RUTH RENDELL IL FLAUTO TRAGICO (Put On By Cunning, 1981) PARTE PRIMA 1 La neve aleggiava contro gli angeli e gli apostol...
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RUTH RENDELL IL FLAUTO TRAGICO (Put On By Cunning, 1981) PARTE PRIMA 1 La neve aleggiava contro gli angeli e gli apostoli dipinti sulla vetrata, lieve come piumino d'oca. Un grosso flocco soffice sbatté contro una delle aureole preraffaellite e vi restò appiccicato, lana candida su porporina aurea. Qualcosa su cui posare uno sguardo meno distratto per gli apatici fedeli di Kingsmarkham che nella chiesa di St Peter, non molto più calda di una piazza, ascoltavano la fine del sermone del rettore: san Matteo, capitolo quindicesimo. La lettura per il 27 gennaio. Ché dal cuore vengono i cattivi pensieri, omicidi, adulteri, fornicazioni, furti, false testimonianze e bestemmie. Queste cose contaminano l'uomo... Due dei suoi ascoltatori distolsero lo sguardo dal ghirigoro che la neve disegnava su rossi e blu, gialli e porpora dell'Annunciazione e aspettarono fiduciosi. Il rettore chiuse la Bibbia dai segnalibro penzolanti e aprì un altro piccolo libro nero dall'aspetto un po' più mondano. Poi si schiarì la gola. «Passiamo alle pubblicazioni di matrimonio. Sheila Katherine Wexford, nubile, di questa parrocchia, con Andrew Paul Thorverton, celibe, della parrocchia di St John, Hampstead. Prima pubblicazione. Manuel Camargue, vedovo, di questa parrocchia, con Dinah Baxter Sternhold, vedova, della parrocchia di St Mary, Forby. Terza pubblicazione. Se qualcuno fosse al corrente di qualche motivo, di qualche impedimento per il quale le sunnominate persone non possano contrarre un santo matrimonio, sappia che è suo dovere renderlo noto.» Il rettore richiuse il libro. Manuel Camargue si era rassegnato per la terza settimana consecutiva ad ascoltare il sermone. I fedeli che affollavano la chiesa erano sempre gli stessi. Guardandosi intorno, vide soltanto una faccia nuova, quella di una bella ragazza bionda che riconobbe subito, pur senza riuscire a rammentarne il nome. Si scervellò per la mezz'ora seguen-
te, sempre più irritato perché la sua memoria si era fatta così labile e perché nemmeno gli occhiali riuscivano più a fare molto per i suoi occhi indeboliti. Il nome gli saettò nella mente quando si alzò per uscire. Sheila Wexford. Sheila Wexford, l'attrice. Ecco chi era. Lui e Dinah l'avevano vista l'autunno precedente nel ciclo dedicato a Somerset Maugham, ma una volta ancora gli sfuggiva il titolo della commedia. Era stata compagna di scuola di Dinah e la loro amicizia durava ancora. Non aveva capito che si trattava di lei quando il rettore aveva letto la sua pubblicazione, perché era stato fuorviato da quel Katherine inserito fra il nome di battesimo e il cognome. Strana coincidenza che le pubblicazioni di matrimonio di due personaggi celebri come loro venissero lette nello stesso giorno e nella stessa chiesa! Camargue tornò a guardare Sheila. Portava una morbida pelliccia chiara su un abito di lana nera. Come i loro occhi si incontrarono, Manuel capì che anche lei lo aveva riconosciuto. La sua bocca si atteggiò a un lieve sorriso, un sorriso da cospiratore, triste e gaio a un tempo, persino un po' imbarazzato, tante sfumature diverse che soltanto un'attrice del suo calibro poteva essere capace di esprimere contemporaneamente. Camargue lo ricambiò come meglio poteva. Nevicava ancora. Sheila Wexford aprì l'ombrello e si lanciò in una corsa aggraziata verso il riparo offerto dal tetto sopra il cancello del muro di cinta. Camargue si domandò se dovesse raggiungerla per offrirle un passaggio fino a casa, ma si rese subito conto che le sue gambe non ce l'avrebbero fatta a rincorrerla, soprattutto in mezzo alla neve alta una spanna. Quando raggiunse a sua volta il cancello, la vide salire su un'auto guidata da un uomo abbastanza vecchio per essere suo padre. Provò una fitta di compianto per lei. Era quello il suo sposo? Poi l'assurdità di quella sensazione, proprio in lui, lo colpì bruscamente, richiamandogli d'un tratto alla mente quella che egli definiva spesso la follia degli esseri umani, la loro totale cecità per quanto riguardava se stessi. Ted era ad aspettarlo con la Mercedes, leggendo il "News of the World", le mani protette da pesanti guanti di lana. Aveva lasciato il motore acceso per mantenere in funzione l'impianto di riscaldamento e gli antiappannanti. Non appena vide Camargue, balzò dall'auto e gli aprì la portiera posteriore. «Oh, eccovi, sir Manuel. Vi ho portato una coperta, visto questo tempaccio.» «Sei stato molto gentile, grazie. In chiesa faceva un freddo cane. Speriamo che il tempo migliori per il giorno delle nozze.»
Ted ribatté che lo sperava davvero, ma purtroppo le previsioni erano tutt'altro che favorevoli. Se non avesse nutrito per il suo datore di lavoro il profondo rispetto che nutriva, avrebbe aggiunto che in ogni caso il signore avrebbe avuto il suo amore per tenerlo caldo. Non lo disse, ma Camargue lo intuì ugualmente e sorrise. Dinah, la mia Dinah, pensò tirandosi la coperta sulle ginocchia. Provava per lei un desiderio appassionato, ardente e profondo come raramente aveva provato in gioventù, ma non l'avrebbe mai toccata, non era così sciocco. Dinah sarebbe stata soltanto la sua adorata compagna... per il poco tempo che gli restava. Avevano oltrepassato il cancello e stavano percorrendo il lungo viale arcuato che saliva alla casa. Ted manteneva l'auto entro i due solchi che lui stesso aveva spalato quella mattina e che stavano ricoprendosi nuovamente di neve. Dall'immacolato, abbacinante candore che ricopriva come un soffice manto i poggetti e i valloncelli del giardino si innalzavano spoglie betulle argentate, pioppi e salici, e le guglie delle conifere, verde scuro, blu ardesia e giallo oro, come gnomi accuratamente avvolti nel loro mantello. La fabbrica di marmellata apparve all'improvviso. Camargue chiamava la sua casa fabbrica di marmellata o, a volte, scatola da scarpe perché era diversa da tutte le altre dei dintorni. Niente Tudor vero o falso, niente georgiano, autentico o rifatto, ma una grande scatola rettangolare tutta vetri e, a un'estremità, una torretta dal tetto aguzzo che separava il fabbricato originale da un'ala più recente. Appollaiato sulla banderuola, una grande chiave di violino in ferro battuto, c'era un gabbiano, anch'esso bianco come la neve sullo sfondo del cielo grigio cenere. L'ampio vestibolo che terminava in una grande arcata aperta sulla sala da pranzo era al piano più basso della casa, costruita sul fianco di un poggio. «Con questo freddo, signore» disse Muriel «vi ho preparato una colazione sostanziosa, visto che, come avevate detto, non siete andato dalla signora Sternhold.» «Un pensiero molto carino» commentò Camargue al quale ormai importava ben poco di ciò che mangiava. Muriel prese in consegna il suo cappotto per farlo asciugare. Lei e Ted abitavano in una piccola casa in fondo al giardino, una costruzione più antica e assolutamente diversa dal fabbricato principale. Camargue desiderava che la sua domestica fosse libera il pomeriggio e la domenica, ma non sempre riusciva a tenere a freno i suoi generosi impulsi. Mentre saliva la scala, gli venne incontro a fargli festa Nancy, una splendida cagna alsaziana cui sarebbe bastato un colpo incontrollato
delle robuste zampe per farlo volare di sotto. Il salotto, con due pareti interamente a vetri, splendeva della strana luminescenza tipica del riverbero della neve. Mentre Camargue entrava, squillò il telefono. «Va tutto bene? I nomi sono stati letti correttamente?» «Sì, tesoro. Era la terza volta! E a St Peter?» «Lo stesso. Ci faceva un freddo da morire, Dinah. Nevica anche a Forby?» «Sì, ma non molto. Non vuoi cambiare idea e venire? Le strade principali sono state spazzate e sai che Ted non si preoccuperebbe per un po' di neve. Vorrei proprio che venissi.» «No. Resta con i tuoi genitori. Lasciamogli digerire un po' il colpo, prima di sabato.» Camargue rise all'esclamazione di protesta di Dinah. «No, no, cara, oggi non vengo. Muriel mi sta già preparando la colazione. Pensa che, da sabato in poi, sarai costretta a sorbirti tutti i pasti in mia compagnia. Non ammetterò scuse.» «Manuel, posso venire da te stasera?» Lui rise. «No, ti prego.» Strano come il suo accento si facesse più marcato quando parlava con Dinah. Doveva essere l'emozione, pensò. «Prima di sera le strade diverranno impraticabili, vedrai.» Manuel passò nella stanza da musica, seguito dal cane. Sotto il tetto a cono della torretta, la sala era già invasa da una penombra crepuscolare. Camargue posò gli occhi sul flauto che giaceva dentro il suo astuccio aperto, sopra il tavolo, poi, senza più soffrirne troppo, ormai, si guardò le mani deformate. Lo strumento era stato messo lì per mostrarlo alla madre di Dinah e Muriel ne aveva avuto troppa soggezione per azzardarsi a riporlo. Camargue richiuse l'astuccio, poi sedette al pianoforte. Non era mai stato un grande pianista, tutt'al più un concertista di secondo ordine, perciò ora non si sentiva particolarmente triste né amareggiato nello strimpellare qualcosa con quelle sue vecchie, stupide mani, come le chiamava lui. Suonò Für Elise, e Nancy, che andava pazza per la musica, lo accompagnò battendo la coda sul pavimento. Finalmente Muriel lo chiamò per il pranzo. Le piaceva preparare la tavola con pizzi, argenteria e cristalli anche soltanto per lui e servirlo con la massima cura. Era consapevole di quel che si doveva a sir Maluel Camargue, molto di più di quanto non lo fosse o non lo fosse mai stato lui stesso. Sir Manuel stava bevendo il caffè quando Ted venne a prendere il cane per portarlo fuori a scorrazzare un po' nella neve. Nancy adorava la neve, dis-
se, e lui avrebbe approfittato della passeggiata per liberare dal ghiaccio la riva del laghetto. Udendo tintinnare la catena del suo guinzaglio, Nancy quasi ruzzolò giù per le scale, nella fretta di correre fuori. A volte Camargue tentava di opporsi alla propria abitudine di passare l'intero pomeriggio dormendo, ma raramente gli riusciva. Si ritirava nel suo appartamentino personale oltre la torre, stanza da letto, bagno e un salottino dove teneva anche la cesta di Nancy, si metteva in poltrona a leggere e ad ascoltare qualche disco e inevitabilmente partiva per il mondo dei sogni. Spesso dormiva fino alle cinque o alle sei. Quel giorno mise sul giradischi il Concerto per flauto K 313 e, mentre le dolci note liquide e brillanti si diffondevano nella stanza, Camargue fissò per un momento la propria immagine riflessa nel grande specchio. Era ancora alto e diritto, ma sottile, sottile come uno spaventapasseri, pensò, come un vecchio scheletro, con quelle mani nelle quali pareva che ogni giuntura fosse stata fratturata e poi rimessa a posto alla meno peggio. Tout passe, tout lasse, tout casse. Adesso che era vecchio, gli accadeva sovente di pensare nella seconda lingua della sua infanzia. Sedette in poltrona ad ascoltare la musica che Mozart aveva scritto per uno scorbutico olandese, ma prima che incominciasse il secondo movimento, già dormiva saporitamente. Lo svegliò Nancy, posandogli la testa sulle ginocchia. Era tornata da un pezzo dalla passeggiata. Mancava poco alle cinque e ben presto Ted sarebbe tornato per portarla fuori di nuovo. Camargue pensò di farlo lui stesso e magari di arrivare fino al laghetto. Aveva smesso di nevicare e l'ultima luce del giorno, di una strana sfumatura gialla, dorava il candore della neve e spandeva lunghe ombre blu. Sir Manuel tolse il disco dal piatto e lo rimise con cura nella sua custodia poi passò nella sala da musica, soffermandosi a raddrizzare una grande fotografia appesa a una parete e raffigurante l'edificio che ospitava la Scuola di musica Kathleen Camargue di Wellridge, e raggiunse il salotto. Mentre Camargue si avvicinava al vassoio del tè che Muriel gli aveva preparato, squillò il telefono. Era ancora Dinah. «Avevo telefonato prima, tesoro. Dormivi?» «Tanto per cambiare.» «Verrò lì domattina a portare gli altri regali, d'accordo? Babbo e mamma mi hanno portato il regalo dello zio, il mio padrino. Posate d'argento per dessert.» «Ma quanto è generosa la gente quando ti sposi per la seconda volta! Farò spazzare il viale. Ted si alzerà all'alba per farlo.»
«Povero Ted!» Camargue avvertì il leggero cambiamento nella voce di lei e si preparò al resto. «Manuel, hai avuto notizie di... Natalie?» «Di quella donna» corresse lui. «No.» «Ti farò un'altra predica, domani, per convincerti a ragionare. Ti sbagli di grosso sul suo conto, ne sono certa. E fare un passo grave come quello di cambiare il tuo testamento senza...» Camargue la interruppe in tono un po' duro. «Io l'ho vista, Dinah, tu no. So quello che dico. Non parliamone più, ti spiace?» «Come vuoi» si arrese lei. «Io pensavo soltanto a ciò che è meglio per te.» «Lo so.» Chiacchierarono ancora per un poco, poi Camargue scese per farsi il tè. Ma l'accenno di Dinah a Natalie aveva rovinato la pace di quella giornata, costringendolo a ritornare con la mente su un argomento che aveva cercato di accantonare. Si portò di sopra la teiera e sollevò il tovagliolino che ricopriva le tartine al cetriolo. Quella donna, chiunque fosse, aveva fatto il tè e lo aveva portato di sopra, poi aveva guardato l'aureo omaggio di Cazzini appeso alla parete e lui aveva capito. Come accade a tutte le persone oneste e integerrime, anche sir Manuel si risentiva di qualsiasi tentativo di ingannarlo, molto più di quanto non accada abitualmente a chi è avvezzo a ingannare. Era stato un affronto odioso, tanto più in quanto sfruttava la debolezza di un vecchio e l'affetto di un padre. E non bastavano certo le proteste di Dinah a fagli cambiare parere. Anzi, quelle lo inducevano soltanto a pensare che avrebbe dovuto parlarne ai suoi avvocati e alla polizia. Ma no. Aveva detto a quella donna di avere capito tutto, le aveva detto ciò che intendeva fare e ora non gli restava che cercar di scordare quella sgradevole storia. Dinah era il suo futuro, Dinah sarebbe stata sua figlia e più che sua figlia. Sedette accanto alla finestra, della quale aveva scostato le tende, e rimase a guardare la neve che diventava azzurro scuro e poi tornava a farsi bianca via via che l'oscurità si addensava. Stava alzandosi la luna, ora. Una luna piena e fredda da mezzo inverno, un globo splendente bianco verdastro. Alle sette portò giù il vassoio del tè e diede a Nancy un intero barattolo di cibo per cani. Alla luce della luna, si vedeva chiaramente il lago, dalla finestra del salotto. Chiamarlo lago era un complimento: in realtà era soltanto un grande stagno dall'altra parte del viale, in fondo a un lieve pendio, dentro una cornice di salici e biancospini. Come aveva promesso, Ted si era spinto fin là,
quel pomeriggio, e aveva spezzato il ghiaccio perché non mancasse aria ai pesci. C'erano delle carpe, nello stagno, alcune molto vecchie e grosse. Si vedevano le orme di Ted scendere fino alla riva e poi risalire fino al viale. Sulla sponda del laghetto erano ammucchiati alcuni blocchi di ghiaccio. Sotto la luce splendente della luna si vedevano persino le impronte delle zampe di Nancy, sparse dappertutto, e grandi macchie scure dove il cane si era rotolato nella neve. Camargue accarezzò la liscia testa bruna di Nancy, la strinse per un attimo a sé, poi la spinse dolcemente ad accovacciarsi ai suoi piedi. La luna saliva nel cielo nero e lucente dove non v'era più traccia di nubi. Camargue aprì il suo libro, la biografia di un oscuro compositore rumeno che aveva scritto uno studio apposta per lui, e lesse per circa un'ora. Erano quasi le otto e mezzo quando si accorse che stava appisolandosi di nuovo, perciò si alzò, stirò le braccia e rimase ritto davanti alla finestra, sorpreso di vedere che aveva ricominciato a nevicare. Le conifere erano di nuovo spolverate di bianco, tutte tranne una. Poi vide che l'albero si muoveva. Aveva osservato spesso che di notte, nella mezza luce, ai suoi occhi indeboliti quegli alberi sembravano persone. Ora evidentemente aveva scambiato un uomo, o una donna, per un albero. Non avrebbe saputo dire se fosse Ted o Muriel, quello che aveva visto, una figura in pantaloni e cappotto che ora stava salendo verso il punto in cui doveva trovarsi il sentiero che portava al boschetto di betulle. Ma era certo uno di loro. Camargue decise di aspettare ancora una diecina di minuti prima di portare fuori il cane. Se lo avesse visto Ted, avrebbe certo insistito per prendere lui Nancy e farle fare un'altra lunga corsa della quale lei non aveva proprio alcun bisogno dopo tutto il ruzzolare di quel pomeriggio. La figura in giardino ora era scomparsa, e la luna non era più così splendente, pure Camargue avrebbe giurato di aver visto muoversi un altro albero. Era ben triste la vecchiaia, quando le facoltà delle quali si era avvezzi a fidarsi come di vecchi amici cominciavano a giocare brutti scherzi! «Nancy! Andiamo!» Il cane fu in cima alle scale molto prima di lui. Camargue lo seguì, sospingendolo con la punta di un piede quando si fermava volgendo ansioso la testa verso il padrone. In fondo alla scala, sir Manuel accese la luce esterna che illuminava l'ampio cortile davanti alla casa. Come aprì la porta, vide radi fiocchi di neve danzare come scintille nel raggio dorato, ma fu investito da un'ondata di aria gelida. Nancy si precipitò fuori, mentre Camargue si fermava a prendere la giacca di pelle di pecora, i guanti e il ba-
stone. Ma quando fu fuori, non vide più il cane, benché le zampe avessero tracciato un piccolo sentiero giù per il pendio. Camargue si abbottonò la giacca e si avvolse intorno al collo la pesante sciarpa di lana. «Nancy! Nancy, dove sei?» Fu tentato di rientrare in casa per telefonare a Ted perché venisse a recuperare il cane, o di rimanere ad aspettare che tornasse spontaneamente. Ted sarebbe arrivato senza battere ciglio, ma per lui questo avrebbe significato arrendersi all'impotenza della vecchiezza contro la quale si sforzava tanto di lottare. Bell'affare avrebbe fatto a risposarsi, a riaprire la casa, forse persino a riprendere la vita di società se poi non era nemmeno in grado di provvedere da solo a una piccolezza come quella di mandar fuori il cane prima di andare a letto! No, sarebbe rientrato e avrebbe aspettato lì, sulla poltrona del vestibolo, che Nancy tornasse a casa. Anche se si fosse addormentato, lo avrebbe svegliato lei raspando contro la porta. Ma nel momento stesso in cui prendeva quella decisione, fece il contrario. Seguì le tracce del cane giù per il pendio, continuando a chiamarlo spazientito. Le impronte lasciate da Ted quando era sceso a spezzare il ghiaccio erano ormai cancellate dalla neve e anche quelle di Nancy andavano scomparendo rapidamente. Restavano ben visibili i blocchi di ghiaccio lasciati da Ted sulla sponda, ma sull'acqua si andava riformando una sottile crosta grigia. Il lago era un'opaca distesa di ghiaccio che rifletteva appena la luce della luna velata di nubi e i salici, che di giorno sembravano gigantesche idrometre ferme sulle lunghe zampe, ora erano fasciati da soffici falde candide che ne mutavano completamente il profilo. Camargue chiamò di nuovo il cane. Anche la settimana precedente Nancy gli aveva fatto uno scherzo del genere e poi era riapparsa all'improvviso come se scaturisse dal nulla. Sir Manuel prese a spezzare col bastone il ghiaccio recente. Poi udì il cane alle proprie spalle, nient'altro che un lieve scricchiolare della neve. Ma quando si girò, pronto ad afferrarlo per il collare con l'impugnatura ricurva del bastone, non c'era nessun cane, niente altro che le conifere simili a gnomi e il tenue splendore del candido lenzuolo che ricopriva ogni cosa. Bene, avrebbe finito di spezzare il ghiaccio più recente nel tratto già liberato da Ted, poi se ne sarebbe tornato in casa ad aspettare Nancy. La neve scricchiolò di nuovo alle sue spalle. Un albero si muoveva. Sir Manuel si girò di scatto, alzando il bastone come per difendersi, e vide in
faccia l'albero che si era mosso. 2 L'ondata di musica investì l'ispettore capo Wexford ancora prima che avesse varcato la soglia di casa. Concerto per flauto e orchestra. Uno dei gesti melodrammatici di Sheila, pensò Wexford, cronometrato perché coincidesse con il suo ritorno a casa. Una musica meravigliosa, lenta, misurata, laica eppure con qualcosa di religioso. Dora, la moglie di Wexford, stava lavorando a maglia mentre Sheila (che avendo deciso di sposarsi nella chiesa della sua parrocchia, era tornata ad abitare con i genitori per le prescritte tre settimane di residenza prima delle nozze) era accovacciata sul pavimento, tra il caminetto e il giradischi, con un braccio graziosamente appoggiato su un cuscino del divano e il viso quasi nascosto dai lunghi capelli lisci color oro pallido. Udendo entrare il babbo, alzò la faccia e gettò all'indietro i capelli. Wexford vide che aveva pianto. «Oh, papà, che tristezza! Hanno dato la notizia della sua morte accompagnandola con questa terribile musica funebre. Ha pianto persino la mamma. E dopo abbiamo pensato di ricordarlo con la sua stessa musica.» Wexford dubitava molto che sua moglie, una donna placida e ipersensibile, avesse manifestato un pensiero tanto stravagante. Prese la copertina del disco: Mozart, Concerto per Flauto e Arpa K 229 - English Chamber Orchestra, direttore Raymond Leppard, flauto Manuel Camargue, arpa Marisa Roblès. Intanto il primo movimento era giunto alla fine e ora la musica aveva tutt'altro tono, liquido e brillante, cantabile, e Camargue, morto, tornava a rivivere con il suo flauto. Sheila si asciugò gli occhi e si voltò per dare un bacio al babbo. Erano otto anni che non viveva più con lui, era diventata una donna famosa, un astro della televisione, ma non aveva perso l'abitudine di baciarlo quando usciva o tornava a casa, gettandogli le braccia al collo come una bambina paurosa. E lui, se pure con un certo imbarazzo, ne era felice. Wexford sedette ad ascoltare l'ultimo movimento mentre Dora, posato il suo lavoro a maglia, usciva per preparare la cena. La consueta telefonata serale di Andrew evitò a Sheila di rendere troppo drammatico quel suo omaggio alla memoria di Camargue. Quando lei rientrò nella stanza, il disco era finito e il babbo stava man-
giando la sua bistecca. «Lo hai conosciuto di persona, Sheila?» Lei scosse la testa. «No, ma penso che lui mi abbia riconosciuto in chiesa. Doveva sapere che sono di queste parti.» Non era certo strano che lui l'avesse riconosciuta. La riconoscevano tutti, ovunque andasse. La serie televisiva nella quale interpretava la parte di una bellissima hostess occupava il piccolo schermo due sere la settimana, nell'ora di maggior ascolto, da cinque anni. Tutti guardavano Runway e il sorriso della protagonista era diventato famoso. Il sorriso che illuminava la sua faccia anche in quel momento. «Ma conosco bene la sua promessa sposa. Eravamo compagne di scuola.» «È così giovane?» «Sei molto gentile, papà. Diciamo che è molto giovane per essere la moglie di sir Manuel. Ha venticinque anni anche lei. Sono venuti a vedermi in The Letter lo scorso autunno, ma non ho parlato con loro, Camargue era troppo stanco dopo lo spettacolo.» Fu Dora a riportarli dal pettegolezzo a un discorso più serio: «Ai suoi tempi è stato il flautista più grande del mondo. Ricordo che quando fondò quella scuola di musica in memoria di sua moglie, a Wellridge, andò la principessa Margaret a inaugurarla.» «E morire così!» esclamò Sheila. «Dicono che Sterries, la sua casa in Ploughman's Lane, sia un sogno. Chissà se ora sua figlia la venderà! Perché in questo caso Andrew e io potremmo prendere in considerazione... Ti piacerebbe se venissimo ad abitare vicino a te, papà?» «Potrebbe averla lasciata alla tua amica» osservò Wexford. «Certo. Be', io lo spero proprio. Povera Dinah, avere perduto così presto il primo marito che adorava, e poi il secondo ancora prima di sposarlo! Meriterebbe davvero un compenso. Le scriverò per dirle tutta la mia comprensione. Anzi no. Andrò a trovarla. Le telefonerò subito, domattina, e...» «Io lascerei passare qualche giorno, fossi al tuo posto» consigliò suo padre. «Domattina ci sarà l'inchiesta.» «Inchiesta?» fece eco Sheila col tono grave di un'eroina tragica. «Inchiesta? Ma è morto di morte naturale, no?» Dora, che stava faticosamente destreggiandosi fra tre diverse sfumature di lana, alzò gli occhi dal suo lavoro. «No davvero, mia cara. Una morte per annegamento o per congelamento non può certo definirsi naturale.» «Voglio dire, non lo ha fatto di proposito e nemmeno è stata colpa di qualcuno.»
Wexford non poté fare a meno di ridere a quell'ingegnosa perifrasi di suicidio e omicidio. «Nella maggior parte dei casi di morte improvvisa e in tutti quelli di morte violenta si deve fare un'inchiesta» spiegò. «Va da sé che, in un caso come questo, il verdetto sarà di morte accidentale.» Morte accidentale. Il verdetto, che può sembrare grottesco se applicato alla morte di un bambino nella sua culla o di un paziente sotto l'effetto di un anestetico, si addiceva perfettamente a Camargue. Un vecchio che camminava nella neve alta quindici centimetri, aveva messo un piede in fallo nel buio, era scivolato e caduto nell'acqua dov'era rimasto intrappolato sotto una crosta di ghiaccio. Se non fosse morto affogato, sarebbe morto ugualmente di freddo nel giro di pochi minuti. La neve aveva continuato a cadere, cancellando le sue impronte e il gelo, con dieci gradi sotto zero, aveva silenziosamente sigillato lo spazio entro il quale il corpo era scivolato. Soltanto un guanto, un guanto sinistro, di pelle nera, era rimasto a indicare il punto dove lui giaceva. Morte accidentale. Wexford assistette all'inchiesta senz'altro motivo che quello di sfuggire al freddo dato che l'impianto di riscaldamento della stazione di polizia si era inspiegabilmente guastato proprio quella notte. In tribunale, se non altro, faceva caldo. Oltre a una ragazza del "Kingsmarkham Courier" che se ne stava tutta sola nel banco riservato alla stampa, soltanto due donne assistevano all'inchiesta e anche quelle sedevano tanto distanti l'una dall'altra da dare l'impressione di essere irriducibilmente nemiche. Una doveva essere la figlia, pensò Wexford, e l'altra la promessa sposa di Camargue. Entrambe erano vestite di scuro, senza cura particolare, ma quella che sedeva nella prima fila aveva gli occhi e il profilo di una Callas, con i folti, lucenti capelli neri pettinati alla moda delle geishe, mentre l'altra, seduta a un paio di metri da lui, era un modesto topino con la testa avvolta da una sciarpa e le mani congiunte in grembo. Nessuna delle due, a quel che poteva vedere, assomigliava neppure lontanamente al viso intenso e spirituale che aveva visto il giorno prima sulla copertina del disco ma quando, al momento del verdetto, la geisha girò il capo e i suoi occhi neri e brillanti incontrarono per un attimo i suoi, Wexford vide che era molto più anziana di Sheila. Quella, dunque, doveva essere la figlia. E infatti, un momento dopo il coroner si rivolse a lei dicendo che desiderava esprimere alla figlia di sir Manuel la propria partecipazione al suo dolore, per altro condiviso da decine di mi-
gliaia di persone che avevano amato e ammirato il maestro e la sua arte. Forse nessuno gli aveva parlato di una promessa sposa. Il topino si alzò e scivolò fuori inosservato. Quando tutto fu finito, anche la bella dai neri occhi splendenti si alzò e si trovò immediatamente attorniata da un gruppo di uomini. Era un caso, naturalmente, disse a se stesso Wexford. Si trattava soltanto di quelli che erano venuti con lei all'inchiesta, il medico di suo padre, un domestico, un paio di amici, ma lui ebbe la netta impressione che ovunque fosse, quella donna sarebbe sempre stata attorniata da uomini, osservata, ammirata, desiderata. Anche Wexford alla fine si alzò e uscì ad affrontare il gelo pungente di High Street fiancheggiata da collinette di neve già sudicia ma spolverata da un'infarinatura più fresca, ancora candida e brillante. C'erano soltanto pochi passi, dal tribunale alla stazione di polizia, ma bastavano per gelarsi fino alle ossa. Nel cortile della stazione di polizia sostava ancora il furgone degli operai venuti per riparare l'impianto di riscaldamento, ma dentro faceva freddo come prima. Il sergente Camb, seduto dietro il suo banco, si scaldava le mani tenendole sopra una teiera bollente. L'ispettore Burden non era nel suo ufficio. Senza dubbio era andato a mangiare da qualche parte dove facesse caldo. Con ogni probabilità al Carousel Cafè, o meglio al Pearl of Africa, come lo aveva ribattezzato il nuovo proprietario, il signor Haq. La perla dell'Africa era, a detta del signor Haq, l'Uganda, suo paese natale. E i cibi che si servivano in quel ristorante, era sempre il signor Haq a dirlo, facevano parte della cucina ugandese tradizionale. Che poi si trattasse di quella delle antiche tribù selvagge o di quella dei moderni ugandesi occidentalizzati era inutile chiederlo: il signor Haq rifiutava di compromettersi. Riso bollito e patate fritte accompagnavano quasi tutte le pietanze, ma per quel che ne sapeva Wexford, quella poteva pure essere una caratteristica della cucina ugandese. Però gli piaceva quel posto, ne era quasi affascinato, soprattutto per la sua lussureggiante giungla di plastica. Quel giorno, la vegetazione tremolava nell'aria calda e densa di umidità che pareva lasciare goccioline di vapore condensato sulle foglie lucide come il cuoio. Persino le finestre erano diventate opache. Sembrava di essere in un'oasi tropicale miracolosamente sbocciata nel cuore dell'Artide. L'ispettore Burden era proprio lì, come Wexford aveva immaginato, e stava facendo onore a un piatto di pollo nubiano con riso Ruwenzori, senza perdere d'occhio la sua nuovissima giacca di pelle di pecora (dono natalizio della signora Burden) che Haq aveva appeso al palmizio che fungeva
da attaccapanni. Anche Wexford ordinò il pollo. «Vengo ora dall'inchiesta Camargue» spiegò poi. «Che diavolo ci sei andato a fare?» «Non avevo altri impegni e in tribunale almeno faceva caldo.» Burden grugnì. «Ti è sembrato saggio?» «Che cosa?» «Andare all'inchiesta. Chi ti ha visto potrebbe pensare...» «Pensare che? Parli come una vecchia vedova che fa la lezione a una debuttante. Che cosa dovrebbero pensare?» «Oh, semplicemente che ci sia qualcosa di losco nella morte di Camargue. Ti vedono lì, sanno chi sei e subito pensano: oh, oh, quello non sarebbe venuto se le cose fossero semplici e pulite come dice il magistrato inquirente...» L'intervento inaspettato del signor Haq salvò Burden da una sfuriata. Piccolo, sempre sorridente, con una chiostra di denti candidissimi che sembravano più numerosi del normale, Haq, nonostante la sua pelle scura, sembrava più caucasico che africano. «Tutto bene, caro?» domandò con un inchino. Chiamava sempre caro tutti i suoi clienti, senza badare al sesso, forse perché lo riteneva un termine neutro di grande rispetto, sul tipo di eccellenza. «È una raffinata e saporitissima ricetta delle popolazioni che vivono sui Monti della Luna.» Pareva recitasse uno slogan pubblicitario alla televisione. «Tutto ottimo, grazie» rispose Wexford. «Grazie, caro.» Con un sorriso così ampio da far temere che potessero cascargli dalla bocca un po' di denti, il signor Haq si inchinò di nuovo, poi si allontanò fra i tavoli, tra le sue piante di polietilene che fiorivano da vasi di polistirolo. «Prendi il dolce?» «Non credo.» Wexford diede un'occhiata alla lista. «Torta Kampala o gelato Acqua del Nilo... si chiamerà così per il colore o per la sostanza con cui è fatto? In ogni caso, abbiamo già tanto ghiaccio anche senza mangiarne altro.» Fece una pausa. «Senti, non so davvero cosa importi quello che può pensare la gente: la morte di Camargue è stata una disgrazia, non ci sono dubbi. Fra qualche giorno nessuno ci penserà più.» Burden ordinò il caffè. «Pensavo soprattutto a Hicks, credo, quel suo domestico. È stato lui a ritrovare un guanto e poi il corpo. Ma non ti sembra strano che prima, quando ha trovato il cane davanti alla porta della sua
casa, lo abbia riportato a Sterries senza preoccuparsi di controllare dove fosse Camargue?» «Non sarà certo la mia presenza in tribunale a danneggiare la reputazione di Hicks» cercò di rassicurarlo Wexford. «Fra i presenti nessuno mi conosceva, a eccezione del magistrato inquirente.» Tornarono insieme alla stazione di polizia. Il pomeriggio divenne a poco a poco un gelido crepuscolo e poi una serata di freddo polare. Il riscaldamento rientrò in funzione con un sordo brontolìo quando era ormai ora di andarsene. Entrando nel soggiorno di casa sua, Wexford fu accolto da un enorme alsaziano color bronzo che lo salutò digrignando i denti e agitando la coda. Sul divano, accanto a Sheila, sedeva il topino che era scivolato via inosservato alla fine dell'inchiesta, la pallida fidanzata di Camargue. 3 Sheila si alzò e gli presentò l'ospite. «Papà, questa è Dinah Sternhold. Era fidanzata con sir Manuel, lo sai.» Wexford si rese subito conto che la ragazza non lo aveva visto all'inchiesta. Gli tese la mano e lo guardò in viso senza il minimo segno di riconoscimento. Il cane si era messo accanto a lei e ora sedeva sul pavimento, ai suoi piedi, fissando Wexford con aria imbronciata. «Perdonatemi se mi sono portata dietro Nancy» si scusò la ragazza. «Ma non mi sono fidata a lasciarla sola in casa. Continua a guaire e i vicini si sono già lamentati perché l'ho lasciata sola stamattina.» «Era di sir Manuel» spiegò Sheila. Un cane infedele che era fuggito abbandonando il padrone al suo destino, pensò Wexford. O era corso a chiedere aiuto? Poteva essere una spiegazione logica dello strano comportamento del cane. «Guaisce perché cerca Manuel, sapete» disse Dinah. «Spero soltanto che non ci metta molto a... dimenticarlo. Spero che riesca a superare il colpo.» Parlava per Nancy o per se stessa? La risposta di Wexford avrebbe potuto valere per entrambe. «Lo supererà senza dubbio. È ancora giovane.» «Lui diceva spesso che avrebbe voluto lasciarla a me... se gli fosse accaduto qualcosa. Probabilmente temeva che potesse finire nelle mani di qualcuno che non la trattasse bene.» Alludeva forse alla figlia di Camargue? Dopo essersi sforzato invano di trovare qualche frase di condoglianze che non fosse né troppo banale né
troppo pomposa, Wexford optò per il silenzio. Tanto, si poteva sempre contare su Sheila perché la conversazione non languisse. E difatti, lei prese subito a raccontare qualche aneddoto sui cani mentre Wexford dedicava la propria attenzione a Dinah Sternhold che aveva il piccolo viso contratto in un'espressione di doloroso stupore. Si sarebbe quasi potuto credere che amasse davvero quel povero vecchio, che non lo sposasse soltanto per interesse. Ma questo era un po' difficile da digerire. Per quanto famoso, gentile e affascinante fosse, restava pur sempre il fatto che lui aveva settantotto anni e lei, come minimo, una cinquantina di meno. Una donna avida, comunque, non lo era di certo. A quanto pareva, quanto a doni prematrimoniali non doveva avere cavato molto da Camargue. Il cappotto di tweed marrone che indossava aveva certo visto giorni migliori e l'unico gioiello che portava, l'anello di fidanzamento, era un modestissimo rubino circondato da brillantini grandi come la capocchia di uno spillo. Wexford si stava chiedendo per quanto tempo sarebbe rimasta lì, con una mano sul collare del cane e la testa china come se lottasse per trattenere le lacrime o almeno nasconderle, quando Dinah si alzò di scatto. «Devo proprio andare, adesso. Sei stata tanto buona, Sheila, a venire a trovarmi. Non puoi immaginare quanto te ne sia grata.» «Non devi ringraziarmi. Desideravo sinceramente vederti. Sei stata tu gentile a riportarmi a casa in macchina. Io ero andata in tassì, papà, perché avevo paura a guidare in mezzo alla neve, ma Dinah non ha avuto paura né della neve né del buio.» Accompagnarono Dinah fino alla sua auto. Sul parabrezza cominciava già a formarsi il ghiaccio. La ragazza fece salire il cane nello scomparto posteriore, poi prese a lavorare abilmente sul parabrezza con uno spray anticongelante. Wexford si rese conto con una certa sorpresa di non provare alcun rimorso nel lasciarla andar via da sola, ma Dinah sembrava così sicura di sé, così capace di badare a se stessa! Forse era proprio quello di cui Camargue aveva sentito il bisogno, quello che l'aveva attratto in lei. Richiuse il cancello, poi si stropicciò le mani gelate mentre Sheila, rabbrividendo, rientrava di corsa in casa. «Dov'è la mamma?» «È andata a fare una commissione, ma tornerà subito. È tanto carina, Dinah, vero? Mi dispiace profondamente per lei. Sono corsa subito a Forby, appena finita l'inchiesta. Abbiamo fatto una chiacchierata interminabile.» L'unico commento di Wexford fu un sommesso grugnito.
In quel momento squillò il telefono. Andrew, puntuale fino a spaccare il minuto. Sheila si precipitò a rispondere. «Tesoro» la udì esclamare Wexford «ti ricordi di quella mia amica che doveva sposarsi...» Wexford, intento a togliere peli di cane dal divano, smise di ascoltare finché non udì la figlia promettere al fidanzato che avrebbe trascorso con lui il fine settimana, poi entrò Dora. «Allora non starà vicino alla sua amica durante la cremazione?» commentò a mezza voce. Sheila aveva già posato il ricevitore. «Non ci va nemmeno lei» ribatté, un po' rossa e affannata come sempre, dopo che aveva parlato con Andrew. «Come potrebbe sopportarlo? Due giorni dopo quello che avrebbe dovuto essere il giorno delle sue nozze!» «Meno male che non è addirittura lo stesso giorno» osservò suo padre. «Oh, mi sorprende che la figlia di sir Manuel non l'abbia fissata proprio per quel giorno! Ne sarebbe capacissima. Ci sarà l'ufficio funebre a St Peter martedì e ci saranno tutti. Verrà anche Solti e forse anche Menuhin. Dinah è certa che ci sarà una gran folla, volevano bene tutti a sir Manuel.» «La tua amica sa se lui le ha lasciato molto?» domandò Wexford. Pronunciata con l'intonazione appropriata, da attrice consumata, la risposta divenne una vera e propria battuta a effetto. «Non le ha lasciato niente! Neanche un penny.» Sheila si lasciò cadere sul pavimento, davanti al caminetto, allungando verso il fuoco le lunghe gambe. «L'anello di fidanzamento e il cane, ecco tutto quello che ha avuto.» «Ma come mai? Glielo hai chiesto?» «Babbino caro, certo che gliel'ho chiesto! Non ti ho detto che abbiamo fatto una chiacchierata interminabile? Ho saputo tutto, dall'a alla zeta.» «Hai l'anima del poliziotto, anche tu come tuo padre!» protestò Dora indignata. «Credevo che fossi andata da lei per farle coraggio, povera figliola! D'accordo che non è come se avesse perduto un fidanzato giovane, ma tuttavia...» «La curiosità» s'intromise Wexford «è una caratteristica delle persone intelligenti!» Fece una risatina. «Eredita tutto la figlia, naturalmente.» «Sir Manuel l'aveva rivista una settimana prima di morire, dopo diciannove anni di silenzio. La solita lite in famiglia. Lei frequentava l'Accademia reale di musica ma ha piantato tutto e se n'è andata con un americano. Sir Manuel e sua moglie hanno ricevuto una lettera da San Francisco e in seguito più niente. Non è tornata nemmeno quando è morta sua madre. È
ricomparsa solamente il novembre scorso. Non è tremendamente ingiusto che ora debba prendersi tutto lei?» «Camargue avrebbe dovuto fare un nuovo testamento.» «Aveva intenzione di farlo non appena lui e Dinah si fossero sposati. Sarebbe stato invalidato dal matrimonio, se lo avesse fatto prima, lo sapevi?» Suo padre annuì. «È una cosa che non capisco» riprese Sheila. «Capirei il divorzio, ma il matrimonio! E c'è di più. Camargue era deciso a diseredare la figlia. A quanto pare, quell'unico incontro gli era bastato.» «Continui a dire la figlia, la figlia» intervenne Dora, indotta suo malgrado al pettegolezzo: «Non ha un nome? Come si chiama?» «Natalie, Natalie Arno. È vedova. Nel corso di quei diciannove anni lo studente americano col quale se n'era andata è morto. Dinah è stata molto reticente sul suo conto, ma siccome mi ha raccontato che Camargue aveva detto di voler fare un nuovo testamento e glielo aveva detto poco dopo aver visto Natalie, io ho sommato due più due. E c'è un'altra cosa: Natalie si è messa in contatto con suo padre soltanto dopo avere saputo del suo fidanzamento con Dinah. L'annuncio è apparso sul "Telegraph" del 10 dicembre e il giorno 12 sir Manuel ha ricevuto una lettera con la quale la figlia gli annunciava il proprio ritorno e gli chiedeva se poteva andare a fargli visita perché desiderava riconciliarsi con lui. È chiaro che era preoccupatissima per quel matrimonio e voleva vedere se le riusciva di impedirlo.» «Meno male, che la tua amica era molto reticente!» esclamò Dora. «È stata Sheila a tirarle fuori queste cose» la rimbeccò il marito. «Posso capirlo. È tutta suo padre, come hai sottolineato tu con tanto sdegno!» Wexford tornò a rivolgersi alla figlia. «Ha cercato davvero di impedirlo?» «Dinah non l'ha detto. Penso che non parli volentieri di Natalie. Ha parlato soprattutto di Camargue. Credo che gli volesse veramente bene. In un modo un po' particolare, filiale, adorante e protettivo insieme, ma lo amava. Le fa piacere raccontare quale uomo meraviglioso fosse, come si erano conosciuti e via dicendo. Dinah insegnava alla Kathleen Camargue School e si sono conosciuti là, in occasione di una cerimonia celebrativa per l'anniversario della fondazione. È stato il classico colpo di fulmine, dice.» L'espressione leggermente cinica apparsa sul volto dei genitori fece fare a Sheila una risatina imbarazzata. «In ogni caso, è una bella scalogna» riprese alzandosi da terra e andando a sedere sul divano. «Perché ora la casa dovrà essere venduta per forza. Vorrei proprio poter andare a dare un'occhiata. Oh, perché non sono stata compagna di scuola di Natalie, invece?»
