INGRID BLACK IL FOTOGRAFO (Dark Eye, 2004) PARTE PRIMA 1 Non ebbi nemmeno il tempo di dire: «Pronto». «Lei è Saxon», eso...
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INGRID BLACK IL FOTOGRAFO (Dark Eye, 2004) PARTE PRIMA 1 Non ebbi nemmeno il tempo di dire: «Pronto». «Lei è Saxon», esordì la persona all'altro capo del telefono. «Lo so, non c'è bisogno che sia lei a dirmelo.» «Immagino che non sappia con chi sta parlando...» Aveva un accento particolare, ma non avrei saputo riconoscerne la provenienza. «Mi lasci indovinare... Elvis Presley?» «Mi chiamo Felix.» «Oh, credevo di avere tre possibilità.» «Felix Berg. Forse ha sentito parlare di me.» «No.» «Sono un fotografo.» «Davvero?» Sospirai e diedi un'occhiata all'ora. Fuori, un altro giorno si trascinava pigramente verso la fine, senza che fossi riuscita a concludere nulla. Da qualche parte, in un'altra stanza del mio appartamento, un orologio ticchettava un po' troppo rumorosamente, ricordandomi il tempo perduto. Quella era senza dubbio l'ultima cosa di cui avessi bisogno. «Senta, Felix... Felix Berg il fotografo. Be', chiunque sia, che cosa vuole? È tardi, fa freddo, e io ho bisogno del mio sonno di bellezza. Non ha nulla di meglio da fare che telefonare a una sconosciuta a cui non interessa un accidente di lei?» «Voglio parlare con lei.» «Già, lo immaginavo.» «Devo vederla di persona. E credo che non avrà nulla in contrario, quando avrà sentito quello che ho da dirle.» «Io non ci scommetterei, amico.» Una breve pausa. Poi riprese. «Qualcuno sta cercando di uccidermi.» Ci risiamo.
Ricevevo in continuazione telefonate di quel genere. Ok, forse non proprio in continuazione... ma accadeva abbastanza spesso, e ormai la cosa non mi sorprendeva più. Un inconveniente del mestiere. Saxon, l'infallibile cacciatrice di serial killer trasformatasi in scrittrice di best-seller sul mondo del crimine. Ecco chi ero. Almeno, così mi presentavano alla TV via cavo. In effetti, credo che l'espressione «calamita per ogni suonato della città» renda meglio l'idea. Avevo scritto un paio di libri sulla mia breve esperienza nell'FBI, pertanto non c'era bisogno di un'autorizzazione speciale da parte del Presidente per ottenere informazioni confidenziali riguardo alla mia attività; eppure, la gente si aspettava ancora di riuscire a impressionarmi, quando snocciolava qualche dettaglio sui casi a cui avevo lavorato, i posti in cui ero stata o gli assassini che avevo conosciuto. Come se avessi avuto bisogno che qualcuno me lo ricordasse. Diavolo, credevano di lusingarmi chiamandomi ex agente speciale, ma avrebbero potuto sforzarsi un po' di più! Tanto per cominciare, non sarebbe stato male trovare un modo nuovo per attaccare bottone. Tuttavia, un'affermazione come quella di Felix Berg era notevole e glielo dissi. «Lei pensa che stia scherzando», commentò lui. «Quello che penso e che, se davvero qualcuno sta cercando di ucciderla, dovrebbe andare alla polizia. Non sono una specie di detective privato. Niente del genere.» «Troppo tardi. Non mi darebbero retta.» Non potevo certo biasimarli. «E che cosa le fa credere che io lo farei?» «Lei è l'unica persona su cui possa contare. È una straniera, proprio come me. Non appartiene a questa città. E poi...» «Sì?» «Lei sa che cosa significa guardare nel buio.» Come negarlo? Non riuscivo nemmeno a ricordare quando mi era successo per la prima volta. Avevo l'impressione che la mia mente non fosse mai stata sgombra da pensieri di morte e omicidi, eppure, per un periodo della mia vita era stato così. Almeno credo. Doveva pur esserci stato un momento in cui l'oscurità che si nasconde ai margini delle cose, infettando e infestando la realtà che crediamo di conoscere, per la sottoscritta era soltanto una diceria.
Un momento in cui i morti parlavano ancora una lingua che non capivo, e che non avevo alcun desiderio di imparare. Una volta che il buio giunge a toccare la tua mente, niente può farlo andare via. E a me era successo troppe volte. Avevo visto i corvi beccare dei cadaveri in un bosco, d'inverno; la neve, il sangue ormai secco e le ombre dei rami degli alberi si intrecciavano misteriosamente, come a nascondere un segreto. Avevo ripescato teschi umani dal mare, ed estratto sangue da un pozzo ricoperto di muschio, in cui appena qualche ora prima era stato gettato il corpo martoriato di una donna che respirava ancora, seppure debolmente. Avevo visto corpi murati o abbandonati nelle discariche come offerta ai ratti. Avevo scoperto le dita di una mano che spuntavano dal terreno, nel punto in cui la città cede il posto all'aperta campagna. Il veleno aveva reso le unghie nere, grazie a uno di quei killer che credevo esistessero soltanto nella mia immaginazione. Mi ero messa sulle tracce di bambini scomparsi che sapevo non sarebbero mai stati ritrovati. Con le mani nude avevo passato al setaccio mucchi di ceneri, senza riuscire a distinguere la polvere dai poveri resti di una vita perduta. Avevo imparato a conoscere intimamente il mondo degli assassini, nelle sue sfumature e nei suoi stati d'animo; e ne avevo scoperto i nascondigli più segreti, fino a quando quelle immagini mi erano diventate familiari quanto la mia, riflessa nello specchio. E avevo capito che l'oscurità è l'unica cosa che resta. Nient'altro dura. Il male non ha fine; non importa quanto ci sforziamo, ci sarà sempre qualcosa contro cui combattere. E avevo realizzato che ci sono persone in mezzo a noi che non esitano a spezzare una vita umana. D'altronde, nemmeno i cavalli piangono gli scarafaggi che finiscono sotto i loro zoccoli. Lei sa che cosa significa guardare nel buio. È vero. Lo sapevo. E immagino che fu quello il motivo per cui, da vera stupida, mi ritrovai a prestare ascolto a un suonato che mi telefonava a un'ora assurda in cerca di aiuto, invece di riattaccare e, magari, staccare il telefono e infilarmi sotto le coperte. Forse dovrei farmi tatuare la parola babbea sulla fronte. Oltretutto, dove diavolo avevo messo le chiavi della macchina? 2 No, non ero arrivata in ritardo. Controllai l'ora sul cruscotto. Non era ancora mezzanotte. A dimostrarlo, giunse rumorosamente l'ultimo treno della
sera. Serpeggiò accanto alle acque nere, diminuendo di velocità mentre entrava nella stazione di Howth. Parcheggiai l'auto e scesi, mentre i passeggeri uscivano in strada, disperdendosi come fumo. Presto non rimasero che le loro ombre, e qualche debole risata. Poi nemmeno quello. Non sarei dovuta venire, pensai. Decisamente no. Non sapevo nemmeno che aspetto avesse il tipo. Davvero un bell'inizio. Dove aveva detto che l'avrei trovato? Ah, giusto... al faro. Lo cercai con lo sguardo; si innalzava altissimo all'estremità del porto, una sentinella sul punto in cui la città lasciava il posto al mare. Lampeggiava. Sembrava piuttosto distante, ma non era certo fissandolo che sarei riuscita a farlo avvicinare. Chiusi l'auto e cominciai a camminare. Un attimo dopo, ebbi l'impressione di essermi lasciata Howth alle spalle: tutto quello che riuscivo a sentire era la marea notturna che sbatteva contro la pietra, e le barche nel porto che si toccavano, risuonando come campane sorde. Nient'altro, a parte l'eco dei miei stessi passi. Un paio di volte ebbi l'impressione che qualcuno mi stesse seguendo, ma quando mi voltai non vidi nulla. Non c'era nessun altro. L'unico essere vivente, a parte la sottoscritta, era un cane che si era avvicinato al muro e che ora annusava le colonnette che lo delimitavano, unite l'una all'altra da una catena di metallo. Mi guardò con aria speranzosa, in cerca di cibo. Ma capì che non era la sua serata fortunata e si voltò, tornando di corsa verso la banchina. Finalmente raggiunsi il faro; iniziavo a innervosirmi. I posti fuori mano mi avevano sempre fatto quell'effetto: avevo la sensazione di perdere l'orientamento. La città era l'unico luogo in cui mi sentissi a mio agio. Cominciai a chiedermi se andare lì fosse stata una buona idea. Non potei evitarlo, quando notai che Felix Berg non si trovava davanti alla porta rossa, dove avevamo stabilito di incontrarci. Mi venne il sospetto che qualcuno si fosse preso gioco di me. Non sarebbe stata la prima volta. Sbadigliai e diedi un'occhiata all'orologio. Mezzanotte e un quarto. Gli avrei concesso ancora dieci minuti, anzi, cinque. Poi me ne sarei tornata a casa.
L'esperienza insegna. Mi sedetti sul gradino davanti all'entrata e mi accesi un sigaro per avere un po' di compagnia durante l'attesa. Aspettai. Aspettai... Provai a fare qualche anello di fumo - non mi sono mai riusciti, muoiono sempre sul nascere. Mi strinsi nella giacca, cercando di scaldarmi. Il vento si stava facendo gelido. Era aprile; o, almeno, così avevo letto quella mattina su un calendario. L'inizio della primavera. Ma lo spettro dell'inverno continuava ad aleggiare sulla città. Era in agguato, sul mare. E continuava a perseguitarci, affamato, nascondendosi nel vento. Voltandomi indietro, riuscivo a vedere il bagliore di alcune case isolate: sembravano lucciole, disseminate per tutta Howth Head. Sullo sfondo del cielo stellato si profilava un castello diroccato. Sopra di me, gli aerei provenienti da est si inclinavano e viravano, preparandosi ad atterrare nell'aeroporto a pochi chilometri dalla costa. Da qualche parte, sull'acqua, sentii il rumore di due superfici metalliche che cozzavano tra loro. «Tempo scaduto, caro il mio Felix Berg», dissi sottovoce. Non sapevo se fossero trascorsi i cinque minuti, ma decisi che avevo aspettato abbastanza. Mi alzai, guardandomi intorno un'ultima volta. In quel momento la luce del faro compì un altro giro, illuminando qualcosa all'estremità del molo, dove la pietra scendeva verso le acque profonde che si stendevano fino all'oscura gobba di un'isola. Per l'esattezza, gli oggetti erano due. Un paio di scarpe? Così mi sembrò, da quella distanza. Incuriosita, gettai il sigaro e mi diressi verso le due sagome misteriose. Le scarpe erano state riposte accuratamente sull'orlo del molo, le stringhe ripiegate all'interno. E c'era anche qualcos'altro. Un mazzo di chiavi. Un cellulare. Un portafoglio. E... che cos'era quell'altro oggetto? Feci un altro passo e immediatamente sentii qualcosa rompersi sotto il mio piede, piano. Troppo tardi. Guardai a terra: un luccichio, quasi fossero frammenti di ghiaccio. Era vetro, invece. E non di una bottiglia; no, era fragile e sottile come una foglia. E, in mezzo alle schegge, scorsi una forma rotonda... Un paio di occhiali dalla montatura argentata.
Irritata dalla mia sbadataggine, scrollai lo stivale e feci un altro passo avanti, questa volta prestando maggiore attenzione. Mi aspettavo che il muro scendesse a picco nell'acqua, invece realizzai che sotto di me c'erano delle rocce. Scogli neri avvolti dalle alghe, che resistevano ai ripetuti attacchi delle onde, disseminati di bottiglie e lattine di birra vuote. Notai perfino un bidone di petrolio e delle tavole di legno. E c'era anche qualcos'altro, là sotto. Un uomo. O, meglio, quello che ne restava. Era sdraiato a faccia in giù, la giacca attorcigliata intorno al corpo e i pantaloni fradici, scuri come inchiostro. I piedi erano scalzi. Aveva un braccio girato in maniera innaturale sotto il torace; l'altro era allungato, e si piegava a seguire il contorno frastagliato degli scogli. Lo stesso cadavere aveva finito con l'assumere l'aspetto spigoloso e angolato delle rocce. Subito, mi tornarono in mente le ultime parole dell'uomo con cui avevo parlato al telefono: Lei non è l'unica ad aver guardato nel buio. E a volte il buio non apprezza simili intrusioni. A volte è lui a fissare te. 3 Seamus Dalton. Avrei dovuto immaginarlo. Proprio quello di cui avevo bisogno per completare una magnifica serata. Scienziati di tutto il mondo hanno setacciato per anni il continente africano in cerca dell'anello mancante nella catena evolutiva. .. e lui è sempre stato qui, a Dublino, camuffato da detective della Squadra omicidi. Avevo davanti una lunga nottata. Se non altro era stato veloce, dovevo concederglielo. Era arrivato appena qualche minuto dopo gli agenti che adesso stavano delimitando la scena del crimine con il nastro, dando il via al solito rituale di sciocche domande agli eventuali testimoni. Io ero insieme a un poliziotto, un certo Simpson; eravamo in piedi, accanto a una fila di rimesse per le barche, a circa duecento metri dal faro. Fu allora che lo vidi arrivare: si sistemava la cintura, aggiustandosi i pantaloni con un movimento brusco. Quando posò gli occhi su di me, la sua espressione si fece stanca e disgustata, come se già sapesse che gli avrei fatto perdere tempo. Era sempre così, quando ci incontravamo. Il che, fortunatamente, non accadeva molto spesso. E non avevo alcuna intenzione di lamentarmene. «Ho notato una cosa», esordì avvicinandosi. «Le persone hanno la brutta
abitudine di morire intorno a lei.» «Già, peccato che non capiti mai a quelle giuste.» Fu quasi sul punto di lasciarsi sfuggire un sorriso. «Chi è?» chiese. «Non siamo ancora riusciti a identificare il corpo, signore», cominciò a spiegargli Simpson, prima che lui lo mettesse a tacere con uno sguardo. «Non l'ho chiesto a te, ragazzo. Parlavo con la signorina. Ma visto che sei qui, perché non dai una mano agli altri a delimitare la scena? Avanti, renditi utile. In effetti, potresti saltar giù dal muro e dare una sbirciatina al cadavere. Prendo io il controllo, adesso.» Simpson non discusse. Erano pochi gli agenti che sceglievano di mettersi contro Dalton; si diceva che fosse capace di rovinare la serata a un poliziotto solo per il gusto di farlo. «La sua delicatezza è davvero sbalorditiva. Ha imparato alla scuola di polizia o è frutto di un talento naturale?» dissi, mentre il giovane si allontanava. «Sono autodidatta. Mai avuto bisogno di altri insegnanti. Ora, mi dica... ha intenzione di rispondere alle mie domande o devo metterle le manette e portarla in centrale per interrogarla?» Come se avesse avuto le palle per farlo. Ridacchiò alla sua stessa battuta. I tipi divertenti come Dalton imparano presto a ridere alle proprie spiritosaggini... dal momento che nessun altro lo fa. «Come diavolo faccio a sapere chi è?» mi limitai a dire. «Il sergente che ha preso la telefonata ha parlato di un nome...» «Io gli ho detto soltanto che sono venuta qui perché dovevo incontrare qualcuno.» «Un certo Felix...» «Felix Berg. Mi ha detto di essere un fotografo. Ma non so dirle se si tratti di lui. Penso di sì.» «Pensa di sì?» Pronunciò quella parola con molta cautela, quasi fosse del tutto nuova per lui. «Già, e quello che ho detto. Anche lei dovrebbe provare a farlo, ogni tanto. A pensare, intendo. Con un po' di pratica, potrebbe perfino trovarlo interessante. Io penso che si tratti di lui. Ho preferito non toccare niente.» In realtà, l'idea di scendere là sotto non mi attirava affatto, ma non l'avrei mai ammesso davanti a Dalton. «D'altronde, non l'avevo mai incontrato, prima di stasera. Non sarei in grado di identificarlo nemmeno se volessi.» Sembrava più interessato al fatto che mi trovassi lì per incontrare un per-
fetto sconosciuto, che non alla presenza di un cadavere sugli scogli, a poche centinaia di metri dal punto in cui ci trovavamo. «Che storia è questa? Tutto d'un tratto le piacciono gli uomini? Wow, potrebbe essere la mia serata fortunata.» «Non credo, i viscidi lumaconi non fanno per me. Cancelli quell'espressione maliziosa dal suo faccione grasso, Dalton. Non provi a trasformare quest'episodio in qualcosa che non è.» «E di che cosa si tratterebbe, allora?» Rimasi in silenzio per un istante. «Voleva parlarmi di qualcosa», dissi cauta. «Di qualcosa... cosa?» «Non l'ha detto.» «Non l'ha detto?» «No.» Sospirai. «Senta, perché è venuto qui? Dov'è Fitzgerald?» Mi riferivo a Grace Fitzgerald, il sovrintendente capo della Squadra omicidi della Polizia Metropolitana di Dublino, nonché diretto superiore di Dalton sotto tutti i punti di vista, professionale, intellettuale, evolutivo. Io e Grace eravamo quello che si dice una coppia. Uscivamo insieme. Dormivamo insieme. Qualsiasi cosa, insomma. La nostra storia andava avanti da qualche anno, ormai, da quando ero arrivata in città dagli States, fresca fresca dall'FBI. Ma forse «fresca» non è l'aggettivo più adatto. Ero stanca, piuttosto. Sfinita. Esausta. Grace mi aveva aiutata a venirne fuori. Probabilmente, trascorrere la maggior parte del mio tempo con una persona che occupava una simile posizione non era il modo migliore per superare le mie debolezze, ma questa è un'altra faccenda. A volte non mi era di grande aiuto sapere che lei faceva quello che sentivo essere il mio lavoro, un lavoro che ormai avevo poche speranze di tornare a svolgere. Dalton sapeva di noi due, naturalmente. Lo sapevano tutti. Nessuno faceva commenti in presenza di Grace, ma comunque non perdevano occasione per ricordarti che erano al corrente della situazione. Non c'era bisogno di parole. «Il capo è occupato altrove», si limitò a dirmi. «È una donna molto impegnata... Hanno accoltellato qualcuno, giù a Portobello. Sa, ultimamente gli omicidi in città sono aumentati. Un'industria in crescita. Mi dispiace se questo inconveniente sconvolge i suoi romantici progetti per la serata, ma è sempre così, quando si ha a che fare con un killer, no? Che gentaglia, non hanno rispetto per nessuno. Tutta colpa dei genitori...»
Con la coda dell'occhio notai che un agente guardò nella nostra direzione, udendo le parole di Dalton; probabilmente stava facendo due più due, riguardo all'allusione sulla sottoscritta e sul capo della Squadra omicidi. «Del resto, perché mai la grande Grace Fitzgerald, dal cui sedere sorge il sole, a dar retta alla stampa locale, dovrebbe perdere il suo tempo prezioso con un caso di suicidio?» Quell'affermazione mi sconcertò. «Come fa ad affermare con tanta sicurezza che quell'uomo si sarebbe ucciso?» «Si dà il caso che abbia parlato alla radio con uno di quegli idioti in uniforme, mentre stavo venendo qui. Mi ha fatto un quadro completo della situazione. Scarpe, telefonino, chiavi, portafoglio, occhiali: tutto accuratamente riposto da una parte. Il classico comportamento che precede un suicidio. Per questo», continuò prima che potessi protestare, «non capisco perché lei abbia scomodato la nostra divisione. Ma vediamo se ho capito bene. Lei deve incontrare un tizio, giusto? Il motivo di tale appuntamento resta un mistero... Immagino che non siano affari miei. Poi lui si getta in mare, rinunciando al piacere della sua compagnia. Capirà, non posso biasimarlo per questo. Quello che non riesco ad afferrare è perché non si sia rivolta alla polizia locale. Avrebbero potuto ripescare il suo amico dall'acqua, e le avrebbero tenuto la mano mentre faceva la sua deposizione.» «Io non ho chiamato la Squadra omicidi», dissi sforzandomi di ignorare le sue frecciatine. «Ho chiamato Fitzgerald. Non potevo sapere che le sue telefonate venivano trasferite. E, comunque, non crede che dovrebbe lasciare al patologo il tempo di stabilire le cause della morte, prima di saltare alle conclusioni?» «Il patologo... accidenti, non ci avevo pensato», fece lui sarcastico. «Come faremmo noi poveri stupidi senza la guida esperta di un asso delle indagini criminali come lei?» Cercai di non prendermela. In fondo, stava solo tentando di rimettermi al mio posto. Io ero un'ex investigatrice. Un'ex agente dell'FBI. Un'ex tutto. Il che equivale a dire che ero uno zero. Un civile. L'ultima fra gli ultimi. In passato avevo aiutato la Polizia Metropolitana di Dublino, ammesso che il mio intervento si possa definire aiuto; ma, senza dubbio, la mia partecipazione non era mai stata apprezzata da quelli come Seamus Dalton. In effetti, pensare che potessi ancora rendermi utile contribuiva soltanto a screditare ulteriormente il mio nome. E, in quel momento, sapevo che non gli avrei detto niente di più.
«Senta... togliamoci il pensiero, ok?» proposi invece. «Quanta fretta, non ce n'è alcun bisogno. Io non ho nulla di meglio da fare. E poi», continuò, lanciando un'occhiata al faro, «non credo che il suo amico abbia intenzione di andarsene da qualche parte... almeno per un po'. Tanto vale salvare la serata. Non lo sa? I morti sono sempre con noi. E dovrebbero avere più rispetto per il sottoscritto, dovrebbero pensarci due volte prima di disturbarmi durante il turno con certe stronzate. Adesso si calmi e mi lasci prendere la sua deposizione. Poi torneremo tutti e due a fare quello che ci riesce meglio. Anche se, nel suo caso, Dio solo sa di cosa si tratti.» «Preferirei rilasciare la mia dichiarazione a uno degli agenti.» «Già, e io preferirei essere a letto con Cameron Diaz. A pensarci bene, forse piacerebbe anche a lei. È un vero peccato che nessuno dei due possa avere quello che vuole. Nel frattempo, direi di cominciare con i dettagli.» Tirò fuori il taccuino e lo aprì; quindi estrasse una matita dalla tasca e posò maliziosamente la mina sulla punta della lingua, senza mai staccare gli occhi dai miei. «Faremo ogni cosa come si deve, tanto per mantenere un po' d'ordine fra le carte. Ok, cominciamo. Nome?» Lo fissai. «Si fotta, Dalton. Sa benissimo come mi chiamo.» «Scusi?» Chinò la testa da un lato, battendo la matita contro un orecchio, come se non ci sentisse bene. «Non credo di aver capito. Le dispiacerebbe ripetere?» «Ho detto: si fotta.» «Mi ascolti, è una scocciatura sia per me sia per lei, ma dobbiamo seguire la procedura nei minimi dettagli. Bisogna sbrigare tutte le formalità. Allora, intende fare la brava bambina e obbedire al papà, o devo chiedere a Simpson di farla arrestare? Pensi quanto sarebbe sconveniente se lo scaldaletto preferito del sovrintendente capo finisse in tribunale con l'accusa di aggressione a pubblico ufficiale.» «E, mi scusi, quando l'avrei aggredita?» Improvvisamente, allungò un braccio e mi toccò i capelli. E io, d'istinto, con una mano allontanai bruscamente la sua. «Adesso.» E sfoderò il suo sorriso da babbuino, tutto per me. Lo guardai, e realizzai che era del tutto inutile opporre resistenza. Era incazzato perché l'avevano spedito al molo mentre l'azione, quella vera, era altrove. Ed era incazzato perché non avevo intenzione di dirgli il motivo
esatto per cui mi trovavo in quel luogo. Avrei dovuto subire i suoi tentativi di convincersi che quel viaggio non era stato una completa perdita di tempo. Glielo leggevo negli occhi. Sapevo che, qualsiasi cosa avessi detto o fatto, alla fine avrebbe vinto lui. Dal canto suo, Dalton colse la rassegnazione nel mio sguardo. «Così va meglio», disse. «Mi piacciono le donne obbedienti.» Ma non ebbe il tempo di godersi il suo trionfo. Ci voltammo entrambi, al suono del passo affrettato di Simpson, che veniva di corsa verso di noi. «Signore», esordì, fermandosi a circa un metro dal punto in cui eravamo. Dalton indirizzò tutta la sua ostilità al giovane agente. «E adesso che altro c'è?» «Si tratta di quell'uomo, signore... Del morto.» «Be'? Cos'è, si è alzato per cercare un taxi che lo riporti a casa?» «Sembra... sembra che qualcuno gli abbia sparato.» Dalton restò senza parole, probabilmente per la prima volta nella sua vita. Sul suo viso era comparsa un'espressione diversa. Di speranza, forse, o di eccitazione. Sembrava compiaciuto, finalmente stava accadendo qualcosa di interessante. E io sapevo benissimo a chi stava pensando. All'Uomo di Marx. 4 Il primo a morire era stato Tim Enright. Intorno alla metà di gennaio, per qualche misteriosa ragione, dopo il lavoro si era diretto in auto nella zona nord di Dublino, e si era fermato nel parcheggio dell'O'Neill's Place. Intorno alle diciannove e trenta, due donne che rientravano a casa l'avevano trovato riverso sul volante. Era stato ucciso da un colpo alla nuca, sparato da una distanza alquanto ravvicinata. Il classico omicidio che imperversava negli ambienti della malavita, di cui Dublino aveva avuto più di un assaggio in tempi recenti: negli ultimi cinque anni, il numero delle esecuzioni simili a quella di Enright si era quintuplicato. Il problema era che, nel suo caso, nulla faceva pensare a un regolamento di conti. La polizia aveva scandagliato a fondo la vita del trentaseienne: niente relazioni dubbie, niente nemici, almeno secondo quelli che lo conoscevano. Lavorava in centro, nel lussuoso Financial Services Centre, dove si occupava di contratti a termine e a premio, qualunque cosa fossero; mandava avanti la ditta che aveva ereditato dal padre, e all'Ufficio attività criminali era del tutto sconosciuto. Né la Squadra contro le frodi industriali, né la
Buoncostume o, tanto meno, la Reati gravi erano riuscite a cavare un ragno dal buco. Tutti i contatti criminali della Polizia Metropolitana negavano di aver ricevuto l'incarico di ucciderlo, ed erano assolutamente certi che, se qualcuno avesse voluto eliminare Enright, la voce sarebbe arrivata alle loro orecchie. La sua vita privata non rivelò nulla che potesse far pensare a un movente. Niente mariti gelosi, niente relazioni gay tenute nascoste. I movimenti del suo conto corrente non mostravano traccia di prelievi o depositi irregolari; non c'era assolutamente nulla che inducesse a prendere in esame l'ipotesi di un ricatto. Amici e colleghi lo descrivevano come un uomo senza preoccupazioni, privo di un lato oscuro; aveva dedicato i giorni precedenti la scomparsa a organizzare un weekend a Parigi con la moglie. La perfetta incarnazione dell'Uomo Comune. Tutte qualità positive per la salvezza della sua anima, ma che rendevano pressoché impossibile per la polizia fermare qualcuno per il suo omicidio. Sembrava quasi che la sua morte fosse il risultato di uno scambio di persona, o un atto privo di qualsiasi motivazione. Gli inquirenti non raccolsero che polvere. Un mese più tardi, il secondo assassinio. E questa volta la vittima non era un uomo qualunque. Terence Prior era un giudice della Corte Suprema; sessantasette anni, vedovo, un pilastro della società rispettabile di Dublino. Possedeva le conoscenze e la ricchezza necessarie per far sentire la propria voce conservatrice in relazione alla maggior parte delle questioni sociali. Impopolare presso la stampa progressista per aver fatto incarcerare una donna con l'accusa di oltraggio alla corte per aver allattato un bambino in aula, e per le frequenti tirate riguardo all'impossibilità di condannare a morte gli assassini di bambini e poliziotti, si era crogiolato nella propria immagine di orco al punto che persino i suoi sostenitori ritenevano che si fosse ridotto a una parodia di se stesso. Si era beccato una pallottola sulla porta della sua abitazione, in un'elegante zona nella parte meridionale della città, mentre rientrava dopo l'ennesima giornata dedicata a dispensare la sua giustizia di frontiera ai peccatori. Come la prima vittima, era stato ucciso da un unico colpo sparato da distanza ravvicinata; l'omicida l'aveva preso alle spalle, questa volta mirando al cuore. Stessa arma: una Glock .36, che, con l'eccezione di Enright, non aveva precedenti. Il fatto che ci fossero due morti, apparentemente uccisi dalla stessa mano, e che la lapide di uno dei due avrebbe portato un nome piuttosto importante, se non altro aveva contribuito a intensificare le indagini. Quello
che la Polizia Metropolitana aveva ridotto a una ordinaria raccolta di prove e dichiarazioni, nella vana speranza che saltasse fuori qualcosa, adesso era diventato un caso celebre. I giornalisti stavano addosso alla Squadra omicidi in cerca di indizi o di punti di vista non ancora analizzati. La vita di Grace era stata completamente sconvolta. All'inchiesta erano state assegnate risorse maggiori, e la squadra si era arricchita di nuovi elementi: tutti gli sforzi erano concentrati a cercare una connessione tra le due vittime. C'era sempre una connessione: questa era l'opinione comunemente accettata che si celava dietro ogni indagine. In effetti, spesso era proprio tale convinzione a tenere aperta un'inchiesta, nella speranza che, prima o poi, si palesasse un legame che magari avrebbe condotto a un altro anello, e a un altro ancora... Alla fine, l'intera catena si sarebbe ricomposta e alla sua estremità si sarebbe materializzato l'esecutore materiale del delitto, in manette. Ma non funzionava sempre così. Tra le due vittime non venne trovata alcuna connessione, semplicemente perché non c'era. E ben presto fu evidente. Non avevano frequentato gli stessi circoli, vivevano in due zone diverse della città; senza dubbio non si erano mai incontrate. Anche la differenza d'età contribuiva ad allontanarle. Apparentemente, il killer non le aveva scelte basandosi sulla loro identità. Questa, almeno, era la conclusione generale a cui era giunta la polizia... fino a quando Finlay Hart, un viscido politico di destra, non venne assassinato dalla stessa pistola sulla soglia del suo ufficio in Main Street, una mattina presto. Hart era un uomo talmente conservatore da far apparire il defunto giudice Prior un anarchico; non solo: il posto da lui occupato in ambito governativo lasciava intendere che, presto o tardi, sarebbe arrivato a un incarico di grande rilievo. Finalmente un legame, che l'Unità antiterrorismo della Polizia Metropolitana di Dublino fu svelta a sfruttare. Due figure pubbliche erano state assassinate nel giro di poche settimane e, prima che il corpo di Hart fosse stato rimosso dai gradini, o che il suo sangue fosse stato spazzato nel canaletto di scolo, Paddy Sweeney, il capo dell'Unità antiterrorismo, aveva iniziato a fremere perché il caso gli venisse assegnato. Senza dubbio, avrebbe combinato un pasticcio simile a quello di un anno prima, quando aveva creduto di scorgere un movente politico dietro l'omicidio di un diplomatico estero, ed era rimasto fermamente convinto di ciò anche quando il convivente dell'uomo si era presentato alla centrale di polizia accompagnato dal
suo legale e aveva confessato. Sweeney aveva iniziato a passare informazioni alla stampa; sosteneva che il killer fosse un fanatico seguace della teoria comunista marxista. E non aveva cambiato idea nemmeno quando l'Uomo di Marx - i giornalisti non ci avevano messo molto a trovare un soprannome all'assassino, che si accingeva a diventare un eroe della sinistra radicale - aveva colpito per la quarta volta. La vittima venne identificata come Jane Knox, una donna dall'età indefinita, che comunque non avrebbe più avuto la possibilità di superare la settantina. Era un'ex monaca di sinistra, un tempo conosciuta con il nome di sorella Bernadette. Dopo una specie di esaurimento nervoso, si era ritrovata a vivere per strada nei pressi della Mansion House, con un branco di gatti randagi. Era stata raggiunta alla testa da un colpo di pistola mentre si trovava nel cortile sul retro di un ristorante, il Water Margin; un'unica pallottola, come nei casi precedenti, proveniente dalla stessa Glock .36, questa volta sparata da qualche metro di distanza. Il patologo della città non era riuscito a stabilire con esattezza la posizione del killer, e nemmeno l'analisi balistica era stata di grande aiuto... Dublino si trovava ancora all'Età della Pietra. Era sera quando trovarono il suo corpo, riverso sui gradini; a fare la macabra scoperta fu una delle cameriere del ristorante, sgattaiolata nel corrile per fumarsi una sigaretta. Come poteva un marxista convinto uccidere facoltosi giudici di destra, politici e monache di sinistra finite in mezzo a una strada? Sweeney chiese tre mesi di tempo e un aumento del cinquanta per cento del budget a sua disposizione per risolvere il caso; e probabilmente le sue richieste sarebbero state esaudite, se il sovrintendente capo Fitzgerald non avesse deliberatamente ignorato le istruzioni del vicecommissario, che sulla carta era responsabile della Squadra omicidi, insistendo perché il caso rimanesse sotto la sua giurisdizione. Era il suo ego che si faceva sentire: non avrebbe tollerato una simile intrusione da parte di Sweeney. Ma, al di là delle questioni personali, Grace era profondamente convinta che il misterioso movente che si nascondeva dietro gli omicidi dell'Uomo di Marx, qualunque esso fosse, non avesse nulla a che vedere con la politica. L'assassino non sembrava neppure interessato a comunicare con la stampa o con la polizia; e i killer con un vero movente raramente si lasciano sfuggire l'opportunità di far sentire la propria voce. Sweeney, controvoglia, si era tirato indietro. Ma era ancora lì, nell'ombra, e si lagnava come una ragazzina; era assolutamente determinato a ren-
dere le cose difficili a Grace fuori dal dipartimento, almeno quanto Dalton le rendeva la vita impossibile all'interno. L'unica differenza era che lei si era tenuta le sue palle come souvenir del loro ultimo incontro, e non aveva alcuna intenzione di farglielo dimenticare. Comunque, non aveva avuto modo di godersi il suo trionfo: l'inchiesta sull'Uomo di Marx si espandeva come un virus maligno trasmesso da qualche parassita, assorbendo completamente la Squadra omicidi; paradossalmente, la notizia di un accoltellamento a Portobello giungeva ormai come una sorta di sollievo surreale. Grace non si era mai sentita così sotto pressione. La gente era nervosa e la stampa sovreccitata. Un mix niente affatto salutare. Inoltre, la fase di stallo verificatasi nelle tre settimane successive all'ultimo assassinio non le era affatto d'aiuto. Era la classica, e terribile, situazione di stasi in cui finiscono regolarmente i dipartimenti di polizia alle prese con un serial killer. Tutti sapevano che avrebbe colpito di nuovo, ma non potevano fare altro che aspettare, sforzandosi di prevedere la mossa successiva. Un compito quasi impossibile. Per ingannare l'attesa, non restava che passare al setaccio gli scarsi frammenti di indizi raccolti fino a quel momento. L'unica cosa ovvia, apparentemente, era che l'Uomo di Marx stava facendo di tutto per assicurarsi che non esistessero connessioni tra le sue vittime, ingannava gli investigatori con l'illusione di un possibile legame per poi virare di centottanta gradi, mettendoli nuovamente fuori strada. Niente induceva a pensare all'esistenza di uno schema. L'assassino uccideva uomini e donne che vivevano in zone distinte della città, e appartenevano a diverse classi sociali. Mirava alla testa e al torace, sparando da una distanza minima o da alcuni metri. Colpiva indifferentemente di sera o di mattina. L'unico legame concreto era l'utilizzo di una singola pallottola; non solo, tutte e quattro le vittime, prima di quella sera, erano state uccise mentre si trovavano davanti a una porta, su una soglia. Una porta: forse rappresentava l'accesso a un altro mondo? Il simbolo di un attraversamento... di un passaggio da uno stato a un altro? Certo, non era molto. Ma immagino che ogni psicopatico abbia bisogno di un proprio marchio di fabbrica. Avevo cercato di tenere quel caso lontano dalla mia mente. Mi ero sforzata di mostrarmi distaccata, per nulla coinvolta. Non che non fossi affascinata da quanto stava accadendo. In effetti, niente mi avrebbe reso più
felice della possibilità di lavorare insieme a Grace a un caso del genere. E sapevo che era così anche per lei: se non fosse esistito un simile legame, tra noi due, mi sarei sentita esclusa da gran parte del suo mondo. Ma sarebbe stato tutto più semplice se mi fossi tirata indietro di qualche passo. Questa era la sua vita, non la mia. Non più, almeno. E non potevo fingere che, in essa, ci fosse un posto anche per la sottoscritta. Così, il mio ruolo nei confronti della vicenda non andava molto oltre quello di una semplice spettatrice interessata. Negli ultimi mesi avevo scritto regolarmente degli aggiornamenti sul caso per un mensile americano che si occupava di crimine. La paga era misera, ma avevo la sensazione di essere ancora nel giro, di avere ancora qualcosa da dire. Io e Grace avevamo fatto di tutto per mantenere le distanze: il suo lavoro sarebbe stato compromesso se fosse apparsa a mio nome qualche dichiarazione che potesse ricondurre a lei. Dovevo limitarmi alle informazioni di dominio pubblico, assicurandomi che tutto ciò che scoprivo per conto mio apparisse prima su qualche altra fonte. E adesso la morte di Felix Berg minacciava di distruggere la barriera che mi ero sforzata di costruire tra i nostri due mondi. Ero seduta lì, sul muro del porto, e guardavo Dalton che urlava agli altri agenti, mentre cercavano tardivamente di isolare la scena del crimine, fino a qualche minuto prima trattata con disprezzo. E aspettavo la macchina che il detective aveva chiamato per farmi accompagnare alla stazione di polizia più vicina perché completassi la mia deposizione o, semplicemente, perché voleva sbarazzarsi della sottoscritta prima che arrivasse il sovrintendente capo. Ripensai accuratamente a ciò che mi aveva detto Felix al telefono, quella sera. Qualcuno sta cercando di uccidermi. Che cosa sapeva? Che cosa aveva visto? Forse, senza volerlo, aveva sbirciato in quel buio di cui mi aveva parlato e vi aveva scorto l'Uomo di Marx? E magari l'aveva anche riconosciuto... Il che avrebbe spiegato come mai qualcuno volesse il suo silenzio, la sua morte. Ma perché era venuto da me? E, cosa più importante, l'assassino come sapeva che quella notte l'avrebbe trovato lì? 5 Erano le tre, quando firmai la mìa deposizione nella stazione in cui Dal-
ton mi aveva spedita perché mi togliessi dai piedi. Finalmente ero libera di andarmene. Provai a chiedere che cosa stesse succedendo a Howth, ma gli agenti ne sapevano quanto me. Cercai anche di mettermi in contatto con Grace, ma non rispondeva al cellulare. Probabilmente era giù al porto. Aveva già abbastanza da fare senza bisogno di tenere aggiornata la sottoscritta. Recuperai l'auto dal parcheggio in cui l'avevano portata e mi diressi al mio appartamento, al settimo piano di un vecchio edificio un tempo adibito a magazzino, a St. Stephen's Green, nel cuore della città. Pensai di farmi un caffè, ma ci rinunciai. Poi pensai a Berg. Buttai giù un paio di pillole per dormire e mi sdraiai sul divano. Passò diverso tempo, prima che riuscissi a prendere sonno, ma alla fine crollai. L'unica cosa che ricordo è il trillo della sveglia, e il movimento del mio braccio mentre cercavo di spegnerla. Realizzai quasi subito che doveva trattarsi di qualcos'altro, però, dal momento che non mi trovavo nel mio letto. Il suono, infatti, proveniva dal citofono. Lasciai il divano a fatica, mi trascinai fino alla porta e premetti il bottone per rispondere. «Fitzgerald», gracchiò una voce dalla strada. «Grace?» «Quante altre Fitzgerald conosci? Mi fai salire?» «Certo. Ma... dov'è finita la tua chiave?» «Volevo essere sicura che fossi sveglia.» «Be', adesso lo sono», risposi cercando di capire che senso avesse svegliare qualcuno per assicurarsi che non stesse dormendo. Le aprii il portone. Quando finalmente riuscii a far scattare la serratura della porta d'ingresso, l'ascensore sull'altro lato del pianerottolo si stava già aprendo. «Hai un aspetto terribile», disse allegramente. «Già... be', non ho avuto una notte piacevole.» «Non sei la sola.» Ma, mentre si toglieva la giacca, non potei fare a meno di notare quanto fosse in forma, nonostante le poche ore di sonno. I lunghi capelli neri, tirati indietro e legati, facevano risaltare la sua figura perfetta; gli occhi scuri, il modo in cui si muoveva... «Ho saputo che Dalton ti ha dato del filo da torcere», esordì. «Chi te l'ha detto?» «L'agente che ti ha accompagnato...»
«Simpson.» «Simpson, sì. Sembra che sia un amico di Boland.» Si riferiva al sergente Niall Boland, suo collega nella Squadra omicidi, anche se a un livello decisamente inferiore, cui sembrava destinato a rimanere. «L'ha chiamato dalla stazione per raccontargli dell'accaduto. Dev'esserci rimasto male. Ti ha sentito discutere con Dalton e temeva che lui avesse passato il segno, ma non ha potuto dire nulla finché non è stato sicuro che non potesse udirlo.» «Passare il segno è la cosa che gli viene meglio.» «Ha avuto qualche problema, ultimamente», provò a spiegarmi. «Si stanno verificando dei cambiamenti che non lo trovano affatto d'accordo. È convinto che stiamo cercando di tagliarlo fuori. Tutto è iniziato con il viaggio negli Stati Uniti. Ieri notte dev'essere giunto alla crisi decisiva.» Il viaggio in America... me n'ero completamente dimenticata. Dopo anni di discussioni e di richieste insistenti, Grace era finalmente riuscita a persuadere il capo della Squadra omicidi, il vicecommissario Brian Draker un uomo convinto che il suo compito consistesse nel giocare a golf con il suo superiore - a trovare i fondi necessari per permettere a qualche membro dell'unità di seguire un programma di addestramento organizzato dall'FBI, ovviamente negli Stati Uniti. Il corso, della durata di dieci settimane, aveva lo scopo di istruire gli agenti di polizia sul corretto comportamento da adottare in una serie di situazioni, che andavano dall'analisi della scena del crimine agli attacchi terroristici, fino agli omicidi seriali. Parteciparvi, per la Polizia Metropolitana di Dublino, significava assumere un'aria più professionale. Non che ciò richiedesse un notevole sforzo, per la verità, vista la fama di incompetenti che gli agenti del dipartimento avevano conquistato, con un tasso di casi risolti fra i più bassi dell'intero mondo occidentale. Ma, nonostante il costo contenuto del corso, Grace aveva dovuto sostenere una dura battaglia con Draker per riuscire a ottenere il finanziamento. E la cosa peggiore era che, a meno che non si decidesse di tirare a sorte, non c'era modo di accontentare tutti i poliziotti che avrebbero voluto partecipare all'iniziativa. Alla fine, i due posti a disposizione erano stati assegnati in modo imparziale. Il compito di scegliere era toccato a Fitzgerald, in qualità di capo dell'unità investigativa: a Dalton aveva preferito Sean Healy, uno dei membri più esperti della squadra, decisamente più disciplinato e meno permaloso del collega. L'altro posto era andato a Patrick Walsh, un giovane poliziotto ambizioso, considerato un buon investimento per il futuro da quando il di-
partimento si era reso conto che il ragazzo avrebbe fatto grandi cose. E lui stesso ne era consapevole. Un'ottima scelta. Il fatto che Grace si fosse autoesclusa dalla lista dei candidati, e nessuno più di me poteva sapere quanto le fosse costato, non contribuì a lenire la furia di Dalton, o a renderlo meno paranoico. E lui non aveva fatto mistero del suo risentimento, scagliandosi contro Grace ogni volta che ne aveva avuto la possibilità, e fomentando il malcontento tra i colleghi. Riuscivo perfettamente a comprendere la sua reazione: sapevo che cosa significasse essere snobbati. Ma il suo comportamento restava comunque infantile; era tempo di superare le ferite subite dal suo delicato ego maschile, e lo feci presente a Grace. Lei aspettò un istante, prima di rispondere. Una breve esitazione, che però non mancai di notare. «Vuoi che gli faccia un richiamo?» Stava forse scherzando? Niente mi avrebbe resa più felice che vedere le palle di Dalton inchiodate al muro. Il suo posto era tra i disoccupati: almeno, da lì non avrebbe più infastidito la sottoscritta con le sue scuse meschine e il suo odioso modo di fare. D'altronde, sapevo che Fitzgerald aveva ancora bisogno del suo aiuto. Dalton era entrato nella squadra prima di quasi tutti i suoi colleghi, quando Grace non era ancora sovrintendente capo e certo non aveva abbastanza esperienza per poter fare a meno di lui. Dalton poteva anche essere un idiota; ma era un idiota bravo a fare il suo lavoro. E questo faceva la differenza. «Dimentica tutto», mi sforzai di dire alla fine. Cercai di reprimere la sensazione di fastidio che provai, notando la sua espressione sollevata. È quello che succede quando appartieni a un'istituzione, ogni giorno, senza tregua. FBI, Polizia Metropolitana di Dublino, Boy Scout... non importa di che cosa si tratti. Finisci sempre con il desiderare una vita tranquilla, senza problemi. E così scegli di aggirare gli ostacoli, accetti di scendere a compromessi. Probabilmente avrei fatto la stessa cosa al suo posto. Ma un simile atteggiamento aveva comunque il potere di irritarmi. Per mascherare la cosa, andai in cucina e iniziai a cercare il caffè. Mi guardai rapidamente allo specchio, passandoci davanti, per vedere se Grace aveva detto la verità. Non ero poi tanto male, considerata la situazione. Era solo di fianco a lei che finivo con l'avere un aspetto terribile. Ma era così per molti. Feci comunque del mio meglio per appiattirmi i capelli. Almeno lo sfor-
zo era da apprezzare. «Ti preparo qualcosa per colazione?» le chiesi. «Colazione? Di' un po', sai che ore sono?» Diedi un'occhiata fuori dalla finestra. La luce era forte e il rumore del traffico notevole. I clacson furiosi strombazzavano all'impazzata. Poteva essere indifferentemente mattino, pomeriggio o sera. «Avanti, sorprendimi», le dissi. «Sono le tre passate.» Mi lanciò uno dei suoi sguardi critici, con quegli occhi scurissimi. «Hai preso di nuovo quelle pillole per dormire...» «Soltanto un paio.» «Perché continui a prendere quella roba?» «Per dormire. È a questo che servono. Ecco perché si chiamano così.» «Dormiresti meglio se adottassi uno stile di vita più salutare...» «Per esempio mangiando yogurt biologico a cena e facendo yoga? Già, lo so», tagliai corto. «Sai che ho ragione.» «Anche gli sciocchi possono avere ragione», osservai aprendo il frigorifero e chinandomi per dare una sbirciata all'interno. «Il trucco consiste nel capire quando è meglio avere torto. Cristo, credo davvero di dover comprare qualcosa per il mio frigo...» «Intendi dire oltre alle sei bottiglie di birra e al curry scaduto? Ecco, prendi questo... immaginavo che potessi avere un problema simile.» Alzai lo sguardo. Mi passò un sacchetto di carta e una confezione di succo d'arancia che sembrava appena uscito dal frigorifero. Infatti era così. Solo, non dal mio. Doveva essere passata a prenderlo mentre veniva da me. Mi conosceva fin troppo bene. Qualche mese prima si era presentata con uno di quegli aggeggi per spremere gli agrumi, ma non ero mai riuscita a capire come funzionasse. La vita è troppo breve per ripulire i resti delle arance: ecco come la pensavo. Se mi fossi trovata ad abitare in cima a una montagna, sicuramente mi sarebbe stato utile... Ma a che scopo vivere a pochi passi da un centinaio di negozi di tutti i tipi, se poi ti comporti come uno di quei tizi del North Dakota che si addestrano alla sopravvivenza, cacciando, raccogliendo bacche e bevendo l'acqua dei ruscelli? E comunque, chiunque si azzardasse a bere l'acqua dei fiumi qui intorno, probabilmente finirebbe in ospedale per una lavanda gastrica. A me piace così. Non sono mai stata una fanatica della vita semplice, priva di comfort. Aprii il cartone e riempii un bicchiere, dimenticandomi momentanea-
mente del caffè. Quindi, infilai una mano nel sacchetto e diedi un morso a un fragrante croissant. «Allora? Hai intenzione di dirmi com'è andata ieri notte?» «Non c'è molto da sapere, in effetti.» Ma le raccontai tutto quanto. Della telefonata di Felix. Del suo timore che qualcuno stesse cercando di ucciderlo. Di come ero andata giù al molo e avevo aspettato e aspettato fino a quando, stanca dell'attesa, l'avevo trovato morto, in acqua. Non mi interruppe; quando terminai, però, scosse il capo. «Dannazione, Saxon... ti rendi conto del rischio che hai corso? Poteva essere chiunque.» «Invece era solo un fotografo.» «L'assassino avrebbe potuto far fuori anche te.» «Ma non è successo.» «Questa volta. Ma che mi dici della prossima? E di quella dopo?» «Mi ha detto che qualcuno stava cercando di ucciderlo.» «E, a quanto pare, aveva ragione. E tu, spinta dalla curiosità, vai laggiù mentre c'è un killer che gira per la città, sparando a casaccio alla gente.» «C'era qualcosa, nelle sue parole... nel modo in cui le ha pronunciate... Mi ha intrigato. E adesso? Non lo so...» Mi fermai. Il motivo che mi aveva spinto a recarmi al faro, tutto d'un tratto, sembrava debole persino a me. Mi sentii una sciocca. Ma non mi ero sbagliata. Felix aveva davvero qualcosa da dirmi. E adesso non avrebbe più avuto la possibilità di farlo. «Immagino che non ci siano dubbi riguardo al fatto che si trattasse davvero di Felix Berg...» «Era proprio lui. La sorella è venuta in obitorio questa mattina per identificare il corpo. Vìvevano insieme, a quanto sembra, da qualche parte a Temple Bar.» «Che impressione ti ha fatto?» Si soffermò a considerare la mia domanda. «Mi è sembrata piuttosto inespressiva», disse infine. «Fredda. Quasi indossasse una maschera. La classica regina delle nevi. In effetti, non dovrei lamentarmi... qualsiasi cosa è preferibile a una parente in lacrime.» Un'affermazione alquanto insensibile, ma sapevo esattamente a cosa si riferiva. Mi ero trovata nella stessa posizione, nell'FBI, quando avevo avuto a che fare con le persone che venivano a identificare un cadavere. Ti auguri che non facciano scenate, e che non rendano le cose più difficili... per
te. Non importa quante volte ti è già successo; ed è meglio lasciar perdere tutte quelle stronzate su come affrontare un trauma, sui sette stadi del dolore, o su come guidare le famiglie delle vittime che attraversano le porte dell'obitorio... Continuerai sempre a chiederti come diavolo sia possibile aiutare qualcuno che sta soffrendo in quel modo. In effetti, tutto quello che desideri è che aspettino prima di avere una crisi, cosicché la loro disperazione non diventi un tuo problema. «Sei riuscita a parlarle?» «Solo poche parole. Non era dell'umore adatto per rispondere a delle domande. Mi ha detto soltanto che è uscita di casa poco dopo le dieci, ieri sera, e che non sapeva nemmeno che il fratello fosse fuori. L'ha scoperto soltanto all'arrivo della polizia.» «Dev'essere stato uno choc.» «Se è così, non l'ha dato a vedere. L'unica cosa che non riesce a comprendere è che cosa ci facesse il fratello in un posto del genere.» Si fermò, quasi non sapesse se dirmi anche il resto. «E poi ha chiesto di te», confessò alla fine. «È comprensibile, sono stata io a trovare il corpo. Felix era lì per incontrare me... è naturale che voglia parlarmi. Anch'io ne sentirei il bisogno. Credo che dovrei passare da lei; devo solo trovare le parole giuste. Sai quanto mi riesce bene. Dio, sono una frana in queste cose.» Avvertii una sorta di resistenza da parte sua. «Tu pensi che non dovrei farlo...» «È solo che non voglio che ti faccia coinvolgere.» «Non ne ho alcuna intenzione.» «Le ultime parole famose.» 6 Dicevo sul serio. Tutto quello che volevo era parlare con Alice. Non avevo alcuna intenzione di farmi coinvolgere. Ripensandoci, avrei dovuto rendermi conto dei pericoli che correvo... Ero come un alcolizzato che cerca di convincersi che un bicchierino non possa fargli alcun male. Invece una cosa tira l'altra, come si dice. A mia discolpa, posso aggiungere soltanto che le mie intenzioni erano assolutamente pure. Poi accadde qualcosa che cambiò le carte in tavola. Non appena Grace se ne fu andata, feci una doccia e mi cambiai. Non mi sembrava carino andare a trovare una donna che aveva appena perso il fra-
tello con gli stessi vestiti che indossavo al momento del ritrovamento del corpo. Soprattutto considerando che ci avevo dormito dentro. Scesi le scale e uscii. Mi mescolai tra la folla. L'unico modo per riuscire a sopravvivere. Le strade brulicavano di gente che entrava e usciva dai negozi, carica di borse. Ma cos'è che si affannavano tanto a comprare? Niente di cui avessero bisogno, questo è certo. Cercavano solo di riempire un vuoto. Già... ma che motivo avevo di essere così condiscendente? Tutti noi sentiamo una simile necessità. Tutti noi cerchiamo di scomparire dentro qualcosa. Io, per esempio, mi ero sempre rifugiata nel lavoro; l'avevo fatto nell'FBI e anche in seguito, quando avevo cercato di inventarmi una carriera come scrittrice. Forse era proprio per questo che ero così ansiosa di andare a trovare Alice: volevo colmare il vuoto che sentivo dentro di me. Lo stesso che mi induceva a cercare rifugio nelle pillole per dormire. Cercai di non pensarci, di qualunque cosa si trattasse. È del tutto inutile tuffarsi a capofitto in qualche cosa per porre un freno alle proprie insicurezze, se esse trovano comunque il modo di insinuarsi nella tua mente. E poi, la città non mi permetteva di sentirmi a lungo giù di morale. È strano questo mio desiderio di vivere circondata dalle persone - da migliaia di persone - quando, in effetti, di loro mi interessa poco. Quello di cui ho bisogno è il loro rumore, la confusione, gli odori... lo strano formicolio della pelle, che ti fa sentire viva risparmiandoti qualsiasi sforzo. Dublino, paragonata ad altri posti in cui ho vissuto, è una piccola città. Se quello che cerchi è la diversità etnica, un crogiolo di razze... be', allora avresti più fortuna in Idaho. Ma la situazione stava migliorando. Davvero. La città iniziava lentamente ad aprirsi e, camminando, riuscivi ad avvertire un'innegabile energia statica. Il trucco era assicurarti di mantenere la giusta distanza. Una necessità che mi aveva causato non pochi problemi dal punto di vista personale: c'era sempre qualcuno che cercava di farmi rivelare qualcosa sul mio conto. Ma io non sono il tipo. Quando si trattava di stringere una relazione con una città, però, non me la cavavo affatto male. Ci capivamo. Non ci davamo fastidio. Anche con Grace aveva funzionato. Lei riusciva a capire il bisogno che sentivo di mantenere un certo riserbo. Non scambiava per una mancanza di interesse quella che dagli altri era considerata freddezza. Iniziai a sentirmi meglio, camminando per la città. Era questa l'unica cosa importante. Sembrava quasi che qualcuno avesse riavviato il mio motore interno. Ebbi l'impressione che mi fosse stato donato un giorno o, alme-
no, ciò che ne rimaneva. Quando raggiunsi Temple Bar, ero di nuovo un essere umano, o quasi. Un paio di secoli fa, Temple Bar era il cuore dei bassifondi di Dublino: prostitute, ubriachi, furfanti... In effetti, qualcuno potrebbe dire che la situazione non era molto cambiata; l'unica differenza erano gli indumenti più lussuosi della gente che viveva di espedienti. Lasciato in uno stato di abbandono e decadenza per decenni, il quartiere era in seguito stato trasformato dagli urbanisti in un'area con pretese pseudo-bohémien, sul modello di Covent Garden o di Tribeca. I magazzini erano stati riconvertiti in appartamenti costosi, destinati a ventenni e trentenni pretenziosi; nei viottoli erano spuntati come funghi falsi negozi etnici, ristoranti esotici, bar, gallerie, piccoli teatri, centri culturali di sinistra. Tutti gli artisti, in città, sembravano avere un piede nel distretto. Ma, ironia della sorte, un alluce era tutto quello che potevano permettersi. Soltanto pochi, fra quanti avevano contribuito a rendere il quartiere quello che era, adesso avevano i mezzi necessari per viverci. Non era mai stato il posto per me. Anche se, dopo la mia esperienza nell'FBI e il trasferimento - o dovrei dire la fuga? - a Dublino, avevo iniziato a guadagnarmi da vivere scrivendo libri, non mi ero mai sentita a mio agio in quell'ambiente, che continuavo a guardare con sospetto. Del resto, la cosa era reciproca. La politica, poi, non aiutava. Accanto ai sedicenti intellettuali di Dublino, un liberale moderato di New York iniziava ad assomigliare ad Howard Stern. Comunque, mi trovavo meglio in mezzo ai poliziotti. Da sempre. E questo, senza dubbio, spiega come mai fossi finita insieme a Fitzgerald. Il simile attira il simile. La casa di Felix Berg si trovava proprio nel cuore di Temple Bar; difficile trovarla, se non sapevi che cosa cercare con esattezza. Forse gli piace così, pensai. Gli piaceva, mi corressi. Dovetti zigzagare in un labirinto di vicoli prima di notare il basso passaggio ad arco che, attraverso un tunnel, conduceva in una stradina acciottolata. Quella in cui, stando a quanto mi aveva detto Grace, Felix era vissuto con la sorella. La porta d'ingresso, a differenza delle altre, era priva di targhetta. C'erano solo il numero civico, il nove, e un citofono. L'edificio era piuttosto alto, almeno tre o quattro piani. Difficile dirlo dalla strada. Sembrava vuoto. Non saprei dire che cosa mi fossi aspettata. Berg era stato un fotografo di successo: così mi aveva detto Grace. Ma, a quanto pare, non aveva mai sentito l'esigenza di mettere in mostra la sua ricchezza.
Aveva tutta l'aria di essere un luogo in cui un uomo poteva venire a nascondersi. Suonai. Nessuna risposta. Provai di nuovo. Ancora niente. Non c'era da stupirsi. Anche ammesso che la stampa non sapesse ancora a chi apparteneva il cadavere ritrovato la sera prima, non avrebbe impiegato molto tempo a scoprirlo. Il dipartimento di polizia, a Dublino, faceva acqua da tutte le parti. C'erano più probabilità che una notizia restasse segreta andando in onda nell'edizione serale del telegiornale. D'un tratto, realizzai che avrei fatto meglio a chiamare Alice Berg per avvertirla che sarei passata... per dirle almeno chi fossi. L'ennesima dimostrazione di quanto mi riuscisse difficile fare o dire la cosa giusta. Non sarei dovuta venire, pensai. E mi ricordai di aver pronunciato le stesse parole la sera prima, giù al faro. Mi resi conto che la mia carica positiva si stava dissolvendo; indietreggiai di qualche passo e guardai un'ultima volta le finestre, per essere sicura che nessuno mi stesse osservando. Poi mi girai, pronta ad andarmene... E mi bloccai. C'era una donna, sotto l'arco. Mi fissava. I capelli scuri erano pettinati all'indietro, tirati al punto da farle male. Aveva il viso teso; con le mani afferrò il collo della giacca, nervosamente. Aveva un'aria così fragile... quasi fosse sul punto di spezzarsi. Riuscì a innervosirmi. Da quanto tempo era lì? «Alice?» le domandai. 7 «Lei era là», furono le sue prime parole. Lo stesso, lieve accento del fratello, che riuscì ancora una volta a sfuggirmi. «Ieri sera. Me l'ha detto la polizia. Posso farle una domanda?» «Ma certo. È per questo che sono qui.» «Andava a letto con Felix?» «No.» Per la sorpresa, fui quasi sul punto di mettermi a ridere. Fra tutte le cose che avrebbe potuto chiedermi, questa era l'ultima che mi sarei aspettata. «Non avevo mai incontrato suo fratello prima della scorsa notte. Non sapevo nemmeno che aspetto avesse.»
Si astenne dal pormi la domanda più ovvia: perché mai ero andata al molo per incontrarlo, se non lo conoscevo? In effetti, neppure io ero sicura di conoscere la risposta. Ma i suoi occhi continuarono a scrutarmi, in cerca di un segnale che le facesse capire che stavo mentendo riguardo alla mia relazione con il fratello. Apparentemente, avevo superato il test. «Farà meglio a entrare», mi disse. Alice uscì dal tunnel ad arco e mi passò accanto sfiorandomi, diretta verso la porta di casa. I suoi passi erano piccoli come quelli di una ballerina; sembrava quasi che indossasse un paio di scarpe troppo strette. Qualcosa, in lei, mi ricordava la storia della sirenetta che, quando si trovava sulla terraferma, sembrava camminare su frammenti di vetro. Mi tornò in mente la descrizione di Grace: la maschera sul viso. Aveva perfettamente ragione. Quella donna avrebbe potuto essere chiunque. Fitzgerald mi aveva detto che Alice si era fatta conoscere come critico d'arte, ma sembrava vagamente fuori posto nell'ambiente rilassato di Temple Bar. Mi chiesi se fosse stata lei a scegliere di vivere lì, o se fosse stata una decisione di Felix. La seconda ipotesi mi sembrava la più probabile. Non mi guardava. Tirò fuori una chiave dalla tasca e provò per due volte a infilarla nella serratura... forse la mia presenza la rendeva nervosa. Alla fine, aprì la porta con una spinta ed entrò in uno stretto vestibolo, in fondo al quale notai una scala che portava al piano superiore. Senza dire una parola, si affrettò a salire i gradini. Nel frattempo si tolse la giacca, che gettò sulla ringhiera. Non mi restava che entrare; chiusi la porta e la seguii. Giungemmo in un ampio open space. Su entrambe le estremità si aprivano alte finestre dalle quali si vedevano altre case con altre finestre e minuscole schegge di cielo. Le assi del pavimento e le pareti spoglie erano dipinte di bianco; l'arredamento era ridotto al minimo: qualche sedia, un divano e un lungo tavolo da refettorio, cosparso di libri e stampe. Niente quadri, nessun tocco personale... solo un semplicissimo calendario ricoperto dalla calligrafia di qualcuno, appeso al muro dietro al tavolo. Non ricordavo di essere mai stata in una casa più spoglia. Esclusa la mia. «Le andrebbe un drink?» mi chiese con una vivacità del tutto inaspettata, che ruppe la mia concentrazione. «Stavo per versarmi un bicchiere di brandy.» Doveva aver notato l'apprensione sul mio volto.
«Non si faccia prendere dal panico... non ho intenzione di ubriacarmi e di cominciare a piangere sulla sua spalla. Mi faccio sempre un bicchierino a quest'ora. Mi aiuta a rilassarmi.» «In questo caso, mi unisco a lei.» La guardai mentre si dirigeva verso il tavolo; spostò qualche libro e prese una bottiglia con due bicchieri. E cominciò a versare. Odio il brandy... odio quella sensazione di bruciore alla gola. Ma che cosa avrei dovuto fare? Chiederle di andarmi a prendere un buon whiskey al malto? «Perché non si siede?» mi disse da sopra la spalla. Obbedii, ma continuavo a sentirmi a disagio. Forse era arrivato il momento in cui avrei dovuto dirle quanto fossi dispiaciuta per l'accaduto. Non sono mai stata brava in queste cose. Informare qualcuno della morte di una persona cara era diverso, le frasi di circostanza avevano un senso... se non altro, esisteva un motivo reale per piangere. Adesso, invece, mi trovavo davanti a un rituale che non ero in grado di seguire. «Come l'ha saputo?» le chiesi invece, impacciata, mentre si avvicinava con i bicchieri. Le sue mani erano ferme come quelle di un artificiere. Mi passò il mio drink, e si accomodò sulla sedia di fronte. «Si riferisce a Felix?» E a cos'altro? «Qualcuno è venuto a bussare, intorno alle sei del mattino. Ho lasciato che andasse Felix. Si alzava sempre per primo, gli piaceva gustarsi le ore del mattino... E poi, la sera prima ero rientrata tardi. Ero stanca. Ma i colpi alla porta non cessavano. Alla fine, mi sono decisa a scendere al piano di sotto per andare ad aprire. Era un agente di polizia. Mi ha chiesto se fossi Alice Berg. Il resto è storia», disse con un sorriso, bevendo un sorso del suo brandy. «La sua storia, letteralmente. Anche se, in effetti, ormai siamo giunti alla parola 'fine'.» Un altro debole tentativo di sorriso. «Ho forse urtato la sua sensibilità?» Non aspettò la mia risposta. «Se l'ho fatto, le chiedo scusa. Ma siamo sempre stati così, io e Felix. Duri come pietre. Non siamo mai stati dei sentimentali. Mai, nemmeno da bambini. Non avrebbe senso cambiare adesso. Non c'è niente di così oscuro da non poterci ridere sopra, non è d'accordo? Si può scherzare su tutto...» «Un buon credo, il suo.» «Non lo definirei proprio un credo», ribatté scrollando le spalle. «Ma abbiamo dovuto affrontare situazioni molto difficili, mio fratello e io. Anni fa, ci rendemmo conto che saremmo riusciti a superare qualsiasi cosa ci
avesse riservato la vita. Abbiamo sempre affrontato tutto insieme. Fino alla scorsa notte. Non mi ero nemmeno accorta che non fosse in casa, sa? Io sono uscita dopo le nove, e a quell'ora era ancora qui. Mi ha augurato la buonanotte. Tutto come al solito...» Avrei voluto chiederle dove avesse passato la serata e a che ora fosse rientrata, ma realizzai che stavo iniziando di nuovo a pensare come un detective, e non come una qualunque spettatrice interessata alla vicenda. Dovevo fare più attenzione a quello che dicevo. Alice ricominciò a parlare togliendomi da una situazione imbarazzante. «Quella donna... il sovrintendente capo... mi ha detto che, se non altro, è stata una cosa veloce.» La polizia lo diceva sempre alle famiglie delle vittime, anche se non era vero. Era quello che volevano sentirsi dire. Ma quello della rapidità è un concetto tristemente relativo, quando si ha a che fare con la morte. Nel caso di Felix, probabilmente era stato davvero così. Secondo Grace, la pallottola gli aveva attraversato un occhio; il residuo di polvere da sparo bruciata presente sull'orbita indicava che, al momento dello sparo, la canna della pistola era appoggiata alla pelle. Il decesso doveva essere sopravvenuto piuttosto in fretta. «È già qualcosa», continuò. «È un sollievo che non abbia sofferto. Quello che ancora non capisco è perché mai lei si trovasse laggiù, per incontrare un uomo che afferma di non aver mai conosciuto.» «La polizia non le ha detto niente?» «Mi hanno riferito che... lei voleva dire qualcosa a mio fratello. È così?» Non sembrava molto convinta. E chi lo sarebbe stato, al suo posto? «In effetti, era lui che voleva parlare con me. Mi ha telefonato ieri sera.» Mi armai di coraggio: adesso arrivava la parte difficile. «E mi ha confidato che qualcuno stava cercando di ucciderlo.» Fui sollevata, quando realizzai che le mie parole non sembravano poi così incredibili, nonostante i miei timori. «Aveva detto la stessa cosa anche a me», ammise tranquilla. «Io ho provato a rassicurarlo, dicendogli che andava tutto bene, che non c'era niente di cui preoccuparsi. Credevo che stesse immaginando delle cose. Felix a volte sapeva essere... sensitivo. Poi quel poliziotto è venuto a svegliarmi e mi ha detto che l'avevano trovato morto.» «E adesso pensa che per tutto questo tempo, probabilmente, aveva detto la verità...»
«Già, e io non l'ho ascoltato.» Fissò la luce che danzava sul muro, frantumandosi. «Ha idea del perché qualcuno potesse desiderare la morte di suo fratello?» provai a chiederle. Il suo volto rimase imperscrutabile. «Aspetti qui.» Si alzò e si diresse verso le scale. Sentii i suoi passi che calpestavano le assi nude del pavimento sopra la mia testa; andò da una parte all'altra della stanza, per ben due volte. Al suo ritorno, stringeva qualcosa tra le mani. Una cartelletta di plastica trasparente. Me la passò e si mise a sedere, osservandomi mentre la aprivo. Rovesciai il contenuto sul divano. Erano ritagli di giornale. I più vecchi risalivano al mese di gennaio, il periodo in cui erano iniziati gli omicidi dell'Uomo di Marx. Un'infinità di variazioni su un unico tema. Un uomo ucciso in City Street. Un'altra vittima dell'Uomo di Marx. Nessun testimone: l'Uomo di Marx sfugge ancora una volta alla polizia. In ogni articolo, il nome della strada in cui era avvenuto l'assassinio era stato pesantemente sottolineato con un pennarello rosso. C'erano anche profili psicologici del killer, estratti da alcuni fra i giornali più accreditati, e ritagli di riviste; uno proveniva da una pubblicazione domenicale, e sosteneva che l'assassino fosse un killer professionista che aveva perso la testa, e che adesso lavorava per piacere e non più per denaro... come se uccidere per professione fosse meno grave che farlo per hobby. Già, come se ciò potesse fare qualche differenza per le vittime, o per le loro famiglie. E, in fondo alla pila, trovai gli articoli che avevo scritto per quel magazine americano; erano perfettamente ordinati e tenuti insieme da una graffetta. «Una raccolta notevole», osservai. «Che cosa dice la polizia, in proposito?» «Non l'hanno vista.» «Vuol dire che non l'ha mostrata agli agenti?» «Non me l'hanno chiesta.» Sembrava confusa. «Probabilmente non ero molto lucida, in quel momento. Pensavo a Felix...» Le parole le morirono sulle labbra. «E adesso la sta facendo vedere a me», constatai. «Con lei voglio provare a essere onesta. Non ho niente da perdere. Felix è sempre stato ossessionato da quegli omicidi, fin dall'inizio. Registrava i telegiornali ogni volta che il mostro faceva un'altra vittima, e li riguardava
in continuazione. Comprava tutti i giornali che parlassero della vicenda. Navigava in rete in cerca di dettagli. Aveva sempre nutrito un profondo interesse per i crimini e per gli assassini, fin da ragazzo. E aveva letto molto sull'argomento. Diceva che per capire veramente una città occorre studiare le modalità degli omicidi che vi vengono commessi. Ha mai sentito parlare di Weegee?» Scossi la testa. «Era un fotografo di origine austriaca. All'anagrafe, Usher Fellig. Lavorò a Manhattan negli Anni Trenta per alcune agenzie di stampa, offrendo loro le immagini che raccoglieva in città durante la notte, soprattutto omicidi. Nella sua auto aveva fatto montare una radio della polizia, così da arrivare sulla scena insieme alle forze dell'ordine. A volte addirittura prima. Felix era un suo grande ammiratore. Come le ho detto, sosteneva che quello fosse l'unico modo per comprendere una città, l'unico modo per apprezzarne la natura più autentica. Sentiva il bisogno di sapere come si vivesse nella realtà urbana. Ma questi omicidi... non so, avevano qualcosa di diverso. Lo stavano letteralmente consumando. Più passava il tempo, più sembrava esserne ossessionato.» «E lei come si sentiva, al riguardo?» «Ero preoccupata per lui. Felix non era...» si fermò, sforzandosi di trovare l'espressione giusta, «...non stava sempre bene. Temevo che finisse con l'esagerare, che lavorasse troppo. A volte non andava quasi a dormire, per intere settimane. Avevo paura che gli venisse un esaurimento nervoso. Gli era già successo, in passato... quella volta pensai che non si sarebbe più ripreso. Temevo che questa storia potesse spingerlo di nuovo oltre il limite e non volevo assecondarlo. Non volevo incoraggiarlo. Ho preferito ignorarlo. Ma...» Completai io la frase per lei. «Ma l'Uomo di Marx non ha fatto lo stesso.» Annuì, un po' intontita. «E adesso crede che suo fratello sapesse qualcosa, e che per questo qualcuno abbia voluto eliminarlo? Le aveva mai detto esplicitamente che aveva delle informazioni riguardo a quanto stava accadendo?» «No.» «Forse ne aveva parlato con qualcun altro?» «No, non era il tipo. Felix non conosceva quasi nessuno.» «Ma devono pur esserci state delle altre persone. Amici, amanti, qualche collega fotografo. Se avessi la possibilità di parlare con loro, o se la polizia
potesse...» «Le ripeto che non c'era nessun altro.» «Nemmeno una ragazza?» «Io avevo lui, lui aveva me. Era tutto quello di cui avevamo bisogno», insisté in tono piatto. «Per questo non capisco perché si fosse rivolto a lei. Continua a sostenere che lei e mio fratello non vi eravate mai incontrati. Dunque come può essere sicura che l'uomo con cui ha parlato al telefono fosse davvero Felix?» «Come posso esserne sicura, dice? Be', immagino che non sia possibile. Non del tutto, almeno. Non gli avevo mai parlato, prima di ieri sera. C'è stata solo quella telefonata. Sono andata al faro, come mi aveva chiesto lui. E ho aspettato. Faceva freddo. Di lui, nessuna traccia. Ero alquanto irritata. Pensavo al tempo che mi stava facendo perdere. Stavo per rinunciare, ed ero sul punto di andarmene, quando l'ho trovato.» «Quando ha trovato il suo corpo», disse in un sussurro. Quella parola la metteva a disagio. «Non avevo motivo di dubitare che fosse proprio la persona con cui avevo parlato al telefono. Magari, da qualche parte, ha un nastro con incisa la sua voce... forse potrei...» Ma stava già scuotendo la testa: non capii se volesse dire che non esisteva nulla del genere, o se, semplicemente, non avesse alcuna intenzione di accontentarmi. «Che cosa le fa pensare», ripresi cauta, «che l'uomo che mi ha chiamato potesse non essere suo fratello?» «Oh, nulla.» Improvvisamente, sembrava agitata. «Nulla... a parte il fatto che la cosa per me non ha alcun senso. Tutto qui. Felix non mi aveva fatto parola del vostro incontro.» «Io credo che volesse tenerlo per sé.» «Mi ascolti.» Posò pesantemente il bicchiere, e iniziò a parlarmi come se si trovasse davanti a un'idiota cui stava cercando di spiegare il funzionamento di un interruttore. «Come le ho già detto, Felix non mi nascondeva niente. Non aveva una vita privata. Una vita segreta. Io facevo tutto per lui. Tutto. Mandavo avanti la casa. Telefonavo. Amministravo i suoi soldi. Concludevo i suoi affari. Mi assicuravo che ricevesse i pagamenti da parte di commercianti, acquirenti privati e gallerie. Pagavo le bollette e controllavo che avesse abbastanza denaro con sé quando usciva. Sapevo dove si trovava ogni cosa di cui potesse aver bisogno. Ero io a prendere i suoi appuntamenti. Tutti», sottolineò, indicando il calendario che avevo notato entrando nella stanza. «A volte dovevo scrivergli sul dorso della mano quello
che doveva fare nell'arco della giornata, perché non se ne dimenticasse. Era un artista. Un grande artista, credo... per questo non avevo mai nulla da obiettare. Ma non era in grado di fare niente senza di me. Se doveva andare da qualche parte, ero io a prenotargli voli e alberghi; se non potevo accompagnarlo, mi assicuravo che avesse un elenco di tutti i posti in cui doveva andare, ristoranti compresi. Ecco, è così che stavano le cose, tra noi. Eravamo molto più che fratello e sorella. Eravamo parte della stessa persona. La sola idea che mi abbia nascosto qualcosa... qualcosa di cui poteva parlare solo con lei... be', è un'assurdità.» Dal tono della sua voce, compresi che non intendeva tornare sull'argomento. «Immagino sappia che dovrà mostrare questa roba alla polizia...» Cercai di cambiare discorso, indicando i ritagli di giornale sparpagliati sul divano. «Devono sapere dell'ossessione di Felix.» «Non credo di riuscire ad affrontarli di nuovo. Dover identificare il corpo è stato già abbastanza difficile. Ho continuato a ripetermi che quello non era lui... che Felix se n'era già andato, e quello era soltanto un cadavere. Altrimenti non ce l'avrei fatta. So che le sto chiedendo molto, ma potrebbe farlo lei per me? Si porti via tutto... Non voglio più vedere questa roba in casa mia. La consegni alla polizia.» «Se è questo che vuole...» «Sì.» Allungai una mano e iniziai a radunare la raccolta di Felix, quando qualcosa scivolò fuori dal pacco di fogli e finì fluttuando sul pavimento. Mi chinai a raccoglierla. Era una fotografia. Non una stampa come quelle sparse sul tavolo da refettorio. No, era una comune istantanea che ritraeva... ma sì, era proprio il faro di Howth. Era stata scattata da una certa distanza, ma si vedeva chiaramente una figura in piedi davanti alla porta rossa. La sagoma di un uomo. «Che cos'è?» «Era tra le carte di Felix», dissi passandola ad Alice. «È stato suo fratello a scattarla?» «No, non è possibile», rispose con assoluta fermezza. «Questa è una comune Polaroid. È stata fatta con una di quelle macchine fotografiche che stampano l'immagine subito dopo lo scatto. Felix non ne ha mai posseduta una. E poi...» «E poi?»
«Credo che l'uomo nella foto sia mio fratello. Non posso esserne sicura... è piuttosto distante. Ma sembra lui.. Ecco, vede? Quel luccichio sul volto... un paio di occhiali, probabilmente. Comunque, non è stata scattata di recente. Non portava i capelli così lunghi da quando era rientrato dagli Stati Uniti.» «L'aveva mai vista?» Scosse il capo. Com'era finita tra le carte di Felix? 8 Di una cosa ero certa. Se volevo arrivare a qualcosa, dovevo saperne di più su Felix. Qualsiasi notizia mi sarebbe stata utile. E sapevo esattamente da dove cominciare. Thaddeus Burke: un'enciclopedia vivente. O, per meglio dire, un uomo che sapeva tutto ciò che vale la pena sapere. Ed era anche un americano, il che contribuiva a creare una certa solidarietà, in una città che non sempre si mostrava accogliente nei nostri confronti. Un ex marine e un comunista politicamente impegnato. Un fatto, quest'ultimo, che aveva cautamente deciso di nascondere ai suoi ufficiali comandanti per oltre trent'anni, e durante le tre missioni che aveva compiuto in Vietnam, dove era stato decorato con la medaglia al valore e aveva visto il suo nome apparire in numerosi dispacci. Come facevo a sapere tutto questo? Semplice: i suoi ex colleghi mi avevano raccontato tutti i dettagli una sera davanti a un bicchierino, quando lui non poteva sentirci. In mia presenza, non aveva mai fatto parola della sua carriera militare. Aveva preso il nome di suo padre - un fatto abbastanza frequente, per la verità - un pover'uomo che aveva lasciato Dublino all'inizio degli Anni Quaranta, e che a New York era riuscito soltanto a diventare ancora più povero e a darsi all'alcol più di quanto non facesse già; al figlio aveva lasciato soltanto un mucchio di vecchie storie sulla sua città... E fu così che un ex marine di colore (sua madre era originaria della Louisiana), a cinquant'anni, si ritrovò a Dublino dopo un'onorata carriera militare, deciso a iniziare una vita completamente nuova. Adesso aveva un'attività piuttosto precaria: gestiva un negozio di libri usati, giù al molo. Con lui c'era un gatto randagio dal pelo arruffato, che in una notte di pioggia si era trascinato fino alla porta sul retro; Thaddeus l'aveva chiamato Hare. Di qui il nome del negozio: Burke and Hare's, in ono-
re di due infami ladri di cadaveri vissuti nel Diciannovesimo secolo. Così, almeno, mi aveva detto lui. Se vendesse o no dei libri era una questione ampiamente discussa. Aveva meno clienti di un bar per astemi, il che gli lasciava parecchio tempo per leggere tutto ciò che gli capitasse tra le mani; una situazione apparentemente congeniale. Le uniche volte in cui riuscivo a vederlo era quando ci sedevamo intorno a un tavolo per una partita a poker e una tazza di caffè, o, se ero fortunata, un bicchiere del suo scotch. Non so perché, ma lo scotch degli altri ha sempre un gusto migliore. Burke sembrava avere l'abitudine di scegliere le persone così come sceglieva i gatti; adorava le storie tristi, e non voltava mai le spalle a chi voleva fare una chiacchierata o aveva un po' di tempo da perdere. «Di tempo ne ho in abbondanza», diceva sempre. «Sono i soldi che mi mancano.» E probabilmente non li avrebbe mai fatti, dal momento che era specializzato nel raccogliere libri che gli altri negozi preferivano non tenere. Non solo: nemmeno Fidel Castro avrebbe voluto leggere tutti i trattati di teoria del comunismo che aveva sugli scaffali. In effetti, nemmeno lui lo faceva spesso. E ciò, badate bene, gli lasciava un bel po' di tempo per il poker. Quando mi presentai da lui quel pomeriggio, dopo la visita ad Alice, il negozio era come al solito deserto. Era quasi l'ora di chiusura. «Hai detto Felix Berg?» mi chiese quando seppe che cosa stavo cercando. «Cos'è, improvvisamente ti interessa la fotografia, Saxon? Hai cominciato a fare qualche scatto? Allora, dimmi... che cosa c'è sotto?» Inutile fingere un interesse casuale. Con Burke non avrebbe funzionato. «Hanno ritrovato un cadavere, giù a Howth.» «Sì, l'ho sentito al telegiornale di mezzogiorno. Il nostro amico, l'Uomo di Marx, ha colpito di nuovo. Di questo passo, presto farò armi e bagagli e mi trasferirò sulle colline. Ebbene?» «Si tratta di Felix Berg.» Per il momento, preferii non rivelare il mio ruolo all'interno della vicenda. «Dici davvero?» Sembrò genuinamente sorpreso; evitò persino di fare pressioni, quando era chiaro che gli stavo nascondendo qualcosa. «Conosco la sorella... Ogni tanto viene qui a cercare libri rari. Sai, roba fuori catalogo. Una donna in gamba.» «E lui? Non lo conoscevi?»
«Nessuno conosceva Felix Berg.» «Un tipo solitario?» «E piuttosto strano, anche. A quanto ho sentito, non usciva quasi di casa. Non dal punto di vista sociale, almeno. Un recluso, con la R maiuscola. Di certo non è mai venuto qui. Qualcuno li chiamava gli Ice Berg, per la loro freddezza.» «Però hai i suoi libri, vero?» «Se ci sono, devono essere là dietro, da qualche parte. Aspetta qui, mentre vado a dare un'occhiata.» Avevo fatto bene ad andare subito da lui, mi urlò dal retro del negozio mentre cercava i volumi. La mattina dopo la notizia sarebbe apparsa sui giornali, e non sarei riuscita a trovare una sola copia delle sue opere in tutta Dublino. «La morte fa meraviglie... le vendite di un autore aumentano a dismisura», commentò. «Forse dovrei provarci anch'io», dissi, mentre tornava con un grande volume quadrato, che teneva stretto con quelle enormi mani da marine. Mi erano sempre sembrate troppo goffe e sgraziate, per i libri; ma li maneggiavano con cura, quasi fossero di cristallo. Lo appoggiò sul tavolo. Era intitolato La città irreale. «T.S. Eliot», mi spiegò. «La terra desolata, l'hai mai letto?» «No, non ho avuto il piacere.» «Non prenderti gioco di ciò che non capisci. Dovresti leggerlo. Devo averne una copia, qui in giro. Se vuoi la aggiungo al tuo conto. Eliot era un poeta. Un tuo vicino, visse a Boston. E anche lui scappò, proprio come te.» «E si rifugiò a Dublino?» «No.» «Almeno, uno dei due ha avuto un po' di buon senso.» Sorrise. «Berg ha pubblicato tre libri... ma i primi due sono esauriti. Questo è il più recente. Se vuoi una copia degli altri, posso procurartela.» «Ti farò sapere. Prima voglio dare un'occhiata a questo. E, visto il prezzo, direi che deve bastarmi. Ma lo sai che ci sono Paesi del Terzo Mondo il cui prodotto interno lordo è inferiore a cifre del genere? Non credo che la mia carta di credito arriverebbe a coprire la spesa, se li acquistassi tutti e tre.» «È il risultato del mercato globale...» «Ehi, te l'ho già detto un milione di volte... se attacchi a parlare di politi-
ca, alzo i tacchi e me ne vado. E giuro che non mi rivedrai tanto presto.» «Ma poi finiresti con il tornare. Sai che ho ragione. Prima o poi riuscirò a convertirti.» «Per l'ennesima volta, ti ripeto che non ho nulla da indossare che sia adatto a una barricata. Ah, un'altra cosa... dovresti prestare più attenzione a quello che dici. Non vorrai che Sweeney torni qui per spappolarti le palle, vero?» Burke aveva avuto l'onore di ricevere una visita da Paddy Sweeney, qualche settimana prima. Il capo dell'Unità antiterrorismo stava cercando un povero pesciolino da usare per sostenere la sua tesi che l'Uomo di Marx fosse un agitatore di sinistra in missione speciale. Thaddeus era un outsider con una predilezione per la teoria marxista, che in più aveva una certa familiarità con le armi, quindi era normale che, prima o poi, comparisse sul radar di qualcuno. E spesso rimpiangevo il fatto di essermi perduta quell'incontro. Comunque, Sweeney non si fece più vedere. In quel momento, capovolsi il libro e guardai la foto di Felix in quarta di copertina. Era la prima volta che lo vedevo. Vivo, intendo. La prima volta che vedevo il suo viso. Non sorrideva. Aveva un aspetto esile e ansioso, nonché un'aria leggermente effeminata. I capelli erano biondissimi, al contrario di quelli di Alice, molto scuri; erano lunghi e avevano bisogno di una pettinata. Dietro la montatura, strizzava leggermente gli occhi. Sembrava così giovane... e in effetti lo era, ma dimostrava anche meno dei suoi anni. Quanti ne aveva, al momento della morte? Trentacinque? Ma il suo viso non riusciva comunque a risultarmi familiare. Era oltremodo mutevole. Aveva una di quelle facce che possono trasformarsi fino a diventare irriconoscibili, a seconda dell'umore e dello stato d'animo. Rigirai in fretta il volume, sforzandomi di non pensare a quel corpo riverso in modo così grottesco sugli scogli, con la marea che gli lambiva i piedi nudi, ormai insensibili. Non era facile credere che l'autore di quel libro avesse fatto una fine del genere. Assassinato. Quando sollevai gli occhi, mi accorsi che Burke mi stava guardando. «Lo conoscevi?» mi chiese.
«No. Cioè... ecco, sono stata io a trovare il cadavere.» «Capisco. Va bene, adesso siediti lì e dai un'occhiata al libro, mentre vado a prendere un po' di caffè. Dimenticati dell'ora. Ho un sacco di cose da fare, per far passare il tempo...» «No, Burke, davvero. Lo apprezzo molto... ma preferisco tornare a casa.» «Come vuoi, sei tu il capo.» Ma gli dispiaceva lasciarmi andare. Il solito istinto da mamma chioccia. Voleva essere sicuro che stessi bene. Ero già a metà strada, quando mi accorsi che non gli avevo pagato il libro. Non c'era da meravigliarsi, se non riusciva a fare un soldo. 9 Una volta a casa, ordinai una pizza. Quando arrivò, la portai insieme al libro sul terrazzo che dava su St. Stephen's Green, un Central Park in miniatura nel cuore di Dublino. Era tardi, i cancelli erano chiusi. Osservai i taxi che accostavano davanti agli hotel e ai ristoranti lungo il perimetro del parco, le borse trasportate su per le rampe delle scale; le coppie in piedi che leggevano i menu esposti, e i turisti che facevano un giro del quartiere in carrozza, alle prime luci della sera. Dalla strada saliva il rumore secco e forte degli zoccoli dei cavalli. Pensai a Grace. Mi aveva detto che stasera sarebbe andata a trovare la madre, che viveva in un posto tranquillo a quaranta minuti dalla città. Ci andava una volta la settimana, e immancabilmente tornava a casa distrutta e piena di sensi di colpa. Quella strega inacidita non faceva che criticarla, facendola sentire di merda. Perché non chiami mai? Perché non ti fai vedere? In lei non c'era niente che non andasse, a parte l'abitudine di inventare disturbi inesistenti: sembrava quasi volesse metterli da parte, nel caso ne avesse avuto bisogno in seguito. Grace aveva provato a portarmi con lei in un paio di occasioni, ma la donna aveva finito con l'innervosirsi. Trovava difficile accettare che la sua bambina non si sarebbe mai sposata, e non avrebbe iniziato a sfornare nipotini. Era la sua unica figlia. Diceva di aver paura di affrontare la vecchiaia da sola. Avrei voluto provare più comprensione per lei, ma la verità è che riusciva solo a irritarmi. Opprimendo Grace, non sarebbe riuscita a cambiare
nulla, e dai suoi sguardi capivo che se ne rendeva perfettamente conto. Ma voleva punirla, e quello era il suo modo di farlo. Abbandonai quel pensiero tuffandomi nel libro di Felix che tenevo in grembo. Come prima cosa, lessi la breve nota biografica introduttiva. Berg era nato a Stoccolma, il che, se non altro, spiegava il suo accento. Il padre era svedese, la madre di Dublino. Felix aveva preso dall'uno, Alice dall'altra... la faccia luminosa e quella oscura della luna. Entrambi i genitori erano morti in un incidente d'auto, quando loro erano ancora piccoli. Alice, la maggiore, aveva appena dodici anni, Felix dieci. In seguito alla tragedia erano stati rispediti a Dublino e affidati a un'anziana zia appartenente a un ramo sconosciuto della famiglia, che viveva in un edificio fatiscente a Howth. Felix aveva frequentato un college esclusivo della capitale, quindi aveva studiato fotografia alla St. Martin's School of Art di Londra; da quindici anni era tornato in città, e non si era più spostato. Non si era mai sposato... o forse sì, semplicemente non voleva che tali particolari privati comparissero nei suoi libri. Non aveva mai rilasciato interviste. E, come avevo già avuto modo di notare, non amava farsi fotografare, nemmeno dalla sorella. Doveva essere anche lei una fotografa di talento, lo scatto in quarta di copertina era suo, sebbene ormai lavorasse soprattutto come critico, scrivendo per diversi giornali e pubblicazioni accademiche; e non era raro vederla in TV, in qualità di esperta culturale. Aveva pubblicato anche alcuni libri: in particolare, uno studio dedicato al fotografo americano August Sanders e un saggio sulla teoria moderna dell'uso degli effetti ottici e fotografici in pittura, da Rembrandt a Hockney. Tutte cose al di sopra della mia comprensione. I lavori di Felix erano stati esposti in tutto il mondo: New York, San Francisco, Copenaghen, Barcellona, Monaco, San Pietroburgo, Sydney... sempre e soltanto mostre personali. Stando alla biografia, anche da studente si era sempre rifiutato di esporre le proprie foto accanto all'opera di qualche contemporaneo. Aveva vinto diversi premi e i suoi capolavori erano stati acquistati da istituzioni prestigiose, quali il Museum of International Contemporary Art in Brasile, la Pace/Magill Gallery di New York, l'Irish Centre for Photography, e da collezionisti privati che vivevano negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Messico e in Estremo Oriente. Gli originali venivano pagati a peso d'oro. In breve, Berg era diventato uno dei fotografi più ricercati, forse anche in virtù della scarsa propensione alla vendita; di
recente, aveva speso fatica e denaro nel tentativo di recuperare alcune opere vendute all'inizio della sua carriera, che i critici definivano violente e semipornografiche... un giudizio che forse condivideva, e che per molto tempo l'aveva indotto a mantenere il silenzio. Francamente, quello era un mondo che non mi apparteneva. Mi venne il mal di testa. Non avevo mai dedicato molto tempo all'arte. La vita è troppo breve. Ma tutti i miei dubbi e il mio cinismo svanirono, quando finalmente arrivai in fondo alla nota biografica e iniziai a guardare le fotografie. Il significato non aveva più alcuna importanza: c'era solo la purezza dell'immagine. Gli scatti erano di una bellezza indescrivibile, e non era difficile comprendere tanta fama. Il mio atteggiamento cinico svanì di colpo per lasciare posto alla meraviglia. Sotto al titolo c'era una citazione in francese. Una frase di Baudelaire: Fourmillante cité, cité pleine de rèves/Où le spectre en plein jour raccroche le passant! Per fortuna, in calce trovai anche la traduzione. Città brulicante, città piena di sogni, dove uno spettro afferra un passante alla luce del giorno! Una citazione che riassumeva perfettamente quello che Berg aveva cercato di ritrarre nelle sue fotografie. Erano vedute di città in bianco e nero, principalmente scorci di strade, con un occasionale sprazzo di colore per ottenere un particolare effetto o contrasto. Città che conoscevo bene o che, fino a quel momento, avevo creduto di conoscere. C'era Dublino, naturalmente; e Londra. Ma anche New York, Berlino, Venezia, e persino un paio di immagini di Boston, la mia città natale. Aveva fotografato Union Bridge, dove avevo lavorato come cameriera ai tempi del college. Sembrava tutto così alieno. Visti attraverso l'obiettivo, e i suoi occhi, quei luoghi familiari divenivano irriconoscibili, sinistri. Fu solo grazie ai titoli e alle didascalie che riuscii a dar loro una collocazione. E la cosa più strana erano le figure che li popolavano. Figure. Non uomini e donne. Figure... Era impossibile distinguerle l'ima dall'altra, impossibile considerarle reali. Aveva fotografato la stessa strada in diversi momenti del giorno e della notte, sovrapponendo le immagini all'infinito, fino a perdere il conto. E adesso erano lì, strato su strato, quelle strane figure che occupavano il medesimo spazio... Le loro strade si incrociavano, senza che se ne rendessero conto. Poi l'immagine diveniva così sbiadita, così affollata che le figure perdevano qualsiasi sostanza, quasi
fossero spettri che afferravano i passanti alla luce del giorno; attraverso le loro ossa e la loro pelle, si intravedevano le pietre della città. Le fotografie erano tranquille e frenetiche al tempo stesso. A un primo livello, la città stessa diventava l'unica realtà, l'unico punto fermo in un mondo in movimento; a un secondo, la testa iniziava a dolermi per la moltitudine di immagini, presenze, vite che cozzavano e si scontravano tra loro in una folle claustrofobia; quelle foto ti costringevano a realizzare quanto una città potesse essere affollata e malsana. Le persone si prendevano a gomitate e si schiacciavano senza sosta, anche inconsapevolmente. Niente ti apparteneva davvero: qualsiasi cosa era già stata reclamata da qualcun altro, prima di te; ogni luogo era stato occupato e rioccupato, ripetutamente. Tu eri lì solo per tacita tolleranza, fino a quando un altro non veniva a prendere il tuo posto... e così via, in una successione infinita ed egoista, priva di qualsiasi connessione. Rimasi seduta a guardare quelle foto, mentre scendeva l'oscurità; alla fine fui costretta a servirmi della luce che filtrava dalla finestra alle mie spalle. Non importava quante volte le avessi esaminate, continuavo a vederci qualcosa di curioso e di miracoloso. Arrivai quasi a dimenticare che, se stavo sfogliando quel libro, era solo perché l'autore era deceduto. L'intensità e la vivacità di quegli scatti facevano sembrare una simile idea assurda. Solo dopo aver scorso le pagine una ventina di volte mi decisi ad affrontare il saggio iniziale. E mi trovai di fronte a qualcosa di assolutamente indecifrabile. L'opera di Berg veniva separata dall'osservatore, e assicurata alle mani protettive dei critici, degli esperti, dove non sarebbe stata viziata dalla popolarità. Non avevo tempo da perdere con i giochetti accademici. Dovetti riconoscere, però, che Vincent Strange, l'autore, era riuscito a portare quel cumulo di stronzate a un livello del tutto nuovo. «L'esercitazione di Berg nella rabbia esistenziale, la sua incessante ribellione contro se stesso e contro la società ci invitano a non dare mai nulla per scontato: ciò che vediamo non sempre corrisponde a ciò che è. La realtà è contingente, fluida. Non esiste nulla su cui si possa fare affidamento. Il mondo è soggetto a una costante revisione. Improvvisamente, ciò che esiste scompare. Il nero diventa bianco. Il messaggio di Berg? Non ci si può fidare del mondo; non ci si può fidare di nessuno.» L'autore faceva risalire tutto questo all'infanzia di Felix, in particolare alla perdita prematura dei genitori.
