Il fuoco di Sant’Antonio Dai Misteri Eleusini all’LSD (Seconda edizione)
Carlo Gelmetti
Il fuoco di Sant’Antonio Dai Misteri Eleusini all’LSD Seconda edizione
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CARLO GELMETTI Professore Ordinario Dipartimento di Anestesiologia, Terapia Intensiva e Scienze Dermatologiche Università degli Studi di Milano Direttore Unità Operativa di Dermatologia Pediatrica Fondazione IRCCS Cà Granda “Ospedale Maggiore Policlinico” Milano
ISBN 978-88-470-1607-1
e-ISBN 978-88-470-1608-8
DOI 10.1007/978-88-470-1608-8 © Springer-Verlag Italia 2010 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore, e la sua riproduzione è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla stessa. Le fotocopie per uso personale possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per uso non personale e/o oltre il limite del 15% potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail
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Prefazione alla seconda edizione
Quando scrissi “Il fuoco di Sant’Antonio” qualche anno fa, lo feci per mettere ordine a un po’ di anni di ricerca su alcuni temi della storia della medicina che gravitavano attorno a questa malattia. Questa avventura intellettuale, come spesso succede, si rivelò più interessante di quello che già appariva all’inizio, ragion per cui dovetti compiere uno sforzo per essere conciso e condensare in un libro tutto quello che avevo raccolto ed elaborato. Il risultato mi aveva senz’altro soddisfatto e i pochi refusi tipografici “scivolati” nel testo nonostante le molte riletture non mi avevano certo guastato la festa. Mi rimanevano però due crucci: il primo era quello di non aver visitato personalmente i luoghi originali del Santo; il secondo era quello di avere forse troppo compresso l’affascinante argomento degli allucinogeni. Detto fatto, due anni fa sono riuscito a compiere il mio pellegrinaggio antoniano nei deserti egiziani e, l’anno scorso, sono riuscito a documentarmi meglio sul ruolo che alcune sostanze, più o meno segrete, avevano nella medicina antica. Pertanto, in questa seconda edizione, il lettore non troverà solo una veste grafica nuova e una migliore selezione delle immagini, ma troverà soprattutto due capitoli nuovi. Nel primo, dedicato ai Misteri Eleusini, ho cercato di spiegare lo stretto legame tra medicina e religione, che per millenni è stato pressoché inestricabile. Nel secondo accompagno invece il lettore sui luoghi che hanno segnato la vita terrena e poi i fasti del Nostro, con il consiglio di visitarli personalmente perché sono molto belli ed interessanti in sé, con o senza Sant’Antonio.
Milano, dicembre 2009
Carlo Gelmetti
Ringraziamenti alla seconda edizione
Dopo avere imposto Sant’Antonio ai miei familiari ed amici per la seconda volta, li devo per forza ringraziare della loro pazienza. Andrea e Antonella Mosca, Diego e Silvana Gilardino, Marcello e Corinna Alessi, Carina Escolà, Aldo Casellato ed Emilio Sala sono stati costretti ad ascoltare la lettura delle bozze dei nuovi capitoli. A maggior ragione devo ringraziare mia moglie Pascale che mi ha anche accompagnato per i monasteri e per i deserti d’Egitto, e mia sorella Chiara che mi ha dato da leggere dei libri utili allo scopo. Un grazie va anche alla casa editrice Springer-Verlag Italia nella persona di Donatella Rizza e ai suoi bravissimi collaboratori per avermi sollecitato gentilmente a realizzare la seconda edizione. Ma un grazie particolare va agli amici Giorgio e Franca Panin, che con il loro aiuto hanno reso molto più facile la realizzazione di questo libro.
Carlo Gelmetti
Prefazione alla prima edizione
Prima di leggere questo libro, converrà fin da ora chiarire che il Sant’Antonio di cui si parla non è quello che è normalmente conosciuto sotto il nome di Sant’Antonio da Padova. Questi, a buon diritto, dovrebbe chiamarsi Sant’Antonio da Lisbona, visto che era nato in questa città mentre a Padova c’era solo morto. I Portoghesi, giustamente, si arrabbiano e, tanto per fare un paragone, è come se Leonardo da Vinci fosse chiamato Leonardo da Amboise per il solo fatto di essere morto nel castello di quella cittadina mentre lavorava per il re di Francia, Francesco I. Per tornare a Sant’Antonio da Lisbona/Padova, egli visse quando il nostro Antonio era già un santo famosissimo da un millennio! Ecco perché l’Antonio di cui parliamo viene chiamato “Sant’Antonio il Grande” oppure, per distinguerlo meglio dal Santo di giugno, “Sant’Antonio di gennaio” ma, soprattutto, “Sant’Antonio Abate”. Anche qui, ad essere precisi, bisogna dire che l’attributo di abate è mal posto, dato che il nostro passò la vita in rigorosa solitudine e quindi non fu mai abate di nessuno! Nell’iconografia, Sant’Antonio Abate viene raffigurato come un vecchio con la barba bianca e vestito talora come un eremita, talora come un francescano. Il vecchio con la barba bianca ci sta bene, perché Antonio morì a 105 anni, ed il vestito da eremita pure, dato che egli fu il primo monaco anacoreta cristiano della storia. Meno bene ci sta l’abito francescano, dato che l’ordine sarebbe stato fondato circa 1000 anni dopo. Il saio da frate ben si attiene all’Antonio portoghese, il quale, dato che morì giovane, viene raffigurato come un giovane francescano che tiene fra le braccia un giglio ed il Gesù bambino. Altre caratteristiche del Sant’Antonio cui si riferiscono queste righe, sono il bastone a T, un maialino e, soprattutto un fuoco ardente ai piedi. Nonostante tanto tempo trascorso, di Sant’Antonio Abate sappiamo molte cose poiché egli è uno dei pochi santi dei primi secoli di cui ci è pervenuta una biografia. In essa, si parla delle sue vicissitudini terrene e soprattutto delle sue tentazioni da parte del demonio, diventate poi talmente famose ed esemplari, da costituire un motivo di ispirazione per generazioni di artisti
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Prefazione alla prima edizione
fino ai giorni nostri. Nell’agiografia cristiana Sant’Antonio fu però, in primis, il guaritore per eccellenza. Il testo che segue vuole succintamente descrivere cosa è stato il “fuoco di Sant’Antonio” nella storia della medicina e quello che il taumaturgo continuò a fare finché, come dice Marc Bloch1, la gente credette.
Milano, dicembre 2006
1 Bloch M. I re taumaturghi. Einaudi, Torino, 1989.
Carlo Gelmetti
Indice
Capitolo 1 • Storia
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1 La vita di Sant’Antonio 7 Simbologia 11 Bibliografia
Capitolo 2 • Tradizioni 13 15 19 26 30 39 48
Un Santo molto popolare Letteratura Iconografia Musica Gastronomia Feste Bibliografia
Capitolo 3 • Medicina 53 73 76 78 78 84 84 87 92 93
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Introduzione Terapie popolari del fuoco di Sant’Antonio Mini glaciazione Herpes Zoster Storia Epidemiologia Eziopatogenesi Clinica Varianti speciali di zoster Istopatologia
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X
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Indice
Diagnosi differenziale Terapia Terapia della nevralgia posterpetica Prevenzione dell’herpes zoster Prurito posterpetico Erisipela Storia Epidemiologia Eziopatogenesi Clinica Istopatologia Dati di laboratorio Decorso e prognosi Diagnosi differenziale Terapia Ergotismo Introduzione Storia Epidemiologia Eziopatogenesi Clinica Istopatologia Dati di laboratorio Decorso e prognosi Diagnosi differenziale Terapia Acrodinia Bibliografia
Appendice 1 • I Misteri Eleusini
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129 I Misteri Eleusini
Appendice 2 • Sulle tracce di Sant’Antonio 143 ... in Egitto 149 ... in Europa
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Storia Tradizioni Medicina
Capitolo 1
Storia
La vita di Sant’Antonio Le vicende terrene di Sant’Antonio (251-356) sono ambientate nel III secolo della nostra era nel lontano Egitto quando il paese, che era sotto la dominazione dell’impero romano, allora ancora del tutto pagano, passa tumultuosamente ad un nuovo ordine in cui il cristianesimo, nonostante tutti gli scismi, comincia ad assumere un’importanza determinante. Anche se ci limitiamo al mondo classico, il terzo secolo è un periodo di piena ebollizione e grandi sconvolgimenti. Solo il regno persiano, sotto la dinastia dei Sassanidi, vive una certa stabilità, mentre l’impero romano è in pieno marasma, minacciato dall’esterno dai goti, ma soprattutto minato all’interno dalla decadenza morale che aveva forgiato la romanità repubblicana. Dal punto di vista dei nomi e delle date, questo periodo della storia di Roma è un vero incubo per gli storici. L’impero romano ha ormai imboccato quella strada che lo porterà al lento ma inarrestabile disfacimento. Montanelli, con lucido cinismo, così commenta questo momento: “L’anarchia che seguì la morte di Alessandro Severo1 durò cinquant’anni, cioè fino all’avvento di Diocleziano, e già non fa più parte della storia di Roma, ma della decomposizione del suo cadavere”2. In realtà, in questo periodo non mancarono grandi personaggi come la famosa Zenobia3, regina di Palmira, che come rappresentante di Roma si annetté anche l’Egitto, che è il cuore della nostra narrazione. Né mancarono grandi opere, come le mura Aureliane che ancora oggi si impongono a Roma. Ma, dopo la dinastia dei Severi, gli imperatori si susseguono ad un 1 235 AD. 2 Montanelli I. Storia di Roma. Rizzoli, Milano, 1973. 3 Montanelli (op. cit.) la descrive così: “[...] Zenobia, la più grande regina dell’Est. Era una
creatura che, nascendo, aveva sbagliato sesso. In realtà aveva il cervello, il coraggio, la fermezza di un uomo. Della donna, aveva solo la sottigliezza diplomatica”. Sembra che questo passo sia sfuggito alla maggior parte delle femministe!
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Capitolo 1 • Storia
ritmo incalzante; agli assassinii seguono le stragi e i vari pronunciamenti delle legioni che portano al potere un nuovo imperatore, talora addirittura per pochi mesi. L’Augusto in carica prima si sdoppia, poi si quadruplica (i tetrarchi); il centro del potere abbandona Roma per sempre dopo Diocleziano e dopo essere esploso in vari centri asiatici ed europei approda infine a Bisanzio con Costantino. Dal punto di vista di questa storia, è proprio Costantino il punto focale. Il famoso editto imperiale del 313 che riconosce la libertà di culto anche ai cristiani fa cessare le persecuzioni ma non serve troppo a rasserenare gli animi. Ai pagani non va giù il fatto che i cristiani acquistino potere ed influenza e che la mamma di Costantino, Elena, sia una fervente cristiana! I cristiani, bloccato, almeno per il momento, il nemico comune, si dilaniano in una esplosione di divisioni che Costantino tenterà (invano) di soffocare con il primo grande Concilio Ecumenico del 325 a Nicea. A dire il vero, la bagarre era cominciata immediatamente dopo la morte di Cristo quando la visione “ebraica” del cristianesimo di Giacomo, fratello di Cristo, capo degli apostoli e quindi della primitiva chiesa di Gerusalemme, si scontra con quella “cattolica” (=universale) di Paolo. La storia delle cosiddette eresie comincia poco dopo e non è ancora finita né potrà ovviamente finire. Per restringere il campo al nostro argomento, possiamo dire che una delle principali era quella ariana, che scuoteva l’Egitto e non solo, se è vero che anche Sant’Ambrogio qui a Milano ebbe un gran daffare4. Nonostante la grande distanza temporale, di Sant’Antonio Abate sappiamo molte cose. Infatti uno dei suoi discepoli, Atanasio5, scrisse una celebre biografia6 in cui ci informa delle sue vicissitudini terrene ma anche delle sue tentazioni da parte del demonio diventate poi talmente famose ed esemplari da costituire un motivo di ispirazione per generazioni di artisti fino ai giorni nostri7. Informazioni ulteriori ci vengono anche dai “Detti dei padri del deserto”, da una lettera all’Imperatore Costantino, dalla biografia di San Paolo Eremita scritta da San Gerolamo e, molto posteriormente, dalla “Leggenda Aurea” di Jacopo da Varazze. A dirla tutta, c’è anche chi dubita che la biografia scritta da Atanasio sia veridica, ma comunque, anche se ammantato di mito, qualcosa di verosimile c’è senz’altro. Il Sant’Antonio di cui ci occupiamo nasce infatti nel III secolo in Egitto, ad ovest del Nilo, a Coma (l’odierna Queman), quando la religione dell’impero romano era quella pagana. Convertitosi al cristianesimo, il giovane Antonio 4 Una breve storia della chiesa primitiva si può leggere in: AA.VV. Les premiers temps de l’église.
Gallimard, Parigi, 2004. 5 Sant’Atanasio fu una grande figura carismatica del cristianesimo primitivo. Divenuto vescovo
di Alessandria (uno dei poli storici del cristianesimo primitivo con Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme e Roma) è uno dei Padri della Chiesa. 6 Atanasio. Vita Antoni. Mondadori, Milano 1974. 7 L’iconografia anche di questo unico aspetto della vita di Sant’Antonio è sterminata ma è sicuramente un tema che attraversa tutta la storia dell’arte del secondo millennio ad iniziare dal medioevo di Vitale da Bologna per finire alla contemporaneità di Salvador Dalì.
La vita di Sant’Antonio
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Figura 1.1. Sant’Antonio Abate in un’incisione ottocentesca. Collezione privata
vende i suoi beni, sistema la sorella e si dedica alla preghiera in un eremo solitario da cui anche il nome di “Sant’Antonio l’eremita” (Fig. 1.1). Per questo motivo, egli è unanimemente considerato il primo eremita ed il padre degli anacoreti. Studiando un poco il mondo egiziano del suo tempo, bisogna dire che egli non fu del tutto originale perché la spiritualità religiosa contemporanea del suo paese natale aveva già visto vari sacerdoti dell’antica religione ritirarsi dal mondo per vivere da asceti nel deserto. Va detto però che Antonio fu il primo monaco della cristianità, dato che sull’esistenza di Paolo di Tebe, che secondo San Gerolamo avrebbe preceduto il nostro di qualche anno, si avanzano seri dubbi. Nonostante tutta la buona volontà, Antonio non riesce a restare proprio solo soletto, dato che, come era già successo per i suoi i precursori nell’antica religione egiziana, l’esempio è contagioso. Attirati dalla personalità di Antonio, altri monaci si stabiliscono pian piano nelle vicinanze, sempre però mantenendo distinta la loro individualità. Questi monaci sono chiamati
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Capitolo 1 • Storia
anacoreti, perché vivono solitari in preghiera per tutta la vita, salvo per ritrovarsi per l’agape comune nelle feste comandate. Altri monaci, che invece sentono più pressante la necessità di una guida, si raccolgono ben presto in comunità e sono chiamati i cenobiti. Antonio è il padre degli anacoreti, mentre Pacomio è il padre dei cenobiti e la sua regola servirà di base per quella più famosa di San Benedetto che lo seguirà di qualche secolo. Dal ché si ricava anche che il termine di “abate”8 applicato al nostro è del tutto fuori posto, ma tant’è. Già da vivo la fama della sua santità dilaga al di là dei confini e poco a poco la sua saggezza diviene proverbiale, a tal punto che gli viene chiesto di partecipare ad un importante convegno ecclesiastico che si radunava ad Alessandria nel 311. Il problema importante concerneva la persecuzione dell’Imperatore d’Occidente Massimino Daia. Per questo grave motivo Antonio abbandona, per la prima volta, il suo eremitaggio. Dopodiché ritorna ad appartarsi in un luogo ancora più sperduto e solitario nei pressi del monte Colzim, poco lontano dal Mar Rosso. Torna dopo molti anni ad Alessandria per contrastare l’eresia ariana. I vescovi, ivi radunatisi, chiedono ed ottengono che Antonio partecipi al concilio per fortificare la fede. Ma la qualità che sembra peculiare ad Antonio sembra essere quella di taumaturgo. La santità di questo monaco sembra capace di guarire tutte le malattie e i pellegrini che cercano un rimedio ai mali del corpo si sommano a coloro che cercano un rimedio ai mali dello spirito. Antonio muore in odore di santità in un mondo da poco ufficialmente cristianizzato, in un momento in cui gli dei del pantheon pagano vengono poco a poco sostituiti dai “santi” cristiani. A dire di Sant’Atanasio, la sua morte avviene nel 357 alla veneranda età di 105 anni e le sue spoglie, secondo i suoi voleri, sono sepolte in un luogo anonimo. Tuttavia, secondo alcuni le sue reliquie vengono scoperte e traslate ad Alessandria nel 532 o, secondo altri, nel 561 e da lì a Costantinopoli. Secondo la tradizione il vescovo cristiano Teofilo, per rivelazione divina, ritrovò le spoglie che fece trasportare nella chiesa di San Giovanni Battista ad Alessandria; da qui le reliquie vengono spostate, per evitare il rischio di un’invasione saracena, nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. E così Antonio diventa uno dei primi santi ed uno dei più importanti perché egli è capace di guarire le malattie. La sua fama rimane costante nei primi secoli del cristianesimo ma esplode con l’inizio del secondo millennio, quando inizia l’era delle crociate e con essa la traslazione delle spoglie dei santi dalle originali sedi mediorientali verso l’Europa. Le reliquie dei santi sono tra gli obiettivi dichiarati delle spedizioni guerresche e quanto più importante è il santo tanto maggiore sarà il “guadagno” della comunità che le custodirà. 8 Dall’ebraico “abbas”, padre. Termine usato per identificare il superiore di un cenobio di
monaci.
La vita di Sant’Antonio
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Al ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, intorno al 1070, un certo Jocelin, nobiluomo del Delfinato, ottiene dall’imperatore Romano IV Diogene le spoglie del santo. Le reliquie di Antonio arrivano in Francia dove rimangono per un poco al sicuro nel castello del signore, che le lascia poi in eredità al cognato Guige Didier, fino a quando il papa Urbano II, che stava transitando nella regione, ordina a costui di depositarle in un luogo dove potessero essere venerate dai fedeli. Le reliquie vengono quindi portate nel luogo di La Motte Saint Didier9 (chiamata anche la Motte au Bois10) in cui pare ci fosse una piccola cappella. Sul luogo, che prese quasi subito il nome di Saint Antoine du Viennois11, venne costruita tosto una chiesa che venne consacrata da Guy di Borgogna, già arcivescovo di Vienne e appena eletto papa col nome di Callisto II. In questa chiesa il servizio religioso fu assicurato, dal 1083, dai benedettini dell’abbazia di Montmajour che apparteneva invece alla diocesi di Arles. A seguito di una grande epidemia chiamata “feu sacré” o “mal des ardents” o “feu morbide” o “feu infernal” o “peste de feu”12 scoppiata nel 1089, folle di pellegrini arrivarono a implorare la guarigione davanti alle reliquie del santo. Per venire incontro alle bisogna di quella folla povera e dolente, alcuni maggiorenti della regione si riunirono in confraternita per procurare loro alloggio e cibo. Pertanto essi furono chiamati “Frères de l’Aumone”13, dato che cercavano di raccogliere fondi per questo caritatevole scopo. Tra questi cavalieri, Gastone, che nel 1095 ebbe un figlio guarito per merito di Sant’Antonio, e fondò un piccolo ospedale che chiamò “La Maison de l’Aumone”14. Nel 1292 la primitiva confraternita laica dei “Confratelli dell’elemosina” si trasformò ufficialmente nell’Ordine Ospedaliero degli Antoniani15. I membri dell’Ordine, che erano vestiti con una veste nera con una Tau azzurra a sinistra (Fig. 1.2), si moltiplicarono rapidamente sino a essere più di 10.000 monaci nel XV secolo. L’Ordine arrivò a fondare 389 abbazie-ospedali in tutto il mondo cristiano di allora e divenne uno degli ordini religiosi ospedalieri più importanti della storia (Fig. 1.3). Dopo l’affievolirsi e lo spegnersi delle grandi epidemie, l’Ordine degli Antoniani si fuse con l’Ordine di Malta nel 1775. Nonostante ciò, confraternite varie persistettero un po’ dappertutto ed i questuanti di Sant’Antonio potevano ritrovarsi nelle nostre città ancora nel secolo scorso (Fig. 1.4).
9 In italiano: “la collina di San Didier”. 10 In italiano: “la collina nel bosco”. 11 In italiano: “Sant’Antonio del Viennese ”. Il “Viennese” in questione si riferisce alla città 12 13 14 15
francese di Vienne, che era la capitale della regione. In italiano: “fuoco sacro” o “male degli ardenti” o “fuoco morboso” o “fuoco infernale” o “peste di fuoco”. In italiano: “confratelli dell’elemosina”. In italiano: “la casa dell’elemosina”. Per l’esattezza “Ordre religieux hospitalier des chanoines réguliers de St. Antoine du Viennois”.
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Capitolo 1 • Storia
Figura 1.2. Membro dell’Ordine degli Antoniani con la tipica Tau azzurra. Collezione privata
Figura 1.4. (in alto) Questuante napoletano del secolo scorso. Collezione privata
Figura 1.3. Distribuzione geografica delle Precettorie antoniane. Riprodotta da: Un ordre hospitalier au Moyen Age.Les chanoines réguliers de Saint-Antoine en Viennois (Adalbert Mischewski ), publié par les Presses Universitaires de Grenoble en 1995, Cartographie N. Esperguin, Conservation du Patrimoine de l’isère / Musée Dauphinois, con autorizzazione
Simbologia
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Simbologia Nell’iconografia, per lo meno a partire dal 1400, Sant’Antonio viene raffigurato come un vecchio con la barba bianca e vestito talora come un eremita, talora come un francescano, ma più spesso come appunto il suo ordine religioso prescriveva. Altre caratteristiche dell’iconografia antoniana sono il bastone a T cui è appesa una campanella, un maiale al suo piede sinistro e, soprattutto, un fuoco ardente al piede destro che è l’elemento caratterizzante più tipico e costante, talché il Santo è indicato come “Sant’Antonio del Fuoco”. Nel medioevo, ma in fondo anche dopo, ogni segno aveva un significato che spesso andava al di là di quello diretto. Nelle arti come nella vita di tutti i giorni, non vi era niente che fosse “lì” per caso o che fosse raffigurato “così” per sorte. Dalla orientazione di un edificio all’apparentemente trascurabile particolare di un quadro, niente era lasciato a se stesso. Gli artisti, poi, approfittavano di queste possibilità di comunicazione ulteriore per esprimersi al di là dell’ovvio o del consentito. Esemplare ed illuminante, a questo proposito, è la recente analisi del famoso quadro “Gli Ambasciatori” di Hans Holbein, conservato alla National Gallery di Londra16, la cui descrizione ha richiesto un intero libro. Per tornare alla simbologia antoniana, la Tau è una lettera dell’alfabeto greco e l’ultima dell’alfabeto ebraico: corrisponde alla lettera T del nostro alfabeto ed ha molteplici significati. Essa rappresenta soprattutto ed ovviamente la croce cristiana egizia (ricordiamo che Antonio era un santo egiziano), che per i cristiani alessandrini fu simbolo d’immortalità, ed è anche il bastone della vecchiaia del Santo stesso. Nella lontana antichità dei popoli orientali la Tau significava: “salute e autorità”. Nella Bibbia (Ezechiele: 9,4) rappresenta addirittura il segno per contraddistinguere gli eletti, come si può dedurre da questo passo che era ben conosciuto dai fedeli del tempo, essendo stato commentato dai Padri della Chiesa: “Va attraverso la città, va attraverso Gerusalemme e traccia il segno del Tau sulla fronte di quegli uomini che sospirano e gemono a causa delle abominazioni che ivi si commettono”. San Francesco usava il segno del Tau per firmare! Secondo Aymar Falco, che fu uno dei più illustri abati degli Antoniani, la Tau doveva ricordare il bastone che Gastone, fondatore dell’Ordine, ricevette in visione da Sant’Antonio e che, piantato in terra, si trasformò in un albero. Infine la Tau può simboleggiare la stampella del dio greco del fuoco Efesto, o più semplicemente le stampelle o le grucce che gli amputati a causa del “fuoco di Sant’Antonio” dovevano portare. Il porcello è il secondo simbolo di Sant’Antonio. Fiumi di inchiostro sono stati versati per approfondirne il significato e, in estrema sintesi, il maiale rappresenterebbe la carnalità da condannare e, al tempo stesso, la sua sotto-
16 John North. Gli ambasciatori. Rizzoli, Milano, 2004.
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Capitolo 1 • Storia
missione al Santo. Nella sterminata iconografia, talora, al posto del maiale, si riconosce un maiale selvatico o addirittura un cinghiale. In alcuni quadri l’animale è molto piccolo e simbolizzato; queste dimensioni minime e la cattiva leggibilità di alcune opere a causa della loro vetustà ha indotto qualcuno (sic!) a riconoscere un topo. Chiarito che l’animale giusto è il maiale e non altri, fa sorridere il fatto che alcuni autori abbiano disquisito a lungo e talora a sproposito sui significati simbolici del maiale senza fare riferimento alla storia. Il porcello è intimamente legato a Sant’Antonio anche per un fatto ben più prosaico. L’ordine degli Antoniani ottenne infatti l’ambito privilegio papale di allevare i maiali a spese della comunità17. Una volta che gli animali erano ingrassati a dovere, essi venivano macellati a beneficio della confraternita e delle opere di carità: con la carne si nutrivano i malati e col lardo si preparava un unguento per curare il “fuoco di Sant’Antonio”. Questo legame storico con il maiale spiega anche perché, soprattutto in alcune regioni Italiane, Sant’Antonio Abate venga chiamato: “Sant’Antonio del Porcello” declinato in mille dialetti. Per completezza non va omesso il significato del maiale come segno del maligno. Tale simbolo non si trova in relazione ai demoni che ripetutamente tentarono e tormentarono il santo, come si legge nella biografia di Sant’Atanasio, ma va piuttosto ricercato nell’episodio evangelico in cui i diavoli, scacciati dall’indemoniato da parte di Gesù, trovarono rifugio in un branco di porci. La campanella, spesso appesa al bastone del Santo (Fig. 1.5) e da alcuni interpretata come simbolo della morte e della resurrezione, rappresenta storicamente quella che i maiali di Sant’Antonio portavano al collo per essere riconosciuti e così nutriti dalla popolazione. Fino al secondo dopoguerra è documentato che questa tradizione veniva ancora praticata, per lo meno in alcune regioni. In alcuni quadri e sculture la campanella è al posto giusto, allacciata al collo del maiale. In un altro contesto, la campanella ricorda il suono che annunciava da lontano l’arrivo dei questuanti dell’ordine di Sant’Antonio che furono attivi in alcune regioni fino al secolo scorso. Ma è fuori di dubbio che la caratteristica più tipica ed importante del nostro sia il fuoco (Fig. 1.6) a tal punto che in Sardegna, per esempio, Sant’Antonio Abate è chiamato “Sant’Antonio de su fogu”. Nella storia della civiltà il fuoco ha sempre avuto una costante e netta ambivalenza: da una parte esso rappresenta ciò che riscalda e che ci può difendere, dall’altra ciò che brucia e che tutto può distruggere. Forse la “scoperta” del fuoco, e cioè il modo di accenderlo, di mantenerlo e di addomesticarlo è stata la chiave di volta nell’evoluzione dell’umanità come è ipotizzato da
17 Carlo G. Valli ci ricorda che, con l’eccezione dei maiali di Sant’Antonio, gli altri maiali, per ovvi
motivi igienici, non potevano scorrazzare liberamente. “Il traffico dei porci era intenso e a Roma, per eliminarlo, ci volle nientemeno che un bando, firmato da Papa Clemente VII, il quale, per debellare le diffuse resistenze, autorizzava chiunque incontrava un porco altrui nella sua strada a tenerselo come proprio”. Valli C.G. Le feste in cucina. MEB, Padova, 1993.
Simbologia
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Figura 1.6. Sant’Antonio Abate in un dipinto settecentesco proveniente dall’Italia centrale. Collezione privata
Figura 1.5. Quadro di Simona Mulazzani, che rappresenta Sant’Antonio Abate con i suoi classici attributi; si vedano in particolare i quattro campanelli appesi al suo bastone. Collezione privata
molti scienziati e come è stato tinteggiato da quell’interessantissimo film di Jean Jacques Annaud che è “La guerra del fuoco”18. In molte civiltà la custodia del fuoco appare quindi al centro del credo religioso; inoltre le feste popolari dove il fuoco è il protagonista sono quelle di origine più antica e sono, non a caso, concentrate verso la fine dell’anno quando il giorno, dopo il solstizio d’inverno, comincia ad allungarsi di nuovo, tributo di ringraziamento per una nuova stagione di vita. Nel pensiero arcaico il fuoco appare come un dono divino e non è certo un caso che il mito di Prometeo sia uno dei più conosciuti. Non solo, questo mito riaffiora travestito in altri modi e, per restare alla tradizione italiana, si ritrova nelle fiabe classiche come quelle raccolte da Italo Calvino19. Nella fiaba che ci riguarda più strettamente, Sant’Antonio discende agli inferi per rubare il fuoco che Dio aveva tolto agli uomini a causa dei loro peccati. E ci riesce, incendiando un’estremità del suo bastone che nasconde poi sotto la sua veste: riesce così ad eludere la sorveglianza dei diavoli ed a riportare infine sulla terra una favilla accesa (Fig. 1.7). Nel mito greco, come ricorda Pietro Citati20, la dea Teti, per rendere il figlio Achille un dio simile a lei, lo immergeva nel fuoco tutte le notti per distrug18 Il titolo originale francese del film è “La guerre du feu” ed è stato prodotto nel 1981. 19 Calvino I. Fiabe italiane, Mondadori, Milano, 1956. 20 Citati P. La mente colorata. Mondadori, Milano, 2002.
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Figura 1.7. Sant’Antonio Abate atteggiato a Prometeo, in un dipinto popolare di fine settecento. Collezione privata
Capitolo 1 • Storia
Figura 1.8. Un’antica stampa che raffigura un miracolo: Sant’Antonio punisce col fuoco un ladro di polli. Collezione privata
gere la natura umana del padre Peleo. “Il fuoco aveva il dono di rigenerare e di immortalare [...] Se Achille fosse stato totalmente purificato, sarebbe divenuto immortale”. Dall’altro lato il fuoco rappresenta la distruzione totale e quindi, quando la vendetta contro i nemici deve essere completa e né l’uccisione degli avversari né la distruzione delle loro città sono sufficienti a tacitare l’odio, il fuoco è l’atto finale che l’annichilisce il vinto. Nella cultura giudaico-cristiana il fuoco è una potente immagine di Dio. Nel Deuteronomio21, Mosé descrive così l’incontro col Signore sul monte Sinai: “Ardeva, fiammeggiante fino al cielo, quel monte [...] Il Signore vi parlò dal fuoco [...]”. Anche nella storia della medicina ritroviamo il potere ambivalente del fuoco: sul versante positivo considera il fuoco l’elemento capace di dare tepore e salute e anche la forza che riesce a “purificare” i corpi e gli oggetti; sul versante negativo, esso è rappresentato ovviamente dalle ustioni e da tutte quelle malattie dette appunto “urenti” a causa del dolore insopportabile che provocano (Fig. 1.8).
21 Deuteronomio (4, 1-12).
Bibliografia
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Capitolo 2
Tradizioni
Un Santo molto popolare Il posto di Sant’Antonio Abate nel mondo cristiano, volenti o nolenti, fu di eccezionale importanza. Il potere di vincere la malattia in una realtà sostanzialmente priva di medici e di medicine ne ingigantiva il ruolo. Il potere di vincere il fuoco in un panorama dove le case erano fatte tutte di legno può farci capire quanto fosse rispettato. Il potere di proteggere gli animali in un mondo dove questi erano garanzia di sopravvivenza, oltre che fondamentale fonte di energia e principale mezzo di trasporto, rendeva il Santo centrale nel mondo contadino e non solo. La benedizione degli animali era, a questo proposito, una delle feste cardinali dell’anno (Fig. 2.1) ed era, in un certo senso, una festa per gli animali, dato che in quel giorno erano esentati dal lavorare! Infatti Goethe, nel suo Viaggio in Italia del 1828, così scrive1: “Ieri, festa di Sant’Antonio Abate, abbiamo goduto di una divertente giornata. Faceva il più bel tempo del mondo, durante la notte c’era stato il gelo, e il giorno era sereno e tiepido. Sant’Antonio, abate o vescovo che sia, è il protettore dei quadrupedi e la sua festa è il saturnale degli animali che di norma sono addetti a portare la soma, ma è anche la festa dei guardiani e dei conducenti. In questo giorno tutti i signori devono rimanere in casa oppure uscire a piedi. E si narra di brutte storie occorse ai padroni che attaccando in deroga i cavalli alle carrozze sono stati puniti, subendo disgrazie. La Chiesa sorge in un piazzale vasto da sembrare un deserto, ma in questa occasione diventa assai animato; cavalli e muli, con le criniere e le code 1 Goethe J.W. Viaggio in Italia. Oscar Grandi Classici, Mondadori, Milano, 2006
(ediz. originale 1828).
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Capitolo 2 • Tradizioni
intrecciate di bei nastri sfarzosi, sono portati davanti ad una piccola cappella, un poco discosta dalla chiesa, dove un prete, con un grande aspersorio nella mano e una fila di secchi e tini d’acqua benedetta davanti a sé, spruzza senza risparmio gli animali, a volte raddoppiando con malizia l’energia per incitarli. I cocchieri ossequiosi portano ceri grandi e piccoli, i padroni mandano le loro elemosine affinché per l’intero anno le utili bestie possano preservarsi da tutti i mali. Gli asini e gli animali cornuti, oggetto di non minori cure dai padroni, si avvalgono di questa distribuzione di grazie”. Negli ultimi secoli, la benedizione rappresentava il momento durante il quale il contadino “ringraziava” l’animale per il contributo svolto nel lavoro agricolo. Erano soprattutto buoi e cavalli ad esaltare il rapporto familiare che si instaurava, nella società contadina, tra lavoratori uomini e collaboratori animali. Dato che la morte di un animale era vissuta come una tragedia, meglio aggraziarsi il Padre Eterno, soprattutto attraverso il Santo protettore degli animali. E così, davanti alla chiesa consacrata a Sant’Antonio Abate, fin dalle prime luci dell’alba si riunivano in gran numero, come ricorda anche il Belli, “porchi, somari, pecore e cavalli [...] pieni de fiocchi bianchi e rossi e gialli”. Sant’Antonio è quindi un santo di tutti ma soprattutto un santo popolare per il mondo contadino e non stupisce quindi ritrovarlo in tanti proverbi.
Figura 2.1. La grande benedizione degli animali a Roma in una stampa di fine ‘800. Collezione privata
Letteratura
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Eccone alcuni: • A Sant’Antoni Abat, sorta fora tuti i mat (Lombardia) • A Sant’Antonio ogni puorco è buono (Abruzzo) • Sant’Antonio dalla barba bianca, fammi trovare quello che mi manca2 • Sant’Antonio dalla barba bianca, se non piove poco ci manca • Sant’Antonio la gran freddura, San Lorenzo la gran calura, l’una e l’altra poco dura • Sant’Antonio fa il ponte e San Paolo lo rompe • Sant’Antonio, sera e mattina un po’ di gallina • Sant’Antonio se non piove la neve non manca • Tanto pane, tanto Sant’Antonio Sant’Antonio Abate si venera come santo patrono degli animali, dei fabbricanti di ceste, dei ceramisti, dei porcai e di molte altre professioni ma soprattutto degli amputati e dei malati di eczema, erisipela, ergotismo e malattie della pelle in genere. In Francia è anche il patrono dei matrimoni. Per attirare un fidanzato si deve prendere un rosario e, ad ogni grano, si recita così: Saint Antoine demandé Saint Antoine prié Saint Antoine delivré, faites moi connaître un homme qui s’intéresse à moi suffisamment pour m’épouser3
Letteratura La letteratura su Sant’Antonio comincia con le lettere che si pensa essere state scritte dal Santo stesso e ricordate da San Gerolamo. La redazione originale di queste lettere fu probabilmente in greco, ma noi ne possediamo solo una versione latina pubblicata a Parigi nel 1516 ed un’altra, sempre in latino, ma tradotta dal maronita nel 1641. Delle venti lettere pervenute, solo le prime sette sembrerebbero appartenere ad Antonio. Il condizionale è d’obbligo perché non vi è accordo tra gli studiosi, soprattutto per il tono sofisticato e filosofico che contrasta con l’immagine tradizionale, tramandataci da Sant’Atanasio, di un Antonio nemico delle lettere e sprezzante dei filosofi. Le lettere, indirizzate ad alcune comunità monastiche egiziane, sono sostan-
2 Non si sa perché alcuni attribuiscano questo proverbio molto popolare (dimenticare qualcosa
è evenienza assai comune) a Sant’Antonio da Lisbona che, essendo morto giovane, tutto poteva avere salvo una barba bianca. 3 In italiano: “Sant’Antonio domandato, Sant’Antonio pregato, Sant’Antonio liberato, fatemi conoscere un uomo, che si interessi a me, sufficientemente per sposarmi”.
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Capitolo 2 • Tradizioni
zialmente dedicate a promuovere l’ideale ascetico dei confratelli ed insistono sull’importanza di conoscere se stessi. Rispetto alla biografia di Sant’Atanasio sono però abbastanza ripetitive e, nel complesso, meno interessanti ed originali. La Regola di Sant’Antonio, pubblicata solo nel XVII secolo, sembra invece essere chiaramente apocrifa e non è mai menzionata nella biografia di Sant’Atanasio. Ma il cardine della letteratura antoniana è senz’altro un libro molto antico, scritto, secondo la tradizione, da Sant’Atanasio, che fu discepolo di Antonio del deserto e poi vescovo di Alessandria d’Egitto ed infine uno dei grandi padri della Chiesa. Il libro è una biografia che si intitola semplicemente: Vita di Antonio. Esistono, anche in questo punto, dei dubbi sulla veridicità della biografia. Molti episodi della vita del nostro ricalcano in maniera impressionante le grandi immagini del cristianesimo, come le tentazioni di Cristo da parte del Diavolo e, d’altra parte, lo schema della narrazione segue i modelli classici precedenti degli scrittori pagani, come le Vite Parallele di Plutarco o la Vita di Plotino di Porfirio. Noi siamo d’accordo con Di Meglio4 nel riconoscere un’autenticità della biografia di Atanasio perché l’elemento apologetico, che domina nell’agiografia dei primi secoli, è invece qui secondario rispetto alla descrizione dei fatti e delle persone. La Vita di Antonio, forse per questi meriti letterari, ebbe un enorme successo già nei tempi antichi, come è documentato dalle numerosissime traduzioni (latino, copto, siriaco,…) dell’originale greco, ed anche oggi può essere letta con interesse. Molti anni più tardi Jacopo da Varazze (1228-1298)5, vescovo della cittadina ligure in pieno medioevo, scrive nel 1275 la sua famosa Legenda aurea che è in pratica un compendio delle biografie di tutti i santi della chiesa. Il libro mischia storia e leggenda, ma in una costruzione unitaria che ordina i santi secondo il ciclo dell’anno liturgico, ed è stato la fonte inesauribile di molta iconografia posteriore. Una curiosità è data dal primo paragrafo della vita di ogni Santo che è dedicata alla etimologia del suo nome. Al capitolo del nostro si legge così: “Antonio deriva da ana, che vuol dire ‘in alto’, e tenens, ‘che tiene’, come a dire ‘colui che possiede le cose celesti e disprezza quella terrene’. Disprezzò appunto il mondo perché immondo, inquieto, passeggero, ingannevole e amaro. Di questo dice Agostino: ‘O mondo immondo, che cosa vai schiamazzando? Perché tenti di sviarci? Vuoi travolgerci con te fuggendo? Che cosa faresti se tu ti fermassi? Chi non inganneresti se tu fossi dolce, tu che, amaro, offri cibi che appaiono dolci e non lo sono?’ La vita di Antonio fu scritta da Atanasio.”