«Perché sei nata troppo tardi» rise suo padre. «E ci deve pur essere un mezzo più facile per entrare a Sterries.» C'era, difatti. «Tu?» domandò Burden, sorpreso, la mattina dopo. «E perché diavolo dovresti andarci tu? È un comunissimo furto come ne capitano ogni giorno. Cose di ordinaria amministrazione. Potrà cavarsela benissimo Martin.» Wexford non si era nemmeno tolto il cappotto. «Ho voglia di vedere la casa. Tu non sei curioso di entrare nella residenza del nostro più celebre concittadino?» Burden sembrava molto più preoccupato della dignità e del protocollo. «Ma sarebbe uno sminuirsi, per un ispettore» sbuffò. «E quando sentirai i particolari mi darai ragione. Dunque, una certa signora Arno (è la figlia del defunto sir Manuel) ha telefonato circa mezz'ora fa per denunciare un furto. Pare che durante la notte qualcuno sia penetrato in casa. Stamattina hanno trovato un vetro tagliato in una finestra al pianterreno e un gran disordine in casa. Sono sparite alcune posate d'argento e del denaro che era in una borsa della signora Arno. Niente di importante. La signora ha detto di avere visto un furgone che probabilmente apparteneva al ladro e di essere riuscita a rilevare il numero di targa.» «Mi piacciono questi casi che si chiudono appena aperti» commentò Wexford. «Li trovo davvero riposanti.» L'esperto di impronte digitali era già partito per Sterries e l'auto di Wexford riuscì a fatica a salire su per Ploughman's Lane che era una lastra di ghiaccio, nonostante la sabbia che vi era stata sparsa. Doveva essere stato un ladro ben risoluto, se era riuscito ad andare su e giù per quella strada di notte, osservò Burden. In cima alla collina, il paesaggio appariva decisamente montano con conifere verde scuro, oro e grigio che svettavano fuori da una coltre di neve. Persino la casa, che assomigliava a una serie di scatoloni messi insieme a casaccio, con una torre al centro, non appariva più bianca, ma di un grigio quasi sporco contro quel candore abbagliante e il vento faceva ruotare vorticosamente la banderuola a chiave di violino, nera sullo sfondo del cielo diventato ora di un azzurro ceruleo. La porta fu aperta da una donna sulla quarantina che Wexford immaginò fosse Muriel Hicks. I due ispettori entrarono nel vestibolo caldo, dal pavimento ricoperto da un folto tappeto. La stanza, con bellissime credenze di quercia, non sembrava molto ampia, ma sul fondo un'arcata immetteva in
una sorta di galleria alle pareti della quale erano appesi alcuni quadri che strapparono a Wexford un fischio sommesso. Se erano autentici... Oltre la galleria c'era la sala da pranzo, con pannelli di legno chiaro alle pareti e pesanti mobili di mogano e lì si trovava in quel momento Morgan, l'esperto di impronte digitali, intento al suo lavoro. Un'ampia scala portava al piano superiore. Se anche era vero che la signora Hicks aveva nutrito un deferente e affettuoso rispetto per il defunto sir Manuel (che, a quanto aveva detto Sheila, i suoi domestici adoravano), ora non si poteva certo dire che manifestasse né deferenza né rispetto per i poliziotti. Lei era di sopra, disse, e non ci fu verso di cavarle di bocca niente altro. Wexford salì mentre Burden raggiungeva Morgan in sala da pranzo. La casa era stata costruita a diversi livelli, così che il salotto dove venne a trovarsi Wexford era al primo piano da una parte e al pianterreno dall'altra. Era una bella stanza, vasta e ariosa, con due pareti interamente di vetro, un tappeto cinese giallo pallido, panchette e poltrone ricoperte di seta in due diverse tonalità di giallo, una splendida collezione di preziosissime porcellane e un lampadario a cristalli che pareva una cascata d'acqua che scaturisse da un vaso rovesciato. In fondo alla sala, alcuni gradini portavano a quella che doveva essere senza dubbio la torre. Ma nel salotto non c'era anima viva. Wexford proseguì oltre un'arcata sostenuta da colonne e si trovò in una sala da musica a dodici lati nella quale troneggiava un enorme pianoforte a coda. Su otto dei dodici lati c'era una nicchia entro la quale si trovava un busto raffigurante un musicista famoso, su altri due spiccavano i ritratti di Picasso e di Stravinsky disegnati da Cocteau e contro gli ultimi due erano appoggiate vetrinette contenenti una il calco in gesso delle mani di Chopin e l'altra uno strumento a fiato che a Wexford parve un flauto in oro, con una breve didascalia: DONATO A MANUEL CAMARGUE DA ALDO CAZZINI - 1949. Era davvero un flauto d'oro? si domandò Wexford. Sollevò il coperchio di un astuccio posato sopra un tavolinetto e vide un altro strumento uguale, ma fatto con un metallo meno nobile, forse d'argento. Stava pensando di scendere di nuovo al pianterreno e di mandare Muriel a cercare la signora Arno quando si rese conto che qualcuno doveva essere entrato nella sala da musica, alle sue spalle, e si voltò. Sotto l'arcata era ritta Natalie Arno che lo fissava con un'espressione insondabile. 4
Wexford fu il primo a parlare. «Buongiorno, signora Arno.» Lei non rispose. Continuò a restare immobile sotto l'arcata, una mano appoggiata a una guancia e l'altra a una colonna. Wexford si presentò, poi aggiunse in tono cordiale: «A quanto mi è stato riferito, c'è stato un furto in casa vostra, non è così?» Non avrebbe saputo dire perché, ma ebbe la netta sensazione che Natalie si sentisse sollevata. Il suo viso non aveva mutato espressione e passò ancora qualche istante prima che si muovesse, ma finalmente fece qualche passo avanti. «Siete stato molto gentile a venire subito.» La sua voce era diversa da quella di Dinah Sternhold quanto era possibile che differissero fra loro due voci femminili. Aveva un lieve accento americano e sotto sotto pareva ci fosse una vaga sfumatura divertita. «Temo proprio di avere fatto tanto rumore per nulla. È stato rubato soltanto qualche cucchiaio.» Fece una smorfia buffa, strascicando un poco le parole. «Ma venite, torniamo in salotto e vi spiegherò tutto.» Aveva il tipo che si sarebbe definito spagnolo, formosa ma snella, il naso diritto anche se un pochino troppo lungo, la bocca carnosa e bene arcuata, gli occhi splendenti, vicini al nero notte quanto potevano esserlo gli occhi di una donna bianca. I capelli nerissimi erano pettinati all'indietro e raccolti in una crocchia alta sulla nuca, in una foggia che poche donne avrebbero potuto adottare con vantaggio ma che a lei donava moltissimo, mettendo in risalto la fine ossatura del suo volto. E la sua figura non era meno sensazionale del suo viso, sottile ma con un seno prepotente, che la gonna attillata e il pullover di lana leggera non servivano certo a camuffare. Un aspetto di quel genere, ideale per le fantasticherie mascoline, dà sempre a una donna un'aria leggermente indecente, soprattutto se si accompagna a un atteggiamento un poco provocante. E Natalie, anche se non lo faceva apposta, camminava ancheggiando in una maniera che non era certo molto castigata. In salotto trovarono altre due persone, un uomo e una donna, che si comportavano come ospiti che si fossero appena alzati e si aggirassero incerti alla ricerca della prima colazione. L'ispettore Wexford si ritrovò a riflettere, per la prima volta, che era stata una discreta sfacciataggine da parte di Natalie Arno precipitarsi con tanta fretta non soltanto a prendere possesso di Sterries, ma addirittura invitarvi degli amici. «Questo è l'ispettore capo Wexford che è venuto per acciuffare il nostro
ladro» annunciò la signora. «I miei amici, Ivan e Jane Zoffany.» Ivan Zoffany era uno degli uomini che erano con lei all'inchiesta. Sulla quarantina, aveva capelli biondi folti e ondulati e una bella barba da vichingo, ma la sua figura risultava alquanto compromessa da un rotolo di grasso che debordava dai jeans un po' troppo giovanili e attillati, mentre sua moglie, in un abbigliamento da hippy ormai irrimediabilmente sorpassato, era una donnina esile, ancora abbastanza giovane, forse più giovane di Natalie, ma sciupata in viso e con evidenti fili grigi fra i capelli neri e ricciuti. Natalie sedette in un'ampia poltrona color giada e incrociò con grazia le caviglie sottili, mentre la signora Zoffany si accoccolava sul pavimento, stringendosi intorno alle ginocchia la lunga camicia a toppe di vari colori, simbolo di un passato ormai tramontato, e alzando sull'amica gli occhi colmi di attesa. «Vi dirò tutto quello che so» cominciò Natalie «ma temo che non sia davvero molto. Credo che fossero circa le cinque, stamattina, quando mi è sembrato di udire un rumore di vetri infranti. Io dormivo nella camera di papà, mentre Jane e Ivan erano in una delle camere per gli ospiti, nell'altra ala. Tu hai sentito niente, vero, Jane?» Jane scosse vigorosamente la testa. «No, purtroppo. E mi dispiace, perché forse avrei potuto fare qualcosa.» «Non sono scesa. A dire la verità, avevo un po' paura.» Fece un sorrisetto di autocompatimento, ma aveva tutta l'aria di non sapere nemmeno che cosa fosse, la paura. Wexford la trovava sempre più affascinante. «Però ho guardato dalla finestra, sul lato dove le stanze risultano quasi a pianterreno, e proprio là davanti ho visto un furgone fermo. Allora ho acceso la luce e sono riuscita a prendere il numero di targa. Devo averlo qui da qualche parte. Oh, dove l'avrò messo?» Jane Zoffany balzò in piedi. «Te lo cerco io, l'avevi posato qui, da qualche parte, me lo ricordo...» Prese a guardare qua e là, impigliando dappertutto le frange dello scialle che portava. Natalie sorrise, con un'espressione che a Wexford parve vagamente protettiva. «Non sapevo che fare» riprese. «In camera del babbo non c'è telefono e mentre ero lì indecisa, ho sentito il furgone allontanarsi. Allora ho trovato il coraggio di scendere in sala da pranzo, così ho visto che a una finestra c'era un vetro sfondato.» «Peccato che non ci abbiate telefonato subito. Forse saremmo riusciti ad acciuffare l'intruso.»
«Lo so!» sospirò Natalie, poi fece una sommessa risatina un po' impacciata e un po' divertita. «Ma poi ho scoperto che erano spariti soltanto sei cucchiai d'argento e due biglietti da cinque sterline. Avevo lasciato la mia borsa sopra la credenza.» «Ma voi come fate a sapere se non è sparito altro, signora Arno?» «Giusto. Non posso saperlo. Ma la signora Hicks ha controllato con me, stamattina, e ha detto che non manca altro.» «Abbastanza strano, no? In una casa piena di tanti oggetti di grande valore... Al pianterreno ci sono un Kandinsky e un Bourdin, se non sbaglio. Quelle sono stampe di Hockney, firmate, e quelle porcellane gialle...» Natalie parve stupita delle cognizioni di Wexford. «Sì, ma...» Arrossì lievemente. «Mi giudicherete presuntuosa se vi dico che ho una mia teoria?» «No, tutt'altro! Sentiamo.» «Bene, anzitutto penso che il ladro sapesse qual era la camera del babbo e avesse pensato che, morto lui, quella camera fosse vuota. Poi credo che si sia spaventato vedendo accendersi la luce e se la sia data a gambe senza attardarsi per rubare altro. Che ve ne pare?» «È una possibilità» ammise Wexford mentre Jane Zoffany gli si avvicinava con un foglietto sul quale era segnato il numero di targa del furgone. Natalie non si disturbò a ringraziarla. Si alzò raddrizzando le spalle e gettando indietro la testa, in un atteggiamento che mise ancora di più in risalto la sua sorprendente figura. Sarebbe bastato il cerchio di due mani per circondare il suo vitino di vespa. «Desiderate vedere il resto della casa?» domandò. «Sono certa che il ladro non è salito fin qui.» A Wexford sarebbe piaciuto, ma a che scopo? «Di solito, in casi come questo ci limitiamo a chiedere che si faccia un elenco degli oggetti mancanti» spiegò. «Parlerò con la signora Hicks, se non vi dispiace...» «Ma certo!» In tutto quel tempo, Ivan Zoffany aveva fatto scena muta e Wexford, pur senza guardarlo, aveva avuto la sensazione che rimuginasse una sorta di immusonito rancore per essere tenuto fuori da una questione che pareva più da uomini che da donne. Ma ora lo guardò ed ebbe un colpo. Ivan teneva gli occhi fissi su Natalie, come probabilmente aveva fatto per tutto quel tempo, con un'espressione impenetrabile da ipnotizzato, un'espressione che avrebbe potuto significare indifferentemente disprezzo, invidia, desiderio o puro e semplice odio. Wexford non fu capace di analizzarla ma
provò una fitta di compassione per Jane Zoffany o per chiunque fosse stato costretto a convivere con una passione così divorante. Passando per la stanza da musica, Muriel Hicks accompagnò anzitutto Wexford in quello ch'era stato l'appartamento privato di Camargue, stanza da letto, salotto-studio e bagno, arredati più sobriamente delle altre stanze e con persiane alle finestre invece di tende. Sul letto c'era un vestito di Natalie. Muriel Hicks non aveva ancora aperto bocca. Non era una donna piacente, con quel suo colorito rosa acceso che si accompagna quasi sempre ai capelli rossi e a lineamenti un po' porcini e Wexford che, avendo cominciato con lo sposarne una, era sempre attorniato da belle donne, si domandò come mai Camargue, che pure aveva una figlia tanto bella, si fosse scelto una donna tanto brutta come governante e una tanto insignificante come seconda moglie. Ma si pentì subito di quel pensiero perché, girandosi, vide che la signora Hicks stava piangendo. Aveva posato una mano sullo schienale di una poltrona sopra la quale c'era una coperta piegata e le lacrime le scorrevano liberamente sulle guance tonde e colorite. Non si scusò per quelle lacrime. «Ho perduto il miglior padrone del mondo» disse soltanto, asciugandosi il viso «e l'amico più buono che mai una persona possa trovare. È stata una cosa terribile, ve l'assicuro.» «Sì, certo, una gran brutta faccenda.» «Se guardate dalla finestra, vedrete una casetta laggiù, sulla sinistra. È la nostra. Proprio nostra, intendo... ce l'aveva regalata. Non voglio che vi sentiate in casa d'altri, aveva detto; se siete abbastanza bravi per servirmi, meritate di avere una casa vostra per viverci.» Era una villetta in stile vittoriano, con un suo vialetto particolare che portava in Ploughman's Lane. A Sheila non sarebbe importato niente se non fosse stata compresa nell'eventuale vendita di Sterries, pensò Wexford mentre, a beneficio della signora Hicks, fingeva di esaminare il punto dove, a detta di Natalie Arno, era stato fermo il furgone. «Non ce n'è tanti come lui» riprese a dire Muriel mentre uscivano dall'appartamento. Un epitaffio calzante, forse il migliore, certamente il più semplice che Camargue avrebbe mai avuto. Ripercorsero il corridoio, riattraversarono la stanza da musica e il salotto, ora deserto, e passarono nell'altra ala, dove c'erano un salone tappezzato di libri e tre stanze da letto ognuna col proprio bagno. Tutte le porte erano aperte e in una delle camere, ritta davanti a un grande specchio e intenta a studiare l'effetto di diverse maniere per chiudere il colletto di una decrepita
pelliccia di agnellino persiano, c'era Jane Zoffany. Alla vista di Wexford, la donna si profuse in una sequela di scuse e se ne andò quasi di corsa, seguita dallo sguardo gelido di Muriel. «Qui non è sparito niente» disse la governante. «E in ogni caso, quei due avrebbero sentito qualcosa.» Wexford sperò per un attimo che la signora Hicks potesse perdere una seconda volta il controllo dei propri nervi e si lanciasse in una tirata contro la figlia di Camargue e i suoi amici. Ma lei non aggiunse altro e lo accompagnò senza aprir bocca nelle altre camere. Come mai, si domandò Wexford, Natalie Arno aveva scelto per sé la camera del padre morto da poche ore, così austera e funzionale, invece che una di quelle stanze lussuose, con scendiletti di pelliccia e soffici piumini sui letti? Forse per restare lontana dagli Zoffany? Ma erano pure suoi amici ed era da presumere che li avessi invitati lei. Per godersi il trionfo del possesso e gustarlo fino in fondo andando a dormire proprio nella camera che era stata il sancta sanctorum del defunto proprietario? Venne in mente a Wexford che con quell'atto Natalie doveva avere arrecato un profondo dolore alla signora Hicks, ma subito dopo l'ispettore rimproverò se stesso per quelle speculazioni inutili. Era venuto lì unicamente per investigare su un furterello da quattro soldi e, in via riservata, per dare un'occhiata in vista di un probabile acquisto. «Che cosa c'è in quel cassone?» domandò indicando un voluminoso mobile in tek scolpito, con maniglie d'ottone, che stava in corridoio. «Soltanto coperte.» «E in quella credenza?» La signora Hicks aprì uno sportello. «Qui non manca niente.» Wexford tornò al pianterreno e nel vestibolo trovò Burden, Natalie e gli Zoffany, l'uomo che aveva visto spazzare il viale e una signora in pelliccia di volpi marrone scuro che doveva essere appena arrivata. Erano tutti vestiti per uscire e mentre andava loro incontro l'ispettore fu sgradevolmente colpito nel constatare come Natalie e i suoi due amici avessero un'aria assai poco rispettabile a paragone con gli altri tre. Burden era sempre molto ben vestito e in quel momento, con il suo nuovo giaccone di pelle di pecora, lo era più che mai. La signora era molto elegante, con la pelliccia di volpe, un maglioncino di cachemire color crema e i guanti di pelle morbidissima, persino Ted Hicks, in stivali e pesante giaccone di cuoio, aveva l'aria di un gentiluomo di campagna. Accanto a loro, Natalie e gli Zoffany sembravano degli straccioni. Il vecchio cappotto di Ivan era logoro e sdrucito, diversi strati di sottane disordinate pendevano oltre l'orlo
della frusta pelliccia di Jane e la stessa Natalie, in un cappotto che pareva ricavato da una vecchia coperta, con stivali a tacco piatto fuori moda e così logori da far pensare che li avesse comprati da un rigattiere, aveva l'aria di una rivendugliola in ribasso con le finanze. Non erano davvero un terzetto che ci si sarebbe aspettati di veder uscire da una dimora di Ploughman's Lane. La signora in pelliccia era una vicina (ammesso che si potesse parlare di vicini quando due proprietà erano separate da circa mezzo ettaro di terreno) che Burden si affrettò a presentare come la signora Murray-Burgess. La signora aveva visto le auto della polizia, poi aveva incontrato Ted Hicks e pensava di poter fornire qualche informazione utile. Passarono tutti in sala da pranzo, dove Hicks si apprestò a chiudere con assi la finestra rotta, e Wexford invitò la signora Murray-Burgess a parlare. Aveva visto un uomo nel parco di Sterries, dichiarò lei. No, non la notte scorsa, ma qualche giorno prima. Lo aveva anche detto al signor Hicks, ma non ricordava esattamente che giorno fosse. La notte precedente, poi, svegliatasi come al solito verso le cinque e mezzo, aveva visto le luci di un automezzo che svoltava da Sterries nel viale. Wexford fece un cenno d'assenso. Avrebbe saputo riconoscere quell'uomo, se lo avesse rivisto? «Certamente» rispose con enfasi la signora Murray-Burgess. «E non esiterei a farlo. Bisogna stroncare queste cose sul nascere, prima che il paese vada in malora. Prontissima anche a testimoniare in tribunale, se vorrete. È tempo che qualcuno dia il buon esempio!» Natalie ascoltava impassibile, ma a Wexford parve di sorprendere nei suoi occhi lo scintillìo di una risatina. A quel punto, chiunque altro al suo posto si sarebbe rivolto a quella ricca e maestosa signora per ringraziarla del cortese interessamento e del senso civico, molti avrebbero probabilmente proposto di rivedersi presto per un incontro di carattere più personale, qualcuno avrebbe persino tirato in ballo il povero morto e il prossimo servizio funebre. Natalie si limitò a ignorare completamente la signora Murray-Burgess. Scambiò una stretta di mano con Wexford ringraziandolo calorosamente e sottolineando i ringraziamenti con una significativa pressione delle dita, ringraziò allo stesso modo Burden, gratificandolo di un sorriso adescatore, poi sospinse i due poliziotti verso la porta e, con gli Zoffany alla retroguardia, tutti uscirono nella gelida aria del mattino dorato da un bel sole splendente. La povera signora Murray-Burgess, abbandonata in sala da pranzo con Ted Hicks, ne emerse da sola dopo qualche minuto con un'espressione di oltraggiato stupore.
5 Il numero di targa consentì di rintracciare immediatamente il proprietario del furgone. Era un certo Robert Clifford, di Finsbury Park, a nord di Londra, un tecnico di apparecchi radiotelevisivi, il quale disse di avere prestato il furgone a un suo vicino di casa, John Cooper, di trentasei anni. Cooper, disoccupato, ammise il furto dopo che fu trovato in possesso dei cucchiai d'argento e confessò candidamente di avere letto sul giornale la notizia della morte di Camargue e la descrizione di Sterries. «Era un vero e proprio invito a farsi quel posto» ammise con sfacciata impudenza. «Tutto quel parlare di oggetti preziosi e quadri e porcellane, con il particolare che la governante non dormiva nella casa. E difatti non c'era, la prima volta che ci sono andato.» «E quando c'era andato?» «Martedì notte» rispose Cooper. Ma si riferiva al martedì 29, due giorni dopo la morte di Camargue, quand'era tornato per commettere il furto. «Non sapevo quale fosse la camera del vecchio, naturalmente. Come avrei potuto? I giornali mica avevano pubblicato la pianta di quella maledetta casa.» Aveva parcheggiato il furgone davanti a quella finestra unicamente perché gli era sembrato il posto più adatto, al riparo dalla strada. «È stato un colpo quando ho visto accendersi la luce.» Sembrava indignato, come se fosse stato insensatamente interrotto nel legittimo esercizio delle proprie mansioni. Lo rispedirono in carcere, in attesa di giudizio. Wexford fece alla figlia un rapporto molto favorevole sulla casa di Camargue, ma frattanto Sheila aveva cambiato idea. La casa di Andrew in Keats Grove sarebbe andata benissimo, disse; poi c'era il villino nel Dorset e inoltre, se fossero venuti ad abitare nel Sussex, avrebbero dovuto tenersi un altro appartamento a Londra perché lei non avrebbe potuto tornare a Kingsmarkham ogni sera dopo lo spettacolo, no? Intanto, l'agenzia immobiliare aveva trovato un probabile acquirente per il suo appartamento di St John's Wood, e a un prezzo insperato, concluse. Il giorno dell'ufficio funebre splendeva un sole meraviglioso e il paesaggio era decisamente montano, osservò Wexford, con la neve scintillante che si scioglieva per un momento sotto i raggi tiepidi per raggelarsi poi subito in lastre lucenti come vetro. Tornando da una scuola dov'era stato chiamato per una faccenda di droga, passò da St Peter mentre i dolenti se
ne stavano andando. Le uniformi rendono gli uomini tutti uguali e in quel caso, cappotti e cappelli neri potevano mascherare un celebre accompagnatore di sir Manuel oppure il suo vinaio. Wexford si fermò a spiare come un cacciatore alla posta. Sheila riuscì a sgattaiolare via con Dinah Sternhold, gli Zoffany non si vedevano da nessuna parte ma Natalie Arno, che stringeva il braccio di un vecchiettino così fragile da far temere che il vento potesse portarselo via da un momento all'altro, stava ritta sui gradini, scambiando strette di mano con gli invitati che si congedavano. Portava un cappotto nero e un ampio cappello pure nero, nuovissimi ed evidentemente acquistati per l'occasione, e si teneva molto eretta, con le caviglie sottili accostate. Prima di allontanarsi, Wexford ebbe il tempo di osservare una volta ancora che, mentre parecchie decine di persone le avevano stretto la mano e avevano proseguito, quattro o cinque uomini, oltre al vecchiettino, erano rimasti con lei. Sorrise fra sé, divertito nel constatare che le sue previsioni si avveravano. Alla fine della settimana, Sheila ricevette dall'agenzia la conferma che le trattative per la vendita del suo appartamento parevano avviate a buon fine e questo la mise di fronte a un dilemma. Doveva firmare il contratto e andarsene tranquillamente in luna di miele alle Bermude, lasciando l'appartamento con mobili e tutto, o doveva provvedere a liberarlo, immagazzinando i mobili da qualche parte prima di partire? Persuasa dalla sua saggia genitrice, finì col decidersi per la seconda soluzione. Fissò il trasporto per il mercoledì precedente il suo matrimonio e Wexford, che aveva la giornata libera, promise di andare con lei a St John's Wood. «Perché non andiamo anche noi alle Bermude?» disse Dora al marito. «Be', so che ai tempi della regina Vittoria le spose solevano portare con sé un'amica, in viaggio di nozze» ribatté lui «ma non ho mai sentito che ci andassero coi genitori.» «Tesoro, non intendevo con lei! Più avanti, intendevo, quando ti prenderai le ferie. Penso che potremmo permettercelo, visto che risparmiamo le spese del matrimonio.» «E la macchina nuova? E il nuovo tappeto per l'ingresso? Inoltre, credevo che la vita ti sembrasse intollerabile senza un congelatore.» «Tanto, non potremmo comprarci tutto!» «Ah, questo è certo!» concluse recisamente Wexford. Una splendida vacanza o l'auto nuova? In quel momento, mentre si recava al tribunale di Myringham dove stava per essere giudicato Cooper,
sembrava a Wexford che mille sterline di sole e di caldo dovessero avere la precedenza su tutto. La neve ammantava ancora ogni cosa e il bel tempo aveva lasciato il posto a una nebbia gelida. Ma l'avrebbe pensata alla stessa maniera quando fossero tornati il sole e il caldo? Allora il congelatore e il tappeto nuovo gli sarebbero sembrati probabilmente la scelta più saggia. Cooper fu riconosciuto colpevole di furto con scasso e, poiché era recidivo, venne condannato a sei mesi di detenzione. La signora MurrayBurgess, che aveva assistito al processo, arrossì di soddisfazione quando udì la sentenza. Durante tutta l'udienza, aveva fissato l'imputato con l'espressione timorosa e affascinata con la quale avrebbe potuto fissare un toro o una tigre in gabbia. Sulla via del ritorno, Wexford pensò di fare una capatina a Sterries per portare la notizia a Natalie Arno. Probabilmente sarebbe stata soddisfatta della condanna quanto lo era stata la sua vicina e ora almeno avrebbe potuto rientrare in possesso dei suoi preziosi cucchiai. Ma poiché era abituato a essere onesto con se stesso, Wexford si domandò se fosse quello l'unico motivo che lo conduceva in Ploughman's Lane. In fin dei conti, quel compito sarebbe stato più adatto a un semplice agente di polizia. Allora, si sentiva anche lui attratto da Natalie, come gli uomini che la circondavano? Si rivolse schiettamente quella domanda e con pari schiettezza rispose a se stesso un inequivocabile no. Natalie lo divertiva, lo incuriosiva, gli dava la sensazione che sarebbe stato interessante osservarla mentre era intenta a manipolare qualche inghippo, ma non esercitava su di lui alcuna attrazione. Anzi, Wexford ricordava bene come nella sala da musica, ancora prima di avere parlato con lei, avesse avvertito la sua presenza alle proprie spalle come qualcosa di sgradevole. Era bella da guardare, indubbiamente una donna in gamba, piena di fascino, ma tutto sommato con qualcosa di ambiguo, di serpentino. I suoi movimenti sinuosi gli richiamavano alla mente quelli di un rettile e persino i suoi splendidi occhi, quando Natalie abbassava lo sguardo, parevano incappucciati come quelli di un serpente. Wexford non correva dunque alcun pericolo, andando a Sterries. Non avrebbe avuto alcun bisogno di farsi legare all'albero maestro. Si sarebbe trattato di una pura e semplice visita di cortesia alla signora Arno, per darle un'informazione professionale, una visita che tuttavia gli avrebbe offerto l'occasione di osservare una forte personalità al lavoro sui deboli. Sempre che gli Zoffany fossero ancora là. Erano le tre pomeridiane di una giornata grigia e cupa. Nessuna luce
splendeva alle finestre di Sterries, ma questo non significava niente. Molti preferiscono adattarsi al buio piuttosto che anticipare la sera accendendo la luce. Wexford suonò il campanello. Suonò e suonò ancora, e fu contento di non sentirsi troppo deluso perché non c'era nessuno in casa. Dopo una breve riflessione, scese alla casetta degli Hicks e Ted aprì la porta al primo squillo del campanello. No, la signora Arno non era in casa, disse. Era tornata a Londra. Prima erano partiti i suoi amici, poi se n'era andata anche lei, lasciando lui e Muriel a custodire la casa. «Ha intenzione di tornare?» «La signora Arno non l'ha detto, signore.» Ted parlava in tono estremamente rispettoso e nell'insieme aveva, molto più di sua moglie, l'aria del vecchio domestico fedele e affezionato, eppure anche con lui Wexford ebbe l'impressione che da un momento all'altro potesse abbandonare tutta la propria riservatezza e lasciarsi andare a pettegolezzi feroci sul conto della nuova padrona e dei suoi amici. Ma non accadde niente del genere. Tenendo le labbra ben chiuse, Hicks guardò Wexford con viso impassibile, evitando tuttavia di incontrare i suoi occhi. «Volete entrare, signor ispettore? Posso darvi l'indirizzo della signora Arno a Londra, se credete.» A che scopo? si domandò Wexford. Declinò l'invito, ringraziò Ted poi, come per un pensiero improvviso, chiese se la signora pensava di vendere la casa. «È molto probabile, signore.» Hicks parve ammorbidirsi un poco. «In ogni caso, noi venderemo questa. È troppo penoso per noi restare qui, ora che sir Manuel se n'è andato.» Pareva dunque che Natalie avesse detto addio per sempre a Kingsmarkham. Forse intendeva stabilirsi a Londra o addirittura tornarsene in America. Wexford ne parlò a Sheila la mattina seguente mentre l'accompagnava a Londra per lo sgombero del suo appartamento, ma lei aveva ormai perduto ogni interesse per Sterries. In quel momento i suoi pensieri erano tutti rivolti al lungo articolo, con fotografia, su di lei e le sue prossime nozze apparso quella mattina su un giornale. In Hamilton Terrace trovarono ad aspettarli il furgone dei traslochi con due uomini alquanto spazientiti, che tuttavia si ammansirono immediatamente non appena videro chi era la proprietaria dell'appartamento. Mentre salivano in ascensore, il più giovane dei due osò persino chiederle un autografo da portare alla moglie che, disse, non aveva perduto una sola puntata di Runway. I due uomini conoscevano molto bene il loro mestiere ed erano molto
robusti, perciò lo sgombero risultò assai meno complicato del previsto. Alle due era tutto finito e Wexford portò la figlia a pranzo in un piccolo ristorante francese che si trovava nelle vicinanze. Ordinò una bottiglia di Domaine du Parc e quando, alla fine del pranzo, alzò il bicchiere per brindare alla futura felicità di Sheila si senti stringere il cuore da una pena per lui inconsueta. Sheila era il suo grande tesoro, gli si gonfiava il cuore d'orgoglio quando vedeva la gente guardarla, girarsi a sussurrare qualcosa e poi guardarla di nuovo. E anche se era vero che da anni sua figlia non era più soltanto sua perché era diventata una sorta di proprietà pubblica, con sabato sarebbe diventata proprietà di Andrew e lui l'avrebbe perduta per sempre... L'accompagnò ad Hampstead, dove Sheila avrebbe trascorso la notte, e riprese il lungo viaggio di ritorno a Kingsmarkham, ma, poco pratico di Londra, si lasciò intrappolare nel gran traffico ed erano ormai passate le sette quando finalmente varcò la soglia di casa. Dora gli andò incontro nell'ingresso. «Reg» sussurrò «c'è quell'amica di Sheila che doveva sposare sir Manuel, quella Dinah non so più cosa.» «Ma non le hai detto che Sheila non sarebbe ornata a casa, questa sera?» Benché si rendesse conto della necessità di marciare coi tempi, benché sapesse che Andrew e Sheila dovevano essere praticamente vissuti insieme negli ultimi anni, Dora cercava ancora di far apparire la figlia come una tenera fidanzatina all'antica e l'espressione accusatrice del marito, che disapprovava quel suo atteggiamento da cosa dirà la gente la fece avvampare di rossore. «Non vuole Sheila, vuole te. È qui da un'ora, ha insistito per aspettarti. Dice...» Dora gli piantò gli occhi in viso. «Dice di avere saputo soltanto stamattina che sei un poliziotto.» Stavolta Dinah non s'era portato il cane. Sedeva accanto al caminetto in soggiorno, con lo sguardo fisso alle fiamme e la mente perduta dietro ai propri pensieri. Balzò in piedi non appena vide Wexford e le sue guance pallide si colorirono leggermente. «Mi dispiace tanto per il fastidio che vi do, signor Wexford! Ma credetemi, non sarei venuta da voi se non avessi pensato che ciò che debbo dirvi è di importanza vitale. Ho riflettuto molto, mi sono angustiata tanto da perderci il sonno e finalmente stamattina, quando ho scoperto che voi siete ispettore capo del reparto investigativo...» «L'avete letto sul giornale, vero?» l'interruppe lui con un sorriso. «In un
articolo che parlava di Sheila come della "bellissima figlia di un poliziotto di campagna...".» «Sì. Sheila non me lo aveva mai detto. E perché avrebbe dovuto dirmelo? Nemmeno io le ho detto che mio padre era direttore di banca!» Wexford sedette. «Sicché avete da dirmi una cosa molto grave, ma vi dispiace se ci beviamo qualcosa, intanto? Io sono un po' stanco e voi, se non sbaglio, avete bisogno di una piccola iniezione di coraggio!» Per ordine del suo medico, Wexford non poteva permettersi alcoolici più robusti di un vermut ma con sua grande sorpresa Dinah chiese un whisky per quanto, a giudicare dal modo come rabbrividì al primo sorso, non dovesse essere avvezza a bevande di quel genere. La ragazza alzò sull'ispettore quei suoi occhi grigio-bruni che sembravano soffusi di una morbida luce. Wexford aveva giudicato insignificante il suo viso ma ora si rese conto che non era così e intuì a un tratto che cosa Camargue aveva visto in lei. La stessa espressione di acuta sensibilità spirituale che aveva caratterizzato il viso di sir Manuel si leggeva in maniera anche più evidente sul viso della sua ex promessa sposa. Il vecchio musicista e la sua giovane fidanzata avevano avuto in comune il modo di guardare alla vita: gentile, impulsivo, gioioso. Ma non c'era gioia, ora, sul viso delicato di Dinah; sembrava anzi piuttosto turbato dal dubbio e forse dalla paura. «Dovevo parlare con qualcuno!» riprese la giovane donna. «Me ne sono resa conto subito, dopo... la scomparsa di Manuel. Avevo pensato ai suoi avvocati, dapprima, ma poi me li sono immaginati lì ad ascoltarmi mentre, sapendo che non avrei ereditato un quattrino, probabilmente pensavano che parlassi per rabbia. E andare alla polizia sembrava così... esagerato! Così stamattina, quando ho letto sul giornale... voi siete il babbo di Sheila, so che non... Oh, scusatemi, sono così confusa! Ma voi mi capite, vero?» «Capisco che siete molto perplessa all'idea di rivelare qualcosa, ma non immagino affatto di che cosa si possa trattare.» «Oh, senza dubbio! Il fatto è, vedete, che stento a crederlo io stessa. Sembra una cosa tanto... strampalata! Ma Manuel ne era convinto, profondamente convinto, così ho ritenuto che fosse mio dovere comunicarlo a qualcuno.» «Certo, signora Sternhold, mi sembra giusto. E ora, volete dirmi di che si tratta? I commenti li faremo dopo.» Dinah posò il bicchiere, distogliendo per un attimo lo sguardo, il viso lievemente arrossato dal riflesso delle fiamme.