Non mi lasciai impressionare più di tanto dall'equazione automatica tra la sua vicenda personale e i suoi sforzi artistici. Un concetto troppo banale, eccessivamente basato sulle semplicistiche risposte propinate da filosofi cialtroni. Troppo spesso avevo avuto a che fare con killer rilasciati poco dopo l'arresto, grazie a falsi profeti appartenenti a quella stessa razza, che dichiaravano i loro pazienti «guariti» da qualsiasi disturbo li avesse afflitti; e subito questi ultimi tornavano a uccidere, in modi ancora più efferati. Se non riuscivano a comprendere nemmeno questo, come potevano aspettarsi di essere ascoltati, quando si pronunciavano su argomenti complessi come il movente di un assassino? Nonostante le loro pretese di autorità scientifica, sulla mente umana potevano solo fare congetture. In un certo senso, fu un sollievo constatare che non erano gli unici... Anche i critici d'arte facevano le stesse pompose asserzioni, senza avere la minima idea di ciò di cui stavano parlando. 10 Il giorno dopo, di buon'ora, mi ritrovai a sfogliare i giornali del mattino. La morte di Felix Berg, com'era ovvio, occupava le prime pagine dei quotidiani cittadini e delle più importanti testate di Londra. Anche qualche edizione internazionale riportava la notizia. Fui lieta di constatare che, per il momento, avevano lasciato fuori il mio nome. La stampa, però, non si era lasciata sfuggire l'opportunità di tirare in ballo ancora una volta dettagli gratuiti relativi ai precedenti omicidi dell'Uomo di Marx, come se la gente di Dublino non fosse già abbastanza nervosa. Era una storia che coinvolgeva persone di cui si conoscevano soltanto i nomi apparsi sui giornali; non interessava direttamente la popolazione comune. Ogni nuova vittima, però, contribuiva ad avvicinare il senso di paura, che diveniva sempre più reale. In effetti, gli articoli non dicevano nulla che non avessi già appreso dalla nota biografica nel libro di Felix. Per il resto, si trattava di date e particolari... lo stesso atteggiamento affettato dei critici che mi ero dovuta sorbire la sera prima. Due fatti, però, mi erano assolutamente sconosciuti, entrambi molto interessanti. Il primo era che Berg, più o meno un anno prima, era stato ricoverato in ospedale dopo essere stato aggredito e derubato mentre era al lavoro, una notte. Niente di così incredibile, per la verità. Parlando con i fotografi della stampa, avevo imparato a conoscere i rischi del loro mestiere.
La notte, per strada, c'era sempre qualche tossico attratto dalla loro costosa attrezzatura, per non parlare degli ubriachi e dei criminali, che aspettavano soltanto che qualcuno si facesse notare per attaccar briga. Berg era stato colpito alla testa, e aveva riportato una frattura al cranio e una grave commozione cerebrale. Secondo i dottori era fortunato a essere ancora vivo. Già... ma adesso non lo era più, riflettei tristemente. Forse era un segno che qualcuno aveva cercato di vendicarsi... L'altro fatto di cui ero all'oscuro era che, proprio in quei giorni, era in corso una mostra degli ultimi scatti di Berg presso l'Irish Museum of Modem Art, che aveva sede in un vecchio edificio a Kilmainham, conosciuto come Royal Hospital. Era stata inaugurata il primo di gennaio; protagoniste, le foto scattate a Dublino a partire dall'autunno precedente, dopo il viaggio negli Stati Uniti. Ci sarei andata di corsa, in parte per avere un quadro più preciso della recente condizione mentale di Felix, in parte semplicemente per ammirare i suoi lavori. Ero curiosa di vedere che cos'avesse fatto, dopo la pubblicazione di La città irreale. I suoi scatti si erano insinuati nella mia coscienza. Persino quella mattina, uscendo di casa, non avevo potuto fare a meno di guardare la città attraverso i suoi occhi. La gente che sgomitava. La follia dilagante. Intollerabile. Ma avevo altri piani. Volevo fare una visitina a Tom Kiernan. Lo chiamai con il cellulare, mentre scendevo le scale; la sua assistente mi disse che era fuori a colazione. Mi chiese se volevo telefonare più tardi. No. Sapevo dove trovarlo. Kiernan era famoso per la discutibile abitudine di fare colazione in un caffè nei pressi del Dublin Castle, il quartier generale della Squadra omicidi. Era proprio dietro l'angolo. Il cibo era così scadente che gli ispettori sanitari vi si recavano avvolti in tute da decontaminazione prese in prestito dalla Scientifica. Nemmeno gli agenti di sorveglianza pranzavano lì... e loro sarebbero entrati in qualsiasi bettola, in preda ai morsi della fame. Tutto ciò che compariva sul menu era morto da più tempo di Lincoln, ed era stato fritto al punto tale che eventuali somiglianze con il cibo erano puramente casuali. O, forse, dovrei dire impuramente casuali... «Ehi, abbiamo compagnia», esclamò vivace, quando mi vide entrare. «Posso offrirti la colazione?» «È così che chiami questa roba?» dissi indicando il piatto.
«Perché, tu come la definiresti?» «Un'offesa alle norme d'igiene, passibile di sanzione penale. Ma non voglio che la mia opinione ti faccia passare l'appetito...» «Non preoccuparti, non è successo.» Prese un altro boccone. Cercai di non guardarlo. Il suo piatto era ricoperto da uno spesso strato di grasso... sembrava un tappeto sporco di fango, dopo un'alluvione. Dovevano servirsi di martelli pneumatici, in cucina, per ripulire le stoviglie. Ammesso che lo facessero. Grace avrebbe dovuto farci un salto, prima di esprimere giudizi sulla mia dieta. Ma quando passavi le tue giornate a guardare quello che Kiernan era costretto a vedere, non ti lasciavi certo impressionare dalla possibilità di un avvelenamento da cibo. Era un fotografo, ma i suoi scatti non finivano mai appesi nelle gallerie di Temple Bar. Lavorava per la Polizia Metropolitana di Dublino, ed era specializzato in quelli che lui stesso definiva «intimi ritratti di persone decedute di recente»; una descrizione che, generalmente, induceva i curiosi ad astenersi da ulteriori approfondimenti. Come tutti i fotografi della polizia, trascorreva le sue giornate circondato da immagini che, se fossero state trovate nelle mani di un cittadino comune, avrebbero costituito un motivo valido per farlo arrestare all'istante o, nella migliore delle ipotesi, per farlo rinchiudere in un istituto. E, come tutti i suoi colleghi, esprimeva costantemente il desiderio di lasciarsi tutto alle spalle, di tirare fuori il grandangolo e di scattare foto al sole che tramontava su Dublin Bay, o a un gattino addormentato. Ma io non ci credevo, come non avevo creduto alle parole di quelli che avevo conosciuto prima di lui. Era determinato a inchiodare gli svitati che gli permettevano di guadagnarsi da vivere quanto un qualsiasi agente di polizia. Forse anche di più. Per non parlare, poi, del suo orgoglio professionale: non sarebbe mai riuscito a farsi da parte, per cedere il posto alla nuova generazione. In fondo, era molto bravo nel suo lavoro. Ed ecco perché, adesso, mi trovavo lì. Inizialmente, l'avevo conosciuto per via del suo secondo lavoro: per arrotondare, fotografava anche i vivi. Ma per quel genere di foto chiedeva una tariffa più alta, dal momento che i soggetti erano più «difficili» rispetto a quelli cui era abituato. A volte cercavano persino di fare conversazione, cosa che lui considerava una gran perdita di tempo. Era stato lui a scattarmi la foto apparsa sul risvolto della sovraccoperta di uno dei miei libri. E
se avessi saputo allora quello che avevo scoperto in seguito sulla sua dieta, probabilmente mi sarei rivolta a un altro fotografo: se gli fosse scoppiata un'arteria durante la seduta, avrei dovuto ricominciare tutta la trafila dal principio... E io odiavo farmi fotografare. «Hai quello sguardo...» mi disse, mentre prendevo posto di fronte a lui. Cercai di non toccare niente, per non sporcarmi e per timore di non riuscire più a togliere la macchia. «Quale sguardo?» «Quello che mi fa capire che vuoi qualcosa da me. Si tratta del mio corpo, per caso?» «Temo di no. Intendo lasciare quel piacere al resto della popolazione femminile di Dublino.» «Un lavoro ingrato, ma qualcuno lo deve pur fare. Soltanto... vorrei che qualche volta toccasse anche a me. La mia vita amorosa è brillante quanto la soffiata che ho avuto ieri da Healy.» «Ma che cosa c'è tra la Squadra omicidi e le donne? Tu hai tante relazioni fallite, alle spalle, quante ne ha avute Zsa Zsa Gabor. Boland è divorziato. E ho sentito dire che Walsh ci prova con qualsiasi cosa indossi una gonna. Quanto a Dalton... non riuscirà mai a tenersi stretta una donna, a meno che non la rinchiuda in una cella in cantina. E non mi stupirei se lo facesse.» «È proprio qui che ti sbagli. Il sergente Boland ha una nuova amica, a quanto mi risulta. E spero che una volta tanto le cose tra loro funzionino... così magari si sposano e io mi guadagno qualche scellino extra scattando le foto del matrimonio.» «Non ci sono più gli scellini.» «Ma non mi dire... Sta cambiando proprio tutto.» Restai un istante in silenzio, ripensando a quanto avevo appena sentito. Era la dimostrazione della mia scarsa frequentazione del sergente Niall Boland, negli ultimi tempi. Avevamo lavorato insieme a un caso poco dopo il suo arrivo nell'unità di Grace, e avevo avuto modo di conoscerlo abbastanza bene. E mi piaceva, malgrado quel suo modo di fare calmo e pacato, che mi faceva imbestialire. Non riuscivo a ricordare l'ultima volta in cui c'eravamo visti. Tutta colpa del mio recente isolamento. Avrei dovuto fargli una telefonata. «Avanti, spara... che cosa vuoi?» fece Kiernan. «Ho qui una Polaroid, la foto di una persona. Voglio sapere chi è. Hai qualche suggerimento?» «Perché non lo chiedi al fotografo?»
«In circostanze normali lo farei. L'unico problema è che potrebbe essere morto...» «Piuttosto complicato», ammise. «Stiamo parlando dell'illustre Felix Berg?» «Può darsi. Lo conoscevi?» «Conoscevo le sue opere.» Scrollò le spalle. «Niente male, se ti piace lo stile manierato...» «Avrei dovuto immaginarlo... Non potevo certo aspettarmi che un fotografo potesse dire qualcosa di carino su un collega.» «Ti sembra forse che il mondo della lotta al crimine sia diverso?» «No, suppongo di no.» «Appunto.» Tirai fuori dalla tasca la fotografia che avevo trovato tra le carte di Felix e gliela passai. Lui si pulì la mano sui pantaloni, prima di prenderla. Un uomo si giudica dai suoi modi... non è così che dicono? «È questa?» mi chiese. «Be', forse posso combinarci qualcosa. La scannerizzo e traffico un po' con fuochi, filtri e luce...» «Molto interessante, davvero; ma non ho bisogno di una lezione sulle tecniche che usi, Kiernan. Allora? Lo puoi fare? Dimmi solo questo.» «Certo che posso. Sai qual è il tuo problema? Continui a pensare che qui a Dublino siamo rimasti all'Età della Pietra. So bene che non siamo a Quantico, agente speciale, ma anche noi abbiamo accesso a qualche beneficio della tecnologia moderna. Diamine, riusciamo persino ad avere l'elettricità, quando il capo si ricorda di issare il parafulmine dietro la centrale.» Sorrisi. A volte me le andavo proprio a cercare... «Anzi, hai qualche impegno, nelle prossime ore?» «Intendi oltre a vomitare dopo averti visto mangiare quella merda? Be', no.» «Bene. Allora vediamo se riesco a farti entrare di nascosto nel mio laboratorio. Ci chiuderemo a chiave, così le segretarie avranno finalmente qualcosa su cui spettegolare. Che ne dici?» «Fai strada, bel fusto. Sono tutta tua.» 11 «Secondo lui», stavo spiegando a Fitzgerald, «il trucco consiste nell'ingrandire il più possibile una foto...» «Secondo lui... chi?»
«Tom Kiernan.» «Hai preso in prestito il mio fotografo della scena del crimine?» «Ha detto che non aveva impegni. Mi stai ascoltando? Secondo lui, il trucco consiste nell'ingrandire la foto senza perdere completamente la messa a fuoco. Se non esageri, l'immagine rimane un po' indistinta ma vedibile, mentre se ti spingi troppo oltre, finisce con il collassare in un cumulo di macchie. Non so come ci sia riuscito. Conosci il mio rapporto con la tecnologia... Non potrei entrare nell'FBI, di questi tempi: tutte le reclute devono possedere abilità che io non ho. Buona conoscenza di una lingua straniera, informatica, tecnologia dell'informazione. Esperienza militare. Mi ritroverei a cuocere hamburger, per tirare avanti.» «Una grossa perdita per il mondo dei fast food, e un guadagno per la lotta al crimine», commentò Grace, ironica. Eravamo tranquillamente sedute nel suo ufficio, al Dublin Castle. I tetti degli edifici spezzavano il cielo fuori dalla finestra. Era una giornata limpida e serena. Un timido raggio di sole illuminava uno spigolo della scrivania. Sembrava quasi che la primavera fosse dietro l'angolo. Aveva chiesto due tazze di caffè, ma evidentemente lo avevano ordinato direttamente dalla Colombia perché non si era ancora fatto vivo nessuno. «Sto solo cercando di spiegarti che cos'ha dovuto fare per far comparire l'immagine.» Gettai sulla scrivania la stampata che Kiernan mi aveva dato mezz'ora prima. Fitzgerald la afferrò, e la osservò. «Assomiglia a Felix.» «È Felix. Almeno, sono quasi sicura che si tratti di lui. Abbastanza da scommetterci la mia gamba sinistra... ma, sai com'è, sono sempre stata portata per il gioco d'azzardo.» «Anch'io sarei pronta a scommettere la tua gamba sinistra. .. ma qual è il punto?» «Be', la foto mostra che forse qualcuno lo stava tenendo d'occhio. Lo seguiva. E lui lo sapeva.» «No, invece. Non prova nulla del genere, e lo sai bene. È solo una fotografia. Il fatto che sia stata scattata da qualcun altro è del tutto irrilevante.» «Anche se questo qualcun altro fosse l'Uomo di Marx?» «Non è lui.» «Come puoi affermarlo con tanta sicurezza?»
Non riuscivo a capire perché fosse così restia a considerare una possibile connessione, dopo tutte le frustrazioni che le aveva causato l'inchiesta. Credevo che avrebbe gradito un aiuto da parte mia. «Per via di questo.» Prese la cartelletta che fino a quel momento aveva tenuto capovolta sulla scrivania e me la passò. «È arrivato questo pomeriggio. È il risultato dell'autopsia sul cadavere di Berg.» La afferrai e sollevai la copertina. Diedi una scorsa veloce alle pagine. Non avevo bisogno di perdermi tra i dettagli dell'esame tossicologico, dell'analisi dei campioni di sangue e del contenuto dello stomaco. Lessi solo la parte che consideravo davvero importante. «Causa della morte: ferita da arma da fuoco autoinflitta.» A stento riuscivo a credere a quello che stavo leggendo. Secondo Alastair Butler, il patologo della città, l'unico verdetto possibile era che Felix si fosse appoggiato la canna della pistola sull'occhio e avesse premuto il grilletto. L'angolazione del proiettile indicava che la ferita era stata autoinflitta. Sulle mani erano stati trovati residui di polvere da sparo. Nessun segno di lotta che facesse pensare a un tentativo di difesa. Soltanto un taglio netto e poco profondo, piuttosto recente, sul dorso della mano, e qualche lacerazione della pelle posteriore al decesso, causata dal contatto con le rocce frastagliate. Nient'altro. Ma, tornando agli esami del sangue - forse in cerca di un errore - notai che il tasso alcolico al momento della morte superava di tre volte il limite consentito. Si era ubriacato per trovare il coraggio di premere il grilletto? La mia scoperta era avvenuta a meno di un'ora dal decesso. «Ma non ha alcun senso.» Mi sforzai di accordare il tono della mia voce a quanto stavo dicendo. «Lui mi ha detto che qualcuno stava cercando di ucciderlo. Alice mi ha mostrato la sua raccolta di articoli sull'Uomo di Marx. Ce l'ho qui, nella borsa. Stavo per consegnartela. E tu mi vieni a dire che si è ucciso? Dev'esserci un errore.» «Nessun errore. Butler sa quello che fa.» «Avete trovato un biglietto?» «Non è detto che un suicida debba per forza lasciare un messaggio.» «Ma hai considerato il punto d'entrata del proiettile? Uno che decide di uccidersi non si spara in un occhio, di solito punta l'arma alle tempie, alla fronte... Ma gli occhi...» «Sono solo statistiche. Ci sono sempre delle eccezioni. Il fatto che la maggior parte dei suicidi non si spari negli occhi non esclude la possibilità che lui abbia deciso di farlo. E poi, dovresti sforzarti di essere più coeren-
te. Non puoi affermare che c'è qualcosa di sospetto nel suicidio di Felix, che stando alla tua ricostruzione sarebbe un'altra vittima dell'Uomo di Marx, e ignorare le prove che inducono a escludere un coinvolgimento da parte di quest'ultimo. La scelta stessa dell'occhio, per esempio... Il nostro uomo non l'ha mai fatto prima. Prende sempre le sue vittime alle spalle. E poi, la pistola era appoggiata alla pelle, quando è partito il colpo. Se l'assassino fosse riuscito ad avvicinarsi tanto, non credi che Felix avrebbe tentato di lottare, di difendersi con calci e pugni?» «Ma... non hai detto nulla riguardo al ritrovamento di una pistola.» Per la prima volta, mi sembrò a disagio. «Già, perché non è stata ritrovata», ammise. «Che cosa?» «Dalton ritiene che possa essergli sfuggita dalle mani quando Berg ha premuto il grilletto, finendo in mare. Succede. Ho mandato una squadra di sommozzatori a setacciare l'acqua nei pressi della banchina. Se trovano qualcosa, saremo in grado di fare un confronto.» «Quindi mi stai dicendo che non avete nemmeno le prove che Felix possedesse un'arma?» «Sappiamo che è stato lui a premere il grilletto e che la pallottola ha attraversato l'orbita oculare e parte del cervello, conficcandosi nel cranio.» «Di che tipo di arma si tratterebbe?» sospirai in preda alla frustrazione, girando impaziente le pagine in cerca di un verdetto. «Non ne siamo ancora sicuri. Un cimelio di guerra, o qualcosa di simile. Gli ha spappolato il volto. Non è stato possibile identificarlo con esattezza.» «Ma hai comunque intenzione di credere a questa teoria?» «E che altro potrei fare? Sono un investigatore della Squadra omicidi, e stamattina Butler ha eseguito un autopsia sul cadavere di un uomo che si è suicidato. Stiamo cercando la pistola. Nel frattempo, non c'è nulla che faccia pensare a un assassinio. Non posso aprire un'inchiesta per ogni suicidio commesso in città; hai la minima idea di quanti siano?» Stavo scuotendo il capo, incredula. Non riuscivo a pensare lucidamente. «Mi dispiace, Saxon. Non credere che non voglia aiutarti, ma non abbiamo trovato nulla che ci induca ad avere dei sospetti riguardo al decesso di Felix Berg. Inoltre, oggi ho trovato un po' di tempo per chiamare Miranda Gray...» «Chi?» «Era la psicanalista di Felix. Dalton è venuto a sapere della sua esistenza compilando il rapporto sulla sua morte.» Dovetti far appello a tutto il mio
autocontrollo per non farmi sfuggire un'imprecazione: mi irritava da morire sapere che Dalton era riuscito a scoprire qualcosa che io ancora non sapevo. Ciò andava contro tutte le normali leggi della natura. «Dice che Felix soffriva di depressione... da anni, ormai. Aveva avuto un esaurimento nervoso, l'anno scorso.» «Sì, Alice me l'ha detto.» «Il suicidio di Berg non la sorprende. A quanto pare, la sua vita è stata piuttosto complicata. Anche quella della sorella, in effetti.» «Che cosa sa di lei?» «È anche la sua analista.» «Andavano dalla stessa strizzacervelli... Ma che carini! Dimmi, nello studio c'era un sofà extralarge su cui potevano fare terapia insieme?» «Naturalmente non ha potuto dire molto», continuò Grace, ignorando il mio sarcasmo, «ma mi ha confessato che le condizioni di Felix la preoccupavano, da un po' di tempo. Mi ha perfino letto alcuni dei suoi appunti. Felix parlava spesso del faro: da bambino aveva vissuto in quella zona. Secondo la dottoressa, dopo la morte dei suoi genitori aveva iniziato a rappresentare un elemento costante e affidabile nella sua esistenza. Gli dava conforto, guardava sempre la sua luce la sera, prima di andare a letto. Evidentemente, andava lì ogni volta che aveva un problema, o era triste e aveva bisogno di alleviare le sue pene. E sai come funziona con gli aspiranti suicidi, spesso...» «...quando hanno deciso che è giunto il momento di farla finita, tornano in un luogo che per loro ha significato qualcosa. Sì, lo so», dissi, irritata. «Che cosa ne è stato del rapporto strettamente confidenziale tra analista e paziente?» «Non essere meschina. In qualsiasi altra occasione avresti cominciato a lagnarti se la dottoressa non ci avesse fornito qualche dettaglio. Anzi, dovresti essere felice... ti ho risparmiato la fatica.» «E infatti lo sono. Davvero. Ma vorrei capire come avrebbe fatto Berg a procurarsi una pistola.» «Chiunque può trovarne una, a Dublino, se sa che cosa sta cercando.» «Uno a zero per te. Ma non stiamo parlando di un'arma qualsiasi, no? L'hai detto tu stessa. Mi sembra di capire che fosse un pezzo d'antiquariato. Dove può averla trovata?» «Se ne stanno occupando gli specialisti in armi da fuoco. Se scoprono qualcosa, ti avverto. Non è compito mio... ho altre cose a cui pensare. Come le indagini sull'Uomo di Marx, per esempio... ricordi? Probabilmente,
mentre noi stiamo qui a parlare, lui è là fuori in cerca della sua prossima vittima. E se la ride alle nostre spalle. Quattro cadaveri sono sufficienti, non ci serve un quinto omicidio; non possiamo basarci sui sospetti di quell'eccentrica di Alice Berg, che continua a credere che il fratello sia stato assassinato dal nostro uomo.» «Si tratta della diagnosi professionale di Miranda Gray? È stata lei a definirla un'eccentrica?» «Ha usato altre parole.» «Be', io non sono affatto persuasa. Ci sono troppe coincidenze per lasciar perdere tutto. L'interesse di Felix per questo caso. La sua telefonata. Stava cercando di dirmi qualcosa, ne sono convinta. Persino il fatto che la pallottola sia entrata attraverso l'occhio... è troppo simbolico, è come se fosse stato punito per aver visto qualcosa. Qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.» «E la tua esperienza dovrebbe averti insegnato quanto sia difficile far sembrare un omicidio un suicidio.» Non volevo ascoltarla. Mi dimenavo, in cerca di una corda cui potermi aggrappare. «Nessuno ha sentito lo sparo?» «No, ma è una zona piuttosto tranquilla. La gente che vive laggiù non è come te. È probabile che un colpo di arma da fuoco venga scambiato per il ritorno di fiamma del motore di un'automobile.» «Mentre la sottoscritta farebbe esattamente il contrario: si interrogherebbe subito sul calibro della pistola», dissi tranquillamente. Non ne andavo affatto fiera. «E che mi dici dei testimoni?» «Ce ne sono un paio. Ma tu non mi stai ascoltando, Saxon. Potevano anche esserci un migliaio di persone, giù al molo. Anche se mi dicessi che l'intera Orchestra Sinfonica di Dublino stava giocando a nascondino su e giù dalle barche, non farebbe alcuna differenza. Non esiste nulla che induca a pensare che quello di Berg non sia stato un puro e semplice suicidio. Nessuna prova.» «Scusami. Che cos'hanno visto quei due?» «Soltanto te. Dico sul serio. Sei rimasta lì tutta sola per parecchio tempo... non potevano non notarti.» «E come mi hanno descritta?» «Una donna bassa di statura, con i capelli scuri, che fumava un sigaro. E che non riusciva a stare ferma. Ti avrei riconosciuta ovunque.» «E non hanno detto nulla del mio aspetto fantastico, del mio sex-
appeal?» «Era buio.» «Oh, be'... ho avuto descrizioni peggiori.» Sentii il panico che saliva dentro di me, mentre i fili che tenevano insieme il mio interesse per la morte di Felix Berg iniziavano a sfilacciarsi, spezzandosi. «È solo che non riesco a capire. Se Felix sì è ucciso, perché inscenare una simile farsa? Perché far credere a me, ad Alice, a tutti che si è trattato di un omicidio? Perché dirmi che qualcuno stava cercando di assassinarlo?» «Chi lo sa che cosa gli è passato per la testa? Forse voleva solo rendere più drammatica la sua morte. Forse andarsene come uno qualsiasi non era abbastanza, per lui. Magari voleva restare al centro dell'attenzione anche dopo il decesso. Voleva che il mondo si interrogasse sulla sua scomparsa. Chi meglio di te poteva servire allo scopo? Una scrittrice famosa, un'ex agente dell'FBI... Forse voleva soltanto assicurarsi di avere un pubblico, e pensava che non ti saresti mai presa la briga di andare fino al faro... e che non avresti mai accettato il suo invito, assistendo così alla prima e unica rappresentazione di un suicidio. Oppure...» continuò, in un tono che mi costrinse a sollevare lo sguardo e a prestare attenzione alle sue parole, «pensava di portarti con sé.» «Adesso credi che volesse uccidere anche me?» «È possibile.» «No. È ridicolo, invece.» «Tu non sai riconoscere ciò che è ridicolo da ciò che non lo è. Non sai niente di Felix Berg. Non sai che cosa gli passasse per la testa, né di che cosa potesse essere capace. Ed è proprio per questo che dovresti lasciar perdere tutta questa storia. Non sto scherzando», disse decisa. «Un minuto prima mi dici che vuoi solo fare due chiacchiere con Alice, senza farti coinvolgere, e quello dopo vai su tutte le furie perché, in fondo, dietro la morte di Felix potrebbe non esserci nulla di misterioso. Sono preoccupata, chissà dove potrebbe portarti tutto questo. Non voglio che tu ti faccia trascinare in questa faccenda.» «Infatti, non accadrà. Sono solo curiosa.» «Sai come dice il proverbio. La curiosità uccise...» «Il gatto. Già, ma io non sono un gatto. Sono agitata, tutto qui. Ho bisogno di fare qualcosa, per non grippare. Non sono fatta per i pomeriggi sul divano davanti alla TV.» Richiusi la cartelletta di scatto, restituendole il referto dell'autopsia. «E poi mi conosci. Ho bisogno di sapere. Felix mi ha chiamato al telefono; ha organizzato un incontro e, quando sono arrivata
sul posto, lui era morto. Dovrà pur voler dire qualcosa.» «Gli aspiranti suicidi sono mentalmente disturbati. Le loro azioni e le loro parole non significano nulla. Ci sono cose che non hanno senso. E tu lo sai bene. A volte non c'è modo di scoprire che cosa sta succedendo, perché i conti non tornano. Allora, archivi l'episodio fra le tue esperienze e vai avanti. Sai che cosa ho imparato? Che non sempre riesci a giungere a una conclusione logica. In alcuni casi, vi sono questioni che restano in sospeso. A volte devi semplicemente accettare il fatto che non riuscirai ad avere tutte le risposte.» «Non ne sono mai stata capace. Non è nella mia natura.» «Già. È per questo che finisci sempre per metterti in un mare di guai.» 12 Non è detto che un suicida debba per forza lasciare un messaggio. Grace aveva ragione, pensai, mentre uscivo dal suo ufficio e mi incamminavo verso casa, facendomi largo tra la folla incessante. Sydney non l'aveva fatto. Si era alzata dal letto, una mattina, e non si era nemmeno preoccupata di vestirsi. Era scesa a piedi fino alla ferrovia che passava dietro la sua abitazione; aveva posato la testa sui binari, usandoli come cuscino, e aveva aspettato il treno del mattino, diretto da Boston a Washington. Era mia sorella. Era stata mia sorella, dovrei dire. Ormai era solo un ricordo, che si faceva via via più sbiadito. Ogni anno diventava più difficile riuscire a ricordare il suo viso; e non avevo niente che mi aiutasse a farlo. Non possiedo fotografie del mio passato: si tratta di una vita che preferirei dimenticare. E, del resto, non avevo mai pensato che avrei avuto bisogno di una foto per ricordarmi di mia sorella. Non potevo immaginare che se ne sarebbe andata così presto. Nessuno riuscì mai a capire perché si fosse uccisa; e la cosa peggiore fu che nessun altro, a parte la sottoscritta, sembrava interessato a scoprire che cosa l'avesse spinta a farlo. Era l'unica, della famiglia, per cui provassi qualcosa. Io e i miei genitori non eravamo mai andati d'accordo. E mio fratello, il primogenito, era una persona così arrogante e piena di sé da aver perso il contatto con il mondo reale ormai da parecchi anni. Sydney era la piccolina di casa. Mi guardava con ammirazione. A differenza degli altri, non mi giudicava in base ai soliti standard fasulli. Mi accettava per quello
che ero, proprio come Fitzgerald. Era sposata all'incirca da un anno, quando morì. E sapevo che le cose per lei non erano state facili. Il marito aveva iniziato a fare lo stupido il giorno stesso in cui si erano messi insieme. In seguito, venne fuori che si era sbattuto anche una delle damigelle d'onore... un vero romantico. Non saprò mai a che gioco avesse iniziato a giocare con la mente di mia sorella, subito dopo il matrimonio. In ogni caso, cercai di persuaderla a mollare tutto e a cominciare una nuova vita; ma, nonostante i miei sforzi, durante quell'anno iniziò a dubitare della possibilità di sfuggire all'influenza di quell'uomo, e perse coscienza delle proprie forze. La Sydney che conoscevo svanì davanti ai miei occhi, mentre lui si portava via la sua anima, un poco alla volta, rinchiudendola in un luogo in cui non sarebbe riuscita ad arrivare. Alla fine, i binari dovevano esserle sembrati l'unica via di fuga. Non sempre riesci a giungere a una conclusione logica. In alcuni casi, vi sono questioni che restano in sospeso. A volte devi semplicemente accettare il fatto che non riuscirai ad avere tutte le risposte. Grace non doveva assolutamente sapere quanto quelle parole mi avessero ferita. Non le avevo mai raccontato di Sydney. Sapeva che avevo un fratello, perché di tanto in tanto mi mandava gli auguri di Natale che io, immancabilmente, non ricambiavo; in verità, non ero mai stata capace di condividere quella disgrazia con nessun altro; nemmeno con lei. Non mi ero mai fatta illusioni, non credevo affatto che, parlandone, sarei riuscita ad alleviare il dolore che provavo. Soltanto una persona sapeva: Lawrence Fisher, uno psicologo criminale che avevo incontrato mentre lavoravo alla stesura di un libro dedicato ai profiler, e a cui Grace aveva chiesto aiuto in relazione ad alcune indagini. Lo consideravo uno dei miei migliori amici... per quello che vale; comunque, l'unica ragione per cui sapeva di Sydney era che aveva insegnato un paio di semestri a Boston, dove aveva incontrato alcune persone che conoscevano me e la mia famiglia. Gli avevo fatto giurare di mantenere il segreto, pena... una pena terribile. Avevo già capito che le minacce dirette, nel suo caso, erano molto efficaci. Gli uomini sono dei tali codardi... No, Grace non doveva assolutamente sapere. Ma potevo forse lasciare che accadesse di nuovo? Potevo permettere che morisse un'altra persona senza scoprire il perché? Con Sydney avevo tentato di scavare un tunnel fino ad arrivare all'altro capo del mondo, armata soltanto di un cucchiaino. Ero convinta che il marito fosse responsabile del suo suicidio, che le avesse messo in testa quell'idea e l'avesse plagiata in modo sottile. Per conto
mio era colpevole come se l'avesse legata ai binari e avesse preso il posto del macchinista. Ma per gli altri, i miei sospetti andavano contro ogni logica; nessuno era disposto ad ascoltarmi. Preferivano considerare l'ultima azione di Sydney il sintomo di una fragilità interna, piuttosto che un crimine. Al contrario della sottoscritta. E adesso era arrivato Felix. E stava succedendo tutto di nuovo. La storia che si ripete. E io? L'avrei permesso? Quella mattina non riuscii a tornare al mio appartamento. Uno strano impulso mi spinse ad avviarmi verso Kilmainham, passando per St. James's Gate e Military Road, per poi entrare nel cortile dell'Irish Museum of Modem Art. Ero ormai giunta davanti alla porta d'ingresso, quando me ne resi conto. Ma non mi sorpresi affatto: se le gambe mi avevano condotto fin lì, c'era un motivo ben preciso. Mi soffermai un attimo a chiedermi se la mostra di Felix fosse stata chiusa, in segno di rispetto. Poi mi tornarono in mente le parole di Burke: la morte di un artista faceva la fortuna dei botteghini. C'erano troppe riproduzioni in cartolina e troppi libri da smaltire. Gli affari sono affari, in fondo. Anche quando si tratta di gallerie. Rimasi lì fuori per un po', a fumare un sigaro. Mi presi il mio tempo. Pensai a Sydney; avrei voluto ricordare un particolare che mi aiutasse a cancellare l'immagine di lei che usciva di casa in camicia da notte, avviandosi rassegnata alla morte. Ma fu inutile. Cominciò ad arrivare qualche altra persona: sentii sussurrare più volte il nome di Berg. Siamo davvero tutti così necrofili? È sempre così immediato il rapporto tra morte e celebrità? Mi unii ai visitatori; entrai in un lungo corridoio dalle pareti spoglie, interrotto su un lato da una fila di finestre che davano su un cortile interno, luminoso e tranquillo. In fondo si apriva una porta; un semplicissimo cartello recava solo queste quattro parole: NUOVI STUDI, FELIX BERG. Nient'altro. Non c'erano spiegazioni, né analisi. Il che fu un vero sollievo. Entrai. Mi immersi ancora una volta nella mente di Felix. Le foto erano meno numerose di quanto mi aspettassi, ne contai soltanto ventuno... non molte, considerando che si trattava della prima mostra dopo
il successo di La città irreale. Ma erano semplicemente incredibili. Mi trovavo davanti al rovesciamento di quanto avevo ammirato la sera prima, sul mio terrazzo, sfogliando le pagine di quel libro che mi aveva lasciato senza fiato. La città brulicante di spettri che si manifestavano alla luce del giorno era svanita per lasciare il posto a un'atmosfera addirittura più sconvolgente e snervante. Quei ventuno scatti ritraevano una Dublino talmente vuota da farti sentire persa, sola e abbandonata, semplicemente guardandola. Non c'era niente che ricordasse neppure vagamente una qualche forma di vita: solo il nulla più totale. Era come se l'osservatore si fosse svegliato all'improvviso, trovandosi davanti a un mondo vuoto e spopolato: e l'effetto era davvero impressionante. Le fotografie della sera prima mi erano sembrate misteriose e irreali, ma, paragonate a queste, finivano con l'essere fin troppo affollate, quasi corrotte da quelle stesse cose verso cui provavano repulsione. Le ultime opere di Felix possedevano un'immobilità, una tranquillità particolari: sembrava quasi che l'artista avesse catturato il silenzio e la solitudine che risiedono anche nel cuore della città più densamente popolata. Non riuscivo a immaginare come avesse potuto eseguire degli scatti simili. Erano tutte vedute di Dublino, ma una Dublino da cui era stata cancellata qualsiasi traccia di vita. Cornmarket la mattina, sotto la pioggia, senza un'anima in giro. Com'era possibile? E poi Greek Street, Westland Row, Golden Lane, Lincoln Place, e la stradina di fronte alla stazione di Tara Street. E Merrion Square, Earlsfort Terrace, Wicklow Street che svoltava in Exchequer Street... tutte illuminate da una gelida luce invernale, ghiacciate, imbalsamate... E su tutto regnava quella stessa atmosfera di spopolamento. Ma era davvero così? Più fissavo quelle immagini, più mi sembrava di scorgere qualcosa che prima non avevo notato. In effetti, c'erano delle persone. Si trattava più che altro di fugaci apparizioni, facce, piccoli dettagli: ma c'erano. Ecco un volto che faceva capolino da una finestra striata dalla pioggia. Ed ecco un'ombra sottile, allungata dal debole sole del pomeriggio: doveva appartenere a una figura appena fuori dall'inquadratura; e il riflesso di un'altra sulla superficie di una pozzanghera frammentata. E poi una persona di spalle, lontana, in fondo alla strada. Un altro scatto riprendeva la parte posteriore di un piede, probabilmente
qualcuno che aveva appena girato l'angolo. Oppure una mano che afferrava lo spigolo di una porta che si chiudeva. E questa cos'era? La foto era stata scattata da sotto una sedia, il viso ritratto era completamente oscurato. Erano lì, quasi invisibili, ma comunque presenti. Figure colte di sfuggita, della cui presenza ci si accorgeva appena. Come se qualcuno le stesse osservando. O, meglio, come se loro stessero osservando Felix. Dunque era così che si era sentito, negli ultimi mesi? Osservato? Pedinato? Comunque fossero andate le cose, c'era qualcosa di strano nei suoi Nuovi Studi, e impiegai diverso tempo per scoprire di che cosa si trattasse. Poi capii. C'era della neve, in alcune delle fotografie. Ammucchiata contro le ringhiere e lungo gli spigoli dei muri, sopra i gradini e i davanzali delle finestre, e sui rami degli alberi altrimenti spogli. In uno scatto si distingueva anche una scia di piccole impronte a zig zag. E quell'inverno non aveva mai nevicato. Lo sapevo per certo, perché mi piace la neve; probabilmente dipende dai miei geni del New England. E capita così di rado di vedere una nevicata a Dublino che, quando finalmente accade, bisogna assaporarla, custodendone il ricordo per tempi più magri. Ho letto non so più dove che gli inverni miti, da queste parti, hanno qualcosa a che fare con la Corrente del Golfo, ma io non ne so nulla, e non ho mai pensato che valesse la pena approfondire l'argomento. Anche ammesso che riuscissi a scoprire perché non nevica, non potrei cambiare le cose. Tutto quello che sapevo era che, durante l'inverno precedente, non si era visto un solo fiocco di neve in città. Dunque, com'era riuscito Felix a scattare quelle foto, dopo il ritorno dagli Stati Uniti lo scorso autunno? Era più probabile che le immagini risalissero all'anno prima, in cui, insolitamente, aveva nevicato per un'intera settimana. Mi ero goduta ogni istante di quei sette giorni... anche se non credo che la cosa avesse qualche importanza. Se aveva deciso di far passare per nuove alcune vecchie opere, be', la cosa non mi riguardava. Erano comunque impressionanti, indipendentemente dal periodo in cui erano state scattate. Estate, autunno, inverno: a chi importava, in fondo?
Ma, mentre mi avvicinavo per verificare l'esattezza della mia osservazione, notai un nuovo particolare, su cui non potevo sorvolare tanto facilmente. Un cartello stradale offuscato: O'NEILL'S PLACE. Mi sentii mancare il fiato. Era il luogo in cui Tim Enright era stato assassinato dall'Uomo di Marx. Una coincidenza? Rapidamente, cominciai a esaminare le altre fotografie, sperando di trovare quello che stavo cercando. Grosvenor Square. Main Street. La Mansion House, all'ombra della quale era morta Jane Knox. Una falce di luna mordicchiata era aggrappata al cielo nero, sopra la skyline degli edifici. Erano tutti lì. I posti in cui il mostro aveva colpito. Felix Berg li aveva fotografati, e adesso erano lì, appesi alle pareti della galleria, come parte della sua ultima raccolta. Forse non c'era nulla di strano. Era ossessionato dagli omicidi, era stata la stessa Alice a dirmelo. Quindi era assolutamente naturale che avesse voluto ritrarre gli angoli scelti dall'Uomo di Marx, prima di lui. Era convinto che gli assassini fossero la chiave per comprendere veramente una città. Ma questa mostra era stata inaugurata il primo di gennaio. Prima che l'Uomo di Marx facesse la sua prima vittima. Stavo lì, in piedi, con gli occhi fissi su quelle immagini che controllai e ricontrollai per essere sicura di aver visto giusto. Avevo bisogno di togliermi anche il minimo dubbio, prima di girarmi e di tornare nell'atrio, in cerca di un telefono. Chiamai Alice. «Sono Saxon», dissi non appena sollevò il ricevitore. «Se intende piangere con me la prematura scomparsa di mio fratello», ribatté sarcastica, «lasci perdere. Un detective che era giù al faro ieri notte - un certo Seamus Dalton, è possibile? - ha chiamato un'ora fa per comunicarmi i risultati dell'autopsia.» «No, niente di tutto questo. A differenza della polizia, io non credo che le cose siano semplici...» Un lungo silenzio. Iniziavo a pensare che avesse riattaccato. «Sarà meglio che venga qui.»
13 La porta era leggermente socchiusa, quando arrivai a casa di Alice. La spinsi delicatamente con un piede ed entrai nell'ingresso. Per terra c'era un foglio di carta piegato in quattro, che qualcuno doveva aver infilato nella buca delle lettere. Alzai lo sguardo, per assicurarmi che non ci fosse nessuno; quindi mi inginocchiai e, svelta, lo aprii. Un messaggio: Alice, chiamami. Ti prego - Gina. Sentii un rumore provenire dal piano di sopra e, presa da un senso di colpa, rimisi il biglietto dove l'avevo trovato. «Alice?» dissi, alzando la voce. Comparve il suo viso, in cima alle scale. «Ah, è lei. Chiuda la porta e venga su.» Feci come mi aveva detto e salii al primo piano. Mi domandai se avesse lasciato la porta aperta di proposito, dal momento che aspettava una mia visita... ma allora come aveva fatto a non notare il foglietto? Forse voleva che lo vedessi anch'io. La prima cosa che osservai, al piano di sopra, fu che stava mettendo alcuni abiti in una borsa appoggiata sul tavolo. Li dispose accuratamente, premendoli con forza, prima di andare a prenderne degli altri in una stanza adiacente al soggiorno. Indossava un paio di occhiali scuri, anche se la luce non era particolarmente forte. «Che cosa fa?» Le parole mi uscirono dalla bocca senza che me ne rendessi conto. Mi guardò per un attimo, cercando di capire che cosa si celasse dietro la mia domanda. Poi rispose semplicemente: «Me ne vado per qualche giorno. I giornalisti mi stanno tormentando da quando hanno saputo della morte di Felix. Il telefono non fa che squillare; vengono persino a bussare alla porta, nella speranza che rilasci qualche dichiarazione. Qualcuno mi ha addirittura offerto del denaro. Per che cosa, poi, non lo so...» Aveva un'espressione disgustata. «Non li ha visti, là fuori?» «Veramente, non ho visto nessuno», risposi sincera. «No?» Mi sembrò sorpresa. Posò i vestiti sul bracciolo del divano e attraversò la stanza. Senza avvicinarsi troppo alle finestre, sbirciò nel viottolo sottostante. Era confusa; quasi allarmata. «Devono essersene andati. Per il momento.»
Non potei fare a meno di chiedermi se la morte del fratello non l'avesse resa un po' paranoica. Perché mai aveva lasciato la porta socchiusa, se i giornalisti la infastidivano? «Credo che dovrebbe parlare con Grace... con il sovrintendente capo», le suggerii. «Potrebbe incaricare qualcuno di sorvegliare la casa e di tenere lontana la stampa...» Di sicuro, ciò non mi avrebbe fatto guadagnare la gratitudine di Grace. La Polizia Metropolitana aveva già il suo bel da fare, senza dover proteggere dai paparazzi una critica d'arte che aveva appena subito un lutto. Comunque, Alice scosse il capo. «Posso cavarmela da sola.» Per la prima volta, notai il gelo che si nascondeva dietro quella facciata apparentemente timida e controllata. «E poi, non sono sicura che avere intorno degli sbirri sarebbe una soluzione preferibile.» Tornò ai suoi preparativi. Stava prendendo molte più cose di quanto mi sarei aspettata, considerando che sarebbe stata via solo qualche giorno. Ma non erano affari miei. Non doveva essere facile vivere in quella casa, dopo quello che era accaduto al fratello. Riuscivo a capire il suo bisogno di fuggire. Avevo provato la stessa cosa, dopo la morte di Sydney. «Non mi allontanerei troppo, se fossi in lei», mi accontentai di dirle con delicatezza. «Voglio solo trovare un hotel, prendere una stanza sotto falso nome e riposarmi.» «È solo che la polizia potrebbe avere ancora bisogno di lei.» Qualcosa nella mia voce dovette allarmarla, nonostante i miei sforzi di assumere un tono del tutto casuale. «Ma chi è lei? Chi è veramente, intendo. Quando è venuta qui, ieri, mi ha detto di non essere un'agente.» «Infatti.» «Be', però, a volte parla proprio come loro. Perché mi sta facendo tutte queste domande su Felix?» «Non sono della polizia. Ma una volta ero un'agente speciale... ero nell'FBI. E sono molto vicina a Grace Fitzgerald, il sovrintendente capo... la donna che ha conosciuto quando è andata a identificare il corpo di suo fratello. Come si dice, le vecchie abitudini sono dure a morire. Voglio solo sapere che cosa è successo giù a Howth, l'altra notte. E voglio capire il motivo della telefonata di Felix.» «La polizia è convinta di sapere già che cosa è accaduto», ribatté sprezzante.
«Lei non crede che Felix si sia suicidato?» «Certo che no! Perché avrebbe dovuto fare una cosa simile? Non avrebbe mai gettato al vento la sua vita... E per nulla, poi. Non mi avrebbe mai lasciata sola. Non possedeva nemmeno una pistola. E, anche ammesso che fosse riuscito a procurarsene una, non avrebbe saputo come usarla. E questo è soltanto uno dei particolari che contribuiscono a rendere assurda tutta questa storia. Prima mi dicono che si è ammazzato. Poi che aveva una pistola. E adesso? Che cosa devo aspettarmi? La rivelazione che indossava biancheria femminile al momento del decesso?» «Secondo i risultati dell'autopsia, aveva residui di polvere da sparo sulle mani.» «Non sono un'esperta... Tutto quello che so è che mio fratello non si sarebbe mai tolto la vita. E al telefono mi ha detto che anche lei pensava la stessa cosa.» «Sto solo giocando a fare l'avvocato del diavolo. Mi sforzo di considerare la vicenda dal punto di vista della polizia», dissi esitante. Sapevo di avventurarmi su un terreno pericoloso. «Ieri mi ha detto che Felix, ultimamente, non dormiva... che stava lavorando troppo.» «Lo faceva sempre», confessò. «Prima della pubblicazione di La città irreale, ebbe un esaurimento nervoso. E, l'anno scorso, iniziò a manifestare gli stessi sintomi.» «È successo dopo l'aggressione subita in città?» «Lo sa?» «L'ho letto nei necrologi. Ma non dicevano nulla riguardo a un crollo nervoso. Ho soltanto fatto due più due.» «Non è il genere di notizia che avremmo voluto diffondere. L'aggressione l'aveva sconvolto emotivamente. Soffriva di violenti mal di testa, ed era profondamente depresso. Eravamo convinti di averlo perso. E credevamo fosse meglio tener segreta la cosa. Vincent...» «Chi?» «Vincent Strange. È un nostro caro amico. Questa storia l'ha distrutto. Si è occupato della vendita di molte opere di Felix. È il titolare di una galleria, qui a Temple Bar.» Ecco dove avevo sentito quel nome. Era il genio che aveva scritto l'introduzione al libro di Berg, quel mucchio di stronzate sulla contingenza della realtà... «Io e lui decidemmo, insieme, che la soluzione migliore fosse portare Felix da qualche parte, finché non si fosse ripreso. Sa, per evitare le chiac-
chiere della gente. Andammo nel New England: Connecticut, Rhode Island, New Hampshire. Sei mesi di viaggio. All'inizio non fu facile, ma, lentamente, mio fratello cominciò a sentirsi meglio, sembrava aver ripreso il controllo. Ormai era in grado di affrontare il ritorno a casa.» «A quando risale tutto questo?» «Allo scorso ottobre. Gli avevamo anche trovato un altro medico, qui a Dublino, che gli prescrisse un nuovo cocktail di farmaci. Da tempo non lo vedevo così in forma. Ha organizzato la mostra. E, subito dopo, sono iniziati gli omicidi di quel dannato Uomo di Marx... Come le ho già detto, Felix ne era ossessionato. E vedevamo tutti i nostri sforzi vanificati da quel mostro.» «Da tempo non lo vedeva così in forma... Per questo aveva smesso di scattare fotografie?» Sulla stanza scese un silenzio glaciale. E la sua espressione lo era ancora di più. «Chi gliel'ha detto?» «Fortuna. Sono stata alla mostra, a Kilmainham. È da lì che l'ho chiamata. Ed è proprio questo il motivo per cui ho deciso di telefonarle. Ho notato che c'era della neve in alcune delle fotografie... ma non ha mai nevicato, qui a Dublino, nel periodo compreso tra il vostro ritorno in ottobre e l'inaugurazione della personale di suo fratello, il primo di gennaio. Quei ventuno scatti non possono risalire all'ultimo inverno.» «Ha... ha intenzione di rivelare qualcosa, al riguardo?» «E perché dovrei? Quelle foto mi piacciono, indipendentemente dal periodo in cui sono state scattate.» «Non si è sbagliata, a proposito delle date.» Il muro di ghiaccio iniziò a sciogliersi, quando si rese conto che non avrei fatto nulla che potesse danneggiare la reputazione del fratello. Smise persino di mettere i vestiti nella borsa e venne a sedersi di fronte a me. Si chinò leggermente in avanti, come per assicurarsi che capissi perfettamente quello che aveva da dirmi. «Felix mi ha detto di averle scattate lo scorso inverno. Non aveva più fatto nulla, dopo il ritorno dagli Stati Uniti. Aveva cominciato a sentirsi meglio, e la sua ansia creativa se n'era andata. Diceva di aver perso l'occhio... aveva iniziato a vedere le cose in modo diverso, e il mestiere di fotografo non gli apparteneva più.» «Niente più foto? Era davvero deciso?» «Mi disse che per lui erano state un peso, per anni... e non aveva alcuna intenzione di ricominciare.»
«Però aveva un piccolo problema: l'imminente apertura della mostra.» «Era stato Vincent a organizzarla. Felix non voleva metterlo nei guai. E poi, aveva bisogno di soldi. Aveva speso molto, durante il suo crollo nervoso. Se voleva iniziare una nuova vita, gli servivano soldi. Io ho provato a dirgli che saremmo stati bene, con i miei risparmi. Ma lui ha preferito tirar fuori quelle vecchie fotografie, e fingere che fossero state scattate in tempi più recenti. Alla galleria non se ne sono mai accorti. Erano così felici di avere qualche opera nuova... non importava il numero esiguo. Gli scatti sono piaciuti molto; sono stati annoverati fra i suoi lavori migliori.» «Forse sono piaciuti anche a qualcun altro», osservai. «Fin troppo, direi.» «Non la seguo.» «Lei ha visto quelle fotografie, Alice?» «Naturalmente. Felix non mi permetteva mai di vedere i suoi lavori, prima che venissero esposti; non li mostrava mai a nessuno, se non ne era assolutamente soddisfatto. Ma sono andata all'inaugurazione insieme a Vincent... e ci sono tornata qualche giorno dopo, per dare un'occhiata con più tranquillità.» «E poi?» «Intende dire se sono stata ancora alla mostra? No. Perché me lo chiede?» Le dissi che i luoghi immortalati dal fratello erano gli stessi in cui si erano consumati gli omicidi dell'Uomo di Marx. Mentre parlavo, estrasse una boccetta di pillole dalla tasca; ne versò tre sul palmo della mano, che portò poi alla bocca. Non ero nemmeno sicura che se ne fosse resa conto. Gliele aveva prescritte il medico, dopo la scomparsa del fratello? «Ma è impossibile», disse. «La mostra è stata inaugurata il primo di gennaio. E il killer ha fatto la sua prima vittima soltanto una quindicina di giorni dopo. Dev'essersi sbagliata, Saxon.» «No, invece. Provi a considerare l'intera faccenda dal punto di vista inverso: la cosa importante non è l'ossessione di Felix per gli assassini... ma il motivo che si nasconde dietro di essa. Cosa lo attirava in quegli omicidi? Ce ne sono parecchi a Dublino. Troppi, direi. Che cos'avevano di diverso, quelli dell'Uomo di Marx? Perché suo fratello era così fissato? Io credo che sapesse che le scene dei delitti corrispondevano ai luoghi ritratti nelle fotografie in mostra a Kilmainham... e quelle fotografie portavano il suo nome.» «Sta forse dicendo che il killer è stato alla mostra, ha visto gli scatti di
Felix e ha scelto deliberatamente di uccidere quelle povere persone in quegli stessi luoghi? E perché mai l'avrebbe fatto?» «Questo non lo so. Ma è l'unica risposta che abbia un senso. L'unica che spieghi l'ossessione di suo fratello, fin dal primo omicidio. L'Uomo di Marx uccide Tim Enright all'O'Neill's Place. Felix pensa che si tratti di una strana coincidenza, e decide di non darvi molta importanza. Poi, il giudice Prior viene assassinato in Grosvenor Square, e lui inizia a individuare una sorta di schema. Dopo i due omicidi successivi, non ha più alcun dubbio. Non poteva non essere ossessionato da una tale scoperta! Non ha mai provato a dirle che era proprio questo legame a logorarlo?» Scosse il capo, smarrita. «E lei non ha mai notato una simile connessione? Nemmeno di sfuggita?» «No. Ha visto anche lei le foto di mio fratello: puoi trovarti davanti alla tua casa e non riconoscerla nemmeno. Rendeva tutto così alieno, straniato. Aveva questo dono: prendeva gli oggetti e li faceva suoi. Li rimodellava, mostrandoceli attraverso i suoi occhi. In molti casi, non sono riuscita nemmeno io a capire dove avesse realizzato quegli scatti. Non amava parlare del suo lavoro, e usciva sempre da solo quando doveva fotografare qualcosa. Di solito, preferiva farlo di notte.» «Evidentemente, l'Uomo di Marx non ha avuto problemi a capire di quali luoghi si trattasse», osservai. Alice si alzò e tornò alla borsa che stava preparando; vi infilò l'ultima pila di abiti e lasciò cadere la parte superiore, che chiuse rapidamente con la zip. Quindi, passò alle cinghie. Voleva tenere le mani occupate, mentre rifletteva. «Ha parlato con la polizia?» mi chiese senza fermarsi. «Ho chiamato il sovrintendente capo.» «E che cos'ha detto?» «Che avrebbe mandato qualcuno a dare un'occhiata.» «Ma?... Perché c'è un ma, non è vero?» «C'è sempre un ma... Secondo il sovrintendente capo Fitzgerald, il fatto che l'Uomo di Marx abbia scelto di uccidere le proprie vittime nei luoghi ritratti da suo fratello serve soltanto a spiegare l'ossessione di Felix, ma non rivela nulla riguardo all'identità dell'assassino. Ed è solo questo che le interessa. Non le sembra una soluzione molto pratica quella di mettere sotto sorveglianza gli altri diciassette punti della città immortalati negli scatti in mostra a Kilmainham, nella vaga speranza che il killer si faccia vivo,
una di queste notti. E c'è dell'altro: secondo lei, tutto ciò non fa che confermare l'ipotesi del suicidio. Se Felix era convinto che l'Uomo di Marx avesse preso le sue opere come modello, probabilmente si sentiva in parte responsabile... Il senso di colpa lo avrebbe spinto a togliersi la vita, giù al faro.» «Quante volte devo ripeterlo ancora? Felix non si sarebbe mai suicidato. Alla polizia non interessa che là fuori ci sia un killer che si ispira alle sue foto?» «Per loro, si tratta di una mostra aperta al pubblico. Dal primo di gennaio, centinaia, migliaia di persone sono entrate e uscite da Kilmainham... L'Uomo di Marx potrebbe essere chiunque, ammesso che non si tratti di una coincidenza.» «Non mi sembra convinta.» «Io non credo alle coincidenze. Sappiamo che suo fratello era ossessionato dagli omicidi del nostro uomo. Ossessionato al punto da non riuscire a non pensarci. Alla fine, è arrivato addirittura a sostenere che qualcuno stesse cercando di farlo fuori. Secondo me, tra questi due eventi è possibile che abbia tentato di scoprire chi stava usando le sue foto e perché, e che sia venuto a conoscenza di qualcosa di estremamente importante. .. al punto che l'Uomo di Marx si è visto costretto a eliminare la minaccia. Forse gli piaceva l'idea di servirsi degli scatti di Felix, al fine di elaborare uno schema, ma non deve aver gradito la sua intrusione. Il cacciatore iniziava a sentirsi cacciato.» Ma questo non spiegava ancora la decisione di inscenare un suicidio, giù al molo. Una scelta che doveva avergli comportato parecchi problemi. Com'era riuscito, inoltre, a far sparire ogni traccia del suo operato? «Non ricorda nulla», insistei, «che induca a ritenere che, ultimamente, qualcuno avesse pedinato o molestato suo fratello? Non mi riferisco necessariamente a un particolare drammatico. Qualche telefonata misteriosa... lettere... estranei che ciondolavano davanti alla porta di casa... Un dettaglio qualsiasi, Alice.» «No, niente. Oh...» Si interruppe. «Che c'è?» «In effetti, c'è stato qualcosa», continuò spaventata. «Me ne sono ricordata solo adesso. Non è nulla... almeno, al momento pensai che non fosse niente di importante, ma... ecco, due o tre settimane fa, qualcuno si è introdotto in casa nostra.»
«Qui?» «Eravamo a Berlino, per l'inaugurazione di una retrospettiva dei suoi lavori. Quando siamo tornati, qualche giorno dopo, abbiamo trovato la finestra sul retro rotta; erano sparite alcune cose. Piccoli oggetti senza valore. Un orologio, del denaro, qualche gioiello. Abbiamo cercato di non farne un dramma. Ci sono stati diversi furti, qui intorno.» «Tutto qui? Non mancava nient'altro?» «Non esattamente. Ecco perché mi è venuto in mente quando mi ha chiesto se qualcuno stava molestando mio fratello. Mi disse che erano sparite alcune fotografie. E un diario.» Dunque, avevo visto giusto? L'Uomo di Marx si era davvero introdotto in casa Berg, per scoprire quanto sapeva il fotografo? E, cosa più importante, c'era riuscito? «Avete denunciato il furto?» «Per quello che valeva... i topi d'appartamento non vengono mai acciuffati. Ci siamo semplicemente rivolti a un fabbro, e abbiamo fatto installare un sistema d'allarme più efficace. E abbiamo cercato di dimenticare l'episodio. Ma è stata comunque un'esperienza snervante. Io ho provato a riderci sopra, ma sentivo che Felix sapeva più di quanto non volesse dirmi. Ma non ho mai sospettato, nemmeno per un attimo, che tutto ciò fosse riconducibile all'Uomo di Marx.» «Forse non c'è nessun legame», dissi, dubitando che il mio goffo tentativo di rassicurarla avesse avuto successo. Non ero riuscita a convincere me stessa... figuriamoci Alice. L'impressione era che qualcuno avesse tentato di scoprire quanto sapeva Felix Berg. «Crede ancora che non sia stato suo fratello a chiamarmi, l'altra notte?» «Non posso fare a meno di sperare che non fosse lui.» Sospirò. «Dal giorno della morte dei nostri genitori, il legame che ci univa rappresentava tutto, per noi. So che avrei dovuto ascoltarlo, che avrei dovuto prendere sul serio i suoi timori. Non mi perdonerò mai il fatto di non essergli stata vicina... Ma detesto pensare che abbia voluto escludermi in quel modo.» «Io credo piuttosto che volesse proteggerla dai pericoli che stava correndo.» «Non volevo la sua protezione», mi disse quasi rimproverandomi. «Non ho più tredici anni. Se era nei guai, avrei preferito dividere con lui il peso di quel fardello.» «Anche se ciò significava rischiare la vita?»
«Ma certo. Se non altro, adesso saremmo insieme.» 14 Il resto della giornata lo trascorsi rintanata nel mio appartamento, cercando di scrivere il mio articolo sull'Uomo di Marx per la rivista americana di criminologia che Felix aveva trovato tanto affascinante. La scadenza era sempre più vicina, e avevo bisogno di mettere insieme tutti i frammenti dei fatti, le voci e le congetture che potevo racimolare in così poco tempo, cercando di tirarne fuori qualcosa che avesse un senso. Non era un compito facile. Non sapevo nemmeno da che parte cominciare. Da quando avevo scritto l'ultimo articolo, Felix Berg era morto, e adesso era tutto diverso. Diverso per me, intendo. Eppure, la sua scomparsa non aveva niente a che fare con l'Uomo di Marx, secondo la polizia, e stando alle prove. Quindi non me la sentivo di parlarne; forse avrei potuto accennare alla morte di Berg e dire che, inizialmente, era stata attribuita al serial killer. Ma, oltre a ciò, che cosa avrei potuto scrivere? Forse dovevo fare riferimento alla telefonata che avevo ricevuto quella sera? Dovevo descrivere le sue fotografie? Dovevo rivelare i dubbi di Alice, per nulla convinta che il fratello si fosse tolto la vita? L'importante, come in ogni indagine, era attenersi ai fatti. Cercare di vedere le cose com'erano. Ma, in questo caso, non era possibile. Alla fine, scelsi la strada più facile e decisi di concentrarmi sui fatti, i dettagli, le informazioni. Non ero pronta a parlare di quella notte giù al molo, sentivo ancora il bisogno di prendere le distanze. Di conseguenza, il pezzo risultò falso, forzato. Ero perfettamente consapevole che, chiunque l'avesse letto, avrebbe capito al volo che stavo nascondendo ciò che pensavo veramente. Se non altro, scriverlo mi diede la possibilità di mettere insieme tutto quello che finora avevo scoperto. Ma c'era anche un aspetto negativo: fui costretta a rendermi conto che, in fondo, le mie conoscenze non ammontavano a granché. Quando finalmente riuscii a buttar giù un articolo, che mi affrettai a spedire per posta elettronica, era quasi mezzanotte, e la luna splendeva sulla città.
Chissà se Grace era ancora in centrale... Non c'eravamo più sentite, dopo la mia telefonata per comunicarle quanto avevo scoperto riguardo alle fotografie; e non mi era sembrata molto entusiasta. Non avevo idea di che cosa stesse facendo, in quel momento. A volte schiacciava un pisolino in ufficio, quando lavorava fino a tardi; ma le indagini sull'Uomo di Marx erano a un punto morto, ed era poco probabile che quella sera si fosse fermata al Dublin Castle. Pensai di chiamarla a casa, ma non lo feci; magari era già andata a letto e mi seccava disturbarla. No, meglio andarci di persona. Se non avessi visto luci alle finestre, sarei rimasta seduta in macchina per un po', cercando di immaginarmela mentre dormiva. Poi sarei tornata a casa, o avrei guidato tutta la notte. Perché no, in fondo? Non avevo alcuna voglia di dormire. Tirai fuori la jeep e percorsi le strade illuminate dalla luna, diretta verso il mare. La casa in cui viveva Grace era separata dalla spiaggia soltanto dalla strada, e si affacciava su Howth Head, dall'altra parte di quel ferro di cavallo che forma la Dublin Bay. Era una di quelle proprietà senz'anima, in cui le abitazioni sembrano tutte uguali e se ne stanno tutte rannicchiate, per difendersi dall'orrore del mondo circostante; la domenica, le auto parcheggiate nei vialetti splendevano come fossero nuove; gli uomini giocavano a golf. La sua era l'unica casa con le luci ancora accese. Ero entrata nel viottolo senza uscita, quando notai la macchina parcheggiata davanti alla porta. L'auto di Sean Healy. Pensai di bussare, ma non lo feci. Io non avrei avuto alcun problema a unirmi a loro, ma correvo il rischio di metterla in imbarazzo. Non per via della nostra relazione. Healy e Grace erano buoni amici; erano sempre stati molto vicini, e tra loro non c'erano mai state le tensioni e i freddi atteggiamenti che le riservavano alcuni membri della Squadra omicidi. Sean aveva qualche anno di più e, a differenza degli altri, non si era mai sentito minacciato da lei. Grace non aveva motivo di tenergli nascosto qualcosa. In ogni caso, non sapevo se con loro ci fosse qualcun altro, né di che cosa stessero parlando. Se si trattava di lavoro, una mia intrusione sarebbe potuta sembrare inopportuna. Le soluzioni erano due: Grace poteva compromettersi, parlando davanti alla sottoscritta, ma la cosa non sarebbe stata vista di buon occhio, in centrale, se a qualcuno fosse giunta voce della cosa; oppure, mi sarei potuta rifugiare in giardino, mentre i grandi discutevano di cose da grandi.
Ma una simile situazione avrebbe finito con l'irritarmi. Così, innestai la retromarcia e tornai verso la spiaggia; feci un giro e infine ripercorsi la strada all'inverso, per controllare se l'auto di Healy fosse ancora lì. C'era. Un altro giro. Arrivata al terzo, stanca di guidare, parcheggiai di fianco alla strada nel punto più buio, da cui potevo vedere la casa. Accesi la radio, che sintonizzai sulla prima stazione che mi sembrò abbastanza tranquilla, e aspettai. Stavo diventando davvero brava ad aspettare. Stavano mandando una canzone di Billie Holiday, che mi rese malinconica. E lo scopo era quello. A quel punto, iniziai ad autocommiserarmi. Qualcuno era là dentro con lei, mentre io ero lì fuori, in macchina. Per riuscire a vederci, di fatto, dovevamo fissare un appuntamento. Del resto, era tutta colpa mia. Grace aveva suggerito più volte di prendere casa insieme, di trovare un posto in cui entrambe ci sentissimo a nostro agio, ed ero sempre io a rimandare l'impegno. Non che avessi qualche dubbio riguardo alla nostra relazione; si trattava di qualcosa di più vago e indefinito. Forse, dipendeva tutto dal fatto che avevo sempre preferito vivere per conto mio, e non riuscivo a immaginare di trovarmi in una situazione diversa; o, forse, non volevo legarmi a quella città. C'era sempre qualcosa che mi impediva di accettare completamente il mio trasferimento a Dublino, nonostante fossero passati anni dal mio arrivo, e non avessi dato segno di volermene andare. D'altronde, non sapevo nemmeno quale sarebbe potuta essere la mia tappa successiva. Comprare casa con Grace significava rimuovere un altro degli ostacoli che mi impedivano di divenire parte della città, e che facevano di me un'eterna outsider, la mia condizione di sempre. Una condizione che mi piaceva. Non ero sicura di essere pronta a rinunciare a quella parte di me, ad abbandonare ogni resistenza. Secondo Grace, stavo ingigantendo la questione. Una casa era solo una casa, diceva lei, un luogo in cui trascorrere più tempo insieme. Non aveva alcun senso mantenere due appartamenti a Dublino, considerando il costo della vita. Sapevo che aveva ragione. Avevamo persino iniziato a guardarci intorno, ma, io riuscivo sempre a trovare qualcosa che non andasse nelle abitazioni che visitavamo: erano troppo lontane dalla città, non c'era una stanza
in cui potessi lavorare, la strada era troppo tranquilla, il cane dei vicini aveva abbaiato durante la visita... In un certo senso, la stavo tradendo, prendere casa con me significava attirare un'attenzione ancora maggiore sulla nostra storia; al dipartimento, avrebbero ricominciato a parlare della sua diversità... Pure, era disposta a farlo; era disposta ad affrontare tutta quella merda. Ogni volta, però, io mi tiravo indietro. Ero ancora troppo attaccata al mio appartamento, non ero pronta a lasciarlo. Non riuscivo a immaginare di vivere in un altro posto, con una vista differente, dei suoni differenti. Non sarei mai riuscita a ficcarmi in testa delle nuove coordinate. Alla fine, un poco alla volta, avevamo abbandonato il progetto. Ma, trovandomi spesso nel suo appartamento, sapevo che continuava a raccogliere i dépliant delle agenzie immobiliari; erano infilati tra i cuscini, o in mezzo alle bollette, quasi fossero lettere di un'amante segreta. A volte arrivavo a odiarmi profondamente: ero così patetica. 15 Dovevo essermi addormentata per qualche minuto, mentre ero seduta in macchina a pensare, ascoltando la musica alla radio. Quando mi svegliai, Billie Holiday se n'era andata, leggera, e tutto quello che riuscivo a sentire era il bip di un allarme che veniva disinserito. Diedi un'occhiata davanti a me, e vidi Sean Healy dirigersi verso l'auto; con lui c'era un uomo che non riconobbi. Qualcuno legato alla Squadra omicidi, probabilmente. Giovane. Un tipo niente male, con un'andatura piuttosto spavalda. Evidentemente si erano incontrati dal sovrintendente capo per una sorta di briefing; adesso lei era sulla porta, e li guardava andar via. Aspettò che salissero in macchina e uscissero in retromarcia dal vialetto per tornare sulla strada, proprio come avevo fatto io una mezz'ora prima. Quindi tornò dentro, chiudendo la porta. Cercai di rendermi invisibile, mentre passavano sull'altro lato della strada; poi seguii i fanali posteriori nello specchietto retrovisore. Erano diretti verso la città. Ero abbastanza sicura di non essere stata vista. Non appena la strada fu di nuovo sgombra, riavviai il motore e parcheggiai nel posto liberato da Healy. Saltai giù e suonai il campanello. Grace venne ad aprirmi quasi subito. «Avete dimenticato qualcosa?» cominciò. Ma sì bloccò, trovandosi da-
vanti la sottoscritta. «Saxon...» «Grace.» «Credevo fosse...» «Healy, lo so. L'ho visto andare via un attimo fa. Ero ferma dall'altra parte della strada; sono rimasta nascosta e ho aspettato che si allontanassero. Chi era il tizio con lui?» «Patrick Walsh. Te ne ho parlato, ricordi?» Il poliziotto che aveva partecipato al corso d'addestramento negli Stati Uniti insieme a Healy, per la gioia di Seamus Dalton. Ecco spiegata l'andatura spavalda. La seguii in cucina. C'erano documenti sparsi su tutto il tavolo, insieme a tre tazze in cui era rimasto del caffè freddo e a un pacco semivuoto di biscotti. La radio era sintonizzata sulla stessa stazione che stavo ascoltando in auto, il volume molto basso. Quello che restava di una serata di lavoro. «Hai mangiato?» mi chiese. «Se vuoi, ti preparo qualcosa.» «No, sto bene. Non preoccuparti per me. Ci provi sempre, vero? Non ti va giù che non mi prenda cura di me stessa...» «Qualcuno deve pur starti dietro.» «Invece è di te che dovresti preoccuparti. Sembri presissima.» «Se pensi che io non sia in forma, dovresti vedere Healy: sta dedicando tutto il suo tempo agli omicidi dell'Uomo di Marx, e avremmo un sacco di altri casi di cui occuparci. Sai, gli assassini comuni non cessano, quando c'è un serial killer in giro. È al lavoro dalle sei di questa mattina. E questo pomeriggio Draker ha convocato tutta la squadra per discutere un piano sconsiderato... un'amnistia delle armi da fuoco. E si aspetta che siamo noi a occuparci dei preparativi. Come se non avessimo già abbastanza da fare con il nostro uomo...» «Un'amnistia?» «Sì. Hai presente quando i criminali consegnano le pistole senza il timore di essere indagati per qualche reato? Stampa e TV mostrano un mucchio di belle immagini delle armi che vengono fatte a pezzi. I titoli parlano di strade più sicure per i passanti. Ne è stata indetta una a Londra, poco tempo fa. È da lì che Draker ha preso l'idea. Non credo che ne abbia mai partorita una da solo. È durata un mese, sono state consegnate ventimila pistole, oltre a rivoltelle, fucili semoventi, mitragliatrici, pistole ad aria, e mezzo milione di proiettili; perfino un giocattolino da novanta centimetri. L'iniziativa ha riscosso gli applausi della solita schiera di benefattori, volon-
tari e assistenti sociali.» «E perché, tutto a un tratto, vuole fare una cosa simile?» «Gira voce che il commissario stia andando in pensione. Di nuovo. Evidentemente, Draker crede che qualche articolo che pubblicizzi i suoi sforzi per rendere la città più sicura possa aumentare le sue chance. A parte questo, credo che voglia punirmi per aver ignorato i suoi ordini e aver insistito perché il caso venisse tolto all'Unità antiterrorismo. Sai bene anche tu quanto sarebbe stato felice di scaricarlo a loro, lasciando che se la vedessero con l'opposizione.» «Non merita quella carica.» «Non m'importa. Io, comunque, ho intenzione di appoggiarlo. Qualsiasi cosa me lo levi dai piedi è la benvenuta.» «Be'... allora tu potresti candidarti per il posto di vicecommissario.» «Non ce la farei mai, se lui riuscisse nel suo intento; e poi non sono sicura che mi piacerebbe. Non sono un animale politico, non lo sono mai stata. E solo chi appartiene a quella categoria riesce a mantenere a lungo una posizione del genere.» E aveva ragione. «Comunque, che cosa ci fai qui? Sei solo in cerca di compagnia, o hai in mente qualcosa?» «La prima che hai detto.» «Allora beviamo qualcosa. Ti va una birra?» «Perfetto.» Prese una bottiglia dal frigorifero, la aprì e me la passò, con un unico movimento fluido. Mai nome era stato più azzeccato: Grace... Io non avevo mai posseduto la sua compostezza, o il suo equilibrio. «Un'amnistia delle pistole rappresenterebbe un'occasione fantastica per l'Uomo di Marx. Magari inizia ad avere paura e decide di disfarsi della sua Glock», osservai, mentre ci spostavamo in salotto, prendendo posto sul divano. «Nessuna domanda, niente esami balistici o di medicina legale... Davvero conveniente, non c'è che dire.» «Ci ho già pensato», disse. «E se Draker crede che non farò esaminare accuratamente tutte le Glock che verranno consegnate, be', se lo può scordare. Questo caso ha pochissime falle; non possiamo permetterci di rinunciare a seguire una possibile pista solo per arricchire il suo curriculum vitae. Qui non siamo in Texas, dove un qualsiasi vecchio psicopatico con un po' di soldi in tasca può rimediare una pistola.» «Be', questo non accade nemmeno in Texas», ribattei, posando la bottiglia sul pavimento. Stavo lottando con gli stivali per riuscire a sfilarmeli. «Ti stai lasciando andare ai soliti pregiudizi tipici di chi vive nel Vecchio
Continente...» «Il punto è che negli Stati Uniti circolano un sacco di armi, mentre qui la situazione è diversa. Quindi, se riesco a mettere le mani su un oggetto qualsiasi a cui l'Uomo di Marx potrebbe essersi anche solo avvicinato, lo sottoporrò a tutti i test possibili e immaginabili. E al diavolo Draker e la sua cazzo di amnistia.» «Ed è proprio questo il motivo per cui, probabilmente, il nostro uomo preferirà non correre rischi, e non consegnerà la sua pistola. Anzi, se vuoi sapere come la penso, comincerà a sospettare che tutto questo sia stato pensato deliberatamente per incastrarlo. Accidenti a questi fottuti stivali...» «Dai, lascia fare a me.» Mi si inginocchiò davanti e afferrò quello che non ero ancora riuscita a togliermi. In un attimo, me lo sfilò. «E di te che mi dici?» mi chiese, mentre li metteva accanto al camino; per un attimo, ripensai alle scarpe di Felix, accuratamente sistemate sul bordo della banchina, a Howth. L'ultima cosa che avrei voluto ricordare, in quel momento... «Vuoi dire se la mia teoria del legame tra Felix e l'Uomo di Marx ha fatto progressi? No, zero. So che mi avevi avvertita. Probabilmente hai ragione. Forse, quelle fotografie non significano nulla. Come al solito, sto cercando di trovare degli indizi anche dove non ci sono. Ma continuo a essere convinta che, sotto sotto, qualcosa ci sia... e voglio insistere, fino a quando non scoprirò di che cosa si tratta. Ecco, adesso lo sai, così non verrai da me a lamentarti, quando capirai che non intendo lasciar perdere.» Sorrise, ma non spinse oltre la questione. Non aveva voglia di litigare. «E Alice? Che cosa pensa?» mi chiese, senza riuscire a mascherare la falsità del suo interesse. «A dire la verità, è difficile capire che cosa le passi per la testa, riguardo a qualsiasi cosa. È una donna impenetrabile. Un indovinello avvolto in un mistero all'interno di... com'è la citazione esatta?» «Mi ricorda una persona che conosco...» «Forse è per questo che mi piace», dissi, «anche se so che non è stata del tutto sincera, con me.» «Ti piace?» «Be', forse dire che mi piace è troppo. Mettiamola così, in lei riconosco un'anima affine. Una persona misteriosa e chiusa, proprio come me. Credo che abbia solo bisogno di un po' di tempo. Comunque, per rispondere alla
tua domanda, è ancora convinta che il fratello non si sia ucciso. Non crede al risultato dell'autopsia.» «Capita spesso che i parenti di un suicida non accettino che il loro caro si sia tolto la vita. Si sentono rifiutati... e, in molti casi, non sbagliano. Ricordo la prima volta che ho indossato l'uniforme: mi hanno spedita a Monkstown, vicino al porto; ci chiamavano in continuazione per ripescare i suicidi. E la cosa era già abbastanza spiacevole, ma la parte peggiore era occuparsi delle famiglie. Era un po' come aprire un vaso di Pandora: ne usciva un groviglio di emozioni. Rabbia. Incredulità. Rifiuto.» E lo veniva a raccontare a me. Per anni mi ero sentita responsabile di ciò che era successo a Sydney. Con la mia famiglia, però, non c'erano stati sfoghi emotivi; al contrario, avresti potuto aprire il vaso di Pandora, e sforzarti con ogni mezzo di far uscire i sentimenti in esso racchiusi. Niente: avrebbero preferito restare in un angolo, nascosti nell'oscurità. «Senti», continuò Grace, dopo aver aspettato invano una replica, «non ho intenzione di ricominciare a tormentarti. Sei cresciutella, adesso... ma non devi lasciare che la tua compassione per lei - se è di questo che si tratta - ti trascini in qualcosa da cui sarebbe meglio tenersi alla larga. Chi decide di suicidarsi, normalmente, vuole fuggire da una vita complicata.» «È vero, mi dispiace per lei. Credo che si senta persa, senza il fratello. Non sa che cosa fare. O cosa pensare. So bene come si sente. Ho provato a chiamarla di nuovo, qualche ora fa, ma mi ero scordata che se n'è andata per qualche giorno. Alla fine le ho lasciato un messaggio: le ho detto di non esitare a telefonarmi, se sentisse di avere bisogno del mio aiuto.» «Devo preoccuparmi?» «No, non è il mio tipo.» «Ah... e, vediamo, quale sarebbe il tuo tipo?» «Mi piacciono le donne più alte.» «Saxon, è difficile trovarne una più bassa di te...» «Ehi... non è carino!» «Be', se non altro mi sono liberata di un bel peso. Alice non faceva che chiamarmi, a qualsiasi ora del giorno. Voleva sapere quando le avrei restituito il corpo del fratello. Ha tormentato persino Healy. Non so... che cosa pensava che volessimo fare con il cadavere? Aveva paura che lo perdessimo? Io proprio non la capisco. Ti dice che è convinta che Felix sia stato assassinato, e poi sembra ansiosa di recuperare la salma, quasi fosse la vittima di un banale incidente stradale.» «Che cosa le hai detto?»
«La verità. Che spetta al coroner disporre affinché il corpo venga restituito alla famiglia.» «E lui lo farà?» «Non c'è motivo di trattenere il cadavere, una volta stilato il certificato di morte. Di solito, ad autopsia eseguita, si tratta soltanto di una questione di procedura; a patto che non sia in corso un'indagine da parte della polizia. Nel caso di un'inchiesta giudiziaria, potrebbero volerci dei mesi, ma in questa circostanza non avrebbe senso aspettare tanto. Presto riavrà la salma del fratello. Dopodiché, spero che non si faccia più sentire. Sto cercando di sbolognarla a Dalton. Sembra essersi preso una bella cotta.» «Come se quella poveretta non avesse già abbastanza problemi.» «Niente da dire, finché la tiene lontana da me. Ripensandoci, forse dovrei mandarle Walsh... è lui l'ammaliatore, quando si tratta di donne.» «Adesso sono io a preoccuparmi.» «Non ce n'è bisogno. Non vado mai a letto con i miei subordinati», ribatté con una certa dignità. Allungò un braccio e afferrò la bottiglia di birra; ne buttò giù un sorso, rapidamente, e prese a ridere, piano. «Anche se... come ho fatto a scordarmi di dirtelo? In effetti, Walsh mi ha chiesto di uscire a cena con lui.» «Stai scherzando!» «No, è successo un paio di giorni fa. Mi ha invitata, senza la minima esitazione.» «Ha invitato il sovrintendente capo, il suo superiore. Sono profondamente colpita. Quel ragazzo ha del fegato, non c'è che dire. Farà strada... Non con te, voglio sperare. E tu che cosa gli hai risposto?» «Che un simile comportamento era del tutto inappropriato, e che se avesse passato il segno un'altra volta l'avrei spedito a regolare il traffico. L'ho rimesso al suo posto, insomma. Ma devo ammettere che sono rimasta impressionata. Come hai detto tu, ci vuole del fegato per chiedere un appuntamento al tuo capo.» «È per questo che non hai mai chiesto a Draker di uscire?» «Già, oltre al fatto che non mi attira l'idea di trascorrere una serata con una persona che ti fa sembrare allettante la prospettiva di essere impiccata, sventrata e squartata.» «Credo che lo prenderò come un complimento.» Sorrise e mi tolse di nuovo la bottiglia dalle mani. Era bello vederla così rilassata. Improvvisamente, avvertii una sensazione di leggerezza, ero felice di essere venuta qui e di aver aspettato che Healy e Walsh se ne andas-
sero, anziché tornare a casa, nel mio letto, da sola. Ma, forse, a farmi sentire così era l'aver bevuto birra a stomaco vuoto. In ogni caso, non sarebbe durata a lungo. Prima che avesse il tempo di bere, il telefono nell'ingresso squillò. Grace imprecò sottovoce, posò la bottiglia e andò a rispondere. Ascoltai la sua voce, attraverso la porta. «Sì... sì», la sentii mormorare. «Sì, lo so. Arrivo subito.» «È quello che penso?» le chiesi quando riapparve. Annuì. «Sembra che il nostro amico, l'Uomo di Marx, abbia colpito di nuovo. E questa volta davvero. E le vittime sono due.» 16 Ero sdraiata sul letto di Grace, e stavo facendo un po' di zapping televisivo: l'ultimo spettacolo, un film di guerra, programmi sottotitolati, calcio. Ed eccola, finalmente. L'immagine di una strada di Dublino, un collegamento in diretta dalla scena dell'ultimo omicidio. Le luci al neon creavano un'atmosfera nebbiosa. L'aria era verde. Due vittime nell'ultimo agguato. Ancora l'Uomo di Marx? Così recitava la scritta in sovrimpressione, nella parte inferiore dello schermo. Il fatto che le stazioni televisive avessero modificato la programmazione abituale era un segno delle dimensioni che la vicenda iniziava ad assumere. O forse, più semplicemente, per la prima volta la sparatoria era avvenuta in pieno centro, e i reporter non avevano dovuto allontanarsi molto dai loro bar preferiti per entrare nel vivo dell'azione. Finalmente avevano qualcosa in cui sguazzare, dopo che la morte di Felix Berg aveva condotto a un punto morto: non si trattava nemmeno di un omicidio, figuriamoci se poteva essere coinvolto l'ultimo serial killer. Alzai il volume per sentire che cosa stava accadendo. Teatro della prima delle due aggressioni era una mostruosa costruzione gotica, la Church of Our Father, nel cuore della città, a nord. Un edificio enorme, orribile e triste, con inferriate di metallo sulle vetrate istoriate, annerite dal fumo. Non mi era nuovo, mi era già capitato di passarci davanti durante una delle mie peregrinazioni; dentro, però, non c'ero mai stata. In effetti, non vi avevo mai prestato molta attenzione. D'altronde, Dublino era piena di chiese; la religione era una di quelle cose che ai cittadini non sarebbe mai venuta a mancare: era una parte della città vecchia, che continuava a fare capolino tra le brillanti facciate po-
stmoderne, e si aggrappava alla coscienza delle persone proprio come un cattivo odore che aleggia su una discarica di rifiuti. Io facevo del mio meglio per ignorarla. Avevo già avuto la mia buona dose, durante l'infanzia. Non ne sentivo più il bisogno. A giudicare dalle parole dei reporter giunti sulla scena, la prima vittima stava rincasando dopo una serata passata a bere in città: l'uomo si era fermato davanti al portone della chiesa per liberarsi, come spesso accade agli ubriachi, che talvolta non si preoccupano nemmeno di evitare i barboni che dormono sulla soglia. Era stato ucciso da un colpo alla schiena che gli aveva attraversato il cuore. L'assassino aveva sparato da una distanza di circa tre metri... uno sforzo davvero impressionante per il nostro Uomo di Marx. Il sangue aveva formato un arco sull'antico portone di legno, creando un delizioso motivo ornamentale. Le reti televisive gli avevano puntato contro i riflettori, facendone un bel primo piano, quasi fosse un Jackson Pollock appena scoperto. Poi la polizia era riuscita a isolare la scena, e ad ammassare gli spettatori in un punto abbastanza distante. L'uomo era caduto a faccia in giù. Era morto sul colpo. Che cosa fosse accaduto in seguito restava un mistero. A un centinaio di metri di distanza giaceva un secondo cadavere. Una giovane donna. Chi l'aveva vista, la descriveva come una ragazzina intorno ai vent'anni. Non era stata ancora identificata. Apparentemente, stava rincasando dopo una serata trascorsa fuori. Indossava un paio di scarpe rosse con il tacco a spillo e un luccicante abito da cocktail nero, di quelli a buon mercato. Tra le mani stringeva una borsa rossa, che conteneva soltanto la chiave di casa, del denaro e il biglietto del guardaroba di un club del centro. La solita storia: una donna moriva perché aveva preferito avviarsi a piedi, anziché prendere un taxi. Stando a una prima ricostruzione, però, si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato e, inavvertitamente, era finita sulla scena in cui l'Uomo di Marx aveva deciso di colpire. I primi due colpi indirizzati alla ragazza dovevano aver mancato il bersaglio: il primo era finito contro un muro vicino, il secondo aveva mandato in frantumi una finestra. L'assassino doveva esserle corso dietro, mentre faceva fuoco. La terza pallottola, infatti, l'aveva presa al fianco destro, facendola cadere; le due successive erano state sparate da una distanza minima, mentre lei era a terra con il viso rivolto verso il suo aggressore, che le aveva appoggiato la canna alla fronte e aveva premuto il grilletto. Du-
rante il collegamento, vennero riportate le dichiarazioni di un paramedico accorso sulla scena del delitto: le due ferite erano molto vicine, e i contorni bruciati e cosparsi di polvere da sparo formavano due aloni, simili alle aureole che circondano il capo dei santi. Una volta delimitata la scena del crimine con il nastro della polizia, arrivò un piccolo battaglione di agenti, già pronti a calcolare le ore di straordinario. Il loro compito era quello di tenere lontani i curiosi. Per il resto, non c'era molto da dire, o da vedere. Vidi il patologo davanti al furgone dell'obitorio; riconobbi qualche volto della Squadra omicidi, mentre gli uomini passavano tristemente sotto il cordone. Sean Healy. Patrick Walsh. E Tom Kiernan, arrivato in sella alla sua motocicletta, con il casco sottobraccio e la macchina fotografica a tracolla. Di Dalton, ancora nessun segno. Come in una sequenza, osservai il tragitto compiuto da un reporter nel tentativo di strappare una dichiarazione a Grace; era uscita di casa da appena quaranta minuti, ed era lì. Sorrisi, mentre gli passava accanto sfiorandolo come se non esistesse, per poi sparire nel buio dietro le transenne. Il sovrintendente capo Grace Fitzgerald, della Polizia Metropolitana di Dublino, arriva sulla scena dell'ultimo omicidio, diceva la scritta in sovrinpressione. Era curioso osservarla in televisione: lei era là fuori, mentre io me ne stavo comodamente sdraiata nel suo letto, con la testa sul suo cuscino; nella stanza, si sentiva il suo profumo. Durante le due ore successive, mentre cambiavo canale in cerca di qualcosa di nuovo, non feci altro che seguire i soliti servizi confusi, ripetuti all'infinito; i giornalisti imbastivano freneticamente i pochi frammenti di informazioni in loro possesso, nella speranza che si trasformassero in qualcosa di più valido. D'altronde, i reporter erano maghi, nel trasformare la paglia in oro, erano capaci di andare avanti per ore. Invece di fornire notizie attendibili, colmavano le lacune parlando con la gente che viveva nel quartiere, non si rendevano conto, o forse non gliene importava niente, che, ammesso che i testimoni avessero davvero qualcosa da dire riguardo al duplice omicidio, le loro dichiarazioni avrebbero finito con il contaminarsi, dopo le infinite ripetizioni a beneficio delle telecamere e delle matite frenetiche degli scribacchini. Ma i passanti avevano realmente visto qualcosa? Potete scommetterci.