4 Sant’Atanasio. Vita di Antonio con le lettere e la regola. Testo critico e commento a cura di Di
Meglio S. Edizioni Messaggero, Padova, 1997. 5 Spesso è citato come Jacopo da Varagine ma Varagine è banalmente la odierna Varazze. Nella cittadina ligure c’è infatti la sua statua.
Letteratura
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Come giustamente fa notare Alessandro Vitale Brovarone nella bellissima edizione edita da Einaudi6, “le etimologie sono quanto il Medioevo voleva che fossero le etimologie; non giustificazioni storiche della forma e del senso delle parole, ma esposizione di una vis che le parole contengono”. Per la sensibilità moderna, alcuni episodi tragici appaiono comici, ma il testo è complessivamente di estremo interesse e va al di là di un’agiografia di maniera. Molti anni dopo la Legenda Aurea, Gustave Flaubert (1821-1880) più famoso per aver scritto Madame Bovary, scrive un dramma erudito che intitola La Tentation de Saint Antoine (Fig. 2.2). In realtà l’opera, che richiese una gestazione durata quasi trent’anni, ebbe una grande influenza su molti artisti contemporanei e influenzò anche il giovane Freud, che a questo proposito, commenta: “... [La Tentazione di Sant’Antonio] fa discutere non solo il grande problema della conoscenza, ma i reali enigmi della vita [...] e conferma la consapevolezza della nostra perplessità nel misterioso che regna ovunque”.7 Dopo questi testi, fondamentali per la comprensione del personaggio, ne sono comparsi molti altri la cui disamina esula dallo scopo di questo libro. Ricordiamo solo alcuni scritti che ci sono maggiormente piaciuti. Tra essi non possiamo non citare la fiaba che proviene dal Sassarese e che Italo Calvino trascrive nelle sue Fiabe Italiane e che vede il nostro come novello Prometeo. Anche don Mazzolari dedica un libricino a Sant’Antonio. Ecco l’incipit: GLI VOGLIO BENE “Gli voglio bene perché è uno dei santi con il quale ho fatto conoscenza da bambino. Quando non volevo stare buono (un vezzo che con gli anni è piuttosto aumentato) zia Paola mi portava nella stalla a vedere i vitellini. Sopra i vitellini, a portata di mano, c’era Sant’Antonio, con barba, bastone, campanello… Che Santo fortunato! Gli è toccata una protettoria senza uomini, senza questo povero bipede implume, che sta diritto soltanto - se pur ci sta - con le gambe, non col cervello, molto meno con la coscienza. Per questo, Sant’Antonio s’è potuto mantenere ‘galantuomo’ senza fatica anche dopo sedici secoli, a differenza di qualche altro suo collega, capitato assai male in fatto di clienti. Cosa volete che ci stia S. Ivo fra gli avvocati? e S. Caterina con i mugnai? e S. Crispino con i calzolai? e il S. Curato d’Ars con i preti?... Poveri cari Santi, come vi deve costare il proteggerci!”
6 Jacopo da Varazze. Legenda Aurea (a cura di Vitale Brovarone A. e L.). Einaudi, Torino, 1995. 7 Flaubert G. La Tentation de Saint-Antoine. Athena, Paris, 1951 (edizione originale 1849).
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Capitolo 2 • Tradizioni
Giuseppe Ruju nel suo libro intitolato Il falò di Sant’Antonio. Racconti di Sardegna dedica un racconto alla festa del Santo. Ecco un passo: “Nel lato sinistro vi era un grande tavolo ricoperto con una tovaglia dai ricami finissimi. E qui, come su una mensa, gli uomini deponevano bottiglie di vino… Le ragazze vi adagiavano canestri di tillicas, i dolci che tutte le famiglie usavano preparare proprio per la solennità del ‘Santo del fuoco’: la tradizione, anzi, imponeva che nel recipiente di vimini si mettessero diciassette tillicas la sera dei vespri solenni ed altrettante la mattina del giorno dopo, quando veniva celebrata la messa cantata in onore del santo. Il numero era suggerito dalla data in cui cadeva la festa di Antonio Abate: il 17 di gennaio”. Come milanese non posso terminare questo capitoletto senza citare le quattro giaculatorie in dialetto milanese di Speri Della Chiesa Jemoli illustrate da Aldo Mazza8. Il testo e le figure sono forse irriverenti ma senz’altro gustose. Riportiamo solo i due distici che formano il principio ed il tema della prima e della seconda giaculatoria: Sant’Antoni glorïos Fee che troeuva anmì ‘l mè spos9 Sant’Antoni glorïos Fe che ‘l primm el sïa ‘n tôs10 Questi versi, in realtà, sono invocazioni tradizionali al Santo che erano pronunciate dalle vergini (la prima) e dalle spose (la seconda) nel corso delle sagre popolari del Varesotto nel secolo scorso. Se però ai versi tradizionali si aggiungono i versi originali, il risultato finale della prima giaculatoria è il seguente: Sant’Antoni glorïos Fee che troeuva anmì ‘l mè spos Lassemm minga sola in lett, Sant Antoni benedett!11 In italiano ed in altre lingue troviamo altri libri ispirati al nostro, direttamente o indirettamente, come i libri di Queffelec o di Ganachaud citati nella bibliografia. Citazioni del Santo si trovano diffusamente nella letteratura 8 Della Chiesa Jemoli S, Mazza A. Giaculatori Sant’Antoni del porscel. Arti Grafiche Pizzi &
Pizio, Milano, 1900. 9 In italiano: Sant’Antonio glorioso, fate che trovi anch’io il mio sposo. 10 In italiano: Sant’Antonio glorioso, fate che il primo (figlio) sia un ragazzo. 11 In italiano: Sant’Antonio glorioso, fate che trovi anch’io il mio sposo, Non lasciatemi sola a
letto, Sant’Antonio benedetto!
Iconografia
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Figura 2.2. Copertina di una delle tante edizioni dell’opera di Flaubert
Figura 2.3. Sonetto settecentesco su Sant’Antonio Abate. Collezione privata
italiana, da Dante Alighieri12 a Jacopone da Todi13 fino a Grazia Deledda14 ed altri ancora fino ai giorni nostri. A Siena ho trovato un sonetto del ’700 che è riportato nella Fig. 2.3.
Iconografia Qualche anno fa, mentre mi si affacciava alla mente il pensiero di scrivere queste righe, cominciavo a raccogliere del materiale iconografico per documentarmi e per un momento pensai ingenuamente di radunare ed eventualmente pubblicare l’iconografia antoniana…! Dopo pochi mesi di lavoro mi resi conto di una banale verità, e cioè che era molto più semplice fare l’elenco degli artisti che non avevano rappresentato il nostro che non il contrario. A ben guardare, è quasi impossibile trovare una chiesa senza un quadro, un affresco o una scultura del Santo. E, se non c’è, è sicuramente andata distrutta dal tempo o dall’incuria. Insomma, per farla breve, ci ho rinunciato, almeno per il momento. L’iconografia antoniana inizia già nei primi secoli del secondo millennio, dopo che le reliquie del Santo furono traslate in Europa. Le prime testimonianze 12 La divina Commedia. Paradiso, Canto 29. 13 Laude. 14 Deledda G. Le bestie parlano. In: Il cedro del Libano. Garzanti, Milano, 1939.
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Capitolo 2 • Tradizioni
si trovano già nei primitivi italiani, come dimostra un bel quadro nella prima sala della Galleria dell’Accademia a Firenze. In questo quadro duecentesco, Antonio è raffigurato come un giovane “borghese” che conforta dei poveri. Evidentemente questo quadro fotografava la realtà del tempo e precisamente il gruppo di nobili del Delfinato che si tassava per mantenere i poveri che accorrevano alla tomba del Santo per chiedere la grazia di una guarigione. Dopo questo primo quadro, delizioso ma quasi sconosciuto, “esplode” e si consolida l’iconografia antoniana classica che raffigura il Santo come un vecchio dalla barba bianca e caratterizzato da uno o più segni di riconoscimento cui si è accennato nei capitoli precedenti. Sia nei “fondi oro” trecenteschi, sia nelle grandi pale d’altare della fine dell’arte medioevale, Sant’Antonio Abate è uno dei personaggi chiave, quasi onnipresente. Anche negli affreschi antichi occupa un posto d’onore e si può vedere ovunque; dalle grandi cattedrali come quella di Orvieto alle pievi più sperdute come quella di Sovana, fino agli eremi isolati come San Pietro al Monte a Civate. Per quanto riguarda gli affreschi, non si può non nominare il famoso ciclo medievale di Jacquerio nella Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso in Piemonte. La cosa che però è da sottolineare è la constatazione che alcuni temi della vita del Santo non sono mai passati di moda! Dalle stampe di Martin Schongauer al celeberrimo polittico di Matthias Grünewald (Figg. 2.4, 2.5) conservato nell’Abbazia Antoniana di Isenheim (vicino a Colmar, in Alsazia) a Tintoretto, Rops, Callot, Morelli (Figg. 2.6-2.9), fino a Salvador
Figura 2.4. La tentazione di Sant’Antonio in una stampa di Martin Schongauer, c. 1480. Collezione privata
Figura 2.5. La tentazione di Sant’Antonio di Maître Mathis, detto Grünewald, olio su tavola, 265x141 cm. È una delle ante che costituiscono l’Altare di Isenheim. Riprodotto da: Maître Mathis, dit Grünewald, Retable d’Issenheim, 1512-1516, Maître-autel de l’église de la commanderie des Antonins d’Issenheim, © Musée d’Unterlinden, Colmar,con autorizzazione
Iconografia
Figura 2.6. Tintoretto, Le tentazioni di Sant’Antonio. Collezione privata
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Figura 2.7. Felicien Rops, La tentazione di Sant’Antonio. Bruxelles, Bibliothèque Royale Albert Ier
Dalì (Fig. 2.10), le tentazioni di Sant’Antonio sono un tema classico che ha affascinato gli artisti di tutti i tempi. A questo proposito bisogna dire che un libro sul “fuoco di Sant’Antonio” nell’arte uscì molti anni fa, ma è fuori catalogo da un pezzo15. Un capitolo tutto da scrivere sarebbe, soprattutto, quello da dedicare alla iconografia popolare. Vari anni fa, visitando un museo di tradizioni contadine della Bassa Lombarda dove era stata ricostruita un’abitazione di agricoltori dell’800, fui colpito da un’immagine che mostrava Sant’Antonio abate benedicente gli animali, appesa sopra il focolare. La guida mi spiegò che era un’usanza diffusissima appendere l’icona del Santo vicino al fuoco, come era altrettanto comune apporre all’ingresso della stalla una sua effigie, grazie alla quale, secondo la credenza popolare, ogni pericolo veniva scongiurato. Ebbi in seguito numerose prove che la guida aveva ragione, ritrovando nei mercatini di paese numerose immagini di ogni sorta: dalle piastrelle invetrate da murare (Figg. 2.11-2.13) a semplici cartoncini da appendere ad un chiodo, alle immaginette classiche con la preghiera sul retro (Figg. 2.142.17). Ma quello che è più interessante ancora sono alcune stampe popolari che spiegano meglio di tanti discorsi lo stretto legame tra mondo contadino ed il nostro: Sant’Antonio Abate appare il protettore degli animali e quindi dei poveri contadini, a cui rende servizio salvandoli dagli incendi. Anche le statuette del nostro erano molto popolari nel ’700 e nell’800 (Fig. 2.18), ad imitazione di quelle classiche rinascimentali (Fig. 2.19). 15 Bauer VH. Das Antonius-Feuer in Kunst und Medizin. Springer, Berlin Heidelberg New York,
1973.
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Capitolo 2 • Tradizioni
Figura 2.8. Le tentazioni di Sant’Antonio di Jacques Callot, ca. 1634. Des Moines Art Center Permanent Collections. Collezione privata
Figura 2.9. La tentazione di Sant’Antonio di Domenico Morelli. Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna
Iconografia Figura 2.10. Salvador Dalì, La tentazione di Sant’Antonio, 1946. © by SIAE 2009
Figura 2.11. Composizione portoghese di piastrelle (azulejos). Collezione privata
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Capitolo 2 • Tradizioni
Figure 2.12, 2.13. Piastrelle da incasso del centro Italia (a sinistra) e di Vietri sul Mare (a destra). Collezione privata
Figura 2.14.
Figura 2.15.
Sant’Antonio Abate, coloratissimo nelle immagini di Epinal. Collezione privata
Sant’Antonio in un’originale calcografia. Collezione privata
Iconografia
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Figura 2.16. Sant’Antonio in un’immagine popolare dell’800 tedesco. Collezione privata e
Figura 2.17. Sant’Antonio in una classica immaginetta del secolo scorso. Collezione privata
Figura 2.18.
Figura 2.19.
Sant’Antonio Abate effigiato in una statua del ’700. Collezione privata
Statua policroma di Sant’Antonio che si trova nella chiesa di Chaource
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Capitolo 2 • Tradizioni
Musica Anni fa, negli scampoli di tempo concessi da un congresso medico, mi trovavo a visitare il piccolo paese abruzzese di Pescocostanzo, un tempo famoso ed importante perché segnava lo spartiacque tra Mar Tirreno e Mar Adriatico nello Stato della Chiesa. In cerca di testimonianze antoniane che sapevo essere presenti, fui sorpreso di sentire che in quella piccola comunità vi erano, fino a pochi anni prima, numerose consorterie che passavano per il paese cantando durante i festeggiamenti per il 17 gennaio. E quindi fui meno sorpreso quando l’anno scorso una mia paziente, sapendo casualmente del mio interesse agiografico, mi mandò una videocassetta che documenta l’esecuzione itinerante di un complesso musicale nel suo paese natale di Pratola Peligna durante la vigilia della festa. Tutto questo mi spiegava tante cose e rendeva meno bizzarro il ricordo che avevo di una divertentissima canzone de “I Gufi” che cantavo da ragazzo quando si strimpellava la chitarra con gli amici. La canzone si chiama “Sant’Antonio allu desertu”16 ed è la più famosa ed una delle poche sopravvissute al declino della cultura contadina italiana. Accanto all’edizione spiritosamente rimaneggiata de “I Gufi”, ne esiste comunque una più colta cantata dalla Associazione Corale “Gran Sasso” de l’Aquila, diretta da Paolo Mantini17. Ma la prima, che è stata adattata da Lino Patruno su parole e musica tradizionali, è senz’altro la più gustosa e moderatamente dissacrante. Eccone il testo: Sant’Antonio allu desertu Bona sera care amice tutte quante le cristiane questa sera vaggiu a dice della festa de dimane che dimane è Sant’Antonio lu nemice dellu dimonio Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie Li ‘arenti e Sant’Antonio una moglie gli vogliono dare ma lui non si vuol sposare e nel diserte si fa mandare pe navè la siccatura de sta fa’ una criatura Sant’Antonio Sant’Antonio
lu nemice dellu dimonie Sant’Antonio allu diserte s’appicciava ‘na sicarette Satanassu pe’ dispiette glie freghette l’allumette Sant’Antonio nun s’impiccie cun lu prospere se l’appiccie Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie Sant’Antonio allu diserte se faceva la permanente Satanasse pe’ dispiette gli freghette le currente Sant’Antonio lu prende per colle e lu mette cul culo a molle Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice de lu dimonie.
16 “Il cabaret de I Gufi”. CD EMI 7432 8 56336 2 1. 17 “Canti regionali Abruzzesi”. CD Beat Records Company OMS93006.
Musica
Sant’Antonio allu diserte si cuciva li pantaluni Satanasse pe’ dispiette glie freghette li buttune Sant’Antonio se ne freghe cun lu spaghe se le leghe Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie Sant’Antonio allu diserte se lavava l’insalata Satanasse pe’ dispiette gli tirette na sassata Sant’Antonio lo riprese pel collo e lo rimise col culo a mollo Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie Sant’Antonio allu diserte se magnava le spaghette Satanasse pe’ dispiette gli freghette le furchette
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Sant’Antonio nun se lagna cun le mani se le magna Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie Sant’Antonio allu diserte se diceva lu uraziune Satanasse pe’ dispiette gli fa il verso dellu trumbune Sant’Antonio cul furbiciune zacchete e zacchete lo fa cappune Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie Bona sera care amice lu Signore ve benedice e fa crescere u patrimonio cun le grazie e Sant’Antonio ca dimane è Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie
Anche in Lombardia se ne cantavano molte un po’ di tempo fa. Carlo Valli ce ne riporta una in dialetto brianzolo: Sant’Antoni del purcel al sunava ul campanel ul campanel a l’ha perduu Sant’Antoni al s’è scunduu18 al s’è scunduu suta na porta l’ha truvàa na dona morta la dona morta la sguagniva19 Sant’Antoni se stremiva20 al se stremiva de curius al mangiava pan e nus pan e nus cun la minestra tut i anger faven festa faven festa in genugion21 oh che bela urasion!
18 In italiano: “nascosto”. 19 In italiano: “si lamentava”. 20 In italiano: “spaventava”. 21 In italiano: “ginocchio”.
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Capitolo 2 • Tradizioni
Su questo sito: http://www.ripamici.it/miti/santanto/santant.html abbiamo trovato una canzone che si canta in occasione della festa a Ripabottoni nel Molisano. Nelle note diamo la traduzione22 (indispensabile in questo caso!): Inno a Sant’Antonio Abate Ritornello: Evviva Sand’Andoni(e) Sand’Andoni(e) evviva Evviva Sand’Andoni(e) Sand’Andoni(e) Abat(e) Sand’Antoni(e) nu d’sèrt’ z’ sht’ndév’ na k’pèrt’, Ma kull’ brutt’ mal(e)détt’ trav’shtut’ da p’rkitt’ ch’ la iv’ a r’t’là. (Ritornello) Sand’Andoni(e) arr’bba:t’ u fok’ nu ‘mbèrn’ l’a p’rtat’ ‘ngopp’ a terr’ p’kké l’uòmm’n’ z’ r’skèllass’r’ e n’ mègnèss’r’ kiù a carn-è-krud’.
(Ritornello) Se t’nét’ nà vakkèrèll’ Sand’Andoni(e) v’ la guard’. (Ritornello) Se t’nét’ ‘i p’cu(e)rèll’ crescérann’ ròss(e) é bèll’. (Ritornello) Se t’nét’ Kèvall’ e bigh(e) Sand’Andoni(e) i b(e)n’dich’. (Ritornello) Se t’nét’ Kèvall’ e mul’ Sand’Andoni(e) i jut’ pur(e). (Ritornello) s’sèmp’ v’shtut da frat’ Sand’Andoni(e) Abbat(e). (Ritornello)
Ma anche la musica colta ha i suoi debiti con Sant’Antonio. L’opera più famosa di Hindemith si chiama “Mathis der Maler”23 che vuol dire letteralmente “Mattia il pittore”. Ebbene, questo Mattia è proprio quel Mathias Grünewald che ha eseguito il più grande e famoso ciclo pittorico sul nostro (Fig. 2.5) e che ben conosceva il “fuoco di Sant’Antonio” visto che lavorava
22 Ecco la traduzione in italiano: Inno a Sant’Antonio Abate (Ritornello) Ritornello: Se tenete una vaccarella Evviva S. Antonio S. Antonio ve la guarda. S. Antonio evviva (Ritornello) Evviva S. Antonio Se tenete le pecorelle S. Antonio Abate cresceranno grosse e belle. S. Antonio nel deserto (Ritornello) si stendeva una coperta Se tenete cavalli e bighe ma quel brutto maledetto S. Antonio li benedice. travestito da porchetto (Ritornello) glie l’andava a riarrotolare. Se tenete cavalli e muli (Ritornello) S. Antonio li aiuta pure S. Antonio ha rubato (Ritornello) il fuoco nell’inferno Si è sempre vestito da frate L’ha portato sopra la terra S. Antonio Abate. affinché gli uomini si riscaldassero (Ritornello) e non mangiassero più carne cruda. 23 Una buona edizione in 3 CD è quella diretta da Rafael Kubelik per la EMI 7243 5 55237 2 3.
Musica
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accanto all’Ospedale dell’ordine. Ambientata nel 1525 durante la Guerra Contadina, è un’opera complessa sia sul piano musicale che su quello concettuale; scritta tra il 1932 ed il 1934 in una Germania in preda al cancro nazista, non è di quelle che si digeriscono subito. Le tentazioni di Sant’Antonio sono qui rappresentate da un sogno in cui il pittore sogna di essere il Santo ed i vari personaggi dell’opera rappresentano allegoricamente le tentazioni classiche della lussuria e del denaro. Per quanto riguarda la notazione musicale, lo stesso Paul Hindemith in un articolo del 1938 così si esprime. “[...] ed inoltre, per quanto riguarda la musica, quello che (i personaggi) cantano non è affatto tratto dalla pura invenzione: vecchi canti popolari, canti di rivolta dei tempi della riforma e della tradizione gregoriana, costituiscono la base nutritiva della musica del Mathis [...]”. Il testo è sofisticato ma di grande impatto e trova il suo acme nella scena finale delle tentazioni in cui, ai singoli personaggi, si aggiungono tutti i demoni in un tumultuoso coro. Esso recita così: “Il tuo peggior nemico risiede in te stesso. Se tu hai il dono di vedere le cose, non guardarle da troppo vicino. Se tu puoi pensare, non pensare fino alla fine. Costringi te stesso a compiere l’ultimo sforzo. Se non ti puoi accontentare, la vita ti respingerà e l’inferno ti accoglierà. Noi ti torturiamo con l’immagine dei tuoi abissi. E come questo frate spiumato batte allegramente. Che bisogno c’è di un cavallo, si può anche andare a dorso di un ranocchio. Tutti questi occhi impazziti ti trafiggono. Sul campo ti strappano il mantello e ti strappano i capelli a ciocche. Ti prendono a calci senza udire le tue grida. Un lebbroso si avvicina barcollando. Un animale ti morde la mano. Tutto intorno crolla la casa. Anche se il bene lotta per te, non ne uscirà vincitore. è con noi che la natura si è alleata. Ciò che è grande, oggi è terribilmente grande. Ciò che è splendente è orribilmente splendente. Ciò che è profondo conduce al fondo dell’inferno. Foreste, montagne e cielo urlano selvaggiamente alla rivolta. Rinuncia a lottare. Ti siamo diabolicamente vicini”. Come già si disse per le arti figurative, il tema delle tentazioni di Sant’Antonio è sempre rimasto sulla cresta dell’onda, tanto è vero che Werner Egk (1901-1983), musicista tedesco contemporaneo del più famoso Carl Orff (quello, per intenderci, dei supersfruttati Carmina Burana), nel 1945 scrive
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un’opera originale per contralto, quartetto d’archi ed orchestra d’archi sulla base di un’ispirazione di arie e versi del XVIII secolo. Anche tale opera è disponibile in CD24. La tentazione di Sant’Antonio è anche il titolo di una composizione di James Wilson del 1985 e del recentissimo balletto di Bob Wilson che è andato in scena anche in Italia. Esistono anche due CD di musica contemporanea: uno di Anton Zinkl e l’altro di Bernice Johnson Reagon, una musicista americana di origine africana, ispirato al romanzo di Flaubert (Fig. 2.20). Probabilmente, nella musica sacra antica esistevano numerose opere dedicate al grande taumaturgo, ma, altrettanto probabilmente, alcune sono andate perdute o semplicemente giacciono negli archivi di qualche biblioteca in attesa che qualche curioso le scopra; proprio ultimamente infatti è uscita una bella registrazione in CD di una messa attribuita al grande Guillaume Dufay (?1397-1474): Missa Sancti Antonii Viennensis (Abbatis) (Fig. 2.21)25. Una notazione interessante si riferisce proprio ad un episodio musicale che indirettamente interessa il nostro Santo. Nell’inverno del 1772, Mozart, allora solo diciassettenne, si trovava a Milano per la terza volta per la messa in scena della sua opera “Lucio Silla” per il Regio Ducal Teatro, quello, per intenderci, che fu poi sostituito dal Teatro alla Scala attuale. L’opera ebbe un grande successo e Mozart fu invitato a dare altri concerti. Egli, allora, organizzò un grande spettacolo proprio nella chiesa di Sant’Antonio Abate (Fig. 2.22) e proprio nella ricorrenza del Santo. Il 17 gennaio del 1773, i milanesi ebbero quindi il piacere e l’onore di ascoltare per la prima volta il mottetto Exultate Jubilate (K165) che rimane una delle composizioni più belle dell’intero corpus mozartiano. In realtà la chiesa era già stata concessa ai padri Teatini ed il mottetto si riferisce genericamente al culto mariano e non al nostro, ma il fatto che il concerto fosse eseguito nel giorno della festa di Sant’Antonio Abate ci fa capire che questa ricorrenza era ancora molto sentita.
Gastronomia26 Lo stretto legame che univa Sant’Antonio col mondo contadino si è tradotto in una serie di tradizioni gastronomiche in parte legate ai dolci che si preparavano per la festa del Santo ed in parte, ovviamente, al maiale. Esula dal tema di questo libro una disamina approfondita di questo aspetto, per cui ci limiteremo a qualche accenno. In estrema sintesi, insieme al fuoco ed alla benedizione degli animali, nella festa del Santo non può mancare, come in una messa laica, il pane ed il vino. A Polcenigo, piccola località in provincia 24 Deutsche Grammophon 449 097-2. 25 “Mass for St Anthony Abbot”. Hyperion CDA67474. 26 Le informazioni qui riportate sono state ottenute da varia letteratura, ma soprattutto da
moltissimi siti web di vario orientamento (associazioni, confraternite, comuni, ecc.) che non posso riportare individualmente per mancanza di spazio. Ringrazio comunque tutti quanti, anche se anonimi, per la loro involontaria ma preziosa collaborazione.
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Figura 2.20. Copertina del CD The Temptations of Saint Anthony di Bernice Johnson Reagon
Figura 2.21. Copertina del CD della Missa Sancti Antonii Viennensis (Abbatis) di Guillaume Dufay
Figura 2.22. Statua di Sant’Antonio sulla facciata dell’omonima chiesa a Milano
di Pordenone, la festa di Sant’Antonio Abate si chiama infatti “Pan e Vin”. Esiste, in Italia, anche il “Piatto di Sant’Antonio” che non è altro che un pranzo offerto ai poveri nella ricorrenza della festa del Santo. Tale tradizione umbra trae origine da un fatto accaduto nel 1860 ad Assisi che, essendo una via di transito dei postiglioni postali tra Firenze e Roma, era anche la stazione per il cambio dei cavalli. A seguito di una epidemia che colpì in modo particolare i cavalli di queste scuderie, i padroni delle bestie si rivolsero a Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, pregando i francescani della Porziuncola di fare un triduo in onore del santo, di cui in quei giorni ricorreva la festa. Ottenuta la grazia con la fine del morbo, quell’anno la festa fu celebrata con grande solennità ed il pranzo che fu distribuito ai poveri prese la denominazione di “Piatto di Sant’Antonio”. Ma, a prescindere delle tradizioni locali che possono essere molto varie, il simbolo del pane è certamente quello più forte, più ancora di quello della carne di maiale come ci si attenderebbe. Il motivo di ciò è che il pane, da tutti i popoli mediterranei della più remota antichità, fu investito di significati religiosi ed usato in una vasta tipologia di riti. Nel mondo latino si offrivano agli dei pani e cereali poiché erano considerati gli alimenti garanti della vita; con il pane si contraeva il matrimonio (la confarreatio) e si celebrava il funerale, perché il primo rito presiede alla formazione di nuove vite e il secondo
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è il segno manifesto della fede nella sopravvivenza e nella rinascita, di cui il grano e il pane venivano assunti a simbolo. Nel mondo cristiano il pane, tramite l’ostia, diventa il corpo stesso del Cristo, ma la grande varietà di pani rituali, conservati nelle pratiche magico-religiose, risponde alle stesse fondamentali esigenze di simbolizzazione. La finalità dei pani rituali è la protezione che si attribuisce loro nelle più varie situazioni. È il mondo rurale a mantenere vive tali usanze e tali credenze. In questa logica, i pani di Sant’Antonio al di là della finalità conviviale festiva hanno il fine di proteggere uomini ed animali, cose e case. I cosiddetti “pani di Sant’Antonio” si facevano un po’ in tutta Italia con una grande varietà a seconda delle regioni, e venivano distribuiti durante la ricorrenza in concomitanza spesso con la altrettanto famosa benedizione degli animali, come ad Assisi ed a Labico. I paragrafi seguenti tratti da un articolo di Angelo Peretti27 illustrano bene la stretta connessione tra il sacro ed il cibo che era una caratteristica della nostra gente. “El chisöl per i pòri morti Indagando su un’antica usanza rituale fra la pianura mantovana, la provincia bresciana e l’Alto Garda veronese. Domandate ai vecchi di Brenzone che cosa sia il chisöl. Vi risponderanno che era una questua. La facevano da ragazzini, in novembre, andando a elemosinar castagne di casa in casa. Provate a far la stessa domanda a qualche anziano di Cassone, in terra malcesinese, poco più a nord. Vi dirà che il chisöl era un pane piccolo d’una volta e che ora non s’usa più. Andate a chieder notizie nel Mantovano. Là, il chisöl - o la chisöla, al femminile - è una schiacciata, resa ricca coi ciccioli di maiale, oppure con la cipolla o con l’uva passa. Spostatevi nel Bresciano. Vi faranno assaggiare il loro chisöl, che è una focaccia dolce, zuccherata. Qualcuno vi racconterà anche un proverbio: ‘Per Sant’Antóne chisöler, chi no fa la turta ghè burla zó ‘l solér’. Si riferisce a una ritualità legata alla festa di Sant’Antonio abate, il 17 di gennaio. Dice Attilio Mazza: ‘Era tradizione nella Bassa bresciana che, per il giorno di Sant’Antonio, le massaie preparassero èl chisöl, una focaccia. L’antica consuetudine assunse significato propiziatorio affinché non crollasse il solaio carico di neve’. Ma forse non è proprio così. Almeno non del tutto. E tra il chisöl brensonàl, quello casonér, quello mantovano e quello bresciano potrebbe esserci un legame molto stretto, anche se a prima vista non parrebbe. [...] Il chisöl era dunque il rito con cui i ragazzini di Brenzone andavano 27 Peretti A. Articolo pubblicato nella rivista “Il Baldo”. Centro Turistico Giovanile,
Caprino Veronese.
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di casa in casa a domandare il pane dei morti. Così come altrove il chisöl era pane davvero. Pane rituale, da portare in tavola per le ricorrenze dei defunti. Era pane vero e proprio quello di Cassone. È pane arricchito di carne o verdure quello mantovano. È pane addolcito quello bresciano. Si dirà: ma il proverbio di Brescia smentisce questa tesi. Il chisöl lo si preparava per la festa di Sant’Antonio Abate. Che c’entra lui coi riti dei defunti? C’entra. Molte festività cristiane hanno sostituito, sovrapponendovisi, antichi riti pagani. Il Natale in primis. Pensateci: nei Vangeli non si trova traccia della data di nascita di Cristo. Ed è comunque improbabile, dicono gli storici, che si trattasse della fine di dicembre. Ma a Roma l’imperatore Aureliano aveva fissato al 25 dicembre la festa del Sole invitto, celebrato con le corse dei carri, raffigurazione del carro solare. I primi cristiani hanno dunque sovrapposto al sole dei pagani quello della luce di Cristo: ‘Tu sole vivo per me sei Signore, vita e calore diffondi nel cuor’ si canta ancora oggi nelle chiese. Anche la festività di Sant’Antonio abate è una sovrapposizione d’un culto pagano: quello di Lug, dio celtico della morte e della resurrezione. Il simbolo di Lug era il cinghiale, e Sant’Antonio è sempre raffigurato con un maialino al fianco. La stessa campanella di Sant’Antonio è simbolo della morte e della resurrezione. ‘Come è avvenuto spesso nel cristianesimo primitivo, i Celti convertiti hanno trasferito probabilmente gli attributi di Lug su Sant’Antonio’ osserva Alfredo Cattabiani. Le stesse reliquie di Sant’Antonio sono giunte dalla terra dei Celti, la Francia. Ancora il chisöl come pane dei morti, dunque. Anche nella tradizione bresciana. In forma diversa rispetto a Brenzone. Ma con lo stesso nome. Il che spinge a pensare che il chisöl sia il rito in sé, e non tanto ciò in cui si materializza. Rito comunque alimentare. Rito del pane dei morti: castagne o pani schiacciati che fossero. Ed a Brenzone se ne trovano gli indizi più autentici. Perché proprio a Brenzone? Perché il suo lungo isolamento ha permesso di conservare traccia di usanze arcaiche, altrove dissoltesi. Giudicato ‘domicilio aspro e orribile’, Brenzone è rimasto praticamente privo di strade sino alla fine degli anni Venti. Simili condizioni potrebbero aver consentito che lì e solo lì sopravvivessero tradizioni alimentari vetuste, non contaminate da altri usi alimentari o dalla cucina borghese ottocentesca…Resta da soddisfare, credo, una curiosità: come si fa il chisöl in uso fra i Bresciani e i Mantovani. Gino Brunetti dice che il chisöl mantovano ‘era fatto con farina bianca, acqua, sale ed un poco di bicarbonato’: il tutto veniva impastato e poi cotto col testo, ossia una teglia particolare per le torte o anche, più anticamente, un semplice disco di pietra o di terracotta per cuocerci, schiacciato, il pane ‘sulla madre del fuoco’. ‘È fatto di farina bianca, acqua, sale e un poco di bicarbonato’ concorda Franco Marenghi: l’impasto viene messo a cuocere sotto la cenere del camino in una teglia con coperchio. Lo si mangiava in sostituzione del pane. Doveva essere
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grosso modo così anche il chisöl che si usava a Cassone. Quello che, secondo Giuseppe Trimeloni, era ‘una particolare forma di pane piccoletta, tondeggiante e schiacciata’. Lo stesso etimo riporta alla forma schiacciata, schisà. ‘Che la chisöla incorpori l’uva fresca o secca, la cipolla o i ciccioli di maiale, poco importa: il carattere dell’impasto è sempre lo stesso’, attesta Stefano Scansani parlando della tradizione mantovana. Lievito, farina bianca, acqua, sale e sugna, ossia greppole di maiale, sono anche gl’ingredienti del chisöl bresciano citato da Camillo Pellizzari. Secondo Marino Marini fra i componenti figurano anche zucchero, uova, uvetta e scorzetta di limone. E Marcello Zane dice che sul Garda lombardo il tegame di cottura veniva unto con l’olio e ‘spolverato di pan trito, veniva riempito da un composto formato da uova sbattute con zucchero, cui era stata aggiunta farina bianca, ancora dell’olio di oliva, sale e poco latte’. Questo è il chisöl. Sperando non se ne perdano la tradizione e la memoria. Le tradizioni culinarie legate al maiale, come si vede, dovevano essere altrettanto ricche, se questo animale fa capolino già nella preparazione dei pani di Sant’Antonio. Del resto, a Sermoneta, la tradizionale polenta che si prepara in piazza nel giorno della festa viene condita con carne di maiale. Inoltre, non tutti sanno che la tradizionale cassoeula lombarda (ed anche in parte piemontese, Fig. 2.23) era inizialmente il cibo rituale per la festa di Sant’Antonio, prima di diventare un classico piatto invernale. La cassöeula si prepara sostanzialmente con carne di maiale (costine, cotenne, piedini, orecchio, ecc.) e verze e, se la ricetta milanese è quella classica, se ne aggiungono altre simili con qualche variante locale come quella novarese che aggiunge l’oca. Ricordiamo comunque il proverbio abruzzese che recita: “A Sant’Antonio ogni puorco è buono”. Qui di seguito facciamo un breve cenno delle tradizioni gastronomiche nella ricorrenza di Sant’Antonio, che si celebra fra il 16 e 17 gennaio. A Gardone Val Trompia nel Bresciano, i pani di Sant’Antonio venivano conservati per tutto l’anno ed erano considerati rimedi di sicuro effetto in caso di malattie del bestiame. A Varese nel corso della sagra ci sono da assaggiare i pesciolini secchi locali. A Saronno, nel Varesotto, si offre il tradizionale firon di castègn (filone di castagne cotte al forno). Nel Comasco si prepara la Resca di Sant’Antonio, piccoli biscotti di farina e mandorle col miele. Nel Cremonese si preparano varie ricette. Citiamo la torta dura fatta con farina di grano e di mais, burro ed aromi di menta; il Pane di Sant’Antonio e la Panetta, torta di farina ed uova aromatizzata all’anice. A Calvatone,
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Volongo, Ostiano, sempre nel Cremonese, vi è la distribuzione gratuita di ceci, castagne dolci locali e vin brulé. Ad Asola, nel Mantovano, si cena con salamelle, vino caldo e torta per tutti. In Emilia si prepara la Ciabatta di Sant’Antonio. È un dolce che vuole assomigliare ad un calzare con la suola composta di farina, uova, burro, zucchero, mandorle ed un po’ di cioccolato sulla parte che dovrebbe essere la tomaia. A Fermignano, la cittadina marchigiana dell’Urbinate, celebre per aver dato i natali a Donato Bramante, la festa di Sant’Antonio Abate era molto sentita. Dopo la Messa solenne si benedivano e si distribuivano i “Pani di Sant’Antonio” di varie forme e grandezze che poi venivano dati da mangiare alle bestie. In provincia di Ascoli Piceno, a Monte Urano, oltre ai pani benedetti, si distribuisce il pesce fritto. A Cossignano c’è la benedizione dei panini, mentre a Montelparo dopo le funzioni religiose si svolge la Sagra del baccalà. In Umbria i pani rituali sono ancora diffusi. A Norcia, le monache del monastero di Sant’Antonio Abate fabbricano piccole ciambelle dolci, che servono a fare delle collane da mettere al collo del fedele o dell’animale in occasione della festa del Santo. Ai boscaioli di Monteleone di Spoleto, in occasione della festa del Santo, si offre invece una pagnottella salata28. A Fara Filiorum Petri, nel Chietino, si preparano i dolci tradizionali che sono offerti insieme al vino per lu Sand’Andune. Ai gruppi maschili che avevano preparato la farchia29, si offrono anche crespelle, cauciune, serpentone e zeppolette. Le crespelle sono dolci fritti di forma allungata a base di farina di grano impastata con semi di anice e patate lesse; la pasta lievitata viene presa tra le dita e stiracchiata sino ad ottenere una sorta di torsolo che viene immerso nell’olio bollente. A cottura avvenuta, il fritto assume una forma a tronchetto. Le cauciune sono dei calzoni ottenuti con pasta dolce e ripieno di marmellata d’uva, mandorle tritate, ceci, ecc. Durante il pranzo festivo, in grandi tavolate si fa generoso consumo di insaccati di maiale, maccheroni al ragù e altro. Nell’Aquilano, a Villavallelonga, la sera del 16 gennaio comincia la festa della Panarda, termine che descrive allo stesso tempo un antico rituale di consumo collettivo del cibo ed un sontuoso banchetto. L’aspetto più spettacola28 Alimenti A. Il pane nella ritualità umbra, in C. Papa (a cura di), Il pane. Electa Editori Umbri,
Perugia, 1992. 29 Grandi fascine di legno (vedi paragrafo sulle feste).