«Ecco qui, dunque. Manuel mi aveva detto che Natalie Arno, o la donna che si faceva chiamare così, non era sua figlia. Lui era certo che di trattasse di un'impostora.» 6 Wexford non disse niente né il suo viso rivelò niente di quel che pensava. Dinah lo guardava fisso, ora, con espressione sempre più dubbiosa, le mani strette l'una nell'altra premute sotto il mento. Nel riverbero delle fiamme il rubino del suo anello ammiccava come una brace. «Ecco, tutto qui. Avevo ragione di esitare, no? Però io non ci credo. Oh, intendiamoci, con questo non voglio dire che il cervello di Manuel non funzionasse troppo bene, per carità; era sempre in gamba come un giovanotto. Ma non ci vedeva più tanto bene ed era in un tale stato di agitazione all'idea di rivedere finalmente la figlia, dopo diciannove anni di lontananza, e forse lei non è stata molto gentile e... Oh, non lo so! Quando mi ha detto che quella non era la vera Natalie, che era un'impostora e che lui non le avrebbe lasciato un penny, io...» «Perché non mi raccontate tutto quanto per bene, dal principio?» l'interruppe Wexford. «Da quando quella donna è ritornata qui in novembre.» Dora mise dentro la testa. Wexford capì che intendeva chiedergli se poteva servire la cena, ma lei si ritrasse senza aprir bocca. Fu Dinah a osservare: «Ma io vi faccio far tardi per la cena.» «Non preoccupatevi. Dunque, torniamo a novembre.» «Io so soltanto che era tornata in novembre. Ma non si mise in contatto con Manuel fino alla metà di dicembre... il 12, per essere esatti. Gli scrisse dicendo che era tornata per vederlo, per fare la pace con lui, ma non accennò neppure al nostro matrimonio. Suggeriva di far Natale con Manuel, ma quando lui le rispose che andava benissimo e che ci saremmo stati anch'io e i miei genitori, lei riscrisse dicendo che preferiva rivederlo da sola a solo, la prima volta. A raccontarlo così, sembra tutto molto semplice, lei che scrive, lui che risponde eccetera, ma non fu affatto così. La prima lettera della figlia lo scombussolò addirittura. Era... be', eccitatissimo all'idea di rivederla ma anche molto confuso e direi quasi impaurito. Gli suggerii di telefonarle, Natalie gli aveva mandato il proprio numero di telefono, ma non seppe risolversi a farlo. Sapete, aveva qualche difficoltà col telefono, se parlava con qualcuno che non lo conosceva. Il suo udito era per-
fetto soltanto se lui vedeva il suo interlocutore. Comunque, lei propose di incontrarsi il 10 gennaio e questo gettò di nuovo Manuel in uno stato di terribile eccitazione. Né io né gli Hicks avremmo presenziato all'incontro. Muriel avrebbe preparato tutto per il tè e avrebbe poi pensato Manuel a servirlo. Inoltre le fece anche preparare una camera, per il caso che Natalie decidesse di fermarsi a Sterries. «Qualche giorno prima di quello fissato per la visita» continuò Dinah «mi pare che fosse il 7 gennaio, telefonò una certa signora Zoffany. Fu Muriel a prendere la telefonata perché Manuel dormiva. Questa signora Zoffany disse che Natalie non avrebbe potuto venire il 10 come fissato perché doveva farsi ricoverare in ospedale per certi controlli e chiese se avrebbe potuto spostare la data al 19. Manuel la prese malissimo. Andai a trovarlo, quella sera, e lo trovai nervoso e depresso. Continuava a ripetere che Natalie non voleva affatto far pace con lui, che quella forse era stata la sua intenzione da principio, ma ora aveva cambiato idea e cercava di liberarsi dall'impegno di andare a visitarlo. Diceva che tanto lui sarebbe morto presto e che per me sarebbe stata senz'altro una fortuna non essermi legata a un vecchio, eccetera... Un monte di sciocchezze, naturalmente, ma abbastanza logiche, tutto sommato. In realtà, credo che morisse dalla voglia di rivedere sua figlia.» «E la rivide, il 19 di gennaio?» «Sì. Lei arrivò verso le tre del pomeriggio. Venne da Londra in treno poi si fece portare a Sterries in taxi. Manuel pregò gli Hicks di non disturbarli e Ted si portò via persino Nancy. Muriel lasciò tutto pronto per il tè e una cena fredda in frigorifero.» «Così quando la donna arrivò, sir Manuel era completamente solo?» «Esatto. Quel che vi dirò è ciò che mi disse lui il giorno seguente, domenica, quando si fece portare da Ted a casa mia. Mi disse che dapprima aveva inteso mostrarsi piuttosto freddo e distaccato con la figlia.» Dinah sorrise con tenerezza a quel ricordo. «Ma non ne sarebbe stato assolutamente capace, sapete, io lo conoscevo bene. E difatti come le aprì la porta, scordò tutto quanto e strinse Natalie fra le braccia. Povero Manuel, se ne vergognò, dopo; si vergognava di essersi lasciato andare a quel modo. «Be', comunque salirono in salotto, sedettero e cominciarono a parlare. Cioè, fu lui a parlare. Le disse di avere scoperto a un tratto che aveva una quantità di cose da dirle. E parlò, parlò, raccontandole la propria vita dopo che lei se n'era andata, la morte della madre e come lui avesse dovuto rinunciare a suonare per l'artrite che gli aveva colpito le mani... Lei rispose,
mi disse Manuel, ma lui era riuscito a capire ben poco. Forse Natalie parlava a voce troppo bassa, ma anch'io ho la voce bassa eppure lui capiva sempre tutto.» «La signora Arno ha uno spiccatissimo accento americano» osservò Wexford. «Forse era per quello. Il peggio fu, mi disse, che mentre parlava dei lunghi anni trascorsi in solitudine, Manuel pianse. A me non sembrava una cosa tanto importante, ma lui si vergognava tanto di quelle lacrime! Be', si riprese e le domandò se desiderava vedere la casa. Era così fiero della sua casa, capite...» «Però, in tutto quel tempo, era convinto che quella donna fosse veramente sua figlia?» «Oh, sì, certo! Non ne aveva il minimo dubbio. Il modo come, secondo lui, lo scoprì... be', a me sembra così folle... Ma andiamo per ordine. Dunque, le disse che dopo il matrimonio avrebbe fatto un nuovo testamento perché intendeva lasciare a me la casa con quanto conteneva, ma che tutto il resto sarebbe andato a lei, compresa anche l'eredità materna. Era un patrimonio, sapete, all'incirca un milione di sterline, credo. «Le mostrò la camera che aveva fatto preparare per lei, ma lei disse che non poteva restare» continuò Dinah. «Poi andarono nella sala da musica. Oh, ma voi non conoscete la casa, vero?» «Per essere sincero, sì, la conosco.» Dinah parve lievemente stupita ma non fece commenti. «Bene, allora saprete che tutt'intorno alla stanza ci sono delle nicchie e che in una c'è un flauto d'oro. Glielo aveva regalato un fervido ammiratore e mecenate, un americano di origine italiana, Aldo Cazzini, ed è uno strumento vero, si può suonarlo, anche se in realtà Manuel non l'ha mai usato. «Come dunque entrarono nella stanza da musica, Natalie diede un'occhiata in giro e disse: 'Ah, vedo che hai sempre il tuo Cazzini d'oro' e fu a questo punto che Manuel comprese. Capì immediatamente e senza ombra di dubbio che quella donna non era Natalie.» «Non vi seguo» obiettò Wexford. «Il fatto che avesse riconosciuto il flauto avrebbe dovuto essere una conferma della sua identità, piuttosto che una prova del contrario, no?» «Fu il modo come pronunciò quel nome. Invece di "Cazzini" all'italiana, lei disse "Cassini", così mi riferì Manuel. La vera Natalie, vedete, parlava correntemente l'inglese, il francese e lo spagnolo. A scuola aveva studiato il tedesco e quando aveva quindici anni lo stesso Manuel le aveva insegna-
to anche l'italiano perché desiderava che diventasse anche lei musicista e pensava che per quella carriera l'italiano fosse indispensabile. La vera Natalie non avrebbe mai sbagliato a pronunciare quel nome. Così lui capì che quella donna non poteva affatto essere sua figlia.» A Wexford venne quasi da ridere. «Oh, andiamo!» esclamo scuotendo la testa. «Non è possibile! Ci sarà stato dell'altro!» «Difatti. Il colpo per Manuel fu terribile, ma per il momento non disse niente. La guardò fisso, la osservò per bene e allora vide che non era Natalie. Diciannove anni sono tanti, ma non poteva essere cambiata a quel punto. I tratti del suo viso erano diversi, il colore dei suoi occhi era diverso. Allora la fece tornare in salotto e le disse: "Voi non siete mia figlia, vero?".» «Glielo disse chiaro e tondo?» «Sì, e... voi capite, signor Wexford, vi sto ripetendo quello che mi disse lui... mi sento una traditrice a parlare così, come se fosse un po' svanito o fissato... non lo era affatto, era un uomo meraviglioso, ma...» «Era vecchio» disse Wexford. Un povero vecchio di ottant'anni, forse un po' rimbambito... «E sovraffaticato.» «Oh, sì, esatto! Ma il fatto è che quando glielo domandò, così mi disse lui, la donna lo ammise.» Wexford si chinò di scatto in avanti, corrugando la fronte, lo sguardo fisso sul viso arrossato e intento di Dinah Sternhold. «Mi state dicendo che quella donna ammise con sir Manuel di non essere Natalie Arno? Ma perché non me lo avete detto subito?» «Perché non ci credo. Io penso che quando mi disse che lei aveva ammesso di non essere Natalie ed era sembrata imbarazzata e sopraffatta dalla vergogna... be', penso che lui stesse sognando. Vedete, le disse di andarsene. Tremava, era sconvolto. Non era nel suo carattere gridare contro qualcuno o diventare violento. Le disse soltanto di non aggiungere altro e di andarsene. La udì richiudere la porta d'ingresso e poi fece una cosa che non faceva assolutamente mai. Bevve del brandy. Non beveva mai liquori, tutt'al più qualche volta un bicchiere di vino o al massimo di sherry. Ma in quel momento, disse, sentì il bisogno di bere qualcosa che lo rincuorasse, poi andò a coricarsi perché il suo cuore galoppava come un matto e si addormentò.» «E voi lo avete visto soltanto il giorno seguente?» «Sì. Il giorno seguente verso le undici. Credo che sotto l'effetto del brandy avesse sognato che lei ammetteva di non essere Natalie. E glielo
dissi, anche. Ma la cosa a lui non piacque affatto. Gli dissi che il tempo può mutare i lineamenti di una persona, che il colore degli occhi può sbiadire, che una lingua si può dimenticare come tutto il resto, ma senza alcun risultato. Era un genio, tanto dolce e buono, ma anche terribilmente impulsivo e ostinato. Così, cominciò a dire che l'avrebbe esclusa dal proprio testamento, che quella donna era soltanto un'impostora che tentava di impadronirsi con le menzogne di un patrimonio considerevole e che lui invece avrebbe lasciato tutto a me. Mi credete se vi dico che feci di tutto per cercare di dissuaderlo?» Wexford fece un lieve cenno di assenso con la testa. «Perché non dovrei?» «Sarebbe stato nel mio interesse dargli ragione, invece feci di tutto per dissuaderlo, ma lui rifiutò di ascoltarmi. Le scrisse dicendole quello che intendeva fare, poi scrisse ai suoi avvocati chiedendo che uno dei soci venisse da lui a Sterries il 4 febbraio... due giorni dopo il nostro matrimonio.» «Chi sono questi avvocati?» domandò Wexford. «Symonds, O'Brien e Ames, in High Street.» Lo studio più importante di Kingsmarkham. Wexford aveva già avuto a che fare con loro più di una volta. «Invitò il signor Ames a colazione con noi» riprese Dinah. «Dopopranzo avrebbero steso il nuovo testamento di Manuel. Credo che fosse il 22 o il 23 gennaio quando scrisse a Natalie e il 27... morì affogato.» Le tremò un poco la voce. Wexford lasciò passare qualche momento prima di chiedere: «Non manifestò l'intenzione di venire da noi o di confidarsi con il suo avvocato?» Dinah non rispose direttamente. «Credo di avere agito bene» disse. «Glielo impedii. Non ero riuscita a dissuaderlo dal proposito di diseredare Natalie ma riuscii a convincerlo a non andare alla polizia. Gli dissi che ne sarebbe nato uno scandalo, sapevo che lui non tollerava cose del genere. La mia idea era questa: lasciare che facesse il nuovo testamento, se voleva, un testamento può sempre essere annullato e rifatto. Sapevo che probabilmente Natalie non mi poteva soffrire ed era gelosa di me, ma mi ripromettevo di mettermi in contatto con lei, di lì a un mese, diciamo, e combinare un altro incontro. Ero certa che si sarebbe sistemato tutto. Si sarebbe scoperto che si era trattato di un equivoco, come in certe vecchie commedie...» Wexford rimase silenzioso per qualche momento, poi disse: «Vi dispia-
cerebbe raccontarmi tutto da capo, signora Sternhold?» «Tutto quello che vi ho appena detto?ù» Lui annuì. «Vi prego.» «Ma perché?» "Per capire se mi avete detto la verità." Lo pensò, ma non lo disse. Se era intelligente, Dinah lo avrebbe certamente capito da sola e difatti il suo improvviso rossore disse chiaramente che lei aveva capito. La ragazza rifece lo stesso racconto, senza digressioni, stavolta, e Wexford ascoltò con profonda concentrazione. Come Dinah ebbe finito, domandò un po' bruscamente: «Sir Manuel ne aveva parlato con qualcun altro?» «Che io sappia, no. No, sono certa che non ne parlò con nessuno.» Il viso della signora Sternhold era di nuovo pallido e composto. «Che cosa farete?» «Non lo so.» «Ma dovrete pure far qualcosa per scoprire la verità. Potrete provare che lei è veramente Natalie Arno?» "Oppure che non lo è?" Wexford non disse neppure questo ma prima che avesse potuto trovare un'altra risposta, Dinah era balzata in piedi e si stava congedando con quelle sue maniere da bambina bene educata. «Siete stato molto buono e paziente con me, signor Wexford. Sono certa che capite perché dovevo venire. Volete salutare per me Sheila, per favore, e dirle che penserò tanto a lei, sabato? Aveva invitato anche me al matrimonio, ma naturalmente non mi è possibile andarci. Perdonatemi per avervi rubato tanto tempo...» Wexford l'accompagnò fino alla Volkswagen che Dinah aveva parcheggiato oltre l'angolo, in un tratto sgombrato dalla neve. Lei si voltò ancora a salutarlo con la mano mentre si allontanava. Quante volte aveva ripetuto che non ci credeva? Wexford aveva osservato spesso come la gente continui a ripetere di essere certa di una cosa proprio quando si rende conto di non esserne certa per niente. Se Dinah Sternhold avesse creduto davvero che quella donna fosse Natalie, perché mai sarebbe andata da lui? Wexford si domandò che cosa credesse lui e che cosa si proponesse di fare... In ogni caso, niente fin dopo le nozze di Sheila. 7
Che una cerimonia nuziale vada o non vada bene non è affatto un pronostico circa il successo o l'insuccesso di un matrimonio, disse a se stesso Wexford. E quella non si poteva certo dire che fosse andata bene. Tanto per cominciare, durante la notte la temperatura era salita e il sabato mattina pioveva a rovesci e continuò a piovere per tutta la giornata. Così l'attesa folla di fan giovani e meno giovani che sarebbe dovuta andare a festeggiare le nozze dell'idolo del momento si ridusse invece a un malinconico gruppo di pensionati soffermatisi a curiosare all'uscita da una riunione di ultrasessantenni in St Peter's Hall. Non mancarono però i paparazzi che, innervositi dalla pioggia e dal fango, si gettarono a pesce sugli incidenti non proprio edificanti che capitarono in quantità: la diafana gonna di una damigella d'onore che si sollevò fin sopra la testa per un colpo di vento, l'auto del cognato della sposa che andò a sbattere contro quella di un fotoreporter, la confusione al ricevimento nuziale dove dieci o dodici invitati non trovarono posto a sedere... E il tutto naturalmente comparve in prima pagina sui giornali della domenica, accompagnato da commenti caustici e ironici che non valsero certamente ad attenuare le cose. Dora ci pianse. Per fortuna, quel giorno i coniugi Wexford erano invitati a pranzo a casa di Burden dove, caso strano, non videro in giro un solo giornale. Prima di mettersi a tavola, i due uomini restarono soli per un po' e la loro conversazione si orientò sul caso Camargue. «Non è certo la prima volta che ci troviamo di fronte a un caso del genere» osservò Burden, che il collega e superiore aveva messo al corrente dei fatti riguardanti Natalie. «Non so proprio che cosa pensare, ma non posso dire che non ci credo per niente. In fin dei conti, ci sono tutte le premesse per un trucco del genere. Diciannove anni di lontananza, un vecchio pieno di soldi, probabilmente un po' svampito e con la vista che gli fa difetto... Ma questa donna assomiglia veramente all'autentica Natalie?» «Guarda che cosa mi ha mandato Dinah Sternhold» disse Wexford porgendo all'amico una fotografia. «Gliel'aveva lasciata Camargue.» La fotografia raffigurava una ragazza bruna, di tipo spagnolo, grassoccia e sorridente, con i capelli neri molto corti e la frangetta, infagottata in un abito estivo dal taglio a sacco di moda all'epoca in cui era stata scattata l'istantanea. «Be', potrebbe benissimo essere lei, no?» «Una sorta di sgualdrina pallida con sopracciglia di velluto e occhi di pece» osservò Wexford. «Camargue, pare, ha detto che gli occhi di quella
donna erano diversi da quelli di sua figlia e Dinah gli ha obiettato che il colore degli occhi può sbiadire, ma ti è mai capitato di vedere che qualcosa sbiadisca diventando nero?» Burden riempì nuovamente i loro bicchieri. «Se la vista di Camargue non era più molto buona, questo si potrebbe spiegare benissimo. Voglio dire, non si può escludere con assoluta certezza che la donna non fosse Natalie Camargue soltanto perché suo padre ha notato o creduto di notare qualche differenza. Quel che ha molta importanza, invece, che è veramente molto strano, è il fatto che lei abbia sbagliato a pronunciare quel nome.» Wexford, che stava osservando il piatto dei salatini, cercando di resistere per amore della linea alla tentazione di fare un bis, alzò gli occhi a guardare stupito il collega. «Dici davvero?» «Oh, non prendermi per un pignolo» reagì Burden sorridendo. «Ma ho anch'io dei figli e la mia Pat, che ha studiato il francese da bambina, con un'insegnante francese, quando lo parla continua ad arrotare l'erre come allora. Le viene spontaneo, non riuscirebbe a non farlo.» «Capisco» mormorò Wexford lasciando ricadere due patatine che aveva preso senza pensarci. «Però resta sempre la possibilità che sia stato Camargue a sentir male quel nome. Era diventato discretamente sordo negli ultimi tempi. Quel che è certo è che Dinah dice la verità. L'ho messa alla prova e mi ha ripetuto la storia quasi con le identiche parole, date, ore e tutto quanto.» «Piantala con quelle patatine! Non vedo perché avrebbe dovuto raccontarti delle frottole. Anche se non ci fosse stata Natalie, lei non avrebbe ereditato niente.» «Vero. Tra parentesi, dovremo scoprire chi avrebbe ereditato. Tuttavia, Dinah potrebbe aver mentito per antipatia. Se quella donna è la vera Natalie nessuno potrà provare il contrario, naturalmente, e lei non avrà difficoltà a provarlo, ma un'inchiesta sarebbe sempre sgradevole per lei, il fango si appiccica facilmente. Se la cosa diventasse di dominio pubblico, come certo diventerebbe, resterà sempre qualcuno che la riterrebbe un'impostora.» Burden annuì. «E al punto in cui siamo, l'inchiesta ci sarà senza dubbio, vero?» «Domani dovrò mettere al corrente di quanto so gli avvocati di Camargue, se non altro.» «Be', intanto ci vorrà un po' di tempo perché il testamento venga omologato.» Burden guardò il suo superiore e amico con espressione imbarazzata. «E, sia detto senza offesa, questo è proprio quel genere di cose che...
be', che possono trasformarsi in ossessione.» L'indignata risposta di Wexford fu stroncata sul nascere perché la signora Burden e Dora entrarono in quel momento ad annunciare che il pranzo era pronto. Il più importante studio legale di Kingsmarkham si trovava nel centro commerciale della cittadina, all'ultimo piano di un modernissimo edificio dove tutto era luce, spazio e purezza di linee, e godeva della sconcertante prerogativa, tanto frequente oggigiorno, di apparire freddo mentre in realtà era caldissimo. Wexford conosceva di vista Kenneth Ames, ma non ricordava di avergli mai parlato. L'avvocato era un ometto magro, quasi sparuto, dal viso giovanile. Cioè, il suo viso, come la sua figura, aveva conservato i suoi tratti giovanili benché fosse tutto segnato di linee sottili come se, col passare degli anni, gli si fosse depositata sulla pelle una lieve ragnatela. Portava un completo grigio chiaro che sembrava un po' troppo leggero per quella stagione e aveva modi affabili e distaccati a un tempo come se la sua mente (ma forse non era così) non fosse concentrata su ciò che diceva o ascoltava. Questo rese un po' faticoso riferire fedelmente il racconto di Dinah Sternhold. Il signor Ames sedeva con i gomiti appoggiati ai braccioli di una poltroncina di metallo dall'aria alquanto scomoda, le punte delle dita riunite a cuspide e lo sguardo fisso al campanile di St Peter che si vedeva dalla finestra. Via via che il racconto proseguiva, andava sporgendo sempre di più le labbra e la mandibola, finché la parte inferiore del suo viso non prese l'aspetto del muso di un animale. Quell'espressione canina perdurò ancora per un paio di minuti dopo che Wexford ebbe finito di parlare. «Non so se presterei molta fede a questa storia, ispettore» osservò finalmente l'avvocato. «Ho l'impressione che sir Manuel abbia avuto le traveggole e che poi questa signora... mmh, Stein... Steinhall abbia aggiunto frangia e fiocchi.» Il signor Ames tossicchiò palesemente soddisfatto delle proprie metafore e si osservò per un momento, con profondo interesse, le unghie ben curate. «Dopo sposato, sir Manuel avrebbe dovuto fare comunque un nuovo testamento. Non c'era niente di straordinario in questo. E non abbiamo alcun motivo per pensare che intendesse diseredare la signora Arno.» Il muso canino riapparve per un momento mentre il signor Ames continuava a guardarsi le unghie, poi le celava rapidamente dentro i pugni come gli avessero offesa la vista. «In realtà» riprese poi «sir Manuel mi
aveva invitato a colazione per parlare del testamento e farmi conoscere la sua sposa, ma purtroppo morì prima del giorno fissato. Signor Wexford, se sir Manuel fosse stato veramente convinto che quella donna era un'impostora, non credete che ne avrebbe parlato con noi? È morto più di una settimana dopo quella visita, una settimana durante la quale ha avuto occasione di scrivermi e di telefonarmi. No, se in questa storia fantastica ci fosse stato qualcosa di vero, io credo che avrebbe senz'altro detto qualcosa ai suoi avvocati!» «Pare non ne abbia fatto parola con nessuno tranne che con la signora Sternhold.» Un sorriso un po' sforzato sostituì il muso canino. «Oh, certo. C'è gente alla quale piace creare guai, non so perché. Lo avete notato?» «Sì» ammise Wexford. «A proposito, nel caso che alla signora Arno non toccasse niente, chi erediterebbe?» «Ah, mio caro, non credo sussistano molte probabilità che alla signora Arno non tocchi niente!» Wexford si strinse nelle spalle. «Ma se fosse, chi erediterebbe?» «Sir Manuel aveva una nipote che vive in Francia, figlia di una sua sorella. La signorina Thérèse qualcosa. Latour... o Lacroix che sia... Potrei trovarvi il nome, se volete.» «Ma, come dite, non sussistono molte probabilità che questa signorina possa ereditare qualcosa. Devo dedurne che lo studio legale Symonds, O'Brien e Ames non intende far niente riguardo a quanto ha detto la signora Sternhold?» «Non vi seguo, ispettore.» Il signor Ames stava di nuovo contemplando il campanile, ora velato da una lieve cortina di pioggia. «Intendete accettare la signora Arno come erede di sir Manuel senza fare alcun accertamento?» L'avvocato si girò di scatto: «Buon Dio, no, signor Wexford. Come potete pensarlo?» Ames parve a un tratto interessato alla questione. «Naturalmente, in considerazione di quanto ci avete detto faremo indagini accurate ed esaurienti. E voi farete altrettanto, suppongo.» «Senza dubbio.» «E forse sarebbe auspicabile che ci tenessimo reciprocamente al corrente delle nostre scoperte, non credete? Non è nemmeno pensabile che una proprietà di tale importanza possa finire nelle mani di una persona sulla cui identità sussista il benché minimo dubbio. Solo che» proseguì l'avvocato
socchiudendo gli occhi come se anelasse a ritrarsi di nuovo in se stesso «non conviene prestare fede eccessiva a storie del genere.» Come venne alzato il ricevitore, il primo rumore che Wexford udì fu il profondo latrato di un cane, poi una voce sommessa pronunciò il numero di Forby. «Signora Sternhold, sapete se sir Manuel avesse conservato qualche campione della scrittura della signora Arno, risalente al periodo precedente la sua partenza per l'America?» «Non lo so, ma non credo. E in ogni caso sarebbe a Sterries.» Non aggiunse quello che Wexford pensava, cioè che se Camargue avesse conservato qualcosa e se Natalie era un'impostora, ormai era sparito tutto. «Allora potreste forse essermi utile in un altro modo. A quanto mi risulta, sir Manuel non aveva parenti in Inghilterra. Dove potrei trovare qualcuno che abbia conosciuto Natalie da ragazza?» Il Burberry di Burden era già appeso al palmizio-attaccapanni quando Wexford entrò al Pearl of Africa e l'ispettore era già seduto sotto le fronde di plastica, in procinto di attaccare il suo antipasto all'ugandese. «Non credo ci siano gamberetti di mare in Uganda» osservò Wexford sedendosi di fronte a lui. «Haq dice che vengono dal lago Vittoria. Che cosa prendi?» «Oh, Dio! Avocado con gamberetti, penso, e forse un'omelette. Mi sono messo in contatto con la polizia californiana attraverso l'Interpol, chiedendo che ci passino tutto quello che hanno su Natalie Arno, ma se non è mai stata nei guai con la polizia, avranno assai poco. E non abbiamo motivo per pensare che lo sia mai stata. Poi ho fatto un'altra lunga chiacchierata con Dinah Sternhold. La prima (l'unica, di fatto) signora Camargue aveva una sorella che vive tuttora a Londra. E non hai mai sentito parlare di Philip Cory? È un vecchio compositore che era stato compagno di Camargue. Loro dovrebbero essere in grado di dirci se la donna che è andata a Sterries è la vera Natalie.» «Tutto questo fa nascere un altro interrogativo, vero?» disse Burden in tono grave. «O piuttosto, fa nascere quello che ci hanno detto di Camargue. E in questo campo non ha molta importanza che Natalie sia Natalie o un'altra.» «Sì, capisco quello che vuoi dire. Forse il verdetto di morte accidentale è stato un po' troppo frettoloso.»
«Non direi neppure questo. Al momento non c'era alcun motivo per pensare a qualcos'altro, non era accaduto niente di sospetto, non risultava che Camargue avesse dei nemici, sul suo conto non si è riscontrato niente di anormale. Un vecchio signore un po' malfermo si era semplicemente avvicinato un po' troppo a un lago, in una notte gelida, in mezzo alla neve alta.» «Ma se allora avessimo saputo quello che sappiamo ora? Possiamo ritenere per certo che lo scopo di Natalie nel riavvicinarsi al padre, sia o no la vera figlia di Camargue, fosse quello di assicurarsene l'eredità. E sta di fatto che Camargue, vuoi che avesse veramente scoperto l'inganno e l'avesse smascherata, vuoi che se lo fosse soltanto sognato, le scrisse che l'avrebbe diseredata.» «E lei avrebbe potuto o cercare di dissuaderlo o prendere provvedimenti di altro genere.» «In ogni caso, il pericolo per Natalie non sarebbe stato immediato. Camargue avrebbe dovuto aspettare di essersi sposato, prima di poter fare un nuovo testamento. Era logico supporre che non avrebbe fatto subito un nuovo testamento per doverne poi rifare un altro ancora dopo le nozze. Natalie poteva contare su due settimane di tempo per agire.» «Resterebbe ancora da prendere in considerazione il fatto che, anche se fosse riuscita a dissuadere il padre dal diseredarla, Natalie non sarebbe mai riuscita a dissuaderlo dal lasciare Sterries a Dinah. Ma pare che non ci sia stato alcun tentativo in questo senso, no? Almeno, Dinah non doveva sapere niente a questo riguardo, altrimenti te lo avrebbe detto. E non pare che Natalie sia tornata a Sterries, prima della morte di sir Manuel.» «Salvo forse nella notte di domenica 27 gennaio.» La comparsa del signor Haq impedì a Burden di rispondere. «Come va, caro?» domandò il solerte ugandese con un profondo inchino. «Benone, grazie.» Una risposta meno calorosa avrebbe provocato un torrente di scuse e giustificazioni da parte del signor Haq, che ne sarebbe stato colpito al cuore. «Mi permetterei di raccomandare la mousse Maherere.» Un consiglio che sarebbe stato incauto respingere, se non si voleva correre il rischio di venire subissati da prolisse spiegazioni da parte del suddetto signor Haq, il quale avrebbe sentito il dovere di chiarire come la suddetta mousse fosse fatta con grani di caffè appena colti nelle piantagioni di Toro e crema di latte proveniente direttamente dagli allevamenti di bestia-
me di Sanga. Per evitare quel rischio, e pur sapendo che si trattava unicamente di un comunissimo budino istantaneo, Burden accettò la mousse, che gli venne servita personalmente dal signor Haq. Wexford ripeté la sua ultima frase. «La notte del 27 gennaio?» fece eco Burden. «La notte in cui è morto Camargue? Se lo hanno ucciso, e noi due ora pensiamo che lo sia stato, se qualcuno l'ha spinto in acqua e l'ha lasciato affogare, non è stata di certo Natalie.» «E tu come lo sai?» «Be', in un certo senso» mormorò Burden in tono quasi di scusa «me lo ha detto lei.» «È accaduto a Sterries, mentre si parlava di quel furto. Ero in sala da pranzo con gli Hicks quando sono scesi Natalie e quei suoi due amici. Può darsi che lei sapesse che ero a portata d'orecchio, ma non lo credo. Stava parlando con la signora Zoffany e diceva che forse sarebbe dovuta andare da Sotheby o da qualcuno del genere per far valutare le porcellane di sir Manuel. D'altra parte, aggiunse, c'era quel tale che lei e la Zoffany avevano conosciuto e che, le avevano detto, era un esperto di porcellane cinesi, perciò le sarebbe piaciuto rintracciare il suo nome e il suo numero di telefono. Allora Zoffany domandò di chi stesse parlando e Natalie rispose che lui non lo conosceva, lui non c'era, lo avevano incontrato a "quel ricevimento di domenica sera".» «Be', un po' troppo a fagiolo, non ti pare?» «Fagiolo o no, se Natalie era a un ricevimento, ci saranno almeno dodici persone che possono testimoniarlo. E oltre tutto non potremo mai provare che Camargue è stato ucciso. Sarebbe già stato molto difficile se ci avessimo pensato subito, con tutta quella neve che aveva cancellato ogni impronta. E nessuna arma, solo le mani. Ma poi Camargue è stato cremato, e ormai...» «Sei troppo pessimista, tu» lo rimproverò Wexford e citò sottovoce: "Chi comincia con la certezza, finirà coi dubbi ma chi si accontenta di cominciare coi dubbi, finirà con la certezza". 8 Un negozio che non stia aperto regolarmente pare tradire la propria condizione anche quando alla porta sia appeso il cartello che dice APERTO e
all'interno si veda un commesso indaffarato. Vi aleggia un'indefinibile aria di trascuratezza, di mancanza d'interesse, di esistenza precaria sotto la minaccia incombente della chiusura definitiva. Così era per lo Zodiac, annidato in mezzo a edifici vittoriani, dietro una piazzetta neogotica, al confine tra Islington e Hackney. La vetrina era piena di libri di fantascienza in edizione economica messi là alla rinfusa e ricoperti di polvere. Wexford spinse la porta ed entrò. All'interno aleggiava l'odore di muffa e di vecchie carte inseparabile dai libri usati. E le pareti erano tappezzate di libri usati, tutti di fantascienza, che formavano un asimmetrico disegno di costole rosse, verdi, gialle e nere. Wexford stava riponendo sullo scaffale un volume dalla copertina raffigurante un Boeing 747 coperto di squame e munito di antenne quando entrò dal retrobottega Ivan Zoffany. Non riconobbe Wexford e quando questi gli disse chi era, parve profondamente sorpreso, ma una sorpresa che sembrava genuina e non inquinata dalla paura. «Vorrei scambiare due chiacchiere con voi.» «D'accordo. Non vedo su che cosa, ma sono a vostra disposizione. Posso anche chiudere il negozio, tanto ormai è mezzogiorno.» Si poteva sperare di ricavare da vivere da un posto come quello? Zoffany girò il cartello con la scritta APERTO e fece passare l'ispettore nel retrobottega. Accanto a una finestra che dava su un cortile pavimentato e una spanna di giardino, era seduta a cucire Jane Zoffany, in gonna all'antica, scialle e collane di vario tipo. Pareva stesse allungando o accorciando una gonna che Wexford, dotato di un'ottima memoria fotografica, riconobbe per quella che portava Natalie Arno il giorno successivo al furto. «Che cosa possiamo fare per voi?» L'eccessiva, troppo franca disinvoltura di Zoffany, pensò Wexford, era tipica di chi ha qualcosa da nascondere, ma forse, come l'esperienza gli aveva insegnato, si trattava soltanto di un senso di insicurezza, di un turbamento emotivo più che di un qualche senso di colpa. C'era qualcosa negli occhi di Zoffany e nell'atteggiamento della bocca, quando non si sforzava di sorridere, che tradiva una profonda sofferenza interiore. E questo appariva più evidente lì, in casa sua, di quanto non fosse apparso a Sterries. «Da quanto tempo conoscete la signora Arno?» Jane alzò istintivamente gli occhi al soffitto, proprio nel momento in cui di sopra echeggiava un passo leggero, ma Ivan non la imitò. «Un paio d'anni, direi.»
«Allora la conoscevate già prima che venisse in Inghilterra?» «L'ho conosciuta quando è morta la mia povera sorella. Lei e la signora Arno abitavano insieme, a Los Angeles. Non lo sapevate? Tina, mia sorella, è morta l'altra estate e ho dovuto andare là per sistemare alcune cose. Questioni piuttosto sgradevoli, ma qualcuno doveva pure pensarci e non c'era nessun altro, all'infuori di mia madre. Ma cosa ci si può aspettare da una vecchia signora di settant'anni... Ma dove volete arrivare con queste domande?» Wexford finse di non aver sentito. «Vostra sorella e la signora Arno abitavano insieme?» disse invece. «Diciamo che Tina aveva un appartamento nella casa della signora Arno.» «Una stanza, Ivan» precisò Jane. «D'accordo, una stanza. Ma adesso, volete dirmi perché...» «Doveva essere molto giovane. Di che cos'è morta?» «Cancro. Era già ammalata quando viveva ancora col marito. Dopo divorziò ma non conservò il nome da sposata, riprese il suo nome di ragazza. E aveva trentanove anni, se volete saperlo. Poi ebbe delle metastasi che si diffusero in un lampo in tutto il corpo: morì nel giro di tre settimane.» Quell'uomo parlava in tono duro, pensò Wexford, quasi con una sorta di risentimento. E si sarebbe detto che parlasse tanto per parlare, forse per evitare un argomento imbarazzante. «Non la vedevo da sedici o diciassette anni» riprese Zoffany «ma quando se ne andò a quel modo, dovetti occuparmene per forza. Non riesco a capire perché mai vi interessiate tanto di cose simili.» Wexford fu sul punto di ribattere che non gli aveva affatto chiesto quelle spiegazioni, ma rinunciò al commento e se ne uscì invece con un'altra domanda. «E quando siete arrivato, avete conosciuto la signora Arno, non è vero? Siete rimasto anche voi in casa sua?» Zoffany annuì. «Siete diventati amici e quando siete tornato in Inghilterra avete mantenuto i rapporti. Così, quando avete saputo che anche lei tornava in patria e cercava un posto dove abitare, le avete offerto l'appartamentino qui sopra.» «Proprio così» interloquì Jane con una risatina nervosa. «Io l'avevo sempre ammirata moltissimo, sapete! Pensare che mia cognata viveva nella casa della figlia di sir Manuel Camargue! L'uomo che da ragazza veneravo addirittura! Natalie e io siamo molto amiche, ora. Sono sicura che anche Natalie mi è sinceramente affezionata.» S'interruppe per infilare l'ago,
poi domandò a sua volta: «Ma perché ci state facendo tutte queste domande?» «È stato insinuato che Natalie Arno non sia la figlia del defunto sir Manuel Camargue, ma soltanto un'impostora.» Wexford osservò con profondo interesse le reazioni dei suoi due ascoltatori a quell'affermazione. Lei non parve affatto sorpresa, quasi se la fosse aspettata; lui ne fu addirittura sbalordito... a meno che non fosse un attore impareggiabile. Ivan Zoffany sembrò ammutolire per lo stupore e gli ci volle qualche momento per ritrovare la voce e pregare Wexford di ripetere ciò che aveva detto. «Ma è una sciocchezza dell'altro mondo!» proruppe poi. «Chi mai ha potuto insinuare una cosa simile, inventare una storia di questo genere! Statemi bene a sentire, signor ispettore» proseguì puntando un dito verso Wexford e calcando sulle parole «Natalie è la donna più affascinante, più deliziosa che si possa immaginare e se non è riuscita...» Wexford non lo lasciò finire. «Stiamo parlando della sua identità, non del suo fascino.» Lo lasciava perplesso il comportamento di Jane Zoffany che sedeva tutta ingobbita, guardandosi in giro ma evitando con cura di guardare lui, e pareva in preda a una gran paura. Aveva smesso di cucire e teneva le mani intrecciate, come per impedire che tremassero. Wexford tornò nel negozio. Natalie Arno era appoggiata al banco, sul quale ora era aperto un settimanale, e sorrideva per qualcosa che stava leggendo. Non sembrò sorpresa di vedere Wexford. Lo fissò senza smettere di sorridere e piegando lievemente il capo di lato. «Buongiorno, signor... Wexford, mi pare, no? Come state?» Lo disse con un tono che non aspettava risposta. «Quando chiudi il negozio, Ivan» continuò «dovresti ricordarti di chiudere la porta. Potrebbe entrare qualsiasi visitatore indesiderabile!» «Che non è certamente il tuo caso, Natalie!» ribatté Zoffany, con molta galanteria e un lieve tremito nella voce. «Non sono sicura che il signor ispettore condivida la tua opinione.» Natalie tornò a guardare Wexford con un sorrisino storto. Sapeva, dunque. Symonds, O'Brien e Ames non avevano perso tempo. Jane Zoffany si era impaurita, ma lei no. I suoi occhi neri splendevano. Quasi con ostentazione, chiuse il settimanale che stava guardando e che, dalla copertina, rivelò di appartenere al diffusissimo genere della pornografia moderata. Evidentemente l'attività sottobanco di Ivan Zoffany. L'uomo difatti arrossì, le strappò dalle mani il giornale e lo scaraventò in mezzo ad alcuni catalo-
ghi ammucchiati lì vicino. Il viso di Natalie assunse un'espressione pensosa e innocente, mentre alzava le mani a sistemarsi fra i capelli una forcina di tartaruga, un gesto all'apparenza assolutamente spontaneo, che tuttavia servì a mettere in risalto il seno colmo che le tendeva il pullover. «Volete interrogare anche me, signor Wexford?» «Non ancora» rispose lui. «Per il momento, mi accontenterei che mi diceste nome e indirizzo delle persone che hanno dato la festa alla quale avete partecipato con la signora Zoffany il 27 gennaio scorso.» Natalie glieli disse, senza il minimo segno di esitazione né di sorpresa. «Grazie, signora Arno.» Natalie, che stava passando nel retrobottega, dov'era rimasta Jane, si fermò sulla soglia, fissò l'ispettore e fece una risatina. «Potete chiamarmi signora X, se preferite!» Una governante in abito nero che era quasi un'uniforme lo introdusse nella casa di Kensington Church Street. Una donna bruna e piuttosto graziosa, sulla trentina, che impersonava così bene la parte della cameriera deferente e fedele da dare l'impressione che recitasse. «La signora Mountnessing spera che non vi dispiacerà salire, signor ispettore. Sta prendendo il caffè nel salottino.» Una casa ben diversa da quella di De Beauvoir Square dove lo aveva fatto andare Natalie, con i suoi scialli indiani alle pareti e un vago odore stagnante di marijuana. Lì le pareti erano adorne di stampe con scene di caccia che salivano parallelamente alla scala dalla soffice passatoia verde oliva. Il vestibolo del piano superiore era ampio, color cioccolata chiara con modanature bianche, moquette verde oliva, una lussureggiante pianta verde in una coppa di rame sopra una consolle, ampie, soffici poltrone ricoperte di velluto color oro, un lampadario sfavillante e una lampada da tavolo con paralume di seta color crema. Un interno come ve ne sono a migliaia a Kensington e a Chelsea. La governante aprì una porta e Wexford si trovò in presenza della zia di Natalie Arno, Gladys, vedova di Rupert Mountnessing e sorella di Kathleen Camargue. A tutta prima gli sembrò che la povera signora fosse crudelmente compressa dentro una gabbia che la costringeva a fare sforzi disumani per respirare, ma si rese subito conto che in realtà si trattava soltanto di una donna incredibilmente grassa chiusa in un busto troppo stretto che comprimeva il suo corpo dalle cosce fino al petto riducendola a una sorta di enorme salsiccia e sollevandole il seno in una specie di davanzale a sostegno del
doppio, o triplo, mento. La salsiccia era inguainata in lana color biscotto, sul davanzale posavano tre fili di grosse perle e il viso della signora, pesantemente truccato e sormontato da un'elaborata massa di capelli color oro pallido che aveva tutta l'aria di una parrucca, era diventato un grappolo di borse, piuttosto che una rete di rughe. L'unica parte della signora Mountnessing che si salvasse, che conservasse tuttora un soffio di giovinezza, erano le gambe: snelle, lisce, con le caviglie sottili e senza il minimo segno di varici, i piedi ben fatti chiusi in scarpette di vitello beige. A Wexford rammentarono le gambe di Natalie. Erano esattamente uguali, ma quello poteva forse significare qualcosa? I vari tipi di gambe non sono molti, dopo tutto, e non si può dire di una persona che ha le gambe di sua zia, così come si dice che ha il naso di suo padre o gli occhi di sua nonna. La stanza era tutta beige e oro come la sua padrona. Su un tavolinetto basso c'erano una tazzina da caffè, una caffettiera, una zuccheriera e una minuscola lattiera in porcellana color avorio con una greca in oro. Quando entrò Wexford, la signora si alzò e gli porse una mano grassa e inanellata, con le unghie a punta verniciate di rosso scuro. «Porta un'altra tazzina, per favore, Miranda.» La voce di una bambina viziata e petulante. Rupert Mountnessing era defunto da tempo e Dinah Sternhold aveva detto all'ispettore che i due non avevano avuto figli. Era possibile che Natalie, vera o falsa che fosse, sperasse nell'eredità della zia? Fin dalle prime parole della signora Mountnessing, Wexford capì che se era così, avrebbe sperato invano. «Al telefono mi avete detto che desideravate parlare con me a proposito di mia nipote, ma io non so niente di lei, non ne so più niente da anni e francamente non desidero saperne niente. Avrei dovuto dirvelo subito, vi avrei evitato il disturbo di venire inutilmente fin qui.» Aveva il vezzo di sbattere in continuazione le palpebre, creando così l'impressione che stesse lottando costantemente contro le lacrime. «Grazie, Miranda.» Offrì a Wexford la tazza di caffè e tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, mentre lui le spiegava il motivo della sua visita. «Signora Mountnessing, a quanto pare voi siete la sua parente più prossima. Vorreste vederla in mia presenza e dirmi se credete che sia quella che dice di essere?» La sua reazione, l'espressione che le si dipinse in viso rammentarono all'ispettore quelle di altra gente cui aveva chiesto in passato di identificare non una persona viva ma un cadavere all'obitorio. La signora si portò le mani al viso. «Oh no, non potrei mai! Mi dispiace, ma è impossibile. Non
voglio rivedere mai più Natalie.» Wexford si rassegnò. Se avesse insistito per farla andare con lui, era molto probabile che la signora avrebbe comunque identificato la nipote tanto per farla finita. Si domandò tuttavia che cosa mai avesse potuto farle, da giovane, la nipote, poi raggiunse la sua ospite all'altro capo della stanza dove lei stava contemplando una serie di fotografie incorniciate d'argento che facevano bella mostra di sé su un tavolo. «Questa è mia sorella.» Wexford vide una donna bruna dagli occhi scuri, ma inconfondibilmente inglese. Forse c'era qualche rassomiglianza con la donna che lui conosceva come Natalie Arno nell'ampia fronte e nel mento appuntito. «Morta di cancro. A quarantacinque anni. È stato un colpo terribile per il mio povero cognato. Vendette la loro casa di Pomfret e costruì quella di Kingsmarkham che chiamò Sterries, come si chiama il paese del Derbyshire dove i nostri genitori avevano la loro casa di campagna e dove Kathleen e Manuel si erano conosciuti.» Camargue con la moglie, in un'altra fotografia. A braccetto, mentre passeggiavano sul lungomare di qualche paese mediterraneo; seduti l'uno accanto all'altra su un basso muricciolo in un giardino inglese; in gruppo con un'altra signora alta che, a giudicare dalla somiglianza, doveva essere la sorella di Camargue, e due ragazzine brune e sorridenti. Un raggio di sole, investendo obliquamente un albero in un pomeriggio invernale, illuminava il bel viso di un uomo coi baffi e l'uniforme di colonnello dei granatieri. Rupert Mountnessing, senza dubbio. Vagamente divertito da tutte quelle facce, Wexford si allontanò dal tavolo. «Sir Manuel era andato negli Stati Uniti, dopo che vostra nipote era andata a vivere là?» «Non per vedere lei. Credo che ci sia andato per una tournée, anzi, sì, ne sono certa. Ma ormai aveva smesso di suonare da dieci o dodici anni. L'artrite gli aveva deformato le mani, povero Manuel. Ci vedevamo poco, in questi ultimi anni, ma gli volevo molto bene, era un uomo tanto caro. Avrei desiderato andare al servizio funebre, ma Miranda non ha voluto. Temeva che mi prendessi una bronchite, con quel freddo tremendo.» La signora Mountnessing sembrava disposta a parlare di qualsiasi argomento riguardante la sua vita familiare, tranne che della nipote. Si rimise a sedere, sbattendo le palpebre su lacrime inesistenti, rigida come un palo nel busto crudele. Wexford tornò all'assalto.
«Andò in tournée, dunque. Ma fece anche visite personali?» «Può darsi.» Lo disse col tono evasivo di chi desidera evitare un'affermazione diretta ma non vuole mentire. «Ma non andò a trovare sua figlia, mentre era là?» «La California è a quattromilacinquecento chilometri dalla costa orientale, signor ispettore!» Wexford scosse la testa. «Non capisco come mai sir Manuel non abbia più visto la figlia per ben diciannove anni. Capirei se fosse stato un poveretto, o un uomo che non aveva mai viaggiato. Se fosse stato un tipo vendicativo, capace di serbare rancore per una vita intera... Ma tutti mi dicono che era tanto buono e gentile, non ho udito altro che parole di elogio da persone di ogni genere. Eppure in diciannove anni non ha mai fatto il minimo sforzo per rivedere l'unica figlia, a quanto pare soltanto perché era scappata dal collegio e aveva sposato un uomo che lui non conosceva!» «Non è affatto andata così» obiettò la signora in tono così sommesso che Wexford l'udì appena. Poi la sua voce salì di qualche tono, ma ora era palesemente addolorata. «Le scrisse... le scrisse un'infinità di volte. Quando mia sorella era ammalata, praticamente in punto di morte, Manuel scrisse alla figlia supplicandola di tornare. Non so se lei rispose, ma sta di fatto che non tornò. Non tornò neppure quando mia sorella morì. Manuel fece un nuovo testamento e le scrisse di nuovo, dicendole che lasciava tutto a lei perché era giusto che fosse lei a ereditare tutto, il patrimonio del padre come quello della madre. Natalie non rispose nemmeno allora e lui smise di scriverle.» "E voi come lo sapete?" pensò Wexford osservando il mento tremante della signora Mountnessing. «Vi dico tutto questo» riprese lei «per farvi capire che mia nipote è una donna cattiva; cattiva, insensibile e anche violenta. Una volta aveva persino schiaffeggiato sua madre, lo sapevate?» La voce della signora si era fatta quasi isterica, ora, e Wexford, osservando le sue palpebre che sbattevano, le sue dita che si intrecciavano e si scioglievano spasmodicamente, si pentì di avere toccato quell'argomento. «Ed è anche una ninfomane. Ancora peggio, non le importa chi sono i suoi uomini, chi sono i suoi amici... Oh, è orribile dover dire queste cose, è troppo...» Wexford l'interruppe garbatamente, alzandosi per congedarsi. «Grazie infinite per il vostro aiuto, signora Mountnessing. Ma non ho visto alcun segno di tendenze simili, nella donna che ho conosciuto.» Miranda lo accompagnò alla porta. Mentre attraversavano il vestibolo,
giunse fino a loro, dal salottino, un gemito sommesso, il lamento di una vecchia bambina finalmente sopraffatta dal pianto. 9 Un certificato di nascita, un certificato di matrimonio, una patente di guida rilasciata negli Stati Uniti corredata di regolare fotografia scattata tre anni avanti, un passaporto idem come sopra, soltanto che la fotografia risaliva al settembre dell'anno avanti e, forse più convincente di tutto il resto, una lettera di Camargue alla figlia, datata 1963, con la quale il musicista le comunicava la propria intenzione di nominarla sua unica erede. Tutti questi documenti erano stati sottoposti immediatamente allo studio legale Symonds, O'Brien e Ames che a sua volta invitò immediatamente l'ispettore capo Wexford a prenderne visione. Kenneth Ames, distaccato e chiacchierone come sempre, spiegò a Wexford di avere interrogato personalmente e a lungo la signora Arno, la quale gli aveva raccontato alcuni episodi riguardanti la propria fanciullezza e la famiglia Camargue dei quali si stava verificando l'autenticità. La signora Arno si era anche offerta di sottoporsi a un esame del sangue, ma poiché esso avrebbe potuto provare soltanto che non era la figlia di Camargue, ma non che lo fosse, e poiché oltretutto pareva che nessuno sapesse qual era il gruppo sanguigno di sir Manuel, la sua proposta non era stata nemmeno presa in considerazione. Il signor Ames aggiunse che la signora sembrava molto divertita da tutta quella storia, indubbiamente un punto a suo favore. Aveva persino presentato un campione della propria scrittura di quando era allieva alla Royal Academy of Music perché la si confrontasse con quella attuale. «E sai che cosa gli ha detto?» riferì in seguito Wexford a Burden, mentre sorseggiavano un aperitivo al bar. «Ha del fegato, quella donna. "È un vero peccato" ha detto "che io non abbia commesso un bel delitto quando ero una ragazzetta. In tal caso la polizia avrebbe avuto le mie impronte digitali e questo avrebbe risolto tutto."» Burden non rise. «Se non è Natalie Camargue, quando potrebbe essere avvenuta la trasformazione?» «Se dobbiamo credere alle parole di Zoffany, non di recente. Più di due anni fa, diciamo, ma comunque dopo la morte di Vernon Arno che, a quanto dice Ames, dovrebbe essere deceduto in un ospedale di San Francisco nel 1971.»
