorni, ma aveva deciso di vivere l'esperienza come fosse una vacanza fuori dell'ordinario e aveva portato con sé matite e fogli da disegno con l'intenzione di continuare il suo lavoro. Al secondo giorno del suo ricovero non si sentiva più tanto bene, aveva saputo di essere lievemente allergico a certi pollini, ad alcuni tabacchi da pipa, al pelo del gatto e all'amido. I test non avevano trovato però alcuna spiegazione per le macchioline della pelle. La mattina del terzo giorno il medico che guidava l'equipe di analisti gli
domandò se fosse disposto a trattenersi per altri quattro giorni. Il quinto giorno Dobbin notò la prima macchiolina bianca sulla faccia, all'angolo della bocca. Il sesto giorno, il penultimo, il medico entrò nella sua camera e si sedette sul suo letto. Ormai Dobbin lo conosceva per nome: dottor Chaney. Aveva persino immortalato in una serie di caricature, assai apprezzate dal personale, la sua faccia magra, simile a quella di una giraffa. Chaney sorrise a Dobbin e, forse soprappensiero, gli prese il polso per controllargli le pulsazioni. «Abbiamo studiato molto attentamente il materiale prelevato dalle sue lesioni, signor Dobbin», gli comunicò. «Molto gentile da parte sua», replicò Dobbin. Chaney gli lasciò andare il polso e alzò gli occhi dal suo orologio. «Devo dire che è stata una sorpresa per noi. Si è scoperto che è un tegumento liquefatto contenente melanina, sebo, cellule di vasi sanguigni e di canali linfatici, nonché cellule epiteliali. In parole povere si tratta di tutte quelle materie riscontrabili nel derma e nell'epidemia.» «Come dire che è pelle», sintetizzò Dobbin. Aveva riconosciuto gli ultimi due termini. «Infatti.» «Quella roba bianca è pelle.» «Proprio così.» «Allora...» Dobbin si adagiò di nuovo contro il cuscino. «Non capisco. Che cosa significherebbe?» «Che la sua pelle in un certo senso sta assumendo una consistenza colloidale. Non è più un tessuto connettivo. E la funzione principale della pelle è appunto di essere connettivo. Questo è il significato di tegumento.» Come per darne una dimostrazione visiva, il dottor Chaney intrecciò le dita. «Raramente, fra i non addetti ai lavori, la pelle viene considerata sotto questo punto di vista, ma in effetti è un organo, come il cuore o il fegato. Nel suo caso quest'organo sta perdendo spontaneamente le sue caratteristiche di solido.» Sorrise di nuovo. «Lei è davvero un soggetto molto raro, signor Dobbin. La sua pelle si sta liquefacendo.» Dobbin non riusciva più a parlare. «Lei dovrebbe essere dimesso domani e penso che non modificheremo questo programma. Vorrei però rivederla fra una settimana.» Dobbin lo interruppe: «Mi sta dicendo che non sono allergico a niente? Non ho la sifilide o il cancro o Dio solo sa che cosa? Posso sapere che cosa avete in mente di fare per impedire che mi trasformi in una pozzanghera?»
«Be', qualche allergia ce l'ha», rispose il medico. «Ma non è questo il problema. Quello che sta succedendo alla sua pelle può essere solo la reazione a qualcosa a cui è stato esposto, per esempio un'infezione, anche se nel nostro caso non possiamo parlare di virus o batteri. Le preleveremo altri campioni di pelle, sia da zone malate, sia da zone sane. Poi ci penseranno i nostri computer. Troveremo qualche ipotesi attendibile, signor Dobbin.» «Voi sperate di trovarne», puntualizzò lui. «I nostri computer sono in grado di raccogliere dati più velocemente di un'intera squadra di ricercatori che lavorassero per ventiquattr'ore al giorno. Troveremo quale agente provoca una reazione come la sua. Poi scopriremo come bloccare la reazione. Infine qualche trapianto cutaneo la farà tornare perfettamente normale, nel caso fosse necessario.» «Gesù!» «Non c'è niente di cui preoccuparsi, per ora», lo tranquillizzò Chaney. «Lasciamo fare al computer.» «Non abbiamo scelta.» L'ospedale gli restituì gli indumenti, le chiavi della macchina, il denaro e gli consegnò una tessera con la data del successivo appuntamento. Un po' frastornato, Dobbin percorse la I-95 per rientrare ad Hampstead. Quello fu anche il giorno del terzo omicidio, ma sia Dobbin sia gli altri abitanti di Hampstead ne sarebbero venuti a conoscenza solo due giorni dopo. Arrivato a casa, gli parve più piccola di quanto ricordasse. La sua cassetta delle lettere era piena zeppa di fatture, riviste, buoni del supermercato. Dobbin segnò la data del suo ritorno all'ospedale sul calendario. Entrò nella sua stanza da lavoro e innaffiò le piante. Poi si sedette al tavolo da disegno e visionò i bozzetti che aveva preparato. Ne stracciò una buona metà e si rimise all'opera. Questa volta al mago cattivo delle Storie dell'aquilaorso diede la faccia del dottor Chaney. 2 Mentre Pat Dobbin si trovava a New Haven in attesa di sapere se avesse contratto qualche strana forma di herpes, Hampstead veniva investita da un'epidemia di influenza fuori stagione. La prima settimana di giugno era anche l'ultima settimana di scuola al J.S. Mill. L'approssimarsi della chiusura dell'anno scolastico, significava un notevole cumulo di lavoro, ma per tutta la settimana il preside e quattro
insegnanti non poterono presentarsi alle lezioni. Fra gli studenti, i più colpiti furono quelli del secondo anno, e quaranta dei centocinque del secondo corso persero almeno tre giorni su sette. Graham Williams trascorse tre giorni facendo la spola tra il letto e il gabinetto. Les McCloud avvertì una fitta al ventre mentre rientrava a casa dopo essere stato alla polizia a mostrare il suo porto d'armi e a subire una ramanzina da Bobo Farnsworth. Cominciò a sudare e fermò la macchina su un tratto di Greenbank Road che correva parallelo all'autostrada. Schizzò fuori appena in tempo per vomitare su ciuffi di cicoria selvatica. Si stava ripulendo la bocca quando le budella gli si contorsero in uno spasmo doloroso ed esplosero. Si accasciò nell'erba e si sbarazzò delle scarpe aiutandosi con i piedi. Ringraziò il cielo di non trovarsi nel suo ufficio a New York. Si slacciò la cintura e calò i pantaloni. Sotto il naso di decine di persone che viaggiavano in macchina sulla I-95 si tolse le mutande. Poi gli si rovesciò lo stomaco e vomitò di nuovo. Boccheggiando aspettò che le sue viscere si contorcessero di nuovo, il che avvenne puntualmente, quindi si asciugò con l'erba, si infilò i pantaloni e tornò barcollando alla sua automobile. Compì il resto del tragitto guidando molto lentamente. Appena rientrato si mise a urlare cercando Patsy. Bobo Farnsworth non si ammalò, perciò si trovò a sostituire tutti i colleghi influenzati: per due settimane di fila fece turni di dodici ore e quando Ronnie fu finalmente in grado di scendere dal letto gli preparò la sua cena preferita alle otto di mattina: pollo fritto e pasticcio di verdure rosolate. «Come va là fuori?» gli domandò. Lei non riusciva a mangiare il pollo. L'odore dell'olio le dava la nausea. «Sembra una corsia d'ospedale», rispose Bobo. «Spero che quell'assassino stia vomitando l'anima, che il diavolo se lo porti.» I medici di Hampstead avevano le sale d'aspetto affollate da persone che non potevano aiutare. «È un'influenza del tutto nuova», dicevano alle vittime. «Non esistono pillole magiche. Bevete molti liquidi e restate a letto.» Le vittime commentavano: «La cosa peggiore è sapere che non si muore». Ma era una battuta che non rispondeva alla verità. Nessuno dei malati desiderava veramente morire, tuttavia alcuni non sopravvissero. I decessi si verificarono solo tra la popolazione maschile e tra individui ultrasessantenni. Graham Williams fu fra i fortunati. Harry Zimmer seguì Babe al cimitero di Gravesend tre settimane dopo la sua scomparsa. Cominciò
con un arrossamento alla gola mentre pescava, lunedì mattina, e pensò di avere preso il raffreddore. Morì il quinto giorno di malattia e il suo corpo fu scoperto l'indomani dal nipote. Quattro dei cinque uomini anziani che morirono erano iscritti all'associazione dei veterani di Hampstead e due erano fra i diplomati del 1921 al J.S. Mill: Graham Williams fu l'unico sopravvissuto di quella classe. «Io sono una rimpatriata ambulante», commentò alcuni mesi dopo con Tabby. «Ora è un dovere sopravvivere, devo farlo per la mia classe.» Il dottor Harold Rubin era uno psichiatra di New York che veniva ad Hampstead d'estate e prendeva alloggio in una delle case di legno che sorgevano al di là di Millpond, dove era vietata la circolazione degli automezzi. Prese il raffreddore il secondo giorno, uscì lo stesso in barca e due ore più tardi credette di avere il mal di mare. Morì in bagno il giorno dopo e il suo corpo non fu scoperto che a settembre. Ma ormai erano morti anche tutti i suoi vicini, sebbene non d'influenza. Una donna di settant'anni, colpita da attacco cardiaco, morì mentre pranzava sulla terrazza di un ristorante francese di Main Street. A differenza del dottor Rubin questa donna spirò davanti a una ventina di cittadini, fra i quali Tabby Smithfìeld e Patsy McCloud. Per una quindicina di giorni i medici di Hampstead furono sottoposti a un vero assedio. L'influenza, che sembrava di carattere locale e spontanea, si diffuse a velocità sorprendente nel periodo iniziale e se in queste prime fasi arrivavano pazienti che presentavano altre anomalie, scarsa attenzione fu prestata ai loro sintomi. Chi si presentò agli ambulatori denunciando l'apparizione improvvisa di brutte macchie bianche sulle mani o sulle spalle, non suscitò preoccupazioni. Dopo la prima ondata, il morbo imperversò per un mese, sia pure con minore intensità, e i medici continuarono a non dare importanza alle minuscole lesioni cutanee di alcuni pazienti. Ma quando uno dei colpiti fu indirizzato allo Yale Medical Centre, si cominciò a parlare di Pat Dobbin che, dalla metà di luglio, era ricoverato nel reparto di cura intensiva. Poco dopo l'arrivo del terzo paziente all'ospedale il dottor Chaney scrisse un articolo per una rivista medica inglese, The Lancet, intitolato La sindrome di Dobbin. In settembre il dottor Chaney poté aggiungere una postilla al suo scritto, facendo riferimento a quanto era accaduto il 17 maggio e all'accidentale esposizione di cittadini di Hampstead al DRG-16. Avanzò l'ipotesi che Thomas Gay, il ricercatore scomparso, fosse stato con tutta probabilità la prima vittima della sindrome da lui identificata, ma in difesa della definizione da lui data al morbo concluse: «Potrebbe
apparire più corretto adottare l'espressione 'Sindrome di Gay' per definire questi sintomi, ma per svariate ragioni mediche preferisco attenermi alla denominazione originale. Patrick Dobbin è stato il primo paziente preso in esame e il suo cognome ha un irresistibile richiamo letterario (Vanity Fair); e, a mio avviso, questa affezione è, per molte delle sue caratteristiche 'acliniche' e 'spirituali', tipicamente letteraria e vittoriana». Forse il dottor Chaney meritava di essere messo in caricatura, come aveva fatto il suo paziente nelle sue illustrazioni. 3 Il martedì mattina in cui Dobbin si recò per la prima volta dal suo medico personale, Tabby Smithfield era seduto in cucina con suo padre a mangiare le frittelle cucinate da Sherri. «Coraggio, mangiane qualcuna anche tu», disse Clark. «Ti comporti come se fossi la cuoca di questa casa.» Sherri si era appollaiata su uno sgabello vicino ai fornelli. «È così che mi tratti, infatti; perché dovrei comportarmi diversamente?» Clark arrossì e immerse una frittella nello sciroppo. «Siamo una famiglia», provò di nuovo. «Voglio che mangi con noi. Non startene lì seduta come un avvoltoio.» «Papà, per piacere», intervenne Tabby. «Non mi sento bene», affermò Sherri. «Non potrei mangiare niente.» «Sei malata?» Clark tornò a guardare Sherri, che non somigliava per niente a un avvoltoio. La sua faccia era pallida e paffuta. I suoi occhi erano gonfi. Si vedevano le radici nere dei capelli lungo la scriminatura. «Voglio andare a sdraiarmi, ma prima devo rigovernare la cucina.» «Come preferisci.» Clark non era più il giovane snello che giocava con Tabby sul prato davanti alla residenza di Mount Avenue. Si era appesantito e sugli zigomi erano apparsi reticoli di venuzze rosse. L'irascibilità, già ricordata da Graham Williams, era diventata una caratteristica permanente e non certo positiva. E Tabby, finita la colazione, mentre guardava suo padre in attesa di potergli parlare, pensò che non era rimasta alcuna traccia dell'antica prestanza nella faccia da suino che aveva davanti. «Perché non cerchi di riposare un po', Sherri?» domandò alla matrigna. «Che faccia un po' come le pare», brontolò Clark. «A che ora arriva l'autobus della scuola?» «Fra un quarto d'ora.» «E allora leggi un libro, fai qualche compito. Come va a scuola, Tabs?»
«Abbastanza bene.» Clark si strinse nelle spalle. «E il tuo lavoro come va?» gli chiese Tabby. «Come va il mio lavoro? Come vuoi che vada? Si lavora. Lo scoprirai da solo.» «Devi andare da qualche cliente oggi?» «È per questo che mi pagano, giovanotto.» «Quali clienti?» Clark posò il tovagliolo sul tavolo e lanciò un'occhiata torva a Tabby. «Vuoi sapere da quali clienti devo recarmi oggi? E va bene. Devo andare a Bloomingdale. Soddisfatto? Poi Caldor. Altri due a Woodville. Quindi andrò a Mount Kisco e a Pound Ridge. Soddisfatto?» «Non ti darà mai una risposta diretta», commentò Sherri dal suo sgabello. «Non provarci nemmeno.» «Ehi, vediamo di piantarla! Che cosa vi ha preso? Lavoro, torno a casa. Tanto basta. Non dovrò certo passare un esame.» «L'ho chiesto perché ero interessato, papà.» «Okay. Ma io ti assillo forse sulla scuola? Ti chiedo chi sono i tuoi amici o che cosa fai di sera? Eh? No! Ne ho sopportate abbastanza dal mio vecchio. Tu fai pure come vuoi. Per me va bene lo stesso.» «Sapevi che il nostro cognome non è sempre stato Smithfield?» gli chiese a bassa voce Tabby. «Immagino che un tempo fosse Morales», replicò ironico Clark. Sherri scese dallo sgabello e lasciò la cucina. «Sembra proprio che non si senta bene», osservò Tabby. «È Hampstead a farla star male, ecco che cos'è. Invece di ringraziare il cielo di trovarsi in una casa come questa. Lasciala perdere, Tabs, si adatterà.» «Lo spero.» Suo padre grugnì. Si asciugò le labbra con un tovagliolo. «Che cos'è questa scemenza del nostro cognome?» «Mi hanno detto che una volta era Smyth. Con la y.» «Mi giunge nuova. Come l'hai saputo?» «Un tizio a scuola.» «Io non ne so niente. Non dare retta a quello che ti dicono quei ragazzi. Tu bada al tuo lavoro, okay?» «Okay.» «Nient'altro, Tabs?» Tabby scrollò la testa e suo padre si alzò. Di lì a un minuto se ne sarebbe
andato. Sarebbe tornato a casa ubriaco. «Be', forse», disse Tabby. Clark aspettò in silenzio. «Sai niente di un pescatore che fu ucciso molto tempo fa a bordo della sua barca, qui in città? So che sembra un po' strambo.» «Al diavolo, Tabby. Vai alla fermata.» Clark recuperò la giacca dalla spalliera di una seggiola e si diresse verso la porta. «Si chiamava Bates Krell.» «Mai sentito nominare.» «Neppure un agricoltore che si chiamava Gideon Winter?» «Saranno almeno cent'anni che non ci sono più fattorie da queste parti», rispose Clark. «Alza il culo, Tabs. Perderai l'autobus.» Tabby raccolse libri e quaderni e uscì per andare ad aspettare l'autobus. Suo padre passò sulla sua nuova Mercedes rossa e lo salutò con la mano mentre svoltava sulla Beach Trail. Quando Tabby fu nelle vicinanze del J.S. Mill vide i gemelli Norman a colloquio con un uomo bruno dall'aspetto nerboruto, ma non atletico. Erano dall'altra parte della strada, di fronte all'ingresso della scuola, e l'uomo stava appoggiato a un furgone grigio. 4 «Dunque avete un compare», disse Gary Starbuck a Dicky e Bruce. «Sa che cosa deve fare?» «Ehi, piano», protestò Bruce. «Neanche noi sappiamo che cosa dobbiamo fare.» «Lo sapete.» «Perché, ti aspetti che leggiamo nel pensiero?» Starbuck sospirò. «Sentite, è un colpo, intesi? Questo lo sapete. Siete con me per un colpo, giusto? Non è quello che volevate?» «Sì.» «Dunque adesso avete quest'altro ragazzo.» «Sì.» «E grande?» Dicky e Bruce fecero cenno di no. «Non fa niente. Non c'è bisogno che sia grande. Deve avere sale in zucca, questo conta.» «Ne ha», garantì Bruce. Tabby era riuscito a giocare Bobo il clown domenica notte, confermando di essere in gamba.
Starbuck sospirò di nuovo. «Sono io che dovrei farmi esaminare la testa.» Incrociò le braccia sul torace mettendo in mostra i bicipiti. «Okay. Conoscete quella casa che c'è sopra la spiaggetta? Dove abita un dottore?» I gemelli, annuirono. «Van Horne», disse Dicky. «Esatto. Ci andiamo sabato prossimo. Toglierò le serrature, entreremo facilmente, senza chiasso. Non c'è sistema d'allarme. Un mucchio di roba buona. Conosco un tizio che è disposto a prendere il suo pianoforte. Direi che siete in grado di sollevare un piano. Cinquecento a testa, d'accordo? E dopo dimenticate anche il mio nome, chiaro? Vi prendete i vostri mille dollari e acqua in bocca.» «Vuoi dire che entriamo tutti?» volle sapere Dicky. «No, io entro e voi state in veranda a giocare ai quattro cantoni! È ovvio che si va tutti!» «E Tabby?» «Sarebbe quell'altro? Rimarrà fuori, sul furgone, con la radio. Se vede uno sbirro ce lo comunica. Lui si prende cinquanta dollari, più quello che gli vorrete dare voi.» «A noi ne vengono cinquecento», si assicurò Bruce. «Così si è detto.» Dicky e Bruce si scambiarono un'occhiata di perfetta intesa. «Gli daremo cinquanta a testa», concluse Bruce. «Bene», commentò Gary Starbuck. «Ci vediamo al parcheggio della Lobster House alle undici. Il nostro uomo è anziano e va a letto alle nove.» «Ma perché non andiamo in un giorno feriale?» chiese Bruce. «Non capisco. È un dottore, sta fuori tutto il giorno.» «Perché ha una governante e una cuoca, ecco perché», rispose Gary. «La governante è vecchia come lui e la cuoca viene e va da Bridgeport. Alle undici andrà benissimo. Potremmo andarci più tardi, ma perché sprecare tutta la notte?» «Un'altra cosa», disse Bruce. «Tu hai un'arma, no? Quando fai un colpo te la porti dietro?» «Tu non ci pensare», ribatté Gary. «Non l'ho mai usata. Io faccio un lavoro pulito, come mi ha insegnato mio padre.» 5 Erano anni che il dottor Wren Van Horne non sembrava tanto in forma. Gliel'aveva detto la sua segretaria, glielo avevano detto i suoi colleghi alla
Hampstead Clinic, glielo stavano dicendo persino i suoi pazienti. Hilda du Plessy, che era paziente di Wren Van Horne da quarant'anni esclamò: «Lei sta ringiovanendo, dottor Van Horne! È proprio vero, sembra più giovane di dieci anni». «Be', vorrà dire che fra un paio d'anni l'avrò superata, Hilda», replicò il dottor Van Horne alla simpatica vecchietta che mezz'ora dopo pensava ancora a lui mentre parcheggiava la sua Bentley, fra la sponda del fiume e Main Street. I suoi erano i tipici pensieri che affollano la mente delle vedove infatuate dei loro medici, con in più i particolari raccolti in più di mezzo secolo di vita. Hilda du Plessy aveva ragione: non solo il dottor Wren Van Horne sembrava essere in gran forma, ma appariva decisamente più giovane. I suoi occhi erano più limpidi, la sua schiena più eretta. Le rughe sotto gli occhi erano quasi scomparse. I suoi capelli sembravano quasi più folti: «Asciugati con il phon», commentò Hilda attraversando l'emporio di libri e sbucando in Main Street. «Dopo tanti anni ha deciso di usare il phon. Avrei potuto dirglielo io secoli fa, se mi avesse prestato attenzione.» Non degnò di una sola occhiata le pubblicazioni esposte perché mai avrebbe comperato un libro lì. Ada Hoff, al Books'n Bobs in fondo alla strada, sapeva esattamente che cosa lei desiderava. Ada Hoff era una vera esperta di libri, niente a che vedere con quei giovani che lavoravano nei grandi empori moderni. Ada Hoff conosceva i suoi clienti per nome e sapeva che certe persone hanno gusti speciali: Hilda era sicura di trovare sotto il bancone una fila di libri scelti proprio per lei. Entrando trovò Ada Hoff che si asciugava il naso con un fazzoletto di lino della stessa sfumatura di giallo delle decorazioni della sua libreria. Era il colore da lei preferito. «Stai bene, Ada?» le domandò Hilda. «Ho un terribile raffreddore», rispose Ada. Era una donna corpulenta e con la faccia rotonda, di qualche anno più giovane di Hilda. «È una vera epidemia. Spence e Thom non sono venuti oggi.» Spence e Thom, due scapoli che vivevano insieme, erano i commessi di Ada. Abituata com'era a trascorrere ore, quando era possibile, con Spence e Thom a scambiare pettegolezzi, Hilda si sentì contrariata dalla brutta notizia che veniva a guastare la sua giornata in città. «Oh, ma che peccato!» si rammaricò. «Comunque, ti prego di non attaccarmelo, Ada. Sto giusto tornando dal dottore.» «A proposito. Ho qualche libro da mostrarti», disse Ada frugando sotto il bancone. Poi le porse due libri rilegati e tre in edizione tascabile che
Hilda contemplò estasiata. Aveva una vera passione per i romanzi ambientati negli ospedali e Ada le aveva procurato delle vere primizie. Era talmente felice che dimenticò la delusione di non aver visto Spence e Thom. Uscì in Main Street quasi canticchiando di gioia. Udì trillare un fringuello tra i rami di uno degli alberi da frutto nani allineati in barili di legno di quercia lungo il marciapiede e sollevò la testa per rispondere all'uccellino fischiettando. Nella sua borsa pesante c'era un tesoro al quale presto avrebbe messo mano e occhi. Attraversò la strada, passò davanti alla sede dell'Hampstead Gazette e salì i gradini di mattone di un ristorante francese che si chiamava Framboise. Anche lì qualche contrarietà turbò il consueto rituale. Il caposala non era al suo posto. In sala da pranzo solo due tavolini erano occupati, uno da una coppia e l'altro da quattro uomini. L'uomo e la donna erano chiaramente ubriachi. Un'altra stonatura. Tre camerieri erano radunati attorno a un carrello portavivande. Non vedendo apparire il caposala, Hilda controllò da sola il registro delle prenotazioni e scoprì un «Diplessi». Alquanto seccata fece un cenno a uno dei camerieri che, preso un menu dal carrello, si precipitò a servirla. «Dov'è Francois?» gli chiese Hilda. «È. malato, signora», rispose il ragazzo. «Io sono du Plessy, non Diplessi come è scritto qui. Vuole per piacere accompagnarmi al solito tavolo?» Il ragazzo parve disorientato. «Fuori. All'angolo della terrazza, o meglio, del balcone che voi definite terrazza. È là che di solito mi siedo.» «Da questa parte, signora», la invitò il ragazzo intimorito dal tono di voce di Hilda. La donna raccolse la sua borsa e lo seguì sulla terrazza dove, sotto un tendone a strisce, erano allineati quattro tavolini. «Il mio tavolo è quello in fondo», gli spiegò Hilda quando il giovane cameriere si fermò a quello di mezzo. Giunta finalmente a destinazione disse: «Vorrei un aperitivo. Un Manhattan, per favore». «Con ghiaccio?» «Senza, prego. In uno di quei bicchieri a calice...» E ne descrisse la forma nell'aria, con le dita. Imbronciato, il ragazzo si allontanò. Hilda prese la borsa e tirò fuori i libri. Con espressione rapita riguardò le copertine, rilesse titoli e nomi delle autrici, e alla fine fece la sua scelta: L'eroe in bianco di Carrie Engelbart Hoskins.
Delicatamente lo aprì. Il cameriere arrivò con l'aperitivo. Con intenso piacere Hilda contemplò Main Street e poi, vinta da un impulso irresistibile, lesse la prima frase: «Edward Waterhouse era nato per rendersi utile». Quasi in trance, Hilda dimenticò l'aperitivo e continuò a leggere. Si concesse solo una pausa per considerare quanto la descrizione del dottor Waterhouse si accordasse alla sua opinione sul dottor Wren Van Horne. Osservò di nuovo Main Street e quando il suo sguardo si soffermò sulla vetrina del negozio di antiquariato le parve di vedere, seminascosto da una grande scritta a lettere dorate, proprio la persona alla quale stava pensando. Fu colta da un senso di eccitazione quasi sgradevole. Si sporse per guardare meglio e dietro le lettere dorate vide il padrone del negozio, un uomo basso e calvo. Irritata, borbottò tra sé: «Spostati... spostati», mettendo in crisi il cameriere che era tornato per prendere l'ordinazione. Il ragazzo e il negoziante sì mossero simultaneamente e Hilda vide che l'uomo brizzolato dietro la vetrina era proprio Wren Van Horne. Le sembrò persino più giovane di quanto le fosse parso nel suo studio un'ora prima. «Vuole che resti qui?» domandò incredulo il cameriere alle sue spalle. Hilda alzò gli occhi come per chiedere aiuto al cielo e vide un altro di quei piccoli fringuelli precipitare da un ramo basso della quercia davanti al ristorante e giacere privo di vita sul marciapiede. 6 Sapevi che era il momento dello specchio: non sapevi che cosa volesse dire, ma sapevi che il momento era giunto. «Deve essere speciale», stava dicendo il dottor Van Horne all'antiquario che non lo conosceva, ma che, dall'età e dal portamento e soprattutto dal completo di lino bianco e dal panama, lo aveva classificato tra i «patrimoni storici di Hampstead». «Molto speciale, le ripeto.» Sorrise con aria svagata. «Io lo riconoscerò, ma ciò che intendo dire è che anch'esso dovrebbe riconoscere me.» «Ah...» Il signor Bundle non seppe come replicare a una richiesta così irrazionale. «Avremmo alcuni oggetti nuovi...» «Sì, certo. Ho già cercato a lungo. Due giorni fa sono stato a Redhill e prima ancora ero andato a King George, dove ci sono molti negozi interessanti. Molti specchi, ma non... ecco, non andavano bene», concluse. «Per niente. Quello di cui ho bisogno... sì, giusto, è ben di questo che dobbiamo
parlare, no? Ho liberato un tratto di parete in casa. Quando l'ho fatto non sapevo nemmeno perché. Sapevo solo che dovevo togliere i quadri perché avevo bisogno dello spazio. Poi ho capito. Volevo uno specchio. Deve essere piuttosto alto e assolutamente ovale. E non deve essere nuovo. Se è nuovo non va bene.» Rivolse al signor Bundle un'occhiata maliziosa. «E oggi, mentre ero nel mio studio, mi è venuto... come dire, un lampo d'intuizione e ho sentito che lei aveva proprio lo specchio di cui io ho bisogno. Non è straordinario?» «Sì, è straordinario, perché proprio questa mattina sono entrato in possesso di alcuni mobili che avevo acquistato la scorsa settimana a un'asta», rispose il signor Bundle. «E fra l'altro c'è uno specchio che risponde assai bene alla sua descrizione.» «Lo sapevo.» «Mmm. Già. Straordinario. Vuole venire con me a vederlo?» Il dottor Van Horne annuì e seguì il signor Bundle nel retrobottega, pieno di mobili ammassati, molti dei quali ancora da restaurare. «A dire la verità non ho ancora stabilito un prezzo per questi oggetti, ma penso che riusciremo ad accordarci...» Il signor Bundle s'interruppe e inarcò un sopracciglio. «Oh sì. Certo», esclamò il dottore fermandosi a fissare la parte superiore, l'unica visibile, di un grande specchio ovale racchiuso in una pretenziosa cornice dorata. «Eccolo. Una volta era di mia proprietà.» «Di sua proprietà? Come le ripeto, proviene da un'asta. È francese e risale più o meno al 1790, forse anche a un periodo precedente. Credo che gran parte di questi oggetti sia stata importata da qualcuno della famiglia Green. Naturalmente adesso non ce ne sono più.» «Era mio», ripeté il suo cliente. «Sì. Vedo, signore.» Mentre insieme osservavano la superficie maculata dello specchio, una massa scura e untuosa parve muoversi al di sotto, un'ombra fluttuante che fece sgranare gli occhi al signor Bundle inducendolo ad allungare il collo per guardare meglio. Ma fu cosa di un istante. «Ah, eccolo. Mi ha riconosciuto.» «Ha bisogno di una bella ripulita», borbottò il signor Bundle. 7 Patsy spinse la porta della camera da letto con l'anca, reggendo un vas-
soio, e si avvicinò al letto dove Les giaceva in mezzo alle pagine di giornale, scatole di fazzoletti di carta, riviste, nonché torsoli di mela e noccioli di pesca in una ciotola. Sul petto aveva una pila di scartoffie dell'ufficio e una copia ancora ripiegata del Wall Street Journal. Lui la guardò con sospetto. «Che cos'è?» «La tua colazione. Toast di pane integrale, ricotta e succo d'arancia.» «E la chiami colazione? Ricotta?» Patsy posò il vassoio. «Il tuo stomaco ha bisogno di cibi leggeri.» «Lo so, ma santo cielo... perché non un uovo in camicia o qualcosa del genere?» «Mangia questo e vediamo poi come ti senti. Tra mezz'ora ho un appuntamento con il dottor Lauterbach. Se quando torno mi dirai che stai bene di stomaco, ti farò un uovo.» «Mi sento così debole.» «Non hai un bell'aspetto», osservò Patsy. Poi andò a sedersi in fondo alla stanza, con le ginocchia unite, il mento appoggiato a una mano. «Anzi, fai spavento.» «Nemmeno tu sei un gran che.» Les aveva reagito automaticamente, sentendosi attaccato, ma c'era un fondo di verità in ciò che aveva detto. Patsy appariva molto stanca. Un uomo più sensibile di Les l'avrebbe definita distrutta. «E perché dovrei avere un aspetto migliore? Sono molto giù. E non è l'influenza, Les. Forse farei bene a dire chiaro e tondo quello che penso e ad ammettere che si tratta di te.» «Non posso farci niente se mi sono ammalato. Mezza città è a letto con l'influenza.» «L'influenza non c'entra nulla. Io sto parlando del nostro matrimonio.» Les prese una delle carte che aveva sul petto e si mise a esaminarla con espressione dura. «Si direbbe che tu stia cercando di darmi subito un esempio di quanto ho appena detto. Ora non mi guardi nemmeno.» Les posò il documento e tornò a fissare stancamente Patsy. «Io non credo che il nostro possa definirsi un matrimonio», disse lei. «Non lo credi.» «Ho un marito che non mi parla, che non vuole mai fare niente con me e che ha bisogno di me solo quando sta così male che se la fa nei calzoni. Secondo te questo sarebbe un matrimonio?» «Non accetto la tua descrizione.»
«Perché a te non sembra così? Tu hai l'impressione che condividiamo qualcosa? Quando veniamo in contatto è solo perché ti è venuta voglia di picchiarmi. Preferisci picchiarmi che fare l'amore. E sai che è vero. Invece di scoparmi, mi batti.» «Gesù, ti sei proprio messa in testa di scaricarmi addosso tutte le colpe. E hai scelto proprio il momento migliore, quando sono talmente malato che non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto.» «L'unico che scarica qualcosa sei tu», ribatté Patsy. Suo malgrado era molto in collera. «Il nostro non è un matrimonio. Non vedo proprio perché dobbiamo vivere insieme.» «Non mi vuoi bene?» «Non lo so. Ma non mi sento certamente molto affettuosa nei tuoi confronti.» «Oh, Cristo, ma sono malato!» gemette Les. Patsy guardò il suo orologio. «Oh, lo so. Adesso ho capito. Il dottor Lauterbach. Vai da quello spremicervelli e gli racconti che io sono così malvagio con te e lui ti dice che faresti bene a piantarmi e probabilmente intanto ti tiene per mano.» «Adesso devo andare», dichiarò Patsy alzandosi. «Ricorda al nostro caro amico da dove gli arrivano i soldi», disse Les puntellandosi su un gomito e facendo scivolare le sue scartoffie sul vassoio. «Vedrai quanto tempo ci metterà a concludere che in fondo sono una gran brava persona.» «Addio», lo salutò Patsy avviandosi verso la porta. «Addio? Come sarebbe? Per sempre? Te ne vai?» Fece un sorriso cupo. «Non lo so», gli gridò Patsy. «Se me ne andassi, almeno non dovrei più vederti puntare pistole contro i poliziotti!» Les provò l'impulso di gridare a sua volta, ma si trattenne. «Sai perché è successo.» «Meglio di te.» Patsy chiuse la porta e scese in fretta le scale. Les stava urlando qualcosa che lei ignorò. Quindici minuti dopo risaliva lentamente Main Street alla ricerca di un posto dove parcheggiare l'auto. Per la verità Patsy aveva visto il dottor Karl Lauterbach solo una volta, dopo molte perplessità. L'aveva fatta entrare invitandola ad accomodarsi sul divano. «Voglio restare seduta», aveva obiettato lei. «Su una seggiola.» «Come preferisce. Io vorrei però che si stendesse sul divano.»
Patsy aveva preso posto su una poltrona davanti alla sua scrivania. «Perché ha voluto vedermi?» le aveva chiesto il dottor Lauterbach. «Sono infelice», aveva esclamato lei all'improvviso. «Tutti sono infelici», aveva ribattuto il dottore e Patsy aveva intuito che non avrebbe funzionato. Come avrebbe mai potuto aiutarla quell'uomo burbero e tanto pessimista? «Io sono infelice nel constatare che lei ha deciso di prendere posizione contro di me. Dovremo percorrere una lunga strada insieme, signora McCloud, e sarebbe meglio cominciare a collaborare.» Lo sguardo penetrante dell'analista aveva incontrato quello di Patsy che istantaneamente era scoppiata a piangere. Sapeva già tutto di lei, aveva pensato; era penetrato nel suo cervello e aveva visto tutto: Les, Marilyn Foreman, sua nonna, tutto. Patsy non era più riuscita a smettere di piangere. Il dottor Lauterbach non aveva detto niente e Patsy aveva continuato a singhiozzare fra le mani. Si sentiva profondamente umiliata. Sempre piangendo si era alzata e se n'era andata. Sapeva che non ci sarebbe tornata mai più e infatti non tornò da lui. Aveva invece preso l'abitudine di uscire puntualmente per l'appuntamento, giorno dopo giorno, e dedicarsi ad attività altrettanto terapeutiche, nel senso che la facevano sentire meglio. Visitava le gallerie d'arte o si fermava a prendere un caffè o a leggere un libro al tavolino della pasticceria, oppure passeggiava per Sawtell Beach. A volte andava a visitare il settore abbigliamento di Bloomingdale a Woodville. Di solito non le piaceva sprecare tempo girando per negozi, ma farlo nell'ora in cui sarebbe dovuta essere dal dottor Lauterbach, le procurava un autentico godimento. Questa volta però non aveva molta voglia di passeggiare e, ringraziando mentalmente il dottor Lauterbach, entrò in pasticceria. Ne uscì con un caffè in un bicchiere di plastica e si diresse verso uno dei tavolini all'aperto. Gli uomini seduti agli altri tavoli le dedicarono qualche secondo d'ispezione, valutando le sue gambe, il suo corpo, il suo viso. Patsy reagì con aria seccata, quindi tolse dalla borsetta il suo romanzo e il suo diario. Mise da parte il libro e cominciò a scrivere. Uomini con cui potrei andare a letto, scrisse. Richard Allbee. Bobo Farnsworth. Stava divertendovi. John Updike, Ilie Nastase. Sam Shepard. «E Rex, il cavallo prodigio», mormorò tra sé. Chiuse il quaderno, sorrise e contemplò gli alberelli di Main Street. Tabby Smithfield stava venendo verso di lei. Tabby non la vide. In effetti non vedeva niente, sembrava non guardasse
neppure dove metteva i piedi. Avanzava come fosse in trance. Patsy si augurò che non si accorgesse di lei, ma quando Tabby fu alla sua altezza lo vide così angosciato che non poté fare a meno di rivolgergli la parola. «Ciao, Tabby.» Lui girò la testa di scatto e quando la vide sul suo viso apparve un'espressione di immensa gratitudine. Venne timidamente verso Patsy. «Siediti», lo invitò lei indicandogli la sedia al suo tavolo. Tabby si sedette. La guardò di nuovo, non timidamente, e Patsy capì. Disse: «Hai fatto un altro... viaggio, vero?» e gli prese la mano. «È buona come definizione», commentò Tabby. 8 Aveva evitato i Norman il più possibile, ben sapendo che l'uomo con il quale li aveva visti parlare era il ladro. Ma dopo la prima lezione i gemelli apparvero d'incanto al suo fianco nel corridoio davanti alla biblioteca scolastica. «Ehi, Tabs», lo apostrofò Bruce posandogli un braccio sulle spalle, «sei stato in gamba. Non so che cosa hai fatto, ma l'hai fatto bene.» «Non ho fatto niente», rispose Tabby. Si spostarono per lasciare passare i compagni che entravano in biblioteca. Dal corpo di Bruce si sprigionava un odore penetrante, quasi di selvatico, che investì letteralmente Tabby. «È la migliore strategia», commentò Bruce cominciando a trascinare Tabby lungo il corridoio verso un'uscita. «Andiamocene da qui. Abbiamo solo una lezione con tanti assenti, nessuno ha voglia di fare niente di importante.» «In effetti...» I Norman si mostravano sempre più temerari di lui. «Bobo non ti ha detto niente di noi?» chiese Dicky. «Ehi, non fare lo stupido, Tabs è stato in gamba», lo rimproverò Bruce. «Battiamocela da quella parte quando nessuno ci guarda, okay?» Si trascinò dietro Tabby, e, battendogli una mano sulla schiena chiese: «Bobo non ha fatto il nostro nome, vero, Tabs? Nessuno ha parlato di noi, vero?» «Nessuno.» Tabby si staccò da Bruce. «Ha creduto che me ne stessi tornando tranquillamente a casa.» Bruce gli diede un pugno nel bicipite. «Sei forte.» Uscirono nell'aria umida. «Peccato per quest'epidemia d'influenza», dis-
se Bruce e Dicky rise. Girarono intorno alla scuola e si avviarono nel parcheggio. «Immagino che non ti dispiacerebbero cinquanta dollari», attaccò Bruce. «No», rispose Tabby. «Dipende da che cosa devo fare. Comunque non entro in casa altrui.» «Ma no», lo tranquillizzò Bruce. «Neanche per sogno. Ti va di venire giù in città con noi?» «Okay. Ma non voglio avere niente a che fare con un furto.» Bruce strizzò l'occhio a Dicky mentre tutti e tre salivano in macchina. «Vogliamo solo che tu faccia un lavoretto sabato notte.» «Con quel tizio», li accusò Tabby. «Era qui questa mattina, vero? Vi ho visti insieme. No, non ci sto.» «Guarda che ti strappo le orecchie», ringhiò Dicky. «Niente stronzate.» «Tabby, devi capire che per noi questa è una grande occasione», spiegò Bruce. «Dicky è già su di giri e mancano ancora quattro giorni.» Lasciata la scuola Bruce imboccò una strada secondaria. Case coloniali con cesti da pallacanestro fissati allo stipite del box; grosse Volvo parcheggiate nei vialetti; siepi di rododendro mostruosamente rigogliose. «Pensaci un attimo, Tabby. Tutti qui sono coperti da un'assicurazione, no? Se qualcuno perde qualcosa recupera immediatamente. Ci rimettono solo le compagnie di assicurazione, che sono talmente piene di milioni... cazzo, che li prestano persino al governo! E perché hanno tanti soldi? Perché c'è gente come questa che glieli da, nel caso qualcuno li derubi o che smarriscano qualcosa di prezioso. E allora tanto vale derubarli!» «Non lo posso fare.» «Dicky e io siamo disposti ad aggiungerne altri cinquanta di tasca nostra», insisté Bruce. «Te ne vai a casa con un bel centone. Tabby, abbiamo bisogno di te. Non può funzionare se non ci sei anche tu.» «Non posso». «E allora io ti strappo le orecchie», ripeté con calma Dicky. «Guarda che quello è un animale, fa sul serio», lo mise in guardia Bruce. «Senti, abbiamo quattro giorni. Ci vediamo a scuola giovedì o venerdì, va bene? Tu non dovrai fare altro che startene seduto nel furgone a controllare che non arrivi nessuno. Avrai una radio e se vedi arrivare qualcuno ci avverti. Ma non verrà nessuno. Metteremo il furgone sotto gli alberi e nessuno lo vedrà.» «Dove?» chiese Tabby. «Lo saprai sabato. Resta sul furgone e ti beccherai un centone.»
«Altrimenti ti sistemo io», aggiunse Dicky. «Non scherzo, Tabs.» Bruce svoltò in Main Street. «Vuoi una coca o qualcos'altro, Tabs?» Tabby scrollò la testa. Non vedeva vie d'uscita. Fracassare cassette delle lettere era già abbastanza grave; non voleva assolutamente diventare complice in un furto. Fu allora che vide l'automobile di suo padre parcheggiata nella via. Suo padre l'avrebbe aiutato. «Fatemi scendere qui», chiese. «Sicuro, Tabs», lo accontentò Bruce. «Come vuoi.» Accostò e si fermò. «Torni a casa in autostop?» Tabby annuì mentre scendeva e si sentì quasi in salvo. Dopo che Bruce se ne fu andato Tabby cominciò a guardare dentro le vetrine dei negozi più vicini alla Mercedes, ma non trovò suo padre da nessuna parte. Nemmeno sull'altro lato della strada, nel grande negozio che vendeva materiale fotografico e computer, cancelleria e libri, forniture per uffici. Andò a controllare persino il reparto dei libri per l'infanzia. Ma che cosa ci faceva suo padre ad Hampstead? Sarebbe dovuto essere a Woodville e poi a Pound Bridge e a Mount Kisco. Era strano, tuttavia pensò di andare a sedersi in macchina ad aspettarlo... A un tratto si accorse di avere trascurato una vetrina. Il vetro era così scuro che dalla parte della strada era come guardare in uno specchio. Era O'Halligan's, l'unico bar di Main Street. Tabby andò ad appostarsi in un vicolo che metteva in comunicazione un parcheggio con il viale. Lì nessuno l'avrebbe visto. Non dovette attendere a lungo. Pochi minuti dopo la porta di O'Halligan's si aprì e suo padre uscì, un po' malfermo sulle gambe. Arrivò fino sul ciglio del marciapiede, dove sostò a contemplare con aria corrucciata il canaletto di scolo. Quindi si voltò a guardare con aria cupa la porta del bar. «No, papà», gemette Tabby. Dal locale uscì una donna alta, con i capelli neri e un rossetto vivace sulle labbra. Indossava una camiciola bianca senza maniche e pantaloncini color nocciola. Tabby notò le sue splendide gambe e i pesanti gioielli d'oro che aveva al collo e ai polsi. A suo confronto Sherri Stillwell era una sguattera. La donna non era ubriaca quanto Clark. Lo prese sottobraccio e gli mormorò qualcosa. Clark alzò le spalle, quindi scrollò la testa. Poi la donna finse di sospingere Clark verso il bar, ma Clark le diede una pacca sul braccio. Allora la donna, indicandogli Main Street, mormorò qualcos'altro e questa volta Clark annuì. Si incamminarono per la via. Dove andavano? Al Framboise per un altro aperitivo e la colazione? E poi in qual-
che motel di Norrington? Tabby restò a guardarli camminare per il viale soleggiato. Di tanto in tanto si fermavano davanti a qualche vetrina. Suo padre sembrava avvezzo alla compagnia di quella signora. Naturale. Suo padre non aveva un lavoro. Fingeva di andare a lavorare. Si era trasferito ai «Quattro Focolari», aveva acquistato la Mercedes che aveva sempre sognato e si era dedicato al lavoro di scialacquare il patrimonio di Monty Smithfield. Gli venne voglia di piangere. Partì di corsa per l'altra direzione, con gli occhi che gli bruciavano. E pensare che aveva sperato che suo padre potesse aiutarlo con i gemelli Norman! La disonestà di suo padre fu intollerabile per Tabby. Disonesto, disonesto! Vide in suo padre un uomo rovinato. E si sentì rovinato lui stesso. Intanto era arrivato davanti alla grande biblioteca di pietra all'angolo di Post Road e Main Street, subito prima del ponte sul Nowhatan. Aveva bisogno di sedersi, di pensare a se stesso, a suo padre e a Sherri. Aprì la porta ed entrò nell'atmosfera fresca della biblioteca. Pensò di sottrarsi agli sguardi incuriositi delle bibliotecarie e delle persone che leggevano il giornale ai tavoli, rifugiandosi tra gli alti scaffali delle riviste. Gli parve che la biblioteca si allungasse e si allargasse, che il disegno a scacchi bianchi e neri del pavimento tremasse e vibrasse. Un orologio rotondo, appeso alla parete dietro il banco, era fermo: la lancetta dei secondi, di un brillante color nero, era bloccata fra le due e le tre, come se fosse inchiodata al quadrante. Gli scaffali delle pubblicazioni periodiche ondeggiarono. Anzi, fluttuavano, concluse Tabby, come alghe sotto il pelo dell'acqua, come onde di calore che salgono da un'autostrada. Si fermò sui suoi passi, più meravigliato che impaurito da quell'alterazione. Non provava più vergogna. Ebbe la sensazione che le pareti si stessero aprendo dolcemente. Dalla vibrazione del pavimento e da quell'orologio fermo Tabby ricevette al contempo un avvertimento e un senso di rappacificazione. Sentiva che stava per succedergli qualcosa. La biblioteca sembrava ora invasa da una luce magica. I piedi lo condussero verso la sezione storica, due pareti piene di libri fra le quali restava un passaggio lungo e angusto. Tabby s'infilò fra gli scaffali e udì lo stanzone emettere un ronzio. Il corridoio che stava percorrendo era buio e fumoso. Per un secondo, circondato da quegli alti scaffali, Tabby
credette di vedere nuvolette di polvere bruna sollevarsi fra i suoi piedi. Ah! Una larga, lenta saetta scese di traverso da un cielo scuro, allungandosi come un telescopio. «Ecco qui il ragazzo», disse una voce alle sue spalle. Gli scaffali e la biblioteca erano scomparsi e Tabby si trovava all'esterno, fermo (o nascosto?) vicino alla parete di una casa di legno. La notte era densa di rumori: il crepitare del fuoco, invettive e imprecazioni, l'abbaiare di un cane. «Saresti dovuto andare a Fairlie Hill, ragazzo, con gli altri.» Sì, si nascondeva. Allungò la mano e toccò il legno levigato della casa. I suoi piedi erano sprofondati nei fiori. «Mastro Smyth», disse il ragazzo. «Vuoi una palla nella schiena?» Tabby si voltò. Aveva temuto di riconoscere il viso, ma non fu così. Era oblungo, dall'espressione prepotente e vagamente folle. Il mento era umido di bava. I denti erano grandi e scoloriti. Gli occhi color del tè - il particolare più raccapricciante di quel volto perché il meno umano - scintillavano come fossero smaltati. «Tuo padre è a bordo di una galera inglese, Mastro Smyth», disse l'uomo, «credo che non dovrà soffrire ancora per molto. E nemmeno tu.» Un lungo moschetto apparve come per incanto nella mano dell'uomo. Quando la canna fu a una spanna dal petto di Tabby, il moschetto esplose. Tabby stramazzò all'indietro, tra i fiori. Non c'era stato dolore, solo quel colpo terribile. Gli occhi color del tè lo fissarono con astio. La camicia gli si era incendiata in molti punti, dove era stata raggiunta dalla fiammata della polvere da sparo, e adesso gli bruciava contro la pelle. Non sentiva le piaghe aprirsi nella sua carne perché era morto. Quasi con impazienza Tabby si risollevò dal corpo che giaceva fra i fiori e notò che la faccia del ragazzo non era la sua, eppure era come la sua. «Due, questa notte», fece l'uomo con la bava sul mento. «Il fattore Williams e il giovane Smyth. Più avanti non andranno.» Lo spirito o l'anima che era Tabby si librò sopra gli uomini e il ragazzo morto con gli abiti in fiamme. Il riflesso di cento focolai d'incendio illuminava il cielo. Tabby vide davanti a sé un lungo corridoio bianco e una sorgente di luce pulsante sul fondo. Raggi di luce intensa emanavano dalla palla di luce. Corridoio e luce gli restituirono serenità e forza; sapeva che là dentro avrebbe provato le sensazioni autentiche del paradiso, fresche e ristoratrici come acqua di mare. S'incamminò verso la luce pulsante.
Subito dopo si ritrovò sdraiato su un fianco, in posizione scomoda, sul pavimento. Accanto a lui giaceva un volume aperto, rovesciato: Storia di Patchin, di D.B. Bach. «Figliolo?» Era una delle due bibliotecarie che stavano al banco. «Stai bene?» «Sì, grazie», rispose meccanicamente Tabby. Si sollevò sulle ginocchia. Gli girava la testa. «Solo un po' debole. Non so che cosa sia successo.» La bibliotecaria si chinò e, invece di prendergli la mano come lui si era aspettato, recuperò il libro. «Se sei uno studente del J.S. Mill, dovresti essere a scuola», notò. «Oggi hanno sospeso le lezioni», spiegò Tabby rialzandosi finalmente in piedi. «Per l'influenza.» «E te la sei presa anche tu», commentò la bibliotecaria. «Torna a casa e mettiti a letto, giovanotto. Non stare qui a contagiare anche noi.» Tenendo il libro saldamente stretto sotto il braccio accompagnò Tabby fino alla porta. Il ragazzo incespicò quando fu colpito dal sole. Si guardò indietro e vide la bibliotecaria fargli cenno di allontanarsi con la mano. Tabby arrivò al ciglio del marciapiede e si sedette, aspettando che quello spiacevole senso di vertigine finisse. Trovò un pezzetto di legno e lo fece scorrere sul terreno cedevole sotto la siepe. Allora vide che la riga che aveva tracciato per terra si riempiva di un liquido rosso. Sangue. Come l'affiorare di un lago di sangue nascosto sotto la superficie. Tracciò un altro solco e anche quello si trasformò in un rivolo di sangue vischioso che alla fine traboccò nella polvere. Con orrore Tabby lasciò cadere il pezzo di legno nella pozza che si ingrandiva a vista d'occhio. Le gambe lo costrinsero ad alzarsi. Svoltò l'angolo e risalì alla cieca Main Street. Quando arrivò alla pizzeria vide Patsy McCloud seduta a scrivere davanti alla pasticceria. Se avesse cambiato direzione in quel momento, certamente lei avrebbe pensato che lui la evitava; d'altra parte non voleva imporle la sua compagnia. Gli sembrava così eterea, preziosa... Poi udì la sua voce cristallina e provò un immenso senso di gratitudine. Guardò timidamente verso di lei. «Sì, ho visto la sua faccia», stava dicendo a Patsy cinque minuti dopo. «Era orribile, sembrava il muso di un vecchio cagnaccio cattivo. Nei suoi occhi brillava una luce malvagia. Non ha nemmeno pensato al fatto che mi
stava sparando. Ha sparato e basta.» «E non era un volto che conosci.» «Mai visto prima.» «E tu credi che possa trattarsi di Gideon Winter?» «Be', lui direbbe così, no?» «Sì», convenne Patsy. «Credo di sì.» Restarono in silenzio per un momento. «Quale libro avevi preso?» gli domandò alla fine lei. «Un libro di storia. Storia di Patchin, di un certo Bach.» «Secondo me faremo bene a procurarcene una copia», affermò Patsy. «Ci penso io.» Sorrise. «Non vorrei che diventassi famoso come quello che sviene nelle biblioteche.» Lui cercò di rispondere al suo sorriso. «Tu vedi nel passato», osservò Patsy. «È interessante. Ti è mai capitato di vedere nel futuro?» «Credo di sì», rispose Tabby arrossendo. «Una volta, quando avevo cinque anni. Lo sai... ho visto la signora Friedgood.» Il suo rossore aumentò. «Ma di solito vedo nel passato.» «Io non vedo mai nel passato», dichiarò Patsy. «Be', facciamo proprio una bella coppia.» «Non mi pare vero essere qui seduti a parlare di queste cose», disse Tabby. «Anzi, direi che mi sembra impossibile riuscire a parlarne così.» Scosse la testa. «E c'è un'altra cosa. Dopo che sono uscito dalla biblioteca ho visto sanguinare la terra, ho visto sangue uscire dal terreno. L'ho visto.» Patsy rivolse un'occhiata interrogativa al marciapiede di cemento. Un secondo dopo entrambi sollevarono di scatto la testa perché dall'altra parte della strada una donna aveva cominciato a gridare. Tutti guardavano dalla stessa parte, cercando di individuare la fonte delle grida. Poi un uomo puntò il dito. Patsy lo imitò e anche Tabby alla fine la vide: una donna anziana e pallida, con un vestito nero a pieghe, in piedi davanti a un tavolino sulla terrazza del ristorante francese. Aveva le mani sugli occhi e la bocca spalancata. Da quel corpo uscivano più suoni di quanto fosse immaginabile. Di lei sembrava non fosse rimasto altro che quelle urla disumane. Sotto gli occhi di Tabby e degli altri spettatori, molte persone si precipitarono sulla terrazza. Suo padre fu la terza persona a uscire e pochi secondi prima che la raggiungesse, la donna stramazzò a terra. Tabby fu sicuro che quella vecchia era morta. Poi vide suo padre farsi da parte mentre il cameriere andava a inginoc-
chiarsi accanto alla vecchia. Anche se le grida erano cessate gli parve di sentirle ancora. Vide suo padre girare intorno all'uomo inginocchiato e alla donna morta e avvicinarsi quindi al parapetto per vedere che cosa fosse accaduto. Suo padre guardò il marciapiede sotto la terrazza; guardò la strada; infine guardò verso il capannello di persone raccolte davanti al negozio di ferramenta, alla pasticceria, alla bottega d'antiquariato. Quindi gli occhi di suo padre incontrarono i suoi. 9 Disorientata, spaventata, Hilda du Plessy vide il piccolo fringuello rotolare sul marciapiede. Le era passato l'appetito: non poteva pranzare con un uccellino che giaceva morto e ignorato sul marciapiede sotto di lei. «Che cosa desidera, signora?» le domandò il cameriere. «Ah, niente. Un'insalata», rispose. «Solo un'insalata? Quale genere di insalata?» «Qualsiasi. Crescione. Pomodoro. Spinaci. Non mi importa, sciocco.» «Insalata della casa», concluse il cameriere e poi borbottò qualcosa che Hilda non capì. Agitata, Hilda cercò dietro la vetrina la sagoma del dottor Van Horne, sperando di ricevere da lui un sorriso rassicurante e un gesto di saluto. Chissà, forse l'avrebbe persino chiamata per nome. Se non era troppo occupato, forse l'avrebbe raggiunta al ristorante per pranzare con lei. Ma l'uccellino era ancora lì, sul marciapiede. Prese la borsa e si accinse ad alzarsi per andarsene. Fu in quel momento che il dottor Van Horne riapparve dietro la vetrina: aveva trovato qualcosa che gli piaceva e adesso stava pagando. Il più noto medico della città aveva acquistato un oggetto antico e prezioso... tutto sembrava tornato nella normalità. Hilda si rilassò e si riappoggiò allo schienale, in attesa della sua insalata. Pochi minuti più tardi il dottor Van Horne fece la sua apparizione sulla soglia del negozio. Il padrone gli tenne la porta aperta mentre usciva sul marciapiede. Trasportava uno specchio voluminoso e pesante. La sua automobile era proprio davanti al negozio. Con quel vestito bianco e il panama, ricordava l'eroe di qualche film o un romanziere o un pittore famoso. Quell'enorme specchio sembrava senza peso tra le sue mani. Hilda agitò la mano, augurandosi con tutto il cuore che lui alzasse gli occhi.
Il dottor Van Horne si fermò accanto alla macchina. Posò lo specchio in verticale tenendolo con una mano mentre con l'altra apriva la portiera. «Oh, dottore», cinguettò Hilda. Lui alzò gli occhi. Non capiva da dove l'avessero chiamato. «Dottor Van Horne?» Hilda agitò nuovamente la mano. La vide al suo tavolino sulla terrazza, ma non le sorrise. Il suo volto, i suoi occhi, non reagirono al saluto. L'aspetto mistico del dottor Van Horne svanì in un istante. Per un momento le sembrò quasi ritardato. Lo specchio si era oscurato. Fino a poco prima rifletteva gli alberelli, i gradini dell'ingresso del Framboise e un lembo del tendone; poi perse di colpo la sua luce e si riempì di fumo nero. Ora era completamente nero. Sembrava che un lungo corridoio partisse dalla cornice ovale. Le dita di Hilda smisero di agitarsi. I suoi polmoni smisero di respirare. Decisamente stava succedendo qualcosa dentro quello specchio. Una faccia guizzò nel buio di quel lungo corridoio. Vide una mano. Occhi, denti. Poi vide quel piccolo angolo di Main Street trasformarsi in un ammasso di rovine, case diroccate, tendoni strappati, a brandelli, immondizia soffiata dal vento sui gradini. Sussultò indietreggiando. Al centro di quella scena sconvolgente c'era il dottor Van Horne, che la fissava. Le orecchie erano molto lunghe e appuntite, le sopracciglia folte e rivolte all'insù, il naso a becco. I denti diventarono lunghi e acuminati. Hilda urlò senza nemmeno rendersene conto e non poté più fermarsi. In un ultimo barlume di coscienza capì che stava attirando l'attenzione su di sé, che stava dando spettacolo, ma quelle grida le laceravano la gola, erano più forti di qualsiasi consapevolezza. 10 Quel martedì sera, quando Clark Smithfield finalmente rincasò, era più ubriaco del solito. Erano le nove ed entrò in soggiorno dove Tabby e Sherri stavano guardando le prime sequenze del film del martedì. Avevano cenato già da ore. Al tonfo della porta d'ingresso Sherri sussultò ma non si mosse. «Ma che carini!» esclamò Clark appoggiandosi allo stipite della porta del soggiorno. «Immagino che ormai mi avrete strizzato a dovere.» Sherri gli lanciò una breve occhiata e tornò a guardare lo schermo. «Già, già», borbottò Clark. «È stata una buona giornata?» gli chiese Sherri.
«Grandiosa. Maledetta ipocrita. Non fare finta che il ragazzo non ti abbia raccontato tutto.» Avanzò barcollando, si strappò di dosso la giacca e la scagliò su una seggiola. Poi si sprofondò in poltrona. Sherri rivolse un'occhiata scura a Tabby e poi tornò a guardare il marito. «Dammi da bere», ordinò lui. «Come?» «Come! Come! Come! Ti ho chiesto di alzare quel tuo culo pigro e versarmi tre dita di whisky in un bicchiere e di venire a mettermi il bicchiere nella mano. O è troppo complicato per te?» «Scusatemi», disse Tabby. «Vado in camera mia.» «Bravo, bravo, taglia la corda», lo aggredì il padre. «Non vedevi l'ora di correre a casa a spifferare tutto, vero?» «Spifferarmi che cosa?» «Se vuoi saperlo si chiama Berkeley, è alta un paio di metri, ha trent'anni e il motivo per cui è così alta è che ha le gambe che le partono da qui e non smettono finché arrivano a terra e...» Mentre chiudeva la porta Tabby sentì Sherri rovesciare il tavolino. Quando raggiunse la sua camera stavano urlando. Due ore più tardi Sherri venne a bussare. Tabby sapeva che cosa era venuta a dirgli, perciò mentre andava ad aprire si sentì tremare. «Oh, povero ragazzo», mormorò Sherri. Aveva i capelli scompigliati e la faccia gonfia. Appena ebbe pronunciate quelle poche parole si mise a piangere. «Oh, no», la rincuorò Tabby. «Ti prego.» Sherri andò a sedersi sul suo letto. «Non ha mai avuto un lavoro, qui. Era una bugia fin dal primo giorno.» Adesso non piangeva. Era in collera. «Ha conosciuto quella donna un mese fa. Aveva solo voglia di spassarsela e spendere soldi. Non posso più vivere con lui, Tabby.» «Che cosa intendi fare?» le domandò lui. «Ho già chiamato un taxi», annunciò. «Per fargli dispetto prenderei l'automobile, ma naturalmente adesso è uscito a fare il giro dei bar per dimenticare che ha sposato una strega come me.» Riuscì a sorridere. «Prendo il treno per New York questa sera stessa. Tornerò in Florida. Sai che ho sempre odiato questo posto.» «Lo so.» «Puoi venire con me, se vuoi. Troveremo qualcosa. Sono una brava lavoratrice.» Tabby temette di mettersi a piangere.
«Ti voglio bene», disse Sherri. «Ti ho voluto bene da quando eri un marmocchio pelle e ossa a Key West.» Tabby non riuscì a trattenere le lacrime. «Hai sempre avuto quel faccino sperduto», mormorò Sherri abbracciandolo. Piansero insieme, mentre Tabby ricordava Sherri che gli aveva fatto da madre in Florida. Le tenne il viso contro la spalla mentre piangeva perché la stava perdendo. «Guarda che puoi davvero venire con me», gli bisbigliò Sherri all'orecchio. «Non posso», rispose Tabby. «Ma anch'io ti voglio bene, Sherri.» «Vorrei ben vedere.» Gli posò la mano sulla nuca. «Ti manderò una cartolina. Scrivimi qualche volta, Tabby, come facevi con tuo nonno.» «Ti scriverò.» «Devi prenderti cura di lui. Io ci ho provato, Tabby. Dio sa se non ce l'ho messa tutta, ma se resto qui è capace di uccidermi.» «Hai abbastanza denaro?» Adesso gli occhi di Tabby erano di nuovo asciutti, ma continuò a tenere la testa sulla spalla di Sherri. «Mi basta, per ora. E posso sempre trovarmi un lavoro. Non mi preoccupa il denaro.» «Ti manderò dei soldi.» «Prendendoli dalla tua paga settimanale?» «Avrò dei soldi da mandarti.» «Preoccupati di tuo padre, non di me. Clark avrà bisogno del tuo aiuto.» Squillò il campanello della porta e Sherri lo strinse con più impeto. «Mi ha mentito», gli disse. «Non me ne vado a causa di quella donna, Tabby. Devi credermi. Per me è importante.» Lo baciò sulla fronte. «Mi mancherai tanto.» Lui la seguì sul pianerottolo. Sherri prese la valigia. Scesero insieme. Alla porta lui l'abbracciò; poi lei salì sul taxi e partì. Tabby sapeva che non l'avrebbe mai più rivista. Tutto questo sarebbe potuto accadere se Hilda du Plessy non si fosse trovata sulla terrazza del Framboise; ma che fosse accaduto quel martedì sera era una conseguenza diretta della sua presenza là. I collegamenti fra Hilda du Plessy e quanto capitò a Richard Allbee il mercoledì dopo la morte dell'anziana signora sono meno diretti e tuttavia evidenti. È più una questione di coincidenza che di fatti in sé, i quali, e su questo non ci possono essere dubbi, si sarebbero verificati anche se Hilda fosse nata morta.
Mercoledì mattina Richard era stato allo studio di Ulick Byrne, l'avvocato della famiglia Sayre ad Hampstead. Insieme con le chiavi della nuova casa Richard ottenne un'occhiata scontrosa e una ramanzina dal giovane avvocato Byrne. «È tutto molto irregolare. Anzi, devo dirle, signor Allbee, che è la prima volta che consegno le chiavi prima della firma definitiva del contratto. Sono molto contrario. Ho espresso chiaramente il mio parere negativo. Mi consola sapere con certezza che lei ha ottenuto il suo mutuo. Devo dire che apparire ogni sera alla televisione ha i suoi lati positivi, ma», proseguì puntando l'indice come una canna di pistola al petto di Richard, «la famiglia Sayre e io la riterremo responsabile di qualsiasi danno venga arrecato alla proprietà prima della transazione. Se dà fuoco alla casa ne comprerà le ceneri. Dovrebbe essere estremamente grato alla signora Sayre e a suo figlio che hanno voluto farle questa concessione non certo prevista dalla legge.» «E infatti sono loro estremamente grato», replicò con sincerità Richard. «Il figlio della signora Sayre deve aver certo tenuto conto della scomodità di trasferirsi in una casa che puzza come una fabbrica d'ammoniaca quando ha deciso di farci avere le chiavi in anticipo.» «L'ha pensato certamente quando ha stabilito il prezzo per quella casa», replicò l'avvocato. «Fra pochi giorni mi sentirò per telefono con l'avvocato Barbasch.» John Barbasch era l'avvocato degli Allbee: anche lui non approvava la procedura che era stata seguita. Appena gli Allbee ebbero messo piede nella casa al numero 32 di Beach Trail, Greenbank, boccheggiarono. «Ci vogliono le maschere antigas!» esclamò Laura correndo alla finestra più vicina. Ben presto tutte le finestre del pianterreno e del primo piano erano spalancate. Richard cominciò a staccare la passatoia sulle scale dalle assi di legno. Gli dispiaceva rinunciare a tappeti che dovevano essere stati di buona qualità, ma sapeva che l'odore di orina di gatto sarebbe riaffiorato anche dopo mille lavaggi ogni volta che la giornata fosse stata un po' più umida del solito. Quando, già sudato, cominciò a sollevare la moquette del soggiorno, ebbe la piacevole sorpresa di trovare sotto di essa un bel parquet di quercia ancora lucido. A metà del lavoro si concesse una pausa e sedette sul par-
quet a contemplare le modanature che incorniciavano gli alti soffitti. Ci starò bene in questo posto, pensò. Sentiva Laura canticchiare fra sé mentre inondava di acqua e sapone il pavimento della cucina. È anche meglio della casa di Kensington. Si fece aiutare da Laura a spingere il pesante tappeto fuori della porta. «Mi aiuti a trasportarlo fino al vialetto? Aspetta. Non c'è della corda o dello spago in casa?» Laura tornò con un gomitolo trovato in un cassetto della cucina e anche con una strana espressione negli occhi. Richard cominciò a srotolare lo spago per legare le due estremità del tappeto. «Credi ai fantasmi?» gli domandò inaspettatamente Laura. Richard si asciugò il sudore dalla fronte e la guardò convinto che lei avesse voglia di scherzare. «Solo a quelli che si vedono in televisione.» «Be', sai che si dice che gli odori di una casa sono gli spiriti dei gatti?» Lui annuì. «Ecco, ne ho appena visto uno.» «Hai visto lo spirito di un gatto?» Richard inarcò le sopracciglia. «Quando sono andata di là a prenderti lo spago. Non scherzo, Richard.» «Ti sei spaventata?» «No. Direi che mi ha incantato.» «Come fai a dire che era un fantasma? Che aspetto aveva?» «Stava seduto sul piano d'appoggio, vicino al lavello. Era color grigio chiaro, molto molto carino. Un bel gattone grigio. Teneva una zampina sollevata, come se avesse appena finito di leccarsela. Io sono entrata in cucina e mi ha guardato. Sembrava contento di vedermi. Poi...» Laura inclinò la testa e i capelli ondeggiarono dietro le spalle. «Questa è la parte che non crederai. Poi è scomparso. Puf. Svanito.» «E tu vorresti che credessi a questa storia, vero?» Richard si appoggiò al tappeto e la scrutò in viso. «Visto che è successa, direi di sì.» «E come ti sei sentita?» Laura si strinse nelle spalle. «Direi che mi ha fatto sentir bene, in un modo un po' singolare, come se la casa mi stesse dando il suo benvenuto.» «Te lo daranno anche gli psichiatri», ribatté Richard sorridendo divertito. Laura gli sferrò un pugno per gioco e lui indietreggiò per schivarlo. Risero insieme. «È successo!» protestò Laura. «L'ho visto davvero.» «Va bene, va bene», rispose Richard. «Ma ricordati di cercare le impronte delle zampe sullo scolapiatti.»
«Ma l'ho visto, scemo», brontolò lei tornando in casa. Senza smettere di sorridere, Richard fece rotolare il tappeto sul prato, verso il vialetto. Quando lo ebbe sistemato accanto a quello tolto dalle scale, si tamponò la fronte con il fazzoletto. Il giorno dopo avrebbero terminato il primo lavaggio e finalmente si sarebbe potuto occupare del suo speciale preparato per una seconda passata di pavimenti e scale. Si voltò di nuovo e avvertì un tonfo al cuore. Sull'altro lato del vialetto, all'ombra di una parete invasa dall'edera, gli sorrideva Billy Bentley. Era a braccia conserte. Aveva un berretto a visiera spinto all'indietro sui riccioli. Aprì le braccia e una lunga lama di coltello brillò sullo sfondo verde dell'edera. «No, no», mormorò Richard. Non sapeva nemmeno perché. L'espressione di Billy era allegra. Fece un affondo con il coltello, per gioco. Un grande gatto grigio saltò giù dal muro e si strusciò contro le gambe di Billy. Billy avanzò di un passo, uscendo dall'ombra. Richard doveva tenerlo lontano dalla casa: non era quello il messaggio lanciato dal suo incubo ricorrente? Billy non era lì, ma era essenziale che Billy venisse tenuto lontano da Laura, anche se non c'era. Richard voltò per un attimo le spalle allo spettro di Billy Bentley che avanzava con il suo coltello, balzò sulla veranda, aprì la porta e bloccò la serratura. Poi si voltò, affannato, ma Billy non c'era più. C'erano invece alcune impronte nell'erba, quattro per la precisione, tante quanti i passi compiuti da Billy. Il gattone grigio lo osservò, poi diventò lentamente trasparente, svanendo nel verde dell'erba e nel nero del vialetto. «Oh, mio Dio», sibilò Richard. «Sto diventando matto. Billy Bentley e il Cheshire Cat.» «Come ha detto?» gli domandò qualcuno. Poco più in là c'era un vecchio con un berretto degli Yankee, una maglietta blu su ampie spalle ossute e un torace smagrito e un paio di pantaloni marrone. Le suole delle sue scarpe da tennis nere strisciavano sull'asfalto. «Parlavo da solo», rispose Richard. Quel vecchio gli ricordava qualcuno, ma non riuscì a farsi venire in mente dove lo avesse già visto. Desiderava solo che se ne andasse. «È meglio che stia attento», lo ammonì il vecchio fermandosi per posarsi le mani sui fianchi e drizzare la schiena intorpidita. «O abbasserà il tono di
questo quartiere.» «Ha ragione.» Il tumulto nel cuore di Richard era cessato. Il vecchio incurvò nuovamente le spalle nel suo normale portamento e avanzò verso di lui. «È, giusto che mi presenti», disse. La sua voce non era vecchia quanto il suo corpo, era profonda e chiara. «Sono Graham Williams. Abito qui di fronte.» Indicò una costruzione coloniale dalla facciata un po' scrostata in fondo a un prato che si faceva notare per la quantità di erbacce. «Oh, Graham Williams», ribatté Richard. Ecco perché gli ricordava qualcuno. «Lei è quello che aveva accettato di parlare davanti alla commissione, giusto? E poi non lo fece.» «E poi non lo feci», confermò Williams. «Ottima memoria, la sua. Andai invece a nascondermi un paio d'anni in Inghilterra. Scrissi non so quante sciatte sceneggiature sotto uno pseudonimo. Storia vecchia. Mi sorprende che lei se ne rammenti.» I modi di Williams parvero ora a Richard meno amichevoli. I suoi occhi scintillarono sotto la visiera del berretto. «Ho letto il suo libro sull'alcolismo. L'ho trovato molto buono.» «Ora dovrei cadere a terra tramortito. Dice sul serio? Prodotto di un'altra era, se vogliamo definirlo come merita. Pensavamo tutti di doverci ammazzare di bevute per dimostrare di essere sensibili. Qualcosa del genere. Un sacco di idiozie criminali.» «Come la commissione sulle attività antiamericane», fece eco Richard. Desiderava ancora che quel vecchio se ne andasse, ma voleva manifestare a Williams il suo sostegno morale. «Quasi tutti i baristi di mia conoscenza la pensavano diversamente.» Williams gli indicò con la testa la porta di servizio. «C'è una signora incinta alle prese con la sua porta là dietro.» «Oh. È chiusa a chiave.» Richard soccorse Laura della quale vedeva la faccia perplessa attraverso il vecchio vetro. «Schiaccia il pulsante», le disse e finalmente Laura riuscì a sbloccare la serratura. Quando uscì sulla veranda, Richard la informò: «Ho appena visto il tuo gatto e questo è il nostro vicino di casa, Graham Williams. Abita di fronte a noi». «Desidero invitarvi a bere qualcosa da me, un giorno di questa settimana», disse Williams. «Sono lieto di fare la sua conoscenza, signora Allbee.» «Il piacere è mio», rispose Laura. «L'hai visto, Richard? Il gatto?»
«Non ci sono più gatti qui in giro», obiettò Williams. «Un mese fa è venuto l'uomo del canile municipale a toglierli di mezzo.» «Be', lo abbiamo visto tutti e due», insisté Laura. «La signora Sayre aveva per caso un grosso gatto grigio?» «Ne avrà avuti una ventina, così. Non riuscivo a riconoscerli l'uno dall'altro. Vede, ho frequentato i Sayre per quasi tutta la vita. Tanto è vero che ero loro ospite al circolo la notte in cui John Sayre si uccise.» Laura si posò una mano sulla pancia prominente. «Non volevo turbarla, signora Allbee», si scusò il vecchio. «Sono cose accadute una trentina di anni fa, nel 1952. Anche dopo che Bonnie Sayre ebbe trasformato questo posto in un ricovero per gatti randagi, si vedeva bene che era molto elegante. Naturalmente tutti i felini di Bonnie Sayre non ci sono più, adesso. Resta solo l'odore, mi pare di capire.» «Be', questo felino è un fantasma», replicò Laura. Richard capì che intendeva punire Williams per il suo accenno all'omicidio di John Sayre. «Si vedono fantasmi e si parla da soli», commentò Williams. «Dove andremo a finire?» La battuta era bonaria, ma Richard capì che il vecchio era rimasto colpito dalle parole di Laura. I suoi occhi si erano scuriti e la sua mano era salita ad accarezzarsi la peluria bianca sotto il mento. «Pensavo che si potrebbe fare sabato sera. Parleremo di fantasmi, se vi va. Forse a suo marito interessa sentire qualche cosa della storia di questa zona, signora Allbee.» «Sta pensando a sua madre, che era una Green?» «Sì. Sono contento che lei lo sappia già. Io sono un altro discendente di famiglie di qui. E naturalmente c'è anche Patsy McCloud. E singolare che le nostre famiglie si ritrovino qui dopo tutti questi anni.» «Già», ribatté Laura. «Un po'.» «Ci sono alcuni capitoli interessanti della nostra storia», riprese Williams. «Venite dopo cena, se vi va.» Strinse la mano prima a Laura e poi a Richard. «Forse sarete contenti di avere qualche... spiegazione? Non so. Vi sembro misterioso?» «Sarò contento di ascoltare tutte le spiegazioni che potrò avere», rispose Richard. «Conosceva i miei genitori, signor Williams?» «Negli Anni Quaranta conoscevo quasi tutti gli abitanti di Hampstead.» Osservava Richard con curiosità. «Conoscevo Mary Green di vista. Una donnina molto graziosa. Grande senso del dovere. E vedevo anche suo padre. Ci sapeva fare con le mani. Ha lavorato a molte case di Greenbank, Michael. E così che ha conosciuto Mary. Un giovane molto simpatico.»
«Lavorò anche a questa casa?» Richard stava quasi trattenendo il fiato. «Non credo, ma ha lasciato il suo segno un po' dappertutto a Greenbank. Venite questo sabato e ne parliamo più a lungo.» «Vedremo.» Dopo che Graham Williams ebbe lentamente riattraversato la strada, Laura commentò: «Non mi piace, Richard. Mi fa accapponare la pelle quel vecchio. Non voglio vederlo sabato». «Potrei venire a sapere qualcosa da lui», replicò Richard. «Sai, ho visto davvero quel gatto grigio.» Desiderava distogliere la mente di Laura dal loro nuovo vicino di casa. Sembrava quasi che Williams fosse stato richiamato dall'apparizione di Billy Bentley e del gatto. Per un istante, quando i suoi occhi erano diventati più scuri e la sua mano era salita al mento, era stato come se tutta la sua autorità lo stesse abbandonando e aveva dato l'impressione di essere sul punto di scomparire a sua volta. «L'ho visto svanire.» «Allora non mi prenderai più in giro, vero? Non mi parlerai più di psichiatri.» Mentre scuoteva la testa Richard sentì che anche Laura stava ricordando Patsy McCloud. «Ma per te non è stato come se ci volesse dare il benvenuto?» volle sapere Laura. «Non ne sono sicuro», rispose Richard. «Forse non era proprio un benvenuto che mi voleva dare.» 11 Quella notte Richard Allbee sognò di girare per la casa del vecchio Sayre armato di una pesante spada. Era notte anche nel sogno e la pioggia scrosciava sul tetto. Nella penombra la spada sembrava l'unica sorgente di luce. Richard uscì dalla cucina e attraversò la sala da pranzo deserta. Ebbe una visione di pareti scrostate e una sensazione di molle e marcio sotto i piedi. Un grosso gatto lo stava guardando, senza alcuna curiosità. L'intonaco delle pareti del soggiorno era pieno di crepe e grossi buchi neri si aprivano nel pavimento sotto i suoi piedi. Richard aprì la porta d'ingresso e uscì sulla veranda. Scese sotto la pioggia fitta e avanzò fino al centro del prato. Gli pareva che la spada pesasse quanto lui. La sollevò in alto, sopra la testa, poi la calò con tutte le forze. La spada affondò nel terreno fradicio. Sangue zampillò dalla ferita imbrattandogli le scarpe e il fondo dei panta-
loni. Un rivolo di sangue scese dalla collina e lambì un albero ai margini della sua tenuta. Richard spinse la spada più a fondo nel terreno e un getto di sangue color rosso vivo, schizzò così in alto che raggiunse il tetto. 12 L'agente Royce Griffen era uno dei bersagli preferiti di Tartaruga Turk che, quando lo incontrava negli spogliatoi della centrale, al termine dei turni, non gli risparmiava battute pesanti e scherzi di dubbio gusto. Purtroppo l'agente Griffen, che raggiungeva a malapena l'altezza minima richiesta per l'arruolamento nella polizia e che pesava meno di settanta chili, non poteva reagire alle persecuzioni di Tartaruga Turk e si limitava a soffrire in silenzio. Non poteva neppure sfogarsi con sua moglie, dal momento che, dopo tre anni, l'aveva abbandonato, stanca di dover sopravvivere con la misera paga di un poliziotto. Siccome era l'agente più piccolo di tutto il corpo di polizia, a Royce Griffen era stato assegnato il compito di bussare alla porta di ogni casa per dare ai cittadini buoni consigli su come difendersi da ladri e scassinatori. La seconda tappa di quella mattina era una grande casa bianca affacciata sulla Gravesend Beach che vedeva da anni, ma di cui non conosceva i proprietari. Sulla cassetta delle lettere c'era solo il numero cinque. Superò i cancelli e si incamminò per un giardino che sembrava vasto come un parco. Trovò strano, quando fu in vista della casa, che in un posto come quello il prato fosse stato trascurato. Evidentemente Bobby Fritz era a letto con l'influenza. Fermò la macchina davanti alla porta d'ingresso, scese e suonò il campanello. Si sistemò la fondina, raddrizzò il berretto e cerco di assumere un'aria autoritaria. Una donna anziana vestita di bianco venne ad aprirgli. Sembrava seccata e insieme sconcertata. Griffen si accorse che aveva pianto. «Buon giorno», salutò. «Sono l'agente Griffen, della polizia di Hampstead. C'è la padrona di casa?» «No», replicò la donna. «Non c'è nessuna padrona, qui.» «Ah, capisco. Senta, ho ricevuto l'incarico di occuparmi della prevenzione dei furti nelle abitazioni. Dovrebbe essere così gentile da dedicarmi qualche minuto del suo tempo e permettermi di controllare le serrature, i
sistemi di allarme e così via e di ascoltare alcune raccomandazioni per migliorare la sicurezza di questa casa. Sa, qui ad Hampstead abbiamo una media di due furti all'ora.» Mentre recitava il suo discorsetto a memoria, osservò con attenzione la serratura della porta d'ingresso. Una semplice Yale. «Dottore», chiamò la donna voltandosi. «C'è un funzionario di polizia.» Da una porta interna emerse silenziosamente un uomo azzimato vestito di bianco. Sorrideva. Era di una bellezza quasi ipnotica. Royce raddrizzò le spalle. «Oh, sì, Muriel», disse l'uomo avvicinandosi. «Dobbiamo fare accomodare il signore. Gli prepari del caffè, per piacere.» «No, grazie», si schermì Royce, ma fu subito interrotto dalla governante. «Non servo forse sempre caffè ai suoi ospiti, dottore?» «Certo, Muriel, certo», rispose il medico. Sempre sorridendo tese la mano a Royce. «Piacere di conoscerla, agente.» Muriel si allontanò. «Ho dovuto dirle che devo licenziarla», spiegò in tono confidenziale al poliziotto. «Tra poco andrò in pensione. Dovrò ridurre le spese. Ho anche dovuto rinunciare al mio giardiniere.» Sfiorò un gomito di Royce. «Non voglio però angustiare lei con questi miei problemi, giovanotto. È venuto a spiegarmi come tenere lontani i ladri?» «Sissignore.» Royce gli indicò la Yale e gli recitò la solita tiritera sulle serrature. «Una buona serratura è la miglior protezione», concluse. «Possiamo dare un'occhiata alle finestre e alle altre porte?» «Si accomodi», rispose il dottore. Scortò Royce in sala da pranzo, dove c'erano due finestre munite di deboli chiavistelli, quindi in cucina, dove la porta che dava su un patio lastricato presentava un'altra serratura troppo semplice. «Da quel poco che ho già visto ho l'impressione che in questa casa ci siano molti oggetti di valore», osservò Royce. «Non ha mai pensato di cambiare le serrature?» «Sono sempre vissuto qui», replicò il medico. «Conosco tutti in città. Nessuno cercherebbe di penetrare nella mia casa, non crede?» spiegò riaccompagnando Royce verso il soggiorno. «Oh, ma è meraviglioso!» esclamò Royce. Sul lato che guardava il mare c'era una vetrata che andava dal pavimento al soffitto. Sull'acqua dondolavano alcune vele; in fondo a tanto azzurro Long Island era velata di foschia. La sala doveva essere lunga più di dieci metri. Sul più grande tappeto orientale che avesse mai visto poggiavano mobili preziosi, un pianoforte Bòsendorfer, splendide piante d'appartamento e sculture. Quasi tutte le
sculture ritraevano figure femminili. Royce si chinò per leggere il nome scolpito sul basamento della statuetta di una ballerina: Degas. Gli sembrò un nome francese, senza dubbio costoso. Sulla parete opposta erano appese file di dipinti e uno specchio con una bella cornice. «Sì, credo proprio che molta gente desidererebbe entrare qui dentro a prendersi qualcosa. Non ha nemmeno un sistema d'allarme?» «Oh, me ne sono occupato una volta», cominciò il ginecologo, ma all'improvviso Royce ebbe difficoltà a udirlo. C'era qualcosa che non quadrava. Pensò di essersi preso anche lui l'influenza. Era come se la voce del dottore gli arrivasse su una banda radio distorta da forti interferenze. Lo splendido salone gli sembrò di colpo ingigantire fino a diventare grande come un hangar. La luce diminuì e assunse un sinistro colore rosato. A un tratto Royce ebbe la sensazione di non riuscire più a reggersi in piedi: il salone era così immenso che minacciava di schiacciarlo. Quando Muriel apparve al suo fianco con una tazza di caffè lui l'accettò senza parole. Il medico stava ancora parlando, ma Royce sentiva solo un insistente ronzio. Il caffè aveva un saporaccio, come di liquame. Mentre guardava i quadri appesi alle pareti, con i loro esotici paesaggi, gli parve di vedere lo specchio sciogliersi. Me ne sono occupato una volta, ripeté il dottore. Lo specchio. Era un nano con i capelli rossi, la bocca sogghignante e gli occhi infossati. Era indicibilmente brutto, una specie di troll vestito da poliziotto. «Così alla fine non ne ho fatto niente», concluse il dottore. «Mi sono affidato alla bontà del mio prossimo, ma la notte chiudo lo stesso a chiave e accendo le luci esterne.» «Già», brontolò Royce. Doveva scappare da quella casa. Il suo gemello nanerottolo gli fece una smorfia e bevve rumorosamente da una tazza. Il dottore gli tolse la tazza dalla mano e lo accompagnò verso la porta. Appena furono nell'atrio Royce udì come un mormorio di voci dietro la porta chiusa, il ronzio di milioni di mosche. «Non trascurerò i suoi suggerimenti», lo tranquillizzò il dottore. «Già», borbottò Royce. Non vedeva l'ora di uscire di lì. Il ginecologo sorrise e richiuse la porta. Una volta sul vialetto Royce per poco non andò a schiantarsi contro un albero. Da quel momento in poi il DRG, cioè la nube pensante, lo fece precipitare completamente nella follia. Le sue percezioni erano distorte. Udiva
musica quando la radio non trasmetteva altro che messaggi di servizio, emanava odori cattivi e il suo umore era sempre più mutevole. Continuava a vedersi nelle sembianze ridicole e mostruose di quel troll. La terza sosta non gli riservò sorprese, ma alla quarta visita perse il controllo. Era su una terrazza, seduto davanti a un tavolino di metallo, e stava dicendo qualcosa a proposito della porta-finestra al di là della quale si apriva un immenso soggiorno. Davanti a lui c'era la signora Clark, una donna snella e carina. Stava bevendo tè freddo. Royce sapeva che era tè freddo, glielo aveva visto versare nella tazza da una brocca presa dal frigorifero, ma improvvisamente tutto davanti ai suoi occhi diventò giallo e di nuovo assunse l'aspetto del troll. I capelli della signora erano ora lerci e stopposi e dal suo bicchiere gli giungeva un odore di whisky scadente. I suoi piedi posavano su qualcosa di umidiccio e orrendo... forse un animale morto? Vide le braccia della signora Clark ricoperte di peli scuri e fitti, simili a un mantello. «Scusi», mormorò accorgendosi di essersi bloccato a metà di una frase. Chiavistelli ho per braccia, Serrature nella faccia, gracidava la signora Clark. Royce lanciò un grido di terrore e di ribrezzo: aveva abbassato gli occhi e aveva visto la terrazza invasa da enormi ragni morti, grossi come cuccioli di cane. La signora Clark si alzò. Aveva la schiena ingobbita, le labbra rovesciate in fuori sui denti rotti. Baciami i catenacci, accarezzami i chiavistelli, E io ti sposerò, cantò la signora Clark. Rovesciò involontariamente qualche goccia di whisky su un ragno e il corpo grasso della bestia fremette. Materia vischiosa marrone colava dalle pareti e imbrattava i vetri della porta-finestra. «Mi scusi», ripeté Royce. «Non mi sento bene, devo andare.» L'enorme ragno nero che la signora Clark aveva bagnato di whisky si mosse in direzione del suo piede. Le pareti massicce della casa non erano più di mattoni, bensì di fango che si stava sciogliendo. La faccia della signora Clark si dissolse e colò sul mento: anche lei era fatta di fango. Royce fuggì. Se si fosse trattenuto ancora un secondo sarebbe rimasto
imprigionato in quella densa poltiglia grigia. Di slancio passò dietro l'angolo della casa. Una folla invisibile rise della sua paura, della sua statura, del suo goffo incedere da troll. Finalmente ritrovò la sua macchina e riuscì a metterla in moto. Sbucò in Mount Avenue e svoltò a destra, su Beach Trail. Nella frenesia della fuga rischiò di finire in un fossato mentre girava verso Post Road. L'aria era di un color giallo vivo e un ragno giallo grosso come un camioncino balzò fuori dal fossato cercando di avvinghiarsi alla sua automobile. Royce urlò, sterzò bruscamente e filò alla centrale di polizia. Lì non avrebbe avuto sorprese, solo i soliti insulti da parte di Tartaruga. Nella minuscola saletta comune si mise alla macchina per scrivere e stese rapporti inventati sulle sue visite della giornata. Archiviò le sue note e per ammazzare il tempo scese a scaricare proiettili su un bersaglio di carta. Allo scadere del turno di servizio salì nello spogliatoio. «Ehi, Royce!» gli gridò Bobo entrando. «Nessun bell'esemplare di femmina oggi?» «Tutte da capogiro», borbottò Royce ricordando la faccia della signora Clark che colava sul mento. «Non ti trovo molto in forma», commentò Bobo. «Ti sta venendo l'influenza?» «No. Sto bene.» «Roycie Woycie», tuonò Tartaruga entrando nello spogliatoio con l'alito che sapeva di birra e macchie di salsa di pomodoro sulla camicia. «Lasci che le schiacci il campanello, gentile signora. Mi lasci mettere il dito sul suo bottone», chiocciò, punzecchiandolo come sempre. Royce guardò Tartaruga e vide un cadavere putrefatto. Il corpo era stato mutilato prima o subito dopo la morte e la pelle bianca e avvizzita era floscia e butterata attorno alle ferite. Gli occhi erano color bruno cupo. Un lembo di pelle grigiastra gli pendeva dalla fronte lasciando esposto un osso incolore. «Oh, Dio», gemette Royce. Si alzò. Nessun altro vedeva niente di anormale in Tartaruga. Era il suo cervello che se ne stava andando. «Me ne vado», mormorò. Uscì, montò in macchina e raggiunse una strada deserta nei boschi, dove rimase seduto con gli occhi chiusi. Continuava a rivedere la signora Clark. Continuava a ricordare il grande specchio ovale nella grande casa bianca di Mount Avenue. 13
Il mattino seguente Royce Griffen si presentò alla centrale di polizia. Aspettò che arrivassero gli altri nello spogliatoio. Tartaruga Turk, con i postumi di una sbornia eccezionale, gli sembrò peggio del giorno prima, olezzante di morte e di whisky dozzinale. Un occhio gli era esploso e si era spappolato. Al momento dell'appello, quando tutti gli agenti si riunirono prima di uscire in servizio, Royce si guardò attórno con orrore: il capitano e quasi tutti i poliziotti erano morti. Alcuni avevano fori di proiettile nella camicia, altri erano straziati e mutilati come Tartaruga. Dopo che furono congedati, Royce tornò nella stradina del bosco e trascorse otto ore seduto in automobile a tremare. All'ora del cambio corse a chiudersi in uno dei box del gabinetto alla centrale. A mala pena ebbe tempo di calarsi i calzoni. Quando si sedette sull'asse si sentì attanagliare da un dolore che cancellò quasi immediatamente il senso di sollievo. La fitta si fece più intensa, sempre più lancinante. Pensò che gli si fossero lacerate le viscere e cominciò a singhiozzare. Per vedere che cosa avesse provocato un dolore così forte, sbirciò nella tazza mentre si puliva. Urlò. La tazza era piena di minuscoli ragni, rossi come i suoi capelli. Molti nuotavano nell'acqua, mentre alcuni già stavano risalendo sui lati. Subito Royce tirò lo sciacquone, una volta, due... tre. Ora venti o trenta ragni avevano raggiunto l'asse; altri ruotavano in fondo alla tazza. Si allacciò la cintura e uscì dal gabinetto. Si costrinse ad attraversare a passo lento l'atrio. Si chiuse nella sua automobile, bloccò le portiere, poi tolse dalla fondina la sua Smith and Wesson. Dovette tenere la rivoltella con entrambe le mani perché non riusciva a dominarne il tremito. Armò il cane. «Dio mio», mormorò. Poi si infilò la canna in bocca, premette il grilletto e la sua testa esplose, schizzando brandelli di carne e ossa sul lunotto posteriore e sul soffitto. 14 Venerdì mattina i Norman apparvero al fianco di Tabby e le prime parole che Brace pronunciò dimostrarono a Tabby che i gemelli non avevano rinunciato al loro progetto. «Hai pensato a come spenderai i tuoi cento dollari, Tabs?» Tabby scrollò la testa. «Ti passiamo a prendere domani sera», disse Bruce. «Verso le dieci.
Non dire a nessuno dove vai o con chi vai, intesi?» «Non voglio farlo», protestò Tabby. «Oh, sì che lo farai», ribatté Bruce. «Lo sai che in Vietnam i porci si facevano collane con le orecchie dei gialli?» Dicky sogghignò. «Devi darci una mano, Tabs», insisté Bruce. «Siamo amici.» «Va bene», si arrese Tabby. «Alle dieci.» Avrebbe inviato i cento dollari a Sherri. Dopo di che si sarebbe tenuto per sempre alla larga dai gemelli Norman. 15 Sei ore più tardi, quello stesso venerdì, Richard Allbee stava legando un pezzo di cordoncino nuovo al piombo del contrappeso di una delle finestre a ghigliottina del soggiorno della vecchia casa Sayre. Il pezzo vecchio giaceva sul parquet di quercia. Laura fece capolino dall'atrio. «Lucido un altro pavimento», annunciò, «poi dovrò smettere. Come va con le finestre?» «Ne ho ancora una. Tre quarti d'ora di lavoro. Quando hai finito vieni giù a tenermi compagnia.» «Non so. L'ultima volta mi sono ritrovata 'assalita' dal mio datore di lavoro.» «Il quale ricorda con gratitudine quell'episodio», rispose Richard. Pochi istanti dopo Laura mise nuovamente dentro la testa. «Senti, Richard, pensavo una cosa.» «Sì?» «Se veramente hai voglia di andare a casa di quel vecchio domani, non mi dispiace. Davvero. Andrò a letto presto.» Gli sorrise. «Solo perché sei stato tanto carino da fingere di avere visto anche tu il gatto.» «Non ho affatto finto.» Laura scomparve dietro la porta e Richard tornò al suo lavoro. Inserì nel telaio il contrappeso nuovo e continuò a collaudarne il funzionamento mentre inchiodava il profilo di legno che nascondeva la rotaia. Un'altra finestra sistemata. Ancora tre giorni di lavoro e poi tutti gli infissi sarebbero stati restaurati. E lunedì avrebbe firmato il contratto d'acquisto nello studio di Ulick Byrne, così gli avvocati avrebbero smesso di farsi venire il mal di cuore. Evitò di proposito di pensare a Billy Bentley: non era semplicemente
mai successo. Poi, per un momento, Richard ebbe una visione apocalittica del prato della sua nuova casa: tombe che si squarciavano, terra e lapidi lanciate in aria, corpi, scheletri e ossa sparse ovunque. Subito dopo la terra vomitò cadaveri e ossa. Era come se si stesse lacerando da sé, come se si distruggesse in un accesso di repulsione. Schizzarono nell'aria erba, zolle, frammenti di pietre tombali e di ossa. Scosse violentemente la testa. Mio Dio! Billy Bentley, riposa in pace. Si spostò alla finestra successiva. Gli tremavano le mani. PARTE SECONDA Insediamento Un bacio d'amore e poi mai più; Un bacio d'amore e poi per sempre. Robert Burns UNO La prima soglia 1 Per quasi tutta quella settimana Patsy e Les McCloud si ignorarono. Patsy, che non aveva voglia di scontrarsi con Les, apprezzò ovviamente la discrezione del marito. Desiderava meditare in pace sulla sua situazione familiare. Frattanto Les le teneva il broncio. Pensava forse di costringerla a porgergli le sue scuse per quanto gli aveva detto, una tattica che in passato aveva dato i suoi frutti. Ma ormai Patsy non provava più alcun senso di colpa nel vederlo aggirarsi mogio mogio per la casa. Quando, il sabato, Les abbandonò finalmente il letto, Patsy si trasferì nella stanza degli ospiti a leggere la Storia di Patchin di D. B. Bach. Alle undici e mezzo Les venne a chiederle notizie del pranzo. Lei rispose che non aveva appetito. «E io?» replicò lui. «Sono sicura che c'è qualcosa in frigorifero.» «Cristo!» esclamò Les sbattendo l'uscio. Due ore più tardi tornò da lei. Stringeva i pugni chiusi e la fissava con rancore. «Stai forse cercando di farmela pagare?» «Ho solo voglia di restare sola.»
«Okay. Vado al golf. Stai pure sola, se hai tanta voglia di comportarti come una bambina viziata.» Tabby e Clark Smithfield trascorsero quel sabato in un silenzio penoso. Clark sostenne che era tutta colpa di Sherri e del suo rifiuto di accettare Hampstead e Tabby si rese conto che ne era convinto. «Ce la caveremo lo stesso, figliolo», concluse Clark. Era mezzogiorno e aveva attaccato il secondo bicchiere. «Staremo meglio senza di lei.» Guardarono la televisione per tutto il pomeriggio e alle sei Clark andò a prendere una pizza enorme in un ristorante italiano di Post Road. Senza parlare guardarono il telegiornale, uno sceneggiato e le prime sequenze del film del sabato sera. Tabby continuava a controllare l'orologio mentre dietro le finestre la luce del giorno si spegneva. «Papà, avrai presto bisogno di un lavoro, vero?» «Ho già un lavoro», rispose Clark. Bevve un sorso di whisky irlandese e lanciò un'occhiata a Tabby. «Posso mettermi a lavorare in qualsiasi momento ne abbia bisogno.» «Ma non hai un lavoro», obiettò Tabby. «Non ora.» «Ti ho detto che ce l'ho», insisté Clark senza guardarlo. Tabby si alzò e uscì a sedersi nell'erba ad aspettare i gemelli Norman. 2 Quella sera, poco dopo le nove e mezzo, Richard Allbee fermò la macchina davanti alla casa di Graham Williams. Scese e si voltò per controllare che aspetto avesse casa Sayre vista da quella prospettiva. Gli parve già migliore: abitata. Come i bambini e gli animali, anche le case si animavano al tocco di un amore sapiente. Ora era convinto che Billy Bentley fosse solo un'allucinazione e si rallegrava di avere parlato a Laura solo del gatto. Dei passi leggeri provenienti dall'angolo di Charleston Road gli fecero tendere involontariamente i muscoli. Cercò di controllarsi quando vide apparire un gattone grigio da dietro l'angolo. Allucinazioni. Allucinazioni. Una sagoma umana sbucò da dietro l'angolo. Finalmente, dalla luce di un lampione, Richard riconobbe Patsy McCloud. Aveva un grosso volume sotto il braccio. Oltre al sollievo che provò al dileguarsi delle sue ridicole paure, Richard avvertì anche una sensazione di piacere nel vedere Patsy. La salutò con la mano. Sopra una camicia azzurra indossava una salopette bianca che le fasciava i fianchi. Patsy rispose al suo saluto quando lo ri-
conobbe. «Avrei dovuto aspettarmi di vederti qui», disse Richard. «Io credevo che venisse anche Laura», osservò Patsy quando gli fu di fronte. «Laura è a letto con James Bond.» «E Les ha l'influenza.» Richard le chiese informazioni sul libro che aveva in mano mentre si incamminavano insieme verso la porta d'ingresso. «Il signor Williams ti ha spiegato perché ha voluto vedere tutti e due? Ti ha mostrato la targa di Mount Avenue?» Richard scrollò la testa mentre suonava il campanello. «Allora sarà meglio che aspetti che sia lui a parlare.» «Tutto sarà spiegato.» «Tutto.» Patsy gli sorrise. Da dietro la zanzariera Williams sbirciò nell'oscurità esterna. «Ci siete tutti e due! Vi sono proprio grato.» Spalancò la controporta e si fece da parte per lasciarli passare. Indossava il solito berretto e una maglietta grigia che gli andava piccola. Patsy e Richard si trovarono in un vestibolo tappezzato di libri. Gli scaffali traboccavano letteralmente. «Dove dobbiamo andare?» chiese Patsy. La lampadina che pendeva dal cavo elettrico al centro dell'atrio era fulminata. «Prima porta a sinistra.» Prima Patsy e poi Richard passarono in soggiorno. Anche lì le pareti erano rivestite di libri con nuove pile di volumi che qua e là salivano da terra fino all'altezza della vita. Appoggiate agli scaffali o alle cataste di libri c'erano disegni incorniciati e manifesti di vecchi film. Dal soffitto pendeva una lampadina dalla luce fioca. L'illuminazione era completata da una lampada a stelo, sistemata accanto a un vecchio divano verde, e da una lampada d'ottone collocata sul tavolo di legno sul quale troneggiavano una vecchia macchina per scrivere e risme di fogli di carta ben ordinate. L'ambiente sapeva di muffa e di vecchi libri. Williams indugiò sulla soglia della stanza. «Mettetevi comodi sul divano o in poltrona.» Con la testa indicò loro una poltrona marrone di pelle. «Posso offrirvi qualcosa? Un drink? Un caffè?» Chiesero entrambi caffè. «Già pronto. Torno in un battibaleno.» Pochi secondi dopo infatti ricomparve con tre tazze. Posò il vassoio sul
tavolino davanti al divano verde. Quindi si prese una tazza e sistemò una seggiola di metallo davanti a loro. Bevvero insieme la forte bevanda calda. Richard si chiese se avesse fatto bene a venire. Già temeva che sarebbe stata una perdita di tempo. Williams era nient'altro che un vecchio solo, desideroso di compagnia. Accarezzò il bracciolo del divano. Il disegno in rilievo della tappezzeria era quasi totalmente liscio. «Temo di dovermi scusare», esordì Williams. Si tolse il berretto e si accarezzò la pelata lentigginosa. «Qui ci sarebbe bisogno di risistemare un po' tutto e io non ho mai avuto il denaro necessario. Così mi ci sono abituato. Gli scaffali li ho montati tutti da solo, quarant'anni fa. Oggi come oggi non potrei nemmeno permettermi di comperare il legno.» Era nervoso e Richard si domandò da quanto tempo in quella casa non mettesse più piede una donna. Ma il vecchio lo sbalordì dichiarando: «Patsy ha poteri extrasensoriali, lei lo sa già. Come sua nonna: Josephine Tayler. Anche un ragazzo che abita qui vicino è come lei. Tabby Smithfield. James Tabb Smithfield, per la precisione. Sta in Hermitage Road. Lei non è un sensitivo, vero, Allbee?» «Io?» esclamò Richard deglutendo un sorso di caffè. «Sensitivo? No.» «Nemmeno io, eccetto che in un'unica occasione, quando vidi un uomo e seppi... be', lasciamo stare che cosa sapevo. Questo lo rimando a un'altra occasione, quando sarà con noi anche il giovane Tabby. Immagino che lei sappia della sua famiglia e di tutto il resto. Dei Green.» Lì per lì Richard pensò che Williams si riferisse a suo padre e stava già per scuotere la testa in un moto d'impazienza. «Oh, i Green. Qualcosa so.» «Ha mai visto la targa che c'è davanti all'Accademia?» Richard guardò Patsy, che lo stava fissando. Scosse nuovamente la testa in segno di diniego. «Smyth, Tayler, Green, Williams», recitò il vecchio disorientando Richard. «E Gideon Winter. Smyth, che poi diventò Smithfield; Tayler, la deliziosa signora seduta accanto a lei; Green, cioè lei stesso; e Williams, che sono io. E poi Gideon Winter, che potrebbe essere chiunque. Ma sarà meglio che le spieghi.» 3 «Sei in gamba, Tabs», si complimentò Dicky Norman sfregando le nocche sulla testa di Tabby e facendogli male. Erano compressi tutti e tre sul
sedile anteriore della vecchia Oldsmobile nera. Tabby non ricordava di avere mai visto i Norman così su di giri. Puzzavano di birra e anche di marijuana. «Ma io ero sicuro che ci sarebbe stato», commentò Bruce sferrandogli una possente gomitata nelle costole. «Il nostro piccolo socio ha il fegato al posto giusto. E non hai spifferato a nessuno con chi avevi appuntamento, vero, piccolo socio?» «Certo che no. Comunque è la prima e ultima volta che lo faccio. L'ultima volta, voglio che sia chiaro.» «Dopo questa sera sarà come se non ci conoscessimo», gli garantì Bruce. «Non è così, Dicky? Come estranei.» L'uomo che Tabby aveva già visto nei pressi della scuola aspettava davanti al suo furgone in un angolo deserto del parcheggio del ristorante. Dopo che Bruce si fu fermato accanto al furgone, i tre smontarono sotto lo sguardo attento dello sconosciuto. Non ha l'aria di essere un ladro, rifletté Tabby. Gary Starbuck aveva naso pronunciato, occhi scuri e penetranti e fronte corrucciata. Era in completo blu scuro. Sembra un insegnante di algebra, pensò ancora Tabby. Quegli occhi scuri indugiarono su di lui per qualche istante. «Già, capisco», borbottò Starbuck, anche se nessuno aveva detto niente. «Sai che cosa devi fare?» Tabby fece cenno di no. Starbuck infilò un braccio nel finestrino del furgone e ne tirò fuori un paio di piccoli ricetrasmettitori. Ne consegnò uno a Tabby. «Accendilo», gli ordinò. Tabby se lo rigirò fra le mani finché trovò un cursore sul lato superiore. Da entrambi gli altoparlanti partirono forti stridii e Tabby si affrettò a spegnere subito. «Adesso sono troppo vicini», spiegò a voce bassa Starbuck, sempre guardando Tabby diritto negli occhi. «Bisogna che siano almeno a una quindicina di metri di distanza per funzionare bene. Tu starai sul furgone. Occhio al parabrezza e al lunotto. Devi controllare il vialetto privato e la strada. Abbastanza semplice?» Tabby annuì. «E qualsiasi cosa vedrai, me lo devi dire. Noi resteremo nella casa una mezz'oretta. Sembra poco, ma è molto tempo. Se qualcuno si ferma a guardare il furgone tu me lo comunichi e mi descrivi com'è, che tipo di macchina ha. Tutto quello che vedi, insomma. Se c'è qualche sbirro, nasconditi e chiamami subito. Verremo fuori noi a sistemarlo, ma bisogna che arriviamo prima che lui chiami la centrale. Avrai i tuoi soldi più tardi,
appena avremo finito. Intesi, ragazzo?» «Sì.» «Bravo. Cominciavo a pensare che ti avessero strappato la lingua», riprese Starbuck. «E c'è un'altra cosa che devi ricordare bene. Se racconterai tutto questo agli sbirri, o se avrò la sensazione che tu ne abbia parlato con loro, tornerò qui e ti ammazzerò.» Lo disse senza cambiare espressione, dolcemente e seriamente. «Sono un uomo d'affari, capisci? Devo restare in affari.» I Norman ne furono così colpiti che per poco non fecero la ruota. «E questo vale anche per voialtri due», sottolineò Starbuck. «Ehi, che cazzo!» brontolò Bruce. «A bordo», ordinò Starbuck voltandosi bruscamente. 4 Mentre Graham Williams parlava, Richard esaminava gli scaffali, leggendo qua e là nomi e titoli. Una metà della parete più lunga era occupata da opere di narrativa, l'altra metà da volumi di storia e biografie; un settore conteneva sceneggiature cinematografiche rilegate in similpelle nera. Sulla parete di sinistra c'erano libri d'arte. Sopra di essi, nello spazio ristretto che rimaneva, erano stati allineati romanzi polizieschi: Williams era un patito di Raymond Chandler e John D. MacDonald. «Dunque», disse Richard quando Williams si concesse una pausa, «i discendenti delle quattro famiglie fondatrici di Hampstead sono di nuovo qui insieme. Anzi, per la precisione, si sono ritrovati a Greenbank, non ad Hampstead. E i nostri antenati passarono dei guai a causa di un nuovo arrivato che si chiamava Winter. Molto bene. Ma non posso però fare a meno di chiederle: e allora?» «Giusto, giusto», rispose Williams. «Infatti la sua domanda è logica. Non siamo degli storici. Ebbene, l'unico motivo per cui dobbiamo preoccuparcene è che ciò che avvenne allora esercita la sua influenza su di noi ancora oggi. Del resto, non è sempre così per i fatti storici? Se i Normanni avessero avuto la meglio in Inghilterra, oggi noi parleremmo francese o qualche cosa del genere. Esaminiamo dunque la nostra personale storia, qui ad Hampstead. Vi darò tre nomi di tre diverse generazioni di Hampstead dal 1898 al 1952. Robertson Green, che doveva essere un suo prozio, signor Allbee; e poi Bates Krell e John Sayre. Robertson Green fu giustiziato dalle autorità di questo Stato nel 1898. Bates Krell scomparve dalla
faccia della terra nel 1924 e John Sayre si uccise nel 1952. Io ritengo che Gideon Winter fosse rinato in ciascuno di questi tre uomini e che il solo John Sayre abbia avuto la forza di combatterlo.» 5 Alla nona buca Les doveva ad Archie Monaghan trecento dollari e stava per finire sotto di altri cento. La camicia gialla e quegli orribili calzoni scozzesi del suo avversario erano di un bel pezzo più vicini al green. Perdere con Archie Monaghan! Les si preparò al colpo, se lo figurò nella mente, fece dondolare la testa della mazza dietro la pallina e si bilanciò sulle gambe. Non poteva fare a meno di pensare che se quella palla fosse andata dove lui voleva il suo debito sarebbe sceso a duecento dollari. Nel preciso istante in cui la mazza colpiva la palla seppe di avere fallito. Poi non poté fare altro che osservarne la traiettoria. La palla si levò nell'aria filando come se fosse un colpo da maestro, ma là dove sarebbe dovuta sfrecciare fra gli alberi, ricadde inerte. Les la vide piombare come un sasso nel sottobosco. «Vuoi che ti presti la mia bussola?» gli gridò Archie. Les s'incamminò furente verso la macchia, evitando volutamente di guardare l'avversario. Non aveva alcuna intenzione di vederlo sogghignare. Con un briciolo di fortuna avrebbe ancora potuto tenergli testa: era già finito fra quegli alberi e la posizione non era fra le più disperate. Se la palla non era caduta proprio male, aveva ancora la possibilità di farcela in quattro tiri rispettando il par. E poi poteva ancora sperare che Archie mettesse troppa energia nel suo colpo d'approccio al green. Si chinò per passare sotto un ramo basso e cominciò a guardarsi attorno alla ricerca della pallina. Ansimava lievemente e il sudore gli colava nel colletto. Archie si stava preparando in quel momento e Les si fermò per seguire la sua manovra. Lo vide misurare per l'ennesima volta la distanza con lo sguardo, dondolare la mazza e bilanciarsi sulle gambe. Portò la mazza indietro e poi giù... e colpì troppo forte. Les applaudì in cuor suo. Sapeva che cosa sarebbe successo. «Ficcatela dove dico io, la tua bussola», commentò fra sé. Vide la sua pallina quasi subito. Un barlume di bianco a un paio di spanne dal muschio sotto la quercia più grande. Era ancora in partita. Mentre si avvicinava all'albero udì un fruscio nel cespuglio vicino. Uno scoiat-
tolo. Girò intorno alla quercia e alzò gli occhi in direzione del green. Archie era nel bunker e non sembrava più gongolante come poco prima. Poi Les udì distintamente alle sue spalle il pianto di un bambino. Girò su se stesso e non vide niente. Quando tornò a voltarsi verso la pallina lo udì di nuovo. Questa volta al piagnucolio fece seguito un tramestio di passi. «Ehi, vieni fuori da lì, ragazzo», chiamò. Il bambino gemeva sommessamente. Les appoggiò la mazza al tronco e si portò le mani ai fianchi. «Non c'è niente da temere. Vieni fuori.» Silenzio. «Vieni. Io sto cercando di giocare a golf. Nessuno ti farà del male. Esci da quei cespugli.» Visto che non succedeva niente, Les riprese la mazza. Come se il bambino nascosto nelle fronde lo vedesse e temesse di essere colpito da quella mazza, il cespuglio frusciò di nuovo: il misterioso ragazzino indietreggiava nel folto del sottobosco. Doveva avere quattro o cinque anni, pensò Les, perché un bambino più grande non avrebbe potuto spostarsi, senza essere visto, in un cespuglio come quello. Non poteva tirare, disturbato com'era da quei rumori di sottofondo. Il pianto riprese. Les posò la mazza per terra. «Hai bisogno d'aiuto, figliolo?» Non ottenne risposte e allora si avvicinò al cespuglio e si chinò per sbirciare attraverso le foglie fitte. «Vieni fuori; ti aiuterò io.» Sentì allora una vocina: «Mi sono perso». «Stai tranquillo, ti aiuterò io», ripeté, forse un po' bruscamente, mentre separava con le mani i rami del cespuglio. «Come sei finito lì dentro? Tuo padre ti ha...» Ritirò le mani dal cespuglio. Una morsa gli aveva stretto la testa con forza incredibile. Per un secondo gli si oscurò la vista. Si raddrizzò sbattendo le palpebre. La vocina mormorò: «Mi sono perso. Ho paura». «Va bene, va bene», rispose Les chinandosi di nuovo. Allungò le mani verso il cespuglio, ma si fermò prima di toccare le lunghe foglie appuntite. C'era qualcosa di sbagliato in quel cespuglio, una massa di foglie che tratteneva una creatura impedendole di uscire alla luce del giorno. Gli parve di avvertire un lezzo sgradevole, un misto di fango umido, fogna ed erbacce marce. Il bambino pianse di nuovo, ma Les aveva paura di toccare quel cespuglio. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato. Gli giunse di nuovo una zaffata di quell'odore acre e pesante.
