JOHN NORMAN IL FUORILEGGE DI GOR (Outlaw Of Gor, 1967) PREMESSA DELL'AUTORE Alcune settimane or sono il mio amico Harris...
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JOHN NORMAN IL FUORILEGGE DI GOR (Outlaw Of Gor, 1967) PREMESSA DELL'AUTORE Alcune settimane or sono il mio amico Harrison Smith, un giovane avvocato di New York, mi ha consegnato un secondo manoscritto vergato nell'inconfondibile calligrafia di Tarl Cabot. Era suo desiderio che ne curassi la ristesura e lo consegnassi a un editore perché fosse pubblicato, così come feci col primo. Questa volta, tuttavia, a causa dell'interesse destato da quello che andò in stampa col titolo Sotto il sole di Gor, (e soprattutto considerate le dispute provocate nell'ambiente scientifico dall'esistenza di un pianeta che, al di là del Sole, orbita celato in perpetuo agli strumenti astronomici terrestri), ho persuaso Harrison Smith a scrivere di suo pugno un'introduzione. Ciò allo scopo di chiarire come si sia svolto il suo ruolo d'intermediario, e per fornire al pubblico notizie diverse su Tarl Cabot, che io non ho avuto il piacere di conoscere personalmente. John Norman Capitolo 1 UN'INTRODUZIONE DI HARRISON SMITH Incontrai per la prima volta Tarl Cabot in un piccolo e liberale college del New Hampshire, dove entrambi eravamo stati assunti come insegnanti all'inizio della carriera. Cabot teneva un corso di Storia Inglese, ed io, che avevo deciso di lavorare un paio d'anni onde mettere da parte qualche soldo per proseguire i miei studi in legge, avevo accettato d'impiegarmi come istruttore d'educazione fisica. Possedevo un diploma in questa materia, che considero tuttora il mio hobby, ma con gran rincrescimento non fui mai capace di convincere Tarl Cabot a seguire i corsi di ginnastica, né a praticare qualche sport insieme a me. In quell'ambiente tranquillo l'atmosfera era però favorevole al nascere d'una buona amicizia, e sebbene non ci frequentassimo spesso, i nostri rapporti si stabilizzarono in un legame di viva simpatia. Lo ricordo come un giovanotto inglese d'aspetto gentile, pacato di modi e sempre cordiale con tutti, sebbene talvolta sembrasse distaccato e remoto. Nelle riunioni e
ai cocktail party del corpo insegnante aveva l'aria di sopportare con fatica il peso della sua educazione di uomo civilizzato, e s'intuiva in lui un animo libero e selvaggio, una natura fatta per il vento delle montagne impervie ed i grandi spazi sconfinati delle pianure. Cabot era piuttosto alto, fisicamente assai solido, con movenze di un'agilità felina sotto la quale si leggeva la circospetta cautela di chi ha dovuto vivere nei bassifondi, un atteggiamento questo maturato in lui nell'infanzia trascorsa attorno ai moli di Bristol, sua città natale. Per contro, quando discorreva coi colleghi o con le loro mogli, emergeva in lui la patina sofisticata del laureato di Oxford, la scuola dove aveva terminato gli studi prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Aveva occhi chiari, d'un colore verde azzurro, che gli conferivano uno sguardo diretto e franco, ciò malgrado disponeva d'una personalità complessa e difficile da definirsi. La sua chioma d'un rosso carota era sempre un po' spettinata, cosa che destava la tenerezza delle donne e lo rendeva simpatico ai giovani. Dubito che possedesse un pettine, e comunque sembrava soddisfatto dei risultati che otteneva ravviandosi i capelli con un gesto distratto della mano. A parte questa sua piccola trascuratezza lo si stimava un gentiluomo perfettamente educato, e godeva del favore generale. Non fu dunque scarso il disappunto, sia per me che per l'intero college, quando un bel giorno scomparve senza preavviso al termine del primo semestre, lasciando tutti nella più completa perplessità ed all'oscuro del suo destino. Nonostante la sua assenza restasse inspiegabile, non dubitai che fosse stata provocata da eventi al di fuori della sua volontà, perché Cabot non era di mentalità leggera e sapeva tener fede ai suoi impegni. Alla fine degli scrutini di quel semestre, come gli altri colleghi, si prese alcuni giorni di vacanza decidendo di trascorrerli lontano dalla routine del college. Stabilì quindi di fare un po' di campeggio, da solo, nelle vicine White Mountains, che a Febbraio erano splendidamente ammantate di neve ed offrivano la possibilità di piacevoli escursioni sui pendii boscosi. A questo scopo gli prestai una parte del mio equipaggiamento da campo, e poi l'accompagnai fino a una radura sotto i versanti, un po' per fargli da guida e un po' per sgranchirmi le gambe io stesso. Qui giunti egli mi propose di tornare ad attenderlo da lì a tre giorni e, nel prefissare l'ora e il luogo dell'appuntamento, sono certo che aveva la ferma intenzione d'essere puntuale. Però, allorché mi recai di nuovo là per incontrarlo, non potei far altro che constatare la sua assenza. Lo attesi per un paio d'ore, ne cercai le tracce sulla neve, ed infine l'approssimarsi del tramonto mi costrinse a ri-
entrare al college. Il giorno successivo mi rimisi in strada con tre colleghi, anch'essi preoccupati e decisi ad esplorare la zona, ma non ci fu verso di capire neppure quale direzione Tarl Cabot avesse preso sulle alture. Notificammo quindi la cosa alle autorità e, quel pomeriggio stesso, fu iniziata una battuta su vasta scala, con l'ausilio di cani ed elicotteri. A sera trovammo quelli che dovevano essere i resti del suo fuoco da campo, presso una larga spianata di roccia assai distante dai sentieri più agevoli. Da lì la ricerca s'allargò a ventaglio ma non fu possibile reperire nessun altro elemento utile, e il giovanotto venne dato per disperso. Solo molti mesi più tardi, in una lettera inaspettata e troppo sintetica, egli ci fece sapere che aveva abbandonato la zona per un'altra strada, vivo e vegeto benché sotto shock ed in preda a una completa amnesia. Comunque non tornò al suo lavoro al college, e ricordo che alcuni insegnanti anziani spiegarono la cosa dicendo che a parere loro quel giovanotto si era sempre sentito fuori posto nella routine scolastica. A quel punto vari fattori mi avevano convinto che neppure io ero adatto alla vita del college, e diedi le dimissioni. Avevo ricevuto per posta un assegno firmato da Tarl Cabot, col quale egli diceva di rifondermi per la perdita dell'equipaggiamento da campo, e ciò almeno mi fece capire che il giovanotto aveva smarrito quegli attrezzi da qualche parte. Questo era conforme alla sua onestà, ma avrei preferito che si fosse fatto vivo prima per rassicurarmi sulle sue condizioni fisiche, dato che ero stato non poco in ansia. Nella breve e tardiva lettera che spedì alla direzione del college, parlava di amnesia traumatica e faceva le sue scuse, però questa versione mi parve troppo semplicistica e non mi convinse. Come aveva vissuto durante quei mesi? Cos'aveva fatto? In quale ospedale o città era stato curato? Ma il tempo trascorse e, comprensibilmente, quegli interrogativi finirono per sfumare nella mia memoria. Soltanto a distanza di sette anni dai giorni in cui avevamo insegnato insieme al college ero destinato a incontrare di nuovo Tarl Cabot, e questo accadde per caso in una strada di Manhattan. Varie ragioni, e soprattutto la necessità di lavorare, mi avevano costretto a ritardare il conseguimento della laurea, ed in quel periodo stavo preparando gli ultimi esami all'Università di New York. Tarl era cambiato pochissimo, all'apparenza, e vedermelo davanti fu un colpo. Ci scambiammo strette di mano e pacche sulle spalle, e fu in quel modo che m'accorsi, con la mia esperienza d'istruttore di educazione fisica, che il giovanotto s'era fatto eccezionalmente robusto e muscoloso. La forza delle sue braccia mi sorprese, e sotto la giacca sembrava avere spalle da
atleta. Ma subito mi resi conto che in lui c'era qualcosa di strano, oserei dire di selvaggio, quasi che le sue sembianze d'uomo civile fossero una patina sotto cui nascondeva istinti ferini. Cosa ne era stato del gentile e innocuo ragazzone inglese? Quali esperienze lo avevano mutato in un predatore nei cui occhi si leggeva l'allegria ma anche la capacità di procurare la morte con micidiale efficienza? Il suo sorriso era tuttavia vivacissimo e piacevole. «Harrison!», esclamò. «Per la coda di Satana... Harrison Smith! Come va, vecchio mio?» Ci fissammo compiaciuti, continuando a stringerci le mani. «Beviamo un goccio,» proposi, rimorchiandolo in un vicino locale. Non intendevo lasciarmelo scappar via. Così, in un minuscolo bar di Manhattan, poco più che un corridoio stretto fra la parete e il bancone, Tarl Cabot ed io rinnovammo la nostra amicizia. Ci attardammo su dozzine di argomenti diversi, ma non sfiorammo mai quello che m'incuriosiva di più: il motivo per cui non mi aveva mandato il suo indirizzo, e ciò che gli era successo sulle White Mountains. Quella volta ci separammo sul far della sera, ma con la promessa di rivederci l'indomani. Ed in seguito continuammo a frequentarci regolarmente per alcuni mesi. Avevo la netta impressione che in quel solitario giovanotto vi fosse il bisogno di solidi rapporti umani, la rude e cameratesca necessità di scambiar quattro chiacchiere franche con un buon amico, e ciò era un elemento nuovo del suo carattere. Fui quindi sorpreso quando mi confessò che ero il suo solo conoscente, e che non gradiva farsi altre compagnie. Sapevo che prima o poi lui stesso mi avrebbe raccontato le peripezie seguite all'episodio di sette anni avanti, e non gli misi fretta con domande o allusioni preferendo che fosse lui a scegliere il momento. Non volevo intromettermi nei suoi affari personali né ficcare il naso nei suoi segreti, se pure ne aveva, e mi bastava averlo ritrovato come amico. Certo ero meravigliato dal suo silenzio in proposito, perché al suo posto chiunque avrebbe lasciato andar lì degli accenni o rivangato qualche ricordo, ma infine m'accorsi che poneva grande attenzione a dirottare la conversazione quando essa minacciava di sfiorare l'argomento. Pensai che gli riuscisse doloroso rivangare quei mesi di assenza, e invece ero fuori strada: come compresi in seguito, la sua reticenza era dovuta alla paura che, se mi avesse raccontato la verità, lo avrei creduto pazzo. Poi una notte verso le due, nel Febbraio successivo, ci trovavamo in un
tranquillo bar della Terza Avenue quando notai che Tarl beveva molto distrattamente. I suoi occhi erano fissi sulla strada oltre la vetrina appannata, dove stava scendendo una neve leggera e sorprendentemente pulita. Nel poggiarsi sull'asfalto essa si tingeva dei riflessi rosati dei neon, e lo sguardo del mio compagno sembrava scivolarvi sopra per smarrirsi altrove e lontano, come all'inseguimento di un sogno. Ricordai che proprio in quella stagione dell'anno, e con la neve, era scomparso dal college. «Ti accompagno a casa, amico?» dissi a bassa voce. Tarl non si volse neppure. Aveva mandato giù quattro bicchierini di whisky e, non essendo un bevitore, questo lo aveva stordito, procurandogli una specie di sbornia triste. Non lo avevo mai visto tanto scuro in faccia. «Lei non può dimenticarmi, lo so...», mormorò fra sé. «Lei chi?», domandai. Scosse la testa, continuando a guardare la neve. «È tardi,» dissi. «Meglio rientrare. D'accordo? Vuota il bicchiere e andiamo a casa.» «A casa? E dov'è la mia casa?» Con un gesto rabbioso ingoiò il whisky che gli restava. «A due isolati da qui, giusto dov'era quando ne sei uscito oggi pomeriggio.» Il mio tentativo di scherzare era un po' isterico, perché sentivo che in quel momento Tarl Cabot mi considerava un estraneo, qualcuno che s'interponeva fra lui ed i suoi pensieri. Gli misi una mano su un braccio, ma lui la scosse via scontrosamente. «Sì, è tardi,» borbottò, come se intendesse un concetto molto diverso dall'ora che segnava l'orologio. «Forse troppo tardi. E mi domando quanto tempo ancora...» La sua voce s'interruppe di botto. M'appoggiai indietro allo schienale. Se desiderava confidarsi con me, bene. Se no, dopotutto erano affari suoi. Il suo silenzio si prolungò. Nel bar c'erano solo due avventori, che parlavano in un angolo a voce bassa, e il gestore stava studiando una nuova macchina da caffè. Il sottofondo di musica era stato ridotto al minimo e poi spento. Tarl ordinò con un cenno un altro whisky e tenne per un poco il bicchiere davanti agli occhi, fissandolo in trasparenza. Poi, con un gesto assai cerimonioso ne versò qualche goccia sul bancone. Vederlo fare così non mi piacque ma, senza badarmi, lui pronunciò alcune parole in una lingua incomprensibile. «Che vuol dire?», domandai.
«Ta-Sardar-Gor... È un brindisi. Un'offerta ai Re Sacerdoti di Gor.» Bevve il liquore, si alzò in piedi, e per un istante apparve rigido e teso come se una corrente elettrica gli percorresse a scatti le gambe. Poi scaraventò il bicchiere contro lo scaffale di vetro dei liquori. «Ta-Sardar-Gor!», esclamò, selvaggiamente. Lo spicinio dei cocci che grandinavano a terra fece fare un balzo al barista, che afferrò un coltello da sotto il banco e lo sollevò davanti al petto. Era pallido per lo spavento, ma Tarl aveva una faccia che avrebbe fatto indietreggiare chiunque. «Andatevene!... Fuori dal mio locale, o chiamo la polizia!» ansimò l'uomo. Tarl s'appoggiò al bancone. «Vermiciattolo, hai estratto un'arma contro di me? Il codice della mia Casta mi consente di ucciderti!» sibilò. Prima che il barista potesse fare un gesto Tarl l'agguantò per la cintura, e con l'altra mano gli strappò il coltello dalle dita. La cintura si spaccò, ed io mi accorsi che, prima d'esser salvato da quel provvidenziale cedimento il barista era stato sollevato di quasi mezzo metro dalla pedana, pur pesante com'era. Presi per le spalle il mio amico e lo tirai indietro a forza, supplicandolo di star calmo. «È soltanto ubriaco. Non vi allarmate: ce ne andiamo subito,» dissi più a lui che al gestore. Il mio intervento sembrò far rinsavire Tarl, che tornò in sé e si rese conto dei danni provocati. «Ehi, amico, mi spiace!» Si tolse di tasca due biglietti da cento dollari e li mise sul banco. «Sul serio, mi spiace. Spero che questi bastino.» L'espressione del barista ci comunicò che i soldi bastavano, a patto che prendessimo la porta e andassimo a terrorizzare qualcun altro. Tenendo Tarl per le spalle lo indirizzai fuori. Sulla strada faceva freddo e la neve crocchiava sotto le scarpe. Tarl si fermò sotto un lampione ad abbottonarsi il soprabito, quindi girò lo sguardo sui grattacieli della Terza Avenue e le rare auto come se vedesse solo spazzatura e marciume. «Questa è una città viva e grande, Harrison,» disse. «Eppure nessuno la ama. Quanta gente c'è che si sacrificherebbe per difenderne i confini e la libertà del vicino di casa? Quanti sarebbero disposti a farsi torturare per lei?» «Non esagerare. Dopo il quinto whisky, sono certo che qualcuno si farebbe avanti,» cercai di scherzare.
«Nessuno sa cosa vuol dire amare la propria città,» continuò lui. «E questa non ha un'anima. Altrimenti non sarebbe così sporca e piena di lerci individui, una fogna dove chi sputa sul suo onore viene ancor più rispettato.» S'incamminò sul marciapiede ed io gli tenni dietro. Intuivo che quella era la volta in cui si sarebbe vuotato dei tormenti che aveva dentro. «Ho bisogno di un maledetto caffè, Harrison. E tu anche. Vieni su da me?», brontolò. Parve contento quando accettai. Nel suo piccolo appartamento mi gettai su una poltrona ed attesi che scaldasse una cuccuma di caffè. Ce ne bevemmo un paio di tazzine, poi Tarl andò in camera da letto e ne tornò fuori con una risma di fogli in parte battuti a macchina ed in parte scritti a mano. Me li consegnò senza dir verbo. Era un vero e proprio resoconto, per quanto organizzato un po' come un romanzo, nel quale si narrava la storia d'un guerriero, di una lotta fra antiche città, di fatti insoliti e sanguinosi e dell'amore di una ragazza. Il manoscritto era quello che in seguito venne dato alle stampe con il titolo Sotto il sole di Gor. Tre ore più tardi, prima dell'alba, avevo terminato di leggerlo. Tarl Cabot era sempre seduto immobile come una statua davanti alla finestra, con una mano sotto il mento e gli occhi perduti all'esterno, assorto in pensieri che potevo immaginare solo vagamente. Si volse a studiare la mia espressione. «È tutto vero. Ma sei anche padrone di non crederci, se vuoi. Potrei capirti benissimo.» Non seppi cosa rispondergli. Ciò che avevo letto era a mio avviso un puro parto di fantasia e, d'altra parte, Tarl Cabot era uno degli uomini più onesti che avessi mai conosciuto. Fissai l'anello che aveva al dito. In precedenza l'avevo visto dozzine di volte, ma senza mai farci troppo caso: era lo stesso che veniva menzionato nel manoscritto, quello con la «C» dei Cabot. Lui me lo mostrò meglio. «Sì, è proprio l'anello di mio padre.» «Perché hai deciso di farmi leggere questa roba?» «Semplicemente perché volevo che qualcuno sapesse di Gor e di ciò che succede là.» Mi alzai in piedi. All'improvviso sentivo il peso della notte in bianco e delle libagioni della sera prima. Ero stanco morto. «D'accordo. Adesso credo che me andrò a casa.» Lui mi scortò fino alla porta e, quando ebbi il soprabito addosso, mi strinse la mano con forza.
«Harrison, tu sei un amico. Un vero amico», affermò senza lasciarmela. «Dimostramelo domani, pagando tu da bere. Ci vediamo dopo cena?» «Domani a quell'ora sarò dalle parti delle White Mountains,» dichiarò, serio in viso. La notizia mi lasciò ammutolito per venti secondi buoni, durante i quali gli lessi negli occhi ciò che sperava accadesse laggiù ed i motivi per cui voleva andarci. «Tarl, rifletti. Non farlo.» «Devo. E ora tu sai perché.» «Allora vengo anch'io. Ti accompagnerò per un pezzo di strada.» Scosse il capo. «L'hai già fatto una volta, e anche stavolta io potrei non tornare indietro... forse mai più.» Gli strinsi ancora la mano, a disagio. Avevo il presentimento che quella separazione fosse definitiva. Le nostre dita parevano riluttanti a lasciarsi. Avevamo significato qualcosa l'uno per l'altro, ed entrambi sapevamo quant'è preziosa la compagnia di un amico sincero. Prima che me ne accorgessi ero lungo le scale, un po' stordito, faticando a convincermi che ci eravamo detti addio. Mi avviai a piedi verso casa, ma invece d'entrarvi proseguii e vagai intorno al Central Park per un paio d'ore, lentamente, ripensando alla storia che avevo letto. Infine presi una decisione e tornai in fretta al suo appartamento: avevo il dovere di non abbandonarlo, di fare tutto quel che potevo per aiutarlo, qualunque cosa si proponesse, e questo perché io ero il suo solo amico. Suonai e bussai ripetutamente alla porta, ansimando, ma non ebbi risposta. Allora girai la maniglia e m'accorsi che il battente non era chiuso a chiave. Appena entrato dovetti constatare che Tarl Cabot se n'era andato. Sul tavolino del soggiorno era deposte due lettere indirizzate all'amministratore dello stabile, e presso i plichi c'era un pacco postale con le istruzioni per spedirlo al mio recapito. Conteneva una scatola col manoscritto Sotto il sole di Gor, di cui in seguito curai la pubblicazione insieme a John Norman. Nelle settimane seguenti terminai gli esami all'Università e fui totalmente assorbito dagli impegni più diversi. Mi iscrissi all'Albo degli Avvocati di New York e cercai lavoro, riuscendo a farmi assumere da un grande studio legale. La paga era scarsa e il lavoro molto, ma sapevo di dovermi fare le ossa, prima d'intraprendere la professione in proprio con qualche possibilità di successo. L'impiego mi occupò a tal punto che i mesi trascorsero senza che avessi modo di pensare troppo a Tarl Cabot, o di sentirne la
mancanza. C'è poco da dire su quel che accadde poi, salvo che non rividi mai più il giovanotto, né ricevetti da lui lettere o messaggi indicanti che almeno fosse vivo. Soltanto una sorta di vaga telepatia, come quella che può legarci alle persone care, mi diceva che Tarl era sempre sano e vegeto, dovunque fosse finito. Un giorno, molti mesi più tardi, tornai a casa esausto dopo una lunghissima udienza in tribunale e vidi con stupore che qualcuno mi aveva lasciato un pacco in salotto. Le porte e le finestre erano chiuse e non recavano traccia di scasso, eppure qualcuno era misteriosamente riuscito ad entrare per consegnarmi una seconda risma di fogli, scritti a mano in quella grafia nitida che ormai ben conoscevo. Non erano accompagnati da alcun biglietto o nota. Forse dunque, come Tarl Cabot ha accennato nel primo volume da lui scritto, gli agenti dei Re Sacerdoti di Gor s'aggirano davvero fra noi, qui sulla Terra. Harrison Smith Capitolo 2 RITORNO A GOR Per la seconda volta nella mia vita, a distanza di sette anni e quando ormai la mia speranza cominciava a vacillare, io, Tarl Cabot, respiravo di nuovo l'aria odorosa delle grandi pianure di Gor. Mi risvegliai pian piano, nudo come un bambino appena nato, disteso nell'erba alta che ondeggiava al vento, e fu l'olfatto prima ancora della vista a dirmi che mi trovavo sul verde pianeta chiamato talvolta dai suoi abitanti la Seconda Terra. Quegli aromi intensi erano stampati nella mia memoria, dolci e familiari come l'odore di casa, e mi fecero trasalire per l'emozione. Mi rialzai a fatica, tremando verga a verga e, sebbene ogni fibra del mio corpo fosse rigida per le settimane di sonno e d'immobilità, mi sentii vivo, aspirai il vento per cacciarmelo a fondo nei polmoni, spalancai gli occhi verso il cielo verde azzurro e lo sguardo mi si velò di lacrime. Ero tornato. Non sapevo di preciso quanto tempo fosse trascorso dalla notte in cui il disco argenteo mandato dai Re Sacerdoti era atterrato sulle White Mountains, nello stesso punto dove già una volta mi aveva prelevato. Ricordavo d'esservi entrato come in sogno, chiedendomi quale strano potere telepati-
co m'avesse condotto ancora a quell'appuntamento, già conscio di quel che m'aspettava, e non m'ero affatto stupito allorché nell'oltrepassare la soglia dell'astronave avevo perso i sensi. In stato d'incoscienza avevo poi compiuto la trasvolata fino al pianeta che orbitava al di là del Sole, quel mondo che i Re Sacerdoti tenevano celato in perpetuo agli strumenti degli astronomi terrestri. Per i primi minuti non fui capace di fare alcun movimento. Mi limitai a lasciare che i miei captassero con meraviglia la realtà circostante, rilassandomi grado per grado. Ero consapevole della gravità leggermente inferiore, una sensazione a cui sapevo mi sarei adattato ben presto fino a non farci più caso. E rammentavo che la minor forza di gravità mi aveva dato in passato un lieve vantaggio sui Goreani, rendendomi capace di prestazioni fisiche superiori. Il Sole, giusto come avevo spesso notato, appariva un po' più grande che se osservato dalla Terra ma, essendo impossibile fissarlo direttamente, tale scarsa differenza non si vedeva molto. Non distanti da me, scorsi delle chiazze di fogliame giallo, alberi di Kala-na assai comuni su Gor, mentre sulla sinistra avevo un bellissimo campo di Sa-Tarna, il cereale simile al grano che era la base della dieta normale. A destra, molto lontani, si levavano i contrafforti azzurrini d'una catena montuosa e, dalla loro estensione e dall'altezza, mi parve di riconoscerle come le Montagne di Thentis. Se così era, dirigendomi dalla parte opposta avrei avvistato in pochi giorni di cammino Ko-ro-ba, la città dalle torri cilindriche in cui anni addietro avevo ricevuto le mie armi da guerriero. Mi asciugai gli occhi e levai le braccia al cielo, volgendomi a occidente per ringraziare i Re Sacerdoti. Ero loro grato per avermi riportato a casa. Li benedicevo come fino a quel momento li avevo maledetti, da quando m'avevano strappato via dai miei amici, dalla mia città, da mio padre, e dalla deliziosa Talena che tanto mi aveva amato. Talena, la bruna ed orgogliosa figlia di Marlenus il Tiranno. Talena, selvaggia e dolce, tenera e feroce, che io avevo rapito volando sul dorso di Horus, il mio grifone nero, e fatta mia sposa con la forza e con l'amore. Ma dentro di me non c'era nessun affetto per i Re Sacerdoti, quei misteriosi ed incomprensibili esseri che abitavano nel cuore inaccessibile delle Montagne di Sardar. Li rispettavo, avevo conosciuto il loro potere, ero lieto che mi avessero riportato su Gor, tuttavia i loro scopi restavano occulti ed indecifrabili per me come per chiunque altro. Se ora si erano sprecati a mandare una delle loro astronavi a prelevarmi,
nel cosiddetto Viaggio dell'Acquisto, potevo scommettere che non si trattava d'un atto di giustizia o di carità. Di me e di Talena ad essi non importava nulla. Isolati nell'Inviolabile, il luogo che mai occhi di mortale avevano visto, separati dal resto del pianeta dalle impervie Montagne di Sardar, i Re Sacerdoti non si occupavano molto delle faccende umane. Ma sapevano sempre ciò che accadeva su Gor, e spesso agivano per introdurre modifiche nelle strutture sociali benché costringessero l'economia a restare ad un livello rozzo e primitivo. La Morte di Fuoco, la fiamma azzurra che scaturiva dal nulla a bruciare chi li contrariava, era il solo mezzo che adoperavano per punire. Non li si poteva definire crudeli né pietosi, non erano mossi da desideri o passioni umane, e adoperavano i mortali come strumenti per raggiungere chissà quale fine lontano ed imperscrutabile. C'era chi diceva che gli uomini fossero per loro solo delle pedine su una scacchiera planetaria, e che li spostassero a piacimento, togliendoli dal gioco oppure rimettendoveli, e questo era appunto accaduto a me: anni addietro ero stato inserito nella partita per distruggere un Impero e le ambizioni di un Tiranno, e quindi tolto di mezzo come un oggetto senz'anima. Ma ora quelle incredibili entità mi avevano deposto una seconda volta sulla scacchiera. Perché? Non lo sapevo. Abbassai gli occhi, e notai che a pochi passi da me giacevano nell'erba un elmetto, uno scudo, una lancia ed una grossa borsa di cuoio floscio. Mi chinai ad esaminare quegli oggetti. L'elmo era in bronzo, di stile simile a quello greco antico, chiuso anche sulla faccia a parte una fessura ad Y, e non recava alcuno stemma di famiglia o di città. Lo scudo rotondo, in cuoio martellato ed inchiodato su un orlo metallico, appariva ugualmente anonimo. Di norma le armi dei guerrieri goreani portavano in bella mostra i colori ed il simbolo della città cui appartenevano, e se queste erano state messe lì per me, come sembrava, allora avrebbero dovuto recare lo stemma di Ko-ro-ba. Ma così non era. La lancia di tipica fattura goreana, lunga due metri e mezzo, aveva una punta in bronzo affilato lunga trenta centimetri. Si trattava di un'arma solida e micidiale nei combattimenti ravvicinati, e capace - se ben scagliata di sfondare uno scudo o conficcarsi per un palmo nel legno più duro. Con lance di questo genere, alcuni gruppi di uomini osavano recarsi nella Catena del Voltaj per cacciare il larl, l'enorme pantera carnivora grossa il doppio d'un cavallo. I Goreani disponevano di altre armi da lancio, come gli archi e le sofisti-
cate balestre, ma in genere i guerrieri preferivano la lancia e la spada, ritenendole più onorevoli in quanto consentivano il duello faccia a faccia con l'avversario. Io però sarei stato lieto se avessi trovato lì almeno un buon arco con le frecce. Nel mio precedente soggiorno su Gor ero divenuto abile nel tiro al bersaglio, ed anche se ciò aveva scandalizzato il mio Maestro d'Armi, ritenevo l'arco un accessorio indispensabile. Ricordavo ancora con molto affetto Tarl il Vecchio. Tarl era un nome assai comune su Gor, e quel poderoso individuo dalla bionda barba da vichingo, taciturno e rude, aveva saputo fare di me un buon combattente nelle settimane in cui mi ero addestrato sotto la sua guida. Quando ero stato ammesso alla Casta dei Guerrieri, ci eravamo sbronzati insieme nelle taverne e nelle case di piacere di Ko-ro-ba. Aprii la borsa di cuoio e vi trovai una tunichetta rossa, i sandali ed il mantello pure rosso che costituivano l'abbigliamento tipico dei guerrieri. Avevo ricevuto per la prima volta indumenti simili dalle mani di mio padre, Matthew Cabot, l'Amministratore della città, nel corso della cerimonia pubblica in cui egli m'aveva fatto prestare giuramento alla Pietra della Casa di Ko-ro-ba, nella Camera del Consiglio delle Caste Alte. Dunque potevo indossarli a buon diritto. Per il goreano comune, sebbene egli non parli spesso di questi argomenti, la città in cui è nato è qualcosa di più che pietra e marmo, torri cilindriche e ponti, o un luogo geografico dove si svolge la vita civile. La mentalità popolare considera la città un'entità superumana della quale si fa parte, e che compenetra ogni cellula del corpo ed ogni pensiero. Ciascuna città ha infatti la sua cultura, tradizioni, carattere, intenzioni e scopi storici, insomma una vera e propria personalità, cosicché vi è l'uso, quando si viaggia altrove, di presentarsi anche col nome della propria città, il quale identifica ancor meglio l'individuo e ne rivela lo spirito. Di solito i Goreani, a parte forse coloro che fanno parte della Casta degli Adepti, non credono nell'immortalità. Ma definendo se stessi uomini di Ar, o uomini di Thentis, oppure uomini di Ko-ro-ba, esprimono la consapevolezza d'esser parte di qualcosa d'immortale e imperituro. Ovviamente le città non sono eterne, in quanto possono venir distrutte e cancellate come può esserlo un uomo; ciò fa sì che i loro abitanti le amino ancor di più e si battano per farle vivere, allo stesso modo in cui chiunque lotterebbe per la salvezza dei suoi familiari. L'amore della città si trasfonde in quello per la Pietra della Casa, che viene tenuta sulla cima della torre più alta e onorata nel corso di numerose
cerimonie di diverso genere o festività. La Pietra della Casa è una via di mezzo fra un simbolo ed un gioiello sacro, unico ed insostituibile. Ve ne sono di piccole e rozze, di grandi ed artisticamente scolpite, di marmo, di granito scabro o di minerale semiprezioso, ma tutte vengono tenute come se valessero più dell'oro e del sangue dei cittadini stessi. La vita di un uomo è legata alla Pietra della Casa della sua città, e così ne dipendono il suo onore e il suo destino: finché la Pietra è salva e intatta, anche la città sopravvive. Quando essa viene rubata o distrutta, allora la comunità piomba in un baratro di vergogna e la distruzione incombe su tutto. Non solo le grandi città delle torri hanno la loro Pietra: anche i villaggi, perfino il più lurido agglomerato di baracche o tende sbattute dal vento la possiedono, sia essa un pezzo di roccia religiosamente custodita su un altarino, sia una bella pietruzza ornata che un capo nomade depone al suolo là dove fa accampare la propria tribù. La mia Pietra della Casa era quella di Ko-ro-ba, sulla quale sette anni addietro avevo giurato fedeltà eterna ricevendo le mie armi di guerriero. Ciò che ora dovevo fare era di tornare ad essa, e mettermi al suo servizio com'era mio indiscutibile dovere. Nella borsa, sotto la tunica ed i calzari, trovai una robusta spada a due tagli nel fodero, con annesso cinturone-tracolla. Snudai la lama e, d'un tratto, il fiato mi si mozzò nel riconoscerla: era senza alcun dubbio la mia, quella con cui avevo iniziato la carriera di guerriero, e mentre l'impugnatura mi si adattava alla mano, un brivido mi percorse la schiena. Era stranissimo sentirla nuovamente in pugno, così familiare al contatto, che quegli anni sembrarono non essere mai trascorsi. Tremai per la commozione improvvisa. Era la stessa lama micidiale con cui mi ero aperto la strada nella mischia e nel sangue, con cui avevo conquistato centimetro per centimetro la grande torre centrale della città di Ar, quando avevo combattuto contro il Tiranno Marlenus che voleva creare un Impero. Era l'arma che aveva fatto scintille contro la più terribile spada del pianeta, quella di Pakur, allorché sulla cima della Torre Bianca avevo strappato Talena alle grinfie del capo della Casta degli Assassini, quel giorno in cui ne avevo abbattuto il potere e le ambizioni. Il suo taglio affilato mi aveva guadagnato rispetto e onore, e come nessun'altra si era avventata contro tanti nemici e tante città. Adesso la tenevo nella mia mano quasi con spavento: intuivo che se i Re Sacerdoti me l'avevano ridata doveva esserci un motivo ben preciso. Ma quale? Due delle cose che avevo maggiormente sperato di trovare in fondo alla
borsa non c'erano, e trassi un sospiro. Per un attimo m'ero illuso che mi fossero stati consegnati anche lo sprone per grifoni ed il fischietto da richiamo. Lo sprone era un tubo metallico con impugnatura isolante lungo una quarantina di centimetri, che emetteva una scarica d'energia con la quale era possibile dominare le reazioni nervose del grifone, il gigantesco uccello da sella usato su Gor. Ogni grifone veniva addestrato ad ubbidire allo sprone, e ne temeva la violenta scossa. Il fischietto era invece una segnale da richiamo, la cui nota particolare e caratteristica veniva anch'essa impressa nel cervello del grifone fin dalla nascita, cosicché il rapace potesse subito riconoscerla fra migliaia d'altre ed accorrere agli ordini del padrone. Dell'addestramento dei volatili si occupava la Casta degli Allevatori e, quando un guerriero riceveva in consegna il suo grifone a ciò s'accompagnava il fischietto. L'oggetto veniva custodito con speciale cura perché, se fosse caduto nelle mani d'un nemico, costui avrebbe potuto usarlo per giocare brutti scherzi al grifoniere ed alla sua cavalcatura alata. Mi chiesi dove fosse finito Horus, il mio ferocissimo e possente grifone da guerra, e se fosse ancor vivo dopo tutto quel tempo. Con quei pensieri e ricordi nella mente, mi vestii. Ero disturbato dal fatto che elmo e scudo non recassero stemmi, perché la cosa andava contro le migliori consuetudini di Gor: soltanto i fuorilegge e gli sbandati, gli esiliati e ovviamente gli schiavi non esibivano il simbolo della propria città, come ogni altro goreano delle Alte Caste era orgoglioso di fare. M'infilai l'elmetto, misi obliquamente a tracolla il cinturone sistemandomi la spada con l'impugnatura dietro la spalla sinistra, fissai lo scudo all'avambraccio e regolai le cinghie perché stesse saldo. Osservai l'altezza del sole ed essa mi diede la direzione: a nord ovest, allontanandomi dalla catena di montagne, avrei trovato prima o poi una strada per Ko-ro-ba. Cominciai a camminare con passo svelto, sentendomi leggero e pieno di vitalità. Ero felice. Quella era casa mia, e nella città a cui avevo giurato fedeltà avrei trovato la ragazza che mi portavo negli occhi e nel cuore da sette anni: la mia sposa. Ero certo del suo amore come dell'aria che respiravo, e agognavo di stringerla fra le braccia. Nulla e nessuno mi avrebbe impedito di riavere la splendida Talena, per cui ero stato il primo e il solo uomo, e che sapeva bruciare d'odio mortale come d'amore appassionato. Laggiù avrei rivisto mio padre, che era venuto anch'egli su Gor col Viaggio dell'Acquisto vent'anni prima di me guadagnandosi la più alta carica della città. E avrei trovato i miei compagni d'arme, i grifonieri con cui m'ero ubriacato ed al cui fianco avevo combattuto. Fra tutti loro ero impazien-
te d'incontrare più d'ogni altro Torm, lo scettico e gentile membro della Casta degli Scrivani, con la sua tunica blu rammendata e gualcita, intelligentissimo e distratto fino all'eccesso, la cui amicizia mi aveva scaldato il cuore. Sentivo l'odore di casa come un cavallo che torna alla stalla, e questo mi riempiva d'energia. Dentro di me avevo ripreso a pensare in lingua goreana, d'istinto, dimenticando l'inglese non più che se lo considerassi già una lingua morta. Da li a poco stavo marciando al ritmo d'una canzoncina militaresca, attraversando le sterpaglie ed i campi di Sa-Tarna con andatura baldanzosa. Ero finalmente ritornato su Gor. Capitolo 3 ZOSK Stavo procedendo da alcune ore su un terreno irregolare allorché, con mia gran soddisfazione, scopersi una delle strette e poco frequentate strade che si stendono fra una città e l'altra. Guardai nelle due direzioni e la vidi deserta, allora m'incamminai verso ovest in attesa di trovare una delle pietre miliari cilindriche piantate sul bordo ogni pasang, ovvero circa ogni 1300 metri. La strada era così solida che un antico ingegnere romano l'avrebbe esaminata con approvazione: selciata in pietra, aveva fondamenta a più strati affossate nella terra, ed era stata costruita per durare nei millenni. Raffigurava bene l'idea che i Goreani avevano del progresso tecnico, o meglio dell'assenza d'ogni progresso, e come ogni opera pubblica portava il marchio dell'immutabilità. Tutto ciò che veniva edificato era destinato a servire finché l'usura del tempo non lo consumava, dopodiché lo si riparava o lo si ricostruiva nell'identico modo. Quella sulla quale mi trovavo era una via di comunicazione secondaria, larga appena perché un grosso carro potesse transitarvi. Con mia sorpresa, sebbene le incisioni sulle pietre miliari dicessero che non distavo molti pasang da Ko-ro-ba, queste erano seminascoste dalle erbacce che vi crescevano attorno ed invadevano i bordi della carreggiata, talora osando spuntare perfino fra i grossi blocchi del selciato. Era pomeriggio inoltrato e, a giudicare dalle indicazioni miliari, distavo ancora molte ore di cammino dalla città. Stormi d'uccelletti dalle piume vivacemente colorate svolazzavano nell'aria, e nugoli d'insetti notturni si stavano già levando dalle marcite e dai cespugli. Le ombre s'allungarono e
venne quella che per i Goreani è la quattordicesima ahn, o ora. Su Gor il giorno è diviso in venti ahn, ciascuna delle quali composta da quaranta ehn o minuti. A sua volta un ehn è scandito da ottanta ihn, o secondi. Il mezzodì è dunque alla decima ora, e la mezzanotte alla ventesima. Mi chiedevo se non sarebbe stato il caso di far sosta per la notte. Il Sole era sul punto di scomparire oltre l'orizzonte, e sapevo bene che l'arrivo dell'oscurità avrebbe comportato dei pericoli, particolarmente per un viaggiatore appiedato. Era di notte che uscivano in caccia gli sleen, mammiferi carnivori a sei gambe dal corpo così basso e allungato sul terreno che quasi somigliavano a enormi donnole. In passato non avevo mai avuto a che fare con quelle bestie e non le conoscevo, ma ne avevo visto spesso le tracce. Inoltre la notte era facile scorgere, stagliati sui dischi argentei delle tre lune, quei giganteschi pterodattili chiamati ul, che s'involavano in caccia partendo dall'immenso delta del fiume Vosk. E mi era capitato di trascorrere ore assai agitate a causa degli stormi di vart, roditori volanti ciechi come pipistrelli che raggiungevano talvolta le dimensioni di un cane. Erano bestiacce capaci di fare a pezzi un uomo in pochi minuti, per poi trasportarne ogni brandello di carne nelle caverne in cui nidificavano, e il loro morso era infetto. Un pericolo di genere ancor meno simpatico era insito nel fatto che non potevo illuminare la strada davanti a me, perché molti rettili erano attratti dal calore conservato dalle pietre e venivano a distendervisi nelle ore notturne. Ce n'erano di diverse specie, fra cui il grosso pitone goreano chiamato hith ed il minuscolo ma velenosissimo ost dal colore giallo brillante. Quasi tutti potevano dare una morte rapida e dolorosa. Nelle zone più selvagge del pianeta esistevano poi bestie da incubo, alcune delle quali dotate di vera e propria intelligenza. Malgrado la forte impazienza di raggiungere Ko-ro-ba, dovetti decidermi a uscire di strada per cercare una roccia o un albero. Non avendo il mezzo d'accendere il fuoco, sarebbe stato poco prudente dormire al livello del terreno. Nel frattempo m'ero accorto d'avere fame e sete, necessità che per tutto il giorno l'euforia m'aveva fatto ignorare ma che ora la stanchezza riacutizzava. Avevo appena abbandonato la carreggiata quando vidi che nella mia direzione stava arrivando la figura d'un individuo molto robusto, semipiegato in avanti sotto il peso d'un grosso fascio di rami che si portava sulle spalle. Lo riconobbi subito come un membro della Casta dei Boscaioli, i lavoranti
che insieme a quelli della Casta dei Carbonai provvedevano alla materia prima per il riscaldamento nelle città. Il fardello dell'uomo, incredibilmente voluminoso, era tenuto fermo sul dorso da un paio di corde le cui estremità egli stringeva in mano. Sotto quel peso un individuo di stazza normale sarebbe finito a terra dopo pochi passi, invece lui lo portava con la lenta flemma d'un bue. Ciò non mi stupì, dato che per tradizione i boscaioli erano pezzi d'uomini con la spina dorsale simile ad un tronco d'albero. Pochissimi di loro cambiavano Casta o avevano l'intraprendenza di mettersi fuori dalla legge. Il cambiamento di Casta era comunque regolato in termini ferrei, e chi nasceva nelle Caste Basse non poteva mai aspirare a far parte un giorno delle cinque Caste Alte. Un Boscaiolo avrebbe così potuto diventare Contadino, o viceversa, oppure al massimo Allevatore di Grifoni e sempre che il Consiglio della sua città lo consentisse, ma non certo Adepto, Medico, Ingegnere, Scrivano o Guerriero. L'uomo s'avvicinava con andatura lenta, la faccia mezzo nascosta da un ciuffo di capelli bianchi e la vista quasi occlusa dalle foglie e dai rametti che gli spiovevano davanti. Indossava un vestitaccio in pelle grezza non migliore di quello che avrebbe portato uno schiavo, ed i suoi piedi nudi erano incrostati di fango secco. Tornai sulla strada e gli andai incontro. «Tal,» lo salutai, alzando la mano destra a palmo avanti. In Goreano la parola suonava esattamente come Salute a te. Il poderoso individuo sollevò la testa per guardare avanti, allargò saldamente i piedi a terra e si fermò. Aveva occhi stretti come fessure, così chiari da sembrare senza iride, e mi gratificò di un'occhiata intensa e sospettosa. Dal suo atteggiamento compresi che era assai sorpreso di trovarmi lì, quasi che su quella strada non si fosse mai atteso d'incontrare dei viaggiatori. Ciò rinnovò in me la strana sensazione che avevo avuto fino a quel momento in un angoletto della mente, dato che il traffico inesistente mi aveva reso perplesso. «Tal,» si decise a rispondere, con voce così gutturale da sembrare un grugnito. Un lampo nel suo sguardo mi rivelò che stava calcolando quanto tempo ci avrebbe messo a gettare a terra il carico per armarsi dell'accetta fissata sulla sua sommità. «Calma, amico. Non allarmarti,» lo tranquillizzai. «Cosa vuoi da me?» Chiaramente, il fatto che non mostrassi stemmi sullo scudo e sull'elmo
mi aveva fatto identificare da lui come un fuorilegge, così mi affrettai a dire; «Non temere, non sono un bandito.» E, vedendo che non pareva crederci, aggiunsi: «Ho soltanto fame. Non ho mangiato niente da tanto tempo che brucherei l'erba.» «Ah, sì? Se è per questo, anch'io non mangio da ieri,» borbottò, ostile. «La tua capanna è da queste parti?» Sapevo che le attività dei boscaioli erano regolate dal sole e che uscivano all'alba per rientrare al tramonto, dunque la casa dell'uomo non poteva essere lontana. «No,» rispose invece lui. «Io non porto nessuna minaccia a te ed alla tua Pietra della Casa,» dissi. «Senti, denaro per pagarti non ne ho. Però ti sarei grato se mi dessi qualcosa da mettere nello stomaco.» «Tu sei un guerriero. I guerrieri non chiedono: prendono sempre ciò che vogliono.» «Non voglio derubarti, se è questo che temi.» Lui mi fissò a lungo, poi annuì. «E cosa potresti rubare ad un poveraccio? Non possiedo oro o cose di valore... e, se vuoi saperlo, non ho neppure una figlia, né una moglie che tu possa prendere come schiava.» Ridacchiai. «Allora ti auguro per il futuro prosperità e dei figli che ti diano soddisfazione, amico. Addio,» dissi. Gli passai accanto e feci per allontanarmi ma, avevo fatto appena una decina di metri, quando la sua voce mi fermò. Era difficile capirlo, perché come tutti i boscaioli non aveva la lingua sciolta e più che parlare emetteva brontolii. Gli tornai davanti. «Se proprio vuoi, nella mia baracca ho qualcosa da mangiare: peas, turnip fritto, un po' di onions, niente di speciale,» disse, come per avvertirmi che se avevo delle pretese mi conveniva tirar dritto. «Turnip fritto? Gli stessi Re Sacerdoti non potrebbero desiderare di meglio!» «Allora, guerriero, concedimi di dividere il piatto con te!», m'invitò, nella formula abituale delle Caste Basse. «Sarà un grande onore!», risposi, altrettanto cerimoniosamente. Sebbene appartenessimo io ad una Casta Alta e lui ad una Bassa, qualunque catapecchia fosse la sua, per la legge di Gor egli là dentro sarebbe stato il padrone di casa, signore indiscusso di quel che avveniva all'interno delle pareti da lui erette. La sovranità entro la propria casa era un diritto
inalienabile di ogni goreano, e perfino un mendicante che per strada non avrebbe osato alzar gli occhi dal suolo in presenza d'un guerriero, dentro la sua dimora gli sarebbe stato in un certo senso superiore di rango: era territorio suo, lì egli aveva la sua piccola e personale Pietra della Casa, e familiari o seguaci erano obbligati ad ubbidirlo rispettosamente. Che fosse un ladrone da strada od un Amministratore, un contadino od un ricco mercante, un vigliacco od un coraggioso, nella sua casa egli era il padrone. Non erano insoliti gli episodi d'inusitato valore dei quali erano stati protagonisti semplici bottegai o pastori in casa loro, perché in vicinanza della sua Pietra della Casa il goreano medio sapeva attingere a risorse insospettate per difendere i propri beni. Più d'una volta miseri contadini avevano saputo battersi come leoni chiunque stesse minacciando i loro campi, fossero pure dei grifonieri montati sui loro terribili rapaci da sella. La mia frase fece dunque comparire un largo sorriso sul rude volto del boscaiolo: quella notte egli avrebbe avuto un ospite di rango. Non si sarebbe sprecato molto in chiacchiere oziose, essendo fiero e taciturno, e neppure avrebbe ceduto al vezzo popolaresco di buttar lì proverbi e sentenze buone per commentare ogni fatto della vita, cosa che peraltro avrebbe richiesto una favella più elastica della sua ed un minimo di cultura. Si sarebbe seduto presso il fuoco, magari tenendomi sveglio fino a tarda ora perché mandarmi subito a letto sarebbe stato scortese, e tuttavia avrebbe aspettato che a parlare fossi io, incoraggiandomi con lo sguardo a narrargli qualche storia vera, e sperando che gli dassi notizie di fatti avvenuti nel vasto mondo oltre il suo lembo di terra. E, qualunque cosa gli avessi detto, sarebbe stata importante, non per sé stessa ma per il fatto che io avrei parlato ed egli ascoltato, e perché l'ospite gli avrebbe dato un po' di quel bene prezioso chiamato compagnia umana. «Il mio nome è Zosk,» disse, avviandosi. Mi chiesi se quello fosse il suo nome d'uso oppure il nome vero. Era comune per i membri delle Caste Basse averne due, uno pubblico ed uno segreto riservato soltanto agli intimi, e ciò per cautelarsi da eventuali stregonerie e fatture che richiedevano la conoscenza del nome reale per poter funzionare. Il modo in cui lo disse mi fece però intuire che Zosk doveva essere quello vero, e che lui non era superstizioso. «Zosk di quale città?», domandai. L'uomo parve esitare. Mi fissò di traverso, fra indeciso e spaventato, quasi che nella mia richiesta vi fosse qualcosa capace di farlo tremare. «Zosk...», mormorò, incerto.
«Sì, ma di che città, amico?» «Di nessuna città, maledizione!» Gli sorrisi. «Via, tu sei sicuramente di Ko-ro-ba.» Il grosso individuo stavolta vacillò in modo visibile, e non certo a cagione del gran carico di ramaglie. Potevo letteralmente fiutare la sua improvvisa paura, un ritrarsi ferino e animalesco. Quello Zosk era un tipo che avrebbe affrontato anche un larl, armato della sua accetta, eppure adesso una semplice domanda era bastata ad intimorirlo. Strinse i denti, afferrò salde le corde con cui teneva fermo il suo voluminoso fardello e scosse il capo con forza. «Io sono Tarl Cabot di Ko-ro-ba,» mi presentai. Zosk emise un gemito acuto. Pallido come un cencio, sembrò cedere al peso e barcollò di lato... e il carico di fascine s'inclinò e si disfece schiantandosi rumorosamente sul bordo della strada. L'uomo rotolò a terra, si trascinò carponi sullo sfacelo dei suoi rami e raggiunse l'accetta; poi si alzò in piedi brandendola come un'arma. Aveva gli occhi sbarrati e lo sguardo fisso, come allucinato. Fece alcuni passi alla cieca, senza osare assalirmi ma piuttosto con l'aria di chi è risoluto a difendersi dal demonio stesso per la salvezza della sua anima. Ansimava e ondeggiava sul tronco come un gorilla, stringendosi l'accetta al petto, così terrorizzato che per reazione anch'io mi allarmai. Da lì a qualche secondo parve rammentare chi era e dove si trovava, e smise di sbandare qua e là con tremiti da ubriaco. Non capivo affatto la ragione dello spavento che i suoi occhi rivelavano, ma fui lieto di vedere che combatteva quell'emozione e tentava di calmarsi. Addirittura mi scoprii a fare il tifo per lui, a sperare che riuscisse a scacciare la bestia cieca e folle cui aveva permesso di annichilirgli il raziocinio. Io stesso avevo sperimentato una volta quella tremenda cecità cerebrale, la prima volta che ero salito sulle White Mountains, e non lo avevo ancora dimenticato. Attesi un poco in silenzio e, finalmente, Zosk ritrovò la padronanza di sé. Quando aprì bocca aveva però un tono sottile e quasi supplichevole, ed era sempre piuttosto grigio in faccia: «Dimmi che non è vero... Dimmi che tu non sei Tarl Cabot di Ko-roba,» sussurrò. «Amico, il mio nome è questo,» confermai seccamente. «Te lo chiedo di nuovo, per favore...» La sua voce s'incrinò di netto. «Dimmi che tu non sei quel Tarl Cabot» «Sono proprio io, invece,» ripetei.
Zosk sollevò lentamente l'accetta, un arnese così pesante che con un sol colpo avrebbe troncato un alberello spesso quanto una gamba, e si mosse verso di me passo dopo passo tenendola alta.. Non mi spostai d'un capello quando si fermò ad un metro e mezzo da me. I suoi occhi erano colmi di lacrime, e tremava. Ma, senza saperne il perché, ero certo che non mi avrebbe colpito. Stava lottando solo contro sé stesso, la sua faccia era contratta in una smorfia di dolore, e dietro di essa intuivo che si torcevano pensieri in un sviluppo d'agonia e di tortura. «Che i Re Sacerdoti possano aver pietà di me!», singhiozzò. Con una torsione si girò di lato e abbatté l'accetta sul selciato, quasi in un disperato sfogo della sua sofferenza, e frammenti di pietra schizzarono nell'aria. Quindi mollò l'attrezzo e si lasciò cadere seduto in terra a gambe larghe, il poderoso torace scosso dai singhiozzi, afferrandosi la testa fra le mani ed invocando la protezione dei suoi antenati con gemiti così vibranti da far impressione. Dinanzi a quello spettacolo non c'era nulla che potessi dire. Il costume goreano vuole che si debbano sfogare con libertà i propri sentimenti, e non è vergogna che un guerriero forte o comunque un uomo d'animo rude scoppi a piangere in pubblico, di dolore o di gioia. Nascondere la propria umanità è anzi considerato poco virile o disonesto. Mossi un passo verso Zosk, ma lui si coprì la faccia con le mani a indicare che non se la sentiva neppure di guardarmi o di parlarmi. Allora, sconcertato e senza saper cosa fare, gli girai attorno e m'incamminai verso Ko-ro-ba. Avevo dimenticato la fame e la sete, ed anche il proposito di dormire un poco. Se avessi marciato di lena avrei avvistato la città verso l'alba dell'indomani. Capitolo 4 LO SLEEN Nel buio ormai quasi assoluto, seguii il percorso della strada selciata, facendo strisciare il manico della lancia lungo il bordo di pietra per guidare i miei passi. Ogni tanto agitavo l'arma a terra davanti a me, e battevo forte i piedi per allontanare eventuali serpenti. Era un modo di viaggiare più tormentato di quel che avrei immaginato, perché in me si contorcevano timori inespressi e pensieri folli, dubbi, e paure, dandomi dei veri e propri incubi da sveglio. A muovermi adesso era l'ansia, il bisogno di rivedere Ko-ro-ba, di accertare che quelle preoccupazioni erano infondate e, se avessi potuto,
mi sarei messo a correre come un invasato. Ero o non ero Tarl Cabot di Ko-ro-ba? Ed essa era oppure no una città di Gor? Stavo sognando o cos'altro? Le pietre miliari stavano lì ad attestare che una città con quel nome certo esisteva, in fondo alla strada. Ma perché mai quella via un tempo frequentata oggi era deserta e maltenuta? Cosa significava la reazione isterica di Zosk il boscaiolo? E per qual motivo il mio elmetto, lo scudo, le vesti, non portavano lo stemma di Ko-ro-ba? Ad un tratto sentii un'acuta puntura in una gamba e cacciai un grido. Per un attimo ebbi paura che fosse stato un serpente, ma poi mi resi conto d'essere incappato nel morso di una sanguisuga vegetale. Mi chinai alla cieca ed afferrai la pianta, che si attorcigliava al mio polpaccio come un rettile e reagiva con violenza alla vicinanza della carne. La divelsi dal terreno ed allora mi arrotolò i viticci al braccio, scattante e pericolosa, rifiutando di estrarre le sue spine cave dal punto in cui me le aveva affondate addosso. Bestemmiando come un pazzo la strappai e la gettai lontano e, alla luce delle lune, vidi il sangue colarmi fin sulla caviglia: Quel maledetto vegetale aveva fatto in tempo a succhiarmene almeno mezzo bicchiere, ci avrei scommesso. Sapevo che di norma i bordi delle strade vengono tenuti liberi da simili orrori botanici, che nelle foreste abbondano. Bambini e piccoli animali potevano esserne ridotti a malpartito, o addirittura uccisi, ed era uso comune farle a pezzi appena si vedevano crescere presso i luoghi frequentati. Imprecai ancora. Intanto però le tre lune si erano decise a spuntare, e questo almeno mi sollevò. Alla loro luce potei accelerare il passo. Avevo nella mente una quantità di domande le cui possibili risposte mi davano l'angoscia, e tutto stava ad indicare che andavo incontro a una verità spiacevole, ma mi rifiutavo ostinatamente di fare supposizioni. Dovevo vedere coi miei occhi e sapere... scoprire cosa c'era al termine della strada. Ero assorto in quelle riflessioni allorché mi giunse alle nari un odore di selvatico, intenso come se fossi entrato nella gabbia delle volpi in un giardino zoologico. All'istante i miei sensi furono in allarme, e sentii che mi veniva la pelle d'oca.. M'immobilizzai, scrutando lentamente i cespugli e le rocce bagnati dal chiarore lunare. Da qualche parte si levò un ansito rauco, un grugnito subito soffocato, e poi di nuovo ci fu solo il silenzio. Avrei giurato che nelle vicinanze c'era uno sleen, il quale aveva avvertito la mia presenza, e se così era potevo sperare appena che fosse un carnivoro giovane e di piccola taglia. Che mi stesse dando la caccia era però
improbabile, visto che si era messo sopravvento rispetto a me. Da lì a poco lo vidi, perché l'animale uscì allo scoperto ed attraversò la strada, silenzioso come un enorme furetto a sei zampe, girando qua e là il muso per annusare l'aria della notte. Sospirai di sollievo, accorgendomi che era effettivamente una bestia ancora giovane: non superava i due metri e mezzo di lunghezza, ed il suo comportamento in caccia denotava impazienza e poca esperienza. Se mi avesse assalito l'avrebbe fatto allo scoperto, con furia cieca e molto inutile rumore. Forse non si era neppure accorto di me, o forse nella zona c'erano altre bestie la cui presenza lo preoccupava più della mia. Anche lì, in una regione che ricordavo fra le più tranquille di Gor, la lotta per la vita spesso coinvolgeva molte bestiaccie pericolose e di grossa taglia, specialmente nelle ore di tenebra. Continuai il cammino tenendo ben salde le armi. Da lì a mezz'ora pesanti cumuli di nuvole nere oscurarono le tre lune, e si levò un vento insistente. Gli alberi di ka-la-na selvatici scuotevano le loro fronde gravide di fogliame, e nell'aria sentivo l'odore della pioggia. In distanza la notte fu incrinata dalla fulgida ramificazione di un fulmine e, pochi secondi dopo, il tuono brontolò sulla pianura. Stavo soccombendo all'apprensione e ad ansie d'ogni genere. A tratti avevo l'illusione di scorgere in lontananza le luci di Ko-ro-ba, ma subito quei lucori sparivano o sembravano spostarsi altrove. Il vento acquistò forza, piegò le dure fronde dei cespugli e strappò via la polvere dai tratti sassosi, facendola turbinare nelle sue folate. Alla luce d'un lampo scorsi una pietra miliare, e mi avvicinai per leggerla. Percorsi l'incisione con le dita, ed essa m'informò che ero molto vicino alla città, più di quello che avrei creduto. Eppure non riuscivo a vedere le luci che avrebbero dovuto scintillare sui suoi ponti aerei e nelle grandi torri. Che vi fosse in corso un oscuramento motivato da eventi bellici? L'ipotesi mi sembrò assurda e la scartai: un attacco dall'aria ad opera di grifonieri nemici avrebbe anzi dovuto essere accolto con falò e torce accese ovunque. Che fine avevano fatto le gaie lampade colorate appese ai ponti, le grosse lanterne dell'illuminazione pubblica, le allegre insegne delle taverne, dei bordelli e dei circoli aperti tutta la notte? Avrei dovuto distinguere il riflesso di quei lumi sulle nuvole basse, avrei già dovuto sentire rumori di vita lo sbatter d'ali dei grifoni nel cielo, e invece il silenzio e il buio mi si paravano dinanzi come un muro. Sedetti sulla pietra miliare cercando di riflettere con freddezza sul quel
fatto. C'era di che restare perplessi. Come se ciò non bastasse, nella zona sorgevano moltissime case coloniche, non poche delle quali avrebbero dovuto tenere almeno una lanterna esposta, perché ricordavo bene che pattuglie di cacciatori perlustravano i campi allo scopo di divertirsi un poco e di eliminare i predatori notturni. E le guardie che avrebbero avuto il dovere di far la ronda nelle vie circondariali, dove mai si erano nascoste? Un lampo d'accecante luce bianca inchiodò le ombre intorno a me, facendomi fare un balzo, ed il tuono muggì vibrando e rotolando sulle nuvole. Poi le cateratte del cielo si spalancarono d'un colpo e sulla pianura s'abbatté un diluvio caldo, così fitto che in un attimo venni inzuppato fino all'osso. Andai avanti sotto quelle cascate con gli occhi pieni di pioggia. Non vedevo niente, a parte l'intermittente bagliore dei fulmini e la parete d'acqua che veniva giù a dirotto, facendosi sempre più fredda. Il vento si spezzava in una serie di raffiche orizzontali, tanto violente che mi facevano barcollare, e bestemmiando sputai l'acqua che mi entrava a fiotti dalla fessura dell'elmetto. D'improvviso ebbi il folle pensiero che quella tempesta ce l'avesse con me personalmente, e che l'avessero mandata i Re Sacerdoti per sbarrarmi il cammino. «Non m'impedirete di arrivare a Ko-ro-ba!», urlai verso il cielo, fuori di me. Inciampai fuori dal limite della strada, caddi nell'erba fangosa e mi rialzai a fatica, sconvolto per l'ira. Fu allora che scorsi lo sleen, magicamente inquadrato in piena corsa dal flash di un lampo. Non era lo stesso di prima, bensì un bestione adulto lungo sei metri buoni, e mi stava venendo addosso a tutta velocità. Aveva le fauci spalancate, i larghi occhi fosforescenti colmi di furia omicida, e fendeva la pioggia venendomi incontro sulla strada a grandi balzi. Un'incredibile risata rauca mi emerse dalla bocca: quello era finalmente un nemico che potevo vedere e toccare, una cosa solida in cui mi si dava la possibilità d'infilare la lancia! Invece di scostarmi o di fuggire, corsi avanti. Sollevai lo scudo e tesi di lato il braccio armato, preparandomi all'impatto. Poi, appena l'animale fu a due metri da me, gli affondai la lancia dritta nella gola. Sentii la punta di bronzo che gli sfondava il palato ed il cranio, quindi il contraccolpo mi gettò da parte. Con uno scricchiolio di ossa fracassate che mi riempì di belluina soddisfazione, la lancia venne divelta dalla ferita, e lo sleen cadde lungo disteso sul selciato. Altri lampi mi consentirono di vedere il sangue
che ruscellava via insieme all'acqua, e risi forte. L'animale si contorceva in modo che mi parve piacevolissimo ad osservarsi, con le mosse assurde d'un gatto schiacciato da un'automobile. Lo colpii ancora, per il puro gusto di farlo, finché giacque immoto sotto l'acquazzone. Non era neppure riuscito a sfiorarmi con una zampa. Estrassi la spada e gli staccai la testa con fendenti forsennati, avido di sentire la carne tranciarsi. Quindi gli aprii il torace e ne estrassi il cuore ancora ben caldo, che feci a pezzi e mangiai crudo. Avevo fame. Senza più badare al diluvio, che peraltro aveva spento la mia sete, presi anche il fegato della bestia e ne divorai un buon mezzo chilo, finché ebbi lo stomaco pieno. Fatto ciò mi sedetti sul bordo della strada, predatore fra i predatori delle campagne, soddisfatto di quel cruento pasto. Risi ancora nel buio. «Oh, nero fratello della notte! Oh, Re Sacerdoti dagli oscuri poteri! ...Credevate davvero di potermi impedire il cammino verso la mia città? Io sono Tarl Cabot di Ko-ro-ba!», gridai a voce spiegata. Quanto mi sembrava buffo che un po' di pioggia e uno sleen si fossero illusi di fermarmi. Irragionevolmente continuai a ridere, pensando alla stupidità del carnivoro che aveva tentato di usarmi come una preda. Ma come aveva saputo che io ero lì? Chi gli aveva ordinato di bloccare Tarl Cabot sulla via del ritorno a casa? Su Gor esisteva un detto: non puntare le armi sul guerriero che torna alla sua dimora. Perché dunque quell'animale idiota non aveva tenuto il proverbio nel dovuto rispetto? Scossi la testa, conscio che dovevo scacciare da me quei pensieri assurdi e selvaggi. Con la lucidità dell'ubriaco che si rende conto di aver bevuto troppo tentai di schiarirmi il cervello. La stanchezza e il digiuno, seguiti dalla lotta contro gli elementi e con lo sleen, mi avevano fatto perdere la capacità di ragionare. Il sangue usciva ancora dal corpo del carnivoro. Ubbidendo ad un rituale primitivo di Gor, ne raccolsi un poco nelle mani a coppa e lo bevvi; poi ne presi dell'altro, caldo e sciropposo, aspettando un lampo che mi consentisse di leggere nei suoi riflessi liquidi. Sapevo che era una superstizione, ma si diceva che fosse possibile vedere il proprio destino specchiandosi nel sangue ottenuto in quel modo. Se avessi visto il mio volto nero e deformato, sarei morto in un incidente; se l'avessi visto scarlatto, sarei stato ucciso in battaglia; se invece l'avessi trovato rugoso e orlato di capelli bianchi, mi attendeva una vita lunga e felice con molti figli. Dapprima non riuscii a distinguere proprio niente:
tenevo nelle mani del sangue e ci pioveva dentro. Non c'erano riflessi. Poi, d'un tratto, alla luce d'un fulmine, il mio viso vi si rispecchiò nitido e mi apparve simile ad una straordinaria maschera d'oro puro, inumano e spaventevole nei suoi bagliori aurei. Ne fui così terrorizzato che lasciai cadere il sangue con un grido rauco: la faccia che avevo scorto non era la mia, era quella d'una statua dorata dalle fattezze sconosciute, la cui vista era bastata a farmi balzare il cuore in petto. Raccolsi altro sangue dalle vene aperte dello sleen e tentai ancora l'esperimento, ma non fui capace di vedere più assolutamente nulla. Allora mi alzai, mi lavai le mani e la faccia, e poggiai un piede sulla carcassa abbandonata a terra. «Mi hai dato cibo e vita, nero fratello della notte. Ti ringrazio... e possa tu marcire qui dove mi hai assalito!», esclamai. Quindi ripresi le armi e mi avviai sotto la pioggia battente, sentendomi un po' meglio. Capitolo 5 LA VALLE DI KO-RO-BA La strada cominciava a salire, e s'inerpicava sulle dolci alture e sulle familiari ondulazioni del terreno che circondavano la mia città adottiva. Erano salitelle talvolta inavvertibili come falsipiani, ma molto lunghe, e rammentavo che rappresentavano la disperazione dei lavoratori appiedati come Zosk il boscaiolo e gli schiavi, mentre le carovane dei pesanti tharlarion da tiro su di esse rallentavano la marcia. Ko-ro-ba si trovava al di là delle alture, in una zona pianeggiante verde e fertile. Il territorio era ad un'altitudine di circa duecento metri rispetto al lontano Golfo di Tamber, la vasta insenatura situata sul bordo del misterioso Thassa, l'oceano di Gor. Ad una distanza ancor maggiore dalle pianure costiere c'era Thentis, famosa per i suoi allevamenti di grifoni, e nel sud sorgeva Ar, la ricca e immensa metropoli un tempo governata da Marlenus. Giusto sulla riva del Golfo di Thamber, sul delta del Vosk, c'era Porto Kar, che dava rifugio a molti pirati e fuorilegge. Ar era grandiosa e potente; Thentis era orgogliosa e scabra come le sue montagne; Port Kar violenta e dissoluta. Nessuna però eguagliava Ko-ro-ba come eleganza e bellezza, né per il carattere gentile degli abitanti, né per la placidità che vi regnava. Un antico poeta, cantando le glorie di molti vecchi luoghi di Gor, aveva
definito Ko-ro-ba come la Regina del Mattino, e qualche volta la gente si riferiva ancora ad essa con quel nome. Le sue origini erano lontane e risalivano alla preistoria, allorché la vallata aveva ospitato un rustico centro di scambi commerciali ed un mercato di bestiame. La bufera di vento e di pioggia rifiutava di placarsi. Ero costretto a far uso dello scudo per ripararmi dalle raffiche, e mi sentivo sfibrato. Sulla sommità di una cunetta feci una sosta, mi tolsi l'acqua dagli occhi e spinsi avanti lo sguardo sperando che il balenare di qualche fulmine illuminasse le mura della città. Ero tormentato dal bisogno di rivederla. Non riuscivo a distogliere i pensieri dai miei amici, da mio padre, e soprattutto da Talena, per la quale un tempo avevo messo sottosopra metà del continente. «Oh, Talena... mia adorata!», ansimai. La notte sembrava essersi fatta ancor più scura. Ripresi a camminare, e poco dopo venne il momento in cui un gran lampo esplose fra le nubi riempiendo di luce l'intera vallata. Chiusi gli occhi, esterrefatto, e poi li riaprii: Ko-ro-ba non c'era più. Era sparita! La città, che avrebbe dovuto occupare il centro della piana, sembrava non essere mai esistita, e al suo posto si stendevano terreni lisci gremiti di cespugli. Il breve lampo si smorzò lasciando ricadere il mantello dell'oscurità sulla terra, ma nel mio cuore era piombato un genere diverso e più agghiacciante di tenebra, ed un terrore improvviso mi aveva paralizzato le membra. Altri fulmini gettarono inutilmente la loro livida luce sulla grande pianura, ed ogni volta la retina dei miei occhi captò un'immagine che il cervello faticava ad assorbire: la valle vuota e deserta, e la città scomparsa! «Non è possibile... I Re Sacerdoti mi devono avermi accecato o reso folle!», esclamai, tremando. «Sì, la loro mano ti ha toccato, o mortale!», rispose una voce alle mie spalle, facendomi fare un balzo. D'istinto sollevai lo scudo e la lancia, e vidi che sulla strada c'era un uomo con la tunica bianca da Adepto. Dalla testa rasata a zero lo identificai come un appartenente all'Ordine Sacro, la cerchia più ristretta e vicina ai Re Sacerdoti. Mi esaminava immobile con occhi duri e tristi, bagnato fin nella ossa ma ignorando del tutto le intemperie. In qualche modo quell'individuo mi sembrò diverso da ogni altro Adepto che avessi mai visto. Non aveva niente di particolare, a parte lo sguardo da asceta e la rigidità tipica dei fanatici, eppure dava la strana impressione
d'essere una persona assai insolita. Il fatto stesso che fosse lì in piena notte e sotto la bufera, era comunque straordinario, e per un attimo fui addirittura folgorato dal sospetto che si trattasse di un Re Sacerdote, le creature delle quali non si sapeva neppure se avessero fattezze umane o aliene. Lo fronteggiai in silenzio e, mentre ci fissavamo l'un l'altro, la tempesta si acquietò, smise di piovere e di tuonare, e le nuvole si diradarono lasciando filtrare il lucore dei satelliti. Mi volsi ancora a guardare la valle dove un tempo era sorta la mia città. «Tu sei Tarl Cabot di Ko-ro-ba,» disse l'Adepto. Non riuscivo a nascondere lo stupore. «Mi conosci? Io non ricordo d'averti mai visto prima.» «Ti aspettavo,» fu la sua risposta. «Sei forse... un Re Sacerdote?» Ebbe una brevissima smorfia seccata. «No.» L'impressione di cui ero caduto preda svanì, e tornai a vederlo come un uomo comune. «Capisco. Però tu sei venuto a parlarmi per conto dei Re Sacerdoti. È così?» «Hai indovinato, mortale.» Senza capirne bene il motivo, ero disposto a credergli. Dichiarare di parlare in nome degli Dei è sempre stata abitudine dei preti, sulla Terra. A Gor la cosa assumeva però un aspetto diverso, in quanto i Re Sacerdoti erano ritenuti esseri ben reali. Dunque nulla impediva che costui dicesse sul serio. «Appartieni davvero alla Casta degli Adepti, di cui indossi le vesti?», volli sapere. «Faccio parte di coloro il cui compito è di palesare ai mortali la volontà dei Re Sacerdoti,» rispose, e con questa frase mi parve che aggirasse abilmente la domanda. «Allora parla pure,» lo invitai. «Da questo momento tu sei soltanto Tarl Cabot, di nessuna città.» «Sciocchezze. Io ho prestato giuramento a Ko-ro-ba.» «La tua città è stata rasa al suolo così completamente come se non fosse mai stata fondata. Le sue pietre sono divise l'una dall'altra e sparpagliate su ogni angolo della terra. I suoi abitanti sono stati dispersi per tutto il pianeta, poiché la parola dei Dominatori fu che neppure due di essi dovessero stare insieme. E la Loro parola è finale.» «Perché è accaduto questo? Perché, maledizione?» «Per volontà dei Re Sacerdoti, naturalmente.»