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re della Panarda sta nella quantità delle portate (che tradizionalmente sono trenta!) e nella regola che impone di consumarle tutte quante! A tavola non possono mancare brodo di gallina e vitello, il lesso, maccheroni all’uovo con ragù di carne di pecora, la pecora alla cuttora, le fave lessate e condite, le frittelle di pasta lievitata, le ferratelle (Fig. 2.24). Tra canti e portate si giunge, a notte fonda, all’ultimo piatto: fave lesse accompagnate dalla panetta, una speciale pasta lievitata con uova. A Scanno, la gastronomia si esprime con la preparazione di lasagne con la ricotta preparate di fronte al palazzo dei maggiorenti del paese. Il cibo viene benedetto dal prete con una formula particolare che ricorda un antico canto medievale. A Collelongo, sempre in provincia dell’Aquila, si celebra la ricorrenza delle cuttore. Si tratta di pentole di rame che, poste sui camini, cuociono per tutta la notte il granoturco. All’alba, da ogni casa in cui è avvenuta la cottura, esce una ragazza che veste abiti antichi e che porta sulla testa una conca rescagnata, cioè una ciotola di rame infiocchettata con fiori e nastri, contenente i cicerocchi, ossia il granturco cotto, che va offerto in chiesa al Santo e consumato per devozione dai fedeli. In questa occasione le famiglie che hanno preparato le cuttore si premurano di porre dei recipienti pieni di granoturco per strada per offrirlo anche a pellegrini e turisti. Un altro piatto abruzzese sono i calzongiidde, un tipo di panzerotti con prosciutto, formaggio e pomodoro o anche con acciughe e ricotta che si friggono nell’olio. A Tuscania, nel Viterbese, ha luogo la Sagra della frittella al cavolfiore, che viene impastato con farina, aromatizzato con cannella ed affogato nell’olio bollente. Le frittelle, velate di zucchero (gustose anche in versione salata), vengono distribuite calde e fragranti ai numerosi forestieri. Sempre nel Viterbese, a Gallese, si svolge la degustazione di bruschette e vino. A Gallicano, in provincia di Roma, la festa è accompagnata da una lotteria gastronomica e dalla gustosissima Sagra del Ciambellone. A San Valentino in Abruzzo Citeriore, nel Pescarese, la festa si caratterizza anche per la vendita dei prodotti alimentari in una grande asta che si tiene nella piazza antistante la Chiesa Madre nota come Lu sbannimende. C’è di tutto: piatti di maccheroni con galline in umido, fritti, pizze e pizzelle, taralli, torroni, canestri di fagioli e fave e tanti altri prodotti tipici locali. Due sono le particolarità: i prodotti vengono venduti soltanto ai migliori offerenti e la somma da pagare viene annotata in un registro e riscossa solo nel mese di agosto. A Lecce dei Marsi la festa si celebra con una sagra di pasta e ceci. A Piscina c’è la distribuzione dei pani benedetti. A Cerchio si svolge la sagra dei “Granati e della porchetta”. Anche a Cappadocia, San Benedetto dei Marsi,
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Figura 2.23. Cassoeula
Figura 2.24. Le classiche ferratelle aquilane
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Luco dei Marsi, Avezzano, Civitella Roveto, Opi, Ovindoli, Pescasseroli, Rocca di Botte si fa festa il 17 gennaio. A Ovindoli, si svolge la tradizionale bollitura del mosto nella piazza del paese. A Montopoli di Sabina come a Salisiano, in provincia di Rieti, si preparano delle ottime ciambelle. In provincia di Frosinone, a Ceprano, ha luogo la sagra delle mosciarelle, che sono delle gustose castagne appassite. Ad Arpino, in piazza S. Maria di Civita vi è la tradizionale distribuzione gratuita della polenta pappone, cucinata in piazza in grandi paioli di rame, le cuttrelle, in ricordo del pasto caldo che la locale confraternita elargiva ai poveri nell’anniversario del Santo. A Villa S. Stefano si possono degustare bruschette, salsicce alla brace e vino rosso locale. Il giorno seguente si tiene l’ atteso appuntamento annuale con la Sagra della polenta. La sagra della polenta a Sermoneta in provincia di Latina è una tradizione secolare che si ripete ogni anno. La sagra, istituita storicamente nel 1622, ha una tradizione ancora più antica ed una suggestiva origine legata all’importazione dalle Americhe, agli inizi del 1500, del mais, cereale che dopo un primo periodo di diffidenza diventa, trasformato in polenta, un prodotto apprezzato. Il nuovo piatto si diffuse anche presso i pastori che vivevano sulle falde delle colline adiacenti e divenne tradizione che per il giorno della festa di Sant’Antonio Abate si offrisse a tutti polenta condita con carne di maiale per poi dare inizio al carnevale sermonetano. Oggi la sagra della polenta si celebra con il prodotto che viene cotto rigorosamente in paioli di rame su fuoco a legna, insieme con la processione con la Statua di Sant’Antonio, la benedizione dei campi e degli animali e la distribuzione dei pani benedetti. Nel Napoletano, a Somma Vesuviana, nella chiesa della Collegiata vicino alla statua del santo, durante la messa vespertina si svolge il rito della benedizione del pane che viene poi distribuito ai fedeli. In Sardegna esistono numerosi pani dei santi (tiliccas), realizzati in tutta la regione e decorati (pintados) con particolari timbri (pintaderas, marcas, imprentas); essi hanno la funzione apotropaica di proteggere le greggi ed i campi. Alcuni vengono colorati con lo zafferano (a Mamoiada), e distribuiti ai fedeli dopo la Messa, per essere impiegati come scapolari o reliquie. A Dorgali, nel Nuorese, la sera della vigilia, davanti al fuoco vengono distribuiti i pani benedetti, e si consumano cibi tipici: piatti di fave lardu (pietanza a base di fave bollite) e alcuni tipi di dolci confezionati con sapa e miele. In Ogliastra l’impasto è arricchito con noci, mandorle e spezie, il tutto coperto da cappa d’albume. Il pane è portato in chiesa come voto al Santo. Un altro dolce tipico sardo è l’aranzata, composto di arance, mandorle e miele.
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Feste30 Le feste di Sant’Antonio Abate sono numerosissime in Italia e non solo. Queste fatto può essere spiegato da almeno due circostanze: la prima è quella che la festa del Santo si identifica molto spesso con la festa del fuoco e la seconda è che moltissime città e paesi hanno proprio Sant’Antonio Abate come loro patrono. A quest’ultimo proposito sarebbe interessante verificare in che posizione si piazzerebbe il nostro in una classifica immaginaria, e abbiamo il sospetto che sarebbe uno dei santi con più patronage in assoluto. Tornando alla festa, non si può tacere il fatto, ben noto agli antropologi, che la festa del fuoco sia stata, assai verosimilmente, la prima festa celebrata dall’uomo per una serie di ragioni abbastanza evidenti (calore, protezione dalle fiere, cottura dei cibi, ecc.). Tale festa si venne a localizzare in quel periodo dell’anno che coincideva, grosso modo, con il solstizio d’inverno. Quando gli uomini si accorgevano che la lunga notte invernale era ormai finita e che il giorno cominciava ad allungarsi di nuovo, avevano tutte le sante ragioni di essere contenti e di festeggiare. Nel mondo contadino, accendere il “Fuoco di Sant’Antonio” non solo era un omaggio al Santo ma anche la maniera di purificare il terreno. Fare il fuoco e mangiare insieme hanno da sempre costituito gli elementi essenziali della festa per antonomasia, ed il simbolo dell’inizio del nuovo anno e di una nuova vita. La festa di Sant’Antonio Abate è, a questo proposito, paradigmatica: il consumo del cibo (vedi paragrafo precedente) non è mai disgiunto dalla celebrazione del fuoco31. La civiltà cristiana si è appropriata di queste più antiche tradizioni e le ha adattate. Con poche variazioni quindi, la “festa” per eccellenza si situa appena dopo il solstizio d’inverno e prende vari nomi a secondo delle tradizioni locali. Il calendario liturgico fissa la ricorrenza del nostro Sant’Antonio il giorno 17 gennaio. La festa comincia quindi quasi sempre alla vigilia con un grande falò, ricordo di fuochi ancestrali e magici. In Italia, il culto di sant’Antonio è antichissimo e sembra che sia attestato nel Bormiese (provincia di Sondrio) addirittura il 16 luglio del 1082. In un verbale del Comune di Bormio del 1356 vi è una delibera che ordina di provvedere ad acquistare un terreno nella contrada di Combo su cui costruire una chiesa in onore di Sant’Antonio Abate e di S. Agostino. In onore del santo il Consiglio, ogni anno a partire dal 1563, stabilì che il ricavato della vendita delle carni del porco del Comune fosse destinato agli emissari del convento di Sant’Antonio di Vianna (italianizzazione di Vienne, cittadina del Delfinato vicino alla quale si trovava la sede principale dell’ordine). 30 Le informazioni qui riportate sono state ottenute da varia letteratura, ma soprattutto da
moltissimi siti web di vario orientamento (associazioni, confraternite, comuni, ecc.) che non posso riportare individualmente per mancanza di spazio. Ringrazio comunque tutti quanti, anche se anonimi, per la loro involontaria ma preziosa collaborazione. 31 Oltre a ciò va ricordato che, vicino a Napoli, esiste la cittadina di Sant’Antonio Abate.
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Qui di seguito facciamo un breve cenno alle feste tradizionali nella ricorrenza di Sant’Antonio, fra il 16 e 17 gennaio. Oltre alla già citata Polcenigo, in provincia di Pordenone, dove alla vigilia si dà fuoco al classico “Pan e Vin” e si celebra la benedizione degli animali (che fa convenire in questa località numerosi visitatori in compagnia dei loro animali domestici), ricordiamo che a Saronno, in provincia di Varese, presso la chiesetta di Sant’Antonio abate (Sant’ Antoni del porcèll), un tempo Lazzaretto durante il periodo della peste, ha luogo annualmente la festa in onore del santo. Quando Saronno era un paese esclusivamente agricolo si usava benedire il bestiame, oggi avviene anche la benedizione delle automobili e dei camion. Dell’antica tradizione che voleva l’accensione del falò è rimasto il firon di castègn (vedi paragrafo sulla gastronomia) e il battere a martello delle campane della chiesa. A Varese, così come a Milano (Fig. 2.25), si celebra anche oggi la festa degli animali che, una volta, si teneva pressoché dovunque (Fig. 2.26). La sera della vigilia, in tutta la Lombardia, come in tutto il resto d’Italia, si accendono molti falò, tra cui quello, molto bello, di Vimercate (Fig. 2.27). A Rho, nel Milanese, si svolge un originale incontro fra le tradizioni lombarde, abruzzesi e molisane accomunate da una venerazione verso Sant’Antonio Abate, ancora viva ed attuale nelle tre regioni. Oltre al falò, l’associazione “La Maiella” organizza un grande incontro conviviale a base di prodotti tipici abruzzesi e molisani, al quale partecipano centinaia di persone.
Figura 2.25.
Figura 2.26.
La benedizione degli animali all’Ippodromo di Milano nel giorno di Sant’Antonio Abate
La benedizione dei cavalli a Torino nel secolo scorso. Collezione privata
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Figura 2.27. Falò acceso nella notte della vigilia a Vimercate
Una brigata dei “Santantoniari” ripropone quindi “le tentazioni di Sant’Antonio” così come si svolgono nella tradizione abruzzese con canti, filastrocche e recitazioni accompagnati dalla musica del caratteristico ddu botte, il tipico organetto diatonico molto in uso nelle regioni centro-meridionali. In provincia di Cremona, una provincia ancora oggi molto legata al mondo contadino, le feste per la ricorrenza del Santo sono molte: ricordiamo i falò e la benedizione degli animali di Calvatone, di Ostiano e di Volongo. Ad Asola, nel Mantovano, alla sera della vigilia viene bruciato un albero di 20 metri con in cima un pupazzo impagliato con sembianze di vecchia. Intorno al fuoco si cena con salamelle, vino caldo e torta. Vicino ad Imperia, a Borgomaro si festeggia il Santo nella sua data. In Emilia Romagna la tradizione cristiana mostra evidenti contaminazioni di natura pagana visibili nelle varie feste popolari dedicate al Santo, durante le quali si è soliti far benedire gli animali per scongiurare il rischio di malattie e epidemie. Tra le altre usanze ricordiamo poi la rituale distribuzione di alcuni panini, detti pani di Sant’Antonio, che vengono regalati alla popolazione in occasione di particolari ricorrenze e la famosa lotteria del porcello. Anche a Loreto, in provincia di Ancona, si svolge la benedizione degli animali e la distribuzione del “pane di Sant’Antonio”. In provincia di Ascoli Piceno, a Monte Urano, si celebra la Festa con una processione, la benedizione dei pani e degli animali. A Montottone si cele-
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bra la sagra dei pupi di massa (pupazzi di pane venduti in piazza la mattina dalle donne del paese), mentre a Lapedona c’è una rappresentazione teatrale. A Affida, si celebra Sant’Antonio de la vutte che è la festa in un giorno di non festa. In provincia di Pesaro-Urbino si fa festa a Urbania e a Mercatello sul Metauro dove avviene la benedizione degli animali, delle biade e del “pane di Sant’Antonio”. In Umbria, a Cascia, gli animali da cortile e domestici vengono addobbati a festa, e poi benedetti dal parroco. Alla fine gli animali sfilano in corteo. A Fara Filiorum Petri, nel Chietino, si svolge la cosiddetta Festa delle Farchie, enormi fasci di canne che vengono incendiate sul sagrato della chiesa dedicata al Santo, in un clima di contemplazione ed euforia generale. Sembra che la giustificazione più “moderna”, che pur pare riduttiva, di questa celebrazione risalga al 1799, quando le milizie francesi tentarono di conquistare il paese e gli abitanti incendiarono il bosco circostante per scongiurare l’assalto. Alcuni giorni prima del 17 gennaio, il comitato festivo usa far cuocere da alcuni fornai circa 400/500 rosette di pane che vengono benedette durante la messa solenne e poi distribuite a tutte le famiglie di Fara. Si usa mangiare questo pane per devozione mentre una parte viene smollicata nelle prebende destinate agli animali. Nell’Aquilano, a Villavallelonga, mentre nelle piazze del paese ardono enormi falò di legna, gruppi di cantori prendono a girare le strade e a visitare le case dove il loro arrivo è atteso e ben accetto e le loro esecuzioni sono ricompensate con cibo e denaro. Il giorno di Sant’Antonio i festeggiamenti proseguono con la processione, la benedizione degli animali e con l’apertura del Carnevale, che nel paese è caratterizzato da due tipi contrapposti di maschere tradizionali: i brutti e i belli. I brutti indossano abiti scuri, ricoperti di campanacci e i belli sono vestiti di bianco e portano cappelli ornati di fiori e nastri. A sera suona la banda e esplodono i coloratissimi fuochi artificiali. A Collelongo un quadro del Santo, esposto insieme ad arance, frutta secca e uova, attende l’arrivo della fiaccolata che accompagna il sacerdote che viene a benedire le cuttore (vedi paragrafo sulla gastronomia) prima che inizi la bollitura. Tutti i presenti si alternano nel compito di rigirare il granoturco, in quanto si ritiene che questa operazione porti prosperità e benessere. Agli ospiti si offrono vino e dolci e con loro si trascorre la notte rimestando il cibo e pregando. Compagnie di zampognari e di altri strumenti popolari, che vengono dalla vicina Valle del Liri, cantano vita e miracoli di Sant’Antonio, mentre davanti alla chiesa i giovani accendono un grande falò. All’alba, da ogni casa in cui è avvenuta la cottura, esce una ragazza che veste abiti antichi e che porta sulla testa una conca rescagnata (vedi paragrafo sulla gastrono-
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mia) che viene offerta in chiesa al Santo e consumata dai fedeli. In questa occasione le famiglie si premurano di porre dei recipienti pieni di granoturco per strada per offrirlo anche a pellegrini e turisti. Da qualche anno queste ragazze hanno dato vita ad una gara, in cui viene premiata la conca decorata con maggior cura ed originalità. A Scanno, si celebra una festa dedicata al santo, qui curiosamente chiamato Sant’Antonio Barone. La leggenda risale molto probabilmente ai primi anni del Trecento e si ritrova in molti componimenti di poeti di occasione ed anche nelle orazioni recitate dalle compagnie di questua che attraversavano e attraversano tuttora l’Abruzzo nel giorno della festa del Santo (vedi paragrafo sulla musica). Dopo la messa celebrata nella chiesa di Sant’Antonio Abate, il cibo viene benedetto con una formula particolare che ricorda un canto medievale e poi viene distribuito. Si apre con questa singolare e suggestiva cerimonia il Carnevale, che un tempo era annunciato a suon di tromba da un corriere che cavalcava un asinello e veniva seguito da maschere tradizionali. La festa di Sant’Antonio Abate si celebra anche a Pescasseroli, sempre nell’Aquilano. In Abruzzo, e soprattutto in provincia di Teramo, in molte località tra cui Tossicia ed Atri, si accendono cataste di legna sul sagrato delle chiese. All’alba, estinto il fuoco, tutti tornano a casa e si portano tizzoni residui o un po’ della cenere rimasta come buon augurio. Legata alla festa è la tradizione dei canti di questua che prevedono una preparazione paricolarmente accurata. Nel Viterbese, a Tuscania, oltre alla sagra della frittella al cavolfiore si svolge la tradizionale benedizione degli animali e la sfilata di butteri a cavallo. A Gallese, nel giorno della ricorrenza di Sant’Antonio, ha luogo la festa degli agricoltori. Dopo la benedizione degli animali ed il corteo storico, ci si riunisce per una degustazione di bruschette e vino intorno al falò. Questa tipica festa rionale si svolge davanti alla piccola chiesa di Sant’Antonio Abate. Dopo il rito della benedizione di persone, animali e mezzi, si raggiunge in processione la basilica di San Famiano dove viene celebrata la Santa Messa. A Sutri, i festeggiamenti si aprono con una sfilata delle Cavallerie di Sant’Antonio: la Antica, fondata nell’800 e la Nuova, che risale al dopoguerra. Gli stendardi delle due Società passano dal vecchio al nuovo “festaiolo” che, per otto giorni, concede libero accesso alla propria casa a quanti vogliano ammirare i simboli di una antica tradizione e offre prodotti tipici e vino. Si festeggia anche nei paesi di Canino, Marta e Monterosi. In provincia di Frosinone molti paesi come Ceprano, Arpino e Villa S. Stefano sono in festa il 17 gennaio. A Villa S. Stefano, oltre alla benedizione
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degli animali e alla distribuzione di cibo e vino, quando il falò è totalmente consumato ognuno dei presenti può prelevare un pezzo di tizzone benedetto da far ardere nel proprio camino. Infine, a Trevi si tiene una fiera variegata in onore del Santo. A Montopoli di Sabina, in provincia di Rieti, oltre alla tradizionale benedizione degli animali, la festa riempie le strade e le piazze di quadri delicati fatti con petali di fiori. Anche a Rieti e provincia si festeggia la ricorrenza di Sant’Antonio Abate e con l’immancabile benedizione degli animali si dà inizio al Carnevale. A Borbona, Colli sul Velino, Magliano Sabina, Montenero, Posta, Amatrice, Selci, Stimigliano e Salisiano si benedicono gli animali e gli attrezzi agricoli. Nella provincia di Roma sono molte le celebrazioni della festa del Santo. A Monterotondo, un corteo preleva la statua dorata del Santo dall’abitazione che lo ha custodito per tutto l’anno e la riporta nel Duomo, dove viene celebrata una funzione. Al termine, ha luogo la benedizione degli animali in piazza e poi si dà inizio alla tradizionale cavalcata: il Santo, portato a cavallo dal Signore uscente, fa il giro delle chiese seguito da cavalieri con gli animali bardati a festa. A sera, dopo l’ultima funzione religiosa, il Santo viene affidato ad un nuovo Signore e salutato da un festoso spettacolo pirotecnico. A Vicovaro, si celebra la festa con una processione in cui l’immagine del santo viene portata per le vie del paese; al termine, una famiglia a turno ospita la statua del santo ed offre un rinfresco ai cittadini. A Gallicano, la festa si raddoppia con la festa patronale in cui una lotteria gastronomica, accompagnata da musica e danze, da una pittoresca cavalcata con bandiere e da fuochi d’artificio, si conclude con la Sagra del Ciambellone. A Riano, insieme ai fuochi ed ai banchetti, si impartisce la benedizione agli animali. A Ciciliano, invece, i festeggiamenti includono i giochi della tradizione popolare: la pignatta, i maccheroni col peperoncino e la moneta sul fondo della padella. La sfilata festosa di Montecompatri viene chiusa dal famoso carretto con cui, anticamente, si portava il vino a Roma. A Palestrina come a Tolfa, si tiene la sfilata e la benedizione di cavalli e buoi infiocchettati in onore del Santo. A Velletri si svolge la festa medioevale dell’università dei carrettieri e mulattieri. In questa occasione, un corteo a cavallo compie un giro di questua e mette all’asta lo stendardo di Sant’Antonio. Chi offre di più ha il privilegio di conservarlo fino all’anno seguente. Da ricordare inoltre le celebrazioni ad Ariccia con il palio dei somari, a Frascati, a Colonna ed in fine ad Artena con il Carnevale. La Farchia si celebra anche a Serramonacesca nel Pescarese. La preparazione dell’enorme fascina formata da canne che i giovani raccolgono una settimana prima della festa diventa un momento di aggregazione per la cittadinanza. La componente cristiana della celebrazione viene evidenziata dalle sacre
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rappresentazioni con cui si raffigureranno gli episodi delle tentazioni demoniache di cui il Patrono fu oggetto. In provincia di Isernia, ad Acquaviva d’Isernia, a Capracotta, a Castel del Giudice, a Forli del Sannio, a Frosolone e a Pettoranello, si preparano fuochi sacri, processioni e aste di animali e di latticini raccolti durante la questua. Nella provincia di Campobasso, la Festa di Sant’Antonio si celebra a Colletorto e a Larino, dove vengono eretti enormi falò (la cosiddetta focata d’inverno), attorno ai quali si cantano stornelli popolareschi e si balla. A Petacciato, invece, viene allestita una sacra rappresentazione con le tentazioni di S. Antonio. A Ripabottoni il culto di Sant’Antonio Abate è ancora vivo, a tal punto che, una volta, la sera del 16 gennaio era importante come la vigilia di Natale. Sin dal primo giorno della novena i contadini, tornando dalle campagne, lasciavano una o due ceppi con cui poi i mastri di festa edificavano il grande falò a forma di barcone. In questi nove giorni tutti dovevano, almeno per un giorno, mangiare carne cruda e tenere il fuoco spento nel camino. La chiusura del barcone veniva annunciata con il tamburo che faceva il giro del paese. L’albero del barcone era alto quanto il prospetto della chiesa e la bandiera che lo sormontava raggiungeva la sommità della croce che stava sulla chiesa. In cima all’albero del barcone si mettevano delle spighe legate a palma e un gigantesco tralcio di vite. Fissata alla bandiera, un’immagine del Santo che sarebbe bruciata con la legna, benedicendola. Nel tardo pomeriggio, subito dopo i vespri solenni, le donne aspettavano che arrivassero i tzii sulla treggia - a’ tragli(e)32 tirata dai buoi e portati in trionfo dai ragazzi, dai giovani e dagli adulti. Sulla treggia svettava una croce carica di melegranate che simboleggiavano la fertilità e vi si trovava anche il mastro di festa che, coadiuvato dai tzii, dava gli ultimi ritocchi al barcone, sotto gli occhi delle donne festanti per il ritorno degli uomini in paese. Usciva quindi la processione che girava per il paese. Al suo rientro, l’immagine del santo presenziava all’accensione del barcone di legna che avveniva dopo la benedizione del parroco. Era di rito preparare pentoloni di polenta condita con ragù di carne di maiale e salsiccia, carne di maiale arrostita e abbondante vino d’annata. Il falò che ardeva a viva fiamma veniva ammirato da buona parte del popolo che passava la notte mangiando frittelle, chiacchierando, scherzando e cantando. A Napoli, c’è la “festa d’o cippo di Sant’Antonio” che è appunto incentrata sui fuochi (cippi) ai quali partecipano tutte le famiglie che fanno scendere dalle finestre le robe dismesse tramite i cestelli legati alla corda, mentre di sotto i ragazzi incitano al grido di “menate, menate”. Intanto, nel quartiere
32 Specie di carri che portano i covoni di grano. Questa festa è celebrata soprattutto a Jelsi, sempre
in provincia di Campobasso, ma in occasione della festa di Sant’Anna.
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intitolato al Santo, intorno a Piazza Carlo III, le vie si animano dei venditori ambulanti di soffritto, un composto di frattaglie, cotte in salsa di pomodoro, che si può mangiare insieme agli spaghetti oppure da solo, versato sui pane abbrustolito; ricorda un po’ la pajata romana33. Nel Napoletano, a Somma Vesuviana oltre al rito della benedizione del pane, nella festa vi è l’accensione dei fucarazzi è Sant’Antuono, i falò di Sant’Antonio. Un tempo vi era anche il rito pomeridiano della benedizione e della processione degli animali, addobbati con ghirlande di fiori e collane di frutta, che però si è perso col passare del tempo. Anche a San Marco Argentano, a Roggiano Gravina in provincia di Cosenza e a Gerace, un’antica cittadina ricca di tradizione e cultura in provincia di Reggio Calabria, si svolgono le celebrazioni liturgiche per la ricorrenza della festa di Sant’Antonio, il cui culto è diffuso in tutta la Calabria. In particolare a Roggiano Gravina la statua del Santo ha ai suoi piedi un maialino perché la tradizione del luogo vuole che il venerato abate fosse figlio di un massaio che allevava animali e in particolare maialini. I Roggianesi tutti gli anni si recavano a Mottafollone, presso la Cappella rurale dedicata a S. Antonio Abate, per partecipare alla festa, ma a causa della rivalità tra i due paesi che si contendevano il privilegio di portare a spalla la statua del Santo in occasione della processione, scoppiarono, un anno, dei veri e propri tumulti. Per questo, in seguito a tale episodio, i Roggianesi comprarono una statua del Santo e organizzarono da soli la festa. Nel Potentino, è famosa la festa di Sant’Antonio che si celebra a Pignola all’insegna del fuoco e degli animali. Alla vigilia, nel piazzale antistante la Chiesa, viene accesa la caratteristica fanòja alimentata da legna raccolta grazie alle questue mentre nel giorno della festa, nella piazza centrale, si rinnova una sfida di antica tradizione fra i mulattieri. Si festeggia anche a Campomaggiore. A Grottole, paese in provincia di Matera, la chiesa del Santuario di Sant’Antonio Abate apre ai fedeli nel giorno della ricorrenza del santo. Durante la salita al Santuario i fedeli pregano e cantano nel ricordare le numerose leggende legate a questo luogo e al santo “Antuono”. Uno dei falò più impressionanti è sicuramente quello che si celebra a Novoli nel Leccese e che è detto la Focara. La gente comincia a raccogliere la legna per la focara già dai primi giorni di dicembre. La legna viene dapprima accatastata lungo la via e la piazza dedicate al Santo, e dal primo giorno della
33 Capuozzo T, Neri M. Feste e sagre dei paesi Italiani. Mondadori, Milano, 1985.
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novena si procede alla fabbricazione della “focaia” che andrà terminata entro mezzogiorno della vigilia della festa. Questo falò, per essere degno, deve raggiungere almeno l’altezza della Chiesa. In cima viene posta una bandiera tricolore con l’immagine di Sant’Antonio. Dopo l’accensione del rogo, si svolge una processione per le vie della città con la statua del Santo, e i festeggiamenti durano fino all’estinzione del fuoco. Sempre nel Leccese si festeggia anche a Racale. In Sicilia, la festa di Sant’Antonio Abate è sempre stata molto sentita. Essa si celebra, ad esempio, ad Aci Sant’Antonio, a Misterbianco ed a Camporotondo Etneo nel Catanese. In Sardegna numerosissimi paesi come, Mamoiada e Dorgali, celebrano la festa con falò notturni. A Orosei, la manifestazione si tiene nel grande recinto di cunbessias antistante l’antico Santuario dedicato al Santo patrono. Qui, in cima alla catasta di rosmarino e lentischio viene collocata una croce con delle arance che i bambini cercano di raccogliere prima dell’accensione del falò. A Lodè si premia chi riesce a salire sulla catasta di legno infiammata e a toccare per primo un porchetto appeso in cima ad un pilone. In palio vengono messe le offerte fatte al Santo. In alcuni paesi l’evento coincide con l’inizio del Carnevale ed infatti a Mamoiada i Mamuthones (le tradizionali maschere carnevalesche sarde) effettuano la loro prima uscita annuale. A Ottana, invece, le maschere sono Boes e Merdules. In provincia di Sassari, a Ossi e Florinas si celebra la festa con una tradizionale sagra paesana. A Torralba la festa si svolge presso l’omonimo Santuario edificato come ex voto per l’aiuto divino nel superare una grave pestilenza. L’interno custodisce dipinti seicenteschi, raffiguranti tutte le tentazioni di Sant’Antonio Abate. A Torpè, nel Nuorese, l’attrazione non è costituita dal fuoco che conclude la festa, ma dalla mole e dal numero di carichi di frasche, simili a imponenti imbarcazioni, che le compagnie portano in paese per alimentare il falò. A Sassari la festa di Sant’Antonio Abate è conosciuta come Santu Antoni de Su Fogu. La cerimonia culmina con la benedizione del fuoco. Dei grandissimi falò vengono accesi nel tardo pomeriggio e fatti ardere fino alla mattina del giorno dopo. Anche a Oristano la festa si celebra coi falò.
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Capitolo 3
Medicina
Introduzione Le malattie, quale più quale meno, sono tutte per lo meno fastidiose, ma alcune sono dolorose o molto dolorose. Per secoli la malattia è stata interpretata come una punizione degli dei per una colpa commessa nei loro confronti1. Anche con il cristianesimo questa filosofia trova un accomodamento e si instaura quindi un meccanismo per cui colui che soffre cerca di trovare un peccato da espiare e, nel frattempo, cerca di trovare una scorciatoia nei confronti dell’Onnipotente. I santi sono allora le figure che meglio possono fare da tramite tra l’uomo e la divinità e, come nel Pantheon pagano, si cristallizzano delle facoltà soprannaturali per ogni evenienza. In mancanza di medicine efficaci la gente si rivolgeva (e molti ancora lo fanno!) al suo santo preferito o, meglio ancora, al santo “specializzato” per quella bisogna. Si identificano progressivamente i santi cui chiedere la guarigione di quella malattia particolare a tal punto che alcune malattie (ad esempio il fuoco di Sant’Antonio, il ballo di San Vito, ecc.) oppure alcuni rimedi classici della fitoterapia (l’erba di San Giovanni) vengono denominate col nome di santi. Ma Sant’Antonio è il grande taumaturgo, il guaritore per eccellenza, colui che bisogna invocare quando la malattia è molto grave oppure quando il dolore è insopportabile ed urente. Per tale motivo, dal Medio Evo in poi almeno, Sant’Antonio è invocato per calmare e guarire tutti i dolori che “bruciano” la carne e le viscere. La malattia in cui eccelle la potenzialità guaritrice di Sant’Antonio viene anche chia-
1 C’è almeno una clamorosa eccezione: quella riportata nella storia di Giobbe. Nel racconto
veterotestamentario Giobbe è punito da Dio senza colpa. Un Dio crudele ed un po’ sadico gli infligge un sacco di tormenti senza un chiaro motivo. Ma Giobbe mostra un “aplomb” stupefacente ed alla fine Dio si decide a lasciarlo finalmente in pace.
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mata “fuoco sacro” ad imitazione del vecchio e classico termine latino2 e, analogamente, in Francia per esempio “le mal des ardents”3 (letteralmente “il male di coloro che ardono”). Quali e quante furono queste malattie non lo sapremo mai con precisione. In tanti secoli molte cose sono cambiate e molti termini sono stati usati in un contesto che è difficile tradurre. Tutte le malattie con dolore intenso, soprattutto se accompagnate da eritema vivo (la estrinsecazione visiva del fuoco che brucia la carne) sono state probabilmente chiamate con l’eponimo di fuoco di Sant’Antonio. La nosografia degli innumerevoli mali che affliggono l’umanità come la concepiamo noi è un fenomeno del tutto contemporaneo ed ancora “in itinere”. Nondimeno vi è chi, come Henry Chaumartin4, ha cercato di dipanare la matassa che si era ingarbugliata negli ultimi secoli e di fare un po’ di luce sui significati medici che in vari tempi e in vari luoghi il termine di “fuoco di Sant’Antonio” ha rivestito. La ricerca nella medicina classica, greca e latina, è particolarmente difficile sia per il lasso temporale sia per la scarsità dei testi che, in molti casi, ci arrivano in versioni non originali. Inoltre, prima del Medio Evo ed in ogni caso prima del culto ufficiale dei santi, non possiamo certo aspettarci di ritrovare una malattia chiamata col nome di un santo. Le ricerche dell’origine del “fuoco di Sant’Antonio” devono quindi cominciare con nomi diversi. La parola “herpes” si ritrova nella letteratura medica da almeno duemila e cinquecento anni ma, in questo lungo periodo, essa ha avuto numerosissimi significati che sono cambiati nello scorrere del tempo5. Nell’800, il grande Hebra, che voleva tracciare una storia dell’herpes, si era “trovato davanti a difficoltà quasi insormontabili”. In greco, la parola ερπης deriva dal verbo ερπειν che vuol dire strisciare ed era generalmente usata per indicare lesioni cutanee espansive e di solito ulcerative come i tumori cutanei, il lupus vulgaris (TBC cutanea ulcerativa), il noma, l’erisipela, la tigna, l’eczema ed altre ancora, come forse il vaiolo. La medicina greca parla spesso di un ερπης εσϑιομενος6 anche se non abbiamo indizi sicuri per identificare la malattia, che però sembra essere più che temibile dato che il significato letterale è quello di “herpes ostile all’uomo”. Secondo Beswick, l’herpes era una malattia grave e il termine indicava 2 In effetti il termine di fuoco sacro non è un’invenzione medioevale ma si rifà direttamente al
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termine di “ignis sacer” che nell’antichità descriveva svariate malattie senza relazione alcuna. Accanto a questo nome troviamo anche i latini: “ignis ardens”, “ignis judicialis”, “ignis faetens”, “ignis talificus”, “pestis igniaria” e i francesi “feu sacré”, “feu Dieu” e “feu d’enfer” senza dimenticare il tedesco “heilige Feuer”. Abbiamo delle notizie di epidemie di questa malattia in Francia probabilmente già nel 912. Nel 945 un terzo della popolazione parigina è sterminata da un “feu” e nel 994 una malattia chiamata “Mal des ardents” fa quarantamila morti in Aquitania. La malattia colpisce ancora 17 volte nel corso del XII secolo. Chaumartin H. Le mal des ardents et le feu de Saint Antoine. Les Presses de l’Imprimerie Ternet-Martin, Vienne, Grenoble, 1946. Beswick TSL. The origin and the use of the word herpes. Medical History, 1962, VI:214-232. gr. herpes estiómenos.