Sapeva che se avesse toccato il cespuglio avrebbe avvertito nuovamente la morsa alla testa e le tenebre sarebbero calate sui suoi occhi. Il pianto si fece più forte. Les scrutò fra le foglie e vide soltanto altre foglie, foglie che frusciavano contro altre foglie, foglie lambite dalla luce del sole e foglie che brillavano verdi nella penombra. «Ma la tua palla si è cacciata in quel postaccio?» Les si voltò di scatto e si trovò davanti i pantaloni scozzesi di Archie Monaghan. «Ho sentito qualcosa», gli spiegò. «Non ho perso la palla. Ho sentito qualcosa. C'era un bambino in questo cespuglio. Piangeva.» Archie inarcò le sopracciglia. «Adesso ha smesso», continuò Les, «ma non lo vedo.» «Lascia guardare al vecchio Archie», disse Monaghan chinandosi per aprirsi un varco nel cespuglio. Per un istante Les avvertì quell'odore di fango e di liquame. Sentiva le gocce di sudore sulla fronte e si sentiva così strano, così leggero, che temette di cadere. Archie Monaghan s'infilò per metà nel cespuglio e Les si ritrovò a contemplare il suo voluminoso sedere. «Vuoi sapere una cosa?» commentò Archie ritirandosi dal cespuglio. «Qui non c'è proprio nessuno. Sei sicuro di avere sentito un bambino?» «L'ho sentito piangere.» «Gli hai parlato?» «Certo che gli ho parlato. Mi ha detto che si era perso.» «È proprio buffo. Qui adesso non c'è un bel niente. Si vede che è scappato.» Archie si grattò sotto l'ascella guardando distrattamente in direzione degli alberi. Gli si illuminò il viso. «Ehi, ecco la tua pallina. Non è messa molto male. Puoi uscirne ancora onorevolmente.» Les cercò di dimenticare tutto quello che era accaduto. Raccolse la mazza dal letto di aghi di pino, prese posizione accanto alla pallina e la spedì a destinazione. Ed è così che si diventa vicepresidenti nella giungla del mondo aziendale, babbeo. Poco più di due ore e mezzo dopo stava dicendo ad Archie Monaghan: «Tanto vale che tu mi permetta di offrirti da bere». Provava un misto di amarezza e sollievo: soddisfazione per avere concluso la partita con un solo colpo di svantaggio rispetto ad Archie; amarezza per non avere messo al tappeto quello snob pieno di lardo. Riteneva che i postumi dell'influenza
avessero pregiudicato la precisione di alcuni colpi; comunque ricordava ancora il cespuglio frusciante e la voce del bambino che chiedeva aiuto. Quando Archie aveva infilato testa e spalle nel cespuglio, aveva provato il desiderio di tirarlo indietro, di trattenerlo per impedirgli di avvicinarsi a quelle foglie... comunque non gli era successo niente e non c'erano bambini sperduti nel cespuglio. Non poteva però dimenticare quell'immagine fuggevole... due enormi fauci chiuse attorno alla vita di Archie. Ma non era successo niente: Archie aveva infilato la testa e il busto in quel posto sbagliato e non aveva visto né percepito niente. E poi c'era stato quell'odore di erbacce marce e terra fradicia e, sotto sotto, un lezzo sgradevole, penetrante e acre. Archie aveva accettato l'offerta di un drink, ma intanto lo guardava con diffidenza. «Oh, non temere per il debito», lo rassicurò Les. «Anzi, sistemiamo subito.» Archie cominciò a sorridere scuotendo la testa, ma Les si tolse il portafogli dalla tasca e ne sfilò due biglietti da cinquanta. «Ecco fatto. Adesso puoi farti un viaggetto a Dublino, Archie.» Archie intascò le banconote. «A essere sincero, sono stato a Dublino giusto la settimana scorsa.» Al bar del circolo Les offrì generosamente da bere anche ad alcuni conoscenti di Archie: un paio di dirigenti come lui, un'imprenditore che conosceva solo di vista e il socio in affari di Archie, che si chiamava Tom Flynn. Rimasto un po' tagliato fuori dalla conversazione che subito il suo rivale aveva iniziato con il socio, Les riuscì a fatica a dire qualche battuta sullo strano episodio di cui era stato protagonista. «C'era un bambino sperduto vicino alla nona buca», disse. «Stava nascosto in un cespuglio. Mai sentito niente del genere?» «Les sente le voci», commentò Archie. «La Giovanna d'Arco di Sawtell C.C.» Les non gradì molto la battuta, ma cercò di non darlo a vedere. Un'ora dopo, al terzo martini, Les meditava se telefonare o no a Patsy. Il nome di Archie spiccava su una targa dorata che elencava i vincitori del trofeo del circolo; l'aria condizionata gli irritò il naso. Si toccò la fronte e gli parve di tastare cera. Tracannò il terzo martini. «Quel bambino apparteneva a qualche altra specie», commentò ed ebbe la sorpresa di sentir ridere. «Non scherzo. C'era qualcosa di molto, molto strano.»
Archie bisbigliò qualcosa all'orecchio di Flynn. Poi Les vide qualcosa che gli parve impossibile. In fondo al bar si era seduto un uomo con delle bistecche crude appese attorno al collo. Era una specie di collana, fette di carne allineate. «Ehi», esclamò Les, imitato da Flynn. Solo in un secondo tempo Les si rese conto che non si trattava di una ghirlanda di fette di carne. Era la carne viva di quell'uomo stesso. Era stato scorticato. Gli giunse di nuovo alle narici l'odore di terra fradicia e di liquame. Quell'uomo era morto. Era stato scuoiato e adesso era morto. «Sapete una cosa?» esclamò Archie. Poi borbottò qualcosa di incomprensibile e gli altri risero. Les aveva gli occhi fissi sul morto. Ecco che cos'era successo alla nona buca. Il bambino sperduto era morto ed era venuto a cercare Les McCloud. Si sentì scivolare dalle dita il vetro pesante del bicchiere. Quando colpì il suolo andando in frantumi, le risate cessarono. Archie e gli altri lo stavano osservando e Les nei loro sguardi lesse perplessità e disapprovazione. «Me ne vado», annunciò. Scansò i frammenti di vetro con la punta del piede e si incamminò verso l'uscita. 6 «Rinato?» esclamò Richard. «Sta parlando di reincarnazione? Non ci posso credere. Può parlare finché vuole, ma non mi convincerà mai che questo Winter sia nato nel corpo di tre persone diverse in tre diverse epoche e sempre nel medesimo posto.» «Non intendevo in quel senso», replicò Williams. «Non sto parlando di reincarnazione in senso stretto. Alla nascita del suo prozio non c'era in lui alcuna traccia di Gideon Winter. La winterizzazione, mi permetta il termine, si verificò solo in un secondo tempo.» «Se adesso sta alludendo a un caso di possessione, non sono sicuro di poterci credere», lo avvertì Richard. «E per me va benissimo», convenne il vecchio. «Nemmeno io sono sicuro di crederci. A meno che un intero tratto di litorale possa essere posseduto, o possedere. Un uomo di nome Gideon Winter giunse qui circa trecento anni fa e da allora accaddero varie cose. Cose brutte. Brutte dal punto di vista economico. Brutte sotto ogni punto di vista. Potremmo ricorrere alla
definizione di 'maligne', ma immagino che ora mi dirà che non crede nemmeno nel Male.» «Credo nel Male», rispose Richard e Patsy sorprese entrambi aggiungendo a voce bassa: «Anch'io». «Molto bene», riprese Williams, calcandosi in testa il suo berretto. «Forse il male non era in quell'uomo, ma in qualcosa che gli successe. Forse qualcosa che questo posto gli ha fatto. È un'ipotesi un po' fantasiosa alla quale ormai lavoro da una cinquantina d'anni.» «Vale a dire dopo l'episodio con Bates Krell», osservò Patsy. William le rivolse un'occhiata interrogativa. «Oh, so di quell'uomo», spiegò Patsy. «Solo che non ne conoscevo il nome finché non l'ho sentita parlarne a Tabby. Io ho visto quell'uomo. Intendo dire visto.» Arrossì. «Molto tempo fa. L'ho visto uccidere una donna.» Arrossì ancor più vistosamente quando Graham Williams le prese la mano e se l'avvicinò alle labbra. «Certo, mia cara, e non sa quanto piacere mi fa sentirglielo dire.» «Non dovremmo parlare di quello che c'è scritto qui?» chiese Patsy toccando il grosso libro preso nella biblioteca. «Su Winter?» «Sicuro. Se ne avete voglia. Ma lei sa che genere di libro è questo. La signora Bach non era una vera storica. Si limitò a riunire una serie di dati e notizie senza cercare di trame conclusioni. Questa sua Storia è un repertorio, niente di più.» «Ah, mi pareva che fosse inconcludente», confermò Patsy. Williams si alzò e andò a prendere la sua copia del medesimo libro da uno degli scaffali più lontani. «Certo che è inconcludente.» Lasciò cadere il libro sul tavolino, si sedette, lo prese nuovamente fra le mani e lo aprì tenendolo in grembo. «Dorothy Bach si aspettava che fossero altri a trarre le conclusioni. Il suo proposito era quello di raccogliere quanti più dati possibili. E si limitò a elencarli.» Sfogliò le prime pagine del grosso volume. «Qui c'è tutto quanto riuscì a scovare. Registrazioni ufficiali sui terreni, sul trasferimento di bestiame. Nascite e decessi, tratti dal registro parrocchiale di Clapboard Hill, un nome che deriva dal modo in cui i fedeli si chiamavano a raccolta per le funzioni religiose, battendo l'una contro l'altra due assicelle di legno. Diamo un'occhiata a quanto si riferisce all'anno 1645.» «L'arrivo di Gideon Winter», disse Patsy. «È qui. 'Un possidente di nome Gidyon o Gideon Winter del Sussex acquistò dai coloni Williams e
Smyth 8,5 acri di terra costiera.' Ed è l'unico accenno su questa pagina. In seguito il suo nome ritorna quando dice che non era registrato in parrocchia.» «Dorothy Bach era già anziana quando io cominciai a occuparmi di questa faccenda», raccontò Williams. «Ma, a malincuore, fui costretto ad andare a disturbarla per avere chiarimenti. Erano ormai due o tre anni che rimuginavo su Krell.» «Un momento, un momento», interloquì Richard. «Che cos'è questa storia di Krell? Continuate a ripetere questo nome, ma io non ne so niente. Patsy, hai detto che ha ucciso qualcuno? E che tu l'hai visto farlo?» «Non l'ho realmente visto», spiegò Patsy. «L'ho immaginato una volta. Sapevo che l'immagine mi veniva dal passato. C'era il fiume, al tempo in cui non esistevano fabbricati sulle sponde, e c'erano molte barche da pesca. Lo vidi strangolare una donna - forse in quel momento le fece solo perdere i sensi - ma poi l'avvolse in una tela incerata e la gettò fuori bordo.» «E tu sai che quell'uomo era Krell.» «Lo sa», intervenne Williams. «E lo so io. In parte io lo so perché lei ne è così sicura. Ma quello che tu non sai, Richard - posso darti del tu, non è vero? - è che io ho ucciso Bates Krell. Ho dovuto farlo. Una croce che mi ha accompagnato per il resto della vita. Anche se ho sempre saputo che se non lo avessi ucciso io, sarebbe stato lui ad ammazzare me. Cercai persino di costituirmi a Joey Kletzka, il capo della polizia dell'epoca, ma lui non volle darmi retta. Era quasi come se lui ne sapesse anche più di me... Ah, sono ricordi che mi fanno male.» Sorrise a Richard. «Sai, mi sento il cuore in gola.» «Io non ci capisco niente», protestò Richard. «E sei in buona compagnia. Così mi sentivo io quando andai a trovare la vecchia Dorothy Bach. Dico vecchia, ma doveva avere allora sei o sette anni meno di quanti ne ho io adesso. Non si occupava più di storia e passava tutto il suo tempo nel giardino. Ogni tanto teneva conferenze per qualche associazione, ma quando diventò troppo vecchia per poter sollevare un registro parrocchiale, preferì dedicarsi esclusivamente alle sue azalee. Abitava in cima a Mount Avenue, proprio al confine di Hillhaven. Io sapevo già abbastanza della storia di Hampstead da poterle rivolgere le domande giuste. Così quando lei mi fece passare nel suo tinello io la ringraziai di avermi accolto in casa sua e andai subito al nocciolo della questione. Le chiesi se era in possesso di informazioni su Gideon Winter che non aveva riportato sul suo libro.»
Guardò Richard e poi Patsy. Patsy pensò che aveva una faccia da rapace, i lineamenti di un'aquila vecchia, molto vecchia. Non si era mai soffermata sull'età di Williams e pensò che forse in quel momento ne era così colpita perché i suoi occhi le sembravano stranamente giovani. Williams continuò: «Pensò che la stessi accusando di avere addomesticato i fatti. Poco ci mancò che mi buttasse fuori di casa. Dorothy Bach era orgogliosa di quel libro di storia. Molto più che delle sue azalee. 'Mi sta forse chiedendo se ho nascosto qualche informazione su uno dei fondatori di Greenbank?' mi domandò. Io le giurai che sapevo che non avrebbe mai fatto una cosa del genere e che gli storici contemporanei e futuri sarebbero stati per sempre in debito con lei. A lei piaceva sentirsi adulare così e d'altra parte quello che le stavo dicendo era vero. 'Tuttavia le sarei grato', le dissi, 'se volesse rivelarmi qualche sua opinione personale che non ha potuto inserire nel libro.' 'Vuole che faccia ipotesi su Gideon Winter, signor Williams? Desidera sapere che cosa pensavo del Drago mentre conducevo la mia ricerca?'» 7 «Sì, è quello che desidererei», aveva confermato Graham Williams all'anziana signora seduta sul divano di broccato. Indossava un abito che era fuori moda da almeno dieci anni, con un colletto alto e nero che le sfiorava il mento e i pizzi ai polsini. Il suo viso, mentre posava la tazza del tè, era rugoso, con un'espressione intelligente e meditativa. Aveva spinto leggermente in fuori le labbra e il profilo di quello superiore gli parve affilato come una lama di coltello. «Che cosa le fa credere che io mi sia concessa riflessioni personali su di lui?» «Per il mistero che avvolgeva il personaggio», aveva risposto Williams. «Era apparso praticamente dal nulla, in breve tempo s'impadronì di quasi tutte le terre della zona, il suo arrivo fu segnato dalla catastrofe e alla fine svanì nel nulla di nuovo. Lei non lo cita fra quelli di cui è stata registrata la sepoltura, quindi non fu seppellito. Almeno non qui. Io credo che lei si sia soffermata a meditare su questi fatti qualche volta.» «Tutto quello che lei ha appena affermato è errato, giovanotto.» Il suo labbro superiore era ancora spinto in avanti. «Veniva dalla contea inglese del Sussex. Poiché gli altri coloni decisero a un certo punto di non vendergli altre terre - questa, almeno, è la mia conclusione - per questo fatto,
dunque, non arrivò mai a possedere che poco più della metà delle terre di Greenbank. E fu certamente seppellito a Greenbank, ma non fu tumulato nel cimitero della chiesa, questo no. Quando seppellirono il Drago, lo seppellirono su una spiaggia.» «Gravesend Beach», aveva mormorato Williams. La donna aveva scrollato la testa. «Adesso è lei che azzarda ipotesi. No, non fu là. Quel nome, ne sono quasi sicura, deriva dalla consuetudine di dare sepoltura sulla china del colle dirimpetto allo Stretto alle vittime senza nome dei naufragi. Gideon Winter, invece, e di nuovo devo dire che ne sono quasi sicura, fu sepolto in quella lunga lingua di terra che si protende dallo Stretto, un miglio e mezzo circa a ovest della spiaggia pubblica. Per breve tempo prese il nome di Punta Winter. Ma dal 1760 in poi il luogo fu battezzato Punta Kendall. E fu là, come probabilmente sa...» «Che sbarcarono le truppe del generale Tryon che raserò al suolo Patchin e Greenbank.» Le sue labbra si erano rilassate. «Vedo che qualcosa sa della storia locale. Sa che cos'altro avvenne alla Punta Kendall?» Williams non aveva saputo rispondere. «La stessa località fu anche teatro della più famosa sciagura dello Stato del Connecticut. Nell'agosto del 1811 l'intera comunità della Chiesa congregazionalista di Greenbank presenziò a una festa parrocchiale alla Punta Kendall. Il luogo era incantevole e ventilato, perciò assai più adatto a tenervi una riunione in una calda giornata d'agosto. La popolazione poteva portarsi vettovaglie e tavoli con i carri e trasportare a mano i tavoli solo per l'ultima decina di metri, dove finiva la strada, e dalla Punta poteva contemplare il traffico nello Stretto in entrambe le direzioni. Barche a vela, battelli mercantili, persino qualche imbarcazione da diporto di Long Island e New Haven. All'epoca lo Stretto era ancor più frequentato di oggi. Per non parlare dei pescherecci.» Lo guardava con occhi pallidi nei quali ogni tanto passava un lampo di divertimento. Aveva preso la tazza ed era stato allora che Williams si era accorto delle sue unghie nere. Incredulo, aveva sbattuto violentemente le palpebre: nel 1929 le signore, specialmente signore anziane con una certa fama e abitanti sul «miglio d'oro», non avevano le unghie sporche. Poi il giovane Graham Williams aveva ricordato le azalee che facevano siepe lungo un lato della casa e aveva capito che la signora Bach si occupava personalmente del suo giardino, ma anche così... non era presumibile che si sarebbe pulita le unghie prima di accogliere un ospite? Tornando a guar-
darle le unghie annerite aveva scorto questa volta anche macchie brune di terra sulle sue mani e si era sentito prendere da un vago senso di nausea. «Oh, avevano in animo di spassarsela, di divertirsi», aveva raccontato la signora Bach. «Tavole imbandite, maiale arrosto e salsicce fatte in casa, pane con le uvette, insalate di patate, conserva... è tutto nella documentazione. Intendevano banchettare. Il reverendo Greenough suonò il violino con l'intenzione di intonare qualche inno per il suo gregge dopo le preghiere e dopo che i bambini avessero esaurito, correndo e giocando, la loro carica di vivacità. Dopo il pranzo pantagruelico era in programma un'oretta di musica allegra. Danze. Dovevano essere molti, in quella comunità, a saper cavare una giga da un violino o da un banjo.» La signora Bach aveva intrecciato le dita sporche di terra. «Ma non ci fu nessuna festa e non ci furono né inni né gighe. Accadde invece il dramma.» «Il dramma? Qualche epidemia?» «In un certo senso. Diciamo che fu una febbre. Ma era la Punta Kendall a essere ammalata. In un momento in cui si trovavano tutti seduti attorno ai tre lunghi tavoli, il terreno si spalancò sotto i loro piedi. Dapprima si aprirono grandi fessure dalla parte della terraferma, poi i crepacci si allungarono verso il mare più veloci del battere di una palpebra. Il primo tavolo fu ingoiato dalla terra e sicuramente il reverendo Greenough lo vide. Era in piedi, in quel momento, a capo delle tre tavolate, occupato a recitare una preghiera. Tutta la comunità aveva lo sguardo rivolto verso di lui. Poi la terra si aprì ingoiando il tavolo più lontano dal mare prima che le persone che vi erano sedute attorno avessero il tempo di gridare. Ora non mi venga a dire che il reverendo Greenough non lo vide. E se avesse reagito con maggior tempestività avrebbe potuto salvare se stesso e tutti gli altri. «Ma il reverendo Greenough non fece niente. Il reverendo Greenough non disse niente. Lo squarcio nel terreno si divorò il secondo tavolo mentre tutti urlavano e si agitavano. L'equipaggio di un veliero mercantile, il Pequot, vide scomparire il secondo tavolo e udì le grida. Gettarono l'ancora e mandarono una scialuppa con otto marinai. Naturalmente ormai le persone del terzo tavolo si erano allontanate sparpagliandosi in preda al terrore. Il reverendo si era scosso dal suo sbigottimento e la sua voce si udiva più forte di tutte le altre. I marinai lo sentirono invocare il nome dell'Onnipotente mentre correva verso l'acqua. Attorno a lui uomini e donne correvano all'impazzata in tutte le direzioni... ma non andarono lontano. Dallo squarcio centrale crepe più piccole si diramarono rincorrendo i fuggiaschi del terzo tavolo e prendendoli a uno a uno. L'ultima voragine rag-
giunse il reverendo Greenough. Quando la scialuppa toccò terra alla Punta, non c'era più nessuno.» A questo punto la signora Bach aveva annuito, quasi rallegrandosi. Il giovane Williams aveva commentato: «Come se la terra li avesse rincorsi? Gli avesse dato la caccia, prendendoli di mira singolarmente? Nessuno riuscì ad arrampicarsi fuori dai crepacci?» Ma già conosceva la risposta a quell'ultima domanda. «I marinai sbarcarono sulla Punta», aveva ripreso la signora Bach. «Le urla erano così acute da far male alle orecchie. Così scrisse sul libro di bordo il comandante del Pequot: Oggi i miei uomini hanno avuto i timpani danneggiati dalle grida delle vittime della Punta Kendall! Avevano visto quell'ampio squarcio nel terreno cominciare a una decina di metri dai carri e aprirsi a ventaglio per tutta la Punta. E in quel labirinto di fessure la gente era restata intrappolata. I tavoli si erano rovesciati in mezzo alle vivande fumanti, mentre le vittime cercavano di liberarsi senza successo.» Gli occhi della signora Bach scintillarono. «E i marinai non riuscirono a trarli in salvo e sa perché, giovanotto?» «Perché la terra...?» «Infatti. Perché la terra già si richiudeva su di loro. Come una bocca quando è piena di cibo. Uno dei marinai del Pequot perse un braccio e morì dissanguato per non essersi ritirato in tempo. La roccia gli segò le carni e gli strappò il braccio all'altezza della spalla. I suoi compagni poterono solo piangere e pregare. Vedevano le facce degli adulti che guardavano terrorizzate verso l'alto; vedevano le teste dei bambini. Era come se la terra stessa chiedesse aiuto urlando. Perché le urla continuavano anche dopo che i crepacci si furono richiusi. Secondo uno dei rapporti che lessi le grida furono udite per tutta la giornata, ma io ritengo che questo particolare sia frutto di antiche fantasticherie. Non penso che possano avere continuato così a lungo, le pare?» «Già. Non mi sembra possibile.» «Trentasei adulti e quattordici bambini», aveva concluso l'anziana signora. «Ecco che cos'altro accadde alla Punta Kendall.» «In quale anno ha detto che avvenne?» E per la prima volta la donna lo aveva guardato con autentico interesse. «1811.» «1811. Trenta, trentacinque anni dopo il rogo di Patchin.» Lei aveva annuito. «Trentadue anni dopo. Dunque anche lei ha colto il nesso?»
«Per la verità non stavo cercando un nesso», si era scusato Graham. «Ma naturalmente ricordavo Principe Green e poi la sparizione di quelle quattro donne avvenuta circa cinque anni fa...» Si sforzava di mantenere un atteggiamento composto, la voce calma mentre rammentava Bates Krell e quello che gli si era parato davanti all'improvviso dall'altra sponda del Nowhatan. «Sparizione», aveva ripetuto la signora Bach con una smorfia sprezzante. «Immagino che non abbia sentito parlare di Sarah Allen e Thomas Moorman. Due bambini.» Williams aveva scrollato la testa. «Furono scuoiati e arrostiti... in una fossa scavata nel terreno, ragazzo mio. Il responsabile fu un ritardato della famiglia Tayler. Lo catturarono in uno dei campi degli Jennings e lo appesero alla forca appena arrivò il giudice Barr. Capita che nella famiglia Tayler ogni tanto ce ne sia uno così, mezzo scemo intendo dire. E pare che ce ne siano stati altri, della stessa famiglia, inclini a stranezze di vario genere. Ma quel povero scemo uccise i due bambini nel 1841. Esattamente trent'anni dopo la tragedia di Punta Kendall.» «Ma tutto questo non c'è nel suo libro», aveva protestato Williams. «I decessi sono tutti citati», aveva ribattuto lei. Lui aveva sorriso. «Però lei ha evitato di fare congetture.» «Infatti. Ma lei non era venuto qui a chiedermi notizie di Gideon Winter? L'uomo che seppellirono segretamente su quella lingua di terra che fu ribattezzata con il suo nome? Non voleva sapere che cosa pensavo di lui mentre svolgevo la mia ricerca?» I suoi occhi avevano lampeggiato. «Le dirò che cosa ho pensato di lui, giovanotto. Ho pensato che sarebbe arrivato lontano se un branco di contadini ignoranti non lo avesse fermato. Oh, li aveva giocati, questo sì, e perciò loro lo avevano soprannominato Drago. Era più furbo, più intelligente e più forte di loro e piaceva alle loro donne. Ci pensi un attimo, giovane Williams. Si metta nei panni di una contadina zoticona, vestita rozzamente e con il puzzo dei maiali e del sego nelle narici, che vede arrivare questo raffinato gentiluomo del Sussex, vestito da un sarto e ricco come un sovrano, con un sorriso scintillante come il sole e la voce morbida come velluto. Non crede che resterebbe incantata da una simile apparizione?» Williams non aveva potuto che confermare: «Immagino di sì». «Lei immagina. Allora le ricorderò che nel 1650 quasi tutti i bambini erano morti. Ma nel 1651 ci fu un'ondata di nuovi concepimenti, confermata
dai registri parrocchiali che riportano un gran numero di battesimi nel 1652. Ci fu un maschio chiamato Buio e un altro che fu battezzato con il nome di Vespro. Una bambina fu battezzata Pena. Io credo che se avessero potuto li avrebbero battezzati tutti con il nome di Vergogna. E qui sto solo azzardando un'ipotesi, intendiamoci, ma non pensa anche lei che quei bambini probabilmente si assomigliavano tutti?» «Dunque lei crede che furono loro a ucciderlo?» «E lei no?» aveva ribattuto la vecchia signora. «E non crede che fu lui a uccidere la prima generazione di bambini, sterminandoli quasi tutti?» L'anziana signora teneva la testa inclinata e Williams aveva scorto una striscia scura di sporcizia sul suo collo. «Non dimentichi che a quei tempi i figli significavano soprattutto potere economico. Non era gente sentimentale come noi.» «Mi sembra di capire qual è la sua opinione su di lui», aveva commentato Williams. «Oh, tutte le donne hanno un debole per un drago, signor Williams. Sono sicura che quelle quattro donne scomparse dalla città cinque anni fa, avevano trovato un drago da amare.» Era stato allora che Graham Williams si era sentito sicuro che quella donna fosse pazza. Gli restava un ultimo interrogativo da risolvere. «Qualcosa deve essere successo nel 1870. Nei primi Anni Settanta.» «È così. È naturale che successe qualcosa, sciocco. Non le ho detto forse che c'è un nesso? Controlli sul mio libro! Troverà tutti i dati relativi.» Allora, per un istante, Graham Williams aveva provato ciò che Royce Griffen, sul patio di una splendida abitazione di Mount Avenue, avrebbe provato cinquantun anni più tardi. Aveva avuto la sensazione di un odore sgradevole quando la signora Bach si era sporta in avanti e aveva versato tè sul tavolo inumidendo la copia ancora ripiegata della Hampstead Gazette; aveva avuto l'impressione di scorgere qualcosa strisciare sulle pareti... ma era solo il complicato disegno della tappezzeria. Si era tolto il fazzoletto di tasca e l'aveva aiutata ad asciugare il tè versato. 8 «Comunque avevo visto giusto per un paio di cose», disse Graham a Richard e a Patsy. «Dorothy Bach era svitata, questo sì. Si era innamorata del personaggio che credeva di avere ricostruito leggendo nelle pagine del passato, perciò aveva tenuto celati quegli aspetti del suo comportamento
che soprattutto rivelavano la sua vera natura. Non aveva veramente taciuto dati importanti, ma indubbiamente li aveva velati dietro la sua obiettività.» Patsy sfogliò le pagine della Storia di Patchin. A un tratto si sentiva stanca. Pensò alla storia che il signor Williams aveva appena narrato, quella dei marinai che guardavano con orrore gli sventurati intrappolati nel terreno... La Storia di Patchin sussultò nella sua mano. Graham Williams stava dicendo: «Un fatto che rivelò senza reticenze è che Winter non partecipò mai alle funzioni religiose di Clapboard Hill. Immaginate che cosa devono avere pensato di lui gli altri, che non avrebbero mancato a costo di attraversare lo Stretto a nuoto». Richard Allbee stava tamburellando le dita su un ginocchio con aria perplessa, mentre il libro di quella donna bizzarra che Graham aveva conosciuto nel 1929 si agitava nella mano di Patsy come un passerotto imprigionato. Un secondo dopo sussultò ancor più violentemente. Patsy lasciò cadere il libro sul tavolino, boccheggiando. La copertina blu si spalancò sbattendo sonoramente contro il legno. 9 Bruce Norman gridò: «Ehi, che cazzo!» Tabby si sentì il cuore in gola immaginando una macchina della polizia con la sirena spiegata e la luce lampeggiante sul tetto sorpassarli e sterzare per tagliare loro la strada... Anche Dicky aveva i nervi a fior di pelle perché urlò: «Che cosa? Che cosa?» Starbuck girò bruscamente il volante e Tabby e Dicky, dietro, persero l'equilibrio. Tabby si aggrappò allo schienale di Bruce e si allungò per guardare fuori dei finestrini. Ma non vide nessuna automobile della polizia, solo la strada nera, il fascio di luce dei fari del furgone e una fitta siepe a lato della via. «Maledizione», imprecò Starbuck sterzando a sinistra e portando il furgone dall'altra parte della strada. Bruce rideva. «E piantala!» gli ordinò Starbuck. In quel momento si udì un tonfo, qualcosa che urtava il furgone. «Mai visto niente del genere», commentò Bruce mentre Starbuck frenava, metteva in folle e saltava a terra. «Lo giuro.» «Che cosa è successo?» domandarono all'unisono Dicky e Tabby. «Un cane. Un fottuto cane», rispose Bruce. «È saltato fuori dalla siepe e ci è venuto addosso. Ha cercato di evitarlo, ma...» Bruce smise di sghi-
gnazzare mentre Starbuck, dalla strada, gridava: «Gesù Cristo!» Poi si affacciò al finestrino. Aveva una vena in rilievo sulla fronte. I suoi occhi profondi erano freddi e duri come pietre nere. Spalancò la portiera e sedette al suo posto. Poi afferrò il volante e distese le braccia. «Avete visto che roba?» mormorò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Da non crederci. Quel dannato botolo si è suicidato! Mi è venuto deliberatamente addosso!» Dondolava avanti e indietro, le braccia sempre strette sul volante. «E quel figlio di un cane mi ha anche ammaccato il parafango, che il diavolo lo porti!» Bruce stava ancora cercando di reprimere la voglia di ridere e Starbuck lo inchiodò al sedile con un'occhiataccia. «Voi due puzzate, lo sapete? Mi state facendo puzzare tutto il furgone da quando siete saliti. Con quell'odore che vi portate addosso sveglierete il vecchiaccio, disgraziati.» Furente, Starbuck ingranò la marcia e ripartì per Greenbank Avenue. Ogni tanto scrollava la testa e borbottava parole incomprensibili. Quasi subito dopo avere superato la strada per Gravesend Beach, Starbuck sterzò violentemente imboccando il vialetto asfaltato delimitato da due pilastri. Nel retro Tabby e Dicky finirono a gambe all'aria. Starbuck sterzò di nuovo e parcheggiò il furgone sotto un'alta e fitta siepe. Spense i fari e per un momento restarono tutti fermi nell'oscurità. Tabby percepì il tanfo acre dell'alito di Dicky Norman. Starbuck accese una torcia tascabile e se la tenne alta contro il petto perché gli si potesse vedere la faccia. «Tu, ragazzo. Spero che saprai guidare questo furgone.» Era ancora in preda alla collera e Tabby ebbe il buon senso di non dire esattamente la verità. «Penso di sì.» «Okay. Ricorda di usare la radio se vedi avvicinarsi qualcuno. O se vedi accendersi qualche luce. Se arriva un piedipiatti ti butti giù e ci chiami subito fuori. Quando ti chiamerò io, porterai il furgone davanti all'entrata, così carichiamo. Chiaro?» Tabby annuì. Starbuck scrollò il capo. «Dovrei farmi esaminare il cervello.» Starbuck si avviò insieme con i gemelli Norman verso la grande casa bianca. Il fascio di luce proiettato dal grosso fanale sotto la grondaia li faceva apparire più piccoli a confronto delle lunghe ombre che disegnava ai loro piedi. Erano già a una quindicina di metri dal furgone e ancora avevano molta strada da percorrere. La radio! ricordò all'improvviso Tabby. A tastoni nell'oscurità la trovò seminascosta da una custodia di plastica, contro la parete metallica. L'accese nel momento in cui Gary Starbuck compa-
riva dietro un acero giapponese. Tabby lo sentì respirare, e udì il fruscio dei loro passi sull'erba. Gettò un'occhiata preoccupata al volante e al cambio augurandosi di riuscire a spostare il veicolo quando Starbuck l'avesse chiamato. Ci fu un lampo improvviso fuori dei finestrini e Tabby smise di respirare. Ma era stato il cielo, non la polizia. «Che cosa è stato?» domandò la voce di Dicky Norman alla radio. «Zitto», gli intimò Starbuck. Quando il cielo lampeggiò di nuovo, fu come se all'improvviso si illuminassero le vene e le arterie di un corpo vivente. Ora Starbuck era accovacciato davanti alla porta d'ingresso e Tabby lo vide alzare la testa. Ma il cielo era di nuovo nero, a parte un debole alone attorno alla luna. Starbuck prese dalla sacca gli strumenti da lavoro e in pochi attimi smontò il meccanismo della serratura. «Ecco fatto», confermò la sua voce attraverso la radio. «Quando saremo dentro, guai a voi se fate il minimo rumore. Ascoltate me e basta.» Si rialzò e silenziosamente ripose gli attrezzi nella sacca. Girò la maniglia e l'uscio si aprì docilmente. Dopo che tutti e tre furono entrati, richiuse accuratamente la porta. Tabby pensò al cane che si era buttato sotto il furgone. Gli parve di avere le vertigini, e gli ronzavano le orecchie. «In cucina», bisbigliò la voce di Starbuck alla radio. Fu allora che Tabby si rese conto di essere rimasto solo sul furgone. Starbuck e i fratelli Norman erano nella casa: si erano dimenticati di lui. Avrebbe potuto tranquillamente aprire la portiera e correre a casa! Loro lo avrebbero saputo solo quando sarebbero tornati. Esitò. Gli giungevano dalla radio rumori di cassetti che venivano aperti. «Ragazzi», sospirò Starbuck con tono veramente compiaciuto. Tabby ricordò le minacce e staccò le dita dalla maniglia della portiera. Gli doleva la testa. Allungò il collo per scrutare in direzione della grande casa bianca. 10 Dai finestrini della sua automobile Les McCloud contemplava la facciata del Country Club, un edificio molto simile a quello che quattro ore più tardi si sarebbe ritrovato a guardare Tabby attraverso un finestrino del furgone. Les aveva voglia di bere di nuovo. Soprattutto desiderava dimenticare quello che credeva di avere visto seduto in fondo al bar. Gli tremavano le mani. Dall'esterno il Sawtell Country Club non faceva pensare che dietro
quelle vetrate sedesse una creatura orrenda, un morto con le spalle scuoiate come per una lezione di anatomia. Ma era una follia. Era assolutamente pazzesco. Era stato stregato, ecco che cosa doveva essere accaduto, turbato da quella voce infantile che veniva dal cespuglio... da quella sensazione di dannatamente sbagliato. Deglutì. Girò la chiave dell'accensione e accese la radio. Doveva bere qualcosa. Dove, però? Il disc jockey annunciò: «Il brano ci era stato espressamente richiesto, amici. Johnnie Ray in La nuvoletta bianca che piangeva. Dovete ammettere...» Johnnie Ray. Johnnie Ray. «... che l'interpretazione era davvero appassionata. Adesso torniamo al nostro normale repertorio e...» Quella era la voce del cespuglio. Non del cantante Johnnie Ray, ma di un bambino che si era presentato alle lezioni il primo giorno di scuola del 1951, un bambino minuto, con incisivi sporgenti e capelli biondi così lisci e piatti da sembrare morti. E il suo abbigliamento era completamente sbagliato. Quell'anno tutti i ragazzini delle medie portavano calzoni di cotone e camicie a scacchi con cravatte oxford più adatte a un lord britannico in pantaloni alla zuava. Quando il ragazzino, cioè Johnnie Ray, si era presentato alla lezione di miss Larson indossava una maglietta, stivali e blu jeans così nuovi che non avevano nemmeno una piega. Poi tutti avevano udito come si chiamava. Era stato sommerso da uno scroscio di risate, particolarmente maligne, a conferma che i suoi trentun compagni di classe avevano trovato un capro espiatorio. Les scrollò la testa mentre si dirigeva verso Sawtell Road. La voce di Johnnie Ray. Anche dopo che il malcapitato era riuscito a convincere i genitori ad aggiornargli il guardaroba, poco aveva potuto fare per la sua voce. La sua parlata era strascicata, così tipicamente texana a confronto del timbro asciutto di quelli di Hampstead. E quella che aveva udito era proprio la voce di quello strano ragazzino del Texas dal nome buffo. Ma il poveretto era morto annegato durante l'estate. Era uscito in mare durante una lezione di vela e la sua barca era tornata senza di lui: capovolta, con l'albero che brillava sotto il pelo dell'acqua e la vela distesa come uno strascico. Agosto 1952. La polizia di Hampstead e la guardia costiera avevano dragato il fondo e avevano ripescato solo pezzi di tronco d'albero, coprimozzi e una chiatta marcia e scalcagnata
che era là sotto da un anno e mezzo. Due settimane dopo l'alta marea aveva buttato il corpo del ragazzo sulla spiaggia del Sawtell Country Club: gonfio, livido, privo delle dita delle mani, del naso e di quasi tutte le dita dei piedi. I pesci avevano banchettato con il corpo di Johnnie Ray. Ma la sua voce aveva parlato a Les dal cespuglio. Facendo stridere i copertoni Les bloccò la sua Mazda appena si accorse del semaforo rosso all'angolo di Greenbank Road. L'agosto del 1952 era stato un brutto mese per il Sawtell Country Club. Quattro giorni dopo che l'ambasciatore messicano negli Stati Uniti, ospite del club, aveva rinvenuto il corpo ormai irriconoscibile di Johnnie Ray sulla spiaggia, alle sette del mattino, il noto avvocato John Sayre aveva scelto la stessa zona di spiaggia per mettere in atto il suo suicidio. Il semaforo passò al verde e Les entrò in Greenbank Road: inconsapevolmente aveva deciso di andare al Franco's. Filava sull'ultimo tratto di rettilineo di Greenbank Road, quasi in vista del ponte di ferro che scavalca il Nowhatan e sbuca in Riverfront Avenue. Il cane che partì di corsa da una veranda, un animale dal pelo bianco e nero con la coda folta e un sorriso quasi umano sul muso, attirò l'attenzione di Les McCloud solo quando ormai era quasi all'altezza del finestrino. Les percepì solo un lampo di colore, qualcosa in rapido movimento, e girò la testa di scatto per vedere. Il cane gli sorrise mentre si lanciava in avanti. Les piantò il piede sul freno. I copertoni gemettero e la Mazda sbandò, ma non prima che Les avvertisse le ruote di dietro urtare un corpo che oppose una resistenza solo momentanea. «Merda!» gridò Les. Si fermò sul ciglio della strada. Aveva avuto la sensazione dell'improvviso sovrapporsi di due contrastanti realtà: gli era parso di vedere la faccia del piccolo Johnnie Ray dietro quella sorridente del cane. Scese dall'auto sconvolto. Il cane travolto giaceva in mezzo alla strada. Rivoli di sangue scendevano lentamente verso una griglia di scolo. Grazie al cielo era girato di schiena e Les non fu costretto a vedere quell'innaturale sorriso sul muso dell'animale morto. Non sapendo che cosa fare si infilò le mani in tasca e si guardò attorno. Attraverso un prato vide avvicinarsi un uomo alto, in jeans scoloriti e camicia blu, seguito da un ragazzino che gli assomigliava e da una donna in tenuta da tennis. «Immagino che fosse il vostro cane», disse Les quando l'uomo raggiunse il marciapiede. Quando lo sconosciuto fu ancora più vicino Les si sentì sollevato. Almeno quello era un essere umano.
«Lei immagina», lo apostrofò l'uomo fermandosi a pochi centimetri da Les. «E io immagino che lei sia quel pazzo che lo ha ammazzato.» «Un momento», protestò Les. C'era qualcosa che non quadrava. «Lei non sa come è successo.» L'altro aggrottò le sopracciglia. «Lasci che le spieghi», insistette Les. «Al diavolo se non so come è successo», ringhiò l'uomo. «Stavamo cenando in sala da pranzo e da lì si vede perfettamente la strada. Lei è arrivato come un bolide, superando il limite di velocità, e ha ammazzato il mio cane. E fortuna che non era mio figlio!» Arrivato all'altezza dell'uomo il ragazzo aprì la bocca e urlò: «Hai ucciso Tapioca!» «Sono sicuro che possiamo sistemare la cosa», disse Les. «Se volesse pregare suo figlio di tornare a casa per un momento, potremmo discutere...» «Discutere? Lei pensa che ci sia qualcosa da discutere?» ribatté l'altro a voce alta. «Ho visto! Veniva giù da quella strada all'impazzata.» «Ma è stato il cane a venirmi addosso! E quando l'ho visto stava spiccando il salto.» «Spiccava il salto», ripeté l'altro. «Si buttava sotto le ruote della sua macchina.» «È così. Mi è saltato sotto.» «Lei è un bugiardo. Se no è matto. Comunque sia, lo racconterà alla polizia.» «Ascolti. È stato il suo cane che mi ha investito.» «Solo perché lei guidava troppo veloce.» «Hai ucciso Tapioca!» gridò all'improvviso il ragazzo. Mentre Les e l'uomo litigavano, il ragazzo era indietreggiato, evidentemente convinto che suo padre avrebbe picchiato quell'individuo. Ora attaccò all'improvviso, colpendo duramente Les alle reni. «Hai assassinato il mio cane!» gli gridò in faccia. «Maledizione!» esplose Les. Fece un passo indietro per evitare di essere aggredito di nuovo dal ragazzo. «Insomma», gridò all'uomo in camicia blu e jeans. «Sono il vicepresidente di una società! Non starò certo qui a farmi strapazzare!» Si tolse di tasca il portafogli e lo trovò tristemente vuoto. Gli restavano due biglietti da venti e uno da dieci. «Che cosa crede di fare?» lo diffidò l'uomo. Les sfilò i due biglietti da venti e glieli tese. Quando l'altro restò immobile a guardarlo, lasciò cadere le banconote che svolazzarono verso l'erba
ai bordi della strada. «Non ci credo», commentò l'uomo. «Lasciamo perdere il fatto che il cane costava almeno quattro volte tanto. È inaudito. Stai lontano da lui, Van.» Il ragazzo si stava preparando per un altro attacco alle reni di Les. «Fatemi causa», concluse Les. Tornò alla sua automobile e ripartì in direzione del ponte. Quando guardò nello specchietto retrovisore vide che l'uomo e il figlio erano ancora fermi in mezzo a Greenbank Road. Il ragazzo agitava il pugno. La scenetta lo rallegrò tanto che continuò diritto dimenticandosi di dovere svoltare a sinistra. Riuscì a catturare l'unico sgabello vacante davanti al bancone. «Doppio Glenlivet», gridò al barista. Quando l'altro tese l'orecchio verso di lui, Les urlò di nuovo: «Doppio Glenlivet!» «Sicuro», rispose il barista. «Non c'è bisogno di strillare.» «Ehi, bibliotecario, senti un po'», gli disse Les quando il barista gli consegnò il bicchiere. «Sei un amante degli animali? Be', questa ti piacerà. Mentre venivo qui sono stato investito da un cane. Hai capito? Mi ha investito. Io non l'ho nemmeno visto finché non mi è stato sotto le ruote. Ho cercato di sterzare, ma non ho fatto in tempo. Quel figlio di una cagna si è suicidato.» «Già sentita», replicò il barista volgendogli la schiena., «Già sentita? Come sarebbe a dire già sentita? Io non l'avevo mai sentita!» «Mai sentito parlare dei lemming?» La domanda gli fu rivolta da un tipo strano seduto accanto a lui. Portava occhiali dalle lenti spesse e piene di ditate; i suoi capelli erano crespi e rughe profonde gli solcavano la fronte bassa. «Ero proprio qui seduto a pensare ai lemming. Per una faccenda che mi è capitata oggi, un caso molto simile al suo.» Gli sorrise amichevolmente e Les si strinse nelle spalle. «Avevamo una gatta», raccontò il tizio. «L'avevamo chiamata Mclntosh. Persiana, sa? Splendido pelo che sembrava di seta. L'avevamo da dieci anni, prima ancora di trasferirci qui dalla città. Mi piaceva quella gatta. Be', oggi mia moglie, mentre stava guardando fuori da una finestra del secondo piano, ha visto Mclntosh attraversare di corsa il prato. Ha pensato naturalmente che la vecchia malandrina stesse rincorrendo un uccellino. Era vecchia, ma quando voleva sapeva essere veloce. Ne acchiappava un paio la settimana e li depositava sullo zerbino, così non potevamo fare a meno di vederli la mattina presto quando uscivamo a prendere il giornale.»
Deglutì. «Ma quella dis... quella bestia dannata non stava correndo dietro un uccellino. Correva verso la piscina dei ragazzi. Mia moglie l'ha vista arrivare di gran carriera e tuffarsi. Proprio così! Si è tuffata! Una gatta! Mia moglie è rimasta impietrita per un secondo, sa? Non credeva ai suoi occhi. Aspettava di vedere Mclntosh riemergere dalla piscina, ma Mclntosh non ci ha nemmeno provato. Nemmeno una volta ha tirato fuori la testa dall'acqua. Si è buttata là dentro proprio come se facesse sul serio, ragazzi miei.» Sbatté le palpebre dietro le spesse lenti. «È per questo che stavo pensando ai lemming.» Les fece del suo meglio per prestare attenzione all'uomo che gli aveva raccontato quella storia. Intuì che si aspettava da lui qualcosa, qualche altro particolare sul cane suicida, che discutesse dei lemming e dei motivi che potevano spingere un animale a togliersi la vita. Allora capì che fin dal principio quell'ometto con i suoi radi capelli e gli occhiali sporchi cercava consolazione: forse quella che si trovava nell'alcool o nelle filosofie di un bar, ma soprattutto la consolazione di emozioni scambiate e comprese. Les si chinò in avanti, gli sorrise e disse: «Ficcatelo in quel posto». Il tizio indietreggiò. Si voltò rapidamente verso il banco e sprofondò la faccia nel suo bicchiere. Les si sentiva infinitamente meglio e per celebrare ordinò un altro Glenlivet. Al primo sorso però si accorse che il whisky e il gin che lo avevano preceduto premevano per uscire dal suo corpo, così scivolò giù dallo sgabello e si fece largo fra la gente fino al corridoio. Un sosia di Bobo era in piedi davanti a un orinatoio e Les dovette sfiorarlo per raggiungere la porta del box. Era chiusa a chiave, allora si sprofondò le mani nelle tasche e si mise a guardare il pavimento bagnato di orina. Il gigante mandò un sospiro e curvò la schiena. Senza interrompere l'operazione prese il boccale che aveva sistemato in cima all'orinatoio e tracannò un sorso di birra. Les lo guardò con fastidio. Quasi non osava respirare. Nell'aria aleggiava un lezzo di orina e disinfettanti. «Tocca a te», gli disse l'altro avviandosi verso l'uscita. Les mugugnò. Poi, finalmente, si aprì la patta dei pantaloni. Dal box accanto a lui giunse un tonfo metallico, ma non si trattava di una fibbia, come lì per lì pensò Les. Il colpo era stato più sommesso, come se la persona chiusa là dentro avesse colpito una parete con la mano. Il rumore si ripeté. Les lanciò un'occhiata titubante in direzione del box. «Aiuto», disse la voce. Entrambe le pareti del box rimbombarono come se la persona che c'era
dentro vi avesse battuto i pugni alla cieca. «Mi sono perso», disse la voce. Era la voce del piccolo Johnnie Ray. Les si sentì mancare il respiro. «Ho paura», disse la voce. Les udì unghie che grattavano all'interno della porta. Sapeva che se avesse guardato verso il basso avrebbe potuto sbirciare sotto l'apertura nella parete del box. In quegli ultimi pochi secondi il getto di orina si era esaurito. Se avesse guardato là sotto avrebbe visto un paio di scarpette da tennis, il risvolto dei jeans... Les chiuse la cerniera dei calzoni. «Aiuto», bisbigliò la vocina dall'accento texano. Le unghie graffiavano l'interno della porta. Les osò abbassare gli occhi sullo spazio aperto tra la parete del box e il pavimento inzaccherato di orina. Una mano senza dita, attaccata a un polso ossuto e sottile, tastava l'apertura. Il moncherino e il polso erano sporchi di fango nerastro. Più indietro, scorse due forme oblunghe e scure che dovevano essere i piedi. Les si sentì lo stomaco rivoltato. Ora avvertiva il puzzo terribile del cesso, quel tanfo così cattivo che era come un rumore forte, il frastuono di un'esplosione. La creatura sporca di fango cadde in ginocchio nel box. Les indietreggiò verso la porta, senza distogliere gli occhi dal box. Quando sentì la maniglia di alluminio premergli contro la spina dorsale, si voltò di scatto e spalancò la porta. Schizzò fuori e la richiuse con un tonfo. Aveva ancora lo stomaco sottosopra. Gli parve di udire uno strano rumore, come se qualcosa di molle e umido cercasse faticosamente di muoversi su una superficie dura. Gli rombavano le orecchie. Tornò nel bar e si confuse con la gente. Poi, vacillando, si avviò verso la porta. Il suo secondo Glenlivet era sul banco accanto a un biglietto da dieci dollari, ma lui non se ne accorse nemmeno. 11 Graham Williams era chino in avanti, appoggiato sui gomiti. «Naturalmente a questo punto dovevo cercare di scoprire che cosa fosse avvenuto nel 1873», stava dicendo. «E, dovete credermi, non fu facile. Dorothy Bach, fissata com'era sull'immagine che si era fatta del Drago, non mi a-
vrebbe più raccontato niente e non c'era nessun altro...» Le pagine del pesante libro blu si susseguivano, sfogliando se stesse così rapidamente da sembrare trasparenti. Patsy si sentì invadere da una sensazione che le era aliena ma, per qualche misteriosa ragione, anche familiare: come un certo profumo o un'acqua di colonia sanno evocare gli stati d'animo di un ricordo senza però evocare il ricordo stesso. Le pagine volavano una dopo l'altra. «No», sussurrò Patsy e questa volta i due uomini la guardarono. Richard Allbee sembrava semplicemente curioso. Il vecchio, invece, dimostrava viva preoccupazione. Aveva aperto la bocca e osservava Patsy molto intensamente. Nessuno dei due aveva notato il libro. Patsy tornò a guardare il libro e vide che le pagine avevano smesso di sfogliarsi. «Si è...» cominciò a dire a Graham Williams, che la fissava con il suo sguardo penetrante. Williams annuì. «Si è mosso», terminò Patsy. Solo in quel momento si accorse che gli occhi del vecchio erano di uno splendido colore azzurro. In quello destro c'era un'unica pagliuzza dorata vicino all'iride. «Si è mosso. Nella mia mano.» E gli occhi che dolcemente la sollecitavano a proseguire, a spiegarsi meglio, a spiegare che cosa stava accadendo, non erano più gli occhi del vecchio, ma quelli di Marilyn Foreman. E la sensazione estranea ma familiare veniva da un lontano passato: era l'effetto-Marilyn. Ecco perché l'ho rivista in strada, pensò Patsy. Loro avevano intenzione di sottrarmi la mia forza di volontà e di farmi vedere di nuovo le cose. Non sapeva chi fossero «loro», ma intuiva che era un'alleanza di forze universali. Una pagina si voltò davanti a Patsy. «L'ho visto succedere», dichiarò Richard. «E successo.» Sembrava sbalordito. Patsy si sentiva esattamente come poco prima della visione di Bates Krell che assassinava la donna con l'abito di seta: stava per accadere qualche cosa di terribile. Ma non poteva fare niente per impedire che fatti spaventosi si svolgessero davanti ai suoi occhi... Qualcosa si muoveva nel libro aperto. Nelle pagine bianche prese vita qualcosa di nero. Righe nere, là dove le pagine stavano per incendiarsi, volavano scomposte sopra le righe di caratteri da stampa. Si levarono volute di fumo grigiastro. Una forma verde e appuntita emerse dalla superficie della pagina. L'essere verde continuò a salire. Un occhio malevolo e nero, largo alme-
no dieci centimetri, si aprì e si fissò immediatamente negli occhi di Patsy. «Che cosa c'è?» domandò Richard. Patsy capì che lui non vedeva la testa del drago che stava affiorando dalle pagine del libro. L'occhio del drago sembrava fatto di pietra nera, con una luce verde tremolante al centro. Era sempre fisso su di lei, mentre la testa usciva dal libro. E finalmente la lunga faccia grinzosa si liberò e le fauci del drago si aprirono voraci in direzione di Patsy. «Patsy?» la chiamò Richard. «Stai bene?» Sei un brav'uomo, un brav'uomo, pensò lei a un livello assai più profondo dei normali processi razionali. C'era la testa di un drago. Pareva incredibile, ma era proprio lì. Gli aculei verdi e duri erano incrostati di pelle nera scorticata. Gli occhi neri erano infossati in orbite di osso. Era una testa di rettile, vecchia e forte. Scaglie verde scuro partivano dagli occhi e scendevano per tutta la lunghezza del muso. La bocca pendeva come un cancello appeso ai propri cardini. Patsy si sentì trasformare l'interno del corpo in una polvere bianchiccia, qualcosa di assolutamente insostanziale e privo di peso. Con un sussulto si accorse che attraverso la testa del drago vedeva ancora Graham Williams. Dietro gli occhi neri scorgeva i suoi, azzurri e infossati. Riusciva persino a leggere in essi tutta la sua angoscia. Vide l'orribile testaccia ritirarsi nell'invisibile. L'aria le sibilò nelle orecchie. Quelle poche spanne di aria davanti a lei erano diventate infuocate come una sbarra di ghisa incandescente. 12 «In cucina», ordinò Gary Starbuck. Trovata la cucina, dietro l'ultima porta del lungo corridoio, Starbuck e i gemelli Norman superarono un'altra porta e si trovarono in un ingresso. Da lì si passava in sala da pranzo, come il ladro già sapeva. Nello spazio ristretto aprì un mobiletto basso e controllò all'interno alla luce della torcia. Bruce vide le sue spalle fremere. Rapidamente Starbuck aprì altri due cassetti del mobiletto. «Ragazzi», sospirò felice. Bruce sbirciò dentro. Frattanto Starbuck aveva estratto qualcosa dalla sua tasca e gliela stava mettendo fra le mani. Era un sacchetto di plastica verde, simile a quelli che Bobby Fritz usava per raccogliere le foglie quando puliva il prato. «Prendi tutto quello che c'è», gli ordinò Starbuck. Quando il ladro si rialzò, Bruce vide un assortimento di oggetti d'argento.
Con l'aiuto di Dicky cominciò a sfilare gli oggetti dagli astucci e a riporli nel sacchetto. «Tutto completo», sibilò Starbuck mimando con le mani per far capire che si riferiva all'intera custodia delle posate. Bruce tolse dal cassetto il pesante contenitore di stoffa e Dicky cominciò ad arrotolarlo sul pavimento. Da lì passarono nella sala da pranzo. Da una consolle ritirarono alcuni vassoi d'argento prima di uscire in soggiorno. Ebbero appena il tempo di notare le vetrate che occupavano per intero una parete e subito il cielo diede in escandescenze: saette accecanti attraversarono il blu cupo zigzagando fra le nubi. La luce balenò nel soggiorno e Bruce ebbe l'impressione di vedere attraverso il corpo del fratello, di potergli contare tutte le ossa dello scheletro, di poter seguire il fluire del suo sangue nelle vene. La casa parve spostarsi senza muoversi, come un animale che sogna di correre. «Che cosa?» chiese Dicky. «Il piano», mormorò Starbuck illuminando un angolo della sala, ma già la debole luce della luna glielo aveva mostrato. Il pianoforte era lungo tre metri, tutto fatto a mano. Quello strumento aveva quasi cinquant'anni d'età ed era stato fabbricato su commissione da Bòsendorfer, Gary Starbuck aveva a New York un cliente che desiderava possederlo almeno da una decina d'anni. Gli avrebbe pagato ventimila dollari, un quinto circa del valore reale del pianoforte. «Ma riusciremo a caricare quel mostro sul furgone?» domandò in un bisbiglio Bruce. «Appena appena», rispose Starbuck. «Per adesso spingetelo nel patio.» Così dicendo andò ad aprire le finestre della vetrata. Dicky infilò le mani sotto la tastiera e provò a sollevare il pianoforte. Contrasse i muscoli delle braccia e serrò i denti. Riuscì a sollevare lo strumento forse di un centimetro. «Cristo, non così», sussurrò Starbuck. «Vuoi farti venire l'ernia? Volete andare alla malora? Sotto, diamine. Mettetevi sotto e sollevatelo con la schiena, facendo forza sulle gambe.» Di nuovo la casa fu percorsa da quel misterioso tremito immoto. «Che cosa?» fece Dicky. «Devo ripetere?» chiese Starbuck. La sua torcia trovò lo specchio, là sulla parete, fra i quadri. Allora per un secondo o forse meno si verificò un'altra stranezza in quel-
la casa, qualcosa che notò solo Dicky Norman, ma che avrebbe perseguitato la mente di Bruce Norman nelle settimane che seguirono la spaventosa morte toccata a suo fratello. Dicky aveva appena detto di nuovo: «Che cosa?» e per la sua stupidità Bruce avrebbe desiderato strizzargli le cervella, ma intanto si era voltato, come il fratello, in direzione del fascio di luce e aveva quasi visto o, per meglio dire, aveva pensato di avere visto, che lo specchio non rifletteva la luce: la catturava e se la ingoiava. Il fascio di luce (al quale evidentemente Dicky aveva alluso) finiva nella cornice cadendovi dentro come una pietra in un pozzo. Era come se lo specchio la risucchiasse dalla torcia e pareva quasi che stesse prosciugando le batterie... poi ci fu un crepitio sulla superficie dello specchio e un raggio scaturì dalle profondità della lastra puntando contro quello della torcia. 13 Appena uscito, Les McCloud respirò a fondo. Lo stomaco era lentamente andato a posto. L'alcool che aveva ingurgitato durante quella giornata gli bruciava nelle viscere come un tizzone acceso. Ingoiò altra aria fresca. Non voleva pensare a quella cosa dalla quale era sfuggito a stento nel cesso del bar. Voleva tornarsene a casa... ma nella mente vide quel moncherino uscire da sotto la parete e di nuovo lo stomaco gli si chiuse. Sissignori, voleva tornare a casa e se avesse trovato Patsy nella stanza degli ospiti, le avrebbe dato una lezione. Anzi, a ben pensarci, dovunque fosse le avrebbe dato una lezione. Era tutta colpa di Patsy. Appena rientrato l'avrebbe inchiodata in qualche angolo della camera da letto e le avrebbe fatto un paio di bei lividi sulle spalle e un altro paio sui fianchi (a questo punto lei si sarebbe messa a gridare e a piangere) e poi una bella botta nello stomaco... Gli affiorò alle labbra un mezzo sorriso. Salì sul marciapiede di Station Row per raggiungere la sua automobile. Una sagoma piccola e nera piombò giù dal cielo e sibilò svolazzando a pochi centimetri dalla sua testa. Les alzò subito la mano pensando che un uccello lo stesse attaccando. L'ombra sfrecciò disordinatamente nell'alone di luce di un lampione e allora Les vide che era un pipistrello e contemporaneamente si accorse che altri due stavano scendendo verso di lui dalla sommità del lampione. Uno gli sfiorò la faccia. Un artiglio acuminato come un amo da pesca gli ferì la guancia e Les gridò per il dolore e per il disgusto, schiaffeggiando
l'aria con la mano aperta. Ricevette un colpo al petto come una sassata. Aprì gli occhi, rendendosi conto solo in quel momento di averli chiusi, e vide il secondo pipistrello aggrappato alla giacca. Aveva ripiegato le ali e aveva alzato la testolina verso di lui. Les colpì all'impazzata, ma il pipistrello gli si aggrappò con più forza squittendo come se gli stesse parlando. Vide odio nei suoi occhietti neri. Strattonò il suo corpicino, ma gli artigli dell'animale erano ben agganciati alla stoffa della sua giacca. Tornò a guardare verso l'alto e vide il cielo pieno di esseri svolazzanti: erano pipistrelli che sorvolavano il lampione e la stazione. Un altro scese in picchiata verso la sua testa e Les si chinò giusto in tempo per evitare gli artigli protesi. Vide gli occhietti che lo fissavano con aria malvagia. Vide anche uno stormo eseguire una virata nel cielo e poi puntare su di lui. Partì di corsa verso l'automobile. Il pipistrello che gli era rimasto aggrappato alla giacca sobbalzava ai suoi passi, sbattendo debolmente contro il suo torace. Un pipistrello gli piombò sulla testa; un altro gli sbatacchiò le ali davanti alla faccia prima di cadere. Les si coprì gli occhi con le mani. Avvertì una fitta improvvisa di dolore all'orecchio destro e un attimo dopo sentì il sangue colare sul collo. Quando finalmente raggiunse la macchina era avvolto da una nube di pipistrelli, un mondo di pipistrelli. Afferrò la maniglia della Mazda. La portiera era chiusa a chiave. Un pipistrello gli si impigliò nei capelli. Con un gemito di raccapriccio se ne liberò con una manata. Un altro gli si avvinghiò alla manica e Les lo schiacciò contro il finestrino. L'animale piombò a terra. Un altro ancora gli andò a sbattere contro una tempia facendolo barcollare. Les strinse con forza gli occhi quando si sentì graffiare la fronte. Agitò le mani alla cieca e ne allontanò uno. Doveva recuperare le chiavi della macchina che aveva nella tasca, così si curvò volgendo la schiena allo stormo e continuò ad agitare la mano sinistra davanti alla faccia mentre si frugava nella tasca dei pantaloni con la destra. Un pipistrello gli si posò sulla mano libera e distese le ali. Avvertì le punte affilate degli artigli penetrargli nella carne. Basta che non mi mordano, pensò. Trovò le chiavi della macchina. Il pipistrello che aveva sulla testa gli affondò i denti nella pelle. Vide il muso, per metà faccia di neonato, per metà gnigno di cane. Les urlò e si liberò del pipistrello, che restò librato a due spanne dalla sua faccia, a guardarlo con odio implacabile. Les desiderò uccidere quell'essere orribile: desiderò scagliarlo per terra, spappolargli le costole e
quelle ali schifose. Gli altri pipistrelli lo abbandonarono momentaneamente e Les, alla luce del lampione, vide quello che lo aveva morsicato alzarsi di una quindicina di centimetri. Allora spiccò un balzo, ma la sua mano si agitò a vuoto nell'aria perché il pipistrello gli era sfuggito di nuovo. Quello aggrappato alla giacca rimbalzò contro il suo petto quando Les toccò nuovamente terra. Allungando nuovamente la mano nel tentativo di afferrare il pipistrello che lo aveva morsicato, Les si accorse che sanguinava. Il sangue gli colava anche dalla fronte e il colletto era inzuppato di sangue. Mugolò di disperazione e dolore dirigendosi di corsa verso la sua automobile. Girò la chiave nella serratura, aprì la portiera e si infilò nell'abitacolo. Si chiuse dentro. Un corpicino fremette contro il suo cuore. Les mandò un grido di panico e di disgusto. Abbassò la testa a guardare il pipistrello ancora aggrappato alla sua giacca e gli occhi della bestia incontrarono i suoi. «Uh... uh... uh...», mugolò Les divincolandosi per togliersi la giacca. Il pipistrello lo fissava con i suoi occhietti. Finalmente Les riuscì a sfilare un braccio dalla manica e poi anche l'altro. In pochi attimi ridusse la giacca a una palla di stoffa e scagliò questo groviglio sul cruscotto, cominciando a tempestarlo di pugni. Sentiva l'animale imprigionato dimenarsi e tremare, ma continuò a picchiare e picchiare finché la bestia rimase immobile. Si sentiva colare la bava dalla bocca e il sudore e il sangue gli avevano appiccicato i capelli sul cranio. Alzò entrambi i pugni e li calò di nuovo sul corpo inerte avvolto nella giacca. Infine, colpendo per l'ultima volta il cadaverino ormai spappolato mormorò: «Stecchito». Poi vide che il parabrezza era oscurato da un frullare di esseri alati. Partì di slancio e andò a tamponare violentemente l'automobile parcheggiata davanti a lui. Muto, ma con la bocca spalancata, nella manovra urtò anche il veicolo che aveva dietro prima di riuscire a sterzare e allontanarsi. I pipistrelli che si trovavano più vicino al parabrezza rotolarono giù. Mentre svoltava a destra, in fondo all'isolato, si ricordò di accendere i fanali: uno funzionava ancora. Girò a sinistra all'incrocio successivo, sfrecciando nel momento in cui il semaforo passava dal giallo al rosso. Da quel poco che riusciva a vedere attraverso il parabrezza, non c'erano altri veicoli nella strada. Imboccò la rampa dell'I-95. Avrebbe incontrato il primo casello solo a Stratford, a venti minuti di
strada. Schiacciò l'acceleratore a tavoletta e vide i pipistrelli appiattirsi sul vetro: due o tre di quelli meno saldamente aggrappati furono risucchiati dallo spostamento d'aria. Sterzò bruscamente a sinistra e poi a destra. Udì il clacson di altri automobilisti che protestavano. Con quell'andatura a zig zag si era liberato del grosso dello stormo: restava una mezza dozzina di pipistrelli che lo guardavano con gli occhietti rossi pieni di odio e piccole bocche aperte in un coro di invettive. Sembravano bocche di esseri umani. Ma quello che gli stavano urlando si perdeva nel vento. Controllò il tachimetro e si accorse che stava procedendo a poco meno di centocinquanta all'ora. Un altro pipistrello perse l'appiglio e scivolò verso l'alto del parabrezza come una foglia nera. Dalle labbra di Les sfuggì una risatina tremula e stridula. Per la prima volta dopo parecchi minuti riuscì a rilassare le spalle. Sollevò il piede dall'acceleratore. Le luci che passavano sull'altro lato della strada erano rassicuranti: gente che andava da qualche parte. Poi avvertì una presenza estranea. Una sagoma piccola e scura era seduta accanto a lui. Inconsapevolmente gli sfuggì un'esclamazione mentre voltava la testa per guardare meglio. Semiadagiato contro il tessuto nero del sedile c'era un ragazzino di dieci anni, fatto di fango. Una chiazza di umidità si andava allargando sulla tappezzeria attorno alla forma limacciosa e acqua sporca gocciolava sul pavimento. Un miasma micidiale gli ferì le narici: quell'odore penetrante che aveva avvertito al campo di golf era ora cento volte più forte. Gli si condensò nel petto come un mattone ardente. Poi il ragazzino aprì gli occhi. «Mi sono perso», gracchiò. «Ho paura.» Les caricò tutto il peso del corpo sul pedale dell'acceleratore. Stava urlando, ma non lo sapeva. Filava a più di duecento all'ora quando incrociò un'altra macchina, una Toyota appartenente al signor Harvey Pilbrow di West Haven, Connecticut, e uccise il figlio diciottenne del signor Pilbrow, Daniel, e la sua fidanzata Molly Witt. Les McCloud spirò solo un istante dopo le sue vittime. La fiammata che si levò dalle due vetture salì nel cielo per almeno quindici metri. 14 Patsy aprì gli occhi. «È successo qualcosa», disse mentre si rendeva con-
to di trovarsi sdraiata sul divano di Graham Williams. «Come stai?» le domandò il vecchio. «È successo qualcosa», ripeté lei. «Infatti, qualcosa è successo», confermò Richard Allbee apparendo nel suo campo visivo. Le prese una mano e gliela strinse con calore. «Sei svenuta dopo che il libro ha smesso di muoversi.» «Oh», mormorò Patsy, «il libro.» «Stai bene?» le chiese Williams. «Aiutami a mettermi seduta», lo pregò lei e Richard la sorresse mentre sollevava le gambe per posarle per terra. Si sentiva la testa leggera come se fosse fatta di bolle. Si accorse che non riusciva a reggersi in piedi. «Tra poco mi passerà.» «Ti ricordi del libro?» le domandò Richard. Le stringeva ancora la mano e, accovacciato davanti a lei, la guardava con viva preoccupazione. «Sì, ma non parlavo di quello», rispose Patsy. Richard la lasciò andare e indietreggiò di qualche passo esortandola silenziosamente a raccontare. Patsy non sapeva fino a che punto potesse confidarsi con loro. Temeva che la prendessero per pazza anche persone come Richard e Williams, che in fondo sapevano molto sul suo conto. Riteneva di essere stata vittima di un attacco di qualche genere. Ricordava l'effetto-Marilyn e la testa del drago che usciva dal libro. Di questo avrebbe potuto parlare. Ma l'accesso improvviso la faceva sentire colpevole e piena di vergogna per avere perso il controllo. E anche sporca. Era svenuta e qualcosa le diceva che aveva a che fare con suo marito, con Les, con il suo matrimonio fallito. E quello non era un argomento che potesse discutere con gli amici, per quanto affetto provasse per loro. Prima di risvegliarsi aveva visto una colonna di fuoco e aveva capito che il suo matrimonio veniva purificato in quelle fiamme. Distruzione totale, autentica catarsi. In essa c'era un pericolo non meno preciso di quello rappresentato dall'apparizione del drago. Un istante prima di riaprire gli occhi aveva sentito che Tabby Smithfield era molto vicino alla morte. Ma ciò significava forse che Tabby si trovava in quella colonna di fuoco? E se lui era in quel rogo o si stava dirigendo verso di esso allora... «Rilassati, Patsy», la esortò Graham Williams. ...che cosa c'entrava il suo matrimonio? L'addolorò che Tabby non fosse lì, perché lo avrebbe abbracciato e tenuto stretto a sé. Guardò Richard Allbee e pensò: mi piacerebbe abbracciare anche te. «Oh, non so di che cosa volessi parlare», si schermì e vide formarsi un
solco ansioso fra le sopracciglia di Richard. «Ma immagino che voi due non l'abbiate vista, vero? La testa del drago?» Il solo menzionarla le sembrò straordinario. Il solco fra le sopracciglia di Richard diventò più profondo. «È uscita dal libro. Mi guardava.» Ricordava l'occhio nero nel quale vagava quella venatura verde... come una pietra. «Non l'abbiamo vista», rispose Graham. Sembrava scosso quanto lei dalle sue parole. «Ma io credo che tu l'abbia vista, Patsy, e sai che cosa significa; vero? Vuol dire...» «Un avvertimento», intervenne Richard. «Gideon Winter stava rivolgendo a noi la sua attenzione», precisò Williams. «Questo voleva dire e in questo senso è un avvertimento.» Afferrò il libro all'improvviso e guardò Patsy con gli occhi sgranati. «Scotta!» esclamò. Anche Richard toccò la copertina, poi si voltò verso Patsy e annuì. «Non voglio toccarlo», rispose subito Patsy. «No, ma io voglio che tu guardi questa pagina», disse Williams avvicinando il volume. Patsy vide le linee nere scavate nella carta. Ce n'erano più di quante ne ricordasse. Alcune delle bruciature erano simili a piccoli scarabocchi sui caratteri stampati. Le ricordarono all'improvviso i pipistrelli e mentre aveva addirittura la sensazione che uno di quegli scarabocchi-pipistrello si muovesse, agitando goffamente un'ala come se fosse spezzata, pensò a Les. E un secondo dopo a Tabby. «Avevo già visto quelle bruciature», spiegò. «Si sono formate subito prima... subito prima che succedesse.» «No, io non alludevo alle bruciature», ribatté Williams. «Guarda le date in cima a queste pagine.» E Patsy guardò. Entrambe le pagine erano contrassegnate dalle date: 1873-1875. Mentre Patsy scrollava la testa, Williams avvicinò il libro a Richard perché le leggesse anche lui. «1873-1875», ripeté Richard. «Non me lo dica. Altri bambini arrostiti.» «Non proprio», rispose Williams. «Ma siamo sulla strada giusta. E la data seguente nel ciclo. Nel 1811 tutta la comunità della Chiesa congregazionalista di Greenbank trovò la morte in un incidente di origine misteriosa verificatosi sulla Punta Kendall. A proposito, è importante tenere presente che fra coloro che caddero nei crepacci c'erano due Williams, due Tayler, padre e figlia, e quattro Green. E anche un vecchio che si chiamava Smyth.
La signora Bach non me lo disse, volutamente; ma io sono andato a controllare sui giornali. Per poco il disastro di Punta Kendall non spazzò via tutte le nostre famiglie. In seguito per molto tempo non ci furono rappresentanti di tutte le nostre famiglie a Greenbank. I miei parenti abitavano a Patchin, dove risiedevano anche i Green sopravvissuti. Questi erano membri della stessa setta religiosa, ma erano iscritti alla parrocchia di Patchin e perciò scamparono a quella terribile tragedia. Nel 1841 Rustum Tayler impazzì, nel senso che da mezzo matto che era uscì completamente di senno e uccise quei due bambini divorandoli quasi completamente prima che Anthony Jennings, a capo di un drappello di cittadini, lo trovasse seduto ai bordi della fossa nella quale aveva arrostito le loro carni.» «Li ha mangiati», mormorò Patsy. Chiuse gli occhi e colse lo spegnersi della colonna di fiamme. Tabby. Dov'era? «Li mangiò. La signora Bach non ritenne che gli ultimi giorni di un Tayler ritardato mentale meritassero di essere citati nel suo scritto, ma aveva letto gli stessi giornali che lessi anch'io e perciò ne era al corrente. Ed era anche stata al vecchio cimitero di Greenbank, in Greenbank Road, e aveva visto le lapidi dei bambini uccisi da Rustum Tayler. Ci sono ancora. Sarah Allen, 1835-1841. Strappataci crudelmente e Thomas Kirby McCauley Moorman, 1834-1841. 'Little Tom.'» Graham Williams posò il libro. «Si sta raffreddando. Sì, sapeva perfettamente di quei poveri bambini, ma non parlò della loro morte più di quanto parlò degli avvenimenti del 1873, e per la stessa ragione. Probabilmente non ne era nemmeno consapevole, ma la verità è che desiderava tenere Gideon Winter nascosto dietro il sipario di una quotidianità più accettabile.» Posò bruscamente lo sguardo su Patsy. «Preferiresti riposare, Patsy?» «No, grazie», rispose Patsy con voce assente. «E allora che cosa è successo nel 1873?» volle sapere Richard. «Un esponente di ciascuna delle nostre famiglie morì nell'incendio al cotonificio», spiegò Williams. «Insieme con altre quarantun persone. Il luglio e l'agosto del 1873 furono battezzati l'Estate Nera per almeno due decenni. Passò più di un anno prima che i forestieri riprendessero a passare per Hampstead. La attraversavano in carrozza, ma si guardavano bene dal fermarsi, e passavano al galoppo per proseguire almeno fino a Hillhaven. Lo so perché nel 1874 a Hillhaven fu aperta una locanda che si chiamava 'Del Transito'. Era lì che si fermava la diligenza. C'era sempre stata una locanda 'Del Transito' anche ad Hampstead, per la precisione proprio in Greenbank Road, eppure dopo il 1873 chiuse i battenti. A quanto pare fallì e non se ne
seppe più nulla. Evidentemente dopo l'Estate Nera la gente evitava Hampstead. Ho controllato i libri di bordo delle navi che attraccavano al porto di Hampstead, dove oggi c'è lo Yacht Club. Facevano tappa qui già dal 1860, eppure a partire dal 1873 presero l'abitudine di proseguire e gettare l'ancora nel porto di Hillhaven. Solo dopo il 1875 ricominciarono a frequentare il nostro porto. Vi rivelerò ora una notizia che Dorothy Bach ha riportato nel suo libro. Prima dell'Estate Nera la popolazione di Hampstead era composta di millequarantacinque anime. Due anni dopo, nel 1875, il municipio effettuò un censimento. La popolazione di Hampstead era ridotta a cinquecentotrentasette persone.» «Ne era morta metà!» esclamò Richard incredulo. «Ma lei aveva parlato di quarantacinque persone morte quell'estate.» «Molti se ne andarono, probabilmente», rispose Williams. «Forse si trasferirono a Hillhaven o a Patchin o in altre località vicine, dove si sentissero al sicuro. Io ritengo che almeno duecento abitanti di Hampstead si trasferirono, senza allontanarsi troppo, convinti di poter tornare un giorno e di ritrovare le loro case più o meno come le avevano lasciate. Durante e subito dopo l'Estate Nera il mercato del bestiame si fece improvvisamente molto attivo; la gente vendeva per andarsene.» «Resta però da spiegare la scomparsa di altre duecento persone», notò Richard. «E vero. Sapete, prima che arrivaste voi io non mi sentivo molto sicuro di tutta questa storia e avrei considerato la morte della signora Friedgood e della signora Goodall senza pormi troppi interrogativi. Ma quando domenica ho visto Patsy e Tabby ho capito. Stava tornando. E stava diventando più forte. Forte quanto lo era durante l'Estate Nera e i mesi che seguirono.» «Che cosa glielo fa pensare?» chiese Richard. «L'Estate Nera del 1873 ebbe inizio allo stesso modo. Una donna fu trovata fatta a pezzi nella sua casa. Una settimana dopo trovarono un'altra donna dietro una fila di negozi di Main Street. Straziata anche lei. Poi ce ne furono altre due e una delle vittime era una bambina della famiglia Smyth. Tutto questo avvenne prima dell'ecatombe al vecchio cotonificio.» Richard formulò un'altra domanda e Patsy udì la sua voce giungere da lontano, come se uscisse da una buca scavata nel terreno o da un ricevitore del telefono abbandonato sul tavolino. «Perché l'Estate Nera fu tanto più terribile dell'estate del 1841?» «Oh, perché eravamo tornati tutti», rispose Williams e Patsy pensò pigramente: tutti tornati, che bello, una rimpatriata... «Williams, Smyth, che
naturalmente era già Smithfield, Tayler, Green. Tutti di nuovo qui. Anche la Chiesa congregazionalista di Greenbank era nuovamente in funzione nel 1873, quando la sciagura del 1811 era ormai abbastanza lontana nel passato da sembrare una leggenda.» «Quei bambini con quei terribili nomi», ricordò Richard. «Buio, Vespro e Pena. I cognomi però erano i nostri, no?» «Giusta considerazione, Richard», gli rispose il vecchio. «Pena, per esempio, era una Tayler che sposò Joseph Williams. Buio era Buio Smyth e Vespro aveva per cognome Green. E ci fu anche una Vergogna, come Dorothy Bach sapeva perfettamente. Una bambina chiamata Vergogna Williams nacque nel 1652 e morì prima di essere battezzata.» «Pena Tayler», mormorò Patsy. A lei il nome sembrava bellissimo. «Erano soprattutto femmine», riprese Williams. «E nel frattempo tutte avevano avuto figli. Williams che sposavano Tayler, Smyth che sposavano Green e poi Williams che sposavano Smyth.» A Patsy sembrava una grande e festosa coreografia, un intrecciarsi simile a un ballo... Le sue mani fremettero e le labbra le diventarono insensibili. Un Williams con una Tayler e poi uno Smyth con una Green e poi un Williams con una Smyth... era un girotondo e per un istante vide il cerchio disegnarsi nella sua mente, brillare dorato come un anello nuziale. Qualcosa di fumoso, di fuori posto ammiccò al centro del cerchio dorato e Patsy scrollò la testa. Ma in quel momento la mano di Marylm Foreman si posò con forza sulla sua e Patsy vide che cosa c'era al centro del cerchio. Non si rese neppure conto del grido di terrore che all'improvviso lanciò. Ricadde all'indietro sul divano. Continuando a gemere scivolò verso il basso, già priva di sensi, e la testa le ricadde sui cuscini. Prima che Richard e Graham la raggiungessero le sue mani cominciarono a tremare e poi tutto il suo corpo fu scosso così violentemente che il divano sussultò sul pavimento. Richard l'afferrò per una mano chiedendosi come far cessare le convulsioni. Poi, in mancanza di meglio, la strinse fra le braccia cercando di frenare quel fremito incontrollato. 15 «Portate fuori il piano e mettetelo giù con cautela», ordinò Starbuck. «Poi tornate a prendere questo specchio.»
No, pensò Bruce e sentì che Dicky stava pensando la stessa cosa: quello specchio lo lasciamo dov'è. Non vogliamo aver niente a che fare con quello, nossignore, mai e poi mai. Un attimo prima di vedere il fascio di luce della torcia di Starbuck animarsi sulla superficie dello specchio, aveva avuto l'impressione di scorgervi qualcosa, una piccola forma sfiorata dalla luce ingoiata (il che evidentemente non era possibile), qualcosa di simile a un verme o a una sanguisuga che si ritraeva per non farsi illuminare. Al diavolo. Che razza di idee. «Se vi permettete di farmi cenno di no un'altra volta, vi stacco la testa dal collo», bisbigliò Starbuck. «Sbrigatevi con quel piano.» La luce bruciava negli occhi di Bruce. «Giuro che vi sparo nelle palle se non vi muovete.» «Stavo pensando», gli sussurrò Bruce di rimando mentre sentiva Dicky rabbrividire. «Pensando col cazzo», sibilò Starbuck. «Potremmo mettere lo specchio nel piano, così facciamo un viaggio solo», improvvisò Bruce. «Come?» e il raggio di luce tornò allo specchio. «Sì, va bene, posatelo dentro, ma attenti a non ammaccare la cornice.» Dicky e Bruce presero posizione ai lati del piano e cominciarono ad attraversare la sala. Starbuck puntò distrattamente la sua torcia su alcune sculture e altrettanto distrattamente sollevò la più vicina. Rappresentava una ballerina e restò sorpreso nel trovarla così pesante. La capovolse e vide che sotto la base c'era un nome: Degas. «Un momento», borbottò e i ragazzi si fermarono. «No, non dicevo a voi, imbecilli», li insulto passando subito a esaminare la statuetta successiva. Sembrava in tutto e per tutto identica a quella che teneva nel palmo della mano. Poco distante individuò altre due statuette di ballerine. Si tolse di tasca la radio e chiamò: «Ehi, ragazzo? Sei lì?» «Come?» rispose la voce spaventata di Tabby. «Porta subito il furgone. Tra un paio di minuti ce la battiamo.» «Vuoi che...?» Dicky e Bruce si erano fermati a qualche passo dallo specchio. «Dio, ma che idioti», ringhiò Starbuck. «Prendete lo specchio, mettetelo nel piano e spingete fuori il piano. Poi tornate qui e prendete quei quadri. Avete capito?» Mentre gli spaventati gemelli Norman si avvicinavano alla parete, Star-
buck andò a raccogliere la seconda statuetta di Degas. Passò quegli ultimi secondi della sua esistenza terrena a calcolare quanto avrebbe potuto ricavare dagli oggetti di quel soggiorno. Abbastanza per vivere beatamente almeno per un paio d'anni. Con l'argenteria, il pianoforte, le statuette e i dipinti, avrebbe potuto tagliare la corda molto prima che qualche sonnacchioso piedipiatti locale cominciasse a cercarlo. Avrebbe avuto tutto il tempo di trovarsi una nuova residenza e già pensava di tornare nel Midwest, territorio dal quale mancava da un pezzo; Grosse Pointe o Lake Forest, o qualche altra cittadina di quelle così ricche che quando respiri ti aumenta direttamente il conto in banca. Poi intravide un vecchio con una pistola in mano che entrava nel soggiorno. Pensò: no, è giovane, un ragazzetto e subito dopo udì il gemito di sofferenza e terrore di Dicky Norman. In quel momento la stanza parve esplodere e l'esplosione gli negò per sempre lo spettacolo di Dicky Norman che spruzzava sangue su quel dipinto che, ci avrebbe scommesso!, doveva essere un Manet. Aveva anche estratto la pistola, ma le sue dita non si mossero e si ritrovò a chiedersi se sarebbe riuscito a vendere un Manet insanguinato. Subito dopo cessò di vivere. 16 Tabby gettò il ricetrasmettitore sul sedile a fianco e si sistemò al posto di guida. Dalla radio gli giunsero brani di conversazione inframmezzati da interferenze. D'impulso allungò la mano, ma poi si rese conto che stava ascoltando ordini di Starbuck per i gemelli. Il ladro sembrava in collera. Tabby girò la chiave dell'accensione e posò il piede sull'acceleratore. Il motore si avviò. Tabby aveva ormai esaurito le sue poche nozioni sul furgone. Con aria smarrita contemplò la leva del cambio lunga più di un metro e angolata come quella di un autocarro. Sul pomello, in cima all'asta, c'era un pulsante rosso. Tabby l'afferrò, premette il pulsante e spinse la leva verso il basso. Non pigiò il pedale della frizione perché non sapeva nemmeno che esistesse. Il furgone ringhiò come se stesse macinando i propri ingranaggi, come se si fosse azzannato per rabbia. Tabby lasciò la leva del cambio, quindi l'afferrò di nuovo e la spinse lateralmente, mentre contemporaneamente schiacciava l'acceleratore a tavoletta. Il furgone tremò come un cane in preda a un attacco epilettico. Dal ru-
more sembrava che andasse in pezzi. Ogni tentativo fu inutile. Tabby spalancò la portiera e di corsa si avviò lungo il vialetto. Poi ricordò la radio e tornò sui suoi passi. Stava superando l'acero giapponese, a una decina di metri dalla casa, quando gli venne in mente che, dovendo trovarsi a tu per tu con Starbuck di lì a pochi secondi, non avrebbe avuto bisogno della radio. Il fascio di luce del grosso fanale sotto la grondaia lo investì, quasi trafiggendolo, e Tabby si sentì esposto a uno spietato giudizio. Avrebbe dovuto confessare a Starbuck che non era capace di mettere in moto il furgone, ecco tutto. Il ladro, o uno dei gemelli Norman, sarebbe andato a recuperarlo. Doveva solo entrare in casa e ammettere apertamente che non sapeva guidare. Impaurito, Tabby chiuse gli occhi e vide. Una colonna di fiamme che si alzava per quindici metri nell'aria e pochi attimi dopo si staccava dal suolo e assumeva la forma di un pipistrello gigantesco con le ali distese, un enorme pipistrello fatto di fuoco. Tabby si fermò bruscamente. Gli si era riempita d'ovatta la bocca e il cuore gli pulsava nella gola. Avanzò di un passo, titubante. Stava per accadere qualcosa dentro la casa; l'atmosfera sembrava carica di quell'elettricità innaturale che aveva attraversato il cielo poco prima. Tabby vide qualcosa brillare a una delle finestre del pianterreno. La radio, che teneva meccanicamente stretta nella mano, emise un lungo gemito di agonia. Fece un altro passo. La luce alla finestra del pianterreno lo spingeva a proseguire. Qualcosa dentro di lui gli diceva che quello che stava succedendo nella casa era troppo perché potesse sopportarlo. Richiamava alla sua mente quel ricordo ancora assai nebuloso di un evento futuro che aveva visto quando suo padre e suo nonno avevano cercato di trascinarlo via al cancello 44 dell'aeroporto di New York: il ricordo oscuro e traumatico di un uomo che affondava una lunga arma rossa nelle carni di una donna. Ma una parte di Tabby Smithfield percepiva una voce suadente che giungeva dalla grande villa e, dolce e insistente, lo invitava a entrare. È bello qui dentro, Tabby. Vieni. Non importa se non sei capace di guidare il furgone, niente ha più importanza, entra e unisciti a noi... Imbambolato e disorientato dall'immagine del pipistrello di fuoco confusa con quella dell'uomo che accoltellava la donna, Tabby avanzò di un altro passo verso la casa.
Poi udì uno sparo provenire dalla stanza dove la luce invitante gli era apparsa alla vetrata. 17 Patsy si dibatteva nella stretta di Richard come un toro in un recinto. «Non so se resisterò ancora a lungo», ansimò disperato Richard rivolto a Graham Williams. «La prendo per le gambe», disse Williams girando intorno al tavolino. Con la mano destra le afferrò una caviglia, ma Patsy scalciò tanto forte da fargli perdere l'equilibrio. Williams piombò pesantemente sul fragile tavolo, che cedette con uno schianto. Con le labbra serrate per la fatica Williams riuscì a sporgersi e a bloccare la gamba di Patsy. Poi le afferrò l'altra con la mano libera. Le anche di Patsy sussultarono violentemente e Williams avvertì un'improvvisa fitta di dolore al petto. Richard vide il vecchio sbiancare in viso. Patsy si dimenò nuovamente tra le sue braccia e urlò un'unica parola: «Scappa!» Richard scrollò la testa per invitare il vecchio a lasciarla andare, per avvertirlo che si sarebbe arrangiato da solo, ma Williams strinse con maggior vigore limitando ulteriormente il raggio d'azione dei movimenti di Patsy, che divenne così più controllabile. «Scappa!» gridò di nuovo. Poi emise un lamento che quasi la fece sfuggire dalla stretta di Richard. Si udì un fragore. Richard chinò la testa convinto che fosse esplosa una finestra, ma poi si accorse che il vetro di uno dei manifesti incorniciati accanto alla scrivania di Williams si era sbriciolato sul pavimento. «Aaaah!» urlò Patsy. I polizieschi tascabili poggiati sopra i libri d'arte stavano schizzando fuori dello scaffale e volavano nell'aria. Alle spalle di Richard la cornice del manifesto si spaccò crepitando come legna sul fuoco. I libri dell'ultimo scaffale decollarono e saettando attraverso la stanza piombarono sulla scrivania di Williams. Volavano libri da tutte le parti: sotto gli occhi di Richard e Graham due volumi si sollevarono fino al soffitto e lì restarono immobili per un momento prima di piombare giù. Un altro manifesto incorniciato cadde a terra e sussultò come un gatto morente mentre il vetro si frantumava in mille pezzi.
18 Vieni, Tabs, adesso abbiamo bisogno di te, diceva la voce muta nella sua mente e lui avanzò di un passo ancora. Per un momento vide decine di persone allineate alle vetrate; poi vide la folla scomporsi, pensò che fosse una festa, si chiese come potesse esserci una festa... Avvicinò il ricetrasmettitore alla bocca e domandò: «Ehi, che cosa...?» «Vieni», gli rispose la radio. «Entra, Tabby.» Non distingueva molto bene le persone dietro le finestre, ma notò che fra loro non c'erano i gemelli Norman. «Entra», ripeté la voce dalla radio. Quando la folla si diradò Tabby si rese conto che il luccichio di poco prima proveniva da uno specchio. Ora al centro di esso c'era un'area di delicato color rosa che pulsava e splendeva. Tabby riprese a camminare. Ma in quel momento Brace Norman sbucò dall'ingresso. Reggeva Dicky con un braccio e sembrava che lo stesse trascinando fuori. La faccia di Dicky era bianca come marmo. Si muoveva molto lentamente. «Dov'è il furgone?» urlò Bruce. Brace era rosso di sangue: il sangue gli aveva incollato la camicia al torace. Anche Dicky aveva la faccia imbrattata di sangue e lungo un fianco era così fradicio che i colori dei suoi vestiti non erano più riconoscibili. Tabby indicò a Bruce dove si trovava il furgone. Si era accorto che tutto il sangue apparteneva a Dicky Norman. Poi vide la protuberanza bianca in mezzo a quell'ammasso rosso che Bruce reggeva con il braccio. Era l'osso della spalla di Dicky: il suo braccio non c'era più. Corse ad aiutare Bruce e improvvisamente gli si schiarì la mente: da quando aveva visto la colonna di fiamme esplodergli nella mente gli parve di essersi mosso al rallentatore. Quando ebbe passato un braccio attorno alla schiena di Dicky sentì tutto il peso del suo corpo, tutta la sua inerzia. Capì che Dicky stava per morire. Per metà sorreggendolo e per metà sospingendolo, portarono Dicky al furgone. Lì Tabby si staccò per andare ad aprire il portello posteriore, ma Bruce strillò: «Non di dietro! Davanti! Vicino al volante!» Tabby lo aiutò a caricare Dicky sul sedile anteriore, poi Bruce corse dall'altra parte per mettersi al posto di guida. Tabby saltò nel retro e chiuse con un tonfo la portiera mentre Brace urtava un albero in retromarcia. Dicky cadde in avanti. «Tiralo su, Cristo!»
gridò Bruce. Grattò inserendo la marcia e partì sollevando una pioggia di terriccio. Sporgendosi da dietro lo schienale Tabby cercò di issare Dicky in posizione eretta. Gli scivolò la mano nello strato di sangue che ricopriva il fianco sinistro di Dicky, il quale rotolò lentamente verso Bruce. Lo spuntone bianco premette contro il rivestimento del sedile. «Tiralo su!» strillò Bruce. Sbucò in Mount Avenue e girò in direzione del Sayre Connector. Tabby tirò Dicky per il braccio destro e finalmente il ferito riuscì a far leva sulle gambe e ad assecondare la sua manovra. Sporgendosi di più, Tabby cercò di guardarlo negli occhi. Vide che erano fissi su qualcosa di molto lontano. Lo sguardo di Dicky non era più lo sguardo di un essere terreno. Tabby ebbe l'impressione che Dicky Norman in quel momento fosse intelligente come mai era stato in vita sua, ma fu contento di non poter vedere ciò che Dicky stava osservando così intensamente. «Tieni duro, Dicky», gli disse dandogli una pacca affettuosa sulla spalla buona. Dicky non sbatté nemmeno le palpebre. «Dov'è quel tizio? Starbuck?» chiese Tabby. «Starbuck?» «Quel fottuto è morto», rispose Bruce. «Morto? Ma se gli ho appena parlato per radio.» «E morto, ti dico. L'ha ammazzato il vecchio.» Bruce attraversò un incrocio senza fermarsi allo stop. «Come... che cosa è successo a Dicky?» «Non lo so!» gridò Bruce. Si passò la mano sul doppio mento e vi lasciò una traccia di sangue. «Dovevamo prendere quello specchio e metterlo dentro a quel cazzo di pianoforte. Stavamo per staccare lo specchio quando arriva il vecchio con la pistola. Non dice nemmeno 'Mani in alto', spara e basta. E ha beccato Starbuck. Gli ha spappolato la testa, poi Dicky lancia un grido che non ti dico e io mi volto a guardarlo e lo vedo che spruzza sangue su tutto il muro e non ha più il braccio. È lì, in piedi a guardar su, e allora penso che quel vecchiaccio farà fuori tutti e due.» Scrollò la testa. «Credevo che avesse accoppato anche lui, ma poi ho visto che non aveva più il braccio, così l'ho trascinato fuori.» «Ho visto che c'era dell'altra gente.» «Tabs, il vecchio era l'unica persona che c'era. Adesso devi scendere. Porto Dicky al Norrington General e tu devi scendere da questo furgone.» Frenò al semaforo del Sayre Connector. «Giù, Tabs. Presto.» Tabby saltò in strada e sbatté la portiera. «Buona fortuna», gli augurò,
ma il furgone era già ripartito con il rosso e filava verso l'ingresso dell'autostrada. Dicky morì mentre il dottor Patel gli stava ancora chiudendo le arterie tranciate. La mezzanotte era scoccata da tre minuti. Il dottor Patel si rialzò, controllò l'orologio alla parete, quindi guardò Bruce Norman, che sedeva nella saletta e lo fissava, gli occhi ridotti a due fessure. Il medico prese la mano di Dicky e gli tastò il polso. Ma fino a pochi attimi prima stava lavorando alla sua ferita e sapeva che non avrebbe sentito alcuna pulsazione. Delicatamente riabbassò la mano di Dicky e gliela posò sul petto. Bruce si alzò. Puzzava di sangue e aveva ampie chiazze rosse sulle scarpe, sui jeans e s,ulla camicia. Le macchie di sangue che aveva sulla faccia sembravano simboli di guerra. «Questo ragazzo è morto», annunciò il dottor Patel. «Vuole essere tanto gentile da dirmi come si è procurato questa ferita?» Bruce gli si piazzò davanti e lo colpì con un diretto alla guancia facendogli saltare due denti e mandandolo a sbattere contro il sostegno della flebo di Dicky. Il medico cadde a terra in una pozza di liquido scuro. Bruce raccolse il fratello e tenendolo in braccio tornò al furgone. Percorse l'autostrada fino a Woodville dove si fermò al primo ospedale, il St. Hilda, e qui accettò la notizia che suo fratello era morto. Erano ormai trascorsi i primi trentun minuti di domenica 8 giugno e nella contea di Patchin cominciava il venticinquesimo giorno senza pioggia. 19 Tabby percorreva la Beach Trail e guardava le case che sembravano marciare una dietro l'altra ai lati della strada buia e i lampioni che disegnavano cerchi di luce sui marciapiedi. Pensò che quello scenario, su per la collina fino alla sua abitazione, ricordava il paesaggio di un sogno e che presto quelle case avrebbero cominciato a gonfiarsi e lacerarsi, a lasciar sgorgare dalle finestre sangue mischiato a uno schifoso liquido giallastro; allora la strada si sarebbe crepata, la terra si sarebbe rivoltata e dai crepacci sarebbero emerse mani bianche e ferite... e nel cielo sarebbe passato il pipistrello di fuoco a incendiare le case in disfacimento cantando: Mastro Smyth, vuoi una palla nella schiena? Gemette e si portò le mani al viso e solo allora si accorse di avere ancora
con sé il ricetrasmettitore di Gary Starbuck. La radio gli gracchiò in faccia: «Tabby! Tabby Smithfìeld! Torna qui! Torna qui immediatamente o ti ammazzo!» La voce era distorta da una raffica di interferenze, ma le parole gli giunsero chiare ed esplicite. Era la stessa voce che gli aveva parlato quando era ancora davanti alla casa del dottore, la voce di Gary Starbuck. Starbuck non era morto, era ancora là dentro, fuori dai gangheri perché Tabby e i gemelli Norman l'avevano piantato in asso. Fissò la radio. Non sapeva più che cosa credere. Bruce Norman aveva visto il dottore uccidere Starbuck, ma lui aveva visto parecchie persone dietro quelle vetrate, persone che, secondo Bruce, non c'erano mai state. «Ahhh», protestò la radio. Segnali radio, pensò Tabby. Stava intercettando qualche strano programma. No, sapeva che non era così e fu sicuro che Starbuck fosse morto. Anche Dicky Norman doveva essere morto, con quel braccio selvaggiamente strappato dal corpo... ... da una delicata luce rosa al centro di uno specchio antico? L'aggeggio nero di metallo e plastica che teneva nella mano diventò improvvisamente caldo. Perplesso, ma incuriosito, Tabby avvicinò la faccia e fu investito da un acre olezzo. Poi l'oggetto divenne insopportabilmente caldo. Dalla griglia dell'altoparlante uscì del fumo. La parte superiore si piegò e sogghignò. Una striscia di metallo gli scottò il palmo della mano e Tabby, sobbalzando, lanciò la radio in aria, verso il prato. Prese fuoco mentre ancora volava. Si udì uno scoppiettio e quando toccò terra ne uscì una nuvoletta di gas azzurro dai netti contorni. Molti pezzi stavano ancora bruciando e nel mezzo della scatola si era aperta una fenditura. Mentre la plastica si scioglieva, piccoli elementi in fiamme presero a muoversi saltellando nell'erba. Un pezzetto incandescente si allontanò di qualche centimetro dalla radio, spostandosi su gambe minuscole apparse sotto il suo dorso lucido come quello di uno scarafaggio. Diventò friabile e trasparente e morì. Alcune fiammelle attaccarono gli steli dell'erba secca. Tabby si rese conto che avrebbe potuto prendere fuoco tutto il prato e corse a pestare le fiammelle sotto le scarpe. «Tabby? Sei tu?» chiamò una voce femminile e quando alzò gli occhi vide Patsy McCloud sulla soglia di casa. Solo in quel momento riconobbe l'abitazione di Graham Williams.
«Sono io», rispose mentre lei aveva già abbandonato la veranda e stava correndo verso di lui. Da dietro lo stipite della porta fece capolino Graham Williams e Tabby lo salutò con la mano. Williams sorrise e rispose al suo saluto, sfregandosi il petto con l'altra mano. Uscì affondandosi le mani nelle tasche. Patsy travolse Tabby e nel tentativo di abbracciarlo per poco non lo mandò a finire lungo disteso. «Stai bene?» Lui annuì. «Che cosa stavi facendo?» «Avevo una radio e all'improvviso è come esplosa», spiegò. Ora che era fra le sue braccia provava un vago senso di vertigine. Una fibbia metallica della sua salopette gli premeva contro il collo. Da Patsy emanava un gradevole aroma di profumo e sudore fresco. «Ero così preoccupata... Sono svenuta, anzi, credo di essere caduta in trance. Ho sognato che ti trovavi in un pericolo terribile.» Staccò le braccia da lui raddrizzandosi. «È vero?» «Be', mi sono scottato la mano», rispose Tabby mostrandole il palmo ustionato. «Ah, la immergiamo subito nell'acqua fredda. Ma io non parlavo di quello. Dov'eri stasera? Che cosa facevi?» Tabby non poteva rispondere a quella domanda. Se vi fosse stato costretto, Patsy gli avrebbe creduto, ma sarebbe stato troppo lungo raccontare tutto e lui si sentiva terribilmente stanco. «Ehi, hai la camicia sporca di sangue», notò Patsy. Tabby si guardò. Sì, c'era proprio sangue, quello di Dicky Norman, dove si era asciugato la mano dopo avere cercato di mettere Dicky a sedere diritto sul furgone. Patsy era ancora più pallida. «Sto bene», la tranquillizzò. «Non mi sono fatto male. Ero con altre persone.» Due delle quali adesso sono morte. Patsy trasalì, come se avesse intercettato il suo pensiero. I suoi occhi sgranati lo fissarono intensamente. Allora le tornò nella mente l'immagine del pipistrello di fuoco con le ali spiegate e nubi nelle orbite svuotate: l'ho visto oh, no l'ho visto, l'ho visto, l'ho visto e stava per ucciderti non possiamo farcela, nessuno ce la può fare dillo ai Marines, pappamolla, perché lo stiamo facendo.
Quelle parole erano rimbalzate da Patsy a Tabby mentre l'atroce immagine del pipistrello di fuoco si spegneva e alla fine la bocca di Patsy riuscì addirittura a piegarsi in un sorriso. «Lo stiamo facendo», ripeté Tabby. Ci provò l'ho visto anch'io, Patsy oppure gli venne in mente questa frase che sentì passare istantaneamente nel cervello di Patsy: non possiamo sì che possiamo dirlo non possiamo dirlo non possiamo dirlo a nessuno a nessun altro nemmeno a Richard (Richard?) sii Sulla scia di quel sì sibilante Patsy si sentì invadere da un groviglio di emozioni: affetto, senso di colpa e forte desiderio fisico; allora Tabby indietreggiò mentalmente, sapendo che quei sentimenti erano troppo intimi per lui. «Richard Allbee», disse a voce alta. Patsy annuì e un attimo dopo Graham Williams li aveva raggiunti e diceva: «Vieni dentro un secondo, Tabby, devi conoscere il nostro amico. E comunque hai l'aria di avere bisogno di riposare. È così per tutti noi». Si rese conto che stava guardandola negli occhi: erano di identica statura. mi fa paura, pensò e adesso due di loro sono morti? pensò Patsy. più tardi la cosa di fuoco? più tardi la cosa di fuoco, dannazione non so stava per ucciderti, pensò Patsy nel cervello di Tabby e lui intuì che gli stava dicendo la verità. La gioia della scoperta di quello che riuscivano a fare insieme si congelò all'improvviso. «Stai bene?» gli stava chiedendo Williams. «Ma che cosa diavolo ti è successo? Perché tutto quel sangue?» «Sto bene, davvero», ribadì Tabby.
«Dov'eri, figliolo?» «Non posso dirlo», rispose Tabby. «Non lo posso dire a nessuno. Non ora, comunque. Ma non mi sono fatto male.» Williams lo fissò con aria corrucciata. «Ho la sensazione che mi sfugga qualcosa. Qui sta succedendo non so che cosa e io ne sono fuori. Ti ha raccontato che cosa stava facendo, Patsy?» Patsy scrollò la testa. «Be', intanto puoi venire a conoscere Richard Allbee», concluse Graham. Poi lanciò un'altra occhiata cupa a Tabby. «Non sarai nei guai con la polizia, spero? Eri forse fuori per un'altra scorribanda contro le cassette per le lettere?» «Qualcosa del genere», ammise Tabby e non poté guardare Patsy. Era arrossito. «Be', chiunque alla tua età ha licenza di essere stupido», lo rimbrottò Williams, «ma non esagerare.» Mentre attraversavano il prato invaso dalle erbacce, uscì in veranda un quarto individuo, un uomo sulla trentina, snello ed elegante. Era poco più alto di Patsy e Tabby e portava i capelli scuri pettinati all'indietro. Tabby lo giudicò azzimato e in gamba. Quando fu abbastanza vicino da vedere bene la sua fisionomia, sentì un tuffo al cuore: paura o conferma? Richard Allbee, quarto discendente dei coloni che avevano fondato Greenbank, era l'uomo che aveva visto attraverso la vetrina della tavola calda al centro commerciale di Post Mall. I Norman blateravano di un ragazzo di nome Skip Peters, vantandosi di come costui fosse solito fare tutto quello che loro gli chiedevano, anche le cose più pazzesche. Nel bel mezzo dei racconti dei gemelli Tabby aveva visto Spunky Jameson che lo fissava attraverso il vetro. Poi si era accorto che quella persona era adulta e non poteva essere Spunky Jameson, che aveva solo dieci anni... ... e in quel momento aveva sentito che quella persona lo conosceva bene, che si erano incontrati e che da quell'incontro sarebbero seguiti eventi insieme terribili e meravigliosi... si era sentito scivolare in un sogno pauroso e poi Dicky Norman gli aveva pizzicato il dorso della mano con la sua forchetta spezzando l'incantesimo... «Dovevo aspettarmelo che Tabby Smithfield fossi tu», disse l'uomo. «Vi siete già incontrati?» esclamò Graham Williams visibilmente stupito. «Ci siamo guardati», rispose Tabby.
«Sempre più misterioso.» Consapevoli di trovarsi tutti e quattro insieme per la prima volta, indugiarono per qualche istante in veranda senza parlare. Graham Williams sapeva che quel «sempre più misterioso» sarebbe stato d'ora in poi il loro cibo e bevanda e quella consapevolezza lo riempì di paura: sapeva che ciò che sarebbe accaduto avrebbe ridotto la trance di Patsy a un'annotazione secondaria a margine della loro storia. Tabby non ebbe alcuna di queste premonizioni, almeno non mentre sostava con gli altri nell'oscurità davanti alla casa di Graham. In un primo momento aveva avuto la sensazione di essere finalmente al sicuro, dove niente avrebbe più potuto fargli del male. Successivamente si era reso conto di trovarsi in compagnia di un uomo anziano, di un altro più giovane e di una donna: lo stesso schema che esisteva a Mount Avenue poco prima che la loro vita fosse sconvolta dalla tragica morte di sua madre. «Coraggio, entriamo», li sollecitò Williams. «Tabby, c'è qualcosa che dobbiamo dirti. Questa sera Patsy ha visto il Drago.» Richard Allbee aprì la porta rivolgendo a Tabby uno sguardo di affettuosa perplessità e Tabby ricordò come gli fosse sembrata enorme la pistola di Les McCloud quando lui gliela aveva puntata al petto. Ora aveva la sensazione che quell'episodio risalisse a secoli addietro. Lanciò un'occhiata nervosa ai frammenti semidisciolti della radio, sul prato. Graham Williams gli posò un braccio sulle spalle. Tabby salì i gradini e seguì Patsy in un corridoio rivestito di libri. 20 Alle tre e un quarto di quella notte due bambini scendevano sull'asfalto della strada di Gravesend Beach. Il più piccolo dei due, Martin O'Hara di quattro anni, zoppicava lievemente. Indossava calzoncini blu scuro e una maglietta celeste con l'immagine di Yoda. Suo fratello Thomas, di nove anni, indossava jeans a tubo e una maglietta verde scuro con maniche corte gialle. Superarono la recinzione che divideva la strada dalla spiaggia, ma Martin faticava a tenere dietro a Thomas. «Sbrigati», incalzò Thomas senza guardarsi alle spalle. «Ma mi fanno male i piedi», protestò Martin. «Siamo quasi arrivati.» «Meno male», ribatté Martin scimmiottando la voce di sua madre. Un secondo dopo Thomas disse: «Hai rallentato di nuovo».
«Ma io non voglio rallentare.» «Sei stupido.» «Non sono stupido, Tommy!» guai Martin. Pochi minuti ancora e giunsero alla fine della strada d'accesso. Davanti a loro si stendeva la spiaggia grigia e deserta; alla destra c'era il frangiflutti dal quale erano soliti pescare Harry e Babe Zimmer. C'era bassa marea nello Stretto, un tratto lungo e nero di acqua, con qualche increspatura argentata. «Eccoci», annunciò Thomas. «Sì, eccoci», ripeté Martin. Thomas saltò sul muretto di cemento che delimitava lo spiazzo di parcheggio e aiutò Martin a salire accanto a lui. Poi saltò giù nella spiaggia. «Vieni, Martin. Salta.» «Tirami giù», replicò Martin. «Non riesco a saltare. È troppo alto per me.» Con un sospiro Thomas tornò sui suoi passi e aiutò Martin a scendere. «Adesso dobbiamo toglierci i vestiti», disse. «Dobbiamo?» «Certo che dobbiamo», ripeté Thomas sedendosi con calma e cominciando dalle scarpe. Martin si accoccolò nella sabbia, a pochi centimetri da Thomas, e cercò di disfare i nodi delle stringhe. Pochi secondi dopo cominciò a gridare istericamente: «Tommy, non ci riesco, non riesco a togliermi le scarpe!» Il fratello, che era rimasto in maglietta, si inginocchiò davanti a lui e gli sfilò le scarpe senza perdere tempo a sciogliere i nodi. Mentre Thomas si sfilava la maglietta da sopra la testa, Martin si calò i calzoncini e le mutande di colore rosso. Poi si sedette di nuovo, si afferrò la punta della calza destra con la mano sinistra e borbottando se la tolse. Ripeté l'operazione con la calza sinistra. «Su, su», lo incitò Thomas. Era in piedi nell'oscurità e agli occhi di Martin appariva alto e possente come un adulto. «Togliti la maglietta.» «Voglio tenermi Yoda», rispose Martin. «Te la devi togliere», insisté Thomas. «Voglio tenermi il mio Yoda!» strillò Martin. «Gesù», commentò Thomas. «Non puoi dire quella parola!» esplose Martin. «Va bene, va bene. Tieniti pure la maglietta.» Thomas si incamminò per la spiaggia.