«Doveva essere ancora giovane» commentò Burden. «Di che cosa è morto?» «Leucemia. Nessuno finora ha avanzato alcun sospetto sulla sua morte, ma non è da escludere che possa saltar fuori qualcosa. Sentiremo che cosa ha da dire la polizia californiana. Tuttavia, se c'è stata una sostituzione di persona, il motivo è stato un altro. Voglio dire, non allo scopo di appropriarsi dell'eredità di Camargue.» Burden fece un vago cenno d'assenso. «Vorrebbe dire che la vera Natalie era morta.» «Forse, ma ci sono altre possibilità. Che giacesse in un ospedale per una malattia incurabile, per esempio, o che avesse perduto il senno o che vivesse in qualche località inaccessibile. E la finta Natalie poteva essere una donna che aveva bisogno di una nuova identità perché continuare a mantenere la propria era pericoloso... una donna ricercata dalla polizia, magari. Che poi Camargue fosse ricco e vecchio e che Natalie fosse la sua unica erede potrebbero essere stati elementi casuali, un colpo di fortuna per l'impostora, che avrebbe deciso di approfittarne soltanto in un secondo tempo. La sostituzione di persona sarebbe stata fatta da principio soltanto come una misura di sicurezza, forse anche perché era l'unica via possibile e io credo che, se sostituzione c'è stata, sia avvenuta in un momento in cui il rischio sarebbe stato minimo. Forse al momento del trasferimento da San Francisco a Los Angeles o ancora dopo, quando è morta Tina Zoffany.» Burden, che era sembrato un po' distratto, piantò improvvisamente in faccia al collega gli occhi color acciaio. «Ma in tal caso perché mai sarebbe tornata in Inghilterra?» «Per tendere meglio le sue reti» dichiarò Wexford. «No.» Burden scosse la testa. «No, non può essere stato questo il motivo. Impostora o no, non aveva alcun motivo di pensare che le reti, come dici tu, non funzionassero a dovere. Aveva la lettera di Camargue, con la promessa di nominarla erede universale, non doveva fare altro che aspettare. Non aveva alcun bisogno di ricomparire qui, non c'era niente da sistemare. Se ci fosse stato qualcosa, sarebbe ricomparsa prima. In fin dei conti, Camargue aveva quasi ottant'anni.» «E non si può neppure dire che sia tornata perché il padre stava per risposarsi. Nessuno ne sapeva niente finché la notizia non è apparsa sul "Telegraph", il 10 dicembre. Lei era tornata in novembre, ma non ha cercato di vedere Camargue finché non ha letto quella notizia. Era in Inghilterra da almeno tre o quattro settimane, quando si è fatta viva col padre. A fare
che? Quali piani aveva in mente? Era stata forse la nostalgia per il suo paese a indurla a ritornare?» Burden scosse di nuovo la testa. «Be', è un po' giovane, direi, per sentimenti di questo genere. Si era sistemata in California, è diventata cittadina americana. Anche se è Natalie Camargue, è vissuta in America più a lungo di quanto non sia vissuta qui, non aveva parenti all'infuori del vecchio padre e di una zia con la quale non andava d'accordo, non aveva amici all'infuori di quegli Zoffany, ammesso che si possa considerarli tali. E se è un'impostora, venire in Inghilterra è stata pura e semplice follia. Poteva restare tranquilla in America ad aspettare che suo padre morisse. Avrebbero pensato i suoi legali ad avvertirla e anche se in quell'occasione avrebbe dovuto tornare per forza e sottoscrivere dichiarazioni giurate e cose del genere, nessuno avrebbe mai messo in dubbio la sua identità. Nessuno si sarebbe mai posto il problema, se lei non fosse andata da Camargue.» «Non poteva farne a meno» obiettò Wexford. «Lo scopo della sua visita al padre è stato senza dubbio quello di persuaderlo a non risposarsi.» «Ma in novembre, quando è partita dagli Stati Uniti, non sapeva niente del progettato matrimonio. E se fosse rimasta là probabilmente non ne avrebbe saputo niente finché Camargue non fosse morto. Nessun giornale californiano si sarebbe preso il disturbo di pubblicare una notizia del genere, ormai. No, no, finché non sapremo perché è ritornata, non ci avvicineremo di un passo alla verità.» «La verità sull'identità di Natalie, intendi?» «La verità sulla morte di Camargue. Tu ti stai facendo un'ossessione dell'identità di quella donna» disse Burden in tono di lieve rimprovero. «Ma a me interessa soprattutto la morte di Camargue. Se è stato ucciso, voglio scoprire chi è stato. E per questo, non conta molto sapere chi sia veramente quella donna, non lo capisci?» «Ti sbagli» ribatté Wexford. «Conta moltissimo, invece. È questa la chiave di tutto.» Il rapporto della polizia californiana non recò alcuna novità. Il nome di Natalie Arno era totalmente sconosciuto, non risultava che fosse mai stato coinvolto in alcunché di irregolare e men che meno di criminoso. Nel frattempo Kenneth Ames si era messo in contatto con due persone che avevano conosciuto la figlia di sir Manuel da ragazza. Mavis Rolland, che era stata allieva della Royal Academy of Music contemporaneamente a Natalie, disse di essere certa che la signora Arno e Natalie Camargue erano la stessa persona, anzi aggiunse che non era molto cambiata dagli anni del-
la sua prima giovinezza, salvo che per la voce, completamente mutata. D'altro canto Mary Woodhouse, che era stata cameriera in casa Camargue a Pomfret, dichiarò che avrebbe riconosciuto la sua voce in mezzo a mille. In presenza di Ames, la signora Woodhouse aveva parlato con Natalie della tenuta dove avevano abitato i Camargue e Natalie aveva rammentato episodi che a detta della sua ex cameriera nessuna impostora avrebbe potuto conoscere. Wexford si domandò come mai Natalie non avesse proposto come testimoni a proprio favore la zia e Philip Cory, il vecchio amico di famiglia che era con lei all'ufficio funebre per sir Manuel. Nel caso della zia, naturalmente, era possibile che l'avversione fosse reciproca e che, come lui aveva temuto che la vecchia signora potesse fingere di riconoscere la nipote soltanto per evitare altre noie, Natalie (se era veramente lei) avesse temuto che la sua animosità potesse spingerla ad affermare il contrario soltanto per farle dispetto. Ma Cory doveva averlo rivisto, da quando era tornata, e lui non nutriva certo alcun dubbio sul suo conto se l'emozione del momento, alle esequie del suo vecchio amico, lo aveva spinto a stringersi al braccio di Natalie. V'era dunque qualche motivo particolare perché lei non volesse trascinare Cory in quella storia? Philip Cory non era stato un compositore molto famoso, ma in compenso godeva di grande notorietà suo figlio Blaise, ideatore e conduttore di un programma televisivo bisettimanale, popolare quasi quanto Runway ma con scopi filantropici: Blaise Cory difatti intervistava persone in difficoltà sollecitando dal video aiuti per risolvere i loro casi, si trattasse della ricerca di un'anima gemella, di un posto di lavoro o di un'abitazione. Il suo nome era diventato presto famoso quanto quello della più nota marca di elettrodomestici e il suo viso, largo e pacifico ma molto simpatico, era familiare a tutti come quello di un parente stretto. «Ma non vive col padre, vero?» domandò Burden per il quale invece il presentatore era una sorta di bestia nera. «No, almeno che io sappia» rispose Wexford, battendo una mano su una spalla del tassista. «Girate a sinistra, adesso, per favore.» Avevano dovuto tenere gli occhi bene aperti per trovare la residenza di Cory che era in aperta campagna, a cinque chilometri dal paese più vicino e, come aveva spiegato lui stesso per telefono, invisibile dalla strada. Il taxi oltrepassò un cancello dall'aspetto inconfondibile, affiancato com'era da pilastri sopra i quali stavano accovacciati due enormi lupi di
pietra (assomigliavano a Nancy, rifletté Wexford) e proseguì lungo un viale di platani in fondo al quale apparve finalmente un edificio a due piani, alto e stretto, intonacato di un incredibile colore verde pisello, ma nell'insieme massiccio e imponente. Wexford, che negli ultimi tempi s'era abituato a gente che disponeva di domestici, s'era aspettato che fosse una cameriera a rispondere allo squillo del campanello, ma fu invece il vecchio Cory in persona ad aprire la porta. Era esattamente come lo ricordava, l'omino fragile e minuto che aveva visto accanto a Natalie davanti a St Peter, con una folta zazzera di capelli candidi, leggeri e luminosi come la seta. I jeans e il maglione blu da marinaio gli davano un'aria giovanile, o piuttosto l'aria di un giovane angustiato per essere invecchiato anzitempo. «Sapete» disse mentre attraversavano un vestibolo surriscaldato e polveroso nel quale regnava un disordine indescrivibile per passare in un soggiorno surriscaldato, polveroso e ugualmente disordinato «siete i primi poliziotti che entrino in casa mia! Una fortuna che non capita a tutti!» Avendo fatto così del suo meglio per farli sentire come due lebbrosi o due intoccabili, Cory si concesse un sorrisetto nervoso. «Be', mi è sembrata un'idea pazzesca, sapete? Mi è toccato prendere due tranquillanti. Ma comunque, ora verrà mio figlio. Conoscete mio figlio, spero!» Burden non si compromise, Wexford disse: «E chi non lo conosce» poi continuò spiegando a Cory lo scopo esatto della loro visita. Il risultato fu che il vecchietto dovette prendere un altro tranquillante. Ci vollero altri dieci minuti buoni per convincerlo che esistevano seri dubbi sull'identità di Natalie Arno. «Ohimè-mè» gemette finalmente lui «che cosa orribile! Cara piccola Natalie. Pensare che è stata così carina e premurosa con me all'ufficio funebre del povero caro sir Manuel. Chi avrebbe mai pensato che non fosse affatto Natalie?» «Be', no, può darsi che sia proprio lei» precisò Wexford. «Noi speriamo appunto che voi possiate stabilire se lo è oppure no.» Ma osservando l'omino sconvolto sul quale pareva che i tranquillanti non avessero alcun effetto, Wexford si domandò se sarebbero mai riusciti a stabilire qualcosa col suo aiuto. «Vorreste che venissi con voi per rivolgerle una quantità di domande? Ma sarà terribilmente imbarazzante per lei!» Cory si passò le dita fra i serici capelli, poi si immobilizzò tendendo l'orecchio, con un'espressione che lo fece assomigliare a un coniglio spaventato. «Un'auto!» squittì. «Dev'essere Blaise! Meno male. Devo riconoscere che
sapeva quel che diceva quando ha insistito per venire a darmi una mano!» Se suo padre era meno robusto di quanto Wexford si era aspettato, Blaise in compenso era molto più basso. Il piccolo schermo è ingannatore per quanto riguarda la statura. Blaise Cory era un bassotto squadrato, dal viso largo nel quale brillavano due occhi scintillanti come quelli di un Babbo Natale o di un gaio folletto. Avanzò con un sorriso espansivo nel soggiorno, porgendo entrambe le mani a Wexford. «Salve! Come sta Sheila? Felice e beata in viaggio di nozze, eh? Non è meraviglioso?» Attento, pronto a cogliere ogni sfumatura, come doveva essere un uomo che s'era fatta una professione del sapere tutto di tutti. «Vi assomigliate come due gocce d'acqua! Avrei capito chi siete anche se non lo avessi saputo!» «Vogliono che vada a vedere la figlia del povero sir Manuel per dire se è proprio lei» disse Cory con voce querula. Suo figlio inarcò le sopracciglia emettendo un fischio silenzioso. «Non direte sul serio! È dunque questo il nocciolo di tutta la storia?» Sembrava meno sorpreso di quanto non fossero stati suo padre e la signora Mountnessing. Ma forse questo derivava unicamente dal fatto che lui era molto più avvezzo di loro a trovarsi di fronte a casi sorprendenti. «La conoscete anche voi, signor Cory?» gli domandò Wexford. «Se la conosco? Abbiamo preso insieme la nostra prima lezione di violino! Be', diciamo che da ragazzi eravamo allievi dello stesso insegnante.» «Ma poi tu hai smesso, Blaise» piagnucolò Cory senior. «Non sei mai stato un ragazzo perseverante. Natalie invece era bravissima. Ricordo una volta che aveva suonato per me, quando aveva quindici o sedici anni... Semplicemente meravigliosa... Era la Ciaccona di Bach...» Blaise non lo lasciò finire. «Babbino caro, sono le dodici e mezzo e benché mi sembri di ricordare che ti ho promesso di portarti fuori a pranzo, credo che nessuno rifiuterebbe nel frattempo qualcosa da bere. Sei il peggior ospite del mondo, con l'unica eccezione, forse, di Macbeth!» Fu il solo a ridere della propria battuta. «Avrai pure qualcosa sepolto in uno dei tuoi buchi!» Una volta ancora il vecchio Cory si passò le mani tra i capelli, poi prese a trotterellare per la stanza, aprendo sportelli di credenze e curiosando su ripiani ingombri d'ogni ben di Dio come se fosse lui stesso estraneo alla casa. «È solo perché non ho nessuno che badi a me» si scusò col solito tono piagnucoloso. «Ho chiesto a Natalie (o chi diavolo sarà) se aveva inten-
zione di tenere quegli Hicks, e lei ha risposto evasivamente, ha detto che mi avrebbe fatto sapere qualcosa, ma poi non ne ho più saputo niente. Voi come ve la cavate?» Wexford fu esonerato dal rispondere da un grido trionfante di Blaise che aveva trovato una bottiglia di whisky e una di sherry. Fu impossibile rifiutare di bere, tanto più che Blaise Cory, con feroci ammiccar d'occhi, asserì di sapere per certo che i poliziotti bevevano in servizio. Tuttavia, meglio non guardare troppo da vicino i bicchieri, polverosi e ricchi di impronte digitali. Ora non restava altro che fissare un appuntamento per la visita di Philip Cory a Natalie e Wexford pensò che sarebbe stato opportuno estendere l'invito anche a Blaise. «Oh, ma io l'ho già vista!» esclamò questi. «E francamente non mi sono chiesto se fosse o no la vera figlia del povero sir Manuel. Non la vedevo da quando eravamo poco più che ragazzi. Lei ha detto di essere Natalie e per me era più che sufficiente.» «C'eravate anche voi all'ufficio funebre?» «Oh no, davvero. Queste funzioni macabre mi danno i brividi. Sono amante della vita, io! No, ho soltanto invitato Natalie a pranzo. Ma dev'essere stato cinque o sei settimane fa.» «Posso chiedervi come mai l'avete invitata, signor Cory?» «Deve esserci un motivo particolare perché uno inviti a pranzo una bella donna, all'infuori del motivo ovvio? No, scusatemi, sto scherzando. In realtà è stata Natalie a telefonarmi. Mi ha ricordato la nostra amicizia di un tempo e mi ha chiesto se potevo trovare un lavoro per un suo vecchio amico, ma non me ne ha detto il nome. Probabilmente aveva visto il mio programma. Ma forse voi siete troppo occupato per avere tempo di guardare quisquilie di questo genere. Una cosetta da niente, ma è mio. Bene, quel tale doveva essere un musicista, se ho ben capito, probabilmente in cerca di notorietà. Comunque, non potevo prometterle niente, però l'invitai a pranzo. Ora che ci penso, era il 17 gennaio. Me lo ricordo perché era il compleanno del mio paparino.» «E quando l'avete vista non avete avuto il minimo dubbio che non fosse la Natalie Camargue della vostra prima giovinezza?» «Oh, un momento. Alla fine non ci siamo visti quel giorno. Natalie mi pregò di rinviare l'appuntamento perché doveva andare in ospedale a fare qualcosa... una biopsia, mi pare che abbia detto. Ci siamo visti il martedì successivo e devo dire che è stata affascinante, allegra e spiritosa. Mi di-
spiacque soltanto di doverle dire che non avevo assolutamente niente da offrire a quel suo amico. Ma non saprei davvero dirvi se fosse proprio la nostra Natalie. Voglio dire, non mi sono neppure posto il problema!» Guardò Burden che, fra tutti, era il più vicino alla sua età. «Riconoscereste una signora che non avete più vista da quando avevate diciannove anni?» Burden rispose con un sorrisino di ghiaccio che non impressionò affatto Blaise Cory. «Una storia tremendamente emozionante, no? Dev'essere stato un bel tonico per il caro vecchio paparino!» «No, niente affatto» protestò il vecchio compositore. «È soltanto sconvolgente. Credo che verrò a Londra con te, Blaise, visto che tanto devo essere là domani. E forse potrei trattenermi un poco. Pensi di farcela a sopportarmi per un paio di settimane?» Blaise circondò con un braccio le spalle del padre e si profuse in gaie affermazioni. A Wexford parve di notare che il ripetuto ammiccare dei suoi occhi cominciasse a dare segni di stanchezza, ma forse fu solo uno scherzo della sua immaginazione. Il genere di coincidenza che porta una persona a udire per tre volte in un giorno una parola che non aveva mai udito in vita sua, o a ricevere una lettera da un amico sognato la notte avanti, fu senza dubbio responsabile del fatto che nella vetrina di un'agenzia di viaggi nei pressi dello studio legale Symonds, O'Brien e Ames fosse esposto un cartellone pubblicitario dai colori sgargianti: VISITATE LA CALIFORNIA, IL PAESE DELL'ETERNA PRIMAVERA.... Un'illustrazione di quello che poteva essere il Big Sur e un'altra di quel che probabilmente era lo Hearst Castle. Wexford si fermò a guardare chiedendosi quale sarebbe stata la reazione del suo capo se lui gli avesse suggerito di inviarlo in California a indagare sui precedenti di Natalie Arno. Poi voltò le spalle alla vetrina e tornò al comando di polizia. Era stato per l'appunto da Ames che aveva sottoposto al grafologo di fiducia dello studio un campione della scrittura della diciottenne Natalie Camargue e uno della trentasettenne Natalie Arno. Il grafologo aveva espresso l'opinione che, tenuto conto delle inevitabili differenze verificatesi in un periodo di quasi vent'anni, i due campioni potevano ritenersi scritti dalla stessa persona. Wexford aveva suggerito che lo stesso esame fosse effettuato dal perito grafologo della polizia ma, pur senza sollevare alcuna concreta obiezione, Ames aveva risposto che non gli pareva il caso di rovinare il
pranzo mettendo troppi cuochi attorno ai fornelli. Del resto, Wexford pensava di avere trovato una via migliore. «Mike» disse affacciandosi all'ufficio di Burden «dove possiamo trovare a prestito un violino?» 10 La moglie di Burden era un modello di perfezione. Insegnante di storia, erudita in letteratura inglese, ottima cuoca e abile sarta, ora si scopriva che era anche una musicista. «Non mi hai mai detto che Jenny suona il violino» osservò Wexford stupito. «Per essere sincero» ribatté Burden quasi a disagio «suonava col Pilgrim String Quartet.» Era un complesso musicale di Kinkgsmarkham abbastanza noto non soltanto in città. «Penso che potremmo farci prestare il suo Hills, se promettiamo di averne molta cura.» «Il suo che?» «Il suo Hills. È una celeberrima marca di violini.» «Capito. Come dire uno Stradivarius.» Burden portò il violino la mattina seguente. Dovevano andare a prelevare Philip Cory e suo figlio per portarli in De Beauvoir Square. Era una splendida giornata di sole, la prima da quando era scomparsa la neve. Blaise Cory abitava in Camden Hill, non molto distante dalla signora Mountnessing, e a quanto pareva il dovere lo aveva chiamato, perché il vecchio compositore era solo in casa. Benché si fosse affrettato a ingurgitare un tranquillante, non appena aveva visto i poliziotti, una notte trascorsa a Londra pareva avergli fatto bene. Era pieno di brio, con le guance rosee, e aveva indossato un completo scuro a righine rosse, una camicia rosa e una cravatta di seta color borgogna, come se dovesse partecipare a un pranzo elegante invece che a un confronto in presenza della polizia. In auto si mostrò molto incline a chiacchierare. «Sapete, da principio la prospettiva di questo confronto con la piccola Natalie mi era sembrata spaventosa, ma ora tutto sommato mi sembra eccitante. Londra è così stimolante, non vi pare? Tonifica il sistema nervoso. E se quella donna non è Natalie, non c'è motivo per sentirsi imbarazzati, no?» Wexford non aveva alcuna intenzione di entrare nella libreria. L'ingresso che portava al piano superiore era sul fianco dello stabile, una porta con un
pannello di vetro, sotto un piccolo portico dal tetto di tegole. Mentre si avvicinavano, Wexford a capofila e Burden alla retroguardia col violino, ne uscì una donna anziana, minuta come un moscerino, in cappotto nero con cappello e guanti a maglia, che si richiuse immediatamente il battente alle spalle. «Santi numi! Ma è la signora Woodhouse!» esclamò Cory. «Proprio così, signore. E voi siete il signor Cory» disse la donna, che parlava con l'accento del Sussex. «Come state? Ho visto il signor Blaise alla TV, ieri sera, è proprio uno schianto! E non è cambiato per niente. Abitate anche voi a Londra?» «Eh no, purtroppo. Sempre laggiù nella mia vecchia casa.» Gli occhi di Cory si accesero per un'ispirazione improvvisa. «Ma non ho nessuno che badi a me. Chissà se...» «Io sono a riposo ormai, signor Cory. E non ho mai avuto tanto da fare in vita mia. Non mi resta un momento per badare a me stessa, figuriamoci agli altri! Ma adesso devo salutarvi, signor Cory, è stato un grande piacere rivedervi dopo tanti anni!» Se ne andò a passetti rapidi in direzione di De Beauvoir Place, continuando a dare occhiate all'orologio come il coniglio bianco di Alice. «Chi era?» s'informò Burden. «L'ex cameriera del povero sir Manuel, quando era ancora viva Kathleen. Chissà che cosa ci sarà venuta a fare qui!» La porta non era stata richiusa a chiave. Wexford spinse il battente e si avviò su per la ripida scala. Natalie era ad aspettarli sul pianerottolo. Negli ultimi tempi Wexford era stato davvero ossessionato dal suo ricordo, al punto che aveva finito per pensare a lei come a un essere seducente e sinistro, una sorta di Mata Hari corrotta e ingannatrice, infida come una serpe. Un'immagine in stridente contrasto con quella della donna che li aspettava in cima alle scale, semplice e incantevole come una scolaretta, con i capelli neri sciolti sulle spalle e trattenuti da un nastro di velluto nero, la gonna che Jane Zoffany stava accomodando qualche giorno addietro nel retrobottega della libreria, una camicetta bianca e un golfino azzurro, quasi una divisa da collegiale. Natalie si chinò a baciare Cory, mormorando con un tono di lieve rimpianto: «Sono felice di rivederti, zio Philip. Vorrei soltanto che non fosse in una circostanza simile!» Cory si ritrasse. «Tutti dobbiamo fare il nostro dovere di cittadini» ribatté con un tono piuttosto brusco. Natalie rise, battendogli affettuosamente una mano su una spalla, poi en-
trarono tutti in un piccolo soggiorno senza pretese dal quale si passava in cucina. Una bella differenza da Sterries! I mobili erano vecchi e malandati come se gli Zoffany li avessero avuti in eredità da parenti defunti da un pezzo che a loro volta li avessero già acquistati d'occasione. Niente pareva essere stato aggiunto da Natalie salvo forse alcuni libri su uno scaffale che si poteva presumere non appartenessero agli Zoffany perché non avevano niente a che vedere con la fantascienza. C'era aroma di caffè nella stanza e dalla cucina veniva, simile al gargarizzare di un gigante, il gorgoglio di una caffettiera. «Sedete, mettetevi comodi» invitò Natalie. «Vado a prendere il caffè.» Sembrava perfettamente a proprio agio e non diede segno di avere notato quel che portava Burden. Il caffè era ottimo. «Tutto sta a farlo abbastanza carico» osservò gaiamente Natalie. «Cosa che gli inglesi di solito non fanno!» Non sarebbe tanto tranquilla e disinvolta se non fosse la vera Natalie, se non fosse certa di poter superare la prova che, se n'è certo resa conto, dovrà affrontare fra poco, rifletté Wexford. Gettò un'occhiata a Burden che stava osservando a sua volta la giovane donna, studiandone i lineamenti come se stesse confrontandoli mentalmente con qualche fotografia di Camargue vista sui giornali. Dopo avere bevuto qualche sorso di caffè, nel quale aveva messo tre cucchiaini colmi di zucchero, Cory attaccò subito con le domande. Sarebbe stato un ottimo conduttore di telequiz. Forse Blaise aveva ereditato da lui il suo talento. «I tuoi genitori erano andati ad abitare in campagna quando tu avevi cinque anni. Ti ricordi che cosa ti avevo regalato per il tuo compleanno?» Natalie non ebbe un attimo di esitazione. «Un gattino. Un gattino grigio, un British Blue.» «Quello che avevi era finito sotto un'automobile, così io te ne regalai un altro.» «Esatto. Lo chiamai Pantera.» Cory se l'era dimenticato, ma Wexford intuì che ora gli era tornato in mente all'improvviso e ne era rimasto scosso. «Dove si trovava la casa?» domandò il vecchio compositore, un po' meno sicuro di sé. «A Pomfret, sulla strada per Cheriton. Però dovresti cercare qualcosa di meglio, zio Philip. Chiunque avrebbe potuto scoprire dove abitava il celebre Camargue.»
Invece di rispondere, Cory le sparò a bruciapelo una domanda in francese. Wexford non capì una parola, ma dovette riconoscere che Cory era in gamba, molto più in gamba di quanto non lo avesse giudicato. Natalie rispose nella stessa lingua e Cory ribatté con una raffica in spagnolo. Un esame al quale Symonds, O'Brien e Ames non avevano certo pensato, disse a se stesso Wexford, trattenendo per un attimo il respiro perché Natalie non rispondeva e il suo viso aveva assunto l'espressione sciocca e imbarazzata della persona che si trova alle prese con una lingua che credeva di conoscere bene e che, all'atto pratico, si rende conto di non capire. Cory ripeté ciò che aveva detto. Burden si schiarì la gola e si spostò sulla sua sedia, mentre Wexford restava volutamente immobile, rendendosi conto che a ogni secondo che passava, aumentavano le probabilità che l'inganno fosse finalmente scoperto. E poi, quando Cory era sul punto di ripetere per la terza volta la frase, Natalie proruppe in un torrente di parole, in spagnolo, parlando con tale rapidità che lo stesso Cory fu preso in contropiede e lei dovette ripetere più lentamente quello che aveva detto. Wexford finì il caffè e Natalie, guardandolo maliziosamente, gli riempì di nuovo la tazzina. A Burden invece dedicò uno dei suoi raggianti sorrisi, mentre i lunghi capelli le ricadevano in avanti incorniciandole il viso. Un viso giovane, rifletté Wexford, forse persino troppo giovane per l'età che Natalie avrebbe dovuto avere. E non era forse anche un po' troppo spagnolo? La madre di Natalie era inglese, tipicamente inglese, suo padre era mezzo francese, possibile che la loro figlia assomigliasse tanto alle donne di Goya? E nessuna delle prove cui era stata sottoposta finora, per quanto convincente, poteva ritenersi definitiva. Forse che un'impostora non avrebbe potuto conoscere lo spagnolo? Se la sostituzione aveva avuto luogo a Los Angeles, lei avrebbe persino potuto essere una messicana. E non c'era niente di strano che sapesse del gattino e del suo nome se era stata amica della vera Natalie e si era messa d'impegno per saperne il più possibile della sua infanzia. «Quale è stato il primo strumento che hai imparato a suonare?» stava chiedendo Cory. «Il grammofono.» «Quanti anni avevi quando hai cominciato a suonare il violino?» «Otto.» «Chi è stato il tuo primo maestro?» «Ah, non me lo ricordo.» «A quindici anni vivevi ancora a Pomfret. Era agosto, tu eri a casa in va-
canza e tuo padre era appena tornato da una tournée... in America, mi pare.» «In Canada.» «Sì, hai ragione.» Cory, che fino dalla prima parola di Wexford aveva risolto di ritenerla un'impostora, sembrava sempre più sorpreso delle risposte di Natalie. «Ricordi che una sera venni a cena da voi con mia moglie? Te lo ricordi?» «Sì, mi pare. Non vi vedevo da un anno, se non sbaglio.» «Prima della cena ti chiesi di suonarmi qualcosa e tu...» Lei non lo lasciò finire. «Ti ho suonato la Ciaccona, seconda partitura in re minore, di Bach.» Cory ammutolì per la sorpresa. Rimase a fissare Natalie per un momento, poi si girò verso Wexford con aria oltraggiata. «Era troppo difficile per me» riprese gaiamente la giovane donna. «Tu mi applaudisti lo stesso, ma io mi rendevo conto di avere fatto un macello.» L'espressione dei tre uomini la indusse a una divertita audacia. «Basta come prova? Vogliamo brindare alla mia riabilitazione, allora?» Balzò in piedi e andò in cucina, lasciando aperta la porta. Furono forse quella porta aperta e il gaio canticchiare di Natalie proveniente dalla cucina che trattennero Cory dallo scagliarsi contro Wexford. Il vecchio compositore si limitò a inarcare le candide sopracciglia cespugliose fin quasi a raggiungere i capelli e a scuotere la testa, lasciando intendere in maniera inequivocabile che riteneva di essere stato trascinato lì in un'assurda caccia alle streghe. Ma anche Wexford stava pensando che quella donna non avrebbe potuto conoscere quell'episodio, se non fosse stata la vera Natalie. Era assurdo pensare che avesse parlato per caso alla falsa Natalie proprio di quell'unico, trascurabile episodio. Si sarebbe dovuto supporre che le avesse raccontato per filo e per segno di tutte le volte che aveva suonato qualcosa, enumerando ogni brano e ogni amico o conoscente davanti al quale aveva suonato, perché non era certo possibile prevedere che qualcuno l'avrebbe interrogata su quel pezzo particolare. Probabilmente Cory aveva pensato alla Ciaccona unicamente perché gliel'aveva ricordata suo figlio il giorno prima. Bisognava dunque riconoscere che era davvero la vera Natalie e l'unica erede del defunto Camargue? Nessuna impostora avrebbe potuto superare quell'esame. Wexford continuò a fissarla perplesso quando lei rientrò col vassoio sul quale ora aveva messo due bottiglie e un secchiello col ghiaccio. Ma se, come sembrava ormai indubitabile, era davvero Natalie Arno,
come aveva potuto ingannarsi sir Manuel? Quella donna non avrebbe certo sbagliato a pronunciare un semplice nome italiano. E anche ammettendo che Camargue le avesse rivolto una simile accusa, non avrebbe certo esitato a respingerla e a fornirgli prove irrefutabili della propria identità, ricordandogli episodi della loro vita che soltanto loro due potevano conoscere. E Camargue era un vecchio ottantenne, probabilmente non più perfettamente a posto col cervello, oltre che con la vista e con l'udito. E quella noiosa Dinah Sternhold gli aveva fatto perdere una quantità di tempo andando a raccontargli quella che probabilmente era stata soltanto una delle molte allucinazioni di un vecchio un po' paranoico. Burden s'era ripreso il suo violino, come volesse togliere la seduta. «Signora Arno» disse all'improvviso il suo collega. «Non vorreste suonare ancora una volta, per noi, quel famoso brano?» Se Natalie aveva notato il violino, come non aveva potuto mancar di fare, doveva avere pensato che appartenesse a Cory, senza sospettare neppur lontanamente che avesse qualcosa a che vedere con lei, perché a quella domanda il suo atteggiamento cambiò a un tratto. Aveva posato il vassoio e stava per toglierne le mani, ma le lasciò dov'erano e si irrigidì un poco. L'espressione del suo viso non mutò, ma non sembrava più così padrona della situazione e men che meno divertita. «Oh, no davvero!» esclamò. «Avete smesso di suonare?» «No, suono ancora, qualche volta, ma sono completamente fuori esercizio.» «Saremo comprensivi, signora Arno» scherzò Wexford. «L'ispettore e io, del resto, non siamo affatto intenditori.» Burden gli saettò un'occhiata malevola, come a dire che lui poteva anche esserlo. «Basterà che vi approvi il signor Cory. E se vi approverà lui, vi approverò anch'io... Mi convincerò che sir Manuel Camargue si era sbagliato.» La signora Arno non rispose. Sedeva immobile, con gli occhi bassi, riflettendo. Poi tese una mano a prendere il violino, ma pareva che non sapesse come aprire la custodia, perché armeggiò invano con la serratura a molla. «Date qua, faccio io» si offrì Burden. Lei si alzò e si soffermò a guardare il vassoio che aveva portato. «Oh, santo cielo, ho dimenticato i bicchieri. Scusatemi!» Burden tolse con cura dalla custodia il violino, poi l'archetto. La vista dello strumento ridiede la calma a Cory, che ne sfiorò una corda con un di-
to. In quella, venne dalla cucina un subitaneo tintinnar di vetri rotti seguito da un'esclamazione di dolore e dal rumore dell'acqua che scorreva dal rubinetto. «Puoi rimetter via il tuo violino» mormorò Wexford a Burden. Natalie tornò in soggiorno, pallidissima. «Ho rotto un bicchiere.» Aveva la mano sinistra avvolta in un pezzo di tela bianca che andava rapidamente arrossandosi. Come se lo tolse perché era ormai inzuppato, Wexford vide un lungo, sottile taglio che le disegnava una riga rossa attraverso tre polpastrelli. 11 Sarebbe dunque stato l'inizio, non la fine. Ora avrebbero potuto avviare un procedimento per tentata truffa e iniziare le indagini sulla morte di sir Manuel Camargue. E Wexford, andando da Ames con quella che riteneva una prova irrefutabile che Natalie Arno non era quella che diceva di essere, si sentiva sicuro del fatto suo. Quella donna poteva pur parlare francese e spagnolo, poteva pur conoscere i particolari più astrusi della vita familiare dei Camargue, ma non sapeva suonare il violino e questo era un punto cruciale. Non aveva osato rifiutare di sottoporsi alla prova, ma aveva trovato il modo di ferirsi ai polpastrelli della mano sinistra, così da trovarsi nell'impossibilità di premere le corde. Kenneth Ames ascoltò con quel suo fare assente e distaccato che avrebbe potuto sconcertare l'ispettore, se questi non avesse già imparato a conoscerlo. Parve riluttante a comunicare l'indirizzo della signora Woodhouse, ma alla fine dovette cedere all'insistenza di Wexford. La donna abitava a Pomfret col figlio e la nuora, che però lavoravano entrambi, sicché lei era sola in casa. Da principio ascoltò attentamente le spiegazioni di Wexford ma poi, quando comprese quale fosse veramente lo scopo della sua visita, corrugò le sopracciglia sporgendo il labbro inferiore e riprese il lavoro all'uncinetto, un'enorme coperta di sottilissimo cotone bianco, che aveva posato per ascoltare. «Non so di che cosa stiate parlando, non capisco» borbottò mentre l'uncinetto volava avanti e indietro, lampeggiando. «Sono andata a trovare la signora Arno perché mi aveva invitata. Ero andata da una mia sorella che abita da quelle parti, a un tiro di sasso dalla signora Natalie, era più che naturale che andassi anche da lei, no? L'avevo quasi vista nascere, avevo aiu-
tato la sua mamma ad allevarla!» «Quante volte siete stata da lei, signora Woodhouse?» «Non capisco quello che volete dire. Migliaia di volte, l'ho vista. Se però volete sapere quante volte sono stata da lei in queste ultime settimane, vi dirò che ci sono stata due volte sole. Quel giorno che mi avete vista voi e due giorni prima. Ma mi piacerebbe proprio sapere dove volete arrivare.» «Alcune di quelle migliaia di volte sono state nel novembre e nel dicembre scorsi, signora Woodhouse? La signora Arno è venuta a trovarvi, appena è tornata in Inghilterra?» «L'ho rivista per la prima volta due settimane fa, ve l'ho detto. Quando quell'avvocato, quel signor Ames, è venuto qui a farmi lo stesso genere di stupide domande che mi state facendo voi ora. Soltanto che lui l'ha capita, di essere stato sconfitto.» L'uncinetto volava sempre più veloce e il gomitolo di cotone sobbalzava in grembo alla signora Woodhouse. «Se avevo qualche dubbio sul fatto che la signora Arno fosse Natalie Camargue!» La voce della donna era carica di disprezzo, ora. «Certo che no, nemmeno l'ombra di un dubbio!» «La signora Arno vi avrà fatto una quantità di domande, immagino» disse Wexford. «Vi avrà chiesto di rinfrescarle la memoria su episodi della sua infanzia che lei non rammentava più. Il nome di un certo gattino, per esempio.» «Pantera» disse immediatamente la signora Woodhouse. «Si chiamava così. Forse che non avrei dovuto dirglielo? Lei non se lo ricordava, era così piccola, allora! Non capisco perché veniate qui a farmi queste domande. Certo che ho buona memoria, ero famosa per la mia memoria! Il signor Camargue, era soltanto il signor Camargue, allora, mi diceva sempre: "Mary, tu hai la memoria di un elefante, non dimentichi mai niente".» «Immagino che sappiate che cos'è un complotto, signora Woodhouse. Un complotto inteso a defraudare una persona dei suoi diritti di fronte alla legge, e non credo che vi piacerebbe trovarvi coinvolta in qualcosa del genere, vero? Qualcosa che potrebbe mettervi in guai grossi.» La signora Woodhouse insistette col suo ritornello preferito, una mano stretta intorno all'uncinetto, l'altra posata sopra il gomitolo. «Non capisco. Non so proprio di che cosa stiate parlando.» La seconda dell'elenco era Mavis Rolland, insegnante di musica. Wexford stava per fare il numero della scuola per fissare un appuntamento con lei quando gli annunciarono Kenneth Ames. L'avvocato si accomodò sulla sedia che l'ispettore gli offrì, senza toglier-
si né il cappotto né la sciarpa a scacchi neri e grigi, e fissò lo sguardo sul lato settentrionale del campanile di St Peter, così com'era avvezzo a fissarne il lato meridionale dalla finestra del proprio studio. Lo scopo della sua visita, spiegò, era quello di informare la polizia che lo studio legale Symonds, O'Brien e Ames aveva deciso di riconoscere la signora Natalie Kathleen Arno Camargue come la legittima figlia ed erede del defunto sir Camargue. In realtà, disse Ames, era stato soltanto il loro rispetto per la verità e l'orrore per la possibilità di un inganno che li aveva indotti a indagare su quella che era risultata nient'altro che un'infame calunnia. «Ma lo stesso Camargue...» attaccò Wexford. «Secondo la signora Sternhold, mio caro amico, secondo la signora... Ho tanta paura che vi siate lasciato fuorviare. E che abbiate anche perduto un poco il senso delle proporzioni, se me lo consentite. Non vi sarete certo aspettato che la mia cliente vi suonasse una bella canzoncina su quel violino quando si era malamente tagliata tre dita!» Wexford notò che Natalie Arno era diventata ora la mia cliente. Ne fu sorpreso più di quanto lui stesso si aspettasse, ne fu addirittura scosso e rimase lì immobile, a digerire quell'espressione, rendendosi conto a poco a poco di ciò che essa implicava. Sempre fissando l'etere, Ames riprese, in tono amabile: «Non c'è mai stato il minimo dubbio, naturalmente; s'è fatta una montagna di un sassolino, ma ora noi abbiamo una prova irrefutabile.» «Davvero?» Wexford inarcò le sopracciglia. «La mia cliente è riuscita a rintracciare il suo dentista, quello del quale si è sempre servita tutta la famiglia Camargue. È il dottor Williams, di Londra, Wigmore Street. Orbene, il dottor Williams ha ancora tutte le schede e... bene, la dentatura della mia cliente e quella della signorina Natalie Camargue sono identiche, la signora non ha perso neppure un dente.» Wexford fissò un appuntamento con la signorina Rolland, ma il giorno seguente fu costretto ad annullarlo perché nella mattinata gli piombò addosso come una valanga il capo della polizia, Charles Griswold, un omone grande e grosso quanto Ames era smilzo e incavato, e risoluto e attento quanto l'avvocato era evasivo e svagato. «Lascia perdere tutto quanto, Reg, comportati come se non avessi mai neppure sentito nominare Camargue.» «Soltanto perché un'impostora ha sedotto Ames inducendolo a credere a
un sacco di menzogne?» «Sedotto?» Wexford agitò una mano in un gesto d'impazienza. «Parlavo metaforicamente, s'intende. Quella signora non è Natalie Arno. Sono fermamente convinto che fino da quando è tornata qui, si è servita di una ex cameriera della famiglia Camargue per farsi raccontare una quantità di particolari sulla famiglia. Quanto al dentista, i signori Symonds, O'Brien e Ames hanno fatto i controlli di prammatica? Si sono recati da lui oppure lo hanno invitato allo studio? Se si tratta di un complotto nel quale sono coinvolte varie persone...» «Lo sai che non ho la più pallida idea di quello di cui stai parlando? Se un rispettabilissimo studio legale come il Symonds, O'Brien e Ames accetta questa signora e le consente di ereditare un patrimonio cospicuo, noi dobbiamo fare altrettanto. E scordarci tutte le balorde supposizioni su vecchi signori spinti dentro laghi ghiacciati quando non abbiamo uno straccio di prova che Camargue sia morto d'altro che di morte accidentale. Sono stato chiaro?» «Se lo dite voi, sarà certo così.» «È così.» Non il principio, ma la fine. Wexford era stato ossessionato altre volte da un caso e la strada che la sua ossessione aveva imboccato era stata bloccata da uguali ostacoli e opposizioni. Il senso di frustrazione non gli era certamente nuovo, ma non per questo riusciva meno amaro. Ritto davanti alla finestra, Wexford osservava il cielo opaco, imprecando fra sé. Era tornato un freddo pungente, con un'ostinata nebbia biancastra che soltanto verso mezzogiorno si diradava un poco, senza mai sparire del tutto. Quel giorno sarebbe tornata Sheila, ma Wexford si soffermò soltanto un momento a chiedersi se gli aerei avrebbero potuto atterrare a Londra con quella nebbia o se sarebbe stato necessario dirottarli su un altro aeroporto, poi i suoi pensieri tornarono a Natalie Arno. Avrebbe mai saputo chi era in realtà? Se, quando e come era avvenuto il cambio di identità, la sostituzione, l'omicidio... Dopo quello che gli aveva detto Griswold non osava più arrischiare un'altra intervista con Mary Woodhouse, né mantenere l'appuntamento con la signorina Rolland o tentare di spezzare l'ostinazione della signora Mountnessing, né tanto meno trascinare allo scoperto il falso dentista. Che cosa poteva fare, ormai? Per tornare a casa dovette passare dalla strada dov'era lo studio legale
Symonds, O'Brien e Ames perché Dora lo aveva incaricato di una commissione in un negozio lì vicino e quando fu davanti a quel portone lo riprese la collera. Desiderò a un tratto di potersi trasformare per un attimo in un giovane mascalzoncello e decorare la loro lucente targa di ottone con qualche appropriato graffito. Pochi passi più avanti, si ritrovò a guardare di nuovo nella vetrina dell'agenzia di viaggi. Un commesso volonteroso gli sciorinò davanti una bracciata di volantini pubblicitari. Quali erano le località che Dora preferiva? Le Bermude, il Messico, un posto qualsiasi negli Stati Uniti, purché ci facesse caldo. Ne avevano parlato a non finire, ben sapendo che sarebbe stata l'unica vacanza costosa che avrebbero potuto permettersi in tutta la loro vita. Il cartellone che aveva visto in vetrina aveva numerosi confratelli variopinti all'interno del negozio, ma quando Wexford alzò gli occhi fu il panorama dei grattacieli di San Francisco che attirò il suo sguardo. Mentre lui era nel negozio, la nebbia si era addensata di nuovo e ora pareva sfiorargli il viso con dita gelide. Tornò a casa lentamente, chiedendosi una volta ancora dove fosse in quel momento Sheila, ma non appena ebbe infilata la chiave nella serratura la porta si spalancò e sua figlia era lì davanti a lui, abbronzata come non l'aveva mai vista, i capelli biondi diventati chiari quasi come l'avorio. Gli buttò le braccia al collo e lo strinse forte. Dora e Andrew lo aspettavano in salotto. «L'aeroporto di Heathrow era chiuso e ci hanno fatti atterrare a Gatwick» spiegò Sheila. «Così abbiamo pensato di approfittare per farvi un salutino. È stato un viaggio favoloso, papà, lo stavo proprio dicendo alla mamma. Dovete andarci assolutamente anche voi.» Wexford rise. «Bene, andiamo in California» annunciò. PARTE SECONDA 12 L'eredità di sir Manuel Camargue, stando a quanto pubblicarono i giornali, ammontava a 1.146.000 sterline nette e divenne proprietà di Natalie Arno circa due mesi dopo la morte del celebre musicista. «Neanche tanto» commentò Wexford. «Be', se più di un milione di sterline ti sembra poco...» borbottò Burden. «Ma pensa a tutti quelli che ne vorranno la loro fetta, tutti quelli che fa-
cevano parte del complotto. Non mi stupisce che Natalie abbia dovuto vendere la casa.» La signora Arno era tornata a vivere a Sterries, ma aveva messo immediatamente in vendita la proprietà, chiedendone centodiecimila sterline, e per parecchie settimane la più importante agenzia immobiliare di Kingsmarkham tenne nelle sue vetrine fotografie a colori dell'esterno, della sala da musica, del salotto e del giardino, mentre istantanee meno appariscenti apparivano su tutti i giornali locali. Ma fosse perché la casa era un po' troppo spigolosa e lineare per il gusto corrente, fosse perché il prezzo era troppo alto, la stagione più propizia alla compravendita di immobili passò senza che Sterries trovasse un compratore. «È doloroso pensare che quella donna non ha niente da fare qui, che non ha alcun diritto di vendere e di appropriarsi del ricavato e non poter fare un accidente di niente per impedirlo» osservò Burden. Ma Wexford si limitò a ribattere che l'estate era arrivata con la solita durezza e che lui non vedeva l'ora di andarsene in vacanza. Né lui né Dora erano viaggiatori fanatici, non si erano mai spinti tanto lontani da casa e Dora era quasi in preda al panico. Faceva, disfaceva e rifaceva le valigie, poi cominciò a preoccuparsi per la possibilità che qualcuno svaligiasse loro la casa mentre erano lontani e non servì a niente che Wexford le facesse osservare che trovarsi a San Francisco o a Southend era la stessa, stessissima cosa nei confronti di un possibile furto. Del resto la polizia avrebbe montato buona guardia. Se non lo facevano per lui, per chi avrebbero dovuto farlo? Inoltre Sylvia, la loro figlia maggiore, aveva promesso che sarebbe passata ogni due giorni a controllare che andasse tutto bene. Sylvia e suo marito abitavano nel quartiere settentrionale di Kingsmarkham e tornando da casa sua, dove era andato a portarle le chiavi, Wexford pensò di allungare un poco la strada passando per Ploughman's Lane. Gli parve una mossa appropriata andare a dare un'occhiata a Sterries, la sera prima di fare il primo passo per provare che Natalie Arno era un'impostora. Ma se in gennaio e febbraio la casa era a malapena visibile dal viale, ora restava completamente nascosta da carpini, tigli e platani dal fogliame lussureggiante dietro ai quali, per quel che se ne poteva vedere, avrebbe potuto esserci un semplice prato, invece di una casa. Mancava poco alle nove ma era ancora chiaro. Mentre l'auto scendeva lentamente la collina, Wexford udì alle proprie spalle un rumore di passi in corsa e nello specchietto retrovisore vide una figuretta svolazzante, una donna che correva
come una forsennata per il viale come se fosse inseguita. Jane Zoffany. Ma nessuno l'inseguiva. All'infuori di lei, la strada era deserta, silvestre e silenziosa come sono per lo più strade come quella nelle sere estive. Wexford accostò l'auto al marciapiede, fermò e scese. Jane ebbe la presenza di spirito sufficiente per scansarlo con un brusco scarto, ma come riconobbe l'ispettore si bloccò di colpo e scoppiò a piangere. Piangeva come una bambina, premendosi i pugni sugli occhi. «Venite, mettetevi a sedere in macchina» l'esortò Wexford. Jane sedette sul sedile accanto a quello del guidatore ma continuò a piangere nascondendo il viso fra le mani. Wexford dovette darle il proprio fazzoletto perché lei non aveva borsa e nemmeno un golf o una giacca, benché l'abito che indossava, a disegni rossi e gialli, all'indiana, fosse senza maniche. Non portava calze e ai piedi aveva un paio di sandali indiani fatti di una semplice suola e di una striscia di cuoio. A un tratto attaccò a parlare tutto d'un fiato, interrompendosi soltanto quando un singhiozzo la soffocava. «L'ho sempre giudicata una donna meravigliosa! E anche lui, lo credevo l'uomo più meraviglioso, affascinante, buono e gentile che mai avessi conosciuto. E credevo che lei mi volesse bene, che le facesse piacere la mia compagnia. Pensavo che mio marito non lo avesse mai nemmeno notato, voglio dire tranne per il fatto che era mio marito, niente altro, credevo di essere io... E adesso lui mi dice che... O Dio, che cosa posso fare? Dove andare? Che ne sarà di me?» Wexford era allibito. Non capiva gran che di quanto diceva Jane, ma si rendeva conto che la poveretta si sfogava con lui soltanto perché era lì, a portata di mano. E pensava pure, non per la prima volta, che ci fosse qualcosa di sfasato in lei, glielo si vedeva negli occhi. Jane gli posò una mano su un braccio. «Ho fatto di tutto per lei, per farla sentire come a casa propria, facevo le sue commissioni, le accomodavo i vestiti... Lei accettava tutto e intanto lei e Ivan... quando Ivan era in California, avevano una relazione!» Wexford non batté ciglio né sorrise a quell'espressione fuori moda, relitto di un gergo ormai sorpassato. «Ve lo ha detto lei, signora Zoffany?» domandò in tono gentile. «Me lo ha detto lui, Ivan me lo ha detto!» Si asciugò gli occhi col fazzoletto dell'ispettore. «Siamo venuti qui mercoledì, con l'intenzione di fermarci fino a domenica o lunedì. Tanto, il negozio è comunque una catastrofe, non ci viene mai un cane, non fa differenza che noi ci siamo o no.