Alcuni sostenevano di aver visto un uomo correre verso il fiume, anche se le descrizioni variavano notevolmente. Un tizio disse che si trattava di un ragazzo di colore, dalla corporatura robusta; qualcun altro confermò le sue parole. Be', in un quartiere come quello, qualunque cosa accadesse veniva attribuita con troppa facilità a robusti ragazzi di colore; ma era assai improbabile che una persona corrispondente a una simile descrizione potesse aggirarsi per quelle strade senza essere notata. Dublino stava cambiando rapidamente, da quel punto di vista, ma non si stava certo trasformando in un crogiolo di razze. Sarebbe stata una fortuna, per Burke, non essere arrestato prima che facesse giorno. Secondo un altro testimone il sospetto era un bianco, tanto magro da sembrare quasi uno scheletro. Aveva la barba. Anzi, no. Indossava una giacca. Era in maniche di camicia. Un altro ancora affermò di aver visto una donna allontanarsi dalla scena del duplice delitto. Qualcuno aveva sentito un urlo. A che ora? Non avrebbe saputo dirlo, con precisione. Le storie, ogni volta che venivano ripetute, si arricchivano di qualche particolare, come i racconti dei viaggiatori intorno a un fuoco da campo. Alla fine, un uomo che viveva in una casa di' fronte alla chiesa dichiarò in tutta serietà di essere stato scaraventato a terra da quello che pensava fosse il killer, e disse di ricordare chiaramente che la persona in questione aveva una cicatrice sulla guancia sinistra; e dovette ripetere il suo racconto tre volte, prima che qualcuno si rendesse conto che tatto ciò risaliva alla notte precedente... Ammesso che non si fosse inventato tutto. Ecco perché era assolutamente necessario che la polizia mostrasse la massima competenza. Perché i testimoni non erano stati isolati? Perché le loro dichiarazioni non erano state prese prima che avvenisse una sorta di impollinazione incrociata tra i loro ricordi e le fantasie che fluttuavano nell'aria febbricitante? Perché gli agenti non... Mi fermai. Ci stavo cascando un'altra volta. Dovevo sempre dire agli altri come svolgere il loro lavoro. Era sempre stata una mia debolezza. Non sono affari tuoi, mi ripetei fermamente. Non ero nella polizia. Ero solo una che se ne stava sdraiata nel letto di un'agente, e che si sentiva in vena di discorsi ridondanti. Così, mi misi ad ascoltare la discussione con il vecchio e tremante prete della chiesa davanti alla quale si era consumato il primo omicidio. Era d'accordo che si trattasse di una terribile tragedia... come tutti i suoi colle-
ghi, aveva un talento impareggiabile per la compassione e le banalità. Solo Dio conosceva la verità e ogni cosa, alla fine, sarebbe stata sottoposta al suo giudizio, e Lui avrebbe raddrizzato ogni torto. Aggiunse, inoltre, che avrebbe celebrato una funzione speciale per aiutare la comunità ad affrontare quell'orribile evento. Già... Non avrei dovuto mostrarmi così cinica, ma tra la Chiesa e i consulenti che, inevitabilmente, sarebbero apparsi sulla scena, era già un miracolo che la gente riuscisse a mantenere la propria lucidità, nei giorni che seguivano una tragedia. La televisione, poi, non aiutava. In fondo allo schermo, continuavano a scorrere le notizie. Chi può considerarsi al sicuro, in città? recitava un titolo. Dove colpirà la prossima volta l'Uomo di Marx? C'erano dei numeri da chiamare, per votare chi, secondo gli spettatori, era il responsabile della crisi. Il mattino successivo, si sarebbero tenute delle discussioni in studio. I cittadini, tutto sommato, avevano mantenuto la calma da quando erano iniziati gli omicidi; ma, fino a quel momento, le azioni del mostro non avevano coinvolto la vita della gente comune; inoltre, l'intervallo di tempo fra un assassinio e l'altro aveva impedito il crearsi di una situazione di panico. Più il numero delle vittime cresceva, però, minori erano le possibilità di tenere sotto controllo le emozioni collettive. Alla fine, decisi che l'unica cosa che potessi fare era spegnere il televisore. Una profonda stanchezza si stava impadronendo del mio corpo. Iniziavi a sentirti impotente, quando un omicidio si riduceva a un diversivo, a un intrattenimento. Era questo l'atteggiamento generale, naturalmente escludendo le vittime e le loro famiglie. Quando accade una cosa simile, significa che siamo davvero perduti. Mentre lo schermo diventava grigio e le chiacchiere dei telegiornali cedevano il posto al rumore del traffico rarefatto e al debole sciabordio delle onde, cercai di sintonizzare la mia mente su un'altra frequenza. Pensai a Felix Berg, ma la cosa non mi fu di grande aiuto. Ero quasi sicura che la Church of Our Father non comparisse in nessuna delle fotografie esposte a Kilmainham. Dunque Grace aveva ragione a ritenere che si trattasse soltanto di una coincidenza? Davvero la telefonata di Felix era stata soltanto un disperato tentativo di drammatizzazione, che nulla aveva a che fare con l'Uomo di Marx? In teoria, quella scoperta avrebbe dovuto confortarmi, ma, non so come, non fu così. Mentre ero sdraiata lì, sola, mi resi conto di una cosa: non vo-
levo che il mio ruolo in quella storia giungesse alla fine. Grace era là fuori, al freddo, e non avrebbe dormito, quella notte. Probabilmente, mi invidiava. Anch'io, però, provavo invidia nei suoi confronti, ed ero certa che per lei sarebbe stato lo stesso, se le nostre posizioni fossero state invertite. Avevo ancora bisogno delle mie scene del crimine, delle mie indagini. Altrimenti, cos'ero io? Una nullità. Uno zero totale. 17 Anche la galleria di Strange si trovava nel quartiere di Temple Bar, non lontano dall'abitazione dei Berg. Non mi ero preoccupata di avvisarlo che quella mattina sarei passata, non volevo dargli l'opportunità di rifiutare. Non avevo motivo di pensare che non volesse ricevermi, ma perché correre il rischio? Post: era questo il nome della galleria. Postmoderna? Postindustriale? Postuma? L'insegna non diceva altro. E, del resto, che importanza aveva? La sede era un vecchio edificio, la facciata del quale era stata rimossa e sostituita interamente da enormi lastre di vetro: i tre piani risultavano, così, esposti alla vista dei passanti, quasi fossero attraversati dai raggi X. Le pareti erano bianche, proprio come a casa di Alice; erano poche le fotografie appese. Il pavimento era rivestito da grosse piastrelle di arenaria. Vedevo un uomo, dietro la finestra; era seduto a una scrivania e stava parlando al telefono. Strange: chi altri avrebbe potuto essere? Se ne stava lì, con il tipico atteggiamento del proprietario, del signorotto che domina tutto ciò che copre con lo sguardo; indossava un'enorme giacca di pelliccia che lo faceva assomigliare a un orso, o a un personaggio uscito da una stampa di Edward Gorey. Aveva i baffi più assurdi che avessi mai visto; sembrava quasi che li avesse fatti crescere per scommessa e che, dopo la vittoria, si fosse scordato di tagliarli. Dietro di lui, c'era un vecchio attaccapanni per nulla intonato all'ambiente. Provai ad aprire la porta. Niente. Era chiusa a chiave. Allora bussai, per attirare la sua attenzione. Sollevò lo sguardo; per un attimo sembrò ignorarmi, poi il suo viso fu attraversato da una strana espressione: mi aveva riconosciuta? Premette un bottone sotto la scrivania, e sbloccò la porta.
La spinsi ed entrai. Lui tornò tranquillamente alla sua telefonata: evidentemente, se aveva capito chi ero, riteneva che non meritassi ulteriori cenni di saluto. Rimasi lì, in piedi, a studiare le fotografie alle pareti. Immagini che creavano un certo disturbo. Erano nudi femminili, in bianco e nero, molto raffinati, se non fosse stato per un particolare inquietante: in ogni scatto, la testa era stata tagliata fuori. In uno si vedeva una donna sdraiata, con un coltello appoggiato sulla pancia, la punta diretta verso l'ombelico; in un altro, si notavano i segni profondi lasciati da una pesante catena sulla pelle delle natiche: la catena era sulla schiena, avvolta in spire come un serpente addormentato. In un terzo, la donna si era tagliata e il sangue era stato usato per disegnare una spirale del tutto simile a quella precedente. Autoritratti era il titolo della mostra. Tutto ciò mi fece apprezzare ancora di più l'opera di Felix. «Le piacciono?» La voce era vicinissima al mio orecchio. Rapida, mi voltai. Strange era proprio dietro di me. Non l'avevo sentito avvicinarsi, era stato bravo, considerando il pavimento di pietra. Abbassai lo sguardo, e notai che era a piedi scalzi. «In tutta sincerità, no», risposi. «Non è il mio genere. Non sono particolarmente attratta dalle opere che rischiano di finire in tribunale, presentate come Reperto A. Chi è l'autrice?» «L'artista preferisce mantenere l'anonimato.» «Non la biasimo.» «Crede che i suoi lavori siano sinistri?» Strange sembrava sorpreso, come se non avesse pensato neppure per un attimo che in quegli scatti potesse esserci qualcosa di strano. «Sono molto audaci. Qualcuno li trova addirittura minacciosi.» «Si riferisce alla gente comune?» «Non tutti sono in grado di capire», disse, mitigando la mia osservazione. «Gli artisti pensano sempre che l'avversità nei loro confronti sia da imputarsi alla chiusura da parte del pubblico. Non sospettano mai che, se le loro opere sono considerate stravaganti, a volte lo sono davvero? Non si tratta sempre di preconcetti borghesi...» «Stravaganti... io non userei quell'aggettivo», ribatté, con un sorriso affettato. «Queste fotografie sfidano le idee comunemente accettate riguardo
alla femminilità, alla violenza, al corpo. Urtano la sensibilità del pubblico? Bene! È proprio questo lo scopo. L'osservatore deve esplorare le ragioni di tale disturbo, deve capire cos'è che lo fa sentire minacciato. Solo così riuscirà a imparare qualcosa su se stesso. In alternativa, può sempre andare al piano superiore: ci sono delle altre fotografie, che forse sono più conformi al suo gusto...» «No, la ringrazio. Se espone questa roba al piano terra, non voglio pensare a quello che tiene nascosto là sopra. E poi, sono qui per lei. Io mi chiamo...» «Saxon. Sì, lo so. Alice mi ha parlato di lei.» «E le aveva anche fornito una mia descrizione? È così che mi ha riconosciuta?» Non mi diede una risposta diretta. «Mi ha detto che, probabilmente, sarebbe passata. Perché non si accomoda? Temo di non poterle offrire nemmeno un caffè. Mi sembra alquanto mutile tenere una macchinetta, quando dietro l'angolo c'è un posticino delizioso che fa il migliore cappuccino della città. Anzi, faccia a meno di sedersi. Perché non ci andiamo adesso? Facciamo due passi e prendiamo una boccata d'aria fresca.» In centro? «Non le dispiace chiudere?» «Non ce n'è bisogno», disse ignorando i miei tentativi di provocarlo. «Di sopra c'è la mia assistente; e, comunque, la galleria non è aperta al pubblico. È privata, le visite sono solo su appuntamento. Le faccio uno squillo e la avverto.» «Non dimentichi le scarpe.» Uscii ad aspettarlo, mentre mormorava qualcosa al telefono e infilava i piedi in un paio di mocassini. «Mi aspettavo che si facesse viva prima», osservò, quando finalmente attraversò la soglia, indicandomi la direzione. Non avrei saputo dire se fosse o meno deluso. «Alice mi ha detto che si sta interessando alla morte di Felix. È stata una terribile tragedia. Aveva un enorme talento... no, così non gli rendo giustizia. Lui era un genio: un maestro dell'immagine.» Non dissi nulla. Sperai che non fosse sul punto di snocciolarmi un altro dei suoi apprezzamenti critici; mi era bastato quel saggio pretenzioso nel libro di Felix. «Del resto, anche Alice è una donna straordinaria», continuò con mio grande sollievo. «Un critico davvero in gamba. Non ce ne sono molti, in giro. Certo, ci sono i recensori, che osservano una fotografia e buttano giù una manciata di frasi di lode o biasimo per qualche rivista d'arte. Ma un
critico è una cosa ben più rara. Sa che cosa disse Jean Anouilh, a proposito dell'arte?» «Temo di no.» Non volli ammettere che non sapevo assolutamente di chi diavolo stesse parlando. «Disse che lo scopo dell'arte è dare forma alla vita. E lo scopo di un vero critico è dare all'arte una forma che vada al di là del visibile; si tratta di fare delle connessioni, e Alice è la migliore. Anche quando scrive di arte scadente, i suoi saggi meritano di essere letti. Riesce sempre a trovare la cosa più giusta e più onesta da dire. Dev'essere davvero dura per lei, adesso. Erano molto vicini.» «Sì, me l'ha detto.» «È difficile pensare che non siano più insieme. L'idea che la vita possa continuare senza di lui dev'essere insopportabile, per lei.» «È stata Alice a dirglielo?» «Non ha usato tante parole. Non ne ha bisogno.» Arrivammo al bar e facemmo le ordinazioni. Nell'attesa, osservai le persone che passeggiavano per la piazza, senza meta. Città brulicante, città piena di sogni. «Per questo credo che sarebbe meglio se la lasciasse in pace... e la smettesse di alimentare le sue speranze riguardo alla possibilità che, dietro la morte di Felix, si nasconda qualcosa.» «Lui mi ha chiamata. Mi ha detto che qualcuno stava cercando di ucciderlo. E poi è morto. Forse lei riesce a far finta di niente, davanti a una cosa come questa. Ma io no. E poi», proseguii, mentre cercava di sminuire le mie parole con un movimento della mano, «non ho alimentato le speranze di nessuno. Alice non crede che suo fratello si sia suicidato. O, meglio, non crede che si sia semplicemente suicidato. È lei che mi ha incoraggiata ad andare fino in fondo.» «Non è quello che dice Alice.» «Ah no? E cos'è che dice?» «Che la sta importunando, riguardo a Felix.» «Io sto importunando lei? Ma è un'idea folle!» «Be', sta importunando me. Non potrebbe averlo fatto anche con lei?» «E in che modo le starei dando fastidio?» «Facendomi un sacco di domande.» «Fare domande, a casa mia, non significa dare fastidio. Non vuole sapere come è morto Felix?»
«Ma io lo so come è morto: si è tolto la vita. La polizia mi ha raccontato esattamente com'è andata. Ho parlato con il detective incaricato del caso. E lo sa anche Alice.» «Questa è un'altra di quelle cose che ha scoperto senza che lei glielo dicesse?» «No. Me l'ha detto lei. Non ha usato così tante parole. Cioè, non sono state le sue esatte parole. Non ha mai pensato che Felix fosse stato ucciso. Voglio dire, all'inizio credevamo tutti che fosse andata così. Credevamo che la sua morte fosse da imputare all'Uomo di Marx. Ma adesso non più. Adesso conosciamo la verità. Le ho parlato ieri sera al telefono, e mi ha confidato di essere pronta ad abbandonare i dubbi iniziali riguardo alla scomparsa del fratello.» Stavo per ribattere, ma realizzai che sarebbe stato del tutto inutile. Se stava mentendo, non avrebbe smesso all'improvviso solo perché iniziavo a innervosirmi. E se invece era stata Alice a mentire, a me o a Strange, doveva avere avuto le sue buone ragioni, in entrambi i casi. Sorseggiai il mio caffè. Era buono. Almeno in questo, non si era sbagliato. Mi sedetti accanto a lui, su un muretto piuttosto basso. Lanciò un'occhiata dall'altra parte della piazza, quasi fosse di sua proprietà. «Era al corrente, almeno, dell'ossessione di Felix nei confronti dell'Uomo di Marx?» provai a chiedergli. «Ossessione?» «Sì, ha capito bene. Alice mi ha mostrato un spessa cartelletta contenente dei ritagli presi dai giornali che parlavano del caso. Aveva iniziato a interessarsi a lui fin dal primo omicidio.» «Non ho intenzione di darle della bugiarda», mi disse con un sorriso sottile. «Se dice che Alice le ha mostrato un mucchio di ritagli, allora dev'essere così. Ma è la prima volta che lo sento. Felix non ne aveva mai parlato con me.» «Avrebbe dovuto?» «Era un mio amico. Anzi, era molto di più. Eravamo due stranieri, venivamo da fuori, e sapevamo bene tutti e due che cosa significasse non sentirsi integrati.» «Dunque lei non è di Dublino?» «Sono nato in Sud Africa, e mi hanno mandato a studiare qui. Non riesci
mai a inserirti del tutto. Per questo io e Felix ci intendevamo così bene. C'era un legame, tra di noi. Devo ammettere che ultimamente non ci frequentavamo spesso come in passato. Stava seguendo la sua strada, e non aveva più bisogno della mia guida come un tempo. E poi, non era stato molto bene. Alice mi ha detto di averle parlato dell'esaurimento. Quindi, se era davvero così ossessionato dall'Uomo di Marx, non è detto che si sarebbe confidato con me.» «Perché mi avrebbe chiamato, quella sera, se non sapeva niente sull'assassino?» «Non lo so. Davvero.» Scosse il capo, tristemente. «Felix era un uomo complicato. Devo ammetterlo. Non so che cosa gli passasse per la testa, ultimamente. Mi dispiace soltanto di non essere stato in grado di aiutarlo di più, e di non aver alleviato le pressioni che ha dovuto sopportare...» «E che cosa mi dice del furto?» insistei. «Che cosa vuole sapere?» «Sembra che il ladro stesse cercando qualcosa. Ha tralasciato un sacco di oggetti di valore, come l'attrezzatura fotografica. La cassaforte non è stata toccata. Si è limitato a portar via qualche gingillo, per far credere che si trattasse di un vero furto... oltre ad alcune fotografie e a un diario. Questo, secondo lei, non prova nulla?» Silenzio. «Ho io il diario», mi rivelò. «Non è mai stato rubato. Felix l'ha dato a me, perché fosse al sicuro. E ho io anche le foto. Mi ha chiesto di custodire tutto per lui.» «Per quale motivo?» Mi sforzai senza successo di nascondere il mio disappunto. «Immagino che, dopo il furto, si fossero resi conto della loro vulnerabilità... Il diario e le foto avrebbero potuto essere rubati, e lui non voleva che accadesse.» «Perché erano tanto preziosi? Perché aveva paura di perderli?» «Non lo so, non gliel'ho domandato.» «Non gliel'ha domandato?» «Se un amico ti supplica di aiutarlo, tu non gli chiedi il motivo. O lo fai, o non lo fai.» «Io vorrei sapere perché ha bisogno di me.» «Be', io no.» E Grace che pensava che fosse dura parlare con Alice... «Ok, dove si trova la roba?» Provai ugualmente a rivolgergli quella do-
manda, anche se conoscevo già la risposta. «Temo di non poterglielo dire.» Appunto. «Se quel diario ha a che fare con ciò che ha causato la morte di Felix, se in qualche modo spiegasse...» «Ci risiamo. Sa, inizio a sospettare che sia lei a essere ossessionata da questa storia. Che cosa c'entra il diario con quanto è accaduto? Felix si è suicidato!» «Alice non la pensa così, qualunque cosa le abbia detto. Non crede che sia un suo dovere, nei confronti dei fratelli Berg, esplorare ogni strada, prima di liquidare la scomparsa di quel poveretto come un semplice suicidio?» «Alice è stata sottoposta a un terribile stress, ultimamente. Come amico, non credo che continuare a indagare su questa faccenda sia la cosa migliore, per lei. Soprattutto dal momento che non ha mai detto nulla, né a me, né a nessun altro, che mi induca a pensare che non sia d'accordo con la ricostruzione della polizia.» «L'ha detto a me, però.» «Già, ma è solo la sua parola.» Mi resi conto che era del tutto inutile continuare a fargli domande. Buttai giù l'ultimo sorso di caffè, appallottolai la tazza di carta e la lanciai verso un bidone dell'immondizia, lì accanto. Mancai il canestro. Strange mi lanciò un'occhiata comprensibilmente contrariata. «Ok, solo un'ultima cosa e le prometto che mi toglierò dai piedi. Felix le aveva mai detto qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse indurla a credere che aveva paura?» «Che io mi ricordi, no», rispose freddo. «Nessun segno di ansia?» «No.» «Non mi riferisco soltanto alle ultime settimane.» «Gliel'ho detto: niente. Almeno...» «Cosa?» «Forse farei meglio a tacere. È solo che... mi sento quasi uno stupido a rivangare questa storia e lei, probabilmente, la prenderà nel modo sbagliato. Comunque, una volta Felix mi disse che per un certo periodo aveva vissuto insieme a un assassino.» «E per lei questo sarebbe niente?»
«Aspetti un momento. Non si lasci trasportare dall'entusiasmo, me lo disse così, tanto per dire. Non aggiunse più nulla, al riguardo. Si tratta di una conversazione che risale a molti anni fa, al nostro primo incontro. Parliamo di anni, capisce? Mi disse solo questo: che aveva vissuto insieme a un assassino. Stop. Nient'altro. Non so dirle dove, o quando. Non so nulla.» «E questo assassino è mai stato preso?» «Non credo.» «Non denunciò mai la cosa alla polizia?» «Non lo so! È chiaro che non avrei dovuto dirglielo. Questa storia non ha niente a che fare con la morte di Felix. È stato tanto tempo fa. È acqua passata.» «Secondo la mia esperienza, un omicidio non è mai acqua passata.» «Fa lo stesso», replicò. «In ogni caso, non ho intenzione di mostrarle il diario o le foto, se è a questo che mira. Felix, affidandomeli, mi ha dato istruzioni molto rigide. Si trovano al sicuro. Mi dia un solo motivo per dubitare che la sua morte non è stata una sfortunata tragedia, e io li consegnerò alla polizia. Fino ad allora, terrò fede alla parola data.» «E se dovesse succedere qualcosa, nel frattempo?» «Cosa, per esempio?» «Un incendio, o un furto, magari. Capita. Potrebbero sorgere dei sospetti, se venisse fuori che quella roba era in mano sua, e all'improvviso è scomparsa. E se Felix fosse stato ucciso proprio per i segreti contenuti in quel diario, o nelle fotografie? Chi sarebbe il prossimo?» Per un attimo, Strange assunse un'espressione sconcertata. Era evidente che, fino a quel momento, non era mai stato sfiorato dalla possibilità che custodire i segreti dell'amico potesse costituire un pericolo. D'altronde, se davvero era convinto che l'amico si fosse tolto la vita, perché mai avrebbe dovuto sospettare una cosa simile? In ogni caso, scosse il capo, deciso. Foto e diario sarebbero rimasti dov'erano. «Come vuole», gli dissi. 18 D'accordo, forse da Strange non avrei ottenuto alcuna informazione. Restava il fatto, però, che sapere dove aveva nascosto gli oggetti affidatigli da Felix mi avrebbe reso le cose più facili. E qualcosa mi diceva che presto l'avrei scoperto. Avevo insinuato un dubbio lacerante nella sua mente. A-
desso non dovevo fare altro che aspettare. Come volevasi dimostrare. Era passata mezz'ora da quando c'eravamo separati davanti all'ingresso della galleria. E lui era di nuovo in movimento, sempre avvolto nel suo appariscente cappotto di pelliccia. Arrivò in fondo al vicolo e girò a sinistra, in Crown Alley. Si infilò nel tunnel alla fine della strada, e oltrepassò l'Ha'penny Bridge, giungendo sulla sponda opposta del fiume. Non si voltò nemmeno una volta. Non immaginava di essere seguito. Percorse Bachelor's Walk e attraversò il trafficato raccordo stradale; quindi proseguì lungo la riva, verso la Custom House. Strange viveva lungo la costa, dall'altra parte della città; avevo già fatto i miei controlli, dunque sapevo che non si stava dirigendo verso casa. E dubitavo che avesse attraversato il fiume, verso nord, per puro piacere. In una zona come quella non c'erano molte attrazioni, per un tipo come lui. Non aveva l'aria di essere una persona che amava vivere senza comfort. Ma allora dove stava andando? Devo ammettere che mi divertii un mondo a seguirlo per le vie, senza mai perderlo di vista e tenendomi a una certa distanza. Ero un po' fuori esercizio; non avevo avuto molte opportunità di fare questo genere di cose, da quando avevo lasciato l'FBI. Inutile negarlo, ne sentivo la mancanza. I miei sensi si fecero più vigili, la vista più aguzza. Forse avevo male interpretato la mia vocazione; già, forse avrei dovuto fare la pedinatrice. Quel ridicolo cappotto di pelliccia rendeva tutto più semplice; per non parlare, poi, del fatto che Strange era totalmente immerso nei propri pensieri, al punto da non aver preso neppure in considerazione l'ipotesi che qualcuno lo stesse osservando o seguendo. Svoltò prima di raggiungere la Custom House e seguì la curva a sinistra della strada, diretto verso la stazione di polizia all'angolo. Non poteva essere quella la sua meta... Infatti, la oltrepassò e girò nella via successiva, piuttosto trafficata. Adesso sapevo esattamente dove stava andando. Poco dopo, sparì in un oscuro sottopassaggio sotto il ponte della ferrovia, e salì i gradini che conducevano nell'atrio della Central Station dagli alti soffitti a volta, dove centinaia di passeggeri erano in attesa. Potevo smettere di preoccuparmi: non avrebbe mai notato la mia presenza in un posto così affollato. Mi fermai accanto a un cartellone con gli orari, mentre lui si dirigeva verso una fila di armadietti, che rivestivano la parete accanto all'ingresso ai binari.
Una lunga coda aspettava l'apertura dei cancelli, ma riuscivo ugualmente a vederlo tra una persona e l'altra: stava rovistando in una tasca, in cerca della chiave. La trovò, la infilò nella serratura e aprì. Ero troppo distante per riuscire a scorgere il contenuto; lo vidi soltanto allungare una mano, come per assicurarsi che fosse tutto al suo posto; quindi richiuse lo sportello e girò la chiave. Una breve occhiata. Quindi si voltò e tornò da dove era venuto, scese i gradini e uscì dalla stazione. Lo seguii, per essere sicura che se ne fosse andato davvero, e tornai dentro di corsa. Mi fermai davanti all'armadietto. Provai a muovere la maniglia, naturalmente senza successo. Non sarebbe stato un problema aprire lo sportello facendo leva. Grace, spesso, mi faceva notare che possedevo una notevole quantità di abilità antisociali, di cui non potevo certo andare fiera... Ma perché correre un rischio simile? Avevo la mia risposta. Il resto poteva aspettare. Ogni cosa a suo tempo. «Ma certo che conosco Strange», mi disse Burke, quando gli raccontai che cosa stavo combinando. «O, almeno, ho sentito parlare di lui. Ha iniziato come pittore... acquerelli, mi sembra. Ma non ha mai sfondato.» «Un artista fallito.» «La razza peggiore... dopo gli artisti di successo. Per questo si è messo a fare il mercante d'arte, e adesso naviga nell'oro. Rischia quasi di annegarci. Almeno, così ho sentito dire. Non frequentiamo esattamente gli stessi ambienti, sai... Anche se Vincent Strange, in effetti, ha amici sia nei quartieri alti sia nei bassifondi. Vedo sempre la sua foto, nelle cronache mondane. Hai presente? Un bicchiere di merdoso vino bianco in una mano, e un paio di donne eleganti al suo fianco, di quelle con più tette che cellule cerebrali.» «Non ti piace, vero?» «Acuta osservazione. Dovresti fare il detective.» «Sono troppo vecchia. Non passerei mai la visita medica.» Allungai una mano per accarezzare il gatto, che mi era saltato sulle ginocchia non appena mi ero seduta, nonostante i miei tentativi di allontanarlo con un piede. Ma quella dannata bestia non aveva alcuna intenzione di accettare un no come risposta. D'altronde, non era carino bere il whiskey di qualcuno e prendere a calci il suo gatto... così, lo lasciai fare. «Che cosa volevi dire, con quel riferimento ai bassifondi?»
«Da sempre girano certe voci, su Strange.» «Credo di sentire un leggero sentore di scandalo...» «Diciamo pure un fetore. Ricordi Freddie Sheehy?» «Quel gangster che un paio di anni fa si è beccato una pallottola dai suoi scagnozzi? Se non sbaglio, avevano rubato un quadro da una grande casa sperduta da qualche parte nella foresta, e lui provò a fare il doppio gioco.» «Proprio lui. A quanto pare, Strange trattava diversi affari con Sheehy. Tutti legali, per quanto fosse possibile con un personaggio del genere. Comunque, la cosa non è mai stata vista di buon occhio, soprattutto quando, dopo la scomparsa del gangster, sui giornali apparve una fotografia dei due, a cena con i ragazzi... Giocavano al Padrino, con brandy, sigari, e tutto il resto. Mi sorprende che non te ne ricordi.» «Non seguo la cronaca locale.» «Già, a meno che non si tratti di un episodio raccapricciante, come il piccolo intrattenimento di ieri sera. Be', alla fine», continuò, «tutto venne messo a tacere, nessuno fece domande.» «Dunque è qui che entrano in gioco le sue conoscenze altolocate?» «Strange era in classe con l'amico di Grace. Il vicecommissario.» «Draker? Dici sul serio? Non sarà una delle tue stronzate?» «Frequentavano una scuola esclusiva giù a Howth, uno di quegli istituti in cui i figli della classe dirigente vengono protetti da quelli come te, e come me. Poi, quando crescono, vanno a occupare il proprio posto in cima all'albero sociale; e passano il resto della loro vita ad assicurarsi che nessun altro si arrampichi fin lassù, o che nessuno di loro cada di sotto. Strange ha potuto contare sull'aiuto di molte persone, per restare appollaiato sul suo ramo.» «Adesso non inizierai con uno dei tuoi discorsi sulla classe lavoratrice, vero?» «Per questa volta, donna, te lo risparmio. Oggi sono di buon umore, meglio serbare il mio sermone per un grigio giorno di pioggia.» Poi, come se ci avesse ripensato, aggiunse: «Sapevi che colleziona pistole?» Wow... il meglio arriva sempre alla fine. «Non è vagamente... come posso dire... illegale, a Dublino?» «Niente è illegale, se conosci le persone giuste. E mi sembra che abbiamo già verificato le credenziali di Strange, da questo punto di vista. Diciamo semplicemente che ha ottenuto i permessi necessari, o che nessuno si è preso il disturbo di fare domande. Voglio dire, non stiamo parlando di Uzi, o di Kalashnikov.»
«E di che tipo di armi si tratterebbe, allora?» «Pezzi d'antiquariato. Pistole risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, mi sembra; cimeli della Guerra Civile. Winchester, pistole impiegate nei duelli, Remington, non lo so di preciso. A volte mi arrivano riviste del settore... dovresti vedere i personaggi che vengono a cercarle. Dovrebbero portare un distintivo: 'Non ho il pene, lasciate almeno che guardi le fotografie delle pistole.' Per quanto mi riguarda, ho visto abbastanza, nell'esercito.» «A che cosa ti riferisci? Ai genitali maschili o alle armi?» «A entrambe le cose.» Mi fermai a riflettere. Mi chiesi se Grace avesse controllato le mailing list delle riviste americane di armi che arrivavano a Dublino. Rintracciare qualcuno che avesse una fissazione per le pistole poteva essere una pista valida per giungere all'Uomo di Marx. Ma i miei pensieri andavano soprattutto a Vincent Strange. Pensai all'arma che i sommozzatori di Fitzgerald avevano ripescato quella mattina, vicino al punto in cui Felix Berg era morto. Cercavano un cimelio di guerra, o qualcosa di simile. Ed era proprio quello che sembrava. Al momento, la Scientifica la stava esaminando, per rilevare eventuali impronte del fotografo. Felix aveva paura. Qualcosa l'aveva spaventato, negli ultimi giorni. Era possibile che fosse giunto addirittura a procurarsi una pistola per proteggersi? Alice sosteneva che non ne aveva mai posseduta una e che, in ogni caso, non avrebbe saputo come usarla. D'altra parte, lui le aveva tenute nascoste molte cose... perché non avrebbe dovuto mentirle anche su questo? E dove avrebbe potuto rimediare un cimelio di guerra, o qualcosa di simile, se non da un uomo che ne possedeva un'intera collezione, e che era anche uno dei suoi più cari amici? Stavo pensando a tutto questo, quando il mio cellulare prese a squillare. Hare schizzò via spaventato, rifugiandosi nella stanza sul retro. Proprio quando iniziavo a credere che volesse prendere dimora stabile sulle mie ginocchia. Grazie a Dio, esisteva la tecnologia. Era Niall Boland. L'avevo cercato prima di andare da Strange, pensando che mi avrebbe fornito un ragguaglio riguardo ai due omicidi nei pressi della chiesa; con un preavviso così breve, non potevo sperare in nulla di più. Ma non mi aveva risposto. Non ero riuscita nemmeno a parlare con Grace, da quando era uscita la sera prima. Lentamente, avevo cominciato a innervosirmi, mi sentivo fuori dal giro. Doveva essere la stessa sensazione che prova un tossico, quando le sue
scorte stanno per finire. «Ho avuto il suo messaggio», mi disse. «Aveva bisogno di me?» «Volevo solo sapere se era libero per colazione.» «Mi dispiace, avevo il telefono spento. Ma forse è meglio così. In teoria, sarei a dieta. Cassie dice che dovrei perdere qualche chilo.» Qualche decina di chili, in effetti. Boland era quello che la gente normalmente considera un «tipo massiccio». «Cassie è la sua nuova ragazza, giusto? E com'è?» «Non è la mia ex moglie. E per me è sufficiente. Senta, se vuole parlare, può venire a correre con noi.» «Insieme a lei e a Cassie?» Intanto, cercavo di immaginarmi Boland mentre faceva jogging... «No, insieme a me e a Walsh. Si sta allenando per la maratona di Dublino. Crede di poter migliorare il record della Polizia Metropolitana. Io lo accompagno, lo seguo in bici e cronometro i tempi. Lascio a lui tutta la fatica.» «Un'organizzazione niente male.» «Devo incontrarlo fra mezz'ora, giù al molo. Se vuole aggregarsi, è la benvenuta.» «Ma sì, potrei anche farlo.» Niente «forse»: non mi sarei persa per nulla al mondo lo spettacolo di Niall Boland in sella a una bicicletta. 19 Non dovetti camminare molto, una volta uscita dal negozio di Burke, per raggiungere Grattan Bridge; in quel punto, Parliament Street attraversava il fiume e prendeva il nome di Capei Street. Era lì che avrei dovuto incontrare Boland. La primavera si era di nuovo rintanata in un magazzino refrigerato, e il vento, sull'acqua, lanciava piccoli pugnali; le loro lame mi sembravano ancora più affilate, dopo aver passato un'ora accanto alla stufa di Burke. Fortunatamente, non dovetti aspettare molto prima che Boland si facesse vivo. Arrivò in bicicletta, ansimando; pedalava lungo il marciapiede che costeggiava il fiume e veniva verso di me, oscillando leggermente al vento. L'aria fredda aveva reso il suo viso più rosso del solito, e il caschetto che si era ficcato in testa sembrava di due misure più piccolo.
Del resto, quasi tutto indosso a Boland faceva quell'effetto. Era pesante e tarchiato e, come molti uomini di quella stazza, nascondeva una natura sorprendentemente timida e gentile. Mi era sempre piaciuto anche se, in effetti, non avevo mai incontrato nessuno che fosse meno adatto di lui a far parte della Squadra omicidi. Era ancora un novellino, nonostante fosse passato diverso tempo dal suo trasferimento dalla sezione Reati gravi; e tutto faceva pensare che la situazione non sarebbe più cambiata. Passava la maggior parte del suo tempo in archivio, nel seminterrato, a rimescolare documenti e dossier; una vera fortuna, per la sottoscritta: nessuno era più bravo di lui a recuperare informazioni. Ma questa sua capacità non scatenava certo l'entusiasmo dei colleghi. Riusciva persino a sembrare fuori posto, in città, come se non si fosse ancora abituato a vivere circondato dalla pietra, o desiderasse rivedere un cielo non interrotto dai palazzi. Ma la sua espressione confusa lasciava intendere che non era in grado di capire che cosa non andasse. Alzò un braccio per salutarmi, quando mi vide ferma ad aspettare; poi, rapidamente, lo riportò sul manubrio: la bicicletta aveva iniziato a sbandare verso il traffico che si riversava sul molo, in direzione opposta alla sua. Le auto strombazzarono per avvertirlo... o, più semplicemente, per il fastidio. Boland aveva quell'effetto, su alcune persone. Dietro di lui veniva un uomo più magro, in scarpe da ginnastica e pantaloni della tuta; sopra, indossava una maglia con il cappuccio, con la scritta TENNESSEE STATE UNIVERSITY sul davanti. Aveva il cappuccio calato sulla fronte, che teneva bassa mentre correva. Il contrasto tra la sua figura e quella squadrata e massiccia di Boland, con la sua andatura goffa e le mani grassocce, non avrebbe potuto essere più marcato. Sembravano venire da pianeti diversi. «Saxon», mi salutò Boland, ansimante, quando raggiunsero il ponte. L'altro si fermò per riprendere fiato, le mani appoggiate sulle cosce. «Questo è Patrick Walsh.» «Lo so.» Lo avevo riconosciuto, l'avevo visto uscire da casa di Grace la sera prima. Gli tesi la mano. «Il sovrintendente capo mi ha parlato di lei. Dice che è in gamba.» «Faccio del mio meglio», rispose lui con un sorriso asimmetrico, ricambiando la stretta di mano. Mi osservò attentamente, per valutare se il gioco valesse la candela... Sicuramente aveva sentito un sacco di cose sulla sottoscritta e sul sovrintendente capo Fitzgerald, in centrale.
Le solite chiacchiere da spogliatoio. Che, comunque, non gli avevano impedito di provarci con Grace. Boland stava controllando il cronometro. «Sei stato più veloce, questa volta», disse complimentandosi. «Ho sentito dire che sta cercando di battere il record», osservai. «A che scopo fare qualcosa, se non si cerca di farla meglio degli altri?» «Già, Saxon segue la stessa filosofia», intervenne Boland. «Siete parenti, per caso?» «Da dove viene?» «Da Boston.» «Boston nel Massachusetts, o Boston in Georgia?» Stava cercando di impressionarmi? «Lei è un tale esperto, dovrebbe indovinarlo dal mio accento.» «Naturalmente. La stavo solo prendendo in giro.» «Davvero?» «L'ho già vista.» «Ah, sì?» «Ieri sera. Era seduta in una jeep, di fronte a casa del capo.» E io che credevo di essermi resa invisibile... «Un osservatore davvero acuto», gli dissi. «Già, è quello che dicono tutti, dolcezza», replicò lui, ridendo. Dolcezza? Per questa volta, decisi di lasciar perdere. Non sapevo che cosa pensare, di un tipo come Walsh. Era piuttosto precoce: ci conoscevamo solo da pochi minuti, e mi parlava come se fossimo vecchi amici. Non che mi dispiacesse; avevo solo bisogno di un po' di tempo, per abituarmi. E poi, secondo Grace era un bravo poliziotto. E quella era l'unica cosa che contasse. Mentre cercavo di decidermi a sputare il rospo, chiesi a Boland che cosa fosse accaduto, di preciso, la sera prima. Non mi erano mai piaciute le chiacchiere futili. «Farebbe meglio a chiederlo a Walsh. Il capo mi aveva dato la serata libera. Non sono nemmeno stato sulla scena dei delitti. Patrick le darà tutti i dettagli.» Ma non ero affatto preparata a sentire quello che aveva da dirmi. «Un emulatore?» Senza volerlo, avevo usato un tono esageratamente alto. Abbassai la voce, mentre qualche passante si voltava a guardarci. «Co-
me diavolo fanno a sostenere una cosa del genere?» Walsh alzò le mani, supplichevole. «Non così in fretta. Un po' di pazienza, dolcezza. Le sto solo illustrando la teoria della polizia. Secondo il capo, quella di attribuire qualsiasi crimine all'Uomo di Marx sta diventando una pericolosa abitudine.» Cedendo alla mia solita paranoia, mi chiesi se Grace avesse pensato a me, quando aveva fatto quell'osservazione. «E poi», riprese, «c'erano delle differenze.» Oh, no. Un'altra volta. «Lo schema seguito dall'assassino è sempre stato lo stesso, fino a questo momento. Un solo colpo, un unico bersaglio. Poi scompariva, senza lasciare traccia. Una precisione clinica. Questa volta, però, ha combinato un bel casino. Al punto che non si è nemmeno preoccupato di raccogliere i bossoli prima di darsi alla fuga. Non solo: la prima vittima risulta essere un certo Charlie Knight, già noto alla polizia come killer professionista. Secondo la Reati gravi, negli ultimi tre anni aveva compiuto almeno nove omicidi su commissione, per vari gangster della città. E questi sono solo quelli di cui sia giunta notizia. Eppure non è mai stato accusato di un solo reato, niente, nemmeno un parcheggio non pagato. Nei bassifondi, lo chiamavano lo Spietato Mietitore.» «Quindi, alla fine, qualcuno ha fatto fuori lui?» «Era inevitabile, presto o tardi doveva succedere. Il fatto che si trovasse davanti a una porta, con la schiena rivolta verso l'assassino, potrebbe essere una semplice coincidenza.» «Quindi, questa era la prima teoria. Che cos'è che vi ha indotto a modificarla?» «I bossoli. Gli specialisti in armi da fuoco li hanno subito identificati come appartenenti allo stesso tipo di pistola usato negli omicidi precedenti. Per sapere se si tratta proprio di quell'arma, dovremo attendere l'esito degli esami di routine. Ma...» Allargò le mani, scrollando le spalle. «Quanti killer con una Glock calibro 36 possono esserci, a Dublino?» «Mi ha letto nel pensiero.» «E della ragazza, che mi dice?» «A quanto pare, ha disturbato il killer. E lui l'ha sistemata.» «Se non altro, dal punto di vista tattico, non si sono verificati cambiamenti. Cominciavo a preoccuparmi, dopo quello che è accaduto ieri sera, per un attimo ho temuto che avesse iniziato a uccidere due persone alla volta. Quella poveretta ha già un nome?»
«Tara... giusto?» suggerì Boland. «Early. Tara Early. Sedici anni. Viveva dalle parti di Summerhill, in un appartamento che divideva con la sorella maggiore. Vi si era trasferita un paio di mesi fa, sembra che non andasse d'accordo con i genitori. Apparentemente, non approvavano il ragazzo con cui usciva. Aveva appena lasciato la scuola, e da poco lavorava in un supermercato vicino a casa, proprio dietro l'angolo. Era uscita con le amiche, per trascorrere una serata in centro; voleva spendere la paga della prima settimana. Hanno girato un po' di bar, sperando di trovarne qualcuno che servisse alcolici ai minorenni. Secondo i testimoni, sarebbe uscita dall'ultimo locale intorno alle undici. Probabilmente stava tornando a casa, tagliando per le stradine secondarie, quando si è imbattuta nell'Uomo di Marx, al lavoro. Chissà, forse ha urlato, attirando la sua attenzione... E per lei è stata la fine.» Così. Semplicemente. Gli omicidi a volte possono essere talmente banali, gretti. Mi vennero in mente quelle parole che avevo sentito pronunciare non so più da chi: «Non è una pallottola con il mio nome inciso, a preoccuparmi. Ma quella con la scritta 'A chiunque possa interessare'.» Quella che aveva colpito Tara Early. Per mascherare il crescente senso di depressione, proposi di incamminarci verso la centrale. Attraversammo la strada e iniziammo a risalire Parliament Street. I cancelli del Dublin Castle erano esattamente davanti a noi, in cima alla collina. «Ho parlato con una sua amica, stamattina», mi disse Boland, pedalando; Walsh trotterellava vivacemente accanto a noi, simulando qualche colpo di pugilato. «Sì? E chi sarebbe?» «Alice Berg.» «Ha parlato con Alice?» «Il capo mi ha chiesto di farle una telefonata. Mi ha detto che le aveva confidato qualcosa riguardo ai suoi dubbi circa la morte del fratello. Se non ho capito male, crede ancora che sia stato assassinato. È così?» Annuii. La sera prima, Grace mi aveva accennato che probabilmente avrebbe incaricato Walsh di occuparsi di Alice. Ma poi era intervenuto l'Uomo di Marx, e l'agente si era trovato impegnato in vicende ben più importanti. Boland, però, era sempre disponibile. Benedetta Grace... Riusciva a pensare a me anche nel bel mezzo di u-
n'indagine di tale portata. «È riuscito a farsi dire qualcosa?» «Mi prende in giro? È una delle donne più irritanti che abbia mai incontrato.» «Inclusa la sua ex moglie?» fece Walsh. «La lasci fuori. Solo io posso insultarla. Questa Alice... be', è una cosa completamente diversa. Non sono riuscito a strapparle nemmeno una parola. Un muro di mattoni con le sembianze di una donna. Lo giuro! Non ha voluto dirmi nulla. Non appena ho accennato a quello che era accaduto al fratello, si è chiusa come... non saprei... come una vongola con la laringite. Sembrava quasi che temesse che volessi tenderle un trabocchetto, per farle dire la cosa sbagliata. Quando io volevo semplicemente ottenere qualche informazione che mi aiutasse a fare luce sui motivi che hanno spinto quel poveretto a suicidarsi.» Chissà se si era espresso così anche con lei. Non c'era da meravigliarsi che si fosse chiusa a riccio, un'uscita del genere non doveva averglielo reso molto simpatico. «Se può consolarla, ho avuto più o meno la stessa esperienza», gli dissi. «Un minuto prima, sostiene di sapere tutto sulla vita del fratello; un minuto dopo, è costretta ad ammettere di non conoscere quasi nulla.» Per non parlare del fatto che a Vincent Strange aveva dato una versione totalmente differente, ammesso che lui dicesse la verità. Mi chiesi quante Alice esistessero. «Io ho incontrato la ragazza di Berg...» L'annuncio di Walsh fu del tutto inaspettato. Rimasi soncertata. «Felix aveva una ragazza?» «Perché, c'è qualcosa che non va?» «No... È solo che Alice mi aveva giurato che il fratello non aveva nessuna relazione. Mi ha detto che erano molto uniti, e non avevano bisogno di nient'altro. Come l'ha scovata?» «Si è presentata ieri mattina in centrale, voleva vedere il cadavere. All'inizio non avevo capito chi fosse. Le ho detto che, per prima cosa, se voleva vedere il corpo di qualcuno era nel posto sbagliato e che, comunque, aveva bisogno dell'autorizzazione del parente più prossimo. È andata su tutte le furie, mi ha detto che aveva più probabilità di farsi sbattere in un monastero... La mia donna ideale. Le darei il permesso di vedere il mio corpo ogni volta che vuole.»
«Come si chiama?» «Gina Fox.» Alice, chiamami. Ti prego - Gina. Ecco chi aveva scritto il bigliettino misterioso. «Sono felice di scoprire che non sono l'unico a cui la sorella di Berg non ha voluto dare informazioni», osservò Boland. «Credo che Alice si stia rendendo conto che Felix aveva un'esistenza segreta di cui lei non sapeva nulla... e ha paura, perché non sa dove tutto ciò possa condurre.» «Così, questa Gina Fox viene eliminata dalla storia ufficiale», commentò Walsh. «Chissà se Alice la toglierà anche dall'album di famiglia...» «Sta solo cercando di proteggere la memoria del fratello.» «Non mi sembra che ne abbia bisogno, a questo punto», intervenne Boland schietto. «Si preoccupa di difendere la sua reputazione.» «Chi mi truffa il buon nome», declamò Walsh, interrompendo brevemente il suo atletico balletto, «mi porta via qualcosa che non arricchisce lui e fa di me un miserabile.» Io e Boland ci fermammo, gli occhi fissi su di lui. «Shakespeare», disse con un inchino. «Un tempo volevo fare l'attore. Ho imparato quel discorso mentre mi preparavo per una parte nell'Otello. Non mi hanno preso. Andava sempre così, in effetti, e probabilmente è per questo che sono finito in polizia.» Eravamo arrivati al semaforo in cima alla collina, aspettavamo una breccia nel traffico per riuscire ad attraversare. Boland aveva adocchiato l'insegna lampeggiante di un caffè, lungo la strada che scendeva verso il centro, lo notai dal suo sguardo. Diede un'occhiata all'orologio. La tentazione era forte, sarebbe riuscito a resistere? Mi chiesi che cosa ne sarebbe stato di lui. Assomigliava ogni giorno di più a un pigro cane con gli occhi da cerbiatto, che se ne sta seduto, aspettando che qualcuno lo prenda a calci. Tutti i detective devono avere una scintilla, devono avere il senso di svolgere una missione. Non è una cosa di cui vergognarsi; e il discorso vale soprattutto per gli agenti della Squadra omicidi. Devono sentirsi diversi dagli altri... migliori. Qualche volta esagerano, con il rischio di diventare arroganti. Ma non possono farne a meno, o si ridurrebbero a ingrossare semplicemente le file dell'arma. Una condizione a cui Boland, ultimamen-
te, si stava avvicinando. Zero energia. Zero vigore. Il fatto stesso che Fitzgerald gli avesse concesso la serata libera, anche dopo l'ennesimo colpo dell'Uomo di Marx, e l'avesse spedito da Alice quando la morte di Felix Berg non era più di sua competenza, era indicativo dello scarso bisogno che aveva di lui, e del poco rispetto che nutriva nei suoi confronti. Avrebbe tenuto un atteggiamento diverso, se non l'avesse considerato così tristemente superfluo. Incrociai lo sguardo di Walsh, che mi strizzò l'occhio sogghignando, come se sapesse quello che stavo pensando e lo condividesse in pieno. Immediatamente, provai un senso di disprezzo per quel sorriso cospiratore, e mi detestai: ero stata io a provocarlo, tradendo Boland. Tutto quello che gli mancava dal punto di vista dell'acume investigativo era ampiamente compensato dal suo buon cuore. E a volte avevo davvero bisogno di credere in questo. Ma la cosa deprimente era che il sergente non si era minimamente accorto della silenziosa comunicazione tra noi due; o, se l'aveva fatto, era tanto bravo da non darlo a vedere... e io non avevo mai notato una simile propensione, da parte sua. Aveva una di quelle facce cordiali, oneste e aperte, che lasciano trasparire qualsiasi pensiero. Vide che lo stavo guardando e colse l'occasione al volo. «Non aveva detto che avrebbe messo volentieri qualcosa sotto i denti?» mi chiese. «Credevo fosse a dieta.» «Be', un panino al bacon non mi farà così male.» «No, io non ho più fame», gli dissi. «Tanto meglio, ce ne sarà di più per me», osservò allegro. Almeno, lui aveva ancora fame di qualcosa, pensai. Davvero crudele, da parte mia. 20 Una ragazza. Non era molto, ma era più di quanto avessi avuto quella mattina, quando mi ero svegliata. Prima di separarci, Walsh mi diede il suo numero di telefono, facendomi promettere che non avrei rivelato la fonte dell'informazione; probabilmente non aveva abbandonato l'idea di chiamarla per chiederle un appuntamento,
e non voleva rischiare che gli mandassi a monte il progetto; Gina, comunque, non mi chiese nulla. Ma dovetti insistere parecchio, perché mi concedesse qualche minuto. «Non è della polizia?» mi chiese. «Allora non capisco... perché vuole parlare con me?» «Io...» Che cosa avrei potuto dirle? «Sono un'amica di Alice.» Una presentazione piuttosto debole. «Oh... Alice.» «Già. Mi ha chiesto di indagare sulla morte del fratello. Lei lo conosceva. E pensavo che forse...» «Non così bene», disse. «Non come credevo, almeno.» Dal tono mi sembrò alquanto amareggiata; e la cosa mi intrigò. «Senta, se ci tiene davvero può venire qui. Parlerò con lei, non credo che ci sia niente di male. Ma non vedo in che modo la mia testimonianza potrebbe esserle utile.» Mi ci volle un po' per trovare l'indirizzo che mi aveva dato. Si trattava di un appartamento in un seminterrato in una tranquilla stradina, non lontano da Appian Way, nella zona sud della città. Vasi di piante intorno alla porta, una cassetta di fiori sul davanzale: non era proprio il mio genere di casa. Probabilmente la camera da letto era piena di giocattoli teneri e coccolosi. Era vestita esattamente come mi sarei aspettata osservando l'esterno della sua abitazione. Indossava una specie di camicione informe con un vivace motivo estivo, e al collo portava un filo di perle arricchito da piccoli ciondoli d'argento. I capelli, rossi e lunghi fin sotto le spalle, erano crespi e ribelli. La guardai, non c'era da stupirsi che con Felix non avesse funzionato. Facevo fatica a credere che si fosse invaghito di una donna dalle tendenze vagamente hippy e New Age. Devo ammettere, però, che mi diede l'aria di essere una persona molto sveglia, quando si presentò alla porta e mi invitò a entrare. L'interno era decisamente più austero della facciata esteriore. Le pareti erano spoglie: mattoni e intonaco a vista, dipinti di bianco. Evidentemente lo stile più in voga fra gli artisti. L'arredamento era ridotto al minimo; un letto in ferro battuto appoggiato contro il muro (con lenzuola e trapunta rigorosamente bianche) e un tavolo cosparso di fotografie. Sue, immaginai. Per la maggior parte si trattava di autoritratti, in cui lei, nuda, era sdraiata su quello stesso letto. Attraverso una finestra vidi il cortile, e un muro di sassi dipinto di bianco, ricoperto da piante di edera: un ambiente utilizzato come sfondo in alcuni dei sui nudi artistici.
Doveva essere molto popolare, nel vicinato. Soprattutto fra gli uomini. E, chissà... forse aveva anche un pubblico femminile. In mezzo alle fotografie, notai anche qualche natura morta: un annaffiatoio e una scala di legno ricoperta di libri, una finestra con una crepa nel vetro, simile a una ragnatela; un gatto bianco sdraiato in una pozza di sole, e lo stesso micio che inseguiva una foglia. Fui sollevata quando non vidi alcun felino passarmi tra i piedi; non ero dell'umore adatto per fare amicizia con un animale. Hare era già fin troppo esigente. Gina rimase in silenzio per un po', lasciando che guardassi i suoi lavori. «Le andrebbe un drink?» mi chiese infine. «Dipende che cosa intende...» «Niente paura, non ho intenzione di offrirle un tè alle erbe, se è questo che la preoccupa.» Mi aveva letto nel pensiero? «Devo avere una bottiglia di vino, da qualche parte. Se vuole, può unirsi a me.» L'idea mi andava, eccome. Faceva ancora freddo fuori, e rimasi piuttosto sorpresa quando, con una mano, prese il vino e i bicchieri, mentre con l'altra abbassava la maniglia della porta, precedendomi nel cortile. Da una finestra aperta, in alto, giungevano delle note, talvolta accompagnate da alcune voci: impossibile capire le parole. Si udiva anche una chitarra, che qualcuno strimpellava senza esserne capace... sempre e solo le stesse corde... Gina posò la roba su una tavolino in ferro battuto, adatto a ospitare due persone soltanto; afferrammo le sedie e le trascinammo indietro, facendole stridere. Ci accomodammo. «Non mi sembra il tipo di persona che potrebbe stringere amicizia con Alice», osservò dopo aver versato il vino, togliendomi dall'imbarazzo di dover iniziare la conversazione. «Voi due non andate d'accordo?» «L'ho incontrata soltanto una volta. E mi è bastata. E, a giudicare dalle parole di Felix, dev'essere stato così anche per lei.» «Non l'ha presa in simpatia?» «Perché non glielo chiede?» Avevo toccato un argomento piuttosto delicato. Decisi di lasciar perdere. Potevo sempre ritornarci in un secondo momento. «Come ha conosciuto Felix?» «Fu una mia idea. Come ha potuto vedere, sono anch'io una fotografa. Gli mandai alcuni dei miei lavori. Non lo nego, stavo cercando di muovere il primo passo sulla strada che conduce al successo. Volevo trovare qualcuno che mi prendesse sotto la sua protezione. Pensavo che se gli fossero
piaciute le mie foto, e se gli fossi piaciuta io, mi sarei ricavata uno spazio nel mondo dell'arte. Chissà, magari avrei potuto organizzare una mostra tutta mia o esporre i miei scatti in una galleria d'arte... Se non sei tu a badare a te stessa, nessun altro lo farà al tuo posto.» «Perché proprio Felix?» «Perché decisi di spedire a lui la mia roba, intende? Perché ammiravo la sua opera. Sul serio. Le sue fotografie erano diverse da quelle di tutti gli altri. So bene che ogni artista è convinto che i propri lavori siano unici, ma io credo veramente che i miei scatti possiedano una qualità che non tutti, apprezzerebbero. E credevo che lui l'avrebbe fatto. Così gli scrissi, senza sapere se avrei mai ricevuto una risposta. E una sera mi chiamò, chiacchierammo al telefono e fissammo un appuntamento per il giorno seguente.» «E questo quando avvenne?» «Poco più di un anno fa», disse, riflettendoci sopra. Si infilò un paio di occhiali da sole: un atteggiamento che mi fece pensare ad Alice. Entrambe si nascondevano dietro due lenti scure, quando la poca luce non lo richiedeva affatto. «Sì, mi sembra che sia così... forse era il gennaio dello scorso anno. Decidemmo di vederci in un hotel, il pomeriggio del giorno dopo. Bevemmo qualcosa insieme. Io gli mostrai le mie fotografie. .. alcune sono piuttosto... be', sì, erotiche, direi. Le ha viste anche lei. E la cosa dovette avere un certo effetto su di lui. Finimmo con il trascorrere il resto della giornata in una camera dell'albergo, a fare l'amore. E Felix mi diede l'impressione di non essere affatto sorpreso che il nostro incontro si fosse concluso in quel modo.» «Crede che le avesse proposto di vedervi in un hotel perché aveva già in mente di fare sesso con lei?» «Era un uomo, probabilmente pensava sempre al sesso, qualsiasi cosa facesse, anche quando montava una mensola. Non che riesca a immaginarmelo mentre fa una cosa del genere, in effetti. «Comunque», aggiunse con un sorrisetto compiaciuto e malizioso, forse suscitato dal ricordo di quell'incontro, «devo confessarle che quella dell'hotel è stata una mia idea.» «Voleva sedurre Felix Berg?» «La prospettiva non mi dispiaceva. Era un bell'uomo. E non credevo che la cosa potesse avere conseguenze negative. Se lui avesse iniziato a sentire qualcosa per me, forse... be', lei mi capisce.» «Forse le avrebbe presentato qualcuno?» «L'idea era quella. In seguito, accettai di vederlo ancora; passammo pa-
recchio tempo insieme, per alcuni mesi. A volte, addirittura, mi portava con lui, la notte, quando usciva per fare qualche scatto. Sono questi i momenti che ricordo con maggior piacere.» «Le capitò mai di accompagnarlo durante una nevicata?» «No, non mi sembra. Sono certa che me ne ricorderei. Perché me lo chiede?» «Oh, per nessun motivo in particolare. Semplice curiosità.» Corrugò le sopracciglia, sopra gli occhiali. Non potevo biasimarla. Semplice curiosità... L'avevo presa per una stupida? «E lui lo fece?» mi affrettai a chiederle, per cambiare argomento. «Voglio dire, la presentò alle persone 'giuste'?» «Mi presentò a Vincent Strange. Ne ha mai sentito parlare?» «Diciamo che le nostre strade si sono incrociate.» «Allora saprà già tutto di lui. È un pezzo grosso. Vive in una casa enorme. E ha una testa notevole. Possiede un'importante galleria d'arte. E sa che ha delle conoscenze incredibili? Ha sostenuto Felix fin dall'inizio. Speravo che facesse lo stesso con me, ma non abbiamo mai combinato nulla. In compenso, Felix iniziava davvero a piacermi. Il sesso tra noi non era un granché, ma era così dolce, e sembrava realmente interessato al mio lavoro. Mi ha sempre incoraggiata. Nessuno l'aveva mai fatto, prima. Che tenerezza... Probabilmente, in quel periodo, mi sentivo vulnerabile. Non ho famiglia, mia sorella morì quando ero ancora piccola; ho perso entrambi i genitori. Ero arrivata da poco da Londra, non avevo ancora molti amici; facevo qualche merdosa fotografia pubblicitaria, per sbarcare il lunario. Così, quando Felix ha iniziato a manifestare affetto nei miei confronti, ne sono stata felice. Non si trattava solo di sesso. A volte non voleva nemmeno fare l'amore. Veniva qui, e ci sdraiavamo sul letto a parlare. Magari mi appoggiava la testa sulla spalla, e si addormentava.» «Cos'è che è andato storto, allora?» «Niente, almeno dal mio punto di vista. Non abbiamo mai litigato, non c'è stato un allontanamento progressivo. Nessuno dei soliti cliché. Semplicemente, un giorno mi chiamò e mi disse che non ci saremmo più dovuti vedere.» «E lei che cosa fece?» «Io non elemosino l'amore di qualcuno che non mi vuole», replicò da dietro gli occhiali, imperscrutabile. «Non avevo intenzione di gettarmi ai suoi piedi, anche se so quello che sta pensando: che è esattamente quello che feci durante il nostro primo incontro, in hotel.»
«Non stavo pensando a nulla del genere.» «Comunque, ormai non ha più nessuna importanza. È tutto finito. Ho provato a chiamarlo, qualche volta, e mi sono presentata alla galleria di Strange, quando sapevo che sarebbe stato lì. Ma lui era distante... preoccupato, quasi...» Si interruppe, goffamente. «Vada avanti... Stava per aggiungere qualcos'altro.» Pronunciò le parole successive con estrema lentezza. Controvoglia. Ma forse voleva soltanto indurmi a credere che fosse così, forse era esattamente quello che voleva dirmi, fin dall'inizio. «Ecco... sembrava quasi che avesse paura di parlare con me, ma un'affermazione simile non sarebbe esatta. Cioè... questo è quello che ho pensato allora, ma forse avevo semplicemente bisogno di credere che ci fosse un'altra ragione che l'avesse spinto a scaricarmi, e che non si fosse semplicemente stancato di me.» «Rimase sorpresa, quando Felix mise fine alla vostra storia?» «Sorpresa è dire poco. Ero furiosa. Mi era già capitato di essere scaricata, in passato, non era un'esperienza del tutto nuova. Ma di solito succede per un motivo, no? Con lui, invece, non riuscii a capire che cosa fosse andato storto. Se non altro, mi doveva una spiegazione.» «Perché crede che avesse preso una simile decisione?» «Oh, be', questo non è affatto un mistero. Alla fine me lo disse, la colpa era di Alice... pensava che non fossi la donna giusta per lui. Quasi fosse sua madre, o roba del genere. Più di una madre, in effetti, se capisce quello che voglio dire. Immagino che per Alice nessuna fosse all'altezza del fratello. Nessuna... a parte lei.» C'era qualcosa, nel modo in cui pronunciò quell'ultima frase, che mi indusse a pensare che dietro le sue parole si celasse molto di più. Rimasi in silenzio per un istante. Poi le dissi: «Parlando con Alice, l'altro giorno, ho avuto l'impressione che il suo atteggiamento nei confronti di Felix fosse piuttosto... non so...» «Piuttosto strano?» mi interruppe. «È quello che pensavo anch'io. Erano un po' troppo vicini per essere fratello e sorella. C'era troppa intimità, tra loro. Non era un rapporto normale. Quella donna può sembrare una sorta di vergine vestale, non ha amanti, non si è mai trovata al centro di pettegolezzi o scandali. Ma, se vuole sapere come la penso, aveva già tutto quello che desiderava: aveva Felix. Lo aveva in tutti i sensi, se riesce a capirmi. Pertanto, la sua gelosia non mi stupì.» «E secondo lei Felix provava la stessa cosa?»
«Non faceva altro che parlare di lei», mi confidò. «'Alice ha fatto questo, Alice ha detto quello'... Si assicurava sempre di avere il suo appoggio. Non potevamo vederci, non potevamo andare da nessuna parte, se lei non era d'accordo. E ovviamente, nel giro di poco tempo, la situazione iniziò a darle fastidio.» «Sarà stato imbarazzante, per lei.» «Quando esci con un uomo, non ti aspetti che la sera corra a casa dalla sorella, o che ne parli in continuazione quando è a letto con te. È già abbastanza difficile quando ti raccontano delle loro ex. Se poi si tratta di sorelle, la cosa inizia a darti i brividi...» «Perché si è rassegnata a una situazione del genere?» «Non avevo alcun diritto di aspettarmi qualcosa da lui. Era un amante occasionale, e se mai mi sono permessa di credere che tra noi ci fosse di più, stavo solo facendo dei castelli in aria, e ne ero perfettamente consapevole. Non ero niente, per Felix; ero un essere inferiore, nel suo mondo... e nel mondo di Alice e di Strange. Ma credevo davvero che la nostra storia valesse qualcosa, stavamo bene, insieme. Così, quando decise di gettare tutto al vento, nascondendosi dietro quella che mi sembrava una debole scusa, rimasi profondamente delusa. Non era l'uomo che pensavo che fosse. Non si dimostrò all'altezza delle speranze che avevo riposto in lui.» Dunque era questo che aveva voluto dire, al telefono, quando aveva affermato di non conoscerlo poi tanto bene. Chissà, forse aveva ragione. Forse non lo conoscevo nemmeno io. C'era qualcosa, nella relazione tra Felix e Alice, che mi era sfuggito? E quanto poteva contare la mia svista? La vita è una gran confusione, in fondo. Ma non è detto che ci sia una connessione tra il disordine dell'esistenza e il mistero della morte. Presi un altro sorso di vino e posai il bicchiere, osservando la luce danzare per un attimo sulla superficie del liquido in movimento, che presto tornò a riflettere una finestra che dava sul cortile. «Vi siete più rivisti, in seguito?» «Dopo esserci lasciati, intende? Ma certo. Andai a un party organizzato da alcuni amici di amici di amici di Strange. Non mi chieda come fossi riuscita a procurarmi un invito. Comunque, ci andai. Devo ammetterlo, probabilmente speravo di incontrare Felix. Non avevo perso completamente le speranze, nonostante fossero passate settimane, e lui non si fosse più fatto sentire. Stavo girovagando in cerca di qualcuno che conoscessi, quando lo vidi insieme a una donna. Erano in piedi in un angolo, al buio e sono sicura che si stessero baciando. La cosa mi dava parecchio fastidio,
non aveva perso tempo a rimpiazzarmi. Abbandonai subito la festa. Fu solo in seguito, quando Strange mi presentò la sorella di Felix, che realizzai che era la stessa donna che avevo visto al party. Mi rivolse un sorrisetto compiaciuto, come se volesse vantarsi della vittoria.» «Come ha saputo della morte di Berg?» «Strange mi ha fatto una telefonata. Sapeva che eravamo stati amanti. Mi ha detto che credeva che meritassi almeno di essere avvisata. Non che fossimo destinati a stare insieme, o roba del genere, ma almeno questo mi era dovuto... altrimenti, l'avrei scoperto guardando il telegiornale della notte.» «Come si è sentita?» «Terribilmente dispiaciuta. Sono andata alla polizia, perché volevo vedere il corpo. Ma mi hanno detto che non era possibile senza l'autorizzazione della sorella. Le ho persino lasciato un biglietto, a casa, ma non mi ha mai fatto la cortesia di richiamarmi. La solita, vecchia Alice...» «Ha avuto molto a cui pensare.» Ecco. Stavo di nuovo prendendo le sue difese. Dovevo smetterla. «Non ho alcun problema ad ammettere che anch'io ero spaventata», mi disse. «Quando succede una cosa del genere a una persona a te vicina, inizi a pensare che nessuno è veramente al sicuro. Ma poi, questa mattina, ho sentito che l'Uomo di Marx non c'entra affatto e mi sono vergognata di non essermi resa conto che stava soffrendo tanto... Non immaginavo che potesse arrivare a commettere un atto simile; non ho bisogno di essere più esplicita, vero? Era passato diverso tempo dalla nostra separazione, quindi non c'era motivo per cui dovessi essere al corrente della sua situazione. Ma mi sono sentita uno schifo, tutto qui.» «Non ha dubbi riguardo all'ipotesi del suicidio?» Mi guardò, come se non avesse afferrato la domanda. «Che cosa importa quello che penso io? Strange mi ha detto del risultato dell'autopsia. I giornali, questa mattina, dicevano che la polizia ha smesso di cercare eventuali persone coinvolte.» «Alice non crede che il fratello si sia tolto la vita. È ancora convinta che sia stato assassinato.» Gina scosse la testa, bruscamente. «Non voglio sentire quello che le ha detto quella puttana. Quella è una pazza nevrastenica. C'era da aspettarselo che avrebbe tentato di trasformare in un dramma personale la scomparsa di Felix. Non può trattarsi di semplice suicidio... Mi dica, è per questo che le ha chiesto di andare in giro a
fare domande? Che cos'è, una specie di detective privato?» «No, niente del genere. Sono solo la persona che ha trovato il cadavere di Berg», le dissi. «Quella sera mi ha telefonato, voleva incontrarmi. Pensava che potessi aiutarlo, ma adesso non saprò mai che cosa volesse dirmi. Dalla voce mi sembrava piuttosto... turbato.» Evitai di dirle che temeva che qualcuno stesse cercando di ucciderlo. «L'unica cosa che mi interessa è scoprire che cosa è successo veramente.» «L'ha trovato lei?» La notizia sembrò davvero coglierla di sorpresa. «Ho sentito alla radio che era stata una donna a scoprire il suo corpo, ma credevo che si trattasse di una persona di Howth.» «Ho chiesto alla polizia di non fare il mio nome», le spiegai. «Almeno a lei hanno dato retta. È più di quanto abbiano fatto per me, quando ho detto che non volevo essere coinvolta.» Prese un altro sorso di vino. Ormai doveva essere al terzo bicchiere. «Non importa», aggiunse svelta. «Davvero. Non ho avuto molte possibilità di parlare di Felix, da quando è scomparso. E immagino che questo spieghi anche la visita di Miranda Gray.» «La terapista di Berg è stata qui?» «È passata ieri. Mi ha chiesto che cosa sapessi della morte di Felix. Ha detto di essere preoccupata per qualcosa che aveva sentito da Alice. Aveva in cura tutti e due, ma forse lo sa già. Li riceveva ogni lunedì e venerdì pomeriggio. Quando stavamo insieme, lo accompagnavo nel suo studio e aspettavo fuori, in macchina, mentre lui entrava per la sua seduta. Subito dopo, la dottoressa vedeva Alice. Carino, no? Tutto in famiglia.» «E adesso indaga sulla vicenda. Perché?» «Ha detto di essere in pensiero per Alice... Una preoccupazione che non condivido, in effetti.» Fui distratta per un istante da un'ape atterrata sul bordo del tavolino, che adesso camminava malferma sulle zampette. Una delle prime della nuova primavera. Odio le api. Da bambina ero stata punta, e ricordo ancora la sensazione di panico provata e mia madre che mi rimproverava per aver sollevato una tale confusione... Restando seduta, spostai rapidamente il braccio, pronta a schiacciarla. Ma Gina fu più veloce: quando mi mossi, l'ape era già morta, e lei si stava pulendo la mano in un canovaccio, per eliminare i resti. Rise. Una risata leggera. «Ancora vino?»
21 L'ultima cosa che mi sarei aspettata, rincasando qualche ora dopo, era trovare Alice seduta sui gradini davanti al mio appartamento, e non ero nemmeno sicura di essere dell'umore adatto per parlare con lei. La testa mi scoppiava per colpa del vino. Gina, alla fine, aveva cucinato della pasta e mi aveva mostrato qualche altra fotografia, dopo aver stappato una nuova bottiglia. E ce n'era stata persino una terza. Era difficile starle dietro, e io avevo perso l'abitudine di bere sul serio, durante il giorno. E adesso la sorella di Felix era lì. Ma che cosa diavolo si aspettava da me? E, soprattutto, che cosa avrei ottenuto in cambio? Qualche nuova scusa? Una donna come lei andava trattata con delicatezza: aveva scelto il momento sbagliato, se sperava in un mio comportamento diplomatico. Infatti, fui piuttosto brusca, quando le chiesi come avesse fatto a entrare nell'edificio. «Il portiere mi ha lasciata passare. Ho detto di essere una sua amica.» Hugh. Dovevo ricordarmi di ucciderlo. Magari me lo sarei segnato da qualche parte. «Sono passata da casa», mi spiegò, «e ho controllato le telefonate ricevute: l'ultimo numero era il suo. Ho provato a richiamarla, ma non mi ha risposto nessuno; e sapevo che non aveva un altro numero a cui contattarmi. Così sono venuta qui.» Una spiegazione piuttosto semplice. Peccato che non ricordassi di averle mai dato il mio indirizzo. In ogni caso, non potevo certo lasciarla lì sui gradini. «Farà meglio a entrare.» Aprii la porta e la feci accomodare, lanciando un'occhiata all'appartamento per assicurarmi che fosse in ordine. Come se me ne importasse qualcosa. Probabilmente, stavo prendendo qualcuna delle abitudini «civilizzate» di Grace: dovevo darci un taglio. «Com'è l'albergo?» «Non credo che possa funzionare. In realtà, non so nemmeno perché ci sono andata, se non per incrementare il conto della mia carta di credito attingendo al minibar. Non posso sfuggire al ricordo di Felix semplicemente allontanandomi dal luogo in cui abbiamo vissuto insieme. Non riesco a
smettere di pensare a lui, anche se non sento la sua presenza come a casa.» «Se non altro, adesso che la polizia ha stabilito che si è trattato di un suicidio, le faranno riavere il corpo», replicai. «Non è quello che voleva? Il sovrintendente capo Fitzgerald dice che è stata piuttosto insistente, al riguardo.» «La salma di mio fratello è stata ritirata questo pomeriggio», disse accompagnando le sue parole con un rigido cenno del capo. Non aveva notato, o forse aveva preferito ignorare il tono pungente della mia osservazione. «Il motivo per cui sono qui è un altro», continuò invece calma. «Volevo darle questo.» Prese un biglietto dalla tasca e me lo passò. L'invito a un funerale. La mia vita sociale aveva davvero bisogno di qualche miglioria. «Ha fatto in fretta», commentai osservandolo. «Non avrebbe senso prolungare oltre l'attesa. Preferisco togliermi il pensiero il prima possibile, e andare avanti con la mia vita. Se così si può chiamare.» Non ero in vena di provare dispiacere per lei. Ero stanca di sentire le varie versioni di quello che aveva detto, di ciò che pensava. La simpatia che avevo inizialmente provato nei suoi confronti si stava lentamente affievolendo. «Non c'era bisogno che me lo portasse di persona.» «Ci tenevo a farlo. Volevo essere sicura che lo ricevesse. E poi... e poi mi chiedevo come procedessero le sue indagini riguardo alla morte di Felix...» «Dunque non ha intenzione di lasciar perdere?» «Non fino a quando non mi sarò convinta dell'ipotesi del suicidio.» «Non credo di poterla aiutare», dissi. Non fece nulla per nascondere la sua delusione. E, nonostante provassi del fastidio nei suoi confronti, quell'espressione mi faceva male; sapevo come ci si sente, quando nessuno è disposto ad aiutarti. Quando nessuno vuole darti ascolto. Era una lezione che avevo imparato in seguito alla scomparsa di Sydney. «Ma ieri mi ha detto che...» «So benissimo che cosa le ho detto ieri. Non creda che non voglia aiutarla. Continuo a pensare che ci siano molte domande senza risposta, in merito alla morte di suo fratello. È un chiodo fisso, per me: la telefonata di quella sera... Non riesco a non pensare che avrei potuto fare qualcosa, se avessi insistito per avere qualche dettaglio in più, se fossi arrivata prima al
faro. Ma lei non è del tutto sincera con me, Alice. Se davvero vuole che indaghi su questa tragedia, perché non partiamo da Gina Fox?» Arrossì, e una strana espressione le attraversò il volto, come un lampo. Rabbia? «Come l'ha scoperto?» mi chiese, a denti stretti. «Non è stato così difficile. Nel momento in cui ha deciso di rivolgersi a un'estranea, si sarebbe dovuta aspettare che, prima o poi, avrebbe saputo che Felix aveva un'amante.» «Aveva: ha detto bene. Quella sgualdrina non faceva più parte della sua vita.» «E lei si assicurò che andasse così, giusto?» «Ha parlato con lei, è chiaro», disse. «Riconosco le sue bugie, sono contagiose. Dunque è lì che è stata, nel pomeriggio?» «Non credo che la cosa la riguardi.» Quando riprese a parlare, si fece più cauta. «È vero, Gina non mi piaceva. Dissi a Felix quello che pensavo. .. che lo stava usando, che non era adatta a lui. Ma la decisione di rompere fu sua. Era un uomo adulto. Che cosa crede? Che avessi minacciato di fare qualcosa se avesse continuato a frequentarla?» Il discorso non era così semplice. Due persone che avevano una relazione lunga e complicata come la loro potevano avanzare pretese senza bisogno di parlare, o di farsi delle minacce. Il solo pensiero di poter dare un dispiacere all'altro, di allontanarlo e di perderlo, e di dover affrontare la solitudine, era già sufficiente. Rimasi in silenzio. Anche Alice ne era consapevole. E sapeva che io sapevo. Non c'era bisogno che gliene parlassi apertamente. «Questo ancora non spiega perché non abbia mai accennato all'esistenza di Gina», le dissi. «Lei e Felix si erano lasciati più o meno un anno fa. Non avevo motivo di sospettare che la morte di mio fratello avesse qualcosa a che fare con lei. E di sicuro non volevo farla rientrare nella mia vita. Gina Fox non è una donna piacevole. Era gelosa di quello che avevamo noi due.» «Ma lei sembra convinta del contrario.» «Che cosa?» «Crede che tra lei e Felix ci fosse... come posso dire? Qualcosa di più di un normale rapporto tra fratelli. Secondo Gina, non riusciva a sopportare il fatto che Felix volesse stare con lei... a letto. E che la portasse con sé quando usciva per fare qualche scatto.»
«Un'altra delle sue bugie», disse Alice. «Lui ha sempre lavorato da solo.» «Non è quello che ricorda Gina.» «E ricorda anche l'inferno che ci ha fatto passare, quando Felix le ha detto che non voleva più saperne di lei? Io lo ricordo eccome. Le telefonate a notte fonda. Le lettere ingiuriose. Non importava dove ci trovassimo, ci giravamo e lei era lì. Ci seguiva. Ci osservava.» «La riteneva pericolosa?» «In alcune circostanze, sì.» «Quindi, a maggior ragione, avrebbe dovuto parlarmi di lei, dopo la morte di suo fratello. Non crede?» Si tolse di nuovo la maschera. «Non sto insinuando che abbia qualcosa a che fare con la scomparsa di Felix.» «Ah, no?» «No.» Posai le dita sul ponte del mio naso e premetti forte. Avevo il cervello annebbiato. Volevo sdraiarmi. Volevo il silenzio. Non me la sentivo più di continuare con quel gioco. «Vede, Alice, il mio problema è questo: lei vuole che scopra qualcosa di più, ma quando le faccio una domanda mi risponde a monosillabi. Non collabora. Non può chiedere alle persone di darle una mano, se non ha intenzione di fornire loro elementi su cui lavorare. Renderebbe tutto più facile.» «Non voglio darle quest'impressione. È solo che... non voglio dire nulla che...» «Che possa infangare la reputazione di Felix. Lo capisco. Ma che cos'è più importante? Custodire i suoi segreti, di qualsiasi cosa si trattasse, o scoprire che cosa è successo davvero quella notte? Scoprire se qualcuno stava realmente cercando di ucciderlo, come mi ha detto al telefono? O se aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto?» «E non pensa che anch'io voglia saperlo?» «Io penso che lei non abbia ancora capito che cosa vuole. Tutto quello che so è che sta succedendo qualcosa. Lei sta indagando, e ha chiesto il mio aiuto. E adesso anche Miranda Gray...» «Miranda? Che cosa c'entra con tutto questo?» esclamò. Era evidente che la notizia l'aveva colta di sorpresa. «La sua terapista ieri si è presentata a casa di Gina, a caccia di informa-
zioni.» «Non mi aveva detto che aveva intenzione di fare una cosa simile», osservò calma. «Ma Miranda teneva molto a mio fratello. Forse nemmeno lei crede alla teoria del suicidio.» «Al contrario. Ha detto alla polizia che l'ipotesi si accorda perfettamente con quanto emerso durante il ciclo di sedute.» «Ma è ridicolo! Felix non avrebbe mai pensato al suicidio.» «Secondo la dottoressa, soffriva di depressione. E lei stessa, Alice, mi ha rivelato che aveva avuto un esaurimento nervoso.» «C'è un'enorme differenza tra un esaurimento nervoso e un suicidio.» «Lo racconti a Miranda Gray.» «Ma certo. È esattamente quello che intendo fare. Non ha alcun diritto di parlare di mio fratello con la polizia. Era la sua terapista. Le sedute erano coperte dal segreto professionale.» «Anche dopo un possibile omicidio?» Non rispose, e io insistei. «E, in ogni caso, chi dice che stesse indagando sullo stato mentale di Felix?» Probabilmente mi stavo scavando la fossa con le mie stesse mani. Se davvero volevo sapere qualcosa di più sulla scomparsa di Berg, dovevo assicurarmi di averla dalla mia parte. Ma il suo atteggiamento era troppo irritante, non provai nemmeno a tenere nascoste le mie opinioni. «E con questo che cosa vorrebbe dire?» «Forse voleva scoprire che cosa sta accadendo nella sua testa. Perché, per esempio, mi ha detto che suo fratello è stato assassinato, mentre parlando con Strange ha affermato il contrario?» «Gliel'ha detto lui?» «Dice che lei si è lamentata del mio interessamento, e che io l'avrei indotta a credere a un sacco di sciocchezze, riguardo alla morte di Felix, giocando con la sua mente.» Mi sembrò confusa. «Io... io non so perché abbia detto delle cose simili», disse infine. «Mi dispiace. Non è affatto vero. Gli ho parlato dei miei sospetti riguardo alla morte di Felix, e lui mi ha dato della sciocca. Secondo Vincent, la scomparsa di Felix mi avrebbe sconvolto al punto da impedirmi di pensare con lucidità. È esattamente quello che dissi io a mio fratello. Lei mi crede, Saxon, non è vero?» «Io non so più che cosa pensare», confessai in tutta onestà. «Provo a mettere in ordine i vari pezzi, e mi rendo conto che non sono nemmeno sicura di sapere qualcosa sul suo conto. E ignoro i segreti che mi nasconde.»
«Lei mi piaceva. Pensavo che potessimo diventare amiche. Sul serio. È evidente che mi ero sbagliata. Non la importunerò più, se questa è l'opinione che ha di me... se è convinta che le stia mentendo.» «Io non l'ho detto.» «Non ha usato queste parole, non ne ha avuto bisogno.» «Alice, non sia sciocca.» Fiato sprecato. Se n'era andata. Sentii sbattere la porta; quindi l'eco rumorosa dei suoi passi giù per le scale, sempre più lontani. Mi presi a calci. Metaforicamente, s'intende. Non mi azzardai ad alzarmi in piedi, dopo tutto quel vino. Ma me lo sarei meritata. Pensai di correrle dietro, ma a che scopo? Mi resi conto di essere stufa. Stufa di Alice, di Felix, di tutto. Avrei voluto fare qualche passo indietro: stavo decisamente meglio, prima che i fratelli Berg entrassero nella mia vita. Se solo non avessi ricevuto quella telefonata... Era come se Felix mi avesse messo un collare e avesse gettato la chiave nell'acqua nera, dove non sarei riuscita a recuperarla nemmeno con la luce del faro; e non importava quanto mi spingessi verso il fondo: non l'avrei mai trovata. Alla fine, avrei scordato la strada per tornare in superficie. PARTE SECONDA 22 «Ogni scusa è buona per vestirti di nero», osservò Grace mentre mi preparavo, la mattina del funerale di Felix. «Un colore che s'intona perfettamente al mio umore», replicai. Non si può dire che fossi impaziente di andarci. I funerali non mi piacevano. A nessuno piacciono, ovviamente. Ma io arrivavo addirittura a nascondermi, per evitarli. Il giorno della sepoltura di Sydney, avevo lasciato la città per tornarci soltanto dopo una settimana. Ero andata a St. Paul. Perché avevo scelto quella città? Semplice: giunta in aeroporto, ero salita sul primo aereo in partenza. La gente evita i funerali perché ha paura della propria mortalità: così mi aveva detto qualche sapientone. 'Fanculo. Io non ho paura della mia mortalità, se mai, quello che mi spaventa è il dolore degli altri. Le forti emozioni mi terrorizzano; incluse le mie. Io prediligo le persone che le tengono per sé. L'unica ragione che mi spingeva ad andare al funerale era... Be', in effetti non ero del tutto sicura di saperlo.
Non potevo lasciar perdere tutto, immagino, qualunque cosa pensasse Alice. «Come sto?» «Come al solito.» «Oddio, sono così orribile?» Entrai in cucina per versarmi del caffè. Fuori splendeva il sole, ma la temperatura non si era alzata. Forse era addirittura più freddo del giorno prima. Perché il tempo non prendeva finalmente una decisione? L'ultima cosa di cui avessi bisogno era un clima con una crisi d'identità. Presi un biscotto dal barattolo e lo mangiai, in silenzio. Era più un modo di ingannare l'attesa, in effetti, non avevo molta fame. «Che ore sono?» «Smettila di preoccuparti», disse Grace, uscendo dalla camera da letto e iniziando a radunare le carte che avrebbe dovuto portare in centrale. Gliel'avevo chiesto più o meno un centinaio di volte. «Vedrai. Andrà tutto bene.» «Non conosco nessuno.» «Conosci Alice.» «Già, proprio la persona che vorrei evitare. Non sono nemmeno sicura che l'invito sia ancora valido. Non mi ha mai richiamata. E se ricomincia a farmi domande su Felix? Che cosa le dico?» «La verità. Le dici la verità.» «La fai facile, tu.» E per lei lo era davvero. Invidiavo la sua sicurezza. La cerimonia era fissata per le undici; si sarebbe tenuta in una chiesa in una zona della città nota come Harold's Cross: non mi ero mai preoccupata di scoprire il motivo di quel nome. Era abbastanza distante da giustificare l'uso della jeep, ma avevo già deciso di farmi una camminata, volevo avere un po' di tempo per prepararmi. Sarei scesa per Leeson Street e avrei attraversato il canale; quindi avrei svoltato a destra, per Grand Parade. Era una mattinata tranquilla, uno di quei giorni che sembrano non riuscire a raccogliere abbastanza energia per mettersi in moto, e che si limitano a trascinarsi verso il tramonto. Arrivai mezz'ora dopo. Era presto, naturalmente. E io ero la prima. Così vagai per il cimitero dietro la chiesa, fumandomi un sigaro. Lessi gli epitaffi sulle tombe ricoperte da erbacce, e pensai tristemente a tutte quelle vite perdute. Di loro
non restava che una manciata di parole, incise su una lapide. Alcune erano lì da secoli; stranamente, la mia compassione andava soprattutto a loro. Le persone scomparse di recente, se non altro, avevano chi le ricordava, e chi si occupava delle loro tombe. Gli altri non avevano più nulla. Sollevai lo sguardo e osservai la vecchia chiesa, gli archi elaborati scolpiti nella pietra, e le vetrate istoriate annerite ulteriormente dagli scarichi delle auto. Non riuscivo proprio a capire che cosa avesse spinto Alice a scegliere quel posto per il funerale del fratello. Forse le aveva lasciato istruzioni, in proposito? E, ammesso che fosse così, che cosa l'aveva attirato? Qualunque fosse stato l'aspetto originano di quella chiesa, adesso era tetra, incurvata, abbandonata a se stessa. Ancora un paio d'anni e probabilmente sarebbe stata trasformata in una sala per il bingo, e impianti e attrezzature sarebbero stati svenduti come scarti. Oh, avanti ragazza: ripigliati! Che mi importava di quello che ne avrebbero fatto? La chiesa non significava nulla, per me. Non nutrivo alcun interesse nei confronti di Dio, o degli angeli. In effetti, valeva anche il discorso inverso. Praticamente non ero più entrata in un edificio sacro, dopo l'infanzia passata a Boston... e anche allora dovevano letteralmente trascinarmi all'altare, e io ero costretta a sorbirmi messe interminabili nella speranza di tenere lontano il male. Non c'è che dire, mi aveva fatto un gran bene. Già. E anche a Sydney, che credeva a tutte quelle stronzate. Da allora, la mia esperienza religiosa si era ridotta al credo dei killer, a quella fiamma che arde dentro di loro spingendoli ad agire. Pornografia teologica: ecco come la definivo. E se riusciva a dare conforto a persone simili, pensavo, che cos'avrebbe potuto offrire a una come me? Mi tenevo alla larga da Dio, e mi aspettavo che Lui avesse la stessa considerazione nei miei confronti. Non chiedevo molto, in fondo. Comunque, era davvero deprimente osservare luoghi così antichi finire in rovina. Giunta di nuovo davanti alla chiesa, notai con sollievo che la gente cominciava ad arrivare. C'erano anche dei reporter e dei fotografi, indugiavano accanto ai cancelli, probabilmente in attesa di qualche viso noto che rendesse omaggio a Felix. Ma i personaggi scarseggiavano; sarebbero stati sicuramente più numerosi, se la polizia non avesse scartato l'ipotesi di un coinvolgimento da parte dell'Uomo di Marx. A chi interessava un altro suicidio? Soprattutto quello di un fotografo affermato. Non era forse la fine che ci
si aspettava da un artista tormentato? Forse, Felix stava solo obbedendo a un copione già scritto. Salutai con un cenno i pochi giornalisti con cui avevo un rapporto più o meno amichevole, ed entrai. Mi fermai un istante e guardai la bara, in fondo alla navata. Mi riusciva difficile credere che l'uomo che avevo trovato a Howth qualche sera prima, adagiato in modo scomposto sugli scogli, adesso fosse sdraiato lì dentro. Freddo. Chiuso da un coperchio strettamente avvitato. Quindi, presi posto in fondo alla chiesa debolmente illuminata, cercando di passare inosservata. Il profumo dell'incenso mi faceva sentire leggera, quasi ebbra. Qualcuno, probabilmente, doveva aver indovinato chi fossi; o forse si trattava di qualche amico di Alice... Un loro cenno mi fece capire che avevano notato la mia presenza. Vidi qualche volto noto della televisione locale, alcune persone vagamente familiari apparse sui giornali, e un paio di agenti in uniforme. Ma non conoscevo nessuno abbastanza bene da spingermi oltre un saluto formale. Non sarei riuscita a distinguere l'uno dall'altro la maggior parte dei presenti. Di Gina Fox, nessun segno. Solo Strange spiccava tra la folla. Si presentò avvolto nel suo cappotto di pelliccia, con il colletto sollevato, ed entrò in chiesa con quel senso di dominio che avevo già avuto modo di osservare quando avevamo preso quel caffè, a Temple Bar. Chissà, forse si considerava il proprietario dell'intera città. Prese posto nelle prime file e iniziò a parlare in tono un po' troppo alto con le persone vicine. Le sue parole, intermittenti e sconnesse, si levavano sopra il mormorio e i sussurri dei presenti, giungendo in fondo alla chiesa; nella mia immaginazione, le vedevo colpire il muro come un'onda, per poi tornare a unirsi alla conversazione, sotto l'altare. Una decina di minuti più tardi, arrivò Alice. Entrando, evitò di guardarsi in giro. Non mi vide. Percorse la navata e si mise a sedere. Era vestita in modo semplice, e aveva il capo scoperto. Non sembrava aver pianto, ma era esausta, pallida, distrutta. Fu un vero sollievo quando ebbe inizio la funzione; riuscii a misurare il dolore attraverso le letture e i dubbi accompagnamenti musicali. Poi venne il momento dei panegirici. L'editor di una rivista che aveva commissionato a Felix una serie di fotografie sottolineò quanto Berg fosse rispettato nel suo campo; Strange parlò del posto che aveva occupato nella scena artistica contemporanea, dei suoi temi, della sua eredità. C'era qualcosa di meccanico nelle loro parole, non si poteva certo dire che trasmettessero calore.