Una densa ghirlanda quasi ininterrotta di alghe segnava la linea dell'alta marea. I ragazzi la scavalcarono procedendo con cautela sulla sabbia asciutta. Stavano attenti a non mettere i piedi su qualche pietra aguzza o su frammenti di guscio di granchio disseminati per tutta la spiaggia. «Un granchio a ferro di cavallo!» esclamò Martin. «Guarda! Un granchio a ferro di cavallo!» «È morto, è stecchito», gli disse Thomas. «Avanti, Martin.» Martin partì di corsa sorpassandolo e arrivando per primo all'acqua. «Brrr!» «L'acqua va bene, è solo un po' fredda», commentò Thomas con disinvoltura. Scese nell'acqua dietro il fratello e ripeté: «Solo un po' fredda», anche se per la verità a lui sembrava quasi gelida. «Migliorerà.» Dovettero arrivare quasi alla fine del frangiflutti prima che l'acqua giungesse alla vita di Thomas. Martin procedeva con determinazione, sforzandosi di tenere la testa alta. «È ancora fredda», dichiarò. «Tu arriva fin dove puoi», gli raccomandò Thomas. «Non c'è bisogno che tu vada lontano.» «Non andare via», lo pregò Martin mentre la maglietta gli si gonfiava di acqua. «Devo andare», rispose Thomas. «Lo sai, Martin.» Si voltò allora a guardare il volto contratto del fratello. «Dammi un bacio, Martin», disse di slancio chinandosi a sfiorare con la bocca le labbra fredde del fratellino, poi si buttò nell'acqua. Martin lottò per restare diritto, avanzando di un altro passo. L'acqua gli arrivava al mento. Sollevò i piedi dal fondo di pietra e agitò le braccia. Più di così non sapeva nuotare. «Tommy», gridò quando si rese conto di non riuscire più a toccare con la punta dei piedi. Il fratello non badò a lui, già diretto alle boe. Martin si spinse più avanti. La maglietta era diventata pesante, troppo pesante. Finì sott'acqua e ingoiò disperatamente lunghe sorsate di acqua salata. Riemerse dimenando le braccia, spingendosi così ancora un metro oltre il limite estremo del frangiflutti. Poi la sua testa scomparve nuovamente sotto il pelo dell'acqua. Un'enorme forma nera aprì le fauci e si gettò su di lui. Thomas continuò a nuotare finché le braccia gli divennero così pesanti che non riusciva più a sollevarle. Aveva superato le boe di almeno una decina di metri. Si sentiva stanco e accaldato. Si lasciò scivolare con la testa sott'acqua drizzandola fuori quando sentì l'onda lambirgli il naso. Fece u-
n'altra bracciata, quindi s'immerse di nuovo come se qualcosa lo stesse risucchiando dal fondo. Mezz'ora dopo la distribuzione del primo Bloody Mary a una colazione al Sewtell Country Club, una donna di nome Rae Nestico-Bell raccolse la sua sedia a sdraio e si trasferì in fondo a Gravesend Beach, per allontanarsi il più possibile dagli schiamazzi di una partita di pallavolo. A parte le grida e la sabbia che i ragazzi sollevavano, era soprattutto seccata da certe occhiate lascive che le indirizzavano i ragazzi ogni volta che credevano di non essere visti. La signora Nestico-Bell era arrivata alla prima serie di paletti che delimitava le spiagge private e stava per sistemare la sua sedia a sdraio nei pressi del frangiflutti sotto la casa di Van Horne, quando notò sul bagnasciuga due strane sagome ricoperte di sabbia e alghe. Lasciò cadere la sedia a sdraio. Vide un piede bianco sporgere dal groviglio. Si portò le mani alla bocca e le morsicò mentre cominciava a chiamare aiuto. Questi fatti, le grida di una donna in bikini e l'accorrere animato di otto adolescenti, segnano la vera conclusione degli avvenimenti di sabato 7 giugno, anno 1980. La prima soglia era stata varcata. DUE Bagnanti nudi 1 Lunedì 9 giugno, si diffuse la notizia che l'assassino di Stony Friedgood ed Hester Goodall era stato ucciso, colto in flagrante mentre rubava in una casa del «miglio d'oro»; nessuno al dipartimento di polizia aveva rilasciato dichiarazioni ufficiali in proposito, ma gli agenti di Hampstead che nelle ore di libertà frequentavano i bar di Post Road e di Riverfront Avenue raccontarono di un piccolo dottore con molto fegato, un certo Wren Van Horne, che era entrato in soggiorno armato di pistola e aveva abbattuto un intruso armato di rivoltella e pronto a uccidere il padrone di casa! Quel particolare era importante. «Vedrete», sostenevano tutti i poliziotti, «che adesso per un bel pezzo non avremo altri omicidi ad Hampstead.» I baristi e gli altri avventori rincasarono e raccontarono a mogli, mariti e genitori che Hampstead era di nuovo un luogo sicuro e mogli, mariti e genitori riferirono ad amici, fornitori e commessi che ad Hampstead non c'era più niente da temere. Il mostro che aveva straziato la signora Friedgood e la
signora Goodall era morto e defunto. «Naturalmente non si riuscirà mai a dimostrarlo», avevano dichiarato i poliziotti nei bar, e «naturalmente non riusciranno mai a dimostrarlo», ripeterono le mogli ai parrucchieri e ai negozianti, «ma era certamente quell'uomo. Non era nemmeno di queste parti! Ho sentito dire che veniva dalla Florida... da New York... dall'Illinois». Quel lunedì mattina Sarah Spry aveva ricevuto in ufficio una telefonata di Martha Gable, una delle sue più vecchie amiche, che le aveva raccontato tutta la storia. Allora si era rimproverata per non aver immediatamente controllato alla stazione di polizia, come era solita fare quando arrivava in ufficio. Era stata tutta colpa del suo principale che l'aveva bloccata con la notizia dei piccoli O'Hara e le aveva suggerito di andare a fare due chiacchiere con la madre dei ragazzi prima di recarsi a intervistare Richard Allbee. «Ma che cosa serve?» aveva replicato mentre ancora cercava di accettare la notizia della morte di quei due ragazzini che da quando erano nati vedeva una volta la settimana. «Tu sei amica degli O'Hara, no?» le aveva domandato Stan Brockett. «E allora?» quasi aveva gridato. «Vorresti che chiedessi a Mikki O'Hara che effetto fa ritrovarsi con i figli morti annegati? Vuoi che le chieda che influenza avrà la morte dei suoi figli sul suo lavoro?» Mikki Zaber O'Hara era una delle numerose pittrici semiprofessioniste di Hampstead. Aveva esposto nelle gallerie d'arte locali. Suo marito, un perito di preziosi, con un ufficio a Gramercy Park e un altro a Palm Springs, le aveva fatto costruire uno studio in soffitta, ma lei vendeva i suoi dipinti quasi esclusivamente a parenti e amici. «No», aveva risposto Stan Brockett. «I suoi lavori sono sempre state delle gran puttanate. Voglio che tu le chieda che cosa ci facevano in spiaggia i ragazzi verso le tre del mattino.» «Come sarebbe a dire alle tre del mattino? Mikki non avrebbe permesso ai suoi figli di andare fuori a giocare a quell'ora.» «Il medico legale dice che devono essere entrati nell'acqua verso quell'ora e io voglio che tu lo chieda a lei.» «Va bene», aveva accettato Sarah. «Ma solo perché so che ti sbagli e i suoi dipinti sono bellissimi. Ne ho uno anche nel soggiorno di casa mia.» «Allora sarà meglio che continui tu a fare la recensione delle sue mostre», aveva concluso Stan Brockett. «Vedi di andarci per le due, due e mezzo. Voglio entrambi i pezzi per le sei di questa sera.» Poi era arrivata la telefonata di Martha Gable e Sarah si era precipitata a
chiamare Dave Marks alla centrale di polizia. Quasi ogni mattina, all'ora in cui Sarah arrivava in ufficio, Dave Marks era di servizio alla centrale. Nell'arco di molti anni i due avevano stabilito rapporti di collaborazione assai soddisfacenti per entrambi. Dave Marks riferiva a Sarah tutte le informazioni importanti della sera precedente e lei faceva apparire la sua fotografia sulle pagine della Hampstead Gazette ogni volta che poteva. Di conseguenza Sarah era informata sui fatti salienti della giornata prima dei suoi diretti rivali del Norrington Highlife o del Patchin Advocate, mentre Dave Marks otteneva dalle agenti della polizia femminile le attenzioni riservate a una celebrità. «Il tizio in questione si chiamava Gary Starbuck, un pesce grosso», spiegò Dave Marks a Sarah. «Era tutta la vita che rubava, spostandosi in continuazione. Scommetto che aveva sei, settecentomila dollari distribuiti in varie banche. Apriremo casa sua perché la gente derubata possa andare a identificare oggetti di sua proprietà. Riteniamo che da quando è arrivato ad Hampstead abbia rubato in almeno venti case. Dovresti vedere dove abita, Sarah. È una specie di magazzino. Forse la sua buona stella l'ha improvvisamente abbandonato. Il dottor Van Horne gli ha sparato un colpo solo e gli è bastato.» «Wren Van Horne dovrà rispondere di qualche imputazione?» chiese Sarah. «No, che diamine!» esclamò l'agente Marks. «Ha ucciso Starbuck nel corso di una rapina a mano armata. Quel figlio di puttana aveva la pistola in pugno. Van Horne sarà fortunato se il capo non lo trascinerà alla centrale per consegnargli una medaglia durante una conferenza stampa. Sono almeno quindici anni che le polizie di tutto il Paese gli davano la caccia. È. buffo, era proprio come suo padre. Il suo vecchio aveva fatto lo stesso mestiere. Si lavorava una città, vendeva tutto ai ricettatori, se la filava e prendeva in affitto una casa da qualche altra parte. L'hanno preso una sola volta, in quarant'anni di carriera, e ha scontato quattordici mesi. Il vecchio è morto due anni fa in una clinica di Palm Beach, lasciando al figlio un bel gruzzolo, e il figlio ha ripreso dove il padre aveva lasciato, come una buona azienda familiare, no?» «E sarebbe questo Starbuck il responsabile degli omicidi?» gli domandò a bruciapelo Sarah. «Mi spiace dirlo, ma a me non sembra proprio il tipo.» Dave Marks restò in silenzio a lungo, quindi sospirò: «Sei la quarta persona che mi telefona questa mattina. La gente vuole credere a quello che la rende felice, sai? Noi non abbiamo mai messo Starbuck in relazione con
quegli omicidi e non lo faremo mai. Ci sarà forse un paio dei nostri che la pensano così, ma sai come vanno queste cose, Sarah, è difficile per un poliziotto accettare che ci sia un mostro a piede libero. Ogni giorno che passa senza che riusciamo a catturarlo è un insulto per noi». «Sì, capisco», ribatté Sarah. «È quello che temevo. Ma adesso saranno in molti a convincersi di non dover più temere di vedersi apparire davanti alla porta di casa uno sconosciuto.» «Ammesso che sia uno sconosciuto», osservò Dave Marks. «Be', lasciamo perdere l'argomento. Vuoi anche il resto o preferisci aspettare il resoconto?» «Niente di interessante?» «Un incidente grosso. Un certo Leslie McCloud di Charleston Road. Viaggiava praticamente alla velocità della luce sulla I-95 e ha ammazzato una coppietta di West Haven che tornava a casa da New York.» «Era ubriaco?» «Ne aveva dentro abbastanza da varare una flotta», rispose Dave Marks. «Aspetterò il resoconto ufficiale.» «Era un tizio importante.» «Aspetto lo stesso il resoconto.» 2 Patsy non aveva saputo niente della morte improvvisa di Gary Starbuck. Non era stata dal parrucchiere, né in palestra e nemmeno a fare la spesa dopo sabato sera. Era rientrata dalla visita a Graham Williams poco dopo l'una e mezzo. Aveva constatato senza sorpresa che Les non era in casa ed era andata a dormire nella stanza degli ospiti. Si era accorta che non c'erano le sue mazze da golf: Les avrebbe giocato a golf per tutta la giornata, avrebbe cenato al circolo e si sarebbe trattenuto al bar fino all'ora di chiusura. La sua ira sarebbe cresciuta in proporzione diretta all'alcool bevuto. L'indomani se la sarebbe presa con lei e avrebbe cominciato a picchiarla. Giurò a se stessa che questa volta avrebbe reagito. Questa volta non avrebbe subito passivamente. Lo avrebbe preso a calci: gli avrebbe sferrato un calcio nei testicoli alla prima occasione. A casa di Graham Williams aveva vissuto un'esperienza straordinaria, un viaggio fra emozioni che andavano dal terrore all'umiliazione all'amore e la cosa straordinaria era che gli altri tre non si erano sentiti né minacciati né disgustati da ciò che le era accaduto. Sereni e calmi erano rimasti ad assisterla, accettandola per quel-
lo che era. Se avesse osato essere se stessa anche con Les, lui l'avrebbe cacciata di casa. La trance (per non parlare di ciò che l'aveva provocata), lo svenimento e poi l'intenso affetto che aveva provato per i due uomini che si erano adoperati perché non si facesse del male e non morisse soffocata dalla sua stessa lingua, il legame telepatico che aveva scoperto di avere con un ragazzo adolescente: erano tutti fatti che sicuramente Les avrebbe interpretato come serie minacce al suo lavoro. Non era affatto il modo in cui ci si aspettava che la moglie di un vicepresidente di società trascorresse il sabato sera. Les era un uomo ambizioso, un dirigente di successo, molto ammirato. Per un cliente si era dato al tiro a! piattello; per ingraziarsene un altro aveva cominciato ad assistere alle partite di baseball. Quando la sera tornava a casa dalla donna che lo aveva conosciuto quando era solo ambizioso e non aveva ancora raggiunto il successo, si scolava i suoi quattro bicchieri, brontolava per la cena e cominciava a perdere il controllo. Allora lei si rendeva conto che Les era ormai alla disperazione, sulla soglia della follia dopo una giornata di lavoro di dodici ore. Stressato dagli impegni e dalle responsabilità. E allora lui cominciava a picchiarla. Se ci riprova, giurò a se stessa Patsy, non solo gli darò un calcio nelle palle, ma mi difenderò con un coltello. Non può tornarsene a casa ubriaco fradicio dopo essere stato tutto il giorno a giocare a golf e decidere che è venuta l'ora di mostrare a Patsy chi è il padrone. Se ci riprova userò un coltello. Poco dopo le quattro del mattino Bobo Farnsworth, che ancora lavorava a turni doppi, la svegliò per comunicarle che suo marito era morto in un tragico incidente sulla I-95. Quel lunedì Patsy si ritrovò con la mattinata da riempire prima di recarsi all'impresa di pompe funebri del signor Holland. Si preparò a malincuore per quell'appuntamento. Il signor Holland era un ometto pignolo, così ben addestrato alla sua professione dal padre e dal nonno che non tradiva mai ombra di sentimento umano: era un automa e se mai aveva sofferto di idiosincrasie, da anni le aveva polverizzate. Il signor Holland conosceva i McCloud e non avrebbe certo accolto con soddisfazione l'idea della cremazione. Non solo avrebbe cercato di venderle una bara costosa, ma avrebbe fatto di tutto per evitare una scenata con i genitori di Les. Patsy aprì lo spogliatoio di Les, uno sgabuzzino rivestito in pannelli di legno poco distante dal letto. L'aveva preteso per sé appena giunti nella
nuova abitazione, cedendole l'armadio a muro vicino alla porta del bagno. Lì erano appesi i suoi venti completi, le dieci giacche sopra le quindici paia di scarpe, ciascuna con la forma di legno. Negli scaffali erano sistemati con cura pullover e camicie. Da un gancio pendevano quattro paia di giarrettiere, una delle quali con un disegno di teschi. Nei cassetti erano ripiegati numerosi fazzoletti da taschino inamidati e calze stirate. Lo farò cremare, disse a se stessa Patsy. Sì, lo farò. Sfiorò con i polpastrelli la manica di una giacca di cashmere color blu scuro e ritrasse immediatamente la mano. La stoffa morbida le aveva trasmesso un muto rimprovero. Che cosa avrebbe fatto di tutti quegli indumenti? Li avrebbe dati ai suoi genitori? O li avrebbe regalati? Doveva scegliere l'abito da consegnare al becchino. Non aveva voglia di toccare quegli abiti e non aveva voglia di recarsi a parlare con il signor Holland; non aveva voglia di affrontare i genitori di Les e ascoltare le loro critiche e i loro commenti. Se avessi un po' più di carattere, rifletté Patsy, darei via tutti questi vestiti in beneficenza e manderei Bill e Dee a un motel. Laura Allbee sarebbe stata capace di un gesto simile. Attraversò il pianerottolo ed entrò nella camera degli ospiti. Solo lì si sentiva a suo agio. Pensò che avrebbe dovuto cedere a Bill e Dee quella stanza per tornare nell'altra, quella che conservava l'odore di Les e del loro matrimonio. Strappò dal letto le lenzuola che aveva usato e ne mise di fresche, le più nuove e le più belle che aveva. Stava andando verso il soggiorno quando udì squillare il telefono. Sollevato il ricevitore, udì una voce maschile: «Patsy? Patsy McCloud? Sono Archie Monaghan». «Oh, sì. Salve.» Quel nome le suonava vagamente familiare. «Ho appena saputo di Les, Patsy. Gesù, che tragedia!» Tanti anni di vita con Les McCloud le avevano insegnato a riconoscere la falsità nella voce di un uomo, perciò si limitò a ribattere: «Sì». «Una cosa terribile. Sabato ero con lui, sai? Abbiamo passato insieme quasi tutta la giornata, sul campo.» E nel bar, aggiunse mentalmente Patsy. «No, non lo sapevo.» «Oh, sì. Abbiamo fatto diciotto buche. Si era divertito, Patsy. Ho ritenuto che tu dovessi saperlo.» «Grazie, Archie.»
«E tu come te la passi? Tieni duro?» Lei ricordò all'improvviso la fisionomia di quell'uomo: piuttosto basso, con la pancia e la faccia rossa, vestito sempre in maniera vistosa. Occhi azzurri, svegli e luminosi. «Cerco solo di tirare fino alla fine della mattina, Archie. Quando sarà mezzogiorno cercherò di tirare il pomeriggio. Non saprei dirti se sto tenendo duro.» «Be', se hai bisogno, sarò contento di darti una mano. Sono avvocato. Ne ho viste di cotte e di crude, Patsy. Se hai bisogno, non so, per sistemare questioni di proprietà, anche per una chiacchierata, come vuoi tu. Sono una buona spalla su cui piangere.» Patsy non disse niente. «E se vuoi uscire, sarò veramente felice di accompagnarti a mangiare un boccone, quando vuoi, Patsy. Questa sera, magari? Scommetto che ci sono un sacco di cose di cui vorresti parlare, cose che hai voglia di dire, cose che temi di non trovare mai il coraggio di esprimere. Ti posso aiutare e sono sicuro che hai bisogno di un amico. Vuoi che passi verso le sette?» «Che cosa avevi in mente, Archie?» chiese lei. «Lume di candela e vino? Ti sembra adatto a una giovane vedova?» «Io credo che una giovane vedova debba avere tutto quello che desidera.» «Oh, bene. Allora ti dico che cosa desidero, Archie. Desidero che tu vada in bagno.» «Come?» «In bagno. Poi voglio che tu accenda la luce. Così potrai vederti molto bene. Poi voglio che tu ti tiri giù i pantaloni. E voglio che tu ti tolga le mutande. Voglio che ti metta davanti al lavandino e pensi a me. Sono alta uno e sessantacinque, Archie. Peso cinquantadue chili. Sono veramente molto magra, Archie. Voglio che tu te lo prenda in mano.» «Ehi, ma che cosa cavolo dici, Patsy?» «Be', è quello che farai comunque, non è vero, Archie? Tanto vale allora che io desideri che tu lo faccia, perché non farai nient'altro.» «Gesù, tu stai male.» Archie riappese precipitosamente. Patsy sorrise. Un po' stancamente, un po' amaramente, ma sorrise. 3 Quando Mikki O'Hara aprì la porta Sarah Spry esclamò: «Oh, Mikki»
tendendo le mani verso di lei per abbracciarla. Mikki O'Hara la sovrastava di venti centimetri e dovette chinarsi. Sarah la baciò su una tempia lasciandole una macchiolina di rossetto e le batté amichevolmente la mano sulla schiena. «Oh, Mikki», ripeté, «mi dispiace tanto.» La tenne stretta per qualche secondo prima di lasciarla andare. Dopo che le due donne si furono separate Sarah vide confermata la prima impressione che aveva avuto. Mikki sembrava invecchiata di vent'anni, la faccia scavata, gli occhi infossati, le guance spente. «Sinceramente», disse Sarah, «se non te la senti di parlare me ne torno difilato in macchina e me ne vado. Stan Brockett può anche andare a quel paese, per quel che me ne importa. Ti capisco perfettamente.» «Non essere sciocca», le rispose Mikki O'Hara. «Sono contenta di avere compagnia. Per non so quale ragione, mi sento maledettamente sola.» «Sola?» Sarah era stupita. «Ma Des dov'è finito?» «Des è in Australia con un cliente. Non so dove diavolo sono andati a cacciarsi, in un posto che si chiama Coober Pedy. Fatto sta che sono riuscita a rintracciarlo solo ieri sera. Sta tornando, ma non arriverà prima di domani.» Un vago sentore di whisky aleggiava attorno. Sarah pensò che era comprensibile. Mikki O'Hara aveva identificato i corpi dei figli, aveva parlato con la polizia e poi aveva trascorso in solitudine un giorno e una notte. Probabilmente era ricorsa ai tranquillanti, ma non doveva avere chiuso occhio per più di un'oretta. «Vuoi accomodarti?» la invitò Mikki. «Se te ne stai lì in piedi davanti alla porta mi rendi nervosa.» «Vuoi compagnia per questa notte? Non devi restare sola.» «Oh, viene mia sorella da Toledo; comunque grazie, Sarah. Qualcosa da bere?» Entrarono nel soggiorno e il carrello con le bottiglie era già accanto al lungo divano. Sarah stava già per rifiutare, quando vide le otto o nove bottiglie sul carrello e il ghiaccio che si andava sciogliendo nel secchiello d'argento, mossa dalla pietà rispose: «Sì, due dita di quello che stai bevendo tu». Mikki si avviò verso il divano a passo incerto borbottando: «Bene, bene, bene». Si sedette pesantemente, si abbassò per prelevare un bicchiere pulito dal ripiano inferiore del carrello, quindi alzò il viso verso Sarah che si stava sedendo nella poltrona davanti al divano. «Così Brockett pensa che io sia di pubblico interesse.»
Sarah tirò fuori dalla borsa taccuino e penna. «Se preferisci, me ne sto qui buona buona a bere un bicchiere con te. Dico sul serio.» «Oh, Sarah, tu dici sempre sul serio. Ti verso uno scotch.» Le versò mezzo dito di whisky nel bicchiere, pescò qualche cubetto di ghiaccio dal secchiello con le dita e Sarah si alzò dalla poltrona per prenderle il bicchiere dalla mano. «Non mi dispiace parlarne», riattaccò Mikki. «Davvero.» Prese dal carrello il suo bicchiere e bevve un sorso di quello che a Sarah parve uno scotch liscio. «Non penso ad altro, perché non dovrei parlarne? L'unica cosa che ti raccomando è di non sentirti imbarazzata se mi metto a piangere. Lascia solo che mi passi.» «D'accordo, Mikki.» «Sai una cosa buffa? Quei ragazzi non erano mai usciti di notte. In particolare da soli. Mai e poi mai. Una cosa che non avevano mai fatto. E non erano mai andati alla spiaggia senza permesso. E poi secondo me a Tommy la spiaggia non piaceva nemmeno tanto. Gli piaceva andare in barca a vela, ricordi? Ne andava matto. Per il suo decimo compleanno avevamo pensato di comperargli un piccolo Sunfish. Come gli sarebbe piaciuto!» Le tremarono le labbra. Ingollò una sorsata di whisky. «Vuoi che ti dica che cosa proprio non capisco, Sarah? Come hanno fatto ad arrivare fino a Gravesend Beach. Quattro miglia da qui. Quattro miglia. Sai, non possono aver fatto tutta quella strada da soli. Qualcuno deve averli portati. Qualche disgraziato deve aver raccolto i miei bambini e...» Reclinò la testa e si mise a singhiozzare davanti a Sarah. «Ah, merda», esclamò alla fine Mikki. «Non riesco nemmeno a dirlo senza piangere, ma è quello che penso. Non possono avere camminato da soli fin là. Martin usava ancora il poppatoio. Ogni tanto pensavo che se lo sarebbe portato dietro fino all'università.» «Ma sono usciti da soli», le fece notare Sarah. «A me non risulta che qualcuno abbia preso in considerazione l'eventualità di un rapimento.» «È stato Tommy», ribatté Mikki. «Deve essere stato Tommy. Deve essere stato lui ad attirare Martin in questa impresa. Deve averlo tirato giù dal letto, deve averlo vestito e deve avergli raccontato chissà quale storia strampalata... e poi è uscito con lui.» Un baleno passò negli occhi infossati di Mikki e per un secondo Sarah la immaginò vecchia e rincretinita, come quelle che si vedono per le strade di New York, una vecchia senza denti e una sacca piena di giornali strappati e indumenti usati. «Sinceramente, se Tommy entrasse in questo preciso istante gli darei degli scapaccioni così
forti che probabilmente l'ammazzerei con questa mano.» Quegli occhi terribili si serrarono di nuovo e le spalle sussultarono sotto il caffettano di broccato. Sarah si sforzò di non sentirsi come uno sciacallo: non riusciva a capire perché Stan Brockett l'avesse spedita lì. Si alzò, girò attorno al tavolino e sì sedette accanto a Mikki. Poi le cinse le spalle con un braccio e l'attirò verso di sé. I singhiozzi di Mikki si spensero lasciandola in preda a un tremito. «Oh, i miei poveri piccoli», mormorò mentre scoppiava in un pianto irrefrenabile. «Martin era così impaziente di crescere. Voleva diventare grande come suo fratello e Tommy gli dava dello stupido e lo strapazzava, come fanno tutti i ragazzi con i loro fratelli minori, ma in segreto era orgoglioso del modo in cui Martin lo idolatrava.» Lentamente si raddrizzò e scolò quanto rimaneva nel bicchiere. «Voglio che trovino quello che ha portato i miei bambini alla spiaggia e li ha uccisi. Voglio che seppelliscano quel farabutto in un formicaio. Voglio che gli strappino la pelle di dosso mentre è ancora vivo.» I suoi occhi erano ridiventati quelli di una vecchia rincretinita e. sdentata. «Voglio che soffra tutto quello che riesce a soffrire un uomo senza morirne. E poi voglio ammazzarlo con le mie mani.» Quindi colse Sarah di sorpresa battendole il palmo aperto della mano sul ginocchio e avvicinandolesi come se stesse per confidarle un segreto. «Sai, ho fatto un sogno.» Si spostò all'indietro e sorrise a Sarah. «Ricordi quando ti ho detto che se vedessi entrare Tommy in questo momento lo riempirei di botte?» Sarah annuì. «Be', io ho sognato che Tommy tornava. Che entrava in camera mia. Aveva tanto freddo e batteva i denti. Io gli tendevo la mano e lui la prendeva. Era tutto bagnato. Sentivo l'odore dell'acqua che aveva addosso. Lo sai com'è, no? Era congelato. Rabbrividiva di freddo. Così l'ho preso fra le braccia e ho sollevato il lenzuolo perché venisse a mettersi a letto con me. Poi ho cercato di riscaldarlo stringendolo forte.» Sarah la cinse nuovamente fra le braccia. Ora, si chiese, secondo Stan Brockett dovrei mettere questo nel mio articolo? 4 Lunedì mattina Richard ricevette la telefonata di un uomo che disse: «Ehi, sono dell'autotrasporti Baumeister e mi trovo in Post Road. Come cavolo si arriva a questa Beach Trail?»
«Chi era?» volle sapere Laura entrando in cucina con una scatola di detersivo e uno straccio umido. «Sta per arrivare la nostra roba. Era il camionista.» «Vuoi dire che finalmente riavremo i nostri mobili?» «Già.» «Ho una sorpresa per te», affermò Laura. «L'ho tenuta in serbo per oggi.» «Anch'io ho una sorpresa per te. Al supermercato, stamane, ho sentito due donne davanti a me che discutevano della morte dell'uomo che aveva ucciso quelle due poverette qui in città.» «Davvero? Oh, grazie a Dio!» esclamò congiungendo le mani in un inconscio gesto di preghiera. «Dio sia lodato. Sono così contenta! No, non dico che sono felice che sia morto, ma sono felice che non possa più nuocere. Non sai che sollievo, soprattutto al pensiero che domani devi partire per Providence.» «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere saperlo», annuì Richard. «Ma non sapevo che fossi preoccupata perché dovevo partire. Tesoro, starò via solo un paio di giorni.» «Lo so, ma ero lo stesso nervosa. Non volevo parlarne perché non volevo che tu ti preoccupassi.» «Sono già preoccupato», ribatté Richard. «Lascerò questa casa nel caos.» «Aspetta e vedrai. Ora di questa sera avremo disfatto tutti i bagagli, avremo sistemato i mobili e le stoviglie. Non sarà poi tanto caotico. Vedrai che io e Coso sopravviveremo senza di te per un paio di giorni. Almeno potremo avere di nuovo il nostro letto.» «Addio a Surf City», esclamò Richard nell'abbracciarla. «Davvero hai sentito quelle donne?» gli domandò Laura. «Sicuro. Pensi che me lo sia inventato?» «Com'è morto?» gli teneva la testa appoggiata al petto, le braccia strette attorno alla schiena. «Mi pare di aver capito che sia successo a Mount Avenue. Era penetrato nella casa, ma il proprietario aveva una pistola. È rimasto ucciso da un proiettile.» «Sono contenta che sia finita.» Richard vide un autocarro fermarsi davanti a casa. «Ecco il resto della nostra vita», disse a Laura. Smontò dalla cabina un uomo tozzo, con un sigaro stretto fra i denti.
Mentre si avviava lentamente verso i portelli del cassone, questi si spalancarono e dall'interno saltarono giù due muscolosi adolescenti di colore. Sarah Spry sopraggiunse nel momento in cui i due ragazzi scaricavano un ingombrante divano vittoriano. Richard la fece accomodare e appena entrata Sarah si fermò, stupita e ammirata, guardandosi attorno. «Sei un vero mago», si complimentò. «Quel terribile odore è scomparso e vedo che hai già cominciato a restaurare questa catapecchia.» «Volevamo terminare il grosso del lavoro prima dell'arrivo dei mobili», le spiegò Richard. Il modo di fare di Sarah Spry era quello di sempre, ma gli parve diversa la sua faccia: occhi gonfi e arrossati, come se avesse un'infezione. «So di non essere molto in forma», dichiarò la giornalista. «Ho pianto. Prima di venire qui mi è toccato un compito poco simpatico. Hai sentito di quei due bambini che si sono annegati alla spiaggia che c'è in fondo alla strada? E successo sabato notte. Sono andata a trovare la madre, che è una mia vecchia amica. Ehi, tu devi essere Laura», esclamò vedendo apparire la moglie di Richard insieme con i due giovani che trasportavano il pesante divano. «Di fronte al caminetto», ordinò loro Laura. «Che tragedia!» commentò Richard e Laura annuì e chiese: «Come sta la madre?» «Si sta ubriacando», le rispose Sarah. «Suo marito è finito chissà dove in Australia. Tipico di questa contea. I mariti sempre in giro per il mondo come piccioni viaggiatori.» «Desidera una tazza di caffè?» propose Laura. «Ho appena trovato un bollitore e le nostre vecchie tazze. Ci siamo portati dietro del caffè istantaneo dall'altra casa.» «Non solo hai un viso d'angelo, ma ne hai anche il cuore. Che splendida idea! Un caffè! E quello istantaneo a me va benissimo. In pratica è l'unico che bevo. Chi ha più tempo di prepararlo come si deve?» Laura scomparve in cucina. «Due bambini che si sono annegati?» domandò Richard ricordando come si era espressa la giornalista. «Vorrebbe dire che si sono uccisi? Due fratelli?» «Spero di non farlo apparire peggio di quanto è stato. Devono essere andati a fare il bagno molto tardi, verso le tre di notte. A quanto pare sono
usciti al largo nuotando fino all'esaurimento. O forse uno dei due si è trovato in difficoltà e l'altro è morto mentre cercava di salvarlo. Probabilmente è andata così.» «Adolescenti?» «Nove e quattro anni.» «Oh, Gesù!» mormorò Richard. Sarah Spry annuì con aria triste. «Una di quelle cose terribili. Hampstead ne ha viste parecchie. Pensa che uno dei primi incarichi che ricevetti come giornalista fu di andare al Country Club a vedere il corpo del proprietario di questa casa: John Sayre. Proprio così. E tanto vale che ti dica che era morto suicida.» «Sì, lo so.» «Se vai a fare due chiacchiere con il tuo vicino, dall'altra parte della strada, ti metterà al corrente di tutto. Il vecchio Graham Williams. C'era anche lui quella sera. È stato uno degli ultimi a vedere John Sayre vivo.» «Graham è mio amico.» «Allora hai più buon gusto della maggioranza della gente di qui.» Sarah andò a sedersi sull'enorme divano. Aprì la borsa e tirò fuori penna e taccuino. «Parlami di te», lo sollecitò. «Che cosa provavi sul set di C'è papà? Che cosa ne pensi oggi? Hai in programma di riprendere a recitare?» Così parlarono di C'è papà. Richard non nascose la sua ammirazione per Carter Oldfield e il suo affetto per Ruth Branden. Non parlò di Billy Bentley. Non voleva pensare a Billy Bentley. «Ah, benissimo, doveva essere divertente», osservò alla fine Sarah Spry. Laura entrò con tre tazze di caffè e si sedette di fianco alla giornalista. Richard si era accorto che Laura era furibonda con la signora Spry per essere arrivata in quel momento poco opportuno. Sapeva che era in collera perché sedeva immobile e senza battere ciglio. Come una statua. Non voleva estranei in casa. «E per quanto riguarda ciò che sto facendo attualmente», riprese Richard, «oserei dire che sto cercando di resuscitare il passato.» La scelta delle parole fu infelice, rifletté, considerato quello di cui avevano parlato lui, Williams e Patsy. Continuò tuttavia a descrivere la casa che avevano abitato a Londra e la vocazione che si era scoperto quando l'aveva rimessa a posto. «Scusami», lo interruppe Sarah Spry. «Sto perdendo il filo. Potresti ripetere le ultime parole?»
Laura faceva dondolare il piede, su e giù, su e giù, ma solo Richard lo notò. «Certamente», rispose Richard, «ma poi credo proprio che dovremo smettere. Io e Laura abbiamo montagne di cose da fare...» Si arrestò vedendo che la giornalista stava fissando il suo taccuino con le guance rosse. «Abbiate pazienza», borbottò Sarah Spry. «Mi è... sono...» Il telefono squillò in cucina. 5 Lì, su quella pagina del taccuino, c'era il motivo della sua intempestiva distrazione. Sarah, pur rendendosi conto d'essere arrossita, non poté farci nulla, continuò a fissare le sue annotazioni, ma le parole non cambiavano «Oserei dire che sto cercando di resuscitare il passato. Bagnanti nudi. Rispetto la struttura di queste case di altri tempi, credo nei valori che esprimono e... Più sotto, nella sua calligrafia minuta ed elegante, c'era l'altra stonatura. Ho studiato da architetto, ma ho cominciato a fare il mestiere che davvero amo solo dopo avere acquistato quella nostra prima casa a Londra. Mi sono perso. Quella prima casa è stata la mia vera università. Ho paura. Se ho potuto iniziare questa professione lo devo a certe persone... Sarah lasciò cadere la penna per terra. Bagnanti nudi. Mi sono perso. Ho paura. Era come se quei due poveri bambini sperduti, Martin e Tommy O'Hara, avessero parlato attraverso la sua penna. Non aveva sentito Richard Allbee pronunciare quelle parole e non le aveva scritte consciamente. Si chinò per recuperare la penna e in quel momento ebbe la sensazione che la sua testa si dissociasse dal suo corpo, e si vide compiere quell'atto maldestro con fredda indifferenza. Quando il telefono squillò, provò un indicibile senso di gratitudine. 6 «Patsy ha un problema», esordì Graham per telefono. «Non so di che cosa si tratta, ma ha bisogno di noi, Richard. Credimi, non ti disturberei in una giornata come questa se non pensassi che è una cosa seria.»
«Un problema tipo quello di sabato sera?» domandò Richard rivedendo Patsy in preda alle convulsioni. «Non so, ma non credo. Non mi è sembrato, però ha bisogno del nostro aiuto, Richard.» «Dov'è?» «All'impresa di pompe funebri di Rex Road, vicino a Post Road. La Bornley e Holland.» «Cercherò di liberarmi», promise Richard. Tornò in soggiorno e trovò Laura impegnata a discutere con i due giovani sulla soglia della porta di servizio. «Hanno scaricato tutto, Richard», lo avvertì. «Una delle seggiole della sala da pranzo ha una gamba spezzata, ma è l'unico danno che ho notato.» Richard rivolse un'occhiata a Sarah Spry che stringeva la penna nella mano e stava china sulle proprie ginocchia come uno scolaretto che deve correre in bagno. Non aveva più le guance arrossate, ma ora la sua faccia avvizzita sembrava senza vita. «Okay. Se troviamo qualcos'altro scriveremo alla direzione. Ragazzi, avete fatto un ottimo lavoro», concluse dando loro dieci dollari. «Capo, la signora sta bene?» domandò uno dei due. «Credo di sì. Ecco qui altri cinque per il camionista. E sono cinque di più di quelli che merita.» I giovani se ne andarono e Richard si rivolse alla giornalista. «Temo che la nostra intervista debba concludersi qui», disse. «Devo correre in città. Ha tutto quello di cui ha bisogno?» Sarah annuì, posò le mani sulle ginocchia e barcollò nell'alzarsi in piedi. «Sì. A sufficienza.» «Preferisce riposare qui un momento prima di andarsene? Posso offrirle qualcosa?» Lei sorrise. «No, grazie.» «Mi era sembrato che fosse...» Fece una pausa perché non gli andava di dire «turbata». Poi si rese conto che il termine esatto sarebbe stato «impaurita». «Ah, davvero?» sbottò lei. Sorrideva. «Credo che la visita che ho dovuto fare stamattina mi abbia sconvolta. Non è stata piacevole come questa. Non ti preoccupare, Richard. Starò bene. Parto. Il pezzo dovrebbe essere pubblicato sulla Gazette di venerdì.» Lui l'accompagnò alla porta di servizio. La salutò con la mano quando salì in automobile quindi si voltò verso Laura. Lei era ferma a pochi metri
da lui, a braccia conserte. Una macchia scura di polvere le segnava le fronte. «Non riesco a credere che quella donna sia venuta a intervistarti il giorno del nostro trasloco. Se non ti tratta bene nel suo articolo, vado da lei e le brucio la scrivania.» «Comunque è finita», replicò Richard. Si batté le mani sulle tasche alla ricerca delle chiavi della macchina. «Non poteva capitare in un momento peggiore, ma sembra che Patsy McCloud sia in difficoltà. Era Graham Williams al telefono. Patsy è a un'impresa di pompe funebri, giù in Rex Road. Devo proprio andare e vorrei che tu venissi con me.» «Perché Graham Williams non riesce a cavarsela da solo?» Laura si ispezionò le mani e poi se le strofinò sui jeans per togliere la polvere. «Ho l'impressione che tu e Graham abbiate fondato una società di ammiratori di Patsy McCloud. Avete passato con lei tutto il sabato sera e adesso vi sentite in dovere di correre ad aiutarla a seppellire suo marito.» «Lo so che è tutto molto strano, ma ha bisogno d'aiuto. Più di così non so. Vorrei che venissi.» «Non me la perderei per tutto l'oro del mondo», rispose Laura. «Ma il vero motivo per cui sono seccata è che ti sei dimenticato completamente del tuo regalo, mentre io ho passato un'intera settimana a sceglierlo.» «Il mio regalo?» ripeté lui stupidamente. «Oh, Dio mio. Mi hai comperato un regalo. Me ne ero davvero dimenticato. Sono arrivati quelli del camion e poi Sarah Vattelapesca e poi ha telefonato Graham. Oh, Laura, perdonami. Sono davvero desolato.» «Vorrei ben vedere, mascalzone», brontolò lei. «L'ho nascosto in un mobiletto della cucina. Hai tempo di vederlo adesso o dobbiamo precipitarci dalla vostra preziosa Patsy?» «Vediamolo, vediamolo», disse subito lui passandole un braccio attorno alle spalle e incamminandosi verso la cucina. Laura aprì una delle antine in basso ed estrasse dal mobiletto una scatola color grigio argento alta una trentina di centimetri. «Spero che ti piaccia», gli disse mentre gliela offriva. «È un regalo per la casa. Non ho mai speso tanto per un oggetto in vita mia.» Richard posò la scatola sul piano e sollevò il coperchio. «Attento a non farlo cadere», lo ammonì Laura. Richard sollevò la carta velina all'interno della scatola e infilò dentro le mani. L'oggetto era di porcellana, color giallo opaco. Il dito trovò una base rettangolare e cava che spiegava come mai l'oggetto fosse così leggero. Facendo leva all'interno lo sollevò.
Il sorriso gli si congelò sulla faccia. Aveva nella mano la testa gialla e ghignante di un drago. Dalla fronte piatta sporgevano due corni. Dietro la testa s'incurvava un'ala simile a un'onda. «È cinese», spiegò Laura. «Uno di quei draghi che si mettono sul tetto, una tegola ornamentale. Il colore significa che si trovava su un palazzo imperiale. Ho pensato che sarebbe stato un portafortuna.» «Sì», disse lui stentando a respirare. «Vedo che il tuo entusiasmo è incontenibile. Rimettilo nella scatola e lo riporto al negozio al più presto.» «No. Voglio tenerlo. È bellissimo.» «Dici sul serio?» «Sul serio. Mi piace. Ero solo sorpreso. Ma credimi, mi piace molto.» «Mi sembri così strano.» «Perché mi è venuta in mente una cosa che mi ha raccontato Graham Williams. In passato da queste parti c'era un uomo che chiamavano il Drago.» E fu tutto quello che poté riferire a Laura di quel sabato sera. «Tuo padre lo conosceva?» La domanda lo fece sorridere. «No, è stato molto tempo prima. Ai tempi in cui Greenbank è stata fondata.» «E allora vuol dire che adesso ce n'è un altro», sentenziò Laura. «Dobbiamo trovargli un posto.» Richard portò la testa del drago in soggiorno e la posò sulla mensola del caminetto. Poi abbracciò Laura. Una parte della sua mente gli diceva che adesso il caos era stato ammesso, era stato introdotto nella casa, che la porta del suo sogno si era spalancata e che Billy Bentley aveva fatto irruzione, con i capelli appiccicati alla fronte e gli abiti gocciolanti di pioggia. «Ma è vero che ti piace», cercò conferma Laura. «Non lo dici solo per farmi piacere?» «Mi piace moltissimo», ripeté. «Davvero.» 7 Nell'aprire la massiccia porta della sede dell'impresa di pompe funebri Patsy cercò di scacciare tutti i ricordi della sera precedente. Il signor Holland la stava aspettando e la sua faccia magra era un invito a rinunciare a qualsiasi genere di fantasticheria. Scivolò sulla moquette verso di lei. Per la verità era una persona gentile, ma la natura o i caratteri ereditari avevano dato a Franz Holland un viso e un corpo da canaglia dickensiana. Le
sopracciglia erano ispide, il naso a becco, le spalle gobbe. Indossava sempre abiti costosi. Le sue labbra erano lievemente troppo rosse per il pallore del viso. Voleva dare di sé un'immagine raffinata e perciò assumeva pose e atteggiamenti affettati che lui riteneva sinonimo di distinzione. Amava appoggiare un dito di traverso sul labbro superiore e camminare con le mani dietro la schiena. Avvicinandosi a Patsy si posò l'indice della mano sinistra sul labbro superiore e mise la mano destra dietro la schiena. A Patsy sembrò un uccello pomposo che invitasse al silenzio. Quando le fu più vicino, lasciò cadere languidamente la mano sinistra e languidamente mosse la destra per congiungerla all'altra. Poi abbozzò un inchino. «Signora McCloud, la ringrazio di essersi rivolta a noi», esordì con gradevole voce baritonale. «Ricordi solo che siamo qui per rendere questo compito più facile e meno penoso. Come ho avuto modo di dirle ieri per telefono, signora McCloud, la cerimonia con cui diamo l'addio ai nostri cari può essere espressione di bellezza non meno delle altre, per esempio un battesimo o un matrimonio. Mi ha portato un abito?» Il giorno prima il signor Holland aveva assicurato Patsy che sebbene il corpo di Les fosse stato troppo straziato perché si potesse lasciare la bara aperta, restava di lui abbastanza da vestirlo con il suo abito preferito. «Non crede che sia la cosa migliore, signora McCloud?» aveva detto. «Vogliamo pensare ai nostri cari in una veste gloriosa, soleva dire mio padre, che non possiamo certo trovare nei grandi magazzini. Così, se vuole portarci un abito, una camicia e una cravatta di quelle che il signor McCloud predilegeva...?» Le scarpe preferite dal signor McCloud non erano state richieste. Patsy gli consegnò il sacchetto di carta che aveva portato con sé. Franz Holland se lo infilò sotto il braccio come se fosse il suo spuntino per colazione. «I genitori del signor McCloud arrivano oggi, non è vero?» «Sì. Arriveranno al Kennedy.» «Ah», sospirò il signor Holland chinandosi in avanti e congiungendo le mani dietro la schiena. «Naturalmente ricordo molto bene i signori McCloud. Vennero da noi quando spirò il nonno di suo marito e penso che rimasero molto soddisfatti dei nostri servigi. La qual cosa mi conduce a una domanda fondamentale. Ha pensato a quale genere di cassa desidera affidare le spoglie di suo marito?» La guidò, senza neppure toccarle il gomito, in una sala ampia dove erano esposte numerose bare. «Come vede siamo in grado di offrire un'ampia gamma, signora
McCloud», spiegò accennando alle file di casse. «E sono sicuro che converrà che sotto questo aspetto di profonda individualità, la scelta è essenziale. E se posso... La signora è una Tayler, non è vero?» Patsy impiegò un secondo per rendersi conto che il signor Holland alludeva a lei. «Sì.» «Mio padre e io ci siamo occupati delle esequie del nonno della signora. Bornley e Holland hanno prestato la loro opera a molte generazioni di Tayler, signora McCloud.» «Ma non Josephine Tayler», sottolineò Patsy. «Le chiedo scusa?» «Non avete avuto a che fare con Josephine Tayler, vero? Mia nonna. Anche lei si chiamava Tayler di cognome. Era lontana cugina di mio nonno. Voi vi siete occupati di suo marito, ma non di lei. Avete messo lui in una delle vostre casse, ma non lei.» «Mi pare di ricordare che la nonna della signora si ammalò», osservò il signor Holland indietreggiando di un passo. «Una storia molto triste. La nonna della signora era una persona così cara. Credo che per lei furono presi provvedimenti di altro genere.» Senza nessun motivo apparente Patsy si sentiva molto ostile. «Già, può ben dirlo. La nonna della signora era la scema del villaggio e così il suo caro marito lasciò che venisse rinchiusa in una clinica per malattie mentali.» L'indice del signor Holland si posò di nuovo sul labbro superiore. «È una vicenda tragica, signora McCloud. E senza dubbio le attuali circostanze la inducono a ricordarla. Ma se qualche insegnamento si può trarre da questa storia, signora, è che dobbiamo provvedere come meglio possiamo per i nostri cari quando loro stessi non sono più in grado di provvedere a sé.» «Voglio che mio marito sia cremato», dichiarò Patsy. «Gran parte dell'opera è già stata fatta, comunque. Voglio che sia completata. Mi venda la bara più semplice ed economica che ha e provveda a cremarlo.» Franz Holland sussultò visibilmente. «Naturalmente bisognerà considerare anche gli altri parenti...» Patsy scattò: «Non voglio far cremare alcun parente, almeno non adesso. Voglio cremare solo mio marito! E se non lo fate voi lo porterò da qualche altra parte dove siano disposti a farlo!» «Signora McCloud», cominciò Holland e in quell'istante, imme-
diatamente prima di perdere il controllo, lei provò pietà per quell'uomo che in fondo era sensibile e si esprimeva in quel modo solo perché suo padre così gli aveva insegnato. «Signora McCloud, in quanto moglie del caro estinto la sua volontà è prioritaria e noi faremo tutto il possibile per accontentarla. Ma desidero chiederle di riflettere...» Patsy corse il rischio di svenire. Il signor Franz Holland era morto. Quella gradevole e modulata voce baritonale usciva da una bocca decomposta e pallida. Il labbro superiore si era spaccato aprendosi in due fino al naso e scoprendo le gengive e la radice dei denti. La lingua gli si era annerita. La sua pelle era secca, incartapecorita, lievemente brunita. In alcuni punti era come esplosa e lì si erano aperti squarci frastagliati dai quali emergevano flaccidi organi purpurei simili a corde intrecciate. Finalmente Patsy si rese conto che quella creatura indossava solo uno sparato e la cravatta. All'altezza della vita la pelle gli aderiva alle ossa e il suo pene era quasi completamente scomparso. Ritrovata la voce, Patsy urlò. La creatura sussultò e le tese una mano. Le sue unghie erano scure e violacee, lunghe alcuni centimetri. «Non mi tocchi!» gridò Patsy. La creatura indietreggiò strisciando i piedi scalzi e morti sulla moquette. Era quello che era solita vedere sua nonna. Josephine Tayler aveva resistito quanto aveva potuto vedendo apparire all'improvviso amici e sconosciuti in corpi putrescenti ogni volta che erano in procinto di morire. Quando non aveva più potuto sopportare quelle visioni aveva fatto in modo di essere isolata dal resto del mondo. Il signor Holland sarebbe morto nell'arco di un mese e prima o poi così si sarebbero trasformate le sue spoglie mortali. Solo che non era previsto che qualcuno lo vedesse in quello stato. «Signor Holland», disse Patsy con voce tremante, tenendo gli occhi abbassati sulla moquette. «Mi scuso per aver gridato. Sto passando un momento difficile. La prego di non avvicinarsi. Mi perdoni per questa scenata. Sono sconvolta.» «Più che comprensibile, signora McCloud», le rispose una voce sommessa e Patsy rabbrividì. «Vuole essere così gentile da lasciarmi fare una telefonata? Devo chiamare un amico perché mi soccorra. No, la prego, non mi si avvicini, signor Holland. Mi mostri solo dove è il telefono.»
I piedi scheletrici si affrettarono a indietreggiare ulteriormente mentre un ossicino si alzava a indicare il vestibolo. «Grazie. Lo trovo da sola.» «Alla scrivania, nella nicchia accanto alla Cappella del riposo», precisò e Patsy partì di slancio guardando dall'altra parte. «Ho sbagliato in qualcosa?» lo udì domandare. «L'ho offesa così gravemente?» Sembrava che fosse sull'orlo delle lacrime. «Se desidera cremare suo marito, naturalmente noi...» «Sì», lo interruppe lei. «Resti in quella stanza, la prego, signor Holland.» Vide la nicchia seminascosta dietro una tenda di velluto rosso. Lì c'erano scrivania e telefono. La guida era riposta nel primo cassetto di destra. La sfogliò velocemente, trovò il numero di Graham Williams e lo scongiurò di precipitarsi da lei. «Sì anche Richard», disse. «Venite a portarmi via da qui.» 8 Quanto accadde dopo l'arrivo dei tre soccorritori fu abbastanza banale e si può riferire in poche parole. Laura Allbee, che di Patsy sapeva meno degli altri, intuì immediatamente la situazione e corse a prendere Patsy fra le braccia. Richard e Graham le fecero stupidamente corona, incoraggiandola con pacche affettuose sulle spalle e lanciando occhiate perplesse a Franz Holland che ancora non sapeva se gli era concesso lasciare la sala d'esposizione. Quando infine Richard si decise ad andare da lui, Laura dalla nicchia chiese: «Non c'è niente che impedisca che la salma sia cremata, vero?» «No, se è così che desidera la signora McCloud», rispose Holland. «Farò tutti i preparativi necessari.» «Allora è tutto sistemato», concluse Laura alzandosi e aiutando Patsy. Sempre sorreggendola aggiunse: «Possiamo tornarcene a casa». Graham accompagnò Patsy in Charleston Road accogliendo fra l'altro la sua richiesta di riportarla nel pomeriggio a recuperare la sua automobile. «Ho subito un'esperienza alla Josephine», gli spiegò Patsy. «Almeno so che tutti voi vivrete a lungo.» «Josephine Tayler non era mai in grado di dire se un parente o un amico stesse per morire», obiettò Graham. «Le capitava solo con sconosciuti o persone che conosceva poco. Comunque, grazie lo stesso.»
Il mattino seguente Richard partì per Rhode Island per il suo primo abboccamento con Morris Stryker. Aveva lasciato Laura, dopo un lungo abbraccio, all'alba della loro prima notte nelle casa nuova ripromettendosi di vedere Patsy McCloud al suo ritorno. 9 Due giorni dopo, mentre Richard Allbee stava arrivando alla conclusione che il suo cliente era insopportabile e che con tutta probabilità anche Morris Stryker provava poca simpatia per il suo restauratore, Bobby Fritz piangeva ancora la perdita del suo miglior cliente sulla spalla di Bobo Farnsworth e di Ronnie Riggley. Erano al Pennywhistle Cafè, davanti a due bicchieri vuoti, e Ronnie tracciava cerchi con l'indice sul tavolino bagnato di birra. Bobby sapeva di non essere nelle grazie di Ronnie, che lo giudicava immaturo o sciocco, tanto che da quando si era messo con lei Bobo non frequentava più quel locale. «Mi ha licenziato», ripeté per l'ennesima volta. «Non potresti chiedergli se ti riprende in servizio?» gli domandò Ronnie continuando a disegnare cerchi nella pozzanghera di birra. Bobby considerava Ronnie Riggley la più bella donna che avesse mai conosciuto. E quando beveva il suo desiderio di averla aumentava. Ma temeva che lei gli ridesse in faccia se avesse mai tentato delle avances. «Non posso mettermi a pregare, Ronnie», spiegò. «Quell'uomo mi ha licenziato. Ma mi piange il cuore vedere in che stato è ridotto il suo giardino. Mio Dio, preferisco non pensarci nemmeno.» «Io credo che Ronnie abbia ragione», intervenne Bobo. «Dovresti semplicemente ripresentarti a casa sua e dirgli quanto ti fa soffrire vedere il suo giardino andare alla malora. Può darsi che raggiungiate un compromesso.» «Un compromesso, bah», borbottò Bobby. «Se mi presentassi alle sua porta probabilmente mi stenderebbe con una pistolettata. Gesù, deve saperci fare davvero con quella pistola. Quello Starbuck, l'ha ammazzato nonostante avesse la sua rivoltella in pugno, vero?» «È così che l'abbiamo trovato», rispose Bobo. «Aveva la pistola in mano.» Per la verità, sebbene Bobo non volesse ammetterlo, il dottor Van Horne era diventato una celebrità alla centrale di polizia di Hampstead: Tartaruga Turk punzecchiava i più giovani invitandoli ad andare a prendere lezioni di tiro da Van Horne.
«Comunque quegli omicidi adesso sono finiti?» chiese Bobby. Ronnie annuì, ma Bobo aggiunse: «Starbuck era un topo d'appartamento, non un maniaco. Sono in troppi a pensare che quella faccenda sia conclusa. Uno di questi giorni avremo un altro assassinio. Aspettate e vedrete». «È quello che pensi tu», ribatté Bobby. «Io dico che non ce ne saranno più. È anche per questo che gli altri sbirri sono così fottutamente felici, no?» Si batté una mano sulla fronte. «Scusa, Ronnie. Dovrei stare più attento a come parlo. Questa sera non mi sento molto giusto.» «Hai mandato giù parecchia birra», gli fece notare Ronnie. «Non voglio farti la predica, ma forse non ti sei accorto che quei due bicchieri li hai scolati praticamente da solo e adesso sei al terzo.» «Dannazione, non sono affatto sbronzo.» Sembrava che ce l'avesse con se stesso. Si vedeva attraverso gli occhi di Ronnie Riggley, immaturo, lento di comprendonio, pieno di birra. «Be', vi dirò una cosa», sbottò. «Se mi capita di vederlo, parlo del dottor Van Horne, sarò molto gentile con lui» (Ronnie gli stava sorridendo e Bobby pensò a un tratto che forse era possibile, che forse avrebbe potuto rimediare) «e gli parlerò del più e del meno e poi a un certo punto gli dirò che sono disposto a occuparmi del suo giardino gratuitamente, due volte al mese. Lavorerò gratis. Perché non sopporto di vederlo andare alla malora. Vogliamo scommettere che mi riprende? Sissignore. Mi riprenderà.» «Sei fatto, ragazzo mio», gli disse amichevolmente Bobo allungando il braccio per dargli un colpetto affettuoso alla testa. «Adesso ti riaccompagnamo a casa.» «Lavorerò gratis. Ma non capite che idea geniale! Così sarà costretto a riassumermi!» «Vieni», lo invitò Bobo. «Solo se mi fai sedere davanti, vicino a Ronnie», replicò Bobby. «Ma come hai fatto a meritarti una donna come lei?» Lo sguardo di Bobo gli fece capire che, dopo tutto, probabilmente era ubriaco. Giunti in Greenbank Road, Bobby si ritrovò a pensare sempre più insistentemente alla possibilità di posare la mano sulla coscia di Ronnie. Doveva essere meraviglioso carezzare Ronnie Riggley. Ma sapeva che se avesse ceduto al suo desiderio impellente avrebbe ottenuto due effetti sicuri: Ronnie avrebbe visto confermata l'opinione negativa che aveva di lui e
Bobo lo avrebbe scaricato e non gli avrebbe più rivolto la parola. Così disse: «Ehi, Bobo, lasciami giù all'angolo». «Hai voglia di fare ginnastica, Bobby?» «Sì. Pensavo di schiarirmi un po' la testa prima di tornare a casa.» «Ottima idea», commentò Bobo accostando all'ingresso di Mount Avenue. «È là che è successo», ricordò indicando con la testa le luci accese nell'abitazione di Van Horne, visibili attraverso gli alberi. «Buon per lui», brontolò Bobby. «Dico sul serio. Buon per lui.» Scese e salutò agitando la mano. Al primo passo si rese conto di quanto fosse ubriaco. I bordi di Poor Fox Road, dove abitava, erano un intrico impraticabile e in breve si trovò nell'erba fino alle ginocchia. «Oh, povero me», borbottò riportandosi sulla sede stradale. I piedi lo condussero sull'altro lato della via e, alquanto barcollante, si incamminò verso casa. Per un attimo vide due lune nel cielo, e due strade davanti a sé, ma strizzò gli occhi e riuscì a mettere a fuoco le immagini. Due boccali e mezzo di birra gli ottenebravano la mente. Sentì il bisogno irrefrenabile di orinare. «Ohi, ohi, ohi», cantò girandosi verso i cespugli a fianco della strada. Aprì la patta e il getto schizzò tracciando un arco ampio fra erbacce e tronchi d'albero. Sentì che gli si bagnava il calzone destro. «Merdaccia», esclamò. Finì, richiuse la cerniera e tornò verso Poor Fox Road. La luna gli parve due volte più grande del normale, simile a un ammasso purulento e china su di lui. Da quella luna enorme scendeva a lambirlo un raggio gelido: sentì la macchia di bagnato sul calzone diventare di ghiaccio. Aveva la sensazione che la luce lunare crepitasse sulla sua pelle. Poor Fox Road era illuminata da un fulgore sovrannaturale. Bobby vedeva ombre a perpendicolo attorno ai ciottoli. Poi vide che c'era una faccia nella luna, una faccia ghignante, disumana e crudele. Alzò le braccia come per proteggersi dall'orrore che quella visione prometteva e in quella luce gli parve che fossero ricoperte da una peluria argentata. La luna scese a sfiorargli la faccia e gli bisbigliò: Guarda giù. Bobby abbassò gli occhi. Gridò. Una vischiosa marea di sangue scendeva per la strada sommergendogli le scarpe. Si sentì avviluppare dall'odore, un puzzo simile a quello di un mattatoio. Siccome quella luna maligna era ora vicina, quella lenta marea di sangue era nera. Guarda su, bisbigliò la luna in quel mondo in bianconero e Bobby alzò la testa di scatto. Vide incurvarsi verso la strada alberi d'argento con le fo-
glie nere, poco davanti a una curva, anch'essa argentea e nera. Sta arrivando, gli soffiò la luna sulla scia di un vento fetido e aprì la bocca tumefatta e ghignò. Bobby udì sciacquio di passi nella marea di sangue. Cercò di indietreggiare e un rampicante intriso di sangue gli si avvinghiò alla caviglia facendolo cadere nel flusso lento e gelido. Vieni, gli bisbigliò dietro il collo la luna e Bobby si rimise in piedi. Aveva le mani nere di sangue. Aveva i calzoni incollati alle gambe. Non poteva muoversi in quel mondo d'argento. Per un attimo pensò che tutto quel sangue fosse in realtà suo. Sapeva che gli stava venendo incontro qualcosa di orribile e avanzò con i pugni levati. Restò quasi deluso quando da dietro quell'angolo argenteo non apparve alcuna creatura paurosa. Nient'altro che un uomo del quale non poté vedere il volto a causa della luna gigantesca che gli era alle spalle. «Stai lontano», gli intimò Bobby. La sua voce suonò debole e acuta. Una voce a lui nota rispose: «Non temere, ragazzo. Mi pare che tu te la sia spassata un po' troppo». La sagoma nera si avvicinò e Bobby vide che non c'erano fiumi di sangue nella strada. La chiazza di orina gli faceva aderire il pantalone alla gamba. Nella luce della luna le sue mani non erano più nere, ma erano ridiventate d'argento. L'uomo che veniva verso di lui era una persona fidata. «Un bel po' di birra, questa sera, Bobby, vero?» gli domandò l'uomo alzando la testa e allora Bobby vide i capelli bianchi e la fisionomia familiare del dottor Wren Van Horne. «Oh, stavo appunto parlando di lei, dottore», borbottò Bobby con sollievo. «Dico sul serio! E sa che cosa dicevo di lei? Buon per lui, così dicevo, buon per lui. Davvero!» «Grazie.» Il dottore si avvicinava lentamente a Bobby nella luce forte della luna. «Niente uccelli», commentò Bobby. «L'ha notato? Non si sentono uccelli. Di solito quando si passa da queste parti di notte si sente qualche civetta.» «Oh, le civette sono tutte morte, ormai», osservò il dottor Van Horne avanzando verso Bobby nel mezzo della strada. «Roba da matti. Trovo un mucchio di uccelli morti nei giardini dove lavoro, sa? Un paio al giorno, almeno. Non mi piace passarci sopra con la falciatrice, sa? Fa un rumore terribile.» Un'associazione di idee attraversò
la mente di Bobby, che aggiunse: «Ah, a proposito, questo mi ricorda quello che desideravo dirle, dottor Van Horne. Guardi, proprio mi tormenta vedere il suo prato così malconcio. Vorrei che lei mi permettesse di venirci a lavorare gratuitamente ogni tanto». Il dottor Van Horne si era fermato a mezzo metro da Bobby sulla strada. Bobby vedeva un'aureola di capelli d'argento sullo sfondo della luna; ma il viso del medico era una macchia nera nella quale fluttuavano zone di un nero ancora più intenso. «Come?» domandò e subito arretrò perché intorno a lui si era levato un tanfo di fogne e di marciume, di decomposizione. «Vuoi lavorare per me?» gli domandò il dottor Van Horne. Bobby fece un passo indietro e avvertì la marea di sangue lambirgli le caviglie. Il dottor Van Horne tese la mano nella quale c'era una piccola lama ricurva. Prima che Bobby avesse il tempo di reagire, la lama attraversò l'aria e gli entrò nel collo, appena sotto l'orecchio sinistro. Con una mossa rapida il medico l'abbassò e la spinse lateralmente e una bolla di sangue sprizzò dal collo di Bobby. Bobby cadde a terra. Non aveva percepito alcun dolore: solo il calore e l'umidità del sangue che gli sgorgava a fiotti giù per il collo e per il petto. La vita che fuggiva! Il dottor Van Horne si chinò nuovamente su di lui e questa volta ci fu una fitta di dolore intenso, perché gli aveva staccato del tutto l'orecchio sinistro. Bobby levò la mano, quasi incapace di credere che tutto questo stesse accadendo a lui, e il piccolo bisturi ricurvo scese fra medio e anulare fendendogliela in due. Poi si alzò di nuovo nell'aria e il cuore di Bobby, ubbidiente, pompò fuori un altro fiotto di sangue. Perse conoscenza prima che il dottor Van Horne gli affondasse il bisturi nella guancia sinistra. Bobby Fritz, eccellente giardiniere di Greenbank, piombò in un mare di tenebre; il dottor Van Horne rovesciò il suo corpo, gli tagliò la camicia e cominciò a incidere il torace. Con gesti sicuri estrasse il cuore di Bobby e glielo mise nella mano che aveva tagliato in due. Quindi gli slacciò la cintura dei jeans, glieli tirò giù e staccò di netto pene e testicoli per metterglieli nella mano destra. Era un rituale che aveva compiuto già due volte e avrebbe ripetuto altre tre. Trascinò il cadavere quasi irriconoscibile di Bobby nel fossato seminascosto dagli sterpi accanto a Poor Fox Road. Quando non fu più visibile dalla strada si tolse dalla tasca posteriore un foglio di carta e lo infilò nel petto di Bobby. Quel foglio e la poesia che su di esso era scritta sarebbero
stati scoperti solo parecchie ore dopo il ritrovamento del cadavere. Il che avvenne due giorni dopo, il 13 di giugno. 10 A trovare Bobby Fritz fu un postino. Ogni mattina Roger Slyke attraversava Greenbank sul suo furgone biancoazzurro e poi trascorreva gran parte dei pomeriggi all'ufficio postale centrale di Hampstead a smistare la corrispondenza. Da due o tre giorni Roger si sentiva strano: gli facevano male i denti e sentiva un ronzio costante nelle orecchie e gli era capitato di ritrovarsi sul punto di infilare la posta di una persona nella cassetta di un'altra. Si chiedeva quante volte l'avesse fatto in quegli ultimi due giorni senza accorgersene. Mercoledì mattina, quando avrebbe dovuto svoltare in Charleston Road, si era trovato da tutt'altra parte, nei pressi di Old Sarum Road, senza avere la più pallida idea di come ci fosse arrivato. A mezzogiorno di venerdì 13 giugno Roger Slyke si recò in Poor Fox Road solo per consegnare una circolare della campagna elettorale ad Harold Fritz, un democratico di lunga data che mai più si sarebbe alzato da letto per andare a votare di nuovo. Mentre tornava indietro gli parve di avere la testa galleggiante ed ebbe una sensazione terribile, di paura incontenibile, come talvolta provava quando posava lo sguardo sulla casa vuota che si trovava fra quella dei Fritz e il luogo in cui il ragazzo teneva tutte quelle automobili sgangherate. Roger accostò il furgone e si fermò. Un odore spaventoso lo investì. Per un secondo fu sicuro che la pallida luna diurna si fosse chinata su di lui per ghignargli in faccia. Allora saltò a terra tenendosi fra le mani la testa che sembrava in procinto di esplodere. Purtroppo si era dimenticato di tirare il freno a mano e così il furgone avanzò di qualche centimetro e si infilò nel fossato, scaricando nell'erbaccia centinaia di lettere. Roger alzò gli occhi iniettati di sangue ed esclamò: «Noooo!» Si portò sul ciglio del fossato e guardò giù scuotendo la testa. Scese solo dopo essersi assicurato che il fossato non fosse pieno di edera velenosa, poiché era in calzoni corti. Provò a spingere il furgone e concluse che con l'aiuto di un'altra persona sarebbe riuscito a riportarlo sulla strada. Si inginocchiò e cominciò a raccogliere lettere e riviste. A un tratto il tanfo diventò insopportabile e subito dopo Roger si trovò a contemplare la faccia di Bobby Fritz attraverso un groviglio di rampicanti. Lanciò un urlo, si arrampicò
sulla strada e di corsa raggiunse l'inizio di Gravesend Beach. Nella guardiola c'era un telefono. Quando la polizia trovò la poesia scritta in stampatello infilata nel torace aperto di Bobby Fritz, trovò anche alcune delle lettere di Roger. Le buste puzzavano, comunque Roger Slyke le recapitò ugualmente il giorno dopo. Nessuno degli agenti di Hampstead riconobbe quei versi. Ricchi, non lasciatevi ingannare, La salute non si può comprare; Anche il medico si spegnerà; Ogni cosa la sua fine avrà; Al flagello non si può sfuggire; Sono malato, devo morire: Signore abbi pietà di noi! Non è che un fiore la bellezza. Che appassirà con la vecchiezza; Dal cielo cascano le stelle; Regine sono morte giovani e belle; Gli occhi di Elena, la polvere scese a coprire; Sono malato, devo morire: Signore abbi pietà di noi! Le forze il sepolcro le corrode, I vermi si cibano di Ettore il prode; La spada non sempre può arrestare il fato; La terra tiene il suo cancello spalancato; Venite, venite! senti le campane ammonire; Sono malato, devo morire: Signore abbi pietà di noi! Nessuno seppe identificare questa poesia finché Bobo Farnsworth ebbe l'idea di chiamare la sua ex insegnante d'inglese. «Da quando in qua ti interessi di poeti inglesi, Bobo?» gli domandò miss Threadgill. «Cerco informazioni solo su questa poesia in particolare», rispose lui. «Quelle che mi hai letto sono la seconda, la terza e la quarta strofa di una famosa poesia scritta da Thomas Nashe e intitolata In tempi di pesti-
lenza. Nashe era uno scrittore impetuoso, il più grande dei libellisti elisabettiani. Aveva un'inclinazione per il grottesco.» «In tempi di pestilenza, di Thomas Nashe», ripeté Bobo. «Grazie, miss Threadgill.» «Posso sapere che cosa vi siete mai messi a fare alla centrale di polizia?» chiese miss Threadgill e Bobo rispose che lo avrebbe letto sui giornali. 11 Il lunedì seguente la poesia di Thomas Nashe fu pubblicata sulla prima pagina dell'Hampstead Gazette; ma ancor prima fu pubblicata dal New York Times in un articolo intitolato: Lo squartatore del Connecticut? Accanto all'articolo c'erano le fotograzie di Stony Friedgood, Hester Goodall e Bobby Fritz. In una lunga conversazione avuta la sera di martedì con Patsy McCloud, Graham disse: «È la poesia, capisci? L'anello di collegamento. Allude chiaramente a Robertson 'Principe' Green. Papà Green sosteneva che il figlio era stato corrotto dalla poesia e ci fa un articolo di giornale sullo 'squartatore poeta'. Vuole che sappiamo, Patsy, vuole che sappiamo chi è». Mentre parlava, Graham Williams sentiva incombere su di sé le ali del Drago: anche mentre Patsy gli raccontava del suo matrimonio, e mentre leggeva la poesia di Nashe, sulla prima pagina della Gazette posata fra di loro; lo sentì soprattutto leggendo un elenco di nomi di bambini che appariva in un altro articolo del quotidiano. La sera del 13, il venerdì in cui Roger Slyke rinvenne il cadavere di Bobby Fritz, Richard Allbee telefonò a Laura da Providence; le spiegò che aveva avuto dei problemi e perciò si sarebbe dovuto trattenere a Rhode Island per altri quattro o cinque giorni, forse addirittura una settimana intera. Laura lo pregò di non preoccuparsi per lei, gli disse che stava bene e che le dispiaceva fossero sorte difficoltà. Aggiunse anche che ad Hampstead tutto era tranquillo. Non poté riferirgli di Bobby Fritz perché del terzo omicidio fu informata solo il giorno seguente da una telefonata di Ronnie Riggley. Evitò invece di menzionare un altro avvenimento di cui era al corrente, cioè la morte per annegamento di altri cinque bambini, che avevano seguito l'esempio di Thomas e Martin O'Hara. L'episodio era avvenuto la sera dell'11, la notte in cui Bobby Fritz era stato accoltellato, mutilato e nascosto nel fossato di Poor Fox Road. Laura non riferì a Richard dei cinque bambini perché te-
meva di spaventarlo e procurargli altre ansie oltre a quelle che già aveva. Laura aveva letto il primo articolo sui cinque bambini sulla Gazette di venerdì. I loro nomi erano stati pubblicati poi sul giornale di lunedì, quello aperto sul tavolo davanti a Graham Williams e Patsy McCloud. Ma i fatti riferiti dalla Gazette non erano necessariamente tutti i fatti: probabilmente nessuno, tranne Zaber O'Hara e, forse, Sarah Spry, avrebbe sospettato che le madri dei bambini che si erano annegati, la notte stessa della tragedia avevano sognato di accogliere nel proprio letto i figli intirizziti, di stringerseli al petto per scaldarli con il proprio corpo. 12 Parlando al telefono con Laura quel venerdì sera, Richard non fu costretto a spiegarle quale genere di problemi lo trattenesse a Providence, perché di solito era sempre il cliente a creare difficoltà. Laura lo avrebbe intuito da sola e del resto aveva visto il marito risolvere brillantemente situazioni delicate con clienti indecisi o volubili o, peggio ancora, presuntuosi. Ma Laura non aveva conosciuto Morris Stryker. Morris Stryker aveva frustrato le speranze di Richard che, arrivato a venerdì sera, cominciava a temere di uscire sconfitto da quello scontro. Avevano cominciato male e forse ciò non era stato di buon auspicio. Appena giunto a Providence si era recato in College Street. Stryker e il costruttore Mike Hagen lo stavano già aspettando, seduti nella Cadillac del padrone di casa. Erano scesi per andargli incontro quando lo avevano visto parcheggiare e attraversare la strada con gli occhi già fissi sulla bella ma malandata palazzina del diciottesimo secolo che avrebbe dovuto risistemare. Aveva subito individuato il suo cliente. Infatti Stryker indossava abito blu, camicia blu scarpe bianche e portava al collo una catenella d'argento, mentre i costruttori, per quanto ne sapeva Richard, sceglievano normalmente un abbigliamento più comodo e pratico. «Allbee?» aveva chiesto l'imponente Stryker. «Signor Allbee?» «Sì, lieto di conoscerla, signor Stryker», aveva risposto Richard. «Gran bella casa, la sua.» «Voglio che diventi la più lussuosa della zona», aveva dichiarato Stryker guardandolo con un certo sospetto. «Questo è Mike Hagen. È lui che farà il lavoro. Siamo stati a scuola insieme, Mike e io, qui a Providence.» «Salve», lo aveva salutato Hagen, fermo alle spalle di Stryker con le mani in tasca.
«Be', signor Stryker», aveva cominciato Richard, «la proposta è di per sé interessante. Mi rendo già conto che avremo modo di ricorrere a tecniche moderne, per esempio nelle decorazioni.» Richard era già al lavoro e stava meditando sulle tinteggiature che avrebbero messo in risalto la linearità di un interno del diciottesimo secolo. «Ehi, ma lei non è inglese», aveva esclamato inaspettatamente Stryker. «Lei dovrebbe essere inglese, no?» «Sono nato nel Connecticut», aveva spiegato Richard. «Ma ho vissuto per dodici anni a Londra ed è stato lì che ho cominciato a dedicarmi ai restauri. Probabilmente è per questo che lei ha avuto l'impressione che fossi inglese.» «Toby», aveva gridato Stryker voltandosi verso la Cadillac. «Toby, vieni qui subito.» Un uomo biondo e slavato era sceso e si era fermato con aria nervosa accanto all'auto. «Non è inglese, Toby», lo aveva accusato Stryker abbassando la voce. «No?» si era meravigliato Toby. «Ma non è di Londra?» «Il signor Allbee ha solo lavorato a Londra, Toby. È originario del Connecticut e avresti dovuto scoprirlo da solo, non ti pare, Toby?» «Sissignore», aveva risposto Toby. Mike Hagen era rimasto con le mani in tasca, senza guardare nessuno in particolare. Lui la sapeva lunga su Morris Stryker. Stryker aveva scrollato la testa, l'aveva chinata e aveva sputato il sigaro. «Però ha lavorato in Inghilterra, eh?» aveva domandato a Richard. «Finora solo in Inghilterra.» Stryker aveva scosso nuovamente la testa. «Bah, tanto vale. Entriamo.» Lanciò a Richard un'occhiata torva. «Sa, io credevo che lei fosse inglese e che fosse venuto nel Connecticut per lavorare nel nostro paese. Io volevo un inglese.» «Possiamo farne la casa più inglese che esista», aveva ribattuto Richard e quello era stato un errore. 13 Sabato, 14 giugno, una settimana dopo la tentata rapina in casa Van Horne, Tabby Smithfield si svegliò nel cuore della notte con la sensazione che il tempo gli stesse sfuggendo. Doveva sbrigarsi, correre, ma non sapeva dove. Scese dal letto e a tastoni cercò i suoi indumenti. Era in ritardo
per la scuola... era in ritardo per un appuntamento con suo nonno. Si infilò i jeans e la maglietta. Al buio si allacciò le scarpette da ginnastica. Sapeva di non dover far rumore: suo padre era al piano di sotto con Berkeley Woodhouse e se Tabby l'avesse disturbato sarebbe uscito dai gangheri. Berkeley Woodhouse era la donna che Tabby aveva visto in compagnia di suo padre subito prima delle visioni in biblioteca. Clark l'aveva invitata a cena ai «Quattro Focolari» e la donna aveva dato a Tabby un bacio lasciandogli un'impronta di rossetto sulla guancia. Clark e Berkeley erano già sbronzi quando erano arrivati a casa e avevano continuato a bere durante la cena. Lei aveva parlato dell'ex marito, lui aveva parlato di Sherri. Berkeley aveva più volte tentato di afferrare la mano di Tabby. Immediatamente dopo aver finito di cenare Clark aveva acceso il televisore ed era salito in camera con Berkeley. Gli ordini erano espliciti. Ma adesso Tabby doveva uscire di casa, doveva partire. Lo aspettava suo nonno, lo aspettavano Dicky Norman e Gary Starbuck. Scivolò fuori dalla sua camera da letto con la sensazione che qualcosa non quadrasse nei suoi pensieri, ma aveva troppa fretta e la sua mente era ancora annebbiata dal sonno. Scese velocemente le scale. La casa era completamente immersa nel buio. Aprì la porta d'ingresso e si ritrovò abbagliato dalla luce della luna. Suo nonno lo aspettava. No, c'era qualcun altro ad aspettarlo. Alzò gli occhi e là dove sarebbe dovuta esserci la luna vide la faccia di Gary Starbuck. Scappa! gli ordinò Starbuck attraversando con il suo faccione bianco milioni di miglia di spazio. Scappa! La faccia di Starbuck era morta: morta come i sassi della luna. Tabby scappò da quella luna con dentro la faccia di Starbuck. Arrancò per Hermitage Road, girò l'angolo e imboccò la discesa di Beach Trail. Acquistò velocità e per pochi sconvolgenti attimi ebbe la sensazione di librarsi sopra il suolo. Poi toccò di nuovo terra e riprese la sua corsa sfrenata giù per Beach Trail. Ma ora la strada non sembrava fatta di asfalto bensì di fango viscido. Ogni volta che il piede batteva sul terreno, la suola scivolava e Tabby doveva fare enormi sforzi per mantenersi in equilibrio. Avvicinandosi all'abitazione di Graham Williams vide l'edificio avvolto da un alone rosso. Continuò a scendere a rotta di collo per quella strada ripida, come in realtà non era. Nel prato dove sette giorni prima aveva gettato il ricetrasmettitore di Starbuck, c'era un vasto cerchio annerito e da quella zona si levava una striscia di steli in fiamme che arrivava fino all'ingres-
so della casa. Tabby arrivò più vicino all'abitazione del vecchio, incapace di fermarsi o di abbandonare Beach Trail, e vide l'alone rosso brillare attorno alla casa. Dietro di lui la luna-Starbuck continuava a somare e quasi lo fece stramazzare con la forza del suo alito. Tabby riuscì a vedere perfettamente all'interno di quel bagliore; vide ogni stanza. In soggiorno i libri volteggiavano pigramente nell'aria simili a sparvieri, mentre in camera da letto, al piano di sopra, un diavolo da giornalino a fumetti strangolava Graham Williams. Quando Tabby passò di corsa, incapace di arrestarsi, il diavolo, che era rosso, provvisto di corna e di coda, strinse la sua morsa attorno al collo di Graham e si voltò per metà verso il ragazzo. Sogghignava. La sua faccia era enorme e dalla bocca sporgeva una lingua enorme, saettante. Il suo pene gigantesco era diviso in due rebbi eretti e vibranti. Il diavolo torse la testa di Graham, quindi ne sollevò il corpo per mostrare a Tabby quanto fosse inerte. Tabby gridò, ma il suo grido si perse nell'aria mentre, cercando di mantenersi in equilibrio, imboccava Mount Avenue. L'alito morto della luna lo investì da dietro, sollevandolo da terra. Quando si trovò all'altezza dell'Accademia di Greenbank, il monumento storico si spalancò come una pietra tombale montata su cardini e dalle viscere della terra uscì in volo il pipistrello di fuoco. La bestia compì un giro nel cielo sopra Tabby Smithfield in corsa, guardandolo con le orbite vuote, quindi prese quota. Tabby lo vide allontanarsi rapidamente e vide il suo fuoco svanire nella gelida luce argentea che giungeva dalla luna. Il pipistrello di fuoco sbatté le ali sulla casa di Van Horne e puntò verso i flutti. Tabby lo osservò volare in direzione di Millpond. Naturalmente non poteva vedere Millpond, che si trovava a un miglio di distanza, dietro alberi e fabbricati; ma mentre scavalcava, o veniva sospinto al di là della barriera che segnava l'inizio della Gravesend Beach, si accorse di due aloni rossi, simili al bagliore di un incendio. Le due zone erano più o meno equidistanti da lui e nessuna delle due era di solito visibile. Alla sua destra il pipistrello di fuoco stava andando a posarsi su quella lingua di terra nota come Shrinks' Row e alla sua sinistra, allungata nello Stretto, Punta Kendall era altrettanto vermiglia. Tabby guardò a destra e vide le ali del pipistrello sfiorare i tetti delle graziose casette e vide le fiamme sprigionarsi da sotto i cornicioni; guardò a sinistra e vide che tutta
Punta Kendall brillava del colore rosso acceso di un attizzatoio. Poi si ritrovò a camminare per la strada, diretto verso la spiaggia, sotto una comunissima luce lunare. C'era una traccia di rosso sopra le fronde degli alberi alla sua destra, ma ora non scorgeva fiamme. Aveva la sensazione di avere vissuto per una decina di minuti in un sogno pazzesco. Lanciò un'occhiata titubante in direzione della luna che non somigliava affatto a Gary Starbuck. Si fermò, immobile, sulla stretta strada che portava alla spiaggia. Anche l'aria attorno a lui si fermò. Il suolo era solido. Il riverbero rosso sopra gli alberi tra lui e Shrinks' Row forse era solo il riflesso della luce di una macchina della polizia. Non era disposto a credere che quelle case stessero andando a fuoco più di quanto credesse che un enorme pipistrello di fiamme fosse sbucato dal sottosuolo davanti all'Accademia. Tabby tornò a guardare il riverbero rosso sfidandolo a mostrargli una fiamma vera, quindi riprese il cammino verso la spiaggia. Un momento, pensò. Perché vado da questa parte? Perché non me ne torno a casa? «Credi davvero che riusciresti a dormire?» domandò a se stesso a voce alta. Almeno per una settimana, no. E poi devo. Devi che cosa? Arrivare fino all'acqua. Perché? Per vederla. Doveva spingersi fino alla linea della risacca e guardare nell'acqua. Abbastanza semplice, vero? E tutto quello che era accaduto fino a quel momento - Gary Starbuck, il diavolo, Graham Williams e il pipistrello di fuoco - non erano state che piccole esibizioni di contorno, pretesti per condurlo fin lì, dove gli mancava solo una ventina di metri per affondare i piedi nella sabbia e scrutare attentamente il mare. Da dove si trovava già scorgeva la lunga linea nera dell'acqua. Non aveva nessuna voglia di avvicinarsi. Ti prego. Il vento lo spingeva da dietro. Ti prego. Lasciami in pace. In parte desiderava vedere che cosa sarebbe accaduto lì, in parte voleva sapere quale sarebbe stato l'ultimo atto della commedia di quella notte. Avanzò e il vento giocò con i suoi capelli, facendo svolazzare la maglietta. Il suo stomaco ebbe un sussulto e per un secondo temette di vomitare. Fece un altro passo, poi raggiunse risolutamente il muretto che deli-
mitava lo spiazzo di parcheggio, lo scavalcò e affondò a piedi nudi nella sabbia. Ora era nel territorio del Drago. Guardò in alto. La luna si era ritirata e il mondo era in salvo. Lontanto, alla sua destra, c'era quell'insistente pennellata di rosso sopra gli alberi. Alla sua sinistra c'era la curva della spiaggia, seguita da una serie di spiagge private più piccole, ciascuna contrassegnata da una fila di paletti conficcati nella sabbia, simili a lapidi. L'ultima spiaggetta, quella che scendeva all'acqua sotto un dosso alberato, un tempo era appartenuta a suo nonno. Onde piccole e scure lambivano il litorale. L'unico rumore che sentiva era quello della risacca. La brezza sospingeva dolcemente Tabby; le onde lo invocavano. Tabby attraversò il tratto sabbioso per raggiungere la linea dell'alta marea. «Fammi vedere», incitò. La schiuma delle onde ribollì intorno ai suoi piedi e diventò rossa. Quando allungò lo sguardo verso i flutti si accorse che tutto il resto dell'acqua era rosso; rosso cupo e denso. L'aria puzzava di sangue e fu allora che apparvero le prime mosche. Erano state risvegliate dall'odore di tutto quel sangue e in pochi secondi sembrò che tutte le mosche di Hampstead si fossero radunate a Gravesend Beach. Il silenzio si era trasformato in un unico, universale ronzio. Tabby agitò convulsamente le mani cercando di tenerle lontane dagli occhi e dalla bocca. Ora il pietrisco e tutto il tratto di spiaggia era un tappeto nero e lucente di insetti. Se li sentiva formicolare sui piedi, pesare sulle scarpe. Il loro ronzio si fece via via più intenso, più ritmico, mentre altre centinaia, migliaia piombarono sulla sabbia intrisa di sangue. «Fammi vedere!» urlò Tabby. Sputò con ribrezzo le mosche che gli erano penetrate nella bocca e osservò una gigantesca onda rossa levarsi nella luce lunare. La vide gonfiarsi e crescere mentre puntava verso la costa, fino a raggiungere l'altezza di oltre tre metri. Indietreggiò e sentì il rumore orribile delle mosche schiacciate sotto i tacchi. Gli ronzavano furiosamente attorno alla testa. Una mezza dozzina gli si infilò nel colletto e sotto la maglietta. Il muro di acqua s'incurvò sopra di lui e in esso scorse suo padre e Berkeley Woodhouse. Erano nudi e morti e quando l'onda si infranse sulla spiaggia scaraventò lontano i loro corpi. Immediatamente si levarono mille mosche. Quando la risacca trascinò via i cadaveri, il monotono ronzio degli insetti crebbe di volume, si fece frenetico. «Fammi vedere!» gridò Tabby e lontano, al largo, vide nascere un'altra
onda, un cavallone che durante la corsa diventò via via più imponente. Si levò nell'aria per cinque metri e ancora stava crescendo quando la sua cresta s'incurvò in prossimità del bagnasciuga. Tabby corse all'indietro calpestando ammassi di mosche e tenendo gli occhi puntati sulla gigantesca onda. Dapprima vide Graham Williams, sballottato qua e là dall'acqua, poi il cadavere di Richard Allbee, nudo e mutilato; quindi il corpo senza vita di Patsy, nudo, che rotolava vorticosamente, sospinto dall'onda sopra quello di Richard. La cresta ribollente e sanguinosa passò sopra Tabby, e le mosche subito vi si buttarono sopra fameliche. Quando si infranse sulla spiaggia lasciandovi i corpi dei suoi amici, Tabby fu travolto e si ritrovò letteralmente inzuppato di quel liquido denso e maleodorante. Si sentì sprofondare mentre l'onda si ritirava. Per un momento orribile guardò negli occhi vitrei di Richard Allbee che gli passava accanto. Conficcò le dita nella sabbia intrisa di sangue e cercò di rialzarsi. Sentì nuovamente le mani bagnate e si rese conto che là dove con le dita aveva artigliato la sabbia, sgorgava altro sangue. Il corpo di Richard Allbee fu risucchiato nello Stretto. Degli altri non c'era più traccia. Tabby staccò le mani dalla sàbbia sanguinante e si alzò in piedi. Nelle pozzanghere di sangue rimaste affogavano le mosche. Altre migliaia però assalirono Tabby. Gli si posarono sulle palpebre, tra i capelli, gli si infilarono nelle orecchie. Gli coprirono le mani. Tabby cercò di scacciarle agitando le mani e ne uccise un centinaio. Si passò le dita sugli occhi. «Fammi vedere!» gridò. «E solo acqua e queste mosche non esistono. Fammi vedere che cosa sai fare!» Per un istante, una frazione di secondo così breve che era già passata prima che avesse tempo di comprenderne il significato, Tabby si trovò su Gravesend Beach, con gli abiti asciutti e senza mosche. Poi il mondo sussultò e Tabby fu di nuovo zuppo di sangue e attorniato da sciami di mosche. Gemette e vacillò all'indietro. Solo in quel momento capì che cosa era accaduto e rise. Aveva bloccato il fenomeno per un attimo; aveva colto il Drago di sorpresa e aveva fermato la giostra, sia pure temporaneamente. Rise e le mosche gli si arrampicarono nella bocca e lui continuò a ridere. Poi urlò di nuovo.
«Ho vinto! Ho vinto!» Le mosche si alzarono in volo e virarono oltre la linea dell'alta marea, in cerca di un nuovo bersaglio. Tabby restò fermo dov'era, le scarpe inzuppate di sangue, senza fiato. Dovunque posasse lo sguardo sulla spiaggia arrossata, vedeva nugoli di mosche che si accanivano fameliche. «Non sono morti», mormorò a voce bassa, «i miei amici non sono morti.» Non ancora, sibilò la schiuma rossa. Le mosche che lo avevano abbandonato andarono a posarsi su un altro corpo spinto dalla risacca contro il rosso intrico delle alghe. Il loro ronzio s'intensificò raggiungendo di nuovo il ritmo frenetico che già aveva udito in precedenza. Lì per lì Tabby pensò che si stessero accanendo sul corpo di Patsy e allora si fece avanti per scacciarle. Ma il cadavere era troppo grosso per essere quello di Patsy e quando fu più vicino notò che era stato straziato come quello di Richard... e tuttavia era un corpo di donna. A pochi passi dal cadavere Tabby si sentì gelare il sangue nelle vene. Si accorse che il ventre le era stato squarciato selvaggiamente e che accanto alla donna giaceva un ammasso informe, i miseri resti di un bambino che non sarebbe mai nato. Anche sul feto le mosche si affollavano voraci. Tabby vide dita minuscole strette a pugno e capì chi era la donna: Laura Allbee, la moglie di Richard. Cominciò a tremare. Dopo tutto quello che aveva passato, lo sconvolgeva soprattutto la vista delle piccole dita di quel bambino mai nato. L'acqua rossa riprese a gorgogliare più forte e un'onda vischiosa ricadde su Laura e sul feto. Tabby cominciò a camminare all'indietro, incapace di distogliere gli occhi da quei corpi avvinghiati. Udì le onde ribollire come accade quando si avvicina la burrasca. Cumuli di nubi si addensarono nascondendo la luna. Alla destra il riverbero rosso della notte era inequivocabile: case in fiamme. Avvertiva l'odore del fumo insieme con qualcosa di più greve che si mescolava con il tanfo nauseante del sangue. Le onde si infrangevano con forza sul litorale sollevando schizzi vermigli. Un altro corpo fu abbandonato dalla risacca in mezzo alle alghe. Laura Allbee e il suo minuscolo feto erano scomparsi; ingoiati nuovamente dallo Stretto, e ora dai flutti emergeva parzialmente un corpo massiccio. Un tappeto di mosche lo separava da Tabby. Un'onda più forte spinse il corpo più avanti e quando si ritirò lo abbandonò sulla sabbia. Una saetta crepitò nel cielo e andò a scaricarsi sulla sabbia, alla sinistra di Tabby.
Il corpo portato dall'acqua si stava alzando sulle ginocchia. Aveva una spalla ridotta a uno spunzone d'osso rosso di sangue che sporgeva dalle carni lacerate. Tabby indietreggiò verso il muretto del parcheggio. Il corpo tentava di mettersi in piedi, faticando a drizzarsi dalla posizione accovacciata. Tabby vide la faccia di Dicky Norman. Un altro fulmine accecante illuminò lo Stretto. Dicky finalmente si alzò. Lunghe e nette cicatrici gli attraversavano fronte e torace. Aveva la bocca aperta e dal mento gli colava il sangue. S'incamminò verso Tabby. Ora il vento che aveva spinto Tabby fin lì lo sospingeva verso la spiaggia. Dalla direzione dell'incendio salivano nel cielo scintille trasportate da correnti tumultuose. «No, Dicky.» Dicky Norman digrignò i denti all'udire la voce di Tabby. «Non sei vero», disse Tabby toccando il muretto di cemento con i polpacci. Il vento scompose le parole spezzandole in sillabe prive di significato. Dioky aveva ormai attraversato metà della spiaggia, curvo in avanti nel vento, l'unico braccio proteso. Sabbia sporca di sangue volava qua e là sollevata dal vento. Un sacchetto di plastica bianco svolazzò dal parcheggio, scese a rimbalzare sulla sabbia tingendosi di rosso, quindi precipitò nell'acqua ribollente. «Dicky, stai indietro», comandò Tabby senza che le sue parole fossero udibili. Dicky mosse la bocca; rivoli rossi gli colarono sul mento. Tabby ebbe quasi la certezza che il corpo mutilato di Dicky Norman avesse mormorato: Sono stanco. Forse spinto dall'istintivo bisogno di un appiglio, Tabby lasciò che la sua mente invocasse: Patsy! Patsy! Dicky Norman avanzò di un passo ancora nel vento forte. Tabby sentì la sua mente cercare Patsy e sentì crescere dentro di sé il panico quando non riuscì a trovarla. Per un momento Tabby sentì la mente sprofondare nel vuoto infinito, una specie di buco nero psichico, e Dicky inclinò la testa sulla spalla straziata e gli sorrise di sottecchi come se avesse appena raccontato una barzelletta. Patsy! Avvertì una reazione confusa, debolissima, come un segnale radiofonico che giunge da oltre le montagne.
Patsy! Aiuto! Patsy dormiva. Dicky avanzò di un passo ancora. La reazione che aveva percepito si spegneva in un punticino lontano. Patsy! Aiuto! (oh, caro Tabby, che cosa...? Tabby?) Non era stato molto, nient'altro che un attimo di lieve contatto, ma Dicky Norman cadde in ginocchio a due metri da Tabby. Tabby brancolò ancora nelle tenebre della mente alla ricerca di Patsy, ma trovò solo un fioco punto di calore. Dicky cercava di girarsi, appiattito sul ventre nella sabbia insanguinata. Il vento era caduto e tornarono le mosche, dapprima sulla spalla di Dicky, poi alle pozze nella sabbia, infine su Tabby. Le scacciò dalla faccia. Ora la spalla mutilata di Dicky era nera di mosche. Dicky affondava i piedi nella sabbia e spingeva, trascinando prima un'anca e poi l'altra. Zampilli di sangue scaturivano là dove i piedi di Dicky affondavano. Tabby sapeva di non avere veramente vinto, ma aveva ottenuto un pareggio grazie all'aiuto quasi inconscio di Patsy McCloud. Gli giunse distinto alle narici l'odore degli incendi lungo il Millpond. Dicky Norman arrivò alla linea dell'alta marea e strisciò nell'acqua bassa. Sotto gli occhi di Tabby lo Stretto perse rapidamente colore, passando dal rosso a un rosa sporco che quindi si trasformò in viola e ridiventò blu inchiostro. Aveva gli abiti asciutti. Non c'erano mosche, non c'erano macchie di sangue né sui suoi indumenti né sulla sabbia. Sul groviglio di alghe e pietrisco le onde depositavano schiuma bianca. Tabby salì di corsa i gradini che portavano alle cabine e al telefono pubblico. 14 Quel sabato notte, sul tardi, si verificarono tre fatti di diversa importanza, ma tutti ricollegabili ai timori di Richard Allbee e Tabby Smithfleld e sintomatici della situazione ormai precipitata. Quel sabato notte Hampstead passò irrevocabilmente al secondo stadio della sua distruzione. Il primo di questi eventi fu la telefonata di Richard Allbee a Laura, alle undici e mezzo, più o meno mentre Tabby Smithfield si svegliava e usciva di corsa da casa. Richard era avvilito dopo una lunga serata trascorsa ad assistere alla distruzione dei suoi progetti da parte di Morris Stryker, il quale, incredibile ma vero, pretendeva un interno in stile Bauhaus; ed era anche un po' alticcio, tanto da incespicare nelle parole. Stryker aveva voluto assolutamente mettere in tavola una bottiglia di pregiatissimo cognac
d'annata, incaricando Toby Chambers di versare per tutti. Al segretario permetteva di non bere, ma aveva fatto capire chiaramente che Hagen e Richard avrebbero dovuto stare al passo con lui. Laura rispose al telefono all'ottavo squillo e Richard si sentì immediatamente molto meglio. «Oh, grazie al cielo!» esclamò. «So che è tardi, ma ero preoccupato.» «Preoccupato di che cosa?» «Di... lo sai. Il mio cliente mi ha appena detto che ad Hampstead c'è stato un altro omicidio. L'ha letto sul giornale. Quell'uomo deve essere veramente sadico; pensa che l'ha trovato terribilmente divertente!» «Sei sbronzo?» «Certo che sono sbronzo. Sono stato con Morris Stryker e il castigo per uno che non si ubriaca è di finire arrostito a fuoco lento. Non potevo rischiare. Sto parlando sul serio: Stryker è un malvivente. Ogni sera c'è qualcuno che lo avvicina al ristorante e gli consegna buste imbottite.» «Gesù», commentò Laura. «Non ti stai divertendo molto, vero?» «È un inferno. A paragone finire arrostiti è uno spasso. Ma dimmi che cosa è successo. Chi è stato ucciso?» «Nessuno che conosciamo. Il giardiniere della zona. Penso di averlo visto un paio di volte.» «Certo che lo hai visto. Lavora un po' dappertutto. Ma davvero è stato ucciso lui? E dove? Quando?» «Non ne sono sicura. Hanno ritrovato il corpo solo ieri, ma se non sbaglio era morto da un paio di giorni. Richard, sono tanto stanca e preferirei non parlare di queste cose proprio adesso. Voglio che torni a casa.» «Non sai che cosa darei per poterlo fare», replicò lui. «Dovrò rivedere gran parte del mio lavoro, perciò probabilmente dovrò trattenermi per altri due giorni. Ti prego, riguardati.» «Mi riguardo, mi riguardo. E la prossima volta chiama a un'ora più decente. Voglio tornare a letto.» «Ti telefono domani, appena riuscirò a sganciarmi da Ivan il Terribile.» «Ti amo.» «E io amo te. Perché non sei qui con me?» «Sei tu che te ne sei andato.» Non molto tempo dopo Patsy McCloud si mosse nel sonno. I suoceri erano ripartiti per Phoenix quella sera e Patsy non era riuscita a tenere gli occhi aperti oltre le dieci. Poi qualcosa penetrò nel suo sogno con l'impeto di un proiettile e Patsy scrollò la testa, più addormentata che sveglia. Vide davanti a sé Tabby
Smithfield, un Tabby che aveva bisogno di lei per motivi urgenti e non specificati. Ebbe la sensazione che Tabby fosse suo figlio e che fosse il suo istinto materno ad avvertirla. Non era ferito, ma era comunque in pericolo, un pericolo grave anche se solo potenziale. Allora inviò a Tabby tutta la solidarietà che riuscì a raccogliere al momento. Per un secondo sbatté le palpebre. Sentiva un odore di fumo provenire dalla finestra aperta, poi il suo corpo si rilassò e l'odore si dissolse in un'immagine onirica di se stessa nei panni di una strega, ai margini di una foresta, intenta a far bollire qualcosa in un pentolone nero. Poi anche la sua immagine svanì. I vigili del fuoco di Hampsteal avevano già ricevuto due chiamate che avvertivano dell'incendio in Mill Lane (nome ufficiale di Shrinks' Row) quando Tabby Smithfield li chiamò dall'apparecchio a pagamento di Gravesend Beach. Due autopompe erano accorse dalla stazione di Riverfront Avenue, subito seguite da altre due inviate dalla centrale di Main Street. Dopo che i primi uomini arrivati sul posto ebbero comunicata l'entità del danno, Hampstead chiese altri due veicoli di sostegno a Old Sarum. A Mill Lane si poteva arrivare solo attraversando uno stretto ponte sul Millpond e naturalmente le autopompe non ci passavano. La prime due raggiunsero il parcheggio di Millpond contemporaneamente all'auto del vicecapo Harry Yochen. Mentre Harry attraversava di corsa il ponte per andare a vedere quante case stessero bruciando, sopraggiunsero le due autopompe da Main Street; un minuto più tardi si unì al drappello il capo dei vigili del fuoco, Tony Archer. Archer scese precipitosamente dalla sua macchina e cominciò a ordinare agli uomini di attaccare le lance idriche: l'ondata di calore che saliva dal rogo era giunta fino a lui. Archer concluse che quasi tutte le casette dovevano essere in fiamme. Pochi attimi più tardi Yochen riattraversò il ponte ansimando e confermò la sua supposizione. «Tutte?» esclamò Archer. «Ma com'è possibile che l'incendio si sia esteso a tutte così in fretta?» «E non è finita», proseguì Yochen asciugandosi la faccia. Archer capì che cosa Yochen stava per dirgli e comprese perché esitava. Il suo vice era sicuro che l'incendio fosse doloso. Yochen sbatté le palpebre. «Lo sviluppo dei focolai è uniforme.» «In tutte e otto?» Yochen annuì. «L'incendio è cominciato contemporaneamente in tutte.» «Hai parlato con qualcuno?» Intanto i vigili del fuoco attraversavano di corsa il ponte con le pompe. Yochen scrollò la testa. «Sono dentro. Tutti.»
«Misericordia», mormorò Archer partendo di corsa con il suo subalterno e unendosi al secondo gruppo di pompieri. Appena ebbe messo piede sul sentierino dall'altra parte del ponte, Archer vide con i propri occhi che cosa aveva insospettito Yochen. Le fiamme che si erano sviluppate sul tetto delle casette erano scese lungo una linea parallela in tutte e otto le costruzioni, fino a lambire lo stipite della porta d'ingresso. Qualcuno doveva aver appiccato fuoco a quelle case. E quello sconosciuto ne aveva assassinato tutti gli abitanti. In quelle case, infatti, le camere da letto si trovavano al piano superiore, appena sotto il tetto. Gli abitanti dovevano essere stati soffocati dal fumo e poi divorati dalle fiamme. In mezzo al fumo denso che usciva dalle case distrutte, i vigili del fuoco puntarono le lance idriche sulle due abitazioni più vicine. Archer, Yochen e tutti gli altri tenevano gli occhi socchiusi per il forte calore. Cominciarono a incendiarsi i praticelli e un acero vicino alla casetta gialla affittata dal dottor Harvey Blau prese fuoco all'improvviso. Archer mandò le squadre di Old Sarum in fondo al sentiero perché impedissero al fuoco di propagarsi nella zona boscosa che separava il Millpond dalla Gravesend Beach. «Sono tutti morti», ripeteva tra sé pensando alle persone sorprese nel sonno nelle camere al piano superiore. «Ma chi può aver fatto una cosa del genere?» Sembrava proprio che Hampstead, dove Archer viveva ormai da vent'anni, quell'estate fosse travolta da un'ondata di follia selvaggia. Bambini che si annegavano: un gesto assolutamente insensato, esattamente come andare a versare cherosene sul tetto di una fila di case per poi appiccargli il fuoco. Osservò il fumo che saliva dai tetti e notò una linea fiammeggiante che colava sotto forma di piccole sfere di fuoco. Cadevano nell'erba come goccioloni d'acqua. Le gocce di fiamma si frantumavano quando toccavano il suolo. Per un momento Archer ebbe l'impressione che quelle fiammelle fossero animate, tanto velocemente si spostavano nell'erba secca. Anche la nube di fumo nera sembrava viva. Fu allora che gli parve di intravedere qualcosa in mezzo al fumo. Sullo sfondo di tenebra, ombre più scure guizzavano e sfrecciavano. Uccelli, rifletté, degli uccelli sono rimasti imprigionati nel fumo... Poi vide la sagoma di un'ala e pensò che si trattasse di pipistrelli. «Capo?» lo chiamò Yochen. Archer vide le loro bocche spalancate e fameliche; li vide librarsi nel fumo come mai i pipistrelli avrebbero fatto. Migliaia di piccoli draghi vo-
lavano nel fumo, salendo con esso. La prima squadra di vigili del fuoco esplose a sei o sette metri da lui. Le pompe che tenevano fra le mani si squarciarono e tonnellate di acqua si trasformarono di colpo in vapore. La squadra che lavorava accanto alla prima corse sull'altro lato del sentiero per sottrarsi a quel vapore rovente. Anche le loro pompe avevano cominciato a bollire e un attimo dopo che le avevano abbandonate, scoppiarono come le prime. Le vittime urlavano e otto uomini erano già avvolti dalle fiamme, alcuni si rotolavano nell'erba, altri si buttavano come impazziti sui focolai più forti. Un fiume di sangue scorreva tra le case accendendo roghi nuovi. «Puntate l'acqua sugli uomini» gridò Archer a Yochen e vide migliaia di piccoli draghi emergere dal fumo sopra la testa del suo vice. Mentre si girava per ubbidire al comando, Yochen spalancò improvvisamente le braccia. Per un istante Archer vide fumo uscirgli dalle maniche. Poi la camicia di Yochen prese fuoco; una frazione di secondo più tardi i capelli grigi con uno sfrigolio sparirono dal cranio. Ora fumavano anche i calzoni. Archer cercò di togliersi la giacca per soffocare le fiamme, ma non fece a tempo perché Harry Yochen mandò un gorgoglio fioco e cadde per terra completamente avvolto dal fuoco. Mentre Archer cercava invano di sfilarsi la giacca, il corpo di Yochen si carbonizzò e si trasformò in un ammasso nero. In mezzo a quel caos, con la giacca penzolante da una manica, Tony Archer rimase immobile ad ascoltare il rombo cupo dell'incendio e a chiedersi come fosse potuta accadere una cosa simile in così breve tempo. Fu allora che una lingua di fuoco uscì dalle case e gli ustionò la faccia, gli squarciò i polmoni e si portò via la sua vita prima ancora che i suoi abiti cominciassero a bruciare. L'incendio di Mill Lane si estinse prima che potesse attaccare il parco, ma all'alba le case di Shrinks' Row erano ridotte a cumuli di macerie fumanti. Per identificare le vittime fu necessario esaminare le ossa rimaste. Una delle autopompe, quella arrivata più vicino al ponte, era esplosa per l'eccessivo calore, ma per avere un'idea della temperatura raggiunta in Mill Lane quel sabato notte, basti pensare che l'indomani il terreno di Punta Kendall era ancora caldo e si alzava fumo dalla corteccia di molti alberi. 15 Richard Allbee si era ripromesso di telefonare a Laura quella domenica,
dopo la prima colazione, per essere sicuro di trovarla in casa; tuttavia alle otto del mattino si sedette allo scrittoio della sua camera d'albergo e si dimenticò persino di mangiare. A mezzogiorno era ancora al lavoro e ordinò per telefono un panino e una birra. Credeva di avere trovato un compromesso fra le pretese di Stryker e le esigenze degli ambienti georgiani della casa da ristrutturare. Alle sei del pomeriggio si accorse di avere un appetito famelico e scese al ristorante dell'albergo a consumare scaloppine con asparagi e una mezza bottiglia di vino fresco. Finì con due tazze di caffè e per tutta la cena continuò a prendere appunti. Quand'ebbe finito lasciò una mancia generosa e tornò immediatamente nella sua stanza. Quando si decise a chiamare a casa erano ormai le undici e mezzo. Troppo tardi. Non se la sentiva di svegliarla di nuovo. Si compiacque per qualche istante della mole di lavoro che aveva compiuto, si spogliò e andò a coricarsi. Lunedì telefonò a casa alle dieci del mattino e non ottenne risposta. Si ripromise di provare prima di cena, a costo di farlo da uno di quei terribili ristoranti in cui era costretto a incontrarsi con Stryker. Trascorse tutto il pomeriggio del lunedì nella casa di College Street per prendere le misure e controllare che i nuovi progetti fossero realizzabili, prima del rituale scontro con Stryker. Chiamò Laura dalla sua camera alle cinque e mezzo, ma di nuovo non ebbe risposta. Chiese alla reception, ma gli risposero che nessuno aveva lasciato messaggi per lui. Stryker gli telefonò alle sei e gli spiegò come raggiungere un ristorante che si chiamava Pickman's. Era a una ventina di minuti dalla cittadina, quasi in aperta campagna. In quel locale, più elegante dei soliti, con i nuovi progetti sotto il braccio, Richard si sentì decisamente meglio. Stryker, Mike Hagen e Toby Chambers lo raggiunsero un quarto d'ora più tardi. Stryker lo salutò con un cenno distratto del capo prima di chiamare il caposala per protestare sulla scelta del tavolo. Era troppo centrale, c'era un andirivieni insopportabile, possibile che nessuno si ricordasse come voleva il suo tavolo il signor Morris Stryker? Nel frattempo Stryker si accese uno dei suoi enormi sigari e soffiò fumo sul detestabile tavolino. Il caposala gli propose alcune sistemazioni alternative e finalmente Stryker scelse un tavolo d'angolo, in fondo al ristorante. «E non si dimentichi di noi solo perché siamo fuori mano», lo ammonì. Si sistemarono al tavolo e Stryker si sedette con le spalle rivolte alla parete. «Ah, questo postaccio è
così pieno di merda che mi fa venire il mal di testa venirci», si lamentò. «E allora perché ci viene?» «Per cambiare, tanto per cambiare. Questo genere di stronzate piace a Toby.» Tirò boccate dal suo sigaro, quindi si sporse in avanti e disse a Toby: «Perché non vai a prendere quell'omuncolo così gli posso parlare, eh? Il suonatore di banjo. Chiamalo un po' e fallo venire qui». Toby corse alla ricerca di un telefono. Mike Hagen contemplava il soffitto sorridendo. «Non esce mai con sua moglie, Morris?» domandò Richard e gli occhi di Mike Hagen scivolarono dal soffitto per posarsi su dì lui. «Dico, ma che cosa le prende?» sbottò Stryker. «Per me cenare fa parte degli impegni di lavoro. In parte è lavoro, in parte è svago. Capisce?» Arrivò il cameriere a servire da bere. Stryker, massiccio e ingombrante come un bisonte, si sporse nuovamente in avanti. «Allora, che cosa abbiamo fatto di bello?» chiese a Richard. «È stato alla casa, oggi? Sì? Perfetto. E che cosa ha fatto domenica? Volevo chiamarla per invitarla al golf, ma poi ho avuto un contrattempo. Questo suonatore di banjo. Adesso lo raddrizziamo come si merita.» «Ho lavorato tutta la domenica», rispose Richard presentandogli le sue carte. «Credo proprio di avere trovato la soluzione giusta. Vorrei mostrarle come possiamo risistemare le camere del pianterreno.» «Buono lì», lo fermò Stryker. «Non voglio sentire queste storie adesso. Un'altra volta.» «Vorrei davvero conoscere là sua opinione», insisté Richard. «Ci ho lavorato parecchio e fra non molto dovrò rientrare nel Connecticut.» «Le ho detto di chiudere il becco, sì o no?» ruggì Stryker. «È forse sordo? Non me ne frega un fico secco di quanto ha lavorato. Non mi importa una merda di quando deve tornare a casa sua. Non voglio sentire parlare di queste cazzate questa sera. Se ne stia lì e si goda la cena. Per questa volta non le si chiede altro.» In quel momento Richard fu veramente sul punto di abbandonare tutto. Se avesse avuto cinque anni di meno e se Laura non fosse stata incinta, certamente lo avrebbe piantato in asso. Ci stava ancora meditando quando Toby Chambers tornò a sedersi al suo posto. «Alle nove e mezzo», annunciò. Stryker grugnì. Roteò gli occhi e cacciò fuori una nuvola di fumo grigio e puzzolente. «Richiamalo. E troppo presto. Non voglio vedere quella sua faccia bisunta quando dovrei essere qui a divertirmi. Digli che venga alle undici. Tanto saremo ancora qui.»