«Ma quali colpe sono state commesse, per giustificare una punizione tanto terribile.» «Ti basti sapere,» ripeté lui, «che tale è stato il volere dei nostri padroni. I loro motivi non ti riguardano, e i mortali possono soltanto sottomettersi con umiltà. Ma la punizione avrebbe potuto esser peggiore.» «È una risposta che non posso accettare!», sbottai. «Eppure devi chinare il capo, come tutti noi.» Risi, scosso da un tremito convulso. «Oh, no. Mai!» «Non hai scelta. Tu sei condannato a vagare d'ora in poi per il mondo, solitario e senza amici, senza patria, senza emblemi. Non avrai una casa che tu possa chiamare la tua casa, né una Pietra della Casa a cui dedicare le tue azioni. Tu pellegrinerai contemplando la volontà ed il potere dei Re Sacerdoti. Sarai un niente.» «Cosa ne è stato di Talena?», ringhiai. «Voglio saperlo, lo esigo. E dove sono mio padre e la mia gente?» «Te l'ho già detto: sparpagliati per il mondo, lontani per sempre l'uno dall'altro.» «Ma perché? Forse che non ho servito i Re Sacerdoti, il giorno che annientai l'Impero di Ar?» «Li hai serviti, certo. Sei stato uno strumento indocile, ma Essi si sono compiaciuti di usarti e il Loro volere fu compiuto.» Stringendo i denti sollevai la lancia, scosso da un'ira tale che affondarla nel corpo di quell'individuo non mi avrebbe calmato di un filo. Sentivo il desiderio bruciante di uccidere e distruggere. «Metti pure fine alla mia vita, se vuoi,» disse, calmissimo. Con una smorfia riabbassai l'arma. Avevo gli occhi pieni di lacrime, ero sconcertato ed in preda ad una terribile frustrazione. Che la disgrazia abbattutasi sulla città fosse stata causata proprio da me? Era forse dipeso dalle mie gesta di quei giorni lontani, se ora i miei cari soffrivano chissà dove? Mi ero mostrato troppo selvaggio ed irrispettoso agli occhi dei Re Sacerdoti? Intorno a me c'era solo desolazione, strade dimenticate, campi morti, terreni invasi dagli sterpi. Era questo il destino che i dominatori del pianeta riservavano a chi aveva peccato d'orgoglio e presunto d'essere invincibile? Ma cader preda dell'autocompatimento non serviva a niente, e del resto non vedevo quali colpe potessi aver commesso. Sollevando lo sguardo, mi accorsi che l'Adepto sembrava ora aver pietà di me, al punto che i suoi occhi luccicavano di lacrime. Piangeva per me! Era uno sfoggio di com-
passione umana, che non intendeva celare. L'alone di arcana potenza di cui l'avevo visto aureolato si era dissolto, ed ora avevo dinanzi un semplice uomo non diverso da me, per quanto appartenente al prestigioso Ordine Sacro. Sembrava dispiaciuto d'aver dovuto pronunciare delle frasi tanto dure, e più volte fece come per parlare ancora, forse tentato di consolarmi con parole che non fossero quelle messe nella sua bocca dai Re Sacerdoti. D'un tratto, alzò lentamente una mano, ansimando. «Tarl Cabot... Gettati sopra la tua spada, uomo,» sussurrò. Vacillò un istante e ripeté: «Gettati su quella lama. Null'altro ti resta, ora che perfino la casa e la donna amata ti hanno tolto!» «Uccidermi? Ma questo non sarebbe contrario alla volontà dei Re Sacerdoti?» «Sì. Essi non gradiscono perdere i Loro strumenti.» «Allora perché mi dai questo consiglio?» L'Adepto mi fissava con estrema intensità. «Io ti seguii all'assedio di Ar. E quel giorno, là sulla Torre Bianca della Giustizia, fui fra quelli che si batterono al tuo fianco contro Pakur e la Casta degli Assassini.» «Tu... un Adepto!», mi stupii. Scosse il capo. «No. A quell'epoca ancora non indossavo la veste. Ero un guerriero di Ar e mi battevo per riabilitare la mia città. Tu fosti la nostra bandiera e la nostra speranza, in un tempo in cui molti di noi erano caduti nell'abiezione.» «Ar... la gloriosa Ar,» mormorai, accigliato. «Sì, Ar la potente,» disse l'Adepto in tono strano. Volse gli occhi a occidente, in direzione della sede dei Re Sacerdoti. «Datti la morte, Tarl Cabot, tu che fosti l'eroe di Ar in quel giorno di sangue, anche se ciò è contro il Loro desiderio. Cancella la tua vergogna come ora... Essi cancellano la mia!» Inaspettatamente l'uomo fu preda d'una contorsione da epilettico, tese le braccia in fuori e mandò un grido rauco. È impossibile descrivere nei dettagli quel che accadde poi, ma vidi la sua testa enfiarsi orribilmente da un lato e l'osso sprigionare un bagliore, trasformandosi in materia sciolta che colava come pece. Cadde al suolo e morì in pochi istanti, mentre io indietreggiavo ad occhi sbarrati. Non avevo dubbi che quella tremenda esecuzione sommaria gli fosse stata somministrata dai suoi padroni, per avermi dato a titolo personale un consiglio contrario alle loro istruzioni. Non avevo mai assistito ad una fine
così spaventosa: qualcosa gli aveva liquefatto la carne e le ossa, divampandogli nel cranio come una bomba al fosforo. Poco dopo trascinai il suo corpo fuori strada e raccolsi dei sassi per ricoprirlo. Nel farlo notai che della sua testa restava ben poco, ma entro la materia cerebrale semidissolta c'era una luccichio metallico. Con uno stecco frugai in quella poltiglia, togliendone un filamento dorato. Lo esaminai perplesso, ma l'oggetto continuò a sembrarmi soltanto un comune filo d'oro o d'ottone lucido, cosicché infine lo gettai via. Nascosi il cadavere sotto un mucchio di sassi per preservarlo dai mangiatori di carogne, e in cima al tumulo sistemai una pietra piatta su cui incisi un breve epitaffio con la punta della lancia: «Qui giace un uomo di Ar». Era tutto ciò che sapevo di lui. Davanti a quella tomba improvvisata sostai un poco. Estrassi quindi la spada dal fodero e la guardai cupamente, ripensando al suggerimento che avevo avuto. «No, amico,» sussurrai. «Non mi butterò su questa lama. Io vivrò, anche se dovrò sopportare lo scorno ed il disonore che adombra la fronte dei senzapatria.» Mi voltai di scatto verso la valle in cui una volta le torri di Ko-ro-ba, la Regina del Mattino, avevano echeggiato delle risa dei bambini e dei canti delle donne, e sollevai la spada. «Molto tempo fa,» gridai nella notte, «io giurai di servirti e di onorarti, o mia città. Ed ora giuro ancora che mai dimenticherò quelle parole. Io le scrivo nel vento e nella terra, nel sangue e nelle lacrime della gente che per te ha sofferto. La mia patria rimani tu, e la mia terra rimarrà questa!» Ansimando, col volto rigato di pianto, girai gli occhi nella direzione delle Montagne di Sardar, lontanissime e invisibili. Come ogni essere umano su Gor, sapevo bene da quale parte sorgevano quelle vette invalicabili, al centro delle quali si diceva vi fosse la Suprema Pietra della Casa di Gor, in un luogo chiamato l'Inviolabile. Nessuno fra quanti avevano tentato d'avventurarvisi ne era mai tornato vivo. Nessuno sapeva quali segreti vi fossero celati, né che aspetto avessero i Re Sacerdoti e le loro dimore. Ricacciai rabbiosamente la spada nel fodero, m'infilai l'elmetto, impugnai saldamente lo scudo e la lancia, e m'incamminai con decisione verso le Montagne di Sardar. Capitolo 6 VERA
Sapevo che la catena di montagne usata come barriera dai Re Sacerdoti distava oltre 1300 Km dalla mia attuale posizione. Alle loro pendici abitavano gli Uomini delle Valli, dei quali si sapeva che avevano rapporti di qualche genere coi misteriosi Signori di Gor. Verso quei dirupi si dirigeva chi, stabilendo d'esser giunto al termine della sua vita, desiderava morire in un ultimo viaggio rituale, recandosi là in cerca d'una sorta di Paradiso Perduto o semplicemente per aver la conferma delle comuni credenze religiose. Le loro ossa venivano inevitabilmente ritrovate fuori dalla zona delle montagne, scarnificate e portate lì da qualche animale, segno chiaro che un certo tipo di Verità Religiosa avevano finito per trovarlo. Quattro volte all'anno, nei giorni degli equinozi e dei solstizi, si tenevano presso le Montagne di Sardar delle grandi fiere, presiedute dagli Adepti, durante le quali l'elemento sacro si mescolava al profano. Era tempo di gare e di sfide, di mercato, di baldoria, e gente di molte città vi interveniva. Torm, il mio amico Scrivano, una volta era solito recarvisi per scambiare libri e pergamene antiche coi colleghi di altre zone del pianeta. L'occasione era unica, poiché rivalità storiche ed inimicizie cruente dividevano in perpetuo i centri abitati di Gor, e fra essi c'erano pochi contatti. Uomini come Torm dunque non esitavano ad approfittarne, perché a loro dei conflitti non importava un bel niente: assai più dolce era ' incontrare gente dalle stesse vedute aperte, e discutere con loro di libri rari o di materie scientifiche. Lo Scrivano vi cercava lo Scrivano, l'Ingegnere ed il Medico vi andavano per apprendere nuove tecniche dai colleghi, senza badare ai campanilismi che in altri periodi dell'anno rendevano loro impossibili quei rapporti. Grazie alle fiere avvenivano quindi contatti culturali indispensabili alla società goreana, ed anche la lingua si manteneva omogenea. Ovviamente le differenze d'accento restavano immutate, perché il goreano medio ci teneva ad essere diverso dagli altri, ad avere il suo dialetto e le sue usanze caratteristiche. I motivi per cui le rivalità intercittadine perduravano non erano tuttavia di carattere razziale o religioso, essendo l'umanità di Gor assai uniforme sotto questi aspetti: si trattava sempre di faide millenarie, che nessuno intendeva smorzare, ed anzi venivano di continuo alimentate da altre guerre e dalle razzie in cui ci si procurava schiavi dei due sessi. In quel viaggio sentivo molto la mancanza di un grifone, sebbene sapessi che nessuno di quei rapaci da sella avrebbe mai potuto volare sopra le Montagne di Sardar. Per una ragione che nessuno aveva chiara, i grifoni dovevano evitare accuratamente gli spazi aerei di quella zona, e lo stesso
valeva per i tharlarion, i formidabili sauri che su Gor sostituivano i cavalli. Si sapeva che presso le Montagne di Sardar i tharlarion s'imbizzarrivano, mentre i grifoni perdevano la coordinazione e finivano per precipitare. Le pianure che attraversavo erano quasi disabitate, vi abbondava la selvaggina, e nei giorni successivi alla partenza dalla valle di Ko-ro-ba non ebbi difficoltà nel procurarmi il cibo. C'erano frutti e bacche d'ogni specie e, dal greto dei torrenti, restava facile infilare i pesci con la lancia. Un mattino riuscii ad uccidere un tabuk, un'antilope gialla fornita di un solo corno, e ne portai la carcassa in una fattoria per venderla al contadino. Senza farmi domande riguardo all'assenza di stemmi che esibivo, l'uomo e sua moglie mi accolsero con grande ospitalità e mi pagarono la carne con vino dolce, un acciarino a pietra focaia, del sale, ed una buona borraccia. I contadini di Gor non temevano troppo i fuorilegge, essendo così poveri che le stesse bande di ladroni spregiavano di derubarli. Se un agricoltore aveva una figlia giovane s'affrettava a nasconderla agli estranei, ma in molti casi fra le fattorie e i fuorilegge vi erano rapporti pacifici, dato che i predoni di grosso calibro acquistavano cibo dai contadini della propria zona e compivano altrove le loro scorrerie. Nelle terre dove i fuorilegge avevano un codice d'onore, gli agricoltori addirittura li proteggevano, ed a venir guardati con sospetto erano solo gli stranieri. Evitai accuratamente d'avvicinarmi a qualche città, sebbene ne oltrepassassi diverse, e ciò per il semplice motivo che entrare in una cinta muraria senza permesso equivaleva ovunque all'impalamento pubblico, per solito effettuato sulle mura cosicché i resti mortali dei trasgressori rimanessero minacciosamente visibili dall'esterno. Questo era il modo in cui le città accoglievano gli stranieri, e ciò veniva considerata una normalissima precauzione. La lingua di Gor aveva un unico termine per indicare il forestiero e il nemico, fatto di per sé rivelatore della mentalità corrente. C'era però un'eccezione a questo poco simpatico atteggiamento verso gli estranei, ed era rappresentato dalla città di Tharna, che secondo quanto si diceva in giro s'era impegnata in quella stupida avventura piena d'incertezze chiamata ospitalità. Avevo sentito gente abbastanza perplessa parlare dei fatti che accadevano a Tharna, e il più strano fra essi era che la città aveva al suo governo una Regina. Si mormorava che, grazie a questo, la posizione delle donne, a Tharna, era superiore a quella degli uomini, e ciò veniva considerato da alcuni una frottola e da altri una cosa contronatura e sbalorditiva. Come ben sapevo, le donne goreane erano tenute ad un rigoroso isola-
mento, che fra le Caste Alte assumeva aspetti grotteschi. Aggirandosi nella città dovevano indossare vesti pesanti e col cappuccio, quest'ultimo munito d'una reticella che impediva di vederle in faccia, ed uscivano sotto scorta oppure mai. Nelle loro case, le ragazze ricche avevano ginecei separati dove ricevevano a stento i familiari o un sorvegliatissimo fidanzato ufficiale, e non rivolgevano la parola a nessuno salvo che ai loro schiavi. Buona parte della cultura barbarica di Gor emergeva nel trattamento riservato al gentil sesso, i cui diritti umani erano ridotti pressoché a zero. La sottomissione delle donne era a sua volta causa di scarsa evoluzione sociale, giacché il loro apporto intellettuale alla vita civile non esisteva affatto, ma ciò non preoccupava nessuno. A Ko-ro-ba, da quando mio padre era salito al potere, la sua mentalità terrestre aveva portato diverse novità per le donne, che si erano visto liberalizzato l'accesso alle Caste ed avevano preso a circolare per le strade indisturbate. In realtà non era frequente, sette anni addietro, vedere una donna di Casta Alta recarsi nei teatri pubblici senza scorta, e quelle che si scoprivano il viso venivano ancora criticate. Ma altrove esse erano costrette in condizioni ben diverse, e Talena stessa ne era stata un lampante esempio. Da molti anni, comunque, la città di Tharna godeva di questa sua bizzarra fama, però io non l'avevo mai visitata e non ne sapevo granché. Adesso mi domandavo se nel suo mercato, visto che l'accesso era libero, non avrei potuto procurarmi un buon grifone. Con un uccello da sella il mio viaggio verso le Montagne di Sardar avrebbe richiesto pochi giorni, invece che un mese. L'unica difficoltà era che non possedevo denaro, ma a ciò avrei potuto ovviare mettendo la mia spada al servizio di qualcuno, come già mi era capitato di fare in passato con Miniar il Mercante. Essendo a tutti gli effetti un fuorilegge, avrei anche potuto, volendo, agire con minor scrupolo e imboccare vie traverse, però preferivo finché possibile cercare altre soluzioni ai miei problemi. Mentre percorrevo una piana cespugliosa e rimuginavo fra me queste riflessioni, vidi ad un tratto, su un terreno erboso, avvicinarsi quella che era senza dubbio una donna appiedata. In apparenza non mi aveva ancora notato, ed aveva l'aria d'esser giovane, sebbene camminasse con andatura così incerta da sembrare sfinita o ammalata. Mi mossi subito nella sua direzione, assai sorpreso dalla sua presenza in quella zona. Ho già detto che su Gor le donne non si azzardavano a viaggiare senza scorta fuori città, ma non ne ho spiegato il motivo: quelle che erano così
imprudenti da farlo, difficilmente rivedevano la propria casa. Troppo spesso le si considerava meno che esseri umani, e non si esitava un istante a farle schiave per poi venderle a qualche bordello o adibirle a mestieri umilissimi. All'esterno delle mura cittadine la donna era soltanto una preda, e talvolta anche all'interno. Quella che mi stava venendo incontro non mi aveva proprio visto, compresi, altrimenti sarebbe scappata all'istante. Decisi di fermarmi e l'attesi, appoggiato alla lancia. La spiacevole istituzione sociale della cattura era parte integrante della vita su Gor, e portare nella propria città femmine giovani rapite altrove veniva considerato un atto meritevole di plauso. Per giustizia bisogna dire che quest'uso consentiva il mescolarsi delle caratteristiche genetiche, evitandone il pernicioso ristagno, e pochi erano contrari ad esso. Le stesse donne catturate, per quanto ciò possa sembrare stupefacente, non se ne dolevano molto. Sovente anzi si sentivano sminuite se nel corso della loro vita qualcuno non aveva rischiato la pelle per rapirle. Avevo sentito parlare di una bella e crudele cortigiana di Ar, la quale si vantava che ben quattrocento uomini avessero trovato la morte nel tentativo di catturarla nei suoi Giardini Chiusi. E, a voler essere sinceri, dovevo pur ammettere che a suo tempo anch'io avevo corteggiato Talena col semplice e fulmineo sistema di portarla via in volo dalla cima della sua torre, cogliendola nel mezzo di una cerimonia pubblica in piena notte, allorché mio padre mi aveva mandato a compiere un'incursione nel cielo della città nemica in groppa ad Horus. Correva voce a quel tempo che la figlia di Marlenus fosse la più bella femmina del pianeta, ma nessuno mi aveva avvisato che fosse anche la più astuta e feroce e, poco dopo quel fatto, avevo pagato la mia faciloneria con un terrificante volo dall'altezza di qualche centinaio di metri, mentre lei se ne andava sul mio grifone ridendo furiosamente. Tornando a quella sconosciuta, dunque, perché mai se ne andava attorno tutta sola in quella terra poco abitata? Che la sua scorta fosse stata assalita e sterminata? O forse si trattava d'una schiava fuggita da un padrone crudele? Oppure era, come me, un'esule di Ko-ro-ba? In quest'ultimo caso dovevo prendere in considerazione la possibilità che ai Re Sacerdoti non garbasse veder riuniti due ex concittadini, visto che i loro ammonimenti andavano sempre presi alla lettera. E la Morte di Fuoco, come avevo visto sette anni addietro, colpiva all'improvviso e con precisione micidiale in qualunque località. Se costei era una donna libera e stava viaggiando così per scopi suoi, al-
lora quella sciocca era destinata ad una brutta fine: i cieli erano percorsi da grifonieri abili nel catturare schiavi e, a terra, qualsiasi individuo fornito di due mani per agguantarla le avrebbe messo il collare e i bracciali. La prima missione affidata ad un grifoniere era proprio quella di cercare delle belle prede in qualche città nemica. Se egli riusciva a catturare una ragazza, non mancava mai di spogliarla nel cielo di quella città e di gettare le sue vesti nel vuoto, per mostrare ai compatrioti di lei ciò che intendeva farne. Poi, se l'ardito giovanotto ce la faceva a sfuggire ai furibondi grifonieri avversari, la portava a casa sua dove le donne la ripulivano e le facevano indossare la tunichetta da schiava. Quella notte stessa il rapitore dava una festicciola, presentava la nuova vittima agli amici e la costringeva a ballare per lui. Al culmine della danza la sbatteva quindi in ginocchio a terra, e le assicurava intorno alla gola il collare. Nessuna schiava dimenticava mai lo scatto ineluttabile con cui quella fascia di metallo si era chiusa al suo collo: da quel momento la sua sottomissione diventava assoluta. Le città di Gor erano piene di schiavi, e gli strumenti per punirli ed incatenarli erano di uso comune e di foggia spesso fantasiosa. Di solito le schiave giovani e attraenti non venivano maltrattate, o al più si vedevano vendute ad un bordello elegante, ma gli altri avevano di che maledire ampiamente la propria sorte. Ciascuno portava sulla tunichetta e sul collare lo stemma di famiglia del suo padrone, e non di rado tale marchio veniva impresso a fuoco sulla pelle. A Ko-ro-ba, in casa di mio padre, avevo avuto parecchi schiavi dei due sessi; non me l'ero mai sentita di picchiarli, tuttavia devo confessare che con le schiave che lavoravano nelle case di piacere mi ero divertito parecchio e senza rimorsi. E adesso questa ragazza che veniva ciecamente verso di me stava cercando guai, perché era piuttosto bella ed io mi ero ricordato di mettere l'aureola. Piegai la bocca in un largo sorriso. Sì, pensai, era decisamente attraente. Ad onta del suo barcollare da animale sfinito e della pesantezza delle vesti che le oscillavano addosso, non faticavo a riconoscere un corpo molto sexy quando ne vedevo uno. Di sicuro costei aveva da qualche parte un padrone, o dei parenti che la cercavano con ansia. Donne simili non scomparivano di casa senza che nessuno tentasse subito di rintracciarle. Quando parlo di mariti, o di spose, non mi riferisco all'istituto del matrimonio vero e proprio bensì al suo equivalente goreano, che potrei definire come libera unione per quanto non sia infine troppo libera dal punto di vista femminile. Una ragazza che fosse stata venduta dai suoi genitori, per
oro o per un certo numero di grifoni, era considerata sposa dell'uomo che l'aveva acquistata anche se ciò andava contro la sua volontà. Spesso ciò avveniva col consenso di lei, ma non necessariamente di regola. Capitava anche che un uomo volesse liberare una delle sue schiave e prenderla in moglie, tenendosi le altre come semplici concubine. Il concetto dell'amore romantico come base dell'unione era assai raro su Gor, dove ci si sposava per convenienza o per desiderio sessuale. Raramente due persone che si amassero trovavano ciò un buon motivo per metter su famiglia. Adesso la ragazza si trovava appena a una decina di metri da me, e ancora non dava segno d'avermi visto. Camminava a testa bassa, coperta dai caratteristici vestiti da Donna Celata che le nascondevano ogni centimetro di pelle, ed osservai che si trattava d'indumenti assai miseri. Una ragazza di Casta Alta non esitava ad esibire velluti e pizzi, sete preziose e stoffe filigranate, e nelle Caste Basse alla ricchezza si sostituiva una gran vivacità nei colori. Lei invece aveva addosso un mantello col cappuccio color marrone sporco, i cui bordi inferiori erano incrostati di fango, e la stoffa appariva scucita in più punti. «Salute a te,» dissi quando fu a portata di voce, in tono il più possibile gentile per non allarmarla. Sebbene mi vedesse in quell'istante per la prima volta, quando alzò il capo non mostrò la minima sorpresa. Probabilmente non incontrava nessuno da diversi giorni, e quello doveva essere il motivo per cui si era scostata dalla faccia la reticella protettiva. Aveva grandi occhi grigi, colmi di ossessiva tristezza, e mi fissò con apatica indifferenza per la mia persona e per quel che avrei potuto farle. Per almeno venti secondi parve chiedersi se valeva la pena di parlare. «Salute a te, guerriero,» mormorò poi, con voce spenta. Tutto il suo comportamento era incredibile per una donna goreana. Non accennò affatto a riagganciare la reticella che le pendeva dal cappuccio, come se non le importasse nulla di far vedere il suo viso a un estraneo. Sotto il cappuccio c'erano lisci capelli castani che incorniciavano un volto delizioso, e mi accorsi di osservarla con estrema ammirazione. «Ti piaccio?», mi domandò. «Cosa? ...Oh, certo. Mi piaci moltissimo.» Avrei giurato che quella era la prima volta che si faceva vedere in faccia da qualcuno, a parte i suoi familiari. Un certo non so che nel suo sguardo sembrava volermelo comunicare. «Mi trovi bella, allora.»
«Sei così bella che mi sembra sciocco confermartelo.» La ragazza mosse una mano e si sganciò il colletto del mantello, scostandolo per mostrarmi la gola. Intorno ad essa non c'era nessun collare, dunque era una donna libera. «Vuoi che m'inginocchi ai tuoi piedi per esser cinta del collare da te?», chiese. «Al momento non dispongo di collari. Ma ci penserò.» «Forse desideri prima vedermi nuda?» Feci un sorriso all'idea. «Non è necessario.» «Io sono vergine, e nessun uomo mi ha mai toccata. Non conosco questi atti e ciò che si deve fare con un padrone. So solo che sarò tenuta a ubbidirti in qualunque cosa tu voglia.» «Per quanto mi dispiaccia dirlo, non rientra nelle mie abitudini rendere schiava una donna libera,» borbottai di malavoglia. Finalmente i suoi occhi ebbero un lampo di vita, e vi colsi un certo stupore. «Non sei forse uno di loro, tu?» «Loro chi?» Mi guardai attorno, di nuovo teso. Se nei pressi c'era una banda di cacciatori di schiavi, costoro non avrebbero esitato a mettere il collare anche a me o a farmi fuori. «Loro... i quattro uomini di Tharna che m'inseguono.» Stavolta fui io a restare stupito. «Credevo che gli uomini di Tharna, unici fra tutti i Goreani, riverissero le donne.» Lei rise nervosamente. «Già. Ma adesso non ci troviamo nella città di Tharna.» «Cosa c'entra? Non potrebbero riportarti là come schiava. La Regina ti farebbe subito liberare.» «E chi dice che mi condurrebbero a Tharna? Mi userebbero per il loro piacere e poi mi venderebbero a qualche mercante di passaggio, oppure al mercato degli schiavi di Ar.» «Posso sapere il tuo nome?» «Vera,» rispose ella. «Di che città?» Prima che la ragazza potesse rispondermi, e sempreché stesse per farlo, i suoi occhi si riempirono di spavento e fece un passo indietro. Mi volsi di scatto: a breve distanza da noi quattro individui erano sbucati da un folto di cespugli e s'avvicinavano nell'erba alta. Erano guerrieri armati di lance e scudi, e dagli stemmi che portavano sulle tuniche blu li identificai come uomini di Tharna.
«Scappiamo!», gemette Vera, girandosi per fuggire. La afferrai per un braccio, ed ella si contorse furiosamente. «Ora capisco!», sibilò. «Tu vuoi cedermi a loro. Mi cercavi per reclamare il diritto di cattura e chiedere il mio prezzo ...Cane!» E mi sputò in faccia. Non ne fui per nulla offeso, anzi il vedere che aveva ancora tutto quello spirito mi fece piacere. «Stai calma. Non andresti molto lontano, a questo punto.» «Sono riuscita a sfuggire a quei serpenti per sei giorni e sei notti, dormendo nei cespugli, mangiando bacche e insetti, correndo e nascondendomi!», ansimò lei. «Ma non è bastato. E ora sei così stanca che non ti reggi in piedi,» precisai. In effetti minacciava di afflosciarsi a terra da un momento all'altro. Le cinsi le spalle con un braccio per sostenerla. I guerrieri che venivano verso di noi avevano l'aria dura e scaltra dei professionisti delle armi. Uno di essi, col grado di caposquadra, mi si stava avvicinando frontalmente; un altro lo seguiva tenendosi un po' indietro e sulla sinistra. Compresi che il primo aveva il compito di affrontarmi, mentre il compagno gli avrebbe fatto da spalla con la lancia. Un ufficiale ed il quarto uomo sì stavano allargando ai lati, circa quindici metri più indietro. Questi ultimi scrutavano intorno per vedere se fossi solo o meno, pronti a coprire i primi due in caso di necessità. Era chiaro che sapevano battersi bene e nulla li avrebbe colti impreparati. Cominciai a rendermi conto del perché Tharna, sebbene governata da una donna, riuscisse a farsi rispettare dalle numerose città ostili che attorniavano. «Ehi, tu! Consegnami la donna!», ordinò il capitano, seccamente. Lasciai gentilmente Vera, facendola spostare dietro di me. Il significato del mio gesto apparve subito chiaro ai guerrieri, che si fecero più tesi e ostili. Nell'apertura ad Y dell'elmetto gli occhi dell'ufficiale erano due fessure minacciose. «Io sono Thorn, capitano di Tharn,» m'informò. «Ah, sì? E perché vuoi la ragazza? Si dice che voi di Tharna rispettiate molto le donne... ma comincio a sospettare che questa sia una sporca calunnia.» «Qui non siamo nel territorio di Tharna,» ringhiò lui. «Giusto. E allora perché dovrei consegnartela?» «Perché io sono Thorn di Tharna ti ho detto. Sei forse sordo?» «Hai ammesso d'essere fuori dalla tua terra, caro mio. Qui hai meno au-
torità d'un topo di palude, dunque non darmi ordini.» Alle mie spalle la ragazza sussurrò, tremante e terrorizzata: «Non gettar via la tua vita per me, guerriero. Alla fine il risultato sarebbe lo stesso!» Poi fece un passo di lato e alzò la voce: «Evita di uccidere quest'uomo, Thorn di Tharna, te ne scongiuro. Verrò con te senza ribellarmi.» Detto ciò sollevò fieramente la testa, rassegnata, al suo destino ma orgogliosa e sprezzante, e tese avanti i polsi incrociati per offrirli ai bracciali da schiavo che gli altri certo si portavano dietro, secondo i costumi di Gor. Io risi forte. «La ragazza appartiene a me di diritto. Perciò levatevi dalla testa l'idea di portarmela via.» Vera si volse a fissarmi con un ansito di sbalordimento, come se mi ritenesse colto da follia. «A meno che...», continuai, «non vogliate pagare il suo prezzo.» «E qual è il suo prezzo, sentiamo?», chiese l'ufficiale. «L'unica moneta che conosco è il ferro affilato, uomo,» dissi con calma. «Prova a pagare con quella.» Nello sguardo di Vera colsi una luce di gratitudine disperata. «Ammazzate questo bastardo!» ordinò Thorn ai suoi uomini. Capitolo 7 I GUERRIERI DI THARNA Prima ancora che l'uomo potesse aprire bocca avevo piantato la lancia in terra, e poi vi fu il fruscio metallico di tre spade che venivano estratte dal fodero: la mia, quella dell'ufficiale, e quella del milite che mi stava più vicino. Il compagno da cui quest'ultimo era affiancato non si mosse, riservandosi di assalirmi in seconda battuta con la lancia. Il guerriero rimasto alla retroguardia sollevò anch'egli la lancia, ma si tenne alla larga per lasciare spazio agli altri. Però fui io ad attaccarli per primo. Corsi a destra con uno scatto velocissimo, arrivando incontro al più lontano dei miei avversari prima che questi potesse spostarsi all'indietro. Con un colpo secco dello scudo scostai la sua lancia, poi gli infilai la lama fra le costole: nello scontro ravvicinato il possesso di un'arma fatta per la media e la lunga distanza gli era stato fatale. Subito ruotai su me stesso, perché uno degli altri mi era addosso. Ci fu uno scambio di fendenti orizzontali al corpo e alla testa, che entrambi bloccammo con lo scudo, quindi riuscii a colpirlo con una pedata al basso ventre e ne sfruttai il successivo
sbilanciamento per arrivargli col taglio della lama a lato del collo. Cadde senza un grido, fiottando sull'erba schizzi di sangue caldo. L'ufficiale era corso avanti, ma ora si fermò. Li avevo colti di sorpresa perché, essendo in quattro, si erano attesi che mi mettessi sulla difensiva, tuttavia adesso le cose si sarebbero fatte più difficili per me. Lo fronteggiai invitandolo a battersi con un movimento della spada, invece egli indietreggiò per togliersi dalla linea di tiro del quarto guerriero. Costui era nella posizione migliore per scagliarmi la lancia, ed anche se fossi riuscito a pararla con lo scudo, la punta vi si sarebbe conficcata, constringendomi a gettarlo via. In quel momento mi trovavo ancor più a malpartito che all'inizio dello scontro. «Fatti avanti, Thorn di Tharna!», lo sfidai. «Decidiamo tu ed io, spada contro spada!» L'ufficiale esitò un poco e poi accennò all'altro di abbassare la lancia, annuendo trucemente nella mia direzione. Si tolse l'elmetto e lo gettò sull'erba, quindi fece ancora cenno al milite di tenersi in disparte. Lo studiai con attenzione. Sul suo volto potevo leggere che ora aveva un certo rispetto per me, e questo non mi piacque, poiché significava che mi aveva pesato e valutato senza errori. Certo si stava chiedendo se continuare a battersi non sarebbe costato più sangue a loro che a me. Anche questi suoi istinti prudenziali mi giunsero sgraditi. Avrei di gran lunga preferito duellare con un uomo impetuoso, forte ma poco riflessivo, mentre quello era un duro ed allo stesso tempo un furbacchione. «Parliamo!» propose, battendo la punta della spada in terra ad indicare che potevamo sederci senza timore. «D'accordo, parliamo,» risposi. Rinfoderammo le armi e ci accovacciammo sull'erba, l'uno di fronte all'altro. Thorn era alto, con un'ossatura robusta e muscoli più solidi della media. La sua faccia larga, dalla pelle olivastra, era chiazzata di rosso dove emergevano in superficie venuzze e capillari spezzati. Non aveva baffi, e la sua barba era sagomata in una sottilissima linea di peli che gli percorreva la mandibola da un orecchio all'altro, mentre i lunghi capelli erano riuniti in una coda di cavallo alla maniera degli antichi Mongoli. Dagli occhi, obliqui ed affondati nelle orbite annerite, giudicai che fosse un donnaiolo ed un amante delle bisbocce notturne. Per molti versi somigliava al mio vecchio nemico Pakur, presumibilmente morto nell'ultima battaglia di Ar ma, a differenza di questi, non aveva l'aspetto del fanatico capace di sacri-
ficare tutto alla sua ambizione di potere. I desideri ed i vizi di Thorn erano di carattere più prosaico, lo si intuiva, e non si trattava di quelli che spingevano un guerriero a divenire Amministratore o Tiranno d'una città. «Concedimi di curare il mio uomo,» disse, indicando uno dei due che avevo steso a terra. La richiesta mi rivelò che almeno Thorn era un buon capitano, rispettoso dei suoi inferiori. Il milite che avevo colpito alla gola era morto, ma l'altro dava cenni di vita, cosicché risposi: «Occupatevene pure.» Il guerriero armato di lancia si chinò sul ferito, lo esaminò e si affrettò a riferire che secondo lui poteva cavarsela. «Nella borsa ha delle bende. Guarda quel che puoi fare,» ordinò Thorn. Si volse a me. «Devi consegnarmi la ragazza.» «Spiacente. Non potete averla.» «Non essere così irragionevole. Dopotutto è soltanto una donna.» «Nulla ti impedisce di provare a togliermela,» replicai. Thorn non cambiò espressione. «Uno dei miei uomini è morto. Puoi avere il suo equipaggiamento e le armi.» «Questa è un'offerta generosa,» dissi, serio. «Ti spettano di diritto. Accetti, allora?» «Niente da fare.» L'ufficiale strappò un filo d'erba e se l'infilò fra i denti, osservandomi con aria pensierosa. «Potremmo anche ammazzarti. Lo capisci?», mi disse. «Nessuno è immortale,» convenni. «D'altra parte non ci tengo molto a perdere un altro uomo, il che costerebbe la vita anche al ferito,» borbottò. «In tal caso è semplice: rinunciate alla ragazza ed andatevene per i fatti vostri.» Thor continuò a masticare il filo d'erba, senza togliermi gli occhi di dosso. «Chi sei?», domandò infine. E, visto che io restavo zitto, aggiunse: «Al vederti, senza stemmi né colori, si direbbe che tu sia un fuorilegge.» «Non sono in grado di darti torto,» ammisi. «E allora, fuorilegge, qual è il tuo nome?» «Tarl,» mi limitai a dire. «Di quale città?» fu l'inevitabile domanda. «Tarl Cabot, di Ko-ro-ba.» L'effetto provocato dalla mia risposta fu elettrico: la ragazza, che stava
in attesa accanto a me, indietreggiò con uno strillo acutissimo. Thorn e l'altro guerriero balzarono in piedi come fulminati. M'affrettai ad imitarli, snudando la spada. «Sei ritornato dalla Città dei Morti?», ansimò l'ufficiale. «No. Sono vivo e vegeto esattamente come voi.» «Sarebbe stato molto meglio se tu fossi andato nella Città dei Morti e ci fossi restato!», esclamò Thorn. «Tu sei stato maledetto per l'eternità dai Re Sacerdoti!» Alzai le spalle con indifferenza e mi voltai a guardare la ragazza. Aveva gli occhi spalancati e li distolse subito da me, pallidissima. «Il tuo nome e il più odiato di tutto Gor,» disse lamentosamente, con un tremito spaventato. Non seppi cosa rispondere, e del resto anche loro sembravano ammutoliti per il disagio. Per un poco restammo lì in silenzio. Dalle sterpaglie proveniva il cinguettio di qualche uccello, e l'unico altro rumore era quello della brezza che accarezzava l'erba alta. Dopo un paio di minuti Thorn si decise a parlare: «Ho bisogno di tempo per curare il mio uomo,» mugolò. «Fai pure con comodo,» concessi. Senza aprir bocca il capitano ed il milite tornarono presso il compagno e gli prestarono soccorso, con unguenti e fasce che tolsero da una borsa. Quando ebbero terminato di bendargli il torace, improvvisarono una barella, con due lance e robuste fibre vegetali, poi ve lo deposero sopra. Fatto ciò, Thorn accennò alla ragazza di avvicinarsi a lui, e con mio sbalordimento Vera ubbidì: s'inginocchiò a terra e incrociò i polsi davanti ai suoi piedi, nell'atteggiamento classico di chi si sottomette a un padrone. L'uomo la fece rialzare. I bracciali da schiava scattarono chiudendosi attorno ai suoi avambracci bianchi e lisci. «Non è necessario che tu segua questa gente!», sbottai. Allungai una mano per toccarle una spalla ma lei fece un balzo di lato, come se temesse che le mie mani la appestassero. Tremava come una canna al vento, ed evitava il mio sguardo. «Voglio che tu venga con me, Vera.» «Con te?», gemette. «Io non sarei mai capace di darti nessun piacere. Su di noi ci sarebbe un anatema terribile.» «Quand'è così, ti manderò libera.» «Io non posso accettare nulla da te,» affermò. Thorn rise brevemente. «È così, credimi. Meglio tagliarsi la gola che es-
sere amici di Tarl Cabot di Ko-ro-ba. E possano i Re Sacerdoti perdonarmi per aver pronunciato il tuo nome.» Lo ignorai. L'ostilità della giovane donna mi feriva. Dopo giorni di fuga e di sofferenza adesso sembrava rassegnata al suo destino. I bracciali che le cingevano i polsi erano di bellissima fattura, ornati con pietruzze preziose e smalti colorati, tuttavia restavano pur sempre solide manette fornite d'una serratura a prova di scasso. Lussuosi com'erano, contrastavano con la povertà delle sue vesti. Thorn seguì il mio sguardo e le palpeggiò il mantello con una smorfia. «Questa robaccia la getteremo via,» le disse. «Presto avrai abiti di seta e ricchi sandali, gioielli, profumi costosi e ancelle che si occuperanno della tua bellezza. Non avrai motivo di lamentarti, stanne certa.» «Ma sarà una schiava!», lo accusai. Thorn le prese il mento con dolcezza, facendole alzare il capo. «Hai una bella gola, luminosa come l'alba. Purtroppo dovremo cingerla con un collare, ma ti garantisco che il metallo sarà intarsiato d'oro.» «Il collare di chi?», chiese lei, sostenendo orgogliosamente il suo sguardo. Il sorriso dell'uomo s'allargò, come se avesse già pregustato quella domanda. «Il mio, naturalmente.» La ragazza vacillò con un ansito penoso, e nel vedere il suo sgomento strinsi i pugni. «Benone, Tarl di Ko-ro-ba,» esclamò Thorn. «Questo conclude la nostra disputa. Io me ne andrò con la ragazza, e in quanto a te... ti lascio nelle mani dei Re Sacerdoti.» «Se la porti a Tharna, la Regina la farà liberare,» dissi. «Certo, ma non sarò così sciocco da condurla in città. La ragazza resterà nella mia fattoria, che si trova in campagna.» Di nuovo rise, in tono spiacevole. «E ti assicuro che là, come ogni bravo cittadino di Tharna, mi comporterò verso di lei con tutta la riverenza dovuta alle donne. Sarei pazzo a maltrattare un simile gioiello.» Avevo ancora la spada in mano, e con un moto istintivo la sollevai. Thorn e l'altro mi fissarono duramente. «Non fare inutili gesti offensivi, guerriero.» Il capitano passò un braccio attorno alla vita di Vera, stringendola a sé. «Diglielo tu stessa, mia cara: a chi appartieni?» «Appartengo a Thorn di Tharna, il mio padrone,» mormorò lei. Rimisi la spada nel fodero, irritato e senza saper cosa fare. Avrei potuto
uccidere quei due uomini, ne ero certo, e liberare così la ragazza. Ma poi cosa ne sarebbe stato di lei? Lasciarla lì avrebbe significato condannarla a finir preda di qualche carnivoro, oppure di altri cacciatori di schiavi meno teneri con le donne. Ed offrirle la mia compagnia sarebbe stato peggio, visto che preferiva di gran lunga sottomettersi a quell'individuo piuttosto che subire la vicinanza di Tarl Cabot. «Da dove vieni?», le domandai. «Sei nativa di Ko-ro-ba, vero?» Lei sbuffò, e quando mi fissò lessi l'odio nei suoi occhi. «Sì,» rispose acremente. «Mi spiace,» dissi. Vera strinse i denti. Sulle sue palpebre luccicavano lacrime di rabbia e di frustrazione. «Perché hai osato sopravvivere alla tua città?», esclamò. «Per vendicarla, se potrò.» Mi osservò ancora per un paio di minuti, mentre nei suoi grandi occhi grigi s'inseguivano le emozioni più diverse. Thorn e l'altro uomo avevano sollevato la barella del ferito; dissero d'esser pronti a partire e le ordinarono di muoversi. «Addio, Tarl Cabot di una città che non esiste più,» sussurrò lei a capo chino. «Possa tu esser felice, Vera della Città che fu Regina del Mattino,» risposi, sottovoce. Rimasi in piedi fra le erbacce, e continuai a guardare la giovane donna ed i due guerrieri finché non scomparvero oltre le ondulazioni del terreno cespuglioso. Capitolo 8 LA CITTÀ DEL SILENZIO Le strade di Tharna erano le più tranquille che avessi mai visto. I passanti che vi transitavano erano numerosissimi ed occupati nelle loro faccende quotidiane, ma così taciturni ed attenti a non provocare rumori inutili, che ero costretto a guardarli con stupore. Entrare nella cerchia delle mura si era rivelato semplicissimo: avevo bussato al grande portone, le guardie dall'elmetto blu avevano socchiuso uno dei battenti per scrutarmi con professionale indifferenza, e quindi mi era stato fatto cenno di procedere liberamente. Tutto era dunque avvenuto in conformità a quanto si diceva nelle altre località di Gor: Tharna apriva le sue porte a chiunque venisse in pace,
e senza far domande. Non potevo fare a meno di osservare la gente con grande curiosità, e notai che sembravano fin troppo assorti nei loro pensieri o affari personali, in forte contrasto con i popolani rumorosi e confusionari d'ogni altra città del pianeta. La più parte degli uomini indossava tuniche grigie, un colore altrove portato da chi voleva mostrare d'essere una persona cupa e responsabile, poco portata alle frivolezze della vita. Per quanto mi apparissero pallidi e deprimenti, si diceva che fossero più solidi e capaci delle altre popolazioni, e non era escludere che lo fossero davvero. In genere il goreano medio è estroverso, impaziente, superficiale, e per sua stessa ammissione mette prima il piacere e poi il dovere. Ama chiacchierare, ammira le imprese d'onore, e si caccia volentieri nei guai per amore delle donne e del denaro. Sulla schiena degli uomini in tunica grigia soltanto una stretta banda di colore ne indicava la casta. Di norma su Gor i colori di casta venivano portati in grande evidenza, ed il loro mescolarsi ravvivava ancor più l'atmosfera delle pubbliche strade. Ne potevo solo dedurre che forse costoro non andavano affatto fieri d'appartenere alla loro Casta, atteggiamento che invece era comune ad ogni goreano degno di rispetto. Perfino i membri delle Caste più miserabili alzavano orgogliosamente il capo quando rivelavano d'essere, vuoi Contadini, vuoi Allevatori di Grifoni, vuoi Fabbri Ferrai, e questo perché ciascuno era conscio che il duro lavoro lo nobilitava e che non c'era vergogna nella fatica manuale. Lo stesso Zosk il boscaiolo, nella sua povertà, aveva ben chiaro il concetto che come onestà e onore personale non era inferiore neppure ad un Tiranno potente. Sapeva stare al suo posto, ma con animo sereno, e si sarebbe fatto tagliare il capo piuttosto d'ammettere che la sua Casta era inferiore alle altre: conscio d'essere indispensabile alla vita della comunità, traeva da ciò motivo di orgoglio. Cercai però invano fra i passanti ragazze che avessero i contrassegni della schiavitù. Qualunque città di Gor si visitasse, era inevitabile scorgere fra la folla moltissime schiave giovani mandate a far delle commissioni dai loro padroni o padrone. L'usanza voleva che indossassero tunichette cortissime e scollate, dal taglio caratteristico ma di colore assai vario, sotto le quali le loro forme erano ben visibili, e questa moda contrastava nettamente con quella da Donna Celata, ovverosia il tipico abbigliamento delle donne libere. A dire il vero, non di rado una donna libera invidiava le sue schiave proprio per la leggerezza del loro vestito e la libertà d'aggirarsi ovunque. A parte il disagio dato dal collarino, cui peraltro ci si abituava in
fretta, una schiava alla quale il padrone lasciasse un po' la briglia sciolta poteva andare a passeggio e respirare l'aria fresca sui ponti fra le torri, protetta dal suo stesso marchio. Se poi era l'amante del suo proprietario, o la favorita della padrona, osava sostituire la tunichetta con vesti di lusso e faceva la bella vita in barba a tutti quanti. Potei così costatare che davvero, in quella città dominata da una donna, le schiave non esistevano affatto. Se poi vi fossero o meno schiavi di sesso maschile, questo non l'avevo ancora potuto accertare, visto che per essi era molto più facile celare il collare sotto le vesti. Gli uomini che vivevano in schiavitù non erano riconoscibili facilmente come le donne, in quanto i loro abiti erano per solito roba smessa da qualcun altro oppure uniformi create dal gusto individuale dei padroni. Era un detto comune che neppure gli schiavi dovessero riconoscersi e contarsi in una città, perché lo scoprire che forse erano fin troppo numerosi avrebbe generato in loro idee pericolose. Le ragioni per cui alle schiave si riservavano tunichette ridottissime erano diverse. Da un lato esisteva il proposito di ricordar loro che erano in stato di sottomissione, dunque in una situazione opposta a quella da esse vissuta allorché erano state libere e ultracoperte. Parallelamente a questo si voleva far sì che in caso d'incursioni di grifonieri nemici fossero loro le prime prede, ponendole in evidenza e contando quindi sul fatto che le donne libere venissero risparmiate. Lo stratagemma funzionava fin troppo bene perché, per un grifoniere, rapire una Donna Celata poteva voler dire, una volta strappatole il cappuccio, il rischio di trovarsi davanti ad una megera o ad una ragazzotta foruncolosa e baffuta. Catturare a colpo sicuro una bella schiava formosa era invece un risultato assai più soddisfacente, a meno che non si mirasse al riscatto. Ogni donna libera, dalla più misera popolana alla figlia d'un Amministratore, era consapevole d'avere un valore espresso in denari d'oro oppure in grifoni; tale somma era, vuoi il suo prezzo di sposa, vuoi il suo eventuale riscatto. Nel caso di una ragazza povera era la cifra che raggiungeva se veniva messa all'asta in un mercato di schiavi, ed era genericamente definita il suo «prezzo». Ma ciò che mi stava procurando maggiore sorpresa, nelle strade di Tharna, era la vista delle donne libere che vi circolavano. Procedevano senza alcuna scorta, a passi imperiosi e sicuri, e davanti a loro gli uomini s'affrettavano a scostarsi con buon anticipo per non intralciarle. Tutte indossavano vesti più o meno ricche da Donna Celata, dai colori smaglianti e certo uscite dalle mani di abili sarte, che spiccavano vivaci in mezzo allo squal-
lore degli indumenti maschili. Il particolare in cui si differenziavano da ogni altra donna di Gor era la sottile maschera d'argento cesellato, che nascondeva loro il viso in sostituzione della reticella protettiva, e questa novità mi lasciava sbalordito. Notai che le maschere erano assolutamente identiche, tutte raffiguranti un volto femminile dalla gelida e distante bellezza. Alcune di loro si volgevano a guardarmi, probabilmente incuriosite dalla mia tunica rossa da guerriero. Le fredde espressioni da idolo pagano di quelle maschere non mi piacevano, e mi provocarono un senso di disagio sempre crescente. Vagabondai qua e là senza una meta precisa e, dopo un'oretta, mi trovai ad arrivare per caso nella piazza del mercato. Il luogo era fitto di bancarelle su cui si esponevano in bella mostra le merci più diverse: stoffe, utensili, articoli per la casa e di vestiario, armi, e soprattutto cibarie di tutte le varietà. Ma anche lì l'attività era contrassegnata da un'assenza di rumori stupefacente. Di solito i mercati goreani erano ancor più confusionari di quelli della Terra: le grida dei venditori erano una cantilena asfissiante, il vocio della folla forniva un sottofondo caotico, vi si aggiravano ladri e tagliaborse, guardie civiche e gruppi di amici in cerca di qualche articolo per la caccia, schiave e donnette del popolo ugualmente propense a litigare sui prezzi, ed era normale assistere a zuffe, a discussioni accanite fra coniugi o fra perfetti sconosciuti, a schermaglie amorose, ad inseguimenti di borsaioli. I mendicanti si trascinavano ovunque con le loro insistenti suppliche, e le ragazze di buona famiglia approfittavano della confusione per scostarsi la reticella dal viso e gettare audaci occhiate ai giovanotti, dietro le spalle dei loro distratti parenti. Sebbene le consuetudini volessero che le ragazze da marito ricevessero i pretendenti a casa loro, sotto la supervisione di genitori abili a vagliare le finanze e la moralità degli aspiranti, si dava per scontato che il primo contatto fra la fanciulla ed il giovanotto avvenisse furtivamente nei mercati, nei teatri all'aperto o sulla pubblica via. Durante la presentazione ufficiale, si agiva come se la ragazza ed il pretendente non si fossero mai visti prima in vita loro, ma in realtà un contatto c'era sempre stato: la riservatissima giovinetta che in presenza dei genitori salutava lo «sconosciuto» con occhi timidamente abbassati al suolo, era la stessa ridanciana fanciulla che il giorno addietro nella piazza del mercato gli aveva scoccato uno sguardo assassino per invitarlo a farsi avanti. L'altera e ricca figlia dell'Ingegnere o del Medico che nel suo Giardino Chiuso riceveva il giovanotto disposto a
pagare per lei cinquanta grifoni da guerra, era la stessa astuta personcina che, a teatro, aveva finto che un soffio di vento le staccasse la reticella per consentire al prescelto d'osservarle il volto, un volto pudicamente arrossito per «l'incidente». Ma nulla di tutto ciò accadeva nel silenzioso mercato di Tharna. Era semplicemente un luogo in cui la gente si recava con ordine ad acquistare merce. Non si discuteva sui prezzi, non si gettava la roba all'aria in cerca di articoli di diversa misura o colore, ed i venditori non si scambiavano quei pittoreschi insulti che per il goreano medio erano addirittura un'arte. Come già nei mercatini del Medio Oriente terrestre, nelle altre città di Gor la discussione fra venditore ed acquirente era un vero e proprio passatempo in cui il prezzo in sé stesso finiva per essere la cosa di minor conto: si disquisiva sui pregi e difetti della merce, si litigava, si passava agli insulti od alle sottili insinuazioni, si chiamavano i presenti a testimoniare questa o quella verità, e spesso il compratore tagliava corto offrendo una somma così alta da risultare insultante, ed a ciò il venditore replicava regalando l'articolo in oggetto con un sovrappiù di monete d'argento, destando a sua volta l'indignazione dell'altro: insomma, si assisteva a scenette sempre gustose nel loro rituale ormai ben noto. A Tharna sembrava d'essere in un altro mondo. Mi fermai per osservare una vendita, e la scena che vidi svolgersi avrebbe potuto esser tolta di peso da un fil muto: il compratore, un uomo di mezz'età, richiamò l'attenzione del mercante con un gesto e poi batté l'indice sull'articolo prescelto, una maglia di cotone grigio, alzando due dita per significare che ne voleva due. Il venditore annuì ed usò anch'egli le dita per comunicarne il prezzo, un denaro d'argento e due di bronzo. A mio avviso era una cifra esorbitante, comunque l'uomo pagò senza fiatare e ricevette in risposta tre dita alzate, ovviamente tre denari d'argento. Allora fece una smorfia dispiaciuta, salutò con un cenno del capo e si allontanò. Devo però dire che qua e là si parlava, a voce bassa e brevemente, ma si parlava. Uscendo dalla piazza del mercato notai che qualcuno mi pedinava: due individui in tunica grigia, furtivi ma non troppo abili, mi si erano messi alle costole fingendo un passo indifferente. Indossavano mantelli grigi sopra le tuniche, e le loro facce erano nascoste dalla stoffa dei cappucci. Spie della guardia cittadina, pensai fra me, probabilmente sguinzagliate attorno per tener d'occhio gli stranieri entrati nella cerchia delle mura e controllare che non abusassero dell'ospitalità. La giudicai una precauzione comprensibile e non feci alcun tentativo per sfuggire al pedinamento, allo
scopo di non destare inutili sospetti sulla mia persona. Malgrado avessi armi da guerriero e l'apparenza del fuorilegge, ero convinto di non aver nulla da temere se mi fossi comportato come un innocuo turista. Li ignorai e continuai a passeggiare. Poco dopo entrai in una delle grandi torri cilindriche di Tharna e feci le scale fino in cima, per dare alla città un'occhiata dall'alto. L'accesso al tetto era sbarrato, cosicché uscii sul più alto fra i ponti che la collegavano alla torre vicina, lungo circa venti metri. A differenza delle altre città, tutti i ponti di Tharna erano forniti di ringhiere di sicurezza in tubo metallico, e anche questo ne aveva una ben solida. Notai che si trattava d'un tubo estruso, in lega d'acciaio e con chiodature, e ciò mi fece riflettere che l'industria era più operosa che altrove. I Re Sacerdoti mantenevano l'economia di Gor ad un livello medievale, addirittura barbarico, e tuttavia lasciavano che alcune scienze come la medicina e l'ingegneria si evolvessero molto. Inoltre mettevano sovente in circolazione oggetti sofisticatissimi, come il Traduttore Istantaneo che un tempo mi aveva facilitato nell'apprendimento della lingua di Gor, i quali si potevano però ottenere solo tramite gli Adepti o gli Uomini delle Valli ed erano comunque rari. M'appoggiai alla ringhiera e lasciai vagare lo sguardo su quell'abitato così insolito. Era una comune città dalle molti torri, e le robuste costruzioni cilindriche costituivano tutto l'insieme degli edifici, ma adesso mi sembrava assai meno attraente di qualsiasi altra. Il suo diametro s'aggirava sui quattro chilometri, e le sue torri erano basse e larghe, simili a pile di gettoni messi uno sull'altro, ben diverse dalle snelle ed eleganti costruzioni che svettavano altrove. Avevano un aspetto eccessivamente sobrio, quasi conscie del loro stesso peso, ed i loro colori andavano dal grigio al marroncino, al punto che stentavo a distinguerle fra loro. Non potevo fare a meno di paragonarle alle torri di Ko-ro-ba, scintillanti di mille smalti e di particolari vivaci, che sembravano gareggiare l'una con l'altra per essere la più bella della città, e quel panorama triste ed uniforme ora mi deprimeva. Perfino la campagna circostante, qua e là segnata da occasionali affioramenti di roccia e dalle case coloniche, aveva un tono verde grigiastro che metteva malinconia. Tharna non era una città fatta per rallegrare lo spirito di un uomo. Da un punto di vista puramente terrestre capivo che si trattava d'un centro sociale assai evoluto, e che vi regnava un ordine maggiore che nel resto di Gor. Tuttavia, io ero ben distante dalla mentalità d'un geometra terrestre: amavo Gor proprio perché era barbaro e pieno di vita, splendido
e selvaggio, e di conseguenza stabilii che mi sarei trattenuto in quella città per il tempo strettamente indispensabile. Mi sarei procurato al più presto un grifone ed avrei proseguito verso le Montagne di Sardar. Una volta là, avevo intenzione di trovare la risposta a tutte le domande che mi ero posto fino a quel momento sui Re Sacerdoti, che a loro piacesse oppure no. «Forestiero,» disse una voce alla mia sinistra. Mi voltai con deliberata lentezza. Uno dei due individui ammantellati di grigio era uscito sul ponte e si stava avvicinando. Con una mano si teneva chiusa la stoffa del cappuccio, per impedirmi di vederlo in faccia, e con l'altra seguiva la ringhiera come se l'altezza gli desse le vertigini. Nel frattempo il cielo s'era rannuvolato, e giusto allora prese a scendere una leggerissima pioggia. «Tal,» dissi, alzando educatamente la destra. «Tal,» rispose, senza levare la mano dalla balaustra. Mi si accostò più di quanto non avrei gradito, ed esordì: «Tu sei straniero in questa città.» «Immagino che la cosa sia evidente,» borbottai. «Chi sei? Da dove vieni?» «Il mio nome è Tarl, e non ho nessuna città,» rivelai soltanto. Avevo imparato la lezione, e non intendevo risvegliare lo spavento o l'odio altrui dichiarando la mia identità completa, almeno senza che vi fosse un motivo pressante. «Quali affari stai svolgendo a Tharna?» «Sono entrato in città unicamente perché mi occorre un grifone. Devo fare un lungo viaggio.» Era la verità, anche se non avrei mai palesato quale destinazione e scopo mi fossi proposto. Se quel tipo era un informatore delle autorità non m'importava che volesse sapere i fatti miei, ed ero disposto a dargli soddisfazione, entro certi limiti. «Un grifone costa non pochi soldi,» m'informò. «Non mi aspetto che un ignoto benefattore compaia a regalarmene uno, né intendo vincerlo a dadi a qualche ubriaco.» «Qui a Tharna è proibito ubriacarsi sordidamente e giocare d'azzardo. Hai del denaro con te?» «Neppure l'impronta d'un denaro di bronzo stampata sulla creta.» «E allora come conti di procurarti un grifone?» «Oh, il modo lo troverò... Ma stai tranquillo, non sono un ladro anche se riconosco d'avere l'apparenza del fuorilegge.» «Comunque qui non c'è posto per i fuorilegge. A Tharna siamo tutti one-
sti cittadini e lavoriamo per vivere,» disse, con un tono che sembrava una sentenza di tribunale. Era chiaro che non si fidava per niente di me, ed allo stesso modo io cominciavo ad avere strani dubbi su di lui. Perché non mostrava la sua faccia, intanto? Senza neppure averlo visto in viso provavo per lui un'istintiva antipatia. Ad un tratto mi decisi: allungai una mano e gli tirai indietro il cappuccio, scoprendogli la testa. Ebbi la breve visione d'un volto giallastro dai pallidi occhi azzurri, ma subito lui fu svelto a ricoprirsi e si fece indietro. Intanto era comparso anche il suo collega, e i due sbirciarono qua e là come per accertarsi che nessun estraneo stesse assistendo al nostro incontro. «Mi piace guardare in faccia quelli con cui parlo,» dissi, in tono discorsivo. «Già, naturalmente,» brontolò l'individuo, richiudendosi bene il cappuccio. «Potete darmi una mano a trovare un buon grifone?», chiesi. Lui annuì subito. «Se vuoi... Ma forse non ti aiuteremo soltanto in questo. Per te potrebbero esserci mille denari d'oro, e tutte le provviste che vorrai per il tuo viaggio.» Feci un fischio fra i denti. «Capisco. Però io non sono un assassino, amico.» Fin dai tempi dell'assedio di Ar, quando Pakur aveva indotto i suoi colleghi di molte città a violare le regole della Casta degli Assassini riunendoli in un'orda con mire di conquista, i professionisti dell'omicidio in tunica nera erano stati perseguitati e cacciati. I superstiti si erano trasformati in mercenari, offrendo i loro servigi alla spicciolata, e venivano considerati ufficialmente dei fuorilegge. «Io sono un guerriero, amico. La mia tunica è rossa,» aggiunsi. «Lo vedo. So bene che la Casta degli Assassini non esiste più,» disse, sebbene io dubitassi di quell'affermazione. I suoi occhi slavati mi fissarono fra le pieghe del cappuccio. «Ma non ti interessa avere un grifone, oro e viveri a sufficienza?» «Dipende da quel che dovrei fare per averli.» «Non è necessario che tu uccida nessuno.» «Allora sono tutt'orecchi.» «È un tipo di faccenda nella quale tu hai senza dubbio una buona esperienza, visto che sei un grifoniere.» «Può darsi. Di che si tratta, insomma?»