Lei ci aveva invitati e noi siamo venuti. Ma adesso non capisco perché lo abbia fatto. Lei non lo vuole, ma vuole che sia innamorato di lei, le piace tenerlo sulla corda.» Jane rabbrividì e le si spezzò di nuovo la voce. «E stasera, non più di mezz'ora fa, lui mi ha detto tutto. Mi ha detto che è innamorato di lei da due anni, dal primo momento che l'ha vista. Non vedeva l'ora che lei tornasse in Inghilterra, per andare a vivere con lei, ma quando è arrivata, ha cominciato a snobbarlo, a dirgli di aspettare e adesso...» «Ma perché vi ha detto tutto questo?» l'interruppe Wexford. Lei deglutì, allargando le mani in un gesto di sconforto. «Non ne poteva più, ha detto, doveva parlarne con qualcuno e soltanto io ero a portata di mano. L'ha udita parlare con qualcuno per telefono come se fosse il suo amante, dirgli di venire non appena noi ce ne fossimo andati ma di essere molto discreto. Allora Ivan ha capito. Ha il cuore a pezzi perché lei se ne infischia di lui. E ha avuto il coraggio di dire tutto questo alla propria moglie, di dirle che non sa come potrà continuare a vivere perché un'altra donna non lo vuole. A tutta prima non avevo afferrato bene, non riuscivo a credere, poi ho cominciato a strillare. Allora lei è venuta nella nostra camera a chiedere che cos'era tutto quel baccano. Le ho raccontato quel che aveva detto lui e lei ha detto: "Mi dispiace, cara, ma io non ti conoscevo, allora". Ha detto questo a me, capite? "Non ti conoscevo, e in ogni caso non è stata una cosa importante. È accaduto soltanto tre o quattro volte, soltanto perché eravamo entrambi così soli!" Come se questo potesse bastare a risolvere ogni cosa!» Wexford rimase zitto. Jane era un poco più calma, ora, anche se continuava a tremare. Quanto prima, si sarebbe pentita di avere vuotato il sacco a quella maniera con un estraneo. Si passò le mani sul viso, con un profondo sospiro, e curvò le spalle. «O Signore! Che cosa faccio, adesso? Dove posso andare? Non posso restare con lui, vero? Quando lei mi ha detto quelle cose, mi sono precipitata fuori di casa senza nemmeno prendere la borsa, ho corso, ho corso, poi ho visto voi e... O Signore, chissà che cosa penserete di me che mi sono lasciata andare a questo modo. Dovete pensare che sono pazza, che ho perduto la testa. «Lo dice anche Ivan che sono matta. 'Continua così' mi dice 'e finirai in manicomio.'» Jane guardò Wexford di sottecchi. «Ci sono già stata, sapete, per questo lui parla così. Se soltanto avessi un'amica dalla quale rifugiarmi, ma le ho perdute tutte, con quell'andare dentro e fuori dagli ospedali. La gente non vuole più saperne di voi se pensa che abbiate qualche cosa di
storto nel cervello. Nel mio caso si tratta soltanto di depressione, una malattia come qualunque altra, ma la gente non vuol saperne.» Emise un lieve gemito. «Natalie non era così, lei sapeva che cos'è la depressione, è stata molto gentile, lei... E adesso ho perduto in un colpo solo la mia migliore amica e mio marito!» Le tremavano le labbra, aveva gli occhi rossi, i capelli arruffati e striati di grigio le ricadevano in ciocche disordinate sul viso. Sembrava una zingara inseguita. E l'espressione del suo volto, il suo sguardo fisso e supplichevole dicevano chiaro che, data la professione di Wexford e la comprensione che le aveva dimostrata, Jane si aspettava che ora facesse qualcosa per lei. Fare le sue vendette contro Natalie Arno, riportare un marito fedifrago sulla retta via, o almeno procurarle un dignitoso ricovero per la notte. Riprese a parlare febbrilmente. «Non posso tornare là, non potrei sopportarlo. Ivan ha detto che torna a casa stasera stessa, ma non posso andare con lui, non sopporterei di restare sola con lui. Ho una sorella a Wellridge, ma non mi vuole, è anche lei come tutti gli altri... Così, non so proprio dove...» A Wexford passò per la testa un'idea, quella di portarla a casa propria, per quella notte: Dora le avrebbe certo offerto un letto. Ma subito un altro pensiero contrastò il primo. Sarebbe stata una seccatura troppo grossa. Dovevano partire il giorno seguente per le vacanze e il loro aereo decollava alla una pomeridiana, perciò avrebbero dovuto muoversi di casa almeno alle dieci, per essere a Heathrow in tempo. E se poi lei avesse rifiutato di andarsene? Se fosse piombato a casa loro il signor Zoffany? No, impossibile. Jane continuava a parlare, senza interrompersi. «Avrei tante cose da dirvi, se ne avessimo il tempo, cose che vi sarebbero utili, che vi farebbe piacere conoscere, ne sono certa.» «Sul conto della signora Arno?» «Be', no, sul mio conto. Avrei tanto bisogno di qualcuno che mi ascoltasse e mi capisse, mi farebbe meglio di tutte le terapie e di tutte le pillole del mondo. Non posso stare sola, capite?» Più tardi Wexford si sarebbe pentito amaramente di non avere seguito quel suo primo impulso. Se lo avesse fatto, avrebbe conosciuto alcune verità quella sera stessa e, fatto molto più importante, si sarebbe forse salvata una vita umana. Ma oltre alla riluttanza a lasciarsi coinvolgere personalmente e ad affrontare un grosso fastidio, lo aveva trattenuto una certa cautela. Lui era un poliziotto e quella donna era mezza matta... «Sarebbe meglio che vi riportassi su a Sterries, signora Zoffany. Permet-
tetemi...» «No!» «Probabilmente troverete vostro marito che vi aspetta per tornare a casa con voi. Fareste ancora in tempo a prendere l'ultimo treno per Londra. Signora Zoffany, dovete capire che vostro marito supererà presto questo episodio, probabilmente il fatto di avervene parlato lo aiuterà a uscirne. Perché non tentate...» «No!» «Venite, lasciate che vi riporti a Sterries.» Per tutta risposta, lei raccolse la gonna e un po' saltò un po' rotolò fuori della macchina. Costernato, Wexford scese per aiutarla, ma lei fu pronta a rialzarsi e come lui le tese un braccio, gli scagliò addosso qualcosa, un fagottino appallottolato. Il suo fazzoletto. Jane restò ferma per qualche momento ad alcuni passi da lui, con la testa china e le mani sotto il mento, come una bambina dopo una sgridata. Era buio completo, ora, e l'aria cominciava a rinfrescarsi. All'improvviso, Jane si avviò di buon passo nella direzione dalla quale era venuta, risalendo velocemente la collina e sparendo ben presto nell'ombra fonda degli alberi. Wexford aspettò per qualche momento, senza sapere nemmeno lui che cosa aspettava. Un'auto l'oltrepassò nel momento in cui stava mettendo in moto la propria, scendendo la collina a velocità abbastanza sostenuta. Era una Opel color senape e benché fosse troppo buio per distinguere chiaramente qualcosa, Wexford credette di riconoscere nella donna al volante Natalie Arno. Ma naturalmente questo era soltanto il segno di quanto quella donna occupasse i suoi pensieri. A casa, trovò Dora che, fatte definitivamente le valigie, guardava alla televisione il programma di Blaise Cory. 13 Wexford stava guidando sul lato sbagliato della strada. O quanto meno, così pareva a lui, ma tutto sommato non andava tanto male quanto aveva temuto. La San Diego Freeway aveva una quantità di corsie e il traffico scorreva più lento che in Inghilterra. Il cielo era di un azzurro un po' nebbioso, faceva un gran caldo ed entrambi sentivano le conseguenze di nove ore di volo. Fermandosi a un semaforo (lì i semafori erano appesi a mezz'aria) Wexford si girò a guardare la moglie. Appariva molto stanca, non avrebbe potuto non esserlo, ma anche elettrizzata. Per lui non sarebbe
stata proprio una vacanza, rifletté, e già cominciava a provare rimorso per tutto il tempo che sarebbe stato costretto a trascorrere lontano da lei. Aveva cercato di spiegarle che, non fosse stato per quell'indagine, non sarebbero certo venuti in California e lei pareva avere preso le cose con sufficiente rassegnazione, ma si era resa davvero conto di ciò che quel fatto avrebbe significato? Aveva risposto che ne avrebbe approfittato per andare a trovare i Newton, vecchi amici che non vedeva da secoli, ma Wexford pensava di sapere come si sarebbe risolta la visita: un invito a pranzo e tutto sarebbe finito lì. Stava appena abituandosi alla strada, cominciava persino a godersi la guida della piccola Chevette rossa noleggiata all'aeroporto quando si trovò davanti ai palmizi di Santa Monica e allo splendido lungomare. Aveva promesso a Dora due giorni di sosta nel lusso dell'albergo Miramar, prima di riprendere il viaggio per Dio sapeva dove le sue indagini lo avrebbero trascinato. Da dove avrebbe cominciato? Non aveva altro che un misero riferimento come punto di partenza, l'indirizzo di Natalie Arno a Los Angeles, che Ames gli aveva comunicato in febbraio. L'immensità del compito che si era preposto gli apparve chiara a un tratto quando, sistemata in albergo Dora che si era subito gettata sul letto a riposare, si soffermò all'ombra degli eucalipti a osservare il Pacifico. Sembrava tutto così grande, un mare immenso, una spiaggia enorme, un cielo sterminato quali non aveva mai visto. Anche quando il loro aereo aveva cominciato ad abbassarsi, era stato sbalordito dall'immensità della città che si stendeva sotto di loro con un luccichio metallico. Il segreto di Natalie Arno era sembrato enorme a Kingsmarkham, ma qui, a Los Angeles, esso era certamente in grado di nascondersi e di andare perduto per sempre in mezzo a cento milioni di ricettacoli. Ma uno di quei ricettacoli avrebbe cominciato a esplorarlo domani stesso. Tuscarora Avenue, dove Natalie aveva vissuto per otto anni dopo essersi trasferita al sud da San Francisco, Tuscarora Avenue, in un sobborgo che si chiamava Opuntia. I negozi erano ancora aperti. Wexford se ne andò in Wilshire Boulevard a comprare una pianta di Los Angeles più grande e particolareggiata di quella che gli avevano dato insieme con l'auto. Quando lui uscì, la mattina seguente, Dora si accingeva a telefonare a Rex e Nonie Newton. Un paio d'anni prima di conoscere Wexford, Dora era stata fidanzata con Rex Newton. Un amoretto da ragazzi (erano en-
trambi adolescenti, allora) tramontato con la comparsa del poliziotto che aveva ben presto soppiantato Rex. Erano passati trent'anni, ormai, Rex si era ritirato presto dagli affari ed era emigrato in California con la moglie americana. Wexford sperava ardentemente che quei due mantenessero le promesse fatte tante volte per lettera e che tenessero buona compagnia a Dora. Opuntia era un sobborgo di villini dai colori brillanti somiglianti a chalet svizzeri o a castelli francesi in miniatura annidati in giardini lussureggianti come giungle. Wexford non aveva mai visto fiori simili se non nei negozi di fioraio o nelle serre dei giardini pubblici: oleandri, buganvillee, sterlizie gialle e blu simili a uccelli del paradiso, emblema della Città degli angeli. Nemmeno un alito di vento agitava le fronde e il cielo azzurro era offuscato all'orizzonte da una lieve bruma bianca. Tuscarora Avenue era così fitta di auto da lasciare a malapena lo spazio per un sorpasso. Disperando di trovare un posto dove parcheggiare la Chevette, Wexford la lasciò ai piedi della collina e proseguì a piedi. Benché ci fossero vie laterali denominate Mar Vista e Oceania Way, il mare non era visibile da nessuna parte, nascosto com'era da edifici enormi che svettavano coi loro attici sopra una foresta di palme e di eucalipti. Il numero 1121, dove aveva abitato Natalie Arno, era una casetta in stucco rosa che con le sue vicine, un minicastello color cioccolata e una hacienda in miniatura color limone, rammentarono a Wexford le torte che aveva visto sul carrello dei dolci la sera avanti, all'albergo Miramar. Davanti alla casa, sostò un momento, immaginando Natalie lì dove la luce intensa e i vividi colori erano stati certo una cornice più adatta del gelo e del grigiore di Kingsmarkham, poi salì i gradini della casa accanto, il gelato di cioccolata che portava il numero 1123. La porta fu aperta da un uomo in calzoncini corti e camicia a mezza manica. Wexford, che non aveva alcun incarico ufficiale né alcun diritto di far domande, aveva già deciso di fingersi alla ricerca di un parente del quale aveva perduto le tracce. Benché non fosse mai stato in America, conosceva abbastanza gli americani per sapere che un motivo di quel genere, che in Inghilterra sarebbe stato accolto con sospetto, imbarazzo e conseguente mutismo, lì avrebbe destato il più caloroso desiderio di rendersi utili. Il padrone di casa, dichiarando subito di chiamarsi Leo Dobrowski, parve giustificare la convinzione di Wexford. Lo invitò a entrare, gli raccontò che sua moglie era andata in chiesa coi bambini e nel giro di pochi minuti l'ispettore si ritrovò seduto a bere il caffè col signor Dobrowski in un patio
rallegrato dalle campanule azzurre dei convolvoli. Ma fingendo di essere un parente di Tina Zoffany, Wexford aveva commesso un errore. Leo Dobrowski sapeva tutto di Tina ma quasi niente di Natalie Arno o di altri occupanti del numero 1121. Nei due anni durante i quali aveva abitato là, Tina era diventata amica intima della signora Dobrowski e ora il signor Dobrowski era felice di poter parlare di lei con qualcuno che le aveva voluto bene. A suo fratello non importava niente di lei, ma se il signor Wexford era suo zio, sapeva certo quale incantevole creatura fosse e poteva capire quale tragedia fosse stata la sua morte prematura. «Siete capitato bene, venendo qui da noi» disse il signor Dobrowski. «Credo che nessun altro, qui, la conoscesse come la conoscevamo noi.» Cedendo alle calorose insistenze del signor Dobrowski, Wexford dovette promettere che sarebbe tornato più tardi per parlare anche con sua moglie e si congedò. Gli occupanti del 1125 erano nuovi della zona e non sapevano niente, così come non sapevano niente gli altri delle case vicine. Tornato al 1121, Wexford poté raccogliere finalmente la prima informazione utile e cioè che Natalie Arno non era la proprietaria della casa ma soltanto un'inquilina. Quando poi domandò chi, nelle vicinanze, poteva avere conosciuto personalmente la signora Arno, gli suggerirono di andare al 1122, dall'altra parte della strada, dove abitavano certi Romero. L'ispettore si presentò stavolta come cugino di Natalie. «Siete inglese?» domandò la signora Romero, una donna di tipo spiccatamente spagnolo, con i capelli nerissimi avvolti con bigodini di plastica rosa. Wexford annuì. «Anche Natalie era inglese. È tornata a Londra dove aveva dei parenti, è tutto quello che so. Dev'essere là, ora.» «Da quanto tempo abitate qui, voi?» «Mi piace il vostro accento» disse la signora Romero. «Da quanto tempo abitiamo qui? Da quattro anni, mi pare. Sì, siamo venuti l'estate in cui Natalie è andata a fare quella lunga vacanza sulla costa. Sì, dev'essere stato proprio quattro anni fa.» «Ma Natalie abitava già qui?» «Sì, certo, c'era già quando siamo venuti noi. E aveva degli ospiti in casa, sapete? Quel tizio con cui stava, un immigrato clandestino. Be', credo che lo sapessero tutti, ma mio marito è nella polizia, sapete, perciò ha do-
vuto fare il proprio dovere, non vi pare?» «Intendete dire che lo ha fatto espellere?» «Proprio così.» Wexford decise di tagliare la corda per non correre il rischio di trovarsi faccia a faccia col marito poliziotto. Si accontentò di fare un'ultima domanda: quando era avvenuta l'espulsione? Non molto tempo prima, rispose la signora, appena l'autunno precedente, a quanto ricordava. Era ormai mezzogiorno e faceva un caldo terribile. Wexford riattraversò la strada riflettendo che chi aveva definito il clima della California come un'eterna primavera non aveva un'idea di come fosse un aprile inglese. La presenza di due bambini con un minuscolo autocarro giallo e rosso e una biciclettina azzurra sul vialetto del 1123 gli disse che la signora Dobrowski era tornata a casa. La sua accoglienza entusiastica e i suoi occhi lucidi, se non proprio lacrimosi, gli fecero venire gli scrupoli al pensiero di un suo eventuale futuro colloquio con l'agente (o tenente o forse capitano) Romero. Ma era troppo tardi ormai per abbandonare la parte dello zio di Tina. Fu costretto a sorbirsi il nutrito elenco delle virtù della nipote prima di poter portare il discorso su Natalie che, disse, aveva vista poco prima di partire da Londra. Fu subito evidente che la signora Dobrowski non nutriva simpatie eccessive per lei che, quand'era lì, viveva in una maniera ben diversa da quella cui si era avvezzi in un rione di gente per bene. Lei proveniva da una famiglia battista, dichiarò la signora Dobrowski arrossendo leggermente, e quando si hanno dei bambini bisogna rispettare certe regole. Poi cercò di riportare il discorso sulla povera Tina, sulla sua bravura come stenografa, sul dramma della malattia che l'aveva portata anzitempo alla tomba, ma Wexford non si lasciò smontare. «Come mai era venuta ad abitare con Natalie?» «Penso che Natalie avesse bisogno di denaro, dopo che Rolf Ilbert se n'era andato. Fu proprio Johnny a dire a Tina che aveva una stanza da affittare.» Wexford fece un tentativo. «Johnny era... mmh, l'amico di Natalie?» La signora Dobrowski lo guardò con un sorrisino acido. «Oh, so che si usa dire così, adesso! Johnny Fassbender era il suo amante.» Il nome sembrava tedesco, ma non era detto. Wexford domandò alla signora se era uno del posto e lei spiegò che era svizzero. Lei, aggiunse, aveva detto spesso a Tina che qualcuno avrebbe dovuto informare le autorità competenti che quell'uomo viveva lì senza avere il permesso di soggiorno e finalmente qualcuno doveva averlo fatto perché era poi stato scoperto
ed espulso. «È stato l'autunno scorso, vero?» osservò Wexford. «Oh no! Che cosa vi ha fatto pensare una cosa simile? È accaduto tre anni fa. Era ancora viva Tina.» Qualcosa evidentemente non quadrava, ma Wexford non si soffermò troppo su quel punto. Lui si interessava dell'identità di Natalie, non delle sue amicizie. E la signora Dobrowski non vedeva l'ora di tornare al suo argomento preferito. Lui era zio diretto di Tina o era uno zio acquisito? Strano che Tina non avesse mai parlato di lui. Ma del resto non aveva mai parlato di nessun parente, all'infuori di quel fratello che era poi arrivato quando lei era morta. Lei, la signora Dobrowski, sarebbe stata contenta che Ivan fosse stato suo ospite, in quei giorni, ma non aveva nemmeno avuto la possibilità di invitarlo perché non c'erano mai stati rapporti di amicizia fra lei e Natalie, in tutto quel tempo avevano scambiato a malapena qualche parola e non si erano mai viste altro che attraverso il giardino. «È stato un vero piacere conoscervi» concluse la signora. «Avete qualcosa della povera Tina, sapete? Il taglio degli occhi, soprattutto.» Prese fra le braccia il bambino più piccolo e si attardò a salutare Wexford dal portico con ripetuti gesti di una mano. «Salutatemi tanto Ivan!» Tornato in albergo, Wexford portò Dora a colazione in un ristorante sul lungomare. Non sapeva come fare a dirle che l'avrebbe lasciata sola anche il pomeriggio, ma alla fine trovò il coraggio di dirglielo e Dora sopportò il colpo abbastanza bene. Avrebbe provato a ritelefonare ai Newton, disse. Lo fece dalla loro camera, mentre Wexford consultava l'elenco telefonico alla ricerca di un liberi. Non c'era nessun Rolf Ilbert né fra gli abbonati di Los Angeles né fra quelli di Santa Monica, ma fra questi ultimi trovò una Davina Lee Ilbert, residente in Paloma Canyon. Dora aveva finalmente trovato i suoi amici. «Davvero verrete a prendermi?» esclamò, tutta contenta. «Alle quattro?» Enormemente sollevato, suo marito le diede un colpetto su una spalla, ne ebbe in risposta un radioso sorriso e scappò a prendere l'ascensore, libero da rimorsi almeno per quel pomeriggio. Paloma Canyon, a mezza strada da Malibu, era troppo lontano per andarci a piedi. Trovata senza difficoltà la località che cercava, Wexford spinse l'auto su per un pendio impossibile. La strada si inerpicava a zig zag come sul fianco di una montagna e a ogni svolta appariva una vista sempre più ampia e incantevole del Pacifico,
ma per il resto sembrava di essere in Ploughman's Lane. Le zone residenziali sono sempre le stesse, in ogni parte del mondo, rifletté Wexford: soltanto i sobborghi molto poveri sono diversi l'uno dall'altro. Paloma Canyon era un Ploughman's Lane con le palme, con un cielo più azzurro, prati fioriti e un'architettura spagnola invece che Tudor. La signora non era la moglie, ma la ex moglie di Rolf liberi. No, non le dispiaceva che le facesse qualche domanda, anzi, sarebbe stata ben contenta se avesse potuto rendere pan per focaccia a Natalie Arno. Gli sarebbe dispiaciuto venire in piscina? Loro passavano sempre il pomeriggio della domenica alla piscina. Wexford la seguì lungo un vialetto fiancheggiato da cespugli di fucsie purpuree più alti di lui. Davina Ilbert era alta e sottile, abbronzatissima, con capelli biondi schiariti dal sole, un accappatoio di spugna azzurro cielo e sandali senza tacco. Chissà che effetto faceva, si domandò l'ispettore, vivere in un clima dove si poteva essere certi di trascorrere la domenica pomeriggio alla piscina! La piscina, color turchese e rettangolare, con una fontana zampillante a una delle estremità, era al centro di un patio formato dalle ali a balconate della casa in stucco color limone. Davina Lee Ilbert doveva essere stata distesa su una sedia a sdraio che era vicina a un tavolino sul quale si trovavano un bicchiere di qualcosa con ghiaccio e un paio di occhiali da sole. Sull'orlo della fontana era seduta una ragazza di circa sedici anni, in bikini, e un ragazzo un po' più giovane stava nuotando a grandi bracciate. Avevano entrambi capelli neri e ricciuti. Probabilmente assomigliavano al padre, pensò Wexford. La ragazza lo salutò con un semplice Ehi! e scivolò in acqua. «Lo gradireste un tè ghiacciato?» domandò la signora liberi. Wexford non ne aveva mai bevuto, ma accettò. Mentre la signora glielo preparava, sedette su una poltroncina di vimini accanto alla ringhiera sotto la quale si vedevano la strada e l'interminabile distesa della spiaggia. «Desiderate sapere come Rolf l'ha conosciuta?» Davina Ilbert si sfilò l'accappatoio e si distese sulla sedia a sdraio. Una donna sulla quarantina, ben fatta anche se un po' troppo esile, che aveva il buon senso di portare un costume da bagno intero. «L'ha conosciuta a San Francisco, nel 76. Suo marito era morto e lei viveva con degli amici a San Rafael. Lui era giornalista o qualcosa del genere ed erano andati tutti in città per un certo convegno di scrittori, un cocktail party, mi pare, al quale partecipava anche
Rolf.» «Il vostro ex marito è scrittore?» «Copioni per il cinema e la TV. Non ne avrete certo sentito parlare. Chi mai conosce il nome degli autori dei copioni? Ha mai trasmesso una serie intitolata Runway, la vostra televisione?» Wexford si limitò ad annuire. «Una parte l'ha scritta Rolf. Conoscete gli episodi ambientati al Kennedy? Sono opera sua. E grazie al cielo gli hanno fruttato bene.» Accennò brevemente alle balconate, alla fontana, alla sua porzione privata di cielo azzurro. «Ma è di Natalie che volete saper qualcosa, vero? Rolf la riportò a Los Angeles e comprò per lei la casa di Tuscarora Avenue.» Il ragazzo uscì dall'acqua scrollandosi come un cagnolino. Sua sorella gli mormorò qualcosa ed entrambi rimasero a osservare Wexford, distogliendo rapidamente lo sguardo quando i loro occhi incontrarono i suoi. «E andò a vivere là con lei?» domandò l'ispettore. «Diciamo che lui divideva equamente il suo tempo fra noi due. Ero molto stupida, allora, mi fidavo ciecamente di lui. Mi ci sono voluti cinque anni per scoprire la tresca e allora gliel'ho fatta vedere io. Sono andata da Natalie e l'ho picchiata di santa ragione. Parola!» «Tutto questo è accaduto nel 1976?» s'informò Wexford. «Esatto. Nella primavera del '76. Quando tornò da lei, Rolf la trovò tutta ammaccata, con gli occhi neri, si spaventò e se la portò sulla Costa, per tenerla lontano da me. Lei rimase là per due o tre mesi e Rolf andava a trovarla non appena poteva, ma non credo che sia mai vissuto di nuovo con lei.» La signora liberi fece una risatina sommessa. «Avevo buttato fuori di casa anche lui. Non gli era rimasto altro che una stanza d'albergo a Marina del Rey.» Il sole si spostava via via e Wexford si mosse per mettersi all'ombra, mentre i due ragazzi rientravano in casa. Un uccellino pispigliante, non più grosso di un insetto, si era posato su una corolla di velluto rosso. Wexford non ne aveva mai visti di simili. «Avete detto sulla Costa. Sapete dove, esattamente?» domandò. Davina si strinse nelle spalle. «Non lo so di preciso, ma doveva essere tra San Simeon e Monterey, forse nei pressi del Big Sur. Può darsi che fossero in un motel, ma non credo. Rolf era molto generoso; probabilmente le aveva affittato una casa.» La signora Ilbert mutò improvvisamente tono. «Natalie è forse nei guai? Guai seri, intendo?» «Al momento non direi. Ha appena ereditato da suo padre una splendida
casa e un milione di sterline.» «Gesù! Poi dicono che l'imbroglio non rende!» «Signora Ilbert, perdonatemi, ma avete detto che il vostro ex marito e la signora Arno non vissero mai più insieme dopo l'estate del '76. Come mai? Vostro marito si era forse stancato di lei?» Davina fece un'altra risatina. «Lei si era stancata di mio marito. Aveva conosciuto un altro. Rolf era ancora pazzamente innamorato di lei. Me lo disse lui, mi raccontò tutto.» Wexford pensò a Jane Zoffany. A quanto pareva, i mariti avevano l'abitudine di confidare alle loro mogli la propria passione per Natalie Arno. «Qualcuno incontrato durante quella lunga vacanza?» «Così mi disse Rolf. Lei conobbe quel tizio e tornò con lui nella casa di Tuscarora Avenue... La casa era sua, capite? Poteva portarci chi voleva. E Rolf non la rivide mai più.» «Non la rivide mai più?» «Così mi disse lui. Natalie non volle più vederlo né parlargli. Penso che fosse perché lui non aveva ancora divorziato da me per sposare lei, ma non lo so di preciso. Rolf perdette la testa. Scoprì che il tizio che viveva con lei era un clandestino e lo fece espellere.» Wexford annuì. «Sì, si chiamava Fassbender ed era svizzero.» «Oh, no! Chi vi ha detto una cosa simile? Non ricordo il suo nome, ma so che era inglese. Rolf lo fece rimpatriare in Inghilterra.» «E voi non avete più rivisto Natalie?» «Io no, perché avrei dovuto?» «Grazie, signora Ilbert. Siete stata molto franca e io ve ne sono davvero grato.» «Siete stato il benvenuto. Credo di nutrire ancora molta ostilità verso quella donna per quello che ha fatto a me e ai miei figli. Non soffrirei davvero se venissi a sapere che ha perduto quella casa e quel milione di sterline.» Dora era fuori quando Wexford rientrò al Miramar, ma gli aveva lanciato un biglietto per avvertirlo di non aspettarla per la cena, se non fosse tornata entro le sette e mezzo, Wexford benedisse mentalmente quello stesso Rex Newton che un tempo non aveva potuto soffrire. Domani avrebbe dedicato la giornata intera a Dora. 14
Dalla mappa non si sarebbe detto che la zona del Big Sur fosse particolarmente affollata di abitazioni: e l'idea di Wexford che di conseguenza non sarebbe dovuto essere difficile seguire le tracce di Natalie Arno trovò conferma in quanto gli disse una signora conosciuta in albergo, un'anziana signora di Denver, Colorado, che da vent'anni andava a trascorrere le vacanze in California. Abitazioni, alberghi o ristoranti erano rari come le mosche bianche, tra San Simeon e Carmel. Seduto tutto solo nel bar del Miramar, davanti a un bicchiere di modesto chablis locale, mentre Dora era immersa in una fitta conversazione con la suddetta signora, Wexford rifletté che avrebbe dovuto cercare di parlare con Rolf Ilbert prima di intraprendere la sua spedizione al nord. La scalmana per Natalie doveva essergli passata, ormai, e probabilmente non avrebbe avuto difficoltà a dirgli il nome della località dove l'aveva portata in quell'estate del 1976. Finì il secondo bicchiere di vino, poi telefonò a Davina Ilbert. Ma nessuno rispose alla chiamata. La mattina seguente, quando telefonò di nuovo, la signora gli disse che il suo ex marito era a Londra da due mesi, a fare ricerche per un programma televisivo imperniato sulle ragazze americane che avevano sposato un aristocratico inglese, e Wexford si rese conto che ormai doveva accontentarsi di ciò che aveva, per ritrovare le tracce di Natalie. Lui e Dora lasciarono l'albergo dopo il pranzo e si fermarono in un motel di Santa Maria per trascorrervi la notte. A cena, l'ispettore confidò alla moglie la propria teoria. «Se osservi bene i fatti, vedrai che c'è stato un netto mutamento di personalità nel 1976. La donna che se ne andò con Ilbert era tutt'altro tipo di quella che tornò poi a Los Angeles. Rifletti un momento. La figlia di Camargue aveva sempre condotto una vita molto riservata, ben protetta, non era mai andata in giro per il mondo da sola. Prima aveva vissuto in una casa sicura con i genitori, poi era fuggita e si era sposata con Arno e infine, dopo la morte del marito, aveva avuto accanto a sé Ilbert. Aveva sempre avuto un uomo a proteggerla. Ma la donna che compare dopo l'estate del '76? Affitta camere perché ha bisogno di denaro, non intreccia relazioni durature ma ha rapporti occasionali... con Fassbender, svizzero o inglese, che poi viene espulso, con Zoffany. Non può vendere la casa che Ilbert ha comprato per lei, perciò pianta tutto e se ne va in Inghilterra. Non per rifugiarsi sotto l'ala paterna come avrebbe fatto Natalie Camargue, ma per vivere sola e indipendente.» «Ma non è stato un grosso rischio andare a vivere proprio nella casa di
Natalie, facendosi passare per lei? I vicini, gli amici si sarebbero accorti subito...» «Le buone siepi fanno i buoni vicini» osservò Wexford. «Le case sono molto distanziate, là, i residenti cambiano spesso e se la mia teoria è giusta, Natalie Camargue era sempre stata una donna timida, molto riservata. I vicini non la vedevano molto. Quanto agli amici... se avesse telefonato un amico di Natalie, le sarebbe bastato rispondere che non era ancora tornata e se qualcuno fosse andato là, a casa, avrebbe potuto dire di essere un'amica, ospite di Natalie per qualche giorno. La signora Ilbert dice che suo marito non l'aveva più rivista, dopo il suo ritorno dalla Costa. Ma se fosse stata la vera Natalie, perché avrebbe dovuto rifiutarsi persino di vederlo? Che non accettasse più di trovarsi da sola con lui, che non volesse più avere rapporti, passi, ma vederlo? No, fu l'impostora a tenerlo lontano, prima con qualche scusa e alla fine con un aperto rifiuto.» «Ma, Reg, come faceva l'impostora a conoscere tanti particolari della vita di Natalie?» Wexford sorrise. «Ieri sera tu sei stata a chiacchierare per un paio d'ore con quella signora di Denver. Quante cose hai saputo della sua vita?» «Oh, una quantità» ammise Dora ridendo. «Mi ha raccontato che vive in un appartamento, non in una casa singola, che è vedova, che ha due figli e una figlia, che uno dei suoi figli fa l'agente immobiliare, l'altro il veterinario e la figlia si chiama Janette, ha sposato un medico, ha due gemelle e abita a Bismarck. Lei ha una Chevrolet a quattro ruote motrici, una casa nelle Montagne Rocciose e...» «Basta, basta! Hai scoperto tutto questo in una chiacchierata di due ore e pensi che la finta Natalie non sia stata in grado di raccogliere un dossier completo sulla vera Natalie in... diciamo, cinque o sei settimane? E in Inghilterra ha poi avuto un secondo maestro in Mary Woodhouse.» «Be', sì, forse non hai torto.» Dora esitò. Già da un po' suo marito aveva l'impressione che lei avesse qualcosa da dirgli. Finalmente Dora si decise. «Tesoro» disse a un tratto «spero che non ti dispiaccia, ma ho detto a Rex e Nonie che ci saremmo fermati al Redwood Hotel di Carmel e siccome si dà il caso, una pura coincidenza, che Nonie proprio in questi giorni sia a casa di sua figlia a Monterey, ho pensato che potremmo, o potrei, fare colazione con loro, un paio di volte... Non ti dispiace, vero?» «Cara, ma è un'idea meravigliosa!» «Ma so che Rex non ti piaceva molto e onestamente non posso dire che sia cambiato!»