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probabilmente un tipo di lesione, più che non una singola patologia. Tra le tante malattie è abbastanza chiaro che i greci, dopo Ippocrate, chiamano lo zoster (il nostro fuoco di Sant’Antonio) col nome di herpes (Fig. 3.1). Scribonio Largo scrive: “... zonam quam Graeci ερπητα dicunt” nello stesso periodo in cui Plinio il Vecchio ci dà una buona descrizione dell’herpes zoster (che chiama appunto “zoster”, che è un sinonimo greco di zona). È quindi logico pensare che essi si riferiscano alla stessa malattia. Quasi due secoli prima, Emilio Macro7 cita due volte l’herpes e, anche se non è ben chiaro che cosa egli intenda, fa capire che l’herpes e l’“ignis sacer” sono due malattie diverse anche se forse collegate. La medicina romana, che parla anche di “ignis sacer”8 (lat.: fuoco sacro), è talora più dettagliata e ci permette ipotesi più credibili. Così Columella9 nel
7 “hac fugit apposita sacer ignis, et herpeta mordax” ed anche
“illius succum, mirando conficia unguem ad depellendum sacrum quem dicimus ignem et scabiem dertae, quae dicitur herpeta Graecae et Graeci doctas acoras hoc unguine purgas ulcera sunt capitis humore fluentia pingui curat et ozoenas, immissum naribus...” Le frasi di Emilio Macro sono importanti perché il passo di Celso in cui parla dell’“ignis sacer” è stato spesso riferito all’herpes zoster. In questo passo vi è una certa contraddizione perché una frase (“fit maxime in pectore, aut lateribus”) può suggerire lo zoster, ma un’altra (“precipueque in plantis”) proprio no. 8 Nel dizionario latino di Franz Blatt: “ignis, -is [abl. et igni et igne traditur] I de elemento A spectat ad homines qui comburunt, coquunt, incendunt 1 proprie a sg. b pl. 2 in imagine 178, 11 B spectat ad naturam II metonymice de morbo qui ignis sacer dicitur i.q. ardor, æstus III translate de amore, libidine”. 9 Iunius Moderatus Columella. De Re Rustica Libri XII. Libro VII, cap. V. Il paragrafo completo recita così: “Celso placet, si est in pulmonibus vitium, acris aceti tantum dare, quantum ovis sustinere possit, vel humanae veteris urinae tepefactae trium heminarum instar per sinistram narem corniculo infundere atque axungiae sextantem faucibus inserere. Est etiam insanabilis sacer ignis, quam pusulam vocant pastores. Ea nisi conpescitur intra primam pecudem, quae tali malo correpta est, universum gregem contagione prosternit, si quidem nec medicamentorum nec ferri remedia patitur, nam paene ad omnem tactum excandescit. Sola tamen fomenta non aspernatur lactis caprini, quod infusum tactu suo velut eblanditur igneam saevitiam, differens magis occidionem gregis quam prohibens. Sed Aegyptiae gentis auctor memorabilis Bolus Mendesius, cuius commenta, quae appellantur Graece cheirokmeta, sub nomine Democriti falso produntur, censet propter hanc pestem saepius ac diligenter ovium terga perspicere, ut si forte sit in aliqua tale vitium deprehensum, confestim scrobem defodiamus in limine stabuli et vivam pecudem, quae fuerit pusulosa, resupinam obruamus patiamurque super obrutam meare totum gregem, quod eo facto morbus propulsetur. Bilis, aestivo tempore non minima pernicies, potione depellitur humanae veteris urinae, quae ipsa remedio est etiam pecori arquato. At si molesta pituita est, cunelae bubulae vel surculi nepetae silvestris lana involuti naribus inseruntur versanturque, donec sternuat ovis. Fracta pecudum non aliter quam hominum crura sanantur involuta lanis oleo atque vino insucatis et mox circumdatis ferulis conligata” e, subito dopo, “Est etiam mentigo, quam pastores ostiginem vocant, mortifera lactentibus. Ea plerumque fit, si per inprudentiam pastoris emissi agni vel etiam haedi roscidas herbas depaverunt, quod minime committi oportet. Sed cum id factum est, velut ignis sacer os atque labra foedis ulceribus obsidet. Remedio sunt hyssopum et sal aequis ponderibus contrita; nam ea mixtura palatum atque lingua totumque os perfricatur. Mox ulcera lavantur aceto et tunc pice liquida cum adipe suilla perlinuntur. Quibusdam placet rubiginis aeneae tertiam partem duabus veteris axungiae portionibus commiscere tepefactoque uti medicamine. Non nulli folia cupressi trita miscent aquae et ita perluunt ulcera atque palatum. Castrationis autem ratio iam tradita est, neque enim alia in agnis quam in maiore quadripede servatur”.
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suo trattato sull’agricoltura, nel capitolo sugli ovini, parla in questi termini: “Vi è anche l’inguaribile fuoco sacro che i pastori chiamano pustola” il che sembrerebbe indicare l’antrace o carbonchio, così come sembra evincersi dai versi che Virgilio scrive nelle Georgiche10. Per Lucrezio11 e per Seneca12 l’ignis sacer sembra identificarsi con l’erisipela o con la peste; Plinio13 lo intende verosimilmente nel significato di herpes zoster. Il grande Celso14, nel suo De arte medica, ci lascia una descrizione abbastanza particolareggiata dell’ignis sacer che, a suo dire, è di due specie. Nella prima si potrebbe riconoscere l’herpes zoster (che, allora, doveva essere facilmente bilaterale [sic!], mentre nella seconda di queste si può forse riconoscere l’odierna erisipela. La traduzione del passo del libro V suona così: “Il fuoco sacro deve essere annoverato nel capitolo delle ulcere maligne. Esso è di due specie. La prima specie è di un colore che vira verso il rosso o una miscela di bianco e rosso: la pelle non è bella piana, ma ineguale, coperta di pustole che si toccano, che sono molto piccole e simili in grandezza. Queste lesioni sono quasi sempre piene di pus ed accompagnate spesso da rossore e calore. Questa malattia si diffonde spesso sull’altro lato mentre quello che era stato colpito per primo guarisce. Talora, quando le pustole si rompono, formano un’ulcera da cui cola una secrezione che è a metà tra il pus ed la sierosità non limpida. Questi tipi di ulcere colpiscono principalmente il petto, i fianchi e le parti sporgenti del corpo, soprattutto
10 Publio Virgilio Marone. Georgicon Libri IV.. Lib III.: “Nam neque erat coriis usus nec viscera
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quisquam aut undis abolere potest aut vincere flamma; ne tondere quidem morbo inluvieque peresa vellera nec telas possunt attingere putris; verum etiam invisos si quis temptarat amictus, ardentes papulae atque immundus olentia sudor membra sequebatur nec longo deinde moranti tempore contactos artus sacer ignis edebat”. Tito Lucrezio Caro. De natura deorum. Lib VI. “Hisce tibi in rebus latest alteque videndum et longe cunctas in partis dispiciendum, ut reminiscaris summam rerum esse profundam et videas caelum summai totius unum quam sit parvula pars et quam multesima constet nec tota pars, homo terrai quota totius unus. quod bene propositum si plane contueare ac videas plane, mirari multa relinquas. numquis enim nostrum miratur, siquis in artus accepit calido febrim fervore coortam aut alium quemvis morbi per membra dolorem? opturgescit enim subito pes, arripit acer saepe dolor dentes, oculos invadit in ipsos, existit sacer ignis et urit corpore serpens quam cumque arripuit partem repitque per artus, ni mirum quia sunt multarum semina rerum et satis haec tellus morbi caelumque mali fert, unde queat vis immensi procrescere morbi. sic igitur toti caelo terraeque putandumst ex infinito satis omnia suppeditare, unde repente queat tellus concussa moveri perque mare ac terras rapidus percurrere turbo, ignis abundare Aetnaeus, flammescere caelum”. Anneus Seneca. Phaedra : “Sacer est ignis (credite laesis) nimiumque potens: qua terra salo cingitur alto quaque per ipsum candida mundum sidera currunt, hac regna tenet puer immitis, spicula cuius sentit in imis caerulus undis grex Nereidum flammamque nequit releuare mari. Ignes sentit genus aligerum; Venere instinctus suscipit audax grege pro toto bella iuuencus; si coniugio timuere suo, poscunt timidi proelia cerui et mugitu dant concepti signa furoris; tunc uulnificos acuit dentes aper et toto est spumeus ore: tunc silua gemit murmure saeuo”. Plinio il Giovane. XXVI,74. “Ignis sacer plura sunt genera, inter quae medium hominem qui zoster appellatur”. De naturale historia. Aulo Cornelio Celso. De arte medica V, 28,4. “Subrubicundum aut mixtum rubore atque pallore, pustulae continuae, rubor cum calore”.
Introduzione
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Figura 3.1. Il celeberrimo affresco nella cripta di Anagni che rappresenta Ippocrate e Galeno
la pianta dei piedi. Il fuoco sacro della seconda specie si limita alla superficie della pelle che esso ulcera senza approfondirsi, di colorito che accenna al livido, ineguale, guarisce al centro mentre si estende in periferia: spesso, però, ciò che sembrava guarito si ulcera di nuovo. I tegumenti viciniori e che sono minacciati di essere attaccati da questo male sono gonfi e duri: il loro colorito è di un rosso che tende al nero. Questo secondo tipo (di fuoco sacro) colpisce quasi sempre le persone in età avanzata o che sono molto debilitate, e si manifesta soprattutto alle gambe. Il fuoco sacro è il meno pericoloso delle ulcere ectimatose ma è anche quello che è quasi più difficile a guarire. La febbre che l’accompagna e che dura solo un giorno è un eccellente rimedio per distruggere gli umori nocivi che causano questo male, il quale è tanto meno pericoloso quanto più il pus è più spesso e più bianco.” Galeno afferma invece che se la bile si ferma in una parte del corpo, la malattia prende il nome di “herpes”. L’assimilazione “ignis sacer”= “erisipela”= “fuoco di Sant’Antonio” è quindi sostenuta soprattutto dai passi di Lucrezio e di Celso ed ancor oggi, nella letteratura medica anglo-americana, l’eponimo di “Saint Anthony’s Fire”15 inteso come erisipela è ancora relativamente comune16. Nel Medio Evo la medicina risente della tradizione ippocratica e galenica tramandata dagli antichi maestri, e soprattutto da Avicenna, per cui le malattie vengono provocate da un disequilibrio degli “umori” dell’organismo. Detto ciò una nuova “peste”, un nuovo “ignis sacer” sembra affacciarsi sulla scena. Nell’anno di grazia 857 gli annali del convento di Xanten che si trova vicino al Reno descrivono un’epidemia di una malattia terribile in questi termini: 15 in Italiano: “fuoco di Sant’Antonio”. 16 Ad es.: nella prima edizione di: Schachner LA, Hansen RC. Pediatric Dermatology. Churchill
Livingston, New York, 1988.
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“... un grande flagello di gonfiori e di bolle consumava la gente con un nauseabondo fetore così che i loro arti si consumavano e si distaccavano prima della morte” Un secolo dopo circa, Flodoart che dirigeva la scuola annessa alla cattedrale di Reims ci lascia una descrizione simile. Ecco la traduzione del passo: “…una peste di fuoco si è abbattuta nell’anno di grazia 945 su Parigi e i suoi dintorni. Gli infelici tributari della sfortuna vedono bruciare i loro arti come sotto l’effetto di un calore misterioso. Le carni marcivano poco a poco e le ossa, prese a loro volta, si rompevano come legna secca e cadevano anch’esse. Solo la morte, troppo lenta a venire, metteva termine al supplizio. I Parigini sperduti affollano le chiese e richiedono aiuto di tutto il paradiso…”. Una cronaca appena posteriore ci informa che nel Limosino17 “c’era chi perdeva i piedi, chi le mani, chi un gamba, chi un braccio. E tutti erano colpiti, giovani e vecchi, uomini e donne. Da tutte le parti si udivano pianti e grida. E se si gettava dell’acqua sulle parti urenti per rinfrescarle, si vedeva subito levarsi un fumo acre con dei fetori spaventosi”. Nel 1089, così riferisce il cronista Sigiberto di Genbloux: “A molti le carni cadevano a brani, come li bruciasse un fuoco sacro che divorava loro le viscere; le membra, a poco a poco rose dal male, diventavano nere come carbone. Morivano rapidamente tra atroci sofferenze oppure continuavano, privi dei piedi e delle mani, un’esistenza peggiore della morte; molti altri si contorcevano in convulsioni”. Henry de Mondeville, che era il medico di fiducia di Filippo il Bello, nomina varie volte il “fuoco di Sant’Antonio” nella sua opera18. In un passo egli così si esprime: “Di questi due herpes estiomenes che sono formati da svariati umori non naturali mescolati insieme, ce ne sono di due tipi: l’uno è formato da flemma bruciata dal calore debole ed è la miliare; l’altra è formata da bile grossolana e da melanconia sottile, bruciate, ed è l’herpes che si chiama comunemente lupus o cancro o erisipela fagedenica; in Francia si chiama
17 Regione della Francia. 18 Henry de Mondeville. Chirurgia, 1320.
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anche Male di Nostra Signora; in Italia ed in Borgogna, Male di Sant’Antonio; in Normandia, Male di San Lorenzo ed in altre regioni con diversi nomi ancora”19. In un altro passo, dedicato alla “ulcera corrosiva” si esprime in questi termini: “L’ulcera che colpisce più spesso la verga o l’ano o talvolta altrove, riempie la casa dell’olezzo più terribile. Nell’Ile-de-France20 la chiamano Male di Santa Maria: in Borgogna, Male di Sant’Antonio: in Normandia, fuoco di San Lorenzo: altrove le danno altri nomi ancora”. Qui l’autore sembra indicare, abbastanza chiaramente, una malattia a trasmissione sessuale. Negli anni immediatamente successivi, Guy de Chauliac21, chiamato, come poi Paré, “padre della chirurgia” e medico personale di Papa Clemente VI durante gli anni avignonesi si esprime così: “L’estiomene è la morte o distruzione dell’arto (e perciò è chiamato estiomene, che vuol dire ostile all’uomo) con putrefazione e rammollimento a differenza del lupus e del cancro che distruggono l’arto con corrosione e indurimento. Dunque le due malattie non sono la stessa cosa come affermavano Lanfranco ed Enrico22. L’estiomene è chiamato comunemente Fuoco di Sant’Antonio o di San Marziale e, dai Greci, cancrena”. Come si vede, de Chauliac, a differenza di de Mondeville, tende a non enfatizzare la possibilità di una malattia venerea. Il grande Paré23 sembra d’accordo con de Chauliac come si può evincere da questo passo: “La gangrena è una disposizione che tende alla modificazione della parte ferita, che non è ancora morta né privata di ogni sensibilità, ma (la parte) muore poco a poco talché, se non si rimedia in fretta, si necrotizza del tutto, anche fino alle ossa. Questo fatto è chiamato σϕακελοζ dai Greci e necrosis dai Latini, sideratio e estiomenos dai moderni e, volgarmente, Fuoco di Sant’Antonio o di San Marcello”.
19 Al tempo di Filippo il Bello la Francia propriamente detta non comprendeva molte delle
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regioni attualmente francesi come la Borgogna e la Normandia, qui citate, ma anche altre come l’Aquitania e la Bretagna. Letteralmente: “Isola di Francia” è la regione centrata su Parigi. Guy de Chauliac. Chirurgia Magna, 1363. Due medici allora molto famosi. Ambroise Paré. Cinq Livres de Chirurgie, 1572.
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Verso la fine del Medio Evo, intorno alla piccola cappella dove erano state riposte le reliquie di Sant’Antonio viene elevata una grande chiesa con annessi un convento e un grande ospedale24. In effetti la sottrazione delle reliquie del Santo taumaturgo era avvenuta per mano di un nobile del Delfinato e inizialmente i maggiorenti di questa regione raccoglievano le offerte per curare e mantenere i pellegrini che arrivavano al santuario. L’inizio dell’avventura antoniana fu dunque un’iniziativa di laici benefattori. Solo successivamente l’incremento costante di pellegrini e la crescente domanda di guarigioni resero poco a poco “naturale” la creazione di un ordine religioso, gli Antoniani appunto, che si specializzarono, ovviamente, nella cura del fuoco di Sant’Antonio. A metà del 1500 a Sebastiano di Monteux succede Guy Didier come responsabile medico dell’abbazia e dell’annesso nosocomio. Costui così descrive25 il fuoco di Sant’Antonio: “Il fuoco consiste nella mortificazione con gangrena di un arto. Lo si chiama anche Fuoco di Sant’Antonio o di San Marziale ed è rimarchevole il constatare che, in questa malattia, si produce un dolore ed un ardore simili a quelli delle scottature vere e proprie. Le cause di questa malattia sono state stabilite da Galeno. Quando la bile passa nel sangue ed è trasportata in tutto il corpo, appare l’itterizia. Quando la bile si fissa in qualche parte del corpo e quando essa si ispessisce, tutta la pelle della parte del corpo dove essa è localizzata si ulcera sino alla carne ed è per questo che Ippocrate la chiama fuoco divorante. Se la bile si schiarisce, essa non provoca che delle bruciature superficiali ed allora questa forma della malattia si chiama ulcera. La bile spessa e corrotta è dunque la causa del fuoco, perché, se essa fosse fluida non si arresterebbe ma evaporerebbe come dice Avicenna. Ma quando la bile è troppo spessa essa provoca la gangrena. Avicenna consiglia di combatterla nella maniera seguente: quando la parte malata comincia a rammollirsi ed a cambiare colore, bisogna applicare della terra sigillata mescolata con dell’aceto. Se la putrefazione non si ferma con questo trattamento, la zona va incisa in profondità, vanno poi applicate delle sanguisughe così che il sangue viene estratto dai piccoli vasi. Ma, se la lesione è più grave, Avicenna è dell’avviso di mettere un linimento composto di farina di fagioli e di aceto. Dopo che questa miscela sarà stata rimossa, la zona scarificata sarà lavata con acqua salata affinché il sangue spesso fluisca via e non si coaguli. Per eliminare definitivamente ogni traccia dei succitati linimenti, bisogna lavare la zona con aceto due volte al dì ed applicare nella 24 La letteratura, a questo proposito, è molto varia e molto imprecisa. La maggior parte degli
autori afferma che le reliquie sono state deposte a La Motte oppure “... nei pressi di Vienna”. In realtà il termine “la motte” significa semplicemente “collina” (vedi p. 5) e Vienna non c’entra niente. La città più vicina è Vienne che si trova, in effetti, nel Delfinato che corrisponde all’attuale Savoia. Il luogo attuale è nel paese di Saint Antoine l’Abbaye che si trova a pochi chilometri da Saint Marcellin, conosciuto dai più per il suo famoso formaggio. 25 Guy Didier. Epitome Chirurgiae, 1560.
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parte malata un unguento che abbia una consistenza simile al miele e composto di Assa foetida e di semi di ortiche secche. Per evitare l’estendersi del male si mescoli con l’unguento dell’allume in parti eguali perché ciò impedisce il diffondersi e distacca quello che è già stato distrutto. Ma se il decorso della malattia prosegue e se l’arto tende ad andare in necrosi, bisogna aspergerlo con una polverizzazione con l’aristolochia rossa o con del vecchio vitriolo: ciò perché questi rimedi agiscono al meglio se sono mescolati con l’aceto. Se questo trattamento non ha successo bisogna separare la zona necrosata dalla sana colla cauterizzazione. Essa può essere ottenuta con una polverizzazione d’asfodelio, con la calce viva, col vetriolo, con la mirra, con l’aristolochia rossa o anche col arsenico da solo o mescolato con del vino sublimato. Bisogna prima imbibire di questo vino una stoffa di lino cardato e poi disporla tra la parte sana e quella malata. Subito dopo si applicherà del burro per distaccare l’escara e far produrre la cicatrice. Ma se il male non cede ad alcuno di questi rimedi bisogna ricorrere al ferro per amputare il tessuto malato. Avicenna afferma che la malattia colpisce gli arti nelle diverse maniere che qui enumeriamo: per la corruzione del temperamento; per la corruzione e la distruzione degli spiriti animali abituati a percorrere il medesimo arto; per il veleno della febbre; per il freddo che distrugge tutti gli spiriti dell’arto; per gli ascessi; per le fistole e per le ulcere; per tutto ciò che accompagna gli umori corrotti ed avvelenati; per infusione di olio nell’ulcera; per i congelamenti dell’arto; per l’erisipela; per un’eccessiva costrizione dell’arto, così che gli spiriti animali non possono arrivare a questi arti; infine per gli ascessi provocati dalla materia ispessita che ostruisce i canali attraverso i quali provengono gli spiriti animali in mancanza dei quali gli arti si ammalano. Lo stesso Avicenna aggiunge che questa malattia si chiama gangrena all’inizio, quando la sensibilità persiste ancora. Ma quando questa non c’è più e la carne è distrutta sino all’osso la malattia si chiama sfacelo che è la strada verso il fuoco (di Sant’Antonio)”. Come si apprezza da questa lunga descrizione ed astraendosi dalla interpretazione delle cause, la malattia che Guy Didier intendeva forse non era una sola, ma la descrizione di alcuni segni e sintomi ci permette qualche ipotesi. Delle malattie denominate “ignis sacer” anticamente possiamo scartare subito l’herpes zoster e la peste. Rimane la possibilità dell’antrace (carbonchio) e si impone anche la diagnosi di erisipela il cui nome, del resto, è presente nella lista finale delle cause. A metà del 1500, e quindi in un tempo in cui il rinascimento era già iniziato, Guy Didier rimane ancora un medico medioevale, completamente calato nell’ottica di un’interpretazione ippocratica della medicina ma la sua posizione è comunque importante ed anzi, per il suo tempo, senz’altro la più autorevole. Più o meno negli stessi anni un altro famoso medico non la pensava però allo stesso modo: Rabelais26. 26 François Rabelais (1483-1553) è universalmente noto per i suoi due libri più famosi “Pantagruel” e “Gargantua” ma era anche un religioso ed un medico.
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Costui nomina spesso il “fuoco di Sant’Antonio” e in alcuni passi sembra intendere l’ergotismo gangrenoso, come nell’episodio in cui Panurgo (il burlone della situazione) incendia una traccia di polvere da sparo che aveva depositato a bella posta nel momento in cui una pattuglia di soldati passava di lì provocando loro delle bruciature alle gambe27, oppure quando racconta di una minzione un po’ sacrilega di Perseforest28. Altrove29 sembra invece alludere ad un ulcera venerea. Viene facile avvicinare l’interpretazione di Rabelais a quella di de Mondeville ma mentre quest’ultimo insiste soprattutto sul fetore insopportabile, l’altro non ne fa cenno. L’ulcera descritta da Rabelais potrebbe anche essere un sifiloma primitivo, mentre tale diagnosi male si applica all’ulcera di de Mondeville anche perché, agli inizi del 1300, l’America non era stata ancora scoperta e, se è vero che la sifilide viene dal Nuovo Mondo, de Mondeville ed i suoi contemporanei non ne videro mai mentre è assai probabile che Rabelais ne avesse viste molte. Per ritornare alla descrizione di Guy Didier, che, ricordiamo, era il protomedico dell’abbazia/ospedale di Sant’Antonio, è evidente che una buona parte dei pazienti che si avventuravano sino al santuario soffriva o aveva sofferto di gravi malattie agli arti. E, del resto, che Guy Didier non esagerasse affatto, lo si può dedurre da alcune immagini coeve che raffigurano il Santo seduto sotto un’architrave da cui pendono, a mo’ di prosciutti, pezzi di arti mummificati (Figg. 3.2, 3.3). Oppure da altre in cui si vedono i fedeli pregare il Santo: alcuni di questi fedeli sono amputati, quasi sempre di un arto inferiore, e si reggono sulle grucce ed hanno delle protesi assai artigianali, come nella Fig. 3.4. Questa è, per altro, una delle immagini più suggestive30, in cui un malato che chiede la grazia ai piedi del grande santo appare con una protesi alla gamba destra e, mentre si sostiene con una gruccia al braccio destro, mostra al santo il braccio sinistro in forma di un fiamma ardente31. L’immagine più nota del “fuoco di Sant’Antonio” è dipinta da Matthias Grünewald32, e mostra un essere quasi (ha i piedi palmati!) umano ricoperto da lesioni infiammate ed ulcerative (cfr. Fig. 2.5). Nella Fig. 3.5, invece, il fuoco di Sant’Antonio viene rappresentato come un temibile cavaliere mortifero. 27 “A l’aultre foys faisoit en quelque belle place por ou le dict guet debvoit passer une trainéè de
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poudre de canon, et à l’heure que passoit mettoit le feu dendans, et puis prenoit son passe temps à veoir la bonne grace qu’il avoyent en fuyant, pensans que le feu sainct Antoine les tint aux jambes”. Pantagruel, cap. XVI, Lyon, 1517. “Il rencontra Perseforest pissant contre une muraille, en la quelle estoit paint le feu de sainct Antoine” Pantagruel, cap. XXX, Lyon, 1517. “Et quoy, ce beau pere nous veult il icy faire l’offrande et baiser son cul? Le feu saint Antoine le baise!” Pantagruel, cap. XVI, Lyon, 1517. Una di queste immagini è una xilografia apparsa in un trattato di chirurgia militare pubblicato a Strasburgo nel 1535. La frase, scritta in tedesco, recita: “Antonio, come hai fatto ad arrivare qui? Chi ha fatto di te un uomo leggendario? Tu, uomo santo, amato dal Signore, prendi anche tu ora le medicine?”. Mathis Gothard Nithard meglio noto come Matthias Grünewald (1475-circa 1528) lavorò per molto tempo alla Chiesa abbaziale di Colmar (Francia) cui era annesso un grande ospedale. Per cui l’artista aveva accesso ai pazienti e poteva ben vedere le loro lesioni.
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Figura 3.3.
Figura 3.2. Xilografia catalana. Oltre al fuoco e al maiale, nella parte alta si vedono bene le membra amputate a mò di trofeo. Collezione privata
Nelle xilografie e incisioni più antiche si vedono i monconi delle membra appesi a mò di prosciutti sopra la figura del santo, o fedeli con arti amputati. Cfr. anche Fig. 3.4. Incisione lignea tedesca del 1500. Riprodotta da: Staatliche Graphische Sammlung München, Inv.118241 D., con autorizzazione
Figura 3.4. Un malato con una protesi alla gamba, una gruccia al braccio destro e una fiamma ardente al braccio sinistro
Figura 3.5. Il fuoco di Sant’Antonio è rappresentato come un cavaliere mortifero con la campanella
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La moltitudine dei fedeli, ma soprattutto dei malati che giungevano al santuario Antoniano, impose, come dicevamo, una organizzazione della medicina ambulatoriale e nosocomiale. È probabile che non tutti i pellegrini che giungevano al santuario avessero malattie gravi, che alcuni di loro si fossero, più semplicemente, spontaneamente rimessi in salute. Le cure dispensate dagli Antoniani erano quindi varie33 oltre a quella, buona per tutti, di rifocillare i pellegrini, che, per la maggior parte, erano poveri e malnutriti. Una volta giunto all’ospedale antoniano, il malato veniva trasportato nella cappella dove un canonico gli leggeva l’orazione salvatrice. Dopo di che, dal punto di vista “medico” una cura, che ora definiremmo simbolica, consisteva nella somministrazione di vino benedetto: il cosiddetto “Saint Vinage”. In pratica si faceva bere al fedele una piccola quantità di vino in cui erano state intinte le ossa del santo; il vino era stato prodotto dagli stessi monaci dalle uve delle loro vigne, che si ritrovano ancora oggi, ad esempio, nel convento della casa madre Antoniana in Francia. Un’altra cura era invece esplicitamente dermatologica e consisteva nell’applicazione di una pomata sulla parte malata; la ricetta di questa pomata non ci è pervenuta ma è verosimile che venisse preparata con il grasso di maiale34, che sembrava dare sollievo agli ammalati forse solo riducendo l’esposizione all’aria delle ulcere. Una terza cura, decisamente chirurgica come si può dedurre dalla precedente descrizione del protomedico dell’abbazia, consisteva nell’amputazione dell’arto malato nei casi più gravi e non altrimenti curabili. Una delle immagini più famose di tutta la storia della medicina è un’incisione del ’500 in cui è illustrata un’amputazione di un arto e che porta il titolo di “serratura”35. In questa figura il malato giace seduto con il volto coperto e porge l’arto da amputare, mentre un galantuomo, che aveva già perso una mano, sorveglia il tutto. Ebbene, costui è un Antoniano, dato che la Tau dell’ordine è ben riconoscibile (Fig. 3.6). Che la gente temesse il fuoco di Sant’Antonio così tanto da farsi amputare
33 Nel paese di Saint Antoine l’Abbaye è stata trovata una ricetta di un “profumo di salute per gli
uomini” che era forse una prescrizione contro la peste. Si trattava di inalare, per almeno un’ora, le esalazioni di una miscela di tantissime sostanze messe a fuoco lento. L’originale francese così le enumera “son, résin, sougre, grain de genièvre, éllébore blanc, encens, myrrhe, iris de Florence, laudanum de barbe, benjoin, farine, storax, anix, ciperus rond, aristolochia ronde, gingembre, poivre, fleur de sauge, stecas arabis, girofle, muscade, canelle”. 34 I maiali da cui veniva tratto il grasso erano allevati a spese della comunità intera del villaggio o della città dove si trovava l’ospedale antoniano. Il permesso di allevare i maiali a spese della comunità fu un appannaggio concesso dal papa. Tali animali, per essere riconosciuti, portavano una piccola campanella al collo. Quando l’animale era ingrassato a dovere, esso veniva macellato a beneficio degli Antoniani nel giorno della festa del Santo che cade il 17 Gennaio. Questo legame storico con il maiale spiega anche perché, soprattutto in alcune regioni italiane, Sant’Antonio Abate venga chiamato “Sant’Antonio del Porcello” (omettiamo, per brevità, le varie forme dialettali). Il fatto che i maiali si ingrassassero a spese altrui spiega anche perché si usa l’espressione “Sei come un porcello di Sant’Antonio” per indicare quelle persone che cercano sempre di mangiare a sbafo. 35 lat. segatura = taglio con la sega.
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Figura 3.6. Incisione cinquecentesca che rappresenta l’amputazione di un arto (serratura). Riprodotta da: Amputation scene from Hans von Gersdorff, Feldtbuch der Wundartzney, 1528, Archives & Special Collections, Columbia University Health Sciences Library, con autorizzazione
Figura 3.7. Xilografia cinquecentesca che rappresenta l’amputazione di un arto, tratta dall’Opus Chirurgicum di Paracelso.Bodenstein, Basilea, 1581
(volentieri?!) una gamba, lo vediamo bene anche in un’altra xilografia cinquecentesca (Fig. 3.7). Probabilmente esistevano anche altre terapie, come una tisana a base di gomma di acacia, il coriandolo e la radice di mandragora36, forse per casi un poco diversi o forse per integrare quelle precedenti, ma esse non ci sono pervenute. In un altro famoso quadro dipinto da Grünewald, sono raffigurati Sant’Antonio e San Paolo l’Eremita che si incontrano in un giardino immaginario. Ebbene, in questo giardino appaiono una varietà di piante, che possono essere interpretate come piante medicinali e suggerire una ricetta, sia perché non fioriscono negli stessi luoghi né nelle stesse stagioni sia perché sono menzionate negli erbari medicinali del tempo come, ad esempio, nell’Hortus Sanitatis pubblicato a Mainz nel 1457. Una ultima modalità di guarigione consisteva evidentemente nella preghiera e nelle invocazioni al grande Taumaturgo, soprattutto forse da parte di quei malati che erano apparsi indemoniati, che avevano patito cioè terribili visioni dell’inferno. A giudicare dalla storia qualche malato guariva, come testimonia nel 1119 il vescovo di Lincoln che era in pellegrinaggio all’abbazia antoniana37. Ecco un passo del suo racconto: 36 Imbault-Huart MJ. Le mal des ardents. In: Le Goff J, Sournia JC. Les maladies ont une histoire.
L’histoire/Seuil, 1985. 37 È una delle una delle prime testimonianze storiche.
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“Ciò che vi è di più straordinario in questo stesso miracolo è che, dopo l’estinzione del fuoco, la pelle, la carne e gli arti che erano stati divorati non si restaureranno mai più. Ma, cosa sorprendente, le parti che erano state risparmiate restano perfettamente sane, protette da cicatrici così solide che si vedevano delle persone di tutte le età e dei due sessi privati dell’avambraccio fino al gomito, altri di tutto il braccio fino alla spalla, infine altri ancora che avevano perduto le loro gambe fino al ginocchio o la coscia fino all’anca e ai lombi mostrando la contentezza di coloro che stavano meglio. Di modo tale che si disse che a causa dei meriti di Sant’Antonio, i soggetti che avevano subito queste mutilazioni erano ricompensati della perdita dei loro organi dalla solidità e dalla resistenza dei tessuti nuovi”. Con l’accrescersi della casistica dei malati e con lo sviluppo della medicina che veniva dall’elaborazione delle idee umaniste del rinascimento e dallo studio di nuovi autori si cominciava a guardare alle malattie in un modo nuovo. La teoria degli umori non si dimostrava più capace di spiegare tutto né la concezione (cristiana?) della malattia come un castigo divino per un peccato commesso appariva adeguata, soprattutto dopo la grande epidemia di peste del XIV secolo che aveva mezzo svuotato l’Europa portando nella tomba i virtuosi come i peccatori con salomonica eguaglianza. I medici del XVII secolo si trovano di fronte a nuove epidemie come quella che colpì il territorio della Sologne (Francia) fra il 1630 e il 1710 e ne descrivono i sintomi con maggiore precisione, cercando di cogliere nuove associazioni38. Dal punto di vista epidemiologico le variazioni meteorologiche vengono considerate in modo nuovo: il tempo non influenza più gli umori in senso cosmico ma può invece modificare, per esempio, in modo molto terrestre la qualità e la quantità del cibo. Inverni molto freddi e prolungati ed estati brevi e poco soleggiate non hanno mai fatto bene all’agricoltura né agli animali né, di conseguenza, alla popolazione. Ovviamente di questo erano perfettamente convinti anche i nostri antenati pur nella rigorosa visione ippocratica della salute; e la mini glaciazione (v. box p. 76) che caratterizzò l’ultimo periodo del Medio Evo certamente non poté che rafforzare quello che già gli antichi sapevano. In questo periodo vi furono certamente molte “epidemie” ovvero molte “pesti” che afflissero l’umanità. Oggi noi sappiamo che queste non erano tutte eguali ma che erano certamente tutte spaventose e catastrofiche anche in relazione alle reali capacità dell’arte medica del tempo. Un affresco dipinto nel Pantheon di Parigi ci illustra un fatto storico esemplare a questo riguardo: una processione di pentimento e di preghiera della popolazione parigina per invocare la fine di una “peste” che aveva colpito la regione nell’anno di
38 È la cosiddetta “gangrène des Solognots”, vedi : Poitou C. Ergotisme, ergot de seigle et
épidémies en Sologne au XVIII siècle. Rev Hist Mod Cont. 1976; 23: 354-68.
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grazia 1129. A tale scopo era stato persino dissepolto il corpo di Santa Genoveffa, patrona della città, che il popolo orante, marciando dietro la sacra reliquia, invocava per chiedere la fine del flagello divino. L’avvicinarsi del secolo dei lumi accelerò le osservazioni scientifiche. Tra le tante, una apparve all’inizio come una curiosità botanica. Si era visto che, quando la stagione era stata particolarmente fredda e piovosa, le spighe di segale presentavano delle caratteristiche piccole escrescenze. Quando la segale si presentava così, veniva chiamata volgarmente “segale cornuta”. Orbene, una grande parte della popolazione medioevale viveva in condizioni di semi-schiavitù con un’alimentazione limitata quantitativamente ma soprattutto qualitativamente. Le popolazioni continentali si nutrivano soprattutto con farinacei ed il pane di frumento, essendo l’uso della costosa farina riservato ai nobili ed ai ricchi, era spesso sostituito dal pane di segale. Va da sé che quando la segale era “cornuta” la gente mangiava pane di segale cornuta. Nel 1776 Jussieu, Saillant, Paulet e Tessier in un articolo39 inviato al Journal de l’Académie Royale de Médecine fanno il punto di anni di osservazioni e di studio e sostengono che la malattia, nota col nome di “fuoco di Sant’Antonio” o altrimenti come “la Maladie des Ardents”, è provocata dall’ingestione di pane fatto con la segale cornuta o di brodo fatto con lo stesso cereale. In termini moderni, diremmo che il “fuoco di Sant’Antonio”, nella interpretazione prevalente degli autori francesi, è un’intossicazione alimentare. Questa malattia, ormai ben conosciuta con il nome di “ergotismo”, è dovuta alle sostanze, tra cui alcuni alcaloidi come l’ergotamina, che sono prodotte da un fungo40 (le famose “corna” della segale) che cresce a spese della segale (v. Fig. 3.53 nel paragrafo sull’ergotismo, p. 111) quando le condizioni climatiche particolarmente umide e buie creano l’ambiente adatto. Le tossine di questo micete hanno svariati effetti: tra essi uno dei principali consiste in un potente effetto vasocostrittore. Questa azione è capace di provocare un vasospasmo periferico così intenso e prolungato da causare in particolari casi dolori intensissimi ed urenti e mandare in necrosi l’arto causando talora un’amputazione spontanea! Nel quadro di Bosch (Fig. 3.8) conservato nel Museo Nazionale di Arte Antica di Lisbona appare, in un dettaglio poco conosciuto dal grande pubblico, un personaggio curioso che ha sul capo un cappello a cilindro. Ac-
39 Jussieu, Saillant, Paulet, Tessier. Recherches sur le feu de Saint Antoine. Société Royale de
Médecine, 31 Dic 1776. 40 In botanica è noto come Claviceps purpurea, che in Francia è chiamato comunemente “l’ergot
de seigle”, da cui il termine ergotismo. La Claviceps purpurea si presenta come un’appendice di color violetto, lunga da 5 a 6 centimetri con un diametro di circa mezzo centimetro. Il colore del pane, delle gallette e del brodo fatto con la segale cornuta assumeva pertanto un colore poco rassicurante. Questo fungo può anche contaminare gli altri cereali come il mais, l’orzo e l’avena e, più raramente, il grano.
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Figura 3.8. Pannello centrale del trittico La tentazione di Sant’Antonio di Hieronymus Bosch, c.1500. Museu Nacional de Arte Antiga, Divisão de Documentação Fotográfica – Instituto dos Museus e da Conservação, i.p., Lisboa, con autorizzazione
Figura 3.9. Particolare dello stesso pannello
canto a lui appare una gruccia e davanti a lui, su di un panno, un piede o meglio, una protesi di un piede (Fig. 3.9). Questo particolare indica bene che Bosch era bene informato sulla natura della malattia. L’azione farmacologica del fungo era nota già nel Medio Evo dato che le ostetriche lo usavano per affrettare la nascita, da cui il nome tedesco di Mutterkorn che letteralmente significa: “il grano della madre”41. È anche probabile che particolari preparazioni di segale cornuta fossero impiegate come abortivi. Una peculiarità di queste intossicazioni alimentari consiste nel gran numero di persone coinvolte. Fu proprio questo fatto che, assieme a particolari e vistosi sintomi esterni, portò a considerarle nel Medio Evo come una punizione divina e, successivamente, come epidemie a carattere infettivo. Veniva così trovata una giustificazione plausibile alle descrizioni degli antichi. Il “fuoco di Sant’Antonio”, per lo meno questo tipo, era veramente una malattia terribilmente dolorosa e terribilmente grave in cui, relativamente spesso, l’amputazione chirurgica appariva il minore dei mali. A questo punto della storia sembrava quasi tutto chiarito e, in fondo, le allucinazioni terrificanti, le visioni infernali riferite da molti malati erano interpretate come un corollario quasi obbligato alla cultura del tempo. In un cer41 Hofmann A. History of the discovery of LSD. In: Pletscher A, Ladewig D (Eds). Fifty years of
LSD. Partheneon, New York, London, 1994.