«Dovrai... diciamo, prelevare una donna.» Sorrisi. Chiedere a un grifoniere di rapire una femmina era come ordinare al vento di soffiare ed alla pioggia di cadere, evento quest'ultimo che stava per l'appunto intensificandosi, lì su quel ponte: ero già bagnato fradicio. Ovviamente tutto dipendeva dall'identità della donna in questione. Le più ricche o più attraenti erano sorvegliate a tal punto che, se pure fosse stato possibile rapirle, a ciò sarebbe seguita una caccia all'uomo implacabile. «Chi è questa donna? Sentiamo.» «Il suo nome è Lara.» «Di quale famiglia e città?» I suoi occhi chiari ebbero un lampo. «Straniero, Lara è la Regina della città di Tharna!», sibilò. Capitolo 9 BENVENUTO, STRANIERO In piedi sotto la pioggia che mi tamburellava sull'elmetto e sullo scudo, immerso nel grigiore del cielo e della città, osservai quello strano cospiratore incappucciato senza saper cosa pensare. Dunque anche lì, nella tanto decantata città di Tharna dove giustizia e libertà erano un vanto, avvenivano quegli stessi intrighi che nelle altre località intorbidivano l'esistenza dei potenti. Ero deluso. Inoltre mi si trattava come un avventuriero dappoco, un furfante disposto a vendersi a chiunque per una borsa di denari d'oro. «Niente da fare,» dissi. L'individuo ebbe uno scatto del capo. «Io rappresento un personaggio molto potente. Non faccio proposte a caso... e pago in denaro sonante.» «Non ne dubito. Però io non ho niente contro la Regina Lara.» «Sei forse un suo ammiratore? La conosci?» «Non l'ho mai vista in vita mia.» «E tuttavia rifiuti?» «Ci puoi scommettere, amico!», dichiarai. «Hai paura!», mi accusò. «Non ho paura di niente.» «Allora dovrai rinunciare ai tuoi progetti. Nessuno ti procurerà un grifone, razza di sciocco!» L'uomo si volse e si allontanò, sempre tenendosi alla ringhiera. Insieme al compare raggiunse la soglia della torre, e qui si fermò per gettarmi
un'ultima frase: «Tu non uscirai vivo dalle mura di Tharna, straniero.» «Sia pure. Ma non giocherò al tuo sporco gioco, signor mio!», replicai, per nulla impressionato. Le due figure ammantellate di grigio parvero sul punto di dileguarsi come nebbia nella semioscurità della torre, ma ad un tratto esitarono. Li vidi confabulare fra loro ed annuire come se si trovassero d'accordo su una nuova linea di condotta. Poi l'uomo dagli occhi slavati lasciò il compare e tornò sul ponte, avvicinandosi a me con la stessa cautela di poco prima. «Sono stato troppo precipitoso. Non intendevo minacciarti sul serio,» disse. «Anzi stai pur certo che non ti accadrà niente di male. A Tharna siamo tutti probi cittadini e aborriamo la violenza.» «Mi fa piacere sentirtelo dire.» L'uomo tolse di tasca una borsa di pelle colma di monete tintinnanti e, mentre lo fissavo sorpreso, me la mise in mano. Nella scura cornice del cappuccio la sua bocca si deformò in un largo sorriso amichevole. «Benvenuto a Tharna,» disse. E in fretta abbandonò il ponte insieme al suo accompagnatore. «Ehi, un momento... Torna indietro!», lo richiamai. Ma i due erano già scomparsi. Palleggiai la borsa con un sospiro. Mi era stata regalata da un piccolo manigoldo perché tenessi la bocca chiusa e sparissi alla svelta, ma sarei stato un ipocrita a dire che quei soldi mi rendevano triste, perché grazie ad essi non avrei dormito in un campo sotto la pioggia e forse sarebbero bastati per comprare un grifone spennato e pieno di zecche. Quella notte mi si prospettava dunque un alloggio decente ed una cena sostanziosa. Scesi la lunga scala a spirale della torre e tornai in strada. Su Gor gli ostelli non erano molto numerosi. Ogni città ne aveva due o tre, appena quel che serviva per alloggiare i mercanti ed i pochi viaggiatori bene accetti, dato che le continue ostilità fra le città limitrofe scoraggiavano i traffici e riducevano quindi al minimo l'attività alberghiera. D'altra parte, proprio la scarsità di clienti induceva i locandieri ad accoglierli senza far troppe domande, accettando nomi falsi e chiudendo un occhio sulle loro intenzioni dietro il pagamento d'una mancia. A Tharna però gli ostelli dovevano essere più comuni che altrove e, con questa fiduciosa riflessione, m'incamminai alla ricerca di un'insegna. Fui stupito quando invece finii con l'accorgermi che non se ne vedeva neppure una. Decisi che alla peggio mi sarei sistemato sulla panca di una delle taverne dove si vendeva principalmente paga, il vino assai alcolico fatto coi grap-
poli del Sa-Tarna. A Ko-ro-ba, e in genere ovunque, nessuno trovava insolito che i clienti delle osterie trascorressero la notte nel locale, purché pagassero le consumazioni e verso una certa ora la piantassero di far baccano. Non mi aspettavo di trovare nelle taverne della poco allegra Tharna musicanti e danzatrici, ma ero disposto ad accontentarmi. Poco dopo l'imbrunire, col traffico stradale ormai diradato, fermai uno degli anonimi passanti in tunica grigia. «Per cortesia, uomo di Tharna, dove posso trovare una locanda?» «Non ci sono locande né ostelli in questa città,» fece lui, osservandomi con attenzione. «Tu sei uno straniero, vedo.» «Sono un viaggiatore e cerco un alloggio per la notte.» «Dai retta a me, straniero: vattene!», mi consigliò, imprevedibilmente. «Credevo che i viandanti fossero ben accolti, qui da voi.» «Ah, sì? Ed io ti dico che farai meglio a scuoterti subito dai sandali la polvere di Tharna, prima che siano chiuse le porte della città.» Si guardò attorno nervosamente, preoccupato che qualcuno ci stesse osservando. «Se non ci sono ostelli, indicami una taverna. Almeno non trascorrerò la notte all'addiaccio.» «Non ci sono neppure taverne.» «E allora dove posso andare a dormire?» «Hai la scelta fra queste due possibilità: la riva erbosa di un fossato fuori dalle mura, oppure il palazzo della Regina.» «Vuoi dire che alla Regina non scomoderebbe farsi più in là per lasciarmi un po' di posto nel suo letto?» Cercai di scherzare, ma in realtà quella risposta mi aveva meravigliato. L'uomo emise una risata rauca. «Guerriero, da quante ore ti trovi nella nostra città?» «Sono entrato verso la sesta ora di questa mattina.» «Peccato. Vuol dire che sei qui ormai da più di dieci ore.» «E questo che significa?» «Benvenuto a Tharna!», esclamò lui, e se ne andò a passi svelti lungo la strada piena d'ombre. Irritato da quel modo di fare, e senza aver capito bene cosa l'individuo avesse inteso dire, mi avviai in direzione delle mura. Ero quasi giunto al grande portone, quando vidi che l'avevano già chiuso, e mi fermai: i battenti erano sprangati da due travi colossali, così pesanti che per sollevarle sarebbero occorsi alcuni tharlarion da tiro o un centinaio di schiavi. Presso la garitta erano piazzate due guardie, che mi fissarono pigramente. I loro
sguardi mi comunicarono che uscire di città era da escludersi, almeno per il momento. «Benvenuto a Tharna, straniero,» disse uno di loro. Avevo fatto una ventina di passi quando sentii alle mie spalle una risatina chioccia, ironica e strana come quella del cittadino di poc'anzi. Non sapevo bene da che parte dirigermi, e l'illuminazione pubblica era degna di un cimitero così, quando vidi una piccola insegna illuminata alla base di una torre, mi accostai, tanto per indagare su quel raro esempio di vivacità. Due striminzite lanterne piene di olio di tharlarion, fissate ai lati di una porta chiusa, spandevano la loro luce gialla su una scritta: QUI SI VENDE KAL-DA. Il kal-da era una bevanda buona a stento per i montanari, un vino profumato e condito con spezie che andava bevuto bollente. Essendo economico, o per meglio dire scadentissimo, nelle zone fredde riscuoteva l'apprezzamento dei poveri che, se non potevano riempirsi lo stomaco, riuscivano almeno a scaldarselo. Adesso si era levata un'arietta pungente, ed io ero a digiuno da quel mattino, perciò riflettei che un boccale di kal-da non avrebbe potuto abbattermi il morale più di quanto non lo fosse già. Inoltre riflettei che, dove si smerciava vino, non dovevano mancare il pane e la carne. Ai miei occhi balenò la visione d'una forma di pane croccante appena sfornato, seguita da quella d'un cosciotto di tarsk rosolato a fuoco vivo e servito con contorno di verdura, e mi venne quasi la bava alla bocca. Con un sospiro palpeggiai la borsa che mi ero messo in tasca, poi scesi i due gradini di pietra e col manico della lancia spinsi la porta. Era aperta. Oltre la soglia c'era un'altra breve serie di scalini. Il locale era ampio, ma basso e poco illuminato. Una decina di tavoli massicci, un certo numero di panche, sgabelli, ed il bancone della mescita ne costituivano l'arredamento spoglio. Nel riflesso rossastro delle lampade ad olio, cinque o sei avventori si voltarono a guardarmi, interrompendo subito le conversazioni, e notai che si trattava dei soliti anonimi individui vestiti di grigio. Fra loro non c'erano guardie o uomini armati. Addobbato com'ero, dovevano certo trovarmi insolito. Ero un forestiero, uno sconosciuto armato fino ai denti che era capitato d'improvviso in mezzo a loro, cosicché non mi meravigliai dell'espressione per nulla amichevole che assunse il gestore quando mi accostai al bancone. L'uomo era basso e mezzo calvo, indossava un trasandato grembiule giallo e stava spillando del kal-da in un boccale di legno da un recipiente fornito di rubinetto. «Tal!», lo salutai.
«Tal!», fu il borbottio di risposta. Mi squadrò con evidente disapprovazione. «Cosa ti porta in città, guerriero?» «Sono di passaggio. Ho fatto una capatina entro le mura per vedere se trovo da acquistare un grifone, e non prevedo di fermarmi. Vorrei da mangiare e, se possibile, un letto per la notte.» «Questo non è il posto giusto per uno di Casta Alta,» m'informò. Mi guardai in giro. Gli avventori del locale erano tipi sparuti e malmessi, con l'aria tipica dei disgraziati. Non era facile capirne la Casta, essendo questa indicata solo dalla strettissima banda dietro le loro tuniche sdrucite; ma tutti erano accomunati dall'espressione vacua e miserabile, e dall'atteggiamento abulico di chi non ha un briciolo di spirito e di rispetto per sé stesso. «Tu sei un guerriero, un uomo di Casta Alta. Non è opportuno che ti fermi nel mio locale,» ripeté ottusamente il proprietario. La prospettiva di tornare fuori, per aggirarmi tutta la notte nelle strade bagnate di pioggia, non mi riusciva gradita. Tolsi dalla borsa una moneta d'argento e la gettai all'individuo, che la prese destramente al volo e la saggiò coi denti. Era un denaro coniato di fresco e, quando ne ebbe constatato l'autenticità, parve mostrare un filo di cupidigia. Gli lessi negli occhi che, pur di non dovermelo restituire, avrebbe fatto uno sforzo d'ospitalità. «A che Casta appartiene quella moneta?», lo interrogai. «Già... il denaro non ha Casta,» borbottò. «Allora portami qualcosa che non sia un insulto allo stomaco.» Andai a sistemarmi in un angolo della taverna, ad un grosso tavolo nero e tarlato dal quale potevo tener d'occhio la porta. Misi contro il muro lo scudo e la lancia, poggiai l'elmetto sulla superficie bisunta, e mi slacciai il cinturone, deponendo sul tavolo anche quello. Potermi sedere era un sollievo. Quasi subito il proprietario venne a servirmi un boccale di kal-da fumante, della capacità di quasi un litro. Era così caldo che mi scottò la bocca ma, appena ne ebbi ingollato una lunga sorsata, mi sentii meglio. Quel vino era pessimo, così disgustoso che d'improvviso mi parve perfettamente intonato alla mia situazione, ed il pensiero mi strappò una breve risata. I clienti si voltarono ad esaminarmi e si scambiarono occhiate significative, scuotendo il capo come davanti ad un matto. Le loro espressioni mi divertirono. D'un tratto fui curioso di sapere se quegli individui scialbi erano capaci di ridere. In tutto il giorno avevo visto soltanto ceffi cupi, e adesso una semplice risata sembrava destare stupore e disapprovazione.
Malgrado il posto fosse scuro, sudicio e silenzioso, l'effetto del kal-da me lo fece apparire in una luce quasi accettabile. «Che avete da guardarmi, gente? Parlate, ridete!», esclamai. Bevvi un'altra sorsata di vino, mi forbii la bocca con un gran gesto della mano, poi afferrai la lancia, battendone il manico sul pavimento. «Allora, popolo della piovosa Tharna! Vi hanno tagliato la lingua? Se non siete capaci di ridere, cantate con me. Suvvia, un bel coro!» Gli avventori dovettero pensare d'essere in presenza d'un demente. A dire il vero, il kal-da bevuto a stomaco vuoto mi stava già dando alla testa, ma ciò che mi esasperava era l'atmosfera grigia e malinconica dell'intera città, il modo di fare contegnoso della gente, i loro vestiti uggiosi, la stupida e solenne indifferenza con cui vivevano le loro vite. Nessuno dei presenti aprì bocca: secondo loro, lo sciocco ero io. «Che vi assilla, amici? Guardatevi attorno: questa è una taverna e non un sepolcro!», dissi ancora a voce alta. «O per caso vi sono morti dei cari parenti, o le vostre donne fanno l'occhiolino ai soldati, o avete perso al gioco l'eredità del nonno? Se proprio dovete piangere, fatelo dentro un boccale di buon vino.» «Qui non si può giocare d'azzardo,» disse finalmente uno di loro. Io ridacchiai. «Che io possa schiattare se non manderò a Tharna il mio peggior nemico! Infatti, cosa resta ad un guerriero, se non può gettar via ai dadi la sua paga? Ma date retta a me, gente: fatevi due risate finché avete vita in corpo, chiacchierate e cantate! Fin troppo presto la morte vi riempirà la bocca di terra, ed allora sarà impossibile farlo.» I loro occhi rivelarono solo una certa dose d'incomprensione, ma io tacqui, perché il proprietario stava arrivando con alcune scodelle. Mi venne servito un arrosto di tarsk sorprendentemente ben rosolato, pane caldo, miele, frutta, e insieme alle posate ebbi un vasetto di sale. Mi affrettai a darci dentro, innaffiando ogni boccone con ampi sorsi di kal-da. «Ehi, padrone!», chiamai dopo un poco, battendo con energia il boccale sul tavolo. «Sì, guerriero?» Ruttai con forza. «Dove diavolo nascondi le ragazze?» L'uomo mi fissò, attonito. «Le ragazze?» «Sì, le schiave, le danzatrici. Ho voglia di vedere qualche dolce femminella darci dentro coi campanelli e le nacchere, e di sentire un po' di musica. Valle a chiamare, furbo demonio, e se vuoi i miei soldi.» La bocca del gestore si spalancò lentamente. Aveva un'espressione così
idiota che mugolai per il disgusto. «Non ci sono schiave a Tharna, e neppure donne di piacere,» disse debolmente uno degli avventori. «Che il cielo mi strafulmini!», gridai, scandalizzato. «Neppure una prostituta o una ballerina in tutta questa dannata città? Neanche una vecchia e zoppa? Ma questo è immorale!» Due o tre dei presenti risero. Finalmente ero riuscito a far vibrare una corda nei loro torpidi petti. «E le misteriose creature che ho visto oggi nelle strade? Le tipe dall'aria tronfia con quelle buffe maschere sulla faccia, forse che non sono donne quelle?» «Oh, sì, sono donne,» mi fu risposto. «Ma no!» finsi di sbigottirmi. «E che mi dite, si potrebbe andare ad arruolarne un paio, per vedere se riempiendo loro la pancia di vino son disposte a ballare per un gruppo di maschi ruggenti?» Gli uomini risero ancora. Mi alzai in piedi, barcollando ostentatamente, e dichiarai con fierezza che mi sarei avventurato alla conquista di qualche donna per riportarla fra loro quanto prima. Il gestore corse verso di me con un boccale in mano e mi spinse a sedere con modi suadenti, invitandomi a bere. All'apparenza la sua tattica era quella di pasturarmi con le libagioni finché non sarei rotolato sotto al tavolo. Fui però lieto di vedere che i clienti si avvicinavano. Sedettero tutti intorno a me, con aria assai più cordiale. «Da bere per i miei amici, oste d'inferno!», gridai. «Da dove vieni?», mi chiese uno. «Mia madre mi abbandonò legandomi sul dorso d'un grifone selvaggio, e fui allevato da una sordida prostituta di Porto Kar,» affermai con energia. «A dodici anni strozzavo i draghi di palude a mani nude, e correvo dietro alle fanciulle caste finché i loro strilli mi saziavano l'anima. In ogni terra ho vagato, di volta in volta ricco e miserabile. Ma un indovino affermò che mio padre era un grande Tiranno!» Ci furono risate divertite. «Credete che io menta, amici?» Alzai le mani. «E va bene, ho mentito. Sono però un viaggiatore, e nel mio peregrinare da una taverna all'altra ho combattuto fiere battaglie coi giocatori d'azzardo e con le donne di piacere di tutto Gor. Ora, per dimostrarvelo, vi canterò una canzone, così capirete di quali eroismi e virtù è capace un guerriero.» E, senza por tempo in mezzo, attaccai a cantare, battendo il tempo con il
boccale sul tavolo. Gli uomini si mostravano adesso compiaciuti e allegri, ed ascoltavano volentieri. Insegnai così loro le ballate che avevo appreso all'epoca in cui viaggiavo con la carovana di Mintar il Mercante, le marce militaresche, e le dolci canzoni d'amore che Talena aveva cantato per me sette anni addietro, allorché le città e le campagne di Gor mi si aprivano dinanzi piene di avventure e di sorprese. Il vino prese a scorrere più liberamente, il gestore rinnovò l'olio nelle lampade e ne accese altre. Da li a poco vennero dentro alcuni passanti, certo richiamati dall'insolito chiasso, e poi altri fra cui tre guerrieri. Costoro parvero contenti dell'atmosfera vivace che si stava creando, e sedettero di traverso sulle panche ordinando kal-da con voci stentoree. Conoscevano anch'essi le ballate che stavo intonando, e si unirono subito a me in un coro che diressi con entusiasmo. Non c'era una sola faccia seria, e tutti bevevano, battevano le mani e si univano ai canti, cosicché le ore trascorsero veloci. Verso l'alba la taverna era però tornata più tranquilla. Gli avventori che riuscivano ancora a reggersi in piedi se ne andarono, e gli altri rimasero stravaccati sulle panche e sui tavoli dove avevano finito per appisolarsi. Il proprietario russava sonoramente con la schiena appoggiata al muro. Seduto al mio posto, con la testa china sulle braccia, stavo anch'io soccombendo al sonno, quando mi accorsi che degli individui entravano nel locale. Fuori era già sorto il sole, ma all'interno le lampade avevano finito l'olio ed era piuttosto buio. Una mano mi calò pesantemente su una spalla. «Alzati!», ordinò qualcuno. «È lui, lo riconosco,» disse una voce che non mi era nuova. Sbattei le palpebre con un mugolio stordito. Una lanterna mi era stata avvicinata al viso e, al di là di essa, scorsi la faccia giallastra dell'uomo che mi aveva seguito sulla torre, il cospiratore. «Ne sei certo?», domandò un altro. Intorno a me c'erano quattro uomini armati, e dagli elmetti blu seppi che si trattava di guardie di Tharna. «Il ladro è proprio lui!», esclamò l'individuo. Afferrò la borsa del denaro che avevo deposto sul tavolo e la mostrò agli altri.» Questi soldi mi appartengono. Guardate qui: sulla borsa c'è scritto il mio nome.» «Ost,» lesse il caposquadra. Era lo stesso nome dei piccoli e velenosissimi serpenti gialli, che trovai particolarmente appropriato. «Allora questa è la tua borsa, Ost?» «Ehi! ...Io non ho derubato nessuno. Ridatemi i miei soldi!», protestai,
alzandomi in piedi. «Mi ha dato una spinta e poi mi ha strappato la borsa. Adesso il manigoldo è venuto qui a ubriacarsi col denaro rubato,» mi accusò Ost. «Bastardo!», ringhiai. Ma due mani mi bloccarono le braccia. «Non fare il furbo!», mi ammoni il caposquadra. «In nome di Lara, Regina di Tharna, ti dichiaro in arresto.» Capitolo 10 A PALAZZO Uno dei militi aveva preso le mie armi, e altri due avevano le lance puntate, per cui dovetti far buon viso a cattivo gioco. Resistere sarebbe stato peggio che inutile. L'ospitalità di Tharna si rivelava così molto più movimentata di quel che avrei mai potuto desiderare. «Sono innocente,» dissi con fermezza. «Questo lo stabilirà la Regina. Avrai la possibilità di discolparti davanti alla sua augusta persona,» rispose il caposquadra. «Incatenatelo. È un uomo pericoloso,» gracidò Ost. L'ufficiale mi fissò. «Sei un guerriero?» «Appartengo alla Casta dei Guerrieri,» confermai, ergendomi con fierezza. Malgrado la notte in bianco, la mente mi si stava snebbiando. «Ho la tua parola d'onore che mi seguirai pacificamente al palazzo della Regina?» «Ti do la mia parola d'onore,» dissi a denti stretti. Il caposquadra si volse ai suoi uomini. «Niente catene, allora. Non saranno necessarie.» «Giuro che non ho derubato quest'uomo,» ripetei. Attraverso la fessura ad Y dell'elmetto gli occhi del caposquadra erano franchi e onesti, ma duri. «L'evidenza è contro di te. Però ti assicuro che potrai parlare in tua difesa, guerriero.» «È un sordido criminale! Esigo che gli mettiate le catene!», gridò Ost, rosso in faccia. «Taci, pezzente,» ringhiò l'ufficiale, gratificandolo di un'occhiata tale che l'altro fece un passo indietro. I soldati mi fecero cenno di andare alla porta ed uscimmo in strada, dove procedetti stando in mezzo a loro fino alla torre in cui aveva sede la corte della Regina. Ost ci seguiva in silenzio, ansando poiché stentava a tener dietro ai nostri passi lunghi e veloci.
Non potevo fuggire, avendo dato la mia parola d'onore, ma mi rendevo conto che, se pure avessi tentato di farlo, le mie possibilità sarebbero state pressoché nulle. I guerrieri erano dello stesso stampo di quelli al seguito del capitano Thorn, silenziosi, guardinghi, capaci d'infilzarmi con un sol colpo di lancia prima che avessi fatto dieci passi e, per quanto non mi fossero ostili, sentivo che non erano disposti a prendere sottogamba il loro dovere. Mi domandavo se quel grosso fetente di Thorn fosse in città, e come se la passasse Vera nella fattoria del suo nuovo padrone. Sapevo che, se davvero in quella città la legge era rispettata come si diceva, non avrei avuto da temere un sopruso. Tuttavia, dimostrare la mia innocenza sarebbe stato quantomai difficile e forse impossibile. I fatti parlavano contro di me: ero stato trovato in possesso d'una borsa con tanto di nome inciso sopra, e ciò avrebbe grandemente influito su ogni decisione della Regina. Cosa poteva valere la mia parola, la parola di uno straniero, contro quella di Ost? L'uomo era un cittadino di Tharna, e senza dubbio doveva godere di appoggi presso qualche personaggio potente. Malgrado le mie preoccupazioni, ero curioso di vedere il palazzo della Regina Lara e d'incontrare quella donna certamente unica e singolare, la sola femmina che detenesse una posizione di potere su un pianeta dominato dagli uomini. Se anche non fossi finito in quella situazione, mi sarebbe ugualmente piaciuto, prima d'andarmene, dare un'occhiata al suo palazzo e magari cercare di vederla. Il sole era già spuntato da quasi un'ora e le strade cominciavano a riprendere vita. I cittadini in tunica grigia mi lanciavano occhiate silenziose, con lo stesso interesse che chiunque altro avrebbe avuto nel vedere passare uno straniero arrestato dalle guardie. Venti minuti più tardi imboccammo una strada più larga, pavimentata con lastre di pietra nera su cui ancora luccicava l'acqua piovuta quella notte. Ai lati di essa c'era un muretto che si faceva man mano sempre più alto finché, dopo un centinaio di metri, ci trovammo a procedere fra due muri oltre i quali non si vedeva niente ed il percorso si restringeva. Al termine della strada il palazzo era una torre cilindrica non molto elevata ma assai larga, possente, simile ad una fortezza dall'aspetto freddo ed inespugnabile. Il portone d'ingresso era incredibilmente stretto, tanto che appena un uomo alla volta avrebbe potuto passarvi a stento, mentre intorno si levavano muraglie nude e prive di feritoie. Il battente della porta, largo neppure mezzo metro e alto si e no un metro e sessanta, era una lastra d'acciaio che avrebbe resistito a qualunque ariete.
Tutto ciò differiva molto dall'architettura comune, dato che gli ingressi delle torri cittadine erano di sovente così spaziosi che cinque uomini avrebbero potuto passarvi in groppa ai tharlarion. C'era da domandarsi che genere di giustizia venisse amministrata all'interno di una roccaforte così tetra e minacciosa. Il capoguardia usò un batacchio di bronzo per bussare, e si fece da parte. «Noi dobbiamo restare fuori,» disse. «Entrerete solo tu e Ost.» Mi volsi a fissarli, contrariato, ma le loro lance mi si puntarono al petto. Scossi le spalle. Ci fu un rumore di catenacci spostati ed il battente si aprì, rivelando un passaggio completamente buio dove non c'era nessuno. «Dentro,» ordinò il sottufficiale. Feci un sorriso acido, non troppo soddisfatto all'idea di dovermi cacciare in quel budello angusto. Poi abbassai la testa ed oltrepassai la soglia. Un istante più tardi dalla bocca mi scaturì un ansito che era per metà un'imprecazione spaventata, perché sotto i miei piedi il terreno si spalancò e precipitai a capofitto nel vuoto. Dietro di me Ost gridò di sorpresa e di terrore, probabilmente spinto dai militi. Piombai su un terreno duro e rotolai di lato, gemendo. Ero caduto in un pozzo profondo due metri abbondanti e, sebbene sul suolo vi fosse un mucchio di paglia messo lì a mo di zerbino per gli ospiti, l'avevo in parte mancato. Ost fu più fortunato e cadde sul morbido. Bestemmiai, ancora troppo sbigottito per riuscire a mettere due pensieri l'uno dietro l'altro, e restai steso a terra senza la forza di muovermi. Mi trovavo a meta lunghezza di un tunnel di sezione semicircolare, costruito in mattoni, ed una torcia piuttosto lontana mandava fin lì la sua debole luce rossigna. Nell'aria stagnava un forte odore di selvatico, il puzzo che può emettere la pelliccia di un roditore sudato, quasi che il luogo fosse una tana di bestie. Prima che potessi esaminare meglio il tunnel, accanto a me Ost emise un uggiolio di abbietto ed isterico spavento. Sulla paglia alle mie spalle vi fu un pesante scalpiccio di zampe. Qualcosa mi afferrò per la tunica e mi sollevò di scatto dal suolo, portandomi via con la violenza d'una tromba d'aria. Cercai di contorcermi, urlai, e le mie mani colpirono un vello morbido e peloso. Quasi persi i sensi per l'orrore, nell'accorgermi che un animale di grosse dimensioni mi aveva addentato per il vestito e mi stava trasportando lungo il tunnel. Strisciai con le mani in terra alla ricerca di una fessura dove aggrapparmi, poi scalciai e mi dibattei ancora, ma fu inutile. Dopo un mezzo minuto che mi parve un'eternità, il bestione mi lasciò
andare e caddi al suolo in un locale circolare dove ardevano numerose torce. Una voce dura abbaiò qualcosa in tono di comando, e l'animale squittì. A questo seguì lo schiocco di una frustata, quindi l'ordine venne ripetuto acremente. La bestia indietreggiò con riluttanza, fissandomi con i suoi enormi occhi gialli feroci e inespressivi. Era un urt gigante, lungo quattro metri buoni e simile nella forma ad un enorme topo cornuto. I suoi denti erano pugnali d'osso che s'inserivano nelle cavità corrispondenti della mandibola opposta, sbucando fuori sotto il mento e sopra il muso peloso, e due brevi corna ricurve gli spuntavano dagli angoli delle orbite. Mandava grugniti da suino, famelici, e mi osservava come se agognasse di divorarmi. Un'altra frustata sibilò nell'aria strappandogli da un fianco una manciata di peli, e la stessa voce urlò un altro comando. Il colossale roditore mandò uno squittio e s'infilò di corsa nel tunnel, dopodiché una grata di sbarre rugginose si abbassò con un clangore secco chiudendolo fuori. Ero semisvenuto, sfinito, e le crepe del pavimento su cui avevo chinato la fronte mi ballavano davanti agli occhi. Un paio d'individui robusti e puzzolenti di sudore rancido, mi afferrarono brutalmente facendomi cadere in ginocchio, ed un grosso oggetto metallico lungo circa un metro e mezzo mi venne avvicinato al mento. Emisi un grugnito di protesta. L'oggetto mi fu chiuso intorno al collo: era una sorta di giogo, un capestro pesante oltre un quintale, dalle estremità del quale pendevano due bracciali dove fui costretto ad infilare i polsi. Le serrature scattarono implacabili, dandomi una sensazione di vuoto allo stomaco. «È pronto!», disse una voce. «Alzati, schiavo!», ringhiò qualcun altro. Mi alzai in piedi con gran fatica, vacillando sotto il peso enorme del giogo, ma questo mi fece ricadere pesantemente al suolo. «Idiota. Alzati, ho detto!» Il carnefice avventò la lunga frusta, ed il morso bruciante del nerbo terminale nella carne della spalle mi fece trasalire. Qualcosa di caldo mi ruscellò lungo il braccio. Cercai disperatamente di risollevarmi, ed un'altra scudisciata mi strappò un mugolio di sofferenza. Con uno sforzo puntai la fronte al suolo, ripiegai le gambe sotto il ventre, ma ancora la frusta mi saettò addosso più volte facendomi lacrimare per il dolore. Infine, non so come, riuscii ad alzarmi sulle ginocchia, e mi drizzai in piedi barcollando come un ubriaco.
«Ben fatto, schiavo,» approvò il mio aguzzino. Il sudore mi colava negli occhi e, attraverso le aperture della tunica lacerata dalle frustate, sentivo l'aria fresca sulla carne gonfia e ferita. Stavo perdendo sangue. Mi girai per quanto potei e vidi finalmente in faccia l'individuo che brandiva la frusta. Era un uomo peloso come un bruco, scuro di carnagione e con i capelli unti riuniti dietro la testa in una coda di cavallo. Indossava solo un gonnellino di pelle, macchiato dalle gocce di sangue schizzate via dal mio corpo, e portava bracciali di cuoio marrone e sandali. «Figlio di puttana,» sussurrai, «ti pentirai di avermi chiamato schiavo.» «In Tharna un uomo come te non può essere altro,» ghignò lui. Il locale in cui mi trovavo era in pietra, con un soffitto a cupola alto otto o nove metri, ed aveva numerose uscite, alcune abbastanza piccole e chiuse da sbarre metalliche. Da una udii provenire dei grugniti sordi, da altre squittii e versi animaleschi assai poco piacevoli. Una nicchia della parete ospitava un braciere, e dai carboni ardenti spuntavano i manici di attrezzi di ferro messi ad arroventare. Lì accanto c'era un tavolaccio da tortura ben pulito, fornito di incastri per gli accessori. Varie catene terminati con anelli pendevano dalle pareti e dal soffitto. Un'ampia rastrelliera sosteneva una quantità di attrezzi difficili a identificarsi a prima vista: pinze, collezioni di coltelli, tenaglie, e quant'altro era ritenuto indispensabile per ogni forma di sevizie fisiche. A pochi avrebbe fatto piacere vedersi trascinati in un luogo simile e, per non cadere preda dell'abbattimento, distolsi lo sguardo da quegli oggetti. «Qui si amministra il meritato castigo a chi infrange la legge di Tharna,» ridacchiò il carnefice, allargando un braccio in un gesto da anfitrione. «Voglio vedere la Regina.» «Naturalmente. Avremo tempo dopo per tornare giù a divertirci. Ti condurrò da lei io stesso.» Da qualche parte, una catena sferragliò arrotolandosi ad un argano, ed una delle grate metalliche si alzò pian piano. Al di là di essa c'era un corridoio poco illuminato, tappezzato in lastre di pietra, e l'uomo accennò da quella parte con la frusta. «Muoviti!», latrò. «La Regina ti aspetta.» Capitolo 11 LARA DI THARNA
Il passaggio in salita si addentrava nelle viscere colme di ragnatele della fortezza, ed intrapresi il cammino ansando sotto l'insopportabile peso del giogo. Alle mie spalle l'aguzzino sputacchiava minacce ed imprecazioni oscene, intimandomi d'accelerare l'andatura, ma io non potevo far altro che mettere faticosamente un passo dietro l'altro. Più volte la sottile estremità della frusta mi raggiunse alle gambe, senza però eccessiva violenza perché l'esiguità dello spazio impediva a quel ripugnante individuo di maneggiarla come gli sarebbe piaciuto. Mi si piegavano le ginocchia, avevo dolori dappertutto, e procedere a quel modo era un autentico calvario. Come il cielo volle giungemmo al termine della salita e sbucammo in un andito simile ad una vasta cantina, nel quale sfociavano altri camminamenti dal soffitto ad arco. Una frustata m'indirizzò verso uno di essi. Percorremmo un corridoio sui cui lati s'aprivano locali oscuri che avrebbero potuto essere celle o magazzini, stretto come una fognatura. Qua e là pendevano lampade ad olio, appena in numero sufficiente a vedere dove si mettevano i piedi. Non c'era alcun genere d'arredamento: solo pietra nuda, architravi in mattoni e muri spogli che formavano un labirinto, dove stavo perdendo del tutto il senso dell'orientamento. Malridotto com'ero, il luogo mi appariva opprimente e sinistro. Infine venni introdotto in un salone largo una trentina di metri, meglio illuminato ma non per questo più allegro dei sotterranei. I suoi soli ornamenti consistevano in una gigantesca maschera d'oro fissata alla parete di fondo, alta cinque metri e raffigurante un volto femminile, e nel trono che vi campeggiava davanti, anch'esso all'apparenza in oro zecchino. La lunga piattaforma semicircolare che sosteneva il monumentale seggio si allargava ai lati, fungendo da basamento per venticinque o trenta sedili più modesti occupati da altrettante donne. Indossavano vesti ricchissime e mantelli col cappuccio da Donna Celata, i loro volti erano nascosti da maschere d'argento che mi fissavano inespressive, e pensai che dovevano rappresentare qualcosa di simile ad un Consiglio delle Caste Alte. Intorno al perimetro del locale erano fermi in posa marziale numerosi guerrieri armati di scudo e lancia, i cui elmetti blu recavano ai lati il simbolo della maschera d'argento. Evidentemente si trattava di Guardie di Palazzo. Un altro guerriero, privo però di quell'emblema, era in piedi nel mezzo della sala, e mi parve di scorgere in lui qualcosa di familiare. Sul grande trono era assisa una donna dall'aria altera, vestita con uno splendido abito rilucente di pietruzze preziose, e costei aveva il viso celato da una maschera identica alle altre ma cesellata in oro. Nessuno parlava, e
nel silenzio avanzai alla presenza di Lara di Tharna, la Regina. Il guerriero che si trovava nel centro della sala si tolse l'elmetto, e riconobbi in lui Thorn. Mi chiesi cosa stesse facendo lì ma, quando si volse a guardarmi, fui certo che non era per darmi aiuto: i suoi occhi erano foschi e pieni di livore. «Inginocchiati dinnanzi alla Regina!», mi ordinò. Non mi mossi di un millimetro. Il capitano s'avvicinò allora con passi lunghi e decisi e mi sferrò un calcio da dietro, in un polpaccio. La gamba cedette e caddi rovinosamente al suolo sotto il peso del capestro. «Dammi la frusta!», ringhiò Thorn all'aguzzino che mi aveva condotto nella sala. Lo strumento gli venne subito consegnato ed il capitano indietreggiò con un sogghigno, allargando il braccio per prepararsi a sferrare il colpo con forza. «No!» Appena quel comando imperioso echeggiò nell'aria, Thorn abbassò la mano, come se gli avessero reciso un tendine. La voce era venuta da dietro la maschera d'oro della Regina, e le fui grato per questo. Tremando per la stanchezza ed il dolore, annaspai sul pavimento, riuscendo a sollevarmi dapprima sulle ginocchia e poi in piedi, quindi fissai l'imperscrutabile effigie della dominatrice di Tharna. Dietro le aperture ovali della maschera, lessi negli occhi di lei una luce d'interesse e di curiosità. «Ora che hai quel giogo sulle spalle, straniero,» disse freddamente, «puoi provare a fuggire da Tharna con le ricchezze a cui ambivi, se ci riesci.» Le sue parole mi confusero. Ero sull'orlo del collasso fisico e stavo dritto a stento. Perfino la vista a tratti mi si annebbiava, trasformando ciò che mi circondava in un'allucinazione indistinta. «Il capestro che porti è di argento puro, e viene dalle nostre miniere,» spiegò lei. Sbattei le palpebre, incapace di capire davvero. Se la donna non mentiva e l'oggetto era un blocco d'argento massiccio, ce n'era abbastanza per destare la cupidigia di un Tiranno. «Noi di Tharna spregiamo le ricchezze, al punto che usiamo quel metallo per incatenare gli schiavi.» Feci una smorfia dura, tanto per informarla che, se lei mi considerava suo schiavo, io non ero della stessa opinione.
Una delle femmine sedute presso il trono si levò in piedi, magnifica nella sua lunga veste ricamata che le celava perfino le mani e i sandali. Nel riflesso delle torce si mosse avanti con passi superbi e, fermatasi accanto alla Regina, girò il volto verso di me, enigmatica come un idolo dietro la sua maschera d'argento lucente. «Distruggi questo animale, Regina!», esclamò con voce autoritaria. «Forse che Dorna, l'Eletta di Tharna, non riconosce agli accusati il diritto di parlare?», domandò Lara, in tono così imperioso e gelido che al confronto la voce dell'altra parve esser stata dolce. La donna di nome Doma si voltò di scatto a fissarla. «La legge è per gli uomini, non per gli animali!», affermò. Nell'atteggiamento di lei mi parve di cogliere una sfida malcelata e sarcastica all'autorità della Regina, e mi chiesi se quella femmina non avesse mire personali e progetti fin troppo ambiziosi. Lara di Tharna non si degnò di replicare. Parlò volta al carceriere che mi stava a fianco: «Ha ancora la lingua per parlare, costui?» «Sì, o Regina. Non è stato toccato,» rispose lui, untuosamente. Qualcosa mi diceva che Doma, l'Eletta di Tharna, non gradiva troppo che io facessi un certo tipo di rivelazioni in pubblico. La dorma aveva disceso i tre scalini neri, avvicinandosi a noi, e si rivolse all'aguzzino che teneva gli occhi rispettosamente abbassati al suolo: «Era desiderio della Regina che lo schiavo venisse condotto subito nella Sala della Maschera d'Oro, immobilizzato dai ceppi ma illeso,» lo rimproverò. Sentendosi redarguito, l'uomo tremò, perché il mio aspetto appariva tutt'altro che illeso dopo esser passato dalle zanne dell'urt gigante alle carezze della sua frusta. Ma la Regina stava di nuovo parlando. «Perché non volevi inginocchiarti, straniero?» «Tu dimentichi che sono un guerriero, Signora.» «Sbagli: sei uno schiavo!», sibilò Doma. Tornò verso il trono ed alzò la voce: «Disporrò che gli sia tagliata la lingua. Quest'animale ti ha offeso, Regina.» «Io sola dispongo ed ordino. L'Eletta di Tharna presume forse di poter fare altrettanto?» «Naturalmente no, Regina!», bofonchiò la Maschera d'Argento. «Fatti avanti, schiavo,» disse Lara. Ma, visto che non accennavo a ubbidire, mutò l'appellativo: «Fatti avanti, guerriero.» Oppresso dai cento chili del giogo, mi avvicinai di qualche passo, ed al-
zai di nuovo gli occhi per guardarla. Una mano di lei, inguainata in un guanto di maglia d'oro, stringeva una borsa che riconobbi: era quella datami da Ost. Mi chiesi dove fosse in quel momento quel sordido individuo. «Confessi d'aver rubato questo denaro ad un uomo di nome Ost?», domandò. «Non l'ho rubato. Sono innocente e chiedo di essere rilasciato,» risposi, ignorando poi la risatina beffarda con cui Thorn commentò le mie parole. «Ti avverto: per ottenere clemenza devi confessare il delitto che hai commesso. La reticenza aggraverà la tua posizione,» disse Lara. Ebbi la strana impressione che, per qualche sua oscura ragione, la donna fosse ansiosa di sentirmi ammettere subito il misfatto. Ma non me la sentivo di dichiarare il falso, neppure se ciò mi fosse convenuto davvero, così ripetei: «Non sono colpevole di questo furto.» «Allora, straniero, sono spiacente per te.» Non fui capace d'aprir bocca, anche perché dalla schiena e dalla nuca mi salivano al cervello fitte di dolore intollerabile. Sudavo per lo spasimo, e dovevo fare uno sforzo di concentrazione per impedire alle ginocchia di mettersi a vibrare. «Che sia introdotto Ost!», ordinò la Regina Lara. Doma era tornata al suo scranno e sedette, accomodandosi la veste di seta con una mano guantata d'argento. Appariva nervosa ed irritata. Ci fu un rumore di passi. Dietro di me qualcuno ansimò e gemette, quindi vidi con stupore che una Guardia di Palazzo spingeva avanti Ost, incatenato esattamente come me ad un giogo dello stesso genere ma molto più sottile e leggero. «Piega le ginocchia davanti alla Regina,» abbaiò Thorn, agitando la frusta. Uno spintone della guardia mandò l'uomo a ruzzolare ai piedi del trono e, per quanti sforzi egli facesse, non fu in grado di alzarsi sulle ginocchia. Mugolava e guaiva come un cane spaventato. Thorn allungò il nerbo sul pavimento dietro di sé, piantandosi a gambe larghe. Mi aspettavo che la Regina intervenisse per fermarlo come aveva fatto con me, ma invece non aprì bocca, ed il capitano le tenne gli occhi addosso in attesa di un suo cenno. Sorpreso, mi accorsi che Lara di Tharna stava fissando me, e mi chiesi quali pensieri si agitassero dietro qual simulacro di volto aureo e scintillante. «Non farlo frustare, Regina,» dissi.
Lo sguardo di lei resto inchiodato nel mio. «Nessuno ti ha chiesto di parlare.» Abbassò gli occhi su Ost, che faceva smorfie penose nel tentativo di sollevare la faccia da terra. «Mettiti in ginocchio al mio cospetto, o morirai strisciando come il rettile di cui porti il nome.» «Non ce la faccio... Non posso!», singhiozzò l'uomo. La Regina alzò lentamente una mano. Quando Thorn l'avrebbe vista abbassarsi la sua frusta sarebbe scattata, avventandosi sulla carne del disgraziato per tagliarla come una lama. «No!», esclamai. Chiamando a raccolta ogni mia energia mossi i piedi avanti e m'accostai ad Ost. Poi, inclinando di lato il giogo, raggiunsi con una mano la collottola dell'individuo. Lo afferrai per la tunica e, con uno sforzo da agonizzante, lo tirai su, mettendolo in ginocchio. Mormorii ed ansiti stupefatti si levarono dalle Maschere d'Argento che assistevano alla scena. Un paio di guerrieri dall'elmo blu, scordando d'essere in presenza delle dominatrici di Tharna, applaudirono la mia azione battendo leggermente le lance contro gli scudi. La cosa non era però andata a genio al capitano Thorn, che girò intorno uno sguardo infuriato e scaraventò la frusta fra le mani del carnefice in gonnella di cuoio. «Tu sei molto forte, straniero,» disse Lara di Tharna. «La forza bruta è un attributo delle bestie,» precisò Dorna. «Vero!», concesse blandamente la Regina. Una delle Maschere d'Argento riassunse l'opinione delle altre, dichiarando: «Però costui è una bella bestia, bisogna riconoscerlo.» «Utilizziamolo per i Giochi!», propose una seconda. Lara mosse una mano dorata per chiedere il silenzio. «Regina,» domandai. «Perché risparmi la frusta ad uno straniero ma non ad un tuo concittadino, per quanto miserabile egli sia?» «Diciamo che ero curiosa di vedere quale fosse il tuo senso dell'onore. Quello di Ost lo conosco già.» «L'onore di chi appartiene alla Casta dei Guerrieri non ha bisogno di conferme,» dissi. «Eppure rifiuti d'ammettere di aver rubato. Dunque dov'è il valore della tua parola?» «Il suo valore sta nella verità. Sono innocente del furto.» «La colpa per cui ora vieni giudicato è ben più grave che il semplice furto. O credi che io usi sprecare il mio tempo così per un ladro?», disse lei, con una nota gelida nella voce.
«Mi si accusa di qualcos'altro? E di cosa?» «Cospirazione contro il trono di Tharna,» rivelò la Regina, lasciandomi ammutolito. Di nuovo abbassò lo sguardo sull'uomo inginocchiato.» Ost, tu sei colpevole di alto tradimento. La congiura è stata scoperta, e le tue manovre rivelate.» Una delle Guardie di Palazzo, quella che aveva condotto dentro l'individuo, si fece avanti. «Il rapporto di chi ha compiuto l'indagine parla chiaro, nobile Regina. Nella casa di Ost sono stati trovati elementi che lo incriminano: lettere con istruzioni e progetti sediziosi riguardo l'abbattimento della tua autorità, e oro che avrebbe dovuto essere usato per pagare complici e sicari.» «L'accusato ha riconosciuto le prove ed ammesso le sue colpe?», domandò Lara. Ost farfugliò qualcosa, una supplica lamentosa che suonò come un gemito. La guardia sorrise. «Appena ha visto gli strumenti da tortura, la sua lingua si è sciolta ed ha confessato, anche se molti importanti particolari rimangono oscuri.» «Ost, serpente velenoso!», esclamò la Regina. «Chi ti ha dato quell'oro? Da chi ti sono giunte le lettere con le istruzioni per la congiura? Parla!» «Io non lo so... Non lo so, Nobilissima Signora,» uggiolò l'individuo. «Le lettere e l'oro mi venivano portati da un guerriero a me sconosciuto, ed il suo elmetto m'impediva di vederlo in viso.» «Infilagli nella carne i ferri roventi e poi riportalo qui,» ringhiò Dorna, rivolta al carnefice. Ost emise dei gemiti strazianti, balbettando implorazioni sconnesse, e Thorn lo fece tacere con un calcio. «Cos'altro sai del complotto contro il trono?», chiese la Regina. «Nulla. Nulla, potentissima Signora,» ansimò lui. «Molto bene!» Lara fece un cenno all'aguzzino. «Mettilo sul tavolo da tortura e puniscilo. Poi dallo all'uri gigante come cibo.» «No! No! ...Dirò la verità. So anche altre cose!», stridette Ost. Le Maschere d'Argento lo fissarono in un silenzio carico di tensione, sporgendosi in avanti sui loro scranni. Soltanto Dorna l'Eletta e Lara di Tharna accolsero quelle parole senza il minimo cenno d'emozione. Benché nella grande sala la temperatura fosse bassa, notai che il capitano Thorn stava sudando. Apriva e chiudeva le mani nervosamente, ed aveva le ma-
scelle contratte. «Allora, che altro sai?», incalzò la Regina. Ost si passò la lingua sulle labbra, guardandosi attorno. I suoi occhi scattavano di qua e di là, rivelando un terrore folle. «Sei al corrente dell'identità del guerriero che ti consegnava le lettere?» «No. Non lo conosco!», gemette lui. Thorn snudò la spada dal fodero e fece un passo avanti. «Lascia che lo ammazzi qui davanti a te, Regina. Questo traditore non fa che offendere la tua pazienza.» «No. Deve dire il nome dei suoi mandanti. Parla, abbietto serpe!» «Io so solo,» balbettò Ost, «che il promotore della cospirazione è una persona molto influente a Tharna. Una donna... una Maschera d'Argento.» Lara s'alzò in piedi, indignata. «Non può essere vero. Nessuna Maschera d'Argento sarebbe mai sleale verso il trono di Tharna.» «Eppure è così, lo giuro!», confermò l'individuo. «Pronuncia il nome della traditrice,» ordinò Lara. «Non so chi sia... non lo so,» farfugliò lui. La risata crudele di Thorn lo fece impallidire. Riprese: «Ma una volta ho parlato con lei, e sono certo che potrei riconoscere la sua voce anche fra cent'anni.» Il capitano Thorn rise ancora, sprezzante. «Regina, è solo un inetto espediente per prolungare la sua vita. Vuole acquistare tempo.» Lara si volse alle altre donne. «Cosa pensa di tutto ciò Dorna, l'Eletta di Tharna?» Invece di rispondere alla domanda, la Maschera d'Argento rimase chiusa in un silenzio iroso. Alzò un braccio e, dopo un attimo d'immobilità, lo abbassò di colpo, fendendo l'aria col taglio della mano. Thorn si fece avanti ubbidiente, sollevando la spada. «No! ...La morte no, potente Dorna!», singhiozzò l'uomo. La donna ripeté il gesto di condanna, lentamente e con crudeltà. Ma Lara di Tharna levò la mano destra a palmo avanti con un movimento che contraddiceva quello della Maschera d'Argento, e Thorn dovette fermarsi. «Grazie... Grazie, mia Nobilissima Signora,» guaì Ost. «Ora dimmi, serpente: questo straniero è davvero colpevole di averti rubato la borsa?» «No, ho mentito. È innocente del furto.» «Fosti allora tu a consegnargliela?» «Sì. Gliel'ho data io.» «E lui... l'ha accettata?» domandò la Regina.
«Sì, o signora.» «Un momento,» intervenni. «Questo furfante mi ha sbattuto la borsa in mano e poi è scappato via. Non volevo i suoi soldi.» «Ma li ha presi, Regina. Li ha presi,» disse Ost, fissandomi con odio. Era chiaro che voleva coinvolgermi nella cospirazione per farmi ottenere una condanna identica alla sua. «Ripeto che non ho avuto la possibilità di rifiutare. L'ho chiamato per restituirgli la borsa, ma lui è fuggito,» insistei, con calma. Ignorando l'occhiata velenosa dell'uomo dissi ancora: «Se io fossi un sicario assoldato da costui, perché dopo avermi dato il denaro mi avrebbe denunciato per furto?» Ost impallidì. Fece per ribattere qualcosa ma s'impappinò e non seppe che dire. Fu Thorn a farsi avanti. «Ost non ha il coraggio di rivelare a fondo l'estensione delle sue manovre. In realtà, per far credere che non era stato lui a pagare lo straniero per i suoi servigi di assassino, è ricorso ad un'altra menzogna affermando che quella borsa gli è stata rubata. In questo modo voleva liberarsi dall'accusa di assoldare sicari, ed allo stesso tempo liberarsi da un testimone scomodo nella speranza che fosse subito inviato alle miniere.» «È vero!», esclamò Ost, dopo qualche istante di perplessità, sollevato nel vedere che un uomo importante come Thorn gli metteva in bocca una spiegazione plausibile. Lara tornò a guardare me. «Per quale motivo Ost ti ha dato quei soldi, straniero?» «Disse che intendeva farmi un regalo.» Thorn scoppiò in una risata tonante, gettando la testa all'indietro. «Ost non ha mai fatto un regalo a nessuno in vita sua!», esclamò. Nei suoi occhi ci fu una luce di autocompiacimento. Le Maschere d'Argento assise ai lati del trono annuirono subito, scambiandosi occhiate significative. Lo stesso Ost emise un nitrito di soddisfazione, che però gli si strozzò in gola quando la Regina abbassò su di lui uno sguardo glaciale. La sua voce tagliò l'aria come una lama di ghiaccio: «Che il traditore Ost venga portato alle miniere!», stabilì. «No!...», gorgogliò l'individuo. Udita quella sentenza, Ost si guardò intorno come un topo in trappola. I suoi occhi rotearono nelle orbite, cercò follemente di scuoter via il giogo metallico e prese a mandare strilli acuti. Una delle guardie lo fece tacere
con un calcio al plesso solare e lo tirò in piedi a forza, trascinandolo poi fuori dalla sala. Il terrore dell'individuo non era ingiustificato: avevo già sentito dire che nessun condannato usciva mai vivo dalle miniere di Tharna. Mentre i suoi gemiti si spegnevano lontano, osservai: «Sei crudele, Regina. Quell'uomo morrà dopo aver sofferto molto.» Dorna parve ridere dietro la maschera. «Una Regina dev'essere crudele.» «Queste parole potrei accettarle solo se venissero dalla sua stessa bocca,» replicai. Doma si limitò a sbuffare. Ebbi la netta impressione che fosse soddisfatta dei risultati dell'interrogatorio di Ost, decisamente scarsi in quanto a informazioni emerse alla luce. Un'altra cosa però mi rendeva perplesso: nessuno aveva ancora chiesto il mio nome. Il capitano Thorn sapeva benissimo chi ero, e tuttavia non l'aveva rivelato. In quanto a Lara, si comportava come se non le interessasse, e forse era davvero così. Ai suoi occhi dovevo apparire soltanto come uno sbandato capitato per caso a Tharna, un avventuriero come tanti altri. La Regina si era nuovamente seduta sul trono e, quando parlò, la sua voce era tranquilla: «A volte, straniero, non è divertente amministrare il potere.» La frase era decisamente insolita per un governante di Gor. Per l'ennesima volta mi domandai che razza di donna fosse, e quale volto e quali pensieri si celassero dietro la sua maschera d'oro. Ero propenso a provare una certa comprensione per lei. Ma Lara non aveva ancora detto tutto. «In quanto a te,» riprese, «ora non vi è dubbio che tu abbia accettato il denaro di un traditore.» «Rifiuto l'accusa. Me lo ha ficcato in mano ed è corso via. Ero entrato in città allo scopo di procurarmi un grifone, ma non possedevo neppure una moneta di bronzo. Il denaro di Ost sarebbe bastato ad acquistarne uno, e così avrei potuto proseguire il mio viaggio. Dovevo forse gettarlo via?» «Questi denari d'oro,» Lara si rovesciò in una mano il contenuto della borsa, «avrebbero dovuto comprare la mia morte.» «Una somma così esigua?», ribattei. «Ovviamente si trattava di un acconto. Il resto ti sarebbe stato consegnato a cosa fatta.» «Le parole di Ost furono che intendeva farmi un regalo.» Lei scosse il capo. «Non ti credo. Qual era l'intera cifra che il traditore patteggiò con te?»
«È vero, ha cercato di assoldarmi allettandomi con una forte somma. Ma io ho rifiutato con fermezza.» «Rispondi alla mia domanda. Rivela l'entità della somma.» «Parlò di un grifone, di mille denari d'oro e di provviste a sufficienza per il mio viaggio.» «Le monete d'oro da un denaro, a differenza di quelle d'argento, non circolano molto nel territorio di Tharna,» disse la Regina. «Ve ne sono poche perfino nei miei forzieri. Dunque chi voleva comprare la mia morte è persona dalle forti disponibilità di liquido.» «Non era la tua morte ciò che si voleva.» «E allora cosa?» «Ost mi propose di rapirti.» Lara di Tharna si alzò in piedi, tremando per l'ira. Sapeva bene cosa implicava il fatto di venir catturata da un grífoniere, per una donna. «Giustizia questa bestia!», gridò Dorna, rivolgendosi a Thorn. Il capitano avanzò a passi svelti con la spada pronta ad infilarmisi nel petto. «Indietro, tu!», ordinò invece Lara, scacciandolo con un gesto. Poi, con stupore di tutti i presenti, scese i pochi scalini e venne a fermarsi davanti a me. Sotto il suo abito filigranato d'oro il corpo di lei doveva essere rigido e vibrante come un diapason, ed i suoi occhi scintillavano. Tese un braccio di lato. «Dammi quella frusta!», sibilò. «La frusta!» Il carnefice corse a inginocchiarsi presso di lei e le porse l'oggetto. Lara di Tharna allargò saldamente i piedi al suolo, facendo schioccare la lunga cima della frusta con ampi gesti. «E così,» esclamò, «tu avresti voluto vedermi distesa sul tappeto scarlatto, legata con le corde gialle! È vero?» Il significato di quelle parole mi rimase del tutto oscuro, e la fissai accigliato. «Tu, un miserabile avventuriero, ti saresti compiaciuto di farmi vestire il camisk e di mettermi il tuo collare!», mi accusò. Le Maschere d'Argento fecero udire mormorii inorriditi, scandalizzate al pensiero della mia audacia criminosa. «Io sono una donna di Tharna. Colei che porta la maschera d'oro, la Regina!», strillò Lara, furibonda. «Ambivi ai miei baci, animale?» Detto questo mi lasciò andare una frustata violentissima, con tutta la sua forza. «E invece tu avrai il bacio della frusta!», gridò, colpendomi ancora
selvaggiamente. Sotto il dolore che mi toglieva la ragione vacillai all'indietro. Ero sfibrato, in preda allo stordimento. Il peso del giogo d'argento massiccio mi schiacciava le spalle, e il solo impegno di tenermi eretto era una fatica torturante. Fitte terribili nascevano dove la frusta spaccava la carne, trasformandosi in lampi rossi che mi accecavano. Ma resistetti e, quando il braccio della donna finì con l'abbassarsi, stanco dei colpi che aveva inferto, ero ancora in piedi al centro della sala, sebbene senza sapere quale miracolo m'impedisse di rovinare a terra. Grondavo sangue da dozzine di lacerazioni. La Regina gettò via la frusta e risalì in fretta gli scalini del trono, volgendosi poi di scatto a fissarmi con occhi brucianti. Mi puntò addosso un indice inguainato d'oro che tremava ancora. «Guardie, prendetelo,» ordinò. «Quest'uomo pagherà le sue colpe durante i Giochi di Tharna!» Capitolo 12 LA PRIGIONIERA Mi fu infilato in testa un pesante cappuccio da schiavo fornito di lucchetto, e venni condotto via da alcune Guardie di Palazzo. Orbato a quel modo potevo intendere la direzione solo dalle loro mani che mi spingevano, a tratti mi sostenevano, e spesso mi colpivano. Dopo un poco compresi d'essere all'aperto, in una strada poco frequentata, e fra altre bestemmie ed esortazioni venni condotto avanti. Quella spiacevole marcia per fortuna non fu lunga: guidato in una delle torri dovetti scendere un'interminabile scala a chiocciola, attraversai uno scantinato umido e freddo, ed infine mi resi conto che quel sotterraneo era una prigione. Fui liberato del cappuccio, quindi le guardie incatenarono il mio giogo alla parete di una vasta cella comune, in quel momento deserta. Il locale era illuminato da una lampada ad olio fissata piuttosto in alto, sempreché potesse definirsi illuminazione il servizio che la minuscola fiammella forniva, e non avevo un'idea precisa di quanti metri fosse situato sotto il livello stradale. Soffitto e pareti erano in pesanti blocchi di pietra nera e, a parte una ristretta zona asciutta sopra la lampada, tutto grondava d'umidità. Il pavimento era formato da una spessa fanghiglia sulla quale era stata sparsa dell'erba per assorbire l'acqua, e il risultato di ciò era che mi sembrava d'avere i piedi affondati in una palude. A terra c'era una cio-
tola, contenente quelli che all'aspetto avrei detto avanzi raccolti dal pavimento di una mensa. La lunghezza della catena mi consentiva appena d'abbassarmi per sedere, ma in quella posizione il capestro d'argento vi restava praticamente appeso, cosicché potei trarre un respiro di sollievo. Mi addormentai quasi subito. Non saprei dire quante ore giacqui lì, in preda ad un sonno da drogato però, quando mi risvegliai, stavo un po' meglio. Le ferite mi dolevano ed avevo l'impressione che qualcuno mi avesse ammaccato tutte le ossa a bastonate, tuttavia scoprii che, col semplice espediente di restare immobile, riuscivo a non soffrire troppo. Avevo gli occhi incollati sulla ciotola, torpidamente, e nel mio cervello si stava facendo strada il sospetto che non sarei stato capace di raggiungerla né con la bocca né con le mani, neppure inclinando il giogo. Non ci misi molto a capire che la cosa era voluta: si desiderava avvilirmi, far sì che mi trasformassi in un miserabile galeotto frustrato ed uggiolante. E sapevo bene quanto un uomo possa finire col degradarsi, nelle mani di carcerieri abbastanza pazienti e sadici. I miei sforzi per arrivare a quella maledetta ciotola furono inutili. «Posso aiutarti?», disse in quel momento una voce femminile. Mi girai di scatto, e l'inerzia del capestro mi fece oscillare contro il muro. Due piccole mani lo afferrarono e lo tennero fermo, poi ritrovai l'equilibrio e sedetti sui talloni. Accanto a me c'era una ragazza. La porta di sbarre era chiusa, perciò compresi che era anche lei una prigioniera, condotta lì dopo di me. Era giovane ed un po' magrolina, ma aveva un visetto grazioso e nei suoi occhi c'erano un calore ed una vivacità che non mi sarei mai aspettato di trovare fra le malinconiche torri di Tharna. Aveva capelli castano rossicci uniti in una coda di cavallo da un semplice pezzo di spago, ed occhi neri che mi osservavano con preoccupazione. Sotto il mio sguardo li abbassò timidamente. Indossava soltanto una striscia di stoffa verticale larga trenta centimetri, con un foro al centro per la testa, che le ricadeva sul dietro e sul davanti ed era fermata in vita da una catenella. Dire che l'indumento non le nascondeva un bel nulla sarebbe stata l'espressione giusta. «Sì,» mormorò arrossendo. «Come vedi indosso il camisk.» «Sei molto simpatica,» la complimentai. «Non ti sta affatto male.» Se fosse stata prospera la metà di Talena, con quella veste avrebbe fatto schizzare gli occhi delle orbite a qualsiasi maschio, ma per sua fortuna così non era.