Alice aveva scelto di rimanere in silenzio. Rimase seduta lì, lo sguardo fisso davanti a sé. Quando il feretro venne trasportato fuori dalla chiesa, restai al mio posto; non mi unii al seguito. Non riuscivo nemmeno a ricordare perché avessi deciso di venire. Non avevo nessun motivo per essere lì. Dall'esterno provenivano le grida dei corvi, che svolazzavano posandosi sugli alberi che circondavano il cimitero. Mi sembrò di sentire delle campane soffocate... lontane... Quanti rintocchi per una vita? Chissà se potevo accendermi un sigaro lì dentro, senza far scattare un allarme antincendio. Era l'ultima cosa di cui avessi bisogno: far suonare un allarme in una chiesa, durante un funerale. Anche una come me doveva porsi dei limiti. Chiusi gli occhi e appoggiai la testa sullo schienale del banco; il legno consumato sembrava penetrarmi nella pelle morbida della nuca. Poi sollevai le palpebre di scatto al rumore della porta che si apriva e dei passi che risuonavano secchi sulla pietra. Sul pavimento della navata si profilò un'ombra sottile, allungata dal sole. «Alice?» «Saxon... Mi era sembrato di vederla.» «Non dovrebbe essere...» «Là fuori a guardarli mentre sotterrano il corpo di Felix?» «Sì, l'idea sarebbe quella.» «Già, immagino di sì», disse fredda. «Non ha molto senso venire allo spettacolo, se te ne vai prima dell'ultimo atto. Be', per me può andare tutto al diavolo... Felix compreso. Non gli importava un accidente delle convenzioni, e nemmeno a me, del resto. Sono giorni che mi sento male. C'è qualcosa che non va, anche se non so cosa. Ma di sicuro non ho bisogno di tutto questo... questa...» Si interruppe, incapace di trovare il termine adatto, e prese a gesticolare indicando la chiesa. «Questa sceneggiata è stata una sua idea, non mia. Non sapevo nemmeno che queste fossero le sue ultime volontà, fino a quando il notaio non mi ha mostrato il suo testamento. Mi aveva sempre detto che avrebbe voluto essere cremato. E poi... questo posto non mi piace neanche.» «Che cosa l'avrà spinto a sceglierlo?» «E chi lo sa? Quando morì, nostra zia destinò un terzo del suo denaro al fondo per il restauro di questa chiesa. Il che, come avrà notato, non è servito a molto. Sarebbe stato meglio se avesse gettato quei soldi direttamente
nel fuoco, se non altro ci avrebbero tenuti al caldo, prima di consumarsi. Vede, si era sposata qui, anni fa... anni? Ma che cosa dico, ormai saranno passati secoli. Il matrimonio non durò a lungo. Lui scappò con una cantante di night-club, lasciandola con qualche migliaio di sterline di debiti questo quando una cifra del genere significava ancora qualcosa - e con una brutta forma di... non so, in famiglia non abbiamo mai dato un nome a quel disturbo. Comunque, si trattava di una sfortunata malattia, che le avrebbe impedito di avere dei figli suoi. Ci prese con sé, dopo la morte dei nostri genitori. Ma, ovviamente, non scordò mai il marito. Altrimenti, perché avrebbe deciso di lasciare un terzo della sua fortuna a questo posto?» «E lei non approvò i suoi istinti caritatevoli?» «Se mi fossi trovata al suo posto, costretta a decidere se lasciare quei soldi a me e a Felix o a questa topaia... be', sì, credo che avrei scelto me e mio fratello. Ma un testamento è un testamento. Quella di sorprendere dev'essere una tradizione di famiglia. Ma avrei preferito che qualcuno mi avesse informata. Devo ricordarmi di riscrivere il mio: i miei beneficiari dovranno spargere personalmente le mie ceneri sulla vetta del Kilimangiaro, se vogliono il mio denaro. Ben gli sta, a quei bastardi. Immagino che per Felix sia stato una specie di scherzo quello di farmi venire qui, ma non vedo perché dovrei starmene là fuori a seguire questa messa in scena.» «Probabilmente, il pensiero del suo funerale era tanto remoto che non ha voluto nemmeno prenderlo seriamente in considerazione...» «Ricordati che devi morire: era la frase che ripetevano agli imperatori. C'erano persone pagate per sussurrarla all'orecchio del sovrano, perché questi non dimenticasse la propria condizione di essere mortale, nonostante il suo potere apparente. Felix se ne scordava spesso.» D'un tratto si bloccò e diede un'occhiata intorno, come se avesse udito qualcosa, ma era solo la porta della chiesa che si richiudeva scricchiolando, dopo il suo ingresso. Era rimasta in piedi, fino a quel momento, poi si sedette furtivamente accanto a me e abbassò la voce. «Riguardo all'altro giorno...» disse. «Lasci stare. È stata colpa mia», risposi. «Ero frustrata, avevo la sensazione di non essere arrivata a nulla. Le mezze risposte, le questioni insolute... Non avrei dovuto essere così dura con lei.» Scosse il capo. «Aveva ragione. Avrei dovuto dirle subito di Gina. Mi sono lasciata guidare dai sentimenti. Non stavo pensando a Felix, ma a me stessa. E devo dire che, ultimamente, non mi sento in gran forma. Non capisco... c'è
qualcosa che non va, in me.» «Non c'è bisogno che mi spieghi.» «Invece sì, voglio dimostrarle che non le porto rancore. Le ho detto che avrei voluto che diventassimo amiche: ecco, non ho cambiato idea. Deve passare a casa mia. Sono tornata lì. Venga non appena le è possibile. Solo adesso ho capito che quello che è accaduto a mio fratello non poteva interessarla quanto interessava me... Quanto interessa me. È solo che... tutta questa faccenda... non torna. C'è qualcosa che ancora non quadra.» Ecco. Proprio l'argomento che temevo. In verità, non ero riuscita a pensare quasi a nient'altro. Mi trovavo intrappolata: da una parte, la logica convinzione di Grace che la morte di Felix non avesse nulla a che fare con l'Uomo di Marx; dall'altra, i miei dubbi. Alla fine, la mia mente tornava sempre alla sua voce, alla telefonata di quella sera. Qualcuno sta cercando di uccidermi... Ma prima che avessi il tempo di decidere se confessarlo o meno ad Alice, con il rischio di riaprire quel vaso di Pandora da cui Grace mi aveva messo in guardia, la porta della chiesa si spalancò, e una voce stridula gridò: «Alice?» L'orso Strange, avvolto nel suo cappotto di pelliccia, comparve da dietro un pilastro. E questa volta aveva l'aria piuttosto seccata. «Ah, sei qui», disse stizzoso, allungando le mani verso di lei, in un gesto di impazienza. «Si chiedevano tutti dove fossi finita. Che cosa stai facendo?» «Sono venuta a salutare Saxon.» I nostri sguardi si incrociarono brevemente, ma lui mi notò appena. Sembrava quasi che volesse fingere di non ricordarsi di me, o che volesse farmi sentire un essere del tutto insignificante, per nulla degno di avere un posto nella memoria dell'augusto Vincent Strange. «Non ci vogliono tre quarti d'ora, per salutare qualcuno.» «Infatti. Non esagerare, Vincent», disse lei con un sospiro. «E smettila di agitarti. Adesso arrivo.» Appoggiò la mano sul banco davanti e si alzò in piedi, rifiutando il suo aiuto. «Alla prossima», mi disse. «Le faccio una telefonata.» «Ci conto.» Poi, l'orso la portò via con sé. E io mi resi conto che non mi aveva detto nulla riguardo alle numerose chiamate senza risposta. Perché l'aveva fatto,
dal momento che sosteneva di volermi essere amica, ed era tornata a casa? Aspettai ancora qualche minuto, prima di uscire; a quel punto, se n'erano andati tutti. Compresa la stampa. Persino i corvi non c'erano più. Soltanto una figura era rimasta ad aspettare, accanto al cancello. Quando uscii, sollevò lo sguardo e mi sorrise. «Era ora. Che cosa stavi facendo, lì dentro? Stavi confessando tutti i tuoi peccati? No, impossibile, o ne avresti ancora per un bel po'.» «Fisher! Vecchio impostore grassone, che cosa fai qui?» «Sapevo che saresti stata felice di vedermi.» 23 «Quindi lei conosce Miranda Gray?» domandò il sovrintendente capo Fitzgerald. Era quasi sera, ed eravamo seduti a un tavolo accanto alla finestra in un ristorante di Coppinger Row. La temperatura non si era alzata, non c'era nessuno ai tavolini fuori; la gente camminava stringendosi nei soprabiti, e di tanto in tanto si trascinava fino all'entrata del locale, per dare un'occhiata al menu. «La conosci in tutti i sensi, Fisher... o sbaglio?» intervenni. «Ti prego, così mi fai arrossire.» Ma l'unico rossore sulle sue guance veniva dal vino, che avevamo ordinato insieme alla pasta. «Io e Miranda eravamo compagni di università, abbiamo studiato entrambi psichiatria. Lei era un'allieva brillante. Abbiamo avuto una storia, per un po'. Poi è finita. È stato tanto tempo fa. Le nostre strade si sono divise.» Già. Quella di Miranda l'aveva portata ad avviare un redditizio studio privato, in cui riceveva ricchi artisti che erano giunti alla conclusione che la loro miseria non fosse semplicemente un sintomo della condizione umana comune, bensì qualcosa di unico, che valeva la pena di curare spendendo qualche migliaio di sterline. Una visione ottimistica dei benefici della terapia, che gli psichiatri si guardavano bene dallo smentire. Fisher, invece, si era dato alla psicologia criminale e aveva passato anni in giro per le carceri a intervistare killer, per affinare la sua ricerca; finché non aveva colto al volo l'opportunità offertagli da un libro della sottoscritta, dedicato alla compilazione dei profili degli assassini, in cui ampio spazio era stato riservato alla sua opera. Si era liberato delle costrizioni di un lavoro normale, ed era entrato nel mondo della notorietà procurata dai moderni mezzi di comunicazione.
Adesso scriveva due libri all'anno e compariva in numerosi programmi televisivi, e intanto teneva a bada la vocina della sua coscienza, che gli rimproverava il fatto di aver mollato un impiego meno redditizio, ma decisamente più dignitoso. Lawrence, infatti, aveva collaborato con Scotland Yard e con la Polizia Metropolitana di Dublino come consulente; aveva messo a disposizione la sua esperienza, in relazione a una serie di casi particolarmente spinosi. Era oberato di lavoro, di fatica... e di grasso. Non l'avevo mai visto perdere la calma, e a quanto mi risultava, non era mai accaduto. Mi ripeteva spesso che, quando sentiva che la sua pazienza si stava esaurendo, pensava alla sua grande casa di Highgate; e poi a quella sulla spiaggia, nella Cornovaglia del nord; e a quella in Francia, e alle rette scolastiche che doveva pagare per i suoi cinque figli. Immediatamente, una calma zen scendeva su di lui. Ma nemmeno la calma zen aveva impedito alla sua barba di diventare più grigia di quanto ricordassi dal nostro ultimo incontro. Quello che davvero mi piaceva di lui era che non fingeva mai di fare qualcosa che non fosse il semplice tirare avanti. Faceva del suo meglio. E il suo meglio, in effetti, l'aveva portato a realizzare grandi cose; nonostante questo, però, non giocava a mostrarsi infallibile, non si spacciava per il Papa e non sosteneva di avere una linea diretta con la verità indiscussa. E non si illudeva nemmeno che i suonati con cui lavorava potessero essere realmente curati, il che costituiva un altro punto a suo favore. Gli psicologi, in genere, credono di avere una risposta a tutto. Sembrano convinti che, una volta portati alla luce i traumi e le privazioni sofferte da parte dell'assassino durante l'infanzia, sia possibile comprendere e risanare qualsiasi anomalia verificatasi nello sviluppo successivo. Ma è solo una bugia. Una bugia pericolosa, a cui però non sono disposti a rinunciare. «Comunque, io e Miranda ci siamo sempre tenuti in contatto», riprese Lawrence. «Un bigliettino a Natale, le cartoline dalle vacanze, qualche telefonata. Qualche volta siamo usciti a pranzo insieme, se ci trovavamo nella stessa città, o alle stesse conferenze.» «E Olive approva, naturalmente...» «Quante volte dovrò ripetertelo, ancora? Mia moglie si chiama Laura, e tu lo sai. E poi perché non dovrebbe essere d'accordo?» «Ho sentito che le vostre conferenze possono nascondere molte tentazioni.»
«Ma certo! Le ore piccole, l'alcol, l'eccitazione provocata dall'aver ascoltato per un'intera giornata le interminabili relazioni di qualche pazzo dell'Europa dell'Est, che vuole dimostrare l'esistenza di un legame tra la forma delle unghie di un uomo e le sue tendenze criminali. È davvero troppo, si finisce sempre con lo strapparsi i vestiti di dosso, e con l'andare a letto insieme. Una vera e propria orgia, credimi. Ma, ultimamente, ho avuto un po' di problemi con la schiena. Per non parlare del fatto che sono felicemente sposato e che non potrei permettermi di pagare gli alimenti, se mia moglie mi cogliesse in fallo. Sono un autentico paradigma di virtù.» «E allora come mai si trova qui a Dublino con lei?» intervenne Grace. «È stato un caso», rispose, «come ho cercato di spiegare a Saxon, per tutto il pomeriggio. Avevo contattato Miranda per informarla che un produttore televisivo stava cercando qualche volto nuovo da inserire in un programma; avendogli fatto il suo nome, volevo avvisarla che presto avrebbe ricevuto una sua telefonata. Ho avuto l'impressione che qualcosa la preoccupasse. Abbiamo parlato e mi ha raccontato che uno dei suoi pazienti si era tolto la vita.» «E tu, nobile cavaliere, sei corso a salvarla nella tua brillante armatura», intervenni. «Se insisti nel volerla vedere in questo modo...» «Le hai tenuto la mano? Le hai offerto una spalla su cui piangere?» «Saxon, la fai sembrare una cosa lussuriosa.» «Sto solo cercando di considerare la faccenda dal punto di vista di Daphne.» «Vuoi smetterla di tirare in ballo mia moglie? Laura sa bene che tra me e Miranda non c'è niente. La scintilla si è spenta anni fa, e ha lasciato il posto a una fiammella di rispetto reciproco, di ammirazione e di amicizia. Ha passato un brutto momento, è dura perdere un paziente. Ho pensato che un po' di aiuto non le avrebbe fatto male, soprattutto in vista del funerale.» «È così che lo chiamano, adesso? Aiuto? Allora dovremmo ritenerci onorate, stai perdendo il tuo tempo con noi. Non dovresti essere da lei, a consolarla?» «Lavora fino a tardi», disse mostrando tutta la propria dignità. «Dobbiamo incontrarci dopo. Non che la cosa ti riguardi, d'altronde. E, comunque, io non posso offrirle molto, oltre alle mie condoglianze. Sono cose che succedono. Trovarsi davanti a un suicidio è un rischio che corre qualsiasi terapista. Quando lavoravo in carcere, i reclusi si impiccavano di continuo.»
«Ma quelle non possono considerarsi delle perdite», dissi sottovoce. Fisher mi lanciò uno sguardo pieno di disapprovazione. «E Miranda le ha per caso rivelato l'identità del suicida?» gli domandò Fitzgerald. «Non subito. Non ne aveva alcun motivo. Non sapevo nemmeno che Felix Berg fosse un suo paziente. Come avrei potuto? Era una questione privata, coperta dal segreto professionale. Ma dopo la sua morte... be', non c'è stato più bisogno di proteggere la privacy di quel poveretto.» «Già, e la dottoressa si è lasciata sfuggire qualcosa di molto interessante», lo interruppi, rivolgendomi a Grace. «Ecco perché ho suggerito di incontrarci qui, perché lo sentissi con le tue orecchie.» «Grazie di avermi risparmiato la fatica di dirglielo al momento opportuno», disse Lawrence. «Smettila di brontolare. Diglielo e basta.» «Allora?» fece Grace. «Miranda mi ha detto che Felix Berg le confidò di essere l'Uomo di Marx.» Non credo che sarebbe stata più stupita se Fisher le avesse rivelato di avere una relazione con Seamus Dalton. Il suo sguardo si spostava dall'uno all'altra; Grace rimase in silenzio, quasi si trovasse davanti a uno scherzo di pessimo gusto. «Lo so che può sembrare incredibile», continuò Lawrence, «ma è quello che mi ha detto Miranda. Neppure io riuscivo a crederci. Ovviamente avevo seguito il caso attraverso i giornali. E adesso venivo a sapere da lei che uno dei suoi pazienti le aveva confessato di essere l'assassino. Subito dopo il secondo omicidio, nel corso di una seduta, Berg affermò di essere stato lui a uccidere Terence Prior. Si era nascosto nell'ombra, davanti a casa sua, e gli aveva sparato.» «Disse anche il perché?» «Era una cosa che si sentiva di fare. Semplicemente. Durante il soggiorno in America - Saxon mi ha detto che aveva avuto un esaurimento nervoso, e che era partito per gli Stati Uniti per riprendersi, o qualcosa del genere - aveva iniziato a frequentare dei poligoni di tiro e ci aveva preso gusto. Al suo ritorno in Irlanda, era riuscito a introdurre illegalmente una pistola, e aveva deciso di cominciare a far fuori qualcuno.» «Normale, no?» osservai cupa. «Ma è assurdo», disse Grace. «Naturalmente. È proprio questo il punto. Miranda era agitata, non sa-
peva che cosa fare. Da una parte, era tenuta a rispettare il segreto professionale. Dall'altra, non poteva certo ignorare quello che le aveva confidato. C'erano già stati due morti. E se Felix avesse detto la verità, e avesse voluto fare qualche altra vittima? Lei stessa poteva essere in pericolo. Se Berg era davvero l'Uomo di Marx, presto avrebbe potuto decidere che era meglio farla fuori, prima che lo smascherasse. Se invece le aveva mentito, a che gioco stava giocando? Soffriva di allucinazioni? Era un potenziale violento? In entrambi i casi, la sua non era una posizione facile.» Fisher sollevò il bicchiere e, notando che era vuoto, fece un cenno al cameriere con l'autorità che contraddistingue gli uomini quando si trovano in un luogo pubblico. Perché mai i camerieri ignorano le donne? Devono sostenere un esame o è un'abilità che si sviluppa con la pratica? «Non ho alcun problema a dirvi», riprese, in attesa della bottiglia, «che Miranda non è tipo da scherzare con il fuoco. Viene da una famiglia borghese molto rispettabile, il padre era un chirurgo rinomato, la madre organizzava pranzi per diverse associazioni caritatevoli. Non fraintendetemi, la scelta di diventare psichiatra derivò dal desiderio genuino di aiutare persone con problemi...» «Persone ricche con problemi», puntualizzai. «Ma non ha mai finto di sporcarsi le mani con i veri schizzati. Preferiva seguire i casi di nevrosi e... lo ammetto, Saxon, prediligeva quei pazienti facoltosi che, ogni settimana, si lamentavano dello scarso affetto della madre. E adesso, all'improvviso, le è piovuta addosso una cosa simile.» «Così si è rivolta a lei», disse Grace. «All'inizio no. Forse perché immaginava quale sarebbe stato il mio suggerimento. Le avrei detto di rivolgersi alla polizia, anche privatamente se avesse voluto tener fede al segreto professionale; di lasciare che fosse lei a occuparsene; ma adesso sono venuto a sapere che non se l'era sentita. Cerchi di capire, Miranda appartiene ai vecchi hippy di sinistra. Era convinta che le autorità avrebbero usato il pugno di ferro con Felix, e lei si sarebbe sentita responsabile. Così ha aspettato. Ha deciso di coinvolgermi solo dopo la sua morte.» «E nel frattempo, che cosa fece?» «Si improvvisò investigatrice», disse con un sorriso ironico. «Tipico di Miranda. Raccolse quanti più dettagli possibili sull'Uomo di Marx, diventando un'esperta. Quindi fece un controllo incrociato con quello che sapeva di Felix.» «E che cosa scoprì?» insisté Grace.
«Che quando la prima vittima venne uccisa, lui si trovava a Stoccolma.» «Dunque non poteva essere stato lui?» «Esattamente. Poteva anche aver passato tutto il tempo del mondo ai poligoni di tiro, negli Stati Uniti, ma nessuno gli avrebbe insegnato a far fuoco a Stoccolma e a colpire alla nuca un uomo che si trovava a Dublino. Miranda ne fu rassicurata; ovviamente sperava che non si trattasse di Felix. Ma l'intera faccenda l'aveva confusa: perché aveva voluto farle credere una cosa simile? Poi, proprio quando ha ripreso in mano i suoi appunti in cerca di una possibile spiegazione, è stato scoperto il cadavere, giù a Howth, e lei si è trovata di fronte a un nuovo dilemma: era stato ucciso perché conosceva l'identità del mostro? Aveva cercato di rivelargliela, indirettamente?» «Una strategia ad alto rischio», disse Fitzgerald. «Che cosa sarebbe successo, se la Gray fosse venuta da noi con le informazioni sul suo conto? Forse sarebbe finito in manette, sicuramente sarebbe stato interrogato. Non sarebbe stata una gran pubblicità, per un artista di successo.» Fisher scrollò le spalle. «Magari credeva di conoscerla abbastanza, e sapeva che non l'avrebbe fatto. Oppure non aveva alternativa. O, magari, auspicava segretamente un intervento da parte della polizia, ma non sapeva come coinvolgerla.» «E perché non dirci semplicemente quello che sapeva?» «Be', poniamo che un estraneo questa sera si presenti in centrale, e sostenga di conoscere l'identità dell'Uomo di Marx», disse Fisher. «Quale sarebbe la reazione del sergente di turno?» «Probabilmente lo farebbe portare via su un furgone bianco.» «Esatto.» «D'accordo, uno a zero per lei. Ma comunque ha corso un rischio inutile. Quindi? Qual è la sua teoria? La stessa di Saxon? Che Felix avesse scoperto qualcosa che non avrebbe dovuto, e sia stato eliminato?» «So dove vuole arrivare. Saxon mi ha già informato riguardo al risultato dell'autopsia. Ho parlato con Miranda della sua depressione: tutto induce a pensare che si sia trattato di un suicidio. Ma deve ammettere che la storia è alquanto intrigante.» «Intrigante, forse... Ma ancora non capisco il motivo della vostra eccitazione. È evidente che Felix Berg possedeva una fervida fantasia, e voleva che tutti pensassero che dietro la sua vita si celasse un grande mistero; voleva che, alla sua morte, la gente fosse indotta a credere che ci fosse qualcosa di oscuro, così avrebbe continuato a indagare, e a indagare, alla ricer-
ca di qualche segreto nascosto, meno prosaico. Ed è esattamente quello che state facendo. Tu, Saxon. E Miranda Gray. E adesso anche lei, Fisher.» «Ti abbiamo solo messo al corrente di quello che sapevamo», risposi. «Non innervosirti.» Rifletté un istante, sorseggiando il suo vino. «E se non avesse avuto un alibi per il primo omicidio?» riprese poco dopo. «Alla luce della sua confessione, lo considerereste un possibile sospetto?» «Secondo l'opinione comune», rispose Fisher, «gli artisti non si trasformano in assassini. E con il termine artisti mi riferisco a poeti, pittori, compositori.» «E perché?» «Perché questa è l'opinione comunemente accettata? Perché, apparentemente, nessun artista ha mai commesso un omicidio premeditato. Alcuni sono stati portati a uccidere in determinate circostanze, spinti dalla rabbia, o dalla gelosia. Ma non si tratta del genere di assassinio a cui lei si riferisce.» «No... intendevo dire perché non si trasformano in killer?» «Perché l'omicidio, nella maggior parte dei casi, è un crimine che ha a che fare con l'autostima. Un uomo o una donna che uccidono ripetutamente hanno una percezione di sé talmente indistinta e minacciata, che solo attraverso un atto del genere riescono a recuperare il senso della propria personalità. È una percezione falsa e distorta, in effetti, ma per loro è sufficiente. Fino all'omicidio successivo. Hanno questo violento impulso, questa urgenza, e una fiducia in se stessi che non riescono a canalizzare. Gli artisti hanno a disposizione una diversa via di sfogo, per le proprie energie. Non hanno bisogno di uccidere per esprimere i propri desideri. Oppure», continuò, spiluccando la sua pasta, «si potrebbe dire che gli artisti non uccidono perché sono autorealizzatori.» «Sono che cosa?» «Autorealizzatori. Ha mai sentito parlare di Abraham Maslow?» «No.» «Maslow era uno psicologo americano che, negli Anni Cinquanta, condusse uno studio su quelli che, a suo parere, costituivano i migliori esemplari di salute mentale. E identificò alcune caratteristiche comuni. Un senso del ridicolo altamente sviluppato. L'abilità di ascoltare i propri sentimenti piuttosto che i dettami dell'autorità, della tradizione o dell'opinione comune, senza comunque disprezzare questi ultimi. Il rispetto per il pros-
simo.» «Tu, Saxon, hai depennato l'ultima voce», osservò Grace. «Molto divertente.» «Ma la principale caratteristica comune, secondo Maslow, era la capacità di vedere il mondo così com'era, e non come volevano che fosse: avevano un atteggiamento più distaccato, più razionale. E, cosa fondamentale, erano più tolleranti nei confronti dell'ambiguità e dell'incertezza. Ed è esattamente questa la qualità che manca ai killer come l'Uomo di Marx. Loro non riescono ad accettare il mondo così com'è; e, nel modo più assoluto, non tollerano l'ambiguità. Non sono in grado di ridere delle loro debolezze e dei loro fallimenti. E, dal momento che la creatività tende a essere più pronunciata negli autorealizzatori, e gli autorealizzatori diventano difficilmente degli assassini, ne consegue che gli artisti non possono trasformarsi in killer.» «A me sembrano solo un mucchio di stronzate», dissi. «Anche a me, concordo. Nessun gruppo, preso nel suo insieme, è immune dal groviglio di impulsi che fanno di un uomo un serial killer. Nessuno, né gli psicologi, né gli artisti, né la polizia. Felix aveva le stesse possibilità di essere l'Uomo di Marx di qualunque altra persona. In effetti, ci sono alcuni elementi, nella sua opera, che indurrebbero a ritenerlo un possibile sospetto.» «Per esempio?» «Consideriamo il modus operandi del nostro uomo: lui non sceglie degli obiettivi specifici. Per questo avete tante difficoltà a individuarlo. Di solito, esiste un legame tra le vittime designate di un assassino... un particolare che ci dice qualcosa della personalità dell'omicida. È la stele di Rosetta di noi profiler, quello che ci permette di trovare delle connessioni. Un uomo che uccide madri single e bionde, o direttori di banca quarantenni, avrà una psicologia e una storia personale che lo indirizzano verso tali bersagli. L'Uomo di Marx, invece, indipendentemente da quanto possa aver detto in un primo momento la stampa in relazione alle sue inclinazioni politiche, non sembra seguire nessuno di tali meccanismi. Lui uccide indiscriminatamente persone appartenenti a qualunque ceto sociale, almeno in apparenza.» «Quindi non prova niente? Ragiona come un killer professionista?» chiese Grace. «Non direi», obiettò Fisher. «Uccidere per guadagnarsi da vivere richiede un certo distacco psicopatico, che suggerisce un'incapacità di considera-
re reali le altre persone; comunque, un killer professionista uccide solo su commissione. Il comportamento del vostro uomo, invece, è del tutto differente. Lui odia davvero le sue vittime, ma senza alcun motivo particolare. Le odia semplicemente perché esistono. Detesta la gente in generale; il suo atteggiamento è simile a quello di un omicida folle, la cui rabbia verso le masse si esprime in uno sfogo violento, in cui cerca di far fuori il maggior numero possibile di uomini. L'unica differenza consiste nel fatto che l'Uomo di Marx sta dilazionando la sua pazzia, uccide una persona alla volta. La sua rabbia è controllata, diretta. La scelta di esplodere un solo colpo ne è la dimostrazione... anche se di recente, alla chiesa, qualcosa è andato storto.» «E tutto questo come si ricollega a Felix?» «Io non so nulla riguardo allo status mentale di Berg. Posso soltanto basarmi sulla sua opera, e le fotografie raccolte ne La città irreale rivelano senza dubbio la stessa forma di dissociazione. Vedeva le persone come esseri senza volto appartenenti alla massa indistinta, e non come individui; si era allontanato da loro perché fosse più facile ucciderle, se avesse ritenuto necessario prendere una simile decisione. Avrebbe ucciso solo esseri senza importanza... un insetto, una formica.» Grace aggrottò le sopracciglia. Era bella anche quando corrugava la fronte. «Vorrei davvero che fosse stato lui», disse. «Così sarebbe tutto finito.» Ma sapeva bene che le cose non sono mai così semplici. 24 Lasciato il ristorante, io e Grace andammo direttamente a teatro. Davano il remake di una vecchia commedia, che io mi ero rifiutata di andare a vedere anche quando era uscita la prima volta. A essere onesta, non sono una patita del teatro. Se fosse dipeso da me, saremmo andate a vedere un film, o magari a casa; ma lei cercava sempre di elevare la mia mente e io non mi lamentavo troppo: era pur sempre un'occasione per stare insieme. E, del resto, il teatro aveva un vantaggio rispetto al cinema: durante l'intervallo, avevi il tempo di prenderti un vero drink. In ogni caso, saltammo la seconda parte; Grace fu d'accordo con me che, anziché riportare a nuova vita quello spettacolo, avrebbero dovuto soffocarlo con un cuscino. La stessa cosa che doveva fare lei con sua madre. Avrei voluto dirglielo, ma mi trattenni. Quella sera ero decisa a mante-
nere un comportamento impeccabile. E poi, il mio senso dell'umorismo mi aveva già causato diversi problemi, da quando mi ero trasferita a Dublino. Invece, ci infilammo in un bar a bere un whiskey. Grace era più silenziosa del solito. Non si lamentò nemmeno quando mi vide fumare, com'era sua abitudine fare. In effetti, avevamo adottato lo stesso atteggiamento: il mio interesse nei confronti di Felix era ancora lì a dividerci. Conoscevo i suoi timori, aveva paura che l'incontro con Alice di quella mattina potesse riaccendere qualcosa che lei avrebbe preferito si affievolisse. Dal canto mio, volevo evitare l'argomento; avrei finito di nuovo con l'irritarmi, davanti al suo scetticismo. Continuavo a essere convinta che la morte di Berg fosse legata, anche se impercettibilmente, al caso a cui stava lavorando. Era del tutto inutile riprendere la solita, vecchia discussione. Alla fine, Grace chiamò un taxi e andò a casa, dicendo che sarebbe dovuta andare in centrale molto presto; e io evitai di sottolineare che, in quel caso, il mio appartamento sarebbe stato molto più comodo. Mi limitai a finire il mio drink, e mi avviai verso casa, infilandomi nelle stradine tortuose. La serata era insolitamente tranquilla. Non incontrai quasi anima viva. Gli effetti dell'ultimo, duplice omicidio: la gente aspettava, in preda al terrore. Giunta davanti al mio palazzo, notai che il portone era aperto e l'atrio deserto: nessuna traccia di Hugh, il portiere. E l'ascensore era di nuovo rotto, il che significava che avrei dovuto fare le scale. È proprio in momenti come questo che l'idea di abitare al settimo piano diventa meno attraente. Tutto quello che volevo era strisciare fino al mio letto e rimandare i pensieri al mattino successivo. Ma, quando arrivai di fronte alla porta di casa, capii subito che qualcosa non andava. Nell'aria c'era una strana tensione. L'atmosfera era stata disturbata. Fu solo quando presi la chiave dalla tasca e provai a infilarla nella serratura che realizzai che cosa era successo. La serratura si allontanò, come se volesse tirarsi indietro. La porta era aperta. Proprio come quella al piano terra. C'era qualcuno nel mio appartamento? Immediatamente, feci per afferrare la pistola... ma mi ricordai che non la portavo più. Nessuno la portava a Dublino. A parte l'Uomo di Marx. Probabilmente, avrei dovuto lasciare tutto com'era; me ne sarei dovuta
andare per tornare con i rinforzi, ma non era nel mio stile. Perché fare la cosa più sensata, quando puoi farne una stupida? Così, con una mano spalancai la porta: davanti a me vedevo l'intero soggiorno immerso nell'oscurità, fino alle porte a vetri che davano sul terrazzo, anch'esse aperte. Con l'altra raggiunsi l'interruttore e accesi la luce. La stanza si illuminò. Ogni cosa si delineò chiaramente. La sedia era rovesciata su un fianco, la fodera dello schienale strappata. I cassetti, estratti dagli armadi, erano a terra, capovolti. I fogli di carta svolazzavano qua e là, sollevati dalla brezza proveniente dalle finestre aperte. I miei libri erano sparsi ovunque. L'unico quadro che possedevo era stato tolto dalla parete, la tela squarciata. Entrai e diedi un'occhiata intorno, incredula: mi accorsi che avevano frugato persino negli armadi della cucina. I vasi, svuotati, erano in frantumi sul pavimento. Insieme alle bottiglie. E lo stesso avevano fatto nella mia stanza. Camicie, pantaloni, giacche, biancheria intima... sembrava che qualcuno avesse gettato tutto a terra, in preda a un raptus di follia; il materasso era stato tirato indietro, e squarciato con la lama di un coltello; una lampada era stata rovesciata. Nel bagno, sul pavimento, trovai i resti di una boccetta di profumo. La tenda della doccia era stata strappata dagli anelli. E il lavabo era pieno di flaconi tirati giù dalla mensola sovrastante. Era evidente che qualcuno aveva rovistato nel mio appartamento, in cerca di... Già, di che cosa? Dello stesso oggetto misterioso che avevano cercato a casa dei Berg? Arrivai in fondo al corridoio, davanti all'armadio in cui avevo riposto il baule con i miei lavori: manoscritti dei libri che non ero mai riuscita a completare, appunti di ricerche che si erano accumulati negli anni, con la stessa inevitabilità dei debiti; ritagli di giornale, video, nastri, fotografie; i miei articoli ingialliti, insieme a varie edizioni delle mie opere. Li avevo nascosti qui, lontano dagli occhi, perché non fossi costretta a ricordarmene ogni giorno della mia vita. I predoni della notte avevano trovato anche quello; il contenuto era stato gettato a terra, calpestato e strappato. Ero sempre stata restia a far entrare in casa persone che non conoscevo
bene; riflettevo sempre attentamente, prima di fare un invito, per questo la visita di Alice mi aveva innervosita tanto. All'inizio della nostra relazione, non avevo permesso nemmeno a Grace di venirmi a trovare; la cosa le era sembrata piuttosto strana, ma l'aveva accettata... faceva parte del mio fascino alieno. Avere uno spazio mio era davvero importante, per me. Era uno dei motivi che mi tratteneva dal prendere casa insieme a lei. Ma sapere che un estraneo si era introdotto qui, aveva guardato tra le mie cose, toccato la mia roba, frugato nel mio mondo... be', era un incubo decisamente peggiore. E non avevo neppure idea di chi potesse essere. Mi sentivo violata. Gli psicologi non dicono forse che la casa di un individuo è un'estensione della sua personalità? Ecco perché non esistono crimini rivolti esclusivamente verso la proprietà: dietro c'è sempre un'aggressione personale, anche se soltanto a livello mentale. E, del resto, che cosa significa «soltanto» in un contesto del genere? Arrivai persino a domandarmi perché non avessi preso maggiori precauzioni, per evitare simili sorprese. Sapevo come rendere un ambiente sicuro dai furti con scasso, eppure non mi ero preoccupata del mio appartamento. Probabilmente pensavo che non ne avrei avuto bisogno. Ero stata davvero stupida. L'unica consolazione era la mia scarsa propensione a circondarmi di ricordi personali, quelli che la gente colleziona per avere un po' di compagnia; dal mio punto di vista, ciò veniva a creare una sorta di barriera, tra me e l'intruso. Sarebbe stato diverso, se avesse avuto la possibilità di leggere la mia corrispondenza privata e i miei diari, o di guardare le mie fotografie. Ma non avevo l'abitudine di collezionare niente del genere. Come Billie Holliday, viaggiavo sempre leggera. Ancora una volta, mi ricordai del motivo che mi aveva portato a tale scelta. Così, non rischiavi di farti del male. Tornai nel soggiorno e chiusi le porte del terrazzo; quindi raddrizzai la sedia e mi misi a sedere, chiedendomi chi fosse il responsabile di tutto questo. Avrei potuto cancellare l'intera faccenda, cercando di convincermi che si era trattato di un gruppo di ragazzini a caccia di soldi; un furto casuale, insomma. Come aveva osservato Alice, la gente viene derubata di continuo, soprattutto nelle vie del centro. Ma perché prendermi in giro? Chiunque si fosse introdotto in casa mia, quella notte, stava cercando qualcosa. Qualcosa che aveva a che fare con Felix.
Non potevo provarlo, ma non avevo alcun dubbio in proposito. Mentre io seguivo Strange, complimentandomi con me stessa per la mia furbizia, qualcun altro stava pedinando me. Non solo, era stato molto più bravo. Tanto per cominciare, sapeva chi ero. Sapeva dove vivevo. Una considerazione decisamente frustrante. L'idea che qualcuno avesse un simile vantaggio su di me era davvero insopportabile. Avevo bisogno di sapere contro cosa stavo lottando. Non saprei dire per quanto tempo rimasi seduta lì, a contemplare quello che restava del mio appartamento; gradatamente, però, i miei occhi dovevano essersi abituati alla confusione, perché, d'un tratto, notai un particolare che fino a quel momento mi era sfuggito. Attaccato al gancio che fino a quella mattina, quando ero uscita per andare al funerale, era servito a reggere il quadro, c'era qualcosa. Il mio primo pensiero fu che si trattasse di un biglietto. Poi capii. Era una fotografia. Un'altra istantanea, come quella che avevo trovato in mezzo al materiale raccolto da Felix sull'Uomo di Marx; solo che questa non aveva bisogno di un ingrandimento, per svelare l'identità della persona ritratta. Ero io. Era stata scattata quella mattina, al cimitero, mentre gironzolavo fra le lapidi, ingannando il tempo che mi separava dall'inizio della cerimonia. Vedevo la linea del muro di cinta, in fondo all'immagine, chiunque fosse l'autore, in quel momento si trovava sulla strada. I miei occhi non erano rivolti all'obiettivo, sembravano fissi sul vuoto. Avevo un'espressione accigliata. Venivo sempre così, in fotografia, come se la mia faccia fosse stata disegnata per avere sempre un aspetto infelice. La foto era stata premuta con forza contro il gancio, e la punta sembrava quasi trapassarmi il cranio, rimanendo impigliata fra i capelli. Il mio ospite sapeva come mettere a proprio agio una donna. 25 Conor Buckley era partito da un ufficio in una topaia vittoriana fatiscente e infestata dai ratti, giù al molo. Un edificio che si specchiava nell'acqua sottostante e tremava ogni volta che passava un treno, creando un riflesso altrettanto instabile. Poi aveva lasciato il cuore della città, per trasferirsi in
una mostruosità senz'anima di vetro e acciaio nel distretto finanziario, un quartiere in notevole espansione; la sua fortezza si confondeva perfettamente con le file di banche e di compagnie assicurative ammassate lungo la banchina. Inutile cercare di evadere i controlli all'entrata. Del resto, avevo già dato un'occhiata al parcheggio e la Mercedes di Buckley non era ancora arrivata. A meno che non avesse iniziato a prendere l'autobus... No, c'erano più probabilità che Warren Beatty facesse voto di castità. Aspettai. E ingannai l'attesa con una lunga serie di sbadigli. Non avevo dormito molto, la notte prima. Mentre cercavo di rimediare alla confusione lasciata dal mio ospite inaspettato, mi ero resa conto di come doveva sentirsi Sisifo, costretto a spingere quella roccia su per la collina, in eterno. Alla fine, dopo aver ridato una parvenza d'ordine al mio appartamento, non ero più riuscita a prendere sonno. Il pensiero di un estraneo che fruga nel tuo cassetto della biancheria non è esattamente rilassante, per una donna. La mattina, avevo messo alle strette Hugh, il quale non era riuscito a dirmi nulla che già non sapessi. Aveva staccato presto la sera prima. Probabilmente, un altro inquilino del palazzo aveva lasciato il portone aperto, o aveva abboccato alla storiella raccontatagli dall'intruso, permettendogli di entrare... In cambio di una spiegazione, mi dette una lettera di Buckley. Ecco perché adesso lo stavo aspettando. Buckley era un avvocato, uno della razza peggiore (scusate se, intanto, mi sciacquo la bocca): un avvocato difensore. Una volta aveva rappresentato un assassino che stavo cercando di inchiodare, e la cosa non aveva contribuito a rendermelo simpatico. E a irritarmi non era tanto il fatto che avesse deciso di accettare la difesa: ogni essere umano ne ha diritto, no? No, ciò che mi aveva mandato su tutte le furie era il suo atteggiamento di assoluta indifferenza nei confronti dell'imputato, non gli importava affatto se fosse colpevole o innocente. Per me, invece, la questione era cruciale. Non dovetti aspettare a lungo. Finalmente, la Mercedes entrò nel parcheggio. Buckley era al volante; accanto a lui sedeva una donna, intenta ad ammirare la sua immagine riflessa nello specchietto. Sembrava quasi che volesse assicurarsi di essere in ordine, nel caso avessero trovato ad attenderli uno stuolo di paparazzi armati di macchine fotografiche.
Lui non era cambiato molto, notai, osservandolo mentre scendeva dall'auto. Era basso, rotondo e calvo, come Mussolini; era questa l'immagine che avevo davanti, ogni volta che pensavo a lui - il che, per mia fortuna, non accadeva molto spesso. Era sempre stato un pallone gonfiato, pieno fino a scoppiare di autocompiacimento. Era il classico esempio del ragazzino figlio di operai, tormentato da un profondo rancore. Inutile dire che era un tipo in gamba; ma l'intelligenza non riusciva a soddisfarlo quanto i modi subdoli cui faceva ricorso. Ai suoi occhi, difendere la giustizia non era importante quanto battere il sistema. Si diceva che ogni vittoria, per lui, era un nuovo colpo all'establishment. Io non condividevo quel genere di psicologia amatoriale, ma, nel suo caso, l'affermazione non si discostava di molto dalla verità. Chissà, forse avrei potuto presentarlo a Burke, così avrebbero potuto lavorare insieme alla rivoluzione... Ma Burke avrebbe disprezzato almeno quanto me quell'essere viscido e abietto. Anche la donna scese dall'auto: un paio di gambe lunghissime, una chioma biondissima e... be', credo che questo basti a descriverla. Una studentessa di filosofia? Poco probabile. Con sé aveva una serie di cartellette, quindi doveva trattarsi della sua segretaria; non credo l'avesse scelta per le sue abilità di dattilografa. «Saxon», esclamò quando mi vide. «È una cattiva abitudine, quella che scorgo nella sua tasca, o è solo infelice di vedermi?» «Mi risparmi le sue battute scadenti, Buckley. Voglio parlarle.» «Sono occupato.» «Non mi dica... è atteso in tribunale.» «Esatto, tra meno di un'ora», rispose con un sorriso compiaciuto. «Rappresento un giovanotto perbene che ha avuto la sfortuna di essere fermato all'aeroporto con cinque chili di cocaina nel bagaglio a mano.» «Mi lasci indovinare: ignorava che si trovassero lì. È l'innocente pedina all'interno di un malvagio traffico internazionale.» Si finse stupito. «Ha sbirciato tra gli appunti per la mia strategia difensiva, agente speciale?» «Semplice fortuna. Sa, credo che i suoi clienti siano i più sfortunati di tutta Dublino. Finiscono sempre in manette per reati che non hanno commesso.» «Non sono poi tanto sfortunati, se hanno me come legale», osservò vi-
scido. «A proposito, dal momento che sarò bloccato in tribunale per difendere i diritti costituzionali del mio cliente, sarò costretto a saltare il pranzo con mia moglie. Sii gentile, Simone, chiama Margaret e avvertila che sarò impegnato fino a tardi.» La bionda tutta gambe e denti sfoderò uno di quei sorrisi che, normalmente, si vedono soltanto nelle pubblicità del dentifricio, e andò a fare quello che fanno le tipe come lei... qualunque cosa sia. «Credo di aver sbagliato tutto, nella vita», dissi, guardandola andare via. «Dovrei iniziare a studiare giurisprudenza. E propormi come avvocato difensore. Trovare un coglione da rappresentare, prendermi un ufficio spazioso e assumere un supermodello disoccupato che risponda al telefono.» «Si riferisce a Simone? Notevole, vero?» Sogghignò, leccandosi i baffi. «Dove l'ha trovata?» «L'ho vinta a una partita a backgammon.» «Non mi stupisce. Scommetto che le sarà di grande aiuto, quando deve fermarsi fino a tardi, la sera.» «Un uomo dovrà pur avere un hobby, no? Lo consideri un beneficio accessorio.» «Preferisco non considerarlo affatto, se per lei fa lo stesso. In questo momento mi interessa di più scoprire che cosa diavolo è questa.» Infilai una mano in tasca e tirai fuori la lettera consegnatami quella mattina da Hugh. «Le dispiace spiegarmi perché ho ricevuto una lettera dal suo ufficio, da parte di Vincent Strange, in cui mi viene ordinato di stargli alla larga?» «Lo sta terrorizzando. Non voglio dire che non abbia le sue ragioni, siano esse professionali o meno, ma quando è troppo è troppo. Vuole che mantenga le distanze, e che la smetta di molestarlo. Com'è che dite voi yankee? Deve dargli tregua.» «Io non sto molestando nessuno.» «Sicuro, Saxon. Sicuro. Non è lei che lo chiama a ogni ora della notte, per poi riattaccare. Non è stata lei a introdursi nella sua galleria tre notti fa, svaligiandola. E naturalmente non è lei a inviargli fotografie in cui il suo viso è cancellato. E, per finire, non è lei la persona che è stata vista aggirarsi intorno a casa sua.» Dunque non ero l'unica, pensai. Ammesso che Strange stesse dicendo la verità. «Non crede che abbia di meglio da fare?»
«Mi faccia pensare... No.» «Senta, Buckley, non so che concezione abbiate delle prove, qui a Dublino, ma non può accusarmi di aver molestato Strange solo perché gliel'ha detto lui. Può dimostrarlo?» «Secondo il mio cliente, lei era presente al funerale di Berg, ieri mattina.» «Ero stata invitata. Dalla sorella di Felix.» «Ha una copia del biglietto che lo provi?» «Crede forse che tenga tutti gli inviti ai funerali, archiviati sotto la lettera C di Cadavere?» «Be', Strange sostiene il contrario: lei si è intrufolata senza essere stata invitata.» «È un bugiardo.» «Quindi suppongo che lei non abbia nemmeno cercato di attaccare bottone con Alice, in chiesa, per convincerla ad assumerla per indagare sulla morte del fratello.» «È stato lui a dirglielo?» La situazione stava diventando surreale, ogni minuto di più. «E dice anche», continuò Buckley, «che non è la prima volta che lei lo infastidisce. Sembra che l'abbia tormentato per impossessarsi di qualcosa che apparteneva a Berg.» «Sono stata nella sua galleria più o meno una settimana fa. Non sapevo nemmeno che quegli oggetti fossero in mano sua, finché non me l'ha confidato lui stesso. Gli ho chiesto di mostrarmeli. E lui ha rifiutato. Fine della storia.» Poi l'avevo seguito fino alla stazione, e all'armadietto... Ma pensai che fosse meglio omettere quel piccolo particolare. «Inoltre, gli avrebbe rivolto vaghe minacce riguardo a quello che potrebbe succedergli se non consegnerà quanto affidatogli da Berg... Avrebbe accennato agli omicidi che stanno sconvolgendo la città. Questa parte le suona familiare?» «Be', forse ho provato a instillargli qualche dubbio... ma di certo non ho cominciato a fargli scherzi al telefono. Cosa crede, che abbia nove anni? E sicuramente non è mia abitudine spedire per posta fotografie deturpate.» «Allora, dimentichi quello che le ho detto. Non ha niente di cui preoccuparsi, no? Tutto quello che deve fare è stare alla larga da Vincent Strange; e la faccenda si chiuderà qui.» «Lo sa? Inizio a credere che l'Uomo di Marx abbia fatto fuori il giurista
sbagliato...» «Che cosa c'è, Saxon? Forse non sono il suo tipo?» «Buckley, lei non appartiene nemmeno alla mia specie.» 26 «Che schifoso. Da non crederci, mi ha detto di stare alla larga da Strange! Come se l'avessi molestato, o roba del genere.» «Sai com'è fatto Buckley», disse Grace tranquilla, sollevando appena lo sguardo dal rapporto che stava leggendo, «ogni giorno mi arrivano lamentele sul suo conto. Riesce a irritare la gente. E gli piace.» «E la cosa non ti fa incazzare?» «Certo che mi fa incazzare, ma a che scopo prendersela? È un avvocato difensore, non c'è da aspettarsi altro. Lascia perdere. Segui il suo consiglio, stai lontana da Strange e vedrai che andrà tutto a posto.» «Stargli lontana? Ma io gli ho soltanto parlato!» «Ok, riformulo la frase: dimenticati di lui.» «Non posso. Ci sono troppe cose che corrispondono...» «Che corrispondono a cosa?» «A tutto. Ho scoperto molte cose su Strange. Per esempio i suoi legami con il mondo della criminalità. Sono anni che l'Ufficio attività criminali indaga su di lui. Non hanno niente in mano, ma è ovvio che non credono che sia pulito, altrimenti, perché tenerlo sotto controllo? Ah... e sapevi che colleziona pistole? Fa entrare e uscire armi in continuazione. E tu che ti chiedevi come avesse fatto l'Uomo di Marx a procurarsi una Glock semiautomatica... Be', per Strange sarebbe stato un gioco da ragazzi.» «Non starai insinuando che il nostro uomo è lui, vero?» «Perché no?» Alla fine, ero riuscita ad avere la sua attenzione. Mise da parte il dossier e si appoggiò allo schienale. «Perché anch'io ho fatto eseguire dei controlli su di lui. Era naturale che il suo nome venisse a galla, per via della presenza di un'arma da fuoco. Chiunque possieda un porto d'armi, in città, o ne abbia fatto richiesta, o sia stato sospettato, interrogato, arrestato o condannato per un reato in materia di armi, è già stato controllato, anche più di una volta. E Strange ha un alibi di ferro per almeno due degli omicidi.» «Ma...» «So che cosa stai pensando, che non so nemmeno io quello che sto fa-
cendo...» «Non è vero...» Sollevò una mano per fermarmi. «Ma almeno questo sono riuscita a farlo. Ho controllato la merce ricevuta e spedita nell'ultimo anno: nessuna corrispondenza. Mi dispiace, ma è pulito.» All'improvviso, mi vergognai. Questo caso la impegnava abbastanza, senza bisogno di ulteriori pressioni da parte mia. Forse aveva preso una decisione sbagliata; ma, del resto, le uniche persone che non commettono simili errori sono quelle che non prendono decisioni. Doveva basarsi sulle statistiche, sulle percentuali. Non poteva limitarsi a seguire i suoi istinti, come me. Comunque, vergogna o no, non avevo intenzione di lasciar perdere. Lo stato in cui avevo ritrovato il mio appartamento la sera prima era una ragione sufficiente. «E che cosa mi dici della vecchia pistola di Felix? Secondo Alice, il fratello non ne aveva mai posseduta una. Quindi, non potrebbe essere stato Strange a dargliela?» «Saxon», mi rispose lentamente, «adesso ti dirò una cosa. Non spetterebbe a me, però farò un'eccezione. Non voglio che tu ti getti a capofitto sulla pista sbagliata, per poi accusarmi di averti nascosto qualcosa. Hai ragione riguardo a Strange: è stato proprio lui a procurargli l'arma.» «Ne sei certa?» «Felix andò da Strange all'incirca tre settimane prima di morire. Gli disse che qualcosa lo spaventava, che si sentiva in pericolo. E lo supplicò di dargli una pistola, con cui difendersi.» «E lui lo accontentò?» «Controvoglia. Ma Felix Berg era un amico e, soprattutto, uno dei suoi artisti più preziosi. Voleva aiutarlo. Non avrebbe mai immaginato che stesse pensando di togliersi la vita. Se avesse avuto anche il minimo sospetto, non l'avrebbe mai assecondato. In quel momento, pensava che il fatto di possedere un'arma sarebbe servito a tranquillizzarlo. Il suicidio l'ha sconvolto: è andato da Draker a raccontargli l'accaduto.» «E il suo vecchio amico ha fatto in modo che la cosa passasse sotto silenzio.» «A che scopo insistere?» mi chiese cercando di farmi ragionare. «Non avrebbe riportato in vita Felix. E non sarebbe stato nell'interesse pubblico perseguire Strange per aver commesso un semplice errore di valutazione.» «Adesso cominci a parlare come Draker.»
«Non c'è bisogno di essere così maligne, Saxon. Non credi che abbia cose migliori a cui pensare, che non accusare Strange di un reato minore? Sto cercando di condurre un'inchiesta, mi devo occupare di un serial killer. Sono qui dalle sei del mattino, e ho una lista di sospetti che inizia a essere più lunga dell'elenco telefonico di Dublino. Ho messo sotto sorveglianza cinque possibili candidati al ruolo. La stampa vuole delle risposte. La gente vuole delle risposte. E il commissario pretende dei miracoli.» «E questo non ti spinge a indagare più a fondo, riguardo alle circostanze della morte di Berg? Il fatto che si fosse rivolto a Strange per procurarsi una pistola non ti fa pensare che fosse davvero in pericolo?» «No. Perché non abbiamo trovato una sola prova che dimostri che qualcuno lo stava minacciando. Quante volte ancora dovremo tornare su questo punto? Ti stai basando soltanto sulla sua parola...» «Già. Anche Strange, a quanto pare.» «Adesso vorresti usarlo come testimone? Trenta secondi fa era il tuo sospetto numero uno. Probabilmente, Felix gli disse di essere spaventato solo perché acconsentisse a dargli un'arma. Un'arma con cui potesse togliersi la vita. Il fatto che abbia confidato a Miranda Gray di essere l'Uomo di Marx è la dimostrazione che le sue dichiarazioni non sono attendibili. Stai inseguendo delle ombre, Saxon.» Per un attimo mi sentii troppo stanca per continuare a discutere. Ero l'unica a non voler archiviare il caso Berg? Grace avrebbe voluto chiuderlo, una volta per tutte. Per la stampa era stata la notizia sensazionale di un solo giorno. E Strange continuava a sostenere che non ci fosse nulla di misterioso dietro quella morte... nonostante il suo caro amico Felix gli avesse chiesto una pistola, appena tre settimane prima, dicendogli di essere spaventato da qualcosa. Quanto ad Alice, continuava a non rispondere alle mie chiamate; dovevo averle lasciato almeno sei messaggi, dalla mattina del funerale. Eppure, mi aveva detto di volersi tenere in contatto. Non sapevo più a chi credere. A che cosa credere. Forse, se avessi raccontato a Grace dell'irruzione in casa mia, mi avrebbe dato retta. Ma a che cosa sarebbe servito? Per lei sarebbe stato soltanto un altro pensiero, un'altra preoccupazione. E ne aveva già abbastanza. «Perché non me l'avevi detto?» mi limitai a chiederle, alla fine. «Detto cosa?»
«Di Strange. Della pistola.» «Te lo sto dicendo adesso.» «Intendo dire prima... prima che mi mettessi sulle sue tracce, come una stupida.» «Se la cosa fosse andata oltre, l'avrei fatto. Ma non potevo dirti nulla, tu non...» Lasciò la frase a metà, chiaramente a disagio. Sapevo che cosa stava per dire. Non sei della polizia. Come se avessi avuto bisogno che qualcuno me lo ricordasse. Era un motivo ricorrente, nella mia esistenza. Certo, dunque non ero un'agente, ma questo non significava che non potessi condurre la mia indagine, o che dovessi starmene seduta ad aspettare che i veri poliziotti facessero il loro lavoro. Prima che riuscissero a venire a capo di qualcosa, sarei diventata una vecchia signora, chiusa nel suo appartamento a guardare la TV. Già mi immaginavo la scena. Vuole sapere che cosa mi ricordo del caso Berg, agente? Aspetti qui, vado a mettermi la dentiera e le racconto tutto. «Sei irremovibile. E io non capisco perché.» «Vuoi sapere perché non sono disposta a stare ai giochetti di Felix? Perché, dopo quello che ha fatto, non merita che le persone si affannino intorno a lui, per mettere in scena il suo dramma postumo. I suicidi sono dei bastardi egoisti. Ci pensa già mia madre a fornirmi la mia bella dose di merdosi ricatti affettivi...» «È successo qualcosa?» «Il solito. Stamattina mi ha telefonato per dirmi che non ha più niente per cui valga la pena vivere. Una figlia assente, nessuna speranza di avere dei nipotini che le corrano intorno... Non fa che ripetermi quanto ci si senta soli, da vecchi.» «Non può pretendere che tu viva solo per soddisfare i suoi bisogni.» «Lo so. Ma questo non le impedisce di lasciarsi sfuggire che una sera potrebbe lasciare il gas acceso o andare alla spiaggia a farsi una nuotata.» «Hai provato a parlarle?» «Non ho intenzione di mettermi a supplicarla. È la sua vita. E poi, finirei con il fare il suo gioco, vorrebbe che iniziassimo a trattare, così si sentirebbe importante. Sta cercando di spaventarmi per farmi sentire colpevole. E io non ho fatto niente per cui debba sentirmi in colpa. Sto già facendo tutto quello che posso. E anche tu hai già fatto tutto quello che era in tuo potere, per Felix. Non devi ritenerti responsabile della sua morte. E non
devi sentirti in colpa per non avere una spiegazione plausibile per Alice.» «Lo so.» Come sapevo che non era colpa mia se Sydney si era tolta la vita. Già. Ma ne ero davvero convinta? Scesi in archivio. Non mi sarei dovuta aggirare per il Dublin Castle da sola, ma, dal momento che non c'era nessuno a impedirmelo, non sentii la necessità di controllare i miei spostamenti: d'altra parte, a casa non c'era nessuno ad aspettarmi. Né a casa, né altrove. Niall Boland era alla sua scrivania. «Stavo per chiamarla», mi disse. «Ha qualcosa per me?» «Forse.» Alla galleria, quel pomeriggio, Strange mi aveva detto che Felix gli aveva confidato di aver diviso la casa con un assassino. Una frase misteriosa che mi aveva intrigato. Volevo saperne di più. Per quanto vaga, forse mi avrebbe finalmente portato a un indizio. E chi meglio di Boland poteva recuperare le informazioni di cui avevo bisogno? Gli avevo chiesto di fornirmi la lista di tutti i luoghi in cui Berg aveva abitato. Ma non mi aspettavo che avesse tanta fortuna. In così breve tempo, poi. Io avevo perso il conto dei posti in cui avevo vissuto: una serie di alloggi per studenti a Boston, e quell'inverno a Montreal con un mio ex, Steve, in un appartamento tenuto in piedi dal ghiaccio che ricopriva ogni cosa. Poi, di nuovo a Boston, la casa che avevo condiviso per tre mesi con la mia prima ragazza ufficiale: Arabella. Indossava vestiti di cotone stampati, fumava un po' troppa erba a ascoltava sempre e solo Joni Mitchell. Mi fece diventare matta, dovetti lasciarla per non essere più costretta a sorbirmi The Hissing of Summer Lawns. In seguito, ero tornata a stare con Steve... una cosa che non le perdonerò mai. Anche se devo riconoscere che fu l'incitamento di quest'ultimo a spingermi a entrare nell'FBI, mentre, a vent'anni, vagabondavo qua e là senza radici e senza una meta. Così, almeno, mi vedevo io. Dio sa dove sarei finita, se non fossi diventata un agente del governo. Durante la mia permanenza nei federali, avevo vissuto con la valigia in mano. Già. Per cinque anni. Avevo acquistato una casetta fuori Saratoga, nello Stato di New York, a nord; ma non ci andavo quasi mai. Un paio d'anni dopo il mio trasferimento a Dublino, l'avevo venduta rimettendoci
dei soldi, pur di sbarazzarmene. E questi erano soltanto i posti che mi erano rimasti maggiormente impressi. L'esistenza di Felix non era stata così nomade. Dopo aver lasciato la casa dove aveva trascorso l'infanzia, in Svezia, era andato ad abitare nella casa della zia, a Howth; poi in un appartamento preso in affitto a Clerkenwell, a Londra, quando studiava arte alla St. Martin's; quindi era tornato a Howth, dopo la morte dell'anziana parente. Infine, lui e Alice si erano decisi a vendere e si erano trasferiti in Temple Bar. Fine, a parte un'estate trascorsa in Svezia e il soggiorno nel New England, in seguito all'esaurimento nervoso dell'anno precedente. Quindi la risposta che volevo era nascosta lì, da qualche parte? Forse. E forse avrei dovuto cercare proprio nella casa di Howth. Boland mi fornì due nomi. Il primo era Paul Vaughan, il figlio di un famoso regista teatrale di Dublino. Era stato il ragazzo di Alice, durante il periodo londinese del fratello. Si era persino trasferito dai Berg, dopo la scomparsa della vecchia zia e dopo il ritorno di Felix. Ed era rimasto con loro per un anno e mezzo; poi la relazione si era interrotta. Tre anni più tardi era rimasto ucciso in un incidente stradale, in sella alla sua motocicletta: aveva preso una curva a una velocità eccessiva. Secondo i rapporti risalenti all'epoca dell'accaduto, il suo corpo era così straziato che l'identificazione era stata possibile solo grazie alla patente e agli abiti che indossava. Il secondo era Paddy Nye, un altro fotografo, il cui talento, secondo l'opinione unanime del pubblico, non si avvicinava nemmeno lontanamente a quello di Felix. Non aveva mai avuto il suo successo. Boland non era riuscito a trovare nessun elenco relativo a eventuali mostre delle sue opere. Il motivo della sua permanenza nella casa di Howth non era affatto chiaro. In ogni caso, non era durata molto, tre mesi al massimo. In seguito aveva aperto uno studio suo, per un certo periodo, e aveva lavorato per diverse riviste. Per lo più, era riuscito a tirare avanti grazie agli incarichi passatigli dall'amico. Aveva pubblicato un solo libro, autofinanziato: fotografie in bianco e nero di Ireland's Eye, l'isoletta disabitata a circa ottocento metri dalla costa che avevo intravisto, giù al faro, la sera in cui morì Felix. Si era sposato. Lui e la moglie avevano un negozio di attrezzature fotografiche... indovinate dove? A Howth, naturalmente. «Sembra che non abbia mantenuto i contatti con i Berg, negli ultimi an-
ni», osservò Boland. «Ho controllato la lista delle persone presenti al funerale, pubblicata questa mattina dai giornali: lui non c'era.» «A meno che non si sia presentato sotto falso nome.» Howth. Promettente, come punto di partenza. Tutte le strade sembravano portare lì, da quando Felix mi aveva convinto ad andarci, la sera della sua morte. Forse aveva cercato di dirmi che quel posto aveva un significato particolare? Voleva farmi vedere qualcosa? «E c'è dell'altro», aggiunse prima che me ne andassi. Mi mostrò il dossier che aveva trovato in archivio. Una ragazzina di quindici anni, Lucy Toner, era sparita dalla casa in cui viveva, a Howth, durante un torrido mese d'agosto, proprio nel periodo in cui i Berg abitavano lì. Inizialmente, la polizia aveva ritenuto che si trattasse dell'ennesimo caso di scomparsa; aveva persino detto alla famiglia che poteva essere fuggita di casa. Fu soltanto quando, tre giorni dopo, sorpresero un cane a scavare furiosamente in fondo al giardino di Lucy che compresero che la verità era più vicina di quanto pensassero. La ragazzina era stata violentata e strangolata. Il decesso, però, era avvenuto per asfissia: la terra che aveva ingoiato aveva ostruito le vie respiratorie. Un bel modo di morire. «E questo dove accadde?» gli chiesi. «Vicino alla casa dei Berg. Proprio dietro l'angolo.» «E non venne arrestato nessuno?» «Oh, sì. Un tizio di nome Isaac Little. Era - mi correggo, è - un pedofilo che all'epoca era appena uscito di prigione, dopo aver scontato una condanna per aver molestato delle ragazzine. Viveva tre case più giù. Perquisendo la sua abitazione, la polizia scoprì che aveva allestito una tana al secondo piano, per guardare indisturbato i bambini nel parco giochi vicino. Si rinchiudeva lì dentro e 'giocava' da solo, osservandoli. C'erano macchie ovunque. Sul tappeto, sulle pareti, sui mobili...» «Ok, basta così. Il quadro è chiaro. Che cosa gli successe?» «Alla fine, confessò. Ma ritrattò il giorno prima di comparire in tribunale. Da allora, si proclama innocente.» «E che cosa mi dice dalla famiglia di Lucy Toner? Vivono ancora nella zona?» «No. In effetti, la faccenda è piuttosto intricata. I suoi avevano una specie di negozio di generi alimentari e di consumo, vicino al mare. Il padre
era un musicista, morì di cancro un anno prima dell'omicidio della figlia. La madre entrava e usciva da istituti di igiene mentale, e quella tragedia la fece crollare del tutto. Si gettò in mare un paio di giorni prima dell'avvio del processo a Little. Niente meno che dal molo di Howth.» «Il suicidio dev'essere una tradizione, da quelle parti.» «La sorella minore di Lucy ebbe un crollo e venne ricoverata in un ospedale psichiatrico. Del fratello più grande si persero le tracce.» Le solite, tristi conseguenze di un assassinio insensato. L'avevo già visto un migliaio di volte. Ma tutto questo aveva qualcosa a che fare con quanto stava accadendo adesso? Forse Felix sospettava che Little fosse davvero innocente? E che il responsabile fosse qualcuno che, all'epoca, viveva con lui e la sorella? Era questo il significato di quella misteriosa affermazione? Aveva detto di aver diviso la casa con un assassino... Se era davvero così, non ci voleva un genio per capire da dove avrei dovuto cominciare. A parte Alice, soltanto un membro di quell'allegra famiglia allargata era ancora tra noi. 27 Decisi di prendere il treno, anziché la jeep. Ultimamente la lasciavo quasi sempre nel parcheggio. Le strade, in quei giorni, erano incredibilmente trafficate. La situazione era davvero peggiorata o il mio livello di tolleranza si era abbassato? Tutto quello che so è che, quando giunsi al porto, i miei nervi erano talmente tesi che un'eventuale raffica di vento sarebbe riuscita a spezzarmi, come un filo d'erba ghiacciato. Arrivai alla stazione giusto in tempo per prendere il primo treno diretto a nord; tirai fuori gli spiccioli per il biglietto e salii le scale, scontrandomi con la massa di gente che veniva in senso opposto. Quando misi il piede sull'ultimo gradino, fui avvolta da una folata d'aria calda. Trovai subito il mio treno; infilai la prima porta e occupai un posto accanto al finestrino. Mi sistemai per il viaggio; guardavo fuori, attraverso i vetri sporchi, ignorando gli altri passeggeri. Volevo pensare. E, comunque, se c'era una cosa che detestavo era attaccare bottone con un estraneo. Quando sentivano il mio accento, immancabilmente volevano sapere qualcosa di più sul mio conto: da dove venivo, che cosa facevo a Dublino... E quest'ultima era una domanda a cui non avrei saputo rispondere.
La gente è curiosa, è questo il problema. E io non ho alcuna voglia di soddisfare tale curiosità. Perché si interessano tanto alla mia vita, quando non la trovo interessante neppure io? Il treno attraversò lentamente la città e, finalmente, si lasciò alle spalle i suoi sobborghi, giungendo in vista del mare. E vidi l'acqua grigia infrangersi indifferente contro la costa, dove Dublino veniva a bagnarsi i piedi. La luce sul mare era metallica, per nulla invitante. Il treno si fermò. Eravamo al capolinea. Howth. Scesi e iniziai a camminare lungo la strada che costeggiava il porto. Avevo già percorso diversi metri, quando mi resi conto che non avevo la minima idea di dove stessi andando. Stavo pensando all'ultima volta in cui ero stata lì, la sera in cui era morto Felix. Scossi la testa e cercai di concentrarmi. Presi il pezzetto di carta su cui mi ero scritta l'indirizzo passatomi da Boland, e mi guardai intorno in cerca di una piantina. La trovai vicino alla capitaneria di porto. Era una di quelle mappe pensate per indicare ai turisti dove si trovano le attrazioni in cui preferiscono spendere il loro denaro. Ma, se non altro, riportava i nomi delle strade, e mi permise di farmi un'idea approssimativa della direzione che avrei dovuto prendere. Da qualche parte, in una di quelle strette viuzze, avrei trovato Paddy Nye. Attraversai e mi incamminai lungo una strada in salita. Non impiegai molto a scovare il posto che stavo cercando; in effetti, a un occhio distratto sarebbe facilmente sfuggito. Nye Photographics, recitava l'insegna; in vetrina erano sistemate diverse macchine fotografiche e, dietro, una serie di foto in technicolor che ritraevano bambini senza denti. Spinsi la porta ed entrai, facendo suonare un campanello. C'era una donna, in piedi dietro al bancone. Piccola, graziosa. La moglie, presumibilmente. Mi sorrise, ma cambiò subito espressione quando realizzò che non ero lì per comprare. «Vuole parlare con Paddy?» mi chiese con un sospiro. «Bene. Aspetti qui.» Se ne andò, uscendo da una porta sul retro. Sentii i suoi passi che si allontanavano lungo un corridoio. Ero rimasta sola, sentivo il ticchettio di un orologio che non riuscivo a vedere, e il mormorio di due voci, lievemente più alte del normale. Le macchine fotografiche mi osservavano, da dietro il
vetro. Tornò qualche istante dopo. Con lei c'era anche Paddy Nye. Almeno, presumevo che fosse lui. Alto, capelli ricci; aveva un aspetto sano, vigoroso, sembrava il tipo a cui piace fare escursioni a piedi. Indossava una camicia a scacchi e un paio di jeans, stretti in vita da una cintura. Mi guardò, con scarso interesse. «Posso aiutarla?» «Questa è una domanda a cui soltanto lei può rispondere. Mi chiamo Saxon», dissi. «Se è qui per vendere qualcosa...» «No, niente del genere. Voglio parlarle di Felix Berg.» Quando mi rispose, la sua voce non tradì alcuna emozione. «Non ho niente da dire, al riguardo.» «No? Nonostante sia morto giù al molo, più o meno una settimana fa?» «E io che cosa c'entro con tutto questo? Io e Felix abbiamo perso i contatti molto tempo fa.» «Non le interessa quello che gli è successo?» «In effetti, no. Dovrebbe?» «Eravate amici.» «E, come le ho appena detto, è stato tanto tempo fa.» Mosse gli occhi, guardando oltre la mia spalla: davanti alla vetrina c'era un uomo, la mano diretta verso la maniglia. Dunque avevano qualche cliente. Nye scambiò un'occhiata con la donna, poi, rivolgendosi a me, disse: «Venga. Parleremo più liberamente qui fuori». Uscimmo dalla porta sul retro, e percorremmo uno stretto corridoio rivestito di piastrelle, dal quale si accedeva al giardino. Davanti a noi c'era il mare; lontano dalla costa, l'acqua si tingeva di un blu abbagliante, screziato di bianco; il porto e le barche sembravano giocattoli. In fondo, la sagoma di Ireland's Eye si profilava chiara e luminosa. C'erano un paio di sedie. Evidentemente, prima che lo facessi chiamare era seduto qui, a leggere. Accanto alla sedia, appoggiata sulle lastre di pietra, c'era una tazza di caffè; riuscivo a sentirne il calore. E c'era anche un libro, aperto. Non mi invitò ad accomodarmi. «Una vista magnifica», dissi. «Sono felice che le piaccia.» «Quella laggiù è Ireland's Eye, dico bene?»
Si voltò a guardarla, brevemente. Con quella luce sembrava vicinissima, avevi quasi l'impressione di raggiungerla tirando un sasso. «Ho cercato di procurarmi una copia del suo libro», mentii, «ma...» Non finii la frase. «Non ha avuto molto successo.» «Le piace quell'isola?» Annuì. «È l'unica cosa che mi impedisce di andarmene da questo posto. Se non fosse per Ireland's Eye, sarei partito tanto tempo fa.» «Per lei deve significare molto.» «Non solo per me. Per mia moglie è lo stesso», disse indicando la casa con un cenno. «È un angolo selvaggio ai margini della città. Un luogo in cui rifugiarsi per sfuggire al caos. Se fosse appena più vicina, non sarebbe più un'isola... eppure, quando sei laggiù, hai l'impressione di trovarti a migliaia di chilometri dalla civiltà. Se per civiltà intendiamo la vita cittadina. Mi piace quel contrasto. E mi piace il fatto che sia lì, e che aspetti soltanto di essere esplorata. La senti tua, anche se appartiene a tutti. Noi abbiamo una barca. Ci andiamo spesso. A volte ci fermiamo anche per la notte.» Smise di parlare. Sembrava quasi imbarazzato. «Come ha detto che si chiama?» «Saxon.» «Bene, Saxon, non voglio essere scortese, ma non m'interessa proprio venire coinvolto in qualcosa che ha a che fare con Felix Berg. Molto tempo fa eravamo amici. Ma è un periodo della mia vita che preferirei dimenticare.» «Non è mia intenzione causarle problemi. È solo che la sorella di Felix mi ha chiesto di scoprire il motivo che può averlo spinto a suicidarsi. Ho scoperto che eravate amici, e che per un periodo siete vissuti nella stessa casa, qui a Howth, alcuni anni fa. E pensavo che, forse...» «Che potrei sapere qualcosa riguardo alla sua vita? Non lo vedevo da dieci anni. Forse anche di più. Di persona, intendo. Mi è capitato di vederlo in foto.» «Non vi siete tenuti in contatto?» «Io non sono rimasto in contatto con lui. Lui, però, è rimasto in contatto con me. Se così si può dire...» «Come?» Rise. Una risata breve, imbarazzata. «Per anni, dopo essere uscito dalla sua cerchia, ho continuato a ricevere della roba: cataloghi delle sue ultime mostre, ritagli di giornale in cui si
parlava dei suoi successi, fotografie che lo ritraevano con personaggi importanti, in occasione di qualche evento mondano...» «E lei crede che il mittente fosse lui?» «Lo so. Era nel suo stile. Gli piaceva far sentire piccole le persone, ricordare loro che non avevano il suo talento, il suo successo. Le umiliava. Ed è esattamente quello che ha provato a fare con me, spedendomi quella merda. Voleva distruggere la fiducia che avevo in me stesso. Anche quando ho pubblicato il mio primo e, finora, unico libro di fotografie, mi ha inviato la copia di una recensione negativa, apparsa in una rivista d'arte. Nel caso non l'avessi letta.» «Non l'ha mai affrontato?» «E a che scopo? A Felix piaceva giocare. E gli piaceva essere crudele. Se avesse scoperto che stava riuscendo nel suo intento, sarebbe stato peggio. La cosa migliore da fare era starsene tranquilli, e aspettare, sperando che si stancasse, e che smettesse di sua iniziativa.» «E lo fece? Si fermò?» «Non completamente. Non ricevevo più i suoi messaggi settimanalmente, ma continuavano comunque ad arrivare. Avevo imparato a distinguere i suoi pacchi, e li gettavo nella spazzatura senza nemmeno aprirli.» «Per questo non era al funerale?» «Che cosa le fa credere che avessi ricevuto un invito?» «L'ha ricevuto?» «Sì», ammise. «Avevo appreso la notizia dai giornali; subito dopo mi è arrivato un biglietto che mi invitava a partecipare alla cerimonia. Non mi sono nemmeno disturbato a rispondere.» «Non ha sentito il bisogno di parlare con Alice?» Non volevo insinuare nulla, con quella domanda. Ma la sua risposta fu brusca e immediata. «Quindi lei sa di me e di Alice. Bella roba! Ma è una storia vecchia, anche quella. Accadde tutto prima che conoscessi mia moglie. E, comunque, non la vedo da anni.» «Io non stavo cercando di... intende dire che voi due eravate amanti?» «Non è quello a cui voleva arrivare?» «No», gli dissi, in tutta onestà. «Credevo che stesse con Paul Vaughan.» Fece una strana espressione, quasi mi compatisse per la mia ignoranza. «Sì, era la ragazza di Paul. E la mia. E Dio solo sa di chi altro. Ci avrebbe invitati a trasferirci tutti da lei, se avesse avuto abbastanza spazio. Dovevamo attendere il nostro turno. Mi sembra sorpresa. Non si sarà lasciata
ingannare dall'atteggiamento compassato e decoroso che ha assunto adesso, vero? Io me la ricordo bene. Credo che all'epoca si scopasse qualsiasi uomo che avesse anche solo un vago legame con la scena artistica di Dublino. Incluso lo stesso Felix, forse. In effetti, la cosa non mi stupirebbe. Oh, ma vedo che questa non è una novità, per lei.» Era così facile leggermi in viso? «Sembra amareggiato.» «Non finì bene, tra me ed Alice. Io l'amavo. Volevo che fosse mia. Non mi andava giù il fatto che la sua camera da letto fosse più affollata della Grand Central Station all'ora di punta. Alla fine, non riuscii più a sopportarlo. Fui costretto ad andarmene, prima di ridurmi come Paul. Gli faceva fare tutto quello che voleva.» Fissò Ireland's Eye, gli occhi strizzati, la fronte corrugata. .. come se stesse ricordando qualcosa che avrebbe preferito restasse sepolto nel passato. «Ma ancora non capisco che cos'abbia a che fare tutto questo con quanto è accaduto a Felix. Si è suicidato, no? Non so perché l'abbia fatto e, sinceramente, non m'interessa. Non rappresenta più niente, per me.» «La sorella è convinta che sia stato assassinato.» Nye scoppiò a ridere. «Be', è tipico di Alice. È sempre stata portata per il melodramma. Le cose semplici non erano abbastanza, per lei.» «Gina dice la stessa cosa.» «Gina? E chi sarebbe?» «Non ha importanza.» «Quindi... Alice pensa che sia stato io?» E questa da dove gli era uscita? «Non mi ha parlato di lei.» «Davvero?» «Davvero. Non l'ha mai nominata.» Non potrei affermarlo con certezza, ma sembrò quasi deluso. «Allora... come ha saputo di me?» «Stavo facendo qualche ricerca, ed è saltato fuori il suo nome. Sto solo tentando di raccogliere più notizie possibili su Felix, per conoscerlo un po' meglio. E parte del mio lavoro consiste nello scoprire chi ha avuto contatti con lui.» «Non sarà per via di quella storia assurda che raccontava, vero?» «Storia assurda?»
«Sì, Felix diceva che uno di noi era un assassino. Lo ripeteva in continuazione e il risultato fu che cominciammo a guardarci in cagnesco. E la sorella era uguale. Ne aveva un milione, di storielle come quella. Una volta mi disse che qualcuno la pedinava. Dopo un po', imparai a non credere più a quei due. Se davvero c'era un omicida, in quella casa, era uno dei Berg. Non mi stupirei se si venisse a sapere che furono loro a far fuori la vecchia zietta, per poter mettere le mani sull'eredità.» «Io, in realtà, pensavo a Lucy Toner.» «Chi?» chiese stupito. «La ragazzina che viveva dietro l'angolo. Lei fu assassinata.» Annuì. «Sì, adesso ricordo. Se non sbaglio arrestarono un pervertito...» «Già... e lui si proclama innocente.» «Non lo fanno tutti?» Come dargli torto? «Un'altra storia appartenente al passato», disse. «Felix, Alice. E adesso quella ragazzina. Non so che razza di fandonie le abbia raccontato quella donna; comunque, non m'interessa. Mi sono lasciato tutto alle spalle, tanto tempo fa. Questa è la mia vita. Ho il mio negozio. E una moglie, Tricia. Un figlio piccolo. Il resto non conta.» Il suo sguardo tornò all'isola. Sembrava un naufrago che si aggrappava a uno scoglio. E Ireland's Eye brillava misteriosa alla luce radiosa, del tutto indifferente a lui. 28 Lawrence Fisher mi chiamò mentre stavo tornando in città, per chiedermi se ci saremmo visti per cena. «Che cosa è successo a Miranda? Una lite fra innamorati?» «Non ricominciare. E, comunque, ci sarà anche lei», mi disse. «Ah... ho già chiamato Grace, dovrebbe farcela. Allora? Che ne dici?» «Posso forse rifiutare?» Dopotutto, avrei avuto la possibilità di consultare Miranda riguardo a Felix. Decidemmo di trovarci da Nemo's. Non l'avevo mai sentito nominare, ma Fisher mi spiegò come arrivarci. Non aveva idea di quello che avremmo mangiato, dal momento che era stata la dottoressa a prenotare il tavolo, ma nutriva grandi speranze al riguardo. L'appuntamento era per le nove.
Il che mi lasciava un bel po' di tempo per passare da Burke. Mi fermai per strada, per prendere qualche ciambella e due tazze di caffè scadente. «Non hai una casa, Saxon?» «È così che accogli i tuoi clienti?» «Per la maggior parte, sì.» «Non mi meraviglia che tu non riesca a vendere niente.» Gli passai il caffè, a cui lanciò un'occhiataccia, quasi fosse avvelenato. In effetti, dopo averlo assaggiato, mi resi conto che non si era allontanato molto dalla verità. Alle ciambelle riservò un'accoglienza migliore: ne prese una e la divorò in due bocconi. Poi ne prese una seconda, mentre con l'altra mano cercava di spazzare via lo zucchero dai pantaloni. «Sai una cosa? Queste non sono niente male», commentò con la bocca piena. «Sono gratis o vuoi qualcosa in cambio?» «Un libro, tutto qui.» «Allora sei nel posto giusto. Autore?» «Paddy Nye.» «Mai sentito nominare.» «Nemmeno io, prima di stamattina. È un fotografo. Un amico di Felix. Qualche anno fa ha pubblicato un libro su Ireland's Eye. È un'isola», aggiunsi, notando la sua espressione vuota. «So benissimo che cos'è. Ma non credo di avere nulla del genere. Credi forse che tenga una copia di tutte le opere in circolazione? Non ho abbastanza spazio. Di questi tempi, qualsiasi nullità pubblica dei libri. Non posso stare dietro a tutti, la vita è troppo breve.» «Era una raccolta di fotografie.» «Ok, dimmi il titolo, faccio una ricerca al computer. È tutto catalogato lì dentro, da qualche parte. Libri ancora in circolazione, esauriti, richiesti o non richiesti. Se esiste, lo troverò. Lascia fare a queste magiche dita.» Prese la terza ciambella e si diresse verso la sua scrivania. «Eye», gli dissi. «Si intitola così.» «Eye, di Nye... Orecchiabile», commentò, premendo qualche tasto. «Eccolo qua», esclamò, qualche istante dopo. «Pubblicato dieci anni fa, autofinanziato, esaurito da un sacco di tempo. Se vuoi, posso provare a recuperartene una copia, ma potrebbero volerci settimane. Ed è anche piuttosto caro. Sai cosa ti dico? Proprio perché sei tu, non ti addebiterò il costo della ricerca.» «La tua generosità mi commuove.» «Aspetta un momento», aggiunse. «Qui ho un altro titolo... di un certo
P.F. Nye. Sarà la stessa persona? Forse questo ce l'ho.» Si alzò e si diresse verso una parete dall'altra parte del negozio; abbassò gli occhiali a lenti bifocali che teneva sulla testa, per esaminare meglio gli scaffali. «Questa è la sezione dedicata a Dublino: guide della città, mappe, quel genere di cose, insomma», disse, mentre dava un'occhiata. «C'è anche un'intera serie di volumi di storia locale, pubblicata da una compagnia da due soldi, che ha sede qui in città. Secondo il catalogo, uno di essi dovrebbe essere stato scritto da questo P.F. Nye. Dovrei averlo... Ah, eccolo.» Afferrò un libriccino sottile e me lo lanciò. Aveva più l'aria di un pamphlet, in effetti. «Il delitto di Ireland's Eye. Un riesame», lessi ad alta voce. «A che cosa si riferisce?» «Mi dimentico sempre che ci sono molte cose che non sai. A volte mi chiedo perché vivi qui, visto che non hai alcun interesse per questa città.» «La gente di Dublino mi ama tanto da supplicarmi di restare.» «Allora è per questo», disse. Poi indicò il libro. «Si riferisce a un famoso omicidio commesso sull'isola, il secolo scorso. Anzi, dovrei dire due secoli fa, non mi entra proprio in testa. D'altra parte, non posso ricordarmi di tutti i dettagli. Un tizio uccise la moglie; no, forse la polizia lo arrestò, ma lui era innocente. E poi venne impiccato... o rilasciato, non ne sono sicuro.» «Come testimone saresti perfetto.» «Non ho mai detto di essere un esperto», ribatté Burke. «Senti, perché non gli dai un'occhiata e vedi se può esserti di qualche utilità?» Spostai lo sguardo sul libro: una pubblicazione economica, senza pretese. In copertina c'era una stampa a nero di seppia del Diciannovesimo secolo: Ireland's Eye vista da Howth Harbour. Il nome dell'autore era proprio P.F. Nye, ma di lui non si diceva molto. C'era solo una brevissima nota biografica. «L'autore vive a Howth ed è un noto studioso di storia locale.» Davvero? Lo aprii e cominciai a leggere, mentre fuori il traffico scorreva lento, e i clienti entravano e uscivano dal negozio; parlavano sottovoce, come spesso accade nelle librerie. Il pamphlet riportava la storia di una giovane donna trovata morta in un'area di Ireland's Eye, nota come Long Hole. Era il 1857. Il cadavere era adagiato su un lenzuolo: il petto era squarciato da un taglio, un rivolo di sangue fuoriusciva dalle orecchie. Inizialmente, si pensò che fosse annegata; in tutta onestà, mi riusciva difficile capire come potessero essere giunti
a un simile verdetto, dal momento che il decesso per annegamento è molto difficile da individuare, persino ai giorni nostri. Soltanto in un secondo momento il marito era stato arrestato con l'accusa di averla strangolata. Fu riconosciuto colpevole e condannato all'ergastolo. Uscì vent'anni dopo. Succede spesso agli assassini, in questa parte del mondo. Da allora, l'omicidio era diventato una sorta di caso celebre tra gli storici locali, la maggior parte dei quali sembrava pensare che la donna fosse semplicemente annegata, e che il marito fosse stato vittima di un errore giudiziario. Nye era dello stesso parere, anche se, dal mio punto di vista, una simile teoria non spiegava in che modo il cadavere fosse finito su un lenzuolo, adagiato con cura. Il mare non ha l'abitudine di ricomporre le sue vittime. In ogni caso, ormai non aveva più alcuna importanza. Quello che m'incuriosiva, piuttosto, era l'interesse di Nye nei confronti degli errori giudiziari. Forse era legato in qualche modo alla condanna di Isaac Little? Mentre ero lì, seduta, mi resi conto che volevo parlare con questo tizio; e per farlo avrei dovuto tirare di nuovo in ballo Boland, sopprimendo il senso di colpa che provavo per un simile sfruttamento. Forse, muovendo qualche filo, sarebbe riuscito a farmi ottenere un pass per Mountjoy. E io avrei incontrato uno dei figli di Howth... di certo non il prediletto. Stavo per infilare una mano in tasca per prendere il cellulare, quando provai quella sensazione indefinita e inspiegabile che avverti quando sai di essere osservata. Probabilmente era solo quel dannatissimo gatto, pensai, alzando gli occhi. Invece, il mio sguardo incrociò quello di un uomo, fermo in un angolo in fondo al negozio. Il corpo era rivolto verso uno scaffale di libri, uno dei quali era aperto, nelle sue mani. Le dita erano sospese, e una pagina era rimasta sollevata, come se avesse iniziato a voltarla e se ne fosse dimenticato. Il viso era girato nella mia direzione. Rimase alquanto sorpreso quando sollevai lo sguardo, facendogli capire che l'avevo notato. Per un istante, non riuscì nemmeno a guardare altrove; e, quando lo fece, fu solo per lanciarmi un'occhiata furtiva subito dopo. Mi chiesi da quanto tempo mi stesse osservando. Era alto e indossava un abito elegante, gessato, e un paio di scarpe lucide. Teneva un soprabito ripiegato sul braccio. Aveva i capelli corti. E ai suoi piedi c'era una valigetta. Al collo, una cravatta perfettamente annodata. Se mi fossi avvicinata abbastanza da vedergli le mani, probabilmente
avrei notato anche le unghie ben tenute e curate. Non mi sembrava il tipo che veniva a curiosare in una libreria dalle pretese rivoluzionarie come quella di Burke, e forse questo contribuiva a giustificare il suo imbarazzo mentre se ne stava lì, in piedi. Oppure, si era semplicemente accorto che adesso ero io a fissarlo. Il viso era immobile, l'espressione non era cambiata, sembrava quasi che stesse disperatamente cercando di non far trapelare nulla... come se stesse contando i secondi che lo separavano dal momento in cui avrebbe potuto chiudere il libro, riporlo sullo scaffale e andarsene. Com'era prevedibile, un momento dopo richiuse il volume; ma non lo rimise al suo posto. Si chinò per prendere la ventiquattrore e si avviò al bancone, dove Burke stava cercando di mettere un po' d'ordine tra le fatture mensili con l'aiuto di una minuscola calcolatrice; era ridicolo, mentre con quelle dita grassocce cercava di pigiare un solo tasto alla volta. Prese il libro dalle mani del tizio con il completo gessato e sollevò la copertina per controllare il prezzo. Quindi lo infilò in un sacchetto di carta, prese la banconota dell'uomo e gli diede il resto. Per tutto il tempo, rimasi in attesa dell'occhiata successiva. Allora? Niente. L'estraneo evitò di sollevare lo sguardo, anche quando passò accanto alla mia sedia. Aprì la porta e se ne andò. Mi alzai in piedi e attraversai la stanza, diretta verso la vetrina. Guardai la sua schiena, mentre si allontanava lungo il molo: andava in città. Se adesso si volta a guardarmi, pensai, significa che avevo ragione. Sì. Proprio quando stava per scomparire tra la folla, si girò: fissò la vetrina della libreria. E me. I nostri occhi si incontrarono. Poi sparì. Dunque, avevo visto giusto. Già... ma a che proposito? Forse, dopotutto, quello che era accaduto lì dentro significava qualcosa. «Cos'è, adesso ti sei messa a spiare i miei clienti?» fece Burke, alle mie spalle. «Mi stava osservando», risposi, continuando a tenere d'occhio la strada, nel caso fosse tornato indietro. «Osservare non è un crimine. E tu offri una bella visuale. Adesso un uomo non può nemmeno guardare una donna, senza essere considerato un possibile stupratore? Lui non può sapere che sei dell'altra sponda.»