Chambers ripartì di gran carriera. Ho bisogno di questo lavoro, si disse Richard. Morris Stryker non è che un rozzo gradasso, ma significa anche altri diecimila dollari per l'università di Coso. Tracannò metà di quanto aveva nel bicchiere e cercò di rilassarsi. «Ne ordini un altro», lo sollecitò Stryker. «Siamo qui per questo, no? Per spassarcela.» Quella sera Richard rientrò in albergo a mezzanotte passata. Telefonò a casa e trovò occupato. Riprovò altre cinque volte tra la mezzanotte e l'una e non riuscì mai ad avere la comunicazione. Avvertì il centralino e si sentì rispondere che probabilmente all'altro capo avevano staccato il ricevitore. Martedì mattina Richard cercò di telefonare a casa subito dopo la doccia. Con un asciugamano annodato alla vita e i capelli gocciolanti si sedette sul letto e compose il numero. Udì due scatti e poi un ronzio monotono. Riprovò e ottenne il medesimo risultato. Allora chiamò il centralino e chiese che provassero il suo numero. Ma anche la centralinista non riuscì a mettersi in comunicazione e dopo avere parlato con una sua collega del Connecticut dichiarò: «Spiacente, signor Allbee, ma c'è un guasto e la linea è temporaneamente fuori servizio». «Ma quello è il numero di casa mia!» «È attualmente fuori servizio, ma il guasto è stato segnalato», rispose la centralinista. «Provi più tardi.» Richard riattaccò, si asciugò i capelli e si vestì. Ordinò che gli servissero la prima colazione in camera, ma cinque minuti dopo ci ripensò e annullò l'ordine. Si sentiva troppo agitato. Un guasto sulla» sua linea? Che cosa voleva dire? Pochi minuti dopo era in strada e camminava senza meta. Aveva appuntamento con Stryke e Hagen in College Street alle undici e mezzo. Aveva davanti tre ore. L'aria era calda e tersa. Vicino all'albergo avevano demolito un vecchio edificio liberando un intero isolato nel quale erano stati montati alti ponteggi. Per molti minuti Richard restò come incantato a guardare il lavoro che si svolgeva nel cantiere. Un uomo sollevava e calava un maglio senza interruzione; un altro manovrava un pesante martello pneumatico che gli faceva tremare i muscoli delle braccia. Ogni tanto una nuvola di polvere nascondeva i manovali. Dietro di loro si muoveva pigramente una gru gialla. Richard si sentì improvvisamente la bocca arida e non seppe spiegarsi perché. Rabbrividì senza una ragione. In un ribollire di fumo e polvere
brillavano focherelli. Era come gettare lo sguardo in un piccolo inferno. Alzò gli occhi verso la gru e vide Billy Bentley correre lungo il braccio metallico. Quando fu in cima lo salutò con la mano. Richard, cogliendo di sorpresa se stesso, vomitò. Lo stomaco gli si era rivoltato prima che potesse rendersene conto. Si allontanò, alzò lo sguardo e vide Billy Bentley scendere, tenendosi con le mani, lungo il cavo della gru. Allora si voltò e fuggì. Alle spalle sentiva il puzzo e i ringhi dell'inferno dal quale Billy Bentley si era lanciato al suo inseguimento. Richard svoltò al primo angolo e si lanciò per una via. Il paesaggio attorno era tetro, da dietro gli giungevano ancora i rumori del cantiere. Billy Bentley lo salutò da un androne sull'altro lato della strada, fingendo di contare banconote. L'aria soleggiata fu invasa da un lezzo di morte e putrefazione. Richard si voltò e attraversò la strada nell'altra direzione, provocando frenate, proteste e un coro di clacson. Il semaforo non era cambiato e le automobili sfrecciavano intorno a lui. Richard temette di essere colto da un capogiro in mezzo alla strada e di finire schiacciato sotto le ruote di un camion. Raggiunse comunque l'altro lato. La Brown University stava appollaiata su un'altura. La città gli parve piena di sole, polvere e fumo. Antiquati lampioni costeggiavano la strada che portava all'università. Billy era sbucato dall'inferno arrampicandosi sulla gru e adesso l'inferno era dappertutto. Richard doveva tornare al più presto ad Hampstead, a Greenbank, a Beach Trail. Tornò all'albergo, vide Beach Trail, vide la vecchia casa Sayre con tutte le luci accese, vide Laura che apriva la porta... «Parto fra un quarto d'ora», annunciò alla reception. «La prego di prepararmi il conto.» Ammucchiò alla rinfusa i suoi indumenti in valigia, la chiuse, uscì dalla camera e spinse il pulsante per chiamare l'ascensore. Attese sul pianerottolo ascoltando il ronzio dei cavi dietro i grossi battenti metallici. Finalmente la spia lampeggiò, un campanello tintinnò e la porta si aprì su una bara spaziosa. Un odore nauseante investì Richard, che per poco non stramazzò a terra. In un angolo della cabina sedeva Billy Bentley, a gambe incrociate con una chitarra in grembo. Rivolse a Richard un sorriso consolatorio. Sotto le carni decomposte si vedevano le ossa, eppure l'espressione di Billy era così viva che il suo cadavere sembrava persino aggraziato, seduto a gambe incrociate sulla moquette della cabina.
Richard non se la sentì di salire in quella bara viaggiante. Chiuso là dentro, gli sarebbe stato fatale anche solo quell'odore. Raccolse la valigia e aspettò che i battenti si richiudessero. Poi andò alle scale di servizio e scese i dieci piani fino all'atrio. Alle undici e mezzo era in College Street, seduto a bordo della sua automobile ormai da una ventina di minuti. Le portiere erano bloccate e i finestrini alzati. La radio trasmetteva Rickie Lee Jones. Stryker non era in casa e la Cadillac non era parcheggiata nella via. A una delle finestre del piano superiore c'era Billy Bentley, appoggiato ai gomiti. A mezzogiorno Richard e Billy erano ancora ai rispettivi posti, mentre l'emittente radiofonica studentesca trasmetteva Il poeta, di Phoebe Snow. All'una Richard si sentiva dilaniato dai morsi della fame e quasi impazzito per la collera. Doveva tornare nel Connecticut ma non poteva: non poteva partire senza avere parlato a Morris Stryker. Alzò la testa verso la finestra e Billy gli rispose scrollando la sua. All'una e mezzo la Cadillac imboccò finalmente la strada. Toby Chambers scese di corsa ad aprire la portiera a Stryker. Stryker portava occhiali da sole, stivaletti neri tirati a specchio, un abito grigio di stoffa morbidissima e una camicia grigio scuro con il colletto rotondo. Una volta tanto non aveva il solito sigaro in bocca. Guidò il suo pancione in direzione di Richard, andandogli incontro con l'aria soddisfatta e tranquilla di chi ha appena finito di mangiare. «Sono stato trattenuto», spiegò, «adesso ho tempo di ascoltare i suoi progetti. Entriamo e vediamo che cosa mi ha preparato. Okay?» «Sono qui da più di due ore», ribatté Richard. «E 'sono stato trattenuto' è tutto quello che ha da dirmi?» Stryker inclinò di lato la testa e lo contemplò freddamente. «Sono stato trattenuto. Avevo un appuntamento al ristorante e invece me ne sono trovati cinque o sei. Certe volte mi succede. Vuole che le baci la mano?» «Voglio che mi baci il culo, Morris», rispose Richard. «Non posso più restare a Providence. Rinuncio a questo incarico seduta stante. Me ne torno a casa. Lei non capirebbe perché, perciò non l'annoierò con le mie spiegazioni.» Aprì la portiera della sua macchina e Stryker esclamò: «Ehi, ma le ha dato di volta il cervello? Toby! Toby!» Toby Chambers attraversò di corsa la strada lasciandosi alle spalle Mike Hagen. Stryker si allontanò per fermarsi in mezzo alla via a guardare in su con espressione annoiata.
«Me ne vado, Toby», spiegò Richard. «Sono preoccupato per mia moglie e devo tornare nel Connecticut. E poi non sopporto più il mio cliente. È uno degli esseri più sgradevoli che abbia mai incontrato e anche se lo desidererei, non posso proprio lavorare per lui. Non riuscirei a sopravvivere un'altra settimana seduto in quei ristoranti a respirare il fumo del suo sigaro. Addio.» «Il signor Stryker potrebbe fare in modo che lei non possa più lavorare», lo avvertì Toby parlando molto lentamente. «Il signor Stryker potrebbe persino decidere che merita un provvedimento disciplinare. Sto cercando di aiutarla, signor Allbee.» «Io sono ben più disciplinato del signor Stryker», replicò Richard. «E adesso togliti dai piedi, Toby.» Richard montò in automobile e chiuse la portiera. Stryker sputò per terra e tornò al marciapiede... finalmente. Richard vide che il suo cliente gli mostrava il dito medio. Era martedì 17 giugno, e Richard Allbee trovò la via che portava all'autostrada poco dopo le due. 16 Nella tarda serata Patsy McCloud era seduta sulla vecchia poltrona di pelle nel soggiorno di Graham Williams. Teneva nella mano un bicchiere pieno per metà di una bevanda annacquata nella quale galleggiavano tre scaglie di ghiaccio quasi totalmente sciolto. Graham Williams, con la sua solita maglietta e il berretto, sedeva sul divano. Come Patsy, anche lui sudava leggermente. Sul tavolo c'erano una bottiglia di gin, tre bottigliette di acqua tonica vuote e un secchiello di plastica ormai pieno per un quarto di acqua fredda. Sebbene non se ne fosse resa conto, Patsy stava piangendo il marito, provando finalmente quel senso di sollievo che non aveva provato quando lo aveva pianto in solitudine o con i suoceri. «Non ho mai raccontato ai suoi genitori che mi picchiava», disse. «Pensa, ho avuto l'occasione migliore della mia vita e non ci sono riuscita. E pensare che Dee me ne ha dette di cotte e di crude per la mia decisione di farlo cremare. Ma non ho potuto dirglielo. Come mai, secondo te?» «Perché sei una persona perbene», rispose Williams. Bevve un sorso dal suo bicchiere. «E perché, comunque, non avrebbe cambiato nulla. Sua madre avrebbe pensato che mentivi o, se era vero che ti picchiava, che te lo meritavi. In ogni caso, a un certo punto non è più giusto che i genitori sap-
piano cose del genere dei propri figli. Preferiscono ricordarli nel loro aspetto migliore.» «Non avrebbe fatto alcuna differenza, hai ragione», commentò Patsy. «Dee non ha mai capito com'era Les... voglio dire che non arrivò mai a capire che cosa gli successe dopo essersene andato da casa. Non poteva capire che cosa significasse per lui il successo e naturalmente non riusciva a rendersi conto di quali effetti avesse sulla sua personalità. Tu hai mai avuto figli, Graham?» «Mai.» Le sorrise. «Perché sorridi così? Oh, lo so. Perché mi sono dimenticata. Me lo avevi già detto. Lo avevi già detto a tutti noi. Siamo gli ultimi rappresentanti delle nostre rispettive famiglie, almeno finché non sarà nato il bambino di Richard.» Patsy si guardò attorno. «Non hai un giradischi, Graham? Mi piacerebbe ascoltare della musica. A te non piace ascoltare la musica?» «Ho una radio», rispose lui e si alzò per andare ad accenderla. Trovò una stazione che trasmetteva musica da ballo. Tenne il volume basso. «Oh, mi piace», mormorò Patsy battendo per terra il piede scalzo. «Tra poco ti chiederò di ballare con me, Graham. È meglio che ti prepari.» «Ne sarei onorato.» «Sai quando ho concluso che tu eri uno dei buoni? È stato quella sera terribile quando Les è uscito con la pistola in pugno. Ti ho visto far da scudo a Tabby. L'ho trovato un gesto meraviglioso. Hai corso un grosso rischio.» «Lo avrebbe fatto chiunque.» Graham si chinò in avanti e versò nel suo bicchiere altro gin e acqua tonica. Affondò la mano nel secchiello del ghiaccio e pescò tre cubetti semisciolti che lasciò cadere nel bicchiere di Patsy, «Questo è quello che dici tu», lo rimproverò Patsy. «Ma ti sbagli e pensi questo solo perché tu sei uno di quelli buoni. Sai che cosa ho pensato dopo? Ho pensato che c'erano tre uomini in quel momento e il mio era il peggiore. Davanti a Dio.» «Era certamente il più ubriaco.» «Guardiamo in faccia i fatti, Graham. Era il peggiore. Ma quando sono stati qui i suoi genitori mi sono tornate alla mente tante piccole cose di lui e ti confesso che vorrei ci fosse stata data una seconda occasione.» Patsy continuò a parlare di Les con emozione, un racconto confuso e contraddittorio, parole di rancore e di affetto. Continuò anche a bere, agitando il bicchiere verso la bottiglia di gin ogni volta che desiderava che
Graham gliene versasse ancora. Una o due volte sembrò sull'orlo delle lacrime. Graham Williams non era dispiaciuto di tutto questo: anzi, ne era contento. Voleva che Patsy dicesse tutto quello che le passava per la mente. Lui l'avrebbe ascoltata con serietà e pazienza. Capiva che spesso è difficile che una donna, e in particolare una donna come Patsy, venga presa sul serio e quello probabilmente era il vero motivo del fallimento della sua vita coniugale: Les McCloud aveva preso talmente sul serio se stesso da non lasciare più spazio per sua moglie. TRE La civiltà e il suo scontento 1 Sei settimane dopo la fuga di DRG-16 dallo stabilimento della Telpro a Woodville, la cittadina di Hampstead era molto cambiata rispetto a com'era prima del 17 maggio: le trasformazioni non erano così vistose come quelle che sarebbero avvenute in futuro, ma certamente niente era più come prima. Nei suoi incubi Richard Allbee vedeva ormai Billy Bentley in casa, a fracassare finestre e mobili e pronto a compiere azioni ben peggiori. Le cose erano cambiate ad Hampstead. Le maree si susseguivano sulle spiagge di Gravesend e Sawtell, campi da tennis privati e quelli del Racket Club erano sempre affollati e gli uomini si affannavano ancora a trovare un parcheggio per la loro automobile alla Riverfront Station per prendere i primi treni del mattino per New York. Alle undici della domenica mattina la popolazione di Hampstead sedeva ancora sulla terrazza del Sawtell Country Club a bere l'aperitivo e a contemplare le barche a vela al largo e gli appassionati di windsurf che filavano sulla cresta delle onde prima di fare colazione. Ma erano ormai molti i genitori che la sera chiudevano a chiave i figli nelle loro camere: nei cinque giorni trascorsi da quando Richard Allbee aveva fatto ritorno da Providence, un quattordicenne di Hampstead, un ragazzino di sette anni di Hillhaven e una dodicenne di Old Sarum si erano annegati nello Stretto di Long Island. Ormai c'erano stati quattro omicidi; un altro era seguito a quello di Bobby Fritz. Le donne che rimanevano sole in casa erano diventate assai prudenti quando si trattava di rispondere alla porta, tanto che i fattorini dei grandi magazzini spesso non si prendevano più nemmeno la briga di suonare il campanello ad Hampstead: lasciavano i loro pacchi davanti all'u-
scio, bussavano con forza e se ne andavano. Nessuno usciva più da solo a fare jogging per le strade, ma sempre in coppia o in gruppi di tre. C'erano sempre le partite di tennis e i pranzi al Country Club la domenica; la gente andava ancora a comperare birra e costolette di maiale per i barbecue, come in qualsiasi altra estate, ma ora gli argomenti delle conversazioni non erano soltanto Wimbledon o la Borsa valori o le università alle quali si sarebbero iscritti i figli all'inizio della sessione autunnale, ma anche la morte e il suicidio. Capitava di sentir discutere dell'eventualità di abbandonare Hampstead o delle possibilità di riuscire a vendere vecchie case ancora gravate da un mutuo. Altre volte le conversazioni prendevano una strana piega, toccando argomenti che nessuno capiva o voleva capire: Archie Monaghan cercò di spiegare a Tom Flynn, suo socio in affari e compagno di golf, che poco tempo dopo il terribile incidente in cui era perito Les McCloud aveva avuto la sensazione di udire e fiutare cose strane in quello stesso cespuglio che aveva tanto turbato l'amico scomparso. Ronnie Riggley avrebbe potuto rispondere agli interrogativi di quanti volevano vendere le vecchie ville coloniali. Era molto semplice: se la casa si trovava ad Hampstead, nessuno l'avrebbe voluta, nemmeno in regalo; se invece era a Hillhaven o Old Sarum, c'era un cinquanta per cento di probabilità di riuscire a regalarla. In ogni caso era impossibile venderla. Non si sarebbe riusciti nemmeno a cederla in affitto, non dopo la scoperta del quarto cadavere e il suicidio in massa di tutti quei bambini. Graham Williams vide un cartello con la scritta «Vendesi» sul prato di Evelyn Hughardt, ma non vide mai arrivare Ronnie né altri agenti immobiliari a mostrare l'abitazione ad aspiranti acquirenti. Notò invece un giorno un autocarro per traslochi parcheggiato in fondo a Beach Trail. Evelyn Hughardt controllava alcuni trasportatori che stavano portando fuori i suoi mobili. «Hai trovato un compratore, Evvy?» le domandò. La donna scrollò la testa. «Ma me ne torno lo stesso in Virginia. C'è qualcosa che non mi va, qui ad Hampstead.» Posò lo sguardo sulla sua casa dove, al di là dell'uscio aperto, un uomo stava imballando i quadri. «Le sembra sensato, signor Williams?» «Assolutamente sì», convenne Graham. Non era la sola. Come già era accaduto durante l'Estate Nera del 1873, molti avevano deciso, di punto in bianco, di levare le tende. O andavano in vacanza in anticipo o venivano presi dal desiderio di andare a trovare genitori e parenti o semplicemente di fare un viaggio. Ora c'era una casa vuota
ogni due isolati, spesso con un cartello di un'agenzia immobiliare davanti all'ingresso. Graham era sicuro che ad agosto ci sarebbero state almeno due o tre abitazioni abbandonate in ogni isolato. A quell'epoca a nessuno sarebbe più importato di riuscire a vendere la propria casa: la gente avrebbe semplicemente desiderato allontanarsi al più presto. Evelyne Hughardt lo fissò all'improvviso con occhi penetranti e a Graham non sfuggì il pallore sotto quella abbronzatura color miele né l'espressione indefinibile nel fondo dei suoi occhi, un'espressione che stonava in una bella donna come lei. «Mi domando che cosa sappia», gli disse Evelyn. Lui scosse la testa. «Io credo che ci sia un solo assassino», rispose lui fingendo che avesse alluso a questo. C'erano persone, ad Hampstead, che sostenevano che Gary Starbuck avesse ucciso le prime due vittime e che le altre due fossero morte per mano di un «imitatore». «Non è quello che intendevo, signor Williams. Ha notato che non si vedono più uccelli ad Hampstead? Parlo di uccelli vivi. Sono tutti così.» E gli indicò con la punta della scarpa un batuffolo di penne sul ciglio del marciapiede. Due tre metri più avanti c'era un altro volatile morto. «E sa che cos'altro non si vede più in questa città? Gli animali domestici. Non ci sono più animali domestici. I cani sono tutti scappati o sono stati investiti. I gatti sono scomparsi... forse sono stati travolti anche loro. Che cosa ne dice?» «È un mistero, Evvy, ma io penso che siano semplicemente fuggiti, visto che sono gatti.» «E lei trova perfettamente logico che io abbandoni l'unica casa che possiedo. Mi chiedo di nuovo che cosa sappia.» «Una cosa so: che tutto questo è già successo una volta, circa cento anni fa, quando la popolazione della città diminuì di una buona metà.» «Cento anni fa», ripeté lei con aria quasi sprezzante. «E cent'anni fa la gente udiva cose che non avrebbe dovuto udire?» Graham aggrottò le sopracciglia domandandosi dove volesse andare a parare. E lei continuò: «O vedeva cose che non avrebbe dovuto vedere? Allora lasci che le spieghi io, signor Williams. Ci sono persone, in questa città, dotate di sofisticate attrezzature elettroniche. Queste attrezzature possono essere impiegate per registrare voci che vengono poi trasmesse grazie a telecomandi. Queste attrezzature possono 'proiettare' voci dando l'impressione che ci sia una persona nella stanza accanto, signor Williams, e io credo che possano farlo anche con le immagini, non solo con la voce. Con le immagini! Immagini che si muovono. Proiettate nelle nostre stanze! E allora non le vengono in
mente certi esperimenti che i nostri cari amici moscoviti potrebbero voler effettuare su di noi, signor Williams?» Dunque Evvy Hughardt aveva abbracciato le teorie politiche «Ho sentito il dottor Hughardt che mi parlava», riprese lei. «Stanno collaudando su di me i loro macchinari, non è vero? Io sono la cavia dei loro esperimenti. Mi inviano dei raggi o onde o come diavolo le chiamano e lei non sarà forse uno dei loro colonnelli? Di solito è il grado che hanno i loro comandanti o sbaglio?» Evelyn Hughardt aveva sentito qualcosa. Aveva creduto di vedere qualcosa e da quel momento la sua mente aveva elaborato una sua teoria. «Avreste fatto meglio a lasciare in pace gli animali», sentenziò prima di voltarsi e dirigersi verso casa. Nello stabilimento della Telpro, nel Montana, Ted Wise e Bill Pierce lessero sui video dei loro computer il secondo articolo del New York Times che faceva riferimento ai tragici episodi di Hampstead. «Dobbiamo parlare», esclamò Pierce e Wise era d'accordo con lui, tuttavia chiese altro tempo: non capiva quel paragrafo sui bambini che andavano ad annegarsi, perché era un effetto non collegabile al DRG-16. Hampstead si sentiva colpita da una maledizione e non solo perché proprietà immobiliari di grande valore venivano svilite. Quello che stava accadendo sembrava un castigo biblico. Ora era come se la città volesse punire se stessa, come se il pazzo che aveva macellato quattro persone fosse stato creato dagli impulsi più remoti e segreti della cittadina, simile a un giudizio capitale sui suoi stessi valori. I valori, per l'appunto. Il castigo era per quei valori sbagliati e distorti. 2 Alle sei di lunedì 23 giugno Sarah Spry era ancora in ufficio e cercava di scrivere un articolo per la Gazette. Aveva in mente un pezzo di un certo rilievo per dimostrare che aveva ponderato a lungo e con acume. Ma qualcosa non funzionava nel passaggio dalla sua mente alla macchina per scrivere. Quando pensava una frase, dopo una lunga concentrazione, batteva i tasti della macchina per scrivere e qualche minuto dopo scopriva che gran parte delle parole scritte sembrava frutto del cervello di un folle. Non corrispondevano assolutamente a quelle che credeva di avere scritto. Il suo
primo paragrafo fu: Ci siamo crupier questo astragan da noi? Tragica magnanza per sapones di cattiva volontà. Quanti trallano di flagello, citrone i versi trovati nel giardino Robert Fritz. Sarah fissò quelle poche righe ora riconoscendo in esse le frasi che aveva immaginato di scrivere, ora vedendo solo il nonsense che aveva battuto. Scrollò la testa. Era come se le si fossero annebbiati gli occhi. Provò di nuovo e le sue dita batterono: Ora dobbiamo nuotare contro le correnti del senso di colpa che... Poi controllò il foglio. Bagnanti nudi nakt nuotano ontro, dicono Staccò di scatto le dita dalla tastiera. Sarah Henderson Spry non era stata sempre la responsabile della rubrica mondana alla Gazette. Ai tempi dei suoi esordi, quando stava terminando l'ultimo anno di università, era cronista e all'epoca era entusiasta del suo lavoro. Scoprire ciò che c'è dietro i fatti era un'impresa che l'affascinava. La Gazette era diventata la sua casa e la sua famiglia e lei non aveva mai desiderato più di quanto essa le dava. E, fra le altre cose, le aveva fatto conoscere le tragedie della vita. Aveva venticinque anni ed era ancora la più giovane fra i dipendenti quando, nel 1952, le era stato ordinato di recarsi al Sawtell Country Club per un servizio sul suicidio di John Sayre. Aveva preso macchina fotografica e taccuino e quando era giunta sulla spiaggia dietro la palazzina del circolo, il corpo di Sayre era ancora lì. Sarah aveva fotografato i poliziotti, il cameriere che aveva trovato il corpo, Bonnie Sayre e Graham Williams e, infine, facendosi coraggio, aveva trovato la forza necessaria per fotografare il cadavere. Joey Kletzka, un tempo soprannominato «Chiodo» perché per vent'anni aveva svolto la duplice attività di falegname e sbirro, era fermo, pochi metri più in là, con le mani posate sul ventre prominente e parlava di un ragazzo di nome John Ray il cui cadavere era stato ritrovato, quattro giorni prima, in quello stesso punto... All'epoca Kletzka aveva sessantatré anni e di lì a due anni sarebbe andato in pensione; tre anni dopo sarebbe morto anche lui suicida. John Sayre si era fatto saltare le cervella sparandosi dietro la nuca e Sarah aveva scattato la fotografia perché così le aveva
ordinato il suo principale, ma non aveva mai voluto vederla. Si era avvicinata a Bonnie Sayre, in lacrime tra le braccia di Graham Williams. La serata era afosa e umida. C'erano larghe macchie di traspirazione sotto le ascelle di Williams. «Non adesso, Sarah», le aveva detto lui in tono pacato, guadagnandosi il suo rispetto. Subito dopo si era guadagnato anche il suo affetto aggiungendo: «Probabilmente domani andremo all'ufficio di John. Potresti venire anche tu. Bonnie non è in condizioni di parlare in questo momento». Così era andata allo studio e anche lei aveva visto quei nomi scarabocchiati sul taccuino. Principe Green, Bates Krell. Sarah si allontanò a ritroso dalla macchina per scrivere, sbirciò ancora una volta le assurdità che aveva battuto sul foglio e rabbrividì. Bagnanti nudi. Di nuovo quelle parole, che lei non aveva scritto. Rivide i piccoli O'Hara come li aveva conosciuti, Thomas sorridente e Martin imbronciato. Andò a un'altra scrivania e dal primo cassetto tolse un blocco e una matita. «Buona notte, signora Spry», la salutò Larry passando e facendo tintinnare il suo mazzo di chiavi. «Ora è rimasta solo lei. Non dimentichi di chiudere a chiave.» «Non temere, Larry. Buona notte.» Larry uscì in Main Street e Sarah contemplò l'ufficio vuoto tamburellando con la matita sulla scrivania. Le era successo qualcosa. Era successo qualcosa a tutta la città, ma l'improvvisa anomalia di cui aveva cominciato a soffrire poteva essere la chiave per capire ciò che stava avvenendo ad Hampstead. Scrittura confusa, scrisse sul blocco, o almeno si augurò di farlo. Simile a dislessia. Che cosa poteva provocarla? Altri sintomi: sensazione di oppressione alla testa, ronzio alle orecchie. Sdoppiamento delle immagini. Stanchezza. Una malattia comune a tutti gli abitanti della città, che provoca disturbi al cervello? Macchie solari? Scorie nucleari - conseguenza di radiazioni? Scarichi chimici? Un inquinamento chimico, forse in seguito a un incidente stradale? Rilesse l'elenco che aveva compilato, annuì fra sé e cominciò un'altra colonna. Precedenti storici - storia della città. Precedenti omicidi multipli. Precedenti suicidi nella popolazione minorenne. Necessari nessi logici e storici. Elementi comuni. Si avvicinò il foglio alla faccia ed esaminò attentamente ogni parola che
aveva scritto. Invece di «omicidi multipli», aveva scritto «omicidi mutili». Corresse. Tutto il resto corrispondeva a quanto aveva pensato e ciò provava forse che scrivendo a mano e più lentamente il problema era quasi del tutto risolto. Decise di dedicarsi a una breve indagine sul suo secondo elenco e questo rispecchiava una sua caratteristica: se qualcosa aveva sconvolto la sua scrittura, si sarebbe concentrata su qualcos'altro finché la sua scrittura non fosse ridiventata normale. Avrebbe analizzato più a fondo: era il motto della sua vita. E fu anche fortunata perché la testata che le dava lavoro aveva iniziato le pubblicazioni ad Hampstead nel 1875. Era stata preceduta da un giornaletto di due pagine e, prima ancora, da un manifesto. (Negli anni 1873 e 1874 non era uscito alcun notiziario scritto ad Hampstead, ma Sarah questo non lo sapeva.) I numeri, fino a quello del 3 gennaio 1965, erano stati trasferiti su microfilm e nel 1968 un vecchio compositore di nome Bixbee aveva avuto l'idea di compilare un gigantesco indice scritto a mano per ogni numero della Gazette. Bixbee aveva lavorato giorno e notte, durante i fine settimana e le vacanze, e probabilmente la sua iniziativa gli aveva anche allungato la vita: dopo essersi ritirato dall'attività tornava lo stesso ogni giorno in ufficio a lavorare al suo indice. L'orgoglio che aveva ricavato dalla sua creazione era immenso e Sarah ricordava ancora quando dichiarava solennemente che nel suo indice c'era la storia di Hampstead. Ora esistevano due copie dell'indice di Bixbee, una a Hillhaven, presso l'Istituto di storia, e l'altra nell'archivio della Gazette, su una mensola sopra il visore di microfilm. Tutti in ufficio lo chiamavano «indice Bixbee», immortalando così il suo autore. Sarah entrò nell'archivio, accese la luce e prelevò il pesante Bixbee dallo scaffale. Lo posò accanto al visore, lo aprì e lo sfogliò fino alla O. Poi girò alcune pagine ancora, cercando la voce «omicidi». L'elenco che trovò inizialmente, le sembrò insolitamente lungo, ma subito dopo notò che gli articoli erano quasi tutti raggnippati sotto tre date ben definite. La prima era il 1898, la seconda relativa all'autunno del 1924 e il terzo gruppo di articoli si riferiva al settembre del 1952. Probabilmente era uno dei celebri «contributi» di Bixbee alla città, perché non c'erano stati omicidi ad Hampstead nel 1952. Talvolta il vecchio compositore si era servito del suo indice per trarre conclusioni che la redazione non aveva azzardato o intuito. Certe sue personali correlazioni giustificavano il vanto di Bixbee che il suo indice contenesse più informazioni
su Hampstead di quelle riferite dal giornale locale. Sarah prese il primo microfilm e lo inserì nel visore. Lo fece scorrere fino alla prima pagina del primo numero dell'Hampstead Gazette, mise a fuoco in modo da poter leggere le date senza affaticarsi gli occhi e proseguì fino al 1898. ABITANTE DI HAMPSTEAD INCRIMINATO PER IL CASO WOODVILLE, lesse nel numero indicato dal Bixbee. Tre numeri dopo: VITA SEGRETA DI GREEN. DISSIPATEZZA DOPO IL SEMINARIO. Sei mesi dopo: GREEN COLPEVOLE. La conclusione che si traeva da questi tre articoli era che Robertson Green fosse il responsabile di tutti gli assassini di prostitute avvenuti a Norrington e Woodville. L'articolo successivo riguardava un agricoltore al confine di Old Sarum che aveva ucciso la moglie con un'ascia. Sarah non prese nota di questo caso e tolse il primo microfilm per visionare il secondo. Era arrivata all'estate del 1924 e la Gazette aveva adottato caratteri più grandi ed era più facile leggere. C'era ancora pubblicità in prima pagina, ma c'erano anche dei disegni. Nei numeri segnalati dal Bixbee, le prime pagine erano occupate da fotografie e disegni di donne. Erano tre, e tutte erano state trovate morte nella zona paludosa sul lato occidentale del Nowhatan, nelle prime settimane di quell'estate, L'ONDATA DI OMICIDI CONTINUA, annunciava un grande titolo nero il 21 giugno 1924. UN'ALTRA VITTIMA? si domandava un titolo del 10 luglio sotto il quale c'era la fotografìa di una certa signora Dell Claybrook. La signora Claybrook era scomparsa da casa sua nella serata dell'8 luglio, UN'ALTRA ANCORA? si chiedeva la Gazette del 21 luglio sopra il ritratto a penna di una certa signora Fletcher, scomparsa da casa sua mentre il marito si trovava in ufficio a New York, LA SESTA VITTIMA? chiedeva ai suoi lettori la Gazette del 9 agosto. La signora Claybrook e la signora Fletcher non erano ricomparse, mentre un certo signor Horace West, rientrato da un giro d'affari, non aveva più trovato la moglie Baisy. Due giorni dopo il signor West era andato alla centrale di polizia a parlarne al capo Kletzka. E di nuovo una segnalazione di Bixbee che lasciava perplessi perché nulla aveva a che fare con l'omicidio. Si trattava di un trafiletto in sedicesima pagina sul sequestro di un peschereccio appartenente a un certo Bates Krell. A quanto risultava il signor Krell aveva abbandonato improvvisamente Hampstead e l'articolista lasciava intendere che l'avesse fatto per sfuggire i creditori che lo volevano in galera.
Bates Krell? pensò Sarah. Ma dove...? Forse Bixbee intendeva indicare in Krell l'ultima vittima dello sconosciuto omicida del 1924? Probabilmente sì, tuttavia c'era qualcosa di familiare in quel nome, che ancora le sfuggiva. Quando passò al microfilm successivo, quello relativo al 1952, si trovò davanti agli occhi il primo articolo importante scritto da lei per la Gazette. JOHN SAYRE SI TOGLIE LA VITA. C'erano anche due delle fotografie che aveva scattato lei stessa in quella terribile giornata. Bonnie Sayre che piangeva e il retro del Country Club con il breve tratto di spiaggia. Sì, ma dov'era l'omicidio? Era presumibile che Bixbee avesse stilato il suo bravo elenco di suicidi; allora perché quello, che era senza ombra di dubbio un suicidio, era stato inserito fra gli «omicidi»? Nessuno aveva mai lontanamente messo in dubbio che John Sayre si fosse tolto la vita. Per scrupolo Sarah andò a controllare sotto «suicidi», trovò la data e... eccolo al suo posto. Guardò i suoi appunti. Sul lato sinistro del foglio giallo, lontano dalle osservazioni più dettagliate, aveva scritto: 1898, R. Green 1924, seconda ondata di uccisioni (B. Krell scompare) Ora aggiunse: 1952, J. Sayre (?) E sotto: 1980, Friedgood, Goodall, altri. E guardando quelle note ricordò: ricordò se stessa nell'ufficio di John Sayre, dove la moglie e la segretaria piangevano abbracciate, ricordò di essersi avvicinata alla scrivania dell'avvocato con Graham Williams e di avere visto due nomi scarabocchiati sul taccuino. Principe Green, Bates Krell. Ne aveva forse parlato al vecchio Bixbee? Questo non lo rammentava più, ma Bixbee li aveva elencati insieme nel suo indice. Un assassino di prostitute, un pescatore scappato dalla città (o forse ucciso), un rispettato consulente legale. Quale collegamento poteva esserci fra costoro? E fra loro e
quello che stava accadendo ad Hampstead nel 1980? Sarah cerchiò con un tratto di penna ciascun nome e ciascuna data, poi si sedette davanti al visore. Aveva notato che c'era un intervallo di circa trent'anni fra ciascuno di questi episodi. A parte il periodo 1950-52, ogni trent'anni si erano verificati casi di omicidi plurimi ad Hampstead. No, si corresse: Robertson Green aveva ucciso a Norrington. Dunque, una volta per ogni generazione c'erano state morti violente attorno a Hampstead... A un tratto l'ufficio della Gazette le sembrò buio e freddo. Spense il visore. Già sapeva che se avesse frugato negli archivi avrebbe scoperto che quei ricorsi storici si ripetevano puntualmente fin da quando esisteva il giornale... e prima ancora, forse in epoche in cui l'uomo non abitava nemmeno quella costa del Connecticut, c'erano stati animali che impazzivano e si attaccavano a vicenda, orso contro orso e lupo contro lupo, ogni trent'anni... Aveva voglia di nascondersi. Quella fu la prima reazione istintiva di fronte a ciò che riteneva di avere scoperto. Aveva voglia di spegnere tutte le luci e di andare a rannicchiarsi in un angolo aspettando che il pericolo passasse. Ma siccome era Sarah, andò al telefono. 3 Nel momento in cui Sarah Spry allungava la mano verso il telefono, poco dopo le sette di sera, un uomo in completo di tweed e soprabito - abbigliamento decisamente fuori stagione - sgusciava fuori da un localino porno della Quarantaduesima Strada Ovest di New York. Guardò da una parte e dall'altra e proseguì in direzione est verso l'Avenue delle Americhe. Teneva le mani sprofondate nelle tasche del soprabito, ma quel poco che rimaneva scoperto sotto le maniche spiegazzate mostrava che aveva mani e braccia bendate, come del resto la faccia. Quando ebbe l'impressione che uno dei frequentatori abituali della via, uno di quei tipi minacciosi che passano tutto il loro tempo nella Quarantaduesima, gli dedicasse eccessiva attenzione, si mise sulla scia di un'adolescente dai capelli ossigenati e attillati calzoncini di raso, ignorò il suo invito bisbigliato e si infilò nell'ingresso di un ex cinema. In qualunque città un tipo che si aggirasse tutto bendato come L'uomo invisibile, con soprabito e cappello in pieno giugno, susciterebbe una certa curiosità, in qualsiasi città un uomo così vestito avrebbe attirato sguardi perplessi, provocando esclamazioni di stupore. Ma trattandosi della Qua-
rantaduesima Strada quasi tutti coloro che notarono Leo Friedgood a caccia di soddisfazione sessuale lo presero per uno svitato come tanti altri. Un uomo di nome Grover Spelvin scorse Leo infilarsi nell'ex sala cinematografica e diede una gomitata all'amico accanto a lui. «Ehi, Junior, ti sei appena perso la Mummia.» «Bah», commentò Junior. Leo sapeva che la sua sortita nel più sordido quartiere di New York era un rischio, ma aveva giustamente calcolato che, mostrandosi sufficientemente eccentrico e sicuro di sé, con tutta probabilità se la sarebbe cavata senza danno: mostrarsi eccentrico e debole sarebbe stato un invito a nozze per gli aggressori. Naturalmente era sempre in pericolo nel senso che la minima lacerazione al suo rivestimento di garza sarebbe stata fatale e per questo era costretto a essere più furtivo di quanto avrebbe desiderato. Gli restava la naturale arroganza come difesa. Riteneva che in quel luogo il denaro fosse un lasciapassare universale e infallibile. Ma oltre a questo c'era il fatto che non sapeva stare lontano da posti come quello. Leo Friedgood era un voyeur. Per ottenere il massimo piacere sessuale Leo doveva vedere o immaginare altri intenti a fare l'amore. A letto con Stony era abituato a fantasticare sugli altri uomini che l'aveva incoraggiata a conoscere. I suoi incoraggiamenti erano stati subdoli - infatti Leo non glielo aveva mai detto esplicitamente - ma non per questo meno efficaci. Dopo la morte di Stony Leo aveva pensato che fosse finita anche la sua vita sessuale. Ricordava ancora l'umiliazione di fronte a Tartaruga Turk, una vergogna che somigliava a una lapide sulla sua vita sessuale. La comparsa delle prime macchie bianche sul suo corpo e la loro inesorabile diffusione avrebbero facilmente messo la parola fine ai desideri carnali di Leo, ma per uno strano meccanismo perverso, più le macchie bianche si diffondevano sul suo corpo, più ossessive diventavano le sue fantasie erotiche. Non era più in grado di partecipare direttamente, ma la sua partecipazione era sempre stata di secondaria importanza. Aveva tagliato i ponti con la Telpro e il generale Haugejas e nessuno alla ditta sapeva che fine avesse fatto; ma gli era stato impossibile tagliare i ponti anche con le sue fantasie più lubriche. E queste lo avevano guidato alla Quarantaduesima Strada. Senza essere notato passò davanti a una fila di cabine nelle quali per un quarto di dollaro si poteva assistere a una proiezione di due minuti di pellicole pornografìche, spinse un biglietto da cinque dollari sotto gli occhi di un uomo calvo in una gabbia e ne ebbe in cambio una manciata di monete
insieme con un sussulto involontario alla vista delle sue bende. Quindi si chiuse in una delle cabine e consumò un dollaro per osservare quattro liceali che si facevano un uomo magro con un pene incredibilmente ricurvo. Uscì e andò in fondo al vecchio cinematografo passando sotto un vecchio arco su cui spiccava una scritta: «Ragazze nude dal vivo 25 c.». Su una parete circolare si apriva una serie di porte. Leo ne scelse una sulla quale la luce rossa non era accesa, entrò nell'oscurità e inserì una moneta nella fessura. Una lastra di metallo si sollevò lentamente scoprendo una finestra affacciata sull'interno della stanza circolare. Leo vide un locale ben illuminato, con una falsa pelle di tigre sul pavimento e un divano ricoperto di plastica in un angolo. Nella parete di fronte si aprivano altre finestre, metà delle quali inquadravano facce di uomini eccitati e con gli occhi lucidi fissi sul corpo della donna che ballava al centro al ritmo di una musica di Bruce Springsteen. Era una splendida, piccola ragazza portoricana, giudicò Leo quando la ballerina si esibì in una piroetta e spinse il suo cespuglietto di peli verso la sua finestra, diciassette anni al massimo. Quando la lastra di metallo cominciò a ridiscendere, Leo fu lesto a infilare un altro quarto di dollaro nella fessura. La ragazza si spostava pigramente da una finestra all'altra, piegandosi all'indietro lascivamente. Leo respirava lentamente, quasi incantato: immaginava quella ragazza, sicuramente una prostituta e probabilmente tossicodipendente, mentre, posseduta da più uomini, si dimenava facendo ondeggiare il sedere e stringendo le belle cosce tornite attorno a quelle di un uomo dopo l'altro. Poté abbandonarsi alle sue fantasticherie solo per la durata della moneta successiva; poi la piccola adolescente portoricana si coprì con una vestaglia e lasciò il posto a una rossa che iniziò il suo numero facendo schioccare le dita a tempo di musica. Allora Leo si calcò meglio il cappello sulle bende della fronte, si rialzò il bavero del soprabito e lasciò il locale. «Sex show, sex show», gli bisbigliò subito un negro in strada. Era esattamente quello che aveva in mente anche lui, ma questa volta desiderava un'esibizione autentica, non un frettoloso facsimile. Scese a passo svelto per la via. Si stava dirigendo a un club che già conosceva, poco oltre l'incrocio con la Settima Avenue. Lo aveva scoperto nel 1975, l'anno nel quale i Friedgood si erano trasferiti all'est, e consisteva in pratica di due locali divisi da un vetro unidirezionale a disposizione di tutti coloro che condividevano i gusti di Leo. «Non è la Mummia, cazzo», brontolò Junior Bangs osservando Leo
scomparire su per le scale dietro una porta attigua a un cinema specializzato in film dell'orrore. «Quel cartoccio va su a farsi lo spettacolino. Bah, non è la Mummia, non quella vera.» «Vedremo quando riporterà giù il suo battacchio, Junior», ribatté Grover infilandosi le mani nelle tasche dei jeans e disponendosi all'attesa. Leo era in cima alla scala. Aprì la porta su cui era scritto: «Ez Studios» e una ragazza di colore con una parrucca bionda gli sorrise e gli domandò: «È già stato al nostro club?» Leo annuì. «Si è ustionato?» chiese ancora la ragazza. «Cioè, avevo un'amica che si è conciata in un modo che non le dico. È andata in giro tutta bendata per due mesi buoni. Oh, sono trentacinque dollari.» Leo prese il denaro dalla tasca del soprabito e lo contò sul banco. «Perfetto», disse la ragazza. Gli elargì un ennesimo sorriso, si alzò e lo scortò in una stanza dove alcuni uomini di mezza età sedevano su seggiole metalliche davanti a una finestra. Al di là del vetro c'era una stanzetta con un letto sfatto sul pavimento nudo. La ragazza premette un pulsante e annunciò: «Lo spettacolo ha inizio. Ogni spettacolo dura quindici minuti. Se vi trattenete per il prossimo numero, dovrete pagare di nuovo. Chi resta, paga». Nella stanzetta fecero il loro ingresso una giovane donna bianca e un negro grande e grosso. Si sistemarono subito sul letto e Leo si sentì deluso. Quando era stato lì, cinque anni prima, la coppia era di razza bianca e si era accarezzata e baciata a lungo prima di mettersi a letto. Quel maschio di colore, invece, sembrava imbronciato e annoiato. Strizzò una natica alla ragazza e se la rovesciò sopra. Lei si mise ad andare su e giù su quel corpo massiccio fingendo di eccitarsi. L'uomo non arrivò nemmeno ad avere un'erezione, era talmente annoiato che non si prese nemmeno la briga di celare il pene flaccido. Qualche minuto dopo la ragazza finse un orgasmo, abbandonò immediatamente il letto e scomparve dal riquadro della finestra, probabilmente in attesa della successiva esibizione. Pochi secondi ancora e anche l'uomo se ne andò. Leo era furibondo. Cinque anni prima il coito era stato autentico, non simulato. Si sentì derubato. Un ometto con la faccia da roditore lo guardava con espressione strana, un po' perplesso, ma anche solidale. «Lo so», brontolò. «Non fanno più sul serio. Li hanno beccati un paio di volte e adesso devono limitarsi. Ma se vuole vedere una scopata autentica, posso organizzargliela io. Cento dolla-
ri.» Si era avvicinato a Leo e quando la negra con la parrucca bionda venne a riscuotere di nuovo gli bisbigliò: «Mi segua. Ha i cento dollari?» Leo annuì e l'ometto sfrecciò via precedendolo per le scale. Quando uscì in strada anche lui, lo trovò che l'aspettava nervosamente sul marciapiede con una sigaretta incollata a un labbro. Era sulla sessantina, e doveva aver sempre fatto il ruffiano. «Ottava Avenue», gli disse incamminandosi al suo fianco. «La Mummia si trasferisce», osservò Grover Spelvin avviandosi con Junior Bangs dietro Leo e il vecchietto. «Già, ma in compagnia di Al Factotum», borbottò Junior. «Al Factotum lo sta portando da quel gamberetto di Mona Minnesota e da quello scopatore forsennato di Mastino. Io non voglio averci niente a che fare con quel maglio.» «La Mummia ne verrà fuori», affermò Grover. «Già. In bolletta», commentò Junior. Davanti a loro, Al Factotum guidò Leo Friedgood sull'altro lato dell'Ottava Avenue, nell'atrio di un edificio di mattoni grigi che si chiamava Hotel Spellman. Il portiere guardò dall'altra parte e Al accompagnò Leo su per le scale buie fino al secondo piano. «I soldi», gli chiese fermandosi nervosamente davanti a una porta. Leo contò cento dollari e li posò fra le mani tremanti dell'ometto. «Okay, okay. Io busso, entriamo insieme e poi me ne vado, capito? Qui è sul serio. Avrà quello che cerca, mister. Fino in fondo.» Lanciò un'occhiata rapida e nervosa alla faccia bendata di Leo e poi batté due volte le nocche sulla porta. Un uomo con enormi bicipiti ricoperti di tatuaggi venne ad aprire. Unico capo d'abbigliamento era un paio di mutande bianche di cotone. Quando indietreggiò per lasciarli entrare in una celletta maleodorante, muscoli possenti guizzarono nei suoi polpacci e nelle cosce. I capelli biondi erano quasi rasati in certi punti e lunghi un paio di centimetri in altri. Evidentemente se li era tagliati senza nemmeno guardarsi allo specchio. «Ti ha pagato, Al?» «Sicuro, Mastino.» Mastino esaminò Leo dalla testa ai piedi e sogghignò: «Gesùùù Cristo. Guarda che robetta. Una vera rarità». Leo si spostò per tenersi alla larga da Mastino e notò una ragazza smilza e sonnacchiosa che lo fissava con indolenza da un letto disordinato. Era bionda anche lei, pettinata in modo da scoprire la faccia, e i capelli erano aggrovigliati quanto il lenzuolo che la ricopriva. «Ci vediamo dopo», salu-
tò Al scomparendo dietro la porta. Mastino stava ancora osservando Leo e scrollava la testa per l'incredulità. Leo aveva cominciato a sentirsi preoccupato quando Mastino gli aveva chiesto: «Puoi parlare? Riesci a parlare attraverso quella roba?» «Sì», rispose Leo. «Per piacere. Ho pagato.» «Senza indugi», rispose Mastino alzando le mani al cielo. Fasci di muscoli gli si gonfiarono nelle braccia. «C'è qualcosa di speciale che vorresti vedere? Tutto quello che vuoi.» «Mi basta che tu ti metta a letto con la ragazza.» «Sicuro, sicuro, mi metto a letto con la ragazza. Come dici tu, turista.» Mastino si calò le mutande e Leo vide che i suoi tatuaggi finivano alla linea della vita. «Tu sistemati là. Da dove si vede meglio», gli ordinò Mastino indicandogli una seggiola che si trovava a circa un metro dal letto. Leo si rese conto che l'odore che aleggiava nella stanza gli ricordava quello del brodo di gallina. Prese posto sulla seggiola di legno e guardò Mastino sollevare il lenzuolo dalla ragazza distratta. Il suo pene era già eretto. La ragazza aveva un corpo da adolescente, ma seni enormi e un po' cascanti. Mastino si inginocchiò fra le sue gambe aperte. Proprio davanti a Leo, sul lenzuolo c'era una macchia marrone che aveva la forma dello stato della California. Leo cominciò a gemere mentre Mastino finiva di eiaculare: quello era l'atto autentico, quello che gli era stato negato al club, e mentre Mastino sussultava sul corpo inerte della ragazza Leo boccheggiava e tremava. «Okay, amico», esclamò Mastino tirandosi a sedere sul letto. «Hai visto quello per cui hai pagato, giusto?» Leo annuì alzandosi in piedi. «Ehi, guarda che qui ci danno la mancia», gli rammentò Mastino alzandosi a sua volta. La ragazza continuava a fissare Leo con la bocca aperta. Mastino si mosse e andò a fermarsi fra Leo e la porta. «Ci piacciono le mance.» «Certamente», rispose Leo e si tolse di tasca un biglietto da venti dollari e lo consegnò a Mastino. «Tu sei proprio speciale», commentò Mastino. «Ehi, hai voglia di farti Mona? Per altri cinquanta puoi farle tutto quello che vuoi. Mona ti succhierà via tutte le bende, amico, una per una.» Così dicendo assestò a Leo una pacca violenta al petto. Leo grugnì e Mastino indietreggiò di un passo tenendo la mano alzata come se si fosse scottato. Rughe profonde gli comparvero sulla fronte. «Di
che cosa cazzo sei fatto, tu?» La faccia di Mastino era diventata sospettosa. «Gesù...» Si voltò verso la ragazza. «Gesù, Mona, guarda il soprabito! Guardati il soprabito, amico.» Leo era affannato. Avvertiva un'orribile sensazione di discioglimento al petto. Una grande macchia scura si andava allargando sul soprabito. «Lasciatemi stare», ansimò. «Non toccatemi. Lasciatemi andare via.» Mastino avanzò con la faccia contorta e gli occhi così serrati che sembrava non avere più pupille. Leo alzò le mani. Mastino gli toccò il mento con un gancio sinistro e lo colpì con forza alla tempia con il destro. Le bende si sciolsero e schiuma bianca schizzò per la stanza, simile a saponata soffiata dal vento. Leo stramazzò a terra mentre quella sostanza bianca e spumosa scorreva tra le bende scomposte. Nel giro di dieci minuti Leo Friedgood era ridotto a una matassa di indumenti fradici, ossa lucide e un mucchietto di bende in una pozzanghera vischiosa. Aveva con sé solo denaro contante, che Mastino prelevò dalla tasca del suo soprabito. Leo Friedgood era appena stato cancellato dalla faccia della terra. Trenta minuti più tardi Grover Spelvin e Junior Bangs videro Mastino e Mona Minnesota uscire dall'Hotel Spellman. I due amici si erano appostati vicino a un lampione, sull'altro lato del viale, e quando la sagoma di Mastino si delineò dietro la porta Grover si raddrizzò all'istante e diede una gomitata a Junior Bangs. «Sono loro. Coraggio, Mummia.» Sbucò in strada anche Mona Minnesota, che si mise a trotterellare dietro Mastino. Entrambi portavano dei sacchetti di carta marrone pieni di macchie irregolari. Grover e Junior attraversarono la strada con il rosso e si misero a pedinare Mastino e Mona. «Ma dov'è la Mummia?» si chiese Junior. «Sono ore che aspettiamo e adesso dov'è andata a finire?» Mastino lasciò cadere il suo sacchetto di carta in un bidone per le immondizie e aspettò che Mona mettesse dentro il suo. Poi si incamminarono a passo più lento per il viale con l'aria inequivocabile di una giovane coppia a caccia di un ingente quantitativo di droga. «Merda», gemette Grover. «Che il diavolo mi porti», gli fece eco Junior. «La Mummia non c'è più», sentenziò Grover. «Mastino l'ha fatta fuori.» I due raggiunsero il bidone dove troneggiavano i due sacchetti di carta. Delicatamente Junior Bangs aprì il sacchetto di Mona e sbirciò all'interno. Allora si mise a ridacchiare. Quando vide la faccia imbambolata di Grover rise apertamente. «Grover», gli disse piegandosi in due per il gran ridere, «Mastino ha affogato la Mummia, l'ha affogata nel sapone da barba. Ah!
Ah!» Diffidente, Grover Spelvin infilò un dito nel sacchetto. Guardò dentro e scrollò la testa. «Questo non è sapone da barba. Questa è la Mummia. Porco cane, sai una cosa?» Si voltò verso Junior con un'espressione di meraviglia. «Mastino l'ha fatto fuori, ma quella era proprio la Mummia, come nei vecchi film!» «Quel fottuto Mastino!», esclamò Junior scuotendo la testa. «Sotto quelle bende era tutto succo e ossa», dichiarò Grover. «Era la vera Mummia. Porco cane.» «La Mummia», ripeté Junior. «Chissà quanti soldi aveva?» rifletté a voce alta Grover. 4 «Ti sono veramente grata del tuo aiuto», disse quella sera Sarah Spry a Ulick Byrne. «Sai, non mi era mai successo prima di dover scomodare altri per questo genere di cose. Facevo tutto da sola.» «Lo so, lo so», rispose l'avvocato. «Sono anch'io così, ma siamo amici, Sarah. E mi pare di capire che preferisci che Brockett e gli altri della Gazette non ne sappiano niente finché non ti sentirai pronta.» «L'hai detto. Sto seguendo un'intuizione, Ulick. Brockett mi prenderebbe per matta, perciò dovresti essere così gentile da controllare nei tuoi archivi se ci sono stati incidenti industriali, o cose del genere, da queste parti nell'arco degli ultimi due mesi... E se non c'è niente, vorrei che controllassi l'eventualità di macchie solari o simili. Io lavorerò su un'altra linea e naturalmente ti comunicherò tutto quello che troverò. Stanno succedendo cose un po' strane dalle nostre parti.» Quella non era una novità per Ulick Byrne. Nelle ultime due settimane una metà dei suoi clienti aveva dato segni di gravi psicosi e ormai Ulick Byrne cominciava a temere di essere fuori di testa come gli altri. Una delle sue clienti, per esempio, si era ammazzata correndo. Con un eccesso di peso di almeno una ventina di chili, non si era mai sottoposta ad alcuna fatica fisica oltre a quella di sollevare il telecomando del suo televisore. Poi, un bel mattino, era uscita prima di colazione e si era messa a correre. Tre ore dopo le avevano ceduto contemporaneamente muscoli e cuore. A ben vedere, rifletté Ulick Byrne, esaminando il comportamento dei suoi clienti, si poteva tracciare un quadro generale di quello che stava accadendo ad Hampstead.
George Klopnik, distinto e prosperoso commercialista di Woodville, si era presentato un giorno nel suo studio con una strana luce negli occhi e deciso a intentare causa al governo degli Stati Uniti con l'accusa di avergli dato false speranze. Chiedeva un risarcimento di venti milioni di dollari per danni morali. Poi c'era stato il caso di Rogers Thornton, ricchissimo titolare di una ditta d'importazione di mobili. Thornton aveva capelli d'argento e la classe che contraddistingue chi abita in Mount Avenue e riveste la carica di presidente di una florida azienda; ma il pomeriggio di martedì 17 giugno si era avvicinato a una graziosa liceale in Main Street e le aveva detto: «Ho un cazzo particolarmente bello. Vuoi che te lo mostri?» Adesso Thornton era in libertà provvisoria, ma i genitori della ragazza volevano che fosse messo in galera per sempre se non fossero riusciti a farlo castrare. Seraficamente lui aveva commentato: «Forse non mi sono spiegato bene, signor Byrne, ma è vero che ho un cazzo particolarmente bello. La circostanza deve ben valere come attenuante, non crede?» Meritano un accenno anche Maggie Nelligan e la sua amica Kathryn Hoskins che una mattina erano entrate ai grandi magazzini Bloomingdale e avevano ordinato pellicce per un valore di centosettantamila dollari. Durante un colloquio con il direttore del reparto che chiedeva garanzie sulla loro solvibilità, erano montate su tutte le furie dichiarandosi proprietarie del negozio. C'erano poi innumerevoli stranezze che Byrne constatava con i propri occhi in giro per la città. Gli spazzini non si erano fatti vedere a casa sua per un'intera settimana, per comparire infine due volte lo stesso giorno ghignando come matti; il tassista che lo aveva trasportato dalla stazione alla sua casa di Redcoat Grove era riuscito a perdersi, nonostante lo avesse accompagnato almeno altre due volte in precedenza; la cassiera di un ristorante aveva cercato di fargli pagare sei volte la stessa fetta dì arrosto di vitello ed era scoppiata in lacrime e singhiozzi quando lui aveva protestato ed era sicuro di avere visto dalle finestre del suo studio un'anziana signora mangiare di nascosto erba e zolle prelevate da uno dei grandi vasi che ornavano il parcheggio privato. E non era forse vero che scoppiavano più risse del solito e che la gente era diventata più irascibile? Solo due giorni prima, in quello stesso parcheggio, aveva visto due studenti fare a botte fino a ridursi all'incoscienza. Aiutando Sarah poteva almeno sperare di distogliere la mente da quei fenomeni inquietanti.
Le telefonò due giorni dopo. Dalla sua ricerca era emerso un solo dato rilevante. «Non so se ti può servire, Sarah, comunque, per dimostrarti che condivido la tua causa, ho scoperto che il 17 maggio si è verificato un incidente in un laboratorio chimico di Woodville, che è costato la morte a un paio di persone. La ditta è la Woodville Solvent e da quanto risulta i due tecnici sono morti per avvelenamento da ossido di carbonio.» «Be'», commentò Sarah. «Non mi sembra un gran che. Speravo in qualche forma d'inquinamento, magari in autostrada... Un momento! Hai detto che è stato il 17? Ma è il nostro giorno! La signora Friedgood fu uccisa il 17 maggio. E ti rivelerò un'altra cosa accaduta contemporaneamente. Parlo di quel terribile incidente in autostrada, con otto persone morte. Non ti sembra che cominci a diventare difficile parlare di coincidenza, Ulick?» «Gesù, ho un mal di testa che non ti dico», rispose Byrne, «però devo convenire con te. Perché...» «E guarda il diciotto», s'infervorò Sarah. «Ricordi che cosa successe il 18, Ulick? Cinque persone morte all'improvviso. C'è tutto sulla Gazette. Eravamo così presi da quel terribile omicidio che a nessuno di noi è venuto in mente di cercare qualche altro collegamento. Però è ancora troppo presto perché esponga queste mie congetture, anche se questa volta forse abbiamo cominciato a delineare un quadro generale.» «Be', questo quadra con quanto stavo per dirti», replicò Byrne. «Non so nemmeno io come metterla, Sarah, però secondo me il nesso c'è a causa di Leo Friedgood.» «Il marito.» «Infatti. Leo Friedgood è un funzionario della Telpro Corporation. Lavorano molto per il ministero della Difesa, oltre a numerose altre attività. Ebbene, la Telpro era proprietaria della Woodville Solvent. Lo so perché mi sono occupato di certe questioni legali durante la transazione. In quell'occasione preferirono non far intervenire un avvocato di Woodville.» «Abbiamo evidentemente trovato qualcosa, anche se non so ancora che cosa», concluse Sarah. «Cerchiamo questo Friedgood e parliamogli.» «E poi sperimenterò su di te alcune delle mie idee strampalate.» «Quattro risate in compagnia mi faranno bene», accettò Byrne. «Sembra che tutti i miei clienti più rispettabili abbiano deciso di finire dietro le sbarre.»
5 Quel martedì, quando Richard Allbee tornò a casa, Laura andò ad aprirgli la porta: lui lasciò cadere le valigie sul pavimento e la tenne stretta fin quasi a soffocarla. Poi, sempre tenendola per le spalle, indietreggiò di un passo per contemplarla. Il suo viso era radioso, i suoi capelli puliti e soffici, il ventre visibilmente più rotondo. Tutto quello che riuscì a dirle fu: «Dio, come mi sei mancata. Ti trovo così bene». Quella notte le raccontò tutto di Morris Stryker e della casa di College Street, di quegli interminabili pasti in ristoranti dozzinali, di quegli individui equivoci che venivano a confabulare con Stryker, del modo in cui Stryker aveva bocciato tutti i suoi progetti. «La conclusione è che le nostre entrate si sono ridotte di una buona metà», finì, tirando le somme. «Ma non voglio che tu ti preoccupi. Qualcosa succederà. Ne sono sicuro.» «Io ne sono più sicura di te», rispose Laura. «Scommetto che nel giro di due o tre anni al massimo, avrai tanto di quel lavoro che sarai costretto a rifiutare qualche cliente. Fidati di me. Io ho una sfera di cristallo.» In effetti, nonostante la congiuntura economica avversa, gli Allbee sopravvissero per tutta l'estate e l'autunno al diluvio mensile di fatture e bollette. In quel periodo, grazie al fatto che Richard lavorava vicino a Hillhaven, i loro rapporti divennero più stretti che mai. Un giorno alla settimana andavano a New York a girare per gallerie e musei e queste puntate a Manhattan, insieme con la gioia per la ormai prossima nascita del figlio, cancellarono in Laura le ultime tracce di nostalgia di Londra. Decisero che quando il lavoro di Richard avrebbe permesso loro di spendere di più, avrebbero preso in affitto un appartamentino nel West Side da usare nei fine settimana. Il bambino nacque in una notte di settembre e Richard rimase al capezzale della moglie a ripetere tutte quelle parole inutili e incoraggianti che solo i neopadri riescono a trovare: «Sei bravissima, tesoro. Adesso devi spingere di nuovo. Così, brava, metticela tutta, adesso! Sei stata stupenda, Laura». Parlava un po' a vanvera, troppo emozionato e troppo orgoglioso di Laura per ricordare bene le lezioni che avevano seguito insieme. Ma Richard restò soprattutto stupito dal coraggio di sua moglie, dall'eroismo delle donne: rifletté che se fosse toccato agli uomini fare figli ci sarebbe stata meno gente nel mondo. Dopo dieci ore di doglie il 30 settembre al Norrington Hospital nacque Coso, tre chilogrammi e duecento, cinquantasei centimetri di lunghezza,
salute ottima... e femmina, come Richard già sapeva. Il giorno seguente, Richard e Laura decisero di chiamarla Philippa per il semplice motivo che il nome piaceva a entrambi. «Philippa?» esclamò l'infermiera, una gioviale negra dalla chioma ispida. «Ma che fine hanno fatto i bei nomi di una volta, come Mary e Susan? Possibile che nessuno li usi più?» Quattro giorni più tardi gli Allbee portarono la figlia nella loro bella casa nuova di Beach Trail. Richard aveva finito di sistemare la stanza che avevano scelto per la bambina, ma per il resto la casa era tutt'altro che finita, le tubature vibravano rumorosamente e l'impianto elettrico era ancora provvisorio. Come Richard aveva già confessato a Laura da anni, la casa del restauratore è sempre l'ultima a essere restaurata. «Meno male che non sei un ostetrico», aveva commentato Laura. Più Philippa cresceva più somigliava a Laura (stessa delicata sfumatura di rosso nei capelli) e fin dal principio quella bimba dolce, dall'espressione curiosa, conquistò il cuore di suo padre. Richard e Laura non pensarono mai ad avere un altro figlio; Philippa aveva tutto il loro amore e riempiva completamente la loro vita. Quando Philippa compì cinque anni la iscrissero alla Greenbank Academy. Ormai la casa era completamente ristrutturata e la predizione di Laura si era avverata, seppure con un paio di anni di ritardo: Richard era in grado di accettare solo la metà dei lavori che gli venivano proposti. Ormai si discuteva seriamente dell'appartamento da affittare a New York, soprattutto perché Laura meditava di trovarsi un lavoro quando Philippa fosse stata un poco più grande. Con Philippa in quinta elementare Laura cominciò infatti a contattare numerose redazioni di periodici... e nel giro di sei mesi trovò un impiego come redattrice presso un editore di tascabili. Mentre Laura si buttava a capofitto nel lavoro, con ottimi risultati, il matrimonio degli Allbee cominciò a entrare in crisi. Mentre Laura si faceva strada nel mondo editoriale, Richard dovette a malincuore accettare che lei trascorresse tanto tempo lontano da casa, lontano da lui: per Laura il lavoro era diventato quasi importante quanto il matrimonio. Questa crisi di adattamento si protrasse per diciotto difficili mesi. Quando Philippa si iscrisse alla Brown University Richard l'accompagnò a Providence e ne approfittò per cercare sull'elenco telefonico il nome di Morris Stryker. Ma non lo trovò, come del resto aveva sospettato. Laura era ormai direttore editoriale alla Pocket Books e Richard godeva di un successo che gli pareva addirittura immeritato. Interveniva a convegni e
simposi in tutto il mondo e aveva avuto occasione di fare ritorno a Londra più di una volta in compagnia di Laura; inoltre aveva aperto un ufficio a New York oltre a quello che aveva ad Hampstead. Aveva anche assunto due giovani architetti molto interessati alle tecniche di restauro, uno dei quali, a suo avviso, altrettanto interessato a Philippa. Durante il primo anno di università di Philippa, una delle giovani scoperte di Laura scrisse un libro che cominciò a vendere immediatamente più di ventimila copie la settimana e continuò stabilmente fino a un totale di due milioni di copie; Richard ottenne l'incarico più importante della sua vita, il restauro di una famosa residenza di campagna vittoriana progettata da sir Charles Barry. In occasione della Festa del Ringraziamento di quell'anno Laura, Richard e Philippa festeggiarono insieme nella casa di Hampstead con uno splendido cenone. Bevvero come aperitivo del Dom Perignon, quindi si trasferirono in sala da pranzo a rendere onore all'oca arrostita dalla cuoca accompagnata dai piatti tradizionali, il ripieno, i mirtilli, le patate, la torta di frutta secca. Il campanello dell'ingresso squillò nel momento in cui si sedevano a tavola. Richard brontolò che doveva essere il corriere venuto a consegnargli certi progetti dall'ufficio di New York. No, disse Laura. Doveva essere il fattorino che veniva a consegnarle con un giorno d'anticipo il nuovo manoscritto del suo già celebre romanziere; si alzò e lasciò la tavola mentre Richard cominciava a tagliare l'oca. Quando Laura aprì la porta Richard lanciò uno sguardo in quella direzione, perché una folata di vento gelido aveva attraversato la sala da pranzo con l'impeto di una scudisciata. «Ehi», esclamò Richard posando il lungo coltello dalla lama ricurva. Si voltò verso la porta e in quell'istante vide Billy Bentley avanzare verso Laura. Billy camminava in quel vento gelido e gli scintillavano gli occhi. Un attimo dopo affondava un coltello nello stomaco di Laura e con gusto disumano e selvaggio spingeva la lama in su, verso il cuore. Tutto questo sarebbe potuto accadere e in parte accadde, ma non così. Richard si rotolò nel letto, sbatté le palpebre e fissò il soffitto. Non si sentiva molto in sé, ma quel briciolo di ragione che gli rimaneva era l'artefice di quella fantasia contorta e crudele. A volte era quasi arrivato a crederci; no, a volte, sdraiato nella sua camera, ci aveva veramente creduto. Aveva visto Philippa nascere e aveva visto il suo visetto quando aveva im-
parato a reggersi sulla bicicletta senza le rotelle, quando aveva ottenuto il miglior voto in un compito in classe. Aveva visto la pagina della guida telefonica di Providence, la fila di nomi tra i quali non c'era quello di Morris Stryker e aveva udito la voce di Philippa domandargli: «Che cosa stai cercando, papà?» Quelle visioni gli avevano probabilmente conservato quel tanto di ragione e, probabilmente, gli avevano anche salvato la vita perché in quegli ultimi cinque giorni aveva quasi dovuto ricordare a se stesso di respirare in quel terribile stato di choc in cui si trovava. Come Leo Friedgood si era annegato nell'alcool dopo la morte della moglie, Richard Allbee si era nutrito di fantasie. Verso le nove di martedì sera, 17 giugno, Richard aveva imboccato l'uscita 18 dell'autostrada del Connecticut, era sbucato in Greenbank Road dallo svincolo del Sayre Connector, aveva attraversato il ponte dove Tartaruga Turk aveva minacciato di buttare in acqua Bruce Norman, era passato davanti alla casa di Wren Van Horne e al bivio per la spiaggia e da Mount Avenue aveva svoltato nella Beach Trail. Nel frattempo aveva preso in considerazione numerose alternative: un guasto alla fornitura di energia elettrica, un furto in casa, Laura che cercava di mettersi in contatto con lui, non ci riusciva e partiva per Providence. Aveva bisogno di rivedere sua moglie e constatare che andava tutto bene. Fra le alternative aveva considerato anche quella di un incendio e per questo si sentì subito meglio quando riuscì a scorgere il muro posteriore della sua casa. Mentre parcheggiava l'auto nel box notò che la luce del vestibolo dell'ingresso di servizio era accesa. Prelevò la valigia dal bagagliaio, salì i gradini e aprì la porta chiamando la moglie. Entrò. Abbandonò la valigia nell'atrio. Scese il corridoio fino all'anticamera dell'ingresso principale. «Laura?» chiamò. Una delle luci del soggiorno era accesa. Vide che sulla parete più lunga Laura aveva appeso alcuni quadri. Tornò sui suoi passi e uscì di nuovo nell'anticamera. Questa volta si accorse che l'ingresso principale era aperto; e mentre notava questo particolare percepì a un tratto un odore sconosciuto e penetrante che sembrava salire dalle viscere della casa. Immobile nell'anticamera deserta accanto alla porta aperta, Richard provò l'impulso di uscire nuovamente dalla porta di servizio, tirare fuori l'automobile dal box e ripartire per Rhode Island, su fino al Main e ancora fino al Circolo polare artico e alla fine del mondo, se necessario. Si sentiva il
cuore in gola e le sue labbra bisbigliarono ancora il nome della moglie. Posò le dita sulla porta aperta, deglutì e la chiuse, poi si voltò ad affrontare la casa. Passò in sala da pranzo, vide che il loro tavolo rotondo era stato lucidato e che le seggiole erano state tolte dall'imballaggio. Accese la luce in cucina ed entrò. La cucina era vuota. Sul piano di lavoro c'erano gli aloni lasciati da uno straccio umido. Accanto al lavello, simile a una mano tranciata, giaceva il ricevitore rosso del telefono. Sul tavolino erano ammucchiate scatole di bicchieri ancora impacchettati. Una di queste scatole era caduta per terra e sulle piastrelle erano sparsi frammenti di vetro. Tutti piccoli segni di disordine. In fondo alla cucina c'era una dispensa che Richard intendeva eliminare. Era un piccolo vano con vaschette in alluminio, una lavatrice, un essiccatoio e una scaffalatura artigianale che saliva fino al soffitto. Richard si costrinse ad aprire la porta del ripostiglio; poi si costrinse ad accendere la lampadina. Dapprima non vide altro che la lavatrice e l'essiccatoio. Trattenne il fiato ed entrò. Guardò le mensole e vide uno strato denso di polvere, un vecchio paio di guanti da lavoro e alcuni vasetti di vetro con il coperchio rosso e impolverato. Quando abbassò gli occhi vide uno schizzo di sangue accanto alla lavatrice. Aveva risposto al campanello dell'ingresso, era entrata in cucina con il suo ospite... poi si era accorta di essere in pericolo e aveva sollevato la cornetta. L'uomo aveva tagliato il cavo del telefono. Laura era corsa nella dispensa e si era rannicchiata accanto alla lavatrice. Era già stata ferita. Ma poi? Non sapeva se aveva la forza di accettare quello che doveva essere accaduto poi. Tenendosi le mani premute contro le tempie, uscì dalla cucina e percorse lo stretto corridoio. In fondo, dove arrivavano le strette scale un tempo riservate alla servitù, trovò un altro schizzo di sangue. Dunque era fuggita dalla dispensa per salire le scale di servizio. Gemette posando il piede sul primo gradino. Si sentiva paradossalmente il corpo pesante e allo stesso tempo così leggero da poter salire senza sfiorare i gradini. A metà scala vide l'impronta insanguinata di un palmo di mano sulla pa-
rete accanto alla ringhiera. Sull'ultimo gradino c'era un altro schizzo di sangue già coagulato e scuro. Andò direttamente alla stanza che avevano destinato al bambino. Era la più vicina, certamente Laura aveva cercato di rifugiarsi lì. Richard si fermò davanti all'uscio, torcendosi le mani, e all'improvviso avvertì di nuovo quell'odore strano e capì che era odore di sangue. Dolcemente spinse l'uscio della camera. Appena al di là della soglia scorse sul vecchio tappeto un ammasso scuro. Gli ci volle qualche momento per rendersi conto che era carne umana e un altro momento ancora per identificarla. Laura era inchiodata alla parete di fondo, il suo sangue si era sparso ovunque, schizzando anche sulla finestra sovrastante. Richard emise un lamento da animale ferito. Accese la luce e non riuscì più a controllare il pianto. Anche Coso aveva cavalcato la groppa del Drago, quell'esserino informe che sarebbe stato la sua Philippa. Era accanto a Laura, accanto a quanto di Laura restava. Laura aveva la bocca spalancata e gli occhi sbarrati su di lui. Anche la bocca di Coso era spalancata. Richard si fermò dov'era, incapace di muoversi. Quando si accorse che lo squarcio nel ventre di sua moglie era invaso dalle mosche mandò un urlo così forsennato che lo riportò in sé. Poi indietreggiò e uscì dalla stanza. 6 L'essere che un tempo era stato il dottor Wren Van Horne sedeva nella penombra del suo soggiorno di fronte al vecchio specchio appena acquistato. In esso vedeva scene di devastazione e rovina, macerie fumanti e cumuli di mattoni, scorci senza tempo del suo strano paesaggio. Strade ridotte a mucchi di lastre di cemento, edifici carbonizzati fino alle fondamenta, ponti sprofondati nelle acque, montagne di ceneri nell'aria, lingue di fuoco che guizzavano spinte da venti feroci e lugubri colonne di fumo... Poi passò sulla superficie dello specchio un mazzo di immagini mescolate. Facce di bambini urlanti, truppe che attraversavano il viale, trincee, fango e filo spinato della prima guerra mondiale, corpi emaciati di vittime di campi di concentramento, corpi denutriti, ridotti a un ammasso di ossa... Anche quelle immagini erano senza tempo e rappresentavano insieme passato e futuro. Bambini con il ventre gonfio e la faccia grinzosa, uomini e donne curvi a raccogliere il cibo quotidiano dalle pendici brulle di un colle.
Poi, sospesi in un maroso di sangue, questo essere vide i volti di tutti coloro che erano morti dal 17 di maggio. Joe Ricci, Thomas Gay e Harvey Washington, Stony Friedgood ed Hester Goodall, Harry e Babe Zimmer e quindici pompieri, Bobby Fritz e tutti gli altri. I loro corpi rotolavano nell'onda rossa. Poi il frangente si dissolse e l'essere seduto nel soggiorno di Wren Van Horne vide plotoni di bambini avanzare nelle acque della Gravesend Beach, superare le boe e nuotare fino a essere tanto esausti da non riuscir più a sollevare le braccia fuori dalla vischiosa acqua rosata... poi li vide tornare con la corrente verso la spiaggia, corpi gonfi, coperti di fango e di grovigli di alghe. Si girò nella sua poltrona per guardare oltre le vetrate affacciate sullo Stretto. Sì. Sul frangiflutti, ai limiti estremi del prato della sua casa, c'era una folla silenziosa. Si alzò e andò alle vetrate per farla entrare. Il primo a passare dalla porta-finestra fu un bambino piccolo che indossava i resti laceri e sbiaditi di una maglietta blu. Su di essa era ancora vagamente riconoscibile l'immagine di Yoda. 7 In preda a forti dolori addominali e con la testa che gli scoppiava, Tartaruga Turk manovrava il semaforo all'angolo di Riverfront Avenue con Post Road. Era ancora convalescente dal peggiore attacco di influenza della sua vita e si rese conto che meglio avrebbe fatto a starsene a casa ancora un giorno. Vide doppio per qualche secondo e scrollò la testa. Si sentì torcere le budella. Presto avrebbe dovuto rifugiarsi per l'ennesima volta in quell'angusto pertugio di cesso all'Abrazzi Liquor, il negozio di alcolici alle sue spalle. Oltre al risentimento per essere stato praticamente abbandonato durante la malattia dai suoi colleghi, Tartaruga Turk aveva svariati motivi per essere di pessimo umore quel mattino. Tanto per cominciare il pulsante non funzionava e gli automobilisti sembravano più nervosi e indisciplinati che mai. C'era già stato un tamponamento, fatto alquanto straordinario a quell'incrocio, e un energumeno si era lanciato fuori dalla sua Audi, aveva spalancato la portiera della Ford che lo aveva urtato e aveva cominciato a picchiare di santa ragione l'ometto grassoccio seduto al volante. Tartaruga
non era riuscito ad arrivare in tempo per impedirglielo ed era stato costretto a ricorrere allo sfollagente per fermare l'aggressore. Quindi era stata la volta di una tizia con i capelli crespi color stoppa e la sigaretta appiccicata al labbro inferiore che sì era sporta dal finestrino per urlargli: «Ci sono stati quattro omicidi, maledizione! Si può sapere che cosa fate, mongoloidi? State a scaldare le poltrone?» Tartaruga l'aveva guardata con occhi torvi borbottando fra sé: «Bella mia, vuol sapere che cosa farò io appena avrò controllato a chi è intestata la sua macchina? Segnalerò il suo nome al maniaco». Poi il pulsante si era bloccato di nuovo. Ogni volta che succedeva Tartaruga era costretto ad attraversare la strada in mezzo al traffico, aprire la colonnina sull'altro lato del marciapiede e azionare un interruttore nella cassetta di smistamento; poi doveva riattraversare di corsa la strada per controllare se funzionava. Questa volta tornò indietro quasi piegato in due: ancora pochi minuti e sarebbe dovuto correre nel gabinetto di Abrazzi. Si fermò in mezzo alla strada, segnalando di rallentare. Posò il piede oltre la riga gialla. Una macchina ignorò le segnalazioni e sfrecciò a non più di mezzo metro da lui. Tartaruga non vide chi guidava, ma ebbe invece la sgradevole sensazione che al volante non ci fosse nessuno. Tuttavia, quando lanciò un'occhiata carica d'odio al lunotto posteriore dell'automobile incontrò gli occhi di Dicky Norman che lo guardavano da una faccia devastata. La faccia di Dicky era di un bianco verdastro, a parte le linee nere dove il bisturi del chirurgo gli aveva sezionato fronte e cranio. I suoi occhi erano giallastri attorno alle pupille e privi di vita, come il resto della faccia. Tartaruga lo vide muovere faticosamente la lingua come se cercasse di parlare, poi l'apparizione si perse in lontananza oltre l'incrocio. Tartaruga s'incamminò alla cieca nel traffico, con la mano alzata, ma senza nemmeno vedere se i veicoli si fermavano o no. Il fischietto gli pendeva inerte dalle labbra. Raggiunse sano e salvo il marciapiede ed entrò nel negozio di Abrazzi senza nemmeno voltarsi a controllare l'incrocio. Nel gabinetto ebbe appena il tempo di calarsi i calzoni. Tornato fuori vide che il traffico aveva ripreso un flusso normale. Mentre guardava verso Main Street scorse un gruppetto di persone che attirò la sua attenzione. Riconobbe dapprima Graham Williams, un uomo per il quale provava solo disprezzo: aveva girato le spalle al suo Paese, invece di cercare di aiutarlo. Poi riconobbe Richard Allbee, il marito dell'ultima vit-
tima; accanto a lui c'era Patsy McCloud. Tartaruga l'aveva vista crescere ad Hampstead e sapeva che aveva sposato un giocatore di football del J. S. Mill, Les McCloud, l'uomo morto carbonizzato una settimana prima in autostrada. Patsy era una ragazza proprio carina, con quegli occhioni e i capelli lunghi. Con i primi tre c'era anche un adolescente, un ragazzo che Tartaruga non riconobbe. Per un istante, prima di tornare a occuparsi del traffico, Tartaruga indugiò a fissare quei quattro che si dirigevano verso Main Street... e a questo punto accadde la seconda stranezza della giornata. Li invidiava. La sensazione lo colpì come una fitta. Percepì l'affetto che li teneva uniti e desiderò essere con loro, poter condividere quell'intimità. E in quella frazione di secondo si concesse di provare invidia. Subito dopo il gruppetto scomparve dietro l'angolo e mentre osservava la schiena curva del vecchio Williams gli sembrò che fossero cittadini qualsiasi. Premette di nuovo il pulsante, che s'incastrò di nuovo. Cominciò a imprecare e ancora una volta fu colpito dalla faccia di Dicky Norman che lo fissava attraverso il lunotto posteriore dell'automobile. Chiuse gli occhi, trasse un sospiro e premette dolcemente il pulsante con l'indice. Il semaforo cambiò con uno scatto forte e deciso. Tartaruga riaprì gli occhi con sollievo. Cristo, per un secondo aveva quasi creduto... Osservò con odio le automobili che passavano rombando all'incrocio. Per una cosa così potevano anche togliergli la pensione. Richard Allbee avrebbe parlato apertamente di quello che credeva di avere visto: in effetti, mentre Tartaruga lo guardava svoltare con gli amici in Main Street, Richard, incurante delle lacrime che gli scivolavano sulle guance, stava descrivendo le fantasie che per giorni e giorni avevano alimentato la sua mente, quelle di Laura e della bambina; e prima della fine di quella giornata avrebbe raccontato anche i sogni su Billy Bentley e quello in cui aveva fatto sgorgare sangue dalla terra. Persino Les McCloud avrebbe trovato in qualche bar qualcuno da divertire raccontando di avere visto un morto dietro il finestrino di un'automobile. Ma alla conclusione delle sue otto ore di servizio Tartaruga rientrò alla centrale e batté faticosamente a macchina il rapporto sul tamponamento, indossò abiti borghesi e uscì per tornare al camper nel quale abitava. Lì bevve cinque birre e si addormentò davanti a una partita alla TV. Si svegliò alle otto di sera, si fece la barba, si rinfrescò e uscì per recarsi al Billy O's. Il Billy O's era un locale che si trovava in una zona di Bridgeport abitata
prevalentemente da gente di colore. Ma in quel bar non entravano mai negri. Quello era un bar dei piedipiatti. Il proprietario, Billy O'Meara, aveva servito nelle forze di polizia di Old Sarum per vent'anni finché un ragazzino su una macchina rubata lo aveva travolto riducendogli un femore a pezzetti. Adesso andava zoppicando da una parte all'altra del suo bar non perdendo mai occasione di ripetere che la maggioranza degli esseri umani era peggio che merda, soprattutto se sono ragazzini, ebrei, protestanti, latinoamericani, portoricani, donne e in modo particolare se erano originari della giungla. Se una persona di colore avesse osato fare capolino nel suo bar, probabilmente Billy O'Meara sarebbe stato fulminato da un attacco di apoplessia razziale. In compagnia dei colleghi Tartaruga si dedicò ai consueti rituali di una bevuta serale e nessuno disse qualcosa che non avesse già ripetuto molte altre volte, ma, verso la fine della giornata, Tartaruga ebbe la sensazione di avere ciò che aveva invidiato al gruppetto che aveva visto per la strada quella mattina: l'atmosfera di intimità che regnava tra loro. Lui la trovava in quel baretto di sbirri nel ghetto di Bridgeport. «Ho fatto il pieno», borbottò all'una e dieci. «Comincio a vedere cose strane. Devo tornare a casa. Ancora un po' e farò la fine della vecchia Josephine Tayler. Oggi ho visto sua nipote. Un vero bocconcino. Ci vediamo.» All'una e mezzo Tartaruga smontò dalla sua automobile e cominciò a risalire la massicciata erbosa che separava il campeggio dalla strada. Il suo camper si trovava in un lotto di terreno che Tartaruga aveva acquistato dal municipio nel 1941. Accanto al terreno c'era un negozietto di generi alimentari con annessa pompa di benzina; dietro c'era un altro tratto di terreno alberato. A metà della salita Tartaruga udì dei rumori di passi: qualcuno si aggirava dietro il suo camper. «Qualche furbo», mormorò fra sé estraendo la pistola dalla fondina. Qualcuno cercava di penetrare furtivamente nella sua abitazione: quello fu il suo primo pensiero. «Vieni fuori, così ti posso vedere», urlò pensando che si trattasse di un paio di ragazzetti che se la sarebbero data a gambe verso gli alberi. «Fatti vedere, farabutto.» Arrivò ansante in cima alla massicciata e si diresse velocemente fino alla recinzione bianca che delimitava un lato della sua proprietà. Da lì vedeva il muso del camper, ma non c'era nessuno nascosto nell'ombra: «Vieni fuori», gridò e nessuno rispose. Allora raggiunse il lato posteriore del veicolo
e sbucò dall'altra parte. Sudava e aveva il fiato corto. Non c'erano ragazzini attorno al suo camper. Poi sentì di nuovo il rumore di un corpo pesante che si muove. Veniva dagli alberi dietro il suo pezzo di terra. Si asciugò la fronte con la manica. I rumori venivano verso di lui dalla parte degli alberi. «Che cosa ci fai laggiù?» strillò. «Sarebbe un gioco, questo?» Pensò a quello che aveva visto quel mattino, la faccia devastata di Dicky Norman... ... ma naturalmente non l'aveva vista. «Sono un poliziotto e sono armato!» tuonò. Allora vide la sagoma uscire dagli alberi. Troppo Jack Daniels e troppa birra. Il corpo apparteneva a Dicky Norman ed era nudo e così bianco che sembrava riflettere la luce della luna. «Non so che cosa sei, ma è meglio che mi lasci stare», disse Tartaruga spianando la pistola al petto di Dicky. Appena Dicky avanzò di un altro passo Tartaruga fu investito dall'odore. Era l'odore indimenticabile che aveva già sentito quando era alle prime armi nella polizia e avevano scoperto il corpo di un cacciatore chiuso a chiave nella sua automobile, alla fine degli Anni Quaranta. Il cacciatore si era perso in una tormenta di neve ed era morto assiderato verso la metà di gennaio. Loro lo avevano ritrovato in aprile. Tartaruga aveva aperto la portiera e aveva creduto che avrebbe vomitato per tutta la vita. Dicky disse qualcosa che si perse nel ronzio di mille mosche. Avanzò di un altro passo verso Tartaruga. 8 Due ore dopo la morte di Tartaruga Turk, Mikki O'Hara sognò nuovamente di ritrovarsi a letto con il figlio Tommy. Coccolava il suo corpicino magro e freddo, togliendogli pezzetti di alga dalla fronte e baciandogli le guance bagnate e gelide. Gli sfregò le mani sulla schiena, cercando di riscaldarlo, sebbene intontita dal sonno. Oh, come voleva bene al suo Tommy! Lo strinse a sé e avvertì punturine fastidiose contro l'anca: pensò distrattamente che fosse sabbia. Il marito russava al suo fianco e Mikki fece scorrere amorevolmente la mano sul fianco freddo del figlio. Il fango le scivolò tra le dita. Piano, piano, sempre mezzo addormentata, Mikki si rese conto che non stava sognando, era sveglia e miracolosamente Tommy era accanto a lei. Gli prese la faccia tra le mani; le ciglia di Tommy vibrarono.
Il bambino le dava la possibilità di raggiungerla: l'unica cosa che desiderava era raggiungerlo. Il mattino seguente entrambi i loro corpi erano scomparsi. Hampstead aveva varcato un'altra soglia e adesso, come Mikki Zaber O'Hara per un momento fantomatico e lirico, si trovava in bilico tra la vita e la morte. PARTE TERZA Dominio Perché abbandonasti i sentieri battuti dall'uomo Troppo presto, e con fragili mani ma cuore valoroso Sfidasti il drago indomito nella sua tana? Shellev UNO Il ventre della balena 1 Lirico; fantomatico; questi aggettivi servono solo a indicare che c'era un disordine nella materia stessa della realtà e che tale disordine influenzava la gente in vario modo, talvolta sorprendentemente piacevole. La realtà si era presa una licenza e se ciò avrebbe trasformato in un teatro degli orrori la cantina di una casa abbandonata in Poor Fox Road, solo tre erano le persone disposte a prenderne atto: metaforicamente parlando gran parte degli altri abitanti di Hampstead aveva gli occhi cuciti e le visioni singolari che danzavano sotto le loro palpebre a volte li deliziavano e a volte li intorpidivano, come le assurdità che allietano o calmano un ubriaco. Otto Bruckner aveva previsto che otto settimane dopo l'incidente alla Woodville Solvent, la vita di Hampstead e Patchin sarebbe stata sconvolta dalla sua invenzione; che orrori come quelli che abitavano le cantine di Bates Krell si sarebbero riversati per le strade; ma naturalmente non poteva immaginare che la sua invenzione si sarebbe alleata con un enigmatico colono di nome Gideon o Gidyon Winter. Lui conosceva solo la sua nube pensante e tanto gli bastava; non aveva bisogno di conoscere altro per scoprire che l'altro mondo è preferibile a questo, ma la popolazione di Hampstead non aveva simili doti di preveggenza e non poteva sospettare di trovarsi in procinto di varcare un confine. Ciò di cui la maggioranza si rendeva conto,
compresi i nostri quattro amici, era che con il passare del tempo diventava più difficile distinguere quanto avveniva nel mondo circostante da quanto si verificava nella mente. Anche su di loro era passata la nube pensante, perciò quello che Patsy e Tabby videro insieme, quello che Graham, Richard e Patsy videro mentre lottavano per salvare la vita a Tabby nel fondo di uno specchio, nelle viscere del mondo, andava preso come veniva: andava accettato secondo le sue condizioni, per quanto bizzarre fossero. Desmond O'Hara, rientrato dall'Australia per seppellire i figli, aveva compreso quelle condizioni quando si era risvegliato e non aveva trovato la moglie nel letto. Aveva cercato per tutta la casa, rabbrividendo al pensiero che potesse essere scesa anche lei a Gravesend Beach. Era stanchissimo, dopo la trasvolata, e si trovò ad assopirsi involontariamente in pieno giorno e a immaginare che Mikki gli stesse parlando, che gli chiedesse i prezzi delle pietre, che gli ridesse in faccia! Quando si svegliò di nuovo, a mezzanotte, aveva ancora la sensazione di udire la voce della moglie. Folle, pensò, e quando tornò a controllare dappertutto se fosse rientrata, ancora più pazzesco giudicò il vederla o immaginare di averla vista riflessa nel lungo specchio della sala da pranzo. Ora, questo fenomeno era lirico? Era fantomatico? Per Des O'Hara, intontito dal lungo viaggio in aereo e sconvolto dalla morte dei figli, l'esperienza della moglie che gli appariva nello specchio aveva qualcosa di entrambe queste qualità. Senza sapere perché, intuiva che non l'avrebbe mai più rivista. Era evidentemente dalla parte sbagliata dello specchio, all'interno, e lo guardava. I fiori che lei stessa aveva messo sul tavolo avevano un chiarore innaturale, la tappezzeria dietro di essi creava uno sfondo scuro intersecato da strisce bianche e questi oggetti familiari occupavano lo stesso mondo che Des abitava: la faccia atterrita di Mikki sembrava invece intrappolata sotto la lastra di un fiume ghiacciato. Il terrore le dava un'espressione quasi sorridente. Quando Des accese la luce era scomparsa. Probabilmente erano in molti a vivere esperienze analoghe. Senza saperlo erano nel ventre della balena. Esteriormente la cittadina sembrava quella di sempre, con le sue grandi ville e le grandi distese coltivate a prato. Ma molte delle grandi ville erano deserte e le finestre sembravano occhi fissi privi di pupilla, mentre i vasti prati si stavano rapidamente trasformando in campi invasi dagli sterpi e dai fiori selvatici. La gente preferiva rimanere in casa dopo il crepuscolo, perciò non vedeva gli incendi che si sprigionavano qua e là in tutta la città. Forse udivano gli schiamazzi delle bande di ragazzini che correvano ad
appiccare il fuoco alle abitazioni abbandonate, ma si tappavano le orecchie. Grida? Urla? Quando, ieri notte? Noi non abbiamo sentito niente. Be', devo dire che in questi ultimi giorni abbiamo avuto tanto da fare per preparare i bagagli, che eravamo talmente stanchi da cadere addormentati in giro per casa senza avere nemmeno la forza di metterci a letto. E poi facciamo questi brutti sogni... Se avevano buon senso si tappavano le orecchie e continuavano a fare i bagagli. Se vedevano uomini attaccare briga in Main Street affrettavano il passo per andare a rifugiarsi in casa. Ah, il mondo è una vera follia, questo lo sanno tutti ormai... Se avevano buon senso, borbottavano fra sé e sé commenti di questo tenore, continuavano a fare i bagagli e si auguravano che quei versi pazzeschi che si udivano per la strada - versi di maiali, di cani e di lupi -, cessassero in fondo all'isolato. Di notte, ogni tanto, Patsy e Tabby udivano nella loro mente i brontolii di questi individui dotati di cosiddetto buon senso. Già, bisogna dire che siamo riusciti a far stare un bel po' di roba in quel vecchio carrozzone. L'idea sarebbe di portare i ragazzi a conoscere i figli di John, dopotutto hanno lo stesso padre, è come una grande famiglia... È un po' che non vedo in giro la vecchia Ellis, anzi, saranno un paio di giorni almeno che non ci penso nemmeno. E dire che eravamo solite scambiarci un saluto tutte le mattine. Un uomo tutto ricoperto di bende, hai detto? Deve essere un caso eccezionale di eritema, non credi? Bruciata? La casa degli Ellis? Ma come ho fatto a non accorgermene! Ci passo davanti due volte al giorno! Si vede proprio che ho sempre la testa occupata dai preparativi per la partenza di domani per l'isola di Kiowah... Ma questa falsa calma nascondeva invece una fretta irrazionale, l'urgenza di allontanarsi da quella città. A Patsy e Tabby non sfuggivano questi messaggi. Durante la seconda settimana di luglio avevano visto un paio di persone con la pelle troppo lucida e rovinata e un giorno Patsy aveva udito una banda di bambini urlare: «Liquido! Liquido!» e tirare sassi a un uomo bendato che cercava di sgattaiolare dietro Greenblatt; e nemmeno loro erano più sicuri di avere conservata intatta la loro sanità mentale. Ma non potevano andarsene da lì, non potevano. Dovevano rimanere ad ascoltare tutti i suoni che arrivavano fino a loro. Tabby vedeva la propria vita e quella di suo padre scivolare lentamente
verso l'abulia che aveva caratterizzato il periodo trascorso in Florida. Clark beveva costantemente da mezzogiorno in avanti e Tabby spesso doveva alzare la voce per costringerlo a mangiare. Detestava farlo, non gli piaceva urlare con suo padre, fingendo di essere in collera, e soprattutto detestava vedere che funzionava. Qualche volta Clark gli rispondeva per le rime e altre volte abbandonava furente la tavola, ma di solito chinava la testa come un bambino e mangiava quello che Tabby cucinava per lui. Quando era a casa loro, Berkeley Woodhouse assaggiava qualche piatto, li prendeva in giro ridendo e tornava davanti alla televisione. Sembrava che l'amante di suo padre non si interessasse che alla televisione e al letto. Tabby teneva Patsy lontana dalla sua casa. Non gli sarebbe importato molto se Graham avesse visto in che stato si riducevano Berkeley e suo padre alla fine della giornata, ma si sarebbe sentito molto umiliato se Patsy avesse assistito a quello spettacolo. Era come se si fosse distratto per un attimo e in quell'attimo suo padre si fosse deciso a rovinarsi. Almeno in Florida Clark aveva dovuto cercarsi un lavoro, aveva dovuto continuare a trasferirsi da un posto all'altro, si cambiava la biancheria e la camicia; ora, invece, grazie al patrimonio del nonno era diventato abulico e inerte. Tabby pensava che se avesse annusato la mano del padre, o le sue vecchie magliette, avrebbe sentito tanfo di alcool, da tanto ne trasudavano i suoi pori. E una sera, mentre contemplava il padre che con indolenza si metteva in bocca una forchettata di purè di patate, Tabby ebbe l'impressione di vedere dietro la sua testa una luce fioca, una piccola luce spettrale che si spostava quando si spostava lui. Berkeley stava prendendo dei cubetti di ghiaccio, perciò evitò di interpellarla, ma l'impressione che aveva era che tutto l'alcool ingerito da suo padre avesse assunto forma visibile. Una mosca andò a posarsi su una mano di Clark. Clark la fissò come se fosse un uccello esotico e sollevò goffamente la mano. Quindi la calò di schianto sul tavolo. La mosca si alzò in volo e gli ronzò tra i capelli mentre sulla superficie del tavolo, o appena sotto la superficie del tavolo, si allargava una macchia di sangue scaturita dal legno. Per un momento (e questo fu fantomatico, tanto da provocare un brivido al povero Tabby) vide il volto sfocato di Berkeley sulla superficie del tavolo. Si voltò e la trovò intenta a sbattere ancora la vaschetta del ghiaccio contro il lavello. La realtà era quella e la faccia schiacciata e terrorizzata sulla superficie del tavolo immersa in una pozza di sangue era solo una visione. Quando tornò a guardare suo padre vide smorzarsi quella fiammella grigiastra dietro la sua testa, la vide scomparire come il gatto grigio descritto
da Richard.» Riprese la sua conversazione con il padre e udì nuovamente il fracasso di Berkeley al lavello; non si era reso conto che fino a poco prima un rombo nelle sue stesse orecchie lo aveva assordato. Il bracciale d'oro al polso di Berkeley gli parve rosso. Des O'Hara, che aveva perso tutto e non capiva come e ne comprendeva la ragione assai meno di Tabby, alle sei e trenta della mattina di mercoledì 9 luglio entrò nel suo box con una bottiglia piena di cognac. Montò in macchina, avviò il motore, accese la radio e bevve cognac ascoltando musica mentre l'ossido di carbonio lentamente lo uccideva. Era nel ventre della balena, lo sapeva e ne aveva abbastanza. Richard Allbee, che tutte le mattine risaliva a piedi Mount Avenue per recarsi al lavoro, pensava a sua volta che o il mondo o lui stesso avessero preso una sbandata. Troppe cose strane notava durante quelle sue camminate! Sia John Roehm, il costruttore che aveva ingaggiato per il lavoro a Hillhaven, sia il suo cliente erano a conoscenza di ciò che gli era successo; il cliente gli aveva proposto un rinvio di un paio di mesi, ma Richard, che sapeva che John Roehm aveva bisogno di lavorare, aveva insistito per iniziare il giorno stabilito. Era stata una buona idea. Dopo il primo periodo di lutto e dopo avere parlato e pianto con Graham, Patsy e Tabby, tornare a lavorare lo aiutava a distogliere la mente dalle sue tristi elucubrazioni. Riusciva a sottrarsi alla sua angoscia anche per alcuni minuti di fila osservando John Roehm. Se la falegnameria fosse stata un'arte, John Roehm sarebbe stato un Rembrandt. Forse John Roehm e il lavoro salvarono Richard dal destino toccato a Desmond O'Hara: era costretto a sobbarcarsi anche parte del lavoro fisico dal momento che i suoi aiutanti e quelli di Roehm molto spesso non si presentavano. Dimostrava almeno cinque anni di più, ma il suo corpo si stava irrobustendo. La sera piombava in un sonno profondo dopo le fatiche del giorno. Si preparava qualcosa in cucina evitando di guardare il punto in cui c'era stato il ricevitore del telefono con il cavo tranciato; consumava la sua cotoletta di maiale o la bistecca con una bottiglia di birra fredda e cominciava a sbadigliare prima delle otto e mezzo. Così passavano le giornate, una dopo l'altra, e a volte si sentiva prendere da una sensazione terribile, come se il 17 giugno gli avessero strappato via lo stomaco e il cuore e probabilmente anche i polmoni. Era durante le sue passeggiate fino a Hillhaven, in Mount Avenue, che temeva di non riuscire ad arrivare fino a sera. La camminata era salutare e Richard arrivava sul lavoro con i muscoli
elastici e scaldati. Fra le grandi ville di Mount Avenue aveva scorci brevi dello Stretto e quando svoltava l'ultimo angolo, sostando a guardare l'imponente casa avvolta nell'edera dove Graham aveva parlato con Dorothy Bach sul finire degli Anni Venti, era giunto alla spiaggia di Hillhaven. In piena estate c'erano bagnanti per tutto il giorno e ovunque aleggiava un odore di salmastro, di creme abbronzanti e di sudore. Questo spettacolo di assoluta normalità lo aiutava a dimenticare certe visioni assai meno normali che lo turbavano durante il tragitto. La prima cosa strana che vide il primo giorno a Hillhaven fu Charlie Antolini che, abbandonata la sua amaca, si era messo a dipingere la casa. La stranezza stava nella scelta del colore: un rosa skocking vistoso e quasi provocatorio. Inoltre il colore veniva uniformemente steso su infissi, persiane e davanzali. Come se non bastasse, qualche giorno dopo Richard vide che Charlie Antolini aveva attaccato anche le tegole del tetto. Fu durante la verniciatura del tetto che Richard vide anche Flo Antolini partire di gran carriera a bordo di un'automobile stracolma di valigie. È indubbio che tutto questo Richard lo vedeva con i propri occhi, ma c'erano altre cose non altrettanto logiche. Cominciò in una maniera banale. Un'anonima automobile scura gli si avvicinò da tergo pochi minuti dopo che aveva imboccato il «miglio d'oro», lo superò, si arrestò e accostò. Sicuramente l'automobilista aveva davanti l'Hagstrom Atlas aperto alla pagina della contea di Patchin e appena Richard lo avesse raggiunto gli avrebbe chiesto dal finestrino: «Questa è Mount Avenue?» oppure: «È questa la strada per Hillhaven?» La carenza di segnaletica stradale induceva spesso gli automobilisti a fermare qualche pedone in Mount Avenue per chiedere indicazioni. L'automobile nera, forse una Chevrolet, aspettava tranquillamente che Richard fosse alla sua altezza. Tremò una volta, come un cane che dorme. Si era fermata proprio davanti alla vecchia casa Smithfield. Pronto a dare una mano, Richard accelerò il passo e la portiera si aprì dalla parte del guidatore. Si aprì anche quell'altra. Richard ebbe un attimo d'esitazione e forse fu questo a salvargli la vita. Si aprì anche una delle portiere posteriori, quella dalla sua parte. Richard indietreggiò di un passo: all'improvviso quell'automobile innocua gli sembrava circondata da una luce sinistra. Con tre portiere aperte, parcheggiata a lato della strada nella soleggiata mattina di luglio, la Chevrolet nera sembrava un insetto accovacciato, un enorme scarafaggio. Una mosca. Per qualche secondo non ac-
cadde niente, ma Richard si sentì inaridire la bocca: non sapeva perché, ma aveva paura di quello che poteva esserci in quell'automobile. Poi Laura scese dalla parte del marciapiede. Richard gemette. Dal posto di guida scese un uomo che, al pari di Laura si voltò a guardarlo. Indossava una giacca lacera di madras; una polo Lacoste color giallo vivo e sporca di fango gli copriva il ventre prominente. Da dietro smontò un secondo uomo, più anziano del primo e con la testa calva di un opaco color argilla. Tutti e tre restarono fermi in silenzio accanto alla Chevrolet nera e fissarono Richard. Si somigliavano per la mancanza assoluta di espressione. Erano facce morte. Laura aprì la bocca e Richard reagì istantaneamente premendosi le mani sulle orecchie. Qualunque cosa avesse da dirgli, lui non voleva sentire. Indietreggiò di diversi passi, lentamente, e vide i due uomini incamminarsi verso di lui. Allora proseguì a ritroso di un altro passo e un altro ancora e disse: «No, andate via, andatevene», ma visto che loro avanzavano imperterriti, si voltò e si mise a correre a perdifiato per la strada. Pochi metri più avanti c'era un vialetto di ghiaia rossa fra due pilastri di mattoni. Richard si buttò da quella parte, correndo fra un filare di aceri e la rete protettiva di un campo da tennis. Finalmente vide una casa grigia in fondo al viale. Dietro di essa scintillava il mare. Le tende del pianterreno erano accostate e la casa aveva un'aria di abbandono. Richard ancora non aveva pensato che cosa dire se qualcuno gli avesse aperto la porta. Superò di slancio i gradini dell'ingresso e premette il pulsante del campanello. Nella mente vedeva Laura che inesorabilmente avanzava lungo il viale... Non tolse il dito dal campanello. Udì un rumore di passi dietro l'uscio, un chiavistello che veniva tirato. La porta si aprì di un centimetro o due e una faccia bianca e sospettosa lo guardò da sopra la catenella. «Io abito dall'altra parte della strada», spiegò Richard, giocando la carta che avrebbe avuto maggior valore in Mount Avenue. «C'è della gente là, sulla strada... credo che vogliano uccidermi.» «Così mi dice», rispose l'uomo anziano da dietro la porta. «Sono spaventato a morte.» «Date le circostanze non mi sorprende», ribatté l'altro togliendo la catena. Alzò la mano destra e Richard vide che impugnava una pistola automatica, nera e piatta. «Non mi sorprende affatto, così è venuto qui in cerca di
aiuto?» Richard annuì. «Hanno fermato la macchina davanti a me. Davanti alla vecchia casa Smithfield.» «La vecchia casa Smithfield.» L'altro annuì e abbassò la pistola. «Già, Monty abitava lì un tempo, con tutta la famiglia. Crede che siano ancora là fuori?» Richard fece cenno di sì. «Non mi dispiace darle una mano. Li farò scappare con questo gingillo. C'è un caricatore ancora pieno, in caso che abbiamo bisogno di un po' di fuochi artificiali.» Richard era così scombussolato che non si chiese nemmeno come potesse una pistola spaventare persone già morte. Insieme con l'ometto scese per il vialetto. Richard dovette affrettare il passo per tener dietro al suo salvatore e mentre costeggiavano il campo da tennis venne a sapere che si chiamava Charles Daisy, ed era un avvocato a riposo, vedovo, con sei nipoti. «Ho allestito un piccolo poligono in cantina ed è per questo che me la cavo così bene con il gingillo. Naturalmente andiamo tutti al tiro al piattello al Country Club di Wampetaug da novembre a febbraio. Non c'è niente come l'esercizio per acuire la vista...» Erano arrivati in fondo al vialetto. «Dove sono?» domandò l'ometto guardando da una parte e dall'altra della strada. «Dove sarebbero finiti?» Richard li vedeva benissimo, non si erano mossi. Il volto impassibile di Laura lo fissava. C'erano piccole macchie di sangue sul suo collo, sotto il colletto della blusa. «Se la sono data a gambe, eh?» esclamò Charles Daisy. «Marmaglia, ragazzo mio, nient'altro che marmaglia a caccia di una vittima facile. Non le daranno più fastidio.» Lo guardò e, sorprendendo Richard, gli strizzò l'occhio. «La riconosco, sa? Ci ho impiegato qualche secondo ma poi ci sono arrivato. Lei era il ragazzo di quello sceneggiato. Lei era Spunky. Spunky.» Pur sapendo di commettere un errore grave, Richard non poté trattenersi dal domandargli: «Li vede?» Daisy inclinò la testa. «Sono proprio là. Dov'erano anche prima, due uomini e una donna. Se vuole le dico anche il numero di targa della Chevy. TBC 67...» «Sparisca», ringhiò Daisy. La sua piccola faccia bianca era diventata rosa. «Alzi immediatamente i tacchi o le scarico una pallottola in gola, attorucolo. Parlo sul serio. Si muova.»
«Guardi che non sono matto.» «Credeva di poter attirare il vecchio Charles Daisy in strada per saltargli addosso? Credeva di potersi guadagnare così un bel posticino in Mount Avenue? È questo che pensava? Non conosceva molto bene il vecchio Charlie Daisy, eh?» Agitò la pistola più o meno nella sua direzione. Richard pensò che se avesse voluto gli sarebbe stato facile strappargliela di mano. «Volevo solo il suo aiuto, signor Daisy.» Queste parole mandarono il vecchio su tutte le furie. «Se ne vada! Sparisca dalla mia vista!» Indietreggiò e puntò la pistola al petto di Richard. Richard si mosse. Non osò aggiungere altro. Voltò le spalle a Daisy e si avviò verso il gruppetto accanto all'automobile. Dolorosamente guardò una volta la faccia di Laura. Con gli occhi aperti, sembrava che dormisse. Non era lì, eccetto che per lui. E lei e i suoi due compagni non potevano prenderlo sotto gli occhi dell'infuriato Charles Daisy. O era quello a tenerli fermi, oppure il Drago aveva architettato qualche altro trucco per lui. Si portò sulla destra e sfiorò con la spalla le siepi facendole frusciare. Il vecchio Charles Daisy era ancora laggiù con la sua pesante pistola puntata su di lui. Lanciò un'occhiata verso il basso, mentre superava l'automobile, e vide che il conducente, quello con la giacca di madras e la polo, non aveva niente ai piedi: piedi carnosi e bianchi, incrostati di sporcizia. A parte la sporcizia erano piedi assai aggraziati. La pelle si era sollevata su un paio di gravi abrasioni, ma quei piedi non avevano sanguinato. La pelle si era lacerata, ma senza dolore e senza sangue. Aveva il terrore che Laura gli rivolgesse la parola prima che si fosse allontanato di almeno una trentina di metri giù per la via. Quando arrivò al lavoro trovò John Roehm seduto sulla ribalta del suo camioncino davanti alla casa del cliente. Alla sua destra sporgevano dal cassone le estremità di alcune assi di quercia segate di fresco. Roehm somigliava a Babbo Natale in camicia di flanella e bretelle rosse, assiso accanto al suo tesoro. «Ho pensato che oggi si poteva cominciare a montare quegli scaffali. Ieri sera per caso ho trovato della quercia niente male, anzi, direi che è la migliore che mi sia capitata.» «Se vuoi, John», si limitò a rispondere Richard. Roehm sollevò all'indietro il testone. «Un'altra splendida giornata, capo.» «Suppongo di sì, John.»