La ragazza non perse il suo rossore, ma ritrovò un sorriso esitante. Nella penombra della cella ci guardammo l'un l'altra in silenzio. Faceva piuttosto freddo, e non si udiva nessun rumore. Lievissimi riflessi creati dalla fiamma stessa della lampada ondeggiavano sulle pareti e sul volto di lei. Sfiorò con una manina delicata il mio capestro. «Sono stati crudeli con te,» mi compianse. Senza dir altro prese la ciotola e cominciò ad imboccarmi: erano pezzi di pane unto in chissà quale sugo, ed ossa da cui era arduo spolpare un po' di carne, tuttavia avevo un tale appetito che divorai quella roba voracemente. Notai che la ragazza aveva il collare da schiava: una nuda fascia di ferro. Dunque anche in Tharna la schiavitù delle donne era una realtà. Infilò le mani nella conca del muro dove stagnava l'acqua, scostandone via la muffa verde di superficie e poi, tenendole unite a coppa, mi diede da bere. «Ti sono grato,» ansimai, leccandomi le labbra. Lei sorrise. «Non si ringrazia una schiava.» «Credevo che qui tutte le donne fossero libere.» «Entro le mura sì, è vero. Ma io verrò presto mandata fuori di esse, in campagna, nelle Grandi Fattorie. Là avrò il compito di portare l'acqua agli schiavi dei campi.» «Capisco, sei stata condannata per un delitto. Quale?» «Ho tradito Tharna.» «Vuoi dire che hai cospirato contro il trono?», chiesi. «No, no.» Scosse il capo. «Io... so che è terribile doverlo confessare, ma ho amato un uomo.» Sgranai gli occhi e, nel vedere lo sbalordimento che quella frase destava in me, la ragazza ebbe una smorfia amara. «Fino a qualche giorno fa anch'io ero libera e portavo la maschera d'argento. Poi ho concesso a me stessa di conoscere l'amore, ed oggi il risultato è quel che vedi: una misera schiava.» «L'amore non è un delitto,» borbottai. «O sbaglio? Se è così, mai criminale fu più vicino al cielo.» Lei rise, scacciando la tristezza. Quella risata di fanciulla fu un suono piacevolissimo per le mie orecchie, fu una musica e un canto, e mi risollevò lo spirito. Poche cose valgono per l'uomo come il riso di una donna giovane e d'aspetto dolce. Non sentivo più neppure i dolori che avevo addosso. «Parlami di quel che ti è accaduto,» le chiesi. «Ma prima dimmi il tuo nome.»
«Linna, di Tharna. E il tuo?» «Tari.» «Di quale città?» «Di nessuna città.» «Ah!», mormorò lei. Sorrise appena e non volle indagare oltre. Evidentemente aveva concluso che a dividere la cella con lei era un fuorilegge. Sedette sui talloni, per nulla abbattuta dalla sua situazione, e mi guardò allegramente. «L'uomo che ho conosciuto non è di questa città. Capisci?» Emisi un fischio fra i denti, annuendo. Su Gor avere rapporti con uno straniero è sempre un brutto affare per una donna. Lei fece una risatina timida. «Ma non è tutto qui. Figurati che appartiene alla Casta dei Cantastorie!» Avrebbe potuto trovare di peggio, riflettei. Dopotutto la Casta dei Cantastorie, o Poeti, non è bassa quanto quella dei Vasai o dei Facchini, pur essendo fra le meno importanti. Non essendovi mai nulla di nuovo sotto il sole, su Gor i Cantastorie svolgevano funzioni simili a quelle dei loro colleghi nel Medio Evo terrestre, con la sola differenza che erano forse più versatili in quanto a repertorio. Portavano ai popolani notizie di battaglie lontane e di gesta eroiche, musicandole con la cetra o un altro strumento a corde; cantavano ballate comiche, satiriche o scollacciate, e componevano canzoni d'amore. In genere la loro filosofia era quella classica del poeta: ricordare agli uomini che il loro tempo mortale è limitato, e che la gioia ed il dolore si devono accettare come parte della vita. Ovviamente si trattava di spiriti liberi, malinconici ma pronti alla risata ed all'ironia. La gente li considerava bizzarri e svitati, ne temeva un poco l'irriverenza verso i Re Sacerdoti e spesso si meravigliava che questi ne tollerassero l'esistenza. Non erano religiosi e non componevano canti d'ispirazione mistica, anzi, nei loro versi era facile cogliere allusioni e sottintesi abbastanza eretici. Al popolino i Re Sacerdoti incutevano invece un sacro terrore: li si adorava e si ubbidiva alle loro leggi, ma fuori dalle cerimonie officiate dagli Adepti se ne parlava il meno possibile. Malgrado la loro irreligiosità, i Cantastorie erano amati e benvoluti ovunque. Non pativano mai la fame e sapevano cavarsela in ogni circostanza grazie ai loro modi esperti e cortesi. Ricchissimi Tiranni e miserabili contadini li accoglievano con lo stesso sorriso e la stessa paga: un buon pasto ed un letto in cambio delle loro canzoni. Da parte loro essi cantavano, nelle aie dei contadini o nelle taverne di città, gli stessi versi che intonavano nel salone di un Amministratore, ugualmente contenti del tozzo di
pane come della coppa di vino pregiato. Godevano fama d'essere dei donnaioli, erano in genere poverissimi, amavano viaggiare di città in città, ed i fuorilegge li avvicinavano solo per offrir loro un boccale di paga e farli cantare. «La Casta dei Cantastorie mi va a genio,» dissi a Linna. «Qui a Tharna sono considerati dei fuorilegge e vengono arrestati.» «Un vero schifo!», commentai. Lei non cessò di sorridere. «Nonostante ciò quest'uomo, che si chiama Andreas ed è nato nella lontana Tor delle Sabbie, alcuni giorni fa arrivò qui... in cerca di una canzone, come disse lui. Ma in realtà io avevo il sospetto che fosse curioso di guardare sotto la maschera d'argento di qualche donna!» Scosse il capo, con una risatina. «E cos'è accaduto?» Linna, che era decisamente la fanciulla più ridanciana che avessi mai conosciuto, batté le mani, ed i suoi occhi scintillarono divertiti a quel ricordo. «Successe che due giorni fa, verso il mezzodì, lo vidi per la strada e scorsi la sua cetra. Andreas la teneva celata sotto il mantello per timore d'essere arrestato, ma non vi riusciva bene, perché è incurante e distratto. Allora lo seguii, con le mie vesti da Donna Celata e la maschera d'argento sul viso, finché fui sicura che ormai si trovava in città da più di dieci ore.» «Cosa diavolo significa questa faccenda delle dieci ore?», chiesi. «Ebbene... Gli stranieri sono benvenuti a Tharna, come tu stesso hai appreso,» Mi strizzò l'occhio. «Ma lo sono soltanto per le prime dieci ore. Se scaduto questo termine non sono ancora usciti dalla città, vengono fatti schiavi e mandati alle Grandi Fattorie vita natural durante.» «Ma è assurdo! E perché mai le guardie non avvertono di questa trappola i visitatori, quando li lasciano entrare in città?» «Avvertirli sarebbe sciocco, non ti pare?», rise lei. «In tal caso chi si potrebbe mandare a sfacchinare nei campi?» «Certo, come applicazione di logica non fa una grinza,» borbottai. «Dunque io andai dietro ad Andreas. E siccome portavo la maschera d'argento, era mio preciso dovere segnalarlo alle autorità, una volta trascorsa la decima ora. Tuttavia ero curiosa... Io sono molto curiosa, sai? Non avevo mai avvicinato uno straniero, prima d'allora. Insomma, attesi che fosse solo, poi mi accostai e lo dichiarai in arresto, informandolo della gravità del suo crimine e del destino che ora incombeva su di lui.» «Ed egli cosa fece?»
Linna allargò le braccia. «Discutemmo un poco. Io ero assai irritata, perché Andreas aveva preso la cetra e voleva cantarmi una canzone, dicendo che mi avrebbe seguito anche sul patibolo se in cambio io... ebbene, mi sussurrò all'orecchio delle cose molto imbarazzanti, sai? Allora io lo minacciai, imponendogli di smetterla altrimenti avrei chiamato le guardie. E quello spudorato... mi tolse la maschera dal viso e mi baciò sulla bocca! Dopo disse che l'aveva fatto solo per impedirmi di gridare aiuto.» Io ridacchiai, ed ella continuò: «Per me quella cosa fu sconvolgente. Nessuno mi aveva mai toccata in vita mia, poiché agli uomini di Tharna è severamente proibito sfiorare una donna.» «Dimmi che stai scherzando!», ansimai. «No, è così: solo quelli della Casta dei Dottori, sotto la supervisione dell'Alto Consiglio, possono occuparsi di queste faccende.» «Capisco,» dissi. «È incredibile, ma capisco. E poi?» «Ecco, io consideravo me stessa una donna di Tharna, ero consapevole di portare la maschera d'argento e d'avere degli obblighi. Tuttavia, quando egli mi abbracciò, io non provai affatto una sensazione spiacevole come mi era stato sempre detto, e non ne ebbi disgusto. Anzi... accadde proprio il contrario. Allora seppi che non ero migliore di lui, che ero anch'io una bestia, e che ne meritavo di finire in schiavitù come sarebbe successo a lui. Ero diventata una Donna Abbietta.» «Sul serio la pensavi così?» «Sì. Ma non mi curai più della mia educazione, perché a quel punto avrei volentieri gettato la maschera d'argento e le vesti da Donna Celata, purché Andreas mi baciasse ancora.» D'improvviso la ragazza assunse un'espressione così triste che provai il bisogno di prenderla fra le braccia e di consolarla. «Io ho appreso d'essere una creatura svergognata e impudica,» mormorò. «Una traditrice. Merito il disprezzo di ogni Maschera d'Argento di Tharna.» «Cosa ne è stato di Andreas?» «Lo nascosi nella mia casa, e poi l'altro ieri lo aiutai a fuggire durante la notte. Prima di calarsi con una corda giù dalle mura, Andreas mi fece giurare che il giorno dopo l'avrei seguito, e mi diede appuntamento in un boschetto fuori città. Io accondiscesi, ma... sapevo già che non avrei mai potuto farlo.» Linna si asciugò in fretta una lacrima. «Gli ho mentito. Volevo che andasse via salvo.» «Ma perché non hai potuto seguirlo?»
«Dovevo fare il mio dovere, pagare la mia colpa. Così, la mattina dopo mi sono presentata davanti all'Alto Consiglio ed ho confessato tutto. La sentenza è stata che avrei dovuto togliere la maschera d'argento, indossare il camisk da schiava ed il collare, ed essere mandata alle Grandi Fattorie come portatrice d'acqua.» Gli occhi della ragazza si empirono di pianto. «Ma non hai cercato di giustificarti, di fronte all'Alto Consiglio?» «Non potevo. Essendo una Donna Abbietta, ero colpevole.» «Colpevole un accidente, cara mia!» «A Tharna l'amore è un reato gravissimo!», affermò lei. «Un caso classico d'idiozia collettiva: gli sciocchi sono i peggiori nemici di sé stessi,» conclusi. «Sei un tipo strano, tu!» Linna ritrovò di colpo il suo sorriso allegro. «Strano come Andreas.» «Ma che fine ha fatto? Quando si è accorto che non lo raggiungevi, deve aver tentato qualcosa per rivederti. Non è entrato in città, ieri?» «No. Certo avrà pensato che io non lo amavo molto, infine.» Abbassò la testa con un sospiro. «Sarà andato via, lontano... e poi cercherà per sé un'altra donna, più dolce e affettuosa di quelle di Tharna.» «Lo credi davvero?» «Sì. Ed inoltre ha commesso un crimine, e lo attenderebbe l'arresto. Finirebbe a far lo schiavo per le miniere, o magari lo userebbero nei Giochi. Così è meglio che sia partito.» «Pensi che la paura della schiavitù lo fermerebbe?» «Andreas non è certo un vile, ma non è neppure un pazzo. E solo un pazzo oserebbe tornare a Tharna, quando già le guardie conoscono il suo volto,» affermò lei. Ma proprio in quel momento, fuori dalla cella, una voce parlò in tono divertito ed insolente facendoci sobbalzare: «E cosa ti fa credere, incredula fanciulla, che un uomo non abbia il diritto d'essere pazzo se così vuole?» Linna schizzò in piedi con un ansito smarrito. Al di là della grata di sbarre, nel corridoio del carcere, era venuto a fermarsi un giovanotto appesantito dal giogo metallico. Due uomini armati gli puntavano le lance alle reni. Un secondino girò la chiave nella serratura ed aprì la porta, i cui cardini cigolarono lamentosamente. «Dentro, schiavo!», grugnì. Il prigioniero fu spintonato con brutalità, vacillò contro il muro e piom-
bò a sedere sulla paglia fangosa. Con un mugolio appoggiò il suo capestro alla parete scabra, mentre la cella veniva richiusa. Era un giovane alto, snello, con scarruffati capelli neri ed occhi azzurri in cui brillava una luce di fierezza. Emise un gran sospiro e sorrise con una sorta di cupa allegria, distendendo le gambe a terra. «Ebbene, Linna, sciocchina,» disse, «come vedi sono venuto a liberarti ed a portarti via. Eccomi qua!» «Andreas!», singhiozzò lei, correndo ad abbracciarlo disperatamente. Capitolo 13 I GIOCHI DI THARNA La luce del sole mi feriva gli occhi, abituati alla penombra del carcere. Sotto ai miei piedi nudi la sabbia bianca mista a ghiaia era calda e bruciante. Socchiusi le palpebre, cercando di distinguere qualcosa in quel chiarore accecante. Il sole stava già scaldando le catene ed il giogo d'argento che avevo ormai fatto l'abitudine a portare sulle spalle. Il morso di una lancia nella schiena mi costrinse a vacillare avanti, e presi a camminare in quella sabbia morbida affondandovi fino alle caviglie. Con me erano stati fatti uscire dalla prigione altri quaranta individui, che ansimavano imprecando mentre i soldati li spingevano e li percuotevano come se fossero stati bestie. Alla mia sinistra, silenzioso e grondante sudore, c'era il Cantastorie Andreas di Tor delle Sabbie. Il manico di una lancia premuto nell'addome mi obbligò a fermarmi. «Inginocchiatevi dinnanzi alla Regina di Tharna,» ringhiò il capitano dei militi dall'elmetto blu. Andreas mi si accostò. «Strano. So che di solito la Regina non assiste ai Giochi,» sussurrò. Mi chiesi se l'orgogliosa Lara non avesse quel giorno qualche curiosità per la mia persona. «Ho detto in ginocchio, verme!», mi fu ripetuto. Tutti gli uomini condotti lì si erano affrettati ad ubbidire, salvo Andreas ed io. Gli dedicai la smorfia d'un sorriso. «Tu perché non t'inginocchi?», chiesi. «Pensi che soltanto i guerrieri come te sappiano cos'è l'amor proprio, amico?», rispose. Ma aveva appena finito di parlare, che una delle guardie lo colpì violentemente fra le costole con l'orlo dello scudo, e il giovanotto cadde in gi-
nocchio con un ansito di dolore. La guardia percosse poi me col manico della lancia, due, tre, quattro volte, sulle spalle e sulle gambe. Ma non mi mossi e rifiutai di piegarmi, cocciuto come un somaro sotto le legnate del padrone. Ad un tratto però una frusta mi si attorcigliò ai polpacci come un serpente, ci fu uno strattone e le gambe mi cedettero. Tonfai sulla sabbia con le ginocchia: adesso tutti quanti eravamo nella posizione che ci era stata ordinata, nel mezzo dell'arena arsa dal sole pomeridiano. Il terreno era di forma ovale, lungo un'ottantina di metri sul diametro maggiore, e cinto da un muro perimetrale alto circa due metri. Oltre questa recinzione le gradinate erano suddivise in sei settori di colore diverso: dorato, rosso, purpureo, arancione, giallo e blu. Appesi un po' dappertutto, c'erano gonfaloni di seta variopinta, ed al contrario di tutto il resto della città, l'Arena dei Giochi era dunque un luogo piuttosto vivace. Nella sezione di centro, l'unica sormontata da un tendone, sedeva un centinaio di donne dalla maschera d'argento. I loro seggi, ventilati ed all'ombra, erano lussuosi divani e poltrone imbottite, e ciascuna aveva a portata di mano tavolinetti carichi di cibarie e rinfreschi. Le altre cinque sezioni erano occupate da uomini in tunica grigia, comuni cittadini di ogni casta, e fra essi erano scaglionati dai guerrieri il cui compito era quello di mantenere l'ordine. La più parte degli individui sedevano però compostamente e stavano zitti, e solo pochi erano coloro che chiacchieravano e facevano scommesse. Linna aveva riferito a me e ad Andreas che i cittadini di Tharna erano obbligati ad assistere ai Giochi per un numero minimo di volte all'anno e che, se trasgredivano a quest'impegno, li si condannava a prendervi parte come protagonisti. Solo un'esigua minoranza delle donne di Tharna portava la maschera d'argento: me ne accorsi notando che le altre occupavano le stesse tribune degli uomini, addobbate con comuni vesti da Donna Celata e normali reticelle sul viso. Non erano molte, tuttavia parlavano a gran voce e facevano un certo chiasso, in contrasto col silenzio che regnava nella tribuna centrale. L'attenzione di quasi tutti gli spettatori era rivolta ad un palco su cui campeggiava un trono dorato, e su di esso era assisa la Regina Lara, più elegante ed enigmatica che mai. Mentre la osservavo, si alzò in piedi e sollevò un braccio: a quel gesto, nello stadio cadde il silenzio più completo. Poi, con mio stupore, gli uomini che erano stati portati con me nell'arena, - cittadini di Tharna condannati per i più vari reati - cominciarono a cantare una specie di laude. Andreas ed io li osservammo in silenzio,
scambiandoci occhiate perplesse. Le parole del coro erano tanto assurde quanto trite: Abbietti ed indegni animali noi siamo Ma per compiacerti o Signora viviamo. Soltanto la morte or ci porta decoro E in morte diam gloria alla Maschera d'Oro. Sia onore alla donna che il potere incarna Sia onore alla Nobile Lara di Tharna. La Regina sedette pigramente, abbandonandosi all'indietro contro lo schienale del seggio. Da oltre la sua dorata effigie provenne un ordine blando ma ben udibile: «Si dia inizio ai Giochi di Tharna!» Dalle gradinate si levarono grida d'anticipazione, mormorii e voci soddisfatte, e l'atmosfera si ravvivò. Una delle guardie mi trasse in piedi a viva forza. A lato della tribuna reale, una Maschera d'Argento sventolò una bandierina e gridò: «La prima gara dei Giochi sarà la Corsa delle Pietre!» Nell'arena eravamo in quaranta, e nel giro di cinque minuti le guardie ci suddivisero in dieci gruppi di quattro uomini, unendo fra loro i nostri gioghi con apposite catenelle. Fatto ciò, cominciarono a manovrare le fruste senza pietà, costringendoci a prender posizione presso un assembramento di enormi pietre squadrate. Ciascuna di esse degli anelli metallici fissati ad una delle facce, e doveva pesare quasi una tonnellata. Altre catene vennero agganciate agli anelli, ed io mi trovai a far parte di un tiro a quattro. Evidentemente avremmo dovuto agire come animali da soma e vedercela con quei blocchi monumentali. Ci fu indicato il percorso di gara: un intero giro dello stadio con partenza e arrivo dinnanzi alla tribuna della Regina. Ogni squadra ebbe il suo conduttore, un aguzzino sistemato in piedi sulla pietra ed armato d'una lunga frusta schioccante. Fu appunto la frusta ad informarmi che ci si doveva recare al punto d'inizio della competizione, e sentii il sangue scendermi lungo la schiena. M'impegnai a tirare con tutta la mia forza. Il capestro d'argento pesava già come se avessi un uomo di grossa taglia seduto sulle spalle, ed i piedi mi si piantavano nella sabbia scavandovi buche e solchi. Cercai di cancellare dalla mente ogni pensiero, per concentrarmi solo su quella fatica terribile: sapevo che se mi fossi concesso il
lusso di pensare, la disperazione mi avrebbe indotto ad azzannare le catene come un cane idrofobo. Ad un certo momento mi accorsi che alla mia destra c'era la sezione di muro verniciata in oro. Girai lo sguardo e vidi la Regina. Agli orecchi mi giunse la sua risata, ironica e divertita, e ne provai una rabbia così bestiale che un velo rosso mi offuscò la vista. Mi volsi, unicamente allo scopo di togliermi dagli occhi quella donna, e vidi solo allora che il conducente assegnato alla mia squadra era il sadico in gonnellino di cuoio che mi aveva accolto nella camera di tortura del Palazzo. L'uomo balzò giù dalla pietra e controllò le catene per accertarsi che fossero ancora ben salde. Mentre esaminava le mie disse: «Dorna, l'Eletta di Tharna, ha scommesso cento denari d'oro su questa squadra, perciò vi conviene vincere.» «E se per caso perdessimo?», ringhiai. «Vi farà bollire vivi in un calderone d'olio,» m'informò spassionatamente. «A Dorna non piace perdere.» Il segnale di partenza venne dato dalla Regina con un languido gesto della mano, e la Corsa delle Pietre prese il via fra ansiti, imprecazioni e schiocchi di frusta. Di quel che accadde nella mezz'ora successiva posso dire solo una cosa: vincemmo noi. Ma arrivammo al traguardo trascinandoci dietro, oltre al macigno, il cadavere di un componente della squadra appeso per la catena. L'uomo era stato ucciso dalla fatica e dalle frustate del conduttore. Alcuni dei gruppi non riuscirono a terminare il percorso, e sulla traccia lasciata dai dieci pietroni sulla sabbia rimasero strisce e chiazze di sangue. Cademmo bocconi al suolo, rantolando in cerca d'aria e distrutti dallo sforzo, mentre dalle gradinate si levavano urla di approvazione. «Ed ora la Battaglia dei Corni!», gridò l'annunciatrice. «La battaglia!» le fecero eco centinaia d'altre voci impazienti. Il pubblico gradiva lo spettacolo, e le Maschere d'Argento si agitavano e strillavano come gli altri. Fummo tirati in piedi, messi in riga e nerbate, poi le squadre vennero sciolte e le catene gettate da parte. Quindi, con mio orrore, le guardie fissarono ad ogni estremità dei nostri capestri un corno d'acciaio lungo trenta centimetri ed appuntito come un pugnale. Andreas si voltò a cercarmi con lo sguardo, intanto che il suo giogo veniva munito in quel modo. «Questa può essere la fine, guerriero. Spero solo che non saremo costretti a combattere l'uno contro l'altro,» disse. «Se accadesse mi rifiuterei di colpirti, anche se mi spellassero a frusta-
te,» risposi. Lui fece una smorfia. «Sa il cielo se non la penso come te, amico. Ma in tal caso potrebbero mandarci in miniera... Dunque ci faremo un favore a vicenda se ci ammazzassimo pulitamente fra noi.» «Meglio schiavi che morti. Pensa alla tua Linna,» lo esortai. Andreas sorrise con amarezza. «Sia come vuoi tu, guerriero.» Sudato ed ansimante gli restituii la smorfia amichevole. Pur ridotti com'eravamo, lì in quell'arena di gladiatori dove regnavano la violenza e la bestialità, ciascuno di noi seppe almeno d'aver trovato un buon compagno. L'avversario a cui venni condotto davanti non fu però Andreas, bensì un colosso biondo e robusto che disse subito di chiamarsi Kron, già fabbro ferraio a Tharna e condannato per turpiloquio. Aveva occhi azzurri, risoluti, e gli mancava un orecchio. «Io sono sopravissuto per ben tre volte ai Giochi,» borbottò minacciosamente, fronteggiandomi. Lo guardai bene in faccia e feci cenno che avevo ricevuto il messaggio: l'uomo era deciso ad uccidermi. Fra noi era venuto a piazzarsi il carnefice in gonnellino, il quale ora stava aspettando che la Regina muovesse la sua mano guantata d'oro per dare il via ai duelli. «Potremmo anche sputare in faccia a questa gente,» proposi a Kron, «e rifiutare di scannarci. Noi siamo uomini, non bestie.» Il biondo mi fissò a occhi stretti, senza dar segno d'aver capito. Solo qualche secondo più tardi nel suo sguardo parve balenare una vaga scintilla di comprensione. Emise un grugnito: «Vorresti farmi finire in miniera, eh?» «Dalle miniere si può sempre scappare.» «Idiota, tu non sai quello che dici. Io sopravviverò ai Giochi anche stavolta.» «Come preferisci,» risposi. Tenni lo sguardo fisso nel suo, ignorando i movimenti della Regina e quant'altro ci accadeva intorno. Non vidi la mano di Lara di Tharna dare il segnale, ma l'uomo con la frusta ringhiò, facendosi da parte: «Via, cominciate!» Kron non ebbe bisogno di farselo ripetere: mi si gettò contro in un tuffo a testa bassa, per evitare il quale dovetti compiere un miracolo di sveltezza. Compresi solo allora che per muoversi in fretta col giogo sulle spalle era necessario caricarsi come una molla prima di scattare. Il mio avversario era già al corrente del trucco, e per poco la lentezza con cui avevo rea-
gito non mi era costata la vita. Kron attaccò nello stesso modo altre due volte, ma ormai ero sull'avviso e stavo imparando a bilanciare meglio il mio carico. L'espediente consisteva nel farlo oscillare di continuo, in modo da poterne sfruttare il movimento. Ci girammo intorno con cautela per un paio di minuti, mentre a poca distanza da noi anche gli altri uomini si battevano. Gonnellino di cuoio fece schioccare la frusta. «Sveglia! Fateci vedere un po' di sangue, carogne!» Detto ciò l'aguzzino mi lasciò andare una scudisciata, e disgraziatamente la cima della frusta mi si arrotolò intorno alla testa. Chiusi gli occhi, ma ne venni colpito alle palpebre e subito dinanzi alle mie pupille ci fu solo un biancore abbagliante. D'istinto mi lasciai cadere in ginocchio. Quella mossa mi salvò, perché Kron si era gettato avanti e l'impeto lo aveva portato ad inciamparmi addosso. Rotolò a terra alle mie spalle. Con uno scatto mi catapultai all'indietro e lo inchiodai nella sabbia sotto al mio peso. Per alcuni momenti l'uomo si agitò invano. Sentivo il suo petto sudato ed ansante a contatto della schiena, il mio giogo bloccava quello di lui, e nessuno dei due riusciva a muoversi. Ma gli occhi mi bruciavano e non riuscivo a vedere assolutamente nulla, al punto che il timore d'esser stato accecato mi causò un vuoto allo stomaco. Poi fui spinto via e rovesciato da parte, e Kron si rialzò ruggendo come un animale. Oltre la nebbia bianca che mi riempiva i globi oculari scorsi appena la sua sagoma, confusamente, e con uno sforzo tornai anch'io in posizione eretta. La folla gridava come una bestia dalle mille bocche spalancate, eccitata dalla violenza. La forma quasi indistinguibile del mio avversario balzò avanti, inclinando il giogo per colpirmi col suo corno di destra. Scartai di lato un po' in ritardo, e l'urto dei due blocchi d'argento che si sfioravano mi fece barcollare. Scossi la testa, ingoiando aria a grandi boccate. Ora riuscivo a vedere Kron: era una figura grigia a forma di croce stagliata su uno sfondo candido, e tutt'intorno mille strane luci che esistevano solo nella mia retina si rincorrevano in una folle nevicata di lampadine accese. Indietreggiai, cercando di prendere tempo. Se avessi avuto le mani libere me le sarei passate sugli occhi per strappar via quella nebulosità cotonata. Non potermeli neppure toccare era un tormento. Di nuovo Kron venne alla carica, e stavolta il suo corno di sinistra mi toccò un fianco. Dovevo essere pieno di adrenalina per la furia, perché quel colpo che mi parve indolore in realtà mi aveva squarciato la pelle provocando subito una notevole perdita di sangue. Gli spettatori videro il
ruscello rosso sgorgare dalla ferita ed urlarono compiaciuti. All'assalto successivo un errore nel misurare le distanze portò il biondo con la fronte a contatto della mia, e per un momento restammo in piedi l'uno davanti all'altro senza sapere come colpirci. Fu allora che torcendo i polsi riuscii ad afferrare da sotto il suo giogo, alle due estremità, e con un ringhio felino lo sollevai dal suolo. Non potevo alzarlo per più di quindici centimetri, ma tanto bastò per impedirgli di toccar terra coi piedi. Kron si contorse e scalciò, tuttavia con quella mossa lo stavo impiccando per il collo al suo stesso capestro e l'aria gli mancava. Un passo dopo l'altro lo portai fin davanti alla tribuna della Regina, mentre i muscoli sotto sforzo mi si gonfiavano come fasci di corde e la folla aveva placato il suo clamore, stupita da quell'esibizione di forza bruta. Poi scagliai l'uomo contro il muro dorato, e l'impatto del suo giogo con la pietra fece schizzar via frammenti e pulviscolo. Kron rovinò nella sabbia e rimase immobile, privo di sensi. Alzai lo sguardo verso il palco reale. Adesso stavo riacquistando la vista, e potei distinguere la maschera d'oro della Regina. In piedi accanto a lei c'era un'altra donna, che dalle vesti mi parve di riconoscere come Dorna, l'Eletta di Tharna. Ci misi un po' a capire che quella cagna dalla maschera argentea stava parlando con me, tanto ero stordito. «Ubbidisci? Uccidilo, ti dico!», ripeté la donna, indicando Kron. Girai gli occhi sul resto della tribuna. Le femmine mascherate stavano facendo eco all'Eletta, e chiedevano la morte dell'uomo anche con il crudele gesto della mano abbassata di taglio come una scure. Si erano quasi tutte alzate in piedi, strillando, eccitandosi l'una con l'altra, ed in pochi secondi il loro ordine divenne un coro assordante: «Uccidi!... Uccidi!... Uccidi!... Uccidi!» Disgustato, volsi loro le spalle e tornai lentamente al centro dell'arena. Giunto lì allargai le gambe per non cadere a terra. Grondavo di sudore e di sangue, ed i resti della tunica rossa mi pendevano dalle membra come stracci irriconoscibili. Cominciavo ad avvertire il dolore della ferita al fianco, ma non me ne importava nulla. Rimasi immobile. Il mio atto di disubbidienza aveva scatenato il furore degli spettatori. Migliaia di bocche gridavano, Le Maschere d'Argento agitavano i pugni come impazzite, ed il loro odio era qualcosa di tangibile, di demoniaco. Non ne ero affatto impressionato. Anzi, apprezzavo quella loro frustrazione, me ne pascevo come se fossero le strida delle scimmie al giardino zoologico, e quegli ululati mi facevano sentire l'unica creatura sana di mente
in mezzo ad un gruppo di deficienti scatenati. Sorrisi in risposta ai loro insulti, al loro isterismo, alla loro follia. Verso di me stavano però convergendo diversi guerrieri, e devo ammettere che questo finì per rovinarmi il divertimento. Il primo a raggiungermi fu l'aguzzino che ormai conoscevo bene, livido in faccia e idrofobo per la rabbia. La sua frusta mi colpì prima al torace e poi su un lato della testa, facendomi barcollare. «Bestia!» latrò. «Hai rovinato la gara, stupido vigliacco ingrato!» Un paio di guardie tolsero le corna dal mio giogo ed a calci mi fecero incamminare di nuovo verso la tribuna centrale. Una volta lì mi trovai a fissare la maschera d'oro della Regina. Mi chiesi se la mia morte sarebbe stata rapida, o se invece avrei conosciuto prima la tortura. Le Maschere d'Argento si erano finalmente azzittite, ed anche il resto del pubblico taceva. I duelli fra gli altri sventurati portati con me nell'arena si erano interrotti e, mentre nell'aria s'avvertiva una certa tensione, compresi che tutti aspettavano con feroce pregustazione quella che sarebbe stata la decisione della Regina. Lara di Tharna si alzò in piedi, mi osservò un poco e quindi parlò con voce chiara e forte: «Levategli il giogo!», ordinò. Per un momento pensai d'aver capito male. Avevo davvero riconquistato la mia libertà? Era questo il premio che si concedeva a chi si mostrava forte, nei Giochi di Tharna? Oppure un improvviso esame di coscienza aveva rivelato la crudeltà di quelle gare all'orgogliosa Regina Lara? C'era forse un cuore che provava compassione, sotto quelle vesti scintillanti di fredde gemme? O invece la mia innocenza nella congiura contro il trono le era alfine apparsa plausibile, e mi avrebbe lasciato andar via salvo dalla sua tetra città? Un impulso di gratitudine mi fece quasi ansimare, e mossi un passo avanti. «Regina, ti ringrazio dal profondo del cuore!», dissi. La donna dalla maschera aurea esplose in una risata secca e breve. «Gettate quest'animale in pasto al grifone!», esclamò. Capitolo 14 IL GRIFONE NERO Venni liberato dal capestro. Gli altri detenuti furono condotti via dall'a-
rena ed avviati alla prigione, in attesa d'essere utilizzati per i prossimi Giochi o di vedersi dirottare alle miniere. Andreas il Cantastorie cercò di restare al mio fianco, insultò le guardie e le Maschere d'Argento e gridò che avrebbe condiviso la mia sorte, ma fu inutile: dopo aver ricevuto una gragnola di calci e frustate, venne trascinato fuori, svenuto e sanguinante. La folla sugli spalti sembrava adesso curiosa ed impaziente d'osservare quel che mi sarebbe accaduto e, da alcune voci che colsi, compresi come il dramma in cui avrei recitato la parte della vittima fosse insolito per i Giochi. Sulla tribuna centrale molti camerieri in tunica grigia servivano i rinfreschi alle donne mascherate, nell'ombra del tendone; altrove, dei semplici portatori d'acqua si occupavano delle gole assetate dei popolani. Gli insulti, i fischi, e gli sberleffi diretti alla mia persona, non cessavano d'intensità. Con un brivido pensai che tutta quella gente aveva l'aria d'aspettare che la sentenza fosse effettuata lì e subito. Stavano forse per scatenare un grifone nell'arena? In tal caso la mia morte, sotto il becco e gli artigli del terribile rapace, sarebbe stata certo spettacolare e cruenta; ma la faccenda non avrebbe gratificato troppo le inclinazioni sadiche delle Maschere d'Argento, perché il suo svolgersi sarebbe stato quantomai breve. Sebbene fossi sicuro che sarei morto, non ero troppo amareggiato dal genere di condanna elargitami da Lara. Le donne di Tharna giudicavano forse orrendo essere ammazzati da uno di quei grandi uccelli di Gor, però non pensavano che io ero un grifoniere e che per me era più sopportabile e dignitoso ricevere la morte da un grifone. Conoscevo bene quei concentrati di forza e d'aggressività che dominavano i cieli del pianeta, e sapevo che per uno di essi io non sarei stato più che un'antilope od un pezzo di carne da ingoiare in fretta, senza inutili crudeltà. Quel pensiero mi storse la bocca in un sorriso amaro: un colpo di spada o l'artiglio d'un grifone, questa sarebbe stata prima o poi la mia fine in ogni caso, una fine da guerriero. Come tutti i membri della mia Casta, io non temevo i grifoni più di altri animali pericolosi quali i rettili, le creature repellenti delle paludi o quelle semivegetali delle giungle. Ero abituato alla loro vicinanza, al loro contatto, e conoscevo quale rischio personale correva chi li accudiva o il loro stesso padrone, ed in un certo senso avevo imparato ad accettare l'eventualità che uno di essi si ribellasse alle redini e mi ammazzasse. Per questo non provavo la terribile angoscia che avrebbe fatto piegare le gambe a chiunque altro fosse stato al mio posto. Venni lasciato lì senza catene né ceppi, libero d'aggirarmi nel vasto spa-
zio sabbioso all'interno del muro perimetrale. L'assenza del giogo mi dava una piacevole sensazione di leggerezza ad onta delle ferite che avevo addosso, anche se sapevo che quell'ingannevole libertà era voluta ad arte dai miei aguzzini. Si voleva che io scappassi di qua e di là come un topo, che gridassi, e che cercassi di seppellirmi nella sabbia, fornendo scenette eccitanti e capaci di scatenare l'ilarità del pubblico. Mi sgranchii le gambe, poi mi massaggiai brevemente le braccia ed i muscoli addominali, controllando che le ferite ricevute fossero di carattere superficiale. In breve mi sentii meglio, a parte una gran sete. Notando che una folata di vento aveva strappato una sciarpa dorata dalle mani della Regina Lara, mandandola a svolazzare fin sulla sabbia, mi avviai a passai tranquilli in quella direzione. La raccolsi e feci per gettarla verso di lei, oltre il muro, ma la sua voce mi fermò: «Tienila per te. È un regalo.» Osservai il volto d'oro che celava le sue fattezze. Gli occhi di lei erano fissi nei miei, assolutamente indecifrabili. «Te la lascio come mio ricordo,» aggiunse Lara di Tharna. La sua ironia era così pungente che le Maschere d'Argento risero, apprezzando la battuta. Con un sogghigno scossi via la sabbia dalla sciarpa, quindi ci sputai sopra e l'adoperai per ripulirmi la faccia dal sangue. L'uso che avevo fatto del suo prezioso accessorio di stoffa dorata non divertì la Regina, perché il mio gesto era stato di un'ostentazione insultante. «Bestia!», sibilò. Mi gettai la sciarpa su una spalla e tornai al centro dell'arena. Da lì a poco un cigolio mi fece voltare: una sezione del muro perimetrale era stata spostata indietro come il battente d'un portone, rivelando un'apertura buia larga dieci metri e alta tre. Da lì vennero fuori due file di schiavi che con lunghe funi si tiravano lentamente dietro una piattaforma di legno montata su ruote massicce. Attesi di vederla emergere del tutto nella luce dell'arena. Le Maschere d'Argento di Tharna fecero udire dei gridolini eccitati, strilli, ed esclamazioni di piacere e di meraviglia. Appena l'enorme pianale fu all'aperto, potei vedere che sopra di esso c'era un grifone. Si trattava di un colossale rapace, nero come l'inferno, incappucciato, col becco tenuto chiuso da una cinghia di cuoio ed un pesantissimo blocco d'argento fissato alla zampa sinistra. Oberata da quel peso, la bestia non poteva muoversi molto né prendere il volo, così com'era im-
possibilitata anche a vedere ed a colpire chi le stava accanto. Mentre la piattaforma veniva trainata avanti, con stupore della folla io presi a camminare verso di essa. Il cuore mi era balzato in petto. Scrutai attentamente il grifone e decisi che, se non avevo un'allucinazione, qualcosa nella sua forma e nel piumaggio non mi era del tutto estraneo. Avrei pagato cento denari d'oro per potergli vedere la testa. Le immense ali nere a tratti s'allargavano, accennando a battere e sollevando turbini di sabbia che accecavano gli schiavi: il grifone aveva sentito l'odore dell'aria aperta, e sollevava il capo anelando al cielo che i suoi occhi non potevano vedere. Sapevo che non avrebbe tentato d'alzarsi in volo con quel giogo da mezza tonnellata fissato alla zampa. Forse un grifone di genere diverso ci avrebbe provato. Ma se quello era il rapace che io pensavo, doveva essere in grado di valutare il peso e di capire che il suo tentativo si sarebbe risolto in un penoso e spiacevole annaspare, in una serie di rovinose cadute. Infatti, vidi con soddisfazione che la bestia non faceva forza con le ali, rifiutando orgogliosamente d'offrire ai suoi catturatori uno spettacolo cruento e indecente. So che questo può sembrare strano a dirsi, però io sapevo che i grifoni di razza selezionata avevano processi mentali più evoluti i quelli allevati per il semplice trasporto, e quel mostro era certamente un grifone da guerra. «Stai indietro!», mi gridò uno degli aguzzini armati di frusta che fiancheggiavano gli schiavi. Invece di ubbidire feci uno scatto in avanti e gli strappai la frusta di mano. Con una spinta nel petto lo mandai lungo disteso a terra; poi, sogghignando, gli gettai il suo arnese fra le mani con un gesto sprezzante. Mi fissò scornato. Fermo accanto alla piattaforma tornai ad esaminare il volatile, e notai che lo sprone posteriore di ciascuna zampa era rivestito da un cono d'acciaio, inchiodato sull'escrescenza ossea. Era un volatile dei più costosi, selezionato per ottenere caratteristiche di resistenza e di combattività, il più adatto ai duelli aerei che i grifonieri solevano affrontare nel cielo. Il suo equivalente terrestre avrebbe potuto essere l'antico cavallo da battaglia, il quadrupede capace di colpire, di uccidere, e di difendere la vita del proprio cavaliere anche se questi fosse stato disarcionato. Alle nari mi giunse l'odore del suo piumaggio, spiacevole per tutti salvo che per un combattente avvezzo ad affidare la propria integrità alla sua cavalcatura alata. Mi torna-
rono alla mente i nidi ed i recinti di Ko-ro-ba, di Ar, dell'accampamento di Pakur sul limaccioso Vosk, tutti luoghi in cui quell'odore saturava l'aria. Mentre stavo lì, a fianco di quel volatile che avrebbe dovuto essere il mio carnefice, non potei fare a meno di sorridere. La vicinanza del grifone mi dava piacere, anche se ne conoscevo l'irragionevole aggressività. Mi faceva venire in mente sette anni addietro, quando avevo volato sulle torri di Ko-ro-ba col mio istruttore, verso le mura di Thentis e poi sull'assediata Ar. Mi rammentava il giorno in cui avevo lasciato l'esercito vittorioso per tornare a casa, con Talena in sella davanti a me, felice e ridente perché ci attendeva la cerimonia nuziale... quanti ricordi, cruenti ed anche dolci, risvegliava in me la vista di un grifone dalle ali nere come la notte! Cercai con gli occhi l'anello alla caviglia e vidi, come avevo supposto, che il nome della città era stato limato via. Mi rivolsi ad uno degli schiavi incatenati. «Questo è un grifone di Koro-ba», affermai. L'individuo si fece pallido nel sentir pronunciare il nome di quella città. Mi voltò le spalle, quasi ansioso di tornarsene alla sua prigione come una bestia alla stalla, spaventato da una semplice parola. Ma intanto, sebbene agli spettatori potesse sembrare che il grifone fosse piuttosto calmo, io notai che non era affatto così: d'improvviso in lui era nata una tensione psichica, un'eccitazione simile alla mia. Minuscoli movimenti del capo ne rivelavano lo stato d'incertezza, di all'erta, e sotto il cappuccio le sue orecchie si erano protese allo spasimo per captare i suoni. Ci fu il rumore quasi inudibile dell'aria che veniva aspirata dalle narici sul suo becco, e seppi che stava vagliando gli odori. Mi chiedevo se avesse già sentito il mio. Poi il poderoso becco giallo si voltò lentamente e, dopo una breve esitazione, si puntò verso di me. L'uomo in gonnellino di cuoio, l'aguzzino che avevo già imparato a conoscere tanto bene, stava venendo dalla mia parte con la frusta sollevata. «Vattene da lì. Scostati!», ringhiò. Lo fissai dritto negli occhi. «Non stai parlando ad uno schiavo. Hai di fronte a te un guerriero, verme!» Lui distese indietro la frusta, ma a quel gesto gli risi in faccia. «Prova a colpirmi, e sarà l'ultima cosa che farai.» «Non crederai di farmi paura, tu,» borbottò. Ma era sbiancato in faccia. Indietreggiò subito di qualche passo ed abbassò la frusta, conscio che non gli sarebbe servita a nulla ora che avevo le mani libere. Gli dedicai un sogghigno derisorio.
«Fra poco sarai morto!», gridò, sputando saliva per la rabbia. «Già più di cento grifonieri di Tharna hanno cercato di montare questa bestiaccia, e quasi tutti sono stati uccisi o gettati al suolo. La Regina ha decretato allora che lo si usasse nei Giochi in un'occasione speciale, quando si fosse trovato un bastardo meritevole d'una morte tutta particolare. E adesso è venuto il momento.» «Levategli il cappuccio!», ordinai. «Liberatelo!» L'individuo mi guardò come se mi giudicasse pazzo. A dire il vero l'euforia di cui ero preda stupiva per primo me stesso. I guerrieri armati di lancia vennero avanti, e tre di essi mi spinsero via con la punta delle armi. Poi, ad un comando del loro capitano, tutti quanti salvo un paio di schiavi abbandonarono l'arena. Da una quindicina di metri di distanza assistei alla manovra con cui veniva tolto il cappuccio al rapace. Non c'era da dubitare che la bestia fosse a stomaco vuoto, purtroppo. Sulle gradinate si era fatto il più completo silenzio. Mi domandavo quali pensieri e riflessioni stagnassero oltre la fredda maschera d'oro di Lara. Mi domandavo se il grande uccello avesse captato qualcosa di noto nella mia voce e nel mio odore. Non era stato certo per capriccio se mi ero accostato a lui ed avevo parlato. Nell'arena erano rimasti soltanto due schiavi, senza giogo né catene, uno dei quali era salito sulle spalle del compagno per raggiungere la testa del volatile. L'uomo sganciò la cinghia che fermava il becco e poi sciolse la corda del cappuccio, senza però osare levarlo. Fatto ciò i due corsero via verso la porta e, una volta che furono al sicuro, essa venne riaccostata. Il grifone aprì il becco e la cinghia cadde sulla piattaforma. Scosse la testa con violenza, come un cane che si scrollasse l'acqua dal pelo, ed il cappuccio volò sulla sabbia. Poi allargò le ali, sollevò il becco spalancandolo verso il cielo ed emise il terrificante gracidio di sfida caratteristico della sua specie. La sua cresta nera, uno dei pochi particolari oltre alle dimensioni che lo differenziavano dal suo omonimo terrestre, si rizzò con un crepitio di penne, ed il suo intero piumaggio parve gonfiarsi e riprendere vita. Era bellissimo ai miei occhi: uno dei più grandi predatori di Gor, senza rivali nell'atmosfera del pianeta, temibile e ciò malgrado splendido. Volse su di me i grandi occhi neri, simili a dischi di carbone e scintillanti come stelle, e sulle tribune il silenzio divenne tale che perfino l'aria parve essersi solidificata nella tensione generale. Soltanto allora alzai le braccia verso il grifone, iridando:
«Horus, Signore dei cieli! Riconosci il tuo padrone? Guardami, Horus: io sono Tarl Cabot. Tarl Cabot di Ko-ro-ba!» Avevo gli occhi pieni di lacrime. Non mi presi neppure la briga di guardare quale effetto avevano avuto le mie parole sui cittadini di Tharna, perché mi ero del tutto scordato di loro. Mi ero presentato al grifone come se fosse un membro della mia Casta, ed ora un nodo di commozione mi chiudeva la gola. «Tu solo non volgi il capo al sentire il nome della nostra città!», singhiozzai. «Tu solo non hai timore e vergogna, guerriero come me della Regina del Mattino!» Senza pensare al pericolo che malgrado tutto la cosa presentava, corsi verso la piattaforma e vi saltai sopra, avvicinandomi al grifone. «Horus... vecchio furfante!», ansimai. «Sono passati sette anni. Riconosci ancora la mia voce? Puoi davvero ricordarla?» Per la verità quella speranza mi sembrava abbastanza infondata, ma il grifone rimase immobile e questo m'incoraggiò. Gli misi un braccio sul collo, nel rude gesto che tante volte in passato avevo fatto, e lui girò il capo a sfiorarmi col becco, curioso, quasi per saggiarmi. Sapevo perfettamente che non albergavano emozioni umane nella testa di quella crudele tigre del cielo; i suoi occhi erano inespressivi come quelli di uno squalo, ed i suoi istinti altrettanto spietati. Cercai sotto le piume del collo e trovai due parassiti, che gli gettai nel becco. Fu svelto a masticarli. Mi chiedevo se ricordava i duelli nel cielo, il clangore delle armi, le grida dei grifonieri contro cui ci eravamo battuti, ed i lunghi tranquilli voli a grande altezza sulle verdi immensità di Gor. Potevano ancora esistere nella sua memoria le immagini di quei giorni lontani? Riusciva a rammentare d'aver volato con me sulla striscia d'argento del Vosk, sulla Catena del Voltaj, sulle città e sui campi della grande pianura costiera? Ricordava la notte in cui, dopo violenti duelli aerei, ci eravamo abbassati sulle strade di Ar per rubare la Pietra della Casa di quella città, approfittando della confusione di una cerimonia pubblica? No, pensai: di certo quegli eventi, così grati alla mia memoria, non erano rimasti impressi nel semplice cervello di quel gigante piumato. Il suo becco tornò a sfiorarmi un braccio con ruvida gentilezza: Horus voleva esser liberato dai parassiti. Quello non era però il momento di distrarmi. Avrei scommesso che i guerrieri di Tharna sarebbero venuti ad ammazzarci tutti e due, adesso che il grifone aveva rifiutato di aggredirmi. Horus girò lo sguardo sugli spalti, innervosito e forse irritato dalla pre-
senza di tutta quella gente. Scosse la zampa a cui era assicurato il massiccio blocco d'argento. Avrebbe potuto camminare con quel peso, fare qualche passo, ma non certo prendere il volo. Mi chinai ad esaminare le spesse flange dell'oggetto, due fasce di metallo assai robuste chiuse attorno alla caviglia scagliosa con un solo asse di ferro verticale simile ad un catenaccio. Cercai di estrarlo tirandolo all'insù, ma invano. Doveva esser stato infilato nei fori a martellate, e senza un utensile non ce l'avrei fatta. Imprecai. Adesso nelle tribune c'era baccano. Il pubblico gridava e berciava, non più per l'impazienza di vedermi morto bensì per la delusione, e chiedeva a gran voce che si prendessero provvedimenti. Ma le Maschere d'Argento apparivano incapaci di decidere alcunché, e si mostravano confuse, attonite e sorprese: il grifone non mi aveva assalito, e nessuna di loro ne comprendeva la ragione. Forse non si erano ancora rese conto che stavo addirittura cercando di liberarlo. Finalmente si udì la voce della Regina: «Fermatelo! Uccidetelo!» Anche Dorna, l'Eletta, si mise in movimento e corse avanti, comandando ai guerrieri di scendere nell'arena e di fare il loro dovere. Fra poco molte guardie armate mi sarebbero state addosso; un paio di esse erano già saltate giù dal muro e si facevano avanti, con la cautela di chi aspetta rinforzi. Risuonarono ordini aspri come latrati, la grande porta venne spalancata nuovamente, e da essa corsero fuori altri guerrieri. Attanagliai con le mani la cima dell'asse. Una lancia si conficcò nella piattaforma a tre metri da me; una seconda s'immerse nel legno più vicina ancora, e ad essa ne seguì una terza che sibilò alta, ma quel dannato perno non voleva saperne di uscire dalla flangia. Horus si voltò verso i militi e spalancò le ali, mandando un paio di strida così minacciose e feroci che gli uomini bestemmiarono di spavento. Quindi indietreggiarono, appostandosi a distanza di sicurezza. «Idioti!», gridò un capitano. «L'uccello non può attaccarvi. Spacciate quel miserabile!» In qualunque altra città vi sarebbero stati arcieri o balestrieri ben più pronti a trafiggermi, pensai disgustato. In quel momento però la mia fatica venne premiata: il lungo asse fuoriuscì dai fori ed io caddi all'indietro. Il pesante giogo si staccò, rovesciandosi sonoramente sulla piattaforma, ed Horus fu libero. Quando il grifone sentì che la sua zampa non era più appesantita, rovesciò la testa all'indietro e mandò una ululato così stridente da far accappo-
nare la pelle perfino a me. Mai in Tharna si era udito un verso tanto lungo ed acuto. Esso aveva echeggiato soltanto fra le selvagge vette del Voltaj, nella fiera Thentis e nei cieli ventosi delle pianure: era la sfida del grifone vittorioso, il terribile stridio con cui esso dichiarava la propria padronanza sul territorio e minacciava gli avversari di starsene alla larga. Il pubblico ammutolì per l'improvviso spavento, ed i guerrieri si ritrassero alzando le lance, perché ora più nulla tratteneva il rapace dal seminare la morte. Per un istante temetti che Horus avrebbe immediatamente preso il volo, e lo afferrai per il collo sperando che la sua ansia di volare non lo inducesse a sbattermi via. Ma l'animale rimase fermo, sebbene i guerrieri incitati dal loro capitano iniziassero una manovra per circondarci a rispettosa distanza. Senza esitare gli saltai sulla groppa, alquanto più alta di quella d'un cavallo, e gli affondai le mani fra le penne del collo in cerca di una presa salda. Avrei dato l'anima per una sella e dei finimenti da grifone, compresa la cintura di sicurezza, perché montare il volatile senza quell'attrezzatura poteva essere pericolosissimo. Nello stesso momento in cui sentì il mio peso sul dorso, Horus mandò un gracidio, allargò le poderose ali e, con un'esplosione di forza, schizzò verso il cielo come lanciato da una catapulta, cominciando a compiere circoli a bassa quota e molto veloci. Alcune lance vennero scagliate, ma con tiro impreciso e troppo corto, ed osservai senza alcuna emozione le loro parabole finire di nuovo nell'arena. Un buon balestriere avrebbe potuto ferire o addirittura uccidere il grifone, ma cento guerrieri armati di lancia potevano solo osservarmi scornati. Sulla tribuna reale le Maschere d'Argento gridavano e agitavano i pugni in preda a sentimenti che potevo ben immaginare: il loro divertimento di quel giorno era finito nel peggiore dei modi, e l'uomo che avrebbe dovuto essere una vittima si librava sull'arena in un volo trionfante che per loro era tutto un insulto. In realtà io non mi sentivo affatto trionfante, ed ero preoccupato. Non avevo alcuno strumento per condurre il grifone in modo efficiente, in quanto per farmi ubbidire avrei dovuto disporre delle sei redini a cui l'animale era abituato a rispondere. Alla sella dei grifoni era sempre fissato un anello da cui partivano redini dal diverso colore, ciascuna terminante in un gancio incuneato nella dura pelle dietro il becco del volatile. La loro manovra era un'arte difficile, poiché si potevano usare sia una alla volta che in combinazione per trasmettere all'animale degli ordini anche complicati.
Senza redini e senza sprone era già un miracolo se Horus consentiva a tenermi in groppa, invece di girare la testa e togliermi di mezzo con un colpo di becco. Non temevo che lo facesse davvero, perché in passato avevo adoperato lo sprone col contagocce e solo in caso di necessità, cosicché il volatile non aveva finito con l'assuefarsi alle scariche d'energia e ne temeva sempre il contatto. Ignoravo cosa gli fosse accaduto in quei sette anni e come fosse finito a Tharna, anche se potevo sospettare che i Re Sacerdoti ci avessero messo lo zampino per qualche verso. Comunque fosse, la mia unica speranza era che nessuno avesse rovinato i suoi riflessi condizionati usandogli troppi maltrattamenti. In genere lo sprone era indispensabile perché, se il grifone perdeva la testa per la fame o per altri motivi era capace di uccidere il suo grifoniere. Quando aveva appetito, l'unica soluzione era di farlo scendere su una pianura in cerca di antilopi o prede simili, e lasciarlo mangiare. Sette anni prima avevo abituato Horus a cacciare da solo, mentre io lo aspettavo a terra fidando che non sarebbe mai uscito dalla portata del fischio da richiamo. Per istinto il grifone sceglieva la preda e la catturava sollevandola dal suolo fra gli artigli, senza ucciderla. Solo in seguito, tornando vuoi nelle vicinanze del padrone vuoi nel nido, la rimetteva a terra e la scannava per divorarla rapidamente. Ciò derivava dal fatto che i piccoli del grifone, nel nido, non toccavano mai le carogne, perciò l'adulto era costretto a portar loro una preda viva se voleva che si nutrissero. Questo particolare della loro natura mi era venuto utile già una volta, allorché un grifone verde mi aveva trasportato nella presa di un artiglio dalla foce del Vosk fino ai picchi delle Montagne Rosse, lasciandomi illeso. Usare lo sprone troppo spesso danneggiava inoltre i riflessi del volatile, che dopo qualche anno divenivano torpidi e scoordinati. Mi auguravo che Horus associasse ancora la mia presenza a quella dello sprone e che non tentasse colpi di testa. Un tempo aveva ricevuto un addestramento di prim'ordine, e mio padre lo aveva pagato fior di quattrini proprio per questo. Il grifone si alzò in quota sempre volando in circolo, e, guardando in basso, vidi l'arena allontanarsi e rimpicciolire. La grigia Tharna mi appariva già distante, benché non fossi che a cento metri d'altezza, e all'orizzonte potevo scorgere le pianure verdi e gialle oltre i territori coltivati. Laggiù c'era la vita. «Sono libero!», gridai selvaggiamente. «Libero, per tutti i fulmini del cielo!»
Ma il mio era soltanto uno sfogo fatto di parole vuote. Come osavo urlare nel vento quell'annuncio, senza arrossire di vergogna al pensiero di chi libero non era affatto? Finché i miei amici fossero rimasti chiusi in una cella umida, in balia dei loro aguzzini, anch'io sarei stato incatenato e legato da ceppi non meno umilianti. Laggiù da qualche parte c'era Linna dagli occhi ridenti, la timida ragazza che per amore aveva sfidato le usanze della sua città e accettato il collare da schiava. Potevo dimenticarla, forse? E c'era Andreas il Cantastorie, che pur di non lasciare la sua Linna aveva affrontato un destino ancora peggiore di quello di lei. Ma non solo loro: chissà quanti altri disgraziati stavano soffrendo nelle miniere e nelle Grandi Fattorie di Tharna, condannati alla schiavitù da governanti ingiusti ed inumani. E vi erano i cittadini stessi, la cui libertà era una tragica burla, oppressi da leggi che ne annichilivano il diritto alla vita. «Tabuk!», gridai al mio rapace nero. «Tabuk!» Fra tutte le antilopi goreane il tabuk era forse la più graziosa; gialla e flessuosa, assai prolifica, sovente abbandonava le pianure per azzardarsi ai margini dei campi coltivati in cerca di sale e di acqua. Era anche la preda favorita dei grifoni, che ne apprezzavano le carni saporite. Il grido «Tabuk!» era usato dai grifonieri durante i lunghi voli, quando non si desiderava perdere troppo tempo lasciando i rapaci liberi di andare a cercarsi del cibo. In questi casi il grifoniere, appena avvistata dall'alto una preda di qualsiasi genere, urlava l'ordine generico di «Tabuk! Tabuk!», senza far alcun uso delle redini, e per il grifone questo era il segnale che poteva abbassarsi a cacciare. Tuttavia, se il volatile era ben addestrato, non uccideva la preda all'istante, ed ai migliori grifoni s'insegnava questo comportamento proprio in vista del caso che si volesse prelevare dal suolo un essere umano, ovviamente un nemico con cui si poteva esser rudi. Era la prima volta che ricorrevo a quell'ordine vocale con Horus, e non ero certo che potesse ancora ricordarlo dal tempo in cui era stato ammaestrato. Invece, appena lo udì, s'inclinò sull'ala sinistra e planò verso il basso in un vastissimo semicerchio, scrutando il suolo per vedere dove fosse la preda che il suo padrone aveva scelto per lui. Se non la vide non era colpa sua, ma fra poco gliel'avrei indicata. Il mio era un piano dettato dalla disperazione, ed aveva pochissime possibilità di riuscita, a meno che il grifone non collaborasse oltre le mie più rosee speranze. I suoi occhi erano puntati in basso, mentre ad ali spiegate continuava a calare di quota sulle torri di Tharna. La città scorreva sotto di
noi. Passammo di nuovo presso la verticale dell'arena, piena di folla, e vidi che al riparo del tendone c'erano ancora tutte le Maschere d'Argento. Il popolo stava cominciando a sgombrare gli spalti, ma le dominatrici della città sembravano ascoltare l'arringa di qualcuno, forse Dorna l'Eletta o la Regina stessa. Nello spazio ovale un capitano stava frustando un paio dei suoi guerrieri, evidentemente colpevoli di inettitudine. «Tabuk!», gridai. Horus mosse appena la coda, e ad ali distese s'abbassò in una picchiata velocissima. Raddrizzandosi in orizzontale sorvolò le tribune a una velocità di oltre cento chilometri all'ora, troppo elevata per agguantare del cibo, come egli sapeva bene, cosicché tutto ciò che fece fu di allungare le zampe con gli artigli sfoderati. Sentii le urla di terrore e vidi la gente che si buttava a terra, poi il grande telone della tribuna reale venne strappato via di netto dalle zampe di Horus, la cui velocità diminuì bruscamente. Il grifone proseguì per una cinquantina di metri, lasciò cadere l'enorme pezzo di stoffa sbattendo le ali per ritrovare l'assetto, poi compì un breve semicerchio e tornò indietro. «Tabuk! Tabuk!», ordinai ancora. Le Maschere d'Argento erano in preda ad un terrore folle. Correvano alla cieca di qua e di là, si urtavano, cadevano fra le poltrone e i tavolini strisciandovi sotto in cerca di riparo, e non poche erano svenute fin dal mio primo impressionante passaggio. Cinque o sei si gettarono dal muro finendo nella sabbia dell'arena, mentre solo una decina avevano conservato sufficiente freddezza e si stavano precipitando all'uscita della tribuna. Fu l'oro delle sue vesti e del suo trono a condannare Lara di Tharna: l'oro faceva di lei una creatura gialla, ed il tabuk era un animale giallo. In quello che dovette essere l'istante più spaventevole della sua vita, la Regina si trovò sola, in piedi presso il suo scranno, al centro d'uno spazio che si stava vuotando rapidamente perché il grifone puntava dritto su di lei. Alzò le mani in un gesto disperato, mandando un grido acutissimo e, mentre le arrivavo addosso, vidi nelle fessure della maschera il bianco dei suoi occhi arrovesciati all'indietro. Il grifone rallentò il volo con un violento colpo d'ala, quasi arrestandosi, e nel movimento la parte inferiore del suo corpo venne proiettata in avanti, a zampe protese. Poi il suo" artiglio destro si chiuse attorno al corpo della Regina, che svenne all'istante. Per un paio di secondi ancora Horus rimase immobile nell'aria ad un metro e mezzo dal suolo, sbattendo le ali in archi stretti e rapidi, ed emise un
gracidio soddisfatto. Intorno a noi regnavano lo spavento ed il caos. Quindi il grifone allargò il battito alare e ne aumentò la portanza, salendo con rapidità fino a cinquanta metri d'altezza. Sulla sua groppa io ansimavo di fatica, ancora stentando a reggermi dopo tutti quegli scossoni. Horus si portò senza fretta in quota, allontanandosi dall'arena, dalle torri e dalle mura di Tharna. Infine accelerò il volo verso l'orizzonte lontano tenendo ben salde in uno dei suoi artigli il corpo inerte di Lara, la Regina dalla maschera d'oro. Capitolo 15 SI CONCLUDE UN PATTO La parola che avevo usato col grifone era l'unico segnale vocale che gli allevatori usavano imprimere nel cervello di quelle bestie dopo l'uscita dall'uovo. Molti abili grifonieri, una volta preso in mano il volatile, sapevano insegnargli a comprendere altre venticinque o trenta parole, ma io non avevo mai avuto il tempo di farlo, ed era inutile stare a rimpiangerlo. Privo delle redini mi trovavo adesso in una situazione ingovernabile, e dagli sviluppi imprevedibili. A forza di lambiccarmi il cervello ripescai però un ricordo: durante il mio ultimo volo con Talena, verso Ko-ro-ba, avevo speso alcune ore per insegnare alla ragazza la manovra delle redini, tenendola davanti a me e ordinandole di eseguire ora questa ora quell'evoluzione. Nel vento che ci soffiava intorno le avevo gridato comandi come: «Redine uno!» e «Redine sei!» e così via, dopodiché lei aveva tirato la correggia corrispondente ed aveva impartito l'ordine alla nostra cavalcatura alata. Questa era stata l'unica torma d'associazione fra la voce umana e la trazione delle redini che mai avessi fornito ad Horus. Non era logico aspettarsi che il grifone ne fosse stato condizionato in così poco tempo, tanto più che il mio addestramento era diretto a Talena e non già a lui. Inoltre, la cosa era accaduta sette anni addietro, e per buona che fosse la sua memoria, non poteva esserlo a quel punto. Ma che altro potevo fare? «Redine sei!», urlai. Il grande uccello s'inclinò sull'ala sinistra e prese a calare lievemente di quota. «Redine due!», ordinai. Horus deviò a destra continuando a scendere con la stessa inclinazione. «Redine quattro!» E il grifone s'abbassò in planata preparandosi all'atter-
raggio. Risi, deliziato e divertito nell'accorgermi d'aver sottovalutato le capacità d'apprendimento del mio titano alato. «Redine uno!», ordinai ancora. Horus riprese a battere le ali, alzandosi velocemente. Non dissi nient'altro, ed il grifone raggiunse la quota a cui preferiva volare. Le ali remigavano nell'aria a ritmo lento, mantenendo quella che per lui era la velocità di crociera, arrestandosi solo quando una corrente ascensionale gli consentiva di planare in avanti. Volgendomi, vidi i campi coltivati e le torri di Tharna già lontani e velati di foschia. Mi venne spontaneo battere alcune pacche sul collo del volatile, arruffandogli le penne. Erano gesti che i grifonieri di Gor non compivano mai, carezze d'un genere che solo un terrestre avrebbe pensato di rivolgere al suo cane od al suo cavallo. E infatti Horus non diede segno d'accorgersene, poiché per lui non avevano alcun significato o addirittura lo disturbavano. Certo di me non gli importava molto: io ero una specie di oggetto animato, un elemento che faceva parte dell'addestramento da lui ricevuto. Ciò malgrado provavo un certo affetto per lui. Non avevo alcuna vera ragione d'essere soddisfatto, e se avessi riflettuto sulle disgrazie mie e delle persone a me care, il sorriso avrebbe fatto presto a sparirmi dal volto. Ma stavo volando, e la sensazione era quella che solo un grifoniere poteva capire. Dopo tanto tempo trascorso a sospirare su ciò che mi era stato tolto, ora volavo di nuovo. Neppure seduto sul trono d'un Tiranno avrei provato la gioia che mi dava stare in groppa ad Horus. Si diceva che una volta divenuto grifoniere un uomo lo fosse per sempre. Sottomettere il volatile non era facile, montandolo per la prima volta si metteva a repentaglio la vita, ed anche in seguito il contatto con lui era un rischio. Ma quando si assaporava quella vita non se ne poteva più fare a meno. Sulla sella d'un grifone si conosceva il volo vero, un'ebbrezza di cui i piloti di aerei e di alianti hanno appena una pallida idea. Il brivido ed il silenzio delle grandi altezze erano cose che restavano nell'anima, e non ci si stancava mai di quel che comportava la movimentata esistenza del grifoniere. Da sotto il ventre del mio volatile provenne un grido disperato, seguito da singhiozzi e gemiti: la preda dorata era rinvenuta. Imprecai contro me stesso. Esilarato e stordito dal volo, avevo completamente dimenticato Lara di Tharna, che poteva ben dire di vedersela brutta. Pochi riuscirebbero a immaginare quale sia lo spavento d'un creatura
umana chiusa nell'enorme artiglio di un volatile, a centinaia di metri dal suolo. Il dolore della stretta è di per sé quasi insopportabile, ma il pensiero che si può esser lasciati cadere, oppure deposti da qualche parte e divorati dal grifone, è ancora peggio. Ce n'è abbastanza da rischiare l'integrità mentale, fatto salvo il pericolo delle fratture costali e di altre lesioni. Gettai un'occhiata indietro per controllare se qualcuno m'inseguisse. Potevo star tranquillo che il mio gesto doveva aver scatenato una caccia all'uomo, sia per via di terra che nell'aria. La città di Tharna non manteneva forti contingenti di grifonieri, però tutti gli squadroni alati di cui disponeva dovevano esser già stati messi in movimento. Gli scialbi e apatici uomini di quella città non erano gente capace di dominare un grifone, cosa per la quale occorre polso e carattere, e certo pochi di loro si arruolavano come grifonieri. Sapevo però che ve n'era in numero sufficiente a difendere Tharna, poiché in caso contrario una qualsiasi delle città più vicine se la sarebbe mangiata in un boccone. Doveva dunque trattarsi di mercenari, che uniti a guerrieri dello stampo del capitano Thorn formavano squadroni di buona levatura tecnica. Sottovalutarli sarebbe stato un errore fatale. Un paio di minuti d'attenta osservazione mi consentirono tuttavia di vedere che il cielo alle mie spalle era del tutto sgombro, cosa questa che mi sorprese. Da sotto sentii giungere un'altra serie di gemiti strazianti. In distanza, a circa trenta chilometri davanti a me, si scorgeva una pianura il cui colore giallo e caldo era certo dovuto a tappeti di talender, i fiori usati su Gor per farne ghirlande. Al di là di essa s'alzavano i picchi scoscesi d'una breve catena montuosa, velati di foschia azzurrina. I talender erano i fiori preferiti dalle donne abbienti, che li coltivavano nei loro Giardini Chiusi e se ne ornavano i capelli ad esclusivo beneficio dei familiari. La tradizione li voleva presenti anche nelle cerimonie nuziali, sotto forma di coroncine che la sposa e le sue amiche portavano allegramente. Mezz'ora più tardi giungemmo fra i monti, volando a circa mille metri d'altezza. «Redine quattro!», gridai a Horus. Il grifone allargò le ali e planò lentamente verso una cresta di roccia nuda, posandosi su un ampio lastrone irregolare. Il luogo era abbastanza aperto ed elevato da dominare l'intero territorio per molti chilometri intorno, e raggiungibile solo dall'aria. Nello stesso momento in cui Horus sfiorò il suolo, io mi lasciai scivolare giù lungo il suo fianco ed afferrai saldamente Lara, per impedire che la
zampa la schiacciasse a terra. La trassi di lato, spinsi via il grifone con una spallata mettendomi fra lui e il corpo della donna, e questo fece comparire negli occhi di Horus una luce di perplessità: forse che io non gli avevo gridato «Tabuk»? E dunque perché ora gli impedivo di mangiare la preda da lui prelevata con tanta ubbidienza? Intendevo divorarla io, rubandogliela odiosamente? Afferrai il grifone per le penne del collo e gli feci voltare la testa da un'altra parte, spingendolo qualche passo più in là. Poi raccolsi sulle braccia la Regina, che non sembrava in grado di star dritta da sola, e la portai fino ad un'estremità del lastrone dove la roccia si alzava a picco, mettendola a giacere presso la parete granitica. Lei mandò subito un lamento, riaprendo gli occhi e, mentre tornavo, verso Horus vidi che cercava di tirarsi su. «Tabuk!», ordinai al grifone, indicandogli la pianura. Horus tenne le ali serrate. Girò gli occhi famelici sulla Regina e s'incamminò verso di lei. Lara strillò di terrore, schiacciandosi in una nicchia della roccia. Con un'imprecazione agguantai ancora il volatile per il collo, ed a viva forza gli feci puntare lo sguardo sulla grande distesa fiorita di talender, oltre duecento metri più in basso. «Tabuk! Tabuk!», comandai. Horus esitò seccato, si volse a sfiorarmi col becco come in cerca d'una spiegazione, ed io ripetei: «Tabuk, amico ...Laggiù, tabuk!» Dopo un'ultima occhiata alla Regina, il grande uccello si portò con due passi sull'orlo della terrazza naturale, allargò le ali e si gettò in picchiata verso la pianura. Alle orecchie mi giunsero gli echi del suo verso di caccia, acuto ed incisivo. Tornai immediatamente dalla mia prigioniera. «Come stai, sei ferita?», le chiesi. Sapevo che la zampa del grifone non poteva chiudersi bene, e che fra gli artigli e i durissimi cuscinetti restava uno spazio nel quale una preda umana poteva almeno respirare. Ma rimetterci un paio di costole non era insolito, per una donna che un grifoniere brutale avesse rapito così selvaggiamente. Eppure non avevo avuto molta scelta, e del rischio d'ucciderla non m'importava nulla, visti i risultati a cui miravo. Con un ostaggio come la Regina nelle mie mani, Tharna sarebbe stata costretta a cedere alle mie pretese. Era solo questione di decidere quel che volevo. Innanzitutto c'erano Linna e Andreas, quindi i prigionieri destinati ai Giochi, e poi ... Bé, non potevo illudermi di far mutare le usanze e le leggi, che una volta riavuta la sua Regina, Tharna avrebbe comunque ripristinato. Dunque avrei dovuto accontentarmi di far liberare un certo numero di schiavi.