«Non mi riferivo a una comune occhiata.» «E a cosa, allora?» «Non lo so.» Per una volta, dicevo sul serio, non era un semplice tentativo di scoraggiare ulteriori domande. Forse non avrei reagito in quel modo, se la sera prima qualcuno non mi avesse messo a soqquadro l'appartamento. Però era successo. Ed era un fatto che non potevo cambiare e che, per un po', avrebbe influenzato il mio modo di vedere le cose, rendendomi più che mai sospettosa. «Hai idea di chi sia quell'uomo?» chiesi a Burke, mentre tornavo verso il bancone, pensierosa, e vi appoggiavo il pamphlet di Nye. «Mai visto prima. Ma ha acquistato un libro, così, in nome della fratellanza internazionale, sono disposto a concedergli il beneficio del dubbio.» «E questa da dove ti è uscita? Fratellanza internazionale?...» «Ha preso una copia del Grundrisse.» «Puoi ripetere?» «Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica.» «Dacci un taglio e spiegami di che cosa diavolo stai parlando.» «Karl Marx, sorella. Ha comprato un libro di Karl Marx.» «E capita spesso che un tizio in completo gessato venga qui a comprare un testo di Marx?» «Più spesso di quanto potresti pensare. Grazie alla posizione che occupano, riescono a vedere il sistema dall'interno. E sanno che puzza.» «Qualcosa che puzza c'è di sicuro.» 29 Miranda Gray. Era come me l'ero aspettata? Difficile a dirsi. In effetti, non mi ero fatta nessuna idea, al riguardo. Alta, distinta, i capelli lunghi e rossi. Indossava vestiti costosi, ma non lo dava a vedere; la classica donna che sa sempre che cosa mettersi per essere perfetta, dando l'impressione di non preoccuparsene affatto. La classica donna accanto alla quale mi sentivo sempre vagamente inadeguata, come se fosse a conoscenza di un segreto che nessuno mi aveva rivelato. Io, invece, mi mettevo la prima cosa che trovavo nell'armadio. E si vedeva. Grace me lo faceva notare spesso, per prendermi in giro. «Dov'è Grace?» mi chiese Fisher, quando ci incontrammo davanti all'ingresso.
«Qualcuno si è introdotto in obitorio.» Un'altra effrazione. Ero paranoica a pensare che i vari episodi fossero collegati? «Probabilmente è stato solo un gruppo di ragazzini», gli spiegai. «Forse cercavano qualche sostanza stupefacente. Ma il posto è un disastro, sembra che abbiano messo tutto sottosopra. I risultati delle autopsie sono sparsi ovunque. Il medico legale è agitatissimo. Grace è dovuta andare là, per assicurarsi che non manchi niente di importante.» «Quanto le ci vorrà?» «Forse anche tutta la notte, a giudicare da quello che ho sentito.» «Un tavolo per tre, allora», concluse Lawrence. Niente Fitzgerald, dunque; e, come se non bastasse, Miranda sembrava uscita da una commedia sofisticata alla Noel Coward. Ero alquanto diffidente, riguardo all'andamento della serata. Mi ci volle un po', prima di riuscire a parlare senza problemi con la dottoressa. Inizialmente, lasciai fare a Fisher: era molto bravo a mettere le persone a proprio agio, forse per merito delle ore trascorse in compagnia di qualche psicopatico. Era una qualità di cui non potevi fare a meno, quando avevi a che fare con certa gente... se non volevi correre il rischio di essere portato via in una sacca per cadaveri. Mentre parlavano, studiai attentamente il menu. Pesce, pesce e ancora pesce. Oh, e cos'era questo? Non mi dire... pesce! Dovevo ammetterlo, denotava una certa coerenza. Una volta fatte le ordinazioni, l'imbarazzo cessò. Miranda si rivelò una donna molto gradevole. La mia preoccupazione maggiore era stata quella di dovermi sorbire interminabili discorsi di lavoro fra psicologi, o, peggio, una conversazione tra amici che parlavano di persone che per me non significavano nulla. Ma Miranda sembrava voler discutere soltanto di Alice. «Fisher mi ha detto che le ha chiesto di indagare sulla morte del fratello», esordì. «Non la metterei proprio così. Ho le mie ragioni per interessarmi a questa faccenda.» «Così mi incuriosisce.» «Forse anche la mia è soltanto curiosità.» Di certo non avevo nessuna intenzione di parlarle di Sydney. Fisher non poteva averle raccontato nulla... o forse sì? «A quanto pare, non ho niente di meglio da fare, per impiegare il mio tempo.»
«La sua vita è diventata monotona, dopo che ha lasciato l'FBI?» «Era l'unica cosa in cui fossi davvero brava. Ma a un certo punto non ce la feci più, e dovetti mollare. Mi sarei dovuta prendere sei mesi, un anno, e poi tornare. Invece scrissi un libro e tagliai tutti i ponti, per essere sicura che non potessero riprendermi.» «È un'abitudine, per lei?» «Intende quella di distruggere ciò che mi lascio alle spalle? Può scommetterci. Ma non è una cosa a cui penso spesso. E, di sicuro, non mi va di parlarne con una psicologa.» «Saxon è contraria alla terapia», le spiegò Fisher. «Già», ammisi. «Forse è per indulgenza verso me stessa. Voglio dire, non le capita mai di annoiarsi, ascoltando in continuazione i problemi degli altri? La mancanza di affetto da parte della madre, il senso di fallimento... Per non parlare dell'interpretazione dei sogni.» «Non è così male», disse ridendo. «Non sempre sono così prevedibili. Le persone e i sogni, intendo. E poi, ci sono anche un paio di benefici addizionali.» «Come la paga, per esempio», borbottò Fisher. «Se ripenso a tutti quegli anni passati in carcere, a lavorare sedici ore al giorno come uno schiavo, per uno stipendio da fame quando, invece, mi sarei potuto rimpinzare occupandomi delle fissazioni freudiane di qualche ricco narcisista che ha bisogno di fingere di vivere un dramma personale... Certa gente dovrebbe trovarsi un lavoro, così non avrebbe tempo per queste cose.» «Fisher, inizi a parlare come me», gli feci notare. «Non si preoccupi per lui», intervenne Miranda, in un tono dolce e scherzoso. «È una disgrazia, per la sua professione. E credo che ne vada fiero, ogni tanto. Comunque, non credo che in quegli anni tu abbia sofferto la fame, Lawrence. Almeno a giudicare dal tuo giro vita.» Gli sorrise, benevola. Poi allungò un braccio e gli strinse la mano. Si scambiarono una breve occhiata, e io non potei fare a meno di chiedermi se tra loro fosse davvero finita, come sosteneva Fisher. Era già abbastanza strano sentirlo chiamare per nome... «Le dispiace se le faccio una domanda?» le chiesi. «Spari.» «Chi dei due fratelli venne da lei per primo?» «Alice. La conobbi anni fa, quando vivevo a Howth.» «Anche lei è di Howth?» «Non sono nata lì. I miei sono di Londra, ci trasferimmo qui quando ero
ancora una ragazzina. Abitavamo a Howth, vicino alla casa dei Berg, proprio dietro l'angolo. Ma me n'ero già andata da diversi anni, quando iniziai a vederla in qualità di terapista. E Felix si rivolse a me soltanto un anno più tardi. Ci volle diverso tempo, prima che cominciasse a rilassarsi e ad aprirsi, e a ricavare qualche beneficio dalle sedute.» «Fu la sorella a persuaderlo?» «L'impressione era quella. Alice crede profondamente nella psicanalisi. Legge tutti i libri giusti, fa le domande giuste... Direi che mi dà un bel da fare.» «Un lavoro duro.» «Sì, più che con altri pazienti. È davvero intelligente. Molto più di Felix, penso. Ma, forse, non dovrei dirlo. Lui era intuitivo, creativo, abile nel pensiero laterale. Alice, invece, ha una visione più chiusa, e profondamente intellettuale. È una donna formidabile.» «Avevano una relazione sessuale?» Andai dritta al punto. «Vuoi sapere se andavano a letto insieme?» intervenne Fisher. La mia domanda l'aveva scioccato, povero caro. «Non fare l'ingenuo», gli dissi. «Succede più spesso di quanto tu non creda.» «Non nella mia famiglia», rispose. «Del resto, non hai visto mia sorella. Piuttosto, divento gay. Senza offesa», si affrettò ad aggiungere. «Tranquillo. Allora?» invitai Miranda. «Mi dispiace. Non credo che sarebbe corretto affrontare tale argomento.» «L'etica professionale è un concetto nuovo, per Saxon», le spiegò Fisher. «Devi darle il tempo di abituarsi alla novità. Ma, anche ammesso che andassero a letto insieme», proseguì, fingendo di rabbrividire al solo pensiero, «che cos'ha a che fare questo 'dettaglio' con i dubbi intorno alla morte di Berg?» «È solo una riflessione. Poniamo che i due avessero una relazione. Forse, per Alice sarebbe più difficile accettare l'idea del suicidio. La rabbia, l'amarezza e la gelosia potrebbero spingerla a cercare un altro responsabile, per alleviare il suo senso di colpa per non essersi resa conto della situazione.» «Niente male», osservò Fisher. «Dovresti fare la psicanalista.» «La prenderò come un'offesa, anche se immagino che per te non lo sia.» «Riesco a vedere dove vuole arrivare», disse Miranda. «Una teoria affascinante. Ma...»
«...non può divulgare i dettagli relativi ai suoi clienti, giusto? Capisco.» No, in realtà non capivo affatto. Risolvere il mistero della morte di Felix era più importante del rispetto del segreto professionale, no? D'altra parte, poteva essere sconveniente, per una terapista, parlare delle complicazioni sessuali dei suoi pazienti a cena. Avrebbe potuto nuocere alla sua attività. «Crede che Alice potrebbe arrivare a uccidersi?» «No, non direi. Non mostra i caratteristici segni premonitori. È una donna dura. Ma non si può mai sapere. Felix aveva una personalità fragile, non era stato difficile capirlo. Era sull'orlo di una crisi. Comunque non mi sarei comunque aspettata che arrivasse a togliersi la vita. È sempre uno choc, quando un tuo paziente si suicida. È un po' come prendere uno schiaffo, è come se ti dicesse che non sei in grado di aiutarlo.» «Per questo è andata da Gina? Per trovare delle risposte?» Bevve un sorso di vino, prima di rispondermi. Sembrava pensierosa. «Tenga presente una cosa: Felix faceva due sedute la settimana, della durata di un'ora ciascuna. Che cosa sapevo, veramente, di lui? Se volevo capire che cos'era successo, dovevo parlare con le persone che gli erano state vicine. Scoprire che libri leggeva, quali film guardava, conoscere le sue storielle preferite. E avevo bisogno di sapere con chi andava a letto.» «Il che ci riporta alla sorella...» Sorrise. «Ci risiamo: sta di nuovo provando a farmi rivelare qualche indiscrezione, vero?» «Voi psicanalisti non spiattellate mai qualche aneddoto sui vostri pazienti?» «Solo tra colleghi. Così teniamo la follia in famiglia.» Scoppiarono a ridere tutti e due, da buoni amici. Mi sentii esclusa. La stessa sensazione che provavo nei confronti dei colleghi di Grace. Ti sembra sempre di essere fuori posto; proprio come mi aveva detto Felix quella sera, al telefono. Lo spettro che disturba la festa. Decisi di provare una tattica diversa, per evitare di annegare nell'autocommiserazione. «Disse ad Alice che il fratello le aveva confidato di essere l'Uomo di Marx?» le chiesi. «Fisher! Gliel'hai detto?» «Mi dispiace.» Era imbarazzato quanto un ragazzino sorpreso a rubare le caramelle. «E tu che facevi la predica a Saxon, riguardo all'etica professionale. ..
Dovresti ripassarti qualche principio. E non disturbarti a fornirmi una giustificazione.» «Non avevo alcuna intenzione di farlo. Lasciami soltanto aggiungere che l'ho detto a lei e al sovrintendente capo Fitzgerald, in buona fede. Anche loro vogliono sapere che cosa è successo.» «Oh, be'. Comunque non m'importa», disse Miranda, tranquilla. «I segreti possono consumarti, e io non ho alcuna voglia di custodire il suo. E poi, Saxon, se Lawrence le ha raccontato quell'episodio, le avrà anche detto che io, all'epoca, condussi una piccola indagine per conto mio, e scoprii che non poteva trattarsi di lui.» «E lo disse a Felix?» «No. Non potevo. Doveva aver avuto le sue buone ragioni, per confidarmi una cosa tanto bizzarra. Pressarlo poteva essere controproducente. Decisi di aspettare che fosse lui a parlarne, quando si fosse sentito pronto. Ma non tornò più sull'argomento.» «Non le confessò nient'altro?» «Qualche altro omicidio, intende? Assolutamente no. Perché avrebbe dovuto?» «Una persona incline ad autoaccusarsi di crimini che non ha commesso, probabilmente fabbricherà anche confessioni fasulle.» «Capisco quello che intende. Nel caso di Felix, però, lo escludo.» «Una serie di delitti è sufficiente per chiunque», commentò Fisher. «E non disse nulla ad Alice?» «Certo che no. Una volta mi trovavo in centro a fare spese, e la vidi seduta al tavolo di un caffè. Andai a salutarla. Stava leggendo un articolo sull'Uomo di Marx, e scambiammo quattro chiacchiere sul caso. Le solite cose, sapete: quanto fosse orribile quello che stava accadendo, come nessuno potesse ritenersi al sicuro... Io cercai di adottare un tono casuale, come se a spingermi fosse soltanto la curiosità. Le dissi che Felix me ne aveva parlato, e lei mi confermò che ne era ossessionato.» «Ma tu continuasti a credere che non fosse coinvolto», intervenne Fisher. «Te l'ho detto. Sapevo che aveva un alibi per almeno uno degli omicidi. Fu la stessa Alice a dirmi che il fratello si trovava all'estero, all'epoca del primo delitto. Alla fine, decisi che la sua ossessione non era provocata dal senso di colpa, ma da qualcos'altro. Avete visto le sue opere. La dislocazione, la percezione delle persone come appartenenti a una massa indifferenziata, l'orrore davanti alla mancanza di individualità nella società
moderna. Un cacciatore come l'Uomo di Marx -perdonatemi il gergo, ma ho fatto qualche lettura di approfondimento, nel mio tempo libero - ha la stessa visione degli esseri umani. Conclusi che, probabilmente, Felix aveva percepito una sorta di affinità filosofica, voleva esplorarla, voleva sapere come mai, mentre lui aveva scelto di esprimere artisticamente tale alienazione, un'altra persona si era trasformata in un serial killer. Ma le mie sono solo speculazioni. Gli psicanalisti sono spesso accusati di perdersi nei dettagli, di voler vedere significati anche dietro le cose più semplici... e di pensare che queste ultime rimandino sempre a qualcos'altro. È possibile che l'interesse di Felix derivasse soltanto dall'enorme spazio che televisione e giornali dedicarono, e continuano a dedicare, all'Uomo di Marx. È un bombardamento continuo di notizie.» «Dunque è questo che pensa, adesso?» «No. Non più. Credo che sapesse davvero qualcosa, e che stesse cercando di condividere con me quelle informazioni. Voleva che andassi più a fondo, ma io non lo feci. Probabilmente, scambiò il mio distacco professionale per disinteresse. Ho tradito la sua fiducia.» «Alice si accusa della stessa cosa», le dissi. Miranda tacque. Riprendemmo a mangiare. Poco dopo, si alzò per andare alla toilette. «Che ne pensi?» mi chiese Fisher, mentre la guardavamo serpeggiare fra i tavoli, diretta verso la porta. «Penso che insieme facciate una bella coppia.» «Per una volta sii seria, Saxon.» «Ma lo sono. Se Laura vi vedesse in questo momento, inizierebbe a preoccuparsi.» Non obiettò. Tutto quello che disse fu: «Devo continuare a rammentarti che la nostra è una relazione puramente platonica?» «Devo essere franca? Ho paura di sì, Fisher.» 30 Mentre raggiungevo la mia auto, dopo essere uscita dal ristorante, chiamai Grace al Dublin Castle. Non l'avevo più sentita dopo la sua telefonata per avvertirmi che non si sarebbe unita a noi. Sei squilli. Poi, qualcuno sollevò la cornetta. «Non hai ancora finito?» dissi. Ma a rispondermi fu Boland.
«Saxon, è lei? Ho provato a contattarla. Ho pensato che avrebbe voluto sapere...» C'era qualcosa nella sua voce... una punta di panico. Il sangue mi si ghiacciò nelle vene. «Boland, cosa c'è? Cos'è successo?» «Non lo sa? L'Uomo di Marx ha colpito ancora.» «Cosa? Dov'è Grace?» «In ospedale.» Forse il mio cervello aveva qualche problema: quello che mi stava dicendo sembrava non avere alcun senso. Avevano sparato a Grace? Riuscii a strappargli che si trovava al St. James's, prima di dirgli che mi sarei precipitata sul posto. «Ma, Saxon...» Impaziente, riattaccai. Non avevo tempo da perdere. Dovevo andare da lei, e in fretta. Feci di corsa i pochi passi che mi separavano dalla jeep, saltai al volante e, in retromarcia, mi immisi sulla strada, ignorando le furiose proteste degli altri automobilisti. Passai con il rosso il primo semaforo e mi diressi a tutta birra verso l'ospedale. Il St. James's era un enorme edificio vittoriano vicino al fiume, e ospitava il pronto soccorso più grande di Dublino. Non c'ero mai stata prima, ma sapevo che davanti c'era un ampio parcheggio, e che la strada per arrivarci era costeggiata da una lunga fila di auto posteggiate una dietro l'altra, quasi fossero incollate. Dovevo andare piano, per evitare di mettere sotto qualcuno. E la cosa mi rese ancora più ansiosa. Se le fosse successo qualcosa... Tutto quello a cui riuscivo a pensare era la frase che le avevo detto quella mattina: che stava incominciando a parlare come Draker. L'intenzione era stata quella di ferirla, e c'ero riuscita. Adesso, mi sembrava una cosa talmente infantile... Alla fine, abbandonai la jeep in una strada laterale e corsi verso l'entrata principale. Con la coda dell'occhio, vidi le radiomobili della polizia, schierate nel parcheggio. Le luci lampeggiavano, imitando un rassicurante battito cardiaco. Ma il mio unico pensiero era arrivare alla porta. Entrare. Ero già a metà scala, quando mi sentii afferrare per una manica. Mi voltai, furiosa, per liberarmi della persona che stava rallentando la mia corsa,
chiunque essa fosse, e mi trovai davanti Patrick Walsh. «Ehi, dolcezza. Avevo ragione, sei tu. Perché tanta fretta?» «Devo vedere Grace.» «Il capo è di sopra», mi disse piuttosto confuso. «Lo so», gli risposi secca. «È per questo che sono qui. Boland mi ha detto che cosa è successo.» «Allora non ti ha spiegato come stanno le cose. Tu credevi che?...» Non finì la frase. Evidentemente, la mia espressione non lasciava dubbi, in proposito. «Vuoi dire che... Grace sta bene?» «Sta parlando con un tizio, tutto qui. Cristo, adesso capisco perché eri così scioccata. Pensavi che fosse successo qualcosa a lei?» «Boland ha accennato all'Uomo di Marx, credo di non avergli dato la possibilità di...» Mi vennero in mente le sue ultime parole: Ma, Saxon... Tipico della sottoscritta: salto sempre alle conclusioni. «Andiamo», fece Walsh, «troviamo un posto dove sederci. Ti spiegherò tutto.» Mi guidò fino alla sua macchina; mi sedetti dal lato del passeggero con le gambe fuori, mentre lui rimase in piedi, appoggiato alla portiera: teneva d'occhio l'entrata dell'ospedale, nel caso ci fosse stato bisogno del suo intervento. Mi sentivo abbastanza sollevata. Per un attimo, provai quasi l'impulso di farmi una risatina. «Il capo è di sopra, insieme a Healy. Hanno portato qui quel tizio all'incirca mezz'ora fa. Gli hanno sparato giù al fiume, questa sera. Aveva appena finito di lavorare. È una specie di mago, a quanto pare, fa giochi di prestigio alle feste per bambini; tira fuori conigli dal cilindro... le solite cose, insomma. Andava verso la stazione; lungo la strada, si è infilato in un bar, il Louis IX o qualcosa del genere. Secondo i testimoni, quando è uscito gli si è avvicinata una figura vestita di nero; era dietro di lui, gli ha messo una mano sulla spalla e ha fatto fuoco.» «L'Uomo di Marx?» «Anche in questo caso, non ne siamo del tutto sicuri. Ma tutto sembra portare a lui.» «Ma... che cosa fate qui?Perché non siete sulla scena del crimine?» «Perché quell'uomo non è morto.» «Vuoi dire che è ancora vivo?» «A meno che non l'abbia ucciso il cibo dell'ospedale, dopo il ricovero.
Battuta pessima, scusa. Comunque, si rimetterà.» «Chi è? Vi ha detto qualcosa?» «Ai paramedici ha detto di chiamarsi Brook; ha dato il suo indirizzo e ha chiesto di avvisare la moglie che non sarebbe tornato per cena. Le solite frasi che si dicono quando ti becchi una pallottola. Ma quello che ha detto dopo è decisamente più interessante: a quanto pare l'aggressore, chiunque fosse, prima di premere il grilletto gli avrebbe sussurrato qualcosa all'orecchio.» «E cioè?» «Io sono la mano morta.» «E poi gli ha sparato? Come ha fatto quel tizio ad arrivare in ospedale e a sopravvivere fino a questo momento, se il killer l'ha preso alle spalle e ha fatto fuoco da una distanza praticamente nulla?» «Gli ha sparato soltanto a una spalla.» «Allora non aveva intenzione di ucciderlo. Non poteva fallire, gli era praticamente addosso. Anche ammesso che uno non abbia mai preso in mano una pistola, in simili condizioni non mancherebbe di certo il bersaglio. Quindi, voleva che la sua vittima sopravvivesse.» «Lo so. Per questo il capo sta parlando con il mago, adesso. Vuole scoprire il più possibile sull'aggressione. Lui soffre molto. O, almeno, così dice. I medici gli hanno somministrato dei sedativi. Forse è solo un po' sconvolto. Traumatizzato: è questa l'espressione che si usa di solito, no? Non capita tutti i giorni di beccarsi una pallottola, rincasando dal lavoro.» Guardai di nuovo l'ospedale. Le finestre erano tutte illuminate. Dietro una di esse c'era Grace, chiusa in una stanza insieme alla possibile soluzione di quel mistero. Dieci minuti prima, avevo temuto che fosse morta. Adesso provavo invidia per lei: era là dentro, a condurre la sua inchiesta, mentre io me ne stavo lì, seduta nella macchina di Walsh, costretta ad ascoltare un resoconto di seconda mano. Non c'era davvero paragone. Mi alzai in piedi, e mi voltai dall'altra parte. Non volevo più essere costretta a vedere l'ospedale. «Che cosa vi fa credere che si tratti dell'Uomo di Marx, questa volta?» chiesi a Walsh. «L'aggressore ha esploso un solo colpo, prendendo alle spalle la sua vittima che, oltretutto, si trovava davanti all'ingresso di quel bar. Dopo aver fatto fuoco, con assoluta freddezza, ha raccolto il bossolo. Il modus operandi è lo stesso. Non solo, la pallottola sembra corrispondere a quelle ri-
trovate sulle scene precedenti.» «I chirurghi sono riusciti a estrargliela?» «Non ne hanno avuto bisogno. È entrata dalla spalla ed è uscita dall'altra parte. Colpendo il muro si è scalfita, ma è stato ugualmente possibile eseguire un confronto.» «Se si tratta davvero del serial killer, questa sarebbe la prima volta in cui arriva a toccare la sua vittima», osservai pensierosa. «Potrebbe esserci qualcosa, sulla giacca di Brook. Perché portava una giacca, no?» «Era in maniche di camicia. Aveva passato l'ultima ora a intrattenere un piccolo esercito di bambini di cinque anni, non gli serviva una giacca per stare al caldo. La Scientifica ha infilato la camicia in una busta di plastica e se l'è portata via, ma, dopo l'intervento di paramedici e dottori, alle impronte già presenti si sono aggiunte quelle di altre dodici persone. Gliel'hanno dovuta tagliare, per arrivare alla ferita e arrestare l'emorragia. Se vuoi il mio parere, gli esami non daranno alcun risultato.» «È già qualcosa», dissi. Ma Walsh non mi stava ascoltando. Guardava i gradini dell'ospedale; improvvisamente, il tono di voce dei presenti si era fatto più alto. Girai la testa per dare un'occhiata. Un gruppetto di agenti stava impedendo l'accesso a un giovane con una giacca bianca che cercava di raggiungere la porta. Teneva le mani alzate, come se volesse mostrare che veniva in pace. Voci arrabbiate. «Sono un medico, ve l'ho già detto. Ho ricevuto una chiamata.» «Di solito, quando viene al lavoro, porta con sé una macchina fotografica, dottore?» «L'ho portata solo perché... perché una delle infermiere dà una piccola festa di compleanno, più tardi. Mi ha chiesto di fare qualche foto.» «A quanto pare, la stampa ha già saputo dell'ultima aggressione», osservò Walsh disgustato. «Sarà meglio che vada a risolvere questa faccenda. Tu starai bene, dolcezza, fino al mio ritorno?» «Sì.» Purché la smettesse di chiamarmi dolcezza. Lo guardai correre verso la mischia, poi mi voltai, disinteressata. Il circo si stava impadronendo della scena. Come sempre. Ma ciò non significava che avrei dovuto assistere allo spettacolo. Invece, mi accesi un sigaro e mi lasciai avvolgere da quel profumo familiare. D'un tratto, mi sentii esausta, tutto quello che volevo era prendermi un paio di pillole e tornare nell'oscurità. .. sperando, questa volta, di scivo-
lare in un oblio privo di sogni, e non nello stato febbrile e ansioso che avevo dovuto sopportare in quell'ultimo periodo. Mi svegliavo sempre più stanca di quando mi ero coricata. Qual era il sogno ricorrente di quelle notti? Acqua scura. Senso di annegamento. Un faro. Il raggio di luce che si tinge di rosso. Rosso sangue. Non ci voleva Miranda Gray per capirne l'origine. Una cosa era certa: quella sera, avrei impiegato un po' di tempo a prendere sonno. Il mio cervello stava cercando di assimilare i nuovi frammenti di informazione. E di riordinarli. Dovevo riuscire a dare una forma a quanto stava accadendo. Un'altra aggressione, una vittima sopravvissuta... Se l'Uomo di Marx aveva lasciato vivere quel tizio, l'aveva fatto per una ragione ben precisa. E l'unica ragione, dal mio punto di vista, era la seguente: voleva che quell'uomo riferisse il suo messaggio. Io sono la mano morta. La mano morta. Apparentemente, sembrava un'affermazione del tutto priva di senso. Ma doveva pur esserci un significato. Forse l'Uomo di Marx aveva ripetuto la stessa frase a tutte le sue vittime, prima di ucciderle? No... alcune erano state colpite da una distanza che avrebbe impedito loro di sentirlo sussurrare. Dunque, soltanto il mago era stato scelto come portatore del suo messaggio. Già, un messaggio il cui significato restava un mistero. Mi sentivo frustrata. Tutta l'ansia che avevo provato prima, dopo aver parlato al telefono con Boland, si era incanalata nei miei ragionamenti sull'Uomo di Marx... Stavo disperatamente cercando di capire come tutto questo potesse ricollegarsi alla morte di Felix Berg. Avevo passato tanto tempo a cercare di unire in un solo filo due diverse sequenze di avvenimenti... e adesso tornavano a dividersi, sfuggendomi tra le dita. Non riuscivo a trovare un legame tra Felix e il mago. Io sono la mano morta. Mi alzai e guardai le ambulanze che andavano e venivano, andavano e venivano... Il mondo non si ferma, per una sola vittima. Mi correggo, non si ferma nemmeno davanti a un migliaio di vittime. I miei pensieri inizia-
vano a evaporare. Cercare di ragionare su quanto stava accadendo era un po' come provare a realizzare una scultura con l'acqua. Fui davvero sollevata quando, alla fine, la porta dell'ospedale si aprì e Grace apparve sulla soglia. Healy doveva essere rimasto dentro. Si fermò un istante in cima ai gradini, assaporando l'aria; ogni tanto lo faceva anche sul mio terrazzo, dopo una lunga giornata. Si ricompose. Fu già abbastanza difficile non mettermi a ridere dalla gioia, quando la vidi davanti a me, viva. Non poterle correre incontro, poi, fu una vera tortura. Riuscivo ancora ad avvertire l'orrenda sensazione di panico di poco prima, quando avevo temuto che fosse morta. Era un'eventualità a cui non potevo e non volevo pensare, non volevo correre il rischio che l'immagine di lei, ormai senza vita, rimanesse impressa nella mia mente, nascosta da qualche parte, come quando salvi un file sull'hard disk di un computer e quello rimane lì per sempre, anche quando pensi di averlo cancellato. Invece, pensavo sempre alla mia morte. Il mondo, senza di me, non sarebbe stato poi così diverso. Non sarebbe stata una grave perdita. Ma un mondo senza Grace... Scese i gradini e si fermò ad ascoltare un giovane agente, accorso a riferirle un messaggio. Annuì. Poi sollevò la testa e mi vide, accanto all'auto di Walsh. Ero rimasta lì, in attesa che si accorgesse della mia presenza. Mi sorrise: un sorriso sincero. Poi mi venne incontro, allontanandosi dal resto della squadra. «Ehi», mi salutò a bassa voce. Il che diceva tutto. «Hai avuto fortuna, là dentro?» «Non ricorda molto. È sempre rimasto di spalle. Stiamo cercando di scoprire se è in grado di fornirci qualche particolare in più riguardo alla voce. Potrebbe essere la prima, vera prova sul nostro assassino. Ma che cosa può venirgli in mente, ancora? Dopotutto, è stato solo un sussurro. Non ricorda nemmeno se fosse un uomo o una donna. Non ci ha saputo dire nulla sull'età, su un eventuale accento...» «Sempre meglio di niente», cercai di rincuorarla. «Di sicuro è meglio che starsene in obitorio a mettere a posto i risultati delle autopsie insieme ad Alastair Butler. Sembra una mamma chioccia con i suoi pulcini», disse. «Sfortunatamente, però, ci sono anche cattive notizie. Healy crede di sapere a che cosa si riferisce quella frase sulla mano morta. Dice che viene da una citazione di Marx, e non parlo di Grou-
cho.» «Tremendo», dissi in tono casuale. Mi venne in mente il tizio nella libreria di Burke; ma cercai di non coaere. Il fatto che un uomo che aveva acquistato un testo di Marx si fosse messo a fissarmi non nascondeva necessariamente un significato particolare. Soprattutto se, in quell'occasione, ci trovavamo in un negozio specializzato in libri scritti da e su Marx, o che si ispirano al suo pensiero. Dopotutto, se entri in un negozio che vende formaggi, presumibilmente comprerai latticini... «Già, tremendo. Proprio quando pensavo di essermi tolta dai piedi Sweeney, e questa volta definitivamente.» «Ha già saputo?» «Ha già telefonato al commissario, dicendo che questa nuova aggressione conferma la sua teoria riguardo alla motivazione politica degli omicidi, e che la sua unità dovrebbe assumere il controllo operativo delle indagini il prima possibile.» «Cosa c'è di politico nello sparare a un tizio che tira a campare estraendo conigli da un cilindro, e sfilandosi nastri dalle orecchie?» «Saxon, predichi a una convertita... Prova a spiegarlo a loro.» «Il killer sta solo cercando di fornirci un'altra falsa pista. Gli basta leggere i giornali, o guardare la TV, per sapere che tra la Squadra omicidi e l'Unità antiterrorismo non corre buon sangue. Così, butta nel miscuglio un altro pezzetto del suo manifesto comunista, tanto per creare un po' di agitazione, e...» «Et voilà, come direbbe il nostro amico Brook.» «Draker riassegnerà il caso a Sweeney, che darà inizio a un'altra caccia ai rossi.» «Il che non dispiacerà all'Uomo di Marx. Anzi, al cosiddetto Uomo di Marx, dal momento che non è interessato alla teoria del vecchio Karl più di quanto non lo sia io.» Grace s'interruppe bruscamente, e aggrottò le sopracciglia. «Che c'è?» «Niente... non...» Aveva lo sguardo fisso sull'altro lato della strada, dove si era radunata la solita folla di curiosi, non appena erano apparse le prime auto della polizia. Le voci si spargono in fretta. Mi voltai anch'io. Ma ormai si era fatto buio, si intravedeva solo qualche volto.
«Hai notato qualcuno?» «Forse», disse. «Per un attimo mi è sembrato di vedere Alice.» 31 Il sovrintendente capo Fitzgerald indisse una conferenza stampa, trasmessa dal notiziario del mattino. Stiamo seguendo una linea d'indagine ben definita... abbiamo raccolto un certo numero di indizi che fanno sperare in una pronta risoluzione del caso... siamo molto ottimisti, e presto vi aggiorneremo riguardo agli sviluppi dell'inchiesta... Era davvero brava a mentire. Il fatto che l'assassino si fosse servito di Brook per far avere un suo messaggio era sicuramente positivo. Al contrario, bisognava preoccuparsi quando spariva, nel silenzio. Forse ciò indicava la volontà, da parte sua, di stabilire un contatto, per essere sicuro che il suo intento fosse chiaro a tutti. E questo poteva aiutarci a scovarlo. Ma la strada era ancora lunga. In assenza di un movente preciso, la cattura di un serial killer diventa ancora più difficile. Se non addirittura impossibile. E io avevo altri progetti, per la giornata. Ero al volante della mia jeep, diretta verso nord. Destinazione: Mountjoy Prison. In ospedale, appena prima che me ne andassi, Healy mi aveva preso da parte, e mi aveva passato un pezzo di carta su cui erano scarabocchiati un nome e un numero. Aveva saputo da Boland che stavo cercando di ottenere un colloquio con Little; e lui conosceva le persone giuste. Mi avrebbero concesso soltanto mezz'ora; ma, per come la vedevo, era sempre meglio di niente. L'avevo detto a Grace, ma lei si era limitata a sollevare le mani, invitandomi a tacere. «Non c'è bisogno che io lo sappia. In effetti, preferisco restarne fuori. Dico davvero, preferisco non sentire quello che hai da dirmi. Fai quello che devi fare. Solo, promettimi di stare attenta, ok?» «Perché, non è quello che faccio sempre?» «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.» Little sembrava ansioso di incontrarmi. Healy mi aveva detto che non riceveva molte visite. Correzione: non ne riceveva nessuna. Mi avvicinai ai cancelli con quel vago senso di paura che avvertivo sempre nei pressi di una prigione; c'era qualcosa di particolarmente triste,
nel carcere di Mountjoy. Bastavano tre parole per descriverla: disperazione, miseria, depressione. Le pietre erano così nere che nemmeno la pioggia avrebbe potuto renderle più scure. Diedi il mio nome alle guardie, che mi perquisirono per assicurarsi che non stessi introducendo merce di contrabbando, anche se l'unica droga che avrei voluto procurare a uno come Isaac Little era il cianuro. E solo se avessi avuto la possibilità di somministrargliela personalmente. Quindi mi fecero passare sotto il metal detector, per essere sicuri che non avessi armi con me, e mi guardarono con quell'aria sospettosa, per capire se... non lo so. Forse credevano di scorgere un'intenzione maligna semplicemente con lo sguardo? Alla fine, decisero che ero abbastanza inoffensiva e si affrettarono a farmi entrare nell'edificio. Percorsi un corridoio; poi un altro e così via, fino a ritrovarmi in uno stanzino privo di finestre. Sicuramente non ero nella normale sala destinata ai colloqui, ma d'altronde, non era orario di visite. L'arredamento consisteva soltanto in un tavolo e due sedie. Non c'era nemmeno l'acqua. Alla parete era attaccato un foglio, con l'orario dei turni. Sopra la porta, un cartello verde con la scritta VIETATO FUMARE. In un angolo, un ragno morto era rimasto appeso alla sua stessa ragnatela. «Se avesse bisogno di qualsiasi cosa», mi disse il secondino, «prema questo.» Mi mostrò il bottone sotto il tavolo, che attivava l'allarme. «Cerchi di farlo solo in caso di reale necessità. Lei non dovrebbe trovarsi qui. Vi terrò d'occhio attraverso la griglia.» Se ne andò. Mi accesi un sigaro; poi notai nuovamente il cartello di divieto. Probabilmente temevano che i detenuti si ammalassero di cancro e facessero causa all'amministrazione per averli esposti al fumo passivo. Povere, fragili e delicate creature. Del resto, non avevo alcuna voglia di far scattare un allarme. A malincuore, spensi il sigaro. E aspettai. Passò un secolo prima che la porta si aprisse, e Isaac Little facesse il suo ingresso. La guardia lo fece sedere. «Bene, Isaac. Adesso, niente stupidaggini.» «Con queste?» fece lui, sollevando i polsi ammanettati. «Averne la pos-
sibilità sarebbe già qualcosa.» Era sorprendentemente magro, raggrinzito; i suoi movimenti sembravano furtivi, con quelle mani sottili e ossute e le dita scarne, simili a sonde mediche. I denti in gran parte guasti, il mento grigio ricoperto da chiazze sporgenti di barba corta e ispida, che si grattava in continuazione, quasi sapesse di avere compagnia. I capelli, Usci e flosci, ricordavano un ciuffo di erbaccia paludosa. Da quando si era seduto, non aveva smesso un attimo di tirare su con il naso. Gli occhi non stavano mai fermi. La pelle, opaca e secca, appariva macchiata. Continuava a passarsi la lingua sulle labbra, era disgustoso, sembrava una lucertola. Quell'uomo mi ripugnava. Sapevo che avrei dovuto fare uno sforzo per controllarmi. Avevo incontrato gente anche peggiore, ma nell'essere che avevo davanti c'era qualcosa di rivoltante, di marcio. La sua anima emanava un fetore; e non era il classico tanfo delle persone malvagie. No. Isaac Little aspirava ancora alla vera cattiveria, nel frattempo doveva accontentarsi di aver raggiunto una malignità di serie C. È un luogo comune, nel corso delle indagini poliziesche, ritenere che i pedofili siano del tutto simili alle persone normali, quanto all'aspetto. Nel caso di Little, non era così. C'era qualcosa di malsano, nel suo sguardo, che mi faceva sentire infetta e sporca. Il classico tipo da cui avresti cercato istintivamente di proteggere il tuo bambino, se l'avessi incontrato per la strada. Era difficile credere che gli avessero permesso anche solo di avvicinare un piccolo innocente: la sua malvagità, che lo avvolgeva come un'aura, era palpabile. Mi chiesi se fosse sempre stato così. Magari aveva aspettato di finire dietro le sbarre, prima di dare libero sfogo alla sua vera personalità. Qui dentro non aveva più motivo di fingere. Una volta uscito, si sarebbe potuto rimettere la maschera. Mi squadrò, più di una volta. Ma le sue occhiate lascive erano prive di entusiasmo. Dovevo essere troppo vecchia, per lui. A giudicare dal suo dossier, avrei dovuto avere trent'anni di meno per suscitare dell'interesse in lui. Ripetei mentalmente l'elenco delle generalità e delle imputazioni che Boland mi aveva letto quella mattina, al telefono. Violenza su minore. Istigazione di minore a intrattenere attività sessuali. Procura o favoreggiamento di violenza su minore. E questo era solo l'inizio. Aveva costretto una bambina ad assistere a un atto sessuale; con un'altra aveva avuto un rapporto carnale, dietro il pagamento di una somma di
denaro. Era stato accusato di esibizionismo e di voyeurismo. Aveva avuto rapporti con una ragazzina di quindici anni. Ed era noto alle autorità per aver prodotto, distribuito, stampato e pubblicato materiale pornografico: protagonisti, ovviamente, i bambini. Una grande quantità dello stesso materiale era stato ritrovato anche nella sua abitazione. Viviamo davvero in un mondo meraviglioso. E non era tutto: per due anni aveva lavorato in un istituto di cura per malati mentali, e anche lì i reati si erano accumulati. Istigazione all'attività sessuale nei confronti di una persona con disturbi mentali o con gravi problemi di apprendimento. Violenza su una persona con i medesimi problemi. Favoreggiamento dello stesso reato, attraverso istigazione, minaccia e truffa. Prima dell'omicidio di Lucy Toner, però, non sembrava aver commesso nessun atto violento su minore anche se, in effetti, ogni sua azione poteva essere considerata tale. In ogni caso, ciò non significava che non ne fosse capace. «Che cosa vuole?» mi chiese improvvisamente. Niente chiacchiere inutili, quindi. Fantastico. Non mi attirava l'idea di dover trovare qualche argomento per rompere il ghiaccio con quell'uomo. E poi, di che cosa avremmo potuto parlare? Della questione mediorientale, della Borsa, dei metodi più efficaci per educare un bambino perché diventi un depravato? Le solite cose di cui parlano le persone educate a cena. «Voglio farle qualche domanda su Lucy. Se la ricorda?» «Ma certo che me la ricordo. L'ho uccisa io, no?» Il sarcasmo gli gocciolava dalla punta della lingua, come veleno da una siringa. «Ho fatto sdraiare quel delizioso bocconcino in mezzo alla sabbia e l'ho soffocata, mentre le infilavo l'altra mano nelle mutandine... sì... era così soffice e calda... Davvero una mattinata stupenda.» Ghignò, guardandomi negli occhi. Stava cercando di impressionarmi. Mi sforzai di rimanere impassibile. Questa era la parte che avevo sempre trovato più difficile. Fisher riusciva a fare quel genere di cose senza alcun problema: incontrava killer e pervertiti, e conversava con loro come se stesse parlando del tempo con un estraneo alla fermata dell'autobus. Al primo cenno di disapprovazione, si chiudono a riccio, e mostrano gli aculei. Devi farteli amici; devi superare i loro meccanismi di difesa, se vuoi scoprire davvero qualcosa. Io, invece, non ero mai stata molto brava, a stento riuscivo a nascondere
quello che sentivo. Il mio interlocutore lo percepiva e tra noi si formava un muro. In quel momento la mia ostilità nei suoi confronti era palese, e sapevo che anche lui se n'era accorto. Ma Little non si chiuse a riccio. Probabilmente, era passato molto tempo dall'ultima volta in cui aveva ricevuto una visita, e voleva capire dove poteva portare tutto questo. Era curioso, voleva sapere che cosa ne avrebbe ricavato. Non era disposto a correre il rischio di rinunciare a tutto, subito. Quindi, non era completamente privo di autocontrollo. Peccato che non l'avesse mai usato in presenza dei bambini. «Non credo che sia stato lei a ucciderla», gli dissi con la dovuta cautela. «Lo so. Me l'hanno detto. È l'unico motivo per cui ho accettato di vederla.» «Allora, perché non comincia a dirmi che cosa fece quel giorno?» «Rimasi a letto, per lo più. Stavo prendendo delle medicine, dormivo sempre, mi alzavo solo per mangiare o per farmi una pisciata. Mi alzai alle quattro e scesi in cucina per farmi un boccone; non vidi anima viva. Me ne tornai a letto. Il giorno dopo, la polizia venne a bussare alla mia porta; fui trascinato via da un ispettore in cerca di promozione che, per qualche ragione, non mi aveva preso in simpatia. Mi accusò di aver ammazzato una ragazzina che viveva in fondo alla strada.» «Ed è assolutamente sicuro di non essere stato lei?» «Me ne ricorderei, se l'avessi fatto. Ho una buona memoria per i piccoli dettagli come questo. Facce. Numeri di telefono. Omicidi commessi.» «Ha detto che stava prendendo delle medicine...» «Sì. Ma, che io ricordi, non ho mai fatto del male a un bambino in tutta la mia vita.» «Violenze carnali escluse.» Esitò. «Queste sono parole sue», disse. «Perché, lei quali userebbe?» Fece una lunga pausa, prima di rispondere. «Io amavo quei bambini. E loro amavano me. Non può capire.» «Perché non sono una pervertita, intende?» Si raddrizzò. «Anche un pervertito può essere orgoglioso di sé, lo sapeva?» «Pervertiti del mondo, unitevi! Non avete nulla da perdere, a parte le vostre catene.» «Sì, qualcosa del genere.»
Ghignò, mostrandomi tutti i suoi denti guasti. «Senta, così non va, stiamo solo perdendo tempo. Sono venuta qui perché mi interessa scoprire qualcosa riguardo alla morte di Lucy. Lei si dichiara innocente, e io le credo. Adesso voglio che mi dica chi sarebbe, secondo lei, il vero colpevole.» «Io so chi l'ha uccisa.» «Davvero?» «È stato uno di quei tipi che vivevano nella casa in cima alla strada. Giovani hippy, pieni di soldi. Stavano in una specie di comune.» Fece anche una battuta: «Libero amore, fratello». «E che cosa le fa pensare che sia stato uno di loro?» «Perché fu lui a dirmelo. Felix.Il fotografo.» «Felix?» «Già. Mi scrisse una lettera, subito dopo la condanna. Me la spedì qui, in carcere. Voleva venire a trovarmi, aveva qualcosa da dirmi. Sapeva che non c'entravo affatto con quell'omicidio.» «Proprio come me.» «Sì, ma lui non era così sexy.» Lo ignorai. «Gli permise di venire?» incalzai. «E perché non avrei dovuto? Conoscevo sua sorella. Avevo avuto qualche problema, subito dopo il trasferimento a Howth. Ero appena uscito di prigione. Avevo scontato qualche annetto per furto, avevo rapinato un farmacista, non ricordo più dove...» Non mi guardava negli occhi, forse non immaginava che avessi letto il suo dossier, e che sapessi esattamente il morivo per cui era stato dentro. «Quando la gente del posto venne a saperlo, per me cominciarono le scocciature.» Non mi riusciva difficile crederlo. «A loro non andava giù la mia presenza; dicevano che abbassavo il tono del quartiere, e facevo crollare i prezzi degli immobili.» «Alice, invece, non si unì al coro. Dico bene?» «Mi portava della roba. Cibo. Vino fatto da lei. Libri. Passava di lì e me li lasciava.» «E perché lo faceva? Non gliel'ha mai detto?» «Era convinta che ciascuno di noi avesse diritto a una seconda possibilità. Diceva che avevo pagato per i miei errori e avevo bisogno di un po' d'incoraggiamento per tornare a condurre una vita virtuosa.» Adesso vomito, pensai. «Non le ha mai raccontato della collezione di fotografie di bambini nudi
che teneva nella stanzetta al piano di sopra? E della stupenda vista sul parco giochi?» «Che le devo dire? L'argomento non è mai venuto fuori.» Già, sarei pronta a scommetterci, pensai. Ancora una volta rimasi stupita davanti alla facilità con cui persone intelligenti e colte come Alice erano disposte a bersi tutte quelle stronzate sulla redenzione e le seconde possibilità. Offrire un'altra chance a un mostro come Isaac significava soltanto permettergli di rovinare la vita di qualche altro bambino. «Mi sorprende che non sia venuta a trovarla lei stessa. Per una tazza di caffè, magari con qualche biscotto.» «Credevo che fosse dalla mia parte», fu la sua risposta, sgradevole e piagnucolosa. «Le ho detto che non penso che sia stato lei a uccidere quella ragazzina; ma questo non significa che la consideri una specie di eroe, o che debba fingere che non abbia commesso tutte le altre nefandezze di cui è stato accusato. Non può negarlo: per la polizia rappresentava un bersaglio perfetto. Era naturale che il suo nome saltasse fuori e, a quel punto, le prove erano tutte lì, pronte a inchiodarla. Non aveva un alibi, e il suo malsano interesse sessuale nei confronti dei bambini era già piuttosto noto. Non può aspettarsi che siano tutti comprensivi come Alice. A proposito, non mi ha ancora detto come mai non è venuta a trovarla di persona.» «Felix mi disse che era sconvolta», mi spiegò imbronciato, «e che se n'era andata. Sarebbe venuto lui, al suo posto. Ma mi assicurò di avere il pieno appoggio della sorella. Sì, testuali parole. Me lo disse la prima volta che venne qui.» «E anche lui le portò vino fatto in casa e biscottini?» Evidentemente, no. «Mi confidò che sapeva per certo che a uccidere la ragazzina era stato qualcuno che viveva sotto il suo stesso tetto; voleva aiutarmi a provare la mia innocenza. Stava raccogliendo informazioni. Aspettava di averne abbastanza, prima di presentarle alle autorità. Mi disse che aveva già parlato dei suoi sospetti con la polizia, ma loro non ne avevano voluto sapere. Però lui aveva del denaro, una montagna di denaro, e avrebbe pagato qualcuno per scoprire quello che era successo veramente. Avvocati, investigatori privati... tutto quello che poteva servire, insomma.» «Non gli importava che lei rappresentasse una minaccia per i bambini?» «Gli importava la mia innocenza.» «Sì, questo l'ha già detto. E poi? Che cosa accadde?»
«Si fece sentire ancora un paio di volte, per dirmi che ormai era vicino alla soluzione. Poi, più niente. Gli scrissi due lettere, chiedendogli di mettersi in contatto con me. Ma non ricevetti alcuna risposta.» «Che cosa pensa che sia successo?» «Forse aveva ricevuto un avvertimento dalla polizia. A volte lo fanno, sa? Oppure gli avevano dato dei soldi. La stessa polizia, magari, per tenermi dentro; o il vero assassino. Pensai che avesse individuato il colpevole, e che avesse deciso di coprirlo per ragioni di convenienza. Piuttosto che mettersi contro di lui, era meglio lasciarmi qui dentro a marcire.» Il tono di voce incominciava ad alzarsi. «Poi iniziai a credere che fosse stata tutta una presa in giro, che avesse provato piacere nell'alimentare le mie false speranze.» «E adesso? Adesso che cosa pensa?» Si soffermò a considerare la domanda. «Penso che sapesse perfettamente chi aveva ucciso quella puttanella, e che avesse smesso di aiutarmi per un motivo ben preciso.» «Immagino che sappia che Berg è morto.» «Sì, l'ho sentito», rispose, come se volesse mettere fine alla questione. «Immagino che per lei non sia stata una grande perdita.» «Quando una persona ti promette il suo aiuto e poi ti ignora per anni, perdi qualsiasi attaccamento nei suoi confronti. Si è sparato. Bella roba. Vuole sapere qual è l'unica cosa che mi dispiace? Il fatto di non essere stato io a premere il grilletto. Probabilmente aveva di nuovo ficcato il naso in affari che non lo riguardavano, e qualcuno è stato pagato per farlo fuori. 'Fanculo, Berg.» C'era qualcosa, in quello che mi aveva detto Little. Felix aveva indagato sulla morte di Lucy, e, quando era ormai vicino alla verità, aveva ricevuto delle minacce. Poi si era messo sulle tracce dell'Uomo di Marx... ed era morto. Forse si era lasciato spingere dalla curiosità una volta di troppo. Aveva esaurito le vite, come i gatti. «Vuole sapere come la vedo io?» riprese Little. «C'è il karma: tutto quello che fai torna a perseguitarti. Se non dai il tuo aiuto a chi ne ha bisogno, non ci sarà nessuno a darti una mano, quando sarai tu a trovarti in difficoltà. Quello che fai, ti torna indietro moltiplicato per sette. Già, ti arriva dritto dritto su per il culo.» «E, secondo lei, a Felix sarebbe successo questo?» «Cazzo, io lo spero, signora. Lo spero proprio.»
32 Finalmente lasciai Isaac Little e tornai alla luce del mondo esterno. Quel breve incontro mi sarebbe bastato per tutta la vita. Non ero sicura di poter sopportare l'ipotesi di una seconda visita. D'altra parte, ero abbastanza convinta che non sarei riuscita a tirargli fuori nulla di più, e questo nonostante l'esiguità delle informazioni che avevo ricavato da quel colloquio. Ero pronta ad affrontare la durissima prova di altre sei, dieci, cento sedute, respirando la stessa aria che respirava lui, nella speranza che prima o poi mi rivelasse un particolare che servisse a ripagare i miei sforzi? Little, manco a dirlo, era ansioso di rivedermi. Avevo fatto di tutto per reprimere il mio disprezzo, imponendomi di usare le parole giuste... senza arrivare a provare disgusto per me stessa. Conosceva l'opinione che avevo di lui, e sapeva che non avrei fatto una piega se fosse morto per combustione spontanea davanti ai miei occhi. Ma voleva ugualmente la mia attenzione. Il che me lo rendeva ancora più odioso, ammesso che ce ne fosse stato bisogno. La mia unica speranza era che credesse davvero che l'avrei aiutato, e che rimanesse amaramente deluso. Non c'è niente di più efficace, se si vuole abbattere il morale di un detenuto che deve scontare una lunga condanna. Con un po' di fortuna, avrei sconvolto il suo equilibrio mentale, e quel piccolo e tenace bastardo avrebbe finito con l'impiccarsi alle sbarre della finestra. La mia paura, però, era di trovare qualche elemento che provasse davvero la sua innocenza. E, a quel punto, che cosa avrei fatto? Quell'uomo rappresentava un pericolo troppo grande per i bambini; non mi sarei goduta nemmeno il mio piccolo trionfo per aver riparato a un errore giudiziario. Era sufficiente ripensare all'elenco delle imputazioni, per sapere che razza di mostro avrei rimesso in libertà. E la lista si sarebbe sicuramente allungata, se Little fosse tornato in circolazione; quelli come lui non si fermano, non possono fare a meno della propria depravazione, è come una droga. E non ero sicura di poter sopportare un simile peso sulla coscienza. Di certo non avrei perso il sonno, se avessi lasciato che restasse in carcere per qualcosa che non aveva commesso: tenerlo dietro le sbarre era l'unica cosa che contava. Ma ciò, forse, significava lasciare a piede libero il vero assassino di Lucy Toner. Un'ipotesi altrettanto temibile.
I miei pensieri si fecero progressivamente più cupi, mentre tornavo in città; presi una scorciatoia tagliando per Bridge Street, ma non feci un grande affare, quella parte della città era intasata dal traffico, e la situazione non accennava a migliorare. Per passare il tempo, chiamai Boland dal mio cellulare, e lo misi in vivavoce. «Pronto?» Telefonavi a una persona e ti rispondeva sempre qualcun altro. Questa volta si trattava di una donna. E non sembrava esattamente felice di sentirmi. «Chi?» ripeté quando le dissi chi ero. «Voglio solo parlare un momento con Boland.» Un sospiro. «Resti in linea.» Passò la cornetta al sergente. «È una donna», gli disse fredda. «Boland», fece lui, piuttosto confuso. «Sergente, sono io... Saxon.» Sentii il tono smorzato della sua voce mentre, coprendo il microfono con la mano, mormorava: «Non è una donna, è solo Saxon». Grazie, davvero carino. Avevo proprio bisogno di una simile dimostrazione di fiducia. «Chi è che mi ha risposto?» gli chiesi. «Cassie. Chi pensava che fosse?» «Vivete insieme, adesso?» «Non per molto, ora che ha sentito la sua voce al telefono.» «Le dica che non ha niente da temere, da parte mia. Non sono nemmeno una donna.» «L'ha sentito?» «Ogni singola parola, una bella iniezione di autostima.» «Be', lei sa che cosa intendevo. E poi, considerando l'orario inopportuno...» «Ben mi sta, allora.» Controllai l'orologio sul cruscotto. «Anche se, in effetti, è la prima volta che mi sento dire che mezzogiorno è un orario inopportuno.» «È riuscita a vedere Isaac Little?» mi domandò cambiando discorso. «È appunto per questo che la chiamo. Ho bisogno di chiederle una cosa.» Gli raccontai ciò che avevo sentito da Little, riguardo all'amicizia con i
fratelli Berg. «Di Alice non sono in grado di dirle nulla», rispose, «ma riguardo a Felix si sbaglia. Non ha mai presentato nessuna rimostranza, in difesa di Little. Venne interrogato durante le indagini, ma non disse nulla a proposito dei suoi sospetti. E non lo fece nemmeno in seguito.» Perché a questo mondo niente è mai come sembra? «È andato a cercare in archivio?» «Sì, non appena ho saputo che aveva intenzione di recarsi alla Mountjoy Prison. Nessuna dichiarazione da parte di Berg, né fra gli appunti sul caso, né all'interno dei dossier relativi ai vari interrogatori. Non si è mai pronunciato riguardo all'innocenza o alla colpevolezza di Little. Anzi, a quanto mi risulta, dichiarò di non conoscerlo affatto.» «Alice, però, doveva conoscerlo bene, se quello che mi ha detto lui è vero.» «Appunto, se», sottolineò Boland. «Quel tizio ha abusato di bambini innocenti. Quelli come lui sono dei bugiardi provetti. Sono peggio dei politici. Non puoi credere a una sola parola di quello che dicono.» «Ma perché mai avrebbe dovuto inventarsi quella storia su Felix?» «Lo sta chiedendo a me? Non lo so proprio. Forse vuole dare più credibilità alla sua causa. Vuole che provi dispiacere per la sua ingiusta condanna.» «Rimarrà scioccato, se pensa davvero che ciò sia possibile.» Già, ma allora perché non mi aveva chiesto il motivo del mio interesse, dal momento che non avevo cercato di nascondergli il disprezzo che provavo nei suoi confronti? Non lo stavo circondando di premure, a differenza di Alice e Felix; e a spingermi non era certo l'ansia di difendere i suoi diritti civili. Forse stava giocando anche con me? «E che mi dice delle persone che vivevano dai Berg? Paul Vaughan? Paddy Nye? Che cosa dichiararono? Conoscevano Isaac Little?» «Paul Vaughan non fu mai interrogato. All'inizio non era disponibile, poi le accuse vennero convalidate, e la sua dichiarazione sarebbe stata una pura formalità. Nye, invece, si limitò a confermare le parole di Berg: erano insieme, quando la ragazzina venne uccisa.» «Quindi, ammettendo che il colpevole sia Nye, Felix l'avrebbe coperto?» Nessuna risposta. «Boland? È ancora lì?» Ma da qualche parte, a Dublino, il segnale si era interrotto.
Probabilmente, era rimasto bloccato nel traffico. Mi chinai sul clacson, unendomi al coro degli automobilisti. Mi ci volle un'altra ora per arrivare al mio appartamento, dove, naturalmente, non c'era nessuno ad aspettarmi. Per prima cosa, ascoltai i messaggi in segreteria; in effetti, quella fu la seconda. Istintivamente, appena varcata la soglia, controllai che qualcun altro non avesse approfittato della mia assenza per mettere di nuovo a soqquadro la casa. Il primo era di Grace che mi chiedeva del colloquio con Little. Il secondo, di Fisher che mi comunicava il nome dell'albergo in cui avrebbe alloggiato, dal momento che aveva accettato di trattenersi ancora qualche giorno per aiutare la polizia a decifrare il misterioso messaggio dell'assassino; il terzo, della dottoressa Gray che mi ringraziava per la piacevolissima serata, aggiungendo che avremmo dovuto rifarlo, prima o poi. E l'ultimo... Mi ci volle un secondo per riconoscere la voce. Gina. L'ex ragazza di Felix. In lacrime. «Mi sento così stupida, adesso», disse tirandosi indietro per farmi entrare. La stanza era buia. Da una finestra socchiusa arrivava una ventata d'aria fredda, e le pagine di un libro fluttuavano come le piume di un uccello morente. «Probabilmente non è niente. Davvero. Non c'era bisogno che venisse fin qui, io sto bene.» «È per questo che ha chiuso tutte le imposte? Perché sta bene?» Fece un sorriso stentato. «È solo che... ho avuto l'impressione che qualcuno mi stesse osservando.» «Posso vederla?» Attraversò la stanza e, da un cassettone, tirò fuori la busta che aveva ricevuto quella mattina. «Non sapevo chi altri chiamare», si scusò. «Poi mi sono ricordata che lei era stata qui, e mi aveva lasciato il suo numero di telefono. Allora sono andata a cercarlo e...» «È tutto ok», dissi, temendo che ricominciasse a piangere. Mi sentivo sempre a disagio, davanti a una persona in lacrime. «Coraggio, mi faccia dare un'occhiata.»
Mi passò la busta. Gina. Non c'era scritto nient'altro. «Quindi non è stata spedita.» «Qualcuno l'ha infilata nella buca delle lettere mentre ero fuori. Il postino era già passato. Io sono uscita per andare a comprare il latte e, quando sono tornata...» Non riuscì a finire la frase. Le tremavano le mani. «Chiunque l'abbia scattata, mi stava tenendo d'occhio», concluse in un sussurro. La busta era spiegazzata, ed era stata strappata lungo il lato superiore; scostai i due lembi e vi infilai l'indice. Dentro c'era una foto: un'istantanea, come quella che era scivolata fuori dai ritagli di Felix. E come quella che avevo trovato attaccata alla parete del mio soggiorno. Questa, però, ritraeva Gina, con gli stessi vestiti che indossava adesso; stava uscendo dal cancello e portava una borsa a tracolla e un paio di occhiali da sole appoggiati sul capo. L'immagine era parzialmente oscurata da una motocicletta parcheggiata davanti all'ingresso, ma era lei, non c'erano dubbi. Chiunque l'avesse scattata, doveva trovarsi dall'altra parte della strada, accanto alla cabina del telefono. «Deve aver atteso che mi allontanassi, ha fatto la foto, ha aspettato che si sviluppasse, l'ha infilata nella busta, ha attraversato la strada e l'ha messa nella buca delle lettere, perché la trovassi al mio ritorno.» Si era fermato soltanto per squarciare la fotografia con la punta di un coltello. Un pensiero che preferii tenere per me. E il taglio era esattamente sul viso di Gina. «Quanto tempo è rimasta fuori?» «Non saranno stati più di cinque minuti. Dieci al massimo. Il negozio è in fondo alla strada.» Tutto il tempo necessario. «E, tornando indietro, non ha notato niente?» «Non ci ho fatto caso... ma no, nulla di strano.» «Un estraneo? Un'auto che non conosceva?» «Questa è una strada trafficata, lo vede anche lei. La gente va e viene. Ci sono sempre parcheggiate macchine e bici sconosciute. I posteggi dovrebbero essere riservati ai residenti, ma nessuno fa caso ai cartelli. Per me sarebbe impossibile notare qualcuno. Un estraneo, intendo.» Rimisi la fotografia nella busta e feci per restituirgliela. Ma Gina la allontanò con una mano. «Non la voglio», disse. «La tenga lei. La bruci, ne faccia quello che vuo-
le. Non m'interessa.» Improvvisamente, sollevò lo sguardo e fece un passo indietro; un camion in transito aveva fatto tremare violentemente i vetri della finestra. Aveva ragione. Era una strada molto trafficata. «Se vuole, posso consegnarla alla polizia.» «È proprio necessario?» «Lettere di minaccia, fotografie... Sicuro, le autorità devono essere messe al corrente.» Avrei potuto dirle che raramente un episodio del genere restava isolato, ma a che scopo? Era già abbastanza spaventata. E poi, nemmeno io davo retta ai miei consigli. In ogni caso, non mi stava ascoltando. «Chi è che mi sta facendo questo?» esclamò supplichevole, lo sguardo sempre fisso sulla finestra. «Che cosa vogliono?» «Non lo so. Ma ho sentito che a Strange è successa la stessa cosa.» «Anche la sua fotografia aveva uno squarcio?» «Non l'ho vista. Me l'hanno riferito. Mi hanno detto che l'immagine era stata deturpata, quindi suppongo di sì. Credeva che fossi stata io a mandargliela.» «Lei? E perché mai avrebbe dovuto fare una cosa simile?» «E un altro? Che motivi avrebbe?» Si fermò a riflettere, per un momento. «Lo sa, sono quasi sollevata, è confortante sapere di non essere l'unica.» Avrebbe detto così, se avesse immaginato che quella poteva essere solo la prima di una serie? Secondo il legale di Strange, l'uomo le riceveva regolarmente. E la cosa riguardava anche me. Felix, Strange, Gina e la sottoscritta: c'era uno schema, dunque. All'inizio avevo pensato che avesse qualcosa a che vedere con l'Uomo di Marx, per via dell'ossessione di Berg. E se, invece, il legame fosse stato un altro? Forse la spiegazione era molto più vicina a noi. Poi mi venne in mente Alice, che non rispondeva alle mie telefonate. E che non si faceva trovare quando passavo da lei. Anche lei aveva paura? Anche lei stava ricevendo quelle fotografie? «Dovrei provare di nuovo a parlare con Alice», dissi senza pensare. E Gina si irrigidì immediatamente. «Alice», ripeté sprezzante. «Lo so che voi due non andate d'accordo, ma questa storia potrebbe ri-
guardare anche lei, è giusto che sappia...» «Forse sa anche troppo.» «Che cosa sta cercando di dirmi?» «Niente. Niente. Oh, al diavolo! Lo sa che cosa voglio dire. Non posso negare di aver pensato che dietro tutto questo ci fosse lei. È l'unica persona che mi odi abbastanza da farmi una cosa del genere. L'unica che vorrebbe vedermi soffrire. E poi...» «Cosa?» «Be', non crede anche lei che solo una donna potrebbe arrivare a tanto?» Aveva ragione. Messaggi malevoli. Lettere minatorie anonime. Un'arte in cui le donne sono maestre. Non potei fare a meno di pensare a Grace, che aveva creduto di riconoscere Alice in mezzo alla folla di curiosi radunatisi davanti al St. James's Hospital, la sera prima. E poi c'era anche un'altra cosa. Una cosa che mi tormentava. Frugai nella tasca in cerca del cellulare, prima di ricordarmi che l'avevo lasciato a casa. «Posso usare il telefono?» le chiesi. Se la domanda l'aveva colta di sorpresa, non lo diede a vedere. «Ma certo. È laggiù.» «Sì, l'ho visto.» Si ritirò in un'altra stanza, mentre sollevavo la cornetta e componevo il numero. «Mi tolga una curiosità, Strange», dissi, quando alzò il ricevitore. «Chi ha scattato quelle deliziose foto sadomaso esposte nella sua galleria?» «Chi parla?» «Non mi avrà già dimenticata, spero! Dopo avermi fatto recapitare una lettera così carina dal suo avvocato.» «Saxon, immagino.» «Sono commossa, si è ricordato di me. Dunque esiste ancora qualche speranza, per la nostra relazione.» «Sta commettendo un grave errore», disse. «L'avevo avvertita di starmi alla larga.» «No, lei mi aveva intimato di smettere di importunarla, se la memoria non m'inganna. Da quando una telefonata amichevole costituisce una for-
ma di molestia?» «Sto riattaccando.» «No, non lo farà. Invece, mi dirà chi è l'autrice delle immagini appese nel suo negozio.» «È una galleria. E, come credo di averle già detto, la persona in questione desidera rimanere anonima. E io non discuto con nessuno degli affari privati dei miei artisti. Di certo non ho intenzione di farlo con lei. Come osa chiamarmi e...» «È Alice, non è vero?» Silenzio. «Quegli scatti sono di Alice Berg.» «Lei è pazza. Adesso metto giù.» «Sicuro, così può telefonarle per avvertirla che la sua identità segreta non è più così segreta.» Nessuna risposta. Ma questa volta non si era trattato di un problema di linea. Vincent Strange aveva riattaccato. 33 Possibile che Alice fosse realmente coinvolta in tutto questo? Era stata davvero lei a inviare quelle fotografie minatorie a Strange e a Gina? E aveva avuto un ruolo anche nella morte del fratello? Di sicuro, stava nascondendo qualcosa: a me, a Strange, a tutti. Cambiava continuamente la sua versione. A Grace aveva chiesto che il corpo del fratello le fosse consegnato il prima possibile; a me aveva confidato i suoi sospetti riguardo alle circostanze del decesso. Aveva taciuto riguardo all'esistenza di un'ex fidanzata. E aveva ostacolato i tentativi di Boland di scoprire qualcosa di più su Felix. E poi c'era quell'apparizione fuori dall'ospedale, la sera prima, quando era stata ricoverata l'ultima vittima dell'Uomo di Marx. Perché era lì? Quanto alla cartelletta che mi aveva mostrato, quella contenente gli articoli dedicati al serial killer... Come facevo a essere sicura che fosse opera di Felix? Non avevo nessuna prova. E se fosse stata lei a mettere insieme quella raccolta? Se fosse stato un catalogo della sua ossessione? Le fotografie inviate a Strange e a Gina mi fecero pensare ai pacchi denigratori che Nye diceva di ricevere da anni: Paddy aveva sempre pensato che il mittente fosse Felix. Ma non poteva esserci lui, dietro le foto squarciate:
Berg era morto. Non poteva essersi introdotto nel mio appartamento. E se fosse stata Alice a fare tutto questo? Non era diventata amica di Isaac Little? E Miranda Gray non aveva accennato al fatto che leggesse tutti i «libri giusti» di psicologia? Chi, meglio di lei, sarebbe stata in grado di giocare con la mente degli altri? E quel giorno si era presentata a casa mia senza che io le avessi dato l'indirizzo. Mi ricordai del tono aspro di Nye, quando mi aveva raccontato di Alice. Aveva detto che non si sarebbe affatto meravigliato, se fosse emerso che i fratelli Berg avevano ucciso la zia per entrare in possesso della casa e dell'eredità. E più ci pensavo, più il mio inconscio mi sussurrava una domanda. È possibile che l'Uomo di Marx sia lei? Era un'idea talmente incredibile... Mi ci volle parecchio tempo per riuscire ad articolarla. Ma, in fondo, era follemente sensata. Se ci fosse stata Alice, dietro gli omicidi del serial killer, l'ossessione di Felix sarebbe stata più che giustificata. E non sarebbe stato difficile capire perché avesse tentato di coprirla. Fino a quell'ultima sera, quando lui, probabilmente, aveva deciso di mettere fine al gioco, rivelandomi quanto stava accadendo. E lei lo aveva scoperto. Dove si trovava Alice? Non aveva mai fornito una spiegazione esauriente alle autorità. E forse la polizia non si era nemmeno preoccupata di controllare la veridicità del suo racconto. Del resto, perché avrebbe dovuto? Felix non era stato assassinato, secondo il risultato dell'autopsia eseguita da Butler. Si era tolto la vita. E lei non aveva dovuto fornire nessuna spiegazione riguardo ai suoi movimenti. E, comunque, su che cosa si basava la mia teoria? Solo sulla sua condotta sospetta? Agire in modo sospetto non costituisce reato. Agire in modo sospetto non significa essere un'assassina. Eppure, non potei fare a meno di chiedermi se a farmi desistere non fosse il fatto che Alice era una donna. Mi tornò in mente un caso a cui Grace aveva lavorato l'anno prima. Un farabutto ubriaco per anni aveva picchiato la moglie. Le aveva fatto saltare i denti, l'aveva marchiata con un attizzatoio incandescente e una volta l'aveva presa addirittura a calci fino a farle perdere il bambino che portava in grembo. Una sera prese un bicchiere di birra e glielo scaraventò sul viso. Quando la donna arrivò in ospedale, do-
vettero darle ottantatré punti: aveva perso la vista da un occhio. Prima di correre al pronto soccorso, però, la donna aveva risposto all'aggressione afferrando il coltello da cucina più vicino e conficcandolo nella gola del marito. Aveva usato una forza tale da far uscire la lama dall'altra parte, inchiodandolo allo sportello di un pensile. Era stata dichiarata innocente perché, secondo la giuria, aveva agito per legittima difesa. Non solo, le era stata riconosciuta una diminuita capacità di intendere e di volere, provocata da anni di violenze domestiche. Io e Grace avevamo festeggiato bevendo una bottiglia di champagne. È facile accettare tali rapporti di causa-effetto, tra donne e violenza. Ma dev'esserci un blocco, nel nostro cervello, che ci impedisce di credere che le donne possano essere capaci di altri tipi di violenze - come pedinamenti, rapimenti, assassini - e che provino addirittura piacere nel metterle in atto. È più semplice considerarle soltanto delle vittime innocenti. In realtà, esistono numerosi esempi che dimostrano il contrario. Il problema è che, davanti a una cosa orribile o inspiegabile, ci sentiamo persi. Siamo condizionati dalla nostra cultura: agli omicidi perpetrati dalle donne non prestiamo la stessa attenzione accordata a quelli perpetrati dagli uomini. E il motivo è che queste donne non si adattano all'idea che abbiamo del killer. E anche quando abbiamo le prove che una donna può avere gli stessi istinti e le stesse predilezioni di un uomo... be', le respingiamo, sforzandoci di trovare delle scuse. Cerchiamo di dare la colpa alla presenza di un marito-padrone, a un attacco di follia, a uno squilibrio ormonale, a quello che ha dovuto subire nella vita... Qualsiasi cosa, piuttosto che affrontare la realtà di quello che ha commesso. Qualsiasi cosa, pur di non ammettere che le ragioni che spingono una donna a fare una cosa simile sono le stesse che spingono un uomo. Sono annoiate. La vita non sembra reale, e la realtà non riesce a soddisfarle. Dentro di loro arde un desiderio. Uccidere acuisce i loro sensi intorpiditi, le scuote; in questo modo, sconvolgono il mondo e lo costringono a prendere coscienza della situazione. Uccidere è un piacere. Ovunque, gli psicologi studiano il comportamento dei killer, nel tentativo di comprenderli più a fondo, di scoprire la formula di quel disturbo che si è insinuato nel loro cervello; e, statisticamente, tale interesse è comprensibile, dal momento che sono sempre gli uomini a rappresentare la minaccia più grave.
Ma ciò non significa che le donne killer possano essere ignorate. Una vittima è sempre una vittima. Un morto è sempre un morto. Anzi, qualcuno potrebbe sostenere che le donne andrebbero studiate più dei loro colleghi, proprio per il fatto di essere c.osì elusive alla comprensione, così complesse. I killer uomini sono creature semplici, in linea di massima. Non si fanno prendere facilmente, ma sono spinti da moventi elementari, per quanto depravati. Le donne sono più difficili da scandagliare. Sono più fredde. E più calme. Fui particolarmente colpita dalla mia riflessione. Era sera ed ero tornata nel mio appartamento; avevo tirato fuori un mucchio di libri, sperando di trovare una soluzione ai miei guai. Ce n'era anche uno di Fisher. Esisteva forse un argomento a cui quell'uomo non avesse dedicato un volume? A colpirmi fu soprattutto il fatto che la descrizione della donna killer si adattava perfettamente ad Alice. Tutto corrispondeva. Normalmente, le assassine sono donne caute. Precise. Metodiche. Elaborano con calma le proprie strategie. La Berg rientrava anche nella fascia d'età corretta. Nella maggior parte dei casi, una donna killer non inizia a uccidere prima dei venticinque anni, e continua a farlo per un arco di tempo più lungo rispetto alla controparte maschile. Ovviamente c'erano anche delle differenze, che rendevano assurda l'idea che dietro l'Uomo di Marx potesse nascondersi proprio lei. Le donne, per esempio, tendono a colpire persone appartenenti a un gruppo specifico. Amanti. Bambini. Anziani. È improbabile che attacchino adulti sconosciuti, il target preferito degli assassini maschi... e quello scelto dal nostro uomo. Inoltre, normalmente, le donne scelgono le proprie vittime nella sfera delle proprie conoscenze, quando non addirittura all'interno della propria famiglia. Mentre l'Uomo di Marx vagabondava per le strade, come un predatore. Per le assassine, poi, la fase di raffreddamento tra i vari omicidi è molto più lunga rispetto a quella di un killer. E ciò contribuisce a rendere più difficoltosa la cattura. L'Uomo di Marx era veloce.
Le donne corrono meno rischi. Lui, invece, rischiava. E molto. Inoltre, è poco probabile che una donna uccida servendosi di un'arma. Nell'elenco dei metodi più frequentemente impiegati da un'omicida, la morte in seguito a ferite da arma da fuoco si trova solo al quarto posto, preceduta da iniezione letale, soffocamento e avvelenamento: la tecnica preferita in assoluto. E i dati su cui mi basavo erano relativi agli Stati Uniti, dove la disponibilità di armi era decisamente maggiore. Era più facile trovare un'auto con l'adesivo della bandiera confederata a New York, che una pistola a Dublino. Ma queste erano solo statistiche. Solo numeri. Avrei potuto elencare un centinaio di ragioni per cui era assurdo che la luna rimanesse sospesa nel cielo, eppure era sempre lì, ed era questa l'unica cosa importante. E ogni volta che provavo a smettere di pensare male di Alice, mi tornavano in mente le parole di Paddy Nye, giù a Howth: Non si sarà lasciata ingannare dall'atteggiamento compassato e decoroso che ha assunto adesso, vero? Era così? Mi ero lasciata ingannare? 34 Quando, il mattino successivo, mi svegliai sul mio divano circondata da libri, quasi mi vergognai delle considerazioni della sera prima. Come avevo potuto pensare che Alice fosse coinvolta in una faccenda simile? Era assurdo, ridicolo... eppure era innegabile che in quella donna ci fosse qualcosa di strano. Forse avrei dovuto farle una visita. Mezz'ora più tardi, stavo bussando alla porta della sua abitazione, nella stretta viuzza di ciottoli. Non sapevo esattamente che cosa le avrei detto, soprattutto dopo la conversazione con Strange a proposito delle fotografie esposte nella sua galleria. In effetti, non avevo nessuna prova contro di lei. Anche ammesso che gli scatti fossero davvero suoi - e che quelle immagini ritraessero lei - che cosa speravo di ricavarne? Era una donna che aveva subito un lutto. Chi poteva sapere quale significato si celasse dietro il suo comportamento? La verità era che non sapevo quasi niente di lei. Ma i dubbi tornarono ad assalirmi, quando non venne nessuno ad aprirmi.
Era fuggita? Ripensai a quella mattina, quando ero passata da lei e l'avevo vista fare i bagagli. Mi aveva detto di essere tornata a casa, però forse era stata un'altra delle sue bugie. Ma perché scappare? La rete non si stava stringendo intorno a lei. In effetti, non ero nemmeno sicura che ci fosse una rete. A chi potevo rivolgermi per avere delle risposte? A nessuno, apparentemente. Le altre amicizie di Alice erano solo una vaga nozione nella mia testa, non sembravano persone reali. Mi tornarono in mente alcuni nomi che avevo sentito da lei; Isobel, Maud. Se avessi avuto un po' di tempo a disposizione, forse avrei potuto provare a rintracciarle, ma non ne avevo. D'altronde, che scusa avrei potuto usare per rivolgere loro qualche domanda? E, cosa più importante, mi avrebbero detto quello che volevo sapere? Probabilmente, Alice le aveva messe in guardia. Come aveva fatto con Strange. L'unica persona che avrebbe potuto aiutarmi, pensai, era Miranda Gray. Composi il numero che mi aveva lasciato in segreteria. Mi aspettavo già che non fosse disponibile. Chissà, forse stavo imparando a sviluppare una sensibilità più elevata. Invece, rispose all'istante: sarebbe stata felice di prendere un caffè con me. Alle undici andava bene? Il suo studio era in Merrion Square, quindi non aveva molta strada da fare per raggiungere la caffetteria che scegliemmo. In ogni caso, arrivò in ritardo. Entrò agitata, accampando una serie di elaborate giustificazioni, come fanno spesso i professionisti superimpegnati. «Non c'è bisogno che mi spieghi, davvero. Non c'è nessun problema», le risposi. In realtà, non mi interessavano affatto le sue difficoltà a giostrarsi tra i vari appuntamenti. «Niente Fisher, oggi?» «Sta perdendo tempo con la Polizia Metropolitana di Dublino. È ovvio che preferisce la loro compagnia. Non serve che glielo dica io, conosce Fisher. Appena ha la possibilità di lavorare a un omicidio... Comunque, immagino che lei non sia qui per parlare di me», aggiunse. «Allora? Di che si tratta? Mi è sembrata preoccupata, al telefono.» «Spero che non abbia intenzione di psicanalizzarmi.» «Era una semplice osservazione. Quindi, avevo visto giusto?» «Alice. È lei il mio problema.» «Se è così, meglio ordinare i caffè, prima.» Prese un espresso nero, doppio. E lo accompagnò con una ciambella appiccicosa, in cui affondò avidamente i denti. Non la facevo tipo da dolci, la sera prima, a cena, aveva saltato il dessert. Anche se, ripensandoci, forse il
dessert era Fisher. Ecco, c'ero caduta un'altra volta: le mie solite speculazioni impiccione. Non erano affari miei, dovevo ficcarmelo in testa. «L'ha vista di recente?» le chiesi non appena ci fummo sedute a un tavolino. «Vista? No.» «Sto cercando di mettermi in contatto con lei dal giorno del funerale. Ho bisogno di chiarire alcune cose. Ma non risponde alle mie chiamate, e a casa sua sembra non ci sia nessuno.» «È strano. Mi ha telefonato, mi lasci pensare... ah sì, due giorni fa, per cancellare la nostra abituale seduta.» «È già tornata al lavoro?» «Alice è fatta così. Ci si butta a capofitto. È difficile capire quello che le passa per la testa. Io ho pensato che non ci fosse nulla di strano. Era già capitato altre volte che annullasse un appuntamento. Anche se...» «Sì?» «No, niente. È solo che, di solito, fissava subito una nuova seduta. Questa volta, invece, ha detto che avrebbe richiamato lei, quando si fosse sentita pronta.» «E lei che cosa ha pensato?» «Subito? Niente», disse. «Adesso... be', mi domando se per caso non abbia deciso di interrompere la terapia.» «E questo la preoccuperebbe?» «Adesso è lei che sta cercando di psicanalizzare me. Dovrebbe saperlo, Saxon, gli psicanalisti fanno imbarazzanti domande personali, ma, se vengono rivolte a loro, non rispondono. Mai.» «Come i poliziotti.» «Non ci avevo mai pensato, ma, in effetti, c'è una certa somiglianza.» «Come le è sembrata?» «Alice? Io non ci ho parlato. Ha preso Elaine la telefonata; è la mia segretaria.» «Le ha riferito qualcosa?» «In tutta onestà, non credo nemmeno che sappia che giorno è oggi. È nuova. E non è molto sveglia. Non le ho chiesto nulla, mi ha semplicemente detto che Alice aveva rimandato la seduta, e che l'aveva annotato sull'agenda degli appuntamenti. Temo che la sua competenza si fermi qui.» «Perché l'ha assunta?» «Mi faceva compassione. Entrambi i genitori si sono tolti la vita quando era ancora una ragazzina, è nuova in città, non ha altri parenti. Credo di es-
sere una patita delle storie tristi e sfortunate. Le ho dato il lavoro: in fondo, non si tratta di un compito molto impegnativo.» «Mi chiedo se stia bene.» «Chi, Elaine? Ma sì, è solo che, ogni tanto, ha la testa tra le nuvole.» «No, mi riferivo ad Alice.» «Oh. Be', posso fare qualche telefonata, se vuole.» E io volevo. Prese immediatamente il cellulare e iniziò a chiamare alcuni amici di Alice, mentre io ordinavo altri due caffè e cercavo di cogliere qualche parola. Come mai conosceva quelle persone? Forse le aveva incontrate mentre indagava sulla vita segreta di Felix, prima per avere la conferma che non era lui l'Uomo di Marx, e poi per convincersi che il suo era stato realmente un suicidio. O, magari, erano anche amici suoi. Dublino è una piccola città: all'interno dei circoli frequentati dalle due donne, tutti conoscevano tutti. Alla gente piaceva tenersi d'occhio, per assicurarsi che ognuno rimanesse al suo posto. Qualunque fosse il motivo, presto riuscimmo ad avere le informazioni che cercavamo. Dopo la quinta o la sesta telefonata - ormai avevo perso il conto - sembrò piuttosto ovvio che nessuno la sentiva da almeno un paio di giorni. A qualcuno aveva detto che sarebbe stata via per un po', aggiungendo che sarebbe andata da amici comuni, e a questi ultimi aveva raccontato un'altra storia ancora, e così via, come un serpente che si morde la coda. «Forse dovremmo avvisare la polizia», suggerii, una volta esaurito l'elenco delle amicizie. «A cosa servirebbe? Alice è una donna adulta. Non deve rendere conto agli amici dei suoi movimenti.» «Ma se nella sua scomparsa ci fosse qualcosa di strano...» «Ma non è così. Capita spesso che lasci la città per qualche giorno, adora viaggiare. Potrebbe essere andata ovunque, per starsene tranquilla: Londra, Parigi, Stoccolma. Lo fa in continuazione. E conosce i metodi della polizia: come prima cosa, mi chiederanno se è già successo altre volte e quando io avrò detto di sì...» «Si rifiuteranno di prendere qualsiasi provvedimento», sospirai amaramente, ammettendo che aveva ragione. A volte, i poliziotti hanno un'immaginazione davvero scarsa. «Comunque, deve pur esserci qualcosa che possiamo fare. Potrebbe essere caduta dalle scale, o chissà cos'altro.»
Non ero ancora pronta a rivelarle i miei veri timori, continuavo a pensare che Alice ci stesse nascondendo molto di più, riguardo all'Uomo di Marx. Da una parte, non sarebbe stato corretto alimentare dei sospetti quando non potevo basarmi che sulla mia sovraeccitata immaginazione; dall'altra, cosa forse più importante, non volevo correre il rischio di sembrarle una completa idiota. Non ero ancora sicura, non volevo condividere con qualcun altro i miei dubbi riguardo al ruolo che Alice poteva avere avuto in questa storia. Prima di tutto, dovevo convincermi che i miei ragionamenti non erano poi così stupidi. Ma, a giudicare dall'espressione di Miranda, non avrei avuto bisogno di comunicarle le mie paure per farle capire che dovevamo assolutamente trovare quella donna. Il suggerimento che potesse essere caduta dalle scale era stato sufficiente. «Lo pensa davvero?» mi chiese. Non risposi. Non era necessario. «So come scoprirlo», disse poi risoluta. «Ho una chiave della sua abitazione.» Questa proprio non me l'aspettavo. «E perché?» La domanda mi uscì prima che riuscissi a trattenermi. «Alice me la diede lo scorso anno, quando lei e il fratello partirono per gli Stati Uniti. Mi chiese di dare un'occhiata alla casa, per assicurarmi che non fossero entrati i ladri, o che non fosse scoppiata qualche tubatura, per inoltrarle la posta. Quel genere di cose, insomma.» Evidentemente, Miranda era favorevole allo sviluppo di un rapporto con i propri pazienti anche al di fuori dell'ambulatorio. «Ce l'ha ancora?» «Non ho mai trovato il tempo di restituirgliela.» «E ce l'ha qui con sé?» «Penso di sì. Ma», continuò, lievemente preoccupata, «crede davvero che dovremmo farlo? E se fosse in casa? Se avesse semplicemente deciso di non aprire a nessuno? Che cosa penserebbe, vedendoci entrare?» «Capirebbe, senz'altro.» In realtà, non sapevo più se Alice fosse o meno una persona comprensiva. «Si renderà conto che era in pensiero per lei.» «Ma... e se...» «È un rischio che dobbiamo correre, Miranda. Come si sentirebbe se adesso decidesse di lasciar perdere, e in seguito scoprisse che avrebbe potu-
to fare qualcosa?» Pensava. Rifletteva. «Ha ragione», disse infine. Afferrò la borsa appesa al bracciolo della sedia, e iniziò a frugare, maledicendo il disordine che regnava là dentro. «Non la trovo.» Alla fine, in preda alla frustrazione, la capovolse, e il tavolo fu invaso da tutte quelle cianfrusaglie che le donne sembrano portare sempre con sé. Un'abitudine che la sottoscritta non aveva mai avuto. C'era di tutto, lì dentro. Tranne la chiave. «Non capisco. Dev'essere qui, da qualche parte», mormorò passando in rassegna quel mucchio disordinato di oggetti. Stavo iniziando a perdere la pazienza, quando finalmente fece un gridolino di trionfo e mi mostrò una chiave, piuttosto imbarazzata. Velocemente, rimise tutto nella borsa; poi ci alzammo, senza aver toccato gli ultimi caffè, e ci tuffammo in mezzo al traffico e ai lavori stradali. Per la seconda volta, quella mattina, tornai a Temple Bar. La stradina era deserta, alle finestre non si vedeva nessuno. Bussammo di nuovo: niente. Allora sbirciai nella buca delle lettere, mentre Miranda puliva un vetro al piano terra e guardava all'interno. Mi sembrò abbastanza evidente che, anche se fossimo rimaste lì tutto il giorno, non ci avrebbe aperto nessuno. «Miranda.» «Ecco. Faccia lei.» Mi passò la chiave, che infilai nella serratura. Un giro, un clic e la porta si aprì. Entrando, spinsi il mucchietto di lettere cadute sul pavimento. L'ingresso era immerso nell'oscurità. Silenzio. «Alice?» dissi. Sentii l'eco della mia voce, poi più niente. «Alice? Sono qui con Miranda Gray. È in casa?» Si capisce subito quando una casa è vuota: le parole risuonano in maniera inconfondibile. «Non c'è», dissi alla dottoressa, sottovoce. Ma sentii comunque il bisogno di continuare a chiamarla, mentre controllavamo velocemente le stanze al piano terra, fino alla lunga cucina sul retro, dal soffitto a volta di vetro trasparente. La luce accecante le conferiva un aspetto strano, quasi fosse congelata. Notammo un coltello appog-
giato su un tagliere e una mela tagliata a metà, ormai avvizzita. Una bottiglia di vino. E una radio accesa, il volume al minimo. La spensi. Salimmo le scale che portavano al primo piano, ed entrammo direttamente nel soggiorno, proprio come ricordavo; il tavolo, però, era vuoto, le fotografie dovevano essere state riposte. «Che cosa c'è, di sopra?» chiesi. «Una camera da letto.» «Una sola?» Le lanciai un'occhiata, che capì al volo. «Non ho mai chiesto ai Berg che sistemazione avessero adottato per la notte.» «Vado a dare un'occhiata.» «Vengo con lei. Non voglio restare qui sotto da sola.» Sapevo perfettamente che cosa intendeva. C'era qualcosa di inquietante nella casa dei Berg, adesso che era vuota. Qualcosa di lugubre. Sembrava quasi che fosse infestata dagli spettri. Mi sentivo osservata; e, al tempo stesso, percepivo che io e Miranda eravamo gli unici esseri viventi, fra quelle pareti. Una spoglia rampa di scale portava a un pavimento di assi di legno e a un pianerottolo, con una porta e un'altra fila di gradini che a sua volta conduceva a un nuovo pianerottolo e a un'altra porta. Ci scambiammo un'occhiata e continuammo a salire. Ci sentivamo due intruse e avevamo il terrore di essere colte in flagrante. Anche se, in un certo senso, quasi speravamo di essere scoperte, per eliminare quel senso di paura che, improvvisamente, era sceso su di noi. Arrivata in cima, girai la maniglia e, insieme a Miranda, entrai in un'altra stanza, anche questa enorme: una camera. Al centro c'era un letto, un futon basso su cui era appoggiato soltanto un lenzuolo. Le assi del pavimento erano dipinte di nero e al soffitto era appeso un lampadario giapponese, che ricordava una lanterna. C'era una notevole attrezzatura: macchine fotografiche, riflettori... tutti puntati sul letto. Di Alice, però, nessuna traccia. «Se n'è andata», osservò Miranda. Non sembrava nemmeno aver notato il contenuto della stanza. O, forse, per lei non era esattamente una sorpresa. In effetti, la cosa non aveva stupito neanche me. Si guardava intorno, disorientata, come se avesse dimenticato il motivo
per cui ci trovavamo lì. «Avanti, andiamocene. Non ha alcun senso restare», la invitai. Fu solo scendendo che mi ricordai di quell'altra porta, al piano inferiore. C'era una chiave infilata nella serratura. Fermai Miranda, afferrandola per una manica, e gliela indicai. Le dissi di aspettare, mentre provavo a girare la maniglia. La porta era aperta. Entrai. Ero finita in un bagno. Naturale, doveva essercene almeno uno. Era molto ampio: il pavimento era di pietra, le pareti erano dipinte di bianco, come in tutto il resto della casa. Davanti a me, notai un cerchio disegnato per terra, rivestito di piastrelle. Era più basso del resto del pavimento e al centro c'era un foro di scarico: il piatto della doccia, evidentemente. Infatti, dal soffitto scendeva il bocchettone. Più in fondo c'era una vasca da bagno bianca, con i piedini in ferro battuto e, sopra, una finestra a ghigliottina semiaperta, da cui entrava una brezza leggera. La luce si rifletteva sulla superficie dell'acqua? Passai in mezzo alla doccia, dirigendomi verso l'estremità opposta della stanza. Guardai la vasca: era piena quasi fino all'orlo, c'era da meravigliarsi che l'acqua non fosse finita sul pavimento. L'unico movimento era provocato dal vento che faceva tremare la superficie, e una tale immobilità era quasi inspiegabile, dal momento che sul fondo era sdraiata Alice, completamente nuda, gli occhi spalancati. 35 Per la seconda volta in poco più di una settimana mi ritrovai ad aspettare la polizia, a cui avrei dovuto rilasciare la mia dichiarazione riguardo al ritrovamento di un nuovo cadavere. Io e Miranda eravamo tornate al piano di sotto, nella spoglia stanza sul davanti dell'abitazione. Ero in piedi accanto alla finestra, e guardavo l'andirivieni degli agenti; Miranda era seduta in un angolo e continuava a parlare, sconvolta. In un accesso di crudeltà, fui tentata di parafrasare un aforisma di Oscar Wilde e di farle notare che perdere un paziente era sfortuna, perderne due poteva sembrare un segno di trascuratezza. La cosa che più di tutte mi premeva sapere era se Vincent Strange avesse chiamato Alice la sera prima. Le aveva riferito quanto gli avevo detto a proposito delle fotografie appese nella sua galleria? E lei come aveva rea-
gito? Forse la paura di essere smascherata l'aveva indotta a togliersi la vita? E, soprattutto, si trattava davvero di suicidio? La storia si ripeteva. Alla fine arrivò anche Grace, insieme a Sean Healy. Con loro c'era anche Alastair Butler, il patologo della città. Andarono di sopra, conversando tranquillamente. Passò più di mezz'ora; poi ricomparve il medico legale, che uscì sulla strada. Mi affrettai a seguirlo. «Butler?» Si voltò. Aveva un'espressione stupita e offesa. «Saxon, giusto?» disse inflessibile. Sapeva perfettamente come mi chiamavo; ma io non gli ero mai piaciuta. Le rare volte che ci eravamo incontrati, in precedenza, mi aveva rivolto a malapena un'occhiata. In parte, per la mia relazione con Grace: aveva idee abbastanza tradizionali, in proposito. In parte, per lo stretto rapporto che avevo avuto con il suo predecessore. Butler credeva nella necessità di rispettare le distanze. Se aveva una moglie, probabilmente a colazione la chiamava con il nome completo. «Ebbene?» gli chiesi. Mi rispose, come suo solito, inarcando un sopracciglio. «Ebbene?» ripeté come se gli avessi parlato in un'altra lingua. «Come è morta?» «Non credo davvero che dovrei discuterne con lei.» «E perché diavolo non dovrebbe farlo?» «Non è autorizzata ad accedere a questo tipo di informazioni.» Lo interruppi brusca. «Andiamo, Butler, non sia così rigido. Non le sto chiedendo di tradire il suo Paese. Conoscevo Alice. Sono stata io a trovare il corpo. Voglio soltanto sapere come è morta.» «E io le ho già detto che non posso accontentarla.» «Si può sapere qual è il problema?» «Non intendo procedere oltre con questa sconveniente conversazione», insisté. «E adesso, se vuole scusarmi.» E si girò un'altra volta, pronto ad andarsene. Stavo per afferrarlo per un braccio per impedirgli di allontanarsi, quando sentii qualcuno pronunciare il mio nome, dietro di me. Suonò un po' come un avvertimento. Si voltò anche Butler, sentendo quella voce, e notò la mia mano; poi
guardammo entrambi Fitzgerald, sulla soglia. «Ci sentiamo più tardi, sovrintendente capo.» Il patologo la salutò con un cenno e si diresse verso Temple Bar; i suoi passi, mentre attraversava il passaggio ad arco, ricordavano una marcia militare. «Grace...» Non mi diede nemmeno la possibilità di iniziare. «Che cosa stai cercando di fare, Saxon? Butler non è come noi, lo sai. È un accanito sostenitore delle regole e, per giunta, non ti conosce. Non ha ancora avuto il tempo di abituarsi alle tue maniere poco delicate. Lui non tollera certe cose. Se dovesse lamentarsi...» «Volevo solo sapere...» «Come è morta Alice. Me ne rendo conto. Ma non c'è bisogno di agguantare il medico legale per un braccio nei pressi di una potenziale scena del crimine, con la pretesa che ti riveli un'informazione che, come sai, non ti darà mai. Cristo, non hai più ventidue anni. Non hai ancora imparato che ci sono un tempo e un luogo per ogni cosa? E che ci sono strade diverse per arrivare a quello che vuoi?» «Mi dispiace. Lo chiamerò per fargli le mie scuse.» «No. Hai già fatto abbastanza guai, stamattina. Dimenticatene. Piuttosto, vuoi dirmi che cosa facevate lì dentro tu e Miranda?» Le raccontai brevemente di come non fossi riuscita a contattare Alice, e di come la donna avesse consegnato una chiave di scorta alla dottoressa Gray. «Sembra proprio che tu abbia l'abitudine di trovarti sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato», osservò ironica, al termine del mio resoconto. «Avanti, dimmelo. Come è morta?» «Secondo Butler, si tratta di suicidio.» «Un altro. Questa frase inizia a stancarmi.» «Hai forse un suggerimento migliore?» «Miranda era la sua psicanalista. Secondo lei, Alice non si sarebbe mai tolta la vita.» «Allora, chiedile di spiegarci come mai non ci sono segni di lotta, o escoriazioni.» Suonava tutto così tristemente familiare. «A quanto pare, Alice ha ingoiato quante più pastiglie è riuscita, cercando di restare in piedi abbiamo rinvenuto sei boccette vuote, sul davanzale della finestra del bagno - e si è infilata nella vasca. Una morte tranquilla, serena, secondo Butler. Fossimo tutti così fortunati. Ah, e c'è anche un'altra cosa.»