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to senso si credeva che la parte “psichica” dell’ergotismo gangrenoso fosse una deformazione mentale di un problema puramente fisico, il che, considerando l’entità del dolore, appariva pienamente giustificato. La realtà era invece che era stato tutto quasi chiarito ed il perché di questo “quasi” stava in un errore non raro tra i medici di allora e di oggi, che è quello di non ascoltare attentamente i pazienti. Il merito di avere tolto quel “quasi” si deve ad un farmacologo contemporaneo, Alfred Hofmann, che stava studiando le sostanze prodotte dalla Claviceps Purpurea. Egli aveva isolato dal fungo delle sostanze diverse da quelle, già note, di tipo vasoattivo, e che quindi dovevano avere verosimilmente proprietà differenti. Nel corso della sintesi chimica di queste nuove sostanze, in un giorno di Aprile del 1943 egli entrò in un mondo di sogno che descrive con queste parole: “l’ambiente circostante era cambiato in un modo strano ed era divenuto luminoso e più espressivo. Non mi sentii a mio agio ed andai a casa dove avevo voglia di riposare. Stando a letto con gli occhi chiusi perché la luce del giorno mi sembrava fastidiosamente abbagliante, percepii un flusso ininterrotto di immagini fantastiche, con un intenso gioco caleidoscopico di colori. Dopo qualche ora questa strana ma non spiacevole condizione svanì”. Dapprima Hofmann pensò che questi effetti fossero dovuti ad una intossicazione da dicloroetilene per la sua parentela col cloroformio, ma, quando decise di odorarne un poco e ciò non ebbe nessuna conseguenza, si rese conto di essersi sbagliato. Quando riuscì a purificare la molecola nuova, decise di provarla su sé stesso e ne ingerì, prudentemente, la minima parte di quella che lui pensava essere attiva. Il testo che segue è la traduzione del racconto di questa esperienza: “Prestando molta cautela, cominciai l’esperimento con la più piccola quantità che si potesse ritenere produrre un qualche effetto psichico. In corsivo ecco le mie note del diario del laboratorio in data 19 Aprile 1943: Ore 16,20: bevo una soluzione di 0.25 mg di tartrato di dietilamide dell’acido lisergico. Ore 17.00: comincia uno stato confusionale, sensazione di angoscia, distorsioni visuali, sintomi di paralisi, desiderio di ridere. Qui finiscono le note sul diario. Da quel momento era già chiaro che la dietilamide dell’acido lisergico era stata la causa della straordinaria esperienza del Venerdì precedente, con sensazioni analoghe ma molto più intense. Domandai ad un mio assistente di accompagnarmi a casa e, non avendo un’automobile, ci andammo in bicicletta. Sulla strada di casa le mie condizioni cominciarono a farsi preoccupanti. Ogni cosa nel mio campo visivo ondeggiava ed era distorta come se vista in uno specchio curvo. Avevo perso la sensazione del tempo che si traduceva in una sensazione di essere incapace di muovermi dal punto dov’ero, sebbene il mio assistente mi disse dopo che ci eravamo mossi molto rapidamente. A casa chiesi al mio compagno di chiamare il nostro medico di famiglia e di domandare del latte al nostro vicino. Nonostante le mie condizioni deliranti ero anco-
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ra capace di pensare in modo chiaro ed efficace dato che il latte è un antidoto non specifico per gli avvelenamenti. Lo stato confusionale e la sensazione di svenire divennero così forti che non potei più stare in piedi e fui costretto a sedermi su di un divano. L’ambiente circostante si era trasformato nei modi più terribili. Ogni cosa nella stanza girava su se stessa e gli oggetti familiari e gli arredi assumevano forme grottesche e terrorizzanti. Gli oggetti erano in continuo movimento, animati, come se fossero guidati da un’agitazione interna. Quando la vicina mi portò il latte, essa non era più la signora Ruch ma piuttosto una strega malvagia con una maschera colorata. Ma ancora peggio di queste trasformazioni demoniache del mondo esterno furono le alterazioni che percepivo in me, nel mio ‘IO’ interno. Qualunque esercizio della mia volontà di porre fine alla disintegrazione del mondo esterno e alla dissoluzione del mio ego sembrava uno sforzo inutile. La sostanza che avevo voluto sperimentare era divenuta un demone che mi aveva annientato e trionfato sopra il mio volere. Ero sconvolto dalla tremenda paura di essere divenuto pazzo. Ero stato portato in un altro mondo, in un altro luogo, in un altro tempo. Il mio corpo sembrava essere senza sensazioni, senza vita, strano. Stavo morendo? Era forse questa la transizione? Talvolta credevo di essere fuori del mio corpo ed allora percepivo chiaramente, come se fossi stato un osservatore esterno, la tragedia completa della mia situazione... Quando il dottore arrivò l’acme della mia condizione di dipendenza era ormai passato. Egli scosse la testa con perplessità dopo i miei tentativi di spiegargli il pericolo mortale che aveva minacciato il mio corpo. Egli non poté osservare alcun sintomo anormale tranne delle pupille estremamente dilatate; il polso, la pressione sanguigna ed il respiro erano tutti normali. Egli non vide alcuna ragione di prescrivere dei farmaci e mi consigliò di riposare a letto”. Hoffmann aveva scoperto l’LSD! A questo punto tutte le componenti del “fuoco di Sant’Antonio” combaciavano in un incastro perfetto e pienamente convincente sul piano clinico. L’intossicazione da parte delle tossine micotiche poteva avere, a questo punto ovviamente, una grande varietà nella gravità dei sintomi ma anche nella tipologia dei sintomi, a seconda della quantità e della qualità delle tossine assorbite. I dolori urenti e lancinanti dei poveri pazienti intossicati dalla segale cornuta erano veri ma erano vere anche le allucinazioni orrifiche e demoniache: i primi erano causati dal vasospasmo dell’ergotamina, le seconde dalle potentissime capacità dispercettive del LSD. Storicamente, questo tipo di “fuoco di Sant’Antonio” divenne, soprattutto dopo il ‘500, meno frequente. Come mai? Le ragioni sono probabilmente più d’una. La prima è che il sospetto (divenuto certezza solo con l’articolo del 1776) che la segale cornuta fosse la causa della malattia si fosse ragionevolmente irrobustito, abbastanza da scoraggiarne il consumo a qualsiasi titolo. La seconda ragione riguarda le mutazioni climatiche: la mini era glaciale medioevale cedeva un poco nel ’600.
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La terza spiegazione riguarda infine la scoperta del Nuovo Mondo. Questo fatto fu di un’importanza capitale per moltissimi motivi, non ultimo quello che determinò una profonda rivoluzione alimentare nel Vecchio Mondo. L’importazione del mais, della patata e dei pomodori, per limitarsi a pochissimi esempi, ebbe delle conseguenze formidabili e, d’altronde, noi non sapremmo immaginarci una gastronomia mediterranea senza pomodoro né una cucina germanica senza patate! Dal punto di vista agricolo il mais e la patata (soprattutto quest’ultima che cresceva sotto terra) non soltanto costituivano un nuovo alimento, ma potevano tollerare condizioni climatiche inclementi e proibitive per il frumento e gli altri cereali. In poche parole, nel caso in cui la stagione fosse stata troppo fredda e troppo umida per ottenere un pane buono e sano, si poteva ricorrere alla farina di mais (la polenta nel Nord Italia!) o alle patate per riempire la pancia e nutrirsi abbastanza42 bene. Per tutte queste ragioni, e per la progressiva secolarizzazione della nostra civiltà, questo tipo di “fuoco di Sant’Antonio” scomparve gradualmente dal nostro orizzonte. Con la malattia scomparve anche l’ordine degli Antoniani43 che era diventato negli anni estesissimo e potentissimo, forse l’ordine ospedaliero più importante della nostra storia. Altri ordini ospedalieri44 si spartiscono, poco a poco, la grande eredità degli Antoniani, ma molti ospedali portano ancora il nome di Sant’Antonio Abate45. In Italia, la storia del fuoco di Sant’Antonio nei secoli bui si confuse senz’altro con le terribili malattie che abbiamo illustrato nei paragrafi precedenti: ulcere fagedeniche, dermoipodermiti ectimatose e gangrene inarrestabili, il tutto accompagnato da sintomi psichici o da semplice autosuggestione. In effetti, ecco cosa riporta Aymar Falco, nel 1514: “... una folla di diecimila Italiani, così numerosi da fare un esercito, varcano le Alpi per venire nei pressi dell’eremita venerato. Spinti dalle conseguenze del Male degli Ardenti, questi infelici venivano a domandare la guarigione per mezzo della Santa Vergine e per mezzo del vino benedetto dal contatto con le ossa di Sant’Antonio”.
42 Nel caso del mais l’avverbio “abbastanza” è d’obbligo, dacché è noto che un’alimentazione
quasi esclusiva con il mais è stata la causa fondamentale della pellagra la cui eziopatogenesi fu descritta da G. Strambio solo nell’800. Anche molte popolazioni centro e sudamericane avevano un’alimentazione quasi solamente a base di mais. Ma la loro consuetudine di impiegare la calce nella preparazione degli alimenti (come fanno anche ora nel masticare le foglie di coca) rendeva disponibile la niacina. Gli europei, che non conoscevano questo trucco, si ammalavano di pellagra. 43 Il libro fondamentale per capire l’importanza dell’ordine degli Antoniani è L’ordre hospitalier des Antonins, di P. Michlewski. 44 Soprattutto l’Ordine di Malta la cui Croce campeggia ora nella Corte principale del santuario, ma, ad esempio, il grande ospedale di Torino passò all’Ordine Mauriziano e così via. 45 Ad esempio quello di Gallarate in Lombardia oppure quello di Trapani in Sicilia.
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Nei secoli successivi però le cose furono un po’ diverse. Nel nostro paese continuarono ad esserci ulcere veneree e senz’altro continuarono ad aversi dolorosissimi e talora fatali casi di erisipela. Ma il modo di considerare queste malattie era chiaramente mutato: le ulcerazioni genitali e/o anali venivano ormai giustamente addebitate ad un rapporto sessuale, mentre le varie dermoipodermiti più o meno ulcerative o sierogementi erano probabilmente attribuite a qualche altra causa, ancora ignota ma facilmente correlabile alla vecchiaia o alla cattiva salute che era poi già l’opinione di Celso. Ma in Italia il “fuoco di Sant’Antonio” come lo descriveva il protomedico del santuario antoniano non doveva essere stato così tremendo o così frequente. Forse perché si mangiava più pane di frumento che pane di segale o forse perché il clima era globalmente più mite di quello dell’Europa continentale, sta di fatto che il nostro Santo fu impercettibilmente ma irresistibilmente collegato ad una malattia del tutto diversa: l’herpes zoster46. In altre parole gli italiani avevano recuperato l’antica attribuzione nosologica di Plinio che riconosceva nel “fuoco sacro” appunto lo zoster. Nel Nord Europa forse l’herpes zoster si comportava in maniera più aggressiva. Questa è la traduzione di un passo contenuto in un libro anglosassone dedicato alla medicina popolare: “Fino ai giorni nostri c’è della gente, in Gran Bretagna, che ha visto la malattia serpeggiare e mostrarsi nella fastidiosa malattia chiamata shingles47. Un medico soffrì a tal punto che nei momenti di dolore eccessivo gli pareva di toccare con le sue mani le scabre scaglie del serpente immaginario”48. In Italia49 il “fuoco di Sant’Antonio” è diventato il sinonimo per eccellenza dell’herpes zoster. Anzi si può dire tranquillamente che l’eponimo ha sostituto la denominazione scientificamente corretta per maggior parte degli italiani, al punto che, se il medico vuole farsi capire dalle persone meno acculturate, è senz’altro meglio che dica: “Caro Signore, lei ha un brutto fuoco di Sant’Antonio” piuttosto che: “Caro Signore, lei ha un brutto zoster”. In questo secondo caso è quasi certo che il paziente assuma un’aria pensosa oppure che ribatta: “Non avrò, per caso, il fuoco di Sant’Antonio, dottore?” La storia degli herpes nella medicina è lunga e molto complessa. Così come il “fuoco” anche la parola “herpes” appare multiforme. Ancora oggi, nella 46 Come già detto, Herpes deriva dalla parola greca ερπειν che significa strisciare e vuole
probabilmente evocare il movimento e le figurazioni del serpente. Zoster deriva da un’altra parola greca (ζονα) che vuol dire “cintura” e che descrive il classico percorso di uno zoster toracico. Sinonimo di zoster è infatti la parola “zona”, che è usata comunemente nella letteratura medica francese. Anticamente si usavano anche i seguenti sinonimi: “hemizona”, “herpes zona”, “erysipelas zoster”; in Francia si trova la dizione di “la ceinture de Feu de SaintAntoine” o “feu Saint-Antoine”. 47 “Shingles” è il termine inglese comune per indicare l’herpes zoster e deriva dalla parola latina “cingulum” e quindi significa “cintura” esattamente come i termini “zoster” e “zona”, che derivano invece dal greco. 48 Black WJ. Folk Medicine. Burt Franklin, New York, 1970. 49 Sarebbe più corretto dire nell’area culturale italiana. A Malta, ad esempio, viene ancora usata questa espressione per indicare lo zoster.
Terapie popolari del fuoco di Sant’Antonio
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moderna terminologia dermatologica, i temini “erpes”, “erpetico”, “erpetiforme” si applicano a malattie del tutto diverse per presentazione clinica, gravità e decorso50. In particolare, lo zoster è rimasto per tempi immemorabili un’affezione misteriosa, per nulla (chi lo avrebbe mai pensato?!) in relazione al virus che provoca la varicella nei bambini. La descrizione della clinica dello zoster, soprattutto a partire dal XVII e dal XVIII secolo, appare del tutto corretta anche oggi ma l’interpretazione della sua eziopatogenesi rimane in questi testi nel limbo delle speculazioni con anacronistici rimandi ippocratici.
Terapie popolari del fuoco di Sant’Antonio Se per “fuoco di Sant’Antonio” intendiamo l’herpes zoster, le cure popolari trasmesseci dalla demoiatria sono molte. Al di là delle preghiere esistevano senz’altro riti più o meno complicati per la cura delle malattie. Il ricorso alle “fonti miracolose”, ad esempio, non si è spento neppure oggi e, per quanto ci riguarda, esiste una fontana di Sant’Antonio a Escorce dans les Landes (vicino a Sabres, nella regione di Bordeaux) che guarisce le malattie della pelle, “soprattutto l’herpes zoster e le ulcere varicose”51. Le ricette di medicina popolare per la cura dell’herpes zoster erano, con tutta verosimiglianza, moltissime, ma è altrettanto verosimile che molte siano state perse. Una di queste ricette ci viene dalla Sardegna, precisamente dal paese di Villamassargia, dove la malattia viene anche chiamata “fogu friru”. “La persona che fa questa medicina deve avere fatto come primo mestiere il porcaro. Mette dell’olio in un piatto, sfrega una lima d’acciaio su una pietra focaia, provocando delle scintille che devono colpire sia l’olio sia la parte malata; utilizza l’olio per frizionare la parte malata sino alla scomparsa delle bollicine. Più scintille vengono prodotte e più si impaurisce il malato, più la cura è efficace”. Da Carbonia ci viene una ricetta che si prepara con cardo stellato, calcatreppola, malva e ortica. Si fa un infuso di queste erbe e si eseguono dei lavaggi. Allo stesso infuso si può aggiungere camomilla, paritaria e pisciacane cipollino52. 50 Basti pensare che, oltre alle denominazioni appropriate dal punto di vista virologico (herpes
primario, herpes labiale, genitale, ecc.), ne esistono altre come l’herpes circinnatus (che in realtà è la tinea corporis, una dermatomicosi) e la dermatite erpetiforme (che è una malattia autoimmune, espressione cutanea di un’intolleranza al glutine) che con i virus della famiglia erpetica non hanno nulla a che fare. 51 De Marliave O. Sources des landes de Gascogne. Bordeaux, Horizon chimérique. 1982, p. 77. Citato in Cosson G. Guérir avec les saints. Paris, Cerf, 2000. 52 Atzei AD, Orrù L, Putzolu F, Rozzo G, Usala T. Le piante nelle terapie tradizionali. Sardegna sud-occidentale. Cagliari, STEF, 1994.
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Agli inizi della medicina moderna il Plenk consiglia una cura interna con sale amaro associata ad una esterna con fomenti secchi53. Turner, con scientifica modestia e non sapendo cosa indicare di meglio, consiglia più semplicemente l’applicazione di un unguento per non fare attaccare i vestiti54. Il grande Alibert propone un ampio ventaglio di cure: accanto alle terapie topiche (bagni o impacchi freddi; bagni oleosi; embrocazioni con latte, acqua di malva, o di linseme, con olii raddolcenti; pomata di giusquiamo, di belladonna, oppio; antisettici; tessuto imbevuto di olio di lino per impedire l’adesione della pelle ai vestiti; nitrato di argento per cauterizzazioni) consiglia trattamenti sistemici come il solito salasso con sanguisughe o flebotomia associato o meno ad emetici e purganti. Non contento prescrive anche una dieta leggera con: siero di latte reso lassativo coi sali neutri, i brodi di tartarughe e di rane o di pollo. Se non basta si possono anche somministrare ipnotici (oppio, lattuca, ninfea)55. Anche Bateman riconosce la relativa impotenza della medicina del tempo ed afferma che la durata dell’herpes zoster non può essere accorciata da alcun farmaco e comunque consiglia leggeri lassativi, diaforetici dolci, calmanti ed una dieta leggera. Il nitrato di argento può essere usato esternamente56. Il capitolo delle preghiere dedicate alla cura delle malattie degli uomini (e degli animali!) è un campo importante delle ricerche antropologiche. Per il carbonchio (antrace) che è una delle malattie un tempo indicate con il nome di “fuoco sacro” (“fuoco di sant’Antonio”) la letteratura francese ne riporta almeno due di cui una chiaramente dedicabile al nostro57; ecco il testo: “O Jésus mon Sauveur, Dieu et le vrai homme, Je crois fermement Que vous avez répandu votre sang pour nous, Je crois dans l’Eucharistie, Que vous avez souffert pour nous 53 Plenck J. De Morbis Cutaneis. Venezia, 1785. 54 Turner, 1714. 55 Alibert, 1815. 56 Bateman, 1821. 57 La traduzione italiana recita: “O Gesù mio salvatore,
Dio e il vero uomo, Io credo fermamente Che avete sparso il vostro sangue per noi, Io credo nell’eucaristia, Che avete sofferto per noi E sparso il vostro sangue prezioso per vostra volontà, Non mi dimenticate Nella vostra santa grazia Per la malattia per la quale imploro il nostro Sant’Antonio D’intercedere per noi, E così sia†”.
Terapie popolari del fuoco di Sant’Antonio
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Et répandu votre sang précieux de votre grâce, Ne m’oubliez pas Dans votre sainte grâce Pour la maladie dont j’implore nôtre Saint Antoine D’intercéder pour nous, Ainsi soit-il†”. La stessa letteratura riporta delle preghiere per far guarire l’herpes zoster. In Italia il modo più semplice pareva quello di segnare le parti malate con la croce e dire con devozione le orazioni58; esistono anche preghiere speciali come quella che si recitava in Sicilia riferitaci dal Pitré59 di cui riportiamo il testo: “Sant’Antonio àutu e putenti ‘Mmanu aviti lu focu ardenti; comu jistivu pi livanti e unenti, Comu ammanzistivu li porci di Tubia Ccussì ammanziti li cristiani a vògghia mia”. In Francia, per le ragioni esposte nei capitoli precedenti, le preghiere a San Antonio Abate sono indirizzate a curare l’ergotismo e l’erisipela, come la preghiera in rima qui riportata60. “Si la peau nous démange et brûle et nous obsède Saint Antoine et lui seul nous vient en aide. Contre le feu du corps, ce bon intercesseur Qui chasse le prurit et calme la douleur, Toujours obtient de Dieu qu’il accorde sa grâce, Et de l’érésipèle qu’il efface la trace. Par l’effet merveilleux d’un si puissant secours, Souvent la guérison survient en peu de jours; La mal épouvanté, précipitant sa fuite, S’en va dans les enfers trouver un autre gîte”.
58 Renzetti E, Tafani R. Sulla pelle del villano. San Michele all’Adige, 1988. 59 Da: Pitré G. Medicina popolare siciliana. Il vespro, Palermo, 1978. 60 In italiano: “Se la pelle ci corrode e brucia e ci ossessiona
Sant’ Antonio e lui solo ci viene in aiuto. Contro il fuoco del corpo, questo buon intercessore Che caccia il prurito e calma il dolore, sempre ottiene da Dio che gli accordi la grazia, E dell’erisipela ne cancella la traccia. Per l’effetto meraviglioso di un sì potente soccorso, spesso la guarigione sopravviene in pochi giorni; il male spaventato, precipitando la sua fuga, va all’inferno a trovarsi un altro rifugio”.
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Capitolo 3 • Medicina
Mini glaciazione Modificato da Giuliacci M., Corriere della Sera 07/02/1999 Nel periodo 1400-1850 si ebbe una “piccola glaciazione” caratterizzata da inverni molto rigidi, da un’avanzata verso sud dei ghiacci polari e da una discesa dei ghiacciai nelle valli. Questi inverni così freddi portarono carestie e peste che in tre secoli, secondo alcune stime, fecero più di 25 milioni di vittime, circa il 5% della popolazione di allora! Ecco una rassegna degli inverni più catastrofici dal 1300 alla fine del 1700, periodo che, forse non a caso, rappresenta l’acme delle epidemie del “fuoco di Sant’Antonio” in tutte le sue accezioni. 1315-16 Il freddo rigido nel nord Europa provoca una generale carestia con epidemia di peste. Nei documenti dell’epoca si legge che “occorreva nascondere i bambini onde evitare che venissero rapiti per essere di alimento ai ladri”. 1354-55 Il gelo avvolge l’intera Europa. Si può camminare sul lago di Zurigo, gelano l’Arno e il Reno. 1407-08 L’inverno più freddo degli ultimi 500 anni. I ghiacci polari, dopo aver raggiunto Islanda e Groenlandia, stanno per sommergere Scozia e Scandinavia. 1422-23 Ghiaccia la Senna a Parigi ove la neve resta ghiacciata fino a marzo. La carestia scatenata dal freddo fa registrare atti di cannibalismo in Russia. Gela il Baltico. I ghiacciai in avanzata bloccano definitivamente i passi alpini. 1434-35 Sull’Inghilterra nevica per 40 giorni consecutivi, in Francia vanno distrutti gran parte dei vigneti, già cancellati nella Gran Bretagna dai precedenti rigidi inverni. La banchisa popolare si insedia stabilmente nel Mar del Nord e i ghiacciai alpini iniziano a invadere anche le valli.
Mini glaciazione
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1480-81 Il gelido inverno dura sei mesi. Si taglia il vino con l’ascia e lo si vende a peso. 1492 Il papa dell’epoca, Alessandro VI, preoccupato dalla lunga assenza di notizie sui fedeli della Groenlandia, vi invia una spedizione e scopre che tutti gli abitanti sono morti per i rigori invernali. 1607-08 Ricordato come il Grande fratello, il rigido inverno ghiaccia il lago di Costanza. I ghiacciai alpini, nella loro inarrestabile avanzata, minacciano l’abitato di Chamonix. 1708-09 Secondo alcuni storici, è l’inverno più freddo che si sia mai verificato in Europa. La neve cade in Scozia da gennaio a giugno. 1783-84 L’inverno è così freddo che viene presa in seria considerazione l’evacuazione degli abitanti dell’Islanda i quali, per gli stenti, in appena due secoli, si sono ridotti da 73.000 a 42.000 unità. 1788-89 Gelano quasi tutti i fiumi europei. I ghiacci impediscono la navigazione nella Manica. Il porto di Ostenda può essere attraversato a piedi e a cavallo. 1794-95 La flotta olandese, imprigionata dai ghiacci in un canale, viene distrutta dagli Ussari francesi in una inedita battaglia tra cavalleria e vascelli. 1829-30 Freddo record sull’Europa da novembre a febbraio che distrugge gran parte di uliveti, castagneti e vigneti.
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Herpes Zoster Zoster (dal greco zostrix = cintura), fuoco di Sant’Antonio, in francese zona (un sinonimo greco di cintura) in inglese shingles (dal latino cingulus = cintura), in tedesco Gürtelrose (rosa a cintura o esantema a cintura). L’herpes zoster, meglio conosciuto in Italia col termine di “fuoco di Sant’Antonio”, è una malattia molto diffusa: sono stimati 1,5 milioni di casi in tutta Europa ed almeno mezzo milione di casi negli Stati Uniti ogni anno. La malattia colpisce tutte le razze anche se, negli Stati Uniti, sembra che la popolazione di pelle scura sia meno colpita. Non vi è differenza di incidenza nei due sessi mentre essa aumenta con l’età del paziente, e si stima che l’80% dei casi si verifichi dopo i 20 anni di vita. Oggi sappiamo che esistono almeno otto herpes virus umani (HHV) e tutti sono stati associati a malattie cutanee. Gli herpes virus sono virus a DNA con struttura icosaedrica contenente 162 capsomeri (Fig. 3.10). Il capside è circondato da una membrana lipidica con prolungamenti costituiti da glicoproteine (Fig. 3.11). Gli herpes virus albergano nell’ospite per tutta la vita, nonostante lo sviluppo di anticorpi o di risposta immunitaria cellulare. Essi possono venire suddivisi in base alla sequenza del DNA e distinti tramite PCR, test colturali ed immunoistochimici, nonostante la maggior parte di essi appaia identica alla microscopia elettronica. Sebbene l’uomo sia l’unico ospite possibile per questi virus, scimmie e primati ospitano una varietà di herpes virus tipici delle scimmie che possono infettare ed uccidere l’uomo.
Storia Come già accennato nella prima parte di questo libro, l’herpes zoster è una malattia conosciuta sin dall’antichità anche se per tempi immemorabili è rimasto un’affezione misteriosa (come quasi tutte le malattie) ed ovviamente mai messa in relazione alla varicella. La descrizione della clinica dello zoster nella letteratura medica classica e soprattutto post-rinascimentale appare perfettamente comprensibile, anche se l’interpretazione della sua eziopatogenesi rimane nell’ambito delle antiche speculazioni galeniche. Inoltre, la parola herpes viene impiegata per tante malattie che non hanno nulla a che vedere con quelle provocate da virus omonimi. È solo alla fine del ’700 che Willan si libera dalle teorie ippocratiche e, insieme all’allievo Bateman, pubblica le prime illustrazioni di lesioni dermatologiche. Lungo tutto il decorso dell’800 vi è una fioritura di atlanti dermatologici che illustrano le malattie della pelle con bellissime incisioni acquerellate: tra i più famosi citiamo quelli della scuola francese di Alibert (Fig. 3.12), di Rayer (Figg. 3.13-3.16) e di Cazenave (Fig. 3.17); quelli della scuola inglese di Willan e Bateman (Fig. 3.18) e di Wilson (Fig. 3.19); quello della scuola austriaca di Hebra (Fig. 3.20). Verso la metà dell’800 entrano nell’iconologia dermatologica altre
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Figura 3.10. Virus erpetico al microscopio elettronico. Per gentile concessione del Dr.Frank Fenner, John Curtin School of Medical Research, Canberra Australia
Figura 3.11. Struttura schematica del Varicella Zoster Virus (ZVZ). Riprodotta da: Expert Reviews in Molecular Medicine ©2005 Cambridge University Press, con autorizzazione
due tecniche: la ceroplastica e la fotografia. La prima era in realtà l’applicazione alla dermatologia della ceroplastica artistica, che in Italia aveva avuto un grande maestro nel siciliano Zumbo già a metà del ’600. Ercole Lelli, Anna Morandi Manzolini, Clemente Susini e Giuseppe Astori sono i personaggi che utilizzarono le cere soprattutto per agevolare lo studio medico anatomico. Ma è con Jules Baretta (Fig. 3.21), un còrso che a Parigi fabbricava artigianalmente della frutta in cartapesta, che si deve l’ingresso ufficiale delle cere (moulages in francese; moulagen in tedesco; waxes in inglese) nell’olimpo dermatologico. Negli altri paesi europei e soprattutto in Germania (Fig. 3.22), le cere dermatologiche ebbero un grande successo per la possibilità di riprodurre le malattie in maniera tridimensionale e con grande accuratezza cromatica. Anche in Italia, che era stata la patria della grande ceroplastica artistica, il dermatologo Angelo Bellini all’inizio del ’900 produce le cere che ancora oggi si possono ammirare nell’atrio della Clinica Dermatologica Milanese (Fig. 3.23).
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Figura 3.12. Zoster toracico, Alibert
Figura 3.13. Zoster facciale, Rayer
Figura 3.14. Zoster orale, Rayer
Figura 3.15. Zoster toracico, Rayer
Figura 3.16. Zoster toracico, Rayer
Figura 3.17. Figura 3.12.
Zoster cervicale, Cazenave
Figura 3.13.
Figura 3.14.
Figura 3.15.
Figura 3.16.
Figura 3.17.
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Figura 3.18. Zoster addominale, Willan e Bateman
Figura 3.19. Zoster dorsale,Wilson
Figura 3.20. Zoster facciale, Hebra
Figura 3.21. Busto in cera di Jules Baretta, esposto nel Musée des Moulages de l’Hôpital Saint-Louis, Paris
Figura 3.18.
Figura 3.19.
Figura 3.20.
Figura 3.21.
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La fotografia è invece una tecnica del tutto nuova ma che irrompe a gran velocità e già nel 1868 Hardy e Montméja pubblicano a Parigi il primo atlante fotografico delle malattie della pelle (Fig. 3.24). Nella cultura extraeuropea lo zoster era perfettamente conosciuto anche se l’iconografia antica è assai carente. Un bel quadro di Ernest Board, conservato in una raccolta privata di Istanbul, mostra una visita ad un paziente con un chiaro zoster toracico, effettuata dal grande medico arabo Abu’l Qasim vissuto a cavallo del primo millennio della nostra era (Fig. 3.25). Figura 3.22. Cera tedesca di F. Kolbow riproducente uno zoster facciale. Da Korting GW et al. Moulagen-Moulages. Medizin-historisches Bildatlas. Diesbach, Berlin, 1998
Figura 3.23. Zoster toracico in una cera di Angelo Bellini esposta presso la Clinica Dermatologica dell’Ospedale Maggiore di Milano
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Figura 3.24. Un caso di zoster dall’Atlante Fotografico di Hardy e Montmèja, 1868
Figura 3.25. Ernest Board. Abu’l Qasim insegna ai suoi discepoli. La tela vuole raffigurare, in una illustrazione a richiamo storico e di significato esplicitamente celebrativo, uno dei più illustri rappresentanti della cultura medica araba del Califfato occidentale: Abu’l Qasim (936-1013). È ripreso mentre esamina un paziente con manifestazioni cutanee abbastanza ben riconoscibili come zosteriane. Olio su tela (1912). Instanbul, Akduman Inci Etiler.Collezione privata
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Epidemiologia Non ci sono moltissimi dati affidabili, data la grande variabilità dei segni/sintomi e dell’età di insorgenza. Gli studi più recenti ed affidabili indicano una frequenza di 120-350 per 100.000 persone/anno.
Eziopatogenesi L’herpes zoster è provocato dal Varicella Zoster Virus (VZV) o herpes virus3 umano, che è un α-herpes virus, quasi identico all’Herpes Simplex Virus (HSV), ma distinguibile da questo tramite coltura, immunofluorescenza e PCR. Quando il virus VZV entra a contatto con il nostro organismo per la prima volta, non trova ostacoli e quindi si moltiplica in maniera rapida dando origine a lesioni diffuse, che costituiscono appunto la varicella. Se l’individuo sopravvive, cosa che succede nella stragrande maggioranza dei casi in soggetti immunocompetenti, il virus determina immunità e però si ripara, come altri virus della famiglia erpetica, in un ganglio nervoso, pronto a riattivarsi una volta che le difese immunitarie si siano abbassate sotto una soglia critica. Da qui il virus può riattivarsi dando origine all’herpes zoster (Fig. 3.26). A differenza dell’HSV, in cui le recidive sono la regola, solo il 5% degli individui presenta un secondo episodio di herpes zoster. Le complicazioni del sistema nervoso centrale possono verificarsi sia nel corso della prima infezione sia nella riattivazione del VZV. Le complicazioni neurologiche del VZV non sono frequenti; nella varicella sono rare e coinvolgono probabilmente meno dell’1% dei bambini; nell’herpes zoster sono ancora più rare. Le compromissioni più gravi si verificano quando il VZV invade il midollo spinale o le arterie cerebrali dopo riattivazione del virus, provocando malattie come mielite e vasculopatie focali (Fig. 3.26). Le linee guida dell’International Herpes Management Forum (IHMF) raccomandano, nel caso di una sospetta vasculopatia da VZV, che il liquido cerebrospinale venga analizzato tramite PCR per la ricerca del DNA del VZV. Dato che gli anticorpi anti-VZV possono essere presenti nel liquido cerebrospinale in presenza o in assenza di DNA identificabile del VZV, bisognerebbe anche analizzare il liquido cerebrospinale per il DNA specifico VZV, se vi è un fondato sospetto di una malattia del sistema nervoso centrale. Una diagnosi precoce delle gravi complicazioni (vedi Tabella 3.1) è importante, dato che un trattamento aggressivo può essere efficace. In breve, il virus VZV causa una malattia primaria (la varicella) ed una secondaria (l’herpes zoster) quando si riattiva; in genere quindi il virus VZV provoca la varicella nei bambini e nei pazienti immunocompromessi e lo zoster negli adulti e negli anziani. I pazienti con zoster possono infettare i bambini e i pazienti immunocompromessi che non sono stati mai esposti al virus, dando origine alla
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Figura 3.26 Storia naturale dell’herpes zoster
Infezione primaria con VZV (Varicella) Latenza Riattivazione Paziente immunocompetente Mielite
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Arterite granulomatosa dei grandi vasi
Neuralgia Post Herpetica
Zoster sine herpete Paziente immunocompromesso Mielite
Encefalite dei piccoli vasi
Tabella 3.1 • Complicazioni neurologiche associabili al Virus VZV Modificato da: Echevarria JM, Casas I, Martinez-Martin P. Infections of the nervous system caused by varicella zoster virus: a review. Intervirology 1997;40:72-84 Varicella
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Atassia cerebellare acuta Vasculopatia (encefalite) Meningite asettica Mielite Sindrome di Reye Neurite ottica Sindrome di Guillain-Barré Vasculite
Dolore associato a Zoster Vasculopatia (encefalite) Meningite asettica Mielite Neurite ottica Neurite retrobulbare Paralisi dei nervi cranici Debolezza focale motoria Vescica neurogenica Sindrome di Guillain-Barré
Assenza di lesioni cutanee Vasculopatia unifocale Vasculopatia (encefalite) Encefalite Polineurite acuta Mielite Meningoradicolite
varicella. Chi, invece, ha già avuto la varicella, ha già sviluppato un’immunità specifica ed è quindi difficile che sviluppi lo zoster per un contatto esterno con un paziente affetto da varicella o da zoster; se sviluppa lo zoster è solo a causa di una sua situazione immunitaria. Nella maggioranza dei pazienti l’unico fattore di rischio è l’età avanzata; altrimenti il tratto più importante resta l’immunosoppressione, sia che dipenda da fattori microbiologici sia da cause iatrogene. In altre parole, lo zoster, nella popolazione anziana normale, non è un marker paraneoplastico. Anche alcuni fattori scate-
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Capitolo 3 • Medicina
Figura 3.27. Dermatomeri. Riprodotta da: Courtesy of The Wistar Institute, Wistar Archive Collections, Philadelphia, Pennsylvania, Fred Keeney, Photographer, con autorizzazione
nanti conosciuti (infreddature, eccessiva fotoesposizione, infezioni intercorrenti, traumi, ustioni solari e terapia radiante) o sconosciuti riattivano il virus che tipicamente coinvolge un singolo nervo sensitivo ed il suo dermatomero (Figg. 3.27, 3.28). Tra i fattori generali, oltre all’onnipresente stress ed alle malattie intercorrenti, possono giocare un ruolo anche veleni quali l’arsenico ed il monossido di carbonio. Complicazioni viscerali e, come detto, neurologiche sono eventi rari nei pazienti immunocompetenti. I pazienti con HIV/AIDS, con neoplasie (soprattutto malattie linfoproliferative come linfomi e leucemie) e con immunosoppressione iatrogena, sono ovviamente predisposti a sviluppare lo zoster in una forma più severa ed anche ad un’età precoce. In questi casi, inoltre, lo zoster si può diffondere eccezionalmente oltre i dermatomeri simulando una varicella (zoster varicelloso). Il decorso clinico dell’herpes zoster è illustrato nella Figura 3.29.
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Figura 3.28. Dermatomeri del capo. Riprodotta da: B.Turner, Lecture 36.Touch: Body + Head to Cortex. © 1996-1999. Per gentile concessione di B.Turner
Figura 3.29. Schema del decorso clinico dello zoster
Herpes Zoster: Decorso naturale prodromi
Pazienti %
acuzie
complicazioni
100 croste-ulcere vesciche riepitelizzazione 50
0
0
2
4
6
8
10
Tempo 12 (giorni)
PHN=Neuralgia Posterpetica Adattato da Hope-Simpson RE. Geriatrics. 1967;22:151-159
Clinica Lo zoster è, generalmente, una malattia dermatomerica. Tipicamente il paziente in fase iniziale accusa dolore senza manifestazioni cutanee, ma talora avverte solo una sensazione fastidiosa che non riesce a descrivere bene; nei pazienti giovani e soprattutto nei bambini i prodromi dolorosi possono mancare del tutto. Negli anziani, invece, il dolore può divenire molto intenso, tanto da suggerire un’ampia varietà di malattie acute che vanno da un problema odontoiatrico all’ernia del disco fino all’infarto, dato che qualsiasi nervo può essere coinvolto. Entro le 24-48 ore dall’insorgenza dei sintomi soggettivi, appaiono le lesioni cutanee, inizialmente sotto forma di macule e
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Capitolo 3 • Medicina
Figura 3.30. Zoster toracico
Figura 3.31. Un particolare della precedente
Figura 3.32. Zoster bolloso
Figura 3.33. Zoster ulcerativo
Figura 3.34. Zoster necrotico
Figura 3.30.
Figura 3.31.
Figura 3.33.
Figura 3.32.
Figura 3.34.