La donna dalla maschera d'oro stava barcollando; appoggiò una mano ad una sporgenza di roccia per non cadere al suolo. La tradizione di Gor parlava chiaro su quello che doveva essere l'atteggiamento della femmina verso il suo catturatore: a terra in ginocchio, il capo chino, i polsi incrociati a simboleggiare l'accettazione della schiavitù, l'ubbidienza più assoluta ed una serie di altri atteggiamenti minori dello stesso genere. Ma quella donna era una Regina, e non potevo aspettarmi con facilità un comportamento umile. Nel vedermi avvicinare aveva alzato una mano verso la maschera d'oro, come se temesse più d'ogni altra cosa che gliela levassi dal viso. Solo dopo quel gesto istintivo si ricompose le vesti, e ciò mi fece sorridere. I suoi ricchi indumenti presentavano alcuni larghi squarci provocati dagli artigli, e la stoffa ondeggiava al vento. La fermò meglio che poteva, certo odiandomi con tutta l'anima mentre cercava d'impedirmi di vedere un tratto di coscia nuda. Fino ad allora non avevo avuto un'idea sul tipo di femmina che poteva esserci sotto quelle vesti da Donna Celata, salvo che sembrava abbastanza giovane e snella. Mi accorsi adesso grazie a quegli strappi che le sue carni erano lisce, e che Lara sembrava essere assai ben fatta. Non che me ne importasse, d'altronde. «Non sono ferita. Sto bene,» rispose in fretta. Era proprio la risposta che mi ero atteso da lei. Ma era anche una bugia bella e buona, perché avevo fatto in tempo a scorgere alcune escoriazioni sanguinanti e vedevo che stava soffrendo. «Meglio così,» dissi. «Fra poco del resto starai meglio, appena la circolazione sanguigna si sarà ristabilita.» La sua maschera aurea mi fissò senza alcuna espressione, proprio il risultato a cui voleva giungere chi l'aveva cesellata. «Anche a me è capitato di viaggiare fra gli artigli di un grifone,» aggiunsi, in tono discorsivo. «Il fascino del pericolo, la bellezza dei panorami sottostanti, e così via... Ho un caro ricordo di quell'avventura.» «Perché quella bestia orrenda non ti ha ucciso, nell'arena?», domandò lei. Alzai le spalle. «Quello è il mio grifone. Si chiama Horus.» Che altro avrei potuto dirle? Il fatto che il rapace non mi avesse attaccato stupiva ancora me stesso, conoscendo la sua natura selvaggia. Se non avessi avuto una buona esperienza di quegli animali, avrei pensato che provasse per me una sua particolare sottospecie di affetto, ma mi sarei ben guardato dal confidare quel sospetto ad un altro grifoniere. La Regina esaminò i dintorni e il cielo. «Quando tornerà?», balbettò. La
sua voce era un sussurro e mi rivelò che se la donna aveva paura di qualcosa, questo era il grifone. «Presto,» la informai. «Speriamo che riesca a trovare qualcosa con cui placare la sua fame, giù in pianura.» Lei fu percorsa da un tremito. «Ma se non troverà niente, tornerà qui affamato e inferocito.» «Ci puoi scommettere. Meglio non augurarselo.» «Potrebbe tentare di ...mangiarci?», ansimò. «Sicuro. È una bestia maledetta, quella.» Sotto il bordo inferiore della maschera, il suo Pomo d'Adamo si mosse su e giù più volte. Parlò quasi scegliendo con cura i termini, sottovoce: «Tu... Se il grifone tornasse affamato, mi daresti in pasto a lui, vero?» «Non avrei altra scelta,» dissi trucemente. Con un'esclamazione di terrore, Lara di Tharna si lasciò cadere in ginocchio ai miei piedi, quindi poggiò la fronte al suolo ed incrociò i polsi. «A meno che tu non ti comporti bene,» aggiunsi. La donna balzò in piedi con un mugolio di rabbia. «Ora capisco: ti fai gioco di me. Mi hai costretta con le tue bugie ad assumere la posizione della prigioniera... Questo volevi!» Mi limitai a sogghignare. Le mani di lei si alzarono di scatto verso il mio volto, ma fui svelto ad afferrarla per i polsi e la tenni ferma. Notai per la prima volta che aveva grandi occhi azzurri. Quando la lasciai, indietreggiò fino alla parete rocciosa e mi voltò le spalle, ansando. «Forse che io ti diverto?», sbottò. «Puoi essere tutto, ma non una persona divertente, Regina.» «Insolente! Che vuoi da me? Devo considerarmi tua prigioniera o cos'altro?», esclamò in tono provocante. «Prigioniera,» confermai. Lei rifiutò di voltarsi a guardarmi e continuò a fissare la roccia. «Che intenzioni hai?» «Ti venderò ad un mercante di schiavi, in cambio di una sella e di armi.» Lara di Tharna ebbe un sussulto e si girò a fronteggiarmi, stringendo i pugni. «Tu non oserai farlo!», gridò. «Ti farò tutto quello che vorrò.» Nei suoi occhi balenò una luce furiosa. Dietro la maschera doveva avere il volto contratto in una smorfia d'odio. Per un poco non fece che osservarmi, ed infine la sua voce sibilò rovente come un acido: «Tu non sai quel che dici, bestia!»
«Levati la maschera. Voglio vedere quanto puoi essere valutata al mercato degli schiavi,» le ordinai. «No!» Le sue mani corsero a protezione del volto d'oro. «Già questa tua maschera potrà fruttarmi un buon guadagno,» osservai. «Ed io ho bisogno di denaro.» D'improvviso Lara ebbe una risata secca. «Certo. Col ricavato potrai ubriacarti per un anno intero.» Dal suo tono compresi che secondo lei io stavo parlando a vanvera o che stavo scherzando, e che non avrei avuto il coraggio di consegnarla ad uno schiavista. Ma per la buona riuscita del mio piano era necessario che la donna si convincesse della serietà delle mie intenzioni: solo così si sarebbe mostrata docile. La sentii ridere ancora, stavolta divertita. Si toccò gli strappi della veste e me li fece osservare. «Ma, come vedi,» disse in tono ironico, «non sono molto elegante. Ricaveresti ben poco da una schiava così malridotta. Se vuoi fare una buona vendita, procurami delle vesti pulite.» «Farò un affare molto migliore se ti venderò nuda.» Lara tacque, ma la mia affermazione doveva averla scossa. Decise allora di giocare una carta d'altro genere: si erse fieramente, squadrandomi con insolente alterigia, e la sua voce divenne sferzante come la tramontana: «Non avrai il coraggio di fare quanto dici, pezzente!» «Perché no?» «Perché, dici?» Si strinse nelle vesti filigranate d'oro con un gesto regale. «Io sono Lara, Regina di Tharna!» Mi chinai a raccogliere un frammento di roccia e lo gettai nel burrone, osservandolo mentre rimbalzava e precipitava sempre più in basso. Il tramonto era ancora lontano, ma il cielo si riempiva di nuvole grigie e si faceva scuro. In quel grande silenzio si udiva solo il fruscio del vento fra i picchi scabri ed i crepacci. «Se fornissi le prove della tua identità, delle prove inequivocabili,» dissi pensosamente, «ricaverei molto denaro da te. Magari dieci volte il tuo peso in oro. Ma quale mercante sarebbe disposto a credermi?» I modi della donna cominciarono a farsi più miti. «Vuoi davvero vendermi? Portarmi in un mercato di schiavi?» Visto che la guardavo con durezza, alzò di nuovo le mani al viso. «Mi costringeranno a levarmi la maschera?» «Quella e anche tutti i vestiti. Sarai soltanto una schiava come le altre.» «E dovrò... mostrarmi ai compratori?»
«Si capisce.» Lei ansimò. «Tutta nuda?» «No, nuda no. Avrai i bracciali e il collare,» ringhiai. E, vedendola vacillare a quella risposta, aggiunsi: «Nessuno è così idiota da comprare una schiava senza averla esaminata da tutti i lati. Ti pare?» «Lo so ...certo.» «Ma non ti maltratteranno. Basterà che tu sia gentile ...molto gentile, col banditore e qualche sorvegliante, la notte, e forse ti faranno anche qualche regalino.» Lara indietreggiò, come se l'impatto brutale di quelle parole l'avesse colpita in mezzo al petto, e si appoggiò alla roccia. Scosse la testa più volte, incapace di proferir parola per la disperazione, e vidi che stava tremando. «Mi farai questo ...a me?», balbettò, spaurita. «Fra due giorni sarai in piedi sulla piattaforma del banditore, al mercato di Ar, nuda come quando tua madre ti ha fatta, e pronta per il miglior offerente.» «No... no... no!», sussurrò lei. «Naturalmente ogni possibile acquirente vorrà controllare con le sue mani se sei vergine, com'è l'uso. Ma tu saprai sopportarlo con dignità, visto che non sei una donnucola qualsiasi.» Da sotto la maschera d'oro provenne un ansito rauco. Poi Lara piegò le gambe e si afflosciò a terra. Giacque quindi bocconi sulla roccia nuda, gemendo penosamente. Questo era perfino più di quanto avevo contato d'ottenere, e la sua angoscia m'impietosì. Per un attimo fui tentato di tirarla su, consolarla e controllare in quali condizioni fisiche fosse ridotta. Ma poi il pensiero di Linna e Andreas, e del sangue versato per colpa di quella Regina durante i Giochi, mi fermò. Lara era colpevole di tante atrocità che condannarla alla schiavitù sarebbe stato poco meno che un premio: nel letto di un uomo che l'avrebbe trattata bene e vestita di seta, non avrebbe certo pagato il giusto prezzo per i suoi crimini. «Oh, guerriero...» mormorò, con la faccia per terra. «Devi proprio vendicarti così crudelmente?» «Dimentichi quello che mi hai fatto? Dimentichi di aver riso, nell'arena, quando le fruste dei tuoi aguzzini strappavano il sangue e la vita dal corpo di quaranta disgraziati?» «Ma si trattava soltanto di uomini... di animali.» «Questa risposta potrei fartela ingoiare a schiaffoni, se non temessi di
rovinarti la faccia per l'asta degli schiavi.» «Lasciami la libertà, ti supplico.» «Non si lasciano in libertà i rettili velenosi. Tu chiedi l'impossibile, dopo ciò che hai fatto.» «Ordinerò che ti paghino un prezzo mille volte superiore a quello che riceveresti al mercato di Ar,» implorò lei con un singhiozzo. «Non è il denaro che potrà spegnere la mia sete di vendetta. Forse ti venderò per pochi spiccioli ad un carbonaio, o ad un bruto puzzolente di vino che ti terrà incatenata su un giaciglio brulicante d'insetti. O ad un pastore che t'ingraviderà una volta all'anno e ti manderà dietro alle pecore e nella stalla. O magari ti cederò ad un postribolo...» Lara mandò un gracidio strozzato, ed io stabilii che fosse venuto il momento di condurla dove volevo. Dissi, accigliato: «Non solo hai fatto soffrire me, ma anche i miei amici che sono nelle tue prigioni.» Lei si alzò in ginocchio. «Li farò liberare, credimi!», gridò. «Puoi forse cambiare le leggi di Tharna?» «Ahimè no. Ma abbi pietà, e ti giuro che saranno liberi. La mia vita per la loro... Ti prego, guerriero!» Finsi di considerare attentamente una proposta che mi sorprendeva, ma in realtà sapevo che non avrei ottenuto risultati migliori di questo. Lara vide la mia espressione e si alzò in piedi, dapprima speranzosa e poi quasi trionfante. «Pensa, guerriero: preferisci soddisfare una sciocca vendetta o veder liberi i tuoi amici? Pensaci! Essi soffrono, e attendono dalle tue mani la vita o la morte.» «Certo, l'onore della mia Casta m'impone d'aver cura degli amici,» risposi con serietà. La sua voce si fece esultante. «Allora, guerriero, chiederai questo patto alla mia città?» «Penso proprio di sì. Mi hai convinto.» «I tuoi amici te ne saranno grati,» rise lei. «Questa decisione ti procurerà gran merito.» «Voglio anche qualcos'altro.» «E cosa?», gridò Lara. «Dillo, dunque!» «La libertà per tutti quelli che sono in prigione e attendono di morire nei Giochi di Tharna.» E, vedendo la sua espressione, continuai: «Tutti quanti, oppure... il mercato degli schiavi.» «Va bene, guerriero. Ti assicuro che saranno liberati tutti.» «Posso fidarmi di te?»
Lara mi fissò dritto negli occhi. «Osi dubitarne? Tu hai la parola di una Regina. Questa domanda mi offende gravemente» «Perdonami, non dovevo fartela!», dissi. L'avrei uccisa, per la gelida sfacciataggine con cui mentiva, ma per intanto mi conveniva abbozzare. Le sorrisi. «Chi sono i tuoi amici?», domandò. «Linna di Tharna e Andreas di Tor delle Sabbie.» «Li conosco. Hanno commesso un grave delitto, unendosi come fanno le bestie.» «Ciò nonostante, dovranno essere liberati.» «Ma a che scopo? Linna è ormai una Donna Abbietta, l'altro un misero Cantastorie e dunque un fuorilegge. Sono certa che essi stessi desiderano solo espiare le proprie colpe, se hanno un minimo senso della giustizia.» «Stiamo sprecando tempo in chiacchiere inutili.» «Sia come vuoi, allora. Saranno posti in libertà.» «Desidero anche una sella da grifone e delle armi.» «Avrai quel che chiedi.» In quel momento un'ombra scura sorvolò la cresta rocciosa, e nell'aria risuonò un forte battito di ali: Horus era arrivato. Fra le zampe aveva un voluminoso pezzo di carne, all'apparenza i quarti posteriori di un bosk ucciso sulle alture oltre la piana, e dal sangue che gli insozzava il becco compresi che si era già riempito lo stomaco. Ma lì non c'era alcun nido, né femmine della sua razza, né una covata di piccoli grifoni, a cui del resto Horus avrebbe portato una preda viva. Venni a sapere la ragione del suo comportamento solo quando si fu posato ed ebbe lasciato la carne ai miei piedi: era, incredibile a dirsi, un dono. Con una risata di compiacimento gli scarruffai le penne del collo. «Grazie, Signore del cielo!», esclamai. Mi sedetti e cominciai ad attaccare la carne fresca con le mani e coi denti. La Regina mi lanciò un'occhiata di aperto disgusto, ma ero troppo affamato per fare complimenti. Quando gliene porsi un pezzo, ella indietreggiò sbarrando gli occhi, cosicché non volli insistere. Mentre m'ingozzavo a quel modo, Lara si portò sul bordo della terrazza rocciosa e lasciò vagare lo sguardo sulla pianura, liscia e gialla come un tappeto. Era una veduta piacevole, e la brezza portava fino a noi una delicata fragranza campestre che addolciva l'aria. Mi chiedevo cosa pensasse di me, e se si fosse resa conto che sul mio nome gravava una specie di anatema divino. O non aveva capito chi ero? La vidi stringersi nelle vesti e
restare immobile dinnanzi a quel panorama sterminato, solitaria e triste dietro quella sua faccia di metallo. «Talender...», mormorò fra sé un paio di volte. Con la bocca piena ed un filo di sangue che mi colava sul mento, brontolai: «Cosa può saperne dei fiori una donna di Tharna? Scommetto che se uno osasse crescere fra le pietre del tuo palazzo lo faresti arrestare per tradimento.» Lei non mi rispose. Poco dopo, appena ebbi finito di mangiare, disse: «È tempo che tu mi porti alla Colonna degli Scambi.» «E cosa sarebbe?» «È una grande colonna non distante da Tharna, sulla cui vetta i rappresentanti della città contrattano coi nemici la liberazione dei prigionieri. Laggiù incontrerai i miei uomini. Ti stanno aspettando.» Ero perplesso. «Mi stanno aspettando?» «Naturalmente. Non ti sei ancora chiesto perché nessuno ci ha inseguiti?» Fece una lunga risata. «I miei grifonieri sono andati subito là. E infatti, chi sarebbe così pazzo da rapire la Regina di Tharna per venderla altrove, quando la città sarebbe disposta a pagare come riscatto una somma dieci volte più elevata di quella che chiunque altro sborserebbe?» La guardai in silenzio. Lara inclinò il capo di lato, nel restituirmi l'occhiata. «Sai, per un momento ho quasi creduto che tu fossi proprio un folle di questo genere.» Nella sua voce sembrarono vibrare delle emozioni strane e indecifrabili. «Ai tuoi occhi sono certamente un pazzo. Ma non temere, tornerai nella tua città.» Avevo ancora la sua sciarpa dorata, quella che nell'arena era stata una buona scusa per una sua battuta di spirito. Gliela mostrai inarcando un sopracciglio. «Voltati e unisci le mani dietro la schiena,» ordinai. A testa alta la Regina ubbidì. Le tolsi i guanti tessuti in filo d'oro e me li ficcai nella cintura, quindi usai la sciarpa per legarle i polsi. Fatto ciò condussi la mia prigioniera presso il grifone e la issai con leggerezza sul suo dorso piumato. Saltai su dietro di lei, la cinsi con un braccio, e con l'altra mano mi afferrai alle penne più robuste e difficili da strapparsi. «Redine uno!», gridai. Horus si portò sull'orlo granitico, aprì le ali, e s'involò verso la pianura con maestosa sicurezza. Capitolo 16 LA COLONNA DEGLI SCAMBI
Non ci mettemmo più di tre quarti d'ora per raggiungere di nuovo il territorio di Tharna, e sotto la guida della Regina diressi il grifone verso un terreno erboso situato circa otto chilometri a nord ovest della città. Qui la donna m'indicò un monumentale torrione di marmo bianco, alto almeno trenta metri e largo altrettanto. Più che una colonna era un monolito, la cui sommità piatta poteva esser raggiunta solo in groppa ad un grifone. Non si trattava di un luogo mal scelto per lo scambio dei prigionieri, ed offriva quantomeno la garanzia che tranelli e agguati non sarebbero stati di semplice esecuzione. L'enorme cilindro era inespugnabile dal suolo, e dalla sua cima si poteva sorvegliare una vastissima pianura coltivata e priva d'alberi. A sud est era visibile la città, da cui partiva un intreccio di strade sterrate, in quel momento deserte. Già molto prima di arrivare avevo notato che sulla sommità del monolito erano appollaiati tre grifoni, e accanto a loro attendevano tre guerrieri ed una Maschera d'Argento. Mentre passavo sulla loro verticale, uno degli uomini si tolse l'elmetto e con ampi gesti mi segnalò di atterrare liberamente. Lo riconobbi: era il capitano Thorn. E notai che tutti e tre erano armati. «Sulla Colonna degli Scambi c'è forse l'uso di presentarsi con le armi in mano?», domandai a Lara. «È un luogo d'onore. Ti assicuro che nessuno si abbasserebbe a un vergognoso atto di tradimento, lassù.» Io stavo invece considerando l'ipotesi di allontanarmi in fretta, e borbottai: «Ah, sì?» «Devi credermi.» «Quale garanzia mi puoi dare?» «Hai la parola della Regina Lara di Tharna, guerriero,» dichiarò lei con fierezza. «Redine quattro!», ordinai al grifone. Horus parve non avermi sentito, così ripetei: «Redine quattro! Redine quattro!» Non ottenni alcun risultato. Forse innervosito dagli elmetti blu che aveva imparato a destare, Horus rifiutava di scendere. «Redine quattro!» gridai con forza. Stavolta il volatile mi ubbidì. Calò con riluttanza sulla piatta cima del torrione, ed i suoi artigli stridettero sul marmo. Tenni stretta la Regina cingendola con un braccio, e rimasi immobile sulla groppa di Horus chiedendomi se non stavo facendo una sciocchezza enorme. Calmai il nervosismo
del rapace con qualche calcetto in un fianco e gli mormorai di starsene buono. La Maschera d'Argento fece alcuni passi verso di noi ed esclamò: «Benvenuta sia la nostra nobile Regina!» La sua voce era quella di Dorna, l'Eletta di Tharna. «Resta lontana!», le ordinai. Dorna si fermò. Cinque metri più indietro di lei, Thorn e gli altri due non si erano mossi. Lara rispose al saluto con un regale cenno del capo. «Guerriero,» disse Dorna.«Riconosciamo il tuo diritto a trattare il riscatto, ma ora restituisci a noi la nobile Regina. L'intera città invoca il suo ritorno, e nelle strade si piange. Non vi sarà più gioia in Tharna, finché la Signora dalla Maschera d'Oro non siederà ancora sul suo trono.» A quelle parole non potei trattenere una risata, e la voce dell'Eletta si fece ringhiosa: «Quali sono le tue richieste, guerriero?» «Una sella, delle armi, la libertà per Linna di Tharna e Andreas di Tor delle Sabbie, ed il rilascio di tutti gli uomini che erano con me nell'arena,» risposi. «E questo è tutto?», si sorprese lei. «Non voglio altro.» Thorn scosse il capo, indirizzandomi una risata sprezzante. Certo al mio posto avrebbe preteso ben altro. Dorna fissò la Regina come per chiederle conferma, quindi disse: «La tua richiesta verrà esaudita, e in più ti farò consegnare cinquemila denari d'oro, mille lingotti d'argento ed un elmo ingioiellato.» «Devi amare molto la tua Regina,» osservai. «La mia generosità ti stupisce, vero?» «Per nulla. Ho già avuto modo di notare quanto tu sia d'animo nobile ed altruista.» Nella stretta del mio braccio sinistro Lara si contorse nervosamente, ma la tenni ferma. «Offrirti di meno,» fece osservare Dorna, «sarebbe un'offesa al rango della nostra beneamata Regina.» Lara si agitò ancora, sbuffò, e poi disse con alterigia: «Non trovo che queste condizioni onorino a sufficienza la mia persona. Oltre a quanto hai detto dovranno essergli consegnati ancora diecimila denari d'oro, duemila lingotti d'argento, e cento elmetti ingioiellati.» Dorna ebbe un gesto d'ironica arrendevolezza. «Come vedi, guerriero, la nostra Regina è così prodiga e munifica che ti regalerebbe perfino le mura della città.» Lara la ignorò, girando a mezzo la testa verso di me. «Ti soddisfa la mia
proposta?» Fra le due donne c'era una tensione che non mancai di notare ancora una volta, un misto di sfide e di velatissimi affronti reciproci. Ma ciò non mi riguardava. «Sono soddisfatto, sì.» «Allora lasciami,» comandò. Scivolai giù dal dorso del grifone sempre tenendola stretta a me, poi le sciolsi le braccia. Appena la donna ebbe di nuovo la sua libertà di movimento, parve aumentare di statura e tornò ad essere l'imperiosa dominatrice di Tharna, quasi che gli strappi delle sue vesti non esistessero più ed il ricordo di quell'avventura fosse svanito magicamente. Altezzosa e superba, senza degnarsi di guardarmi, tese una mano per riavere i guanti che avevo infilato nella cintura. Glieli restituii, ed ella se li infilò con deliberata lentezza, non meno che se intorno a lei vi fossero dei servi immeritevoli di attenzione. In quell'atteggiamento c'era qualcosa che non mi piacque affatto. Si mosse a passi regali verso Dorna ed i tre guerrieri. Giunta accanto a loro si volse nuovamente a fissarmi, ed i suoi occhi erano così inespressivi che avrebbero potuto far parte del metallo della sua maschera. Poi puntò un dito contro di me. «Catturate quella bestia indegna!», gridò. Come se non avessero atteso altro, il capitano Thorn ed i suoi balzarono avanti e mi puntarono le spade nelle costole. «Uno sporco tradimento!...», ringhiai. «Immaginavo che l'onestà ti facesse schifo, ma non fino a questo punto.» Lara di Tharna emise una risata chioccia, sprizzando soddisfazione. «Stupido pazzo! Davvero t'illudevi che una Regina potesse abbassarsi a patteggiare con un animale? Ora tocchi con mano le conseguenze della tua presunzione.» «La parola d'onore di Lara di Tharna vale meno dello sterco di un serpente,» dissi. «Taci. Tu stai parlando con una Regina, bestia sozza!» Thorn mi premette l'arma nella carne. «Dammi il permesso di ammazzarlo qui!», abbaiò. «No,» disse Lara. «Non sarò così pietosa con chi mi ha offesa, e la sua pena dovrà essere la morte lenta.» I suoi occhi erano duri come due ovali di porcellana, tanto pieni d'odio da sembrare vacui. «Portatelo subito nelle miniere. Laggiù apprenderà a maledire il ventre della donna che lo ha partorito.»
All'improvviso l'aria fu lacerata dal gracidio di Horus, che dietro di me mosse furiosamente le ali. I tre militi si volsero di scatto, ed io approfittai di quell'istante per scostare le loro spade. Con uno spintone mandai Thorn ed uno degli altri due a ruzzolare sulla bianca superficie di marmo, e la Regina e Dorna indietreggiarono gridando. Il terzo guerriero mi si precipitò addosso alzando la spada, ma lo afferrai per il polso e, con una rapida mossa di lotta, gli imprigionai il braccio sotto un'ascella. Poi, facendo leva, gli spaccai l'articolazione del gomito che cedette con uno scricchiolio secco. L'uomo cadde al suolo torcendosi per il dolore. Thorn e l'altro si erano subito rialzati, ma li agguantai entrambi per la gola prima che potessero colpirmi, uno per mano. Con uno sforzo che la rabbia bestiale mi rese facile, li feci cadere entrambi in ginocchio, e nella mia stretta i due mollarono le spade e presero a fare concitati tentativi per evitare lo strangolamento. Soltanto allora mi accorsi che Dorna e Lara di Tharna erano alle mie spalle e mi stavano colpendo sulle braccia e sul dorso con quelle che mi parvero spille per capelli. Risi ferocemente, senza neanche sentire quelle lievi punture. Subito dopo accadde però qualcosa di strano, e mi sembrò che tutto quanto si capovolgesse più volte. Sbattei le palpebre, cercai di rimettere a fuoco la vista e mi resi conto d'essere disteso in terra ai loro piedi. Che mi stava succedendo? Non potevo più muovere le gambe e le braccia, e tutto ciò che seppi pensare fu che l'inconveniente era assurdo e seccante. «Adesso legatelo!», sentii che ordinava la Regina. Lentamente riacquistai la sensibilità degli arti, ma questo non mi giovò molto, perché delle mani robuste mi stavano girando intorno al corpo una catenella lunga e sottile. Venni immobilizzato completamente. Ci fu ancora la risata di Lara, aspra e antipatica. Poi la donna comandò: «Ammazzate quell'orribile grifone!» «Troppo tardi! Quella bestiaccia è volata via!», brontolò Thorn. Poco per volta, sebbene le forze non volessero saperne di tornarmi, la vista mi si schiarì e smisi di captare tutto come attraverso un vetro deformato. Ero disteso supino, e potevo contemplare la punta dei miei sandali, una parte della piattaforma marmorea e tutto quanto il cielo sopra di me, invaso dalle nubi. In alto, lontana, c'era la sagoma nera di Horus che volava via. Il grifone era stato abbastanza intelligente da andarsene, certo perché aveva notato che gli uomini erano muniti di sprone. Adesso si sarebbe diretto alla Cate-
na del Voltaj, dove i grifoni selvatici trovavano il loro ambiente ideale, avrebbe cercato una femmina, e sicuramente non si sarebbe fatto toccare mai più da mani d'uomo. La cosa non mi dispiacque troppo, tuttavia provai un senso di perdita. Thorn mi afferrò per i polsi e mi trascinò verso l'altra estremità dello spazio circolare, presso i loro grifoni. Ero inerme, incapace di fare un sol gesto anche se fossi stato libero. Le mie catene vennero assicurate ai finimenti su un fianco del rapace che avrebbe dovuto portarmi via. Poi il capitano Thorn e le due donne parlottarono un po' fra loro, ignorandomi come se avessi cessato d'esistere. Il guerriero a cui avevo fratturato un gomito era in ginocchio un po' più in là e scuoteva la testa da una parte e dall'altra, stringendosi il braccio al petto. Nessuno gli prestava attenzione. L'altro invece ebbe ordine di salire sul grifone al quale mi avevano appeso. «Perché siete venuti soltanto voi?», sentii che la Regina diceva, in tono di rimprovero. «Era più che sufficiente,» rispose Thorn. Lara puntò un braccio in direzione della città, ben visibile oltre le piatte distese dei campi. «Molti cittadini sono usciti dalle mura e stanno venendo qui lungo la strada. Devono essere migliaia. Li avete autorizzati forse a celebrare il mio ritorno con una manifestazione pubblica?» Né Dorna né il capitano Thorn le diedero alcuna risposta. La Regina allora si voltò ed attraversò la sommità del torrione, tornando accanto a me. M'indicò la strada, annuendo con enfasi. «Peccato che tu non possa assistere alla processione trionfale con cui la città mi accoglierà. Sono quasi tentata di farti trascinare al mio seguito entro le mura.» Dietro di lei la voce di Dorna risuonò d'una nota chiaramente sarcastica: «Meglio di no. Non si tratta di una processione di giubilo, Signora. Non esattamente.» «No!» Lara la fissò, perplessa, «E come mai?» La maschera d'argento dell'Eletta era impassibile, ma fui sicuro che dietro di essa stava sogghignando. Rispose: «Vedi, Signora, il fatto è che tu non tornerai a Tharna.» «Non capisco. Che significa questo?», si allarmò Lara. Il guerriero che montava il grifone scelse quel momento per dare uno strappo alle redini, facendo alzare in volo il grande uccello, cosicché non potei seguire il resto di quell'interessante conversazione. Stavo molto scomodo, e penzolavo praticamente nel vuoto. La monumentale Colonna degli Scambi s'allontanò sotto di noi, e le figure di Dorna, di Lara e degli altri
due rimpicciolirono pian piano finché non fui più in grado di vederle. Capitolo 17 LE MINIERE DI THARNA Il locale dalle pareti di pietra era lungo circa quaranta metri ed alto appena un metro e mezzo, una sorta di corridoio dove soltanto un nano non sarebbe stato costretto a procedere in ginocchio. Mi era stato detto che quello era il nostro dormitorio, e ad ogni estremità di esso c'era una lampada ad olio. Quanti budelli di quel genere vi fossero nelle miniere appartenenti alla città di Tharna non ero in grado d'indovinarlo, ma certo non dovevano essere meno di cento. La lunga fila di schiavi incatenati di cui facevo parte anch'io vi entrò lentamente carponi e, quando l'uomo di testa ebbe raggiunto il fondo, l'intero spazio fu occupato da corpi sudati e puzzolenti: erano sessanta sventurati, reduci dagli angusti cunicoli dove si scavava il minerale d'argento. La porta d'acciaio venne chiusa, e all'esterno ci fu il clangore dei quattro catenacci spinti al loro posto. Il pavimento era bagnato, pieno di buche dove si era raccolta l'acqua sporca che filtrava dalle pareti e pioveva incessantemente dal soffitto. L'aria vi giungeva attraverso un sistema di ventilazione cosi primitivo e inadeguato da far paura: si trattava di due fori nel soffitto, larghi appena un pollice e distanziati di dieci metri. Sempre nel soffitto, al centro del locale, c'era un'apertura a sezione quadrata larga poco più di mezzo metro. Andreas di Tor delle Sabbie, incatenato al mio fianco a metà della fila, s'accorse che guardavo in alto e m'informò, con una smorfia: «Quel buco serve ai guardiani per inondare la nostra residenza, amico.» Seduto con le spalle appoggiate alla parete umida, annuii, per indicare che avevo già sentito parlare della cosa. Mi domandavo quante volte, nel sottosuolo di Tharna, i dormitori notturni fossero stati riempiti d'acqua dagli aguzzini, e quanti schiavi avessero trovato la morte per annegamento in quelle trappole. Non ero rimasto molto sorpreso nell'accorgermi che nelle miniere d'argento la disciplina veniva mantenuta con sistemi più adatti ad un girone dell'Inferno. Mi era stato detto che neppure un mese prima, in un cunicolo due livelli più in alto del nostro, uno degli schiavi si era ribellato al Capo Catena della sua squadra. «Affogateli tutti!», era stata la decisione del Comandante della Miniera. Non c'era da meravigliarsi che gli stessi minatori considerassero con orrore i discorsi sovversivi e la possibilità d'iniziare una rivolta: avrebbero
piuttosto strangolato uno di loro che rischiare d'essere affogati per colpa sua. L'intera miniera avrebbe potuto venir inondata con facilità dai guardiani, fin dai primi accenni di ribellione generale. Ciò era già accaduto una volta in passato, come si erano affrettati a farmi sapere i miei compagni di sventura, e per pompare via l'acqua e togliere di mezzo oltre cinquemila cadaveri erano occorsi due mesi di lavoro. Andreas mi diede di gomito. «Per chi ha deciso di suicidarsi, questo posto può presentare aspetti interessanti. Non ti pare?» «Già. E il principale è che qui non ci si mette molto a desiderare un bel suicidio,» cercai di scherzare. «Mangia, amico.» Andreas mi porse un pesce crudo, insieme ad un pezzo di pane così duro che per distinguerlo da una pietra sarebbe stato necessario un attento esame. Cominciai a rosicchiarlo in silenzio, prestando orecchio agli ansiti degli altri. Molti avrebbero ingoiato anche le spine del pesce, che sminuzzate erano pur sempre meglio di niente. Notai che alcuni dei più robusti strappavano il cibo dalle mani degli altri, dopo averli messi a tacere con un ringhio minaccioso. «Qui dentro l'uomo impara che la sopravvivenza è una lotta,» diagnosticò Andreas. «La bestia più forte vive, la più debole muore.» Prima di cacciarci in quella prigione, il Capo Catena ci aveva fatti fermare in una camera rettangolare, anch'essa semibuia, ed uno degli schiavi addetti al vettovagliamento aveva rovesciato in un truogolo una cesta contenente tozzi di pane, verdura marcia, pesci e altra roba. Gli schiavi si erano gettati sul cibo come ammali, lottando fra loro, grufolando, bestemmiando atrocemente, e prendendone ciascuno più che poteva. Disgustato da quella scena avevo cercato di tenermi in disparte, sebbene la catena mi trascinasse fino a confondermi in quella mandria assatanata. Ma adesso me ne pentivo, perché Andreas aveva dovuto darmi metà del suo cibo. Non c'era dubbio che avrei dovuto adeguarmi a fare come gli altri, e forse ancora peggio, se non avessi voluto morire di fame. Mi chiedevo cosa fosse a tenere me ed il Cantastorie così attaccati alla vita, in una situazione che non presentava alcun futuro. Perché non ci tagliavamo le vene e non la facevamo finita? Perché avevamo ancora la forza di scherzare fra noi? Quelle domande, che in qualunque altro posto sarebbero sembrate sciocche, non lo erano nella profondità delle miniere di Tharna. «Forse dovremmo studiare un piano di fuga,» dissi, a bocca piena.
«Taci, stupido!», mi zittì una voce spaventata da cinque o sei metri di distanza. L'uomo che aveva parlato era Ost, il cospiratore, il quale era stato condotto lì qualche giorno prima di Andreas e di me. Come c'era da aspettarsi, Ost provava nei miei confronti un odio mortale, ritenendomi responsabile delle sue disgrazie. Quel giorno, durante il lavoro di scavo, mi aveva spesso fatto cadere dalle mani il minerale che staccavo dalle pareti della galleria. E per ben due volte aveva rubato il mucchio di frammenti da me preparato, per metterli nel sacco che anch'egli portava appeso al collo. Questo mi era costato due frustate da parte del Capo Catena, lo schiavo responsabile della Catena di cui facevo parte, perché quella sera il mio contributo alla quota obbligatoria di minerale era stato inferiore al necessario. La Catena 24 Ovest, che si occupava della sezione di cunicoli chiamata 24 Ovest, era obbligata a caricare ogni giorno sulla piattaforma dell'elevatore sei tonnellate di minerale grezzo, ovvero di argentopirite, un solfuro molto ricco d'argento. Se una Catena non raggiungeva la quota per essa stabilita, gli schiavi venivano lasciati senza il pasto serale. Se la mancanza si ripeteva per tre volte di seguito, i guardiani inondavano il dormitorio durante la notte per eliminare gli elementi più deboli della Catena oppure, se così garbava loro, per sterminarli dal primo all'ultimo. Con l'arrivo di Andrea e me, oltre a qualcuno dei detenuti che avevo conosciuto nell'arena, la quota giornaliera era stata aumentata, e questo non aveva fatto piacere agli schiavi più anziani, che per un po' avrebbero dovuto lavorare sodo per compensare il minor rendimento dei novellini. Ost si sporse a fissarmi. «Bada a te. Se ti sento ancora dire pazzie simili farò la spia. Io ci tengo alla pelle!» Mi voltai a guardare l'ometto, pallido e grassoccio. In quel momento lo vidi portarsi le mani al collare e vacillare, strabuzzando gli occhi. Una voce rude grugnì: «Tu non farai la spia a nessuno, vermiciattolo. Altrimenti hai finito di campare!» Chi aveva parlato era un altro dei nuovi minatori, Kron di Tharna, il robusto lottatore biondo da me affrontato nell'arena. L'uomo attorse la catena al collo di Ost, facendolo gemere, poi lo schiacciò a terra. «Non lo strangolare,» intervenni. «È soltanto un povero idiota.» «Come vuoi tu, guerriero,» brontolò Kron. «Ma, se lo vuoi morto, basta una tua parola.» Andreas mi strizzò l'occhio. «Sembra che tu abbia un amico.»
Gli schiavi accanto a noi erano sfiniti e giacevano in pose scomposte. Con un gran rumore di catene smosse, Kron si distese sul pavimento, allontanando gli altri per avere più spazio e, dopo un poco, il suo sonoro russare m'informò che si era tranquillamente addormentato. «Cos'hanno fatto a Linna?», domandai al Cantastorie. Ebbe un sospiro di sconforto. «È stata mandata in una delle Grandi Fattorie. Povera ragazza... per colpa mia l'aspetta una vita durissima. Io le ho fatto molto male, Tarl.» «Non direi. L'affetto per te, anzi, l'ha svegliata alla vita. Comunque, sta molto meglio di noi: consolati.» Nel cunicolo la conversazione era ridotta a grugniti e borbottii, e si udivano le gocce d'acqua cadere sul pavimento e sui corpi. Eravamo tutti così sporchi ed irriconoscibili che preferivamo fare a meno di guardarci l'un l'altro, ed ognuno pensava solo a cercare una posizione non troppo scomoda per smaltire nel sonno la fatica. Le tenebre dell'incoscienza erano il solo sollievo alla disperazione di quell'esistenza. Cercai d'addormentarmi, ma non riuscivo a scacciare i pensieri. Ero più lontano che mai dalle Montagne di Sardar, e se anche l'idea di penetrare nella roccaforte dei Re Sacerdoti era folle, adesso non avevo modo di metterla in pratica. Ero in catene, avevo perduto la donna che amavo, mio padre, ed i miei amici. Di Ko-ro-ba non restava più neppure una pietra. Il mistero che avvolgeva i dominatori del pianeta sarebbe rimasto tale, almeno per me, perché presto o tardi avrei trovato la morte in quei budelli sotterranei e la mia avventura si sarebbe conclusa lì. Questo era quanto mi andavo ripetendo, come in un incubo. Mi era stato detto che Tharna aveva un centinaio di miniere simili alla nostra, in ciascuna delle quali lavorava una Catena di schiavi. Ogni miniera era formata da un breve insieme di cunicoli orizzontali, tortuosi, alcuni dei quali s'intrecciavano nel sottosuolo della città stessa. Per la maggior parte quei budelli non erano abbastanza alti da consentire ad un uomo di restare in piedi, e non possedevano alcuna armatura di pali e travi per garantire la stabilità dei soffitti. Per lavorare nei tunnel che seguivano il giacimento di minerale lungo i suoi filoni, si doveva procedere in ginocchio o a quattro zampe, e ciò provocava lesioni facili ad infettarsi. Lo strumento usato per attaccare la ganga era un corto piccone, che veniva distribuito ogni mattina e ritirato la sera, mentre il sistema di trasporto consisteva nel sacco che ciascuno si appendeva al collo. Quando i sessanta uomini avevano il sacco pieno, il Capo Catena li faceva passare dal cunicolo per de-
positare il minerale presso il pozzo dell'elevatore, ed alla sera si mandava su il carico in presenza di un guardiano che ne stabiliva ad occhio il peso. Piccole lampade ad olio fornivano l'illuminazione alle gallerie. L'orario di lavoro comprendeva i tre quarti del giorno, ovvero 15 ahn, corrispondenti a circa 18 ore terrestri. Nessuno schiavo aveva il permesso di salire con l'impianto di sollevamento del materiale cosicché, una volta presi in forza alle miniere, non si vedeva mai più la luce del sole. L'unico elemento che veniva ad interrompere la monotonia, una volta all'anno, era la distribuzione di una minuscola torta di miele e farina fatta in occasione del compleanno della Regina. In certi anni, mi fu detto, quando la Regina era in vena di particolare generosità, a questo veniva aggiunto un boccale di kalda. Uno degli schiavi della mia Catena, una specie di scheletro pieno di cicatrici, disse che in dieci anni gli era accaduto di bere il kalda per ben tre volte, e la sua maggiore speranza era che ciò avvenisse ancora. Quell'individuo rappresentava però un caso raro, una curiosità statistica, perché la resistenza media dei condannati non superava i sei mesi. Le malattie erano in un certo senso sconosciute, dato che i guardiani ammazzavano subito chiunque fosse incapace di reggersi in piedi. Mi addormentai con gli occhi ancora fissi sul foro centrale del soffitto, e quella notte sognai che stavo annegando. Il mattino successivo venni svegliato dalle bestemmie del Capo Catena, dai lamenti degli schiavi e da un clangore metallico e, sebbene in quel luogo regnasse un'eterna penombra, seppi che un nuovo giorno era iniziato. Ci trascinammo in fila fuori dalla cella-dormitorio, ed emergendo nel locale rettangolare, ciascuno ricevette dal Capo Catena il buondì, che consisteva in una frustata ed una spinta. Il truogolo addossato alla parete era già stato riempito, e gli schiavi s'avvicinarono ad esso, ma vennero ricacciati indietro con sonori colpi di frusta e calci: ancora non era stato dato il permesso di toccare il cibo. Il Capo Catena, uno schiavo dalla incolta barba nera, teneva moltissimo al suo rango privilegiato. Il suo collo era libero, dormiva fuori dalla cella comune, ed aveva in dotazione uno scudiscio. Fra i suoi diritti c'era quello di scegliere per primo i bocconi migliori o meno avariati, e quello di dare il via alla bolgia dopo essersi servito del cibo. I miei compagni restarono immobili a guardarlo mangiare, finché si decise ad alzare una mano, quella armata di frusta. Quando l'avrebbe abbassata, sarebbe stato il segnale della colazione mattutina. Lessi un sadico
piacere nei suoi occhi, mentre si divertiva a prolungare la nostra attesa. Dopo un paio di minuti buoni abbassò finalmente la frusta. «Ingozzatevi, bestie!», esclamò. E gli schiavi si precipitarono avanti. «No! Fermi!», gridai io. Alcuni, sorpresi dal suono della mia voce, si arrestarono, col risultato che quattro o cinque inciamparono nella catena e caddero goffamente. Gli altri si voltarono a guardarmi con occhi privi d'espressione. Il Capo Catena fece schioccare lo staffile. «Mangiate, ho detto!» «Che nessuno si muova o gli torco il collo!», ordinai invece io. Gli schiavi conoscevano la mia forza ed esitarono. Uno di essi, Ost, fece per correre al truogolo, ma era incatenato a Kron e riuscì a fare solo un paio di passi prima che il biondo lo tirasse indietro. Il Capo Catena mi si avvicinò. «Cerchi rogna, tu?», sbottò, lasciandomi andare una frustata. «Non mi colpire una seconda volta!», dissi a bassa voce. Il mio sguardo lo fece indietreggiare. Non era uno sciocco, e in esso aveva letto con assoluta certezza che, se ci avesse provato, gli avrei spezzato la schiena. Mi rivolsi agli altri. «Non siamo animali. Siamo uomini. Se qualcuno preferisce compotarsi da bestia, Kron di Tharna ed io gli insegneremo l'educazione. Attenderemo con ordine e ciascuno riceverà la stessa razione di cibo. A distribuirlo sarà Ost.» Ost si mosse verso il truogolo con un sorrisetto, afferrò un pesce e fece per cacciarselo in bocca. Ma uno strattone alla catena lo sbatté in ginocchio a terra, ed allora guaì come un cane. «Hai sentito cos'ha detto il guerriero, vermiciattolo?», lo redarguì Kron. «O vuoi che te lo ripeta io?» Andreas sorrise. «Abbiamo scelto te, Ost, perché conosciamo tutti la tua cristallina onestà. Siine degno.» Per la prima volta, dopo chissà quanto tempo, gli schiavi risero. Poi, mentre il Capo Catena osservava brontolando e scuotendo la testa, l'ometto provvide con più solerzia del previsto alla distribuzione del cibo mattutino. Era scarso e probabilmente anche avariato, ma una volta tanto tutti mangiarono con calma, e fu evidente che apprezzavano la novità. Da ultimo rimase solo una pagnotta stantia per me e per Ost. La spezzai in due e gliene porsi metà. «Mangia, onest'uomo,» dissi. Lui mi fissò con astio e prese ad ingozzarsi furiosamente. «La cella verrà
inondata per questo!», ringhiò, a bocca piena. Andreas il Cantastorie disse allegramente: «In tal caso i Re Sacerdoti mi hanno fatto una gran dono, concedendomi di morire al fianco di un prode come te, Ost di Tharna. Dimmi, mi terrai la mano se dovessero inondare la cella?» Ancora una volta gli uomini risero. Poco dopo tutti sfilammo nel cunicolo che portava al giacimento di minerale. Il Capo Catena si limitò a borbottare qualche ordine, distribuendo i sacchi ed i picconi, ma non usò più la frusta. Quel giorno la quota obbligatoria di minerale venne raggiunta senza difficoltà, e così anche l'indomani. Capitolo 18 L'EVASIONE Occasionalmente alcune notizie proveniente dal mondo esterno filtravano nelle miniere, grazie agli schiavi addetti al trasporto del cibo. Questi detenuti erano molto più liberi e fortunati degli altri, poiché avevano accesso al grande pozzo centrale e potevano salire e scendere con l'elevatore. Le miniere formavano in realtà un corpo unico, e ciascuna aveva un cunicolo che si apriva su questo pozzo verticale, ad un livello o ad un altro, ma le si considerava separate ed in effetti lo erano. Il poderoso elevatore del pozzo era il solo mezzo di comunicazione fra i cunicoli posti a diverse profondità, e l'unico sbocco alla superficie dell'intero sistema. Da lì venivano fatti scendere i nuovi schiavi e tirati su i cadaveri di quelli che avevano deciso di dare le dimissioni dal lavoro e dalla vita, perché lasciarli marcire dabbasso sarebbe stato controproducente. Alla manovra dell'argano c'erano altri schiavi, e costoro riuscivano a captare le notizie di ciò che accadeva in città riferendole poi a quelli che trasportavano il cibo, finché da ultimo anche i detenuti dei livelli inferiori venivano a conoscerle. E quella che fece più rapidamente il giro della miniera fu che a Tharna c'era una nuova Regina. «Chi è?», domandai, allo schiavo che aveva portato il cesto con le cibarie. «Dorna,» rispose lui. «E cos'è accaduto a Lara?» L'individuo rise. «Sei proprio un ignorante, tu.» «Le novità non circolano molto, qui,» gli ricordai. «Lara è stata rapita. Lo sanno tutti, da Ar a Porto Kar.»
«Rapita come? Quand'è successo?» «Catturata, prelevata in volo,» spiegò lui. «Da un grifoniere fuorilegge.. Il peggiore che vi sia.» «E si sa il nome di costui?» «Tarl.» La voce dello schiavo s'abbassò in un sussurro. «Tarl Cabot, di Ko-ro-ba. Così si dice in giro.» Rimasi zitto, cercando di assimilare quell'informazione, e l'altro aggiunse: «Si tratta del fuorilegge che è sopravvissuto ai Giochi. Questo l'avrai sentito raccontare, no?» «Sì, certo,» borbottai. I miei compagni di Catena attendevano in silenzio la distribuzione del misero cibo. Lo schiavo alzò la voce per loro: «Volevano farlo divorare da un grifone, nell'arena, ma lui ha liberato l'uccello e gli è saltato in groppa, fuggendo in volo. Subito dopo è tornato indietro ed ha fatto afferrare la Regina Lara dal grifone, proprio come se la sgualdrina fosse un tabuk!» L'uomo rise ed i miei compagni gli fecero eco. La dominatrice di Tharna non era precisamente amata nelle miniere. Io solo restai serio. «Ma cos'è accaduto alla Colonna degli Scambi?», domandai ancora. «Voglio dire... la Regina non è forse stata condotta là, per essere liberata dietro pagamento del riscatto?» «Oh, tutti credevano che il grifoniere avrebbe fatto proprio questo, ma lui non è tornato. Si vede che desiderava più lei del riscatto. Eppure avrebbe potuto farsi pagare oro e gioielli in quantità.» «Può darsi che Lara fosse molto bella, sotto la maschera,» disse qualcuno. «O forse era così brutta che quanto lui gliel'ha tolta lo spavento lo ha ucciso,» scherzò un altro. Afferrai lo schiavo per un braccio. «Aspetta. Sei certo che Lara non sia stata portata alla Colonna degli Scambi?» insistei. «Ti ho detto di no. Altrimenti ora siederebbe sul trono, non ti pare? Alla Colonna si erano recati Dorna e tre guerrieri, fra cui il capitano Thorn, sperando che il rapitore venisse a contrattare il riscatto. Più tardi, visto che l'uomo non arrivava, si è dato il via all'inseguimento nell'aria e al suolo, fin oltre le colline, ma non è servito a niente. In un campo, il capitano Thorn ha ritrovato il vestito di Lara e la maschera d'oro. «L'uomo fece una smorfia.» E adesso quella maschera la porta Dorna. La Regina è lei... bah!» «Secondo te qual è stato il destino di Lara?» Alcuni dei presenti ridacchiarono. Il tono dello schiavo si fece ironico.
«Tu cosa credi che le sia accaduto, dopo che il grifoniere le ha tolto i vestiti?» «E state sicuri che oggi Lara avrà indosso una veste di ben altro genere!», esclamò qualcuno. «Ve l'immaginate l'orgogliosa Lara vestita solo del camisk?», sghignazzò un altro. «Col camisk e col collare da schiava!» Di nuovo tutti risero fragorosamente. Ma Andreas di Tor delle Sabbie m'indirizzò un'occhiata con la quale mi comunicava che si stava ponendo i miei stessi interrogativi. Più tardi convenne che la sorte di Lara era facile ad intuirsi, visto che la manovra con cui Dorna l'aveva tolta di mezzo era stata d'una linearità esemplare. Un po' alla volta i miei tentativi di restituire l'amor proprio agli uomini della Catena 24 Ovest ottennero qualche risultato. Alle ore dei pasti regnavano l'ordine e la calma, e nella cella-dormitorio nessuno si picchiava per avere più spazio. Li incoraggiavo a parlare del loro passato, a chiamarsi per nome invece che con un grugnito, a discutere dei modi migliori per lavorare in gruppo sul filone del minerale, ed a collaborare. Sebbene circa metà provenissero da città diverse, presero a rispettarsi e ad accettarsi a vicenda. Quando uno di noi era malato, tutti facevamo del nostro meglio per nascondere il fatto al Capo Catena e lavoravamo anche per lui. Se qualcuno si feriva o veniva frustato a sangue, lo curavamo e gli davamo il cibo e l'acqua finché non si era ripreso. Si sviluppò così un senso di fratellanza da cui ognuno traeva vantaggio, ed il solo Ost spregiava questo nuovo modo di tirare avanti: l'ometto affermò più volte che la cosa non sarebbe piaciuta ai guardiani, e che prima o poi la loro punizione sarebbe arrivata. La nostra Catena imparò a lavorare meglio, e durante lo scavo potemmo approfittare della maggiore efficienza produttiva per introdurre tre pause di mezz'ora l'una durante il turno. Quando i guardiani s'accorsero che non avevamo difficoltà a raggiungere la quota obbligatoria, si affrettarono ad aumentarcela, ma questo non bastò a crearci problemi. Andreas canterellava ballate comiche anche mentre manovrava il piccone, tenendo alto il morale del gruppo, e non di rado trascinava gli altri a cantare in coro. Ciò meravigliava il Capo Catena, che non aveva mai sentito un minatore intonare canzoni prima d'allora, e l'uomo cominciò ad aver paura d'usare la frusta. Ma il tempo trascorreva lentissimo, le giornate erano interminabili pe-
riodi di fatica, e la vita in quei cunicoli umidi era insopportabile. Uno dei miei compagni di Catena morì di polmonite e venne mandato in superficie insieme al carico serale d'argentopirite. La notizia che nella miniera 24 Ovest era nata una sorta d'organizzazione e di mutua protezione fece il giro delle altre, e venimmo a sapere che ciò destava perplessità e commenti pessimistici. Circa un mese dopo il mio arrivo, arrivò la notizia che in una decina di miniere gli schiavi stavano cominciando a prendere esempio da noi, almeno durante la distribuzione dei pasti. Mi fece piacere saperlo. Ma, un bel giorno, i portatori di cibo smisero di parlare con noi, senza darne spiegazione, e compresi che i guardiani avevano ordinato loro il silenzio. La cosa era antipatica perché, come ho detto, dipendevamo esclusivamente da loro per ogni novità di provenienza esterna. Eravamo però già al corrente che in molte altre miniere si stava facendo come da noi. Secondo Andreas si trattava di una reazione alla monotonia, di una novità accolta come un diversivo; io ero invece del parere che vi fossero ragioni più profonde, e soprattutto il desiderio disperato d'essere di nuovo umani e vivi. Ed ero preoccupato, perché sentivo avvicinarsi il momento in cui i guardiani sarebbero intervenuti. Decisi che era il momento di agire. Quella notte, quando tutti fummo rinchiusi nella lunga ed opprimente cella, attesi che il Capo Catena avesse sbarrato la porta e poi parlai ai miei compagni. «Chi di voi ha ancora voglia di rivedere il sole, uomini?», domandai, in tono provocante. «C'è bisogno di chiederlo?», borbottò Andreas. «Io voglio uscire da qui!», sbottò Kron. «E anch'io?» «Io pure?» «Non morirò qui dentro!», risuonarono le voci degli altri. Ost agitò un pugno. «Questo è incitamento alla rivolta,» protestò. Lo ignorai. «Ascoltate: ho un piano. Per metterlo in pratica occorrerà molto coraggio, e forse alcuni di noi ci lasceranno la pelle, ma dobbiamo tentare.» «Fuggire dalle miniere di Tharna è impossibile. Lo sanno tutti,» latrò Ost. «Io non ci sto. Meglio prigioniero che morto.» «Taci!», gli ordinò Andreas. Poi si rivolse a me. «Ti diamo ascolto, guerriero. Parla.»