«Cioè?» «Era incinta.» «Stai scherzando.» «No. Ovviamente, per avere la conferma dovremo aspettare il referto dell'autopsia, ma nel cestino c'era uno di quei kit per eseguire un test di gravidanza domestico, e il risultato è positivo.» «Al funerale mi aveva detto di non sentirsi bene», ricordai. Non capisco... c'è qualcosa che non va, in me. «E non è tutto. Avanti, seguimi.» Rientrai e salii con lei al piano di sopra, dove la polizia stava ancora ispezionando il soggiorno. Sul tavolo c'era una pila di fotografie, che due agenti stavano facendo passare; sembrarono piuttosto imbarazzati, quando si accorsero che il capo era tornato. «Non avete niente di più costruttivo da fare, ragazzi?» disse lei secca. I due mormorarono qualche scusa e lasciarono la stanza con gli occhi fissi sul pavimento. Grace li seguì con un'occhiata; poi prese una delle foto che avevano tanto attirato la loro attenzione e me la passò. E compresi il motivo di tale interesse. Era una foto di Alice. Nuda. Era sdraiata sul letto che avevo visto all'ultimo piano della casa. La testa gettata indietro, gli occhi chiusi. E ce n'erano delle altre: Alice nuda sotto la doccia, distesa a faccia in giù sul divano in quella stessa stanza, adagiata in modo scomposto sul pavimento. E poi scatti che la ritraevano insieme a Felix. Erano nudi. E facevano l'amore. Non era certo il genere di fotografie che avresti mostrato alle zie il giorno del Ringraziamento. Mettiamola così. «Quindi andavano davvero a letto insieme», commentai. «Credi che fosse lui il padre? Ammesso che fosse davvero incinta.» «Ho fatto qualche domanda in giro», risposi. «Alice era una persona molto discreta, ma non ho trovato niente che suggerisse la presenza di altri partner sessuali, a parte il fratello. In passato doveva essere stata una donna piuttosto 'allegra', ma di recente non aveva avuto altre relazioni.» Non occorreva essere un genio per capire che cosa fosse successo. Alice aveva scoperto di aspettare un bambino. Il bambino di Felix, forse. E non aveva retto. Si era imbottita di pastiglie. Si era immersa nella vasca. Il caso è chiuso, come si dice.
Ecco a che cosa si riducevano i miei sospetti della sera precedente. «Butler ha detto qualcosa riguardo all'ora del decesso?» chiesi. «Così, a prima vista, è riuscito a stabilire che non devono essere passate più di dodici ore.» «Merda.» «Perché, c'è qualche problema?» Non le dissi dei miei ragionamenti della sera prima, ma le confidai di aver chiamato Strange per chiedergli se fosse stata Alice a scattare le fotografie sadomaso esposte nella sua galleria. Forse lui l'aveva avvertita del rischio di essere smascherata, e lei si era spaventata e... «Hai telefonato a Strange?» mi domandò senza darmi il tempo di finire. «Dopo la lettera ricevuta dall'ufficio di Buckley? Tu non ti saresti dovuta avvicinare a quell'uomo.» «È quello che mi ha detto anche lui. Buffo, no?» «Non c'è niente di buffo, Saxon. E se ti facesse appioppare un ordine di restrizione da un giudice? Sarebbe davvero fantastico, la stampa avrebbe un boccone succulento!» Che cosa le avrei potuto rispondere? «Ok, senti, gli parlerò io. Qualcuno dovrà comunque dirgli di Alice. Proverò a prendere due piccioni con una fava. Cercherò di scoprire quand'è stata l'ultima volta che l'ha sentita. E, adesso che ci penso, se ha intenzione di reclamare, per me si può anche fottere. E lo stesso vale per Butler.» «Ma se hai appena detto che...» «Lo so che cosa ho detto. Ma non sai che quella di cambiare idea è una prerogativa femminile? Del resto, ho cose più importanti a cui pensare. Il problema non è Butler, sono perfettamente in grado di gestirlo. No, si tratta di te, Saxon. Non puoi andartene in giro per la città, muovendoti goffamente come un elefante in una cristalleria. Tengo troppo a te, non posso lasciare che tu finisca sempre con il metterti in queste situazioni.» «E continuerai a pensarla così, anche se dovesse presentare un reclamo?» «Un reclamo formale, intendi? Non lo farà. Fidati. Devo lavorare con lui ogni giorno. Non credo che darà troppa importanza al fatto che tu gli abbia rivolto una domanda inopportuna sulla scena di un suicidio, sapendo che il giorno successivo ci ritroveremo a dover conversare civilmente davanti a un cadavere. È un professionista, non lascerà che gli avvenimenti di questa mattina interferiscano con il suo lavoro. Anzi, probabilmente se ne è già dimenticato, penserà di non poter pretendere di più, da una rozza america-
na.» «Capo?» Grace si voltò. Healy era in piedi, in fondo alle scale. Le fece cenno di avvicinarsi. Scambiarono qualche parola, tenendo le teste molto vicine, mentre io finivo di guardare le fotografie di Alice e Felix, sforzandomi di non ascoltare. «Saxon, devo andare», disse Grace. «Ci sentiamo più tardi.» E uscì. «Allora?» chiesi a Healy. «È successa una cosa», rispose vago. «Sì, l'avevo immaginato. Di che si tratta, questa volta?» Sembrava a disagio. «Non sono autorizzato a dirglielo.» «Oh, no, non ci si metta anche lei!» Diede una rapida occhiata in giro, per essere sicuro che non ci sentisse nessuno. «Ok, ma non dica che l'ha saputo da me, intesi?» «Intesi.» Abbassò la voce. «Mark Brook è morto.» «Che cosa? Credevo si trattasse di una ferita superficiale.» «Infatti. Ma questa mattina ha firmato per essere dimesso, dicendo che non ce la faceva più a starsene chiuso in ospedale, ed è tornato a casa. Circa un'ora fa, la moglie è uscita in macchina per andare in farmacia a prendergli degli antidolorifici e, quando è tornata, l'ha trovato sulla soglia.» Sulla soglia. «Qualcuno gli ha sparato, e la pallottola sembra corrispondere a quella che gli aveva attraversato la spalla, solo che, questa volta, l'assassino ha mirato alla fronte.» Si lamentò, in preda alla frustrazione. «Per Dio, ma come abbiamo fatto a non prevedere una cosa simile? Perché non abbiamo pensato che l'Uomo di Marx sarebbe tornato per finire il suo lavoro?» Che cosa avrei potuto dirgli? Perché nessuno di noi aveva realizzato che Brook era ancora in pericolo? E che, una volta consegnato il messaggio affidatogli dal killer, L'Uomo di Marx l'avrebbe voluto morto come tutte le altre vittime? E, cosa più importante, com'era riuscito ad avvicinarsi tanto al suo bersaglio? «Sicuramente sarà stato pieno di giornalisti, davanti alla casa di Brook.»
«Era appena uscito dall'ospedale, non avevano ancora scoperto dove viveva. Secondo i testimoni, è arrivato un tizio in motocicletta; è sceso e ha bussato alla porta. Brook gli ha aperto e bang...» Come aveva fatto a trovarlo così in fretta? Una soffiata dall'interno? «Avete già rintracciato la moto?» Annuì. «È stata rubata questo pomeriggio, insieme al casco, davanti a una casa sulla South Circular Road. Quel genio del proprietario l'aveva lasciata di fronte all'ingresso, con le chiavi ancora inserite nel quadro. Certa gente merita davvero che le capitino cose del genere.» «Niente sospetti, su di lui?» «No. A quanto pare, al momento dell'omicidio aveva già denunciato il furto. Quando Brook è stato ucciso, davanti a casa sua c'era una pattuglia della polizia, e lui stava rilasciando una dichiarazione agli agenti di turno.» «Se non altro, qualcuno l'ha visto. Sarebbe la prima volta... Evidentemente, l'Uomo di Marx sta diventando sempre più sicuro delle sue possibilità, visto che è arrivato a colpire in pieno giorno in un quartiere residenziale.» «Però è riuscito ancora a farla franca. Indossava il casco ed è piuttosto improbabile che qualcuno riesca a riconoscerlo durante un confronto, no? Oh... ma c'è anche una buona notizia.» «E cioè?» «Ha perso la pistola.» «E me lo dice solo ora?» «Mi dia una chance, Saxon. Sembra che, subito dopo aver sparato a Brook, sia saltato in sella alla moto e sia ripartito a tutta birra verso la città. Ma probabilmente correva troppo, e ha calcolato male la curva in fondo alla strada. Ha rischiato di cadere e l'arma gli è scivolata dalla tasca. Un paio di testimoni hanno detto che si è fermato e che stava per tornare a prenderla; ma dev'essersi accorto che c'era troppa gente, lì intorno. Se ne stanno occupando gli esperti di balistica. Ci vorrà un po', prima che riescano ad affermarlo con certezza, ma sono abbastanza sicuri che si tratti della pistola che ha usato fino a questo momento.» La notizia era davvero scioccante, ma per la prima volta nell'arco di alcune settimane fui felice per Grace. Finalmente uno sprazzo di sereno, qualcosa su cui lavorare. Finalmente una possibilità di mettere fine a quel ciclo, e di scrollarsi di dosso Draker, Sweeney, la stampa. Negli ultimi me-
si, la Squadra omicidi non aveva fatto molti progressi, e non era riuscita a scoprire da chi l'Uomo di Marx avesse recuperato la sua pistola. Ma se davvero aveva perso il suo giocattolo preferito, forse presto sarebbe stato costretto a procurarsene uno nuovo. «Spargeremo immediatamente la voce», concordò Healy. «Ci assicureremo che ogni criminale in città tenga gli occhi aperti, nel caso qualcuno cerchi di comprare un'arma. E faremo in modo che ci segnalino qualsiasi persona sospetta, o sconosciuta. Ovviamente, in cambio di una ricompensa adeguata.» «Ne sarà valso ogni centesimo, se ci farà arrivare all'Uomo di Marx.» A meno che lui non avesse una pistola di riserva, pensai, o non conoscesse una fonte alternativa per procurarsi ciò di cui aveva bisogno. Ma non dissi nulla. A che scopo essere tanto negativi? C'è sempre una prima volta. Per tutto. PARTE TERZA 36 Sognai che il mare invadeva Dublino, sollevandosi sulla baia e rovesciandosi sul porto e lungo il fiume che si snodava attraverso la città, oltrepassando North Wall, Custom House Quay e Bachelor's Walk, fino a Islandbridge; i muri, che fino a quel momento avevano tenuto a bada l'immensa distesa d'acqua, si rompevano, liberando la forza di quello spettro; e l'acqua salata entrava nelle strade, spandendosi rapidamente. La osservavo invadere Abbey Street e Mary's Lane, College Green e Temple Bar, Winetavern e Fishamble e Sycamore, ricoprendo i gradini davanti alle porte d'ingresso e allagando le case; la marea entrava dentro senza bussare e saliva le scale fino a raggiungere i tetti, che si trasformavano in barche e in sottomarini, con i comignoli che fungevano da periscopio. E continuava a salire, fino a isolare il Dublin Castle, sommergendo Cornmarket e il Coombe. St Stephen's Green adesso era una baia, e l'acqua salata si infrangeva contro le spiagge di pietra, e io ero in piedi sul mio terrazzo, e guardavo quella calma distesa marina, formatasi all'improvviso; a nord, il carcere di Mountjoy si era trasformato in un'altra Alcatraz, abbandonata su uno scoglio desolato. E, prima di rendermi conto di quello che stavo facendo, mi tuffavo dal balcone... ed era piuttosto strano, perché io non so nuotare. E
l'acqua era talmente fredda da togliermi il fiato... e, d'un tratto, mi accorgevo che invece sapevo nuotare, e mi spingevo verso il fondo, flessibile come un pesce, attraverso le strade sommerse. Ero sola. Baggot Street era una fossa oceanica, le luci delle finestre ancora accese; il plancton scintillante galleggiava sulla superficie, simile a una distesa di fiori, e l'acqua strappava le foglie dagli alberi riversandole in mare, quasi fosse autunno e fosse stato il vento, e non la marea, a portarle via con sé. Sempre nuotando, entravo e uscivo dalle finestre delle case, salivo rampe di scale e giravo attorno alle guglie delle chiese coperte dall'acqua, come se stessi volando. Percorrevo i vicoli sbirciando dentro luoghi segreti, come un fantasma, come il frammento del sogno di un bambino dimenticato lì, dopo che tutti erano fuggiti per mettersi in salvo. E più nuotavo, più le case iniziavano a somigliare a degli scogli ricoperti di alghe e cirripedi, cavi come grotte. All'improvviso, mi rendevo conto che avevo bisogno di respirare; e iniziavo a risalire, sempre più su, con il petto che mi scoppiava per lo sforzo, fino a quando sentivo i polmoni riempirsi d'aria e urlavo per il sollievo. Mi voltavo e vedevo che la città era scomparsa e io ero lontana, in mezzo al mare, ed era buio, e l'unica cosa che riuscivo a vedere davanti a me era la luce del faro di Howth, che si accendeva e si spegneva... si accendeva e si spegneva; e anche se nuotavo affannosamente per guadagnare la riva, mi rendevo conto che la distanza era eccessiva. Le mie membra erano rigide come pietra. A quel punto mi svegliai, con un sussulto. Ero spaventata... e sapevo che nel mio appartamento c'era qualcuno. Sentivo il suo respiro. O era il mio? Ascolta, mi dissi. Ascolta. Sì... adesso riuscivo a sentirli, mentre si muovevano al buio, in un'altra stanza. Scivolai fuori dal letto e attraversai il pavimento in punta di piedi; appoggiai l'orecchio alla porta e ascoltai... di nuovo silenzio. Quindi girai la maniglia e aprii, sgattaiolando fuori come un'ombra; scesi nel soggiorno, la luce era spenta, nessun movimento. La luce della luna entrava dall'ampia finestra creando sulle pareti delle figure sinistre, simili a onde ghiacciate... Le onde... il mio sogno... Dietro l'angolo vidi la stanza vuota, com'era normale che fosse, e iniziai a pensare di aver immaginato tutto; probabilmente temevo che il mio antipatico visitatore fosse tornato. Ma poi vidi un piccolissimo movimento furtivo, e vidi il contorno di una figura che si profilava contro la luce della lu-
na. «Non muoverti», intimai calma. «Ho una pistola.» «È meglio per te che non sia vero», mi rispose una voce familiare, «o potrei essere costretta ad arrestarti.» «Fitzgerald? Che cosa fai qui?» La luce si accese, accecandomi per un attimo, e lei era lì, seduta su una sedia dall'altra parte della stanza, con ancora indosso la giacca, le braccia conserte. «Me ne sto seduta su una sedia con le braccia conserte, e ho ancora indosso la giacca.» «Sì, questo lo vedo.» «E allora perché me l'hai chiesto?» Sorrise. «Hai del gelato?» «Che ore sono?» «La mia risposta influenzerà la tua riguardo al gelato?» «Certo che no.» «Ottimo... sono le due passate. Allora? Ce l'hai o no?» «Stracciatella... mi sembra di ricordare dall'ultima volta che ho aperto il freezer.» «Slurp. Non dimenticarti il cucchiaio.» «Devo prendertelo io?» «Sei più vicina al frigorifero. E sei già in piedi.» Andai a prenderle barattolo e cucchiaio, e mi appollaiai sul bracciolo della sedia accanto alla sua, mentre lei sollevava il coperchio e iniziava a servirsi. «Stavo sognando», dissi. «Succede, quando vai a dormire.» «Ho sognato che l'intera città era allagata. Il mare era dappertutto. E io nuotavo.» «Tu?» «Sì... be', adesso non ricordo.» «È sempre così con i sogni... non sono affidabili, non rimangono.» «Sei strana», le dissi. «Non lo so... leggera...» «È una lamentela la tua?» «Solo una semplice osservazione.» «È la mancanza di sonno; mi fa delirare. Tutto qui», mi spiegò, mentre mi allungava un cucchiaio di gelato e io chinavo la testa per assaggiarlo. «Niente che dieci ore di sonno e un lavoro diverso non risolverebbero. Ho passato la serata con Fisher nella sua stanza d'albergo, razziando il minibar
e cercando, per l'ennesima volta, di trovare un legame fra le vittime. C'è sempre una connessione, no? Non è così che dicono gli esperti?» «È solo un cliché», ribattei. Grace scoppiò a ridere. «Che ho detto di tanto divertente?» «La tua frase, quella sui cliché... Io ho detto la stessa cosa a Fisher, e sai lui che cosa mi ha risposto? Sì, l'ho letto da qualche parie; probabilmente in un libro di Saxon.» «Affascinante. E siete riusciti anche a combinare qualcosa, o avete solo parlato male di me?» «Non molto. Cioè, abbiamo lavorato parecchio, ma non siamo giunti ad alcun risultato. Sarebbe stato meglio il contrario. Abbiamo passato la maggior parte del tempo a chiederci che significato possa avere il nome del bar davanti al quale Brook si è beccato la prima pallottola: Louis IX.» «Non sapevo che fossi un'esperta di re francesi.» «Non sottovalutarmi. Tu non sai di che cosa posso essere esperta. Avanti, chiedimi qualcosa su Luigi IX. Qualsiasi cosa.» «È tardi, Grace. Vieni a letto.» «Qualsiasi cosa», insisté. «Davvero?» «Sì.» «Ok. Anno di nascita?» «Milleduecentoquattordici», fu la sua risposta immediata. «Morte?» «Milleduecentosettanta. Salì al trono all'età di dodici anni, dopo la morte del padre. Ebbe undici figli e prese parte a due crociate. Passava ore a pregare, a digiunare e a fare penitenza. Era un patrono dell'architettura, ed era noto per il suo atteggiamento caritatevole. Dava da mangiare ai mendicanti e gli lavava i piedi. St. Louis in Missouri e San Luis Rey in California hanno preso il nome da lui.» «Ok, uno a zero per te. Dove hai imparato tutta questa roba?» «Da Fisher. Ha fatto i compiti, da profiler coscienzioso qual è. O... com'è che li chiamano adesso? Analisti investigativi comportamentali?» «E lui pensa che il nome del bar abbia davvero qualche significato?» «No, in effetti. Ma, nonostante stia lavorando a questo caso da pochi giorni, è riuscito ad arrivare alla fase che molti di noi hanno raggiunto solo dopo parecchie settimane: quella che, tecnicamente, viene definita 'raschiamento del fondo del barile'. Ha considerato ogni possibile connessio-
ne fra le vittime. Nomi. Segni zodiacali. Condizioni atmosferiche al momento della morte. Persino il colore dei calzini che indossavano, e il luogo in cui le loro bisnonne hanno perso la verginità.» «Non mi ero mai resa conto che potesse essere un elemento caratterizzante degli psicopatici.» Grace prese un altro cucchiaio di gelato dal barattolo, senza accorgersi di una goccia che le cadeva sulla giacca. «Abbiamo sentito la tua mancanza», mi disse. «Il tuo contributo sarebbe stato gradito. Non hai ricevuto i miei messaggi?» «Sì, ma ho pensato che non vi sarei stata molto utile, questa sera.» «Alice... è per lei?» Non riuscivo a pensare ad altro. Al suo corpo nella vasca. Quanto tempo era passato, ormai? Quattro giorni? Cinque? Avevo perso il conto. Tutto quello che sapevo era che non sarei riuscita a togliermi dalla testa quell'ultima immagine. Mi ricordava un dipinto che avevo visto in passato, una ragazzina trasportata da un fiume, morta, circondata da fiori, l'acqua scintillante. E, non so come, quel quadro aveva finito con il mescolarsi al ricordo, che potevo soltanto immaginare, di Lucy Toner, sdraiata in fondo al giardino della sua casa di Howth, la lingua appesantita dal terriccio... e a quello di Sydney, che dormiva con il capo appoggiato sul binario. Dormiva... In momenti come quello, sentivo il bisogno di immaginarla così. E il fatto che Alice al momento della morte fosse incinta, di dieci settimane, secondo il referto dell'autopsia eseguita da Alastair Butler, contribuiva soltanto a peggiorare la situazione. Avevo la sensazione di rivivere la tragedia di Felix. No, ripensandoci era diverso. Non ero mai riuscita ad accettare che lui si fosse tolto la vita, nonostante la sua depressione, e i suoi crolli nervosi. Alice, invece, non aveva mostrato nessun segnale. Eppure, il fatto che si fosse suicidata sembrava avere un senso. Non sembrava un'ipotesi così assurda. «Mi avevi avvertita, non mi sarei dovuta lasciare coinvolgere emotivamente», dissi. «Più facile a dirsi che a farsi. Non ti biasimo. Oh, aspetta...» aggiunse notando infine la macchia di gelato. «Tieni questo, vado a prendere uno
strofinaccio.» Mi passò il barattolo e si alzò per andare in cucina. Aveva fatto solo due passi, quando si fermò di colpo. «Ehi... che cos'abbiamo qui?» Si chinò e raccolse qualcosa dal pavimento, proprio dietro la porta d'ingresso. Sembrava una carta da gioco formato gigante, con un disegno su un lato. Qualcuno doveva averla fatta passare sotto la porta prima dell'arrivo di Grace, e lei, al buio, non l'aveva notata. L'immagine raffigurava un giovane che camminava sotto il sole, con indosso una tunica dall'aria un po' antiquata e un paio di stivali gialli; teneva un fiore in una mano, e sulla spalla portava un bastone con uno zaino. Un cane gli trotterellava fra i piedi. Stava scendendo da una collina, e un arcobaleno era pronto ad acchiapparlo. In calce, due parole: Lo sciocco. «So che cos'è», disse. «È una carta dei tarocchi. Guarda, dietro ci sono delle cifre, si direbbe un numero di telefono.» Gliela presi dalle mani e la guardai. «È il numero di Gina...» 37 «E poi ha cominciato a disporre le carte sul tavolo, a faccia in su, molto lentamente», raccontò Grace a Fisher il mattino successivo, mentre eravamo seduti nella sua auto nel parcheggio della centrale. Lawrence era al posto del passeggero, mentre io mi ero infilata sul sedile posteriore, insieme a Patrick Walsh. «La Luna. La Stella. L'Impiccato. Il Diavolo. La Ruota della Fortuna.» «Dio, ho sempre odiato quella roba», dissi. «E alla fine, ancora più lentamente, ci ha spiegato che i tarocchi sono la più antica forma di profezia. In origine, le carte corrispondevano ai capitoli del Libro dei Morti. Vennero copiate su tavolette di pietra, fino ad assumere l'aspetto odierno: ogni carta rappresenta un aspetto della vita, della personalità o del destino di noi umani. Era stato Felix a regalarle quel mazzo di tarocchi. Secondo Gina, non era raro che il nostro fotografo si affidasse alle carte, per prendere le sue decisioni. La ragazza ha una sua teoria...» «Che sarebbe?» «L'Uomo di Marx ucciderebbe le sue vittime basandosi sui tarocchi.» «Non esiste», ribatté Fisher.
«Era venuta a cercarmi a casa per parlarmene», gli spiegai. «E, dopo aver suonato invano il campanello, ha infilato sotto la porta la carta con il suo numero di telefono... non aveva nient'altro su cui scriverlo.» Evitai accuratamente di incrociare lo sguardo di Grace attraverso lo specchietto, sicuramente avrebbe voluto sapere se avessi preso un'altra volta le mie pillole per dormire. «Secondo lei», proseguì il sovrintendente capo Fitzgerald, «ciascuna delle vittime rappresenterebbe una carta: Mark Brook il Mago; il giudice Prior la Giustizia; Jane Knox l'Eremita; Charlie Knight, noto anche come lo Spietato Mietitore, la Morte; Finlay Hart... merda, non riesco proprio a ricordarmelo, a che cosa corrisponde Hart, Saxon?» «All'Imperatore.» «Giusto», confermò. «A quanto pare, simboleggerebbe l'autorità.» «E Tim Enright? La prima vittima?» intervenne Walsh. «Gina ha dovuto ammettere di non averne la minima idea», risposi. «Secondo lei, potrebbe essere il Mondo, cioè la ricchezza materiale. Non lavorava nell'ambiente della finanza?» «Non solo. È convinta che la frase sussurrata all'orecchio di Brook si riferisse ai tarocchi, e non avesse niente a che vedere con il pensiero di Karl Marx. Il killer ha voluto dirci che è lui a distribuire le carte con cui ci giocheremo la mano della morte. La mano morta significa questo.» «E voi, alla fine, che cosa le avete detto?» volle sapere Fisher. «Detto? È stata già abbastanza dura mantenere un'espressione seria, figuriamoci se avessimo anche dovuto esprimere un'opinione», rispose Grace. «I tarocchi... ma fammi il piacere! Come idea non è nemmeno molto originale. Avevo paura che, una volta finito con le carte, tirasse fuori una tavoletta ouija e ci proponesse di fare una seduta spiritica, per contattare le anime delle vittime.» «Così», proseguii io, «ci siamo limitate a ringraziarla e...» «Ce la siamo filata», concluse Grace. Questa volta i nostri sguardi si incrociarono nello specchietto, e scoppiammo a ridere di nuovo, proprio come avevamo fatto la notte prima nella mia auto, dopo essere uscite di corsa dall'appartamento di Gina. Una vera e propria fuga. «Non capisco che cosa ci troviate di tanto divertente», disse Walsh, serissimo, lo sguardo fisso tra me e Grace e un'espressione vuota. «Io credo che sia tutto piuttosto chiaro.» «Chiaro?»
«Sì. Perché, hai qualcosa in contrario, dolcezza?» «In effetti tesoro», risposi, cercando di evitare lo sguardo di Grace per non scoppiare a ridere un'altra volta, «secondo me sono tutte stronzate. Ah... e smettila di chiamarmi dolcezza.» «Bambini», ci ammonì Fisher, «non litigate, là dietro. D'altronde, la vostra amica Gina potrebbe aver intuito qualcosa.» «Non sarai anche tu uno di quelli che credono a certe stupidaggini mistiche, vero?» «Crederci? No, questo no. Ma non le definirei stupidaggini. I tarocchi possono essere utili. Li ho persino studiati al college. Corso di psicologia.» «Al college studiano queste stronzate?» «Serviva come punto di partenza per l'investigazione di Jung nell'ambito dell'inconscio collettivo», spiegò lui, pazientemente. «I simboli dovrebbero rappresentare delle qualità o degli stati attraverso cui passiamo nel corso della nostra vita. Miranda usa ancora le carte, durante le sue sedute. A volte un paziente si sente incoraggiato e prova a leggervi un significato e questo lo aiuta a comprendere che cosa sta accadendo nella sua testa, e a dare un senso alla realtà. È un po' come interpretare i simboli che ci appaiono in sogno: è un modo per indagare la psiche umana, e per scoprire come essa si adatta ai colpi e agli urti della vita.» «Forse i suoi pazienti avrebbero meno problemi se non avessero in testa tutte queste convinzioni junghiane, freudiane e chi più ne ha più ne metta.» «Non torniamo di nuovo su questo argomento. Sono note a tutti le tue vedute intransigenti nei confronti della terapia psicanalitica, Saxon. E, comunque, ho detto di aver studiato i tarocchi al college, ma questo non significa che, nelle notti di luna piena, mi mettessi a danzare nudo intorno ai menhir, sacrificando delle vergini.» Che immagine allettante... «Sono solo sorpresa che tu ti sia occupato di certe cose... tutto qui.» «Be', si è giovani una volta sola», fece lui. «Ok», dissi, «ammettiamo, tanto per il gusto di discutere, e per quanto la teoria di Gina sia piuttosto debole, che l'Uomo di Marx sia una persona mentalmente confusa, al punto da scegliere le sue vittime basandosi sui tarocchi. Ebbene, che differenza farebbe? Dovreste controllare ogni alcolizzato New Age che vive in città, e parlare con chiunque venda candele profumate, incensi e libri di incantesimi. Dovreste interrogare gli astrologi e tutti coloro che offrono consulenze feng shui nel retro dei negozi, o tengono corsi serali sulle proiezioni astrali. Sarebbe un incubo, e comunque non
vi porterebbe a nulla, non vi direbbe che tipo di persona state cercando, né chi sarà la sua prossima vittima.» «Sai una cosa Saxon?» mi interruppe Fisher. «Il tuo cervello non lavora più come una volta. Dovresti darlo indietro in cambio di un modello più aggiornato.» «Vuoi dire che per te c'è qualcosa di plausibile, in tutto questo?» «Non nel senso che intende la ragazza di Felix, probabilmente. Ma persino una rossa eccentrica può imbattersi nella verità, per caso o inavvertitamente. E non saltarmi di nuovo alla gola, non parlo dei tarocchi. Mi riferisco a Tim Enright. Gina ha ragione a indicarlo come un caso anomalo, rispetto agli altri.» «Ma Enright non era nessuno», osservai. «È proprio questo il punto. Considera tutte le altre vittime: ciascuna aveva una sua importanza. Erano conosciute... erano delle figure pubbliche, insomma. Terence Prior. Finlay Hart. Charlie Knight. Mark Brook. Perfino la donna che viveva per strada era stata qualcuno, ai suoi tempi. Ma Tim Enright no, non era mai stato importante. Allora perché ucciderlo? E, soprattutto, perché farlo fuori per primo? L'Uomo di Marx avrebbe potuto iniziare da una qualsiasi delle altre vittime: il giudice, il politico... Ciò gli avrebbe consentito di dichiarare il suo intento fin dall'inizio, guadagnandosi l'attenzione dei media. Invece non l'ha fatto. Ha cominciato con l'omicidio di uno sconosciuto, di un personaggio del tutto anonimo. Non ha esordito con uno schianto, ma con una lagna. Almeno in questo. Gina ha visto giusto. Tim Enright non c'entra nulla con le altre vittime.» «Quindi, secondo te», dissi, cercando di seguire la sua logica, «il killer sarebbe stato mosso da un interesse privato, dal momento che Enright non apparteneva alla sfera pubblica. Chissà, forse il poveretto conosceva addirittura il suo assassino...» «È una possibilità, sì.» «Magari stava solo facendo pratica», suggerì Walsh. «È quello che ho pensato anch'io, quando il sovrintendente capo Fitzgerald mi ha chiesto di esaminare il caso», ammise Fisher. «L'omicidio di Enright era stato puramente opportunistico, soltanto in seguito l'Uomo di Marx avrebbe realizzato che la sua attività non doveva necessariamente fermarsi lì. Poteva continuare a uccidere. Ancora e ancora... Ma adesso non ne sono più così sicuro. Poniamo che l'assassino conoscesse Enright, e che avesse pianificato gli omicidi in anticipo, allora è probabile che temesse di essere smascherato, e che avesse deciso fin dall'inizio di sistemare la
faccenda. Ha dovuto sbarazzarsi di un testimone scomodo per rendere possibile tutto il resto, perché l'Uomo di Marx avesse la possibilità di esprimersi.» «Allora dobbiamo scoprire qualcosa di più sulla prima vittima», osservò Grace. Abbassò il finestrino e chiamò Boland, che fino a quel momento era rimasto di guardia accanto al muro. E lui trotterellò fino alla macchina, con una pila di dossier che il capo gli aveva chiesto di portare nel caso ne avesse avuto bisogno. «Che cosa abbiamo su Enright?» Boland si accovacciò e iniziò a far passare le cartellette, una per una. Giunto alla fine, senza fortuna, ricominciò dall'inizio. «Mi dia un minuto, capo. È qui in mezzo da qualche parte...» «Finché rimane lì in mezzo, non mi sarà di molto aiuto.» «Dannazione... avrei giurato che... Ah, eccolo.» Tirò fuori il rapporto e lo passò a Grace; restammo tutti in silenzio, mentre lei girava le pagine lentamente, leggendo. «È più o meno come mi ricordavo. Qui dentro c'è tutta la sua maledetta storia. Scuola, college, lavoro, qualifiche professionali... In altre parole, non abbiamo granché.» Mi chinai in avanti e sollevai una pagina strappata da una rivista, che si intravedeva tra gli altri fogli. Era una fotografia su carta patinata. Tre uomini seduti dietro una scrivania, Enright al centro; tutti con un sorriso forzato, e chiaramente imbarazzati per aver smesso il solito completo a tre pezzi in cambio di un maglione casual, dai disegni vivaci. Sotto, la didascalia: I tre festeggiano dieci anni di successo. «Che cos'è?» chiesi, dando un'occhiata veloce alla foto, prima di passarla a Walsh. «Proviene da una rivista locale di economia, che sette o otto mesi fa ha dedicato un servizio alla compagnia di Enright», mi spiegò lui, senza darvi troppa importanza. «La solita roba: dei PR associati che celebrano le loro schiaccianti vittorie. Boland l'ha inserita nel dossier perché avessimo un'immagine abbastanza chiara della vittima.» «Oltre a quella scattata durante l'autopsia, intendi?» «Non era esattamente il suo profilo migliore.» Enright sorrideva con l'innocenza malinconica di chi ignora il proprio tragico destino.
«Non dimenticate che lavorava nella city», ci fece notare Fisher, «il che significa che doveva avere diversi clienti, nei suoi registri. E credo che valga la pena fare qualche controllo.» «Già fatto», rispose Walsh. «Nessun dissidio. Nessun disaccordo, nessuna rivalità. Apparentemente, non c'era una sola persona che avesse un buon motivo per volerlo morto.» «Una c'è, invece», sottolineò Fisher, in tono gentile. «Ma non deve trattarsi per forza di un contrasto... In effetti, dovremmo considerare anche la situazione opposta.» «Qualcosa di più di una normale relazione professionale, intende?» chiese Grace. «Sì, è possibile. Walsh, mettiti al lavoro. Procurami la lista di tutti i clienti di Enright... diciamo degli ultimi tre anni. Scopri eventuali discrepanze, o qualsiasi stranezza nella condotta dei suoi affari. Controlla la sua agenda, i conti. E parla di nuovo con i suoi colleglli. Dev'esserci senz'altro qualcosa che possano ricordare. Boland, verifica che tutte le informazioni contenute nel dossier siano state prese in considerazione.» «Ok, capo.» «Tu puoi venire con me», mi disse Fisher, girandosi a guardarmi, mentre Walsh e Grace scendevano dall'auto. Evidentemente, si era reso conto che la mia presenza non era più necessaria, ora che la macchina della Polizia Metropolitana di Dublino si era rimessa in moto. «Vorrei riuscire a vedere alcune persone, questo pomeriggio. E, prima che tu me lo chieda, no, non si tratta di stregoni.» «Lo apprezzo davvero, Fisher, ma devo andare in un posto.» «Hai intenzione di dirmi dove?» «No.» «Grazie al cielo. In caso contrario, sarei rimasto deluso. Non saresti più la Saxon che conosciamo e che amiamo, se all'improvviso iniziassi a mostrarti comunicativa.» «Sono qui per soddisfarvi.» «Già. Credo che sia anche il motto dell'Uomo di Marx.» 38 «Le consiglio di fare più attenzione», dissi. «L'ultima persona che ho accettato di incontrare in segreto è finita a faccia in giù sugli scogli, con un foro di pallottola nel cranio.» «Non è divertente», mi rispose Vincent Strange.
«E chi ride?» Si era fatto trovare dove mi aveva detto, quando inaspettatamente mi aveva raggiunta al telefono. Era a St. Stephen's Green, accanto alla malconcia statua in bronzo di uno dei tanti ribelli della storia di cui non sapevo nulla, e per cui non nutrivo il minimo interesse. Indossava la sua giacca di pelliccia preferita, e come al solito non passava inosservato. «Immagino che si stia chiedendo perché l'ho chiamata.» «Non sono ancora arrivata alla fase degli interrogativi. Sono solo felice che non si tratti di un'altra lettera», gli risposi. «Comunque, è decisamente meglio che nascondersi dietro i propri legali, no? Un comportamento più civile.» «Non mi stavo nascondendo dietro Conor Buckley», obiettò. Aveva un'espressione ferita. «Sono stati dei giorni difficili. Volevo che la smettesse di importunarmi, tutto qui.» «Importunarla? Io volevo soltanto farle qualche domanda su Felix.» «Io ho avuto un'impressione diversa.» «Sì, Buckley è stato abbastanza chiaro, al riguardo.» Evitava di guardarmi negli occhi. Era palesemente nervoso, forse non era sicuro di aver fatto la cosa giusta. E non occorreva essere un genio per capire il motivo, probabilmente voleva qualcosa da me, ma la nostra relazione gli impediva di chiedermi un favore senza farsi troppo problemi. In effetti, non ero neppure certa che tra di noi ci fosse un qualsiasi tipo di rapporto. «Camminiamo», suggerì. «Non mi va di starmene qui fermo come un idiota.» Perché cambiare proprio adesso? avrei voluto chiedergli. Ma tenni la bocca chiusa. Ero decisa a sfoggiare il mio comportamento migliore. Qualunque fosse la ragione che l'aveva spinto a chiamarmi, dopotutto, doveva essere piuttosto importante, se l'aveva indotto a superare la sua naturale inclinazione nei miei confronti. Normalmente, mi trattava come se fossi un ricordino poco piacevole rimastogli sotto una scarpa. Cominciammo a camminare. Passeggiammo nel parco, come una qualsiasi coppia di innamorati. La più strana che si fosse mai vista... ma, com'è che dicono? L'amore è cieco. Mi piaceva quel posto. D'estate, quando faceva più caldo, spesso lasciavo il mio appartamento a poche centinaia di metri e mi sedevo a pranzare su una delle panchine che costeggiavano i laghetti. Gli alberi erano coperti
di foglie, gli uccellini cantavano in mezzo all'implacabile urlo del traffico, e il vento trasportava le risate dei bambini nel vicino parco giochi. Oggi era più tranquillo, l'estate stentava a iniziare. Si stava prendendo il suo tempo, e l'aria conservava quella temperatura pungente che invitava le persone a restarsene in casa. I sentieri erano bagnati... non mi ero nemmeno accorta che quella mattina avesse piovuto. Gli alberi erano ancora spogli, quasi non avessero intenzione di mettere le foglie, per quell'anno: si sarebbero risparmiati lo sforzo. Riuscivo a capirli perfettamente. «È per Alice?» gli chiesi. «No. O forse sì. Oh... non lo so. Lei crede che si sia suicidata?» «In effetti, sì.» «Ma riguardo a Felix non era della stessa idea.» «Era una situazione diversa.» «In che senso?» «Felix non aveva alcun motivo per uccidersi, dal mio punto di vista. E continuo a pensarla così. L'unico problema è che nessuno ha voluto darmi retta, quando sono andata in cerca di risposte.» «Se si sta riferendo a me...» cominciò lui. «Lei è uno dei tanti.» «Avevo le mie ragioni.» «Per mentirmi?» «Non le ho mentito. O meglio, sì, devo ammettere di averlo fatto. Quando le ho detto che Alice si era lamentata della sua intrusione, per esempio. E che non credeva affatto che il fratello fosse stato ucciso. Lei lo credeva, eccome. Mi chiese persino di aiutarla a trovare il colpevole.» «E perché non l'ha sostenuta?» «Perché ero convinto che fosse la cosa meno saggia. Ero preoccupato, questa ossessione nei confronti di Felix non poteva portare a nulla di buono. Lui si era tolto la vita. Temevo che, incoraggiandola, l'avrei resa ancora più fragile. E a che pro? Suo fratello si era suicidato e la polizia lo sapeva: ho visto il referto dell'autopsia. Erano fatti che non potevano essere ignorati. E io non potevo incoraggiarla a inseguire quella che mi sembrava soltanto una fantasia.» «E la pensa ancora così? Crede ancora che si trattasse di una fantasia?» Strange si fermò. Eravamo arrivati davanti a un ponticello che attraversava un laghetto al centro del parco. Si appoggiò al parapetto e abbassò lo sguardo, che tenne fisso sull'acqua. Un cigno di passaggio sollevò gli occhi
speranzosi, aspettando le nostre briciole. Poi affondò il becco nell'acqua, in cerca del cibo che non c'era, e per un breve istante restò senza testa. «Non lo so più. Ma c'è qualcosa che non quadra. Per questo avevo bisogno di parlarle. Per questo sono venuto a chiedere il suo aiuto.» «Sto ancora aspettando.» All'inizio ebbe qualche difficoltà. Non gli uscivano le parole; mi ero trovata nella stessa situazione, quando avevo raccontato ad Alice della telefonata del fratello. Quando finalmente, con un immenso sforzo, riuscì a parlare, compresi i suoi problemi. «Sono stato contattato da un uomo, due notti fa. Voleva che gli procurassi una pistola.» «Non sapevo che i suoi affari comprendessero anche il traffico d'armi. Forse il mercato delle opere d'arte è un po' in crisi, ultimamente?» «Immagino che questo sia un altro dei suoi tentativi umoristici», disse lui sollevando i gomiti dal parapetto e ricominciando a camminare. «Francamente, trovo offensivo che qualcuno possa pensare che sarei disposto a vendere una delle mie pistole. Sono un collezionista, non un criminale.» «Chi era?» gli chiesi, seguendolo. «So che stenterà a crederci, ma non mi ha detto il suo nome.» «Ha detto che l'ha contattata. Intende dire che...» «Mi ha telefonato. Alla galleria. Non l'ho mai visto in faccia.» «Ha riconosciuto la voce?» «Sono abbastanza sicuro di non averla mai sentita prima.» «Allora credo di doverle fare le mie congratulazioni. È entrato a far parte di un ristretto gruppo di prescelti: soltanto due persone, finora, hanno avuto l'onore di sentire la voce dell'Uomo di Marx... e l'altra è morta subito dopo.» La sua risposta giunse come un grido. «Chi ha mai parlato dell'Uomo di Marx?» «Andiamo, è questo che pensa, no?» osservai. «E, dopo quello che è successo a Felix, non la biasimo. Chi altri verrebbe da lei a cercare una pistola? I criminali comuni, di solito, non telefonano a un mercante d'arte quando hanno bisogno di un'arma. Hanno delle fonti alternative. Al contrario del nostro uomo: sarebbe un grosso rischio rivolgersi ai normali canali, quando metà mondo della malavita è in attesa della sua prossima mossa, per poter incassare la ricompensa. Non crederà che si tratti di una coincidenza, vero? L'assassino ha appena perso la sua Glock preferita, e lei, a di-
stanza di pochi giorni, riceve quella telefonata. Le era già capitato?» «Certo che no.» «Appunto.» Improvvisamente, gli alberi muggirono sopra di noi, mossi da un vento levatosi dal nulla, che per un momento coprì i rumori della città. Riuscivo quasi a immaginare che fossimo sperduti nel cuore di una foresta. «Che tipo di pistola voleva?» «Non una Glock, se è a questo che sta pensando.» Pronunciata da lui, la parola Glock riusciva addirittura ad assumere una sfumatura comica. «Ha detto soltanto che voleva un'arma. Non aveva particolari pretese, purché funzionasse e non fosse rintracciabile. E mi ha chiesto anche le munizioni.» «E lei che cosa gli ha risposto?» «Mi sono rifiutato. Gliel'ho detto, non sono un commerciante d'armi.» «Che bravo ragazzo. Non mi sarei aspettata niente di meno, da un cittadino rispettoso della legge come lei. Quindi, esattamente, perché ne staremmo parlando, adesso? Perché non è andato subito alla polizia?» «Be', adesso arriva la parte difficile. Quando gli ho detto di no, mi ha minacciato: se non gli avessi procurato una pistola, ovviamente mantenendo il segreto, o avessi informato le autorità, avrebbe rivelato certe informazioni sul mio conto che preferirei tenere per me.» «E cioè?» «Non crederà davvero che...» «Che abbia intenzione di parlarmene? Sicuro. A meno che non voglia offrire lo spunto per l'articolo principale in prima pagina sui giornali scandalistici di domani.» «Cazzo!» Era la prima volta che lo sentivo imprecare. «Non sta scherzando, immagino...» «No. E sto ancora aspettando la sua risposta.» Le parole gli uscirono controvoglia, quasi lo stessi torturando. Me lo disse a denti stretti. «Io ho un certo tenore di vita da mantenere e a volte può diventare... costoso», cominciò, evitando di guardarmi negli occhi. «Devo ammettere che, in alcune occasioni, ho tenuto un comportamento non proprio rispettoso degli standard professionali che gli altri si aspettano da me, e di cui io stesso sono un convinto sostenitore.» «Adesso inizia a parlare come un avvocato. Farò meglio a prestarle attenzione, o inizierà a declamare frasi in latino e a pronunciare discorsi incomprensibili. Perché, invece, non mi fa un esempio?»
«Mi sarà capitato di fare qualche copia extra di alcune stampe fotografiche particolarmente ricercate, senza che l'artista lo sapesse, e di passarle ad alcuni clienti interessati. E, per sbarcare il lunario, di tanto in tanto potrei aver ritoccato la percentuale delle mie commissioni.» «Gesù, che stupida...» dissi scuotendo la testa. «E io che, per tutto questo tempo, ho pensato che stesse per dirmi che era il padre del bambino di Alice.» «Io?» disse in un soffio. «Tra me e lei non c'è mai stato niente del genere. Anche se l'avessi voluto, Felix era sempre in mezzo. Era l'unico uomo, per lei. Non c'è motivo di fingere, ormai, no? La morte non ha segreti. Può anche darsi che si fosse divertita, quando era più giovane, ma aveva perso l'abitudine di folleggiare. Immagino che si fosse resa conto che tutto quello che voleva era Felix; non aveva altri amanti da almeno una decina d'anni. E nemmeno lui era stato con nessun'altra, prima della comparsa di quella donna, Gina Fox. Il figlio di Alice poteva essere solo suo.» «Dunque i suoi crimini sono finanziari, più che carnali.» «La prego, eviti di prendermi in giro. La situazione è già abbastanza delicata.» Delicata? Quell'uomo aveva un talento naturale per gli eufemismi. «Soprattutto dal momento che non ho nulla di cui vergognarmi», aggiunse. «Sono un po' confusa. Se non ha niente di cui vergognarsi, allora perché ha così paura che quello che potrebbe aver commesso diventi di dominio pubblico? Non è nemmeno andato alla polizia, quando Dio solo sa chi la sta ricattando, e sta cercando di trasformarla in un trafficante d'armi.» «Come le ho già detto, le vicende degli ultimi giorni hanno portato una pubblicità piuttosto negativa. Sa, le foto ritrovate nell'abitazione dei Berg... Io ho una reputazione da difendere. Non voglio che qualcuno pensi che fossi coinvolto in qualche giro poco pulito.» «Il cielo non voglia.» «È solo che la gente...» «Non capirebbe», continuai. «Disse qualcosa di simile anche durante il nostro primo incontro.» «Rida pure», continuò, «ma riesco già a sentire una profonda disapprovazione nei miei confronti... è così dal giorno della morte di Alice. È come un ghiacciaio che si muove, lentamente ma inesorabilmente, verso sud. I clienti hanno cancellato appuntamenti, i compratori hanno rimandato visite
alla galleria e soggiorni in città per incontrarmi. Se, dopo le attività erotiche dei due fratelli, venissero alla luce anche le mie truffe contabili, la mia attività ne sarebbe gravemente compromessa.» «Perché non si è rivolto al suo caro amico, il vicecommissario Draker? L'aveva già fatto, in passato, no?» «Anche l'amicizia ha dei limiti», rispose lui con un sorriso ironico, «e io credo di averli già raggiunti. Si sono verificati un paio di incidenti...» «Farsi fotografare a un party organizzato da un gangster è il primo. L'ho saputo anch'io.» «Ma ancora una volta devo sottolineare la mia estraneità ai fatti. All'epoca non avevo idea che Frederick Sheehy fosse coinvolto in affari del genere. Ma la gente tende sempre a trarre le conclusioni sbagliate. E a esprimere giudizi. E poi c'è stata quell'altra faccenda... di cui adesso non è proprio il caso di parlare.» «Si riferisce al fatto di aver dato a Felix la pistola con cui poi si è tolto la vita?» «Lei lo sa?» Il suo stupore infantile riuscì quasi a commuovermi. «Non si faccia prendere dal panico. Non ho intenzione di fare nomi durante una seduta del Senato.» «Bene, visto che ne è già al corrente, è inutile sorvolare. Ho commesso un terribile errore, che mi ha causato un'enorme sofferenza. Ho perso un buon amico. E l'unico motivo che mi spinse ad accontentarlo fu che anche lui minacciò di rivelare i miei peccatucci. Discutemmo per diversi mesi, fino a quando mi chiese spiegazioni riguardo ad alcune... irregolarità nei suoi pagamenti. Fu così che ci allontanammo. E adesso questa storia è tornata a tormentarmi. Ho paura di perdere tutto. 'Tre strike e sei fuori'... di solito funziona così, no? Viviamo in un mondo crudele.» «Forse anche il tizio che l'ha chiamata, chiunque sia, sa di poter contare sui suoi timori.» Sollevai lo sguardo e notai che ci stavamo avvicinando alla statua di bronzo da cui eravamo partiti. «Ma ancora non capisco che cos'abbia a che fare tutto questo con me: perché, fra tutte le persone, ha deciso di venire a raccontarlo proprio alla sottoscritta?» «Speravo che potesse dirmelo lei.» «Io? E perché diavolo dovrei avere una risposta?» esclamai. «Perché», mi spiegò Strange, «l'uomo con cui ho parlato al telefono ha chiesto specificamente di lei. Dovrà essere lei, Saxon, a fare la consegna. A portargli la pistola. È l'unica condizione che ha posto.»
Attraverso gli alberi, guardai gli edifici che circondavano St. Stephen's Green, cercando di individuare la mia finestra e di immaginarmi lassù, mentre osservavo quest'altra me stessa. Dovevo farmi un cenno di saluto? E immaginai che al mio posto ci fosse un'altra persona, con lo sguardo puntato nella stessa direzione. Aspettava. E osservava. Attendeva che uscissi di casa, per salire le scale e introdursi nelle mie stanze. Perché proprio io? L'unico motivo poteva essere Felix, pensai. Se era stato davvero l'Uomo di Marx a chiamare Strange, e non avevo dubbi in proposito, allora doveva sapere che stavo indagando sulla morte di Berg. Non avevo certo mantenuto il segreto, riguardo alle mie intenzioni. Non lo faccio mai, la mia lingua conduce una vita propria. Forse pensava che stessi seguendo le sue impronte nella neve, come aveva fatto Felix? E, in questo caso, che cosa avrebbe fatto se avessi seguito le sue indicazioni e mi fossi presentata con la pistola? C'è bisogno di chiederselo? «Quindi», gli dissi, «che cosa vuole da me, esattamente?» «Voglio che faccia quello che mi ha chiesto quell'uomo.» Parlò come se la sua risposta fosse talmente ovvia da risultare chiara anche a un bambino. «Voglio che prenda una pistola e gliela porti... sono disposto a cedergli qualsiasi arma, non m'importa.» «Lei è pazzo.» «No, non lo dica. Ci pensi, almeno.» «E a che cosa dovrei pensare? Mi sta dicendo che vorrebbe che io portassi una pistola all'Uomo di Marx?» «La pagherò. Diecimila vanno bene? Facciamo venti. Non ha alcuna importanza.» «Il denaro non c'entra», dissi. «Quell'uomo è un assassino, Strange. Lei è fuori di testa, se ha pensato anche per un solo secondo di accogliere la sua richiesta. E perché io dovrei aiutarla? Mi stupisce persino che abbia avuto il coraggio di venire a chiedermelo. Fin dal nostro primo incontro, non ha fatto altro che vanificare i miei sforzi. Mi ha ostacolata in tutti i modi. E adesso vorrebbe il mio aiuto?» «Dunque si tratta di questo? Vuole prendersi una piccola rivincita? Siccome nessuno era disposto ad ascoltarla riguardo alla morte di Felix, adesso ha intenzione di voltarmi le spalle?» «Le cose non stanno affatto così.»
«E come stanno, allora? Io voglio solo che quel tizio sparisca. Non lo capisce? Sono disperato. Riesce a immaginare quanto mi sia costato trovare il coraggio di venire a raccontarle una cosa simile, senza sapere che cosa avrebbe detto o fatto, o come avrebbe reagito? Ma era necessario. Sono in trappola e voglio venirne fuori... e l'unica soluzione che conosca è fare quello che mi è stato chiesto. Desidero solo essere lasciato in pace. Non so che altro fare. Se lei non mi aiuta...» In quel momento provai quasi dispiacere per lui, ma non mi intenerii al punto da sottovalutare i rischi a cui avrebbe esposto l'intera popolazione di Dublino per salvarsi la pelle. «La sua disperazione le impedisce di pensare con lucidità. Non riesce a capire che per lei le cose si metteranno davvero male, se si venisse a sapere che ha consapevolmente aiutato un pluriomicida? Al contrario, se aiutasse la polizia ad arrivare a lui, nessuno farebbe caso a quei pochi soldi finiti per sbaglio nelle sue tasche. Cominci a ragionare, Strange. Dico sul serio. Non le interessa sapere che altre persone moriranno, se farà come le ha detto?» «Certo che mi interessa», ribatté tenace. «Mi sento un verme, soltanto per aver pensato di aiutarlo, ma mi ha messo con le spalle al muro, non lo vede? Non voglio assumermi da solo la responsabilità di fare l'eroe. Devo pensare a me stesso. Al mio futuro.» «Ok, allora pensi a se stesso. Crede davvero che quell'uomo svanirà, una volta che avrà obbedito alla sua richiesta? Non pensa che tornerà per chiederle qualcos'altro? E poi ancora? C'è sempre qualcosa da chiedere, e di solito ci si rivolge alle persone che la prima volta si sono mostrate più disponibili.» «Che altro posso fare?» Cercai di riordinare le varie possibilità nella mia testa. «A quando il prossimo contatto?» «Intorno a mezzanotte. Mi dirà ora e luogo della consegna.» «Bene, lei prenderà la chiamata», dissi. «Si comporti come se fosse tutto ok, accetti ogni sua richiesta e si limiti a definire i dettagli. Poi mi telefoni.» «Che cosa ha intenzione di fare?» «Deve fidarsi di me. Si è rivolto alla sottoscritta per avere aiuto, e io glielo sto offrendo. Ma deve lasciarmi fare a modo mio. Mi assicurerò che il suo nome resti fuori da tutta questa faccenda... farò del mio meglio.» «Non andrà alla polizia, vero?»
«Strange, mi ascolti: deve fidarsi di me.» Vidi il panico nei suoi occhi, mentre mi fissava. Non riusciva a distogliere lo sguardo. Poi, annuì. «Non ho altra scelta.» «In cambio, voglio una cosa da lei.» «Qualsiasi cosa. Mi dica il suo prezzo.» «Voglio vedere le foto chiuse nell'armadietto alla Central Station.» Evidentemente, non era la risposta che si aspettava. «Sa anche questo?» «Volevo sapere dove si trovavano, così l'ho seguita.» Mi mostrò tutta la sua disapprovazione: una reazione che giudicai eccessiva, considerando che veniva da un uomo che, appena qualche minuto prima, aveva suggerito di procurare una pistola a uno sconosciuto per coprire i suoi imbrogli. «Sono sorpreso, perché non le ha rubate, semplicemente?» «Ci ho pensato, in effetti. Che posso dirle? Sono una donna piuttosto curiosa. Ma c'era troppa gente, lì in giro. E non sapevo se ne valesse la pena. Allora? Me lo dice lei?» «Non saprei. Io non le ho mai guardate.» «Andiamo...» «È libera di non credermi. Ma, come le ho già detto, Felix mi aveva chiesto semplicemente di custodirle per lui, ed è quello che ho fatto. Avrò anche i miei difetti, ma non sono un ficcanaso. Immagino che avesse le sue buone ragioni, se voleva che rimanessero nascoste.» «Di che cosa pensa che si tratti?» «All'inizio», ammise, «pensavo che fossero foto dei due fratelli insieme. Forse il furto l'aveva preoccupato, facendogli realizzare quanto fossero vulnerabili, e aveva preferito affidarle a me. Ma poi, quando è morta Alice e la polizia ha rinvenuto quelle immagini... Be', i miei sospetti non avevano più alcun senso. Vuole la verità? Non sapevo che cosa fossero, e non volevo guardarle. Avevo paura di quello che avrei potuto trovare.» «Io non ho paura. E voglio vederle. Devo sapere se hanno qualcosa a che fare con la morte di Felix.» «Oh, no... non vorrà ricominciare con quella storia. Come potrebbero essere legate alla sua scomparsa?» «Non lo saprò finché non le avrò viste.»
39 Eravamo nell'ufficio di Grace e Draker stava sbraitando. Mi stavo godendo ogni secondo del suo disagio. La sua voce scuoteva i vetri delle finestre come un camion in transito. E le parole erano variazioni su un unico tema, sembrava un maestro impazzito che pestava sulle corde di un pianoforte scordato. Chi diavolo crede di essere? Chi le dà il diritto di comportarsi così? Purtroppo, devo ammettere che i suoi discorsi farneticanti erano davvero poco originali. Cercai di non sentire la sua voce, sforzandomi di assimilarla ai rumori in sottofondo come il ronzio di una mosca che sbatteva contro una finestra chiusa, incapace di uscire. Vedevo le sue labbra muoversi, ma le parole si separavano, disintegrandosi prima di arrivare alle mie orecchie. «Il tempo passa, Draker», gli dissi, quando la sua bocca si fermò per qualche istante. «Scommetto che non ha ascoltato nemmeno una parola di quello che ho detto.» «Mi faccia pensare... No, ha ragione.» La mia risposta lo mandò di nuovo su tutte le furie. L'accordo che avevo proposto al vicecommissario era molto semplice: avrei passato una soffiata alla Squadra omicidi, riguardo alla consegna di una pistola che sarebbe dovuta avvenire quella notte, purché mi si concedesse di prendere parte all'azione. Volevo essere lì. E, non dimentichiamo la parte più importante, volevo essere la prima persona a parlare con il sospetto. Non era esattamente quello che aveva avuto in mente Strange, quando aveva chiesto il mio aiuto; ma ero sicura che, alla fine, mi avrebbe ringraziata. Anche se non ero in grado di garantirgli che il suo nome sarebbe rimasto fuori dalla vicenda. Qualunque piccola rovina sarebbe stata preferibile alla prospettiva di essere tenuto sotto scacco dall'Uomo di Marx. Ma Draker aveva un piccolo problema, con il mio piano. Due problemi, in effetti. Primo, e questo potevo anche concederglielo, ero una comune cittadina; l'aveva già sottolineato un centinaio di volte da quando, mezz'ora prima, ero entrata in centrale insieme al sovrintendente capo Fitzgerald. Se quella sera mi fosse successo qualcosa, sarebbe toccato a lui inventarsi una scioc-
ca storiella da propinare al pubblico per contenere i danni. E c'era da augurarsi che la stampa non scoprisse quella piccola bugia... In tal caso, infatti, non solo avrebbe dovuto dire addio alle speranze di diventare commissario, ma con buona probabilità sarebbe stato costretto a lasciare anche il posto che occupava. Secondo, io non gli piacevo. Non gli ero mai piaciuta. Comunque, questo non era un mio problema. Quanto al primo, non esisteva possibilità alcuna di negoziare, dal momento che non avevo la benché minima intenzione di passare le mie informazioni ai suoi uomini, lasciando che assumessero il controllo delle operazioni. E poi, fatto non trascurabile, l'uomo che aveva contattato Strange voleva che fossi presente. Ma avevo tralasciato di dirlo a Draker. «Comunque, da chi avrebbe avuto questa soffiata?» mi chiese lui, ancora alterato. «Questo è un particolare che temo di non poterle rivelare», risposi sforzandomi di rendere il più irritante possibile ogni singola parola. «Il mio informatore desidera mantenere l'anonimato. Tutto quello che sono disposta a dire è che ho saputo che questa sera dovrebbe essere consegnata una pistola in una zona a nord della città, e che io intendo essere presente. Se i suoi agenti saranno con me dipende soltanto da lei.» «E se rifiutassi?» «Allora non saprà mai se quest'uomo è chi lei spera che sia.» «E lo lascerebbe andare, piuttosto che tirarsi indietro?» «Non c'è bisogno che nessuno si faccia da parte», sottolineai paziente. «Deve soltanto accettare le mie condizioni, così ciascuno di noi avrà quello che vuole.» «Là fuori stanno morendo delle persone», ricominciò tornando ad alzare la voce. «Lei ha la responsabilità di passarci qualsiasi informazione che possa condurre alla cattura di quell'uomo.» Mi chiesi se anche a casa si esprimesse in modo così pedante. In tal caso, la moglie aveva tutta la mia compassione. «E lei», ribattei, «dovrà spiegare al commissario perché si è lasciato sfuggire delle informazioni preziose a causa dei problemi personali che ha con la sottoscritta.» «Io avrei dei problemi personali con lei? Nel caso non l'avesse notato, sto cercando di impedirle di farsi ammazzare. Sa che cosa dovrei fare?»
disse poi, mosso da un'intuizione spontanea. «Dovrei metterla agli arresti. Forse, dopo qualche ora in cella, adotterebbe un atteggiamento meno arrogante.» «Allora perché non la smette con le minacce e non fa sul serio?» Draker si voltò verso Grace, esasperato. «Sovrintendente capo», le disse supplichevole, «non c'è niente che possa fare al riguardo?» A giudicare dalla sua espressione, lei stava facendo di tutto per non fargli capire quanto la divertisse vederlo lacerato da quel dilemma. E ci stava riuscendo piuttosto bene; ma non poteva certo ingannare me. «Signore», disse fredda, «siamo nella stessa barca. Ne so quanto lei. E Saxon è stata assolutamente chiara, riguardo alle sue condizioni.» La guardò dritto in volto, come se percepisse il piacere di Grace davanti al suo imbarazzo, e come se volesse sfidarla a mostrarlo senza riserve; ma lei rimase impassibile, e lui fu costretto a distogliere lo sguardo, che riportò su di me. La sua energia combattiva iniziava a scemare. «Quindi mi conferma che lo lascerebbe andare, piuttosto che tirarsi indietro?» Annuii, secca. E per un attimo provai a crederci anch'io... solo così, infatti, sarei riuscita a convincerlo. «E gli permetterebbe di uccidere altre persone?» «Non c'è ragione per cui altri debbano morire. Senta, se proprio ci tiene, può riattaccare un'altra volta con il suo discorso sulla mia arroganza. Io me ne starò seduta qui tutto il giorno ad ascoltarla. Le darò anche un voto, se vuole. Ma questo non ci porterà da nessuna parte. È vero, potrebbe andare male e lei ci rimetterebbe la faccia. Ci sono sempre dei rischi. In alternativa, entro domani mattina potrebbe chiudere il caso. È troppo importante, per me. Non voglio lasciarmi sfuggire questa opportunità. Allora? Che cos'ha deciso?» Anziché rispondermi direttamente, mi fece a sua volta una domanda. «Perché quest'ansia di riuscire a parlare con quello svitato?» «Perché, se è davvero l'Uomo di Marx, voglio chiedergli che cosa sa sulla scomparsa di Felix Berg. Voglio sapere perché è morto.» «Oh, no... non vorrà ricominciare con questa storia», ribatté Draker stancamente. Le stesse parole che aveva usato Strange meno di un'ora prima, quando gli avevo chiesto di vedere le fotografie. Apparentemente, l'intera città era concorde nel disapprovare il mio operato. «Mi era giunta voce che si stesse rendendo ridicola seguendo questa pista assurda, ma non avrei
mai pensato che avrebbe permesso a tale ossessione di interferire con la sua capacità di giudizio. Che cosa c'è da sapere, ancora? Berg si è suicidato.» «Voglio che sia l'Uomo di Marx a dirmelo.» Draker si voltò verso la finestra e guardò le nubi grigie. La luce era screziata di ombre scure e minacciose, come se la pioggia si preparasse a tornare. Un uccello solitario volava giù, verso il fiume. «Molto bene, disse il vicecommissario, alla fine. «Accetto le sue condizioni. Ci dica dove avverrà la consegna della pistola. Ha il mio permesso, potrà essere presente. E lascerò che sia lei ad avvicinare per prima il sospetto. Avrà due, tre minuti per parlargli. Anche di più, se crede. In cambio, però...» Sul volto gli era comparso un sorriso sottile. «Sì?» «Accetterà che Seamus Dalton questa sera le faccia da baby-sitter.» «Dalton?» gli feci eco sbalordita. E Grace iniziò a protestare. «Seamus Dalton», ripeté lui, alzando la voce per coprire le obiezioni di entrambe. «È un detective della Squadra omicidi con molta esperienza. Conosce bene la parte settentrionale della città. E credo anche che sia già stato punito a sufficienza per qualsiasi atteggiamento gli sia stato imputato.» «Dalton non è stato punito», intervenne Grace. «L'ho solo assegnato temporaneamente ad altri incarichi, visto che i suoi problemi personali gli impedivano di lavorare insieme agli uomini della squadra.» «La mia osservazione non voleva essere un preludio a un ulteriore dibattito», tagliò corto Draker. «Questo è quello che ho deciso. Prendere o lasciare.» Stava imparando alla svelta. «Saxon?» disse il sovrintendente capo. «Ok, vada per Dalton.» «Sei sicura che la cosa non ti crei dei problemi?» mi chiese Grace per la nona volta. Sapevo che era la nona perché avevo iniziato a contarle quando era entrata dalla porta. «Hai una voce strana.» «Perché devo urlare per farmi sentire.» «Che cosa? Parla più forte, non capisco.» «Appunto.» Era sotto la doccia e io la stavo osservando, seduta sul bordo della vasca.
Era arrivata dieci minuti prima per darsi una rinfrescata e prepararsi a quella che si prospettava una lunga notte; aveva preferito fermarsi da me per risparmiare tempo. Il solo fatto di vederla mi fece sentire in colpa. Le avevo detto subito che le mie informazioni venivano da Vincent Strange, e le avevo anche riferito il contenuto della telefonata... ma avevo tralasciato di dirle che l'uomo misterioso aveva insistito affinché fossi io a effettuare la consegna. Se l'avessi fatto, le avrei offerto lo spunto per farmi delle domande troppo complicate; sicuramente, mi avrebbe chiesto che interesse potesse avere quel tizio nei miei confronti. E forse sarei stata costretta a raccontarle che cosa era successo nel mio appartamento la sera del funerale di Felix. Non le avevo ancora detto nulla. E non ero nemmeno sicura di aver trovato una connessione. Inoltre, la mia insistenza riguardo al fatto di essere presente la preoccupava già abbastanza. Aveva persino tentato di dissuadermi... Ed ero stata così male, vedendola tanto in ansia, che avrei anche potuto darle retta, se la mia partecipazione non fosse stata assolutamente necessaria. Ma non potevo mancare, o il presunto assassino sarebbe venuto meno all'accordo. Una mossa sbagliata, e avremmo visto sfumare qualsiasi possibilità di giungere alla soluzione del mistero. E io non ero pronta a permettere una cosa simile. Non adesso, quando iniziavo a intravedere la fine. Quando stavo per avere delle risposte sulla morte di Felix. Quelle risposte che non avevo mai trovato su Sydney. Non avevo scelta. Dovevo esserci anch'io. «Ehi, passami un asciugamano», disse facendomi sussultare. Non mi ero accorta che avesse chiuso l'acqua. Stavo diventando un'esperta, nel sognare a occhi aperti. Presi un asciugamano e glielo passai attraverso la porta del box, e la osservai mentre usciva avvolgendosi nel telo, lasciando le sue impronte bagnate sulle piastrelle. Mentre si asciugava continuò a parlare, cercando di distrarre entrambe dall'ansia che ci stava divorando. Rapidamente, ripercorse gli avvenimenti di quella giornata. Una volta tanto, Fitzgerald sembrava aver avuto fortuna. A poche ore dall'incontro in auto con Fisher e Walsh, fuori dalla centrale, la polizia era riuscita ad avere un quadro più chiaro delle attività di Tim Enright, rispetto a quanto emerso all'inizio delle indagini. «Walsh ha portato uno scatolone di roba che ha prelevato dall'ufficio della vittima. Lettere, e-mail, ricevute, qualsiasi cosa. E c'è un nome che
spicca fra gli altri: quello di Charles Mason, titolare della Mason & Vine, una società che importa vini e che ha sede giù al molo. Enright aveva curato gli investimenti di Mason per anni, ma, a quanto risulta dai documenti, erano almeno dodici mesi che da quest'ultimo non percepiva un centesimo.» «E Mason è stato in grado di dare una spiegazione?» «Sì, in effetti, anche se dopo notevoli pressioni. A quanto pare, lo scorso anno Enright gli chiese di far arrivare per lui un pacco dagli Stati Uniti, Mason avrebbe usato le sue conoscenze perché passasse la dogana senza problemi, e in cambio la vittima avrebbe offerto i suoi servizi gratis per un anno. Un bel risparmio, per Mason. Era uno dei suoi maggiori clienti.» «Enright gli rivelò il contenuto del pacco?» «Disse che si trattava di un pregiato vino d'annata.» «Vino? E lui gli credette?» «Che motivo aveva di mettere in dubbio la sua parola? Lo conosceva da anni, era un tipo pulito. E collezionava vini d'annata; sembra che avesse accumulato una fortuna, nella sua cantina. Gli spiegò semplicemente che non voleva pagare tasse sull'acquisto, cosa che avrebbe dovuto fare se l'avesse dichiarato. A sentire lui, il fisco l'aveva già pelato abbastanza.» «E Mason non si fece scrupoli, quando gli chiese di aiutarlo a frodare gli ispettori fiscali?» «No. Anzi, probabilmente apprezzò l'iniziativa. Chi mai vorrebbe un broker che non è disposto a prendere qualche scorciatoia? È come una prostituta che non fa niente al primo appuntamento...» «Già, immagino che tu abbia ragione. E, secondo te, che cosa c'era in quel pacco?» «Lo sai benissimo», rispose, riappendendo l'asciugamano e allungando una mano per prendere i vestiti. «Una Glock .36 con un passato pulito, sconosciuta alla sezione Indagini Balistiche... la stessa che adesso si trova nel nostro deposito, dopo essersi guadagnata una cospicua serie di precedenti. È così che l'Uomo di Marx è riuscito a far entrare la pistola nel Paese: servendosi di Tim Enright.» «Per questo Enright sarebbe morto? Sì, devo ammettere che ha senso», dissi. «Se non fosse stato ucciso, l'intera sequenza si sarebbe potuta bloccare fin dall'inizio. Sapeva troppe cose. Ma perché Mason non si è rivolto alla polizia, dopo l'omicidio? Non ha pensato che potesse esserci un legame tra il pacco misterioso e la morte di Enright?» «A quanto dice, no. Secondo lui, la polizia avrebbe imbeccato i media
suggerendo che i delitti erano assolutamente casuali e privi di qualsiasi movente, e che non esisteva alcun legame con la criminalità organizzata. Il che è del tutto vero. Non credo che avesse la minima idea riguardo al contenuto del pacco, ammesso che la nostra intuizione sia corretta. Ha detto soltanto di essersi sentito sollevato, la nostra convinzione riguardo alla casualità degli omicidi lo aveva liberato da un peso, evitandogli di farsi avanti per confessare l'accordo stipulato con la vittima. Se la cosa fosse trapelata, la sua immagine ne avrebbe risentito.» «E adesso, con due nuove vittime, ne risentirà ancora di più», riflettei. «Ma se è stato Enright a fornire la Glock all'Uomo di Marx... che cosa ha avuto in cambio? È l'unica parte che ancora non riesco a capire.» «Già, nemmeno io», ammise Grace. «Non del denaro, visto che dai movimenti bancari non è emersa alcuna irregolarità... avevamo già eseguito dei controlli subito dopo l'omicidio. A meno che, ovviamente, il pagamento non fosse avvenuto in contanti. Ma non mi sembra una spiegazione plausibile. Enright aveva una montagna di soldi, non avrebbe ceduto a un banale tentativo di corruzione.» «Quindi deve trattarsi di qualcos'altro, qualcosa che l'ha persuaso a introdurre una pistola nel Paese a nome suo... ammesso che nel pacco ci fosse davvero un'arma», dissi. «Per esempio?» «Qualsiasi cosa. Un ricatto. Una storia di sesso. Delle minacce. Un debito di gioco. Magari voleva proteggere un membro della sua famiglia. Le solite ragioni che spingono un uomo a commettere una fesseria, nonostante il cervello gli suggerisca il contrario. Pensa alle fotografie di Strange. Forse la specialità dell'Uomo di Marx è proprio quella di scoprire e sfruttare il punto debole delle persone che incrociano il suo cammino.» «Non abbiamo trovato niente nel passato di Enright che faccia pensare alla possibilità di un ricatto. Niente amanti segrete. Non aveva una vita gay clandestina, o abitudini che meritassero di essere tenute nascoste alla moglie.» «Forse la pistola era per lui, forse aveva sentito il bisogno di procurarsene una, come Felix. L'Uomo di Marx ha intercettato il pacco e ha eliminato Enright, prima che rivelasse alla polizia che fine avesse fatto l'arma.» «Ok... e quale fra queste ipotesi ti sembra la più verosimile?» mi chiese Grace. «È questo il bello di essere una comune cittadina. Puoi suggerire un sacco di teorie allettanti, senza doverne per forza scegliere una.»
40 Dalton continuò a fissare tristemente il bicchiere vuoto, e non sprecò nemmeno uno sguardo per la sottoscritta, quando scostai rumorosamente uno sgabello e mi sedetti di fronte a lui, accendendomi un sigaro. Mezzanotte e dieci: fumare mi avrebbe fatto bene. «Beve in servizio, detective?» esordii. Finalmente, mi concesse un'occhiata. «La smetta con certe stronzate. Sta cercando di rovinarmi la reputazione? Detective... merda! E poi, ufficialmente è la mia serata libera. Non sono di turno. Sono tutto per lei.» «Quale inaspettata fortuna.» «Prende qualcosa?» L'orario di apertura doveva essere un concetto piuttosto flessibile, in quel locale. «Se offre lei...» «Offro io. E considerato che da qualche parte, sotto quella giacca, probabilmente si nasconde la forma di una donna, immagino che prenderà un vino bianco non troppo secco.» «Un whiskey, grazie», dissi al barman che era venuto a prendere l'ordinazione. «Due», fece Dalton. «E un'altra Guinness, già che ci siamo.» Diedi una rapida occhiata al bar, in attesa dei drink. «Ha scelto un bel posticino», commentai. Il locale era scuro e squallido come la sala di un cinema prima che si accendano le luci. Il luogo adatto per chi preferisce rimanere nell'ombra. Se non altro, gli avventori non vedevano quanto fossero sporchi i bicchieri. Occhio non vede, cuore non duole. «È tranquillo. E a me va bene così. Nessuno ci noterà, qui dentro.» Si scolò il suo whiskey e ruttò sommessamente, prima di prendere una lunga sorsata dalla Guinness appena arrivata. Staccò le labbra per riprendere fiato e ricominciò. Grace mi aveva detto che aveva iniziato a bere in seguito ai problemi all'interno della squadra, ma non mi ero certo aspettata una cosa del genere. Comunque mentirei, se dicessi di essere rimasta scioccata. L'energia di quest'uomo sembrava essere sfumata: aveva fatto fiasco, come un petardo con la miccia bagnata.
«Non dice niente?» saltò su, interrompendo i miei pensieri. «Nel caso se ne fosse dimenticato, non sono qui per mia scelta. È stato Draker a combinare questa specie di appuntamento, e sappiamo bene tutti e due che l'ha fatto soltanto per farmi incazzare. Non sono venuta per fare conversazione.» «Il suo comportamento non lascia dubbi, in proposito. Non credo che possa aspirare al titolo di Miss Simpatia. Non parla mai di sé. Nasconde tutto ciò che la riguarda, come se la sua vita fosse un grande mistero. Non c'è da meravigliarsi, se non piace a nessuno.» «Un sacco di gente mi ha descritto allo stesso modo, in passato, ma sentirlo da lei fa tutto un altro effetto. Nemmeno lei si merita il premio Cary Grant per l'uomo più affascinante, Dalton. E che cavolo di differenza farebbe se mi mettessi a raccontare la storia della mia vita a tutti quelli che incontro? Vuole sapere dove ho fatto l'asilo, che voti avevo in matematica, con chi ho avuto il mio primo appuntamento, qual è stata la mia prima macchina? La gente si illude, se in questo modo crede di conoscermi meglio. O piaci o non piaci. I dettagli non contano.» «Qual è stata la sua prima macchina, visto che ha sollevato l'argomento?» «Una Plymouth del '71. La trovai in un deposito di rottami in un quartiere meridionale di Boston, la pagai con il mio primo stipendio. E ci lavorai per un anno, giorno e notte, per riportarla in vita.» «Bella», disse. Per la prima volta sembrava approvare una frase uscita dalla mia bocca. «Può dirlo forte. Mi si spezzò il cuore quando andai al college e dovetti venderla per pagarmi la retta. Ecco, adesso si sente meglio? Le sembra che tra noi si stia sviluppando una sorta di empatia?» «Tutto serve.» «Sicuro, peccato che, per quanto ne sa, potrei essermi inventata tutto sul momento, perché era quello che voleva sentirsi dire. E quindi? Che fine fa la sua teoria?» Sembrava disgustato. «Lei ha davvero un pessimo carattere, lo sa?» «Comunque, sono solo affari miei», ribattei. «Non voglio diventare amica sua, Dalton. Non vedo l'ora di mettere la parola fine a tutto questo. Per lei non è così?» «Sono qui, no?» «È vero. Ma perché è venuto? Ho l'impressione che non gliene freghi un
cazzo di tutta questa faccenda. Non si è nemmeno preoccupato di rimanere lucido, evitando di prendersi una sbornia. Se è qui solo per bere e per brontolare, perché ha accettato l'incarico?» «Perché? E me lo chiede? Perché sono stato messo da parte per... quanto? Un anno, direi. Forse anche di più. E intanto mi sono fatto scavalcare dai novellini. Ho dei problemi disciplinari? Bene, avrebbero potuto citarmi in giudizio. Ma non credo sia stato giusto tagliarmi fuori dall'indagine sull'Uomo di Marx, quando uno come Patrick Walsh, che passa il suo tempo a giocare con un fottuto Game Boy invece di costruirsi dei contatti o di imparare il mestiere, viene trattato come il Cristo del Secondo Avvento. Ne ho abbastanza di sbattere la testa contro il muro. Fare il poliziotto, oggi, è come raccogliere dei granelli di polvere con un carrello elevatore. Io non ho la pazienza necessaria, non ho l'acutezza di chi si mette a setacciare i vari pezzettini fino a trovarne qualcuno che combaci. Ho bisogno di qualcosa di più definito. Ho bisogno di azione. Ecco perché sono qui, non sono più disposto a sentirmi superfluo. E voglio portare a termine il compito che mi è stato affidato.» Credo che fosse il discorso più lungo che avessi mai udito dalle sue labbra. Ed era anche sensato. Quelle parole riuscivano a riassumerlo piuttosto bene. «Mi faccia capire... qual è la sua idea? Arrestare l'Uomo di Marx, fare la figura dell'eroe, mostrare il dito medio a Grace, Healy, Walsh e al resto della squadra e farsi baciare il culo?» «A me non sembra niente male. Qualcosa in contrario?» «Sì. Non mi va giù che voglia rubare il campo al sovrintendente capo Fitzgerald, questo è il suo caso, ci sta lavorando da tre mesi, senza tregua. E l'ha difesa un centinaio di volte, quando ha passato il segno, mentre avrebbe potuto metterla alla porta. Non dovrei avere obiezioni? Del resto, sapevo a che cosa sarei andata incontro, quando Draker mi ha fatto il suo nome. Sapevo che non sarebbe stata una serata piacevole.» «Bene. Allora stabiliamo subito alcune regole, ok? Regola numero uno: il capo sono io. E si fa a modo mio. Conosco la zona settentrionale della città, e non per averla vista dal finestrino di un treno in transito. Riuscirei a girarla anche bendato. Sono cresciuto lì; alcuni ragazzi che conosco vivono ancora nel quartiere... Non sono tutti rispettosi della legge, ma per me ci sono sempre stati... mi hanno aiutato molto più di almeno la metà dei miei colleghi.»
Lavoratori del mondo, unitevi. Non avete niente da perdere, a parte le azioni salite alle stelle, che poggiano sulle vostre spalle di operai. In quel momento, mi ricordai di mordermi la lingua. E lo feci. «Regola numero due: le darò un paio di minuti, ma se in quel lasso di tempo dovessi avere l'impressione che le cose si stanno mettendo male, interverrò. Non mi interessa se lei e il vicecommissario vi siete accordati altrimenti. Intesi?» «Intesi. Ma credo che questo fosse già incluso nella regola numero uno.» «Non faccia la furba, Saxon. Si ricordi soltanto di farsi indietro quando glielo dico io... per il resto lasci fare ai ragazzi più grandi. E se la situazione dovesse diventare troppo pesante per la sua delicata natura femminile, me lo faccia sapere. La lascerò da qualche parte, al sicuro e al calduccio. E verremo a recuperarla più tardi.» «E perdermi così l'eccezionale opportunità di imparare qualcosa da una leggenda come Seamus Dalton?» commentai. «E dopo come potrei convivere con me stessa?» «Bene. Andiamo, allora.» Vuotò il bicchiere e afferrò le chiavi della macchina che aveva appoggiato sul tavolo. Lo seguii nel posteggio, fino all'auto civetta che aveva preso al deposito. «Ok. Dove dovrebbe avvenire la consegna?» mi chiese mentre salivamo in auto. Esitai. «E chi mi assicura che, una volta avuta l'informazione, non mi getterà fuori, piantandomi ai bordi della strada?» «Nessuno», rispose lui schietto. «Ma un patto è un patto. Mi dia pure dell'antiquato, ma normalmente io tengo fede alla parola data.» Così, gli diedi l'indirizzo che Strange mi aveva comunicato per telefono, a mezzanotte. Inserì la prima e uscì dal parcheggio, immettendosi nel flusso del traffico. Cercai di fare attenzione ai luoghi che attraversavamo, ma presto lasciammo le zone a me conosciute, dirigendoci verso la parte settentrionale di Dublino. Enormi distese uniformi, simili alla tundra o a un'immensa area selvaggia, dove non c'erano che il crimine e la droga per far passare il tempo, fino alla fine del mondo. Accanto all'apparente prosperità di una ristretta cerchia di fortunati, c'era una grossa fetta di popolazione rimasta indietro, distante dalla Dublino delle luci e dell'abbondanza quanto le persone che
un secolo prima erano vissute in quei bassifondi in rovina. Appoggiai la schiena al sedile e lo lasciai guidare. Durante il tragitto, Dalton chiamò il sovrintendente capo Fitzgerald alla radio, comunicandole la nostra destinazione perché pensasse a inviare dei rinforzi. Dalla voce sembrava ansiosa, ma lo sarei stata anch'io, se al mio posto ci fosse stata lei. Gli accordi erano che la squadra si sarebbe tenuta a distanza per non insospettire il nostro uomo, senza però allontanarsi troppo, nel caso si fosse reso necessario un intervento. Un margine che lasciava ampio spazio agli errori. «Eccoci», disse Dalton. Dal finestrino vidi l'ombra di un edificio semidistrutto, e una porta sotto un lampione rotto: il punto esatto in cui avrei dovuto incontrare il mio uomo, all'una precisa. «Non ci fermiamo?» «È troppo presto. Attirerebbe inutilmente l'attenzione su di sé.» Invece, compimmo altri due giri dell'isolato. Non riuscendo a scorgere i rinforzi, non sapevo se sentirmi rincuorata o se preoccuparmi, nel caso si fossero portati sul posto sbagliato. I miei nervi si facevano sempre più tesi, con il passare dei minuti. L'unica cosa che mi impediva di confessarlo era la prevedibile reazione di Dalton. Riuscivo a immaginare perfettamente quello che mi avrebbe detto: Cos'è, la situazione si sta facendo troppo rovente, agente speciale? Si è rammollita? Alla fine, con cinque minuti di anticipo, parcheggiò in una via laterale. Scendemmo dall'auto e proseguimmo a piedi. Su un lato della strada c'era un bidone dell'immondizia, dietro il quale aveva deciso di nascondersi, in attesa. Di fronte, c'era la mia porta. Tutt'intorno si levavano muri piuttosto alti; sembrava quasi che la strada attraversasse il fondo di una valle oscura. Anche se cammino nella valle delle ombre della morte... «Ok, adesso ci separiamo», mi comunicò Dalton. Attraversai da sola, fermandomi nel punto prestabilito sotto il lampione. Il vetro si era frantumato, e le schegge erano sparse sull'asfalto. Mi sembrava di essere tornata a quella prima sera, a Howth. Era mezzanotte... Immediatamente, sentii un rumore di passi. Mi voltai, era soltanto un vagabondo nottambulo, che mormorava qualche parola appesantito dall'alcol, mentre attraversava in fondo alla via. Scese di nuovo il silenzio, inter-
rotto un istante più tardi dallo stridore dei pneumatici di un'auto, probabilmente rubata, che sfrecciava in una strada adiacente. Il rumore mi fece indietreggiare, ma servì anche a risvegliare la mia attenzione; iniziai a notare altri rumori, come la cantilena delle macchine in azione in uno dei palazzi vicini. Dunque non erano tutti abbandonati... Controllai l'orologio. L'una passata. L'amico di Strange aveva avuto paura? Aveva visto Dalton? O gli altri, forse? Oppure... Mi irrigidii. Ancora dei passi. Questa volta venivano verso di me e... sì, riuscivo a vedere una figura, illuminata dai lampioni ancora funzionanti. Si avvicinava lentamente. Era lui? Si fermò a un paio di metri da me, ma tutto quello che riuscivo a vedere, sotto quella debole luce, era una sagoma, un'ombra. Provai a fare un passo verso di lui: «Resta dove sei», mi intimò bruscamente. Obbedii. Lui rimase al buio. «Hai portato quello che ho chiesto?» Com'era già accaduto a Strange, non riuscii a riconoscere la voce. «Sì.» «Dammela.» «E come, se non mi lasci avvicinare?» «Gettala a terra, verso di me.» A questo punto, la cosa rischiava di farsi complicata. Infilai una mano nella tasca interna della giacca e tirai fuori il sacchetto di cartone che Dalton aveva preso dal cassetto portaoggetti nel cruscotto. Dentro c'era una perfetta imitazione di una pistola automatica. La stessa impugnatura di una vera, lo stesso peso. Nell'oscurità, probabilmente non se ne sarebbe accorto. Io, almeno, ci speravo. Posai l'involucro a terra e glielo lanciai con un calcio. Lui si chinò a raccoglierlo. Estrasse l'arma. E annuì, soddisfatto. «È carica, come avevo chiesto?» «Naturalmente.» A salve... ma perché soffermarsi sui dettagli? Doveva essere malato di mente, se pensava davvero che gli avrei consegnato una pistola con le mu-
nizioni già inserite. Mi aveva preso per un'idiota? «Bene. Direi che abbiamo finito.» «Aspetta un momento. Dimmi una cosa, prima di andartene», mi affrettai a chiedergli, temendo che sparisse senza darmi il tempo di rivolgergli la domanda. «Hai ucciso tu Felix?» Non ebbe la minima esitazione. «Sì. La cosa migliore che abbia mai fatto.» E puntò la pistola verso di me. «Mi dispiace, credimi», disse. In quel momento, accaddero due cose. Prima udimmo un urlo, Dalton balzò fuori dal suo nascondiglio, gridando: «Polizia! Getta la pistola!» Poi, improvvisamente, la scena fu illuminata a giorno, come sotto un riflettore; l'uomo misterioso restò pietrificato, mentre la macchina che avevo sentito sfrecciare nella strada adiacente girava l'angolo sgommando e si dirigeva a tutta birra verso il centro della via, ondeggiando da una parte all'altra. Dai finestrini aperti giungevano le fragorose risate dei passeggeri della vettura rubata. Normalmente, avrei augurato a quei piccoli punk nichilisti di andare a sbattere contro un muro e di farla finita una volta per tutte; ma adesso ero lieta di quella luce, che illuminava il punto in cui mi trovavo. E, un istante prima che sollevasse la mano per proteggere gli occhi da quel bagliore accecante, riuscii a vederlo in viso per la prima volta. Lo conoscevo. Sì, lo conoscevo. Ma dove l'avevo visto? Poi mi ricordai. Era il tizio con il completo gessato che avevo sorpreso a fissarmi nella libreria di Burke, il giorno dopo che il mio appartamento era stato messo a soqquadro. E realizzai che l'avevo visto anche da un'altra parte. Era uno dei due uomini ritratti insieme a Enright, nella fotografia che Boland aveva strappato da una rivista e inserito nel dossier della vittima. Perché non avevo riconosciuto subito quel volto, guardando la foto? Semplice: non avevo dato alcun peso ai due colleghi, soffermandomi soltanto su Enright. E, senza l'abito gessato, il mio uomo aveva tutto un altro aspetto. Forse era davvero un'altra persona. La sua espressione parlava chiaro, era in preda al panico. Spostava lo
sguardo da me a Dalton, quasi stesse cercando di capire chi dei due rappresentasse la minaccia maggiore. Poi, incredibilmente puntò l'arma su di me, nonostante Dalton continuasse ad avvicinarsi. Non avevo paura. Perché avrei dovuto? La pistola non era carica. Ma il sangue mi si ghiacciò ugualmente nelle vene, mentre lo sconosciuto prendeva la mira e faceva fuoco. 41 Le orecchie mi ronzavano. Gli occhi mi bruciavano per il bagliore dell'esplosione. Ma ero ancora lì, in piedi, e fissavo lo sconosciuto che continuava a tenere il braccio disteso, la pistola stretta fra le dita. «Alza le mani e mettiti in ginocchio», disse Dalton. «Non provare a scappare, sei circondato.» Poi, alla radio gridò: «L'abbiamo preso». L'uomo guardò la strada, da un'estremità all'altra, come se il fatto di vederla vuota lo confondesse; poi gettò la pistola, e non oppose resistenza quando il detective lo raggiunse e gli disse di voltarsi. Mentre si girava, però, lo vidi infilare una mano in tasca ed estrarre qualcosa che luccicava, quasi fosse argento... e, prima che avessi il tempo di urlare, si mosse di scatto e l'oggetto misterioso sparì all'interno della giacca di Dalton, il quale, senza fiato, cadde in ginocchio. L'altro si voltò e cominciò a correre. Mi affrettai a raggiungere Dalton, e mi inginocchiai accanto a lui. Stringeva la giacca in prossimità della vita, nel punto in cui era stato pugnalato: le dita erano nere, coperte di sangue. «Vado a cercare aiuto», dissi. «'Fanculo... Ormai stanno arrivando.» «Ma dovrebbero già essere qui!» «Arriveranno. Piuttosto, pensi a non farlo scappare. Vada!» Esitai. «Lo sta perdendo, cazzo. Le ho detto di andare! Io starò bene. Chiederò aiuto via radio.» Così, mi lanciai all'inseguimento dello sconosciuto in fuga; mi sentivo terribilmente vulnerabile, senza un'arma, senza alcuna protezione. Non sapevo nemmeno quello che stavo facendo, o che cos'avrei fatto se fossi riuscita a prenderlo. Lo avrei tenuto in ostaggio minacciandolo con un sigaro acceso, in attesa dei rinforzi?