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placche eritematose ed eventualmente edematose o infiltrate, spesso ovali e disposte linearmente. Dopo un ulteriore intervallo, talora breve, talora di alcuni giorni, si sviluppano le tipiche lesioni erpetiche a grappolo, che si manifestano come vescicole tese ed inizialmente limpide nel contesto delle aree eritematose (Figg. 3.30, 3.31). I grappoli di vescicole si diffondono lungo i dermatomeri coinvolti, talvolta interessandoli quasi completamente (Fig. 3.32), talaltra con gruppi di vescicole separati da aree di cute normale. Le vescicole sono di solito relativamente resistenti ed evolvono facilmente in pustole nei giorni successivi; prima di rompersi, si trasformano in croste aderenti siero-ematiche. Talvolta le lesioni sono particolarmente gravi e arrivano ad essere emorragiche o addirittura necrotiche (Figg. 3.33, 3.34), probabilmente a causa di infezioni secondarie. In questi casi, che sono rari e sono per lo più appannaggio dei pazienti immunodepressi, possono residuare antiestetiche cicatrici permanenti. Nella maggior parte dei casi, invece, lo zoster lascia delle sequele discromiche transitorie. Nei bambini, come già accennato, lo zoster oltre ad essere paucisintomatico può anche essere poco rappresentato sul piano cutaneo con poche vescicole disposte linearmente a grappolo (Figg. 3.35, 3.36), talora anche nei casi di bambini con moderata immunodepressione iatrogena (Fig. 3.37). L’eruzione si completa nel giro di pochi giorni e tende a rimanere nell’ambito del dermatomero di partenza, anche se alcune lesioni possono ritrovarsi nei dermatomeri contigui, tanto che un coinvolgimento di tre dermatomeri può essere ancora considerato nei limiti della norma. Il reperto di lesioni erpetiche all’esterno di tre dermatomeri è invece sintomo di disseminazione e la comparsa di lesioni extradermatomeriche nelle prime 12-24 ore è motivo di preoccupazione molto maggiore rispetto alle poche lesioni sparpagliate che possono comparire nel decorso della malattia. Le fasi della guarigione dell’herpes zoster sono riassunte nella Tabella 3.2. La linea mediana non viene quasi mai superata, ad eccezione di poche lesioni che possono apparire proprio sopra la linea, rispecchiando il cammino dei piccoli rami nervosi. Raramente si verifica che lo zoster coinvolga simultaneamente due nervi separati, ed eccezionale sembra essere lo zoster bilaterale. Anche le mucose all’interno del dermatomero possono essere colpite e una linfoadenopatia regionale è tipicamente presente. In alcuni casi, come abbiamo accennato precedentemente, le lesioni cutanee possono svilupparsi senza dolore significativo; viceversa, ci può essere un intenso dolore unilaterale senza manifestazioni cutanee (zoster sine herpete) o con manifestazioni talmente modeste da passare inosservate e da essere interpretate altrimenti. Tali pazienti, evidentemente, non si recano dal dermatologo e rappresentano una sfida diagnostica per tutti gli altri medici: un esempio classico è dato dallo zoster della vescica che provoca una paralisi locale con una ritenzione acuta di urina. A nostro parere, lo zoster sine herpete è assai raro; è più probabile l’ipotesi che in questi casi le lesioni siano minime o atipiche (ad esempio, piccole pustole isolate mimanti delle follicoliti innocenti) e tali da non destare il giusto sospetto.
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Capitolo 3 • Medicina
Figure 3.35, 3.36. Classico zoster toracico in bambino praticamente asintomatico
Figure 3.37. Zoster toracico in bambina cushingoide per trattamento steroideo sistemico
Figura 3.35.
Figura 3.36.
Figura 3.37.
Tabella 3.2 • Fasi di evoluzione dell’herpes zoster acuto nel paziente immunocompetente Tempo
Fase di evoluzione
3-5 giorni 4-6 giorni 7-10 giorni 2-4 settimane
Cessazione della formazione di nuove vescicole Le lesioni sono in fase di pustola Le lesioni sono in fase di crosta Guarigione completa
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Poiché vengono prevalentemente coinvolti i nervi sensitivi, il dolore è il disturbo lamentato più comunemente. In fase prodromica, come già accennato, il dolore può precedere di due-tre giorni la comparsa delle caratteristiche lesioni vescicolari. Durante questa fase il paziente può sentire dolore oppure parestesie provocati dalla neurite acuta; inoltre la fase prodromica può essere accompagnata anche da malessere e sensazioni di battito, che può essere costante o intermittente. Durante l’eruzione, il dolore è presente nella maggior parte dei pazienti, ma in proporzione diversa a seconda dell’età. Meno del 20% dei pazienti sotto i 20 anni avverte dolore mentre questa percentuale sale ad oltre l’80% nei pazienti che hanno più di 50 anni. Inoltre, vi può essere dolore persistente noto come nevralgia posterpetica (nella letteratura inglese è indicato anche come PHN, Post Herpetic Neuralgia), che può durare per mesi o anni e che può risultare debilitante causando un cospicuo abbassamento della qualità di vita del paziente. La nevralgia posterpetica è tipica dell’età avanzata ed è sostanzialmente in relazione alle compromesse condizioni generali del paziente. Vi sono diverse definizioni di nevralgia posterpetica: per alcuni è caratterizzata dalla persistenza del dolore dopo la scomparsa dei segni cutanei; per altri dalla persistenza del dolore dopo un mese dalla guarigione cutanea; per altri ancora, infine, dalla persistenza del dolore a tre-sei mesi dall’eruzione cutanea. La nevralgia posterpetica è vista come una conseguenza di un danno cicatriziale del ganglio della radice dorsale con eventuale atrofia del corno dorsale omolaterale. Il decorso si svolge sostanzialmente in funzione delle condizioni generali del paziente. Nei pazienti immunocompetenti e non troppo anziani, infatti, il decorso è sostanzialmente autorisolutivo; nei pazienti immunodepressi o molto anziani, o in cattive condizioni generali, non solo la malattia dura più a lungo, ma è anche più dolorosa e a rischio di complicazioni. Nei pazienti con queste caratteristiche l’obiettività cutanea può essere importante e presentare bolle emorragiche, papule ipercheratosiche o verrucose ed anche lesioni gangrenose. Tra le complicazioni, un particolare rilievo hanno le superinfezioni batteriche, che possono causare cicatrici anche importanti, e i danni neurologici e viscerali. Le complicazioni neurologiche sono varie: mal di testa, alterazioni del sensorio, segni di meningismo, paralisi ed eventualmente encefalomielite. Gli incidenti cerebrovascolari sono rari e sono probabilmente dovuti ad una angiite granulomatosa delle arterie cerebrali. Le complicazioni viscerali comprendono la polmonite, l’epatite, la peri/miocardite, l’artrite, la gastrite, l’enterocolite e la cistite. Si stima che un 10-20% dei pazienti con tali complicazioni abbia un esito fatale.
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Varianti speciali di zoster Zoster oftalmico. Il coinvolgimento della prima branca trigeminale provoca lesioni alla regione frontale ed alle palpebre, soprattutto alla superiore. L’edema palpebrale è spesso importante e le lesioni tendono ad essere molto dolorose ed emorragiche. È normalmente presente una linfoadenopatia preauricolare. In alcuni pazienti, specialmente quelli in cui è coinvolta la punta del naso, attraverso la branca naso-ciliare del trigemino, si può osservare coinvolgimento oculare con possibili cheratiti, uveiti e paralisi muscolare (segno di Hutchinson). Il consulto oftalmologico è quindi obbligatorio, poiché occorre soppesare attentamente il quoziente terapeutico dei corticosteroidi. Quadri gravi o trattati in modo inappropriato possono anche presentare lesioni transitorie o permanenti. Tra esse citiamo la retrazione cicatriziale della palpebra, la ptosi (da paralisi), la paralisi del muscolo extraoculare, la corioretinite, la neurite ottica, la cheratite neurotropica con ulcerazione e successiva cicatrice con perdita della visione. Zoster orale. Quando vengono coinvolte la seconda e la terza branca del nervo trigemino, si possono trovare lesioni all’interno del cavo orale, che riguardano il palato duro e la regione mascellare se è colpita la seconda branca, o la lingua e la regione mandibolare se è colpita la terza branca. All’interno della mucosa, mancando lo strato corneo, è difficile osservare vescicole intatte; si osservano più che altro erosioni a grappolo su base eritematosa. In alcuni pazienti, la malattia si può presentare sotto forma di mal di denti senza alcuna lesione cutanea o mucosa (zoster sine herpete). Zoster cranico. I pazienti con coinvolgimento dei nervi del cuoio capelluto e del collo possono lamentare mal di testa, collo irrigidito e linfoadenopatia. La topografia dermatomerica, anche a causa dei capelli, non è chiara, come pure la lateralizzazione. Tali pazienti possono essere diagnosticati per meningite. Zoster otico o auricolare. Sono pazienti che presentano un dolore acuto unilaterale all’orecchio spesso accompagnato da ronzii auricolari e vertigini. Coll’otoscopio si possono osservare piccole vescicole o erosioni sull’orecchio esterno, sulla membrana timpanica o lungo il canale auricolare. Nella sindrome di Ramsay-Hunt vi è una combinazione di paralisi facciale e dei nervi auricolari (ganglio genicolato) con sintomi vari (tinnitus, vertigine, sordità, nistagmo). In circa un terzo dei pazienti si può avere una perdita di udito permanente. Zoster perineale. In questa regione, la forma dei dermatomeri non è facilmente riconoscibile ed i pazienti si possono presentare con dolore, incapacità ad urinare o costipazione. Tali pazienti, in particolare se anziani, dovrebbero essere esaminati attentamente: un test di Tzank su di una piccola
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lesione che appare magari come una innocua e banale follicolite, potrebbe rivelare la presenza delle tipiche cellule ballonizzate del VZV ed indicare rapidamente la giusta diagnosi. In questa area il coinvolgimento dei nervi vescicali può portare ad un’anuria acuta. Embriopatia zosteriana. Quando una donna gravida sviluppa lo zoster, per il neonato esiste un rischio che è teoricamente simile a quello per la varicella in gravidanza. Tuttavia, dato che lo zoster è raro nelle donne in età fertile e che la viremia è di entità inferiore, il rischio è molto basso. Zoster in HIV/AIDS. Lo zoster in un giovane adulto, soprattutto se grave per sintomi (dolore intenso) e segni (lesioni emorragico-necrotiche) dovrebbe far sospettare una immunodeficienza acquisita. Inoltre, nei pazienti HIV-positivi con infezioni in fase più avanzata, il rischio maggiore è la disseminazione. Alcuni di questi pazienti non rispondono all’aciclovir e richiedono pertanto un’altra terapia antivirale.
Istopatologia La lesione da zoster è citologicamente ed istologicamente identica a quella della varicella e dell’herpes simplex. In citologia, il test di Tzanck è ancora una volta positivo, rivelando cellule giganti multinucleate (o cellule ballonizzate) ben visibili nelle prime 48 ore dell’eruzione. Nelle lesioni vecchie, pustolose, prevalgono i polimorfonucleati e le cellule epidermiche sono ormai distrutte; diventa quindi assai arduo, se non impossibile, stabilire una diagnosi corretta con la sola citologia. All’istologia, nei casi più severi si può osservare una vasculite.
Diagnosi differenziale Nei casi tipici, la diagnosi differenziale è molto povera, soprattutto quando la sede sia quella tipica toracica. Altrimenti le diagnosi differenziali sono tante; tra esse citiamo la dermatite da contatto irritativa ed allergica, le ustioni, le lesioni da virus vaccinico, l’impetigine e l’eresipela, oltre che, ovviamente, la varicella. Una particolare diagnosi differenziale da prendere in considerazione è la dermatite da Pederus. Questa forma è causata da un contatto involontario con il liquido urticante del Pederus fuscipex, quando questo insetto impatta o viene schiacciato sulla cute. La lesione tipicamente è un eritema vivo con una vescicolazione “a rosa di pallini”. La differenza principale è data dal fatto che le lesioni da Pederus sono quasi asintomatiche, nonostante l’obiettività possa essere abbastanza impressionante. La principale diagnosi differenziale dello zoster è comunque con l’herpes simplex zosteriforme. È vero che l’herpes simplex recidiva frequentemente
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mentre l’herpes zoster assai raramente, ma, dato che questa possibilità esiste, una sicura diagnosi può essere fatta solamente identificando il virus con colture, immunofluorescenza o PCR. Rispetto al simplex, lo zoster tende ad avere lesioni in stadi multipli di sviluppo e ad essere più emorragico. Altri virus come i Coxsackie possono causare eruzioni zosteriformi, ma tali eventi sono rari.
Terapia In epoca pre-antivirale, è stata invocata ogni terapia per la cura dell’herpes zoster. Senza andare troppo indietro nel tempo e per rimanere alle radici della dermatologia moderna, possiamo cominciare con Plenck che nel 1785 consiglia una cura interna con sale amaro ed esterna con fomenti secchi. Turner, ben sapendo che ai suoi tempi (siamo nel ’700) non c’erano cure che funzionassero, si limitava a prescrivere un unguento per non fare attaccare i vestiti. Il barone Alibert nel 1815 era ancora infatuato dalla dottrina degli “umori”, e quindi consigliava le sanguisughe o la flebotomia accanto a acqua di malva, pomata di giusquiamo, di belladonna, oppio. Come Turner, suggeriva un tessuto imbevuto di olio di lino per impedire l’adesione della pelle ai vestiti, ma anche il nitrato d’argento per cauterizzazioni. Bateman nel 1821 dichiara che le terapie esterne sono inutili, salvo forse il nitrato d’argento per cauterizzare le lesioni. Di tutto ciò, sono rimasti alcuni principi generali, come consigliare un assoluto riposo per non stressare ulteriormente l’organismo; ciò consente di accelerare la guarigione, di limitare la disseminazione delle lesioni ed il dolore, e soprattutto la neuralgia posterpetica.
Sistemica La terapia dello zoster dipende essenzialmente dalle condizioni generali del paziente e dai suoi sintomi. In un giovane immunocompetente che non mostri un dolore franco ma solo un fastidio generico, la terapia potrebbe ridursi solo al riposo mentre nei pazienti sopra i 50 anni si raccomanda di iniziare la terapia e preferibilmente nelle prime 72 ore dalla comparsa delle lesioni. In pazienti sintomatici e, evidentemente, negli immunodepressi, la terapia deve essere prontamente instaurata a maggior ragione. Gli antivirali antierpetici disponibili sono aciclovir, famciclovir, valaciclovir, brivudin e foscarnet. La maggior parte dei pazienti immunocompetenti, così come quelli con una immunocompromissione non severa, sono trattabili con la terapia orale. Alla luce dei migliori profili di farmacocinetica e dei più semplici schemi di somministrazione, il famciclovir o il valaciclovir hanno sostituito l’aciclovir come trattamento di prima scelta dell’herpes zoster. L’aciclovir è il farmaco capostipite nella cura delle infezioni erpetiche ed è utilizzato da quasi 20 anni; ma, dato che il VZV è molto meno sensibile al-
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l’aciclovir rispetto a HSV, la terapia standard richiede la somministrazione di 800 mg cinque volte al giorno per una settimana. Deve essere impiegato preferibilmente entro le 48 ore dall’inizio dell’esantema zosteriano ed è in genere ben tollerato, anche se, a causa di una certa nefrotossicità, deve essere posologicamente ridotto in caso di insufficienza renale. Il probenecid e la zidovudina ne prolungano l’emivita e ne possono incrementare la neurotossicità. Il farmaco accelera la guarigione delle lesioni cutanee e l’eliminazione del virus, e riduce il dolore. Non sembra che possa invece influenzare la nevralgia posterpetica. Il famciclovir è un derivato guaninico che è poi metabolizzato a penciclovir, che è il suo metabolita attivo. Come l’aciclovir, è abbastanza ben tollerato (moderata nausea e cefalea) e deve essere ridotto nei pazienti con insufficienza renale. Il probenecid e la cimetidina ne possono aumentare la tossicità. Sembra essere più efficace nella nevralgia posterpetica. Il vantaggio è che può essere somministrato in un dosaggio molto più basso e per un numero minore di somministrazioni quotidiane (tre invece di cinque). Il valaciclovir è un valil-estere dell’aciclovir con effetti simili, ma esercita un’azione più rapida sul dolore e sulla nevralgia posterpetica. Come il famciclovir, si somministra solo tre volte al dì ma ad un dosaggio quattro volte più elevato del famciclovir. Il probenecid, la zidovudina e la cimetidina possono aumentare la tossicità per il sistema nervoso centrale. Il brivudin è un farmaco che inibisce selettivamente la replicazione del VZV e, in vitro, ha un’efficacia 1.000 volte maggiore di aciclovir e penciclovir, ragion per cui si somministra un basso dosaggio solo una volta al dì. Un ulteriore vantaggio, oltre a quello di non essere nefrotossico, sembra essere un diminuito rischio di neuralgia posterpetica nei pazienti che superino i 50 anni. Il vero aspetto negativo di questo farmaco è la sua incompatibilità con alcuni antitumorali. Dato che le neoplasie non sono certo inusuali negli anziani, questo limite non deve essere sottovalutato. Il foscarnet viene invece somministrato per via endovenosa alla dose di 40 mg/kg ogni 8 ore per 10 giorni. Gli schemi di terapia orale dello zoster sono riassunti in Tabella 3.3. Tabella 3.3 • Schemi di terapia orale dell’herpes zoster Antivirale
Posologia
Durata
Aciclovir Famciclovir Valaciclovir Brivudin
800 mg, 5x/dì 250 mg, 3x/dì 1000 mg, 3x/dì 125 mg, 1x/dì
7-10 gg 7 gg 7 gg 7 gg
La maggior parte dei pazienti HIV/AIDS è trattabile con terapia endovenosa, anche se alcuni pazienti sottoposti a chemioterapia sono trattabili con la
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semplice terapia orale. Il dosaggio di quest’ultima deve però essere più elevato; ad esempio famciclovir 500 mg tre volte al dì per 10 giorni. Il trattamento dello zoster oculare rapidamente progressivo nei pazienti immunocompromessi prevede una combinazione di foscernet e.v. 60 mg/kg tre volte/settimana in aggiunta alla terapia con ganciclovir endovenoso o intravitreale 400 mg, due volte/settimana. Lo zoster oftalmico, nei pazienti immunocompetenti, può anche essere trattato con famciclovir 500 mg / tre volte al dì per 7 giorni. Lo stesso schema può essere impiegato anche nei pazienti a rischio di nevralgia posterpetica. I pazienti con vasculopatia focale da VZV dovrebbero essere trattati con aciclovir endovenoso (10 mg/kg ogni 8 h per gli adulti, 500 mg/m2 per i bambini) per 7 giorni. I pazienti immunocompromessi possono richiedere un trattamento più lungo. La terapia dovrebbe comunque essere interrotta se la ricerca del DNA virale e degli anticorpi specifici nel liquido cerebrospinale è negativa in entrambi i casi. Bisogna invece considerare la possibilità di una terapia steroidea (prednisone 60-80 mg/die per 3-5 giorni) nei pazienti con vasculopatia focale da VZV, per ridurre l’infiammazione. Un problema riguarda il ruolo dei corticosteroidi sistemici nella cura dell’herpes zoster. Sebbene vi sia un rischio teorico di disseminazione durante le prime fasi, ci può anche essere un rapido miglioramento nel dolore e nell’infiammazione quando viene impiegato prednisone (alla dose di circa 1 mg/die) in dosaggi scalari nel giro di un mese. Non è chiaro se i corticosteroidi aiutino a prevenire la nevralgia posterpetica; la letteratura fornisce opinioni contrastanti in merito. Per ridurre il dolore acuto possono essere utilizzati sia farmaci antinfiammatori non steroidei che analgesici.
Topica Impacchi freddi con semplice soluzione fisiologica, soluzione di Burow o con lozioni alcooliche, mentolate o canforate, o semplicemente con la camomilla, possono portare un certo sollievo; anche prodotti galenici all’ossido di zinco possono procurare qualche beneficio. Alcuni medici prescrivono topici antisettici; l’utilizzo di topici deve essere fatto con cautela nella regione oculare. L’uso dell’aciclovir topico non sembra essere efficace e non è pertanto indicato. Antibiotici topici possono essere usati per prevenire o curare le superinfezioni batteriche.
Terapia della nevralgia posterpetica Uno dei problemi maggiori dell’herpes zoster è rappresentato dal dolore post-zosteriano. In linea di massima, si conviene che se la terapia è praticata nelle prime 72 ore della malattia, la guarigione sarà più rapida e il dolore post-zosteriano più limitato.
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Sistemica Sia i corticosteroidi che gli agenti antivirali sono raccomandati non solo per il trattamento acuto, ma anche per ridurre l’incidenza del dolore posterpetico. Non è ancora chiaro come esattamente essi funzionino, sia separatamente che in azione combinata. Un certo numero di farmaci psicoterapici è stato impiegato in questo contesto; nessuno di essi si è distinto per efficacia. È spesso utile richiedere l’aiuto di un neurologo o di un terapista del dolore, cosicché il paziente possa avere accesso ad un’ampia gamma di scelte. I farmaci che si impiegano comprendono l’ossicodone con paracetamolo, gli oppioidi, gli anestetici come la lidocaina, la levodopa, la benarazide, l’emetina e la diidroemetina. Si usano anche gli antidepressivi – come l’amitriptilina (50-100 mg/die), la nortriptilina e la desimpramina –, gli ansiolitici (aloperidina, levopromazina, clonazepam), la carbamazepina, la gabapentina ed il clorprotissene. Attualmente il trattamento di prima scelta prevede l’impiego dei cosiddetti ligandi alfa2-delta che comprendono la gabapentina e la pregabalina. La gabapentina può dare svariati effetti collaterali come sonnolenza, irritabilità, disturbi intestinali ed edemi periferici ed è quindi opportuno iniziare con una dose bassa (100 mg) e con una singola somministrazione serale. La dose può arrivare progressivamente sino a 300 mg e può essere somministrata sino a tre volte al dì. La pregabalina è strutturalmente simile alla gabapentina ma sembra possa essere aumentata in dosaggio più rapidamente. Entrambi questi farmaci hanno un’efficacia comparabile ai triciclici ma con un profilo più favorevole per quel che concerne gli effetti collaterali. Il loro dosaggio deve comunque essere regolato nei pazienti con insufficienza renale. Tra i triciclici va preferita la nortriptilina. In caso di fallimento di questi farmaci si possono usare dei non-triciclici come la duloxetina. In qualche paziente si sono rivelati efficaci gli inibitori della ricaptazione della serotonina come la fluoxetina, la paroxetina o la sertralina. Tra gli oppioidi deboli viene raccomandato il tramandolo mentre gli antinfiammatori non-steroidei non sembrano efficaci. Tra gli oppioidi forti la morfina, il metadone o l’ossicodone possono senz’altro essere utili, ma sono di solito somministrati in centri specializzati.
Topica Sono impiegati vari mezzi, come l’iniezione intralesionale di corticosteroidi, gli anestetici locali (EMLA o la semplice lidocaina al 5%) e anche la crioterapia; inoltre si può provare ad utilizzare la capsaicina topica (0.0250.075%) od altri agenti topici anti-prurito, ma la nevralgia posterpetica riflette un reale danno delle terminazioni nervose e quindi non è normalmente influenzata dalle misure topiche. In caso di dolore persistente si possono anche preparare dei topici contenenti combinazioni di triciclici, ligandi l’alfa2-delta e oppioidi. Trattamenti più impegnativi vanno fatti solo in centri specializzati e comprendono l’applicazione epidurale di analgesici e
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corticosteroidi, la stimolazione transcutanea dei nervi, la terapia con raggi gamma (Gamma Knife) ed infine la neurochirurgia.
Altre terapie L’agopuntura sembra avere successo, così come le tecniche di biofeedback. Per la prevenzione della nevralgia posterpetica, come già accennato, sembra che famciclovir, valaciclovir e brivudin accorcino la durata del dolore. Anche gli anestestici locali ed il metilprednisolone per via epidurale sono stati impiegati a questo scopo.Tra le terapie sperimentali, citiamo la vidarabina e la soriduvina, il lobucavir e la ciclocreatina ed infine l’interferon.
Prevenzione dell’herpes zoster È stato recentemente approvato dalla FDA e dall’EMEA un vaccino vivo attenuato contro il VZV, per la prevenzione dell’herpes zoster nei soggetti di 60 anni ed oltre (Zostavax). L’incremento dell’incidenza dell’herpes zoster negli adulti anziani ed il declino dell’immunità cellulo-mediata contro il VZV in funzione dell’età rendono conto del fatto che una stimolazione dell’immunità cellulo-mediata contro il virus in questione per mezzo della vaccinazione abbia un robusto razionale. È stato osservato che il vaccino riduce significativamente l’incidenza sia dello zoster che del dolore post-zosteriano. Esso è anche ben tollerato, dato che l’effetto collaterale più comune è rappresentato da lievi reazioni nella sede di inoculo. È stato anche dimostrato che la sua efficacia dura almeno 4 anni, anche se è probabile che duri più a lungo. Studi di lungo periodo determineranno la durata della protezione e quando sia opportuno usare una dose di richiamo. Il vaccino è attualmente commercializzato in molti paesi, per la prevenzione dell’herpes zoster in soggetti dai 50 anni in su e per la prevenzione dell’herpes zoster e del dolore post-zosteriano in soggetti dai 60 anni in su. A dispetto del successo iniziale, rimangono alcune incertezze, come l’età ideale per vaccinarsi e la durata dell’effetto. In linea di massima i vaccini a virus vivi sono sicuri quando sono somministrati prima o dopo un vaccino inattivato, ma sono solitamente controindicati nei soggetti immunodepressi. È attualmente in fase di valutazione l’efficacia di un vaccino a virus “uccisi” per l’impiego in questi soggetti. L’efficacia e la sicurezza del vaccino per lo zoster non è ancora stata stabilita in adulti affetti da HIV, con o senza evidenza di immunosoppressione. Gli individui immunocompetenti che abbiano 60 anni o meno, che siano VZV positivi e che si aspettino di diventare immunodeficienti nel prossimo futuro (ad esempio per trapianti d’organo, chemioterapia, o per l’evoluzione di una infezione precoce da HIV) possono risentire favorevolmente di questa vaccinazione, ma l’efficacia e la durata dopo l’instaurazione della immunosoppressione sono ancora sconosciu-
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te. Nonostante queste questioni aperte, l’avvento di un vaccino per prevenire una riattivazione di una varicella latente segna un importante progresso nella prevenzione dello zoster e delle sue sequele, dato che può prevenire quello che costituisce il peso maggiore tra i pazienti anziani e offre un nuovo paradigma per trattare lo zoster: la vaccinazione seguita da una rapida terapia antivirale per i casi di nuova insorgenza.
Prurito posterpetico Mentre la nevralgia posterpetica (PHN = post-herpetic neuralgia) è un tipo di dolore neuropatico noto e facilmente diagnosticato, sino a poco tempo fa il prurito posterpetico (PHI = post-herpetic itch) è stato ignorato o attribuito erroneamente a disturbi psichiatrici. In realtà, studi epidemiologici focalizzati su questo tipo di prurito neuropatico hanno dimostrato che il PHI è relativamente comune e frequente quasi quanto la PHN. I due disturbi possono coesistere o presentarsi separatamente, attestando l’esistenza di meccanismi indipendenti di dolore e prurito. Il PHI e la PHN hanno la stessa prevalenza in uomini e donne. Mentre il rischio di PHN si alza con il progredire dell’età, il PHI si può presentare sia in pazienti giovani che vecchi in seguito ad un episodio di zoster, più probabilmente localizzato alla testa e al collo. Normalmente, le persone grattano l’area pruriginosa fino al punto in cui questa inizia a essere dolorante. Quando il dolore prende il sopravvento sul prurito, il grattamento non procura più piacere ma dolore, e, di riflesso, cessa. Nel PHI, il grattamento dell’area interessata non causa dolore o ne causa poco, risultando così in una perdita del feedback protettivo: di conseguenza, il grattamento persiste inalterato, arrivando talvolta a provocare un danno importante, come dimostrato dalla drammatica storia di una donna con grave PHI, che a causa del grattamento incoercibile arrivò ad erodere la teca cranica sino all’esposizione della materia cerebrale! Nello studio fondamentale pubblicato nel 2002 da Oaklander et al., gli autori sono stati in grado di dimostrare che in questa paziente, nella zona interessata dal PHI, si aveva una riduzione del 96% dell’innervazione epidermica. Essi hanno dunque suggerito che l’eccessivo grattamento osservato in alcuni pazienti con PHI possa essere dovuto a una sensazione ridotta di dolore. Sfortunatamente, fino ad oggi, i meccanismi della PHN e del PHI non sono ancora ben compresi e non vi è dunque un trattamento di elezione per nessuna delle due malattie; tuttavia, l’esperienza clinica suggerisce che il prurito neuropatico possa essere più resistente al trattamento del dolore neuropatico. Dato che il prurito resistente al trattamento può causare depressione, ansia e disabilità, esattamente come il dolore neuropatico, si dovrebbe valutare una strategia terapeutica che preveda un trattamento complessivo in tutti i pazienti affetti da PHI. Innanzitutto, se i pazienti con PHI sono anziani, la secchezza cutanea tipica
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dell’età può esacerbare il prurito e attivare le proteasi seriche cutanee e i neuropeptidi che attivano le fibre nervose pruritocettive di tipo C. Pertanto, l’applicazione di emollienti e idratanti cutanei sul dermatomero interessato dal PHI può ridurre il prurito aumentando la funzione di barriera della cute. Per quello che riguarda le terapie farmacologiche, è importante ricordare che il prurito neuropatico non risponde agli antistaminici orali o ai farmaci antinfiammatori (come per esempio gli steroidi topici) che possono risultare invece utili per altri tipi di prurito. Tuttavia, gli antistaminici sedativi di prima generazione possono aiutare a trattare il prurito notturno grazie al loro effetto soporifero. La doxepina topica, che è un potente antistaminico e anche un antidepressivo triciclico, può ridurre il prurito, ma può al contempo causare ipersensibilità. Inoltre, non è detto che i farmaci efficaci per la PHN lo siano anche per il PHI; per esempio, gli oppioidi (trattamento elettivo nella PHN) possono causare prurito e quindi peggiorare il PHI. Gli anestetici topici locali sono una tappa fondamentale del trattamento, ma possono indurre allergia. L’utilità della capsaicina topica resta dubbia: questa neurotossina distrugge infatti l’innervazione cutanea; quindi, se la denervazione cutanea costituisce il maggior rischio del grattamento autolesivo, l’uso della capsaicina potrebbe in realtà aumentare tale rischio. Rinfrescare le cute con acqua fredda, con impacchi umidi o con mentolo topico sono tutti rimedi usati in medicina sin dall’antichità. Come la capsaicina, il mentolo può causare analgesia, desensibilizzando le fibre nocicettive di tipo C. Il mentolo ha un effetto antipruriginoso temporaneo, che dura poche ore e può sensibilizzare la cute. È stato descritto che l’aspirina topica può alleviare il prurito localizzato e la PHN riducendo la prostaglandina E2. Tuttavia, alte dosi di aspirina assunte per via orale non sembrano avere effetti sul prurito cronico. I farmaci impiegati per il trattamento della PHN (gabapentina, pregabalina e antidepressivi triciclici come la nortriptilina alla dose bassa di 25 mg per somministrazione serotina) vengono usati anche per curare un PHI concomitante. È stata proposta anche la somministrazione di inibitori sistemici dei canali del sodio, come la carbamazepina, l’oxcarbazepina e la difenilidantoina. Per finire, le terapie comportamentali possono migliorare la qualità di vita dei pazienti con PHI e diminuire almeno le conseguenze secondarie, se non le sensazioni vere e proprie. I pazienti possono essere aiutati a trovare degli “stimolatori” sostitutivi che possano causare meno danni delle unghie, come per esempio un guanto da bagno. La protezione passiva della cute dovrebbe essere presa in considerazione, per esempio facendo indossare ai pazienti dei guanti o delle muffole o, nei casi peggiori, impedendo l’azione delle mani, specialmente nel caso di grattamento notturno, dato che alcuni pazienti non se ne rendono conto.
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Erisipela L’erisipela è, insieme alla cellulite ed alla fascite necrotizzante, un’infezione acuta della cute profonda a rapida diffusione, febbrile, causata generalmente da Streptococcus pyogenes. Forse una volta questa malattia era più comune ed è certo che era temutissima perché molto dolorosa e spesso fatale. Gli antibiotici, dove essi siano facilmente disponibili, hanno grandemente migliorato la prognosi di queste patologie. La distinzione tra erisipela, cellulite e fascite necrotizzante è una schematizzazione scolastica di entità che possono sfumare tra loro.
Storia L’etimologia della parola deriva da due termini greci ερυθοσ (che è una variante di ερυθροσ che significa “rosso”) e πελλα (voce inusitata che significa “pelle” e che però si trova solo nel composto a-pelos che vuol dire “ulcera, ferita”). L’erisipela era una malattia gravissima che, nei vecchi e nei bambini, aveva una mortalità che tendeva al 100%! Solo l’avvento della moderna asepsi ha ridotto la mortalità intorno al 5-10% attuale, che è comunque molto alta. Nelle collezioni di cere dermatologiche ed anche nelle incisioni ottocentesche dall’Alibert (Fig. 3.38) al Rayer (Figg. 3.39, 3.40) si trovano fedeli immagini dell’erisipela, che è poi documentata nelle fotografie dei primi trattati fino ai giorni nostri. Una delle immagini più suggestive dell’erisipela viene dal Cerano, pseudonimo di Giovanni Battista Crespi, grande pittore barocco, che nei “quadroni” del Duomo di Milano dipinge nel 1610 il miracolo di Aurelia degli Angeli (Fig. 3.41). Ecco la cronaca coeva del fatto: “Aurelia delli Angeli aveva la gamba sinistra molto guasta dal male del canchero, con alcuni buchi profondi in essa, per la carne, e li nervi marciti, uscendo dalle invecchiate piaghe di tre anni, insieme con molta copia di materia carognosa, tanto grande fetore, che l’istesso Chirurgico veniva quasi meno nel medicarla. Onde ritrovandosi ella in malissimo stato, si votò l’anno 1601 al Beato Arcivescovo, e nell’invocarlo in aiuto avanti a una sua immagine, fu esaudita della sanità, col saldarsi le piaghe da se stesse”. Nei secoli passati, l’erisipela si curava come si poteva, ma, dato che le terapie mediche spesso fallivano, non si esitava a ricorrere all’amputazione di un arto per salvare il paziente. Fino agli anni ’30 del secolo scorso l’erisipela era trattata con i metodi più vari che comprendevano una miriade di sostanze per uso topico ed altrettante cure per via generale. Tra le terapie locali basta ricordare l’ittiolo e l’ossido basico di alluminio. A ciò si aggiungevano even-
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Figura 3.39.
Figura 3.38. Erisipela in un’incisione di Alibert
Figura 3.40. Erisipela in un bimbo, sempre di Rayer
Erisipela illustrata dal Rayer
Erisipela
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Figura 3.41. Il miracolo di Aurelia degli Angeli illustrato dal Cerano in un “quadrone”del Duomo di Milano
tualmente pennellature di fenolo, canfora, tintura di iodio e nitrato d’argento e si tentava di arrestare l’avanzamento del male demarcando le aree ancora sane della pelle con bende e cerotti adesivi. Per via generale si usavano, tra l’altro, iniezioni di etacridina, di calcio, di sali d’oro e di sangue autologo.
Epidemiologia Per secoli l’erisipela è stata una malattia comune ma oggi, con l’uso degli antibiotici, il problema si è molto ridimensionato nella maggior parte dei paesi occidentali. In Italia, almeno, l’erisipela colpiva le classi socio-economiche meno abbienti. Attualmente la malattia sembra essere abbastanza frequente nell’Europa dell’Est, come in Romania, anche se vi sono osservazioni di un’incidenza in aumento in Francia. La malattia è, in genere, più frequente dopo i 60 anni e nel sesso femminile.
Eziopatogenesi Gli streptococchi β-emolitici di gruppo A sono i più comuni agenti causali; lo Staphylococcus aureus è responsabile in un numero ridotto di casi e più facilmente quando sia presente un’evidente ferita o un’ulcera adiacente. Quando la via d’ingresso è costituita da puntura o morso di un animale o da una ferita contaminata, gli agenti causali possono essere molteplici, come pure negli immunodepressi. Tra essi segnaliamo: Haemophilus influenzae, Pseudomonas aeruginosa e Vibrio vulnificus. Comunque, nella maggior parte dei casi i batteri penetrano nella cute dal-
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l’esterno attraverso piccole ferite ed ovviamente anche da ferite chirurgiche. In rare occasioni, come le setticemie, i microrganismi possono invadere la cute dall’interno. Gli streptococchi inoltre secernono molti enzimi che facilitano la diffusione. La causa favorente delle dermoipodermiti è un difetto della barriera cutanea che può essere anche una banale tinea pedis, o una piccola abrasione traumatica accidentale. Disturbi vascolari (venosi, linfatici e/o del microcircolo come ad esempio nel diabete mellito) sono un potente cofattore soprattutto per gli arti inferiori.
Clinica Il sintomo chiave è un eritema caldo doloroso che rapidamente si estende alla periferia, con un bordo che è netto, “a scalino” nell’erisipela e più sfumato nella cellulite, verso la cute sana circostante. Le due sedi più comuni sono le guance (Fig. 3.42) e le gambe (Figg. 3.43-3.46). Sul volto il processo solitamente inizia dal dorso del naso (Figg. 3.47, 3.48) e si diffonde bilateralmente, associandosi ad edema palpebrale. Sulle gambe l’edema è minore, ma si rinviene spesso linfangite e linfoadenopatia; predomina l’edema a buccia d’arancia. Oltre al dolore, si può avere riduzione della motilità di un’articolazione. La maggior parte dei pazienti ha febbre e può avere brividi. L’erisipela può avere molte varianti. In qualche caso compaiono vescicole e bolle (erisipela bollosa) (Figg. 3.44, 3.45). Sulle gambe le bolle sono spesso emorragiche mentre, in altri casi, prevale la necrosi (erisipela gangrenosa) (Fig. 3.46). Nelle forme estreme (erisipela flemmonosa), si osservano ascessi sottostanti, fistolizzati e non, nuove ulcerazioni ed eventuale coinvolgimento della fascia. Anche le mucose possono essere colpite, con marcaFigura 3.42. Localizzazioni frequenti dell’erisipela: guance
Erisipela
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Figure 3.43.-3.46. Localizzazoni frequenti dell’erisipela: gambe. Nelle figg. 3.44 e 3.45 si evidenzia un’erisipela bollosa, e nella 3.46 un’erisipela gangrenosa
Figura 3.43
Figura 3.45
Figura 3.44
Figura 3.46
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ti edema e distruzione, che si tratti della laringe o dei genitali. Vanno citate due varianti particolari delle dermoipodermiti: la cellulite periorbitaria e l’angina di Ludwig. Nella prima, soprattutto nei bambini, l’Haemophilus influenzae sembra essere la causa più frequente nei casi senza traumatismo. In questi casi si ipotizza che la sorgente dell’infezione sia una sinusite o una batteriemia. La seconda (angina di Ludwig) (Fig. 3.49) indica la cellulite degli spazi sottomandibolari, sublinguali e sottomascellari in cui l’origine è verosimilmente dentale. I pazienti presentano generalmente un interessamento bilaterale, un collo duro e contratto con dolore alla masticazione e al movimento. Esiste inoltre un rischio di ostruzione delle vie aeree. La guarigione dell’erisipela avviene talora con ampia desquamazione (Figg. 3.50, 3.51). Figure 3.47, 3.48. Erisipela localizzata al volto, in fase inziale (Fig. 3.47) e finale (Fig. 3.48)
Figura 3.47
Figura 3.48
Erisipela
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Figura 3.49. Angina di Ludwig
Figure 3.50, 3.51. Erisipela in fase iniziale (Fig. 3.50) e desquamazione evidente in fase di guarigione (Fig. 3.51)
Figura 3.50
Figura 3.51
Istopatologia Per i casi di routine la biopsia non è utile, dato che mostra solo vasodilatazione, edema ed eventuale infiltrazione neutrofila sparsa. Occasionalmente, si riescono a mettere in evidenza gli streptococchi con particolari colorazioni. Nelle forme necrotizzanti si osserva massiva distruzione di tessuto fino alla fascia con trombosi e liquefazione. I muscoli possono essere colpiti secondariamente.