Guardandolo, Roehm capì tutto; capì comunque abbastanza. «Ce la prendiamo con comodo, capo, piano piano.» E diceva sul serio. Richard lo aiutò a trasportare in casa le assi di quercia. 2 Come Richard Allbee avrebbe scoperto più tardi, aveva fatto bene a sfuggire le tre apparizioni smontate dall'anonima Chevy nera; rappresentavano il pericolo ed erano venute con l'intenzione di ucciderlo; non c'era misericordia in quanto restava della sua vita. Le ultime due vittime del drago di Hampstead, la quinta e la sesta persona morte per mano di Wren Van Horne, non ebbero la fortuna di Richard. Anche loro s'imbatterono nell'apparizione, ma non ebbero alcun aiuto; e oltre alle apparizioni incontrarono il dottor Van Horne, il quale le trattò come già aveva trattato le quattro vittime precedenti; perciò anche loro, o almeno una di loro, sperimentarono quello che abbiamo definito il «fantomatico». Ma, come presto avrebbe constatato il generale Haugejas, il «fantomatico» era ormai presente in tutte le vie di Hampstead. Le ultime due persone morte per mano del più rispettabile ginecologo di Hampstead furono Franz Holland e sua moglie Queenie. Queenie Holland doveva il nome al padre, un cockney di nome Albert Martin che, giunto in America non ancora ventenne, aveva scoperto che all'orecchio degli americani il suo accento suonava pomposo come quello di un duca. Albert si era trovato un impiego ben retribuito da Macy's, a New York, aveva sposato una commessa del reparto abbigliamento, aveva trovato tempo per correre dietro a quasi tutte le belle donne che vedeva, le aveva incantate tutte con il suo umorismo da buon londinese e alla fine era riuscito a risparmiare abbastanza da poter acquistare un negozio di abbigliamento femminile ad Hampstead, Connecticut. Queenie era una donna attiva e pratica, che aveva sempre coltivato un ideale di gentiluomo del quale aveva erroneamente creduto che suo padre fosse un rappresentante. Con Franz Holland, il figlio dell'impresario di pompe funebri, riteneva di averci quasi azzeccato. I suoi modi erano asfissianti già ai tempi in cui era ancora adolescente, ma sotto tanta affettazione Franz era di carattere dolce e gentile; e poi quel tanto di opportunismo che Queenie aveva ereditato dal padre le diceva che era avviato in un settore di attività dove i clienti non sarebbero mai mancati. Era come fabbricare carta igienica, le aveva detto una volta Franz in tutta serietà: la gente mai avreb-
be potuto fare a meno del suo prodotto. Se Queenie fra sé e sé sintetizzava i suoi principi economici in merda e morte, si guardava bene dal farsi accorgere da Franz. Due anni dopo il liceo erano sposati. Queenie si era resa rapidamente indispensabile alla ditta Bornley and Holland occupandosi della corrispondenza e della contabilità. In tal modo aveva trovato sfogo proficuo al suo senso pratico, un'eredità ricevuta da Albert Martin. Così nel 1980, dopo più di trent'anni di vita coniugale, Franz Holland non poteva separare la gestione dell'impresa di pompe funebri da quello che sua moglie faceva tutto il giorno in ufficio. E il comportamento di recente manifestato da Queenie aveva effetti particolarmente negativi. Avrebbe potuto occuparsi di persona dei libri, sia pure impiegando il doppio del tempo che ci metteva sua moglie; ma purtroppo non aveva la più pallida idea di come lei organizzasse il suo lavoro: faticava persino a ricordare dove tenevano i cataloghi. Da quindici giorni Queenie non faceva altro che guardare la televisione. Non si prendeva nemmeno la briga di vestirsi. Si alzava, si lavava i denti e accendeva il vecchio televisore in camera da letto. Si sedeva sulla sponda e ammattiva, così almeno sembrava a Franz. Aveva cominciato tredici giorni prima mettendosi a chiacchierare con Tom Brokaw; si seccava quando sullo schermo appariva Jane Pauley e tornava di buon umore quando ricompariva Gene Shalit. Conversava con le persone che vedeva in televisione, nel senso che non si limitava a parlare a loro, bensì dialogava con loro. Se il conduttore del programma diceva: «Molti sono oggi in difficoltà economiche anche a causa delle rette salate che pretendono nei nostri college e istituti universitari», Queenie cinguettava: «Oh, a me lo dici, Tom! Cominciò a chiedermi se oggigiorno l'istruzione superiore non sia riservata solo ai ricchi!» E andava avanti così per l'intera giornata. All'inizio Franz aveva pensato che Queenie lo stesse prendendo in giro per qualche sua ragione, ma di fronte alla sua perseveranza aveva dovuto ammettere che sua moglie stava dando i numeri. Non si poteva giudicare altrimenti una donna convinta che quelle persone che si muovevano sullo schermo fossero in carne e ossa. Non mangiava nemmeno più. Lui le portava panini in camera da letto e la vedeva voltarsi distrattamente e dire: «Grazie, caro», prima di riprendere la sua conversazione con Carter Oldfield e Robert Reed in C'è papà. Ma i panini si rinsecchivano e quando verso le sei Franz veniva a portarle la minestra li ritirava e li buttava nella spazzatura. Però beveva, ma solo bibite delle quali vedeva la pubblicità in televisione. Evidentemente se era an-
cora viva lo doveva a queste stomachevoli bevande. Così Queenie restava al piano di sopra, ipnotizzata davanti alla TV, mentre Franz, sempre più preoccupato, era alle prese con i parenti dei defunti, con i fornitori, con la corrispondenza e con la contabilità. Mentre si aggirava fra i locali del pianterreno, molto più sfarzosi delle modeste stanzette al primo piano, sentiva le sigle musicali di questo o quel programma e ne restava stupito perché non si era mai reso conto di quanto chiaramente udibili fossero al piano di sotto i suoni e i rumori sovrastanti. La prima volta l'aveva notato quando erano venuti a consegnargli il corpo di Desmond O'Hara, alla porta di servizio. L'autista e l'aiutante avevano scaricato il cadavere sul tavolo della sala di preparazione, Franz aveva firmato i moduli e li aveva riaccompagnati alla porta. In quel mentre dalle scale erano giunte le note inequivocabili del Pettirosso rosso, rosso. Uno dei due uomini era scoppiato a ridere, l'altro era sembrato perplesso e poi aveva esclamato: «Ehi, ma questo è C'è papà. Anche lei lo guarda?» Queenie gli aveva rivolto solo due commenti diretti durante questo periodo. Il primo era stato alla fine della prima giornata di follia. Si era alzata dal letto, aveva posato per terra la scodella di minestra, senza averla nemmeno assaggiata, e aveva detto a Johnny Carson: «Oh, hai proprio ragione, Johnny. Questa gente di Hollywood è proprio un branco di fricchettoni» e aveva spento la TV. Poi era tornata a letto a sdraiarsi accanto al marito tremante. «Oh, Franz», aveva sospirato, «mi sono tanto divertita oggi.» La seconda osservazione l'aveva fatta il quarto giorno della sua pazzia e Franz ci aveva meditato sopra per un giorno o due pensando di trovarvi la spiegazione della crisi di Queenie. Era andato a portarle il suo sandwich, insalata di tonno e pane bianco, insieme con una lattina di aranciata. L'aveva trovata assorta in conversazione su problemi di femminismo con un attore che Franz non aveva riconosciuto. Dopo avere bevuto un sorso aveva detto: «So che non ti importa di quello che ha da dire una semplice donna, Amory» e poi aveva fatto trasalire Franz fissandolo improvvisamente negli occhi. La sua faccia aveva tremato per un momento, simile a un'immagine dietro un velo d'acqua. «Sono contenta che non abbiamo avuto figli», aveva affermato con una voce normale. «Tutti quei poveri bambini morti affogati... tutti quei cadaverini... Sono davvero contenta che non abbiamo figli.» Franz Holland temeva di precipitare, come sua moglie, nella pazzia. Aveva la sensazione che da quando Patsy McCloud aveva avuto quell'attacco nella sala di esposizione tutto avesse cominciato a diventare buio, sem-
pre più buio... Erano morti tutti quei vigili del fuoco e subito dopo qualcosa era andato decisamente storto e ogni giorno c'erano sempre più funerali da organizzare. Ricordava molto bene quella graziosa giovane Tayler, cioè Patsy McCloud, che spalancava all'improvviso la bocca con gli occhi sgranati in un'espressione di terrore e gli gridava: «Non mi tocchi!» come se lui si fosse trasformato in qualcosa di schifoso. Si era sentito gelare. Era un uomo che ci teneva molto al proprio aspetto e sentire Patsy gridare in quel modo, con quell'espressione di ribrezzo negli occhi, era stato come una pugnalata al petto. E da quel giorno, da quando era stato costretto a nascondersi dietro un angolo della sala d'esposizione mentre lei telefonava ai suoi amici, aveva cominciato a temere più che mai di essere oggetto di vandalismi e rappresaglie. Anche se la contabile della sua azienda era Queenie, Franz sapeva perfettamente che il suo vero patrimonio si trovava nelle sale aperte al pubblico. Nell'atrio c'erano tavoli di antiquariato che suo padre aveva acquistato nel periodo precedente la prima guerra mondiale; enormi vasi cinesi, che ormai valevano tanto che Franz aveva persino paura ogni volta che li spolverava, e un piccolo tappeto orientale, comperato dal padre, di valore inestimabile. Nella stanza immediatamente successiva c'era un enorme tappeto Kirman. Il pensiero di tutti quegli oggetti preziosi turbava le sue notti. Da quando Patsy Tayler McCloud lo aveva trattato a quel modo, Franz era stato sicuro che prima o poi un monello sarebbe entrato di nascosto a orinargli sul Kirman o a spegnergli sigarette su uno dei preziosi tavoli antichi. Sdraiato a letto udiva con le proprie orecchie i rumori di quelle devastazioni. La porta sbatteva, vetri s'infrangevano quasi silenziosamente, i passi risuonavano di sala in sala. C'erano notti in cui gli sembrava addirittura di sentire il rumore della cerniera lampo che scendeva prima che il monello cominciasse a insozzargli il tappeto. E le voci. Giungevano anche voci dal piano di sotto. Non voleva sentirle, ma venivano su per le scale, bisbigli e sussurri. Le prime notti era sceso a indagare, ma naturalmente non aveva trovato niente. Non c'erano stati fruscii dietro la porta né smorzati tintinnii di vetri infranti né passi incerti sul preziosissimo tappeto. Le grandi sale erano vuote. Tutti quei rumori erano frutto della sua immaginazione. Per due o tre notti di fila Franz aveva stancamente passato in rassegna le stanze, dalla sala d'aspetto alla cappella, alle sale dove esponeva le bare e non aveva trovato altro che i soliti mobili e le sue casse. Quando era tornato di sopra a sdraiarsi vicino a Queenie, aveva ricominciato a udire le voci,
quelle voci calde e ironiche. Franz? Franz? Non ci hai visti, vero? Prova di nuovo. Prova di nuovo, brutto Franz... Brutto piccolo Franz... Il giorno in cui Richard Allbee era riuscito a passare incolume accanto allo spettro di sua moglie, poco prima della mezzanotte Franz aveva udito per l'ennesima volta la solita sequenza: rumori sommessi alla porta, lieve tintinnio di vetri infranti, passi nell'atrio. Sei capace di trovarci, sgorbio...? Qualcuno ridacchiò. L'orina gocciolò sul tappeto... Franz gemette. Avrebbe dovuto riprovare. Vieni a cercarci; brutto piccolo Franz. Vieni a cercarci. Buttò all'indietro il lenzuolo e si alzò di scatto. «Oh, sei proprio una vecchia canaglia», disse Queenie a un uomo canuto in una pubblicità della Peugeot. «Ecco che cosa sei.» Franz uscì dalla camera e cercò l'interruttore che accendeva le luci della scalinata. Se davvero c'era qualcuno di sotto, forse le luci lo avrebbero spaventato e indotto a fuggire. Franz non era un eroe. Si fermò in cima alle scale e ascoltò attentamente. Deciso a ignorare i bisbigli che gli giungevano dai recessi delle stanze sottostanti, pensò che si sarebbe limitato a una sbirciatina, senza nemmeno accendere le luci. Una breve puntata fino al pianterreno e poi subito di sopra. Franz cominciò dalla Sala della tranquillità, un passaggio obbligato per entrare negli altri locali. Come aveva deciso, non accese le luci, tuttavia vide perfettamente che il grande Kirman era immacolato e che non c'erano macchie sui tendaggi di velluto. Varcò una soglia e si trovò in un ampio vestibolo circolare sul quale si affacciavano le porte ad arco delle altre sale. Era stato lì che Patsy McCloud aveva inflitto un duro colpo al suo amor proprio. Tutto il suo coraggio svanì in quel momento. Se non avesse udito l'eco della trasmissione televisiva al piano di sopra, si sarebbe lanciato su per le scale, ma immaginò Queenie con la testa inclinata a cinguettare i suoi commenti e allora proseguì per andare a sbirciare dietro il primo arco. Quella era la sala in cui esponeva le bare, un grande spazio occupato da file di casse, ciascuna sul suo piedistallo. Sapeva che l'avrebbe trovata deserta. Visto che non c'era nessuno nella Sala della tranquillità, anche tutti gli altri locali dovevano essere vuoti. Il suo giro d'ispezione era ormai un gesto solo formale. Dava un'occhiata dentro e passava alla porta successiva. Poi si voltò, perplesso. Quell'odore... aveva appena fiutato qualcosa. Trasalì all'improvviso rendendosi conto che la sua sala d'esposizione
puzzava di orina. Puzzava come una latrina di caserma, un tanfo che si andava intensificando e saliva dai suoi piedi, che erano rimasti come inchiodati sulla soglia. «Diamine» borbottò. «Ma che cosa...?» Franzie, ci hai trovati! Si sentì di colpo senza fiato. In mezzo a quell'impossibile fetore di orina, talmente penetrante che quasi ne vedeva i fumi salire nell'aria, erano apparse due sagome corpulente dietro la seconda fila di bare. Ci hai trovati! Ci hai trovati! Hai vinto il premio, Franzie! «Il premio? Quale premio? In nome del cielo...?» Era così sconvolto nel vedere realizzate le sue più angoscianti fantasie che non riusciva più a raccapezzarsi. Due uomini erano penetrati nella sede della sua azienda e... avevano orinato sulle sue casse da morto! «Fuori di qui!» esclamò quando l'indignazione ebbe il sopravvento sul terrore e lo sbigottimento. La sua mano tremante trovò l'interruttore della luce. L'abbassò e la sala prese vita, inondata di luce e animata dalle superfici scure delle cinquanta bare sui piedistalli di mogano. Allora pensò di essere più pazzo di sei Queenie messe assieme. I due uomini erano Tony Archer e il suo vice, entrambi morti e defunti. Metà della sala era invasa da un nugolo di almeno un milione di mosche; il ronzio assordante lo costrinse a indietreggiare e andò a urtare le due poltroncine di pelle rossa contro la parete di sinistra, mentre l'odore di orina stantia gli toglieva il respiro. Poi quell'ammasso brulicante di mosche si disperse per tutta la sala. In quel mentre da una delle poltroncine rosse sulla destra dell'ingresso si alzò un uomo brizzolato che indossava un abito bianco e sudicio. La sua faccia era liscia e lucida. Guardandolo, Franz giunse simultaneamente a due conclusioni: l'uomo con l'abito bianco era il dottor Van Horne; e il dottore era diventato un «liquido». A giudicare dallo stato della sua pelle di lì a un paio di settimane al massimo avrebbe dovuto bendarsi. Già sembrava che i tessuti fossero in movimento, che scivolassero impercettibilmente, come masse gelatinose. «Oh, ma sì, ne sono sicuro», disse il dottor Van Horne. «Vuoi il premio, no?» «Il premio?» ripeté Franz come intontito. «Certo, perché finalmente ci hai trovati», ripeté il dottor Van Horne tendendo la mano destra dove brillava un bisturi ricurvo. Il dottore avanzò e squarciò il collo dell'impresario di pompe funebri con un unico rapido colpo di lama. Quando ebbe finito con Franz Holland il dottore salì lentamen-
te le scale e trovò Queenie che stava dicendo a Jack Nicholson che se si fosse lavato più spesso, come faceva lei, non si sarebbe sentito sempre così giù di morale. 3 «Non crederesti mai a quello che è successo nel mio ufficio. Nemmeno io riesco a crederci.» Ulick Byrne e Sarah Spry si stavano concedendo un momento di relax al tavolo di un simpatico ristorantino di Post Road, scelto dalla giornalista. A Sarah piacevano le felci e il parquet lucido; e le crèpes e le insalate offerte dal menu soddisfavano i suoi gusti. Le era del tutto indifferente che nel locale si potesse servire solo vino. Ulick Byrne si era rassegnato all'assenza di gin, ma del resto si sentiva troppo male per protestare per l'assenza di qualsiasi vivanda che a suo avviso corrispondesse a vero cibo. A tutti gli altri tavoli sedevano donne che parlavano, fumavano, discutevano se ordinare crèpes o gamberetti o cipolline. Byrne era l'unico uomo in tutto il ristorante e si sentiva come un vecchio orso invitato in una casa di bambola. «Ci crederò», lo rassicurò Sarah. «Hai dato un'occhiata al giornale ultimamente?» Ulick attaccò mestamente quanto restava delle sue crèpes. «A essere sincero non ho nemmeno letto la Gazette. Ogni tanto davo una scorsa alla tua rubrica, come fanno tutti, ma ho già troppo da leggere per lavoro. Mi restano si e no quindici minuti per leggere il Times la mattina.» «Be', la nostra vecchia Gazette non è poi tanto male, se si pensa che è un giornaletto pubblicato solo due volte la settimana. Direi che ce la caviamo piuttosto bene con le notizie locali. Se lo dico io... Ma se mettessimo insieme un pezzo di quelli importanti sulla causa di tutto quello che sta succedendo qui, intendo uno di quegli articoli veramente sensazionali, da premio Pulitzer, nessuno sarebbe in grado di leggerlo. Questo mi fa star male. Perché sarebbe così pieno di refusi che risulterebbe incomprensibile.» Ulick stava intanto osservando una donna seduta a un altro tavolo. Costei, slanciata e conturbante come Stony Friedgood, aveva un viso dai tratti marcati, addolcito da una folta chioma di capelli scuri. Ma si era imbrattata di rossetto dalla base del naso quasi fino alla punta del mento. Quando aprì la bocca vide che non aveva trascurato neppure i denti, tuttavia sembrava che le due amiche che sedevano con lei non fossero minimamente turbate
da quella specie di mascherata. «Per la verità il giornale mi era sembrato un po' strano l'ultima volta che l'ho visto.» La bionda prosperosa seduta accanto alla bella imbellettata si sbottonò con grande disinvoltura la camicetta e ne scostò un lembo, mostrando una grande mammella abbronzata. Se la prese nella mano per un momento, come per sottolineare qualcosa che stava dicendo, quindi se la lasciò ricadere dentro la blusa. «È sempre così», gemette Sarah, «l'editore legge ogni mattina le bozze, si ammazza per controllare tutti gli errori e nonostante tutto la metà dei paragrafi viene fuori come se fosse stata battuta a macchina da una scimmia. Vedo che non mangi. Non ti senti bene?» «Mi sento come una scimmia», rispose lui evitando di aggiungere che si sentiva anche come se avesse appena finito di mangiare scimmia in scatola. «Ho lo stomaco in disordine. Forse ho anche la febbre. Non so. E non me ne importa neanche molto. E poi da qualche tempo perdo facilmente le staffe. C'è la mia segretaria che minaccia di andarsene.» Sarah gli batté amichevolmente una mano sul ginocchio. «Perché?» «Solo per dirti di prenderla con filosofia, avvocato. Sono già troppi quelli che perdono facilmente le staffe, qui ad Hampstead. Non voglio che tu finisca in qualche rissa. Specialmente con la tua segretaria.» «Se la affronto in questo stato mi farà a pezzi. Hai idea di quello che sta succedendo al mio studio? Non so più che cosa sono. Forse sono diventato una specie di strizzacervelli. La gente viene dentro - clienti di vecchia data - mi saluta, si siede, si mette a fare le smorfie e all'improvviso scoppia a piangere. Non posso stare lì seduto a vedere la gente piangere. Mi fa impazzire e ti dirò di più. Negli ultimi tre giorni due miei clienti si sono uccisi. Uno si è sparato alla testa e l'altro si è scolato un flacone di diserbante. E avevano ottimi impieghi, nessuna preoccupazione. Non ci capisco più niente.» «Già. Se non avessi qualcosa di interessante da mostrarti mi verrebbe un attacco di depressione e allora mi metterei a piangere.» «Qualcosa da mostrarmi?» chiese posando distrattamente lo sguardo sulla bionda dalle forme procaci. «Non temere, Ulick. Non ho intenzione di spogliarmi. Ma volevo che tu vedessi questa fotografia del Woodville Herald. Il giornale appartiene alla nostra stessa catena e alcuni dei pezzi pubblicati sono identici ai nostri.
Naturalmente nel complesso la pubblicazione è diversa. Ho chiesto di vedere i loro numeri della terza e della quarta settimana di maggio. Sulla prima pagina dell'edizione del 19 maggio ho trovato una fotografia interessante. Ho chiesto che mi inviassero un ingrandimento su carta lucida. Ecco, credo che la troverai interessante anche tu.» Così dicendo si chinò a raccogliere la borsetta dalla quale tolse una busta che conteneva una fotografia su carta lucida formato diciotto per ventiquattro. Ulick la prese. Non capiva perché dovesse trovarla interessante. Mostrava un gruppo di uomini fermi in quello che sembrava uno spiazzo di parcheggio. I due al centro sembrava fossero interrogati dagli altri, disposti più o meno in circolo. Byrne non riuscì a riconoscerne nessuno. «E allora?» chiese. «I due uomini al centro sono scienziati responsabili dell'installazione della Telpro a Woodville. Theodore Wise e William Pierce. Questa fotografia fu scattata a una specie di conferenza stampa il giorno in cui quelle persone morirono allo stabilimento.» «Okay. Dove vuoi arrivare?» «A lui.» Sarah batté la punta dell'unghia sull'individuo forzuto con i capelli crespi e la tuta sportiva. «Sai chi è?» «Qualche messicano.» Sarah sorrise. «Quel messicano è Leo Friedgood. Ho un amico al dipartimento di polizia che l'ha identificato.» Ulick inarcò le sopracciglia e si avvicinò la fotografia agli occhi. «Friedgood era là? Il 17 maggio? Alla Woodville Solvent?» «Evidentemente.» Ulick posò la fotografia sul bordo del tavolo. «Questo non quadra. Se Friedgood era là significa che l'aveva mandato la Telpro e se l'avevano mandato là è perché volevano che facesse qualcosa. Devono aver sospettato che...» Fece una pausa. «Devono aver sospettato che fosse successo qualcosa per cui non bastava il personale presente. Ora la domanda è: che fine ha fatto Friedgood? Sono settimane che non è a casa sua.» «La Telpro», sentenziò Sarah. «Tu hai già tirato le somme, vero? La Telpro. Haugejas, il generale di ferro. Hanno nascosto Leo da qualche parte perché è l'unica persona non direttamente legata alla Woodville Solvent che sappia che cosa è successo al loro laboratorio.» «Che sa quali siano effettivamente le responsabilità della Telpro in quello che sta accadendo ad Hampstead», volle precisare Sarah riponendo ac-
curatamente la fotografia nella busta prima di rimetterla in borsetta. «Sai che cosa voglio fare? Mi piacerebbe andare a dare una scrollatina alla gabbia del generale Haugejas. Credo che sia venuto il momento per un'azione drastica. Voglio andare al suo ufficio e vedere che cosa ha da raccontare su Leo Friedgood e la Woodville Solvent.» «Allora sarà meglio che tu ci vada con il tuo avvocato.» «Avevi già dei progetti per oggi pomeriggio?» Ulick Byrne avrebbe preferito non ammetterlo, ma era professionalmente e personalmente eccitato al pensiero di quanto sarebbe potuto emergere da un incontro con il generale Henry Haugejas. Era convinto, seppure sulla base degli esili indizi a disposizione, che Haugejas e la Telpro avessero complottato per nascondere che cosa era veramente accaduto a Woodville il 17 maggio. Haugejas era un cliente scomodo e la Telpro aveva milioni di avvocati, ma supponiamo che lui e Sarah fossero riusciti a coglierli con le brache a mezz'asta? Ulick fiutava già l'avvio di una serie di cause e querele che avrebbero fruttato miliardi di dollari. Sarebbe scoppiato uno scandalo assai più sensazionale del Watergate: il principale difensore legale dei cittadini di Hampstead sarebbe diventato famoso da un giorno all'altro, anche perché aveva personalmente contribuito a smascherare i colpevoli. Sarah l'osservò mentre guidava e notò che di tanto in tanto sul suo viso appariva una strana espressione, come se cercasse di non sogghignare. Quando raggiunsero il palazzo della Telpro, nella Cinquantanovesima Strada Est, Sarah lo sospinse oltre la reception, nell'atrio, e lo infilò nella cabina di un ascensore in attesa. «Come fai a sapere dove dobbiamo andare?» le domandò Ulick. Le porte dell'ascensore si chiusero silenziosamente isolandoli in una ronzante scatola rivestita di legno. «Sono una giornalista», gli rispose lei, «e sono anche parecchio più anziana di te. Quando il generale di ferro si ritirò, si fa per dire, dal servizio militare, tenne un pomposo discorso dichiarando che tutte le sue battaglie future sarebbero state combattute da dietro una scrivania al ventesimo piano di un edificio nella Cinquantanovesima Strada Est.» Premette un dischetto illuminato sul pannello dei comandi. «E noi siamo venuti a fargli combattere una di quelle famose battaglie.» Byrne si strinse nelle spalle. «Chissà quante volte ha cambiato ufficio da
allora.» «Vuol dire che ci faremo indirizzare al piano giusto. Comunque, l'importante è che siamo riusciti a non farci bloccare dal custode.» «Adesso dobbiamo superare la sua segretaria.» Giunti al ventesimo piano percorsero un ampio corridoio che portava a una porta a vetri sulla quale spiccava una scritta in grandi caratteri neri: «Progetti Speciali». A una scrivania pretenziosa sedeva una segretaria dai capelli rossi. Alzò la testa e sorrise quando li vide varcare la soglia e avvicinarsi sulla folta moquette beige. Ulick fu costretto ad ammettere che Sarah Spry era assai più disinvolta di lui e aveva l'aria di chi ha ogni sacrosanto diritto di trovarsi lì. «In che cosa posso aiutarvi?» chiese la ragazza. «Vorremmo vedere il generale Haugejas, per piacere», la informò con fermezza Sarah. «Ma prima desideriamo scambiare due parole con la sua segretaria.» La ragazza sembrò perplessa. «Avete un appuntamento con il generale?» «La prego, ci faccia parlare con la sua segretaria», insisté Sarah. Zittì Ulick con gli occhi. «Può avvertirla che ci sono una giornalista dell'Hampstead Gazette e un avvocato che vorrebbero parlarle dell'incidente alla Woodville Solvent.» «La Woodville Solvent? L'Hampstead Gazette?» La ragazza sollevò il ricevitore di un telefono, premette un pulsante e parlò sommessamente per qualche momento. Poi alzò su di loro due occhi sgranati. «Vorreste darmi i vostri nomi?» «Signor Byrne e signora Spry», rispose Ulick. La ragazza parlò di nuovo a bassa voce nel microfono. Quindi rivolse loro un sorriso. La signora Winthrop sarebbe venuta a riceverli fra pochi minuti. I pochi minuti furono in realtà trentuno. La signora Winthrop era una cinese di circa trent'anni. Indossava un fresco vestito del medesimo nero opaco dei suoi capelli e grandi occhiali ambrati e rotondi. Aveva inoltre uno splendido sorriso e una spiccata personalità che mise in ombra la ragazza dai capelli rossi. Prese la mano di Ulick Byrne mentre pronunciava il suo nome e gli elargiva un sorriso e gliela strinse vigorosamente, come un uomo. Byrne ebbe l'impressione di essere stato appena soppesato, misurato e spedito al lavaggio. Frattanto la Winthrop affrontava Sarah. Byrne si ritrovò a chiedersi che tipo fosse il signor Winthrop. «Vorreste per piacere seguirmi nel mio ufficio?» li invitò voltandosi per
far loro strada lungo un altro corridoio discretamente illuminato. Poi aprì una grande porta di quercia chiara e li fece passare in un ufficio dove c'erano un'ampia scrivania nera e un lungo divano di pelle nera. Vivaci dipinti astratti decoravano le pareti. La signora Winthrop raggiunse la sua scrivania e si sedette. «Devo spiegarvi che il generale Haugejas non riceve mai nessuno senza appuntamento, quindi anche se fosse in ufficio oggi pomeriggio, sarebbe comunque impossibile vederlo.» «Non c'è?» chiese Sarah. «Non è atteso nemmeno per domani, signora Spry, ma sono sicura che mi incaricherebbe di ascoltare quanto avete da dire in modo da potersi mettere in contatto con voi. Ora, potete spiegarmi come mai la responsabile di una rubrica mondana e un avvocato specializzato soprattutto in transazioni immobiliari, desiderano tanto vedere il generale Haugejas?» E da quel momento in avanti (come è logico desumere dalla tempestività della reazione del generale) la signora Winthrop registrò ogni parola pronunciata nel suo ufficio. Certamente il registratore colse il tono irritato di Ulick, il progressivo alterarsi dell'umore di Sarah, la loro palese convinzione che Henry Haugejas fosse al di là della porta che si trovava alle spalle della signora Winthrop (ma in questo si sbagliavano perché il generale presenziava a una riunione del consiglio d'amministrazione di una banca in Wall Street). Sul nastro rimase certamente l'accusa di Ulick che la Telpro aveva ucciso i bambini di Hampstead e le sue frequenti domande sul motivo della presenza di Leo Friedgood al laboratorio di Woodville. Fengchi Winthrop, che personalmente lo aveva inviato laggiù, si mostrò solo vagamente turbata dalla raffica di proteste espresse da quelle due persone sedute sul divano di pelle del suo ufficio. 4 Il giorno dopo, venerdì 25 luglio, il generale Henry Haugejas comparve in pompa magna per le strade di Hampstead accompagnato da due aiutanti. Per l'occasione non viaggiava sul sedile anteriore di una jeep con la bandierina dello Stato Maggiore come quando si presentava in certi villaggi coreani meticolosamente prescelti, bensì sul sedile posteriore di una limousine. La casa di Friedgood era vuota ed era stato facile verificare che così era da qualche tempo. I vicini non erano stati di alcun aiuto. Non sapevano che fine avesse fatto e non sapevano perché dovessero permettere che le loro
abitazioni fossero perquisite da tre sconosciuti. Quando poi il generale aveva declinato le proprie generalità spiegando che ritrovare il signor Friedgood era di massima importanza per la sicurezza nazionale, i residenti di Cannon Road, Charleston Road e di Beach Trail avevano finito per invitare in casa il generale e le sue due guardie del corpo. Ma tutti questi contrattempi, tutte queste spiegazioni e titubanze e ostilità malcelate avevano via via innervosito i tre ex militari. A pungerli nel vivo era l'insuccesso della loro missione, insieme con la noia per le ripetute spiegazioni e l'insofferenza nei confronti dei cittadini di Hampstead. Quando ebbero passato in rassegna una ventina di case, il generale e i due aiutanti erano tesi come corde di violino. Avevano ricominciato a sentirsi soprattutto soldati ed erano irritati per gli ostacoli che frapponeva la popolazione civile. Gli aiutanti, reduci dal Vietnam, ricordavano con nostalgia i giorni in cui potevano fare irruzione in qualsiasi capanna, armi in pugno, trovando gente che si profondeva in inchini e sorrisi davanti a loro. Probabilmente si aspettavano che anche i poliziotti di Hampstead si comportassero così, come contadini vietnamiti. E fu questo a metterli nei guai: con un atteggiamento che avrebbe fatto andare su tutte le furie qualsiasi funzionario di polizia di questo mondo, il generale Haugejas e i suoi aiutanti davano per scontato che gli agenti esistessero solo per eseguire i loro ordini. Appartenevano tutti alle forze armate, ma i poliziotti si trovavano ai gradini più bassi della gerarchia. Dave Marks, il sergente di servizio all'accettazione e amico di Sarah Spry, fu il primo a incontrarli e fu anche subito indispettito dai loro modi. Il tipo grande e grosso con i capelli color ferro cercò di obbligarlo con lo sguardo ad abbassare gli occhi e i due ceffi arrivati con lui gli si misero ai fianchi. Distanziati di un paio di metri, così che se ne guardava uno non era più in grado di sorvegliare l'altro. I tre promettevano solo grane e Dave Marks non ne desiderava. L'unica cosa che voleva era finire il suo turno, farsi una doccia, mandar giù un boccone e andare al cinema di fronte, il Nutmeg, dall'altra parte dell'area di parcheggio municipale. Era quello che volevano tutti i poliziotti in servizio quel giorno; in previsione dello svago serale, erano tutti più tesi del solito e meno disposti a tollerare la prepotenza di qualche sconosciuto. Il generale cercò di incenerire con lo sguardo Dave Marks e gli ordinò di chiamare il capo. «Il capo non c'è», rispose Marks. Era a casa a letto, ma non vedeva perché doveva raccontarlo a quell'individuo.
Il generale si avvicinò alla scrivania. Gli posò davanti un biglietto da visita. «Non credo che il capo avrebbe qualcosa da obiettare se ci mostrasse eventuali dati in vostro possesso sul recapito di Leo Friedgood.» Marks strinse le labbra e lesse il biglietto da visita. «Telpro Corporation», borbottò, «ma lei non era forse il suo superiore?» «Il signor Friedgood è un dipendente della Telpro Corporation, per l'appunto. Visto che il suo capo non c'è, chiedo a lei di mostrarci il vostro fascicolo sul signor Friedgood.» Marks inarcò le sopracciglia. «Il fascicolo.» «Non è una questione di ordinaria amministrazione, sergente. È una questione di sicurezza.» «Un momento.» Marks si chinò nuovamente sul biglietto. «Qui non c'è scritto da nessuna parte che lei lavora ancora per il governo, generale, e anche in tal caso avrei bisogno di una speciale richiesta ufficiale prima di mostrarle il nostro schedario. Comunque, lei non è un dipendente del governo. Perciò non può nemmeno procurarsi la richiesta ufficiale. Non c'è altro.» «Voglio parlare al suo superiore.» «Torni domani, generale.» «E mentre io parlerò al suo superiore, voglio che lei o uno dei suoi colleghi mi trovi l'attuale recapito del signor Friedgood.» «Dovrà parlarne al capo, ma sappia che non le darà niente.» «Sarò io a dare a lui una nota di biasimo per il suo comportamento di oggi pomeriggio, sergente Marks.» Altri tre o quattro poliziotti nel frattempo si erano lentamente avvicinati al banco del sergente. «Non m'importa di quel che farà, generale. Tutto quello che so è che lei è un cittadino privato che crede di avere il diritto di dare ordini ai funzionari di polizia e di frugare fra i documenti riservati della centrale. Io dico che lei ha un problemino, generale.» La faccia del generale era diventata più rossa che mai. Finalmente la sua battaglia aveva avuto inizio. «Ora le darò un numero telefonico del dipartimento della Difesa. Le chiederò di comporre quel numero e di ascoltare che cos'hanno da dirle. Le ordinerò di fare quelle due cose. Quindi voglio vedere che cosa avete su Leo Friedgood.» «La invito a ricordare qual è la sua posizione, generale», ribatté Dave Marks, «lei non mi può ordinare niente. Voglio che lei e i suoi due sca-
gnozzi usciate immediatamente da questo ufficio.» «Ehi», sbottò uno dei due. «Ehi, ma noi vogliamo solo...» «Fuori», ripeté Marks. «Faccio sul serio.» «La sua presa di posizione è stolta e inutilmente dannosa», disse il generale Haugejas. «Io ho il diritto di trovarmi qui e ho il diritto di avere le informazioni che ho richiesto. Ora, se vuole semplicemente chiamare il dipartimento della Difesa...» «Ma chi cazzo crede di essere?» domandò un giovane poliziotto biondo, anche lui con la faccia rossa. «Crede che noi siamo nel suo esercito? Guardi che le hanno appena ordinato di alzare i tacchi, amico. Non crede che le convenga andare?» Greeley, l'aiutante del generale che assomigliava a uno scimmione biondo, gli si parò davanti e lo ghermì per un braccio. «Giù le mani», gli disse Johanssen. «Ehi, nessuno è venuto qui con l'intenzione di piantare grane», spiegò Greeley. «È tutto il giorno che stiamo cercando quell'uomo e prima o poi lo troveremo e voi ci aiuterete a trovarlo.» Johanssen vi voltò verso il gruppetto di colleghi con un'espressione che significava: voi credete a questo tizio? Nel muoversi sfiorò con la mano la pistola che Greeley teneva nella fondina. Senza pensare, spinto da pura collera e da un riflesso condizionato, Johanssen sollevò le gambe di Greeley da terra con un calcio preciso, si abbassò in un lampo in ginocchio, gli infilò la mano sotto la giacca e gli sottrasse la pistola. Greeley era stupefatto. «Lasciate stare i miei uomini!» gridò il generale Haugejas. Un nerboruto giovane agente di nome Wiak afferrò il generale per le braccia e un collega si precipitò a prelevare anche le pistole del generale, appese alla cintura. Un altro paio di poliziotti aveva intanto disarmato l'altro aiutante. «Vi ordino di rilasciarmi», latrò il generale. «Il mio nome è Henry Haugejas. Generale Henry Haugejas, ed esigo che mi lasciate libero e mi mettiate a disposizione un telefono.» «Come mai si va in giro con un arsenale, generale?» lo apostrofò Dave Marks. «Neanche fosse una battuta di caccia grossa. Se mi trovassi nei panni di Leo Friedgood starei alla larga da gente come voi.» «Voglio un telefono!» strillò Haugejas. «Non oserete impedirmi di usare un telefono.» Greeley cercò inopportunamente di sfilarsi da sotto il ginocchio di Jo-
hanssen e allora il giovane poliziotto lo fece rovesciare con un'abile torsione al braccio. Quindi gli piantò un piede sulla schiena all'altezza della vita e gli ammanettò i polsi. «Idiota!» urlò il generale. «Libera subito quell'uomo!» «Le ho già detto che non sono del suo reggimento», rispose Johanssen alzandosi, scavalcando Greeley e avvicinandosi al generale. «Metteteli sotto chiave», si affrettò a intervenire Marks. «Chiudeteli nelle celle e ci penseremo domani.» «Be', questo figlio di puttana mi è saltato addosso», commentò Johanssen issando sgarbatamente Greeley in piedi. Greeley voltò la testa e sputò sul bavero dell'uniforme di Johanssen. «Porca merda!» esclamò Johanssen. Affondò un pugno nel ventre di Greeley e quando questi si piegò in avanti lo colpì alla tempia mandandolo a gambe levate nella prima delle piccole celle che occupavano un lato della sala dell'accettazione. «Merda!» ripeté guardandosi il colletto della giacca. Si strappò di dosso la divisa, balzò nella cella dove Greeley, ansimante, giaceva vicino alla parete di cemento sotto il lavandino e ripulì l'indumento sfregandoglielo sul mento. «Dovrei fartelo mangiare, verme», disse prima di tornare fuori e chiudere il cancello a chiave. Larry Wiak stava spingendo il generale verso la seconda cella. Sul volto dell'alto ufficiale c'era un'espressione di collera e incredulità: non aveva mai valutato la possibilità di intraprendere una battaglia e di uscirne sconfitto. «Giù le mani!» starnazzava. «Vi taglierò i coglioni!» «A me i generali non sono mai piaciuti molto», osservò Johanssen gongolando alla vista di Wiak che spingeva il generale nella cella. «Io vi consiglio vivamente di fare un favore a voi stessi e chiamare uno di quei numeri», ammonì l'altro aiutante mentre veniva condotto a sua volta nella terza cella. «Domani saranno davvero guai per tutti.» «I generali sono sempre felici quando possono tagliare i coglioni a qualcuno», fece eco Johanssen. Il generale continuò a protestare senza sosta, ma alla fine concluse che in una città dove tutti erano stati esposti al DRG-16, era probabile che anche le forze dell'ordine fossero rimbecillite insieme con il resto della cittadinanza. «Almeno questi tre babbei non ci daranno del filo da torcere per questa sera», si compiacque Larry Wiak. Johanssen ascoltò le minacce del generale. «A meno che questo vecchio
pazzoide riesca a mettere le mani su un telefono e ci faccia spedire un missile atomico sulla centrale», ribatté. «Missile atomico!» gridò il generale. «Sarà una carezza a confronto di quello che vi farò.» 5 «Tu hai voglia di andarci. L'ho capito.» «Sicuro che ci volevo andare. Ma prima che tu ti ammalassi. Santo cielo, Ronnie.» «Ci saranno tutti i tuoi amici.» «Quelli li vedo già alla centrale. Rivederli inscatolati in un cinema non mi sembra un grande spettacolo.» «E so che ti sei divertito un mondo l'anno scorso.» «L'anno scorso stavi bene. Insomma, Ronnie, non hai nemmeno toccato cibo.» «Be', se non ho fame è anche perché sono preoccupata per te. Non voglio che tu faccia il martire. Tanto mi sentirò da cani in ogni modo, che tu vada al cinema o no. Perciò penso che tu debba andarci.» «Gesù, Ronnie. Non riuscirei a stare tranquillo se ci andassi. È solo un film. Voglio restare a casa a prendermi cura di te.» «Già, prenderti cura di una vecchia malata», gemette Ronnie voltandosi e premendo la faccia sul cuscino. E una vecchia malata era proprio quello che sembrava, rifletté Bobo che aveva notato la sua pelle avvizzita e le rughe sulla fronte e agli angoli della bocca. Ronnie aveva chiuso gli occhi e le sue palpebre abbassate sembravano pietre grigie percorse da venature. Sospirò e premette con forza la faccia sul guanciale. Per un attimo Bobo guardò Ronnie con sgomento. Poteva legarsi per il resto della vita a una donna tanto più vecchia di lui? Per un momento Bobo provò il desiderio di fuggire ma un istante dopo ricacciò indietro questi pensieri e le strinse la mano sentendosi in colpa. Tuttavia non riuscì a liberarsi del tutto da un vago senso di disagio. «Vai», insisté Ronnie. «Non voglio trattenerti.» «Vedremo», concluse Bobo, e le sue parole avevano un duplice significato. Raccolse il vassoio e lo portò in cucina. Dietro di lui Ronnie sospirò di nuovo, dolorosamente gli parve. Il problema era (e a questo punto Bobo fece uno sforzo per non sferrare un pugno nelle antine della cucina di Ronnie)...
...il problema era che il suo caso di omicidio, tutti i casi di omicidio, si erano moltiplicati come funghi, avvelenando la città. Ora i pattugliamenti notturni di Hampstead non erano più motivo di divertimento per Bobo. Vedeva troppe cose storte e per lui la follia non presentava più alcun aspetto divertente. Un paio di volte era stato costretto a intervenire per porre fine a risse misteriose e quando aveva parlato con i contendenti, dopo averli separati, nessuno ricordava esattamente il motivo per il quale avevano litigato. Spesso persone perfettamente normali, nel giro di qualche giorno venivano prese da manie inspiegabili, per esempio fracassare finestre, tanto che Mairi Street aveva ormai assunto l'aspetto di una città fantasma, con numerose vetrine chiuse da assi inchiodate. Proprio a Bobo era capitato di rispondere alla chiamata quando Teddy Olson, farmacista di Main Street, era piombato a bordo della sua Cantaro su un gruppo di liceali uccidendone quattro. Bobo, senza saperne il perché era convinto che se quell'assassino non fosse mai comparso ad Hampstead, Teddy sarebbe stato ancora dietro il suo bancone a vendere Valium invece di aspettare nella prigione di Bridgeport che venisse istituito il suo processo. Bobo calcolava che in tutta Hampstead ci fosse almeno un centinaio di persone, di ogni età e di entrambi i sessi, abbastanza pazze da poter essere l'assassino e fra costoro c'erano anche alcuni poliziotti, altro motivo per il quale Bobo aveva una gran voglia di mettersi a prendere a pugni i mobiletti della cucina di Ronnie. Tutto il dipartimento era in subbuglio proprio perché nessuno era ancora riuscito a individuare quell'uomo; persino la polizia di stato stava perdendo ormai ogni speranza via via che si esaurivano le poche e inutili piste. Ma ciò che soprattutto preoccupava Bobo era l'espressione degli occhi di colleghi giovani come Mark Johanssen e Larry Wiak, un'espressione che faceva pensare che avrebbero volentieri ammazzato di botte il primo che fosse capitato loro a tiro. Del resto Wiak aveva già selvaggiamente picchiato due persone dopo averle separate in un parcheggio dietro Main Street, proprio quella mattina. Una aveva rischiato un trauma cranico e l'altra aveva perso tre denti. E Bobo aveva la netta sensazione che Larry Wiak rimpiangesse di non averli potuti freddare a pistolettate. Rovesciò il cibo nella pattumiera, risciacquò il piatto e lo mise nella lavastoviglie. Si appoggiò al lavello con entrambe le mani e osservò la sua immagine sfocata riflessa nel vetro della finestra e per la prima volta il pensiero dello spettacolo di mezzanotte al Nutmeg gli provocò un brivido di apprensione: mentre tutti gridavano e scolavano birra, forse sarebbe sta-
to più opportuno che Johanssen, Wiak e pochi altri se ne andassero da soli in qualche bar tranquillo. 6 I poliziotti che sopravvissero al «Secondo spettacolo di mezzanotte per le forze dell'ordine riunite» non sarebbero mai riusciti a spiegare come fosse stato possibile che la situazione degenerasse così rapidamente. Come Bobo, avevano un'idea precisa dei motivi per cui la proiezione si era trasformata in un disastro; come lui erano perfettamente consapevoli della propria impotenza; ma quello che mai sarebbero riusciti a stabilire era l'esatta sequenza degli avvenimenti che portarono un centinaio di poliziotti a una crisi di isteria collettiva, pistole in pugno, in meno di mezz'ora. Su alcuni fatti tutti i superstiti erano d'accordo: poco prima del massacro Larry Wiak si era tolto tutti i vestiti ed era balzato sul palcoscenico antistante lo schermo e un anziano agente di nome Rod Fratney si era messo a urlare con voce strozzata di avere visto Dicky Norman. I trentadue sopravvissuti del Nutmeg sostenevano anche che un uomo seduto in fondo alia sala si era messo a gridare appena Fratney aveva fatto il nome di Dicky. Tutti affermavano che Larry Wiak era stato il primo a morire, ma undici di loro giuravano che Fratney aveva ucciso Wiak, mentre sedici dichiaravano che era stato il tizio non identificato a sparare a Larry Wiak; quattro sostenevano che i due avevano simultaneamente scaricato le pistole nel torace di Wiak e uno giurò a Graham Williams che Rod Fratney e il poliziotto ignoto avevano estratto la pistola e si erano messi a sparare, ma le loro pallottole avevano colpito lo schermo, mentre Wiak era stato ucciso da una folgore scaturita dal soffitto. «Quando lo colpì», raccontò il poliziotto a Graham, «fu qualcosa di incredibile. Nemmeno un missile può conciare un uomo in quella maniera. Lo squarciò letteralmente in due, grande e grosso com'era. Spazzato via come se non ci fosse mai stato ed è stato a questo punto che sono impazziti tutti quanti.» Graham pensò subito al Drago e così andò a chiedere agli altri poliziotti se erano proprio sicuri che Wiak fosse stato ucciso a pistolettate da uno o entrambi i suoi colleghi. In un bar di Bridgeport, il Billy O's, frequentato normalmente da agenti, un sergente di nome Jerry Jerome lo guardò con sospetto e disse: «Sta parlando delle luci? Qualcuno le ha detto delle luci?» «Mi racconti lei delle luci», lo esortò Graham. «Eravamo tutti là da poco. Giusto il tempo di farci un paio di birre...
quei ragazzi! Pareva quasi si spremessero in bocca le lattine. Mai visto bere così in fretta. Comunque, è stato proprio quando ci si preparava per il film. Smisero tutti di gridare e le luci si abbassarono. Johanssen e un paio di altri, Maloney e Will e non so chi, gironzolavano ancora fra i posti, ma gli altri erano già tutti seduti. Quando il sipario cominciò a salire qualcuno batté le mani.» Jerry Jerome bevve un lungo sorso del suo Jack Daniel's, sbatté una volta le palpebre e domandò: «Sa dello spagro? Nessuno le ha raccontato dello spagro?» Quando Graham scrollò la testa in segno di diniego, Jerry Jerome sorrise, un sorrisetto pallido e spettrale e aggiunse: «E stato un po' dopo e questo spiega perché pensai che quella storia delle luci fosse stata solo una mia illusione. Perché se il tizio che gridò aveva visto quello che vedevo io, non credo sarebbe riuscito a scherzarci sopra. Io stavo ancora cercando di capire se avevo la testa avvitata sul collo». Così dicendo fissò Graham negli occhi. «Vecchio, se riderà per quello che sto per raccontarle adesso, le sbatto questo bicchiere in faccia, intesi? Credevo di avere visto l'aurora boreale, capisce? Torrenti di luce che sgorgavano dal soffitto verso lo schermo, bagliori alle volte simili a palle di fuoco. Azzurre, gialle e rosse... un mare di scintille che sembravano scariche elettriche. Questo ho visto. Tutt'a un tratto ero così terrorizzato che temetti di farmela addosso. Ero sicuro che avesse preso fuoco il cinema. Mi venivano in mente i tiri di artiglieria che facevamo di notte a Fort Sill. Zuum, zuum, zum, capisce? L'aria era tutta piena di quella roba che poi precipitava verso lo schermo. Così...» Bevve un altro sorso e guardò Graham attentamente, uno sguardo duro da poliziotto, per controllare come reagisse al suo racconto. «Così, quando ho visto Wiak... quando ho visto una cosa folle andargli addosso e ridurlo in poltiglia, pensai che fosse la stessa cosa.» Sullo spagro fu più facile. Se ne ricordavano quasi tutti i superstiti e gran parte di loro rammentava che la battuta era venuta da uno di quelli seduti nel corridoio centrale. Tutti concordavano nel sostenere che non era stato Johanssen, perché il suo umorismo non era così pesante. Con tutta probabilità era stato Artie Maloney. Si pensava dunque che fosse stato Maloney a gridare spagro all'apparire sullo schermo del primo uomo di colore che non era un poliziotto. «Spagro! Mezzo spaghetti e mezzo negro!» Fu un pandemonio. Quelli che avevano della birra in bocca la sputarono sulla testa di quelli seduti davanti. «Mezzo spaghetti e...» La battuta di Maloney echeggiò in tutta la sala. Ma per la verità non era stata un gran che. Era ti-
pica di un piedipiatti irlandese di ventotto anni, mezzo brillo, convinto di poter blaterare qualsiasi cosa gli frullasse per la testa. Funzionari di polizia più anziani come Jerry Jerome e Rod Fratney non avrebbero degnato nemmeno di un sorriso una battuta simile. Perché allora il commento di Maloney aveva avuto tanto successo? Graham pensò che forse aveva rappresentato una valvola di sfogo per una tensione eccezionale. Se per esempio quei fiumi di luce che come traccianti partivano dal soffitto per entrare nello schermo, fossero stati visti da altri oltre che da Jerry Jerome? Se per esempio tutti i presenti, all'infuori di Artie Maloney, avessero visto quelle luci e si fossero chiesti se stessero impazzendo? Quella parola, spagro, li aveva forse fatti tornare in sé, facendoli uscire da uno stato di intorpidimento mentale. Ma forse non completamente e forse intorpidimento non è il termine più adatto per descrivere il loro stato d'animo. Perché c'è un altro fatto che i superstiti del Nutmeg finirono per confessare a Graham Williams; in tanta confusione, un altro punto di concordanza. Fu un ventenne ad accennarne per la prima volta a Graham, imbarazzato quanto lo era stato Jerry Jerome nel bar di Bridgeport. Il giovane Mike Minor sembrava ancora turbato per quanto era successo al Nutmeg. Aveva occhi troppo grandi per la sua testa e su una palpebra una vena guizzava con insistenza. Si era dimesso dalla polizia in settembre e pensava di iscriversi a qualche corso di informatica. Secondo Graham avrebbe fatto bene a prendersi ancora sei mesi di riposo. «Pensai di avere visto qualcosa che somigliava a delle ragnatele, lassù, quando spensero le luci», riferì a Graham. «Non erano proprio dei bagliori, ma qualcosa che stava nell'aria, come delle linee che ondeggiavano... ragnatele. Vuole una coca o qualcos'altro da bere?» Andò al frigorifero e prese una lattina di Pepsi, la posò sul tavolo massiccio, ne strappò la linguetta e ne ingollò una buona metà. «Cavoli, ci sono rimasto di sasso quando si è tolto i vestiti! Non so proprio perché l'abbia fatto. Era solo un bestione, se vuole che le dica la verità su Larry Wiak.» Bevve il resto della sua Pepsi in due lunghe sorsate. «Quando è venuto fuori da quelle ombre, così grande, grosso e bianco, mi ha messo addosso una fifa d'inferno.» Annuì e poi incassò la testa fra le spalle come un cucciolo che ha paura di una pedata. «E quando Rod Fratrney si è messo a gridare e quell'altro che stava dall'altra parte a strillare come una femminuccia, per poco non me la sono fatta addosso. Perché sapevo che c'era, accidenti! C'era, quant'è vero che c'ero io.» Lanciò un'occhiata a Graham che
stava annuendo. «L'aveva visto anche lui, proprio come il vecchio Rod e come me.» «Aveva visto Dicky Norman, vero?» Graham se l'era aspettato. «Be', due giorni prima di andare a vedere I ragazzi del coro - e pensare che doveva essere la più bella festa dell'anno - di notte, ero fuori di pattuglia e mi sono perso. Ero dalle parti dell'Accademia, ma non riuscivo a orientarmi. C'era una strada stretta, senza segnalazioni. Non saprei dire come c'ero arrivato. Cavoli, era quasi un incubo. Per qualche secondo sono stato preso dal panico. C'erano solo grandi alberi dappertutto. In quel momento non riuscivo neppure a ricordare in che zona della città fossi. Così ho deciso di tornare da dove ero venuto finché avessi trovato qualcosa che riconoscevo. Allora ho girato la macchina verso gli alberi, ho ingranato la retromarcia e ho guardato nello specchietto retrovisore... e ho visto Dicky Norman. Cavoli, lo so che sembra pazzesco, ma era lui. La sua pelle sembrava rossa, illuminata dai miei fanalini di coda. Era sbucato dagli alberi a lato della strada, come se abitasse e dormisse là dentro; aveva un braccio staccato e la sua facciona rotonda, grigia e stanca e... di cera. Veniva verso di me. Cristo, mi sono buttato sul Drive e sono corso via a razzo. Mi sono anche preso una bella botta al parafango destro.» «Dunque, quando Larry Wiak emerse dalle ombre e si avvicinò allo schermo...» Graham non ebbe bisogno di aggiungere altro. «Già. Ormai nessuno lo può chiedere a Rod Fratney, ma io lo so. Lo so. Lo aveva visto anche lui.» Guardò il vecchio con aria di sfida mentre schiacciava tra le mani la lattina di alluminio. «Ne sono sicuro», gli assicurò Graham e il giovane lo fissò con sospetto. «Ho visto con i miei occhi molte cose strane in luglio e in agosto.» «Già.» Il giovane chinò la testa. «Già. Molte cose strane.» Quando alzò lo sguardo su Graham i suoi occhi erano iniettati di sangue. Allora lasciò cadere la sua bomba. Non all'improvviso, perché ancora non era ben sicuro di potersi fidare di Graham, e nemmeno direttamente, perché fra le persone di cui dubitava c'era anche se stesso: tuttavia Michael Minor condusse Graham assai vicino alla comprensione di quanto era veramente accaduto al Nutmeg. «Nessuno le ha raccontato del film?» E quello era un aspetto della vicenda che nessuno dei superstiti aveva menzionato. Graham guardò il giovane e rispose: «Raccontami del film, Mike». Avvertì una stretta allo stomaco e intrecciò le dita delle mani perché non tremassero. «Non so che cosa le posso raccontare», cominciò il ragazzo, ma si inter-
ruppe subito dopo dando segni di nervosismo. «Era un film sui poliziotti.» Inclinò la testa, indirizzò un'occhiata tagliente a Graham e prese a grattarsi il dorso della mano. «Solo che a un certo momento è cambiato. Era diverso.» Graham attese con impazienza che Mike Minor trovasse le parole giuste nel suo esiguo vocabolario. «Hai detto che cambiò.» «Sì. Cambiò.» Il giovane si drizzò a sedere più compostamente e la luce fredda che entrava dalla finestra accanto a lui si posò sulla sua guancia facendola sembrare liscia come la lama di un'accetta. All'improvviso parve a Graham invecchiato di dieci anni. «Era come se fosse un film in tre dimensioni. Ci vedevo dentro, come in una stanza.» Si mosse cambiando posizione prima di riprendere: «Poi ho visto che cos'era quella stanza. Non era più la centrale di polizia del film. Cioè, era una stazione di polizia, ma non era la stessa. Sembrerà una idiozia, ma ci ho messo un bel po' prima di riconoscerla. Era la centrale di polizia di Hampstead. Quella da cui eravamo arrivati tutti quanti. C'era Mo Chester, al banco per il turno di notte, e c'era anche il suo socio, McCone... e a questo punto qualcuno ha cominciato a fare casino. Non so dirle perché, ma non ci sembrava divertente che si vedesse proprio la nostra centrale di polizia e due dei nostri nel bel mezzo de I ragazzi del coro. Poi abbiamo visto il locale delle riunioni e lì c'erano tutti, anche quelli che non erano venuti al cinema. Royce Griffen. È. stato il primo che ho notato per quei suoi capelli rosso fuoco e poi ho visto la parte posteriore della sua testa». Minor accavallò le gambe e si portò una mano alla guancia. «Era come un hamburger. Uno schifo. E ho visto che tutti gli altri erano morti. Avevano delle ferite enormi, grandissime, e la pelle verdastra...» Adesso tremava e Graham capì che si era messo in quella posizione sperando di mantenere il controllo e non tremare. «Ecco quello che ho visto.» «Nient'altro?» «Un'altra cosa, sì. C'erano le piccole celle per i fermati, dove si chiudono gli ubriachi la notte o i ragazzi in attesa che vengano i genitori a prelevarli. Erano sei, tutte in fila. Sapevo che non c'era nessuno in cella, quella sera, perché io ero stato di turno durante la giornata. Cavoli, era peggio che dal macellaio! Corpi fatti a pezzi, tutti maciullati, con le budella fuori e sangue dappertutto...» Posò con forza le mani sul ginocchio. «Subito dopo mi è parso di vedere Dicky Norman che veniva fuori dallo schermo ed è stato allora che è successo.» Ormai tremava visibilmente e balbettava. «Tutti
gridavano e piangevano... ho visto quello che stava seduto vicino a me, Harry Chester, il fratello di Mo, beccarsi una pallottola proprio in gola e schizzare su con la testa squarciata. Io mi sono buttato per terra e ho tirato fuori la pistola. Ero sicuro che Dicky Norman ce l'aveva di nuovo con me, così mi sono messo a sparare come un pazzo verso il palcoscenico... probabilmente ho colpito un paio dei ragazzi, non saprei dire...» Graham si alzò e si avvicinò al giovane tremante. Dopo un attimo di esitazione gli batté amichevolmente sulla schiena e andò a cercare qualcosa di forte da bere. Trovò una bottiglia di brandy, versò due dita di liquore in un bicchiere e lo portò a Mike Minor dicendogli: «Calma, ragazzo. È tutto finito. Stai tranquillo. Anche se hai ferito qualcuno, puoi essere sicuro che almeno una decina dei tuoi colleghi ha fatto lo stesso». Quando ne seppe abbastanza da poter chiedere ulteriori ragguagli sul film agli altri superstiti, ottenne un gran numero di variazioni sul tema. Non c'erano due poliziotti che avessero visto la stessa cosa, ma restava un fatto certo: dopo pochi minuti nessuno di loro aveva più visto I ragazzi del coro. Alcuni avevano visto mogli e figlie fare l'amore con altri agenti, altri avevano visto i corpi dei loro figli trasportati dalla risacca sulla Gravesend Beach. Un poliziotto di nome Ron Rice aveva visto qualcosa di simile a un mostro marino, un gigantesco rettile subacqueo con enormi fauci, che incrociava davanti alla costa tranciando bambini a metà, dilaniandone il corpo e tingendo l'acqua di rosso. La maggior parte aveva visto morti aggirarsi come se fossero vivi. Altri due o tre riferirono a Graham di avere visto Royce Griffen con la sua chioma rossa. Molti avevano visto i bambini annegati ed erano rabbrividiti all'apparire dei loro visetti bianchi. Un agente di nome Lew Holz disse a Graham: «Avrebbe dovuto vederli! Sa, io li avrò visti per un minuto o due, forse meno, ma... erano ben strani! Non erano più bambini, erano qualcos'altro, una di quelle cose che uno non vorrebbe mai vedere, mi creda. Come se fossero stati generati da serpenti a sonagli, ecco che cosa sembravano». Holz non aveva visto la folgore di Jerry Jerome. Come la maggioranza, credeva che Larry Wiak fosse stato ucciso da Rod Fratney, nonostante Fratney avesse fama di pessimo tiratore. Ma quando Graham parlò con Lew Holz, aveva già capito che l'interrogativo principale da risolvere non era chi o che cosa avesse ucciso Larry Wiak. Perciò la seconda volta che incontrò Bobo Farnsworth gli domandò: «Quando arrivasti di corsa al Nutmeg, ricordi di avere visto che cosa appariva sullo schermo?»
Perché quando Bobo arrivò di corsa nella sala di proiezione le immagini del film scorrevano ancora; l'operatore, colpito da una pallottola vagante, era ancora vivo, ma riverso sul pavimento della cabina di proiezione. Il telo dello schermo era a brandelli, ma I ragazzi del coro, o meglio, le immagini scelte dal Drago, era proiettato ugualmente su ciò che restava del telone e sulla parete dietro di esso. E Bobo, fermatosi sulla soglia, l'aveva visto. 7 Ronnie era piombata in un sonno agitato poco dopo le dieci. Bobo era al suo capezzale, non voleva lasciarla. Era debilitata dalla lunga malattia e Bobo temeva che quei tremiti sporadici si trasformassero in convulsioni vere e proprie. Le accarezzò la mano, quindi gliela strinse e la trovò calda e secca e incredibilmente leggera. Tenerle la mano mentre lei dormiva gli parve in un certo senso ipocrita, quindi gliela posò dolcemente sul lenzuolo. Poi andò in bagno, immerse una salvietta nell'acqua fredda, la strizzò e tornò da Ronnie. Delicatamente le tamponò la fronte. Ronnie borbottò qualcosa di incomprensibile, ma non si svegliò. Bobo le poggiò una mano sulla fronte e giudicò che la febbre fosse leggermente diminuita. Aveva scoperto che fare l'infermiere era più sfibrante che fare il poliziotto. Terminato il turno diurno era tornato a casa per occuparsi di Ronnie e adesso aveva la sensazione di aver passato trentasei ore senza dormire. Pensava che la sua stanchezza fosse soprattutto dovuta alla preoccupazione per la salute di Ronnie, ma dopo averla assistita per sei o sette ore di fila, adesso aveva male ai piedi e alla schiena. Si sarebbe volentieri sdraiato accanto a lei, ma non voleva correre il rischio di svegliarla. Si sedette allora al suo fianco, le prese nuovamente la mano e chiuse gli occhi; poi si alzò, andò alla vecchia poltrona imbottita, tolse gli indumenti che c'erano sopra e li buttò per terra, sprofondando finalmente sul morbido cuscino di gommapiuma. Si svegliò alcune ore più tardi, disorientato. Il sonno l'aveva colto tanto alla sprovvista che impiegò qualche secondo per rendersi conto di avere dormito. Si chinò in avanti e la sua schiena protestò. Intrappolati nella morsa delle scarpe, i piedi erano diventati gonfi e dolenti. Ronnie si passò una mano sulla faccia, aprì gli occhi e lo vide. «Oh, che caro, sei rimasto con me», mormorò. «Mmm. Sono così secca.»
«Un attimo solo, ci penso io.» Bobo si alzò di scatto e le portò un bicchiere d'acqua dal bagno. «Come ti senti? Mi pare che tu abbia dormito un paio d'ore.» Ronnie inclinò la testa riflettendo. Sorseggiò l'acqua. «Mi sento meglio. Sai, quasi quasi mangerei qualcosa adesso. Un po' di minestra, magari. Saresti così gentile da prepararmela?» «Sono qui per questo.» Tornò con una scodella di crema ai funghi e si sistemò sulla sponda del letto a fare compagnia a Ronnie che, alla fine, gli restituì il piatto con ;n grande sbadiglio. «Oh, mi dispiace», esclamò. «Bobo, mi sento proprio uno straccio. Credo che dormirò per tre settimane.» Bobo le sorrise. «Che ore sono? Mezzanotte e mezzo, vero? Bobo, perché non vai al cinema? Probabilmente avranno cominciato in ritardo e al massimo perderai un paio di minuti. Io adesso spengo la luce e mi rimetto a dormire. Starò bene. Te lo prometto.» «Be', potrei anche andare», concluse allora Bobo. Non si recò direttamente al Nutmeg e passò prima dalla vecchia palazzina di mattoni, sede della polizia locale. Il cinema si trovava comunque a un tiro di schioppo, dall'altra parte del parcheggio municipale, e Bobo voleva prima sapere che cosa era successo durante il secondo turno. Qualche altro caso di incendio doloso, un cadavere non identificato trovato in qualche capanno, uno scolaretto che aveva cercato di spiccare il volo dal tetto di casa sua... L'agente in servizio, Mo Chester, avrebbe avuto sicuramente qualcosa di divertente da raccontare sulla consueta dose di stranezze di quel pomeriggio. Mo Chester riusciva sempre a farlo ridere e sarebbe stato più sarcastico del solito visto che, al contrario di suo fratello, non avrebbe potuto assistere al film né partecipare alla festa. Giunto in cima ai gradini dell'ingresso Bobo spinse la pesante porta di legno e sorrise pensando alla reazione di Mo quando l'avrebbe visto. «Ehi, guarda chi c'è?» esclamò battendo le mani. «Vuoi che ti porti una birra dal...» Stava per aggiungere cinema, ma la mancanza di un pubblico gli bloccò la parola in gola. Mo Chester non era seduto dietro il banco con la cornetta del telefono incollata all'orecchio e il suo sorriso acido sulle labbra. Al banco non c'era nessuno. Nemmeno il suo collega McCone era reperibile e questo era doppiamente strano. Bobo non ricordava di avere mai trovato il banco abbandonato.
«Ehi», chiamò allora. «Che cos'è questa bella trovata, Chester? Si fa sciopero?» Le sue parole attraversarono i locali della centrale: fu quasi come se le vedesse volare. A un tratto fu sicuro di essere l'unica persona presente. Ma ancora non si era accorto dell'odore. Rimase perfettamente immobile nell'ampio spazio dell'ingresso; poi istintivamente abbassò la mano sul fianco, dove pensava di trovare la pistola. Campanelli d'allarme risuonavano nella mente di Bobo e solo quando ebbe toccato la cintura si rese conto di non essere in divisa. «C'è nessuno?» gridò. Il telefono squillò un attimo prima che Bobo attraversasse l'atrio per andare a guardare dietro il bancone e fu in parte quel suono a far nascere in lui la sensazione di déjà vu. Gli parve allora di aver già vissuto quel momento: lo sbigottimento di fronte alla centrale di polizia deserta, il richiamo insistente di un telefono, se stesso in quella identica posa, lievemente sbilanciato. Fu allora che Bobo percepì l'odore che aleggiava nella stazione di polizia e per la prima e unica volta nella sua vita identificò le cause di quella sensazione di déjà vu e ricordò l'episodio che l'aveva provocata. Perché l'odore che sentiva era odore di sangue. Solo in quel momento si rese conto che era così forte da far pensare che ne fossero impregnate le pareti. E poiché il telefono continuava a trillare e trillare, gli parve di rivivere una delle ore più infelici della sua esistenza, quando aveva risposto alla chiamata del fratello di Hester Goodall e, dopo aver visto quell'orribile spettacolo in cucina, aveva telefonato alla centrale e aveva aspettato che arrivassero i colleghi. Il telefono della signora Goodall aveva trillato in quel modo, ma il prete forse non l'aveva udito e Bobo aveva preferito non immischiarsene. Che ci pensassero gli agenti della statale agli amici e ai parenti della Goodall. La centrale puzzava di sangue come casa Goodall quel pomeriggio di maggio. Bobo proseguì, angosciato, fino al bancone. Quando vi arrivò, si alzò sulla punta dei piedi e sbirciò dall'altra parte. Vide le seggiole imbottite per i funzionari in servizio, i telefoni, i taccuini e le sigarette; non vide ciò che aveva temuto. Non c'erano cadaveri ammucchiati sulla pedana dietro il bancone. «Chester, McCone!» gridò. «Qualcuno mi risponda!» Imboccò il corridoio che portava agli uffici, alla sala delle riunioni e alle
stanze per gli interrogatori, ma non trovò nessuno. Alle sue spalle il telefono continuava a strepitare. Prima di controllare il resto dei locali Bobo si voltò per guardare un'altra volta in direzione dell'entrata e allora notò che la porta che metteva in comunicazione l'atrio con le sei piccole celle di fermo era socchiusa. Quella porta normalmente veniva tenuta sprangata, anche se non c'erano prigionieri. Era una regola antica e rigidamente rispettata quanto l'ordine non scritto di avere sempre almeno un agente al banco. Bobo tornò lentamente sui suoi passi. Toccò la porta metallica a sbarre. La spalancò. Si sentì subito investire dall'odore dolciastro del sangue, mescolato a quello inequivocabile delle feci. Abbassò gli occhi e vide una fila di macchioline rosse sul pavimento. Era sicuro che laggiù avrebbe trovato i cadaveri di Mo Chester, Gance McCone e altri funzionari colti di sorpresa alla centrale. Di corsa passò in rassegna le celle e scoprì tre corpi, ma nessuno di essi apparteneva a colleghi poliziotti. I cancelli di ogni cella erano ancora chiusi con la chiave. Dietro le sbarre i cadaveri giacevano scomposti e straziati. Bobo smise di respirare. Stentava persino a pensare. Il sangue aveva ricoperto il pavimento delle tre celle di una densa pellicola gelatinosa. Nell'atrio il telefono smise finalmente di squillare. Uno dei tre era Greeley e la sua testa era ridotta a un ammasso informe e sanguinolento; esaminando il volto del secondo cadavere Bobo ebbe l'impressione di riconoscerne vagamente i lineamenti, forse per averlo visto su qualche giornale o sulla copertina di una rivista. Impiegò meno di trenta secondi ad attraversare il parcheggio in lieve discesa. Il direttore del cinema aveva fatto stampare delle locandine con la scritta: «BENVENUTI ALLA PROIEZIONE SPECIALE PER I FUNZIONARI DI POLIZIA DI HAMPSTEAD». Bobo corse verso quelle grandi lettere nere. Il vestibolo del Nutmeg era illuminato e vuoto come la centrale di polizia. Dall'interno giungeva l'eco di rumori violenti, probabilmente la colonna sonora de I ragazzi del coro. Bobo percepì subito un odore penetrante e familiare quanto il profumo della birra. Era odore di cordite, lo stesso che impregnava l'aria del poligono nello scantinato della centrale di polizia. Superò di corsa il botteghino e irruppe in sala. Dagli altoparlanti uscivano grida, grugniti e assordanti brani musicali. Il raggio di luce che usciva dalla cabina di proiezione illuminava le ultime tracce di fumo. Gli sembrò che tutti i sedili fossero vuoti. Avanzò di pochi passi lungo il
corridoio centrale in discesa, con cautela perché ancora non riusciva a mettere a fuoco le immagini. «Ehi», esclamò, «ragazzi!» Poi vide una gamba allungata nel corridoio, sopra un bracciolo. «Ehi, ma siete tutti ubriachi?» Udì un gemito fioco tra i boati pazzeschi e i risolini della colonna sonora. Bobo toccò il ginocchio appoggiato al bracciolo e lo scosse. «Dove sono le luci in questo posto?» gridò. In quel momento, forse perché lo schermo divenne più luminoso o forse perché la sua vista si adeguò alla penombra, vide uomini feriti e morti in ogni angolo della sala. Per un paio di secondi credette di essere uscito di senno. Lanciò un urlo lacerante, corse fino alla prima fila di poltroncine e vide il corpo di Mark Johanssen che giaceva supino nello spazio ampio fra i sedili e il palcoscenico. I capelli biondi di Johanssen erano imbrattati di una sostanza nera che sembrava cioccolata. La bocca era spalancata. Sul palcoscenico, a un metro dal cadavere di Johanssen, c'era un miscuglio di sangue rappreso e brandelli di interiora in mezzo ai quali una mano umana spiccava come un grosso ragno. Bobo credette di essere l'unico poliziotto rimasto vivo in tutta Hampstead. Poco prima di riprendersi dallo choc udì bisbigli confusi salire apparentemente dal terreno, da sotto il pavimento. I rumori della colonna sonora cessarono di colpo e i bisbigli si trasformarono in lamenti. Non tutti gli uomini erano morti. Scivolando sul sangue, Bobo ripercorse il corridoio centrale. Quando fu di nuovo in cima, prima di andare al telefono per chiamare la polizia di Stato e le ambulanze di Hampstead, Old Sarum e King George, lanciò un'ultima occhiata nella sala, verso lo schermo. E lo schermo lo catturò, lo ipnotizzò. «Vidi qualcosa di pazzesco», raccontò Bobo a Graham Williams alcuni mesi più tardi. «Difficile da distinguere perché lo schermo era tutto stracciato e gran parte dell'immagine veniva proiettata sul muro dietro, quindi risultava leggermente sfocata.» Erano nell'abitazione di Graham e Bobo, innervosito, si alzò affondando le mani nelle tasche dei calzoni. «Tu avevi qui quella ragazza, non è vero? Quella Patsy McCloud. Abitava con te, no?» «Sì, stava qui», rispose Graham.
«Adesso non c'è più?» Graham scrollò la testa. «Be', se te l'ho domandato è... Guarda, Graham, so che per te non avrà alcun senso, ma io te lo devo raccontare. Se ho parlato di Patsy McCloud è perché quando mi sono voltato a guardare lo schermo ho pensato improvvisamente a lei. Ho visto la sua faccia, o per meglio dire ho pensato alla sua faccia e ho provato il desiderio di vederla, come se lei potesse aiutarmi. Avevo proprio voglia di vederla.» «Ha senso, non temere», lo rassicurò Graham. «Non hai idea di quanto senso abbia per me tutto ciò.» Bobo gli rivolse un'occhiata imbronciata, quasi torva. «Sarà. Sì, ricordo quel giorno, giù alla Punta Kendall. Non lo dimenticherò mai, stai tranquillo. Sai una cosa? Mi sembravate tutti così belli. Splendidi. Persino tu, vecchio scimmione gobbo.» «Visto che Patsy avrà almeno quindici anni più di te, faresti bene a smettere di chiamarla ragazza», commentò Graham. «E io non ho la gobba.» «Se è per questo non ce l'aveva nemmeno il campanaro di Notre Dame. Comunque, sai che abbiamo ricostituito il nostro contingente? Non ci è voluto nemmeno un mese e mezzo. Da ogni parte sono arrivati ragazzi. E pensare che io sostenevo che ci avremmo impiegato un anno, se non più.» Incrociò le mani sul petto e si avvicinò al tavolino sul quale era posata la macchina per scrivere. «La verità è che solo guardandola mi sono innamorato di Patsy», confessò. «E sai quanto ero preoccupato per Ronnie. Ma quella ragazza... scusa, volevo dire quella donna, mi aveva stregato. Sarei morto per lei.» «Torniamo al Nutmeg», lo invitò Graham. Bobo smise di gironzolare fra divano e scrittoio e tornò ad accomodarsi davanti a Graham. «Già. È questo che vuoi sapere, vero? Il buffo è che avevo giurato a me stesso che non avrei mai raccontato a nessuno quello che credevo di avere visto su quello schermo. Non voglio che a qualcuno venga in mente che sono maturo per il manicomio.» «Quasi tutti i presenti avevano fatto lo stesso giuramento.» «Per poi spifferare tutto a te.» «Solo qualcuno.» Bobo rise. «All'inferno. Se non fosse per quel giorno che vi ho incontrati alla Punta Kendall, non lo farei. Questo è l'unico motivo... e ancora non so che cosa è successo laggiù.» Graham si limitò a guardarlo negli occhi in silenzio.
«Va bene. D'accordo. Te lo dirò. Tieni presente che sono rimasto sulla porta per pochi secondi e tutta quanta la faccenda è durata non più di due. Pam, pam, pam, come ho detto prima.» Trasse un respiro profondo e riaprì gli occhi. «Ecco, ho visto Ronnie.» Si infilò nuovamente le mani in tasca e Graham si accorse che all'improvviso il suo viso era tirato. Certamente le mani erano strette a pugno dentro le tasche, forse per non cedere all'impulso di mettersi a piangere o a gridare o anche solo per non tremare. «Solo per un paio di secondi, non di più. Ma mi sono bastati.» «Non sentirti in dovere di...» cominciò Graham, ma Bobo lo interruppe bruscamente. «Oh, voglio farlo. Sì, Graham, lo voglio. È per questo che sono qui, no? L'ho vista seppellita. Ho visto Ronnie nella sua cassa e ho visto animali che la mangiavano. Topi, grossi vermi bianchi e lunghi come serpenti. Le strappavano la carne, ma lei non era ancora morta e urlava, Graham, con tutto il fiato che aveva nei polmoni e avrebbe continuato così fino alla morte.» Si chinò in avanti con una smorfia, come se avesse mal di stomaco. «E sai di che cosa mi sono reso conto mentre mi allontanavo da quella scena orribile per andare a telefonare? Che stavo guardando dentro la mia mente. Capisci? Mi segui? C'era qualcosa dentro di me che desiderava che quella notte Ronnie morisse, Graham. Qualcosa dentro di me si ribellava all'idea di farle da infermiere. Così l'avevo messa in quella bara, Graham, e l'avevo seppellita e siccome era ancora viva lei urlava da sottoterra perché voleva venire fuori.» Graham aprì la bocca per dire qualcosa, ma Bobo lo fermò con un gesto della mano. «No, zitto. Non conosci il resto. Quella notte Ronnie si addormentò normalmente, ma sai che cosa sognò? Riesci a indovinare che cosa sognò quella notte? Quell'immagine orribile passò dal mio cervello a quello schermo a brandelli e da lì nella sua mente. E per poco non le fu fatale, perché capì, sono sicuro che lei capì. Lei sapeva da dove arrivava quella terribile tortura. Non lo ha mai ammesso, ma lo sapeva. E per poco non ne morì, Graham. Quando tornai a casa sua la trovai per terra, in una pozza di vomito, e con la pelle secca e avvizzita. Scommetto che aveva più di quaranta di febbre. Anzi, lo so. Fu sul punto di morire, quella notte. E io sarei stato il responsabile della sua morte.» «No», replicò Graham, ma sapeva che almeno per una metà il racconto di Bobo era veritiero e che Ronnie almeno per metà aveva intuito come stavano le cose, tant'è vero che non vivevano più insieme. Fra di loro si era insinuato Gideon Winter.
8 «Sai», confidò Sarah al suo nuovo collega, «comincio ad avere una sensazione strana.» «Io ho una sensazione strana da una settimana e mezzo ormai», ribatté Ulick Byrne. «Non riesco quasi più a mangiare.» «Oh, poverino!» Sarah gli batté distrattamente sul dorso della mano. «Un irlandese che non riesce a mangiare. Deve essere uno strazio per te.» «Ho tutto lo stomaco inacidito. Allora, quale sarebbe la tua idea, per chiamarla con il suo nome?» Ulick era andato a piedi alla sede della Gazette dopo avere mandato a casa la segretaria con un'ora di anticipo; adesso si trovava con Sarah nell'archivio e tutto il resto del personale era già andato a casa. Il Bixbee era posato sul grande tavolo ed era aperto alla pagina che elencava gli omicidi. «Avrai notato anche tu le date di questi articoli. Ogni trent'anni circa capita qualcosa di terribile ad Hampstead. Per l'ultima serie di fatalità noi lavoriamo sull'ipotesi che c'entri in qualche modo la Telpro.» «Noi sappiamo che la Telpro c'entra», sbottò Ulick. «Oggi avrò chiamato l'ufficio di Haugejas almeno cinque volte e ho sempre sentito solo la voce serafica di quella cinese che mi ripete che il generale è in riunione. Stanno complottando qualcosa. E poi abbiamo quella fotografia di Leo Friedgood.» «E dietro l'omicidio di Stony Friedgood ci sarebbe la Telpro? È questo che stai dicendo, Ulick?» Lui aggrottò la fronte. «No. Non mi sembra che sia quello che stiamo dicendo.» «Ma è dietro le altre morti.» «Tutte quelle del 18 maggio, sì. Tutti quei bambini. Non sono sicuro che possiamo incolpare la buona vecchia Telpro degli omicidi avvenuti all'inizio dell'estate.» «E io credo di sì. Comunque sono sicura che tutte queste disgrazie siano da collegare. Anzi, penso che tutto sia da collegare. Tutto quello che sta succedendo ha una medesima origine. Credo che Leo Friedgood sia da mettere in relazione con questa storia di Bates Krell e Principe Green. Anche John Sayre credeva di avere a che fare con quei due. Sono sicura di aver detto a Bixbee che avevo visto quei nomi sul taccuino del telefono di Sayre ed è per questo che il suo nome risulta in questo elenco.»
«Non vedo proprio dove possa condurti questo ragionamento.» «Forse non lo so nemmeno io, Ulick. Forse dovremmo lavorarci sopra ancora un po'.» «Calma, Sarah. D'accordo, negli Anni Venti si verificò una serie di omicidi molto simili a quelli attuali. Bates Krell scompare, gli omicidi cessano. Nel 1980 scompare Leo Friedgood. Ma gli omicidi non cessano, non è vero? Non sappiamo nemmeno quando Leo sia scomparso. Pensi che Leo abbia ucciso sua moglie?» «Sappiamo che non l'ha fatto. E rimasto per tutto il giorno alla Woodville Solvent.» «Oh, merda. Mi sta andando alla malora il cervello, non solo lo stomaco.» «Be', secondo me ci converrebbe formulare ipotesi su quello che sta succedendo adesso partendo da quello che successe in passato. Se esiste davvero un ciclo trentennale, forse faremmo bene a considerare con maggior attenzione che cosa accadde in passato. Non c'è molto sul caso del 1952. Io c'ero e non mi pare che sia accaduto gran che. Un uomo si fece saltare le cérvella, ma ci suggerì anche di cercare più indietro e mi sembra sia venuto il momento di seguire il suo consiglio.» «Ancora non vedo come tutto questo ci possa servire per inchiodare la Telpro.» «Probabilmente non ci servirà affatto, ma potrebbe invece essere utile per capire come la Telpro entri nel quadro generale. Il ciclo, questa specie di tragico copione, esisteva già prima che qualcuno pensasse di fondare la Telpro.» Ulick si strinse nelle spalle. «Non mi pare possiamo telefonare a Bates Krell per chiedergli che cosa accadde o affrontare Robertson Green nella speranza che, colto di sorpresa, confessi qualcosa.» «Questo no», convenne Sarah. Sorrideva e Ulick si rese conto di essere caduto nella trappola che lei gli aveva teso. «È chiaro che non possiamo metterci direttamente in contatto con loro, ma possiamo vedere dove sono vissuti. Potremmo dare un'occhiata alle loro abitazioni. Chissà, potremmo forse riuscire a scoprire qualcosa.» «Tu hai i loro indirizzi, vero?» «Certamente. Sono stati pubblicati dalla Gazette.» «Allora vuoi fare un salto a vedere? Per me va bene.» «Oh, Dio...» Sarah inclinò la testa. «Per non sprecare il nostro tempo, mi chiedevo se un certo giovane avvocato non si sarebbe preso la briga di fare
una capatina in municipio per controllare se qualcuno attualmente occupa quelle case, ammesso che esistano ancora.» «Va bene, dammi gli indirizzi», concluse Ulick. «Si può sapere come ho fatto a diventare il tuo galoppino?» «Per quei begli occhi che hai», rispose Sarah. Sarah si fermò a consultare il Bixbee mentre Byrne percorreva a piedi il breve tragitto fino al municipio. Aveva davvero detto al vecchio di avere trovato quei nomi nello studio di John Sayre? Non ne avrebbe avuto motivo. Sarah ricordava di averne parlato con il caporedattore, un tipo grasso e allegro di nome Phil Hackley; lui le aveva assicurato che non potevano essere importanti. Forse Bixbee aveva udito casualmente la loro conversazione? Il tipografo era un uomo magro e minuto, grigio, dall'aria perennemente insoddisfatta. Era un tipo che passava inosservato. In quindici anni di lavoro nei medesimi uffici, Sarah gli aveva rivolto la parola quattro o cinque volte. Una era rimasta impressa nella mente di Sarah per una cosa strana detta dal vecchio tipografo. Era uscito dalla tipografia a fumare una sigaretta e aveva incontrato Sarah che stava commentando con Hackley lo scarso impegno municipale per il recupero di Post Road e di Riverfront Avenue che, all'epoca, erano un po' in abbandono. «E tu che cosa ne pensi, Bixbee?» aveva domandato Hackley con il sorriso sornione del superiore. La faccia magra e grigia di Bixbee si era contratta in una smorfia e per un secondo Sarah aveva temuto che stesse per sputare ai piedi del caporedattore. «Non credo che faccia la minima differenza», aveva risposto Bixbee. «Niente può salvare questa città.» «Salvare?» aveva domandato Hackley. «Niente», aveva insistito Bixbee. «Hampstead è sempre stata marcia come un secchio di ostriche vecchie di un mese. Quelle strade finiranno per somigliare a pappa di cane. E nessuno se ne accorgerà. Studi il suo libro di storia, signor Hackley. Lo capirà da sé.» «Mio Dio, Bixbee, non sapevo che la cosa ti stesse tanto a cuore», aveva ironizzato il caporedattore sforzandosi di non scoppiare a ridere. «Ho paura che ci siano molte cose che non sa», aveva replicato Bixbee. «Non conosce la sua storia, signor Hackley.» E il caporedattore aveva inarcato le sopracciglia, seccato. Se Bixbee non fu licenziato fu solo perché Hackley lo prese per pazzo quando cominciò a parlare di Bates Krell. Sarah si drizzò a sedere ricordando quella conversazione avvenuta venticinque anni prima. «Scommetto
che non ha mai sentito parlare di un uomo di nome Krell, signor Hackley. Bates Krell. Strappò bocconi da questa città. Bocconi grossi. Aveva ali nere, signor Hackley.» Sulla faccia di Bixbee era apparso qualcosa che assomigliava a un sorriso. «Mi dica lei, signor Hackley, se avremo un'altra Estate Nera ad Hampstead.» «Un'Estate Nera?» aveva esclamato Hackley. «Ali nere? Gesù, Bixbee, mi spiace di avertelo chiesto.» Bixbee si era stretto nelle spalle e, con il mozzicone della sigaretta in mano, era scomparso in tipografia. Estate nera. Ali nere. Ma c'era stato dell'altro. Bixbee aveva aggiunto ancora qualcosa che i venticinque anni trascorsi avevano appannato nella memoria di Sarah. Qualcosa su Bates Krell... ...qualcosa sulla sua casa? Ma sì, doveva essere così. Per questo all'improvviso aveva ricordato quella conversazione. Ecco il legame tra lo strano discorso di allora e ciò che Ulick Byrne stava attualmente facendo in municipio. Quando Ulick Byrne riapparve, mezz'ora dopo, Sarah ottenne l'informazione che voleva. «Ci sono riuscito, ma mi ci è voluto il doppio del normale», protestò Byrne mettendosi a sedere davanti a lei. «Per casa Green è stato facile. È stata sempre occupata per più di cent'anni. Adesso ci vive un uomo di nome John Scully, che ne è entrato in possesso ventidue anni fa. È un editore di New York. Non so, Sarah, ma temo che non riusciremo a scoprire molto su Principe Green andando a parlare con questo Scully.» «Sono d'accordo. Che cosa mi dici dell'altra?» «E proprio per questo che ho impiegato tanto tempo. Si trova in Poor Fox Road, quella stradina che costeggia il terreno dell'Accademia. E lì una volta tutti gli immobili erano di proprietà dell'istituto. Usavano quelle case per ospitare gli insegnanti e gli studenti, fino a venti, trent'anni fa. Ma nessuno ha mai più vissuto nella casa di Krell da quando il proprietario morì o abbandonò la città. Dopo un certo periodo il municipio requisì le case come risarcimento per gli arretrati fiscali, ma sembra che non abbiano mai trovato acquirenti. Saranno cinquant'anni che se ne sta lì, su terreno di proprietà pubblica. Per qualche motivo è l'unica casa che l'Accademia non abbia mai posseduto.» «Voglio andarci», dichiarò Sarah. «In una casa vuota da cinquant'anni? Che forse si regge a malapena? Ma
tu hai mai visto le case che ci sono in Poor Fox Road?» «La casa di Bates Krell, così come lui l'ha lasciata. Ti pare che possa farmi scappare un'occasione come questa?» lo apostrofò Sarah quasi con stizza. «No, se proprio vuoi andarci, Sarah. Se ti ho accompagnato a New York, ti accompagnerò certamente anche in Poor Fox Road.» «Durante il viaggio», gli disse lei soddisfatta, «ti racconterò di una certa conversazione che mi è tornata alla mente.» 9 «Qui è più o meno dove il postino ha trovato il cadavere di quel giardiniere, quel Bobby Fritz», indicò Ulick mentre risalivano lentamente Poor Fox Road. «Era là, fra quelle erbacce.» «Poveretto», gemette Sarah. «Con quella poesia dentro il torace. Sai una cosa? Sono praticamente sempre vissuta ad Hampstead eppure credo di non avere mai messo piede in questa strada.» Guardava dal finestrino dell'automobile l'intrico di arbusti che formavano una fitta siepe lungo tutta la via. Dietro quella muraglia di piante e alberi quasi strangolati dai rampicanti, intravide un alto reticolato. Dietro di esso c'era il terreno dell'Accademia. «In effetti non ci viene quasi mai nessuno. Non si può dire che somigli molto al resto di Greenbank», commentò Byrne. Sarah era perfettamente d'accordo con lui e stava appunto per rispondergli, ma in quel mentre svoltarono una curva e vide le case. Allora le passò la voglia di parlare. Aveva individuato immediatamente l'abitazione di Bates Krell. «Credo che quassù non viva più nessuno», osservò Byrne, ma Sarah l'aveva già capito da sola. «I genitori di Fritz se ne sono andati dopo la sua morte. Credo che fosse il ragazzo a tenerli insieme. C'era ancora un paio di famiglie che abitavano da queste parti e se ne sono andate anche loro. Probabilmente trovavano questo posto un po' sinistro.» «Sinistro?» «In municipio ho trovato una signora che, dopo avere saputo che cosa cercavo mi ha detto di avere conosciuto un pittore che abitava in quella casa laggiù», spiegò Byrne indicando una palazzina di due piani accanto a uno spiazzo ingombro di carcasse di automezzi, «e che a quanto pare ha traslocato per avvicinarsi al centro perché di notte sentiva sempre rumori
strani. Sembra che non sia riuscito a mandar giù il fatto che il giovane Fritz fosse stato ucciso così vicino a casa sua.» «Rumori strani. Tutti ad Hampstead sentono rumori strani di notte.» Byrne intanto parcheggiava davanti a una casa che non aveva numero civico. Non ne aveva bisogno. «Lo so», convenne l'avvocato. «Questa maledetta città sta diventando una specie di casa dei fantasmi. Direi che siamo arrivati. Questa è evidentemente la casa fatta costruire da Krell.» Piccola e bassa, con le assi della facciata scheggiate e frastagliate come denti rotti, quella casa avrebbe potuto suscitare indifferentemente paura o malinconia. Le due finestrelle ai lati della porta d'ingresso erano state fracassate da tempo e il tetto si era incurvato cedendo al centro. L'erba che forse un tempo cresceva davanti a quella porta era ingiallita ed era stata soffocata da un mantello di gramigna e sterpi che avevano invaso quello che doveva essere stato il praticello dell'ingresso. Nient'altro che un cottage abbandonato ormai difficilmente recuperabile, un rudere che sarebbe dovuto apparire patetico, un luogo troppo squallido persino per dei ricordi. Ma non era questo che Sarah pensava. Per lei quella piccola costruzione era decisamente sinistra e precisamente a causa dei ricordi che conservava. Qualcosa di analogo provava probabilmente Ulick Byrne, perché disse: «Sei sicura che quel vecchio non sia ancora nascosto lì dentro? Un vecchio novantenne e ancora, diciamo, aggressivo?» Sarah non aveva voglia di avventurarsi sul sentiero nascosto tra le erbacce; non aveva alcuna voglia di avvicinarsi a quella casa. «Non ci può essere molto là dentro, te ne rendi conto», mormorò Ulick accanto a lei. «A parte questa splendida atmosfera...» «Andiamo a dare un'occhiata», propose Sarah chiedendosi perché dovesse essere sempre più coraggiosa dei suoi accompagnatori maschi. «È solo una vecchia casa. Faremo scappare tutti i topi.» «Io credo di capirli, quei topi», commentò Ulick seguendola a ruota. Sarah si fermò ad aspettarlo davanti alla porta. «E se fosse chiusa a chiave?» chiese lui quasi speranzoso. «Mi pare che si possa abbatterla come niente, Ulick.» Voleva che fosse lui ad aprirla e avvertì la sua resistenza. Poi Byrne si arrese e allungò la mano verso il pomolo di bronzo della porta, corroso e annerito. Krell voleva poter chiudere a chiave la sua porta, pensò Sarah; chiuderla e tenerla ben serrata per lui era importante. Quell'impressione le fu trasmessa da quel pomolo solido e inconsueto: un'impressione simile
a musica incisa nei solchi di un disco. E quando la sfiorò, con essa giunse qualcos'altro. Ma non riguardava la casa. Aveva rammentato che Bixbee vinceva quasi sempre le lotterie organizzate fra i dipendenti del giornale, almeno tre volte su quattro, tanto che la gente aveva smesso di scommettere. La mano di Byrne toccò il pomolo e i suoi occhi rivolsero uno sguardo interrogativo a Sarah. Girò il pomolo e spinse. La porta si aprì scricchiolando. «Avanti miei prodi!» mormorò Sarah varcando la soglia. Si trovò in una stanzetta polverosa, fiocamente illuminata dalla poca luce che entrava dalle due finestrelle rotte. C'era un'altra finestra, sul lato opposto, coperta però da fogli ingialliti di giornale fissati alle intelaiature con nastro adesivo. La modesta pavimentazione in legno di pino era qua e là sconnessa. Posto che fosse mai stata orizzontale, ora appariva chiaramente inclinata verso il muro di fondo, accentuando così la falsa prospettiva che si ha in qualsiasi stanza vuota: sembrava di trovarsi di fronte a quei fondali dove un'illusione ottica fa credere allo spettatore di poter correre per miglia e miglia. Pareti e soffitto erano ricoperti dalle mappe in rilievo disegnate da svariate generazioni di infiltrazioni d'acqua. «Oh, sì», disse Sarah. La casa era, in parole molto semplici, cattiva e lei ne percepiva la malvagità: la stava rifiutando, come aveva ripudiato tutto in quegli ultimi cinquant'anni; era come una ferita che desiderasse solo rimarginarsi sui propri tessuti lacerati. Eppure Sarah avvertì anche un paradossale senso di sollievo. Era lì, in quell'orribile posto, e si sentiva all'altezza della situazione. «Assolutamente vuota» osservò Byrne. «In un certo senso.» Byrne le inviò un'occhiataccia cominciando a massaggiarsi lo stomaco con la mano destra. «Questo posto mi fa stare anche peggio», gemette. «Fino a che punto intendi ispezionarlo? Qui non c'è proprio niente da vedere.» Avanzò di qualche passo precedendola all'interno come per dare dimostrazione del suo coraggio. «Voglio vedere tutto.» Sarah puntò risolutamente verso la porta che si apriva sulla sinistra, attenta a evitare i punti dove il pavimento era più malridotto. Entrò in un altro locale, più piccolo, quasi completamente nudo. La cordicella di un'interruttore della luce pendeva dal soffitto. Lì la finestra era stata rivestita di carta come quella del soggiorno e nell'oscurità i riccioli di polvere per terra
sembravano compatti, quasi solidi. «Dove Bates posava la testa per i suoi sonni, immagino», commentò Byrne subito dietro di lei. «La cucina deve essere dall'altra parte.» Sarah si voltò, si chinò per passare sotto il braccio teso di Byrne e riattraversò a passo di marcia il soggiorno. Aveva quasi raggiunto il passaggio ad arco sull'altro lato, quando si sentì prendere da una singolare sensazione. Le sembrò che il pavimento in discesa oscillasse molto lievemente, che beccheggiasse, come se volesse raddrizzarsi. Sarah si fermò. Il pavimento tornò dolcemente alla sua posizione originale. «Ulick», cominciò, «hai forse...» non terminò la frase. Il locale angusto si estendeva all'intorno, allungandosi: per un secondo fu come se si trovasse in un'ampia caverna a volta. «Ho forse che cosa?» domandò Ulick alle sue spalle. La casa di Bates Krell aveva i suoi trucchi, evidentemente. Per fortuna Byrne era lì con lei, perché anche se quei trucchi avevano perso gran parte della loro efficacia, se si fosse trovata sola tra quelle mura probabilmente le stanze e la cantina si sarebbero trasformate in un labirinto. «Ho forse che cosa?» La stanza tornò a rimpicciolirsi e Sarah sentì dileguarsi la sensazione di essere un punticino in uno spazio interminabile e terribile. Sarah sapeva che, qualunque fosse stato il ruolo della Telpro, quella casa aveva un ruolo determinante in tutto quello che stava accadendo ad Hampstead. Ancora non intuiva come collegare i vari tasselli, ma sentiva che la sinistra piccola abitazione di Bates Krell era il più grande e sperava alla fine di riuscire a capire. Il vecchio Bixbee, che indovinava i numeri vincenti, aveva capito prima di lei e allora lei avrebbe riletto il suo indice così come Billy Graham rileggeva la Bibbia. «Sarah?» «Scusa, Ulick. Ho avuto una sensazione molto strana poco fa. Mi domandavo se avevi avvertito qualcosa.» «Un desiderio intenso di andarmene da qui.» «C'è solo un'altra stanza e poi la cantina. Secondo me faremo bene a visitarla tutta.» Continuò in direzione della cucina di Bates Krell. La finestra non era stata oscurata e una luce radente metteva in risalto gli strappi irregolari del linoleum e i batuffoli leggeri di polvere che si sollevarono nell'aria. Alla parete di fondo era fissato un lavello grigio di metallo grande come una vasca da bagno; sotto di esso, lungo il pavimento, correvano tubature arrugginite.
«Dove Krell faceva i suoi rinomati Krellburger», affermò Byrne. «Con che cosa, preferiamo non saperlo.» Andò alla finestra e si sporse a guardare fuori. In mezzo all'erba gialla erano abbandonate due carcasse d'automobile con il parabrezza infranto. «Scommetto che potremmo comprare questo posto per poco», commentò. «Secondo te le tubature funzionano ancora?» Sarah scrollò la testa, ma Byrne già stava girando la manopola di un rubinetto sul lavello. Un tubo vibrò rumorosamente contro la parete e uno sbuffo di polvere schizzò fuori disperdendosi sul fondo del lavandino. Il tubo sobbalzò di nuovo contro il muro. «Io dico che qui arriva ancora l'acqua», osservò Byrne meravigliato. Il rubinetto cominciò a vibrare con un rombo soffocato. «Chiudilo», gli ordinò Sarah, ma Byrne si voltò a guardarla senza ubbidire. Un attimo dopo la manopola esplose dal rubinetto e una sostanza densa e giallognola schizzò nella cucina investendo i due visitatori. «Ehi!» esclamò Byrne facendo un salto indietro. La stanza era ancora attraversata da un getto violento che però nel giro di pochi secondi si trasformò in una cascatella che cadeva nel lavello. Sarah fu investita dall'odore nauseante del liquido, simile a quello di una malattia, simile a pus che sgorgasse da una ferita infetta. Aveva già riempito per metà il lavello. Là dove aveva inzaccherato il pavimento si andava consolidando in pozzanghere che sembravano di budino opaco. L'odore invase la cucina. «Adesso non è più possibile chiuderlo», disse Ulick spaventato. «Mio Dio, ma che diavolo è? Da un momento all'altro traboccherà.» «Io credo che siano gli ingredienti segreti dei Krellburger», rispose lei ricordando la sua battuta di poco prima. Ispezionò uno schizzo che le era finito sulla sottana. Prese un fazzoletto di carta dalla borsetta e con esso staccò il grumo. Le tubature continuavano a rumoreggiare. Sarah le vedeva muoversi sotto il lavello, urtandosi a vicenda, picchiando contro il pavimento e la parete. Tutta la casa sembrava subire gli effetti di quell'agitazione. Sembrava tremare a tempo con le tubature. «Andiamocene da qui, Sarah», la esortò Byrne. «Sono tutto ricoperto da questa collaccia puzzolente. Secondo me possiamo benissimo fare a meno della cantina.» C'era solo un'altra porta nel cucinino e Sarah l'aprì. I cardini cigolarono. Dall'oscurità venive un forte odore di muffa. «Tombola!» esclamò Sarah.
«È meglio che andiamo.» «Allora vai. Io scendo a vedere in cantina.» Affrontò gli scalini che scendevano nelle tenebre e, come si era aspettata, Ulick disse: «Allora è meglio che vada avanti io». Si stava strofinando la giacca con un fazzoletto vistosamente sporco. Lo appallottolò e se lo ficcò in tasca, quindi passò davanti a lei per saggiare le scale. «C'è della luce in fondo», l'avvertì e quando Sarah mise il piede sulla terra battuta che costituiva il pavimento della cantina, capì il perché. Le scale terminavano davanti a un muro di pietra che faceva parte delle fondamenta e che, a ridosso della soletta del pianterreno, aveva da una parte e dall'altra due mattoni di vetro, meno trasparenti di un normale lucernario, ma sufficienti per lasciare trapelare una fievole luce. Sarah si sentì accapponare la pelle sulla schiena, sul cuoio capelluto, sul dorso delle mani. Appena si trovò al centro della cantina si sentì molto a disagio. Somigliava a una comune cantina più di quanto la casa somigliasse a una comune abitazione, ma non era del tutto comune. Lì i ricordi erano più forti, più concentrati. Quando il male aveva messo radici in quella casa, era lì che aveva cominciato a crescere. Ulick Byrne doveva aver percepito qualcosa dì analogo, perché disse: «Mio Dio, Sarah, questo posto è terribile». Lei lo guardò incuriosita poi esaminò con attenzione la cantina. Era un locale spazioso, circondato da irregolari mura di pietra, con un pavimento di terra battuta. Nella scarsa luce notò un tavolaccio lungo e piatto collocato verso il fondo, forse un antico banco da lavoro. Sebbene lontani, riuscirono a vederne ammaccature e crepe sui bordi. «Sai», disse Byrne, «prima di dedicarmi al mercato immobiliare ho fatto il mio apprendistato nelle aule di tribunale e ho visto la mia brava razione di prigioni. So riconoscere un posto dove hanno vissuto persone spaventate e infelici. Sento la loro disperazione e la loro impotenza, ma Cristo, Sarah, questo è il peggior posto in cui sia mai capitato. Non voglio nemmeno sapere che cosa succedeva qui dentro.» «Nemmeno io», fece eco Sarah. «Ne ho abbastanza. Andiamocene.» Byrne emise un sospiro di sollievo quando vide Sarah voltarsi verso le scale. Di sopra sbatté una porta. Sarah e Byrne si fermarono paralizzati. Dei passi attraversarono il soggiorno, entrarono in cucina. I due si scambiarono un'occhiata di terrore. I passi venivano direttamente verso le scale. Forse entrambi immaginarono per un attimo che Bates Krell fosse tornato con
l'intenzione di massacrarli, un pensiero che in quelle circostanze sarebbe stato quasi inevitabile, ma Sarah si riprese una frazione di secondo prima di Ulick e bisbigliò: «Deve essere qualche ragazzo, un monello». Ulick annuì, ma poco convinto. Quando la porta in cima alle scale cigolò, prese Sarah per un braccio e la tirò verso un angolo da dove potevano vedere chiunque stesse scendendo prima di essere visti a loro volta. Si appiattì contro il muro, tirandola contro di sé. Ma trasalì sentendo il muro peloso e in movimento. Spalancando la bocca in un grido muto, si voltò per esaminarlo. Per poco non strillò. La parete era ricoperta da migliaia e migliaia di ragnetti rossi. Avvertì una fitta alla mano e vide che uno dei ragni lo aveva morsicato. Si morse il labbro per non gridare e scacciò il ragno. La persona che stava scendendo le scale non era un ragazzino. I suoi passi erano lenti e prudenti, il suo peso era quello di un adulto. Comparve la sua testa. Capelli argentati. Inconsciamente Sarah e Byrne si rilassarono per una frazione di secondo. Poi la faccia si voltò nella loro direzione e lo stupore li paralizzò di nuovo. Quella faccia era una parodia grottesca di umanità. Un biancore quasi di morte, una fronte enfiata, bulbosa e più sotto una pappagorgia nella quale si perdeva il mento. Di nuovo fu Sarah a riaversi con maggior prontezza. Si rese conto che l'uomo era uno di quelli che i ragazzini chiamavano «liquidi» e che evidentemente si serviva della casa abbandonata come nascondiglio. Mancavano non più di due settimane alla fase del morbo nella quale era necessario rivestirsi di bende. A quel punto avrebbe avuto bisogno di un luogo sicuro dove celarsi per non correre il rischio di scomparire. Una fetta di carne gli scivolò per la guancia verso i rigonfiamenti del mento e Sarah provò pietà per quell'uomo. «È un 'liquido'», le sussurrò Ulick all'orecchio. Lei gli lanciò un'occhiata di rimprovero e mentre guardava i ragni arrampicarsi sulla testa di Byrne si rese anche conto di avere riconosciuto il «liquido». L'uomo che era appena sceso furtivamente nella terribile cantina di Bates Krell era il suo ginecologo. «I tuoi capelli», sibilò Byrne. «I tuoi capelli. I ragni». Poi Sarah si staccò dalla parete e in tono di voce quasi normale chiamò: «Dottor Van Horne? La prego di non spaventarsi. Sono io, Sarah Spry». Il medico si voltò verso di lei con tremenda lentezza. Sarah vide le sue carni devastate. La faccia era solo vagamente ricono-
scibile, lucida di un vischioso umore bianco. Lembi di pelle gli pendevano sugli occhi. Le parve che fosse allarmato. Alle sue spalle Ulick ansimava, grattandosi freneticamente la testa dove i ragni avevano cominciato a morsicarlo. «Non abbiamo intenzione di farle alcun male, dottore», disse. «Si ricorda di me? Sono una sua paziente. Sarah Spry.» Era terribile, pensava, che un uomo così distinto come Wren Van Horne avesse contratto una malattia così nauseante. Sembrava che Van Horne le stesse sorridendo e Sarah avanzò verso di lui con l'idea di dargli tutto il conforto possibile. La sua scarpa finì in una pozzanghera tiepida e quando abbassò gli occhi si accorse di avere messo il piede in un laghetto di sangue. «Sarah Spia sarebbe un nome più azzeccato», disse l'uomo sorridente in fondo alle scale. Lei ebbe la sensazione che una piccola mano di bimbo le spingesse la suola insanguinata da sottoterra. Per un secondo avvertì quella pressione e nella mente le passò quell'immagine infelice e inquietante. Si ritrasse, timorosa di guardare per terra, e al dottore chiese: «Che cosa?» Intanto la faccia di lui si alterava, si allungava, con gli occhi che nuotavano fra lembi di pelle in movimento... (Spia, bisbigliò il medico.) ...e quando udì un altro rumore dalle scale e pensò che lei e Byrne erano salvi, corse verso quel rumore, ma poi si fermò e indietreggiò verso l'angolo dove l'aveva trascinata poco prima l'avvocato. Era l'ultimo posto dove si era sentita al sicuro e vi fece ritorno per istinto. Perché in cima alle scale della cucina di Bates Krell aveva visto il piccolo Martin O'Hara che la fissava. Accanto a lui c'era suo fratello Thomas che la guardava da sopra la spalla di Martin con lo stesso sguardo indifferente. DUE Il pipistrello li fuoco 1 Per tutto il giorno seguente Clark e la sua amante bevvero con un impegno degno di miglior causa, quasi partecipassero a una gara e puntassero al primo premio. Cominciarono con la birra, mentre Berkeley, con la mente già ottenebrata, apriva una confezione di pancetta e la schiaffava tutt'intera
sul fondo di una padella annerita. Poi passarono ai superalcolici verso le undici; per pranzo stapparono una bottiglia di vino. Il pasto fu a base di salsicce di fegato su pane di segala ma innaffiato da uno Chardonnay di Napa Valley. Fino a un paio d'ore dopo pranzo Tabby pensò che Berkeley e suo padre stessero reggendo meglio del solito e che probabilmente si sarebbero addormentati davanti al televisore acceso. Ormai capitava ogni due o tre giorni e allora Tabby spegneva le luci, scavalcava le loro gambe allungate e andava a coricarsi. Li trovò in effetti meno accaniti del solito: Berkeley gli arruffò i capelli un paio di volte e suo padre si lanciò in una battuta di spirito per la prima volta dai tempi della partenza di Sherri Stillwell. «Gesù, Clark», cinguettò Berkeley, «mi sono accorta solo ora che sei stato sposato due volte e scommetto che non sei stato felice per più di sei mesi in entrambi i casi.» «La felicità non può comperare il denaro», sentenziò Clark. Berkeley rise e Tabby alzò gli occhi meravigliato: la freddura celava una bugia, ma era lo stesso una battuta di spirito, per quanto amara. Dopo pranzo svanì anche quella fragile spensieratezza. Clark e Berkeley si ritirarono in camera da letto, «per una spremutina», spiegò Berkeley. La definizione fece inarcare le sopracciglia a Clark. «Vuole dire una scopata, ragazzo, capito? Spremutina. Gesù santissimo!» E la sospinse verso la porta. Tabby conosceva a memoria quasi tutto il commento musicale che accompagnava le pratiche sessuali di suo padre e piuttosto che ascoltare il consueto repertorio di grugniti e sospiri preferì ritirarsi in camera sua. Venti minuti dopo fu sorpreso nel sentire rumori che provenivano dalla camera di Clark e che normalmente non arrivavano fino lì. Non erano nemmeno le solite battute volgari. Aveva l'impressione che suo padre stesse piangendo. Verso le due Clark e Berkeley ritrovarono la via della cucina dove Tabby sedeva a leggere un romanzo di Lovecraft che aveva trovato in biblioteca. Berkeley aveva cerchi scuri sotto gli occhi e il padre aveva i capelli tutti in disordine. La bocca di Clark aveva una piega infelice. Berkeley andò direttamente allo sportello del freezer, ne tolse la bottiglia di vodka, si versò due dita di liquore nel bicchiere che aveva usato durante la mattinata e vi buttò dentro una manciata di cubetti di ghiaccio. «Clark?» domandò titubante. «Vuoi dell'Irish?» «Che cos'altro, se no?» ringhiò lui.
Lei gli versò da bere in silenzio. Clark deglutì imbronciato. Fece una smorfia. «Non c'è bisogno che mi stacchi la testa», osservò Berkeley. «Dammi due buone ragioni per non farlo», brontolò Clark. Tabby prese il largo: pensò che quei due poveri esseri umani avviliti non si fossero nemmeno accorti che se ne andava. Appena tornato nella sua stanza, al piano di sopra, ebbe la sensazione di sentire suo padre singhiozzare di nuovo; poi di sentirlo urlare. Chiuse la porta. Andò a finire che si premette le mani contro le orecchie. Quando le urla cessarono, Tabby mise in funzione il giradischi e alzò il volume al massimo. Alle quattro tornò in cucina per una coca-cola. Clark e Berkeley avevano lasciato gli sportelli del frigorifero e del freezer aperti e Tabby li richiuse dopo avere preso la sua bottiglia. Sul lavandino erano impilati piatti sporchi vecchi di giorni e dopo aver bevuto la sua coca Tabby vi spruzzò sopra sapone liquido e aprì l'acqua calda. Berkeley non amava rigovernare la cucina e suo padre, quando lavava i piatti, li rompeva di proposito. Velocemente Tabby lavò tutti i piatti, si asciugò le mani e passò in biblioteca. Quella era una delle quattro stanze provviste di caminetto e sul fondo ancora brillava qualche debole fiammella. Tabby pensò che chiunque avesse acceso il fuoco, doveva avere usato carta di giornale sia per accenderlo sia per alimentarlo. Sullo schermo della televisione passava la pubblicità di una pasta dentifricia. Tabby sentì odore di carta bruciata, di whisky e provò un'emozione oscura. Poi, per un momento, vide le pareti oscillare, incresparsi. Ebbe la vaga sensazione che stessero scivolando verso di lui e allora si buttò da parte ricordando ciò che gli era successo alla biblioteca... un uomo con occhi color del tè che alzava un'arma sotto un cielo tempestoso... Saresti dovuto andare a Fairlie Hill, ragazzo, con gli altri. La bocca gli si seccò. Il cuore gli fece un balzo nel petto. Se proprio in quell'istante non avesse sentito il rutto di suo padre, forse sarebbe svenuto. Si voltò bruscamente e vide Clark che lo fissava, cupo, appoggiato alle tende marrone della finestra. Teneva in equilibrio precario un alto bicchiere colmo di liquido scuro. Gli erano ricaduti i capelli sulla fronte e sembrava quasi fondersi con le tende, ai margini dell'invisibilità. Un paio di mosche gli passarono davanti alla faccia, poi Tabby si accorse di Berkeley che giaceva sul divano contro la parete di fondo, la sottana sollevata e spiegazzata e i capelli sparsi sul volto. Anche lei aveva qualcosa di spettra-
le, come se la vodka le avesse sottratto buona parte della sua sostanza. «Vai», disse suo padre. La sua voce era roca e spezzata dall'emozione. Tabby uscì indietreggiando dalla stanza. Per un po' si sedette sulle scale, troppo confuso per quanto era successo a lui e a suo padre per sapere che cosa fare. Due volte, mentre era lì seduto con le braccia attorno alle ginocchia, Clark passò barcollando per andare in cucina a prendere da bere. Quel fuocherello nel caminetto faceva soprattutto fumo: Tabby ne avvertiva l'odore acre. In biblioteca, la voce della televisione faceva a gara con il vaniloquio di Clark. «Bassifondi», udì dire da suo padre. «Bassifondi.» «Non è colpa mia», lo sentì mormorare poi. Fu investito dall'odore acre di bruciato e solo in quel momento si chiese come mai suo padre si fosse preso il disturbo di accendere il fuoco in una calda giornata d'agosto. Clark gettò un altro fascio di giornali sulle ceneri fumanti e Tabby sentì Berkeley gemere. Fu sicuro soprattutto di una cosa: suo padre era in preda al tormento e avrebbe fatto del male a chiunque avesse cercato di aiutarlo o indurlo a desistere. A sua volta tormentato, Tabby si rifugiò nella sua stanza. Si mise la cuffia, chiuse gli occhi e si tuffò nel cuore della musica. Un'ora dopo uscì sul pianerottolo. L'aria era secca, così secca che sembrava carica di granelli di sabbia. L'odore del fuoco e delle ceneri salì dal piano sottostante. Si portò in cima alle scale. «Papà?» La dolente litania dell'ubriaco gli giunse dalla stanza di sotto, insieme con il rumore metallico del parafuoco che veniva richiuso. «Papà? Che cosa è successo?» «Eh», fu la risposta di Clark. Dei passi pesanti verso le scale; poi apparve suo padre, con la mano stretta attorno al collo verde della sua bottiglia di whisky, la faccia solcata da strisce di cenere. «Faccio fuochi. Fuochi nei focolari dei 'Quattro Focolari', ecco che cosa faccio. Per far ridiventare questo posto caldo. Vuoi aiutarmi?» «Come?» «Vai a prendere dell'altra legna fuori. Molta. Berkeley ha appena buttato della carta sul fuoco. Non è così che si fa. Vai fuori e prendi dell'altra legna.» «Hai freddo?» «Non più. Comincio a star bene, adesso.» I suoi occhi erano vitrei e quelle strisce di cenere gli indurivano i linea-
menti. «Ti senti bene, papà?» domandò Tabby. «Vuoi andare fuori a prendere quella legna o ti ci devo costringere?» Quegli occhi vitrei lo fissavano con un'espressione metallica. Tabby gli passò veloce al fianco, non osando alzare gli occhi verso di lui. Il previdente Monty Smithfield era solito acquistare tre partite di legna ogni inverno, per poi consumarne meno di due nei caminetti dei «Quattro Focolari». Ora ce n'era una bella catasta dietro la casa, sufficiente almeno per tre inverni. Scelse i pezzi più vecchi e stagionati e rientrò ansando per la fatica. «Bravo», gli disse il padre. «Aggiungila al fuoco in biblioteca.» «Tutta?» «Poi esci a prenderne dell'altra. Più o meno altrettanta. E mettila nel caminetto del soggiorno.» «Papà...» «Ne abbiamo bisogno, Tabby», sostenne Clark bevendo un sorso a canna. Tabby raccolse con uno sforzo il suo carico e lo trasportò in biblioteca. Sembrava di essere in una sauna. Posò la legna, spostò il parafuoco e cominciò a sistemare i ceppi sul fuoco che scoppiettava. Una lingua di fuoco si alzò da un interstizio fra i legni, subito seguita da una fiammata. La legna secca s'incendiò come un cumulo di foglie morte. Tabby fu lesto ad allontanarsi e si fece male urtando lo spigolo d'ottone di un tavolino. Si rialzò massaggiandosi la schiena. Alle sue spalle Berkeley Woodhouse gemette sul divano. Tabby si voltò a guardarla ricordandosi solo in quel momento della sua presenza in biblioteca. Gli stava tendendo un bicchiere sporco di rossetto che premurosamente lui le tolse dalla mano. «Me ne versi un altro, vuoi, caro?» gli chiese e Tabby per un momento fu sicuro che lo stesse scambiando per suo padre. Ma Clark apparve in quel momento da tergo e Berkeley sbatté le palpebre un paio di volte e corrugò la fronte: sapeva con chi stava parlando poco prima. «Il ragazzo ha da fare e non deve essere disturbato», brontolò Clark strappando il bicchiere dalla mano di Tabby. «Ti verso io da bere, se è questo che vuoi.» «Ma perché...? Ma perché...?» balbettò Berkeley prima di lasciarsi andare contro il divano senza concludere la frase. «Muoviti», ordinò Clark a Tabby. «La legna. Non sei qui per fare il bari-
sta.» «Vuoi dell'altra legna», replicò Tabby con voce atona. «Per il caminetto del soggiorno. Per il caminetto della cucina. E poi per quello della tua camera da letto.» Clark lo fissò, in silenzio. «D'accordo», concluse Tabby. «Se è quello che vuoi.» «Quello che io voglio», confermò Clark. «Proprio così. Ricordatevelo bene. Tu e quest'idiota qui.» Fece un sorriso feroce e poi agitò la bottiglia verde per scacciare un paio di mosche che facevano evoluzioni nei pressi della sua bocca. Mentre la luce del giorno si spegneva, nelle stanze dei «Quattro Focolari» ardeva il fuoco in ogni camino. Tabby faceva la spola dalla catasta di legna ai locali della casa e mentre fuori calavano le tenebre, i bagliori delle fiamme davano alle stanze un aspetto irreale. In tutta la casa Tabby udiva il rumore dell'aria che saliva nelle cappe. Era umido di sudore e la sua faccia, come quella di Clark, era sporca di cenere e di fuliggine. Con il passare delle ore Tabby smise di chiedersi perché suo padre volesse trasformare la casa in un forno, convinto che fosse solo una conseguenza della sbornia e che l'indomani si sarebbe dimenticato tutto. Perciò cercò di accontentarlo per farlo felice. Le braccia gli dolevano, la testa gli pulsava, dopo aver attizzato per ore e ore i fuochi e a stento si ricordava il suo nome. Era solo vagamente consapevole di Berkeley Woodhouse che si aggirava per la casa, ignorata dal padre. E una volta, mentre entrava con un pesante carico di legna, ebbe l'impressione di sentire suo padre invocare gemendo il nome della prima moglie, quasi avesse visto il suo fantasma. Era impossibile e in ogni caso Tabby era ormai talmente sfinito che faticò a riconoscere il nome della madre. A un certo punto Berkeley spalancò lo sportello del frigorifero per prendere una salsiccia. Tabby non provava il minimo appetito, soffocato com'era dal calore e dalle fitte di dolore ai muscoli. Finalmente salì a lavarsi la faccia e le mani, troppo stanco per pulirsi meglio, e abbandonò suo padre che sorrideva davanti alle fiamme. Si buttò sul letto e sprofondò in un sonno pesante avendo ancora il tempo di udire Clark che strillava: «Un piatto intero di fuoco!» Sognò di dirigersi verso una grande foresta. Alberi giganteschi si aprivano a ventaglio in fondo a una pianura che oscuravano con le loro ombre.