Sentivo i suoi passi in una strada laterale, e girai l'angolo appena in tempo per vederlo infilarsi in un vicolo, sul lato opposto. Lo seguii alla cieca, mentre un taxi strombazzava furiosamente dopo avermi mancato per un pelo; ma non si fermò, non rallentò nemmeno per assicurarsi che stessi bene. Si limitò a suonare il clacson, in segno di protesta, e filò via: un solo secondo di choc è sufficiente per comprendere l'atteggiamento cordiale e premuroso degli abitanti di una città... Dietro di me udii le sirene delle radiomobili: finalmente erano arrivati i rinforzi. Dov'erano stati fino a quel momento? Ma ormai avevo lasciato quella strada, allontanandomi dalla scena dell'aggressione; lo sconosciuto con il coltello era davanti a me, e sfrecciava attraverso i vicoli di mattoni scuri, trasformando la città in un labirinto nella speranza che la sua inseguitrice finisse con il perdersi. Adesso, però, riuscivo a vederlo più chiaramente, grazie alla luce dei lampioni. Correvo più veloce che potevo... era in momenti come quello che rimpiangevo di non aver seguito i consigli di Grace, e di non aver fatto più esercizio: il cuore mi stava scoppiando per lo sforzo, mentre oltrepassavo strade, angoli... i miei passi furiosi risuonavano amplificati dall'eco che rimbalzava sui muri. Mi fermai. Ero finita in una piazzetta circondata da edifici abbandonati e in rovina, dove un tempo vivevano delle persone, in mezzo alle fabbriche e ai magazzini, dove gli alberi crescevano terrorizzati, chiusi fra le recinzioni di un giardino pubblico ormai morto. Ero circondata da finestre, ombre e frammenti; le porte sbarrate si erano trasformate in tele per graffiti osceni. Da qui non poteva andarsene, a meno che non decidesse di entrare in uno dei palazzi. A meno che non vivesse qui. Abbandonai subito quell'idea assurda, era alquanto improbabile che mi avesse condotto nella sua tana. E poi, chi poteva vivere in un posto del genere? Di certo non un uomo che normalmente indossava completi gessati. Forse stava solo aspettando un'opportunità per tornare indietro e darsela a gambe. O aveva deciso di attirarmi in una trappola? Ripensai a Dalton e fui percorsa da un brivido. L'idea di venire qui da sola non era stata molto intelligente, ma ormai era fatta. Sforzandomi di riportare il respiro a un ritmo normale, percorsi lentamente il perimetro della piazza, sbirciando attraverso le fessure delle porte inchiodate, e le finestre
al piano terra. Non vedevo altro che cumuli di calcinacci, punteggiati qua e là dal luccichio di una siringa. Speravo di cogliere un minimo movimento. Ma non notai nulla. Niente. Zero assol... Feci un salto indietro, mentre un uccello sudicio disturbato nel sonno volava fuori dalla finestra rotta di un edificio che avevo appena oltrepassato; lo osservai compiere dei cerchi, sullo sfondo del cielo stellato, per poi svanire. Scese di nuovo il silenzio, che ricoprì tutto come un manto di neve. Mi voltai a guardare la casa da cui era scappato il pennuto. Adesso sapevo: lui era lì dentro. Chiamatelo sesto senso. Tornai sui miei passi, e questa volta notai che una delle assi che sbarravano l'ingresso era allentata. La spostai da un lato e vidi una fessura, abbastanza grande da permettere a una persona di passarci attraverso. Avrei dato qualsiasi cosa per avere con me una torcia. L'interno era buio. Forse c'erano dei ratti. Forse? C'era anche bisogno di chiederselo? Fu soltanto quando mi fermai sulla soglia, per spazzolarmi la polvere e lo sporco dalla giacca, che mi resi conto che sulle scale c'era un uomo, seduto, con la schiena incurvata. Ero finita dritta nella sua trappola. Ma anche adesso rimaneva immobile... eppure doveva avermi sentita entrare. Era piegato in avanti, la testa appoggiata sulle braccia conserte. Il coltello pendeva mollemente dalle sue dita. La lama era sporca del sangue di Dalton. «Non preoccuparti», disse lui senza sollevare lo sguardo, «non ho intenzione di ucciderti.» «Perché no? Credevo ti piacesse ammazzare le persone.» «Ne ho già uccise abbastanza.» Curiosamente, iniziò a ridere, come se avesse appena raccontato la barzelletta più divertente del mondo. Alzò la testa e mi guardò dritto negli occhi.
Non aveva l'aspetto di un killer. Del resto, quale assassino ce l'ha? Non sapevo che cosa fare. Se fossi riuscita a distrarlo... e a coprire quella distanza prima che se ne rendesse conto... Ma no, non ero in grado di fare un calcolo del genere. Una mossa sbagliata e... Sentivo i rumori della città, attutiti e distanti, al di là dei muri. Avevo l'impressione di trovarmi sotto una campana di vetro, come un insetto in trappola. Iniziava a mancarmi l'aria. Le sirene della polizia erano lontane, troppo lontane. Stentavo quasi a credere di essere lì dentro. Con... l'Uomo di Marx? Osservandolo, notai la stessa incertezza nei suoi occhi, quasi si stesse chiedendo che cosa fare. Ma fu solo un istante: subito, infatti, si alzò in piedi e scese deciso i gradini. Veniva verso di me, e io non avevo nessun posto in cui rifugiarmi. E poi, non gli avrei mai dato quella soddisfazione. Si fermò a tre passi di distanza. E sollevò il coltello, tenendolo fra noi due. «È stato un piacere conoscerti», disse. «E mi dispiace sinceramente di aver provato a spararti.» Rivolse la lama verso di sé e se la passò sulla gola. La sentii stridere, mentre raschiava contro l'osso. Quando, poco dopo, gli agenti entrarono nell'edificio abbandonato, io ero ancora nella stessa posizione. Non mi ero mossa. Non potevo. Guardavo il cadavere dell'uomo che mezz'ora prima aveva cercato di uccidermi, riverso in una pozza di sangue. «Non riesco a crederci», disse Boland, mentre mi riaccompagnava a casa. «A volte ho l'impressione di non essere più in grado di capire quello che succede.» Avevamo trovato tutti i semafori rossi. Un presagio, forse? «Non mi è mai piaciuto Seamus Dalton», riprese, «ma non è facile accettare il fatto che stasera è quasi rimasto ucciso. Ci pensa? Entrare in centrale e non trovarlo lì, a rendere la vita impossibile a tutti, come suo solito. Ho rischiato di non rivedere più la sua faccia. Sa che cosa mi ha detto, quando ci siamo incrociati l'ultima volta, ieri? Ero in piedi accanto alla
macchinetta del caffè, e lui si è avvicinato e mi ha chiesto: 'Perché, tanto per cambiare, non ti metti a lavorare, fottuto grassone, invece di startene lì a bere caffè tutto il giorno?'» Tipico di Dalton. «S'immagini se quelle fossero state le sue ultime parole, se mi avesse lasciato questo, come ricordo. Non sarebbe stato molto carino, vero?» Ma Dalton si sarebbe ripreso. Aveva perso molto sangue, ed era passato diverso tempo prima che i paramedici riuscissero a stabilizzarlo perché fosse trasportato in ospedale. Ma non aveva subito danni permanenti, la ferita era piuttosto grave, ma il coltello non aveva colpito organi vitali. Secondo i dottori, sarebbe uscito in pochi giorni, purché fosse rimasto tranquillo e avesse seguito tutte le indicazioni. Di certo, non lo conoscevano. Probabilmente, si stava già lamentando del fatto di dover restare a letto. Ma capivo perfettamente la reazione di Boland. Non avevo mai conosciuto nessuno che fosse caduto in servizio, ma mi era capitato diverse volte di parlare con agenti che avevano perso un collega, e sapevo quanto fosse dura. Stasera, gli uomini della Squadra omicidi c'erano andati molto vicino. Era stato uno choc. Le probabilità che un poliziotto venisse ucciso, a Dublino, erano decisamente remote, rispetto ad altre città. Ma quella possibilità esisteva. E gli avvenimenti di quella notte l'avevano resa ancora più reale. «Eppure», continuò Boland, «non aveva tutti i torti. In effetti, ultimamente sembra che io non faccia altro. Ci sono giorni in cui penso che ci sia più caffè nelle mie vene che nella macchinetta. Ne ho abbastanza.» Fino a quel momento, non avevo dato molta retta al sergente. I miei pensieri erano ancora là, in quel palazzo abbandonato, dove George Dyer - finalmente avevo scoperto il nome dell'ex collega di Enright - si era tolto la vita. E continuava a tornarmi in mente quella scena in strada, quando gli avevo chiesto se fosse stato lui a uccidere Felix. E lui mi aveva risposto di sì. Adesso aveva la mia piena attenzione. «Ne ha abbastanza di cosa?» «Di tutto questo. Della vita da detective. Di ogni cosa. Me ne sono reso conto solo ora. Non sto andando da nessuna parte.» «Ma può sempre cambiare. Come Healy, che nell'ultimo anno ha fatto un bel salto di qualità.» «Non si tratta di questo. Healy sa quello che sta facendo. È un buon detective. Io, invece... sono solo un fottuto grassone che passa le sue giornate
alla macchinetta del caffè, cercando di non essere d'impiccio e chiedendosi come ha fatto a finire qui. Sperando ogni minuto di non essere colto in fallo.» Non potevo dirgli niente per rassicurarlo. Non si sbagliava, la sua presenza nella Squadra omicidi stonava come quella di una suora in un bordello. «Quindi che cosa intende fare? Cambiare di nuovo dipartimento? Per finire dietro a una scrivania?» In verità, la situazione attuale non era molto diversa. «Voglio mollare. Tutto. Me ne vado. Sono stufo di sentirmi un perditempo solo perché non sono uno dei migliori. Per molto tempo ho sentito la necessità di crescere professionalmente e di impressionare le persone giuste, per non essere considerato una nullità. E, non riuscendoci, ogni volta è stata una sconfitta. Ma adesso non m'importa più. In effetti, non credo che mi sia mai importato. Quello che è successo questa sera mi ha aperto gli occhi: voglio un lavoro diverso. Voglio timbrare il cartellino al mattino, lavorare le mie otto ore e timbrare di nuovo all'uscita; voglio prendere il mio stipendio e poter tornare a casa la sera, per mettermi davanti alla TV. Ho bisogno di una vita normale. Voglio trascorrere i weekend in campagna, a pescare. «È difficile staccare la spina, per un poliziotto», concordai. «Cassie me lo ripete in continuazione. Se è destino che la nostra storia funzioni, voglio esserle vicino. Con Mary, la mia ex moglie, non l'ho fatto... e ho mandato tutto a puttane. Cassie già odia il mio lavoro. E, dopo quanto è successo a Dalton...» Che cosa avrei potuto dirgli? Il mestiere del detective non facilitava le relazioni. Il rischio corso da Dalton avrebbe reso tutti più nervosi, ogni agente avrebbe cominciato a interrogarsi, a chiedersi se fosse davvero questa la vita che voleva. E Cassie non sarebbe stata l'unica a supplicare il proprio partner di togliersi il distintivo, quando si fosse diffusa la notizia dell'accaduto. Comunque, l'alternativa presentata da Boland suonava come un incubo. Ma se poteva renderlo felice, e probabilmente era così, era giusto che lo facesse. In fondo, era la sua vita. E lui, almeno, ne aveva ancora una. Dalton aveva rischiato grosso. E credo che anche lui sarebbe stato d'accordo con me. Forse eravamo più simili di quanto non volessi ammettere. Assillanti. Irritabili. Irascibili. Convinti che le persone intorno a noi fossero incompetenti, inadeguate.
E questo atteggiamento dove l'aveva portato? E dove mi aveva portato? «Spero che vada tutto bene», augurai al sergente. Ed ero sincera. Ma provai un enorme piacere quando il mio palazzo apparve attraverso il parabrezza; non vedevo l'ora di scendere dall'auto, per restare finalmente sola. 42 Se non fosse stato per il nastro della polizia che sbarrava l'ingresso, dove un agente era stato posto di guardia, la si sarebbe potuta scambiare per un'insignificante casa di mattoni, fiancheggiata da una schiera di edifici altrettanto anonimi, tutti abbastanza distanti dalla strada, ciascuno fornito di una scaletta che conduceva alla porta principale. I ragazzini passavano in bici, cercando invano di sbirciare all'interno. Era il mattino successivo all'aggressione di Dalton, e io e Grace eravamo appena arrivate davanti al palazzo, a bordo della sua Rover. «Che cosa dice Draker riguardo alla mia presenza?» «Quello che non sa non può fargli male, no? E poi, hai contribuito anche tu alla cattura di quel tizio. Anzi, il tuo ruolo è stato determinante. Hai tutto il diritto di vedere dove viveva.» Il tizio di cui parlava, ovviamente, era George Dyer. Era davvero lui l'Uomo di Marx? Era quello che avremmo dovuto scoprire. «E poi, voglio sentire la tua opinione», aggiunse. Capii perfettamente che cosa intendeva, una volta entrata nell'abitazione. Era completamente anonima, quasi avesse avuto come unico scopo quello di mostrare una facciata di normalità, permettendo al suo inquilino di nascondere il suo vero io dietro quelle pareti. Le stanze erano spoglie come la cella di un monaco; in effetti, mi chiesi che cosa fossero riusciti a raccogliere i periti, che avevano trascorso la mattinata passando al setaccio la casa. Avevano trovato qualcosa da mandare in laboratorio per le analisi? La stanza anteriore era vuota, a parte una singola sedia. Sul retro, un altro locale era arredato con alcune librerie, su cui però non c'era alcun volume. Di certo non c'era nessuna copia dei Fondamenti della critica dell'economia politica, o qualunque fosse il titolo del libro acquistato da Dyer nel negozio di Burke. Niente TV, niente radio, niente CD.
In cucina, c'era solo l'indispensabile. Una tazza. Un piatto. Una manciata di coltelli, forchette e cucchiai. Era tutto pulito e in ordine, eccetto una piccola finestra che dava sul retro, percorsa da una crepa. «Mi piacciono gli uomini che sanno come divertirsi», osservai sardonica. Salimmo la nuda scala di legno che portava al primo piano. La stessa scena: una serie di locali vuoti. Il bagno era asettico come una camera mortuaria. La stanza che dava sulla strada odorava di pittura. Gli unici mobili si trovavano nella camera di Dyer, sul retro. Le veneziane erano abbassate. Ebbi l'impressione che il padrone di casa le avesse sempre tenute così. Grace tirò il cordoncino, e la stanza sembrò ritirarsi su se stessa, colpita dalla luce improvvisa. C'era un letto singolo dall'aspetto austero: gli angoli delle coperte erano stati accuratamente ripiegati e sistemati; e un appendiabiti, a cui erano appesi sei camicie, sei cravatte e sei vestiti identici fra loro. Calzini e biancheria erano divisi in mucchietti distinti. Assolutamente niente di personale, niente di intimo. «A parte questo», disse Fitzgerald. Mi passò una fotografia. Era piuttosto vecchia, gli angoli erano lievemente incurvati e i colori erano sbiaditi, come se la scena fosse stata illuminata da un sole accecante. Una donna guardava verso l'obiettivo, e sorrideva. Sopra la sua testa si leggeva la scritta ONE a caratteri cubitali; probabilmente, l'insegna di un negozio. «La madre?» suggerii. «È quello che ho pensato anch'io. A parte la foto, l'unica cosa che finora siamo riusciti a trovare è una piccola valigia nel sottoscala; nella fodera erano nascosti un passaporto e del denaro.» «Nel caso fosse stato costretto a partire in tutta fretta?» «La teoria è questa. Che ne pensi?» «Riguardo alla casa? È pressoché perfetta. Secondo Fisher, l'Uomo di Marx è una persona estremamente ordinata, e non credo ci possa essere un esempio migliore di questo. C'è soltanto una cosa che non quadra...» «So che cosa stai per dire: che non ci sono ritagli di giornale, ricordi, niente che possa connetterlo agli omicidi, insomma. Forse è stato solo
molto cauto», suggerì giocando all'avvocato del diavolo. «Attento al punto da far sparire ogni traccia, voglio dire. Ha voluto essere sicuro di non lasciare alcun indizio che potesse collegarlo a quei delitti, nel caso si fosse fatto beccare. O, magari, ha semplicemente nascosto i suoi ricordi da qualche altra parte, in un luogo sicuro.» In un armadietto nei sobborghi della città, per esempio. O in una stanza presa in affitto. Così da mantenere la sua dimora incontaminata. Pura. Sì, era possibile. «Forse invece temeva che, cercando di procurarsi una pistola, avrebbe attirato l'attenzione su di sé, e ha pensato di distruggere in anticipo qualsiasi prova potesse inchiodarlo», continuò Grace. «Oppure le ha distrutte strada facendo. Sul retro c'è un braciere, e i vicini hanno confermato di averlo visto spesso bruciare della roba, ma non sono in grado di dire se i falò avvenissero in corrispondenza degli omicidi. Almeno, così affermano alcuni di essi. Anche se io non mi fido. Sai come succede, i testimoni ricordano solo quello che vogliono ricordare. Comunque, è possibile che abbia dato fuoco alle prove e quindi tutto il materiale che è stato rinvenuto in mezzo alle ceneri è stato portato via per essere analizzato. Ma devo confessarti che non nutro molte speranze, al riguardo.» «Se ho capito bene», insistei, «stai dicendo che non c'è niente che riconduca George Dyer agli omicidi dell'Uomo di Marx?» «Esatto.» «Niente che dimostri che avesse manifestato già in passato un interesse per le armi? Nessuna traccia di polvere da sparo? Bossoli usati nel prato? Niente di gustoso per la Scientifica?» «Stiamo ancora cercando», rispose; ma dal suo tono intuii che non si aspettava di trovare granché. E, a giudicare da quello che vedevo intorno a me, il suo era un ragionevole dubbio. «Del resto, non mi fido nemmeno della metà di loro. A volte ho l'impressione di essere rimasta l'unica a praticare quel rito oscuro chiamato indagine della scena del crimine. Non toccare questo. Non spostare quello. Analizza quest'altro. Healy e Walsh sanno il fatto loro; quanto agli altri... sono goffi, si muovono con la delicatezza di un branco di rinoceronti.» «I vicini che cosa dicono di lui?» le chiesi mentre tornavamo di sotto e uscivamo all'aperto. Finalmente un po' d'aria fresca, dopo la soffocante atmosfera che permeava la casa.
Un gatto bianco, seduto sul vialetto, sbadigliava. «Era un tipo riservato. È così che lo descrivono tutti. Niente amici, niente visite, niente donne. Non parlava con nessuno.» «Non era molto popolare, insomma.» «No, non particolarmente. Era un eccentrico. E piuttosto innocuo, a quanto pare. Non dava mai problemi; semplicemente, non voleva parlare con nessuno.» «Non si sa nulla della sua famiglia?» «Niente biglietti di compleanno, niente fotografie, niente rubrica telefonica, niente indirizzi», confermò. «Nella memoria del cellulare non aveva registrato alcun nominativo. E sui mobili non c'è traccia di fibre o capelli, a parte quelli che si è lasciato dietro lui. Per il resto, abbiamo trovato solo qualche pelo di gatto.» Il gatto bianco sul vialetto, presumibilmente. Ma la bestiola non sembrava preoccuparsi troppo per la scomparsa del suo padrone, e non sembrava per nulla intimorita da quell'invasione di estranei. Che cosa avrei dato per essere al suo posto, e per potermene infischiare del folle trambusto del mondo. «Escludendo il gatto», disse Grace, «era un solitario. Ed era del tutto autosufficiente.» «Nessun uomo è un'isola.» «Dyer sì. O, almeno, una penisola molto remota. E i suoi colleghi hanno detto più o meno le stesse cose. Non era tipo da impressionare le persone che gli stavano intorno. Era distaccato, ma non scontroso. Tranquillo, ma non astioso. In ufficio non andava a trovarlo nessuno. Non faceva e non riceveva telefonate personali. Non esprimeva mai convinzioni o opinioni particolarmente forti. E accadeva di rado che chiedesse qualche ora di permesso.» «E a nessuno è venuto il dubbio che un comportamento del genere fosse piuttosto sospetto?» «E perché mai? Nessuno è mai venuto qui a controllare come vivesse. Per loro, era semplicemente quello che appariva: un tipo un po' imbronciato, che non aveva il senso dell'umorismo. Così lo hanno descritto. Ma la gente, di solito, non chiama la polizia per segnalare qualcuno che non ride alle sue barzellette. Mi correggo: tu lo faresti.» Finalmente fece un mezzo sorriso, il primo dell'intera mattinata. «Ma saresti l'unica. George Dyer aveva un talento impareggiabile per lasciare un vuoto nella mente delle persone. Quando provano a ricordare qualcosa di luì, scoprono di non esserne
capaci. Il che, probabilmente, spiega come mai non riusciamo a scoprire su di lui più di quanto non abbia voluto far sapere.» «Ma questo George Dyer... era reale?» «Era solo un nome», mi spiegò Grace. «Ufficialmente, quell'uomo non è mai esistito. Perfino le credenziali che ha presentato a Enright prima di essere assunto sono risultate false.» «Ha cancellato ogni traccia della sua vera identità. Si è rifugiato in un'altra esistenza. Sarebbe tutto molto più semplice, se si trattasse davvero di un killer professionista. Di certo, viveva come uno di loro. Ma questa», sottolineai indicando la casa, «non assomiglia all'abitazione dell'Uomo di Marx.» «Per questo ti ho portata qui. Volevo che la vedessi con i tuoi occhi. Volevo essere sicura che non fosse la mia paranoia a dirmi che non può essere tutto finito.» «Forse siamo paranoiche tutte e due.» «Be', almeno avremo un po' di compagnia.» Fece una pausa. «E c'è un'altra cosa. Non ho voluto dirtela, prima che tu vedessi questo posto con i tuoi occhi. Non ho voluto influenzarti in un modo o nell'altro.» «Di che si tratta?» «L'impronta sulla pistola, ricordi? Quella che l'Uomo di Marx ha lasciato cadere all'angolo della strada in cui viveva Brook... be', non appartiene a Dyer. Healy mi ha consegnato i risultati questa mattina. Ora, non è detto che ciò debba per forza voler dire qualcosa. È possibile che Dyer abbia maneggiato l'arma indossando sempre un paio di guanti, e che l'impronta appartenga a un proprietario precedente. Chissà, magari a qualcuno che vive negli Stati Uniti. Gli uomini della Scientifica stanno eseguendo un confronto. Presto sapremo qualcosa. E poi, parliamoci chiaro, questa non ha l'aria di essere la casa di un uomo che non aveva niente da nascondere. C'è qualcosa di innaturale in questo posto. Ma ho ancora l'impressione che manchi qualche pezzo, per completare il puzzle. Non credo che sia finita.» «Dyer era invischiato in questa faccenda, in qualche modo», dissi. «Per forza. Non può trattarsi di una mera coincidenza: il suo capo muore e, improvvisamente, l'Uomo di Marx perde la sua pistola. Lui cerca di procurarsene una e accoltella il primo poliziotto che gli capita a tiro. Era coinvolto, non c'è dubbio.» «Draker non la pensa così.» «Ovviamente. E che cos'ha detto a proposito della confessione dell'omicidio di Felix?»
«L'ha liquidata con due semplici osservazioni. Punto primo: anche ammesso che l'abbia davvero ucciso lui, ciò non significa che sia l'Uomo di Marx. L'unico legame tra Felix e il serial killer è l'interesse del fotografo nei confronti di quest'ultimo. Nient'altro. Punto secondo: Draker insiste nel sostenere che non ci sia niente di misterioso nella morte di Berg.» «Nonostante l'ammissione di Dyer?» «Secondo lui, potresti aver sentito male. Forse hai frainteso. Aspetta, Saxon. Ti sto riferendo quello che mi ha detto il vicecommissario, non quello che penso io. È probabile che anche Dyer abbia capito male. Draker ha chiamato personalmente Alastair Butler, e insieme hanno riletto riga per riga il risultato dell'autopsia: Felix si è suicidato, non esistono altre possibilità.» «Non potresti far riesumare la salma, e far eseguire una seconda autopsia, indipendente dalla prima?» «Sarebbe una bella attestazione di fiducia, nei confronti del medico legale. Andrebbe su tutte le furie, e avrebbe ragione. Comunque, anche se accettassi, Draker non mi darebbe mai il permesso.» «Quindi lasciamo perdere? Molliamo tutto così?» «No», rispose Grace. «Dobbiamo soltanto aspettare un'occasione migliore. Ci vorranno settimane, prima che le indagini sulle attività passate di Dyer ci rivelino se fosse o meno l'Uomo di Marx. Tutto quello che dobbiamo fare è lasciare alcune questioni insolute. Draker si accorgerà di non poter liquidare l'intera faccenda, senza prima tentare di risolverle. A quel punto, saremo in grado di prendere in considerazione la tua teoria sul caso Berg.» «Hai cercato di dissuadermi dal seguire il mio istinto fin dalla notte della sua morte», commentai. «E adesso mi stai dicendo che sei d'accordo con me?» «Sto dicendo che, a mio parere, occorre riconsiderare le circostanze in cui è avvenuto il decesso. Ed è tutto quello che otterrai da me, quindi non forzare la mano alla fortuna.» Fece un respiro profondo, prima di pronunciare la frase successiva. «Del resto, non puoi biasimarmi per non aver compreso il tuo atteggiamento... non mi avevi mai raccontato di Sydney. Si chiamava così tua sorella, no?» «Giuro che un giorno o l'altro ucciderò Fisher con le mie stesse mani.» «Lawrence ti vuole bene. E, visto che so che per te è lo stesso, sono sicura che non te la prenderai con lui per avermelo raccontato. Voleva soltanto farmi capire quello che stavi passando, voleva che mi rendessi conto
di quanto fosse importante per te tutto questo.» «Non ce l'ho con lui», dissi, e rimasi alquanto sorpresa quando realizzai che era davvero così. «In effetti, sono felice che tu l'abbia saputo, alla fine. Non ho mai voluto nascondertelo. Soltanto, era una cosa che volevo tenere per me, se riesci a capire la differenza.» «Ti tieni dentro troppe cose. Non ti fa bene.» «Come le pillole per dormire e la mia pessima alimentazione. Lo so.» «Immagino che sia piuttosto sciocco chiederti se hai voglia di parlarne.» «Non voglio nemmeno pensarci.» «Capo?» Ci girammo entrambe. «Che c'è, sergente?» «Abbiamo trovato qualcosa che credo vorrà vedere.» «Arrivo subito.» Poi si rivolse a me: «Vieni anche tu?» «Sarà meglio che vada. Non preoccuparti per me, posso tornare in città a piedi. C'è un mercante d'arte che è in debito con me. Mi sta aspettando, e sono già in ritardo.» «A dopo, allora.» «Sì, a dopo.» 43 Strange aveva il naso premuto contro il vetro, quando giunsi davanti alla sua galleria. Vedendomi arrivare, si tirò indietro e mi aprì senza dire una parola. «Chiuda la porta dietro di sé», disse quando entrai. Attraversò la stanza e tornò a mettersi al suo posto, dietro la scrivania. Sembrava ansioso. Indossava un abito di velluto con una cravatta scarlatta. Forse voleva festeggiare: con la morte di Dyer, il suo segreto sarebbe rimasto tale. Per lui non sarebbe potuta andare meglio. L'uomo non avrebbe lanciato accuse riguardo ai suoi affari poco puliti, e lui non sarebbe stato costretto a comprare il suo silenzio cedendogli la collezione di pistole. Ma non era certo grazie a lui se le cose erano andate per il verso giusto. Se avesse fatto di testa sua, gli avrebbe consegnato una pistola vera, e carica. E io sarei morta. Ma i miei programmi per la mattinata non sarebbero cambiati, sarei comunque andata alla galleria, come prestabilito. E, nella mia nuova condi-
zione di spettro, l'avrei perseguitato. Lui, con la sua bella cravatta rossa e tutto il resto. Lanciai di nuovo un'occhiata alle pareti, mentre lo seguivo, e notai che le fotografie della donna con catene e pugnali non c'erano più. Non potevo certo dire di sentirne la mancanza. Strange mi fece segno di sedermi di fronte a lui; mi accomodai, mentre lui batteva con entrambe le mani sui lati della sua sedia: due colpi, come se stesse cercando di decidere come procedere. «È lui?» mi chiese alla fine. «Intende dire l'Uomo di Marx?» «Al telegiornale hanno detto di sì.» «Allora dev'essere così, se l'ha sentito al notiziario.» «Ma sono sicuri che sia quello vero?» «Ci vorrà del tempo per stabilirlo.» «Tempo», ripeté senza tentare di nascondere il suo disappunto. «Io ho soltanto bisogno di sapere che è finita. Una volta per tutte. Voglio essere sicuro di non ricevere più telefonate.» «Se vuole che le dica che il suo nome rimarrà fuori da tutto questo, credo di poterla rassicurare. Ho mantenuto la promessa. Ho fatto in modo che lei non venisse coinvolto.» Anche se, in tutta onestà, non ero così sicura che sarebbe stato tanto semplice. Grace aveva già iniziato a fare pressioni affinché Strange venisse interrogato riguardo a quello che sapeva. Probabilmente sarei riuscita a dissuaderla, almeno fino a quando la fonte delle mie informazioni fosse rimasta un segreto tra noi due. Ma non potevo comunque affermare con sicurezza che i guai per Strange fossero finiti. Gli stavo dicendo quello che sperava di sentirsi dire, perché mi desse quello che volevo in cambio. Perché cambiare linea di condotta, a questo punto? «Ok. Adesso voglio vedere le fotografie», gli dissi. «E saremo tutti soddisfatti.» «Le vuole ancora?» «Naturalmente. Ieri sera, il suo amico mi ha confessato di aver ucciso Felix. E voleva far fuori anche me. Proprio così, era questo il suo piano. È scioccato? Be', non posso biasimarla. Per contro, non posso dire che la cosa mi abbia stupita. Ma mi sono chiesta il perché, e l'unico motivo per cui poteva volerci morti era che ci stavamo avvicinando troppo alla verità, forse senza nemmeno sapere di che cosa si trattasse. E uccidere una persona è il modo migliore per costringerla al silenzio. Non posso più chiedere a Felix che cosa avesse scoperto. Ma posso ancora vedere quello che aveva vi-
sto...» Strange sospirò. «A volte penso che avrei dovuto prendere quelle foto e bruciarle. Sono stanco di pensarci. E di dovermi preoccupare della loro esistenza. Sono stufo delle domande della gente, che vuole sapere di quegli scatti. Ma, dopo ieri sera, inizio a sentirmi libero. Ho finito di nascondermi dalle ombre. Non sarò più costretto a finire nella rete gettata dalle ossessioni di Felix. Le foto sono sue. Se le è meritate.» Si alzò e si diresse all'appendiabiti. Il cappotto di pelliccia sembrava un orso in cattività. Infilò la mano in una tasca e tirò fuori la chiave dell'armadietto. Me la gettò, e io l'afferrai al volo. «Mi dica un'ultima cosa, prima che me ne vada», dissi. «Chi è l'autore di quelle immagini sadomaso che erano appese alle pareti la prima volta che venni qui?» Spostò lo sguardo sul muro, come se riuscisse ancora a vederle. «Felix», disse quasi addolorato. L'ultima risposta che mi sarei aspettata. Ero quasi arrivata a credere che le avesse scattate lui. «Gli piaceva fare fotografie erotiche. Era la sua liberazione, diceva. Ma non ha mai voluto che nessuno lo sapesse. Erano il suo segreto.» «Già. Al suo posto avrei fatto lo stesso», commentai. E mi chiesi se sarei più riuscita a guardare gli altri lavori di Berg con gli stessi occhi. «Comunque, grazie di avermelo detto.» Aspettò che fossi arrivata alla porta, prima di pronunciare il mio nome. Mi voltai. «Spero che riesca a trovare quello che sta cercando.» Mi tremavano le mani, mentre sollevavo la chiave e la infilavo nella serratura dell'armadietto. Clic. A volte è così facile arrivare alla verità. Aprii lo sportello e, per un momento, mi lasciai prendere dal panico: e se non ci fosse stato niente, lì dentro? Se Vincent Strange avesse fatto il doppio gioco, per qualche ragione a me sconosciuta? Chissà, forse non aveva mai nascosto nulla, in quell'armadietto. Ma mi sbagliavo. Trovai una borsa di tela marrone ripiegata su se stessa, come un animale addormentato, la tracolla attorcigliata accuratamente come una coda. La afferrai tirandomela al petto, e mi diressi verso la panchi-
na più vicina. Mi misi a sedere, slacciai la fibbia e vi infilai una mano. Presi la prima fotografia che mi capitò fra le dita. Un'altra istantanea, come quella scivolata fuori dalle carte di Felix. Come quella infilata nella buca delle lettere di Gina. Come quella appesa alla parete del mio soggiorno. Ma questa non era una foto comune. Ritraeva Terence Prior, il giudice, accasciato contro la porta della sua abitazione, i capelli unti e sporchi di sangue. Ne tirai fuori una seconda. Finlay Hart, il viso in una pozza di sangue, i denti spazzati via dall'impatto della pallottola. Sollevai gli occhi di scatto. Seduto all'altra estremità della panchina c'era un ragazzino che doveva avere all'incirca dieci anni; indossava una maglia da calcio e mi osservava mentre facevo scorrere quelle fotografie oscene. Aveva visto qualcosa? Non avevo modo di saperlo, ma mi sentii in colpa per aver corso un rischio del genere. Rapidamente, riposi le foto, chiusi le cinghie e mi misi la borsa a tracolla. Raggiunsi le scale e tornai svelta in strada, sollevata dalla sensazione di essere stata di nuovo inglobata dal traffico. Il piano era tornare nel mio appartamento per avere un po' di privacy, ma ero così agitata quando attraversai il fiume che mi sorpresi a cercare una caffetteria che sapevo avere dei tavolini al piano superiore. Presi un caffè e salii i gradini quasi di corsa, fermandomi solo dopo aver trovato un angolino tranquillo. Diedi un'occhiata in giro, per assicurarmi che non ci fossero ficcanaso; poi capovolsi la borsa. Le fotografie caddero a pioggia sul tavolo. Erano davvero tante, e io iniziai a farle passare, una per una. Soltanto quattro o cinque erano dello stesso tipo di quelle che avevo visto nella Central Station. La maggior parte ritraeva delle persone ancora vive. Ce n'era una di Strange, immortalato mentre afferrava la maniglia della porta di una libreria; stava per entrare, avvolto come al solito nel suo cappotto di pelliccia. In un'altra c'era Gina che usciva di casa. E poi Paddy Nye che si affacciava dal suo negozio... e la moglie, vista attraverso la finestra. Si stava allontanando dal bancone, per imboccare il breve corridoio che portava al giardino sul retro. Era del tutto ignara di essere osservata. Un'altra ancora ritraeva Miranda Gray davanti all'ingresso dell'Abbey Theatre, intenta a chiudersi il collo della giacca. Sembrava accigliata, aveva un'espressione irritata e, insieme, perplessa. L'immagine era lievemente of-
fuscata, resa confusa dal passaggio di un'automobile. Ma non c'era alcun dubbio che si trattasse della dottoressa. Presto, persi il conto. Ogni foto immortalava una persona, ed era stata scattata all'esterno. Nessuno guardava direttamente l'obiettivo; nessuno si era messo in posa... oppure l'aveva fatto, mostrandosi deliberatamente indifferente alla macchina fotografica. La maggior parte di loro sembrava essere stata colta in un momento di attesa. Alcuni guardavano l'orologio, impazienti. Altri si sporgevano in avanti, scrutando la strada. Altri ancora parlavano al cellulare. Leggevano il giornale. Per la maggior parte si trattava di persone sconosciute, ma alcuni visi mi erano familiari. Uno, per esempio, era il proprietario di un ristorantino italiano sul mare, che non si ricordava mai il mio nome, ma in compenso adorava Grace e la circondava di premure. Un altro era un poeta ceco emigrato, che recentemente aveva pubblicato la sua autobiografia, in cui descriveva gli anni di silenzio sotto il comunismo. La donna imbronciata seduta fuori da un caffè, che stringeva fra le mani una tazza di qualcosa che probabilmente si stava raffreddando, era la corrispondente di una rivista di moda francese. Questo era un giornalista specializzato in servizi lunghissimi e illeggibili sui traffici aziendali e la corruzione politica. Quest'altra era un'attrice che avevo intravisto in TV. Tutte le fotografie avevano due cose in comune. A ogni persona era stato dedicato un solo scatto. Ed erano tutte riprese su una soglia; oppure, la foto era stata scattata in modo tale che sullo sfondo ci fosse una porta, a fare da cornice. Ero sconcertata. Erano di Felix? Erano la sua risposta artistica agli omicidi dell'Uomo di Marx? La sua ossessione l'aveva consumato al punto da indurlo a riprodurre nelle sue opere ciò che il killer aveva fatto nella realtà? Uno scatto per ogni pallottola? Oppure l'autore era lo stesso assassino? Forse Felix era stato ucciso per questo, perché aveva trovato quelle immagini e ne aveva compreso il significato. Ma questo ancora non spiegava come mai non si fosse rivolto alla polizia. Certo, è probabile che volesse essere assolutamente sicuro, prima di
muovere delle accuse, ma quale prova migliore delle foto delle vittime scattate subito dopo il decesso? Chi altri poteva essere l'autore? Infilai la mano negli angoli della borsa, controllando che non mi fosse sfuggita qualche foto, e... un momento, questo che cos'era? Sembrava una specie di libro, chiuso in una tasca interna con la cerniera. Ma certo, il diario! Come avevo fatto a dimenticarmene? Riposi le foto al riparo da sguardi indiscreti; aprii il diario e cominciai a leggere. Non mi ci volle molto tempo per capire che Felix non era ossessionato soltanto dagli omicidi dell'Uomo di Marx, ma anche dall'assassinio di Lucy Toner, avvenuto alcuni anni prima a Howth. Le pagine erano sommerse da un'intensa fioritura di appunti scarabocchiati e da articoli di giornale, accuratamente ritagliati e incollati; erano così tanti che a volte finivano con il sovrapporsi, ed ero costretta a sollevarne alcuni, per riuscire a leggere quelli sottostanti. Evidentemente, all'epoca dell'omicidio aveva letto attentamente ogni giornale e ogni rivista, raccogliendo qualsiasi riferimento a quanto era accaduto alla piccola Lucy. E aveva continuato a farlo nel tempo: nel diario aveva incluso commemorazioni pubblicate negli anni successivi, in occasione dell'anniversario della morte. Lucy, sei sempre nei nostri cuori; con amore, tuo fratello Brendan. Lucy, sei sempre nei nostri cuori; con amore, tua sorella Katie. Lucy, non sei più tra noi, ma non ti dimenticheremo. Patricia. Una pagina dopo l'altra, aveva ricostruito l'intera vicenda della ragazzina. La polizia ha rivolto un appello ai cittadini per avere informazioni riguardo alla scomparsa di una ragazzina, avvenuta due giorni fa in un quartiere a nord della città... La polizia di Dublino ha confermato che il cadavere scoperto la scorsa notte a Howth appartiene a Lucy Toner, la ragazzina di quindici anni recentemente scomparsa da casa... Un uomo è stato fermato, ed è in attesa di giudizio per l'omicidio della piccola Lucy... Alcune fonti hanno confermato che l'uomo arrestato dalla polizia la settimana scorsa, in relazione all'omicidio di una ragazzina, è un pedofilo pregiudicato, tale Isaac Little... Un uomo di trentasette anni è comparso davanti al Tribunale Criminale Centrale, per l'omicidio di una studentessa di Dublino, avvenuto nel luglio dello scorso anno... Per Isaac Little ha oggi inizio la condanna all'ergastolo per l'assassinio della piccola Lucy Toner di Howth, che sconterà nella Mountjoy Prison di Dublino... Mazzi di fiori sono stati deposti nel punto in cui venne uccisa una ragazzina di Dublino, nel giorno del secondo anniversario della morte... I giudici oggi re-
spingeranno il ricorso in appello di un uomo arrestato cinque anni fa per l'omicidio di una studentessa... Isaac Little, pedofilo e assassino, si sta riprendendo in ospedale in seguito a un tentativo di suicidio consumatosi nella sua cella nel carcere di Mountjoy... E così via, inesorabilmente. Ogni riferimento anche superficiale alla morte di Lucy e al periodo immediatamente successivo era stato isolato, archiviato, confrontato con altri... La vera vita di quella ragazzina era finita sotto una tormenta di nomi e di dettagli, la sua sofferenza si era trasformata in una lunga lista di appelli della polizia, arresti e comparizioni in tribunale. Quant'è facile ridurre un'esistenza ai suoi elementi costitutivi... Ma, mi chiesi, perché Felix era stato così ossessionato dalla morte di Lucy? C'era una sola risposta possibile. Che cos'aveva detto Alice, a proposito del fratello? Che, secondo lui, per capire veramente una città occorre studiare le modalità degli omicidi che vi vengono commessi. Non ero sicura di poter accettare il suo punto di vista. Basta passare un'ora in qualsiasi città del mondo, per vedere gli stessi orrori. Le vie dei delitti sono finite, dopotutto. Ma Felix ci aveva creduto davvero. Forse questo diario rappresentava il materiale grezzo per il suo studio? Ma questa non era un'indagine sul lato oscuro della città. No davvero. Riguardava soltanto una piccola macchia scura, appartenente a un passato ormai dimenticato. Forse il suo interesse era stato suscitato dalla consapevolezza, o dal sospetto, che quella non fosse tutta la storia? Forse conosceva l'identità del vero assassino di Lucy Toner? E, ammesso che fosse così, che cosa aveva a che fare con l'Uomo di Marx? Tirai fuori il cellulare e chiamai Grace. Stava andando in centrale, dopo aver lasciato l'abitazione di George Dyer. C'era in programma una nuova conferenza stampa, in cui avrebbe diffuso una fotografia dell'uomo perché fosse trasmessa dai telegiornali della sera, nella speranza che qualcuno riuscisse a identificarlo. Le dissi delle fotografie, e la sentii fischiare, piano. «Ammettiamo che Dyer fosse davvero l'Uomo di Marx: ciò spiegherebbe l'assenza, in casa sua, di foto e di souvenir che potessero collegarlo agli omicidi. In qualche modo, Felix se ne era impossessato, e li aveva nascosti», osservai. «Non così in fretta», mi interruppe Grace. «Non hai ancora sentito quello che ho da dirti. Hai presente quando il sergente mi ha detto di rientrare in casa, perché voleva mostrarmi qualcosa? Bene, ricordami di proporre il
suo nome per una promozione: ha studiato un po' più attentamente il passaporto di Dyer e ha notato che c'era un timbro corrispondente alla data dell'omicidio di Enright, prova che in quel periodo era fuori città per affari.» «Non può essere!» «Stando al passaporto», riprese, «quella sera si trovava a Vienna. Il che non significa necessariamente che sia vero, lo so. Ma se non possiamo imputargli quell'assassinio...» «Allora l'Uomo di Marx potrebbe ancora essere là fuori», conclusi al suo posto. «Ma perché uccidersi, se il colpevole non era lui? E perché provare a uccidere Dalton? Non ha senso.» Ma mi tornò in mente quello che mi aveva detto la sera prima, quando l'avevo raggiunto in quell'edificio semidistrutto, e gli avevo rinfacciato di provare un certo piacere nell'ammazzare le persone. Ne ho già uccise abbastanza, aveva commentato lui. E si era messo a ridere. Forse lo trovava divertente... dal momento che si era macchiato soltanto di un omicidio: quello di Felix. O forse non era affatto un assassino. Possibile? Ma perché si era tolto la vita, se era innocente? Stava coprendo qualcun altro? «Quello che dobbiamo fare è rintracciare le persone che compaiono in quelle fotografie», disse Grace; aveva percepito il mio sconforto attraverso il telefono, e sapeva che avevo bisogno di qualcosa di positivo per allontanarlo. «Dobbiamo scoprire perché quelle immagini erano insieme a quelle delle vittime dell'Uomo di Marx. E tu puoi essermi d'aiuto.» «Qualsiasi cosa.» «Allora puoi cominciare lasciando le altre foto in centrale. C'è Healy a difendere il forte. Gli farò uno squillo per spiegargli che cosa hai trovato. E farò in modo che inizino a identificare le persone, perché siano interrogate. E poi potresti confrontarti con Miranda Gray, magari riuscirà a dirti qualcosa di più sull'autore di quegli scatti, chiunque lui sia.» Solo dopo aver messo giù mi resi conto di non averle detto del diario di Felix. Distrattamente, lo aprii di nuovo e notai che le prime due pagine erano incollate. Vi passai in mezzo un'unghia per separarle. All'interno c'era un'iscrizione scarabocchiata in una grafia quasi illeggibile. Aveva tutta l'aria di essere una poesia. Iniziai a leggere. Cristo, che cosa mai poteva significare?
44 Provai a chiamare l'ufficio di Miranda, ma Elaine, la segretaria incompetente, mi disse che era fuori e che non sapeva quando sarebbe tornata. Tentai di raggiungerla sul cellulare, ma doveva essere spento. Nemmeno Fisher aveva idea di dove fosse. Alla fine, richiamai la segretaria sperando in un suo aiuto, e lei mi suggerì di provare al Forty Foot. «Il bar?» «Ma no! Quel posto dove la gente va a nuotare, ha presente? Ci va spesso, quando ha un momento libero.» E me lo diceva solo adesso? Conoscevo il Forty Foot. Mi ricordai di aver letto qualcosa al riguardo, una volta. Era un cumulo di scogli, a circa tre chilometri dall'abitazione di Grace, lungo la stessa strada. Nato come Gentlemen's Bathing Place, adesso era aperto a tutti. La gente vi si recava in ogni periodo dell'anno per nuotare nel mare, rischiando annegamento e ipotermia, nel rispetto della tradizione. Qualcuno lo faceva addirittura nudo, mi aveva detto Grace. Il mondo è bello perché è vario. Ci andai in macchina. Parcheggiai accanto a un cartello di divieto di sosta. E sperai di avere doppiamente fortuna: non volevo beccarmi una contravvenzione, considerato che non ero nemmeno sicura che la dottoressa fosse li. Nel muro si apriva un cancello sormontato da un arco e da una scritta in ferro battuto: FORTY FOOT. Un sentiero di pietra conduceva alla spiaggia, dove alcuni uomini dalla pelle avvizzita si tamponavano i capelli con un asciugamano. Accanto all'entrata c'era un cartello: È OBBLIGATORIO INDOSSARE IL COSTUME. Un bel sollievo. Aprii il cancello e percorsi la stradina che conduceva verso gli scogli. Da una parte c'era una scalinata scavata nella pietra con una ringhiera gialla, su cui i bagnanti si arrampicavano per uscire dall'acqua; in quel momento, un vecchio gocciolante stava salendo i gradini con passo incerto, diretto alla spiaggia. Dal mare soffiava un vento sferzante, troppo freddo per una brezza primaverile e troppo mite per una bufera invernale. L'acqua era cupa e opaca,
presto si sarebbe messo a piovere. Le nuvole si radunavano sulla baia come una folla pronta al linciaggio a Howth Head. Qualcuno sollevò il capo, al mio arrivo. Io mi guardavo intorno con un'espressione perduta: non sapevo da dove cominciare. Gli scogli orlavano il mare come una frangia; la gente stava seduta a parlare, ma non riuscivo a sentire i loro discorsi. C'era un silenzio pesante, che avvolgeva ogni cosa come una preghiera. Ogni senso era dominato dal mare. Alla fine, mi decisi a chiedere informazioni al vecchio che avevo visto salire sulla spiaggia. «Sto cercando una persona. Conosce Miranda Gray?» «Sì. È laggiù.» Indicò il mare. Io riuscivo appena a distinguere una testa che ondeggiava come una boa, o come una foca, forse. Sollevava il muso e scrutava la terraferma, come fosse un elemento alieno. Era lei? Probabilmente sì. Era l'unica persona in quell'angolo di mare desolato. Pensai di urlare, per farle sapere che ero lì, ma non lo feci. Mi sarei sentita stupida e, del resto, il vento si sarebbe portato via le mie parole, sbattendole contro gli scogli; così, mi sedetti con la schiena appoggiata a un masso e aspettai, continuando a guardarla. Doveva essere una nuotatrice esperta, se era arrivata così lontana; a volte, le onde si sollevavano avvolgendola completamente e lei spariva... e rimaneva sott'acqua troppo a lungo... troppo a lungo... E poi ricompariva. «Piuttosto agitato, vero?» dissi all'anziano; ma lui mi rispose con una risatina. «Agitato? Non avrebbe potuto sperare in una giornata più mite.» Cosa? Aveva detto «mite»? Passarono solo pochi minuti, prima che la testolina ondeggiante iniziasse a tornare verso riva. Poco dopo, dall'acqua emerse una figura sorridente, con indosso un costume nero. Sul capo portava una cuffia, che la rendeva difficilmente riconoscibile. Si arrampicò su per la scala barcollando, come il vecchio che l'aveva preceduta, e reggendosi alla ringhiera gialla. Mi alzai in piedi, vedendola avvicinarsi. Il sorriso svanì, quando mi vide. «Saxon? Che cosa fa qui? Va tutto bene? Non si tratta di Fisher, vero?» «Fisher?» «Non gli è successo niente, spero.» «No. No. Niente del genere.»
Mi superò in punta di piedi, diretta verso un altro scoglio, dove aveva appoggiato il suo asciugamano. Si avvolse nel telo e si levò la cuffia, liberando una cascata di capelli. «Volevo solo scambiare due parole con lei», le dissi. «Devo chiederle qualcosa.» «Mi dia un secondo per rivestirmi.» «La aspetto fuori, d'accordo? La mia jeep è laggiù.» «Faccio in un attimo.» Riattraversai il cancello di ferro e mi sedetti in auto, senza perdere d'occhio il sentiero. Aspettai. Passò qualche minuto, ma di lei nessun segno. Alla fine scesi dalla macchina e tornai indietro, con passo svelto. Arrivata al cancello, feci per aprirlo, ma prima che avessi il tempo di toccarlo si spalancò, e mi trovai davanti Miranda. Entrambe facemmo un salto. Alle sue spalle, vedevo il mare nerissimo. Niente più nuotate per quel giorno. «Mi dispiace averla fatta aspettare. Non riuscivo a trovare le scarpe... e poi ho rovesciato la borsa e c'erano monete dappertutto, e mi sono dovuta mettere a carponi per raccoglierle.» «Non mi deve spiegare.» «Scusi. Forza dell'abitudine. Lo faccio sempre.» «Già. E si scusa in continuazione.» «È vero, mi scusi.» Sorrise nervosamente. «Sono solo un po' sconvolta per la sua presenza qui. Quando l'ho vista, ho pensato che fosse successo qualcosa di orribile.» «Dopo essere entrato in quell'acqua, chiunque sarebbe sconvolto.» «Ci si fa l'abitudine. La prima volta è uno choc, ma poi diventa più facile. Mi aiuta a non pensare. Ultimamente, la mia mente è stata interamente occupata da Alice.» Annuii. Sapevo bene a che cosa si riferisse. «Venga, saliamo in auto.» Giusto il tempo di sederci e le chiesi quello che volevo sapere. «Felix le aveva mai fatto una fotografia?» «Felix? Assolutamente no. Non l'avrei mai permesso, ero la sua terapista, e lui era un mio paziente. Non sarebbe stato professionale posare per lui.» «Non parlo di pose. Parlo di istantanee scattate per strada.»
«No.» Ma il suo tono si era fatto più esitante. «Sono certa che me ne ricorderei. Perché me lo chiede?» «Probabilmente non è niente. Voglio solo sapere se qualcuno le ha mai scattato una foto davanti all'ingresso dell'Abbey Theatre.» «Come... come lo sa?» «L'ho vista. Felix ne aveva una copia.» «Felix? No, non è possibile. Non si tratta di lui. All'incirca un anno fa, ricevetti una telefonata da un tizio. Mi disse che stava realizzando una serie di fotografie di persone che vivevano a Dublino, ma che non appartenevano davvero a questa città perché venivano da fuori. L'avrebbe intitolata Stranieri. Ci sarebbe stata anche una mostra. Mi fece alcuni nomi di chi si era già lasciato fotografare. E io mi sentii lusingata.» «E così accettò?» «Non subito. Quel tizio si rifiutò di dirmi chi fosse e non volle fornirmi alcun dettaglio, apparentemente per creare un alone di mistero. Si limitò ad assicurarmi che ci sarebbe voluto soltanto un secondo. Non dovevo fare altro che presentarmi all'Abbey Theatre. Un'istantanea e stop: fine della storia.» Un solo scatto. Un solo sparo. «Alla fine dissi di sì. Forse non avrei dovuto, ma sono una patita delle fotografie. L'idea mi intrigava. Mi presentai all'ora stabilita, ma lui non si fece vedere. Aspettai all'incirca mezz'ora, forse anche meno, e poi me ne andai. Ero piuttosto seccata, come può ben immaginare. Ma non avevo nessun numero di telefono, nessun nome, non avrei saputo con chi lamentarmi.» «E quel tizio non si è più fatto sentire?» «No.» D'un tratto, mi sembrò alquanto confusa. «E adesso lei mi dice che qualcuno mi scattò realmente una fotografia?» «Un'istantanea, proprio come ha detto lei. Faceva parte di una collezione di foto che Felix aveva nascosto in un armadietto, alla Central Station.» «Com'è finita in mano sua?» «Lei esclude che possa essere stato lo stesso Berg a scattarla?» «Assolutamente», rispose decisa. «Avrei riconosciuto la voce, se fosse stato lui a chiamarmi. Ma era tutto diverso: accento, cadenza... No, è impossibile.» «Forse aveva chiesto a qualcuno di farlo al suo posto.» «E perché mai?» «Lei non è stata l'unica. C'erano un sacco di istantanee del tutto simili al-
la sua. Tutte quelle persone devono aver ricevuto la stessa telefonata: venivano invitate a presentarsi in un dato posto a un'ora precisa, e quando si recavano all'appuntamento non trovavano nessuno. Naturalmente, non si accorgevano di essere immortalate da un obiettivo nascosto.» Ed erano tutti stranieri. Gente che veniva da fuori. Ecco qual era l'elemento che li univa. Forse anche Felix era uno di loro? Nemmeno lui era nato a Dublino. Forse l'uomo del mistero gli aveva detto di recarsi al faro di Howth; lui l'aveva fatto, e l'altro gli aveva scattato quella foto. E poi? Che cos'era successo?» L'aveva ricevuta per posta? Era stato l'Uomo di Marx a mettersi in contatto con lui? Fino a questo momento mi ero basata sul presupposto che fosse stato Felix a scoprire per caso l'identità del killer. Forse, invece, era stato quest'ultimo a sceglierlo, assegnandogli un ruolo preciso. «Be'», ripresi, «se non è stato Berg a scattarle quella foto, allora doveva conoscere l'autore. Per questo è di vitale importanza che lei riesca a ricordare qualcosa riguardo all'uomo che le ha telefonato.» «Mi dispiace. Non ha voluto dirmi il suo nome. Lo so, le sembrerà stupido, mi sono presentata a un appuntamento con una persona che non conoscevo... ma all'epoca l'idea mi aveva fatto scattare qualcosa dentro. Non ho mai sentito di appartenere davvero a questa città, mi piaceva pensare di fare parte di un gruppo di 'stranieri'. Penserà che sia stata una sciocca.» «Anch'io sono andata giù al molo, a Howth, per incontrare Felix», le feci notare. «Non ho alcun diritto di dirle che cosa avrebbe dovuto fare o non fare.» «Vorrei riuscire ad aiutarla.» «Ci rifletta, quando torna a casa. Intesi?» «Non riuscirò a pensare a nient'altro.» 45 «È passato un uomo, cercava lei», mi disse Hugh, il portinaio, quando rincasai. «Ha lasciato un nome?» «No.» «Un numero?» «No.»
«Un messaggio?» «No.» Era di poche parole. E quelle che pronunciava erano quasi sempre incomprensibili. «È riuscito a notare almeno un particolare?» Si soffermò a considerare la mia domanda. «Aveva la barba», rispose dopo un po'. «Bene, è già qualcosa», gli dissi, in segno di incoraggiamento. «Adesso cerchi di seguirmi, Hugh... e vedrà che insieme ce la faremo. Mi dica: era una di quelle barbette corte e brizzolate, screziate di grigio?» La mia abilità di chiaroveggente doveva averlo impressionato. «Sì.» «E per caso questo signore barbuto aveva un giro vita che lo faceva assomigliare a un grosso pianeta tragicamente caduto sulla Terra, costretto a vagare per le vie di Dublino in cerca di una nuova orbita?» Troppe parole perché Hugh riuscisse a recepirle in un colpo solo. Ma le studiò attentamente, masticandole una per una. Sembrava un topo alle prese con una porzione di formaggio troppo grossa, forte della consapevolezza che prima o poi i suoi denti avrebbero avuto la meglio. «Non credo che fosse tanto grasso», osservò alla fine. «Io dico di sì.» Fisher. Doveva essere lui. Lo chiamai dall'atrio: era al Brown Thomas, un grande magazzino piuttosto antiquato che si trovava in Grafton Street, di fronte a St. Stephen's Green. E così non riuscii nemmeno a salire nel mio appartamento. «Stavo cercando qualcosa per Laura e per i bambini», mi spiegò, quando ci incontrammo al quarto piano. «Torni a Londra?» «Presto», rispose. «Non posso restare a Dublino per sempre.» «Mi mancherai.» Ed ero sincera. «Ma non credo che qui riuscirai a trovare dei regali per la tua famiglia. Questo è il reparto uomo.» «Lo so. Mi servono anche delle camicie nuove, sono quasi rimasto senza. Non pensavo di trattenermi tanto. E una scorta di biancheria intima pulita non sarebbe affatto male.» «Ti prego, risparmiami i dettagli.» Finii con l'aggirarmi tra gli scaffali insieme a lui, aiutandolo a scegliere qualche vestito. Grace sarebbe rimasta di sasso, davanti a una scena del
genere. Non ero mai stata una fanatica dello shopping, per me era sufficiente trovare qualcosa della mia taglia, che mi tenesse al caldo. Un paio di jeans vale l'altro, mi dicevo. Ma la cosa più strana fu il mio eccesso di pignoleria. Mi sorpresi a riappendere irritata delle camicie scelte da lui, commentando il mio gesto con un secco: «Non è il tuo colore». Che cosa mi stava succedendo? Mi stavo trasformando in una ragazza... Mentre ci dirigevamo verso la cassa, Fisher mi aggiornò sui progressi delle ultime ore. La Squadra omicidi, apparentemente, era riuscita a identificare più della metà delle persone ritratte nelle istantanee, gran parte delle quali erano già state sentite. Ciascuno di loro aveva ripetuto la storia di Miranda Gray. Nessuno aveva la minima idea di chi potesse essere quel tizio misterioso. Poteva trattarsi davvero di George Dyer? «Senza dubbio, siamo di fronte a due modi di pensare affini», osservò Fisher. «Chiunque abbia scattato quelle foto, voleva conservare un trofeo delle persone immortalate. Nel suo caso, l'arma era una pellicola, ma le somiglianze metodologiche sono piuttosto inquietanti. Voleva catturare quella gente inserendola in una specie di collezione. La sua linea di pensiero corrisponde perfettamente a quella dell'Uomo di Marx. Da una parte, una sola istantanea per ogni soggetto, dall'altra, una sola pallottola per ogni vittima. Non può essere una coincidenza.» «Mi riesce difficile accostare una macchina fotografica a una Glock calibro 36.» «Abbi un po' di fiducia, Saxon. Quello che intendo dire è che, fotografando una persona, le porti via qualcosa. È un concetto difficile da spiegare, ma è come se da quel momento fosse in tuo potere. Alla tua mercé. Persino quella fotografa americana, Diane Arbus, sostiene che ogni foto comporta una certa sofferenza.» Pensai alle persone ritratte nelle istantanee che avevo trovato nell'armadietto alla stazione. Sembravano così vulnerabili... In effetti, l'autore di quegli scatti era riuscito davvero a rubare qualcosa, anche solo privandole momentaneamente della loro tranquillità mentale. E aveva registrato il loro disagio, immortalandolo in un'immagine che avrebbe conservato per sempre. Un ricordo di cui godere.
Esattamente come aveva goduto guardando le foto delle altre vittime, scattate subito dopo il decesso. «L'unico problema», gli feci notare, «è che Dyer non possedeva nemmeno una macchina fotografica. In ogni caso, noi non siamo riusciti a trovarla. Quindi, se quegli scatti non sono opera sua, chi li ha realizzati?» Mi sentivo frustrata. «Se solo non si fosse ucciso...» «Non credo avrebbe fatto una grande differenza», disse Fisher. «Non avrebbe comunque parlato. Togliendosi la vita, è riuscito a imporsi il silenzio, ma avrebbe fatto lo stesso se fosse stato arrestato. Mi sono trovato diverse volte davanti a una situazione del genere. Vi sono assassini che non vedono l'ora di vuotare il sacco, e il problema sorge quando vuoi farli tacere. Altri, invece, non dicono una parola su quanto hanno fatto. E sono certo che Dyer appartenesse alia seconda categoria. La decisione di tagliarsi la gola ne è la prova. Forse è per questo che si è scelto quel cognome: Dyer... colui che muore. La morte era la sua ultima vocazione.» «Non è così per tutti?» Pagammo, e io mi offrii di preparargli la cena; si stava facendo buio e i negozi stavano chiudendo, e lui non era riuscito a comprare nulla per Laura e per i ragazzi. «Farò un altro giro domani», disse mentre ci dirigevamo a piedi verso il mio appartamento. «Perché non mi accompagni? Ho scoperto in te uno straordinario talento per lo shopping, che finora non hai sfruttato in modo appropriato...» «Non contarci. L'overdose di oggi mi basterà fino alla fine dei miei giorni.» «Saxon! Fisher!» «Fitzgerald?» Grace, sbucata dal nulla, accostò la sua Rover al marciapiede e abbassò il finestrino. «Che c'è? È successo qualcosa?» chiese Fisher. «Gina Fox è morta. Avanti, salite.» Tornò a immettersi nel traffico, senza nemmeno darmi il tempo di allacciare la cintura di sicurezza. «L'hanno trovata venti minuti fa», ci spiegò. «Non sappiamo ancora a quando risale la morte. Ho ricevuto una chiamata da Walsh, che è già sul posto. Sembra che l'assassino, chiunque esso sia le abbia sparato una decina di colpi alla testa, da una distanza ravvicinata. Della faccia è rimasto ben poco.»
«Dov'è successo?» «Alla galleria di Strange. Era sdraiata dietro la scrivania del titolare; il killer ha fotografato il cadavere e ha appeso l'istantanea al vetro della porta, dall'interno. Un passante l'ha notata e si è avvicinato per dare un'occhiata: quando ha realizzato di che cosa si trattava ha chiamato la polizia.» «Non la seguo», la interruppe Lawrence. «Se l'omicidio è avvenuto a Temple Bar, non stiamo andando nella direzione sbagliata?» «Non andiamo sulla scena del crimine. Sto andando da Strange. Probabilmente Gina si fidava del suo aggressore al punto da entrare nella galleria da sola con lui. Non ci sono segni di effrazione. L'assassino, quando se n'è andato, ha chiuso la porta a chiave... dove può essersela procurata?» «Stai forse insinuando che a ucciderla sia stato Strange?» le chiesi. «Sto dicendo che non credo che sappia davvero così poco come vorrebbe farci credere. Ci ha detto di non aver mai guardato quelle fotografie, ma abbiamo soltanto la sua parola. Voglio parlare con lui prima che abbia la possibilità di confezionare una bella storiella.» Strange viveva in una strada privata in un'enorme casa affacciata sul mare, all'ombra di Dalkey Hill. La proprietà era circondata da cancellate imponenti e da muri coperti d'edera. Quando arrivammo a destinazione, ormai si era fatto buio. Ma, no, non era proprio buio... svoltando per imboccare la sua via, notammo che nel cielo stava accadendo qualcosa di strano. Una luce. Sembrava quasi il bagliore di una cometa. Ci misi un istante per capire che cosa stesse accadendo. All'entrata della villa era parcheggiata un'autopompa, e delle figure in uniforme con indosso maschere a ossigeno entravano e uscivano dalla proprietà. Riuscivo a vedere le fiamme attraverso il cancello. L'oscurità era squarciata da vampate di colore. Grace si fermò e saltò giù dall'auto. I pompieri all'ingresso cercarono di fermarla, ma quando mostrò il distintivo si fecero indietro per lasciarla passare, indirizzandola verso l'ufficiale superiore che si trovava proprio sotto le fiamme. Io e Fisher la seguimmo. In mezzo al rumore e a quella confusione delirante doveva essersi dimenticata di noi. Sembrava quasi che anche gli alberi che costeggiavano il vialetto stessero bruciando, ma era solo un'illusione ottica provocata dal bagliore del fuoco alle loro spalle e dalle lampade ad arco, la cui luce potente era pun-
tata sulla casa per permettere ai vigili del fuoco di lavorare. L'aria era densa di fumo nero. Gli occhi mi bruciavano da impazzire, quasi fossero lacerati da quella nebbia infuocata. La casa era gigantesca, un edificio in stile gotico, con una torretta laterale che si innalzava come un albero pietrificato. Le finestre lungo tutta la facciata erano esplose per la pressione creatasi all'interno; le fiamme avevano divorato tutta l'aria, esaurendo lo spazio a loro disposizione. I locali sembravano il teatro di una battaglia; i vestiti restavano appesi agli appendiabiti solo grazie alle lingue di fuoco. Si udivano piccole esplosioni qua e là, provenienti dalle profondità del guscio che ancora rimaneva in piedi; le fiamme ruggivano contro chiunque tentasse di avvicinarsi, come se l'incendio volesse ricordare a tutti chi comandava. L'acqua degli idranti compiva una traiettoria ad arco prima di penetrare nella villa semidistrutta, creando giochi di luce quasi gradevoli grazie all'illuminazione artificiale. Era evidente che ormai era troppo tardi. Riuscivo a sentire il sapore delle fiamme in gola. 46 «Ecco, quello è il punto in cui hanno ritrovato il corpo», disse Grace, indicando il camino. Era di nuovo mattina. Una giornata piovigginosa. Eravamo in quella che una volta era stata la casa di Vincent Strange, ora ridotta a un involucro annerito, contorto e semi-distrutto. Il puzzo di fumo era così forte che sembrava impossibile che prima o poi la pioggia sarebbe riuscita a cancellarlo, lavandolo via. Ci trovavamo nel soggiorno, o in quello che ne rimaneva. Il locale risuonava dello scricchiolio stridente del vetro e della cenere calpestati dai pompieri che andavano e venivano. Le pareti erano ricoperte da uno spesso strato di qualcosa che somigliava al catrame. L'incendio aveva esposto alcuni cavi elettrici, che adesso penzolavano qua e là piegati in forme assurde, simili a serpenti in agonia. Su un lato, il muro era crollato completamente, collassando verso l'esterno. Da fuori, sembrava che qualche enorme creatura si fosse mangiata l'intera facciata della casa. Gli alberi parevano piegarsi sopra le macerie, per sbirciare dentro quelle rovine. La pioggia maligna si insinuava tra le fessure. Le pozzanghere nere erano punteggiate, laddove le gocce cadevano sull'acqua spruzzata dagli idranti la sera prima. Le sedie erano ridotte a scheletri.
Sentivo ancora le fiamme intorno a me, nonostante fossero passate ore da quando il fuoco era stato spento. Grace mi passò una fotografia. Un'altra... Sarebbero mai finite? L'immagine ritraeva un camino di pietra arenaria, sormontato da un grande specchio ad arco. Potevo vederne i resti davanti a me, era distrutto, deformato e fuso alla parete dal calore rovente. Nella foto, Strange era lì accanto, in piedi, e sorrideva. «Dove l'hai presa?» «L'ha scattata il fotografo di una di quelle riviste in cui i personaggi ricchi e famosi mettono in mostra le loro dimore, per soddisfare il piacere delle masse. Lo scorso luglio avevano dedicato alla sua abitazione un servizio di otto pagine. Ce n'è un'intera serie, oltre a questa.» Me le mostrò tutte, una alla volta. L'ingresso, con una maestosa scala in legno di quercia che, incurvandosi, saliva al piano superiore. Sparita, divorata dalle fiamme. La cucina rivestita di piastrelle provenienti da un'abbazia italiana del XII secolo. Annientata. C'era persino un'immagine di Strange sdraiato sul suo letto a baldacchino, con l'immancabile giacca di pelliccia. E le pareti erano interamente ricoperte di quadri. «Dicono che avesse accumulato una fortuna, in dipinti», osservò Grace. In effetti, mi aveva detto di dover mantenere un certo tenore di vita. «Se ne è salvato qualcuno?» «No, che io sappia. Non era esattamente una priorità.» «E adesso che ne sarà della casa?» «Non c'è più nulla che possa essere recuperato. L'intera struttura è stata dichiarata pericolante dagli ispettori dei vigili del fuoco, durante il sopralluogo di questa mattina. Probabilmente verrà abbattuta, e al suo posto verranno costruiti degli appartamenti. Questa è una zona eccellente, dal punto di vista immobiliare. Immagino che i costruttori debbano essere grati all'incendio, per loro è un bel risultato.» «Si sa già che cosa è successo a Strange?» «Quando il fuoco è stato domato, di lui non restava molto. Ho visto il suo cadavere all'obitorio, sembrava un pezzo di carne bruciata. Il viso assomigliava a uno di quei cosi da cui escono le castagne d'India... com'è che
si chiamano? Ah, sì, ippocastani. Aveva le labbra ripiegate indietro: la pelle si era coperta di vesciche che poi sono scoppiate. Ho avuto l'impressione che sul suo volto fosse dipinto un ghigno. È assolutamente irriconoscibile, eccezion fatta per alcuni gioielli che indossava al momento della morte. Stiamo mandando dei campioni a Londra, perché vengano sottoposti al test del DNA. Qui non abbiamo le attrezzature necessarie. Secondo la ricostruzione dei primi pompieri arrivati sulla scena, avrebbe perso i sensi, intossicato dal fumo, e sarebbe morto nel punto in cui si è accasciato al suolo. Questo fino a quando non arrivò la squadra d'ispezione; gli esperti non impiegarono molto a capire come si fosse sviluppato l'incendio. Il punto di partenza era stato lo stesso Strange: il suo corpo era stato cosparso di benzina, perché prendesse fuoco più rapidamente. Il carburante era stato gettato anche nell'ingresso, sulle scale, in ogni stanza, e l'allarme antincendio era stato deliberatamente disinserito. Non c'era da meravigliarsi, quindi, che la casa fosse bruciata così in fretta. E credo sia già sufficiente dire che non si era trattato di un incidente. La conferma venne dal risultato dell'autopsia che il medico legale aveva eseguito su quello che restava del corpo di Strange; l'assenza di fuliggine nelle vie respiratorie indicava che, quando l'incendio era divampato, l'uomo era già deceduto. Tale sospetto venne alimentato anche dalla presenza di escoriazioni inflitte ante mortem sulla pelle intorno al cranio. Secondo Butler, con ogni probabilità il titolare della galleria era stato colpito con un oggetto appuntito, forse un attizzatoio, ma, come sempre, il patologo non voleva sbilanciarsi. Capita spesso che la pelle delle vittime di un incendio si laceri in seguito a una contrazione dei tessuti, o durante la rimozione della salma dalla scena del crimine. «Era già morto, quando gli hanno dato fuoco?» «È quello che speriamo», disse Grace cupa. Grazie a Dio, non c'era nessun altro in casa al momento dell'incendio. Strange aveva una governante, Amy, che però aveva lasciato la villa alcune ore prima. «La Citroën qui di fronte appartiene a lei. L'hai notata?» mi chiese. «La donna era qui, quando lui è rientrato nel primo pomeriggio. Deve aver chiuso la galleria poco dopo aver parlato con te. A quanto dice Amy, è andato direttamente nel suo studio, ed è sceso soltanto all'ora del tè. Gli ave-
va preparato qualcosa da mangiare. Si è seduta con lui e hanno bevuto un bicchiere di vino insieme. Poi le ha detto di andare. E lei è tornata in città in taxi.» «Perché non ha preso la sua auto?» «Aveva un problema al motore. Strange le aveva promesso di darci un'occhiata.» «Era anche un meccanico?» «Non l'avresti mai detto, vero?» ammise. «Le auto erano la sua grande passione, insieme alle pistole. Soprattutto quelle d'epoca. Ne possedeva un'intera collezione. Una ventina, più o meno. Dietro la casa c'è una scuderia adibita a garage: due Rolls-Royce, un'Alfa Romeo... Sembra che passasse diverso tempo ad armeggiare con i motori. Ah, e ci sono anche un paio di motociclette.» «Così ha mandato via la governante», riflettei. «E le ha detto perché voleva che se ne andasse?» «Sembra che aspettasse una visita.» «Un uomo? Una donna?» «Lei non gliel'ha chiesto e lui non l'ha specificato. Ma, a quanto pare, era risaputo che fosse bisessuale... quindi non possiamo escludere nessuna delle due ipotesi. Secondo Amy, accadeva in continuazione, quando aveva visite, la congedava. Visite speciali, intendo. Ma la donna non aveva molta voglia di parlarne.» «Un argomento delicato?» «Sai come sono queste governanti vecchio stile. Stava con Strange da vent'anni. Probabilmente non le andava giù il fatto che ricevesse visite di questo tipo... Non so se riesci a capirmi.» «Dev'essere sconvolta.» «Credo che il termine 'inconsolabile' renda meglio l'idea.» «Ha una vaga idea di chi possa averlo ucciso?» «A sentire lei, Strange non aveva un solo nemico al mondo, anche se non sono sicura che sapesse molto riguardo alla sua vita fuori dalle mura domestiche.» «Quindi nessuno ha visto arrivare questa persona speciale?» «No.» «Il che significa che non potete affermare con certezza che ci sia stato davvero un visitatore. O, per lo meno, che Strange aspettasse realmente qualcuno... perché mi sembra ovvio che non è rimasto solo a lungo. Forse ha detto così ad Amy per sbarazzarsi di lei, e per avere la serata libera.»
«Esatto.» Grace, sbatté impaziente la punta della scarpa contro un cumulo di cenere. «Io non riesco proprio a capire. Strange è morto. Gina è morta. L'unico a sapere qualcosa riguardo a quest'ultima è Boland... che ha chiamato questa mattina per dare le dimissioni. Ho provato a rintracciarlo, ma non c'è stato verso. Forse è andato fuori città per qualche giorno, insieme alla sua nuova compagna.» «Ha già lasciato il posto? Mi aveva detto che ci stava pensando.» «Non ho ancora avuto il tempo di recarmi in obitorio per parlare con Butler a proposito della pistola che ha ucciso Gina. Gli ho parlato brevemente al telefono: dice che si tratta di un pezzo d'antiquariato, simile a quello che Felix Berg si è procurato da Strange. È possibile che anche questa provenisse da qui? Credo di sì. E, come se non bastasse, in questo momento dovrei essere in ospedale da Dalton, per incontrare la madre e una schiera di fratelli e sorelle. Devo rassicurarli che il loro caro non si è beccato una pugnalata invano.» «Perché, Dalton ha una famiglia? Non mi ero resa conto del pericolo che il suo DNA si fosse diffuso. Anche i suoi parenti vanno in giro a criticare e a tormentare chiunque?» «Perché non ci vai e non lo scopri da sola?» «No, grazie, passo. Dubito che abbia voglia di vedermi. Probabilmente ne approfitterebbe per iniziare di nuovo a irritarmi. E non ho nessuna intenzione di sorbirmi anche le lamentele di tutto il clan. Quasi sicuramente mi ritengono responsabile dell'accaduto.» «Di loro non ti devi preoccupare. Non credo si siano mai illusi riguardo alla bontà del nostro detective. E poi, credo che lui si senta alquanto avvilito. Sa che si beccherà una bella sgridata per il comportamento della notte scorsa. A quanto pare, mentre era nascosto dietro al bidone in attesa del nostro amico, ha dato ordine alla squadra di supporto di tenersi lontana dal luogo dell'incontro, così da prendersi tutto il merito della cattura dell'Uomo di Marx. Per questo non sono riusciti ad arrivare prima che provasse a scappare.» «Quindi non sbaglio, se mi azzardo ad affermare che Draker non è esattamente di buon umore.» «Tu che cosa dici? E questo, poi, non aiuta», aggiunse, muovendo il braccio a indicare la villa distrutta dalle fiamme. «Se ne va in giro a strillare come una vecchia zitella. Vuole sapere che cosa è successo di preciso. Vuole i rapporti sulla sua scrivania entro cinque minuti, o saranno guai per tutti. Rapporti dettagliati e minuziosi. È incazzato. Credeva che il caso del-
l'Uomo di Marx fosse chiuso... e poi accade questo. Si sta chiedendo cos'altro potrà succedere. E pretende delle risposte.» «Uno sviluppo alquanto preoccupante: sta imparando come si fa il poliziotto.» «Io non mi spingerei tanto in là. Strange era un suo amico, tutto qui. Non gli sarebbe dispiaciuto chiudere le indagini e offrire da bere a tutti al golf club, insieme al commissario. Ma adesso è diverso, Strange è morto. È il solito, vecchio cliché: questa volta è una questione personale. Strange era uno del suo circolo. E Draker vuole il sangue di qualcuno.» «Il mio, probabilmente.» «Non ne sarei sorpresa», disse. E io fui quasi sul punto di mettermi a ridere, in quella stanza cupa e annerita dall'incendio. Ma lei non scherzava affatto. «Cristo... e che motivo avrei avuto per volerlo morto?» «Draker ti odia, non gli serve un altro movente. E non ha dimenticato che Strange aveva minacciato di far emettere un ordine restrittivo nei tuoi confronti, quando lo molestavi.» «Oddio, ancora con questa storia. Ho già ripetuto un milione di volte che non l'ho mai mole...» «Inoltre», continuò sollevando un dito, senza darmi il tempo di ribattere, «parlando con Healy ha affermato che, una volta partita da Forty Foot, avresti avuto tutto il tempo di venire qui e appiccare l'incendio. Gliel'ha detto in confidenza... e naturalmente Healy è venuto immediatamente da me.» «Come fa a sapere che sono stata laggiù?» Scrollò le spalle. «Qualcuno ti avrà notata. È un luogo pubblico.» «Ok. Ma quando la casa ha preso fuoco io stavo aiutando Fisher a scegliere delle camicie. Sei stata tu a caricarci in auto, in città.» «Mi stai fornendo un alibi?» «Tanto vale che lo faccia, se Draker ha intenzione di proseguire su questa linea.» «Allora negozieremo, quando verrà il momento. Ma ti avverto, sarò un osso duro.» «Molto divertente.» Tornammo in quello che rimaneva dell'atrio della dimora di Strange, e attraverso la porta danneggiata dalle fiamme intravedemmo Sean Healy e Patrick Walsh, che parlavano con l'ispettore capo dei vigili del fuoco. Probabilmente gli stavano chiedendo dove fosse il sovrintendente capo Fitzge-
rald, perché lui sollevò una mano a indicare la casa. Healy accelerò il passo, quando ci vide uscire. «Che cos'hai scoperto?» gli chiese Grace, quando fu abbastanza vicino. «Sono arrivate diverse identificazioni per George Dyer. Sette donne affermano che si tratta del marito... anche se nessuno dei coniugi in questione risulta essere morto, il che rende alquanto improbabile che possa davvero essere lui. Un'altra persona ha riconosciuto il presidente degli Stati Uniti. Un'altra ancora sostiene che sia la donna che le cura il giardino. Figurarsi! Ma secondo le ultime tre - si tenga forte, capo - l'uomo della foto sarebbe un certo Brendan George Toner, un tempo residente a Howth. E queste persone sembrano non avere dubbi in proposito.» «Il fratello di Lucy», dissi. «La ragazzina assassinata tanti anni fa?» chiese Grace. «Esattamente. Venne uccisa proprio nel periodo in cui Felix e Alice vivevano nella casa dietro l'angolo», spiegai. «Boland ha provato a rintracciare la famiglia, ma non ha avuto fortuna. Entrambi i genitori sono deceduti, la sorella risultava ricoverata in una clinica di cura. Quanto al fratello, sembrava essere scomparso nel nulla, o così mi ha detto il sergente.» «Be', a quanto pare si è rifatto vivo.» Mi tornò alla mente la fotografia sbiadita ritrovata nella casa dell'uomo che si faceva chiamare George Dyer: la donna con le lettere ONE sopra la testa... Probabilmente l'insegna del negozio dei Toner, di fronte al mare, a Howth. Doveva essere sua madre. «Proprio quello di cui avevo bisogno», disse Grace. «L'ennesima complicazione.» «Chi è stato a identificarlo?» chiesi. Healy consultò il taccuino che teneva in mano. «Un tizio che viveva nella stessa strada dei Toner e che, a quanto dice, l'avrebbe riconosciuto ovunque. Un'anziana che si recava nel negozio della famiglia una volta la settimana, che non ha fatto che ripetere quanto Brendan fosse educato e gentile...» «Evidentemente, crescendo è cambiato.» «Può dirlo forte. La terza, infine, è una donna che afferma di essere uscita con lui per un certo periodo.» «Questa mi sembra più promettente», intervenne Grace. «Se voglio scoprire qualcosa su un uomo, preferisco parlare con tutte le donne con cui è andato a letto, piuttosto che con la nonnetta che andava una volta la settimana nel negozio in cui lui lavorava vent'anni fa.»
«Be', non so dirle se andassero davvero a letto insieme», precisò Healy. «Erano poco più che ragazzini, all'epoca.» «E da quando questo è diventato un ostacolo?» osservò Walsh. «Come ha detto di chiamarsi?» chiesi. «Nye.» «Nye?» Healy consultò nuovamente il taccuino. «Sì, Nye. Tricia Nye. La conosce?» «Diciamo che ci siamo scambiate un'occhiata, per la verità non troppo amichevole. Ammesso che sia la stessa persona, e credo che sia così. Nye non è esattamente il nome più comune sul pianeta. È sposata con Paddy Nye, l'uomo che per un periodo visse in casa dei Berg... fino a quando non litigò con Felix. Fu lui a fornire un alibi a quest'ultimo, all'epoca dell'omicidio di Lucy. Non solo, per un po' uscì anche con Alice.» «Piccolo il mondo... Comunque, questa Tricia non frequentò a lungo il nostro uomo. Quando la loro storia finì, Toner non aveva più di diciott'anni. Poi lasciò il quartiere, e lei non ne sentì più parlare. Fino a stamattina, quando il suo viso è apparso su tutti i giornali, presentato come quello dell'Uomo di Marx.» «Penso di dover andare a farle una visitina», commentò il sovrintendente capo Fitzgerald. 47 Burke non era in negozio. Il cartello appeso alla porta diceva CHIUSO. Hare sollevò la testa indifferente, quando bussai alla finestra, e mi guardò ammiccando. Ma, dal momento che non potevo essergli di alcuna utilità, tornò frettolosamente a posare il mento sulle zampe, e si addormentò. O, forse, fingeva di dormire. Provai invidia per lui. L'unica luce era quella della lampada sulla scrivania di Burke, che tracciava un cerchio pallido sul ripiano sottostante. Feci una passeggiata lungo il fiume, senza pensare a niente; era la cosa migliore, quando mi sentivo giù di corda. Ma non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine della casa di Strange distrutta dall'incendio. George Dyer era morto; Strange mi aveva consegnato le fotografie di Felix, e poi era morto anche lui: non poteva trattarsi di una coincidenza. I tre fatti dovevano per forza essere legati tra loro. Ma quale fosse la con-
nessione... be', era tutta un'altra faccenda. Quando tornai al negozio, il cartello era ancora lì e la porta era ancora chiusa, nonostante fosse pomeriggio presto. Ma notai un'altra luce provenire dalla stanza sul retro; Hare aveva abbandonato l'angolo in cui poco prima sonnecchiava. Bussai di nuovo, questa volta con maggior vigore. E poi ancora. La luce si spense e Burke comparve davanti alla porta che conduceva nella stanza posteriore. In mano aveva un libro aperto. Il gatto gli camminava tra le gambe, e lui teneva la testa china sulle pagine. Non sollevò lo sguardo fino a quando non bussai un'altra volta, più forte che mai. Solo allora mi resi conto che indossava un paio di cuffie, perché le tirò indietro facendole scivolare intorno alla gola; sorrise e venne ad aprirmi. «Iniziavo a pensare che mi stessi ignorando», dissi. «Rischiando così di perdere la mia migliore cliente?» Si diresse verso la scrivania, su cui appoggiò il libro a faccia in giù. La fioca luce della lampada illuminò il titolo: Friedrich Engels: gli scritti essenziali sulla politica e l'economia. Burke colse il mio sguardo. «Se vuoi, quando l'ho finito te lo presto.» «Tranquillo. Aspetto che esca il film.» Mi sedetti pesantemente sulla solita sedia, realizzando solo in quel momento quanto mi dolesse ogni parte del corpo. Intanto, quel dannatissimo gatto mi saltò in grembo, mettendosi comodo. Burke si tolse le cuffie e posò il Walkman sulla scrivania, accanto al libro. «Che cosa posso fare per te?» disse. «È così facile leggermi nella mente?» «Di sicuro è più semplice che leggere Engels. Dal modo in cui ti siedi, riesco sempre a capire se sei venuta per un caffè, per un whiskey o per qualcosa di più complicato. Allora, di che si tratta?» Gli dissi che Strange era morto. Che era stato assassinato. E gli raccontai delle fotografie. Gli parlai della serie dedicata agli Stranieri, e per tutto il tempo lui rimase in silenzio. Non si chiese nemmeno ad alta voce perché mai non fosse stato invitato a partecipare all'iniziativa, come faceva ogni tanto. Si limitò ad ascoltare le lamentele, che scivolavano dalla mia bocca come l'acqua dai bordi di una vasca piena fino all'orlo. Non volle disturbare in-
terrompendomi, o offrendo soluzioni non richieste. Alla fine, gli dissi di come la moglie di Paddy Nye avesse riconosciuto la foto di Dyer... Toner... o come diavolo si faceva chiamare. «Questa sì che è una coincidenza», osservò. Il suo intervento mi fece capire che doveva trattarsi di qualcosa di importante. Lo guardai mentre si alzava e tornava dietro la sua scrivania. «Hai qualcosa?» «È il mio lavoro. Ho voluto rimediare, visto che l'ultima volta mi hai preso in giro per la mia ignoranza in materia.» «Io non ricordo nemmeno di averti parlato della moglie di Nye.» «Infatti. Abbiamo parlato del libro dedicato all'omicidio di Ireland's Eye.» «E lei che cosa c'entra?» «È l'autrice.» Stavo per obiettare, quando mi resi conto del banale errore che avevo commesso. P.F. Nye. La moglie si chiamava Tricia: il diminutivo di Patricia. Perché avevo dato per scontato che la P. stesse per Paddy, quando esistevano altrettante possibilità che si trattasse dell'iniziale del nome della donna? «È un'esperta di storia locale molto conosciuta», mi spiegò Burke. «Per questo è finita insieme a Nye, per il comune interesse per quell'isola.» «Chi ti ha detto tutte queste cose?» «Lei.» «Sei andato a Howth?» «Ho pensato che ne valesse la pena.» «Evidentemente ti è andata meglio che alla sottoscritta. Con me è stata glaciale. Ho avuto l'impressione che non avrebbe sprecato uno sputo nemmeno se fossi andata a fuoco.» Poi realizzai quello che avevo detto: avrei voluto che la terra mi inghiottisse. Un paragone infelice. Che Burke ebbe la decenza di non sottolineare. «Come sei riuscito a farla parlare?» ripresi. «Alcune persone hanno questa capacità, a differenza di altre. Tu appartieni al secondo gruppo: sei troppo pungente, troppo permalosa. Sei sempre pronta a litigare. Io, invece, preferisco un approccio più tranquillo. Ho
fatto appello alla sua vanità, le ho detto che avevo letto il suo libro, e che l'avevo trovato molto interessante. Di solito funziona. Pochi minuti e si è messa a cantare come il proverbiale canarino. Adesso so tutto degli omicidi commessi in quel vecchio quartiere. Sono diventato un esperto. Io stesso potrei scrivere un libro, forse.» «Ma hai scoperto anche qualcosa di utile?» «Imparare qualcosa di nuovo è di per sé utile», ribatté. «Non te l'hanno insegnato, a scuola? Comunque, se quello che vuoi è un approccio materialistico al tema della saggezza, sì, credo di aver scoperto qualcosa di utile. Per prima cosa, sono venuto a sapere che Tricia Peel, la signora Nye, e Lucy Toner da bambine giocavano insieme, e che Felix e Brendan erano come fratelli: inseparabili. E mi ha rivelato di essere sempre stata convinta che fosse stato Berg a uccidere la sua amichetta, forse viene proprio da qui il suo interesse per gli errori giudiziari ormai da tempo dimenticati. Ora, come mai ho l'impressione che la notizia non ti colga affatto di sorpresa? Hai sentito quello che ti ho detto?» Sì, avevo sentito. Ma a lasciarmi ammutolita non erano le sue parole, bensì quello che stavo vedendo. Davanti agli occhi, infatti, avevo ancora quei versi che avevo letto il giorno prima nel diario di Felix. Perché non l'avevo portato con me? «Ti ricordi di che cosa parlavano?» mi chiese Burke, dopo che gli ebbi spiegato che cosa mi tormentava. «Dicevano qualcosa a proposito di un cadavere sepolto in un giardino, che poteva fiorire o non fiorire... e poi a disturbare tutto c'era la brina... No, forse si trattava di un cane. Non ricordo. So solo che mi è sembrata spazzatura.» «Sono le persone come te che rovinano la reputazione degli americani. Si dà il caso che quella spazzatura sia tratta da uno dei più grandi poemi del Ventesimo secolo.» «E chi lo dice?» «Lo dicono tutti.» «Be', sai che il mio cervello e la poesia sono su due frequenze diverse. Allora? Hai intenzione di dirmi di che cosa stiamo parlando?» «Farò di meglio. Te lo mostrerò. Aspetta qui.» Accese di nuovo la luce nella stanza sul retro, la sua voce mi giungeva come un'eco, mentre leggeva tutti i titoli sul dorso dei libri. Poi, finalmente: «Eccolo», esclamò.