«Bene. Per ora non dirò altro che questo: è necessario che la nostra cella venga inondata.» Ci fu un attimo di silenzio, quindi risuonò uno strillo di Ost: «Tu sei un pazzo, un criminale pericoloso! Io ti denuncerò e...» Ma la sua voce si strozzò in un gemito, perché Kron l'aveva afferrato per il collo. Gli feci segno di non infierire. La reazione dell'ometto era stata proprio quella che speravo, e m'incoraggiava a credere attuabile il progetto. «Lascia stare quel serpentello. Non mi preoccupa,» dissi. «Domani giocheremo la nostra carta.» Il giorno dopo, proprio come mi ero aspettato, ad Ost accadde un piccolo incidente: durante il lavoro l'ometto parve farsi male al piede col piccone, e chiamò il Capo Catena supplicandolo di portarlo fuori dal cunicolo di scavo. Quella procedura era talmente insolita da sfiorare l'impensabile, dato che l'uomo avrebbe dovuto far aprire la serratura del suo collare da un guardiano e quindi separarlo dal resto della Catena. Ma era così chiaro che si trattava d'un espediente per fare una spiata, che il nostro aguzzino non fece la minima obiezione: in breve, Ost venne sciolto e portato via. Anche i miei compagni avevano capito che l'ometto intendeva parlare in via confidenziale con un guardiano e, quando fummo rimasti soli nel cunicolo, fioccarono le imprecazioni. «Avremmo dovuto ammazzarlo,» sbottò Kron, riassumendo l'opinione generale. «E questo sarebbe stato il nostro più grave sbaglio, amici,» dissi io con enfasi. Ciò che essi intuirono nel mio tono li zittì. «Tenetevi pronti, perché questa notte dovremo agire come un solo uomo.» Quella sera, al termine dell'orario di lavoro, lo schiavo che venne a portare la cesta del cibo era accompagnato da una dozzina di guardiani armati. La rustica cena si svolse però placidamente, perché avevo avvertito gli uomini di mostrarsi miti ed inoffensivi. Notammo che Ost non c'era, e che non veniva rimesso in Catena neppure quando fu il momento di andare nella cella-dormitorio. «Le guardie sono state pietose e lo hanno portato su, per farlo curare,» spiegò il Capo Catena, senza esserne stato richiesto. Dopo che la porta d'acciaio dell'opprimente locale fu sbarrata dietro di noi, alcuni commentarono amareggiati e preoccupati che stava accadendo qualcosa di strano. Tutti avevamo sentito il Capo Catena ridere forte, al di là del battente chiuso. Andreas il Cantastorie chiese il silenzio, poi m'interrogò: «Questa notte
allagheranno la cella. Ma tu contavi proprio su questo, vero?» «Infatti è così,» affermai, secco. Alzai quindi le mani per placare i commenti spaventati. «Se agiremo con ordine, abbiamo una possibilità. Come sapete, da qualche parte sopra di noi c'è una grande vasca colma d'acqua. Uno dei portatori di cibo l'ha vista, e ha detto che sul fondo di essa c'è una valvola a saracinesca larga tre piedi. Giocheremo tutte le nostre carte sulla speranza di arrivare a questa valvola e di trovarla ancora aperta. Adesso passatemi quella di lampada.» Appena ebbi la lampada ad olio mi mossi verso il foro da cui il locale avrebbe dovuto essere inondato, tirandomi dietro parte degli schiavi incatenati a me. L'apertura, al centro del soffitto, era larga abbastanza perché un corpo umano potesse introdurvisi e, più in alto, a circa un metro e mezzo di distanza, la conduttura era sbarrata da un'inferriata orizzontale. Giusto allora un rumore metallico, forse quello della valvola che veniva aperta, giunse dal fondo di quel cunicolo di pietra. «Sollevatemi, presto!», ordinai. Andreas e lo schiavo incatenato alla mia destra si affrettarono a fornirmi l'appoggio e, pochi momenti dopo, ero in piedi sulle loro spalle, all'interno del condotto. La parete era viscida, e le mie mani scivolavano come su uno strato di morchia. Mormorai una bestemmia: bloccato dalla catena, non riuscivo a raggiungere la grata. D'un tratto però parve che Andreas e l'altro fossero cresciuti sotto di me, e vidi che i nostri compagni stavano spingendo insieme a loro. Questo mi permise di guadagnare i dieci centimetri che mancavano. Afferrai saldamente una sbarra dell'inferriata. «L'ho presa,» dissi. «Ora tirate in basso con tutta la vostra forza.» Venni agguantato per le gambe. Gli schiavi, per metà da una parte e per metà dall'altra, cominciarono a tendere la catena. Erano collegati ad essa per il collo, e si trattava inoltre di trasformare una trazione orizzontale in una verticale, ma l'energia di sessanta uomini era tale che le articolazioni del mio corpo si allungarono come su un letto di Procuste. La carne dei polpastrelli mi si lacerò, il sangue prese a scendermi lungo le braccia ed i tendini delle dita mi si tesero allo spasimo, però non lasciai la presa. «Tirate più forte!», rantolai. Un rivolo d'acqua venne giù per la conduttura, ed ancora udimmo un rumore metallico: la valvola si stava aprendo. «Ammazzatemi, ma tirate più forte!», gemetti. Un istante dopo, la pietra della parete cedette di schianto, e la grata uscì
dai fori in cui era stata cementata. Piombai a terra nel mezzo della cella con un clangore infernale, fra membra umane che si agitavano ed intrecci di catene bagnate. Insieme a me venne giù un fiotto d'acqua. Mi alzai in ginocchio, essendo impossibile stare in piedi. «Con ordine!», ringhiai. «Avanti il primo della Catena. Il primo, ho detto!» Ci furono ansiti e imprecazioni mentre lo schiavo dislocato all'estremità più interna della cella avanzava carponi verso il centro, seguito da quelli aggiogati a lui. Lo misi in piedi, con la testa e le spalle dentro il foro. «Avanti, amico. Aiutati con le mani e coi piedi. Il condotto sale per quasi venti braccia... Muoviti, maledizione!» «Ma non posso arrampicarmi. È liscio, e viene giù troppa acqua,» protestò lui. «Devi farlo, o morirai!» In due lo afferrammo per le gambe e lo issammo a viva forza. Il secondo della Catena lo sostenne sulle proprie spalle. «Scivolo!», gemette il primo. «È buio... Non ce la faccio!» «Prova, che tu sia dannato!», gridai. «Non posso. Non si può salire,» si lamentò ancora. «Avanti il terzo,» ordinai. «Lo spingerete su a viva forza. Dobbiamo salire, o fra poco affogheremo tutti!» Era più facile a dirsi che a farsi, perché il flusso dell'acqua aumentava ancora e nella cella l'avevamo alle caviglie. Ben presto ci giunse ai polpacci. Più che arrampicarsi, gli schiavi stavano formando entro il condotto una vera e propria piramide umana, nella quale il peso di quelli entrati per primi gravava sugli altri. Quando vidi entrare il decimo, mi aspettavo che crollasse all'istante, ma evidentemente quelli sopra riuscivano a trovare qualche presa nelle fessure delle pietre perché anche lui riuscì ad essere spinto su. Il livello dell'acqua era arrivato a metà fra il pavimento ed il soffitto allorché, dopo trenta schiavi, toccò a me e ad Andreas. Ignoravo dove fossero sbucati gli uomini di testa della Catena, e mi chiedevo cosa ne sarebbe stato di quelli in coda. «Più svelti! Bisogna arrivare alla valvola!», gridai. «Alla valvola, prima che la chiudano!» Avevo Andreas sopra le spalle ed altri sotto di me, fra cui Kron che spingeva con energia furibonda. L'acqua precipitava dall'alto così violenta e copiosa che sembrava d'essere sotto una cascata, e respirare era difficoltoso. Mi è quasi impossibile descrivere la sensazione d'orrore e di fatalisti-
ca disperazione con cui ciascuno s'arrampicava. Sopra di noi c'era il buio, e questo rendeva ancor più angoscioso il nostro procedere. Come animali in trappola, ciechi e folli, ce la mettevamo tutta per guadagnare un palmo dopo l'altro, ringhiando bestemmie e preghiere in un osceno miscuglio. Una sola era la cosa che ci consentiva d'andare avanti: l'abitudine a lavorare insieme, o meglio la consapevolezza che le nostre vite erano letteralmente incatenate alle vite dei compagni che ci precedevano e seguivano. Sebbene terrorizzati, continuavamo ad essere un gruppo, una squadra. In caso contrario ci saremmo soltanto uccisi a vicenda, cedendo all'orrore della claustrofobia. Quindici metri sopra la cella il condotto faceva una brusca deviazione a novanta gradi, ed i primi uomini della Catena s'erano introdotti in una conduttura orizzontale altrettanto stretta, strisciando avanti. Fu solo la forza con cui tiravano che permise a quelli dietro d'arrampicarsi. Ma, a metà del condotto verticale, avevo cinque schiavi sopra di me ed altri cinque sotto, e non ce la facevamo più. «Aiuto! ...Aiuto!», sentii urlare dabbasso, e compresi che quelli rimasti in cella erano pressoché sul punto d'affogare. A peggiorare le cose il flusso d'acqua aumentava ancora, certo perché la valvola era adesso completamente spalancata. Un momento più tardi la violenza dell'acqua si fece insostenibile. «Tirate, voi lassù! Tirate!», gridai. Non feci in tempo a dir altro, perché il liquido mi riempì la bocca. Gli uomini sopra di me persero la presa, ed il loro peso mi schiacciò. Precipitai per qualche metro addosso agli altri, finché i nostri corpi furono compressi nel cunicolo verticale colmo d'acqua, nel buio. Trattenni il respiro e spinsi in alto quello che mi gravava sulla testa, con tutta la mia forza, conscio che da lì a pochi secondi sarei morto. Ma, ad un tratto, la cateratta s'interruppe, e l'acqua defluì verso il basso. Tesi le orecchie e, dagli ansiti che captai, compresi che nella celladormitorio doveva esser rimasto ancora un po' di spazio per respirare, presso il soffitto. Fui certo che la vasca collegata alla cella 24 Ovest si doveva essere vuotata del tutto, e questo mi diede coraggio, tuttavia ciò significava che i guardiani avrebbero presto richiuso la valvola. «Andate avanti. Salite, per il demonio!», ringhiai, riprendendo ad issare chi mi stava sopra. Cinque minuti più tardi potei seguire Andreas nella condotta orizzontale: lasciai il tratto di catena anteriore al mio collare, ed afferrai quello poste-
riore, prendendo a tirare. Andammo avanti nelle tenebre, carponi, ciascuno deciso a mettercela tutta o a crepare nel tentativo. Gli ultimi dieci schiavi della Catena vennero tirati su di peso, semiaffogati e privi di forze. Poi, d'un tratto, scorsi una luce quindici metri più avanti, e mi resi conto che i primi dovevano essere sbucati nella grande vasca attraverso la valvola aperta. Gli uomini spasimavano dalla voglia d'uscire, ansando come bestie feroci. Capitolo 19 RIVOLTA NELLA MINIERA «No... Abbiate pietà!», stava uggiolando Ost, quando emersi dal cunicolo. L'individuo era stato sorpreso alla manovra della valvola che svuotava dall'acqua la grande vasca. Indossava una tunica pulita da schiavo ed aveva lo staffile, cose queste che indicavano oltre ogni dubbio come il suo tradimento gli avesse subito fruttato un rango più elevato. Ora indietreggiava brandendo lo staffile per tener lontani gli uomini della Catena, che gli si chiudevano intorno. Uno spintone lo mandò a ruzzolare contro la parete scura e fangosa del locale, e gemette. Sulle facce degli schiavi che gli si fecero sopra lessi che da lì a dieci secondi lo avrebbero sbranato a morsi come un branco di lupi. «Fermi!», ordinai. «Non potete ammazzarlo così.» Kron di Tharna afferrò Ost per la pelle del collo e lo tirò in piedi, scoprendo i denti in un ghigno terribile. Mi lanciò un'occhiata chiara quanto una bolletta del telefono. «Possiamo, invece. E poi questa è una faccenda che non riguarda più te, amico.» Il biondo interrogò con lo sguardo gli schiavi più vicini, le cui espressioni erano già una risposta ed una condanna. «Questo verme fa forse parte della nostra Catena? È uno di noi?», volle sapere. «È un traditore! Un assassino!», ringhiarono in molti. «No!» gridò Ost. «Io sono un uomo della Catena 24 Ovest. Prendetemi con voi... Fuggiamo insieme, amici!» «Fuggire?», lo derise uno. «Questo è incitamento alla rivolta. È linguaggio sedizioso.» «Leghiamolo e lasciamolo qui,» proposi. Ost s'aggrappò freneticamente alle braccia di Kron. «Fai come dice il
guerriero. Legami, imbavagliami. Ti scongiuro!», urlò. «Non sporchiamoci le mani col sangue di questo miserabile,» intervenne anche Andreas. «E va bene.» La voce del biondo era pericolosamente calma. «Non piace neanche a me spiaccicare un ragno: Niente sangue, allora.» Ost divenne spaventosamente pallido sotto il suo sguardo, mentre Kron stabiliva: «Per rispetto al guerriero, che io riconosco come il nostro capo, useremo giustizia. Ti daremo ciò che volevi dare a noi.» Cercai di farmi avanti ma gli altri mi bloccarono il passo con decisione, poi venni spinto da parte e non potei far altro che assistere. Mezzo stordito dal terrore, Ost fu passato di mano in mano fino all'ultimo schiavo della Catena e spinto a viva forza nell'apertura in fondo alla vasca. Gli uomini tornarono nella condotta d'acqua uno dopo l'altro, spingendolo avanti. D'un tratto le sue grida cessarono, e sentimmo il tonfo che il suo corpo fece in fondo al cunicolo verticale, nella cella inondata. La notte che ora si preparava nelle miniere di Tharna sarebbe stata molto diversa da ogni altra. Procedendo in silenzio ci addentrammo in un lungo cunicolo poco illuminato, dove trovammo dei picconi che distribuii agli uomini più robusti. Gli altri raccolsero frammenti di minerale, pezzi di legno e spezzoni di catene e, armati a quel modo, giungemmo in una galleria più vasta attrezzata a dormitorio per i Capi Catena e i guardiani. Nelle cuccette c'erano ventidue uomini, alcuni dei quali ancora svegli, e nessuno riuscì a fare un sol passo quando piombammo loro addosso come un'orda inferocita. Ci furono tonfi, urla, sangue che schizzava, e dei nostri aguzzini rimasero solo ventidue corpi straziati e senza vita. In quel locale trovammo un grosso martello, col quale Kron, che apparteneva alla Casta dei Fabbri Ferrai, spaccò l'anello saldato al collare di ciascuno di noi. Nel giro di venti minuti fummo liberi dalla catena che ci aveva costretti a vivere, lavorare e soffrire uniti come tanti gemelli siamesi. Furono distribuite le armi, e per me presi una solida spada. Appena l'ebbi in mano, seppi che nessuno mi avrebbe più fermato. «Al pozzo centrale!», ordinai. Nel corridoio incontrammo uno degli schiavi addetti al trasporto del cibo e lo inducemmo a farci da guida, perché quella sezione della miniera era un labirinto. Raggiunto il pozzo, afferrai una torcia e mi sporsi a guardare. Come già sapevo ci trovavamo ad oltre quattrocento metri di profondità e, sia in alto che in basso, scorsi solo il fioco lucore proveniente da altri tun-
nel che si aprivano a diversi livelli. La piattaforma dell'elevatore era in superficie, ma la robustissima catena che fungeva da contrappeso pendeva presso la parete del pozzo fino a sfiorare il fondo con l'estremità libera. Era facilmente raggiungibile, e le sue maghe avrebbero potuto diventare una scala per chi fosse stato disposto ad arrampicarsi. Io lo ero. «È un problema,» ansimò rabbiosamente Kron. «Lo sbocco è troppo in alto. Sarà una fatica massacrante.» «Però intanto possiamo salire al livello superiore,» dissi. «Lì ci sono altri guardiani da eliminare, ed altri schiavi chiusi in cella. Abbiamo bisogno di loro e li libereremo. Muoviamoci.» In breve tempo ci inerpicammo tutti fino alla miniera 23 Ovest e, dopo aver ripreso fiato, facemmo irruzione di sorpresa nel dormitorio delle guardie. Posso solo immaginare quale dovette essere lo spavento di quegli uomini nel vedersi assalire in piena notte da sessanta schiavi armati ed avidi di vendicarsi. Per loro fu una condanna a morte: le nostre spade li colsero sulle brande, e si abbatterono tranciando ossa e carni senza pietà. Dopo averli sterminati, corremmo ad aprire la cella dormitorio, e togliemmo i ceppi agli uomini della Catena 23 Ovest. Da quel momento in poi gli eventi presero a susseguirsi in modo frenetico, inarrestabili come il precipitare d'una valanga le cui dimensioni aumentavano sempre più, e dovetti faticare per tenere in pugno i rivoltosi e costringerli ad un'azione ordinata. Miniera dopo miniera sorprendemmo i guardiani ed i Capi Catena, mentre il nostro esercito aumentava continuamente la sua consistenza. Dopo il massacro della 23 Ovest diedi però ordine di non uccidere nessun altro, se fosse stato possibile, e mandai su e giù lungo la catena del pozzo centrale delle squadre al comando dei più decisi. A metà della notte, l'intero complesso delle miniere era in mano nostra, ed un centinaio di uomini avevano raggiunto la superficie impadronendosi degli edifici circostanti il grande pozzo. L'elevatore venne messo in funzione e, un po' per volta, tutti ci trasferimmo all'aria aperta. Furono momenti di terribile emozione. La nostra rivolta era stata rapida ma cruenta, era costata del sangue e, quando vedemmo sopra di noi il cielo aperto con le tre lune di Gor, dimenticammo l'orrore e la sofferenza e piangemmo di gioia. Io avevo voluto salire su con l'ultimo gruppo, e ricordo che, lasciandomi alle spalle l'intreccio dei cunicoli rocciosi avvolti nel silenzio, tenevo gli occhi fissi all'insù, quasi incredulo di vedere quel disco di firmamento stellato farsi sempre più vicino. Allorché la piattaforma si fermò con un sobbalzo nella recinzione dell'imboccatura, mi trovai circon-
dato da torce crepitanti e da facce barbute come la mia, da sorrisi e lacrime. Poi, d'un tratto, si levò un unico grido: «Tarl di Ko-ro-ba! ...Tarl di Ko-ro-ba! ...Tarl di Ko-ro-ba!» Erano il mio nome e quello della mia città, due nomi maledetti perché così avevano voluto i Re Sacerdoti, ma che nella bocca di quegli uomini suonavano come un coro di trionfo e di ribellione. Fra mani che mi battevano sulle spalle e braccia che volevano stringermi, aspirai a pieni polmoni il vento della notte e mi feci largo. Sorrisi, felice d'essere lì con quella gente. Ero libero! Eravamo liberi! A non molta distanza dall'imbocco del pozzo c'era un bacino idrico collegato ad un vicino torrente, e compresi che si trattava dell'impianto per l'allagamento dell'intera miniera. Intorno alle valvole d'apertura giacevano una ventina di guerrieri di Tharna ed altrettanti schiavi morti. Solo allora mi resi conto che nell'ultima fase della rivolta avevamo rischiato di rimanere affogati, e che le prime squadre faticosamente arrampicatesi in superficie si erano battute contro esperti uomini d'arme per salvarci la vita. Fui fiero dei miei compagni, ed ancor di più lo fui quando vidi che nessuno di loro chiedeva d'aprire quel bacino, per allargare i cunicoli dove oltre duecento guardiani erano stati chiusi in cella. Immaginavo il terrore di quegli aguzzini, e sorridevo al pensiero della trepidazione con cui ora attendevano di sentire l'acqua scrosciare nel pozzo. Ma quel rumore non l'avrebbero sentito. Mi chiesi se avrebbero capito che a risparmiarli erano uomini il cui animo era assetato di libertà e di giustizia, per sé e per gli altri: uomini che avevano combattuto per uscire dall'incubo dei tunnel, che avevano disperatamente voluto rivedere le campagne ed il cielo, che avevano saputo lottare per i loro compagni. Tornando esseri umani, ad onta degli sforzi con cui gli aguzzini avevano cercato di tramutarli in bestie, ora essi non chiedevano la vendetta. Mi avevano salutato con un'ovazione gioiosa, priva di sentimenti acrimoniosi e funesti, e ne fui lieto più per loro che per i guardiani. Saltai in piedi su un muretto ed alzai le braccia nella luce delle torce chiedendo il silenzio. La folla mi si fece attorno. «Uomini di Tharna!», li arringai. «Uomini delle altre città delle grandi pianure... le vostre catene sono state spezzate!» Ci fu un'ondata di mormorii e molte voci allegre mi risposero. Richiamai la loro attenzione. «Ascoltatemi, voi tutti: in questo momento i superstiti del corpo di guardia stanno portando la notizia della rivolta al Palazzo della Regina.»
«Lasciammo che quella sgualdrina tremi!», gridò Kron. «Se vuole l'argento dovrà venire a scavarselo lei, insieme a tutte quelle serpentesse mascherate!», rise un altro. «Potete scommettere che tremerà, certo,» dissi. «Siamo più di tremila uomini decisi a tutto, e pericolosi. Ma altrettanto sicuro è che, non appena si leverà il sole, tutti i grifonieri della città verranno mandati contro di noi, ed anche le truppe appiedate. Capite cosa sto dicendo? E non chiederanno di parlamentare, quelli!» Commenti preoccupati si levarono dalla massa di schiavi, ed i sorrisi si spensero. «Dicci quel che dobbiamo fare, Tarl di Ko-ro-ba!», gridò Kron, pronunciando il mio nome con la massima tranquillità. «Noi non abbiamo armi a sufficienza,» affermai. «Né siamo una truppa di guerrieri addestrati, e non disponiamo di grifoni o di tharlarion da sella. Se affrontassimo in campo aperto i militi di Tharna, verremmo falcidiati e sconfitti in mezza giornata.» Feci una pausa. «Per questa ragione è necessario dividerci in piccoli gruppi che raggiungeranno le foreste e le montagne, evitando di farci sorprendere nella pianura. Dobbiamo evitare d'essere raggiunti dai lancieri montati sui tharlarion e dai grifonieri, che senza dubbio saranno mandati ad inseguirci.» «Ma almeno moriremo liberi!», gridò Andreas il Cantastorie, ed altri gli diedero ragione a gran voce. «Sono d'accordo con te, Andreas. Anch'io voglio morire da uomo libero... Però non siamo soltanto noi ad avere questo diritto. Pensate agli altri schiavi di Tharna: a cosa ci servirà la libertà se non potremo farne partecipi anche loro? Dunque dovremo nasconderci di giorno e muoverci alla spicciolata di notte, formare piccoli gruppi separati e bande, e quanto prima tornare a compiere incursioni alle Grandi Fattorie. Ma ciascuno farà ciò che gli parrà più giusto.» «Stai dicendo che dovremo diventare tutti guerrieri?», domandò una voce fra la folla. «Già lo siete, qui e stanotte!», gridai quasi con ferocia. «Non avete forse combattuto per conquistare l'aria che state respirando? E che voi siate nati nella Casta dei Contadini, o dei Cantastorie, o dei Fabbri, o dei Sellai, con un'arma in mano potrete essere Guerrieri. Battersi contro l'ingiustizia è il dovere di ogni uomo!» «Questo è vero,» disse Kron, sollevando il suo grosso martello nel silenzio generale.
«Ma come possiamo esser sicuri che sia questa la volontà dei Re Sacerdoti?», chiese uno degli ex minatori, preoccupato. «Non è da semplici uomini il saperlo. Se combattere da fuorilegge è la loro volontà, noi lo faremo.» Sollevai la spada, puntandola al cielo. «E se invece non lo è, amici, io vi dico una cosa: lo faremo lo stesso!» Per un lunghissimo minuto la mia frase echeggiò nelle loro orecchie stupefatte e timorose. Poi Kron esclamò: «Sia come tu hai detto!» «Sia come tu hai detto!» gridò qualcuno, e quindi altri ancora, finché quelle parole eretiche divennero un coro non certo entusiasta ma deciso. Il loro tono mi fece riflettere che mai prima d'allora degli uomini avevano espresso in pubblico la loro volontà di perseguire i propri diritti, indipendentemente da quello che avrebbe potuto essere il volere dei Re Sacerdoti. E mi sembrò strano che a ribellarsi non fossero gli orgogliosi Guerrieri, né gli smaliziati Scrivani, i Dottori o gli Ingegneri, bensì elementi delle Caste più infime e superstiziose, dei miseri schiavi sciamati fuori da una miniera. Rimasi dov'ero e guardai quella massa d'uomini dividersi in gruppetti, avviarsi nella notte in direzione delle montagne e delle foreste, ciascuno portandosi via le armi, e il cibo e gli oggetti dei più diversi generi appartenuti ai guardiani. Il loro destino era di trasformarsi in fuorilegge, di scordare le tradizioni della città e della Casta in cui erano nati, e non si trattava di un destino a cui potessi associarmi. Kron era andato a fermarsi accanto all'imboccatura del pozzo, e lo raggiunsi. Il grosso fabbroferraio era cambiato molto dal giorno in cui ci eravamo affrontati nell'arena; le sofferenze sembravano averlo maturato, conferendo ai suoi occhi una luce triste e pensierosa. Reggeva il suo martello come un'arma, la sola che conoscesse bene, ma qualcosa mi diceva che presto l'avrebbe sostituito con una spada. «Che tu possa non soffrire mai, Tarl di Ko-ro-ba!», disse, nella formula di saluto che in Goreano era un addio. «Che tu possa non soffrire mai, Kron di Tharna!», risposi. «Non dimenticare la Catena 24 Ovest. Noi siamo stati compagni, laggiù,» aggiunse, prima d'allontanarsi. «Compagni una volta, compagni per sempre!», dissi, annuendo. L'uomo si volse bruscamente e scomparve nel buio, incamminandosi in direzione opposta a quella della città. Soltanto Andreas di Tor delle Sabbie era rimasto presso di me, con una torcia in mano. La conficcò in una fessu-
ra sulla staccionata che circondava il pozzo, e togliendosi dalla fronte l'eterna ciocca di capelli, mi rivolse un sogghigno. «Bene!», disse. «Ho visitato le famigerate miniere di Tharna. Credo che adesso andrò a dare un'occhiata alle Grandi Fattorie.» «Buona fortuna. Spero che tu riesca a liberare la tua Linna,» gli augurai. «Tu che intenzioni hai, Tarl? Dove vuoi andare?» «Ho una faccenda personale in sospeso coi Re Sacerdoti. Te ne ho parlato, ricordi?» «Ah!» Il giovanotto inarcò un sopracciglio, ma non per mostrare ironia. Era preoccupato. Per un poco ci guardammo senza parlare, mentre la torcia si spegneva pian piano e nel cielo scuro la luce delle lune sembrava farsi più intensa. Era una delle pochissime volte in cui si lasciava vedere triste e malinconico. «Sai una cosa, amico? Quasi, quasi vengo con te,» disse sottovoce. Sorrisi. Andreas sapeva benissimo che nessuno era mai tornato vivo dalla cupe vette fra cui si nascondevano i Re Sacerdoti. «Meglio di no. Non troveresti molti spunti per le tue canzoni, sulle Montagne di Sardar.» «Sciocchezze, Un Cantastorie può mettere in musica tutto, anche la sua stessa morte.» Scossi la testa. «Mi spiace, Andreas. Non posso permettere che tu getti via la vita seguendomi laggiù.» Il giovanotto mi afferrò rudemente per una spalle. «Apri bene le orecchie, tu, prode rampollo di una prode schiatta: per me un amico conta più di tutte le canzoni di questo mondo.» «Quelli della tua Casta ti rinnegherebbero, sentendoti parlare così.» «Tu credi? Forse che le mie ballate dovrebbero essere più importanti delle imprese che esse celebrano?» La sua risposta mi sorprese, perché sapevo che Andreas di Tor delle Sabbie avrebbe dato un braccio o dieci anni della sua vita pur di continuare a girare di città in città con la sua cetra in mano. Ciò che stava dicendo era filosofia terrestre, più che goreana: talvolta il miglior poeta è colui che agisce, e il miglior intellettuale colui che depone la penna per difendere i suoi ideali con la spada. «Andreas, non divagare sulle tue ambizioni. C'è una donna che ti ama e che sta piangendo. Tu devi spezzare il suo collare da schiava. Tutto il resto è solo illusione e polvere nel vento.» Negli occhi del giovanotto vi fu una luce come d'agonia, ed infine annuì
più volte. «È vero. Linna può sperare aiuto solo da me, e tu non saresti stato un vero amico se non mi avessi messo di fronte al mio primo dovere.» «Componi una canzone sulla Catena 24 Ovest, Cantastorie. Ti auguro di non soffrire mai.» «Che tu possa vincere la tua battaglia, Guerriero!», mormorò. Qualche volta ci eravamo stupiti d'essere amici, noi che appartenevamo a Caste così diverse, ma forse entrambi intuivamo che fra il canto della spada e quello della cetra non c'era quella gran differenza. La guerra, l'amore, la musica e il dolore, sono sempre stati legati strettamente, in ogni terra ed in ogni epoca. Andreas si volse per andare, un'ultima volta: «Tarl, i Re Sacerdoti ti stanno aspettando laggiù. Lo sai, vero?» «Come so d'essere vivo,» confermai. Sollevò una mano, tristemente. «Tal, amico!» Era il contrario di un addio, e mi chiesi perché avesse voluto salutarmi a quel modo. «Tal!», risposi tuttavia. Potevo solo credere che intendesse rivedermi ancora, finché entrambi restavamo in quella zona. Ma difficilmente ne avrebbe avuto l'opportunità, perché il mio più vivo desiderio era di cambiar aria senza por tempo in mezzo. Ne avevo abbastanza di Tharna. Andreas s'incamminò lungo un sentiero sterrato e disparve fra le ombre. La prudenza voleva che neppure io indugiassi lì. Più che mai mi sentivo rodere dalla voglia di raggiungere le Montagne di Sardar, anche se, probabilmente, come aveva affermato il Cantastorie, non sarei giunto inaspettato. Poche erano le cose che restavano ignote ai Re Sacerdoti, fra quante ne accadevano sulla superficie di Gor, e gli esseri umani non potevano che contemplare quella verità rinunciando a capire di quali mezzi essi si servissero. Perfino io, un terrestre smaliziato ed assuefatto ai misteri dell'elettronica, mi sentivo al loro confronto un selvaggio cieco e stolto, ignorante dei poteri e delle forze che essi usavano a loro piacimento. Talora mi chiedevo se la scienza dei dominatori di Gor non fosse qualcosa di simile alla Magia, o all'intervento soprannaturale e divino. Avevo visto coi miei occhi lo sprigionarsi di energie sconosciute, senza capire né come né da quale distanza esse venissero governate. Ero stato presente alla folgorazione del più illustre fra gli Adepti di Gor avvenuta sulla Torre della Giustizia di Ar, sette anni addietro, e già in precedenza
avevo visto la Morte di Fuoco colpire una lastra di metallo sulle montagne del New Hampshire, sbucando dal nulla. Ai limiti della valle di Ko-ro-ba avevo posato lo sguardo su un terreno dal quale milioni di tonnellate di pietre erano state spazzate via senza lasciare una traccia. Sapevo che lo stesso pianeta Gor veniva tenuto nascosto agli astronomi terrestri con l'uso di energie cosmiche, grazie alle quali non era possibile dedurre la sua presenza dagli influssi gravitazionali sulle orbite degli altri corpi celesti. A pensarci bene, c'era da stupirsi se i Goreani non temevano assai di più la potenza degli esseri che incombevano su di loro. Ciò che continuava a darmi fastidio era però l'ignoranza del motivo per cui costoro mi avevano riportato sul pianeta, né potevo dimenticare l'Adepto loro messaggero, che mi aveva suggerito di gettarmi sulla punta della spada. Certo non potevano desiderare che mi ficcassi in testa l'idea di raggiungere l'Inviolabile, e dunque, se i loro progetti erano altri, avrebbero fatto di tutto per spingermi su una strada diversa. Ma questo non m'interessava: io dovevo conoscerli, scoprirli, affrontarli. Mi guardai intorno: dappertutto buio, silenzio, edifici vuoti ed in parte devastati. Stringendo in pugno la spada, mi avviai alla porta di quello più vicino. Capitolo 20 LA BARRIERA INVISIBILE Il mio vestiario ed equipaggiamento consisteva in un perizoma grondante fango e stretto in vita con una corda. Oltre a ciò possedevo la spada ed un collare di metallo che mi avrebbe subito fatto identificare come uno schiavo fuggitivo. A quest'ultimo inconveniente trovai subito rimedio perché, non appena riuscii ad accendere una lampada, vidi una rastrelliera con appese molte chiavi da collare. Le provai nella serratura finché una di esse l'aprì. Ma in quelle stanze non c'era altro di utile, perché gli ex minatori avevano spogliato i cadaveri perfino dei denti d'oro. Un rapido giro di perlustrazione negli edifici circostanti mi portò alla scoperta di una quantità di porte sfondate, armadietti e bauli svuotati del loro contenuto, e cucine ripulite fin dell'ultima briciola di pane. Diverse migliaia di uomini nudi e affamati erano passati da lì prima di me, portandosi via anche gli oggetti inutili e parte della mobilia più leggera. Fu un miracolo se trovai una vecchia tunichetta da schiavo, piuttosto lurida. Nel caseggiato di legno che aveva ospitato l'amministrazione, ebbi la
poco allegra sorpresa di scoprire il corpo senza vita e senza vestiti di un uomo grasso che avevo già visto un mese addietro. Era il Comandante della miniera, al quale uno dei rivoltosi aveva pensato bene di conficcare nel cranio uno spunzone metallico. Il suo corpo recava gli squarci di moltissime sciabolate, e le budella gli erano fuoruscite sul pavimento. Essendo stato il responsabile dell'allagamento della miniera avvenuto qualche anno prima, questo era il minimo che gli potesse capitare. Stavo perdendo troppo tempo, e da una finestra vidi che si avvicinava l'alba. Sotto il tavolo, presso il cadavere, c'era il fodero vuoto della spada con cui forse aveva cercato di difendersi. Lo raccolsi e, nell'infilarvi la mia, notai che si trattava di un oggetto di un certo valore, perché sul cinturone erano applicati sei piccoli smeraldi. Finalmente qualcosa che avrei potuto trasformare in denaro sonante, pensai con sollievo. Misi il fodero a tracolla e tornai all'aperto. A oriente il cielo si stava velando di verde e di rosa, in un'alba che i miei occhi erano ansiosi di bere attimo per attimo. Scrutai il cielo e non vidi grifoni in volo dalla parte della città: allora m'incamminai fra le baracche su un sentiero pieno d'erbacce. Sull'orizzonte occidentale le tre lune si erano fatte piccole e pallide, e non avrebbero fatto in tempo a tramontare del tutto prima del sorgere del sole. Mi fermai a guardare Venere, la Stella del Mattino, l'astro che talvolta era visibile sia dalla Terra che da Gor. Stranamente, soltanto allora cominciai a sentirmi libero e voglioso di muovermi. Per evitare gli alti cumuli del minerale di scarto, fui costretto a ripassare presso l'imboccatura del pozzo centrale, dove una luce grigia spandeva squallore e tinte da tragedia. Ovunque oggetti fracassati, carretti rovesciati, sangue e corpi stesi a terra, in uno scenario che nel silenzio parlava il linguaggio senza suoni della morte. Si stava alzando il vento, e mulinelli di polvere roteavano presso i cadaveri come mangiatori di carogne venuti ad annusarli. Una porta mezzo scardinata cigolava, sbattendo ritmicamente. Aggirandomi qua e là trovai qualcosa che il buio aveva nascosto ai miei compagni di rivolta: un elmetto blu ed un paio di sandali, che tolsi ad un guerriero caduto fra i cespugli. Mi avrebbe fatto comodo anche la sua tunica, ma era zuppa di sangue, e preferii lasciarla al defunto. Equipaggiato alla meglio, mi allontanai in fretta per i terreni incolti, un po' camminando ed un po' correndo. Senza stancarmi troppo, percorsi in mezz'ora otto chilometri, fino alla zona dove iniziavano le colture di alberi da frutta. Ero appena giunto al riparo d'un filare di piante quando, volgendomi, vidi un folto stormo di grifonieri planare sugli edifici della miniera.
Fu qualche ora dopo, nel passare a quattrocento metri di distanza dalla Colonna degli Scambi, che scorsi la forma nera d'un grifone appollaiato proprio sulla sua sommità, ed il cuore mi diede un tuffo: era Horus! Colpito dalla sorpresa mi avviai da quella parte, e quasi subito il rapace s'alzò in volo per venire a compiere dei giri esplorativi sopra la mia testa. Atterrò quindi con un energico sbatter d'ali, e mi toccò lievemente col becco come soleva fare, mentre io stentavo a convincermi di quel fatto insolito: decisamente Horus stava rivoluzionando le più comuni credenze sulla psiche dei grifoni. Non solo mi aveva atteso nella zona per oltre un mese, ma mi aveva riconosciuto pur conciato com'ero e non aveva esitato a venire da me. Gli abbracciai il collo, più commosso di quanto non riuscirei a dire, e nessuno mi avrebbe convinto che a suo modo il grande uccello non fosse felice di rivedermi. Dopo avergli tolto dal piumaggio un certo numero di zecche e parassiti, un rituale questo che non avevo mai mancato di compiere e che gli dava piacere, saltai sulla sua groppa. «Redine uno!», ordinai. Horus s'alzò in volo con un gracidio, portandosi rapidamente alla sua quota favorita. Nel ripassare sopra la Colonna degli Scambi non potei fare a meno di pensare al brutto tiro che mi aveva giocato l'ex Regina di Tharna. Certo neppure io ero andato molto per il sottile, ed anzi le avevo procurato il più grosso spavento della sua vita, ma ora mi chiedevo cosa ne fosse stato di lei. Ogni volta che le avevo parlato, mi era parso che al riparo di quella sua maschera d'oro ella vivesse di sentimenti aggrovigliati e di passioni indefinibili. Per quanto fosse strano, non la odiavo, ed ancora rammentavo quei momenti di malinconia tanto femminile che aveva avuto sulle montagne, quando aveva osservato la pianura fiorita di gialli talender. Ma poi rividi lo scatto del suo braccio puntato verso di me, e risentii il suo ordine: «Catturate quella bestia!» Un impeto di rabbia mi fece contrarre i pugni: fra me e lei c'era ancora un conto in sospeso. Qualunque fosse ora il suo destino, riflettei, quella insolente e spietata femmina ne avrebbe meritato uno peggiore. Non mi auguravo che fosse morta, tuttavia mi compiacevo nell'immaginare quello che Dorna poteva aver studiato per lei. Dorna mi era parsa una tale jena che sicuramente la città di Tharna doveva star conoscendo il periodo meno allegro della sua già poco piacevole storia. Forse aveva fatto divertire sul corpo di Lara i suoi esperti di tortura, oppure l'aveva inclusa nel menù dell'urt gigante che viveva nei sotterranei del palazzo; magari l'aveva condannata ad essere bollita viva in un pentolone d'olio di tharlarion, o invece l'aveva gettata in
pasto alle piante carnivore che abbondavano nelle foreste. Una cosa era certa: Dorna non doveva sforzarsi per essere spietata. Più probabilmente doveva aver studiato una vendetta lenta, capace di darle molte soddisfazioni. Conclusi che Lara doveva trovarsi in una situazione tale che la morte le sarebbe giunta come una liberazione. Eravamo ormai nel mese dell'equinozio primaverile. Su Gor il suo nome era En'Kara, o più completamente En'Kara Lar Torvis che, tradotto alla lettera, significava il Primo Giro del Fuoco Centrale. In lingua goreana Lar Torvis, il Fuoco Centrale, era il Sole. In alcune città, al Sole ci si riferiva in modo più poetico come Tor-tu-Gor, ovvero La Luce Sopra la Pietra Della Casa. Il mese dell'equinozio autunnale era chiamato Se'Kara, il Secondo Giro. Analogamente, i mesi del solstizio prendevano il nome dall'arco apparente compiuto dall'astro: En'Var Lar Torvis era il corrispondente del Giugno terrestre, quello col giorno più lungo, mentre Se'Var Lar Torvis era il mese del giorno più corto dell'anno. Detto fra parentesi, la cronologia era un po' la disperazione degli scolari goreani, della cui educazione si occupavano gli Scrivani, e ciò perché ogni città aveva un suo calendario particolare basato sulla successione storica degli Amministratori. Per riferirsi ad un anno del passato non lo si nominava con una cifra, bensì come il Tale anno della Tale Amministrazione. Si sarebbe potuto credere che gli Adepti avessero in comune almeno un calendario religioso, ma così non era, e le stesse cerimonie e festività venivano celebrate in date assai diverse a seconda della città o della zona. Sette anni addietro, quando il Tiranno Marlenus aveva esteso la sua egemonia su oltre venti città, gli Adepti di Ar avevano unificato un vastissimo territorio anche dal punto di vista del calendario religioso. Tutto era però finito col crollo dell'Impero e, da quel giorno, gli Adepti di quelle città erano tornati alla loro cronologia indipendente, ciascuno ritenendo migliori le proprie usanze. La situazione sarebbe stata senza speranza se non vi fossero stati anche elementi comuni a quasi tutto il pianeta, ad esempio le fiere tenute quattro volte all'anno presso le Montagne di Sardar. Inoltre, tutte le città usavano come riferimento secondario anche il calendario di Ar, la più vasta metropoli del pianeta. Nella città di Ar, per fortuna, il calendario non si basava sulla lista degli Amministratori e Tiranni, bensì prendeva inizio dall'anno della sua fonda-
zione, evento in realtà non meglio accertato di quello della fondazione di Roma o di Babilonia, al quale si attribuiva però una data precisa. L'anno corrente era dunque, secondo la cronologia di Ar, il 10.117° dalla sua fondazione. A mio parere quella città non poteva risalire a più di tremila anni addietro, vista con gli occhi di un profano in archeologia. In quanto alla sua Pietra della Casa, che avevo avuto agio d'esaminare quando l'avevo rubata, sarebbe stato impossibile dire se era stata scolpita mille o centomila anni prima. La storia antica di Gor era avvolta nelle tenebre assai più di quella della Terra. Quattro giorni dopo la mia partenza in volo dalle campagne di Tharna avvistai, sfumate per la lontananza, le Montagne di Sardar. Avevo viaggiato nella loro direzione in linea retta, come se avessi avuto una bussola nel cervello, da vero abitante di Gor. Sulla pianura, non troppo distanti da quei picchi corrosi dal tempo e dalle piogge, ebbi la sorpresa di vedere una vera e propria piccola città fatta di tende, ornata da gonfaloni e bandiere svolazzanti: era la fiera intercittadina del mese di En'Kara. Feci deviare Horus a nord, perché non avevo molta voglia di rischiare che qualche grifoniere mi riconoscesse, né intendevo perdere tempo. Era la prima volta che viaggiavo su quelle terre e non avevo mai visto neppure in un disegno le Montagne di Sardar, ma, nell'osservarle, mi sentii percorrere da un brivido spiacevole. Non erano affatto imponenti, ed anzi apparivano molto più accessibili della Catena del Voltaj, quel magnifico e sterminato susseguirsi di vette sulle cui pendici avevo trascorso momenti infernali. Sette anni erano passati dal giorno in cui Marlenus, divenuto fuorilegge per colpa mia, aveva cercato d'ammazzarmi dopo che ero stato così ingenuo da salvargli la vita nei pressi del suo accampamento. Per lui io ero stato un'autentica maledizione, e gli avevo preso la figlia senza pagargli l'enorme prezzo di sposa che richiedeva, ma in qualche modo avevamo finito per rispettarci a vicenda. Mi domandavo dove fosse finito ora il padre di Talena, quell'uomo orgoglioso e violento che aveva saputo dominare ogni avversario. Marlenus era una tigre, e difficilmente doveva aver rinunciato del tutto alle sue ambizioni. Decisamente, dunque, le Montagne di Sardar non possedevano un filo della grandiosità del Voltaj. Non aggredivano il cielo con acuminate vette e non dominavano la pianura, tuttavia possedevano qualcosa di antico e di arcano che mi incuteva timore. Diressi il grifone da quella parte.
Le alture che vedevo estendersi lungo l'orizzonte avevano il colore nerastro della roccia basaltica, salvo che sulle cime e sui passi più elevati dove biancheggiava la neve caduta quell'inverno. Con un certo stupore notai che neppure le loro pendici ed i versanti più bassi mostravano tracce di verde, quasi che la catena montuosa fosse stata sterilizzata della vita vegetale. Questo non mi piacque; creava un effetto minaccioso che parlava di paura e di morte, o comunque di gelida ed inumana assenza di vita. Feci alzare Horus fino a tremila metri, la quota in cui l'atmosfera di Gor era così fredda e sottile da rendere quasi impossibile la respirazione ed il volo. Ma neppure da quell'altezza potei scorgere qualcosa d'interessante: solo nude alture che si susseguivano a perdita d'occhio. Scesi ancora, planando avanti. Mi veniva spontaneo sospettare che nelle Montagne di Sardar non ci fosse niente di quel che credevano gli uomini, né l'Inviolabile, né i Re Sacerdoti. Forse tutto era soltanto una mera leggenda, e laggiù non avrei trovato che neve e rocce spazzate dai venti gelidi. Forse le cerimonie, le preghiere, ed i templi elevati ovunque dagli Adepti, erano frode, superstizione, voci dirette al vuoto ed al gelo di montagne dove non c'era nulla. Quantomeno, io non riuscivo a vedere proprio niente. Ma, all'improvviso, Horus emise un gracidio e cominciò a precipitare in vite, con le grandi ali che sembravano incapaci di far presa sull'aria. Mi aggrappai freneticamente alle penne del suo collo, bestemmiando per lo spavento, e compresi d'aver sbattuto il naso contro una prova lampante dell'esistenza di una barriera protettiva. Era come se il grifone stesse cadendo lungo una parete verticale, invisibile ed inavvertibile al tatto, in uno spazio dove l'atmosfera non gli forniva più il sostentamento. Stridette più volte, mentre il terrore prodotto in lui da quell'effetto gli faceva perdere del tutto la coordinazione, quindi roteò su sé stesso. Per un angoscioso minuto la nostra picchiata a corpo morto ci fece perdere duemila metri di quota, durante i quali mi trovai più spesso sotto al grifone che sopra. Poi, quando ormai eravamo ad un centinaio di metri dal suolo, Horus tornò in possesso delle sue capacità di volatile e dal becco gli uscì uno stridio selvaggio. Si raddrizzò, riuscì a frenare la caduta con violentissimi colpi d'ala, poi schizzò via quasi rasente al suolo in direzione opposta alle montagne. Per qualche minuto il grifone fu ingovernabile, ed accelerò con frenesia senza far caso alle mie grida. Da lì a poco, con mia meraviglia, Horus risalì rapidamente di quota finché fummo di nuovo sui duemila metri e, qui giunto, invertì la rotta filando
a tutta velocità verso la barriera invisibile. Urlai e lo percossi coi pugni, ma fu inutile: per qualche suo oscuro motivo voleva riprovare a sorvolare la zona proibita. E, come in precedenza, cadde vittima di quell'effetto incomprensibile, precipitando come un macigno. Ignorando i miei ordini, il volatile ripeté quel tentativo per ben cinque volte, con folle energia e cieca caparbietà, e notai che non dava segni di spavento ma di rabbia fredda. Per mia fortuna quella sua strana lucidità lo mise in grado d'uscire molto più facilmente dalle cadute in vite, tanto che l'ultima non fu diversa da una normale picchiata ad ali chiuse. Venne quindi il momento in cui ad un mio ennesimo «Redine quattro!», Horus si decise ad ubbidire, forse perché reso esausto da quei tentativi irragionevoli. Lentamente planò sulla pianura fertile, a circa un chilometro di distanza dalle tende della fiera. Ogni tanto volgeva il capo a fissarmi quasi con rimprovero, disgustato dalla mia arrendevolezza: se fosse dipeso da lui, sembrava dirmi, avrebbe prima o poi trovato il punto debole del misterioso avversario che gli aveva impedito di volare avanti, e l'avrebbe straziato a colpi di becco e d'artiglio. Una volta a terra, lo consolai cercando le zecche fra le sue piume, e gliene gettai nel becco una dozzina. Mi accorsi che avrebbe avuto bisogno d'una buona ripulita igienica, ma ormai non avevo né voglia né possibilità d'occuparmene. Mi ero appena imbattuto in quella che un goreano di Casta Bassa avrebbe definito una Magia divina, e non potevo evitare di chiedermi con quale energia i Re Sacerdoti avessero saturato l'atmosfera intorno alle loro montagne. Un'ipotesi valeva l'altra, ma quella che mi sembrava la più valida era una sorta di campo d'onde elettromagnetiche, il cui effetto era di stravolgere l'equilibrio di volo del grifone. L'azione era avvenuta a livello dei canali semicircolari del suo orecchio interno, oppure sull'arco riflesso neuromuscolare. Mi era stato detto che ciò accadeva anche ai tharlarion da sella, e c'era da scommettere che lo stesso valeva per buona parte della fauna di Gor. Ma sugli uomini questo non si verificava, se era vero che molti erano stati visti penetrare fra le montagne senza dare alcun segno di disagio, e quindi non mi restava che tentare a piedi. Dovevo ora mandar via Horus, e ciò non mi rendeva felice. Per un poco rimasi li a parlargli, sebbene questo fosse sciocco ed inutile, spiegandogli che il destino c'imponeva di separarci e stavolta forse per sempre. Poi gli indicai la pianura, nella direzione da cui eravamo venuti, e gridai: «Ta-
buk!» L'animale non si mosse, cosicché ordinai ancora: «Tabuk! Tabuk!» Horus fece orecchie da mercante. Assurdamente avevo l'impressione che si sentisse a disagio, in qualche modo conscio d'avermi deluso. E, cosa questa ancor più irreale, sembrava rendersi conto che volevo mandarlo via e rinunciare definitivamente ai suoi servizi. Si agitava sulle zampe, inquieto e nervoso. «Adesso vai, Horus. Vai!», ripetei, indicandogli il cielo. «Cerca di cavartela da solo, amico. Dove io vado non puoi seguirmi. Vola!» Il grifone sbatté due o tre volte le ali, infine le allargò e si decise a decollare. Compì due larghi giri sopra di me, mi salutò con un gracidio rauco, poi si allontanò verso nord alzandosi in quota. Lo seguii con gli occhi fin quando non fu che un puntolino scuro appeso nel cielo, poi diedi una lunga occhiata esplorativa alle Montagne di Sardar. Ero stanco ed assetato. Mi avviai a passo svelto alla volta del grande villaggio di tende, chiedendomi se avrei avuto difficoltà a procurarmi un buon pasto e qualche bicchiere di paga. Ma avevo fatto si e no duecento metri sull'erba punteggiata di fiorellini bianchi quando, da un folto d'alberi alla mia destra, provenne il grido acuto d'una donna in preda al terrore. Capitolo 21 COMPRO UNA SCHIAVA Dopo un primo attimo di stupore, corsi da quella parte, guardai un fangoso corso d'acqua pieno d'erbe palustri, e raggiunsi alcuni cespugli. Qui estrassi la spada e mi mossi avanti con cautela, cercando di capire da quale punto del boschetto fosse giunto il grido. Lo udii ancora: era una voce decisamente spaventata che strillava suppliche incomprensibili, seguita dalla risata di un uomo. Quando fui fra gli alberi, mi arrivò alle narici l'odore d'un fuoco da campo. Da qualche parte c'erano degli uomini che conversavano sottovoce, ed altri rumori indicanti la presenza di animali. Poi vidi sei o sette tende di tela robusta e quattro carri coperti, in una piccola radura. Presso i veicoli c'erano altrettante coppie di tharlarion da tiro, i sauriani quadrupedi strettamente imparentati coi bipedi da sella, ed i due conduttori che li avevano appena sciolti dai finimenti, sembravano non aver udito il grido della ragazza o non considerarlo affatto degno d'attenzione.
Tenni la spada in pugno ed uscii dalla vegetazione esibendo un passo indifferente. Allorché oltrepassai la prima tenda, gli inservienti mi osservarono con sospettosa attenzione, ed uno si spostò di lato per controllare se dietro di me arrivassero altri estranei, ma non avevano l'aria ostile. La scena appariva perfettamente pacifica e normalissima: fuochi per cuocere il cibo, finimenti poggiati qua e là, oggetti d'uso comune tolti dai veicoli ed ordinati sull'erba, e la pigra immobilità dei sauriani. Mi ricordava la vita quieta che avevo conosciuto nella carovana di Mintar, con la differenza che il grasso mercante si portava dietro un enorme numero di carri e di dipendenti, mentre questo accampamento era di modeste dimensioni. Di nuovo la ragazza strillò con tutta la forza dei suoi polmoni. Stavolta però non battei ciglio, perché i grandi carri avevano tendoni di seta gialla e blu, e ciò era bastato ad indicarmi che si trattava di comuni mercanti di schiavi. Con una smorfia ricacciai la spada nel fodero, poi mi tolsi l'elmetto. «Tal!», dissi. I due inservienti stavano giocando a Pietre, un semplice gioco d'azzardo consistente nell'indovinare se l'avversario aveva in pugno un numero pari o dispari di sassolini, ed il mio arrivo li aveva interrotti. «Tal!», rispose uno di essi. L'altro non mi degnò di attenzione, perché si era chinato a raccogliere da terra le monete della sua vincita. Passai loro accanto e raggiunsi la parte anteriore della tenda più grossa; scostai la stoffa e vidi che nell'interno c'erano due persone, una delle quali era la ragazza che aveva strillato. Il respiro mi si bloccò per l'ammirazione. Era una bionda, con lunghi capelli d'oro zecchino e grandi occhi azzurri, completamente nuda. Stava in ginocchio davanti a un robusto paletto conficcato al suolo, contro il quale poggiavano le sue natiche vellutate, e tremava come un animale spaventato. I suoi polsi erano uniti in due bracciali da schiava, e tenuti più in alto della testa dalla catenella fissata al palo; un'altra sottile catena la imprigionava all'altezza della vita, impedendole di alzarsi e di muoversi troppo. Era così bella che imprecai stupefatto, e dovetti ricomporrai la tunica rozza, inadatta a nascondere la più lieve eccitazione. Quando avevo messo dentro la testa, sul suo volto c'era un'espressione smarrita e sofferente, e per un attimo ella parve sul punto di supplicare il mio aiuto. Ma, subito dopo, i suoi occhi incantevoli si velarono ancor più di terrore, e dalla bocca le uscì un gemito. Un tremito inarrestabile scosse il suo corpo, la testa le ricadde sul petto e gridò ancora debolmente. Dissi a
me stesso che doveva avermi scambiato per un altro mercante di schiavi. La forma dei suoi seni e l'ansito che li faceva andare su e giù mi stavano come ipnotizzando. Per terra c'era un grosso braciere di ghisa colmo di carboni ardenti, il cui calore mi riverberava sulla faccia da tre metri di distanza, ed infilati nelle braci stavano tre ferri da marchio, col manico isolante. Seduto a gambe incrociate dietro il braciere c'era un individuo vestito soltanto d'un paio di larghi pantaloncini di pelle, un tipico guardiano di schiavi di quelli assunti dai mercanti e dai banditori d'asta, massiccio, ringhioso, lucido di sudore e fornito di una benda nera sull'occhio destro. Usò l'occhio sano per dedicarmi uno sguardo indifferente, e mosse i ferri fra le braci con fare esperto. Stava aspettando con pazienza che uno dei marchi fosse almeno al calor rosso. Osservai le cosce della ragazza, a dir poco spettacolose, e notai che non aveva ancora subito il marchio. Quando un uomo catturava una femmina per tenersela in casa come amante, di solito non era così poco gentile da marchiarla a fuoco, cosa che invece costituiva la regola per i mercanti. Ricordavo però che Mintar, il quale si occupava anche di schiavi, si guardava bene dal rovinare una ragazza facendola piangere con l'esibizione dei ferri roventi, e lasciava al futuro padrone la scelta se marchiarla o meno. In ciò veniva premiato, poiché le sue ragazze si presentavano alle aste più in forma e vivaci, col risultato che i suoi introiti erano maggiori. Sia il marchio sulla coscia che il collare erano simboli di schiavitù, ma il loro significato era diverso. Il primo scopo del collare era di rivelare a quale padrone e città lo schiavo appartenesse. Il marchio era l'indicazione permanente della condizione di schiavo, ed alle donne veniva fatto presso la natica, in una posizione dove restasse nascosto sotto l'orlo della tunichetta. Secondo l'uso, il marchio inferto alle ragazze era la lettera iniziale e minuscola della parola «schiavo» in lingua goreana, e lo si voleva eseguito con ferri molto sottili, in modo da lasciare sulla pelle un segno assai fine e addirittura elegante. Gli uomini venivano marchiati con la stessa lettera, ma in carattere maiuscolo e largo anche un centimetro. Notando che provavo un forte interesse per la deliziosa bionda, il guercio le andò accanto e l'afferrò per i capelli; poi le sollevò la testa per mostrarmi il suo volto. «Molto bella, non è vero?», disse. «Merce sopraffina, e garantita vergi-
ne.» «Attraente, sì,» commentai, in tono per nulla cordiale. Mai mostrarsi troppo attratti da una schiava pronta per la vendita: questo era un principio universale. In realtà, a mettermi di cattivo umore erano state le lacrime che vedevo negli occhi di lei, ma l'uomo scambiò la mia smorfia scontrosa con quella tipica di chi prima disprezza e poi compera. Sorrise. «Hai bisogno di una schiava da letto, amico? Se è così sei capitato nel posto giusto. Del resto, alla fiera, Padron Targo non porta mai quelle buone per far le cuoche o i lavori di casa. Solo bambine da letto, e di classe.» «No, non so che farmene di una schiava. Davo solo un'occhiata,» dissi. Per quanto la mia risposta fosse sincera, era proprio quella che lui si sarebbe aspettato da un possibile acquirente. Mi strizzò l'occhio buono, gesto raro da parte di un guercio. «Nessuno le ha mai messo un'unghia del mignolo addosso, lo giuro sui Re Sacerdoti. E sai perché, amico? Te lo dirò in confidenza, caro signore: questa verginella è più difficile da domare di uno sleen selvaggio. Ci vuole un uomo vero per tenere in pugno una femmina così!» Ed annuì con enfasi. Dopo avermi fissato per vedere se apprezzavo quel luogo comune, continuò: «Adesso la devo marchiare. Non mi piace farlo, ma non c'è altro modo per ficcarle in capo la ragione. Io me ne intendo, credimi.» Non dubitavo che fosse un gran praticone dei ferri roventi. Lo osservai mentre studiava un marchio e lo confrontava con un altro. Nessuno dei due era ancora caldo a sufficienza. Alla vista dei ferri la ragazza mandò un grido straziante e si contorse, facendo tintinnare le catene ai polsi e alla cintura; ma non poteva muoversi abbastanza da farsi male. Il guercio schioccò le labbra, borbottò qualcosa e ficcò di nuovo gli attrezzi fra i carboni. «È bella, però ha una voce che spacca i timpani,» commentò a metà fra divertito e seccato. Le tornò accanto. Con una smorfia come di scusa nella mia direzione afferrò una ciocca dei suoi capelli, l'arrotolò a palla e gliela mise in bocca a forza, fermandogliela con altre due ciocche annodate intorno al volto. Era un vecchio trucco usato anche dai grifonieri per zittire le femmine appena rapite: bagnandosi di saliva, i capelli si gonfiavano, formando un bolo che col suo volume occupava tutta la bocca della malcapitata. «Spiacente, dolcezza,» sogghignò, dandole un buffetto. «Ma tu e io non
vogliamo che Padron Targo s'incavoli di brutto, eh? Se si scoccia di sentirti strillare, quello viene qui con la frusta e ci mena a tutti e due.» Con un ansito soffocato la ragazza lasciò ricadere la testa in avanti, sfiorando col mento l'incantevole solco fra i seni. Seduto sul tappetino, l'uomo cominciò a fischiettare fra i denti, attizzando ogni tanto i carboni. Le mie emozioni erano contrastanti ed in subbuglio. Nel precipitarmi lì mi ero preparato a dover combattere per aiutare una ragazza, ma ora scoprivo che in quanto le stava accadendo non c'era nulla d'illegale e che lei veniva trattata secondo le migliori consuetudini di Gor. Marchiarla era un sacrosanto diritto di quei mercanti e, se avessi ceduto all'impulso di liberarla, ciò sarebbe stato giudicato un furto bello e buono, proprio come se avessi rubato uno dei carri o dei soldi. Inoltre non potevo neanche affermare che gli schiavisti avessero l'intenzione di maltrattarla, perché non era certo loro interesse presentarla ai clienti in cattive condizioni di corpo e di spirito. Era una merce, una delle numerose femmine che avevano portato alla fiera, forse un po' meno docile di altre e quindi bisognosa d'essere domata. Per il guercio era pacifico che una schiava su venti o trenta facesse un po' di trambusto, e non si sarebbe mai soffermato a pensare alla sua vergogna, alla sua umiliazione ed alla sua paura dei ferri, che rientravano nell'ordine naturale delle cose. Sapevo per esperienza che le altre schiave della carovana, sedute nei carri dal tendone giallo e blu, stavano di sicuro chiedendosi cosa diavolo avesse la bionda da fare tante scene: dopotutto cos'era un piccolo marchio? Pensasse piuttosto a dipingersi la faccia per piacere a qualche acquirente giovane e danaroso. Proprio allora, sentendo il chiacchiericcio delle schiave, mi voltai e le vidi scendere da due dei veicoli. Erano una trentina, e ridevamo e parlavano come un qualsiasi spensierato gruppetto di donne libere uscite a prendere un po' d'aria. Indossavano il camisk, che nella zona interna delle pianure sembrava andare più di moda delle tunichette, e ciascuna aveva una cintura metallica chiusa col lucchetto, alla quale il loro sorvegliante stava applicando una lunghissima catena. L'uomo le stava conducendo al ruscello ma, prima d'abbandonare la radura, dovette dar da bere a quelle che chiedevano un po' di vino e soddisfare le richieste di altre: chi voleva un pettine, chi del sapone, chi aveva un sandalo rotto, e chi desiderava esser cambiata di posto alla catena per star vicino ad un'amica. Le osservai mentre si allontanavano fra gli alberi: merce pregiata che il sorvegliante doveva custodire con la massima cura per tutelare gli interessi di Padron Targo.
Rientrai nella tenda e vidi che i ferri erano quasi arroventati al punto giusto. La bionda legata al paletto ansimava, in atteggiamento più smarrito e disperato che mai. Mi ero chiesto già molte volte perché l'uso della marchiatura a fuoco fosse tanto comune, sapendo che esistevano pigmenti altrettanto indelebili e tatuaggi indolori che avrebbero reso lo stesso effetto. La mia conclusione era stata che il ferro rovente aveva un motivo psicologico, ovvero convinceva lo schiavo d'essere veramente uno schiavo. In pratica quel principio funzionava bene, lo si doveva riconoscere: nel momento in cui il ferro si staccava dalla sua coscia, e il dolore la sopraffaceva non meno del disgustoso sentore della carne bruciata, la femmina sentiva il marchio imprimerlesi nel subconscio, nella sua stessa volontà, ed era costretta a pensare in uno spasimo di sofferenza. Io sono sua! La sua bruciante consapevolezza di quel fatto le sarebbe rimasta nella mente per tutta la vita, sia che si rassegnasse sia che lottasse per non pensarci. Ovviamente l'effetto del marchio variava molto, da donna a donna. Quelle provenienti da famiglie miserabili non soffrivano mai per la loro condizione quanto una ragazza di Casta Alta; le femmine nella cui parentela vi fossero dei guerrieri si mostravano notoriamente riottose ed intrattabili, se le si umiliava col marchio, ed in questi casi era preferibile limitarsi a metter loro il collare. D'altra parte avevo visto spesso ragazze orgogliose, di grande intelligenza e capaci di uccidere l'uomo che le avesse sfiorate, divenire dopo la marchiatura creature docili e ubbidienti come ad un tocco di bacchetta magica. I mercanti, in generale, non erano però così sottili da considerare le implicazioni psicologiche del marchio. Lo usavano più che altro in omaggio ad una tradizione risalente all'antichità, ed anche perché era di applicazione facile e rapida. Ma una cosa era chiara: quella povera ragazza dai capelli d'oro non voleva esser toccata dal ferro rovente. Non faticavo molto a mettermi nei suoi panni, e mi faceva compassione. Lo schiavista tolse dai carboni un paio di ferri e li esaminò con attenzione per stabilire quale di essi fosse migliore. Erano roventi, di un giallo acceso nella parte più sottile, e ciò lo fece sorridere soddisfatto. La ragazza si contorse come una serpe, inarcandosi più volte. Il suo respiro si era fatto spasmodico; negli occhi azzurri sbarrati dal terrore le balenava una luce di follia, ed il suo splendido corpo vibrava come una corda di pianoforte. Benché avesse la bocca tappata, emise una serie di lamenti e
mugolii animaleschi; quando poi l'uomo le fu accanto, perse il controllo del tutto e vuotò la vescica per lo spavento. Lui non ci fece caso. Con una mano le afferrò la caviglia sinistra e le fece distendere la gamba di lato, torcendogliela all'indietro in una posizione che la costringeva all'immobilità. «Non agitarti, bella,» le disse gentilmente. «Se stai buona buona, ti faccio un lavoretto di fino, leggero come il bacio d'una farfalla. È questione di un attimo, ma occorre mano ferma. E tu vuoi che ti resti un marchio pulito e artistico, vero?» L'uomo teneva il ferro con la mano destra, in attesa del momento buono per toccarla presso la natica. Una lunga ciocca dei capelli di lei ondeggiò, sfiorando il marchio, e le punte si arricciarono con un filo di fumo. La ragazza era tesa allo spasimo, ma rassegnata. Chiuse gli occhi, in attesa del morso rovente a cui non poteva più opporsi. «Non la marchiare,» dissi. Il guercio mi guardò perplesso. «Perché no?», chiese, mentre a sua volta la bionda volgeva il capo a fissarmi storditamente. «Può darsi che io voglia comprarla,» borbottai. «Ah!» Scosse le spalle con un sorrisetto e si alzò. Poi depose il ferro, uscì dalla tenda e chiamò: «Padron Targo!» Appesa per i polsi, la ragazza aveva ceduto di schianto alla tensione psichica ed era svenuta. Dalla tenda più vicina venne un grugnito di risposta, quindi il tessuto giallo e blu si aprì e ne venne fuori un ometto basso e tarchiato: era Targo, della Casta dei Mercanti, il padrone della piccola carovana. Era un individuo piuttosto volgare e vistoso nel vestire; portava un turbante di seta rossa e piume, sandali di cuoio ornati di acquemarine ed occhi di tigre, ed indossava una tunica ricamata, impregnata di profumo scadente. Le sue dita scintillavano di gioielli probabilmente falsi, ed aveva una collana fatta con monete d'argento, mentre dalle orecchie gli pendevano quelle che sembravano due mezzelune dorate e punteggiate di lustrini. La sua pelle luccicava d'olio, dal che dedussi che fino a quel momento doveva essersi rilassato sotto le mani d'una massaggiatrice, cosa che ogni mercante usava fare al termine dei lunghi viaggi sulle carovaniere. Da sotto il turbante gli uscivano due pesanti trecce di capelli neri, unti anch'essi e grigi sulle punte. Nell'insieme aveva l'aspetto di un astuto cialtrone, ma del resto neppure io avevo l'aria dell'intellettuale fine e prezioso. «Buongiorno a te, signore,» disse in tono non meno untuoso della sua pelle. Poi si volse al dipendente ed abbaiò: «Beh? Che diavolo hai da sec-
carmi, proprio adesso?» Il guercio lo rimandò a me con un gesto. «C'è qui questo viaggiatore, Padron Targo. Non ha voluto che marchiassi la ragazza.» Il mercante corrugò le sopracciglia. «E perché?» Mi sentivo sciocco. Cosa potevo rispondere a quel professionista nel traffico della carne umana, un individuo i cui costumi erano quelli antichi e sperimentati della sua Casta? Se gli avessi detto che m'irritava veder soffrire una schiava, avrebbe invocato su di me la pietà dei Re Sacerdoti come si faceva coi matti. Eppure una spiegazione dovevo fornirgliela. Decisi che tanto valeva dirgli la verità. «Il fatto è che non mi piaceva vederla piangere. Tutto qui.» Targo e lo schiavista si scambiarono un'occhiata, esattamente l'occhiata che avevo previsto. Poi il mercante stabilì che gli conveniva fingere d'aver capito male. «Vuoi dire che desideri acquistarla? È così?», domandò. Il guercio fece un passo avanti. «Sicuro, Padron Targo. Ha detto proprio che vuole comprarla.» «Ah!» Targo ritrovò il suo melenso sorriso professionale. «In questo caso sarò onorato di trattare l'affare, signore. Tuttavia è mio dovere avvisarti che non tengo roba di seconda scelta. Vengo direttamente dal mercato di Ar, dove ho acquistato le più belle vergini della piazza, e quella bionda mi è costata un pomeriggio di contrattazioni.» «Non ho denaro con me,» dissi. Il sorriso dell'uomo svanì come se l'avessi schiaffeggiato. «Stai dicendo che non hai denaro con te?», ripeté. «Neanche una moneta.» Il mercante strinse i denti e si volse al guercio. «Marchia la ragazza. E se un altro straccione come questo s'avvicina al campo, fallo frustare,» ordinò. Lo schiavista rientrò nella tenda e si accostò al braciere. Io sfoderai la spada con un gesto ampio e la puntai nel ventre del mercante. Targo sbarrò gli occhi. «Non marchiare la ragazza!», fu il contrordine che s'affrettò a dare. Obbediente, il guercio lasciò stare i ferri roventi. Non parve per nulla emozionato o disturbato nel vedere che il suo padrone aveva una lama puntata nell'ombelico, e lo interrogò con ostentata calma: «Devo chiamare i guardiani?» «Fai pure. Arriveranno giusto in tempo per seppellirvi entrambi,» rin-
ghiai io. «Meglio non chiamare nessuno,» stabilì Targo, spaventato. Lo fissai con durezza. «Non ho denaro, però ho questo cinturone.» Con la sinistra mi tolsi il fodero da tracolla e glielo mostrai. Gli occhi del mercante percorsero i sei smeraldi pesandoli e valutandoli in pochi istanti. Si umettò le labbra e tossicchiò. «Forse possiamo cercare un accordo da persone civili,» disse. Abbassai la spada consentendogli di tirare un respiro di sollievo. Appena il colore gli fu tornato sulle guance si volse all'altro: «Sveglia la ragazza: tirala su!», comandò. Con un grugnito l'uomo in pantaloncini di cuoio prese un secchio ed andò a riempirlo al ruscello, e Targo ed io restammo lì a guardarci in silenzio aspettando che tornasse. Rientrato nella tenda, il guercio versò mezza secchiata d'acqua gelida sulla faccia della bionda, che sputacchiò e annaspò, mettendosi in ginocchio. I suoi occhi restarono vacui per qualche istante ancora, poi si riempirono di rabbia. Targo le andò accanto, uncinò il suo mento con un dito tozzo e la costrinse ad alzare il viso. «Una vera bellezza,» esordì, con tono da imbonitore. «Educata alla perfezione nella Casa degli Schiavi di Ar, dove le hanno insegnato le arti del piacere ed i suoi doveri verso il padrone.» Diedi un'occhiata al guercio e dalla sua smorfia ironica compresi che si trattava d'una frottola, del resto prevedibile. «Forte di petto, morbida di ventre, docile e ansiosa d'esser gradita», la lodò ancora il mercante. «Gentile di modi, affettuosa e, una volta vestita a dovere, garbatissima con gli ospiti del fortunato che l'acquisterà. Una vera perla.» Mossi la spada, sfiorando appena una guancia di lei, e con un leggero tocco sciolsi le ciocche di capelli annodate sulla faccia. La ragazza sputò quella che aveva in bocca, furiosamente, ed investì Targo con un'occhiata d'odio allo stato puro. «Tu... grosso e lurido topo di fogna!» gridò. «Putrido escremento di tharlarion! Io ti...» Targo la fece tacere con un ceffone, e sorrise. «Ti ho già detto di parlare solo quando sei interrogata. Non farle caso, signore. In questo momento è un po' nervosa.» «Nervosa? È dolce di modi come una grifonessa. Ho visto schiave come lei pugnalare nel sonno il loro padrone,» commentai.