«Ha un nome così stupido!» proruppe illogicamente Wexford. «Stupido per un uomo, intendo. Per un cane andrebbe benissimo.» Dora scoppiò in una sonora risata. «Ma si chiama quasi come te, Reg! C'è una sola lettera di differenza!» «Una lettera può valere come mille. Allora, che te ne pare della mia teoria?» «Be'... che fine avrebbe fatto la vera Natalie?» «È molto probabile che la falsa Natalie l'abbia uccisa.» Dopo San Luis Obispo, la strada si riavvicinava al mare. La costa assomigliava a quella della Cornovaglia, rifletté Wexford, ma enormemente ingigantita. A ogni curva si apriva una nuova baia, più ampia e maestosa della precedente. A San Simeon, Dora volle visitare lo Hearst Castle e Wexford ce la portò, ma la lasciò a fare il giro con la guida e scese alla spiaggia, a godersi la fresca ombra degli eucalipti. Non c'era molto, a San Simeon. Un parcheggio, un ristorante, poche case e, se la signora di Denver aveva detto la verità, le abitazioni si sarebbero fatte ancora più rare procedendo verso il nord. Ma la mattina seguente, quando si rimisero in viaggio, Wexford cominciò a sentirsi sempre più sgomento. Certo, se si era abituati a vivere in zone densamente popolate, quella costa poteva sembrare quasi deserta, ma era tutt'altro che spopolata. Piccoli agglomerati di case con un paio di motel, qualche negozio, una stazione di servizio, un ristorante, si incontravano molto più spesso di quanto Wexford era stato indotto a credere. E ancora più fitto di abitazioni era il Big Sur, dove la strada serpeggiava attraverso la foresta di Redwood. Giunsero al Redwood Hotel verso le otto di sera. A Wexford bastò soltanto attraversare Carmel per sentirsi col morale completamente a terra. Era una città graziosissima, una stazione balneare abbastanza importante, pullulante di alberghi. Un'altra telefonata a Davina Ilbert servì unicamente a mettere in chiaro che la signora non conosceva il recapito del suo ex marito a Londra e Wexford dovette rassegnarsi all'idea che non gli restava altro da fare se non il giro di tutti gli alberghi di Carmel, armato della fotografia di Natalie. Tutto quello che ne ricavò fu la scoperta che gli americani erano molto più premurosi e servizievoli degli inglesi. A sera, era stato in tutti gli alberghi, in tutti i motel, nei vestiboli di tutte le case d'affitto di Carmel, di Carmel Highlands, di Carmel Woods e di Carmel Point senza ricavarne altro che cordiali sorrisi e auguri di miglior fortuna. Tornando in albergo, trovò Dora al bar con Rex e Nonie Newton. Rex
era molto più scuro di pelle e molto più bianco di capelli, ma per tutto il resto non era cambiato di un filo mentre Nonie gli sembrò di vent'anni più vecchia di Dora, benché fosse parecchio più giovane; i due sarebbero rimasti a cena con loro e Rex si avviò verso la sala da pranzo tenendo un braccio intorno alla vita della moglie e l'altro intorno a quella di Dora. Questa aveva spiegato loro che suo marito era lì per un'importante indagine ufficiale e a tavola Newton si dilungò per la maggior parte del tempo sul sistema giuridico americano, sulla polizia americana, sulla geografia e la geologia californiana nonché sui diversi meriti dei vari alberghi. Il giorno seguente, annunciò alla fine, avrebbero portato Dora a Muir Woods, la foresta di Redwood a nord di San Francisco. «Visto che la sa tanto lunga su tutto» brontolò più tardi Wexford «avrebbe potuto avvertirti che in questa zona deserta ci sono più alberghi che nel West End di Londra!» «Mi dispiace, tesoro, ma non ho pensato a domandarglielo! Chiacchiera un po' troppo, vero?» Tutt'a un tratto Wexford provò una certa simpatia per Rex e gli fu persino grato perché si occupava tanto di Dora. Dal canto suo, trascorse i due giorni successivi a ripercorrere la costa nella direzione dalla quale erano venuti, visitando ogni genere di posto dove fosse possibile soggiornare, ma dappertutto ottenne le stesse risposte negative. Poi Nonie fu costretta a letto, in casa della figlia, da una terribile emicrania e Wexford dovette rinunciare alle indagini a Monterey per non lasciare sola Dora. Il meno che potesse fare per lei era accompagnarla alla spiaggia per un pomeriggio. Si domandò se non avesse sbagliato tutto. Non si poteva certo dire che quel viaggio avesse molto successo, né come indagine né come vacanza. Ma Dora era fuori, quando lui tornò in albergo, non c'era alcun biglietto per lui e Wexford trascorse il resto della giornata a rimpiangere l'assenza di sua moglie e a rimproverare aspramente se stesso. Rex Newton riaccompagnò Dora alle dieci di sera e, nonostante l'indisposizione di Nonie, si trattenne con loro al bar per un'altra mezz'ora, facendo di nuovo sfoggio delle proprie cognizioni sul clima e sulla sismologia della California. Wexford riuscì a malapena ad aspettare che se ne fosse andato per sfogare sulla moglie la propria amara delusione. «Perché non hai telefonato a Sheila?» ribatté Dora. «Oh, certo! Per fare quattro chiacchiere attraverso un continente e un oceano, spendendo una barca di quattrini per avere in cambio qualche
buona parola e che altro?» «Rolf Ilbert» rispose lei, serena. Wexford la fissò a bocca aperta. «Ilbert, sì. Non hai detto che è l'autore di una parte del copione di Runway? Ora è a Londra e anche se non sta lavorando a Runway, anche se Sheila non lo ha mai conosciuto, è certamente in grado di sapere dove abita.» «Ma certo, hai ragione!» mormorò lui. «Come mai non ci ho pensato?» Sulla costa del Pacifico erano le undici di sera ma a Londra erano soltanto le tre del pomeriggio e per fortuna Sheila era in casa. Pareva che parlasse dalla stanza accanto. E Wexford sapeva esattamente com'era la sua voce proveniente dalla stanza accanto perché i loro vicini di camera stavano ascoltando Runway da una buona mezz'ora. «No, non lo conosco, papà, ma posso rintracciarlo senz'altro. Basterà che telefoni a qualche agente teatrale. Dove posso richiamarti?» «Ti richiamerò io. Dio solo sa dove saremo domani.» «Come sta la mamma?» «Benone, notte e giorno insieme con una sua vecchia fiamma.» Avrebbe riso lui stesso della sua battuta se Dora avesse mostrato la minima propensione a ridere. Poiché non era nel suo carattere stare ad aspettare con le mani in mano, il giorno seguente Wexford continuò le indagini nel resto della penisola di Monterey. Una voce dentro di lui continuava a suggerirgli di piantarla con quella storia, di godersi in pace quel che rimaneva delle vacanze, ma era troppo tardi ormai. Non sarebbe riuscito a rilassarsi, avrebbe continuato a essere assillato da quella domanda: dov'era vissuta? Telefonare a Sheila riusciva difficile per la differenza di fuso orario. Quando tentò alle otto di mattina, mezzanotte a Londra, tutte le linee erano occupate e lo stesso accadde dodici ore più tardi, quando a Londra era mezzogiorno. E quando finalmente poté avere la comunicazione, nessuno rispose alla chiamata. Domani o dopodomani al massimo, pensò Wexford, sarebbero dovuti tornare al sud e lasciarsi alle spalle ogni possibilità di scoprire dove Natalie Arno poteva avere cambiato identità. Avevano a propria disposizione soltanto due settimane e undici giorni se n'erano già andati. Stava facendo un ennesimo tentativo per chiamare Sheila dall'atrio dell'albergo quando entrò Dora con Rex Newton. Dopo un'altra ora di chiacchiere al bar sui vini della California, sull'emicrania, sulle diete anti-
febbrili e ipoglicidiche, Rex se ne andò, baciando Dora su una guancia ma molto vicino alla bocca e rammentandole la sua promessa di trascorrere con lui e con Nonie, a casa loro, l'ultimo giorno e l'ultima sera della loro permanenza in America. «Spero di essere compreso anch'io nell'invito» borbottò Wexford in tono acido mentre Newton era ancora a portata di voce. «Ma è sottinteso, caro» ribatté Dora, gelida. Concluse, fallite, risultate inutili le sue indagini, Wexford aveva sperato di poter trascorrere con la moglie, loro due soli, gli ultimi due giorni di vacanza e ora si sentiva punito per averla tanto trascurata. «Bene, sono colpito con la mia stessa arma, vero?» mormorò e se ne andò a letto. E venne il giorno della partenza, un lungo, tedioso tragitto in automobile per il deluso Wexford. Si misero in viaggio alle nove di mattina. La prima, enorme farfalla che passò davanti al parabrezza fece trattenere il fiato a entrambi. La seguirono con lo sguardo finché non si perdette sullo sfondo azzurro del mare che si fondeva con lo sfondo azzurro del cielo. Ma quella non era che l'avanguardia: ben presto furono avvolti da uno sciame di farfalle dalle ali di velluto color cinabro, svolazzanti come foglie rosse venate di nero, simili a uccelli fatti di petali. «In spagnolo farfalla si dice mariposa» osservò Dora. «Me lo ha detto Rex. Non è un nome veramente splendido?» Wexford non rispose. Stava pensando. Anche se fosse riuscito a mettersi in contatto con Sheila, ora, anche se lei avesse avuto un indirizzo o un numero di telefono per lui, gli sarebbe rimasto il tempo per tornare indietro, magari per centocinquanta chilometri? No di certo, se dovevano trovarsi a Burbank o dove diavolo abitavano i Newton, prima di sera. Una farfalla rossa si abbatté sul parabrezza, agitò le ali e morì. Si fermarono per un tardivo spuntino poco a nord di San Luis Obispo. Wexford tentò invano di mettersi in contatto con Sheila, poi Dora disse che ci avrebbe provato lei. Tornò dalla cabina del telefono con un lieve sorriso sulle labbra. Appariva giovane, abbronzata e felice, ma non era riuscita a parlare con Sheila. Wexford si domandò perché mai dovesse avere quell'aria se non aveva parlato con nessuno. I Newton dovevano essere a casa loro da ore, ormai. Wexford si sentì in preda al tipo peggiore di infelicità, quella che ci viene dalla nostra stessa idiozia.
La strada che dall'entroterra riportava alla costa scendeva fra colline giallastre. Piante di iucca spuntavano tra l'erba sbiancata dal sole e le montagne tondeggianti erano incoronate da ulivi. Le colline si incurvavano, si abbassavano, tornavano ad alzarsi, si dividevano rivelando altre colline, sempre uguali, sempre color ocra, finché oltre l'ultimo solco non riapparve l'azzurro dell'oceano. Dora era occupatissima con mappa e guida. Poco più avanti c'era una cittadina in riva al mare. Un cartello a lato della strada indicava: Santa Xavierita, altitudine m. 50,2, abitanti 482. «Secondo la guida c'è un albergo che si chiama Mariposa» disse Dora. «Vogliamo provare?» «A che scopo? Per fare un riposino di mezz'ora?» borbottò Wexford. «Dobbiamo essere duecento chilometri più a sud per le otto e sono già le cinque.» «Non dobbiamo essere in nessun posto. Il nostro aereo non parte fino a domani sera. Possiamo fermarci al Mariposa, credo che fosse scritto, abbiamo avuto un avvertimento.» Wexford fu a un pelo dal bloccare l'auto. Ridacchiò. Conosceva Dora da trentacinque anni e non la conosceva ancora. «Hai telefonato ai Newton, prima?» domandò, ma in tono ben diverso da quello che avrebbe usato soltanto dieci minuti prima. «Hai telefonato per dire che non potevamo andare?» «Credo che per Nonie sia stato un gran sollievo» ribatté Dora. «Non me lo merito!» mormorò confuso suo marito. Al Mariposa li accompagnarono in un minuscolo villino immerso in una delle cento oasi verdeggianti di Santa Xavierita, con un geranio bianco e rosa alto come una pianta accanto alla porta. Passando tra gli annaffiatoi automatici che roteavano lentamente nei prati, Wexford tornò al banco della ricezione e chiamò per l'ennesima volta Sheila. A Londra erano le nove di mattina e pioveva a rovesci. Sheila aveva trovato l'indirizzo di Ilbert. Lo aveva da due giorni e non riusciva a capire come mai il babbo non le avesse telefonato prima. Ilbert si trovava al Durrant's Hotel, in Georges Street, dalla parte di Spanish Place. Wexford annotò il numero di telefono poi si girò per chiedere un'altra comunicazione con Londra. Ma l'omino che li aveva accompagnati poco prima era scomparso. Wexford tornò al villino per dire a Dora quel che aveva saputo e la trovò nel cucinino, intenta a sistemare in una grande coppa di vetro, come un Arcimboldo vivente, la frutta che avevano comprato.
«Reg» disse, girandosi verso il marito con un mandarino in mano «Reg, la signora Sessamy, la proprietaria del motel, è inglese e mi ha detto che siamo i primi inglesi che si fermano qui da quando c'è stata... una signora Arno, nel 1976.» 15 «Dimmi tutto.» «Non c'è altro. Niente più di quel che ti ho detto. La tua Natalie Arno ha vissuto qui nel 1976. Dopo cena andremo a prendere il caffè con la signora Sessamy e lei ti racconterà quel che sa.» «Davvero? Ma tu come hai spiegato la mia curiosità? Che cosa le hai detto?» «La verità. E l'idea che tu sia un vero poliziotto inglese l'ha quasi fatta piangere. È stata una sposa di guerra, credo, ha l'età giusta. Credo che si aspetti di vederti comparire in uniforme blu, dicendo: "là, là, che cos'è tutta questa storia?". Le piacerebbe da matti.» Wexford rise, e le posò una mano su un braccio. «Se ne verrà fuori qualcosa di buono e uno di noi due sarà rimandato qui a spese del governo, posso venirci anch'io?» Fra l'altro, nella via principale di Santa Xavierita c'era un ristorante libanese. Vi andarono e mangiarono versioni delicatamente profumate di humus, kebab e torta al miele. Il sole era sparito da un pezzo, affondando quasi con uno sfrigolio in quel mare azzurro, e ora stava salendo la luna che inondava la piccola città di un candore di neve. Non faceva più caldo ma nei giardini gli annaffiatoi continuavano a girare, spandendo tutt'intorno una scintillante pioggerella argentea... I Sessamy abitavano in una casetta di legno intonacata di bianco, per metà abitazione e per metà ufficio. Su un divano ricoperto di plastica candida come neve, nel soggiorno un po' antiquato, sedeva la donna più grassa che Wexford avesse mai visto. Seguendo le istruzioni ricevute, lui e Dora erano entrati dalla porta finestra e, non appena li vide, la signora Sessamy cercò faticosamente di alzarsi in piedi, come un grosso pesce che si arrabattasse per sollevarsi oltre l'orlo della rete, e soltanto quando i suoi ospiti furono seduti a loro volta si calmò, abbandonandosi con un profondo sospiro contro la spalliera del divano. «Ah, che immenso piacere vedervi! Non potete immaginare quanto lo
desiderassi, fin da quando la signora Wexford mi ha detto chi siete! Un autentico poliziotto inglese!» Quasi quarant'anni di residenza negli Stati Uniti non avevano mutato di un filo il suo accento. Parlava tuttora il cockney come una londinese purosangue del Bow o di Limehouse. Tom, suo marito, una sorta di scimmiotto bruno dal viso come una noce, suggerì di bere qualcosa e sciorinò un assortimento di bottiglie, ma nessuno dei due offrì il promesso caffè. Dopo che Dora ebbe rifiutato con molte scuse bourbon, rye, chablis, Perrier, succo di pompelmo e gin, la signora Sessamy annunciò che avrebbero bevuto una tazza di tè. «È un tale piacere vedervi» ripeté accomodandosi meglio sulla plastica candida, mentre Tom preparava la bevanda promessa. «Qui, gli inglesi scendono per lo più al Ramada o allo Howard Johnson. Ma voi avete scelto il nostro vecchio Mariposa.» «È stato per via delle farfalle» spiegò Dora. «Delle farfalle?» «Sì, mariposa vuol dire farfalla, no?» «Be', ma che c'entrano le farfalle?» domandò Tom, mentre aspettava che l'acqua alzasse il bollore. Mentre Dora spiegava il collegamento, la signora Sessamy incrociò le mani paffute sul grembo enorme. Portava pantaloni verdi con una casacca a fiori verdi e rosa, che sarebbe stata sufficiente per ricavarne una tenda. Il suo viso da luna piena, incorniciato dai capelli biondi che cominciavano a diventare grigi, non aveva perduto le tracce della bellezza che tanti anni addietro aveva fatto innamorare il soldatino americano. «La signora Wexford mi ha detto che volevate sapere qualcosa su una ragazza che era stata qui. Oh, c'è stata tre mesi, ma era sembrato che dovesse fermarsi qui per sempre.» «Avevo sentito dire che si era fermata nella zona del Big Sur» obiettò Wexford. «Sì, difatti era stata là, prima. Ma non le piaceva, era un mortorio, secondo lei, e troppo lontano da Frisco per potere andarci in macchina. Di qui invece si può arrivare a San Luis in venti minuti. Lei aveva la propria macchina e lui arrivava con una grossa Lincoln Continental.» «Ilbert?» «Esatto, si chiamava proprio così. Però devo riconoscere che lei non ha mai cercato di farsi passare per la signora Ilbert. Non avrebbe potuto importarle di meno di quel che poteva dire la gente.»
Tom arrivò col tè e la signora Sessamy si servì abbondantemente di panna e zucchero, prima di domandare: «Che altro volete sapere?» Wexford le mostrò infine la fotografia di Natalie. «E lei?» La signora inforcò un paio di occhiali rosa ornati di Strass. «Sì, sì» disse. «È proprio lei.» Ma la sua voce tradiva il dubbio. Il marito venne in suo soccorso. «Sì, mi pare che sia lei, ma è difficile dirlo con certezza. Portava i capelli sciolti. Era terribilmente abbronzata e portava i capelli sciolti, vero, Edie?» Edith Sessamy non parve troppo compiaciuta dell'entusiastica descrizione di Natalie Arno fatta dal marito. «Un uomo solo non bastava, a quella là» disse seccamente. «Metteva le corna a quell'Ilbert non appena lui era ripartito per Los Angeles. Se la faceva con un giovanotto che gironzolava da queste parti, una specie di vagabondo che viveva sulla spiaggia...» «Una specie di hippy» precisò Tom. «Ho detto che viveva sulla spiaggia, ma quell'estate dormiva quasi sempre nel villino di Natalie. Poi c'era un altro, un inglese, ma quello l'aveva conosciuto poco tempo prima di andarsene.» «Suonava la chitarra alla Maison Suisse di San Luis» aggiunse Tom. «Quando se ne andò, Natalie?» domandò Wexford. «Non so dirvelo. Non c'eravamo, quando lei se ne andò. Eravamo in Inghilterra, da mia sorella. Quando partimmo, sembrava che dovesse restare qui per tutta la vita. Doveva essere la fine di luglio. Quando andiamo in vacanza, viene una cugina di Tom a badare al motel. Si tiene sempre in contatto con noi e quella volta, ricordo, ci scrisse della donna che era annegata qui, ma non parlò mai di Natalie, non disse che se n'era andata. Più che naturale, del resto. Qui la gente va e viene in continuazione.» «Ma voi non eravate curiosi?» La signora Sessamy alzò le spalle. «A che sarebbe servito? In ogni caso, che cosa avremmo potuto fare a novemila chilometri di distanza? Lo abbiamo saputo quando siamo tornati. Era praticamente scappata. Ilbert era venuto il giorno dopo, ma l'uccellino era volato via. Era partita con la sua macchina insieme con un giovanotto, disse la cugina di Tom, e aveva lasciato a Ilbert il conto da pagare.» La mattina seguente Wexford si svegliò prestissimo. Il sole era forse più limpido e splendente che mai e la cittadina appariva come se fosse stata accuratamente lavata durante la notte. L'ispettore si lavò, si vestì e uscì. Dora dormiva ancora profondamente. Wexford si incamminò lungo il viale
fiancheggiato da palme che portava alla spiaggia pubblica di Santa Xavierita. Il cielo sembrava un tegame rovesciato di immacolato smalto azzurro, il mare seta azzurra arricciata. Un giovanotto in camiciola gialla e pantaloncini rossi trotterellava sulla sabbia argentea; un altro, in calzoncini da bagno, faceva ginnastica, flessioni, piegamenti sulle ginocchia, torsioni. Ancora nessuno stava facendo il bagno. In mezzo alla spiaggia c'era una sedia su lunghi trampoli che serviva al bagnino per tener d'occhio i bagnanti e richiamare col megafono i troppo audaci che si spingessero eccessivamente al largo. Wexford ripensava alla sera precedente e alla domanda che non aveva fatto, che aveva dimenticato di fare, fuorviato dall'amara delusione per la scarsità delle notizie fornitegli da Edith Sessamy. Delusione che gli aveva impedito di fermare l'attenzione sull'unico particolare interessante, in mezzo a un mare di chiacchiere inutili. Ci ripensava ora, distinguendolo come un esperto potrebbe distinguere un diamante grezzo in mezzo a un mucchio di sassolini. Due ore dopo, quando un minimo di discrezione glielo consentì, era davanti al banco della ricezione, al motel. Il trillo del campanello richiamò Tom che apparve in una vestaglia corta, le gambe bianche e senza peli scoperte e i lunghi piedi in sandali di paglia intrecciata. «Salve, Reg, desiderate qualcosa?» «Volevo chiedere ancora un paio di cosette a voi e a vostra moglie.» «Edie, sei presentabile? Reg ha qualcosa da chiederti!» La signora Sessamy era molto più presentabile di suo marito, in una lunga vestaglia rosa stampata a uccelli del paradiso. Seduta sul divano bianco, beveva tè scuro e teneva sulle ginocchia un vassoio con uova fritte e prosciutto, crostini imburrati e marmellata. «Gradite una tazza di tè?» domandò Tom. Wexford accettò. «Ieri sera avete detto che era annegata una donna, qui, mentre voi eravate in Inghilterra. Sapete chi era?» «No, non sappiamo altro. Soltanto che era annegata una donna. Be', so che era giovane, una ragazza, e che era qui in vacanza. Veniva dall'est.» «Dovreste chiedere alla polizia di San Luis» suggerì Tom. «Un momento, Tom. Il bagnino, allora, era Georges Janveer, no? Dovreste provare a parlare con lui.» «Volete che gli telefoni?» si offrì Tom. Fu dissuaso da sua moglie. Erano appena le otto: gli avrebbero telefona-
to alle nove, tanto il signor Wexford non aveva premura, no? No, rispose lui, aveva davanti a sé tutta la giornata. Gli restavano da percorrere trecento chilometri, prima di sera, ma da quelle parti era una distanza trascurabile. Ringraziò e uscì di nuovo. Ora almeno un certo disegno stava emergendo dalla confusione, come quando si muove un caleidoscopio. Anche Camargue era morto annegato, pensò l'ispettore. Poco dopo le nove tornò al motel e saldò il conto. Con aria di scusa, Tom comunicò di avere telefonato a casa di George e di avere saputo da sua moglie che era andato a Grover City, ma che sarebbe stato di ritorno verso le undici. «Dovevamo chiamarlo alle otto come avevo detto io» concluse. Wexford e Dora misero in macchina le valigie e andarono a vedere quel che non avevano ancora visto di Santa Xavierita. Non sarebbe stato meglio, si domandava intanto Wexford, andarsene direttamente alla polizia di San Luis Obispo e cercare di sapere qualcosa di più da loro? Ma se poi là non avesse potuto venire a capo di niente? Oppure se, prima di dargli qualsiasi informazione, avessero voluto le prove che stava veramente svolgendo un incarico ufficiale? Tutto sommato, meglio aspettare che tornasse Janveer il quale ne sapeva certo tanto quanto la polizia e difficilmente avrebbe rifiutato di parlare a un poliziotto. La signora Janveer, magra quanto Edith Sessamy era grassa, stava preparando una torta. Erano le undici passate e suo marito non era ancora tornato. Chissà, forse aveva incontrato qualche amico ed era andato a bere qualcosa con lui, commentò la signora. Wexford le domandò se ricordava qualcosa dell'incidente nel quale era annegata una donna, ma la signora non ricordava altro che il nome di quella poveretta perché si chiamava come lei, Theresa, e il fatto che dopo la sua morte erano arrivati da Boston dei suoi parenti che erano scesi al Ramada Inn. Wexford aspettò fino alle undici e mezzo, ma Janveer non comparve. «Considerando quel che ho scoperto finora» disse l'ispettore alla moglie «dovranno rimandarmi qui in forma ufficiale. Tanto vale che ce ne andiamo, ora.» «Una scalogna simile, tesoro! È una vergogna!» Risalirono in auto e partirono verso l'autostrada del Pacifico.
16 La differenza tra la California e Kingsmarkham era anche una questione di colore, oltre che di temperatura: l'una tutta azzurro e oro, con l'erba ingiallita dal sole, l'altra grigia e verde, il verde lustro e lussureggiante del fogliame annaffiato ogni giorno dalle nubi grigie. Andando in ufficio, Wexford, che non aveva ancora rifatto l'occhio ai bordi erbosi invece che ai prati fioriti, rabbrividiva un poco perché la temperatura lì era esattamente quella che, a detta di Tom Sessamy, era a Santa Xavierita in dicembre. In ufficio, trovò ad aspettarlo Burden. Col suo completo di seta color talpa chiaro e la camicia di seta beige non aveva certo l'aria di un poliziotto, nemmeno di un poliziotto travestito. Wexford, che a tutta prima aveva pensato di raccontargli tutto quel che aveva saputo, decise di soprassedere e invece lo pregò di chiudere la finestra. «L'ho aperta perché è una giornata così afosa!» spiegò Burden. «Non vorrai dirmi che senti freddo, spero!» «Sì, invece. Un freddo cane.» «Sei matto! Be', hai fatto una buona vacanza?» Wexford grugnì. Avrebbe voluto avere il coraggio di far accendere i caloriferi. Ma probabilmente la caldaia non si sarebbe nemmeno messa in moto, in luglio. A quanto ne sapeva doveva essere il capo della polizia a premere personalmente l'interruttore, il primo di novembre. «Immagino che non ci sia stata alcuna novità durante la mia assenza, vero?» domandò. Burden si mise a sedere. «Be', sì, una novità c'è stata, per questo mi trovi qui. Ho pensato che dovevi saperlo subito. È sparita Jane Zoffany.» Zoffany aveva comunicato la scomparsa alla polizia soltanto dopo una settimana. Erano a Sterries con Natalie Arno quando, la sera di venerdì 27 giugno, sua moglie era uscita sola e non era più tornata, aveva raccontato Ivan. In seguito alle insistenze della polizia, aveva ammesso che lui e Jane avevano litigato poco prima a causa dei suoi rapporti con un'altra donna. Jane aveva dichiarato che intendeva lasciarlo, che non poteva più tollerare di continuare a vivere con lui e se n'era andata. Poco dopo lui aveva lasciato Sterries ed era partito per Londra col treno delle dieci, convinto che sua moglie fosse tornata a casa col treno precedente. Ma nell'appartamento di De Beauvoir Place non c'era nessuno. Jane non si era fatta viva nemmeno il giorno seguente e Ivan aveva pensato che fos-
se andata da sua sorella a Horsham, come aveva già fatto un'altra volta dopo una lite. Ma il 4 luglio, compleanno di Jane, era arrivata a casa una cartolina d'auguri della sorella. Allora Zoffany si era spaventato ed era andato alla stazione di polizia del suo quartiere. Dove nessuno si era preoccupato eccessivamente, commentò Burden. Non era certo un fatto eccezionale che una giovane donna piantasse per qualche tempo il marito in seguito a una lite per una sua infedeltà. E che si guardasse bene dal fargli sapere dov'era andata, naturalmente. Burden lo aveva saputo solamente quando Zoffany aveva denunciato la scomparsa della moglie anche alla polizia di Kingsmarkham. Ivan sembrava seriamente preoccupato. Anzi, non sarebbe stato eccessivo dire che sembrava addirittura disperato. «Rimorso» commentò Wexford e, mentre pronunciava quella parola, lo provava lui stesso. Non era da escludere che fosse stato lui l'ultima persona (o meglio la penultima) a vedere Jane viva. E lui aveva lasciato che se ne andasse sola. Perché stava per partire per le vacanze, perché non voleva creare fastidi a Dora o avere noie in casa. Certo che Jane non si era rifugiata né dalla sorella né a casa di amici. Non aveva con sé né borsa né denaro. E lui l'aveva lasciata andare, sconvolta com'era, l'aveva guardata allontanarsi nel buio di Ploughman's Lane per tornare a Sterries, da Natalie Arno. «Dovevamo indagare un poco più sul serio» ammise Burden. «Voglio dire, non è che fossi veramente allarmato, ma non potevo fare a meno di ripensare al povero vecchio Camargue. Abbiamo le nostre idee a proposito della sua morte, vero? Ho parlato io stesso con Zoffany, mi son fatto dare i nomi di tutti quelli dai quali era possibile che fosse andata. Non erano molti e li abbiamo controllati tutti.» «E Natalie Arno? Hai parlato con lei?» «Ho pensato che fosse meglio lasciarla a te.» «Bisognerà dragare il lago e fare scavare il giardino, se sarà necessario. Ma prima parlerò con lei.» Gli effetti della nuova ricchezza saltavano subito all'occhio. Davanti all'ingresso principale di Sterries era parcheggiata una lussuosa Opel color senape nuova di zecca e quando vide Natalie, Wexford non poté fare a meno di ripensare alla gonna che Jane Zoffany stava riparando quel giorno nel retrobottega e al cappotto che sembrava ricavato da una vecchia coperta. Ora la signora Arno portava un abito di leggero jersey giallo dal corpetto aderente e la gonna scampanata, con una cintura gialla a righine rosse e azzurre intorno alla vita sottile, e i capelli neri sciolti e lisci, come una sor-
ta di lungo casco lucente. A un polso aveva un orologio con bracciale in oro bianco e all'altro un braccialetto a treccia dello stesso metallo. La misteriosa signora di Boston, pensò Wexford e si domandò come ci si sentisse quando si sapeva che parenti e amici ti credevano morto e si addoloravano per te mentre tu eri ben vivo e ti crogiolavi nel lusso. «Ma, signor Wexford» esclamò Natalie con quel suo lieve accento particolare (l'accento del New England, forse?) «signor Wexford, Jane non è tornata qui, quella sera!» Sorrise come una modella che facesse pubblicità a un dentifricio, un sorriso che impegnava la bocca ma non gli occhi. «La sua roba è ancora nella camera che occupavano lei e Ivan, volete vederla?» Wexford annuì e la seguì nella stanza dove un giorno aveva visto Jane Zoffany allacciarsi davanti al grande specchio il colletto di una frusta pelliccia di agnellino persiano. Sopra il cassettone c'era ancora la sua valigia, aperta, con una camicia da notte, un paio di sandali appaiati punta contro tacco e una copia in brossura di Rebecca di Daphne du Maurier. Sulla spazzola per capelli e sulla scatola di cipria che stavano sulla toeletta c'era un lieve strato di polvere. «La signora Hicks se n'è andata?» «In spirito, se non ancora di persona, signor Wexford. Lei e Ted vanno da zio Philip... il signor Cory. Desiderava tanto averli con sé e ora è felice. Stanno preparandosi per la partenza e intanto qui non badano più a niente. Hanno venduto la loro casa e anch'io credo di avere venduto Sterries. Mancano soltanto le ultime formalità.» Chiacchierava in tono volubile, sistemando un cuscino, lisciando la coperta, come se anche Wexford fosse un possibile acquirente, invece che un poliziotto venuto a indagare su una preoccupante sparizione. «Una parte dei mobili la farò mettere in un magazzino e il resto lo porterò nell'appartamento che mi sono comprata a Londra. Poi penso che andrò un po' in vacanza anch'io.» L'ispettore diede un'occhiata all'attigua stanza da bagno. Evidentemente era stata messa in ordine prima che Muriel Hicks lasciasse il servizio. Vasca, lavabo, piastrelle, di un giallo delicato, erano immacolati e freschi asciugamani color miele erano appesi ai supporti. Senza chiedere il permesso, Wexford passò nella stanza attigua, quella che Natalie aveva rifiutato per usare invece la camera di Camargue. Niente indicava che quella camera fosse stata usata dopo la morte del musicista. Si sarebbe detto che le ultime persone che vi avevano dormito fossero stati i genitori di Dinah Sternhold quand'erano venuti per Natale a Sterries,
ma lo sguardo attento di Wexford scoprì, sulla balza arricciata di uno dei cuscini a fiori verdi e azzurri, un capello. Un capello nero, che però non apparteneva a Natalie perché era corto e ondulato. Anche lì il bagno era in ordine perfetto, o così sarebbe apparso a un comune osservatore, ma Wexford fu quasi certo che uno degli asciugamani azzurri era stato usato. E sotto il rubinetto dell'acqua fredda era rimasto sulla porcellana del lavabo un lievissimo segno lasciato dall'acqua. L'ispettore si girò mentre Natalie appariva alle sue spalle. Silenziosa come una serpe, pensò (non per la prima volta) Wexford. «E quella sera» disse «la signora Zoffany si precipitò fuori di casa e dopo un po' anche suo marito se ne andò. Quanto tempo dopo?» «Venti, venticinque minuti. Per non sbagliare, vogliamo dire ventidue minuti e mezzo, ispettore?» Wexford non diede segno di aver colto la sfumatura di scherno. «È andato alla stazione a piedi?» «Ce l'ho portato io in macchina.» Sicuro. Wexford ricordò di averli visti. «E poi non avete più rivisto la signora Zoffany?» «No.» Natalie fissò l'ispettore con aria innocente, gli occhi neri fermi e limpidi, le lunghe ciglia immobili. «È il fatto più straordinario che mi sia mai accaduto in tutta la mia vita.» Considerando quello che sapeva della sua vita, Wexford dubitò molto della sincerità di quell'asserzione. «Gradirei il vostro consenso a far dragare il lago» disse. «È un modo gentile per dirmi che lo fareste dragare comunque?» «Esatto. Il vostro permesso ci farà guadagnare tempo.» Dal lago vennero fuori erbacce in quantità, due pneumatici, un fanale di bicicletta, una mezza dozzina di barattoli, un mucchio di immondizie varie, viti, bulloni, chiodi e il guanto perduto da sir Manuel Camargue, ma non si trovò traccia di Jane Zoffany. Wexford si domandò se non avesse pensato per prima cosa al lago per le sue ricerche soltanto perché si collegava con gli altri annegamenti collegati con Natalie Arno. Naturalmente sarebbe stato un sopruso estendere le ricerche al giardino, ma la tentazione di far scavare il tratto fra il lago e lo spazio semicircolare davanti alla casa fu troppo forte. In fin dei conti, si trattava soltanto di pochi metri e in quel tratto il terreno era stato palesemente rimosso di recente, con un gruppo di alberi che avevano tutta l'aria di essere lì soltanto da
qualche giorno. Chi mai avrebbe trapiantato alberi in luglio? Scavarono. Scavarono fino alla profondità di un metro, poi anche Wexford dovette riconoscere che nessun cadavere era stato seppellito in quel punto. Ted Hicks, che era stato a guardare per ore gli uomini che scavavano, dichiarò finalmente di avere dissodato lui stesso il terreno una settimana avanti per trapiantare una dozzina di alberi biennali. Quando gli fu chiesto perché non lo avesse detto prima, rispose che non si era sentito autorizzato a intervenire. E ormai era troppo tardi per fare altro, erano già le nove di una tipica sera del luglio inglese, tetra, grigia, umida e fredda. Il telefono stava squillando quando Wexford rientrò in ufficio. Il capo della polizia. La signora Arno aveva reclamato perché lui stava scavando nel giardino della sua casa senza il suo permesso e senza alcun mandato. «È vero» ammise l'ispettore, poiché era più semplice confessare che lasciarsi invischiare nelle ramificazioni di una spiegazione. Una furiosa intemerata esplose dal microfono. Una volta ancora aveva superato i limiti dei suoi doveri e dei suoi diritti, una volta ancora aveva permesso che la sua ossessione offuscasse il suo raziocinio. E questa volta sembrava proprio che la sua ossessione assumesse la forma di una vendicativa campagna ai danni della signora Arno. Era riuscita a ottenere quel risultato soltanto parlando per telefono? O era andata personalmente da Griswold, col suo abito giallo, agganciandolo coi suoi lucenti occhi neri, muovendo le sue belle mani dalle lunghe dita in gesti di simulata angoscia? Per la seconda volta Wexford promise di non infastidire oltre la signora Arno, anzi di comportarsi come se non l'avesse mai nemmeno sentita nominare. Quello che indusse Griswold a mutare atteggiamento dovettero essere le ricerche sistematiche effettuate allo Zodiac. Due vicini di Ivan Zoffany andarono, ognuno per proprio conto, alla polizia, l'uno per lamentarsi che Zoffany aveva fatto dei falò, di notte, nel proprio giardino, l'altra per dichiarare di avere visto Jane Zoffany in prossimità di De Beauvoir Place la sera di domenica 29 giugno. La casa e il negozio furono perquisiti a fondo senza alcun risultato. Zoffany ammise di avere fatto i falò, ma lo spiegò dicendo che aveva deciso di trasferirsi altrove per iniziare qualche altra attività e che quindi aveva eliminato con quel mezzo i libri di fantascienza che teneva in negozio. Wexford chiese un mandato di perquisizione per Sterries e l'ottenne nel giro di tre giorni.
17 La casa era vuota. Non solo mancava la padrona, ma anche buona parte dei mobili era sparita e Wexford rammentò che Natalie Arno gli aveva parlato della propria intenzione di sistemare i mobili in un magazzino e di partirsene per una vacanza. E difatti la signora Murray-Burgess, zelante osservatrice degli affari altrui, comunicò a Burden di avere visto un furgone per traslochi allontanarsi da Sterries verso le tre pomeridiane del martedì. Quel giorno era giovedì 17 luglio. Wexford e Burden avevano portato con sé anche due agenti, Archbold e Bennett, risoluti non soltanto a rovistare la casa da cima a fondo ma pure a demolirla parzialmente, se fosse stato necessario. Le ricerche ebbero inizio nella doppia autorimessa, fornita di un certo numero di armadi, e in un ripostiglio adiacente, poi proseguirono nella villetta già appartenuta agli Hicks. Anche lì non c'erano più né mobili né tappeti; i muri erano di solidi mattoni, senza alcuna intercapedine, e i pavimenti, evidentemente rifatti in anni abbastanza recenti, erano di piastrelle sopra un fondo di cemento. Nessuna possibilità, dunque, di seppellire un corpo lì dentro. I poliziotti tornarono a rivolgere la propria attenzione all'edificio principale. Lì, a tutta prima, pareva che le possibilità di nascondere da qualche parte il cadavere di una donna fossero ancora più esigue. Tuttavia, furono esaminati coscienziosamente gli armadi guardaroba del vestibolo, l'armadio per le scope in cucina e l'attiguo sgabuzzino dove si trovavano la caldaia dell'impianto di riscaldamento e tutto uno stock di polveri per lavare e altri detersivi. Dell'arredamento del pianterreno non era rimasto quasi nulla e dappertutto si vedevano sulle pareti le macchie più chiare che indicavano il punto dov'erano stati i vari mobili. Battendo sulle pareti in quella che era stata la camera di Camargue, Bennett scoprì uno spazio vuoto tra il fondo dell'armadio e il muro esterno. E all'esterno, difatti, in corrispondenza di quel punto, era stato ricavato un piccolo vano, probabilmente destinato in origine a ripostiglio per gli attrezzi da giardino, che in seguito era stato murato con mattoni tuttora un poco più chiari degli altri. Dall'interno dell'armadio, Bennett prese a svitarne i pannelli per poter togliere quello di fondo mentre Wexford andava chiedendosi se non stesse diventando di stomaco troppo delicato, col passare degli anni. Si sentiva
sconvolto dalla nausea soltanto a immaginare un corpo che s'inclinasse lentamente in avanti, appena tolto il pannello, afflosciandosi tra le braccia di Bennett, il corpo sottile di Jane Zoffany con la sua sciarpa di garza e il suo abito di cotone indiano rosso e giallo per sudario. Seduto sul letto, Burden stava cercando di togliersi dall'orlo di un pantalone una macchiolina d'intonaco. L'ultima vite venne via e il pannello cadde in avanti. Ma la cavità che esso nascondeva era vuota. Wexford emise un lieve sospiro di sollievo e concesse a tutti una breve pausa per il pranzo. «Inutile» osservò Burden a tavola, mentre il signor Haq svolazzava loro intorno col consueto sorridente zelo «non troveremo niente lassù, bisogna che ti rassegni. Tu vuoi a ogni costo che Natalie Arno sia colpevole di qualche cosa! Perché mai avrebbe dovuto uccidere Jane Zoffany?» «Perché Jane sapeva chi fosse veramente Natalie. Oppure aveva scoperto come e da chi era stato ucciso Camargue. C'è un complotto dietro questa storia, Mike, un complotto nel quale sono coinvolte molte persone e Jane Zoffany era una di loro. E quando scoprì che Natalie l'aveva tradita non vide più alcun motivo per serbare il segreto.» Wexford raccontò a Burden l'incontro con Jane in Ploughman's Lane la sera del 27 giugno. «Voleva dirmi qualcosa, e io non me ne resi conto, non le diedi il minimo incoraggiamento. Così lei se ne tornò a Sterries e minacciò Natalie. Fu una grossa sciocchezza, ma Jane era una sciocca, una sciocca isterica e instabile.» Wexford continuò per un poco a mangiare in silenzio. Era abbastanza vero che desiderava che Natalie Arno avesse fatto qualcosa, o meglio che ora vedeva quasi a portata di mano la possibilità di accusarla di avere fatto qualcosa. Chi poteva sapere dove fosse andata in vacanza? Zoffany? Philip Cory? Chi, chi poteva saperlo? Presero il gelato Acqua del Nilo per dessert, ma Wexford ne lasciò più della metà. «Torniamo là» disse. Era ricominciato a piovere e i muri bianchi di Sterries erano rigati dall'acqua. Sotto il cielo basso e grigio, la casa aveva l'aspetto un po' sudicio e trasandato che assumono in Inghilterra tutte le case progettate per una zona mediterranea. Al piano superiore erano accese le luci. Archbold e Bennett stavano lavorando in salotto. Dovevano tirar su il pavimento? domandò Bennett che aveva già spinto il proprio zelo fino a inerpicarsi per un tratto su per il camino. No, Wexford rispose che non era necessario. Nessuno sarebbe stato tanto sprovveduto da seppellire un cadavere sotto un pavimento di una casa che stava per cambiare proprieta-
rio... Anche se, alla resa dei conti, non era soltanto un cadavere quel che cercavano. Alle sei non avevano ancora finito, ma l'ispettore fece sospendere il lavoro. Avrebbero continuato il giorno seguente. Pioveva ancora, ma era soltanto un'acquerugiola leggera, ora. Wexford si avviò lungo il sentiero fra le conifere per andare ad accertarsi che avessero chiuso a chiave la porta di Sterries Cottage. Nell'umida penombra, il muso dell'alsaziano affacciato a una finestra del pianoterra e quasi alla stessa altezza del suo viso gli fece fare un salto. Per un attimo ebbe la sensazione che il tempo fosse tornato indietro di sei mesi e che fosse ancora vivo Camargue. Poi qualcosa di bianco parve circondare la testa del cane... «Ora capisco quel che deve avere provato Cappuccetto Rosso!» disse Wexford a Dinah Sternhold. In impermeabile bianco, il capo protetto da una sciarpa annodata sotto il mento, osservava la stanza vuota. Sorrise. L'espressione triste che era sembrata una sua caratteristica non offuscava più il suo viso che appariva un po' più pieno, con le guance rosee per la pioggia o forse perché aveva corso. «Se ne sono andati e la porta era aperta! È stato un colpo!» «Sono passati al servizio di Philip Cory.» Dinah alzò le spalle. «Oh, bene, suppongo che non ci fosse alcun motivo perché dovessero dirlo a me. Però, dal momento che venivo qui ogni tanto per far vedere loro il cane... Ted vuole molto bene a Nancy.» Tolse la mano dal collare dell'animale e questi balzò addosso a Wexford facendogli festa come se fosse stato un vecchio amico. «Sheila mi ha detto che siete stati in California.» «In vacanza...» «Ma non soltanto in vacanza, no, signor Wexford? Siete andato per scoprire se ciò che aveva detto Manuel era vero. Ma non avete scoperto niente, è così?» Wexford non rispose e lei proseguì in fretta, forse pensando di essersi spinta troppo oltre o di essere stata indiscreta. «Spesso penso quanto sia strano che quella donna possa avere indotto a credere in lei gli avvocati e i vecchi amici di Manuel e la polizia e tutti gli altri che avevano conosciuto i Camargue per anni e che proprio Manuel, il quale desiderava profondamente credere, che era nello stato d'animo più adatto per credere qualunque cosa, pur avendola vista una volta sola, non abbia creduto in lei per più
di mezz'ora.» Alzò di nuovo le spalle e fece una risatina secca, poi riprese col suo consueto tono gentile: «Oh, ma scusatemi, vi sto trattenendo! Volete chiudere a chiave?» Riprese il cane per il collare e uscì sotto la pioggia. «Ha venduto la casa?» La sua voce apparve a un tratto esile e tesa. Wexford annuì. «Così ha detto.» «Non tornerò qui mai più.» La guardò allontanarsi lungo lo stretto sentiero che portava alla strada. Il pelo di Nancy luccicava di pioggia, l'acqua scorreva sugli aghi delle conifere e sgocciolava sull'erba che, non più tagliata da giorni, aveva già assunto un aspetto disordinato, da casa in abbandono. Wexford tornò alla propria auto. La mattina seguente il tempo era afoso e pesante, col sole velato da una pesante nebbia giallastra. Sterries li aspettava, con tutti i suoi segreti. Prima di lasciare l'ufficio, Wexford aveva ricevuto tramite Interpol la notizia che la donna annegata a Santa Xavierita nel luglio del 1976 era Theresa o Tessa Lanchester, di trent'anni, nubile, proveniente da Boston, Massachusetts, di professione segretaria. Il cadavere era rimasto in acqua per cinque giorni ed era stato identificato dopo altri quattro da una zia della defunta, che non aveva più i genitori. Mentre guidava alla volta di Sterries, Wexford pensava alla possibilità che lo rimandassero in California. E nemmeno un breve soggiorno a Boston gli sarebbe dispiaciuto, del resto. Archbold e Bennett setacciarono scrupolosamente, e senza alcun risultato, le camere per gli ospiti, poi passarono allo studio e alle due stanze da bagno. In quella gialla, tolsero il tappeto color miele, mettendo a nudo le piastrelle bianche, ma fu subito evidente che nessuna di esse era stata toccata da quando era stato fatto il pavimento. Rimesso a posto il tappeto, si ripeté lo stesso procedimento nella stanza da bagno azzurra dove, oltre alla vasca, c'era l'impianto per la doccia, isolato da una tenda di plastica a righe azzurre e verdi che terminava con un orlo cucito a macchina. Guardando la tenda, Archbold, che era un ottimo osservatore e aveva la vista buona, notò che la cucitura, fatta con filo azzurro chiaro, a un'estremità non era azzurra ma marrone e chiamò subito Wexford. L'ispettore accorse, diede un'occhiata alla tenda poi si inginocchiò sul pavimento. E a circa un centimetro da terra, in un punto che era rimasto nascosto dal tappeto, scoprì due macchioline bruno-rossastre. «Tirate su le piastrelle!» ordinò.