La sua ombra tornò alla scrivania e mi consegnò un libriccino tanto sottile da sembrare più inconsistente di una foglia, stretto fra quelle mani enormi. Poesie scelte di T. S. Eliot. «Quei versi che ricordi solo vagamente... Ecco, mi sembrava appartenessero a La terra desolata. Ti avevo detto di leggerlo.» Aprì il volumetto e, trionfante, indicò una pagina. «Infatti, non mi ero sbagliato. Parte Prima, 'La sepoltura dei morti', dal verso settanta in poi.» Seguii il suo dito e iniziai a leggere: immediatamente, riconobbi le parole che avevo trovato nel diario di Felix. E, poco più in basso, trovai un'altra cosa che mi sembrò alquanto familiare. Felix non aveva tratto il titolo del suo libro, La città irreale, da una parte qualsiasi dell'opera di Eliot. No, l'aveva preso da qui, da questa stessa sezione, dedicata ai corpi seppelliti nei giardini e disturbati nel sonno eterno... D'un tratto sentii freddo, come se fosse tornato l'inverno. 48 Grace non sembrò minimamente impressionata dalla mia teoria. «Tu credi che Felix Berg abbia ucciso Lucy Toner?» «Non saltarmi subito alla gola», le dissi. «Lascia almeno che ti spieghi.» Prese il suo drink e lo ripose con ostentazione sul tavolo. Era pomeriggio inoltrato, ed eravamo sedute in un bar. Ci stavamo aggiornando. Un juke-box sparava la sua musica a un volume assordante, ma per una volta ne fui lieta: nessuno avrebbe sentito la nostra conversazione. Era già abbastanza brutto doverne parlare con Grace, senza bisogno di un pubblico. «Così si spiega il significato della citazione all'inizio del diario», dissi. «Tutta quella storia del cadavere sepolto in un giardino, disturbato nel suo riposo eterno... Si riferisce al corpo di Lucy. A cos'altro, altrimenti? Perché mai Felix avrebbe dovuto riempire quel quaderno di ritagli di giornale, se non per soddisfare il desiderio di rivivere quello che aveva compiuto? E per quale motivo avrebbe intitolato il suo libro La città irreale?» «Perché Eliot aveva preso quell'espressione da Baudelaire, e quel verso di Baudelaire a proposito degli spettri che afferrano i passanti alla luce del giorno descriveva perfettamente quello che voleva mostrare nei suoi lavo-
ri.» «Questo è quello che voleva farci credere. Non pensi che abbia più senso collocare quel titolo in un contesto più ampio? Una confessione in fieri, per esempio. Felix una volta disse a Vincent Strange di aver vissuto con un assassino. Secondo Paddy Nye, ai tempi della loro convivenza ripeteva in continuazione che in quella casa abitava un killer. Si spinse persino a far visita a Isaac Little, in carcere; gli disse di essere convinto della sua innocenza. Non so per quale ragione l'abbia fatto, forse era divorato dai sensi di colpa o, più semplicemente, gli piaceva giocare con la mente delle persone: gli piaceva scherzare con il fuoco, rischiare di essere scoperto. In ogni caso, non puoi negare che l'abbia fatto.» «Fisher sostiene che gli artisti non si trasformano in assassini», ribatté lei decisa. «Non è vero. Ha detto soltanto che non ci sono stati molti esempi, in passato. Ma ha ammesso che, in determinate circostanze, hanno le stesse probabilità di diventarlo di qualsiasi altra persona.» «Ok, poniamo che Felix abbia ucciso Lucy Toner. Ho letto il dossier relativo a quell'omicidio. Ho visto che cos'hanno fatto a quella poverina. La bocca piena di terra. Lo stupro. Secondo te, dopo aver commesso un simile abominio, si sarebbe alzato, spolverandosi i vestiti, e sarebbe tornato alla sua vita normale, come se nulla fosse successo? Perché, sai, generalmente quelli che violentano le ragazzine di quindici anni, e premono i loro visetti contro il terreno fino a farle soffocare, non riescono a nascondere per sempre la loro vera natura.» «Ovviamente non sto dicendo questo.» «Allora come ci sarebbe riuscito Felix Berg?» «Credo che lui fosse in grado di sublimare quegli impulsi nella sua opera. Nei suoi scatti. Ricordi che cosa diceva l'introduzione al suo libro? Che i suoi primi lavori vennero considerati violenti, altamente erotici, e in alcuni casi addirittura semipornografici. La mia opinione è che lui si rendesse conto di ciò che quelle foto rivelavano... per questo, in seguito, cercò di rientrarne in possesso. Era come se al posto delle ossa del cranio avesse una lastra di vetro: chiunque si fosse soffermato a osservare quelle immagini, sarebbe stato in grado di leggergli nella mente. E lui non voleva che si sapesse che cosa celava lì dentro. Io non penso che gli autori di immagini estreme come quelle vogliano semplicemente esplorare i temi del sesso e della violenza in relazione alla cultura contemporanea. Questo è quello che vogliono farci credere. In realtà, esse innescano qualcosa, mettono in
moto il loro lato oscuro.» «Su questo sono d'accordo con te. Ma Felix aveva smesso con quella roba, no?» «No, invece. Realizzava ancora scatti sadomaso, quelli appesi nella galleria di Strange erano suoi. Io li ho visti e ho provato un enorme fastidio. E hai sentito che cos'ha detto Fisher, anche a proposito delle sue opere principali: i sentimenti umani non sembravano toccarlo. Aveva un comportamento dissociativo. Lo stesso Strange ha parlato della rabbia all'interno della sua opera. Era come un drogato che ricorre al metadone, un killer che, pur di soddisfare i propri istinti e i propri desideri, si accontenta di un surrogato... che nel suo caso altro non è che l'immaginazione. Non è raro che gli assassini si servano di una pornografia insana e violenta come di un'automedicazione. Felix si procurava da solo la sua scorta.» «I killer spesso sfruttano le immagini di crudeltà e di dolore altrui, quando non sono in grado di crearsi le proprie», disse Grace, «ma ciò non riesce a soffocare quello che provano: al contrario, serve ad alimentare le loro fantasie. Perché per Felix Berg avrebbe dovuto essere diverso? È troppo rischiosa, come strategia. Flirtando con i suoi impulsi, non avrebbe rischiato di accentuarli, al punto da non riuscire più a controllarli? Se hai ragione riguardo a Lucy, e non sto dicendo che sia così, allora aveva già ucciso una volta. Sapeva di essere capace di azioni terribili. Non stava correndo il rischio di essere indotto a uccidere una seconda volta?» «Forse, segretamente, era quello che voleva. Forse cercava di alimentare le sue fantasie, fingendo di averle sotto controllo. Così, qualora avessero avuto il sopravvento, avrebbe potuto dire che aveva fatto del suo meglio e che non era colpa sua... e che non era riuscito a fermarsi, anche se aveva fatto il possibile. O magari i suoi impulsi erano tanto forti da costringerlo a tentare qualsiasi strada per controllarli, per evitare che si impossessassero della sua esistenza.» «Ma non è successo, dico bene?» «No?» «Non lo so», disse piuttosto confusa. «Infatti, lo sto chiedendo a te. Sei tu quella con un sacco di teorie.» «Non sono teorie», obiettai. «Ok, allora dove sono le prove?» «Circa un anno fa, mentre stava scattando qualche foto per strada, nel cuore della notte, Felix venne aggredito: un colpo alla testa, cadde a terra e rimase privo di sensi. Tutti pensarono che fosse morto.»
«Sì, ricordo di aver visto il suo nome nei necrologi.» «Il punto in cui venne colpito è il più delicato della testa, il cranio è sottile e non ci sono fluidi a proteggere il cervello da eventuali danni. Questo pomeriggio ho parlato ancora con il suo medico che mi ha confermato che Felix aveva riportato una lesione significativa alla regione del lobo temporale. Non era tanto grave da impedirgli di condurre un'esistenza normale, ma lo era abbastanza da causargli serie difficoltà nell'autocontrollo. Una cosa del genere sarebbe un problema per chiunque, figuriamoci per uno come lui! Un uomo dotato di quelle che tu definisci estreme e violente fantasie sessuali... Un'anomalia simile poteva rivelarsi disastrosa! Uno studio ha dimostrato che gli individui violenti, che uccidono ripetutamente, spesso presentano un danno a quella stessa parte del cervello dove Felix era stato colpito.» «L'essersi beccato una botta in testa non fa di lui un assassino», obiettò Grace. «O forse pretendi che vada ad arrestare chiunque si sia recato in ospedale per una ferita alla testa negli ultimi cinque anni, con l'accusa di essere un potenziale omicida?» «Non sto parlando di tutti. Sto parlando di Felix. Il medico mi ha detto che, in seguito all'aggressione, aveva cominciato a soffrire di attacchi lancinanti di emicrania. Aveva delle perdite temporanee di coscienza, periodi in cui non riusciva a ricordare chi fosse, o dove si trovasse. Era molto più del semplice esaurimento nervoso descrittoci da Alice. Berg delirava; minacciava di suicidarsi. E aggrediva persino lei. Per questo, insieme a Strange, la sorella decise che la cosa migliore da fare era portarlo via, negli Stati Uniti, perché fosse curato in una clinica privata raccomandata dal dottore. È lì che sono stati la scorsa estate. Ma...» «Perché sapevo che, prima o poi, sarebbe arrivato un ma?» «Non andò come avevano sperato. Felix usciva dall'istituto, apparentemente senza alcun motivo, e andava a bere. Di lì a breve, Alice scoprì che frequentava un poligono. Ricordi? Lo raccontò anche a Miranda. E adesso salta fuori che anche i proprietari pensavano che fosse un tipo un po' bizzarro e stravagante; parlava da solo, sparava a casaccio...» «Come sai tutte queste cose?» «Ho chiesto a Burke di chiamare lo sceriffo della contea, e di raccontargli una bella storiella. Ha un talento innato. Riesce a far parlare persino le persone che da anni non parlano nemmeno con se stesse. Lo fanno senza rendersene conto. A quanto pare, Felix era diventato una specie di leggenda. Non ha dovuto faticare molto per indurlo a raccontargli i vari aneddoti
sul suo conto.» «E così, Alice e Strange lo riportarono a casa. Giusto?» «Esatto. Lei stessa mi disse che il fratello stava bene, che stava prendendo dei nuovi farmaci che sembravano funzionare. Ma, poco dopo il suo ritorno a Dublino, la gente inizia a morire. E l'Uomo di Marx entra in azione.» «Non riesco ancora a capire dove vuoi arrivare. È stato Felix Berg a uccidere Lucy Toner? Be', tu dici che è così. Secondo te, dopo la botta in testa, si sarebbe trasformato in un assassino? Perfetto, accetto anche questa. Ho sempre sostenuto che quel tipo era strano, ecco perché non avrei voluto che ti fossi lasciata coinvolgere. Ma non vedo l'urgenza di una simile discussione. Perché parlarne adesso, proprio quando il mondo intero sta crollando intorno a noi? Felix è morto!» Adesso arrivava la parte difficile. Quella che temevo. E a cui il mio cervello aveva lavorato durante tutto quel tempo. «E se non fosse così?» le chiesi. «Se non fosse... morto?» Sembrava quasi che le avessi detto che sospettavo che Berg fosse un extraterrestre. «Quella notte, giù al porto, io non l'ho visto in viso», insistei, prima che iniziasse a sollevare le sue obiezioni. «Poteva essere chiunque. Butler ha idea di che aspetto avesse Berg da vivo? Nessuno avrebbe potuto affermare con certezza che l'uomo che è stato ripescato dall'acqua fosse davvero lui. Metà del volto era stata disintegrata dal colpo di pistola, la pallottola è entrata attraverso l'occhio.» «Ma che motivo avrebbe avuto di fingersi morto?» «Doveva sparire.» «E perché?» Ecco. Era giunto il momento. Un respiro profondo. «Perché Felix Berg è l'Uomo di Marx.» Le urla del juke-box colmarono il lungo silenzio di Grace. «Saxon», riprese alla fine, «questa volta penso davvero di averti persa.» «Che cosa c'è di così incredibile? Ha ucciso Lucy Toner. Aveva un comportamento strano e violento già prima di recarsi negli Stati Uniti. Mentre era là, ha frequentato poligoni di tiro. Gli omicidi del nostro uomo sono iniziati proprio quando lui è rientrato a Dublino. E forse Gina aveva
ragione, a proposito dei tarocchi... non lo so. È stato lui a regalarle quel mazzo di carte, ci sono persino dei riferimenti ne La terra desolata.» «Sei stata tu a dire che quella dei tarocchi era una stronzata.» «Lo è, infatti. Ma se Felix ci credeva, varrebbe la pena riconsiderare la questione. Pensaci, abbiamo la testimonianza della sorella, secondo cui Berg era ossessionato dai delitti. Durante la sua ultima mostra, alle pareti della galleria erano esposte le fotografie di alcune scene del crimine. Si spinse addirittura a confessare a Miranda Gray di essere lui l'Uomo di Marx.» Stavo cercando di abbattere ogni potenziale obiezione con le parole, e la cosa sembrava funzionare. Grace non era del tutto persuasa, ma non dava l'impressione di voler litigare. «Ma Alice ha identificato il corpo», si limitò a dire. «Lo so. E, se vuoi sapere come la penso, c'era dentro anche lei.» «E perché avrebbe fatto una cosa simile?» «Perché era stato lui a chiederglielo. Perché lo amava e voleva proteggerlo. E perché sospettava di portare il suo bambino in grembo. Chi può saperlo? Inoltre, credeva in tutte quelle idee sentimentali e strappalacrime riguardo alla redenzione e alle seconde possibilità. Qualunque cosa abbia commesso, avrà pensato, Felix è una brava persona. Si rimetterà. Gli servono soltanto un po' di tempo, una cura efficace e l'amore di una sorella devota.» «E il fatto che altre persone rischiassero di morire?» «Evidentemente, proteggere Felix era più importante. Lui non ne aveva colpa, ricordi? Era malato, non si sentiva bene, era un genio torturato, e con quella botta in testa si era fottuto l'ipotalamo. Ci sono un'infinità di scuse, basta cercarle. Ma, dietro a tutto questo, si nasconde la ragione fondamentale: Alice aveva bisogno di lui; senza il fratello, si sentiva incompleta e imperfetta. Una volta mi disse che erano due parti della stessa persona.» «Quindi, secondo te, che cos'avrebbe fatto?» «D'accordo con Felix, ha accettato di identificare il corpo ripescato giù a Howth. Lui avrebbe fatto in modo che io mi trovassi lì, cosicché, quando avessi notato il cadavere in acqua, avrei pensato immediatamente che si trattasse dell'uomo da cui avevo ricevuto la telefonata. All'arrivo della polizia, avrei dichiarato che il cadavere apparteneva al fotografo, e gli agenti sarebbero andati a prendere Alice. Nessuno avrebbe messo in dubbio la parola di una sorella disperata. Felix sarebbe stato libero di nascondersi, ma-
gari all'estero, dove lei avrebbe potuto raggiungerlo in seguito, quando le acque si fossero calmate. Peccato che lui avesse altri piani: non aveva alcuna intenzione di smettere i panni dell'Uomo di Marx, gli piaceva troppo. Ed è anche possibile che non avesse mai pensato di ricongiungersi con la sorella. Forse è per questo che lei si è tolta la vita. Si è resa conto della situazione. E ha preferito la morte, a una vita senza di lui.» «Una teoria brillante, te lo concedo», disse Fitzgerald. «Ma se il piano consisteva nel fare credere che Felix fosse morto, perché mai lei avrebbe insistito affinché tu investigassi sul decesso? Per noi il caso era chiuso: si trattava di suicidio. E se era davvero quello che volevano, perché avrebbe corso il rischio di svelare la verità?» «Per la stessa ragione per cui Berg ha intitolato il suo libro La città irreale.» «Credi che anche Alice provasse l'urgenza di confessare? Voleva giocare con il fuoco?» «E perché no?» «Perché no? Perché ci sono troppe questioni insolute. Numero uno: se quello ritrovato giù a Howth non è il corpo di Felix, allora di chi è? Numero due: come sono riusciti a far passare l'omicidio giù al porto, ammesso che si tratti di questo, per un suicidio? Numero tre: come ti spieghi che, quando Miranda Gray decise di svolgere qualche indagine personale sulle attività del suo paziente, scoprì che al momento del primo delitto si trovava fuori città?» «In che modo la dottoressa venne in possesso di quell'informazione? Ti rinfresco la memoria: fu Alice a dirglielo. Ricordi?» «Già... allora dimmi: come si ricollega tutto questo a Brendan Toner? Se Felix Berg era l'Uomo di Marx, perché l'altro avrebbe confessato al suo posto? Perché avrebbe dovuto uccidersi? E, soprattutto, perché avrebbe dovuto coprire la persona che, secondo te, aveva violentato e ucciso sua sorella? Il fatto che da ragazzini fossero amici per la pelle non significa che sarebbe stato disposto a nascondere un fatto del genere.» «Non mi sto vantando di avere tutte le risposte. Sto solo dicendo che alcune questioni meritano di essere considerate più a fondo. Come l'irruzione in obitorio, la notte in cui Mark Brook è stato ucciso. Secondo te si trattava di un gruppo di ragazzini a caccia di qualche sostanza stupefacente, ma nemmeno i tossici sono tanto idioti da sperare di poter trovare qualcosa nello schedario del medico legale. E se, invece, fosse stato Felix? Forse voleva recuperare il risultato della sua autopsia, per poi distruggerlo nel
caso fossero sorti dei sospetti intorno al suo presunto decesso.» «Basta! Ti prego, fermati. È troppo... Non riesco... non riesco a crederci. Non capisco nemmeno che cosa vuoi che faccia.» «Fai riesumare il cadavere, come ti avevo già chiesto. Fallo esaminare, per verificare che si tratti davvero del fotografo. In questo modo, saremo in grado di chiarire immediatamente la faccenda. E non dobbiamo nemmeno preoccuparci che qualcuno della famiglia pianti delle grane, dal momento che non è rimasto nessuno.» «E secondo te come faccio a ottenere un ordine di riesumazione? Non posso certo imporre a un giudice di concedermi di dissotterrare tutti i cadaveri della città, sulla base dei sospetti di un'americana schizzata.» «Per prima cosa, fatti consegnare la radiografia eseguita da Butler durante l'autopsia. Come ti ho detto, Felix si era beccato una bella botta in testa, riportando danni piuttosto seri al cranio. Se la frattura non dovesse risultare, non dovresti avere problemi a ottenere l'ordine.» «Ok, lo farò.» Ripose il bicchiere. «Chiamerò Walsh e gli dirò di passare nell'ufficio del medico legale. Bada, questo non significa che creda alla tua teoria. In effetti, penso che tutto questo sia folle... e io lo sono ancora di più, visto che ti sto a sentire. Ma farò come dici, tanto per calmarti. E alla fine vedrai che quello che affermi è impossibile. Nel frattempo, io e te andiamo a fare una chiacchierata con Paddy Nye.» «Perché?» «Perché se è davvero come dici, se Felix Berg ha realmente ucciso quella ragazzina dieci anni fa, voglio sapere per quale motivo Nye gli fornì un alibi per la notte dell'omicidio.» «Ma oggi non sei già stata a parlare con la moglie, a proposito della sua relazione con Brendan Toner?» «Non ce l'ho fatta. Te l'avrei detto, se mi avessi dato la possibilità di inserirmi nel discorso. Secondo i vicini, hanno preso la barca, diretti verso Ireland's Eye. Si sono voluti allontanare per qualche giorno, per dimenticare tutta questa storia; il figlio sta con i nonni.» «Quindi li chiamerai sul cellulare?» «Non lo portano mai sull'isola. Niente legami con il mondo moderno.» «E allora come faremo a parlare con loro?» «Ti concedo tre tentativi.» 49
Essere il sovrintendente capo aveva i suoi vantaggi. Grace impiegò appena cinque minuti a requisire una barca, una volta arrivate a Howth. Anche se adesso che ero salita a bordo, e solcavo le acque scure in direzione di Ireland's Eye, non ero più tanto sicura che fosse un bene. Soprattutto dal momento che aveva ricominciato a piovigginare. Ero seduta al centro dell'imbarcazione. I miei capelli si stavano inzuppando. Ma perché non mi ero portata una giacca? Grace, invece, era appollaiata a poppa con la schiena ben diritta, e si occupava del motore fuoribordo. Sembrava nata per questo. La bagnarola su cui viaggiavamo emetteva dei rumori allarmanti, scricchiolava e si lamentava, quasi non avesse apprezzato quell'ultimo viaggio, quando ormai credeva che il lavoro per quel giorno si fosse concluso. Cercai di distogliere la mente da quel frastuono, osservando l'isola che si faceva sempre più vicina. Pian piano, quella massa confusa che si stagliava contro la pioggia, del tutto simile a un nuvolone caduto dal cielo, iniziava ad assumere una forma definita. Di lì a poco, cominciai a notare i singoli scogli ai margini dell'isola. E a distinguere i contorni di quest'ultima. Il viaggio non dovette durare più di mezz'ora, ma quando attraccammo ebbi l'impressione di aver dimenticato quello che si prova a camminare sulla terraferma. Non sono mai stata una grande viaggiatrice. Davanti a noi si stendeva una piccola spiaggia sabbiosa a forma di mezzaluna, sopra la quale si stagliavano le rovine di una torre con una porticina che si apriva a metà della facciata, da cui penzolava una corda per arrampicarsi. Legammo la barca accanto a quella che pensammo fosse l'imbarcazione dei Nye, e rimanemmo ferme un istante, in ascolto. Calava l'oscurità. Gli uccelli sembravano agitati. Il nostro arrivo doveva averli disturbati. Il baccano del motore si era fatto beffe della nostra idea di arrivare in silenzio. I pennuti giravano e urlavano intorno a un grande faraglione. Grace notò l'oggetto del mio interesse. «Quello è lo Scoglio del Diavoletto.» «Del diavoletto?» «Secondo una leggenda locale, sarebbe stato scolpito da un demone.» Ormai niente sarebbe più riuscito a sorprendermi. «Di sicuro ci avranno sentito arrivare», dissi.
Ma non udimmo alcuna voce, nessuno venne a vedere chi fosse sbarcato sull'isola. «Dove avevano detto che si sarebbero accampati?» «Nei pressi di un luogo chiamato Long Hole», mi ricordò lei. «Long Hole... cioè dove morì quella giovane, tanti anni fa.» Non so se mi avrebbe allettato l'idea di dormire in un posto del genere. «Andiamo», mi incitò. «Sai come arrivarci?» «Ho controllato la mappa al porto, prima di partire. C'è un sentiero che conduce direttamente alla spiaggia principale, sul lato opposto. Non dovremmo metterci molto; l'isola, nel suo complesso, non supera gli ottocento metri quadrati. Bada a dove metti i piedi, è pieno di trappole per conigli», mi avvertì. E, per l'ennesima volta, mi chiesi che cosa ci facessi in un posto simile. Se fosse dipeso da me, avrei lasciato l'isola per tornarci un paio di secoli dopo. Allora, forse, avrei trovato dei comodi marciapiedi, anziché trappole, e magari degli edifici e un posticino caldo in cui mi sarei potuta rifugiare per bere qualcosa di forte. Invece, avanzavo a fatica dietro a Grace, lungo un sentiero buio; a impedirmi di inciampare e di rompermi l'osso del collo c'era solo la luce irregolare della sua torcia, che danzava fra l'erba alta illuminando il percorso. Adesso incominciavo a capire che cosa intendesse Paddy Nye, quando parlava di Ireland's Eye come di un luogo selvaggio. Essendo così vicina alla terraferma, offriva l'opportunità di fuggire in breve tempo dalla città. Ma tale opinione non mi trovava d'accordo: era da posti come questo, infatti, che io sentivo il bisogno di scappare. Mi comunicavano un senso di oppressione. E avrei giurato che Grace non la pensava affatto come me; da quando eravamo sbarcate, il suo umore era nettamente migliorato, quasi provasse lo stesso sollievo descritto da Nye. Ma ciò andava al di là della mia comprensione; se fossi rimasta troppo a lungo in un posto come quello, avrei finito con l'impazzire. Guardai avanti e vidi che si era fermata. «Che c'è?» «Eccoli. Li vedo.» Eravamo giunte in cima a una specie di vetta. Ai nostri piedi, l'isola digradava verso la spiaggia, dove fiocchi di schiuma lambivano la costa e... che cos'era quello? Fuoco.
Per un attimo rividi la casa di Strange, e fui quasi sul punto di farmi prendere dal panico. Poi riuscii a vedere meglio, era solo un falò in riva al mare. «Andiamo», disse Grace; notai che stava sussurrando, il che mi sembrò alquanto strano. Era come se temesse che il cielo ci stesse ascoltando. Regnava una tale tranquillità, si udiva soltanto il lontano scoppiettio di un'altra barca che costeggiava l'isola, invisibile sull'acqua scura. Iniziammo a scendere e presto i dettagli si fecero più chiari. C'era una tenda piantata sulla sabbia, tra le rocce; due zaini appoggiati lì accanto; le fiamme basse del falò. Nessun segno di Nye e della moglie. «Saranno in tenda a dormire?» suggerii. «Senza aver spento prima il fuoco? Non hai mai fatto campeggio, da ragazzina?» «Ero troppo occupata a rubacchiare nei negozi e a fumare erba.» «Già, non faccio fatica a crederti.» La sabbia era fredda, sotto la suola degli stivali, mentre ci avvicinavamo alla tenda. E lo divenne ancora di più, quando scorgemmo una figura immobile sdraiata accanto al fuoco. Nye. «Grace...» Ma l'aveva già visto. Indirizzò la luce della torcia sul viso pallido dell'uomo... e a quel punto sussultammo entrambe: avevamo temuto che fosse morto, e invece emise un mormorio confuso e si portò le mani alla faccia, per ripararsi da quel bagliore. «Ma che diav...» «Tranquillo, Paddy», lo rassicurò il sovrintendente capo Fitzgerald. «È la polizia.» Si tirò su a sedere, strofinandosi rudemente il volto. «Merda, devo essermi addormentato.» Si guardò intorno, strizzando gli occhi per vedere nel buio, sempre facendosi schermo con una mano. «Ehi, spenga quell'affare. Il fuoco fa già abbastanza luce.» Grace rifletté un istante e decise di seguire il consiglio anche perché avremmo avuto bisogno della torcia per tornare alla barca. La spiaggia, illuminata soltanto dalle fiamme, cambiò aspetto, mentre sul mare brillavano centinaia di luci: le luci della città che da poco avevamo lasciato. «Sua moglie dov'è?» gli chiese Grace. «È andata a prendere dell'altra legna. Ma a lei che cosa importa?» «Sono qui per parlarle di Felix.»
«Di nuovo! Quante volte dovremo ancora tornare sull'argomento? Felix è morto.» «Già. Anche Lucy Toner.» «E lei cosa c'entra? Anche quella donna», disse indicandomi con un brusco gesto della mano, «è venuta a chiedermi di lei. E le ho risposto la stessa cosa.» «Non mi aveva detto di aver fornito un alibi a Berg, per la notte dell'omicidio», intervenni. «L'ho fatto?» «Non finga di non saperlo», ribatté Grace. «E la smetta con questi giochini. Per il momento non intendiamo accusarla di niente. Abbiamo soltanto bisogno di sapere se Berg era davvero con lei.» Nye si alzò in piedi e fece un paio di passi, sollevò qualcosa da terra - erica, forse, o muschio - e ne gettò una manciata sul fuoco, che sembrò apprezzare. Quindi, ripeté il gesto più volte. «Non capisco», disse osservando le fiamme. «Credevo che a interessarvi fosse Brendan Toner. Mia moglie, al telefono, ha già riferito tutto quello che sa sul suo conto. Felix che cosa c'entra? Lui è morto.» «Sì, l'ha già detto», commentai. «È davvero sicuro che sia così?» Mi guardò per un attimo, confuso, prima di riuscire a trovare la voce. «L'hanno seppellito, di solito è un motivo sufficiente per ritenere che una persona sia deceduta.» «Non questa volta, forse», obiettai. «Noi pensiamo... Be', io penso che il corpo rinvenuto a Howth quella sera potrebbe non essere quello di Felix. Può darsi che lui sia ancora vivo.» Lanciò un'occhiata a Grace. «Sta dicendo la verità?» Doveva costarle moltissimo accettare un'idea simile, ma si limitò a dire: «Stiamo controllando di nuovo i referti dell'autopsia, per assicurarci che si trattasse davvero del suo cadavere. Mi chiameranno non appena avranno una risposta». C'era paura nei suoi occhi, una paura di cui bisognava approfittare. «Non è tutto», continuò Grace. «Esiste anche il sospetto che sia stato lui a uccidere la piccola Lucy.» «Chi, Felix?» Scosse il capo deciso. «Impossibile.» «Perché quella notte eravate realmente insieme?» Nye socchiuse le labbra per pronunciare un'altra menzogna, ma non riuscì ad articolare le parole. Invece, si lasciò cadere sulla sabbia e prese a fissare il fuoco.
«Come l'avete scoperto?» «Che cosa? Che l'alibi che aveva fornito a Berg era falso? Diciamo pure che è stata fortuna», dissi. «Il comportamento di Felix induceva a credere che fosse stato lui, ma se le cose erano andate così, non poteva essere con lei, quella notte. A meno che, ovviamente, non l'abbiate fatto insieme.» «Non crederà davvero che sarei capace di fare una cosa del genere?» «E Felix, invece?» «Oh, be'... lui sì che non avrebbe avuto problemi», rispose perentorio. «È sempre stato duro... spietato, quasi. Non per niente li chiamavano gli Ice Berg. Ma questo non significa che l'abbia fatto. Non avrei mai accettato di fornirgli un alibi, se avessi avuto anche il minimo sospetto che avesse assassinato quella ragazzina.» «Perché mentì per coprirlo?» «Aveva passato la notte con un'altra donna, e non voleva che Alice lo scoprisse. Mi disse che l'avrebbe ucciso. Sapeva essere molto... protettiva, nei suoi confronti.» «Andavano a letto insieme già allora?» «Alice andava a letto con chiunque, gliel'ho già detto», spiegò rivolgendosi a me. «Felix la amava alla follia. Non usciva con nessun'altra, nonostante lei andasse con qualsiasi cosa camminasse su due gambe. Poi, un giorno mi disse che un paio di sere prima aveva incontrato qualcuno... era proprio la sera in cui venne uccisa Lucy Toner; aveva passato la notte da quella donna. Era disperato, Alice non doveva assolutamente venirlo a sapere. E lui temeva che, se avesse detto la verità alla polizia, sarebbe giunta all'orecchio della sorella.» «E così ha accettato di coprirlo?» «Sì, ma all'epoca non sembrò un particolare rilevante. Isaac Little era già stato arrestato, e nessuno aveva dubbi riguardo alla sua colpevolezza. Fu una piccola bugia innocente. Non mi era mai passato per la testa che Felix avesse... potesse aver fatto una cosa simile. Non riesco ancora a crederci. Anche se...» «Cosa?» lo incalzò Grace. «Ricordo che aveva un graffio sul viso. Il prezzo di una notte di passione, mi disse. Ci ridemmo sopra.» E questo contribuiva a rendere la situazione ancora più odiosa, se possibile. Se solo, all'epoca, avessero pensato a raschiare sotto le unghie di Lucy... se solo avessero eseguito un confronto con campioni prelevati dagli uomini che vivevano nei dintorni... se solo qualcuno avesse notato il
volto di Felix... Quanti se. Ma i rimpianti, ormai, non servivano a nulla. Le indagini poliziesche, al momento dell'omicidio, erano ferme all'Età della Pietra. L'importante era cercare di migliorarsi. Andare avanti. «Perché non si è mai fatto avanti per rivelare quello che sapeva? Felix si è preso gioco di lei per anni, inviandole tutti quegli articoli...» «Ve l'ho già detto. Ero convinto che il colpevole fosse Isaac Little. Anche quando Berg ha iniziato a tormentarmi, non ho mai pensato nemmeno per un attimo che dietro quel delitto ci fosse lui.» «Sua moglie sì, però.» «Non capite? Era proprio questo il problema. Non faceva che ripetermelo. Diceva che Felix aveva ucciso Lucy. Che l'aveva fatta franca. E che, per questo, lo odiava con tutta se stessa. Come avrei potuto ammettere che ero stato proprio io a fornirgli un alibi, per giunta mentendo? Riuscite a immaginare come si sarebbe sentita?» «Adesso, comunque, lo verrà a sapere, qualunque cosa accada», disse Grace. «Non mi ci faccia pensare», rispose lui. Guardò verso la collina che si innalzava dalla spiaggia, nel caso la moglie stesse arrivando. Mi chiesi fino a dove si fosse spinta. «Non capisco, però, perché siate venute fin qui, a quest'ora», riprese. «Anche ammesso che sia stato Felix a uccidere Lucy, e che sia ancora vivo, come pensate... Che cos'ha a che fare con me, tutto questo?» «Tutto», feci io. «Per quanto ne sa Berg, lei è l'unica persona ancora in vita a sapere che il suo alibi per quella notte non conta niente. Probabilmente ne era al corrente anche Alice, che adesso è morta. Come Brendan Toner. Persino Felix è stato dichiarato tale. E se riuscisse a trovare il modo di farla tacere...» All'improvviso, fui interrotta da un suono inaspettato. «Dev'essere Walsh», disse Grace; realizzai che doveva trattarsi del suo cellulare, nascosto nella tasca interna della giacca. Ma era un rumore tanto alieno, in un posto come quello, che il mio cervello non l'aveva registrato come reale. Lo tirò fuori e premette il tasto per rispondere. «Walsh? Che cos'hai scoperto?» Osservai il suo viso, mentre ascoltava le parole del detective. «Puoi ripetere?» la sentii dire. «La ricezione non è perfetta.»
Poi aggiunse: «Merda. No, Walsh... hai fatto un ottimo lavoro. Ti richiamo più tardi». «Che c'è?» chiesi, impaziente, non appena ebbe riattaccato. «Walsh è stato nell'ufficio del medico legale; gli ha chiesto di mostrargli di nuovo i risultati dell'autopsia.» «E?» «Si tratta di Felix. È morto, Saxon, il cadavere è il suo. Le fratture corrispondono. Ogni cosa combacia alla perfezione. Walsh è persino andato a casa del dottore di Berg, per mostrargli le fotografie degli esami post mortem. È lui. Non ci sono dubbi.» Non riuscivo a crederci. «Io non capisco», dissi. «Se non c'è lui dietro a tutto questo... allora chi c'è?» «Credo che alla fine arriverebbe a me», disse una voce oltre il falò. 50 Ci voltammo entrambe verso il fuoco, e vedemmo Paddy Nye. Ma no, non poteva trattarsi di lui. La voce non sembrava la sua. E poi proveniva da un punto più distante. E anche l'uomo si era voltato, per vedere chi ci fosse alle sue spalle. E... Una figura si profilò sulla piccola altura. E aveva una voce femminile. «Tricia?» fece Nye. Ma quella che stava scendendo verso di noi, entrando nel cerchio di luce proiettato dal falò, non era sua moglie. No. Era Gina. E sembrava piuttosto in forma, considerando che era morta da circa ventiquattr'ore. Era sua la barca che avevo sentito scoppiettare quando eravamo ancora in cima alla collina, poco prima? Probabilmente sì. Non ero arrivata a pensare che un'altra imbarcazione sarebbe potuta approdare sull'isola. Chi poteva venire in un posto simile? Solo una stupida... come me. Chissà perché, il fatto di trovarmela davanti con una pistola in mano non mi scioccò. «È una Derringer», disse notando la direzione del mio sguardo. «Un bel gingillo, non crede? L'ho rubata dalla casa di Strange, pensando che potes-
se essermi utile. È vecchia, ma servirà allo scopo. Purtroppo, non posso dire lo stesso del suo proprietario. Che schifo, ci sono andata a letto un sacco di volte, sperando che prima o poi mi desse la chiave dell'armadietto di Felix... e lui alla fine l'ha data a lei. Che razza di ingrato. Eppure, credo che abbia imparato la lezione. Cos'altro avrei potuto fare? Avevo cercato di ammorbidirlo mandandogli lettere minatorie e simulando un'effrazione, ma lui continuava a dire che era un suo dovere tenere al sicuro i beni materiali di Felix.» «Scusi, tanto per sapere... a chi apparterrebbe il cadavere rinvenuto nella galleria di Strange?» «Non ne ho la minima idea», rispose, come se quel pensiero non le avesse mai sfiorato la mente. «Ma sono certa che presto qualcuno ne denuncerà la scomparsa. Semplicemente, ho aspettato in strada che passasse una donna che, all'occorrenza, potesse essere scambiata per la sottoscritta, e ho finto di essere stata aggredita. Una messinscena notevole. Piangevo. Singhiozzavo. Devo ammettere che sono stata piuttosto brava. Le ho detto che avevo paura e che non volevo restare da sola, e l'ho supplicata di accompagnarmi alla galleria, perché avevo bisogno di bere un bicchiere d'acqua. Le ho fatto credere che lavoravo lì. In realtà avevo rubato la chiave a Vincent. Siamo entrate, e lei mi ha aiutata ad arrivare fino alla scrivania; e poi... bang, bang: ho improvvisato una bella ricostruzione facciale.» «Si può sapere di che diavolo state parlando?» intervenne Nye. «Chi è questa?» «Non ti ricordi di me, Paddy?» fece Gina. Lui la fissò con un'espressione vuota. «Perché dovrei? Non l'ho mai vista in vita mia.» «È Katie Toner», gli spiegai. «La sorella di Lucy.» «Complimenti», mi disse lei. «Come ci è arrivata?» «Avrei dovuto capirlo non appena abbiamo scoperto che l'uomo che credevamo essere il nostro serial killer era, in realtà, Brendan Toner. Chi altri avrebbe potuto proteggere? Per chi avrebbe sacrificato la propria vita se non per la sua sorellina?» Nye continuava a fissarla, adesso con maggiore insistenza. «Katie?» disse infine intontito. «Io credevo che fossi morta.» «Tutti sembrano pensare che me ne sia andata. Sia come Katie sia come Gina. L'idea generale era quella: io volevo essere morta. Volevo rendermi invisibile. È tutto più facile, in questo modo.» Ma Paddy scosse la testa, come se non volesse credere a una cosa simile.
«E adesso che cosa intende fare?» le chiesi. «Ucciderci tutti, come ha fatto con Felix?» «Io non ho ucciso Felix», disse ridendo. «È stato Brendan a farlo. Povero, stupido fratellino... ha cercato di proteggermi da me stessa. E guardate com'è finito. Ha pensato che fossi impazzita, quando ha realizzato che ero io l'Uomo di Marx, ma non voleva consegnarmi alla polizia. Si ricordava di quello che era successo a nostra madre, che aveva passato metà della sua vita rinchiusa in istituti di cura.» «Quella di impazzire dev'essere un'abitudine di famiglia», osservai. «Immagino di sì, agente speciale. Lei, invece, dai suoi genitori deve aver ereditato una notevole dose di stupidità. Se ripenso alla sua faccia, quel giorno che l'ho chiamata, in lacrime, dicendole che avevo ricevuto una fotografia inquietante. E lei si è precipitata da me, così premurosa e preoccupata...» «E invece era stata lei a scattare quelle foto. Già, è sempre stata lei.» «Esatto. Fu mia l'idea di realizzare una raccolta intitolata Stranieri: mi era sembrata una buona idea. Io non mi ero mai integrata veramente in questa città. Chiesi a Brendan di fare quelle telefonate per me, di organizzare gli incontri; poi, quando la persona in questione si presentava nel luogo convenuto, scattavo la mia foto. Provavo un tale piacere nel controllare quella gente. Bastava dire un posto, e loro ci andavano. E non capivano di che cosa si trattasse. Fu così che conobbi Felix. Lo chiamai di persona, suggerendogli di incontrarci giù al faro. Sapevo che quel posto significava molto, per lui; da ragazzino ci passava ore intere. Pensai che il mio invito l'avrebbe intrigato. E avevo ragione. A sua insaputa, gli scattai quella fotografia Il giorno dopo gliela spedii a casa insieme a un biglietto, in cui lo invitavo a pranzo. Il nostro primo appuntamento... esattamente come le avevo detto in occasione del nostro primo incontro, Saxon.» «Quando lei lo sedusse.» «Nessun uomo sarebbe riuscito a resistermi. Mi guardi. Felix era mio. E io l'ho sempre saputo. Non erano lui e Alice a rappresentare due metà di un'unica persona... No. Eravamo io e lui.» «Come può parlare di Berg in questi termini?» le chiesi. «È l'uomo che ha ucciso sua sorella.» «Sì, era mia sorella. Ma per me non significava niente.» «L'ha violentata.» «Lo so. L'ho visto.» «Tu eri là?» intervenne Nye.
«Immagino che si possa dire che quella fu la mia prima esperienza sessuale. Ero nascosta nel giardino, e vidi tutta la scena. La penetrò. Le riempì la bocca di terra fino a farla soffocare. La seppellì. E io vidi tutto. Non lo dissi mai a nessuno, ma pensai che fosse una cosa davvero incredibile. Elettrizzante... è l'unico termine che riesce a descrivere la mia sensazione di allora. Sapevo anche che ciò di cui ero stata testimone aveva creato un legame sacro tra di noi. Sacro e indistruttibile. Ma le cose non andarono come avevo sperato. Mamma si suicidò e io fui spedita da alcuni parenti; non funzionò, e fui affidata a vari istituti di cura, passando di mano in mano come un pezzo di carne. A me, però, non importava. Sapevo che io e Felix saremmo stati insieme, un giorno. E questo mi faceva andare avanti. Tenevo degli articoli dedicati a luì, sul comodino. Il fatto di condividere il segreto della morte di Lucy - anche se lui non lo sapeva - faceva di noi una persona sola. Si trattava solo di resistere. Di aspettare.» «Aspettare cosa?» chiese Fitzgerald. «Il momento in cui saremmo stati insieme. Ve l'ho detto, tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per lui. A sedici anni, non appena fui dimessa dall'ultima clinica, andai a Londra. Sapevo che Katie doveva morire, scomparire. Per questo chiesi a Brendan di dire a tutti che ero morta. Da quel momento, diventai Gina Fox. Scelsi quel cognome perché mi faceva pensare a Felix. E lavorai, non sapete quanto, per potermi permettere l'intervento di chirurgia plastica di cui avevo bisogno, se davvero volevo lasciarmi Katie alle spalle. Non solo, la sera frequentavo un corso di fotografia, per prepararmi al giorno in cui finalmente sarei tornata con Felix. Volevo che mi considerasse degna di entrare a far parte della sua vita. Un paio di volte mi spinsi fino a Dublino, per sondare il terreno. E, un poco alla volta, mi resi conto che tutti si erano dimenticati di Katie Toner. E di Lucy, anche; che cos'era, in fondo, un piccolo omicidio come quello? Il mondo pullula di delitti. Così, fui libera di tornare.» «E questo quando avvenne?» «Poco più di un anno fa», disse. «Mi trovai un posto dove stare. Riuscii a ottenere un incontro con Felix mandandogli quella fotografia. E diventammo amanti. E, sì, prima che siate voi a chiedermelo, era esattamente quello che volevo. E credo che fosse così anche per lui.» «Aveva riconosciuto in lei un'altra anima nera, un'anima gemella.» Rise. «Sì, forse. Si diede a me completamente, come non era mai riuscito a fare con nessun'altra. Nemmeno con la piccola Alice. Iniziammo a passare sempre più tempo insieme. Ero riuscita a tirargli fuori qualcosa.
Fui io a persuaderlo a scattare le foto che avete visto nella galleria di Strange. Posavo per lui, e lo incoraggiavo a farmi del male. E notai che iniziava a piacergli il fatto di abbandonarsi al suo lato oscuro, quel lato che troppo a lungo aveva represso.» «Felix conosceva la sua vera identità?» «No, allora no. Perché avrebbe dovuto? Era passato tanto tempo, e io ero diversa. E volevo essere sicura di averlo in mio potere, prima di rivelargli la verità.» «Ma non aveva considerato Alice...» intervenni. «Alice voleva dividerci», disse amara. «Voleva Felix tutto per sé, e alla fine riuscì nel suo intento. Lui smise di rispondere alle mie telefonate. Le lettere che gli scrivevo tornavano indietro, non lette. Poi, Alice e Strange lo portarono via. Lo spedirono dall'altra parte del mondo. Come se io avessi passato tutto questo, sopportando le pene dell'inferno, per farmelo soffiare così.» «Quindi, che cosa decise di fare?» «Decisi di ucciderli tutti. Felix. Alice. Strange. Riuscivo quasi a immaginarmeli, mentre ridevano alle mie spalle. Non potevo sopportare l'idea che tre persone, vive, fossero testimoni della mia umiliazione. Tutto quello che mi serviva era una pistola. Doveva essere quella l'arma. Non so perché, ma credo di sapere che cosa direbbero gli psicologi. E, fortunatamente, in quel momento entrò in scena Brendan. O forse dovrei dire George Dyer. Lo rintracciai subito dopo il mio ritorno a Dublino. Lavorava per Tim Enright e sapeva che avevo bisogno di denaro, così trovò il modo di farmi ottenere l'incarico di scattare qualche fotografia ai suoi soci per alcune riviste. Fu così che conobbi Tim. Non sapeva che fossi la sorella di Brendan. Tra noi iniziò una storia... Nessuno ne era al corrente.» «E lo convinse con un ricatto a procurarle la pistola eludendo i controlli della dogana?» chiese Grace. «Non ci fu bisogno di alcun ricatto», rispose sprezzante. «Crede forse che avrei corso un rischio del genere?» «E allora come lo convinse?» «Gli chiesi di farlo, semplicemente. E lui mi accontentò.» «Tutto qui?» «Tutto qui.» Scrollò le spalle. «Aveva perso la testa per lei, è evidente.» «A quanto pare è un'abitudine», concordò allegramente. «Una volta recuperata la pistola, aspettai che Felix tornasse in città; ma anche allora non
mi fu facile avvicinarmi a lui. Alice lo teneva sotto controllo, quasi fosse un bambino. E io sentivo la tensione crescere dentro di me: dovevo trovare il modo di sfogarla, o presto sarei esplosa. Proprio mentre mi trovavo in quella condizione, venni a sapere che a Kilmainham era stata inaugurata la nuova mostra di Felix. Ci sono andata... e le ho viste. Ho visto le fotografie che aveva scattato l'inverno precedente, quando era mio. Avevamo passeggiato per le vie della città ogni notte, sotto la neve e sotto la pioggia, e adesso quelle foto erano lì. Le mani, i piedi, le ombre che si intravedono... sono sempre io. Anche il riflesso nell'acqua. Capii subito che quello era un messaggio indirizzato a me. Voleva che tornassimo insieme, stava solo aspettando un segnale da parte mia. Così decisi di non ucciderlo, e gli diedi quello che voleva.» «Tim Enright», dissi. «Sono stata costretta a farlo. Non volevo che iniziasse a sospettare di me. Sapeva che avevo una pistola, dal momento che era stato lui a procurarmela; sapeva di che arma si trattava. Così, l'ho attirato nel parcheggio dell'O'Neill's Place, promettendogli qualcosa di adeguatamente sudicio per festeggiare il mio compleanno, e l'ho ucciso. Poi ho sparato a quel giudice, nella piazza. Non sapevo chi fosse, allora. Scelsi quel posto perché era raffigurato in una delle fotografie... e lui era lì. Ma i giornalisti hanno fatto due più due uguale a cinque, e hanno deciso che dietro quegli omicidi sì nascondeva una motivazione politica. Mi hanno dato il soprannome di Uomo di Marx. Perché no, in fondo? Un nome vale l'altro. E poi, avete mai letto l'iscrizione sulla tomba di Marx, a Londra? I filosofi si sono limitati a dare diverse interpretazioni al mondo. Quello che conta è cambiarlo. Niente male, come motto. Ho pensato che io e Felix, insieme, ci saremmo riusciti, se fossimo rimasti fedeli a noi stessi. Avremmo cambiato il mondo. Così, dopo ogni omicidio, gli inviavo articoli di giornale dedicati all'accaduto, dopo aver sottolineato i nomi dei luoghi in cui quelle persone erano state uccise. Speravo, in tal modo, che capisse che dietro tutta quella faccenda c'ero io: quelli erano i posti che avevamo visitato insieme, l'inverno precedente... i posti immortalati nei suoi scatti.» «E lui decise di affrontarla.» «Venne a casa mia, e pretese di sapere se io fossi il serial killer. Era la prima volta che lo rivedevo, dal ritorno dagli Stati Uniti. Fu così bello, ebbi la conferma che volevo stare con lui, che era l'uomo giusto per me. Confessai, felice di farlo. Gli mostrai persino le foto che avevo scattato alle vittime dopo il decesso.»
«Perché?» «Speravo che l'avrebbero entusiasmato. Che quello che stavo facendo l'avrebbe ispirato, e l'avrebbe spinto tra le mie braccia. Ve l'ho già detto, avevo visto quello che aveva fatto a mia sorella, conoscevo i suoi impulsi, i suoi appetiti. Sapevo che, dentro di lui, desiderava ancora essere l'uomo che io volevo che fosse. Attraverso quelle fotografie, aveva cercato di chiamarmi. Speravo che avremmo condiviso anche quest'esperienza, come avevamo fatto con la serie Autoritratti.» «E la sua reazione non fu quella che lei si era aspettata?» «Mi prende in giro?» fece lei sprezzante. «Disse che non provava più nulla per me. Mi confessò che dentro di lui albergavano realmente simili impulsi negativi, per usare le sue parole; era una situazione che andava avanti da sempre, e che lui si sforzava di controllare. Aveva deciso di esporre quelle fotografie perché erano le uniche che aveva; era come se le medicine avessero soppresso la sua parte creativa. Ma a lui non interessava più, e si vergognava di tutto ciò che era stato. Non mi avrebbe permesso di distruggergli la vita. Voleva stare con Alice. Si mise a piagnucolare... Riuscite a immaginare la scena? E, come se non bastasse, aggiunse che avrebbe raccontato alla polizia che il famoso Uomo di Marx ero io.» «E lei che cosa fece?» «Usai la mia arma di riserva. Gli svelai la mia identità. Gli dissi che l'avevo visto uccidere Lucy, fornendogli dettagli che lui non ricordava nemmeno. Negare sarebbe stato inutile. Alla fine, minacciai di raccontare tutto alla polizia, se lui mi avesse denunciato.» «E Felix come reagì?» le chiese Grace. «Divenne molto tranquillo. Disse che aveva bisogno di un po' di tempo per pensarci... Ma non mi resi conto che la sua era solo una finta. Mi fece credere di avere un capogiro, e mi chiese un bicchiere d'acqua. Poi, mentre mi trovavo in cucina, afferrò tutte le mie fotografie, quelle della raccolta Stranieri e quelle delle vittime, le mise in una borsa e scappò. Mi chiamò da casa sua, dicendomi che avrebbe taciuto riguardo agli omicidi; e aggiunse che, se fosse successo qualcosa a lui o alla sorella, quel materiale sarebbe finito immediatamente nelle mani della polizia.» «Quindi», intervenni, «chiese a Strange di procurargli una pistola, per proteggere se stesso e Alice.» «La cosa non m'interessava minimamente; tutto quello che volevo era rientrare in possesso di quelle fotografie. Erano mie, ne avevo bisogno. Le volevo. Così, convinsi Brendan a introdursi nell'abitazione dei Berg, per
recuperarle. Ovviamente, a quel punto aveva scoperto che ero io l'Uomo di Marx, ma non sapeva come comportarsi. Mi pregò di smettere, ma, quando rifiutai, si rese conto di non potermi minacciare. Ero tutto quello che gli era rimasto, non poteva consegnarmi alla polizia. Mi avrebbe persa. Così, accettò di aiutarmi a ritrovare le foto.» «Dunque fu lui a introdursi in casa Berg.» «Esatto. Ma delle foto non c'era traccia. Invece, trovò il diario di Felix. Mi raccontò che era pieno zeppo di deliziosi ritagli di giornale dedicati alla morte della nostra cara sorellina; realizzò che a ucciderla era stato lui. Non aveva mai avuto dubbi riguardo alla colpevolezza di Isaac Little, e adesso, per puro caso, era venuto a conoscenza della verità. La cosa lo scioccò al punto che, uscendo dalla casa, dimenticò di prendere il diario. Non che ne avesse bisogno, comunque, aveva tutte le prove che gli servivano. Tutto ciò che era andato storto nella nostra vita, dal suo punto di vista, era iniziato con l'omicidio di Lucy. Adesso, finalmente, aveva la possibilità di sistemare le cose.» «E, dopo l'effrazione, Felix decise di affidare le foto e il diario a Strange», dissi. «Sapeva che lì non erano al sicuro.» «Soprattutto quando Brendan cominciò a pedinarlo e a chiamarlo nel cuore della notte. Gli ripeteva che l'avrebbe ucciso, per quello che aveva fatto a Lucy. Io provai a fargli capire che non sarebbe servito a nulla, e che forse si stava sbagliando. Ma ormai sapeva.» «Ma non riesco ancora a capire come sia riuscito ad ammazzare Felix.» «Be', posso dirvi solo quello che mi ha raccontato mio fratello. Quella sera prese la Glock, a mia insaputa, e seguì Felix giù al porto. Ma questi fece qualcosa di inaspettato: a sua volta, gli puntò contro una pistola. Era quel pezzo da museo procuratogli da Strange, più o meno simile a quello con cui adesso vi tengo sotto tiro. Erano lì, in piedi, uno di fronte all'altro, pronti a fare fuoco. Fu allora che a Brendan venne un'illuminazione, un piano perfetto per sbarazzarsi di Felix. Disse a quest'ultimo che avrebbero potuto spararsi a vicenda, facendola finita una volta per tutte, ma lui aveva una Glock, mentre l'altro aveva un vecchio gingillo che non sparava da cinquant'anni. Lasciava a lui la scelta: ma se ad avere la peggio fosse stato Berg, gli giurò che avrebbe trovato Alice, l'avrebbe violentata e strangolata, riempiendole la bocca di terra fino a soffocarla. Esattamente come lui aveva fatto con Lucy. Oppure...» «Oppure», continuai, intuendo quello che era successo, «Felix poteva decidere di togliersi di mezzo da solo.»
«Esattamente. Poteva appoggiare la canna della pistola sull'occhio, premere il grilletto e morire lì, nel punto in cui si era suicidata nostra madre. Se l'avesse fatto, Brendan non avrebbe torto un solo capello ad Alice.» «Ma come poteva Felix essere sicuro che suo fratello avrebbe tenuto fede alla parola data?» «Non poteva. Ma aveva forse un'alternativa? Aveva una Glock puntata alla testa e sapeva che, in un modo o nell'altro, sarebbe morto. L'unica possibilità che aveva di proteggere la sorella era fare quello che Brendan gli aveva suggerito. Fece la sua scelta. E si sparò.» «E lei non andò su tutte le furie, sapendo che suo fratello aveva ucciso l'uomo che lei diceva di amare?» «No davvero. Lucy non significava niente, per me; ma capivo perfettamente la sete di vendetta di Brendan. Più tardi, mi descrisse il piacere che aveva provato standosene lì in piedi, a osservarlo mentre appoggiava la canna della pistola contro l'occhio, tremante. Lo guardò premere il grilletto. La pallottola gli fece saltare metà del viso. Be', riuscivo a capire che cosa volesse dire, conoscevo quel tipo di piacere. E, se non altro, Brendan aveva fatto qualcosa. Aveva agito. Felix parlava e basta. L'unica cosa che sapeva fare era scattare fotografie. Ve l'ho detto, non si era rivelato l'uomo che credevo. Aveva fallito. Il fatto che si fosse sacrificato per lei, per quella puttana piagnucolosa, dimostrava quanto fosse patetico. Come poteva preferirla a me? Come poteva pensare che valesse la pena togliersi la vita per quella vacca rinsecchita?» Sollevò lo sguardo, sentendo un rumore improvviso, ma era soltanto il legno che scoppiettava tra le fiamme, emanando brevi lampi di luce che facevano scintillare la canna della pistola. «Comunque, ormai era fatta. Non avevo intenzione di trascorrere la mia vita a rimuginarci sopra. Ormai ero l'Uomo di Marx, avevo superato il problema. Il lavoro mi spingeva ad andare avanti. Non avevo più bisogno di basarmi sulle foto di Felix, ero libera. Alla chiesa sono stata un po' incauta, ma ero così furiosa con i giornali! Avevano scritto che a ucciderlo era stato il serial killer... Io! Come si può essere tanto stupidi? Dovevo dimostrare che si sbagliavano. Non avevo ancora realizzato che voi sapevate già che si era trattato di un suicidio, altrimenti avrei aspettato, mi sarei preparata meglio. Devo ammetterlo, ho combinato un bel guaio. Ecco perché, in seguito, ho scelto il mago e gli ho sussurrato all'orecchio quel messaggio senza senso. E poi ho infilato la carta sotto la sua porta di casa, Saxon, e vi ho propinato quell'idiozia sui tarocchi. Avevo bisogno di tempo;
avrei approfittato dei vostri errori, sapendo che vi sareste infilate in un vicolo cieco dopo l'altro, prima di capire che si trattava di una montagna di sciocchezze.» «Non ci abbiamo creduto nemmeno per un secondo», ribatté Grace. Gina sembrò palesemente seccata. «L'unica cosa che ci ha spiazzato è il non riuscire a capire come facesse l'assassino a conoscere l'indirizzo di Brook.» «Quello è stato facile. Avevo scattato una fotografia anche a lui. Si trasferì dalla Germania quando era ancora un ragazzino, non lo sapevate? Il cognome dei genitori, in origine, era Bruch, come il compositore. Era un altro dei miei Stranieri. Sarebbe andato tutto alla perfezione, se solo non avessi perso quella dannata pistola.» «Ma il fratellone è venuto in suo aiuto.» «Come ho detto, Brendan credeva che fossi malata. Si sentiva responsabile per me. Soprattutto quando insistei riguardo alla necessità di procurarmi un'altra pistola. Sapevo di potermi rivolgere a Strange, Felix mi aveva detto che derubava i suoi artisti. Ma mio fratello non mi permise di andarci da sola, quella zona della città era troppo pericolosa, diceva. Ve lo immaginate? L'avrebbe fatto lui, al mio posto. E io accettai... a una condizione: che uccidesse la donna che gli avrebbe consegnato l'arma... cioè lei», aggiunse, rivolgendosi a me. «Sapevo che stava indagando sulla morte di Felix, che voleva scoprire la verità. E non volevo correre rischi. Per questo mi sono introdotta nel suo appartamento e ho attaccato quella foto sulla parete. Per cercare di spaventarla, nella speranza che rinunciasse.» «Ha fatto... cosa? Saxon, è vero quello che dice?» chiese Grace. «Non volevo farti preoccupare», risposi, evitando di guardarla negli occhi. «È stato la sera dopo il funerale di Felix. Sono rientrata, e il mio appartamento era un disastro. Non volevo farne un dramma.» «Un dramma?» mi fece eco, incredula. «Comunque, non ha funzionato», riprese Gina. «Non sono riuscita a farla desistere. Allora ho capito: dovevo eliminarla. Brendan era contrario, ma voleva proteggermi a tutti i costi. E io gli ho fatto credere che quella fosse l'unica via d'uscita. Ma lei era in vantaggio, e lui dev'essersi fatto prendere dal panico.» «Quindi a lui teneva di più che alla piccola Lucy?» «Tenevo al suo gatto bianco. Una creatura magnifica. L'avete incontrato? Sono sorpresa che non l'abbia riconosciuto, Saxon. Una volta gli ho scattato un sacco di foto. Non si ricorda? Le ha viste sul tavolo la prima volta che è venuta da me, per chiedermi di Felix.»
Il gatto bianco. Sì, adesso ricordavo. Troppo tardi, forse. Ma sapevo a che cosa si riferiva. Avevo provato un grande sollievo, per il fatto che del micio esistessero soltanto le foto, e che non ci fosse un felino in carne e ossa a girarmi intorno, e a saltarmi in grembo come Hare. Perché non mi era venuto in mente al momento giusto? Per esempio quando mi trovavo nel giardino di George Dyer/Brendan, e avevo notato la bestiola seduta in mezzo al vialetto... Non solo. Ricordai anche qualche altro particolare. Una scala di legno. Una finestra con una crepa che ricordava una ragnatela. Perché non le avevo riconosciute? «Non si vergogna, pensando al sacrificio di suo fratello per salvarla?» «Perché dovrei? È stata sua la decisione, è stato lui a tagliarsi la gola. Non fraintendetemi, so benissimo che cosa intendete. Ovviamente, pensava che se l'Uomo di Marx fosse stato dichiarato morto, la polizia mi avrebbe lasciata in pace. Da questo punto di vista sembra un gesto carino, no? Ma io continuo a pensare che mio fratello fosse un povero pazzo.» «Lui un povero pazzo?» intervenne Nye. «Per me lo siete tutti!» «Forse», riconobbe Gina, «ma io sono l'unica fuori di testa ad avere una pistola.» «E che cosa intende farci?» incalzò Grace. «C'è bisogno di chiederlo? Voglio proteggere me stessa.» «Venendo qui a cercare Nye? E perché? Non ha niente su di lei.» «Non sono qui per Paddy», disse, liquidando sbrigativamente l'argomento. «Di lui mi posso occupare più tardi. Sono qui per voi due.» Sollevò la pistola, puntandola alla testa di Grace. «No!» D'istinto, mi sfuggì un urlo. Feci un passo avanti, senza riflettere. Gina sorrise, notando la reazione che era riuscita a scatenare. Ma il sorriso non durò a lungo. Proprio in quell'istante, un'ombra si levò alle sue spalle. Contro luce, riuscii a intravedere un oggetto dalla superficie ruvida che si abbassava sulla testa di Gina. Lei si accasciò sulla sabbia e lasciò andare la pistola. Grace fu svelta ad allontanarla con un calcio, prima che avesse la possibilità di recuperarla. L'altra emise un lamento e si portò una mano al capo, nel punto in cui aveva ricevuto la botta. Alla luce del fuoco si guardò le dita, sporche di sangue. «Accidenti», disse sarcastica. «Che botta.»
«Fottiti», esclamò la moglie di Nye, lasciando cadere a terra il pezzo di legno. Mi stavo giusto chiedendo quanto tempo ci avrebbe messo a tornare. 51 Era tardi. Il cielo, rosso all'orizzonte, era puntellato di stelle. Io ero uscita un momento sul mio terrazzo, quando vidi arrivare Lawrence Fisher. Il taxi si fermò sull'altro lato della strada, e lui uscì a fatica. Aspettò che l'auto ripartisse, prima di attraversare. Non sollevò lo sguardo. Non mi vide. Aprii la porta a vetri e tornai dentro. Grace stava parlando con Miranda Gray, sul divano, Healy ascoltava. Thaddeus Burke versava da bere, felice di attingere liberamente alla mia riserva di whiskey, una volta tanto. Walsh aveva declinato l'invito. Doveva uscire con una donna. «Che ci posso fare, se le donne mi trovano irresistibile, dolcezza?» mi aveva detto, quando gli avevo parlato del party. Ammesso che quello che si stava tenendo a casa mia potesse essere considerato tale. «È arrivato», dissi, e all'istante tutti smisero di parlare e si alzarono in piedi. Io attraversai la stanza e andai ad aprirgli. Fisher fece il suo ingresso qualche istante dopo. Aveva l'aria stanca e preoccupata. «Non ha voluto vederti?» chiesi. «No, ha accettato», rispose con una scrollata di spalle. «È proprio questo il problema.» «Le preparo un drink», saltò su Burke, mentre Fisher si toglieva la giacca e si accomodava pesantemente in poltrona. «Sedetevi», ci invitò. «Così mi innervosite.» Obbedimmo. Aveva trascorso buona parte della giornata insieme a Gina. La polizia aveva chiesto il suo aiuto perché lei, dal momento dell'arresto, non aveva più parlato con nessuno, nemmeno con il suo avvocato. D'altronde, che cosa avrebbe dovuto dire? Le sue impronte corrispondevano a quelle rinvenute sulla pistola utilizzata dall'Uomo di Marx, oltre che sulle fotografie nascoste nell'armadietto della Central Station. La Scientifica era abbastanza sicura di trovare una connessione con l'incendio
della villa di Strange. Sotto gli abiti, che presentavano residui di propellente, le avevano trovato addirittura una collana in cui aveva infilato i bossoli usati della Glock. Non restava che unire i puntini per giungere alla soluzione. Grace continuava a pensare che Gina nascondesse molte altre cose. Non era tanto stupida da credere di poter trovare una spiegazione plausibile a ciò che aveva fatto. Era soltanto curiosa di conoscere l'impressione di Fisher. Questi sollevò lo sguardo, mentre Burke si avvicinava con il whiskey. «Meglio di no», disse, «o non riuscirò a chiudere occhio.» Ma non sarebbe comunque riuscito a dormire, quella notte. Così, prese il bicchiere e buttò giù un sorso, perso nei suoi pensieri. «Se preferisci rimandare...» gli dissi. «No. Togliamoci questo peso. Non che Gina abbia trovato il nostro incontro particolarmente stressante, vi dirò. Ha passato la maggior parte del tempo a prendermi in giro per la mia camicia nuova.» «È solo una troietta suonata e del tutto priva di gusto.» «L'esperienza mi ha insegnato che le due cose spesso si accompagnano», osservò. «Ha parlato?» gli chiese Grace. «Sì.» Aveva parlato. Anche troppo, secondo Fisher. «Forse era impressionata dal sottoscritto. La intrigava il fatto che io fossi intrigato. Ha detto di avermi visto in televisione. Probabilmente ha creduto di ottenere un pizzico di celebrità, grazie al nostro colloquio.» «La sua fan numero uno», borbottò Burke. «Già. La razza peggiore. Francamente, il problema non è stato convincerla a parlare, ma farla stare zitta.» «Anche sull'isola ha parlato un sacco», dissi. «Sono riuscito a inserirmi nella conversazione soltanto quando ha voluto sapere che cosa pensassi di lei, di quello che aveva fatto.» «Ebbene?» «Qui arriva la parte difficile. Le ho detto che, dal punto di vista psicologico, il suo è un caso piuttosto comune. E non credo che l'abbia presa bene; non le va giù il fatto di non rappresentare nulla di straordinario. Non è piacevole, per il suo ego.» «A tutti i killer piace pensare di essere unici», puntualizzai. «Un caso comune?» fece Healy. «Provare piacere davanti all'assassinio
della propria sorella? Dal mio punto di vista è abbastanza singolare...» «In realtà, non è così insolito», spiegò Fisher. «Tutto si ricollega all'infanzia. Secondo alcune ricerche, molti criminali violenti incominciano ad alimentare certe fantasie intorno ai sette anni di età, a volte anche prima. Alcuni bambini si spingono oltre, arrivando persino a uccidere. Quindi, perché dovrebbe sorprenderci quello che ha fatto Gina? Vi sono persone che commettono azioni malvagie perché si portano dietro determinate caratteristiche sin dalla nascita, e in questo caso si tratta di psicopatici primari. A volte, invece, ciò dipende da qualcosa che hanno subito durante l'infanzia, da una confluenza di eventi che fa di loro ciò che sono.» «Innocenza perduta», osservò Healy. «Esattamente. Prendete un classico esempio di infanzia normale e felice, e capirete fino a che punto può essere piegata e deviata. Se qualcosa va storto durante il percorso, ciò che consideriamo normale diventa distorto, e chissà dove può condurre tutto questo. Di certo, il risultato non sarà un adolescente sano e felice. E Gina aveva già subito dei traumi, quando assistette all'omicidio della sorella. Ogni cosa, nella sua infanzia, sembrava condurre in questa direzione: un ambiente familiare disfunzionale. Due genitori psicologicamente dannosi...» «Che cosa c'era che non andava, nei suoi?» «Stando a quello che mi ha raccontato, sia lei che Lucy erano costrette a guardare il padre mentre si scopava la moglie. Il suo comportamento, nei loro confronti, era decisamente sessuale. Non arrivò mai a stuprarle, ma le toccava... e le costringeva a ricambiare, o a toccarsi tra di loro. Non solo, le picchiava, e le obbligava ad assistere alle violenze nei confronti della madre. Pertanto, vedere Felix che violentava la sorella non dovette essere un'esperienza del tutto nuova.» «E all'epoca non trapelò nulla di tutto questo?» chiese Healy. «A quanto mi ha riferito il sovrintendente capo Fitzgerald riguardo ai rapporti sul caso, no.» «Gina sta dicendo la verità?» «Non lo sapremo mai con certezza. Possiamo solo cercare di ricostruire il suo passato osservando quanto è accaduto in seguito. E quello che ha fatto si accorda perfettamente con la storia della sua infanzia. L'abbandono, l'abuso emozionale e fisico. Quando la sua sessualità iniziò a sbocciare, le probabilità che rimanesse insensibile a ciò che aveva dovuto subire erano poche. Ignorava che tipo di comportamento potesse essere considerato normale. Non capiva nulla dell'affetto. Così, quando fu testimone dell'as-
sassinio di Lucy, non le suonò nessun campanello d'allarme, niente la indusse a pensare che quanto stava avvenendo fosse sbagliato. L'unica domanda è: in circostanze del genere, in che modo si sarebbe sviluppata la sua sessualità? E la risposta l'abbiamo già: l'azione di Felix la eccitò. La stimolò sessualmente.» È sempre la solita storia. I killer trasformano qualità naturali e sane in qualità malate. Il desiderio carnale cede il posto a una lussuria depravata. Il bisogno di denaro diventa avidità corrosiva. L'ansia di affermazione suscita l'impulso sfrenato a distruggere ogni eventuale ostacolo. La disciplina diventa ossessione. I killer prendono i normali appetiti, li intensificano e li distorcono. «E quel che è peggio», proseguì Fisher, «è che Gina provava già ammirazione per lui. I Berg erano molto conosciuti, a Howth. Ricchi. Educati. Colti. Rappresentavano ciò che molta gente avrebbe voluto essere. Di sicuro per lei era così, apparteneva alla classe medio-bassa, la sua vita gravitava intorno al negozio di famiglia. Li adorava. Non pensò neppure per un istante di riconsiderare ciò che era accaduto alla sorella, dal momento che rispecchiava esattamente quello che aveva imparato a casa. Così, iniziò ad attribuire una certa sacralità all'omicidio di Lucy, era una cosa che lei e Felix condividevano. E per tutta la vita avrebbe tentato di riunirsi a lui, nella speranza di ricreare quell'attimo, di godere di quel potere.» «E magari ci sarebbe riuscita, se Alice non si fosse messa in mezzo», dissi. «Credi sapesse che Gina e il fratello lavoravano insieme?» «Chi può dirlo? Forse si era resa conto che c'era qualcosa di malato nella loro relazione. Forse le capitò di vedere le foto che le aveva scattato Felix, e aveva realizzato che quella donna stava risvegliando in lui qualcosa che era meglio non disturbare.» «E non ci vuole un genio per capire che Gina non accettava facilmente di essere ostacolata.» «La decisione di uccidere tutta quella gente fu la sua reazione all'abbandono da parte di Felix. Una reazione assolutamente eccessiva», fece Burke. «Sì, ma non così insolita», commentò Fisher. «Mi capita spessissimo di parlare con detenuti che hanno ucciso il partner, e magari qualche altro membro della famiglia di quest'ultimo, perché non volevano essere scaricati. Uomini, soprattutto. Ma anche donne. Sforzatevi di ricordare la sequenza degli eventi: il padre inizia a sconvolgerle la mente quando è ancora una bambina; assiste all'omicidio della sorella e si accorge di provare piacere; la sua famiglia va in pezzi e lei passa da una casa di cura all'altra,
e in alcuni di questi istituti forse è costretta a vedere gli stessi abusi; maltrattamenti ed episodi sessuali inappropriati si susseguono. Ciò alimenta in Gina una sorta di eccitazione per ciò che è distorto, oltre a un senso di ingiustizia: la vita le ha regalato solo dolori. Unite il tutto e... be' otterrete una combinazione letale. Mi ha detto di aver sognato molte volte di 'vendicarsi': nel sogno, lei cammina lungo la strada e spara a tutti quelli che incontra. Vuole cancellare tutti quei sorrisetti idioti e compiaciuti, vuole far capire a quelle persone com'è realmente la vita. Spesso ha immaginato di distruggere l'intera città. Anche questo è abbastanza comune, costruirsi un'esistenza parallela, in cui ci si vendica del mondo. Beveva parecchio; credo che sia alcolizzata, come i genitori, e questo contribuisce a renderla più disinibita. Tu stessa, Saxon, mi hai raccontato che quel pomeriggio, a casa sua, ha bevuto molto. E aveva tendenze suicide. Depressione, instabilità, violenza... tutte cose che aveva ereditato dalla famiglia. Soffriva d'insonnia. Si sentiva perseguitata, rifiutata. Uccidere è diventato un modo per rovesciare quello che aveva vìssuto durante l'infanzia, per trasformare il senso di impotenza nella consapevolezza di godere di un potere assoluto.» «E il fratello? Anche Brendan manifestava gli stessi disturbi?» «Fate vivere a due persone le stesse esperienze, ed esse avranno comunque reazioni diverse. C'è sempre un misterioso fattore X che fa la differenza, e dubito che riusciremo mai a scoprire di che cosa si tratti. Ma, nel caso specifico, Brendan Toner non ha dovuto subire quello che ha subito Gina; il padre non lo iniziò ai suoi giochetti sessuali. La sua infanzia fu traumatizzata dall'omicidio di Lucy, a cui reagì tagliandosi fuori dal mondo. Si chiuse nel suo guscio, perché il dolore fosse più sopportabile. Naturalmente, anche lui dovette inventarsi una nuova esistenza, come la sorella. Divenne George Dyer. Ma, fatto questo, per superare il trauma che aveva dentro dovette imparare a controllare la propria mente. Pensate alla sua casa: ogni cosa era impersonale, priva di emozioni, segreta.» «Quello che non capisco», intervenne Grace, «è perché Felix non abboccò ai tentativi di Gina di attirarlo verso il suo modo di pensare. Voglio dire, dopo quello che aveva fatto a quella ragazzina...» «Lei è convinta che, avendo già ucciso una volta, avrebbe potuto farlo di nuovo? Non è così. Credo che lui sapesse di che cosa era capace, era consapevole dell'oscurità che regnava dentro di lui, la vedeva tutti i giorni, ma era in grado di controllarla, di sublimare i suoi istinti. Voleva migliorare. Perse il controllo per un po', quando subì quell'aggressione e rischiò di morire, e si lasciò trascinare nel mondo di Gina... nel mondo delle sue fanta-
sie, che per tutti quegli anni aveva cercato di tenere a freno. Ma fu salvato da Alice e lentamente, come confidò quest'ultima a Saxon, superò la crisi e iniziò a riprendersi.» «Sicuramente fu uno choc, per lui, scoprire la vera identità di Gina.» «Sì», disse Fisher. «E non sapremo mai come reagì, interiormente, alla notizia di avere avuto una testimone, la notte dell'omicidio della piccola Lucy. Forse, dal punto di vista artistico, apprezzò l'idea delle rivelazioni disseminate nel suo passato: i riferimenti a T.S. Eliot, la storiella riguardo alla convivenza con un assassino, il rapporto con Isaac Little, che si divertì a illudere soltanto per vederlo sulle spine. Nelle sue prime fotografie si era quasi spinto a mostrare la verità. Ma questo era diverso, la sua relazione con Gina non era una specie di gioco basato sui riferimenti personali. Era la guerra. Probabilmente sapeva che, qualsiasi cosa succedesse, lei lo avrebbe ucciso. Aveva i giorni contati. Rubando le prove dei crimini da lei commessi aveva guadagnato un po' di tempo, ma non abbastanza. Prima che se ne rendesse conto, anche Toner iniziò a tormentarlo, pedinandolo e chiamandolo nel cuore della notte per dirgli che l'avrebbe ammazzato. Per questo decise di contattare la nostra Saxon.» «Perché proprio lei?» intervenne Burke. «Io ancora non riesco a capire.» «Ancora una volta sono costretto a ripetere che, probabilmente, non sapremo mai che cosa gli passasse per la testa. Credo che, a un certo punto, non riuscì più a sopportare la situazione. Chiamò lei per lo stesso motivo per cui Gina ha chiesto di vedere me: conoscevano i nostri nomi, ci avevano visto in TV. Berg le diede appuntamento al faro. Voleva dirle ogni cosa di Lucy, di Gina, dell'Uomo di Marx. Avrebbe confessato tutto, non gli importava che cosa sarebbe accaduto.» «Come fa a sapere tutte queste cose?» chiese Burke. «Non le so. Se crede, può anche considerarle delle stronzate, io non ho uno straccio di prova. Ma credo che tutto questo si leghi perfettamente alle informazioni in nostro possesso. Sono pagato per studiare i comportamenti; non so leggere nella mente, e non sono un sensitivo. Semplicemente, ho tentato di ricostruire i fatti. Probabilmente, Felix sapeva di non poter fuggire per sempre. Così, decise di mettere fine alla caccia. Ma Brendan Toner - o George Dyer, chiamatelo come volete - si mise in mezzo, e Berg si rese conto che, se voleva proteggere Alice, doveva fare una scelta. Forse, ormai era venuto a sapere del bambino. Sapeva che stava per morire. La domanda è: che cosa accadde a quel punto? Per difendere la sorella, non gli restava che fare esattamente quello che Brendan gli aveva ordinato.»
«Gli ci sarà voluto molto coraggio», commentai, notando per la prima volta un aspetto di Felix completamente diverso da quello che aveva dominato i miei pensieri, da quando avevo scoperto il suo ruolo nell'assassinio di Lucy. «Anche un killer può trovare un po' di nobiltà dentro di sé, quando ne ha bisogno», concordò Fisher. «E ricordate che a volte un suicidio può rappresentare una scelta estremamente coraggiosa.» Capii immediatamente che cosa stava cercando di dirmi. Tipico di Fisher. «Lawrence, credi che Toner avrebbe davvero fatto ad Alice quello che Felix aveva fatto a Lucy?» chiese Miranda, mentre Burke tornava con dei bei bicchierini colmi di whiskey. «Ne dubito. Non era un uomo malvagio, dal mio punto di vista. Era infelice, e non era in grado di affrontare la vita comune, per questo si fece prendere dal panico, quella sera, e accoltellò Dalton, quando questi provò a catturarlo. Ma è una cosa diversa, rispetto a quanto aveva minacciato di fare ad Alice. Non credo che la incolpasse di ciò che aveva fatto il fratello. È vero, forse l'aveva coperto, ma anche lui stava coprendo Gina. Erano due facce della stessa medaglia. Entrambi comprendevano il valore della lealtà. L'unica cosa che voleva era vederlo soffrire per quello che aveva fatto a Lucy. E fu accontentato. Ma non sapeva che la fedeltà nei confronti di Gina gli sarebbe costata la vita.» «Sono davvero felice che l'abbiate presa», commentò Miranda. «Be', in effetti il merito va alla moglie di Nye», disse Grace. «L'ha colpita alla testa con un pezzo di legno.» «Già. Peccato che la botta non sia stata abbastanza forte», commentai. 52 Se n'erano andati tutti, e io ero rimasta di nuovo sola con Grace. «Immagino che ora Isaac Little tornerà in libertà», osservai. «Non è colpa tua.» «E forse si beccherà anche un bel risarcimento per tutti quegli anni trascorsi ingiustamente dietro le sbarre. Una somma che gli permetterà di rifarsi una vita da un'altra parte. Magari si comprerà una bella casa, vicino a un parco giochi...» «Smettila di torturarti. Stai forse dicendo che avresti preferito non scoprire la verità sull'omicidio della piccola Lucy?»
«La verità non è poi così attraente, se va a beneficio di un mostro come Little.» «Ogni singola azione ha delle conseguenze impreviste», disse lei pratica. «Alcune sono destinate a essere negative. Ma se ti lasci bloccare da questa prospettiva, allora non farai mai nulla.» «E che mi dici di Alice? Non è mai stata menzionata, in questa faccenda.» «Alice si è suicidata, semplicemente.» «Semplicemente?» ripetei. Pensavo a Sydney. «Sai che cosa voglio dire. Non c'è nessun mistero, riguardo alla sua morte. Stava per avere un bambino, il padre era morto, ed era suo fratello. E poi...» «Cosa?» «Abbiamo trovato un nastro, in casa sua.» «Che tipo di nastro?» «Un video girato da lei stessa, la sera in cui morì. Non sapevo se dirtelo o meno, non ero sicura che volessi vedere una cosa del genere. Poi, ho pensato che alla fine saresti venuta a saperlo. Tutto, presto o tardi, salta fuori.» «Quando è stato ritrovato?» «Me ne hanno parlato per la prima volta ieri mattina, dopo l'incendio a casa di Strange. Un'amica di Alice era passata a casa della donna per portare via le sue ultime cose. Ha trovato la cassetta nel videoregistratore. È stato un caso, l'apparecchio era rivolto verso la parete; quando gli agenti hanno setacciato l'abitazione in cerca di un biglietto, non hanno pensato che, invece, potesse aver lasciato una videocassetta.» «Che cosa c'è registrato?» Esitò. Quindi camminò fino alla borsa che aveva appoggiato sul tavolo e ci infilò una mano. Prese il video e me lo passò. «Ecco, ho fatto fare una copia per te.» Rimasi a fissare la cassetta per diverso tempo, quasi avessi paura di toccarla. Poi allungai una mano e la presi. Non mi morse. «Tu l'hai già guardata?» le chiesi. Scosse la testa. «Mi hanno raccontato che cosa contiene. E ho preferito evitare.» E io, invece?
Mi domandai che cos'avrei fatto se qualcuno mi avesse detto che esisteva un filmato degli ultimi istanti di vita di Sydney. Sarei stata abbastanza forte da osservarla mentre usciva da casa e si dirigeva verso la ferrovia? L'avrei guardato? Sì. Capii che l'avrei fatto. Non sarei riuscita a fermarmi. Volevo sapere. Era questa la mia debolezza. Grace non mi chiese che cosa avessi intenzione di fare. Aveva il dono straordinario di capire sempre quando era meglio parlare, e quando tacere. Quando era meglio lasciare tutto come stava. Dal giorno in cui ne avevamo parlato, non mi aveva più chiesto niente riguardo a Sydney. Sapeva che, se me la fossi sentita, ne avrei discusso con lei. Ma se pensavo che non fosse il momento giusto, era del tutto mutile provare a farmi cambiare idea. Mi piacerebbe possedere quel dono. Al contrario, io di solito insisto e faccio pressione, e non capisco mai quando è meglio lasciar perdere. «Grazie», le dissi posando il video sulla scrivania. Ci facemmo un altro drink, e parlammo di Gina. Il giorno dopo sarebbe comparsa in tribunale, dove sarebbe stata formalmente accusata e dove sarebbe stata fissata una data per l'udienza. Era quella la cosa peggiore della giustizia, l'indagine finiva, ma le scartoffie si susseguivano all'infinito. Grace non mancò di fare un apprezzamento sardonico riguardo allo splendido aspetto che aveva assunto il mio appartamento, grazie alle pulizie cui avevo dovuto sottoporlo dopo la visita inaspettata di Gina. «Sarà meglio che vada», disse infine, quando le offrii un altro drink. «Ho delle cose da fare.» Il suo solito tatto. Vederla andare via mi riempì di tristezza, ma sapevo di avere una cosa che dovevo affrontare da sola. Comunque, mi ci volle un po' di tempo prima di riuscire a estrarre la cassetta dalla custodia, per poi infilarla nel videoregistratore. E non so dire quanto passò, prima che mi decidessi a premere PLAY. Sullo schermo apparve Alice. Mi era già capitato, in passato, di vedere filmati di gente che moriva. Uomini. Donne. Una volta persino un bambino. All'FBI ce li mostravano durante l'addestramento, e io avevo imparato a guardarli senza battere ciglio, fingendo che si trattasse di una lezione di scienze... anche se le vittime urlavano, supplicavano. Questo, però, era diverso. Alice non aveva nessuno da implorare. Era sola in casa, e la videocame-
ra era puntata su di lei. La guardava rapita mentre afferrava le boccette e rovesciava le pillole sul tavolo, dove rimbalzavano rumorosamente, e le faceva passare attraverso le dita, separandole secondo uno schema che solo lei riusciva a capire. Iniziò a inghiottirle, una per una: prima la bianca, poi la blu, la gialla, la rosa... le portava alle labbra, facendole sciogliere sulla lingua e poi le buttava giù con dell'acqua. Ogni tanto si alzava in piedi e ballava, saltando in giro per la stanza, separandosi lentamente dal suo vero io, fino a quando ebbi l'impressione che sul nastro ci fossero due persone: Alice e un'altra donna, che le assomigliava ma non era lei. Si giravano intorno, caute, calme e misteriose, sospettose come due gatte che non si sono mai incontrate. Poi le pillole fecero effetto, e lei sembrò diventare una micia che vede per la prima volta la sua immagine riflessa nello specchio, e all'inizio è allarmata e decisa a ignorare l'altra presenza. Quindi, prese a ingoiare le pillole a due, tre alla volta... e aumentò, fino a quando sul tavolo non ne rimasero più. Restò solo il bicchiere, incollato al piano dagli schizzi d'acqua. Alice si sedette e guardò nella videocamera... no, attraverso la videocamera come se stesse fissando me o, più semplicemente, chiunque ci fosse dall'altra parte. Aveva un'espressione confusa, come se noi spettatori rappresentassimo un mistero incomprensibile almeno quanto il suo. Come se fosse lei a provare dispiacere per le persone che la stavano guardando, e non il contrario. Poi si avvicinò. E spense. Al suo posto, lo schermo grigio e un ronzio di sottofondo. Un sibilo, simile a quello della pioggia. Fissai quell'immagine per un po', notando dei motivi che prima non c'erano... Poi premetti STOP, e consegnai all'oblio il muto testamento di Alice. Proprio com'era successo a lei. A Sydney. Spensi l'apparecchio e camminai fino alla finestra; aprii la porta a vetri e uscii sul terrazzo. Guardai il cielo stellato. Ormai la bella stagione era alle porte. L'aria si sarebbe fatta più tiepida, piena di profumi. I nomi delle piante mi vagavano per la testa, privi di significato: non avevo mai imparato a riconoscerle, erano solo dei nomi che mi ricordavano che la primavera finalmente era arrivata, e che quello che sentivo nell'aria era il suo profumo, qualunque esso fosse. Anche se preferivo il freddo, ero felice che presto ci avrebbe dato una tregua. Quella appena passata era stata una stagione cupa, e non volevo si prolungasse oltre. Abbassai lo sguardo sulla città,
ed ebbi quasi l'impressione di comprendere la rassegnazione di Alice, la sua decisione di arrendersi. Morire, dormire. Ma morte e sonno non sono la stessa cosa, è solo una sciocca bugia. Morire non significa dormire in una stanza accanto, non c'è nessun'altra stanza, la morte è il nulla. Troppe volte ne ero stata testimone, per fingere che non fosse così, non c'era modo di rendere meno amaro quel concetto. Ma perché scegliere la morte, quando avevi un'alternativa? Le luci della città che vedevo davanti a me, la sirena di un'auto della polizia che girava l'angolo di St. Stephen's Green e si dirigeva verso ovest, scomparendo... Mentre ero lì in piedi e pensavo ad Alice, sentii un forte ardore dentro di me, e a provocarlo erano proprio quel caos, quel rumore. Tutto questo non sarebbe mai finito... mai. E non doveva finire, o non sarebbe rimasto più nulla. Al suo posto, sarebbe scesa l'oscurità. Ma ero stanca. Ed era tardi. Chiusi le porte e andai nel bagno. Aprii l'armadietto e trovai le pillole per dormire, quelle che Grace mi aveva detto di gettare nello scarico diversi giorni prima. Ne tirai fuori un paio e le appoggiai sul bordo del lavandino. Le altre le gettai nel gabinetto, osservandole galleggiare per qualche istante. Poi tirai l'acqua. Non ne avevo più bisogno. Cioè, non ne avrei più avuto bisogno dal giorno successivo. Quella sera, però, mi sarei goduta le ultime due. Avrei puntato la sveglia, non troppo presto, e le avrei fatte sciogliere sulla lingua, sdraiata sul mio letto. E non avrei pensato a nulla; non avrei sognato nulla... perché questa, a volte, è la cosa migliore. Talvolta la luce è troppo forte. Mi sarei abbandonata al buio. Soltanto per un po'. Per l'ultima notte. E l'oscurità sarebbe stata la benvenuta. FINE