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Figura 3.52. Caso di elephantiasis nostra
Dati di laboratorio La diagnosi, in genere, è clinica e si basa sui segni cutanei, la febbre e l’aumento degli indici infiammatori. Non si riesce a coltivare S. pyogenes dalla cute e solo raramente lo si ottiene da un fluido aspirato dal fronte di avanzamento. Una biopsia del tessuto è utile per fornire materiale per la coltura.
Decorso e prognosi Le complicazioni acute delle dermoipodermiti, come le endocarditi e le glomerulonefriti, sono diventate rare nell’era antibiotica. Con le infezioni del volto, c’è il rischio teorico di trombosi del seno cavernoso. Restano pericolose le infezioni del collo. Meritano attenzioni particolari i bambini piccoli, gli anziani ed i pazienti immunodepressi: il rischio è quello di non individuare l’eventuale coinvolgimento di strutture sottostanti, come la fascia o il muscolo. Sia la fascite necrotizzante che la mionecrosi possono essere rapidamente fatali, come pure la sepsi. Tra le complicanze croniche il problema principale è l’effetto ostruttivo sui linfatici che aumenta le possibilità di una recidiva. Vi può essere tumefazione centrofacciale residua; quando è interessato il labbro superiore, si parla di labbro da tapiro. A livello delle gambe, i pazienti che soffrono di insufficienza venosa cronica e ulcerazioni ricorrenti sono quelli più a rischio di recidive, che possono portare ai quadri classici di elephantiasis nostra (Fig. 3.52).
Erisipela
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Diagnosi differenziale Una dermatite da contatto acuta può apparire simile, ma non si diffonde velocemente ed il paziente è in buona salute. Inoltre, il fastidio è prevalentemente un prurito e non un bruciore/dolore. Uno zoster facciale in fase precoce può apparire molto simile; se è presente una bolla, si dovrebbe eseguire uno striscio di Tzanck. L’eritema nodoso può dare qualche dubbio in fase iniziale ma la distribuzione prevalentemente sulla parte anteriore delle gambe e il tipico aspetto di placche rotondeggianti senza tendenza all’estensione a macchia d’olio ne consentono la diagnosi.
Terapia Sistemica Per lesioni localizzate in pazienti immunocompetenti, si possono usare antibiotici per via orale, come l’amoxicillina-clavulanato (2-3 g/die per 10 gg) o una cefalosporina o, negli allergici ai beta-lattamici, claritromicina (1 g/die per 10 gg). I pazienti febbrili o complicati vanno ricoverati in ospedale e trattati con antibiotici per via parenterale. Nel caso degli streptococchi si impiega penicillina G endovenosa (600.000-2.000.000 di unità quattro volte al giorno). Se è presente un coinvolgimento più profondo, bisogna considerare la possibilità di un differente microrganismo ed usare un antibiotico ad ampio spettro per via endovenosa fino alla definitiva diagnosi batteriologica. Il trattamento andrebbe proseguito per due settimane per ridurre la possibilità di recidiva. In casi di coinvolgimento di strutture fasciali, vanno consultati i chirurghi per determinare l’opportunità di incidere, drenare o effettuare una toilette chirurgica.
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Ergotismo Introduzione Questa malattia si riferisce al termine “ergot” che è uno dei nomi comuni dati a un fungo velenoso del genere Claviceps, anche se, in realtà, è una parola francese che vuol dire genericamente “sporgenza”. Questo genere di funghi conta circa una cinquantina di specie tra cui la specie Claviceps purpurea, parassita delle graminacee come la segale ed il frumento. Questo fungo forma degli sclerozi o corpi fruttiferi, simili a cornetti, che conferiscono alla pianta infetta (ad esempio, la segale) (Fig. 3.53) il nome comune di segale cornuta. Le protuberanze che spuntano dalle spighe infestate contengono molti alcaloidi che hanno gravi effetti su persone e animali che dovessero cibarsene.
Storia L’ergotismo è stato, per secoli, un’intossicazione acuta o cronica, provocata dall’ingestione di cibi preparati con cereali infestati da funghi velenosi. Alcuni autori61 ipotizzano che un particolare tipo di ergot servisse per preparare la sacra pozione utilizzata nei misteri Eleusini dato che, nel mito di Demetra e Persefone, le due dee che presiedevano a questi misteri incentrati sul simbolismo del ciclo agricolo, il momento culminante della liturgia vedeva il sommo sacerdote mostrare ai fedeli una spiga di grano. Una sacralizzazione dei cereali era presente anche ai primordi della civiltà latina. Infatti, al tempo dell’antica Roma esisteva la festa dei Robigalia, che si teneva il 25 aprile. Con questa festa si concludeva il ciclo delle tre cerimonie lustrali (le altre due erano Fordicidia e Palilia) dedicate all’agricoltura. In questo giorno si sacrificava al dio Rubigus (o alla dea Rubigo) per tenere lontano dalle messi la ruggine del grano, che era una specie di fungo velenoso. Secondo Plinio62, il rito fu istituito dal re Numa in questo giorno perché era in questo periodo che la ruggine attaccava maggiormente la pianta. La cerimonia si svolgeva al quinto miglio della via Claudia e veniva officiata dal flamine63 Quirinale, che sacrificava un agnello e forse anche un cane oppure le viscere di uno o di entrambi gli animali. Il flamine era seguito da un corteo di persone vestite di bianco. Il sesso della divinità, come si è visto, è incerto. Ovidio64 la chiama “Aspera Robigo” e “Diva Timenda”; Varrone65, Servio66 e Festo67 ne fanno un dio maschile e benefico. 61 Wasson RG, Hofmann A, Ruck CAP. The Road to Eleusis. Harcourt Brace Jov., New York, 1978. 62 Plin. H.N. 18, 69. 63 Antico sacerdote romano. 64 Ov. Fast. 4, 907. 65 Varr. Lat. 6, 16. 66 Serv. Georg. 1, 51. 67 Festo. Robigalia.
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Figura 3.53. La segale cornuta (a destra) in una incisione francese ottocentesca. Collezione privata
Figura 3.54. Il fuoco di Sant’Antonio sotto forma della morte a cavallo con un dardo e una bara. Collezione privata
Il pane ricavato con farina di segale non era grandemente apprezzato ma la particolare resistenza al freddo della segale ne favorì la diffusione in regioni fredde, fino al 69° di latitudine Nord e fino ai 2000 metri di altezza. La farina di segale fu largamente impiegata in tutta quella regione che corrisponde alla Mitteleuropa, ma soprattutto nei territori che oggi appartengono alla Francia, alla Germania, alla Polonia e alla Russia, dove le condizioni climatiche e talora quelle del suolo rendevano particolarmente problematica la coltivazione del grano. Per questi motivi le epidemie furono più frequenti e spaventose proprio nei paesi citati. Un’antica xilografia, simile a quella di pagina 63, esemplifica il concetto di fuoco di Sant’Antonio nei secoli bui (Fig. 3.54). La storia non ci riporta fatti epidemici sicuri in età antica, dal periodo
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greco-romano all’alto Medioevo. Le prime notizie verosimili su epidemie di ergotismo sono piuttosto tarde. Secondo alcuni autori la malattia si manifestò per la prima volta in Francia intorno al 590 per riapparire nell’anno 857 ma soprattutto dopo il 1000, in particolare in Francia ma anche negli altri paesi del Nord Europa, fino a tutto l’800. Secondo una seria ipotesi l’ergotismo sarebbe implicato anche nella famosa storia delle streghe di Salem. In questa cittadina del sud degli Stati Uniti si ebbero, alla fine del 1600, dei casi di disturbi psichici che i medici di allora attribuirono alla possessione demoniaca (sic!). Pertanto, come spesso accadeva, si decise di uccidere un po’ di streghe, o meglio, di povere donne. Nel Medio Evo è possibile che vi sia stata un’induzione volontaria controllata di un ergotismo “psicoattivo” analogamente a quello che probabilmente avveniva già nell’antichità. Da una parte esistono indicazioni per cui le “streghe” usavano volutamente sostanze psicoattive estratte da piante per lo più della famiglia delle Solanaceae, dall’altra la diffusione geografica e temporale delle epidemie da ergotismo sembra corrispondere talora a quella dei processi della Sacra Inquisizione nei confronti della stregoneria. Secondo alcuni autori, il movimento pietistico ebraico che diede vita in Europa alla setta del Chassidismo Ashkenazita dopo il primo millennio è stato, almeno in parte, condizionato degli episodi di ergotismo di tipo neuropsichico. Così commenta Giorgio Samorini68: “Già dall’epoca greco-romana era nota la tossicità del Lolium temulentum. Plinio riporta che quando esso finisce nel pane provoca rapidamente vertigini e che in Asia e in Grecia i padroni dei bagni, quando volevano mandare via la folla, buttavano semi di loglio sui carboni (Plinio, Hist. Nat., XVIII/156-9). A Camporesi spetta il merito di avere evidenziato il significativo ruolo che i pani “alloiati” (nei quali rientrava come ingrediente più o meno principale il L. temulentum) assieme ad altri pani prodotti con le più disparate e dubbie specie di graminacee e di leguminose selvatiche, hanno avuto nelle persistenti dimensioni psichiche, già di per sé allucinanti, in cui si veniva a trovare la popolazione rurale nei frequenti tempi di carestia del medioevo europeo. Ecco quindi che, nella differenza fra il “pane bianco” per i ricchi e il “pane nero” (alloiato o ergotato) per i poveri, le differenti dimensioni psichiche così prodotte si inseriscono e giocano un ruolo di inattesa responsabilità nella già marcata differenziazione e incomprensione fra le classi sociali di quei tempi.”
68 Samorini G., Neurotossicologia delle graminacee e dei loro patogeni vegetali: un’introduzione.
Annali del Museo Civico di Rovereto, 1992, 7:253-264.
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Figura 3.55. Autoritratti in sequenza temporale sotto l’influsso dell’LSD. Riprodotta da: Jaffè A.in: Jung C.G.(ed) L’uomo e i suoi simboli.Casini, Firenze, Roma, 1967
La scoperta degli effetti dispercettivi ed allucinogeni del LSD stimolò vari tipi di esperimenti ed alcuni artisti che lo provarono su loro stessi hanno lasciato dei disegni che descrivono meglio di altri discorsi il tipo di disintegrazione psichica che tale sostanza causa. Aniela Jaffé, in un famoso libro di Carl Gustav Jung così commenta l'immagine (Fig. 3.55): “Disegni di un artista, sotto l’effetto di tale droga (NdA, l’LSD), nel corso di un test svoltosi in Germania nel 1951. I disegni si fanno via via più astratti in seguito alla progressiva sopraffazione del controllo conscio ad opera dell'inconscio”. Personalmente non mi sento di sposare in pieno questa interpretazione psicanalitica. Di certo il risultato è molto impressionante. In Italia, casi di ergotismo sono documentati a Milano nel 1795 e a Torino nel 1798, e gli ex-voto a forma di gamba sono relativamente comuni nelle cappelle di moltissime chiese (Fig. 3.56). Le ultime due gravi epidemie si ebbero in Russia nel 1926 e in Irlanda nel 1929, ma nel 1951, sempre in Francia, ci fu il famoso episodio di Pont Saint Esprit che si concluse con una diagnosi ancora dubbia dopo circa un trentennio! In questo villaggio della
Figura 3.56. Ex-voto a forma di gamba. Collezione privata
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Francia meridionale si verificò un episodio di intossicazione alimentare che colpì oltre 300 persone, quasi contemporaneamente nella medesima notte. I giornali dell’epoca riferirono di individui urlanti riversatisi nelle strade, colti da scatti di violenta isteria, sopraffatti da allucinazioni visive e da altre illusioni sensoriali, oltre che da convulsioni e contrazioni, molti dei quali terrorizzati, altri in preda a stati di confusione o di disperazione incontrollabili, il tutto fra le sirene spiegate delle autoambulanze in corsa. Purtroppo, nei giorni successivi si ebbero anche sette decessi. Questo episodio, che venne presto chiamato “l’affare del pane maledetto”, si spense entro poche settimane. Le indagini chiarirono subito che si trattava di una intossicazione alimentare il cui agente comune era stato il pane prodotto dal medesimo fornaio. Nessuna delle ipotesi che avevano considerato dapprima l’ergot e, molti anni dopo, l’Aspergillus fumigatus e anche la contaminazione di metilmercurio, un noto agente fungicida (vedi box Acrodinia), ha mai convinto totalmente, tanto è vero che il lunghissimo processo si è risolto con un “non luogo a procedere”. L’ultima epidemia riportata nella letteratura medica si è verificata in Etiopia nel 1977-78. Oggi, nei paesi sviluppati, un controllo routinario delle farine impedisce il ripetersi di casi del genere; non infrequente invece è il caso di intossicazioni da parte di animali, essendo i foraggi meno controllati.
Epidemiologia Non ci sono dati affidabili data la grande variabilità dei segni e dei sintomi e dell’età di insorgenza. Certamente le epidemie umane sono (o dovrebbero essere) estinte, mentre non sono rare ancora quelle veterinarie. In realtà i casi di ergotismo segnalati sono praticamente quelli da intossicazione orale da farmaci per il mal di testa. È quindi probabile che i casi pubblicati (che non sono pochi!), siano solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più diffuso, visto il consumo planetario di questo tipo di farmaci.
Eziopatogenesi L’ergotismo è un’intossicazione, acuta o cronica, provocata dall’ingestione di cibi prearati con segale cornuta e cioè la segale contaminata dalla Claviceps purpurea, un ascomicete, fungo parassita delle graminacee e produttore di potenti alcaloidi, o dall’assunzione di farmaci contenti tale sostanze. Attualmente sappiamo che le tossine possono essere sostanze endogene delle graminacee oppure essere metaboliti di funghi o muffe infestanti. La causa forse più studiata riguarda la presenza del fungo Claviceps purpurea e di altre specie congeneri, producenti un ampio gruppo di alcaloidi derivati dell’acido lisergico. L’ergina viene prodotta sia da varie specie di ergot sia da
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altre piante originarie del Mesoamerica, appartenenti ai generi Rivea e Ipomoea, i cui semi sono utilizzati come agenti psicotropi in rituali sciamanicoreligiosi sin dai periodi precolombiani69. Dopo che nel 1853 Tulasne chiarisce il complesso ciclo riproduttivo della Claviceps purpurea, in farmacologia i suoi alcaloidi si classificano in aminici, come l’ergonovina e la metisergide, e peptidici come l’ergotamina e la bromocriptina. Essi si distinguono in base al loro meccanismo d’azione che si può riportare a due modalità: recettoriale e diretta sulle fibrocellule muscolari. La diidroergotamina si lega ai recettori della serotonina nelle corna dorsali del midollo spinale, che è la sede delle lesioni neurologiche nell’ergotismo convulsivo. Alcune tossine prodotte dal fungo sono particolarmente tenaci e resistono alla cottura e a tre ore di ebollizione. A contaminazione avvenuta, sapere quali tipi particolari di tossine saranno sprigionate e con quali effetti dipende da molti fattori diversi, tra cui il clima e le condizioni del luogo. L’ergotamina è la più conosciuta di queste sostanze ed è un potente vasocostrittore capace di provocare, oltre che dolore, fenomeni ischemici e psichici. Un altro componente, lo zearalenone, agisce come estrogeno e può provocare aborti, sterilità ed alterare i cicli riproduttivi femminili. E infine l’ergina, l’ergonovina e altre sostanze, imparentate con l’acido lisergico, agiscono come allucinogeni e dispercettivi. La dietilammide dell’acido lisergico (o LSD) alla dose di soli 100 mg è in grado di produrre alterazioni psico-percettive e comportamentali evidenti, per una durata approssimativa di varie ore. A seconda della quantità delle rispettive sostanze si poteva avere una forma prevalentemente vascolare (ergotismo gangrenoso) o neuropsichica (ergotismo convulsivo). Oltre a questi ovvi fattori biochimici, alcuni autori hanno ipotizzato un ruolo favorente delle disvitaminosi. Questo nesso di causalità non si è però basato sulla dimostrazione dell’esistenza di un rapporto eziopatogenetico.
Clinica Gli effetti principali dell’ergotismo possono essere di tipo gangrenoso, con perdita delle unghie, delle dita e degli arti, oppure di tipo convulsivo o spasmodico, che portano a disfunzioni nervose con stati confusionali, visioni e allucinazioni, oltre a tremori, spasimi e febbri intermittenti. Schematizzando, nell’ergotismo gangrenoso il fenomeno più caratteristico è lo spasmo arterioso. Le estremità, specie in corrispondenza delle regioni distali, diventano, in un tempo variabile di alcuni giorni, tumefatte, violacee e sono sede di dolori urenti o trafittivi. Nei giorni seguenti la cute può ulcerarsi oppure assumere un colorito sempre più scuro, quasi nero; la parte si fa fredda, si essicca, si raggrinza, sembra mummificarsi, perde ogni sensibilità e
69 Hofmann A. LSD. My problem child. JP Tarcher, Los Angeles, 1983.
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può amputarsi spontaneamente in corrispondenza delle articolazioni. Vi era anche l’evoluzione in una gangrena torpida, ma, quale che fosse la gangrena, il procedere della malattia poteva causare una gangrena viscerale che portava a morte entro breve tempo. Nell’ergotismo convulsivo i fenomeni di ischemia periferica sono più subdoli e il decorso tende ad essere meno rapido. I sintomi denotano più spiccatamente una compromissione del sistema nervoso con parestesie, atassia, scomparsa dei riflessi profondi. Dopo alcune settimane compare la sindrome tipica caratterizzata da accessi convulsivi e spasmi tonici, specie degli arti, i quali possono assumono posizioni particolari: la forte flessione di tutte le articolazioni può addirittura ostacolare la circolazione nelle sedi distali che divengono edematose e cianotiche. Le crisi, che possono colpire anche i muscoli diaframmatici e laringei provocando dispnea e, nei casi gravi, morte per asfissia, si ripetono a intervalli più o meno regolari e sono accompagnate da violenti dolori. I disturbi psichici possono manifestarsi in fase acuta ma anche tardivamente e sono rappresentati o da una sintomatologia pseudoneurastenica, con difficoltà nell’elaborazione del pensiero e deficienza di iniziativa, o, nei casi gravi e avanzati, da una certa confusione, da uno stato di stupore interrotto spesso da improvvise crisi di agitazione motoria. Possono essere rappresentati anche da allucinazioni visive e idee deliranti accompagnate da angoscia; in alcuni casi si ha l’esito letale, in altri possono residuare stato ansioso, irritabilità, modificazioni profonde del comportamento, disposizione ad accessi convulsivi ed anche stati di demenza. L’ergotismo perianale è una patologia rara che consiste in ulcerazioni della cute causate da un uso cronico di supposte a base di ergotamina. Questa patologia è stata osservata più spesso nelle donne perché esse sono più portate ad avere mal di testa e ad assumere quindi questi farmaci per via rettale. La causa delle lesioni è da ricercarsi nella potente vasocostrizione locale indotta dal farmaco con conseguente ipossia e necrosi. Le ulcere, profonde, dolorose e talora ricoperte da un essudato mucopurulento, si possono osservare sia in sede perianale sia nella parte distale dell’ano. Il decorso è cronico fino alla sospensione del trattamento. La diagnosi differenziale comprende buona parte della venereologia (sifilomi, granuloma venereo, herpes simplex, ecc.) ma anche patologie proliferative come l’istiocitosi a cellule di Langerhans e i carcinomi. Uno degli ultimi casi clamorosi di “fuoco di Sant’Antonio” nel senso di ergotismo gangrenoso (=“vascolare”) è stato riportato recentemente in una donna di 43 anni che assumeva cronicamente supposte di ergotamina e di caffeina per problemi di emicrania. La paziente aveva avuto una gravissima ischemia dell’arteria mesenterica, potenzialmente mortale, che si poté curare solo con un by-pass arterioso e con una parziale resezione dell’intestino. Dato che la metilergometrina è spesso usata nella prevenzione dell’emorragia puerperale, è possible avere un’intossicazione dei neonati, di solito associata a disturbi gastrointestinali, che può portare anche ad apnea, coma e convulsioni.
Ergotismo
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Istopatologia Le lesioni sono sostenute da uno spasmo delle pareti arteriose, cui segue grave degenerazione a causa soprattutto dell’ostruzione trombotica dei vasi.
Dati di laboratorio Non esistono dati di laboratorio classicamente alterati. Anzi, è proprio una situazione di sintomi compatibili con un vasospasmo (ed un’anamnesi positiva per ingestione di farmaci), in assenza di una qualsiasi situazione di patologie vasculitiche, epatiche, renali o protrombotiche, che deve fare sospettare la diagnosi di ergotismo.
Decorso e prognosi La quantità, la qualità e le differenti proporzioni delle tossine della Claviceps purpurea possono dare quadri molto vari sia acuti che cronici e con esiti diversissimi. La prognosi quindi può variare da semplici formicolii ad ulcere localizzate, sino a gravissime crisi convulsive ed alla morte, che, secondo alcuni autori, arrivava sino al 40 per cento dei casi nel corso delle epidemie del passato.
Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale, come si può dedurre dai paragrafi precedenti, comprende una buona parte della medicina. Nel caso dell’ergotismo gangrenoso le diagnosi da prendere in considerazione sono soprattutto le dermoipodermiti infettive acute e croniche ed anche le vasculiti e le vasculopatie periferiche come quelle provocate dall’acrodinia (vedi box). Nel caso dell’ergotismo di tipo convulsivo o spasmodico, la lista delle patologie neuropsichiatriche che devono essere considerate nella diagnosi differenziale è ancora più lunga. Accanto all’assunzione di droghe psicoattive, devono essere considerate patologie acute cerebrali sia infettive che vascolari e patologie croniche, senza dimenticare le psicosi classiche. È chiaro che la descrizione delle due forme è scolastica perché l’ergotismo gangrenoso e quello convulsivo possono coesistere nello stesso individuo e nella stessa epidemia. Nel passato, inoltre, dato che la malattia era ritenuta, come molte altre, una “peste”, non è impossibile che i malati di ergotismo fossero ritenuti malati di lebbra o di peste e perciò ricoverati negli ospedali dove potevano poi essere contagiati proprio da queste e da altre malattie infettive, presentando così un quadro morboso ancora variabile.
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Terapia Il trattamento consiste ovviamente nell’immediata sospensione degli agenti farmacologici causali e nella pronta somministrazione di farmaci vasodilatatori come la nifedipina. Inoltre bisogna mettere in atto tutte le procedure di supporto necessarie per evitare un peggioramento della sintomatologia e rispettare quindi una corretta temperatura corporea. Nel caso di ulcere, la terapia sintomatica è quella standard.
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Acrodinia L’acrodinia è una patologia verosimilmente molto antica, esistente per lo meno da quando si cominciò ad usare il mercurio in terapia. Tale condizione morbosa è classicamente causata da una reazione tossica al mercurio o, meno frequentemente, dall’ipersensibilità a varie sostanze. L’acrodinia è una malattia che colpisce prevalentemente i bambini in età prescolare e scolare (Figg. 3.57-3.60). I sintomi sono febbre accompagnata da un rapido decadimento delle condizioni generali e da uno strano cambiamento di carattere. Il paziente diventa inappetente e comincia a dimagrire; inoltre è più irritabile, a volte si rifiuta di camminare o addirittura di stare in piedi, accusando dolore alle gambe o all’addome e modifica il suo ritmo di sonno-veglia. Compare poi un caratteristico eritema acrale. Col passare del tempo, si precisano i tre sintomi caratteristici di questa malattia: modificazione del comportamento, alterazioni cutaneo-mucose e disturbi cardio-vascolari. I disturbi psichici sono caratterizzati da atteggiamenti insoliti per cui il paziente appare silenzioso, immobile e a volte scoppia in pianti senza una valida giustificazione. Inoltre, accanto all’anoressia si può osservare il sovvertimento dei gusti, la sete intensa e l’insonnia. Disturbi neurologici quali alterazioni della sensibilità alle mani e ai piedi e formicolii e sensazione di calore precedono le alterazioni cutanee; le mani e i piedi diventano tumefatti e Figure 3.57-3.60. In questo bambino si vedono gli aspetti dermatologici di una eritromelalgia di origine sconosciuta che mima bene l’ergotismo e l’acrodinia. Un edema dolentissimo è associato ad erosioni e ulcerazioni, particolarmente intense a livello distale
Figura 3.57
Figura 3.58
Figura 3.59
Figura 3.60
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rossi. Più tardi, la pelle si può sollevare e provocare vescicole le quali, rompendosi, lasciano scoperta una piccola zona che può diventare sede di infezioni. Alle mucose orali si notano ulcere, salivazione profusa, bruxismo (serramento o digrignamento dei denti) e perdita dei denti. A queste sensazioni spesso si associa il dolore, tanto che il paziente non riesce a stare in piedi. I disturbi cardio-vascolari consistono in ipertensione associata a tachicardia. È indispensabile un ricovero in un pronto soccorso. Il dosaggio del mercurio nei liquidi biologici può confermare il sospetto diagnostico. Come breve richiamo storico ricordiamo che, se l’esposizione acuta e massiva al mercurio è oggi rara, fumigazioni di vapori di mercurio hanno costituito per secoli una delle principali terapie della sifilide ed in Italia, anche successivamente al primo dopoguerra, erano ancora attive le “botti di Modica”. Le “botti” in realtà erano stufe mercuriali con all’interno uno sgabello sul quale il paziente veniva fatto sedere per ricevere la cura. Questa consisteva nel versare in un braciere, che si trovava pure all’interno della stufa, la dose di cinabro, i cui vapori erano poi assorbiti in quantità importante dal povero paziente. Tale metodo di cura fu ideato da Tommaso Campailla, poeta, filosofo, scienziato che nacque in Sicilia, a Modica, nel lontano 1668. Secondo una moda del tempo, pur non essendo egli medico, si interessò anche alla medicina e soprattutto alla cura della sifilide (che era allora un temutissimo flagello!) e dei reumatismi. La sua mente scientifica lo incoraggiò a sperimentare quelle “botti” per la cura della sifilide ed altro; i risultati veramente apparivano soddisfacenti soprattutto per la cura della prima, e quindi le “botti del Campailla”, altrimenti dette le “botti di Modica”, divennero ben presto famose in tutta Europa. Fino agli inizi del secolo scorso, nelle stazioni ferroviarie climatiche frequentate da un pubblico internazionale, si potevano vedere cartelli pubblicitari che annunciavano: “A Modica le botti di Campailla per la cura della lue”. Le stufe o botti mercuriali funzionavano nell’Ospedale di Modica che originariamente si chiamava S. Maria della Pietà. Tali “botti” furono variamente imitate in Italia e all’estero e nel 1891 a Palermo fu addirittura inaugurato un sanatorio “Campailla”; allora le “botti di Modica” si potevano trovare a Milano come a Roma, ma anche a Parigi e così via. Attualmente, data la nota tossicità del mercurio, le intossicazioni acute sono date dall’assunzione di farmaci contenenti mercurio o dalla ingestione accidentale di mercurio (ad esempio per rottura di termometri).
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Appendice 1 I Misteri Eleusini
Appendice 1
I Misteri Eleusini
Qualcuno si chiederà cosa ci stanno a fare i Misteri Eleusini in un libro dedicato al fuoco di Sant’Antonio. Beh, se per fuoco di Sant’Antonio intendiamo solo l’herpes zoster, direi poco o niente; se consideriamo questa malattia soprattutto come un sinonimo di ergotismo, c’è invece molto da dire. Per il lettore che fosse digiuno dei culti classici, sarà forse utile ricordare cosa sono, o meglio cosa sono stati, i Misteri Eleusini. Nell’antichità classica la religiosità si esprimeva sia tramite le divinità della comunità o della polis sia con culti, come potremmo dire oggi, sopranazionali; di questi il più importante, e forse anche il più antico, era proprio quello dei Misteri Eleusini1. In essi si celebrava il mito di Demetra2 (Fig. 1), figlia di Giove e dea delle messi, e di sua figlia Persefone3. La storia, che si legge nel famoso Inno a Demetra4, racconta che Ade, il dio degli Inferi, rapisce Persefone. Demetra allora parte alla sua ricerca e giunge ad Eleusi5; in questa città, sotto forme umane, entra al servizio di Celeo e Metanira, i reali locali, come nutrice del principino Demofonte che essa alleva a nettare e ambrosia. Un giorno, Demetra vuole rendere immortale Demofonte immergendolo nel fuoco, ma viene scoperta da Metanira. A questo punto è costretta a dichiarare la sua vera natura divina e si ritira allora nel suo tempio, 1 Riti di epoca arcaica, addirittura antecedenti al culto degli dei dell’Olimpo. 2 Demetra significa “dea madre” o “madre che distribuisce”. Nella mitologia greca Demetra è la
pura, la dea del grano e della fertilità. Teocrito, negli Idilli, però dice che, per i Greci, Demetra era la dea del papavero e che teneva covoni e papaveri in entrambe le mani. In una statuetta minoica di terracotta la dea porta nel suo diadema semi di papavero. Secondo Kerenyi: “Sembra probabile che la Grande Madre, che portava i nomi di Rea e di Demetra, avesse trasportato con sé il papavero del suo culto cretese ad Eleusi, ed è certo che nella sfera del culto cretese, l’oppio fosse preparato dal papavero”. 3 Kore (=fanciulla) è un altro nome greco di Persefone. 4 L’Inno a Demetra è un testo poetico pseudo-omerico in greco arcaico che si ritiene essere stato composto nel VII secolo a.C. 5 Eleusi era una cittadina vicino al mare, a nord ovest di Atene, da cui distava circa ventiquattro chilometri.
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Appendice 1 • I Misteri Eleusini
Figura 1 Il celeberrimo rilievo marmoreo che illustra Demetra (a sinistra), Trittolemo (al centro) e Persefone (a destra) si trova in originale al Museo Nazionale Archeologico ad Atene e, in copia, al Museo di Eleusi. Demetra, rappresentata con un peplo ed uno scettro nella mano sinistra, dona a Trittolemo, uno dei figli del re Celeo, una spiga di grano con cui insegnerà all'umanità l'arte dell'agricoltura. Persefone, che tiene una torcia con la mano sinistra, benedice il fanciullo con la destra. Le grandi dimensioni - l’altezza è più di due metri - sottolineano l'importanza di questa scultura nell'ambito del culto dei misteri
rendendo sterile la terra e impedendo così alle messi di crescere. Lo spettro della carestia minaccia ben presto sia i semplici mortali sia, di riflesso, gli dei e per questo Giove cede a Demetra ed acconsente a renderle la figlia. Ade però reclama i suoi diritti e si arriva quindi a un compromesso: Persefone passerà una parte dell’anno sulla terra e l’altra negli inferi, mentre Demetra promuove nuovamente la fertilità del suolo e contemporaneamente istituisce i misteri: “Ella rivelò i bei riti, i riti augusti che è impossibile trasgredire, penetrare né divulgare: il grande rispetto delle dee trattiene la voce [...] Felice, fra gli uomini della terra, colui che ha veduto queste cose! Al contrario, colui che non è stato iniziato ai santi riti, colui che non vi ha preso parte, non avrà lo stesso destino, neppure quando se ne andrà laggiù nella squallida tenebra”6. A partire da questo mito Atene celebra Demetra anche come colei che ha inventato l’agricoltura (e quindi la civiltà) e crea la base giuridica del diritto ad esigere un tributo in grano da parte degli altri stati greci. La conoscenza del mito è centrale nella comprensione della religiosità classica, dato che Demetra, inventando l’agricoltura, è la vera donatrice della civiltà ad un’umanità prima selvaggia, mentre la resurrezione di Persefone dal regno dei morti, così come la novella fertilità della terra, sono un messaggio di rinascita e di speranza per una vita migliore nell’aldilà.
6 Inno a Demetra: vv. 474-479 e 480-483.
Appendice 1 • I Misteri Eleusini
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Figura 2 Eleusi antica. Riprodotta da: Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti Treves – Treccani – Tumminelli, Edizioni Istituto Treccani, 1932. Con autorizzazione
Sta di fatto che i Misteri Eleusini sono stati celebrati per più di tremila anni7 con la più grande solennità. Come ricorda Fritz Graf8: “Τα Μυστηρια è il nome di una festività del calendario delle celebrazioni ateniesi che riguardava Demetra e Kore e si teneva nel santuario a loro dedicato nei pressi di Eleusi nella seconda metà del mese autunnale di Boedromione (Fig. 2). Μυστηρια è parola collegata a μυω (chiudo gli occhi) ed allude forse al carattere segreto dei riti. Erodoto fu il primo ad applicare il termine [...] Dopo Erodoto, il termine venne applicato a tutti i culti che avevano in comune con Eleusi alcune caratteristiche di rilievo [...] Il latino initia (inizi) designava in origine i culti indigeni con caratteristiche di iniziazione e solo in seguito passò a designare i culti misterici greci con caratteristiche affini. Il termine venne poi fatto proprio nel XVIII secolo [...] per designare un particolare rito di passaggio al quale appartengono anche gli antichi culti misterici”. Come prima accennato, tali culti erano, in un certo senso, universali e contrapposti a quelli delle divinità specifiche di ogni città; in altre parole, i culti misterici erano anche vissuti come un’alternativa alla religione ufficiale del7 Non si sa con sicurezza se il culto fosse già attivo nell’età del bronzo, ma comunque tracce di
templi del VIII e del VI secolo a.C. sono collocate sopra preesistenti mura micenee. Distrutto dai persiani, il tempio di Demetra fu ricostruito e ampliato nell’età di Pericle e funzionò ininterrottamente fino alla distruzione del 395 da parte dei goti di Alarico, nello stesso periodo in cui Teodosio vietava ufficialmente i culti non cristiani. 8 Graf F. I culti misterici. In: Il rito segreto: misteri in Grecia e a Roma. Mondadori/Electa, Milano 2005.
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la polis; essi promettevano una vita migliore nel mondo presente ed in quello futuro. Inoltre i culti misterici erano “democratici”, nel senso che erano aperti a tutti coloro (schiavi compresi!) che volessero parteciparvi. Non è allora strano, come nota sempre Graf, che “i culti misterici poterono persino funzionare come una sorta di praeparatio evangelica, creando una forma socialmente accettata di culti non cittadini: se non altro dall’esterno, i primi cristiani potevano essere visti semplicemente come un ulteriore gruppo misterico, una percezione del resto condivisa da molti cristiani”. Se è però vero che ai Misteri Eleusini potevano partecipare tutti9, le meraviglie promesse da Demetra a chi avrebbe partecipato ai suoi culti10 richiamarono per secoli tutti gli intellettuali ed i potenti della classicità greco-romana. Nel libro già citato11, Giulia Sfameni Gasparro così commenta: “In conformità alla natura delle due dee [Demetra e Persefone. NdA], connesse con la fecondità agraria e con il mondo infero, tali benefici riguardano insieme l’abbondanza di beni per la vita presente e il godimento di un’aisa, una “parte”, per l’aldilà, da cui sono esclusi i non iniziati. Le fonti posteriori illustrano questo positivo destino in termini diversi, da Pindaro che proclama felice l’iniziato perché “conosce la fine della vita e l’inizio stabilito da Zeus”, attribuendogli quindi una conoscenza dei fondamenti stessi dell’esistenza, a Sofocle che dichiara: “Tre volte felici quelli fra gli uomini mortali che avendo visto questi riti se ne vanno nell’Ade: per coloro soltanto laggiù è vivere mentre per gli altri tutto è male”. Aristofane, in un celebre passaggio delle Rane (vv 329-336), evoca i cori beati dei misti12 che celebrano le danze rituali nei luminosi prati inferi mentre fonti più tarde parlano delle “buone speranze” degli iniziati eleusini che, come vuole Cicerone, si proiettano dalla vita presente a quella futura (De leg. II, 14, 36)”. L’autrice così continua: “Decisiva per la definizione del quadro religioso eleusino risulta una testimonianza di Aristotele (De phil. fr. 15 Rose) secondo la quale l’iniziato non deve apprendere un insegnamento (mathein) bensì vivere un’esperienza (pathein) che, dal complesso delle nostre fonti, risulta essere molto intensa sotto il profilo emotivo, segnata da un’alternanza di timore, angoscia e gioia, in un contesto di passaggio dalle tenebre alla luce... Una vivida evocazione dello scenario eleusino è offerta in un brano delle Metamorfosi di Apuleio che conferma come il tratto distintivo dell’ethos misterico fosse costituto dalla disponibilità del fedele a porsi in sympatheia con le due dee protagoniste del culto ripercorrendo, in forme e con modalità a noi ignote nei parti-
9 In realtà i partecipanti dovevano comprendere il greco e, soprattutto, non essere impuri e cioè non avere commesso delitti di sangue. 10 Vedi sopra: Inno a Demetra. 11 Sfameni Gasparro G. I misteri di Eleusi. In: Il rito segreto: misteri in Grecia e a Roma. Mondadori/Electa. Milano 2005. 12 Colui che veniva iniziato per la prima volta era chiamato mistes (= colui che mantiene il silenzio o che chiude gli occhi) e solo l’anno successivo poteva divenire epopta (= colui che aveva avuto la visione).