Avrebbero trovato tracce di sangue sufficienti per un'analisi? Si sarebbe proprio detto di sì, dopo che sul margine di una delle piastrelle tolte lungo la vasca da bagno si rinvenne un'inequivocabile incrostazione scura. 18 «Potresti almeno dirmi dove stiamo andando!» «E a che scopo? Sei più ignorante di una talpa per quel che riguarda le strade di Londra!» Wexford era nervoso perché temeva di sbagliarsi. Griswold ne era convinto e aveva fatto un gran parlare di violazione di diritti e di intrusione illecita. E se lui si fosse sbagliato davvero, avrebbe fatto una tale figura da idiota! «Se ti dico che siamo diretti a Thornton Heath, significherebbe qualche cosa per te?» Senza rispondere, Burden continuò a guardare ingrugnato dal finestrino. Poco dopo la stazione di Thornton Heath, l'autista svoltò in una lunga strada squallida, fiancheggiata da un'alta rete metallica su un lato e da pioppi tristi e stenti sull'altro. Grazie a Dio a questo mondo esistevano dei vicini come la signora Murray-Burgess, pensò Wexford: una donna dotata di ottima memoria e di vista acuta, oltre che di coscienza civica. "Un furgone enorme" aveva detto la signora "un magazzino ambulante che appestava l'aria per chilometri intorno! Certo che mi ricordo il nome, me lo sono persino scritto, William Dorset e C." Era una notissima ditta di trasporti che aveva molte succursali, compresa quella di Kingsmarkham della quale si era servita qualche mese avanti anche Sheila. Il deposito della Dorset e C. era un immenso fabbricato grigio col tetto di lamiera rossa e finestrelle appena sotto il tetto. Prima che raggiungessero l'entrata, venne loro incontro un uomo che Wexford riconobbe come uno dei due che avevano fatto il trasporto per Sheila, quello la cui moglie non perdeva un solo episodio di Runway. Anche lui guardò l'ispettore come se pensasse di averlo già visto da qualche parte. «Volete accomodarvi? C'è anche il signor Rochford, il nostro vicedirettore. Ha ritenuto opportuno presenziare all'operazione.» Wexford ne ebbe una lieve fitta al cuore. Avrebbe tanto voluto essere solo, senza nemmeno Burden. Naturalmente avrebbe potuto allontanare tutti, non gli mancava l'autorità per farlo, ma preferì astenersene. Oltre tutto qualche testimone poteva anche risultare utile. Senza parlare, seguì l'uomo fino all'ufficio dove lo aspettava Rochford, al quale presentò il suo manda-
to. «È una faccenda molto seria» mormorò il vice direttore con aria infelice. «Molto grave.» «Me ne rendo conto.» «Mi riesce difficile credere una cosa simile. Posso chiedere se c'è qualche possibilità che vi sbagliate?» «Molte possibilità, signor Rochford.» «Perché, capite, è estate e... Be', non c'è stato niente del genere, vero, George?» disse Rochford, sibillino e speranzoso. Non ancora, pensò Wexford senza dirlo. «Comunque possiamo eliminare subito ogni dubbio andando a dare un'occhiata, non vi pare?» disse invece tentando di sorridere. «Oh sì, sì, certo. Da quella parte, prego. Fa' strada tu, George. Ah, spero che possiate sbagliarvi, signor Wexford, lo spero tanto!» Il magazzino, dal soffitto a capriate in ferro alto una decina di metri, era buio e cavernoso, rischiarato a malapena dalla luce verdastra che pioveva dalle basse finestre situate appena sotto il tetto. George premette un interruttore e una serie di tubi fluorescenti si accese nell'immenso stanzone. Ci faceva anche freddo, lì dentro, benché fuori quella mattina la temperatura fosse già oltre i venti gradi. Sembrava di trovarsi in una piccola città deserta costruita su una pianura di cemento, una città di furgoni sistemati regolarmente a circa un metro l'uno dall'altro, con strade rettilinee intersecantisi ad angolo retto fra l'uno e l'altro, oppure in un campo di concentramento abbandonato e spettrale. Il furgone che cercavano era quasi in fondo, contro la parete color crema, sotto una finestra. Rochford passò una chiave a George che aprì le porte e Wexford si irrigidì istintivamente al pensiero della folata di aria fetida che avrebbe potuto uscirne. Ma tutto quello che ne uscì fu un vago odore di stantio. Le porte girarono silenziosamente sui cardini bene oliati. L'interno del furgone sembrava un'edizione ridotta di Sterries, una goccia dell'essenza di sir Manuel Camargue. C'erano la sua scrivania e i mobili austeri della sua camera e del suo salotto personale, il registratore e le belle sedie dallo schienale a lira della stanza da musica, il pianoforte... Se si chiudevano gli occhi, si poteva quasi immaginare di udire le prime note del Concerto per flauto e arpa. Wexford si girò a guardare i mobili delle camere per gli ospiti, un'ottomana in velluto verde, due sgabelli ricamati, un paio di tappeti afgani arrotolati e, sotto un fagotto di coperte e cuscini, il cassone in tek scolpito, fasciato ora da due robuste cinghie di cuoio.
Lo guardarono tutti per un momento, poi Burden si inginocchiò per sganciare le fibbie delle cinghie. Rochford trattenne rumorosamente il respiro. Le cinghie caddero e Burden cercò di aprire i fermagli in ferro del coperchio. Erano chiusi a chiave. Burden guardò interrogativamente George che borbottò qualcosa circa la necessità di tornare in ufficio per controllare sul suo registro dove erano le chiavi. Wexford esplose: «Sapevate benissimo che cosa venivamo a fare, perché non avete controllato prima? Se non le troverete, saremo costretti a scassinare il cassone!» «Ehi, un momento...» Rochford pareva sul punto di soffocare. «Il vostro mandato non vi autorizza a scassinare niente! Che cosa direbbe la signora Arno se ritrovasse i suoi mobili danneggiati? Io non posso assumermi la responsabilità di...» «E allora sarà meglio che troviate le chiavi.» George si grattò in testa. «Mi pare che la signora abbia detto di averle messe in quella scrivania. In uno dei cassettini.» Controllarono i cassettini. Erano tutti vuoti. Burden srotolò i tappeti, vuotò il sacco delle coperte, sfilò i cassetti del comodino di Camargue. «Avete detto che è scritto nel vostro registro dove sono?» domandò Wexford a George. «Là c'è scritto che sono nella scrivania» asserì George. «Bene, allora scassiniamo il cassone.» «Eccole qui!» esclamò Burden ritirando la mano dallo spazio tra l'ottomana e gli sgabelli e facendo dondolare due chiavi uguali unite da un anello. Wexford aprì l'uno dopo l'altro i due fermagli e sollevò il coperchio del cassone. Sembrava pieno di teli di pesante plastica nera. L'ispettore afferrò un lembo e tirò. La cosa pesante che era avvolta in quel freddo sudario nero, lucente e scivoloso, si spostò verso la parete di legno e parve rotolare su se stessa. Wexford continuò a srotolare il sudario nero e allora accadde una cosa orribile. Lentamente, languidamente, come se contenesse ancora un barlume di vita, un braccio color della cera e una mano sottile si alzarono dal cassone, ciondolarono per un momento nell'aria poi ricaddero. Con un gemito sommesso, Wexford fece un passo indietro. La mano sottile gli aveva sfiorato il viso con dita di ghiaccio. Rochford lanciò un urlo e si precipitò fuori, ma George sembrava fatto
di ben altra stoffa perché si avvicinò un po' timoroso al cassone. Con l'aiuto di Burden, Wexford sollevò il corpo, lo depose sul pavimento e lo liberò del sudario. Aveva la gola tagliata da un lato all'altro e la ferita era stata tamponata con un asciugamano, era zuppo di sangue, che tuttavia non aveva impedito che schizzasse l'abito giallo, ora tutto macchiato di rosso come la carta geografica di un bizzarro arcipelago. Wexford fissò per un momento quel viso, cosciente del proprio errore, non meno sorpreso degli altri, poi si girò a guardare Burden. Burden scosse la testa, incredulo e sbigottito, e all'unisono i due poliziotti tornarono a fissare lo sguardo nei neri occhi morti di Natalie Arno. 19 «Cui bono?» disse Kenneth Ames. «A chi giova?» Unì a cuspide le punte delle dita e fissò il campanile di St Peter che campeggiava nel cielo oltre la finestra. «Bene, mio caro amico, alla stessa signora cui avrebbe giovato se voi aveste avuto ragione nella vostra ridicola presunzione che la povera signora Arno non fosse la signora Arno. Per essere precisi, la nipote di sir Manuel che vive in Francia.» «Non me ne avete mai detto il nome» gli rinfacciò Wexford. Ames non lo disse nemmeno allora. «È straordinario! La povera signora Arno ha seguito le orme del padre. Non più di una settimana fa mi aveva chiesto se avrebbe dovuto fare testamento e io naturalmente le avevo consigliato di farlo. Ma, com'è accaduto a sir Manuel, è morta prima di decidersi. E anche lei avrebbe dovuto risposarsi, ma poi aveva cambiato idea.» «Non lo sapevo!» «Così, come ho detto, la beneficiaria sarà quella signora francese, non c'è alcun altro parente. Devo avere il suo nome da qualche parte.» L'avvocato frugò in un cassetto pieno di fascicoli. «Ah, eccolo qui. Mademoiselle Thérèse Lerèmy. Volete anche l'indirizzo?» La trasformazione di Moidore Lodge, la residenza di Philip Cory, saltava agli occhi anche da lontano. Il viale era spazzato con cura, la tavoletta in legno col nome della casa era stata ridipinta di fresco e Wexford avrebbe giurato che persino i cani di bronzo erano stati lustrati. La Porsche di Blaise Cory era parcheggiata davanti all'ingresso e fu lui, non Muriel Hicks, che venne ad aprire la porta. Evidentemente lo chiamavano come altri chiamano l'avvocato, rifletté l'ispettore entrando nel vesti-
bolo che, senza più traccia di polvere o di sporco, sembrava persino più ampio e arioso. «La presenza in casa di quelle due brave persone ha cambiato totalmente la vita del mio caro vecchio papà» confidò Blaise lanciando una cauta occhiata alle proprie spalle. «Spero che non siate qui per qualcosa che possa... be', che faccia l'effetto di una lima dentro un ingranaggio!» «Non credo proprio, signor Cory. Ho soltanto bisogno di rivolgere un paio di domande alla signora Hicks, nient'altro.» «Oh, voialtri poliziotti dite sempre così!» Fece la breve risatina sonora con la quale era solito accogliere, nel suo programma televisivo, le più feroci osservazioni delle persone che intervistava. «Credo che sia in giro per la casa con qualcuno dei suoi provvidenziali attrezzi.» Come al segnale del regista, il ronzio di un aspirapolvere risuonò proprio in quel momento sopra la loro testa. Wexford sarebbe andato direttamente di sopra, ma si trovò invece sospinto verso il soggiorno. Ted Hicks stava lavando le grandi portefinestre e Philip Cory, in jeans e maglietta, lo osservava con aria compiaciuta. Come Wexford entrò, Ted smise per un momento di lavorare e si mise quasi sull'attenti. «Buongiorno, signor Cory.» «Oh, ispettore! Buongiorno.» Cory gli tese le mani con gesto espansivo. «Che piacere vedervi! È così bello avere degli ospiti e non dovere vergognarsi del disordine, per non parlare della comodità di ritrovare subito le cose. Ora, per esempio, se desideraste bere qualcosa, non dovrei andare a frugare dappertutto per trovare una bottiglia. Non avete che da dirlo.» Visto che erano appena le dieci di mattina, Wexford non intendeva davvero dire niente del genere. Spiegò invece che avrebbe desiderato parlare un momento in privato con Muriel Hicks. «Ho letto sul giornale della povera Natalie» riprese Cory. «Blaise temeva che la notizia potesse sconvolgermi, è tanto sensibile, lui! Ma io gli ho detto: "Come vuoi che possa sconvolgermi se non so nemmeno se era Natalie o no?".» Hicks accompagnò l'ispettore al piano di sopra, dove Muriel stava facendo le pulizie nell'immensa stanza da letto di Cory. Era un po' ingrassata da quando Wexford l'aveva vista l'ultima volta, i suoi capelli rossicci erano più lunghi e arruffati, ma le sue maniere erano sempre ugualmente brusche. «La signora Arno stava partendo per le vacanze» spiegò «e mi disse di badare agli uomini che sarebbero venuti il giorno successivo a portar via i
mobili. Per me non andava bene perché stavamo traslocando anche noi e io avevo un sacco di cose da fare, ma lei ha detto che l'impresa di trasporti poteva farlo soltanto quel giorno, così era inutile discutere. C'era un tale, a Sterries, era venuto per il fine settimana. Il lunedì pomeriggio era ancora là..» «Lo avete visto?» «L'ho sentito. Ero andata su verso le sei per controllare con la signora quello che doveva andar via e quel che doveva rimanere e li ho sentiti parlare al piano di sopra. Quando mi hanno sentito entrare si sono messi a parlare in francese così non ho potuto capire niente, ma a un certo punto la signora ha detto in inglese: "Oh, sei così buffo col tuo accento svizzero!". Quando sono salita, lui si era nascosto.» «Avete udito il suo nome, signora Hicks?» Muriel scosse la testa. «No, mai, e non l'ho mai nemmeno visto. Era un tipo strano, la signora. Non le importava niente che io sapessi che c'era un uomo in casa e che cos'era per lei, ma non ha mai permesso che né io né altri lo vedessimo. Il giorno dopo, naturalmente, ho pensato che fossero partiti insieme. Lo aveva detto lei che sarebbe partita, e la macchina non c'era più.» «Che cosa accadde il giorno dopo?» «Alle nove sono venuti gli uomini per portare via i mobili e io ho spiegato che cosa dovevano prendere. La signora aveva lasciato tutto segnato coi cartellini. Poi, quando se ne sono andati, ho dato una bella ripulita dappertutto. C'era una quantità di sangue nella stanza da bagno blu ma non ci ho fatto gran caso, ho pensato che qualcuno si fosse tagliato.» Wexford ripensò al giorno in cui Natalie si era deliberatamente tagliata le dita, in De Beauvoir Place, e rabbrividì leggermente. «Ho dovuto faticare un bel po' per ripulire il tappeto» proseguì Muriel. «Ho letto sul giornale che l'hanno trovata nel magazzino dell'impresa di trasporti. Era... era nel cassone?» L'ispettore annuì. «Gli uomini avevano detto che era molto pesante» finì Muriel senza dar segno della pur minima emozione. Blaise Cory riaccompagnò l'ispettore fino all'auto. Faceva caldo, quel giorno, il cielo era di un azzurro immacolato e le foglie dei platani si muovevano appena al soffio di una lievissima brezza. «Conoscete la signora Mountnessing, ispettore? La cognata di sir Manuel?» domandò a un tratto Blaise, senza la sua consueta gaiezza forzata. «L'ho vista una volta.»
«C'era stato un certo scandalo in famiglia. Io avevo soltanto diciassette o diciotto anni, allora, e con Natalie eravamo come fratello e sorella. Eravamo molto affiatati e lei mi raccontava tutto. Un giorno il generale l'aveva aggredita all'improvviso e sua moglie li aveva sorpresi mentre si baciavano.» «Il generale?» «Sì, il vecchio Roo Mountnessing. La signora Mountnessing lo disse alla sorella e fece un baccano d'inferno, addossando tutta la colpa alla povera Nat, chiamandola incestuosa e cretinate del genere. Come se non sapessero tutti che lui era un vecchio satiro. Sir Manuel era in tournée in Australia, in quel periodo, sennò sarebbe intervenuto lui. Così invece la signora Camargue e sua sorella cercarono di rinchiudere Natalie, ne fecero una sorta di prigioniera, finché lei non perse le staffe e picchiò la madre. La colpì violentemente al petto. Immagino che si fossero accapigliate perché Natalie voleva uscire.» «E allora?» «Be', quando la signora Camargue si ammalò di cancro, la signora Mountnessing disse che era stato quel colpo a provocarlo. Ho sentito che qualche volta accade. I medici naturalmente dissero di no, ma la signora si ostinò nella propria convinzione e riuscì a farlo credere più o meno anche a Camargue. Ho sempre pensato che sia stato quello il motivo per il quale Natalie se ne andò con Vernon Arno. Non ce la faceva più a restare in quella casa.» «Sicché è stata quella la causa della rottura» disse Wexford. «Secondo Camargue, era stata lei a causare la morte della madre.» Blaise scosse la testa. «Non credo. Era soltanto influenzato dalla signora Mountnessing e pazzo di dolore per la morte della moglie. Il mio caro paparino dice che sir Manuel tentò e ritentò di fare pace con Nat, le scrisse più volte, offrendole di andare da lei o di pagarle il viaggio di ritorno a casa. Non era tanto lui che la incolpava della morte della madre, suppongo, quanto lei che incolpava se stessa. Era il rimorso a tenerla lontana.» «Ve lo ha detto lei quando avete fatto colazione assieme, signor Cory?» «Buon Dio, no! Non abbiamo affatto parlato di quello. Io sono un uomo attuale, signor ispettore, vivo nel presente. E anche Natalie. Strana quella voce che si era sparsa quest'inverno, che fosse un'impostora» concluse Blaise come parlasse a se stesso. «Davvero» riconobbe Wexford. Bayeux Green, un paesetto al margine della St Leonard's Forest, non era
molto lontano dalla residenza di Cory e Wexford trovò la casa che cercava, Bayeux Villa, senza nemmeno dover chiedere informazioni. Si trovava nel centro del paese ed era un piccolo fabbricato stretto, fine Ottocento, un po' arretrato rispetto alla strada dalla quale lo separava una cancellata. Wexford suonò il campanello ma non ebbe risposta. Si spostò di lato per sbirciare da una finestra, ma non v'era alcun segno che la casa fosse abitata. In quella stagione era anche probabile che i suoi occupanti fossero andati in vacanza, ma sembrava strano che prima di partire non avessero preso accordi perché qualcuno badasse alle loro piante. Tradescantie, peperomie, un cissus che si arrampicava su cordicelle accuratamente spaziate, un'edera variegata avevano le foglie vizze e ciondolanti. Wexford girò attorno alla casa, esaminando altre finestre, ed ebbe la sensazione di essere osservato benché non riuscisse a scorgere nemmeno un'ombra. I due piccoli prati avevano l'aria di non essere stati rasati da almeno un mese e il roseto cominciava a essere invaso da erbacce. Dopo avere suonato un'altra volta il campanello, Wexford andò a chiedere informazioni alla porta accanto. «Sono partiti per le vacanze... saranno un tre settimane» l'informò la premurosa vicina. «Ora che ci penso, dovrebbero tornare proprio oggi o domani. Non stanno mai via più di tre settimane.» «Ma non hanno nessuno che venga a tenere in ordine la casa e il giardino?» «Non ditemi che sono entrati i ladri!» L'ispettore la rassicurò subito. «No, no, ma vedo che nessuno ha innaffiato le piante.» «Ma ci dev'essere la sorella della signora. Me lo ha detto lei prima di partire. "Verrà qui mia sorella mentre noi non ci siamo" mi ha detto.» Stavolta la colse alla sprovvista. Andò alla finestra della cucina e i loro occhi si incontrarono. Aveva seguito anche lei ogni sua mossa, spostandosi da una stanza all'altra, spiandolo dalle varie finestre. Indossava ancora il vestito di cotone indiano a righe rosse e gialle, era rimasta chiusa in casa per tre settimane e si vedeva. Era molto seria ma non sembrava impaurita. Aprì la porta posteriore e lo fece entrare. «Buongiorno, signora Zoffany. È un sollievo ritrovarvi sana e salva!» «Chi dovrebbe farmi del male?» «Volete dirmelo voi? Volete raccontarmi tutto?» Lei non rispose. Wexford si domandò che cosa avesse fatto tutta sola in quella casa dal 27 di giugno. Non aveva mangiato molto, quello era chiaro,
e probabilmente non era mai uscita, non aveva neppure aperto una finestra. Faceva un caldo terribile lì dentro e un odore penetrante di sudore e di scarsa pulizia emanava da Jane Zoffany mentre la seguiva nella casa piena di piante moribonde. Jane sedette e lo guardò con fare circospetto. «Se non parlate voi, volete che ve lo dica io?» riprese l'ispettore. «Dopo che mi avete lasciato, quel venerdì sera, siete tornata a Sterries e avete trovato la casa vuota. La signora Arno aveva portato alla stazione vostro marito. La sua auto mi sorpassò mentre scendevo la collina.» Lei continuò a guardarlo in silenzio, a disagio. La pazzia, nei suoi occhi, era più evidente di quando l'aveva vista l'ultima volta. «Avete ripreso la borsetta ma avete lasciato la valigia. Probabilmente perché non volevate pesi ingombranti. C'è un autobus per Horsham che parte da St Peter's e dovete essere arrivata in tempo a prendere l'ultimo, oppure avete noleggiato un'auto.» «Non avevo denaro per noleggiare un'auto» disse lei con voce atona. «E non sapevo che c'era un autobus. Ma l'ho visto e ci sono salita.» «Arrivata qui, avete saputo che vostra sorella e suo marito sarebbero partiti il giorno seguente per le vacanze. Sono stati senza dubbio ben contenti di avere qualcuno che badasse alla casa mentre loro erano via. E una settimana dopo avete mandato un biglietto di auguri per il compleanno...» «No» l'interruppe lei di slancio. «Io l'ho soltanto imbucato. Lo aveva già scritto mia sorella con indirizzo e tutto, e me lo aveva dato di persona, così si risparmiavano i soldi del francobollo, ha detto. Ma io sono uscita una sera e l'ho imbucato.» Fece un vago sorrisetto annacquato. «Mi piaceva star nascosta, mi divertiva.» Wexford non faticava a capirlo. La situazione le andava a genio per due motivi. Primo, le consentiva di perdere entro certi limiti la propria identità, quel suo io conturbante, lì poteva nascondersi a se stessa come si nascondeva agli altri. In secondo luogo le dava la soddisfazione di diventare almeno per breve tempo importante, oggetto di ansie e di preoccupazioni, di emozioni una volta tanto stimolanti. «Quello che non capisco» disse l'ispettore «è come ve la siete cavata quando la polizia è venuta a fare indagini.» Lei ridacchiò. «Oh, è stato uno spasso! Mi hanno scambiata per mia sorella!» «Capisco.» «Hanno dato per scontato che fossi mia sorella e hanno continuato a farmi domande sulla signora Zoffany, se avevo idea di dove fosse, quando l'avevo vista l'ultima volta eccetera. Ho risposto che non sapevo niente e
mi hanno creduta. È stato divertentissimo, è stato un po' come...» Si portò le dita alle labbra, fissando l'ispettore con occhi vuoti. «Dovrò dire a vostro marito dove siete. È stato molto in ansia per voi.» «Sì? Davvero?» Chissà se durante quella sua semiprigionia aveva guardato la televisione, ascoltato la radio, letto un giornale? Probabilmente no, dato che non aveva accennato alla morte di Natalie. E non gliene avrebbe parlato nemmeno lui, decise Wexford. Era abbastanza al sicuro, lì. Fra poco sarebbe tornata sua sorella e sarebbe venuto anche Zoffany. Fra tutti avrebbero deciso di ricoverarla di nuovo in un ospedale per malati di mente? Wexford dubitava molto che avrebbe tratto qualche giovamento dalle cure cui l'avrebbero sottoposta in un posto simile. Avrebbe voluto dirle di fare un bagno, di mangiare, di spalancare le finestre, ma sapeva che sarebbe stato inutile, non l'avrebbe nemmeno udito. «Pensavo che foste arrabbiato con me!» Wexford non la prese sul serio più di quanto non avrebbe fatto col più piccolo dei nipotini. «Dovremo fare una lunga chiacchierata, voi e io, signora Zoffany. Quando sarete di nuovo a casa vostra e io avrò più tempo. Ora sono molto preso. Dovrò andare di nuovo all'estero.» Lei annuì. Non aveva più l'aria così seria e grave. Wexford se ne andò e quando fu in strada si voltò a guardare e vide il suo visetto smunto che lo seguiva con gli occhi, dietro i vetri di una finestra. Forse non l'avrebbe rivista mai più, pensò Wexford, forse non avrebbe più avuto bisogno di lei perché in uno di quei lampi rivelatori che aveva disperato di vedere in quelle indagini, gli apparve la verità. Gliel'aveva detta lei. Nel corso di una piccola gorgogliante confidenza, gli aveva detto tutto ciò che gli restava ancora da sapere. Nel tardo pomeriggio si recò a casa del capo della polizia, Hightrees Farm, a Millerton. Fu il colonnello Griswold in persona ad aprirgli la porta, una cosa che Wexford trovava sempre sconcertante, come piombare all'improvviso nell'acqua profonda. «Desidero andare in Francia, signore, nella Francia meridionale.» «Ah sì? Anch'io ho intenzione di andare nel Galles, nel Galles del nord.» «Non si tratta di vacanze, signore, ma di lavoro. E per quanto sappia che non è regolamentare, vorrei portare con me Mike Burden. Ci vive una persona che erediterà tutti i beni del defunto sir Manuel Camargue. È sua nipote e si chiama Thérèse Lerèmy.»
«Cittadina francese?» «Sì, signore, però...» «Rex, non voglio che andiate in giro a fare arrabbiare la gente, soprattutto gli stranieri. Voglio dire, non mettetevi in testa di andare là ad arrestare quella donna in base a qualche semplice sospetto e...» Ma ancora prima di cominciare a negare che quella fosse mai stata la sua intenzione, dall'espressione vagamente truculenta che aveva sostituito la durezza sul viso di Griswold, Wexford capì che avrebbe vinto la sua battaglia. 20 Dalla Città degli angeli alla Baia degli angeli. Appena arrivati, il tassista li portò alla Promenade des Anglais. Era completamente fuori del loro itinerario, ma dovevano assolutamente vederla, asserì l'uomo, non si poteva arrivare a Nizza e limitarsi a vedere l'aeroporto. Mentre Wexford osservava la Baia degli angeli, Burden fece sfoggio del suo stock di cognizioni acquisite per l'occasione. Era ancora mattina. Partiti di buon'ora da Londra per Parigi, avevano cambiato aereo a Roissy-Charles De Gaulle e ora un'auto li stava portando su per le colline incoronate di aranci e ulivi. Saint-Jean-de-l'Éclaircie è a pochi chilometri da Grasse, sulla riva del fiume Loup, e un campanile suonò le dodici mentre passavano sotto un arco tappezzato di edera che si apre nelle mura dell'antica città. Oltrepassata la cattedrale in pietra color ocra, si trovarono nella Place aux Eaux Vives, abbellita da una fontana e da una statua di Picasso, la Donna con l'agnellino, donata alla città dall'artista che vi aveva vissuto e lavorato per alcuni mesi dopo la guerra. Era scritto nella guida di Wexford, insieme con la notizia che nella cattedrale c'era un Fragonard, che al museo, la Fondation Yeuse, si potevano ammirare alcune preziosissime porcellane di Sèvres e che a poco più di un chilometro fuori città c'erano i resti ben conservati di un anfiteatro romano. Il tassista aggiunse che dal campanile della cattedrale si riusciva a vedere all'orizzonte la Corsica. Wexford aveva prenotato le camere per la notte all'Hôtel de la Rose Bianche, nella place. Il vestibolo era buio e fresco, con pareti e pavimento in pietra e con quell'indefinibile atmosfera che è una combinazione di compiacimento e di gaia anticipazione e che significa che il vitto è ottimo. Lo chef è in cucina e tutto va bene.
Kenneth Ames non aveva saputo dire gran che sul conto della signorina Lerèmy; oltre a nome, cognome, indirizzo e grado di parentela con Camargue aveva saputo dire soltanto che era orfana e nubile. Ricordando la fotografia delle due ragazze mostratagli dalla signora Mountnessing, Wexford aveva concluso che dovesse avere pressappoco l'età di Natalie. Cercò il suo nome sulla guida del telefono, compose il numero con un pochino di apprensione pensando al proprio scadentissimo francese, ma non ebbe risposta. Fecero colazione con frutti di mare, pane che era quasi soltanto crosta friabile e croccante e una bottiglia di Monbazillac, poi Wexford rifece il numero della signorina Lerèmy, ma non ottenne miglior risultato. Pareva che non restasse altro da fare che andare a visitare la città. Faceva troppo caldo per salire sul campanile, la piazza era deserta, nei viali stretti e ripidi che correvano lungo il perimetro interno delle mura bighellonava soltanto qualche turista disoccupato e le bancarelle del mercato che la mattina avevano affollato la Place de la Croix erano ormai scomparse. I due ispettori entrarono nella cattedrale barocca, buia e fresca, e sostarono ad ammirare con la debita venerazione I pani e i pesci di Fragonard, una grande tela un po' brumosa con un elegante Cristo e una moltitudine di persone adoranti, poi tornarono fuori nello splendore abbacinante del sole. «Immagino che sarà al lavoro» osservò Wexford. «Una donna sola dovrà lavorare per forza. A quanto pare, ci toccherà rimandare di qualche ora la nostra intervista.» «Bene, così potremo andare al museo» ribatté Burden. Wexford si strinse nelle spalle. «Okay.» Contrariamente a quanto si erano aspettati, parecchi turisti si aggiravano per le sale e poiché Burden aveva letto che oltre alle porcellane il museo possedeva anche una collezione di gioielli antichi, Wexford chiese indicazioni a una signora che stava parlando in inglese, un inglese corretto anche se un po' incerto, con un turista americano e che doveva far parte del personale perché a un risvolto del vestito rosso scuro simile a un'uniforme portava un distintivo ovale col nome del museo. Wexford si sforzò di non fissarla, come probabilmente avevano fatto migliaia di persone prima di lui; la parte inferiore del suo viso era tutta segnata da profonde, minuscole cicatrici come di vaiolo. La donna spiegò loro nel suo inglese un po' esitante dove avrebbero trovato la collezione e i due salirono al piano supe-
riore. «Ormai penso che potremmo andare a cercarla a casa» suggerì Wexford quando ebbero finito la visita al museo e acquistato qualche regalino per le rispettive consorti. «Intanto daremo un'occhiata in giro.» La Maison du Cirque era fuori città, oltre una distesa di agrumeti, e il tassista che ve li portò continuò a fornire loro spiegazioni in un francese strettissimo del quale Wexford arrivò ad afferrare soltanto che sul fianco della collina, non molto lontano da lì, c'era l'anfiteatro romano. La casa sorgeva isolata a una curva della strada, grandissima, con persiane dalla vernice scrostata e un ampio giardino che si stendeva fino ai boschetti di ulivi e limoni, dai quali lo separava soltanto un muro di cinta semidiroccato. Ma la signorina Lerèmy non era ancora tornata. «Tanto vale che andiamo a vedere l'anfiteatro, intanto che l'aspettiamo» propose Wexford. L'ampia arena ovale era tutta verde d'erba, come fosse costantemente annaffiata da una sorgente nascosta e tutt'intorno si alzavano in archi paralleli, verso la sommità della collina, i pini, il cielo di un azzurro cristallino, le file bene ordinate delle gradinate. «Spero che siamo arrivati in tempo» osservò Wexford. «Spero che possiamo raggiungerla prima che le accada qualche incidente. La donna è morta da nove giorni, lui può essere qui, diciamo, da otto...» «Se è qui. L'idea che ci sia è basata unicamente sulla tua percezione extrasensoriale. Non sappiamo se è qui. E oltre a questo, non sappiamo chi è, come è né come si chiama o si fa chiamare.» «No, non siamo in acque tanto cattive» protestò Wexford. «È naturale che sia qui. Questo posto, quella ragazza debbono averlo attirato come una calamita. Non vuole perdere quel denaro proprio ora, Mike.» «No, certo, non dopo avere complottato per anni per ottenerlo. Per quanto tempo dovremo restare qui, secondo te?» Wexford si strinse nelle spalle. L'aria era profumata dei mille aromi delle erbe che ricoprivano i pendii, salvia e timo, alloro e rosmarino, e il sole era ancora caldissimo. «Per quanto possa essere, per me sarà sempre troppo poco.» L'ispettore guardò l'orologio. «A quest'ora Martin dovrebbe avere parlato con Williams e fatta una piccola indagine per me al Guy's Hospital.» «Al Guy's Hospital?» «Già. Non abbiamo dato il giusto peso, finora, al fatto che Natalie Arno era stata ricoverata in ospedale poco prima di recarsi da Camargue. Per una
biopsia, sai l'esame che si fa per accertare l'eventuale esistenza di cellule cancerose.» «Ma Natalie non aveva un cancro!» «Oh, no!» Burden sedette nella fila davanti a quella dove sedeva il suo collega. «Vorrei dirti quel che io penso sia accaduto, per vedere se concordiamo.» Sull'erba accanto a lui l'ombra della testa di Wexford annuì. «Bene. Dunque, Tessa Lanchester va in vacanza a Santa Xavierita, in California, e mentre è lì conosce un giovanotto che suona la chitarra o che altro in un ristorante della città. Il tizio è un immigrato clandestino e probabilmente si dedica a chissà quali altre attività illegali, è già un pregiudicato. Ha già conosciuto Natalie Arno e saputo da lei chi è suo padre e che cosa possiede. Presenta Tessa a Natalie e le due donne diventano amiche. «Allora» continuò Burden «il nostro amico persuade Tessa a non fare ritorno a Boston, ma a fermarsi ancora un po' a Santa Xavierita per sapere quanto più possibile su Natalie e sulla vita passata. Raggiunto questo scopo, una bella sera porta Natalie a fare una bella nuotata, l'affoga e subito dopo lui e Tessa partono per Los Angeles con l'auto di Natalie, le valigie di Natalie e le chiavi di casa di Natalie. E da quel momento Tessa diventa Natalie. Cinque giorni di permanenza nell'acqua salata hanno reso praticamente irriconoscibile il cadavere di Natalie e poiché Tessa è scomparsa, si finisce per concludere che la morta sia lei. «A questo punto» proseguì Burden «i due complici si mettono all'opera per arrivare all'eredità di Camargue, ma al momento il piano va all'aria per l'intervento di Ilbert, la sua denuncia e la conseguente espulsione del nostro amico. Tessa tenta invano di vendere la casa di Natalie e a questo punto credo che il suo entusiasmo per il progetto si raffreddi alquanto. Altrimenti non saprei come spiegare il rinvio di tre anni fra la preparazione del piano e la sua esecuzione. Ormai si trova bene nella sua nuova identità, si è fatta nuovi amici e, come sappiamo, ha anche avuto due nuovi amori. Poi, nell'autunno del 1979, uno di quegli amori, Ivan Zoffany, le scrive da Londra di avere saputo dalla cognata, che abita nei pressi di Wellridge, che Camargue sta per risposarsi, così Tessa-Natalie si mette in allarme e parte a sua volta per l'Inghilterra dove riesce a rimettersi in contatto con l'uomo che per primo aveva escogitato il piano e i due si assicurano anche l'appoggio di Ivan Zoffany e di sua moglie. Che te ne pare?» Wexford inarcò le sopracciglia. «Come sono riusciti a trascinare nel complotto Williams e Mavis Rolland? Corrompendoli con denaro?»
«Naturale! E devono aver avuto bisogno di molto denaro. Un uomo come Williams non si è certo venduto per poco, mentre penso che abbiano potuto comprare molto più a buon mercato la signora Woodhouse.» L'ombra sull'erba annuì di nuovo. «Esitarono un poco prima del confronto. Quell'incontro, di fondamentale importanza, innervosiva Tessa, naturalmente. Per di più era stata poco bene e aveva dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico e quando finalmente si decise a recarsi a Sterries commise un errore. Aveva imparato bene la lezione, sapeva praticamente tutto sulla vita personale e familiare di Camargue e di Natalie, ma inciampò nella pronuncia di un nome italiano. Parlava correntemente lo spagnolo, come molti americani, conosceva bene il francese, ma non aveva mai pensato di dover dire qualcosa in italiano. Il resto lo sappiamo. Camargue le disse che l'avrebbe esclusa dal proprio testamento, così il sabato successivo lei si creò un solido alibi partecipando con Jane Zoffany a un ricevimento, mentre lui andava a Sterries, aspettava Camargue in giardino e lo affogava nel lago.» Wexford non fece commenti. «Allora?» Come si addiceva a una persona autorevole seduta nel pulvinare di un circo romano, Wexford puntò verso il basso il pollice destro. «L'ultima parte, quella concernente l'annegamento, è più o meno esatta.» Si alzò. «Andiamo?» Burden stava ancora borbottando che doveva essere stato così, che non poteva essere andata diversamente, quando arrivarono alla Maison du Cirque. Davanti a loro una Citroen bianca aveva appena svoltato nel viale. La donna che ne scese, avviandosi quindi alla loro volta con espressione interrogativa, era l'impiegata del museo. 21 Il sole splendeva crudelmente sulla sua pelle butterata. Lei aveva fatto il possibile per mimetizzarla con un trucco accentuato, ma con scarso risultato, e ora, avvicinandosi ai due forestieri, si portò una mano al volto per nascondere la deturpazione. Osservandola bene, aveva qualcosa dei tratti di Camargue, i meno attraenti, purtroppo: la fronte troppo alta, il naso troppo lungo, la bocca troppo carnosa, ma come molte persone poco attraenti, aveva un sorriso affascinante. Quando li guardò con un sorriso incerto, il suo viso si trasformò come per incanto.
Wexford presentò se stesso e il collega, spiegando che si erano già visti al museo. La sua sorpresa per la visita di due poliziotti inglesi pareva assolutamente sincera. Era stupita, ma non preoccupata, a quanto pareva. «Si tratta di qualcosa che riguarda il museo?» domandò col suo inglese un po' stentato. «No, mademoiselle» ammise subito Wexford. «Devo confessare che non ho mai nemmeno sentito parlare della Fondation Yeuse fino a stamane. Lavorate là da tanto tempo?» «Da quando ho lasciato l'università... cioè da diciotto anni. Monsieur Raoul Yeuse, il mercante d'arte parigino, era il marito della sorella di mio padre. È stato lui a fondare il museo. Ma scusatemi, credo che il mio inglese non sia davvero perfetto!» «Siete voi che dovete scusarci perché non sappiano una parola di francese. Ma possiamo entrare, mademoiselle Lerèmy? Ho qualcosa da dirvi.» Sapeva già? La scoperta di un cadavere qualsiasi nel magazzino di un'impresa di traslochi non era certo notizia da prima pagina, per i giornali francesi, né tale da dedicarvi, nel migliore dei casi, più di tre o quattro righe. Gli occhi scuri della nipote di Camargue sembravano sinceramente interrogativi e innocenti. Mademoiselle Lerèmy guidò i visitatori in un'ampia stanza dal soffitto altissimo, con una portafinestra che si apriva su una terrazza. Dal lato posteriore della Maison du Cirque si vedeva l'anello verde dell'anfiteatro e si sentivano tutti i profumi delle pendici erbose, ma la casa era vecchia e trascurata e di gran lunga troppo grande per una donna sola. Thérèse ora era diventata pallida. «Non sarete venuti a portarmi cattive notizie, spero!» Girò lo sguardo dall'uno all'altro, con palese ansia crescente che Wexford non stentava a capire. Lasciò che fosse Burden a rispondere. «Notizie molto gravi, ma che non riguardano voi personalmente, signorina Lerèmy. Non eravate in rapporti molto intimi con vostra cugina Natalie Camargue, vero?» Lei scosse la testa. «Era sposata, ma non ho mai nemmeno saputo come si chiamasse suo marito. Ci siamo viste l'ultima volta quando lei aveva sedici anni e io diciassette...» «Be'... ora è... morta. Per dirla tutta, è stata uccisa, come è stato ucciso vostro zio e noi siamo qui appunto per fare indagini sui due delitti. Pare che siano stati opera della stessa persona. Per denaro.» La donna si portò entrambe le mani al viso, tirandosi un po' indietro.