Persino le fronde erano distese a ventaglio, chine verso di lui, e si agitavano mandandogli un messaggio. Sapeva che avrebbe fatto bene a fuggire, fare dietrofront e filare a gambe levate. Anche gli alberi glielo stavano dicendo. Dalla grande foresta giungeva un'ondata di malvagità, di cattiveria quasi tangibile. Sarebbe dovuto fuggire, ma non poteva fare a meno di avvicinarsi, doveva vedere che cosa si nascondeva fra quegli alberi, sotto quei rami. E quando fu più a ridosso cominciò a udire rumori di animali. Erano animali che soffrivano, che guaivano o gridavano di terrore o dolore. Insieme a questi suoni terribili di dolore e di morte, udì il rumore di battaglia ancora in corso: corpi che urtavano i tronchi, il terreno dilaniato da artigli e zoccoli. Alcuni animali urlavano con voce di donna, stridula e terrorizzata. Nella foresta gli animali si scagliavano gli uni contro gli altri e se Tabby fosse penetrato anche di un solo passo nel folto del bosco, sarebbero balzati su di lui e gli avrebbero strappato il cuore dal petto. Quel grido, come di donna, echeggiò nell'aria sopra la sua testa. Quando aprì gli occhi, con le mani strette all'orlo caldo del lenzuolo, vide una fonte di luce mobile e scintillante nel mezzo della stanza buia. Aveva già visto quel bagliore, ma non ricordava più dove. Poi rammentò suo padre, ubriaco, seduto al tavolo della cucina, qualche giorno prima, con quella luce dietro la nuca. L'aria nella stanza era diventata soffocante, impregnata dell'odore di fumo di legna, acre ma rassicurante. La spirale di luce ferma ai piedi del suo letto si stava avvitando su se stessa, concentrandosi. Tutti quegli animali impazziti nella foresta... Tabby si rannicchiò nel letto rendendosi conto solo in quel momento di avere inzuppato le lenzuola di sudore. Il bagliore mutò forma prendendo le sembianze di una faccia ancora anonima. Il corpo di Tabby si irrigidì e i suoi polmoni si riempirono di una grande boccata di aria fragrante di fumo. La faccia bianca davanti a lui, che ancora andava trasmutando, era infantile e con i tratti solo abbozzati, ma lentamente la fronte assunse contorni più netti, si delinearono sporgenze sopra gli occhi, il mento si allungò, le orecchie si protesero all'infuori. Infine la faccia prese vita e sogghignò. Era la faccia di Gideon Winter, il suo vero volto sotto quello che aveva mostrato al mondo. La faccia bianca di Gideon Winter si avvicinò a lui come gli alberi del suo sogno. Tabby intuì, più che vedere, indumenti neri permeati di odore di fumo di camino. La bocca enorme si aprì mostrando denti aguzzi. Una
lingua simile a una lunga serpe si allungò oscena verso di lui. Lontano, al di là della finestra, l'animale ferito mandò nuovamente il suo verso. Ma non era un animale. Si rese conto che era il grido di una donna. La faccia davanti a lui svanì tremando nell'aria come uno sbuffo di fumo, lasciandosi dietro soltanto un odore cattivo. Tabby lasciò il letto tremando. La sua stanza era piena non solo di tenebre, ma anche di fumo. Raggiunse la finestra proprio mentre un altro grido angosciato si levava nella notte. Nel prato davanti alla villa vide due persone dibattersi nelle tenebre e nel fumo. Era una scena che aveva visto ripetersi sovente nelle ultime settimane; tutti ad Hampstead avevano assistito a queste oscure, ma accanite battaglie. Forse fu per questo che Tabby impiegò qualche istante prima di riconoscere le persone che lottavano sul prato. Ma, subito dopo avere capito, la sua mente si rifiutò di accettare che fossero suo padre e Berkeley Woodhouse. Ebbe ancora qualche dubbio vedendo suo padre muoversi con un'agilità e una forza fisica che da anni non possedeva più. E vide anche che aveva un'aria soddisfatta, come da tempo non gli capitava più. Fu allora che si accorse che le macchie rosse sul viso di Berkeley non erano belletto, ma sangue. I muscoli della schiena di Clark si contrassero di nuovo e il suo pugno le ridusse il naso a una poltiglia. Mentre Berkeley si portava le mani al viso, Clark le fece perdere contatto con il terreno con un calcio alle gambe. Appena la donna toccò terra, Clark le piazzò una pedata alle costole, con soddisfazione. Un altro grido di dolore salì verso Tabby. Clark, quasi a passo di danza, avanzò per sferrarle un calcio alla testa. Berkeley gemette e Clark mirò più in basso. Le lunghe gambe di Berkeley si agitarono sull'erba. Il calcio particolarmente violento che Clark le assestò al ventre la fece rotolare sul terreno. Il corpo di Berkeley si contrasse convulsamente mentre la sua faccia veniva momentaneamente annebbiata da una nuvoletta di fumo bianco e Clark poté colpirla alla faccia senza il fastidio di doversi spostare. Tabby vide la sua gamba muoversi due volte, come un pistone, e subito dopo vide che l'erba ai piedi di suo padre cambiava colore, diventava più scura. Sui calzoni di Clark erano apparse macchioline rosse. La nuvoletta bianca si allontanò pigramente e Tabby, vedendo com'era ridotta la faccia di Berkeley, riuscì a muoversi. Sollevò il vetro della finestra e si sporse. «Papà! Papà! Fermati!» gridò. Clark si voltò e alzò la testa verso di lui. La sua espressione era felice,
come Tabby temeva. Inconsapevolmente raggiante. «Voltati, Tabby», gli gridò Clark. «Adesso tocca a te.» «Papà», gridò ancora Tabby. «Chiamo l'ambulanza.» «Guardati attorno, Tabby», gli disse Clark ridendo, ma questa volta non era un sorriso di quelli a cui l'aveva abituato. Era più dolce e più formale. Quindi s'incamminò verso la casa, abbandonando il corpo di Berkeley nell'erba. Scomparve sotto la tettoia della veranda. Tabby udì il tonfo della porta d'ingresso. Restò ancora a contemplare angosciato il corpo immobile di Berkeley sperando che gemesse, si muovesse... ma sapeva che era morta. Si udì sbattere una porta all'interno, quella della biblioteca. Tabby si voltò e fu come se tutta la casa ridesse. La stanza non era la sua, era più piccola, più ingombra di cose: vide un paio di sci appoggiati all'anta dell'armadio a muro, la custodia di un trombone accanto al letto, un leggìo davanti alla finestra. Tabby non sciava e non suonava il trombone; non sapeva leggere la musica; e non c'era mai stata una finestra in quella parete. Sentiva però ancora quel penetrante odore di fumo di legna, anche se non lo vedeva più. A passi prudenti Tabby attraversò quella camera sconosciuta dirigendosi verso la finestra. Quando guardò fuori non vide Greenbank, ma un prato più esteso del suo, che non finiva in un brusco pendio sopra la strada: lì c'era uno steccato bianco. Sull'altro lato della strada c'erano case di campagna, modesti casolari raggruppati. Gli alberi erano diversi e ricordarono a Tabby quelli che aveva visto nella Florida settentrionale. Il fondo stradale era striato di linee nere di catrame. A un angolo che non era mai esistito c'era un cartello in cima a un alto paletto. Sforzando la vista Tabby riuscì a leggere: «Maple Lane». Come gli oggetti della sua stanza, anche quel nome gli era sconosciuto, sebbene gli ricordasse qualcosa, come un particolare incontrato in un sogno. Di sotto suo padre ruggiva come un animale feroce. Tabby provò una stretta al cuore quando capì che stava ridendo. Maple Lane. Una stanza con una tappezzeria a rampicanti e un paio di sci appoggiati a un ripostiglio. Quasi sapeva che cosa avrebbe trovato dietro la porta. Si domandava: se usassi il telefono, parlerei con la centrale di polizia di Hampstead o con quella di questo mondo inventato?
Fuori della camera il pianerottolo era invaso da un fumo invisibile che irritò gli occhi e i polmoni di Tabby. «Aiuto!» gridò. «Papà!» «Vuoi qualcosa?» gli chiese la voce di suo padre, calma, da dietro le sue spalle. Tabby si voltò bruscamente, così spaventato che gli venne voglia di fare pipì. Era la voce di suo padre, ma non era suo padre. Fra lui e la parete c'era un uomo snello, assai più giovane di Clark. L'acne gli aveva butterato la faccia di minuscole cicatrici. Tabby lo giudicò una persona adatta alla compagnia dei gemelli Norman: aveva un aspetto da criminale. Portava un berretto in testa e un abito grigio che, in un secondo tempo, Tabby riconobbe come appartenente a suo padre. Indietreggiò di un passo. «Torna nella tua stanza, Spunks», gli disse quella creatura. «Ho un piatto intero di biscotti per te.» Sorrise a Tabby e quel sorriso gli gelò il sangue nelle vene. «Un piatto intero, piccolo amico.» «Papà», ripeté Tabby. «C'è papà», intonò la creatura con la voce di suo padre, mentre si avvicinava come scivolando. Tabby si voltò e corse verso le scale che, stranamente, era sicuro di trovare in fondo a quel corridoio. Alle sue spalle la creatura con la voce di suo padre si mise a ridere. Mentre scendeva a precipizio le scale il calore aumentò. Udiva, senza vederli, i fuochi accesi in soggiorno e nella biblioteca... rumori di combustione, scoppiettare di fiamme che consumavano avidamente il loro nutrimento. Giunse in fondo alle scale ed entrò di corsa in un soggiorno dove c'era un divano di cintz e merletti alle finestre. Su un tappeto accanto al camino di pietra c'era una grande pendola. Il caldo era insopportabile, sembrava che la stanza stessa fosse sul punto di trasformarsi in un rogo. C'era una porta di legno che dava in una grande cucina e Tabby la superò di slancio con l'unico intento di uscire all'aperto, quello autentico però, quello di Greenbank. Una donna che si trovava in piedi davanti all'acquaio si voltò e gli sorrise. E fu in quel momento che Tabby si rese conto di dove si trovava. Con addosso un modesto vestitino marrone dal colletto bianco, Grace Jameson (ma con la faccia della sua vera madre) lo accoglieva nella cucina di C'è papà, teatro di tanti episodi. Insieme con l'odore semplice e primitivo del fuoco avvertì quello di manzo arrosto. Si bloccò. Gli si bloccò il respiro. «Oh, caro», disse sua madre. «Eccoti finalmente! È da un po' che ti aspettiamo. La cena è quasi pronta. Non credi che faresti bene a salire in
camera tua a darti una rinfrescata? Sai che tuo padre ti sta aspettando.» «Billy Bentley», mormorò lui con gli occhi sgranati sulla faccia di Jean Smithfield. Era in tutto e per tutto come la ricordava il giorno della sua morte, dieci anni prima. Era diversa da quella che gli era stata indelebilmente scolpita nella memoria dalle fotografie conservate da Clark. Si rese conto che quando si faceva fotografare serrava la bocca e marcava la schiena. A ventinove anni sua madre era più bassa di quanto avesse creduto, più dolce e più fragile. «Non diciamo sciocchezze», lo rimbrottò lei. «Coraggio, giovanotto, subito di sopra.» «Mamma», disse lui. Jean Smithfield gli si avvicinò. Aveva sul viso un'espressione di affetto profondo e una punta di rimprovero. Poi sorrise e levò la mano verso la sua spalla in un gesto scherzoso. Tabby sentì il desiderio di buttarglisi fra le braccia, ma un'ondata d'aria calda, aria così infuocata da liquefare il ferro, lo investì respingendolo. La madre gli sorrideva ancora, ma intanto le sue mani si erano trasformate in piccoli focolai; in pochi istanti le fiamme avevano avvolto le braccia raggiungendo i suoi capelli. Dietro il suo viso sorridente Tabby vide il biancore delle ossa. Spiccò un altro balzo all'indietro, mentre la madre vacillava minacciando di cadergli addosso e le fiamme si diffondevano sul suo viso e sul petto. Senza guardare, Tabby allungò lateralmente una mano e incontrò la vampa di un fuoco invisibile. Lanciò un grido di dolore e quasi la sua mente si bloccò, come una macchina sovraccarica. La casa ardeva attorno a lui, ma le fiamme non si vedevano. Sua madre cadde in ginocchio, le mani sempre tese verso il figlio. Tabby si spostò per allontanarsi dal lato che andava a fuoco, ma non riusciva a distogliere gli occhi da Jean. Era un'informe sagoma di fuoco dalla quale sporgevano le braccia alzate. Nella mano bruciata avvertiva fitte lancinanti. Non aveva bisogno di guardarla per sapere che stava diventando rossa e gli si stavano aprendo delle vesciche. Il padre si mise a ridere alle sue spalle e Tabby si voltò di scatto preparandosi a vedere Billy Bentley. Ma era suo padre, con l'abito grigio, il bicchiere pieno di whisky nella mano. Quando qualche goccia di liquore cadde per terra, immediatamente fu divorata da altrettante fiammelle. «Non è stupendo?» esclamò Clark. «Tutti di nuovo assieme per l'ultima
volta! E alla televisione, poi!» Barcollò, si terse il sudore dalla faccia, sogghignando come un pazzo. «Di sopra, ha detto tua madre, l'hai sentita, figliolo. Fila adesso e preparati per cena.» Alcune fibre della manica sinistra della sua giacca si andavano scurendo e cominciavano a fumare. Nel vortice di fiamme che aveva consumato Jean Smithfield si dibatteva, nella fatica della nascita, una forma che Tabby aveva già visto due volte in precedenza, si distendeva, trovava le sue ali. «Un piatto intero di fuoco», commentò Clark pensieroso. «Era così, no? Un piatto intero di fuoco. Chissà quante volte l'hai ripetuta questa frase, proprio in questa cucina.» Stava parlando di Richard Albee, non di lui. Il Drago gli stava dicendo che anche Richard sarebbe morto quella sera. Il Drago voleva che lo sapesse. «Ti aiuto a salire di sopra, Spunky», disse il padre venendo verso di lui sulle gambe malferme. Tabby si allontanò di un passo dal lato della stanza dove il rogo era più intenso e di nuovo lanciò un'occhiata al bagliore che si andava consumando al centro della cucina. Poi un altro movimento catturò la sua attenzione e attraverso le fiamme vide Billy Bentley appoggiato a un muro infuocato. Gli sorrideva dolcemente con la sua faccia butterata. Billy abbassò una mano e gli mostrò il medio teso facendolo apparire come un coniglio da un cilindro. «Bisogna che andiamo», disse Clark a disagio. «Non... Non c'è più molto tempo...» Tabby indietreggiava. Non sapeva dove andare, ma sentiva di doversi allontanare da quella pira di fuoco quasi solido al centro della cucina. Il caldo gli stava bruciacchiando le sopracciglia. Billy Bentley era ancora appoggiato alla parete infuocata, a mostrargli il dito medio. «È l'ultimo episodio della serie?» domandò Clark sbattendo le palpebre. La bocca di Billy si aprì in una risata silenziosa. Stava per morire. La casa andava a fuoco e lui e suo padre erano lì, intrappolati da C'è papà, e non trovavano nemmeno una via d'uscita. Continuando a camminare all'indietro, Tabby vide emergere dal rogo centrale la testa del pipistrello di fuoco che subito puntò su di lui le orbite vuote. Appena il pipistrello di fuoco l'avesse visto, lui sarebbe morto: tutta la cucina, la casa intera, sarebbe esplosa. «Ehi, figliolo», lo richiamò Clark. «Che cosa cavolo è successo a Berkeley? Gesù, ma perché questo whisky è così caldo?» «Papà, scappa! Esci di casa!»
La testa del pipistrello di fuoco si voltò avida verso Clark. Una grande ala scaturì dalle fiamme con un crepitio e si distese per tutta la larghezza della cucina, scagliando il padre contro il lavello e ricoprendolo all'istante di fiamme. Tabby vide il whisky prendere fuoco. Poi vide gli indumenti di suo padre polverizzarsi. Clark mandò un gemito di dolore quando la sua pelle cominciò a sfrigolare. «Noooo!» urlò Tabby assistendo impotente all'agonia del padre. Un'altra ala enorme uscì dalle fiamme. In preda alla disperazione Tabby si voltò dall'altra parte. Singhiozzando si mise a correre allontanandosi dal calore. Non sapeva dove stesse andando, ma la temperatura dell'aria gli indicava dove i focolai erano meno intensi. Le sue dita toccarono una parete surriscaldata. Udì sbattere le enormi ali dietro di sé. Tastò la parete con i polpastrelli sperando di sbagliarsi e sapendo che così non era. Sotto le dita sentì una intelaiatura di legno. Trovò lo stipite di una porta e la spalancò immediatamente stentando a credere che esistesse veramente: un soffio di aria fresca lo investì. Si tuffò in quell'apertura. Una carezza lancinante gli scivolò lungo la schiena come il tocco di una spada di fuoco. Stava precipitando nelle tenebre, sbattendo la testa, le braccia e la schiena, urtando spigoli di legno... Rotolò fino in fondo e si fermò. Aveva la faccia bagnata, fredda. Aveva la sensazione di sanguinare: la testa gli doleva e le labbra gli si andavano gonfiando. Lì l'aria sembrava gelida. Aprì con cautela gli occhi e vide solo oscurità. Lentamente si rese conto di trovarsi in cantina. L'umidità che avvertiva sulla faccia era sudore e non sangue. La cantina gli parve una ghiacciaia dopo il calore insopportabile della casa in fiamme. Si allontanò dal fondo delle scale per timore che quella cosa che c'era di sopra spedisse fiamme in cantina. Gambe e braccia protestarono, ma si mossero ubbidienti: non si era fratturato niente rotolando giù. Si obbligò a reggersi in piedi. Provò a muovere adagio la mano bruciata, respirando lentamente. Camminò all'indietro finché raggiunse una parete, contro la quale si appoggiò. Piangeva, ma era più una sensazione che una consapevolezza. Tenendosi a ridosso del muro di cemento si spostò là dove le tenebre erano più fitte. Da sopra gli giungevano rumori di battaglie e tumulti. Sentiva il fuoco acquistare forza, travolgere l'abitazione. E in quel fracasso udiva una corrente sotterranea di voci che mandavano richiami indistinguibili, forse invocando il suo nome.
Trattenne il respiro cercando di dominare il suo inutile pianto. Si asciugò la faccia con la mano non ustionata. Si allontanò quanto più possibile dalle scale. Una voce gridò: «Vieni su, figliolo». Non era la voce di suo padre. Tabby vide Clark saltellare sul prato di casa, uccidendo Berkeley a suon di calci. «Vieni su. Subito.» Tabby si voltò e premette la faccia contro il cemento duro e fresco. Era anche ruvido e a Tabby parve di avere degli spilli sotto la pelle. Tremante, cercò di abbracciare quel muro scomodo. Un boato invase la cantina insieme con una nuova vampata. Tabby distolse lo sguardo, ma non prima di avere scorto una muraglia di fiamme precipitarsi giù per le scale. Si appiattì contro la parete. Udì l'incendio diffondersi lungo le scale e attaccare il terreno. Alzò la testa e vide la terra in fiamme riflessa in una delle finestrelle. 2 Nove ore prima Graham Williams stava fissando con rancore un giovane in camicia a righe rosse, farfallino e blazer blu che sedeva a uno scrittoio nello studio di un elegante edificio georgiano di Old Post Road, a Hillhaven. Lì aveva sede la Hampstead-Patchin Historical Society e il giovanotto, unica persona presente oltre a Graham, era un assistente alle dipendenze dell'istituto. Sebbene momentaneamente disorientato, il giovane sembrava perfettamente a suo agio e ciò contribuiva in parte all'irritazione di Graham: quel moccioso si comportava come se fosse nato in uno schedario d'archivio. «Hai più problemi di quanto tu creda, ragazzo», lo apostrofò Graham affondando le mani nelle tasche dei calzoni e curvandosi ancor più per inchiodare il suo interlocutore alla poltroncina di pelle con uno sguardo da incenerire. «Lascia perdere questa nuova cosiddetta norma che ti sei inventato di sana pianta. Lascia perdere...» «Gliel'ho detto. Il direttore ha tanto insistito. Non possiamo più lasciare entrare il pubblico nell'archivio. Quest'estate abbiamo avuto già troppi problemi... Se le raccontassi quanto...» «E non mi interrompere, moccioso! Già come storico hai qualche problema. Sei un ignorante, visto che non hai mai sentito parlare dell'Estate Nera. Uno dei periodi cruciali nella storia di questa regione. E per te è una
pagina che non esiste nemmeno.» Il giovane sospirò e si appoggiò di traverso allo schienale della sua poltroncina, come per sottrarsi allo sguardo di Graham. «Io sono specializzato in storia europea. Lei fa riferimento ad avvenimenti di interesse solo locale. Non mi pare comunque che lei sia qualificato per criticare la mia competenza professionale.» «Io ho visto con i miei occhi più storia di quanta tu ne abbia mai letta!» «Signor Williams. Così non concluderemo mai niente. In effetti ho sentito parlare di questa cosiddetta Estate Nera. Anche se devo ammettere che non so che cosa sia successo all'epoca. Ora, se volesse essere così gentile da sedersi a uno di quei tavoli, io andrò nell'archivio a prelevare per lei tutto quello che sia pertinente. Le pare possa andare?» «Accetterò, ma la risposta è no.» Williams indietreggiò di un passo e smise di cercare di fulminarlo con le sue occhiatacce. «Adesso cominciamo a ragionare.» Il giovane si alzò abbottonandosi il blazer. Era elegante e affettato, un po' effeminato, a parere di Graham. Girò intorno al suo scrittoio con un sorriso quasi invisibile di compiacimento sulle labbra. «Se vuole sedersi in sala di lettura...» Graham lo trafisse con un'altra occhiata torva. «Ne hai sentito parlare, hai detto. Che cosa hai sentito?» Il giovane scrollò la testa. «Cercherò di ricordare mentre prenderò i libri che le servono.» Graham gli voltò le spalle disgustato e uscì dallo studio per passare in un locale assai più ampio in cui l'istituto aveva collocato numerosi lunghi tavoli. Alle pareti erano appese carte geografiche e ritratti e dipinti di case; contro le pareti c'erano scaffali che contenevano manoscritti rilegati e libri di disegni e bozzetti. Graham lasciò cadere le sue penne e i suoi taccuini su uno dei primi tavoli facendo più baccano possibile. Poi tornò a ficcarsi le mani in tasca e passò rapidamente in rassegna i dipinti, già visti e rivisti tante volte in passato. Si fermò davanti a una mappa disegnata a mano del litorale di Hampstead-Patchin; paludi e acquitrini con un indiano che tendeva la corda di un arco sul luogo del massacro del 1645; una giubba rossa sull'attenti alla Punta Kendall. L'autore, alquanto approssimativo nei particolari, aveva scritto la data della sua opera sull'angolo inferiore destro: 1803. Spesso Graham aveva pensato che gli sarebbe piaciuto poter conoscere l'anonimo disegnatore. Gli avrebbe suggerito di aspettare altri otto anni prima di portare a compimento la sua opera. Se avesse disegnato la mappa nel 1811, sicuramente alla Punta Kendall avrebbe messo un perso-
naggio più interessante. «Signor Williams? Signor Williams?» Graham si voltò bruscamente, quasi strappandosi dalla contemplazione della mappa e dalle sue preoccupazioni. Il giovane assistente lo aspettava davanti a una montagna di libri e carte; sembrava ancor più contento di sé. «Ho trovato parecchio materiale», annunciò. «Qui ci sono copie dei giornali e dei manifesti di New Haven sui mesi estivi del 1873, copie del giornale di Patchin e tutti i libri che ho ritenuto potessero esserle di aiuto, anche se in minima parte... e ho anche ricordato quello di cui si parlava poco fa.» Con l'indice spinse in avanti un libriccino con la rilegatura grigia della biblioteca. «Mai sentito parlare di Stephen Pollock?» Graham scosse la testa con impazienza. «Sembra che Pollock abbia influenzato Washington Irving. Comunque, questo Pollock scrisse un libro intitolato Viaggi curiosi. Un diario. Era a questo che pensavo, prima. Si trovava nel Connecticut nel 1873 e viaggiò in carrozza da New York a New Haven.» Con un sorriso smagliante puntò una penna a sfera verso la porta d'ingresso. «Questo significa che è passato per questa casa. È stato in Old Post Road.» Graham mise da parte il diario di Pollock con l'intenzione di esaminarlo più tardi e trascorse alcune ore a scorrere le copie mimeografate dei giornali relativi all'estate del 1873. Quello che trovava più sorprendente era la mortale indifferenza, l'apatia in cui era piombata la città durante l'Estate Nera. Qua e là trovò riferimenti a modifiche negli orari dei servizi di trasporto per carrozza o ai percorsi per le spedizioni di merci; nel giornale di Patchin trovò un accenno ironico all'improvvisa prosperità degli impresali di pompe funebri e al moltiplicarsi degli spiccioli nelle tasche dei becchini. Quel che più faceva meraviglia era che nessuno era parso meravigliato: metà della popolazione cittadina era deceduta e nei centri abitati vicini la gente chiudeva gli occhi e scherzava sui becchini arricchiti. Per anni avevano fatto finta che Hampstead non esistesse nemmeno. Ancora ignorando il libro di Pollock, Graham spedì l'assistente in archivio a cercare informazioni sull'incendio di Patchin del 1779: desiderava avere un quadro degli avvenimenti relativi al ciclo trentennale. Tryon che sbarcava a Punta Kendall: i mercenari inglesi e tedeschi invadevano quel lembro di terra e nel mezzo di una tempesta violenta mettevano a ferro e fuoco case e fattorie. I soldati avevano calpestato la tomba di Gideon Winter per mettere a
sacco la città. Punta Kendall. A volte Punta Kendall sembrava protendersi verso Hampstead come avesse l'intenzione di ghermirla... come se si nutrisse di essa. Un senso di gelo invase Graham che si vide così com'era, un vecchio con la schiena incurvata, non più molto forte, con una sola arma: la voce. E proprio la voce avrebbe usato contro Punta Kendall e Gideon Winter; per certe idee sulle quali aveva rimuginato per cinquant'anni; perché una volta aveva combattuto contro un folle su un'imbarcazione avendo la sensazione di combattere contro qualcosa di assai peggiore. Da quanto tempo non rivedeva più Punta Kendall? Si rese conto di non esserci più stato dai tempi in cui aveva cominciato a svolgere ricerche sulla storia di Hampstead. A quei tempi era poco più che un ragazzo era andato a dare un'occhiata a quel lembo di terra. Non aveva visto... niente. Aveva guardato alberi, rocce, l'acqua. Era sceso nella gola creatasi in seguito agli avvenimenti del 1811; e anche lì aveva esaminato i massi, la terra, le grotte consumate dall'erosione, i tenaci arbusti della vegetazione selvatica che avevano invaso ogni cosa. Niente. Aveva guardato, ma non aveva visto. Aveva riflettuto sui soldati di Tryon e su come erano sbarcati; non aveva prestato attenzione sufficiente alla Punta in sé, al nucleo di quello che lo circondava. Quasi senza rendersene conto, Graham si allontanò dal tavolo e si alzò. Tornò a guardare la mappa disegnata a mano. Nella sua leggera cornice di legno gli sembrò decorativa come quei quadretti che spesso si trovano appesi nelle stanze dei bambini. Si avvicinò a quella mappa dall'aria innocente, così poco accurata. Là dove c'era Greenbank l'autore aveva disegnato due piccole fattorie vicino a un'ampia palude. Per un momento Graham contemplò con aria cupa le due casette; poi guardò di nuovo Punta Kendall. Era più grande, più ingombrante che nella realtà. La giubba rossa era ferma sull'attenti nel bel mezzo di questa Punta distorta, con il moschetto in spalla. Graham socchiuse gli occhi e avvicinò la faccia: non aveva mai scrutato attentamente la fisionomia di quella minuscola giubba rossa. A un tratto si sentì paralizzare. Con gli occhi a pochi centimetri dal vetro che proteggeva la carta geografica, aveva visto la figurina muoversi. La giubba rossa stava abbassando il moschetto, divaricava le gambe. La sua bocca si aprì in un ghigno: non era più un disegno, era grottesco e vivo e stava per imbracciare il suo fucile. Paralizzato dallo sbalordimento, Graham si rese conto solo marginalmente che i contorni della mappa si
stavano modificando attorno alla figurina. La giubba rossa alzò il fucile e prese la mira. Quando premette il grilletto Graham sentì un pop simile all'espostone di un palloncino. Un attimo dopo una minuscola stella di crepe apparve nel vetro che copriva la mappa. Graham spiccò un balzo all'indietro temendo per un secondo di essere stato colpito dalla pallottola. Poi la vide, conficcata nel vetro rotto, un puntino nero di metallo, grosso come un moscerino. Una minuscola fiammella guizzò nel mezzo del petto della giubba rossa. Subito prima che il giovane assistente entrasse di corsa in sala di lettura, Graham notò finalmente che cosa era successo alle linee della mappa. La costa che andava da New Haven alla frontiera di Norrington si era trasformata nel profilo bestiale di un drago cornuto. Gli sfuggì un gemito, avvertendo una fitta acuta e improvvisa, come se davvero avesse ricevuto una pallottola nello stomaco. «Signor Williams, che cosa è successo?» domandò il giovane. Si era precipitato con tale ansia che aveva dimenticato di abbottonarsi il blazer. Poi notò la mappa. «Ma che cosa ha fatto?» Si voltò a guardare Graham a bocca aperta, poi tornò a guardare la carta incorniciata. Dietro il vetro le fiamme la stavano divorando. La piccola giubba rossa si era carbonizzata. «Mio Dio», mormorò l'assistente. Si avvicinò e afferrò la cornice per staccarla dal muro, ma ritrasse immediatamente le mani con una smorfia. «Sta bruciando!» gridò, sempre stupefatto. Si tolse in fretta il blazer e se ne servì per afferrare un bordo della cornice. Tentò di staccare la mappa dalla parete, ma il vetro appiccò fuoco al legno della cornice, che cadde a terra. «Ma che cosa...?» esclamò fissando spaventato Graham. «L'estintore», disse Graham. «C'è bisogno di un estintore.» «Aspetti qui, signor Williams», rispose il giovane. «Dico davvero. Lei aspetti qui.» «È meglio che ti sbrighi.» L'assistente guardò angosciato le fiammelle che lambivano la mappa, poi si voltò e uscì di corsa. Graham si avvicinò alla mappa e la calpestò per spegnere le fiamme. Lontano udì una porta sbattere. Si avvicinò lentamente al lungo tavolo e raccolse le sue penne e i suoi taccuini. Fece scivolare il diario di Stephen Pollock fra le proprie carte. Era già all'esterno e aveva percorso un lungo
tratto del vialetto di ciottoli prima che la porta lontana sbattesse di nuovo. Con il fiato corto avviò il motore. Un attimo prima di partire lanciò un'occhiata verso le finestre dell'istituto e vide dietro i vetri il giovane assistente gesticolare. Inserì la marcia, schiacciò il pedale dell'acceleratore e partì con un sobbalzo. Puntò in direzione di Patchin, allontanandosi da Hampstead, e azionò la freccia prima di svoltare l'angolo dell'isolato. Ma poi continuò diritto verso Harbor Road e non tornò in direzione di Mount Avenue e Greenbank. Stava andando a Punta Kendall. Dove la strada finiva, davanti a un muro sgretolato, Graham parcheggiò l'automobile e proseguì a piedi, lentamente, sulla superficie screpolata dell'asfalto. Sollevò il piede per posarlo sul muretto sentendosi già in preda a un'eccitazione incontrollabile. Aveva capito che ciò che gli era sfuggito l'altra volta, era il tono, quel particolare tono febbrile e gaio del Drago. Spaziando con lo sguardo verso Punta Kendall, Graham si sentì vent'anni di meno; anzi, trenta. Aveva il solito dolorino al torace, le pulsazioni nel ginocchio destro e le fitte nella schiena, ma era sulla soglia della scoperta. Ne era certo. E lo sapeva anche il Drago. Come Tabby Smithfield da solo sulla Gravesend Beach, anche Graham avrebbe potuto gridare: «Fammi vedere!» con uguale, provocatoria temerarietà. Davanti a Graham si allungava un canalone verdeggiante e profondo forse sei o sette metri, con lati in dolce declivio ed enormi massi sul fondo che ne facilitavano l'attraversamento. Al di là del canalone si stendeva una piana erbosa con una macchia di antiche querce e abeti al centro; ai margini la zona era paludosa e terminava con una spiaggia di pietrisco poco prima del bagnasciuga. Dal punto in cui si trovava Graham, alla fine della strada, fino al limite estremo della Punta c'erano circa duecento metri. La zona abitata raggiungibile su Harbor Road, quella che ora si trovava alle spalle di Graham, gli apparve più o meno come l'aveva vista l'ultima volta che si era recato a Punta Kendall. La Depressione aveva colpito dieci anni prima quell'angolo oscuro di Hillhaven per non abbandonarlo mai più. Graham vide quanto il Drago avesse guastato quel luogo. Subito a ridosso dell'ultimo tratto di strada in curva si ergeva una costruzione bianca con una terrazza di cemento parzialmente visibile dietro un alto steccato. Nella facciata che dava sullo Stretto si apriva una lunga vetrata al pianterreno, mentre ai piani superiori c'erano file di finestre più piccole: a una di esse era appeso ad asciugare un collant; a un'altra ammiccava una lanterna.
Graham aveva sempre pensato che lì ci fosse un bar, ma non c'era insegna; per questo motivo e per quella fila di finestrelle aveva concluso che dovesse trattarsi di una casa di tolleranza. Aveva l'aspetto di un bordello; uno di quelli malfamati, dove c'è rischio di essere rapinati. Più avanti, sulla strada dissestata che passava davanti alla casa bianca, c'era una mezza dozzina di costruzioni più piccole, il corrispondente locale di Poor Fox Road. Esattamente come una generazione e mezzo prima, quelle abitazioni sembravano abbandonate, adescatrici. Graham, guardando quella teoria di case vuote e invitanti, sentì che aspettavano le loro vittime. Graham si issò sul muretto, si voltò a lanciare un'occhiata alla sua automobile e alle costruzioni, quindi saltò dall'altra parte, nel territorio del Drago. Per prima cosa doveva scendere nel canalone, arrampicarsi in cima ai massi e da lì risalire fino alla punta. La disposizione dei massi facilitava il cammino e se fosse stato ancora giovane avrebbe cercato di scivolare sulle suole mantenendosi in piedi. Gli parve che i cespugli di rododendro selvatico che crescevano sui lati del canalone lo invitassero a servirsene come appiglio, o come freno nel caso si fosse trovato a scendere troppo velocemente. Muovendosi con prudenza estrema e mantenendosi sulla destra, Graham cominciò a scendere costeggiando il declivio. Sentiva la terra compatta sotto le sue scarpe da ginnastica. Cercò di mantenersi in equilibrio aiutandosi con le braccia e scese di un altro passo. Presto avrebbe raggiunto i rododendri e avrebbe potuto aggrapparsi agli arbusti. Scese di qualche altro passo ancora e sentì le caviglie indolenzite per la tensione. S'inclinò un po' di più e posò la mano destra sul terreno per sorreggersi. Il piede sinistro trovò un appiglio quindici centimetri più in basso, a tentoni il destro lo superò trovando a sua volta un punto d'appoggio. Graham trasse un sospiro che fu quasi un grugnito. Era più complicato di quanto avesse immaginato. Allungò nuovamente il piede sinistro e la suola incontrò la superficie sdrucciolevole del muschio. Dondolò per qualche istante, rischiando di cadere, e affondò le dita nell'erba: la gamba sinistra continuò a scivolare finché la scarpa trovò un tratto di terreno compatto e si arrestò. Gesù, ma perché lo faccio? pensò mentre affondava le dita nel terreno e si aggrappava a radici e cium d'erba. Perché sono venuto qui? Alzò gli occhi verso il margine superiore dell'avvallamento e vide un cielo nero ruota-
re oltre il bordo mentre il terreno si sollevava disordinatamente. Graham mandò un lamento più forte. Il pendio al quale stava aggrappato si andava sollevando come una scala a pioli che improvvisamente si alzi a perpendicolo. La luce si era spenta. Graham vide brillare il quadrante del suo orologio da polso mentre nelle orecchie gli risuonava un sospiro roco e asmatico che scambiò per la risata delle case semidistrutte, prima di accorgersi che gli usciva dal petto. Precipitò di colpo nel buio della notte. Nel punto in cui aveva affondato le dita, la terra si arroventò e gli ustionò la mano e una radice che gli sfiorava il palmo all'improvviso divenne bollente come un tubo dell'acqua calda. Graham annaspò alla ricerca di un qualsiasi appiglio, ma scivolò immediatamente per un paio di metri graffiandosi il ventre e la faccia sulla superficie ruvida dei sassi. Poi fu come se un rododendro gli si fosse avvinghiato attorno alle mani fermando volontariamente la sua caduta verso i massi. Graham si aggrappò al cespuglio e per qualche istante si sentì al sicuro. «Aiuto!» gridò, pensando che forse una delle ragazze al bar potesse udirlo. «Aiuto!» Ma sapeva che le ragazze che lavoravano in quel locale dovevano già avere udito e ignorato chissà quante strane invocazioni provenienti da Punta Kendall. «Aiuto! Aiuuu...» Il cespuglio, o il pendio, o forse entrambi, si inarcarono e lo scagliarono via. Gli parve che i muscoli della terra si contraessero, che gli arbusti e le foglie del cespuglio al quale era aggrappato si attorcigliassero su se stessi e si gonfiassero mostruosamente; poi sentì solo l'aria sfuggirgli dai polmoni mentre precipitava verso il basso. Dopo che ebbe urtato i massi non sentì più niente. Passò molto tempo prima che Graham aprisse gli occhi. Gemette, si passò la lingua sulle labbra, mosse le gambe. Tutto gli faceva così male e in maniera così totale da non riuscire a individuare mentalmente alcuna ferita specifica. Tuttavia nel giro di pochi minuti cominciò ad avere delle percezioni più distinte: si sentiva la testa oppressa da un dolore insopportabile e il ginocchio destro si era gonfiato. Quando cercò di spostare il braccio destro avvertì delle fitte lancinanti. Sbatté due volte le palpebre, rapidamente, poi sollevò la mano sinistra con prudenza e si esplorò la faccia; si pulì gli occhi. Sopra di lui il mondo riacquistava forma.
Il bordo del canalone si allungava come una riga nera sotto l'azzurro cupo e stellato del cielo. In un primo momento Graham non ricordò neppure perché si trovasse lì e restò disorientato vedendo il paesaggio in verticale. Rammentava di avere esaminato quella mappa... ma tutto quello che era avvenuto dopo era scomparso nell'oscurità. Ricordò una stella di crepe sulla superfìcie di una lastra di vetro. Che cosa era stato? Con il braccio sinistro cercò di puntellarsi. Tutto attorno a lui diventò rosso e cominciò a ruotare vorticosamente. Mosse il braccio destro e il gomito reagì come se avesse ricevuto una pedata. Con un sibilo di dolore Graham riaprì nuovamente gli occhi e si rese conto di essere molto vicino alla sommità dell'avvallamento. Si strinse la mano sinistra sul gomito e il dolore cessò. Pensò di essere pronto a muoversi. Abbassò adagio il braccio destro e posò la mano sinistra, con il palmo aperto, sulla superficie levigata di un masso per sollevarsi in piedi. I dolori alle anche erano molto forti, ma pensò che dovesse trattarsi di una contusione o di uno stiramento. In effetti in quel momento Graham si congratulò con se stesso per essere sopravvissuto alla caduta subendo danni così lievi. Riguardando il pendio scorse le tracce scure che aveva lasciato là dove aveva messo i piedi mentre scendeva: le impronte terminavano a quattro metri dai massi e sotto di esse, fin quasi alla roccia, c'era un tratto dove muschio ed erba erano stati strappati. Il solco lasciato dal suo femore. Era molto fortunato a essere ancora vivo, più fortunato ancora a ritrovarsi tutt'intero. Cercò di persuadere le gambe a sorreggerlo. La sua mano sfiorò qualcosa di umido e vischioso e allora guardò da quella parte, più incuriosito che sorpreso. Era una sostanza scura e alla luce. delle stelle appariva nera. Non la identificò come sangue prima di averne fiutato l'odore. Allora scrollò la testa chiedendosi se la sua ferita fosse più brutta di quanto avesse creduto. Mosse la mano di lato e toccò un altro corpo accanto al suo. Era più piccolo del corpo di un adulto. Gemette di nuovo e questa volta si costrinse ad alzarsi in piedi. Faticosamente si spostò attorno al masso per vedere meglio. Si chinò in avanti e sentì una stretta al cuore: era Tabby. Tabby aveva il collo squarciato, sembrava quasi decapitato. Era stato ucciso sul ciglio del canalone, quindi il suo corpo era stato gettato accanto a Graham: gli sembrava disarticolato come un vecchio burattino. «Oh, Dio», mormorò Graham. «Dio mio.» Piangendo si portò la mano destra al naso. Avvertì una fitta al gomito e allora sorresse il braccio con la
mano sinistra mentre si sfregava la manica sotto il naso. «Mio Dio», ripeté mentre le lacrime gli scorrevano sulle guance. «Tabby.» Tabby aprì gli occhi inchiodando Graham alla roccia. «Sono morto. Sono morto ed è colpa tua.» Per poco Graham non cadde dal masso. La faccia di Tabby era spietata. «Tu dovresti essere morto. Non io!» lo accusò Tabby. «Lui vuole che tu lo sappia.» Negli occhi di Tabby il vecchio vide dei punticini di luce che erano le stelle. «Mi ha ucciso. Mi ha ucciso per colpa dei pasticci che hai combinato tu! Mi ha ucciso perché tu ci hai portato a vedere quella targa e ci hai fatto leggere il suo nome. Che Dio ti perseguiti! Che tu sia dannato!» La testa del ragazzo oscillò urtando il masso e sangue zampillò dallo squarcio nel collo. «L'hai voluto tu e per questo la tua anima finirà all'inferno!» «Tabby», cominciò Graham. «Se tu sei Tabby, sai che io non avrei mai...» La testa del ragazzo si sollevò. «Sai che cosa è successo durante l'Estate Nera? Lo sai, vero? Lo sai?» Graham scosse la testa. «Non tutto. Tabby...» «No... non sai niente. Perché è questo che è successo. Questo.» La testa gli ricadde di lato, gli occhi fissarono Graham con uno sguardo ebete. «IQ, IO sono successo. Io. E questo non è l'aspetto che ho adesso. Nemmeno questo sai. Vuoi vedere? Vuoi vedere come sono adesso? Tanto vale che tu sappia che cosa stai cercando.» «Cercando?» «I 'Quattro Focolari' ora sono un focolare solo, Graham.» Un ghigno apparve sulla bocca di Tabby e poi il suo corpo si accartocciò all'improvviso, si annerì, trasformandosi in un ammasso nero che bisbigliava sulla superficie piatta del masso. Alcuni pezzi carbonizzati si sbriciolarono in cenere. Con orrore Graham fissò i resti anneriti del corpo di Tabby. Tremante, si piegò in avanti, ignorando le fitte di dolore, e posò i polpastrelli su quella crosta scura. Come l'ebbe toccata il piccolo involucro si sgretolò in innumerevoli pezzetti e nell'aria si levò una polvere grigia. Le migliaia di frammenti di cenere sulla superficie del masso fremettero, si suddivisero in particelle non più grandi di comuni mosche e si agitarono vorticosamente. Sempre tremando, Graham si raddrizzò nonostante il dolore. Per un secondo il mondo ridiventò rosso e gli si rovesciò addosso come un fiume in piena. Tabby era morto. La sua casa era stata incenerita dalle fiamme e
Tabby era morto. Il Drago aveva trasformato Tabby in una specie di bozzolo di carbone. Graham pianse per il piccolo Tabby... e per la sua immensa debolezza. Finalmente abbandonò la superficie piatta del masso per portarsi sul pendio. Tabby l'aveva maledetto... I piedi stanchi di Graham si ritrovarono a muoversi obliquamente sul pendio muschioso: attraverso un velo di lacrime vedeva dove aveva strappato parte di un cespuglio. Che Dio ti maledica. Quando emerse oltre il ciglio del canalone le luci alle finestre del bar gli colpirono gli occhi come aghi. Dietro il vetro uomini e donne, anche loro maledetti, passavano avanti e indietro. Sembrano pesci in una vasca, pensò Graham, pesci in un barile. Cadde una volta mentre tornava alla sua automobile. 3 Tre giorni prima Richard Allbee aveva ripreso le sue camminate fino a Hillhaven. John Roehm, che niente sapeva di quello che era capitato a Richard, lo aveva incoraggiato a lasciare l'automobile a casa: evidentemente Roehm era convinto che quando si viene disarcionati la cosa migliore è rimontare immediatamente in sella. «Non c'è esercizio fisico migliore al mondo», aveva affermato Roehm in mezzo a una nube di segatura. «Basta farsi una sgambata di un paio di miglia al giorno e ti tieni in buona salute per tutta la vita.» Richard si era arreso e in fondo era stato un bene perché, a dispetto dei suoi timori, non si erano più verificati incidenti durante le passeggiate. Le prime due mattine fu accolto dal benevolo sorriso di John Roehm. Il terzo giorno, quello dell'incendio ai «Quattro Focolari», fu salutato da un identico sorriso, ma Richard nutriva ormai qualche dubbio sull'opportunità di applicare i principi dell'addestramento equestre alla contea di Patchin. Era nelle vicinanze di quel tratto del percorso dove sembrava che i guai fossero sempre imminenti, quella sezione di Mount Avenue lunga una trentina di metri e corrispondente ai due cancelli della casa in cui Tabby aveva trascorso la sua infanzia. Quando doveva passare davanti alla grande villa grigia Richard accelerava l'andatura, mosso dal bisogno assoluto di giungere al più presto dall'altra parte. Il giorno in cui i «Quattro Focolari» sarebbero stati distrutti dal fuoco provocando la morte di tutti i suoi abitanti, Richard Allbee era arrivato a metà strada fra i due cancelli quando vide qualcosa che gli fece desiderare
l'intervento di Charles Daisy. Una donna che indossava un vestito lungo a lui noto, sbucò da dietro un albero e si fermò ad aspettarlo. I suoi piedi erano nudi e pallidi e spiccavano tra il mirto che cresceva fra i paletti di ferro della recinzione e la strada. Quella donna era Laura. Appena l'ebbe vista, Laura gli venne incontro. Si sentì subito in un lago di sudore che gli inzuppò la camicia. Strinse violentemente la mano sulla maniglia della cartella, si premette contro il fianco i grafici arrotolati che portava sotto l'ascella e tenne gli occhi fissi sul fondo stradale. Sassolini, crepe nell'asfalto, una penna di piccione frastagliata come un vecchio spazzolino da denti, tanti piccoli particolari che gli balzavano agli occhi come ingranditi sotto una lente e scomparivano a ogni passo. Lei voleva che lui la guardasse, ma lui non voleva farlo, non poteva farlo. Non avrebbe potuto sopportare la vista del suo corpo devastato. Percepì la sua invocazione e scrollò la testa. Se l'avesse rivista straziata e torturata, per lui sarebbe stata la fine. Perché in quel momento lei lo avrebbe catturato. Udiva i suoi piedi frusciare nel mirto. Il suo silenzio era peggiore di qualsiasi parola: sentiva anche il suo vestito accarezzare le pianticelle. Socchiuse gli occhi, serrò i denti e tenne duro. Passò oltre il secondo cancello e mandò un gemito angosciato quando lo spettro di Laura non scomparve, ma evitò ancora di guardarla. Il mirto era finito e adesso i piedi di Laura sfioravano la ghiaia. Non lo abbandonò prima che avesse raggiunto la curva dopo la quale iniziava la lunga e bianca distesa della spiaggia di Hillhaven. Non c'erano bambini perché ormai i genitori erano terrorizzati all'idea che si avvicinassero all'acqua; c'erano però alcune donne in bikini sdraiate sulla spiaggia a leggere qualche romanzo e a completare l'abbronzatura. Richard teneva gli occhi quasi completamente chiusi, giusto uno spiraglio per camminare senza correre il rischio di finire sotto qualche automobile. Dapprima avvertì e poi intravide la spiaggia; subito dopo sentì che Laura non c'era più. Udiva solo il rumore della risacca; registrò la scomparsa di Laura come un'improvvisa folata di aria calda sulle costole. John Roehm quella mattina lo lasciò in pace e fu un grande sacrificio da parte sua, perché gli piaceva chiacchierare. Laura tornò da Richard mentre Graham Williams giaceva svenuto sulla superficie di un masso e Tabby Smithfield si appiattiva contro il muro della cantina e cercava di non ascoltare la voce di suo padre che usciva da una
creatura che non era suo padre. Venne di notte e Richard era quasi in attesa. Era andato a coricarsi presto, ripromettendosi di ripercorrere Mount Avenue a piedi l'indomani e anche il giorno dopo e tutti i giorni finché Laura avesse smesso di apparirgli. Non avrebbe nemmeno attraversato la strada: avrebbe fatto esattamente come in passato, camminando senza guardare, rifiutandosi di parlarle. Aprì il libro che aveva iniziato, La donna in bianco, e cercò di immergersi nella lettura. I caratteri di stampa sembravano sfuggirgli e più di una volta si ritrovò a rileggere lo stesso paragrafo senza accorgersene: Richard aveva dato per scontato che si sarebbe addormentato con difficoltà, come ormai gli capitava da tempo, e così non si rese conto di essere già sprofondato nel torpore. Per qualche tempo riuscì a reagire raccogliendo per ben due volte il libro quando gli sfuggì di mano. Alla terza risollevò il libro che gli era scivolato sul petto, inserì il segnalibro fra le pagine e posò il romanzo sul comodino. Fu allora che capì che in realtà aveva deciso di rimanere sveglio, perché la veglia gli sembrava una forma di protezione. Una volta formulato quel pensiero, lo trovò sciocco. Spense la luce e scivolò fra le lenzuola. La casa era immersa nel buio. Pochi attimi dopo si accesero le luci del pianerottolo, illuminando la camera. Richard si sentì il cuore in gola. Si alzò a sedere e vide la porta aperta, il ballatoio inondato di luce e l'uscio della camera del bambino spalancato. Era chiuso da quando se n'era andato l'ultimo agente di polizia. Richard non aveva più voluto entrare in quella stanza. Se avesse trovato la chiave l'avrebbe sprangata per sempre. «Chi c'è?» gridò sperando che fosse uno scherzo del vecchio impianto elettrico. «Chi c'è là fuori?» Dalla stanza emerse Laura, che si fermò sul pianerottolo illuminato. Restò così, assolutamente immobile, per qualche momento. Aveva la faccia e il petto sporchi di sangue e altro sangue raggrumato fra i capelli; sotto il torace aveva una ferita aperta. Questa volta Richard dovette guardare. Non osò distogliere gli occhi da lei. Lei voleva che sapesse, oppure era il Drago a volerlo: voleva che sapesse che cosa le era successo. Richard continuò a fissare il corpo mutilato di sua moglie mentre lentamente scivolava giù dal letto. Era stato il Drago a mandarla. A meno che il Drago fosse lei. Ricordava la sera dopo quella sgradevole cena a casa dei McCloud, quando lui e Laura si erano svegliati insieme e avevano fatto l'amore nella casa presa in affitto. Amore sul materasso ad acqua. La ricordava com'era allora, simile a un totem, stupenda. Non voglio perderti, Richard. Lui stava tremando, ma non avrebbe saputo dire se per paura, rac-
capriccio o ira. Però l'aveva persa. Laura venne avanti e Richard indietreggiò verso il bagno, in modo da avere il letto in mezzo. Lentamente Laura lasciò la luce del pianerottolo per entrare nella penombra della camera. Per un lungo momento fu solo un'ombra, un profilo in controluce con la forma di Laura e per poco Richard non svenne: sua moglie era tornata. Poi fu investito dall'odore nauseante di un altro spettro, Billy Bentley, quell'odore che aveva avvertito nell'ascensore di un albergo di Providence: puzzo di marcio, di fogne, miasmi di palude, feci, morte. «Vattene!» Lei venne avanti girando intorno al letto. I suoi occhi scintillavano, ma erano bianchi. Lo squarcio nel ventre era mostruoso. «Tu non sei Laura.» Un angolo della sua bocca si sollevò in un mezzo sorriso malizioso. «Hai intenzione di uccidermi?» le domandò Richard. «E va bene. Uccidimi pure. Tanto non ce la faccio più. Sono impazzito quando sei morta. Credi che io abbia voglia di vivere qui, tutto solo?» Lei attraversò una zona d'ombra più scura e quando fu illuminata di nuovo dalla luce che proveniva dal pianerottolo era di nuovo integra. Non aveva né sangue né ferite, come se i ricordi di Richard le avessero ricomposto le carni. Adesso era di nuovo sua moglie, che si avvicinava sempre più nella luce fioca. Il respiro gli si fermò in gola; la pelle gli formicolava, improvvisamente gelida. Laura gli si parò di fronte, sempre con quel mezzo sorriso sulle labbra. Allungò la mano verso di lui e Richard indietreggiò ancora: le dita gli sfiorarono appena il torso nudo. Dove lei lo aveva toccato si formò una vescica. Fitte di dolore lo trafissero come lame di coltello. Che fosse veramente Laura o no, era reale abbastanza da poterlo uccidere. Sorridendo, lei avanzò ancora, tendendo la mano. «No», mormorò lui spostandosi verso la porta del bagno. «Vai via. Non posso combattere contro di te.» Lei lo costrinse a entrare nel bagno e Richard continuò a camminare all'indietro. Gli occhi di Laura rilucevano nell'oscurità e Richard si sentì accapponare la pelle per la ripugnanza. Avrebbe potuto raggiungere il ballatoio passando dall'altra porta del bagno. Non era stato imprigionato; aveva a disposizione tutta la casa. Piano
piano Laura continuava ad avanzare e a un tratto lui fece un balzo all'indietro finendo contro la maniglia della seconda porta. «Vattene», ripeté. «Vai via.» Ma lei avanzava. La mano di Richard trovò la maniglia. Spalancò la porta e uscì sul pianerottolo. La luce sulle scale, quella che aveva annunciato la presenza di Laura, restituì a ogni cosa il suo aspetto normale. Erano in piena luce. Sua moglie, nuda, lo inseguiva per gioco uscendo dalla porta del bagno e la luce illuminava il suo corpo e si rifletteva nei suoi capelli. Ecco che sorrideva. Richard intanto indietreggiava lentamente per mantenersi a distanza; arrivò a toccare il corrimano. In piena luce la presenza di Laura gli sembrò quasi normale. Lei inclinò la testa, quindi fece una mossa repentina come per afferrarlo e lui si ritrasse. Per un momento rimasero immobili in cima alle scale. Richard sapeva che voleva ucciderlo e gli parve impossibile aver desiderato, sia pure momentaneamente, di morire. Quella era una creatura del Drago, non era Laura. Laura era appartenuta al mondo degli affetti. Quell'essere così perfetto davanti a lui era una copia della sua Laura. Richard, che conosceva ogni particolare della sua nuova casa, sapeva che una delle colonnine della balaustra dondolava: cento volte l'aveva scrollata ripromettendosi di sistemarla. Tenendo gli occhi fissi su Laura, Richard indietreggiò di un altro passo e si abbassò: la sua mano ricadde sul legno scolpito che vibrò al suo tocco. Tirò con tutte le forze e la colonnina si staccò dall'unico chiodo che la tratteneva, ma ancor prima che quel pezzo di legno lungo mezzo metro fosse saldamente stretto nella sua mano, Laura si era lanciata su di lui. Ebbe appena il tempo di cercare di schivarla e percuoterla. Lei ghermì l'aria a vuoto, perché Richard si spostò lateralmente e calò la sua arma improvvisata. Le colpì la curva liscia della spalla mandandola a urtare contro il corrimano e nel punto in cui lei lo sfiorò il legno si scurì e liberò uno sbuffo di fumo. Laura si raddrizzò, quindi toccò volutamente il corrimano con l'indice. Da quel punto si alzò una fiammella arancione, simile a quella di un fiammifero acceso, che increspò la vernice. Laura si tuffò verso di lui e di nuovo Richard la batté, colpendola questa volta a un braccio. Una fiamma si levò dal pezzo di legno e si spense quando Richard lo agitò nell'aria. L'odore terribile di putrefazione e morte lo investì di nuovo come un boato. Vide che dove Laura aveva posato i piedi il tappeto si era annerito e
bruciacchiato. Lei caricò di nuovo, costringendolo a varcare la soglia della camera del bambino. Quando entrò anche lei, lui le vibrò un colpo alla testa e Laura alzò le mani troppo tardi per deviare il colpo. Cadde sul parquet, annerendone la patina lucida. Richard balzò in avanti e calò nuovamente la sua mazza, colpendo Laura alla fronte. Quello che stava facendo gli sembrava quasi geometrico, una serie di manovre da eseguire secondo una chiara procedura e senza emozioni. Lunghi lividi cominciarono ad apparire sulla pelle di Laura; il suo braccio destro pendeva inerte. La percosse nuovamente alla testa e lei riuscì ad afferrarlo per la caviglia con la mano sinistra. Richard piombò a terra, in preda a un dolore lancinante. Lei sogghignava mentre lui aveva la sensazione che un alligatore gli avesse stretto la caviglia fra le fauci. In preda alla collera, Richard le affondò l'estremità scheggiata della colonnina nella faccia. Il legno s'incendiò immediatamente, ma Laura abbandonò la presa sulla caviglia. Richard si alzò sulle ginocchia e cominciò a colpirla ripetutamente mentre lei cercava di avanzare strisciando. Poi accadde qualcosa che non capì: anzi, non fu nemmeno sicuro che fosse successa fino a quando, in seguito, non ebbe sentito le parole di Graham Williams. Il legno che teneva fra le mani, ormai simile a una torcia accesa, sembrò tremare, quasi avesse vita. Lo calò con forza sulla testa di quella creatura con le sembianze di Laura e per un momento gli parve che fosse illuminato da dentro, dorato. Lo alzò e lo abbassò di nuovo e gli fremette fra le mani come un uccello. «Tu non sei Laura», ansimò colpendola di nuovo alla testa. Lei aveva smesso di muoversi. Trascinandosi sul pavimento, Richard si allontanò dalla creatura. Sul corpo nudo riverso al suolo si distese un velo di fiamma azzurra che guizzò leggera fra le sue cosce spalancate. Richard si mise a sedere e guardò le fiamme che si alimentavano l'una con l'altra, arrossandosi e accendendosi. Aveva sconfitto quella creatura nella stessa stanza in cui sua moglie era stata assassinata e adesso si sentiva spossato da una sensazione di ira e di trionfo insieme. Una forma salì dal fuoco sopra il corpo di Laura. Prima che acquistasse contorni definiti, Laura si rotolò tra le fiamme e sparì. Poi le fiamme si concentrarono in un punto e Richard vide allungarsi dal centro grandi ali. Si trascinò più lontano per sottrarsi al calore, improvvisamente insopportabile, mentre dal pavimento carbonizzato si alzava un pipistrello di fuoco.
Richard si sentì spinto come da una mano gigantesca contro la parete. Per un momento la stanza fu attraversata da linee azzurre di fuoco che si rincorrevano sul pavimento e sulle pareti, poi la finestra esplose e il pipistrello di fuoco esplose con essa. Richard si staccò dal muro. Si sentiva la faccia scorticata e rinsecchita, come se fosse scottata dal sole. La camera era piena di ceneri e di odore di legno bruciato. Sul pavimento c'era un ampio cerchio carbonizzato là dove giacevano i resti della colonnina che aveva usato come arma. Anche il moncone di legno era nero, con bagliori rossi che si accendevano e si spegnevano nelle crepe. Riuscì a mettersi in piedi. Attraversò lentamente il pavimento bruciato, avvicinandosi allo squarcio nella parete. Un fuoco furioso viaggiava sulle proprie ali nel nero della notte. Quando abbassò lo sguardo vide Tabby Smithfield fermo sul prato davanti a casa che lo guardava con una faccia simile a una macchia bianca. «E allora ho guardato giù», gli raccontò Tabby con voce tremante, «e ho visto un tubo di piombo. Era abbandonato lì, sul pavimento della cantina. Così... così l'ho preso e ho fracassato la finestra... e poi c'era della roba vecchia, bauli e altre cose di mio nonno. Ho preso tutta la roba e ne ho fatto una pila e ci sono montato sopra. Sono uscito dalla finestra. Mi sono tagliato, ma niente di grave. Comunque sono riuscito a uscire... Ho visto la mia casa che andava a fuoco. Era come un sipario di fiamme, tutta la casa... e sapevo che mio padre era morto. Così sono corso qui.» «E hai visto il pipistrello di fuoco. È così che lo chiami, no?» Tabby annuì. «Dove l'avevi già visto?» «Una notte, sulla spiaggia. La notte in cui bruciarono tutte quelle case di Mill Lane. Quando morirono tutti quei pompieri.» «Cristo», mormorò Richard. «E a casa mia, questa notte. Ma era come se fossi nella casa di C'è papà.» «Santo cielo!» esclamò Richard ricordando l'incubo che l'aveva perseguitato nei suoi primi giorni ad Hampstead. «Billy Bentley.» «C'era anche lui. Non dovremmo chiamare il signor Williams e Patsy? Non credi che dovremmo vedere se stanno bene?» Richard non voleva dire al ragazzo che aveva già cercato di telefonare a Graham e Patsy; mentre Tabby si lavava la faccia nel bagno del pianterreno, Richard aveva cercato di mettersi in contatto con loro. Ma non aveva
trovato nessuno. Disse: «Senti, sono quasi le undici. Graham sarà a letto a dormire e probabilmente anche Patsy. Cercheremo di chiamarli domani mattina. Adesso, se per te va bene, puoi rimanere qui. Non mi dispiacerebbe un po' di compagnia». Tabby si infilò nel letto della camera degli ospiti e si rigirò per premere la faccia contro il cuscino. Gli tremavano le spalle. Richard, troppo sfinito per reagire con rapidità, impiegò qualche momento per rendersi conto che stava piangendo. Gli accarezzò affettuosamente le spalle e restò seduto per qualche minuto accanto a lui. Dopo un po' commentò: «Tuo padre e mia moglie. Penso che potremmo provare compassione l'uno per l'altro, invece che pensare solo a noi stessi. Vuoi provarci?» Tabby annuì, con la faccia affondata nel cuscino. Richard lo accarezzò di nuovo e poi aggiunse: «E poi tu hai bisogno di qualcuno come me e io ho bisogno di qualcuno come te. Domani usciremo a comprare dei vestiti e tutto quello di cui hai bisogno, d'accordo?» Sempre piangendo, Tabby annuì di nuovo, ma non voleva che Richard lo vedesse in faccia. «Ora vado a letto», annunciò Richard. «Io sono due porte più in là, nel caso tu abbia bisogno di qualcosa.» Non credeva che sarebbe riuscito a dormire. Era stanchissimo, ma anche troppo sconvolto. Si sdraiò sul letto, con tutte le luci accese, cercando di calmare quel motore che dentro di lui sferragliava e sferragliava, esortandolo a vestirsi e uscire in cerca di Graham e Patsy. E lo avrebbe anche fatto, se avesse avuto una pallida idea di dove fossero. Lui e Tabby erano sfuggiti al Drago. Ma Patsy e Graham? Oltre all'ansia per la sorte dei due amici, nutriva timori anche per il ragazzo che adesso dormiva nella stanza accanto. Già sentiva che avrebbe desiderato che Tabby Smithfield entrasse a far parte per sempre della sua vita, ma il ragazzo lo avrebbe accettato come padre? E lui sarebbe stato capace di farne le veci? Tabby non si sarebbe indispettito ai suoi tentativi di sostituirsi al suo vero genitore? Probabilmente altri parenti avrebbero reclamato il diritto di allevarlo, ma quando Richard Allbee pensava alla possibile famiglia di Tabby Smithfield vedeva se stesso, Patsy McCloud e Graham Williams. E dov'erano adesso? Forse il pipistrello di fuoco era andato a far visita anche a loro. Erano ancora vivi? In un turbine di pensieri Richard si addormentò e subito cominciò a sognare... Brandiva fra le mani un'enorme e pesantissima spada, tanto grande che doveva tenerla appoggiata agli avambracci, tanto pesante che tutti i muscoli gli dolevano. Ma non poteva fermarsi, non poteva riposare. Attorno a lui
c'era il Luogo Maligno in tutta la sua atavica purezza: una campagna disseminata di crateri e alberi privi di fronde, di fattorie carbonizzate e stagni maleodoranti. Avanzava arrancando, con le braccia che tremavano per il dolore, diretto verso un orizzonte piatto e giallo. Quando giunse l'ora e quando ebbe raggiunto il punto esatto, si fermò. Ora le fattorie bruciate erano lontane, alle sue spalle; davanti a lui c'era un laghetto grigio dalla cui superficie salivano spirali di fumo o nebbia. Piantò i piedi nel terreno bagnato. Fra le sue braccia la spada diventava più leggera e cominciava a splendere. Afferrò l'impugnatura con entrambe le mani e la sollevò quanto più alto poteva, poi, mentre già la stava calando, vide Laura sdraiata accanto a lui. Richard gridò, ma non poté fermarsi: la lama attraversò il corpo di Laura e si piantò nel terreno. Da entrambe le ferite zampillò una fontana di sangue che si riversò ovunque, anche su Richard. Richard gemette, aprì gli occhi aspettandosi di vedere un mondo rosso e vide invece la faccia di Tabby, pallida e terrorizzata. «È Patsy», mormorò Tabby. «Sta per morire.» 4 Sentendosi sola, Patsy aveva cercato di telefonare a Graham Williams. Non avendolo trovato, compose le prime quattro cifre del numero di Richard, ma poi esitò. Non era sicura di potersi fidare davvero. Per di più era molto tardi e lei era in uno stato d'animo molto particolare. Era irrequieta, anzi quasi agitata già da molte ore; e aveva avuto assai poco con cui tenersi occupata, a parte la lettura e la televisione. Aveva trovato in libreria una delle opere di Graham e ne aveva già letto una buona metà, ma non aveva intenzione di leggerla tutta d'un fiato perché la considerava troppo meritevole. Era rimasta un po' sorpresa nello scoprire quanto le piacesse il romanzo di Graham. Ma adesso non aveva voglia di leggerlo e la televisione non aveva da offrirle che i soliti programmi. Le sarebbe piaciuto trascorrere parecchie ore con Richard, per vedere che cosa sarebbe successo se si fossero ritrovati da soli nella stessa stanza. Ma sapeva che Richard non avrebbe mai tentato niente con lei, era fuori esercizio, era stato sposato per troppo tempo. Era troppo insicuro di sé e Patsy, da parte sua, non era tanto sicura di voler iniziare una storia con lui, non ritenendolo, tra l'altro, molto opportuno. Richard era profondamente scosso e addolorato. Se fosse nato qualcosa tra loro, lui vi avrebbe dato troppa importanza, ne sarebbe stato profondamente commosso. E non sarebbe stata troppo scontata l'unione del
vedovo con la vedova? Patsy posò dolcemente la cornetta. Decise di fare un bagno. Se l'indomani si fosse sentita ancora di quell'umore, sarebbe uscita a comperarsi nuovi abiti per risollevarsi il morale. Si allontanò di qualche passo dal telefono e fu allora che decise che avrebbe chiamato Richard comunque: non aveva bisogno di fare un bagno e non le piaceva uscire a fare compere. Si voltò e in quell'istante il telefono cominciò a squillare. Andò a rispondere sicura di udire la voce di Richard Allbee. Ma invece si sbagliava. Il suo interlocutore disse: «Patsy, sono proprio contento di trovarti in casa. Sono Graham». «Ma ti ho appena telefonato!» esclamò lei. «Non c'eri!» «Sono appena rientrato. Patsy, ho scoperto qualcosa che potrebbe anche essere la chiave di tutto. Credo di sapere dov'è e chi è.» «Dimmi», lo incitò lei. «Me lo puoi dire per telefono?» «Non ora», rispose Graham. «Fidati di me, Patsy. Ho i miei buoni motivi. Vorrei che ci incontrassimo da qualche parte.» «Va bene, va bene», replicò lei contenta e un po' lusingata. «Dimmi dove.» «Conosci Poor Fox Road? A Greenbank?» «Mai sentita.» «È un posto un po' fuori, ma...» «Ah! Ho capito. È il luogo in cui è stato ucciso quel Fritz. Ora ricordo. Il giardiniere.» «Credi di poterla trovare? È dall'altra parte di Mount Avenue, dove c'è l'ingresso per la Gravesend Beach, ma devi stare attenta perché non c'è segnalazione. Sembra più un vialetto privato che una strada.» «Credo di averla vista.» «Ecco, ci sono tre o quattro case lì. Adesso sono tutte vuote. Voglio che ci incontriamo nella casetta di legno, quella rivestita di assi marrone, accanto allo spiazzo del cimitero delle automobili.» «Ma non c'è un numero?» «No, niente numero, ma non puoi sbagliare. Le assi sono marroni e il tetto pende. Comincia a entrare. Arriverò subito. Prima devo prendere alcune cose... che voglio mostrarti.» «Assi marrone, tetto pendente. Mi sembri molto emozionato, Graham.» «Capirai perché. Ci vediamo in Poor Fox Road al più presto», e riappese. Non più di cinque o sei minuti più tardi Patsy frenava all'imboccatura di
quella che doveva essere Poor Fox Road. I fari illuminarono un vicolo stretto costeggiato da alberi incolti e alti arbusti simili a canne di bambù. Fra le sagome nere di due aceri scorse per pochi istanti la sagoma della luna nel cielo e ne fu turbata. Solo dopo che l'astro fu scomparso si rese conto che il disagio era dovuto alle sue dimensioni, quasi doppie del normale. Procedeva molto lentamente poiché non era del tutto sicura di avere imboccato la strada giusta e quando superò la curva dove Bobby Fritz aveva incontrato il dottor Wren Van Horne, cominciò a sentire un rumore come di un macchinario in funzione, un tamburellare ritmico e sordo. Patsy pensò che provenisse dall'Accademia. Poi il fascio di luce dei fari illuminò la prima casa; quindi la seconda, in mezzo alle carcasse delle auto; infine la terza. E provò un tuffo al cuore. Era marrone ed era fatta di assi; si vedeva chiaramente che al centro il tetto aveva ceduto. Sulle finestre nere brillò la luce riflessa dei fari della sua auto, ma Patsy si rese immediatamente conto che non era possibile perché i vetri non c'erano più chissà da quanto tempo. Si sentì prendere da un senso di disperazione, non tanto per lo squallore del luogo, che del resto si era aspettata, ma per l'atmosfera che avvolgeva quella casa. Non aveva voglia di entrare. La luce cruda dei fanali sembrava accentuare la solitudine e la crudeltà di quell'edificio. Patsy spense il motore e le luci. Contemplò la casa, i netti profili degli alberi e delle macchine abbandonate, in un paesaggio che sotto la luce forte della luna sembrava quasi bello. Osservò senza interesse le altre case e notò che nessuna era abitata. Poor Fox Road era come un piccolo borgo fantasma. Tornò a guardare l'edificio e questa volta non vi trovò niente di particolare. Le parve semplicemente una casa disabitata. Concluse che non c'era motivo per non entrare... e poi Graham era così eccitato al telefono. Aprì la portiera e scese. Quel rumore di macchinario, quel battere e ribattere di magli che sembrava provenire dal centro della terra, cessò bruscamente. Guardò in direzione della scuola, trasalendo, ma non vide altro che la rete metallica. Davanti alla casa esitò per un momento, nella speranza di udire il vecchio macinino di Graham in arrivo. Non c'era un vero e proprio sentiero che portasse all'ingresso e dovette camminare su un tappeto di erbacce. Si voltò di nuovo per guardare verso la stradina, convinta di vedere i fari dell'auto di Graham. Per un secondo pensò: non verrà mai. Subito dopo scrollò la testa rimproverandosi.
Proseguì nell'erba sentendo sotto le scarpe i resti del selciato. «Coraggio, Graham», disse a voce alta. Rifletté che quella casa dovesse essere collegata in qualche modo a quanto era capitato a Graham negli Anni Venti; mentre stringeva la mano sul pomolo d'ottone sentì che quella brutta catapecchia doveva avere una parte importante nella storia che li coinvolgeva tutti. Decise di seguire le istruzioni. Patsy spinse l'uscio e un pipistrello squittì svolazzando e aggrappandosi alla sua testa. Troppo sbalordita per gridare, cercò di strapparsi di dosso quell'animale che le affondava i minuscoli artigli nelle carni. Trovò con le dita il corpicino peloso. I versi striduli del mammifero alato le perforavano i timpani. Sentiva che muoveva la testa, nascondendola fra i suoi capelli. Con gli occhi chiusi, agitandosi freneticamente, per poco non inciampò nella soglia mentre entrava. La porta si richiuse con un tonfo, ma, in preda al terrore, Patsy non la udì nemmeno. Il corpo peloso del pipistrello le dava il voltastomaco, ma non solo era costretta a toccarlo, doveva assolutamente afferrarlo. Colpendolo con la mano era riuscita solo a intensificare la frequenza di quei suoni striduli e carichi d'odio che le echeggiavano nella testa. I piccoli e aguzzi denti le ferivano la carne. Non riusciva più a respirare e il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Udì la propria voce emettere un lamento innaturale mentre tentava di infilare le dita sotto il corpo dell'animaletto. Finalmente pensò di averlo saldamente in pugno e di poterlo staccare. Sentiva il battito del cuore del pipistrello contro il palmo della mano. Diede uno strattone. Il pipistrello si allontanò volando appena libero. Patsy riaprì gli occhi e subito distese le braccia mentre avanzava. Le tenebre erano fitte e non vedeva niente. Come un'ossessione continuò a udire quel rombo ritmico che sembrava uscire dalle viscere della terra. Ebbe la vaga sensazione che il pavimento fosse una scacchiera di zone più chiare miste a zone più scure, ma non ebbe tempo di immaginare che cosa potesse significare. Terrorizzata da quel rumore e dalla possibilità che il pipistrello la attaccasse di nuovo, si diresse verso la porta. A un tratto il pavimento si sollevò facendole perdere l'equilibrio. Cadde su un fianco e mandò un gemito. Vide che cosa era successo: alla luce della luna che entrava dal riquadro vuoto della finestra scorse un'asse del pavimento che si ergeva come un pennone spezzato. La sua testa era a pochi centimetri da terra. Avvertì all'improvviso un frenetico agitarsi di ali nere sopra di sé. Avanzò strisciando e passò accanto all'apertura nel pavimento. Dalla voragine saliva l'eco incessante dei tonfi. Si trascinò su quel
fondo infido cercando di procedere in direzione della porta, scorticandosi le mani sulle assi scheggiate. Sopra di lei svolazzava un numero indefinibile di pipistrelli. Quando toccò con la mano un tubo metallico e appiccicoso lanciò un grido: si era spostata verso l'interno. Tutte le sue fatiche l'avevano allontanata dalla porta d'ingresso. Fece leva sul tubo e poi sul lavello metallico sopra di esso per rimettersi in piedi. Aveva le mani ricoperte di una sostanza vischiosa e raccapricciante. Se la sentiva anche sulle gambe. Poi vide due pipistrelli passare nel riquadro della finestra. Ma non ce n'erano due? Due finestre? Si ritrasse dopo avere avuto il tempo di notare che avevano il muso bianco. I due pipistrelli sfrecciarono vicino a lei squittendo furiosamente e Patsy vide che uno dei due aveva lunghi capelli rossi e una faccia di donna. La porta che aveva di fronte si spalancò e rivelò una muraglia di mosche che si dissolsero all'istante in un milione di particole ronzanti. La ricoprirono immediatamente, caddero sull'acquaio, annerirono l'aria. Patsy cercò di scacciarle con le mani e fu colpita da una visione repentina, come un'illuminazione nella mente: Les McCloud che urlava e premeva l'acceleratore a tavoletta negli ultimi secondi della sua vita. Attraverso quel muro di mosche aveva cominciato a filtrare una luce rossastra che pulsava a tempo con il loro brusio. La porta della cantina, fonte della luce rossa, ruotò completamente sui cardini. Patsy restò immobile, come ipnotizzata, mentre la luce rossa la investiva da capo a piedi: le mosche esplosero nuovamente nell'aria. Al fondo delle scale che portavano in cantina brillava una massa di liquido vermiglio che lambiva gli scalini. Ricopriva per intero il pavimento e da sopra le parve profondo almeno qualche metro. Nella luce pulsante lo vide salire e sommergere un altro scalino. Poi una mano rossa emerse dalla superficie di quel lago di fuoco. Subito dopo un'altra mano, quindi una testa: piccola, ben formata, la testa di una persona molto giovane. Il corpo gocciolante cercò di trovare presa sull'ultimo gradino. Un'altra mano spuntò dal lago vermiglio; poi la sua gemella. Il primo corpo era quello di un ragazzo o di un giovane: si aggrappò alla ringhiera con una mano e si issò sulle scale. Patsy vide i suoi occhi vitrei, senza luce. Un'altra testa emerse, la bocca spalancata in un muto grido di trionfo. La mente di Patsy inviò un messaggio senza pensare: Tabby? Tabby? Dove sei, Tabby? Patsy, pensò Tabby risvegliandosi bruscamente da un angosciante sogno
tormentato da immagini di Gravesend Beach inondata di sangue. Patsy? Gli sembrava di avere ricevuto una potente scarica elettrica. Patsy era in pericolo, un pericolo mortale. Buttò indietro il lenzuolo e si drizzò a sedere nel letto, più allarmato di quanto fosse stato nella sua stessa casa. Patsy stai bene stai bene stai Non riusciva a pensare a nient'altro che al pericolo mortale che stava correndo Patsy. Balzò giù dal letto. Dov'era la camera di Richard? Patsy, pensò disperatamente e all'improvviso vide un ambiente spoglio, con un acquaio gocciolante e uno squarcio nel pavimento. Uscì alla cieca sul pianerottolo, diretto nelle tenebre verso le scale. Udiva un respiro profondo e ritmico, interrotto di tanto in tanto da un russare, e si diresse da quella parte. Avanzò a tentoni. Incontrò uno stipite con la mano. Passò dall'altra parte e percorse la parete con i polpastrelli, su e giù finché trovò l'interruttore. Accese le luci. Richard Allbee era sdraiato sul suo letto, con la bocca aperta. La luce improvvisa non lo risvegliò. Tabby corse al suo capezzale. Richard borbottò qualcosa, ma non si svegliò. Tabby lo scrollò prendendolo per le spalle con violenza. «Svegliati! Devi svegliarti! Richard!» Richard sbatté le palpebre e mugolò quasi impercettibilmente «Ehi!» «È Patsy», gemette Tabby. «Sta per morire.» «Che cosa?» «Sta per morire», ripeté Tabby con voce rotta. «È in una vecchia casa, un posto terribile, e qualcosa la vuole uccidere, Richard. Dobbiamo aiutarla.» «Come? Come fai a saperlo? Che cosa possiamo fare?» Richard era perfettamente sveglio, ma non ancora del tutto presente. «Chiama Graham. Lui sa dov'è la casa. Deve saperlo.» «Sei sicuro?» Richard si sfregò gli occhi e guardò il ragazzo. «Certo che sei sicuro. Lo chiamo subito. Speriamo solo che sia tornato a casa.» Sollevò il ricevitore del telefono accanto al letto, posando l'apparecchio in grembo. Per Tabby tutto procedeva a una lentezza esasperante. Voltò la schiena a Richard, fin troppo cosciente del lentissimo ticchettio del quadrante, e chiuse gli occhi. oh Patsy, non cedere ti prego ti troveremo, Patsy, abbi fiducia non devi morire, non devi morire, ti voglio bene
Dietro di lui Richard stava parlando con Graham in un tono di voce meravigliato. Quando Tabby gli sentì dire: «Credi di sapere dov'è la casa?» non poté più concentrarsi. «Credi di avere un braccio rotto?» udì dire a Richard e perse la concentrazione del tutto. «Mettiti le scarpe», gli ordinò Richard. «Graham sta arrivando. Io mi infilo una vestaglia e partiamo subito con la mia macchina. Pensa di sapere dove si trova.» Appena ebbe udito Tabby che le parlava nella mente, anche se fu solo un brontolio confuso, l'aria intorno a Patsy sembrò caricarsi di una speciale «tabbynità», un'emanazione della sua personalità che era curiosamente separata da Tabby come persona; l'essenza senza la forma che a essa dava un significato. Subito gli sciami di mosche che riempivano l'aria parvero assottigliarsi. Il riflesso rossastro e la luce che pulsavano laggiù diminuirono progressivamente. La creatura gocciolante sangue indietreggiò, protendendo un braccio verso Patsy, come se si aspettasse che lei lo aiutasse a fuggire. La testa scomparve sotto la superficie vermiglia, ma il braccio rimase fuori, proteso, implorante. Mentre guardava il braccio sprofondare lentamente nell'onda rossa, prima il gomito, poi il polso, infine le dita disperatamente distese, Patsy cominciò a piangere. Il livello della massa di sangue nella cantina si abbassò, defluendo da qualche invisibile scarico cosmico, Patsy guardò verso il soffitto. Centinaia di mosche si agitavano ancora lassù, ronzando, scagliandosi contro l'intonaco scalcinato, cercando di uscire. Patsy incespicò e uscì barcollando dalla cucina. Scavalcò i buchi nel pavimento, passò accanto all'asse che poco prima l'aveva fatta cadere. Adesso vedeva chiaramente la porta nella luce della luna. Era persino socchiusa. Sull'altro lato di Poor Fox Road, foglie bianche e nere si muovevano e bisbigliavano. Aspettò al centro della strada. Si tenne occupata staccandosi scaglie rapprese di materia giallastra dai vestiti. Quando si passò le mani sui polpacci riuscì a sbarazzarsi di gran parte di quella poltiglia gialla. Tornò alla sua automobile. Qualche secondo dopo vide un fascio di luce sbucare dalla curva. Riconobbe i loro volti attraverso il finestrino abbassato dell'automobile di Richard. Vide che Graham aveva il braccio appeso al collo con un foulard rosso. Scorse anche un grande livido tumefatto sulla guancia destra.
Da Tabby le giunse un'ondata di affetto e di ansia. «Sei in grado di guidare la tua automobile, Patsy?» tuonò Graham. «Non dovremmo lasciarla qui per tutta la notte.» Patsy annuì. «Sicura?» chiese Richard, sporgendosi davanti a Tabby per scrutarla meglio. «Perché non lasci che venga con te?» «Sì. Grazie.» «Venite a casa mia», li invitò Graham. «Tanto per questa notte nessuno di noi potrà dormire.» 5 Patsy e Richard si sedettero sul vecchio divano e Graham si mise a cavalcioni della seggiola del suo scrittoio, sistemandosi di fronte a loro sull'altro lato del tavolino e osservandoli con aria cupa. Tabby si sedette a gambe incrociate sul pavimento, davanti a Richard, e capì che quell'espressione torva era indirizzata principalmente a lui. Graham era anche in collera con se stesso. Ora tutti erano consapevoli di ciò che era successo quel giorno e ciascuno di loro stava certamente pensando di essere più che mai in pericolo. «Ti ho fatto una domanda, Tabby», disse Graham. «Come sapevi che Patsy era in pericolo? E come hai potuto descrivere così bene il posto da permettermi di identificarlo? Che cosa sta succedendo, Tabby?» «Non so. L'ho sentito», rispose Tabby. «L'hai sentito! Figliolo, ma non ti rendi conto che tutto quello che ci succede è importante, che fa parte del medesimo disegno? E che se noi non riusciamo a scoprire quel disegno non possiamo correre ai ripari? Non puoi nascondermi niente, Tabby, se è vero che ci vuoi aiutare.» «Ma è vero», insisté Tabby. Era disposto a rivelare a Graham e a Richard il legame che c'era fra lui e Patsy, se Patsy fosse stata d'accordo, ma non poteva raccontare a Graham Williams e a Richard Allbee che cosa stava facendo la notte in cui lui e Patsy si erano accorti della loro capacità di trasmettere, anche se provava per loro molto affetto. Non avrebbero capito. Lui stesso arrivava a comprendere a stento ormai come avesse potuto farsi convincere dai gemelli Norman. Tabby era sincero e Graham e Richard lo avrebbero capito quando avrebbero scoperto che aveva distrutto il Drago. «Dimostramelo», pretese Graham.
Certo, pensò Tabby e disse: «Va bene. Vuoi, Patsy?» Lei stava annuendo. «D'accordo. Non so come lo si può definire, ma Patsy e io, ecco, ehm, noi due...» «Comunichiamo telepaticamente», finì per lui Patsy. «Possiamo scambiarci messaggi.» Dietro Tabby, Richard Allbee emise un respiro rumoroso. «Ah», esclamò Graham. Stava sorridendo. «Non poteva essere altrimenti. La prima volta che vi ho visti insieme ho capito che avevate qualcosa in comune. Bene. Grazie per avermelo detto. Quando vi siete accorti per la prima volta di avere questa capacità?» Una domanda pericolosa, pensò Tabby. Rispose: «È successo». «Niente succede e basta. Patsy?» «È stata la prima sera che ci siamo ritrovati tutti e quattro», rispose Patsy. «La sera in cui ho avuto quella crisi e ho visto la testa del Drago uscire da quel libro.» Graham si drizzò. «È da un pezzo, allora», commentò. «Ma quadra, non vedete? Quadra perfettamente. Perché noi ci siamo ritrovati e noi siamo protagonisti. E lo siamo perché dobbiamo esserlo. E la ragione per cui dobbiamo esserlo è che in quel momento il nostro nemico stava ritrovando le sue vere forze. Lui e noi quattro abbiamo svoltato assieme lo stesso angolo. Tabby! Hai nient'altro da dirci? Qualcosa da aggiungere?» Tabby scrollò la testa. «Allora lasciate che vi dica che cosa ci aspetta. Lasciate che vi racconti tutto dell'Estate Nera e allora forse vorrete cambiare idea. Naturalmente ormai avete probabilmente indovinato che cosa accadde. Almeno in parte. Perché sta avvenendo di nuovo. Io credo che Gideon Winter stia cercando di riprodurre l'estate del 1873 e mi pare che se la stia cavando più che bene. C'è la popolazione che abbandona la città, ci sono incendi e morti violente...» Sul suo viso apparve un'espressione di intenso dolore. Con cautela si sistemò il foulard che reggeva il braccio contuso. «Fra non molto i treni passeranno dalle nostre stazioni senza fermarsi. Sempre più spesso i macchinisti si 'dimenticheranno' di fermarsi finché non si accorgeranno nemmeno più della presenza di quelle stazioni. Un giorno vedranno per caso il grande cartello rosso con la scritta 'Hampstead' e si chiederanno perché quel nome li abbia incuriositi, ma non farà nessuna differenza per il semplice fatto che non ci sarà nessuno ad aspettare quei treni: e i marciapiedi di quelle stazioni saranno deserti. Verremo isolati dal mondo, amici miei, e la città lo accetterà. Per metà lo ha già fatto. E Hampstead potrebbe tra-
sformarsi in una specie di grande cimitero per i prossimi due anni, o cinque o dieci...» Graham li fissò con il suo sguardo cupo, poi si massaggiò la gola con la mano sinistra. «Ho la bocca secca. Ho bisogno di lubrificante. Tabby, per piacere, prendimi una bottiglia di birra da quel frigorifero. Patsy, vuoi qualcosa? Un po' di gin? Richard? È meglio che ci mettiamo comodi, perché sarà una conferenza lunga. Vi racconterò di quell'estate del 1873, ma vi rivelerò anche che cosa accadde tra me e il signor Bates Krell, del quale oggi avete visto l'abitazione. È tempo che mi permettiate di dare sfogo a tutto quello che mi tengo dentro.» Tabby prese una birra anche per sé. TRE Il fiume di fuoco 1 «Avevo vent'anni», cominciò Graham. «Più vicino all'età di Tabby che alla vostra, quindi, ed è un particolare che vi invito a tenere presente. Lavoravo al mio primo romanzo, un racconto che pubblicai otto anni dopo. Mi pareva di avere azzeccato un ottimo soggetto per un romanzo e in effetti il tema si andava svolgendo attorno a me, perché mi occupavo della scomparsa di alcune donne avvenuta ad Hampstead. I miei genitori conoscevano una di quelle donne. Si chiamava Daisy West. E io sapevo che il marito di Daisy, Horace, un uomo molto mite, aveva perso la testa dopo la scomparsa di Daisy. Era andato alla centrale di polizia e aveva preso a pugni il capo Kletzka, finendo in cella per una nottata. Era su questo genere di vicende che volevo lavorare. L'effetto che ha sul prossimo la scomparsa di una persona, il modo in cui una vita risulta trasformata. «Mi ero procurato un taccuino su cui scrivevo le mie idee e uscivo per lunghe passeggiate, per tenermi lontano dalla gente... più precisamente dalla mia famiglia, immagino. In solitudine scrivevo i miei piccoli pensieri. Il più delle volte andavo a camminare lungo Rex Road, la strada che costeggia la sponda del fiume da Greenbank Road fino alla città. A quei tempi quasi tutto il lato sinistro di Rex Road era di campi aperti fino al fiume. Si poteva camminare per due o tre miglia senza mai perdere di vista il corso d'acqua. Osservavo il traffico marittimo sul Nowhatan, prendevo qualche appunto e proseguivo. Quando mi veniva appetito mi sedevo e tiravo fuori
un panino dalla mia bisaccia. Avevo sempre con me anche un paio di libri, magari qualcosa di John Donne o di Rupert Brooke. Ero anche un po' ingenuo. Io con i miei Donne e Rupert Brooke... no, non furono quelle le armi che mi permisero di sopravvivere quell'estate. «Bene, un giorno, mentre ero seduto in un campo ai bordi di Rex Road a guardare le imbarcazioni nelle acque del Nowhatan e a mangiare il mio panino, alzai gli occhi e mi soffermai a contemplare un uomo che trafficava sulla tolda di un tozzo peschereccio per aragoste diretto allo Stretto. Era un uomo grosso, con la barba, un pesante giaccone blu e un berretto messo di traverso sulla testa. Per non so quale ragione mi sentii improvvisamente a disagio. In effetti fu qualcosa di più di un senso di disagio. Provai un turbamento, come un brivido, la sensazione di un errore nel quadro generale. Come se avessi scorto due lune nel cielo. La sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Posai il mio libro e il boccone di panino mi si seccò in bocca. Il peschereccio si spostò prendendo la corrente e l'uomo si appoggiò al parapetto e alzò la testa. Mi guardò direttamente negli occhi, come se avesse sempre saputo che io mi trovavo sulla sponda.» Graham s'interruppe. Patsy era impallidita e sul suo viso era apparsa un'espressione allarmata. Aveva gli occhi dilatati e Graham sapeva che in quel momento non stava vedendo i suoi tre compagni. Allora Tabby disse: «Tu sapevi» e Graham guardò il ragazzo che aveva assunto quell'aria di complicità con Patsy che Graham aveva notato la prima volta che i due si erano incontrati. Anche Tabby era immobile e pallido. «Tu lo sapevi», fece eco Patsy. Vedevano insieme con lui, anzi, vedevano meglio di lui perché Graham guardava attraverso i veli della memoria, mentre loro vedevano tutto come se stesse avvenendo in quel momento. «Sì, lo sapevo», confermò. «Sapevo di avere visto un diavolo. Così come lo state vedendo voi ora.» «Gesù», esclamò Richard. «È vero, Patsy? Tabby?» I due annuirono quasi contemporaneamente. «Gesù», ripeté Richard. «Capisco che ormai dovremmo essere abituati a fenomeni di questo tipo, ma...» «Hai visto il mondo impazzire», osservò Tabby. «C'è stato un tempo nella mia vita in cui ero come voi due. Ebbi una specie di visione che mi scombussolò. Vidi il mondo diventare nero o forse fu la vista che mi si oscurò per un secondo, poi vidi fumo salire dal ter-
reno e fiamme ricoprire la superficie del Nowhatan. Tutto il fiume era incendiato. E puzzava come uno scarico di rifiuti. Poi la visione si dissolse. Allora ritrovai il buon vecchio Nowhatan con le sue acque grigie e una tozza imbarcazione che puntava verso lo Stretto. Quell'uomo non mi aveva dedicato più attenzione di quella che si meriterebbe un cane.» «E tu hai sentito di doverlo seguire», disse Patsy. «Per scoprire di più sul suo conto», aggiunse Tabby in armonia con lei. «Tornai il giorno dopo e avevo con me il solito taccuino e la colazione, ma non avevo appetito e non avevo scritto niente. Ero nervoso. Sapete, credo che mi aspettassi di rivedere quella terribile scena. Ero sicuro che sarebbe successo di nuovo. Era la conferma che desideravo, la riprova che esistevano regni dell'essere diversi da quelli che avevo conosciuto fino ad allora. Non riuscivo a togliere gli occhi da quel piccolo peschereccio ormeggiato poco distante. Ebbene, l'uomo riapparve. Avviò i suoi motori. Mi passò davanti, proprio come il giorno prima, ed esattamente come aveva fatto il giorno prima alzò la testa e mi vide in piedi sulla sponda. Il suo sguardo mi sfiorò appena. Il suo aspetto era robusto, solido e il suo sguardo, per quanto distratto, mi toccò quasi tangibilmente. La barca procedette lungo il fiume e non successe niente. Restai a guardarla andare via. Mi sentivo vuoto. Era un piccolo peschereccio come tanti altri che si allontanava e scompariva nell'ansa del fiume... e io ero lì fermo, a bocca aperta. «Avete ragione nel dire che avevo bisogno di sapere di più su di lui. Quello stesso pomeriggio, sul tardi, attraversai il fiume. Feci finta di avere un messaggio da riferire a uno dei pescatori di cui avevo scordato il nome. 'Un uomo grosso', spiegai, 'con la barba. Porta sempre un berretto. Ecco, è lì che tiene la sua barca.' Trovai un ometto che sorrise ai compagni e mi disse: 'E Krell. Questo cerca Bates Krell'. Quando si voltò verso di me vidi nei suoi occhi un lampo di pura malvagità. 'Avresti un messaggio per Bates Krell, eh? Vedrai che lui ne ha uno per te, ragazzo.' Risero tutti e un altro pescatore aggiunse: 'Un messaggino con i fiocchi, vedrai'. Naturalmente non potevo capire che cosa avessero in mente, ma di una cosa fui certo: avevano paura di lui. «Così aspettai che tornasse dalla sua battuta di pesca. Non avevo idea del significato di quello che era successo, ma pensavo che questo Krell fosse in qualche modo responsabile dei fatti che mi avevano condotto fin lì dandomi l'occasione di vederlo. Parlo della scomparsa di Daisy West e delle altre donne. Krell rientrò poco prima del tramonto. Aveva preso qualcosa e da lontano lo vidi contrattare la vendita delle sue aragoste con i com-
mercianti di pesce che scendevano al porto a questo scopo. Lo trovavo burbero, aggressivo, per niente stupido. A vederlo sembrava un pescatore qualsiasi, ma io sapevo che non era così. Volevo scoprire dove abitava. Volevo sapere tutto della sua vita. Non avevo dimenticato la terribile visione che avevo avuto e mi sentivo ossessionato dal personaggio. «Quando andò a casa lo seguii. Non credo che mi vide. Percorse a piedi Greenbank Road guardando sempre davanti a sé, marciando con i suoi stivali di gomma e il berretto in testa come se tutto il mondo gli appartenesse. Si era fatto buio e ai lati di Greenbank Road non c'erano a quei tempi nient'altro che campi e marcite. Niente luce. Per seguirlo tagliai per i campi, riempiendomi di ricci e spini e rovinandomi scarpe e pantaloni. «Fu così che trovai la sua casa e appena l'ebbi vista seppi che non era una casa qualsiasi più di quanto lo fosse il suo abitatore. Era in tutto e per tutto casa sua. O viceversa. Restai nascosto tra gli alberi di Poor Fox Road e lo vidi salire per il sentiero, aprire la porta ed entrare. Quella terribile casupola gli si chiuse attorno come un pugno. Indietreggiai, con la sensazione che la casa mi stesse vedendo con gli occhi di Krell. All'improvviso mi sentii in pericolo, a disagio, e mi parve che tutto quello che c'era lì intorno fosse una minaccia. Così me ne tornai di corsa a casa e quando arrivai, dopo gli inevitabili rimproveri dei miei genitori per il ritardo, dovetti meditare sulla mia prossima mossa. Avendo scoperto quello che ero così sicuro di sapere, dovevo assolutamente fare qualcosa. Non potevo limitarmi a scrivere un libro su un pescatore che ammazzava la gente. Dovevo passare all'azione. Credo che quella notte ebbi gli incubi peggiori della mia vita, ma la mattina dopo avevo deciso che cosa fare. Avrei cercato le prove per mandare Bates Krell in galera. Dovevo salire di nascosto a bordo della sua barca, nel cuore della notte, e lì avrei certo trovato qualcosa lasciato da una delle donne scomparse. Krell era un pescatore e aveva a disposizione il più grande nascondiglio del mondo dove fare scomparire indizi e tracce. Il Nowhatan, lo Stretto di Long Island, l'intero Oceano Atlantico. Avrebbe potuto buttare in mare tutte le donne di Hampstead e, se avesse preso la precauzione di zavorrarle, nessuno le avrebbe mai trovate.» Assorto nel suo racconto, Graham non si avvide della strana espressione per metà preoccupata e per metà risoluta apparsa sul volto di Tabby Smithfield. 2
«Due giorni dopo misi in pratica il mio proposito», riprese Graham. «Nottetempo salii a bordo del peschereccio di Krell. Trovai qualcosa, ma non quello che avevo creduto. «Dovetti aspettare che i miei genitori dormissero e stare ben attento a non svegliarli. Sapete come sono i genitori. Si svegliano per qualsiasi cosa. Così non mi mossi prima della mezzanotte. Mi infilai silenziosamente i vestiti e scesi le scale come un fantasma, terrorizzato all'idea che il mio vecchio si mettesse a urlare. Quando fui fuori, richiusi la porta con tanta cautela che nemmeno io sentii scattare la serratura. Camminai in punta di piedi per una cinquantina di passi... e poi partii di corsa come il vento. «E non smisi di correre finché non fui al ponte. Non avevo incrociato anima viva per tutto il percorso. Nemmeno un'automobile. A quei tempi Hampstead era davvero un borgo dove la gente andava a letto con le galline. Volavo. Non sarei riuscito a camminare nemmeno se lo avessi voluto perché il mio corpo non me lo permetteva. Forse i miei passi disturbarono il sonno di qualche cittadino, ma pensavo che quello che avrei scoperto sarebbe stato ben peggio di un rumore nella notte: la prova che Daisy West e le altre donne erano state assassinate, proprio come era successo a quelle che le avevano precedute, nel 1924. Quando raggiunsi il ponte avevo percorso correndo almeno due miglia e mezzo e mi facevano male le gambe. Eppure non credo che fossi minimamente affannato. Tanto per dire quanto mi sentivo eccitato! Mi sporsi dal parapetto del ponte e ispezionai il fiume. Vidi la barca di Krell, la Fancy, là dove l'aveva ormeggiata quella sera. E non c'era nessuno in vista. Da lì in avanti camminai. C'erano un paio di taverne sulla strada, o più che altro rivendite clandestine di alcolici, così incrociai qualche avventore in Riverfront Avenue. Voltai la testa dall'altra parte e immagino che loro fecero lo stesso. Appena mi fu possibile m'infilai fra le case e mi avvicinai alla sponda. «Sentivo lo sciacquio dell'acqua contro i piloni dei moli. L'odore mi sembrava più forte che durante il giorno, ma forse era dovuto ai miei sensi che erano così... così sensibili. Ogni più piccolo dettaglio mi trapassava come un coltello. «L'imbarcazione di Bates Krell si sollevava e si riabbassava seguendo il movimento dei flutti, sfregando il fianco contro il molo come un grosso cane. Non avevo che da saltare a bordo. Non c'era altra persona in vista. Era come se la barca mi desse il suo benvenuto, mi invitasse a salire, con quel suo dondolio e i suoi sospiri sommessi. Ma esitai. Avevo davvero voglia di mordere la mela? Commettere un reato? Posai la mano sul legno
ruvido dell'imbarcazione. Su e giù, su e. giù... e poi mi dissi mentalmente al diavolo! e con una giravolta saltai sulla tolda. «Le mie scarpe sollevarono una nuvoletta di polvere. Sentivo odore di muffa e di pesce. Quando staccai la mano dal parapetto la ritrovai nera. La barca di Krell era incredibilmente lercia. Mi accovacciai sotto il parapetto, nel caso qualcuno guardasse dalla mia parte, e avanzai così, un po' come un'anatra, senza sapere esattamente che cosa stessi cercando. Probabilmente la mia idea era che Krell avesse conservato qualche ricordino delle sue imprese. Avevo immaginato di aprire uno stipetto sulla Fancy e di trovarvi una collezione di borsette da donna o scarpe femminili. Ma non trovai nessuno stipetto. Compii un giro intero, sempre accovacciato, e tutto quello che ottenni fu un mal di schiena e macchie di sporco sui vestiti. Nella timoniera non trovai niente di niente. Mi restava solo da guardare nella stiva e c'erano due motivi per cui avevo poca voglia di scendervi. Avrei puzzato di pesce e aragoste per chissà quanti giorni e da laggiù mi sarebbe stato impossibile accorgermi dell'arrivo di qualcuno. Non avevo nessuna voglia di farmi trovare a bordo della Fancy. Poi, quasi per caso, notai qualcosa che prima mi era sfuggito. «La luce della luna metteva in risalto una piccola maniglia di ottone a pochi passi da me. Si trovava una spanna sotto il parapetto e mi parve di scorgere una riga, come un'ombra, sotto alla maniglia. Sembrava proprio un ripostiglio segreto ricavato da Krell nella fiancata della sua imbarcazione. L'avevo scoperto! Sapevo che cosa sarebbe successo. Avrei aperto quella porticina e sul ponte sarebbe caduto un assortimento di collane e anelli. Stavo per trovare un tesoro, un tesoro vero, e per liquidare Bates Krell mi sarebbe bastato portare qualche campioncino a Kletzka. L'assassino sarebbe stato messo sotto chiave prima del sorgere del sole. «Mi avvicinai alla maniglia e la spinsi lateralmente. La porticina scorrevole si mosse come se fosse lubrificata. Ormai mi ero convinto che non avrei trovato un mucchio di scarpe da donna, ma un patrimonio in gioielli. «Ma il piccolo ripostiglio che Krell aveva costruito nella Fancy era quasi vuoto. Trovai una vecchia tazza da caffè macchiata e un bicchiere da vino. Tutto qui. Una tazza e un bicchiere. Non capivo. Ero confuso. Tirai fuori il bicchiere e lo esaminai. Il cristallo aveva una decorazione di foglie e boccioli ed era leggerissimo. Scintillò sotto la luce della luna. Quel dannato bicchiere così prezioso mi colpì per il contrasto con il sudiciume della barca. Era come se avessi in mano una torcia elettrica. Lo riposi nel vano segreto e richiusi lo sportello. Ora mi restava da controllare solo un posto. La
stiva. Decisi che vi avrei dato solo un'occhiata, senza entrare. «La stiva della Fancy si apriva per mezzo di un bastone di legno levigato, lungo sì e no una ventina di centimetri. Lo si infilava in un anello e poi si faceva leva sollevando una delle grosse porte. Giunsi a questa conclusione vedendo il bastone appeso accanto al boccaporto chiuso. Staccai la leva di legno dal suo chiodo, la infilai nell'anello e sollevai la porta. Appena ebbi aperto, per poco non svenni precipitando di sotto. «C'era un lago di sangue. Esattamente quello che avete visto anche voi. Sembrava che stesse salendo, che cercasse di guadagnare il boccaporto. Ribolliva e per un momento pazzesco mi sembrò addirittura cosciente. Barcollai e riuscii a malapena a lasciar ricadere la porta prima di perdere i sensi e crollare. «Poi dovetti assicurarmi di avere visto bene. Così, appena mi sentii nuovamente padrone di me stesso, riaprii la porta di qualche centimetro. Ma questa volta sentii soltanto il solito odore di pesce. Non c'era odore di sangue. Aprii di più e mi trovai a guardare in una stiva vuota. Ne avevo abbastanza. Abbandonai il peschereccio in fretta e furia e ripresi a respirare normalmente solo quando fui sulla strada di casa. «Il giorno dopo elaborai un'altra strategia. Mi erano successe due cose strane e non avevo intenzione di abbandonare le ricerche. Anzi, ero più che mai convinto che Krell avesse ucciso tutte quelle donne e mi ero messo in testa di smascherarlo. Era compito mio. Così preparai un altro piano. «Ero sicuro che avesse degli aiutanti, come tutti gli altri pescatori di aragoste. Nessun uomo, per quanto forte, poteva fare quel mestiere da solo. Di solito si facevano aiutare dai figli, oppure assumevano dei ragazzi tra quelli che gironzolavano dalle parti del porto. Come adesso fanno i ragazzi che passano la giornata nei pressi di qualche pompa di benzina nella speranza di trovare qualche lavoretto a pagamento. A quei tempi il porto offriva qualche occasione. Ero sicuro di riuscire a sapere qualcos'altro parlando con qualche ragazzo che avesse lavorato con Bates Krell. Be', scoprii che era molto più difficile di quanto mi fossi aspettato. «Cominciai a fare domande al porto e nei locali lungo il fiume. Il Blue Tern, per esempio. C'è ancora. Avevo inventato una storia complicata, ma forse non ingannai nessuno. O forse, molto semplicemente, nessuno aveva voglia di parlare di Bates Krell. Alla fine al Blue Tern trovai un vecchio barcaiolo che, dopo una mezza bottiglia di whisky, mi rivelò che Krell maltrattava i suoi aiutanti. 'Scappano sempre', mi disse. 'Fanno fagotto di
notte e lo farei anch'io se fossi al loro posto. Si può essere duri e un ragazzo ti aspetterà, ma nessuno oggi sopporta di essere malmenato. Quando ero giovane io si prendeva tutto quello che capitava e bisognava accontentarsi.' «Gli chiesi se sapeva dove avrei potuto trovare uno di quei ragazzi e lui rispose che probabilmente se ne erano andati tutti via, soprattutto per stare alla larga da Krell. «'Proprio tutti?' gli domandai. 'Non c'è nemmeno uno di quelli che hanno lavorato con lui che sia rimasto in città?' «Lui rimuginò per un po' e io gli versai da bere. 'Forse uno c'è', mi disse alla fine. 'Un ragazzo di nome Burgess. Si faceva chiamare Pitt Burgess. Un tipo buffo. Piantò Krell. Un atto di coraggio come pochi. Mai più tornato qui al porto e nessuno ha mai sentito la sua mancanza. Non era uno con cui si faceva amicizia. Nessuno di noi l'aveva preso in simpatia.' «Gli chiesi dove vivesse Burgess e lui mi rispose che stava alle paludi, ma nei suoi occhi brillò una luce maligna. «Adesso non ci sono più baracche nelle paludi, ma negli Anni Venti, durante tutto il periodo della Depressione, c'era gente che abitava in quegli acquitrini, dietro la Gravesend Beach. Si riparavano in capanne fatte con fogli di cartone incatramato e si cibavano dei molluschi che prendevano quando la marea era bassa. Tutti uomini che vivevano da soli. Così sapevo dove cercare, anche se non ero molto contento. Avrei rovinato un altro paio di stivali e quelle baracche nelle paludi... be', nessuno con un briciolo di cervello si sarebbe rallegrato all'idea di andarci, ma pensavo che ritrovare Burgess era probabilmente la mia unica speranza per scoprire qualcosa su Krell. Così, il pomeriggio del giorno seguente feci l'autostop in Greenbank Road fino all'ingresso della spiaggia, dove scavalcai il piccolo estuario. Da lì mi inoltrai negli acquitrini verso le baracche. Ce n'erano sei o sette in fila in direzione di Millpond. «Per me una valeva l'altra. Solo che mi capitò di vedere un ragazzo alto e magro con capelli color biondo sporco che trafficava vicino a una delle costruzioni più lontane. Si accorse di me e non ci pensò due volte: s'infilò in casa. È lui, pensai. Così arrivai fino alla sua topaia e bussai alla sua porta...» 3 ...e un ragazzo con gli occhi spaventati aprì e restò a fissare Graham. Non poteva avere più di diciassette anni. I suoi occhi sembravano opachi.