«Ma nient'affatto, signore. Nient'affatto!», esclamò il mercante alzando le mani. «Ha l'orgoglio della femmina di classe. Non pretenderai che agisca e parli con l'umiltà della figlia d'un carbonaio, se avrà l'alto onore di vivere nella casa d'un padrone fiero e nobile come te. L'ho pagata cento denari d'oro, e ti giuro che non ho mai speso soldi più volentieri.» Alle spalle del padrone il guercio sorrise e scosse il capo, quasi a dirmi che con quell'ultima spudorata bugia lui non c'entrava. «Ti saresti dunque fatto imbrogliare?», domandai. «In qualsiasi mercato avresti potuto averla per cinquanta.» Targo si strinse nelle spalle, per nulla smontato dalla mia competenza. In realtà cinquanta denari d'oro erano già un prezzo elevato, attribuibile solo a ragazze di Casta Alta oppure assai attraenti. Una femmina di origini modeste e di media avvenenza, vergine, poteva esser comprata con venti o trenta denari d'oro, a seconda del luogo. E in Ar, se davvero lei era stata acquistata là, i prezzi erano fra i più bassi. «Posso darti tre di questi smeraldi,» proposi. A dire il vero non avevo un'idea precisa del valore di quelle pietre. Piuttosto seccato mi resi conto che Targo, il quale esibiva una gran quantità di monili, doveva invece essere un esperto in materia. «Assurdo. Tu ti fai gioco di me!», esclamò, scandalizzato. «E sia. Ammetto che la ragazza vale almeno quattro smeraldi di questo tipo. Osserva il taglio e la purezza. Sono pietre senza difetti, anche se non grosse.» «Vediamole meglio,» brontolò. Gli porsi fodero e cinturone e lui andò a piazzarsi sulla soglia della tenda. Scosse la testa, esaminando le pietre controluce. «Sono smeraldi di media qualità. Non bastano neanche tutti e sei.» «Forse farei meglio a venderli alla fiera, allora,» dissi. «Se vuoi.» Targo alzò le spalle. «Ma non ti daranno più di venticinque o trenta denari d'oro.» «Quand'è così, fammi vedere un'altra schiava,» decisi. «Ho notato che non poche sono goffe e bruttine, ma forse ne troverò una capace di rispettare il padrone.» La mia proposta non piacque al mercante, che in realtà non aveva portato con sé ragazze scadenti. Avevo però il sospetto che per qualche sua ragione personale desiderasse disfarsi alla svelta della bionda, sebbene fosse la più bella della carovana. Forse la ragazza era ricercata da parenti bellicosi e c'era il rischio di vederseli capitare attorno, oppure era una di quelle
mai sazie di combinare guai e di tentare la fuga. Al posto di Targo un altro mercante mi avrebbe chiesto lui stesso di visionare le altre, nella speranza che mi portassi via la più brutta, e invece non l'aveva fatto. «Ma sì, facciamogli vedere le ragazze,» disse il guercio. «Questa non s'è neanche degnata di dargli il buongiorno, quando ha sentito che il signore era così buono da scegliere lei.» Targo lo fulminò con gli occhi. Uscì dalla tenda a passi irritati e batté tre volte le mani con energia. Subito da oltre gli alberi provenne un rumore di catene e di passi, e la voce del sorvegliante incitò le schiave a sbrigarsi. Appena le ragazze comparvero, in fila, Targo ordinò loro d'inginocchiarsi sull'erba. Accorgendosi che c'era un possibile acquirente, alcune si riassettarono il camisk, altre si accomodarono i capelli, e tutte parvero emozionate. Le passai in rassegna lentamente. Ogni ragazza, quando mi fermavo davanti a lei, alzava il viso e mi rivolgeva la frase rituale; «Buongiorno, padrone. Compra me, padrone.» Molte erano davvero carine, apparivano sane e pulitissime, e senza dubbio il mercante non avrebbe faticato a venderle con un buon guadagno. Si trattava d'un lotto di schiave selezionate, destinate ai piaceri dell'alcova e non poco costose. Dal loro accento compresi che venivano da ogni angolo della grande pianura e della costa. C'era una biondina di Thentis di cui Targo vantò la conoscenza della medicina, ed una ragazza di Tor delle Sabbie istruita in disegno e matematica. Queste due sarebbero state certo acquistate da qualche dottore o ingegnere a peso d'oro, dato che la bellezza unita alla competenza in una pratica professionale faceva di loro dei pezzi rari. Fui anche colpito da una brunetta che parlava il dialetto secco di Porto Kar, e da due giovanette native di Ar. Le altre, pur attraenti, dovevano esser nate in schiavitù e non avevano negli occhi il ricordo della libertà perduta. Avrei voluto comprarle tutte e poi toglier loro il collare per sempre. La schiavitù mi ripugnava ma, quando si trattava di ragazze giovani e indifese, sentivo una gran voglia di combattere quella barbara usanza a colpi di spada. Su Gor, fra le tante cose che amavo ve n'erano anche alcune che odiavo profondamente. Ma che potevo fare? «Non m'interessa nessuna di queste,» dissi a Targo. Con mia sorpresa un mormorio di disappunto corse lungo la fila delle schiave. Due di loro, la biondina di Thentis e la bruna di Porto Kar, si coprirono il viso con le mani e chinarono il capo, soffocando un gemito. Volsi lo sguardo da un'altra parte e strinsi i denti, cercando di non vedere e
non sentire, ma avevo avuto una stretta al cuore. Capivo che cercando di convincermi che stavano bene avevo imbrogliato ipocritamente me stesso. Tenute alla catena in ogni loro spostamento, in balia del destino e della brutalità dei mercanti di schiavi, le poverine dovevano sentirsi fra il purgatorio e l'inferno. E nel vedere un giovanotto qualsiasi, un qualsiasi possibile acquirente, l'ansia d'uscire da quell'incubo e tornare ad una vita in qualche modo umana le faceva tremare e piangere. Pur d'uscire delle mani degli schiavisti e cessare d'essere oggetti, sarebbero andate volentieri anche con un fuorilegge. Nel dirmi «Compra me, padrone», nessuna di loro aveva scherzato od ubbidito a un vuoto rituale. Targo sembrò sollevato per la mia decisione. Mi prese subito per un gomito e mi ricondusse alla tenda in cui era incatenata la bionda. Nel guardarla mi chiesi perché avevo scelto lei e non un'altra. E che differenza avrebbe fatto per me se sulla sua pelle vi fosse stato oppure no un marchio? L'istituto della schiavitù non sarebbe scomparso per il semplice motivo che io lo detestavo, ed una schiava in più o in meno non avrebbe modificato una situazione d'ingiustizia. Inoltre non me la sarei potuta portare dietro sulle Montagne di Sardar, ed abbandonarla avrebbe significato rimandarla prima o poi nelle mani degli schiavisti. Dissi a me stesso che non potevo fare stupidaggini. «Ho cambiato idea,» borbottai. «Non me la posso permettere, E poi, sembra che mi detesti, da come mi guarda.» Ma proprio allora, sorprendentemente, la ragazza mutò espressione e mi sorrise. Parlò a voce bassa, in tono assai vicino all'umiltà: «Per favore, padrone, compra me.» «Ehilà!», si stupì il guercio, mentre perfino Targo non riusciva a celare la meraviglia. «È la prima volta che non apre bocca per maledirci tutti.» Notando che la bionda mi fissava supplichevole, corrugai le sopracciglia. E di nuovo il mio trito sentimentalismo l'ebbe vinta, perché seppi che non me ne sarei andato da lì senza averla tolta da quel paletto. «Se ti accontenti dei sei smeraldi, concludiamo l'affare,» dissi a Targo. «Non ho nient'altro da darti.» «Hai un elmetto che potrebbe valere qualcosa,» mugolò il mercante, con l'aria di chi si sta facendo rapinare. «Per il cielo! Se avessi un occhio di vetro, insisteresti per cavarmelo dall'orbita! E va bene, va bene.» «Devo pur mangiare!», si lagnò. Quando però ebbe fra le mani il fodero e il cinturone, la luce che gli bril-
lò nello sguardo m'informò che mi aveva estorto più di quel che sperava. Gli consegnai anche l'elmetto, a denti stretti: sia lui che io sapevamo che l'oggetto in realtà valeva ben poco. Adesso mi pentivo di non essere andato alle tende della fiera per farmi valutare gli smeraldi da qualche esperto. Come compratore ero decisamente un inetto. La ragazza ora mi fissava con estrema intensità, cercando di leggermi in viso quale sarebbe stato il mio destino. In effetti, essendo di mia proprietà, da lì in avanti sarebbe dipesa da me in tutto e per tutto, e sicuramente si chiedeva che razza di padrone sarei stato. Gor era un mondo strano e crudele: sei pezzi di minerale verde ed un elmetto ammaccato valevano più di una vita umana. Ma anche sulla Terra era così, a volte. Targo tornò nella sua tenda, dopo aver mandato il guercio a prendere la chiave per togliere le catene alla bionda, ed io rimasi lì con lei. Il suo corpo nudo era molto eccitante, e infatti mi eccitava. Fin troppo! «Come ti chiami?», le domandai. «Una schiava non ha nome, padrone. Ma potrai darmene uno a tuo piacimento,» rispose. Era vero. Su Gor uno schiavo, non essendo legalmente una persona, non aveva neppure un'identità riconosciuta dalla legge, un po' come un animale domestico. Dal punto di vista dei Goreani di Casta Bassa uno dei peggiori aspetti della schiavitù era appunto la perdita del nome, al quale si sentivano legati da influssi magici. Trovarsi in schiavitù era quindi anche una situazione in cui la loro identità svaniva, una sorte di morte simbolica che alcuni sentivano dolorosamente. «Tu non sei certo nata schiava, ragazza,» dissi. Lei sorrise. «No, padrone. Ho vissuto libera.» «In tal caso mi piacerebbe chiamarti col nome che hai ricevuto alla nascita.» «Tu sei davvero gentile, padrone.» «Non parliamone.» Alzai le spalle. «Allora, qual è il tuo nome? «Lara.» «Guarda che combinazione. Ho conosciuto una Lara non molto tempo fa, a Tharna. Solo che non ho mai visto il suo viso.» Lei sollevò un sopracciglio. «Adesso lo stai guardando, Tarl di Ko-roba!» Capitolo 22
CORDE GIALLE Quando la ragazza fu liberata dalla catena, la sollevai sulle braccia e mi feci indicare la tenda usata come locale di soggiorno e riposo. Lì avremmo atteso che ci consegnassero un vestito da schiava ed un collare, come voleva l'usanza. Sul pavimento erano distesi alcuni tappeti dai colori vivaci, e dalle pareti pendevano leggeri arazzi di seta. La luce era fornita da tre lampade ad olio appese a catenelle, perché quella del sole non filtrava all'interno, e qua e là erano disposti comodi cuscini. Da un lato c'era uno di quei giacigli forniti di cinghie che venivano chiamati Letti del Piacere, ed una rastrelliera con staffili morbidi di vario genere. Deposi Lara sul pavimento, e subito il suo sguardo corse preoccupato a quella specie di letto. «Prima di... di tutto,» mormorò, «vuoi prendere il tuo piacere con me?» «C'è tempo,» dissi. Avrei desiderato bere qualcosa, ma non scorgevo giare né boccali. La giovane donna s'inginocchiò davanti a me, poi si chinò con la fronte al suolo e si tirò avanti i capelli per scoprirsi la nuca. «Frustami pure, padrone,» disse sottovoce. La presi per le spalle e la tirai in piedi. Lei mi fissò sorpresa. «Non mi hai comprata per vendicarti e uccidermi? Ora puoi farlo.» «Ma se non sapevo neanche chi eri,» brontolai. «È vero. Però... appena ti ho visto ho pensato che mi avevi cercata per uccidermi.» Abbassò gli occhi. «Ma non ne ero sicura.» «Vedo che la paura di essere uccisa non ti abbatte molto.» «Io sono stata Regina. Preferisco morire piuttosto che vivere come una schiava, sappilo!» «Affari tuoi. Non ho pagato sei smeraldi per il dubbio piacere di toglierti la vita, comunque.» Lei alzò la testa di scatto. «Dammi la tua spada, guerriero. Mi getterò sopra di essa, come si conviene ad una donna del mio rango.» «Il tuo nuovo rango non esige atti di questo genere,» le ricordai. «E poi non voglio il sangue di una donna sulla mia arma.» «Ah!», esclamò Lara. «Dimenticavo lo stupido orgoglio della tua Casta.» «Sciocchezze. Sei una donna giovane e bella. Per te non è ancora il momento di andare nella Città dei Morti.» La ragazza rise brevemente. «Ma tu mi hai comprata, e di certo non vor-
rai rinunciare alla tua vendetta, ora che puoi averla. Io sono la donna che ti ha fatto frustare, che ti ha condannato a morte, che ti ha tradito. Tutte le tue sofferenze le devi a me. Ignoro come tu sia potuto fuggire dalle miniere di Tharna, ma hai l'aspetto di chi ha vissuto momenti di dolore.» Strinsi i denti. «Ti consiglio di non parlare di quest'argomento. Se vuoi bene a te stessa, lascia che io dimentichi,» sibilai. Lara indietreggiò di un passo. «Io non ho dimenticato niente di ciò che ho fatto a te. Niente!», esclamò, sfidandomi con uno sguardo in cui leggevo che non s'aspettava pietà né intendeva chiederla. Pur essendo nuda e indifesa nelle mie mani, e conscia che avrebbe dovuto soccombere miseramente a qualunque cosa avessi voluto farle, mi fronteggiava orgogliosa ed eretta. Allo stesso modo avrebbe atteso d'essere sbranata da un larl selvaggio: per lei era importante saper morire a testa alta, come aveva vissuto, e dovetti ammirare il suo coraggio. In quell'atteggiamento era ancor più bella. Per un attimo il suo labbro inferiore tremò, e per reprimere anche quel piccolo sintomo di paura se lo morse così forte che ne uscì una stilla di sangue. Dovetti girarmi e distogliere lo sguardo da lei, altrimenti avrei ceduto all'impulso puramente sessuale di sollevarla da terra e mangiarla viva. «Non ho intenzione di farti del male,» dissi, rauco. E feci un sospiro per calmarmi. «Perché no? Per quale motivo mi hai comprata?» «Per liberarti. Solo per questo.» «Davvero non sapevi che ero Lara di Tharna?» «Te l'ho detto: non lo sapevo,» ripetei, seccato. «Ma ora lo sai.» Sbatté le palpebre. «Mi metterai a bollire in un calderone d'olio, o mi getterai alle piante carnivore, oppure... mi darai in pasto al tuo grifone. Vero?» Quando nominò il rapace, il suo tono mi parve così buffo che scoppiai a ridere. Lara assunse un'aria stupita, poi impallidì. «Il grifone no!...», ansimò. «Horus non si è ancora dimenticato di te, ci puoi scommettere. E quella bestia ha continuamente fame.» La ragazza si erse in tutto il suo metro e settanta di statura, ed affermò: «Ho il diritto di sapere quale morte mi aspetta.» «Intanto ti restituirò la libertà. Per morire hai tempo finché vuoi,» dissi. Lara mi fissò per due minuti buoni con gli occhi spalancati, poi sulle ciglia le apparve una lacrima. Le sue spalle furono scosse da un tremito vio-
lento e, chinato il capo, scoppiò in singhiozzi. Cedetti all'impulso di circondarla dolcemente con un braccio, le accarezzai la testa, e con mia meraviglia quella che era stata l'altera dominatrice di una città, la gelida femmina dalla maschera d'oro, mi poggiò la fronte sul petto tremando come una bambina smarrita. «Non può essere,» gemette. «Io merito ancor di peggio che essere una schiava, lo so bene!» «Non è del tutto vero. Ricordo anche altre cose di te: ricordo quando ordinasti al carceriere di non frustarmi, e quando dicesti che non era sempre facile essere una Regina, e la sera in cui osservavi una distesa di talender ed io fui così insensibile da chiedere cos'erano i fiori per te.» Immobile fra le mie braccia alzò il viso rigato di pianto. «Perché mi hai riportato a Tharna, quel giorno?» «Volevo scambiare la tua libertà con quella di due miei amici.» «Non desideravi l'oro e l'argento della città?» «Ci sono cose più importanti.» Lara si scostò, improvvisamente scontrosa. «Pensavi che io... non fossi abbastanza bella?» In un altro momento avrei sorriso, ma la sua vicinanza mi provocava troppo. «Sei bella in modo quasi insopportabile... Lo sei al punto che mille guerrieri darebbero la vita per osservarti una volta sola. Per donne come te gli uomini uccidono e le città si danno battaglia.» «Ma non mi vedi come una schiava... una bestia?» «Solo uno sciocco mercante vedrebbe in te la schiava. Per un uomo può essere una gran vittoria avere una donna come te.» «Allora non mi avresti venduta al mercato degli schiavi, come dicevi?» Visto che stavo zitto, domandò: «Perché non mi prendesti per te?» Quell'interrogativo era abbastanza singolare, visti il suo carattere e la sua educazione, tipicamente femminile. La fissai a disagio, sapendo che ora rischiavo d'offendere il suo orgoglio. «Non sarei stato libero di farlo. La mia donna è Talena, la figlia di Marlenus l'ex Tiranno di Ar.» Lei tirò su col naso. «Un guerriero può avere molte schiave,» disse, asciugandosi gli occhi. «Sicuramente nel tuo Giardino del Piacere, dovunque esso sia, numerose belle prigioniere portano il tuo collare. Non è così?» «Non ho schiavi, né Giardino del Piacere, né casa.» «Sei uno strano guerriero,» mormorò. Fece un passo avanti. I suoi seni erano due coni perfetti, e sulla levigata seta del suo ventre la peluria dorata
del pube era qualcosa di superiore ad ogni descrizione. «Non mi desideri?» «Guardarti significa volerti.» «Allora prendimi, poiché sono tua!», si offrì. Lasciai vagare gli occhi nell'interno della tenda, evitando di guardarla. «È molto difficile capirti,» brontolai. «Io sono un animale sciocco e pazzo!», gridò Lara. Dopo quest'incredibile dichiarazione, la ragazza bionda corse verso una parete della tenda ed afferrò uno degli arazzi, nascondendovi dentro il volto. Dopo qualche secondo mi accorsi che stava di nuovo piangendo. Quando poi si volse a fissarmi aveva gli occhi arrossati e accusatori. «Tu mi riportasti a Tharna!», esclamò con rabbia. «Per amore dei miei amici,» precisai. «E per il tuo onore.» «Anche per l'onore, è vero.» «Io odio il tuo senso dell'onore!», gridò, tremando. Allargai le braccia. «Non ero insensibile a te, ma ci sono cose che devono venir prima della bellezza di una donna. La libertà di...» «Io ti odio! Ti odio!», m'interruppe lei. «Benissimo. Mi dispiace.» La ragazza scosse il capo più volte, poi ebbe una lieve risata amara. Sedette su uno dei morbidi cuscini e si strinse le ginocchia fra le braccia, poggiandovi sopra il mento. Inclinò il capo e mi guardò dal basso in alto. «No. Non è vero che ti odio,» mormorò. «Lo so.» «Ma ti ho odiato... Oh, sì! Quando ero Regina di Tharna ti ho odiato e detestato con tutte le mie forze.» Rimasi zitto. Sapevo che stava dicendo la verità. Ricordavo le sensazioni virulente che sembravano ribollire dietro la sua maschera d'oro, confuse ed inesplicabili. «Guerriero, tu lo sai perché io... io che fui Regina ed ora sono una schiava miserabile, ti odiavo tanto?», domandò. «Me lo sono chiesto,» ammisi. «Ti odiavo perché la prima volta che ti vidi mi parve che tu fossi uscito da un sogno. Un sogno che avevo fatto mille volte, per anni ed anni.» La sua voce si abbassò in un sussurro. «In questo sogno io vedevo me stessa nel mio palazzo, 'orgogliosa e fiera, in mezzo al Consiglio ed alle mie guardie, seduta sul trono d'oro. Poi, ad un tratto, il soffitto si frantumava come vetro percosso dal fulmine, e da esso scendeva un guerriero in sella
ad un grifone gigantesco. Allora il guerriero colpiva, uccideva e sconfiggeva le guardie... mi rapiva sul suo grande volatile e, dopo avermi tolto le vesti nel cielo di Tharna, mi portava prigioniera nella sua città, per marchiarmi e mettermi il suo collare.» «So che le ragazze giovani e belle vivono le loro paure in sogni come questo,» dissi. «E nella sua città,» continuò Lara, «il grifoniere del sogno mi vestiva di veli, mi ornava di campanelle i fianchi e le caviglie, e ordinava che danzassi per lui. Io non potevo... non potevo oppormi, dovevo ballare e ballare, perfino la Danza dell'Amore e quella della Frusta. Infine mi prendeva fra le braccia con brutalità e mi costringeva a servirlo nel suo piacere come una bestia.» «E a questo punto dall'incubo ti svegliavi?» La ragazza rise, arrossì, ed i suoi occhi brillarono stranamente. «No, non era un incubo,» confessò. «Non ci arrivo. Tu dovresti detestare certe cose. So che a Tharna sei stata educata alla castità più assoluta.» «È vero, ma nelle braccia di quel guerriero io imparavo cose che Tharna non poteva insegnarmi. E nel sogno apprendevo il fiammeggiante splendore della vergogna e della passione. Le sue mani creavano sulla mia pelle i fiori e le montagne verdi, le grida dei grifoni selvaggi ed il morso feroce del larl... Per la prima volta mi accorgevo di avere un corpo di donna, e dei sensi, e di poter gioire e soffrire soltanto con essi. Imparavo di essere come lui, e di poterlo amare!» Dopo una pausa mormorò ancora: «Non mi sarei tolta il suo collare dalla gola neppure per tutto l'oro e i gioielli di Tharna. Capisci?» «Ma in questo sogno tu eri una schiava,» le feci osservare. «Forse che in Tharna ero libera?», disse in tono di sfida. Poi si accigliò. «Naturalmente, poiché portavo la maschera ed occupavo un'altissima posizione, io ho sempre aborrito questo sogno, ho sempre cercato di scacciarlo da me. Era una cosa terribile, poiché suggeriva che io, la Regina, potevo celare nel più profondo del mio spirito la natura ripugnante degli animali.» Sorrise con mestizia. «Quando ti vidi, guerriero, mi accorsi con spavento che i tuoi occhi erano quelli del grifoniere del sogno. E, come odiavo lui, odiai te, poiché eri parte delle cose che dentro di me si agitavano... che mi volevano distruggere dall'interno. Allora ebbi paura, e ti desiderai, e ti detestai come nessun altro.» «Comprendevi davvero la portata di questi tuoi sentimenti?»
«Sì. Ero conscia del desiderio che era nato in me,» La sua voce si fece quasi inudibile. «Sebbene fossi la Regina di Tharna, desiderai giacere ai tuoi piedi sul tappeto rosso, legata con le corde gialle.» Ricordavo che aveva già menzionato quegli oggetti, nella sua sala del trono, e che in quel momento era sembrata perdere il controllo. «Qual è il significato del tappeto rosso e delle corde gialle?» «Nei tempi antichi, a Tharna, le cose erano molto diverse da oggi,» disse. «Non credere che fossero migliori... Non lo erano.» E fu così che nella tenda di quell'accampamento di schiavisti, Lara mi fece un riassunto della storia della sua città. Qualche secolo addietro Tharna non era stata affatto diversa da tutti gli altri agglomerati urbani di Gor, e le sue donne si trovavano in stato di assoluta sudditanza rispetto agli uomini. Una parte del Rito di Sottomissione imposto alle femmine catturate dai grifonieri consisteva nel legarle con lacci gialli e stenderle nella posa voluta su un tappeto rosso. Il giallo era il colore dei talender, da sempre associati alla femminilità ed all'amore carnale, mentre il rosso simboleggiava il sangue e quindi un aspetto della deflorazione intesa come sottomissione. L'uomo che aveva imprigionato la femmina e che intendeva farne la sua amante si metteva su di lei, nudo anch'egli, stringendole le spalle fra le ginocchia. Le prendeva la testa fra le mani, alzandole il viso verso il suo ventre, e pronunciava quelle che erano le ultime parole che lei udiva come donna libera: Piangi, tu che nascesti in libertà. Ricorda il tuo orgoglio e piangi. Ricorda i tuoi giorni felici e piangi. Ricorda che mi fosti nemica e piangi. Ora sei prigioniera, sola e indifesa. Ora sei legata con le corde gialle. Ora sei nuda sul mio tappeto rosso. Per la legge di Tharna tu sei mia. Per la legge di Tharna tu sei schiava. Piangi, schiava, ed onora il tuo padrone. A questo punto il catturatore costringeva la ragazza ad aprire la bocca e passava alla parte puramente carnale del Rito. L'amplesso si prolungava in tutti i suoi aspetti soliti, ed al termine di esso la femmina era considerata
ufficialmente una schiava. In seguito era venuto il tempo in cui queste pratiche erano cadute in disuso per essere sostituite da rituali molto più brevi e diversi. Il trattamento riservato alle schiave si era fatto più umano, sebbene le ragioni di ciò fossero da ricercarsi nel maggior numero di servizi domestici che si esigeva da loro. Gli uomini avevano infatti finito per accorgersi che le schiave docili ed affezionate erano molto più utili in casa, e soprattutto non scappavano alla prima occasione. Lo stesso ragionamento era valso a liberalizzare molto la posizione delle mogli e di ogni donna nata libera in città, ed a questo era seguita un'evoluzione nei rapporti fra i sessi simile a quella verificatasi nel XX Secolo sulla Terra, sebbene assai più lenta. Anche a Tharna ciò era stato per ragioni economiche, in una situazione dove il benessere aumentava continuamente. Si erano così poste le premesse di un cambiamento, sebbene si fosse ancora lontanissimi del matriarcato. Ma un bel giorno Tharna era scesa in guerra contro due città vicine, e nel giro di alcuni anni aveva finito col perdere i nove decimi della sua popolazione maschile. Per motivi d'ordine gli uomini si erano visti costretti a cedere l'una dopo l'altra le redini dell'amministrazione civile alle donne finché, al termine della lunga guerra, queste si erano trovate a governare di fatto l'economia cittadina. Il conflitto era finito senza vincitori né vinti, con Tharna spogliata di ogni ricchezza ma già trasformata in un matriarcato e popolata quasi interamente da donne. Negli anni successivi si era sviluppata una mentalità che avrebbe voluto essere pacifista, ma che in realtà addebitava al maschio la rovina economica e le stragi della guerra. L'uomo era stato legalmente definito un essere inferiore, immorale e stupido come le bestie, e da lì aveva preso l'avvio quel suo stato di sottomissione di cui io avevo avuto agio di osservare e sperimentare gli effetti finali. Ovviamente, ogni processo evolutivo era stato lento, quasi inavvertibile. Il matriarcato aveva finito per contraddire le aspirazioni pacifiste da cui era sorto, anche se non tanto per colpa sua quanto per le pressioni esterne e per la necessità di sopravvivere. Tutto ciò non mi stupiva molto: si trattava di meccanismi sociali che agivano e si modificavano sotto la spinta di fattori complessi, al di fuori della piena consapevolezza dei governanti ed indipendentemente dalla loro volontà. La stessa Regina e le Maschere d'Argento erano marionette in balia d'ingranaggi culturali invisibili ai loro occhi. Ciò che trovavo davvero vistoso e anomalo era l'educazione impartita ai maschi, i quali venivano
allevati nell'autoconsapevolezza d'essere delle bestie inferiori, mentre con le femmine si faceva il contrario. Il risultato di ciò era la totale mancanza di rispetto che gli uomini avevano per sé, l'autodegradazione e, come conseguenza immediata, la vergogna delle donne allorché si accorgevano di un naturale trasporto verso di loro. I tabù legati al sesso ed al peccato, di carattere sociale anziché religioso, plasmavano in modo drastico la psiche delle donne ancor più di quella degli uomini. Come terrestre emancipato sapevo che l'uomo non deve aver bisogno di schiacciare la donna per essere virile, sempreché egli riesca a ridimensionare il mito della virilità. Allo stesso modo trovavo assurdo che per essere femminile la donna dovesse cedere ad un supposto istinto di sottomissione. Tuttavia, perfino nell'evoluta società occidentale della Terra, questo tipo di psicologia è assai raro, e in realtà predominano atteggiamenti culturali opposti. Logico quindi che su un mondo poco evoluto come Gor l'uomo fosse virile solo se sottometteva la femmina, ed ella si realizzasse in uno stato di sudditanza. In Tharna questi concetti basilari, rovesciati in modo tanto clamoroso, originavano conflitti psichici in realtà assai più vicini ad esplodere di quanto alle Maschere d'Argento piacesse illudersi. La storia di Linna era emblematica: lei stessa aveva inconsciamente fatto di tutto perché Andreas le togliesse la maschera. E Lara era stata trascinata sull'orlo di una psicosi. Cosa sarebbe accaduto nel caso d'una rivoluzione che scalzasse le donne dal potere? C'era da scommettere che il pendolo sociale avrebbe oscillato con violenza in direzione opposta: la molla compressa nella mente degli uomini sarebbe scattata d'un colpo, portandoli ad un eccesso di rivalsa al quale le donne non si sarebbero forse opposte per niente. E con un lungo passo indietro Tharna sarebbe ritornata ai tempi del tappeto rosso e delle corde gialle. Stavo riflettendo sulla cosa, quando a distrarmi intervenne la voce di Targo, dall'esterno. Come ad un segnale, e facendomi sussultare per la sorpresa, Lara s'inginocchiò a terra ed incrociò i polsi nella posizione della schiava. Il mercante fece il suo ingresso portando un fagottello, ed approvò con un'occhiata l'atteggiamento della ragazza. «Mi compiaccio, signore. Sembra che con te abbia appreso in fretta l'educazione,» disse. Mi consegnò quindi un camisk ed un collare. «Questi sono un mio regalo, e non c'è altro da pagare. Puoi portarti via la schiava quando vuoi.» «Grazie,» risposi.
In realtà avrei dovuto maltrattarlo, perché un mercante onesto avrebbe aggiunto diversi altri oggetti ed un paio di vesti più decenti. Quel camisk non era una tunichetta da schiava, e inoltre appariva sudicio. Il collare era un rudere rugginoso con una chiave consunta. L'uomo tolse di tasca due corde gialle, lunghe un braccio, e mi strizzò l'occhio. «Dal tuo elmetto blu ho capito che sei di Tharna,» ridacchiò. «Deduzione sbagliata. Io non vengo da quella città.» «Come ti pare. Sono affari tuoi.» Gettò le corde sui tappeti e aggiunse: «Se avessi una frusta da schiavi te la darei, ma penso che potrai usare un ramoscello, provvisoriamente.» «Non avrò difficoltà, certo,» dissi. Gli ributtai fra le mani il camisk e il collare. «Questi stracci non mi servono. Portami un vestito adatto ad una donna libera, e dei sandali.» Targo assunse un'espressione vacua. «Vuoi dire che sei venuto con un'altra dorma?» «Sto parlando di lei.» Indicai Lara col pollice. «Ha diritto ad un vestito, come spero converrai.» Il mercante alzò gli occhi al cielo come per chiamarlo a testimone, poi fissò alternativamente la ragazza e me. «Non è che mi stai prendendo in giro, signore?» Lo afferrai per una spalla e lo condussi fuori. «Ti ho chiesto una veste decente. Una qualsiasi andrà bene.» «Ma che i Re Sacerdoti mi salvino! Dove credi che io possa trovare una veste da Donna Celata? Questo è l'accampamento di un mercante di schiavi, mica la bottega di un sarto!» «Vedi cosa puoi trovare, o ti toccherà tenerci qui a cena,» lo esortai, spingendolo verso i carri. Stavo perdendo la pazienza. Come tutti i mercanti di schiavi, Targo doveva avere casse di vesti d'ogni genere, che i suoi dipendenti avevano levato di dosso a donne catturate da loro stessi. Da lì a poco l'uomo tornò con un abito ripiegato, di certo il peggiore fra quanti ne possedeva, e dei sandali. Mise la roba a terra. «Ecco qua,» brontolò. E se ne andò. Feci un sorriso alla ragazza. «Temo che non sia roba di lusso, ma dovrai adattarti.» Lei si alzò ed andò a chiudere i bordi di stoffa dell'ingresso, poi tornò davanti a me. Le lampade mandavano riflessi rosati sul suo splendido corpo nudo, e di nuovo la sua vicinanza mi bloccò il respiro. Si chinò, raccol-
se le due corde gialle, e poggiò ancora la fronte sul tappeto. «Ehi! ...Non ti ho forse reso la libertà?», esclamai. Lei alzò una mano, porgendomi le corde in silenzio. Notai che stava tremando. «Non sono un uomo di Tharna,» protestai. «Ma io sono una donna di Tharna.» Sollevò il volto. «E sotto di me c'è un tappeto rosso.» «Non vuoi essere libera?» «Non lo sono ...Tu sai che non lo sono,» sussurrò. E, vedendo che stavo zitto, aggiunse: «Per favore: legami, padrone!» Fu così che presi quei due pezzi di corda delle sue mani, e lei si sdraiò all'indietro. Le legai i polsi alle caviglie. Quando mi fui tolto la tunica sdrucita, mi portai sopra di lei, le strinsi le spalle fra le ginocchia, e le afferrai il capo fra le mani secondo il Rito antico di Tharna. E Lara, che un tempo aveva dominato con orgoglio quella città ribellatasi agli uomini, e che adesso era insieme donna libera e schiava, vide diventare realtà il sogno che per anni l'aveva fatta tremare. Più tardi mi raccontò di com'era stata allevata ed educata, mi narrò di sua madre e della dinastia di Regine che l'avevano preceduta sul trono, e del modo in cui i membri della Casta dei Dottori si occupavano di far concepire le donne della città. L'aspetto più singolare del matriarcato era l'istituzione del matrimonio, che semplicemente non esisteva: uomini e donne vivevano separati le loro vite, ed i bambini dei due sessi venivano educati in zone apposite della città, da cui non uscivano in pratica quasi mai. La famiglia era un concetto sconosciuto. Lara sapeva bene come andavano le cose nelle altre città, tuttavia di ciò aveva un'infarinatura soltanto teorica. Mi disse che durante il viaggio da Ar alla Fiera di En'Kara ne aveva parlato molto con le altre schiave. Questo l'aveva resa curiosa, malinconica, desiderosa di rapporti umani più autentici. In un mese di schiavitù aveva appreso su sé stessa e sulle sue aspirazioni cose che in ventisette anni da donna libera aveva continuato ad ignorare. Capitolo 23 RITORNO ALLA CITTÀ GRIGIA Dopo essere usciti dall'accampamento del mercante Targo, Lara ed io ci incamminammo su per un lungo declivio erboso e, giunti sulla cima di
esso, ci fermammo a riposare. A meno di un chilometro di distanza potevamo scorgere l'allegro spettacolo offerto dai variopinti padiglioni della fiera di En'Kara e, al di là di essa, come un miraggio, le pendici sfumate di scuro delle Montagne di Sardar. Sulla pianura oltre i padiglioni, a breve distanza da essi, c'era la lunghissima palizzata di tronchi appuntiti che separava la zona libera da quella considerata sacra. Lo sbarramento, antico e possente, si estendeva a perdita d'occhio da un orizzonte all'altro. Tutti coloro che si recavano sulla catena montuosa - vecchi stanchi della vita, idealisti bislacchi, opportunisti che calcolavano di ricevere vantaggi dalla conoscenza di cose proibite, fanatici in cerca dell'immortalità - dovevano passare sulla strada centrale della fiera ed attraversare il portone della palizzata, un poderoso battente doppio sostenuto da travi di legno ormai quasi pietrificato. Ed in quel momento qualcuno lo stava oltrepassando, perché fin da dove ci trovavamo potemmo sentire il clangore dei pesantissimi catenacci di ferro che venivano tirati indietro: era un suono sordo e cupo, quasi un funereo preludio ai pericoli cui l'ignoto viaggiatore andava incontro in quella terra di morte. La ragazza bionda mi sorrise. Non indossava una veste da Donna Celata, bensì un comune abito da donna libera che con un paio di forbici aveva scorciato, tagliando l'orlo alle ginocchia e le maniche all'altezza dei gomiti. Era grazioso, d'un colore giallo brillante, e se l'era fermato alla vita con una cintura scarlatta regalatale da una delle schiave. I sandaletti di cuoio rosso, una volta lucidati con l'olio, si erano rivelati più che decenti. Sulle spalle si era gettato un mantello di lana scarlatta che avevo insistito per farmi dare da Targo, poiché alla sera da quelle parti faceva freddo. Sembrava felice, spensierata, e ciò metteva di buonumore anche me. Nella tenda aveva avuto l'opportunità di scegliere un mantello fornito di cappuccio e reticella per il viso, e con mia grande soddisfazione l'aveva rifiutato: si era detta desiderosa di camminare senza impedimenti. Adesso, nel vedere quegli splendidi capelli d'oro che svolazzavano al vento, la sua avvenenza mi scaldava il cuore. Forse aveva le sue ragioni personali per non voler più nascondere il volto, ragioni che ancora non capivo a fondo, tuttavia non potevo che sorridere di quella sua aria bella e spregiudicata. Ero stupito dalle sue trasformazioni: da Regina di Tharna era diventata una schiava, ed un mese più tardi aveva saputo trasformarsi rapidamente in una donna libera, fiera in un modo nuovo e ammirevole. Ma i miei pensieri dovettero tornare alle Montagne di Sardar ed all'appuntamento che avevo
laggiù con il destino, perché i catenacci del grande portone si richiusero ed a noi arrivò l'eco del tonfo. «Qualcuno è andato a morire dove muoiono i folli,» disse Lara. «Così pare. Ma ciascuno ha le sue ragioni.» «Forse. Però laggiù c'è lo stesso genere di sorte per tutti.» Accennai di sì in silenzio. Le avevo parlato del mio desiderio, del bisogno, della ferrea risoluzione d'avventurarmi in quel luogo. Ed avevo ancora nelle orecchie la sua imprevedibile risposta: «Credi che io non avrei il coraggio di venire con te?» Sapeva, come tutti, che mai un essere umano era tornato vivo dalle montagne; conosceva forse ancor meglio di me i poteri arcani e terribili dei Re Sacerdoti, eppure non aveva battuto ciglio nel pronunciare quelle parole. «Sei libera. Puoi costruire la tua vita come vorrai,» le avevo ricordato. «Se fossi tua schiava mi ordineresti di venire con te. Ora non ho il collare... Ti seguirei di mia spontanea volontà.» Avevo scosso la testa, senza capirla. Io non avevo nulla da perdere: mi era stato tolto tutto ciò che poteva dare un senso alla mia vita, e volevo delle risposte oppure la distruzione. A muovere i miei passi erano la curiosità, la voglia d'ottenere vendetta ed una rabbia frustrante. Ma lei da cosa si stava lasciando spingere? Non mi piaceva l'idea che fosse nata ad una vita libera e nuova per chiuderla subito nel nulla, per gettarla prima d'averla assaporata. Infatti, sulle Montagne di Sardar, tanto io che lei saremmo probabilmente morti. Decisi che non l'avrei portata con me per nessun motivo. Le cinsi le spalle con un braccio e ci avviammo insieme giù per il pendio. Lei mi fissò stupita. «Non andiamo alla fiera? Che vuoi fare? Di qua c'è soltanto la pianura,» disse. «Quella porta di legno può aspettare ancora un po', e così anche i Re Sacerdoti. Adesso si va da un'altra parte.» «Dove?» «Per prima cosa a Tharna. Tu sei la Regina e devi tornare sul trono,» risposi. Lara si fermò ed i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Non voglio. E poi su quel trono c'è un'altra,» sussurrò. «Questo non significa niente. Tu discendi da una stirpe di Regine ed il tuo non è un titolo che si possa rubare, come un trono od una maschera d'oro. E non mi risulta che a scacciarti sia stato il tuo popolo.» Le sue spalle tremavano. «È questo che vuoi?»
«Sì, Lara.» L'abbracciai con dolcezza. «Voglio questo.» La ragazza allontanò le mie mani. Tornai a stringerla e le asciugai le lacrime con un dito. «Bella Regina... dovrai dimenticarmi e scacciarmi dai tuoi pensieri. Non posso portarti a morire fra le montagne, e neppure lasciarti qui dove saresti indifesa. C'è soltanto una soluzione giusta.» «Trovi giusto che io torni in quella città? La odio!», esclamò. «Tharna è la sola città dove tu possa vivere libera. E lo sarai perché, se davvero la detesti, userai il tuo potere per renderla migliore.» «Ma cosa dovrò fare?», mormorò. «Ama il tuo popolo, lascia che i bambini giochino nelle strade e le rendano vive con le loro risa, impara a soffrire ed a gioire con la gente semplice, ma tienila per mano. E via queste lacrime: una vera Regina piange solo nel segreto del suo cuore.» Lara sorrise tristemente. «Proprio tu dici questo, dopo avermi insegnato ad essere donna? Io non ho mai riso né pianto veramente, prima di conoscerti.» Raccolsi un talender fra l'erba e glielo infilai fra i capelli. «Le città di Gor sono governate da Amministratori o da Tiranni, guerrieri che s'impongono al popolo per la loro forza o per l'abilità, ed il popolo li rispetta. Anche tu, da quando tua madre ti lasciò il trono, hai cercato di diventare un idolo d'oro del quale la gente avesse paura. Ma ora che non hai più la maschera, hai scoperto l'esistenza di una forza più grande.» «Intendi l'amore, vero?» «Chiamiamola la forza della vita. Se riuscirai a farti amare dalla tua gente, Tharna diventerà la regina delle città.» Lara mi osservò muta per un poco, poi disse: «Credo di amarti.» Lasciati i piani erbosi della pianura, ci allontanammo dalle montagne e dal villaggio della fiera in direzione di Tharna. Si avvicinava il tramonto, e davanti a noi si prospettava una marcia di almeno quindici giorni su terreni nei quali le possibilità di sopravvivenza per due esseri umani erano a dir poco precarie. Stavo già pensando a cercare un posto sicuro dove trascorrere la notte, quando per caso alzai gli occhi al cielo. Subito mi fermai. «Lara,» dissi, afferrandola per un braccio. «Guarda lassù.» Stupita, la ragazza osservò il cielo. «Mi sembra che ci sia un grifone sopra di noi. Deve aver visto qualche antilope ...viene giù come una freccia.» Ridacchiai. In effetti il volatile stava piombando verso il suolo ad ali chiuse, in una picchiata impressionante. Dalla quota di duemila metri pre-
cipitò in verticale finché sembrò che si sarebbe sfracellato al suolo; poi, all'improvviso, aprì le ali come un paracadute, producendo uno schiocco simile ad un'esplosione, e filò verso di noi ad una velocità di oltre duecento chilometri all'ora. «È Horus,» dissi. «Soltanto a un fulmine d'inferno come lui piace volare così. E ci ha visti. No, non aver paura, sciocca!» Lara si era stretta a me con un gridolino. Il rapace si stava comportando in modo ormai quasi prevedibile, rifiutando d'abbandonarmi con una fedeltà ed una pazienza che nessuno avrebbe avuto il diritto d'aspettarsi da un animale della sua razza. Compì alcuni giri sopra di noi e quindi atterrò con leggerezza. Corsi ad abbracciargli il collo. Horus stridette un paio di volte, agitò la testa in modo che spaventò Lara e la fece correre via, poi mi diede alcuni colpetti su un fianco col becco enorme. Quella notte restammo a dormire in un boschetto. Il mattino successivo convinsi Lara che sul dorso del grifone non le sarebbe accaduto nulla di male, e partimmo in volo. La fiamma della rivolta divampata nelle miniere d'argento non si era spenta. I ribelli, ignorando i miei incitamenti alla prudenza e memori solo di quelli alla libertà, si erano sparsi nei campi e negli allevamenti delle Grandi Fattorie. Avevano spezzato le catene degli schiavi, trasformato in armi gli attrezzi agricoli, massacrato i sorveglianti muniti di frusta e fatto a pezzi i distaccamenti isolati di guerrieri. Durante i primi due giorni, migliaia di uomini infuriati e vendicativi si erano sparsi per le campagne, incendiando gli edifici e distruggendo le attrezzature. I raccolti, ancora immaturi, erano stati dati alle fiamme, e nell'intera zona si era creato un incredibile caos nel quale i guerrieri di Tharna non avevano potuto far nulla d'efficace. Soffocati o disturbati dal fumo che si levava dai campi, i grifonieri avevano viste drasticamente ridotte le loro possibilità d'intervento, e dall'alto avevano assistito impotenti alla sconfitta delle truppe appiedate. Gli attacchi portati ai ribelli si erano fatti sempre più sporadici e disorganizzati, finendo col cessare del tutto, e al tramonto del terzo giorno la città era rimasta isolata al centro delle campagne in rivolta. Lara ed io eravamo all'oscuro di questi avvenimenti, ma quando due giorni dopo l'inizio del nostro viaggio di ritorno avvistammo i primi campi di Sa-Tarna, cominciammo a renderci conto della situazione. L'ombra del grifone passava sopra staccionate abbattute, stalle e granai devastati, greg-
gi abbandonate, alloggi per gli schiavi anneriti dalle fiamme ed alberi da frutta ridotti a neri monconi. Il fuoco aveva mutato in cenere colture e frutteti, e questo significava intanto che qualunque esito avrebbe avuto la mia missione per Tharna si prospettava un inverno di fame. Montata davanti a me, Lara osservava lo spettacolo desolante della sua terra, muta e sgomenta. «È terribile ciò che hanno fatto!», riuscì solo a mormorare. «Non più terribile di quel che era stato fatto a loro,» la corressi. Il mio tono la zittì. Ci alzammo in quota. In vari posti erano visibili drappelli di guerrieri, impolverati e poco numerosi, che seguivano il percorso delle strade sterrate in apparenza disinteressandosi alle bande di schiavi che potevano ancora essere attestate nelle fattorie o nei boschetti. Dei rivoltosi non vidi traccia, almeno sui terreni aperti, e ne dedussi che dovevano essersi dispersi nelle foreste a nord e ad est. Ma mi sbagliavo e, se avessi notato che i guerrieri si dirigevano a marce forzate verso Tharna, avrei intuito fin da allora quel che stava accadendo in città. Ai bordi della zona coltivata il terreno non era molto alberato, ma pur sempre a sufficienza per offrire riparo dagli assalti dei grifonieri e sfuggire alle squadre montate su tharlarion. Più avanti sorvolammo delle alture rocciose sulle quali potei scorgere degli uomini. La comparsa del grifone non li impressionò più di tanto, ed a un ordine del loro capo si appostarono fra i macigni. Erano schiavi fuggitivi, diretti alle montagne, e fui sorpreso nell'accorgermi che quasi tutti avevano arco e frecce. Un buon arciere poteva scoraggiare senza troppo scomporsi l'assalto aereo di un grifoniere, visto che disponeva di un bersaglio di grosse dimensioni. Feci girare al largo Horus prima che gli arrivasse una freccia in corpo. Qua e là scorsi bande di razziatori, che sostavano nei luoghi dove restava in piedi una casa colonica da spogliare. I cadaveri sparsi al suolo un po' dovunque erano molti. Non ci voleva un grande sforzo di fantasia per capire che gli schiavi non si erano limitati a fuggire, e che a parte alcuni dediti allo sciacallaggio, la maggior parte aveva seguito una stessa linea di condotta. Mi chiedevo se la rivolta fosse divampata anche all'interno delle mura cittadine, coinvolgendo gli uomini in tunica grigia. In seguito venni a sapere che era accaduto proprio questo, e fin dal mattino stesso in cui avevamo lasciato la zona delle miniere, quando un migliaio di ex minatori erano riusciti a penetrare in città: i popolani di Casta Bassa si erano sollevati in massa contro i guerrieri, alcuni quartieri erano
stati teatro di violentissimi combattimenti, ed un incendio aveva ridotto in macerie una decina di torri. Fu dunque l'insurrezione di oltre ventimila cittadini a rendere più facile il dilagare degli ex schiavi nelle campagne. Fin dal giorno successivo i tre quarti della città erano caduti in mano ai ribelli, e molte Maschere d'Argento erano state catturate, mentre Dorna e un migliaio di guerrieri si erano asserragliati nelle torri meglio difendibili intorno alla caserma ed al palazzo reale. Ovunque avvenivano atti di violenza, esecuzione sommarie e brevi azioni belliche da parte dell'una o dell'altra fazione. Ma la truppa di cui disponeva Dorna era composta da professionisti e, sebbene inferiori in ragione di uno a venti, i guerrieri avevano saputo creare una situazione di stallo che prometteva di durare fino all'esaurimento delle scorte di viveri. Fu la sera del terzo giorno che avvistammo le grigie torri di Tharna. Nessuno si era ancora avvicinato per investigare sulla nostra identità, sebbene fossimo passati a bassa quota sotto due piccoli stormi di grifonieri. In distanza, minuscoli sui poderosi cilindri di pietra, volavano quindici o venti grifonieri che però non mostrarono intenzione d'accostarsi neanche quando fummo sulla verticale delle mura. Da più parti si levavano ancora spirali di fumo bianco, che la brezza serotina trascinava sulla campagna. Il portone principale era aperto, e sulla strada che usciva verso la campagna vidi piccoli gruppi di ribelli armati. Non c'erano carri in movimento, né sulle vie principali né intorno al mercato, dove ogni attività era stata sospesa. Una fila di edifici in legno, esterni alla città ed usati come depositi dai commercianti, era ridotta ad un cumulo di ceneri nere. Nei pressi della porta qualcuno aveva tracciato grandi scritte sulle mura, con vernice gialla: «VIA LE CATENE» e «LIBERTÀ O MORTE», ed anche «NO ALLA SCHIAVITÙ». Feci atterrare Horus proprio sulla stretta strada difensiva che correva sulla sommità delle mura, ad una cinquantina di metri dall'arco del grande portone, e poi lo mandai via in volo. In una situazione più tranquilla l'avrei legato ad uno dei tanti anelli o posatoi per grifoni, o l'avrei affidato ai recinti dove un inserviente l'avrebbe nutrito e ripulito, ma servizi di quel tipo non esistevano più in città, e preferivo che Horus se la cavasse da solo, confidando che non si sarebbe allontanato troppo. Lara non aveva aperto bocca durante l'ultima fase del volo, e nei suoi occhi leggevo solo paura e sconforto. Presso i merli giaceva un guerriero dall'elmo blu, ferito, che nel vederci arrivare si era alzato in piedi a fatica. Con un mugolio di dolore venne len-
tamente verso di noi. C'era da giurare che l'avevano lasciato lì per morto e poi ignorato, visto che l'intera zona periferica sembrava in mano ai ribelli. Il guerriero fece quattro passi soltanto e quindi ricadde a terra esanime. Mi chinai su di lui e gli tolsi l'elmo, che sulla sinistra appariva squarciato dalla freccia di una balestra. Aveva capelli biondi, e dimostrava si e no diciott'anni. Il colpo alla testa doveva esser stato forte, perché sopra l'orecchio gli si era formato un grumo di sangue largo un palmo. Lo trassi a sedere ed egli aprì gli occhi, annaspò con una mano sul fodero della spada e fece l'atto d'impugnare un'elsa che non c'era più. «Non temere. Non agitarti,» dissi. Esaminai la ferita e vidi che il cuoio capelluto era stato tagliato dalla punta della freccia, segno che il colpo gli era arrivato di sbieco. Probabilmente, riflettei, l'osso era ancora intatto. L'abbondante perdita di sangue era almeno valsa a farlo credere morto. Usai una striscia della sua tunica grigia per fasciargli il capo. «Non farti vedere da nessuno e te la caverai,» dissi. «Sei un ribelle?», domandò. «Io ho combattuto per la Regina, contro di voi. Era mio dovere.» «Lo so. Un guerriero ha i suoi obblighi di Casta.» Il giovanotto aveva parlato con un tono da cui potevo desumere che battersi per le Maschere d'Argento e Dorna non gli era piaciuto. Probabilmente molti suoi compagni si sarebbero schierati volentieri coi rivoltosi, fra cui avevano certo parenti e amici, ma anche in Tharna l'onore di un guerriero imponeva comportamenti indiscutibili. Nei suoi occhi leggevo che, se avesse potuto, si sarebbe subito alzato per tornare a combattere, senza pensare a ciò che la sua coscienza gli suggeriva. Avendo fatto un giuramento dello stesso genere, io non potevo che capirlo e rispettarlo. «Tu non hai lottato per la Regina, ragazzo,» dissi. «Se sei un uomo d'onore, devi riconoscerlo.» Lui ansimò, sollevandosi a sedere. «Perché dici questo? Vuoi insultarmi?» «No, te l'assicuro. Sto dicendo che ti sei battuto per Dorna, e dunque hai messo la tua spada al servizio di un'usurpatrice.» Il guerriero mi fissò senza capire, a denti stretti. Gli indicai la ragazza che attendeva accanto a noi. «Questa che tu vedi è Lara di Tharna. Nelle sue vene scorre il sangue delle Regine della città, e solo lei ha diritto a questo titolo.»
«Lara è stata rapita da un grifoniere oltre un mese fa,» disse lui. «Ero presente ai Giochi, quando accadde.» «Quel grifoniere sono io.» Il giovane mi fissò a lungo, mentre pian piano la sua espressione mutava. Parlò in un sussurro: «È vero ...Ora ricordo il tuo viso.» I suoi occhi corsero a Lara, rivelando enorme stupore. «Io sono la tua Regina,» rivelò lei. «Questo guerriero mi condusse alla Colonna degli Scambi, e lì venni imprigionata da Dorna e da alcuni suoi complici. La traditrice mi portò quel giorno stesso ad Ar, dove in sua presenza venni venduta come schiava e sotto falso nome. Ma questo guerriero mi ha liberato, ed ora sono tornata fra la mia gente.» «Ed io ho combattuto per Dorna!», gemette lui. I suoi occhi si riempirono di lacrime, «Sono indegno della mia Casta. Ho disonorato la spada che ho ricevuto dalle tue stesse mani, Regina!» Di colpo chinò la fronte ai piedi di lei e restò immobile, tremando come una foglia. Con sua meraviglia Lara lo prese per le spalle e lo fece rialzare. Una donna di Tharna stava toccando un uomo! «Hai fatto ciò che dovevi. Sono fiera di te, guerriero,» disse. Lui chiuse gli occhi e si abbandonò indietro fra le mie braccia. La ragazza mi guardò con aria smarrita, soffocando un grido. «No,» la tranquillizzai. «Non è morto. È debole per la perdita di sangue, ma nient'altro.» «Guarda là!», gridò lei, indicando alle mie spalle. Sei militi in tunica grigia, armati di lancia e scudo, erano sbucati da una grossa garitta comunicante con l'interno delle mura e stavano correndo verso di noi. «Guardie di Palazzo!» Lasciai il guerriero ferito ed impugnai la spada. Da come tenevano le armi, vidi subito che i primi tre si stavano accingendo a scagliare le lance. Ancora una ventina di passi e ci avrebbero presi di mira con tutta sicurezza. Imprecando, afferrai Lara per un polso e, sebbene recalcitrasse, la costrinsi a correre in direzione opposta. La scala interna non era lontana. «Aspetta!», protestò. «Devo parlare con loro e farmi riconoscere.» «Muoviti!», sbottai, forzandola a procedere a lunghi balzi. «Scendiamo da qui!» Feci appena in tempo a trascinarmela dietro nel rotondo pozzo della scala a chiocciola: sei lance rimbalzarono sulla pietra mancandoci di poco. Una volta raggiunta la base del muraglione, fuggimmo rasente ad esso fino
ad un gruppo d'alberi polverosi. Venti metri più in alto, i militi avevano recuperato le lance, ma si limitarono ad osservarci. Evidentemente non se la sentivano di scendere, né di scagliare le armi in una zona dove forse avrebbero avuto timore a recuperarle. Ci allontanammo in una direzione a caso lungo le strette e tortuose viuzze che portavano al centro cittadino. Alcune erano impraticabili a causa delle macerie annerite dal fuoco; i negozi e gli appartamenti ai piani inferiori delle torri apparivano saccheggiati; suppellettili d'ogni genere scaraventate fuori dalle finestre ingombravano il selciato. Per alcuni minuti non incontrammo nessuno, a parte i cadaveri di guerrieri e popolani già maleodoranti, ma avevo la sensazione che qualcuno ci spiasse. Dovunque sui muri c'erano scritte, per lo più di «VENDETTA» e «LIBERTÀ». Le porte erano quasi tutte sbarrate dall'interno. «Fermi!», gridò una voce. Ci arrestammo di colpo. Da un portone davanti a noi erano sbucati dodici uomini armati nei modi più diversi, che si allargarono con l'idea di bloccarci la ritirata. Indietreggiammo in una piazzetta priva di uscite, scoprendo solo quando ormai era tardi che si trattava di una trappola. «Sono ribelli!», gemette Lara, pallidissima. «Così pare,» dissi. Sulle loro facce barbute leggevo la furia, la fredda decisione, e la capacità d'uccidere con indifferenza. Erano sporchi di fango e di sangue, reduci da continui tafferugli e massacri, ed ora si aggiravano come una banda di lupi in cerca di altra violenza. Quando ci trovammo con alle spalle soltanto un muro ed un portone chiuso, Lara gridò, ed io protesi la spada. A quel gesto gli uomini risero ferocemente. Ma anche sul mio volto si dipinse l'ombra d'un sorriso crudele: sapevo che avrei potuto battermi fino a rendere il selciato scivoloso del loro sangue. Ma cosa ne sarebbe stato di Lara? Non ce l'avrei mai fatta a tenerli lontani da lei. Erano ex schiavi dei campi, e quasi tutti avevano addosso delle piccole ferite, ma non si trattava più di gente che lottava per la libertà: come animali fuggiti dalla gabbia, solo un brutale festino di morte lì avrebbe appagati. E non avrebbero certo avuto pietà di una donna, nel baratro d'irragionevolezza in cui tutto a Tharna sembrava esser scivolato. «Stai sempre dietro di me!», avvertii la ragazza, vedendo che alcuni di loro si preparavano ad attaccare. «Tarl di Ko-ro-ba!», gridò in quel momento una voce dall'imbocco della
piazzetta. Un individuo cencioso si fece largo scostando con energia le armi degli altri. Era un ex minatore magro e sparuto, segnato da vecchie cicatrici di frustate e, quando mi arrivò dinanzi, lo riconobbi subito: si chiamava Frost, e per un mese avevo avuto negli occhi la sua faccia, nella miniera 24 Ovest. Con un ansito di gioia si precipitò ad abbracciarmi. «Prost, vecchio topo di chiavica!», ghignai. «Sei venuto a presentare il conto ai tuoi ex padroni?» «Puoi giurarlo, guerriero!» Si rivolse quindi agli altri e gridò: «Compagni, stavate per fare una fesseria. Questo è Tarl di Ko-ro-ba!» I ribelli avevano subito mutato espressione. Con un urlo selvaggio alzarono le braccia in segno di giubilo, e da lì a pochi secondo mi avevano già issato sulle loro spalle per portarmi in trionfo lungo la strada. In breve nacque una certa confusione, perché dalle torri uscirono molti altri uomini ed il mio nome volò di bocca in bocca. Dalle finestre dei piani più alti centinaia di ex schiavi e di popolani si affacciarono, ed il corteo si trasformò in una vera e propria processione. Da disordinate che erano, le voci cominciarono a cantare in coro, e stupito riconobbi una delle canzoni che Andreas il Cantastorie ci aveva insegnato mentre scavavamo l'argento. A quanto pareva era diventata l'inno della rivoluzione. Lara, molto più meravigliata di quanto lo fossi io, mi correva accanto nella calca, cercando di restarmi vicina il più possibile. Di strada in strada l'assembramento di cui ero il punto focale si accrebbe sempre di più, e calcolai ad occhio che in quei quartieri i ribelli dovevano essere oltre diecimila. Avevano eretto barricate dappertutto e, dove esistevano gli appositi infissi, erano stati tesi dei fili d'acciaio anti-grifone. Dieci minuti più tardi arrivammo a destinazione: il luogo era una taverna a me già nota, la stessa dove mi ero ubriacato di pessimo kal-da nella mia prima notte da turista in città. Gli schiavi liberati l'avevano eletta a loro quartier generale. Sulla soglia c'era ad attendermi la muscolosa figura di Kron, il fabbro, che non aveva rinunciato al suo pesante martello e lo portava appeso alla cintura come una mazza da guerra. I suoi occhi azzurri scintillavano di soddisfazione quando mi batté una poderosa manata sulle spalle. Ma, a quel punto stavo anch'io ridendo per la gioia, perché dietro di lui avevo scorto il volto di Andreas. Li abbracciai entrambi. «Benvenuto a Tharna, amico!», urlò Kron.