«Ma è terribile!» Wexford aveva deciso di non dirle quanto avesse lei stessa da guadagnare da quelle morti. Ci avrebbe pensato Kenneth Ames. Se quel che pensava era vero, avrebbe avuto bisogno di consolazione, povera Thérèse! E ora doveva proprio tirare in ballo quell'argomento. Strano come una volta tanto si sentisse molto vicino a sperare di essersi sbagliato! L'angoscia di mademoiselle Lerèmy sembrava assolutamente sincera: il suo viso era contratto, l'alta fronte convessa era tutto un ammasso di rughe. «Mi dispiace tanto, è una notizia spaventosa!» «Mademoiselle Lerèmy...» «Da piccola, li vedevo spesso, passavo lunghi periodi a casa loro, nel Sussex. Natalie era simpaticissima, sempre allegra, con un gran senso dell'humour. Ah, è diventato un gran brutto posto questo mondo, signore, se possono accadervi cose simili! Ma perdonatemi, non dovrei dire signore tanto spesso, vero? Sto imparandolo ora...» Quelle parole diedero a Wexford l'emozione di sapere che aveva visto giusto, ma gli diedero anche un vago senso di nausea. Doveva chiederglielo? Burden lo guardava fisso. In quella squillò il telefono. «Scusatemi, vi prego.» L'apparecchio era lì in quella stessa stanza, vicino a una finestra. Thérèse afferrò il ricevitore con fretta un po' eccessiva e l'effetto che la voce del suo interlocutore ebbe su di lei fu persino pietoso a vedersi. Arrossì violentemente e, chissà come, fu chiaro che si trattava di un rossore provocato da un intenso piacere, oltre che dall'imbarazzo. «Oh, Jean...» sussurrò la ragazza in inglese. «Ci vediamo ancora stasera? Ma certo che va bene, d'accordo.» Poi, probabilmente a beneficio dei visitatori, si sforzò di ristabilire un certo formalismo. «Sarà un piacere rivederti.» Era ancora lì, dunque; era lui che le telefonava. Ma dov'era? Thérèse voltava le spalle ai due inglesi, ora. «Bene, quando smonti, d'accord. Vengo a prenderti alle dieci.» Passò improvvisamente a un francese rapidissimo e Wexford non capì più una parola. Ma capiva lei. Aveva parlato in inglese con uno che parlava francese per far capire ai suoi ospiti che anche lei aveva un ragazzo, un innamorato. Nonostante il viso deturpato, la persona insignificante, l'età e quell'oscuro lavoro in una città morta, aveva un innamorato da sbandierare davanti al mondo. Posò il microfono dopo altre poche parole sussurrate e una trillante risa-
tina. Wexford, già in piedi, fece un cenno del capo a Burden. «Non volevate rivolgermi qualche domanda a proposito di mio zio e di mia cugina Natalie?» domandò stupita la signorina Lerèmy. «Non è più necessario, mademoiselle.» Il tassista si era addormentato. Wexford lo svegliò piantandogli le dita nelle costole. «La Rose Blanche, s'il vous plaît.» Il sole era tramontato lasciandosi dietro lunghe ombre violette e un caldo aroma che profumava l'aria. «Lavora proprio in fretta, il nostro amico» osservò Burden. «Non avrebbe potuto trovare materiale più ricettivo e malleabile.» «Povera figliola! Una bella disgrazia, un viso come quello. Pensi che lui lo sapesse prima di venire qui? La vera Natalie probabilmente lo sapeva, ma Tessa probabilmente no. A meno che non lo avesse appreso per caso insieme a tutte le altre informazioni spicciole a Santa Xavierita.» «Forse lo sapeva la signora Woodhouse. In ogni caso, lui sapeva che mademoiselle Lerèmy non era sposata, che era diventata la legittima erede e che lavorava qui al museo. Non deve essere stato difficile trovare il modo di avvicinarla.» «Un po' più che avvicinarla, direi!» «Speriamo che non abbia fatto ancora molta strada» mormorò Wexford. «Senza dubbio ha intenzione di sposarla.» «Presumibilmente aveva intenzione di sposare quell'altra, ma poi lei lo ha respinto e per questo l'ha uccisa.» Burden sembrò felice di ottenere dal collega un cenno di approvazione. «E dopo il delitto, saputo chi era l'erede successiva, si è precipitato qui. Ma c'è qualcosa che non quadra. Nascondendo il cadavere in quel cassone, doveva avere in mente di tenere celata la morte di Natalie per mesi, forse per anni, ma il paradosso è che finché non fosse stato scoperto il cadavere, il decesso non sarebbe stato accertato e Thérèse Lerèmy non avrebbe ereditato un bottone.» Wexford lo guardò socchiudendo un po' gli occhi. «Supponiamo che, in qualche maniera che solamente lui sapeva, intendesse provare che la donna affogata a Santa Xavierita nel 1976 non era Tessa Lanchester ma Natalie Arno? In tal caso Thérèse Lerèmy sarebbe diventata ipso facto la legittima erede, anzi sarebbe stata padrona di Sterries e dell'intero patrimonio di Camargue fino dal giorno della morte di sir Manuel.» «Pensi davvero che possa essere così?» «No, per essere sincero. Troppo audace, troppo rischioso e troppo irto di
problemi. Penso che il suo piano sia stato un altro. Non voleva che il cadavere fosse scoperto subito perché, se poi avesse cominciato a corteggiare Thérèse, anche una donna disperata come lei avrebbe pensato che lo facesse per il suo denaro. Però voleva che lo si ritrovasse in un futuro non troppo lontano, altrimenti perché l'avrebbe sposata? Un cadavere che viene scoperto in un deposito di mobili diciamo sei o sette mesi dopo le nozze era dunque l'ideale. E se la scoperta avesse tardato troppo, ci sarebbe sempre stata la soluzione di una lettera anonima alla polizia.» «È vero» convenne Burden. «Senza contare che non ci sarebbe stato alcun modo di collegare lui col delitto. Se tu non fossi andato in California, noi stessi non avremmo nemmeno saputo che quel tizio esisteva.» In albergo, quando stavano per rientrare ognuno in camera propria a rinfrescarsi un poco per la cena, Burden pregò il collega di fermarsi un attimo da lui. Wexford sedette sul letto. Dalla finestra non si vedeva la piazza con la fontana ma un complicato mosaico di tetti contro il fondale delle mura. «Volevo chiederti una cosa» disse Burden. «Di quale reato potremo accusare tutti quegli altri, Williams, gli Zoffany, Mary Woodhouse... Complicità, d'accordo, ma non complicità in omicidio, penso!» Wexford rifletté un attimo, poi fece una risatina sommessa. «Non li accuseremo proprio di niente.» «Vuoi dire che quanto potrebbero dire sarà molto più utile come testimonianza d'accusa?» «Nemmeno. Non credo che potrebbero essere della minima utilità come testi. Nessuno ha visto niente e nessuno ha fatto niente. A mio giudizio, non abbiamo niente per sostenere la benché minima accusa a loro carico, salvo forse quella, molto aleatoria, di adulterio a carico di Ivan Zoffany.» Wexford fece una pausa, prima di aggiungere: «La ricostruzione del caso che tu hai fatto là all'anfiteatro... Non ti rendi conto che non si regge in piedi?» «Manca di logica, dici? Be', forse in qualche punto, ma ci sono aspetti che non chiariremo mai.» Wexford scrollò la testa. «Non è che manchi di logica, proprio non si regge in piedi. Ti sembra possibile che abbiano ucciso Natalie nel 1976, che Tessa abbia preso il suo posto e che poi non si siano preoccupati di andare in Inghilterra per accertarsi che Natalie fosse veramente l'erede di Camargue e quindi ucciderlo?» «Be', sì, lo so, questo è un po' un inciampo, e l'ho anche detto.» «Non è soltanto un inciampo, Mike, è una barriera insormontabile. Ri-
fletti su ciò che tu e io pensavamo che avessero fatto. Tornare a Los Angeles, correre il rischio di essere sospettati dai vicini, messi in piazza da Ilbert... sistemarsi nella città per loro più pericolosa del mondo, e per che cosa?» «Ma lei sarà rimasta là per vendere la casa di Natalie, no?» «E non è riuscita a venderla! No, tre anni e mezzo di attesa fra l'uccisione di Natalie e quella di Camargue sono più di quanto io possa mandar giù. Potrei trovare un unico, esilissimo motivo per una cosa del genere: che aspettassero che Camargue morisse di morte naturale. Ma come ho detto è un motivo molto esile. Avrebbe potuto campare ancora dieci anni! Bene, ti lascio a farti bello. Vado anch'io a darmi una spazzolata. Laquin non sarà qui prima delle sette.» Si ritrovarono al bar dove ordinarono due birre. Poi Wexford tornò sull'argomento. «Secondo te, Tessa si sarebbe decisa finalmente ad andare in Inghilterra perché, attraverso la cognata di Zoffany, avrebbe saputo che Camargue stava per risposarsi. Ma non ti sembra un'ipotesi un po' azzardata supporre che la sorella di Jane Zoffany abbia potuto saperlo soltanto perché vive in un paese vicino alla Kathleen Camargue School?» «No, se aveva avuto dagli altri l'incarico di badare a Camargue.» Wexford si strinse nelle spalle. «Gli altri, certo. Dovevano essere almeno in cinque. La protagonista e il suo amico, gli Zoffany e la sorella di Jane. Cinque complici alla caccia del patrimonio di Camargue, giusto?» «Sì, come punto di partenza» convenne Burden. «Ma alla fine dovevano essere otto o nove.» «Mary Woodhouse per dare a Tessa altre istruzioni particolareggiate, Mavis Rolland per identificarla come una sua ex allieva e il dentista Williams.» Wexford scosse lievemente la testa. «Ti ho detto che mi stupiva la loro pazienza, Mike, ma quello sarebbe stato niente a paragone di tutte le fatiche cui si sarebbero sobbarcati. Tutti quei complici indotti a mentire, a tradire o a vendere la propria integrità professionale. Tessa che studia vecchi esemplari della grafia di Natalie, che si fa fare uno stampo della dentatura, che prende lezioni di francese e di spagnolo per perfezionare le sue conoscenze scolastiche (anche se trascura di imparare l'italiano), mentre uno degli altri studia il terreno intorno a Sterries e le abitudini di Camargue e la cognata di Zoffany manda a Los Angeles dispacci degni di un agente segreto. Ah, e non dimentichiamo Jane Zoffany che induce i suoi vicini a fornire falsi alibi. E tutto questo sarebbe stato avviato e tenuto inces-
santemente in moto con la speranza di arrivare a mettere le mani su una casa nemmeno tanto grande con un acro di terreno intorno e un patrimonio del quale si ignora l'ammontare che dovrà comunque essere diviso, quando sarà il momento, fra otto persone. Scusami, ma più ci penso e meno riesco a vederlo. Non riesco a capire perché mai avrebbero scelto Camargue come preda. Perché non prendere di mira qualche pezzo grosso dell'industria o della finanza? Perché non qualche petroliere miliardario americano? Perché scegliere un vecchio musicista che in confronto era un poveretto?» «Perché era capitata loro a tiro sua figlia, suppongo» azzardò Burden, senza troppa convinzione. «E comunque non abbiamo molta scelta. Sappiamo che c'è stato un complotto, sappiamo che c'è stato un piano elaborato ed è inevitabile concludere che è impossibile capire a fondo i motivi che fanno agire gli uomini.» «Ma davvero non abbiamo scelta? Mi hai detto che ero ossessionato, Mike, ma credo che a ossessionarmi sia stata soprattutto la complessità del caso, la mente contorta della protagonista, l'astuta sottigliezza della rete che aveva intessuta. Soltanto quando ho capito quanto mi fossi sbagliato a questo riguardo, le cose hanno cominciato ad apparirmi chiare.» «Non ti seguo.» Wexford sorseggiò la sua birra. «Soltanto allora» riprese soppesando le parole «ho cominciato a capire che questo caso non era affatto complicato, che non c'erano state deviazioni mentali, non complotti, non piani a lunga scadenza, nessuna cospirazione, insomma, e che persino i due delitti apparivano più spontanei che non premeditati.» Si alzò di scatto, spingendo indietro la sedia. All'ingresso era apparso il commissario Mario Laquin, delle Compagnies Republicaines de Sécurité di Grasse, che si guardava in giro alla ricerca di qualcuno. Wexford alzò una mano, mentre diceva a Burden con aria un po' svagata: «La complessità era soltanto nella nostra mente, Mike. Il caso era semplice e lineare e quasi tutto ciò che era accaduto, era accaduto per caso o per combinazione.» Era stato un colpo di fortuna per Wexford che proprio Laquin fosse stato trasferito a Grasse da Marsiglia circa sei mesi prima, perché in passato aveva già avuto occasione di collaborare con lui in un paio di casi e i due poliziotti con le rispettive mogli si erano visti più volte quando i coniugi Laquin erano stati in vacanza a Londra. L'ispettore non si aspettava tuttavia che il commissario lo stringesse entusiasticamente fra le braccia, baciandolo sulle guance, mentre Burden restava a guardarli incantato, sfor-
zandosi invano di apparire ironico. Laquin parlava un inglese quasi perfetto. «Scegli posti veramente affascinanti per le tue indagini, mio caro Reg! Un uccellino mi ha detto che ti sei già fatto due settimane in California. Vorrei essere anch'io tanto fortunato! L'anno passato, quando davo la caccia a Honorat de L'Esponge, sai dove sono capitato, invece? A Dusseldorf, pensa un po'!» «Bevi qualcosa? È un piacere rivederti! Non ho la più pallida idea di dove si trovi il nostro amico né so come si faccia chiamare al momento.» «E nemmeno che aspetto abbia, se è per questo» aggiunse Burden rincarando la dose. «Io lo so che aspetto ha» ribatté Wexford. «L'ho visto.» Il collega lo guardò sorpreso, ma lui fece finta di niente e ordinò da bere per tutti. «Resterai a cena con noi, naturalmente» riprese poi rivolgendosi a Laquin. «Ah, con immenso piacere. Si mangia benissimo, qui.» Wexford fece un sorrisino. «E probabilmente non saremo più qui per godercelo domani. Penso che dovremo portare il nostro amico alla Maison du Cirque, in quella casa semidiroccata dove abita la signorina Lerèmy.» «Reg, lo conosce al massimo da una settimana!» «Basta anche meno per infettarsi... Ma hai ragione, naturalmente.» «Buon per lei che glielo stiamo levando d'attorno» osservò Burden. «Un paio d'anni e avrebbe fatto fuori anche lei.» «Ha detto che lavora qui...» «Da quando l'Inghilterra è entrata nella CEE, Reg, i tuoi connazionali non hanno bisogno più di iscrizioni né di permessi di lavoro, perciò sarebbe un'impresa lunga e difficile rintracciarlo. Ma poiché sappiamo che prima o poi, stasera, andrà alla Maison du Cirque...» «Ma sì, certo! Sto diventando sentimentale, Mario, sono uno sciocco!» Wexford fece una risatina amara. «Ma non tanto sciocco da mettere in guardia la ragazza e correre il rischio che l'amico salti sul primo aereo in partenza per la Svizzera!» Cenarono con bouillabaisse e cassoulet con brie, seguiti da un ottimo Armagnac, ma quand'ebbero finito erano soltanto le nove, mentre Laquin e Wexford avevano deciso di aspettare le dieci e mezzo prima di recarsi alla casa vicina all'anfiteatro. Laquin suggerì di andare in un posto che conosceva lui, dall'altra parte della Place aux Eaux Vives dove qualche volta si
ballava il flamenco. Ma quella sera non si ballava il flamenco, a La Mancha. Una ragazza esile, vestita di nero, cantava alla maniera di Edith Piaf e dopo qualche momento i tre se ne tornarono via e andarono a sedere a un caffè all'aperto dal quale si vedevano le mura della città, parte romane e parte medievali, illuminate da una luna enorme, dorata e piatta come un mandarino. Ed erano soltanto le nove e mezzo. Davanti a loro passavano frotte di adolescenti, diretti, disse Laquin, a una discoteca di Place de la Croix. Wexford si domandò se Camargue, tanti anni prima, si fosse mai seduto lì dov'erano loro adesso, se la donna morta, quand'era bambina... Erano quasi le dieci. Da qualche parte, a St Jean, una ragazza a bordo di una piccola Citroën verde stava andando incontro a un uomo. La grossa Opel color senape era certo rimasta al parcheggio di Heathrow. Wexford avvertì un'improvvisa tensione di tutto il suo essere ma si sentì sollevato quando Laquin, alzandosi, disse che era l'ora di muoversi. Lungo lo stretto viale serpeggiante, altri ragazzi e ragazze li sorpassarono. Wexford udì la musica molto prima che raggiungessero la Place aux Eaux Vives. Una serenata di Mozart. La serenata del Don Giovanni, gli parve, che avrebbe dovuto essere suonata da un mandolino. Dopo l'ultima svolta del viale, si trovarono nell'ampia piazza dove un folto gruppo di ragazze, probabilmente avviate anch'esse verso la discoteca, si era radunato nelle file più alte di una gradinata ad anfiteatro, intorno a un tizio che, seduto alla sommità della gradinata stessa, suonava la chitarra. Sembravano giovani ninfe bramose e adoranti attorno al plinto della statua di qualche celebre musico. L'uomo adesso era passato a un motivo latino-americano, ma non degnava di uno sguardo le sue ammiratrici: teneva d'occhio la piazza, come se aspettasse l'arrivo di qualcuno. «È lui» sussurrò Wexford. «Sei certo?» domandò Laquin. «Nel modo più assoluto. L'ho visto una volta sola, ma lo riconoscerei fra mille.» «Ma lo conosco anch'io!» esclamò Burden in tono incredulo. «L'ho già visto da qualche parte, non saprei dire dove, ma non ho alcun dubbio di averlo già visto.» «Andiamo.» La piccola Citroen verde stava svoltando nella piazza e il chitarrista l'aveva già vista. Strappò al suo strumento un ultimo estroso accordo e balzò
giù dal suo posatoio, buttando quasi a terra una ragazza. Non girò nemmeno la testa a guardarla, men che meno a chiederle scusa, era troppo occupato a sventolare una mano in direzione dell'auto. Poi vide i tre poliziotti, li riconobbe immediatamente per quel che erano e il braccio gli ricadde lungo il fianco. Era alto e magro, sotto i quaranta, scuro di pelle e con capelli neri e ricciuti. Wexford proibì a se stesso di girare la testa a guardare la ragazza che si precipitava fuori dell'auto. «John Fassbender, è mio dovere avvertirvi che tutto quello che direte potrà essere usato come prova contro di voi...» 22 Erano di nuovo al Pearl of Africa, per quella che Wexford aveva definito una colazione celebrativa. Non era davvero il caso di impietosirsi per Fassbender, aveva detto, quasi ci fosse bisogno di giustificarsi, e Burden aveva ribattuto che si sarebbe dovuto chiamarla piuttosto colazione esplicativa, visto che c'erano ancora tante cose che lui non aveva capito. Fuori pioveva di nuovo a dirotto e Wexford ordinò una bottiglia di vino vero, un buon Riesling o qualcosa del genere, non una delle solite acque vive del lago Victoria che il signor Haq vantava tanto. Avevano acquisito abitudini sibaritiche durante il loro breve soggiorno in Francia. «Parlavi sul serio quando hai detto che non c'è stato alcun complotto?» «Ma certo» asserì Wexford. «E se ne avessimo avuto il tempo, allora, ti avrei detto dell'altro, qualcosa di cui mi ero reso conto ancora prima che partissimo per la Francia. La donna che abbiamo conosciuto come Natalie Arno, quella che Fassbender ha ucciso, non era Tessa Lanchester. Tessa Lanchester morì affogata a Santa Xavierita nel 1976 e non abbiamo alcun motivo per credere che Natalie o Fassbender l'avessero mai nemmeno incontrata. La donna che è venuta a Londra nel novembre scorso, c'è venuta unicamente perché a Londra c'era Fassbender. Ne era innamorata e lui, espulso per ben due volte dagli Stati Uniti, non poteva più tornarvi in alcun modo.» «E come ha potuto essere espulso due volte?» domandò Burden stupito. «Me lo chiedevo anch'io, finché non ho pensato a una doppia nazionalità e allora è diventato tutto di una semplicità elementare. Mi ero domandato se Natalie avesse avuto due amanti, uno inglese e uno svizzero, perché si era fatta una gran confusione a quel proposito. Chi diceva che era inglese, chi sosteneva che era svizzero, chi affermava che parlava francese, o fran-
cese con l'accento svizzero. Era stato rimandato a Londra. No, era stato rimandato a Ginevra, ma questo te lo spiegherò dopo. Per ora basti dire che soltanto dopo la seconda espulsione lei lo seguì a Londra.» Wexford s'interruppe. Il signor Haq, raggiante, con tutti i denti candidissimi in mostra, stava portando il vino, un médoc bianco dall'aria molto rispettabile. Ne versò un assaggio a Wexford che l'assaporò con molta attenzione. Altre volte aveva detto che avrebbe preferito rovinarsi il fegato piuttosto che offendere a morte il signor Haq rimandando indietro una bottiglia, ma stavolta doveva riconoscere che l'unico neo di quel vino era quello di avere una temperatura di almeno venticinque gradi. «Eccellente» mormorò a beneficio del signor Haq, ma si trattenne a stento dell'aggiungere: «Ottimo e tiepido.» Il signor Haq trotterellò via felice e l'ispettore riprese: «Lei aveva avuto una breve storia con Zoffany durante la prima assenza di Fassbender, ma immagino che fosse stata soltanto una conseguenza della solitudine e se ne scordò non appena Zoffany fu partito. Tuttavia i due continuarono a scriversi e quando lei ebbe bisogno di una casa a Londra, lui le offrì la propria. Non ti ho detto che era tutto molto semplice e naturale? «A Londra» proseguì Wexford «lei si rese conto che Zoffany era innamorato cotto e che sperava di poter riprendere la relazione (per dirla con Jane Zoffany) dal punto in cui l'avevano lasciata un anno e mezzo avanti. Ma lei non ne aveva la minima intenzione, non le importava niente di Zoffany, sotto quell'aspetto. Però questo complicava le cose. Se avesse portato Fassbender a vivere là con lei, probabilmente la gelosia avrebbe indotto Ivan a buttarli fuori tutte due e d'altro canto lei non poteva andare a vivere con Fassbender che abitava in una sola stanza. Non restava altro da fare che tenere Fassbender discretamente nell'ombra finché lui non avesse avuto un lavoro sicuro e non avesse messo insieme un po' di denaro che avesse consentito loro di mandare a quel paese Zoffany e andare a vivere insieme. Sappiamo che Fassbender cercava lavoro perché lei si era rivolta a Blaise Cory con la speranza che potesse trovargli un posto. Zoffany dunque non seppe mai dell'esistenza di Fassbender finché non la udì parlargli al telefono il mese scorso.» «Non posso dirlo con certezza» riprese Wexford dopo una breve pausa «ma suppongo che lei non avesse alcuna fretta di mettersi in contatto con Camargue. Probabilmente non pensava neppure al padre. Fu soltanto l'annuncio del suo fidanzamento che l'indusse a farlo. Ma non vi furono piani complicati a quel riguardo, nessun problema riguardante la grafia o lo stile
della lettera, nessun esame della stessa da parte, diciamo, della signora Woodhouse...» Haq junior arrivò con la prima portata: gamberetti Pakwach, un pasticcio color rosa shocking nel quale Burden affondò coraggiosamente il cucchiaio prima di osservare: «Si sarebbe dovuto farlo. Può darsi che non si arrivi mai a scoprire la vera identità della donna rinvenuta in quel cassone, ma sappiamo benissimo che era un'impostora e una bugiarda.» «Ma la vera identità di quella donna la conosciamo benissimo» ribatté Wexford. «Era Natalie Arno, o Natalie Camargue, unica figlia ed erede di sir Manuel.» Versando il vino a entrambi, il signor Haq illustrava con espressioni fiorite le sue pietanze migliori: caneton Kioga, ossia petti di anatra selvatica marinati in una salsa deliziosa a base di vino, panna e basilico, supertenere bistecche flambées... «Portateci un po' di quella maledetta anatra» l'interruppe seccamente Burden, ma per fortuna le sue parole andarono perdute per il signor Haq, intento com'era ad ascoltare Wexford che stava invece riguardosamente ordinandogli due porzioni di caneton. «Non ti capisco» disse Burden non appena il signor Haq si fu allontanato. «Vuoi dire che la donna che Camargue ritenne un'impostora, la donna che si tagliò deliberatamente i polpastrelli per non dover suonare il violino, quella della quale sei andato a cercare i precedenti fino in California, era proprio la figlia di Camargue? E noi ci siamo sbagliati? Abbiamo avuto torto, mentre hanno avuto ragione tutti gli altri, Ames, Williams, Mary Rolland, la signora Woodhouse, Philip Cory? E si era sbagliato anche Camargue? Un povero vecchio mezzo cieco che aveva semplicemente preso un granchio?» «Non ho detto questo. Ho soltanto detto che Natalie Arno era Natalie Arno. Ma Camargue non si era sbagliato affatto. Siamo stati terribilmente sciocchi, Mike, tu, io, Ames, Dinah Sternhold. Nessuno di noi ha intuito la semplice verità, e cioè che sebbene la donna che andò da Camargue non fosse sua figlia, non lo fu, se posso esprimermi così, soltanto per un giorno.» «Vedi» riprese Wexford «era stata creata un'illusione, come si potrebbe fare con un trucco astutissimo. Solo che il trucco lo abbiamo fatto a noi stessi. Dinah Sternhold mi ha raccontato che secondo Camargue la donna
che era andata a fargli visita non era sua figlia. E io, come te, come Dinah, come tutti gli altri, sono saltato alla conclusione che dunque la donna che conoscevamo come Natalie Arno non era la figlia di Camargue. Nessuno di noi ha pensato che sir Manuel poteva avere avuto ragione e che tuttavia Natalie Arno poteva essere veramente sua figlia. Nessuno ha pensato che la donna vista da lui poteva non essere quella che si dichiarava sua erede e che viveva nella sua casa.» «Cioè che non era Natalie quella che era andata da lui quel giorno, ma era proprio Natalie prima e dopo?» Burden aveva l'espressione di uno che si rende conto di essere stato ingannato grazie a uno stratagemma indegno della sua intelligenza. «È questo che intendi dire?» «Esatto. Posso anche ammetterlo ormai Natalie non era la carogna che io avevo creduto. La sua perfidia, la sua tortuosità erano soltanto frutto della mia immaginazione. Oh, intendiamoci, non che fosse un angelo del cielo. Anche se probabilmente non ha avuto mano nell'uccisione di suo padre, l'ha poi tranquillamente accettata e non ha avuto alcuno scrupolo a prendersi l'eredità guadagnata con quel mezzo. Né ha mai avuto alcuno scrupolo ad appropriarsi dei mariti di altre donne, su basi permanenti o temporanee che fossero. Non era un modello di virtù, ma nemmeno una Messalina. Perché dunque sono stato indotto a crederlo? Soprattutto, mi vergogno ad ammetterlo, perché me lo aveva detto Dinah Sternhold. «Ora» continuò Wexford «Dinah Sternhold è una cara ragazza e se mi ha fatto un quadro negativo di Natalie ancor prima che la conoscessi, sono certo che lo ha fatto inconsciamente. Il punto è, capisci, che per incredibile che possa sembrare, era sinceramente innamorata di quel vecchio. Avrebbe potuto essere suo nonno, ma lei lo amava come se avesse cinquant'anni di meno. Hai mai notato che gli esseri più dolorosamente gelosi sono proprio quelli che sostengono di non sapere che cos'è la gelosia? È proprio ciò che Dinah ha detto a me. Era terribilmente gelosa di Natalie e probabilmente con giusta ragione perché, sposando lei, Camargue cercava forse di ritrovare la figlia perduta. Dunque, come si sarà sentita quando quella figlia è ricomparsa? Dinah era gelosa e nella sua gelosia, del tutto inconsciamente, senza cattiveria, mi dipinse Natalie come un'avventuriera senza scrupoli e mi presentò il racconto di Camargue sotto un'angolazione che la fece apparire al primo colpo come un'impostora.» «Vorrei sentire la tua versione di quella visita» disse Burden. Wexford annuì. Era arrivata l'anatra, modestamente velata da una salsa scura e densa. Wexford l'assaggiò e fece un lieve cenno d'approvazione.
«Natalie» riprese dopo qualche momento «non fu in grado di mantenere il primo appuntamento fissato col padre. Nel frattempo le era accaduta una cosa molto inquietante. Si era scoperta un nodulo al seno.» «Come lo sai?» «L'esame necroscopico ha rivelato la piccola cicatrice della biopsia. Natalie andò dal suo medico che la mandò immediatamente al Guy's Hospital, proprio il giorno in cui lei aveva fissato di andare a Sterries. «Non volle parlarne al padre per telefono, e posso capirlo, date le circostanze, così mandò Jane Zoffany al proprio posto. Debbo aggiungere che Natalie era per natura una schiavista e che Jane Zoffany è una schiava nata? «Bene» continuò l'ispettore «dunque Jane fece la seconda telefonata e fissò un nuovo appuntamento per il giorno 19. Natalie andò all'ospedale ma non seppero dirle se il nodulo era maligno o no, perciò dovette farsi ricoverare per una biopsia. Ora, abbiamo tutti paura del cancro, ma Natalie aveva ottimi motivi per averne paura più di tutti. Aveva visto il suo giovane marito morire di leucemia, che è una forma di cancro, la sua amica Tina era morta di cancro ma, più traumatico di tutto, sua madre era morta di quel male e ne era morta, si era insinuato, proprio per colpa sua e proprio quando aveva appena qualche anno più di quanti ne aveva Natalie. C'è da stupirsi se la poverina era terrorizzata?» Wexford fece una breve pausa prima di proseguire. «Il ricovero fu fissato per il 17 gennaio e questo significava che lei non avrebbe potuto andare a Sterries il 19. Ma suppongo che a quel punto, Natalie non se ne preoccupasse più. L'unica cosa di cui si preoccupava era di accertarsi che non si trattava di cancro, che la sua splendida figura non fosse deturpata, che lei non dovesse vivere per il resto dei suoi giorni col terrore di una metastasi e di una morte prematura. Del vecchio Camargue avrebbe potuto occuparsi Jane Zoffany, scrivergli, telefonargli o mandargli un telegramma.» Burden, che stava fissando il suo piatto vuoto, alzò di scatto la testa. «Vuoi dire che era Jane Zoffany la donna che è andata a Sterries quel giorno?» Wexford annuì. «E chi altri?» «Anche lei è esile, bruna e all'incirca dell'età giusta... Ma perché? Perché farsi passare per Natalie? A quale scopo?» «Non è stata una cosa premeditata. Non ti ho appena detto che quasi niente in questo caso è stato programmato o premeditato? È stata soltanto una stupida alzata d'ingegno tipica di Jane Zoffany. E mi ci sono voluti
mesi per arrivarci! Penso di avere avuto un sospetto della verità quel giorno di pioggia quando, nel giardino di Sterries, Dinah Sternhold mi fece notare quanto fosse strano che Natalie avesse potuto indurre gli avvocati e i vecchi amici di Camargue a credere in lei mentre proprio lui, che desiderava credere, che anelava di credere, pur avendola vista una sola volta non aveva creduto in lei per più di mezz'ora. E quando Jane Zoffany mi raccontò come la polizia l'avesse scambiata per sua sorella e poi tacque di botto portandosi una mano alla bocca... allora capii, non ebbi più bisogno di altro.» «Ma ti ha detto altro?» «Certamente. Ho parlato con lei, ieri sera, e ha riempito tutte le lacune.» «Come mai decise di andare a Sterries?» «Per due motivi. Primo, desiderava conoscere di persona Camargue del quale era sempre stata una grande ammiratrice, secondo, non voleva che si sentisse deluso. Sapeva che se si fosse limitata a telefonargli per dirgli che Natalie doveva andare ancora in ospedale, lui avrebbe pensato che sua figlia accampava delle scuse per rimangiarsi la promessa di vederlo e ne sarebbe stato profondamente addolorato. Natalie lo aveva ignorato per diciannove anni e adesso che era tornata e la riconciliazione sembrava vicina, non si poteva liquidarlo con una semplice telefonata... per la seconda volta. Così Jane decise di andare a parlargli di persona. Ma naturalmente non pensava affatto di farsi passare per Natalie, un'idea simile non le era mai nemmeno frullata per la testa. Il fatto è che Jane è una povera sciocca confusionaria e mentalmente instabile.» «Vuoi dire che andò laggiù soltanto perché le sembrava più carino andarci di persona invece di limitarsi a telefonare? Per spiegargli perché Natalie non poteva tener fede all'appuntamento e rassicurarlo sui sentimenti della figlia?» «Qualcosa del genere. E anche per conoscere l'uomo che era stato acclamato come il più grande flautista del mondo. Fu lo stesso Camargue a scambiarla per Natalie, proprio lui che fu poi il primo a sollevare ogni dubbio sulla sua identità e a dare il via a tutta questa storia. La scambiò per Natalie perché era Natalie che si aspettava di vedere. Dopo diciannove anni di inutile attesa, aveva quasi perduto ogni speranza, ma le speranze si erano riaccese nelle ultime cinque settimane e ora lui era al massimo della tensione. Aprì la porta e abbracciò e baciò Jane prima che lei potesse aprir bocca. Jane tentò di dirgli che stava commettendo un errore? Camargue era sordo e in preda a una profonda emozione. A quanto mi ha confessato lei
stessa, Jane era così confusa e sbalordita che a tutta prima lo assecondò, mentre cercava di decidere che cosa fare. Era in preda a un terribile imbarazzo, mi ha detto, e non osava deluderlo. «Cercò di fargli piacere parlando del flauto d'oro di Cazzini (probabilmente gliene aveva parlato Natalie, ma in ogni caso c'era la targhetta che lo spiegava), ma non sapendo una parola d'italiano, sbagliò a pronunciare il nome. Quel che accadde in seguito lo sappiamo. Camargue l'accusò apertamente di essere un'impostora, ma non fu un sogno di sir Manuel, non fu uno scherzo della sua fantasia senile che l'impostora avesse confessato. Jane Zoffany ammise francamente ciò che da oltre mezz'ora desiderava ammettere ma non servì a niente. Camargue continuò a essere convinto che si trattasse di un complotto organizzato chissà da chi per impadronirsi dell'eredità di Natalie e la cacciò di casa. «E questo, Mike» concluse Wexford «è tutto quanto ci fu di vero nel cosiddetto complotto. Un malinteso durato poco più di mezz'ora fra una neuropatica animata dalle migliori intenzioni e un povero vecchio assetato di affetto.» Mentre Burden sperimentava una seconda volta il gelato Acqua del Nilo, Wexford si accontentò di un caffè. «Natalie» riprese poi «uscì dall'ospedale il 20 gennaio, tanto felice per avere saputo che il suo nodulo era benigno, che invece di arrabbiarsi per la bella trovata di Jane ci rise sopra. Come ho detto, aveva un vivissimo senso dello humour. Penso che dovette divertirsi moltissimo immaginando la scena: quella sciocca di Jane, confusa e disorientata, che confessava l'inganno e sir Manuel che la buttava fuori di casa. Che gliene importava, in fin dei conti? Non era malata di cancro, stava benone, il mondo era tutto suo e non ci sarebbe voluto molto per sistemare quella sciocchezza con suo padre. Le lasciassero soltanto il tempo di parlare con Blaise Cory e chiedergli se poteva trovare un lavoro per il suo Johnny, poi sarebbe andata lei a Sterries e avrebbe accomodato tutto. Ma prima che ne avesse il tempo, Camargue le scrisse che stava per fare un nuovo testamento e che l'avrebbe diseredata.» «E questo l'indusse a progettare di ucciderlo prima che potesse farlo» osservò Burden. «No, no, te l'ho già detto, non c'è stato nessun progetto. Anche dopo quella lettera, sono certo che Natalie era fiduciosa di poter accomodare tutto col padre. Non si preoccupava eccessivamente. Commise soltanto l'errore di parlarne a Fassbender. E probabilmente per la prima volta, Fassben-
der si rese conto che la sua donna era in realtà una ricca ereditiera.» «Perché dici per la prima volta?» «Perché se lo avesse saputo prima, l'avrebbe sposata quando erano in California, no? Che sarebbe anche stato un modo per evitare l'espulsione, dato che lei era cittadina americana. Allora, lei avrebbe accettato senza dubbio di sposarlo, perciò, se non l'hanno fatto, fu perché lui non vedeva quale vantaggio avrebbe potuto ricavarne. Ma ora lo vedeva e come! Vedeva la possibilità di godersi per il resto dei suoi giorni una vita comoda e tranquilla... se soltanto lei non fosse stata pigra e indolente al punto di rischiare di mandare tutto alla malora. «Quel sabato dunque» proseguì Wexford «Natalie andò a una festa con Jane Zoffany. Ma ci andò unicamente perché le piacevano le feste, le piaceva divertirsi, non per crearsi un alibi del quale non aveva alcun bisogno. E non sapeva, ne sono certo, che Fassbender fosse venuto a Kingsmarkham per dare un'occhiata alla casa e alle ricchezze cui Natalie sembrava tanto indifferente. Fu soltanto per un impulso improvviso di fronte a un'occasione insperata che Fassbender aggredì Camargue e lo spinse in acqua, sotto la coltre di ghiaccio.» Rimasero entrambi silenziosi per un momento, poi Burden domandò: «E dopo le disse che cosa aveva fatto?» «Immagino di sì. Comunque, lei lo seppe. All'inchiesta lo sapeva di certo, ma non so quanto gliene importasse. Era stata diciannove anni senza vedere Camargue né avere rapporti con lui, ma era pur sempre suo padre. Ma comunque fosse, certo non gliene importò tanto da indurla a liquidare Fassbender. Anzi, si potrebbe dire che gliene importava ben poco se accettò persino di correre un rischio considerevole per proteggerlo. Senza dubbio, ciò che quella morte le fruttava faceva molto comodo anche a lei. Aveva avuto una vita piuttosto difficile negli ultimi quattro anni, probabilmente aveva dovuto fare salti mortali per combinare il pranzo con la cena, ma ora aveva Sterries e una quantità di denaro e tutto andava per il meglio. Mi piace pensare che sia stata l'uccisione di Camargue ad avviare il processo di allontanamento di Natalie da Fassbender, ma di questo non abbiamo alcuna prova.» «Io continuo a non capire una cosa. Dal momento che era Natalie Arno, perché fare tante scene e fingere quasi di non esserlo? Oltre tutto correva un bel rischio. Avrebbe potuto rimetterci l'eredità!» «Non correva nessunissimo rischio. Se non fosse stata Natalie, si sarebbe forse potuto provarlo, ma dal momento che era Natalie, nessuno avreb-
be mai potuto provare il contrario.» «Ma perché, perché fare tutte quelle scene?» Burden non aveva mai posseduto molto senso dello humour e da qualche tempo pareva avere perduto anche quel poco, pensò Wexford. «Per divertimento, Mike» disse. «Puro e semplice spasso. Ma lo immagini quanto si sarà divertita? Oltre tutto allora non pensava certo che noi potessimo avere dei sospetti sulla morte di suo padre. Che danno poteva derivare a lei o a Fassbender da una commediola intesa a far supporre che fosse davvero l'impostora di cui aveva parlato Dinah Sternhold? E dev'essere stato terribilmente divertente per lei rispondere impeccabilmente alle insidiose domande di Cory e poi rimandarmi in alto mare tagliuzzandosi le dita con un pezzetto di vetro! «Devo ammettere che siamo stati idioti, io più degli altri» ammise Wexford. «Ho creduto veramente che un'impostora si sarebbe fatta sorprendere con la sua maestra proprio la mattina in cui sapeva che saremmo andati da lei? Ho creduto davvero alla straordinaria coincidenza di Mary Woodhouse che usciva da quella casa proprio mentre noi vi entravamo? Quanto si sarà divertita Natalie a chiedere alla sua vecchia governante di passare da lei a bere un caffè e poi a spedirla via nel momento stesso in cui la nostra auto si fermava davanti a casa sua! Oh, sì, un divertimento impagabile e quando le cose si fossero spinte troppo oltre le sarebbe bastata una visita al suo dentista per provare oltre ogni dubbio la propria identità. Perché Williams era davvero il suo dentista, un professionista integerrimo che aveva semplicemente l'abitudine di conservare in eterno le schede dei suoi clienti.» Wexford colse un'occhiata del signor Haq. «Prendi un caffè?» domandò a Burden. «No, grazie.» «Posso farmi portare il conto, allora.» Wexford fece un cenno al signor Haq che scivolò via in mezzo alla sua giungla di plastica. «Quando ebbe provato all'avvocato Ames la propria identità» riprese quindi l'ispettore «tutto filò liscio come l'olio. La prima cosa da fare era vendere Sterries, perché Fassbender non poteva farsi vedere troppo a Kingsmarkham. Ma credo che Natalie cominciasse già ad allontanarsi da lui. Forse si era resa conto che mentre si era ben guardato dallo sposarla in America, neppure per poter procurarsi a quel modo il diritto alla residenza legale, sembrava ansioso di sposarla ora che lei era diventata ricca. O forse aveva soltanto deciso che non c'era scopo a sposarsi. In fondo che cosa aveva avuto dal suo primo matrimonio? Qualche anno di tribolazioni e nove anni di vedo-
vanza. Perché sposarsi di nuovo adesso che era ricca e assolutamente indipendente? Be', è inutile fantasticarci sopra. Basterà dire che prima aveva desiderato sposare Fassbender ma ora aveva cambiato idea. Litigarono a questo proposito proprio la sera prima di partire insieme per le vacanze e, infuriato al vedersi defraudato della ricchezza per la quale aveva ucciso, per la quale era andato in prigione, Fassbender aggredì Natalie e le tagliò la gola.» «Poi» riprese Wexford dopo una breve pausa «mise il corpo nel cassone, che chiuse a chiave, sapendo che il giorno seguente l'impresa dei traslochi se lo sarebbe portato via. Quindi se ne andò a Heathrow con la Opel gialla e uno dei due biglietti di aereo comprati da Natalie qualche giorno avanti per la loro vacanza nel sud della Francia.» Pagò il conto, poi uscì con Burden nella High Street. Stava ricomparendo il sole, i marciapiedi cominciavano ad asciugarsi e le nubi si allontanavano velocemente all'orizzonte. Troppo velocemente per far sperare in un miglioramento duraturo. Il Kingsbrook tumultuava sotto il vecchio ponte di pietra come durante la piena invernale. Burden si chinò sopra il parapetto. «Tu conoscevi già Fassbender quando lo abbiamo beccato in Francia» mormorò. «È da tanto che volevo chiederti come mai. Non lo avevi visto in America, no?» «Certo che no. Era in Inghilterra da anni, ormai.» «Allora dove lo avevi visto?» «Qui. All'inizio di questo caso. In gennaio, subito dopo la morte di Camargue. È stato a Sterries anche lui, Mike, non lo ricordi?» «L'hai visto anche tu» insistette Wexford. «L'hai detto tu stesso.» «Sì, ma devo essermi sbagliato. Devo averlo confuso con qualcun altro. Come avrei potuto dimenticare un nome simile?» «Il padre di Fassbender» spiegò Wexford «era uno svizzero che viveva in Inghilterra senza avere mai avuto la cittadinanza inglese, perciò John Fassbender, nato in Inghilterra, aveva due nazionalità, svizzera e inglese, un fatto abbastanza comune. Ilbert lo fece espellere dagli Stati Uniti nel 1976 come cittadino inglese, ma in seguito niente gli impedì di rientrarvi come cittadino svizzero. E quando Romero lo rispedì via, tre anni dopo, fu rimandato in Svizzera, ma tornò ben presto qui. Probabilmente ci stava meglio. Forse gli piacevano di più le nostre prigioni.» «È un pregiudicato?» Wexford rise. «Per caso, non hai in tasca un dizionarietto tedesco?»
«Ma no, certo, chi mai va in giro con un dizionario in tasca?» «Vieni, allora, andiamo a cercare riparo. Sta per piovere di nuovo.» Trascinò Burden verso il centro commerciale. Le prime gocce di pioggia si schiacciarono sulla targa d'ottone dello studio legale Symonds, O'Brien e Ames e rigarono la vetrina dell'agenzia di viaggi dove faceva ancora bella mostra di sé il manifesto che invitava a visitare la California solatia. «Entra» disse Wexford spingendo la porta. Trovò il reparto dizionari, osservò per un attimo i volumi poi ne prese uno. «Cerca qui dentro» disse a Burden. «Non potrai ricordare dove hai visto Fassbender se prima non scopri che cosa significa il suo nome.» Burden posò il dizionario sul banco e cominciò a sfogliarlo. «Ecco qui: Fassbender, fabbricante di botti, barili eccetera...» «Allora?» «Cooper, bottaio!» Ebbe un attimo di esitazione poi riprese: «John Cooper, anni trentasei, Selden Road, Finsbury Park. Si era introdotto a Sterries la notte dopo l'inchiesta per la morte di Camargue.» Wexford rimise il dizionario sul suo scaffale. «Suo padre mutò il proprio nome in Cooper durante la guerra, quando Fassbender sarebbe suonato alquanto sgradito, e lui continuò a tenere il passaporto inglese a nome di Cooper e quello svizzero a nome di Fassbender» spiegò. «Il furto a Sterries fu l'unico complotto di tutta la vicenda, un rimedio disperato a una situazione che appariva loro disperata. Natalie si allarmò quando la signora MurrayBurgess disse a Muriel Hicks di avere visto un tipo sospetto aggirarsi per il parco di Sterries, una notte, aggiungendo che l'avrebbe riconosciuto fra mille se lo avesse rivisto. L'unica fortuna fu che la signora non rammentava esattamente in quale notte. Ma Natalie e Fassbender lo sapevano benissimo, naturalmente, era stata la notte dell'uccisione di Camargue. Perciò inscenarono una finta rapina. Natalie andò a dormire nella camera del padre non per stare lontano dall'infiammato Zoffany, ma per essere in un punto dal quale avrebbe potuto logicamente udire il rumore di un vetro infranto e scorgere il numero di targa del furgone.» «Doveva vederlo» precisò l'ispettore «per facilitare le nostre ricerche di Cooper e poter sfidare così la testimonianza della signora Murray-Burgess. Aveva visto un ladro, non un assassino. Così Cooper si fece quattro mesi di prigione, due glieli condonarono per buona condotta.» «Ecco dove l'avevo visto!» esclamò Burden. «Alla stazione di polizia, quando fu tratto in arresto.» «Per il furto di sei cucchiai d'argento. Vieni, andiamocene, ha smesso di
piovere.» Uscirono. Il sole era riapparso, trasformando le pozzanghere in specchi rilucenti. «Ma per ricorrere a uno stratagemma simile» osservò Burden, dubbioso «dovevano avere immaginato che la signora Murray-Burgess avrebbe parlato con noi di ciò che aveva visto, e questo può essere comprensibile, ma come hanno potuto immaginare che noi avremmo collegato la presenza di uno sconosciuto nel parco di Sterries in una notte non precisata con la morte accidentale di un povero vecchio?» «Non è stata immaginazione» precisò Wexford. «Natalie mi aveva visto, capisci?» «Ti aveva visto? Che vuoi dire?» «All'inchiesta. Tu hai detto, allora, che la gente avrebbe potuto pensare chissà che cosa, e avevi ragione. Qualcuno dovette dire a Natalie chi ero e tanto bastò. Io c'ero andato soltanto perché cercavo un posto dove stare al caldo, dato che alla stazione di polizia si era guastato l'impianto di riscaldamento, ma lei non poteva saperlo. Pensò che fossi là perché già allora avevo dei sospetti sulla morte di Camargue.» Burden scoppiò a ridere. «Bene» riprese Wexford «possiamo chiudere baracca e burattini, lo spettacolo è finito.» Sotto il sole ancora incerto, i due ispettori si avviarono verso la stazione di polizia. FINE