Graham si accorse che non aveva traccia di ciglia. «Vai via», intimò. «Lasciami stare.» «Ho bisogno del tuo aiuto», si affrettò a dire Graham. «E ti pagherò. Guarda, ti ho portato da mangiare.» Così dicendo gli mise in mano un sacchetto nel quale c'erano barattoli di fagioli, della carne affettata e tre bottiglie di birra. Sebbene riluttante, il ragazzo accettò il dono e cominciò a frugare nelle provviste. Le sue mani, come la faccia affilata, erano grigie di sporcizia. «Tu sei Pitt Burgess, vero?» Il ragazzo rialzò di scatto la faccia come fa un detenuto davanti a un secondino, poi annuì. «Questo è cibo?» «Ho cercato di immaginare che cosa ti potesse servire.» Il ragazzo annuì di nuovo e sembrò quasi stupefatto. Graham si accorse allora, con un moto di disperazione, che era un ritardato mentale. «E c'è anche della birra», gli fece notare. Burgess si leccò le labbra e gli sorrise. «Di che aiuto hai detto che hai bisogno?» «Solo qualche domanda.» «Non ti darò questa birra.» «L'ho portata per te.» Nervosamente Burgess indietreggiò allontanandosi dalla porta e Graham entrò in un'unica stanza malmessa. Faceva un caldo soffocante e ovunque regnava la sporcizia. Mentre Burgess si avventava sul sacchetto e apriva una bottiglia di birra, Graham notò le gocce di umidità sulle pareti interne e sulla struttura delle due seggiole di canna. Anche il vetro della bottiglietta di birra si era immediatamente appannato. Il pavimento di compensato era ricoperto di muffa. A una delle pareti era appesa la fotografia di una Marmon coupé strappata da una rivista. «La birra è buona», disse Burgess. «Puoi anche sederti, se vuoi.» «Grazie.» Graham non voleva spaventarlo. Burgess era ancora molto nervoso e c'era sempre pericolo che si desse alla fuga come un cerbiatto nei boschi. «Ti seccherebbe rispondere a qualche domanda?» «Tu chiedi e vedremo.» Guardò il ragazzo che beveva un altro sorso di birra. «Quando hai lavorato l'ultima volta?» Burgess gli lanciò un'occhiata rigirandosi la birra nella bocca. «Chi ti ha mandato?» «Nessuno, Pitt. Te l'ho detto. Ho bisogno del tuo aiuto.» L'altro inclinò la testa con fare sospettoso. «Okay, sarà stato quattro o
cinque mesi fa. L'ultima volta.» «Che cosa facevi?» «Davo una mano su un peschereccio.» «Perché sei stato licenziato?» «Ehi, piano, me ne sono andato io. Nessuno mi ha licenziato. Me ne sono andato. Ti hanno detto che mi hanno licenziato? È così che ti hanno detto?» «Perché te ne sei andato, allora?» Adesso sembrava più nervoso di prima. I suoi occhi senza ciglia non riuscivano a stare fermi. «Non ero trattato bene», borbottò. «Ti picchiava? Quel Krell ti picchiava?» Niente cambiò in quella stamberga, ma tutto fu all'improvviso diverso. Sotto lo strato di sudiciume la pelle del ragazzo aveva assunto il colore del latte cagliato. Persino le gocce d'acqua che lentamente scivolavano sulla parete parvero fermarsi e tremare. «Non ho niente a che fare con lui», precisò Graham. «L'avrò visto sì e no un paio di volte.» «Mi picchiava», confessò a bassa voce Pitt Burgess. Si andava rilassando. «Sì, è per questo che me ne andai.» Evitava di guardare Graham, perciò Graham restò in silenzio, guadagnandosi la fiducia del ragazzo. Si mise a contemplare la foto della Marmon e non si mosse. «Mi picchiava parecchio», disse alla fine il ragazzo. Un'altra lunga pausa. Graham temeva che sarebbe scoppiato per la grande tensione muscolare. Poi Pitt Burgess aggiunse sommessamente: «E ogni giorno sembrava più giovane. Ringiovaniva. Certo. Diventava bello». «Secondo te era un bell'uomo, Pitt?», chiese Graham. Il ragazzo annuì e il pomo d'Adamo gli sobbalzò nella gola. Poi gli occhi di Burgess fissarono Graham, per la prima volta in trenta minuti. «Lo era. Era tremendamente bello. Certe volte uno non bada molto alle cose, se...» Una vena prese a pulsare nella testa di Graham. Gli stava venendo un'emicrania. «Capisco», disse. «Sei stato carino a portarmi da mangiare», lo ringraziò il ragazzo. Fece una pausa come per dare a Graham l'occasione di esprimere qualcosa. «Lascia stare», rispose Graham, che si sentiva terribilmente imbarazzato. «Ho avuto paura di lui quando è diventato bello», continuò Burgess dopo un'altra delle sue lunghe pause. «Pensavo a quello che aveva fatto.»
«Per sembrare più giovane?» chiese Graham. «A quello che aveva fatto prima di cominciare a sembrare più giovane. Aveva avuto altri ragazzi prima di me.» Pitt Burgess fissò Graham con una nuova espressione negli occhi. C'era del calcolo nel suo sguardo, insieme con vergogna e strafottenza, e qualcosa di misterioso che fece venir voglia a Graham di scappare da quella baracca. «E picchiava anche quei ragazzi. Quanti ne avrà avuti? Tre o quattro?» Il ragazzo si schiarì la gola. «Più o meno. Tre. Quattro. Li portava a casa sua. Io non gliel'ho lasciato fare. Mi faceva paura.» «Pitt, non so nemmeno bene che cosa ti sto chiedendo, ma ti è mai successo di vedere qualcosa di strano a bordo della Fancy?» Il ragazzo si era nuovamente rannicchiato in se stesso e i suoi occhi erano diventati due fessure. «Senti, so che ti sembrerà strano», insisté Graham, «ma ti è mai capitato di vedere un mare di sangue?» Pitt scrollò la testa. «Mai visto niente che non fosse normale?» Dall'espressione inaspettatamente intelligente che vide sulla faccia del ragazzo, un'espressione ironica, Graham capì che non c'era mai stato niente a bordo del peschereccio che fosse normale fino in fondo. «Forse non ti sto rivolgendo la domanda nella maniera giusta», commentò tristemente. «Lo so», disse il ragazzo. «So che cosa vuoi. Qualcosa che lui non vorrebbe che io dicessi, ma io la dirò... a te. C'è stata una volta in cui ho sentito quel rumore incredibile. Ho guardato nella timoniera. Da non crederci. Era tutta piena di mosche. Un milione, saranno state. Ma sapevo anche una cosa. Sapevo che non c'erano davvero e lui mi ha picchiato perché sapeva che le avevo viste. Gli piaceva picchiarmi.» «Oh...» fece Graham. «Si portava a casa gli altri ragazzi», riprese Burgess. «Non so che cos'altro faceva, ma si portava a casa quei ragazzi e nessuno ci badava.» «Ci badava?» «Immagino che se ne andassero verso il nord. Probabilmente andavano a cercare lavoro a New Haven. Credo che nessuno li abbia più rivisti.» «Oh, mio Dio», gemette Graham, che finalmente aveva capito. «Nessuno», ripeté Pitt Burgess con uh mezzo sorriso. «E a nessuno importava niente. Tanto era gente venuta dal nulla. Così io l'ho mollato e me ne sono venuto qui alle paludi e da quel giorno non l'ho mai più rivisto il mio bel signor Krell.»
Graham si alzò, avendo appreso più di quello che era venuto a cercare. Salutò il ragazzo e se la batté il più in fretta possibile. Mentre affondava gli stivali negli acquitrini si sentì addosso gli occhi di Pitt Burgess. 4 Giunto a casa, Graham si fece un bagno. Indugiò a lungo nella vasca perché era come se gli fosse penetrata nella pelle l'atmosfera umida e sozza della stamberga di Pitt Burgess. Si sfregò il corpo fino a farsi male. Mai in passato aveva provato autentica ripulsa morale e mai aveva conosciuto una persona che si potesse considerare degradata. Ma Pitt Burgess era un degradato e Bates Krell ne era responsabile. Aveva la sensazione di avere gettato un'occhiata nel profondo di un pozzo e di avere salvato per miracolo la vita. Un passo, ancora un passo, un secondo in più, e ci sarebbe caduto dentro. Con tutta probabilità quella fu la causa dei suoi incubi. Per tre notti di fila i sonni di Graham furono agitati e angosciosi. Sognò di dormire in una bara in una camera drappeggiata di velluti neri. Aveva le mani e la bocca macchiate di rosso. Voleva volare, alzarsi dalla bara e percorrere il cielo della notte. Nelle due notti seguenti il sogno cambiò. Non era più nella baia, ma accanto a un pozzo, nel folto di una boscaglia. In fondo al pozzo c'era qualcosa di potente e pauroso, un oggetto o un gruppo di oggetti che lo chiamavano ripetutamente. Non poteva guardare. Non avrebbe potuto sopportarlo. Per due volte, la mattina, Graham si svegliò con la sensazione precisa di aver guardato indietro nel tempo. Non riuscì però a parlarne ai suoi genitori. Quando guardava i loro volti buoni, sereni e perplessi, si sentiva un emarginato: gli veniva voglia di piangere o di fuggire. Si chiuse a chiave nella sua camera. Rispondeva quando venivano a bussare alla porta, ma si rifiutava di uscire. Se gli lasciavano qualcosa davanti all'uscio mangiava, altrimenti non gli importava. Ben presto si rese conto dell'ansia dei genitori, non poté ignorare i loro interrogativi. Quel periodo di sbandamento, di esaurimento, durò quattro giorni. Il quinto giorno si svegliò. Era turbato, ma di nuovo in sé. Da due notti non aveva più incubi. Scese per la prima colazione e si scusò con i genitori per il suo comportamento. Diede loro a intendere di avere lavorato troppo al suo libro. Ma appena finito di mangiare cedette alla sua ossessione, percorse a piedi tutta Greenbank Road verso il ponte, svoltò in Riverfront Avenue e tornò al
porto. La Fancy era all'attracco. Graham non se l'era aspettato. In tuta e berretto blu calzato sulla testa, Bates Krell andava avanti e indietro prendendo nasse da una pila disordinata e gettandole sulla tolda della sua imbarcazione. Questa volta, nel vederlo, Graham si sentì invadere da una paura istintiva e irragionevole: pensò a quei ragazzi che Krell aveva portato a casa con sé e che non si erano più visti. Non riusciva a togliere gli occhi da Krell, ma non voleva che il pescatore lo vedesse. Indietreggiò lentamente e si venne a trovare nel vicolo stretto, tra il mercato del pesce e il Blue Tern. Lì si fermò a osservare Krell che caricava le sue nasse sulla barca. Il mondo non tremò, il fiume non s'incendiò, non si verificò nessun fenomeno sovrannaturale. Un uomo grande e grosso come un toro, con un berretto di lana blu scuro gettava nasse sulla tolda di un peschereccio. Graham continuò a fissarlo come se fosse sotto ipnosi. La faccia di Krell era piatta e opaca, le sue sopracciglia folte e nere come la barba. Un uomo avvezzo alle burrasche improvvise, si sarebbe detto. Ma niente di più. Graham si rese conto di ansimare, di avere il fiato mozzo. Un ometto uscì dalla porta del Blue Tern, corrugò la fronte riconoscendo Graham e poi si diresse verso i pontili. Era l'ex pescatore che gli aveva fatto il nome di Pitt Burgess. Graham avvertì una fitta allo stomaco quando vide l'ometto puntare verso la catasta di nasse. Poi la testa del vecchio fece un brusco movimento laterale e Krell interruppe il suo lavoro: l'ex pescatore gli aveva detto qualcosa. Successivamente il vecchio riprese il cammino. Krell aveva smesso di lavorare e adesso stava fermo con la testa piegata in modo da tenere il mento appoggiato al petto, con le mani infilate nelle tasche. Fila, fila, si disse Graham: sa tutto! Krell si voltò dalla sua parte, inclinò la testa e fissò Graham inchiodandolo con lo sguardo al muro del Blue Tern. Graham si drizzò. Pur in preda al panico riuscì a pensare che in circostanze normali la gigioneria di quell'uomo lo avrebbe divertito. Krell sorrise per metà e avanzò di un passo verso Graham, che uscì dal vicolo per farglisi incontro allo scoperto. Si fermarono a pochi centimetri di distanza l'uno dall'altro. Krell emanava un penetrante odore di pesce e di sudore stantio. Era più o meno alto quanto Graham, perciò i suoi occhi limacciosi si fissarono in quelli del ragazzo. Graham vi scoprì una sorprendente gaiezza repressa.
Un secondo dopo si chiese come avesse potuto giudicare quegli occhi limacciosi. Per prima cosa Graham percepì la minaccia rappresentata da quell'uomo. Un attimo più tardi avvertì quello che avrebbe potuto definire fascino. «Sai», esordì Krell con una voce roca e un po' stridula, «è più forte di me. Mi interessa.» «Come?» «Mi interessa.» Krell annuì. «Non riesco a immaginare perché tu vada in giro a far domande su di me. Ti ho visto prima, non è vero? Eri sulla sponda del fiume.» «Sì», rispose Graham. «Sì, è vero.» «Be', mettimi a parte del tuo segreto. Non riesco a credere che tu abbia intenzione di investire in un peschereccio.» Milioni di impressioni contraddittorie affollarono la mente di Graham: percepiva la violenza che emanava da Krell, ma nello stesso tempo era consapevole di essere di fronte a una personalità potente. Krell era un essere dotato di quel fascino speciale che hanno le persone capaci di essere se stesse fino in fondo. Chiunque avrebbe giudicato Bates Krell un individuo scostante, eppure quell'uomo aveva accettato le sue caratteristiche negative così integralmente da essere quasi riuscito a trasformarle in qualità positive. Poi Graham capì un'altra cosa: quell'uomo sarebbe risultato molto attraente per una donna. Raccontò quel tanto di verità che ebbe il coraggio di rivelargli. «No, no. Sono uno scrittore. Sto appena cominciando. Mi chiamo Graham Williams, signor Krell.» «Un romanziere?» «Sto cercando di scrivere un libro. Quel giorno, quando l'ho vista passare, be', ho pensato che lei poteva essere un personaggio interessante.» «È stato il primo giorno che mi hai visto o il secondo?» Adesso i suoi occhi scintillavano decisamente. «Tutte e due le volte.» Krell indietreggiò di un passo, sempre con un mezzo sorriso sulle labbra. Lanciò un'occhiata alla Fancy, poi tornò a fissare Graham. «Il personaggio di un libro, eh? Questa sì che è una novità. Un libro di Graham Williams. Avrei un'idea per te. Sto per uscire e resterò fuori un paio d'ore, appena avrò caricato a bordo le ultime nasse. Perché non vieni? Così potrai vedere con i tuoi occhi e decidere se davvero vuoi mettere un pescatore di arago-
ste nel tuo libro, Graham Williams.» Abbandonò all'improvviso Graham e tornò alle sue nasse. Ne buttò un'altra sulla tolda sotto agli occhi di Graham che era rimasto fermo a guardarlo. Poi si voltò a osservarlo, come per giudicarlo. Si asciugò la mano nella bella barba. «Sono anche disposto a offrirti un bicchiere di vino mentre assisti al mio lavoro. Pare che voi scrittori non rifiutiate un sorsetto ogni tanto.» Graham ricordò quel bicchiere da vino di cristallo nello stipetto polveroso. Era un ricordo denso di minacce. Disse a se stesso: quest'uomo ammazza la gente. Ma se la storia che aveva raccontato a Krell fosse stata vera, non avrebbe forse accettato quell'invito? E se Krell era sospettoso, non si sarebbe in qualche modo tradito? Non era certo un attore. D'altra parte su quella barca Graham poteva sperare di scoprire qualcosa che lo aiutasse a smascherare Krell. Così raccolse le ultime due nasse. «Andiamo», concluse. Krell sollevò le sue folte sopracciglia e annuì. Sorrise. Con la mano invitò Graham a salire a bordo, con un gesto di ironica cortesia. Pochi istanti dopo il motore scoppiettava mentre la barca affrontava il Nowhatan. «Come fa a ricordare dove mette giù le sue trappole?» domandò Graham fissando quel punto sulla sponda dove si trovava la prima volta che aveva visto Bates Krell. «Punti di riferimento», rispose il pescatore. «Li vedrai quando saremo arrivati sul posto.» «La città è così diversa vista dal fiume», commentò Graham. «È la prima volta che la vedo da qui. Sembra...» «Disordinata e confusa», gli gridò Krell dalla timoniera. Non è così che l'avrebbe definita Graham, ma poteva andare. Dalle acque del Nowhatan Hampstead appariva rozza, incompleta, un insediamento di frontiera. Il lato posteriore degli edifici sembrava inclinarsi verso il fiume. Quando ebbero sorpassato gli ultimi edifici e le ultime file di pontili, si trovarono fra sponde che delimitavano sconfinate paludi e campi di saggina al vento. L'illusione svanì quando la Fancy doppiò il capo alla foce del fiume e uscì nello Stretto di Long Island. Sulle alture sovrastanti le spiagge private, le residenze di Mount Avenue sembravano variopinte lanterne appese fra macchie di alberi rigogliosi. «Fino a dove si spinge?» gridò Graham a Krell, che si limitò a indicargli con la mano le acque dello Stretto. Una foschia lieve e azzurrognola nascondeva Long Island. La Fancy prese il largo allontanandosi dalla costa. Ben presto le case di
Mount Avenue si fecero piccole come scatole di fiammiferi. La spiaggia di Hillhaven, subito alla destra delle casette, sembrava sospesa sull'acqua come uno sbuffo di fumo. Graham scorse una macchia gialla dondolare nell'acqua. Poi ne notò altre due più avanti, che apparivano e scomparivano dietro le onde. Erano i punti di riferimento ai quali aveva accennato Krell. Graham stava per voltarsi verso la timoniera per chiedergli informazioni sui galleggianti, ma poi cambiò idea perché il primo, costruito con due pezzi di legno dipinti di giallo e inchiodati insieme a forma di croce, era già stato superato senza che Krell spegnesse i motori. Evidentemente erano di qualcun altro. Graham si appoggiò al parapetto. Fu allora che la sua intuizione, o forse quel dono sovrannaturale che aveva momentaneamente condiviso con Patsy e Tabby molto tempo prima della loro nascita, gli salvò la vita. Avvertì all'improvviso l'odore del sangue, come se alle sue spalle fosse stato in quel momento sgozzato un bue. E fu sicuro che dietro c'era un animale: un essere grottesco, un mostro. Lo sapeva. Era una cosa così terribile che al solo vederla i suoi muscoli si sarebbero liquefatti. Eppure quell'essere lo avrebbe ammazzato seduta stante se non si fosse voltato. Nella sua mente passò l'immagine di un ragno grande quanto l'intera timoniera. Si voltò dunque ad affrontarlo. Bates Krell era a metà strada fra la timoniera e il parapetto. Stringeva in mano un lungo manico di legno nel quale era infilata una punta acuminata di metallo simile a una baionetta. Mentre avanzava verso Graham con l'intenzione di arpionarlo, sorrideva. I suoi occhi balenavano sotto le folte sopracciglia. La faccia di Krell si era trasformata in una maschera di gioia, di strapotere, di risolutezza. Rise forte mentre si avvicinava. 5 «E io ero là», continuò Graham, «disarmato, con quel pazzo che mi veniva incontro brandendo la lama. Aveva intenzione di squartarmi, su questo non c'era dubbio. Mi avrebbe aperto dalla gola fino all'ombelico e poi mi avrebbe gettato in pasto ai pesci. Bates Krell. Era felice.» Graham chiuse gli occhi. Per un attimo, appoggiato allo schienale della seggiola, abbassò la testa. Radi capelli bianchi gli spuntavano dal cranio. Quando rialzò il capo i suoi occhi apparvero molto grandi. «E così sarebbe dovuta finire. Non avrei mai potuto sconfiggere Bates Krell.» Sbatté le palpebre e per un
istante sembrò a Tabby molto giovane, giovane e terrorizzato come era stato quando si era trovato davanti alla furia omicida di Bates Krell sulla tolda della Fancy. «E invece lo sconfissi. Tabby lo sa. L'ha visto la prima volta che ci siamo conosciuti. Ma non credo che tu abbia capito di che cosa si trattava, Tabby.» «Non saprei», rispose Tabby. «Che cosa ho visto? Ti ho visto raccogliere qualcosa, non è vero? Non c'era qualcosa...?» «Che cosa?» intervenne Patsy. «Una mazza? Ho una mezza idea... qualcosa di simile a una mazza, no?» «No, non era una mazza», rispose Graham. «Era però l'unica arma a cui potei pensare in quel momento, quel paletto di legno levigato lungo una ventina di centimetri che serviva per aprire la stiva. Girai gli occhi e lo vidi appeso al suo chiodo. Credo che spiccai un balzo e Krell fendette l'aria con la lama, ma mi mancò. Non se la prese. Tanto sapeva che prima o poi mi avrebbe avuto. Un pezzetto di legno come quello non lo avrebbe fermato. Vibrò un altro colpo, ma io lo schivai e corsi ad afferrare il paletto. Lo strinsi saldamente nella mano e lo affrontai, quasi sapessi quello che stavo facendo; come se mi fossi convinto che avevo una possibilità.» Graham fece una pausa per guardare gli amici, ora che era giunto al momento culminante della sua storia. «E Krell si fece sotto, roteando quel micidiale arpione che teneva all'altezza della mia pancia. Disse: 'Tu non sai niente, Williams. Non sai niente'. Non so come feci a non svenire per la paura. Proprio in quel momento sentii il brusio di un milione di mosche. Avevo la schiena rivolta verso la timoniera e ricordai ciò che mi aveva raccontato Pitt Burgess. Pensai che le mosche dovessero essere là dentro, un milione di mosche che annerivano le finestre e poi...» Scrutò i loro volti e vide che stavano rivivendo con lui quel momento. Patsy irraggiava luce come una candela. Aveva visto. Stava contemplando il trionfo di Graham in quel giorno di un lontano passato e viveva quel trionfo come se fosse anche il suo. Leggendo tutto questo sul suo viso Graham sentì un profondo affetto per lei. Allora si chinò e le strinse la mano. «Oh, avevi una spada», disse Patsy con gli occhi pieni di luce. «Oh, Graham, ma tu avevi una spada ed eri stupendo.» Così lo aveva aiutato a superare la difficoltà. Era lei a essere stupenda. «È così», rispose Graham. «Mi sentivo alto due metri, mi sentivo forte come Dio e quel paletto che avevo nella mano, quei venti centimetri di legno... era una spada, proprio come ha detto Patsy.» Si portò la mano libera
davanti agli occhi e restò in silenzio per un momento. «Una spada.» Gli tremò la voce. Scosse la testa. «Non mi metterò a piangere, no. Ma dovete capire. Mi sembra di rivivere quei momenti...» Scrollò con più decisione la testa e posò anche l'altra mano su quella di Patsy. «Il giorno cambiò completamente. C'era una radiosità incredibile nell'aria. Krell stava strepitando. I suoi occhi erano diversi. Erano grandi, simili a palline da golf, e non c'era più bianco e pupilla. Erano completamente neri, neri come la pece, attraversati da venature dorate. Sembravano pietre. Pietre preziose. Mi piombò addosso, urlando come un forsennato, e io sapevo che cosa sentiva. Era lo stesso inebriante trionfo che avevo dentro io. Ma sapevo anche che avrei vinto. La situazione si era rovesciata e io stavo per distruggere Bates Krell. La lama della mia spada tagliò in due l'arma di Krell. Krell strillò di nuovo e poi mi si gettò addosso.» Graham si raddrizzò sulla sua seggiola. Teneva ancora la mano di Patsy stretta tra le sue. «E io calai di nuovo la mia spada e già sapevo esattamente che cosa sarebbe successo. O forse fu la spada a scendere da sola. La faccia di Krell era a un paio di spanne dalla mia quando la spada gli si avventò contro e mi parve di vedere due facce, entrambe pazze di cattiveria e di gioia incontenibile. Sentii la lama penetrare e l'accompagnai con i muscoli. Allora la faccia di Krell s'ingigantì, gonfiandosi come un pallone. La spada gli spaccò in due la spina dorsale e io spinsi con tutte le forze facendogli uscire la lama dalla schiena. Il sangue sgorgò a fiotti. Lo avevo colpito con tale impeto che per poco non finii in acqua. La faccia di Krell cambiò di nuovo. Perse ogni espressione. La metà superiore del suo corpo cadde all'indietro e rotolò sulla tolda. Le gambe restarono ancora per qualche momento diritte, poi scivolarono giù. Avevo voglia di cantare. Vissi un attimo di appagamento puro, primordiale. Il momento più forte di tutta la mia vita. Gesù. «Poi tutto ridiventò come prima. Il giorno tornò a essere un semplice giorno. Quel bagliore dorato che c'era nell'aria si spense. La barca girava su se stessa e la mia spada era ridiventata un paletto di legno. Dal cadavere di Krell continuava a sgorgare sangue e lo vedevo penetrare nelle fessure tra le assi della tolda.» Graham abbandonò dolcemente la mano di Patsy McCloud. «Ragazzi, quando mi trovai nei guai, negli Anni Cinquanta, tenni duro grazie alla forza di questo ricordo. Avevo combattuto un demone, pensavo, e un potere misterioso mi aveva salvato. Poi mi sentii abbandonare da tutte le forze e dovetti quasi mettermi a sedere, stanco com'ero. Quel momento straordi-
nario stava già trasformandosi in un episodio mitico. Davanti a me i due tronconi stavano riempiendo di sangue la tolda. Avevo la nausea, ma sapevo che dovevo sbarazzarmi di quel corpo. Solo questo riuscivo a pensare. Non considerai mai le possibili conseguenze. Non mi venne mai in mente che nessuno mi avrebbe creduto! «Chiusi gli occhi e afferrai la metà superiore prendendola per le braccia. La issai e la lasciai cadere oltre il parapetto. Udii il rumore delle acque dello Stretto che si aprivano per riceverla. Come un buon vecchio cane, la Fancy girò attorno al punto in cui era affondato il busto. Quasi aspettasse di vederlo riemergere. Afferrai allora l'altra metà per le caviglie e mi sbarazzai anche di quella gettandola in acqua. Poi mi sporsi dal parapetto e vidi gli stivali scomparire lentamente tra i flutti. Affondarono come fossero pietre, in verticale. Mi voltai e vidi il paletto di legno rotolare sulla tolda, ma riuscii a raccoglierlo un istante prima che andasse a finire in mezzo al sangue. Gettai via anche quello. «Entrai nella timoniera e raddrizzai la rotta. Per un secondo pensai di uscire nello Stretto e spingermi nell'Atlantico per non fare più ritorno. Invece invertii la rotta e tornai verso la foce del Nowhatan. «Naturalmente non avevo la più pallida idea di come si attraccasse con un peschereccio come quello. Avevo un po' di dimestichezza con le barche a vela ed era già abbastanza difficile con quelle. Quando ebbi individuato le finestre del retro del Blue Tern girai il timone in direzione del pontile e spensi il motore, sperando di farcela. Be', la Fancy piombò su quel molo come un camion lanciato in discesa senza controllo, mangiandosi un bel pezzo di proprietà municipale. Probabilmente feci saltare qualche bicchiere dagli scaffali del bar. E aprii anche una bella falla nella fiancata della barca. Saltai giù, legai alla meglio il peschereccio e corsi verso la centrale di polizia. «Non avvertivo più quel magico senso di investitura soprannaturale. Mi sedetti nell'ufficio di Kletzka e gli raccontai tutto, dalla prima volta che avevo visto Krell fino al movimentato ritorno. Pensò che fossi solo un ragazzo che aveva perso la testa per avere letto troppi libri. Kletzka era un buon poliziotto, un duro, che come capo ci sapeva fare. E se la cavava anche in politica, visto che mantenne la carica per più di trent'anni. Ma quello che gli stavo raccontando era troppo per lui e naturalmente me lo sarei dovuto aspettare. Avrei dovuto avere il buon senso di smussare un po' gli spigoli del mio racconto, di renderlo più accettabile per le orecchie di uno sbirro polacco al suo primo anno di comando. Avrei dovuto raccontare una
storia più realistica. Mentre gli snocciolavo la mia pazza storia vidi il capo sempre più a disagio e poi decisamente sulle spine. Andò a finire che si arrabbiò. Quando giunsi alla morte di Krell, dissi che gli avevo strappato l'arma di mano e lo avevo colpito con violenza tanto da farlo cadere oltre il parapetto. Avevo avuto il buon senso di mentire, almeno su quel punto. «'Così tu hai concluso che era stato Krell ad assassinare quelle donne. E quel rimbambito che vive nelle paludi ti ha persuaso che deve aver ucciso anche i suoi aiutanti. Almeno tre o quattro.' Kletzka mi guardò in silenzio e io mi resi conto che gli sarebbe piaciuto mettermi dentro per avergli fatto perdere tempo con una storia come quella. «Gli dissi che era proprio così. «'In conclusione, quanti sarebbero i cittadini che Krell avrebbe ammazzato? Sette, otto? Dieci?' «'Più vicino ai dieci', risposi io. «'E allora dove sarebbero tutti i cadaveri?' mi urlò Kletzka. 'Dove sono tutti questi ragazzi morti? Dove sono le loro madri? Perché nessuno ha denunciato la loro scomparsa? E che razza di prove avresti tu per sostenere che Krell abbia qualcosa a che fare con la sparizione di tutte quelle donne? O con quella poveretta che abbiamo trovato morta? Hai un briciolo di prova?' «Fui costretto a scrollare la testa. «'Non sappiamo nemmeno di sicuro se tu hai ucciso quest'uomo per legittima difesa e hai buttato il suo cadavere in mare.' «'Ma è così', confermai io. 'C'è ancora il suo sangue sulla barca. Quella è una prova.' «'Non prova un bel niente', ringhiò lui. «Restai per tutto il giorno in quell'ufficio. Kletzka mandò al molo un uomo e questi, al ritorno, riferì che la Fancy era stata ormeggiata in maniera alquanto dilettantesca, ma che nessuno l'aveva vista tornare. Nessuno mi aveva visto partire con Krell. C'era del sangue sulla tolda, ma ciò non provava niente. In ogni caso, nel 1924 non esistevano quelle sofisticate apparecchiature per le analisi del sangue che ci sono ora. «Alla fine, anche se Kletzka non disse mai nulla esplicitamente, cominciai a formulare un'ipotesi che spiegava, almeno in parte, la sua collera. Scoprii che c'era stata gente in città che si era lamentata di Bates Krell. Pensavano che avesse molestato donne del luogo, forse le loro figlie o le mogli. Qualcuno credeva di avere visto Krell in compagnia di una donna a bordo del suo peschereccio. E io avevo mandato all'aria le indagini di Kle-
tzka. Fino ad allora non era stato in grado di avviare un'inchiesta vera e propria perché contro Krell c'erano solo i sospetti di un tizio convinto di essere stato tradito dalla moglie. «Alla fine di quella serata mi resi conto che Kletzka era abbastanza propenso a credere che io avessi ucciso Bates Krell, ma non mi avrebbe mai arrestato per quello, anzi, avrebbe finto di non avermi nemmeno visto. Avrebbe dichiarato ufficialmente che io ero un 'giovane aspirante romanziere' con una troppo fervida immaginazione e avrebbe aspettato per vedere se sparizioni e omicidi sarebbero cessati. Nel complesso si trattava di una forma di giustizia molto sommaria, ma io sapevo che era sempre meglio che niente. Quella sera tornai a casa senza essere stato incriminato e bruciai tutti gli appunti che avevo preso. Gli omicidi cessarono. Ma soprattutto la mia avventura nelle acque dello Stretto di Long Island assunse via via i connotati di un sogno vagamente delirante, di una fantasticheria. «Non rividi il capo Kletzka fino al 1952, ventotto anni dopo, al tempo in cui ero caduto in disgrazia con le autorità. Mi attaccavo spesso alla bottiglia in quei giorni. Molti mi giudicavano una minaccia, se non altro perché così la pensava il senatore Joe McCarthy, per non parlare di Martin Dies. Stavo per ripartire per l'Inghilterra. Volevo andarmene finché avevo ancora il passaporto. Ci fu un uomo in città che mi difese. Johnny Sayre. Lui sapeva che io non ero comunista. Johnny Sayre sapeva che per me quelli di sinistra erano solo interlocutori più stimolanti e gente semplicemente più interessante del tipico repubblicano della contea di Patchin stile Anni Cinquanta. Così Sayre mi invitava fuori a cena con lui. Al Country Club, dove tutti potessero vedermi in sua compagnia. Avevamo in programma di ritrovarci a Londra il giorno del suo compleanno, perché stava per partire a sua volta con la moglie di lì a un paio di giorni. Io l'avrei presto seguito, ma Johnny voleva che Hampstead vedesse che cosa pensava di me e alla fine di quella sera mi ritrovai a conversare nuovamente con 'Chiodo' Kletzka per la prima volta in ventotto anni. «Era passato tanto di quel tempo che ormai solo un veterano come me lo chiamava 'Chiodo'. Non svolgeva più alcuna attività di falegnameria già da prima della seconda guerra mondiale. Per tutti era semplicemente il Capo. Ma adesso aveva il pancione e la faccia piena di rughe. Però si ricordava di me. Gli lessi negli occhi che ricordava quel giorno nel suo ufficio e tutte quelle donne morte assassinate. Ci ritrovammo così, accanto al cadavere di una delle persone migliori che siano mai vissute in questa città. Quasi mi pareva di sentire nelle orecchie il suo interrogativo: Si può sapere infine
che cosa ne sai? Ormai ne sapevo parecchio, anche se non avrei potuto spiegargli più di quello che già gli avevo raccontato nel 1924. «Il giorno dopo ci ritrovammo nello studio di Johnny. C'ero io, la vedova, Kletzka e Sarah Spry, quella giornalista con i capelli rossi che lavorava per la Gazette. Quella che si occupa della rubrica mondana anche adesso. Io ero accanto a Bonnie Sayre e 'Chiodo' avrebbe preferito non avermi lì, ma non aveva potuto negare alla vedova il conforto di un amico, no? Fu Sarah Spry, la giornalista, a notare per prima il taccuino accanto al telefono. 'Nessuno sa chi sono queste persone?' domandò. Io e 'Chiodo' andammo a dare un'occhiata e leggemmo contemporaneamente il nome: Bates Krell. Fu come se qualcuno mi avesse dato una mazzata in testa. 'Chiodo' non spiccicò parola. Uscì in silenzio. Non ebbi nemmeno il tempo di domandargli se riconosceva l'altro nome. Sarah Spry continuava a chiedere: 'Ha qualche significato? Questi nomi vogliono dire qualcosa?' Ma non potevo biasimarla. Stava facendo il suo lavoro di cronista ed era stata fra i primi a vedere il cadavere di John. Io comunque non avrei potuto risponderle. Scesi per parlare a 'Chiodo', ma se n'era già andato.» 6 «Dopo il mio confronto con il signor Krell cominciai a occuparmi della storia di questa città», disse Graham. «Avevo le idee molto confuse su quello che mi era successo. Dopo un paio di settimane non ero più nemmeno sicuro che fosse davvero successo qualcosa. Mi sembrava sempre più un sogno. Scendevo al porto e guardavo la Fancy cercando di convincermi che non ero pazzo come pensava Kletzka. L'unica prova che potevo avere di essere sano di mente era la definitiva scomparsa di Bates Krell. La sua imbarcazione era sempre ferma e stava andando in rovina. Sei mesi dopo il municipio la vendette per rifarsi delle tasse non versate. «C'era anche un altro motivo che mi indusse a cominciare a indagare sulla storia locale. Quando Daisy West era scomparsa avevo sentito per caso mio padre e mia madre borbottare qualcosa a proposito di un'estate nera. Avevano chiuso la bocca appena si erano accorti che io stavo ascoltando, ma ormai le loro parole mi erano rimaste fisse nella mente. Un'estate nera. In un certo senso avevo avuto anch'io la mia estate nera. Fu allora che ebbi una sensazione, un'intuizione. Ebbi la certezza che ad Hampstead le cose erano sempre state un po' strane, che Hampstead era un luogo naturale per estati nere. Così cominciai a consultare vecchi giornali e a cercare
fra le pagine della Storia di Patchin, per arrivare alla fine a intervistare Dorothy Bach. In breve tutte le mie ricerche furono indirizzate a quanto era avvenuto durante l'Estate Nera. E ancora non ho finito di scoprire aspetti nuovi. Proprio oggi un irritante giovane snob all'istituto di storia mi ha fornito un nuovo indizio.» Richard non poté trattenersi dal chiedere: «Be', che cosa è successo, Graham? Da quello che ci hai raccontato prima mi pare di capire che la città restò tagliata fuori...» «Fu un fenomeno progressivo e graduale», puntualizzò Graham. «E per questo motivo Hampstead corse il rischio di morire del tutto. Non arrivava più la posta, le carrozze non si fermavano, le merci non venivano consegnate. Non era rimasto più niente di quegli scambi commerciali e umani che tengono in vita una città. Naturalmente non cominciò così. Come quest'estate, l'avvio fu dato da una serie di omicidi efferati. Poi il Drago diventò più forte, come è avvenuto anche questa volta. Ci fu un incendio terribile in Mill Lane. Lo stesso luogo in cui quest'estate persero la vita tutti quei vigili del fuoco! Pensateci! Un centinaio di anni prima dell'Estate Nera gli uomini del generale Tryon, aiutati da uno dei cittadini di qui, raserò al suolo quasi tutta Greenbank e Hillhaven. Così gli incendi sono tre, a distanza di cent'anni l'uno dall'altro. Nel 1779 perirono un Williams e uno Smyth. Durante l'Estate Nera morì almeno un rappresentante di ciascuna delle nostre famiglie e quest'estate tutti noi abbiamo corso gravi pericoli. Possiamo concludere che il Drago diventa più forte e più feroce circa ogni cento anni.» Tutti e tre lo stavano guardando, ma per un attimo il loro sguardo si velò: ricordavano che cosa aveva fatto loro il Drago quel giorno. Stranamente, il più attento di tutti era Tabby Smithfield che, in seguito agli avvenimenti della giornata, era rimasto orfano. Aveva consumato solo metà della sua bottiglia di birra ed era proteso in avanti, seduto a gambe incrociate, la mascella contratta. «Che cosa c'era in Mill Lane nel 1873?» domandò Richard. «Abitazioni?» «C'era un cotonificio», rispose a voce bassa Graham. «Il Royal Cotton Mill, che occupava l'intera penisola. Non era uno degli opifici più importanti del Paese - del resto l'industria cotoniera qui ad Hampstead non fu mai al vertice - tuttavia il Royal Cotton era un'azienda importante per questa città. Dava lavoro a centinaia di persone e se avesse prosperato avrebbe modificato profondamente la struttura sociale di Hampstead e adesso la
cittadina avrebbe caratteristiche ben diverse. Che cosa siamo se non un dormitorio signorile per famiglie che vivono nell'orbita di New York? Sarebbe forse diventata una cittadina autonoma, in grado di decidere da sé il proprio destino... capite quello che sto dicendo? Quando il Royal Cotton fu divorato dal fuoco, nel giugno del 1873, Hampstead perse ogni prospettiva futura.» Si alzò. Si posò il dorso della mano sul fondo della schiena e s'inarcò all'indietro. Avanzò di qualche passo verso il suo tavolo di lavoro prima di voltarsi a guardarli di nuovo. «Nessuno scoprì mai come fosse scoppiato l'incendio, né si riuscì a sapere come potesse essersi propagato così in fretta. Fu un mistero allora, amici miei, e lo è ancora. Al Royal Cotton non c'erano forni. C'erano caminetti negli uffici direzionali, ma in giugno nessuno li avrebbe accesi. Ci fu dolo? Nessuno lo sa.» Si toccò il livido che aveva sulla faccia. Adesso era di un biancore innaturale, come se lo sforzo del racconto gli avesse consumato ogni energia. Anche la sua voce, normalmente stentorea, era affaticata e a tratti spezzata. «Il Royal Cotton, lo stabilimento che avrebbe dovuto portare ad Hampstead la prosperità, fu invece causa della sua rovina. L'incendio dilagò per le paludi, passò dall'altra parte del piccolo estuario accanto a Poor Fox Road e si propagò fino a Greenbank e Hillhaven. Lo spettacolo non deve essere stato molto diverso da quello che si trovarono davanti gli uomini di Tryon quando tornarono di corsa verso la loro nave. E si propagò anche in senso opposto, carbonizzando i raccolti e distruggendo le case fin quasi a dove si trova oggi il Country Club. La città fu devastata. Come se le avessero tagliato la gola. I morti furono centinaia.» Graham si voltò verso la finestra come se volesse guardare in faccia il fantasma che lo irrideva da dietro il vetro. «Ma il peggio doveva ancora venire.» Andò al tavolino e prese un piccolo libro grigio. «Metà della popolazione si trasferì altrove. Furono molti quelli che abbandonarono addirittura tutto quello che avevano qui. Io credo che sentissero qualcosa, che avessero i brividi e volessero tagliare la corda.» Emise un lungo sospiro di disperazione. «Loro sapevano che stava per accadere di peggio e noi oggi ne abbiamo la certezza, perché l'abbiamo visto con i nostri occhi. L'ha visto Richard. L'ho visto io in fondo a un canalone. Tabby ne ha udita la voce. Patsy...» Aveva un'espressione tormentata. «Patsy è stata aggredita e solo Tabby ha potuto salvarla.» Scrollò la testa. «Coloro che lasciarono la città presero la decisione giusta. Quelli che restarono commisero l'errore. Lasciate che vi parli di questo libro.»
Glielo mostrò. «Viaggi curiosi, di Stephen Pollock. Se oggi viene ricordato, come ho appena scoperto, è per un unico racconto. Si intitola Terrore. Ogni tanto appare su qualche antologia, ma Washington Irving conobbe Pollock e dopo avergli parlato scrisse La leggenda della fossa addormentata. Il luogo in cui è ambientata la storia non è Tarrytown e nemmeno uno degli altri paesi che vengono menzionati nel racconto. E invece il Connecticut. Dove, secondo Irving, nacque e crebbe Ichabod Crane.» Richard Allbee inarcò le sopracciglia. Per un momento sembrò quasi sorridere. «Sì, Richard. Ichabod Crane. Una delle apparizioni di Mount Avenue. A tuo beneficio, perché tu eri l'unico tra noi che avresti potuto riconoscerlo. Il Drago si stava divertendo.» Graham girò la sua seggiola e si accomodò. «E in uno dei capitoli di questo libro Pollock descrive un viaggio in carrozza da New York a New Haven durante l'estate del 1873. Voglio leggerti un paio di paragrafi. Non ci vorrà molto.» Aprì il libro e cominciò a leggere. «Quando fummo nei pressi di Hampstead i miei compagni di viaggio cominciarono a manifestare segni di nervosismo. Hampstead era, fino a poco tempo fa, un borgo grazioso in una pittoresca posizione sulla costa del Connecticut, ma qualche mese prima era stato devastato da un incendio. «Questi tremebondi cittadini d'America, ciascuno della circonferenza di una botte di birra e benedetto da salute eccellente, denti sani e carenza tutta repubblicana di eccesso di umiltà, non sopportavano di sentire parlare di Hampstead. Meno che meno ne sopportavano lo spettacolo! Nulla poté evitare che le tende della carrozza fossero accostate, e il più accuratamente possibile. «Presto raggiungemmo il luogo in questione, la sventurata Hampstead. Gli altri viaggiatori sospesero le loro conversazioni; le due donne chiusero gli occhi e i rispettivi mariti fissarono lo sguardo su inesistenti orizzonti. Erano impalliditi tutti e quattro. Lentamente mi resi conto che i miei compagni, dal primo all'ultimo, erano praticamente paralizzati dal terrore. «La loro angoscia crebbe di pari passo con la mia curiosità. Che cosa mai aveva ispirato questa paura superstiziosa di un ignoto paesino costiero? Ero risoluto a sbirciare attraverso le tendine e vedere quel luogo con i miei occhi. La carrozza procedeva rumorosamente a una velocità doppia
del normale, perciò i cinque occupanti venivano sballottati all'interno. Trovandomi schiacciato contro il finestrino, afferrai la tenda e guardai fuori. Una delle donne gridò e suo marito mi guardò come se volesse staccarmi di netto la mano oltraggiosa. Lasciai ricadere la tenda e lo rabbonii. Avrei voluto che la velocità della nostra carrozza raddoppiasse una volta e una volta ancora. Nessuno di noi riprese a respirare normalmente prima di avere superato i limiti territoriali ed essere entrati a Patchin. «Due sere dopo, temporaneamente alloggiato nella cittadina universitaria di New Haven, scrissi perché venissero rimandati tutti gli appuntamenti che avevo preso e mi dedicai alla stesura di un racconto. Nell'arco di poche ore febbrili avevo concepito Terrore.» Graham richiuse il libro. «Diede una sola occhiata ad Hampstead e due giorni dopo scrisse Terrore. Conoscete quel racconto?» «Io sì», rispose Richard. «L'ho letto al liceo. Racconta di un uomo che crede di vivere in una città popolata solo di morti. All'università uno dei miei professori sostenne che non si può escludere che abbia avuto qualche influenza su James Joyce.» «Che cosa vide Pollock in quei pochi secondi? Io credo di saperlo e credo che lo sappiate anche voi.» Graham li guardò a uno a uno, fissandoli spietatamente. «Io credo che vide, o credette di vedere, cadaveri camminare per le strade. Perché credo che sia ciò che successe ad Hampstead e penso che stia succedendo ora. Tu ne dubiti, Richard?» Richard scrollò la testa. «Non posso. Non dopo quello che è successo stasera.» «E tu, Patsy? Tu, Tabby?» Patsy disse: «Non... non credo di avere dubbi». Tabby si limitò a manifestare il suo assenso con un cenno affermativo del capo. «È il Drago all'apice della sua potenza», commentò Graham alzandosi di nuovo. «Che diavolo di ora abbiamo fatto? Le quattro e mezzo. Troppo tardi per permettere a un vecchio come me di continuare a straparlare. Tra pochissimo dovrete permettermi di andare a riposare. Però, al più presto possibile, dovremo discutere su come modificare le nostre abitudini. Dobbiamo stare uniti. Dovremo trovare una soluzione.» «Vorrei farti una domanda», intervenne Tabby. Graham gli accordò attenzione. «Che cosa rende il Drago più potente in certi anni? Come adesso, per esempio?»
«Credo di poterti rispondere», rispose Graham. Andò alla sua scrivania e spense la lampada. Il soggiorno si riempì all'istante di ombre e tenebre in agguato. «Le nostre famiglie avevano almeno un loro membro impiegato al Royal Cotton e io credo che almeno una persona di ciascuna di queste quattro famiglie restò ad Hampstead durante l'Estate Nera. Restò per combattere contro il Drago. E credo che riuscirono a individuarlo e a ucciderlo.» Incrociò le braccia sul petto. «Ma in passato non è mai stato tanto forte quanto ora. Detesto doverlo ammettere, ma credo che siamo noi a renderlo più forte.» «Il Drago è sempre un uomo?» volle sapere Patsy. «Nel libro di Dorothy Bach si fa cenno a una donna di nome Hester Poole che fu seppellita a Punta Kendall nel 1812. La spiegazione ufficiale sarebbe 'per grave trasgressione'. No, non credo che il Drago sia sempre un uomo. Io credo che si nutra di noi per quanto noi glielo concediamo.» Levò le mani al cielo in un gesto che era quasi di disperazione. Gli altri si alzarono e cominciarono a separarsi con un certo disagio. Tabby si mise al fianco di Richard. Patsy indugiò da sola davanti al tavolo da lavoro di Graham. Graham aprì la porta e lasciò uscire Richard e Tabby. Per qualche momento restò sulla soglia a guardarli attraversare la strada nel buio. Poi si voltò verso Patsy. «Spero che tu non mi giudichi maleducata», si scusò lei, «ma vorrei restare qui questa notte.» Gli sorrise, senza riuscire a celare l'immensa stanchezza. «Non avresti un letto di fortuna da qualche parte in questa biblioteca?» Graham rispose al suo sorriso. «Ce n'è uno sepolto sotto un mucchio di libri. In una camera di fronte a quella dove dormo io. Hai persino un bagno privato. Ti procuro lenzuola e federa. Mi hai battuto sul tempo, sai? Volevo offrirtelo io.» «Non credo che potrei restare sola a casa mia. Non dopo quello che è successo oggi.» «Non dovresti restare sola in nessun posto», l'ammonì Graham. «Nessuno di noi, del resto. È troppo pericoloso. Avrei dovuto aspettarmi tutto questo già la prima sera, quando siamo andati a vedere la targa. La verità è che lo sapevo, ma non volevo crederci.» Patsy sbadigliò all'improvviso. «Andiamo di sopra», la esortò Graham. «Ho solo un piccolo consiglio da darti.»
Lei inclinò la testa. «Spara.» «Se senti qualcuno bussare alla tua porta questa notte, non farlo entrare.» Patsy rise di cuore e gli gettò le braccia al collo. QUATTRO Il fondo dello specchio 1 Nella seconda metà di agosto, mentre Tabby Smithfield si preparava a imitare Graham Williams e ad attaccare da solo il Drago, si verificarono due fatti, apparentemente non collegabili tra loro. Ma naturalmente niente era come sembrava e i due eventi, cioè il primo annuncio del dottor Chaney sulla «sindrome di Dobbin» e la conferenza stampa tenuta dai dottori Theodore Wise e William Pierce in un motel di Butte City, erano strettamente legati. E ad Hampstead e nelle altre cittadine tutto procedette come se nulla fosse accaduto, una ulteriore conferma della pazzia generale. La dozzina di «liquidi» sopravvissuti, in pericolo di vita e stanchi di stare nascosti in case abbandonate, avevano cercato rifugio allo Yale Medical Center. Lì il dottor Chaney studiò i loro casi e mise a punto una serie di sistemi protettivi. Finalmente progettò una struttura in schiuma di gomma e fibra di vetro che si poteva modellare sul progressivo mutare delle caratteristiche del paziente. Quando i pazienti giungevano agli ultimi stadi della malattia, venivano muniti di una sorta di esoscheletro, solido ma flessibile. Convinto di meritare per il suo lavoro un pubblico più qualificato di quello di The Lancet, il dottor Chaney convocò alla clinica un corrispondente del New York Times e andò personalmente a riceverlo alla stazione. Ted Wise e Bill Pierce lessero l'articolo sugli schermi dei loro computer nel Montana. Dopo la scomparsa e presunta morte del generale Haugejas, il loro distaccamento era stato ridotto ai minimi termini e adesso lavoravano da soli con l'ausilio di una segretaria. Sedici giorni prima avevano smantellato il loro laboratorio e tutti gli altri scienziati erano stati trasferiti in vari stabilimenti della Telpro o presso alcune università. Wise e Pierce avevano presieduto all'archiviazione del progetto che avevano guidato per quasi due anni, avevano liquidato il resto del personaie e isolato in contenitori sigillati tutte le loro riserve di DRG-16. Sapevano che non avrebbero mai creato un DRG-17. Il pomeriggio dell'ottavo giorno di inattività un autocarro della Telpro, guidato da un militare dei servizi speciali in abiti bor-
ghesi, portò via la cassa imbottita contenente le pesanti bombole metalliche. Furono Wise e Pierce a caricarle sul cassone, dopo averle trasportate sulla schiena. Poi il militare salì a bordo e piazzò sulla cassa un'etichetta autoadesiva: «Macchine utensili - Ricambi». «Secondo te che cosa ne faranno?» domandò al suo capo Bill Pierce guardando il camion che si allontanava. Wise lo sapeva. «La butteranno in acqua», disse. «La metteranno in un altro contenitore e la getteranno in mare sperando che resti sul fondo per l'eternità. Se ne perderà ogni traccia.» «Credi che ci affideranno un altro progetto?» chiese Pierce. «Tu che cosa ne dici?» ribatté Wise. «Io dico che qualche possibilità l'abbiamo.» «Sicuro. Se salta fuori che Haugejas è immortale.» Wise si passò la lingua sulle labbra. «Ti ricordi di Leo Friedgood?» esclamò all'improvviso. «Spero che quel figlio di puttana abbia avuto quello che meritava.» Dopo altri otto giorni Pierce lanciò un grido leggendo le prime frasi di un articolo del New York Times che scorreva sul monitor del computer. «Santo cielo», esclamò. «Vieni a dare un'occhiata.» Wise si avvicinò al terminale. Dopo avere letto più di due paragrafi dell'articolo che il giovane reporter aveva scritto su Pat Dobbin e gli altri, non si sentì più stanco. «Ci siamo», commentò. Il ricordo di Tom Gay che gridava dietro il vetro della cabina cancellò per un attimo i caratteri verdi sul fondo nero dello schermo. «Non c'è scampo. L'imprevisto di cui avevo parlato a Friedgood.» Si strofinò gli occhi, quindi lesse più da vicino, come se così le parole potessero cambiare. «E adesso che cosa facciamo?» chiese Pierce. «Io credo di sapere che cosa vorrei fare. E credo che lo farò, anche se tu non sei d'accordo.» «Ti rendi conto di quali sarebbero le conseguenze, vero?» lo apostrofò Wise con un'occhiata che per un momento fu di autentica paura. «No. E nemmeno tu. Ma credo che abbiamo rimandato già fin troppo. Io dico che adesso chiamiamo questo reporter e la sua redazione e chiunque altro ci viene in mente e cominciamo a raccontare la verità.» Wise tornò a fissare il terminale. «E quello che dico anch'io.» Due delle conseguenze previste dal dottor Theodore Wise si verifìcarono immediatamente dopo l'estemporanea conferenza stampa tenuta al Best Western, un motel nei pressi di Butte. Lui e il dottor William Pierce furono licenziati e mezz'ora dopo erano già stati fermati per essere interrogati dal-
la polizia statale del Montana dietro richiesta inviata via telex dalla polizia statale del Connecticut. La conferenza stampa aveva suscitato più interesse di quanto Wise si fosse aspettato, con l'apparizione di una nutrita schiera di giornalisti con tanto di telecamere. «Che effetto fa sapere di avere ammazzato tutti quei bambini?» gli chiese una donna con gli occhiali da sole e un vestito di pelle. Wise deglutì. Aveva un sapore di sigaretta in bocca sebbene non fumasse. «Be', quel fenomeno...» cominciò, cercando di rispondere con onestà. «Quel fenomeno», riprese, «è uno dei motivi per i quali il dottor Pierce e io abbiamo concluso che il nostro lavoro non era da collegarsi con le tragiche vicende del Connecticut. I nostri risultati rientravano in certi parametri e quel fenomeno era del tutto estraneo a essi. Parlo dei bambini che si sono annegati.» Arrossì. «Ancora non sono disposto a credere che la sostanza da noi prodotta sia stata responsabile di una cosa del genere. Ammetto che è moralmente sconcertante. Ma nei nostri soggetti non abbiamo mai riscontrato un'inclinazione al suicidio, né individuale né di massa.» Bill Pierce si era alzato in piedi. Aveva visto entrare due agenti di polizia. «Che cosa dovrebbero fare ad Hampstead?» domandò una voce maschile in mezzo agli schiamazzi sollevati dalle risposte di Wise. «Chiuderla dentro un recinto», rispose Pierce. Come Graham Williams aveva preannunciato, i treni pendolari non fermarono più alle stazioni di Hampstead, Greenbank e Hillhaven. Nel tessuto della vita quotidiana si aprivano lacerazioni sempre più numerose, buchi che una volta erano stati occupati da persone. Nell'ultima settimana di luglio Archie Monaghan e il suo socio, il corpulento Tom Flynn, smisero di recarsi in ufficio. Le loro segretarie continuarono a presentarsi sul posto di lavoro finché ebbero finito di battere a macchina l'ultimo contratto immobiliare, di duplicare l'ultimo testamento, di archiviare l'ultima deposizione. Poi si trasferirono negli uffici di un altro studio legale, Shobin Schuyler Mink Fine & McFeeley, dove le segretarie avevano installato un televisore e trascorrevano le giornate immerse in sceneggiati e giochi a quiz. Ordinavano da mangiare in rosticceria. Shobin e Fine avevano abbandonato la città all'inizio di giugno e Schuyler li aveva imitati una settimana dopo. Mink era stato ucciso da un pirata della strada, che lo aveva travolto davanti al Framboise, e il corpo di McFeeley era stato trovato più tardi accanto allo stesso cespuglio sul campo da golf che già
aveva restituito i cadaveri di Archie Monaghan e Tom Flynn. Le donne si sentivano meglio insieme, avevano bisogno della compagnia reciproca. Attorno a casa Krell, in Poor Fox Road, la gramigna cominciò a morire. Anche a Punta Kendall la vegetazione moriva e a volte sembrava che il terreno soffiasse fuori un fumo grigio e fuligginoso. Ma forse era foschia. 2 Erano passati tre giorni dalla lunga nottata trascorsa nel soggiorno di Graham e Tabby Smithfield camminava corrucciato per la Beach Trail nella luce del tardo pomeriggio. Durante quei tre giorni Tabby si era vanamente dibattuto attorno a una difficile questione: ora che sapeva di dover prendere una decisione, era riuscito solo a confondersi. Per timore che l'incertezza lo inducesse a dire troppo, aveva anche preso le distanze dai tre compagni. Non desiderava discutere con nessuno di quello che aveva in mente prima di avere verificato quali fossero i suoi veri sentimenti e anche allora avrebbe rivelato la sua decisione solo a Patsy, prima di confidarsi con i due uomini. Con un briciolo di fortuna loro due ne sarebbero rimasti fuori fino a cose fatte: Tabby sapeva che Richard e Graham non gli avrebbero mai permesso di affrontare il Drago da solo. Arrivato in fondo alla Beach Trail, svoltò a sinistra. Si guardò alle spalle e attraversò di corsa Mount Avenue riuscendo, grazie a quel semplice sforzo fisico, a distrarsi per qualche momento dai suoi problemi. Dopo pochi secondi di relativa pace rallentò, ritornando a camminare. Un attimo più tardi si guardò nuovamente alle spalle. Non vide altro che la dolce curva di Mount Avenue scendere sotto le fronde delle querce fino alla Gravesend Beach. Si fermò, si infilò le mani nelle tasche dei calzoni di velluto marrone e si assicurò che nessuno si nascondesse dietro i grossi alberi. Infine si strinse nelle spalle e si voltò incamminandosi di nuovo verso la casa dove era nato. Gli rimase la sensazione fastidiosa che qualcuno lo seguisse. Ma quando si voltò a guardare ancora una volta vide solo il manto stradale butterato, gli alberi massicci, il mirto che cresceva lungo i muri di mattoni. E riprese il cammino. Il senso di disagio non sparì. Dopo la lunga notte in piedi, i quattro avevano sempre consumato insieme i loro pasti. Graham e Richard trascorrevano il loro tempo riflettendo sui fatti di cui erano a conoscenza e sulle circostanze degli omicidi nella
speranza di individuare qualche indizio sull'identità della persona scelta dal Drago. Patsy fingeva di ascoltarli e inviava mentalmente messaggi interrogativi a Tabby che, da parte sua, mangiava poco e non diceva quasi niente. Graham aveva raccontato la lunga storia su Bates Krell in una specie di codice che solo Tabby aveva riconosciuto e compreso. Il messaggio era che soltanto Tabby Smithfield, tra tutti e quattro, era in grado di distruggere il Drago. Del resto, ogni volta che pensava alla lunga ala di fuoco che si scagliava su suo padre Tabby sentiva di dover uccidere quella creatura mostruosa. Solo di fronte alla prospettiva realistica dell'azione da intraprendere si ritrovava a tu per tu con le sue paure. Quando pensava di dover rimettere piede nella casa del dottor Van Horne gli si chiudeva lo stomaco. Tabby si fermò davanti ai paletti di ferro della recinzione e guardò la casa che era stata di suo nonno. Probabilmente Monty Smithfield aveva avuto l'intenzione di cederla a lui, a tempo debito. Su quel terreno, trecento anni prima, Gideon Winter aveva avviato la serie di eventi che avrebbero mutato irrevocabilmente la vita di Tabby. Per Tabby quella era la prova che lui solo avrebbe potuto distruggere il vecchio che abitava in cima a Gravesend Beach. Il fatto stesso di essere nato in quella casa lo indicava come prescelto. Sì, si disse Tabby. Toccava a lui uccidere Wren Van Horne. Un'ombra si allungò davanti a lui sull'erba riarsa e Tabby trasalì, strappato all'improvviso dalle sue elucubrazioni. Si voltò con il fiato in gola, già convinto che Wren Van Horne l'avesse seguito in Mount Avenue e che adesso avrebbe cercato di ucciderlo. Ma invece del ginecologo trovò davanti a sé l'unica persona che in quel momento avrebbe visto volentieri. «Scusami», mormorò Patsy. «Temo di averti praticamente teso un agguato. Non volevo spaventarti.» «Oh, Gesù, cioè, non fa niente. Sì, è vero, mi hai fatto paura. Mamma mia. Devo aver fatto un bel salto.» Si scambiarono un sorriso e Tabby si sentì accarezzare dalla mente di Patsy. Calò volutamente la saracinesca sui propri pensieri e avvertì lui stesso la violenza della sua reazione: se Patsy l'avesse escluso in quel modo, per lui sarebbe stato come chiudersi le dita della mano in una porta. «Mi dispiace», si scusò di nuovo Patsy. «Non avrei dovuto farlo.» Tabby scrollò la testa. «No, è colpa mia. Sono troppo nervoso. Che cosa stanno combinando Richard e Graham?» «Quello che combinavano prima che tu te ne andassi. Parlano, parlano,
parlano. Secondo me se la stanno spassando un mondo, a parte le paure e le preoccupazioni.» «E così tu hai deciso di seguirmi. O è stato Graham a dirtelo? Credo che vi stiate convincendo tutti che io vi nasconda qualcosa.» Patsy scrollò la testa con impeto. «No, Graham non mi ha detto di seguirti, Tabby. L'avrei mandato al diavolo se ci avesse provato. Sono venuta qui perché desideravo parlarti e ho pensato che ti avrei trovato da queste parti. Non mi ha mandato nessuno. Non ti sto spiando.» «Sì. Ti credo», concluse lui con un sorriso. mi credi davvero? È importante. Ti credo, lo sai che ti credo, però è vero che ci nascondi qualcosa Patsyyyy... Io credo che tu voglia raccontarlo a me, credo che tu desideri il mio aiuto sì, sì, sì «Sì», ripeté Tabby. «Hai ragione, è vero. Ho bisogno d'aiuto, ma solo del tuo.» Il mio è l'unico aiuto che ho da offrirti «Sai che cosa intendo dire.» Patsy annuì. «L'unica cosa che non so è perché.» «Non ti è mai capitato di fare qualcosa di cui ti vergogni un po'? Questo lo riesci a capire?» Apparve una traccia di rossore sul viso di Patsy. Metteresti a repentaglio tutte le nostre vite per una questione di vergogna? È per questo che... «No, non è tutto qui», si precipitò a spiegare Tabby. «Forse quando ho detto vergogna ho scelto la parola sbagliata.» «Scommetto che non è niente di tanto grave», commentò lei avvicinandosi e posandogli la mano sulla spalla. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto, Tabby, a noi non sembrerebbe così terribile.» Lui scosse la testa. «Ma sai anche che non puoi più tacere. Se sai qualcosa...» I loro sguardi si incontrarono. «Oh, so», confessò Tabby. «fi proprio quello che immaginavo.» «Ti ho osservato mentre Graham ci raccontava di Bates Krell. Sentivo che cosa avevi intenzione di fare. Tu vorresti uccidere il Drago da solo, non è vero? Come ha fatto lui. Te lo si legge in faccia.»
Tabby annuì. Se si era accorta di quello, allora già sapeva la cosa più importante. «Io posso uccidere», dichiarò. «Se Graham ha potuto farlo quando aveva vent'anni, io allora lo posso fare adesso.» «Tu sai chi è», affermò Patsy giungendo finalmente al vero argomento della loro conversazione. «È quello che pensavo.» «Vorrei portarvi la sua testa su un piatto», disse Tabby con un sorriso cupo. «Questo mi piacerebbe fare.» Per un momento calò tra loro un silenzio carico di tensione, poi, prima che Tabby parlasse di nuovo, Patsy propose: «Lasciami venire con te. Deponiamo insieme quella testa sul piatto». A questo era già arrivato anche lui, sull'onda delle proprie riflessioni. Trasse un respiro. Del resto Patsy non lo avrebbe più lasciato solo il tempo sufficiente per fare qualcosa. Lo aveva giocato con destrezza, mettendolo nella condizione di non poter prendere altra decisione se non quella alla quale soprattutto tendeva, senza esserci ancora arrivato. Avrebbero ucciso il Drago insieme. «Ha assassinato mio padre», spiegò Tabby. «È stato lui a trasformare tutto in questo modo. Ho visto la sua faccia quando avevo cinque anni, ero ancora un bambino e l'ho visto ammazzare qualcuno.» Tremò per qualche istante, poi si calmò. «Voglio farlo questa sera. Facciamolo questa sera.» «In due dovremmo avere più probabilità», osservò Patsy. «E finora ci siamo portati fortuna a vicenda, no?» Tabby le leggeva la paura sul viso e sapeva di esserne lo specchio fedele. Ma la sentiva forte abbastanza da assicurare la vittoria a entrambi. Tutte le sue esitazioni svanirono. «Dimmi come si chiama», lo sollecitò Patsy. «È quel dottore che abita in quella grande casa sopra la spiaggia. Van Horne.» «E tu di questo sei più che sicuro. Non ti chiederò come fai a saperlo. Voglio solo essere ben certa che non hai dubbi.» Tabby annuì mentre sul viso di Patsy appariva un'espressione di meraviglia e sorpresa e soprattutto di fiducia in lui. «Lo so per certo», confermò. «Deve essere lui. Ma tu mi devi promettere che non lo dirai né a Richard né a Graham.» «Dovrei farlo. Ma starò zitta. Promesso.» «Questa sera», concluse Tabby. «Verso le sei, sei e mezzo? Di solito a quell'ora esco a passeggio. Non
voglio che Graham si insospettisca e c'è qualcosa che voglio passare a prendere a casa.» «Ci vediamo in strada. Richard e Graham sono sempre così occupati a confabulare che non si accorgeranno che non ci siamo.» Patsy gli indirizzò un sorriso nervoso a conferma che era d'accordo con lui. «E davvero non lo dirai agli altri?» «Te l'ho promesso.» «Tu sei davvero speciale», le disse Tabby. Per la prima volta non avvertiva fra loro differenza di età e di sesso. Un pettirosso cominciò a cantare. Nella luce brumosa del tardo pomeriggio, davanti alla vecchia casa del nonno, Tabby guardò con affetto quella piccola donna dagli zigomi pronunciati e dai grandi occhi castani... anche tu, canaglia ... e diventò l'uomo adulto che sarebbe stato, intento a contemplare una donna che conosceva da tempo e per la quale provava un affetto così profondo... che cosa??? Tabby? ... che la sua fantasia teneva dietro, d'istinto, quella di lei. Attorno a Tabby il mondo fu scosso da un tremito convulso e lui fu più vecchio di vent'anni, vero compagno di Patsy McCloud, mentre una valanga di informazioni su di sé e su Patsy gli veniva trasmessa da lei paralizzandolo per un attimo: campi di fiori, luccicanti di piogge... Fece un goffo passo all'indietro e ruppe l'incanto. Il mondo si fermò e la storia di Patsy che, miracolosamente, era stata per un breve attimo anche la sua storia, smise di fluire verso di lui. Quella strana, melodiosa visione, si era dissolta. Il canto del pettirosso era cessato. che cosa diamine??? Patsy, io, Patsy io... come? «Che cosa è stato?» esclamò Patsy, con aria sconvolta. Venne avanti e lo strinse a sé. «Mio Dio», sussurrò. «Non posso, ehm», cominciò lui. «Non riesco...» Sbatté le palpebre poi si staccò da lei tenendola per le braccia. «Mamma mia!» Si lasciarono. «D'accordo», disse Tabby. «Alle sei, allora.» La guardò allontanarsi. Patsy si voltò per salutarlo prima di riprendere la Beach Trail. Tabby decise di spingersi fino alla fossa di detriti carbonizzati dove fino
a tre giorni prima sorgevano i «Quattro Focolari». Era l'unica tomba di suo padre. Mentre saliva il pendio Tabby fu colto di nuovo dall'inquietante sensazione di essere pedinato, ma questa volta non perse tempo a guardarsi alle spalle. 3 «Che ore sono, Richard? Non è il caso che rientriamo?» Richard Allbee, semisdraiato su una sedia da giardino, sollevò il braccio e sbirciò il quadrante dell'orologio che aveva al polso. «Mancano cinque minuti alle sei. Perché rientrare? Si sta così bene. Temo di dovermi mettere ai fornelli, però.» Graham tirò una lunga boccata dal suo sigaro e poi mandò fuori un denso pennacchio di fumo. «Faccio fatica a coordinare le mie riflessioni in giardino. La meditazione è un'attività da svolgere fra quattro mura. Ma se tu vuoi rimanere fuori ancora un po', per me va benissimo. Dove è andata Patsy?» «Non ho idea. Forse voleva parlare a Tabby.» «Già», commentò Graham. Non aveva più il foulard al collo: per la verità non si era rotto niente e il suo gomito era solo ammaccato. «Sono molto legati quei due. D'altra parte è comprensibile, visto quello che hanno in comune. Peccato che tu non fossi presente quando si sono conosciuti.» Richard si voltò per guardarlo. Alle spalle del vecchio una savana di erbacce alte fino al ginocchio occupava quaranta metri di terreno fino a un'impenetrabile muraglia di verzura. «Dopo che si sono visti credo che Patsy sia ringiovanita all'istante di una decina d'anni», osservò Graham. «Condividono qualcosa che noi due non riusciremo mai a capire fino in fondo. Ma anche così, credo che andrà a nostro vantaggio. Fa parte del nostro arsenale.» «Graham», domandò Richard, «che cosa sarà di noi? Credimi, non te lo chiederei se Tabby e Patsy fossero qui. Secondo te abbiamo davvero qualche possibilità di vittoria?» «Sissignore. Certo. Persino dopo l'Estate Nera i nostri antenati riuscirono a distruggerlo. Naturalmente per noi è più difficile, anche perché le circostanze sono molto cambiate. Cent'anni fa non era molto importante che Hampstead restasse tagliata fuori dal resto del mondo. La popolazione locale produceva quasi tutti i generi di prima necessità. Capisci? Qui erano
tutti terreni coltivati, si viveva dei prodotti della terra. Ora invece, tra non molto, i negozi di generi alimentari saranno praticamente vuoti e la situazione diventerà critica. Tumulti nelle strade, gente affamata a caccia di cibo. Uomini e donne verranno uccisi per un pezzo di carne o un chilo di farina.» Tirò una boccata e tenne il sigaro levato nell'aria mentre soffiava fuori fumo. «Anche di questi non se ne troveranno più. Be', non so se il governo permetterà che si arrivi fino a questo punto; voglio dire ad avere risse per le strade. Immagino che ci faranno pervenire cibo a sufficienza per evitarci la morte per fame.» «Tu stai pensando a quella storia della Telpro», disse Richard. «Si pensa che quella sia la causa di tutti i nostri guai. Credono che quella sostanza ci abbia fatto diventare tutti matti. E sono d'accordo anch'io. Il DRG.» «Uno degli scherzi del destino», commentò Graham. «Alludo al nome, o forse è il segno che il nostro nemico ha messo in campo milioni di armi contro di noi, oppure... Forse è tutta colpa di questo DRG. Forse ci ha dato di volta il cervello a tutti quanti.» «Tu lo credi davvero?» «Nossignore», rispose Graham e stava per aggiungere qualcosa, ma la sua attenzione fu attirata da un rumore improvviso dietro il groviglio del sottobosco. Entrambi si drizzarono a sedere. «Ma che cosa diavolo...» esclamò Graham voltandosi verso Richard che era già in piedi. Il frastuono dietro la macchia si stava facendo assordante, peggio di una sgraziata orchestra rock. «Alzati!» urlò Richard, già sapendo che il suo comando era vano: Graham sembrava incapace di muoversi e agitava inutilmente le mani. Quando capì che Graham non sarebbe riuscito ad alzarsi, Richard lo afferrò per gli avambracci issandolo in piedi. Un forte vento caldo, scaturito dal nulla, incollò la tuta alla schiena del vecchio, scompigliando i capelli di Richard. Quello che a Richard sembrava lo sfrigolio di metallo incandescente che veniva immerso nell'acqua gelida, fu sopraffatto dal più comune crepitare della combustione. Mentre Graham trovava finalmente l'equilibrio, gli alberi ai margini della boscaglia presero fuoco. Poi Richard si trovò immobile, con le mani serrate sui polsi di Graham, paralizzato da ciò che stava vedendo. Il vento caldo gli bruciava la pelle. Le punte degli steli d'erba si accendevano come candele. Una palla infuocata e abbagliante schizzò fuori dagli alberi lasciandosi dietro un varco nero e fumigante. Con la bocca spalancata Richard la vide piombare sul terreno.
Nel mezzo di un cerchio di fuoco si drizzò sulle gambe un gigantesco cane nero. Dondolò la testa e azzannò l'aria. Richard e Graham stavano già indietreggiando e in un brevissimo istante di silenzio udirono lo scatto delle fauci del cane che si chiudevano. Il suo ringhio parve uscire dalle viscere della terra. Richard si rese conto, quasi inconsciamente, che Graham si stava trascinando dietro la sedia a sdraio. Il cane puntò il muso verso di loro. Richard calcolò che si trovavano a quattro metri dalla porta di casa, tre o quattro secondi. Graham si muoveva più rapidamente che poteva, sempre aggrappato alla sedia. Nessuno dei due desiderava voltare le spalle al cane, che si stava preparando ad assalirli. Rivoli di bava colavano dalle fauci aperte sull'erba. Se avesse spiccato il balzo li avrebbe ridotti a brandelli prima che avessero tempo di spostarsi di un solo centimetro. Venne avanti lentamente, sempre con la schiena inarcata e il pelo ritto, e Richard si sentì in pochi attimi in un bagno di sudore. Poi non riuscì più a resistere e voltò la testa per controllare quanto distante fosse la porta di casa. Percepì immediatamente un potente spostamento d'aria, come se un fabbricato intero avesse spiccato il volo. Un cupo brontolio riempì l'aria dietro di lui. La porta della casa di Graham, lasciata aperta per ventilare l'interno, era a pochi passi. Allungò il braccio verso Graham e afferrò al volo un braccio gesticolante, bloccandolo contro il petto del vecchio e trascinandolo all'indietro. Fu allora che si rese conto che Graham aveva lanciato la sedia contro quel cane mostruoso. Caddero all'interno, piombando pesantemente sul pavimento della cucina, Graham addosso a Richard. Il muso apparve sulla soglia e si bloccò bruscamente quando le spalle dell'animale vennero a contatto con gli stipiti. «La zanzariera!» gridò Graham rotolando su un fianco. Richard schivò per un pelo le zanne del cane e si appiattì contro la parete. Mentre il cane ringhiava e lo fissava con gli enormi occhi neri, Richard avanzò piano piano verso la controporta a zanzariera e la sbatté con violenza contro la testa del cane. Sentì il telaio piegarsi quando incontrò un osso. Il cane si ritrasse per un momento, poi si lanciò nuovamente in avanti facendo tremare tutta la casa. Da dietro giungeva alle orecchie di Richard il rumore dei libri che cadevano dagli scaffali: una serie di tonfi. Impegnando tutte le sue forze, sbatté nuovamente il telaio contro la testa del cane. Adesso l'animale lanciava insieme guaiti e ruggiti. Richard si sentiva scoppiare il cuore. Colpì di nuovo la bestia, questa volta sul muso, e il cane agitò il testone facendo perdere l'equilibrio a Richard, che cadde per terra. Mentre si rialzava pensò
che all'assalto successivo l'animale avrebbe sfondato la parete. Per la terza volta Richard respinse l'attacco del cane sbattendogli sul muso la porta. L'animale indietreggiò lasciando una scia di bava. Dal muso sprizzò sangue che gli bagnò pelo e baffi. La bestia lanciò un guaito acuto indietreggiando verso il prato. «Preso!» gridò Graham. «L'abbiamo fregato, quel bastardo!» Il cane si accovacciò nell'erba portandosi una zampa sul muso ferito. Richard aprì rapidamente la controporta a zanzariera, afferrò la maniglia dell'uscio di legno e lo chiuse. Quindi fece scattare la serratura. Fuori il cane piangeva. Così forte che sembrava avesse un microfono in gola. Graham ballava dalla gioia. «Hai visto? L'ho inchiodato, quel figlio di un cane!» Fece una piroetta su se stesso brandendo un lungo coltello da cucina. «Gli ho schiaffato questo affare nel naso. Ah! Ah!» «Ottimo lavoro», si complimentò Richard. «Stava per tirarti giù la parete della cucina.» «Che cosa fa adesso? È ancora là a leccarsi le ferite?» Graham corse alla finestra, seguito da Richard. Quando il cane li vide sbirciare fuori, si alzò sulle zampe, afferrò fra le zanne la sedia a sdraio che Graham gli aveva puntato addosso e la ridusse in mille pezzi. «Pensi che dovremmo cercare di uscire dall'altra parte?» propose Richard. «Per andare dove?» Graham sembrò rinsavire. Posò il coltello. «Non riusciremmo nemmeno ad attraversare la strada.» «Cerchiamo almeno di fare qualcosa. Io vado alla porta d'ingresso a guardare fuori. Vediamo che cosa succede.» Appena Richard ebbe lasciato la cucina il cane smise di passeggiare nel prato e svoltò l'angolo della strada. Graham raggiunse Richard vicino alla finestra accanto alla porta di ingresso, ma non ebbe bisogno di guardare fuori per rendersi conto della situazione. Sentiva il cane guaire, ringhiare e ululare. Toccò la spalla di Richard e con un cenno lo invitò a tornare con lui in cucina. Il cane li precedette. «Siamo intrappolati», concluse Richard. «Appunto», fece eco Graham. «Hai idea di dove possano essere Patsy e Tabby?» Richard scrollò la testa. Ancora non capiva. «Quella bestia là fuori è venuta per tenerci lontano da loro. Se fosse riuscita a farci fuori, tanto meglio, ma aveva soprattutto il compito di non permettere che corressimo in aiuto di Patsy e di Tabby. Gideon Winter li
ha presi di mira.» Graham era in preda all'angoscia. «Lui sa dove sono, Richard, e sta cercando di isolarli per attaccarli. Scommetto che Tabby, dopo il mio racconto su Bates Krell, si è messo in testa di sconfiggere il Drago da solo.» «E Patsy ha voluto accompagnarlo. Perché lei sicuramente l'aveva capito.» «Dannato ragazzo», brontolò Graham. «Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo. Ce l'ha tenuto nascosto.» «Non ne sono del tutto sicuro», commentò Richard. Lanciò un'occhiata fuori, dove il cane gigantesco trottava incessantemente avanti e indietro nell'erba. «Resta comunque il fatto che dobbiamo uscire da questa casa», dichiarò Graham. «Immagino che non avrai una pistola.» Graham inclinò la testa, si passò le mani sulla tuta asciugandosi i palmi. «Pistola? Gesù, ma qualcosa ho. Una doppietta da caccia. E delle cartucce anche. Saranno vent'anni che non la tiro fuori. L'ho comperata a Londra; vado subito a vedere se la trovo.» Richard tenne d'occhio il cane che saltellava nel prato, mentre Graham frugava per la casa. Dopo un paio di minuti lo sentì gridare: «Trovata!» dal piano di sopra. Il vecchio entrò in cucina stringendo tra le mani una lunga doppietta da caccia. «Era in soffitta, ancora nel suo astuccio. Non è nemmeno impolverata.» Consegnò l'arma a Richard e buttò sul tavolo una scatola di cartucce. «Coraggio, prova tu. Io non sono mai stato un bravo tiratore.» Richard si rigirò la doppietta fra le mani. Il calcio brillava. Un disegno ornamentale decorava le canne. «Una Purdy», notò. «Quando hai detto che avevi una carabina, non scherzavi.» Controllò l'interno delle canne e, soddisfatto dell'ispezione, inserì due cartucce. Un'altra manciata se la infilò in tasca. «E nonostante tutto non ho mai beccato niente. Per questo dico che non ci so fare», si scusò Graham. «Ma a quei tempi ero ancora tanto giovane da pensare che quando comperavo qualcosa doveva essere sempre il meglio.» Richard stava già sollevando il vetro inferiore della finestra della cucina per infilarci le canne del Purdy. Armò un cane, s'inginocchiò e aspettò che l'animale gli passasse davanti. 4
Alle sei e mezzo, più o meno nel momento in cui Richard Allbee sparava per la seconda volta mancando il mostruoso animale, Tabby Smithfield e Patsy McCloud sostavano appena al di là del cancello della proprietà di Wren Van Horne. Lì non c'erano aiuole fiorite. Il giardino era nascosto dietro gli alberi sotto i quali Gary Starbuck aveva parcheggiato il suo furgone. Per un momento a Tabby parve che tutte le finestre della lunga facciata bianca fossero occhi che lo spiassero e temette di lasciarsi sopraffare dalla paura. Allora si costrinse a ricordare suo padre quando, immobile nel mezzo della cucina, era stato annientato da una lunga ala di fiamme. Si obbligò a ricordare le sue grida di dolore. Allora si chinò e raccolse da terra un bastone nodoso lungo tre spanne. Quindi si voltò verso Patsy e cercò di infonderle coraggio con un sorriso. «Come dovrebbe funzionare, per la precisione?» domandò lei. «Ricorda quello che ci ha raccontato Graham», rispose Tabby. «A un certo momento, quando si arriva al punto culminante...» «Già. Semplicissimo. Bussiamo alla sua porta e quando Van Horne viene ad aprire tu lo tagli in due con la spada che ti troverai improvvisamente fra le mani.» «Qualcosa del genere», ammise Tabby. «Però non so se andremo a bussare alla sua porta. Ci deve essere un modo per entrare di nascosto in casa sua.» Si accorse che Patsy stava sorridendo. «Mi stai prendendo in giro? Sei una donna molto strana, sai?» «E ancora non mi conosci!» «Non mi pare possibile che stiamo qui a fare dello spirito quando potremmo essere morti tra venti minuti.» Patsy gli sorrise apertamente. «Io sì. Sono spaventata a morte. Credi che avremo ancora venti minuti?» «Forse diciannove.» «Tu e quel tuo stupido bastone. Ho capito. Io suono il campanello, tu salti fuori dai cespugli e lo seghi in due con il tuo bastone.» «Stravagante», commentò Tabby. «O magari io gli sparo nel cuore.» «Come?» Patsy annuì sfilandosi dalla cintura una piccola pistola, «Forse non sei poi così stravagante», rettificò Tabby. «Andiamo?» «Non potremmo concederci un altro mezzo minuto?» «Hai dimenticato che dobbiamo mettere la sua testa su un piatto?»
Per un secondo si guardarono, saggiando la loro paura e leggendola uno sulla faccia dell'altro. okay, campione, all'arrembaggio basta con i lamenti Uscirono insieme da sotto gli abeti. Come per un muto accordo avanzarono lentamente tenendosi sulla sinistra ed evitando le finestre della facciata. Tabby non tentò nemmeno di nascondersi dietro i vari alberi che incontrarono sul percorso, non camminò mai curvo. Patsy lo seguiva, a un passo di distanza. Lui l'avvertiva come una presenza rassicurante nella mente. Giunto all'ultimo piccolo dosso si curvò e raggiunse di corsa il muro della casa. Appoggiò la schiena alle assi bianche e aspettò che Patsy gli scivolasse accanto. La sentì respirare ansando. Aveva ancora la pistola in mano. e adesso? passiamo sul retro Patsy procedette a testa bassa e con le gambe piegate in modo da tenersi sotto il livello delle due finestre del pianterreno. Raggiunse l'angolo della casa e si voltò verso Tabby per invitarlo ad avvicinarsi. Dopo che l'ebbe raggiunta, Tabby le indicò la superficie verde di una botola che si apriva nel terreno. stupendo chiusa a chiave? vediamo Tabby si acquattò dietro gli arbusti che crescevano attorno alla botola. S'inginocchiò, afferrò la maniglia e provò a sollevare la botola, che si alzò con un lieve scricchiolio. Allora si sedette sui talloni e l'aprì del tutto, ma nel momento in cui si accingeva a voltarsi per lanciare un muto messaggio di trionfo a Patsy, una sagoma enorme sbucò dai cespugli alle sue spalle e una mano gli bloccò il polso. Tabby impallidì per lo spavento. La mano che lo aveva afferrato era gigantesca e lurida. Alzò gli occhi e vide la faccia di Dicky Norman che lo osservava accigliato. 5 Richard si puntellò meglio sul davanzale della finestra quando vide il cane gigantesco arrivare alla fine del suo circuito e tornare verso di lui. «Cerca di colpirlo alla testa», lo incalzò Graham. «In un punto vitale.» «Hai pensato all'eventualità che quell'essere non sia nemmeno là fuori?» Richard posò dolcemente l'indice sul grilletto.
«A me sembra fin troppo concreto», ribatté Graham. «A giudicare da quello che ha fatto alla porta.» «Ah sì, per quello c'è, eccome», obiettò Richard, «ma io mi chiedo se qualcun altro oltre noi riuscirebbe a vederlo.» «Arriva», lo avvertì Graham in preda all'eccitazione. «Arma tutte e due le canne, figliolo. Qui si fa sul serio.» Richard armò anche l'altro cane e passò l'indice su entrambi i grilletti. Il testone nero arrivò all'altezza del suo mirino e in quel momento Richard si accorse che il cane registrava la presenza dell'arma. Smise allora di passeggiare, abbassò il muso e venne avanti al trotto. «Vuole attaccare il fucile! Richard! Vuole attaccare il fucile! Spara!» Richard stava già premendo entrambi i grilletti. L'esplosione lo sollevò da terra facendolo piombare contro una seggiola. Ritirò immediatamente l'arma dalla finestra sperando di vedere il cane cadere. La bestia, furibonda, si lanciò verso la finestra. Si udì uno scricchiolio. Il telaio era rimasto scheggiato. Il cane indietreggiò e Richard vide dove erano andate a finire le sue pallottole. Alla base del collo dell'animale si era aperta una ferita dalla quale si alzava una spirale di fumo grigio. «Non sanguina nemmeno», disse voltandosi verso Graham. «Dubito che la tua carabina ci servirà a uscire da questo guaio.» «Mira agli occhi», gli ordinò Graham. Il cane si scagliò di nuovo verso la finestra e questa volta infranse il vetro inferiore. Richard e Graham videro la parete incurvarsi verso l'interno sotto il peso dell'animale. «Per carità, ricarica!» gridò Graham. «Cerca di colpirlo negli occhi.» 6 Il faccione si avvicinò a quello di Tabby, un ammasso di carni putrescenti con due occhi spenti e acquosi. Un'altra mano si chiuse sulla spalla del ragazzo. Per un terribile istante Tabby pensò che Dicky Norman volesse azzannargli la faccia. Sentiva il terrore di Patsy, ancora in attesa contro le assi della casa, ma non riusciva nemmeno a comunicarle di fuggire: non era in grado di ragionare. «Sei un bastardo in gamba», disse Dicky. «Sapevo che saresti venuto qui. Sapevo che mi avresti aiutato.» «Aiutato», riuscì a balbettare Tabby rendendosi conto che quel mostro lo stava trattenendo con entrambe le mani. Dicky aveva perso un braccio la
notte della sua morte e poi quella faccia rigonfia e sporca inspirava e soffiava fuori aria maleodorante. Un morto non avrebbe avuto bisogno di respirare. «Brace?» chiese. «L'hai detto, piccolo», rispose il faccione e Patsy non sparare non sparare urlò mentalmente Tabby. «Chi è quello?» chiese Patsy abbassando la pistola mentre appariva dietro il braccio muscoloso di Brace. Tabby era riuscito a fermarla un istante prima che infilasse una pallottola nella nuca di Bruce e sembrava ancora convinta che fosse la miglior cosa da fare. «È Bruce Norman», spiegò Tabby. «Il Drago gli ha ucciso il fratello.» Gli occhi di Bruce si spostarono incuriositi su Patsy e sulla pistola che la donna gli spianava contro. Lasciò il polso di Tabby e dolcemente chiuse la mano sull'arma. Patsy si ritrasse al suo tocco. Ma era come se Bruce non la vedesse nemmeno. Tornò a guardare Tabby. «Un bastardello in gamba», ripeté. Tabby fece un cenno con la testa. «Passiamo di là, Bruce. Dove non ci può vedere.» Sempre trattenendo Tabby per una spalla, Bruce Norman si lasciò guidare sul lato della casa. Tutti e tre s'inginocchiarono nell'erba secca. «Sei venuto a uccidere Van Horne?» volle sapere Tabby. «Ti ho seguito. Non mi hai mai visto, vero? Nemmeno una volta. Sapevo che saresti tornato qui, Tabs. Dobbiamo ammazzarlo.» «Il dottor Van Horne ha ucciso tuo fratello?» intervenne Patsy. Bruce non le rispose. La gigantesca faccia lunare dondolò a pochi centimetri da Tabby, grigia di stanchezza e di sporcizia. Nella bocca aperta i denti ingialliti sembravano uno steccato in miniatura. Nei lunghi capelli erano impigliati grumi di terra e frammenti di foglie morte. «Lo sento sempre, Tabs», mormorò Bruce. «Lo sai? Certe volte è come se Dicky fosse a casa con me. Lo sento che si muove in soggiorno. Ormai dormo all'aperto perché là dentro mi vengono i brividi. Sono settimane che dormo fuori e ho visto delle cose strane, Tabs. Cose da pazzi...» Il suo sguardo si perse lontano. «Ho visto un serpente grosso come una casa ingoiarsi un ragazzino, Tabs. Ha spalancato una bocca enorme e l'ha risucchiato dentro, l'ha mandato giù intero... Ho dormito in spiaggia e ho visto bambini morti uscire dall'acqua... e tutto questo schifo viene da lui, Tabs. È lui che fa succedere queste cose.» I suoi occhi si incupirono. «Così ho cominciato ad andare a dormire sulla tomba
di Dicky, al cimitero. È lì che vado di notte, adesso. Dormo proprio sulla tomba di Dicky.» «Ma Dicky...» cominciò Tabby, ma subito dopo rinunciò a chiedere a Bruce se conversava con il fratello durante le sue notti al cimitero di Gravesend. Tabby si rese conto che Bruce Norman era diventato come doveva essere stato Graham Williams quando aveva ucciso Bates Krell. Tutto quello che aveva patito lo aveva investito di un'autorità innegabile, ma folle. Una consapevolezza che non lasciava spazio all'equilibrio mentale. «Allora andiamo», disse a Bruce e il faccione gli sorrise. Bruce scese per primo in cantina e Tabby richiuse senza rumore la botola. Nella semioscurità raggiunse gli altri due sul fondo. La cantma di Van Horne era un complicato complesso di piccoli locali e cellette dove erano ancora accatastati i mobili che un tempo avevano costituito l'arredamento dell'abitazione della servitù. Tabby trovò Bruce Norman che vagolava disorientato fra gli angusti corridoio. «Tabs, dobbiamo trovare le scale», lo sentì gemere. «Sono qui», li avvertì Patsy sottovoce. Nel mezzo di uno spazio più ampio c'era una caldaia a gasolio assai piccola, collocata su un sopralzo in mattoni. Patsy li aspettava ai piedi di un'ampia scalinata che partiva a pochi passi dalla piccola caldaia. Bruce grugnì e si avviò verso le scale, per fermarsi bruscamente pochi istanti dopo. Tabby gli finì addosso, con la sensazione di andare a sbattere contro un pilastro di cemento armato. «Che cosa c'è?» «Tabby», lo chiamò Patsy. «Guarda la pistola. È come successe a Graham... Credo che sia proprio come ci ha raccontato Graham.» Allora Tabby si spostò a fianco di Brace e subito vide il bagliore che aveva nella mano aperta. La piccola pistola di Patsy era avvolta da un alone argentato che aumentò d'intensità e si trasformò in un accecante raggio di luce che raggiunse il soffitto della cantina come il fascio di un riflettore. «Mio Dio», mormorò Patsy. Le emozioni si accavallarono nell'animo di Tabby: soggezione e gioia, gelosia e impazienza. Notò l'espressione di intimo piacere che si delineava sulla faccia di Bruce Norman. «Funzionerà», disse, come se, fino a quel momento, non avesse creduto al racconto di Graham. Il bagliore si tinse per una frazione di secondo dei colori dell'arcobaleno e in quel medesimo momento una luce dorata avvolse Bruce Norman. Poi la luce si spense. Fu come se la piccola pistola l'avesse risucchiata
tutta in se stessa. «Lo ammazzerò», disse Bruce avviandosi nuovamente verso le scale. Emersero in un atrio vuoto. Sostarono, guardando in tre direzioni diverse. Tabby si ritrovò fra le mani il bastone che aveva raccolto in giardino e lo strinse più saldamente fra le dita. Patsy parve improvvisamente insicura e Tabby la vide scrutare nervosamente nel buio. Distolse gli occhi dal viso di Patsy e notò strisce umide che correvano lungo le pareti, simili alle scie di gigantesche lumache. Era come se qualche sostanza putrescente fosse stata ripetutamente spennellata sui muri. Tabby ebbe appena il tempo di riflettere sullo strano odore, come di lievito, che riempiva la casa prima che Bruce lo prendesse per una mano. «È qui», disse Bruce. Con un sorriso da folle si voltò e si incamminò verso il soggiorno, trascinandosi dietro Tabby. Nell'altra mano impugnava la piccola pistola. Fecero rumorosamente irruzione nel salone dalle ampie vetrate, seguiti da Patsy. Tabby si sottrasse alla stretta di Bruce mentre confusamente formulava un pensiero: qui c'è qualcosa che non va, qui c'è stato qualcuno che ha messo a soqquadro la stanza. Una poltrona era stata rovesciata, una lampada a stelo giaceva fracassata per terra. Poi vide una macchia di sangue a forma di ameba, larga un metro, coagulata da tempo per metà sul parquet e per metà su un tappeto. «Dicky!» tuonò Bruce e Tabby ruotò su se stesso. Nello specchio della preziosa cornice ovale stava accadendo qualcosa di incredibile. La superficie dello specchio si era riempita di fumo nero percorso da lampi accecanti e Tabby ebbe un'illusione di profondità, come se si potesse infilare la mano in quella singolare tempesta. «Dicky!» strillò Bruce e tutto cambiò. Tabby udì il mostruoso, ritmato ronzio di un milione di mosche, come aveva già sentito alla Gravesend Beach. E frammiste al brusio c'erano mille voci, come di una folla che cantasse a bocca chiusa fuori della porta. L'aria si oscurò, o furono gli occhi di Tabby ad annebbiarsi, e in quel momento capì che lui, Bruce Norman e Patsy McCloud non avevano alcuna possibilità contro il dottor Van Horne. Con la mente cercò Patsy, ma il suo tentativo andò a scontrarsi contro qualcosa di duro e gelido. L'aria era piena di mosche, mani annaspanti e bocche spalancate e Tabby aveva perso Patsy. Nelle orecchie gli rimbombavano suoni pazzeschi, disumani. Tabby invocò il suo nome, ma non sentì nemmeno la propria voce.
Qualcuno entrò nella stanza dalla stessa porta dalla quale erano passati anche loro e Tabby fece un balzo all'indietro, rovesciando un tavolino di vetro e facendo cadere per terra una statuetta di ballerina. In mezzo al caos scorse a un tratto Patsy, rifugiatasi contro le vetrate, e allora s'incamminò vacillando verso di lei. Dunque sei arrivato finalmente, signor Smithfield, disse qualcuno o forse gli inviò direttamente il messaggio al cervello. Ti piace? A pochi passi da Patsy si voltò per guardare l'uomo che gli aveva rivolto la parola. Udì nuovamente Bruce Norman urlare il nome del fratello: l'aria era di nuovo pulita e quel frullare di mani era cessato. «Hai ammazzato Dicky!» strillò Bruce alzando la pistola. Fu allora che Tabby notò per la prima volta che Wren Van Horne era diventato un «liquido». Era a uno stadio avanzato della malattia e la sua pelle luccicante tremolava. Già portava i guanti alle mani. «In un certo senso sì», rispose il ginecologo. «E voi sareste il piccolo commando mapdato contro di me?» Fece una orrenda parodia di sorriso. «Siete arrivati giusto in tempo. È la mia ultima notte qui. Ottimo tempismo, signor Smithfield.» «Stai morendo», notò Tabby, che ancora stentava a crederci. Gli pareva inconcepibile che il suo destino fosse segnato, a dispetto di tutte le sue micidiali, sovrannaturali capacità. «Non me ne frega un cazzo. Muori adesso», ringhiò Bruce puntando la pistola al petto del medico. Premette il grilletto. L'esplosione fu più sommessa di quanto Tabby si fosse aspettato, il rumore di un ramo che si spezza. Un filo di fumo grigio si alzò dalla canna. Il dottor Van Horne si portò le mani al petto e fece un passo all'indietro. Quando Bruce gli sparò di nuovo, crollò con grazia sul pavimento. Bruce lasciò cadere la pistola e rimase immobile come se, raggiunto lo scopo, gli fosse venuta meno la forza di volontà. Ansimava leggermente. Aprì la mano e contemplò l'arma con uno sguardo vacuo, privo di curiosità, poi la lasciò cadere sul tappeto sporco di sangue. Tabby osservò Patsy avvicinarsi per raccoglierla. Poi, ancora sbigottito per la facilità e la rapidità della distruzione di Van Horne, tornò a fissare il cadavere del medico. La mano destra era contratta sul tappeto, le dita affondate nel tessuto. Si sentì quasi ingannato: un mostro non dovrebbe morire così facilmente. Si avvicinò di un passo e vide la smorfia sulla sua faccia liquefatta. Il dottore non era ancora morto, ma era sicuramente agonizzante.
Be', finalmente è finita, pensò avvicinandosi di più, ma con cautela. Forse questa volta il Drago era morto per sempre, forse il ciclo non si sarebbe più ripetuto. Si avvicinò ancora, ascoltando distrattamente i bisbigli di avvertimento di Patsy, e osservò l'uomo morente. Il dottor Van Horne voltò la faccia in modo da guardare Tabby che trasalì vedendo apparire su quel viso flaccido un'espressione di maligna ironia. Allora, quasi fosse stata scatenata dallo sguardo del medico, esplose nel soggiorno un'assordante cacofonia e di nuovo Tabby udì milioni di mosche insieme con voci esultanti e vide innumerevoli braccia tendersi verso di lui. «No!» gridò avanzando in quell'aria affollata per fermarsi accanto a Van Horne. Vide i capelli bianchi sparsi a ventaglio sul tappeto; la faccia mobile di un «liquido», occhi potenti e scintillanti. In preda a furore e disgusto Tabby urlò qualcosa che si perse nel tumulto delle voci e, spinto da un desiderio sfrenato di vendetta per la morte di suo padre, sferrò con tutte le forze un calcio al torace di Van Horne. Il suo piede affondò nel corpo del dottore. Era stato come calciare un cumulo di sabbia. Sotto la scarpa avvertì una massa cedevole che si disfaceva, come un guanciale di piuma. Prima che avesse il tempo di ritirare il piede dal corpo del medico, un liquido bianco gli bagnò la caviglia. Per un secondo nella grande sala regnò un silenzio perfetto. I rumori che avevano ossessionato Tabby cessarono bruscamente. Tabby era fermo sul cadavere del dottor Van Horne mentre quel liquido bianco e caldo gli inzuppava la scarpa. Gli occhi di Patsy trovarono i suoi. La luce del sole accendeva riflessi sulle vetrate sporche; poi la stanza fu scossa da un'esplosione assai più potente della detonazione della pistola di Patsy. Tabby si premette le mani sulle orecchie e indietreggiò barcollando. La testa gli rintronava ancora per la forza dell'esplosione. Qualcuno stava gridando mentre la stanza si riempiva di fumo. Patsy puntò l'indice verso lo specchio. Tabby si voltò, con gli occhi che gli bruciavano per il fumo denso, e allora vide che scaturiva dallo specchio: una massa nera, oleosa ribolliva fra le schegge aguzze rimaste incastrate nella cornice. In mezzo cominciò a prendere forma una sagoma. Le grida alle spalle di Tabby salirono di un'ottava e poi cessarono e Tabby, ancora mezzo intontito per la subitaneità con cui la situazione era cambiata, si voltò di nuovo e vide che cosa era successo a Bruce Norman. Esplodendo, lo specchio aveva scagliato attorno schegge di vetro che gli avevano lacerato la faccia. Lunghi aculei sporgevano dal suo petto e dallo
stomaco, ma il suo faccione non era più riconoscibile: dai tessuti martoriati in mille punti, sgorgava sangue abbondante. I lineamenti erano stati cancellati. In quel mentre Bruce precipitò in avanti e cadde sul pavimento con un tonfo. Un uomo alto e magro, dal volto allungato e pallido, avanzò nella stanza fra volute di fumo. «È... è uscito dallo specchio», esclamò Patsy sbalordita. Gideon Winter si avvicinò a Tabby passando fra il corpo di Wren Van Horne e quello di Bruce Norman. Incapace di muoversi, Tabby vide le braccia nere alzarsi, poi il suo cuore scoppiò, la sua testa scoppiò e la sua vita fuggì altrove. Gideon Winter lo cinse fra le braccia. 7 Richard scaricò entrambe le canne mirando alla testa del cane e questa volta vide quasi volare i pallettoni, come una squadriglia di calabroni. Li vide conficcarsi nell'ampia fronte nera della bestia. Si aprì un'altra dozzina di fori fumanti tutt'attorno agli occhi. Poi l'animale si scagliò nuovamente contro la casa. Il telaio della finestra si staccò dal muro di un altro paio di centimetri, mentre pioveva per terra polvere di intonaco. Nella parete si aprirono lunghe crepe. Il cane si era voltato per tornare in fondo al prato prima di un nuovo attacco. Richard tolse le cartucce vuote e ne cercò altre due nella tasca. «La prossima volta sarà qui dentro con noi», dichiarò Graham con calma ammirevole. «Vedi se riesci a spappolargli il naso. Non so che cos'altro potrebbe fermarlo.» «Io credo che niente possa fermarlo. Vuoi che proviamo a fuggire?» Graham stava già scrollando la testa. «Sparagli al naso. Ricordi come ha guaito quando l'ho accoltellato?» I «Come vuoi, capo.» Richard imbracciò nuovamente il fucile,» puntellandosi sul davanzale. Intanto il cane si era girato e aveva f abbassato il muso preparandosi a caricare. Partì di corsa e Richard cercò il punto nero all'apice del muso. Fece ruotare lievemente il mirino finché fu sicuro di averlo centrato. Cominciò a premere lentamente il dito sui grilletti e sgranò gli occhi all'improvviso. La forma nera stava perdendo consistenza. In un batter d'occhio il nero era diventato grigio cupo e subito dopo grigio più chiaro. Prima che avesse finito di premere i grilletti vide, attraverso l'animale, il sottobosco ancora in
fiamme. Alzò gli occhi, staccando il dito dai grilletti. «Ehi», stava esclamando Graham dietro di lui. Come il gatto di Billy Bentley, il cane gigantesco era svanito nel nulla. Per un secondo si librò nell'aria sopra il prato, quindi scomparve. Una folata d'aria calda quasi impalpabile passò davanti alla finestra. Richard si sedette sui talloni, il respiro sospeso. «Questo vuol dire che con Tabby e Patsy è finita», gridò Graham. «Qualsiasi cosa abbia tentato contro di loro, è finita. Sarà meglio che andiamo a vedere.» «A vedere che cosa?» «Fammi una domanda più facile», ribatté Graham battendogli amichevolmente la spalla con la mano tremante. Richard si drizzò in piedi e lo guardò. Trovò il vecchio stordito dalla contentezza. «Credi davvero che sarei riuscito a staccargli il naso?» gli domandò, stupito di riuscire a sorridere. «Questa è facile, ma non voglio rispondere», disse Graham. «Andiamo fuori a vedere come è andata.» Appena uscirono nel giardino furono assaliti dall'odore del fumo. Richard pensava che venisse dai ciuffi di pelo e dai brandelli di pelle del cane caduti nell'erba, ma Graham attrasse la sua attenzione con un richiamo: «Vieni da questa parte. Guarda verso la spiaggia». Così Richard lo raggiunse e vide una gigantesca colonna di fumo e fiamme che si alzava sullo Stretto. «E quello che cosa diavolo è?» sbottò. Graham gli rivolse uno sguardo di mesta compassione. «Credo che sia la casa del mio vecchio amico Wren Van Horne, a meno che sia scoppiato un incendio sulla spiaggia.» «La casa del dottore? Quella che...» Richard stava ricordando la prima volta che aveva visto quella villa con Laura, a bordo della macchina di Ronnie Riggley, e aveva chiesto quanto costava. Sulla scia di quel ricordo rammentò che Wren Van Horne era stato il ginecologo di Laura. «Penso che i nostri amici siano andati a caccia di draghi», commentò Graham. Già si era avviato verso la sua automobile e Richard affrettò il passo per raggiungerlo. Si sedette in macchina mentre Graham alzava il piede dal pedale della frizione e partiva in retromarcia sbucando sulla Beach Trail. Sterzò, cambiò e schizzò in avanti. Non si fermò nemmeno all'angolo di Mount Avenue. Non controllò se c'era traffico. Premette l'acceleratore a tavoletta e
svoltò a destra. «Immagino che Wren abbia assistito anche Laura.» «Già», borbottò Richard. «Sto semplicemente pensando a voce alta», continuò il vecchio chiedendosi se stesse per esprimere un'idea, forse intuita da Bobo Farnsworth una sera davanti al Pennywhistle Cafè, «ma sai, le sole persone che abbiano riconosciuto il nostro assassino sono state le donne che gli hanno aperto la porta. Ora, quanti uomini sanno che faccia ha il ginecologo della loro consorte? Se lo avessero visto al bar di Franco, avrebbero saputo chi era?» «Gesù», gemette Richard, forse in risposta a Graham, forse solo d'istinto di fronte allo spettacolo del rogo in cui si era trasformata la casa di Wren Van Horne. «Povero Wren», rimpianse Graham. «Non era forte come Johnny Sayre.» «Gesù», ripeté Richard. Quando furono più vicini alla muraglia di fuoco, Richard scorse finalmente Patsy McCloud. Tremava dalla testa ai piedi, come se fosse in preda a un accesso di febbre. E quando Richard balzò giù dalla macchina e corse verso di lei, vide che stava piangendo. CINQUE Graham attraverso lo specchio 1 Ora desidero rivolgermi nuovamente a voi in prima persona, perché solo così si può raccontare quello che accadde dopo che Richard Allbee e io scendemmo dalla mia vecchia carriola per correre da Patsy. La mia fede nell'antica esatta relazione che c'è tra me e il resto del mondo era andata a gambe all'aria. Tutti e tre, cioè Patsy e Richard e io, ci trovammo dietro lo specchio dove nulla era reale, ma tutto avrebbe comunque potuto ucciderci. Dunque, questi fatti sono come il cane gigantesco, secondo me, e quando Richard Allbee mi chiese se davvero pensavo che avesse dato di volta il cervello a tutti a causa del DRG, io risposi: «No», ma so che non era così semplice. Dunque posso solo raccontarvi quello che ho visto con i miei occhi, quello che mi è sembrato di avere visto, quello che sono sicuro di avere visto. Almeno così sarò onesto con voi e se poi voi vorrete meditare sul con-
cetto di «realtà», fate pure. Mentre Richard consolava Patsy e cercava di farsi dire se Tabby era riuscito a fuggire in tempo dalla casa, io contemplavo quella villa cercando di digerire il fatto che il mio vecchio amico fosse stato il nostro acerrimo nemico. Wren Van Horne. Un colpo tremendo, che non riuscivo ad accettare. Era stato una figura caratteristica di Hampstead, ancor più di me, uno di quegli uomini che svolgono il loro dovere con la grazia serena che illumina tutto ciò che sfiora. Era sempre stato un uomo brillante e la terza età mi ha insegnato che questa è una qualità spirituale: mantenerla dopo i vent'anni richiede non poco spirito. Le sue pazienti lo avevano rispettato e amato e posso aggiungere che era una di quelle persone che sanno d'istinto come vivere bene, ma soprattutto era stato uno della mia gente, la mia gente. E il Drago lo aveva trasformato in immondizia. Pensai al mio vecchio amico che bussava alla porta delle mie concittadine, lo vidi attaccar discorso con Stony Friedgood al bar di Franco, rendersi responsabile di tutte le cose che il Drago gli aveva fatto fare e mi trovai in preda a mille confuse emozioni. Richard stava ancora cercando di far rientrare in sé Patsy. Io mi avvicinai e le posai la mano sulla spalla. Davanti a noi la casa si consumava con furore. Così dovevano essere bruciate le case di Mill Lane e... anche il Royal Cotton Mill, pensai con un sussulto. Sentii, o immaginai di sentire, le urla di decine e decine di persone nell'interno. Poi alzai gli occhi dove fumo e fiamme ribollivano e s'intrecciavano sfiorando la volta celeste e proprio mentre Patsy ritrovava finalmente la parola vidi quello che non avevo mai visto prima, sebbene ve l'abbia descritto un paio di volte. Era un grande pipistrello fatto di fuoco che spalancava le sue ali enormi in quel turbinare di fumo. La spalla di Patsy sobbalzò al mio tocco. Sentii il sangue affluire sotto la sua pelle e fu allora che mi accorsi che la mia mano tremava. «Credo che Tabby sia morto. Gideon Winter l'ha portato via. E adesso non riesco più a raggiungerlo...» Si voltò faticosamente verso di me.. «C'ero sempre riuscita», disse piangendo. «Sempre. Invece adesso... adesso c'è questo freddo terribile dove dovrebbe esserci Tabby.» Quando guardai di nuovo verso il cielo, il pipistrello di fuoco era scomparso. «È tutto freddo», continuò Patsy e la sua voce tradì l'immensa disperazione. La mia mano continuava a tremare. «Non c'è nient'altro... non c'è più Tabby...»