Andreas si scostò, consentendomi di vedere la ragazza bruna che era sopraggiunta alle sue spalle. Indossava vesti da donna libera e non aveva più il collare alla gola, ma il suo sorriso era sempre lo stesso. «Linna!», esclamai. La baciai sulle guance ed ella rise felice. «L'hai avuto il tuo Cantastorie, finalmente. Come stai?» «Sono viva, e grazie a te,» rispose lei, commossa. Andreas fece scostare gli uomini che si ammassavano davanti al locale e mi spinse verso la porta. «È un piacer vederti, amico!» «Per me è come una sbornia, invece,» dissi. «Credevo d'averla fatta finita con le tue canzonette, ma la città ne è piena.» «È un segno del destino che tu sia qui, guerriero,» disse Kron, senza mollare il braccio che mi aveva afferrato. «Abbiamo bisogno di te e della tua spada.» «Qual è la situazione?» «Il palazzo è inespugnabile,» brontolò lui. «Peggio ancora, sembra che i guerrieri al soldo della Regina abbiano scorte inesauribili e, se non li battiamo entro due giorni, saremo costretti ad abbandonare la città in mano loro. Il cibo sta per finire, e gli uomini sono troppi.» Capitolo 24 GLI UOMINI DELLA REGINA La porta del locale era stata verniciata d'un giallo brillante, e la scritta che diceva QUI SI VENDE KAL-DA ripassata in rosso. Più sotto qualcuno aveva usato lo stesso pennello per aggiungere la parola: LIBERTÀ. Scesi gli scalini di pietra e vidi che all'interno era pieno di gente, tanto che stavolta la si sarebbe scambiata per una delle bettole delle altre città. Del grigiore e del silenzio di Tharna non restava più nulla: le mie orecchie erano assalite dalle voci, dal rumore dei boccali, e dalle risate di uomini che avevano visto l'inferno troppo da vicino per non amare ogni attimo di vita rimasto loro. L'illuminazione era fornita da un centinaio di lampade ad olio, e dalle pareti pendevano bandierine ed arazzi coi colori delle Caste più popolari. Per terra erano stati distesi tappeti le cui tinte minacciavano di uniformarsi in breve tempo a quella del kal-da, che scorreva rapido fuori dalle botti. Faceva caldo. Dietro il bancone il gestore era indubbiamente l'uomo più indaffarato della città e sudava, imprecando contro i ridanciani avventori che lo costringevano a correre qua e là; ogni tanto poi correva alla scaletta
che portava al piano superiore chiedendo che qualcuno scendesse a dargli una mano. Sulla destra, oltre i tavoli, era stata montata una piattaforma di assi sulla quale cinque strumentisti stavano distribuendo nel locale un'allegra musichetta di sottofondo. Al nostro ingresso attaccarono una melodia classica di Gor, dal tono epico e barbarico, e quello fu il loro benvenuto. La presenza dei musicanti mi stupì, perché la loro Casta era stata considerata fuorilegge a Tharna come quella dei Cantastorie e parecchie altre. Il matriarcato non aveva agito a caso togliendo al popolo la musica, il ballo, il gioco d'azzardo ed altri svaghi fra cui il principale restava il sesso: alla dinastia di Regine non importava tanto dominare una città seria ed operosa, quanto una città dove i cuori degli uomini non conoscessero emozioni pericolosamente vive. Fermandosi al centro del locale, Kron annunciò il mio arrivo ai componenti lo stato maggiore della rivoluzione, ed invitò tutti i presenti ad un brindisi, usanza questa che aveva appreso dagli stranieri. Gli uomini si alzarono. «Tal, guerriero!», tuonarono le loro voci. «Tal a voi, combattenti della libertà,» risposi, agguantando un boccale. Bevemmo il vino tiepido, e quello fu il solo momento in cui ogni bocca rimase chiusa. Accanto a me anche Andreas, Lara e Linna avevano ricevuto il kal-da e sorridevano lietamente. Mi chiesi che impressione facesse quella taverna alla bionda Regina. Ovviamente nessuno degli uomini aveva il minimo sospetto sulla sua identità, ed io non avevo intenzione di rivelarla. Non ancora, almeno. Nei suoi occhi si leggeva una comprensibile preoccupazione in merito, e stava cercando fra un sorriso e l'altro d'inviarmi degli sguardi d'intesa. «Stai tranquilla. Comportati come una popolana e non parlare troppo,» le sussurrai in un orecchio. La ragazza annuì. Kron ci prese per le braccia e ci pilotò al tavolo di centro del locale, davanti all'orchestrina. Mentre sedevamo, gli occhi di lei guizzavano da una parte all'altra, colmi di stupore, e compresi che per lei quelli non erano più uomini di Tharna ma gente nuova e sconosciuta, i cui modi forse non le spiacevano affatto, ed anzi, la facevano sorridere. Molti erano gli occhi che si fermavano sul suo volto, e se gli sguardi d'ammirazione che le piovevano addosso non le causavano imbarazzo, ciò era semplicemente perché non ne comprendeva ancora il pieno significato. Aveva molto da imparare dalla vita, e pensai che stesse cercando di co-
struirsi una nuova personalità con tenacia ammirevole. «Hai fatto un errore,» le mormorai. «Guarda Linna.» La brunetta non aveva osato sedersi: com'era costume delle donne goreane nei locali pubblici, si era inginocchiata a terra, accanto alla seggiola di Andreas. In Ko-ro-ba, molti anni addietro, mio padre aveva emesso un'ordinanza con cui sì concedeva alle donne di sedere come gli uomini, essendo quanto mai antipatico trovarsi al fianco una ragazza piazzata a quel modo umile sul pavimento. Ma altrove quello era l'uso, e non si poteva sgarrare. Lara fu svelta ad inginocchiarsi come l'altra, e le due si sorrisero attraverso il tavolo per consolarsi a vicenda. «Vino per tutta la clientela, oste dannato!», gridò Kron. Il gestore doveva aver sentito quella frase cento volte almeno negli ultimi giorni, e con voce ancor più forte ribatté: «Ah, sì? E chi paga?» «Paga la rivoluzione!», ghignò il biondo. Ma Andreas si tolse di tasca quello che era senza dubbio un denaro d'oro e lo lanciò all'uomo, che l'afferrò al volo con l'abilità che già gli conoscevo e fece un sorriso largo quanto il bancone. «Un Cantastorie che offre da bere?», esclamai, esibendo un'enorme sorpresa. «Ora ho proprio visto tutto!» «L'oro scorre come il sangue, di questi tempi,» commentò lui. Notai che sui tavoli c'erano scarsissime cibarie: due soli tipi di verdure e poca carne. Le risorse alimentari di Tharna erano state distrutte dagli stessi schiavi, che ora rischiavano di pagarne le conseguenze. Anche il kal-da era più scadente che mai. Per loro fortuna gli uomini avevano voglia di stare allegri e non ci badavano troppo. Le sorprese non erano però finite. Kron batté le mani tre volte, e dietro una tenda ci furono dei movimenti. Sentii un tintinnio di campanelli, quindi fui costretto a sbarrare gli occhi: nello spazio fra noi e l'orchestrina erano comparse quattro fanciulle terrorizzate, vestite di seta scarlatta e scelte senza dubbio per la loro avvenenza, che qualcuno aveva fatto agghindare come danzatrici. Ad un segnale sonoro del capo musicante alzarono le braccia, gettarono indietro la testa e cominciarono a ballare con movenze inesperte ma di ottimo effetto. Per quanto fossero evidentemente delle novelline, sapevano agitare i campanelli fissati ai fianchi ed alle caviglie con apprezzabile tempismo, ed un applauso le incoraggiò a darci dentro. Cercai gli occhi di Lara per vedere che reazione provocava in lei quella scena, e restai perplesso nell'accorgermi che ne appariva divertita. Diedi di gomito ad Andreas. «Dove siete riusciti a procurarvi delle
Schiave del Piacere?», chiesi, usando la più comune espressione goreana. Avevo notato che ciascuna di loro portava un elegante collare d'argento. Il Cantastorie si era fatto portare una pietanza e v'intingeva il pane. A bocca piena fece un sogghigno. «Dietro ogni Maschera d'Argento c'è una potenziale Schiava del Piacere. Ne abbiamo catturate una ventina e messe a fare il primo lavoro utile della loro vita.» «Andreas!», gridò Linna, dandogli su un braccio uno schiaffo che gli fece volar via il pane. «Scusa, tesoro mio.» Il giovanotto si girò a sbaciucchiarle un orecchio ed il collo finché la brunetta non si decise ad abbandonare l'aria offesa. «Sul serio quelle sono Maschere d'Argento?», domandai a Kron. Lui mi fece l'occhiolino. «Sicuro. Belle figliole, vero?» «E dove hanno imparato a ballare?» «È nell'istinto delle femmine, no?», borbottò lui. Dovetti reprimere un sorriso. Kron aveva espresso la tipica opinione del maschio medio goreano. E tuttavia anche questo era una specie di progresso, considerando che il fabbro era stato educato a Tharna... «Ma perché queste ragazze danzano?», chiese ingenuamente Lara. «Perché se non lo facessero si prenderebbero una razione di frustate. Ecco perché!», fu la risposta di Kron. Lara sbatté le palpebre, senza capire. Il fabbro le spiegò: «Vedi cos'hanno intorno alla gola? È un collare. Abbiamo fuso le loro maschere d'argento per farne collari da schiava.» E ridacchiò. Da lì a poco lungo la scala che portava al piano superiore apparvero altre cinque ragazze, vestite soltanto col camisk ed il collare, ed il gestore le spedì subito a servire ai tavoli sbraitando ordini. Erano anche queste piuttosto carine, silenziose e decisamente spaurite. Ciascuna manovrava un pesante vassoio di legno e, nell'aggirarsi fra gli avventori, sopportava occhiate con l'imbarazzata umiltà delle schiave novelle. Un paio di loro lanciarono occhiate d'invidia a Lara ed a Linna, ma le altre le fissarono addirittura con odio. Sembravano dirle: perché voi non portate il collare? Perché non servite questi uomini come siamo costrette a fare noi? Con mio grande sbalordimento, Lara si tolse il mantello di lana, si alzò in piedi e prese il vassoio dalle mani di una delle ragazze. Poi cominciò a portar da bere ai clienti facendo la spola fra il banco di mescita ed i tavoli. Le schiave fecero tanto d'occhi, quindi apparvero sollevate e colme di muta gratitudine, perché con quel gesto la bella bionda stava dicendo loro
che non si considerava superiore, né privilegiata per il fatto d'essere libera. «Che ne dici?», chiesi a Kron. «Non ti sembra che la mia amica sia una vera Regina?» Il fabbro annuì con ammirazione. «Quella sì che è una femmina, guerriero. La eleggerei volentieri Regina della Rivoluzione.» Andreas sollevò il boccale. «Alla Regina della Rivoluzione, allora!», esclamò. «E possa Dorna crepare d'invidia. A proposito, Tarl, come si chiama la tua biondina?» Non risposi, aiutato in questo anche dal fatto che d'improvviso Linna s'era alzata. Dopo aver lanciato ad Andreas un'ironica occhiata di sfida, la brunetta prese a servire ai tavoli come Lara. Quando Kron si fu stancato d'ammirare le danzatrici, batté le mani tre volte, e le ragazze tornarono di corsa dietro la loro tenda con un tintinnio di campanelli. A quanto avevo capito, il biondo era considerato da tutti il capo indiscusso. Si volse a me, brandendo il boccale. «Andreas mi aveva detto che eri partito per andare sulle Montagne di Sardar. Come mai hai cambiato idea?» Evidentemente il fatto che fossi ancora vivo significava per lui che non mi ero neppure accostato a quella zona. Risposi: «La mia intenzione è ancora quella di andarci. Ma prima ho una cosa da fare qui a Tharna.» «Ottimo!», approvò. «La tua spada ci servirà, guerriero. Quale affare devi sbrigare?» «Voglio rimettere la Regina Lara sul trono della città,» dissi. Kron e Andreas mi fissarono allibiti. «Ci stai prendendo in giro?» Il fabbro aggiunse subito: «Non se ne parla neanche. Io non so cosa ti abbia messo in testa un'idea tanto pazza, però un fatto è certo: noi non vogliamo più Regine a Tharna!» «Ragiona, Tarl,» protestò Andreas. «Lei è tutto ciò contro cui abbiamo combattuto. Se dovesse tornare sul trono, sarebbe non solo una sconfitta, ma anche una beffa. Tharna tornerebbe come prima, e la rivolta sarebbe stata peggio che inutile.» «Tharna non tornerà mai più come prima. Quei tempi sono finiti per sempre!», dichiarai. «Può darsi,» disse Andreas. «E magari ci farò sopra una canzone. Ma non credo che piacerebbe molto agli ex schiavi, se il suo finale fosse quello che proponi tu.»
Osservai Kron e vidi che annuiva a denti stretti. La sua allegria se n'era andata. Capivo benissimo quel che stava pensando, e non avevo dubbi che dal suo punto di vista la mia decisione fosse insensata. «Niente da fare!», ripeté, duro. «Se è questo che vuoi, dovrai prima uccidermi.» «Tu sei uno dei miei compagni della Catena 24 Ovest. Non parlare così.» Il biondo tacque per un poco, poi i suoi occhi azzurri si piantarono nei miei. «È vero. Né tu né io possiamo dimenticarlo.» «Allora lasciami parlare.» La nostra conversazione era stata seguita anche da altri sette od otto uomini, i maggiori caporioni della rivolta cittadina. Girarono le sedie e le panche verso il nostro tavolo, e ci si fecero attorno con espressioni gravi. Li guardai in volto uno dopo l'altro. «Voi siete uomini di Tharna,» dissi. «Ma non dovete dimenticare che anche i guerrieri al servizio di Dorna sono nati in questa città.» «E chi lo dimentica?» bofonchiò uno. «Mio fratello è nelle Guardie di Palazzo.» «Allora ditemi questo: è una buona cosa che combattiate fra amici o addirittura fra consaguinei?» «Non siamo animali,» ringhiò Kron. «A nessuno piace questo. Però, cos'altro si può fare?» «La soluzione è una sola,» affermai. «I guerrieri e le Guardie di Palazzo hanno giurato fedeltà alla Regina. Ma la Regina per cui si stanno battendo è un'usurpatrice. L'unica che ha diritto legale al trono è Lara.» «Ma lei è scomparsa più d'un mese fa, lo sanno tutti,» mi corresse una voce. «Non c'era una figlia che potesse essere sua erede, e la legge prevedeva che sul trono salisse l'Eletta di Tharna. Ora la Regina è Dorna, questa è la realtà.» «Ti sbagli, amico. Lara non è affatto scomparsa per sempre. Si trova in città. Anzi ti dirò di più... È qui, in questo locale.» D'istinto Kron si volse a guardare le cameriere, poi la tenda dietro cui stavano le danzatrici. Mi fissò accigliato, probabilmente senza credermi. «Ah, sì? Allora dovrà essere giustiziata. Finché Lara è viva, la rivoluzione non può dirsi vinta. Anche se al potere c'è Dorna.» «Questo non è necessariamente vero,» obiettai. «Deve morire!», ripeté il biondo. «No. Anche lei ha conosciuto la frusta ed il collare da schiava. Ora Lara
sa cosa sono le catene e perché è necessario spezzarle.» Dai presenti si levarono mormorii di meraviglia e d'incredulità. Alcuni ridacchiarono e scossero il capo. «Ascoltatemi: bisogna che i guerrieri di Tharna sappiano che Dorna è un'usurpatrice, e che Lara è con noi ...Sì, con noi. Soltanto questo li convincerà che battersi non è più un fatto d'onore.» Kron osservò ancora le ragazze intente a servire ai tavoli. «Se davvero Lara è in questa taverna, non ne uscirà viva,» dichiarò. «Invece deve vivere!», esclamai. «Solo lei può imporre dei veri cambiamenti in città. Solo lei può unire ribelli e guerrieri sotto un'unica bandiera di libertà, nuova e diversa. E lo farà, ve lo giuro, perché ha capito quanto crudele e misera fosse la vita fra queste mura. Guardatela!» Le ragazze si erano immobilizzate. Uno dei musicanti scostò la tenda dietro cui sedevano le danzatrici, che ci sbarrarono addosso occhi colmi di timore. Fra loro non ce n'era una che avesse l'aria d'essere stata la dominatrice di Tharna. «Lara ha diritto a una seconda possibilità,» dissi. «Dopo che abbiamo versato il sangue per la sua ingiustizia?», sbottò Kron. «No. Abbiamo combattuto contro leggi ingiuste, contro una società ingiusta, e non contro una ragazza giovane.» Il fabbro batté un pugno sul tavolo. «Lei portava la maschera d'oro. Lei era il potere!» Un po' esitanti, le cameriere ripresero a servire ai tavoli. Kron si spostò per consentire che Lara gli deponesse davanti un altro boccale di kal-da, e la ragazza ne consegnò uno a ciascuno di noi. Il biondo la guardò con un sorriso. «Tu cosa ne pensi? È giusto o no che quella femmina paghi per le sue colpe? Sentiamo il parere di una donna.» «Chi ha sbagliato deve pagare... Oppure riparare,» rispose lei. «Metteremo te sul trono, occhi di cielo,» disse Andreas. «Ti va l'idea?» «Sì,» mormorò lei. «Però non porterò mai più la maschera d'oro. Mi ha sempre dato un gran fastidio, se proprio volete saperlo.» Kron rimase come paralizzato a guardare il suo bel viso, dove non si leggevano né paura né orgoglio, ma solo l'ombra d'un sorriso un po' timido. «Mia Regina...», sussurrò. «Mia Regina!» Nella taverna vi fu un interminabile minuto di silenzio, poi Lara s'avvicinò all'orchestra. Salì sul podio.
«Non vi prometto nulla, cittadini. Le campagne sono distrutte, la città è in miseria, e tutti noi siamo poveri. Però potremo ricostruire ...Abbiamo la possibilità di trasformare Tharna in una città nuova. Vi sarà un Consiglio delle Alte Caste, come nelle altre città, e le nostre istituzioni muteranno. Voi formerete libere famiglie, e queste famiglie avranno figli ad educare i quali chiameremo gli Scrivani e gli Adepti come avviene altrove. Io non sono stata una buona Regina, e forse non lo sarò neppure in futuro. Dipenderà anche da voi, che siete il cuore e l'anima della città.» «E che ne sarà degli schiavi dei campi e delle miniere?» domandò una voce. «Forse li rimetterete al lavoro, tu e le tue Maschere d'Argento?» Gli occhi della ragazza ebbero un lampo. «Non vi saranno più Maschere d'Argento, se riusciremo a sconfiggere Dorna. E da questo momento io dichiaro illegale il collare, la tunica da schiavo, la catena e la frusta! Tharna diventerà la città della libertà.» Un coro di grida entusiaste accolse le sue ultime frasi. Poi, con loro meraviglia, le danzatrici e le cameriere si videro circondate da gruppetti di uomini che tolsero loro i collari d'argento e li spezzarono. Il mattino dopo uscimmo dalla torre dove aveva sede la taverna, e Kron radunò gli uomini. Subito ci mettemmo in marcia verso il Palazzo della Regina, alla testa di un'autentica fiumana di ribelli armati. Voltandomi, vidi le strade così piene di folla da sembrare incapaci di contenerla, e lance che si agitavano come migliaia di steli d'erba al vento. Ci attendeva una giornata durissima, sanguinosa, a meno che non fossi riuscito a dare alla battaglia di Tharna la piega che speravo, ma tutti intonavano canzoni e slogan bellicosi, e su ogni faccia si poteva leggere che quella sarebbe stata la mattina decisiva. In testa a quel disordinato esercito procedeva un quintetto ancor più eterogeneo: Kron, un fabbro armato di martello; Andreas, un Cantastorie vagabondo; io, un fuorilegge senza patria condannato dai Re Sacerdoti; ed una ragazza dai lunghi capelli d'oro che camminava a testa alta, libera e fiera, e nei cui occhi brillava la voglia di vivere e di conoscere il nuovo mondo che aveva scoperto dentro di sé. Fin dall'inizio i nostri movimenti erano stati osservati dai grifonieri in volo sulla città, e le forze difensive schierate intorno al palazzo erano certo state informate che i ribelli avevano smesso di comportarsi come razziatori per adottare una tattica più decisa. Appena giunto all'imbocco della strada che conduceva alla torre della
Regina, vidi che fra i muraglioni laterali erano state erette tre imponenti barricate di solide travi. La più vicina era larga sessanta metri ed alta quattro, la seconda larga una quarantina ed alta cinque, mentre la terza, eretta dove i muri si stringevano a formare un triangolo sul cui vertice c'era la minuscola porta d'acciaio, raggiungeva i sei metri d'altezza. Subito alzai le braccia, ordinando agli uomini di arrestarsi. I tre sbarramenti apparivano munitissimi, tutt'altro che improvvisati ed anzi costruiti come mura, sulla cui sommità erano appostati non meno di duecento arcieri. Giudicai che dietro di essi vi fossero a dir poco altri cinquecento uomini. «Indietro, indietro!», gridai. «Tutti si fermino!» A forza di urla e di imprecazioni facemmo arrestare l'esercito, la cui massa ci stava spingendo pericolosamente avanti. Appena gli uomini si furono attestati su quella posizione, mi feci consegnare uno scudo ed una lancia, in aggiunta alla mia spada, e procedetti da solo verso il primo sbarramento. Sul tetto del poderoso edificio cilindrico potei scorgere le teste di numerosi grifoni, piazzati lassù dai loro conduttori. Non mi preoccupavano molto, visto che centinaia dei nostri disponevano di archi e lance. Fino a quel momento i grifonieri avevano evitato di portare attacchi al suolo fra le torri, cosa che per loro si sarebbe risolto in un suicidio, e contavo che continuassero a tenersi alla larga. Mi aspettavo che usassero le possibilità d'attacco dei grandi rapaci solo come ultima risorsa. Arrivato ad un'ottantina di metri dalla barricata, abbassai lo scudo e battei la lancia a terra, nel gesto che significava la richiesta di una tregua momentanea. Sulla cima del primo sbarramento un guerriero che era stato accovacciato fino a quel momento su una passerella, si alzò in piedi e, sebbene portasse l'elmetto, lo riconobbi dalle movenze: era il capitano Thorn. Abbassando anch'egli lo scudo, fece cenno che mi avvicinassi. Il percorso mi parve dieci volte più lungo, soprattutto perché non mi fidavo di quell'uomo. Era un guerriero, e dunque legato al codice d'onore, ma già una volta si era dimostrato più proclive ad ubbidire agli ordini di Dorna che alle regole della sua Casta. Essere sotto la mira dei suoi arcieri non mi rallegrava lo spirito. Quando però fui ai piedi della barricata e potei guardare negli occhi i guerrieri appostati sulla passatoia dietro di essa, vidi che avevano ben compreso il senso della mia mossa: sebbene Thorn e Dorna fossero infidi, difficilmente gli altri avrebbero commesso l'azione infamante di colpire a
tradimento un parlamentare. Il capitano si tolse l'elmetto. «Tal, guerriero!». «Tal, capitano di Tharna!», lo salutai anch'io. L'uomo aveva più che mai un aspetto deciso e battagliero e, nel vederlo in faccia, pensai che i recenti scontri l'avevano reso più duro e virile di come lo ricordavo. Portava i capelli annodati in due trecce laterali che gli scendevano sulle spalle, e dietro la nuca uniti in una coda di cavallo alla mongola. I suoi occhi un po' obliqui mi fissarono con intensa ostilità. «Avrei fatto meglio ad ucciderti alla Colonna degli Scambi,» esordì. Ignorando il suo tono sprezzante, parlai a voce alta, per farmi ascoltare da tutti i guerrieri riuniti oltre quel vallo: «Nel nome della Regina Lara, unica ed indiscussa sovrana di Tharna, io vi ordino di deporre le armi. È desiderio della Regina che non scorra più il sangue fra il suo popolo. Voi avete ricevuto la spada di guerriero dalle mani di Lara, giurandole fedeltà e ubbidienza, ed ella ora domanda che osserviate il codice d'onore della vostra Casta. Chiunque difenda l'usurpatrice Dorna, è un traditore. La Regina mi manda da voi perché riconosciate immediatamente il vostro errore, e garantisce il perdono a chi abbandonerà subito colei che le ha rubato il trono.» Il mormorio che si levò dietro gli sbarramenti m'informò che le mie parole avevano colpito quegli uomini. Thorn strinse i pugni, e rispose a voce ancor più alta della mia: «Tu menti! Lara è morta. Dorna è la sola Regina della città!» «Io vivo, invece!», gridò una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi con disappunto che Lara era corsa avanti, sfidando tutti gli archi puntati su di noi. Una freccia isolata, scagliata contro di lei che non era protetta dalla tregua formale, e la città avrebbe visto continuare il massacro fino alla sua completa distruzione. Thorn la guardò con una freddezza che dovetti quasi ammirare. Tutto doveva essersi aspettato, salvo che trovarsi di fronte la ragazza non soltanto libera ma alla testa dei suoi stessi ex schiavi. «Non è Lara!», gridò, rivolto ai suoi uomini. «Non facciamoci ingannare da questo trucco!» «Io sono Lara, razza di serpente. E tu lo sai!», esclamò ella. «Ah, sì? Ma le Regine di Tharna portano la maschera d'oro, e non si farebbero mai vedere col volto scoperto come le schiave o le donnette dappoco,» la derise lui. «Non te l'avevano detto, forse?» «Non parlarmi così! D'ora in avanti non vi saranno più maschere per le
donne di Tharna. Questo lo stabilisco e lo ordino io, Lara, tua Regina e Signora!», rispose seccamente lei. «Dove avete raccolto quest'imbrogliona? Quanto denaro le avete promesso?», gridò Thorn, sempre a beneficio dei suoi uomini. «L'ho liberata dalla schiavitù,» risposi. L'uomo rise forte e molti altri si unirono a lui, sghignazzando apertamente. «La schiavitù a cui l'avevi condannata tu!», continuai. Poi mi rivolsi ancora ai guerrieri: «Io sono l'uomo che rapì la vostra Regina nel giorno dei Giochi. Io stesso la portai quella sera alla Colonna degli Scambi per ottenere il riscatto, e in quel luogo incontrai il capitano Thorn e Dorna con altri due guerrieri. Subito dopo venni catturato con un tranello e fui portato alle miniere. Ma Lara non poté rientrare in città, perché Thorn e Dorna la condussero in volo al mercato degli schiavi di Ar. Laggiù la Regina fu venduta ad un mercante di nome Targo, il cui accampamento è oggi alla Fiera di En'Kara. Ed è stato da questo mercante che io l'ho acquistata, per ridarle la libertà ed il trono.» «Bugie e fantasia!», urlò Thorn. «Dalla vendita di Lara i due traditori ricavarono cinquanta denari d'oro,» dissi. «E mi è stato rivelato dai dipendenti del mercante Targo che in Ar Dorna se li fece incastonare in una collana. A questo giunse la sua spudoratezza.» La cosa mi era stata riferita dal guercio, prima che lasciassimo le tende del mercante. Subito sulla sinistra della barricata s'alzò una voce: «Dorna porta una collana fatta con cinquanta denari d'oro, è vero. E prima di questi fatti nessuno gliel'aveva mai vista.» «Menzogne e stupidaggini!», inveì Thorn, facendosi paonazzo. «Chi ha parlato? Questo è tradimento!» «Voi tutti l'avete udito dire poco fa che gli sarebbe piaciuto uccidermi alla Colonna degli Scambi. Questo vi conferma che c'incontrammo là. E voi sapete in quale giorno egli vi andò.» «Sicuro!», confermò una voce. «Dicci perché hai preso con te solo due guerrieri in quell'occasione, Thorn. Molti se lo chiesero.» Il capitano volse il capo per identificare l'autore della domanda, tremando di furia. Fui io a rispondere. «Non è ovvio? Lui e Dorna volevano che quella manovra restasse segreta. E, se non osarono uccidere la Regina, non fu certo per bontà d'animo: essi sapevano che una donna di Tharna avrebbe sofferto
molto più per la schiavitù in una città straniera che per una pugnalata nel cuore.» Sulla barricata si alzò un altro guerriero e, quando costui si tolse l'elmo, riconobbi il ragazzo che avevamo incontrato sulle mura. Appariva un po' debole, ma la sua voce suonò squillante: «Quel guerriero dice la verità, ed io gli credo!» «È un tranello per dividerci,» latrò Thorn. «Torna al tuo posto o ti farò giustiziare!» Il ragazzo non si mosse. Altri nove o dieci guerrieri si levarono in piedi, a sostegno della sua affermazione. «Ai vostri posti, canaglie!», gridò il capitano. «Voi siete della Casta dei Guerrieri,» li arringai io. «La vostra spada è legata all'onore di questa città e agli ordini di una sola persona: la Regina.» «Io ubbidisco alla Regina Lara!», decise il giovane guerriero. Con un'agilità che non mi aspettavo, date le sue condizioni fisiche, si calò giù dalla palizzata e corse a inginocchiarsi davanti a Lara, deponendo la spada ai suoi piedi. Lei sorrise. «Riprendi la spada, guerriero. Tu la impugnerai per me, come hai giurato.» «Fino alla morte, mia Signora!», esclamò lui, rialzandosi. Si volse quindi a Thorn, levando l'arma sulla sua testa. «Nel nome di Lara, Sovrana di Tharna, io terrò fede al codice della mia Casta. Tu, traditore che difendi un'usurpatrice, getta le armi e preparati a rispondere delle tue colpe!» «Quella donna non è Lara!», abbaiò ancora il capitano. «E tu come fai ad esserne tanto sicuro? Forse vuoi darci a intendere che conoscevi il suo volto?», lo rimbeccò uno dei guerrieri. La domanda era astuta perché, se Thorn avesse risposto di sì, avrebbe implicitamente ammesso d'averle strappato la maschera con la forza e, se avesse risposto di no, la sua ostentata sicurezza sarebbe stata inspiegabile. Infatti l'uomo non seppe cosa ribattere e rimase zitto. «Non voglio che abbiate dubbi su di me,» disse Lara con calma. «Fra voi c'è qualcuno che ha servito nella sala della Maschera d'Oro? Se è così, si faccia avanti e dica se riconosce la mia voce.» «È la Regina!», gridò un altro, levandosi l'elmetto. «Non ho dubbi, compagni. Troppe volte l'ho sentita parlare per sbagliarmi.» «Tu sei Stam,» disse lei. «Caposquadra alla porta settentrionale. Mi fosti segnalato perché sai scagliare la lancia più lontano di chiunque altro fra i miei guerrieri. E alla Fiera di En'Kara, nel secondo anno del mio regno,
vincesti la gara di lancio con quest'arma.» Il guerriero che stava accanto a Stam si liberò dell'elmo, e Lara puntò un dito anche verso di lui. «E tu ti chiami Tairis, grifoniere, ferito in un'incursione contro la città di Thentis l'anno prima che io salissi al trono.» «Ed io chi sono?», chiese un terzo, scoprendosi il capo. La ragazza si accigliò. «Non ti riconosco,» disse, dopo una pausa d'incertezza. Parecchi, guerrieri fecero udire un mormorio di delusione. Ma l'uomo aggiunse: «E infatti non puoi conoscermi. Sono un mercenario proveniente da Ar, ingaggiato dopo che fosti rapita.» «Onore alla Regina Lara!», gridò uno dei militi, saltando giù dalla barricata e mettendo la spada ai piedi della ragazza. Lei gliela rimise in mano con un sorriso. Ma intanto il grido del guerriero veniva ripetuto da una quantità di bocche e, dietro agli sbarramenti, vi fu un rumore di travi che venivano rimosse. Dieci secondi dopo, una sezione della barricata fu rovesciata a terra, ed altre vennero tolte e spinte di lato. «Onore alla Regina Lara! Morte all'usurpatrice!», si gridava da più parti. I guerrieri a difesa del Palazzo erano circa settecento, e tutti s'inginocchiarono rispettosamente. La ragazza fece loro cenno di rialzarsi, poi si voltò e sollevò le braccia in direzione di Kron e delle prime file dei ribelli. «Uomini di Tharna, mio popolo!», li chiamò con voce chiara. «Venite ad abbracciare i vostri concittadini, e sia la pace entro le nostre mura!» Vidi con soddisfazione che la sua attitudine al comando non era poi mutata troppo. Il suo volto fiero e bellissimo le conferiva molto più fascino carismatico della maschera d'oro, cosa che lei sembrava aver compreso alla perfezione. Thorn era nel frattempo scomparso dietro i resti della barricata, e non riuscii a vedere dove si fosse cacciato. La strada si stava riempiendo di uomini, ed i guerrieri e i ribelli fraternizzavano, si abbracciavano e facevano confusione. Per gli ex schiavi provenienti da altre città ciò significava solo la conclusione di una rivolta, ma per gli uomini di Tharna era la fine d'una lotta fratricida che a nessuno era certo piaciuta. Con un braccio attorno alle spalle di Lara, oltrepassai le tre barricate, seguito da Kron, da Andreas e Linna, e numerosissimi fra soldati ed ex ribelli. Il Cantastorie mi sorrise, però avrei scommesso che non vedeva l'ora di deporre lo scudo e la lancia per sostituirli con una cetra. Davanti alla pic-
cola porta che dava accesso al palazzo, mi fermai, e chiesi che portassero una torcia. Tenendo alto lo scudo, spinsi il battente d'acciaio che era socchiuso, e questo si aprì a rivelare soltanto la tenebra più completa ed il silenzio. Attesi che gli uomini mi consegnassero una torcia accesa e quindi illuminai l'interno. Il pavimento appariva solidissimo, ma per precauzione non vi poggiai i piedi; ordinai invece che si stendessero al suolo due travi lunghe una decina di metri tolte dalla palizzata, e solo allora mi avventurai nello strettissimo corridoio. Stavolta la trappola non scattò, tuttavia non intendevo correre rischi. «La Regina non deve ancora entrare, non è prudente. Aspettatemi fuori!», ordinai agli altri. Ci furono proteste ed avvertimenti in tono allarmato, però Lara e Kron avevano imparato a darmi retta senza discutere e tennero all'esterno gli uomini. Proseguii da solo nel cunicolo e poi per un passaggio più ampio, finché non giunsi in un corridoio spazioso. Non c'era anima viva e non sentivo rumori di alcun genere. Andai avanti un po' a caso attraverso varie stanze collegate da brevi corridoi, chiedendomi dove fosse la sala della Maschera d'Oro, accompagnato solo dall'eco dei miei passi. Le lampade che vedevo erano tutte spente, ed avrei detto che nel palazzo non c'era più nessuno. Ad un tratto, in fondo ad un ultimo corridoio, scorsi un portone socchiuso e più oltre una luce viva. Spostai il battente e mi trovai nella sala del trono, ben illuminata da dozzine di torce fissate alla pareti. Su quella di fondo campeggiava l'enorme effigie d'oro, e davanti al grande simbolo regale, assisa sullo scranno massiccio, c'era una donna che indossava la maschera aurea e gli indumenti di stoffa dorata della Regina di Tharna. Stava zitta e immobile. Sul suo petto pendeva la collana fatta di cinquanta denari d'oro, ed i suoi occhi erano imperscrutabili. Di fronte a lei, al centro della sala, c'era un guerriero con l'elmo blu sottobraccio, armato di scudo e di lancia. Era Thorn. L'uomo voltò il capo a guardarmi, poi si rimise l'elmo senza fretta. Impugnata saldamente la lancia, si assicurò d'avere lo scudo ben fissato all'avambraccio sinistro, e rise brevemente. «Ti stavo aspettando!», disse. Capitolo 25 SUL TETTO DELLA TORRE
Il grido di battaglia di Tharna e quello di Ko-ro-ba echeggiarono assieme sotto il soffitto a volta, quando Thorn ed io ci gettammo di corsa l'uno contro l'altro. Entrambi scagliammo la lancia nello stesso istante, imprimendo all'arma la più devastante violenza: le due aste di legno saettarono tanto vicine da sfiorarsi a mezza strada, e poi impattarono sonoramente sullo scudo che ciascuno di noi aveva subito sollevato. La punta in bronzo dell'arma del mio avversario sfondò come carta i sette strati di cuoio martellato del mio scudo, sbucando a pochi centimetri dal braccio con cui lo sostenevo e rimanendo incastrata nello spessore. Con un'imprecazione lasciai cadere a terra quell'arnese, diventato ormai ingombrante; ma intanto anche il capitano di Tharna si era visto obbligato a liberarsi dello scudo, perché la mia lancia l'aveva oltrepassato fino a metà del manico. Sfoderammo le spade e, senza quasi tirare il fiato, ci affrontammo con furia selvaggia, in un duello fatto di larghi fendenti di diritto e di rovescio. Nessuno di noi si concesse finezze da scuola di scherma: miravamo a tranciare la carne e le ossa, ed il suono delle due affilate lame di bronzo che si scontravano, era vibrante come quello d'una campana. Era la musica incalzante e terribile che accompagna un ballo mortale. Cinque volte avventai l'arma mirando ai fianchi ed all'elmo, e quindi fu lui a tentare quattro poderosi colpi sia alti che bassi ma, al termine di quei lampeggianti semicerchi di metallo, la lama urtò solo l'altra lama. I contraccolpi erano così forti che mi si ripercuotevano nella colonna vertebrale. Del tutto impassibile, assente come una statua, la donna dalle vesti d'oro sedeva sul trono osservando attentamente lo scontro. Di fronte a lei un guerriero in tunica grigia ed elmo blu affrontava un fuorilegge vestito di una consunta tunica rossa. Si rendeva conto che la sua stessa vita dipendeva dall'esito di quel duello? Gettandole un'occhiata, vidi le nostre due figure riflesse sulla sua fredda e liscia maschera aurea. Le torce proiettavano sulle pareti le ombre sfumate dei corpi e delle spade, trasformandole in scuri giganti alti fino al soffitto che lottavamo in un mondo di titani a due dimensioni. Ma Thorn non era un titano né un gigante: imprimendo una rotazione alla spada, colpii la sua di sbieco, le lame scivolarono l'una sull'altra e la mia spezzò di netto l'elsa che gli proteggeva la mano. Il fendente gli tagliò via tre dita, e la sua arma cadde al suolo: un istante più tardi, gli affondai la
spada nel petto spietatamente. L'uomo si rovesciò sul pavimento a braccia spalancate, ed una chiazza di sangue s'allargò sulle mattonelle sotto di lui. La vita gli sfuggiva da quella terribile ferita, ed i suoi occhi obliqui fissarono il soffitto come se vedessero qualcosa al di là di esso. Ma io non ansimavo neppure. Avevo incontrato avversari ben più validi di lui. «Ti sei battuto bene,» dissi, come imponevano il mio ed il suo onore. Con una certa sorpresa vidi che gli restava ancora un filo di vita in corpo, perché riuscì a sussurrare: «Idiota... sono io che ho vinto!» La sua testa ricadde di lato. Era morto. Domandandomi cos'avesse voluto dire, lo fissai per un poco. Su quella frase aveva sprecato l'ultimo respiro della sua vita, dunque perché gli era parso tanto importante pronunciarla? Scossi le spalle e mi volsi a fronteggiare la donna assisa sullo scranno d'oro. Soltanto allora lei si mosse. Lentamente, come trasognata, discese i tre scalini e venne ad arrestarsi presso il cadavere. Poi si lasciò cadere in ginocchio, poggiò la fronte sul suo petto insaguinato, e nella sale silenziosa risuonarono accorati e strazianti i suoi singhiozzi. Ero allibito. Senza far caso a quello che facevo asciugai il sangue della spada con l'orlo della mia tunica, e la rinfoderai. «Mi dispiace per il tuo dolore,» dissi. Lei parve non udirmi neppure. Feci qualche passo verso la grande porta d'ingresso, per starle lontano e lasciarla un poco sola con la sua angoscia, un sentimento che per la verità mi appariva inverosimile. Nei corridoi interni sentii il suono di voci e di passi che si avvicinavano lungo il percorso già seguito da me. I guerrieri ed i ribelli stavano entrando nel palazzo, evidentemente preoccupati per la mia sorte. Anche la donna udì i rumori e rialzò il capo. Dietro quei fori ovali, i suoi occhi luccicavano di lacrime, e le lacrime della gelida cospiratrice che aveva giocato la carta del potere e dell'ambizione erano l'ultima cosa che mi sarei aspettato di trovare in quell'edificio. Poi parlò, per la prima volta: «È vero ...Thorn ha vinto la sua battaglia, guerriero,» disse. «Se è così, la sua è una ben strana vittoria. Ora è andato nella Città dei Morti. E, in quanto a te, Dorna, sei mia prigioniera.» Lei ebbe una risata che era la quintessenza dell'amarezza, e scosse il capo. Si portò le mani al viso e con un gesto quasi di disgusto ne strappò via la maschera d'oro. Soffocai un'imprecazione. Inginocchiata accanto alla salma di Thorn non c'era Dorna, bensì la ragazza che avevo incontrato tempo addietro e che il capitano aveva preso come sua Schiava del Piace-
re: Vera di Ko-ro-ba. «Come vedi, il mio padrone ti ha giocato. Egli sapeva che non era da lui uccidere Tarl Cabot, ma il suo vero scopo era di guadagnare tempo per Dorna. Ed ora ella può fuggire.» «Ma perché ti sei prestata al suo gioco?», sbottai. Vera si asciugò gli occhi con dita tremanti. «Thorn è stato buono con me. E per me egli era...» «Al diavolo, era il tuo padrone!», la interruppi. «Un padrone che ti ha messo il collare. E adesso torni una donna libera.» «Io gli ho voluto bene,» mormorò la ragazza, e di nuovo poggiò la fronte sul petto del cadavere con un gemito penoso. In quel momento entrarono nella sala venticinque o trenta uomini, preceduti da Lara e da Kron. Indicai loro la giovane donna chinata al suolo, e ordinai: «Lasciatela stare. Non è Dorna, è soltanto una delle schiave di Thorn che aveva indossato le tue vesti. Si chiama Vera, ed è nativa come me di Koro-ba. Non voglio che le sia fatto del male.» «E dov'è Dorna?», ringhiò Kron. «Fuggita, purtroppo.» Lara mi si fece accanto. «Ma il palazzo è circondato.» «Sangue d'un grifone. Al tetto!», esclamai. «Fammi strada, presto!» Lara corse all'ingresso di un corridoio ed io le tenni dietro. C'era buio pesto, ma la ragazza conosceva il percorso a menadito e, dopo aver attraversato un dedalo di locali, si arrestò alla base di una scala a chiocciola piuttosto ripida, incassata nella parete esterna dell'edificio. «Per di qua!», disse, ansando. La feci scostare e, tenendo una mano poggiata al muro come guida, salii nell'oscurità, più in fretta che potevo. Dopo almeno cinquecento gradini, vidi sopra di me la fessura d'una botola, la sollevai, ed un fiotto di luce accecante mi costrinse a socchiudere gli occhi. Alle narici mi giunse l'odore familiare dei grifoni misto ad un altro meno piacevole. Balzai fuori e mi trovai sulla piatta sommità della torre. C'erano tre uomini: due Guardie di Palazzo ed un altro che riconobbi subito come l'aguzzino dalla gonna di pelle che si occupava della sala di tortura negli scantinati del palazzo. E costui teneva alla catena l'urt gigante con cui a suo tempo avevo avuto a che fare. I due militi stavano terminando di fissare all'imbracatura d'un grifone dal piumaggio verde un grosso contenitore di vimini, del tipo usato dagli ine-
sperti per farsi trasportare con maggiore comodità e sicurezza. E nel cestone stava seduta una donna ammantellata il cui volto era nascosto da una maschera d'argento. «Ferma!», ordinai. «Scendi da lì, Dorna. Non illuderti di andare lontano.» «Uccidi! Uccidi!», gridò l'aguzzino, puntando la frusta nella mia direzione e dando una pedata all'uri. Un attimo dopo, la spaventosa bestiaccia stava correndo verso di me. La velocità di quel feroce roditore grosso come un bufalo era tale che in tre soli salti superò i cinquanta metri di distanza e mi fu addosso, spalancando le fauci. Alzai la spada a due mani, conficcandogliela dritta in gola, e la sua testa scartò di lato. Nell'aria esplose uno squittio, così acuto che dovette essere udito anche fuori dalle mura di Tharna, ma l'animale non parve debilitato dalla ferita e scosse il capo con furia, strappandomi l'arma delle dita. Una delle sue spalle pelose mi colpì in mezzo al petto e, per non essere travolto a terra, affondai le mani nel vello puzzolente lasciandomi trascinare da una parte e dall'altra. Sentii il clangore della spada che rimbalzava sulla pietra, e mi attaccai con tutta la mia forza a quel collo massiccio per evitare di venir raggiunto dai denti lunghi come pugnali. L'urt cercava di scuotermi via per poi azzannarmi e, se vi fosse riuscito, mi avrebbe squartato in un batter d'occhio. Ad un tratto si lasciò cadere a terra e rotolò su sé stesso per schiacciarmi. Non vi riuscì perché, pur restandogli appeso al collo, gli saltai a piè pari sul ventre. Quando si rialzò sulle quattro zampe, ero aggrappato al suo pelame, fuori portata della bocca: allora prese a girare in tondo sgroppando come un bue al rodeo. Nel frattempo, l'uomo in gonnellino di cuoio aveva recuperato la mia spada e ci stava seguendo in quel folle carosello, alla ricerca del momento buono per infilarmela in corpo. Ero in una posizione difficilissima. Tutte le volte che l'urt volgeva il capo nel tentativo d'addentarmi, dovevo scattare avanti con un ginocchio, per bloccargli la mandibola, e intanto mi vedevo costretto a compiere sforzi frenetici per farlo girare ed allontanarmi da lui. Il sangue che colava dalla bocca del mostruoso roditore m'inzuppava le gambe. Dopo un paio di minuti buoni di quella danza infernale mi trovai nella posizione che l'aguzzino aspettava, e sentii l'ansito di soddisfazione con cui mi venne addosso. Ma, un attimo prima che la spada si affondasse nella mia schiena, mollai la presa e sgusciai sotto la pancia pelosa dell'urt. La lama s'infilò nel fianco della bestiaccia. Poi una zampata mi fece rotolare
via, e gemetti di dolore. Quando riuscii ad alzarmi in ginocchio vidi, come in un'allucinazione, l'individuo barcollare di lato con la faccia rossa di sangue: l'urt s'era girato ad addentargli la testa, ed ora un occhio gli pendeva fuori dall'orbita sospeso ad alcuni orribili filamenti rossi. Balzai in piedi. Però adesso la bestia stava fissando una nuova preda, e fu su di essa che avanzò ferocemente. Pazzo di dolore, l'aguzzino urlò un ordine e, indietreggiando, riuscì a colpire con la spada il muso dell'animale. Le fauci gli azzannarono una spalla, mentre una zampata lo rovesciava al suolo presso il bordo del tetto, e quindi i denti dell'uri gli schiacciarono il cranio come una noce. L'animale cominciò subito a divorare il corpo del suo ex padrone, ed io ne approfittai per correre a raccogliere la spada. Misi tutta la mia forza in quel colpo da spaccalegna: la pesante lama di bronzo si abbatté fra le orecchie del roditore, aprendogli la sommità del cranio e facendone schizzare fuori grumi di materia cerebrale. L'urt cadde sul corpo della sua vittima, squassato da tremiti convulsi. Volgendomi verso il grifone, vidi che Dorna, nel cesto, teneva in mano le sei redine. Evidentemente si proponeva di guidarlo da sola, ed un semplice gesto le sarebbe bastato per decollare. Se ancora non aveva tirato la redine numero uno era solo perché lo spettacolo della mia morte le sarebbe piaciuto più d'ogni altra cosa al mondo, ma adesso i suoi occhi erano tanto colmi d'odio da sembrare fusi nel lucido metallo della sua maschera. «Ammazzatelo!», ordinò ai due guerrieri. Mi feci avanti pronto a combattere, tuttavia gli uomini non accennarono minimante ad estrarre le armi contro di me; anzi uno di essi fissò la donna con malcelato astio. «Tu hai scelto d'abbandonare la città. D'ora in avanti sarai solo una fuorilegge, un niente,» disse. «Bestia insolente!», strillò lei. Si rivolse all'altro guerriero e gli comandò di uccidere il collega. L'uomo si tolse l'elmo e fece una smorfia seccata. «Non hai più diritto di dare ordini a nessuno, donna.» «Traditori! Animali!», sbraitò Dorna. «Se tu avessi avuto il coraggio di restare a morire nella sala del trono, noi ci saremmo battuti per te,» osservò ancora il primo. L'altro aggiunse. «Sei ancora in tempo. Rimani, affronta il tuo destino da vera Regina, e le nostre spade ti difenderanno. Ma, se preferisci fuggire come una fuorilegge, noi non ti ubbidiremo.» «Io vi maledico, traditori!», inveì lei.
Mi ero fermato ad una quindicina di metri dal terzetto e, quando la donna tornò a guardarmi, potei sentire l'intensità del suo odio come un fenomeno fisico, una sorta di radiazione che si sprigionava da lei. «Il capitano Thorn è morto per te,» dissi. Dorna rise, stridula. «Quel pazzo! Era uno stupido animale, come tutti voi.» Dovetti riflettere che non aveva torto: perché mai Thorn, un guerriero, aveva abiurato agli obblighi della sua Casta mettendosi al servizio di una donna simile, se non per pazzia? Aveva complottato, tradito, rinunciato al suo onore, e per trarne poi quali vantaggi? Anche se tutto fosse andato secondo i suoi desideri, in Tharna sarebbe rimasto solo un uomo, un essere considerato inferiore, né avrebbe certo avuto più denaro di quanto non avrebbe potuto averne servendo fedelmente Lara. Come se Dorna mi avesse letto nei pensieri, d'un tratto esclamò: «Io concessi a quel misero animale di adorarmi da lontano, così come si devono adorare gli esseri superiori. Da molti anni ero la sua padrona.» Dunque questa era la risposta? Davvero Thorn aveva amato una donna di cui non conosceva il volto, e che mai gli avrebbe concesso di toccarla? Ero propenso a credere che fosse stato proprio così: il cuore umano è più imprevedibile che mai quando sono in ballo sentimenti come l'amore. E, se quell'uomo era stato capace di farsi voler bene da Vera, significava che in lui esistevano passioni molto meno truci di quanto avrei supposto. Mi dispiacque averlo dovuto uccidere. Thorn si era tormentato in una sua tragedia privata, senza speranza di soddisfazione, ed era stato mille volte più umano della femmina per cui si era sacrificato. «Ti conviene arrenderti,» dissi. «Mai!» La parola venne quasi sputata dalla sua bocca. «Dove credi di poter andare? Cosa speri di riuscire a fare?» Dorna doveva sapere d'aver poche probabilità di cavarsela da sola, in qualunque località di Gor intendesse rifugiarsi. Sebbene fosse astuta, piena di risorse e certo fornita di denaro, era una donna e, senza la protezione di un guerriero, sarebbe finita male. Nelle Terre Selvagge sarebbe stata uccisa da qualche predatore, forse perfino dal suo stesso grifone, ed altrove chiunque non avrebbe esitato a farla schiava. «Resta qui ed affronta la giustizia di Tharna. Potrebbe esser meglio per te,» le suggerii. «Tu sei un povero pazzo,» ringhiò. Nella destra stringeva la redine uno. Un lieve strappo ed il grifone si sa-
rebbe levato in volo. Ed avrei scommesso che era il volatile più veloce e resistente fra quanti ne erano rimasti in città. Mi voltai e vidi che dalla botola stavano uscendo Lara e Kron, e dietro di loro altri guerrieri. La ragazza bionda corse al mio fianco. «Sei ferito?», domandò, ansiosa. Poi la voce di Dorna la fece voltare. «Eccoti dunque, Lara!», esclamò la donna. «Senza velo, né maschera... Mai avrei creduto che la tua vergogna giungesse a tanto. Sei come questi animali, scaduta al rango di Donna Abbietta!» «È un onore essere insultata da te,» replicò lei, ironica. «Lo sapevo ...L'ho sempre saputo che dentro di te c'era la bestia,» sbottò Dorna. «Tu non meritavi il trono delle Regine, sgualdrina. E la maschera d'oro era mia di diritto. Mia!» «Non ci saranno più maschere d'oro a Tharna, né d'argento. La nostra diventerà una città nuova,» disse Lara. La donna scosse le spalle. Girò lo sguardo su quelli che erano saliti al seguito della Regina, esprimendo in silenzio un enorme disprezzo. Poi il suo volto d'argento si volse a me. «Addio, Tarl di Ko-ro-ba,» disse. «Non dimenticarti di me, perché un giorno la mia vendetta ti raggiungerà!» Detto ciò strattonò la redine di partenza. Il grifone allargò immediatamente le ali balzando nel cielo, ed il cestone scivolò al suo posto sotto il corpo dell'animale, sorretto dalle robuste cinghie di cuoio. Non potei far altro che stare a guardare, visto che nessuno dei presenti aveva un arco per tentare d'abbatterla. Accanto a me, Lara non disse nulla, e tenne gli occhi fissi sul volatile finché esso fu un puntolino diretto alle lontane montagne. Verso quale destino era fuggita Dorna, la Maschera d'Argento? Perché si era presa la briga d'annunciarmi una futura vendetta? Tutto ciò a dire il vero non mi faceva né caldo né freddo: ero convinto che da sola non sarebbe vissuta più di qualche giorno, e che sarebbe stata ancora fortunata se fosse finita in mano ad un mercante di schiavi, il quale l'avrebbe almeno alloggiata e nutrita. Se sotto la maschera celava un volto attraente, qualcuno l'avrebbe acquistata per il suo Giardino del Piacere, oppure l'avrebbe messa a lavorare come danzatrice e prostituta. Se invece non aveva la fortuna d'essere piacente, sarebbe stata venduta come sguattera di cucina, o magari ceduta per pochi denari a qualche popolano di Casta Bassa, oppure ad un artigiano che l'avrebbe fatta sudare nella sua bottega. Una cosa era certa: fuori dalle mura di Tharna l'attendeva una vita in vi-
olento contrasto con quella cui era abituata, e difficilmente sarebbe riuscita a sopportarne gli aspetti negativi. Fuggendo, si era condannata ad una sorte per lei peggiore della morte. A me non importava proprio niente di lei: prima ancora che il suo grifone fosse scomparso nelle brume pomeridiane, stavo già pensando a tutt'altre cose. Lara mi prese per mano. «Vieni,» disse. Ma i miei occhi rimasero puntati nella direzione in cui sorgevano le nere e terribili Montagne di Sardar. Ero impaziente di partire. Capitolo 26 UNA LETTERA DI TARL CABOT Scritta nella città di Tharna, il ventitreesimo giorno di En'Kara, nel 4° anno del regno di Lara Regina, 10.117° dalla fondazione di Ar. Agli uomini della Terra, salute. Gli avvenimenti di cui avete letto il resoconto sono stati da me messi per iscritto nei giorni successivi al ritorno al trono, nella città di Tharna, della Regina Lara. Adesso nei miei pensieri arde solo il desiderio di cercare i Re Sacerdoti, là nell'Inviolabile, l'unico luogo dove le domande che assillano la mia esistenza possono avere risposta. Tre giorni di viaggio su un grifone mi basteranno per raggiungere quell'enorme palizzata, la rudimentale barriera di legno che circonda per intero le Montagne di Sardar. Cosa accadrà quando sarò laggiù? Lo ignoro. Armato delle mie armi da guerriero oltrepasserò il massiccio portone, così come per millenni hanno fatto prima di me tanti uomini, innumerevoli ardimentosi spinti da motivi non troppo diversi dai miei, nessuno dei quali è mai più tornato indietro a raccontare ciò che ha visto e saputo. Non sono del tutto certo che questo manoscritto giungerà a voi, là sulla vecchia e cara Terra, ma appena giunto alla Fiera di En'Kara lo affiderò ad uno scrivano. Là ve ne sono molti. Gli chiederò di consegnarlo ad uno degli Adepti che conoscono qualcosa delle misteriose vie di comunicazione fra Gor e la Terra. Dunque questo mio messaggio è affidato alla volontà dei Re Sacerdoti stessi, così come da loro potrà dipendere la mia sorte.
Sono esseri incomprensibili: non so se mi siano amici o nemici, ed ignoro se per me provino interesse oppure assoluta indifferenza. Eppure si sono presi il disturbo di lanciare un anatema su di me, hanno portato chissà dove mio padre e la mia amata Talena, mi hanno costretto a soffrire, a lottare, e ad uccidere. In qualche modo riesco ad intuire che anche a Tharna si sono serviti di me, - della cieca ostinazione con cui sempre affronto la realtà - per introdurre mutamenti sociali. Hanno distrutto dalle fondamenta Ko-ro-ba, e con lo stesso distacco intellettuale hanno fatto sì che un'altra città rinascesse alla vita. Il loro comportamento è così enigmatico che questa parola mi sembra ancora inadeguata a definirlo. Ma lasciate che spenda due parole per la città di Tharna: in questo momento tutto fa credere che diventerà il centro abitato più singolare ed interessante di Gor. La sua Regina, la splendida e orgogliosa Lara, è senza dubbio unica fra tutti coloro che dominano le moltissime città del pianeta. Così come un tempo ella regnava con la forza del potere, oggi tiene nelle sue mani il luminoso vessillo di una giustizia nuova, ed i suoi sudditi la adorano. Appena è tornata sul trono non ha fatto emanare ordinanze punitive od incarcerare chi ebbe ad ostacolarla, bensì ha proclamato l'amnistia generale. Ma le Maschere d'Argento sopravvissute ai giorni della rivolta, in origine circa cinquecento, sono state meno della metà, perché i ribelli hanno dato loro la caccia anche dopo la fuga di Dorna e ne hanno uccise molte. So che una trentina o forse più sono scappate dalla città, e oltre centocinquanta sono state prese e tenute per qualche giorno in prigione, finché non hanno compiuto atto di formale sottomissione alla Sovrana. Le altre donne libere di Tharna hanno dovuto rassegnarsi a perdere i loro diritti di esseri superiori. Il giorno in cui i disordini sono cessati, ho presenziato alla pubblica distruzione della Maschera d'Oro, il gigantesco volto aureo appeso nella sala del trono, che Lara ha fatto staccare dal muro e mandare in fonderia. Pesava almeno una tonnellata. Con esso sono state coniate dalla zecca reale monete per acquistare cibo in attesa del prossimo raccolto. La città si è trovata di fronte ad una situazione economica assai grave, ed i primi rimedi di Lara hanno dovuto essere drastici per riorganizzare il tutto. Ha istituito subito il nuovo Consiglio, formato da membri delle Caste Alte e da rappresentati di quelle basse, e ciò l'ha costretta a chiamare in città personaggi fino ad oggi quasi sconosciuti al popolo di Tharna: gli Adepti, vitali per i loro contatti tecnici e scientifici coi Re Sacerdoti; gli
Scrivani, che hanno preso in mano le redini dell'istruzione e dell'amministrazione pubblica, e molti Dottori ed Ingegneri. Tutti costoro sono stranieri, e la Regina ha dovuto promettere loro vantaggi in abbondanza ed un ottimo trattamento, ma si sono già rivelati indispensabili. Le miniere d'argento non sono state rimesse in attività, tuttavia si è scoperto che l'enorme quantità di questo metallo finora estratta permette di coniare moneta e porre mano ai lavori di ricostruzione. Fin dall'inizio sulle torri sono cominciati ad apparire rivestimenti di materiale edile, colorato così vivacemente che i cittadini seguono i lavori sgranando all'insù occhi meravigliati. La città ha preso vita, sono giunti oggetti e stoffe di fattura straniera, la Casta dei Mercanti sta facendo affari d'oro, il commercio al minuto ha avuto la più grossa spinta da secoli a questa parte. Il grigio è stato abolito dai vestiti per decisione unanime, e la gente delle Caste Basse esibisce con orgoglio e fantasia i propri colori. In appena quindici giorni la città è diventata irriconoscibile. Sulle strade sono comparse carovane di carri provenienti da altre zone, perché si è sparsa la voce che a Tharna si può vendere su un mercato quasi vergine, ed i commercianti son gente quantomai svelta a gettarsi sulle buone occasioni. Nel cielo i grifonieri vanno e vengono in un traffico continuo, spesso scendendo sulle strade per divertirsi a spaventare i passanti. Le Guardie di Palazzo e quelle delle mura devono impegnarsi al massimo per mantenere l'ordine nelle strade, e molti nuovi guerrieri sono stati ingaggiati fra gli ex ribelli. Mentre scrivo queste righe ho ai piedi ricchi sandali provenienti da Tor delle Sabbie, indosso una tunica rossa tessuta in Ar, una cintura acquistata da un mercante di Porto Kar, ed alle pareti delle mie stanze pendono arazzi di Thentis dai bellissimi colori. In un certo senso la città è in preda alla confusione, ad attività frenetiche, all'euforia, e da un altro punto di vista mi pare assai desiderosa di ordine. Lara è costretta ad usare il pugno di ferro nel guanto di velluto e lavora sodo, ma il suo fascino personale è tale che non fatica affatto ad imporre l'autorità regale. Sempre più mi convinco di non aver sbagliato a riportarla sul trono: è diventata la Regina della ricostruzione, della rinascita, abile in questo tempo di crisi come lo sarà in futuro quando la situazione si sarà assestata. Non è ancora ben chiaro quale sarà l'influsso delle città straniere su Tharna. Soprattutto sembra difficile abolire interamente la schiavitù, su cui si basa l'economia del pianeta, perché è gradita agli Adepti ed alle Caste Alte. Ignoro come Lara risolverà il problema. La situazione civile fra uo-
mini e donne è confusa e, sebbene sia ormai legale l'istituto della famiglia, ci vorrà molto tempo prima di ridimensionare i complessi ed i tabù legati al sesso. Sto già assistendo ad un fenomeno abbastanza singolare: gli uomini di Tharna preferiscono cercare una Libera Compagna fra donne di altre città, ed a questo scopo fanno acquistare altrove schiave a centinaia per poi liberarle. Da quando la Regina va in giro a volto scoperto, le vesti da Donna Celata sono cadute in disuso, ma è soltanto una moda e mi domando quanto durerà. C'è poco altro da dire. Kron non fa più il fabbro: è stato ammesso a far parte del Consiglio insieme ai rappresentanti delle Caste Basse, una ventina in tutto. Andreas e Linna lasceranno presto la città, per andare liberamente in giro dove meglio piacerà loro. La cetra del Cantastorie provvederà a mantenerli entrambi, e spero con tutto il cuore che siano felici e fortunati. Vera di Ko-ro-ba, la mia concittadina, è rimasta al Palazzo Reale in qualità di ancella. Sovente la vedo riccamente vestita e pettinata, e so che Lara la usa come consigliera per quel che riguarda la moda femminile. Ma è malinconica, si sente estranea alla città, e nel suo cuore restano confitte spine simili alle mie. Anche lei ha perduto la famiglia, gli amici, e l'atmosfera frizzante di quelle torri fra cui trascorse l'infanzia. Questa mattina mi sono recato a salutare Lara, e l'ho trovata impegnata in una discussione con due Adepti circa la costruzione di un loro tempio. Nei suoi occhi ho letto che fa di tutto per non amarmi, e che forse riuscirà a dimenticarsi di me, se ce la metterà tutta. L'ho baciata sulla bocca. «Sei la più bella Regina di Gor,» le ho detto scherzando. «Ma anche la più indaffarata.» «Faccio quello che posso,» ha risposto lei, stringendosi a me. «E, se avrò la tentazione d'essere altera e crudele, ricorderò i giorni in cui fui una schiava nella carovana di Padron Targo, quando un guerriero senza patria venne a comprarmi per sei smeraldi ed un elmetto ammaccato.» «Quel Targo mi ha imbrogliato spudoratamente,» dissi. «Ne sei certo? Quanto valgo per te? Dillo!» L'ho baciata sugli occhi per cancellare le sue lacrime. «Devo dirti addio, dolce Lara. Ma non dimenticherò mai che per un pomeriggio la mia schiava fu una Regina dai capelli d'oro.» «Una Regina su un tappeto rosso, legata con le tue corde gialle... Me le sento ancora strette ai polsi, Tarl di Ko-ro-ba,» ha sussurrato.
Dopo un ultimo bacio ci siamo separati. Ora è il momento che io pensi a partire, e non ho idea di quel che mi accadrà. Da sette anni mi chiedo quali segreti si celino nell'Inviolabile, chi siano in realtà i Re Sacerdoti, i loro agenti che viaggiano su silenziose astronavi discoidali, e quali progetti abbiano per Gor e per la Terra. Devo sapere perché la mia città è stata distrutta pietra per pietra, perché la mia gente è stata dispersa, e quale destino è toccato a mio padre ed alla donna che amo più di me stesso. Ma, oltre tutte queste domande, in me esiste il rosso demone della vendetta, il desiderio di colpire quegli esseri, chiunque siano, e di fargliela pagare per ciò che ho sofferto. Talena, mio padre ed i miei amici, hanno patito dagli atti dei Re Sacerdoti dolori e privazioni, e non so neppure se siano in vita o miseramente periti in luoghi lontani. Questo è il motivo per cui io, Tarl Cabot, guerriero di Ko-ro-ba, giuro sangue e vendetta in risposta all'anatema lanciato su di me. Forse è follia parlarne e scriverne così apertamente, ed è follia il ritenermi capace di lanciare una sfida a creature che potrebbero annientarmi in un breve istante. Sono appena un mortale, armato come un barbaro ed ignorante di tutto ciò che potrebbe consentirmi una sia pur minima possibilità di farcela. Eppure devo tentare. Fuori dalla finestra vedo accendersi lanterne colorate sui ponti aerei e nelle strade. La gente è allegra, ed alla sera la vita ferve nelle taverne. Lasciare tutto questo mi rende malinconico. Dei misteri che si nascondono nell'Inviolabile non m'importerebbe nulla, se avessi ancora la mia casa e Talena, perché assai più dolce mi sarebbe la vita nella Ko-ro-ba di un tempo, lontana da questi problemi arcani e indefinibili. Talvolta mi sorge il dubbio che i Re Sacerdoti siano stati così spietati proprio per far sì che io sollevassi lo sguardo verso di loro, per spingermi a compiere imprese che non avrei mai desiderato senza un pungolo tanto bruciante. Ciò che allora mi consola è la consapevolezza d'avere il libero arbitrio, la possibilità d'aggirare i loro misteriosi progetti e di sconvolgerli, e di piantare nella cultura di Gor semi da cui nasceranno piante sconosciute perfino a loro. Anch'io posso giocare la mia partita. In altri momenti rifletto invece che forse i Re Sacerdoti non sanno niente di me, che non mi considerano neppure una loro pedina, e che sono all'oscuro di ciò che faccio e dei miei propositi. È il momento di deporre la penna. Il pensiero che da quelle montagne non sia mai uscito un uomo vivo mi
opprime, perché io amo la vita. In questo mondo selvaggio l'ho assaporata nei suoi aspetti più crudeli e più dolci, nelle sue miserie e nella sua gloria. Ho imparato che è splendida e terribile insieme. L'ho vista nelle possenti torri cilindriche delle città, nel volo di un grifone, nelle movenze di una bella donna, nel clangore delle armi e nello scoppio del fulmine sulla pianura verde. L'ho trovata al tavolo d'una taverna e sul campo di battaglia, nella carezza d'una fanciulla e nel colpo d'artiglio di un carnivoro, nei cunicoli opprimenti di una miniera d'argento e nel profumo dei fiori di talender. Sono grato al destino d'aver conosciuto tutto questo. Scende la sera sulle torri di Tharna, e le finestre s'illuminano di lanterne colorate e fiaccole. Gli odori del cibo si disperdono nell'aria quieta, e dalle mura giungono le grida rituali delle guardie che annunciano l'ora ai commilitoni ed ai loro concittadini. Le ombre dei grandi edifici a cilindro si fanno scure, e presto si confonderanno nella notte. Pochi faranno caso ad uno straniero che lascerà la città, e forse nessuno da qui ad un mese ricorderà che un giorno la spada di un fuorilegge ne spezzò le secolari catene. Chissà se Andreas comporrà una canzone sulla rivolta di cui fummo protagonisti? Le mie armi sono già pronte, lo zaino attende poggiato presso la porta. Non sono molti gli oggetti che lascio qui, ed ancor meno quelli che porterò con me. Nel cielo sento uno stridio lontano, alto e possente sulla campagna erbosa: è il richiamo di un grifone selvaggio dalle ali nere. Non ho bisogno di altro. Tarl Cabot Guerriero di Ko-ro-ba. UNA NOTA CHE CONCLUDE IL MANOSCRITTO Il resoconto di Tarl Cabot si chiude con questa sua lettera. Non c'era nient'altro nel plico consegnatomi da Harrison Smith perché ne curassi la pubblicazione. Nei mesi successivi al suo inspiegabile e misterioso recapito non sono pervenuti da lui messaggi di alcun genere. È mia opinione che, come egli dichiara con tanta fermezza, si sia davvero avventurato nelle Montagne di Sardar, ma le mie supposizioni su quanto possa essergli accaduto laggiù valgono le vostre. Se tuttavia oggi è ancora vivo, sono propenso a credere che farà di tutto per comunicare nuovamente con noi.
J. N. FINE