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colari, i due fondamentali movimenti della scomparsa e del ritrovamentoritorno, in un’alternanza di lutto-gioia, tenebre-luce”. Sabbatucci, parlando del mistero eleusino, lo descrive come “una parentesi sacra” in “una vita profana”13. Con tali grandi elettori si capisce allora il richiamo che i Misteri Eleusini ebbero in tutto il mondo classico mediterraneo. Cicerone14 ricorda che nel santuario di Eleusi “vengono iniziate le genti dei confini del mondo” ma tra esse vi era l’élite della società del tempo come lo stesso retore, Attico, Ottaviano Augusto ed il coltissimo Adriano. La cerimonia dei misteri iniziava ad Atene appena prima della luna piena del mese con un’assemblea in cui lo ierofante15 annunciava il divieto di partecipazione agli impuri ed a coloro che non comprendessero il greco. Il giorno seguente gli iniziati dovevano fare un bagno purificatore in mare assieme ad un maialino (Fig. 3) che poi avrebbero sacrificato e mangiato. A ciò seguivano tre giorni di digiuno di cui due di riposo16 ed uno di viaggio verso Eleusi. La processione usciva dalla città attraverso quella che era chiamata la “Porta Sacra” e, in un lento e faticoso cammino (Figg. 4 e 5) (erano al terzo giorno di digiuno!) accompagnato da riti intermedi, gli iniziati raggiungevano il tempio Eleusino (Figg. 6-8) e, dopo essersi nuovamente purificati in apposite vasche, erano finalmente pronti alla celebrazione del mistero17. A questo punto finiva la parte preparatoria e cominciava la liturgia vera e propria che doveva restare segretissima perché la propalazione dei sacri misteri era considerato un sacrilegio intollerabile e punito con la morte18. Ma forse, più della pena pesava la sacralità percepita del culto; sta di fatto che il nucleo centrale dei misteri restò segreto per secoli fino a quando un ex-iniziato si convertì ad una corrente gnostica del nascente cristianesimo e, non sentendosi più vincolato dall’obbligo del segreto, ruppe il silenzio e disse in breve come andavano le cose una volta all’interno del tempio19. Il rito iniziava con la interruzione del digiuno per la somministrazione di
13 Sabbatucci D. Saggio sul misticismo greco. Ed. dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1979. 14 Cicerone MT, De natura deorum, I, 42, 119. 15 È il nome specifico dei sacerdoti e sacerdotesse addetti alla celebrazione dei misteri eleusini e
significa letteralmente “colui che mostra il sacro”. 16 In questo tempo si facevano altri sacrifici e si celebrava Asclepio, il mitico medico e protettore
degli ammalati. 17 In realtà l’iniziazione era più complessa dato che vi erano i “Piccoli Misteri” (celebrati nel mese
di Antesterione, alla fine dell’inverno) e i “Grandi Misteri”. 18 Una fonte molto interessante è l’orazione “Sui Misteri” di Andocide, illustre Ateniese nato
probabilmente nel 414 a. C. che fu accusato, insieme ad altri di avere profanato i sacri misteri e di avere mutilato le erme. Vedi: Marsilio M. Atene dei misteri. Morano, Napoli.1994. Il libro è anche una fonte sullo svolgimento della liturgia pubblica e avanza delle ipotesi su quella segreta. 19 Questa testimonianza è fornita dal cosiddetto naasseno e si trova nel libro La confutazione di tutte le eresie scritto da Ippolito di Roma prima del 350 d.C. Va aggiunto che la sala centrale del tempio (τελεσηριον) era disseminata di colonne che ostacolavano almeno parzialmente la vista del celebrante rischiarata da una grande fiamma.
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Figura 3 Questa bellissima scultura, che misura circa due palmi, si trova nel Museo di Eleusi e rappresenta il famoso maialino che si sacrificava all'inizio dei misteri. La sacralità del maiale era data dal fatto che era stato il primo animale addomesticato
Figura 4 Questo disegno raffigura, vista da Atene, la ricostruzione dell'inizio della via sacra che cominciava subito sotto l'acropoli, nel punto dove sorgeva il tempio giustamente detto "Eleusinion" (o "Tempio di Eleusi in città”), e finiva dopo 24 chilometri, nel complesso dei templi di Eleusi
Figura 5 Lo stesso scenario oggi: il letto del fiume Eridano (che è anche l'antico nome del Po!) già allora canalizzato è ben visibile sulla destra. Sullo sfondo, una chiesa moderna che forse nasconde il sepolcro di Pericle
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Figura 6 Mia moglie Pascale davanti all'ingresso principale del tempio, che era chiuso da un portone i cui solchi nel marmo sono ancora ben visibili. Sullo sfondo, i propilei e dietro ancora la città attuale
Figura 7
Figura 8
La colossale testa di Demetra (quasi due metri!), rappresentata con una cesta che conteneva gli oggetti sacri del culto, è quello che rimane delle due cariatidi gemelle che ornavano l'ingresso del tempio. Anch'essa si trova nel Museo di Eleusi
La spianata del telesterion vista dal lato sud. Sullo sfondo, i resti delle imponenti gradinate e, sulla cima della collina, costruzioni tardive
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una pozione, chiamata ciceone20, che conteneva una miscela di acqua, orzo e foglie di menta. Dopodiché venivano compiuti alcuni atti simbolici che ricordavano la macinazione rituale del grano e richiami a Persefone accompagnati da suoni (un gong?). Al culmine del rito veniva mostrata una singola spiga di grano, evidente simbolo della dea, nel momento in cui si elevava il grido al cielo: “Piovi!” e alla terra: “Concepisci!”. Allora lo ierofante “sotto una luce splendente” proclamava ad alta voce la nascita di un erede divino con queste parole: “La dea ha generato il sacro figlio: la Brimo ha generato il Brimo!”21. Secondo Temistio e Plutarco22 gli iniziati avevano come l’esperienza dell’anima che muore e pare si svolgesse anche la rappresentazione di una ierogamia23. Arrivati qui, si può capire abbastanza bene la forza e l’importanza di questo mito, ma si rimane delusi dalla descrizione della cerimonia segreta finale. Che il mito di Demetra sia importante, lo si comprende bene pensando che esso è, in un certo senso, il mito fondante la nascita della civiltà: il dono dell’agricoltura consente all’umanità di passare da uno stadio di selvaggia passività a quello di un attivo e creativo progetto di esistenza. Inoltre questo mito è anche, paradossalmente, il racconto che sancisce la fine del mito, nel momento in cui l’impossibilità di Demetra di immortalizzare Demofonte pone fine a quell’epoca, “mitica” appunto, in cui gli dei e gli umani coabitavano e si scambiavano le parti. In altre parole il mito di Demetra, celebrato nei Misteri Eleusini, annuncia al tempo stesso quello che è stato l’inizio della civiltà ma anche il vero inizio del cammino della storia umana, per la fine contemporanea dell’età dell’oro. In altre parole ancora, si definisce irreversibilmente la nostra condizione umana. D’altro canto non si capisce invece come, oltre alla folla, anche l’intellighenzia di tutta l’antichità classica per tanti secoli abbia lodato così sperticatamente la celebrazione del mito, se essa consisteva solo in un bagno, un di20 In greco antico: κυκεων. Il ciceone, fatto con orzo, menta e formaggio di capra era usato per
ristorarsi dai contadini e quindi era una bevanda in apparenza diffusa nell'antica Grecia, ma è chiaro che poteva venire usata come un veicolo di qualcosa d’altro, come appare anche nell’episodio narrato nel X canto dell’Odissea, in cui Circe trasforma i compagni di Ulisse in maiali per aver loro fatto bere del ciceone evidentemente un po’ modificato! In effetti non sappiamo con esattezza la composizione della bevanda che Circe preparava per gli sventurati che cadevano nelle sue grinfie, né abbiamo delle certezze sul ciceone di Eleusi. Per una visione scientifica del dibattito vedi: Webster P, Perrine DM, Ruck CAP. Mixing the Kykeon. Eleusis Journal of Psychoactive Plants and Compounds. New Series 4, 2000. Rovereto. 21 Secondo Sabbatucci, Brimo è il nome esoterico di Demetra che alcuni traducono come “forte”. 22 Un frammento di Plutarco (Fragmenta 168 Sandbach = Stobeo 4, 52, 49) così recita: “Al momento della morte l'anima prova un'esperienza simile a quella di coloro che sono iniziati ai misteri (...). All'inizio vagare smarriti, faticoso andare in cerchio, paurosi percorsi nel buio, che non conducono in alcun luogo. Prima della fine il timore, il brivido, il tremito, i sudori freddi e lo spavento sono al culmine. E poi una luce meravigliosa si offre agli occhi, si passa i luoghi puri e prati dove echeggiano suoni, dove si vedono danze; solenni sacre parole e visioni divine ispirano un rispetto religioso. E là l'iniziato, ormai perfettamente liberato e sciolto da ogni vincolo, si aggira, incoronato da una ghirlanda, celebrando la festa insieme agli altri consacrati e puri, e guarda dall'alto la folla non iniziata, non purificata nel fango e nelle tenebre, e, per timore della morte, attardarsi fra i mali invece di credere nella felicità dell'aldilà”. 23 Un’unione mistica; tra Ade e Persefone? Tra Cadmo e Armonia?
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giuno rituale e in una bevanda d’orzo appena insaporita da un po’ di menta, chiusa da un dichiarazione finale a dir poco banale, qualsiasi cosa volesse dire Brimo! È vero che non abbiamo un filmato della cerimonia e quindi sappiamo relativamente poco dei dettagli della stessa ma, tra i testi letterari24 e le immagini artistiche25 (senza dimenticare la testimonianza essenziale del convertito: la “spia” gnostica di cui sopra), abbiamo abbastanza elementi per delinearne le caratteristiche viste “dall’esterno”. Non dobbiamo poi dimenticare che i greci, e poi i romani, erano adusi al teatro, alla declamazione, all’uso dei suoni e della musica, così come all’impiego delle luci e dei trucchi scenici in cui erano maestri (basti ricordare il colpo di scena del “deus ex machina”) e non si sarebbero lasciati abbindolare da qualche artifizio di bassa lega. Men che meno gli intellettuali del tempo che già avevano messo in naftalina tutto il pantheon olimpico. Rimane perciò un vero rebus spiegare perché l’élite culturale e scientifica anelasse ad essere iniziata ai Misteri Eleusini anche a prezzo di viaggi lunghi e pericolosi, e perché gente del calibro dell’imperatore Adriano avesse partecipato al culto ben tre volte! Come abbiamo sopra già accennato, gli iniziati non imparavano nulla ma percepivano qualcosa, avevano una “visione”26 dei sacri oggetti. Ma è sicuro che la semplice visione di una spiga (o anche magari di qualcosa d’altro) sarebbe stata difficilmente considerata come un’esperienza capace di cambiare la filosofia di vita di un individuo! Una “visione” catartica, una “illuminazione” o un’estasi dovevano essere indotte con ben altri mezzi, soprattutto se si considera che quest’esperienza mistica era condivisa sostanzialmente da tutti i partecipanti al rito, tra cui spesso, come abbiamo detto, individui di grande levatura intellettuale e certamente non ingenui. L’iniziazione ai Misteri Eleusini era democratica all’ingresso ma diveniva elitaria nel suo prosieguo e la visione dell’estasi era riservata evidentemente solo a chi aveva superato onorevolmente i gradi intermedi. Una possibile risposta a questi interrogativi nasce dall’esperienza di alcuni antropologi che avevano partecipato alle cerimonie religiose degli indigeni latinoamericani, in cui le visioni vengono mediate dall’uso di funghi allucinogeni. Uno di loro, Gordon Wasson, pioniere dell’etnomicologia, si domandò se le visioni degli sciamani messicani indotte dalla somministrazione controllata di sostanze dispercettive non potessero suggerire che il meccanismo della “visione” dei Misteri Eleusini (e non solo) avesse basi analoghe. Nel 1975, questa domanda la pose anche ad Albert Hofmann27, che era 24 Notizie vengono anche da Tertulliano, Lattanzio, Clemente Alessandrino, Stefano Bizantino
ma anche da Temistio e Pausania, Platone e altri ancora. 25 La più conosciuta è la famosa urna Caetani-Lovatelli oggi conservata al Museo Nazionale
Romano. 26 Εποπτεια. 27 Albert Hofmann (1906-2008), morto recentemente a più di 100 anni, è stato un grandissimo
chimico-farmacologo ed è famoso anche fuori dal suo ambito per avere scoperto l’LSD nel 1943. Vedi anche pag. 69
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il maggior esperto vivente di alcaloidi vegetali. Nella risposta, pubblicata nel 197828, Hofmann ricorda la storia di un fungo infestante i cerali, l’ergot29 che già nei secoli bui del Medio Evo (e probabilmente anche prima) aveva fatto sfracelli in tutti coloro che se ne cibavano provocando l’ergotismo, gangrenoso o convulsivo, a seconda della proporzione degli alcaloidi contenuti. La prima menzione dell’uso dell’ergot come farmaco la si ritrova nelle note del medico tedesco Adam Lonitzer stese nel 1585. Egli ricorda che il fungo veniva usato dalle ostetriche per accelerare il parto. Solo nel 1808 fu presentata, dall’americano John Stearns, una memoria scientifica in cui l’ergot viene definita una pulvis parturiens. Pochi anni dopo, un altro medico americano, David Hosack, mise in guardia dall’uso disinvolto del fungo e raccomandò che l’ergot venisse usato solo per controllare l’emorragia post-partum. Dal quel momento questa ne fu la principale indicazione medica, anche se è quasi certo che l’ergot venisse usato, probabilmente da tempi immemorabili, come abortivo. Lo sviluppo della chimica analitica e della chimica organica aveva poi permesso di isolare dall’ergot decine di alcaloidi attivi tra cui l’ergotamina30, la diidroergotamina31 e, nel 1935, la ergonovina (che è l’alcaloide con maggiore attività uterotonica), la cui modifica da parte di Hofmann, due anni dopo, portò alla sintesi della butanolamide dell’acido lisergico32, commercialmente conosciuta come metergina. Nello sviluppo delle sue ricerche, Hofmann voleva ottenere una molecola sintetica a partire dall’acido lisergico, che avesse un’attività analettica33 e sintetizzò la dietilamide dell’acido lisergico. Questa sostanza, in realtà si dimostrò una molecola uterotonica quasi della stessa potenza della ergonovina ma, nel famoso esperimento che Hofmann compì su se stesso nel 194334, si scoprì che era un potentissimo allucinogeno e da quel momento essa divenne famosa con il suo nome di codice del laboratorio: LSD-25! Le successive ricerche di Hofmann dimostrarono, nei funghi sacri messicani, la presenza della psilocibina e della psilocina e, in un’altra pianta usata dagli indigeni a scopo psicotropico (l’ololiuhqui), la presenza di almeno due altri composti dell’acido lisergico (!): l’amide dell’acido lisergico e l’idrossietilamide dell’acido lisergico, sostanze idrosolubili con attività evidentemente simile a quella dell’ormai noto LSD-25. La scoperta inattesa, questa 28 Wasson RG, Hofmann A, Ruck CAP (1978) The road to Eleusis: unveiling the secret of
mysteries. Brace Jovanovich, New York & London. 29 Nella maggior parte dei casi è il genere Claviceps purpurea, anche se ce ne sono altri: Cl. paspali,
C.l nigricans, Cl. glabra, ecc. 30 Il famosissimo Cafergot usato soprattutto contro l’emicrania; fu isolato da A. Stoll nel 1918. 31 L’altrettanto famoso Dihydergot usato soprattutto nei disturbi circolatori; fu isolato da Stoll e
dallo stesso Hofmann. 32 Hofmann, da buon chimico, ricorda che l’acido lisergico è il nucleo comune alla maggior parte
degli alcaloidi dell’ergot. 33 In farmacologia è una sostanza con proprietà stimolanti il sistema circolatorio e respiratorio. 34 Vedi la descrizione con le parole dello stesso scienziato a pag. 69
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volta da parte di un gruppo italiano35, fu che quelle stesse amidi dell’acido lisergico potevano essere isolate dall’ergot36 del Paspalum distichum, una graminacea selvatica presente in tutto il bacino mediterraneo. Queste due amidi psicotrope erano quindi le stesse sia nel vecchio che nel nuovo mondo e il fatto che fossero entrambe idrosolubili (in contrasto con l’ergotamina e con l’ergotossina, che però non hanno attività dispercettive) ne facilitava evidentemente la preparazione anche nell’antichità. Ma nel bacino mediterraneo, oltre alle graminacee selvatiche, vi sono sempre stati il grano e l’orzo ed entrambi possono essere parassitati della Claviceps purpurea (l’ergot più comune). Quindi, secondo Hofmann, non è improbabile che l’induzione della “visione” nei Misteri Eleusini fosse ottenuta dalla separazione dei composti idrosolubili (gli allucinogeni) da quelli non idrosolubili (i non allucinogeni) o, ancora più semplicemente, dall’uso dall’ergot del Paspalum distichum che contiene solo le amine allucinogene e non quelle vasoattive. Per chiudere il cerchio, altre specie di graminacee selvatiche dell’area mediterranea37 possono essere parassitate dai funghi del tipo della Claviceps ed avere quindi i medesimi effetti. Indovinate qual è il loro nome comune in Francia e in Germania? Rispettivamente “ivraie”38 e “taumellolch”39! Gli antichi Europei, evidentemente, avevano già capito tante cose anche nel Medio Evo...! Per secoli la plebe non ebbe altra scelta se non quella di mangiare il solo pane che c’era e se questo era fatto con la segale cornuta o con altri cereali contaminati da funghi velenosi ne soffriva le conseguenze: dolori e spasmi da vasocostrizione, accompagnati o meno da allucinazioni in proporzione alla casuale miscela degli alcaloidi presenti nel pane. Camporesi ricorda che il pane nero, il pane “ergotato”, il pane “alloiato” furono per lunghi periodi i pericolosi compagni di vita dell’umanità plebea e le malattie e le mattane che questo cibo dispensava generosamente nel Medio Evo certamente contribuirono ad allargare il solco, già profondo, che divideva le classi sociali del tempo40. Gli antichi sacerdoti delle religioni misteriche nel vecchio e nel nuovo mondo, da bravi medici-farmacisti, avevano capito che i misteri sono tali finché la scienza non li disvela e che il pharmacon41 era come un Giano bifronte, che si poteva osservare da un lato o dall’altro, ma solo a patto di saper scegliere. Allora, per la prima volta dopo la scoperta del fuoco e dell’agricoltura, l’uomo dominò la natura e non ne venne dominato. 35 Arcamone F. et al. Nature; 187:238, 1960. 36 Per l’esattezza il Claviceps paspali. 37 Lolium temulentum e Lolium perenne. 38 “Ivraie”, in francese, indica il loglio, cioè l’erba cattiva, ma la radice è comune a “ivre” che vuol
dire “ebbro”. 39 “Taumellolch”, in tedesco, indica il loglio, cioè l’erba cattiva, ma “taumel” vuol dire “vertigine”. 40 Camporesi P. Il pane selvaggio. Garzanti, Milano. 2004. 41 In greco la parola pharmacon (φαρμαχον) significa sia “veleno” che “medicinale”.
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Appendice 1 • I Misteri Eleusini
In conclusione, dal punto di vista medico-farmacologico, possiamo dire che la “visione” dei misteri era probabilmente un Fuoco di Sant’Antonio sapientemente controllato42 e ci appare quindi anche meno incomprensibile un altro mistero, e cioè l’antica denominazione di questa malattia: ignis sacer43. Se i sintomi allucinatori dei misteri iniziatici erano considerati una manifestazione del sacro non è strano che una malattia con sintomi analoghi fosse stata chiamata fuoco sacro.
42 Nella sua declinazione di ergotismo neurologico o ergotismo convulsivo. Inoltre, se
consideriamo pure l’ipotesi di Kerenyi (e cioè che nel ciceone ci potesse essere anche dell’oppio) abbiamo più di un motivo di pensare che l’estasi dei misteri Eleusini non fosse solo una messa in scena! 43 In latino: fuoco sacro.
Appendice 2 Sulle tracce di Sant’Antonio
Appendice 2
Sulle tracce di Sant’Antonio
... in Egitto Da quello che sappiamo Antonio nasce nel 251 a Coma vicino a Herakleopolis Magna nel Basso Egitto e, seguendo il detto evangelico dell’ideale della perfezione, lascia il mondo per rifugiarsi da eremita nella regione desertica della Nitria (Wadi El Natrun), a ovest di Alessandria. Da lì, dopo un po’ di anni si trasferisce in un altro romitaggio (Pispir, ora Der el Memun), ma alla fine si ritira in un posto ancora più desolato nel deserto orientale all’interno del mar Rosso ed è qui che siamo andati nell’inverno del 2008. La Figura 1 illustra le località rilevanti nella storia del Santo. Lasciato Il Cairo bisogna dirigersi verso sud-est verso il Mar Rosso per circa 150 chilometri e, una volta arrivati sulla costa, proseguire tra il mare e il desertissimo deserto e arrivare fino a Zafarana. Qui giunti, si deve piegare ad ovest e dopo circa 30 chilometri di una piccola strada tra sabbia e roccia ed un’altra deviazione verso sud, si arriva finalmente al monastero. Bisogna dire che l’arrivo al monastero è già da solo un’esperienza, dato che da lontano si vedono solo montagne desolate e sembra impossibile che ci possa essere qualcosa, anche vagamente abitato. Poi, all’orizzonte, alla base delle montagne, appaiono due piccoli torri appaiate (Fig. 2) che, avvicinandosi, si rivelano essere le torri del portale esterno del grande recinto dove si trova il monastero vero e proprio. Il monastero di Sant’Antonio è costituito da un grande muro di pietra chiara (Fig. 3) che all’interno contiene le chiese, le celle e gli spazi comuni dei monaci e, meraviglia dentro una meraviglia, i giardini e gli orti (Fig. 4). Il mistero del verde in un luogo che ha visto la pioggia forse al tempo dei dinosauri, è presto svelato; coperta da una tettoia di legno (Fig. 5), in una parete di solidissima pietra, appare la fonte d’acqua (Fig. 6). Il posto è veramente magico: la sorgente appare miracolosamente da una fessura della roccia e ci fa domandare da dove possa venire quell’acqua benedetta. L’ingresso nel monastero avviene per un portone che ritrova a fianco della
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Appendice 2 • Sulle tracce di Sant’Antonio
Figura 1. Il percorso probabile delle reliquie di Sant’Antonio
Figura 2. Dall’interno dell’autobus che ci porta dal Cairo: ci stiamo avvicinando al portale esterno del monastero contraddistinto da due torri
Figura 3. All’interno del recinto appare l’esterno del monastero. Sullo sfondo le montagne del deserto. L’ingresso attuale è la porta ad arco che appare a sinistra ed è stato aperto solo nel secolo scorso. Per secoli si è entrati solo tramite una botola situata sul balcone in legno sopra la torre centrale. Dal torrino pende una corda che serviva ai viandanti per avvisare i monaci del loro arrivo
... in Egitto
Figura 4. All’interno del monastero appaiono i palmizi e gli orti dei monaci
Figura 5. In una parte del monastero vicino alle mura, dalla parte del monte, si nota una bassa tettoia di legno che nasconde la fonte d’acqua
Figura 6. Sotto la tettoia di legno, si scopre il segreto della vita del monastero: una sorgente d’acqua che sgorga da una fessura della roccia
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Appendice 2 • Sulle tracce di Sant’Antonio
torre di ingresso. Questo accesso è però recente, perché fino al secolo scorso, per difendersi dai predoni, non esisteva porta alcuna e l’accesso al monastero poteva avvenire solo attraverso una corda lasciata calare da una botola (Fig. 7). A fianco della torre, da un torrino, pende una corda che aziona un campanello. Se un viandante arrivava al monastero, tirando la corda avvisava i monaci della sua presenza. Essi allora gli calavano un po’ d’acqua e un po’ di cibo per dargli modo di riprendere le forze e il viaggio. All’interno ci si ritrova in un micro-villaggio con case, chiese, giardini e spazi comuni. Con l’eccezione di una parte moderna che accoglie ora i pellegrini e i turisti, tutti gli altri edifici hanno il fascino di un tempo incalcolabile. Ma il monastero di Sant’Antonio è tra i più antichi monasteri cristiani del mondo, se non il più antico, fondato poco dopo la morte dell’anacoreta nel IV secolo. All’interno del monastero vi è una torre chiamata dai monaci la torre di Giustiniano, che sembra risalire al V secolo. Questa torre ha un accesso tramite un ponte levatoio e rappresentava l’ultima ratio nel caso in cui i predoni fossero riusciti ad abbattere le mura e a penetrare all’interno del monastero (Fig. 8). Le chiese e le celle sono belle, ma il refettorio è veramente incredibile, con il tavolo e le panche scavate in un unico blocco di calcare lungo più di dieci metri (Fig. 9). La chiesa principale ha dei bellissimi affreschi che solo da pochi anni, grazie al lavoro di restauratori italiani (!), sono visibili nella loro qualità originale (Fig. 10). Oltre a ciò, una colonna porta l’iscrizione di un graffitaro del XVII secolo, che, per inciso, era un italiano! Lasciando il monastero da ovest, una strada sterrata porta ai piedi della montagna e da lì, dopo una curva in cui è stata recentemente ricavata un’altra chiesa dedicata al Santo, si arriva in uno spiazzo da cui inizia un’interminabile scala che sembra perdersi nella parete rocciosa: essa porta a quello che, secondo la leggenda locale, era l’estremo romitaggio del Santo (Fig. 11). Dall’alto della parete lo sguardo si perde a 180 gradi nell’immensità del deserto orientale, mentre il Mar Rosso si può solo indovinare (Fig. 12).
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Figura 7
Figura 8 Figura 7. La parte interna della torre centrale cela il meccanismo semplice con cui poteva entrare nel monastero chi aveva il diritto di farlo. Una corda veniva lasciata cadere dalla botola per essere avvolta intorno ai fianchi del visitatore che veniva poi issato all’interno
Figura 8. La torre di Giustiniano, a sinistra, poteva essere raggiunta solo da un ponte di legno ed era l’ultimo riparo nel caso in cui i predoni fossero penetrati all’interno del monastero
Figura 9. Il tavolo del refettorio scavato in un unico blocco di calcare: ad una estremità il tavolo è sagomato come un leggio che accoglie i libri delle Sacre Scritture che venivano letti durante i pasti
Figura 9
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Appendice 2 • Sulle tracce di Sant’Antonio
Figura 10. L’interno della chiesa principale è molto bello sia dal punto di vista architettonico che pittorico. I restauri recenti hanno reso di nuovo godibili tutti gli affreschi
Figura 11. Dietro il monastero, all’esterno delle mura e verso la montagna, si apre un piccolo spiazzo da cui parte una scala che termina in una grotta: secondo la tradizione, era il romitaggio del Santo
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Figura 12. Tornando verso il monastero il panorama che si apre sulla pianura è sconfinato e completamente desertico. Il Mar Rosso si può solo indovinare
... in Europa In Europa il nostro viaggio comincia da Saintes Maries de la Mer, un piccolo villaggio della Provenza alle bocche del Rodano (Fig. 13), famoso soprattutto perché è il luogo dove si radunano ogni anno tutti i gitani del mondo per festeggiare la loro patrona, Sara, detta anche la Madonna Nera. Il nome del villaggio significa infatti “Sante Marie del Mare”: le “Marie” che danno il nome al paese sono Maria Salomé e Maria Jacobé, che secondo la leggenda sarebbero arrivate in questi luoghi assieme alla serva Sara. Le statue delle tre donne si trovano nella chiesa del paese: le due prime due Marie sono raffigurate sulla barca, e una scultura che le raffigura viene portata in processione nella ricorrenza dello sbarco; a Sara, la terza Maria, è invece dedicata la statua addobbata come una gitana nella cripta (Fig. 14). Non si sa con esattezza quando questa storia affascinante inizi ma, già appena dopo il primo millennio, la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine racconta così: “Molto tempo dopo l’ascensione del Signore…con gli apostoli si trovava in quel tempo Massimino, uno dei settantadue discepoli; Pietro gli aveva affidato Maria Maddalena. Nel corso di questa migrazione il beato Massimino, Maria Maddalena, suo fratello Lazzaro, Marta sua sorella, e Martilla serva di Marta, insieme con Cedonio, cieco dalla nascita ma sanato dal Signore, furono presi dagli infedeli e caricati assieme con altri cri-
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Figura 13. In un classicissimo mercatino provenzale ci sono tante belle cose da vedere, come questo delizioso banco di frutta
stiani e abbandonati alle onde del mare , senza pilota, perché andassero tutti a picco: però, per volere divino, arrivarono a Marsiglia…” Il grande vescovo continua così, in un altro passo. “Successivamente arrivarono sino ad Aix-en-Provence, ove condussero l’intera città alla fede di Cristo compiendo molti prodigi; là Massimino fu nominato vescovo….Frattanto la beata Maria Maddalena, mai sazia di contemplare Dio, andò in un luogo solitario, preparatole dalla mano degli angeli, ove rimase incognita per trent’anni”1. Sta di fatto che, verità o leggenda, è assai probabile che il credo cristiano abbia avuto una grande spinta proprio da questa regione e non è quindi strano che la regione del delta del Rodano sia stata un importante punto di partenza di molte spedizioni e anche un anelato punto di arrivo. Nel Medio Evo infatti, la terza crociata (1189-1192) partì da Marsiglia e la settima (12481254) partì da Aigues Mortes, una bellissima cittadina murata lì vicino.
1 Non a caso la cittadina nei pressi di Aix-en-Provence dove riposerebbero le reliquie di Santa
Maddalena si chiama Saint-Maximin-la-Sainte-Baume. Massimino è il compagno di viaggio divenuto vescovo, mentre “Baume” è la parola provenzale per dire “grotta”, alludendo al riparo dove visse la Santa.
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È quindi probabile che la traslazione (se mai ci fu) delle reliquie di Sant’Antonio Abate sia avvenuta per mare. Secondo Atanasio, Antonio avrebbe dato disposizione di tenere segreto il posto della sua tomba, ma secondo una leggenda medioevale2 un angelo apparve all’imperatore Costantino che, a sua volta, inviò il vescovo Teofilo alla ricerca delle spoglie del santo. Arrivato in Egitto, il buon vescovo venne condotto nel posto giusto da una stella luminosa. Ritrovata la spoglia, fece ritorno a casa passando per Alessandria e Gerusalemme per finire a Costantinopoli. Da lì, appena dopo il 1000, il famoso Jocelin si impadronì della preziosa reliquia e la portò in Europa. Ma dove? Andiamo a dormire a Maussane les Alpilles, un paesino molto tranquillo poco distante da Arles e decidiamo di partire il giorno seguente per la famosa città. Il mattino dopo la prima sorpresa: a pochi chilometri, sulla strada per Arles, passiamo per il piccolo paese di Fontvieille dove ci imbattiamo in un’insegna di un ristorantino (Fig. 15) che ci conferma che siamo sulla strada giusta. Dopo poco siamo ad Arles. L’importanza di Arles è troppo nota per essere discussa in queste righe; qui basterà dire che la città era una delle sedi vescovili più importanti di Francia. E infatti nella famosa e bellissima cattedrale di Saint Trophime (Fig. 16) troviamo subito un prezioso reliquiario con i resti di Sant’Antonio Abate nella cappella a lui dedicata (Fig. 17). È una sorpresa, almeno in parte. Avevo letto della disputa secolare tra la sede di Arles e quella di Saint Antoine l’Abbaye e pensavo che la faccenda si fosse risolta a favore di quest’ultima... ma evidentemente mi sbagliavo. Non è bastato più di un millennio di carte bollate, di pronunciamenti, di papi per dirimere la questione e pertanto entrambe le sedi vantano il possesso delle sacre spoglie del grande Santo3! Appena fuori da Arles, a 4 chilometri a Nord- Est sulla strada provinciale D17, troviamo la grande abbazia di Montmajour (Figg. 18 e 19). È un bellissimo complesso fondato nel X secolo dai Benedettini che entra nella nostra storia perché è proprio da questa abbazia che vengono mandati i monaci a custodire le reliquie del nostro Santo. Il possesso delle stesse, come si sa, fa gola a molti, per cui non tarda ad esplodere un complicatissimo conflitto di competenza tra i Benedettini e gli Antoniani4 mediato, tra molti contorcimenti, dai vescovi di Arles e sostanzialmente finito solo con l’estinzione dei contendenti. Dopo pochi chilometri, seguendo il decorso del grande fiume raggiungiamo Tarascona e Beaucaire, due cittadine che si affacciano ai due lati
2 De Lanoy P. La légende du grand Saint Antoine. Palud, Lyon. 1889. 3 In fatto di reliquie c’è di peggio…ma anche nel nostro caso, le sedi che vantano di possedere
una reliquia di Sant’Antonio sono molte! 4 Nel 1297 papa Bonifacio VIII, con la bolla Ad apostolicae dignitatis trasforma l’originale confraternita laicale nell'Ordine Ospedaliero dei canonici regolari di S. Agostino di S. Antonio abate di Vienne, detto comunemente degli Antoniani Viennois o di Vienne o, nel regno di Napoli, di Vienna.
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Appendice 2 • Sulle tracce di Sant’Antonio
Figura 14. Nella chiesa di Saintes Maries de la Mer è collocata la statua di Sara, la patrona dei Gitani, che sarebbe la terza Maria e che però, nella Leggenda Aurea si chiama Martilla!
Figura 15. A nord-est di Arles, venendo da Maussane les Alpilles, si passa per il paesino di Fontvieille dove si incontra la divertente insegna di un ristorante che raffigura il nostro Santo col suo maialino e il diavolo
Figura 16. Nella piazza principale di Arles si trova la cattedrale di Saint Trophime. Guardando la facciata la chiesa sembra piccola, ma in realtà è un complesso imponente
Figura 14
Figura 15
Figura 16
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Figura 17. In una cappella laterale della cattedrale troviamo la cappella di Sant’Antonio Abate. All’interno vi è un’urna dorata che, secondo gli Arlesiani, contiene le spoglie autentiche del Santo
Figure 18. e 19. Come una visione, emerge dalla macchia mediterranea il complesso imponente della antica abbazia benedettina di Montmajour
Figura 17
Figura 18
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Figura 20. Dai merli del castello di Tarascona che domina il Rodano si vede la cittadina di Beaucaire col suo castello
contrapposti del Rodano, ciascuna con il suo castello (Fig. 20). In realtà non avevo previsto di fermarmi, perché pensavo di non ritrovarvi vestigia antoniane; seguo però i consigli del mio amico e collega Gianluca Tadini, che mi aveva raccomandato di vedere i resti di un’antica abbazia, e vado a visitare l’abbazia di Saint Roman che è a pochi chilometri da Beaucaire. Che sorpresa! Dopo una camminata tra la boscaglia e i cespugli della flora provenzale si arriva ad un blocco calcareo, seminascosto dalla vegetazione, che domina la valle del Rodano. È un’abbazia scavata nella roccia calcarea! La sola abbazia trogoloditica dell’Europa occidentale! Scopro che è stata fondata a partire dal V secolo sullo schema dei monasteri orientali ed è stata occupata ininterrottamente per oltre 1000 anni. La chiesa, le celle dei monaci e le tombe sono scavate nella viva roccia come in Anatolia o a Matera (Fig. 21) e le stesse tombe si ritrovano a Montmajour! (Fig. 22). È un posto certamente affascinante e che comunque testimonia che già molti secoli prima che divenisse di moda la traslazione delle reliquie dei santi, l’ideale monastico si era ben radicato anche in luoghi molto lontani da San Benedetto. Andando verso nord, si arriva ad un grande ponte sul Rodano, guardato dalla cittadina di Pont Saint Esprit. È un ponte che da solo vale il viaggio, dato che è stato costruito nel XIII secolo, è lungo quasi un chilometro e funziona regolarmente collegando le due rive del grande fiume (Fig. 23). Pont Saint Esprit divenne tristemente famosa per un avvelenamento del pane che colpì più di trecento persone di cui cinque morirono nel giro di una settimana e una trentina furono presi da allucinazioni e demenza e ricoverati in un ospedale psichiatrico. Dopo un processo durato quasi quarant’anni non si riuscì a capire con esattezza la causa di questa tragedia che risvegliò i fantasmi medioevali del fuoco di Sant’Antonio, appena mezzo secolo fa. Grazie al libro di Kaplan5 ritroviamo la sede del vecchio forno (Fig. 24) 5 Kaplan SL. Le pain maudit. Fayard, Paris, 2008.
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Figura 21. Dalla sommità delle rovine dell’abbazia di Saint Roman si vede la grande curva del Rodano, mentre in primo piano appaiono le tombe dei monaci, scavate nella roccia
Figura 22. Lo stesso tipo di tombe di Saint Roman si trova a Montmajour
Figura 23. Il ponte medioevale con 25 archi che dà il nome al paese: Pont Saint Esprit, ancora in esercizio!
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Figura 24. Grazie al libro di Kaplan, arriviamo nella via dove c’era il vecchio forno che ha provocato la clamorosa ultima epidemia di Fuoco di Sant’Antonio negli anni ’50 del secolo scorso
chiuso da molti anni e poi proseguiamo verso nord. Seguendo l’autostrada arriviamo fino a Valence e ci dirigiamo quindi verso Romans sur Isère, poi seguiamo la strada provinciale D52 fino alla nostra meta finale Saint’Antoine l’Abbaye, attraverso un paesaggio collinare pochissimo abitato (Fig. 25). Ci siamo stati altre volte, ma questa volta il tempo è particolarmente bello e il paesaggio circostante è coinvolgente. Il villaggio è al fondo di un’ampia valle e non lo si vede finché non si è abbastanza vicini. Una volta sul posto è una cartolina dopo l’altra! La cattedrale è bellissima (Figg. 26-28) e desta molta impressione: non ci si aspetta di trovare una costruzione così imponente in un posto così piccolo e lontano dalle principali vie di comunicazione. Tutto il villaggio appare costruito intorno alla chiesa e al grande monastero dove si curavano i malati del fuoco di Sant’Antonio. Il villaggio è assai ben conservato (Fig. 29) anche perché, a partire dal XVII secolo, il miglioramento delle condizioni igieniche in Europa e la scoperta della causa dell’ergotismo nel XVIII secolo, fecero venir meno la stessa ragione d'essere degli Antoniani, che vennero soppressi nel 1776 da Papa Pio VI. Non aggiungo altro, ma, se potete, fate questo viaggio.
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Figura 25. L’Autore durante il suo ultimo viaggio davanti al cartello stradale del paese di Saint’Antoine l’Abbaye
Figura 26. Arrivando da nord, quando la strada comincia a discendere dolcemente appare la maestosa facciata gotica della cattedrale
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Figura 27.
Figura 28. (in alto)
All’interno della cattedrale vi sono ovviamente quadri e statue dedicate al Santo, ma anche questa bella vetrata
L’altare maggiore della cattedrale visto dall’abside. Al centro, nella parte bassa, sono collocate le reliquie del Santo protette da una grata dorata
Figura 29. Il villaggio rinascimentale è perfettamente conservato e, da solo, merita il viaggio