Richard e io ci scambiammo un'occhiata, quindi accompagnammo Patsy per qualche metro nel prato, allontanandoci dall'incendio. Capii che Richard era sconvolto all'idea che Tabby Smithfield fosse morto. «Hai detto che Gideon Winter ha portato via Tabby», dissi a Patsy. Era come imbambolata, con uno sguardo vitreo che mi fece venir voglia di gridare o di rompere qualcosa. «Con questo vuoi dire che Tabby è uscito dalla casa?» Lei annuì sbattendo le palpebre e io provai un guizzo di ottimismo. Pensai all'essere che avevo visto su un masso alla Punta Kendall. «Raccontaci esattamente com'è andata, Patsy», la esortai. «Se non ci aiuti non rivedremo mai più Tabby.» «Tabby è morto.» «Allora voglio dargli sepoltura. Ma voglio essere sicuro. Voglio ammazzare il Drago, Patsy, voglio ridurlo in un milione di pezzettini.» Queste parole la rianimarono e allora sollevò la testa e cominciò a raccontarci di quando aveva incontrato Tabby davanti alla vecchia casa del nonno. Poi venne tutto quello che era seguito. Finì dicendo: «Tabby si è accartocciato quando... quando quella cosa lo ha toccato. È diventato bianco. Poi sono scomparsi... e io ho cercato di trovare Tabby, ma non ci sono più riuscita... non ho trovato altro che freddo, freddo, freddo...» «Scomparsi in che senso?» le chiese Richard. «Non c'erano più. Poi mi sono trovata circondata dalle fiamme e sono scappata. Sono uscita e ho visto voi che stavate arrivando.» «Non c'erano più? Così, all'improvviso?» domandò Richard guardando prima Patsy e poi me. «Come sarebbe? Graham, l'hanno ucciso o no? E poi credevo che se qualcuno avesse distrutto il nostro Drago come tu avevi distrutto Krell, sarebbe finito tutto. Ma che cosa diavolo succede, qui?» «Io credo che sia sempre stato così», gli risposi mentre cercavo di pensare al da farsi. «Direi che Gideon Winter non è ancora disposto a cedere le armi.» «Pensi che fosse Gideon Winter?» «Mi dispiace dirlo, ma ne sono sicuro. È chiaro che questa volta è forte come non è mai stato, tanto da sopravvivere alla morte del corpo che si era scelto.» Trassi un lungo respiro tremante. «Ha alzato la posta. Ecco come stanno le cose. Ha portato via Tabby perché vuole che noi andiamo a cercarlo. Questa volta ci vuole tutti insieme per eliminarci. Altrimenti avrebbe ucciso Patsy», feci loro notare. «Invece ha voluto che noi ascoltassimo il suo
racconto e voleva, anzi vuole, che adesso andiamo a cercarlo.» «Se solo sapessimo dove andare», ribatté Richard. «Io credo di sapere dove», gli risposi. «A Patsy non piacerà molto.» Lei s'irrigidì. Aveva capito e, come mi ero aspettato, aveva provato un'istintiva ripugnanza. «Oh», esclamò Richard stringendola più saldamente nel suo abbraccio. «Capisco.» Stava annuendo. «Dove sono stati assassinati già in molti. E lo sappiamo sia io sia lui. Alla casa di Bates Krell.» Distolsi gli occhi dal volto disperato di Patsy per guardare in direzione dello Stretto. L'acqua ribolliva e si agitava e avanzava in un modo che niente aveva a che fare con le maree. Tornai a guardare Richard e Patsy. Lei tremava ancora, ma sentivo che stava ritrovando il coraggio. E allora dissi: «Non sarà come andarci da soli», anche se in quel momento nutrivo dubbi in proposito. «In ogni caso io ci andrò», dichiarai. «Devo farlo. Credo che Tabby sia ancora vivo. Credo che sia un'esca.» M'incamminai, deciso ad andarci a piedi, come avevo fatto nel 1924. Forse mi avrebbero seguito o forse no. Finsi risolutezza, sapendo in cuor mio che nulla al mondo mi avrebbe salvato se mi fossi presentato da solo in quella casa. Non eravamo più nel 1924 e le regole del gioco erano cambiate. Feci un altro passo e sentii che si erano mossi. Mi presero per le braccia. «Vecchia canaglia», mi apostrofò Richard. «Dopo tutto quello che è successo credi di potertene andare per conto tuo?» 2 Solo dopo avere varcato i cancelli, quando uscimmo in Mount Avenue, mi accorsi che Richard aveva portato con sé la doppietta e stava controllando quante cartucce gli erano rimaste nella tasca della giacca. Vedendolo così, ben vestito e per giunta armato, gli riconobbi istintivamente l'autorità del comando e per un attimo mi sentii più giovane di lui. Era come se in quel momento gli avessi passato le consegne. Il cielo cambiò. Di punto in bianco passò dall'azzurro fosco a un rosso fumoso. Ci fermammo. Sopra di noi c'era qualcosa di analogo a un'espressione di collera sconfinata, ira portata al suo limite estremo. Mille esplosioni mute ma vivide stracciarono il tessuto del cielo inviando onde d'urto che si schiantarono le une contro le altre. Un momento dopo il cielo diven-
tò di un giallo brillante. Poi di un azzurro uniforme e intenso come mai in passato. Poi di un cupo color viola e finalmente diventò nero. Sopra di noi c'erano due lune, una rossa e cattiva e l'altra bianca e morta. Tutta Poor Fox Road era illuminata di gelida luce lunare. Patsy si aggrappò al mio braccio così forte da farmi male. «Okay», disse Richard e ci incamminammo di nuovo verso la casa di Bates Krell. Quando arrivammo al punto in cui la strada fa una curva, scorsi una forma scura appesa a uno dei grandi alberi allineati lungo il reticolato dell'Accademia. Simile a un bozzolo allungato, ruotava lentamente su se stessa. Si accorsero di quella presenza anche Richard e Patsy e di nuovo Patsy mi stritolò il braccio. Un attimo dopo vidi che si trattava di un corpo appeso a testa in giù a un intrico di rami. Ruotando, ci rivolse la faccia e la luce argentata lo illuminò. Aveva il torace squarciato e le costole spezzate e dove c'era stato il ventre c'era una voragine buia. Riconobbi Bobby Fritz. La sua faccia terribile rideva di noi con le labbra rovesciate in un ghigno di teschio. Il cadavere di Bobby Fritz strillò: «Siete morti! Siete morti!» Patsy mi strinse il braccio in una morsa. Il corpo di Bobby prese improvvisamente fuoco. Richard mi afferrò per la giacca per trascinarmi avanti e io a mia volta mi tirai dietro Patsy. Avanzammo goffamente di qualche passo, poi Patsy sembrò ritrovare la cadenza giusta. «Non temere, Graham», mi tranquillizzò. «Non c'è bisogno che mi trascini.» Sfilò il braccio da sotto il mio e si voltò a guardare dietro. Di riflesso la imitai. Il cadavere in fiamme di Bobby Fritz ruotava su se stesso come un giocattolo meccanico e fra le fiamme si scorgevano ancora le orribili ferite. Patsy McCloud voltò di scatto la testa e i suoi occhi trovarono i miei. Disse: «Ti ho detto di non temere» e mi superò con passo deciso. Pochi minuti dopo vedemmo apparire la casa di Krell al di là del cumulo di carcasse di automobili. Rallentammo il passo, come se pensassimo di poterci arrivare di soppiatto. Le finestre, o per meglio dire quelle aperture nere al posto delle finestre, riverberavano di luce rossa. Ma sapevamo che la casa di Krell non stava bruciando e sapevamo che non potevamo arrivarci di soppiatto. Camminavamo più lentamente perché all'improvviso non avevamo più fretta di fare quello che sapevamo di dover fare. Anche quando avevo vent'anni e avevo la schiena eretta e la muscolatura ben esercitata, quella casa mi aveva messo addosso i brividi. Adesso ne sapevo molto di più.
Richard accelerò l'andatura, ci sorpassò e, senza esitazione, raggiunse la porta. Tenendo la doppietta spianata all'altezza dell'anca, si voltò a guardarci. Vidi contrarsi i muscoli della sua mascella. Lo raggiungemmo e Richard disse: «Qui non c'è niente», girò il pomolo dell'uscio e lo spinse con le canne del fucile. Patsy si premette le mani sulla testa. Una luce rossa investì le nostre gambe. Voi avrete già capito che Patsy si era protetta i capelli a causa dei pipistrelli, ma io me ne resi conto solo dopo aver gettato uno sguardo all'interno. Richard puntava la doppietta nella stanza, aspettandosi che ci fosse qualcosa contro cui sparare. Cinque o sei pipistrelli uscirono svolazzando dagli angoli della camera. Richard cercò di scacciarli con le canne della doppietta, ma due di essi schivarono i suoi colpi e ci piombarono addosso. Quando sfrecciarono su di noi notai un lungo capello rosso che si staccava dalla testa di uno dei due. Mi accorsi anche che entrambi avevano la faccia bianca. Non volevo vedere che faccia avessero perché sentivo che li avrei riconosciuti e che sarebbe stato peggio dello spettacolo di Bobby Fritz appeso a testa in giù ai rami di quell'albero. Richard soffocò un'esclamazione abbassando il fucile: aveva riconosciuto una delle due facce. Mi sentii scuotere da un moto di furore, quasi avessi dentro una fiera inferocita. Mi era apparso nella mente il volto di Tabby. Afferrai il braccio libero di Richard e lo trascinai all'interno con me. «È giorno!» urlai. «Giorno!» E per qualche secondo diventò davvero giorno: autentica luce solare illuminò una parete rivelando la stanza nel suo nudo squallore. Assi del pavimento dissestate, crepe nei muri, due dita di polvere e... nessun pipistrello. Patsy corse dentro fermandosi accanto a me e in quel momento mi sentii forte abbastanza da far fuori almeno tre Bates Krell. Tremavo ancora di collera. Cani giganteschi e pipistrelli con facce umane! Due lune nel cielo! Roba da voltastomaco. Percepii, con la coda dell'occhio, un movimento e voltai la testa, continuando ad avanzare. Vidi allora Les McCloud sulla soglia di un altro locale. Indossava un pigiama a righe e una vestaglia e stava per premere il grilletto di una piccola pistola. Una fiamma lunga e sottile scaturì dalla canna lambendo me e Patsy, allungandosi innocua fin nella stanza che si trovava alla nostra destra. Ripiombammo immediatamente nella notte nera, che fu illuminata dalla vampa della doppietta che faceva fuoco. Vidi Les svanire nel nulla. La ro-
sa di pallettoni andò a conficcarsi nel nulla. «È sparito», dissi, ma non avevo più una gran voglia di sfidare le tenebre. Sentivo il respiro pesante di Richard che stava togliendo la cartuccia consumata e la buttava per terra. Scoprimmo che la luce rossa filtrava dalla camera davanti alla quale era apparso lo spettro di Les. Circondava il riquadro della porta del suo rosso bagliore. «So dove dobbiamo andare», affermò Patsy lanciandomi un'occhiata. Nella luce fioca la sua faccia sembrava scolpita. «Patsy, nessuno ti permetterà di scendere laggiù.» «Ha ragione», fece eco Richard. «Non dopo quello che è successo l'altra volta. Puoi aspettare fuori. Sei stata con noi fin qui, ma adesso basta. Se Tabby è laggiù lo troveremo.» «Tabby è morto», insisté lei, quasi con distacco. «Ma io vengo ugualmente con voi. Dobbiamo restare insieme, no? Non è così che hai detto, Graham?» Mi stava guardando di nuovo, con più coraggio di prima. «Non so più che cosa pensare», mi scusai avvilito. «Be', io so che voglio farla finita», ribatté lei. Poi ci sorprese estraendo la sua pistola. «E userò anche questa, se sarà necessario. Credo che sia rimasta ancora una pallottola. Voi due potete aspettare fuori sul marciapiede, se preferite.» Infilò la pistola nella cintura, sotto la camicia, e ci guardò aspettando di sapere quale decisione avremmo preso. Era esile, coraggiosa e risoluta, una donna assai più matura e sicura di quella che era arrivata di corsa la notte in cui erano cominciati a cadere dal cielo i primi uccelli. «Allora, andiamo», decise Richard stringendo la doppietta sotto l'ascella. «Abbiamo tutti voglia di farla finita.» Mi guardò e io mi accorsi che nonostante il tono calmo con cui si era espresso, anche lui era rimasto commosso da Patsy. Lei intanto si era voltata bruscamente e varcò la soglia illuminata, entrando nella cucina di Bates Krell. Richard e io la seguimmo. La porta della cantina era ancora spalancata e potemmo constatare che Patsy aveva avuto ragione: la luce rossa saliva dalle scale della cantina. Guardando giù la vedemmo: intensa, violenta, pulsante. Scendere là sotto sarebbe stato come penetrare in un enorme cuore. Mi mossi per primo. Se doveva succedere qualcosa, se c'erano trabocchetti disseminati su quei gradini, volevo essere io la vittima. A sessantasei anni, la mia non sarebbe certo stata una scomparsa prematura. Scesi comunque lentamente, con gli occhi bene aperti. Mi trovai immerso in quel
bagliore, avvolto da quelle pulsazioni luminose che vibravano fin dentro le molecole dei gradini e del fragile corrimano. Richard precedette Patsy, desiderando a sua volta proteggerla. Non so che cosa ci aspettassimo di trovare, forse qualche raccapricciante allucinazione, ma non vedemmo altro che un locale ampio e semivuoto. In fondo, a destra, c'era un tavolo da lavoro contro la parete. Tutto lì. «Tabby non è qui», constatò Richard perplesso. Sostò indeciso al centro di quella stanza piena di un'inspiegabile luce rossa e occupata solo da un vecchio tavolo, verso il quale mi diressi io. Ero sicuro che fossimo nel posto giusto e pensavo che forse avrei trovato un indizio che ci conducesse fino a Tabby. Ebbi la sensazione che attorno a me si addensasse l'aria, come se quel rossore pulsante la stesse coagulando. In realtà era solo il culmine di una situazione già presente quando avevamo messo piede in quella cantina. Ritrovavamo la nostra presenza di spirito dopo lo smarrimento e, contemporaneamente, prendevamo coscienza dell'autentica atmosfera di quel luogo. La cantina di Krell non era vuota, ma brulicava di emozioni, quelle emozioni che lì dentro erano state vissute: terrore, disperazione, angoscia. Prima dell'estate del 1980 avrei creduto a un fenomeno di autosuggestione. Ora sapevo invece che quelle sensazioni non erano proiettate dall'osservatore. Sentii il bisogno di fuggire. Le pareti si erano popolate di ragni. Un corpo agonizzava disteso sul banco da lavoro. Feci per avvicinarmi a Patsy perché mi ero accorto che anche lei era stata avvelenata da quella cantina, ma in quel momento il pavimento tremò e rischiai di cadere. Una mano sbucò dal sottosuolo. Poi un'altra uscì dal terreno. E un altro paio di mani apparve quasi immediatamente a pochi passi dalle prime. «Per l'amor del cielo!» gridò Richard colpendo le prime due mani con il calcio della doppietta. «Non credo che possiamo raggiungere le scale», disse Patsy. Vidi subito a che cosa alludeva. Il terreno fra noi e le scale stava acquistando la consistenza dello zucchero di canna, si sgranava. «Voi non ci crederete, ma laggiù c'è una porta», ci indicò Richard. Ci voltammo a guardare. Era nella parete vicina a dove ci trovavamo. Nel cemento si apriva una porta di legno con grossi cardini di ferro e pesanti traverse metalliche. Sicuramente poco prima non era lì e per un momento mi sembrò sinistra e maledetta come tutta quanta la piccola stanza dei crudeli giochi di Bates Krell.
Richard e io ci muovemmo insieme cercando di decidere se tentare la via delle scale. Richard afferrò Patsy per trasferirla in una zona più tranquilla della cantina e in quel momento dal terreno che si andava sgretolando uscirono la testa e il busto di un ragazzo adolescente. Mi sovvenne una visione o allucinazione che Richard mi aveva descritto durante le nostre lunghe chiacchierate, quella del cimitero che vomitava dalla terra i suoi morti. Allora pensai: è ovvio, è così che agisce il Drago. «Graham?» mi richiamò Richard. «La porta?» Pensava che forse avessimo ancora un paio di secondi a disposizione per raggiungere le scale, se ci fossimo tuffati... ma lui sarebbe stato l'unico a raggiungerla. Io non ero in grado di muovermi così velocemente e Patsy sembrava tramortita. Mi avvicinai a lui. Lo vidi passare un braccio attorno alla vita di Patsy esortandola a muoversi in direzione della porta. Patsy si stava riprendendo e cominciava ad accettare l'idea di uscire da quella parte, anche se avevamo la sensazione che dietro quell'uscio non ci potesse essere altro che una stanza delle torture. Fu Richard ad aprire quella porta. La superammo alla svelta e io dovetti chinare la testa per evitare di sbattere contro l'architrave. 3 Vi sarete resi conto del perché ho voluto descrivere questa successione di fatti in prima persona. Un narratore oggettivo sarebbe stato fuori luogo. Quella pesante porta di ferro non c'era. Varcai quella soglia e se non mi fossi abbassato avrei battuto la testa, eppure, mentre agivo così, sapevo che non c'era mai stata quella porta nella cantina di Krell. E lo sapevano anche Richard Allbee e Patsy McCloud. Quella porta era il sogno di una porta, il nostro sogno, ma era anche il modo in cui il Drago ci conduceva dove lui voleva. Sapevamo anche che dietro quella porta i pericoli non sarebbero stati minori. La nostra porta non era una via di fuga. Tuttavia non potevamo tornare sui nostri passi, una volta scelta quella strada. Ci ritrovammo in un tunnel maleodorante e così stretto che fummo costretti a procedere in fila indiana. Prima Richard, poi Patsy e io per ultimo. Sfiorai con la mano la parete della galleria e subito la ritrassi: umida, spugnosa, molle come gomma. Mi era sembrato di toccare un tessuto vivente.
Più avanti, ancora lontana, una luce brumosa e fioca mostrava una curva e annunciava forse che saremmo sbucati sopra il livello del suolo, in Poor Fox Road o in uno degli acquitrini che delimitavano la via sull'altro lato. A mano a mano che ci avvicinavamo alla luce le pareti si distanziavano, tanto che a un certo punto potemmo camminare fianco a fianco. «Spero che usciremo al più presto di qui», disse Patsy. «Secondo voi ci troveremo all'aperto?» Io mi strinsi nelle spalle. «Che puzza!» riprese Patsy. «Sembra una fogna.» «L'importante è che ci allontaniamo da quella casa! Non mi importa niente dell'odore», brontolò Richard. «Avete visto le donne, vero? Krell non le ha buttate tutte a mare. E uccise molta più gente di quel che si credeva.» Ci avevo pensato anch'io. Mentre scappavamo almeno tredici o quattordici persone, tra ragazzi e donne, erano emerse dalle loro fosse poco profonde. Arrivammo alla curva nel tunnel e fummo investiti improvvisamente da una luce così violenta da cancellare ogni dettaglio. Per un secondo ne fui accecato e mi sentii bruciare gli occhi, che cercai di proteggere con una mano. Ci eravamo fermati. Quando allontanai la mano e con gli occhi socchiusi cercai di vedere attraverso la luce abbacinante, vidi che c'era una persona ferma contro la parete della galleria. Non era altro che una sagoma nera. «Okay?» mi domandò Patsy e io annuii. Riprendemmo a camminare. «Chi sei?» gridò Richard. Aveva spianato la doppietta. Fu lì che mi venne una mezza idea di dove eravamo e di che cosa potesse essere quella galleria. Poco più avanti ci rendemmo conto che la persona era una donna e ancor prima di vedere qualcosa della sua faccia e di com'era vestita, fu chiaro che stava piangendo. «Patsy?» chiamò. Patsy non disse nulla. Mi prese il braccio con la mano sinistra e afferrò quello di Richard con la destra. Una faccia scialba emerse dalla luce. Occhiali neri, capelli sottili. Indossava un tailleur di tweed color ruggine che trasformava il suo corpo in un tubo peloso. Non aveva l'aria di una che piange spesso. «Oh, mio Dio», gemette Patsy. «Marilyn Foreman.» «Andatevene da qui. Fuori! Siete già morti, come il ragazzo. Più andate avanti, peggio diventa.»
Patsy soffocò un lamento e abbassò la testa, trascinandoci. «Lasciami in pace.» Adesso stavamo superando la donna, che strinse i pugni e sibilò. Io le sfiorai le mani con un braccio e le sentii gelide. Ma ormai eravamo passati oltre e Patsy McCloud ci trascinava ancora come una madre con due figli recalcitranti. La sua faccia era tesa e intensa. Dietro, la donna sibilò di nuovo. Patsy si fermò e allentò la stretta al mio braccio. Io mi voltai. Richard Allbee fece lo stesso. Il tunnel era deserto. «Abbiamo appena visto una donna piccola e bruttina che sembrava un'insegnante delle elementari?» chiese Patsy. «Ci ha forse detto di tornare indietro?» «Abbiamo visto una donna piccola e bruttina che ci ha detto di tornare indietro», confermò Richard. Ci avviammo di nuovo. «Meno male», si rallegrò Patsy. «Se stiamo diventando pazzi, almeno siamo in compagnia.» Avanzammo di un altro passo e la luce si fece più intensa. Patsy scostò la testa con un gesto brusco. Io avvertii un dolore agli occhi, come se me li avessero bruciati. Incespicai in avanti, improvvisamente solo, e quando aprii gli occhi doloranti fui contento di vivere in buona compagnia le mie allucinazioni. Dovevamo avere lasciato il tunnel perché ora ci trovavamo in una stanza piena di libri. Ma l'odore era lo stesso, puzzo di liquame. Credo che Patsy e Richard riconobbero quell'ambiente prima di me. Anche lì, come nella cantina di Krell, risuonava l'eco di tormenti, di intense emozioni. La stanza era molto calda e si percepiva un vago odore di bruciaticcio nell'aria, come se qualcosa stesse ardendo. Eravamo nel mio soggiorno. Era tre volte più lungo, ma era il mio soggiorno. «Ehi, Graham», cominciò Richard. «Non...» «Non che cosa?» gracchiò un'altra voce dal fondo della stanza. Mi parve di riconoscere anche quella voce. Mi voltai e, in piedi vicino alla mia scrivania, vidi un uomo basso e tarchiato, in doppiopetto, con la faccia grassa velata da un'ombra ispida di barba. Lui. «Williams!» Il senatore mi puntò contro l'indice. «Lei è uno schifoso comunista. Non l'ha detto ai suoi amici?» «Non sono mai stato un comunista nemmeno un po' decente, meno che mai schifoso.»
«Era un debole!» mi urlò. «Un ubriacone! Uno schifoso alcolizzato! Un beone! Ha abbandonato due mogli. I suoi amici sono al corrente dei suoi trascorsi ignobili, dei suoi inganni e delle sue menzogne, sanno come si è rifugiato due volte nel matrimonio per poi tradire le sue mogli? Io ho qui, signor Williams, ho qui una lista che contiene non solo le sue numerose adesioni comuniste dal 1938 al 1952, ma anche tutte le amichette che ha avuto in quel periodo.» Brandiva qualcosa che sembrava una lista della spesa. «Sono dati disgustosi, Williams, la riprova di una degradazione morale. Lei è disgustoso perché è debole. Debole. Lei è un comunista debole, infido e beone.» «Ero un ubriacone», ammisi, «e ho ingannato le mie mogli non più di quanto loro abbiano ingannato me. Ma non ho mai abbandonato nessuno.» Cominciavo a tremare incontrollabilmente. «Debole e infido», ripeté. «Mi dica una cosa, Williams. Non sa che Tabby Smithfield sarebbe ancora vivo se lei non lo avesse infettato con le sue morbose fantasie?» Feci per sferrare un pugno a quella faccia grassa, ma la faccia trasmutò prima che la mia mano partisse. Si era trasformata in un diavolo rosso. Adesso era alto almeno mezzo metro più di me, stava curvo e ghignava facendo saettare dalla bocca una lingua biforcuta. Emanava un calore insopportabile. Sentii Richard tirarmi indietro. Il diavolo cercò di afferrarmi e la sua mano giunse così vicina alla mia faccia che potei vedere com'era fatta: milioni di fiamme che s'intrecciavano, fili di fuoco legati assieme così strettamente da formare un corpo solido, carne compatta. Se mi avesse afferrato mi avrebbe cancellato la faccia. Richard continuò a trascinarmi indietro con l'inarrestabile forza di un ciclone e io riuscii a reggermi in piedi. La mano di fuoco mi mancò, ma sfiorò la mia, quella con cui avevo avuto intenzione di colpirlo. Cento stiletti mi trapassarono la pelle, un acido mi si riversò nelle ferite e io urlai di dolore. Tutto diventò nero, mentre udivo un ghigno satanico. Eravamo di nuovo nel tunnel e il puzzo era più forte. Un'altra luce fioca ammiccava da lontano. «Tutto bene, Graham?» mi chiese Richard. Non potei guardarlo negli occhi perché mi sarei tradito. «Sì, certo», risposi. Ero molto scosso e dovevo ringraziarlo. Paralizzato com'ero dal terrore, se Richard non fosse intervenuto ci avrei lasciato la pelle. «Davvero?» s'informò Patsy. «Non ho mai abbandonato nessuno», dissi. «Gesù, questo non l'ho mai
fatto. Un giorno vi racconterò la storia dei miei matrimoni.» Ma mentre lo dicevo rividi quella grottesca faccia vermiglia così vicino alla mia e mi sentii invadere nuovamente da quel terrore primevo. Un diavolo! Ma i diavoli non esistono! Poi ricordai cose che avevo detto a Londra. Quel diavolo sta contaminando i pozzi di tutta l'America. Oh sì, vedevo. Mi pareva di essere di nuovo capace di muovermi. «Che cosa diavolo credete che ci sia laggiù?» domandai loro. «Darei chissà che cosa per non doverlo scoprire», mi rispose Richard. Riprendemmo il cammino. Mi guardai la mano destra nella semioscurità del tunnel e vidi che non c'erano né segni né ferite. Questa volta non fummo accecati da un fulgore improvviso. Ce l'aspettavamo. Invece il tunnel diventò via via più spazioso e la luce si diffuse. Avevamo l'impressione di scendere per un lieve pendio. Anche questo diventò gradatamente più ripido tanto che dovemmo procedere con le ginocchia flesse per non cadere. Quando il terreno ricominciò a essere pianeggiante, pareti e soffitto si distanziarono. E mentre io pensavo che di lì a poco si sarebbe trasformato in una grande grotta, vedemmo i primi morti. Erano grassi e nudi, disposti lungo i lati di questo tunnel enorme; un vecchio e una vecchia, immobili come manichini in un grande magazzino. Occhi chiusi, pelle bianca come gesso. Erano niente più che voluminose sacche di carne. Poi mi accorsi che erano i miei vecchi amici, Harry e Babe Zimmer. Mi affrettai ad abbassare gli occhi. Mentre passavamo ebbi la netta sensazione che girassero la testa verso di noi con lentezza infinita. «Oh, no», esclamai vedendo che cosa ci aspettava più avanti. La galleria sbucava in un vasto ambiente grande e alto quanto una cattedrale. All'entrata di questa caverna il dottor Norm Hughardt si voltò a guardarci, bianco e morto come i vecchi Zimmer. Un grosso verme bianco si apriva la strada nella sua pancia voluminosa. Passammo oltre. Mi sentivo i nervi a pezzi. Non volevo vedere nessuno, non volevo guardarli in faccia, volevo solo andarmene da quel posto orrendo. D'altra parte mi rendevo conto che non stavamo correndo alcun serio pericolo dal momento che i morti si muovevano troppo lentamente e persino io ero in grado di schivarli. Immaginai allora che fosse un trucco di Gideon Winter, il quale probabilmente intendeva indebolirci con l'arma della pietà. Non si poteva non provare pietà per quelle povere creature. Poi pensai di
avere di fronte la prova di questa mia teoria. Al centro della vasta caverna c'era uno stagno che ribolliva di un liquido denso e grigiastro. Richard ci guidò attorno ai bordi di questa pozza solforosa, sempre attento a che nessuno dei morti si avvicinasse abbastanza da toccarci. Sentii Patsy irrigidirsi di colpo e vidi Richard Allbee arrestarsi trasalendo pochi passi più avanti. «No, no, no», mormorò Richard. «Non può essere vero.» Mio malgrado dovetti voltarmi a guardare quel liquido ribollente. Sull'altra sponda un corpo stava faticosamente guadagnando l'asciutto. Era un corpo snello, giovane, infantile. Quando finalmente si fu trascinato fuori, un'altra testa emerse dal fondo. Il cadavere di un uomo si aggrappò alla sponda per issarsi fuori e quando fu a metà della sua impresa lo riconobbi. Avevo appena visto Les McCloud sulla soglia della cucina di Bates Krell, perciò non mi fu diffìcile identificare il suo corpo. Poi guardai di nuovo il ragazzo per trovare conferma a ciò che avevo visto nei primi attimi della sua apparizione. Si trattava dì Tabby Smithfield. I grossi vermi lo avevano già trovato e strisciavano sulle sue gambe. Avrebbe potuto prenderci a uno a uno. Non vedevo proprio come avremmo trovato il cuore di lottare contro di lui. Tanto valeva sdraiarci per terra e abituarci all'idea di restare lì. Un grumo di mosche gli si era posato sul collo. Finalmente accettai la possibilità, o per meglio dire la probabilità, che Tabby fosse morto. Quel corpicino sull'altra sponda dello stagno rotolava su un fianco con orribile lentezza. Gemetti e la luce fioca che riempiva l'enorme caverna diventò rossa. Tutti i morti attorno a noi cominciarono a lamentarsi. Una forma flaccida e bianca precipitò addosso a Patsy dall'alto, schiacciandola contro il pavimento. Richard e io restammo così sbalorditi da quella aggressione improvvisa che non riuscimmo a muoverci per almeno un minuto. Faticai a rendermi conto che l'oggetto caduto su Patsy era il corpo di un uomo, non uno di quei grossi vermi. Patsy si mise a urlare, cercando di rimettersi in piedi, e il morto sopra di lei alzò i pugni e l'abbatté di nuovo. Le sue carni erano state divorate e le sue natiche erano brandelli di tessuto bianchiccio. Patsy gridò di nuovo. Io cercai di strapparglielo di dosso prendendolo per le spalle, ma era come spostare una statua di cemento. Voltò la testa e ghignò e io lo riconobbi: era Archie Monaghan. Stava cercando di uccidere Patsy e io non ero in grado di impedirglielo. Lo ghermii
per le orecchie e cercai ancora una volta di strapparlo da lei. Lo colpii a una tempia, mentre Patsy si dimenava disperatamente sul terreno. «Spostati, Graham», mi urlò Richard. «Quante volte devo dirtelo?» «Come?» Finalmente vidi che Richard puntava la doppietta a quella stessa tempia di Archie Monaghan che io stavo cercando di ridurre in poltiglia. «Togliti!» mi gridò e io finalmente mi buttai indietro. Richard toccò la tempia di Archie con le canne della Purdy e schiacciò entrambi i grilletti. La testa di Archie esplose in mille pezzi. Il resto del suo corpo oscillò per un attimo, poi ricadde accanto a Patsy come un granchio stecchito. La carabina vibrò lievemente nella mano di Richard. In due soccorremmo Patsy che si aggrappò alle nostre mani protese. Attorno a noi la luce moriva, trasformandosi in un'oscurità rossa. Rimessasi in piedi, Patsy ci abbracciò per un secondo. «Dobbiamo scappare», disse Richard. In pochi minuti eravamo di nuovo in un passaggio stretto, un budello che diventava via via più angusto. Patsy e Richard camminavano davanti a me. Il passo di Patsy era veloce e sicuro, ma vedevo che le tremavano le mani. Adesso il puzzo era insopportabile e qua e là i gas prendevano spontaneamente fuoco. Quelle erano le viscere del mondo nelle quali eravamo entrati passando per la porta della cantina di Krell. Erano anche le viscere dello specchio. Sapevo che prima o poi ci avrebbero portato fino a Gideon Winter e credo che tutti e tre fossimo consapevoli che era giunto il momento di Richard. SEI Punta Kendall 1 Il senso dell'orientamento di Richard Allbee, sempre notevole, aveva stupito lui stesso quando lo aveva guidato nel sottosuolo. Quando avevano lasciato la cantina di Bates Krell avevano attraversato la parete settentrionale e da lì avevano puntato verso est. Nord-est era ancora la direzione nella quale viaggiavano. Riteneva che quel percorso li stesse conducendo a Punta Kendall: la tomba di Gideon Winter sembrava il teatro inevitabile del loro ultimo confronto. Richard non voleva assolutamente darlo a vedere, ma era in apprensione, temendo che gli amici non fossero del tutto pre-
parati a quello scontro. Graham Williams e Patsy McCloud sembravano sconvolti per quanto era accaduto e dopo avere visto Tabby emergere da quello stagno puzzolente. Se non fosse stato per la presenza di spirito di Richard, Graham e Patsy non sarebbero usciti vivi da quel tunnel. Dopo che il cadavere era caduto addosso a Patsy, Graham era stato incapace di reagire con efficacia. Richard pensava che Winter intendesse riservargli una tortura molto speciale, qualche spettacolino assai peggiore di quella specie di stazione di smistamento dei morti dalla quale erano appena fuggiti. E si domandava se Patsy fosse in grado di agire rapidamente e razionalmente. Guardandola camminare, sebbene tenesse il passo, a Richard parve che impiegasse tutte le sue energie solo per non crollare. Comunque fosse andata, rifletteva Richard, doveva preoccuparsi di salvare se stesso. Contemporaneamente doveva proteggere Patsy e Graham. Davanti a loro era apparsa una luce fievole e Richard avvertì subito una tensione involontaria in tutti i muscoli. La prova che l'attendeva, qualunque essa fosse, era laggiù. Richard fu combattuto fra il desiderio di tornare sui suoi passi e quello di andare avanti correndo, per farla finita il più presto possibile. Ma continuò a camminare e la luce, come per gioco, indietreggiò. Patsy gli posò una mano sul braccio. A ogni passo la luce si allontanava, senza mai cambiare di intensità, non più forte di quella di un lume notturno nella stanza di un bambino. Richard si chiese che cosa sarebbe successo se avesse sparato a quel riverbero. Fu allora che, inaspettatamente, gli sembrò familiare. La conosceva. L'aveva vista già altrove, senza però badarci: era l'elemento di una scenografia. Proprio così. Sapeva che cos'era e questa volta, al passo successivo, la luce non si mosse. Avanzarono ancora, lui e Patsy davanti e Graham subito dietro. Le pareti si erano aperte di nuovo e nella penombra si scorgevano diversi oggetti. La luce proveniva davvero da un lumicino. Un paio di sci era appoggiato accanto all'armadio a muro. La realtà della camera era innegabile. Se Richard avesse dato un calcio alla sedia, si sarebbe fatto male al piede; se avesse scaraventato gli sci contro la finestra, sarebbero piombati su un autentico prato. Giungevano rumori dal piano di sotto, erano i tecnici e i cameramen che lavoravano. Si udiva anche il pigro ronzio di un paio di mosche.
Con pochi attimi di anticipo sui due compagni Richard scorse i corpi sul letto di Spunky Jameson. Le mosche che aveva udito si alzarono in volo e si andarono a posare ora su uno ora su un altro dei corpi appena riconoscibili di Tabby e Laura. Nudi, adagiati sul fianco come amanti, faccia a faccia, sua moglie e il ragazzo erano stati orrendamente seviziati, lacerati e spappolati. Graham e Patsy avrebbero sopportato di vedere Tabby ridotto in quello stato? Richard si voltò, quasi con l'intenzione di coprire loro gli occhi. Ma Graham e Patsy avevano già visto e stavano preoccupandosi della sua reazione. «Oh, Richard», mormorò Patsy. Lui vide che lei era più preoccupata per lui che per se stessa. Poi un gatto grigio venne verso di loro sul tappeto e Richard sentì di nuovo i suoi muscoli tendersi. Il gatto si fermò a un metro da Richard e Patsy, si accoccolò e rimase a guardarli con i suoi occhi grandi e immobili. Un istante dopo Billy Bentley apparve dal nulla. 2 Richard si allontanò da Patsy e sfidò la faccia ironica e butterata di Billy. «Tu sei Gideon Winter!» Sulla faccia di Billy passò un sorriso sarcastico. «Non ancora. Vedrai, fratello.» «Vogliamo Tabby Smithfield. Non mi importa chi sei o che cosa sei, ma voglio che tu ci restituisca Tabby.» Billy sollevò le sopracciglia. «Vivo o morto», precisò Richard. «Ridaccelo comunque.» «Come ti ho restituito quel donnino così sexy che era tua moglie?» lo apostrofò Billy. «Scommetto che ti è piaciuto.» Il gatto aprì la bocca e rise con una voce di donna. Qualcosa urtò il pavimento davanti a Billy e il gatto spiccò un salto e scappò via mentre un aeroplanino volteggiava ancora una volta prima di fermarsi. Graham venne a piazzarsi accanto a Richard. Nella mano di Richard la vecchia doppietta vibrò. Billy Bentley alzò le braccia al cielo in una comica espressione d'orrore. «Pietà, violenza!» «Vogliamo il corpo di Tabby», ripeté Richard. «E allora prendetevelo. Due al prezzo di uno, Spunks. Il miglior affare della giornata.» Inclinò la testa e indicò con un gesto generoso i cadaveri
sul letto. «Ma prima che tu te ne vada, c'è qualcuno che vogliamo che tu conosca, qualcuno che tu vuoi conoscere, Spunks. Sul serio. Credimi.» «Io non...» cominciò Richard, ma lo spazio intorno a lui si andava modificando in un modo ormai noto, allargandosi e allungandosi, e allora capì che ciò che voleva o non voleva era del tutto irrilevante. Lontano, su un lato della zona illuminata da riflettori teatrali, c'erano un uomo e una donna seduti alla tavola di casa Jameson. Lo guardavano entrambi con affetto e Richard percepì la sincerità dei loro sentimenti. L'emozione era autentica, anche se nient'altro lì attorno lo era. Ruth Branden, la donna seduta a tavola, gli aveva voluto bene davvero. A quattordici anni Richard si era infatuato di Ruth Branden e in quel momento capì perché: era una bellissima donna e gran parte della sua bellezza le veniva dall'intelligenza e dalla generosità che le illuminava il viso. Era una bellezza dell'anima che nulla avrebbe potuto inquinare. Il Drago aveva fatto bene i suoi conti. L'uomo che sedeva di fronte a Ruth Branden gli era invece sconosciuto, ma era la prova conclusiva perché quell'uomo basso di statura e tarchiato, con folti capelli grigi, era uno sconosciuto solo da un punto di vista puramente tecnico. D'istinto, Richard seppe che si trattava di Michael Allbee, colui che lo aveva generato. Michael Allbee aveva una fisionomia dolce, anche se solo abbozzata, un'aria da marinaio o da poeta. Il padre lo guardava con un misto di curiosità, comprensione, divertimento e preoccupazione. Oh sì, il Drago aveva svolto i suoi esercizi con grande diligenza: tanto che, nonostante i suoi sforzi, Richard si sentì travolgere dall'emozione. Il padre si alzò e venne verso di lui. Richard si accorse che era alto come lui. «C'è papà, Richard», disse l'uomo brizzolato. «Adesso c'è papà e andrà tutto bene. Vorrei che abbandonassi quello stupido fucile. È scarico, comunque, no?» Richard avvertì un fremito interiore, un senso di ribellione tale che si mise a urlare prima ancora di rendersi conto di essere in collera o di capire che cosa stesse gridando. «Mi hai abbandonato! Te ne sei andato! Maledetto!» e appena ebbe pronunciato queste parole non provò alcun rimorso. Il padre gli sorrise e rispose: «Ma tu hai i miei geni, figliolo. Li porti sempre con te, dentro di te. È questo che conta». Nei suoi occhi balenarono scintille. «Comunque, adesso siamo di nuovo insieme.» Ruth Branden era ancora seduta a tavola e gli sorrideva, ma era solo uno scheletro con addosso un abito da casa e un grembiule ornato di pizzi. I
suoi bei capelli lucidi erano scivolati dalle spalle e in grembo. A ciuffi erano sparsi sul pavimento. Il padre e Billy Bentley avanzavano lentamente verso di lui. Richard si accorse di avere solo dieci anni. Aveva braccia e gambe magre ed era costretto ad alzare la testa per guardare suo padre. «Metti giù quell'aggeggio, Spunks», stava dicendo Billy. «Ehi, ma non capisci? Siamo di nuovo qui. Siamo qui! Adesso possiamo restare così per sempre.» Richard si sentì afferrare da Patsy e Graham che cercavano di trascinarlo via... di risvegliarlo. «Voglio Tabby», insisté, ma la sua voce era quella di un ragazzino di dieci anni ed era priva di peso. Cercò di spianare il fucile, ma era troppo pesante per lui. Le canne oscillarono e si riabbassarono. Era davvero scarico? Il padre avanzava radioso, come se si sentisse improvvisamente fiero del suo bambino. «Dannazione, Spunks», stava bisbigliando Billy. «Sai che cosa è successo a quel ragazzo. L'hai visto sul letto.» Richard capì che per Tabby era proprio finita: Tabby non c'era più e tutto era perduto. Le sue braccia erano troppo corte per reggere la doppietta e il rinculo gli avrebbe fratturato la spalla. «E sai un'altra cosa, Spunks?» gli stava dicendo Billy. «Quello che hai visto qui è proprio quello che sarebbe dovuto toccare a te, su a Providence, ma l'hai scampata, così ho dovuto prendermela con tua moglie. Un vero peccato, Spunks!» La stanza oscillò e Richard Allbee, bambino com'era, vacillò sentendo nelle braccia un peso due volte maggiore. «Non ci avevi pensato?» sussurrò Billy Bentley chinandosi su Richard con espressione astuta. Richard cercò di affondare la sua spada nella faccia butterata di Billy, ma si ritrasse in tempo. Era una spada: reggeva fra le mani una spada scintillante a doppio filo, due volte più pesante della doppietta. «Oh, ma non hai bisogno di quella», osservò suo padre in un tono di voce dolce e pacato. «Lascia perdere quel pesante spadone», ripeté curvandosi su di lui. La faccia di Michael Allbee si andava allungando e anche il suo busto cresceva e si assottigliava. «È troppo pesante per te.» Richard avvertì sotto la pelle un senso di gelo così intenso da bruciargli la carne. Gemette e la spada gli sfuggì dalle mani urtando rumorosamente il pavimento. Nel corso di una trasformazione Michael Allbee allungò le braccia verso di lui.
Richard mandò un'esclamazione inarticolata e vide apparire accanto alla testa la piccola calibro ventidue di Patsy. Lentamente comprese, come se assistesse a una ripresa al rallentatore, che Patsy stava per sparare a suo padre. Avrebbe funzionato? Vide l'indice di Patsy piegarsi sul grilletto. Fu come se l'esplosione fosse avvenuta nella sua mente. Un foro comparve all'improvviso in mezzo al petto di Michael Allbee. Richard sapeva che Patsy gli aveva salvato la vita e mentre vedeva una voluta di fumo e un guizzo di fiamma uscire dal foro, capì anche che era ridiventato adulto. Aveva riacquistato le sue giuste dimensioni. Un nugolo di mosche indispettite uscì dal torace di suo padre. Furono inseguite da un altro sbuffo di fumo nero. Suo padre mandò un grido acuto di dolore e collera. Richard si chinò per raccogliere la spada. Mentre stringeva la mano sull'impugnatura vide che Michael Allbee si era trasformato in una torre di sangue che rimase immobile per un momento, incombendo su di loro. Poi la colonna si sciolse precipitando loro addosso, inzuppandoli dalla testa ai piedi, colando sotto i loro vestiti, facendo loro bruciare occhi e bocca... 3 ... sensazioni che cessarono quasi immediatamente. Quando Richard riaprì gli occhi vide Patsy McCloud che lo osservava con gli occhi dilatati. Alle sue spalle alcuni larici allungavano rami di morbidi aghi nell'aria grigia. Il mare sibilava contro una spiaggia di ciottoli appena visibile dietro gli alberi. La marea cresceva. Richard aveva un piede appoggiato a un'immensa roccia grigia e l'altro su una zolla di erba ingiallita. Scese dalla roccia. Patsy guardava perplessa la pistola che teneva nella mano. Poi buttò via l'arma che andò a infilarsi fra gli aghi di pino. L'aria salmastra era tonificante, profumata di mare e di vegetazione. Girandosi, Richard notò che dietro di lui si apriva nel terreno una profonda fenditura, troppo profonda per riuscire a scorgere che cosa c'era in fondo alle sue pareti rivestite di arbusti. Lontano si vedeva la grande vetrata di una casa bianca con la pubblicità di una birra su un cartello appeso a una delle finestre del piano superiore. Graham Williams era seduto con la schiena appoggiata a una gigantesca radice che era sbucata dal suolo per ripenetrare nel terreno subito dopo. «Siamo a Punta Kendall», affermò Richard. «Tombola», si complimentò Graham. «E lui è qui. Non lo sentite? Gide-
on Winter ha con sé Tabby e si trova qui. Ci aspetta.» «Tabby è morto», mormorò Patsy. «Io non ci posso credere», insisté Graham. «Winter vuole che moriamo tutti e quattro insieme. Così la sua vittoria sarebbe veramente definitiva. È per questo che siamo qui, no?» «Già», rispose Richard. «Credo che tu abbia ragione.» «Stando così le cose, mi piacerebbe che si mostrasse e ci facesse vedere il suo numero», brontolò Graham. Si guardò attorno, come se si aspettasse di veder comparire Gideon Winter, ora che lo aveva evocato. «Ho un po' meno rispetto per lui di quanto ne avevo un tempo. Si serve solo di ciò che noi gli diamo, ve ne siete accorti? Conosce solo quello che noi gli diciamo. Patsy vede gente morta e lui le mostra una specie di grand hotel di defunti. E con te è ricorso a C'è papà. Per quanto potente, mi sembra piuttosto limitato.» «Limitato? È, così che la pensate?» La voce proveniva da un punto sotto i larici, dietro Patsy. Non era una voce umana. Troppo densa e così vibrante che sembrava amplificata da un altoparlante. «Miei cari figlioli.» Graham si era alzato faticosamente in piedi all'udire le prime parole e adesso tutti e tre si erano voltati verso una grande sagoma scura che oziava tranquilla all'ombra dei larici più alti. Poi la sagoma si mosse e videro che genere di creatura aveva rivolto loro la parola. Accadde veramente? Era veramente possibile? Non era tuttavia più impossibile di tutto quello che era avvenuto in precedenza; solo che adesso si trovavano in un luogo reale, nel tempo reale di un vero giorno. Videro dapprima la faccia, almeno due volte più grande di un volto umano e con lineamenti grotteschi. Le orecchie erano lunghe e cadenti, gli occhi di un nero scintillante, il naso forte e adunco, il mento grosso e appuntito. Fra le labbra rovesciate si arrotolava e srotolava una lingua lunga e carnosa. Venne avanti spargendo intorno un odore di feci, sudore e liquame. Non aveva gambe, ma zampe muscolose di capra. Sulla spalla di questo mostro era abbandonato Tabby Smithfield. Rise all'espressione che vide sui loro volti e si mise in bilico su una zampa sollevando da terra l'altra. Un getto abbondante di liquido schizzò sul terreno sollevando vapori e scorrendo a rivoli nell'erba rinsecchita. Numerosi e vivaci animaletti nuotavano nell'orma di quella creatura, ma Richard non volle guardarli: non riuscì invece a distogliere gli occhi da Tabby. Patsy McCloud lanciò un disperato messaggio: Tabby? Tabby? e incon-
trò solo quel senso di vuoto gelido che si era aspettata e aveva temuto. «Rendici Tabby!» gridò all'improvviso Graham. La creatura demoniaca rivolse a Graham un ghigno satanico e con una sola mano afferrò il corpo inerte del ragazzo gettandolo su una montagnola bruna. «Come vuoi.» Poi avanzò verso di loro. Fu improvvisamente buio di nuovo, proprio come era avvenuto quando avevano messo piede in Poor Fox Road. La creatura veniva avanti ridacchiando e Graham, Patsy e Richard corsero verso Tabby. Non lontano l'acqua si sollevò in un maroso che si avventò con rabbia contro il pietrisco della spiaggia. L'enorme sagoma deforme del diavolo li sorpassò. Richard si frugò nelle tasche alla ricerca di qualche cartuccia, ma non ne trovò: evidentemente le aveva perse nel tunnel. Sperando in una magia, in quel fenomeno sovrannaturale che si era verificato quando si era trovato davanti a Billy Bentley, alzò la Purdy, ma la doppietta si rifiutò caparbiamente di trasformarsi in un'arma da taglio. Patsy e Graham si inginocchiarono accanto a Tabby. Delicatamente Graham rovesciò il ragazzo sulla schiena. Quando Patsy lo sondò di nuovo trovò una debolissima risposta. «Oh, mio Dio, è vivo», esclamò Patsy così velocemente che sembrò che avesse pronunciato un'unica parola e subito dopo singhiozzò. «Naturalmente», disse Graham, che però aveva gli occhi umidi a sua volta. «Guardate», li richiamò Richard. «Guardate che cosa sta succedendo.» La creatura si andava trasformando nella luce lunare. Il corpo caprino cresceva, si dilatava. In mezzo all'erba scura vibrò una grossa coda. Patsy, distratta da un altro debole palpito vitale di Tabby, alzò gli occhi appena in tempo per vedere la creatura che, illuminata dalla luna, scendeva nella profonda fenditura del terreno. E allora vide una testa con lunghe fauci micidiali, sovrastate da una fila di aculei che arrivavano fino al vertice del muso di rettile, occhi malvagi incassati nelle orbite ossute... aveva già visto quella testa emergere dal libro di Dorothy Bach nel soggiorno di Graham. drago? Quale... drago? Patsy? Il petto di Tabby si alzò al primo respiro e nei suoi occhi si aprì una fessura che fu notata solo da Patsy. cosacosa? «Un drago», disse Richard, come se avesse intercettato i messaggi inviati a Patsy McCloud. «Che diamine...»
Uno dei larici dietro di loro si schiantò al suolo, come se fosse stato spezzato da un invisibile gigante. Il terreno tremò. «Muoviamoci», ordinò Richard. La terra tremò di nuovo quando un altro larice si schiantò. Richard si inginocchiò e infilò le braccia sotto il corpo di Tabby per sollevarlo da terra. Tabby disse: «Mmmm». Un crepaccio stava velocemente aprendosi e allungandosi verso di loro, annunciato dagli schiocchi delle radici spezzate. «Saltate!» urlò Graham e, nel momento in cui il crepaccio si apriva sotto i suoi piedi, Richard si piegò sulle ginocchia e spiccò il balzo più lungo che avesse mai tentato in vita sua. Atterrò su un terreno solido, vacillò e finalmente si tuffò in avanti scaricando Tabby su una lastra di roccia. Si voltò e vide lo squarcio nel terreno risucchiare i larici caduti. «Stai cercando di uccidermi, Richard?» gli bisbigliò Tabby. Richard lo abbracciò di nuovo. Dalla fenditura davanti a loro scaturì una lunga lingua di fuoco che incenerì tutto quello che toccò. Tabby aveva di nuovo gli occhi chiusi, ma si raggomitolò come un bambino posando la testa sul petto di Richard. Si udirono dei fruscii e subito dopo Patsy e Graham sbucarono dalle tenebre, attenti a evitare i focolai appiccati dall'alito del drago. Graham si sedette accanto a Richard e Patsy accolse Tabby fra le proprie braccia. Richard si sentì qualcosa di freddo e duro nella mano e distogliendo gli occhi da Tabby, vide che Graham gli aveva restituito la doppietta. «Non so che cosa dirvi», si scusò il vecchio. «Ma sapete che cosa dobbiamo fare se vogliamo andarcene da qui con le nostre gambe.» «Sì, ho capito», rispose Richard, che non si sentiva molto all'altezza. «Dobbiamo uccidere quell'essere. Dobbiamo scendere nel canalone e distruggerlo. Ma come?» «Mi pareva di averti chiesto di farmi una domanda più facile.» Richard pensò di alzarsi e di scendere nella gola del drago. Pensò di brandire la doppietta. Non sarebbe sopravvissuto più di cinque secondi. «Sono disposto a farlo, voglio solo sapere come.» Graham annuì. «Dannazione», sbottò Richard. Poi chiese: «Come sta Tabby?» Patsy lo cullava fra le braccia. «Migliora.» Richard vide il suo viso illuminarsi in un sorriso e per un secondo invidiò Tabby Smithfield. Non gli sarebbe dispiaciuto essere al suo posto, es-
sere lui la ragione di quel sorriso. Gli occhi di Patsy lo fissarono e Richard vi lesse ironia, fastidio e piacere tanto che si chiese se lei captasse i suoi pensieri così come faceva con Tabby. Intanto Patsy era tornata a occuparsi del ragazzo. «Allora, che cosa facciamo?» domandò Richard. Il pipistrello di fuoco attraversò il cielo incendiando un altro larice. «Io credo che niente funzionerebbe se Tabby dorme», osservò Richard. «Vorrei provare qualcosa», intervenne Patsy. «Gli chiederò di cantare.» «Cantare? Cantare che cosa?» chiese Graham. «Qualsiasi cosa.» Dietro di loro crepitava il larice incendiato. Richard ebbe l'impressione di cogliere qualche nota di una canzoncina familiare. «Perché no?» esclamò e per un momento avvertì inspiegabilmente nei muscoli la pesantezza della spada a doppio filo. «Sì, prova», la esortò. «Provaci, Patsy.» Patsy avvicinò la bocca all'orecchio di Tabby e gli sussurrò: «Canta per noi, Tabby. Canta la prima canzone che ti viene in mente... e noi ti aiuteremo a cantarla». «Dio voglia che non sia un rock», brontolò Graham. «Non importa», lo tranquillizzò Richard. Aveva ancora nella mente l'immagine di Tabby Smithfield che cantava e tutti gli altri che facevano coro con lui: un'immagine carica di una misteriosa atmosfera di vittoria. Graham gli lanciò un'occhiata incuriosita, ma non disse altro. «Cantaci una canzone», bisbigliò di nuovo Patsy. Allora, come Tabby stesso avrebbe raccontato in seguito, il ragazzo cercò nella memoria e trovò qualcosa, una canzoncina che ricordava dai tempi in cui abitava in Mount Avenue. Era una canzone che soleva cantargli sua madre. Dapprima debolmente e poi con sicurezza crescente, Tabby intonò: «Quando il pettirosso rosso, rosso...» Richard trasalì. Quella era la melodia che aveva udito poco prima. Graham Williams gli fece eco in una zoppicante chiave di basso. La doppietta che Richard teneva appoggiata alle braccia tremò all'improvviso. Al coro si unì la voce dolce di Patsy. La doppietta si illuminò all'improvviso di un bianco fulgore. «Sei un genio», disse Richard a Patsy. «Come ti è venuto in mente...» «Qualsiasi cosa sarebbe andata bene!» esclamò Graham. «Quello che conta è che siamo tutti insieme!»
«Allora non fermiamoci adesso», li incalzò Patsy. «Tabby! Più forte questa volta!» Così, tenendosi abbracciati, ripeterono la strofa. Richard, senza avere avvertito alcuna trasformazione, si ritrovò nelle mani una lunga spada a doppio filo. Si sentiva la bocca secca. Un corpo pesante e gigantesco si muoveva là sotto, camminando avanti e indietro a passi nervosi come il mastodontico cane nero davanti alla casa di Graham. E Richard avanzò, imitando un uomo assai più coraggioso. L'avvallamento aveva mutato fisionomia e là dove stava nascosto il Drago c'era adesso una caverna schermata dalla vegetazione. Qualcuno di loro, sperò Richard, avrebbe lasciato Punta Kendall ancora vivo. 4 Sempre cantando, Patsy si alzò e osservò Richard che si avvicinava allo squarcio nel terreno che era diventato la tana del Drago. Lo vide varcare la soglia delimitata da due grossi massi e cominciare a scendere per il pendio. Inaspettatamente udì la mente di Richard che parlava nella sua, come già le era sembrato di sentirla mentre cullava Tabby fra le braccia. Sentiva il desiderio di voltarsi a guardarli di nuovo e soltanto la presenza di Tabby al suo fianco la trattenne dal piangere. Si concentrò sulla canzone ed era talmente preoccupata per Richard e per tutti loro che cantare servì ad allentare la tensione. Cinse le spalle di Tabby con il braccio mentre un lampo di luce accendeva la spada di Richard. Le tenebre s'infittirono in fondo alla voragine. Tremò violentemente e si sentì accapponare la pelle. «Non resisto», disse Tabby. Patsy alzò la testa e si accorse che i due astri che brillavano nel cielo erano in realtà il sole e la luna, uno rosso e l'altro bianco. La grande bocca rossa e spalancata voleva ingoiarli. «Vado con lui», dichiarò Tabby. «Qui non resisto.» «Ragazzo, sei ancora molto debole», lo ammonì Graham. «Sto bene», insisté Tabby sottraendosi al braccio di Patsy. «Io scendo con Richard.» Avanzò di qualche passo, poi si voltò a guardarla. devo oh, Tabby Ringhi e ruggiti provenivano dalla caverna. Il Drago non li aveva forse avvertiti già la prima sera a casa di Graham di non osare spingersi fino a
questo punto? Vedendo Tabby voltarsi di nuovo e varcare il confine segnato dai due massi, Patsy lanciò un'occhiata significativa a Graham. «Devo andare con lui», disse. Aprì la bocca e la richiuse immediatamente dopo. Non aveva altro da aggiungere. A fatica compì il primo passo, allontanandosi dalla protezione che le dava la vicinanza di Graham. Allora si sentì in grado di correre. «All'inferno», concluse Graham. «Vengo anch'io. Ma non aspettarti che riesca a correrti dietro.» Tabby si fermò, si infilò le mani in tasca e li aspettò. Patsy smise di correre e quando Graham l'ebbe raggiunta Tabby disse: «Bene». Un vento caldo saliva fino a loro all'altezza dei massi. Dall'imboccatura della caverna usciva un fumo pallido e gran parte del pendio che li divideva dall'ingresso della tana era infuocato. Patsy vide Richard esitare per un secondo prima di riprendere il cammino. Una nuvola di fumo, che da qualche minuto si librava immobile sopra di loro, cominciò ad agitarsi come se tenesse imprigionato un corpo enorme. Patsy aprì la bocca per avvertire gli altri e proprio in quel momento la nube esplose liberando non un'unica grande creatura, bensì una miriade di corpicini. Patsy vide i loro musetti, i loro lunghi colli di rettile e allora capì che non erano pipistrelli: erano piccoli draghi neonati. andrà tutto bene le comunicò Tabby. guai a te se mi muori due volte, canaglia Invece di un grido d'allarme, Patsy intonò nuovamente la canzone. La sua voce dolce sgorgò forte dai polmoni, trovando vigore a ogni parola. A pochi passi da lei Graham Williams, che tentava faticosamente di non scivolare, si voltò a guardarla dapprima attonito e poi furioso. Aveva fatto di tutto per procedere silenziosamente pensando che, a parte la spada, la sorpresa fosse l'unica arma a loro disposizione. Ora invece il canto di Patsy annunciava a Gideon Winter che fuori della sua tana lo aspettavano tutti e quattro insieme. Fu allora che Graham si sentì avvolgere fisicamente dalla voce di Patsy. Sentendosi all'improvviso le energie di un ventenne, scese di un altro metro senza fatica. In quel momento Graham capì, ancor prima che se ne rendesse conto Patsy, che qualsiasi risultato avesse ottenuto Richard con la sua spada, sarebbe stata lei a salvare la vita di tutti e quattro. In quel momento si sentì un gigante, invincibile. E Patsy, pochi metri più in su di lui, percepì i suoi sentimenti. canta, Tabby, canta! incitò mentalmente il ragazzo.
Subito udì le due voci di Tabby, quella che gli sgorgava dal cuore e quella che gli usciva dalla bocca unirsi alla sua nel canto. Ora li udiva tutti nella sua mente, le stonature di Graham, la melodia di Tabby, le ansie di Richard che palpitavano a tempo con la canzone. Capì che non era la canzone in sé a produrre quell'effetto, bensì il fatto di cantare insieme, e mentre scendeva più speditamente, tenendo gli occhi su Richard ormai vicino all'ingresso della grotta, le parve di intravedere la conclusione verso la quale la conducevano le sue energie e i suoi talenti. Era come se la sua personalità dilagasse fisicamente tutt'attorno. Si sentì affluire il sangue alla faccia, si sentì gonfiare il cuore. Per un istante Patsy si vide come una rete tesa sotto i suoi amici: una Patsy trasformata in una creatura gigantesca pronta ad accoglierli e sostenerli se fossero caduti. Allora si sentì arrossire ancora di più e poi, invece dell'odore dell'erba bruciata e del fumo, avvertì un odore di pesce. Quell'indomabile movimento interiore cessò bruscamente. Accanto a lei c'era un uomo nudo e nerboruto, con la barba nera. Sorrideva, ma faceva paura. Patsy notò la lunga cicatrice che gli attraversava il ventre subito sopra le anche. Quel forte odore di pesce emanava dalla sua pelle, da tutti i suoi pori. Bates Krell avanzò verso di lei. Patsy sentì un'ondata di passione più violenta di quell'odore di pesce, una passione cupa e distorta. Dietro il corpo minaccioso di Bates Krell Patsy scorse la testa cornuta del Drago emergere dalla sua tana. Il sorriso di Krell divenne sempre meno gradevole. Nei suoi occhi brillava una luce nera; erano gli stessi occhi che aveva visto alzarsi dalle pagine di un libro. Poi un movimento invisibile provocò un possente spostamento d'aria e davanti a lei il terreno fu attraversato da un torrente di fuoco largo un metro. La testa del Drago si voltò verso Patsy. Bates Krell si dissolse in uno sbuffo di fumo e il Drago che stava uscendo dalla caverna guardò Patsy con gli occhi del pescatore. Le parole della canzone le morirono nella gola. Era troppo terrorizzata per continuare a cantare e le altre voci nella sua mente, come diversi aspetti di un'unica voce, persero vigore. Il Drago avanzò di un altro passo. «Rosso!» urlò Tabby. «Il pettirosso!» «Rosso, rosso, rosso!» ripeté la voce tonante di Graham. E Patsy sentì che anche Richard stava cantando: cantava disperatamente nella sua mente.
«Il pettirosso!» urlò di nuovo Tabby. La testa del Drago esitò e un corpicino alato precipitò dal cielo ai suoi piedi. Il piccolo drago richiuse le ali e grattò il terreno con le zampe. Non era più grande di un topo. Nauseata, Patsy lo schiacciò di nuovo sentendolo scricchiolare come uno scarafaggio. Tabby gridava le parole della canzone. Tutte le loro voci fluirono nuovamente in lei e Patsy rivide se stessa e Tabby sulla strada davanti alla vecchia casa Smithfield. Avvertì un moto interiore e capì che era giunta sulla soglia di quello che aveva solo sfiorato prima che Bates Krell venisse a terrorizzarla. Ora sarebbe toccato a ano degli altri trovarsi nel pericolo dal quale lei era stata appena salvata e quando cercò con gli occhi Richard Allbee vide che era ormai a pochi metri dal Drago. «La canzone!» urlò lui... ...e ciò la sospinse oltre la soglia senza vergogna. Patsy spalancò la mente verso di loro: spiegò le sue ali, più ampie ancora di quelle del pipistrello di fuoco. Era come aprire il proprio corpo, infondere ai compagni la sua stessa essenza, e per un momento si sentì così fisicamente reattiva che le sembrò di vedersi stampate sulla pelle arterie e vene. Un giorno, quasi in preda alla disperazione, aveva scritto un elenco degli uomini con cui pensava di desiderare andare a letto; ora, accettando mentalmente dentro di sé Tabby Smithfield, Richard Allbee e Graham Williams, tendendo le ali sopra di loro, li sentì come unici uomini in tutto il pianeta. Li sentì fondersi dentro di sé e la sensazione fu insopportabilmente violenta e sensuale. Tutt'attorno a Patsy i piccoli draghi piombavano giù dal cielo. Ne schiacciò più che poté e altri ne vide rotolare per terra, quanti erano stati gli uccelli caduti alla fine di maggio. E quando li toccava con il piede si squarciavano vomitando fumo e scintille. 5 Fermo a pochi metri dall'ingresso della grotta, Richard sentì Patsy che gli cantava nella mente, con voce più stentorea di prima. Non era più nemmeno una voce, ma l'essenza stessa del suo corpo, il flusso del sangue nelle sue vene, il martellare del suo cuore. L'enorme testa nera e verdastra del Drago si chinò verso di lui: sembrava disorientato. Richard sentiva i piccoli mostri precipitare e sbattere sulle rocce. Alzò la spada calcolando di avere un cinquanta per cento di probabilità di avvicinarsi al collo del
mostro abbastanza per poter calare la spada prima che tornasse in sé. Richardrichard Allora sentì Patsy McCloud irrompere dentro di lui, nella testa e nel corpo, nel cuore e nel petto e nei polmoni e negli occhi e nelle mani, con tale impeto che per poco non ne restò travolto. Ne sentiva il sapore: in un momento di vivida percezione udì la sua voce riempirgli il cervello, percepì nella mente gusti che erano quelli di lei. Gli parve di staccarsi dal suolo, come se la presenza di Patsy dentro di lui avesse annullato la legge di gravità. Guardò su e vide due piccoli draghi piombare dal cielo come pipistrelli morenti. Non sapeva se vedeva con i propri occhi o con quelli di Patsy. Con uno slancio disperato rivolse la mente verso di lei, come travasandosi, perché quella era la sensazione che stava vivendo, come due liquidi che si mescolano nella medesima brocca. Subito entrambi superarono persino i limiti dell'intimità entrando in un regno di assoluta consapevolezza e accettazione, una sorta di stanzetta rosea e pulsante dove erano totalmente rivelati: come se lui e Patsy McCloud fossero stati sposati da quarant'anni e ciascuno conoscesse dell'altro ogni più piccolo desiderio, ogni difetto, ogni particolare. E questa conoscenza era in un certo modo sessuale e sensuale. Un piccolo drago delle dimensioni di uno scoiattolo cadde ai suoi piedi; pochi istanti dopo dalla sua pelle coriacea si alzò un filo di fumo. Graham Williams e Tabby Smithfield erano giunti in fondo al pendio, davanti alla grotta, ed erano esposti al Drago. Patsy era rimasta isolata, trattenuta da quello slancio spirituale che Richard non aveva nemmeno cominciato a comprendere. Richard sentì invece Graham e Tabby intonare ancora quella canzone pazzesca. Il piccolo drago ai suoi piedi era completamente avvolto da una nuvola di fumo. Da quella specie di cartoccio veniva un crepitio come di carne che frigge. Anche Patsy cantava, ma la sua bocca restava chiusa. La spada nella mano di Richard assunse un colore più intenso, e vibrò come la bacchetta di un rabdomante. Brillava ancora di una luce dorata e rossastra e l'impugnatura gli riscaldava la mano e tutto l'avambraccio. Il respiro di Patsy dilatava i polmoni di Richard. Accanto a lui Tabby e Graham erano circondati da un tremulo bagliore dorato identico a quello della spada. Un altro drago minuscolo rotolò giù per i massi e si ruppe in due pezzi
infuocati. Richard ebbe tempo di pensare: non è possibile che stia succedendo. Il vecchio Drago gigantesco sulla soglia della tana voltò la testa e lo fissò con i suoi occhi privi di pupilla. Le grandi fauci si spalancarono. Richard si spostò lateralmente sfiorando con il piede qualcosa di caldo e scivoloso e il Drago lo seguì con i suoi occhi di pietra. Un'ondata di terrore lo raggelò per un istante. Il respiro di Patsy gli vibrò di nuovo nei polmoni e allora Richard urlò: «Il pettirosso rosso, rosso!» Non si sentiva più sicuro delle parole della canzone, ma vedeva nella mente Patsy, la vedeva nuda nella stanzetta rosa dove erano totalmente fusi insieme; e poi vide Laura dietro di lei, nuda a sua volta, con il suo ventre gonfio e stupendo. Fu investito da un coro di risa femminili. Arrivavano da tutte le parti, arrivavano dal mondo stesso. Richard urlò: «Addormentati!» e alzò la sua spada lucente. Poi il suo sogno, il loro sogno, prese vita attorno a lui e non seppe più se era sveglio o dormiva e gridò: «Addormentati!» di nuovo e avanzò di un passo. La terra tremò e un fluido nero scese gorgogliando fra i massi e dai pendii rotolarono zolle e pietre. Richard avanzò verso il Drago in attesa e sentì qualcuno gridare: «Addormentati! Addormentati!» Le rocce piatte erano sommerse da quello schifoso liquido nero, ma Richard sentiva le donne ridere e sapeva che non poteva niente contro di lui, non poteva nemmeno lambirlo. E credette anche di sapere che cosa fosse: la sostanza nera che gocciolava dalla bara di Emma Bovary. Lui e Laura avevano abbandonato il libro prima di averlo finito, insieme con un milione di altre cose lasciate a metà. Un incendio si sprigionò davanti a lui, avvolgendolo, ma Richard sapeva che poteva attraversare tranquillamente le fiamme: anch'esse non avevano alcun potere su di lui. Quello che gli altri tre videro fu Richard Allbee avanzare verso il Drago passando attraverso una barriera di fiamme come se nemmeno esistesse: era come se Richard fosse protetto da un'armatura d'amianto. Lo videro alzare la spada in mezzo alle fiamme. Lo sentirono gridare: «Sveglia!» mentre la calava. Richard non poté sentire che cosa stava gridando e per la verità non si rese nemmeno conto di farlo. L'alito del Drago soffocò ogni altro rumore. Le sue zanne aguzze erano grandi come una cancellata. Fra le lingue di
fuoco Richard si sentì investire da odori di morte e putrefazione, dal puzzo insopportabile che li aveva accompagnati lungo il cammino nel tunnel. Attaccò calando la spada di traverso sul lungo muso della creatura. La lama affondò nelle carni del Drago, poi scivolò su qualcosa di più solido, staccando un brandello color verde scuro. Dalla piccola ferita colò fuoco liquido. Il Drago indietreggiò di pochi centimetri, ruggendo. Quando Richard si fece nuovamente sotto, il mostro allungò il collo e per un soffio non lo serrò fra le mascelle. Di punta, Richard lo ferì alla bocca. Poi si buttò all'indietro evitando con un colpo di reni le zanne del Drago. Questa volta riuscì ad affondargli per intero la spada poco sopra la gola. Dalla ferita uscì uno schizzo di fuoco, mentre il Drago urlava di dolore e si lanciava nuovamente in avanti. La lunga testa cercò nuovamente Richard che, invece di tentare di schivarlo, sollevò la spada e la calò con tutte le sue forze. La lama affondò nel muso del Drago. Un torrente di fuoco scaturì dalla sua bocca. Infuriato, il Drago lanciò un grido alzando il muso. La spada palpitava nella mano di Richard, che avanzò portandosi sotto la lunga curva del collo della creatura. Allora impugnò la sua arma con entrambe le mani, raccolse tutte le sue energie e vibrò un micidiale fendente. La spada penetrò nelle carni lacerando la pelle stessa e giungendo all'osso. Richard impegnò tutte le sue forze e cominciò a segare febbrilmente. Fiamme liquide gli cadevano sulle mani... poi il Drago esplose. Richard vacillò all'indietro, sottraendosi alla montagna di fuoco, mentre le fiamme sommergevano i massi. La spada gli cadde dalle mani, ma non era più una spada. Disse: «Sveglia» e crollò in ginocchio. 6 Graham e Tabby vennero lentamente avanti. Avevano la gola riarsa e le gambe tremanti. Richard era ancora in ginocchio, curvo in avanti, e quasi sfiorava con la testa l'ombra che disegnava sulla pietra. «Richard?» lo chiamò Graham con la sua voce bassa. Richard trasalì. «Stai bene?» domandò Tabby. Richard non poteva o non voleva guardarli. «No», rispose. «Ce l'hai fatta, Richard», gli comunicò pacatamente Graham. «Ditemi voi che cosa ho fatto», chiese Richard rivolto alla pietra. «Meglio ancora, te lo mostro», ribatté Graham. «Non devi nemmeno camminare. Ti basta alzare la testa.»
Richard ubbidì e gli altri due lessero sulla sua faccia sconvolta un grande smarrimento: sembrava invecchiato di quindici anni. Rughe profonde gli solcavano le guance. Tremava ancora ed era molto pallido. «È di nuovo giorno», osservò. Graham e Tabby non si erano nemmeno accorti che era ricomparso il sole. Richard notò la loro espressione e disse: «Spero di non avere una faccia peggiore della vostra». Si passò le mani tremanti sul viso. «Che cosa volevate mostrarmi?» «Eccola, eccola che viene», esclamò Graham improvvisamente nervoso e intimidito. «Patsy.» Tabby si voltò, come ipnotizzato, e Richard si aggrappò a un braccio di Graham per alzarsi in piedi. Patsy stava scendendo in quel momento l'ultimo tratto di pendio e si fermò sui massi in mezzo a una leggera frana di pietrisco. Era arrossita, ma c'era in quella donna esile l'orgogliosa sicurezza di una grande vittoria, un sentimento quasi epico. Se in quel momento uno qualsiasi di loro si fosse trovato da solo in compagnia di Patsy, l'avrebbe abbracciata e sarebbe scoppiato a piangere; ma date le circostanze nessuno osò dare sfogo al proprio stato d'animo. «Oh, Patsy», mormorò Tabby. «Come hai...?» Lei venne avanti scrollando la testa. Il rossore dei suoi zigomi era intenso. Tabby cercò di comunicare con lei, ma i suoi pensieri non spiccarono il volo come solevano fare in passato e il suo messaggio si scontrò con il nulla. Il terreno tremò sotto di loro, ma quasi non lo notarono. «Voglio farti vedere...» cominciò Graham, ma anche la sua voce tremò. «Prendetemi», lo interruppe Patsy lanciandosi verso di loro con le braccia tese. Così tutti la cinsero in un circolo stretto e nessuno degli uomini poté sfuggire alla sensazione di appartenere ormai a Patsy McCloud. Finalmente Patsy fece un passo indietro e si staccò dall'abbraccio collettivo. «Volevi mostrarmi qualcosa, Graham caro», mormorò. Questa volta fu Graham ad arrossire. Le indicò il punto in cui poco prima si trovava l'ingresso della tana del Drago. Era scomparso, insieme con tutti i piccoli mostri. C'era invece, appoggiato contro la roccia, un piccolo scheletro. Aveva le gambe leggermente deformate. Il teschio, grande e lungo, sembrava appartenere a un altro corpo. Nella calotta e sopra la nuca si aprivano quattro fori grossi come monetine. Sotto i loro piedi i massi si spostarono percettibilmente verso sinistra e
subito si ricomposero. «Dunque i nostri antenati lo ammazzarono tutti insieme o forse gli spararono uno dopo l'altro, chissà. Comunque, lo uccisero insieme.» Graham si infilò le mani in tasca e rivolse agli altri uno sguardo orgoglioso. «E noi abbiamo fatto anche di meglio. Credo che quel mostro sia finito per sempre.» I massi tremarono di nuovo sotto di loro e dal vertice di Punta Kendall giunse una serie di tonfi e schianti seguiti dal rumore di oggetti pesanti che venivano gettati in mare. Caddero sassi staccandosi dai pendii. Patsy ne fu spaventata e Richard la prese per un braccio incamminandosi immediatamente su per il declivio, verso la terra ferma. Giunto quasi alla strada, lasciò Patsy, intimandole di aspettarlo, e tornò indietro ad aiutare Graham. Quando si voltò a guardare verso la Punta vide che la sezione estrema del promontorio si era sgretolata precipitando nei flutti. Un enorme crepaccio divideva dalla lingua di terra l'ultima propaggine e un susseguirsi di frane stava precipitando un altro tratto di terra nelle acque dello Stretto. Richard scese, per metà scivolando e per metà correndo, rischiando di travolgere Tabby Smithfìeld che arrancava trascinando Graham. Afferrò il vecchio per l'altro braccio e con l'aiuto di Tabby lo issò sopra il ciglio senza tante cerimonie. «Immagino che debba ringraziarvi», borbottò Graham. Raggiunsero Patsy vicino al muretto e si fermarono a guardare Punta Kendall che si sgretolava. Via via che il terreno franava anche larici e abeti venivano ingoiati dalle acque. Per pochi attimi ancora scorsero lo scheletro di Gideon Winter agitare le braccia e le gambe come se avesse riacquistato vita, prima di sprofondare nei flutti. Fu immediatamente seppellito da un lastrone di roccia. Quindi un nuovo crepaccio squarciò il terreno correndo verso di loro. Scavalcarono rapidamente il muretto rifugiandosi sulla strada. «Oh, mio Dio», mormorò Tabby puntando il dito verso il bar che si affacciava sulla Punta. La distruzione non era finita. Una fessura enorme sfrecciò verso l'edificio, come se fosse guidata dal preciso proposito di divorarlo. Il cortile sprofondò in una voragine e le mura di cemento si spezzarono con uno schiocco secco. L'intera costruzione scivolò di qualche metro. Allora udirono le urla. La porta si spalancò e corsero fuori tre giovani donne e quattro o cinque uomini di mezza età. Due degli uomini avevano con sé bottiglie di birra. Il drappello terrorizzato si fermò nella strada a guardare l'edificio che, con un sussulto, sprofondava nel crepaccio.
Allora i superstiti si voltarono a guardare sbigottiti i quattro amici. Una delle donne e due degli uomini avanzarono persino di un passo, sebbene titubanti. Era la prima volta che Patsy, Richard, Tabby e Graham vedevano quell'espressione di stupore alla quale si sarebbero poi abituati. Li metteva a disagio. «Cristo», disse uno degli uomini e tutti si voltarono dall'altra parte. Le vecchie case fatiscenti allineate poco oltre il bar avanzavano, simili a giocattoli meccanici. Mentre procedevano, si andavano disfacendo, perdendo nella loro scia calcinacci e travi di legno. La voragine che aveva ingoiato il bar le spingeva inesorabilmente verso un tratto di sabbia troppo squallido per essere definito spiaggia. Con un'ultima scrollata le fece rotolare nell'acqua, poi anche la sabbia precipitò all'improvviso nel crepaccio. Dall'altra parte, in direzione di Greenbank e di Mount Avenue, giungeva l'eco del crollo di un'altra grande villa. Poi la distruzione cessò. Un silenzio perfetto e pieno di stupore echeggiò nell'aria salendo verso l'alto, turbato solo dal fruscio di una lucertola nella sabbia e dal tonfo di un'ultima pietra smossa che precipitava nella voragine. Il gruppo di sopravvissuti del bar teneva gli occhi fissi su Richard e gli altri. Gli uomini osservavano Patsy con un'espressione di palese soggezione: anche loro avvertivano la presenza dell'alone che la circondava. «Andiamo a casa», disse Graham. Tabby gli chiese se credeva che anche Greenbank fosse stata devastata. «Lo sapremo presto. Restiamo insieme finché non ci siamo allontanati da questa gente.» Si misero tutti intorno a Patsy e si incamminarono lentamente per la strada. Il gruppo si ritrasse per lasciarli passare. Nessuno parlò, ma Richard e gli altri percepirono le loro emozioni confuse. Quando Bobo Farnsworth uscì boccheggiando dalla boscaglia alla loro sinistra, avendo evidentemente imboccato una scorciatoia da Mount Avenue, i quattro amici si fermarono. Gli occupanti del bar, alle loro spalle, si stavano già allontanando. 7 Bobo si arrestò a un paio di metri dalla strada. Aveva l'uniforme blu sporca di fango e i pantaloni, fradici, gli aderivano alle gambe. Sembrava improvvisamente timido, quasi timoroso di presentarsi al cospetto di quei
quattro individui. Guardò Patsy e poi Richard Allbee e poi di nuovo Patsy. «Ah», esclamò. «Volevo vedervi.» Sul suo viso apparve un'espressione desolata. Fece per spostarsi di lato, poi trovò finalmente il coraggio di venire avanti e raggiungerli. «Che cosa è successo, Bobo?» gli domandò Richard. «Sono rimasto senza benzina», rispose il poliziotto. «Non se ne trova più in tutta la città. Sapevo di essere in riserva, ma pensavo di riuscire ad arrivare almeno fin qui. Ho dovuto fare di corsa mezza Mount Avenue e poi sempre a piedi, attraverso Hillhaven.» Sbirciò nuovamente Patsy. Aveva ancora il fiato corto. Quella sua intima angoscia gli fece tremare di nuovo la bocca. «Non chiedetemi perché, ma sapevo che vi avrei trovati qui... e sentivo che dovevo essere con voi. È successo... non si...» si portò le mani alla faccia, nascondendosi come un bambino. «Credo che Ronnie stia morendo. Forse è già morta. So che ci è andata vicina questa notte», mormorò con voce rotta. «Stamane mi ha ordinato di andarmene. Non mi voleva con lei.» Guardò con aria assorta la ghiaia ai lati della strada. «Ho paura di tornare a casa sua. Non so se ce la farei, se la trovassi morta.» «Io credo che scoprirai che si sta riprendendo», gli disse Graham. «Anzi, ne sono sicuro. E scommetto che sarà felice di vederti.» Si sarebbe scoperto che era vero solo al cinquanta per cento. «Davvero?» «Così ho detto.» Il poliziotto annuì. Con voce molto seria disse: «Grazie. Grazie di tutto, voglio dire». Nessuno gli rispose e Bobo sembrò sulle spine per un momento. «Be', immagino che possiamo tornare tutti insieme.» «Se vuoi», concesse Richard. Si avviarono in silenzio. Bobo aveva più fretta degli altri e continuava a precederli per poi fermarsi ad aspettarli. «Tu puoi anche andare, Bobo», lo rassicurò Graham. «Non ci offendiamo. È chiaro che sei ansioso di tornare da Ronnie.» «Preferisco venire con voi», ribatté Bobo. All'altezza della spiaggia di Hillhaven Richard dovette praticamente trasportare Tabby di peso. Graham e Patsy arrancavano verso la Beach Trail per forza d'inerzia. Nessuno aveva reagito agli stentati tentativi di conversazione da parte di Bobo e tutti facevano del loro meglio per ignorare le sue frequenti occhiate. «Ci siamo quasi, Patsy», disse Graham e Bobo fece eco: «Sì, manca poco».
Raggiunsero la sua automobile ferma sotto gli alberi sul ciglio della strada. «Dannata bastarda», inveì Bobo dando una manata sul tetto del veicolo. Proseguirono per un'altra ventina di metri in silenzio poi Bobo esclamò: «Mio Dio, guardate che roba!» La casa di Mounty Smithfìeld era precipitata giù per il colle lasciando nel paesaggio un vuoto pauroso e disordinato. Dalle tubature rotte sgorgavano getti d'acqua; mozziconi di pilastri spuntavano inutilmente dalle fondamenta. C'era ancora una grande nuvola di polvere nell'aria. «Oh, mio Dio», ripeté Bobo. «Quella bella villa. Dev'essere finita nell'acqua, vero? Quei terremoti devono averla staccata dalla collina. Non avrei mai creduto che una costruzione così solida potesse...» Scavalcò il mirto per avvicinarsi allo steccato. «Spero che non sia successo anche altrove.» «Questa è l'unica», lo tranquillizzò Graham. «Devo proprio andare a vedere», si scusò Bobo. «Forse c'è qualcuno che ha bisogno d'aiuto.» Ma era indeciso, sembrava che non volesse separarsi da loro. «Voi tornerete a casa sani e salvi, vero?» «Probabilmente», gli rispose Graham riprendendo con i compagni il cammino. «Ma perché solo questa ha fatto una brutta fine?» chiese Bobo. «Arrivederci, Bobo», lo salutò Graham. «Sei un bravo ragazzo. Vedrai che tutto si sistemerà.» «Vi ho visti! Vi ho visti a Punta Kendall!» sbottò all'improvviso Bobo e fu evidente che era quella la ragione della sua preoccupazione fin da quando si era imbattuto in loro. Anche Patsy e Tabby lo guardarono. «Ero su un'altura e vedevo fin quasi nel fondo di... quel canalone.» Sembrava che si vergognasse, che temesse di essere accusato di averli spiati. «Ma che cos'era quella cosa che c'era laggiù? Voi stavate combattendo, vero? È così, vero?» «Che cosa hai visto?» gli domandò Richard. Istintivamente gli si erano avvicinati. «Non so, una specie di animale. Molto grosso. Ah... non so nemmeno se dovrei dirlo, ma... aveva una faccia umana?» «Vorrei poterti rispondere», disse Richard. «Credimi, Bobo, vorrei tanto.» «Già. Piacerebbe anche a me.» Bobo fece una pausa. «Adesso è meglio che vada a dare un'occhiata a quelle macerie», ma si trattenne ancora da-
vanti al recinto. «Abbiate cura di quella signora, adesso.» «Ci vediamo», lo salutò di nuovo Graham. Nessuno dei quattro udì Bobo muoversi prima che avessero raggiunto l'angolo di Beach Trail. Graham aprì la porta di casa e fece entrare gli amici. Appena messo piede dentro Patsy si appoggiò alla parete abbandonando la testa sul petto. «Scusatemi. Non ho più un briciolo di energia.» Richard e Tabby cercarono di soccorrerla. Fu Graham che la sostenne con la spalla e l'aiutò a passare in soggiorno. «Devo sdraiarmi per qualche minuto», lo pregò Patsy. Graham la guidò al divano e l'aiutò a distendersi sul fianco. Patsy stava già chiudendo gli occhi. Graham le prese le gambe per posargliele sul divano, quindi andò a cercare una coperta. Quando gliela stese sopra notò che, sebbene dormisse, il viso di Patsy era ancora teso. «Puoi accomodarti, Tabby», disse Graham. «Patsy non andrà da nessuna parte per un paio d'ore.» «Neanch'io», rispose Tabby allontanandosi dal divano per raggiungere la sedia della scrivania di Graham. Poi si fermò, si voltò a guardare Patsy e tornò al divano. Anche Richard non era stato capace di allontanarsi troppo da Patsy ed era rimasto in piedi accanto al tavolino a guardarla. «Mi sembrate i leoni della biblioteca», commentò ironicamente Graham. «Fatemi un favore: sedetevi. Nessuno andrà via da qui per un pezzo. Sono d'accordo con Tabby.» «Bene», concluse Richard sistemandosi sulla vecchia poltrona di pelle. Tabby si sedette accanto al divano. Era abbastanza vicino da potere accarezzare i capelli di Patsy. «Così va meglio», commentò Graham. «Io bevo qualcosa. Più tardi andrò a letto. Mi sembra di essere rimasto in piedi per tre giorni e tre notti di fila, ma sono sicuro che voi resterete qui finché non avremo stabilito altri piani.» «Non voglio altri piani», ribatté Richard. «E va bene», si arrese Graham con un sorriso. «Qui c'è tutto lo spazio che si vuole. Di sopra ci sono delle stanze dove non metto piede da quindici anni. Okay. Mi fa piacere.» «Resto anch'io?» domandò Tabby improvvisamente allarmato. «Se osi muovere un dito per andare da qualche altra parte, ti incateno alla mia scrivania», lo ammonì Graham. «Bene. Tutto sistemato. Nessun altro beve qualcosa? Ho ancora un po' di quel gin che piace tanto a Patsy.» Tutti e tre fissarono la giovane donna che dormiva.
«Ci sto», disse Richard. «Anche a me un po'», fece eco Tabby. «Se...» «Oggi puoi avere tutto quello che vuoi», lo precedette Graham. Andò in cucina e cominciò a mettere ghiaccio nei bicchieri. Tabby ricordò Berkeley Woodhouse che batteva la vaschetta dei cubetti di ghiaccio sul lavello di casa. «Richard?» chiese il ragazzo. «Sì?» «Va bene se restiamo qui per un po'?» «Sì.» «Tutti insieme?» «Tutti insieme.» «Non voglio andare da nessun'altra parte.» «Lo so. È così per tutti, Tabby.» «Credi davvero che quel poliziotto abbia visto un animale con una faccia umana?» Richard si lasciò andare contro lo schienale. «Parleremo probabilmente di Punta Kendall per il resto dei nostri giorni. In questo momento mi sembra prematuro, Tabby. Non so nemmeno che cosa pensare.» Graham tornò con tre bicchieri pieni per metà di ghiaccio e di liquido trasparente. «È così, Tabby. È troppo presto. A proposito, nel tuo ho messo qualche goccia d'acqua.» Distribuì i bicchieri, quindi posò il suo tavolino davanti al divano. «Torno subito. C'è qualcosa che devo fare finché ne ho il coraggio.» Tabby bevve un sorso e fece una smorfia. «Secondo voi questa roba sarebbe buona?» «Riteniamo che sia fra i veleni migliori.» Udirono i passi lenti e pesanti di Graham che saliva le scale. «Che cosa vuol fare?» «Glielo chiederemo quando scenderà.» «Non credo che potrò mai separarmi da Patsy», affermò il ragazzo. «Già», borbottò Richard. «Io credo di non potermi separare nemmeno da questa poltrona.» Graham ridiscese pesantemente le scale e riapparve con una risma di carta alta una ventina di centimetri. In silenzio passò tra loro e scomparve in cucina. Qualche secondo dopo Richard e Tabby sentirono il tonfo di qualcosa di pesante che cadeva sul fondo di una pattumiera di plastica.
Graham fece ritorno in soggiorno con una strana espressione di gioia sul volto. Raggiunse zoppicando il tavolino, prese il suo bicchiere e tracannò un terzo del contenuto. Finalmente andò ad accomodarsi sulla seggiola dello scrittoio. «Beatitudine», sospirò. Sorrise al bicchiere e poi a Patsy che dormiva. «Mi sento proprio libero. Ho passato tanto di quel tempo su quel libro che non ero più capace di confessare a me stesso che era morto già da un anno. Ci giravo attorno senza concludere niente. Non voglio più nemmeno vederlo.» «Hai buttato via il tuo libro!» esclamò Tabby sbigottito. «Ho scritto tredici romanzi», rispose Graham con calma. «Arriverò al quattordicesimo prima di lasciare la scena.» Bevve un'altra lunga sorsata di gin e aggiunse: «Credo che per un po' mi limiterò ad aiutarvi a prendervi cura di Patsy». Per qualche tempo non parlarono più e il silenzio si riempì dei loro pensieri. La guardavano respirare sotto la coperta. Tabby abbassò la fronte sulle ginocchia. Le labbra avevano preso a tremargli e gli occhi improvvisamente gli bruciavano. «Coraggio», lo incitò Graham. «Non temere.» Tabby rialzò la faccia e dovette guardarla di nuovo. «Ci ha...» cominciò senza riuscire a continuare. «Ci ha...» Non riusciva a dirlo. «Lo so», intervenne Richard. «Ci ha sposati.» Di slancio Tabby si drizzò sulle ginocchia e baciò Patsy McCloud su una guancia. «Sì», disse Richard. Posò il suo bicchiere per terra e passò attorno al tavolino per posarle le labbra sulla fronte. Poi Graham attraversò zoppicando la stanza e baciò Patsy appena sopra il sopracciglio sinistro. Fu come un rito. Come il suggellarsi di un contratto o l'accettazione cosciente di un sacramento, e avrebbe dovuto dare il via a qualche trasformazione immediata e importante. Invece erano immobili attorno a lei e Patsy dormiva. Graham borbottò qualcosa e tornò alla sua seggiola. Tabby si sedette di nuovo per terra. Richard sprofondò nella vecchia poltrona di pelle. Nessuno parlò. Graham finì il suo gin, si rigirò il bicchiere fra le mani e si sentì invadere da una gioia infinita. Gli faceva male il petto, gli bruciavano i piedi, da cinque minuti aveva buttato via chissà quanti anni di duro lavoro (e già si chiedeva se non valesse la pena di recuperare alcune di quelle pagine dalla spazzatura), era sfinito e ai limiti dell'allucinazione, eppure per un tempo immisurabile fu spensieratamente, beatamente felice. Ciascuna delle tre persone ospiti del suo soggiorno brillava di un'essenza speciale e necessaria: brillava come la spada impugnata da Richard a Punta Kendall.
Ma si era svolta davvero quella scena in quel luogo e in quel modo? Non aveva importanza. Mai in tutta la vita si era sentito così felice. Riaprì di scatto gli occhi e per poco non gli sfuggì il bicchiere di mano. Richard e Tabby dormivano innocentemente, come Patsy McCloud. Graham si issò faticosamente in piedi, portò il bicchiere in cucina e ripescò dalla grossa pattumiera di plastica i capitoli più accettabili. Poi salì le scale lasciando nel soggiorno gli amici addormentati. Dopo la luna Dopo che la luna fu spuntata e tramontata una ventina di volte, Hampstead era quasi tornata alla normalità. Le visioni che avevano fatto capolino dagli armadi, che avevano bussato alle porte delle case e che infine avevano scorazzato libere per le strade, erano ormai al sicuro nelle sacche meglio serrate della mente. Hampstead cominciò a contare le perdite e a piangere i suoi morti: era pronta a ricongiungersi con il mondo e il mondo, nel bene o nel male, non solo accoglieva volentieri il ritorno di Hampstead, ma la colmava di premure. Come ogni città colpita dalla sventura, Hampstead era pallida e smagrita, ma adesso tornava a reggersi in piedi e camminare e dalla sua voce era scomparsa ogni traccia di squilibrio mentale. Non rappresentava più una minaccia: era una vittima valorosa. I posti di blocco furono tolti e accorsero in massa giornalisti, corrispondenti e telecamere. Alla fine quasi tutti i cittadini di Hampstead poterono dire di avere parlato a un reporter o di essersi trovati gomito a gomito con un intervistato e le quattro persone che risiedevano nella casa di Graham Williams non fecero eccezione. Durante quell'arco di tempo in cui sembrava che la vita imitasse la normalità più che averla effettivamente riconquistata, Patsy, Richard, il vecchio e il ragazzo si trovarono spesso a riflettere che quello che stava succedendo a loro non era meno straordinario di ciò che era accaduto in precedenza. Per cominciare ci fu la questione che Richard definiva della loro «celebrità». Per una settimana nessuno di loro poté uscire dalla casa di Graham senza che si formasse subito un piccolo codazzo. A Patsy accadde che mentre faceva compere al Greenblatt's, ancora semidevastato, una donna anziana carica di pesanti braccialetti d'oro le accarezzasse tremebonda un braccio con il pretesto di ammirare la sua camicetta. Un'altra donna, molto più giovane, abbracciò Tabby Smithfield nel par-
cheggio municipale. Anche la stampa faceva la posta ai quattro amici ogni volta che ne aveva l'occasione. A nessuno di loro piaceva uscire. Desideravano esclusivamente la reciproca compagnia, ma quando erano costretti a lasciare la casa si ritrovavano quasi sempre davanti qualcuno armato di penna e taccuino o di un microfono. La difficoltà era dare risposte sensate e accettabili. Non potevano certo lasciarsi sfuggire allusioni sui loro rapporti con un certo Gideon Winter, unico argomento che occupava la loro mente in quei giorni. La cittadina era in subbuglio per le denunce contro la Telpro Corporation e per le inchieste del dipartimento della Difesa, ma finora Richard Allbee e gli altri avevano evitato accuratamente di esporsi. «Oh, direi che questa città si sta rimettendo in piedi», dichiarò Richard alla CBS. «E buffo, ma molti di noi quasi non ricordano che cosa è successo quest'estate.» «Devo confessare che mi sono occupata prevalentemente di affari personali, che avevo dovuto trascurare durante l'estate», si giustificò Patsy con un giornalista di Newsweek. «Non ho in progetto di far causa a nessuno.» «Siamo gente coriacea», asserì Graham intervistato dall'NBC. «Nessun gas può metterci in ginocchio a lungo.» «Perché, quest'anno c'è stata un'estate?» domandò Tabby all'Eyewitness News. Dopo una settimana gli sguardi curiosi e le domande si diradarono; dopo due settimane erano ridiventati anonimi cittadini, con loro enorme sollievo. I treni della Conrail ricominciarono a fermarsi alle stazioni di Greenbank, Hillhaven e Hampstead. I negozi di generi alimentari furono riforniti appena grossisti e spedizionieri vennero informati che Hampstead non rappresentava più un pericolo per i loro autocarri. Sul finire di settembre tutte le finestre di Main Street erano state rimpiazzate. Una settimana dopo Graham, impegnato con Richard nelle riparazioni del telaio della finestra e delle pareti, vide un passerotto sfrecciare tra gli alberi in fondo al suo giardino. Pochi giorni dopo riapparvero ad Hampstead volatili di ogni specie: gabbiani, pettirossi, cardellini, tordi e grossi corvi neri. Tornarono anche gli uccelli migratori. Una mattina Graham e Patsy incontrarono Evelyn Hughardt che si stava recando alla spiaggia. La videro scendere dalla sua automobile e quando Graham disse: «Salve, Evvy, sono contento di rivederti», lei gettò un'occhiata al suo orologio, alzò gli occhi verso di lui e rispose: «Ah, sì?» avviandosi verso casa. «Adesso sono sicu-
ro che tutto sta tornando alla normalità», commentò Graham. Charlie Antolini ingaggiò un imbianchino e sgomberò la casa di tutti i mobili che aveva dipinto di rosa accatastandoli sul marciapiede. Un televisore, due divani, una serie di seggiole, il grande tavolo della sala da pranzo. Vedere quei mobili dall'assurdo colore riportò a Graham le sensazioni di quell'estate. Ricordò l'odore del colluttorio di Norm Hughardt quando aveva rovesciato il suo corpo; il sapore di salmastro sulla tempia di Patsy addormentata quando l'aveva baciata. Venti minuti dopo venne un camion di un'associazione benefica a portar via i mobili. A volte, e questo accadde per lungo tempo, la vista di un refuso sull'Hampstead Gazette diede a Graham un brivido e risvegliò il ricordo del periodo in cui erano sospese tutte le regole e le convenzioni. Ma per la verità ora non c'erano più refusi che in passato. L'unica differenza fra la Gazette di settembre e quella di aprile o maggio era l'assenza della rubrica dei pettegolezzi. Sarah Spry non era stata una scrittrice brillante e tuttavia non si era riusciti a sostituirla. I pazienti del dottor Chaney, in un certo senso vittima a sua volta di quell'estate, erano tutti morti verso la metà di ottobre, quando ormai non avevano più alcuna parvenza umana. Per Chaney finì un incubo e si preparò a scrivere un libro. Cinque settimane dopo la conclusione del dramma, Richard e Tabby si trasferirono sull'altro lato della strada nell'abitazione di Richard. Questa separazione, temuta ma razionalmente accettata come inevitabile, fu resa necessaria anche dal fatto che la casa di Graham non poteva ospitare quattro persone. Le camere inutilizzate al piano di sopra erano dei forni nella stagione calda e ghiacciaie d'inverno. Così Patsy dormiva sempre sul divano e Tabby si era ricavato un giaciglio in una stanzetta accanto alla cucina. Se Graham fosse stato disposto ad abbandonare la sua casa, molto probabilmente si sarebbero trasferiti tutti in quell'altra e sarebbero rimasti insieme per qualche altra settimana, nonostante il disagio. Ma Graham aveva nostalgia della sua solitudine e Richard Allbee voleva occuparsi di casa sua, per lavorarci o per venderla. Il bisogno ossessivo di restare sempre insieme si era attenuato. La realtà, il mondo attorno a loro li reclamava, e avevano cominciato a rispondere ai richiami. Tabby riprese a frequentare la scuola e Richard sentì il bisogno di avere un luogo tranquillo dove studiare. Desiderava anche tornare a lavorare regolarmente. Il vecchio non aveva mai pensato che Richard avrebbe venduto la sua
casa e non rimase minimamente stupito quando Allbee gli comunicò di avere deciso di tenerla. «Hai intenzione di adottare Tabby?» gli domandò Graham. «Mi piacerebbe», rispose Richard accettando coscientemente l'idea per la prima volta. «Capisco», ribatté Graham: non aveva alcun diritto di chiedergli anche di Patsy. Tutti l'amavano, ma in una maniera che misteriosamente ma recisamente proibiva un'espressione fisica di questo sentimento. Graham non avrebbe saputo spiegare perché, ma quello che Patsy aveva fatto per loro a Punta Kendall aveva sprangato quella porta per sempre. Seguendo il tipico rituale della vita di provincia, i quattro si riunivano spesso per cenare insieme, uscire a passeggio, bere qualcosa o andare al cinema. Richard scoprì che non c'erano ostacoli al suo desiderio di adottare Tabby e avviò le procedure legali verso la fine di ottobre. Graham e Patsy rimasero insieme per qualche tempo, come un padre e una figlia. Ma alla lunga Graham si accorse che i loro ruoli si erano invertiti. Invece di essere lui a prendersi cura di Patsy, adesso era lei che lo proteggeva, lo vezzeggiava, lo assisteva addirittura! Per Graham tutto ciò era sconcertante. Non voleva sentirsi così vecchio. Come Richard, voleva tornare al suo lavoro e alla fine Patsy decise di testa sua. Fu Richard Allbee a indirizzare Graham. Poco prima di Natale si trovarono nel soggiorno di Graham a bere un bicchiere insieme. Un alberello di plastica su uno scaffale era l'unica concessione alla festività. Ora Graham viveva da solo e nel segreto del suo cuore si rallegrava che la donna che più amava non cercasse più di preparargli la colazione ogni mattina. Anche Richard era solo perché Tabby era ad Aspen, presso la famiglia di un compagno di scuola. I due uomini celebravano il loro piccolo Natale. Richard aveva messo ad arrostire un'anatra e aveva portato con sé due bottiglie di buon Margaux per accompagnarla. «Ehi, io sono un ex alcolista», protestò Graham. «Non posso farmi fuori un'intera bottiglia di questa roba!» Si era messo in ghingheri per il cenone: in soffitta aveva recuperato una giacca da sera in velluto verde con risvolti in raso e l'aveva indossata sopra una camicia di lana blu stirata con cura e una cravatta di maglia a strisce orizzontali. Ai piedi aveva un paio di grosse scarpe nere dalle quali non si era nemmeno preso la briga di togliere la polvere. «E allora smetti di bere quel gin», gli rinfacciò Richard. «Oh, ma non lo tocco quasi mai... tranne che nelle occasioni speciali. Lo
sai.» Per un attimo fu come se Patsy McCloud fosse presente nella stanza, tanto esplicita era stata l'allusione. Graham ruppe il silenzio. «Hai notizie di Tabby?» «Mi chiama ogni due giorni. Gli ho appena parlato. Dice che si diverte un mondo. Mi manca, ma sono contento di averlo lasciato andare.» Sapevano che stavano pensando entrambi a Patsy. «Graham», disse Richard, «ancora non so che cosa è successo sul serio.» «No», rispose il vecchio. «Pensavo che con il passar del tempo avrei capito di più. Pensavo che a un certo momento mi sarei convinto che quella storia della Telpro è stata più importante di quanto avevamo creduto.» «Quel laboratorio della Telpro era un fatto autentico di questo mondo», spiegò Graham. «Io credo che Gideon Winter abbia potuto impossessarsene e servirsene a causa del nome: DRG. Un'altra ipotesi è che il nome fosse una semplice coincidenza, che l'incidente sia stato un vero incidente e che Winter ne abbia semplicemente approfittato. Esiste un'altra possibilità, ma non mi piace.» «Che anche noi siamo in parte responsabili di questo incidente», insinuò Richard. «Che abbiamo contribuito a diffondere il veleno nella contea di Patchin.» Graham fece una smorfia disgustata. «Io credo che sia stato proprio come ha dichiarato quel ricercatore, quel Wise. Una carta imprevedibile che il Drago ha sfruttato. Tutto lo stava aiutando a diventare più forte. E avrebbe potuto veramente provocare un'altra Estate Nera. Anzi, l'ha fatto.» Inclinò la testa e contemplò Richard con aria quasi allegra. «Almeno adesso sappiamo che cosa provocò l'incendio al Royal Cotton.» «Tu credi che fosse un drago?» «Tu l'hai ammazzato, no?» «Credo che sia stata Patsy», obiettò Richard. «Qualunque cosa fosse.» Restò in silenzio per un momento. «Dovresti scrivere tutta questa storia, Graham. Dovresti raccontarla così come l'abbiamo vista noi; almeno ne chiariremo un aspetto.» «Sarei troppo tentato di inventare», osservò Graham. «I dialoghi, per esempio. Mi lascerei andare a congetture su quello che è successo a questa o a quella persona. In pratica finirei per scrivere un romanzo.» «Va benissimo. Ci sta anche quello.» Graham annuì. «Ma è ugualmente impossibile. Dopo tutto il parlare che
abbiamo fatto, ancora non so abbastanza di ciò che tu e Patsy facevate in maggio e giugno. Dovrei inventarlo e non mi sorprenderei se ti seccassi per ciò che magari scriverei su di te.» «Ti permetterò di utilizzare i miei diari», propose Richard. «Ci penserò.» «Anche Patsy tiene un diario.» Richard sorrise con malizia. «Lo so. Ci penserò.» Il mattino seguente Graham telefonò a Richard e gli chiese di avere i suoi diari. Due anni dopo, poco prima che Graham Williams finisse di scrivere quell'eccellente libro che s'intitola Il drago del male, Richard Allbee si recò in Francia per una breve vacanza con una moglie nuova, un figlio nuovo e Tabby Smithfield. Aveva da poco completato due importanti restauri nel New England e presto ne avrebbe cominciato uno in Virginia. Era stato invitato da un'associazione di architetti francesi a parlare al loro congresso e Richard era stato felice di cogliere l'occasione per accompagnare a Parigi la sua nuova famiglia. Sua moglie, di dieci anni più giovane di lui e impiegata al Museo di Arte Moderna, parlava un francese quasi perfetto. Sarebbero tornati a casa due giorni prima della data d'iscrizione di Tabby all'università del Connecticut. Il neonato aveva solo tre mesi, non aveva problemi di orario né di trasporto. Richard li condusse in tutti i musei, i parchi e i ristoranti. Tenne la sua conferenza in francese, che aveva imparato dalla moglie e passò splendide giornate passeggiando per le strade, spingendo la carrozzina con Tabby e la moglie al fianco. Poi, due giorni prima della partenza, Richard uscì da solo con la carrozzina, varcò l'ingresso dell'Intercontinental Hotel e, senza alcun motivo particolare, puntò in direzione di Piace Vendòme. Sua moglie era uscita a far compere con Tabby e Richard desiderava che il neonato prendesse una boccata d'aria fresca. Inoltre il suo soggiorno a Parigi era ormai agli sgoccioli e non voleva sprecare nemmeno un minuto dei pochi che gli restavano. Camminò pigramente guardando le vetrine quindi, sempre senza meta, prese la direzione dell'Opera. Dopo avere percorso qualche isolato cominciò a pensare che non gli sarebbe dispiaciuta una birra e si guardò attorno alla ricerca di un caffè all'aperto. Imboccò una strada che non conosceva e vide alcuni tavolini all'angolo. Spinse la carrozzina fino al caffè, scelse uno dei tavolini e si sedette. Ven-
ne il cameriere e Richard fece la sua ordinazione con un accento che sua moglie avrebbe definito «serbofrancese». Poi si mise a osservare i pochi clienti augurandosi che a nessuno venisse in mente di attaccar bottone costringendolo ad esibirsi in qualche altra espressione in serbofrancese. Fu allora che scorse l'uomo brizzolato che gli sedeva dirimpetto, qualche tavolino più in là, e temette che gli stesse dando di volta il cervello. Fu di nuovo nell'estate del 1980, con tutto il suo carico di follie. Riconobbe quella faccia e per qualche istante restò come paralizzato. Il Drago gli aveva mostrato quella faccia in un tunnel senza fine, quando aveva cercato di assassinarlo. Pochi secondi più tardi si rese conto che quell'uomo non avrebbe mai fatto niente di simile. Era quello che sembrava e non un micidiale giocattolo di Gideon Winter. Vide in lui le stesse caratteristiche che aveva notato nell'uomo del tunnel, cioè l'aria da marinaio o da poeta, ma insieme ne scoprì anche la serena mediocrità: era un uomo che si compiaceva di rispecchiare il concetto borghese di poeta. Suo padre doveva certamente essere un buon parlatore, un buon bevitore e anche un buon lavoratore. La sua fondamentale irresponsabilità sarebbe emersa soltanto in condizioni di stress. Aveva certamente molti amici. Richard si accorse di quanto gli somigliasse e pensò che di lì a venticinque anni non sarebbe stato molto diverso da lui. Allora prese il figlio dalla carrozzina e passò nel labirinto dei tavolini. Mostrò all'uomo il neonato e con il cuore che gli batteva forte disse: «Michael Allbee, ti presento Michael Allbee». Uno sconosciuto sollevò verso di lui una faccia perplessa. Non era suo padre. Non somigliava neanche lontanamente all'uomo che aveva visto nel tunnel. Quello era un borghese parigino che lo fissava con aria sbigottita e offesa. Richard batté in ritirata mentre il neonato cominciava a strillare. Mistero dopo mistero. In fretta e furia Richard ripartì con il piccolo Michael, convinto di dirigersi verso l'Intercontinental Hotel, e si perse quasi subito. Forse per l'unica volta in vita sua fu tradito dal suo senso dell'orientamento. Si arrese e fermò un taxi quando il piccolo si mise a piangere perché aveva fame. Non raccontò alla sua efficiente, attraente e aggressiva seconda moglie del suo ridicolo incontro con il «padre», anche perché lei era convinta da sempre che entrambi i genitori di Richard fossero morti. Richard non si sentì veramente tranquillo finché non fu a bordo del gros-
so jet dell'Air France. Mistero dopo mistero. Patsy McCloud era scomparsa dalla loro vita, anche se nessuno di loro aveva voluto accettare fino in fondo questa realtà. Durante le settimane trascorse con Graham Patsy aveva preso l'abitudine di uscire da sola di notte. Graham Williams soleva andare a coricarsi prima delle dieci e non poteva opporsi a queste inspiegabili uscite di cui era consapevole solo a causa del rumore del portellone del box che lo svegliava alle tre del mattino. Quando questo accadeva, Patsy lo accoglieva sei ore più tardi con caffè caldo e ordini precisi per la prima colazione: era risoluta e ciarliera, sembrava riposata e voleva che lui concentrasse la sua attenzione sulle uova. Dozzine di uova. Alla fine confidò a Graham di avere conosciuto un uomo che le piaceva. Era un avvocato di Chappaqua, un vedovo. Per la verità i due si erano conosciuti anni addietro al Club Mediterranée, alla Martinica, dove Patsy aveva trascorso dieci giorni con Les e quattro altre coppie della sua ditta. Il vedovo aveva visto la sua fotografia su Newsweek, si era procurato il suo recapito telefonico all'ufficio informazioni e le aveva telefonato in una delle rare ore che Patsy trascorreva nella casa di Charleston Road. Si chiamava Arthur Powers. Si era ricordato di lei e ciò che soprattutto Patsy aveva apprezzato era che Arthur Powers non l'aveva assillata su quanto era avvenuto durante l'estate. Patsy vendette la sua casa tramite Ronnie Riggley. Hampstead era ancora un comodo dormitorio per New York e la tragedia avvenuta quattro mesi prima non avrebbe scoraggiato l'arrivo di nuovi residenti, anche perché il mercato immobiliare era in ribasso. Les aveva avuto un'assicurazione ipotecaria e una consistente polizza sulla vita. Pur perdendo denaro con la vendita della casa, restò a Patsy una considerevole somma. Patsy passò il Natale del 1980 a Chappaqua con Arthur Powers. Ormai se n'era andata per sempre. Dopo cinque settimane trascorse in casa di Graham si era trasferita a Manhattan, in casa di un'amica: così gli aveva spiegato, senza entrare nei dettagli. «Ti voglio tanto bene», aveva aggiunto per telefono. «Ti voglio bene perché devo volerti bene» e quelle parole avevano turbato il vecchio che aveva provato un gran desiderio di riaverla a casa a tormentarlo con le sue colazioni. Dodici giorni dopo ricevette una cartolina da una qualche isola. Il timbro aveva reso illeggibile la scritta e per quanto Graham si sforzasse gli fu impossibile decifrare il nome della località. Il messaggio era:
AP è una lieta scoperta. Ho tanta nostalgia di voi. Sabbia bianca, sole caldo. Una delizia. Beviti un Bombay martini e pensa a me. Con affetto P. La fotografia mostrava il sole al tramonto, palme, un mare blu. Nonostante il timbro riconobbe il francobollo inglese. Le Bermuda? Ma forse il francobollo somigliava soltanto a quelli inglesi. Patsy gli telefonò da New York, da Chappaqua. Era sempre di fretta, sempre tenera. Lei e Arthur Powers meditavano l'acquisto di una casa insieme. «Casa sua è troppo uguale alla tua! Io sono una ragazza viziata, voglio un buon isolamento», gli disse. Gli mandò un biglietto da visita con un indirizzo: The Birches, 28 Woodland Glen, Chappaqua, New York. C'era anche un foglietto ripiegato: Di nuovo sposata, ma sempre Patsy McCloud. Con tanto amore per tutti sempre e per sempre. Se n'era andata. Definitivamente. Richard conobbe la donna che avrebbe sposato a una festa a New York e le chiese se fosse mai stata ad Hampstead. «Londra? Sicuro.» «Connecticut.» «C'è ancora gente che vive nel Connecticut?» Ma sopravvissero a questo scambio di battute. Tabby s'innamorò di una ragazza della sua classe, non ebbe fortuna, si innamorò di nuovo. Graham era impegnato nella stesura del suo complicato libro. Richard trascorreva sempre più tempo con la donna che aveva conosciuto e a un certo momento la condusse a casa per presentarla a Tabby. Patsy se n'era andata. Era sposata a un avvocato di nome Arthur Powers e abitava a Chappaqua. O forse no. Una sera Graham cercò di ottenere il suo numero di telefono dal servizio informazioni della contea di Westchester e si sentì rispondere che sull'elenco di Chappaqua non c'erano né un Arthur Powers né una Patricia McCloud. Richard spedì una lettera al numero 28 di Woodland Glen per informarla che aveva in progetto di risposarsi, ma la lettera gli fu restituita con stampigliato sopra: «Recapito sconosciuto». Ciascuno di loro la sognava. Richard sognò Patsy McCloud sulle pendici di un colle la notte prima di sposarsi di nuovo. Gli sorrideva e capì finalmente che gli augurava ogni bene. Il suo telefono squillò alle quattro del mattino la notte in cui nacque suo figlio. Era appena rientrato dall'ospedale. «Ti è successo qualcosa di bello questa notte?» gli domandò l'amata voce di Patsy.
«Oh, Patsy», esclamò lui. «Mi è successo qualcosa di meraviglioso. Mi è appena nato un figlio. Ma come facevi a saperlo?» «Noi Tayler abbiamo i nostri segreti», rispose lei. «Adesso sono felice. E tu?» «Adesso? Scoppio di felicità.» «Bene», disse lei. «Se è così, sono con te.» «Ti ho mandato una lettera», riuscì ad aggiungere ancora Richard, ma Patsy stava parlando di nuovo e cancellò le sue parole. L'ho ricevuta? Ho traslocato? Chissà che cosa aveva detto. «Scusa», dissero contemporaneamente. «Adesso devo andare», si giustificò la voce cristallina di Patsy. «Sono contenta che finalmente tu sia diventato padre.» «Patsy, qual è il tuo numero di telefono? Abbiamo cercato di metterci in contatto...» «L'abbiamo cambiato. Ti manderò quello nuovo appena me l'avranno dato.» «Ti prego, non ti dimenticare. Voglio rivederti. Graham è in pena per te e Tabby vuole raccontarti tutto della sua ragazza.» Lei rise. «Be', hai fatto una grande cosa!» «Abbiamo fatto una cosa grande, una volta», ribatté lui, ma la comunicazione era già interrotta. Ed egli prese il dragone, il serpente antico, che è il Diavolo e Satana, il quale seduce tutto il mondo, e lo legò per mille anni. Apocalisse, 20:2 FINE